Doppiare il capo

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Doppiare il capo
LDB
J.M.Coetzee
Doppiareil
capo
Saggie
interviste
AcuradiPaola
Splendore
TraduzionediMaria
BaiocchiePaola
Splendore
Einaudi
L’inizio
IntervistaconDavidAttwell
D.
A.
Vorrei cominciare
dall’inizio, ponendo il
problema
dell’autobiografia.
Solo
pochi
scrittori
contemporanei sollevano
conlasuastessaurgenzae
rigore
la
questione
dell’autenticità
e
dell’autorità del soggetto
che parla. La questione è
implicita in ogni suo
romanzo, da Terre al
crepuscolo in poi, ed è
trattata in modo esplicito
inFoe. Nei saggi critici lei
ha esaminato da vicino la
«verità»autobiograficaela
scrittura confessionale di
scrittori come Tolstoj,
Rousseau e Dostoevskij.
Considerando
l’importanza
della
questione nella sua opera
non stupisce l’esiguità
della
sua
prosa
autobiografica
nell’accezionepiúcomune.
Che cosa, allora, le
consente di parlare del
rapporto tra la sua attività
di critico e quella di
romanziere?
J. M. C. Preferirei considerare
questa domanda come
relativa
alla
verità
piuttosto
che
all’autobiografia.Perchéin
un certo senso la scrittura
è sempre autobiografia.
Tutto quello che scrivi,
incluso critica e narrativa,
ti scrive mentre lo scrivi.
La domanda allora è:
questa massiccia impresa
autobiograficacheriempie
una vita, questa massiccia
opera di costruzione di sé
(reminiscenze di Tristram
Shandy!) produce solo
finzioni? Oppure tra le
varie finzioni del sé, o
versioni del sé, ce sono
alcune piú vere di altre?
Come faccio a sapere che
dicolaveritàsumestesso?
La prima risposta è che
dovremmodistingueredue
tipi di verità, la prima
aderenteaifatti,laseconda
che li trascende. Diamo la
prima per scontata e
concentriamoci sulla piú
spinosa questione della
verità
di
ordine
«superiore».
Maincheconsistelaverità
aderente ai fatti? Nel
raccontare la storia di una
vita si sceglie attingendo
alla riserva di ricordi e
nellasceltasilascianofuori
delle cose. Omettere di
dire che da bambino hai
torturatolemoschearigor
dilogicaètradirelaverità
dei fatti tanto quanto
raccontare di averlo fatto
se non è vero. E dunque
definire
veritiera
l’autobiografia – o persino
lastoria–fintantochenon
mente evoca un’idea di
veritàpiuttostovacua.
Perciò,invecedicercaredi
distinguere fra tipi di
verità,preferireitrattarela
questione
da
una
prospettivadiversa.
Quandoscrivi–unaforma
qualsiasi di scrittura – ti
accorgi
se
ti
stai
avvicinando alla «cosa»
oppure no. Avverti una
sorta di meccanismo
sensorio, una specie di
feedbackcontinuosenzail
quale non si potrebbe
scrivere.
È
ingenuo
pensarechelascritturasia
un semplice processo in
due tempi: prima decidi
cosavuoidireepoilodici.
Al contrario, come tutti
sanno, scrivi perché non
sai cosa vuoi dire. È la
scrittura a rivelarti quello
chevolevidire,anziavolte
è lei che costruisce quello
chevuoiochevolevidire.
Quello che rivela (o
asserisce)puòessereanche
diversodaquantoall’inizio
credevi (o immaginavi) di
voler dire. È questo il
senso in cui si può
affermare che la scrittura
ci scrive. La scrittura
mostra o crea (e non
sempre siamo in grado di
distinguere una cosa
dall’altra) quello che era il
nostro
desiderio
un
momentoprima.
Scrivere, allora, comporta
un’interazione tra una
spinta verso il futuro che
perprimatimettedavanti
alla pagina bianca e una
resistenza. In parte quella
resistenza è un fatto
psicologico ma in parte è
anche un automatismo
intrinseco alla lingua: la
tendenza delle parole ad
evocare altre parole, a
ricadere in modelli che
continuano a propagarsi.
Daquestainterazione,seti
vabene,emergequelloche
riconosci o speri di
riconoscerecomevero.
Non mi sembra che la
scrittura «propriamente»
autobiografica sia di
natura in alcun modo
diversa da quanto ho fin
qui descritto. La verità è
qualcosa che emerge nel
processo della scrittura o
dalprocessodellascrittura.
E cosí torniamo alla
questione delle menzogne
elementari. Vorrei tentare
la seguente definizione di
autobiografia: un tipo di
scrittura del sé che ti
costringearispettareifatti
della tua storia. Ma quali
fatti? Tutti i fatti? No.
Tutti sono troppi. Scegli i
fatti nella misura in cui
rientranoneltuoobiettivo:
un obiettivo, oltretutto, in
continua evoluzione. Qual
è l’obiettivo nel caso
presente?
Proporrei
qualcosa come: capire il
desideriochemihaspinto
a scrivere quello che ho
scrittotrail1970eil1990.
Non i romanzi, che sono
sufficientemente in grado
di interrogarsi su se stessi,
ma tutto il resto: i saggi
critici, le recensioni e cosí
via.
Scritti
che
appartengono a un genere
che per lo piú non
permette loro di riflettere
susestessi.
È questo il mio vero
scopo? La verità è che, a
questo punto del nostro
scambio, forse so ancora
cosípocodelmioobiettivo
presente quanto delle
spinteedeidesideripassati
che intendo ripercorrere.
Desiderio e obiettivo sono
allo stesso livello: nessuno
prevale sull’altro. Forse è
perquestochehosceltola
forma del dialogo, per
superarel’impassedelmio
stessomonologo.
D. A. Possiamo tornare al
periodo precedente il
1970?Primadicominciare
a scrivere sul serio lei ha
seguito
diversi
apprendistati, non tutti
letterari. Si è messo a
scrivereromanzisolodopo
aver
tentato
tre
specializzazioni
accademiche diverse –
matematica
(e
poi
informatica), letteratura, e
linguistica – e dopo aver
perseguito i suoi interessi
filologiciconundottorato.
A parte la produzione
poetica e di altro genere
delperiodouniversitarioa
Città del Capo, passano
piúdidiecianniprimache
si dedichi alla scrittura
creativa.Inqualemisurasi
trattava di preparazione e
inqualemisuradiparalisi?
J. M. C.Èvero,nonhoscritto
niente d’importante prima
di arrivare ai trent’anni.
Non sono sicuro che la
cosa sia cosí negativa.
Quanti scrivono romanzi
memorabili a vent’anni?
Manaturalmenteall’epoca
non la vedevo cosí, non è
che mi fossi detto:
«Aspetta, non hai ancora
trent’anni...» Al contrario,
quando ripenso a quei
tempi mi rendo conto che
era con la sensazione
permanente di tradire me
stessochenonscrivevo.Si
trattava di paralisi? Non
credochelaparolaparalisi
sia quella giusta. Forse
somigliava di piú alla
nausea: la nausea di
trovarmi di fronte alla
paginavuota.Lanauseadi
scrivere
senza
convinzione,
senza
desiderio. Credo che già
all’epoca sapessi cosa
avrebbe
significato
cominciare e tentavo di
resistere. Sapevo, cioè, che
una volta cominciato sarei
dovuto andare fino in
fondo. Come in una
condanna a morte: non si
puòscappareviaelasciare
la vittima appesa a una
corda, che scalcia e si
strozza e non muore.
Tocca andare fino in
fondo. (Mi rendo conto
che avrei potuto scegliere
una metafora di nascita,
ma lasciamo le cose come
stanno). Ho esitato per
tutti gli anni Sessanta
perché sospettavo, e a
ragione, che non sarei
statoingradodiportareil
progettofinoinfondo.Ma
il materiale per Terre al
crepuscolo si andava
accumulando già da un
pezzo. Per esempio avevo
letto William Burchell e
presoappuntifindal1962,
sapendocheprestootardi
liavreiutilizzatiinunlibro
che poi sarebbe diventato
Terrealcrepuscolo.
D. A. Passiamo ora al suo
incontro col romanzo.
Mentre era a Londra negli
anni 1962-63 scrisse una
tesidicirca300pagineper
il master su Ford Madox
Ford per l’Università di
Città del Capo. In seguito,
in Texas, nel 1967-68
J.
scrisse una tesi di
dottorato
di
analisi
stilistica, concentrandosi
sui romanzi inglesi di
Beckett. Come mai ha
scelto quegli autori in
particolare, e che cosa
rappresentavano per lei
quegli scrittori, o il loro
tipodiscrittura?
M. C. Avevo letto Ford
MadoxForddastudentee
ne avevo subito il fascino.
Prima di tutto La saga di
Tietjens e in seguito Il
buon soldato. Ero arrivato
a lui via Pound che lo
riteneva
il
migliore
prosatore dei suoi tempi.
Latendenzaestetizzantedi
Ford Madox Ford aveva
fattorisuonarequalcosain
me: la buona prosa era il
risultato della sottrazione,
deltaglio(ancheseForddi
fatto fu assai prolifico);
scrivere romanzi era un
mestiere oltre che una
vocazione e cosí via. Ma
oggisospettocheilfascino
che subivo nascesse da
ragioni piú complesse.
Ford dà l’impressione di
scrivere dall’interno della
classe dominante inglese,
ma di fatto scriveva
dall’esterno,
era
un
outsider desideroso di far
parte di quel mondo. Suo
padre era un tedesco
anglicizzato e sua madre
era nata nel circolo dei
preraffaelliti, in un certo
senso artisti bohémien. Le
aspirazioni sociali di Ford
lo portavano a essere plus
anglais que les anglaises.
Coltivava una sorta di
aspro stoicismo che
considerava Tory (Tory
all’antica, naturalmente) e
che incarnò nel suo eroe
Christopher Tietjens. Ora
sospetto che quello che
allora mi attraeva in Ford
fosse l’etica di Tietjens
tanto quanto l’estetica del
motjuste.
Il che non vuol dire che
quando scrivo a mia volta
nonmiaffanniacercarela
parola giusta. Credo nella
prosascarna.Piúscarnadi
quella praticata da Ford.
Una prosa scarna e un
mondo scarno, frugale. È
un
elemento
poco
attraente del mio carattere
che ha esasperato le
persone con le quali mi
sonotrovatoacondividere
la vita. D’altra parte poco
tempo fa leggevo George
Bourne
sull’Inghilterra
rurale precedente al 1914:
la parola chiave per
Bourne, parola complessa
e carica di valori con una
lunga storia alle spalle, è
parsimonia. Quella dei
contadini
dell’Europa
occidentale è stata una
cultura frugale. Le radici
della mia famiglia sono in
quella cultura, trapiantata
dall’EuropainAfrica.Cosí
sono
profondamente
ambivalente nei confronti
del disprezzo per la
parsimonia.
Quanto a Beckett avevo
letto Aspettando Godot
negli anni Cinquanta
quando era sulla bocca di
tutti,mal’incontroperme
piú importante fu con
Watt e con Molloy e poi,
ma in misura minore,
quello con gli altri
romanzi. La prosa di
Beckett,
fino
a
L’innominabile compreso,
mi produceva un piacere
sensuale che non si è
affievolito negli anni. Il
lavoro critico da me
condotto su Beckett
nasceva da quella risposta
sensualeederailtentativo
di capire i modi in cui
parlarne, parlare del
piacere.
D. A. Prima di riprendere gli
studi letterari lei ha
lavorato per quattro anni
(1962-65)
come
programmatore
in
Inghilterra. In Texas poi i
suoiinteressimatematicie
letterari sono confluiti
sotto l’ombrello della
stilistica e dell’analisi
statistica(anchesequalche
anno
prima
aveva
sperimentato la poesia
generata al computer e
sarebbe tornato a farlo di
nuovo).
Vorrei
fare
qualche osservazione a
propositodiquestoaspetto
delsuolavoro.
L’interesse per la stilistica
quantitativa è svanito nel
corso degli anni. Il saggio
di Roman Jakobson sui
pattern
verbali,
per
esempio, sembra aver
esercitato meno influenza
del resto delle sue opere.
Ma il suo rapporto con
quel campo, anche allora,
era complicato e perfino
unpo’contraddittorio.Da
una parte sembra essere
stato attratto dal suo
positivismo, forse da una
promessa di oggettività
(nella sua tesi di dottorato
prende le distanze dai
caratteri piú intuitivi del
New Criticism) ma d’altro
canto diffidava di alcuni
dei risultati e delle
conseguenzedellastilistica
(la sua tesi è anche
radicalmenteautoriflessiva
eperfinoscetticainmerito
ad alcuni dei metodi
adottati).
Un altro aspetto di
quell’ambivalenza:ilprimo
saggio da lei pubblicato
(1969)
cercava
di
perfezionare
la
quantificazione
della
«difficoltà» della prosa
sviluppata
dallo
stilostatistico
tedesco
Wilhelm Fucks 1, ma non
molto tempo dopo (1971)
pubblicòunarecensionedi
Nach allen Regeln der
Kunst in cui parla del
positivismo come di una
«mitologia» e accenna
ironicamente al suo
postulato, che immagino
sia hegeliano, di una
«coscienza ascendente» 2
(nella sua opera, e
certamente in Terre al
crepuscolo,l’ambivalenzaè
risolta,
attraverso
il
personaggio di Eugene
Dawn, nella critica del
positivismo scientifico al
servizio
del
potere
imperiale).
In due saggi di quel
periodo introduce la
programmazione
del
computer nella stilistica
con risultati, a posteriori,
interessanti
(sebbene,
probabilmente,
ancora
oscuri per molti lettori).
Senza di Beckett consiste
di1538parole,leparoleda
770a1538ripetonoquelle
da 1 a 769 in ordine
diverso. Per quel saggio
(1973) aveva usato un
programma che registrava
le ripetizioni a livelli
diversi: frase, periodo e
paragrafo 3.
Nell’interpretazione
sostienechequelcheèpiú
importante nell’opera non
è «la disposizione finale
dei frammenti ma i
movimenti della coscienza
chelidispone»econclude
dicendo: «questa impresa
infinita di divisione e
ricombinazioneèlalingua,
unalinguachenonoffrela
promessadell’incantesimo,
dellacombinazionemagica
sempre attesa che porterà
ricchezzaosalvezza,mala
consolazionedelgioco,del
passatempo».
Cisonogiochidievasione,
giochi di sopravvivenza in
Watt di Beckett come ce
ne sono in Terre al
crepuscolo (nella seconda
narrazione, durante il
solitario viaggio di ritorno
diJacobusCoetzeealCapo
dopoilsuoincontroconi
Namaqua). Nel suo saggio
i commenti su Beckett
sembrano in sintonia non
solo con le ripetizioni ma
anche con la sua scrittura
(e vedo che Terre al
crepuscolo e il saggio su
Senza escono nello stesso
anno).
Il secondo saggio per il
quale ha usato la
programmazione
al
computer
è
Surreal
Metaphors and Random
Processespubblicatomolto
dopo
(1979) 4
dove,
avendo inserito un lessico
estrattodalletraduzionidi
Pablo Neruda, usava un
generatore casuale di
numeri per produrre frasi
semplici,chepoifiltravain
modo tale da ottenere
effetti metaforico-surreali
come«ilnudodalleunghie
consunte
disdegna
l’alunno di splendore».
Dopo di che discute il
processo in relazione alla
poetica di Breton (per
inciso: la strana poesia:
Hero and Bad Mother in
Epic,
pubblicata
su
«Staffrider» nel 1978
deriva da quell’esercizio?)
Credo che questo saggio
sia piú immediatamente
illuminante di quello su
Senza perché in quel caso
il processo meccanico,
demistificando l’elemento
del
caso,
mette
vividamente a fuoco le
aspirazioni romantiche e
utopichedelsurrealismo.
Come le appare oggi,
ripensandoci, il forte
interessechenutrivaperla
stilistica quantitativa? Si
potrebbe affermare che in
particolare nel caso di
Beckett – con le sue
metaforematematicheele
sue ossessioni tecniche –
quella tendenza instaura
un rapporto soddisfacente
con gli altri suoi interessi,
poi soppiantato in gran
partedallostrutturalismo?
J. M. C. Rispondo subito alla
suadomandatraparentesi:
sí, la poesia che cita è
frutto del mio interesse e
deimieiesperimenticonle
frasigeneratealcomputer.
È un lavoro cui sono
particolarmente
affezionato,ancheseverso
lafinec’èungrandebuco.
Quanto alla sua domanda
principale, farei una
distinzione tra stilistica
quantitativa e stilistica
generativa, solo perché la
matematicachelisottende
è del tutto diversa. Sono
due campi distinti nei
qualimisonoimmersoper
un bel po’ di tempo e dai
quali sono venuto fuori
conmagririsultati.Perché
l’ho fatto? Una svolta
sbagliata, immagino, una
strada sbagliata nella mia
carrieraenellastoriadella
stilistica. Non sfociava in
nulla di interessante.
Quando
la
stilistica
abbandonò l’ideale della
formalizzazione
matematicacheauncerto
momento l’aveva ispirata,
e cominciò a guardare a
modelli piú pragmatici,
persi ogni interesse per la
cosa.
La prosa di Beckett, a suo
modo fortemente retorica,
si prestava all’analisi
formale.
Dovrei
aggiungere che le prose
brevi dell’ultimo periodo
nonmihannomaidavvero
preso.Sono,letteralmente,
disincarnate. Molloy era
ancora un’opera molto
concreta. La prima opera
di Beckett dall’oltretomba
fuL’innominabile,malíla
voce ultraterrena ha
ancorauncorpoedunque
in un certo senso è solo a
metà strada rispetto a
quellochedovevaessereil
suo obiettivo allora. Gli
ultimi lavori parlano con
voci
completamente
disincarnate. Io non sono
ancora arrivato a quel
punto. Sono interessato a
come la voce muove il
corpo, a come si muove
nel corpo. (Questo non
risponde pienamente alla
sua domanda, ma dice
qualcosa su quello che mi
interessa di Beckett e
quello che non mi
interessa).
Quantoallostrutturalismo
piú di tutto mi sono
interessato all’analisi di
Vladimir Propp, e alle
relative
implicazioni
strutturalistesucomesono
costruitiiracconti(lefiabe
nel caso di Propp). Con i
miei allievi abbiamo
provato a comporre dei
racconti «sintetici» –
costruzioni messe insieme
con gli elementi comuni
nei racconti – e poi
abbiamo verificato quali
funzionavano e quali no,
arrivandoachiedercicome
fosseunnonracconto.Una
curiosità diffusa in tempi
postmoderni,nonlepare?
D. A. Vorrei soffermarmi
ancora un poco sullo
strutturalismo.Se,difatto,
i progetti analitici dello
strutturalismo, forse a
eccezione dello studio di
Propp sulla fiaba, non
hannocatturatoalungola
sua attenzione, non è
possibile che quello che
piú
l’attraeva
dello
strutturalismo fosse la sua
promessa, la disinvoltura
con la quale dichiarava di
rivelare
la
langue,
quell’essenza delle cose
governata da regole? È
questo il rapporto a cui
penso tra strutturalismo e
matematica. L’importanza
del mito e delle cornici
epistemiche nei suoi
romanzi e anche in White
Writing
sembra
appartenere a questo
aspetto
dello
strutturalismo.
Nella seconda metà degli
anni Sessanta, quando si
trovava all’Università del
Texas,
la
linguistica
americanasispostavadallo
strutturalismo della scuola
americana di Leonard
Bloomfield
alla
grammatica generativotrasformazionale.Primadi
Noam
Chomsky,
Benjamin Whorf aveva
dato
impulso
alla
divulgazione
della
linguisticacomebasedella
visionesociale.Auncerto
punto
durante
quel
periodo, o forse poco
dopo, cominciò a studiare
lo strutturalismo europeo,
non solo Roland Barthes
ma anche Claude LéviStrauss. In altre parole i
suoi studi linguistici
coincisero, in modo
impressionante si direbbe,
con l’emergere della
linguistica in Occidente
come metodo e come
modello
di
analisi
culturale.
Nel memoir texano lei
commentaalcunediquelle
influenze e in particolare
cita
gli
effetti
democratizzanti
e
l’inquietudine che viene
col sospetto «che le lingue
parlino le persone o
quantomeno
parlino
attraverso
di
loro».
Potrebbe
approfondire
questo discorso? Sono
curioso di capire come i
suoi studi linguistici
possano aver influenzato
non solo la chiara
preferenza nel suo lavoro
di modalità narrative non
realistiche, ma anche lo
sviluppo della sua idea di
come si arriva alla
scrittura.Comesipassada
un interesse per la logica
sistemica della cultura alla
scritturadelromanzo?
J.M.C.Sí,analisistrutturaliste
– le letture di Jacobson
dellapoesia,quellediLéviStraussdeimiti–anchese
inteseamostrarelamente
creativa al lavoro non
hanno mai costituito per
me, né credo per altri
scrittori, un modello o sia
pure solo uno spunto su
come scrivere. In quel
senso lo strutturalismo è
rimasto un movimento
decisamente accademico.
Le fantasie di Barthes
travestite da scienza sono
state infinitamente piú
stimolanti.
Quello
che
lo
strutturalismo
ha
significato per me – e qui
penso allo strutturalismo
antropologico e al lavoro
di Jakobson sulla poesia
popolare – è stato ridurre
drasticamente la distanza
tralaculturaaltaeuropeae
le cosiddette culture
primitive, chiarendo come
i prodotti delle culture
primitive
richiedessero
esattamente lo stesso
impegno speculativo. La
cultura umana era cultura
umana e restava piú o
meno la stessa nelle sue
diverse
espressioni.
Immaginochenoncifosse
niente di nuovo in questo
ma io lo dovevo ancora
apprendere,amiomodo.
Perciò anche se l’epoca
d’oro dello strutturalismo
francese, quando mi ci
accostai negli Stati Uniti,
non ebbe su di me un
effetto necessariamente
democratizzante(laparola
è sua e io la userei con
cautela, dopotutto kratis
significa potere). Di certo
ampliògliorizzontidiuna
personacomemecresciuta
in un’enclave europea in
Africa, che non amava
viaggiare e preferiva i libri
allavita.
Mi sembra piú che logico
avvicinare, come lei
suggerisce,lalinguisticadi
Chomsky
allo
strutturalismo, se non
altro per il peso analogo
che entrambe le discipline
attribuisconoallestrutture
innate. Mi ero immerso
nella
grammatica
generativa a un livello
piuttosto
tecnico,
passando poi a occuparmi
–
come
succede
inevitabilmente quando
l’interesse si sposta dalle
grammatiche delle singole
lingue a questioni di
grammatica universale –
alle
lingue
non
indoeuropee.
Un’immersione – non poi
a grande profondità per
quanto attiene al dominio
vero e proprio dei
particolari – che diede lo
scossone piú forte al
colono occidentale la cui
identità immaginaria era
stata
messa
insieme
(malamente e piena di
strappi!) con gli scampoli
ereditati
dall’arte
altomodernista.
Il nocciolo della sua
domandariguardatuttavia
come tutto questo si
relazioni alla produzione
della scrittura creativa e
credochelarispostadebba
essere che è difficile
capirlo. Niente di quello
che si può cogliere della
linguistica generativa o di
altre
forme
di
strutturalismo aiuta a
mettere
insieme
un
romanzo. Ciò che mi è
rimasto di quegli studi
forse non è che un
generico
residuo:
il
rispettoperlealtreculture,
per il discorso delle
persone comuni e per le
conoscenze inconsapevoli
che ognuno di noi porta
consé.
D. A. A questo proposito
vorreichiederle:nelsaggio
Samuel Beckett e le
tentazioni dello stile lei
metteinsiemeunaseriedi
tematiche che rientrano
nella categoria del dubbio,
J.
formale e concettuale, alla
quale si è interessato per
via degli studi beckettiani.
Io dico formale e
concettuale
ma
piú
precisamente lei li tratta
come inseparabili. Cosa
l’ha portata a ricercare la
matrice profonda della
prosadiBeckett?
M. C. Credo di avere già
accennato a una risposta.
Beckett ha significato
moltopermeeperlamia
scrittura, questo credo sia
chiaro.
Un’influenza
evidente nella mia prosa.
La maggior parte degli
scrittori
assorbe
le
influenze attraverso la
pelle,nelmiocasoc’èstato
anche un processo di
assorbimento
piú
consapevole,ovverodovrei
dire
che
la
mia
preparazione linguistica
mi permetteva di vedere
con una certa chiarezza
l’effetto di tali influssi. I
miei saggi sullo stile di
Beckett non erano puro
esercizio accademico nel
senso colloquiale del
termine. Erano anche
tentativi di avvicinarmi a
un segreto, il segreto di
Beckett di cui volevo
impadronirmi per poi,
dopo, eliminarlo come
succedeinquesticasi.
D.A.Checosal’hacondottaai
manoscrittidiBeckett?
J. M. C. I manoscritti erano
all’Università del Texas e
io mi trovavo lí. Una
coincidenza. Prima di
andarci ignoravo che ci
fossero. Ma poi mi ci
immersi, in particolare in
quelli di Watt. Era
rassicurante vedere come
un libro potesse scaturire
da un inizio cosí poco
promettente. Vedere le
false partenze, le banalità
cancellate, le prove di
momenti
di
scarsa
ispirazione.
D. A.Possochiederlechecosa
l’ha spinta ad andare in
Texas?
J. M. C. Nel 1964 vivevo in
Inghilterra e lavoravo in
un laboratorio di ricerca
informatica. Una strada
senza uscita. Dovevo
cambiare. Sembrava ci
fosse qualcosa nell’aria, la
possibilità
che
la
linguistica,lamatematicae
l’analisideltestopotessero
essere riunite in qualche
modo (il nome vago che
alloradavoaquellasintesi
eramorfologiagenerale).Il
mio
curriculum
accademico non era cosí
eccellente
da
farmi
aspirare a incarichi piú
importanti, cosí scrissi a
un certo numero di
università americane e
ricevetti un bel po’ di
risposte positive. Scelsi il
Texas. Offrivano 2100
dollari l’anno e una
riduzione sul costo dei
corsi e mi sembra di
ricordare che l’accordo
fosse che dovevo dedicare
lametàdelmiotempoallo
studio e l’altra metà a
tenere un corso di
composizione per gli
studenti del primo anno.
Era
uno
stipendio
ragionevoleperqueitempi
eperqueltipodilavoro.A
parte il fatto che
l’Università del Texas
aveva
una
buona
reputazione
per
la
linguisticaechepossedeva
una grande raccolta di
manoscritti,nonnesapevo
granché.
D. A. Il memoir del Texas
inizia
col
ricordo
dell’esperienza
dell’emigrazione,maaveva
in mente qualcosa di piú
specifico?
J. M. C. Non avrei avuto la
disinvoltura di fare quella
prima
incursione
nell’autobiografiasenzaun
qualche testo piú solido
rispetto
al
quale
misurarmi.Comebancodi
prova scelsi l’Educazione
di Henry Adams e in
particolare la sua ironia
impassibile.Sospettocheil
memoir funzioni solo se
haiinmenteAdams.
D. A. C’è una dimensione
filosofica in Beckett che
nei saggi è in qualche
modo
passata
sotto
silenzio. Hugh Kenner, di
cui ammirava il lavoro su
Beckett e il primo
modernismo, ha descritto
la trilogia beckettiana di
Molloy, Malone muore e
L’innominabile
come
un’impresa
di
disintegrazione del cogito,
«[che riduce] all’essenza i
tre secoli in cui quei
progetti ambiziosi di cui
Descartes è simbolo e
progenitore [...] hanno
prodotto
la
disumanizzazione
dell’uomo» 5. Kenner si
chiedeva
anche
se
Descartes,
come
l’Innominabile «parlasse
attraverso un Comitato
dello Zeitgeist». I suoi
primi
due
romanzi
affrontano
questioni
analoghe: nel contesto del
colonialismo,
parlando
dall’interno e da parte di
J.
una razionalità ossessiva
(col dovuto rispetto al
modoincuiquestasisalda
con
dominanza
e
violenza), i suoi narratori
mettono in scena lo
smacco dell’aspirazione
alla trascendenza dell’io
cartesiano. È stato Beckett
a spingerla su quella
strada?
M. C. Non specificamente
Beckett. C’è stata una
confluenzadiinteressi.Ma
è improbabile che Beckett
miavrebbeaffascinatoatal
puntoseinluinoncifosse
stata
quella
preoccupazione costante
per la razionalità, quella
serie di protagonisti
selvaggiamente,follemente
intenti a spingere la
ragione oltre i suoi limiti.
E nondimeno Terre al
crepuscolo non è emerso
dallaletturadiBeckett.Era
piú
immediato
lo
spettacolo di quanto stava
succedendo allora in
Vietnam e quello di cui
prendevo
coscienza
andando indietro nella
storia
sudafricana
e
soprattutto leggendo le
cronache dell’esplorazione
dell’Africa meridionale su
quanto era successo nel
miopaese.
D. A.
In molti suoi saggi su
Beckett – soprattutto in
quellosuMurphy–discute
la
questione
della
riflessività della narrativa
che mette a nudo le sue
stesse convenzioni. E
comunque anche se ciò
che definisce l’«antiillusionismo» della forma
riflessiva è una posizione
nella quale si trova a suo
agio, la riconosce però
J.
anche come un’«impasse».
Inchesenso?
M.
C.
Illusionismo
naturalmenteèunaparola
che uso per quello che
viene
abitualmente
definito
realismo.
L’illusionismo piú riuscito
produce i piú convincenti
effetti di realismo. L’antiillusionismo – che invece
di nasconderli esibisce i
trucchi impiegati – è una
tattica
comune
del
postmodernismo.
Una
tatticaconlaqualeallafine
non si va tanto lontani.
L’anti-illusionismo,
sospetto,èsolounapausa,
una fase di riassestamento
nella storia del romanzo.
La domanda è che cosa
vienedopo.
D. A. Oltre a Beckett un’altra
importante influenza sui
suoiprimiromanzièstato
Nabokov. Nel saggio
Nabokov’s «Pale Fire» and
thePrimacyofArt(1974) 6
lei mette a confronto
l’autoriflessività dei due
scrittori sostenendo che,
mentre Beckett la spinge
fin dove è umanamente
possibile, Nabokov si
fermaprimaearrivaanche
a trovare una scappatoia,
individuando
nella
riflessività i supporti post-
romantici
dell’ironia,
dell’arte
e
dell’immaginazione. Lei
sostiene anche che la
versione di Nabokov è un
tentativo preventivo, e
fallimentare, di sfuggire
alla Storia («storia come
esegesi»)
incorporando
l’interpretazione
alla
narrazione. Malgrado le
sue riserve in merito alle
risoluzioni e alle evasioni
di Nabokov, sembra
provaresimpatiaperilsuo
approccio giocoso e
nostalgico al passato,
ricostruitoinFuocopallido
come«ilregnoinfantiledi
Zembla». Per spiegare
quell’aspetto di Nabokov
lei cita un passo da una
lettera di Rilke che vale la
penadiriprendere:
Il nostro compito è
questo: lasciare che questa
terraprovvisoriaecaducasi
imprima nel nostro animo
in maniera cosí dolorosa e
appassionata, che la sua
essenza risorga «invisibile»
in noi. Noi siamo le api
dell’invisibile […] Questa
attività
viene
poi
meravigliosamente spinta e
sorretta dallo scomparire
sempre piú rapido di tante
cose visibili, che non
potranno
piú
essere
sostituite, da nessuno.
Ancora per i nostri padri
una «casa», una «fontana»,
una torre a loro familiare,
perfino il loro vestito e il
loro cappotto, erano piú
intimi, infinitamente piú
intimi che per noi: e ogni
soggetto quasi un’urna,
doveessitrovavanosempre
qualcosa di umano o
dell’altro
ve
ne
aggiungevano: mentre ora
dall’America s’affollano le
tante cose vuote e
indifferenti, parvenze di
cose, ingannevoli cose. Una
casa americana, una mela
americana o una vigna di
laggiú non hanno nulla in
comune con la casa, il
frutto o la vite in cui la
speranza o la meditazione
dei
nostri
avi
era
lentamente penetrata. Le
cose vive, vissute e
ammesse
alla
nostra
confidenza, a poco a poco
scompaiono,enonpossono
piú essere sostituite. Noi
siamo forse gli ultimi che
abbiamo conosciuto tali
cose 7.
Dal punto di vista della
struttura,
Terre
al
crepuscolo deve molto a
Fuocopallido.Inoltreparla
della sua situazione, della
sua esperienza americana
alla fine degli anni
Sessanta e di quella dei
suoi antenati in Sudafrica,
malofainmodoironicoe
parodico,usandoglieffetti
di raddoppiamento del
metaromanzo. Si direbbe
un’influenza forte. Come
descriverebbe oggi il suo
rapportoconNabokov?
J. M. C. A volere essere brevi
direichenonhopiúalcun
rapporto con Nabokov.
Nabokov amava la Russia
in un modo (dicono)
incomprensibile per chi
non è russo. Era anche
fiero della sua famiglia e
della storia della sua
famiglia.Lasuainfanziain
Russia
era
stata
chiaramenteunperiododi
felicità indimenticabile. Il
suo amore e la sua
nostalgia per quel mondo
perduto sono evidenti nel
suo
lavoro,
ne
rappresentano l’aspetto
piú avvincente. Ma direi
che Nabokov tratta in
modounpo’superficialela
realtà che gli sottrasse la
Russia, in un modo non
all’altezza del suo talento
innato. Anzi a volte lo fa
con un atteggiamento
infantile, come se i
bolscevichi
l’avessero
spossessato dell’infanzia
(non sarebbe comunque
cresciuto?)
Sotto la superficie in
Nabokov si avverte vero
dolore e vera perdita.
Dicevadiamarel’America,
ma com’è possibile? Era
gratoall’America,divertito
e incuriosito dall’America,
divenne
un
esperto
dell’America ma il suo
cuore (per come lo leggo)
era rimasto nel Vecchio
Mondo come quello di
Rilke.
Latragediadellaperditadi
quel mondo è molto piú
viva nella meravigliosa
letteradiRilkecheintutto
Nabokov. Credo sia per
questo che ho perso
interesse per lui: perché si
èrifiutatodicomprendere
la natura di quella perdita
in tutta la sua pienezza
storica.
D. A.Lapienezzastoricaèun
concetto paradossale qui:
piú totale e irreversibile è
la perdita, piú la scrittura
che ne deriva dovrà o
dovrebbe essere in grado
di andare a fondo. Che
cosa significa questo per
lei,sudafricano?
J. M. C. Sí, certo. Anche io ho
avuto un’infanzia che, per
certi aspetti, via via che
invecchio mi appare
sempre piú magica e
miracolosa. Forse è quello
che succede a quasi tutti
nei confronti di se stessi
bambini:cirivolgiamocon
crescente
meraviglia
all’idea che un tempo sia
potuto esistere un mondo
tanto innocente e che noi,
proprio noi, fossimo al
centrodiquellainnocenza.
È una buona cosa
imparare a voler bene al
bambino che siamo stati,
una cosa che non oserei
maicriticare.Ilbambinoè
padre dell’uomo: non
dobbiamo essere troppo
severi con il nostro io
infantile, dovremmo solo
ringraziarlo per averci
condotto a essere le
persone che siamo. E
d’altrapartenonpossiamo
indulgere al comodo
stupore per il nostro
passato. Dobbiamo vedere
quello che il bambino,
ancora stordito dai suoi
viaggi,ancoratuttointento
aisuoisognidigloria,non
poteva vedere. Dobbiamo
– o almeno alcuni di noi,
un buon numero, devono
– guardare al passato con
occhioabbastanzaspietato
da riuscire a scoprire
cos’era a rendere possibile
quella
gioia
e
quell’innocenza. Perdono
ma anche risolutezza: è
questalamiscelachehoin
mente, se è possibile.
Prima di tutto risolutezza,
poiperdono.
D.A.IlsaggiosuNabokovcita
Lacan
a
proposito
dell’aggressività,
l’aggressività
dei
personaggidiNabokovnei
confronti di chi tenta di
spiegarli (che rispecchia
quella del paziente nei
confronti
dell’analista).
All’originedeldisagioc’èil
riconoscimento che ogni
costruzione del sé nella
lingua è una forma di
espropriazioneperchéilsé
viene rappresentato come
un altro, per un altro. La
mia
domanda
non
riguarda Nabokov ma
Lacan.Ilprimoimportante
lavoro critico sulla sua
opera, quello di Teresa
Dovey,sviluppalatesiche
i romanzi siano allegorie
del soggetto lacaniano che
tenta
di
realizzarsi,
inutilmente,
nelle
condizioni linguistiche del
colonialismo e della
«tradizione sudafricana».
Lasciando da parte questa
tesi,potrebbecommentare
inmeritoalruoloavutoda
Lacannelsuopensiero?
J. M. C. Lacan è un pensatore
cruciale.
Non
ho
[dicembre 1990] letto il
librodiDoveypercuinon
hoideadiquellocheforse
è già stato detto del mio
rapporto con Lacan e non
posso rispondere in
merito. Ma vorrei far
notare che alcune delle
osservazionipiúispiratedi
Lacan sono quelle su chi
parladaunacondizionedi
ignoranza. Trova la sua
giustificazione non solo
nella pratica dell’analisi
quando il paziente sembra
avvicinarsi maggiormente
allaveritàpercosídireper
sbaglio, ma anche nella
poesia. Quando ci si
avvicina tanto al centro
della propria impresa,
come con la domanda
«dove sono io quando
scrivo?» forse si farebbe
beneaseguireLacanenon
preoccuparsi troppo di
quello che si vuole dire
(posso
usare
indifferentementelaforma
personale
e
quella
impersonale in questo
contesto?)edunqueanche
non interrogarsi troppo
sulla propria posizione in
relazione al consiglio di
Lacan secondo cui ci si
può permettere di parlare
senza«pensiero».
[1990].
SamuelBecketteletentazioni
dellostile
L’arte di Samuel Beckett è
diventata, come sappiamo,
un’arte dello zero. Sappiamo
anche che l’arte dello zero è
impossibile.Untitoloseguito
da un migliaio di parole e il
logo di una casa editrice,
l’atto stesso di muovere la
penna sul foglio, sono di per
sé affermativi. È possibile
privarli di contenuto per
mezzo
di
un
atto
autocontraddittorio?
È
possibile cancellare, per cosí
dire, le frasi, via via che
scorrono dalla penna? Ecco
una risposta: «Isole, acque,
azzurro, vegetazione, fissate,
pfff,ilgiocoèfatto» 1.Iprimi
quattro termini, per quanto
chiaramentepostiinsequenza
per via associativa e persino
per una sorta di rima banale,
minacciano di affermarsi
come illusione, come Parola
Pura in tutta la sua magica
autonomia.
Vengono
cancellati(«ilgiocoèfatto»)e
abbandonati come foglie
morte su un muro. La frase
incarna dunque due impulsi
opposti che consentono la
finzione dello zero: l’impulso
verso il gioco illusionista e
quello verso il silenzio.
L’autocancellazione
irrefrenabile è la zavorra
imposta sul volo della frase
verso l’illusione; la finzione è
la penitenza imposta sulla
ricerca di silenzio, sonno e
morte. Seguendo l’ellisse del
raggio discendente descritto
da queste condizioni l’arte di
Beckett
procede
verso
l’apoteosi, il testo di una sola
parola «nulla» sotto il titolo
Finzione.
Secondo il matematico
RichardDedekindsesiriesce
a
giustificare
la
segmentazione di partenza di
unaserieneisottoinsiemiXe
non-X, l’intera struttura
matematicaseguiràcomeuna
gigantesca nota a pie’ di
pagina. Beckett conosce la
matematica abbastanza per
coglierne la lezione: da
un’unica affermazione certa,
con un po’ di pazienza e un
po’ di impegno, si può
dedurre tutto un mondo
contingente di biciclette e
pastrani. L’Innominabile del
terzo romanzo della Trilogia
si trova in uno stato
precedente a questa prima
affermazione consolatoria e
prolungalasuaesistenza«per
affermazioni e negazioni
infirmate volta per volta,
presto o tardi» 2, vittima
dell’incapacità di affermare e
dell’impossibilitàdirestarein
silenzio,halasuaessenzanel
dubbio.
Quali
forme
assumono i procedimenti del
suo dubbio? Uno ci è noto
dalle Novelle (raccolte nel
1954) e da Malone muore
(1952): raccontare storie
frammentarie per passare il
tempo (riempire le pagine,
per incarnarsi), e di tanto in
tanto dileggiarle. Questi
racconti in genere si
prolungano
tanto
da
diventareproprietàfittiziedei
narratori, i quali mettono in
scena gli impulsi conflittuali
verso illusione e silenzio
rappresentandosi
come
taumaturghi delle loro storie
(oltre a esserlo della loro
esistenza) e poi come
vendicatori della verità (le
ultime frasi di Moran in
Molloy (1951) sono un
esempio
del
genere) 3.
Accanto a questo processo
dubitativoesisteunaltrotipo,
meno importante e meno
drammatico:ilcommentotra
parentesi.
La
seguente
citazione da L’innominabile
(1953) contiene il noto
procedimento frase per frase
di autocreazione e di
autoannientamento:(«sembra
che parli, ma non sono io, di
me, ma non è di me che
parlo» dice l’Innominabile:
un uccellino segue Teseo nel
labirintoingoiandoilfilo)ma
contiene anche un nuovo
commentoeditoriale:
Dunque a riposo tutti
quanti, se si può chiamare
riposo quello in cui si attende
di conoscere la propria sorte,
dicendo, Forse non è cosí,
dicendo, Da dove vengono
queste parole che mi escono
dallabocca,ecosasignificano,
no, non dicendo niente,
perché le parole non arrivano
piú, se si può chiamar attesa
quella in cui non c’è alcuna
ragione di aspettarsi qualcosa,
in cui si sta in ascolto, questo
vive, senza ragione, come fu
fin dall’inizio, perché un
giorno ci si è messi ad
ascoltare, perché non si riesce
piú a smettere, non è una
ragione, ditemi se questo si
puòchiamareriposo 4.
L’espressione
vive
è
propria del metalinguaggio
editoriale.Nonèlalinguadel
cogitoergosummadelcogitat
ergo est: l’io parlante e il suo
discorso non sono percepiti
saldamentecomesoggettima
come oggetti tra gli altri.
Come
riconosce
l’Innominabile la lingua del
romanzo si pone in una
relazione metatestuale con il
testo:
Perchiarirequestafaccenda
avrei bisogno d’un bastone, e
deimezziperservirmene,dato
che quello è ben poco in
mancanza di questi, e
viceversa.
Avrei
anche
bisogno, lo accenno di
sfuggita, di participi, futuri e
condizionali 5.
Il metalinguaggio presente
in questa chiosa viene
perfezionato in Bing (1966),
dove il «bing» del commento
che ripetutamente frantuma
la superficie del testo si è
alleggerito del suo contenuto
lessicale. Si confronti «bing»
col suo primo antecedente
«plof» ne L’innominabile,
quando era ancora pieno di
contenuto: «Concludiamo il
nostro pensiero, prima di
cacarci sopra. Perché se io
sono Mahood, sono anche
Worm. Plof» 6. Il termine
onomatopeico
bing
interrompelapermutazionee
combinazione di una serie di
frasi mormorate («corpo
nudo bianco fisso», «a testa
sfera ben alta», e cosí via)
man
mano
che
le
combinazioni promettono o
minacciano di comporsi in
un’unica minuscola benché
autonoma immagine criptica
di un rudimentale nudo
essere umano seduto in una
stanza, e in un barlume di
senso per questa immagine.
Le richieste di bing si fanno
piú frequenti (diventano piú
imperative) man mano che
l’immagine
acquista
definizioneeilsuosignificato
arriva quasi a materializzarsi:
«sussurro ultimo forse non
solo un secondo occhio
spento nero e bianco
semichiuso lunghe ciglia
supplicanti», cui segue «bing
silenzio hop compiuto» 7. Il
monologo chiede di passare
all’origine di «bing», e cioè
alla consapevolezza riflessiva
anti-illusionista celebrata e
condannata
ne
L’innominabile.
In Senza (1969) una serie
infinita di coscienze inserite
l’una nell’altra, ciascuna delle
quali nega le chimere della
precedente, viene presentata
nel paradigma di un
meccanismo commutativo in
dueparti,denominategiorno
e notte, in cui ciascuna
annulla le chimere dell’altra.
Le due componenti sono a
loro volta chimere di una
consapevolezza totale le cui
illusioni sono man mano
annullate
dall’elemento
successivo
della
serie:
«Chimeralalucel’aurorache
dissipa le chimere e l’altra
chiamata crepuscolo» 8. Tale
annullamentoodecreazioneè
simbolizzato da un altro
meccanismo binario: Senza
può
essere
spezzato
nettamente in due parti, di
cuilasecondanonèaltroche
una casuale riorganizzazione
dellefrasidellaprimaparte(o
viceversa).
Il
passaggio
da
L’innominabile a Senza è
quello
verso
una
formalizzazione
o
stilizzazione
di
autodistruzione, vale a dire
cheviaviacheiltestodiventa
nientealtrocheuncommento
distruttivo su se stesso da
parte
della
coscienza
onnicomprensiva retrocede
nella
trappola
dell’automatismo di cui le
ripetizioni
meccaniche
invarianti di Senza sono
l’esempio piú estremo finora
realizzato.Traitestiripetitivi
che compongono i Residua 9
di Beckett, l’unica variante
rimasta riguarda il modo in
cui
si
realizza
l’autoannientamento.Sitratta
di uno sviluppo interessante
perché ha un analogo in una
fase precedente della carriera
di Beckett, in Watt (1958),
l’ouvrage abandonné degli
anni della guerra. Qual è il
truccostilisticoallabasedelle
fantasie logico-computative
diWattchelefaapparirecosí
vicine alla definizione che
Leibniz diede della musica,
come «il calcolo misterioso
dei numeri»? Il trucco è che
Watt abbandona il rasoio di
Occam, il criterio della
semplicità, consentendo alle
ipotesi
speculative
di
proliferare
all’infinito,
generate da una matrice di
carattere ritmico. Ecco un
esempiotipico:
Forse, chissà, il signor
Knott emana una sorta di
onde, di depressione, o di
oppressione,oforseoraqueste
e ora quelle, in una maniera
impossibiledacapire 10.
Per cominciare possiamo
frazionare la frase in tre
gruppi ritmici, di cui i primi
due sono collegati in coppie
parallele:
a) Forse, chissà, il signor
Knott emana una sorta
di onde, di depressione,
odioppressione
b)oforseoraquesteeora
quelle,
c) in una maniera
impossibiledacapire.
All’interno del gruppo a
troviamo altre due coppie,
equivalentinellaformafonica
enellagiunzione:
a1)forse
a2)chissà
a3)didepressione
a4)odioppressione.
Il gruppo b contiene
un’altracoppia:
b1)oraqueste
b2)oraquelle.
Lacoppiaa3-a4formauna
coppia con b1-b2. La frase
poggia dunque su un sistema
di coppie, a tre livelli, le cui
componentisonocollegateda
equivalenze fonologiche o
sintattiche. Una coppia può
definirsiingeneralecomeun
insieme di due elementi
testuali collegati da una
relazione di equivalenza o
contrasto, di tipo fonologico,
sintattico o semantico. La
frase che ho analizzato, ad
esempio, è un elemento di
una coppia, il cui altro
elemento si trova dieci frasi
primaecheinoltreèpartedi
una sequenza di nove frasi
che forma una coppia con
una sequenza di sette frasi
precedenti. La figura alla
pagina seguente rappresenta
lo schema della struttura di
coppiesottesaalparagrafo;la
frase da me analizzata è la n.
17.
Ciascun
paio
di
blocchi
rappresenta una coppia. I blocchi
numerati sono le frasi. Nella frase
coppie nascoste possono ricorrere
alivellodellaparolaodellafrase.
Il paragrafo si sviluppa
dunquesullabasediunritmo
o modello A contro B, un
ritmo dominante in Watt, e
che si estende anche alla
logica dei discorsi del
protagonista. Il processo del
suo ragionamento oppone
una domanda a una
proposizione, una risposta a
una domanda, un’obiezione
alla
risposta,
una
puntualizzazione
all’obiezione e cosí via fino a
quando si giunge a una fine
arbitraria della catena di
coppie. Questo ritmo binario
è soprattutto il ritmo del
dubbio che ha incorporato il
debitofilosoficoneiconfronti
di Descartes fino al totale
annullamentodisenso:
Ocnaif a ocnaif, inimou
eud.Onroigoretni,ettonalled
etrap. Absin id absin. Arolla
omavecafasoc?On 11.
Nel1934Beckettscrivevaa
un amico: «Grammatica e
stile. A me sembrano
diventati inattuali come un
costume da bagno vittoriano
o l’imperturbabilità di un
vero
gentiluomo.
Una
maschera» 12.
All’epoca
Beckett stava scrivendo il
lapidarioMurphy.Quilostile
è consolazione, redenzione,
grazia del linguaggio e
ripudiodiquellareligioneche
troviamo nel Flaubert di
Madame Bovary: «Per me
conta soprattutto lo stile, e
poi il vero» 13. La forza del
ripudio di Beckett ci dà la
misura del potere seduttivo
dellostile.Wattfuilcampodi
battagliasucuisicombattélo
scontro successivo, vinto
dallo stile. Watt sfiora la
possibilità di realizzare il
sognodiFlaubertdi«unlibro
su niente, un libro senza
legami esteriori» tenuto
insieme «dalla forza interna
dello stile» 14. Il ritmo di A
contro B sommerge Watt
nelle sue nenie soporifere: lo
stile del libro è quello del
sogno narcisistico a occhi
aperti.
Quando gli chiesero di
spiegare il perché del
passaggio dall’inglese al
francese, Beckett rispose:
«Perché in francese è piú
facilescriveresenzastile» 15.È
nota la tendenza dell’inglese
al chiaroscuro. All’epoca in
cui il francese veniva
modificato nella direzione
della semplicità e del rigore
analitico,
la
Versione
Autorizzata della lingua
inglesenerafforzavainvecela
vena
metaforica
e
connotativa. Per questo
Joseph Conrad si lamentava
che era impossibile utilizzare
una parola come oaken (di
quercia) come semplice
denotativodatochesiportava
dietro tutto uno sciame di
contesti metaforici e Beckett
affermava di avere paura
dell’inglese «perché in questa
lingua non poteva evitare di
farepoesia» 16.Persinolostile
della prima opera di Beckett
pubblicata in francese, le
Novelle, è piú frastagliato e
paratatticodellostilediWatt.
La sua prosa francese, pur
essendo riconoscibilmente
suaquantoquellainglese,siè
liberata della stilizzazione o
dell’automatismodiWatt.
Ma c’è un altro e piú
profondo impulso verso la
stilizzazione, comune a tutta
l’opera successiva di Beckett,
ed è quello che si verifica
nell’impasse della coscienza
riflessiva, del movimento
della mente che possiamo
definire A e dunque non-A e
che Beckett sentenzia nella
frase «immaginazione morta
immaginate» e altrove spiega
come«l’attocheegli[l’artista]
compie, incapace di agire,
obbligato ad agire, […] un
atto espressivo, anche se
espressivo solo dell’atto
stesso,dellasuaimpossibilità,
delsuoobbligo» 17.
L’esperienza della lettura
di Residua, le prose tarde di
Beckett,sconcertaperchénon
vi troviamo nessuna delle
gratificazioni del sogno a
occhi aperti del romanzo:
richiedono
un’attenzione
estrema che continuamente
viene
sovvertita
dalla
ripetitivitàstilizzatanelsonno
di una macchina. Non
offrono sogni a occhi aperti
perché il loro tema è
precisamente
l’annientamento dell’illusione
dapartedellacoscienza.Sono
meccanismi miniaturizzati di
autospegnimento: illusione e
dunque silenzio, silenzio e
dunque illusione. Come un
commutatore non hanno
contenuto, solo forma. Sono
inrealtàsoloforma,unostile
mentale. Lo stile perfetto di
un artista per cui la sconfitta
rappresenta un universo in
cui marciare a occhi aperti
verso la prigione dello stile
vuoto 18.
[1973].
CapitanAmericanella
mitologiaamericana
L’eroe.
CapitanAmericaèavvolto
dalla testa ai piedi in un
costume rosso bianco e blu e
ha in mano uno scudo
boomerang dagli stessi
colori 1. A meno che non stia
riflettendo o non sia un po’
giú di corda, se ne sta
accovacciato e con le braccia
pronte. Bicipite e deltoide
sporgono, i muscoli pettorali
e dorsali si increspano
potenti,
gli
sternocleidomastoidi
tesi
come
altrettanti
cavi
d’acciaio. Ha la mascella
quadrata e ben rasata, i denti
drittiegliocchi(attraversola
mascherabludaaquilasucui
è stampata la lettera A) sono
azzurri come l’acqua di un
torrente di montagna. Il
coloristadellaMarvelComics
di solito sottolinea l’inguine
di
Capitan
America
ombreggiandolo appena. Ma
quello che il Codice di
controllointernodellaMarvel
sottrae qui, la Marvel lo
ripropone altrove, facendolo
sbocciare dall’agile bacino
verso il basso e verso l’alto,
polpaccimuscolosiestivaliai
piedi,bracciamassicceemani
coi guantoni, collo taurino e
mascella volitiva, sempre
eroicamente ripreso a un
angolodi45gradidifronteo
dal basso, Capitan America è
un grande fallo imbandierato
in marcia, come tutti gli eroi
avventurosidaAchilleinpoi,
in cerca di un nemico degno
di tanta turgida dislocata
potenza.Edaqualchepartesi
nasconde
in
eterno
l’arcimalvagio, orrendamente
fasciato di muscoli o dal
cranio
supersviluppato,
pronto a schizzare fuori
dall’ombra e a misurare tutte
le sue doti con quelle di
CapitanAmerica.
Capitan America conduce
un’oscuradoppiavita,sottoil
nome di Steve Rogers, un
giovane
e
tormentato
poliziotto. Quando Steve
Rogers s’infila una triste
giacca a vento e riprende la
sua timida relazione con la
bionda teenager Sharon
Carter i muscoli sembrano
scomparire. Il costume
eroico,ilcorpotumescente,lo
scudo
della
virtú,
l’emblematica
«A»
(di
«America» ma anche di
«Asso» e di «Adamo») sono
inseparabili.CapitanAmerica
è l’alter ego sognato dallo
scialbo cittadino Rogers,
maritoansiosoinnuce.Sotto
lespogliediCapitanAmerica,
Rogers spezza ogni legame
tranne quelli con i suoi
compagni d’arme. La sua
armatura lo protegge dalla
femmina
adorante
e
stuzzichevole che invano
cerca un appiglio sulle sue
convessità montuose. Il
cavalier cortese venerava una
donna tabú, s’inginocchiava
davanti al suo signore,
sviluppava
relazioni
omoerotiche con i suoi
compagni e andava avanti
tutto d’un pezzo, malgrado il
complesso edipico che lo
dilaniava, colandosi in uno
stampo d’acciaio. Capitan
America è il discendente
americano di quel cavaliere,
passato attraverso Natty
Bumppo, con le sue cinque
identità e il suo lungo fucile;
Arthur Dimmesdale che si
scopre il petto con la A
tatuata mentre con l’altra
cerca di tenere a bada la
madre/moglie predatrice e
Huck Finn, protettore e
protettodelnegroJim.
Quando Steve Rogers
diventaCapitanAmericalofa
per tenere la situazione sotto
controllo. Perché ormai è
definitoeinchiodatodallasua
icona. La linea che lo
definisce è netta e rigorosa. I
colori che lo identificano
sono elementari e non
sbavano mai oltre la linea.
L’emblema proclama la sua
verità,contenutaemantenuta
a tre livelli: dall’esoscheletro
muscoloso, dalla maschera e
dal costume e dalla linea che
lo delimita, Capitan America
èl’immaginediunegoforte 2.
Quando si allaccia la cinta si
abbracciaifianchi,chiudendo
il lucchetto simbolico della
fibbia, richiama l’attenzione
sul suo sesso e proclama la
sua castità. Indossando la
mascherasiponealdisoprae
al di fuori della famiglia e
della legge: come un eroe
protestante d’ora in poi darà
ascolto solo all’autorità della
voce interiore. Non è piú un
elemento sul mercato del
lavoro ma un Custode
autonomo della Repubblica.
Salta dalle anguste e
monodimensionali
strade
cittadine alla giungla dei tetti
e in cielo. Quando monta
sulla moto, la moto vola. Il
suo territorio d’azione si
allarga,sfondaleporte,lancia
i nemici dalla finestra, si
catapultafuoridalpianodella
pagina,sfondaladivisionetra
le vignette, si lancia e si cala
da una prospettiva all’altra,
subordinando
la
composizione-colore di ogni
inquadratura al suo blu
dominante.
Ilnomedelgiocoèlibertà:
«LA VITTORIA DI ARTIGLIO
GIALLO È LA SCONFITTA DI
TUTTO IL MONDO».
Capitan
America è il terzo Adamo in
missione per salvare il
mondo. Ma, come il secondo
Adamo, non può usare tutto
il suo potere: per una legge
mitologica i salvatori devono
essere per metà divini e per
metà mortali, ponti tra
l’umano e il trascendente,
divinità
handicappate.
Capitan America è messo in
croce dal dilemma della sua
forza straordinaria: da una
parte lo isola dal resto
dell’umanità e dall’altra lo
trascina in duelli impari nei
quali può battersi solo per
contenerel’altroemetterloin
fuga, mentre il nemico si
batte all’ultimo sangue.
Disprezzato o rifiutato, è un
uomodolente,checomeGesú
e tutti gli altri eroi cristiani è
impervio a qualunque assalto
frontale ma facilmente cade
nellatrappoladeltradimento,
il colpo di Giuda. Quando
l’eroe è atterrato il colpo che
lo finisce non è eroico per
definizione e la sconfitta,
nella transcodifica cristiana
deivalori,diventalavittoria.
Ilmale.
Capitan America non si
batte contro il crimine ma
controilmale.Delcriminesi
può occupare la legge: i
poliziotti dei fumetti non
fanno altro che beccare
malviventiespedirliingalera
a testa bassa. Ma il vero
arcinemico riesce sempre a
scappare dalla guardina e
ricomincia con i suoi tiri
mancini.Laleggenoncelafa
contro il male. La Cia, al di
sopraealdifuoridellalegge,
viene mitizzata in Capitan
America come uno SCUDO
(S.H.I.E.L.D. ) e risponde alla
tecnologia infernale del male
con la propria tecnologia
marziale («la guerra è un
gioco sporco»). Ma lo
S.H.I.E.L.D. non è eroico.
Capitan America intrattiene
con la legge un rapporto
ambiguo quasi quanto lo
S.H.I.E.L.D. ed è un eroe non
perché fuorilegge ma perché,
mentrelo S.H.I.E.L.D. fasoloil
suolavoro,luirispondeauna
vocazione:
l’imperativo
categorico calvinista di
assoluta urgenza e assoluto
rigore.
L’ideologia.
Naturalmente
Capitan
America si riferisce alla sua
missione
semplicemente
come a «un lavoro». L’eroe
cristianoèumileecosípureè
l’eroe dello Stato-nazione.
Mettendosi
sull’attenti
davanti al suo capo in un
atteggiamento che dice:
«Sono il tuo uomo»
attribuiscelesuegestaeroiche
allo Stato che lo ha creato.
«Facevo solo il mio lavoro»,
valorizzando cosí, con un
trucco sillogistico, tutte le
funzioni dello Stato-nazione.
«L’eroe fa solo un lavoro e
dunque anche un semplice
lavoro è eroico. Fai il tuo
lavoro». È possibile vedere il
costume di Capitan America
comeunacamiciadiNessoin
cui l’eroico redentore nudo è
statoinfilatodalloStatoposteroico e post-cristiano.
Quando il nemico combatte,
lancia minacce grandiose. A
Capitan America quando
combatte tocca farlo con le
battute argute dell’uomo
qualunque.
La
Marvel
Comics, attraverso Steve
Englehart, non ha dato a
Capitan
America
un
linguaggio
eroico
commensurato al suo corpo;
c’è qualcosa nei fumetti della
Marvel che sembra voler
domare l’eroe solitario a
vantaggio di una piú grande
America. Il nemico è piú
ironico e disinvolto, ma
Capitan America, piú sobrio,
è anche la piú efficiente
macchina da guerra. È stato
imbrigliato nell’interesse del
principio di prestazione 3. Nel
caso di Hulk, l’eroe eponimo
di un’altra serie di fumetti, la
guerra in nome del principio
eroico è portata all’estremo:
un misantropo mostruoso,
idiotaeverdepisello,Hulk,si
aggiraperidesertidighiaccio
del Canada cercando di
sfuggire ad americani e
sovietici
che
vogliono
catturarlo e domarlo: «HULK
VUOLE SOLO FUGGIRE DAGLI
UOMINISTUPIDIEDALLELORO
STUPIDE
MACCHINE»
(L’IncredibileHulk).
È possibile addomesticare
l’eroe americano? Da Natty
Bumppo a Steve Rojack è
sempre stato un uomo della
frontiera che sfiorisce nel
confine
domestico.
«IL
PERICOLO PER LUI È COME
CIBO [...] UN CIBO DI CUI HA
BISOGNO
PERCHÉ
PER
VIVERE
SOLO
[...]
QUANDO
RISCHIA DI MORIRE [...] È
(Capitan
America).SteveRogersnonè
solo l’alter ego, ma anche il
rovescio di Capitan America,
quando è distolto dalla sua
solitariaossessioneperilmale
dalla
bionda
pseudoredentrice,
Sharon
Carter, una tipica wasp.
Sharon Carter vuole amore e
DAVVERO
VIVO»
matrimonio, un reddito
sicuro e rispettabilità. La
storia dei due appartiene alla
seriediagoniaedestasidiEve
Jones del giornaletto per
famiglie, mentre quella
subletteraria di Capitan
America trova posto al
supermercato,negliscaffaliin
ombra, quelli con i libri da
leggeresottol’occhiovigiledi
una telecamera a circuito
chiusoonell’umidasolitudine
diunacameradaletto.
Ilpadre.
Avendo
ceduto
alla
Donna, il padre è per
definizione troppo impuro
peressereuneroeamericano.
In Capitan America la figura
delpadre,NickFury,èacapo
delloS.H.I.E.L.D .Furypresenta
tutti i segni del senso di
fallimento che lo consuma:
nonsisbarba,fuma,esenon
fosse per le norme imposte
alle pubblicazioni a fumetti
sarebbe anche un forte
bevitore.Vasoggettoacrisidi
malinconia.Èsottoilgiogodi
unacontessaeuropea,brunae
probabilmente
depravata.
Combatte secondo il classico
stile western, da spaccone
rissoso. Laddove il vero
fuorilegge porta la maschera,
lui porta una piratesca benda
sull’occhio,permetàdentroe
permetàfuoridalSistema.A
volte si finge fratello
maggiore,Lancillotto,rispetto
al Galahad/Capitan America;
ma quando ha avuto una
brutta
giornata
affiora
l’ostilità: «SONO ANDATO
AVANTI A COMBATTERE PER IL
MIO PAESE: SECONDA GUERRA
MONDIALE, GUERRA DI COREA,
GUERRA FREDDA! HO PASSATO
VENT’ANNIESONODIVENTATO
VECCHIO
L’AMERICA
E
[...]
GRIGIO
E
PER
ADESSO
SPUNTI TU, TUTTO BIONDO
CON GLI OCCHI AZZURRI [...] E
GIOVANE! »,
voce autentica e
furibonda della Legione
americanaedeiVeteranidelle
guerre
all’estero,
dell’americano medio con la
mogliecadente,ifigliingratie
ilmutuodapagare.
Ilgotico.
In America il gotico si
spoglia.Dalgotico,unbrivido
dopo l’altro, i nervi tesi in
un’orgia
di
suspense,
l’orgasmo della rivelazione
sempredietrol’angolo,deriva
lo striptease. Nel gotico alto
(Henry James) il segreto
ultimo è velato, oggetto di
infiniti sussurri. In quello
basso(Poe,CapitanAmerica)
ci sono due momenti: nel
primo lascia cadere il velo e
l’innominabile
divampa:
Ligeia, il Teschio rosso. Nel
secondo fa marcia indietro:
no, non è questo. Non era
questo che volevo. L’oscurità
del nero deve aspettare il
prossimo numero. Il gotico
alto è arte del coitus
interruptus con un oggetto
unico;ilgoticobasso,comela
pornografia, è arte dello
stupro su un oggetto dopo
l’altro. L’energia di tutto il
goticovienedaun’unicafonte
libidinale,
il
desiderio
proibito. Il gotico dunque ha
unsoloscopo:dareunnome,
possedere ed esorcizzare la
sua ossessione. E poi anela
all’Eden, a un’età prima del
peccatooriginale,primadegli
avi.
Capitan
America
fa
incursioni sfrontate nel
mondo simbolico del gotico,
nei suoi castelli tenebrosi e
nei suoi labirintici corridoi
sotterranei. Capitan America
nel castello gotico è
l’innocenza americana nel
labirinto della vecchia psiche
europea. In un episodio il
signore del castello, uno
psicologocruccoconilpincenez e il farfallino, viene
chiamato, per un lapsus
freudiano, Dottor Faustus.
Perso nel labirinto, Capitan
America viene aiutato dalla
vergine del castello che
cospira con lui per abbattere
ilsuosignore(motivodiJack
l’Ammazzagiganti). La sua
missione è quella di
raggiungere il cuore del
castello, protetto da mostri e
da massicci portoni, dove
dovrà
distruggere
il
laboratorio infernale in cui il
malvagiopreparaisuoibiechi
piani che lo porteranno a
dominare il mondo intero.
«PIANI CHE HO CONCEPITO
DURANTE I MIEI ANNI DI
ISOLAMENTO CONTEMPLATIVO
[...]
PIANI
CHE
MI
METTERANNO IN MANO IL
MONDO »
(Artiglio giallo).
Avatar di Faust, fratello di
Roger Chillingworth, del
Capitano Achab e di Gilbert
Osmond, intellettuale e
mistico,ilmalvagioindirizzai
raggi del suo furore
distruttivo contro Capitan
America,
ma
Capitan
America, impermeabile a
ogni magia, fa un salto
indietroelomettekoconun
beldestro.
Lascienza.
Il mito dietro le storie di
Capitan America è un mito
cristiano
del
Cristo
dall’animo sempre vigile per
respingere gli assalti di
Satana. Per trovare metafore
adeguate per l’immensità
delle forze in conflitto, le
storie possono ricorrere solo
alle
invenzioni
della
fantascienza, a sua volta una
variante del gotico. Cosí la
straordinariaforzadiCapitan
America viene spiegata come
l’effetto di un’inaspettata
reazione chimica tra le
sostanze inoculate nel suo
sangue.Allafarmacopeadelle
pozioni
magiche
che
risalgono all’antichità la
fantascienza aggiunge tutto
un repertorio di raggi magici
e di macchine che li
producono.
Quattro norme regolano i
rapporti ideologici della
scienza dei raggi e delle
pozioniconilbeneeilmalee
con Capitan America, i suoi
nemicieisuoialleati:
Lascienzaèneutrarispetto
albeneealmale.
Capitan
America
appartiene al dominio
del bene ma non a
quellodellascienza.
Il malvagio appartiene al
dominio del male e a
quellodellascienza.
Lo S.H.I.E.L.D. appartieneal
dominio del bene e
totalmente a quello
dellascienza.
Malgrado il sostegno
«politicamente corretto» di
unascienzaneutrale,lestorie
di Capitan America dunque
rimangono
fedeli
alla
diffidenza prerinascimentale
nei confronti dell’intelletto
nonschierato,chesiperpetua
nel calvinismo, nel New
England
puritano
e
nell’America agnostica. Vi
rimangono fedeli sollevando
l’interrogativo implicito: se i
poli dell’eroe e del malvagio
sono simmetrici rispetto al
bene e al male, ma
asimmetrici rispetto alla
scienza (cosicché la scienza è
asimmetricarispettoall’eroee
almalvagio)comeèpossibile
che la scienza sia simmetrica
rispetto al bene e al male? La
questione è irresolubile dal
puntodivistageometrico.
L’uomonero.
Fratello di sangue di
Capitan
America,
il
ChingachgookdiNatty,ilJim
diHuck,èFalcon,ilvigilante
mascherato di Harlem. Ma
Falcon è diviso tra la
devozione per il fratello
bianco e la fedeltà alla sua
ragazza nera, Leila. Perché
Leila non solo vuole, in
quanto donna, domare il suo
uomo (Leila < Dalia): Leila è
anche influenzata dagli
estremisti neri che predicano
l’esclusivismorazziale.
Quando Falcon prova a
staccarsi, Capitan America fa
appelloallasuacoscienza:
FALC, SIAMO DIVERSI [...] NON
LONEGO,NONCISONOMAISTATI
NÉ MAI CI SARANNO DUE UOMINI
PROPRIO IDENTICI [...] NERI E
BIANCHI, GIOVANI E VECCHI [...]
MASCHI E FEMMINE [...] FORTI E
MENO FORTI. DA QUALUNQUE
PARTE CI TROVIAMO CE N’È
SEMPRE
UN’ALTRA
DIFFERENZE
[...]
POSSONO
LE
ESSERE
IMPORTANTI [...] MA QUELLE TRA
ME E TE NON LO SONO! TUTTI E
DUE
ABBIAMO
OBIETTIVO:
LO
METTERE
STESSO
FINE
ALL’INGIUSTIZIA!
Capitan America aspira
allarealizzazionedelsognodi
Fenimore
Cooper
di
fratellanza dei nobili uomini
della natura e, ignorando le
ombre gotiche che si
addensano attorno alla figura
dell’uomonero,ildialogodei
fumetti della Marvel fa
intendere che un giorno quel
sognodiventeràrealtà.
L’arte.
GOCCE DI RUGIADA FANGOSE
SPORCANO IL PARABREZZA DI
MACCHINE
ABBANDONATE,
MENTRE IL SOLE CHE SORGE
LANCIA UNA PROMESSA AFOSA
NELL’ARIA UMIDA, SOFFOCANTE.
VECCHI RECIDONO I TESI FILI DI
RAME
CHE
GIORNALI
RINGHIA
I
MATTINO.
LE
PREPARANO
IL
DEL
CAFFETTERIE
CAFFÈ
STRINGONO
CALDO.
IL
SUO
NEW
YORK
SALUTO
UN’ALTRAGIORNATAD’ESTATE.
ILFAVOLOSOCAPITANAMERICA.
A
Per le masse questa è
letteratura, parte del sussidio
che il Mercato paga alla
Cultura
per
essersi
impadronitodellaParola.Per
i piú sofisticati è una parodia
nello stile del racconto di Sir
Thopas
di
Chaucer.
Immaginate la situazione
critica di Steve Englehart,
autore e satirista. Da una
parte non è in grado di
inventare una lingua epica
adeguata
all’iconografia
eroica(sivedaperesempioil
linguaggio
aulico
che
attribuisce al dio Thor nella
serie I Vendicatori) dall’altra
la Marvel non gli permetterà
ditrattareilsoggettosecondo
lelineedellaserietelevisivadi
Batman. Motivo per cui
procede infilandoci elementi
parodici per suggerire che è
uno che la sa lunga. Le
immagini scultoree, contorte
e violente si mantengono
ancora fedeli all’avventura
trascendentale
goticoamericana,mentrelalinguaè
banale e a malapena
funzionale (immagine: un
uomo gigantesco afferra una
donna che si divincola. Il
fumetto dice: «LUI È COSÍ
FORTE! »
Dunque
la
narrazione verbale, l’aspetto
consapevole delle storie che
abbracciano il commento
politico di attualità 4, la
rilevanzasocialebenpensante,
l’amore adolescenziale e la
riflessività
annacquata
postmodernista,
possono
essere considerati sovversioni
e demistificazioni di un mito
venerabile. La struttura
compositiva di Capitan
America rappresenta quindi
un momento di conflitto
ideologico profondo nella
storiaamericana:
[1976].
Appuntisulrugby
Il rugby fa parte di un
gruppo di giochi di origine
antica e di ampia diffusione
incuiduesquadrediuomini
disarmati lottano per il
possesso di un oggetto che
cercanodiportarenelproprio
campo. Il gioco è di per sé
violento, ed è stato spesso
messo fuori legge («Niente
altro che furia bestiale e
violenza
estrema»,
Sir
Thomas Elyot, 1531). Il
regolamento attuale del
football
rappresenta
il
tentativo di isolare una
variante non violenta del
gioco. In particolare, il
regolamento del rugby vieta
di attaccare («placcare») un
giocatore che non abbia la
palla. Il problema di come
portare via la palla a chi ce
l’ha
e
di
come
impadronirsene è materia di
una complessa e intricata
serie di regole. Nonostante i
vari emendamenti, queste
regole
rimangono
insoddisfacenti per vari
motivi: 1) sono inesatte nella
misuraincuipermettonouna
pluralitàdiinterpretazioni;2)
danno luogo a una fase del
gioco priva di interesse
estetico; 3) non riescono a
impedire
incidenti
e
consentono
una
certa
violenza nascosta; 4) in
generale non riescono a
tenere
il
pallone
in
movimento
come
dovrebbero;
5)
contribuiscono pesantemente
arendereilrugbyungiocoil
cui risultato è deciso
dall’abilità nel segnare punti
conuncalcio.
Piccole modifiche alle
regole non servono a
cambiare la situazione. È del
tutto improbabile riuscire a
stabilireperungiocodipalla
una serie di regole che
portino a un gioco non
violento, vivace e continuato.
Il regolamento del football
americano riconosce tale
impossibilità e dichiara la
palla morta nel momento del
placcaggio.
Il rugby sogna di essere il
trionfo
della
velocità,
dell’agilità, della forza e del
cameratismo. Di tanto in
tanto, in mezzo a tanta fatica
esudore,unsegno,unlampo
di bellezza, fa pensare che il
sogno non sia privo di
fondamento.Mailampisono
intermittenti.C’èunerroredi
base nella concezione del
gioco. Allora la domanda da
porsi è: Perché questo gioco
cosí pieno di limiti gode di
tanto successo, e perché
proprioinSudafrica?
Il rugby è uno fra i tanti
sport inglesi a essere stato
esportato nelle colonie. La
prima roccaforte di questi
sport – in particolare di
cricket e rugby – è stata la
public school, dove furono
sostenuti da una borghesia
florida e in espansione come
veicolo di diffusione dei suoi
valori;piúprecisamentecome
veicolo di diffusione di una
serie
di
mistificazioni
attraverso cui quella classe si
vedeva e voleva essere vista
dagli altri: «fair play», «che
vinca il migliore», «spirito di
squadra», «non arrendersi
mai», «impassibilità» e cosí
via. Attraverso questi sport, i
figli della borghesia venivano
iniziati ai valori della loro
classeeunavoltaasettimana
li riaffermavano in maniera
rituale.Sepassavanolaprova
di«giocareilgioco»ifiglidei
commercianti guadagnavano
accessoallaborghesia.
Esportati nelle colonie,
centralizzate le regole sotto il
controllo delle autorità
dell’International
Rugby
Board e dell’International
CricketConference,ilrugbye
ilcricketassolserolafunzione
supplementare di rafforzare
unaborghesia«anglosassone»
i cui legami internazionali
erano piú saldi di quelli
nazionali.Daquilacreazione
di squadre nazionali, tour
internazionali, test match e
cosí via, che offrivano
l’occasionedimettereinscena
il conflitto in nome di una
rivalitàamichevole.
L’impatto politico del
rugby in Sudafrica è stato
enorme dagli inizi del
Novecento fino agli anni
Sessanta, anni in cui il gioco
divenne(inunmodochenon
riuscíalcricket)lostrumento
che permise all’afrikaner
economicamente
svantaggiato di affermarsi
come per magia sull’inglese.
La sua struttura piramidale
(club, provincia, nazione)
costituiva inoltre un modello
– come molti politici
compresero – dell’unità
politica bianca. I valori di
classe attribuiti allo sport
dagli inglesi e i valori
nazionali (spesso etnici)
attribuitigli dagli afrikaner
portarono a una strana
doppia visione: lo spettatore
A legge una partita tra il
SudafricaelaNuovaZelanda
come l’occasione per una
nazioneditrionfaresull’altra,
mentrelospettatoreBleggela
stessa partita come la
celebrazione degli antichi
valoriimperiali.Macomeben
sappiamo, il matrimonio ha
retto.
A qualsiasi lettore di
articolisportivisulrugbynon
sarà sfuggito come questi
regolarmente evitino di
prendere in considerazione
l’esperienza che lo spettatore
fa del gioco. Ignorandola
completamente la cronaca
sportiva rimane impantanata
nella piú positivistica e rozza
delle concezioni di quel che
significa guardare («X fa una
finta e supera un placcaggio
prima di passarla a Y, che
segna nell’angolo»). La
situazione è assurda. Per
migliaia di persone, i
pomeriggi invernali del
sabato rappresentano il
culminedell’interasettimana,
un’esperienza di cui poi non
riescono a parlare perché gli
mancano le parole. Divorano
i giornali sportivi affamati di
panematrovanosolopietre.
Perciòsevogliamoparlare
dell’attrazione esercitata dal
rugby sulle masse dobbiamo
cominciare da zero, con
l’esame piú elementare della
nostra coscienza. Sotto quale
categoria possiamo dire che
cade la nostra esperienza
quandoguardiamolapartita?
Ho il sospetto che abbia
molto a che vedere con la
nostra esperienza del tempo.
L’attrazione di una partita di
football è in primo luogo
quelladeltemposottrattoalla
cronicità, un’oasi di ottanta
minuti prelevati dalla routine
consequenziale del tempo, il
tempo
dell’entropia,
dell’esaurirsi dell’universo. Il
gioco promette di dare senso
aunlassoditempo(inquesto
è simile a una narrativa), e
mantiene
la
promessa
abbastanza spesso da fare
tornare lo spettatore. Per
individui post-religiosi, le cui
vite sono sommerse nel
chronos, che si sentono
morirementresonoancorain
vita, l’esperienza di aver dato
unsensoaltempo–qualcosa
che potremmo definire una
piccola
esperienza
di
trascendenza – è cosí
frequente che il sabato
pomeriggio è piú importante
delladomenicamattina.
Non è solo nella struttura
generale come agone o gara
che il gioco promette la
liberazione
dal
tempo
dell’orologio, ma anche nei
dettagli. Forse piú che in
qualsiasi altro gioco in cui i
concorrenti si inseguono
nello stesso spazio e stesso
tempo, le varietà di football
procurano quelle esperienze
momentanee (che in gergo
giornalistico si chiamano
«emozioni») in cui il senso
del tempo dello spettatore si
allunga e la lancetta dei
secondi rallenta: un corpo si
tende per superarne un altro,
un passaggio è troppo lento,
una presa la sfiora, la manca;
la palla è sospesa in aria, un
corpobalzainalto,l’afferra.
Tali momenti di per sé
non sono niente. La loro
realtà fenomenologica può
essereriprodottanelcortiledi
casa. Ma quando se ne fa
l’esperienza in mezzo a una
folla di migliaia di persone,
l’attenzionediognispettatore
carica di valore ogni
momento. Ognuno è dunque
impegnato a creare e a
confermarevaloreperciascun
altro.Leanalogietralepartite
di football e i raduni politici
tendonoaesserefalsementre
l’analogia con gli spettacoli
religiosi può essere meno
banale.
(Nessuno
riesce
a
convincere il pubblico che le
trasmissioni in differita del
rugby possano risultare
altrettanto emozionanti di
quelle in diretta). Ciò perché
il pubblico sa che la
redenzione del tempo può
avvenire solo nel tempo e in
seconda battuta perché
conosceilrisultato.
Una
seria
analisi
fenomenologica
dello
spettacolo
del
rugby
procederebbe dall’esperienza
del tempo a quella del
momentum della gara, e da
altre categorie di esperienza
estetica e cinestetica che,
persinonellacriticadiun’arte
del movimento cosí evoluta
comeladanza,nonsembrano
essereancorabensviluppate.
Se si osservano i bambini
intenti al gioco si possono,
nelle forme piú elaborate,
notare due fasi, una in cui si
discutono le regole e una in
cuisigioca.Nellaprimafasei
bambinidefiniscono,percosí
dire, uno spazio in cui può
svilupparsi la fantasia del
gioco;nellasecondasigiocail
gioco fino, in un certo senso,
a saturare quello spazio e al
sopraggiungere della noia. A
questo punto si torna alla
prima fase, e le regole
vengonomodificate,oppureil
giocotermina.Spessolefasisi
alternano rapidamente. A
volte i giocatori vanno
letteralmente fuori fase:
alcuni giocano il gioco
mentre altri giocano il gioco
delle regole (erroneamente
definito
«discutere
del
gioco»).Questoèilmomento
delconflitto.
Generalmente si tende a
considerare la prima fase
come
un
semplice
preliminare. Ma in realtà si
tratta della fase di maggiore
creatività, paragonabile alla
definizione del problema in
opposizione alla risoluzione
del problema. Le due fasi
sono
naturalmente
in
rapportodialettico.
Se scopo della seconda
fase, il gioco stesso, è
consentire una esibizione di
eccellenza (misurata forse
dalla vittoria) qual è allora lo
scopo della prima fase, il
gioco delle regole? Una sola
risposta è possibile: definire
un buon gioco. Potremmo
soffermarci a stabilire alcune
delle qualità di un buon
gioco, ma non è questo il
punto;ilpunto,invece,èchei
bambini che compongono i
giochisitrovanod’accordosu
queste qualità, come se
avessero un paradigma di
quellocheèunbuongiocoin
generale. Da dove provenga
tale paradigma – da fonti
culturali o ereditarie – non
saprei. Penso che si potrebbe
provareasostenerelapriorità
di quest’ultima categoria, ma
nonavrebbealcunarilevanza.
Sonoperfettamented’accordo
con Johan Huizinga quando
affermacheèsbagliatovedere
il gioco come qualcosa che
esprime solo se stesso: «Il
concettodigiocodevesempre
rimanere distinto da tutte le
altreformedipensiero» 1.
Possiamo definire lo sport
come un gioco giocato
secondo regole precise. Per
definizione
dunque
il
giocatore di uno sport è
escluso dal giocare il gioco
delle regole. In cambio di
questa rinuncia gli viene
offerto un regolamento
perfettamente articolato che
garantisce, per lo piú, la
realizzazione di un buon
gioco. In altri termini,
quando pratico uno sport
gioco il gioco (come si dice),
quello degli altri, non piú il
miogioco.Semiannoiodevo
sopportare la mia noia. La
noia diventa il destino, non
trovapiúpostonelladialettica
delgioco.
A scuola, e soprattutto
nelle scuole maschili, c’è una
netta divisione tra «gioco
libero» e sport, e sempre a
svantaggio del gioco. Mentre
allo sport è attribuita
un’esplicita
funzione
ideologica («formazione del
carattere») il gioco resta
qualcosa di sospetto, di
frivolo.
Molto
prima
dell’adolescenza
si
fa
pressione
sul
bambino
affinché lasci i giochi
all’aperto e si metta sotto la
protezione delle regole.
L’ontogenesi qui riassume la
filogenesi. Le vecchie varietà
locali dei giochi, dotate di
regole non codificate ma
basate sul consenso, che
variavano a ogni occasione,
erano guardate con sospetto
dalle autorità e finirono col
diventare
irrilevanze
pittoresche.
Il bambino che si
sottomette al regolamento e
gioca il gioco mette in atto
perciò un momento culturale
di profonda importanza: il
momento in cui si compie il
compromesso edipico, il
momento in cui il ginocchio
si piega al governo. Questo è
ilmomentoincuisiseparano
lo sport e le arti, le due piú
complesse forme di gioco.
Nelle arti creative l’artista
deve comporre il gioco e
anche giocarlo. Egli asserisce
cosí un’onnipotenza cui il
giocatore sportivo si arrende.
Ciò aiuta a spiegare perché
l’autorità politica utilizzi cosí
facilmente gli sport e se ne
appropri mentre le arti
restano
inafferrabili,
resistenti, inaffidabili come
terreno formativo morale per
igiovani.
In questi appunti ho
parlato del rugby del tutto
dall’esterno. Un resoconto
piú pieno implicherebbe, tra
le altre cose, un’analisi
dall’interno, che coprirebbe
aree come l’esperienza che il
giocatorehadelgioco(incui
potrebbero
prevalere
categorie come il controllo
dello spazio e lo sforzo) e la
politica interna del rugby. Il
rugby, piú di qualsiasi altro
sportspettacolare,èriuscitoa
tenere soldi e potere lontano
dalle mani dei giocatori
lasciandoli in quelle delle
cricche degli amministratori.
Un’analisi di questo tipo
potrebbe
riguardare
il
funzionamento
della
macchina del rugby – per
mezzo di quali canali
istituzionali i giocatori,
uomini adulti, vengano
persuasi a lasciarsi trattare
come bambini; come vadano
gestiti i «facinorosi» (a ogni
livello del gioco); come operi
il
sistema
delle
sponsorizzazioni attraverso
cui i giocatori vengono
indirizzati entro organismi
commerciali a loro volta
collegati
con
gli
amministratori; quale sia
esattamente la rete di
relazioni
tra
l’amministrazione del rugby,
il sistema educativo e il
governo,unaretechesembra
costituire
la
risposta
sudafricana alla rete degli
«oldboys»britannici,comesi
costruiscano le carriere e
come si avvicendino gli
amministratori,qualisianole
mutue
dipendenze
tra
giornalismo e amministratori
– tutto questo costituirebbe
un ricco campo di indagine
per qualcuno che abbia
accesso al sistema senza
dipenderne finanziariamente,
setalepersonaesistesse.
[1978].
Strutturetriangolaridel
desiderionellapubblicità
Latransazione.
Sonofrequentileformedi
pubblicità in cui l’immagine
di un prodotto (per esempio
una bottiglia di profumo) e
quella di un modello (per
esempio,
una
donna
bellissima) sono associate a
untestochelegailmodello(o
piú precisamente lega la sua
proiezione, il suo benessere,
la sua bellezza e cosí via) al
prodotto («La fragranza
adatta a come ti senti oggi»
potrebbe essere un tipico
esempio).
Scopo di un annuncio
pubblicitario di questo tipo è
creare un legame – il legame
dato dall’acquisto – tra il
prodotto pubblicizzato e il
fruitore della pubblicità. La
necessitàdiunterzoelemento
nellatransazione–ilmodello
– non è quindi affatto ovvia.
Tuttavia
la
prassi
pubblicitaria sembra aver
dimostratochealmenoinuna
certa gamma di situazioni la
forma della pubblicità in cui
l’immagine del prodotto è
mediata per il consumatore
attraverso l’immagine di un
consumatore idealizzato – il
modello – «funziona» meglio
di una forma non mediata in
cui si presenti soltanto
l’immagine del prodotto (in
entrambiicasi,naturalmente,
a giocare il ruolo di
mediazione c’è comunque il
testo).
Si sarebbe tentati di
pensare che, nella forma
mediata,latransazione«vera»
sia quella effettuata tra il
prodotto e il consumatore,
cheilmodellosiainessenziale
e che possa essere eliminato
come si eliminano i calcoli
fattiinbruttacopiaunavolta
trovata la risposta a un
problema di aritmetica.
Quellocheintendosostenere,
invece, è che la struttura
intrinseca delle informazioni
pubblicitariechesiservonodi
modelli è autenticamente
triangolare (in altre parole,
che non c’è modo di ridurre
la struttura da una triade a
unadiadesenzafalsificarla),e
che la particolare struttura
sviluppata dal critico René
Girard per parlare di
mediazione del desiderio nel
romanzosipuòapplicarealla
strutturadellapubblicità,con
apprezzabilirisultati.
Il mio ambito di
discussionesilimitadunquea
quelle forme di pubblicità in
cui sia apertamente presente
un modello a mediare tra
prodotto e consumatore.
Tuttavia,comeaccenneròpiú
avanti, anche quando il
modello è assente sarebbe un
errorepensarealrapportotra
consumatore e prodotto nei
termini di una diade, in
quanto
la
macchina
fotografica media tra i due
con il ruolo non neutrale di
occhio desiderante. La mia
argomentazione è basata
sull’impiantofenomenologico
di Girard, anche se tale
approccio ignora i vantaggi
della ricerca positivista
applicata alle dinamiche
psicologichedellapubblicità.
