Doppiare il capo
Transcript
Doppiare il capo
LDB J.M.Coetzee Doppiareil capo Saggie interviste AcuradiPaola Splendore TraduzionediMaria BaiocchiePaola Splendore Einaudi L’inizio IntervistaconDavidAttwell D. A. Vorrei cominciare dall’inizio, ponendo il problema dell’autobiografia. Solo pochi scrittori contemporanei sollevano conlasuastessaurgenzae rigore la questione dell’autenticità e dell’autorità del soggetto che parla. La questione è implicita in ogni suo romanzo, da Terre al crepuscolo in poi, ed è trattata in modo esplicito inFoe. Nei saggi critici lei ha esaminato da vicino la «verità»autobiograficaela scrittura confessionale di scrittori come Tolstoj, Rousseau e Dostoevskij. Considerando l’importanza della questione nella sua opera non stupisce l’esiguità della sua prosa autobiografica nell’accezionepiúcomune. Che cosa, allora, le consente di parlare del rapporto tra la sua attività di critico e quella di romanziere? J. M. C. Preferirei considerare questa domanda come relativa alla verità piuttosto che all’autobiografia.Perchéin un certo senso la scrittura è sempre autobiografia. Tutto quello che scrivi, incluso critica e narrativa, ti scrive mentre lo scrivi. La domanda allora è: questa massiccia impresa autobiograficacheriempie una vita, questa massiccia opera di costruzione di sé (reminiscenze di Tristram Shandy!) produce solo finzioni? Oppure tra le varie finzioni del sé, o versioni del sé, ce sono alcune piú vere di altre? Come faccio a sapere che dicolaveritàsumestesso? La prima risposta è che dovremmodistingueredue tipi di verità, la prima aderenteaifatti,laseconda che li trascende. Diamo la prima per scontata e concentriamoci sulla piú spinosa questione della verità di ordine «superiore». Maincheconsistelaverità aderente ai fatti? Nel raccontare la storia di una vita si sceglie attingendo alla riserva di ricordi e nellasceltasilascianofuori delle cose. Omettere di dire che da bambino hai torturatolemoschearigor dilogicaètradirelaverità dei fatti tanto quanto raccontare di averlo fatto se non è vero. E dunque definire veritiera l’autobiografia – o persino lastoria–fintantochenon mente evoca un’idea di veritàpiuttostovacua. Perciò,invecedicercaredi distinguere fra tipi di verità,preferireitrattarela questione da una prospettivadiversa. Quandoscrivi–unaforma qualsiasi di scrittura – ti accorgi se ti stai avvicinando alla «cosa» oppure no. Avverti una sorta di meccanismo sensorio, una specie di feedbackcontinuosenzail quale non si potrebbe scrivere. È ingenuo pensarechelascritturasia un semplice processo in due tempi: prima decidi cosavuoidireepoilodici. Al contrario, come tutti sanno, scrivi perché non sai cosa vuoi dire. È la scrittura a rivelarti quello chevolevidire,anziavolte è lei che costruisce quello chevuoiochevolevidire. Quello che rivela (o asserisce)puòessereanche diversodaquantoall’inizio credevi (o immaginavi) di voler dire. È questo il senso in cui si può affermare che la scrittura ci scrive. La scrittura mostra o crea (e non sempre siamo in grado di distinguere una cosa dall’altra) quello che era il nostro desiderio un momentoprima. Scrivere, allora, comporta un’interazione tra una spinta verso il futuro che perprimatimettedavanti alla pagina bianca e una resistenza. In parte quella resistenza è un fatto psicologico ma in parte è anche un automatismo intrinseco alla lingua: la tendenza delle parole ad evocare altre parole, a ricadere in modelli che continuano a propagarsi. Daquestainterazione,seti vabene,emergequelloche riconosci o speri di riconoscerecomevero. Non mi sembra che la scrittura «propriamente» autobiografica sia di natura in alcun modo diversa da quanto ho fin qui descritto. La verità è qualcosa che emerge nel processo della scrittura o dalprocessodellascrittura. E cosí torniamo alla questione delle menzogne elementari. Vorrei tentare la seguente definizione di autobiografia: un tipo di scrittura del sé che ti costringearispettareifatti della tua storia. Ma quali fatti? Tutti i fatti? No. Tutti sono troppi. Scegli i fatti nella misura in cui rientranoneltuoobiettivo: un obiettivo, oltretutto, in continua evoluzione. Qual è l’obiettivo nel caso presente? Proporrei qualcosa come: capire il desideriochemihaspinto a scrivere quello che ho scrittotrail1970eil1990. Non i romanzi, che sono sufficientemente in grado di interrogarsi su se stessi, ma tutto il resto: i saggi critici, le recensioni e cosí via. Scritti che appartengono a un genere che per lo piú non permette loro di riflettere susestessi. È questo il mio vero scopo? La verità è che, a questo punto del nostro scambio, forse so ancora cosípocodelmioobiettivo presente quanto delle spinteedeidesideripassati che intendo ripercorrere. Desiderio e obiettivo sono allo stesso livello: nessuno prevale sull’altro. Forse è perquestochehosceltola forma del dialogo, per superarel’impassedelmio stessomonologo. D. A. Possiamo tornare al periodo precedente il 1970?Primadicominciare a scrivere sul serio lei ha seguito diversi apprendistati, non tutti letterari. Si è messo a scrivereromanzisolodopo aver tentato tre specializzazioni accademiche diverse – matematica (e poi informatica), letteratura, e linguistica – e dopo aver perseguito i suoi interessi filologiciconundottorato. A parte la produzione poetica e di altro genere delperiodouniversitarioa Città del Capo, passano piúdidiecianniprimache si dedichi alla scrittura creativa.Inqualemisurasi trattava di preparazione e inqualemisuradiparalisi? J. M. C.Èvero,nonhoscritto niente d’importante prima di arrivare ai trent’anni. Non sono sicuro che la cosa sia cosí negativa. Quanti scrivono romanzi memorabili a vent’anni? Manaturalmenteall’epoca non la vedevo cosí, non è che mi fossi detto: «Aspetta, non hai ancora trent’anni...» Al contrario, quando ripenso a quei tempi mi rendo conto che era con la sensazione permanente di tradire me stessochenonscrivevo.Si trattava di paralisi? Non credochelaparolaparalisi sia quella giusta. Forse somigliava di piú alla nausea: la nausea di trovarmi di fronte alla paginavuota.Lanauseadi scrivere senza convinzione, senza desiderio. Credo che già all’epoca sapessi cosa avrebbe significato cominciare e tentavo di resistere. Sapevo, cioè, che una volta cominciato sarei dovuto andare fino in fondo. Come in una condanna a morte: non si puòscappareviaelasciare la vittima appesa a una corda, che scalcia e si strozza e non muore. Tocca andare fino in fondo. (Mi rendo conto che avrei potuto scegliere una metafora di nascita, ma lasciamo le cose come stanno). Ho esitato per tutti gli anni Sessanta perché sospettavo, e a ragione, che non sarei statoingradodiportareil progettofinoinfondo.Ma il materiale per Terre al crepuscolo si andava accumulando già da un pezzo. Per esempio avevo letto William Burchell e presoappuntifindal1962, sapendocheprestootardi liavreiutilizzatiinunlibro che poi sarebbe diventato Terrealcrepuscolo. D. A. Passiamo ora al suo incontro col romanzo. Mentre era a Londra negli anni 1962-63 scrisse una tesidicirca300pagineper il master su Ford Madox Ford per l’Università di Città del Capo. In seguito, in Texas, nel 1967-68 J. scrisse una tesi di dottorato di analisi stilistica, concentrandosi sui romanzi inglesi di Beckett. Come mai ha scelto quegli autori in particolare, e che cosa rappresentavano per lei quegli scrittori, o il loro tipodiscrittura? M. C. Avevo letto Ford MadoxForddastudentee ne avevo subito il fascino. Prima di tutto La saga di Tietjens e in seguito Il buon soldato. Ero arrivato a lui via Pound che lo riteneva il migliore prosatore dei suoi tempi. Latendenzaestetizzantedi Ford Madox Ford aveva fattorisuonarequalcosain me: la buona prosa era il risultato della sottrazione, deltaglio(ancheseForddi fatto fu assai prolifico); scrivere romanzi era un mestiere oltre che una vocazione e cosí via. Ma oggisospettocheilfascino che subivo nascesse da ragioni piú complesse. Ford dà l’impressione di scrivere dall’interno della classe dominante inglese, ma di fatto scriveva dall’esterno, era un outsider desideroso di far parte di quel mondo. Suo padre era un tedesco anglicizzato e sua madre era nata nel circolo dei preraffaelliti, in un certo senso artisti bohémien. Le aspirazioni sociali di Ford lo portavano a essere plus anglais que les anglaises. Coltivava una