Il
desiderio
consumatore.
del
Le spiegazioni ortodosse
della psicologia della risposta
del
consumatore
alla
pubblicità rientrano in due
ampie categorie. La prima
poggia sul meccanismo
dell’identificazione:
il
consumatorevienepersuasoa
identificarsi
con
il
consumatore
idealizzato
ritratto dal modello, e di
conseguenzaindottoavolere,
ausare,acomprarequelcheil
modellosembravolere,usare,
comprare. La seconda si basa
sulprocessodell’associazione:
l’immagine pubblicitaria è
talecheilprodottoconvoglia
sudiséleassociazioniconciò
che è fascinoso, desiderabile,
superiore e cosí via (in
generale si tratta di
associazioniinesprimibilicon
le parole) cosicché il
consumatore è indotto a
desiderare il possesso del
prodotto,alfinedicatturarne
leassociazionieincorporarle.
Entrambe
queste
interpretazioni aspirano a
spiegarepraticamentel’intera
gamma
degli
annunci
pubblicitari. Dal momento
che possono essere tra loro
complementari, si possono
chiamareincausanellostesso
momento; come del resto fa
chi lavora nell’industria
pubblicitaria. Nella misura in
cui indaga sulle proprie basi
costitutive (e non invece
quando svolge indagini di
mercato) l’industria opera
all’interno dei paradigmi
dell’identificazione
e
dell’associazione. A chiunque
voglia sviluppare una critica
della pubblicità in quanto
parte dell’ordine capitalista,
questo fatto dovrebbe fornire
materia di riflessione: se
l’industria stessa utilizza
tranquillamente
tali
paradigmi esplicativi, è
improbabile che una critica
che si serve degli stessi
paradigmi possa avere un
qualchevalore.
Non è mia intenzione
discutere ulteriormente le
teorie dell’identificazione e
dell’associazione, o cercare di
sostenerne la debolezza
rispetto alla teoria che
intendo abbozzare. La scelta
tra teorie psicologiche in
competizione
tra
loro
dipende sostanzialmente da
quellecheciascunoconsidera
provevalide.Inparticolare,la
base positivista della teoria
delle associazioni comporta
l’utilizzazione
dei
soli
comportamentiquantificabili,
mentre
l’interpretazione
fenomenologica si oppone
alla richiesta di dati separati
dall’esperienza del soggetto.
Ogni tentativo di mettere a
confronto spiegazioni rivali,
prescindendo
dai
loro
fondamenti filosofici, è
dunquedestinatoanonavere
alcun effetto. Evitando i
confronti,
mi
limiterò
semplicementeaillustrareper
accenni una risposta del
soggetto
all’informazione
pubblicitaria
dimostrando
come entri in conflitto con
tutte e due le tesi appena
menzionate.
Questa spiegazione si basa
ingranpartesull’analisidella
forma
del
desiderio
triangolare sviluppata da
René Girard in Menzogna
romantica
e
verità
romanzesca.
Prendiamo due esempi di
annunci pubblicitari con
mediatori
espliciti
e
leggiamoli secondo la teoria
diGirard.
Ho già accennato alla
primapubblicità.L’immagine
di una donna bellissima
guarda l’osservatore dalle
paginediunarivista.Vicinoa
lei, ma su un altro piano,
l’immaginediunaboccettadi
profumo X. Il testo collega il
«tu» che è al tempo stesso
modella e osservatore con il
profumo (in altri casi
l’immaginedellaboccettapuò
essere
semplicemente
collegata
in
modo
metonimicoallabellezzadella
modella). La promessa della
pubblicitàèche«tu»cheusiil
profumoXseibellissima.
Secondo
la
teoria
dell’identificazione,sicompra
il profumo X perché ci si
identifica con (o piú
precisamente, si desidera
identificarsi con) quella
bellissimadonna.Inbasealla
teoria dell’associazione lo si
compra perché lo si associa,
mediante uno slittamento
metonimico,
a
donne
bellissime e pertanto si spera
chelabellezzasiassociatutte
le donne che usano quel
profumo.
Nella
lettura
girardiana, si desidera il
profumo X perché si è
raggiunto lo stadio in cui si
cede la scelta dei propri
desideri a modelle come
questa: desideriamo quello
che crediamo sia lei a
desiderare:ilprofumoX.
Il secondo esempio è
leggermentepiúcomplesso.Il
ritratto di una donna
bellissima, e vicino a lei una
boccetta del profumo X.
Accantoc’è,inposafascinosa
e dominante, un uomo
desiderabile. Di nuovo,
secondo la lettura girardiana,
dal momento che si è
abdicatoinfavoredeimodelli
allasceltadeipropridesideri,
sidesideraciòchedesiderala
modella:nonsoltantol’uomo
(chedesiderandolaasuavolta
legittima la scelta di lei come
modello)mailprofumoX.
Non voglio sostenere che
una o l’altra di queste
immagini si possa leggere
soltanto in senso girardiano.
(Peraltro,
nel
secondo
esempio, la lettura girardiana
sembra ignorare la logica del
«se usi il profumo X sarai
desiderata
da
uomini
desiderabili» perfettamente
soddisfatta
dalla
teoria
dell’identificazione. E d’altra
parte, se questa particolare
logica fosse impeccabile,
allora la modella non
dovrebbeesserebellissimama
appena appena attraente,
come quelle delle pubblicità
dei detersivi). Fino a questo
punto mi sono limitato a
mostrare come potrebbe
presentarsi una struttura
triangolare del desiderio. Ora
è necessario spendere due
parole di spiegazione sul
desiderio. Lo sguardo della
modella
raramente
è
mostrato, avido ed eccitato,
come fisso sul bene di
consumo. La ragazza guarda
invece fuori dalla pagina, è
un’immagine di desiderio
attivo ma appagato. Ha già
usato (assorbito, consumato)
ilprofumo,chehafattodilei
ciò che è (felice, bellissima,
non appena cerchiamo di
descrivere lo stato d’animo
della modella di regola ci
ritroviamo a chiamare in
causa l’intero suo essere):
adessoèsoddisfattama(come
il consumatore) è insaziabile
pernatura.
Da questi esempi è chiaro
che il desiderio triangolare è,
persuaessenza,vicario.Nella
letteratura i piú celebri
esempi di desiderio vicario
sono Emma Bovary e Don
Chisciotte. Non soltanto
imitano il comportamento
esteriore dei modelli che
trovano nei libri, ma
consentono liberamente ai
lorodesideridiesseredefiniti,
per loro conto, da tali
modelli. Cosí che non c’è
semplicementeilsoggettoche
desidera
e
l’oggetto
desiderato, ma anche il terzo
vertice del triangolo, il
modello attraverso cui sono
mediati i desideri. La tesi
generale di Girard è che
Flaubert e Cervantes, cosí
comegliautoridialcunialtri
romanzi romanesques (in
contrasto con romantiques)
«comprendono in modo
intuitivo
e
concreto,
attraverso il medium della
loro arte, se non in modo
formale, quel sistema [di
desiderio triangolare] in cui
sono
stati
inizialmente
imprigionati insieme ai loro
contemporanei» 1
.
Gli
obiettivi dell’arte romanesque
sono quindi insieme critici e
liberatori.
La maggior parte dello
studio di Girard riguarda
l’analisi di forme di
mediazione del desiderio piú
complesse di quelle di Emma
Bovary e di Don Chisciotte,
formeincuiilmediatorenon
è un personaggio remoto o
inventato ma una persona la
cuipossibilesferadiazioneva
a incidere su quella del
soggetto,edèpertantoinuna
qualche misura un rivale,
oltrecheunmodello(edaqui
si sviluppa il pensiero di
Girardsullarivalitàmimetica
espresso in La violenza e il
sacro) 2. Mentre una vera
rivalità tra consumatore e
modello è chiaramente
impossibile
nell’annuncio
pubblicitario, una rivalità
fantasmatica – nella quale il
consumatore
è
sempre
destinatoaperdere–nonloè.
Cosíanchel’analisigirardiana
delle conseguenze di questo
genere di mediazione è
pertinentealmioscopo.
Girard si colloca in una
tradizionefilosoficachevada
Hegel fino a Sartre, e che
annette importanza centrale
alla capacità del soggetto di
scegliere i propri desideri. In
effetti, in Hegel lo stadio
dell’autocoscienzanonarriva:
l’«io» non perviene a essere
finchéilsoggettonondiventa
consapevole di sé in quanto
locusdiunamancanza,diun
desiderio.
Cosí
l’essere
dell’«io»
è
totalmente
implicitoneipropridesiderie
per l’«io» cedere la propria
autonomia
di
soggetto
desiderantesignificacedereil
proprio
essere.
Questa
cessione è ciò che Girard
definisce
«malattia
ontologica»: nel rivolgere il
desiderio verso il mediatore
desiderante, il soggetto
rinuncia
alla
propria
autonomiaontologica:
Il soggetto non è in grado
di desiderare da solo; non ha
alcuna fiducia in una scelta
esclusivamentesua.Ilrivale[e
modello] è necessario perché
soltanto il desiderio dell’altro
puòconfermareilvalore 3.
L’oggetto non è che un
mezzo per raggiungere il
mediatore. È all’essere del
mediatore che mira il
desiderio […] Il soggetto che
desideravuoletrasformarsinel
mediatore; vuole carpirgli
l’essere [per esempio] di
cavaliere perfetto o di
seduttore irresistibile (MR, p.
49).
Naturalmentesorgesubito
spontanea la domanda:
Perchél’iosifidacosípocodi
se stesso da non poter
desiderare desideri suoi
propri? Girard non fornisce
unarispostaunivocaaquesto
interrogativo,
ma
il
ragionamento che emerge
dall’intera sua analisi dei
romanzieri romanesques è
essenzialmenteditipostorico.
Il desiderio triangolare fa la
sua
prima
comparsa,
diventandooggettodianalisi,
nelDonChisciotte, che segna
l’inizio dell’era moderna
nonché
quello
della
tradizione romanesque della
narrativa critica. È quindi un
fenomeno
specificamente
moderno che nasce come
conseguenza dell’umanesimo
post-religioso, e si moltiplica
con il livellarsi delle
differenze sociali. In un
mondo in cui «i rapporti piú
importanti non sono quelli
tra superiori e inferiori a
livello sociale, ma quelli tra
pari,ancheseraramentesono
vissuti come rapporti di
“uguaglianza”», la presenza
del
«rivale
metafisico»
(ovvero
il
modello
fantasmatico del desiderio)
diventa
«sempre
piú
ossessiva»(DB,p.80).
Nella lettura di Girard è
Dostoevskij a emergere come
l’analista piú sottile delle
strutturedellamediazionedel
desiderio. La risposta di
Dostoevskij alla domanda sul
perché l’io non possa
desiderare i propri desideri è
che la promessa che deriva
dallanotiziacheDioèmorto
e che l’Uomo ne ha preso il
posto non si realizza
nell’esperienza.
Tutti gli uomini scoprono
nella solitudine della loro
coscienza che la promessa è
fallace,manessunoècapacedi
universalizzare
questa
esperienza. La promessa
rimane vera per gli altri [...]
Ciascuno si crede solo
all’inferno, e l’inferno è
proprioquesto(MR,p.52).
Neconseguecheleretidel
desiderio mediato saranno le
piú inclusive nelle moderne
società individualistiche e
materialistiche dove regna
l’ideologiapubblicadellepari
opportunità per tutti e
l’individuo di conseguenza
vive il fallimento come una
vergognaprivata,ontologicae
irredimibile.Daquestopunto
divistaGirardsicollocanella
tradizione
della
critica
conservatrice europea nei
confronti della democrazia
americana,criticachetrovain
Tocqueville il suo principale
esponente:
Nonsoltantolademocrazia
porta
ogni
uomo
a
dimenticare i propri antenati,
ma gli nasconde i suoi
discendenti e lo separa dai
contemporanei; lo rigetta
indietro per sempre, su se
stesso soltanto, e alla fine
minaccia di confinarlo del
tutto nella solitudine del suo
cuore 4.
Anche se l’impresa di
Girardconsisteneldescrivere
parte della psicologia sociale
del mondo moderno, la
metodologia che segue non è
consueta per il sociologo
empirico. A chiarire questo
puntoèlostessoGirard:
Credo che esista in alcune
opere
[letterarie]
una
conoscenza
di
rapporti
desideranti superiori a tutti
quelli proposti [altrove]. Non
si tratta affatto di sfidare la
scienza, ma di ricercarla
ovunque la si possa trovare,
per quanto insolito possa
essere il luogo in questione
(DB,p.49).
Analogamente una volta
ammesso che i «rapporti
desideranti» sono sempre
sostanzialmente
impliciti
nella pubblicità non è
azzardato ammettere la
possibilitàcheneiromanzieri
e nei loro interpreti, cosí
come nei comportamenti
quantificabili
dei
consumatori, si possano
trovareintuizionisulmodoin
cuioperaildesiderio.
I punti della teoria di
Girard piú immediatamente
rilevanti per l’analisi della
pubblicità
si
possono
riassumerecomesegue:
1. Le strutture triangolari
del desiderio hanno
origine in un anelito
verso la trascendenza
che resta insoddisfatto
nelmondomoderno.
2. Il desiderio triangolare
comportapersuanatura
cheilsoggettodeleghial
modello la scelta dei
propridesideri.
3.
Le
caratteristiche
emozioni concomitanti
sonosfiduciainsestessi,
invidia,
gelosia,
risentimento.
Lamodella.
Nominalmente la modella
giocaunruolodimediazione
tra consumatore e prodotto.
Lamodella(quièappropriato
usare il femminile) dovrebbe
effettuare il collegamento tra
soggettodesideranteeoggetto
desiderato, e scomparire nel
processo. In effetti, nel
discorso economico, della
modellanonsiparla:sitratta
soltanto
del
rapporto
soggetto-oggetto.
Nell’immagine pubblicitaria
la modella non ha una
didascalia, non è nominata.
Tra le qualità che l’hanno
fatta scegliere tra le aspiranti
modelle c’è la mancanza di
una
individualità
identificabile: i suoi tratti
fisici devono essere cosí
plastici, sotto le mani
dell’artistachelatruccaperla
sessione fotografica, da non
lasciarla riconoscere da un
contratto al successivo, in
modo che non venga
associata con un prodotto in
particolare. In altri termini, è
una sorta di zerodesiderante,
unanullitàicuidesiderisono
infinitamente mobili, che
desidera non perché questo
oggettoparticolarelaspingaa
desiderarlo (se cosí fosse,
l’oggettolascerebbesudileila
sua
traccia)
ma
semplicemente
perché
desiderareèlasuaessenza.
Occorre
qui
fare
attenzione nel distinguere la
modelladallastar,lacelebrità
(avolteancheleiproveniente
dall’ambientemodelle!)dicui
si
utilizza
proprio
l’identificabilità per vendere
prodotti. Il trattamento
riservato
alla
star
è
esattamente l’opposto di
quello fin qui descritto: se ne
sottolinea l’unicità e, a
differenza della modella, le si
puòconsentirediidentificarsi
con uno o due prodotti
specifici. La star di fatto
costituisce un caso piú
semplice di mediazione del
desiderio e di delega
dell’essere, rispetto alla
modella. Si tratta di quello
che
Girard
definisce
«mediazione esterna», fornita
a Don Chischiotte da
AmadigidiGaula.Neglianni
d’oro di Hollywood, la gente
venivainvitataa«viverecome
lestar»,imparavaadesiderare
quello che desideravano le
star, ovvero quello cui le star
prestavanolaloroimmagine.
I volti indossati dalla
modella – dal momento che
leièsenzavolto–seguonole
prescrizioni della moda. Le
persone che approntano quei
voltinonnesonogliautori.È
la moda a essere l’autore, e lí
nessuno pretende di essere
creatore. Se si risale ai
cosiddetti «fashion setter», i
«creatori di tendenze», ci si
sentedirechenonfannoaltro
che«rispondereaitempi».«X
èallamoda,Yèfuorimoda»,
dicono con un’asserzione al
tempo stesso dichiarativa e
ottativa. Le immagini della
soggettività
desiderante
offerte dalle modelle ai
fruitori sono elementi di un
repertorio che si modifica in
modo imprevedibile e di cui
nessuno conosce l’origine.
Con un gesto tipicamente
mistificatorio, lo specchio è
sempre rivolto verso il
soggetto.
«Questa
è
l’immaginedeltuomodello,–
dice la voce della Moda, –
perché è cosí che desideri
apparire».Lamistificazionesi
produce di nuovo negando
l’esistenza della modella,
affermandone la nullità,
asserendochenonèaltroche
un’immagine del desiderio
del soggetto, del soggetto
desiderante.
Intrappolato in questa
galleriadispecchi,ilsoggetto
(ilconsumatore)nonpuòche
fallire
nell’impresa
di
afferrare l’esistenza di un
modellotantofantasmatico.Il
soggetto prova l’invidia e lo
sconcerto che Girard (sulla
scia di Stendhal, Nietzsche e
Scheler) descrive, ma in una
modalitàcheèpeculiaredella
societàdeiconsumi:poichéla
mistificazionederivaappunto
dalfattochelamodella/rivale
è invisibile, uno zero, non
esiste,
l’invidia
ha
l’impressione di essere priva
di oggetto o di origine: non
solo è impotente, ma non
conosce nemmeno il proprio
nome. Accade con la stessa
vaghezza di un malessere, di
unoscontento,diunsensodi
vuoto interiore. L’analisi piú
penetrante della vita vissuta
in
questo
malessere,
attraversoivalorifasullicreati
dall’invidia nel tentativo di
nascondersi, resta quella di
MaxScheler 5.
Non è mia intenzione
attribuire
responsabilità,
cercare di imputare la
prevalenza
dell’invidia
affiorante nella pubblicità e
nell’industria della moda al
sistematardo-capitalistaoalla
morte di Dio, non foss’altro
perché l’analisi stessa di
Girard mette in discussione
l’attività dell’attribuire colpe.
Nondimeno, c’è un dato che
difficilmentepuòsottrarsialla
nostra attenzione: il fatto che
ci sia chi trae un beneficio
materiale dai modelli di
desiderio, che questi modelli
debbano apparire privi di
autore, e che i sentimenti
suscitati
nell’osservatore
debbano comprendere anche
l’invidia e un senso di
disistima che non può essere
placato, per quante cose egli
acquisti,poichéidesideriche
cerca di soddisfare sono
trascendenti. E non può
sfuggire all’attenzione dello
storico che, mentre nel
diciannovesimo secolo lo
strumento scelto per attirare,
sedurre e intrappolare i
colonizzati in una economia
di mercato era l’alcol, oggi
tale funzione si effettua nel
Terzo Mondo mediante la
propagazione di immagini e
modelli di desiderio, e
pertanto
l’espressione
creazione della dipendenza si
puòusareinmodoaltrettanto
appropriato attribuendola a
immaginioasostanze.
Iltriangolo.
Ho discusso fin qui di un
solo genere di pubblicità:
quellaincuil’immaginedella
modella è presente in modo
esplicito. Si pone ora la
domanda:sitrattainuncerto
senso di un genere chiave,
grazie al quale possiamo
svelare
i
meccanismi
psicologici di altri generi, in
cui la triangolarità della
struttura del desiderio non è
altrettanto
chiaramente
manifesta?Quioccorreessere
cauti: non possiamo ignorare
la gran quantità di indagini
empiriche
condotte
dall’industria stessa, per
quanto interessate siano le
loro finalità e per quanto
svilita sia la teoria che le
sorregge.
Tali
ricerche
sottolineano di continuo la
varietàdifunzionisvoltedalla
pubblicità e la varietà di
mezzi che deve utilizzare.
Qualunque analisi lucida del
fenomeno deve affrontare la
possibilità che essa sia di
naturaproteiforme.
Inoltre, anche nel caso del
genere su cui mi sono
concentrato, in cui è piú
evidente l’esistenza di una
struttura
triangolare
sottostante, l’analisi fornita
non è esaustiva. Non ho
discusso i processi di
acculturazione mediante i
quali si instaura l’anelito
verso modelli specifici. E
nemmeno ho affrontato la
struttura che insorge tra lo
sguardo della modella, lo
sguardo (maschile) della
fotocamera desiderante e lo
sguardo
del
soggetto
(femminile) che la osserva.
Néhotentatodidescrivereil
repertorio iconologico di cui
puòdisporrequestogenere,o
la semiologia degli sguardi,
deigestiedelleposturedicui
si serve. Ancora, non ho
discusso
la
reazione
dell’osservatore al narcisismo
della modella, né la natura
dell’osservare in quanto atto
voyeuristico,
né
le
caratteristiche
assunte
dall’esperienza personale in
unmondodiimmagini.
D’altra parte non arriverò
al punto di ammettere che la
struttura
triangolare
è
semplicemente una delle
molte strutture a cui può
ricorrere la pubblicità. Nella
misura in cui il pubblicitario
in
quanto
soggetto
desiderantesiinterponetrail
soggetto di cui desidera
formare i desideri e l’oggetto
che desidera vendere, la
forma dell’atto pubblicitario
elementare deve essere
triangolare; e nella misura in
cui la natura della pubblicità
esige che il desiderio del
pubblicitario resti nascosto,
dissimulatosottoaltraforma,
lo scopo della critica
dovrebbe essere quello di
rivelare
quel
triangolo
nascosto. Pertanto, per fare
l’esempio piú semplice, un
catalogo di vendita sembra
utilizzare in apparenza solo
un soggetto diadico – le
strutture dei soggetti-oggetti:
è ritratto un articolo in
vendita, con un prezzo e una
breve descrizione. Ma perché
proprio questa immagine,
questadescrizione?Immagine
edescrizionenonsonol’unica
o
la
migliore
rappresentazione possibile
dell’articolo (quale che sia):
rappresentano
l’immagine
che qualcuno ha di
quell’articolo in quanto
oggetto di uno sguardo
desiderante:
sono
la
rappresentazione di un
articolo
desiderato,
un
articolo desiderato con la
modalità del modello, non
l’articolo in sé. Cosí la
struttura di quell’atto in
apparenza diadico è di fatto
triangolare: il mediatore,
come sempre, si maschera e
l’analisichelosmascheraèun
attodidemistificazione.
Analisiconcorrenti.
L’aspettosucuil’analisidi
Girarddelleformetriangolari
del desiderio dovrebbe essere
della massima utilità per una
criticastoricadellapubblicità
èpurtroppoquelloabbozzato
in modo piú sommario,
ovvero la documentazione
relativa alla diffusione del
fenomeno nella società.
Nondimeno,lettadiconcerto
con i suoi testi chiave – i
romanzi
di
Cervantes,
Stendhal,
Flaubert,
Dostoevskij e Proust –
fornisce un’ampia eziologia
delle perplessità e degli stati
d’animodimolticonsumatori
disocietàtardo-capitalistenei
confronti degli oggetti che
sono invitati a consumare.
Inoltrelavisionediun’«epoca
ante quo» che troviamo in
Girard
mi
sembra
storicamente
difendibile:
meno difendibile è una
creazione della nostalgia,
come si ritrova nella visione
della storia propugnata dalla
critica umanistica della
pubblicità, con cui abbiamo
piú familiarità in Sudafrica.
Persostanziarequestopunto,
vorrei citare brevemente uno
studio che rappresenta, dal
punto di vista dell’acume e
della tensione morale, il
meglio della scuola di F. R.
Leavis:The Imagery of Power
diFredInglis 6.
Incontrastoconloschema
girardiano, in cui la
transazione primaria è quella
tra consumatore e oggetto,
mediataattraversoilmodello,
la transazione primaria nello
schema di Inglis è tra
pubblicitario e consumatore,
mediata
dall’annuncio
pubblicitario.Dalsuo«punto
diosservazioneanonimo»che
sta dietro all’annuncio, il
pubblicitario intende fornire
pseudosoluzionialle«fantasie
immanenti»delconsumatore;
soluzioni che sortiscono
l’effetto di «contenere ogni
uomo e ogni donna
all’interno
dei
loro
sentimenti, impendendo loro
di vedere apertamente quella
che è una condizione
comune». Cosí anche Inglis,
come Girard, indica da una
parte il rinforzo morale
reciprocodiindividualismoe
solitudine,edall’altrailregno
dei modelli (che sono, in
Inglis, modelli negativi). Ma
per spiegare il potere che
modelli negativi proposti
dalla pubblicità esercitano
sulla mente delle persone,
Inglisnonfaaltrocheparlare
delle loro qualità di
«fascinazione». Da qui deriva
undualismochetroviamo,in
unaformaonell’altra,intutta
la critica umanista della
pubblicità:
il
dualismo
dell’astuziadelpubblicitarioe
dellasemplicitàinnocentedel
consumatore.Maèaltamente
improbabile che davvero i
pubblicitari si pongano al di
fuori del sistema di fantasie
che regna nella società, per
manipolarlo ai propri fini. È
molto piú probabile che
dicano la verità, quando
sostengono di credere in
quello che fanno (qualsiasi
cosa significhi «credere»),
cioè che siano coinvolti nelle
stesse
fantasie
dei
consumatori. In tal caso il
centro focale dell’analisi
dovrebbe essere il sistema
stesso: prima il desiderio che
lomodella,poileforzechelo
creano.
Quando Inglis arriva a
parlare
dell’annuncio
pubblicitario in sé, il
dualismo precedente emerge
in un’altra forma come
opposizione tra l’oggetto del
consumo e l’«atmosfera
morale» (ovvero, di solito, il
glamour fasullo) della sua
immagine. Le energie del
pubblicitario, secondo Inglis,
sono rivolte a rendere
invisibile tale opposizione, a
celare il divario tra oggetto e
immagine. Nella mente del
consumatore l’oggetto deve
diventare la sua immagine; e
il pubblicitario è tanto piú
abile in quanto riesce a
dissimulare quel divario. E
qui sorge una semplice
domanda:
perché
il
consumatore si lascia tanto
facilmente «affascinare» fino
a confondere significato e
significante? Le denunce
contro
la
capacità
manipolatoriadeipubblicitari
si possono troppo facilmente
ribaltare e trasformare in
denunce contro l’ingenuità
dei consumatori. Entrambe
sono tentativi di trovare un
capro espiatorio, e nessuna
delle due approda a qualche
cosa.Dietrotuttoildualismo
del bene contro il male che
troviamonellecriticheabase
umanista della pubblicità, c’è
un’opposizione astorica tra
l’era edenica precedente e
l’epocaattualedopolacaduta.
Inglis (Leavis prima di lui) è
chiaramente convinto che
amore, sesso, famiglia e cosí
via si sviliscano quando sono
usati per conferire fascino a
beni materiali in vendita.
«Com’è possibile amare
davvero,
–
ragiona
l’argomentazione tacitamente
sottesa, – se si è convinti che
il profumo X o il deodorante
Y siano il prerequisito
dell’amore? Il contrasto
immediato è quello tra un
mondoincuisiproval’amore
vero (non mediato) e un
mondo in cui X e Y sono
considerati
condizioni
indispensabili per l’amore.
Ma il contrasto piú profondo
è quello tra un mondo
originario di vero (non
mediato) amore in cui X e Y
non esistevano (perché non
c’era bisogno di loro) e un
mondo moderno in cui
esistono. In altre parole, il
contrasto è tra un originale
nonmediatoeunamodernità
post-edenica e mediata; e
l’anelito nascosto è rivolto a
un mondo non mediato,
ovvero un mondo senza
linguaggio.
[1980].
RicordidelTexas
Nel settembre del 1965
(questo saggio non può
cominciare in altro modo)
approdaiaNewYorkabordo
di una nave italiana, in
precedenza
adibita
al
trasportotruppe,oraaffollata
di giovani da varie parti del
mondo che andavano a
studiare in America. Avevo
venticinque anni, ero partito
dall’Inghilterra ed ero diretto
adAustin,conuncontrattodi
lavoroall’UniversitàdelTexas
per 2100 dollari all’anno.
Avrei insegnato inglese alle
matricole mentre seguivo i
corsipostlauream.
Avevo studiato inglese in
colonia, il mio luogo di
origine, in un corso
universitario
piuttosto
convenzionale dove avevo
imparato a pronunciare
correttamente le vocali nei
versidiChaucerealeggerela
grafia
elisabettiana.
ConoscevoilpoetadiPearl e
ThomasMoreeJohnEvelyne
molti altri grandi. Sapevo
«fare» critica letteraria anche
se non capivo bene in che
cosa
differisse
dalla
recensionediunlibroodalla
conversazione letteraria. In
definitiva questa pallida
imitazione degli studi di
Oxford si era dimostrata ben
misera cosa ed ero stato
contento di lasciarla per
abbracciare la matematica:
ma dopo quattro anni
nell’industria informatica in
cui persino durante il sonno
ero invaso da insignificanti
problemidilogica,eropronto
aprovarcidinuovo.
In una Austin piú calda e
piú umida dell’Africa che
ricordavo, mi iscrissi a dei
corsi di bibliografia e di
antico inglese. Da William B.
Todd imparai i meccanismi
delcollettorediHinman.Per
il corso di Rosamund
Lehmannprogettaiedeseguii
una
classificazione
minuziosamente dettagliata
delle figure retoriche dei
sermoni
del
vescovo
Wulfstan, per il quale mi fu
assegnato il voto di A–, il
menomispiegòeradovutoal
fatto che un lavoro come il
mio dava cattiva fama alla
filologia. Aveva ragione: non
me la presi anche se non
capivocomeavreiproseguito.
Nel fondo dei manoscritti
della biblioteca trovai i
quaderni su cui Beckett,
mentre si nascondeva dai
tedeschi,avevascrittoWattin
una casa colonica nel Sud
della
Francia.
Passai
settimane a esaminare i
manoscritti, riflettendo sui
disegni, i numeri e gli
scarabocchi sui margini,
sconcertato di scoprire che la
bendocumentataagoniadella
composizione
di
un
capolavoro
non
avesse
lasciato altre tracce che tali
stupidaggini. Mi chiedevo se
l’angoscia non fosse tutta
nell’attesa,nellostaresedutia
fissarelapaginavuota.
Uno studente di nome
Charles Whitman (un mio
collega? Erano tutti e 23 000
miei
colleghi?)
prese
l’ascensore fino alla torre
dell’orologio e cominciò a
sparare sulle persone nel
piazzalesottostante.Neuccise
un bel numero prima che
qualcuno uccidesse lui. Per
tuttoiltemporimasinascosto
sotto la scrivania. A Cape
Town un greco assassinò
Hendrik Frensch Verwoerd,
l’artefice
della
filosofia
dell’apartheid. «Se non sei
d’accordo con la guerra, –
disseunamico,intendendola
guerra in (al?) Vietnam, –
perché non te ne vai? Che
cosatitrattiene?»Maluinon
mi aveva capito. Non si
trattava di complicità – un
concetto troppo sottile per
l’epoca. Il problema era
saperequellocheaccadeva.Il
problemaeracomesfuggirea
quellaconoscenza.
Glistudenticheseguivano
le
mie
lezioni
di
composizione
sarebbero
potutiesserenatividelleisole
Trobriandesi,
tanto
incomprensibilipermeerano
lalorocultura,idivertimenti,
le idee che li eccitavano. Mi
muovevo in un unico strato
della comunità universitaria,
quello degli studenti postlaurea e dei dottorandi che
vivevanoviteineconomia,in
appartamenti in affitto, con i
giocattoli
sparsi
sul
pavimento
e
che
si
arrabattavano per completare
icorsieprepararsiagliesami
orali o scrivere le tesi.
Quando non parlavano degli
insegnanti (loro personalità e
deficienze),
i
discorsi
riguardavano come scappare,
trovareunlavoroaHuntsville
o a Texarkana, come mettere
le mani sui soldi veri. In
mancanza di obiettivi meno
concreti di questi, o forse in
assenza totale di obiettivi, mi
davo da fare sui miei testi in
antico inglese e sulla
grammaticatedesca.
La domenica giocavo a
cricket su un campo di
baseball con un gruppo di
indiani. Formammo una
squadra, andavamo a College
Station,elígiocavamocontro
una squadra della Texas
A&M formata di nostalgici
reietti delle colonie, e
perdevamo. Mi tornò in
mente un amico indiano dei
tempi dell’Inghilterra con cui
facevamo lunghe passeggiate
nella campagna del Surrey,
una campagna che per noi,
concordavamosuquesto,non
significava nulla. «Almeno in
America, – diceva (aveva
passato del tempo a
Columbus, Ohio), – ci sono
chioschi di hamburger aperti
tutta la notte». Per quanto
nonavessialcuninteresseper
gli hamburger, l’America di
cui parlava sembrava un
grande passo avanti rispetto
all’Inghilterra che conoscevo.
Ora che mi trovavo in
America, o per lo meno in
Texas, le verdi colline erano
altrettanto aliene per me
come quelle del Surrey. Mi
parevadisentirelamancanza
dispaziovuoto,terravuotae
cielo vuoto a cui il Sudafrica
miavevaabituato.L’altracosa
che mi mancava era il suono
diunalinguadicuicapivole
sfumature. La lingua parlata
in Texas sembrava non avere
sfumature,osec’eranononle
coglievo.
Scrissi una tesina per il
corso di Archibald Hill sulla
morfologiadellelinguenama,
malay e olandese, lingue di
ceppi diversi che nel Capo di
Buona Speranza si erano
trovate a influenzarsi l’una
con l’altra. Trovai in
bibliotecalibrimaipiúaperti
dagli anni Venti, rapporti sul
territorio
dell’Africa
sudoccidentale di esploratori
e amministratori tedeschi,
resoconti di spedizioni
punitive contro i nama e gli
erero,
dissertazioni
sull’antropologia fisica dei
nativi, monografie di Carl
Meinhofsullelinguekhoisan.
Lessi
le
grammatiche
rudimentali formulate dai
missionari, tornai ancora piú
indietroneltempoalleprime
registrazionilinguistichedelle
vecchie lingue del Capo, liste
di vocaboli compilate da
marinai del diciassettesimo
secolo e poi seguii le fortune
degli ottentotti in una storia
scritta non da loro ma per
loro,dall’alto,daviaggiatorie
missionari, tra i quali il mio
lontano antenato Jacobus
Coetzee,floruit1760.Qualche
anno piú tardi, a Buffalo,
ancora su questa traccia, mi
sarei avventurato a scrivere
qualcosa sulla storia degli
ottentotti, una sorta di
memoir che si ampliò fino a
essere assorbito nel mio
primo romanzo Terre al
crepuscolo.
Un’altrapistamiportòdai
nama e i malay ad
approfondire la sintassi delle
lingue esotiche, in incursioni
che si ramificavano sempre
oltre (stavo riscoprendo la
ruota) fino a scoprire che il
termine primitivo non aveva
alcun senso, che ciascuna
delle 700 lingue del Borneo
era un sistema coerente e
complesso e impenetrabile
all’analisi quanto l’inglese.
Lessi Noam Chomsky e
Jerrold Katz e i nuovi
grammatici universali e
arrivai a domandarmi: se
dovessero mai costruire
un’arca in cui mettere il
meglio che l’umanità ha
creatoericominciaredacapo
suqualcheremotopianeta,se
mai dovesse accadere, non
dovremmolasciarciallespalle
i drammi di Shakespeare e i
quartetti di Beethoven per
farespazioall’ultimoparlante
di dyirbal anche se si fosse
trattato di una vecchia grassa
rognosa e puzzolente? Una
strana posizione per uno
studente di inglese, la piú
grande lingua imperiale.
Doppiamente strana per uno
animato
da
ambizioni
letterarie,perquantovaghe–
ambizioni di parlare un
giorno con la sua voce –
trovarsi a sospettare che le
lingueparlavanogliindividui
o almeno che parlavano
attraversodiloro.
Lasciai il Texas nel 1968.
Non capii mai perché
l’università e i contribuenti
americani avessero elargito
tanto denaro perché io
seguissi i miei capricci. A
volte pensavo si trattasse di
una svista, una svista
insignificante, permessa dal
sistema, per cui non
importavasetralemigliaiadi
ingegneri petroliferi e di
politologi sfornati ogni anno,
ne venivano fuori uno o due
diquellicomeme.Altrevolte
pensavo che il programma di
scambio Fulbright fosse
qualcosa
di
molto
lungimirante
e
molto
generoso di cui tutti
avrebberosentitoibeneficiin
un lontano futuro. La verità
stavaforsenelmezzo.
Néall’andatanéalritorno
ebbi alcun rimpianto. Me ne
andavo, pensai, indenne, non
scalfito se non dai tempi.
Nessuno aveva cercato di
insegnarmi qualcosa, cosa di
cui ero grato. Quello che
avevo imparato nel corso di
tre anni non era poco, per
quanto appreso quasi per
caso. Avevo avuto a
disposizione una grande
biblioteca,emieroimbattuto
in libri di cui non avrei
altrimenti neppure sospettato
l’esistenza. Passando davanti
alla porta dello studio di
JamesSleddallecinquediun
sabato
pomeriggio,
il
ticchettio della sua macchina
da scrivere mi aveva
rassicurato che la provincia
degli studi di anglistica non
era roba per dilettanti, come
lo stile di vita dei miei
insegnanticolonialisembrava
dimostrare. Avrei potuto
venirneviaconmoltomeno.
[1984].
Confessioneedoppio
pensieroinTolstoj,Rousseau,
Dostoevskij
Nel libro secondo delle
ConfessioniAgostinoracconta
che da ragazzo rubò, insieme
a degli amici, una gran
quantitàdiperedalfruttetodi
un vicino non perché
volessero mangiarle (e in
effettilediederoaimaiali)ma
per il piacere di commettere
un’azione
vietata.
Fui
«malvagio senza motivo,
senza che esistesse alcuna
ragione della mia malvagità
[…] non già nella ricerca
disonesta di qualcosa, ma
dellasoladisonestà[…]Siha
pudore a non essere
spudorati» 1.
Nel passato di cui parlano
Leconfessioni, il furto suscita
vergogna nel cuore del
giovane Agostino. Ma quel
che brama il cuore del
ragazzo(comericordal’uomo
adulto) è proprio quel
sentimento di vergogna. Il
suo cuore non è umiliato
(castigato) dal sapere che
desidera
conoscere
la
vergogna: al contrario, la
consapevolezza di avere un
desiderio
ignominioso
soddisfa
il
desiderio
dell’esperienzadellavergogna
e al tempo stesso alimenta il
senso di vergogna. E questo
sensodivergognanonsolodà
una certa soddisfazione se
riconosciuto per mezzo di
una ricerca consapevole, ma
diventa fonte ulteriore di
vergogna, e cosí via
all’infinito.
«Nei campi e negli antri,
nelle caverne incalcolabili
dellamemoria»(X,17,361)la
vergogna perdura nell’uomo
adulto.«Chipuòdistricareun
nodo cosí tortuoso e
aggrovigliato? È sudicio, non
voglio piú riflettervi» (II, 10,
59). Agostino si trova in una
difficoltà estrema. Vorrebbe
conoscere quel che c’è
all’origine del groviglio della
vergogna ricordata, da dove
proviene, ma la matassa è
infinita, i passaggi di
autoanalisi richiesti per
raggiungere il bandolo sono
innumerevoli. E tuttavia
finché non arriverà a trovare
l’originedell’attovergognoso,
l’iononavràpace.
La confessione è un
elemento di una sequenza –
trasgressione, confessione,
penitenza e assoluzione – in
cui l’assoluzione rappresenta
la fine dell’episodio, la
conclusione del capitolo, la
liberazione dall’oppressione
della memoria. In tal senso
l’assoluzione è la meta
imprescindibile di ogni
confessione, sacramentale o
laica che sia. La trasgressione
invece non è un elemento
indispensabile. Nel racconto
diAgostinolatrasgressioneè
rappresentata dal furto delle
pere, ma ciò che richiede
d’essereconfessatoèqualcosa
che sta dietro il furto, una
verità su se stesso che lui
ancora
non
conosce.
L’episodio delle pere è
dunqueladupliceconfessione
diqualcosachesa(l’atto)edi
qualcosa che ancora non
conosce:«Confesseròdunque
quanto so di me, e anche
quanto ignoro di me […]
quanto ignoro di me, lo
ignorofinchélemietenebresi
mutino quale il mezzodí nel
tuo volto» (X, 5, 337). La
verità su se stessi che
concluderà
la
ricerca
dell’origine interiore di ciòche-è-sbagliato, lui afferma,
resterà
inaccessibile
all’introspezione.
In questo saggio mi
propongo di verificare in un
certo numero di confessioni
laiche, sia romanzesche che
autobiografiche, come gli
autoriaffrontinooevadanoil
problema della conoscenza
della verità dell’io senza
cadere nell’autoinganno e
comeportinoaconclusionela
confessione nello spirito di
quello che ritengono sia
l’equivalente
laico
dell’assoluzione.Neltrasporre
il termine confessione da un
contesto religioso a uno laico
è inevitabile una certa
approssimazione.
Ciò
nondimeno è possibile
individuare una modalità
della scrittura autobiografica
chechiamiamolaconfessione,
che si distingue dalla
memoria
autobiografica
(memoir)edall’apologiasulla
base della volontà sottesa di
dire una verità essenziale
sull’io 2. È il genere a volte
praticato da Montaigne 3, ma
sostanzialmente è quello
definito da Rousseau nelle
Confessioni. Quanto alla
confessione romanzesca si
tratta di una modalità già
praticata da Defoe nelle
confessioni
fittizie
di
peccatoricomeMollFlanders
e Roxana. Nella nostra epoca
il romanzo confessionale è
diventato un sottogenere del
romanzo che mette in primo
pianoiproblemidelracconto
della
verità
e
dell’autoconsapevolezza,
dell’inganno
e
dell’autoinganno 4. Due delle
opere che discuto in questo
saggio,
Memorie
del
sottosuolo di Dostoevskij e
Sonata a Kreutzer di Tolstoj,
rientrano a pieno titolo nel
genere confessionale perché
consistono per la maggior
parte di rappresentazioni di
confessioni di azioni abiette
compiute dai narratori. La
«Spiegazione» di Ippolít
Terentyev
nell’Idiota
è
un’apologiasullettodimorte
che si misura con i problemi
della
verità
e
dell’autoconoscenza
caratteristici
della
confessione.
Infine,
la
confessione di Stavrogin ne I
demoni pone il problema,
lasciato in sospeso dai tempi
di Montaigne, se la
confessione secolare in
presenza di un ascoltatore o
diunpubblico,realeofittizio,
maprivadiunconfessorecon
ilpoterediassolvere,possain
qualche modo condurre a
quella fine del capitolo il cui
raggiungimento è la meta
dellaconfessione 5.
Tolstoj.
È la seconda sera di un
lungo viaggio in treno. La
conversazionetraipasseggeri
si
è
concentrata
su
matrimonio,
adulterio,
divorzio. Un signore dai
capelligrigiparlaconcinismo
dell’amore. Quando rivela di
chiamarsi Pozdnyšev e di
avere scontato una condanna
per uxoricidio i compagni di
viaggio
si
spostano
lasciandolo
solo
con
l’anonimo narratore a cui si
offre di raccontare «tutto dal
principio» 6.Laconfessionedi
Pozdnyšev, ripetuta dal
narratore, è il soggetto della
Sonata a Kreutzer di Tolstoj
(1889).
Quella di Pozdnyšev è la
storia di un uomo che ha
vissuto i rapporti con le
donne in un «abisso di
errore» e che, alla fine, in un
«episodio»
di
gelosia
patologica ha ucciso sua
moglie.Solopiútardi,dopola
condanna al carcere, «mi si
sono improvvisamente aperti
gli occhi e ho cominciato a
vedere tutto sotto un’altra
luce.Tuttoallarovescia,tutto
alla rovescia!» (p. 35). Il
momento in cui tutto si
capovolge (navyvorot′) è il
momento dell’illuminazione
che gli apre gli occhi sulla
verità e rende possibile la
confessione
vera.
La
confessione su cui si imbarca
intrenohadunqueduefacce:
i fatti relativi all’«episodio»,
che sono già emersi al
processo, e la verità su se
stessosucuiglisisonoaperti
gli occhi. Nel confessare
quest’ultima Pozdnyšev si
trova a denunciare una
condizione di errore in cui, a
suo parere, si trova tutta la
classedacuiproviene.
Con la sua aria nervosa, il
rumore curioso che ogni
tanto emette (a metà fra la
tosse e una risatina
interrotta), le sue strane idee
sulsessoelastoriadiviolenza
alle spalle, Pozdnyšev è
certamente un personaggio
bizzarro e non ci sarebbe
niente da stupirsi se la verità
cheraccontafosseinconflitto
con la verità compresa dal
tranquillo
e
giudizioso
ascoltatore che poi la
racconterà a noi. In altri
termini
non
ci
sorprenderemmoditrovarcia
leggereunodiqueilibriincui
chi parla è convinto di stare
dicendo una verità mentre
per noi, man mano, emerge
che è un’altra la verità di cui
parla – un libro analogo a
FuocopallidodiNabokov,ad
esempio, in cui il narratore
crededistareparlandoperse
stesso mentre i lettori presto
si rendono conto che sta
parlandocontrosestesso.
Comincerò col riassumere
la verità cosí come la vede
Pozdnyšev,permettendoglidi
parlareconlasuavoce.
LaveritàdiPozdnyšev.
Com’è consuetudine nel
mio ambiente sono stato
iniziato sessualmente in un
bordello. L’esperienza con le
prostitute ha rovinato per
sempreimieirapporticonle
donne.Etuttavia,nonostante
«le centinaia di disgustosi
crimini contro le donne» (p.
39) che mi pesano sulla
coscienza, ero il benvenuto
nellecasedeimieiparichemi
permettevano di ballare con
mogliefiglie.
Mi fidanzai con una
ragazza. Fu un periodo di
promessa sensuale resa piú
intensa dagli abiti seducenti,
labuonatavola,lavitaoziosa.
La luna di miele fu una
delusione e la vita coniugale
alternava ondate di ostilità a
ondate di sensualità. Non ci
rendemmocontochel’ostilità
che ciascuno provava per
l’altro era una protesta della
«natura umana» contro le
sopraffazioni della «natura
animale».
Per il tramite di medici e
preti la società consente
pratiche innaturali: rapporti
sessualidurantelagravidanza
e
l’allattamento,
la
contraccezione.
La
contraccezionefuallabasedi
tutto quanto accadde, perché
consentí a mia moglie di
frequentare
uomini
sconosciuti
«nel
pieno
rigoglio di una donna sulla
trentina che non partoriva
piú figli, era supernutrita e
aveva
un’immaginazione
eccitata»(pp.79-80).
Un violinista di nome
Truchačevskij entrò in scena.
Spinto da uno «strano
impulso, quasi fatale» (p. 88)
ne incoraggiai l’amicizia con
mia moglie, e cominciò «il
giocodell’ingannoreciproco»
(p.89).Luisuonavadeiduetti
conmiamoglie,ioribollivodi
gelosia ma facevo finta di
niente e mia moglie era
eccitata dalla mia gelosia
mentre
una
«corrente
elettrica»fluivatraidue.Col
senno di poi mi rendo conto
che suonare insieme, cosí
comeballareinsieme,ocome
la prossimità degli scultori
alle modelle e dei medici alle
pazienti, sono strade aperte
verso le relazioni illecite
consentitedallasocietà.
Mi allontanai da casa per
un viaggio ma mi ricordai
qualcosa che aveva detto il
fratello di Truchačevskij, che
lui andava a letto solo con le
donne sposate perché erano
piú sicure e non si sarebbe
preso
un’infezione.
Sopraffatto dalla gelosia mi
precipitai
a
casa.
Truchačevskij e mia moglie
stavano suonando un duetto.
Gli piombai addosso con un
pugnale.
Truchačevskij
scappòmentremiamogliemi
supplicava: «Non c’è stato
nulla…Telogiuro!»(p.118).
Lapugnalai.
In prigione ebbi un
«rivolgimento morale» e vidi
come si era compiuto il mio
destino. «Se avessi saputo
quelchesoora,tuttosarebbe
stato diverso […] non mi
sareimaidovutosposare».
LaveritàdiTolstoj.
Nel 1890, in risposta alle
missive dei lettori della
Sonata a Kreutzer che gli
chiedevanocosaavessevoluto
dire, Tolstoj pubblicò una
Postilla in cui lo esplicitò in
una serie di precetti. È
sbagliato avere rapporti
sessuali al di fuori del
matrimonio. Le persone
dovrebbero imparare a
condurre uno stile di vita
naturale e a mangiare con
moderazione; troverebbero
piú facile cosí l’astinenza
sessuale.
Bisognerebbe
insegnargli che l’amore
carnale è «una condizione
animalesca e umiliante per la
persona
umana».
La
contraccezione e la pratica
sessuale
durante
l’allattamento
dovrebbero
cessare.Lacastitàèpreferibile
almatrimonio 7.
L’altra
verità
Pozdnyšev.
«di»
Se si rilegge tuttavia la
storia
di
Pozdnyšev
sottolineando degli elementi
diversi da quelli che lui e il
TolstojdellaPostillascelgono
di evidenziare, si arriva a
un’altra verità. Se lasciassi
esprimereaPozdnyševquesta
verità alternativa con la sua
stessa voce, mi si potrebbe
imputare di stare pregiudicando
il
caso
attribuendo la stessa autorità
alle sue due voci. Mi si
consenta allora di presentare
quest’altra verità come se
appartenesseaPozdnyševper
ipotesi, ricavandola dalle sue
stesseparolepurnonessendo
la verità che lui stesso
riconosce.
Nelle sale da ballo e nei
salotti della classe sociale di
Pozdnyšev vige la regola di
non guardare mai sotto
l’aspetto esteriore dei giovani
«azzimati,
ben
rasati,
profumati» (p. 39) per
scoprirecomesononelleloro
sudice nude notti depravate
con le prostitute. Secondo
un’altra di queste regole ci
sonoduetipididonne,quelle
per bene e le prostitute,
sebbeneall’occasioneanchele
donne per bene si vestano
come le prostitute, «si
denudano generosamente le
braccia, le spalle e il seno, si
fascianostrettamenteilsedere
per metterlo meglio in
risalto»(p.44).Sivestonoper
fare strage: «Quella vista
m’incuteunveroterrore[…]
mivienvogliadichiamareun
poliziotto perché mi difenda
controquelpericolo»(p.49).
Pozdnyševsisposaeparte
per la luna di miele, ma
l’esperienza è deludente: è
stato come pagare il biglietto
per uno spettacolo da
baraccone e scoprire, una
volta dentro, di essere stato
ingannato, ma ti vergogni
troppodellatuaingenuitàper
mettere in guardia gli altri
visitatori che si tratta di una
frode. Ricorda in particolare
lo spettacolo di una donna
barbuta che era andato a
vedere a Parigi. Quanto al
rapporto sessuale, questo
conduce all’odio e infine al
delitto, un delitto che viene
continuamente perpetrato:
«tutti, tutti continuano ad
uccidere…»(p.61).Etuttavia
persino quando la donna è
incinta, quando «un grande
evento» si sta compiendo
dentro di lei, lei permette
l’ingresso
all’attrezzo
maschile.
Ecco che entra in scena
Truchačevskij,«conunsedere
particolarmente sviluppato»
(p. 82), il passo scattante e
l’abitudine di tenersi il
cappello contro la coscia
irrequieta.
Malgrado
l’antipatia per Truchačevskij,
«uno strano impulso, quasi
fatale, mi indusse non a
respingerlo […] bensí al
contrario, ad avvicinarmelo»
(p. 88), e lui si mise «a
disposizione» di mia moglie.
Pozdnyšev accetta che lui
porti il violino per suonare
conlei.«Findalprimoistante
in cui i loro occhi si erano
incontrati avevo visto che la
bestia, che dormiva dentro
lorodue,sieradestata[…]e
aveva chiesto: “Si può?” e
aveva anche risposto: “Ma sí,
certo che si può!”» (pp. 9091).
Correndo a casa per
sorprenderli
insieme,
Pozdnyšev estremizza la sua
gelosiaimmaginandoilmodo
incuiTruchačevskijvedesua
moglie:«Èverocheleinonè
piú tanto giovane, le manca
un dente di lato ed è un po’
troppo grassa» (p. 108) ma
almenononavràunamalattia
venerea.Lacosacheangoscia
maggiormente Pozdnyšev è
che «io mi attribuivo un
pieno e indiscutibile diritto
sul corpo di lei […] e allo
stesso tempo sentivo che io
noneroingradodidominare
quel corpo […] e che lei
invecepotevadisporrediesso
comeleparevameglio,enella
fattispecie voleva disporne
diversamentedacomevolevo
io»(pp.110-11).
Avvicinandosi
furtivamente alla stanza da
cui proviene la musica,
Pozdnyšev teme che si
separeranno in tutta fretta
prima che arrivi in modo da
privarlodellaprovalampante
della loro colpa. Nel
momentoincuisiapprestaa
pugnalare sua moglie, lei
grida che «non c’è stato
nulla». «Io avrei ancora
indugiato, ma quelle sue
ultime parole, da cui io
conclusi tutto il contrario, e
cioè che c’era già stato tutto
tra loro, esigevano una
risposta» (p. 118), e cosí la
uccide.
Questocollagedicitazioni
dal racconto di Pozdnyšev
dice una storia diversa da
quella che lui racconta. È la
storia
di
un
uomo
ossessionato dal fallo, che
vede apparire beffardamente
o spuntare minacciosamente
dai corpi di uomini e donne.
Sièsposatonellasperanzadi
conoscere il segreto sessuale
(la barba della donna) ma è
stato deluso. Immagina il
rapporto sessuale come un
fallo vendicativo che ricerchi
nel corpo della madre la vita
del bambino non nato con il
qualesiidentifica.Alpensiero
che il corpo di sua mogliemadre non appartenga a lui
solo,sentel’angosciadelfiglio
edipico. Cerca di risolvere il
problemacedendosuamoglie
al minaccioso rivale (che lui
vede come un fallo che
cammina) in modo da avere
unasortadicontrollomagico
sullacoppia.Maquandoloro
non recitano la scena nel
modo in cui l’ha prescritto e
permesso,perdeilcontrolloe
si accende di una furia
omicida.
Semettiamoinrilievouna
certasequenzadielementidel
testo ignorando quelli su cui
Pozdnyšev vuole attirare la
nostra attenzione – le visite
alle prostitute, la dieta
carnivora, e cosí via – lo
sentiremo
enunciare
quest’«altra» verità. Con lo
stesso metodo riusciremo
senza dubbio a leggere una
terza e una quarta verità nel
testo. Ma la mia tesi non
comprende un’infinità di
interpretazioni, bensí solo
quellachePozdnyševeilsuo
interlocutore da un lato e
Tolstoj e il suo pubblico
dall’altro agiscano all’interno
di un’economia in cui è
possibileunasecondalettura,
quellaadesempiocheindaga
negliinterstizideldiscorsodi
Pozdnyšev e in cui si
manifesta
la
verità
«inconscia», nelle strane
associazioni,
le
false
razionalizzazioni, i vuoti, le
contraddizioni. Se la verità
«inconscia» di Pozdnyšev si
avvicina a quella da me
delineata, allora la sua è una
di
quelle
confessioni
«ironiche» in cui il parlante
crede di stare dicendo una
cosa mentre sta dicendo
qualcosa di molto diverso. In
particolare,Pozdnyševritiene
chedall’«episodio»glisisiano
«aperti» gli occhi e lui abbia
raggiunto
una
certa
consapevolezzadisestessosia
come individuo che come
rappresentante di una classe
socialecheloautorizzaadire
quello che di «sbagliato» era
in lui e quanto ancora di
sbagliatoc’ènellasuaclasse(i
cuimembri,tuttitranneuno,
rifiutano di ascoltare la
diagnosi e si trasferiscono in
un’altra carrozza). Ma la
verità vera «di» Pozdnyšev è
che lui conosce ben poco di
sé. Mentre «so che se avessi
saputo allora ciò che so
adesso […] non mi sarei mai
sposato», non sa perché non
si sarebbe dovuto sposare né
perché abbia ucciso sua
moglie.
Ma
la
cosa
sorprendente è che Tolstoj
nella Postilla si schiera senza
riserve dalla sua parte
ritenendo che Pozdnyšev
vedagiustonellasuadiagnosi
del tutto incompetente dei
malidellasocietà.
Fino a questo punto non
hodettomoltodinuovosulla
Sonata a Kreutzer. Secondo
Donald
Davie,
«le
convenzioniallabasedeltesto
sonoconfuse.Illettorenonsa
dacheparteprenderlo.Eper
quanto ci è dato capire,
questa ambiguità non era
voluta dall’autore. Per questo
sitrattadiun’operaaltamente
imperfetta» 8. «Privo di
struttura», è il verdetto di T.
G. S. Cain: «racconto
magnifico della decadenza
morale di un matrimonio
[…]
introdotto
e
parzialmente intrecciato a
una serie di generalizzazioni
ossessive, poco intelligenti,
semplicistiche […] espresse
da Pozdnyšev […] ma senza
dubbio
sottoscritte
da
Tolstoj» 9.
I commenti di Davie e di
Cain e le mie osservazioni
rilevano un problema di
mediazione. Una confessione
basata su un’autoanalisi del
tutto incompetente viene
mediata da un narratore che
nonmostrainalcunmododi
dubitare dell’analisi, analisi
successivamente riaffermata
(«quel che volevo dire»)
dall’autore in uno scritto
esterno al romanzo. Si
direbbe che questi mediatori
di Pozdnyšev siano troppo
prestosoddisfattimentreèfin
troppo facile leggere un’altra
«piú profonda» verità nella
sua confessione. Eppure se si
cerca in Pozdnyšev la prova
chesiadisturbatodallosforzo
di dare voce a una verità
(«consapevolmente») mentre
un’altra
verità
parla
«inconsapevolmente», non si
trovano altro che i sintomi
misteriosi di una tossetta o
risatina pre-verbale che
possono essere sintomo di
tensione ma potrebbero
anche indicare disprezzo;
quando si cercano nel
narratore i segni di un
atteggiamento di dubbio si
trova solo il silenzio, e
quando si guarda a Tolstoj si
trova una pugnace e
semplicistica convalida della
verità di Pozdnyšev. A ogni
livello della presentazione
dunque manca la riflessione.
La Sonata a Kreutzer narra
una storia, asserisce la sua
interpretazione(lasuaverità)
e asserisce altresí che non ci
sono
problemi
di
interpretazione.
La volontà di credere che
le cose stiano in un certo
modo quando invece sono in
un altro è una forma di
autoinganno. Il testo non ci
dice se Pozdnyšev si stia
ingannando o se il narratore
vengaingannato.Ladomanda
sePozdnyševstiaingannando
se stesso può solo significare:
«quella di Pozdnyšev è la
rappresentazionediunuomo
che si inganna?», ma il testo
non riflette su questo punto.
Poiché il narratore tace, non
sappiamo se il narratore sia
ingannato oppure no da
Pozdnyšev. Ma vale la pena
chiedersi se lo stesso Tolstoj,
scrittoreecriticoconsapevole
di se stesso, si stia, nel caso
migliore,ingannandoquando
afferma che Pozdnyšev è un
critico della società degno di
fede,
un
uomo
che
comprendelasuastoriaeche
perciòlasuaconfessionepuò
essere
accettata
come
veritiera. In primo luogo
perché
c’è
ampia
testimonianza biografica che
l’abitudineditenereundiario
nel
bizzarro
ambiente
domestico di Tolstoj lo
poneva quotidianamente di
fronte
alla
tentazione
dell’inganno e ai problemi
dell’insincerità
e
dell’autoinganno insiti nella
forma diaristica e in generale
in quella confessionale 10. In
secondoluogoperchéilfulcro
psicologico dei romanzi del
periodo mediano di Tolstoj è
proprio sui meccanismi
dell’autoinganno.
Ciòchesorprende,avendo
in mente tutto questo, è che
Tolstojabbiascrittoun’opera
come Sonata a Kreutzer cosí
muta sulle ambivalenze
dell’impulso confessionale e
le deformazioni della verità
prodotte dalla situazione
confessionale,situazionidove
c’è sempre un altro a cui si
confessa anche se, come nel
diario privato, la natura
dell’Altro può essere lasciata
indefinita, sospesa. Non si
solleva alcun dubbio né sulla
confessione nella confessione
(quando Pozdnyšev mostra i
suoi diari alla fidanzata) né
sulla confessione fatta al
narratore. Cosí come è stato
facile per Pozdnyšev, dopo
avervistolaluce,liberarsidel
suo io precedente e
considerarlo senza alcuna
simpatia, allo stesso modo
sembrerebbecheperilTolstoj
del 1889, dopo avere
«conosciuto la verità», sia
stato facile voltare le spalle al
suo io passato che aveva
consideratoilraggiungimento
della
verità
come
pericolosamente minacciato
dall’autoinganno
e
dal
compiacimento,econsiderare
le problematiche relative al
direlaveritàcomesecondarie
inconfrontoallaveritàstessa.
Si potrebbe affermare che la
SonataaKreutzer è non solo
untestoapertoaunaseconda
e a una terza lettura, ma che
lo è in maniera indifferente,
come se Tolstoj fosse
indifferente agli oziosi giochi
interpretatividichihatempo
da perdere. La Sonata a
Kreutzer segna in realtà il
rifiutodiTolstojdiuntalento
il cui tratto maggiore era,
come afferma Rilke, la
capacitàdiconosceresestesso
«finonellaprofonditàdelsuo
sangue» 11.
La vita di Pozdnyšev si
dividetraunprimaeunpoi,
il
prima
dell’«abisso
dell’errore»eilpoidel«tutto
capovolto».
La
sua
collocazione temporale nel
poi gli conferisce, ai suoi
occhi,
quella
completa
autoconoscenza che William
C.
Spengemann
trova
caratteristica del «narratore
convertito»,ilcuiionarrante
consapevole e convertito,
appunto, si affianca all’io di
cui parla 12. Sull’esperienza
della
conversione
di
Pozdnyševiltestotacetranne
quando
dice
che
la
consapevolezza arriva dopo i
«tormenti». E tuttavia finché
continuiamo a leggere la
Sonata a Kreutzer come
l’espressione di un io
convertito piuttosto che la
cornice per una serie di
precetti («astieniti dalle
prostitute, astieniti dalla
carne…»)
possiamo
continuareacercareneltesto
tracce di quel senso di verità
raggiunto dal narratore
convertito assieme a quella
che lui ritiene essere la piena
comprensionedelpassato.
A conferma del profondo
interesse di Tolstoj per un io
che incarna la verità – e per
l’esperienza
stessa
del
processo di conversione –
possiamovolgercinonsoload
Anna Karenina ma anche a
un documento scritto dieci
anni prima della Sonata a
Kreutzer, La confessione. Ne
La
confessione
Tolstoj
analizza una sua crisi
personale del 1874 in cui la
ragione gli diceva che
l’esistenzaeraprivadisensoe
fu vicino a suicidarsi finché
una forza interiore, da lui
definita
consapevolezza
istintiva della vita respinse le
conclusionidellaragioneelo
salvò.
Valelapenaesaminarenei
dettagli il linguaggio con cui
Tolstoj presenta questo
scontro di forze. Per quanto
associata con la ragione, la
condizione mentale che lo
porta a nascondere «tutte le
corde perché non mi venisse
la voglia d’impiccarmi» e a
smettere di «andare a caccia
col fucile» 13, viene descritta
comeunostatopassivo,«uno
strano stato di torpore […]
unarresto,percosídire,della
vita» (p. 24). Viceversa
l’impulso che gli salva la vita
non è semplicemente una
forza vitale fisica ma
partecipa dell’intelletto: è un
«vagosospettochelemieidee
eranosbagliate»,il«sensoche
avessi commesso qualche
errore»,«dubbi»(p.58).Eper
quanto l’impulso venga alla
fine
nominato
come
«consapevolezza
istintiva
della vita», è accompagnato
da
«un
sentimento
tormentoso che non posso
chiamare in altro modo se
non come ricerca di Dio» (p.
75). L’opposizione dunque
non è quella tra la netta e
definitiva
convinzione
dell’assurdità della vita da un
lato e la spinta animale e
istintuale a vivere dall’altro:
l’errore, la pulsione di morte,
è una fiacchezza crescente,
come l’esaurirsi della vita
stessa mentre la verità
salvifica deriva da un potere
intellettuale che oscuramente
diffida della ragione. In un
certo senso non c’è conflitto
seguito da sconfitta tra la
secondaforzaelaprima,anzi
i due stati mentali sono
presenti simultaneamente,
quello dell’arresto della vita,
unasortadicupiodissolvi,che
semplicemente accade [na
menya stali naxodit′ minuty
snacala
nedoumeniya,
ostanovki zizni: «mi capitava
dapprima di avere dei
momentidiperplessità,come
selavitasiarrestasse»(p.24)]
e quello che consiste in un
sospetto, una cautela. Per
motivi misteriosi che la
ragione non sa decifrare la
tendenza si inverte, la
seconda forza lentamente
prende il sopravvento, la
primacominciaadisperdersi.
Non è errato scorgere una
certa pignoleria filosofica in
questa descrizione. Tolstoj
avrebbe potuto scegliere un
tipo di linguaggio piú
convenzionale per descrivere
l’esperienza
della
conversione,unalinguaincui
l’io egoisticamente sceglie di
seguire la voce della ragione
ma viene salvato dall’errore
da una voce che parla dal
cuore. Potrebbe trattarsi
dell’opposizione
tra
il
linguaggio del falso sé e
quello del vero sé, in cui il
falso sé è quello razionale e
socialmente condizionato e il
vero sé quello istintivo e
individuale. Ma in Tolstoj
non esiste questo semplice
dualismo di vero e falso sé.
Piuttosto il sé è un luogo in
cui la volontà agisce in modi
solo oscuramente accessibili
all’introspezione. Non è il sé,
ounsécheanelaaDiomail
sé sperimenta piuttosto un
protendersi (iskaniem Boga,
«una ricerca di Dio»). Il sé
non cambia (cambiamento
nel senso riflessivo del
trasformarsi); piuttosto si
verifica un cambiamento nel
luogodelsé:«Quandoecome
si verificò in me questo
rivolgimento [soveršilsya vo
mne etot perevorot] non
sapreidirlo»(p.78).
A proposito della risposta
alla
domanda
sulla
condizionedellaveridicità,La
confessioneaffermachederiva
dall’attenzione
e
dalla
reazione a un impulso
interiore che Tolstoj chiama
ricerca di Dio. La condizione
dellaveridicitànonèperfetta
autoconoscenza ma quella
determinazione di verità,
quella che il contadino in
Anna Karenina definisce
«vivereperlapropriaanima»,
parole che per Levin
giungono come un’accecante
illuminazione 14. Nel suo
scetticismo
sull’autoconoscenza
razionale,
nella
sua
convinzione che gli uomini
agiscano in sintonia con le
forze interiori in modi di cui
nonsonoconsapevoli,Tolstoj
sembra trovarsi in accordo
con Schopenhauer 15; ma se
ne distacca quando identifica
l’impulsoversoDiocomeuna
diquesteforze.
Tutta l’opera di Tolstoj,
romanzi e saggi, si occupa
della verità, specialmente
nell’ultima fase quando
questointeressesovrastaogni
altro. L’insofferenza per le
verità convenzionali, la
strenua
ricerca
delle
condizionidiveridicitàdelsé
chesitrovanosianellesezioni
cheriguardanoLevininAnna
Karenina che negli scritti
autobiografici
posteriori,
hannolasciatosumoltilettori
l’impressione
di
quella
«perfetta sincerità» di cui
parla Matthew Arnold 16. Nel
testo autobiografico La
confessione e nei racconti piú
tardicomeLamortediIvanIl
′ičèlacrisi(ilconfrontocon
la propria morte) a portare
l’illuminazione nella vita del
protagonista e a fargli capire
l’assurdità di continuare a
viverenell’autoinganno.Dalí
in poi potrà o non potrà
vivere
come
testimone
(parziale)dellaverità.Ilsenso
di urgenza che la crisi
comporta, l’ineluttabilità del
processo in cui l’io si spoglia
delle
sue
rassicuranti
menzogne, la determinazione
nella ricerca della verità sono
tuttequalitàcherientranonel
terminesincerità.
Ci si aspetterebbe dunque
che il romanzo confessionale
costituisca per Tolstoj un
mezzo congeniale e adeguato
per il genere di letteratura
della verità che voleva
scrivere – un romanzo
imperniato su una crisi di
illuminazione,
narrata
retrospettivamente da un
parlante (ora portatore di
verità) sul suo precedente
(auto-) ingannato io. Quello
che si trova invece nella
Sonata a Kreutzer è una
mancanza di interesse per il
potenziale
della
forma
confessionale a favore di
un’altra nozione, dogmatica,
dicosasignificadirelaverità.
Ne derivano due invalidanti
silenzi del testo. Il primo
riguarda l’esperienza della
conversione,un’esperienzain
cui – come mostra l’esempio
dellaConfessione di Tolstoj –
l’esperienzainteriorediessere
portatore di verità è sentita
piúintensamenterispettoalla
precedente esistenza di
autoinganno. Il silenzio su
questa esperienza comporta
un
fallimento
di
drammatizzazione.Ilsecondo
epiúgravesilenzioriguardail
narratore.
Poiché
la
confessione di Pozdnyšev è
un monologo narrativo
caratterizzato da un senso di
sicurezzaappenaconquistato,
la funzione riflessiva e di
verifica della veridicità della
verità
enunciata
da
Pozdnyšev deve, faute de
mieux, toccare al suo
ascoltatore. Ma lui non
assolve a questa funzione
dando
implicitamente
sostegnoallanozionediverità
presentata da Tolstoj nella
Postilla, e cioè che la verità è
quellacheèechecisonocose
piú importanti da fare che
analizzare le macchinazioni
della volontà all’opera in chi
enuncia la verità. Questa
posizione autoritaria nega, in
nome di una verità piú alta,
l’importanza di analizzare
l’interessedichisiconfessae
dichiara la sua verità, perché
qualechesialavolontàchesi
cela dietro la confessione (di
fatto, pensava la contessa
Tolstoj, la volontà del marito
dicolpirla)laveritàèingrado
di trascenderla. La verità
trascende altresí il sospetto
che il processo per cui «la
veritàtrascendelavolontàche
si cela dietro» sia voluto,
utilitaristico. In altri termini
la posizione sostenuta nella
Sonata a Kreutzer – che si
riscontra sia nella cornice
interpretativa di cui la
circondaTolstojchenellasua
mancanza di difese nei
confronti di altre letture non
autorizzate, altre verità, da
leggere come una forma di
disprezzo e indifferenza – è
quella che permette il corto
circuito del dubbio su di sé e
dell’autoanalisi in nome di
unaveritàautonoma.
Dal momento che il
movimento
essenziale
dell’autoriflessività è quello
deldubbioedelladomanda,è
nella natura della verità detta
a se stesso dall’io che riflette,
di non essere definitiva.
Problemavissutoconunforte
senso di angoscia da uno
scrittore
come
Tolstoj
orientato verso la verità. Il
nodo
infinito
dell’autoconsapevolezza
diventa un nodo gordiano,
che se non può essere sciolto
puòtuttaviaesseretagliatoin
piú modi. Nel 1887 Tolstoj
scrisse:«L’uomotagliailnodo
gordiano della sua vita e si
uccide solo per potere
sfuggire alle tormentose
contraddizioniinternediuna
consapevolezza intelligente,
cosa che è stata portata
all’estremo
nei
nostri
giorni» 17. In alternativa si
può tagliare il nodo
annunciando la fine del
dubbio in nome della verità
rivelata.
Ma
questo
espediente, messo in atto da
Tolstoj nella Sonata a
Kreutzer, comporta qualche
problema. Perché se c’è
qualche autorità in una
confessione in contesto
secolare questa deriva dalla
disponibilità eroica di chi si
confessa ad affrontare quel
chedipeggioc’èdentrodilui
(Rousseau sostiene di essere
uneroedelgenere).Coluiche
non dubita della propria
confessione quando ci sono
ovvi motivi per farlo (come
nel caso di Pozdnyšev) non è
migliore di chi rifiuta il
dubbio perché non è a suo
vantaggio.Nessunodeidueè
un eroe, nessuno dei due
confessa
in
maniera
autorevole.
Rousseau.
È noto l’impatto che la
lettura di Rousseau ebbe su
Tolstoj.Dopoaverloletto,da
ragazzo,perunperiodoportò
appesoalcollounmedaglione
con il suo ritratto. «Sarebbe
giusto, – afferma V. V.
Zenkovsky, – interpretare
tutte le idee di Tolstoj come
variazioni
del
suo
rousseauismo – un’influenza
profonda che sarebbe durata
fino alla fine dei suoi
giorni» 18. Le confessioni di
Rousseau
dapprima
lo
impressionarono per «il
disprezzo per le menzogne
umaneel’amoreperlaverità»
cherivelavano,ancheseinetà
matura confidò a Maxsim
Gor′kij la convinzione che
«Rousseaumentissecredendo
alle sue stesse bugie» 19. I
territori
della
verità,
autoconoscenzaesinceritàsu
cui Tolstoj s’impegnò per
gran parte della sua vita di
scrittoreeranoquellidelineati
da Rousseau, e solo
sporadicamenteTolstojriuscí
adandarepiúafondo.
Cosí cominciano Le
confessioni: «M’impegno in
un’impresa senza esempio
[…] Voglio mostrare ai miei
simili un uomo nella nuda
verità della sua natura; e
quest’uomo sarò io» (p. 7) 20.
Rousseau immagina poi di
trovarsi davanti a Dio, con il
libroinmano,eglidice:«Mi
sono mostrato come fui,
spregevole e vile quando lo
sono stato, buono, generoso,
sublime, quando lo sono
stato:hosvelatoilmioessere
interiore» (p. 7). L’impegno
che si è assunto è dunque di
totale autorivelazione. Viene
subito da chiedersi tuttavia
comeunqualsiasilettoredella
vita di Rousseau, a meno che
non si tratti dell’Onnisciente,
possa essere certo che abbia
dettolaverità.
La prima difesa di
Rousseauècheluiriescedove
Montaigne fallisce: laddove
Montaigne «fingendo di
confessare i suoi difetti», si
limitasoloaquelli«attraenti»
(libro X, tomo II, p. 565) lui,
Rousseau, è pronto a
confessare anche quelli piú
umilianti, come il piacere
sensuale che prova a essere
picchiatodaunadonna(libro
I, tomo I, p. 18). Questo
naturalmente non basta a
liberarlo dal sospetto che
possa essere in buona fede
quando dice la verità e
tuttavia autoingannarsi. A
questo proposito Rousseau
spiegacheilsuometodonelle
Confessioni è quello di
descrivere in dettaglio «tutto
quanto mi è capitato, tutto
quanto ho fatto, ho pensato,
ho sentito» senza nessuna
interpretazione: «Tocca a lui
[al lettore] mettere insieme
questielementiedeterminare
l’essere che compongono: il
risultatodev’essereoperasua»
(libroIV,tomoI,pp.191-92).
E se questo può apparire
evasivo (ad esempio non
rispondeall’accusadeiricordi
selettivi), ecco la sua
posizione:
Posso
incorrere
in
omissioni nei fatti, in
trasposizioni,inerrorididate,
ma non ingannarmi su quel
chehosentito,nésuquelchei
miei sentimenti mi hanno
indotto a fare […] Assunto
specificodellemieconfessioni
è di far conoscere con
esattezzailmiointimointutte
lesituazionidellamiavita.Ho
promesso la storia della mia
anima, e per scriverla
fedelmente non ho bisogno di
altrememorie;mibasta,come
ho fatto fin qui, rientrare
dentro di me (libro VII, tomo
I,p.304).
Rousseau ritiene dunque
che
l’autoinganno
nei
confronti della memoria
presente sia impossibile,
poiché l’io è trasparente a se
stesso.Laconoscenzadisénel
presenteèunadonnée.
Cosasignificatuttoquesto
in pratica? Ritorniamo alla
storia spesso discussa del
furto del nastro narrata non
solo nel libro II delle
Confessioni ma anche nel
libro IV delle Fantasticherie.
Mentre si trova a servizio in
una casa Rousseau ruba un
nastro. Quando il nastro
viene trovato in suo possesso
dichiara che gli è stato dato
dalla cameriera Marion e
ripete l’accusa davanti a lei.
Rousseau e Marion sono
ambedue licenziati. Il suo
commento è che «non è
credibile
che,
dopo
quell’episodio, essa trovasse
facilmenteunbuonposto».E
lui si chiede cupamente se
non si sia uccisa (libro II,
tomoI,p.95).
Per quanto il rimorso lo
abbia
attanagliato
per
quarant’anni – Rousseau
scrive nel 1766 – non ha mai
confessatolasuacolpaprima
d’ora. Si è trattato di un atto
«atroce» e lo spettacolo della
poveraMarioningiustamente
accusata avrebbe convertito
chiunque tranne «un cuore
barbaro». E nondimeno il
senso delle Confessioni
sarebbesconfessatoseluinon
cercassedipresentarelaverità
profondadellastoria,cheèla
seguente: «L’accusai di aver
fattoquelchevolevofareio»,
ecioèluihaaccusatoMarion
di avergli dato il nastro
perché era sua «intenzione»
darloalei.Quantopoialnon
ritrattare la bugia quando fu
messo a confronto con
Marion questo era dovuto a
una «invincibile paura della
vergogna». «Ero uscito
appena dall’infanzia» e non
era in grado di gestire la
situazione» (libro II, tomo I,
pp.95-96).
PauldeMandistinguedue
componenti in questa storia:
un elemento di confessione il
cuiscopoèrivelareunaverità
verificabile, e un elemento di
scusa il cui scopo è
convincere il lettore che le
cose sono ed erano proprio
come Rousseau le vede 21.
Sebbene De Man sbagli
nell’affermare che la verità
che si confessa debba essere
in linea di principio
verificabile (si possono
confessarepensieriimpuri,ad
esempio), la sua distinzione
tra la confessione vera e
propriaelascusacipermette
di
capire
perché
la
confessione del tipo che
incontriamo in Rousseau
sollevi problemi di certezza
che non sorgono con la
confessione di un fatto. Si
trattò di un gesto malvagio,
dice Rousseau, ma mosso da
un’intenzione
buona
e
pertanto non del tutto
biasimevole. Analogamente
incolpare Marion fu un atto
malvagio ma causato dalla
paura e dunque in qualche
modo scusabile. L’autoanalisi
di Rousseau a questo punto
cessa ma il processo di
puntualizzazione da lui
cominciatopuòessereportato
avanti. Come può sapere se
quella parte di sé che ricorda
la buona intenzione dietro
l’azione sbagliata non stia
costruendo l’intenzione a
posteriori
solo
per
discolparlo? D’altro canto
(possiamo immaginare che
l’autobiografo
continui)
dobbiamo stare attenti a
mettere sullo stesso piano il
beneeilmale:checosac’èin
mechepotrebbedesideraredi
minimizzare
le
buone
intenzioni
etichettandole
come razionalizzazioni a
posteriori 22? E tuttavia non è
forse una domanda come
questa che porrei se stessi
cercandodiproteggermidalla
conoscenza
della
parte
peggioredime?Eppure…
Per giungere alla verità
«vera» sulla storia del nastro,
DeManvaoltrel’equivalenza
delle rivendicazioni di buone
e cattive intenzioni per
dedicarsi
all’analisi
del
linguaggio della confessione.
«La soddisfazione evidente
del tono e l’eloquenza del
passo[…]ilfacilefluiredelle
iperboli […] il piacere
manifestoconcuiildesiderio
dinascondereèrivelato»(pp.
305-6) – tutti questi elementi
dello stile mostrano che «ciò
che Rousseau realmente
voleva non è né il nastro né
Marion,malascenapubblica
del denudamento che egli in
effettiottiene»(p.306).
Sia il furto che il tardivo
pentimento
nascondono
dunque il «vero» desiderio di
Rousseau di mettersi a nudo.
E se è questo il vero motivo
allora tanto maggiore la
colpa,
maggiore
l’occultamento, maggiore il
ritardonellarivelazione,tanto
meglio.
Il
desiderio
«veramente vergognoso» che
Rousseau non ha il coraggio
di confessare è quello di
denudarsi, ed è a questo che
viene sacrificata Marion.
Questo processo di vergogna
edimessaanudo,affermaDe
Man, come quello della
confessione
e
della
puntualizzazione, produce
una regressione all’infinito:
«Ogni nuova tappa nello
svelamento suggerisce una
vergogna piú profonda, una
piú grande impossibilità di
rivelare, e una piú grande
soddisfazione nel tentativo di
superare
quest’impossibilità» 23.
Èforseingenuodapartedi
deManparlaredi«quelloche
Rousseau voleva veramente»,
come se si trattasse di
qualcosa di storicamente
conoscibile. Può anche
apparire incauto fondare
l’interpretazionesull’analisidi
caratteristiche stilistiche. In
questo De Man ha dalla sua
non solo l’autorità di
Rousseau ma ancora prima
quella
della
poetica
romantica.Daunaposizione,
semplicemente anticlassicista
che trova nella sincerità,
intesa come relazione sincera
delloscrittoreconsestesso,il
sostituto dell’apprendistato
suiclassici 24,ilRomanticismo
si sposta rapidamente alla
formula di Keats che
capovolge le implicazioni:
non solo la verità implica la
bellezza, ma la bellezza
implicalaverità.Daquestoa
dire che la poesia crea i suoi
propri autonomi criteri di
bellezzailpassoèbreve 25.
La nozione secondo cui
l’artista crea la sua verità
assume
una
forma
particolarmenteestremanelle
Confessioni,dalmomentoche
Rousseaustascrivendoinuna
forma – l’autobiografia – che
ha legami piú stretti con la
storia e con i criteri
verificabili della verità che
con la poesia. Se seguiamo il
tema del denudamento nelle
Confessioni
potremo
rintracciare i vari stadi
attraverso i quali Rousseau si
avvicinaaquestaposizione.
Nel libro III Rousseau
descrive una serie di atti di
esibizione sessuale compiuti
da ragazzo. La descrizione di
questi atti è di per sé,
naturalmente, una forma di
esibizionismo. Quali motivi
hanno in comune queste due
forme di autorivelazione?
Jean Starobinski suggerisce
una
risposta:
ambedue
rappresentano un ricorso
all’«efficacia magica» della
«seduzione immediata»: il
soggetto si protende verso gli
altrisenzausciredasestesso;
si mostra cosí com’è mentre
resta se stesso e dentro se
stesso 26.
Le autorivelazioni di
Rousseau hanno sempre il
fine di conquistarsi amore e
accettazione.
L’autorivelazione offre la
verità dell’io, una verità che
glialtripossonoessereindotti
a vedere. Secondo l’analisi di
Starobinskidell’esibizionismo
di Rousseau, che qui riporto:
«Leconfessionisono,inprima
istanza, un tentativo di
rettificare l’errore altrui, non
la ricerca di un “tempo
perduto”. La preoccupazione
di Rousseau ha inizio
coll’interrogativo: perché il
sentimento interno […] non
trova
eco
in
un
riconoscimento
accordato
con
altrettanta
immediatezza?» Perché si
realizzi
questo
intento
persuasivo bisogna inventare
un linguaggio (écriture) che
renda il sapore unico
dell’esperienza
personale,
«una
scrittura
sufficientemente elastica e
variataperdireladiversità,le
contraddizioni, gli infimi
dettagli, le “inezie”, il
concatenarsidelle“percezioni
minute” il cui tessuto
costituiscel’esistenzaunicadi
Jean-Jacques» 27. Ecco il
commento di Rousseau a
questoprogettostilistico:
Avrò sempre quello [lo
stile] che mi verrà; a seconda
dell’umore lo cambierò senza
scrupoli, dirò ogni cosa come
la sento e vedo, senza
affettazione, senza imbarazzo,
senzasentirmiintralciatodalla
varietà
dei
colori.
Abbandonandomi insieme al
ricordo
dell’impressione
ricevuta e al sentimento
presente, dipingerò due volte
[jepeindraidoublement]ilmio
statod’animo 28.
L’immediatezza
della
lingua
immaginata
da
Rousseauèunagaranziasulla
verità del passato che
racconta. Non si tratta piú di
una lingua come quella dello
storico
che
domina
l’argomento. Al contrario è
unalinguaingenuacherivela
colui che si confessa nel
momento della confessione e
allo stesso tempo rivela il
passato che lui confessa – un
passato divenuto di necessità
incerto.Nellaformulazionedi
Starobinski ci spostiamo dal
campo della verità, in cui la
confessioneèancorasoggetta
alla verifica storica, a quello
dell’autenticità. Questa non
richiede che la lingua
riproduca una realtà, ma
piuttosto che la lingua
manifesti la «sua» verità, in
cuièabolitaladistanzatral’io
che scrive e la fonte dei
sentimenti di cui scrive. Ed è
proprio questa abolizione a
distinguere l’autenticità dalla
sincerità – poiché la fonte è
sempre qui e ora. «Il tutto
avviene in una tale purezza
del presente che perfino il
passato vi è rivissuto come
sentimento presente» 29. Il
primo prerequisito è dunque
esseresestessi.Sièinpericolo
dinonesseresestessiquando
si vive una distanza riflessiva
da
se
stessi
(un
capovolgimento di valori
rivelatorio
per
l’autobiografia).
La lingua diventa dunque
per Rousseau l’essenza dell’io
autentico, respingendo ogni
appelloauna«verità»esterna.
L’unicotipodilettore,inoltre,
chepuògiudicaretraveritàe
falsità in Rousseau mentre
accetta – anche solo in via
provvisoria – le premesse del
suo progetto confessionale,
deve essere qualcuno come
DeManchecercadiscoprire
momenti
inautentici
dell’autore
attraverso
momenti inautentici del suo
linguaggio. L’analisi di De
Man dell’episodio del nastro
sifondasullapremessachela
confessione
tradisce
l’inautenticità quando chi si
confessa cade nel linguaggio
dell’Altro. Cosí, mentre De
Man accusa Rousseau di
(auto)ingannosullabasedella
«soddisfazione»chetradisceil
suo tono, il «piacere» nelle
sue
rivelazioni,
la
soddisfazione e il piacere si
rivelano
anche
nell’«eloquenza» e «nel fluire
delle iperboli», e cioè in
aspettidellinguaggiochenon
gli appartengono. Rousseau
non sta parlando con la sua
voce, è qualcun altro che
parlaattraversodilui 30.
Se
non
vogliamo
contestare questa equazione
di autenticità e verità non
avremo molte speranze di
poter leggere in maniera
diversa Le confessioni, allo
stesso modo in cui senza
contestarelaveritàdogmatica
di Tolstoj, non potremo dare
una lettura diversa della
Sonata a Kreutzer. De Man
riesce a offrire una seconda
lettura dell’episodio del
nastro solo scoprendo e
analizzando una crepa nel
testo, una caduta di
autenticità.
Finché
il
linguaggio utilizzato resta
suo, Rousseau sembra restare
l’unicoautoredellasuaverità.
Per mostrare che esiste
una diversa possibilità di
lettura del testo, attraverso
momenti di incoerenza
piuttosto che di falso stile,
vorrei prendere un brano in
cui Rousseau discute il suo
atteggiamento nei confronti
del danaro (libro I, tomo I,
pp. 30-32). Qui Rousseau si
presenta come un uomo di
«passioni ardentissime» che
dominato dal sentimento è
capace di essere «sfrontato,
violento, intrepido» (p. 41)
ma questi momenti durano
poco.Presto,sopraffattodalla
«paura e dalla vergogna»,
ricade nell’«indolenza e la
timidezza»,imbarazzatodagli
sguardi altrui al punto da
volersi nascondere. Non
soltanto i suoi desideri
vengono
limitati
dall’indolenza
e
dalla
timidezza, ma anche i suoi
gusti.«Nessunodeimieigusti
dominanti è fatto di cose che
si comprano, – scrive. – Il
danaro li avvelena tutti».
«Donne
prezzolate
perderebbero per me ogni
fascino, dubito persino che
potreigoderle.Ècosídituttii
piaceri che mi sono
accessibili. Se non sono
gratuiti, li trovo insipidi» (p.
41).
Perché il danaro dovrebbe
avvelenare il desiderio? La
spiegazionediRousseauèche
per lui lo scambio è sempre a
suo svantaggio. «Vorrei una
cosabuonaperlasuaqualità:
col danaro, sono sicuro di
averla cattiva [je suis sûr de
l’avoir mauvaise]. Compro
caro un uovo fresco, ed è
stantío; un bel frutto, ed è
acerbo; una ragazza, ed è
bacata»(pp.41-42).
La prima spiegazione che
dàlacolpaall’uovooalfrutto
o alla ragazza non è
supportata dai fatti (l’unica
ragazza che pagherà non è
bacata, bensí è lui a essere
impotente) 31. La frase «sono
sicurodiaverlacattiva»èpiú
rivelatoria: in confronto con
ciò che vuole, quello che
compra (non quello che
ottiene) certamente sarà
stantío/acerbo/bacato. «Solo
quando non pago i miei
piacerisannodiqualcosa».La
profezia che ciò che compro
sarà cattivo è pienamente
realizzata.
Rousseau ci dà ora degli
esempi di come vive la
transazione
dell’acquisto.
Entra nella bottega di un
pasticciere e nota che le
donne ridono tra loro del
«piccolo ghiottone». Va dal
fruttivendolo ma vede dei
passanti che la sua miopia
trasforma in «persone di mia
conoscenza». «Dovunque mi
sento intimidito, trattenuto
da qualche ostacolo; il mio
desiderio cresce con la mia
vergogna,erincasocomeuno
sciocco, roso dalla bramosia,
avendo in tasca di che
soddisfarlo, e non avendo
osatocomprarnulla»(p.42).
Che cos’è che gli occhi
intorno a lui minacciano di
scoprireederiderequandolui
entrainunnegozio?Èquello
che vuole (comprare)? È il
modo in cui lo chiede? È
l’atto di offrire dei soldi?
Invecedicercareunarisposta,
Rousseau compie un tipico
movimentodiinversioneedi
ritrattazione. Via via che il
lettore segue la storia della
suavita,afferma,eimpareràa
conoscere il suo «carattere,
sentirà tutto ciò senza che io
mi perda troppo in
descrizioni» (p. 42). Alla sua
sindrome darà il nome di
«una delle mie pretese
contraddizioni
[contradiction]: quella di
associare un’avarizia quasi
sordida col piú grande
disprezzodeldanaro»(p.42).
La scusa per l’avarizia è che
«lo [il danaro] conservo a
lungo senza spenderlo, non
potendolousareamiopiacere
[faute de savoir l’employer à
mafantaisie]». Procede poi a
distinguere tra il possesso del
danaro (in cui il danaro
diventa uno «strumento di
libertà»elaricercadeldanaro
(dove è «strumento di
schiavitú»), una distinzione
che vanifica elegantemente il
vizio dell’avarizia ammesso
pocoprima.
Perché lui non ha alcun
desiderio di denaro? La sua
risposta è che il denaro non
può essere goduto di per sé,
perché «fra il danaro e il
possesso desiderato c’è
sempre un intermediario;
invece fra la cosa e il suo
godimento non ve n’è
nessuno. Vedo la cosa, mi
tenta; se non vedo che il
mezzo d’acquistarla, non mi
tenta. Sono stato, dunque
[donc], un briccone; e a volte
sonoancorataleperleinezie
che mi attraggono e che
preferisco prendere anziché
domandare»(p.43).
Vale la pena esaminare la
logicadiquestobranocheper
Starobinski è esemplare di
quello che Rousseau intende
quando dice che il «danaro
avvelena tutto» 32. Ma se
parafrasiamo accuratamente
la logica di Rousseau, lo
leggeremo cosí: «desidero la
cosa e non il mezzo che
conduceallacosa,perciòrubo
la cosa ma non il mezzo» e
non«desiderolacosamanon
il mezzo, perciò prendo
(rubo)lacosapernonusareil
mezzo». Alla domanda
«Perché rubare?» questo
brano non dice niente di
meglio
che:
«Perché
preferisco prendere piuttosto
che chiedere». Rousseau non
spingeoltrel’esplorazionedel
suo atteggiamento verso il
denaro,
sebbene
nelle
Confessioni riprenda spesso
l’argomento 33.
Poiché Rousseau non fa
alcunprogressonellospiegare
la
sua
«pretesa
contraddizione» e poiché
l’illuminazione che promette
al lettore non arriva mai,
almeno per qualche lettore,
voglio provare a spiegare
l’insieme
dei
suoi
comportamenti. Prestando
minore attenzione alle sue
riflessioni che alle scene dei
negozi che lui descrive,
notiamo che ciò che offende
Rousseau è la franchezza e la
legittimità della transazione
monetaria. Entrare in un
negozio e dire «Vorrei un
pasticcino» e offrire dei soldi
significa adattarsi a una
modalità di trattare il suo
desiderio che lo avvelena.
Reso pubblico, il suo
desiderio viene omologato a
quello di un qualsiasi Tizio o
Caio che entri nel negozio
perdendo la sua unicità;
diventa noto (a tutti quegli
occhi curiosi) nello stesso
momento in cui lui perde il
controllodeiterminineiquali
vuole che si conosca; diventa
speso agli occhi del pubblico
in soldi e franchi. Per
Rousseauisuoidesiderisono
risorse fino a quando restano
unici, nascosti – in altri
termini
finché
restano
potenzialmente confessabili.
Resi di pubblico dominio si
rivelano desideri come quelli
di tutti gli altri. Il sistema di
scambio che turba Rousseau,
il sistema cui non vuole
partecipareèquellopercuiil
suo desiderio di una mela
viene esaudito per il mezzo
pubblico del denaro, perché
ogni volta che tale scambio
avviene il desiderio perde
valore. Vergogna e valore
sono
dunque
termini
intercambiabili.
Questo
perché, nell’economia della
confessione,gliuniciappetiti,
isoli,checostituisconovaluta
confessabile, sono quelli
vergognosi. Un desiderio
disonorevoleèundesideriodi
valore. Viceversa perché un
desiderio abbia valore deve
avere una componente
segreta, vergognosa. La
confessione consiste in un
doppio movimento di offerta
per spendere «cose di poco
valore»
e
trattenere
abbastanza per mantenere la
libertà che deriva dal
possedereuncapitale.Questo
processo di rivelare a metà e
poidiritrarsinelmistero,un
processo inteso a sedurre, è
chiaramente
esemplificato
nell’insiemedelbrano.
Se comprare non è
accettabile perché colloca il
desiderio su una scala
pubblica (tale è la natura del
denaro),rubare,benchéasua
volta riveli l’equivalente del
desiderio nell’oggetto rubato,
trova compensazione nella
sostituzione del desiderio
rivelato, e dunque non piú
vergognoso,conunreato–di
per sé valuta confessabile; e
nel manifestare il mistero di
perché rubi quando potrebbe
comprare, il mistero da lui
introdotto ma che rifiuta di
risolvere.
Non è mia intenzione
sostenere che questa lettura
costituisca la verità che
Rousseau avrebbe dovuto
confessare sul denaro, cosa
chenonhafattoononpoteva
fare, cosí come non intendo
sostenerechelaletturadame
datadelPozdnyševdiTolstoj
sia la verità che lui non è
riuscito a vedere su se stesso.
Anzi, una delle funzioni
secondarie di queste riletture
è quella di mettere in
questionelanozionestessadi
veritàunica.
Esiste d’altro canto la
possibilità di seguire un’altra
viapiúproduttivaperquanto
piústretta,diquellasostenuta
daDerridasecondocuil’idea
di verità appartiene a una
certa epoca, l’«epoca della
supplementarità», e permette
una pratica della scrittura
funzionandocomeunaspecie
di «macchia cieca» verso cui
la scrittura si muove per una
serie
infinita
di
«supplementi»
che
differisconocontinuamentela
verità 34.Nellamisuraincuile
letture che Rousseau e
Pozdnyševdannodisestessie
le riletture che io ne ho fatto
trovano nella verità la loro
giustificazione, sono di certo
supplementi derrideiani, e la
decostruzione delle pratiche
dameapplicatanellarilettura
di Rousseau e di Pozdnyšev
potrebbe
certamente
condurre a una «migliore» e
«piú piena» lettura, e cosí
all’infinito. Ma mentre
Derrida sostiene qualcosa di
rilevante nei confronti di
qualsiasi scrittura della verità
io intendo sostenere che la
possibilità di leggere la verità
«dietro»unaveraconfessione
ha implicazioni particolari
per
il
genere
della
confessione.
Tornando alla Sonata a
Kreutzer e alle Confessioni di
Rousseau notiamo che in
ciascun caso siamo passati
attraverso una progressione
analoga.Èstatoconfessatoun
crimine (assassinio, furto),
per la cui spiegazione si è
avanzata una causa, una
ragione o un motivo
psicologico, poi la rilettura
dellaconfessionehaportatoa
una spiegazione piú veritiera.
La domanda da porsi ora è:
qualesaràlareazionedichisi
confessaaquestaoaqualsiasi
altra
correzione
«piú
veritiera»
della
sua
confessione?Larisposta,ame
sembra,ècheselanuova«piú
profonda»
verità
viene
riconosciutacomevera,lasua
reazione dovrà contenere un
elementodivergogna.Perché
o chi ha confessato era
consapevole di questa verità
piú profonda e la teneva
nascosta, nel qual caso stava
ingannando il confessore, o
nonloera(eoraloammette),
nel qual caso il suo status di
penitente è messo in
questione. Ciò che veniva
offerto come un segreto, la
monetadellasuaconfessione,
non era il vero segreto, ma
una moneta falsa; si è
verificato un nuovo inganno
che è nuova causa di
confessione 35.
Fin qui ho preso in
considerazione
il
caso
ipoteticodiunRousseauodi
unPozdnyševchedifrontea
una lettura della sua
confessione latrice di una
verità «piú profonda» di
quella da lui riconosciuta
riconosce la nuova verità e
cambialasuaposizione.Intal
caso,potremmochiederci,fin
dovechiconfessamanterràle
sueposizioni?Perchéinlinea
di principio se abbiamo fatto
una prima rilettura della sua
storia potremmo farne una
seconda. Se chi confessa è in
linea di principio disposto a
cambiare posizione a ogni
nuova lettura, ammesso che
possa essere convinto che sia
«piú
veritiera»
della
precedente,alloranonèaltro
che un biografo di se stesso,
uncostruttorediipotesisuse
stesso suscettibili di essere
miglioratedaaltribiografi.In
tal caso la sua confessione
non ha maggiore autorità di
quella di un qualsiasi
biografo: si basa sulla
conoscenza,
non
sull’autoconsapevolezza.
La possibilità per chi si
confessa di arrivare a una
nuova verità su se stesso
dipende dalla natura del suo
impegno verso la confessione
originaria.
Quanto
piú
profondamente
ha
riconosciuto la verità della
sua confessione, tanto piú
profondamentelasuaveritàè
diventata parte della sua
identità
personale.
Di
conseguenza arrendersi alla
nuova verità comporta un
danno alla sua identità. Nel
caso sia di Pozdnyšev che di
Rousseau il danno è
particolarmente grave perché
parte della loro identità è
quelladiesserereiconfessi,di
averedettolaverità.
In alternativa chi confessa
puòrifiutarediarrendersialla
nuova verità assumendo cosí
la posizione del soggetto che
si autoinganna, di colui che
preferisce non ammettere la
«vera» verità su se stesso e
neppure di riconoscere tale
preferenza, e cosí via
all’infinito 36.Intalcasocome
potrà dire la differenza tra se
stesso e chi si confessa
autoingannandosi, la cui
verità è una bugia dal
momento che ambedue
«credono» di conoscere la
verità?
Una terza possibilità è
quella di confessare con la
«menteaperta»,riconoscendo
fin dall’inizio che ciò che lui
dichiaraesserelaveritàpossa
non esserlo. Ma c’è qualcosa
di veramente vergognoso in
questa posizione. Perché se
una persona ammette che le
trasgressioni di cui è
«veramente»
colpevole
possano essere piú gravi di
quelle di cui si accusa,
potrebbe
analogamente
sostenere che le trasgressioni
di cui è «veramente»
colpevole possano essere
menogravidiquelledicuisi
accusa (per quanto attiene al
suo caso Rousseau è esplicito
sull’ultimo
tipo
di
consapevolezza,vedinota22).
La consapevolezza di sé in
questa postura – che
inevitabilmente
consegue
dall’avere una mente aperta
sulla questione della propria
sincerità–èdipersémateria
di
confessione;
essere
consapevoli che la posizione
non è colpevole (in quanto
inevitabile) è materia di
ulteriore
vergogna
e
confessione, e cosí via
all’infinito.
Quel che ho scritto finora
indica che il progetto di
confessione
quando
il
soggetto si trova in uno stato
di elevata consapevolezza di
sé ed è aperto al dubbio,
solleva problemi intricati e
intrattabili a proposito della
verità, problemi il cui
denominatore
comune
sembraessereunaregressione
all’infinito di consapevolezza
e dubbio su di sé. Non è per
niente chiaro se questi
problemi siano visibili al
Rousseau delle Confessioni o
al Tolstoj della Sonata a
Kreutzer. Ma sarebbe incauto
pensarecheneltestodebbano
apparire i segni di tale
consapevolezza, quando non
ènell’interessedinessunodei
due scrittori mostrarne
l’esistenza. A questo punto
possiamosoloaffermarechei
problemi non sono articolati.
Ci troviamo per ora nella
posizione di Hume, che
davantiauninterlocutoreche
ritiene di avere una
conoscenza immediata di se
stesso (e dunque, anche se
questo non è in Hume, una
conoscenza della propria
verità)nonpuòfarealtroche
interrompere la discussione
per mancanza di un terreno
comune 37.
Dostoevskij.
Le confessioni abbondano
nell’operadiDostoevskij.Nei
casi piú semplici Dostoevskij
leutilizzacomeunmezzoper
consentire al personaggio di
mettersianudo,didirelasua
verità. La confessione del
principe
Valkovskij
in
Umiliati e offesi (1861) ad
esempio è poco piú di un
espediente del genere 38.
Perfino in questo romanzo
giovanile
tuttavia
un
elemento di gratuità si
insinua nella confessione: la
libertàdellarivelazionenonè
strettamente richiesta da
esigenze della trama o da
motivazioni psicologiche; la
sua schiettezza non è in
carattere. Nei romanzi piú
maturi il livello di gratuità
crescealpuntochenonsipuò
piú pensare alla confessione
come mero espediente di
denudamento:laconfessione,
con tutti i problemi connessi
diordinepsicologico,morale,
epistemologico e metafisico,
sispostaalcentrodellascena.
Perquantointeressantepossa
rivelarsi, in un discorso
critico diverso, trattare della
confessione nei romanzi
maturi di Dostoevskij come
da un lato una forma di
masochismo o un vizio che
l’autore considera tipico
dell’epoca 39, e dall’altro uno
dei vari generi che vanno a
formare il romanzo di
Dostoevskij 40, propongo in
questa sede di isolare tre dei
principali
episodi
di
confessione da Memorie del
sottosuolo, L’idiota e I
demoni, e verificare come
viene risolto il problema del
finale di fronte alla tendenza
dell’autoconsapevolezza di
prolungare la confessione
all’infinito.
Memorie del sottosuolo
(1864)èformatodadueparti,
la prima una disquisizione
sulla consapevolezza di sé, la
secondaunastoriadelpassato
del narratore. Per quanto
diverse possono ambedue
ritenersiconfessioni,laprima
rivelatoriadellapersonalità,la
seconda rivelatoria di una
storia vergognosa. Nella
prima parte, di carattere piú
speculativo, la rivelazione di
sé è inserita in una
discussione piú ampia sulla
possibilità di dire la verità su
se stessi in un’epoca di
intensacoscienzaodi«troppa
coscienza», la malattia di
quello
che
l’anonimo
narratore definisce il «nostro
disgraziato
secolo
diciannovesimo» e di San
Pietroburgo,«lapiúastrattae
artificiosa città di tutto il
globo terrestre» (p. 8). Le
«leggi»dell’ipercoscienza,che
impongono una continua
consapevolezza
della
consapevolezza
fanno
dell’uomo
iperconscio
l’antitesi dell’uomo normale.
Non potendo poggiare sulla
certezza, non può prendere
decisioninéagire.Nonriesce
neppureadagiresullapropria
consapevolezza per tenerla
bloccata in una o un’altra
posizione, poiché obbedisce
solo alle sue leggi. Né può
considerare se stesso agente
responsabilepoichéassumersi
leproprieresponsabilitàèuna
posizione finale. (Il che non
vuoldirenaturalmentechelui
si biasima per nulla: al
contrariosiprendelacolpadi
tutto. Ma lo fa in un
movimento riflesso che ha
origine
nelle
leggi
dell’ipercoscienza) 41.
Qui finisce la teoria. Però,
prima di imbarcarsi sui suoi
vergognosi ricordi, l’eroenarratoreinvocailprecedente
diRousseau:
Voglio sperimentare se
almeno con se stessi si può
essere perfettamente sinceri
[…] Debbo notare in
propositocomeHeineaffermi
che le autobiografie fedeli
sono quasi impossibili, e che
unapersonasulproprioconto
dice sicuramente le cose false.
Secondo la sua opinione,
Rousseau, per esempio, si è
calunniato
nella
sua
confessione, e si è calunniato
perfinopremeditatamente,per
vanità. Sono sicuro che Heine
haragione(pp.40-41).
Nelsuocaso,tuttavia,non
avendo lettori non avrà, cosí
afferma, la tentazione di
mentire.
Il progetto di non mentire
viene messo alla prova piú
drasticamente nel racconto
del suo rapporto con la
giovaneprostitutaLiza.Dopo
una notte di «depravazione
[…] senza amore» (p. 91)
racconta di essersi svegliato
nel letto della ragazza e di
averla trovata intenta a
fissarlo. Sentendosi a disagio
lui comincia a parlare senza
premeditazione, spingendola
a emendarsi e offrendosi di
aiutarla. Perché lo fa? Si
chiede piú tardi. La
spiegazione che si dà è «per
gioco», per il divertimento di
«sconvolgerle l’anima e
spezzarleilcuore»(p.105).E
comunqueglivieneildubbio
cheadattrarlononsia«soloil
gioco»(p.106).
Il giorno dopo prova la
sensazionediuna«disgustosa
verità», di essere stato
sentimentale. Per reazione
comincia a odiare Liza, e
comunque
non
può
dimenticare il suo «pietoso,
contorto, inutile sorriso» (p.
112) mentre lo guardava.
«Qualcosa si sollevava, si
sollevava incessantemente,
con dolore nell’animo mio, e
nonvolevaplacarsi»(p.111).
Dopo qualche giorno Liza
vaatrovarloperricordarglila
suapromessa,econunsenso
di «tremendo rancore» (p.
122) lui si imbarca nella sua
crudele confessione. Le dice
che quando le esprimeva i
suoi bei sentimenti dentro di
sé rideva di lei. Dopo essere
stato umiliato dai suoi amici
aveva deciso di umiliare lei a
sua volta. Voleva solo
divertirsi. Ora lei poteva
anche andare in malora. Si
rendecontocheluinonpotrà
mai perdonarla di essere
venutaalsuoappartamentoe
avere visto le misere
condizioni in cui vive? Lui la
farà solo soffrire perché lui è
«il piú schifoso, il piú
ridicolo, il piú meschino, il
piúsciocco,ilpiúinvidiosodi
tutti i vermiciattoli della
terra»(p.125),eperilfattodi
averlo sentito parlare da
uomo per «una sola volta
nella vita» (p. 125), lei deve
esserepunitaancoradipiú,e
cosívia.
Dapprincipio Liza è colta
di sorpresa dal suo cinismo,
poi sorprendentemente lo
abbraccia, perché ha capito
cheancheluièinfelice.Luiè
sopraffatto.
«Non
mi
permettono […] Non posso
essere […] buono!» (p. 126)
singhiozza tra le sue braccia.
Masubitocominciaaprovare
vergogna di trovarsi in una
tale posizione «umiliata e
calpestata» e nel suo cuore si
accende
unsentimentodidominazione
e di possesso. I miei occhi
brillarono di passione, e le
serrai forte le mani. Come la
odiavo e com’ero attratto
verso di lei in quel momento!
Un sentimento rinforzava
l’altro. Sembrava quasi una
vendetta! [...] Sul suo volto si
dipinse dapprima come un
senso di stupore, come un
senso perfino di paura, ma
soloperunattimo[…]Ellami
abbracciòconrapimentoecon
ardore(p.127).
Nella
«febbre
dell’incertezza»
tipica
dell’ipercoscienza, le sue
mosse successive sono quasi
prevedibili.Lemetteinmano
deisoldiperindicarecheper
luirestasolounaputtana;poi
quando lei va via, la insegue
«con
vergogna
e
disperazione»,
riflettendo
tuttavia che all’origine della
sua vergogna c’è la natura
«libresca» (p. 129) del suo
gesto.
Abbandona
l’inseguimentoconvincendosi
chel’offesasubita«laeleveràe
purificherà» (p. 130). È
soddisfatto
di
questa
spiegazione e si disprezza
perchésisentesoddisfatto.
Aquestopuntolastoriadi
Lizasiconclude:«Nonvoglio
piúscriveredal“sottosuolo”»,
dice il narratore che tuttavia
appone al testo una nota
autoriale: «Le Memorie di
questo paradossista non
finisconoancoraqui.Eglinon
haresistitoehaseguitato.Ma
ancheanoisembrachequici
sipossafermare»(p.132).
Il riassunto che ho dato
della confessione su Liza non
èfineasestesso.Homessoin
evidenza i momenti in cui
qualcosa
emerge
dalle
profondità del narratore che
lui non capisce neanche alla
distanza di quindici anni. La
primapartecihapreparatoa
unaconfessioneincuinessun
movente resterà nascosto alla
luce dell’ipercoscienza, in cui
Rousseau sarà superato in
franchezza. I momenti in cui
il narratore non capisce se
stesso hanno dunque una
caratteristica particolare: o
nonsonostaticapitiquindici
anni prima quando era
protagonistadellasuastoria,e
ora vengono registrati senza
cheluiliinterroghiinqualità
dichisiconfessa,oppureneè
stata data retrospettivamente
una spiegazione strana non
tanto perché è falsa ma
perché è definitiva, e dunque
non è sottoposta all’infinita
regressione
della
autocoscienza.Diquestodarò
unesempiopiúoltre.
La confessione su Liza
potrebbeesserecontestatanei
seguentipunti:
1. Se umiliare Liza è
semplicementeungioco
che cosa motiva il
narratore «al di là del
gioco»?
2. «Qualcosa non moriva
dentro di me, nel
profondo del cuore e
della coscienza, non
voleva morire […]
qualcosa si sollevava, si
sollevava
incessantemente, con
dolorenell’animomio,e
non voleva placarsi.
Tornai a casa proprio
sconvolto.Comesesulla
mia coscienza pesasse
undelitto»(p.111).Che
cosaèquel«qualcosa»,e
di quale delitto si sta
parlando?
3.«Nonmilasciano–non
posso essere buono!»,
singhiozza
pronunciando parole
chesembranoprovenire
daunestraneodentrodi
lui. Che cosa vuol dire?
Secondo una lettura sta
continuando il suo
«gioco»
con
Liza
fingendo di essere
tormentato e infelice.
Secondo un’altra lettura
la voce dentro di lui
potrebbe essere la voce
repressa di un sé
migliore che «gli altri»
non gli permettono di
esprimere.
4. Tra le braccia di Liza
passa attraverso una
rapida
serie
di
sentimenti notevoli per
laloroambivalenza.Per
quanto cripticamente
espressi
questi
includono:iltrionfoper
avere espresso la sua
aggressiva confessione
senza
essere
rimproverato,
il
desiderio di apporre il
suo sigillo sulla vittoria
attraverso il possesso
sessuale della ragazza, e
lavolontàdicontinuare
a umiliarla. Non c’è
dubbio che i due
personaggi hanno le
caratteristiche
della
coppia sadomasochista
cosí
comune
in
Dostoevskij. Ma i dati
da me riferiti sono
ricavati
unicamente
dalladescrizionechelui
fa del suo stesso stato
interioreediquelloche
leggesulvoltodiLiza.
Quello che lei legge sul
volto di lui (mentre lui legge
sulvoltodilei)risvegliainlei
dapprima stupore e terrore
poi una reazione di voluttà.
Stasbagliandoquandoscorge
«vero amore» dove dovrebbe
leggeresolodesideriosadico?
In un certo senso sí: lui la
prendeingiroperessereuna
cattiva lettrice che ha
sbagliato fin dall’inizio nel
ritenerlo sincero quando non
lo era. Bisogna ricordare
tuttavia che in qualità di
autore della sua storia lui si
trova in una posizione
privilegiata da cui orientare i
lettori. Le sue Memorie
impongono la lettura in cui
Liza viene ingannata sia al
bordello
che
nell’appartamento. Lui non
soloèl’autoredellasuastoria,
è anche colui che conduce i
duedialoghiconLiza,quando
le rivolge le domande, e le
dicechileièechecosafa.In
un solo caso il giudizio della
ragazza su di lui viene
riportato: «Mi pare che voi
[…] parlate come un libro»
(p. 100). Per il resto la sua
lettura viene registrata nelle
Memorie solo in due sguardi:
«due occhi aperti che mi
esaminavano con curiosità e
insistenza»(p.90)quandolui
sisveglianellastanzadilei,e
quello nel suo appartamento
quando lei gli legge in faccia
la passione. Non c’è molto
altromaterialedacuiricavare
laletturadellaragazzaeppure
possiamo farci un’idea di ciò
che vedono i suoi occhi
aperti: un uomo che ha
pagato per passare due ore
con lei facendo sesso «senza
amore,
volgarmente
e
svergognatamente» (p. 91).
Anchelasuaosservazioneche
lui parla come un libro è
giusta. Possiamo dunque
credere che lei fraintenda
quandoluidicedivolerlafare
evadere dalla prostituzione, e
poi quando dice di provare
della passione nei suoi
confronti e persino di avere
bisogno di lei? Sembra
plausibile che Liza capisca, o
quanto meno veda dentro il
narratoreinunmodochelui
– proprio in quanto tale –
nonpuòammettere:echeda
questo punto di vista
(osservatorio privilegiato) i
tre momenti di percezione
concessi a Liza siano falle
nellatramadeltesto.
Sarebbe ingenuo proporre
una lettura del racconto –
basandolasuitremomentidi
Lizaesuqueimomentiincui
in lui parla una voce
spontanea – in cui l’eroe
emerge in tutta la sua verità,
come un giovane infelice e
tormentato che desidera
l’amore di una donna e
tuttaviahapauradiscoprirei
suoidesideri.C’èun’ironiaal
fondo di Memorie del
sottosuolo che non consiste
nel fatto che l’eroe non è poi
cosí cattivo come dice di
essere, quanto piuttosto che
mentre
promette
una
confessione che supererà in
sincerità Rousseau, una
confessione che ritiene di
essereingradodifareperché
possiedeunaipercoscienzadi
sé, la sua confessione rivela
soprattutto l’impotenza della
confessione di fronte al
desiderio dell’io di costruirsi
lasuaverità.
Vale la pena tornare sulla
prima parte delle Memorie
per vedere quello che il
personaggio
dice
sul
desiderio.Secondoilpuntodi
vista degli illuminati anni
Sessanta dell’Ottocento, dice,
il desiderio obbedisce a una
legge, la legge secondo cui
l’uomo desidera ciò che gli
porta vantaggio 42. Ma la
veritàècheognitantol’uomo
desidera ciò che gli reca
danno allo scopo di avere il
dirittodidesiderarealdifuori
diqualsiasilegge.Luidesidera
la
libertà,
l’autodeterminazione
per
affermare «la cosa piú
importanteepiúcara,cioèla
nostra personalità e la nostra
individualità» (p. 30). Il
desideriooriginarioèdunque
quellodiunalibertàchel’eroe
identifica con l’individualità
unica.
La domanda che sorge
immediata è: come fa il
soggetto a sapere che le sue
scelte,
persino
quelle
«perverse»chenonglirecano
alcun
vantaggio,
sono
veramente non determinate?
Comefaasaperecheluinon
èloschiavodiunmodellodi
scelte perverse (un modello
patologico, forse) il cui
disegno è visibile a tutti
tranne
che
a
lui?
L’autocoscienza non gli dà la
rispostaperchénelleMemorie
del sottosuolo questa è una
veramalattiachesinutredise
stessa, che trova sempre un
movente
dietro
l’altro
movente, un’altra maschera
dietro ogni maschera, fino a
quell’ultimo
che
deve
rimanere
mascherato
(altrimenti la regressione
infinita avrebbe fine e la
malattia guarirebbe). Quello
che potremmo chiamare la
ragione per smascherarsi.
Quello che l’uomo del
sottosuolo non può sapere
nella sua autointerrogazione
dunqueèperchévuoledirela
verità su se stesso e c’è la
possibilità che la verità su se
stesso che racconta (la verità
perversa,laveritàcomestoria
della «libera» scelta perversa
chehafatto)possaessereessa
stessaunaveritàperversa,una
scelta perversa fatta secondo
undisegnoinvisibilealuima
forsenonaglialtri.
A questo punto siamo
oltre ogni questione di
sincerità. La possibilità che
abbiamo è quella di una
confessione fatta attraverso
un processo di implacabile
autosmascheramento
che
potrebbenonessereancorala
verità ma una finzione
opportunistica perché il
principio sottostante non
analizzato e non analizzabile
potrebbe essere non il
desiderio della verità ma il
desideriodiessereinuncerto
modo. La possibilità per il
lettoredicapiresesitrattadi
una vera confessione è
inversamente proporzionale
alla coerenza di questa
ipotetica finzione del sé. Una
veritàchepossiamoverificare
solo quando si contraddice o
è in conflitto con qualche
verità «esterna» verificabile,
situazioni che un accorto
narratore confessante è in
teoriaingradodievitare.Non
avremmo motivo di dubitare
della verità della confessione
dell’uomo del sottosuolo e
specificamente della sua tesi
che la sua qualità massima è
lacoscienza,senoncifossero
delle imperfezioni nella
superficie della confessione,
nei momenti in cui ad
esempio il corpo sotto
pressione pronuncia parole
come «Non posso essere
buono», segni di una lotta
interiore che non viene
analizzata.
Non ci sorprenderebbe,
nel caso in cui la confessione
del narratore fosse una
costruzione mendace e
opportunistica, se la verità
repressa emergesse dalla
superficie, specialmente in
momenti di stress, sotto
forma di turbolenze del
cuore, accenni della non
riconosciuta
espressione
dell’io interiore o se la verità
venisse di nuovo repressa.
Quello che delude nelle
Memoriedelsottosuolo–selo
consideriamoun’esplorazione
dellaconfessioneedellaverità
–, è che faccia affidamento
perlasua verità non solo sul
ritorno del rimosso al livello
delsoggettocheagisce(l’eroe
dellastoriadiLiza)maanche
sullaconseguentemancanzadi
censuraallivellodelsoggetto
narrante (l’eroe che racconta
la sua storia quindici anni
dopo l’evento). È come se il
solo processo a non essere
soggetto
all’analisi
dell’autocoscienza
fosse
proprio quello narrativo. Nel
presentare la storia del suo
rapporto con Liza, per
frammenti, come quella di
due individui autonomi (a
Lizaèconcessalasuavoce,il
suoaspetto),nelriproporrela
voce dal sottosuolo che gli
parlò quindici anni prima, il
narratore rende possibile
leggere un’altra verità, una
verità«migliore»diquellache
sta raccontando. È solo
l’ingenuità che permette alla
voce dell’«altra» verità di
esprimersi senza censure, la
prova di un richiamo segreto
e ambiguo al lettore che il
narratore non riconosce?
Certamente lui presenta in
modo
ambivalente
la
questione se la sua storia sia
una confessione «pubblica» o
«privata»:ineffettidiventaun
documento pseudopubblico,
mainrealtà privato 43. Ma le
Memorie
finiscono
in
maniera vaga. I paradossi
dell’autocoscienzapotrebbero
andare avanti all’infinito,
come sostiene la coda
autoriale in forma di
scusante. Nondimeno le
domande da me sollevate
restano non solo senza
risposta (è nella loro natura
non avere risposta) ma non
analizzate. In Memorie del
sottosuoloDostoevskijnonha
trovato una soluzione al
problema di come finire la
storia,soluzioneche,secondo
Michael Holquist, sarà il
trionfo della sua fase
matura 44.
L’idiota (1868-69) è per
moltiversiunlibrosullecose
ultime. Basta pensare ai
riferimenti all’Apocalisse e al
dipinto di Holbein del Cristo
morto,aIppolítdifrontealla
sua morte imminente, e alle
molte storie degli ultimi
attimi dei condannati a
morte. Il senso pervasivo che
esiste un limite temporale
influenza
anche
l’atteggiamento nei confronti
della confessione, si insiste
tropposullaricercadelgiusto
confessore e si mostra
intolleranzaperleconfessioni
pocoserie.
I principali episodi di
confessioneneL’idiotasonoil
gioco della verità in casa di
Nastas′ja Filippovna e la
«Spiegazione» di Ippolít. Ma
prima voglio considerare un
episodio che esprime in
sintesi alcuni problemi
filosoficidellaconfessione.
Keller, «tutto effusioni e
confidenze» (p. 304) arriva
dal principe Myškin con
storievergognosesusestesso,
sostenendo di essere pentito
maraccontandolecomesene
andasse fiero. Il principe lo
lodaperlasuasinceritàmasi
chiede quale possa essere il
motivo della confessione:
vuoledeisoldiinprestito?Sí,
confessa Keller: «Preparai
[…] la mia confessione […]
perché mi agevolasse[ro] la
via e perché voi, inteneritovi,
mi
snocciolaste
centocinquanta
rubletti.
Secondo voi, non è una
bassezza?»(pp.306-7) 45.
È subito chiaro che ci
troviamo all’inizio di una
potenziale
regressione
all’infinito di presa di
coscienza
e
di
autodenigrazione in cui il
candore compiaciuto di ogni
livello di confessione di un
motivoimpurodiventanuova
fonte di vergogna e ogni
fremito di vergogna nuova
fonte di autocompiacimento.
Un modello ricorrente nelle
Memoriedelsottosuolo,eben
noto ai personaggi de
L’idiota, sempre pronti a
scorgere il verme della vanità
nell’autodenigrazione degli
altri ma che reagiscono con
indignazione quando gliela si
fanotareinloro.Allabasedi
questo comportamento c’è
quello che Myškin definisce
dvoinaya mysl, letteralmente
«doppio pensiero», ma che si
spiega meglio come forma di
ripiegamentodelpensiero,un
movimento
caratteristico
dell’autocoscienza. È un
doppio pensiero a spingere
Keller a volersi sinceramente
confessare a Myškin per
giovare
al
proprio
«perfezionamento spirituale»
mentre allo stesso tempo
vuole chiedergli dei soldi; è
un ripiegamento quello che
svilisce
l’integrità
della
volontà
di
confessarsi
scoprendodietrounavolontà
di inganno, e dietro questo
secondo motivo un terzo
motivo (il desiderio di essere
ammirati per il proprio
candore),ecosívia.
Myškin identifica cosí nel
«doppiopensiero»lamalattia
che rende la confessione
incapace di dire la verità una
volta per tutte. In realtà
Myškin va oltre la diagnosi
della malattia. «Tutti gli
uomini [sono] cosí», dice:
anchealuiècapitatodiavere
doppi pensieri. Ma il
riconoscimento
dell’universalità del doppio
pensieroèdiperséundoppio
pensiero, come vede subito
Myškin: «Mi è perfino
accaduto qualche volta di
pensare […] che tutti gli
uomini siano cosí, tanto che
[takcto]giàavevocominciato
ad approvarmi» (p. 307)
(corsivo mio). Il moto stesso
di riconoscimento cosí lo
intrappolanellasindrome.
Vale la pena sottolineare
questo punto. Sia Keller che
Lébedev (che un paio di
pagine piú avanti fa una
confessione
a
Myškin)
affrontano in maniera diretta
il problema del perché
scelgano il Principe come
confessore.Questionicomelo
spirito in cui si fa la
confessione e l’adeguatezza
delconfessorenonsipossono
piú ignorare dopo il gioco
della verità in casa di Nastas
′jaFilippovna,doveilgirodi
confessioni delle azioni
peggiori della loro vita ha
lasciatogliospitivergognosie
insoddisfatti,
tanto
da
giustificare
il
cinico
commento di Totskj che la
confessioneèsolo«unaforma
particolaredivanità».Kellere
Lébedev danno la stessa
spiegazione della loro scelta
diMyškincomeconfessore:li
giudicherà«umanamente»(p.
307) (po-celoveceski, «da
uomo»).Inoltre,poichénonè
pienamente uomo, ma un
idiota, un semplice (come lo
chiama
esplicitamente
Keller), un topo (mys), è
estraneo al gioco fin troppo
umanodiusarelaveritàperi
propri fini. È un essere che
non si comporta né come un
dionellasuaseverità(sebbene
Aglaja Epančín esprima
qualche dubbio che nella sua
devozioneallaveritàluipossa
giudicare senza indulgenza),
né come un uomo che
assoggetta la verità al
desiderio. Nella scelta di
Myškin come confessore
Keller e Lébedev stanno
dunque cercando – per
quanto oscuramente e per
motivi impuri, doppi – il
perdono piuttosto che il
giudizio, Cristo piuttosto che
Dio.
A questa figura ideale di
confessore
possiamo
contrapporre gli ospiti del
ricevimento che si trovano a
fare da confessori per la
«spiegazione» di Ippolít.
Ancor prima che Ippolít
abbia cominciato a leggere la
sua confessione, alcuni degli
ascoltatori si sono già fatti
un’idea sulle implicazioni
possibili del suo atto di
confessione pubblica. Myškin
lo vede come un espediente
che Ippolít ha creato per
forzarsi a procedere con il
suicidio;Rogozinalcontrario
lo vede come un modo per
Ippolít di spingere i suoi
ascoltatori a impedire che si
suicidi. Ambedue dunque
vedono la sua confessione al
servizionondellaveritàmadi
un desiderio piú profondo
(morire,vivere).
Quanto alla confessione
veraepropria,questasitrova
in conflitto con le sue
motivazioni in un modo che
abbiamo già incontrato in
Dostoevskij. Per prima cosa,
dice
Ippolít,
la
sua
confessione
conterrà
«unicamente la verità» (p.
383), dal momento che sta
morendo di tubercolosi e
dunque non ha motivo di
mentire (in altri termini la
sua confessione è scritta
all’ombra delle cose ultime).
In secondo luogo i suoi
ascoltatori saranno in grado
dicoglierequalsiasielemento
di
falsità
nella
sua
confessione, poiché lui ha
intenzionalmente scritto il
documento in fretta senza
alcuna correzione (il motivo
dell’autenticità dello stile
ripreso da Rousseau). Terzo,
pur essendo consapevole che
la sua confessione può essere
considerata
come
strumentale, un modo per
giustificarsi
o
chiedere
perdono,luinegaambeduele
motivazioni. Trovandosi per
cosí dire sul patibolo, e
dunque in una posizione
privilegiata, afferma il diritto
di confessarsi semplicemente
perchélovuole,eildirittodi
rivendicare la confessione
libera e immotivata contro
ogni accusa di motivazione.
Lasuaconfessioneappartiene
alle cose ultime, è una cosa
ultima e perciò inattaccabile
da qualsiasi critica. La
sincerità che la muove non
può essere impugnata, dice,
perché ha la garanzia della
morte di chi l’ha confessata.
D’altro canto la sincerità di
qualsiasi critica a lui rivolta
può e deve essere sottoposta
alla critica senza fine. I suoi
autori impugnano la sua
motivazione per una loro
motivazione, non vogliono
conoscerelaveritàsullavitae
sulla morte e a questo fine
sono pronti a imporgli il
silenzio e la doppiezza che
conseguequandoilsilenzioè
presoperacquiescenza:«nella
coscienza della propria
debolezza e nullità c’è un
limite di vergogna, oltre il
qualel’uomononpuòandare,
e dal quale egli comincia a
provare nella sua stessa
vergogna
un’immensa
voluttà» (p. 409). La verità
che i suoi ascoltatori non
voglionosentireèchenonc’è
vitadopolamorteecheDioè
semplicemente «una enorme
e ripugnante tarantola» (p.
404). Il suo suicidio è
pertanto
un’affermazione
della libertà di non vivere
l’esistenza alle «condizioni
tanto derisorie» (p. 410)
imposteall’uomo.
L’argomentopresentatoda
Ippolít è dunque che davanti
alla morte la divisione dell’io
prodotta dall’autocoscienza
può essere trascesa e la
regressione infinita del
dubbio può essere superata
dalla volontà dominante di
direlaverità.Ilmomentoche
precedelamorteappartienea
ungenerediversoditempoin
cui la verità ha alla fine il
poterediapparirenellaforma
dellarivelazione.L’esperienza
del tempo fuori del tempo è
descritta molto chiaramente
negli attacchi epilettici di
Myškin nell’ultimo istante di
chiarezza prima che cada
l’oscurità:
La mente e il cuore
s’illuminavano di una luce
straordinaria: tutte le ansie,
tutte le inquietudini, tutti i
dubbi sembravano placarsi
all’improvviso e risolversi in
una calma suprema, piena di
limpida, armoniosa gioia e
speranza, piena d’intelligenza
epregnadifinalità[...]Quegli
istanti appunto altro non
erano che uno straordinario
intensificarsi
dell’autocoscienza […] e al
tempo
stesso
di
un’autoappercezione
in
sommo grado immediata (pp.
224-25).
Riflettendo su questi
momenti Myškin pensa alle
parole «non esisterà piú il
tempo» (p. 226), le stesse
parole con cui piú tardi
Ippolít comincerà la sua
confessione(p.379).
Ilmomentoincuitermina
il tempo terreno, cessa il
dubbio su di sé, l’io è
integrato e la verità è nota,
ricorre nelle storie di
esecuzioni di Myškin. In una
di queste racconta della
straordinaria ricchezza con
cui il condannato rivive i piú
banali dettagli della vita. In
un altro immagina un uomo
sul patibolo che nell’ultimo
momento sa tutto. Piú tardi
Myškin ha la sua esperienza
di una «straordinaria luce
interiore»(p.233)cheinonda
l’animo dell’uomo sotto la
lamadelboia.
Ippolít sostiene di trovarsi
sul patibolo allo stesso modo
deicondannatidiMyškin.Da
questa posizione privilegiata
desidera lasciare all’umanità
la sua «verità», che lui
immagina come un seme che
può crescere e dare grandi
frutti. In particolare, spera
che la sua morte possa avere
sensoinununiversocheneè
privo se riuscirà a seminare
nella mente degli uomini
l’ideadiunsuicidiofilosofico
comeilsuo.
Ma Ippolít possiede
«veramente»ilprivilegiodella
verità? La prognosi di morte
entro un mese è stata
pronunciata da un semplice
studente di medicina; Ippolít
nonsitrovaaffattosullettodi
morteelamaggiorpartedegli
ospiti reagisce alla sua
«Spiegazione»
senza
mascherare un senso di
irritazione
(p.
411),
considerandola come una
manovra da parte di un
ragazzo vanesio per attirare
l’attenzione.Lororifiutanodi
considerare sincera la sua
decisione di uccidersi. A sua
volta lui rifiuta di ritenere
sincera la loro indifferenza
allasuaconfessione,elalegge
come una forma di pressione
sudiluiaffinchéprocedacon
il
suicidio.
Trovandosi
all’improvviso di fronte alla
ridicolasituazioneincuiluie
i suoi ascoltatori sono
diventati come giocatori di
poker che cercano di giocare
alrialzobluffando,incuisesi
uccide potrebbe farlo per
dispetto o frustrazione e in
cui la richiesta piú urgente
cherisparmilasuavitaviene
da Lébedev, che non vuole
sporcare il pavimento, si
mette la pistola alla tempia e
preme il grilletto solo per
scoprire che non è carica.
Quello che era cominciato
come un progetto di suicidio
filosoficodegenerainuncaos
di risate e lacrime. La
domanda se Ippolít avesse
una «vera» comprensione
privilegiata della vita e della
morte
viene
enunciata
nuovamente da Keller in una
nuova forma banale: aveva
dimenticato di caricare la
pistola o era stato tutto un
trucco?
Il
finale
farsesco
dell’episodio riafferma il
problema
che
Ippolít
sosteneva di avere trasceso, il
problema dell’autoinganno e
della regressione all’infinito
del dubbio su di sé. Il
progettodelsuicidiocomeun
mezzo per garantire la verità
del proprio racconto con il
pegno estremo della vita
inaridisce
sotto
l’acido
commento di Rogozin: «Non
cosí andava accomodata la
cosa» (p. 381). Doveva essere
fatta cioè, senza una
«spiegazione», senza un
perché e un percome in
silenzio e nell’oscurità. La
spiegazione,
la
verità
privilegiata pagata con la
morte,èinrealtàunseme,un
mezzo per vivere dopo la
morte. E perciò getta un
dubbio sulla sincerità della
decisione di morire. La sola
veritàèilsilenzio.
Il sogno che Ippolít
raccontanellasuaconfessione
rende piú estremo il
paradosso. Ippolít sogna di
chiedere a un uomo di
fondere tutto il suo oro e
farne una bara, poi scavare il
suo bambino «gelato» e
seppellirlo nuovamente nella
bara d’oro. Il sogno è basato
su un fatto realmente
accaduto in cui Ippolít ha
fatto una buona azione per
uno sconosciuto ritenendola
unsemescagliatoacasoperil
mondo. Nella complessa
condensazione del sogno, il
diciottenne Ippolít è il
bambino
gelato,
la
«Spiegazione» è la bara
dorata. Piantato nel terreno
come un seme il sogno
predice che il bambino non
risorgerà (subito dopo il
sognoIppolítpensaalquadro
di Holbein del Cristo morto,
un Cristo che non potrà mai
risorgere). Parlando come
nelle
esternazioni
non
richieste dell’eroe delle
Memoriedelsottosuolo,daun
livello «piú profondo» e «piú
vero»delsé,ilsognorivelail
dubbiodiIppolítsullafertilità
del suo seme e svilisce lo
statuto privilegiato di verità
della «Spiegazione» di cui fa
parte 46.
L’effettopoeticodelsogno
è dirompente. E tuttavia
piuttostocheleggereilsogno
come verità privilegiata
proveniente dall’«interiorità»
diIppolít–unprocedimento
che
assegnerebbe
all’inconscio la posizione di
fonte della verità – preferisco
chiedere a questo punto,
comehofattoperleMemorie
del sottosuolo, come mai i
personaggi che si confessano
nonriescanoacensuraredalle
confessioni le tracce di una
verità «piú profonda» che
contraddice la verità che
cercano di esprimere. Una
risposta possibile è che
Dostoevskij, nel trasferire in
una narrazione in prima
persona lo stesso miscuglio
«menippeo» di generi che
caratterizzaisuoiromanziin
generale – un miscuglio che
includeesposizionefilosofica,
confessioni, e sogni – tratta
l’autoinganno del narratore
come
una
questione
puramente formale che solo
un
realista
superficiale
prenderebbe sul serio. La
questione tuttavia resta
inquietante. Continuiamo a
pensare
che
quando
Dostoevskij
ricade
su
un’univoca verità «interiore»,
egli tradisca l’interrogazione
di nozioni di sincerità che
altrimenti espone attraverso
una
rigorosa
dialettica
consapevole.
L’uomo del sottosuolo si
mette a scrivere le sue
confessioni
vagamente
oppresso da memorie del
passato,altrimentiannoiatoe
ozioso.Raccontalesuestorie
per acquietare se stesso, dice
la verità perché, a differenza
di Rousseau, lui scrive solo
perisuoiocchi.Ciòvalesolo
per l’esame della sua
motivazione alla confessione,
lospiritoconcuisiconfessae
il significato di un pubblico,
questioni che L’idiota mette
inprimopiano.NeL’idiotala
confessione può rivolgersi
solo a un confessore
adeguato,epersinoilprincipe
Myškin, l’uomo-Cristo, si
rivela inadatto, incapace di
assolverechisiconfessa(cosí
comeèincapacediredimersi)
dalla spirale del doppio
pensiero. Quanto allo spirito
della
confessione,
dice
L’idiota,èassurdocredereche
la verità possa essere detta
comepergioco,perpassareil
tempo.Nessunattodivolontà
appareingradodicostringere
la verità a emergere, neppure
quello di un momento di
illuminazione determinato
dall’atto di darsi la morte,
perchéanchequestopotrebbe
essereundoppiopensiero.La
critica di Dostoevskij alla
confessione ci porta sull’orlo
diunaconcezionedellaverità
chesiavvicinaallagrazia.
Il passo successivo, e
l’ultimo, che Dostoevskij
compie nell’analisi dei limiti
della confessione laica,
avviene ne I demoni (187172). Due sono gli episodi
rilevanti
nel
romanzo.
Kirillov, come Ippolít, decide
di uccidersi per piantare un
seme di verità nella mente
degli uomini. La differenza è
che Kirillov si uccide
veramente e che l’interesse
dell’autore non è sulla
spiegazione che lui dà del
suicidio (il seme) – una
spiegazione
piena
di
irragionevoli grandiose e
blasfeme motivazioni 47 – ma
sulsuicidiostesso.
In realtà la questione se
Kirillov analizzi i suoi motivi
per presentare il suo
manifesto per il suicidio (si
esita a definirlo confessione),
eseluisiasoggettoaldubbio
su di sé e all’autoinganno,
diventa quasi irrilevante
perché il romanzo non dà
accesso alla mente del
personaggio. La scena del
suicidio
è
presentata
attraverso gli occhi del piú
giovane Verchovenskij (è un
paradossotipicodelromanzo
che mentre Kirillov pensa di
uccidersiperaffermarelasua
libertà, viene spinto al
suicidio da Verchovenskij). È
dunque attraverso i gesti, la
postura, e i dettagli esterni
che dobbiamo, per quanto ci
è possibile, leggere gli ultimi
istanti di Kirillov che «spera,
[uccidendosi], di legarsi a se
stesso, – come dice René
Girard, – in un possesso
vertiginoso» 48 mentre cerca
di
raggiungere
la
trascendenza attraverso la
morte. Nascosto dietro un
armadioinunastanzaoscura,
Kirillov entra in uno stato di
trance,
gli
occhi
«completamente immobili e
fissi in un certo punto dello
spazio»(p.640).Selosilegge
correttamente – tenendo a
mentelaletturadiMyškindei
condannati – sembrerebbe
essere in attesa del momento
in cui l’io sia del tutto
presenteasestessoeiltempo
sifermi,perfarsiesplodereil
cervello. In questa lettura
Kirillov è piú avanti di
qualsiasi altro personaggio di
Dostoevskij nel ritenere la
mortecomeunicagaranziadi
verità della storia che si
racconta.
Ma
bisogna
rammentare che Kirillov è
nella sua ultima ora sempre
piú un pazzo e un animale
(l’ultimo gesto prima di
ammazzarsi è di mordere
Verchovenskij) e che la
lettura dall’esterno che
Dostoevskijciimponesegnala
forse che la coscienza di
Kirillov è spietata, disumana,
illeggibile.
Il capitolo intitolato Da
Tichon,
espunto
dalla
versione a puntate de I
demoni dal direttore del
«Russian
Herald»
e
successivamente
escluso
dall’autore dall’edizione in
volume
del
romanzo,
riprende l’indagine scettica
dell’impulso alla confessione.
Stavrogin va a trovare il
monaco Tichon e gli mostra
un opuscolo che intende
rendere pubblico in cui
confessa un crimine nei
confrontidiunabambina;ma
ben
presto
sono
le
motivazioni di Stavrogin alla
confessione a diventare
oggetto di analisi e dunque
temaulteriorediconfessione.
Stavrogin racconta il suo
crimine (di natura sessuale
non specificata, seguito
dall’intenzione di suicidarsi)
senzaspiegarelamotivazione,
tranneche«pernoia»,sepuò
valere come spiegazione.
Invece dell’analisi di un
movente, che – come accade
in Rousseau – scivola
facilmente
nell’autogiustificazione,
troviamo l’insistenza di
Stavrogin sulla propria colpa
e responsabilità. Anche
quandoannidopolabambina
comincia ad apparirgli in
visioni, lui insiste che non si
tratta di visioni involontarie,
macheèluiaevocarledisua
volontà, benché non possa
impedirsi di farlo (p. 719).
L’immagine della bambina
non è dunque emanazione di
un sé colpevole «interiore» o
«inconscio». Lo stesso sé
colpevole
dell’atto
si
confronta
in
maniera
compulsiva con i ricordi
colpevoli, non c’è alcuna
distanza tra il sé che ha
l’intenzione e quello che
agisce 49.
L’atto di Stavrogin viene
considerato abominevole sia
da Stavrogin che da Tichon.
Ciò che Tichon mette in
questioneètuttaviailmotivo
che sta dietro il desiderio di
Stavrogindirenderepubblica
la sua colpa. L’indagine
intorno a questo motivo,
palesata nelle domande di
Tichon a Stavrogin, prende il
posto dell’autointerrogazione
interiorizzata a cui siamo
abituati
dai
racconti
confessionali
in
prima
persona. Nel fare questo
Tichon apre il divario che
Stavrogin aveva cercato di
chiudere
tra
l’autoconsapevolezza
del
soggettoelaverità.
L’incontro tra Stavrogin e
Tichon consiste in una
doppia verifica. Per tutta la
durata dell’incontro Tichon
mette alla prova la verità dei
motivi addotti da Stavrogin
per
rendere
pubblica
confessione,mentreStavrogin
metteallaproval’adeguatezza
di Tichon in quanto
confessore.VuolecheTichon
dimostri il suo potere di
assolvere scoprendo la verità
dietro le menzogne che gli
propinapercoprirla.Macosí
come ci sono dei limiti sul
tipo di penitenza e il tipo di
perdono che Stavrogin è
disposto ad accettare, ci sono
limiti al tipo di verità che a
Tichonèconsentitodivedere.
In particolare Stavrogin non
vuole che Tichon possa
turbare quel nocciolo di
identità a cui lui tiene. Cosí,
nonostante
la
sua
disponibilità a rinunciare a
qualsiasidirittoperspiegareil
crimineescusarelasuacolpa
– una disponibilità che dà
l’impressione che lui voglia
una verità e un’assoluzione
assoluta – la confessione di
Stavrogindiventaungiocoin
cui certi limiti non saranno
trasgrediti, per quanto i
partecipanti fingeranno con
sestessieconglialtrichenon
ci sono limiti. Si tratta
dunque di un gioco di
ingannoediautoinganno,un
gioco di verità limitata, cui
Tichon pone fine rompendo
leregole 50.
L’identità che Stavrogin
vuole affermare è quella del
grande
peccatore.
Egli
presentailsuocriminecontro
la bambina come tanto piú
disprezzabile – grande nella
sua spregevolezza – perché il
motivoeraozioso,lapassione
scarsa. Tichon ritiene che un
crimine cosí meschino e
tuttavia cosí pretenzioso
possa suscitare solo riso e
consiglia
Stavrogin
di
accettare una tranquilla
penitenza piuttosto che
cercare
una
sofferenza
infinita, mettendo cosí in
questione l’enormità che
Stavrogin attribuisce alla sua
colpa e alla sua punizione.
Stavrogin
chiede
una
sofferenza
infinita
in
proporzione del crimine
commesso; e l’enormità della
sua colpa è conseguente alla
banalità del male del suo
crimine. Tichon gli fa
balenare la possibilità che lui
sia
semplicemente
un
dissoluto, un aristocratico
sradicato
con
pretese
byroniane
che
vuole
raggiungere la fama per la
scorciatoia di commettere un
facile abominio e confessarlo
inpubblico.
È importante notare che
Tichon non presenta questo
resocontoaStavrogincomela
verità su di lui, perché se lo
facesse si proclamerebbe
fonte di verità assoluta. La
presenta come una possibile
verità, la possibilità che
Stavrogindovrebbeaffrontare
se fosse veramente in cerca
della verità su se stesso in un
progetto
di
autoanalisi
spirituale (cosí come Tichon
dovrebbe esaminare i motivi
che
lo
spingono
a
minimizzare la portata del
male di Stavrogin nel corso
della sua autoanalisi). Per
questo Tichon taglia corto
sulla perversa regressione
infinita
della
autoconsapevolezza – una
regressione che si identifica
piú
chiaramente
nell’atteggiamento vittimista
e autocolpevolizzante di
Marmeladov e di Lébedev, la
cui
spudoratezza
della
confessione
è
motivo
ulteriore di vergogna, e cosí
via all’infinito, che non in
Stavrogin, la cui versione
della regressione è che la
malvagitàdelsuoattohauna
suagrandezza,elameschinità
di questo trucco consapevole
un ulteriore tipo di
grandezza, e cosí via – per
sostituirla
con
un’altra
regressionediautoanalisiche
hailpotenzialediprolungarsi
all’infinito ma ha anche il
vero potenziale di finire
nell’autoindulgenza.
L’autoassoluzione
comporta la chiusura del
capitolo, la fine della spirale
discendentedell’autoaccusala
cui profondità è impossibile
da scandagliare perché
decidere di fermarsi in un
momento qualsiasi per un
atto di volontà, decidere che
la colpa termina in un certo
momento,èunattodipersé
potenzialmente falso che
merita di essere analizzato.
Come
distinguere
la
differenza tra un momento
«reale» di autoperdono e un
momento di compiacimento
quando il sé decide di essere
andato abbastanza a fondo
nell’autoanalisi è un mistero
che Tichon non spiega,
lasciandolo
forse
al
consigliere spirituale «un
asceta, di una saggezza
cristiana tale da non poter
essere compresa né da me né
da voi» (p. 727) a cui
raccomandaStavrogin.Mase
si
legge
attentamente
Dostoevskij si può capire che
ilmonacononlofarebbemai
ritenendo che una volta
spiegata la differenza, questa
farebbeognisforzoperessere
incorporata in un nuovo
gioco
di
inganno
e
autoinganno; e inoltre che
articolare la decisione di non
articolare
la
differenza
potrebbediperséessereparte
del gioco; e cosí all’infinito.
Lacatenainfinitasimanifesta
non appena entra in gioco
l’autoconsapevolezza; come
entrare in possesso della
verità su se stessi, come
raggiungere l’autoassoluzione
e trascendere il dubbio,
sembrerebbe destinato, per
motivi strutturali, a dover
rimanereavvoltonelmistero,
e persino la demarcazione in
questo campo, persino la
specificazione dei motivi
strutturali, dovrebbe per
motivianaloghirimanerenon
articolata,
incluse
le
motivazionidelsilenzio.
Ilfinedellaconfessione.
Il fine della confessione è
direlaveritàaepersestessi.
L’analisi del destino della
confessionedametracciatoin
tre romanzi di Dostoevskij
indica quanto e perché lo
scrittorefossescetticosultipo
di confessione secolare
praticato da Rousseau, e
prima ancora da Montaigne.
Dostoevskij fa capire che a
causa della natura della
coscienzal’iononpuòdirela
verità su se stesso a se stesso
edesserecertochenoncisia
stato autoinganno. La vera
confessione non viene dallo
sterilemonologodell’ionédal
dialogo dell’io con i dubbi su
di sé, ma dalla fede e dalla
grazia, e in questo andiamo
oltre Tichon. Memorie del
sottosuolo, L’idiota e la
confessione di Stavrogin
possono leggersi come una
sequenza di testi in cui
Dostoevskij esplora l’impasse
della confessione secolare,
indicandoilsacramentodella
confessione come l’unica
stradacheportaallaveritàsu
sestessi.
Inunalungarecensionedi
Anna Karenina, che apparve
nel Diario di uno scrittore,
Dostoevskij ammira Tolstoj
per la profondità dell’analisi
psicologica condotta nel
romanzo, una profondità
esemplificata nell’episodio
dellamalattiaquasimortaledi
Anna. Nel corso della
malattia Anna, Vronski e
Karenin «allontanano da se
stessi l’inganno, la colpa e il
crimine in uno spirito di
generosità umana ma subito
dopolaguarigionediAnnasi
ritrovano su un sentiero in
discesa in quella condizione
fatale in cui il male,
impadronitosidell’uomo,lega
ogni sua mossa, paralizza in
lui ogni desiderio di
resistere» 51. Nel caso di
Karenin la pietà, il rimorso e
la gioia liberatoria che sente
nel perdonare Anna non lo
mettono al riparo dalla
vergogna che prova quando
rientra in società nel ruolo
designato di marito umiliato,
di zimbello. Prima prova un
sensodiautocommiserazione,
poiilsospettovergognosoche
nelperdonareAnnaluipossa
avere espresso non la
generosità dell’io cui aspira
ma la debolezza e forse
l’impotenzadell’iocherifiuta.
L’introspezione gli permette
dunque di negare quello che
aveva
precedentemente
provatocomeliberatoriodella
sua parte piú vera e migliore
nelnomediunanuovaverità,
«piú profonda» in quanto
mina la precedente. Questa
«piú profonda» verità è in
effetti niente altro che un
autoinganno opportunistico
che,nelcommentodiTolstoj,
consente a Karenin di
«dimenticare quello che non
voleva ricordare». In una
persona cosí laica (era un
sincero credente, interessato
alla religione soprattutto per
il suo aspetto politico)
l’autoanalisi non è uno
strumentodiveritàmasolola
volontà di sentirsi in pace,
giudicato positivamente, e
cosívia.
La
domanda
che
generalmente si pone a
proposito della Sonata a
Kreutzerè:comemai,dopola
profonda analisi psicologica
che
caratterizza
Anna
Karenina (1874-76), e in
particolare
l’analisi
dell’autoinganno che vi
troviamo, Tolstoj ha potuto
scrivereunlibrocosíingenuo
in cui la verità del narratore
consiste in una serie di crudi
precetti sul controllo degli
istinti? Prima di accettare la
domanda
in
questa
formulazione
dobbiamo
ricordaretrecose.Laprimaè
che in Anna Karenina già
troviamo lo spettacolo di un
cercatore di verità che, per
quanto assediato dal dubbio
comechiunquealtro,latrova
non nei processi tortuosi
dell’autoanalisi ma in una
illuminazione
dall’esterno
(nel
caso
di
Levin,
l’improvvisa illuminazione
delleparolediuncontadino).
La seconda è che non c’è
alcuna
possibilità
di
controbattere l’affermazione
dell’uomo del sottosuolo
secondo cui l’autocoscienza
halesueleggi,unadellequali
è che dietro ogni vera,
definitiva posizione ce n’è
sempreun’altrapiúveraepiú
definitiva. Da un certo punto
di vista si tratta di una legge
feconda poiché permette la
proliferazione infinita del
testo dell’io come si vede in
Memoriedelsottosuolo.Daun
altropuntodivista,quellodi
chi è affamato di verità, è
sterile poiché sposta la verità
all’infinito senza mai arrivare
alla fine. La terza cosa da
ricordare è che il genere di
trascendenza
dell’autocoscienza
che
Dostoevskij indica come
soluzionefinalepotrebbenon
essere accettabile per un
cristiano razionalista etico
comeTolstoj,chepuòtrovare
laveritàinpersonesemplicie
inconsapevoli ma è scettico
sulla possibilità di arrivare a
una verità che è oltre
l’autocoscienza
attraverso
l’autocoscienzastessa.
Con queste considerazioni
in mente potremmo allora
riformulare la domanda in
modo che si trovi piú in
sintonia con il tardo Tolstoj:
uno scrittore per cui la
psicologia dell’autoinganno
nonèuncampoillimitatogià
conquistato a tutti gli effetti,
per cui il dubbio su se stessi
ha dimostrato di essere un
tran tran infinito, quale
possibilità di raggiungere la
verità
può
esserci
nell’autoanalisi
di
una
coscienza che si confessa?
Non c’è dubbio che Tolstoj
avrebbe potuto rendere la
confessione di Pozdnyšev
«piú ricca» e «piú profonda»
sul
piano
psicologico
rendendolaambigua–iltesto
èdipersériccodielementidi
ambiguità – ma bisogna
immaginare che Tolstoj si
chieda, a quale scopo? Perciò
quando è stato approntato
l’intero apparato narrativo (il
narratore pronto a fare la
parte di chi interroga e
dell’Altro interrogato, la
sequenza di tracce che
portano a una verità che
metteindubbioecomplicala
veritàdicoluicheconfessa),a
me pare che sopravvenga un
senso di disillusione, di noia
perquestomododispremere
la verità dalle menzogne, di
insofferenza per le procedure
che bisogna mettere in atto
prima di far emergere la
verità (una verità che è
comunque
sempre
provvisoria, segnata dal
dubbio dai processi che ha
attraversato), e per la
decisione (avventata?) di
dichiarare la verità come se
dopo una vita di analisi si
fossero
acquisite
le
credenziali,
si
fosse
accumulata l’autorità per
farlo.
[1985].
Nellastanzabuia:loscrittore
eloStatoinSudafrica
Ha scritto Nathaniel
Hawthorne che quando si
fonda una colonia tra le
prime e piú urgenti necessità
pratichec’èquelladi«adibire
a cimitero un lotto della
[loro] terra vergine e
sceglierne un altro per
costruire una prigione» 1. Le
prigioni,quei«fiorineridelle
società civili», prosperano
dappertuttoinSudafrica.Non
è consentito disegnarle né
fotografarle, pena una severa
condanna. Non so se negli
altri paesi esistano leggi che
vietano la rappresentazione
delleprigioni.Èprobabileche
esistano, ma in Sudafrica
queste leggi hanno una
specialepertinenzasimbolica,
come se fosse decretato per
legge che l’obiettivo debba
chiudersi di fronte a certi
luoghi, come se il passante
non dovesse avere alcuna
conferma che gli edifici visti
sorgere dalla sabbia in una
vasta spianata di monotono
grigiore non erano un
miraggioounbruttosogno.
La spiegazione è molto
semplice.Larispostaconsueta
dei legislatori sudafricani a
quel che disturba il loro
elettoratobiancoèdivietarne
la vista. Se la gente muore di
famechelofaccialontano,nel
bush,doveiloroscarnicorpi
non rimproverano nessuno.
Se non hanno lavoro, se
emigrano in città, che si
creino dei posti di blocco, si
stabilisca il coprifuoco, si
legiferi
contro
il
vagabondaggio,lamendicitàe
l’occupazione abusiva delle
case, e che i colpevoli
venganorinchiusiinprigione
cosí che nessuno debba
vederli o sentirli. Se le
township nere bruciano, che
siano vietate le riprese. (Cosa
che fa tirare un sospiro di
sollievo al grande elettorato
bianco: i notiziari sono
diventati
molto
piú
sopportabili!)
L’apartheid
riguarda la segregazione dei
neri o quella dei poveri? Una
domanda
di
scarsa
importanza quando neri e
poveri sono quasi la stessa
cosa. Esistono molti paesi in
cuileprigionisonousateper
rinchiudervipersonechenon
hanno l’odore giusto o che
hannounaspettosgradevolee
non hanno la decenza di
nascondersi.InSudafricaèla
legge che provvede, per
quanto possibile, a rendere
invisibili non solo queste
persone ma anche le prigioni
incuivengonotenute.
La sede centrale della
polizia
politica
di
Johannesburg, in una piazza
cheopportunamenteriprende
il nome di Balthazar John
Vorster, già primo ministro
della Repubblica sotto il cui
patrocinio la polizia segreta
acquistò la pessima fama che
tuttoralacirconda,èunaltro
di quei luoghi che non si
possono fotografare. Un
numero incalcolabile di
prigionieri politici è stato
portato in questo posto per
essere interrogato. Non tutti
sono ritornati vivi. In una
poesiaintitolataSottoarresto,
Christopher van Wyk ha
scritto:
Ècadutodalnonopiano
Sièimpiccato
Èscivolatosuunpezzodi
saponementresilavava
Sièimpiccato
Èscivolatosuunpezzodi
saponementresilavava
Ècadutodalnonopiano
Sièimpiccatomentresilavava
Èscivolatodalnonopiano
Sièimpiccatodalnonopiano
Èscivolatodalnonopiano
mentresilavava
Ècadutodaunpezzodi
saponementrescivolava
Sièimpiccatodalnonopiano
Sièlavatodalnonopiano
mentrescivolava
Sièimpiccatoaunpezzodi
saponementresilavava.
Dietroicosiddettisuicidie
lemortiaccidentaliacuiVan
Wykallude,dietroleautopsie
sommarie
eseguite
dai
funzionari governativi, le
inverosimili
e
insulse
conclusioni delle inchieste, ci
sono le realtà della paura,
prostrazione,dolore,crudeltà.
Camminando
per
Johannesburg ci si può
trovareaduepassidapersone
sottoposte alle piú estreme
sofferenze (naturalmente le
stanzesonoinsonorizzate).«È
come passare davanti a un
bordello
di
prostitute
bambine. È come passare
davanti a un mattatoio. Sono
cose che accadono. Cose che
sifanno».Forse.Forsequeste
cose si sono sempre fatte,
dappertutto.Mac’èunacerta
spudoratezza nel farle nel
cuore di una grande città, la
spudoratezzatipicadituttele
operazionidisicurezzadiuno
Stato che mette la propria
sopravvivenza al di sopra
della legge e finanche della
giustizia. La poesia di Van
Wyk gioca col fuoco, balla il
tip tap davanti alle porte
dell’inferno. Funziona perché
non è una poesia sulla morte
ma la parodia delle
spiegazioni standard che la
poliziapoliticahapronteperi
media.
Nel
1980
pubblicai
Aspettando i barbari, un
romanzo sull’impatto della
stanza della tortura sulla vita
elacoscienzadiunuomo.La
tortura ha esercitato un
fascino oscuro su molti altri
scrittori sudafricani. Come
mai? Ritengo che sia per due
motivi. Il primo è che le
relazioni della stanza della
tortura forniscono una
metafora,nudaedestrema,di
quelle tra l’autoritarismo e le
suevittime.Nellastanzadella
tortura si esercita un potere
illimitato sull’essere fisico di
un individuo in una zona di
confinetraillegalitàelegalità
con lo scopo se non di
distruggerlo almeno di
distruggere il nocciolo di
resistenzaalsuointerno.
Cerchiamo di definire la
situazione del prigioniero
sospettato di crimini contro
loStato.
Quel che accade a Vorster
Square è nominalmente
illegale. Articoli di legge
vietano alla polizia di
esercitare violenza sui corpi
dei detenuti tranne che per
autodifesa.Maaltriarticolidi
legge, invocando ragioni di
Stato,
pongono
sotto
protezione le attività della
poliziasegreta,elelungaggini
diunprocessocherichiedeal
prigioniero di accusare i suoi
aguzzini e produrre dei
testimoni rendono del tutto
inutile un procedimento
contro la polizia a meno di
una grave mancanza. Il
prigionieroèconsapevole,ela
polizia ne è a conoscenza, di
essere del tutto indifeso
controqualsiasicosascelgano
di fargli. La stanza della
torturadiventaalloraanaloga
alla camera da letto nella
fantasia del pornografo: il
luogo in cui, libero da ogni
freno fisico e morale, un
essere umano può esercitare
la sua immaginazione fino
all’estremo
nell’esercizio
dell’abiezionesulcorpodiun
altro.
Un altro motivo per cui il
romanziere subisce il fascino
dellastanzadellatorturaèche
lí si compie un’esperienza
umana estrema, accessibile
solo a chi vi partecipa. Nella
sua monografia su William
Faulkner, a proposito del
carattere dello scrittore, John
T. Irwin afferma: «È proprio
perché si trova fuori della
portascuraedesideraentrare
nellastanzabuiamanonpuò,
che è un romanziere: perché
deve immaginare quel che
accade oltre la porta. Anzi, è
proprio la tensione verso
quella stanza vietata a fare
della stessa la fonte della sua
immaginazione – il grembo
dell’arte». Per Irwin, sulla
scorta di Freud ma anche di
Henry James, il romanziere è
unuomoaccampatodavantia
una porta chiusa, di fronte a
undivietointollerabilechegli
facreare,inluogodellascena
che gli è vietato vedere, una
rappresentazione di quella
scena e una storia dei
personaggi coinvolti e di
come sono arrivati in quel
luogo. Dunque non avrei
dovuto chiedermi perché gli
scrittori in Sudafrica siano
attratti dalla stanza della
tortura. La stanza vietata,
buia, all’origine della fantasia
romanzesca.Neldareluogoa
un’oscenità, nell’avvolgerla di
mistero,involontariamentelo
Statocrealaprecondizioneda
cuiparteilromanzoperilsuo
lavorodirappresentazione.
C’ètuttaviaunelementodi
cattivo gusto nel seguire lo
Statoinquestomodo,nelfare
deisuoivilimisterioccasione
difantasia.Ilgrossoproblema
perloscrittorenonèlasciarsi
intrappolare dal dilemma
proposto dallo Stato e cioè
ignorarne le oscenità o
produrne
una
rappresentazione. La vera
sfidaècomestarcisenzastare
alle regole dello Stato, come
stabilire la propria autorità,
comeimmaginarelatorturae
la morte alle proprie
condizioni.
C’è un altro dilemma che
lo scrittore si trova davanti,
non meno sottile, che
riguarda
la
persona
dell’aguzzino. I processi di
Norimbergaepiútardiquello
di Adolf Eichmann a
Gerusalemmecihannomesso
di fronte a un paradosso
morale: la straordinaria
sproporzionetralastaturada
pigmei degli uomini sotto
processo e l’enormità dei
crimini da loro commessi.
Tracce dello stesso paradosso
sono venute alla luce in
Sudafrica nel corso delle due
inchieste – relative a Steve
BikoeaNeilAggett–incuii
membri della polizia segreta
sonoemersibrevementedalla
lorooscuritàsottogliocchidi
tutti.
Comesipuòrappresentare
l’aguzzino? Se si vogliono
evitareiclichédelromanzodi
spionaggio, se non si vuole
faredeltorturatoreunafigura
satanica del male, né un
attore da commedia nera, né
un anonimo funzionario, né
unuomotragicamentediviso
che fa un lavoro in cui non
crede, cosa resta allo
scrittore?
Le rappresentazioni della
stanza della tortura sono
piene di trappole e molti
scrittori vi sono caduti. Per
esempio,nelromanzoSoweto
sulla rivolta del 1976, Sipho
Sepamla scrive, cedendo
chiaramentealfascinoerotico
della scena: «la già logora
sottoveste di Bongi venne
strappata
completamente,
esponendo alla bestialità dei
due poliziotti l’opulenza del
senoconicapezzoliappuntiti
[…] Con gelida calma, il
poliziotto tolse le pinzette da
un capezzolo per stringerle
all’altro.Bongilanciòunaltro
urlo. Le lacrime le colavano
sulla pelle bruna e morbida».
Inoltre i suoi due torturatori
sono troppo satanici –
diabolici, dice – e troppo
facilmente
umani:
«Il
poliziotto piú giovane stava
male[…]eglileavevarivelato
le correnti sotterranee che
stavano nascoste nel suo
carattere […] aveva una
doppiapersonalità,eillavoro
che faceva era tale da
costringerlo ad assumere una
personalità scissa per poter
sopravvivere» 2.
Un libro ben piú forte
suglistessieventistoricièTo
EveryBirthitsBlood(Perogni
nascita il suo sangue) di
Mongane Serote. Serote non
siponelafalsadomandaseil
torturatore sia uomo o
demone.
Si
limita
all’esperienza fisica della
tortura e, cosa ben piú
importante,accettalasfidadi
trovare le parole adatte alla
rappresentazione dello spazio
terribile della stanza della
tortura:
Gli odori del deodorante e
della carta, del tabacco e dei
vecchi mobili si combinavano
in un unico odore tipico di
tutti quei posti le cui funzioni
sono proclamate da annunci,
dove le pareti sono oppresse
da avvisi, banconi e schedari,
dove il sudore, le lacrime, il
vomito e il sangue delle
moltissime persone che sono
entrate e uscite o che non ce
l’hannofattaauscirnelasciano
illorospiritonell’ariachenon
potràmaiesserepulita 3.
C’èuncertooscurolirismo
inquestascrittura,unlirismo
ancora piú evidente in Inthe
FogoftheSeasons’End(Nella
nebbia di fine stagione) di
Alex La Guma, un altro
romanzo che parla di
resistenza e di tortura. Dai
tempi di Flaubert il romanzo
realistico è stato criticato per
il fatto di interessarsi a tutto
ciò che è vile, meschino,
brutto. Se è nello squallore
che il romanziere trova
l’occasione per la piú elevata
eloquenza poetica, non lo si
potrebbeaccusarediricercare
la sua squallida materia solo
per motivi perversamente
letterari? Dall’inizio della sua
carriera La Guma, uno
scrittore trascurato morto in
esilioaCubanel1985,corseil
rischio di immortalare una
Città del Capo di baracche
fatiscentiedipioggiabattente
in una prosa di un certo
lugubre splendore. Per
quanto insista sulla sua
banalitàelasuamancanzadi
profondità, c’è una tendenza
all’enfasi
lirica
nella
rappresentazione del mondo
della polizia politica. È come
se nell’evitare la trappola di
attribuire alla polizia una
grandiosità del male, La
Guma trovasse necessario
trasferirla, in tutta la sua
magnitudine ma al negativo,
sugli ambienti, attribuendo
suggestioni di profondità
metafisica alla piattezza di
quelmondo:«Dietrolelustre
finestre, le inferriate e la
vernice del governo, c’era
un’altradimensionediterrore
[…] Dietro il quadro di
normalità si nascondevano le
ragnateleeilsudiciumediun
ragno» 4.
La presentazione del
mondo dell’inquisitore con
una falsa pomposità e un
discutibileoscurolirismonon
è un difetto tipico dei
romanzierisudafricani:sipuò
rivolgere la stessa critica alle
scene di tortura nel film di
GilloPontecorvoLabattaglia
diAlgeri.
Non voglio sostenere che
si debba ignorare o
minimizzare il mondo del
torturatore. Non vorrei mai
rinunciareaunlibrocomeLe
veritiere confessioni di un
africano albino di Breyten
Breytenbach, con le sue
analisi acute, basate su
esperienze reali, della sfera
spirituale dei poliziotti, esseri
umani per i quali è possibile
al mattino, dopo aver fatto
colazione, dare un bacio ai
figli e recarsi in ufficio a
commettere oscenità. Ma
quello di Breytenbach è un
libro di memorie e dunque
non importa se a volte
l’autore
sembra
volere
censurare il desiderio di
andare dietro la polizia di
Stato(oltrepassarelemura,le
lenti scure, scoprire i loro
segreti piú intimi), mentre
altre volte libera la sua
immaginazione poetica per
andare sempre piú in
profondità nel labirinto del
sistema di sicurezza, «fino al
sanctasanctorum[…]làdove
è eretto l’altare dello Stato [il
patibolo]. Nel cuore finale
della solitudine» 5. Poiché si
tratta di un rapporto
provvisorio, una biografia
parziale di una fase della vita
diBreytenbach,leConfessioni
non devono risolvere il
problema che angustia il
romanziere:comegiustificare
l’interesse
per
persone
moralmente
dubbie
impegnate in un’attività
deprecabile;
come
ridimensionare
opportunamente i segreti
meschini del sistema di
sicurezza; come trattare di
qualcosa che, proprio perché
utilizzato come la testa di
Gorgone per terrorizzare il
popolo e paralizzare la
resistenza, dovrebbe essere
ignorato.
L’opera
di
Nadine
Gordimer per quanto mai
priva di una dimensione
politica non contiene un
trattamento esplicito del
mondo segreto della polizia
politica.Mac’èunepisodioin
La figlia di Burger che, in
manieraindiretta,affrontagli
stessiproblemimoralicheho
cercato di individuare. Mi
riferisco all’episodio della
fustigazionecherichiamaalla
mente la famosa scena della
fustigazione del cavallo in
Delitto
e
castigo
di
Dostoevskij.
Rosa Burger si aggira in
macchina nelle vicinanze dei
ghetti neri di Johannesburg,
ha perso la strada, quando si
imbatteinunafamigliaditre
persone su un carretto tirato
da un asino, proprio mentre
l’uomo in una furia da
ubriaco prende a frustate
l’asino. Nell’eternità di un
attimoRosaosserva:
la sofferenza inflitta, staccata
dalla volontà che la produce;
totalmente staccata, una forza
autonoma,unostuprosenzalo
stupratore,unatorturasenzail
torturatore, una furia, una
crudeltà pura spinta oltre le
possibilità di controllo degli
esseri umani che avevano
dedicato migliaia di anni a
concepirla. Tutta quella
ingegnosità, dal serrapollici e
dalla ruota all’elettrochoc, la
varietàelagradazioneinfinita
della sofferenza creata dalla
frusta, dal terrore, dalla fame,
dall’isolamento – i campi di
concentramento, di lavoro,
delle rimozioni coatte, Siberie
di neve e sole, le vite di
Mandela, Sisulu, Mbeki,
Kathrada,Kgosanabeccatedai
gabbianisull’isola… 6.
Come può reagire Rosa
Burger? Potrebbe fermare la
frusta dell’uomo, anzi farlo
arrestare e condannare
facendo leva sulla sua
autorità. Ma quest’uomo
«nero, povero e brutalizzato»
riuscirà a vivere in maniera
diversa, priva di brutalità,
senzainfliggereadaltriquello
cheglièstatoinflitto?Oppure
potrebbeproseguireperlasua
stradalasciandochelatortura
continui. Ma poi dovrà
convivere con il sospetto di
averlo fatto solo per non
esseregiudicatacome«unodi
quei
bianchi
che
si
preoccupano
piú
degli
animali che delle persone».
Cosí procede e pochi giorni
dopo lascia il Sudafrica
perchénonriescepiúavivere
in un paese che nella vita di
ognigiornoponeproblemidi
questo tipo, impossibili da
risolvere.
Non bisogna leggere
l’episodio
in
maniera
rigidamente simbolica. Il
carrettiere e l’asino non
coincidono con l’aguzzino e
lasuavittima.«Torturasenza
torturatore» è la frase chiave.
NellamemoriadiRosaicolpi
di frusta continueranno per
sempre ad abbattersi e la
bestia a sussultare dal dolore.
Quella scena viene dai gironi
piú profondi dell’inferno
dantesco, oltre l’ambito della
morale. Perché la morale
appartieneall’uomomentrele
due figure legate al carretto
appartengono a un mondo
dannato,
disumanizzato,
servono a definire il posto di
Rosa nella sfera dell’umanità.
Quellodacuisiallontana,nel
fuggire dal Sudafrica, è
l’illuminazione negativa che
le due figure portano con sé:
che esiste, a solo mezz’ora di
distanza, un mondo parallelo
al suo, un mondo di forza
bruta e sofferenza muta,
degradato,aldisottodelbene
edelmale.
Comesifaadandareoltre
questo
momento
buio
dell’animo? È questa la
domanda che Gordimer si
pone nella seconda metà del
romanzoquandoRosaBurger
ritornaallaterraincuiènata
per prendere parte alla
sofferenza del suo paese e
aspettare il giorno della
liberazione.Nonc’ètracciadi
falso ottimismo, né da parte
sua né di Gordimer. La
rivoluzione non porrà fine
allacrudeltànéallasofferenza
e forse neppure alla tortura.
Quello per cui Rosa soffre e
che sta aspettando è il tempo
in cui l’umanità tornerà ad
appartenereallasocietà,incui
ogniazioneumana,inclusala
fustigazione di un animale,
potràrientrarenell’ambitodel
giudizio morale. Soltanto
alloraavràdinuovounsenso
per lo scrittore rivolgere lo
sguardo,
lo
sguardo
autorevole del giudizio
morale,sullesceneditortura.
Quando la scelta non sarà
piúlimitataaquellatrasubire
ilfascinoorrificodeicolpiche
si abbattono o girarsi
dall’altra parte, allora il
romanzo potrà riappropriarsi
dituttal’esperienzaumana,e
perfinolastanzadellatortura
potràtrovarviposto.
[1986].
Discorsodiaccettazionedel
JerusalemPrize
Questo premio presenta
unparadossochemimettein
difficoltà: come è possibile
cheunapersonacomemeche
nonsoloènatamaviveinun
paese cosí drammaticamente
privodilibertàvengaonorata
conunpremioperlalibertà?
Inunasocietàdipadronie
schiavi nessuno è libero. Lo
schiavo non è libero perché
non è padrone di se stesso; il
padrone non è libero perché
non può fare a meno dello
schiavo. Per secoli quella
sudafricanaèstataunasocietà
di padroni e di servi; ora è
unaterraincuiiservisonoin
aperta ribellione e i padroni
sonoinsubbuglio.
I padroni in Sudafrica
costituiscono una casta
ereditaria chiusa di cui fa
parte chiunque nasca con la
pelle bianca. Poiché non c’è
modo di sfuggire alla pelle
con cui si nasce (può forse il
leopardo cambiare le sue
chiazze?) non è possibile
dimettersi dalla casta. Si può
immaginare di farlo, di
operare una dimissione
simbolica, ma al di là dello
scrollarsi dai piedi la polvere
del paese, non c’è modo di
farloveramente.
Come vivono oggi i
padroni del Sudafrica la loro
mancanza di libertà? Non
intendo dilungarmi a parlare
di sonni inquieti, di fantasie
di disastro, né di incubi sul
ritorno del rimosso. Non lo
farò perché a questo punto
della storia, e in particolar
modo in Israele, con l’ombra
dell’Olocaustoallespalle,tutti
sannodellabanalitàdelmale,
di quel male che non ha
coscienza,
non
ha
immaginazione,
e
probabilmente non ha sogni,
che mangia bene e dorme
tranquilloedèinpaceconse
stesso.
Voglio dire qualcosa
invece, di molto breve, sulla
mancanza di libertà della
casta dei padroni cosí come
vienevissutanellavitasociale,
dasvegli.
Agli inizi degli anni
Cinquanta,gliannifolliincui
siandavaedificandolagrande
costruzione dell’apartheid, fu
approvata una legge che
definiva reato i rapporti
sessuali tra padroni e schiavi.
Fu l’esempio piú lampante
dellaseriedileggipromulgate
per controllare tutte le fasi
dellavitasociale,alloscopodi
impedire ogni forma di
rapportoparitariotrabianchi
e neri. L’unico rapporto
permesso era dunque quello
gerarchico,checonsistevanel
dareericevereordini.
Qual era il significato di
questa legge profondamente
simbolica?Ritengochelesue
origini vadano rintracciate
nellapauraenellanegazione:
negazione del desiderio
inconfessabile di abbracciare
l’Africa, abbracciare il corpo
dell’Africa, e la paura di
essereabbracciatidall’Africa.
Il decreto che vietava
l’amore tra le razze è stato
recentemente abrogato con
unaltrogestoprofondamente
simbolico, quasi a segnalare
che il giorno del giudizio
profetizzato quarant’anni fa
da Alan Paton è alle porte.
«Ho un grande timore nel
cuore, – dice un personaggio
nerodiPaton,–cheilgiorno
in cui loro cominceranno ad
amare,
noi
avremo
cominciatoaodiare».
Alcuoredellamancanzadi
libertà dei padroni ereditari
del Sudafrica c’è l’incapacità
d’amare. Per dirlo piú
chiaramente:
non
c’è
abbastanza amore oggi e non
cen’èmaistatoabbastanzada
quando sono arrivati sul
continente. Inoltre, tutto il
loro parlare, l’esubero di
parole su quanto amano il
Sudafrica è stato sempre
direttoallaterra,ecioèverso
quello che meno di tutti è
probabile che corrisponda
l’amore: montagne, deserti,
uccelli,animali,fiori.
Se non si riesce a cogliere
la rilevanza di questo parlare
d’amore, basta sostituire la
parolaamore con fratellanza.
La dissimulata mancanza di
libertà dell’uomo bianco in
Sudafrica si è sempre fatta
sentire piú acutamente
quando, scendendo per un
attimodalsuotronosolitario,
cedendo a un desiderio di
fratellanza del tutto umano e
comprensibile nei confronti
delle persone tra cui vive, ha
fattolascopertasconvolgente
che la fratellanza non può
sussistere da sola, per quanto
forte possa essere l’impulso
da tutte e due le parti. La
fratellanza va inevitabilmente
insieme alla libertà e
all’uguaglianza. Il vano, e
sostanzialmentesentimentale,
desiderio che si esprime oggi
nel movimento riformista in
Sudafrica è quello di avere la
fratellanzaacostozero.
Qualèilprezzodapagare?
Il prezzo piú basso è la
distruzione delle innaturali
strutture di potere che
definiscono lo Stato africano.
In merito si potrebbero dire
moltecose,maiomilimiterò
a un’unica osservazione. La
deformazione e il blocco dei
rapporti tra gli esseri umani
determinati dal colonialismo
ed esacerbati dal sistema
genericamente
chiamato
apartheid corrispondono sul
piano psichico a una vita
interiore deforme e bloccata.
Ogni espressione di questa
vita interiore, per quanto
intensa, per quanto esultante
odisperata,soffredellastessa
paralisi e deformità. Faccio
questa
osservazione
intenzionalmente e nella
piena consapevolezza che si
applica a me e alla mia
scrittura come a chiunque
altro.
La
letteratura
sudafricana è una letteratura
in catene, come si manifesta
persinoneisuoimomentipiú
alti, attraversati come sono
dallasensazionedimancanza
di patria e dal desiderio di
una liberazione senza nome.
È una letteratura meno che
umana, preoccupata in
manieraabnormedalpoteree
dalle sue manovre, incapace
di spostarsi dalle semplici
relazioni di contestazione,
dominio e assoggettamento a
quel vasto e complesso
mondo umano che esiste
fuori di essa. È il genere di
letteratura che ci si aspetta si
possa scrivere in prigione. E
nonmiriferiscosoloalgulag
sudafricano. Come c’è da
aspettarsi in un paese dal
territorio cosí vasto, esiste
una letteratura sudafricana
della vastità. Ma persino
questa, esaminata da vicino,
rifletteilsensodellaprigionia,
prigioniadellospazioinfinito.