sorta di aspro stoicismo che considerava Tory (Tory all’antica, naturalmente) e che incarnò nel suo eroe Christopher Tietjens. Ora sospetto che quello che allora mi attraeva in Ford fosse l’etica di Tietjens tanto quanto l’estetica del motjuste. Il che non vuol dire che quando scrivo a mia volta nonmiaffanniacercarela parola giusta. Credo nella prosascarna.Piúscarnadi quella praticata da Ford. Una prosa scarna e un mondo scarno, frugale. È un elemento poco attraente del mio carattere che ha esasperato le persone con le quali mi sonotrovatoacondividere la vita. D’altra parte poco tempo fa leggevo George Bourne sull’Inghilterra rurale precedente al 1914: la parola chiave per Bourne, parola complessa e carica di valori con una lunga storia alle spalle, è parsimonia. Quella dei contadini dell’Europa occidentale è stata una cultura frugale. Le radici della mia famiglia sono in quella cultura, trapiantata dall’EuropainAfrica.Cosí sono profondamente ambivalente nei confronti del disprezzo per la parsimonia. Quanto a Beckett avevo letto Aspettando Godot negli anni Cinquanta quando era sulla bocca di tutti,mal’incontroperme piú importante fu con Watt e con Molloy e poi, ma in misura minore, quello con gli altri romanzi. La prosa di Beckett, fino a L’innominabile compreso, mi produceva un piacere sensuale che non si è affievolito negli anni. Il lavoro critico da me condotto su Beckett nasceva da quella risposta sensualeederailtentativo di capire i modi in cui parlarne, parlare del piacere. D. A. Prima di riprendere gli studi letterari lei ha lavorato per quattro anni (1962-65) come programmatore in Inghilterra. In Texas poi i suoiinteressimatematicie letterari sono confluiti sotto l’ombrello della stilistica e dell’analisi statistica(anchesequalche anno prima aveva sperimentato la poesia generata al computer e sarebbe tornato a farlo di nuovo). Vorrei fare qualche osservazione a propositodiquestoaspetto delsuolavoro. L’interesse per la stilistica quantitativa è svanito nel corso degli anni. Il saggio di Roman Jakobson sui pattern verbali, per esempio, sembra aver esercitato meno influenza del resto delle sue opere. Ma il suo rapporto con quel campo, anche allora, era complicato e perfino unpo’contraddittorio.Da una parte sembra essere stato attratto dal suo positivismo, forse da una promessa di oggettività (nella sua tesi di dottorato prende le distanze dai caratteri piú intuitivi del New Criticism) ma d’altro canto diffidava di alcuni dei risultati e delle conseguenzedellastilistica (la sua tesi è anche radicalmenteautoriflessiva eperfinoscetticainmerito ad alcuni dei metodi adottati). Un altro aspetto di quell’ambivalenza:ilprimo saggio da lei pubblicato (1969) cercava di perfezionare la quantificazione della «difficoltà» della prosa sviluppata dallo stilostatistico tedesco Wilhelm Fucks 1, ma non molto tempo dopo (1971) pubblicòunarecensionedi Nach allen Regeln der Kunst in cui parla del positivismo come di una «mitologia» e accenna ironicamente al suo postulato, che immagino sia hegeliano, di una «coscienza ascendente» 2 (nella sua opera, e certamente in Terre al crepuscolo,l’ambivalenzaè risolta, attraverso il personaggio di Eugene Dawn, nella critica del positivismo scientifico al servizio del potere imperiale). In due saggi di quel periodo introduce la programmazione del computer nella stilistica con risultati, a posteriori, interessanti (sebbene, probabilmente, ancora oscuri per molti lettori). Senza di Beckett consiste di1538parole,leparoleda 770a1538ripetonoquelle da 1 a 769 in ordine diverso. Per quel saggio (1973) aveva usato un programma che registrava le ripetizioni a livelli diversi: frase, periodo e paragrafo 3. Nell’interpretazione sostienechequelcheèpiú importante nell’opera non è «la disposizione finale dei frammenti ma i movimenti della coscienza chelidispone»econclude dicendo: «questa impresa infinita di divisione e ricombinazioneèlalingua, unalinguachenonoffrela promessadell’incantesimo, dellacombinazionemagica sempre attesa che porterà ricchezzaosalvezza,mala consolazionedelgioco,del passatempo». Cisonogiochidievasione, giochi di sopravvivenza in Watt di Beckett come ce ne sono in Terre al crepuscolo (nella seconda narrazione, durante il solitario viaggio di ritorno diJacobusCoetzeealCapo dopoilsuoincontroconi Namaqua). Nel suo saggio i commenti su Beckett sembrano in sintonia non solo con le ripetizioni ma anche con la sua scrittura (e vedo che Terre al crepuscolo e il saggio su Senza escono nello stesso anno). Il secondo saggio per il quale ha usato la programmazione al computer è Surreal Metaphors and Random Processespubblicatomolto dopo (1979) 4 dove, avendo inserito un lessico estrattodalletraduzionidi Pablo Neruda, usava un generatore casuale di numeri per produrre frasi semplici,chepoifiltravain modo tale da ottenere effetti metaforico-surreali come«ilnudodalleunghie consunte disdegna l’alunno di splendore». Dopo di che discute il processo in relazione alla poetica di Breton (per inciso: la strana poesia: Hero and Bad Mother in Epic, pubblicata su «Staffrider» nel 1978 deriva da quell’esercizio?) Credo che questo saggio sia piú immediatamente illuminante di quello su Senza perché in quel caso il processo meccanico, demistificando l’elemento del caso, mette vividamente a fuoco le aspirazioni romantiche e utopichedelsurrealismo. Come le appare oggi, ripensandoci, il forte interessechenutrivaperla stilistica quantitativa? Si potrebbe affermare che in particolare nel caso di Beckett – con le sue metaforematematicheele sue ossessioni tecniche – quella tendenza instaura un rapporto soddisfacente con gli altri suoi interessi, poi soppiantato in gran partedallostrutturalismo? J. M. C. Rispondo subito alla suadomandatraparentesi: sí, la poesia che cita è frutto del mio interesse e deimieiesperimenticonle frasigeneratealcomputer. È un lavoro cui sono particolarmente affezionato,ancheseverso lafinec’èungrandebuco. Quanto alla sua domanda principale, farei una distinzione tra stilistica quantitativa e stilistica generativa, solo perché la matematicachelisottende è del tutto diversa. Sono due campi distinti nei qualimisonoimmersoper un bel po’ di tempo e dai quali sono venuto fuori conmagririsultati.Perché l’ho fatto? Una svolta sbagliata, immagino, una strada sbagliata nella mia carrieraenellastoriadella stilistica. Non sfociava in nulla di interessante. Quando la stilistica abbandonò l’ideale della formalizzazione matematicacheauncerto momento l’aveva ispirata, e cominciò a guardare a modelli piú pragmatici, persi ogni interesse per la cosa. La prosa di Beckett, a suo modo fortemente retorica, si prestava all’analisi formale. Dovrei aggiungere che le prose brevi dell’ultimo periodo nonmihannomaidavvero preso.Sono,letteralmente, disincarnate. Molloy era ancora un’opera molto concreta. La prima opera di Beckett dall’oltretomba fuL’innominabile,malíla voce ultraterrena ha ancorauncorpoedunque in un certo senso è solo a metà strada rispetto a quellochedovevaessereil suo obiettivo allora. Gli ultimi lavori parlano con voci completamente disincarnate. Io non sono ancora arrivato a quel punto. Sono interessato a come la voce muove il corpo, a come si muove nel corpo. (Questo non risponde pienamente alla sua domanda, ma dice qualcosa su quello che mi interessa di Beckett e quello che non mi interessa). Quantoallostrutturalismo piú di tutto mi sono interessato all’analisi di Vladimir Propp, e alle relative implicazioni strutturalistesucomesono costruitiiracconti(lefiabe nel caso di Propp). Con i miei allievi abbiamo provato a comporre dei racconti «sintetici» – costruzioni messe insieme con gli elementi comuni nei racconti – e poi abbiamo verificato quali funzionavano e quali no, arrivandoachiedercicome fosseunnonracconto.Una curiosità diffusa in tempi postmoderni,nonlepare? D. A. Vorrei soffermarmi ancora un poco sullo strutturalismo.Se,difatto, i progetti analitici dello strutturalismo, forse a eccezione dello studio di Propp sulla fiaba, non hannocatturatoalungola sua attenzione, non è possibile che quello che piú l’attraeva dello strutturalismo fosse la sua promessa, la disinvoltura con la quale dichiarava di rivelare la langue, quell’essenza delle cose governata da regole? È questo il rapporto a cui penso tra strutturalismo e matematica. L’importanza del mito e delle cornici epistemiche nei suoi romanzi e anche in White Writing sembra appartenere a questo aspetto dello strutturalismo. Nella seconda metà degli anni Sessanta, quando si trovava all’Università del Texas, la linguistica americanasispostavadallo strutturalismo della scuola americana di Leonard Bloomfield alla grammatica generativotrasformazionale.Primadi Noam Chomsky, Benjamin Whorf aveva dato impulso alla divulgazione della linguisticacomebasedella visionesociale.Auncerto punto durante quel periodo, o forse poco dopo, cominciò a studiare lo strutturalismo europeo, non solo Roland Barthes ma anche Claude LéviStrauss. In altre parole i suoi studi linguistici coincisero, in modo impressionante si direbbe, con l’emergere della linguistica in Occidente come metodo e come modello di analisi culturale. Nel memoir texano lei commentaalcunediquelle influenze e in particolare cita gli effetti democratizzanti e l’inquietudine che viene col sospetto «che le lingue parlino le persone o quantomeno parlino attraverso di loro». Potrebbe approfondire questo discorso? Sono curioso di capire come i suoi studi linguistici possano aver influenzato non solo la chiara preferenza nel suo lavoro di modalità narrative non realistiche, ma anche lo sviluppo della sua idea di come si arriva alla scrittura.Comesipassada un interesse per la logica sistemica della cultura alla scritturadelromanzo? J.M.C.Sí,analisistrutturaliste – le letture di Jacobson dellapoesia,quellediLéviStraussdeimiti–anchese inteseamostrarelamente creativa al lavoro non hanno mai costituito per me, né credo per altri scrittori, un modello o sia pure solo uno spunto su come scrivere. In quel senso lo strutturalismo è rimasto un movimento decisamente accademico. Le fantasie di Barthes travestite da scienza sono state infinitamente piú stimolanti. Quello che lo strutturalismo ha significato per me – e qui penso allo strutturalismo antropologico e al lavoro di Jakobson sulla poesia popolare – è stato ridurre drasticamente la distanza tralaculturaaltaeuropeae le cosiddette culture primitive, chiarendo come i prodotti delle culture primitive richiedessero esattamente lo stesso impegno speculativo. La cultura umana era cultura umana e restava piú o meno la stessa nelle sue diverse espressioni. Immaginochenoncifosse niente di nuovo in questo ma io lo dovevo ancora apprendere,amiomodo. Perciò anche se l’epoca d’oro dello strutturalismo francese, quando mi ci accostai negli Stati Uniti, non ebbe su di me un effetto necessariamente democratizzante(laparola è sua e io la userei con cautela, dopotutto kratis significa potere). Di certo ampliògliorizzontidiuna personacomemecresciuta in un’enclave europea in Africa, che non amava viaggiare e preferiva i libri allavita. Mi sembra piú che logico avvicinare, come lei suggerisce,lalinguisticadi Chomsky allo strutturalismo, se non altro per il peso analogo che entrambe le discipline attribuisconoallestrutture innate. Mi ero immerso nella grammatica generativa a un livello piuttosto tecnico, passando poi a occuparmi – come succede inevitabilmente quando l’interesse si sposta dalle grammatiche delle singole lingue a questioni di grammatica universale – alle lingue non indoeuropee. Un’immersione – non poi a grande profondità per quanto attiene al dominio vero e proprio dei particolari – che diede lo scossone piú forte al colono occidentale la cui identità immaginaria era stata messa insieme (malamente e piena di strappi!) con gli scampoli ereditati dall’arte altomodernista. Il nocciolo della sua domandariguardatuttavia come tutto questo si relazioni alla produzione della scrittura creativa e credochelarispostadebba essere che è difficile capirlo. Niente di quello che si può cogliere della linguistica generativa o di altre forme di strutturalismo aiuta a mettere insieme un romanzo. Ciò che mi è rimasto di quegli studi forse non è che un generico residuo: il rispettoperlealtreculture, per il discorso delle persone comuni e per le conoscenze inconsapevoli che ognuno di noi porta consé. D. A. A questo proposito vorreichiederle:nelsaggio Samuel Beckett e le tentazioni dello stile lei metteinsiemeunaseriedi tematiche che rientrano nella categoria del dubbio, J. formale e concettuale, alla quale si è interessato per via degli studi beckettiani. Io dico formale e concettuale ma piú precisamente lei li tratta come inseparabili. Cosa l’ha portata a ricercare la matrice profonda della prosadiBeckett? M. C. Credo di avere già accennato a una risposta. Beckett ha significato moltopermeeperlamia scrittura, questo credo sia chiaro. Un’influenza evidente nella mia prosa. La maggior parte degli scrittori assorbe le influenze attraverso la pelle,nelmiocasoc’èstato anche un processo di assorbimento piú consapevole,ovverodovrei dire che la mia preparazione linguistica mi permetteva di vedere con una certa chiarezza l’effetto di tali influssi. I miei saggi sullo stile di Beckett non erano puro esercizio accademico nel senso colloquiale del termine. Erano anche tentativi di avvicinarmi a un segreto, il segreto di Beckett di cui volevo impadronirmi per poi, dopo, eliminarlo come succedeinquesticasi. D.A.Checosal’hacondottaai manoscrittidiBeckett? J. M. C. I manoscritti erano all’Università del Texas e io mi trovavo lí. Una coincidenza. Prima di andarci ignoravo che ci fossero. Ma poi mi ci immersi, in particolare in quelli di Watt. Era rassicurante vedere come un libro potesse scaturire da un inizio cosí poco promettente. Vedere le false partenze, le banalità cancellate, le prove di momenti di scarsa ispirazione. D. A.Possochiederlechecosa l’ha spinta ad andare in Texas? J. M. C. Nel 1964 vivevo in Inghilterra e lavoravo in un laboratorio di ricerca informatica. Una strada senza uscita. Dovevo cambiare. Sembrava ci fosse qualcosa nell’aria, la possibilità che la linguistica,lamatematicae l’analisideltestopotessero essere riunite in qualche modo (il nome vago che alloradavoaquellasintesi eramorfologiagenerale).Il mio curriculum accademico non era cosí eccellente da farmi aspirare a incarichi piú importanti, cosí scrissi a un certo numero di università americane e ricevetti un bel po’ di risposte positive. Scelsi il Texas. Offrivano 2100 dollari l’anno e una riduzione sul costo dei corsi e mi sembra di ricordare che l’accordo fosse che dovevo dedicare lametàdelmiotempoallo studio e l’altra metà a tenere un corso di composizione per gli studenti del primo anno. Era uno stipendio ragionevoleperqueitempi eperqueltipodilavoro.A parte il fatto che l’Università del Texas aveva una buona reputazione per la linguisticaechepossedeva una grande raccolta di manoscritti,nonnesapevo granché. D. A. Il memoir del Texas inizia col ricordo dell’esperienza dell’emigrazione,maaveva in mente qualcosa di piú specifico? J. M. C. Non avrei avuto la disinvoltura di fare quella prima incursione nell’autobiografiasenzaun qualche testo piú solido rispetto al quale misurarmi.Comebancodi prova scelsi l’Educazione di Henry Adams e in particolare la sua ironia impassibile.Sospettocheil memoir funzioni solo se haiinmenteAdams. D. A. C’è una dimensione filosofica in Beckett che nei saggi è in qualche modo passata sotto silenzio. Hugh Kenner, di cui ammirava il lavoro su Beckett e il primo modernismo, ha descritto la trilogia beckettiana di Molloy, Malone muore e L’innominabile come un’impresa di disintegrazione del cogito, «[che riduce] all’essenza i tre secoli in cui quei progetti ambiziosi di cui Descartes è simbolo e progenitore [...] hanno prodotto la disumanizzazione dell’uomo» 5. Kenner si chiedeva anche se Descartes, come l’Innominabile «parlasse attraverso un Comitato dello Zeitgeist». I suoi primi due romanzi affrontano questioni analoghe: nel contesto del colonialismo, parlando dall’interno e da parte di J. una razionalità ossessiva (col dovuto rispetto al modoincuiquestasisalda con dominanza e violenza), i suoi narratori mettono in scena lo smacco dell’aspirazione alla trascendenza dell’io cartesiano. È stato Beckett a spingerla su quella strada? M. C. Non specificamente Beckett. C’è stata una confluenzadiinteressi.Ma è improbabile che Beckett miavrebbeaffascinatoatal puntoseinluinoncifosse stata quella preoccupazione costante per la razionalità, quella serie di