Due anni fa Milan
Kunderaharesoomaggio,da
questo stesso podio a
Gerusalemme, al primo
romanziere,
Miguel
Cervantes, sulle cui spalle di
gigante
poggiamo
noi
scrittori pigmei venuti dopo.
Quanto
mi
piacerebbe
potermi
unire
a
quell’omaggio, insieme a
molti
altri
scrittori
sudafricani!
Quanto
desideriamo abbandonare un
mondodilegamipatologicie
forze astratte, di rabbia e
violenza, e prendere dimora
in un mondo dove sia
possibile
uno
scambio
fecondo di sentimenti e di
idee, un mondo dove
avremmoveramentequalcosa
dafare.
Ma come si può entrare
nel mondo reale dal nostro
mondo di violenti fantasmi?
Un problema che Don
Chisciotte risolve abbastanza
facilmente.Silasciaallespalle
lacalda,polverosa,monotona
La Mancha per entrare nel
regno delle fate con un
sempliceattodivolontà.Cosa
impedisce allo scrittore
sudafricanodiavventurarsisu
una strada simile, di tirarsi
fuori con la sua scrittura da
una situazione in cui la sua
arte, per quanto bene
intenzionata, è – bisogna
dirlointuttaonestà–troppo
lenta, troppo antiquata,
troppo indiretta per avere un
sia pur minimo e tardivo
impatto sulla vita della
comunità o il corso della
storia?
A impedirglielo è quello
che blocca anche Don
Chisciotte: il potere che ha il
mondo in cui vive il suo
corpo di imporsi su di lui e
sulla sua immaginazione che,
gli piaccia o no, risiede nel
suo corpo. L’asprezza della
vita in Sudafrica, la forza
nudadellesueattrattive,siaa
livello fisico che morale, la
suadurezzaelesuebrutalità,
lasuafameelasuacollera,la
suaaviditàelesuemenzogne,
la rendono irresistibile e al
tempo stesso impossibile da
amare. La storia di Alonso
QuixanoaliasDonChisciotte
– sebbene non il sottile ed
enigmaticolibrodiCervantes,
aggiungo io – finisce con la
resa dell’immaginazione alla
realtà, con il ritorno a La
Manchaelamorte.Nietzsche
ha affermato che l’arte esiste
pernonfarcimorirediverità.
In Sudafrica oggi c’è troppa
verità perché l’arte possa
contenerla; fiumi di verità,
tanta verità da inondare e
travolgere
ogni
atto
dell’immaginazione.
[1987].
L’indolenzainSudafrica
I.
Gli indigeni hanno tutto in
comuneconilbestiamebeota,
il che ne ostacola la natura
umana[...]Sonobloccatinella
parola e goglottano come
tacchini o come la gente della
Germania alpina cui è venuto
il gozzo a causa della dura
acqua di neve che bevono [...]
il loro cibo consiste di erbe,
bestiame, animali selvatici e
pesce. Le bestie vengono
mangiate insieme ai loro
organi interni. Gli intestini
vengono un po’ scrollati, ma
non lavati e non appena
macellati o trovati gli animali
vengono mangiati cosí, crudi,
con la pelle e tutto [...] Un
certo numero di loro dorme
insieme nel veld, senza far
differenza tra uomini e donne
[...] Tutti emanano una puzza
feroce, come si può notare a
una distanza di tre metri e
mezzo contro vento, e hanno
anchel’ariadinonessersimai
lavati.
Le osservazioni di cui
sopra sugli ottentotti del
Capo di Buona Speranza
furono redatte nel 1652 –
anno dello stanziamento
europeodelCapo–dallacasa
editrice di Amsterdam di
Jodocus Hondius, a partire
dai resoconti dei viaggiatori.
Grazie alla quantità di note a
pie’ di pagina, di mappe, di
incisioni di ottentotti in pose
esemplari, il libretto di
Hondius
sembra
voler
sottolineareilfattochenonsi
tratta di un’opera di fantasia:
tutto quello che registra è
stato visto davvero. Eppure,
proprio sul piano della
veridicità, il quadro che offre
degli
ottentotti
appare
parziale.Ifatticheciriferisce
su di loro sono di per sé
notevoli,sceltidagliautoridei
rapporti tra la massa di
impressioni ricevute al Capo
proprio in quanto tali e poi
per lo stesso motivo
selezionati da Hondius,
perché sembrano capaci di
colpire allo stesso modo
l’uomodellastrada.
Nelle prime testimonianze
si trova un repertorio di fatti
notevoli, ripetuti piú volte,
riguardanti gli ottentotti: le
loro implosive (goglottano
come tacchini), l’uso di
mangiare interiora non
lavate, l’uso di strofinarsi il
corpo col grasso animale,
quello di avvolgersi budelli
secchi attorno al collo, le
peculiarità delle pudenda
delle loro donne, la loro
incapacitàaconcepireDio,la
loro incorreggibile indolenza.
Anchesemoltidiquestipunti
sono semplicemente copiati
da un libro all’altro,
dobbiamo credere che in
alcuni casi siano stati
riscoperti o confermati di
prima mano. Costituiscono
alcune delle differenze piú
ovvie tra l’ottentotto e
l’europeo occidentale o
almeno l’europeo occidentale
cosí come si immaginava di
essere.
Eppure mentre ci sono
certamente delle differenze,
quei punti sono percepiti e
concepiti all’interno di un
contesto di identità, un
contesto che deriva dalla tesi
generalmente
accettata
enunciatanelsuccitatobrano
di apertura di Hondius:
ovvero che anche se gli
ottentotti possono sembrare
solo bestie sono di fatto
uomini. La società ottentotta
essendo una società umana
deve essere riconducibile a
una descrizione interna a un
contesto comune a tutte le
società umane. Categorie e
sottocategorieditalecontesto
costituiranno le identità
esteseatuttelesocietà.Quelle
sarannogliuniversali,mentre
le osservazioni particolari
inserite nelle varie categorie
costituiranno le differenze
che caratterizzano le singole
società.
Sebbene il contesto delle
categorie all’interno delle
quali gli scrittori di viaggio
operano non venga mai
esplicitato, non è difficile
estrarlo dai loro testi. La lista
èpiúomenocomesegue:
1.Aspettofisico
2. Abbigliamento: a)
vestiario,
b)
ornamenti,
c)
cosmetici
3.Alimentazione:a)cibo,
b)cucina
4.Medicina
5. Arti: a) artigianato, b)
utensili
6.Tecniche
7.Armi
8.Difesaeguerra
9.Svago
10.Costumi
11. Abitazione: a) case, b)
piantadelvillaggio
12. Religione (comprese
superstizioni,
stregonerieemagia)
13.Leggi
14.Economia
15.Governo
16.Rapporticonl’estero
17.Commercio
18.Lingua
19.Carattere
Anche se il numero delle
categorie usate può non
esseresemprelostesso,dietro
ciascuno dei discorsi detti
«Resocontosugliottentotti»o
«Descrizione degli ottentotti»
esiste una griglia del genere.
Al livello piú immediato la
griglia fa da supporto
compositivo
per
la
distribuzione dei dati. Ma a
unaltrolivellolagrigliafunge
da schema concettuale e in
quantotaleesponealpericolo
che le informazioni possano
esseredeformateperinserirle
nell’una o nell’altra categoria
mentre
invece
sono
trasversali rispetto alle stesse
ochequantonontrovaposto
nelloschemapreconcettonon
sia nemmeno visto. Cosí, per
fare un esempio ipotetico, le
osservazioni
relative
a
profezieeatranceindotteda
droghe
ricadranno
probabilmente
sotto
Medicina o Religione o forse
Leggi o Governo ma
decisamentenonsottotuttee
quattro le categorie suddette.
Le osservazioni sui rituali di
macellazione del bestiame
ricadranno
sotto
Alimentazione
o
Abbigliamento o Religione o
(forse) Economia ma non
sottotutteequattro.Oppure,
perportareunesempioreale,
troviamo O. F. Mentzel che
riflette se l’uso della
cosiddetta
Pisplechtigheid
(minzione cerimoniale) degli
ottentotti sia una forma di
svago o una cerimonia
religiosa o, adducendolo a
riprova
della
povertà
espressiva degli ottentotti, il
fatto che usino un solo
termine (tradotto come
andersmaken)percelebrareil
matrimonio di una coppia,
l’iniziazionediungiovane,la
cura di una malattia e
l’esorcismo 1.
Ovviamente
sarebbe
eccessivo aspettarsi che
marinai, medici di bordo e
ufficiali della Compagnia che
contribuiscono a quello che
da qui in poi chiamerò
genericamenteilDiscorsodel
Capomettanodaparteiloro
schemi
concettuali
eurocentriciereditatiafavore
di uno schema basato su
categorie
concettuali
indigene. Un approccio,
questo,
del
tutto
anacronistico.Masipotrebbe
aggiungere che ridurre e
raggruppare categorie come
per esempio Alimentazione,
Medicina
e
Religione
minaccerebbelariduzionedel
discorso sistematico per
ritornare a quello con cui
aveva
cominciato
il
viaggiatore ovverosia una
seriedidettaglieosservazioni
scelte tra dati sensoriali solo
in base al fatto che sono
impressionanti, notevoli, col
risultato di ottenere solo una
narrazione anziché una
descrizionecompleta.
Il peggior difetto della
narrativa
antropologica
rispetto alla descrizione
antropologica è che, nel fare
affidamento sulla sequenza
cronologica,trascural’aspetto
atemporale,
spaziale
e
onnicomprensivo
della
descrizionecategorica.Alcuni
scrittori di viaggio hanno
cercato di avere il meglio di
entrambi i mondi –
immediatezza
della
narrazione e sinossi della
descrizione – presentando la
seconda sotto le vesti della
prima. Qui per esempio è
Christopher Fryke che scrive
diunavisitaalCaponel1685:
La curiosità mi indusse ad
entrare in una delle [loro
capanne] e vedere che tipo di
vita conduceva quella gente.
Quando ci entrai ne vidi tanti
che giacevano al suolo
ammucchiati come altrettanti
maiali,
profondamente
addormentati. Ma appena si
accorserodime,saltaronosue
mi vennero intorno facendo
versi come quelli dei tacchini.
Io ero non poco preoccupato
anchesepoi,vedendochenon
sembravano volermi fare del
male, tirai fuori un pezzo di
tabacco e glielo diedi. Ne
furono oltremodo rallegrati e
per mostrarmi la loro
gratitudine si tirarono su
quelle patte di pelle di pecora
chetenevanoappesesullezone
intime per farmele vedere. Io
mi affrettai a scappare per via
della puzza orribile e anche
perché avevo subito realizzato
che non c’era niente di cosí
speciale da vedere. E poi ne
sorpresi alcuni che stavano
mangiando, cosa che rendeva
la
puzza
ancora
piú
insopportabilepoichéavevano
solounpezzodipelledivacca
steso sulle braci ardenti e
avevano
spremuto
il
contenuto dalle interiora per
poi spalmarselo addosso uno
con l’altro. E poi una volta
arrostitatiraronofuorilapelle,
la batterono e la mangiarono.
La cosa mi fece rivoltare lo
stomaco tanto che mi affrettai
adandarmene 2.
La veridicità storica di
questa narrazione va messa
fortemente
in
dubbio
(qualche pagina dopo Fryke
s’imbatte in un serpente che
mangia un ottentotto), ma si
noti come il breve racconto
sia
costruito
mettendo
insiemealcuniluoghicomuni
antropologici dalle categorie
Aspetto fisico, Abiti, Dieta,
Svago, Costumi, Abitazione,
LinguaeCarattere:
1. Gli ottentotti dormono
di giorno (carattere
pigrodegliottentotti)in
unacapanna(abitazione
degli
ottentotti)
ammucchiati
uno
sull’altro
(costumi
sessuali degli ottentotti)
come maiali (posto
occupatodagliottentotti
nella
scala
della
creazione).
2. Producono un rumore
simileaitacchini(lingua
degliottentotti).
3. Accettano il tabacco
(svagodegliottentotti)e
sollevano le patte (abiti
degli ottentotti) per
esibire(costumisessuali
degli ottentotti) le loro
zone intime (peculiarità
anatomiche
degli
ottentotti).
4. Fryke è messo in fuga
dalla puzza (sporcizia
degli ottentotti) e
mentre scappa osserva
gli ottentotti che si
spalmanoavicendacon
gli
escrementi
(cosmetici
degli
ottentotti) e mangiano
leinterioraelapelledei
bovini (dieta
ottentotti).
degli
Unodeiluoghicomunidel
Discorso del Capo è che gli
ottentotti sono oziosi. Poiché
non si tratta di un costume
madiun’assenzadicostume,
non di attività ricreativa ma
di assenza della stessa,
l’indolenza in genere si
colloca nella categoria 19
comepartedelcaratteredegli
ottentotti.
Curiosamente
l’indolenza ottentotta viene
raramentecitataneicirca150
resoconti di viaggiatori
passati per il Capo prima del
1652eriassuntidaR.RavenHart 3. Tuttavia, man mano
chelaCompagniacominciaa
stanziarsi nel paese e le
descrizioni degli ottentotti si
fanno piú dettagliate, il tema
si fa piú frequente e
l’indolenza
viene
contemporaneamente
descrittaedenunciata.
Sono piú pigri delle
tartarughe che cacciano e
mangiano (Johan Nieuhof,
1654).
È gente pigra e sporca che
non vuole lavorare [...] sono
indolenti e amano stare senza
fare niente (Volquart Iversen,
1667).
La
loro
occupazione
principale non consiste in
altro che nello scavare e
mangiare [...] radici [...]
Quando sono sazi giacciono
senza preoccuparsi di niente
(GeorgeMeister,1667).
L’occupazione principale
degli uomini è bighellonare, a
menochenonlispronilafame
(JohannSchreyer,1697).
Se non hanno fame, non
lavorano (Christopher Fryke,
1681).
Sono
molto
pigri,
preferiscono non mangiare
piuttosto che lavorare (Fr. T.
deChoisy,1685).
Si garantiscono la comoda
indolenza, non coltivano la
terra, non seminano, non
mietono, non si preoccupano
di quello che mangeranno o
berranno [...] Chiunque li
voglia impiegare come schiavi
deve assicurarsi che abbiano
sempre fame (William Ten
Rhyne,1686).
Sono persone di carattere
assai pigro [...] Preferiscono
vivere [...] poveri e miserabili
piuttostochedarsidafareper
l’abbondanza
(William
Dampier,1691).
La
loro
naturale
inclinazione all’indolenza e a
una
vita
priva
di
preoccupazioni
renderà
difficileriscattarliconpremio
punizioni
dall’innata
inclinazione letargica (John
Ovington,1693).
Sono molto pigri, capaci di
soffrire la fame piuttosto che
applicarsi (François Leguat,
1698).
Sono senza dubbio nel
corpo e nella mente il popolo
piú pigro sotto il sole [...]
Tutta la loro felicità terrena
sembra
consistere
nell’indolenza e nell’inerzia
(PeterKolb,1719).
Gli uomini […] sono […]
gli esseri piú pigri che si
possanoimmaginare,poichéè
loroabitudinenonfareniente
o davvero molto poco [...] Se
c’è una qualunque cosa da
fare,lascianochesianoleloro
donne a farla (François
Valentijn,1726).
La tendenza al torpore e
all’inattività e stavo quasi per
dire all’apatia [...] è la
caratteristica principale delle
loromenti[...]dicertocausata
dalla loro dieta debilitante,
dall’estrema
inattività
e
dall’accidia(AndersSparrman,
1783).
Pigri,
indolenti,
sconsiderati (O. F. Mentzel,
1787).
Forse la nazione piú pigra
della terra [...] [Comunque] le
donne sono molto industriose
negli affari di famiglia (C. F.
Damberger,1801).
Malgrado le occasionali
voci di dissenso e malgrado i
giudizi di tanti scrittori si
basino su testimonianze di
seconda mano o su idées
reçues,nonsipuònonessere
colpiti dalla persistenza dei
giudizi severi che si prolunga
nel periodo dell’occupazione
inglese del Capo (vedi sotto).
Indolenza, accidia, pigrizia,
torpore–sonoterminicheal
tempo
stesso
vogliono
definire un vizio ottentotto e
permettere allo scrittore di
prendere le distanze dallo
stesso.Mainellagrandecassa
di risonanza del Discorso del
Capo si solleva una voce a
chiedersi
se
la
vita
dell’ottentotto non sia una
versionedellavitaprimadella
Cacciata dall’Eden (come
Bartolomeo
della
Casa
ipotizzava fosse quella degli
Indiani del Nuovo Mondo).
Unavitaincuil’uomononè
ancora
condannato
a
procurarsi il pane col sudore
della fronte, ma al contrario
può passare i suoi giorni
assopito al sole o all’ombra
quando il sole si fa troppo
cocente,avvertendoappenala
brezza sulla pelle e il canto
degli uccelli, scuotendosi per
mangiareseloprendelafame
e godersi il tabacco di una
pipa, sentendosi all’unisono
con
l’ambiente
e
sconsideratamente contento.
L’idea che l’ottentotto possa
essere Adamo non viene
presa in considerazione
nemmeno per essere subito
scartata (in base alla
considerazione
che
l’ottentottononconosceDio).
Di certo nessuno sogna di
chiedersisequellocheappare
come il dolce far niente
dell’ottentottononsiadifatto
la manifestazione esteriore di
unasuamodalitàprofondadi
vita contemplativa. Su un
piano piú pratico nessuno si
chiede perché mai un popolo
che si nutre da sempre di
carne, latte e veldkos
(foraggio) dopo il 1652
avrebbe dovuto decidere di
preferire le verdure e
cominciareacoltivarelaterra
o perché, dopo che in loro
sono stati risvegliati gli
appetiti artificiali per il pane
al forno, il tabacco e l’alcol,
dovrebbero voler vendere il
loro lavoro in misura
maggiore rispetto a quella
richiesta per l’immediata
soddisfazione di quegli
appetiti. Nessuno si perita di
sollevare–altrocheinmodo
retorico – l’interrogativo
etico: cosa è meglio, vivere
come la formica industriosa
cheammassalesueprovviste
in inverno o come la cicala
che canta al sole tutto dí
noncurante del domani?
Nessunoaccennaallabanalità
secondocuilavitadelpastore
erranteconisuoipoveriaveri
e le sue scarse esigenze ci
insegnerebbe a fuggire dalle
ansiedellaciviltà.
Non basta rispondere alla
domandasulperchémainon
venissero
sollevati
interrogativi di quel tipo
asserendo che non sarebbero
mai passati per la mente del
genere
di
persona
responsabile del Discorso del
Capo. Di certo tanti degli
scrittoridiviaggioeranosolo
funzionari della Compagnia,
capitani di fregata o militari;
ma tra di loro c’erano anche
insigni uomini di scienze
(Kolb, Sparrman) cosí come
studiosi (Ten Rhyne) e seri
osservatori
amatoriali
(Schreyer). Inoltre in Europa
il leggendario ottentotto col
tempo entrò a far parte del
discorso erudito, anche se
meno diffuso nelle ricerche
sulla condizione naturale
dell’uomo piuttosto che nel
dibattito
sulla
effettiva
esistenzadiun’unicacreatura
definita Uomo o di svariate
razze di uomini, alcune piú
vicine alla condizione delle
bestie di altre 4. Per capire
come mai lo stile di vita
ottentotto,
caratterizzato
dall’indolenza (e perciò
stigmatizzato) non fosse in
nessun modo considerato nel
Vecchio
Mondo
come
modello di vita edenico,
bisogna tenere presente
l’atteggiamento nei confronti
dell’ozio
dominante
in
Europa all’epoca in cui
l’Europa,inparticolarequella
protestante, colonizzava il
Capo.
Nella Chiesa medievale la
contemplazione era ritenuta
un’attività di tipo superiore
rispetto al lavoro. Lo status
privilegiato
della
vita
contemplativa
fu
poi
condannato
da
Lutero
insiemeallaconsiderazionedi
superiorità annessa alla vita
spirituale del clero. In
particolare in Germania, i
predicatori diedero sempre
maggiore importanza al
lavoro come editto divino
fondamentale cui tutti gli
uomini devono attenersi per
espiare il peccato originale.
Rimanereinozioequivalevaa
sfidare
quell’editto.
L’imprevidenza – l’affidarsi
alla provvidenza divina per
nonmoriredifame–erauna
colpa ancora piú grave, una
sfida
provocatoria
nei
confronti di Dio. I libri
devozionali del periodo
tuonano
contro
«la
maledizione dell’indolenza»;
la comunità di Herrnhut,
fondatanel1727edestinataa
faredamodellonellemissioni
dei Fratelli Moravi per gli
ottentotti
africani,
rappresentabenel’epocanella
richiesta registrata nei suoi
statuti che chiunque volesse
entrare nella comunità
dovevaguadagnarsiilpane.
Sempre nella cornice della
Riforma, fu rifiutata la
distinzione rinascimentale (e
sostanzialmente classica) tra
volgare indolenza e otium,
ovvero il tempo dedicato alla
cultura personale. Si riteneva
che l’umanità fosse cosí
debole che, in assenza di una
dura disciplina del lavoro,
sarebbe fatalmente ricaduta
nel peccato. Bucer arrivò
addirittura a proporre la
scomunica come estrema
punizione per gli oziosi. Nel
calvinismo in special modo,
sostieneMaxWeber,«perdere
tempo è, di tutti i peccati, il
primo e quello per principio
piúgrave.Laduratadellavita
umana è infinitamente breve
e preziosa per “fissare” la
propria vocazione. Perdere
tempo in società, i “discorsi
oziosi”, il lusso, persino
dormire piú di quanto sia
necessarioallasalute[...]sono
gravicolpemorali» 5.
Al tempo stesso veniva
lanciata una guerra contro il
parassitismo sociale. Perfino
fare l’elemosina veniva
ritenuto un peccato grave
poiché
incoraggiava
le
persone a sottrarsi all’editto
divino sul lavoro. Verso la
metà del diciassettesimo
secolo era cominciata quella
cheMichelFoucaultdefinisce
come la «grande reclusione»
culminante nella serie di
misure designate per mettere
fine al vagabondaggio e
all’accattonaggio come scelta
di vita. Iniziate con la
segregazione della categoria
dei mendicanti, continuò poi
con quella dei pazzi e dei
criminali.Duranteiperiodidi
crisi dell’occupazione le case
di detenzione divennero di
fatto
prigioni
per
i
disoccupatiedurantequellidi
crescitaeconomicadivennero
ostelliassociatiallefabbriche.
Dalpuntodivistaproduttivo
si rivelarono fallimentari ma
questononimportava:illoro
scopo non era quello di
produrre un profitto ma di
proclamare il valore etico del
lavoro. In questa primissima
fase di industrializzazione,
nonché
di
pensiero
economico
primitivo,
sostiene Foucault, il lavoro e
la povertà erano ritenuti
semplici poli oppositivi: si
pensavacheillavorofossein
grado di vincere e abolire la
povertà: «non tanto a causa
della sua potenza produttiva
quantoperunacertaforzadi
incantomorale» 6.
Anche se condotta con
maggiore ferocia nei paesi
protestanti la guerra contro i
mendicanti in Europa si
svolsesianelmondocattolico
sia in quello protestante e
continuò fintanto che il
vagabondaggio rappresentò
un
problema
sociale
significativo, ovvero fino al
diciannovesimo
secolo
inoltrato. L’anatema lanciato
contro l’indolenza che era
parte di tale guerra non
vacillò
neppure
con
l’Illuminismo, che si limitò a
sostituirelavecchiacondanna
dell’indolenza
come
disubbidienza a Dio con
l’esaltazione del lavoro come
dovere
dell’uomo
nei
confronti di se stesso e dei
suoi simili. Attraverso il
lavoro l’uomo si imbarca in
un viaggio di esplorazione la
cui meta ultima è la scoperta
dell’uomo;attraversoillavoro
l’uomo diventa signore
dell’universo;
da
una
comunità che lavora nasce la
società. Karl Marx è
pienamente figlio dei Lumi
quandoaffermache:«tuttala
cosiddetta storia del mondo
nonèaltrochelagenerazione
dell’uomo mediante il lavoro
umano» 7.
Entrambigliatteggiamenti
dicuisopra–l’indolenzaèun
peccato e l’indolenza è il
tradimento della propria
umanità – si possono
osservare nel Discorso del
Capo. Nei primi cento anni
circa dallo stanziamento
l’indolenza degli ottentotti
viene denunciata allo stesso
modo in cui in Europa viene
denunciata
quella
dei
mendicanti o dei fannulloni.
Si potrebbe dire che la
retorica
utilizzata
per
giustificarelalottadiclassein
Europa viene trasferita tal
qualeeinmodosconsiderato
nella colonia per condannare
ilrifiutodegliindigeniafarsi
trascinare
nell’economia
come manodopera. Ma si
tratta di un’asserzione da
chiarire meglio. Perché la
prima ondata di denuncia
dell’indolenza ottentotta non
viene tanto dal discorso della
classe dominante del Capo,
comecisisarebbeaspettatise
il problema di trovare
manodopera fosse stato di
primaria importanza, quanto
dal discorso rozzamente
etnografico della prima
letteratura
di
viaggio 8.
Inoltre, a voler essere
aridamente logici, l’accidia
era proprio quello che il
colono appena arrivato si
potevaaspettaredaunpopolo
pagano cui non era giunta la
parola di Dio e che non
sapeva niente del divieto
divinosull’indolenza.Difatto
dissimulare un attacco a
quella che possiamo definire
la resistenza passiva degli
ottentotti al lavoro salariato
come critica dell’indolenza
appartiene a uno stadio
successivo della storia del
Capo.
L’accento
posto
sull’indolenza ottentotta in
letteratura,
anche
se
comprensibile
negli
osservatori
del
diciassettesimo secolo di
formazione protestante, è la
reazione a frustrazioni piú
immediate. Quello che
significava per i primi
etnografi
diviene
immediatamente chiaro se ci
chiediamo che cos’è che
l’ottentotto non fa quando
viene denunciato per la sua
indolenza.
Si tratta di una denuncia
che spesso si accompagna a
una serie di altre definizioni
che culminano proprio con
quell’accusa: che sono brutti,
che non si lavano, anzi al
contrariosispalmanoilcorpo
di grassi animali, che
mangiano cibo sporco, carne
cotta a malapena, che si
vestono di pelli animali e
vivono nelle piú misere
capanne, che maschi e
femmine si accoppiano in
modoindiscriminatoechela
lorolinguanonècomequella
degli esseri umani. Ad
accomunarequesteaccusec’è
il fatto che indicano
l’ottentotto
come
sottosviluppato, e non solo
secondo gli standard europei
masecondoquellidell’Uomo.
Se
sviluppasse
tabú
alimentari, uso di abluzioni,
costumi sessuali, arti, e una
piú varia decorazione del
corpo anziché spalmarselo in
modo
uniforme,
un’architettura
e
una
tecnologia domestica, una
lingua articolata come quella
umana anziché versi animali,
diventerebbe, se non proprio
un olandese, almeno piú
pienamente uomo. E il fatto
che come ognun vede non si
dedichi a sviluppare le
proprie qualità nei modi
suddetti ma invece giaccia
nullafacente sotto il sole
dimostra che a causarne il
ritardoèpropriol’accidia.
E quale tipo di creatura è
questoUomochel’ottentotto
nel suo stato presente «da
annoverare piú tra le bestie
mute che nella compagnia
degli uomini dotati di
ragione» 9 per indolenza si
rifiuta di diventare? È un
uomo con un aspetto fisico
sviluppato,
abiti,
alimentazione, medicina, arti
ecc. – in altre parole quello
che potremmo chiamare
l’Uomo
antropologico.
L’ottentotto è un uomo ma
nonancoraantropologicoea
mantenerlo nel suo stato di
arretratezza è l’indolenza.
Dunquelasuaindolenzahail
carattere di uno scandalo
antropologico, malgrado non
sia possibile immaginare
nientedipiúremotoedipiú
diverso dall’uomo europeo
dell’ottentotto. A un esame
ravvicinato l’ottentotto si
rivela portatore di una ben
misera serie di differenze da
iscrivere nella tavola delle
categorie. Invece di generare
dati per le categorie, si limita
a esistere pigramente. Invece
di avere una religione ha
praticamenteunvuoto.Isuoi
costumi sono casuali. Il suo
governo è rudimentale.
Anche se ben piú diverso
dall’europeo del turco o del
cinese,
l’ottentotto,
paradossalmente,faregistrare
minoridifferenze.
La forza della giusta
condanna che il Discorso del
Capo lancia sull’ottentotto
viene dal peso accumulato in
Europa in duecento anni di
denuncia dell’indolenza, dal
pulpito e dal tribunale
giudiziario. Ma alla sua
indolenza
reagisce
con
particolare animosità lo
scrittore di viaggio, il
protoantropologo,
cui
l’ottentotto aveva promesso
tanto dal punto di vista delle
differenze per poi offrire un
cosí magro raccolto. È
importante notare che una
volta che ci spostiamo dal
discorso delle categorie
antropologiche – il cui
schema richiede allo scrittore
di riempire diciotto o
diciannove campi con le liste
delle differenze notevoli – al
discorso della storia che nel
casopiúsemplicerichiedeche
lo scrittore registri ogni
giornolacronacadeglieventi
quotidiani degni di nota,
l’indolenza degli ottentotti
passa in secondo piano. E in
effetti nella storia gli
ottentotti sembrano fin
troppo
occupati
a
complottare tra loro, a
trafugare
bestiame,
a
mendicareeaspiare.
Sono ben lungi dal voler
negare che, nella misura in
cui la parola indolenza
possiede
un
qualche
significato oggettivo, gli
ottentotti fossero indolenti, o
dall’asserire che la condanna
dell’indolenza degli ottentotti
non avesse niente a che fare
con il desiderio dei coloni di
arruolarli come manodopera.
Quello che vorrei qui
sottolineareperòèchelaloro
quasi universale denuncia tra
gli scrittori di viaggio
rappresentalareazioneauna
sfida, a uno scandalo che li
colpisce in particolare in
quanto scrittori, ovvero che
l’indolenza degli ottentotti
interrompe uno dei discorsi
piú promettenti sull’uomo
primitivo.
E
questa
generazionediscrittorinonè
nemmeno l’ultima a reagire
con la frustrazione alla
reticenza delle colonie che
stentano a generare materiali
chepossanodarecorpoalsuo
discorso. L’etnografo Gustav
Fritsch, viaggiando per il
Sudafrica nel 1860, osserva
che non sarebbe possibile
usare la vita dei boeri come
materiale narrativo perché
nella vita boera non succede
mai niente; e piú o meno
nellostessoperiodoNathaniel
Hawthorne
lamenta
la
«banale prosperità» senza
sorpreseerovesci,la«chiarae
semplice luce del sole»
d’America che rendono
impossibile un romanzo
americano 10. In tutti e due i
casi il materiale coloniale
viene condannato come
troppo insignificante per la
formaeuropea;intuttieduei
casi la domanda è se i nuovi
materiali non richiedano un
ripensamento delle vecchie
forme, dei vecchi schemi
concettuali. Il momento in
cui lo scrittore di viaggio
condanna l’ottentotto per la
sua inattività è quello in cui
l’ottentottolomettedifronte
(se solo si degna di
riconoscerlo)
ai
suoi
preconcetti.
Questo fenomeno è assai
piú significativo del semplice
fatto che alcuni viaggiatori
casualmente prestati alla
scrittura,dimentalitàrozzae
di idee banali, non siano
riusciti a sfuggire ai loro
pregiudizietnocentrici.Lasua
importanza si evince da uno
dei capisaldi della letteratura
antropologica, il Discorso
sull’origine e i fondamenti
dell’ineguaglianza tra gli
uomini di Jean-Jacques
Rousseau(1754).Nellostesso
paragrafo in cui menziona
specificamente gli ottentotti,
Rousseau cosí descrive le
caratteristiche
dell’Uomo
nella
sua
condizione
selvaggia:«Solo,ozioso(oisif)
e sempre in pericolo»; una
creatura che «non può che
nutrire un amore smodato
per il sonno». L’Uomo si
solleva dalla condizione
primitiva
del
selvaggio
mediante l’invenzione degli
utensili, i quali determinano
laprimarivoluzioneculturale
umana consentendo una vita
piúagevoleemenorischiosa.
Inquestanuovafaseincuigli
utensili gli permettono di
averedeltemporelativamente
libero
(loisir),
l’uomo
comincia a creare delle
comodità per se stesso,
comodità
destinate
a
svilupparsi per diventare, alla
lunga, il giogo della civiltà.
Tral’indolenzadelselvaggioe
larivoluzioneculturalechesi
produrrà
mediante
l’invenzione della metallurgia
e
dell’agricoltura,
l’introduzione della proprietà
privata,
l’ascesa
della
disuguaglianza sociale e
l’affermazione del lavoro in
quanto parte inevitabile della
vita quotidiana, si situa
dunque
questa
fase
intermedia di tempo libero
che Rousseau esalta come
«l’epoca piú felice e piú
duratura […] L’esempio dei
selvaggi, trovati quasi tutti a
questo
punto,
sembra
confermare che il genere
umano sembra fatto per
restarci sempre, che questo
stato era la vera giovinezza
del mondo, e che tutti gli
ulteriori progressi sono […]
in effetti [altrettanti passi]
verso la decrepitezza della
specie» 11.
Quando Rousseau giunge
a enunciare quale potrebbe
essere la vita in questa «piú
felice e piú stabile delle
epoche»,ladescrizionechene
offre, per quanto basata sui
rapporti dal Nuovo Mondo,
potrebbebenissimoessereun
panorama
dell’esistenza
ottentotta: un popolo che
abitainrozzecapanne,vestito
di pelli, che si adorna di
piumeediconchiglie,haper
armiarchiefrecceeusadegli
strumenti
musicali
rudimentali.Qualèdunquela
differenza
cruciale
che
impedisce all’ottentotto di
essere ammesso nell’età
dell’oro? Le sue sgradevoli
abitudini personali e la
violazione dei tabú europei
sulla preparazione e sul
consumo della carne hanno
certamenteilloropeso.Mala
differenza sostanziale sta nel
fatto che l’ottentotto è
indolente
e
trascorre
dormendo il suo tempo
«libero»,mentretraiselvaggi
passati per la rivoluzione
degli utensili il tempo libero
diventa
leisure,
tempo
«industriosamente» dedicato
allo
sviluppo
delle
«comodità» (ibid.). In tal
modo Rousseau, in linea con
il
pensiero
illuminista,
risuscita
l’opposizione
umanistica che contrappone
il tempo libero (otium per i
romani, scholé per i greci,
tempo
dedicato
al
miglioramento
personale)
all’indolenza:l’ottentottonon
appartieneallapiúfelicedelle
epoche perché è pigro 12. Il
tempo libero promette di
generare
tutte
quelle
differenze
che
insieme
costituiscono la cultura e
trasformanol’uomoinUomo
antropologico;
l’indolenza
non contiene in sé alcuna
promessa,senonquelladella
stasi.
II.
Condannando l’ottentotto
per la sua pigrizia, il primo
Discorso del Capo lo
estromette a tutti gli effetti
dall’Eden decidendo che,
benché umano, non fa parte
di quella discendenza che
procedendodaAdamoarriva,
mediante una vita di fatica e
lavoro, all’uomo civile.
L’ottentotto insomma non è
la
versione
originaria
dell’uomo civile. Per quanto
nonsiaipotizzabilechedietro
il biasimo dei primi autori vi
sia
un
intento
cosí
lungimirante, nondimeno le
loro conclusioni preparano il
terreno alla fase successiva
dell’attacco contro lo stile di
vitadegliottentotti.Unostile
di vita che già a metà del
diciottesimo secolo non era
piú confinato all’etnia degli
ottentotti ma aveva trovato
proseliti tra i boeri olandesi
delle frontiere piú remote.
Cosí O. F. Mentzel, che visse
al Capo tra il 1732 e il 1741,
scrive che alcuni boeri «si
sono a tal punto abituati a
una
vita
priva
di
preoccupazioni,
all’indifferenza, alle giornate
oziose e alla compagnia di
schiavi e ottentotti, che tra i
primi e gli ultimi non si
possono individuare molte
differenze 13. Questa vita
«ottentotta»
pigra
e
improvvida, questa lekker
lewe, non troverà mai un
portavoce nel Discorso del
Capo.Lostratagemmaacuisi
sarebbepotutorazionalmente
far ricorso – asserire
un’analogiatragliottentottie
l’uomo prima del peccato
originale,trailCapoel’Eden,
e tramite tale analogia
affermare una legittimazione,
per quanto esile – non viene
mai utilizzato 14; e sebbene la
vita oziosa prosegua da
entrambe le parti, non ha
alcuna legittimazione, è
sempre costretta a difendersi
e invariabilmente, a ogni
denuncia stampata, suscita
scandalo.
L’indolenzadegliottentotti
viene riscoperta nuovamente
dai commentatori britannici
dopo la conquista inglese del
Capo nel 1795. Robert
Percival
parla
della
«indolenza
peculiare
e
mancanza di vigoria del
carattere degli ottentotti»
dovute, diagnostica, a «un
difetto originario». John
Barrow vede nell’indolenza
«la causa principale [della]
rovina» degli ottentotti, «una
veraepropriamalattia,lacui
unica cura sembra essere il
terrore», dal momento che il
rimedio della fame si è
dimostrato
inadeguato.
William Burchell esalta i
missionari moravi e la loro
insistenzasullavoromanuale,
e predice che, una volta
appresa«lanecessitàdiessere
onestamente industriosi», gli
ottentotti potranno «tagliare
alla radice almeno la metà
delle disgrazie che affliggono
la loro razza». Tutti
concordanochelostiledivita
ottentotto, caratterizzato da
un livello bassissimo di
sussistenza
che
viene
garantito ricorrendo il meno
possibile al lavoro salariato
(«pigrizia»), errando in cerca
di pascoli piú verdi
(«vagabondaggio»)
e
adottando
spesso
un
atteggiamento di indifferenza
nei confronti della proprietà
privata(«abitudinealfurto»),
dovràessereri-formatoconla
disciplina (una delle parolechiave dell’epoca) se si vuole
che gli ottentotti possano
avere voce in capitolo («far
sentire il loro peso») nella
Colonia.
Tale atteggiamento si può
considerare ostinato nella
misura in cui riconosce che
nonesistepiúunavitatribale
degli ottentotti all’interno
delleareeinsediatedaicoloni,
e che l’unico futuro possibile
per loro è all’interno
dell’economia coloniale. Ma
quando considera la loro
«indolenza» come parte del
«carattere» razziale degli
ottentotti, come un «difetto
originario» che soltanto
generazioni
di
rigida
disciplina potranno sradicare
(«tagliare alla radice»), allora
diventa accurato definirlo un
atteggiamento
razzista.
Osservando gli ottentotti,
vede soltanto squallore,
malanni e un vuoto torpore
mentre si rifiuta di accettare
la possibilità che, di fronte
all’alternativatraindolenza(e
lapovertàcheneconsegue)e
l’infelicitàdiunavitadeditaal
lavoro manuale, qualcuno
possa
deliberatamente
scegliere la prima. Ponendo
incontrastol’innataoperosità
europea e l’innato torpore
degli ottentotti, sembra
dimenticare la storia delle
prime
fasi
dell’industrializzazione
europea, che richiese una
riformadel«carattere»durata
molte generazioni prima che
la
classe
lavoratrice
abbracciasse il principio di
doverlavorarepiúduramente
del necessario per conservare
illivellodiesistenzamateriale
conosciuto alla nascita 15. Per
realizzare tale riforma, e
convincere la gente che
«l’opportunità di guadagnare
di piú è [piú] allettante
rispettoallavoraredimeno»,
si rese necessaria una
prolungata
attività
di
indottrinamento ideologico,
unprogrammaportatoavanti
nelle scuole, nelle chiese e
sulla stampa popolare, inteso
aconvincereleclassiinferiori
che il lavoro è «nobile e
necessario». Uno scrittore
comeBarrow,figliodiunselfmade man e divenuto un
consigliere influente in
materia di politica coloniale,
si dedicò anima e corpo a
questa ideologia, e lo stesso
fecero i missionari a cui fu
affidata la gestione del
programma
di
indottrinamentonelterritorio
della Colonia. Per convincere
gliottentottidiBethelsdorpa
passareiltemporaccogliendo
il succo dell’aloe, John Philip
della London Missionary
Society (LMS) consentí
l’apertura di uno spaccio
all’interno della missione.
Questo
«esperimento»,
ovvero il tentativo di
convincere gli ottentotti a
lavorare sventolando davanti
a loro la tentazione delle
merciallettanticheavrebbero
potuto comprare, funzionò:
«All’istante prese a salire tra
di loro la considerazione per
il denaro». Non interessa qui
la moralità di quella che era,
per ammissione dello stesso
Philip, «la creazione di
bisogni artificiali». È chiaro
che secondo il sociologo
Philip gli ottentotti non
avevano futuro se non
avessero imparato a vendere
la loro forza lavoro. Come
spiega candidamente agli
uomini che gli sono stati
affidati,
costoro
non
dovevano
aspettarsi
di
utilizzare le missioni come
asilipersfuggirealleretidelle
autorità
coloniali
che
cercavano di vincolarli alle
fattorie come servi della
gleba, né come rifugi in cui
poter preservare un regime
precoloniale
indolente,
improvvido e moralmente
lassista; a parte il fatto che i
missionari non avrebbero
certo approvato un simile
modo di vivere, «il mondo, e
la Chiesa di Cristo» che
finanziava la missione,
«considerava la civiltà e
l’industriosità come la prova
della
capacità
[degli
ottentotti] di migliorarsi […]
[poiché] gli uomini del
mondo non avevano altri
criteri su cui basarsi nel loro
giudizio». In altri termini, se
gliottentottinonimparavano
a lavorare nelle missioni, le
missioni avrebbero chiuso e
loro
sarebbero
stati
abbandonati alla mercé degli
agricoltori. In un modo o
nell’altro, dovevano lavorare.
Cosí proprio quando i
colonizzatoridenunciavanole
missioni della LMS come
«nidi
di
indolenza»,
l’indolenza era proprio, per i
missionari,lacaratteristicada
sradicare prima di ogni altra
dal
«carattere»
degli
ottentotti 16. Se le missioni
dellaLMSnondivenneromai
quell’alveare industrioso che
definiva la reputazione delle
loro omologhe morave, fu
soprattutto perché non
ricorrevano all’espulsione di
quanti venivano a loro non
per lavorare ma per
condividere la prosperità dei
loroparenti.Comelamentava
un osservatore, i piú
industriosi tra gli ottentotti
dell’insediamento del fiume
Katsivedevanodivorareogni
ricchezza dai «parassiti»
(parenti, si immagina) che
«indulgonoallasolitapigrizia
e all’inattività piú fiacca e
indolente»; e John Philip
criticava in modo simile le
stazioni missionarie dove «i
mezzi di cui dispongono gli
industriosi [sono] ingoiati
daglioziosi».
Ma il vero scandalo del
diciannovesimosecolononfu
l’indolenza degli ottentotti
(ormai considerata intrinseca
alla razza) bensí quella dei
boeri. La tendenza degli
agricoltori a scivolare verso
unostiledivitaoziososipuò
far risalire ai primi decenni
dell’insediamento.
Il
governatore
Wagenaar,
successore di Van Riebeeck,
nel1663scrivevaallaCamera
persuggeriredirichiamarein
patria una mezza dozzina di
agricoltori, a causa della loro
«indolenza e […] della vita
irregolare e debosciata» che
conducevano. Dalla Camera,
acuiilproblemaeragiànoto
dall’esperienza delle Indie,
ricevette un invito alla
tolleranza che gli ricordava
come «è sempre difficile
indurre al lavoro il nostro
popolo, quand’è all’estero»
accompagnato dal consiglio
di contare maggiormente
sugli schiavi. «La troppa
fortuna ha generato l’oziosità
tra gli agricoltori», scrive
Grevenbroek nel 1695. Un
secolo piú tardi Le Vaillant
commenta
che
«dalla
profonda inazione in cui
vivono, si direbbe che la loro
suprema felicità consista nel
nonfarnulla».
Nonsoltantogliagricoltori
ma anche i cittadini di Città
delCaposoffrivanodiquesto
decadimento nella pigrizia.
Stavorinus descrive una
giornata tipo nella vita di un
cittadino alla fine del
diciottesimo secolo: una
lunga fumata e una
passeggiataalmattino,un’ora
o due per gli affari, un pasto
dimezzogiornoseguitodaun
pisolino, una serata a giocare
a carte – nel complesso «una
vita estremamente comoda».
Percival
e
Barrow
confermano un decennio
dopo questo resoconto:
«Un’immagine
davvero
deplorevole di pigrizia e di
stupidità indolente», la
definiscePercival.
Leosservazionipiúseverei
commentatori
del
diciannovesimo secolo le
riservano però ai boeri della
frontiera.Nellasuaanalisisul
potenziale produttivo della
Colonia, Barrow scrive:
«Fortunatamente, per loro,
forse, la pochezza delle idee
impediscecheiltemporisulti
unpesoperloro[…][Illoro
èun]temperamentofreddoe
flemmatico,unsistemadivita
inattivo[…]un’indolenzadel
corpo e una mente bassa e
strisciante». Considerando
ormai la pigrizia come parte
della «natura» dei boeri,
Barrow ipotizza che la
Colonia non sarà produttiva
finché non cambierà tale
«natura» o, se questo non
avvenisse, finché i boeri non
saranno sostituiti da coloni
piú
industriosi
e
intraprendenti.
Questo ritornello viene
ripreso da tutti i viaggiatori
che penetrano nell’entroterra
e incontrano gli agricoltori
che vivono in abitazioni
misere su vaste distese di
terreni, sanno a malapena
leggere e scrivere, vestono in
modo rozzo e si circondano
di schiavi e di servi che non
hanno quasi nulla da fare,
disprezzanoillavoromanuale
e si accontentano di
un’agricoltura di sussistenza
su una terra potenzialmente
fertilissima.
Commenta
Percival:«Noncredosipossa
trovare in nessuna parte del
mondo un esempio di
avventurieri europei cosí
totalmente privi di spirito di
iniziativa
e
altrettanto
indifferenti
all’arte
di
migliorare
la
propria
condizione». Trova che le
donne della frontiera siano
particolarmente
«pigre,
indolenti e inattive», giudizio
confermato da J. W. Moodie:
sono«esageratamentetorpide
e flemmatiche, nei modi e
nelle
abitudini,
e
nell’abbigliamento sporche e
trasandate». Sulla frontiera «i
giorni e gli anni trascorrono
insciagurataaccidia»afferma
John Campbell. Burchell
osserva che il nuovo
immigrato,pienodiiniziative
e di energia, assurge
rapidamente alla prosperità,
ma poi «adotta le maniere
rozze [dell’Africander] che
dapprima disprezzava e,
passo dopo passo, la sua vita
degenera nella mera vita dei
sensi». Burchell ripete la
diagnosi di Barrow, secondo
cui il torpore è diventato
parte integrante del carattere
boero, e segue la sua
raccomandazione:
è
necessariaunaqualcheforma
di lavoro missionario per
portare i boeri nel mondo
moderno: «L’agio di una vita
indolente, con tutti gli
svantaggi che comporta, è
tantopiúpiacevole[perloro]
della fatica di una vita
industriosa con tutti i suoi
vantaggi che le esistenze di
questi uomini dovranno
essere
completamente
rimodellate prima che siano
in grado di accogliere i
progressi di altri paesi».
Cinquant’annidopoBurchell,
Gustav Fritsch trova tra i
boeri«unlivellodiindolenza
e di indifferenza [che è]
applicato con costanza
cinese»;eneglianniTrentala
Commissione
Carnegie
constata
di
nuovo
«l’indolenza» del «bianco
povero»discendentediquegli
agricoltori, un’indolenza che
attribuisce,tral’altro,ancheal
clima
sudafricano,
ai
pregiudizi sul «lavoro da
kaffir» e a una tradizione di
vitacomoda.
I
portavoce
del
colonialismo
restano
costernati di fronte allo
squallore e al torpore della
vita dei boeri perché
costituisce
la
sinistra
attestazione di come la
popolazione europea possa
regredire dopo qualche
generazioneinAfrica 17.
Accontentandosi
di
rimediare appena di che
vivere dalla terra, il boero
sembra tradire vieppiú la
missione colonizzatrice in
quanto, per giustificare le
proprie
conquiste,
il
colonialismodevedimostrare
cheilcolonosaamministrare
la terra meglio del nativo (il
testo citato di norma a
sostegno di ciò è Matteo 25,
14-30,laparaboladeitalenti).
Non si può ignorare
l’elemento sciovinista nel
paragone
tracciato
dai
commentatori britannici tra
l’operosoyeoman[contadino]
inglese e l’indolente boero
olandese.
Ma
nella
reazione
britannicaallapigriziaboeraè
presente
un’altra
componente, un senso di
oltraggio morale scaturito
dalla percezione che la vita
comoda dei boeri sia resa
possibileaspesedellamiseria
dischiaviediservi.L’agioin
cui vivono gli agricoltori dà
scandalo perché è corrotto: il
caso della Colonia del Capo
sembra confermare un detto
popolarerisalenteall’antichità
secondo cui lo schiavismo
corrompe lo schiavista.
«Possedere
schiavi
e
soggiogaregliottentotti[…]è
all’origine del piú grave
degrado morale in tutte le
classi sociali della colonia» 18.
«La
corruzione
della
schiavitú, qui come altrove
impigrisce l’uomo bianco» 19.
Al Capo la corruzione opera
in modo particolarmente
insidioso perché, a parte i
pregiudizi degli schiavisti
contro il lavoro manuale,
l’ozio come stile di vita
diffusocomportaanchecome
conseguenza che quasi tutti
gli agricoltori - padroni di
schiavi
finiscono
«per
raggruppare una banda di
dipendentiedifannulloniche
lavorano pochissimo in
cambio di una retribuzione
peggio che misera. Perciò
mentre il disprezzo per il
lavoro
diviene
istituzionalizzato
tra
i
padroni, il sistema non
provvede nemmeno a quella
compensazione che deriva
dall’inculcare
abitudini
industriose nei servi – i quali
spesso preferiscono i padroni
boeri a quelli britannici
perché questi ultimi, sebbene
paghino meglio, pretendono
che si lavori troppo» 20
(Marais,pp.130-31).
D’altra parte, l’oziosità dei
boeri non provoca al
commentatore in quanto
scrittore la stessa crisi
suscitata dagli ottentotti nel
diciassettesimosecolo.Infatti,
mentreilcontestodegliscritti
precedenti era quella di una
nascente scienza dell’Uomo,
con categorie universali e
dunquevincolanti,isaggidel
diciannovesimo
secolo
assumono la forma di
narrazioni episodiche in cui
l’autore,liberodimuoversisu
tutta la superficie della
Colonia, ammira paesaggi,
vive avventure di caccia,
incontra persone nuove,
registra aneddoti e stranezze.
Il genere letterario è di fatto
quello della causerie, come
indica la tipica lunghezza
nelle
intestazioni
dei
capitoli 21.Inquestamodalità,
quasi qualsiasi materiale è
adatto a riempire lo spazio
etnografico
lasciato
dall’inattività di ottentotti e
boeri,
purché
risulti
interessante.
Il fatto che i boeri
conseguanolaloroinattivitàa
spese di una classe servile,
differenziandosi sotto questo
aspetto cruciale dall’antica
pigrizia ottentotta comporta
come conseguenza naturale
che l’interrogativo filosofico
che non si poneva rispetto
agliottentottisipongaancora
di meno per i boeri: ovvero,
se ignoriamo la sporcizia, i
nugoli di mosche, gli abiti
rozzi,nonpotremmodireche
questi
agricoltori
della
frontiera rappresentano un
rifiutodellamaledizionedella
disciplina e della fatica, a
favore di uno stile di vita
africano
pre-peccato
originale, in cui si possono
godere i frutti della terra che
cadono semplicemente in
mano, in cui il lavoro è
evitato come un flagello e
pigrizia e tempo libero
finiscono per coincidere?
Dalle osservazioni morali e
politiche del tipico visitatore
britannico al Capo appare
improbabile che qualcuno si
ponesse questi interrogativi.
Nondimeno la fantasia di un
Edenafricanononfudeltutto
soppressa, soprattutto dopo
che gli sforzi della prima
ondata di romanticismo
letterario per situare l’uomo
pre-caduta in bambini,
contadini o selvaggi aveva
trasformato in un luogo
comune della letteratura di
viaggiolaricercadelleorigini
dell’uomo.
Nessuno
si
domanda certo se il torpore
dell’ottentottoolapigriziadel
boerosiasegnodellarisposta
a ogni bisogno, del fatto che
ogni desiderio sia stato
placato, che sia stato
recuperato l’Eden. Ma c’è un
momento rivelatore nei
Travels di Burchell, tra tutti i
commentatori
del
diciannovesimo secolo forse
quello piú in sintonia con gli
stili di vita dei nativi. Nel
1812 Burchell trascorse una
serata con un gruppo di
boscimani, in una località
imprecisata tra Prieska e De
Aar,annotandonelamusicae
osservando le loro danze. A
mezzanotte si ritirò a letto.
Cosícommentalaserata:
Se non avessi mai visto e
saputo altro riguardo a questi
selvaggi,aparteglieventidella
giornata e i passatempi della
serata, non avrei esitato a
dichiararli i piú felici dei
mortali. Liberi da ogni
preoccupazione,
si
accontentano di pochissimo e
la loro vita sembra scorrere
come un placido ruscello che
scivolatrapratiinfiore.Senza
pensieri e senza crucci,
passavano le ore ridendo e
sorridendo, incuranti del
futuro e dimentichi del
passato.
Malgrado le condizioni
che la introducono («Se non
avessimaivistoesaputo…»),
questa è una visione
dell’uomo prima del peccato
originale,unavisionedicuilo
stesso Burchell riconosce il
fascino:
«Mi
sono
accomodato come se quella
capanna fosse casa mia,
sentendomi nel mezzo di
quell’orda come uno di loro;
dimenticando […] per alcuni
istanti che ero uno straniero
solitario in una terra di
selvaggi incolti» 22. Persino
Barrow, tanto negativo nei
confronti dei boeri e tanto
sprezzanteversogliottentotti
(«forse la piú sciagurata delle
razze umane») si lascia
impressionare dai kaffir e
ipotizza che la naturale
nobiltà del loro portamento
debba essere la conseguenza
di dieta semplice, abitudini
regolari, astinenza dall’alcol,
aria pura, esercizio fisico
abbondante e castità sessuale
– in altri termini, la
conseguenza dell’essere liberi
dai tratti piú debilitanti della
civiltà, in un regime che in
seguito le scuole private
britanniche si sforzeranno di
riprodurre. Ma quel che
attrae Barrow verso questi
spartani d’Africa è prima di
tutto«ilbrio,laloroattivitàe
vivacità» mentre l’elogio di
Burchellgiungesoltantodopo
che i boscimani hanno
danzato «finché le luci del
mattino annunciarono che
altri doveri esigevano il loro
tempo». Si direbbe che il
selvaggio sia costretto a
piegare il collo sotto il giogo
di«attività»e«doveri»prima
dipoterammetterel’ideache
egli
appartenga
all’Età
dell’Oro.
III .
Oggi è improbabile che si
critichi in modo tanto
negativo la pigrizia degli
ottentotti (quello dei boeri è
uncasoleggermentediverso).
Abbiamoallespalleunsecolo
di discipline storiche e
antropologiche
che
ci
mettono
in
guardia
dall’osservare la vita delle
popolazioni straniere con
atteggiamento superficiale e
da un punto di vista troppo
incentrato su noi stessi. Se
avessimo la possibilità di
visitare il Capo com’era nel
diciassettesimo
secolo
potremmo ragionevolmente
aspettarci di osservare certe
caratteristiche della vita degli
ottentotti
sfuggite
agli
osservatori
dell’epoca.
Potremmoesserepiúsensibili
allevariazionistagionalidelle
attività, e al ritmo della
«settimana»
ottentotta.
Potremmo esitare a definire
pigra un’intera popolazione
per il fatto che gli uomini
oziano in giro mentre le
donne lavorano (fatto notato
da
molti
dei
primi
viaggiatori).
Presteremmo
meno attenzione al modo di
cacciare, pescare e preparare
la carne – area in cui i tabú
tendono particolarmente a
scontrarsi – e piú alle attività
svolte da donne e bambini
riunitiinsieme.Saremmopiú
cauti nel considerare gli
ottentotti che vivono ai
margini degli insediamenti
olandesi come esponenti
tipici di tutta la popolazione
ottentotta 23. Grazie alla
maggiore ampiezza della
nostra prospettiva storica,
forse apprezzeremmo meglio
l’entità della rivoluzione
culturale
implicita
nel
passaggio da un’economia di
sussistenza a una di
previdenza, dalla pastorizia
all’agricoltura – passaggio
durante cui, di fatto, si
potrebbe dire abbia fatto la
sua comparsa nella storia il
concettodilavoro.
Pure è proprio in
quell’apertura
mentale
idealmente
estesa
agli
ottentotti
dalla
nostra
moderna scienza dell’Uomo
che risiede il germe di un
insidioso tradimento nei loro
confronti. Infatti la moderna
scienza dell’Uomo deriva da
quella che si imbatté nei veri
ottentotti e ne fu frustrata, e
trovalesuefondamentanella
volontàdivedereunacultura
all’opera
nella
società.
L’antropologia, a sua volta
una disciplina tra quelle che
Foucault chiama le discipline
della sorveglianza, si prefigge
tra l’altro di rintracciare e
indagare
le
società
sconosciute in ogni angolo
del
mondo,
nonché
fotografarne, registrarne e
decifrarne le attività 24. Se gli
ottentotti non assorbirono
nell’arco di una generazione
l’ideologia del lavoro, non
possiamo aspettarci che i
borghesi
occidentali
si
spoglino in un giorno della
loro devozione nei suoi
confronti. Sarebbe azzardato
aspettarsi che il ricercatore e
scrittore moderno possa
rispondere con maggiore
generosità dei suoi antenati a
uno stile di vita talmente
indolenteche,nellasuaforma
estrema,nonglioffrenullada
dire. La tentazione di
affermare che ci sia qualcosa
all’opera laddove non c’è
nulla è sempre forte. Questo
lavoro
non
resiste
completamente
a
tale
tentazione.
La
sfida
dell’indolenza nei confronti
del lavoro, la sua capacità di
creare scandalo, è oggi piú
forte che mai. Anzi, benché
questo ci porti oltre i limiti
della discussione presente,
potremmo chiederci se le
sfidepresentatedall’indolenza
all’indagine filosofica siano
meno potenti o sovversive di
quella posta dall’erotismo, e
in particolare dal silenzio
dell’erotismo.
La storia dell’indolenza in
Sudafrica non è un tema
secondario o una semplice
curiosità. Basta guardare in
faccia i lavoratori sudafricani
del ventesimo secolo per
trovarne conferma. L’oziosità
dei boeri è ancora presente
nei tabú che interessano
taluni livelli del lavoro
manuale
(hotnotswerk,
kafferwerk)nonchéneirituali
del
tempo
libero,
indistinguibili
dall’ozio
(sedere in veranda, sdraiarsi
sulla spiaggia). L’indolenza
deinativiètuttorapresentein
una
tradizione
di
sovraoccupazione
sottopagata,
tradizione
mantenuta da entrambe le
parti, come quando due
uomini sono assunti per fare
il lavoro di uno solo, e
ciascuno lavora per la metà
del tempo oziando per l’altra
metà, e ciascuno percepisce
metà salario. La lussuosa
pigrizia del colono è tuttora
oggetto di denuncia da parte
dell’Europa, la pigrizia del
nativo è ancora deplorata dal
padrone.Sperosiachiaroche
non intendo in alcun modo
aggiungerelamiavocealcoro
della
disapprovazione
moralistica. Al contrario, mi
augurodiaverapertounavia
alla lettura dell’indolenza, a
partire dal 1652, in quanto
risposta
autenticamente
nativa a uno stile di vita
alieno, reazione raramente
difesa negli scritti e, in quei
raricasi,soloinmodoevasivo
(basti pensare a H. C.
Bosman), ma che ha
esercitato
un’enorme
attrattiva
popolare
fin
dall’epoca
in
cui
i
commentatori cominciarono
a scuotere la testa riguardo a
queglieuropeiche,peressere
statitroppoacontattocongli
ottentotti, finivano per
scivolare in un’esistenza
accidiosa. Indicativo della
persistenza di tale attrattiva
fino ai nostri giorni il fatto
che, dopo il 1948, le autorità
avviassero–enellamisurain
cui
rispondevano
a
determinate realtà sociali
fossero costrette ad avviare –
unprogrammalegislativoper
la riforma della società
sudafricana. Due misure
fondamentali
di
tale
programma
furono
il
cosiddettoImmoralityActeil
Mixed Marriages Act, leggi il
cui intento principale e il cui
effetto pratico era di togliere
ai bianchi la libertà di uscire
dai ranghi della classe
lavoratrice,avererapporticon
ledonnedicolore,econdurre
un’esistenza piú o meno
oziosa, abulica, improvvida,
generando eserciti di pargoli
straccioni di tutti i colori, un
processo che, lasciato a se
stesso, avrebbe alla fine
presumibilmente portato al
crollo della civiltà cristiana
bianca nella punta estrema
dell’Africa.
[1988].
Romanzoruraleeplaasroman
Per due decenni del
Novecento, tra il 1920 e il
1940,lanarrativaafrikaanssi
è
occupata
quasi
esclusivamentedifattorieedi
società rurale (platteland), e
del doloroso passaggio
dell’afrikaner da agricoltore a
cittadino. Dei piú importanti
romanzieri di lingua inglese,
d’altra parte, soltanto Olive
Schreiner con Storia di una
fattoria africana (1883) e
PaulineSmithconTheBeadle
(Il sagrestano, 1926) e con i
racconti della raccolta The
Little Karoo (Piccolo Karoo,
1925erev.1930)hannoscelto
di trattare della vita rurale.
NonsipuòdirecheSchreiner
e Smith abbiano di per sé
definito un genere di
«romanzo rurale» in inglese
parallelo al plaasroman in
afrikaans.
Si
potrebbe
addirittura sostenere che
nessuna delle due scrive
romanzi rurali in senso
stretto. In quanto donne, in
quanto persone di cultura
inglese, in quanto libere
pensatrici, si ponevano forse
troppo fuori dalla cultura
patriarcale e insulare della
fattoria boera per poterne
scrivere
con
autentica
familiarità. La fattoria di
Schreiner si differenzia forse
troppo poco dalla natura,
quella di Smith si distingue
troppo poco dal villaggio. E
tuttavia si accostano alla
realtàeall’istituzioneruralea
partire da una tradizione
letteraria specifica, una
tradizione del romanzo
inglese sulla vita rurale.
Ciascuna a suo modo,
entrambe concepiscono –
anzi, non possono fare a
meno di concepire – la
fattoria in un contesto piú
ampio di quello del
romanziere rurale afrikaans.
Come minimo, forniscono al
plaasroman un termine di
paragone, facendone risaltare
ipregiudizi.
La fattoria africana di
Schreiner.
Che genere di posto è la
fattoriaafricanadicuinarrail
romanzo di Schreiner? La
tenuta sorge su una «pianura
vasta e desolata», una
«monotona distesa di friabile
sabbiarossa» 1. Il cielo che la
sovrastaèvuotoeindifferente
come la terra. Quando il
giovane Waldo offre un
sacrificioaDio,lasuaofferta
resta ignorata. Gli aggettivi
per descriverla si sprecano:
indifferente, vuota, desolata,
sterile,
ampia,
vasta,
monotona; e se non bastasse
allora forse «qualcosa di piú
“indefinito” – Ecco, questa è
la parola giusta!» Come ci
ricorda la battuta di Roy
Campbell, siamo di fronte a
unodeitopoidellaletteratura
sudafricana: il veld come
luogodell’assenzaassoluta,in
questo caso, soprattutto,
l’assenzadiunDiopersonale.
Oltre ad avere una
topografia – una pianura
sconfinata sotto un cielo
sconfinato (anche se, non
avendo struttura, dettagli,
varietà o articolazione tale
topografia è impossibile da
leggere) – il Karoo di
Schreiner ha anche una
cronografia che si estende
dalla preistoria alla storia
post-umana.
In
questa
cronografial’arcodivitadegli
individuiepersinodeipopoli
rappresenta un intervallo
trascurabile.
Nella fattoria esiste anche
una seconda scala, non
umana,permisuraretempoe
distanza – ed è in base a
questa che vivono le piante e
gli insetti del Karoo. Nella
monotona sabbia rossa si
svolge una vita pulsante e
complessa, generazioni si
susseguono,imperisorgonoe
tramontano nello spazio di
unasolastagione.
Inunluogointermediotra
l’infinitesimale e l’infinito, la
fattoria cerca di affermare
unapropriamisuradeltempo
e dello spazio secondo cui
condurre la propria esistenza
autonoma.
Le
misure
covalenti
cosmiche
e
microcosmicherivelanocome
tale esistenza sia assurda e di
per sé non piú nobile di
quelladiserpentieragni.
Finora non abbiamo visto
niente che distingua la
fattoria di Schreiner dalla
natura incontaminata: non è
addomesticatae,allivelloche
ho fin qui descritto, non è
addomesticabile. Ma la
fattoria è anche luogo di
dimoraumana,edèineffetti
cosí umana nella sua
bigotteria,
ipocrisia
e
indolenza che a redimerla
dall’essere una città africana
in miniatura c’è soltanto la
collocazione nella natura. La
fattoria ha dunque due
aspetti: la natura e la città.
Sonoaspettichesilimitanoa
coesistere. Non danno luogo
adalcunasintesi.
Per via della sua natura
divisa,lafattoriaafricananon
può produrre un’esistenza
integrata.Osivivesullaterra
inospitale(comecercadifare
Waldo),esiperisce,oppuresi
vive
nella
fattoria
soccombendo infine all’età
adulta per diventare un’altra
Tant’Sannie, a contare il
denaro, a contare le pecore.
La fattoria infatti è in guerra
con la natura. I ragazzini che
introducono nella casa il
germe della natura (Waldo,
Lyndall) se lo vedono
estirpare
con
violenza.
Quanto ai neri, i boscimani
che vivevano nella natura
(nelle grotte, non nelle
capanne)sonostatisterminati
mentre le donne ottentotte e
kaffir assorbite come serve
dalla fattoria sono diventate
stupide e spietate quanto la
loropadrona.
La fattoria africana è
quindi per Schreiner il
microcosmo del Sudafrica
coloniale: una piccolissima
comunità situata al centro
dellanaturasconfinata,lacui
esistenza si svolge all’insegna
della mentalità ristretta e
compiaciuta,cheallontanada
séquanti,traisuoi,vannoin
cerca del grande uccello
bianco
della
Verità
avventurandosi nel veld
inesplorato o leggendo al di
fuori
dell’Unico
Libro
(chiuso).
La
fattoria
rappresenta la grettezza nel
mezzodell’immensità.
Poiché è chiaro che
Schreiner non si assume il
compitodirappresentarecon
completezza una fattoria
sudafricana, sarebbe ingiusto
pretenderlo. Nondimeno la
storia che emerge dalla sua
penna
è
squilibrata,
unilaterale.
Possiamo
concepire
una
storia
alternativa della fattoria, una
storia che Schreiner non
racconta, una storia da
identificare con l’agricoltura
del Vecchio Mondo piú che
con quella delle colonie. In
questastorialafattorianonè
semplicementeunacasaoun
insediamento in un’area
recintata,mauncomplesso:è
allostessotempounadimora
abitativa, un’economia e
anche tutte le creature che di
taleeconomiapartecipano,in
particolare i membri della
famiglia (per quanto estesa)
che possiedono legalmente la
fattoria e insieme sono
posseduti da essa – posseduti
in quanto le devono il lavoro
piú intenso, i loro mezzi di
sostentamento e in ultima
istanzalalorovitastessa.
In
questa
storia
l’agricoltore ha diritti e
doveri. Per quanto assoluta
possa essere la sua proprietà,
ha dei doveri verso la terra,
versoisuoieredi(comepure,
inmisuraminore,versoisuoi
avi)epersinoversol’ecologia
dellafattoria–ovveroversola
fattoria in quanto parte della
natura. Gli è vietato, nel
linguaggio del mito, stuprare
laterra.Deveinvecesposarla,
dedicarle la sua attenzione
devota che la condurrà a
generare in abbondanza, e al
contempo
conservarla
feconda per le generazioni
successive. Nella logica del
mito, i figli che ereditano la
fattoria sposeranno la stessa
terra; o per dirla in altri
termini, le generazioni dei
mariti-agricoltori
ripropongono sempre lo
stessouomo(mitico).
Dove si colloca Schreiner
rispetto a questa venerabile
concezione dell’agricoltura
del Vecchio Mondo? La
risposta è che segue il mito
soltanto in senso negativo.
Sulla sua fattoria non regna
un uomo ma una donna
sterile e oziosa; la terra non
dà(odàl’impressionedinon
dare)nulla(com’ètipicodella
scrittura di Schreiner, che in
alcunipuntièossessivamente
concreta mentre in altri si
limita a un abbozzo,
Tant’Sannie prospera benché
nella fattoria si realizzi ben
pocolavoroproduttivo).Quel
poco di vita che c’è nel veld
non appartiene alle pecore –
chesiaggiranopigre,stordite
dalcaldo–maagliinsetti.In
effetti, da quel che il lettore
può
vedere
riguardo
all’economia della fattoria è
difficile capire come il
possesso di una terra tanto
sterile o di un gregge possa
rappresentare un’autentica
(ovvero non simbolica)
ricchezza.
Invece di considerare la
fattoria di Schreiner come la
rappresentazione realistica di
un allevamento africano di
bestiamepropongodileggerla
come una figura al servizio
della sua critica della cultura
coloniale.Mentrenelmodello
delVecchioMondolafattoria
è naturalizzata in quanto si
integra con la terra, terra che
a sua volta viene storicizzata
trasformandolainunapagina
sucuilegenerazioniscrivono
la loro storia, la fattoria di
Schreiner è un’imposizione
innaturale e arbitraria su un
paesaggio
caparbiamente
astorico.
Schreiner
è
anticoloniale sia quando
asserisce l’estraneità della
cultura europea in Africa sia
quando attribuisce una dote
di innaturalità alla vita nella
sua fattoria. Accettare la
fattoriacomedimorasignifica
accettarelamortevivente.
Harmonie.
Nella valle di Aangenaam
[laPleasantvalley]…uominie
donneconservavanoancorale
antiche
usanze
altrove
estinte 2.
Se la fattoria di Schreiner
nel Gran Karoo è astorica,
quella nel Piccolo Karoo di
Smith è decisamente calata
nella storia – anzi lo è cosí
tanto che segue tradizioni
ormai scomparse altrove. In
effetti, benché la valle di
Aangenaam sia presentata
all’iniziocomepovera,aridae
«desolata», dimenticata in
breve
tale
desolazione,
diventa invece una sorta di
Eden che produce una
moderata
abbondanza,
presieduta da un seignor
benevolo; qui è possibile
vivere, come fa Andrina
Steenkamp, in un’innocenza
edenica. I valori mitici che si
accumulanointornoallavalle
sono quelli del grembo
materno:
l’isolamento
(«racchiuso tra i monti
Teniquota e le alture di
Aangenaam») e la fecondità.
Quando Andrina si reca in
visita al Gran Karoo, d’altra
parte, la sua piattezza,
aperturaesterilitàlerisultano
«opprimentiedesolanti» 3.La
fattoria di Harmonie, nel
cuoredellavalle,èpresentata
come il culmine di una
tradizione storica. Anzi, in
The Beadle nulla starebbe a
indicare che Harmonie non
sia la fine della storia – il
conseguimento
di
un
equilibrio ideale, di stasi, di
finalitàneirapportisociali,in
grado di sopravvivere per
sempre – se il diffuso tono
nostalgico non lasciasse
intendere che l’idillio di
Harmonie appartiene al
passato.
Qual è la storia che Smith
rivendica per Harmonie? Il
primo Van der Merwe,
apprendiamo,
era
un
«landrost» [sic] (magistrato)
al servizio della Compagnia
olandese delle Indie orientali
ilqualeportòconsédaiPaesi
Bassi articoli di uso comune
che si tramandavano nella
famiglia.
Durante
il
diciottesimo secolo, gli
schiavi della famiglia «si
esercitavano a copiare il
lavoro dei padroni europei o
batavi» producendo mobili,
porte, telai di finestre che
vanno a finire nella
costruzione
e
nell’arredamento
di
Harmonie.Perquantosipuò
esserevenerabiliinSudafrica,
Harmonie ha la venerabilità
dellevecchiedimoreolandesi
delCapo.
La tenuta conserva le
migliori
tradizioni
domestiche
della
middenstand
olandese:
«pulizia scrupolosa […]
lucidatura abbagliante […]
colori intensi e profondi» (p.
19).
Quanto
all’attuale
proprietario,
«Stephan
Cornelius van der Merwe
[era] […] giusto, generoso e
paziente […] [con una]
tranquilla
nobiltà
di
portamento[…]Parlavapoco
ma sempre con autorità» (p.
39). Sotto la sua benevola
autorità e/o patrocinio esiste
una comunità diversificata:
fittavolicomeAalstVlokman,
oggetto della sua carità
(Johanna
e
Jacoba
Steenkamp), Andrina – un
po’ domestica un po’ figlia
adottiva–chevive«comeuna
della famiglia» (p. 24), ospiti
come l’inglese Henry Nind. I
Van der Merwe hanno
costruitosulloroterrenouna
chiesa per tutta la gente della
valle.Mulinoeufficiopostale
sorgono sulla loro proprietà;
senonsipuòdirelostessodel
negozio dell’ebrea (il testo
nonèspecificoalriguardo),è
quantomenoadiacente.
Harmonie è quindi non
solo una fattoria ma il fulcro
della
comunità
di
Aangenaam. Tutta la valle
deve andare lí per i
sacramenti, per acquistare
merci, per le comunicazioni.
Se nella fattoria non c’è la
prigione è solo perché
nell’Eden, finora, non ce n’è
statobisogno.
Non soltanto Harmonie
fornisce l’infrastruttura della
comunitàdellavalle,maèqui
che si manifestano tutte le
espressioni di sentimenti
comunitari: la gioia per
l’arrivodellacarrozzapostale,
il «brusio basso e profondo
della vita» durante la
cerimoniadelringraziamento
(p.82).All’oradicenalacasa
madre riunisce la famiglia
Van der Merwe, gli ospiti e i
servi in una piú intima
comunitàdomestica.
Naturalmente
la
concezione di Harmonie
come Eden in questa valle
isolata è solo il preludio
all’ingresso del serpente,
Henry Nind, da cui il padre
reticente e non dichiarato di
Andrina-Eve
non
può
proteggerlaperchénonriesce
ad affrontare la confessione
del proprio peccato e le sue
conseguenze (l’espulsione da
quell’Eden di cui «nessun
luogo sulla terra gli era piú
caro» [p. 274]). Nondimeno,
anche se il peccato è sempre
già presente nella valle, sotto
formadelsegretocolpevoledi
Vlokman,èsoltantoVlokman
stessoaessereescluso,pervia
della condizione della sua
anima,
dalla
piena
partecipazione a uno stile di
vita che si concretizza nei
rapporti sociali ed economici
che lo circondano. In altri
termini, per un cuore
colpevole potrebbe essere
impossibile
vivere
ad
Harmonie/Eden,
ma
Harmonie esiste lo stesso e
anzi, continua a esistere
persinodopolosvelamentodi
Nind, la confessione di
Vlokman, la vergogna di
Andrina, la morte di Jacoba.
L’Eden sopravvive e Andrina
può esservi riaccolta, insieme
al padre redento e al figlio
innocente.
Il ruolo di Harmonie in
The Beadle è talmente
centrale che non dobbiamo
esitareaconsiderarlacomela
fattoria africana di Smith e a
chiedercichegenerediluogo
abbiainventato.
Laprimacosadaosservare
è che Smith non la definisce
una fattoria africana, e
nemmeno sudafricana. In
effetti la parola Africa non è
maiusatanellibro.Harmonie
non si trova in Sudafrica ma
nel Piccolo Karoo; e non nel
Piccolo Karoo ma nella valle
di Aangenaam. Il libro di
Smith riguarda, al piú, il
Piccolo Karoo – il netto
contrasto con il suo Gran
Karoo dovrebbe metterci
sull’avviso in tal senso.
Harmonie è una risposta
regionale (da cui non
conseguedinecessitàcheThe
Beadle sia un romanzo
regionale).
Ma se Harmonie è una
risposta, a quale domanda
risponde? A una domanda
sull’ordine rurale ideale.
Come dovrebbe essere tale
ordine rurale? Dovrebbe
essereunordinecompostoda
fattorienucleari,ciascunacon
unpatriarcachedominasu1)
una moglie, 2) i figli maschi,
3) le figlie femmine, 4) i
fittavoli, 5) la servitú, 6) gli
animali e 7) la terra, rapporti
che si possano tradurre tutti
in termini di denaro e che
possono essere regolati dalla
legge? Smith ne ha dato un
abbozzoindueraccontidella
raccolta The Little Karoo. In
The Sisters un agricoltore
tratta le figlie come un bene
materiale da barattare con la
terra(inrealtà,nemmenocon
la terra ma con l’ipoteca
accesa sulla terra, cioè il
prezzo che ha dovuto pagare
avendo perso una causa in
tribunale – la catena dei
baratti risale indietro nel
tempo). In The Father un
agricoltore si serve del corpo
di sua moglie per procurarsi
mano d’opera gratuita: grazie
a lei si moltiplicherà, e ogni
figlio che lei gli darà
moltiplicherà a sua volta il
prodotto della terra. Il
raccontointitolatoDesolation
riflette questo medesimo
ordine: una vecchia è lasciata
morire perché non è piú
produttiva.
L’ordine delineato in
questi racconti è dunque
quellosecondocuigliuomini
ereditano il potere quando
assumono il controllo della
fattoriaeinizianoaesercitare
il dominio assoluto sulla
famiglia, sui fittavoli e sulla
terra (e anche sui domestici,
si presume, sebbene le
persone di servizio in Smith
tendano a essere invisibili),
usando il danaro come
mediazionedelloropotere.È
un ordine che potremmo
definire
capitalismo
patriarcale, anche se si tratta
di un capitalismo nel suo
stadioembrionale.
Benché la concezione di
mogli e figli come capitale
non sia estranea al mondo di
TheBeadle,quivienetrattato
con una certa leggerezza. E
quelchepiúconta,irapporti
nonsonomediatiattraversoil
denaroperchéildenarosiusa
pochissimo nella valle, nella
quale
vige
ancora
un’economia basata sul
baratto. E sebbene Stephan
van der Merwe erediti
l’autorità, condivide il potere
con la moglie, rinunciando a
molte
prerogative
del
patriarcato.Ciascunodeifigli,
raggiunta l’età appropriata,
riceve
la
propria
indipendenza, maschio o
femminachesia.«Anchesela
sua famiglia poteva ancora
essere,inlargamisura,ditipo
patriarcale, Alida van der
Merwe aveva concesso, al
momento giusto, una certa
libertà a tutti i suoi figli,
maschiefemmine»(p.240).
L’autorità, il potere del
patriarcato, il potere del
capitale, può dunque essere
rifiutatoodelegato;èpresente
nella valle ma soltanto in
formadiombra(etuttaviachi
può dire se il figlio che
erediterà Harmonie non sarà
undespota?)
Quanto alla sostanza
dell’ordinesociale,questoèdi
tipo precapitalista e fondato
suidoveri.Nonèchiaroquali
origini Smith ascriva al
principio del dovere. È
possibile che all’origine ci sia
Dio e che Harmonie sia un
modello
di
comunità
cristiana. Di certo il piú
evidente dovere compiuto da
Stephan van der Merwe è la
costruzionediunachiesaper
il suo popolo, e di certo la
preghieraseraleèilmomento
in cui si riunisce l’intera
famigliaallargatadeiVander
Merwe. Ma la religione che
osserviamo in The Beadle si
limita al devoto compimento
dei doveri. Si potrebbe anche
sostenere che il principio
ultimo è l’istituzione stessa
dei doveri – in altre parole,
che la valle di Aangenaam è
una comunità ideale non
necessariamenteperchésegue
Dio ma perché segue
religiosamenteilsuocodicedi
doveri.
Il dovere principale del
popolo verso il seignor è
l’obbedienza:
«Fa’
che
obbediscaallamiapadrona»e
«Fa’chevadadicorsaquando
chiama il padrone» sono le
preghiere dei due bambini
apprendisti domestici (p.
204). Da parte dei Van der
Merwe,
il
dovere
corrispondenteèlacarità.Per
carità gli estranei come
l’«orfana»
Andrina
e
l’invalido Nind sono accolti
nella famiglia allargata di
clienti,bywonersedomestici.
I
modelli
opposti
dell’ordine rurale presentati
da Smith nei suoi due libri
sonoquindi:a)quelloincuii
legami di sangue perdono di
importanza e tutti i rapporti
umani, persino quelli interni
alla famiglia, sono mediati
tramite il denaro; e b) quello
in cui il denaro non è la
misura di tutte le cose e i
rapporti
umani
sono
concepiti
come
vincoli
familiari, di maggiore o
minoreprossimità.
Agricoltura
contadina.
e
cultura
Ho sottolineato alcuni
tratti di The Beadle che
inducono a classificare come
precapitalista la valle di
Aangenaam.
Eccone
il
riepilogo
con
qualche
aggiunta:
1. La vita della famiglia
(allargata) e l’economia
della fattoria sono
strettamenteintegrate.
2.Laproduzioneèingran
parte destinata all’uso
familiare o al baratto; il
denaro
è
usato
pochissimo.
3.
L’esistenza
dei
meccanismi sociali è
finalizzataacontrastare,
non a incoraggiare, gli
estremidiricchezzaedi
povertà.
4. Esistono dei legami
affettivi tra le persone e
laterra.
5.L’autoritàèpatriarcale.
6. Il matrimonio è
consideratounobiettivo
universaledell’esistenza.
Si tende a contrarre
matrimonio
molto
presto, e all’interno dei
confini del distretto.
Spesso si tratta di
matrimonicombinati.
7. La comunità locale è
culturalmente
omogenea.
Le caratteristiche qui
elencate sono comuni a ciò
che definisco, seguendo Alan
Macfarlane, l’organizzazione
classica
della
società
contadina 4.
Ma
la
sovrapposizione
non
è
perfetta. Alcuni tratti della
vita contadina classica sono
scartatidaSmith,mentrealtri
aspettidellavitanellavalledi
Aangenaam la distinguono
dalloschemaclassico.
L’elemento aggiunto da
Smith
che
desidero
sottolineareinmodospecifico
èlagerarchia.Esisteunascala
sociale che va dai Van der
Merwe,conlalorogenealogia
documentabile, fino ad
Andrina che non conosce i
suoi genitori. Dall’altra parte,
secondo la modalità classica,
1) il lavoro alla fattoria è
svolto interamente o quasi
dalla famiglia, poiché i
dipendentisalariatisonorari;
e2)l’autoritàpatriarcalevadi
paripassoconlaposizionedi
inferiorità delle donne e la
tendenzadeifiglimaschi(con
le loro mogli) a vivere, ben
oltre il conseguimento della
maturità, sotto il tetto dei
genitori. Entrambi questi
elementi sono assenti da
Harmonie, ed entrambe
queste
differenze
sono
rivelatrici.
Laprima,ovveroilsilenzio
sulruolodellavorodeineri,è
comune non soltanto a
Schreiner e a Smith, ma in
buona sostanza a tutto il
plaasroman afrikaans, e
rappresenta il fallimento
dell’immaginazione davanti
alla difficoltà di integrare i
neri diseredati nell’idillio (o,
nel caso di Schreiner,
nell’anti-idillio)
del
pastoralismoafricano.
La seconda differenza
appartieneinmodopeculiare
a Smith. Diamo per assodato
che il regno dei Van der
Merwe rappresenti la sua
visione di un patriarcato
purificato dal suo aspetto
tirannico, un patriarcato
benevolo del Piccolo Karoo
da contrapporre a quello
malvagio del Gran Karoo. La
visionebenevoladiHarmonie
proposta da Smith tende a
soddisfare un desiderio
inconscio.Perilmomentomi
limiterò a sottolineare un
elemento fattuale della vita
contadina:moglieefiglisono
liberati dalla fatica soltanto
quando il loro lavoro non è
piú vitale per la prosperità
della fattoria. Pertanto le due
differenze di Smith sono
collegate tra loro: la benevola
monarchiadiStephanvander
Merwe, liberatore della
famiglia, deve fondarsi sulla
sua capacità di sostituire il
lavoro della famiglia con il
lavorodeiservi.
Finora
ho
soltanto
affermato l’ovvio: che la valle
di Aangenaam di Smith si
basa su una visione parziale
della vita sociale e domestica
precapitalista; e che il suo
silenzio selettivo sul lavoro
dipendente, gli obblighi
lavorativideifiglieiproblemi
della successione ereditaria
suggeriscono che l’autrice
non abbia riflettuto appieno
sulle
dinamiche
dell’economiacontadina.
Piú interessante è la
domanda sul perché debba
esserci un seignor, perché
Smithnonabbiaimmaginato,
nella sua valle ideale, una
società di agricoltori piú o
meno uguali e indipendenti,
con i loro vari bywoners e
fittavoli. Nel creare il suo
seignor, per quanto benevolo,
emalgradociassicurichenei
giornidifesta«ricchiepoveri
si
mescolavano
senza
distinzioni di classe» (p. 82)
Smith reintroduce infatti il
demone della classe nel suo
Edenafricano.
Per comprendere questa
posizione,
occorre
considerare il genere di
cultura creato dai coloni
olandesi
sul
platteland
sudafricano.
Nella
sua
descrizione della condizione
della colonia del Capo
all’inizio del diciannovesimo
secolo,JohnBarrowdistingue
traqueicontadinichevivono
«in
modo
dignitoso»
(sostanzialmente quelli che
definisce
«piantatori»,
viticoltoridioriginefrancese)
e «il vero agricoltore
olandese, o boero» il quale, a
differenza
del
tipico
contadino inglese, tende a
vivere nell’ozio, trascurando
di sfruttare il potenziale della
terra. La distinzione di
Barrow è dunque tra il
prospero
agricoltoreproprietario
e
l’inetto
pastoralista, che definisce
indifferentemente«contadino
olandese» e «contadino
africano» 5.
Ilterminecontadino usato
da Barrow per indicare
l’agricoltore di frontiera non
sièmaiveramentediffusonel
Capo.Malaveritàèchegran
parte delle differenze tra
l’agricoltore di frontiera e il
contadino europeo sono piú
apparenti che reali. Se
l’agricoltore di frontiera
sembra assomigliare piú al
proprietarioterrieroliberoda
affitti o da doveri che a un
contadino,
dobbiamo
ricordare la classe dei
contadini liberi europei, i
qualiconquistaronolalibertà
dalla schiavitú della gleba
esattamente come fecero gli
olandesi
in
Sudafrica:
colonizzando nuova terra.
Ancora, l’uso estensivo della
manodopera
indigena
distingue certamente i coloni
olandesi dagli europei. Ma
poiché non si trattava di
manodopera
pagata
in
contanti, non comportava
necessariamente le stesse
concessioni all’economia del
denaro fatte in Europa. Anzi,
poiché i servi/schiavi, benché
non integrati socialmente,
erano integrati nel gradino
piú basso dell’economia
familiare, ci si potrebbe
spingere a sostenere che la
fattoria africana rappresenta
un’estensione del modello
classico
della
famiglia
contadina, anziché una
deviazione da esso. Infine, se
la
proprietà
rurale
generalmente estesa dei
coloni olandesi appare molto
diversa
dalle
proprietà
piccole,
addirittura
minuscole, dei contadini
europei, dobbiamo però
tenere presente la sterilità di
questedisteseafricane.
Se c’è quindi un motivo
per pensare alla fattoria
africana come a un’azienda
rurale adattata e trapiantata
in Africa, potremmo anche
provareapensareallacultura
della fattoria africana come a
una cultura contadina. Gli
elementi caratteristici della
fattoria rifiutati da Schreiner
– sospetto verso le novità,
conformismo,
antiintellettualismo,
gretto
materialismo – sono tipici
della cultura contadina.
Immaginando Harmonie, è
possibile che Smith stia
cercando di sfuggire a
un’atmosferaculturalesimile,
riflessa in qualche misura
nellesueprimestorie?