protagonisti selvaggiamente,follemente intenti a spingere la ragione oltre i suoi limiti. E nondimeno Terre al crepuscolo non è emerso dallaletturadiBeckett.Era piú immediato lo spettacolo di quanto stava succedendo allora in Vietnam e quello di cui prendevo coscienza andando indietro nella storia sudafricana e soprattutto leggendo le cronache dell’esplorazione dell’Africa meridionale su quanto era successo nel miopaese. D. A. In molti suoi saggi su Beckett – soprattutto in quellosuMurphy–discute la questione della riflessività della narrativa che mette a nudo le sue stesse convenzioni. E comunque anche se ciò che definisce l’«antiillusionismo» della forma riflessiva è una posizione nella quale si trova a suo agio, la riconosce però J. anche come un’«impasse». Inchesenso? M. C. Illusionismo naturalmenteèunaparola che uso per quello che viene abitualmente definito realismo. L’illusionismo piú riuscito produce i piú convincenti effetti di realismo. L’antiillusionismo – che invece di nasconderli esibisce i trucchi impiegati – è una tattica comune del postmodernismo. Una tatticaconlaqualeallafine non si va tanto lontani. L’anti-illusionismo, sospetto,èsolounapausa, una fase di riassestamento nella storia del romanzo. La domanda è che cosa vienedopo. D. A. Oltre a Beckett un’altra importante influenza sui suoiprimiromanzièstato Nabokov. Nel saggio Nabokov’s «Pale Fire» and thePrimacyofArt(1974) 6 lei mette a confronto l’autoriflessività dei due scrittori sostenendo che, mentre Beckett la spinge fin dove è umanamente possibile, Nabokov si fermaprimaearrivaanche a trovare una scappatoia, individuando nella riflessività i supporti post- romantici dell’ironia, dell’arte e dell’immaginazione. Lei sostiene anche che la versione di Nabokov è un tentativo preventivo, e fallimentare, di sfuggire alla Storia («storia come esegesi») incorporando l’interpretazione alla narrazione. Malgrado le sue riserve in merito alle risoluzioni e alle evasioni di Nabokov, sembra provaresimpatiaperilsuo approccio giocoso e nostalgico al passato, ricostruitoinFuocopallido come«ilregnoinfantiledi Zembla». Per spiegare quell’aspetto di Nabokov lei cita un passo da una lettera di Rilke che vale la penadiriprendere: Il nostro compito è questo: lasciare che questa terraprovvisoriaecaducasi imprima nel nostro animo in maniera cosí dolorosa e appassionata, che la sua essenza risorga «invisibile» in noi. Noi siamo le api dell’invisibile […] Questa attività viene poi meravigliosamente spinta e sorretta dallo scomparire sempre piú rapido di tante cose visibili, che non potranno piú essere sostituite, da nessuno. Ancora per i nostri padri una «casa», una «fontana», una torre a loro familiare, perfino il loro vestito e il loro cappotto, erano piú intimi, infinitamente piú intimi che per noi: e ogni soggetto quasi un’urna, doveessitrovavanosempre qualcosa di umano o dell’altro ve ne aggiungevano: mentre ora dall’America s’affollano le tante cose vuote e indifferenti, parvenze di cose, ingannevoli cose. Una casa americana, una mela americana o una vigna di laggiú non hanno nulla in comune con la casa, il frutto o la vite in cui la speranza o la meditazione dei nostri avi era lentamente penetrata. Le cose vive, vissute e ammesse alla nostra confidenza, a poco a poco scompaiono,enonpossono piú essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che abbiamo conosciuto tali cose 7. Dal punto di vista della struttura, Terre al crepuscolo deve molto a Fuocopallido.Inoltreparla della sua situazione, della sua esperienza americana alla fine degli anni Sessanta e di quella dei suoi antenati in Sudafrica, malofainmodoironicoe parodico,usandoglieffetti di raddoppiamento del metaromanzo. Si direbbe un’influenza forte. Come descriverebbe oggi il suo rapportoconNabokov? J. M. C. A volere essere brevi direichenonhopiúalcun rapporto con Nabokov. Nabokov amava la Russia in un modo (dicono) incomprensibile per chi non è russo. Era anche fiero della sua famiglia e della storia della sua famiglia.Lasuainfanziain Russia era stata chiaramenteunperiododi felicità indimenticabile. Il suo amore e la sua nostalgia per quel mondo perduto sono evidenti nel suo lavoro, ne rappresentano l’aspetto piú avvincente. Ma direi che Nabokov tratta in modounpo’superficialela realtà che gli sottrasse la Russia, in un modo non all’altezza del suo talento innato. Anzi a volte lo fa con un atteggiamento infantile, come se i bolscevichi l’avessero spossessato dell’infanzia (non sarebbe comunque cresciuto?) Sotto la superficie in Nabokov si avverte vero dolore e vera perdita. Dicevadiamarel’America, ma com’è possibile? Era gratoall’America,divertito e incuriosito dall’America, divenne un esperto dell’America ma il suo cuore (per come lo leggo) era rimasto nel Vecchio Mondo come quello di Rilke. Latragediadellaperditadi quel mondo è molto piú viva nella meravigliosa letteradiRilkecheintutto Nabokov. Credo sia per questo che ho perso interesse per lui: perché si èrifiutatodicomprendere la natura di quella perdita in tutta la sua pienezza storica. D. A.Lapienezzastoricaèun concetto paradossale qui: piú totale e irreversibile è la perdita, piú la scrittura che ne deriva dovrà o dovrebbe essere in grado di andare a fondo. Che cosa significa questo per lei,sudafricano? J. M. C. Sí, certo. Anche io ho avuto un’infanzia che, per certi aspetti, via via che invecchio mi appare sempre piú magica e miracolosa. Forse è quello che succede a quasi tutti nei confronti di se stessi bambini:cirivolgiamocon crescente meraviglia all’idea che un tempo sia potuto esistere un mondo tanto innocente e che noi, proprio noi, fossimo al centrodiquellainnocenza. È una buona cosa imparare a voler bene al bambino che siamo stati, una cosa che non oserei maicriticare.Ilbambinoè padre dell’uomo: non dobbiamo essere troppo severi con il nostro io infantile, dovremmo solo ringraziarlo per averci condotto a essere le persone che siamo. E d’altrapartenonpossiamo indulgere al comodo stupore per il nostro passato. Dobbiamo vedere quello che il bambino, ancora stordito dai suoi viaggi,ancoratuttointento aisuoisognidigloria,non poteva vedere. Dobbiamo – o almeno alcuni di noi, un buon numero, devono – guardare al passato con occhioabbastanzaspietato da riuscire a scoprire cos’era a rendere possibile quella gioia e quell’innocenza. Perdono ma anche risolutezza: è questalamiscelachehoin mente, se è possibile. Prima di tutto risolutezza, poiperdono. D.A.IlsaggiosuNabokovcita Lacan a proposito dell’aggressività, l’aggressività dei personaggidiNabokovnei confronti di chi tenta di spiegarli (che rispecchia quella del paziente nei confronti dell’analista). All’originedeldisagioc’èil riconoscimento che ogni costruzione del sé nella lingua è una forma di espropriazioneperchéilsé viene rappresentato come un altro, per un altro. La mia domanda non riguarda Nabokov ma Lacan.Ilprimoimportante lavoro critico sulla sua opera, quello di Teresa Dovey,sviluppalatesiche i romanzi siano allegorie del soggetto lacaniano che tenta di realizzarsi, inutilmente, nelle condizioni linguistiche del colonialismo e della «tradizione sudafricana». Lasciando da parte questa tesi,potrebbecommentare inmeritoalruoloavutoda Lacannelsuopensiero? J. M. C. Lacan è un pensatore cruciale. Non ho [dicembre 1990] letto il librodiDoveypercuinon hoideadiquellocheforse è già stato detto del mio rapporto con Lacan e non posso rispondere in merito. Ma vorrei far notare che alcune delle osservazionipiúispiratedi Lacan sono quelle su chi parladaunacondizionedi ignoranza. Trova la sua giustificazione non solo nella pratica dell’analisi quando il paziente sembra avvicinarsi maggiormente allaveritàpercosídireper sbaglio, ma anche nella poesia. Quando ci si avvicina tanto al centro della propria impresa, come con la domanda «dove sono io quando scrivo?» forse si farebbe beneaseguireLacanenon preoccuparsi troppo di quello che si vuole dire (posso usare indifferentementelaforma personale e quella impersonale in questo contesto?)edunqueanche non interrogarsi troppo sulla propria posizione in relazione al consiglio di Lacan secondo cui ci si può permettere di parlare senza«pensiero». [1990]. SamuelBecketteletentazioni dellostile L’arte di Samuel Beckett è diventata, come sappiamo, un’arte dello zero. Sappiamo anche che l’arte dello zero è impossibile.Untitoloseguito da un migliaio di parole e il logo di una casa editrice, l’atto stesso di muovere la penna sul foglio, sono di per sé affermativi. È possibile privarli di contenuto per mezzo di un atto autocontraddittorio? È possibile cancellare, per cosí dire, le frasi, via via che scorrono dalla penna? Ecco una risposta: «Isole, acque, azzurro, vegetazione, fissate, pfff,ilgiocoèfatto» 1.Iprimi quattro termini, per quanto chiaramentepostiinsequenza per via associativa e persino per una sorta di rima banale, minacciano di affermarsi come illusione, come Parola Pura in tutta la sua magica autonomia. Vengono cancellati(«ilgiocoèfatto»)e abbandonati come foglie morte su un muro. La frase incarna dunque due impulsi opposti che consentono la finzione dello zero: l’impulso verso il gioco illusionista e quello verso il silenzio. L’autocancellazione irrefrenabile è la zavorra imposta sul volo della frase verso l’illusione; la finzione è la penitenza imposta sulla ricerca di silenzio, sonno e morte. Seguendo l’ellisse del raggio discendente descritto da queste condizioni l’arte di Beckett procede verso l’apoteosi, il testo di una sola parola «nulla» sotto il titolo Finzione. Secondo il matematico RichardDedekindsesiriesce a giustificare la segmentazione di partenza di unaserieneisottoinsiemiXe non-X, l’intera struttura matematicaseguiràcomeuna gigantesca nota a pie’ di pagina. Beckett conosce la matematica abbastanza per coglierne la lezione: da un’unica affermazione certa, con un po’ di pazienza e un po’ di impegno, si può dedurre tutto un mondo contingente di biciclette e pastrani. L’Innominabile del terzo romanzo della Trilogia si trova in uno stato precedente a questa prima affermazione consolatoria e prolungalasuaesistenza«per affermazioni e negazioni infirmate volta per volta, presto o tardi» 2, vittima dell’incapacità di affermare e dell’impossibilitàdirestarein silenzio,halasuaessenzanel dubbio. Quali forme assumono i procedimenti del suo dubbio? Uno ci è noto dalle Novelle (raccolte nel 1954) e da Malone muore (1952): raccontare storie frammentarie per passare il tempo (riempire le pagine, per incarnarsi), e di tanto in tanto dileggiarle. Questi racconti in genere si prolungano tanto da diventareproprietàfittiziedei narratori, i quali mettono in scena gli impulsi conflittuali verso illusione e silenzio rappresentandosi come taumaturghi delle loro storie (oltre a esserlo della loro esistenza) e poi come vendicatori della verità (le ultime frasi di Moran in Molloy (1951) sono un esempio del genere) 3. Accanto a questo processo dubitativoesisteunaltrotipo, meno importante e meno drammatico:ilcommentotra parentesi. La seguente citazione da L’innominabile (1953) contiene il noto procedimento frase per frase di autocreazione e di autoannientamento:(«sembra che parli, ma non sono io, di me, ma non è di me che parlo» dice l’Innominabile: un uccellino segue Teseo nel labirintoingoiandoilfilo)ma contiene anche un nuovo commentoeditoriale: Dunque a riposo tutti quanti, se si può chiamare riposo quello in cui si attende di conoscere la propria sorte, dicendo, Forse non è cosí, dicendo, Da dove vengono queste parole che mi escono dallabocca,ecosasignificano, no, non dicendo niente, perché le parole non arrivano piú, se si può chiamar attesa quella in cui non c’è alcuna ragione di aspettarsi qualcosa, in cui si sta in ascolto, questo vive, senza ragione, come fu fin dall’inizio, perché un giorno ci si è messi ad ascoltare, perché non si riesce piú a smettere, non è una ragione, ditemi se questo si puòchiamareriposo 4. L’espressione vive è propria del metalinguaggio editoriale.Nonèlalinguadel cogitoergosummadelcogitat ergo est: l’io parlante e il suo discorso non sono percepiti saldamentecomesoggettima come oggetti tra gli altri. Come riconosce l’Innominabile la lingua del romanzo si pone in una relazione metatestuale con il testo: Perchiarirequestafaccenda avrei bisogno d’un bastone, e deimezziperservirmene,dato che quello è ben poco in mancanza di questi, e viceversa. Avrei anche bisogno, lo accenno di sfuggita, di participi, futuri e condizionali 5. Il metalinguaggio presente in questa chiosa viene perfezionato in Bing (1966), dove il «bing» del commento che ripetutamente frantuma la superficie del testo si è alleggerito del suo contenuto lessicale. Si confronti «bing» col suo primo antecedente «plof» ne L’innominabile, quando era ancora pieno di contenuto: «Concludiamo il nostro pensiero, prima di cacarci sopra. Perché se io sono Mahood, sono anche Worm. Plof» 6. Il termine onomatopeico bing interrompelapermutazionee combinazione di una serie di frasi mormorate («corpo nudo bianco fisso», «a testa sfera ben alta», e cosí via) man mano che le combinazioni promettono o minacciano di comporsi in un’unica minuscola benché autonoma immagine criptica di un rudimentale nudo essere umano seduto in una stanza, e in un barlume di senso per questa immagine. Le richieste di bing si fanno piú frequenti (diventano piú imperative) man mano che l’immagine acquista definizioneeilsuosignificato arriva quasi a materializzarsi: «sussurro ultimo forse non solo un secondo occhio spento nero e bianco semichiuso lunghe ciglia supplicanti», cui segue «bing silenzio hop compiuto» 7. Il monologo chiede di passare all’origine di «bing», e cioè alla consapevolezza riflessiva anti-illusionista celebrata e condannata ne L’innominabile. In Senza (1969) una serie infinita di coscienze inserite l’una nell’altra, ciascuna delle quali nega le chimere della precedente, viene presentata nel paradigma di un meccanismo commutativo in dueparti,denominategiorno e notte, in cui ciascuna annulla le chimere dell’altra. Le due componenti sono a loro volta chimere di una consapevolezza totale le cui illusioni sono man mano annullate dall’elemento successivo della serie: «Chimeralalucel’aurorache dissipa le chimere e l’altra chiamata crepuscolo» 8. Tale annullamentoodecreazioneè simbolizzato da un altro meccanismo binario: Senza può essere spezzato nettamente in due parti, di cuilasecondanonèaltroche una casuale riorganizzazione dellefrasidellaprimaparte(o viceversa). Il passaggio da L’innominabile a Senza è quello verso una formalizzazione o stilizzazione di autodistruzione, vale a dire cheviaviacheiltestodiventa nientealtrocheuncommento distruttivo su se stesso da parte della coscienza onnicomprensiva retrocede nella trappola dell’automatismo di cui le ripetizioni meccaniche invarianti di Senza sono l’esempio piú estremo finora realizzato.Traitestiripetitivi che compongono i Residua 9 di Beckett, l’unica variante rimasta riguarda il modo in cui si realizza l’autoannientamento.Sitratta di uno sviluppo interessante perché ha un analogo in una fase precedente della carriera di Beckett, in Watt (1958), l’ouvrage abandonné degli anni della guerra. Qual è il truccostilisticoallabasedelle fantasie logico-computative diWattchelefaapparirecosí vicine alla definizione che Leibniz diede della musica, come «il calcolo misterioso dei numeri»? Il trucco è che Watt abbandona il rasoio di Occam, il criterio della semplicità, consentendo alle ipotesi speculative di proliferare all’infinito, generate da una matrice di carattere ritmico. Ecco un esempiotipico: Forse, chissà, il signor Knott emana una sorta di onde, di depressione, o di oppressione,oforseoraqueste e ora quelle, in una maniera impossibiledacapire 10. Per cominciare possiamo frazionare la frase in tre gruppi ritmici, di cui i primi due sono collegati in coppie parallele: a) Forse, chissà, il signor Knott emana una sorta di onde, di depressione, odioppressione b)oforseoraquesteeora quelle, c) in una maniera impossibiledacapire. All’interno del gruppo a troviamo altre due coppie, equivalentinellaformafonica enellagiunzione: a1)forse a2)chissà a3)didepressione a4)odioppressione. Il gruppo b contiene un’altracoppia: b1)oraqueste b2)oraquelle. Lacoppiaa3-a4formauna coppia con b1-b2. La frase poggia dunque su un sistema di coppie, a tre livelli, le cui componentisonocollegateda equivalenze fonologiche o sintattiche. Una coppia può definirsiingeneralecomeun insieme di due elementi testuali collegati da una relazione di equivalenza o contrasto, di tipo fonologico, sintattico o semantico. La frase che ho analizzato, ad