La letteratura dell’ordine
rurale morente, in Sudafrica
come in Europa, è piena di
storie di figli, maschi e
femmine, che una volta
assaggiato lo stile di vita
cittadino,
ripensano
all’ambiente contadino in cui
sono
cresciuti
come
un’oppressione senza tregua.
Non c’è da stupirsene. Le
comunitàcontadinedituttoil
mondo sono chiuse per
natura. I loro valori sono
omogenei e conservatori; la
tipica reazione nei confronti
delle idee nuove è quella di
chiudersi a riccio. Poiché le
loro modalità produttive
richiedonounbassolivellodi
specializzazione in svariati
ambiti, non manifestano –
per dirla con Marx – «alcuna
diversità di sviluppo, né
varietàditalenti,néricchezza
di rapporti sociali». Le
persone che, ricche di
un’esperienza di vita piú
ampia, si trasferiscono nella
società rurale – di regola
persone appartenenti al clero
o alla classe insegnante – si
trovanosocialmenteisolate.
La cultura contadina è
essenzialmente statica e per
conservarsi in tale stasi
utilizza una gran varietà di
esclusioniedisanzioni.Vista
dall’esterno, e in particolare
dalla prospettiva di una
personacolta,perquantoben
dispostaneisuoiconfronti,la
cultura
contadina
può
giustificare le molteplici
oppressioni interne, sugli
animali come su donne e
bambini, soltanto finché
mantiene un’etica del lavoro.
Lo spettacolo dell’indolenza
contadina, un vacuo tempo
libero sostenuto da un
meschino dispotismo, suscita
un senso di oltraggio morale
perfettamente comprensibile.
Com’eraevidenteperBarrow,
in una cultura dove o c’è il
lavoro o non c’è nulla, dove
non ci sono arti ma solo
artigianato, tempo libero e
ozio si riducono alla stessa
cosa. Persino un osservatore
della vita rurale cosí
bendisposto come George
Sturt,
che
scrive
dell’Inghilterra rurale degli
anni
Ottanta
del
diciannovesimo
secolo,
quando
i
cambiamenti
economici cominciavano a
creare il «tempo libero», è
turbato dalla vacuità del
tempo non consacrato al
lavoro nelle fattorie. Il
cambiamento,scrive:
Ha colto gli abitanti del
villaggio sforniti di quelle
abitudinimentaliefficientiche
sarebbero adeguate a tali
mutate
condizioni,
mostrandoli smarriti, privi di
idee interessanti in altre
direzioni. Non riescono piú a
trovare un obiettivo […] La
vita è diventata insensata,
stupida, nel villaggio regna
l’apatia – un’attesa insulsa, di
nienteinparticolare 6.
Vivendo al di fuori della
cultura libresca, al senso di
indignazione o di pena di un
Barrow o di uno Sturt il
contadino oppone soltanto il
silenzio.
Fin troppo spesso, in
effetti, il cittadino si accosta
allavitadicampagnaconuna
certa, inespressa pretesa di
trovarla edificante, e quando
ciò non avviene ne resta
deluso. La campagna non
produce intellettuali (da non
confondersi con gli artisti
popolari): costoro ricevono
altrove la loro formazione –
vengono mandati via a
studiare – e solo dopo,
semmai, tornano alla vita
rurale. Pertanto ogni ritorno
allafattoriatendeaessereuna
variante del genere bucolico
in quanto condivide l’ansia
dell’(alto) pastoralismo per la
giustificazione morale di tale
ritorno. «Il ritiro [pastorale]
dalmondopuòsimboleggiare
un
desiderio
di
contemplazione
e
una
virtuosa
mancanza
di
ambizione; ma può anche
essere indice dell’assenza di
uno scopo elevato, un rifiuto
della specie umana [...] Visto
in quest’ottica, può essere un
ritiro nell’accidia» scrive
Peter Marinelli 7. In altre
parole: la ricaduta nell’ozio è
un tradimento dell’impulso
alto-pastorale. Per questa
ragione la questione del
lavoro è centrale in tutti gli
scritti sulla vita rurale. Se c’è
un punto di cruciale
differenza tra la fattoria
africana di Schreiner e la
HarmoniediSmith,èquesto:
chelaprimaèunluogod’ozio
(e dunque un tradimento
degli aneliti pastorali della
stessa Schreiner) mentre la
seconda è un luogo di
industriosità.
Ilritornoallaterra.
Lanostalgiaperlavitadei
campi in The Beadle non è,
naturalmente, prerogativa di
Smith. È una caratteristica
che
appartiene
a
numerosissime opere scritte
inInghilterrafinoal1939.Se
dobbiamofissareunterminus
a quo per questa tendenza
inglese al ritorno alla
campagna potremmo seguire
W. J. Keith e datarla alla
«dissociazione urbano-rurale
della sensibilità» degli anni
Ottanta
dell’Ottocento 8,
fondata su una serie di
cambiamenti epocali sul
piano
economico
e
tecnologico. Prima di questa
fratturalavitadellacomunità
rurale tradizionale era solo
uno dei tanti modi di vivere;
in seguito finí per essere
considerato uno stile di vita
in via di estinzione e che
doveva
pertanto,
paradossalmente,
essere
conservato e imitato (si veda
JanMarsh,Back to the Land,
Ritorno alla terra, 1982). La
differenzatraprimaedoposi
puòosservareconparticolare
chiarezza se raffrontiamo
Richard Jefferies e George
Sturt,natiasoliquindicianni
di distanza. Jefferies scrive
senza alcun accenno al fatto
che il modo di vivere che
descriveèormaicondannato;
mentre in Sturt, malgrado la
simpatia che manifesta per la
vecchia cultura del villaggio
(da lui definita «frugalità»),
sono evidenti la posizione
dell’antropologo
nel
documentare una cultura
minacciata, cosí come il suo
dispiaceredifondo(sivedain
particolare A Farmer’s Life,
Vitadiuncontadino,1922).
Negli Stati Uniti, dove
nonostante l’abbondanza di
terra non c’è mai stata una
classe contadina indigena, le
dinamiche pastorali sono
state
molto
diverse,
imperniatesulmodoincuiil
contadino
dovrebbe
considerarelaterra:comeuna
madre che lo nutre o come
oggetto
di
stupro.
Nondimeno, il tema del
ritorno alla terra in quanto
recupero delle migliori
energie della persona (il
«mito di Anteo») occupa un
ruolo centrale nell’opera,
narrativa e non, di Louis
Bromfield.
È però in Germania, e in
particolare nella Germania
delperiodotraledueguerre,
che la letteratura del ritorno
alla terra ha avuto la sua
massima
fioritura.
Le
statistiche fornite da Peter
Zimmermann evidenziano
come
il
picco
nella
produzione del Bauernroman
sisiaverificatotrail1929eil
1938,quandoquestogeneresi
pubblicavadaquasiduecento
anni.
Diversi
fattori
precipuamente
tedeschi
determinarono la fortuna del
Bauernroman:
l’attrazione
che il Kulturpessimismus di
Spengler esercitava sugli
intellettualidellaclassemedia
e il parallelo rifiuto della
cultura
metropolitana
(Großstadtfeindschaft);lacrisi
degli anni Venti; la politica
delBlutundBodenpromossa
dainazisti.Manonpossiamo
circoscrivere il ritorno al
Boden esclusivamente alla
situazione tedesca. Con la
Grande Depressione in molti
paesi ci si cominciò a
preoccupare
per
lo
spopolamento
delle
campagne e ad auspicare il
ritorno alla terra. Un ideale
molto simile a quello del
Bauernroman si ritrova nei
romanzi dello scrittore
afrikaans C. M. van den
Heever, soprattutto in Groei
(1933):
un
patriarcato
illuminato, l’istintualismo, il
lavoro dei campi come atto
parareligioso
in
un
Lebensraum
libero
dai
rapporti
capitalistici
e
soggettounicamentealleleggi
naturali.
IlpastoralismodiSmithsi
distinguesiadaquellodiVan
den
Heever
sia
dal
Bauernroman tedesco. La
differenza essenziale è che,
mentre nel secondo caso gli
scrittori immaginano un
ritorno a un ordine sociale
contadino come programma
utopico (e mentre Bromfield
immagina una diffusione di
piccoli agricoltori illuminati
di stampo jeffersoniano),
Smith si attiene alla
tradizione inglese della
celebrazione pastorale piú o
meno nostalgica, tradizione
che auspica la conservazione
degli antichi valori rurali ma
che non ambisce a innestare
la retromarcia nel motore
dellastoria.
UnavoltaanalizzataSmith
nel contesto della letteratura
rurale inglese è piú facile
capire perché nella sua valle
di Aangenaam si attribuisca
una
posizione
tanto
prominente alla nascente
aristocrazia coloniale. Se
infatti cerchiamo un modello
diordinesocialedacuisiano
stati espunti i tratti piú
ripugnanti della società
contadina
classica
(principalmente il patriarcato
e le sue conseguenze), ordine
che oltretutto non viene
comunemente accusato di
oziosità, possiamo trovarne
uno nel ritratto del grande
proprietario
terriero
illuminato con la sua
obbediente
clientela
di
vassalli, fittavoli e contadini
elaborata nella tradizione
letteraria
inglese
conservatrice.
Dire questo significa
semplicemente affermare che
Smith,
utopicamente
e
astoricamente, trapianta in
Africa un modello inglese di
ordine rurale. Ma esiste un
secondolivellodiutopianella
sua visione. Infatti, se è
utopico voler trovare nel
Capoun’aristocraziaolandese
parallela a quella inglese,
altrettanto lo è voler vedere
una classe contadina inglese
parallela a quella olandese in
Africa. La verità è che
l’idealizzazione
dell’antico
ordine feudale basato sui
doverireciprocirisalequanto
meno all’Inghilterra di Ben
Jonson(«ToPenshurst»)egià
allora
rappresenta
una
reazione allo sviluppo di un
ordinecapitalistaagricolo 9.È
lecito dubitare che in
Inghilterra sia esistito, dal
sedicesimo secolo in poi, un
qualcosa che si possa
legittimamentedefinireclasse
contadina di stampo classico,
con un’economia basata sulla
proprietàfamiliaredellaterra.
Alan Macfarlane si spinge
addirittura a esprimere lo
stessodubbiocircal’esistenza
di una classe contadina
inglese fin nel tredicesimo
secolo. Gli statuti del 1290
concedevano a qualunque
uomo libero il diritto di
«vendere
a
proprio
piacimento la terra e tutti i
suoi beni». La proprietà
assoluta garantita da questo
ordine è diametralmente
opposta a quella forma di
proprietàfamiliaredellaterra
che incontriamo nella società
contadina.Inoltre,soltantoin
Inghilterra l’usanza della
primogenitura – limitata
comunque unicamente ad
alcune regioni dell’Europa
nordoccidentale–èpenetrata
fino ai livelli piú bassi della
proprietà terriera, facendo di
quel paese un caso unico
sotto questo aspetto. Inoltre,
la primogenitura mal si
accorda con la proprietà
congiunta.
Infine,
il
capitalismo agricolo in
Inghilterra era cosí efficiente
e potente che la classe dei
piccoli proprietari terrieri fu
sempre ridotta e svantaggiata
e continuò, fino al 1914, a
ridursi
e
indebolirsi
ulteriormente in quanto la
terra finiva nelle mani dei
grandiproprietari.
Cosí lo scrittore che
guardasse
all’Inghilterra
cercandoviunsolidomodello
di classe contadina che vanta
ogni diritto sulla terra, e che
unaretedimutuidoverilega
a un’aristocrazia locale
analogamente
radicata,
finirebbe inevitabilmente per
spingersisemprepiúindietro
nella storia, in un passato
sempre piú nebuloso. Il
potere del capitale nella
campagnainglesesièrivelato
irresistibile;
l’autentico
motivo dietro alla nostalgia
per un passato di contadini e
di padroni è con ogni
probabilità un pio desiderio
generato dal rifiuto del
capitaleedellasuastoria.
Il«plaasroman».
La fattoria africana di
Schreiner ci mostra il volto
orrendo di un modello
agricolo in cui il lavoro
saltuariodiunaclassediservi
della gleba dominati da
padroni indolenti riesce – a
malapena – a ricavare di che
vivere
da
una
terra
indifferente. Dalla narrazione
di Schreiner non c’è ragione
di supporre che il dominio
della donna boera e della sua
classesulveldafricanodebba
avere fine. Da tale dominio
Lyndall
fugge;
Waldo
l’affrontaeperisce.
Ma come sappiamo, gli
anni Ottanta dell’Ottocento
avevano in serbo grossi
problemi per i proprietari
terrieri bianchi in Sudafrica,
problemi che un secolo dopo
nonsonoancorafinitieilcui
effetto è stato spingere o
attrarre gran parte di loro
verso città piccole e grandi,
lasciando le fattorie nelle
mani dei latifondisti. Tra le
cause di tali difficoltà ci fu
l’incremento di capitali in
cercadiinvestimentisicuri,la
crescita di una rete di
trasporti che comportò
l’apertura di nuovi mercati e
rese
piú
redditizia
l’agricoltura, la coltivazione
inefficiente di lotti di terreno
che,giàpiccoli,siriducevano
ulteriormente
a
ogni
generazione,
il
fascino
esercitato sui figli dei
patriarchidalleattrattivedella
città.
Questa crisi del platteland
costituisceilretroterrastorico
dell’opera di Smith. Sottende
ai racconti di Little Karoo e,
per quanto The Beadle si
presenti come fuori dalla
storia, o almeno precedente
all’epoca della crisi, la
creazione di Harmonie è
evidentemente una risposta
agli interrogativi che erano
nell’aria negli anni Venti del
Novecento.
Come
reagiscono
i
contemporanei afrikaans di
Smith a queste questioni? La
prima cosa da notare
riguardo agli autori del
plaasroman – e qui vorrei
segnalare in particolare D. F.
Malherbe, Jochem Van
Bruggen,JohannesvanMelle,
Mikro,C.M.VandenHeever
e Abraham Jonker – è che
costoro,inmodopiúesplicito
di Smith leggono la crisi del
platteland come conflitto tra
la modalità di produzione
contadinaequellacapitalista.
Èmoltocomunequilafigura
del cittadino arricchito, di
solitouncommerciantemaa
volte un avvocato o un
medico,spessoebreo(siveda
Malherbe, Die Meulenaar;
Jonker, Die Plaasverdeling;
Van Bruggen, Ampie, parte
III; Van den Heever, Gister).
A complemento della figura
del cittadino con troppi soldi
c’è quella dell’agricoltore
appenaemersonell’economia
del denaro: per ottenere quel
capitale che permetterà alla
sua fattoria di competere
nella
nuova
economia
darwiniana è costretto a
ipotecarelaterraoachiedere
aiparentidifarloperlui(Die
meulenaar,
Die
Plaasverdeling;ilGroeidiVan
denHeever).
Il conflitto tra la
concezione
vecchia
(contadina) e quella nuova
(capitalista) del valore della
terra è quindi ampiamente
rappresentato. Questo non
significa però che sempre
troviamo il riconoscimento
esplicitodiunasvoltaepocale
nell’economia rurale. Nella
maggioranza dei casi il
capitalista è ritratto come un
perfido maneggione (l’ebreo
di Die Meulenaar, la cui
giustificazione è: «Gli affari
sono affari»; il negoziante
ebreo di Die Plaasverdeling
che attira lo sventurato eroe
nella rete del debito), mentre
il nuovo bisogno di denaro è
attribuito semplicemente al
desiderio di ottenere le
gratificazioni
degenerate
offertedallacittà«inglese»(si
veda l’analisi della crisi
proposta da Kasper Booysen
inAmpie,parteI).Daquesto
punto di vista la xenofobia o
il moralismo o entrambi
trionfano sull’analisi delle
forzeingioco,eilplaasroman
finisce per avvicinarsi alla
reazionaria
Großstadtfeindschaft,
all’anticapitalismo,
antisemitismo, e all’ideologia
delBlut und Boden tipica del
Bauernroman.
L’autorediplaasromanche
in questo conflitto spicca
come il piú neutrale, il meno
inclineasostenereciecamente
ivaloricontadini,èAbraham
Jonker, il quale fornisce una
rappresentazione piuttosto
spietata,
chiaramente
debitricedelNaturalismo,del
declino e della sconfitta dei
menoattiasopravviverenella
lotta della classe rurale per
adattarsi
alla
giungla
capitalista. Die Trekboer
mostra
un
agricoltore
sconfitto che si sforza di
capirel’economiadeldenaro,
senzaperòriuscirci.Rifiutadi
adattarsivendendolapropria
forza lavoro, perde l’autorità
patriarcale sulla famiglia e
soccombe,
in
città,
all’alcolismo.
Nella
sua
ricettività
all’ideologia del darwinismo
però Jonker (per il resto uno
scrittore
mediocre)
rappresenta
un’eccezione.
Nellamaggiorpartedeicasiil
plaasroman abbraccia un
programma all’insegna del
rinnovamento
dell’ordine
contadinobasatosulmitodel
ritorno alla terra: «Dove
risiedelaforzalatenteditutte
le
culture
nazionali:
[nell’]uomo legato alla terra,
cui è misticamente unito da
un amore oscuro […] questo
èilterrenoincuicresconole
generazioni»scriveC.M.Van
denHeever 10.Nonsoltantoil
proprietario, insieme a figli e
figlie, ritroverà se stesso
mediante il ritorno alla terra:
anche i servi finiranno per
riconoscerechelavitadicittà
è un’aberrazione, che la vera
felicitàsipuòtrovaresoltanto
nella fattoria in cui sono nati
(questoèiltemadellatrilogia
di Toiings di Mikro).
L’idealizzato ordine della
fattoriaprevedeche«ciascuno
riceva la sua porzione […]
secondo le usanze stabilite,
ciascunodeiservi,delleserve
epersinoivicini» 11.
Il romanziere che mostra
le maggiori capacità di
riflessioneedianalisirispetto
alla crisi che porterà alla fine
del vecchio ordine contadino
è Johannes van Melle con il
suoDawidBooysen.Inquesto
romanàthèseilprotagonista,
Booysen,rifiutadistipendiare
la sua forza lavoro (al fine di
indebolire gli antichi vincoli
di reciprocità tra padrone e
servi) e di finalizzare la
produzione
al
profitto
secondoidettamidellanuova
economia di mercato. Mette
in pratica la sua opposizione
al nuovo ordine economico
trasformando la proprietà
ereditata in un «klein
kooperasie», una piccola
cooperativa, con i bywoners
che ottengono il godimento
per cinquant’anni dei loro
lotti mentre proprietari e
fittavoli collaborano per
conquistare l’indipendenza
dall’economia in senso piú
ampio, arrivando a cuocersi i
mattonieaforgiarsilespade.
«Prima dobbiamo chiederci
quali sono i nostri bisogni,
quellidellanostragenteedei
kaffir che vivono nelle nostre
fattorie,equellidelbestiame,
senza preoccuparci del
mercato» dice Booysen 12.
Sposa poi una ragazza che,
per quanto abbia radici in
campagna, non è del vecchio
stampo: legge riviste di
agricoltura e si interessa ai
suoiprogetti.
Iltermine«ko-operasie»in
effetti non descrive in modo
adeguato la comunità di
Booysen, che vuole invece
esserelaprimadiunaretedi
comunità cristiane in tutto il
platteland: ciascuna costituita
da
un
proprietario
paternalistico,conungruppo
difittavolieunostratosociale
piú basso di servitori neri, i
quali lavorano quanto piú
possibile al di fuori
dell’economia generale con
l’obiettivo di proteggere la
classe sempre piú numerosa
di contadini bianchi senza
terra, oltre che i servi neri
senza terra, dai rigori e dalle
tentazioni del nuovo ordine
capitalista.
Il libro che forse ha
esorcizzato
in
maniera
definitiva il «fantasma del
genere pastorale sudafricano
tradizionaleȏ,secondoA.E.
Voss, Il Conservatore di
Nadine Gordimer (1974). La
soluzione
pastorale
al
problema di come debba
vivere l’uomo bianco in
Sudafrica è che dovrebbe
ritirarsi
nell’indipendenza
rurale; è questo il fantasma
esorcizzato quando, nel
romanzo di Gordimer, il lato
oscurodellavitacontadina,la
sua metà sepolta, il cadavere
nero in giardino, viene
finalmenteriportatoallaluce.
Senza voler minimizzare
l’esito del Conservatore, che
da tutti i punti di vista è un
degno erede di Storia di una
fattoria africana all’interno
della tradizione antipastorale,
michiedosesiapossibileche
il fantasma pastorale possa,
per sua natura, essere
esorcizzato una volta per
tutte. È vero che i silenzi nel
romanzoruralesudafricano,e
soprattutto il silenzio sul
posto occupato dai neri
nell’idilliopastorale,nonchéil
silenzio che crea quando
mette in bocca a un
contadino nero le parole di
un bianco (come fa Mikro
nella sua trilogia di Toiings)
oggisonoassaipiúassordanti
di cinquant’anni fa. Siamo
abituati ormai a cogliere i
silenzi. Siamo stati educati
alla musica di Webern: un
silenzio strutturato da tracce
di suono. Siamo diventati
abili nella lettura dell’altro:
vuoti,
rovesciamenti,
sottotesti; ciò che è velato;
l’oscuro, il sepolto, il
femminile; il diverso. Di un
romanzo pastorale come The
Beadle diamo una lettura
antipastoralecomequellaqui
presentata, attenta agli spazi
tralerighe(Dov’èDio?Dov’è
l’Africa?) Solo parte della
verità,asseriscequestalettura,
si trova in quel che il testo
afferma su ciò che finora è
rimasto inespresso; per il
resto, la verità risiede in quel
che non osa dire per
difendere la sua stessa
sicurezza,oinquelchenonsa
disestesso:neisuoisilenzi.È
una modalità di lettura che,
sovvertendo ciò che è
dominante, rischia – come
tutte le sovversioni trionfanti
– di diventare dominante a
sua volta. È dunque una
varianteutopica(opastorale)
immaginare un futuro (o un
passato) in cui la verità
risiederà in ciò che viene
detto (o che è stato detto) e
non in ciò che resta
inespresso,untempoincuila
musica ci apparirà (o ci
appariva) come suono che
sovrasta il silenzio, e non
silenziotraisuoni?
[1988].
Leggereilpaesaggio
sudafricano
EuropaeAfrica.
Tra le poesie scritte da
Thomas Pringle durante il
suo soggiorno in Sudafrica
negli
anni
Venti
dell’Ottocento c’è la poesia
topografica Evening Rambles
(Escursioni notturne) che
descrive,perillettoreinglese,
alcune vedute del Capo
orientale.
L’aloedrizzalasuacresta
vermiglia,
Comemaestosareginaalla
pariglia;
Eilfagiolodaifiorigiganti
scrolla
sullefelciirossiciuffi
sgargianti 1.
Se agli inglesi questi fiori
potevano apparire insoliti,
noncosíilcontestopoeticoin
cuilicollocaPringle:ilritmo
familiare di distici tetrametri
giambici addomestica in
modo
rassicurante
il
contenuto estraneo. Il tema
che sottende tutta quanta la
poesia è che, dal momento
che la natura incontaminata
africana non esige sforzi
particolaridallalinguainglese
e nemmeno dai suoi versi, si
può benissimo inserire nella
categoriaeuropeadell’esotico.
Alcuni decenni piú tardi
possiamo vedere all’opera lo
stessointentoprogrammatico
di contenimento dell’esotico
negliesecrabiliversiscioltidi
H.H.Dugmore:
IlKareigaserpeggianelsuo
corsotortuoso
tralerivedeisalici;mentre
quaelà
l’irokodalloscurofogliame
alzafierolatesta
conmaestosadignità 2.
Quel che incontriamo in
Pringle e in Dugmore è il
primolivello,ilpiúprudente,
di un processo autolesionista
che consiste nel definire
l’Africa come non-Europa –
autolesionista perché in ogni
singolo dettaglio che porta a
identificare l’Africa come
non-europea,aesseredefinita
è sempre l’Europa, non
l’Africa. Questo processo
continua fino al ventesimo
secolo: ecco Francis Carey
SlatersulKaroo:
Regioneprivatadelsorriso
dell’erbaedelsuoverde
gioioso,
sterilediboschisilentiche
comeNarcisosognanola
lorostessaombra.
Tuignorilamusicacheallietò
Evanell’Eden–
L’arpadeifiumi-menestrelli,il
flautodeirividalle
movenzeleggere 3.
Da qui è facile prevedere
quale direzione prenderà la
poesia
di
descrizione
topografica:oun’applicazione
sempre piú frenetica della
metafora europea attribuita
all’Africa, nel tentativo di
costringerla a cedere la
propria essenza; oppure
l’abbandono delle categorie
europee ormai sconfitte in
favore di un linguaggio
africano che si presume
espressivo per natura. Sulla
prima di queste vie vediamo
avviarsiSlaterinTheKarroo:
Amezzogiornoilsolerabbioso
punisceaspramentela
pianura,
Iraggitorriditremano
nell’aria,comepuladall’aia
dellatrebbia;ondelucenti
dicaluraguizzano,come
spumaschizzatadai
cavalloni,
egonfiandosisaltanoe
scintillanoinondandoin
silenzioledistese 4.
LostessofaA.S.Crippsin
TotheVeld:
Tappetobrunoelacero,vasto
enudo,
Seminatodiroccegrigie,ferito
eanneritodallafiamma!
Tappetodiscena,perfar
risaltareognibellezza 5.
Tali eccessi metaforici
scatenano una dinamica
poetica chiusa in se stessa.
Non riuscendo ad avere la
meglio sul veld, a fargli
dischiudere la sua essenza, il
veld è condannato per la sua
incapacità di rispondere al
linguaggio. («Come puoi
produrre gioia per chi […] |
Cerca la Bellezza che sfugge,
anela all’incanto della sua
voce?», Slater, The Karroo) 6.
Ancora un piccolissimo
passo, è facile prevedere, e il
veld
diventerà
imperscrutabileeindifferente.
L’altra strada impone in
primo luogo di decidere che
la vera Africa è destinata a
scivolare sempre fuori dalle
maglie della rete intrecciata
dallecategorieeuropee(come
chiarisce Patrick Cullinan
nella poesia 1818. M. le
Vaillant Recalls), e poi di
chiedersi se i linguaggi
africani nativi possano, a
differenza
delle
lingue
europee, essere in armonia
con il panorama. Cosí Guy
Butler sente il canto di una
donnafingo:
piúconsono
alcielolavatodallapioggiae
allacollinapetrosa
diognicadenzaspremuta
dallamialinguaimpedita 7.
The Herdboy’s Flute (Il
flauto del pastore) di Slater
offre una presentazione piú
complessa (ma non elaborata
in modo completo) della
medesimatesi:ilpastorezulu
che non sa rispondere alle
domande
del
poeta
sull’ispirazione della musica
del suo flauto è, da un lato,
troppo stupido (troppo poco
curioso,
troppo
poco
articolato) per comprendere
che il salto dal paesaggio
all’arte (in questo caso, la
musica) è essenzialmente
metaforico, e – dall’altro –
troppo
profondamente
inserito nel suo paesaggio
(troppo poco riflessivo,
troppopococonsapevole)per
aver bisogno di sapere che il
paesaggio e la risposta
artistica non sono la stessa
cosa.
Il dibattito ci ha ormai
portati
chiaramente
a
esplicitare
la
domanda
centrale
della
poesia
paesaggistica
sudafricana:
come dobbiamo leggere il
paesaggio entro cui ci
troviamo?
Illinguaggiodelveld.
Se
la
letteratura
paesaggisticanonvuoleessere
un’artesecondariaeinferiore,
mera trascrizione verbale di
una scena già visualmente
composta, deve fare, o
almeno proporsi di fare, quel
che la pittura paesaggistica
non può: leggere e articolare
il significato del paesaggio.
Nellasuaformapiúsemplice,
il processo di lettura si
limiterà a tradurre in parole
lo stato d’animo evocato dal
panorama (o da una sua
immaginaria
rappresentazione pittorica).
La poesia sudafricana, e in
specie quella in afrikaans,
abbonda di esempi di questo
genere. Nel caso classico, il
panorama suscita nel poeta
un
determinato
stato
d’animo, e il movimento
corrispondente della poesia
va dall’esterno all’interno, a
volte spingendosi fino al
punto che esterno ed interno
si invertono, e l’esterno
diventa
metafora
dell’interiorità (C. M. Van
den Heever illustra piú volte
questo movimento; ma lo
schema vale anche per molte
delle poesie in apparenza
paesaggistiche di C. Louis
Leipoldt e N. P. Van Wyk
Louw) 8.
Esiste però una corrente
della poesia paesaggistica
particolarmente forte in
Sudafrica, che nasce dalla
figura venerabile della natura
intesacomelibrodiDio(San
Bernardo: natura est codex
Dei;Coleridge:«L’universoè,
letteralmente,lalinguascritta
[diDio]»)chemetteinprimo
piano il problema del
significato del paesaggio,
ascrivendoallapoesiapiúche
atuttelealtreartilacapacità
di individuare tali significati
insiti nel paesaggio. I
problemi che soprattutto
angustiano i poeti bianchi
sudafricanisono,ovviamente,
selaterraparliunlinguaggio
universale, se il panorama
africano si possa descrivere
conunalinguaeuropea,segli
europei possano sentirsi a
proprio agio in Africa. La
risposta piú cupa è il monito
contenuto in una poesia di
Leipoldt, Die Soutpan (La
salina):«Hierpraatdieveld’n
onverstaanb’re taal» (Qui il
veld parla una lingua
incomprensibile).
CharlesEnglington,inuna
poesia dal titolo Old
Prospector
(Il
vecchio
cercatore d’oro), presenta un
lettore emblematico della
terra nella persona di un
prospettore che rifiuta lo
sguardo dall’alto, la visione
generale e onnicomprensiva
dell’Africa,
preferendo
scrutare da vicino la terra. I
suoi «occhi di veggente»
«leggononeisegnicriptici|la
formula di ricche scoperte»,
perché comprendono «gli
arcani del veld». In effetti si
allontana dalla prospettiva
globale della vecchia arte
pittorica coloniale legata a
conquiste e dominio, per
scegliere un’arte piú umile e
locale di particolari resi con
cura, basata sull’amore e
sull’intimitàconlaterracome
terreno [land-as-soil]. La
poesia di Englington è degna
di nota non soltanto perché
segna l’affermazione di una
nuova arte paesaggistica non
fondata
sullo
sguardo
imperialista,maperchétorna
a enunciare un tema
ricorrente
negli
scritti
paesaggistici sudafricani: che
ilveropanoramasudafricano
è fatto di rocce e non di
fogliame; e dunque l’artista
sudafricano deve adottare
uno sguardo geologico, non
botanico. È stata Olive
Schreiner la prima ad
avanzarequestatesi,nellafase
iniziale della sua carriera,
quando subiva l’influenza
delleletturedistorianaturale
edellateoriaevoluzionista:le
pietredelsuoKarooparlanoa
chi è abituato a leggerle,
anche se l’argomento di cui
parlano
è
soprattutto
l’insignificanza
dell’uomo.
Questa svolta geologica nella
poesia
paesaggistica
sudafricanaèparticolarmente
affascinante
in
quanto
afferma che la vegetazione
dissimula il paesaggio, che
l’arte
paesaggistica
tradizionale, che è arte di
prospettiva, è superficiale per
natura e non è capace di
raccontarelaverastoriadella
terra, la storia che giace
sepolta, o semi-sepolta, sotto
la superficie. La nuova arte
paesaggistica che chiama in
causa antiche analogie tra
distanza
e
superficie,
vicinanza e profondità,
diventa cosí soprattutto arte
di lettura profonda; il pittore
versato
nella
rappresentazione
delle
superfici deve farsi da parte,
lasciando spazio al poeta con
la sua arte divinatoria capace
dipenetrareinprofondità.
Che cosa giace sotto la
superficie poco promettente
dell’Africa, a parte i metalli
inerti? Nella poesia Sweetwater di Guy Butler la
risposta è l’acqua. Afferrata
non dall’occhio ma dalla
lingua, piú primitiva («Senti
come è dolce»), bevuta nella
reverenziale postura in
ginocchio,l’acquasotterranea
datrice di vita dell’Africa si
offre ai veri figli dell’Africa
stessa, nativi, primitivi,
veggenti solitari. In altre
poesie la verità petrosa
dell’Africa emerge sotto
forma di fiore: la violetta
africander che spunta dal
«beetling krantz» (la roccia
incombente) e trae la sua
sussistenza dal «vecchio e
fiero cuore della montagna»
(Kingsley Fairbridge), l’aloe
che cresce sulla «skurwe
randjierug»
(la
cresta
rocciosa) (C. M. Van den
Heever, «Hier op die skurwe
randjierug»).
L’interno
roccioso ha quindi un cuore
vivo, che si rivela soltanto
all’osservatore piú attento e
dedicato, a chi cammina in
solitudine nella natura. Il
locus classicus di questa
epifania nel veld è il
momento in cui, in Storia di
una fattoria africana, un
albero proclama a Waldo la
sua verità, o è sul punto di
proclamarla.
Le piú interessanti tra
queste poesie paesaggistiche
geologiche sono quelle in cui
lo sguardo penetrante del
poeta rivela non la forma
estetica superficiale della
terra, ma una forma
preistorica sottostante che
minaccia
di
irrompere
nuovamente nella storia. La
prima, in senso cronologico,
di tali poesie è Rounding the
Cape(1927)diRoyCampbell
incui,sottolosguardoacuto
del poeta, emergono dalla
montagna
i
contorni
minacciosidiunanerafigura
dormiente. Nel Transvaal
William Plomer vede «Spalle
di quarzo emergere dalla
montagna | Come una
scultura
per
metà
dissepolta» 9.
Sorvolando
l’antico letto asciutto del
plateau, Anthony Delius si
chiede se «Behemoth» non
giaccia «sognando come la
carpa sotto al fango» nel
panoramasenzavita.
Accanto a queste poesie
cripto-profetiche di giganti e
mostri sul punto di svegliarsi
da un sonno torpido per
reclamare quanto gli è
dovuto, possiamo collocare
alcune poesie afrikaans
storicamente piú positive in
cui il paesaggio è raffigurato,
imponendo al lettore uno
sforzo di immaginazione,
come una donna distesa o
ancheunamadre(perquanto
una madre esigente, piú che
generosa): Jan Celliers, Die
Vlakte; C. J. Langenhoven,
DieStemvanSuid-Afrika.
GuyButler.
Iltemadelpoetadifronte
al paesaggio sudafricano ha
impegnato Guy Butler per
tutta la sua lunga carriera. Il
poeta per Butler è una figura
diversificata e complessa:
depositaria
di
un’immaginazione creativa;
portavoce di una cultura
europea in Africa; uomo
afflitto dalla consapevolezza
di sé. La sola incarnazione
familiarechenontroviamoin
Butlerèquelladelpoetacome
colui che proietta i suoi stati
d’animosulpaesaggioocheè
investito dallo stato d’animo
delpaesaggio.Valeadireche
Butler tratta il rapporto del
poeta con il paesaggio dal
puntodivistastorico.
Nei
momenti
di
alienazionechericorronopiú
e piú volte, la memoria di
Butlerportaalloscoperto–e
lesuepoesiefannorivivere–
quei «luoghi del tempo» che
gli impongono la traumatica
presa di coscienza della sua
estraneitàinAfricaeforsenel
mondo. In Myths, per
esempio, uccide un cobra (e
cioè una delle creature
africane autoctone) e a un
tratto il paesaggio cessa di
essere
un
ambiente
confortevole; aloe, massi,
licheni, nuvole erompono
singolarmente, «all insisting
on being seen» (e tutti
insistono per farsi vedere).
Questo
momento
di
alienazione in cui il mondo
prende le distanze dal
soggetto è anche il momento
in cui il panorama annuncia
la propria resistenza al
linguaggio. Specificamente,
nella formulazione di Butler,
questo è il momento in cui il
paesaggio africano annuncia
la propria resistenza alla
linguaeuropea.
Nonmisonotrovatosulle
mapped’Europa…
Devotornareconimiei
semplicicinqueschiavi
aunaterraancoraselvaggia,in
qualchemodoancorapura:
Lamiaterrasenzaamore,
superficiale,spontanea
nelleforme
Dovenessunfantasmaporta
fascinoalletomberecenti
Eognicosa,nelloSpazioenel
Tempo,semplicementeè:
Qualimetaforepossono
illuminarequestiiati
nondrammatizzatidanette
antitesi? 10.
Per Butler dunque la
difficoltà di trovare un
linguaggio per l’Africa è
duplice: 1) il paesaggio
africanosemplicementeesiste
in assenza della «profondità»
che possiede il paesaggio
quando, per via della lunga
associazione
con
un
linguaggio particolare, con la
culturaereditataescrittadella
popolazione che parla tale
lingua, finisce per portare le
risonanzestorichedivocidal
passato;mentre2)(equestoè
il punto in cui Butler è
particolarmente acuto) la
stradaintrapresadaipoeti,da
Pringle in poi, che hanno
descritto l’Africa come nonEuropa, drammatizzandola
per antitesi, fa dell’Africa un
puro
riflesso
negativo,
un’ombra dell’Europa, priva
diognisostanza.
In tutti i suoi scritti
successivi Butler gira attorno
al problema già articolato in
HomeThoughts,conilrischio
discivolareinunarispostadi
primitivismo romantico un
po’ troppo facile, specie nelle
poesie che guardano con
nostalgia agli africani o ai
bianchi
rurali
delle
generazionipiúvecchiecome
a coloro che partecipano di
un rapporto perduto ma
anelato con la terra. Tale
primitivismo è un tratto di
ServantGirlediSweet-water,
a cui abbiamo già accennato.
Ma è tematizzato in modo
particolarmente chiaro in
Farmer. Qui un vecchio
agricoltoredelKarooammira
un panorama che conosce da
sempre, un paesaggio che «è
per lui acqua e respiro di
vita». Il rapporto tra questo
contadino e il suo paesaggio,
afferma nella poesia la voce
autorevole, è «reale»: in una
popolazione
rurale
inarticolata come questa, per
quante deficienze morali si
possanoriscontrare,esisteun
sentimento inalienato per la
terra, che viene stroncato nel
momento in cui si compie
l’ascesa verso il linguaggio. Il
corollario è che lo stesso
impulso a descrivere il
paesaggioamatoèlaprovadi
unacondizionedicadutaodi
alienazione; i tentativi di
tornare alla grazia attraverso
l’arte sono condannati in
partenza.
La posizione che Butler
sviluppa piú a fondo sulla
questione di un linguaggio
perl’Africasiincontrainuna
poesia tarda, Near Hout Bay.
Per
quanto
questa
composizione
sembri
affrontarenonl’estraneitàdel
paesaggio visibile all’occhio
ma quella dei suoni della
natura (cicale, colombe,
vento, onde) possiamo
presumere
una
mera
trasposizione dalla vista al
suono, e che si tratti della
stessacrisi.Lapoesiaesprime
unabennotaposizionestoica:
la fede nel potere del
linguaggio di ricomporre la
frattura tra uomo e natura
(oltre che tra uomo e uomo)
non ha mai avuto un
fondamento certo; tanto vale
«accettare la separazione»,
cosí come l’orecchio accetta i
«suoniignoranti»dellanatura
selvaggia senza preoccuparsi
dellorosignificato:
diecimilacicalesferzatedal
solestrillanoinestasi;
vicineelontane,acentinaiale
colomberilancianoil
messaggio
ripetendoloimperturbabili
l’unaall’altra;
ipinisospiranonelvento,da
milleaghiluccicanti;
nelventogiàappesantitodal
brontolio,
perpetuo,maicompianto,
dellosgretolarsideimarosi 11.
Ma, in quanto discorso
poetico,
la
poesia
paradossalmente contraddice
lasuatesi,oalmenociprova:
i versi citati sono la
rappresentazione
del
paesaggiosonoroneidintorni
di Hout Bay, e anche,
sembrerebbe,
una
sua
interpretazione: questi suoni
«riempiono quel silenzio
primitivo | di tristezza e di
lodi». Qui la posizione di
Butler–cheivariordinidella
natura, ciascuno per proprio
conto, lodano nondimeno il
creatorecomemegliosannoe
forse non possono farne a
meno – si discosta in modo
significativodallaconclusione
secondo cui l’impresa di
cercare di leggere vedute e
suoni dell’Africa è errata.
Anzi, non è lontana dal
naturacodexDei.
Indipendentemente dal
titolo, il tema delle poesie di
Butler fin qui menzionate è
stato un generico paesaggio
sudafricano. La poesia piú
strettamente legata a uno
specificopaesaggioèCradock
Mountains, in cui è piú
evidente l’entità del debito di
Butler nei confronti di
Wordsworth e delle sue
riflessioni sul potere di
«impregnare ed elevare la
mente» che hanno le scene
dell’infanzia,lesequenzesulle
trappole tese agli uccelli e
sulla Fiera di Grasmere ne Il
preludio [1805] 12, che ne
definiscono quasi per intero
portata e tematica. Questa
poesia
solleva
un
interrogativo
wordsworthiano: In che
modo siamo stati forgiati dal
paesaggio in cui abbiamo
vissuto? Ma la risposta è
appena
accennata.
Accontentandosi come fa qui
di trattare temi della
tradizioneinglesetraspostisu
un fondale africano, Butler si
prefigge un obiettivo non
meno provinciale di quello
delThomasPringledeiPoems
IllustrativeofSouthAfrica.
SidneyClouts.
AncheCloutscomeButler
mette in primo piano il
rapporto tra poeta e
paesaggio. In Clouts però il
poeta è una figura piuttosto
diversa.Nonènéeuropeoné
portatore di una cultura
europea estranea. Il fatto di
possedere
autoconsapevolezza
e
linguaggio non sembra
costituire una barriera tra lui
e il paesaggio. Se lui se ne
sente escluso è soltanto
perché il suo linguaggio non
ha
ancora
raggiunto
quell’acutezzadipenetrazione
cheglipermetteràdiinserirsi
nel paesaggio entrando a
farne parte, mentre procede
nella sua ricerca di un’Africa
interiore,
un’Africa
nell’interno dell’Africa che ci
sembra di vedere. Lingua e
coscienzadunqueperluinon
sono un fardello. Al
contrario, attraverso lo
strumento che è il poeta, ma
anchenellapersonadelpoeta,
il paesaggio consegue la sua
massima espressione e la
pienezzadellasuaesistenza.
Nonsonocontemplativoper
naturamanellanatura[…]
Contemplativonellanatura:
lanaturadentrodime,lamia
natura 13.
Entrare a far parte della
naturanonèperòcosafacile.
È un risultato che si ottiene
lottandoduramentecontrola
resistenzadelmondo,lottain
cui l’organo principale di
penetrazione e di controllo è
l’occhio. La poesia After the
Poem esprime la volontà del
paesaggio di riaffermare la
sua identità autonoma dopo
la violenza del vedersi
imporre un nome, una
descrizione,unpossesso.
Dopolapoesialacostaprese
ilsuopostoconsguardofermo
decisaacontestarefieramente
ildirittodellapoesiaa
possederla[…]
Lacostabalenò–balenò,
diciamo,comeunaprotesta
finoallavettarocciosadel
Sentinel
chescendeinmare
contalforzadaspezzarneogni
verso 14.
Non si deve tuttavia
ignorare il fatto che, proprio
in quanto poesia, After the
Poem tenta di padroneggiare
econtrollareilpaesaggionella
sua stessa riaffermazione di
sé. La poesia in Clouts è,
primaditutto,imperialista.
Per Clouts (come per
Wordsworth, che definisce la
vista «il piú dispotico dei
nostri sensi» 15, Il preludio
[1805]),l’organodeldominio
è l’occhio. Se questo viene
meno, se «non entra» (come
in Within), la poesia vacilla.
Mal’obiettivodellesuepoesie
non è tanto tenere il
paesaggio sotto il dominio
della vista (che è anche
l’obiettivo
dell’arte
paesaggistica,formarealizzata
mediante l’autodefinizione
del soggetto come colui che
osservalanatura,dominando
tuttalascenaconlosguardo),
quanto entrare nel paesaggio
mediante l’occhio, allo scopo
di
viverne
l’esistenza
dall’interno. A questo fine è
necessario abbandonare la
visione complessiva che
concepisce il paesaggio come
una totalità anche in senso
geologico. Le sue poesie
passano invece con estrema
rapidità da un elemento
all’altro del paesaggio, per
assumerelavitadiciascunoe
poi andarsene. L’occhio del
poeta è dunque vorace,
divorante. Per parte sua,
l’oggetto posseduto inizia a
mutare e a sbarazzarsi del
vecchio
nome
quasi
immediatamente dopo essere
stato assunto dal linguaggio.
Lapiúnotevoledituttelesue
poesie,Residuum,èunasorta
di andirivieni della forza
poeticadaunoggettoall’altro:
la poesia rifiuta di fermarsi
perché se lo facesse sarebbe
immediatamente assorbita
nell’oggetto. La vita della
poesiaèdunque,percosídire,
nellospaziotraiversi:
Nonc’èunlessico,nonc’èuna
parola–pronunciatain
fretta–checicorrisponda.
Nonc’èunaparolachesiala
miadimora[…]
Ascolta,ascoltatrale
particelle.
Vegliasullaterraappena
appare.
Apri,apri.
Entranellavivazolla:tuttoè
nuovo[…]
Iosonoilmetododelbruscolo
edelcorpuscolo 16.
Clouts fornisce la risposta
piú radicale data finora al
fardello assunto dal poeta
sudafricano
di
cultura
europea: quello di trovare in
Africa una patria per una
coscienza formatasi in un
linguaggio – e mediante un
linguaggio – la cui storia
affonda
in
un
altro
continente. All’accusa rivolta
al poeta di imporre la
posizione da prendere per
vederel’Africacosícom’è–in
altre parole, di voler definire
la prospettiva dalla quale
l’Africa si sistema in un
paesaggio capace di «star
bene» nelle categorie fornite
dal suo linguaggio – Clouts
risponde non prendendo
alcunaposizioneoprendendo
tutte le posizioni possibili, e
nega in tal modo il primato
della prospettiva stessa (la
posizione dell’osservatore)
proponendo invece una
dimora provvisoria nel
paesaggio.
Paesaggionazionale.
La poesia paesaggistica in
Sudafrica è stata scritta
prevalentemente da persone
di lingua madre inglese che
consideravano la tradizione
letteraria inglese, per quanto
in modo ambivalente, quella
incuisisentivanoacasa.Tra
gli scrittori neri, compresi
quelli di doppia cultura
linguistica, africana e inglese,
questaformaartisticachenon
ha tradizione nelle lingue
vernacolarièstatapraticatadi
rado. L’esiguità della poesia
paesaggistica in afrikaans
potrebbe tuttavia risultare
sorprendente. Infatti, la
pretesa dell’afrikaner di un
futuro nazionale in Africa
nonsiesprimeforse(quando
non nei termini brutali della
pragmatica del potere) nei
termini di un rapporto
esclusivo con il paesaggio
sudafricano, del quale si
proclama nativo? E non
sarebbe lecito aspettarsi che
tale pretesa, con il supremo
amore
per
la
terra
contestualmente
asserito,
trovi la sua espressione nel
pieno sviluppo dell’arte della
poesia paesaggistica? Eppure
resta il fatto che la poesia
paesaggistica descrittiva in
afrikaansèassairara,eancora
piú rare sono le riflessioni
sulle problematiche del
paesaggio.
La spiegazione di questo
statodicosenonèdifficileda
individuare.
L’arte
paesaggistica è in buona
sostanza
un’arte
del
viaggiatore,perlafruizionedi
viaggiatori
vicari;
è
strettamente connessa allo
sguardo
imperialista
–
sguardo
che,
vedendo,
nomina e domina – e alla
vocazione
imperiale.
I
presupposti di tale arte
descrittiva del paesaggio non
si sono mai verificati nella
storia degli afrikaner. Non
solo: quando l’afrikaans
emerge
come
lingua
letteraria, l’epoca d’oro della
scritturapaesaggisticasiègià
conclusa.
Inoltre la poesia del
paesaggio in lingua inglese
scaturisce da una poetica ed
estetica
del
paesaggio
complessa
e
articolata
filosoficamente, che ha le sue
maggiori
figure
in
Wordsworth e in Constable.
L’afrikaans non ha una
tradizione corrispondente e,
laddove elabora una poetica
alternativa (la poetica di
Tachtig nei Paesi Bassi, per
esempio) si preoccupa (come
fa Tachtig) non delle
problematiche legate alla
rappresentazione ma della
metafisica dell’empatia tra
soggettoepaesaggio.
Si potrebbe aggiungere
un’altra
spiegazione:
l’insistenza che si incontra
nella poesia in inglese
sull’estraneità
di
un
linguaggio europeo rispetto a
un paesaggio africano ha un
significatoperl’inglese(eper
la posizione del poeta di
lingua inglese) ma non per
l’afrikaans, che – si potrebbe
sostenere–ènativo(inheems)
dell’Africa come qualsiasi
altra lingua africana e
pertanto
consona
«naturalmente» al panorama
africano.
Resta comunque il fatto
che sono rarissime le poesie
inafrikaanscome’nHandvol
gruis di Leipoldt, in cui una
manciata di sassolini in uno
scenario dell’infanzia (in
questo caso, la regione
dell’Hantam) evoca un
mondo di ricordi e suscita
un’espansione
sublime
dell’essere. L’impulso a
scrivere della natura che
emerge nelle società meno
rurali sembra trovare uno
sbocco in afrikaans sotto
forma di scritti sulla fattoria
dell’infanzia. La fattoria,
piuttosto che la natura,
comunque venga definita a
livello locale, è concepita
come luogo sacro dove
l’anima può espandersi in
libertà. Cosí nella poesia
Plaashek di Uys Krige
troviamolafiguradell’errante
chetornaallafattoriaincuiè
nato e che, nell’atto di aprire
il cancello, sperimenta lo
stesso presagio, di un ritorno
al suo vero io e alle sorgenti
primitive della morale,
descritto da Wordsworth
quandotornaallesuevallieai
suoi boschi. Il genere di
libertà che la letteratura
afrikaans associa alla fattoria
si richiama, certamente, a
ricordidiinfanziaspensierata
ma anche, nel corso del
tempo, e in particolare dagli
anni Venti del ventesimo
secolo in poi, a una perduta
indipendenza
economica
ideale, all’idea della fattoria
come «koninkrykie» (piccolo
regno) dove l’uomo può
essere padrone di se stesso
(Totius, Trekkerswee) e per
estensione a un sogno
permanente di uno Stato
autonomo, un «Libero Stato»
in cui l’afrikaner finalmente
sarà libero di gestire i propri
affari
come
crede.
Bisognerebbe
quindi
chiedersi almeno se l’esiguità
della poesia paesaggistica in
afrikaans
non
rifletta
un’indifferenza verso la
natura rispetto alla fattoria
(che è natura parcellizzata e
posseduta) o alla terra, intesa
nel
senso
riccamente
polisemico con cui ricorre
nell’inno nazionale della
Repubblica: Ons land SuidAfrika (Nostra terra di
Sudafrica).
D’altra parte, occorre
tenereamentecheilconcetto
stessodi«natura»,chesupera
in qualche modo il vincolo
della terra alle leggi di
proprietà, appartiene a una
classe
sociale
piú
direttamente fondata, per la
propria
sopravvivenza,
sull’agricoltura e dunque a
una società economicamente
piúdifferenziatadiquellache
esisteva,aqualsiasilivello,tra
gli afrikaner fino agli anni
Venti.Sesicercanoleassenze
nella poesia afrikaans, è
l’assenza di un John Clare –
poeta proveniente da quello
chepotremmogenericamente
definirecetorurale–aessere
significativa piuttosto che
quelladiunWordsworth.
Non possiamo trascurare
inoltre
una
modalità
descrittiva naturalista, o
quanto meno rurale, in
afrikaans che non trova
riscontro nella letteratura
sudafricana di lingua inglese:
un’elencazioneabile,rapidae
fortemente metonimica dei
particolari, il cui effetto serve
a evocare lo stato d’animo
(stemming)dellascena:
Seraallafattoria:dalontano
sull’aiagiungelavocediun
kaffir[…]
unnugolodipolvere,dai
contornidorati,sialza
soprailkraal,
ilrichiamolontanodelle
pernici;loschioccodiuna
frusta
lasciaechinell’ariadesolata 17.
La quantità e qualità dei
dettagli in questo genere di
evocazione–comunetantoin
prosa come in poesia – è
indice di una comunione di
esperienze tra autore e
pubblico ben piú vasta di
quelladicuipotevagoderelo
scrittore di lingua inglese in
Sudafrica.
Si
potrebbe
addirittura sostenere che il
bozzetto,
la
rapida
annotazione di particolari
rivelatori,comequisopra,sia
– meglio di una lunga e
dettagliata esposizione – la
forma
descrittiva
piú
appropriata per una società
con
un
retroterra
notevolmenteomogeneo 18.
Abbiamo visto come il
progetto di descrizione
paesaggisticaininglesefinisca
per essere dominato dalla
preoccupazione di far parlare
ilpaesaggio,didarglivoce,di
interpretarlo. Non è questa
l’ambizione con cui ci si
accostava inizialmente al
paesaggio
dell’Africa
meridionale: scrivendo verso
la fine del neoclassicismo,
Pringleancoraloconsiderava
un possibile campo di
contemplazione estetica. Ma
verso la metà del ventesimo
secolo l’incontro tra poeta e
paesaggiodiventasemprepiú
antagonistico,
il
poeta
combattecontroilsilenziodi
un paesaggio che «assorbe
l’immaginazione | e non
riflettenulla» 19 (Wright) o si
sforzadiinterpretarneisegni
criptici. Il deserto del plateau
sudafricanodiventaladimora
di una Sfinge, che tanto piú
lascia sconcertati in quanto
priva di forma materiale,
ovunque presente ma mai
visibile. La Sfinge non parla;
eppure, indifferente, anzi piú
cheindifferenteperchénonè
nemmeno
presente
personalmente per poter
essere indifferente, costringe
ilpoetanelruolodicoluiche
risponde all’indovinello; un
indovinello che egli deve,
faute de mieux, ovvero in
mancanza
di
altri
interlocutori,porreasestesso
e per se stesso. La Sfinge che
egli affronta in effetti non è
diversa
dal
nulla;
è
un’assenza, per la quale lo
spazio
piatto,
ventoso,
«vuoto»sottouncielouguale
e senza nuvole è una figura
valida almeno quanto i
giganti, le gigantesse e i
mostri che l’occhio vigile
riescetalvoltaascorgerenella
terra. Certo, al silenzio della
Sfingesipuòsempreopporre
il silenzio. Ma questi poeti
avvertono con la massima
urgenza che quel silenzio, il
silenzio dell’Africa, non deve
poter prevalere: quando lo
spazio si presenta, dev’essere
riempito.
In conclusione, nella
poesia che celebra l’incontro
con il silenzio e il vuoto
dell’Africa è difficile non
vedere una certa volontà
storica di leggere come
silenziosa e vuota una terra
che è stata, se non del tutto
piena,neppurevuotadifigure
umane. Una terra arida e
infeconda forse, ma non
inospitaleperlavitaumanae
di certo non disabitata. Da
William Burchell a Laurens
Van der Post, gli scrittori
imperialisti
hanno
individuato il nativo piú
autentico del Sudafrica nel
boscimano,
la
cui
fascinazione risiede proprio
nelfattodiappartenereauna
razza in via di estinzione. La
storiografia ufficiale ha
raccontato per molto tempo
come fino al diciannovesimo
secolo dell’era cristiana
l’entroterra di quel che oggi
chiamiamo Sudafrica fosse
spopolato. La poesia dello
spazio vuoto potrebbe essere
accusata, un giorno, di aver
voluto propagare la stessa
favola.
[1988].
Lefontidellepoesiecitatediseguito
sono: G. Butler, Myths, Servant Girl,
Cradock Mountains, Sweet Water,
Farmer, Home Thoughts, Near Hout
Bay(Butler,pp.29-31,33,36-39,40-45,
65-67, 75-76, 100-1); R. Campbell,
Rounding the Cape (Campbell, p. 124);
J. Celliers, Die Vlakte (Opperman, pp.
34-36); S. Clouts, After the Poem,
Residuum, Within, Table Mountain
(Clouts, pp. 75, 78-80, 128-130); A. S.
Cripps,TotheVeld(Butler&Mann,p.
46); P. Cullinan, 1818. M. François le
Vaillant Recalls (Butler & Mann, pp.
193-96); A. Delius, Flying Home
(Delius,pp.7-8);H.I.E.Dhlomo,Long
Have I Worshipped Thee (Dhlomo, pp.
354-55);
H.
H.
Dugmore,
A
Reminiscenceof1820(Dugmore,pp.2426); C. Eglington, Old Prospector
(Eglington, p. 30); K. Fairbridge,
Africanders (Fairbridge, p. 17); U.
Krige,Plaashek(Opperman,p.209);C.
J. Langenhoven, Die Stem van SuidAfrika (Opperman, p. 95); C. L.
Leipoldt,Die soutpan, ’n Handvol gruis
(Leipoldt, pp. 31, 193); N. P. Van Wyk
Louw, Dennebosse, Vier gebede by
jaagetyeindieBoland(Louw,pp.3,8891); W. Plomer, A Transvaal Morning
(Plomer, p. 30); T. Pringle, Evening
Rambles, in Poems, pp. 20-26; F. C.
Slater, The Herdboy’s Flute, In the
Highlands, The Karroo (Slater, pp. 18,
111, 210-13); Totius, Trekkerswee
(Opperman, p. 49); C. M. Van den
Heever,Aand op die plaas, Hier op die
skurwe randjierug, Herfs in Holland in
Versamelde gedigte, pp. 24, 60, 89; D.
Wright,FlyingtoAfrica,December1969
(Wright,pp.20-21).
L’amantediLadyChatterleye
lostigmadellapornografia
Il processo
Chatterley».
a
«Lady
Nel1960laPenguinBooks
decise di pubblicare il testo
integralediL’amantediLady
Chatterley,
sostituendo
l’edizione inglese espurgata
con
quella
pubblicata
privatamente a Firenze nel
1928. In risposta a ciò la
Coronaannunciòcheavrebbe
fatto causa. La vicenda fu
condotta in maniera garbata
come caso-prova della nuova
legge
inglese
sulle
pubblicazionioscene(1959).
Anche se quella legge
conserva i tratti-chiave della
legislazione
ottocentesca
inglesesull’oscenitàlaverifica
se la pubblicazione «tenda a
corrompere o depravare le
persone che potrebbero
leggerla»introduceancheuna
serie di criteri, non del tutto
compatibili,trattidallacritica
letteraria, e in particolare
stabilisce che l’opera va
giudicata nel suo insieme e
che il valore letterario, del
quale possono rispondere
testimoni esperti, va preso in
considerazione;
dispone
inoltre che non ci debba
essere condanna nel caso in
cui «la pubblicazione possa
essere giustificata per il bene
pubblico, sulla base del suo
interesse
scientifico,
letterario,
artistico
o
conoscitivo, o di qualunque
altro elemento di interesse
pubblico» 1.
DelladifesadiL’amantedi
Lady Chatterley fu incaricato
un gruppo di avvocati, con
alle spalle le risorse della
Penguin Books, in grado di
convocare una serie di
testimoni
eminenti
a
propositodeimeritidellibro.
L’accusa viceversa o non
riuscí a trovare testimoni
illustri che ne sostenessero le
posizioni
o
ritenne
controproducente chiamare
queitestimoni.
I testimoni esperti della
difesa
includevano
un
vescovo
anglicano
che
sostenne che Lawrence in
L’amante di Lady Chatterley
cercava di rappresentare il
rapporto sessuale fra uomo e
donna come «qualcosa di
essenzialmente sacro», e uno
studioso di teologia che
suggeríchelaletturadellibro
avrebbe aiutato i giovani a
«maturare e a sviluppare un
sensodiresponsabilità» 2.
[Il
guardacaccia]
le
accarezzò il sedere con la
mano[...].«Haiunsederecosí
bello», disse nel suo dialetto
carezzevoleegutturale.«Haiil
piú bel culo che ci sia al
mondo.Eilpiúbelculo,ilpiú
belculodidonnachecisia!...».
[...]Econlapuntadelleditale
toccò le due entrate segrete
che portavano dentro il suo
corpo, una volta dopo l’altra,
con una piccola carezza dolce
einfuocata.«Esepisciocachi
sono contento. Non voglio
unadonnachenonpiscienon
cachi» 3.
Nelsuocommentoallibro
Lawrencescrive:
Le parole che all’inizio
suonano scioccanti, dopo un
poco non scioccano affatto
[...].Oggisiamo[...]moltopiú
evoluti e piú colti dei tabú
ancora radicati nella nostra
cultura [...]. La potenza
evocativa delle cosiddette
parole oscene dev’essere stata
molto pericolosa per le nature
ottuse, violente e cupe del
Medioevo,eforsesonotuttora
troppofortiperlenaturelente
e un po’ spente dei nostri
giorni [...]. [Ma] cultura e
civiltà ci hanno insegnato
[che] al pensiero non fa
necessariamente
seguito
l’atto 4.
Nel suo insolitamente
illuminato e progressista
rifiuto del tabú, Lawrence
invoca
il
sostegno
dell’antropologia del suo
tempo, quella di J. G. Frazer.
In particolare Lawrence
utilizza il concetto di
sopravvivenze, che Frazer
eredita da Henry Burnett
Tylor. Le sopravvivenze sono
«usanze […] che sono state
conservate
per
forza
d’abitudine nella nuova
società[…]e[…]rimangono
cosí prove ed esempi di una
precedente condizione della
cultura da cui se ne è
sviluppata una nuova» 5. I
tabú sulle parole che fanno
riferimento alle funzioni
sessuali o scatologiche sono
dunquesopravvivenzediuno
stadio meno evoluto della
culturaeuropea.
Che male c’è in tali
sopravvivenze? Perché mai
dovremmo distruggere i
vecchi tabú? La risposta data
da Lawrence e dai suoi abili
difensori è che mantenere i
tabú sulle parole vuol dire
mantenere
un’aura
di
vergogna intorno al loro
referente,cosachefinisceper
essere di detrimento alla
società. «A cinquanta metri
da questo tribunale» dichiarò
ilcriticoRichardHoggart,
ho sentito un uomo dire
«fottiti» tre volte mentre mi
passava vicino. Camminava
parlando fra sé e ha detto
«fottiti, fottiti, fottiti» […]
[Usava] quella parola come
espressione di disprezzo, e
secondo Lawrence era molto
preoccupante che una parola
legata a un rapporto intimo
cosí
importante
fosse
diventata oggetto di volgare
insulto [...] [Lawrence] voleva
restituire [alla parola] il suo
significato, il suo uso
proprio» 6.
Quali
che
fossero
le
simpatie
precedenti
di
ciascuno, difficile leggere gli
atti del processo senza
provare simpatia per il
pubblico ministero. Perché,
man mano che il processo
procede, è sempre piú chiaro
che l’accusa lavora con le
mani legate. È difficile che i
testimoni si prestino a
dichiarare di essere stati
corrotti o depravati da un
libro
quando
una
testimonianza di quel genere
suscita piú lo scherno che la
simpatia 7. Solo nei fori piú
soffocanti
e
venerandi
troviamoancoraillinguaggio
della condanna morale
esplicita – e dietro di esso i
toni del paternalismo e
dell’ostilità di classe. A
seguito dell’assoluzione di
L’amante di Lady Chatterley,
la Camera dei Lord discusse
una mozione che proponeva
ilbandoperpetuodegliscritti
di D. H. Lawrence. «Sono
profondamente contrario, –
disse Lord Teviot, che aveva
presentato la mozione, – a
dare licenza incontrollata a
chicchessiainquestopaese,e
ho molta paura che il nostro
mondo divenga a dir poco
indecente e depravato».
Quanto a L’amante di Lady
Chatterley, si trattava di un
«affrontodisgustosoevolgare
al comune senso del
pudore» 8.
Alla fine Lord Teviot fu
placato dai suoi colleghi e
ritirò la sua mozione. Ma la
Camera riconobbe che
L’amante di Lady Chatterley
era stato un episodio
deplorevole dal principio alla
fine. Lord Gage concluse che
la diffusione di un libro «di
pessimo gusto» come quello
non sarebbe stata certamente
«moltoedificante».Quantoai
religiosi che si erano prestati
alla
difesa,
la
loro
testimonianza gli appariva
«soloterribilmenteridicola».
Il giudizio di Lord Gage
era rappresentativo delle
posizioni
conservatrici,
secondo le quali L’amante di
Lady Chatterley costituisce
una volgare offesa al decoro.
Il problema per i Lord era
però che le regole del decoro
dipendono dal consenso
sociale.
Nell’Inghilterra
vittoriana,
alla
quale
guardavano, i termini di quel
consenso erano stati dettati
dallaloroclasse.Manel1960
quella classe aveva perso il
suopoterenormativoeperdi
piú non aveva alcun mezzo
perappellarsicontroilrifiuto
dei suoi criteri. Perché non
esiste una logica, né una
dimostrazione che il decoro
possaaddurreasuadifesaper
giustificarsi. È caratteristico
del decoro l’essere sottinteso.
Il decoro delimita un
territorio sul quale deve
regnare il silenzio e conserva
il silenzio sul modo in cui i
confini di quel territorio
vengono segnati. Lo si può
dunque indicare ma non
codificare.Unavoltamessoin
discussionesfugge.
Da ciò la preoccupazione
sorta alla Camera quando i
Lord hanno cominciato a
rendersi
conto
delle
implicazioni della legge del
1959.Istituendouncriteriodi
primaria importanza relativo
al
bene
pubblico,
e
richiedendo conferma di tale
criterio a testimoni esperti –
perlopiústudiosiesternialla
vecchia area di consenso – la
leggechiedevacheildecorosi
difendesse da solo. Se i Lord
scuotevano la testa per il
ruolo avuto dalla Chiesa
nell’assoluzione di L’amante
diLadyChatterley,eraperché
la Chiesa avrebbe dovuto
capiredasolachecisonocose
di cui non si discute, come i
comandamenti o i tabú.
Perché neanche il tabú può
difendersi se viene messo in
discussione.
LadifesadiLawrence.
La storia raccontata da
Lawrence è quella della
moglie di un membro
dell’aristocraziainglesecheha
una relazione con uno dei
servitori, rimane incinta e
decide di fuggire con il suo
amante.IlrapportodiConnie
Chatterleyconilguardacaccia
trasgredisce almeno tre
regole: è adulterino; viola i
confini di casta ed è a volte
«contro natura», ovvero
anale. La seconda e la terza
trasgressione meritano un
commento.
Anche se per lo piú
diciamo che Sir Clifford
Chatterley e sua moglie
appartengono alla classe alta,
essi
appartengono
piú
precisamenteaunacastaalta,
sonomembridiunacastaalta
paneuropea
giunta
al
tramonto, caratterizzata fra
l’altro dall’endogamia e da
regole asimmetriche relative
airapportisessuali:gliuomini
potevano liberamente violare
i confini di casta nei loro
contatti sessuali, mentre era
proibito alle donne o,
secondoillinguaggiodicasta,
«non
si
faceva».
La
spiegazione di tale divieto
implicava il concetto di
contaminazione: le donne
trasmettono il sangue della
casta e il ceppo sanguigno
viene contaminato quando
vieneinvasodalsangue(odal
seme,chenellinguaggiodella
contaminazione è la stessa
cosa) di un uomo di casta
inferiore. Tale divieto viene
esplicitamente indicato da
Lord Chatterley quando dice
alla moglie che è pronto a
dareilsuonomealfiglioche
farà,fintantocheleieserciterà
il suo «naturale istinto di
decenza e di scelta», non
permettendo«altipodiuomo
sbagliatoditoccarla»(ALC,p.
55).
La terza trasgressione
viene
commessa
dal
guardacaccia Mellors quando
non solo si unisce alla
padrona, ma la sodomizza.
Per di piú la sua ex moglie
raccontaingirocheMellorsè
un sodomizzatore. In tutto il
circondariodunquesivienea
sapere che Connie Chatterley
hasubitosulsuocorpoquello
che veniva definito «un
crimine contro natura» – un
crimine la cui natura
trasgressiva
veniva
sottolineatadalcodicepenale
inglese degli anni Venti, che
lopunivaseveramente,anche
framoglieemarito.
Ma oltre a queste
trasgressioni ce n’è un’altra:
Mellors,
secondo
l’espressione dei tempi,
contaminalamentediConnie
insegnandole l’uso di parole
proibite. Nella mitologia
vittoriana
della
contaminazione,
il
turpiloquio è espressione di
una mente contaminata.
L’unica categoria di donne
dallacuiboccacisiaspettadi
sentire il turpiloquio è quella
delle
cosiddette
donne
perdute, donne in una
condizione di corruzione
senza
riscatto.
La
trasgressione di Mellors
consiste nell’insegnare il
turpiloquio a una donna. Il
turpiloquio è innocuo fra gli
uomini–quandoMellorseil
padrediConnies’incontrano,
quest’ultimo si riferisce
allegramente alla figlia con
parolepesanti(ALC,p.352)–
ma mina l’innocenza delle
donne e dei bambini 9 (una
lingua maschile proibita alle
donneeunalinguafemminile
proibita agli uomini sono
fenomeni
ampiamente
attestati nella letteratura dei
tabú, per non parlare poi di
una lingua degli adulti
proibitaaibambini).
Dopo L’amante di Lady
Chatterley Lawrence scrisse
una serie di testi nei quali si
difendevadall’accusadiessere
un pornografo: il saggio
Pornografia e oscenità (1929)
in Introduzione a questi
dipinti
del
1929,
l’introduzione
all’edizione
privata di Pansies (1929) e il
pamphlet À Propos of Lady
Chatterley’sLover(1930) 10.Si
tratta di scritti nei quali
analizza
l’origine
dell’immaginazione
pornografica, origine che a
suo giudizio si trova in
un’esperienza scatologica del
sesso.Cosavuoldirequesto?
Lawrence lo spiega cosí.
Negli esseri umani «sani», si
verificano due tipi di flusso:
unflussoescrementizioverso
il basso, in cui la forma si
dissolve e la materia vivente
diventa feci e un flusso
sessuale verso l’alto che è al
tempo stesso procreativo e
creatore della forma. Negli
esseri umani «degradati»
invece l’istinto a mantenere
separate quelle due polarità è
venuto meno e il flusso
corporeo rivolto solo verso il
basso e verso la distruzione,
destinato a finire in
escrementi. Il gioco sessuale
diventa un gioco sporco; il
corpo della donna diventa la
lorduraconcuil’uomogioca;
il sesso, per l’uomo, diventa
un atto di profanazione. «Gli
individui volgari di questo
tipo hanno un atteggiamento
disgustoso nei confronti del
sesso,undisgustosodisprezzo
del sesso, un disgustoso
desideriodidegradarlo.Sono
individui che, se si uniscono
sessualmente a una donna, si
sentono fieri di averla
sporcata»(SLC,pp.38-39).
Questa è la visione di
Lawrence dello stato di
degrado e corruzione. Ma
come e quando è avvenuta la
caduta?
Con
notevole
approssimazione Lawrence la
situa ai tempi di Elisabetta I.
Lo
shock
prodotto
dall’epidemia di sifilide in
Inghilterra,
soprattutto
nell’aristocrazia, ebbe –
secondo lui – come risultato
una «frattura nella coscienza
umana».«Lasifilides’insinuò
nel sangue della nazione [...].
E dopo essere entrata nel
sangue essa entrò nella
coscienza». Ma perché mai
propriolasifilideadifferenza
di altre malattie dovrebbe
aver lasciato quell’eredità?
Perché nulla ispira un orrore
maggiore dell’idea che l’atto
sessuale possa rappresentare
uno stigma per il nascituro
(SLC,pp.54,55,57).
Nell’immaginazione
speculativa di Lawrence,
allora, da un certo momento
storico in poi nasce la paura
che il seme maschile possa
essere tarato. Il seme può
essere marcio, può essere
sporco: l’eiaculazione diventa
partedelflussoescrementizio.
Da questo alla successiva
metafora di Lawrence del
sesso degradato il passo è
breve. Il desiderio sessuale
non è piú desiderabile in
quanto tale, anzi viene
percepito come una ferita
infetta nel corpo. La ferita
prude, si tocca e non si
rimargina, produce sporcizia
e aggiunge la sua parte al
flusso escrementizio, verso il
basso.Toccarsièunodeitanti
modi di chiamare la
masturbazione, «forse il piú
profondo e piú pericoloso
cancro della nostra cultura».
Il desiderio ripiegato su se
stesso,chiusoinsé,siesprime
in una forma di puro
soggettivismo–quiLawrence
sembra pensare a Proust e a
Joyce, anche se non li cita
(SLC,pp.40-42).
Qual è il rimedio? «Il
modo di curare il male è
metterlo allo scoperto».
Dobbiamo adottare «un
atteggiamento naturale e
aperto nei confronti del
sesso» (SLC, p. 40). E piú
specificamente
dobbiamo
recuperarelaParolacaduta,la
Parola divenuta «impura».
«Oggi se suggerisci che la
parola culo esisteva fin dal
principioecheeraDioecon
Dio, finirai [...] in prigione
[...] nella parola culo c’è Dio
quanto nella parola faccia».
Lamalvagitàènellamente.La
mente,cheodiailcorpoeche
ha trasformato le vecchie
parole che lo esprimono in
capriespiatorielehacacciate
dalla coscienza. Ora tornano
senza sosta a insidiare i
margini della coscienza come
sciacalli o iene. Bisogna
accettarledinuovo,togliereil
tabú,senonvogliamorestare
al livello dei selvaggi. «Il
canguro è un animale
innocuo, la parola merda è
una parola innocua. Fate un
tabúdiunadiesseediventerà
pericolosa.L’effettodeltabúè
la pazzia». Come esempio
Lawrence porta Jonathan
Swift, la cui mente era
«avvelenata», come da una
sorta
di
«terribile
costipazione», dal pensiero
che«Celiacaca»(SLC,pp.2830).
Macerchiamodiguardare
piú da vicino il discorso di
Lawrence su Swift e la sua
menteavvelenata.
CisonoduepoesiediSwift
in cui ricorre la frase «Celia
caca». Parlano di alcuni
giovaniuominichegiocanoal
gioco idealizzato dell’amore
bucolico, ma scoprono che
questo non comprende la
realtàdellaloroamataatutto
tondo, con le funzioni
corporali e tutto il resto. Le
due poesie fanno parte di un
gruppo di quattro, tutte
scritte nel 1732, dieci anni
prima che Swift venisse
dichiarato pazzo e messo in
manicomio,poesiechehanno
ottenuto
una
qualche
notorietà sotto il nome di
poesie «escrementizie» o
«scatologiche» 11.
Nella prima poesia in cui
«Celia caca», l’innamorato
s’insinuanellastanzadiCelia
e scopre con disappunto la
biancheriasporcadelladonna
e il trucco che si nasconde
dietro la sua eterea facciata
pubblica.
Procedendo
nell’esplorazione del suo
mondo privato, va a finire
nella seggetta e si sporca le
mani col vaso da notte.
Quell’esperienzalosconvolge:
nella sua immaginazione
alterata da quel momento in
poi la vista di una donna
richiama la puzza degli
escrementi.
Nella seconda poesia – un
pezzo minore – l’innamorato
(uno studente che vive a sua
volta in un grande squallore)
scoprechenonc’èspazioper
«il piú nero degli atti
femminili» nella sua Arcadia,
ecomel’altrocadeneldelirio.
Secondo l’interpretazione
letterale si direbbe che le due
poesie mettano in guardia
contro l’idealizzazione del
corpo, contro la tendenza a
chiudereocchienasodavanti
al flusso verso il basso che è
prova della sua natura
animale. Ciò che viene
repressonellacoscienzatorna
inevitabilmente
a
ossessionarci;losporcodicui
si nega l’esistenza ritorna
sotto forma di pensieri
sporchi, di pornolalia. Le
poesie si presentano come il
lavoro di un critico e di un
moralista
che
prende
apertamente le distanze
dall’idealistaedallesuefragili
difesecontrolarealtà 12.
MaLawrencericordamale
e cita erroneamente le poesie
di Swift, ignorandone la
distanza moraleggiante, tanto
che ci si chiede se le
conoscesse direttamente o
non ne avesse piuttosto solo
sentito parlare dall’amico
Aldous Huxley 13. Ma voglio
concedere a Lawrence il
beneficio del dubbio e fare
l’ipotesi migliore, ovvero che
abbiadatodiSwiftunalettura
geniale, riconoscendo nel
moralismo solo uno schermo
– uno schermo adottato da
Swift per rappresentare una
sua
personale
crisi
scatologica, e sottrarsi a una
confessionenudaecruda.
Secondo la sua lettura la
vera storia è raccontata dalla
narrazione diretta. Una
mano, infilata in un buco
nero,
viene
fuori
maleodorante di escrementi.
Dalla mano, attraverso il
naso,
la
macchia
escrementizia
invade
e
avvelena la mente, per
vendicare la penetrazione del
sanctumdelladonna.
Mavendetta,maiassopitadea,
puníprestolacuriositàdi
Strefone;
lasuasconciaimmaginazione
collega
ognidonnachevedeatuttii
suoipuzzi(vv.119-22).
Lawrenceritornasuqueste
poesie diverse volte alla fine
degli anni Venti, sempre con
l’intento di utilizzare Swift
come un terribile esempio di
quello che può succedere
quando un tabú viene preso
sulserio 14.Laparolamerdaè
innocua di per sé, ma fatene
untabúeprodurràfollia.
Secondo Lawrence Swift
viene a contatto con gli
escrementi della sua amante,
è invaso dal contagio, e
impazzisce. E dunque?
Dunque – dice Lawrence –
dobbiamo distruggere il tabú
relativo agli escrementi, non
in modo ingenuo come
farebbero gli abitanti di
Laputo,
portando
allo
scoperto la sostanza stessa,
ma simbolicamente, a un
altro livello, pronunciando la
parola merda, e purificando
cosí
la
mente
dalla
connotazione della parola,
dall’idea di contagio a essa
collegata. Che si interpreti
comeingenuaocomegeniale,
la sua lettura delle poesie di
Celia non può che essere
frutto di una mente
contaminata da qualcosa che
è nella poesia. Ciò che tocca
Lawrence, ciò che domina
nella sua lettura di Swift, è
l’idea
della
macchia
scatologica.
Nei
saggi
successivi alla pubblicazione
di Lady Chatterley egli
comincia denunciando Swift
e condannando il tabú degli
escrementi e finisce col
denunciare e condannare
l’idea
stessa
di
contaminazione. La morale
che vede sottesa al racconto
della seggetta – che merda
dovrebbe essere una parola
come tutte le altre – è
incongruente. La morale che
gli interessa dimostrare in
realtà è che solo una mente
già impura può essere
contagiata. E, al contrario,
che dovrebbe essere possibile
per una mente pura
intraprendere una qualunque
esplorazione di qualunque
funzione del corpo, per
quanto tabuizzata, senza
subire una qualche forma di
autopunizione. Ma Lawrence
non si chiede se la lettura
stessachedàdiSwiftnonsia
possibile proprio in virtú di
uno speciale fiuto per la
contaminazione,
fiuto
possibile solo in chi vi ha già
avuto a che fare. Un lettore
privo di fiuto da che parte
incomincerebbe a leggere la
poesia? Come farebbe a
sapere, per esempio, che la
parolachiavediquellapoesia
è«infetta»,alverso112?Non
esiste forse un rapporto
diretto fra lettura, curiosità e
fiutoperciòcheèsporco?In
una società senza divieti,
senza Legge – se pure una
società del genere fosse
immaginabile – chi mai
vorrebbeleggereoscrivere?
(Ricordiamo che nella
biologia evolutiva la regione
della corteccia, che nei
mammiferi
inferiori
è
deputata al discernimento
olfattivo, nell’homo sapiens
assume la funzione del
discernimento
astratto.
L’attività che negli animali è
chiamata fiuto negli esseri
umani è detta pensiero
analitico).
A un certo punto sotto il
regno di Elisabetta I, dice
Lawrence, l’orrore della
sifilide
–
della
contaminazione sessuale –
passò dal sangue agli strati
piú profondi della coscienza
degli inglesi. Dopo questa
frattura prodottasi nella
coscienza la «vera, naturale
innocenzadiChaucer»nonfu
piú
possibile.
Mentre
Shakespeare è «malato di
paura», «niente poteva essere
piú bello e impavido di
Chaucer» (SLC, pp. 54, 57,
53).
La storia del ricco
aristocraticoimpotenteconla
giovane moglie sensuale che
fuggedalmanierodifamiglia
per brevi e intensi incontri
sessuali col guardacaccia, si
direbbe materiale fatto
apposta
per
Geoffrey
Chaucer. Ma da Chaucer, è
facile immaginarlo, la storia
verrebbe
trattata
comicamente, con (dopo le
scuse rituali) sprazzi di
cherlish speche: la queynte
della signora e la sely thinge
del guardacaccia e il piacere
del loro swyving nominati
senza circonlocuzioni (piú
difficile dire se anche in
Chaucerilcuoredellasignora
«siscioglierebbeinunaspecie
diterrore»difronteal«grave,
lento e turgido drizzarsi del
fallo» del guardacaccia, ALC,
p.219).
Lawrence
parla
di
un’«innocenza naturale» di
Chaucer. E a ragione, nel
senso che Chaucer ha a
disposizioneunalinguaperil
sesso, comica senza essere
leziosa, concreta ma non
brutaleooffensiva,unalingua
che non esisteva piú ai tempi
di Lawrence e che non
esisteva piú da un pezzo
nell’inglese letterario. Nella
mitologia
letteraria
di
LawrencecomunqueChaucer
occupa un ruolo piú
importante di questo ideale
nostalgico. Rappresenta un
tempo edenico, in cui la
sessualità e le funzioni
escrementizieavevanoancora
i loro significati opposti,
quando il tabú degli
escrementi non aveva ancora
sfiorato le menti con il suo
contagio. Tornare a Chaucer,
ritornare all’innocenza, allora
può prestarsi a due
interpretazioni diverse fra le
quali Lawrence non sempre
haoperatounadistinzione.
Nella
prima
interpretazione,
tornare
all’innocenzadiChaucervuol
dire tornare a un tempo
precedente ai tabú sulla
rappresentazione del sesso.
Vuol dire la libertà di dire
pane al pane. Vuol dire
tornare a chiamare le cose
con il loro nome, soprattutto
tornareaquelleparoleoscene
«semplicienaturali»chesono
state cacciate e che ora
assediano
i
confini
dell’immaginazione.
Questo
tipo
di
interpretazione
non
è
sostenibile in senso stretto.
Ignora il complesso gioco di
stileaulicoestilevolgare,dei
registriaristocraticiediquelli
popolari,
presente
in
Chaucer, attribuendogli un
linguaggioprivodilivelliedi
registri 15. Oliver Mellors può
dire pane al pane, ma
sicuramente
Geoffrey
Chaucer non lo fa. Al
contrario,viaccennaconuna
grande varietà di metafore e
di metonimie. E se può
sembrarecheloslittamentoe
lo
scivolamento
delle
metafore e delle metonimie
relative alle parti del corpo,
alle funzioni corporali e ai
rapportifraicorpisiaandato
aumentando dai tempi di
Chaucer a oggi, la cosa è in
largapartespiegabilecolfatto
che gli archivi della lingua
vanno ingrossandosi man
mano che ci avviciniamo al
presente.
La seconda e piú
interessante interpretazione
della figura di Chaucer in
Lawrence è che Chaucer sia
sinonimo di un’età in cui il
tabú
specificamente
scatologico non aveva ancora
toccatoilsesso;cioèdiun’età
precedente a quella in cui, ai
tabú
tradizionali
sul
nominaregliorganisessualie
gli atti sessuali puliti e per
contagio
compierli,
si
sovrapponessero,lordandoli,i
tabúscatologici 16.Ilritornoa
Chaucer allora richiederebbe
l’annullamento del tabú
relativo agli escrementi.
Anche se è difficile far
coincidere
tale
interpretazione con tutti gli
scrittidiLawrencefrail1928
e il 1930 (per esempio con la
sua denuncia di tutti i tabú
come sopravvivenze dello
stadio selvaggio), questa
rimane
la
spiegazione
migliore di quello che
Lawrencevuolefareconilsuo
romanzo.
In
questa
prospettiva l’episodio del
rapporto
anale
assume
un’importanza
centrale
nell’economiadellastoria.
Durante il processo del
1960 quella scena fu
occasione di una sorta di
commedia degli equivoci,
dato che, senza voler
chiamare le cose con il loro
nome, il pubblico ministero
cercava di convincere una
giuria ignara che, dietro lo
schermo
della
prosa
ipermetaforicadiLawrence,si
verificava qualcosa di molto
sporco 17.
L’episodio costituisce un
ritodiiniziazioneperConnie.
Quando l’ultima «vergogna
organica» viene cancellata, la
donna muore di «una morte
cocente e meravigliosa» e poi
riemerge rinata, «una donna
diversa».L’annientamentodel
pudore è raggiunto dal fallo,
che«cacciavia[lavergogna]»
nel«cuorestessodellagiungla
fisica». Con sorpresa Connie
scopre di aver sempre
profondamente desiderato
proprio
la
«sensualità
penetrante,divoranteeanche
un po’ spaventosa» di
quell’atto(ALC,pp.307-8).
Naturalmente si può
leggere l’episodio in modo
coerente con il resoconto
(forse la razionalizzazione)
che Lawrence ne dà nel suo
saggio della fine degli anni
Venti. Il tabú escrementizio
viene ricacciato nella sua
tana.Ildio-falloscomparenel
labirinto
del
mondo
sotterraneo, caccia il mostro,
lo ammazza ed emerge
trionfante.
Restaperòunproblemain
cui il romanzo e il resoconto
di Lawrence non coincidono:
qualèilfatodelmostro?Nel
suo saggio, l’autore sostiene
che, una volta spezzata la
forza del tabú degli
escrementi,
possiamo
cominciareariavvicinarciallo
stadio
di
innocenza
linguistica, e tutto sommato
anche
sessuale,
che
caratterizzava Chaucer. Nel
romanzo il discorso sembra
essereche,avendosuperatoil
suo rito di passaggio, Connie
èentrataafarpartedell’eletta
schiera delle purificate, delle
rinate. Cosa fanno le
purificate la notte in cui
hanno passato la prova
dell’iniziazione?
L’acuta
sensualità della sodomia è
ormai bruciata per loro, una
volta che hanno distrutto il
tabú, caratterizzato dalla
vergogna? Si limitano a
ritornare al rito del rapporto
genitale, un rito finalmente
purificato
dallo
stigma
scatologico? Oppure il rito
della caccia e dell’uccisione
del mostro da parte del dio-
fallo può ripetersi all’infinito
unanotte-dopol’altra?
Questa domanda si può
tradurre in un’altra, relativa
alla persistenza del tabú: il
tabú viene davvero eliminato
una volta che è stato
trasgredito? 18.
Un’altra
variante di questa stessa
domanda può essere posta a
proposito dell’azione che
Lawrence
sostiene
di
compiere quando dà alle
stampe L’amante di Lady
Chatterley,
ovvero
la
purificazione della lingua
della tribú. Una volta che le
rappresentazioni colpite da
tabú vengono messe allo
scoperto,checosasuccede?Il
tabú muore, oppure la sua
uccisione deve essere sempre
nuovamente officiata, come
un rito? Assolvere L’amante
di Lady Chatterley significa
metterefineailibrisporchio
dareinizioatuttaunaseriedi
librisporchi?
Nel saggio Lawrence
risponde
chiaramente:
significa la fine dei tabú, la
fine della pornolalia, la fine
dei libri sporchi. Ma il
romanzo che cosa dice in
proposito?
Secondo la mia lettura
L’amantediLadyChatterleyè
il
racconto
di
una
trasgressione dei limiti –
limiti sessuali e limiti sociosessuali. Le sue tensioni
interne e la sua forza
drammatica
dunque
dipendono dalla continua
vitalità dei tabú. Il tabú è
condizione necessaria della
sua esistenza. L’economia
sessuale
degli
amanti,
l’economia drammatica del
racconto,perfinoiguadagnio
le perdite derivanti dalla
vendita del libro dipendono
dalla vitalità dei tabú. Il libro
viene aperto, dopo infiniti
rinvii, gli amanti vengono
denudati, i loro corpi
vengono esplorati, alla fine
viene detta la loro verità; il
libro si può richiudere su di
loro. Ma quello stesso libro
aspetta di essere riaperto,
riesplorato. Ogni volta che
viene riaperto gli amanti
ritornano davanti a noi,
pronti per denudarsi ed
esplorarsi, come previsto.
Quali che fossero i tabú
svaniti con il primo
attraversamento del testo,
eccoli di nuovo, rianimati.