esempio, è un elemento di una coppia, il cui altro elemento si trova dieci frasi primaecheinoltreèpartedi una sequenza di nove frasi che forma una coppia con una sequenza di sette frasi precedenti. La figura alla pagina seguente rappresenta lo schema della struttura di coppiesottesaalparagrafo;la frase da me analizzata è la n. 17. Ciascun paio di blocchi rappresenta una coppia. I blocchi numerati sono le frasi. Nella frase coppie nascoste possono ricorrere alivellodellaparolaodellafrase. Il paragrafo si sviluppa dunquesullabasediunritmo o modello A contro B, un ritmo dominante in Watt, e che si estende anche alla logica dei discorsi del protagonista. Il processo del suo ragionamento oppone una domanda a una proposizione, una risposta a una domanda, un’obiezione alla risposta, una puntualizzazione all’obiezione e cosí via fino a quando si giunge a una fine arbitraria della catena di coppie. Questo ritmo binario è soprattutto il ritmo del dubbio che ha incorporato il debitofilosoficoneiconfronti di Descartes fino al totale annullamentodisenso: Ocnaif a ocnaif, inimou eud.Onroigoretni,ettonalled etrap. Absin id absin. Arolla omavecafasoc?On 11. Nel1934Beckettscrivevaa un amico: «Grammatica e stile. A me sembrano diventati inattuali come un costume da bagno vittoriano o l’imperturbabilità di un vero gentiluomo. Una maschera» 12. All’epoca Beckett stava scrivendo il lapidarioMurphy.Quilostile è consolazione, redenzione, grazia del linguaggio e ripudiodiquellareligioneche troviamo nel Flaubert di Madame Bovary: «Per me conta soprattutto lo stile, e poi il vero» 13. La forza del ripudio di Beckett ci dà la misura del potere seduttivo dellostile.Wattfuilcampodi battagliasucuisicombattélo scontro successivo, vinto dallo stile. Watt sfiora la possibilità di realizzare il sognodiFlaubertdi«unlibro su niente, un libro senza legami esteriori» tenuto insieme «dalla forza interna dello stile» 14. Il ritmo di A contro B sommerge Watt nelle sue nenie soporifere: lo stile del libro è quello del sogno narcisistico a occhi aperti. Quando gli chiesero di spiegare il perché del passaggio dall’inglese al francese, Beckett rispose: «Perché in francese è piú facilescriveresenzastile» 15.È nota la tendenza dell’inglese al chiaroscuro. All’epoca in cui il francese veniva modificato nella direzione della semplicità e del rigore analitico, la Versione Autorizzata della lingua inglesenerafforzavainvecela vena metaforica e connotativa. Per questo Joseph Conrad si lamentava che era impossibile utilizzare una parola come oaken (di quercia) come semplice denotativodatochesiportava dietro tutto uno sciame di contesti metaforici e Beckett affermava di avere paura dell’inglese «perché in questa lingua non poteva evitare di farepoesia» 16.Persinolostile della prima opera di Beckett pubblicata in francese, le Novelle, è piú frastagliato e paratatticodellostilediWatt. La sua prosa francese, pur essendo riconoscibilmente suaquantoquellainglese,siè liberata della stilizzazione o dell’automatismodiWatt. Ma c’è un altro e piú profondo impulso verso la stilizzazione, comune a tutta l’opera successiva di Beckett, ed è quello che si verifica nell’impasse della coscienza riflessiva, del movimento della mente che possiamo definire A e dunque non-A e che Beckett sentenzia nella frase «immaginazione morta immaginate» e altrove spiega come«l’attocheegli[l’artista] compie, incapace di agire, obbligato ad agire, […] un atto espressivo, anche se espressivo solo dell’atto stesso,dellasuaimpossibilità, delsuoobbligo» 17. L’esperienza della lettura di Residua, le prose tarde di Beckett,sconcertaperchénon vi troviamo nessuna delle gratificazioni del sogno a occhi aperti del romanzo: richiedono un’attenzione estrema che continuamente viene sovvertita dalla ripetitivitàstilizzatanelsonno di una macchina. Non offrono sogni a occhi aperti perché il loro tema è precisamente l’annientamento dell’illusione dapartedellacoscienza.Sono meccanismi miniaturizzati di autospegnimento: illusione e dunque silenzio, silenzio e dunque illusione. Come un commutatore non hanno contenuto, solo forma. Sono inrealtàsoloforma,unostile mentale. Lo stile perfetto di un artista per cui la sconfitta rappresenta un universo in cui marciare a occhi aperti verso la prigione dello stile vuoto 18. [1973]. CapitanAmericanella mitologiaamericana L’eroe. CapitanAmericaèavvolto dalla testa ai piedi in un costume rosso bianco e blu e ha in mano uno scudo boomerang dagli stessi colori 1. A meno che non stia riflettendo o non sia un po’ giú di corda, se ne sta accovacciato e con le braccia pronte. Bicipite e deltoide sporgono, i muscoli pettorali e dorsali si increspano potenti, gli sternocleidomastoidi tesi come altrettanti cavi d’acciaio. Ha la mascella quadrata e ben rasata, i denti drittiegliocchi(attraversola mascherabludaaquilasucui è stampata la lettera A) sono azzurri come l’acqua di un torrente di montagna. Il coloristadellaMarvelComics di solito sottolinea l’inguine di Capitan America ombreggiandolo appena. Ma quello che il Codice di controllointernodellaMarvel sottrae qui, la Marvel lo ripropone altrove, facendolo sbocciare dall’agile bacino verso il basso e verso l’alto, polpaccimuscolosiestivaliai piedi,bracciamassicceemani coi guantoni, collo taurino e mascella volitiva, sempre eroicamente ripreso a un angolodi45gradidifronteo dal basso, Capitan America è un grande fallo imbandierato in marcia, come tutti gli eroi avventurosidaAchilleinpoi, in cerca di un nemico degno di tanta turgida dislocata potenza.Edaqualchepartesi nasconde in eterno l’arcimalvagio, orrendamente fasciato di muscoli o dal cranio supersviluppato, pronto a schizzare fuori dall’ombra e a misurare tutte le sue doti con quelle di CapitanAmerica. Capitan America conduce un’oscuradoppiavita,sottoil nome di Steve Rogers, un giovane e tormentato poliziotto. Quando Steve Rogers s’infila una triste giacca a vento e riprende la sua timida relazione con la bionda teenager Sharon Carter i muscoli sembrano scomparire. Il costume eroico,ilcorpotumescente,lo scudo della virtú, l’emblematica «A» (di «America» ma anche di «Asso» e di «Adamo») sono inseparabili.CapitanAmerica è l’alter ego sognato dallo scialbo cittadino Rogers, maritoansiosoinnuce.Sotto lespogliediCapitanAmerica, Rogers spezza ogni legame tranne quelli con i suoi compagni d’arme. La sua armatura lo protegge dalla femmina adorante e stuzzichevole che invano cerca un appiglio sulle sue convessità montuose. Il cavalier cortese venerava una donna tabú, s’inginocchiava davanti al suo signore, sviluppava relazioni omoerotiche con i suoi compagni e andava avanti tutto d’un pezzo, malgrado il complesso edipico che lo dilaniava, colandosi in uno stampo d’acciaio. Capitan America è il discendente americano di quel cavaliere, passato attraverso Natty Bumppo, con le sue cinque identità e il suo lungo fucile; Arthur Dimmesdale che si scopre il petto con la A tatuata mentre con l’altra cerca di tenere a bada la madre/moglie predatrice e Huck Finn, protettore e protettodelnegroJim. Quando Steve Rogers diventaCapitanAmericalofa per tenere la situazione sotto controllo. Perché ormai è definitoeinchiodatodallasua icona. La linea che lo definisce è netta e rigorosa. I colori che lo identificano sono elementari e non sbavano mai oltre la linea. L’emblema proclama la sua verità,contenutaemantenuta a tre livelli: dall’esoscheletro muscoloso, dalla maschera e dal costume e dalla linea che lo delimita, Capitan America èl’immaginediunegoforte 2. Quando si allaccia la cinta si abbracciaifianchi,chiudendo il lucchetto simbolico della fibbia, richiama l’attenzione sul suo sesso e proclama la sua castità. Indossando la mascherasiponealdisoprae al di fuori della famiglia e della legge: come un eroe protestante d’ora in poi darà ascolto solo all’autorità della voce interiore. Non è piú un elemento sul mercato del lavoro ma un Custode autonomo della Repubblica. Salta dalle anguste e monodimensionali strade cittadine alla giungla dei tetti e in cielo. Quando monta sulla moto, la moto vola. Il suo territorio d’azione si allarga,sfondaleporte,lancia i nemici dalla finestra, si catapultafuoridalpianodella pagina,sfondaladivisionetra le vignette, si lancia e si cala da una prospettiva all’altra, subordinando la composizione-colore di ogni inquadratura al suo blu dominante. Ilnomedelgiocoèlibertà: «LA VITTORIA DI ARTIGLIO GIALLO È LA SCONFITTA DI TUTTO IL MONDO». Capitan America è il terzo Adamo in missione per salvare il mondo. Ma, come il secondo Adamo, non può usare tutto il suo potere: per una legge mitologica i salvatori devono essere per metà divini e per metà mortali, ponti tra l’umano e il trascendente, divinità handicappate. Capitan America è messo in croce dal dilemma della sua forza straordinaria: da una parte lo isola dal resto dell’umanità e dall’altra lo trascina in duelli impari nei quali può battersi solo per contenerel’altroemetterloin fuga, mentre il nemico si batte all’ultimo sangue. Disprezzato o rifiutato, è un uomodolente,checomeGesú e tutti gli altri eroi cristiani è impervio a qualunque assalto frontale ma facilmente cade nellatrappoladeltradimento, il colpo di Giuda. Quando l’eroe è atterrato il colpo che lo finisce non è eroico per definizione e la sconfitta, nella transcodifica cristiana deivalori,diventalavittoria. Ilmale. Capitan America non si batte contro il crimine ma controilmale.Delcriminesi può occupare la legge: i poliziotti dei fumetti non fanno altro che beccare malviventiespedirliingalera a testa bassa. Ma il vero arcinemico riesce sempre a scappare dalla guardina e ricomincia con i suoi tiri mancini.Laleggenoncelafa contro il male. La Cia, al di sopraealdifuoridellalegge, viene mitizzata in Capitan America come uno SCUDO (S.H.I.E.L.D. ) e risponde alla tecnologia infernale del male con la propria tecnologia marziale («la guerra è un gioco sporco»). Ma lo S.H.I.E.L.D. non è eroico. Capitan America intrattiene con la legge un rapporto ambiguo quasi quanto lo S.H.I.E.L.D. ed è un eroe non perché fuorilegge ma perché, mentrelo S.H.I.E.L.D. fasoloil suolavoro,luirispondeauna vocazione: l’imperativo categorico calvinista di assoluta urgenza e assoluto rigore. L’ideologia. Naturalmente Capitan America si riferisce alla sua missione semplicemente come a «un lavoro». L’eroe cristianoèumileecosípureè l’eroe dello Stato-nazione. Mettendosi sull’attenti davanti al suo capo in un atteggiamento che dice: «Sono il tuo uomo» attribuiscelesuegestaeroiche allo Stato che lo ha creato. «Facevo solo il mio lavoro», valorizzando cosí, con un trucco sillogistico, tutte le funzioni dello Stato-nazione. «L’eroe fa solo un lavoro e dunque anche un semplice lavoro è eroico. Fai il tuo lavoro». È possibile vedere il costume di Capitan America comeunacamiciadiNessoin cui l’eroico redentore nudo è statoinfilatodalloStatoposteroico e post-cristiano. Quando il nemico combatte, lancia minacce grandiose. A Capitan America quando combatte tocca farlo con le battute argute dell’uomo qualunque. La Marvel Comics, attraverso Steve Englehart, non ha dato a Capitan America un linguaggio eroico commensurato al suo corpo; c’è qualcosa nei fumetti della Marvel che sembra voler domare l’eroe solitario a vantaggio di una piú grande America. Il nemico è piú ironico e disinvolto, ma Capitan America, piú sobrio, è anche la piú efficiente macchina da guerra. È stato imbrigliato nell’interesse del principio di prestazione 3. Nel caso di Hulk, l’eroe eponimo di un’altra serie di fumetti, la guerra in nome del principio eroico è portata all’estremo: un misantropo mostruoso, idiotaeverdepisello,Hulk,si aggiraperidesertidighiaccio del Canada cercando di sfuggire ad americani e sovietici che vogliono catturarlo e domarlo: «HULK VUOLE SOLO FUGGIRE DAGLI UOMINISTUPIDIEDALLELORO STUPIDE MACCHINE» (L’IncredibileHulk). È possibile addomesticare l’eroe americano? Da Natty Bumppo a Steve Rojack è sempre stato un uomo della frontiera che sfiorisce nel confine domestico. «IL PERICOLO PER LUI È COME CIBO [...] UN CIBO DI CUI HA BISOGNO PERCHÉ PER VIVERE SOLO [...] QUANDO RISCHIA DI MORIRE [...] È (Capitan America).SteveRogersnonè solo l’alter ego, ma anche il rovescio di Capitan America, quando è distolto dalla sua solitariaossessioneperilmale dalla bionda pseudoredentrice, Sharon Carter, una tipica wasp. Sharon Carter vuole amore e DAVVERO VIVO» matrimonio, un reddito sicuro e rispettabilità. La storia dei due appartiene alla seriediagoniaedestasidiEve Jones del giornaletto per famiglie, mentre quella subletteraria di Capitan America trova posto al supermercato,negliscaffaliin ombra, quelli con i libri da leggeresottol’occhiovigiledi una telecamera a circuito chiusoonell’umidasolitudine diunacameradaletto. Ilpadre. Avendo ceduto alla Donna, il padre è per definizione troppo impuro peressereuneroeamericano. In Capitan America la figura delpadre,NickFury,èacapo delloS.H.I.E.L.D .Furypresenta tutti i segni del senso di fallimento che lo consuma: nonsisbarba,fuma,esenon fosse per le norme imposte alle pubblicazioni a fumetti sarebbe anche un forte bevitore.Vasoggettoacrisidi malinconia.Èsottoilgiogodi unacontessaeuropea,brunae probabilmente depravata. Combatte secondo il classico stile western, da spaccone rissoso. Laddove il vero fuorilegge porta la maschera, lui porta una piratesca benda sull’occhio,permetàdentroe permetàfuoridalSistema.A volte si finge fratello maggiore,Lancillotto,rispetto al Galahad/Capitan America; ma quando ha avuto una brutta giornata affiora l’ostilità: «SONO ANDATO AVANTI A COMBATTERE PER IL MIO PAESE: SECONDA GUERRA MONDIALE, GUERRA DI COREA, GUERRA FREDDA! HO PASSATO VENT’ANNIESONODIVENTATO VECCHIO L’AMERICA E [...] GRIGIO E PER ADESSO SPUNTI TU, TUTTO BIONDO CON GLI OCCHI AZZURRI [...] E GIOVANE! », voce autentica e furibonda della Legione americanaedeiVeteranidelle guerre all’estero, dell’americano medio con la mogliecadente,ifigliingratie ilmutuodapagare. Ilgotico. In America il gotico si spoglia.Dalgotico,unbrivido dopo l’altro, i nervi tesi in un’orgia di suspense, l’orgasmo della rivelazione sempredietrol’angolo,deriva lo striptease. Nel gotico alto (Henry James) il segreto ultimo è velato, oggetto di infiniti sussurri. In quello basso(Poe,CapitanAmerica) ci sono due momenti: nel primo lascia cadere il velo e l’innominabile divampa: Ligeia, il Teschio rosso. Nel secondo fa marcia indietro: no, non è questo. Non era questo che volevo. L’oscurità del nero deve aspettare il prossimo numero. Il gotico alto è arte del coitus interruptus con un oggetto unico;ilgoticobasso,comela pornografia, è arte dello stupro su un oggetto dopo l’altro. L’energia di tutto il goticovienedaun’unicafonte libidinale, il desiderio proibito. Il gotico dunque ha unsoloscopo:dareunnome, possedere ed esorcizzare la sua ossessione. E poi anela all’Eden, a un’età prima del peccatooriginale,primadegli avi. Capitan America fa incursioni sfrontate nel mondo simbolico del gotico, nei suoi castelli tenebrosi e nei suoi labirintici corridoi sotterranei. Capitan America nel castello gotico è l’innocenza americana nel labirinto della vecchia psiche europea. In un episodio il signore del castello, uno psicologocruccoconilpincenez e il farfallino, viene chiamato, per un lapsus freudiano, Dottor Faustus. Perso nel labirinto, Capitan America viene aiutato dalla vergine del castello che cospira con lui per abbattere ilsuosignore(motivodiJack l’Ammazzagiganti). La sua missione è quella di raggiungere il cuore del castello, protetto da mostri e da massicci portoni, dove dovrà distruggere il laboratorio infernale in cui il malvagiopreparaisuoibiechi piani che lo porteranno a dominare il mondo intero. «PIANI CHE HO CONCEPITO DURANTE I MIEI ANNI DI ISOLAMENTO CONTEMPLATIVO [...] PIANI CHE MI METTERANNO IN MANO IL MONDO » (Artiglio giallo). Avatar di Faust, fratello di Roger Chillingworth, del Capitano Achab e di Gilbert Osmond, intellettuale e mistico,ilmalvagioindirizzai raggi del suo furore distruttivo contro Capitan America, ma Capitan America, impermeabile a ogni magia, fa un salto indietroelomettekoconun beldestro. Lascienza. Il mito dietro le storie di Capitan America è un mito cristiano del Cristo dall’animo sempre vigile per respingere gli assalti di Satana. Per trovare metafore adeguate per l’immensità delle forze in conflitto, le storie possono ricorrere solo alle invenzioni della fantascienza, a sua volta una variante del gotico. Cosí la straordinariaforzadiCapitan America viene spiegata come l’effetto di un’inaspettata reazione chimica tra le sostanze inoculate nel suo sangue.Allafarmacopeadelle