Perfino i divieti che nel
frattempohannopersolaloro
autorità possono riassumere
nelle pagine di certi vecchi
librilalorocupaforza.Ilacci
del corsetto di Emma Bovary
sibilano
come
serpenti
mentre lei si spoglia; se quel
momento mantiene la sua
forza scandalosa, vuol dire
che qualcosa è stato evocato,
qualcosaèstatotrasgredito.
Questa lettura fa di
L’amante di Lady Chatterley
un’opera pornografica? È la
lettura di un’immaginazione
impura?
«La pornografia, – dice
Lawrence, – è il tentativo di
insultare il sesso, di
infangarlo» (SLC, p. 37).
«Infangare» è un eufemismo
per dire cacarci sopra.
Pornografo
era
una
definizione
dalla
quale
Lawrencecercòintuttiimodi
di liberarsi. Inventò perfino
una creatura, di nome
Jonathan Swift: «un uomo
terribilmente degradato», lo
marchiò con l’accusa di
sporcareilsessoelorinchiuse
inmanicomio,dadove,come
uno sciacallo o una iena,
continuavaadassediarelasua
immaginazione.HenryMiller
non dubitava che, nel negare
la forza trasgressiva di
L’amantediLadyChatterleye
nel rivendicare al libro uno
scopo morale edificante,
Lawrence avesse tradito i
mysteriadellibrostesso 19.In
effetti aveva permesso allo
Swift che era in lui di
infangare quel che aveva
scrittodopoaverloscritto.
Il processo e l’assoluzione
del romanzo vengono spesso
citati come un evento
emblematico: una pubblica
liberazione di una forza
sessuale
inceppata
che
prelude
al
successivo
luminosodecenniodeglianni
Sessanta. È legittimo d’altra
parte chiedersi quale fosse
esattamente la forza che era
stata inceppata e che veniva
liberata.Laforzadelromanzo
scritto da Lawrence, un
romanzo
profondamente
invischiato e forse perfino
imprigionato nella rete del
tabú; oppure la forza della
lettura retrospettiva che
Lawrence aveva dato del suo
romanzo?Unaletturache,in
virtú della sua recisa
razionalizzazioneenegazione
del tabú, ha permesso agli
avvocatieaitestimoniesperti
del processo di costruire una
difesa che si sarebbe rivelata
inoppugnabile?
[1988-92].
ZbigniewHerbertelafigura
delcensore
DuranteilCongressodegli
scrittori sovietici del 1934
Isaac Babel, sottoposto a
pressioni perché abbracciasse
le ragioni del realismo
socialista, annunciò che
avrebbepreferitopraticare«il
genere del silenzio» 1. Come
forma di resistenza alle
prescrizioni ideologiche, il
genere del silenzio fu
caparbiamenteadottatodaun
piccolo numero di scrittori
russi di punta. Generalmente
interpretatocomeilrifiutodi
adattare la loro arte alle
richieste dello Stato, quel
silenzio ebbe un duraturo
impatto morale e anche
politico.
Fino alla morte di Stalin
nel 1953, e anche in seguito
per alcuni anni, gli scrittori
dell’Unione Sovietica e dei
suoi Stati satellite furono
vittima di quello che
StanisławBarańczakdefinisce
un «complesso sistema di
terrori,
provocazioni,
menzogne e giustificazioni
fallaci» 2. Dopo il 1956 la
componentediveroeproprio
terrorediquellamiscelaandò
diminuendo. In merito alla
variante ungherese della
nuova e piú manipolativa
forma di censura sviluppatasi
alloraMiklósHarasztiscrisse:
La censura tradizionale
presuppone
l’opposizione
intrinsecadiscrittoriecensori;
la nuova censura cerca di
eliminare quell’antagonismo.
L’artista e il censore – due
facce della cultura ufficiale –
coltivano diligentemente e
serenamente
i
giardini
dell’arte.
L’allentarsi del pugno di
ferro non comportò dunque
un
alleggerimento
del
controllo. Anzi suggerisce
Haraszti, interiorizzando la
figuradelcensore,loscrittore
stesso veniva assimilato dal
sistema. Cooperando col
censorechelocontrollavaegli
diveniva in un certo senso il
prototipo
del
«nuovo
individuo» che il comunismo
cercavadicreare 3.
Anche in Polonia la
censura ebbe le sue fasi di
gelo e disgelo, alcune delle
quali guidate dall’Unione
Sovieticaaltreinrispostaagli
sviluppiinternialpaese.Negli
anni Settanta il controllo fu
particolarmente
intenso
arrivando a circa diecimila
interventi censori l’anno. La
misuradelcontrollocuierano
sottoposti non solo la vita
culturale ma il flusso
quotidianodelleinformazioni
venne alla luce nel 1977
quando uno degli impiegati
dell’apparato fece uscire
clandestinamente dal paese
un fascicolo di direttive
ministeriali.
Da
quei
documenti,
in
seguito
divenuti noti come il Libro
Nero, emergeva come alcune
figure culturali invise al
regime venissero trattate
secondo
un
preciso
protocollo. Nei casi piú
estremi, come quello del
filosofo Leszek Kołakowski,
non era permesso nemmeno
citare il nome del colpevole,
né pubblicare commenti
favorevolisulsuolavoro.Alla
secondacategoria(dellaquale
facevano parte Czesław
Miłosz e Aleksander Wat)
non si poteva accennare a
meno di non aver ricevuto il
permesso
esplicito
del
ministero; nei mezzi di
comunicazione
popolari
(radio, televisione, stampa) il
bando era totale. Per la terza
categoria, il bando, meno
severo, era limitato alle
pubblicazioni accademiche.
Nel 1976 fu messo nella lista
nera Zbigniew Herbert,
insieme ad altri trentasei
intellettuali che avevano
protestato
per
gli
emendamenti
alla
costituzione.Ilsuonomenon
poteva essere pronunciato
senza
l’approvazione
dell’ufficioresponsabile.
L’esistenza stessa di un
apparato
preposto
alla
censura andava trattata come
informazione riservata. Le
istruzioni nel Libro Nero
erano rivolte solo al censore
«da non rivelare ad alcuno
come motivo della censura 4.
Ma quando si diffuse il
contenuto del Libro Nero, la
censura divenne un discorso
politico
scottante.
L’alleggerimento
della
censura fu tra le prime
richieste degli scioperanti di
Danzicanel1980 5.
Finchéilsistemarimasein
piedi,lacensurafecepartedel
contesto professionale ma
anchepsichicodelloscrittore.
E i suoi meccanismi erano
complicati dal rapporto degli
scrittori con altri colleghi
intellettuali che per motivi
loro–piúomenodeprecabili
– avrebbero potuto avere
rapporti con l’apparato.
Gestire il rapporto con i
censori – interni ed esterni –
era divenuta non solo una
preoccupazione ma un tema
persistente seppure velato
della scrittura polacca. Scrive
Barańczak:
Davanti al censore l’autore
fingeva di aver davvero inteso
scrivere sui Borgia; al tempo
stesso strizzava l’occhio al
lettore, insinuando di aver
scritto un romanzo sullo
stalinismo. Il lettore a sua
volta ricambiava l’occhiolino,
mostrando di aver colto
l’allusione, e il censore faceva
lo stesso fingendo di non
esserseneaccorto.
Alla fine, però, conclude
Barańczak quella rete di
inganno e autoinganno
produceva una letteratura
«sterile» 6. Il romanziere
Tadeusz Konwicki conferma
quel giudizio. La censura in
effetti può «stimolare lo
scrittore a creare modi di
scavalcare
il
censore
[costringendo] lo scrittore a
utilizzare metafore che
portano la scrittura a un
livellosuperiore» 7.Eperòcol
tempo anche le sottigliezze
nate dal rapporto col censore
divengono a loro volta delle
convenzioni. «Il linguaggio
segreto diventa pubblico e il
censore finisce col bandire
anche quello. Allora vengono
escogitate forme nuove
ancora piú sottili. E cosí via
all’infinito, la letteratura
diviene sempre piú oscura
fino a perdere ogni traccia di
vita» 8.
Il gioco di collusione,
connivenza, e reciproco
inganno tra autori e
intellettuali non si limitava
all’ambito testuale, ma si
riproduceva
nella
vita
culturale in generale, dove
sviluppò una sua propria
dinamica,portandoarisultati
inattesi. «Lo stesso sistema
nato per propagare l’arte
socialista, – dice Jeffrey
Goldfarb, – [promosse]
un’inattesa critica della vita
culturale. La lotta con
curatori, censori e funzionari
severi
[portò]
all’estraniamento degli artisti
percuii“dissidenticulturali”
[venivano] riprodotti dal
sistemastesso» 9.
Zbigniew Herbert aveva
ventiquattro anni quando i
comunistiandaronoalpotere
in Polonia. Ben presto,
quando fu evidente che il
Partitovolevachegliscrittori
fossero, con le parole di
Stalin, «ingegneri degli animi
umani» Herbert si dimise dal
Sindacato degli Scrittori e si
ritirònelsilenzio.
In merito alla repressione
stalinista o, secondo la
locuzione revisionista, al
«periodo di errori e
distorsioni», Herbert aveva
osservato: «Credevo che
sarebbe andato avanti fino
alla fine dei miei giorni. Ne
ero assolutamente certo [...]
bisognava
scegliere
l’emigrazione interna [...]
Quando ero ancora un
membro del Sindacato degli
Scrittori mi dissi che non
avrei mai scritto niente
secondo le direttive del
partito.Moltosemplicemente
non l’avrei fatto». Per quel
rifiuto non rivendicava
motivazioni
eroiche.
«Chiamereste ascetico uno
che non prova attrazione per
le donne? È una virtú o una
invalidità?» 10.
Il primo libro di poesie di
Herbertapparvenel1956.Col
diffondersi della sua fama, il
poeta poté viaggiare fuori
della Polonia. Tra il 1965 e il
1971epoidinuovodurantei
difficili anni dal 1976 al 1980
visseall’estero.Giàneglianni
Settanta la sua fama
internazionale era troppo
solida e diffusa perché la
messa al bando in patria
potesse danneggiarlo. La sua
relazione con i censori fu
perciò in un certo senso
atipica: nondimeno scrivere
sottounregimedicensurain
unalinguaparlatainunpaese
solo produce un fato
qualitativamentediversodallo
scrivere per un mercato
aperto in una lingua di
diffusione mondiale. L’ufficio
delcensorecreauncampodi
forze che influenza tutti
coloro che lavorano nelle sue
prossimità che cerchino o
meno di ignorarlo. Quel che
variadacasoacasoèilmodo
in cui quella forza viene
avvertita,ilmodoincuiviene
trasformatainternamente.
C’è poi una dimensione
ulteriore. Un’opera che esce
sotto un regime di censura
viveunasuaesistenzadiversa
dall’opera che esce in
circostanze
prive
di
restrizioni. Nel primo caso la
pubblicazione è un atto con
un diverso e piú intenso
significato sociale, mentre la
lettura è un’attività piú
complessa, piú sospetta e
forse anche piú acuta. Per
quanti sforzi il poeta abbia
fatto per bloccare o ignorare
la censura le sue poesie non
potevanoisolarsidalcontesto
nel quale erano destinate a
esserelette.
È all’interno di questo
complessodiforze,interneed
esterne, che guardo all’opera
poetica di Herbert e la leggo
meno come risposta alla
censura polacca e al modo in
cui si è presentata e ha
incarnatocertimomentidella
storia
postbellica
della
Polonia che come istanza del
piú ampio e complesso
problemadellascritturasotto
unregimedicensura.
Comincerò da una poesia
che ha tutta l’aria di essere
una
dichiarazione
antisovietica
ammantata
dall’allegoria per ingannare
l’ottusocensore.Lasituazione
drammatica di A Marco
Aurelio è ricorrente in
Herbert. Il parlante, un
esponente
del
mondo
morente
che
aspetta
l’invasione barbarica («è la
paura l’eterna oscura paura |
ora batte sulla fragile terra»)
si rivolge a Marco Aurelio:
«dammi la mano sopra le
tenebre» gli dice 11. Dunque
una poesia sulla solidarietà e
in particolar modo sulla
solidarietà tra compagni di
fronte
all’estinzione.
Nell’ovvia lettura allegorica,
MarcoAurelio(eilpoetache
protendelamanoversodilui
dalla Polonia attraverso i
secoli) stanno per i valori
dellaciviltàoccidentale–ele
ordeminaccioseperirussi.
Masvelarelapoesiaaquel
modo, proporne la lettura
come svelamento, non le
rendeaffattogiustizia.Perché
l’interrogativo posto dalla
poesia, il movimento stesso
che propone il disvelamento,
è come sia possibile scrivere
davverounapoesiasuMarco
Aurelio di fronte alle
pressioni che spingono a una
lettura allegorica. Lettura
creata dalle realtà della
situazionestoricapolaccaedi
fatto anche dalla paranoia
della censura stessa, per
definizione contraria alla
lettura
innocente,
che
diffonde tra i lettori la
consuetudine di leggere oltre
lerighe.
La questione di fondo è
quella relativa al concetto
stesso di genuino: che cosa è
genuino? È possibile scrivere
qualcosa di genuino in un
paese abituato a leggere oltre
le righe? La domanda viene
affrontata
meno
obliquamente in Perché i
classici, una poesia ispirata a
unpassoautobiograficodiLa
guerradelPeloponnesoincui,
senza
cercare
scusanti,
Tucididedescrivelasuaunica
sconfitta di generale in
guerra, una sconfitta per la
quale pagò con l’esilio a vita.
La poesia di Herbert si
conclude con versi che
contengono
un’esplicita
morale:
seoggettodell’arte
saràunabroccainfranta
unapiccolaanimainfranta
colmadiautocommiserazione
alloraciòcheresteràdinoi
saràcomeilpiantodiamanti
inunsudicioalberghetto
quandoalbeggialacartada
parati 12.
La sua risposta alla
domanda sollevata dal titolo,
Perché i classici? è la
seguente: i classici perché
propongono modelli di
reazione alla sfortuna che,
diversamente
dall’autocommiserazione
degli
amanti,
ci
sopravviveranno, i classici
perché rispondono al nostro
desiderio di un modello per
diventare a nostra volta
classici, ovvero durare. (Di
nuovonellapoesiaGliAntichi
Maestri Herbert scrive:
«InvocovoiAntichiMaestri|
nei difficili momenti del
dubbio») 13.
Certamente è possibile
spingere oltre la lettura di
Perché i classici facendo
dell’artista o intellettuale
polacco
l’interlocutore
nascosto, cui si prepara un
destino di esilio a vita dalla
cultura occidentale della
qualesisenteparte.Eperòla
prima lettura non può essere
sommersa dalla seconda. Si
tratta di una poesia su come
sopravvivere al conquistatore
non meno che su come
sopravvivere al Tempo che
tuttoconquista.D’altraparte,
in quanto poesia sul tempo e
sulla mortalità, è difficile
pensare che non invochi un
passato–quelloclassico–che
è riuscito ad arrivare fino a
noi nel presente: dunque si
presta a essere letta tra le
righe come una poesia su
comefarsícheilpassatonon
ricostruito nel presente
(quello
che
sopravvive
dell’Occidente in Polonia)
giungafinoalfuturo.
Scrivere tra le righe è
ovviamente una strategia ben
nota, di tale ingenuità da
mettere lo stesso censore,
capace di leggere tra le righe
tanto quanto lo scrittore di
scriverci, in uno svantaggio
tattico: a meno di riuscire a
dimostrare la presenza di
qualcosa dove sembra non
essercicheunvuoto,rischiail
ridicolo.
Sotto
la
paternalistica censura poststalinista comunque era stato
colonizzato perfino lo spazio
tra le righe. Scrivendo
dell’Ungheria nei primi anni
1980Harasztiosserva:
I dibattiti tra le righe sono
una base accettabile per
sondare la situazione [...] le
opinioni espresse non sono
aliene allo Stato ma forse solo
premature.Edèquestalavera
funzione di tale spazio: è il
contenitoredidigressionileali
che – per un motivo o per
l’altro – non possono essere
esplicitamenteespresse 14.
Una volta che scrittori e
censori hanno raggiunto il
livello di accomodamento
descritto da Haraszti e lo
spazio tra le righe è stato
assodato
come
canale
privilegiato
della
comunicazione esoterica –
l’onorevole scrittore può
preferirenonfarneuso.
Proveròoraadescriverela
deformazionesulpianoincui
opera Herbert, deformazione
determinata dal rapporto tra
ilcensoreeillettoreenontra
censoreepoeta.Ilfattoèche
il campo genuino di
riferimento di Herbert e il
modo genuino di operare si
sovrappongonopesantemente
al campo di riferimento e al
modus operandi di uno
scrittorechescrivaguardando
conocchioansiosoalcensore.
Herbert è un poeta allusivo e
ironico non perché usi
allusivitàeironiapersfuggire
allamatitarossadelcensoree
nemmenoperchélastoriadel
suotempol’abbiaresocautoe
indiretto per temperamento,
maperchéperluil’allusioneè
una
modalità
dell’affermazione umanistica
el’ironiaèunvaloreetico 15.
Si legga sotto questa luce
Tre studi sul tema del
realismo 16, la poesia in tre
parti ciascuna delle quali
descrive (come se si trattasse
diundipinto)undiversostile
storico
del
realismo:
classicista,
romantico,
socialista.
Il
realismo
socialistausa«soloduecolori:
quello sí e quello no» e
utilizza un’iconografia frusta
di pugni chiusi e cosí via
(«Dopo, – dice il suo
difensore, – una volta che ci
saremo stabiliti nei frutti del
nostro lavoro, useremo il
colore sottile, forse»). La
poesiadunqueè«su»lagrazia
del diciassettesimo secolo, il
colore e la varietà (ma anche
la
pesantezza)
del
diciannovesimo e il grigiore
del ventesimo secolo. Ma tali
caratterizzazioni non sono
enunciate come giudizi su
realtà
storiche
quanto
piuttosto come descrizioni di
modi della rappresentazione
storicamente condizionati,
ovvero del realismo. L’occhio
del censore può leggere la
poesia come se il suo intento
fossequellodinascondereun
giudizio sulla vita sotto il
socialismo in forma di
giudiziosull’arte;manellasua
ferma logica la poesia
rimprovera le letture che
confondono la realtà con le
suerappresentazioni.
In questa poesia, in
qualche
modo
faticosa
malgrado il suo slancio verso
laleggerezza,èdifficileevitare
l’impressione che nel campo
diforzecreatodall’istituzione
della censura Herbert vada
conducendo
una
dimostrazione didattica di
come il censore possa essere
condotto a produrre una
lettura erronea, assumendo il
referente secondario per
quelloprimario.(Seilcensore
–rendendosicontodeltirodi
cui è oggetto – cerca di
evitarne la trappola e di
prendere la poesia per quello
che dice – corre il rischio di
apparire ingenuo, di rivelarsi
incapace di vedere oltre i
travestimenti, cosa che di
fatto è pagato per fare,
mancando di incarnare la
paranoia dello Stato. In
mancanza di ogni principio
guida non può che fare
ricorsoallaletturapoliticapiú
opportuna, come fa notare
acutamenteGoldfarb) 17.
Nonintendoaffermareche
Herbert non adotti mai la
modalità
dell’apologo
esopico.Inalcunepoesie,per
lo piú poesie in prosa, la
forma
stessa
proclama
l’intenzione di farsi parabola:
L’imperatore,
Il
sogno
dell’imperatore, Fiaba russa,
Descrizione del Re per
esempio.Intutteilsoggettoè
Stalin, sia pure in modo
velato 18.
Ilritornodelproconsoleèa
prima vista un altro caso di
evidente ambiguità: la corte
dell’imperatore al quale il
proconsole
nervosamente
ritorna dalle piú remote
propaggini dell’impero non
può che essere la corte di
Stalin (o di uno dei suoi
piccoli imitatori) e il destino
che lo attende in quel luogo
non potrà essere diverso da
quello dei tanti luogotenenti
diStalin.
Ilfatalismodellevittimedi
Stalin, perfino la loro paralisi
di fronte all’estinzione, sono
stati spesso oggetto di
discussione. Nella misura in
cui la poesia invita a una
lettura dell’autoinganno del
genere
praticato
nei
monologhi drammatici di
Robert Browning per cui il
fatalismo si autogiustifica, i
versi
che
seguono
appartengono
a
quella
psicologiadell’autoinganno:
l’imperatored’altrondeamail
coraggiocivile
finoauncertopuntofinoaun
certoragionevolepunto
infindeicontièunuomo
comeglialtri 19.
Questi versi riguardano la
possibilità di prevenire il
tiranno e presentargli una
faccianondiabiettapaurama
di «coraggio civile», in un
certo senso come strategia di
sopravvivenza, per mettere
unadistanzatrasestessiegli
altri
candidati
alla
liquidazione. Nella misura in
cui non è piú un valore in sé
maunmezzoperraggiungere
un fine calcolato la versione
delcoraggiocheilproconsole
programma di adottare è di
conseguenzainautentica.
Ed è a quel punto che Il
ritornodelproconsole torna a
interrogarsisuunaltropiano.
Lapoesiapresentalesuevere
convinzioniallosguardodelle
autorità? Se lo fa e se quelle
convinzioni sono davvero
coraggiose, il loro coraggio
non è forse inautentico? Il
risultato di un calcolo, un
tentativo di prevenirlo? In
unasimileletturalaferociao
latolleranzadeltirannosono
ininfluenti (ovvero non
importasesitrattiomenodi
Stalin). La poesia è sul
rapporto tra il sé e l’autorità
nelle
condizioni
dell’assolutismo,
e
in
particolare sull’impossibilità
di essere «genuini», di
esprimere il vero sé sotto
minaccia (minaccia di morte,
minacciadicensura)–ovvero
sulla impossibilità di essere
sicuri che il sé stia
presentandosi in modo
autentico.
È alla luce di questi
interrogativi che riprendo
una poesia delle serie del
Signor Cogito di Herbert, Il
mostro del Signor Cogito.
Mentre il cupo incombere
della poesia precedente su
Marco Aurelio era la
definibile
(seppure
devastante) tenebra della
barbarie,èdifficiledirequale
siail«mostro»cheminacciail
SignorCogito:
ècomeunaenorme
depressione
distesasulpaese
nonsilasciaperforare
dallapenna
dall’argomento
dallalancia
senonfosseperilpeso
opprimente
elamortecheinvia
losipotrebbecredere
unincubo
unamalattia
dell’immaginazione
maluic’è
c’èdisicuro
comel’ossidodicarbonio
ricolma
lecaseitempliibazar
avvelenaipozzi
distruggelecostruzioni
dell’intelletto
ricopreilpanedimuffa
provadell’esistenzadelmostro
sonolesuevittime
èunaprovaindiretta
masufficiente 20.
Stanisław
Barańczak
segnala lo spostamento di
fuoco nelle ultime poesie di
Herbert,compresaquestache
va verso la «diffusa
dissoluzione dei sistemi di
valori, la banalizzazione del
male, il venir meno delle
situazioni di soglia in cui
l’uomo contemporaneo può
definirsiinterminimoraliela
mancanza
di
appigli
trascendentali verso i quali
orientarsi. Il vuoto […]
acquisisce nuove forme e
significati» 21.
In un certo senso il
soffocante
sistema
depressionariocontroilquale
si scaglia il Signor Cogito è
metaforadellaseriediperdite
o assenze descritta da
Barańczak. Ma asserire che
«è» una metafora minimizza
ilproblemadelSignorCogito.
L’«enorme depressione» non
esiste: è piuttosto un’assenza
che sta per un’assenza:
sembra una metafora ma di
questahasololaforma,nonil
corpo; anzi, non «ha»
nemmenolaforma,non«ha»
niente;
è
«del
tipo
informale» 22.
Il compito del Signor
Cogito–DonChisciottedella
penna – dunque non è tanto
uccidere il mostro quando
individuarlo. La sua strategia
è «offendere il mostro |
provocare il mostro» nella
speranzadistanarlo
primachesopraggiunga
l’atterramentoperinerzia
unabanalemorteingloriosa
l’asfissiaperinformità 23.
Èchiarocheilmostronon
verrà mai. È chiaro che il
Signor Cogito è destinato a
vagare per le strade
suburbane con la sua lanciapenna, gridando nella nebbia
(o in quel che è) finché gli
amici e le altre persone
«assennate»checredono«che
sipuòconvivere|colmostro»
lo persuaderanno a tornare a
casa e a farsi curare la sua
follia.
Checos’ècherovinalavita
del Signor Cogito? Una
risposta possibile, quella che
dà Barańczak nel brano
citato, è che si tratta di
un’inerzia morale pervasiva,
un’entropia della civiltà,
qualcosa che ha colpito il
mondo moderno: la caduta
nell’insensato. Una versione
alternativa a tale tipo di
rispostapotrebbeesserecheè
il peso morto del socialismo
dell’Europaorientaledipersé
svuotatodiognifedemanon
ancoraprontoamorire.
Perché allora il Signor
Cogito è una figura
dell’assurdo? Che cosa lo
qualificaperl’ironiaconcuiè
trattato? Non il fatto di aver
deciso che «ogni appiglio
trascendentaleȏpersooche
ilsocialismopolaccosièfatto
vecchioemortale:le«persone
intelligenti»,
anche
le
«persone
assennate»
sarebbero d’accordo. È
piuttostocheilSignorCogito
crede nell’esistenza di un
mostro, la cui esistenza è
provata solo dal fatto che i
pozzisonoavvelenati,ilpane
è coperto di muffa, e le
vittime sono ovunque. Come
Don Chisciotte non capisce
come
funzionino
le
rappresentazioni di secondo
ordine (che includono le
metafore). Non capisce che
«drago» sta per un certo
genere di astrazione (come
quelle di cui sopra) il cui
effetto è purtroppo fatale. Se
simettessealeggereilSignor
Cogito quasi certamente si
mostrerebbe lettore ingenuo
comeDonChisciotte.
La grande poesia di
Herbert, Il messaggio del
SignorCogito,siconclude:
va’perchésolocosísarai
accoltonellacerchiadei
freddicrani
nellacerchiadeituoiavi:
GilgamešEttoreRolando
difensoridelregnosenza
confiniedellacittàdelle
ceneri
siifedeleva’ 24.
Il colore dominante de Il
messaggio questa volta non è
l’ironia ma il paradosso
tragico. Per questo Don
Chisciotte non è citato tra i
«difensori del regno senza
confini e della città delle
ceneri». Perché tra gli altri
compiti che toccano al suo
mostro, il Signor Cogito di
ZbigniewHerbert,quandodà
voce a François Villon e a
numerose altre incarnazioni
fantasmatiche,
c’è
l’esortazione:
Ripetigliantichiscongiuri
dellefiabeeleggende
dell’umanità
Perchécosíraggiungeraiil
benechenonraggiungerai
Ripetilegrandiparoleripetile
conostinazione
Comequellicheavanzavano
neldesertoeperivanonella
sabbia 25.
L’eroenonèuninterprete
dei significati di secondo
livello ma un lettore ingenuo
cheprendelestorieperquello
che dicono. L’impegno de Il
messaggio è a livello etico
quellodellafedeltàinséeper
sé e a livello estetico quello
alle
«grandi
parole».
L’impegno de Il mostro del
Signor Cogito è quello della
fedeltà dell’eroe comico nei
confronti del suo dovere
cavalleresco, il suo impegno
estetico quello di una lettura
ingenua in cui «mostro» sta
permostro 26.
NeIcinquecinqueuomini
devono affrontare il plotone
di esecuzione. In tempi cosí
atrocilarilevanzadellapoesia
deve essere messa in
discussione anche dal poeta.
Perché in questi tempi «ho
scritto futili poesie sui fiori»?
Herbert rimanda la sua
risposta al momento in cui
avrà chiesto e risposto a una
domandaapparentementepiú
leggera:dichecosaparlarono
i cinque uomini la notte
primadell’esecuzione?
disogniprofetici
diunascappataalbordello
dipezzid’automobile
diunviaggioinmare
delfattochequandoaveva
picche
nonavrebbedovutoaprire
delfattochelavodkaè
migliore
cheilvinofavenireilmaldi
testa
diragazze
difrutta
dellavita.
Senza
soluzione
di
continuità torna allora alla
prima domanda e cosí
risponde:
ealloraèlecito
usareinpoesiainomidi
pastorigreci
tentaredifissareicolorid’un
cielomattutino
scrivered’amore
eanche
unavoltaancora
conserietàmortale
offrirealmondotradito
unarosa 27.
Qual è la logica che
permette alla parola «allora»
di farsi avanti con tanta
decisione? Una risposta
possibile, forse quella del
lettore, è: poiché i cinque
uomini
non
avevano
occupato la loro ultima notte
a fare gli eroi, poiché non
avevano agito come se si
trovassero sul palcoscenico
della storia ma avevano
continuatoaesserequelliche
erano,allora la poesia può (è
la parola cauta che sceglie
Herbert: non deve) dare al
mondo qualcosa di ciò verso
cui tende incespicando la
gente ordinaria con le sue
speranze e i suoi desideri: la
visione di un mondo ideale.
Lapoesiaallorahaqualcosaa
che fare con ciò che è
prezioso, ciò che va
conservato della storia di
quelle cinque vite e di quelle
cinquemorti.
E nondimeno il passaggio
dal poiché al perciò non
appartiene alla logica ma alla
retorica, mira a convincere,
ma la sua capacità di
convincere
viene
specificamente dal salto
mozzafiato che fa oltre
l’abisso del non sequitur. In
teoria ci potrebbe essere
qualsiasi cosa dopo le parole
«cosí si può usare in poesia»,
compreseletrombediguerra
che chiamano all’azione di
certopreferitedachihaposto
la domanda: «Perché scrivere
futili poesie sui fiori?»
fintanto che quello che segue
«allora»èdotatodisufficiente
potenzaretorica.
I cinque può apparire una
poesia
che
difende
l’autonomia dell’arte dai
tentativi di prescriverle un
certoruolosociale,maquesta
nonètuttalaverità.Piuttosto
I cinque è il tentativo di
mettere in scena in poesia il
potere
dell’arte
di
autoconvalidarsi. La poesia
non argomenta una tesi –
come argomentazione ha
letteralmente un buco nel
mezzo – ma è una
argomentazione. Se è su
qualcosadunqueèsulpotere:
sul suo stesso potere di
imporre una logica all’arte e
alla storia ma anche,
implicitamente,sulpotereche
si richiederebbe per far
passare una logica contraria
sull’arte e sulla storia. E in
questosensosiergenonsolo
contro i detrattori che
attaccanole«poesiefutili»ma
contro
l’interpretazione,
contro ogni interpretazione
che cerca di sottometterla e
sconfiggerla.QuandoHerbert
siopponeaqueidetrattoriea
quegli
interpreti
che
includonoilcensoresocialista
pronto
a
condannare
atteggiamenti estetizzanti e
solipsismi – la prova che
propone è alla fine la piú
violenta di tutte: quella di
sopportare il logorio del
tempo, il test della durata, il
testdeiclassici.
Nel suo studio di Herbert,
Barańczak suggerisce che il
contesto della sua poesia sia
costituita dall’opposizione di
Oriente e Occidente, di
passato e presente, di mitico
ed empirico. Si tratta di
polarità che possono di tanto
intantocoincidere,prosegue,
producendo una polarità
sincretico-oppositiva: eredità
versus spoliazione, dove
l’ereditàèeuropeaeclassicae
la spoliazione data, almeno a
livello simbolico, al 1944. In
nessuna
di
queste
polarizzazioni uno dei poli
prevale molto a lungo; gli
oppostiinvecesimantengono
in«equilibriodinamico».
FinquiBarańczakdescrive
quellachepotremmopensare
come la struttura estetica
della poesia prototipica del
New Criticism. Ma poi
prosegue:
«Il
modello
strutturale della poesia di
Herbert non è solo [...] il
confronto incessante [...] ma
il reciproco smascheramento»
delle due serie di valori
antinomici e dei due tipi di
realtà: la realtà dell’eredità e
quella della spoliazione 28.
Nella lettura di Barańczak,
l’ironia di Herbert è dunque
di natura diversa da quella
apprezzatadalNewCriticism,
che è una specie di campo
magnetico in cui la poesia
rimane sospesa come una
specie di icona verbale.
L’ironia di Herbert è piú
fondamentale dal punto di
vistaontologico:daunaparte
–cidice–lastoriadelpassato
raccontato dalla grande
tradizione europea può
presentarsi come realtà, ma
l’esperienza contemporanea
losmascheracomenient’altro
che una serie di finzioni
consolatrici; d’altra parte il
mondo con la sua presenza
empirica bruta rivendica la
propria realtà, ma i classici
rivelanocomedietrotuttociò
simuova–adanimarlo–un
tessuto di vecchi miti
familiari.
(Infine
Dalla
mitologia smaschera lo stesso
dio
dell’ironia:
«Allora
giunseroibarbari.Ancheloro
apprezzavanomoltoilpiccolo
dio
dell’ironia.
Lo
frantumavano coi tacchi e lo
spargevanosuicibi») 29.
Se perfino l’ironia può
essere
frantumata
e
addomesticata, e usata come
condimento,checosarimane
che possa opporsi ai barbari?
C’èunassolutonellapoesiadi
Herbert? Quell’assoluto è
forse il nichilismo dei
Longobardi, i nuovi padroni
delmondocivilizzato,che«si
riversanonellavalle|colloro
protratto grido niente niente
niente»? 30.
Penso a due poesie che
secondo
qualsiasi
interpretazione non possono
cheriferirsiallabarbarie:Alle
porte della valle, in cui gli
angeli che dividono gli
uomini in salvati e dannati
ricordanotantoisoldatidelle
SSchedividonoiconvoglidei
prigionieri in quelli che
devono vivere e quelli che
devono morire; e Apollo e
Marsia, in cui Apollo, dio
della razionalità e guardiano
dell’ordine olimpico, è anche
il barbarico torturatore di
Marsia 31.
QuelchelegaiLongobardi
vittoriosiaglidèidell’Olimpo
e agli angeli celesti e a quei
funzionari dell’Inquisizione
che
interrogarono,
torturarono e giustiziarono
gli Albigesi e i Templari,
atrocità che Herbert riferisce
ampiamenteneIlbarbaronel
giardino,èilloroassolutismo.
Tutti credono nella tirannia
del sistema e non tollerano
eccezioni.
Accanto a queste poesie
potremmo mettere Il settimo
angelo, in cui Shemchele, il
settimo angelo, nero e
nervoso, con la sua
imperfezione umanizza (per
cosí dire) il settetto celeste; e
Resoconto dal paradiso,
rapporto da un paradiso
«reale» dove le cose vanno
meglio, anche se solo un
poco, che sulla terra (la
settimana lavorativa di trenta
ore, per esempio). In
quest’ultimo
paradiso,
purtroppo non regna la
perfezione celeste: qualcuno
dimenticachelaresurrezione
dovràesseredellacarne,eche
una volta ammessi i corpi in
paradiso, l’umano, lo spirito
di imperfezione dell’umano,
di fatto sarà ammesso a sua
volta 32.
Checosaimplicanoledue
ultime poesie – che forse
sarebbe giusto definire
ambigue
–
a
livello
interpretativo?
L’operapoeticadiHerbert
ci offre una galleria di
assolutisti convinti che
l’universo presente sia una
forma imperfetta di un altro
universo, di un ordine ideale
– una forma imperfetta di
paradiso per esempio – o
della società senza classi – o
del
tipo
di
società
perfettamente duttile creato
dal terrore totalitario. Il
linguaggio dell’ordine ideale
preferito da quegli assolutisti
è una forma di linguaggio
umano
perfettamente
astratto,unmezzoimperfetto
natoinunmondoimperfetto.
Sfortunatamente per gli
idealisti, la lingua che la
gente, la gente vera, desidera
ostinatamente parlare e
ascoltare non è perfetta e
soprannaturale:
rimane
l’imperfettalinguadellacarne
di
questo
mondo.
L’espediente che permette di
riscattare all’ideale la lingua
della carne può essere
l’astrazione.Nelcompieretale
processo, scorticandone la
pelle,sisperadivederbrillare
sotto lo scheletro la luce
dell’ideale.
L’interpretazionedunqueè
la strada che gli assolutisti
prendono per attingere alla
verità dietro la poesia. Il
censore è la figura del lettore
assolutista: colui che legge la
poesia per capire che cosa
«significhi veramente», per
capirnelaverità.
Herbert offre due tipi di
riflessione su verità e
interpretazione.Daunaparte
un credo tipo I cinque o
Presentimenti escatologici del
Signor
Cogito 33.
In
quest’ultima la maschera del
Signor
Cogito
medita
esplicitamente
sulla
possibilità che non gli sia
permesso rinunciare al
paradiso e restare al servizio
delmondo.Dall’altraHerbert
offre possibili interpretazioni
mitiche.
Quello che l’interpretecensore vuole da Herbert e
cerca in lui è una scrittura di
secondo grado (metafora,
allegoria) che si apra per
esempio all’interpretazione
come fede in un ordine
astratto celeste di qualche
tipo.Quellochecercadunque
èunacertafede.Maunafede
che sia fondazione e
giustificazione di un secondo
ordine
della
rappresentazione, una fede
che per sua natura sanzioni
una rivelazione di sé per
quanto indiretta – una
qualche
sua
apertura
all’interpretazione,
resta
ostinatamente
assente.
Herbert continua a essere
fedele alla lingua di primo
grado,allalinguadellacarne.
La lettura che ne ho dato
diconseguenza–unprogetto
anch’esso non privo di una
sua ironia, considerando la
resistenza a qualsiasi lettura
evidente in Herbert – fa del
censore
una
figura
generalizzabile ma anche
fortemente problematica. La
situazione della vita reale di
Herbert può aver spogliato il
censore di tanta parte della
sua forza inibitoria e
repressiva. E nondimeno il
censore resta l’emblematico e
tirannico lettore di secondo
grado, che la sua tirannia sia
caratterizzata da assolutismo
politico o da riduzione
razionalistica.Daunapartesi
poneinrelazioneconHerbert
come
una
resistenza
necessaria, custode di un
limite oltre il quale la poesia
vaoltresestessaecominciaa
manifestare l’ambizione di
partecipare di un ordine
ideale. Dall’altra, quale
interprete par excellence di
unapoesiaperlopiúdeditaa
riflettere
sulla
propria
distanza
da
qualsiasi
interpretazione, è una figura
dell’assurdo.
La presente lettura prende
in esame la parte piú potente
e
intellettualmente
piú
rigorosa della poesia di
Herbert, non ne vuole
abbracciare l’opera nella sua
completezza.
Ci
sono
certamente poesie nelle quali
la
tattica
della
rappresentazione di secondo
grado è impiegata in modo
spontaneo e aspecifico.
Singolarmentelettetalipoesie
possono
confermare
il
giudizio di Paul Coates
secondo cui «l’arte calcolata
di raggirare il censore [ha]
ridotto al silenzio alcuni
aspetti della sensibilità [del
poeta] (e di tutta la sua
generazione), per via del
ricorso costante alle allusioni
classiche
che
filtrano
l’espressione diretta del
sentimento
avvicinandolo
pericolosamente
all’estetismo» 34.
E
nondimeno il corpus poetico
di Herbert poggia su un
grande segreto che il censore
ignora:ilsegretodichecosaè
chefaunclassico.Qualunque
cosa affermi l’opinione
popolare, qualunque cosa
sostengano i classici stessi, il
classicononappartieneauna
sfera ideale, e nemmeno vi si
attinge aderendo a una
qualche
ideologia.
Al
contrario il classico è
l’umano.Oalmenoquelloche
sopravvivedell’umano.
[1990-91].
BreytenBreytenbacheil
lettoreallospecchio
AlloStato.
Una delle poesie piú
importanti della raccolta
Skryt 1
di
Breyten
Breytenbach s’intitola Lettera
dello straniero al macellaio
(Brief uit die vreemde aan
slagter) e ha come sottotitolo
per Balthazar. Della raccolta,
pubblicata in Olanda nel
1972, in Sudafrica fu vietata
anche la distribuzione. Nelle
motivazioni della messa al
bando il Comitato di
controllo editoriale indicò in
particolare la Lettera dello
straniero al macellaio con la
sualistadinomidellepersone
morte in prigione e lesse la
poesia come piena di
«riferimenti
specifici»
all’allora primo ministro
Balthazar John Vorster
interpretandone inoltre la
conclusione come un’accusa
esplicita all’uomo bianco e in
particolareall’afrikaner 2.
Breytenbach
incorporò
diverse poesie di Skryt nella
raccolta del 1977 Blomskryf
(Scrittura-fiore) che ebbe
libera
circolazione
in
Sudafrica. Lettera dello
straniero non era tra quelle.
Fu per quella poesia che
chiesescusanel1975durante
il processo intentatogli per
aver cercato di entrare in
Sudafrica illegalmente al fine
di reclutare sabotatori per
un’organizzazione
clandestina: «Vorrei chiedere
scusa in particolare al primo
ministroperlapoesiavolgare
ed offensiva a lui indirizzata.
Eradeltuttoingiustificata.Mi
dispiace» 3.
Poichélaprimapartedella
poesia è oscura al punto da
essere criptica è possibile che
il comitato dei censori sia
giuntoallasuadecisionesulla
sola base della seconda parte,
dove si fa riferimento senza
mezzi termini alla tortura e
all’uccisione di detenuti da
partedellapoliziasegretaeB.
J. Vorster viene direttamente
chiamato in causa come il
macellaio-ostetrico
che
presiede a quelle morti. Ma
questononèunbuonmotivo
per ignorare la prima parte
della poesia che è uno dei
trattamentidellamorteedella
resurrezione
piú
intensamente risolti da
Breytenbach
ed
è
intimamente connessa alle
accusedellasecondaparte.
Lazzaro – l’uomo tornato
dal regno dei morti – è una
figuracentralenellamitologia
poetica di Breytenbach 4. La
prima parte della poesia del
Macellaio, senza nominare
Lazzaro, è pronunciata dalla
vocediunuomorisortodalla
tomba-cella,
che
ha
conosciuto la morte sotto
torturaeperciòhaildirittodi
accusareVorsterinnomedei
«prigionieri
risuscitati
dell’Africa». Con la sua
propria forza ma anche
richiamando le precedenti
figurazionidiBreytenbachdel
poeta-Lazzaro, cerca di
stabilire l’autorità poetica per
parlare in nome dei
gemarteldes (torturati e
martirizzati) di John Vorster
Square (sede centrale della
polizia segreta), i cui nomi
(una
quindicina)
sono
elencati in un’appendice alla
poesia. Nel dire «io» allora la
poesia implica due diversi
lettori: uno cui si rivolge
direttamente come «jy» (tu),
il macellaio Balthazar, ma
anche un’invisibile terza
persona, un lettore dietro le
spalle, un «prigioniero»
pronto a mettere in
discussione l’autorità di
Breytenbach a parlare a suo
nomedicendo«io».
Il linguaggio della poesia
passa da una complessità
tipicamentemodernistaauna
certasemplicità.Equestonon
avviene solo perché la poesia
intendedenudarsimanmano
checostruiscelasuadenuncia
(il poeta sotto forma di una
storia ancora da scrivere
punta il dito contro
l’oppressore) ma perché
mutua la lingua della polizia
politica nella sua forma piú
cinica e spudorata, mentre
impone la menzogna come
menzogna con l’arrogante
certezza che, anche se
nessuno ci crederà, nessuno
oserà sconfessarle (faccio
riferimento ai resoconti
ufficiali di detenuti saltati
dallafinestraperchéspintidal
rimorso o morti per essere
scivolati su saponette, o
ancora impiccatisi usando i
lorostessivestitiecosívia).
sopraimattonimisollevodi
fronteagliuomini
iosonostatuadiliberazione
cheprovaconelettrodiai
coglioni
agridarelalucenelcrepuscolo
scrivoproverbiconurina
cremisi
sullamiapelleequisoprala
terra
ecosíinveglia
iomisoffocoacordedi
budella
soprailsaponeioscivoloa
spezzarmileossa
iostessomiassassinoconil
giornaledellasera
mibuttogiúdaldecimopiano
delcielo
checosímirilasciosoprauna
stradainmezzolíalla
gente.
Quando la polizia politica
di Vorster spiegò la morte di
un prigioniero dicendo che
era scivolato su una
saponetta,ilseguitoimplicito
di quel discorso era: e
sfidiamo i tribunali di questo
paese a rifiutare questa
spiegazione. È sempre stata
unadellepratichelinguistiche
del totalitarismo mandare
messaggi in codice il cui
significato è noto a tutti e
usare la censura per imporne
una lettura letterale, almeno
nella pubblica arena. Allora
«scivolato su un pezzo di
sapone» veniva diffusamente
letto come «morto sotto
tortura»,
ma
la
sua
interpretazione pubblica era
tuttavia costretta a rimanere
«scivolato su un pezzo di
sapone».
Quando
Breytenbach fa la parodia dei
codici,comeinquestocaso,il
non detto che segue è: Qui
creo un’arena nella quale i
codici vengono smascherati e
denunciati. Dunque la sua
sfida avviene nel territorio
stesso del potere: contro il
poteredipoliziaprotettodalla
denunciaedallarappresaglia,
istituisce quello della retorica
(lacapacitàdelleparole)usata
a scopo di scherno sulla
pubblica scena. Inutile dire
che il motivo della messa al
bando della poesia era,
negandole
visibilità,
riasserendo il controllo sulla
sua visibilità, impedire alla
sua grande capacità retorica
dismascherareicodici.
Ma è qui che la posizione
di una voce che parla da «uit
die vreemde» (da luoghi
stranieri, dall’estero) solleva
difficoltà di ordine morale
oltre che pratico. Sia il
parlante che la poesia
(pubblicata
all’estero)
operano al di fuori della
giurisdizionedelpotererivale
(polizia, censori), cosí come
operano al di fuori della
comunità di parlanti e della
comunità politica cui si
rivolgono. Ma questo non
finisce per vanificare la sfida
morale? Non è peregrino
ipotizzare il rientro di
Breytenbach in Sudafrica nel
1975 come una risposta
esistenziale
a
quell’interrogativo, un atto
attraverso il quale il poeta si
mettevasullostessopianodel
nemico, pronto a mettere in
scenailmitodell’umiliazione,
incarcerazioneerinascitacon
l’autoritàdichièrinato–un
mito che conosce una
diffusionenonsolocristianae
cuilapoesiaattinge.
L’attacco a Vorster nella
poesia è duplice. Prima di
tutto viene denunciato come
capo dei torturatori assassini
eperciòcomecoluichedovrà
rispondere delle loro azioni
davantiallastoria:
eadessoparlamacellaio:
primachequestasia
maledizione
echesiesprimalatua
perorazione
soltantonellebocchedelle
tombe
davantiaiprigionieri
risuscitatidell’Africa.
Inquantoscrivequilasua
storia profetica del futuro, il
poeta Lazzaro profetizza il
rovesciamento
della
giurisdizione – l’inevitabilità
del passaggio da giudiceesecutore a imputato. Ma
nella misura in cui – come
asserzione,atto,sfida–mette
Vorster sul banco degli
imputati la poesia stessa
evocal’avventodiquelfuturo.
In
effetti
Breytenbach
rivendicaunpotere,quellodi
evocareilfuturo,poterechea
Vorster manca perfino in
quanto
timoniere
autoproclamatodelloStato.
Il secondo attacco di
Breytenbach è piú radicale.
Dipingendo l’urlo di dolore
che esce dal prigioniero che
muore come una nascita nel
sangue tra le mani del
macellaio-ostetricochiede:
nellatuagolailcuoresifa
rigido
quandoleafferriquellecarni
spente
conlemanichepalperannoi
segretidituamoglie? 5.
I segreti: Breytenbach
avrebbeanchepotutoscrivere
le parti segrete. A essere
esposti allo sguardo pubblico
non sono solo i segreti della
stanzadellatortura,nonsono
solo le repulsioni private
(ipotetiche) di B. J. Vorster
stesso (qui l’ironia è
complessa:
Breytenbach
asserisce che Vorster ha una
coscienzaelosfidaanegarlo),
ma i misteri (misteri proibiti
allo sguardo pubblico dalla
decenza)
del
letto
matrimoniale di Vorster. La
poesia è un colpo basso, una
sferzata alle parti private non
dell’uomo ma dell’inerme
moglie di lui – un insulto
all’onore maschile – ancora
piú offensivo se si considera
l’età dei suoi bersagli
(Balthazar e Tini nel 1972
avevano sui cinquantacinque
anni).L’eccessodellapoesiaè
uneccessodiintimità.
Breytenbach
e
l’innominabile,1964-75.
Sebbene la Lettera dello
stranieroalmacellaio non sia
stata
l’unica
causa
dell’animosità
contro
Breytenbach e della sua
condanna a nove anni
(piuttosto che i prevedibili
sette o cinque anni) si può
asserire che, in quanto
insulto, e cioè in quanto
discorso intenzionalmente
aggressivo e trasgressivo
contro Vorster, la polizia
politica e la comunità di cui
proteggevano gli interessi, la
poesia
ebbe
le
sue
conseguenzenelmondoreale.
Ma non era stata quella la
prima
trasgressione
di
Breytenbach. Fin dal 1964
avevaprovatovarievolte,con
sempre maggiore audacia, a
trasformare
il
discorso
trasgressivo dei suoi scritti in
attotrasgressivo.
Nella prima raccolta di
Breytenbach(1964),lapoesia
Breyten prega per Breyten
arriva molto vicino a
nominare l’innominabile che
accade a opera della polizia.
Nellapersonadiunborghese
bianco che non vuole altro
chescivolareattraversolavita
senza problemi prende le
distanzedagli«altri»che
Sianoimprigionati,Stritolati
Lapidati
Impiccati
Frustati
Manipolati
Torturati
Crocifissi
Interrogati
Condannatialibertà
vigilata[...]
Sianoesiliatisuisolespente
finoallafinedeilorogiorni
Imputridiscanoinumide
tombe[...]
ManonIo
AnoinondaremaiPiantoe
Dolore 6.
In Kouevuur (Cold-fire)
(1969) la figura di potere
presa di mira è l’imperatore
Tiberio che volge lo sguardo
(uno
sguardo
«imprigionato») sui mari
dove viaggiano le sue navi,
«unmondoordinato»:
cosílaseraquandoilrossodio
lasciadietroilpromontorio
unarossatogatraiflutti
inostentatacompagniadi
senatoridaigrassiculi
lui[può]sguazzare
felicemente
conleformedelsuobianco
corpo
nelletorpidefrescheacque
dellasuapiscinadi
marmo 7.
Il fatto che Tiberio sia
bianco ci allerta rispetto al
fatto che stiamo leggendo
un’allegoriadelpoterebianco
in Sudafrica. Ma tranne forse
che per il demotico «vetgat»
(grassoculo)lapoesiamanca
di mordente: si accontenta di
un misto di fascinazione e
repulsione per l’immobilità
delpotereimperiale.
Nell’allegoria della prosa
surrealista Om te vlieg
(Volare), del 1971, il
Sudafrica bianco è una
gigantesca istituzione per
malati di mente – i suoi
giardini sono controllati da
un custode dal camice da
macellaio che spara ai
pazienti che si comportano
male 8. Un regime omicida
presiede a un paesaggio di
estinzione di massa in nome
dellaleggeedell’ordine.
Questavisioneapocalittica
vienepresentataattraversogli
occhi di un paziente
confinatodentrolasuacecità
«bianca». «Dio è dalla parte
dei secondini, dei macellai e
degli infermieri», si dice
devotamente. Il suo massimo
piacere è quello privato di
defecare. Ma anche questo
presenta
dei
pericoli:
utilizzando vecchi giornali
per pulirsi il deretano, deve
fare attenzione a non leggerli
perché possono essere «frutti
proibiti, [...] propaganda
sovversiva, [...] libri di poesia
ealtredichiarazionidilibertà
superflue». Via via che il
mondo intorno a lui diventa
piú difficile lui si taglia il
pene, si taglia la lingua, si
cava gli occhi, si ritrae nella
suamente(OV,pp.33e19).
Cosí Breytenbach arriva a
una forma di rigetto
dell’ordine
sudafricano
suddividendo e ripudiando
un io narrante confessionale
che nello spirito appartiene a
quel mondo. Ma poi come
per assicurarsi che la sua
autodenuncia non venga
sopravvalutata, richiama un
ioautorialeperspiegareilsuo
intento:
Anchesequestosaggionon
vuole essere simbolico è per
me la rappresentazione del
nostro cancro e della nostra
lebbra,
la
nostra
supercivilizzata raffinatezza e
laputrefazionecheècapacedi
motivareespiegareassassinie
omicididimassa,proceduredi
carcerazioneeditortura.Tutti
i giorni passavamo davanti ad
Auschwitz in treno ma non
vedevamo il fumo –
guardavamo dall’altra parte
dellabaiaaRobbenIslandma
pensavamo ci fosse una
coloniadilebbrosi(OV,p.92).
Questo ansioso intervento
autoriale
contribuisce
fortemente a sovvertire la
forza trasgressiva del testo –
nonesigua,datelelimitazioni
del discorso pubblico nel
Sudafrica dei primi anni
Settanta, ripudiandone di
fatto l’autorità, un’autorità
conquistata dalla sua stessa
forzanarrativa 9.
Oltre a Lettera dello
straniero al macellaio, Skryt
(1972) contiene molte poesie
di denuncia esplicita come
per esempio, La terra
promessa.Ilproblemachetali
poesie sollevano per il loro
autore, soprattutto in vista di
una loro pubblicazione
all’estero, è che pur essendo
trasgressive l’unica cosa che
trasgrediscono alla fine dei
conti è un certo decoro
dell’allocuzione. Non si può
dire che divengano azioni,
ovvero che abbiano un
riscontro nella realtà come
nel caso della poesia su
Vorster. Fondandosi sulla
retorica dell’abiura, restano
nel regno della retorica e
dunque sono suscettibili di
esserebattutedaunaretorica
ancorapiúviolenta.
Lastrategiaavolteseguita
da
Breytenbach
come
alternativa all’assalto retorico
diretto è l’ironia (in poesie
comeLife in the earth, S, pp.
22-23).Mal’ironia,parlarela
linguadelnemicoefingeredi
identificarsi
con
lui,
soprattuttoquandoèusatain
modo sottile, solleva un
interrogativopreoccupante:la
poesia ironica è solo un
surrogato del diario del
tiranno oppure il tiranno
davvero non conosce la sua
stessa mente tanto in
profondità come invece la
conosce il poeta? E se è cosí,
qual è la fonte della segreta
simpatia del poeta per il
tiranno? In particolare, per
ripudiare il Sudafrica bianco
bisogna prima essere un
sudafricano bianco fin nel
midollo?
Le implicazioni di tali
interrogativi vengono vissute
da Breytenbach nell’atto di
scrivere in quella «lingua
bastarda» che è l’afrikaans 10,
la lingua di un io diviso,
doppio.Letteradellostraniero
al macellaio deve essere
scrittanellalinguadeltiranno
parlata solo nella terra del
tiranno che però è al tempo
stesso la lingua madre:
«Scrivo poesia nell’afrikaans
deglispasmidelcorpo:puzza
dibirra|delmioprimolatte,
| grana della punta delle dita
di mio padre» (YMS, pp. 2021). L’attacco all’afrikaner
deve essere un attacco a se
stesso
e
implica
un
movimento di ritorno alle
origini che contiene terribili
pericoli regressivi. Nella sua
poesiaBreytenbachhavissuto
nel modo piú intenso il
paradosso dell’appartenenza
allatribúafrikaner.
Primachepotesseapparire
in afrikaans A Season in
Paradise, il memoir di una
visita in Sudafrica con la
moglie nel 1973, l’autore fu
costretto ad accettare di
tagliare alcuni passi ritenuti
allarmanti
o
offensivi
dall’editore
sudafricano.
Piegandosi a quel veto, di
fatto tornava in patria,
rientravanell’arenadelpotere
edeldiscorsodelnemico.Ma
qualunque fosse l’effetto di
quel veto, Breytenbach cosí
era almeno in grado di
portare in prima persona la
sua denuncia, come soggetto
ecomeoggetto:
Noi
sudafricani,
continueremo a infestare il
mondo fino alla fine. Siamo
tutti leggermente matti –
siamo spaccati in due da una
feritainsanguinata[…]Siamo
mutilati – siamo umani solo
per metà – ma lo sappiamo,
siamo matti e sappiamo di
esserlo(SP,p.203).
Ovviamente
è
«Breytenbach» che parla, ma
èancheilmentitorediCreta.
E anche se la sua
autodenunciafosseintesaqui
comeildiscorsodiunfollele
parole con cui si conclude
l’arringa sono chiaramente
intese a mettere da parte la
maschera della follia: «Nel
prendere coscienza della
naturadellalottaincuisiamo
coinvolti e che condividiamo
[…] estendiamo la nostra
umanità e la nostra lingua»
(SP, p. 160). La follia –
sembra dire – non è
propriamente la sua: nella
misuraincuièdavverofollia,
appartiene
agli
altri.
Breytenbach può avere
addosso il marchio di una
voglia, come la cicatrice di
unaformazionefolle,eanche
una seconda cicatrice (come
diuncolpodifrusta)lasciata
dal folle comportamento che
l’hacircondato(«Anch’io[…]
mi sono […] trovato nella
posizione umiliante di essere
sottoposto
al
sistema
discriminatorio
che
disprezzo» (SP, p. 166) ma
non quello della follia vera e
propria. La natura del suo
coinvolgimento, qualunque
sia,continuaasfuggirgli.
Di conseguenza il ricorso,
nellostessolibro,aundeusex
machina, un salvatore che
metterà fine al regno della
follia per incominciare una
nuova era. Davanti a questo
messia il poeta impersona il
ruolo visionario di Giovanni
Battista:
eiovidico,dalcuoredelpaese
luiarriverà,unodivoi[...]
edovunquepasseràsiaprirà
unvarco
eledonnelascerannocadereil
cucito
eilfuocousciràtonantedalle
bocchedeifucili
lecasesifarannonere
glialberidificosiseccheranno
alcomandodieserciti
vendicheràl’ingiustizia
esalderàivecchiconti[...]
alcunidivoinaturalmente–è
nellanaturaumana–
striscerannoaterracome
grassivermi[...]
offrendo[...]
qualsiasicosa,«qualsiasi,
padroneNero,tutto,tutto
trannelamorte,oh
padronemio,padrone
Nero»
luiavràunsorriso
meraviglioso
eun’aureolaeunoSten
[fucile]enonfarà
maleaipasseridelveld 11.
Ho accennato a un
movimento tentennante o
altalenante nelle poesie di
Breytenbach, tra quelle di
denuncia retorica con una
sorta di vuoto al centro e
poesie di identificazione
ironica con il nemico. La
poesia citata, per quanto
blanda
e
occasionale,
corrisponde alla posizione
irrequieta di un poeta che
prova disagio sia a parlare
dall’interno che a parlare
dall’esterno.Infondositratta
di un rovesciamento, un
regolamento di conti: lo
schiavo diventa padrone,
mentre il padrone arrogante
adotta la parlata umiliante,
infantile e nauseante di chi
non ha potere, una lingua
inferiore. La poesia invoca
una violenza magica, da
fumetto, capace di portare
l’avventodiunmillennioche
decreteràlafinedeidisordini
edelledivisioni.
Scrittidalcarcere.
Immaginiamoci un dialogo
adue,nelqualelereplichedel
secondo interlocutore sono
tralasciate, ma in modo tale
cheilsensogeneralenonviene
affatto turbato. Il secondo
interlocutore
assiste
invisibilmente, le sue parole
non vi sono, ma la traccia
profonda di queste parole
determina tutte le parole
presenti
del
primo
interlocutore.[…]Ogniparola
presente fa eco e reagisce con
tutte
le
sue
fibre
all’interlocutore
invisibile,
accennaaldifuoridisé[…]a
una non detta parola altrui
[…]Laparolaaltrui[...]èsolo
sottointesa, però tutta la
struttura del discorso sarebbe
assolutamente diversa se non
ci fosse questa reazione alla
sottointesaparolaaltrui.
Cosí scrive Bachtin,
identificando la polemica
nascosta e il dialogo nascosto
in tutti i romanzi maturi di
Dostoevskij.Econtinua:
Non in tutte le situazioni
storiche (anzi al contrario),
l’istanza semantica di chi crea
può
esprimersi
immediatamente nella diretta,
nonriflessa,noncondizionata
parola dell’autore. Quando
non v’è una propria «ultima»
parola,
ogni
intenzione
creativa,
ogni
pensiero,
sentimento, passione, deve
rifrangersi attraverso il mezzo
della parola altrui, dello stile
altrui,dellamanieraaltrui 12.
Sarebbe stato altrettanto
ingenuo nel caso di
Dostoevskij quanto in quello
di Breytenbach immaginare
che un cambiamento nella
«situazione storica», in
particolare la rimozione della
censura esterna, avrebbe
prodotto una «parola diretta,
intenzionale, senza riserve,
senza rifrazioni» dalla quale
sarebbe stato assente il
dialogo nascosto. La censura,
oalmenol’ufficiodelcensore,
non è la sola «istanza
semantica»allaqualeaccenna
Bachtin, e nondimeno il
lavoro di Breytenbach nel
periodo 1975-82 era stato
portato avanti in condizioni
straordinariamente restrittive
e malgrado ci sia stata
l’opportunità di revisioni
successive porta il segno, e
nonsempreinmododeltutto
ovvio,
della
censura
all’origine. L’idea di Bachtin
di
un
controdiscorso
implicito nel dialogo ci ha
rivelato aree nascoste del
discorso di Dostoevskij, e ci
ha anche allertato sulle
possibilità
di
un
controdiscorso nascosto in
Breytenbach. Nella lettura
degli scritti dal carcere di
Breytenbach mi concentrerò
sulle voci nascoste contro le
qualiparlal’autore.
Durante la detenzione
preventiva a Breytenbach fu
permesso di scrivere. Ne
uscirono le poesie pubblicate
col titolo Voetskrif [voet,
piede; skrif, scritto] dedicate
al suo primo inquisitore per
insistenza di quest’ultimo:
«Tudedichiquestoameeio
ti permetto che venga
pubblicato» come riferisce
Breytenbach 13.
In prigione scrivere era
permesso
a
quattro
condizioni: 1) quello che
Breytenbach scriveva non
doveva essere mostrato ad
altri detenuti o secondini, 2)
non doveva essere mandato
fuori clandestinamente, 3)
ogni
pezzo
andava
consegnato per essere messo
al sicuro non appena
completato e 4) tutte le note
dovevano essere distrutte
(VC, 145). Alla fine furono
pubblicati quattro volumi di
poesia del periodo della
prigionia,checostituisconole
parti 1-4 di Die ongedanste
dans(Ilballononballato) 14.
Nelle Veritiere confessioni
Breytenbach ricorda la sua
posizionediprigionierovis-àvis col censore: «Una
situazione bizzarra […]
scrivere sapendo che il
nemicostaleggendodietrole
tuespalle[…]sapendoanche
che stai mettendo allo
scoperto i tuoi nervi, le tue
palpitazioni piú intime, piú
personaliperibarbari,icinici
che proveranno in questo un
sadico piacere» (VC, p. 145).
Al di là di questa
testimonianza è evidente dal
testo che alcune delle poesie
di Die ongedanste dans nella
prima pubblicazione sono
censurate nella maniera piú
ovvia.
Non tutte le poesie della
prigionia sono costruite in
forma di dialogo, aperto o
nascosto che sia, con un
censore
oppressivo.
E
nondimeno perfino quelle
apparentementemonologiche
esprimono piú il ripudio del
dialogocoldetestatoaltroche
la determinazione a risolvere
il discorso in forma di
monologo 15. Altre poesie
mostrano
un
rapporto
complesso
e
perfino
ambivalenteneiconfrontidel
dialogo. (Language Struggle)
per esempio si rivolge ai
bambini neri in rivolta nello
stilemonotonodibaasskap:
Impareraiaessereobbediente,
obbedienteesottomesso.
Impareraiausarelalingua
(afrikaans),
elauseraicon
sottomissione 16.
Seguendo Bachtin, la
poesia avrebbe una «doppia
voce» pur senza essere
dialogica: Breytenbach lo
scrittore s’impadronisce del
discorso del nemico per uno
scopo suo, in questo caso
cupamente satirico. Ho già
accennato a come questa
procedura si possa rivelare
contraddittoria (cosa di cui
Breytenbach è pienamente
consapevole): colui che
catturapuòessereasuavolta
catturato. A fianco di quella
poesia possiamo mettere The
Conquerors:
poichénonliriconoscemmo
comeesseriumani
tuttoquelchediumanoc’era
innoisièprosciugato
enonpossiamopiangerela
nostramortepoichénon
volemmoaltrochepaurae
odio
nonriconoscemmolarivolta
umanadell’umanità
ecercammosoluzionidurema
tardive
ifiorinelfuoco
nessunoèinteressatoalle
nostresoluzioni–
siamoaldilàdella
comprensione
siamodiun’altrarazza
siamoifiglidiCaino 17.
Il monotono degli ultimi
quattro versi, parlato da una
specie di morte in vita,
pronuncia il futuro epitaffio
dell’afrikaner. Ma nei versi
precedenti c’è un dialogo
rudimentale là dove si
insinuano le parole dell’altro
(«umano»,
«umanità»).
Queste due poesie allora
parlanodiduemomentidella
storiadeldominiobianco:un
momento
di
cecità
sonnambula e un primo
momento
di
autoriconoscimento
fatalistico.
Ma perché Breytenbach,
l’esule, il prigioniero, il figlio
rifiutato, dice «noi» in
entrambe le poesie, mentre
intende
«voi»?
Perché
nascondere l’accusa sotto
l’autoaccusa o assumere la
vocediqualcunocheripudia?
Perché i suoi biechi nemici
non parlano da soli con le
loro voci, non promulgano i
loro editti, i loro disperanti
epitaffi? Perché deve parlare
perentrambeleparti?Perché
usareilmonologovicarioma
anche perché il dialogo
nascosto, perché mai la
cripto-polemica con un
nemico che in fondo è già
morto?
La risposta è semplice.
Nella vita vera il discorso del
nemico
contro
cui
Breytenbach si scaglia non è
mai cosí trasparente come lo
vorrebbe. Al contrario è
evasivo,
contorto
e
autocensurato. Quello che fa
Breytenbach in queste poesie
è
in
sostanza
la
rappresentazione di un
ventriloquo, la sostituzione
del discorso del nemico, la
presentazione del caso del
nemico nei toni esagerati,
parodistici e autolesionistici
con un mezzo – il discorso
dell’intellighenzia–alqualeil
nemicononavevaaccesso.
Poiché gli scontri che
mettono in scena sono cosí
unilaterali
è
difficile
individuare in poesie come
queste un qualunque vero
impegno creativo da parte di
Breytenbach.
Viceversa
pensiamoa’nSpieëlvars 18:
tututu
contevoglioparlare,stronza
tenevaiingirosenzasellae
senzapatente
nellefogneeneicortilidei
mieiversi
mortemia
tuscaviconlatualancianei
bianchi
solchi
dovevolevomoltiplicarmi
perlapatriaelanazione
(maprestodiquestenon
rimarràniente)
mortemia[…]
tucongliocchigialliela
mano
sinistra
tuconlabarbascomparsatu
conlasabbia
sullalingua
conlacondannaanoveanni
comeunagravidanza
faròditeunvedovozaczac
midaiibrividi
emettigemiti
dipiacere
poggilafrescacarezzadelle
tuelabbra
quisullamiavita
equiequi
vienibaciamisullabocca
tucaneprescelto
vieniamettereordineneimiei
giovani
pensieri
adammucchiarepietresulle
miealicadenti
quantoancoradevoaspettare?
omiaMorteombrabianca
comeneve
omiapersonalepoliziasegreta
saròtuopersempre
etusei
miamiamia.
Una poesia scritta sotto
l’influsso evidente di Sylvia
Plath, non ultimo per i ritmi
frastagliati e per i violenti
sbalzi di umore. Ma da Plath
Breytenbach ha appreso
anche qualcosa di piú
profondo: che Io e Tu non
devono
per
forza
rappresentare posizioni fisse.
L’Io qui è il carceriere e
l’assassino
vendicativo,
dominato dalla morte, ma è
anche il sé proteso alla
liberazione malgrado l’unica
formadiliberazionechevede
sia nella morte che incombe.
Tu
è
chiaramente
Breytenbach il prigioniero
deriso; ma anche la figura
persecutoria dello schiavo
oppresso cosí come la morte
dell’amante che ne agogna il
perverso abbraccio («qui e
qui»), l’altro sempre vigile
nello specchio, e infine una
figura con le ali che
rispondonoallesueinutiliali.
E di fatto tante delle
incarnazioni dell’Io: censore,
agente della polizia politica,
custode-persecutore
alato,
sono condivise dal Tu. Si
tratta insomma di una vera
poesia specchio, spieelvers, in
cuinonèchiaroqualesiailsé
e quale l’immagine. È una
poesiadallafrenesiadialogica
crescente nella quale non è
piú possibile dire quale sia la
posizione del sé: lo scambio
tra sé e l’altro è in effetti
continuo.
Lafasedellospecchio.
La figura di un uomo che
guardanellospecchiodomina
la prosa di Breytenbach del
periododelcarcereediquello
immediatamente successivo,
Mouroir e Le veritiere
confessioni di un africano
albino 19. La superficie dello
specchioequelladellapagina
vuota sfiorata dalla penna
diventano indistinguibili: col
movimento della penna, il sé
altempostessocreaedevoca
su quella superficie un
sardonico doppio oppositivo
che irride al suo sforzo di
vedersi in trasparenza, e gli
consiglia di riprovare. La
figura allo specchio si
comporta di fatto proprio
come gli agenti della polizia
politica che, all’epoca del
primo interrogatorio di
Breytenbach, gli misero
davantiduefoglibianchiegli
dissero di scrivere la storia
dellasuavita;poi,quandolui
ebbe finito, le lessero, le
strapparono e gli dissero di
riprovare(VC,pp.23-24).
La prima stesura di
Veritiere
confessioni
Breytenbach la realizza
parlandoaunregistratore,un
procedimento che definisce
«questoparlareacaso,questo
processo».Qualesaràlaverità
che uscirà dal processo?
Qualunquesianonpuòessere
prevista: si rivelerà solo dal
dialogotrailséelospecchiopagina. Se ci dovesse essere
un nuovo interrogatorio, un
nuovo processo, la verità
verrebbe fuori diversamente:
«Io sarei qualcun altro –
altrettantosincero,altrettanto
disposto
a
collaborare,
altrettanto ossessionato dalla
necessità di confessare»
confessa. Dunque la postura
dello scrittore davanti allo
specchio-pagina è assimilata
all’atteggiamento
del
prigioniero che coopera
durantel’interrogatorio.Echi
è l’inquisitore? In un certo
senso è il lettore che vuole
sentire che cosa ha da dire
Breytenbach; ma è anche l’io
che si scrive. «Signor
Investigatore. Lei sa che noi
stiamo sempre inventando le
nostre vite […] tu e io
intrecciatielegati,parassitae
preda,
immagine
e
specchio» 20.
Fin qui abbiamo solo
un’altra geniale figura poststrutturalista di produzione
testuale del sé. Ma la
connessione africana non è
stata soppressa. Verso la fine
della sua lunga confessione,
Breytenbachscrive:
Signor Investigatore [...] la
vedo ora come il mio
specchio-fratello
oscuro.
Abbiamo bisogno di parlare,
fratello Io. Devo dirle cosa
volevadireessereunalbinoin
una terra bianca. Noi siamo
per sempre uniti da un’intima
conoscenzadelladepravazione
versocuil’uomotenderà(VC,
p.239).
Chi è qui l’investigatore?
Non (o non solo) il gemello
biancochecontrollalapsiche
maancheilfratelloneronello
specchio,altrettantoossessivo
e persecutorio, un complice
del suo crimine storico nel
qualecisonostateduepartie
nonuna.Inquestocipuòfare
da guida Simone Weil. In
ogniattodistruttivo,scrive,il
sésilasciadietrodelletracce:
«L’atto malvagio è un
transfertsualtrapersonadella
degradazione che si porta in
noi» 21.
Poiché
nella
sofferenza
la
vittima
interiorizza la degradazione
dell’oppressore, l’Io diventa
doppio,
molteplicemente
doppio:
inquisitore
e
rivoluzionario, criminale e
vittima, colonizzatore e
colonizzato,perfinocensoree
scrittore. Il nero nello
specchio non è l’Altro ma
l’altrosé,il«fratelloIo».
Il lungo monologo nella
stanza vuota con cui era
iniziato Veritiere confessioni
cosículmina,nonneldialogo
col fratello scuro, ma con la
scopertache,primachepossa
darsi la vera conoscenza, il
dialogo deve svolgersi con lo
specchio.
Cosí
quando
Breytenbach
scrive,
retrospettivamente, di non
dolersi di essere passato per
l’esperienza «sotterranea», la
parolasiriempiedisignificati
non facendo riferimento solo
allasuavitadiagentesegreto
eprigioniero,maaunastoria
diciecobrancolarecheinvece
di condurre alla liberazione
haportatoall’illuminazione,a
capire che nel cercare la luce
si deve scavare nel buio.
«Quello che si è vissuto
diventa un nuovo corridoio
chesidelineanellevisceredel
labirinto;èunacontinuazione
della ricerca del Minotauro,
quel centro oscuro che è l’Io
(l’occhio), quel Signor Io
[mistero]»(VC,p.77).
Il poliziotto bianco, il
rivoluzionario nero: i nemici
avvicinatinellospecchio.Èlo
specchio allora il luogo dove
si trascende la storia? Il
dialogo con il sé rispecchiato
si estende al dialogo tra i sé
nello specchio? Possibile che
il dialogo nello specchio
proceda pacificamente o si
trasformerà in uno scontro
isterico come quello che
vediamo in Place of Refuge e
poi ancora nel Pre-testo del
1986 di End Papers, dove si
rinuncia al controllo sul
dialogo per un esperimento
sorvegliato e si fa spettacolo
di
isteriche
autoaccuse
sprofondandosemprepiúnel
pozzo «senza fondo della
deprecazioneedeldisgusto»?
22
.
Ma tali interrogativi
esulano dalla materia di
Veritiere confessioni. È in
Mouroir 23 che Breytenbach
cerca di mettere in pratica –
nella pratica della scrittura –
lateoriaillustratainVeritiere
confessioni. Mouroir è un
assemblaggio
di
storie,
parabole, meditazioni e
frammenti legati dal doppio
simbolismo dello specchio e
dellabirinto.Iltestostessoèil
filo
di
Arianna
che
Breytenbach srotola dietro di
sé man mano che avanza
attraverso il labirinto della
sua finzione verso un
incontroconqualcosacheèal
tempo
stesso
il
Sé
ammiccante dallo specchio –
il Signor Io – e il mostruoso
Altro che non sarà mai
recuperato all’amicizia: la
Morte.
Naturalmente l’unione tra
ilséeilséallospecchiononè
mai raggiunta, la superficie
della pagina-specchio non si
dissolve,ilcuoredellabirinto
non viene raggiunto. Invece
unanuovasuperficieritornaa
ogni svolta, e porta a un
ulteriore
corridoio
del
labirinto.Iltestovaavantiper
un processo di metamorfosi
di immagini come nei sogni.
Il testo diviene complanare
conlavita:iltestononfinisce
finchénonfiniscelascrittura;
lascritturanonfiniscefinché
nonfinisceilrespiro.
Malgrado la sua natura
decisamente privata, Mouroir
segna un passo avanti nel
pensiero e nella scrittura di
Breytenbach. Vedendo o
sostenendo
di
vedere
attraversol’identitàostileallo
specchio, facendo della
superficie dello specchio
qualcosa che si attraversa,
un’apertura
verso
un
progressoinfinito,l’autoreha
rimandatoilconfrontoconil
suo gemello nemico, e ha
anche trasformato quel
rimandare in un modello di
produzione testuale. Sulla
base del momento della
genesi descritto in Veritiere
confessioni,ilmomentoincui
l’inquisitore della polizia gli
restituisce la storia della sua
vitacolcommento«Riprova»
– lui ha costruito un
programma di scrittura
indistinguibile
dalla
giustificazione teorica di quel
programma.
Ma
il
momento
culminante di «Riprova» non
è l’unico che la sua scrittura
dopo il carcere metta
continuamente in scena. Dal
repertorio della memoria
ritorna, in modo ancora piú
monotono, il momento della
confessione di Breytenbach
alla corte, quando dovette
rimangiarsi l’orgoglio e
pronunciare
scuse
imbarazzanti,equandoquella
autoumiliazione
fu
nondimeno respinta perché
nonabbastanzasinceradafar
ritirarelasentenzapunitiva.
Nel resoconto pubblico di
come era giunto a fare la sua
confessione,
Breytenbach
dice:
«Senza
essere
esplicitamente politica, era il
tentativodispiegarecomeero
arrivato a trovarmi in quella
situazione, senza rinunciare
allemieconvinzioni.Lalegga
– sentirà in essa la voce
insidiosa[poliziapolitica]del
controllore. La dichiarazione
andò nelle [sue] mani una
settimana prima che il
processo cominciasse e lo
stesso Vorster l’aveva sulla
scrivania prima che venisse
letta in tribunale» (VC, pp.
54-55).
Da nessuna parte nel suo
rapporto Breytenbach accusa
la polizia, o B. J. Vorster, di
aver cercato di influenzare il
giudice del processo. Eppure,
l’implicazione sembra essere
che fosse stato raggiunto un
accordo
(scuse,
autodegradazione,
accettazione
pubblica
dell’autorità del patriarca in
cambio di una sentenza piú
mite) e che poi il patto non
fosse stato onorato. In modo
criptico, Breytenbach scrive:
«Non è mia intenzione [in
Veritiere
confessioni]
vendicarmidiunsistemaodi
certe persone – almeno non
mipare».Eprosegue:«Siamo
troppostrettamentelegati».
Troppo
strettamente
legati? Quando mai i legami
familiarihannorappresentato
un ostacolo alla vendetta? Le
molle ispiratrici di Veritiere
confessionieMouroir–itesti
principali della fase dello
specchio di Breytenbach –
sono
straordinariamente
complesse. Malgrado quello
che dice, includono un
desiderio primitivo di colpire
di rimando coloro che lo
hannorinchiuso,comeattesta
il torrente di insulti in cui i
nomi delle persone sono
trasformati precisamente in
cacofonia (B. J. Vorster in
Grande Capo Toro Seduto,
per esempio, VC, p. 14). Ma
comprendono anche un
progetto piú cauto – istigato,
forse, dalla consapevolezza di
quanto sia infantile schizzare
merdaaddossoaquellefigure
di potere che rifiutano le sue
storiedisé–perincorporare
lafiguradelcensoredentrodi
sé (chiamandolo la figura
nello specchio, chiamandolo
l’Io) e manovrarla in tal
modo. Il successo di quello
stratagemma è dubbio: la
prova è Mouroir, e Mouroir
alla fine si esaurisce in un
distratto giocherellare col filo
di Arianna, dimenticato il
Minotauro. In Breytenbach
non mancano momenti di
lucidità
sulla
natura
essenzialmente magica del
suo progetto di dominare la
voce che dice No. Scrivere è
un mezzo di sopravvivenza,
dice. «Ma allo stesso tempo
[…]
diventa
l’esteriorizzazione della mia
reclusione, […] i muri della
miaprigionia»(VC,p.141).
Uno dei destini della
confessione a partire da
Rousseau – o almeno della
confessione laica – è stato
quellodidipanarsiall’infinito
nello sforzo di raggiungere la
veritàoltreilproprioriflesso.
In Breytenbach il compito di
assumere su di sé il processo
diautoriflessioneinprincipio
sembra all’io narrante poco
piú
di
un
compito
preliminare da svolgere (una
sentinella da oltrepassare)
primachepossacominciareil
lavoro vero, la narrazione
della storia: in questo caso la
storia della sua clandestinità.
Solo in seguito subentra la
consapevolezza
che
raggiungereilverosé(svelare
il Mistero Io) è il lavoro di
unavita,comepulirelestalle
diAugia.
IlCensore.
Nella
sua
maschera
pubblica,
politica,
Breytenbach esprime un
atteggiamento nei confronti
della censura che è quello
tipico
dell’intellettuale
progressista,cosmopolita.«La
censuraèunattovergognoso
[...] Ha a che fare con la
manipolazione, col potere,
con […] la repressione». Per
loscrittoreaccettarediessere
censurato è fatale. «Ti si
radicadentrocomeunasorta
di
paternalismo
interiorizzato. […] Diventi il
tuo stesso castratore». «Una
volta che ti sottometti alle
limitazioni dei manager del
potere, entri nel loro gioco,
[…]hannogiàvintoloro» 24.
Nonc’èaccennoinqueste
dichiarazioni del periodo
successivoallacarcerazioneal
fattoche,almenoperuncerto
lasso di tempo, il poliziottocensoredell’immaginazionesi
fosse
installato
in
Breytenbach come il suo io
allo specchio, e che la
scritturaseppurenonfacevail
gioco del censore aveva
comunque instaurato un
gioco col censore. Nelle
occasioni pubbliche questa
parte del discorso era stata
censurata ed espunta. Quello
che ci viene da Breytenbach
di conseguenza è un discorso
divisosullacensura,divisotra
quellocheLeoStrausschiama
l’exoterico e l’esoterico 25. Il
discorsoexotericoècostituito
dadichiarazionipubblichedel
tipo che ho citato. In tale
discorsoc’èunacompetizione
evidente tra una voce che
lotta per esprimersi e un
bavaglio che la soffoca; il
censore è demonizzato. Nel
discorsoesoterico,ladottrina
chevaricavatadaisuoiscritti
piú intimi, è che lo scrittore
scrive contro e non può
scrivere senza una serie di
resistenze interiorizzate che
in sostanza non sono cosí
diverse da un gemellocensore interiorizzato, al
tempostessoamatoeodiato.
Nei momenti piú intensi,
la scrittura può vomitare
residui di lotte sanguinose o
soffocanti contro blocchi e
resistenze: parole soffocate
chevengonoliberate.Lavoce
lotta per riprendere fiato, per
respirareeschierarsicontrole
figure persecutorie. La poesia
di Breytenbach, e in
particolare la sua poesia del
periodo della prigione e di
quello
immediatamente
successivo, è scrittura di
questo tipo. Durante quel
periodo può essere stato
necessario per lui, per il suo
progetto di vita, dichiarare
pubblicamente
la
sua
ascendenza
e
definirsi
bastardo, né europeo né
africano,
afflitto
dalla
coscienza schizofrenica del
bastardo. Ma il gesto stesso
dell’accusa, cosí diffuso nella
sua scrittura, rispecchiando
quella che giudice e censore
rivolgevanoalui,appartienea
una strategia in fin dei conti
futile di demonizzazione ed
espulsione. Le poesie che
sono emerse con lui dalla
prigione alla luce del giorno
additanouncompitobenpiú
arduo: quello di vivere con il
suodaimoneisuoidemoni.
[1990-91].
Indignarsi
L’offesa.
All’inizio degli anni
Novanta si è verificata una
significativa
svolta
nel
discorso
pubblico
in
Sudafrica. I bianchi, che per
secoli
erano
stati
cordialmente indifferenti a
quellocheineripensavanodi
loro e a come li definivano,
hannoincominciatoasentirsi
irritati e perfino offesi
dall’appellativo di «colono».
In particolare, uno degli
slogan di guerra del
Congresso panafricano li
pungeva sul vivo: «UN
PROIETTILE
COLONO ».
PER
OGNI
I
bianchi
sottolineavano la minaccia di
cui era carica la parola
«proiettile», ma credo che
fosse la parola «colono»
quella che piú li disturbava. I
«coloni»,
nel
gergo
sudafricano bianco, erano i
sudditibritannicicheavevano
ottenuto terre in Kenya e
nelle due Rhodesie, persone
che non avevano voluto
mettere radici in Africa, che
mandavano i figli a studiare
all’estero e che continuavano
a parlare dell’Inghilterra
come della patria. Appena
comparverosullascenaiMau
Mau,icoloniseneandarono.
Per i sudafricani, dunque,
neri o bianchi poco importa,
quella del «colono» è una
figura
di
passaggio,
qualunque sia la definizione
chenedàilvocabolario.
Quandoglieuropeimisero
piede per la prima volta in
Sudafrica definirono se stessi
«cristiani» e gli abitanti del
posto «selvaggi o pagani». La
diade cristiani-pagani in
seguito mutò per prendere
diverse forme, per esempio
civilizzati-primitivi, europeiindigeni, bianchi - non
bianchi. In tutti i casi però,
indipendentemente
dai
termini
della
coppia
oppositiva adottata, c’era una
costante: erano sempre i
cristiani (o comunque il
bianco, civilizzato, europeo
ecc.) ad avere il potere di
assegnareilnome,asestesso
comeall’altro.
Ipagani,inonbianchi,gli
indigeni,
i
primitivi
naturalmente avevano a loro
voltaproprinomiperdefinire
i cristiani-europei-bianchicivilizzati, ma poiché coloro
che definivano tale contronomenclatura
non
lo
facevano da una posizione di
potere, né di autorità, quei
nominoncontavano 1.
A partire dalla metà degli
anniOttanta,peròviaviache
la loro autorità politica
andava tramontando, il
potere di coloro che si
definivano
bianchi
di
nominare, e nominare in
modo stabile gli altri e
soprattutto, ancora piú
significativamente, quello di
resistere o ignorare i nomi
che venivano assegnati loro
andò scemando. Di per sé
non c’è nulla di offensivo nel
nome«colono».Èuntermine
che fa parte del lessico dei
bianchi. Ma nel Sudafrica
contemporaneo è una parola
«rubata»,vienedallaboccadi
altri, è pronunciata in modo
ostile, e porta con sé un
bagagliostoricocheaibianchi
non piace. Per la prima volta
nella loro storia (una storia
che per molti versi non era
piú scritta o fatta da loro) i
bianchi,
sentendo
«UN
PROIETTILE
PER
OGNI
COLONO »,sisonotrovatinella
posizione di coloro cui viene
assegnatounnome.Einparte
si sono sentiti offesi proprio
perilsensodiimpotenzache
quell’essere nominati dava
loro; in parte per aver
scoperto sulla propria pelle
che il processo dell’assegnare
il nome include il controllo
sulla distanza deittica: può
tenere la persona nominata a
una precisa distanza di
sicurezza cosí come può
avvicinarlaaffettuosamente.
Nonèchiaroilmotivoper
cui nomi apparentemente
neutri come indigeno (o
negronegliStatiUniti)invece
disvuotarsidisignificatoman
manocheillorousosiradica
nella lingua – che è poi il
destino di molti nomi – al
contrarioabbianoaccresciuto
la loro potenzialità di
offendere e irritare, al punto
che solo gli ostinati o quelli
con la pelle dura continuano
a usarli. Solo quando
consideriamo il loro uso
come un atto verbale, come
un gesto che segna una
distanza,cispieghiamolaloro
resistenza
all’entropia
semantica. Il contenuto (il
colore nero del negro, la
natura
autoctona
dell’indigeno) può ridursi
fino a che delle parole non
restacheungusciovuoto,ma
quando irrompe in un atto
verbale, quando viene usato
come nome, recupera tutto il
suopoteresimbolico,ilpotere
di chi lo usa di assegnare il
nome. Colono sembrerebbe
neutro quanto indigeno dal
puntodivistadenotativo,ma
nello slogan «UN PROIETTILE
PER OGNI COLONO» diventa
offensivoeviolento;partecipa
di un atto che asserisce una
distanza oltre che una
superiorità storica rispetto al
suooggetto.Peribianchiche
lo sentivano, che non
potevano ignorarlo, né
impedirlo, non c’era altro da
farecheoffendersi.
Ma offendersi non è
prerogativa di coloro che si
trovano in una condizione di
subordinazione
o
di
debolezza, e d’altra parte
l’esperienza
o
la
premonizione
dell’essere
privati del potere mi sembra
intrinsecamente presente in
tuttiicasiincuicisioffende
(èsuggestivoipotizzarechela
logica
provocatoria
dell’ingiuria, quando viene
usata come tattica messa in
atto dai deboli contro i forti,
siaquellapercui,sesiriescea
farli offendere, almeno
momentaneamente, le due
parti si trovano sullo stesso
piano).
Gliintellettuali.
Gli intellettuali laici e
razionali non sono portati a
offendersi facilmente. Come
Poppertendonoacredereche
devo imparare a non fidarmi
dellaconvinzioneosensazione
istintiva che sono io ad avere
ragione. Non devo fidarmi di
quella sensazione per quanto
forte possa essere. In effetti,
tantopiúessaèforte,tantopiú
devo diffidare, poiché tanto
piúèforte,tantopiúgrandeè
il pericolo che io stia
ingannando me stesso e, di
conseguenza,ilpericolocheio
diventi
un
intollerante
fanatico 2.
Le convinzioni che non
sono fondate sulla ragione
(cosí ragionano) non sono
forti ma deboli; è segno di
una posizione debole, non di
una posizione forte, il fatto
che il suo detentore, se
provocato, si offende. Tutti i
punti di vista meritano di
essere ascoltati (audi alteram
partem); e la discussione,
secondo le regole della
ragione, deciderà chi debba
trionfare.
Tali intellettuali tendono
anche a disporre di
spiegazioni ben articolate
(«teorie») delle emozioni –
delle quali la mia stessa
spiegazione del meccanismo
secondo il quale ci si offende
e l’analisi di Popper del
«fanatismo» sono esempi – e
ad
applicare
quelle
spiegazioni, in modo per
quantopossibileconsapevole,
alle loro stesse emozioni.
Quandosiindignanocercano
di
farlo
in
modo
programmatico,stabilendo(o
credendodistabilire)lesoglie
delle loro reazioni e
permettendosi(ocredendodi
permettersi) di reagire alle
provocazionisoloquandosiè
andatialdilàdiquellesoglie.
Ilmitodelfairplay(ovverola
convinzionecheconleregole
del fair play hanno piú
probabilità di vincere che di
perdere),cherappresentauno
dei
loro
valori
piú
profondamente
radicati,
favorisce la simpatia per gli
emarginati, per i subordinati,
e impedisce di infierire sui
perdenti.
Lacombinazionediqueste
due cose, di un controllo
attento e razionale delle
emozioniedellasimpatiaper
i subordinati, tende a
produrre
una
duplice
reazione di fronte all’offesa
che viene dall’altro. Da una
parte l’intellettuale di cui
parlo vede l’insulto come un
fatto
irrazionale
o
prerazionale e sospetta che si
tratti della copertura di una
posizione debole. Dall’altra
parte, nella misura in cui
riconosce
nell’offesa
la
reazionedichinonhapotere,
l’intellettuale può finire per
schierarsi, almeno dal punto
divistaetico,dallapartedella
persona insultata. Ovvero
senza
partecipare
del
sentimento di chi si sente
offeso,
anzi
magari
ritenendolo privatamente un
po’ arretrato, una facile
caduta in una comoda forma
di emotività, ma comunque
sulla base della convinzione
che l’altro abbia pieno diritto
di sentirsi offeso, e in
particolare che gli inferiori
nondebbanovederaggravato
illorostatodisubordinazione
dall’imposizione delle forme
di ribellione alla loro
condizione
di
subordinazione.
L’intellettuale è dunque
pronto a rispettare e magari
anche a difendere il diritto
dell’altro a offendersi allo
stessomodoincuièprontoa
rispettare il rifiuto di uno a
mangiare carne di maiale,
mentrepersonalmenteritiene
quel tabú una forma di
superstizioneediignoranza.
Questa tolleranza, che a
secondadicomelasiguardaè
espressione di grande civiltà
oppure
di
autocompiacimento, ipocrisia
e
paternalismo,
è
conseguenza della fiducia
degli
intellettuali
nell’atteggiamento laico e
razionale che li caratterizza e
della loro convinzione che si
possaspiegarepressochétutto
e perciò – secondo i loro
criteri che annettono la
massima importanza alla
capacità di spiegare tutto –
non possa essere a sua volta
oggetto di un qualche altro
metodoesplicativoancorapiú
generale. La ragione è una
forma
di
potere
inconsapevole dell’esperienza
dellaprivazionedipotere.
Compiaciuti o meno, gli
intellettuali del tipo che sto
descrivendo, sulla scorta
dell’apollineo «conosci te
stesso»,
criticano
e
incoraggiano la critica delle
basistessedellorosistemadi
valori.Taleèlalorosicurezza
che possono perfino arrivare
ad accogliere gli attacchi, e
sorridere quando vengono
sbeffeggiati e ingiuriati,
rispondendo con il massimo
apprezzamento agli attacchi
piú originali e interessanti. E
in particolare accolgono con
gioiaitentativididescrivereil
loro lavoro relativizzandolo,
inserendolo in un contesto
storico
e
culturale.
Approvano quelle descrizioni
e a loro volta si mettono
subito
all’opera
per
inquadrarle all’interno di un
progetto razionale, che poi è
come dire per recuperarle.
Sono,permoltiversi,comeil
maestrodiscacchiche,sicuro
dellapropriaabilità,siaugura
di incontrare rivali alla sua
altezza.
Io a mia volta sono (e
speroanchedinonesserlodel
tutto) un intellettuale di quel
tipo e le mie reazioni
all’aggressione morale o alla
dignità
offesa
sono
inquadrate all’interno (anche
se, ancora una volta, spero
non solo all’interno) dei
processi di pensiero e del
sistema di valori cui ho
accennato.Ècomedirechele
mie reazioni sono quelle di
uno il cui primo impulso
quando viene offeso è di
sottoporre quelle sensazioni
incipienti al vaglio di una
razionalità scettica; di uno
che, anche se è capace di
offendersi (per esempio, se
viene chiamato «colono»),
nonprendepoitantosulserio
la sua stessa indignazione, e
in particolare non la ritiene
una ragione sufficiente per
prendere
un
qualsiasi
provvedimento.
In Memorie del sottosuolo
ilprotagonistadiDostoevskij,
un
altro
intellettuale
razionale, anche se forse di
temperamento piú irascibile
di tanti altri, identifica la
capacità
di
sentirsi
sinceramente
offeso
e
indignato(comeanchequella
di provare un amore senza
riserve e una felicità priva di
complicazioni) come uno dei
tratti
della
personalità
integrata e disinvolta che
preferirebbe avere. Al tempo
stesso egli però disprezza la
felicitàprivadicomplicazioni
e in generale la vita non
sottoposta a riflessione e non
esita a individuare il tarlo
dell’autocompiacimento nel
cuorestessodellasincerità;la
sua acuta analisi identifica
l’indignazione per l’offesa
patitacomelamossaspavalda
del
soldato
prepotente
nonché come ultima risorsa
del povero impiegato. E
comunque la sua stessa
capacità
di
inquadrare
storicamente
e
sociologicamenteilfenomeno
lo svuota di ogni energia e
convinzione quando cerca, a
sua volta, di sentirsi offeso.
Viceversa,laluciditàdellasua
diagnosi che considera la
razionalità come un’infinita
partitadiscacchiconsestessi
denuncia in lui il razionalista
congenito ed è con quel
doppio paradosso, con
quell’idra bifronte, che lotta
invano.
Perchinonrispettafinoin
fondo il proprio sentimento
di offesa è difficile rispettare
profondamente
quel
sentimento
quando
si
manifesta negli altri. Gli si
tributa quello stesso rispetto
che si tributa all’osservanza
religiosa di alcuni, pur
ritenendola una forma di
superstizione; in altre parole
quelchesirispettaèildiritto
di ciascuno a credere in
quello che vuole, pur
conservando le proprie
riserve nei confronti della
fede
in
generale
e
mantenendo
quell’atteggiamento
contraddittorio sulla base del
principio pragmatico di
Locke, secondo il quale se
non interferiamo nella vita
privata degli altri è meno
probabile che questi tendano
a interferire nella nostra. Si
trattadiuncompromessofra
le convinzioni personali e la
loro espressione pubblica,
compromesso
adottato
nell’interessedell’ordinecivile
e della pacifica convivenza,
una posizione che non ha
nulla a che fare con l’etica e
che ci richiede solo di
prendere nota dei punti di
vista dei nostri concittadini e
di
comportarci
scrupolosamente, in ogni
istanza,
come
se
li
rispettassimo. Non ci chiede
altro, non ci chiede di
rispettare intimamente quei
sentimenti e in particolare di
rispettare – quando si
manifestano–isentimentidi
indignazione per l’offesa
subita.
L’indignazionedeipotenti.
Nella
mia
analisi
dell’offesa ho sottolineato
come elemento cruciale la
debolezza della parte offesa
nella genesi del senso di
indignazione.Ladebolezzadi
unasettareligiosaminoritaria
o di una minoranza etnica è
cosa facile da vedere. Ma
quando, all’estremo opposto,
èungovernonazionaleouna
chiesa dominante o ancora
una classe al potere a sentirsi
offesa da una qualche
posizione o rappresentazione
fino al punto di decidere di
sopprimerla, come posso
ragionevolmente sostenere
che reagisce cosí per
debolezza?
LacensuradiStatocioffre
un indizio. La censura di
Stato si presenta come una
roccaforte a difesa della
società che vuole preservare
dalle forze sovversive o
corrotte. Trascurare come
ipocriti i motivi addotti dallo
Stato a questo proposito
sarebbe un errore: è
caratteristico della logica
paranoide della censura
ritenere che la virtú, in
quanto virtú, debba essere
innocente e dunque, se non
protetta, vulnerabile alle
astuzie del vizio. Perciò la
debolezza non deve essere
necessariamente
e
oggettivamente tale: i timori
dei potenti non osano
manifestarsi chiaramente in
quanto,proprioperchétimori
deipotenti,debbonoapparire
infondati.
Inoltre, la possibilità dei
potentididifendersicontrola
rappresentazione che di essi
viene
data
è
sorprendentemente limitata.
E piú la rappresentazione è
accurata,piúlimitataèquella
possibilità. Ortega ipotizza
chelamimesisnonsiaguidata
da uno spirito di fedeltà, ma
da quello della satira 3. Può
darsi
che
come
generalizzazione la cosa non
regga; ma dal punto di vista
della persona imitata deve
sicuramente
apparire
verosimile.
Perché
piú
l’imitazione è riuscita e piú
scatena
le
risa
dell’osservatore. Solo in virtú
della loro importanza i
potenti divengono oggetto di
imitazionichelischerniscono
o sembrano schernirli e che
non possono essere eliminate
che con la forza. Eppure nel
momento stesso in cui
prendonodellemisurecontro
quellerappresentazioniperla
loro natura intrinsecamente
tendenziosa, tradiscono o
sembrano
tradire
una
vulnerabilitàallasatira.
La logica che ho delineato
illuminanonsolol’impotenza
del potere – impotenza nel
sensocheilpoterenonsapiú
che pesci prendere – ma
anche
la
fondamentale
crudeltà
della
rappresentazione (e non
penso solo a quella satirica o
caricaturale). Coloro che
quotidianamente si dedicano
alla
pratica
della
rappresentazione non ci
vedono niente di magico e
dunquenullachesiadegnodi
rispettoinchiattribuisceloro
poteri magici. Quanto piú
l’artista vede che la parte
offesa prende sul serio il suo
lavoro, quanto piú questo
vienedenunciato,tantomeno
la prenderà sul serio (il che
ovviamente non significa che
sottovaluterà la possibile
vendettadellaparteoffesa).
Lacensuraoggi.
Nei sette anni trascorsi da
quando ho cominciato a
scrivere questo libro, il
contesto in cui scrivo ha
subito due svolte storiche e
forse perfino epocali per
quanto riguarda il panorama
politico. Da una parte, nel
corso del passaggio di potere
iniziato nel mio paese a
partiredal1990,lacensuradi
Statoèvirtualmentecadutain
disuso; e questo mentre gli
analoghi sistemi di censura
cadevano anche nell’Urss e
nei
paesi
dell’Europa
orientale. Dall’altra parte, è
venuto meno il consenso
liberale sulla libertà di
espressione che un tempo si
poteva
dire
regnasse
indiscusso fra gli intellettuali
occidentali e che tanto ha
contribuito a definirli come
gruppo compatto. Negli Stati
Uniti, per esempio, alcune
istituzioni culturali hanno
approvato la proibizione di
certe forme di discorso,
mentre le manifestazioni
contro la pornografia non
sono piú limitate alla sola
destra. Perfino in Sudafrica,
dove ci si sarebbe potuti
aspettare che l’intellighenzia,
con la sua esperienza diretta
dellacensura,resistesseaquel
fenomeno,
è
iniziata
un’inversione di rotta. Per
esempio accademici ed
editori, gruppi che in
precedenza si erano schierati
nettamentecontrolacensura,
hanno, per contribuire alla
generale Säuberungsaktion,
collaborato con le autorità
istituzionali a espungere le
parole di contenuto razzista
dalle nuove edizioni dei
classicidilinguaafrikaans.
Verso la metà degli anni
Ottanta potevo dare per
scontato che l’intellighenzia
in generale condividesse a
grandi linee la mia idea; che
era preferibile che la libera
espressionedelpensierofosse
perl’appuntolibera.Sepoisi
scopriva che alcune delle
forme assunte dalla libertà di
espressioneeranodeplorevoli,
quello era il prezzo della
libertà.
La
censura
istituzionale era segno di
debolezzadelloStatoenondi
forza; l’elenco dei casi di
censura nel mondo era cosí
abominevole da screditarla
per sempre. Nel 1995 tutto
ciò non è piú scontato. Ci
sono intellettuali di chiara
fama che invocano sanzioni
legali e istituzionali contro
scritti e film che nel vecchio
Sudafrica venivano definiti
indesiderabiliecheoggisono
generalmente
dichiarati
offensivi. Mentre la tesi
secondolaquale,neiconflitti
fra lo scrittore e la legge, la
giustizia deve stare sempre
dalla parte dello scrittore è a
suavoltainprocintodiessere
inquadrata storicamente e
messadapartecomeastorica,
come
caratteristica
del
«liberalismo sconsiderato di
trent’annifa» 4.
Controlacensura.
Questo testo non vuole
essereunattaccoallacensura
(le polemiche degli scrittori
contro i censori raramente
fannoonoreallaprofessione).
Non è mia intenzione citare
esempi estremi per la loro
violenza morale o politica,
ovvero i casi-limite che sono
lamateriapiuttostodifilosofi
e legislatori. Mi limito a
trattare i due argomenti piú
scottanti del dibattito sulla
censura oggi, la razza
(razzismo) e il sesso
(misoginia e omofobia),
tralasciando in questa sede il
temadellablasfemia.
Finoachepuntolasocietà
occidentale sia divenuta laica
è dimostrato dal generale
stuporeconcuièstataaccolta
la condanna islamica dei
Versi satanici e del suo
autore, Salman Rushdie. Il
Regno Unito, di cui Rushdie
ha la cittadinanza, ha ancora
leggi contro l’espressione
blasfema,maquelleleggi,ein
verità l’idea stessa di affidare
il nome dell’Onnipotente alla
protezione
delle
corti
giudiziarie, appaiono sempre
piú anacronistiche. Per i
musulmani
credenti
la
questione scottante è stata
capireseiVersisatanicierano
blasfemi e, se lo erano, quale
dovesse essere la sorte del
loro autore. Per gran parte
degli
inglesi
invece
l’interrogativo è stato di
carattere giurisdizionale: gli
stranieri – e in particolare
un’autorità religiosa straniera
– hanno o no il diritto di
condannare a morte un
connazionale? La solidarietà
neiconfrontidelperseguitato
Rushdie è stata rafforzata dal
sospetto che anni e anni di
risentimento antioccidentale
venissero scaricati su di lui e
che – anche se la
pubblicazionedeiVersiaveva
dato fuoco alla miccia –
Rushdie fosse stato preso
come rappresentante di un
intero
establishment
intellettuale che, acclamando
il libro, ne accresceva
l’ingiuria.
Ilcensoreagisce,ocrededi
agire,adifesadellacomunità.
In pratica spesso dà voce
all’indignazione di quella
comunità che si sente offesa,
ochecomunqueimmaginasi
sentaoffesa;avolteimmagina
entrambelecose:lacomunità
e l’offesa. Anche se cerco di
affrontare il problema della
censura come un tema
complesso,
dai
risvolti
psicologicioltrechepoliticie
morali, i saggi qui raccolti
non sono in alcun modo
favorevoli all’istituzione della
censura. Non mi posso
schierare dalla parte del
censore, non solo per una
vocazione scettica, in parte
dovutaalmiotemperamento,
in parte alla mia professione,
nei confronti delle passioni
che
derivano
dall’indignazione per l’offesa
subita,maancheperviadella
realtà storica all’interno della
qualesonovissutoeperchéso
peresperienzapersonalecosa
significa la censura una volta
che è stata istituita e
istituzionalizzata. Nulla di
quantohovissutoelettopuò
persuadermi di una qualche
bontàintrinsecadellacensura
di Stato, poiché i mali che
produce e rappresenta sono,
nel lungo e nel medio
periodo,dimoltosuperioriai
benefici
che
qualcuno
sostienenederivino.
Questo non è un giudizio
disinteressato.Cisonoottime
ragionistoricheperlequali–
apartiredall’invenzionedella
stampa e con l’enorme
aumento del potere di
diffusione
che
quell’invenzione ha prodotto,
almeno fino al declino della
posizione dominante della
stampa come mezzo di
comunicazione – gli scrittori
hanno avuto un rapporto
difficile con le autorità di
governo. L’ostilità fra le due
parti, che ben presto divenne
permanenteeistituzionale,fu
esacerbata dalla tendenza
degli artisti, a partire dalla
fine del diciottesimo secolo,
adassumere,comelororuolo
sociale, e a volte addirittura
loro vocazione e destino, il
controllo dei limiti (ovvero
deipuntideboli)delpensiero
e dei sentimenti, della
rappresentazione, della legge
e della stessa opposizione, in
modi che la classe al potere
non poteva non trovare
sgradevolieperfinooffensivi.
Ed è alla fine di quel
movimento storico che io, in
un certo senso, sono nato in
quanto
scrittore
e
intellettuale.
Ma a parte la spiegazione
storica della mia posizione,
ho motivi piú pragmatici per
diffidare della censura. E
primadituttoilfattoche,per
quanto
ho
potuto
sperimentare, la cura è
peggiore della malattia.
L’istituzione della censura
mette il potere nelle mani di
persone con una mentalità
giudiziaria, burocratica: fatto,
questo, negativo per la vita
culturale e perfino per la vita
spirituale della comunità. La
tesi fu sostenuta secoli fa da
John Milton. Se dobbiamo
avere censori professionali e
adeguati,diceMilton,bisogna
chesianopersone«aldisopra
della norma, studiose, colte e
sagge». Ma per tali persone
studiose,colteesagge
non potrebbe esserci lavoro
quotidiano piú tedioso e
sgradevole [...] che l’essere
costretti
a
leggere
perpetuamenteopuscolielibri
d’ognisorta[...].Vistodunque
chequellichesonooraaddetti
a quell’ufficio mostrano
apertamente di volersene
sbarazzare, e visto che è poco
probabile che un uomo di
merito […] voglia mai
rimpiazzarli [...] noi possiamo
facilmente prevedere qual è la
specie di censori che
dobbiamo
aspettarci
in
avvenire:
o
ignoranti,
arroganti e negligenti, o
bassamentevenali 5.
Come dire che coloro che
finiscono per fare i censori
sono proprio quelli che non
dovrebberofarlo.
A livello individuale la
battagliacolcensorerischiadi
diventare troppo importante
nella vita dello scrittore, cosa
che quantomeno lo distrae
dalla sua occupazione vera e
nella peggiore delle ipotesi lo
affascina fino a corromperne
l’immaginazione. Nei diari
degli scrittori che hanno
lavoratoinregimedicensura
troviamo
descrizioni
eloquentieterribilidicomela
figura del censore venga
incorporata
involontariamente nella vita
psichica e interiore e porti
con sé umiliazione, vergogna
edisgustodisé.Nellefantasie
involontarie di questo tipo il
censore viene generalmente
vissutocomeunparassita,un
invasore patogeno dell’io
corporeo, ripudiato con
intensità viscerale ma mai
completamenteespulso 6.
I paesi piú rispettosi della
legge non sono quelli con le
carceri piú piene, ma quelli
con il minor tasso di
criminalità.
La
legge,
compresa
quella
sulla
censura, sogna una cosa sola.
Sogna che la ronda
quotidiana di identificazione
e punizione dei malfattori
scomparirà, che la legge e le
sue regole saranno cosí
profondamente inscritte nei
cittadini che gli individui si
reprimeranno da soli. La
censura guarda con ansia al
giorno in cui gli scrittori si
censureranno da soli e i
censoripotrannotornarsenea
casa. È per questo che
l’espulsionefisicadelcensore,
vomitato come si vomita un
demonio,haassuntouncerto
valore simbolico per lo
scrittore di ascendenza
romantica: rappresenta il
rifiuto del sogno della
ragione, del sogno di una
società retta da leggi fondate
sulla ragione, leggi cui si
obbedisce in quanto sono
ragionevoli.
La scrittura non fiorisce
sotto la censura. Questo non
significa che l’editto del
censore, o la figura del
censore interiorizzata, sia la
sola o anche soltanto la
principale pressione subita
dallo scrittore: ci sono forme
di repressione ereditate,
acquisite, o autoimposte che
possonoesseresentiteancora
piúpesantemente.Cipossono
essere perfino situazioni in
cuilacensuraesternastimola
lo scrittore in modo
interessante o ne scatena la
creatività. Ma le astuzie
esopiche prodotte dalla
censuraingeneresonotutt’al
piú ingegnose, mentre gli
ostacoli che lo scrittore è
capace di trovare in se stesso
sono già abbastanza per non
andarseneacercarealtri.
E nondimeno, per il bene
comune, per il bene dello
Stato, di tanto in tanto
vengono istituiti apparati
normativi e di controllo che
crescono e si radicano
secondo il desiderio dei
censori. È difficile per
qualunque
scrittore
contemplare le dimensioni di
tali apparati senza un sorriso
di incredulità. Se le
rappresentazioni,
pure
ombre, sono davvero cosí
pericolose,cisidice,alloradi
certo
le
contromisure
appropriate consistono in
altre
rappresentazioni,
contro-rappresentazioni.Sela
satira corrode il rispetto per
lo Stato, se la bestemmia
insulta Dio, se la pornografia
avvilisce le passioni, di certo
basteràchelevocicontrariesi
alzino,piúfortieconvincenti,
a difesa dello Stato, a lode di
Dio e in esaltazione dei casti
amori.
Una risposta, questa,
pienamenteinaccordoconla
teleologiadelliberalismo,che
crede
nell’apertura
del
mercato alle forze in
competizione perché alla
lunga il mercato tende al
bene,ovveroalprogresso,che
il liberalismo interpreta in
una luce storica e perfino
metafisica. Una visione però
in totale contrasto con quella
delle correnti piú austere
dell’islam,delgiudaismoedel
protestantesimocristianoche,
individuando una forza
seduttiva e diabolica alle
radici della rappresentazione
e non avendo perciò motivo
di credere che, nel conflitto
fra le rappresentazioni (una
guerra senza regole), le
immagini
buone
trionferanno, preferiscono
proibire le rappresentazioni
figurative.
E cosí siamo arrivati ad
affrontare la discussione sui
diritti
dell’individuo
contrapposti a quelli della
collettività. Un dibattito
sufficientementenotodanon
aver bisogno di essere
riaffrontatoinquestasedeeal
quale del resto non potrei
portare
un
contributo
personale,salvoforseinvitare
alla cautela nei confronti di
quel tipo di vigilanza morale
che definisce alcune classi di
persone vulnerabili, e si
appresta a difenderle da
pericoli dei quali esse stesse
vanno tenute all’oscuro
perché (cosí dicono) il solo
conoscere
il
pericolo
basterebbeaferirle.Parloqui
prima di tutto dei bambini,
anche se lo stesso argomento
è stato sostenuto a proposito
dei
cosiddetti
credenti
ingenui. Ci preoccupiamo di
proteggere
i
bambini,
soprattutto di proteggerli
dalle conseguenze della loro
infinitacuriositàsessuale.Ma
non dovremmo dimenticare
cheibambinipercepisconoil
controllo
delle
proprie
esplorazioni – controllo che
per suo stesso principio non
può dichiarare esattamente
che cosa sia proibito – non
come una protezione ma
come una frustrazione. Dalle
misurechegliadultiadottano
perimpedirelasoddisfazione
dellalorocuriosità,ibambini
non
potrebbero
legittimamentededurrechela
curiosità
stessa
sia
censurabile?
E
dalle
spiegazioni che vengono loro
fornite per giustificare quei
limiti – spiegazioni peraltro
piene di lacune – non
potrebbero forse dedurre di
non essere rispettati come
esserimorali?Enonpotrebbe
essere che il torto etico fatto
al bambino in tale processo
finisca nel lungo periodo per
danneggiarlo piú della sua
stessacuriosità? 7.
Questo non è un
argomento a favore o contro
il
tenere
materiale
pornografico alla portata dei
bambini. È solo una
riflessione su come i pericoli
vadano
soppesati
da
entrambe le parti, su come
pesi ciò che è imponderabile,
su come, in fin dei conti, si
trattidisceglierefraduemali.
Nel compiere tali scelte
potremmo includere nel
nostroragionamentoanchela
considerazione che per un
bambinolecosechegliadulti
fanno con i loro corpi non
sono solo affascinanti e
repellenti, ma anche brutte e
buffe, perfino sciocche. C’è
poi un’altra considerazione
che, indipendentemente dalla
capacità del bambino di
bloccareilpensierochequello
che vede nel film succede
anche fra suoi genitori, è
difficile per il genitore non
proiettare quel pensiero sul
bambino e quindi, rivivendo
lacosaattraversoilbambino,
nonimbarazzarsi,vergognarsi
o perfino adirarsi. Non
dovremmo
dimenticare
neppure chi sia piú
imbarazzato quando allo
sguardocandidodelbambino
viene presentato il crudo
spettacolo della nudità degli
adulti. È un momento
complesso; ma nel nostro
desiderio di evitare al
bambino quegli spettacoli
non potrebbe esserci anche il
desiderio di non sminuirci,
per associazione, nella stima
del bambino, di non divenire
oggetto del suo disgusto o
perfinodelsuodivertimento?
Max Scheler distingue fra la
nuditàdiunaVenerescolpita
con tale timore reverenziale
da apparire ricoperta di un
velo di modestia e la
«privazione d’anima» che si
verifica quando la meraviglia
del primitivo e del bambino
sonoperduteeilcorponudo
viene guardato con occhi
consapevoli. Egli collega la
perdita dell’anima a quello
che chiama «lo sviluppo
appercettivo» degli organi
sessualidalcorpo,organiche
nonsonovistipiúcomeparte
integrante del corpo e non
ancora come «campi di
espressione delle passioni
interne»; gli organi sessuali
allora,
in
particolare
l’apparatomaschileconilsuo
aspetto di visceri fuoriusciti,
minacciano di diventare
oggetto di disgusto 8. Non è
assurdo voler preservare
l’infanzia
dei
bambini
proteggendoli
da
tali
spettacoli; ma nel far ciò
stiamo proteggendo la nostra
sensibilitàolaloro?
Gliorganisessuali,osserva
sant’Agostino, si muovono
indipendentemente
dalla
volontà. A volte reagiscono
quando
noi
non
lo
vorremmo, altri restano
«congelati»
quando
vorremmo usarli 9. Da questa
disubbidienza della carne,
segnodellanostracondizione
mortale, nessuno è esente,
neppure i guardiani della
nostra morale. Un censore
cheproibiscequalcosa,chesi
tratti di uno spettacolo
osceno o di una imitazione
satirica,ècomeunuomoche
cerchi
di
bloccare
un’erezione. Lo spettacolo è
ridicolo,cosíridicolocheegli
èbenprestovittimanonsolo
del suo membro ribelle ma
anche delle risate e delle dita
puntatedichiloosserva.Edè
per questo che l’istituzione
della censura si deve
circondare di proibizioni
ulteriori contro le offese alla
suadignità.Dall’indignazione
per
lo
scherno
alla
proibizione dello scherno di
chi è indignato: un passaggio
fin troppo noto della
tirannide, un motivo in piú
dunque per esortare alla
cautela.
A
proposito
della
similitudineappenadelineata,
non c’è bisogno di ricordare
che chi pronuncia il giudizio
non deve necessariamente
essere
maschio.
Chi
pronuncia il divieto per ciò
stesso rivendica a sé il fallo,
ma il fallo nella sua forma
materiale,ilpene.Assumendo
la posizione del censore,
costui diventa, in effetti,
cieco,lapersonaalcentrodel
cerchionelgiocodellamosca
cieca. Per un certo tempo,
fino a quando non può
passareadaltrilabendacheal
tempostessolosegna,loeleva
e lo impaccia, gli tocca la
parte del buffone che
inciampa ovunque, di cui
tutti ridono e che tutti
schivano. Se deve regnare lo
spiritodelgioco,lospiritodel
bambino, il censore deve
accettare la parte del buffone
che spetta alla regalità
bendata.Ilcensorecherifiuta
di essere il buffone, che si
strappa la benda e accusa e
punisce quelli che ridono,
non sta al gioco. E cosí
diventa,secondoilparadosso
di Erasmo, il vero buffone, o
piuttosto il falso buffone. È
un buffone perché non sa di
esserlo,perchépensadiessere
il re, visto che è al centro del
cerchio.
I bambini non sono
innocentiinquantobambini.
Siamo tutti stati bambini e
sappiamo – a meno che non
preferiamo dimenticarlo –
quanto
poco
fossimo
innocenti, quanti sforzi di
indottrinamento ci siano
voluti per farci innocenti,
quantevolteabbiamocercato
di scappare dalla messa in
scena dell’infanzia e con
quanta durezza siamo stati
ognivoltaricondottiall’ovile.
Né tantomeno possediamo
una dignità innata. Di certo
nasciamo privi di dignità e
passiamo abbastanza tempo
da soli, nascosti agli sguardi
altrui, a fare le cose che
facciamo da soli, per non
sapere quanto poco diritto
abbiamo di rivendicarla. E
vediamo anche come alcuni
animali (i gatti per esempio)
si preoccupino della loro
dignità, per non renderci
contodicomepossanoessere
comichelepretesedidignità.
L’innocenza
è
la
condizione
nella
quale
cerchiamo di mantenere i
nostri figli; la dignità è una
condizione
che
rivendichiamo per noi stessi.
Gli affronti all’innocenza dei
nostrifiglioalladignitàdella
nostra persona non sono
attacchi rivolti alla nostra
essenza individuale ma a
costruzioni, costruzioni nelle
qualiviviamo,mapursempre
costruzioni.Equestononper
dire che gli affronti
all’innocenza o alla dignità
non siano veri affronti, o che
l’indignazione con la quale
reagiamo nei loro confronti
non sia reale ovvero
realmente
sentita.
Le
violazioni sono reali; ma
quellocheèviolatoperònon
è la nostra essenza, ma
un’ipotesi fondamentale che
noi sottoscriviamo, piú o
menoconvinti,un’ipotesiche
potrebbe
anche
essere
indispensabileperunasocietà
giusta, ovvero che gli esseri
umanihannounadignitàche
li distingue dagli animali e
che di conseguenza li
protegge dall’essere trattati
come
animali
(sarebbe
auspicabile che in futuro,
quando agli animali sarà
riconosciutalalorodignità,il
divieto sia riformulato come
divieto che proibisce che una
creatura vivente sia trattata
comeunacosa).
L’ipotesi della dignità ci
aiutaadefinirel’umanitàela
condizionediumanitàaiutaa
definire i diritti dell’uomo.
C’è dunque un’accezione
reale in cui un affronto alla
nostra dignità lede i nostri
diritti. Eppure quando, offesi
per tale affronto, ci facciamo
scudo dei nostri diritti e
chiediamogiustizia,faremmo
bene a ricordare quanto
inconsistente sia la dignità
sulla quale quei diritti sono
basati.Dimenticandodadove
vengono i nostri diritti
rischieremmodiassumereun
atteggiamento
ridicolo
quantoquellodelcensore.
La vita, dice Erasmo in
L’elogio della follia, è teatro:
tutti noi abbiamo le nostre
battute e le nostre parti da
recitare. C’è un tipo di attore
che, rendendosi conto di
trovarsi dentro a una recita,
continuerà comunque a
recitare; un altro genere di
attore,
scioccato
dalla
scopertadistarepartecipando
a una finzione, cercherà di
scendere dal palco e uscire
dalla scena. Il secondo attore
sbaglia, perché non esiste
nientealtrocheilteatro,non
c’è vita alternativa alla quale
partecipare. Lo spettacolo è,
per cosí dire, l’unico
spettacolo in città. Non c’è
altrodafarechecontinuarea
recitare la propria parte,
anche se forse con una
consapevolezza nuova, una
consapevolezzacomica.
Eccoci arrivati a una
coppia di paradossi di
Erasmo. Una dignità che
merita rispetto e una dignità
senza dignità (cosa molto
diversa
dalla
dignità
inconsapevole o naturale);
un’innocenza meritevole di
rispettoeun’innocenzasenza
innocenza.Quantoalrispetto
stesso si sarebbe tentati di
suggerire che si tratti di un
concetto superfluo, anche se
per il funzionamento del
teatro della vita può risultare
indispensabile.Ilverorispetto
èunavarietàdell’amoreepuò
essere sussunto sotto la
categoria
dell’amore;
rispettarequalcunovuoldire,
fra le altre cose, perdonargli
un’innocenza che, fuori del
teatro, sarebbe falsa, una
dignità che risulterebbe
ridicola.
Lapornografia.
I conservatori e i loro
critici.
Suitemidellapornografia,
e in generale delle sanzioni
legali in campo morale, c’è
tutta una serie di posizioni
che
possono
essere
genericamente definite come
conservatrici. La piú estrema
di queste è che, essendo la
morale un bene prezioso in
sé, qualunque decisione si
debba prendere contro
l’immoralità in una sua
qualunque manifestazione è
giustificata. Una posizione
piú moderata vorrebbe che,
poiché la morale comune –
chesiaonobuonadipersé–
è ciò che tiene insieme la
società, le infrazioni della
morale
costituiscono
un’offesa all’intera società,
offesa nei confronti della
quale la società stessa è
autorizzata a difendersi. In
particolare quando tali
infrazioni della morale
sollevano
nel
pubblico
un’ondatadiintolleranzaedi
indignazione, la legge ha il
preciso dovere di reagire.
Questa posizione moderata
non è di per sé considerata
parte della morale comune,
ma è enunciata come
principio
autonomo,
razionalmentedifendibile 10.
Se applicata alle arti,
l’asserzionedellasovranitàdel
principio morale o, piú
moderatamente,delconsenso
morale,attribuisceall’artistao
aglieditoriedistributoridella
suaoperailcompitodievitare
l’offesa. Secondo H. L. A.
Hart, critico liberale delle
posizioni
conservatrici,
quell’onere non è giusto:
accettando il ruolo di custos
morum,itribunalisacrificano
il principio essenziale di
legalità che richiede che i
crimini siano definiti il piú
precisamente possibile, «cosí
chesiapossibileconoscerein
anticipo con ragionevole
certezza quali atti siano
criminali e quali non lo
siano» 11. Nell’assumere tale
posizione Hart ribadisce
l’opposizionedeiMill,padree
figlio, alla tirannia della
morale popolare: James Mill
ha distinto fra azioni
veramente ingiuriose, nei
confronti delle quali è
giustificata
la
pubblica
disapprovazione,eazioniche
suscitano
semplicemente
antipatieinfondate.
Ronald Dworkin, nello
schieramento conservatore
moderato
–
uno
schieramento che sceglie di
identificare con le posizioni
del giurista inglese Patrick
Devlin – distingue due
argomenti. Il primo è che
quando l’opinione pubblica
arriva
all’intolleranza,
all’indignazione e al disgusto
la società ha il diritto di
difendersiediimporreisuoi
standard. Poiché secondo
questo
argomento
per
invocare la legge non si
richiede niente di piú di
un’appassionata
disapprovazione
pubblica
(l’antipatiainfondatadiJames
Mill),taleargomentononha,
agliocchidiDworkin,statuto
di argomentazione morale 12.
Il secondo problema è che
ogni società ha bisogno di
difendere le sue istituzioni
sociali fondamentali, vale a
dire che, in virtú di un
principio democratico, i
legislatori debbono seguire
qualunque «consenso o
posizione morale» prevalga
nellacomunitàallargata.Qui,
sostiene
Dworkin,
i
conservatori come Devlin
usano la morale e la nozione
diunaposizionemoraleinun
senso
puramente
«antropologico»: il consenso
cui ci si appella non ha
bisogno di avere una base
morale adeguata, ma può
essere una somma di
«pregiudizi
[...]
razionalizzazione [...] e
avversione personale (che
nonsibasasullaconvinzione
masolosuunodiocieco)» 13.
Questo non vuol dire –
sottolinea Dworkin – che il
legislatore debba ignorare il
sentimento della comunità
ma, a meno che il consenso
cui presta ascolto non derivi
dalla «convinzione morale»
piuttosto che da una
«posizione
morale»,
il
legislatore che vi aderisce
assumerà una posizione
meramente
strategica
piuttosto che basata su
principî morali. Inoltre la
convinzione
morale
dev’essere dimostrata, non
solo asserita – per esempio
sullabasedi«ragionimoralio
argomenticheilmembrotipo
della
società
potrebbe
sinceramente
e
coerentementesostenere» 14.
Qui si potrebbe porre un
interrogativo: ovvero, se non
possiamo essere certi di
quellochenoistessicrediamo
sinceramente,rispettoaquello
in cui ci limitiamo a credere,
come fare a sapere con
certezza ciò in cui gli altri
credono
sinceramente?
Storicizzandoodecostruendo
la nozione di sincerità
potremmo con un po’ di
fantasia mostrare come la
sincerità di tutti, compresa la
nostra, altro non sia che una
copertura
dell’interesse
personale. La conclusione
sembrainevitabile:anchesolo
per evitare l’anarchia dello
scetticismo indiscriminato,
dobbiamo, quando qualcuno
ci dice di credere in qualche
cosa, accettare che sia cosí, o
almeno reagire come se lo
fosse,
indipendentemente
dallenostreeventualiriserve.
Iprincipîliberali.
PerJohnStuartMillnonè
la società che richiede
protezione contro l’individuo
deviante, ma sono piuttosto i
diritti di quell’individuo a
doveressereprotetti,nonsolo
contro «la tirannide del
magistrato» ma anche contro
«la tirannia dell’opinione e
del
sentimento
predominanti», cioè a dire
contro la tendenza della
società a imporre le sue
proprie pratiche e regole di
condotta a tutti. Il tema
ricorrente del Saggio sulla
libertà di Mill è che
«l’umanità è giustificata,
individualmente
o
collettivamente, a interferire
con la libertà d’azione di
chiunque al solo fine di
proteggersi». Un intervento
in nome della salvaguardia
del
benessere
morale
dell’individuo non può in
nessun
caso
essere
giustificato 15.
Lo
Stato
dovrebbe mantenere una
posizione neutrale nelle
questioni
morali,
non
promuovere ciò che è
moralmente ammirevole e
non sanzionare ciò che è
moralmentedeplorevole,fino
achenonfamaleanessuno.
Èpossibileelencareidanni
che possono essere soggetti a
sanzioneedunquespecificare
in quali circostanze la società
può essere giustificata a
limitare
la
libertà
dell’individuo?InquestoMill
segue Jeremy Bentham:
nessun atto va considerato
come soggetto a sanzione
«chenontenda,inunmodoo
nell’altro, ad andare a
detrimento del pubblico». Il
detrimento va considerato in
base al calcolo dell’utilità.
«Un’azione si può definire
conforme al principio di
utilità […] quando la sua
tendenza ad aumentare la
felicità della comunità è
maggiore di ogni sua
tendenza a diminuirla».
Quanto al principio di utilità
stesso «non richiede né
ammette altro regolatore che
se stesso» ed è esterno al
sistema 16.
La gente a volte soffre o
sostienedisoffrireperciòche
considera
immorale
o
depravato nelle azioni degli
altri,anchequandotaliazioni
non la toccano in modo
diretto e chiaro. Ora ci si
dovrà chiedere se le azioni
capaci di creare pura
sofferenza morale di questo
genere(finoaprodurreoffesa
morale,
«l’intolleranza,
l’indignazione e il disgusto»
di Devlin) diminuiscano la
felicità generale e di
conseguenza si possano
ritenere danni punibili
secondo il testo di Mill. È
giusto distinguere fra azioni
di questo tipo e azioni che
causano, o delle quali si può
sostenere
che
causino,
«disorientamento
o
menomazione permanente o
comunque per un lungo
periodo» e che sono per
questo piú dimostrabilmente
nocive?
Mill non affronta questo
problema
direttamente.
Come sottolinea Jeremy
Waldron, Mill tende a
identificare l’adeguamento ai
principî pubblici prevalenti
con la stagnazione e l’azione
fondata sulle convinzioni
personaliconilprogresso:ed
è qui che s’incontrano l’etica
romantica dello sviluppo
personale di Mill e il suo
evoluzionismo storico. «La
lotta fra una morale che fa
appello a principî esterni e
quella che si fonda su una
convinzione interiore» dice
Mill «è la lotta fra la morale
progressiva contro quella
immobile – della ragione e
della discussione contro la
deificazione della mera
opinioneeabitudine» 17.Cosí
in un piú ampio quadro,
suggerisce Waldron, la
sofferenza morale è per Mill
«un elemento positivo delle
azioni e dei modi di vita
devianti; l’offesa e il fastidio
prodotti dalla devianza
debbonoessereaccolti,nutriti
e incoraggiati nella società
libera».
Una
delle
manifestazioni di una società
liberaeprogressistaèproprio
la sua disponibilità ad
accettare quello che Waldron
chiama il «confronto etico».
Egli parafrasa Mill nel
seguente modo: «Se [...] un
diffuso disagio morale è
avvertibile nella comunità,
allora, lungi dall’essere una
legittima motivazione per
interferire, è un segno
positivo e salutare che i
processi di confronto etico
[...] si stanno effettivamente
verificando» 18. Questo passo
suggerisce che l’accezione di
dannoperMilldovevaessere
particolarmente limitata e
certamente non doveva
includere azioni capaci di
causare disagio o offesa,
indipendentemente dal loro
poteredidisorientare.
Per Mill libertà di parola
vuol dire immunità dalla
censura, specialmente dalla
censura precedente alla
pubblicazione, ma anche
libertà
dalle
pressioni
esercitate dalla società, dalla
«tirannia dell’opinione e del
sentimento prevalenti». Mill
associa censura e pressione
sociale(avoltedaluidefinita
biasimo)inmodopermenon
del tutto convincente. Il
biasimo, come dice Frederick
Schauer, non è un problema
di libertà di espressione in
senso stretto. L’intolleranza
sociale è un fatto di natura
diversadallesanzioniufficiali
appoggiate dalla forza della
legge:lagentepuòsceglieredi
nonessereortodossa 19.
La fede di Mill nel valore
della libertà di parola nel
lungo periodo è per molti
aspettiallabasedelRapporto
del comitato, diretto da
Bernard Williams nel 1979,
incaricato
di
proporre
riforme della legislazione
inglese su oscenità e censura
cinematografica:
L’idea fondamentale alla
qualeMillcollegavailmodello
del mercato rimane tuttora
profonda e corretta: ovvero
che non sappiamo in anticipo
qualisviluppisociali,moralio
intellettuali si dimostreranno
possibili,
necessari
o
desiderabili per gli esseri
umanieperillorofuturo,ela
liberaespressione,intellettuale
e artistica – qualcosa che può
aver bisogno di essere
promosso e protetto oltre che
permesso–èessenzialeperlo
sviluppo umano, in quanto si
tratta di un processo che non
si limita a verificarsi (in una
formaonell’altrasiverificherà
comunque)machepuòessere
razionalmentecompreso 20.
Ronald Dworkin definisce
l’approccio qui enunciato
come «finalizzato» piuttosto
che «basato sul diritto». La
posizione del Rapporto
Williams è che alla lunga la
censuraèpiúpericolosaperla
società
della
libera
circolazione
dell’oscenità.
Dunque non che sarebbe
sbagliatoesercitarelacensura
sullapornografia–chesiaun
beneounmaleperlasocietà
–inquantolesivadeidirittidi
alcuni individui (compresi
probabilmente
i
suoi
produttori e consumatori).
Fondainvecelasuaposizione
sul
cosiddetto
«piano
inclinato», secondo cui
sarebbecomunquedifficilese
non impossibile trovare una
definizione affidabile cui
ricorrere per separare le
porcherie dai prodotti dotati
di un valore artistico che li
riscatti 21.
PropriocomeMillèvagoa
proposito dei motivi per i
quali dovremmo sostenere il
progresso,
il
Rapporto
Williamssilimitaadefinirela
causa in nome della quale si
oppone alla censura come
«sviluppo umano». Eppure
questa
convinzione
eminentemente
liberale
secondo cui la libertà di
parola dovrebbe, nel lungo
periodo, favorire l’interesse
della comunità è stata
ampiamente
contestata.
Qualunquefosseilsuovalore
liberatorio ai tempi di Mill,
dice Herbert Marcuse, quella
convinzione non è piú
giustificata nel ventesimo
secolo,quandogliStatihanno
sviluppato
tecniche
di
utilizzazione della tolleranza
per
fini
sottilmente
repressivi 22.
Dworkin
definisce la tesi liberale a
favore del valore primario
della libera espressione
«altamente
problematica,
teorica
e
comunque
marginale» (nel caso della
pornografia la trova «non
solo teorica e marginale ma
anchenonplausibile») 23.
Laterminologia.
«Pornografia» ovviamente
non è denominazione neutra
materminedispregiativo.Chi
fa libri o film sessualmente
esplicitiingeneresiaffannaa
negarelanaturapornografica
dei suoi prodotti. Per il mio
scopo qui non terrò conto di
tali proteste e chiamerò
pornografico quello che la
maggior
parte
degli
occidentali laici e colti, di
entrambi i sessi, ritiene
pornografico. John Ellis
mostra come la categoria del
pornografico sia onnivora,
unacaratteristicachesarebbe
stupidosminuire:
L’etichetta di pornografico
minaccia
sempre
di
sommergere
qualunque
rappresentazione
sessuale
sufficientementeesplicita.Non
c’è modo che una qualunque
forma di rappresentazione –
soprattutto se comporta la
fotografia – si possa difendere
daquell’etichetta 24.
Non possiamo sperare di
arrivare all’unanimità sul
significato
del
termine
pornografico. Nel campo
generale
definito
dall’industria
della
pornografia e dai suoi
tentativi
di
autolegittimazione;
nei
tribunali che debbono far
rispettareleleggisull’oscenità
cosícomenelleistituzioniche
vogliono far passare i loro
principî; e in ciò che John
Ellis definisce come «la
mobilitazione generale di
posizionimoraliefilosofiche»
in un qualsiasi momento
sociale, ci saranno sempre
definizioni contrastanti che
cercherannodiaffermarsi.
E tuttavia ci sono alcune
distinzioni terminologiche su
cui vale la pena soffermarsi.
Prima di tutto che osceno e
pornografico non fanno
riferimento
allo
stesso
oggetto 25. Le scene di
eviscerazione per esempio
possono essere oscene ma
non pornografiche; perché
finoachel’osceno,comeuna
delle varianti dell’offensivo,
include ciò che Joel Feinberg
definisce come «stati mentali
sgraditi», non si può reagire
con netto piacere alla
pornografiaealtempostesso
chiamarlaoscena 26.
L’oscenità ha un impatto
particolare sulla persona che
colpisce:produceripugnanza,
trauma, disgusto (anche se,
come fa notare Feinberg, i
materiali
in
questione
possonoparadossalmenteallo
stesso
tempo
risultare
allettanti) 27.
Poiché
la
persona
ferita
prova
risentimento nei confronti di
chi la ferisce, possiamo
evincere che percepisca
un’intenzionalità dietro l’atto
osceno. Un’intenzione può
effettivamente
essere
presente: Max Scheler indica
un impulso che è parte
dell’atto osceno a cercare di
violare ai propri fini l’altrui
senso del pudore o della
decenza 28. D’altra parte è
proprio
quando
viene
individuata l’intenzione di
offendere dietro ogni azione
offensiva che si spalancano i
cancellidellaparanoia.
Inoltre, se è vero che
l’oscenità e un’offesa, essa
non è però necessariamente
un danno. In particolare
l’offesa non è una forma
minore di danno; si tratta di
concettidinaturadiversa.Per
ungiuristadellatradizionedi
Mill, una parte offesa, anche
se
«profondamente»
o
«estremamente»offesa,nonè
necessariamente
anche
danneggiata.
Iprincipîliberali:lacritica
femminista.
In un regime liberale la
posizione
legale
dei
pornografi e dei consumatori
di pornografia rispetto alla
legge è piuttosto forte e si
fonda su tre principî
sovrapponibili: 1) Ognuno
senzaeccezionehadirittoalla
libertà d’espressione. 2)
Questalibertànonpuòessere
limitata a meno che non sia
dimostrato che il suo
esercizio produce danno agli
interessi degli altri (dove
danno va inteso in senso
stretto). 3) La pornografia è
comunque una transazione
privata fra chi la produce e
chilaconsuma.
Negli ultimi anni tutti
questi principî sono stati
contestati dai critici del
liberalismo, in particolare
dalla critica femminista. In
relazione al diritto dei
pornografi alla libertà di
espressione, è stato sostenuto
chesull’ondadellateoriadegli
atti linguistici ogni facile
distinzione fra espressione e
azione è insostenibile: nella
loro forza perlocutiva le
rappresentazioni
pornografiche, come gli
insulti pubblici, sono piú
similiall’attocheallaparolae
perciò non hanno di per sé
dirittoaessereprotetti.
I principî 2 e 3, che
dichiarano la natura privata
della pornografia, un fatto
tutt’al piú relativo a una
coppiaechenoncausadanno
dimostrabile ad alcuno, sono
stati confutati per diverse
ragioni.Primadituttoèstata
negata la validità della stessa
distinzionepubblico-privatoe
conquellalatesisecondocui
la pornografia non invade lo
spazio privato di nessuno a
meno che le persone in
questione non lo vogliano 29.
In secondo luogo alcune
femministe hanno sostenuto
che ci sarebbe un rapporto
causale
empiricamente
verificabile fra consumo di
materiale pornografico e atti
diviolenzacontroledonne 30.
La tesi secondo cui la
pornografia
causerebbe
effettivamente un danno
conosce
anche
un’enunciazione piú ampia,
per cui non danneggerebbe
solo le donne come gruppo
ma i costumi di tutta la
società nel suo insieme (tesi
che richiama alla mente
l’argomento dei conservatori
secondo cui il diritto di una
società a proteggere i suoi
principî
fondanti
trascenderebbe i diritti degli
individui).
I principî 2 e 3 sono stati
confutati anche in base
all’argomento della falsa
consapevolezza, secondo cui
unadonnachesostienechela
pornografia
non
le
provocherebbe alcun danno,
per
esempio,
potrebbe
pensarlaaquelmodoperaver
interiorizzato un’immagine
della sessualità femminile
costruita dagli uomini. Cosí,
nel negare il danno prodotto
dalla pornografia, potrebbe
manifestare un sintomo del
danno piú generale che le è
statorecato 31.
La pornografia reifica:
questaèlatesicondivisadalla
critica femminista. Nella
pornografia le donne sono
considerate oggetti sessuali e
gli uomini che consumano
pornografia imparano a
considerareledonnerealiallo
stessomodo.Maqualetipodi
male produce la reificazione?
Nella tradizione ereditata da
Kant si tratta del danno
prodotto dal non riconoscere
alle persone la piena dignità
di persone, nel considerarle
come mezzi per raggiungere
un fine anziché esse stesse
fini. Per Jacqueline Davies la
pornografia (che oggi è cosí
pervasiva da rappresentare,
secondo lei, per la maggior
parte della gente l’unica
forma effettiva di educazione
sessuale)trattaledonnecome
mezziinvecechecomefiniin
quanto
determina
anticipatamente il modo in
cui va interpretato il loro
comportamento, privandolo
cosí di libertà e facendo delle
donne una classe non
libera 32.
Dunque la posizione
liberalesullapornografiaesul
suo diritto alla salvaguardia
della libertà di espressione
vieneminataallefondamenta
dalla critica femminista. E
infatti quando i liberali,
abbandonateperunattimole
lorosterilipreoccupazioni(ad
esempio, se si possa o meno
sostenere di essere offesi –
fino al punto da riportarne
danno–damaterialichenon
vengonoimpostimachesono
al contrario facilmente
evitabili), affrontano i feroci
attacchi politici a proposito
della pornografia da parte di
antagonisti come Catharine
MacKinnon, quel confronto
conferma
in
modo
significativo
l’analisi
pessimisticadeldiscorsoetico
contemporaneo data da
Alasdair MacIntyre in After
Virtue:
Dalle nostre conclusioni
antitetichepossiamotornarea
discutere
degli
assunti
antitetici;
ma
quando
arriviamo agli assunti la
discussionefinisceeappellarsi
a un assunto contro un altro
diventa solo questione di
asserzioneecontro-asserzione.
È tipico delle discussioni
moderne
sulla
morale,
continuaMac-Intyre,chenon
appena abbandonano il
terreno comune, i filosofi
rivalicomincianoadaccusarsi
reciprocamente
di
irragionevolezza.
«Parallelamente
all’impossibilitàdiconcludere
la discussione pubblica c’è se
non altro il sospetto di una
preoccupante
arbitrarietà
privata». Ne deriva la
tendenza oggi cosí diffusa a
rifugiarsi
nell’emotivismo,
nella teoria secondo la quale
«tutti i giudizi morali non
sono altro che espressioni di
preferenza, espressioni di
atteggiamentiosensazioni» 33.
All’interno
di
tale
contesto, i giudizi sulla
pornografia sono espressione
di un atteggiamento emotivo
einquantotaliincontestabili.
Cosí per esempio Susan
Menduspresentalaposizione
di Andrea Dworkin nei
confronti della pornografia
comematerialepre-filosofico,
un abito mentale: «Tale
materiale è corrotto, che lo
incontri o meno, lei non
vuolecheesistano» 34.Questo
non è un giudizio morale,
sostiene Mendus: i giudizi
morali sono basati sulla
ragione, mentre il giudizio di
Dworkin è basato sui
sentimenti. Per loro stessa
naturaigiudizinonmoralici
allontanano dall’ambito della
filosofia morale e dunque
dalla discussione sottoposta
alle regole della ragione.
L’autricecitaMaryWarnock:
«L’intollerabile è ciò che non
si sopporta. E noi possiamo
semplicemente
sentire,
credere, concludere senza
ragione che qualcosa sia
insopportabileedunquevada
fermata» 35.
Un’altra
definizione
dell’emotivismo
di
MacIntyre, la teoria secondo
cuiigiudizimoralisifondano
solo sugli atteggiamenti
emotivi,
cioè
solo
sull’orientamentoemotivodel
soggetto nei confronti del
mondo, è prospettivismo. In
quanto forma particolare del
relativismo, il prospettivismo
può essere piú caratteristico
del discorso morale odierno
che non il puro emotivismo
cui allude Warnock. Il
prospettivismo è scritto a
chiarelettereintuttoillavoro
di Catharine MacKinnon – e
difattoèunvezzoinveterato
delsuostilepolemico:
La liberazione sessuale in
senso
liberale
scatena
l’aggressivitàsessualemaschile
in senso femminista. Quello
che nella visione liberale
appare
come
amore
romantico, nella visione
femminista appare piuttosto
comeodioetortura 36.
Ma è anche un tratto
comunedellafilosofiamorale
post-liberale, profondamente
sospettosa
dei
principî
fondativieinparticolaredegli
assiomidelliberalismo:
Ciò che il liberalismo
presenta come l’esigenza
neutra di prevenire il danno
arrecato agli altri sarà
percepitodacolorochehanno
una concezione diversa di ciò
che è dannoso come
l’imposizione di una morale
non condivisa. Il liberalismo
in sé incarna ideali e precetti
morali sostanziali e la sua
concezione di ciò che è
dannoso evidentemente non
ha maggiore diritto di
rivendicare il primato rispetto
adaltreposizionimorali 37.
Visto dalla prospettiva del
potenziale consumatore di
pornografia, il principio
dell’indipendenzamoraledetta
una politica di tolleranza.
Visto
dalla
prospettiva
femminista detta una politica
restrittiva 38.
L’abbandono della ricerca
di principî comuni a favore
del prospettivismo dei «punti
di vista» è evidente nel
dibattito sulla pornografia
come in altri ambiti della
filosofia morale. Quanto al
discorso vero e proprio della
pornografia,daquestononci
possiamo attendere alcun
contributo nella forma di
un’autodifesa filosofica: la
pornografia è un fenomeno
del
tutto
privo
di
atteggiamento autoriflessivo,
forse perché la pornografia
non ha niente da guadagnare
dall’autoconsapevolezza,
qualcosa che nell’erotismo
può ingenerare invece un
ulteriorebrividodipiacere.
Ilricorsoallalegge.
È
possibile
provare
avversioneperlapornografia,
trovarla oltraggiosa (che non
coincide esattamente con
l’esserne oltraggiati), credere
che passare tanto tempo a
guardarefilmpornograficisia
dannoso per le persone,
soprattutto per i giovani, e
pur tuttavia non fare il passo
successivo,ovveroconcludere
che i produttori o i
distributori o i rivenditori di
materiale
pornografico
debbano essere per ciò stesso
perseguiti
dalla
legge.
Viceversa
ci
si
può
accontentare di auspicare
malinconicamente che la
pornografia abbia minore
presasullagente,cosícomesi
può desiderare che abbia
minore presa l’alcol. Ovvero,
mentresiribadiscel’esistenza
del problema pornografia si
può al tempo stesso
individuarne la fonte in una
debolezza
(non
necessariamente
una
debolezza morale) dell’essere
umano, piuttosto che nella
facile reperibilità di un certo
tipo di materiale visivo
allettante.
Questo non si discosta
molto dalle conclusioni cui
giunge Susan Sontag nel
famoso
saggio
L’immaginazione
pornografica.
Mentre
riconosce
di
provare
avversione per la pornografia
ediesserepreoccupataperla
sua diffusione crescente,
Susan Sontag si chiede se la
pornografia debba essere
distinta da altro materiale,
liberamente reperibile sul
mercatoeperilqualelagente
può
non
avere
la
«preparazione
psichica»
necessaria. «La pornografia è
solounotraimoltipericolosi
privilegi immessi in questa
società e, per quanto poco
attraente, forse tra i meno
letali e i meni costosi in
termini
di
umana
sofferenza» 39.
Ciò che è successo fra il
1967, anno in cui Sontag
scrisse il saggio in questione,
eoggièchesièverificatoun
boom nell’industria della
pornografia.L’incidenzadella
violenza,siaditipodomestico
che criminale, contro le
donne è inoltre aumentata o
comunque
è
stata
riconosciuta in tutta la sua
enormità e le femministe
hanno messo in relazione i
duefattori.Diconseguenzala
posizione di Sontag ha finito
per apparire superata o
fondata sull’ignoranza dei
fatti.
Nei paesi fondati su un
sistema giuridico c’è la
tendenza a pensare che i
problemi sociali debbano
avere soluzioni legali e
dunque che i tribunali
possano essere utilizzati per
riparare ai mali storici e per
correggereglisquilibrisociali.
Scrive Carol Smart: «L’idea
chelaleggeabbiailpoteredi
correggere l’ingiustizia è
pervasiva.Proprio come la
medicina è vista come
curativa
piuttosto
che
iatrogena, cosí la legge viene
vistacomecapacediampliare
l’ambito
della
giustizia
piuttosto che di generare
ingiustizia». Inoltre, avverte
poi l’autrice, «dobbiamo
considerare il fatto che,
nell’esercizio della legge,
possiamoprodurreeffettiche
peggiorano le cose e che, di
fronte a una condizione di
peggioramento,
possiamo
commettere
l’errore
di
immaginare
di
dover
applicare la legislazione in
modo
ancora
piú
massiccio» 40.
LacauteladiSmartriflette
il diverso approccio delle
avvocatesse
femministe
inglesi rispetto alle loro
colleghe americane. La
differenza è percepibile
soprattutto nel diverso
approccio alla pornografia.
Ciò in parte può essere
dovutoalfattocheilprogetto
puritano di legiferare sugli
standard morali non sia
ancora esaurito in America;
ma si fonda anche su basi
giuridiche. In un paese dove
lalibertàdiparolaègarantita
dalla costituzione (col Primo
Emendamento),
la
pornografia nel passato
recente ha goduto di un
insolito grado di protezione,
basato,
secondo
alcuni
oppositori, su argomenti
molto sofisticati; mentre la
definizione limitata del
concettodidannonelsistema
giuridico inglese rende
difficile per le femministe
inglesi sostenere che la
pornografia arreca danno 41.
Perfino una commentatrice
cosí scettica in merito
all’attivismo legislativo come
Carole Pateman, per la quale
l’obiettivo femminista da
perseguire non è distruggere
l’industria pornografica ma
«minare»
l’immagine
femminile costruita dalla
pornografia, conclude che, se
si considerano le dimensioni
raggiunte dall’industria della
pornografia, «forse per le
donne è necessario ricorrere
allalegge» 42.
Ma sarà bene anche
spiegare che cosa intenda
Smartpermedicinaiatrogena
e
legge
«giuridogena».
Proprio come la medicina
non si limita a curare la
malattia ma crea tutta una
professione
medica
e
un’industria
farmaceutica,
cosí la legge non si limita a
giudicare i singoli casi ma
crea una professione legale e
un’industria giudiziaria. In
particolare le leggi sulla
censura
creano
una
burocrazia di censori e
un’industria legale parallela
(sezioni legali all’interno di
case editrici e di produzioni
cinematografiche e avvocati
che si specializzano nei casi
relativi
alla
libertà
d’espressione).NegliStatiche
prendono sul serio il loro
ruolo censorio il numero dei
censori supera quello degli
scrittori
(l’ex
Unione
Sovietica) e si spendono piú
soldi per censurare che per
promuovere le arti (cosa che
avveniva in modo massiccio
nelvecchioSudafrica).
Mentre in teoria il
problema
può
essere
riformulato chiedendosi se i
pornografi abbiano o no
diritto alla libera espressione,
in pratica, come potrà
confermare chiunque abbia
esperienza di censura, il
problema diventa come
distinguere in modo giusto
ciò che è censurabile da ciò
che è permissibile. Ma la
legislazione in materia di
censura, cosí come la sua
applicazione, non fa ben
sperare né nei paesi dove
l’ideologizzazionedelcensore
è scoperta (come nell’Urss e
inSudafrica)néinquellidove
irapportifrapoterepoliticoe
ortodossia giuridica passano
per una piú complessa
mediazione (come negli Stati
Uniti).
Il ricorso
Irigaray.
alla
legge:
Da una piú ampia
prospettiva è giusto che le
donnecerchinosoddisfazione
dalla legge, un sistema le cui
origini
sono
cosí
profondamente intrecciate
con il patriarcato? Il ricorso
allaleggeeallesuecategorieè
compatibile
con
il
femminismo come impresa
filosofica?
Unarispostaovviaèchele
donne sono autorizzate a
perseguire i loro interessi
come meglio credono e
facendo uso dei mezzi che
vogliono, ivi compresi i
tribunali. Nell’affrontare le
questioni delle donne è
doveroso che le corti e
perfino le leggi rinuncino in
una certa misura ai loro
pregiudizi.
Carol Smart risponde in
modopiúcauto:ilprezzodel
ricorso alla legge per far
passare
gli
«standard
femministi»,checomportaun
adattamento della teoria
femminista alla griglia legale,
sarà necessariamente la
perdita di gran parte della
complessitàdiquellateoria.E
per di piú la mossa potrebbe
essere azzardata dal punto di
vistastrategico:suitemidella
censura le femministe si
trovano troppo spesso dalla
parte del diritto morale. Di
Catharine MacKinnon, il cui
orientamento politico è
quello della sinistra marxista,
Smartscrive:«Allafinelasua
posizione
diventa
indistinguibile dal diritto
moraleperquantoriguardala
sua ostilità alla sessualità e il
suo ricorso alle forme piú
ottuse della censura legale».
Smart ricorda il paradosso
della censura enunciato da
Annette Kuhn (un paradosso
di cui la stessa MacKinnon è
consapevole):chedauncerto
punto di vista la pornografia
ha bisogno della censura per
conservare il suo fascino, per
costruire il suo oggetto
proibito del desiderio e
acquisire lo status di una
verità repressa, mentre «è
l’idea
stessa
che
la
pornografia sia la verità del
sesso
[...]
che
va
combattuta» 43.
MaèstataLuceIrigarayad
articolare nel modo piú
completo il problema del
rapporto delle donne con la
legge. Secondo la visione di
Irigaray le donne partono da
una posizione impossibile.
«La posizione delle donne è
l’esclusione […] è il discorso
di lui, in quanto fa la legge
[…] che può sapere in che
consiste tale esclusione».
L’esclusione delle donne è
«interna a un ordine al quale
nulla sfuggirebbe: quello del
discorso di lui». È inutile
pensare che da una piega
interna del discorso maschile
–peresempiodall’internodel
discorso giuridico – le donne
possano mettere il potere
femminilealpostodelpotere
maschile: mentre appare
come un rovesciamento,
questa«presadipoterefallico»
lascerebbe le donne sempre
«comprese nell’economia del
medesimo». «Non si esce, in
particolare, pensando di
risparmiarsi l’interpretazione
rigorosa del fallogocratismo.
Fuori del quale non si salta
semplicemente né ci si trova
per il semplice fatto d’esser
donna». Il discorso maschile
può essere superato solo
attraverso la via del
mimetismo.Seleparoledella
donna non vogliono restare
«inintellegibili secondo il
codice in vigore» esse vanno
«desunte da un modello che
lascia in sospeso il mio
sesso» 44.
Tutto questo non significa
però che la legge, in quanto
parte
del
discorso
dell’immaginario maschile,
debba restare un libro chiuso
e proibito. Al contrario, una
volta che l’ha riconosciuta e
ha tracciato il suo «fuori», la
donnapotràsituarsirispettoa
essa in quanto donna,
«implicata e in pari tempo
eccedente». Ma il suo
coinvolgimento non potrà
che essere ambivalente e
dunque non potrà essere
preso in considerazione a
pieno titolo. Abitare davvero
l’immaginario maschile vuol
dire abbandonarsi a un
semplice rovesciamento del
potere,
ricadere
nell’«economia
del
medesimo».
PerIrigarayfemminismoe
giurisprudenza non sono
incompatibili.
Ma
una
giurisprudenza femminista
che non sia ludica, che in
cambio dell’accesso alla legge
conceda alla legge stessa di
rivendicare la sua dignità e
che poi rispetti tale dignità,
con quella concessione
rinuncia
alla
sua
indipendenza. «Prima libertà
dopo
una
secolare
oppressione? Il fallico non è
forse la seriosità del senso?»
«Sfuggire al ribaltamento
puro e semplice della
posizione maschile significa
[…] non dimenticare di
ridere» 45.
L’oltraggio.
Illinguaggiodellaleggenel
rapporto con le emozioni è
goffo.
Cosa
sentiamo
precisamente quando ci
sentiamooffesi?sichiedeJoel
Feinberg. La sua risposta, la
risposta collettiva della legge
(ricavata da secoli di
introspezione da parte degli
avvocati) è che proviamo un
qualche genere di sensazione
sgradevole o una somma di
sensazioni sgradevoli di varia
natura, fra le quali ci sono –
ma non solo – il disgusto, la
vergogna, il dolore e
l’angoscia e anche una certa
dose di risentimento nei
confronti di chi le ha
causate 46.
La sgradevolezza del
sentirsi offesi non coincide
necessariamente con una
forma di dolore. La
pornografia può produrre
eccitazione
sessuale,
eccitazioneallaqualecisipuò
abbandonare e che, in una
certa misura, può anche
piacere e d’altra parte
quell’esperienza
può
concludersicoldisgustoecol
bisognodiripudiaretuttociò
che l’ha prodotto. Tale
ambivalenza e, dal punto di
vista morale, tale ipocrisia
riflettono certamente un
disturbo a livelli psichici piú
profondi e nondimeno si
trattadiunprocessoediuna
reazionecomuni.
Le sfumature degli stati
emotivisonopersonalieforse
private; interagiscono e si
combinano
quasi
chimicamente. La vergogna è
vergogna, l’offesa offesa, ma
lavergognapiúl’offesadanno
luogo a un nuovo composto
perilqualenonabbiamoaltro
nomechelasommadeinomi
delle sue componenti. La
vergogna combinata con
l’offesa e il risentimento
produceuncompostoancora
piú complesso il cui nome
potrebbe includere almeno
vergogna per il risentimento
provato e risentimento per la
vergogna
provata,
due
composti già di per sé
altamentereattivi.
Ma il progetto stesso di
definire gli elementi che
compongonolasensazionedi
offesa–ilprogettodichiarire
fino in fondo cos’è l’offesa –
può a sua volta essere messo
in discussione. Nella sua
descrizione delle emozioni
morali,basatasullateoriadei
sentimenti morali di Adam
Smith, Edward Westermarck
fa dell’indignazione (offesa,
oltraggio)un’emozioneaffine
aquelladelcomplessorabbiavendetta,ecollocal’originedi
entrambe nella primitiva
emozione
punitiva
del
rancore.Scriveinfatti:
È il desiderio istintivo di
infliggere a propria volta una
pena che dà all’indignazione
moralelasuacaratteristicapiú
importante [...]. Se vengono
espressi giudizi morali sugli
esseri dotati di volontà o sui
loro atti non è solo perché
sono dotati di volontà ma
anche perché sono capaci di
provare sensazioni; e per
quantosicerchidiconcentrare
lanostraindignazionesull’atto
[che reca offesa], esso [il
giudizio morale] deriva il suo
speciale carattere dall’essere
diretto contro un agente
sensitivo.
Nessun giudizio morale
può dunque – dal punto di
vista logico – essere espresso
sugliistintipunitivi,poichéla
punizione è la base del
giudiziomoralestesso.
Come la tassonomia delle
emozioni incarnata dalla
legge
occidentale,
la
descrizione delle emozioni
datadaSmitheWestermarck
è scevra degli artifici della
psicologia psicanalitica; e fin
qui i due sistemi coincidono.
Se,
come
sostiene
Westermarck,leemozionidei
gruppi – «la pubblica
indignazione e la pubblica
approvazione» – sono i
prototipi delle emozioni
morali 47, allora i sentimenti
dellepersonechesiritrovano
in un gruppo per denunciare
o approvare qualcosa sono i
fondamentideigiudizimorali
e sarebbe falso cercare di
isolare componenti ancora
piú primitive (disgusto,
vergogna, ansia o altro) nello
spirito di denuncia. Potrebbe
avere un senso dal punto di
vistapraticotrattarelarabbia
(indignazione,
oltraggio,
sensazione di offesa) come
l’emozione originaria dalla
quale scaturisce l’azione di
condanna e lasciar perdere il
tentativo di elaborare una
basemoralmenteraffinataper
quellarabbia.Inaltritermini,
nell’ambito della psicologia
giuridica può avere un senso
essere poco riflessivi, come
sono per esempio le
femministe della scuola di
Andrea Dworkin e Catharine
MacKinnon, che sono state
fin qui criticate per la loro
irrazionalità:
per
loro,
lamenta Carol Smart «la
rabbia è l’analisi»; se trovano
che
un’immagine
è
«problematica e di cattivo
gusto [...] questo basta a
identificare il problema [per
loro]eafornireunabaseper
lacensura» 48.
In un contesto giuridico,
mettereindubbioilvaloredel
tentativo di distinguere
sfumature di emozioni dietro
al riflesso censorio non vuol
dire
concedere
una
giustificazione etica alla
rabbia e all’azione irrazionale
chenescaturisce.Larabbiaè
un’emozione che soffoca le
analisi e le autoanalisi e
proprio nella cecità della
rabbia cieca vediamo la sua
fragilitàetica.C’èqualcosadi
paradossale nella rabbia che,
mentreconcentraleforzedel
corpo e scavalca tutti i freni
interiori,conferendoalcorpo
una
formidabile
forza,
irrigidisce
il
pensiero,
paralizzalamobilitàediventa
vulnerabile alla frecciata
maliziosa(lafrecciadiParide
nel tallone di Achille),
all’ironia, alla risata. Una
volta che si è osservata la
rabbia
freddamente
dall’esterno, è difficile vivere
lostatod’animodellarabbiao
dell’indignazione dall’interno
con autenticità. La rabbia di
conseguenzanondiventauna
risorsa totalmente perduta,
masipuòessereinfuriatisolo
nello spirito che Irigaray
chiamadimimetismo:unpo’
dentro e un po’ fuori da
quello stato d’animo. E per
questo forse che il primo
scopodellarabbiaèquellodi
far
arrabbiare
anche
l’antagonista–diaccecarlo.
Ilprogettopornografico.
Nellamediocritàdellaloro
esecuzione,nellamancanzadi
immaginazione creativa e
ancor piú di immaginazione
erotica, nella loro totale
incomprensione
delle
problematiche umane nelle
quali rimestano, i prodotti
ordinari
dell’industria
pornografica non sembrano
meritare
l’attenzione
accordata loro da studiosi e
magistrati. Eppure la stessa
definizione implicita nella
parola «ordinario» solleva
una domanda: cosa c’è
nell’ambito della pornografia
chenonsiaordinario?
Esiste,
certamente,
qualcosachevasottoilnome
di arte erotica (versi erotici,
romanzi erotici, quadri
erotici, film erotici) e che
vorrebbe rimettere al suo
posto
la
pornografia
commerciale dimostrando
cheilsessosipuòtrattarecon
immaginazione,intelligenzae
perfino con gusto. Ma nel
momentostessoincuiricorre
alla protezione della legge
(proclamando un valore
estetico che la redime) e
dunque misura la sua
distanza dalla pornografia,
l’erotismo sembra sottrarsi
alla prova, si accontenta di
essere audace ma in fin dei
conti solo chic, oltraggioso
senzaprodurreverooltraggio;
mentre il pornografico, per
quanto volgare, conserva
almeno una sua certa qualità
cruda,selvaggia.
La verità è che non è
dall’erotismo, ma dalla
pornografiachesonovenutii
veri assalti, non solo alle
norme morali e in fondo alle
stesse norme della condotta
umana, ma ai limiti della
rappresentazione stessa, o
almeno all’idea che la
rappresentazione possa avere
dei limiti. Non c’è niente di
ammirevole in quegli assalti:
anzi proprio in virtú della
posizione esterna alla morale
dalla quale sono lanciati,
ammirevole è un elogio che
debbono
rifiutare.
Nondimeno, e malgrado gli
eccessi del suo linguaggio,
Susan Sontag ha ragione a
evidenziarel’importanzadegli
scrittori pornografi, come
Sade, Lautreamont o Bataille
el’ostilitàederisionecheessi
riservano all’ideale razionale
di integrare il sesso in una
vitapiacevole,ordinata,felice
e produttiva, del sesso
domato e messo al servizio
del godimento personale.
Nelleloroopere,diceSontag,
l’oscenodiventa«unanozione
primigenia della coscienza
umana» e la sessualità si
affermacomequalcosache«è
aldilàdelbeneedelmale,al
di là dell’amore e del senno
[...]
una
delle
forze
demoniache operanti nella
coscienzaumana»,chespinge
l’uomo al «tabú e desideri
pericolosi»
che
vanno
«dall’impulso a commettere
improvvisa e arbitraria
violenza» a un voluttuoso
desideriodimorte 49.
Sontag dunque vede i
grandi pornografi come
coloro che ristabiliscono la
verità del desiderio che la
civiltàtendeacoprire.Mapoi
faunerrore,unerroreancora
piú curioso trattandosi di un
saggio
dal
titolo
L’immaginazione
pornografica, quando mette
insieme le ambizioni della
pornografia con quelle del
desideriosessualestesso.Una
cosa è riconoscere l’esistenza
del demoniaco, altra cosa
agirlo.AlivelloprofondoJane
Austen trova il sesso
demoniaco quanto Sade. Lo
trova demoniaco e perciò lo
esclude. Ciò che non
condivide con Sade è la fede
nella capacità dei rituali della
scrittura di mimare le
emozioni del desiderio
demoniaco, di spezzare i
limiti del sé. Tale ambizione
assolutamente
metafisica,
legata ma al tempo stesso
distinta da quella di
trascendere
se
stessi
attraverso la via dell’eccesso
sessuale, è ciò che anima la
pornografia ossessivamente
ripetitiva di Sade, di cui
Bataille scrive: «la sventura
[gli] permise di vivere questo
sogno,questaossessionecheè
l’anima della filosofia: l’unità
disoggettoeoggetto.Sitratta,
in questo caso, dell’identità
raggiunta nel superamento
dei limiti degli esseri,
nell’andar oltre l’oggetto del
desiderio e il soggetto che
desidera» 50.
La pornografia è una
forma di guerra: è assurdo
immaginare Sade che fa
appello alla legge per essere
protetto dalle leggi contro
l’oscenità. Dal punto di vista
di un progetto luciferino (o
satanico)comequellodiSade,
è assurdo anche pensare al
divieto come a una trappola
inventata dalla pornografia
per rendersi desiderabile, o,
con le parole di MacKinnon
«sexy». In entrambe le
accezioni della locuzione,
Sade sta dietro al divieto.
Allora è concepibile uno
schieramento di forze che
collochi la filosofia sadiana
della camera da letto, ivi
compreso il femminismo
sadiano,daunaparte–quella
fuorilegge – del divieto sulla
pornografia e il patriarcato
ancestrale e il femminismo
normativo dall’altra, dalla
parte della legge. Uno
schieramento del genere
rifletterebbe
–
paradossalmente
–
la
posizione delle femministe
che mettono in guardia
rispetto al divieto della
pornografia. «Femministe e
maggioranze morali» scrive
Linda Williams, dovrebbero
guardarealdilàdellaviolenza
contro le donne nella
pornografia alla varietà delle
pratiche sessuali in essa
rappresentate,unavarietàche
«contribuisce alla sconfitta
del desiderio originario
dell’economia fallica che
vuole
fissare
l’identità
sessuale della donna come
specchio del suo stesso
desiderio» ovvero definire la
donna come oggetto del
desiderio maschile. «Nella
moltiplicazione delle […]
diversepratiche[sessuali],[la
pornografia] mina il suo
scopo originario di fissare e
rappresentare
la
verità
narrativalineareevisibiledel
piaceresessualefemminile» 51.
Ciò che qui viene
sottoscrittoèunapornografia
sadiana e perciò perversa che
va
contro
«l’economia
fallica». Mentre accetta una
concezione semplicistica del
desiderio maschile come di
un desiderio che conosce il
suo oggetto (non riflette per
esempio sul concetto piú
hegeliano del desiderio che
desidera
il
desiderio
dell’altro), Williams alla fine
mette in guardia contro una
forma di censura che si
assume il compito di isolare,
giudicare, e classificare i
contesti
dell’opera
pornografica, mettendo da
parte come irrilevante la loro
diversità
e
la
loro
giustapposizioneformale–in
altreparoleignorandol’opera
nellasuainterezza.
Pornografiaepubblicità.
Nelle
canzoni,
nel
romanzo e nel cinema degli
ultimi trenta o quarant’anni,
il sesso è diventato sempre
piú esplicito; nella pubblicità
la sessualizzazione delle
immagini è diventata sempre
piúscoperta.Questifenomeni
culturali e la crescita
dell’industria pornografica
sonoindubbiamentecollegati.
Il problema è in che modo
vada intesa tale relazione.
Entrambi i fenomeni –
sessualizzazione del contesto
ediffusionedellapornografia
– sono da intendere come
manifestazioni di una sola,
piú vasta tendenza storica,
oppurelapornografiaèl’arte
pionieristica, dalla quale le
altre
sarebbero
state
contagiate?
A questo interrogativo –
che di fondo riguarda
l’impatto
sociale
della
pornografia – le femministe
hanno risposto in vario
modo. Carol Smart per
esempiotrovalapubblicità,le
soap opera e i romanzi rosa
veicoli piú potenti della
pornografia nell’indirizzare e
fissare le rappresentazioni
delle donne 52. D’altra parte
Rosalind Coward vede nella
pornografia
una
forza
pervasiva: «Mi sembra che
l’immagine che oggi [1984]
domina
nei
giornali
femminili in generale venga
dritta
dritta
dalla
pornografia»; «Le immagini
delle donne che incontriamo
piúspesso[...]sirifannotutte
alle convenzioni secondo le
quali le donne sono
rappresentate
nella
pornografia». Per Coward è
soprattuttolapornografiache
ha creato il sistema e i codici
all’interno dei quali vengono
lette le immagini delle donne
e quindi dei loro corpi.
Questo modo di vedere le
donne nasceva dallo sguardo
rapace
e
dominatore
dell’uomo, in particolare del
flaneur cittadino, ma oggi è
l’obiettivo che insegna agli
uomini, cosí come alle altre
donne,avedereladonna 53.
Quest’ultimaanalisi,chein
un senso piú lato fa della
pornografia un terreno di
prova delle tecniche di
sessualizzazione
e
di
oggettivazione sfruttate dai
mediapopolari,inparticolare
dalla pubblicità, e che di
conseguenza
pervade
gradualmente sia la vita
sociale sia quella privata,
porta naturalmente alla
conclusione che, per le
femministe, la pornografia
dovrebbe rappresentare il
primobersaglio.
Un’analisi alternativa piú
cauta, che attribuisce alla
pornografia un ruolo meno
direttivo,tendeavederesiala
pornografia sia la pubblicità
che fa ricorso alle immagini
come espressioni di forze
commerciali interessate tanto
a
definire,
stimolare,
mercificare, inscatolare e
vendereildesiderio,quantoa
propagare nuovi o a
rafforzare vecchi modelli del
desiderio(attraversogliocchi
per esempio) o vendere
immagini. Nel grande affare
deldesideriodoveilfotografo
di moda e il pornografo si
muovono
negli
stessi
ambienti e possono essere la
stessa persona, la pubblicità
può addirittura anticipare la
pornografia, non solo perché
ilsuogirodisoldièmaggiore
ma anche perché dispone di
un programma teorico piú
coerente. La pubblicità si
limitaapromettere,mentrea
uncertolivellolapornografia
si assume il compito di fare
quello
che
nessuna
rappresentazionepuòdifatto
fare: mantenere la promessa.
La pubblicità rimane tutta
all’interno dello statuto del
segno, è qualcosa che sta al
posto di un’altra cosa;
mentre, nel presentarsi come
la cosa stessa, la pornografia
violailpropriostatuto.Dacui
lasuacaratteristicaossessivae
ancoralasuaviolenzasempre
crescente, che va interpretata
come la violenza della
frustrazione. Anche nell’uso
chefadeltabúlapubblicitàè
piú scaltra della pornografia.
Sapendo che non può
soddisfare, indica il tabú: se
non fosse per quello – dice –
tipotreifarvederequelloche
vuoi; per ora dovrai
accontentarti di meno, di un
accenno
appena.
La
pornografia, d’altra parte,
prima viola il tabú e poi, per
la sua stessa sopravvivenza, è
costretta
a
resuscitarlo
altrove.
Come osserva Roland
Barthes l’intravedere ha una
valenza erotica piú forte del
vedere la cosa nella sua
nudità 54. La caratteristica del
desiderio è promettere, non
mantenere. La pubblicità,
diversamente
dalla
pornografia che spreca il
desiderio, usa il desiderio. E
in tal senso la pubblicità è al
centro dell’industria del
desiderio,
mentre
la
pornografiaèmarginale.
[1992].
Inconclusione
IntervistaconDavidAttwell
D. A.
Abbiamo cominciato
queste
conversazioni
parlandodiautobiografiae
sembra giusto ripartire da
líinquestoscambiofinale.
Allora aveva parlato del
carattere
aperto
dell’autobiografia
assimilandola ad altre
forme di scrittura. A
questo
punto,
nel
ripensare
all’intero
progetto le chiederei di
riflettere su dove l’ha
condotta: quali i momenti
dicristallizzazione,qualile
frattureolecontinuitàche
J.
il nostro dialogo le ha
permessoditrattareequali
leriflessioniulterioricuiè
giunto sulla natura stessa
dell’autobiografia?
M. C. Vorrei tornare su
quello che dicevo a
proposito
dell’autobiografia come
attività biografica. La
biografia è un genere di
narrazioneincuisisceglie
il materiale da un passato
vissuto,
imprimendogli
una forma che lo conduce
in un presente vivo in
modo piú o meno
coerente. La premessa di
una biografia è nella
continuità tra passato e
presente.
Perfino
le
biografie della crisi – per
esempio le cosiddette
storie di conversione –
non
negano
questa
continuità. La narrativa di
una conversione può
presentare il sé rinato
come un superamento
totale del sé passato, ma
tematizza la discontinuità
come qualcosa che non si
sarebbe potuta verificare
naturalmente, che non
avrebbe potuto darsi se
nonperinterventodivino.
Quello che distingue
l’autobiografia
dalla
biografia è, da una parte,
che lo scrittore ha un
accesso privilegiato al
materiale, dall’altra che,
poiché seguire la linea tra
passato e presente è
un’impresa
fortemente
interessata (interessata in
tutti i sensi), la visione
selettiva, anche una certa
dose di cecità, diventa
inevitabile.Cecitàdifronte
aquantoèinveceevidente
per qualsiasi osservatore
occasionale.
L’autobiografia è sempre
narrazione, la scrittura è
sempre autobiografia. In
questi dialoghi lei mi ha
chiesto che cosa io, nella
mia cecità, ho visto nel
riconsiderare quel che ho
scritto
negli
ultimi
vent’anni e ora mi chiede
cosa vedo quando ripenso
aquestinostridialoghi.
Le devo rispondere che
vedosemprepiúcrucialeil
saggio
su
Tolstoj,
Rousseau e Dostoevskij,
come un punto di svolta.
Perché? Per due ragioni.
Prima di tutto perché mi
vedo ad affrontare in un
generediverso,ilsaggio,la
domanda che mi ha posto
in questi dialoghi: come
dire
la
verità
nell’autobiografia.
In
secondo luogo perché
trovo che la storia che
racconto di me ha una
certa nettezza di contorni
fino all’epoca di quel
saggio;doposifanebbiosa
e si espone alle domande
piúarduedelfuturo.
Che cosa accadeva in quel
saggio?
Retrospettivamente
vi
vedoundialogosommerso
tra due persone, una è la
persona che avrei voluto
essere, quella verso la
quale avanzavo a tentoni.
L’altra è piú confusa,
chiamiamola pure la
persona che ero allora,
anchesepotrebbetrattarsi
di quella che ancora sono.
Ilterrenodellorodibattito
è
la
verità
dell’autobiografia.
La
secondapersonaprendela
posizionecuihoaccennato
sopra, ma in modo piú
estremo: non c’è verità
definitiva su se stessi, non
ha senso cercare di
raggiungerla, quello che
chiamiamo verità è solo
una continua, mobile,
rivalutazione di sé, il cui
scopo è farci sentire bene,
o comunque il meglio
possibile nelle circostanze
date, considerando che il
genere non permette di
creare delle costruzioni di
pura
fantasia.
L’autobiografiaèdominata
dall’interesse per se stessi
(continua la seconda
persona); in astratto è
possibile
essere
consapevoli
di
quell’interesse personale
maallafinenonsiriescea
metterlo pienamente a
fuoco. La sola verità certa
nell’autobiografia è che
l’interesse personale si
situerà nel proprio punto
debole.
Nei termini messi in
risalto dal saggio il
dibattito è quello tra
cinismoegrazia.Cinismo,
come
negazione
di
qualsiasi fondamento dei
valori. Grazia, come
condizione nella quale la
verità può essere detta
chiaramente, senza cecità.
Il dibattito è messo in
scena da Dostoevskij e gli
interlocutori
sono
StavrogineTikhon.
Lascicheledicachesemi
guardo indietro dall’altura
o dall’isola creata dal
nostro dialogo presente,
riesco a riconoscere la
storia
degli
ultimi
vent’annisedecidodifarli
ruotare intorno al saggio
sulla confessione, scritto
trail1982eil1983.
Nellaprimametàdiquella
storia – una storia parlata
con voce esitante perché
chi parla non è solo cieco
ma
scritto
come
sudafricano bianco nella
seconda
metà
del
ventesimosecolo,incapace
e squalificato – l’uomoche-scrive reagisce alla
situazioneprivadiautorità
in cui si trova scrivendo
senza autorità. In questa
prima parte lui reagisce,
non si impegna nella sua
situazione
a
livello
filosofico.
Capisce presto di essere
incapace,ocosíalmenogli
sembra, quando guarda
indietro alla sua vita per
riempire la sua storia. Da
ragazzo questa persona,
questo
soggetto,
il
protagonista di questa
storia, questo io, sebbene
scriva, piú o meno
segretamente, decide di
diventare,sepossibile,uno
scienziato e persegue con
tenacia una carriera in
matematica anche se in
quelcampoèpocopiúche
mediocre.
Come
interpretare
quella
decisione? Direi che
cercava una capsula in cui
vivere, una capsula in cui
non essere costretto a
respirarel’ariadelmondo.
Èsemprestatoindifferente
al suo ambiente, fisico e
sociale. Vive, dovunque si
trovi,chiusoinsé.Neisuoi
scritti giovanili aderisce al
modernismo
angloamericanonellesueforme
piúermetiche.Siimmerge
neiCantosdiPound.Ilsuo
critico preferito è Hugh
Kenner.
Del
critico
ammira
le
vaste
conoscenze e lo spirito
brillante
(che
lui,
sfortunatamente, è troppo
pedante per imitare) ma
anche l’audacia con cui
Kenner ignora tutta una
seriediesperienze;quanto
a vivere, beh, se ne
possonooccupareiservial
nostroposto.
A ventun anni va via dal
Sudafrica, con l’idea di
lasciarselo alle spalle.
Quando verso la metà
degli
anni
Sessanta
abbandona l’informatica a
favore
della
vita
accademica
–
una
decisione che gli avrebbe
salvato la vita – è alla
letteratura strettamente
intesa come oggetto di
studiochesirivolge.Scrive
un’analisi formalistica di
Beckett concentrandosi su
unperiododellavitadello
scrittore in cui anche lui
era ossessionato dalla
forma, dalla lingua come
giocoautoreferenziale.
Gli manca il Sudafrica?
Malgrado non si senta a
suo agio in Inghilterra e
neppure negli Stati Uniti
nonhanostalgiadicasa,e
nemmeno
si
sente
particolarmenteinfelice.Si
sentesolounostraniero.
Vorrei rintracciare in me
(«me») questa sensazione
di essere straniero (di
estraneità
non
di
straniamento) risalendo
piú indietro nel tempo. È
unasensazionecheritrova
in sé fin dai primi ricordi.
Ma sono in grado,
scrivendo oggi, nel 1991,
di
datarne
l’intensificazione. Gli anni
trascorsi nella provincia
ruralediWorcester(1948-
51)inunascuolamediadi
lingua
inglese
pur
provenendo
da
un
background afrikaans e in
unperiodoincuiinfuriava
il nazionalismo afrikaner,
un periodo in cui si
cercavadipassareleggiche
proibivano di educare in
inglese i ragazzi di origine
afrikaans.
Quella
situazione gli produce
incubi nei quali viene
scoperto e accusato. Già
intorno ai dodici anni ha
sviluppatoundecisosenso
di marginalità sociale.
(Quelli come i suoi
genitori vengono attaccati
dal
pulpito
come
volksverraaiers, traditori
del popolo. Ma in verità i
suoi genitori non sono
traditori,
non
sono
neppure particolarmente
sradicati: sono solo, a loro
eterno credito, indifferenti
alvolkeaisuoidestini).
Agli anni di Worcester
seguel’adolescenzaaCittà
del Capo, in cui lui,
protestante, frequenta un
liceo cattolico e ha amici
ebreiegreciortodossi.Per
uncertonumerodiragioni
smette di andare nella
fattoria di famiglia, il
punto della terra che ha
definito,
immaginato,
costruito come suo luogo
di origine. Tutto questo
confermalasuasensazione
(piuttosto accurata) di
trovarsi fuori da una
cultura che in quel
momento
storico
si
apprestaaimporsicomeil
nucleo
culturale
dominantedelpaese.
Sociologicamente aiuta,
forse, pensarlo quasi
ventenne
come
un
raznochinets alla stregua
delBazarovdiTurgenevo
dell’infinita
serie
di
giovani nei romanzi di
Dostoevskij, occhi ardenti
nei volti pallidi, col
progetto di cambiare il
mondo,
un
giovane
intellettuale marginale e
socialmente svantaggiato
del tardo impero inglese.
Svantaggiato? Beh, forse
non esattamente ma
certamente
non
privilegiato secondo gli
standard della borghesia
bianca. I suoi non fanno
partedeicircoliafrikaanse
nemmenodiquelliinglesi.
Hannoproblemifinanziari
infiniti e lui si paga
l’universitàconlavorettidi
ogni tipo se non altro
perchélodisgustavederei
sacrificidisuamadre.
Politicamente
il
raznochinetspuòandarein
una direzione o nell’altra
ma durante i suoi anni di
studente
lui,
questa
persona,questosoggetto,il
mio soggetto, si tiene alla
larga dalla destra. Da
bambino a Worcester ne
ha avuto abbastanza della
destra afrikaner, delle sue
tirate, della sua arroganza,
della sua crudeltà. Gli
basta per una vita. Anzi,
anche prima di Worcester
havistopiúcrudeltàepiú
violenza di quanta ne
dovrebbe vedere un
bambino.Cosídastudente
si muove ai margini della
sinistra, senza farne
davvero parte. Malgrado
nutra simpatia per le
preoccupazioniumanitarie
della sinistra quando è al
dunque ne prende le
distanze per il linguaggio,
infastidito di fatto da
qualsiasi
linguaggio
politico. Da sempre si è
sentito a disagio con il
linguaggio dogmatico, con
ogni linguaggio definitivo,
quello che non tende a
rivedere scetticamente le
sue premesse. Le masse
risvegliano in lui qualcosa
di simile al panico. Non
puòononvuole,nonpuò
e non vuole unirsi agli
altri, gridare, cantare: la
golaglisichiude,sirifiuta.
Èquestalapersonache,in
una versione leggermente
piú matura, va in Texas
per riprendere gli studi di
letteratura. Non voglio
denigrare
il
regime
formalista,
sostanzialmente
linguistico,
cui
si
sottopone per i successivi
quindici
anni.
La
disciplina all’interno della
quale costui (adesso
comincia a sembrare
sempre piú vicino a io,
l’autrebiographie sfuma
nell’autobiografia)
era
cresciuto lo/mi aveva
abituato
a
pensare
portandolo/mi
a
illuminazioni impensabili
seguendounqualsiasialtro
percorso.Mailsaggiosulla
confessione, rileggendolo
ora,segnal’iniziodiunpiú
profondo
impegno
filosofico rispetto a una
situazione nel mondo, la
sua situazione, e forse
tuttora la mia. Andrebbe
letto, credo, insieme ad
Aspettando i barbari. Il
romanzo
pone
una
domanda:
perché
scegliamodischierarcicon
la giustizia quando non è
nel
nostro
interesse
materiale
farlo?
Il
Magistratodàunarisposta
alquanto platonica: perché
nasciamo con l’idea di
giustizia. Il saggio, anche
se solo in modo implicito,
chiede: perché dovrei
essere interessato alla
verità su me stesso se
quella verità potrebbe non
essere nel mio interesse?
Al che io credo di
continuare a dare una
risposta platonica: perché
nasciamo con l’idea di
verità.
E questa è la prima parte
come la vedo oggi. Alla
luce di tutto quanto ci
siamo detti, mi fermerei
qui.
[1991].
Notadelcuratore
La riflessione critica di J.
M. Coetzee ha dato luogo
neglianniaun’altrascrittura,
parallela a quella creativa. A
partire dai primi anni
Settanta dello scorso secolo,
quasi in concomitanza con
l’esordio narrativo – Terre al
crepuscolo esce nel 1974 –
Coetzeepubblicavarisaggidi
analisi letteraria e culturale,
poi raccolti nei volumi in
gran parte inediti in italiano,
White
Writing
(1988),
Doubling the Point (1992) e
Giving Offense (1996) a. Da
questi sono tratti i saggi
inclusi nel presente volume,
riordinati secondo la data di
composizione,
a
rappresentare poco piú di un
ventennio di letture e
sperimentazioni critiche, in
parte motivate dal lavoro
accademico dello scrittore
presso l’Università di Cape
Town. Gli ambiti di ricerca,
gli autori, le letture teoriche
di riferimento dei saggi sono
il frutto delle scelte
intellettuali attraverso cui
Coetzee riorienta la sua
formazione di matematico e
poi di programmatore,
indirizzandola verso le
scienzeumaneelatradizione
letterariaeuropea.
Questo
passaggio
è
lucidamente descritto nelle
interviste di Doubling the
Point,
dove
Coetzee,
sollecitato dalle domande del
suo interlocutore, il critico
sudafricano David Attwell,
ripercorre la sua formazione
intellettuale, duplicandone
per cosí dire i percorsi, e
rileggendo alla luce dei vari
stimoli recepiti le proprie
strategie
narrative.
Le
interviste,
qui
solo
parzialmente riprodotte, ci
restituiscono un Coetzee
inedito, che riflette su fasi e
sceltedellasuavitaedellasua
opera con una franchezza e
una disponibilità mai piú in
seguito verificatesi. All’epoca
incuidecidediraccoglierein
volumeisuoisaggièl’autore
acclamato di sei romanzi b,
tradottiinvarielingue,conla
fama di un carattere schivo e
restio alle interviste. Cosa lo
spinge a intraprendere il
progetto
nella
forma
inconsueta del dialogo? Lo
spiega lui stesso: «Capire il
desiderio che mi ha spinto a
scrivere quello che ho scritto
tra il 1970 e il 1990. Non i
romanzi
che
sono
sufficientemente in grado di
interrogarsi su se stessi ma
tuttoilresto,isaggicritici,le
recensioni e cosí via. Scritti
cheappartengonoaungenere
che per lo piú non permette
loro di riflettere su se stessi
[…]Forseèperquestocheho
scelto la forma del dialogo,
per superare l’impasse del
mio stesso monologo».
Monologo e dialogo sono
parole chiave per capire
l’opera di Coetzee narratore,
opera in cui il forte
investimento personale si
trova
spesso
occultato,
persino negli scritti piú
esplicitamente autobiografici,
in forme e strategie di
straniamento e alienazione.
La scrittura, che produca
finzioneoanalisicritica,èper
lui «sempre autobiografia»
perché in quanto gesto
intransitivo «la scrittura ci
scrive» rivelando all’autore
una versione di sé piú
veritiera delle intenzioni di
partenza. Nelle interviste con
Attwell è interessante notare
come, fin dall’inizio, lo
scrittoreriescaasovrapporre,
all’inchiesta rigorosa del
critico sull’ontologia del suo
discorso narrativo, una sorta
di progetto autobiografico
corrispondente alla prima
intensa fase di scrittura dei
romanzi, la piú politica.
Ricchecomesonodirimandi
ai romanzi, di informazioni
sulle loro piú riposte ragion
d’essere, le interviste non si
limitano
dunque
a
incorniciare e commentare i
saggi ma scandagliano nel
profondo la complessa
interazione tra vita vissuta e
operadelloscrittore.
Gli argomenti trattati nei
saggi rinviano ad ambiti
eterogenei non sempre
collegabili
in
maniera
immediata ai romanzi.
Analisi critiche di classici
della letteratura europea si
alternano a quelle di
letteratura
sudafricana;
riflessionisullacensuraesulla
pubblicità si trovano accanto
a letture dell’ideologia dei
fumettiedelrugby.Ilregistro
di scrittura varia di caso in
caso – ironico, brillante,
filosofico,accademico–maa
unificarlièilrigoreanaliticoe
metodologico con cui i temi
vengono avvicinati, che si
tratti di cultura «alta» o di
cultura popolare, quasi
l’autore abbia voluto, in
ciascun caso, mettere alla
prova del suo scrutinio
formulazioni critiche di
successo
e
verificarne
praticabilità e validità. La
lunga permanenza negli Stati
Uniti,dal1965al1972,prima
come
dottorando
all’Università di Austin,
Texas, poi come docente a
Buffalo, avrà un peso
determinante nelle scelte
metodologiche come negli
ambiti di studio privilegiati.
Sono gli anni in cui si
affermano la linguistica, lo
strutturalismo,
il
poststrutturalismo ecc. e
Coetzee sembra ricettivo a
ogni stimolo e deciso a
sperimentarli nel lavoro
accademico
che
va
producendo. E se gli studi su
Beckett e su Kafka appaiono
pesantemente improntati alla
linguistica quantitativa e allo
strutturalismo, sono molte
altre le letture di singoli
pensatori che lo influenzano
in maniera consistente e piú
in profondità, per esempio
Foucault, Lacan, Barthes,
Derrida, Girard, De Certeau
ecc.,icuiechisiavvertonoin
ogni suo romanzo. La
questione delle influenze,
spesso sollevata nel corso
delle interviste, non è mai
comunque riconducibile alle
soleletturenétantomenoalle
mode letterarie del tempo e
Coetzee appare restio ad
approfondirla,
preferendo
lasciarenelmisterol’originee
i complessi processi di
scrittura attraverso cui si
producel’opera.
Il problema della verità
nell’autobiografia
appare
centralenellariflessionedello
scrittore, che spesso si
interrogasulladialetticadella
reciprocità, sui modi di una
scrittura che rispetti la
possibilità di interagire con
l’altro sul piano del
linguaggio.
In
quanto
membro di una comunità,
quellaafrikaner,cuirifiutadi
appartenere, Coetzee si
definisce qualcuno che scrive
senza averne l’autorità, col
sensodiestraneità,didisagio,
di esclusione che ne deriva e
che lo accompagna da
sempre. Si può leggere in
questa chiave il saggio
Confessioneedoppiopensiero,
sorta di laboratorio dello
scrittoreallepreseconalcuni
testi dei suoi autori preferiti,
Dostoevskij e Tolstoj, che
analizza sul piano letterario,
filosoficoedeticoinrelazione
allalorocapacitàdiesplorare
emettereanudolaveritàpiú
profonda dell’io, in maniera
quasi inconsapevole. E non
sorprende che in una delle
interviste Coetzee dichiari di
sentirsi
sdoppiato,
combattutotrailcinismoela
grazia, come accade ne I
demoni, nel confronto tra
Stavrogin e Tichon. Il
dibattito tra la persona che
era,echeinparteèancora,e
quella che avrebbe voluto
essere è ciò che lui definisce
lo «spazio di verità»
dell’autobiografia.
Un
dibattito incompiuto che
sembra essere alla base del
suo piú recente romanzo,
Tempo d’estate (2010), terza
parte di una singolare
autobiografia cchesisviluppa
a partire dalle domande che
un critico inglese rivolge,
dopo la morte dello scrittore,
apersonechehannoavutoun
ruolo, per quanto fugace,
nella sua vita in un periodo
anteriore alla sua fama e al
premio Nobel. Ma non è il
ritrattodell’artistadagiovane
quellochepuòcostruirsidalle
loro risposte né tantomeno
dai frammenti di diario dello
scrittore, che resta fino alla
fine un soggetto elusivo e
inconoscibile
come
il
personaggio di un romanzo
modernista.
Le successive raccolte di
saggi–WhiteWriting, in cui
Coetzee analizza la presenza
dell’ideologia «bianca» nella
letteratura sudafricana delle
origini, e Giving Offense che
riunisce vari interventi sul
tema della censura –
esplorano ambiti nettamente
definitiemaggiormentelegati
al retroterra culturale dello
scrittore.
La
«scrittura
bianca» non si identifica tout
court con la scrittura dei
bianchi in Sudafrica quanto
piuttosto con un’ideologia
intrisa di pregiudizi nei
confronti della cultura nativa
chesimanifestafindaiprimi
resoconti dei viaggiatori
olandesi
verso
l’Africa
meridionale. Una terra che,
fin dall’epoca dei primi
insediamenti europei nel
1652, invece di essere
percepita
come
nuovo
paradiso in terra è descritta
come sua negazione, in cui
persino gli agricoltori boeri,
generalmente operosi, si
riducono allo stato ozioso e
degenerato degli ottentotti.
L’«indolenza»degliafricani–
lalororesistenzaall’ideologia
del lavoro – è forse il piú
persistente luogo comune sui
costumideinatividellaprima
antropologia e dei vari
osservatori
del
mondo
africano che Coetzee qui
prova a ribaltare leggendolo
come
sfida
all’etica
capitalistica. Nella lettura del
genere
nostalgico
per
eccellenza che è il romanzo
afrikaner di ambientazione
rurale, accanto ai ricorrenti
pregiudizi Coetzee sottolinea
soprattutto i silenzi, come
quello sul lavoro dei neri,
dovuta
al
«fallimento
dell’immaginazione davanti
alla difficoltà di integrare i
neridiseredatinell’idillio[…]
o
nell’anti-idillio
del
pastoralismo
africano».
Anchenellarappresentazione
del paesaggio come qualcosa
di estraneo, indifferente, non
compreso, nel romanzo e
nella poesia sudafricana
bianca Coetzee legge una
sostanziale
mancanza
d’amore per il paese e le
persone e la paura del
«desiderio di abbracciare il
corpo
dell’Africa»,
mascherata da amore per la
terra,«ciòchemenodituttiè
in grado di ricambiare
l’amore: montagne, deserti,
uccelli,animali,fiori».
Tema pervasivo dei saggi
diGivingOffenseèlacensura
considerata come istituzione
giuridica e come pratica di
oppressione oltre che come
filosofia, estetica e prassi
politica.Inunlungoexcursus
storico
sul
sentimento
dell’indignazione
e
del
sentirsi
offesi
spesso
all’originedellalegittimazione
dell’atteggiamento censorio
fino ai nostri giorni, Coetzee
denuncia la censura come la
passione triste di passati
regimi
oppressivi
surrettiziamente riproposta
negli Stati Uniti in alcuni
rigurgiti conservatori della
critica femminista sul tema
della pornografia e del
discorsopolitically correct. In
difesa dell’illimitata libertà di
espressioneCoetzeesiappella
tral’altroallevirtúerasmiane
del dubbio e della tolleranza,
mostrando
come
ogni
condizionamento imposto
all’espressione artistica risulti
in
una
forma
di
impoverimento dell’arte. Tra
gli esempi presi in esame
spiccano i saggi dedicati al
poeta polacco Zbigniew
Herbert e al poeta afrikaner
Breyten Breytenbach. Un
discorso a parte riguarda il
processo per oscenità del
romanzo di D. H. Lawrence
L’amante di Lady Chatterley,
del 1928, che gli inglesi
poterono leggere in versione
integrale solo nel 1960,
quando
appunto
la
pubblicazione nei Penguin
Books portò al celebre
processo.Letestimonianzedi
noti intellettuali, vescovi e
lettori comuni che negarono
l’oscenità
dell’opera
esaltandone il valore morale
ed educativo risultò nella
riabilitazione
e
canonizzazione del romanzo
maCoetzeeritienechequesto
ne
sminuí
la
carica
drammatica e trasgressiva. E
richiamandosi a un’altra
celebre opera sottoposta a
censura riafferma la vitalità
del tabú trasgredito: «I lacci
del corsetto di Emma Bovary
sibilano
come
serpenti
mentre lei si spoglia; se quel
momento mantiene la sua
forza scandalosa, vuol dire
che qualcosa è stato evocato,
qualcosaèstatotrasgredito».
PAOLASPLENDORE
aSuccessivamentepubblicaaltri
due volumi, Spiagge straniere.
1993-1999eLavori di scavo. 20002005, editi in italiano da Einaudi,
incuisitrovanoraccolte,accantoa
saggi e prefazioni, soprattutto le
recensioni apparse sulla «New
YorkReviewofBooks».
b Nel 1974 esce il primo
romanzo Terre al crepuscolo, cui
fanno seguito Nel cuore del paese
(1977), Aspettando i barbari
(1980), Vita e tempo di Michael K
(1983), Foe (1986), Età di ferro
(1990), tutti editi in italiano da
Einaudi.
c I primi due volumi sono
Infanzia(2001)eGioventú(2004).
Isaggi:L’indolenzainSudafrica
(Idleness in South Africa, prima
apparizione in «Social Dynamics»,
n. 8/1, 1982); Romanzo rurale e
«plaasroman» (Farm Novel and
Plaasroman, prima apparizione in
«EnglishinAfrica»,n.13/2,1986);
Leggere il paesaggio sudafricano
(Reading the South African
Landscape) sono tratti da White
Writing. On the Culture of Letters
in South Africa (Yale University
Press,NewHaven1988).
Le interviste con David Attwell
(Beckett: Interview; Retrospect:
Interview)eisaggi:SamuelBeckett
e la tentazione dello stile (Beckett
andtheTemptationsofStyle,prima
apparizione in «Theoria», n. 41,
1973); Capitan America nella
mitologia americana (Captain
America in American Mythology,
prima apparizione in «University
ofCapeTownStudiesinEnglish»,
n.6,1976);Appuntisulrugby(Four
NotesonRugby,primaapparizione
in«Speak1»,n.4,1978);Strutture
triangolari del desiderio nella
pubblicità(TriangularStructuresof
Desire in Advertising, prima
apparizionein«CriticalArts»,n.1,
1980);
Ricordi
del
Texas
(RememberingTexas,pubblicatola
primavoltasulla«NewYorkTimes
Book Review» con il titolo How I
Learned about America and Africa
in Texas il 15 aprile 1984);
Confessione e doppio pensiero:
Tolstoj, Rousseau, Dostoevskij
(Confession and Double Thoughts:
Tolstoy, Rousseau, Dostoevsky,
prima
apparizione
in
«Comparative Literature», n. 37,
1985); Nella stanza buia (Into the
Dark Chamber: the Writer and the
South African State, prima
apparizione in forma ridotta sulla
«New York Times Book Review»
del 12 gennaio 1986); Discorso di
accettazione del Jerusalem Prize
(Jerusalem
Prize
Acceptance
Speech, discorso pronunciato a
Gerusalemme nell’aprile 1987)
sono tratti da Doubling the Point.
EssaysandInterviews, a cura di D.
Attwell (Harvard University Press,
Cambridge1992).
«L’amantediLadyChatterley»e
lo stigma della pornografia (Lady
Chatterley’s Lover: the Taint of the
Pornographic,unaprimaversioneè
apparsa su «Mosaic: A Journal for
the Interdisciplinare Study of
Literature»,n.21/1,1988coltitolo
The Taint of Pornographic:
Defending
(against)
Lady
Chatterley); Zbigniew Herbert e la
figura del censore (Z. Herbert and
theFigureoftheCensor,unaprima
versione del saggio è apparsa in
«Salmagundi»,nn.88-89,1990-91);
BreytenBreytenbacheillettoreallo
specchio (Breytenbach and the
Reader in the Mirror, una prima
versione del saggio è apparsa in
«Raritan»,
n.
10/4,
1991.
Ristampata su concessione di
«Raritan: a Quarterly Review», ©
1991byRaritan,31MineSt.,New
Brunswick,N.J.08903);Indignarsi
(Taking Offense) sono tratti da
Giving Offense. Essays on
Censorship (The University of
ChicagoPress,Chicago1996).
1 J. M. Coetzee, Statistical Indices
of «Difficulty», in «Language
and Style», 2, n. 3, 1969, pp.
226-32.
2Id.,recensionediW.Fucks,Nach
allen Regeln der Kunst, in
«Style»,5,n.1,1971,pp.92-94.
3 Id., Samuel Beckett «Lessness»:
AnExerciseinDecomposition,in
«Computers
and
the
Humanities» 7, n. 4, 1973, pp.
195-98.
4 Id., Surreal Metaphors and
Random Processes, in «Journal
of Literary Semantics», 8, n. 1,
1979,pp.22-30.
5 H. Kenner, Samuel Beckett: A
Critical Study, University of
California Press, Berkeley 1968,
p.132.
6 J. M. Coetzee, Nabokov’s «Pale
Fire»andthePrimacyofArt,in
«University of Cape Town
Studies in English», n. 6, 1974,
pp.1-7.
7 R. M. Rilke, A Witold von
Hulevicz,inDelpoeta,acuradi
N. Sàito, Einaudi, Torino 1955,
pp.99-100.
1S.Beckett,Immaginazionemorta
immaginate,inRacconti e prose
brevi, Einaudi, Torino 2010, p.
192. Nella traduzione italiana
non è stata resa la rima
azure/verdure cui accenna
Coetzeepiúoltre[N.d.T.].
2 Id., L’innominabile in Trilogia.
Molloy,
Malone
muore,
L’innominabile, trad. di A.
Tagliaferri, Einaudi, Torino
1996,p.323.
3«Èmezzanotte.Lapioggiasferza
i vetri. Non era mezzanotte.
Non pioveva affatto», ibid., p.
192[N.d.T.].
4Ibid.,p.414.Latraduzioneèstata
lievementemodificata.
5Ibid.,p.333.
6
Ibid.,p.376.
7Beckett,Bing,inRaccontieprose
brevicit.,p.207.
8Id.,Senza,ibid.,p.210.
9Id.,SixResidua,Calder&Boyars,
London 1972. La versione
italiana dei sei testi è inclusa in
Racconti e testi brevi cit.
[N.d.T.].
10 Id., Watt, a cura di G. Frasca,
Einaudi, Torino 1998, pp. 11213.
11Ibid.,p.160.
12 Citato in L. E. Harvey, Samuel
Beckett on Life, Art, and
Criticism,in«ModernLanguage
Notes»n.80,1965,p.555.
13 G. Flaubert, lettera a Louis
Bonenfant,12dicembre1856,in
Correspondance, a cura di J.
Bruneau,Gallimard,Paris1980,
vol.II,p.652.
14 Id., lettera a Louise Colet, 16
gennaio1852,ibid.,p.31.
15 S. Beckett, Lettera tedesca del
1937,inDisiecta.Scrittisparsie
un frammento drammatico, a
cura di A. Tagliaferri, Egea,
Milano1991,p.69.
16 S. Beckett, cit. in R. N. Coe,
Beckett,Oliver&Boyd,London
&Edinburgh1964,p.14.
17 S. Beckett, Tre dialoghi, in
Disiectacit.,p.205.
18 Del suo amico Bram van Velde
Beckett scrive che «è il primo a
riconoscerecheessereunartista
significa fallire, come nessun
altroosafallire,cheilfallimento
èilsuomondo»,ibid.,p.205.
1CapitanAmericaandtheFalcon,
pubblicato a New York dal
Marvel Comics Group, parte
della
Cadence
Industries
Corporation. Nel periodo
trattato in questo saggio, 197274, il testo era opera di Steve
Englehart e la grafica di Sal
Buscema (occasionalmente era
firmata da Alan Lee Weiss).
China, lettering e colorazione
eranoacuradellacasaeditrice.
2 Freud: «L’Io è innanzitutto
un’entità corporea, non è
soltanto un’entità superficiale,
ma anche la proiezione di una
superficie». In nota Freud
aggiunge:«Cioèl’Iopuòdunque
venir considerato come una
proiezione
psichica
della
superficiedelcorpo»,L’Ioel’Es
(1922),inOpere,vol.IX,Bollati
Boringhieri, Torino 1986, p.
488.
3
«Principio di prestazione: la
forma storica prevalente del
principiodellarealtà[diFreud].
La libido è stata deviata per
consentire
prestazioni
socialmente utili, e l’individuo
lavora per se stesso soltanto in
quanto lavora per l’apparato»,
H. Marcuse, Eros e civiltà,
Einaudi, Torino 1968, pp. 80 e
88.
4 Il numero 179 (novembre 1974)
ha per tema le reazioni di
Capitan America allo scandalo
Watergate.
1
J. Huizinga, Homo ludens,
Einaudi,Torino2002,p.10.
1R.Girard,Menzognaromanticae
verità romanzesca, trad. di L.
Verdi-Vighetti,
Bompiani,
Milano 2005. Citato nel testo
comeMR.
2
Id.,Laviolenzaeilsacro,trad.di
O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi,
Milano1980.
3 Id., To Double Business Bound,
JohnsHopkinsUniversityPress,
Baltimore1978,p.66.Citatonel
testocomeDB.
4A.deTocqueville,Lademocrazia
in America, a cura di G.
Candeloro,Bur,Milano1998.
5 M. Scheler, Ressentiment (1915),
trad.diB.Holdheim,FreePress,
NewYork1961,pp.60-77[trad.
it. Il risentimento nella
edificazione delle morali, Vita e
Pensiero,Milano1975].
6F.Inglis,TheImageryofPower:A
Critique
of
Advertising,
Heinemann, London 1972, p.
78.
1Agostino,Leconfessioni,acuradi
M. Bettetini, Einaudi, Torino
2002,pp.51e59.
2 F. R. Hart definisce, in un utile
saggio
classificatorio,
la
confessione come «la storia
personale che cerca di
comunicare
o
esprimere
l’essenza, la verità dell’io»,
l’apologia come «la storia
personale che cerca di
dimostrare
o
realizzare
l’integrità dell’io» e il memoir
come «la storia personale che
cerca di articolare o di
riappropriarsi della storicità
dell’io».Perciò«laconfessioneè
ontologica, l’apologia etica, il
memoir storico o culturale»,
Notes for an Anatomy of
Modern Autobiography, in New
Directions in Literary History, a
cura di R. Cohen, Johns
Hopkins University Press,
Baltimore1974,p.227.
3
Per esempio nei saggi
Dell’esercizio(libroII,cap. VI )e
Della presunzione (libro II, cap.
VII ). Nel libro III, cap. v,
Montaignedichiara:«mivedoe
m’indago fin nelle viscere», M.
deMontaigne,Saggi,acuradiF.
Garavini,Adelphi,Milano2002,
2voll.,pp.1123-24.
4
Si veda P. M. Axthelm, The
Modern Confessional Novel,
Yale University Press, New
Haven1967.
5 È interessante notare come
Oswald Spengler, citando il
rimpianto di Goethe per la
confessione auricolare abolita
dal protestantesimo, sostenga
che, dopo la Riforma,
l’incanalarsi
nelle
arti
dell’impulso confessionale fu
inevitabile, ma anche che, in
assenza del confessore, non si
potevaimpedirealleconfessioni
di diventare «interminabili», Il
tramonto
dell’Occidente,
Guanda,Milano1991.
6 L. N. Tolstoj, SonataaKreutzer,
trad. di G. Pacini, Feltrinelli,
Milano 2010, p. 34. Le mie
citazionidalrussosonotratteda
Kreitserova sonata, in id.,
Sochineniya,IV,Berlin1921,pp.
160-293.
7Id.,Postilladell’autore,inSonata
aKreutzercit.,pp.125-42.
8 D. Davie, Tolstoy, Lermontov,
and Others, in Russian
Literature and Modern English
Fiction, a cura di D. Davie,
University of Chicago Press,
Chicago1965,p.164.
9 T. G. S. Cain, Tolstoy, Elek,
London1977,pp.148-49.
10 Quando Pozdnyšev si fidanza,
come già Levin in Anna
Karenina, mostra alla futura
sposa i suoi diari intimi che lei
legge orripilata. Per ambedue i
romanzi
Tolstoj
attinge
all’episodio
autobiografico
quando diede in lettura i suoi
diariallafidanzata,SonyaBehrs.
Nella sua biografia di Tolstoj,
Henry Troyat descrive la parte
giocata
dai
diari
nel
matrimonio.
Citando
un’annotazione del 1863:
«Quasi ogni parola del suo
quaderno è una forma di
prevaricazione e di ipocrisia. Il
pensiero che lei [Sonya] sia
ancora qui, a leggere alle mie
spalle, soffoca e distorce la mia
sincerità», Troyat commenta
che le «confessioni private» che
la coppia registrava nei propri
diari
«diventavano
inconsciamente soggetti di
accusa e difesa dell’uno contro
l’altro. Quando la fama di
Tolstoj crebbe e fu chiaro che
ungiornoisuoidiarisarebbero
diventati pubblici, la questione
di che cosa lui potesse scrivervi
divenne materia di contesa. A
volte la moglie annota che lui
nel suo diario la insulta.
Nell’ultimo anno di vita Tolstoj
tenneundiariosegretonascosto
nellostivale,chelamogliescovò
mentre lui dormiva. H. Troyat,
Tolstoy,
Penguin,
Harmondsworth1970.
La contessa Tolstoj considerava
La sonata a Kreutzer né
un’opera di fantasia né un
sermone ma un attacco
personale «diretto a me per
[offendermi] e [umiliarmi] agli
occhi del mondo». In risposta
scrisse un romanzo in cui
denunciava
Tolstoj,
il
predicatore del celibato, come
un bruto sessuale, e a stento si
riuscíaimpedirledipubblicarlo.
[IlromanzodiSof′jaTolstaja,in
rispostaaLa sonata a Kreutzer,
èstatopubblicatopostumoein
italiano è uscito con il titolo
Amore colpevole, trad. di N.
Cicognini,LaTartaruga,Milano
2009,N.d.C].
11 R. M. Rilke, lettera del 21
ottobre 1924, in H. Gifford (a
cura di), Tolstoy: A Critical
Anthology,
Penguin,
Harmondsworth1971,p.187.
12 W. C. Spengemann, The Forms
of
Autobiography,
Yale
University Press, New Haven
1980,p.15.
13 L. N. Tolstoj, La confessione,
trad. di G. Pacini, SE, Milano
2000,p.28.
14 Id., Anna Karenina, trad. di A.
Alleva, Mondadori, Milano
2007.
15
L’uomo «conosce se stesso
dunque per effetto e in
conformità della natura del suo
volere: e non già vuole […] per
effetto e in conformità del suo
conoscere»,A.Schopenhauer,Il
mondo come volontà e
rappresentazione, a cura di C.
Vasoli, Laterza, Bari 1991, vol.
II,p.388.
16 M. Arnold, Count Leo Tolstoy,
in Essays in Criticism, London
1888,p.283.
17
L. Tolstoj, Life, trad. di R.
Edmonds,
Penguin,
Harmondsworth1954,p.829.
18 V. V. Zenkovsky, A History of
Russian Philosophy, Routledge,
London1953,vol.I,p.391.
19
Cit.inCain,Tolstoycit.,p.9;M.
Gorky,Reminiscences of Tolstoj,
Chekhov and Andreev, trad. di
K.Mansfield,S.S.Kotelianskye
L. Woolf, Hogarth Press,
London1968,p.30.
20 J.-J. Rousseau, Le confessioni,
Einaudi, Torino 1978, trad. di
M. Rago. Le citazioni dal
francese sono tratte da Œuvres
complètes, vol. I, a cura di B.
Gagnebin e M. Raymond,
Gallimard,Paris1959.
21
P. de Man, Allegorie della
lettura, a cura di E. Saccone,
Einaudi,Torino1997.
22Sitrattadiunastrategiacomune
in Rousseau. Per esempio:
«lungi dall’aver taciuto nulla,
dissimulato nulla che fosse a
mio carico, per un giuoco della
mente che a fatica mi spiego, e
che
deriva
forse
dalla
ripugnanza a ogni imitazione,
mi sentivo piuttosto portato a
mentire nel senso contrario,
accusandomi con un eccesso di
severità,chescusandomiconun
eccesso d’indulgenza; e la
coscienza mi assicura che un
giorno sarò giudicato meno
severamente di quanto non mi
sia giudicato io stesso. Le
passeggiate solitarie, Quarta
passeggiata, in J.-J. Rousseau,
Opere, a cura di P. Rossi,
Sansoni,Firenze1989,p.1343.
23 De Man, Allegorie della lettura
cit.,p.267.
24
Si veda ad esempio il secondo
Essay upon Epytaphs di
Wordsworth (1810): «Dove [il]
fascino della sincerità si
nasconde nella lingua di una
lapide e segretamente la
pervade, non ci sono errori di
stile o di tono per cui
rappresentasempre,inuncerto
senso,unagratificazione»,Prose
Works,acuradiW.J.B.Owene
J. W. Smyser, Clarendon Press,
Oxford1974,vol.II,p.70.
25
SivedaadesempioT.S.Eliot,I
poeti metafisici (1921): «Una
teoria filosofica, entrata che sia
nella poesia, è “provata” perché
daun lato lasua verità o falsità
cessa di avere importanza e
dall’altro la sua verità ne esce
dimostrata», in id., L’uso della
poesiael’usodellacritica,acura
di R. Sanesi, Bompiani, Milano
1974,p.194.
26 J. Starobinski, Jean-Jacques
Rousseau. La trasparenza e
l’ostacolo, il Mulino, Bologna
1982,p.270.
27Ibid.,p.299.
28Annalescit.ibid.,p.303.
29
Starobinski,
Jean-Jacques
Rousseaucit.,p.310.
30 Benché qui sia una facile
eloquenzaatradireRousseau,la
lingua dell’Altro da cui lui piú
spesso si sforza di liberarsi è
quella di La Rochefoucauld, La
BruyèreePascal.ScriveMargery
Sabin: «I grandi prosatori della
Francia del diciassettesimo
secolo fondarono una lingua
autorevole di descrizione
psicologica che prese forza
proprio dal carattere pubblico
della lingua». Rousseau porta la
suaprotestacontrolalinguadel
sentimento, dice Sabin, a «ogni
livello dell’opera, persino nelle
implicazioni della sintassi e i
significati delle singole parole».
Fornisce quindi un’analisi
esemplare dello stile di
Rousseau nella sua descrizione
deisuoisentimentiperMmede
Warens,incuilefrasi«ruotano
intorno» a quel sentimento
elusivo piuttosto che centrarlo.
«Se le sue emozioni restano
elusive, confuse, parossistiche –
bene, lo stile sostiene che è
questa la vera natura della sua
vita interiore», in English
Romanticism and the French
Tradition, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.) 1976,
pp.19e29.
31L’episodioèraccontatonellibro
VII,tomoI.
32
Starobinski ritiene che
Rousseau, per chiarire la sua
psicologia, usi in primo luogo
«ilprincipiodell’immediatezza»,
ma quasi subito questo
principio «assume il valore di
unagiustificazionesuperiore,di
unimperativomoraleanchepiú
stringente delle normali regole
del giusto e dell’ingiusto» (p.
175).Inrealtà,nelbranodame
considerato,nonsiattribuisceal
principio una connotazione
morale.
33 Per esempio nella discussione
della sua «avarizia» durante la
permanenza presso Mme de
Warens, o della sua antipatia a
pagareperilsesso(libriV,VII,
tomoI,p.188).
34J.Derrida,Dellagrammatologia,
a cura di G. Dalmasso e S.
Facioni, Jaca Book, Milano
1998.
35Sipotrebbeobiettarecheiostia
discriminando
troppo
nettamente
tra
l’essere
consapevoli di una verità «piú
profonda» e il non esserlo,
ignorando le gradazioni e le
sfumature dell’autoinganno che
si verificano tra gli estremi di
innocenza e menzogna. Ma
come riconosce tra gli altri
Michel Leiris, l’autobiografo
sfida se stesso alla maniera in
cuifailtoreroconiltoro:nonci
sono scuse per la sconfitta. Età
d’uomo, trad. di A. Zanzotto,
Mondadori,Milano1980.
36 Devo la spiegazione del
meccanismo dell’autoinganno a
H. Fingarette, Self-Deception,
Routledge, London 1969, pp.
86-87.
37D.Hume,Trattato sulla natura
umana, Opere filosofiche I,
Laterza,Bari2008.
38F.Dostoevskij,Umiliatieoffesi,
trad. di C. Coïsson, Einaudi,
Torino1965.
39
Questa è sostanzialmente la
posizione sostenuta da Alex de
JongeinDostoevskyandtheAge
of Intensity, Secker & Warburg,
London 1975. Secondo la sua
tesigranpartedeipersonaggidi
Dostoevskij che si confessano –
tra cui Valkovskij, Marmeladov
eSvidrigailov–aderisconoaun
«cultodell’intensità»fondatoda
Rousseauchesibasasulpiacere
masochista
dell’autodenigrazione. De Jonge
considera Dostoevskij uno
psicologo della confessione che
esplora i modi in cui individui
privi di consapevolezza di sé
come di sensi di colpa, e senza
alcun interesse per la verità,
usano l’autorivelazione come
strumentodipotereedipiacere.
40 Michail Bachtin sostiene che il
romanzo di Dostoevskij sia una
forma di satira menippea, un
miscuglio di finzione narrativa,
dialogo filosofico, confessione,
agiografia, fantastico e altri
elementi
generalmente
incompatibili. Bachtin sostiene
che Dostoevskij utilizza anche
l’antica tradizione europea del
Carnevaleincui,abbandonatele
regole sociali consuete, i
rapporti umani sono governati
dalla piú totale sincerità.
Dostoevskij cit., cap. 4. Per
Bachtindunquelaconfessioneè
in primo luogo un elemento
strutturale del romanzo di
Dostoevskij, sebbene egli poi
analizzi
l’atteggiamento
«dialogico» verso il sé dei
narratori in prima persona di
Dostoevskij,incuil’iodiventail
suostessointerlocutore(cap.5).
41 F. Dostoevskij, Memorie del
sottosuolo, trad. di A. Polledro,
Einaudi, Torino 1988, p. 8. La
metafora
dell’autoconsapevolezza come
malattia diventa un luogo
comune nell’Europa degli anni
Sessanta
dell’Ottocento.
«L’autoanalisi
[…]
è
immancabilmente sintomo di
unmalessere»,scrivevaThomas
Carlylenel1831:soloquandola
«febbre dello Scetticismo» si
sarà consumata […] ci sarà
«chiarezza,
salute»,
Characteristics, in Critical and
Miscellaneous Essays, London
1899,vol.III,pp.7e40.Siveda
anche Geoffrey H. Hartman,
Romanticism and «Anti-Self-
Consciousness», in Romanticism
and Consciousness, a cura di H.
Blooom, Norton, New York
1970,pp.46-56.
42SullaprimapartediMemoriedel
sottosuolo letta come critica al
Nichilismo degli anni Sessanta
dell’Ottocento si veda J. Frank,
Nihilism and Notes from
Underground, in «Sewanee
Review»,n.69,1961,pp.1-33.
43
«Dichiarounavoltapersempre
che, anche se scrivo come
rivolgendomi a dei lettori, è
unicamente e soltanto per
mostra, perché cosí mi è piú
facile scrivere […] quanto ai
lettori,nonneavròmai»(p.41).
44 «La preoccupazione metafisica
per il fine dell’Uomo si realizza
negli attributi piú formali della
struttura dei romanzi [di
Dostoevskij],laformanarrativa.
Questoperchéluifutraiprimi
a riconoscere che il destino
dell’uomo non poteva essere
disgiunto dal problema di cosa
potesse costituire una storia
autentica»,
M.
Holquist,
Dostoevsky and the Novel,
Princeton University Press,
Princeton1977,p.194.
45F.Dostoevskij,L’idiota, trad. di
A. Polledro, Einaudi, Torino
1994.Leindicazionidellepagine
sono inserite nel testo. Le mie
citazionidalrussosonotratteda
Idiot, Kartya Moldovenyaske,
Kishinev(Ussr)1970.
46
Il paradosso del seme è
probabilmente ripreso dal
Vangelo secondo Giovanni
12,24: «In verità, in verità vi
dico: se il granel di frumento,
cadendo in terra, non morrà,
rimarrà esso solo; ma se morrà,
apporterà gran frutto». Il
versettoècitatoinepigrafediF.
Dostoevskij,
I
fratelli
Karamazov, trad. di A. Villa,
Einaudi,Torino1962,2voll.
47 «La piena libertà ci sarà solo,
quando sarà indifferente vivere
o non vivere […] chi vincerà il
doloreelapaura,quellodiverrà
Dio […] chiunque voglia la
libertà suprema, deve avere il
coraggiod’uccidersi[…]Chiha
il coraggio d’uccidersi, quello è
Dio», I demoni, trad. di R.
Kufferle, Mondadori, Milano
2000,pp.115-16.
48 Girard, Menzogna romantica e
veritàromanzescacit.,p.237.
49 Il paradosso inerente alla
nozione di autocompulsività
resta tuttavia valido. Nel
momento critico in cui
Stavrogin confessa «tutta la
verità», e cioè che vuole
perdonarsi, e chiede una
«sofferenza
infinita»,
Dostoevskij ritorna a una
psicologia dualistica in cui si
esprime un sé «interiore»:
Stavrogin parla «come se le
parole gli fossero uscite dalla
boccacontrolasuavolontà».
50Finchélametaregoladelgiocoè
che le regole non vengano
esplicitate – in realtà non
bisogna dichiarare che non ci
sonoregole,eneppureungioco
–imeccanismidell’autoinganno
nel gioco risultano ben descritti
daFingarette(vedinota36).
51 F. Dostoevskij, Diario di uno
scrittore, trad. di E. Lo Gatto,
Bompiani,Milano2007.
1
N. Hawthorne, La lettera
scarlatta, trad. di A. Busi e C.
Covito,inOperescelte,acuradi
V.
Amoruso,
Meridiani
Mondadori, Milano 1994, pp.
519e529.
2 S. Sepamla, Soweto (tit. orig. A
RideontheWhirlwind),trad.di
B. Armellin, Edizioni Lavoro,
Roma1989,pp.214,215e268.
3 M. Serote, To Every Birth its
Blood, Heinemann, London
1981.
4
A. La Guma, In the Fog of the
Seasons’ End, Heinemann,
London1972.
5 B. Breytenbach, Le veritiere
confessionidiunafricanoalbino,
trad.diM.T.Carbone,Costa&
Nolan,Genova1989,p.198.
6N.Gordimer,LafigliadiBurger,
trad. di E. Capriolo, Feltrinelli,
Torino1995,pp.205e206.
1
O. F. Mentzel, A Geographical
and Topographical Description
of the Cape of Good Hope, Van
Riebeck Society, Cape Town
1944,vol.I,pp.281e288.
2Cit.inR.Raven-Hart,CapeGood
Hope1652-1702,Balkema,Cape
Town1971,vol.II,p.259.
3 Solo tre viaggiatori parlano di
indolenza e tutti e tre non
perché l’abbiano riscontrata ma
per averla dedotta dal fatto che
gli ottentotti non praticano
l’agricoltura. Edward Terry,
1616; Augustin de Beaulieu,
1622; e Johan Wurfbain, 1646
(in R. Raven-Hart, Before Van
Riebeek: Callers at South Africa
from1488to1652,Struik,Cape
Town1967).
4 François Bernier (1620-88)
conclude che gli ottentotti sono
una «specie diversa» dai negri
dell’Africa. John Locke (16321704) comunque nota che
l’intelletto degli ottentotti è
simile a quello dei «bruti» solo
per via delle condizioni
ambientali. Buffon (1707-88)
asserisce che la distanza tra
l’ottentottoeilprimateèmolto
maggiore di quella tra
l’ottentotto e il resto degli
uomini. Johann Blumenbach
(1752-1840) sostiene che se è
vero che l’ottentotto può
apparirediuna«speciediversa»,
di fatto esiste «un solo tipo di
umanità», cit. in J. S. Slotkin,
ReadingsinEarlyAnthropology,
Methuen,London1965.
5M.Weber,L’eticaprotestanteelo
spirito del capitalismo, trad. di
A. M. Marietti, Bur, Milano
1997,p.217.
6
M. Foucault, Storia della follia
nell’età classica, Bur, Milano
1984,p.102.
7K.Marx,Manoscritti economicofilosofici del 1844, Einaudi,
Torino1968,p.125.
8
Van Riebeck allude all’indolenza
degliottentottisolounavoltain
undispaccioallaCameraindata
14 aprile 1653 in cui prega di
essere rimosso da quella gente
«stupida,pigraemaleodorante»
emandatoinGiappone,dovele
sue qualità potrebbero risultare
piú utili. Nei suoi diari non fa
cenno all’indolenza ottentotta
anche se i suoi successori
Wagenaar e Borghorst hanno
molto da dire su questo tema
ma condannano in particolare
l’indolenzadegliagricoltori.Cfr.
J.VanRiebeck,Journals,3voll.,
Balkema,CapeTown1952.
9
Reisebeschreibungen
von
deutschen
Beamten
und
Kriegsleuten im Dienst der
Niederländischen West- und
Ost-Indischen
Kompagnien,
1707-97, a cura di S. P.
L’Honoré Naber, vol. VII,
Nijhoff,TheHague1931,p.31.
10 N. Hawthorne, Il fauno di
marmo, Giunti, Firenze 1995,
trad.diF.Fantaccini,pp.4-5.
11
J.-J. Rousseau, Discorso
sull’origine e i fondamenti
dell’ineguaglianzatragliuomini,
Editori Riuniti, Roma 1972, pp.
108e140.
12
Sul retroterra classico riguardo
alconcettodioziosivedaS.De
Grazia, Of Time, Work, and
Leisure, Twentieth Century
Fund, New York 1962, pp. 1125.
13
Mentzel, A Geographical cit.,
vol.II,p.115.
14
Per un’eccezione a tante
opinioninegativesivedaSimon
de la Loubière, 1687: «In simile
povertà [gli ottentotti] sono
sempre allegri, sempre intenti a
cantare e a ballare, e a vivere
senza occupazioni né fatiche»
(in Raven-Hart, Cape Good
Hopecit.,vol.II,p.269).
15 Weber: «l’uomo “per natura”
non vuole guadagnare denaro e
sempre piú denaro, ma vivere
semplicemente, vivere come è
abituato a vivere, e guadagnare
tanto quanto è necessario.
Ovunqueintrapreselasuaopera
di
accrescimento
della
“produttività”dellavoroumano
mediante l’aumento della sua
intensità,
il
capitalismo
moderno urtò contro la
resistenzainfinitamentetenacee
ostinata di questo motivo
dominante
del
lavoro
economico pre-capitalistico»,
L’eticacit.,p.83.
16«Nididipigrizia»èl’espressione
usata nel 1849 dai magistrati
dellecolonienelleaccuserivolte
allemissioni.
17
La
prospettiva
della
degenerazione era già presente
in Mentzel nel 1787. A
proposito dei boeri che
«preferiscono vivere tra gli
ottentotti nelle zone desertiche
piúremote»esprimevailtimore
che se non avessero contratto
matrimoni con le nuove
popolazioni europee sarebbero
«degenerati e diverrebbero
incivili»comegliscotioisorabi
o gli sciti: già ora «sono di
natura feroce, di scarsa
istruzione, di pensieri meschini
e di condotta maleducata» (vol.
II,p.120).
18 J. W. D. Moodie, Ten Years in
South Africa, vol. I, London
1835,p.176.
19
J.E.Alexander,AnExpeditionof
Discovery into the Interior of
Africa, vol. I, London 1838, p.
70.
20J.S.Marais,TheCapeColoured
People,
1652-1937,
Witwatersrand Univ. Press,
Johannesburg1957,pp.130-31.
21Untipicosommariodicapitolo:
«Wesleyville – Suo delizioso
panorama – Seconda e terza
stazionemissionaria–Interpreti
eguide–Aneddotisuglielefanti
–Stranescene–Eloquenzadegli
ottentotti – Un’argomentazione
seria – Artificio – Critica e
umorismo – Giochi –
Divertimenti serali – Sparare
agliippopotami–IlfiumeKei–
L’Incagalo – Il capo kaffir e la
suacorte–Aneddoti»(C.Rose,
Four Years in Southern Africa,
London1829,p.X ).
22 W. Burchell, Travels in the
Interior of Southern Africa
(1822), vol. II, Batchworth,
London1953.
23 Marshall Sahlins descrive «il
caratteristico ritmo paleolitico
di una giornata o due di lavoro
alternataaunaoduediriposo»
(Stone
Age
Economics,
Tavistock, London 1974, p. 23).
Richard B. Lee osserva, a
propositodellacacciadigruppo
praticatadaiboscimanidiDobe,
che
una
percentuale
sorprendentemente alta della
loro dieta è costituita da
alimenti vegetali raccolti dalle
donne(MantheHunter,Aldine,
Chicago 1968, p. 33). Richard
Elphick discute gli effetti di
abitudini
«completamente
sconosciute» sulla formazione
deipregiudizieuropeicontrogli
ottentotti (Kraal and Castle,
Yale University Press, New
Haven1977,pp.193-200).
24 M. Foucault, Sorvegliare e
punire,Einaudi,Torino1976,p.
246.
Non tutti i rimandi bibliografici
contenuti nel testo sono stati
inseritiinnota[N.d.C.].
1
O. Schreiner, Storia di una
fattoria africana, trad. di R.
Duranti, Giunti, Firenze 1986,
pp.11e14.
2 P. Smith, The Beadle, Cape,
London1926,p.81.
3
Il Gran Karoo appare
particolarmente desolato nel
racconto Desolation contenuto
in The Little Karoo. Dagli
accenni topografici contenuti
nel testo, l’ambientazione del
raccontosembraessereilKoup,
la parte piú arida e piatta del
Karoo. Quando Smith descrive
il Gran Karoo, sembra pensare
appuntoalKoup.
4 A. Macfarlane, The Origins of
English
Individualism,
Blackwell, Oxford 1978, pp. 3233.
5 J. Barrow, Travels into the
Interior of Southern Africa, vol.
I,London1806,pp.27-29.
6 G. Sturt, Change in the Village,
Kellog,NewYork1969,p.133.
7 P. V. Marinelli, Pastoral,
Methuen,London1971,p.59.
8W.J.Keith,TheRuralTradition,
University of Toronto Press,
Toronto1974,p.150.
9R.Williams,TheCountryandthe
City,Chatto&Windus,London
1973,p.35.
10 C. M. van den Heever, Die
Afrikaanse gedagte, Van Schaik,
Pretoria1935,p.16.
11D.F.Malherbe,Die Meulenaar,
Nasionale Pers, Bloemfontein
1926,p.68.
12
J. van Melle, Dawid Booysen,
Van Schaik, Pretoria 1933, p.
198.
1
Thealoerearshercrimsoncrest,
| Like stately queen for gala
drest; | And the bright-
bossomed bean-tree shakes | Its
coraltuftsabovethebrakes.
2Kareigawindsitsdeviouscourse
along | Between its willow’s
banks; while here and there |
The dark leav’d yellow wood
lifts its proud head | In stately
dignity (A Reminiscence of
1820).
3 Region bereft of the laughter of
grass and its joy-giving
greenness, | Barren of still
woods dreaming Narcissus-like
over their shade. | Alien to you
isthemusicthatgladdenedEve
in her Eden – | Harping of
minstrel-rivers, fluting of lightfootedrills(TheKarroo).
4Atnoontidethesunchastisesthe
plain in his anger, | Heat-rays
flicker aloft, like chaff from a
winnowing-floor; | Glittering
heat-waves leap, like spray that
istossedbythesurges,|Leaping
they shiver and sparkle silently
floodingtheplains.
5
Ragged brown carpet, vast and
bare, | Seamed with grey rocks,
scathed black with flame! |
Stage-carpet, foil to all that’s
fair.
6
«Whatcanyouyieldofdelightto
thosewho[…]|Seekforelusive
Beauty,craveforthespellofher
voice?
7 more integral | With rain-rinsed
sky and sandstone hill | Than
any cadence wrung | From my
tauttongue(ServantGirl).
8
Herfs in Holland, che rende le
scene autunnali in Olanda, e
non in Sudafrica, è la poesia
paesaggistica piú ortodossa di
VandenHeever.Ladescrizione
delpaesaggioinVanWykLouw
è decisamente superficiale,
anche in Vier gebede by
jaargetye in die Boland. Solo la
giovanile Dennebosse si può
leggere come una poesia
paesaggistica dal punto di vista
dell’intenzionepoetica.
9Shouldersofquartz[protruding]
from the hill | Like sculpture
halfunhearted.
10 I have not found myself on
Europe’s maps […] | I must go
backwithmyfivesimpleslaves|
To soil still savage, in a sense
stillpure:|Myloveless,shallow
land of artless shapes | Where
no ghosts glamorize the recent
graves | And every thing in
Space and Time just is: | What
similes can flash across those
gaps | Undramatized by sharp
antithesis?(HomeThoughts).
11tenthousandsun-struckcicadas
ecstatically screaming; | near
and far hundreds of doves in
relays|imperturbablyrepeating
themselvestoeachother;|pine
woods sighing into the wind
from a thousand shimmering
needles; | wind already
burdened with the grumbling, |
perpetual, unpitied | crumbling
ofthesurf.
12
W. Wordsworth, Il preludio,
OscarMondadori,Milano1990,
acuradiM.Bacigalupo,libroI,
pp.586-640;libroI,pp.315-32,
libroXIII,pp.1-61.
13
I am not contemplative by |
nature but in nature […] |
Contemplative in nature means
|natureinme,mynature(Table
Mountain).
14 After the poem the coastline
took its place with a forward
look | toughly disputing the
right of the poem to possess it
[…] | The coast flashed up –
flashed,say,likeobjections|up
to the rocky summit of the
Sentinel | that sloped into the
sea | such force in it that every
linewasbroken.
15 Wordsworth, Il preludio cit.,
libroXI,p.174.
16 No lexicon, just one word
accomodates us, quickly said. |
No word is my dwelling place
[…] | Listen, listen among the
particles.|Avigilofthelandas
itappears.|Open,open.|Enter
the quick grain: everything is
first […] | I am the method of
thespeckandfleck.
17’nkafferstemklinkhardveroor
diewerf[…]|’nstofwolkgoudomlynrysbodiekraal,|patryse
skreeu daar ver; ’n sweepsklap
dwaal | deur die verlate lug in
egos aan. (C. M. Van den
Heever, Aand op die plaas).
Evening on the Farm: from far
across the farmyard comes a
kaffir voice […] | a cloud of
dust, outlined in gold, rises
above the kraal, | faroff
partridges call; the crack of a
whip | lingers in echoes in the
forsakenair.
18 Ci sono alcuni passi descrittivi
nelle poesie di H. I. E. Dhlomo
degli anni Quaranta del
Novecento,soprattuttopastiches
dipastoraleneoclassica,comein
Long have I worshipped thee:
«Laggiú i pastorelli intonano i
lorocantisilvani;|Esiaggirano
lenteemute,brucando,legreggi
screziate» (Yonder the herdboys sing their sylvan songs; |
And,croppinggrass,crawlmute
themotleyherds).
19absorbsimagination|Reflecting
nothing.
1
Come ha dimostrato David
Saunders, il criterio della
capacità di «depravare e
corrompere» deriva dalla
scienzamedicaeamministrativa
vittoriana nella sua missione di
controllo della salute morale
dellapopolazione,inparticolare
quella della classe operaia
urbana alfabetizzata. Quanto ai
nuovi punti relativi alla critica
letteraria contenuti nell’atto,
Saunders sottolinea come, oltre
ai due criteri suddetti, altri
quattro
argomenti
essenzialmente critico-letterari
siano stati usati dalla difesa e
accolti dalla corte. Copyright,
obscenityandliteraryhistory, in
«ELH», 1990, n. 57, pp. 438-39;
The Trial of Lady Chatterley’s
Lover, in «Southern Review», n.
15,1982,pp.165-70.
2 The Trial of Lady Chatterley, a
cura di C. F. L. Rolph, London
1961 (stampato privatamente),
pp.70-72,89-90e159.
3 L’amante di Lady Chatterley,
trad. it. di S. Melani, Garzanti,
Milano 1994, p. 277. Citato nel
testocomeALC.
4 À Propos of Lady Chatterley’s
Lover,MandrakePress,London
1930,pp.9-10.
5H.B.Tylor,citatodaM.Douglas,
Purezza e pericolo, il Mulino,
Bologna1975,p.34.
6The Trial of Lady Chatterleycit.,
p.98.
7
David Saunders, per esempio,
scriveapropositodel«grottesco
vecchiumedaconfessionale»del
prete e dell’editore che, durante
il processo del 1967 a Last Exit
toBrooklyn,testimoniaronoche
illibroavevaintesocorromperli.
The Trial of Lady Chatterley’s
Lovercit.,p.166.
8Ibid.,pp.253e255.
9 La forza del «linguaggio sporco»
che il guardacaccia utilizza con
Connieèancorapiúpalesenella
prima versione del libro. In un
episodio Parkin/Mellors prende
in giro l’uso di Connie di
chiamarlo«amante»eledicedi
essere il suo «stallone».
«“Stallone!” le disse, con un
lampo negli occhi, come se la
volesse colpire». The First Lady
Chatterley,Heinemann,London
1972, p. 108. Quest’aggressività
verbale non è diretta solo da
ParkinaConnie;comefanotare
Evelyn J. Hinz, esibendo quel
linguaggio osceno, Lawrence
mostra anche i denti ai suoi
lettori (inglesi). Pornography,
novel, mythic narration: the
three versions of Lady
Chatterley’s
Lover,
in
«ModernistStudies»,n.3,1979,
3,p.41.
10 Per i primi tre, cfr. D. H.
Lawrence, Selected Literary
Criticism, a cura di A. Beal,
Viking,NewYork1966,pp.2630, 32-51, citato nel testo come
SLC.
11 The Lady’s Dressing Room,
Cassinus and Peter, A Beautiful
Young Nymph Going to Bed e
StrephonandChloe,inComplete
Poems,acuradiP.Rogers,Yale
University Press, New Haven
1983, pp. 448-66 [trad. it. Lo
spogliatoiodellasignoraedaltre
poesie, Einaudi, Torino 1977, p.
9].
12 Per un’analisi dettagliata di
questi versi, cfr. T. B. Gilmore,
The
comedy
of
Swift’s
scatological poems, in «PMLA»,
n.91,1976,pp.33-41.
13Lawrencescrive:«C’èunapoesia
diSwift[...]scrittaaCelia,lasua
Celia – in cui ogni verso si
concludeconilrefraindelirante
e ossessivo: “Ma – Celia, Celia
caca!”», p. 29, Huxley pubblicò
il suo saggio su Swift nel 1929.
Cfr. On Art and Artists, a cura
di M. Philipson, Harper, New
York1960,pp.168-76.
14
Lettera a Lady Ottoline Morrell,
28dicembre1928,inLawrence,
SelectedLiteraryCriticismcit.,p.
26;IntroduzioneaPansies,ibid.,
p. 29; A propos of Lady
Chatterley’sLover,p.14.
15Cfr.,peresempio,D.Burnley,A
Guide to Chaucer’s Language,
University of Oklahoma Press,
Norman1983,cap.8.
16 In questo periodo Lawrence
scrive
palesemente
sotto
l’influenza di Frazer. Per Frazer
ciòchecaratterizzailselvaggioè
l’incapacità di distinguere fra
empietà e impurità. Come fa
notareMaryDouglas,relegando
l’impuritàalbagnoeallacucina,
il cristianesimo la trasforma in
un problema (laico) di igiene,
facendo della santità una
categoria puramente morale e
spirituale. Da questo punto di
vista – un punto di vista che
Lawrenceconlasuaformazione
cristiana non conformista
sembra
condividere
–
resuscitare ciò che dovrebbe
avereachefareconlasemplice
igiene come tabú, con tutta la
forza della religione (o della
superstizione), altro non è che
una regressione allo stadio
selvaggio.
17Cfr.TheTrialofLadyChatterley
cit., p. 221-24. Almeno un
osservatoreseneandòconvinto
chelagiurianonavessecoltole
allusionidelgiudiceistruttore.J.
Sparrow, Regina vs Penguin
Books Limited, in «Encounter»,
n. 18/2, febbraio 1962, pp. 3543.
18ScriveBataille:«Latrasgressione
organizzata insieme al tabú
fanno della vita sociale quello
cheè.Inrealtà,lafrequenzaela
regolarità delle trasgressioni
non
infirma
affatto
l’intangibilità del divieto, di cui
è
piuttosto
l’atteso
completamento [...] ovvero
come una esplosione che sia
provocata da una precedente
compressione.
Lungi
dall’obbedire all’esplosione, la
compressione le impartisce
energia». Bataille cita Sade: «Il
vero modo di estenderne e
moltiplicarneidesideri,consiste
nel tentare di imporgli dei
limiti», L’erotismo,
Oscar
Mondadori,Milano1972,pp.73
e56.
19 Accettando L’amante di Lady
Chatterleycomeunlibroosceno
erifiutandol’ideachel’oscenità
abbia bisogno di giustificarsi,
Miller conclude: è «un peccato
[...] che Lawrence abbia voluto
scrivere sul tema dell’oscenità,
perché
facendolo
ha
temporaneamente invalidato
tutto quello che aveva creato».
The World of D. H. Lawrence,
Capra Press, Santa Barbara
1980, pp. 175-77. La censura
può essere stata il nemico di
Lawrence,
scrive
Eugene
Goodheart, ma era «un nemico
necessario e corroborante»,
poiché serviva a difendere la
«forza
trasgressiva»
della
sessualità nei suoi libri.
Censorshipandself-censorshipin
D.H.Lawrence,inRepresenting
Modernist Texts, a cura di G.
Bernstein,
University
of
Michigan Press, Ann Arbor
1991,p.230.
1
M. Hayward, Writers in Russia
1917-1918, a cura di P. Blake,
Harcourt, Brace, Jovanovich,
NewYork1983,p.136.
2 S. Barańczak, The Gag and the
Word, in «Survey», 1980, 25, 1,
p.58.
3
M. Haraszti, The Velvet Prison:
Artists under State Socialism,
Basic Books, New York 1987,
pp.7e97.
4 Cit. in J. L. Curry, The Black
Book of Polish Censorship,
Random House, New York
1984,p.8.
5
S. Barańczak, My Ten
Uncensorable
Years,
in
Censorship
and
Political
Communication in Eastern
Europe, a cura di G. Schopflin,
StMartin’s,NewYork1983,pp.
113-14.
6 Id., Poems and Tanks, in
«TriQuarterly», n. 57, 1983, p.
53.
7 T. Konwicki, Interview: The
Delights of Writing under
Censorship, in «Index on
Censorship»,marzo1986,15,3,
p.30.
8 Konwicki cit. in J. C. Goldfarb,
On
Cultural
Freedom,
University of Chicago Press,
Chicago1982,p.90.
9Ibid.,p.90.
10 Citato in J. Trznadel, An
Interview
with
Zbigniew
Herbert, in «Partisan Review»,
1987,n.54,p.567.Sullacarriera
di Herbert si veda anche A.
Alvarez, Noble Poet, in The
Mature Laurel, a cura di A.
Czerniawski, Dufour, Chester
Springs (Pa.) 1991, pp. 163-71;
M.OramuseM.Szmidt,APoet
of Exact Meaning, in «PN
Reviews», 1982, 26, 8, 6, pp. 812; D. P. A. Pirie, Engineering
the People’s Dreams: an
Assessment of Socialist Realist
Poetry in Poland 1949-1955, in
TheMatureLaurelcit.,pp.13559.
11Z.Herbert,Rapporto dalla città
assediata, a cura di P.
Marchesani, Adelphi, Milano
1993, p. 31. Non tutte le poesie
citate sono presenti in questa
raccolta;quandononspecificato
la traduzione è di M. Baiocchi
[N.d.C.].
12Ibid.,p.116.
13Rapportocit.,pp.173-74.Report
fromtheBesiegedCityandOther
Poems,trad.diJ.eB.Carpenter,
OxfordUniversityPress,Oxford
1987,pp.10-11.Comeevidenzia
Stanisław
Barańczak,
lo
stoicismoacuiaderisceHerbert
in queste poesie e altrove, è piú
oscuro dello stoicismo classico.
Quest’ultimo identifica la virtú
conlanaturaefondalasuaetica
sull’armonia con essa; una fede
assente in Herbert. A Fugitive
from
Utopia,
Harvard
University Press, Cambridge
(Mass.)1987,p.118.
14
Haraszti, The Velvet Prison cit.,
p.145.
15
Nel suo libro di saggi sulla
Francia e sull’Italia del 1962,
Herbert emerge dalle grotte di
Lascaux
rafforzato
nella
convinzionediessere«cittadino
del mondo, erede non solo dei
GreciedeiRomanimadiquasi
tutto l’infinito». Piú oltre cita
favorevolmente T. S. Eliot:
«Nessun poeta, nessun artista
[…] ha un suo significato
completo da solo […] per
contrasto o per confronto lo
devi collocare tra i morti».
Barbarian in the Garden, trad.
di M. March e J. Anders,
Carcanet, Manchester 1985, pp.
16e78.
16Z.Herbert,SelectedPoems,trad.
di C. Milosz e P. Dale Scott,
Penguin,Harmondsworth1968,
pp.46-47.Citatoneltestocome
Milosz/Scott.
17 Goldfarb, On Cultural Freedom
cit.,p.92.
18SivedaMilosz/Scott,pp.68,74,
75 e 133. Che questa lettura
critica sia nelle intenzioni di
Herbert è confermato dalla sua
prudente ammissione che, nella
poesia Damaste detto Procuste,
vi è senza dubbio una certa
somiglianza tra Procuste e
Lenin. Si veda J. and B.
Carpenter, Zbigniew Herbert:
thePoetasConscience,in«Slavic
and East European Journal», n.
24,1980,pp.46-47.
19Rapportocit.,p.85.
20Ibid.,pp.195-96.
21AFugitivefromUtopia,p.119.
22
Il termine informel, presente
nella traduzione inglese, non si
trovainquellaitaliana[N.d.T.].
23
Rapportocit.,p.198.
24
Ibid.,p.160.
25
Ibid.
26
Con
questo
spirito,
nell’introduzione scritta nel
1973 per una selezione di sue
poesie, Herbert cita Cyprian
Norwid: «Che le parole
significhino
quello
che
significano,enonquellocontro
cui sono state usate» (citato in
Barańczak, A Fugitive from
Utopia,p.66).Allostessomodo,
si potrebbe citare Il Signor
Cogito e l’ immaginazione. Il
Signor Cogito «adorava le
tautologie|laspiegazione|idem
per idem | che l’uccello è
l’uccello|laschiavitúschiavitú|
il coltello è coltello | la morte
morte(Rapportocit.,p.181).
27Ibid.,p.62.
28
Baranczak, A Fugitive from
Utopiacit.,pp.12e64.
29Milosz/Scott,p.82.
30TheLongobards,inMilosz/Scott,
p.127.
31
Milosz/Scott,pp.35-37e82-83.
32
Rapportocit.,p.106.
33
Report from the Besieged City
cit.,pp.29-31.
34 Gardens of Stone: The Poetry of
Zbigniew Herbert and Tadeusz
Rozewicz,inThe Mature Laurel
cit.,p.178.
1
B.
Breytenbach,
Skryt,
Meulenhoff, Amsterdam 1972;
citato nel testo come S. Il
neologismo Skryt è un
composto di skryf (scrivere) e
skyt (merda). Richiama anche
stryd (lotta). L’afrikaans di
Breytenbach, pieno di giochi di
parole e neologismi, presenta
talvoltaostacoliinsuperabiliper
iltraduttore.
2A.P.Brink,Dievreemdebekende,
inWoordeteendiewolk, a cura
di A. J. Coetzee, Taurus,
Johannesburg1980,pp.1-2.
3J.Viviers,Breytenbach,Tafelberg,
CapeTown1978,p.59.
4Lazzaroappareperlaprimavolta
in Die ysterkoei moet sweet (La
mucca di ferro deve sudare),
Afrikaanse Pers Boekhandel,
Johannesburg 1964, pp. 6-7.
CitatoneltestocomeYMS.
5 Lettera dello straniero al
macellaio, trad. it. di E.
Sanguineti, in B. Breytenbach,
Poesie di un pendaglio da forca,
a cura di L. Betti e G. Raboni,
Associazione«FondoPierPaolo
Pasolini»,Roma1986,pp.34,35
e36.Laddovenondiversamente
specificato i versi citati sono
tradottidaM.Baiocchi[N.d.C.].
6 Breyten prega per Breyten, trad.
it.diE.Siciliano,inPoesiediun
pendaglio da forca cit., pp. 6162.
7
«Tiberius» Cave near Sperlonga
in Latium, in Kouevuur, Buren,
CapeTown1969,p.67.
8 Om te vlieg, Buren, Cape Town
1971, p. 29. Citato nel testo
comeOV.
9 Uno scritto analogo degli anni
Sessanta,Diemiernesswellop(Il
formicaio si gonfia), Taurus,
Johannesburg1980,sichiudein
modo simile gettando via la
maschera
della
finzione:
«Dovrebbeesserechiarocomeil
sole che vi sto incitando alla
Ribellione. È dovere dell’artista
rovesciare il governo […] Non
vedete che la poesia è una
bandiera di protesta […] che
non può essere un elegante
rifugio, piscio annacquato con
un aroma di derivazione
europea»(p.117).
10ASeasoninParadise,trad.diR.
Vaughan, Persea, New York
1980, p. 156. Citato nel testo
comeSP.
11JustBecause,ibid.,pp.253-55.
12M.Bachtin,Dostoevskij.Poetica
e stilistica, Einaudi, Torino
1968,pp.256,253e263.
13 B. Breytenbach, Le veritiere
confessionidiunafricanoalbino,
trad.it.diM.T.Carbone,Costa
& Nolan, Genova 1989, p. 142.
La prima edizione italiana di
quest’opera omette nel titolo il
termine
«terrorista»,
poi
reintegrato
nella
recente
ripubblicazione
per
Alet,
Confessioni di un terrorista
albino (2010), dove è tagliato
l’aggettivoveritiere[N.d.C.].
14 Eklips (Eclisse, 1983), ‘Yk’
(1983), Buffalo Bill (1984) e
Lewendood (Living-death; Lifeand-death, morte-vivente, vitae-morte), 1985, pubblicati tutti
dalla Taurus di Johannesburg.
In Yk che significa «visto si
stampi» c’è un ulteriore gioco
tra ek (io) e l’inglese ache
(dolore).
15PlaceofRefuge(inEklips,pp.3-
4) ne è un esempio estremo: il
nemico altro è demonizzato o
trasformato in bestia, le sue
parole diventano «un balbettio
idiota», e nessuna interazione è
possibileconlui.
16Lewendood,pp.143-44.
17BuffaloBill,p.115.
18AMirror-Verse,BuffaloBill,pp.
41-42.
19 Sulla genesi di Mouroir e
Veritiere confessioni, si veda S.
Egan, Breytenbach’s Mouroir:
The Novel of Autobiography, in
«Journal
of
Narrative
Technique», 1988, 18, n. 2, pp.
89-90.
20 Veritiere confessioni, pp. 9-10,
13e49.SivedaancheBoek:Deel
een,pp.III-IV .
21 S. Weil, L’ombra e la grazia,
trad. di F. Fortini, Bompiani,
Milano2002,p.131.
22
End Papers, Faber, London
1986,pp.33-34.
23Mouroir,Farrar,Straus,Giroux,
New York 1985. Mouroir fu in
granpartescrittoinprigione.
24LecitazionisonotrattedaBerlin
eKeepClearoftheMad,inEnd
Papers,pp.111,133-34e109.
25 L. Strauss, Persecution and the
Art of Writing, Free Press,
Glencoe 1952, p. 36 [trad.it.
Scrittura
e
persecuzione,
Marsilio,Venezia1990].
1
K. W. Benston indica
l’importanza di tale processo di
«cancellazione del nome» in
mitologia, dove, come parte di
una strategia di potere, un dio
può deliberatamente evitare di
essere nominato. «Il rifiuto di
esserenominatoinvocailpotere
del Sublime, un impulso
trascendente a smontare ogni
categoria[...]eaproiettarsialdi
là degli schemi e dei rapporti
accettati in una posizione di
autorità».Benstonriscontratale
strategia di autoconferimento
del potere presso quegli
afroamericani, discendenti di
schiavi, che cancellano il loro
nome o se lo cambiano. I Am
what I Am: the Topos of (Un)
naming in Afro-american
Literature, in Black Literature
and Literary Theory, a cura di
H. L. Gates, Methuen, New
York1984,p.153.
2 K. R. Popper, Tolleranza e
responsabilità intellettuale, in
Saggi sull’intolleranza, a cura di
S. Mendus e D. Edwards, il
Saggiatore,Milano1990,p.28.
3 J. Ortega y Gasset, Meditazioni
del Chisciotte, Guida, Napoli
1986.
4
D. Saunders, Copyright,
Obscenity and Literary History,
in«ELH»,1990,n.57,p.431.
5J.Milton,Areopagitica,trad.it.a
cura di G. Giorello, Laterza,
Roma-Bari1987,pp.47-48.
6
D. Kis, Censorship / Selfcensorship, in «Index on
Censorship», gennaio 1986, 15,
n.1,p.44.
7 Questa discussione poggia in
parte sull’ipotesi di Freud
secondo la quale la curiosità
intellettuale
(epistemofilia)
avrebbe origine da quella
sessuale,cosicchélafrustrazione
delle esplorazioni sessuali del
bambino potrebbe produrre il
soffocamento del suo desiderio
disapere.IlpensierodiFreuda
proposito
della
curiosità
sessuale
sembra
essersi
avvicinato a questa conclusione
frail1905eil1910,daiTresaggi
sulla sessualità al saggio su
Leonardo. Cfr. T. Moi,
Patriarchal Thought and the
DriveforKnowledge,inBetween
Feminism and Psychoanalysis, a
cura di T. Brennan, Routledge,
London1989,pp.201-2.
8 M. Scheler, Person and Self-
Value, a cura di M. S. Frings,
Martinus Nijhoff, Dordrecht
1987,pp.23-24.
9 Agostino, La Città di Dio, 1.14,
cap.16.
10
Nel distinguere fra posizioni
conservatrici «estreme» e
«moderate»seguoH.L.A.Hart,
Law, Liberty and Morality,
OxfordUniversityPress,Oxford
1981,vol.VII,pp.48-49.
11
Ibid.,p.12.
12 R. Dworkin, Taking Rights
Seriously, Harvard University
Press,Cambridge1977,pp.24243 e 245 [trad. it. I diritti presi
sul serio, il Mulino, Bologna
1982].
13Ibid.,pp.253-54.
14Ibid.,pp.255e258.
15 J. Stuart Mill, Saggio sulla
libertà, il Saggiatore, Milano
1993,pp.16e22.
16 J. Bentham, Introduzione ai
principî della morale e della
legislazione, Utet, Torino 1998,
cap. XVI , par. 2, p. 307; cap. I ,
par. 6, p. 91; cap. II , par. 19, p.
116.
17CollectedWorks,X ,p.179,citato
in J. C. Rees, John Stuart Mill’s
On Liberty, Clarendon Press,
Oxford1985,p.45.
18 J. Waldron, Mill and the Value
of Moral Distress, in «Political
Studies», n. 35, 1987, pp. 413,
414e417.
19
Questo discorso è affrontato
ampiamente in F. Schauer, Free
Speech:APhilosophicalEnquiry,
Cambridge University Press,
NewYork1982,vol.II,pp.11925.
20 Obscenity and Film Censorship,
a cura di B. Williams,
Cambridge University Press,
Cambridge1981,p.55.
21 R. Dworkin, A Matter of
Principle, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.) 1985,
pp.336-37[trad.it.Questionidi
principio, Il Saggiatore, Milano
1989].
22 H. Marcuse, La tolleranza
repressiva, in Critica della
tolleranza, Einaudi, Torino
1965,pp.82-83.
23
Dworkin, A Matter of Principle
cit.,p.352.
24J.Ellis,OnPornography, in The
Sexual Subject, a cura di M.
Merck, Routledge, London
1992,p.146.
25
Si veda J. Feinberg: «Non c’è
errore piú imbarazzante nella
discussione sull’oscenità di
quello che la identifica, o per
significato o per scopo
classificatorio,
con
la
pornografia». The Moral Limits
of the Criminal Law, vol. II,
Offense to Others, Oxford
University Press, New York
1985,p.127.
26Ibid.,p.1.
27Ibid.,p.123.
28
M. Scheler, Person and SelfValuecit.,p.32.
29
La sfera privata, dice J.
MacGregor
Davies,
è
«storicamente […] una sfera di
oppressione delle donne», per
motivi strategici dunque le
femministe dovrebbero evitare
l’argomento legale secondo cui
la pornografia invaderebbe la
loro privacy (Pornographic
Harms,inFeministPerspectives,
acuradiL.Code,S.Mullett,C.
Overall, University of Toronto
Press, Toronto 1988, p. 132).
Questo è in contrasto con
l’argomento liberale classico,
avanzatodaD.N.MacCormick,
secondo cui coloro che
commettono atti indecenti
«rinunciano
alla
propria
privacy» piuttosto che invadere
quella altrui. Cfr. Privacy and
Obscenity, in Censorship and
Obscenity,acuradiR.Dhavane
C. Davies, Martin Robertson,
London1978,p.87.
30 Margaret Intons-Peterson e
Beverly
Roskos-Ewoldsen
sostengono che «la ricerca
condottasusoggettimaschiliha
regolarmente mostrato che
l’esposizione alla sessualità
aggressiva della pornografia
violenta si associa a una
svalutata opinione delle donne,
aunaumentoditolleranzadella
violenza nei loro confronti e a
un incremento delle probabilità
di vere e proprie aggressioni
contro le donne in ambiente di
laboratorio», Mitigating the
EffectsofViolentPornographyin
For Adult Users Only, a cura di
S. Gubar e J. Hoff, Indiana
University Press, Bloomington
1989, p. 218. Questa tesi è
suffragata da molti studi
empirici.
D’altra
parte,
segnalando una lista altrettanto
lunga di case-studies, Marcia
Pally sostiene che «nessuna
ricerca seria oggi trova un
legame causale fra immagini
sessuali e violenza [...] Nessuno
dei tanti articoli scientifici
sull’argomento giustifica la tesi
secondo cui [...] le immagini
sessuali
provocherebbero
aggressioni». Out of Sight and
Out of Harm’s Way, in «Index
on Censorship», gennaio 1993,
22/1, n. 146, p. 5. Queste due
posizioni
non
sono
assolutamenteincompatibili;ma
per riconciliarle c’è bisogno di
unalogicaassolutaescrupolosa,
forse piú di quanta ne possa
sostenere un dibattito di natura
essenzialmente
politica.
L’interrogativoselapornografia
causidavveroviolenzasessualeè
ulteriormente complicato dal
sospetto, manifestato da alcune
femministe a proposito delle
regole e delle procedure della
dimostrazioneempiricastessa.
31 «Poiché le donne in particolare
hanno interiorizzato per tanto
tempo le visioni maschili della
lorosessualitàèdifficileperloro
perfino
incominciare
ad
articolare la natura della
sofferenza
causata
dalla
pornografia, e tantomeno
dunquesonoingradodidirein
che modo le loro percezioni
della
propria
sessualità
differiscano dalle prescrizioni
maschili in proposito». J. Hoff,
Why is there no History of
Pornography?, in For Adult
Users Only cit., p. 83. Carol
Smartdefiniscequellaposizione
«punto
di
vista
del
femminismo». Il punto di vista
del femminismo privilegia le
opinioni delle donne «che
hanno
collettivizzato
e
reinterpretatolaloroesperienza
attraverso esperienze come i
gruppi di coscienza o analoga
attività
politica».
Unquestionably a Moral Issue:
Rethorical
Devices
and
Regulatory Imperatives, in Sex
Exposed,acuradiL.SegaleM.
McIntosh, Virago, London
1992, p. 197. Una nuova
versione dell’argomento della
falsa coscienza viene avanzata
da
David
Dyzenhaus.
Dyzenhaus usa La servitú delle
donnedi J. S.Mill come il testo
«piú autorevole», quello «al
quale il Saggio sulla libertà
dovrebbeaderire».InLaservitú
delledonneMillsostienechegli
uomini esigono dalle donne
piú»diquellocheesigonodagli
schiavi: chiedono loro di essere
complici compiacenti della loro
stessa sottomissione, e dunque
difattounafalsacoscienza.Una
personachenonsiapienamente
autonoma, sostiene Dyzenhaus,
non può essere ritenuta
testimone autorevole del danno
che le viene arrecato: John
Stuart Mill and the Harm of
Pornography, in «Ethics», n.
102, 1992, pp. 540-43. Cfr. J. S.
Mill: «Tutti, i piú brutali
eccettuati, vogliono avere nella
donnacheèalorostrettamente
unita, non una schiava soltanto
ma
una
favorita.
Conseguentemente, essi nulla
trascurano per educare il suo
spirito al servilismo». «Il
carattere dei sudditi non è mai
stato cosí completamente
deformato dai rapporti coi loro
padroni nelle altre sorte di
dipendenza», La servitú delle
donne, R. Carabba, Lanciano
s.d.(1926),pp.34e44-45.
32Davies,PornographicHarmscit.,
pp.137e135.
33 A. MacIntyre, After Virtue,
Duckworth,London1981,pp.8
e11.
34S.Mendus,Harms, Offence and
Censorship, in Aspects of
Tolerationcit.,p.110.
35 Citato in Mendus, Toleration
andtheLimitsofLiberalismcit.,
p.125.
36
C. MacKinnon, Feminism
Unmodified,HarvardUniversity
Press,Cambridge1987,p.149.
37 Horton, Toleration, Morality
andHarmcit.,p.132.
38
Mendus, Toleration and the
LimitsofLiberalismcit.,p.128.
39 S. Sontag, Stili di volontà
radicale, Mondadori, Milano
1999,p.101.
40 C. Smart, Feminism and the
Power of Law, Routledge,
London1989,pp.12e161.
41Cfr.C.Pateman,SexandPower,
in«Ethics»,n.100,1990,p.404;
Smart,FeminismandthePower
ofLawcit.,pp.81e130.
42Pateman,Sex and Power cit., p.
407.
43Smart,FeminismandthePower
ofLawcit.,pp.114-16e123-25.
44L.Irigaray,Questosessochenon
è un sesso, Feltrinelli, Milano
1978,pp.72,107,124e135.
45Ibid.,p.135.
46 Feinberg, Offense to Others cit.,
pp.1-2.
47Ibid.,p.9.
48Cfr.FeminismandthePowerof
Lawcit.
49 Sontag, Stili di volontà radicale
cit.,pp.81-83.
50
G. Bataille, Sade, in La
letteratura e il male, trad. di A.
Zanzotto, Rizzoli, Milano 1973,
p.115.
51L.Williams,FetishismandHard
Core, in For Adult Users Only
cit.,p.215.
52Smart,FeminismandthePower
ofLawcit.,p.136.
53 R. Coward, Female Desire,
Paladin, London 1984, pp. 59,
102e75.
54
«Lapartepiúeroticadiuncorpo
non è forse dove l’abito si
dischiude?», Il piacere del testo,
Einaudi,Torino1975,p.9.
L’estesoapparatodinoterelativoa
questo saggio è stato parzialmente
ridotto[N.d.C.].
Il libro
«D
OPPIA R E IL
capo», come
ogni
espressione
nella scrittura di J. M.
Coetzee, possiede molteplici
significati. Di certo ha a che
fare con l’idea di un
passaggio, una svolta nella
continuità: la possibilità,
volgendo lo sguardo al
cammino compiuto, di
rifletteresusestessi.
IsaggiraccoltiinDoppiareil
capo affrontano argomenti
molto diversi: letterari
(Rousseau,
Tolstoj
e
Dostoevskij,Beckett…)enon
solo (da Capitan America al
rugby, dalla pubblicità alla
censura), restituendo la
varietà
degli
interessi
intellettuali e politici del
premio Nobel sudafricano.
Ma tutti, a ben vedere, sono
tentativi di affrontare il
medesimo
tormentato
problema:comedirelaverità
(anche su se stessi) quando
quella verità potrebbe non
essere nel nostro interesse.
Ammesso poi che tale verità
esista: «Tutto ciò che scrivi,
incluso critica e narrativa, ti
scrive mentre lo scrivi. La
domanda allora è: questa
massiccia
impresa
autobiografica che riempie
una vita, questa imponente
opera di costruzione di sé,
produce solo finzioni?
Oppure tra le varie finzioni,
cenesonoalcunepiúveredi
altre? Come faccio a sapere
che dico la verità su me
stesso?»
«LosguardodiCoetzeepunta
al centro nervoso dell’essere
umano:ciòchetrovaèmolto
di piú di quanto la
maggioranzadegliuominisia
disposta ad ammettere su se
stessa».
L’autore
J. M. Coetzee è nato in
Sudafrica e attualmente
vive in Australia. Di lui
Einaudi ha pubblicato, tra
gli
altri:
Vergogna,
Aspettando i barbari, La
vita e il tempo di Michael
K,Infanzia,Gioventú,Slow
Man, Spiagge straniere,
Diario di un anno difficile,
Lavoridiscavo.Saggisulla
letteratura 2000-2005 e
Tempod’estate.Nel2003è
stato insignito del premio
Nobelperlaletteratura.
Dello stesso
autore
Aspettandoibarbari
Vergogna
Infanzia.Scenedivitadiprovincia
LavitaeiltempodiMichaelK
Gioventú.Scenedivitadiprovincia
Terrealcrepuscolo
ElizabethCostello
Nelcuoredelpaese
IlMaestrodiPietroburgo
SlowMan
Spiaggestraniere.Saggi1993-1999
Etàdiferro
Diariodiunannodifficile
Lavoridiscavo.Saggisulla
letteratura2000-2005
Tempod’estate
Doppiareilcapo.Saggieinterviste
Foe
L’infanziadiGesú
Quieora(conP.Auster)
Titolioriginalidelleraccolte:
WhiteWriting.OntheCultureofLettersin
SouthAfrica
©1988byYaleUniversityPress,NewHaven.
Allrightsreserved
DoublingthePoint.EssaysandInterviews
Copyright©1992bythePresidentandFellow
ofHarvardCollege,
HarvardUniversityPress,Cambridge.All
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GivingOffense.EssaysonCensorship
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Suite5300,NewYork,NY10176-0187Usa.
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Incopertina:illustrazionediFilippoSassòli.
ProgettograficodiFabrizioFarina.
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