pozioni magiche che risalgono all’antichità la fantascienza aggiunge tutto un repertorio di raggi magici e di macchine che li producono. Quattro norme regolano i rapporti ideologici della scienza dei raggi e delle pozioniconilbeneeilmalee con Capitan America, i suoi nemicieisuoialleati: Lascienzaèneutrarispetto albeneealmale. Capitan America appartiene al dominio del bene ma non a quellodellascienza. Il malvagio appartiene al dominio del male e a quellodellascienza. Lo S.H.I.E.L.D. appartieneal dominio del bene e totalmente a quello dellascienza. Malgrado il sostegno «politicamente corretto» di unascienzaneutrale,lestorie di Capitan America dunque rimangono fedeli alla diffidenza prerinascimentale nei confronti dell’intelletto nonschierato,chesiperpetua nel calvinismo, nel New England puritano e nell’America agnostica. Vi rimangono fedeli sollevando l’interrogativo implicito: se i poli dell’eroe e del malvagio sono simmetrici rispetto al bene e al male, ma asimmetrici rispetto alla scienza (cosicché la scienza è asimmetricarispettoall’eroee almalvagio)comeèpossibile che la scienza sia simmetrica rispetto al bene e al male? La questione è irresolubile dal puntodivistageometrico. L’uomonero. Fratello di sangue di Capitan America, il ChingachgookdiNatty,ilJim diHuck,èFalcon,ilvigilante mascherato di Harlem. Ma Falcon è diviso tra la devozione per il fratello bianco e la fedeltà alla sua ragazza nera, Leila. Perché Leila non solo vuole, in quanto donna, domare il suo uomo (Leila < Dalia): Leila è anche influenzata dagli estremisti neri che predicano l’esclusivismorazziale. Quando Falcon prova a staccarsi, Capitan America fa appelloallasuacoscienza: FALC, SIAMO DIVERSI [...] NON LONEGO,NONCISONOMAISTATI NÉ MAI CI SARANNO DUE UOMINI PROPRIO IDENTICI [...] NERI E BIANCHI, GIOVANI E VECCHI [...] MASCHI E FEMMINE [...] FORTI E MENO FORTI. DA QUALUNQUE PARTE CI TROVIAMO CE N’È SEMPRE UN’ALTRA DIFFERENZE [...] POSSONO LE ESSERE IMPORTANTI [...] MA QUELLE TRA ME E TE NON LO SONO! TUTTI E DUE ABBIAMO OBIETTIVO: LO METTERE STESSO FINE ALL’INGIUSTIZIA! Capitan America aspira allarealizzazionedelsognodi Fenimore Cooper di fratellanza dei nobili uomini della natura e, ignorando le ombre gotiche che si addensano attorno alla figura dell’uomonero,ildialogodei fumetti della Marvel fa intendere che un giorno quel sognodiventeràrealtà. L’arte. GOCCE DI RUGIADA FANGOSE SPORCANO IL PARABREZZA DI MACCHINE ABBANDONATE, MENTRE IL SOLE CHE SORGE LANCIA UNA PROMESSA AFOSA NELL’ARIA UMIDA, SOFFOCANTE. VECCHI RECIDONO I TESI FILI DI RAME CHE GIORNALI RINGHIA I MATTINO. LE PREPARANO IL DEL CAFFETTERIE CAFFÈ STRINGONO CALDO. IL SUO NEW YORK SALUTO UN’ALTRAGIORNATAD’ESTATE. ILFAVOLOSOCAPITANAMERICA. A Per le masse questa è letteratura, parte del sussidio che il Mercato paga alla Cultura per essersi impadronitodellaParola.Per i piú sofisticati è una parodia nello stile del racconto di Sir Thopas di Chaucer. Immaginate la situazione critica di Steve Englehart, autore e satirista. Da una parte non è in grado di inventare una lingua epica adeguata all’iconografia eroica(sivedaperesempioil linguaggio aulico che attribuisce al dio Thor nella serie I Vendicatori) dall’altra la Marvel non gli permetterà ditrattareilsoggettosecondo lelineedellaserietelevisivadi Batman. Motivo per cui procede infilandoci elementi parodici per suggerire che è uno che la sa lunga. Le immagini scultoree, contorte e violente si mantengono ancora fedeli all’avventura trascendentale goticoamericana,mentrelalinguaè banale e a malapena funzionale (immagine: un uomo gigantesco afferra una donna che si divincola. Il fumetto dice: «LUI È COSÍ FORTE! » Dunque la narrazione verbale, l’aspetto consapevole delle storie che abbracciano il commento politico di attualità 4, la rilevanzasocialebenpensante, l’amore adolescenziale e la riflessività annacquata postmodernista, possono essere considerati sovversioni e demistificazioni di un mito venerabile. La struttura compositiva di Capitan America rappresenta quindi un momento di conflitto ideologico profondo nella storiaamericana: [1976]. Appuntisulrugby Il rugby fa parte di un gruppo di giochi di origine antica e di ampia diffusione incuiduesquadrediuomini disarmati lottano per il possesso di un oggetto che cercanodiportarenelproprio campo. Il gioco è di per sé violento, ed è stato spesso messo fuori legge («Niente altro che furia bestiale e violenza estrema», Sir Thomas Elyot, 1531). Il regolamento attuale del football rappresenta il tentativo di isolare una variante non violenta del gioco. In particolare, il regolamento del rugby vieta di attaccare («placcare») un giocatore che non abbia la palla. Il problema di come portare via la palla a chi ce l’ha e di come impadronirsene è materia di una complessa e intricata serie di regole. Nonostante i vari emendamenti, queste regole rimangono insoddisfacenti per vari motivi: 1) sono inesatte nella misuraincuipermettonouna pluralitàdiinterpretazioni;2) danno luogo a una fase del gioco priva di interesse estetico; 3) non riescono a impedire incidenti e consentono una certa violenza nascosta; 4) in generale non riescono a tenere il pallone in movimento come dovrebbero; 5) contribuiscono pesantemente arendereilrugbyungiocoil cui risultato è deciso dall’abilità nel segnare punti conuncalcio. Piccole modifiche alle regole non servono a cambiare la situazione. È del tutto improbabile riuscire a stabilireperungiocodipalla una serie di regole che portino a un gioco non violento, vivace e continuato. Il regolamento del football americano riconosce tale impossibilità e dichiara la palla morta nel momento del placcaggio. Il rugby sogna di essere il trionfo della velocità, dell’agilità, della forza e del cameratismo. Di tanto in tanto, in mezzo a tanta fatica esudore,unsegno,unlampo di bellezza, fa pensare che il sogno non sia privo di fondamento.Mailampisono intermittenti.C’èunerroredi base nella concezione del gioco. Allora la domanda da porsi è: Perché questo gioco cosí pieno di limiti gode di tanto successo, e perché proprioinSudafrica? Il rugby è uno fra i tanti sport inglesi a essere stato esportato nelle colonie. La prima roccaforte di questi sport – in particolare di cricket e rugby – è stata la public school, dove furono sostenuti da una borghesia florida e in espansione come veicolo di diffusione dei suoi valori;piúprecisamentecome veicolo di diffusione di una serie di mistificazioni attraverso cui quella classe si vedeva e voleva essere vista dagli altri: «fair play», «che vinca il migliore», «spirito di squadra», «non arrendersi mai», «impassibilità» e cosí via. Attraverso questi sport, i figli della borghesia venivano iniziati ai valori della loro classeeunavoltaasettimana li riaffermavano in maniera rituale.Sepassavanolaprova di«giocareilgioco»ifiglidei commercianti guadagnavano accessoallaborghesia. Esportati nelle colonie, centralizzate le regole sotto il controllo delle autorità dell’International Rugby Board e dell’International CricketConference,ilrugbye ilcricketassolserolafunzione supplementare di rafforzare unaborghesia«anglosassone» i cui legami internazionali erano piú saldi di quelli nazionali.Daquilacreazione di squadre nazionali, tour internazionali, test match e cosí via, che offrivano l’occasionedimettereinscena il conflitto in nome di una rivalitàamichevole. L’impatto politico del rugby in Sudafrica è stato enorme dagli inizi del Novecento fino agli anni Sessanta, anni in cui il gioco divenne(inunmodochenon riuscíalcricket)lostrumento che permise all’afrikaner economicamente svantaggiato di affermarsi come per magia sull’inglese. La sua struttura piramidale (club, provincia, nazione) costituiva inoltre un modello – come molti politici compresero – dell’unità politica bianca. I valori di classe attribuiti allo sport dagli inglesi e i valori nazionali (spesso etnici) attribuitigli dagli afrikaner portarono a una strana doppia visione: lo spettatore A legge una partita tra il SudafricaelaNuovaZelanda come l’occasione per una nazioneditrionfaresull’altra, mentrelospettatoreBleggela stessa partita come la celebrazione degli antichi valoriimperiali.Macomeben sappiamo, il matrimonio ha retto. A qualsiasi lettore di articolisportivisulrugbynon sarà sfuggito come questi regolarmente evitino di prendere in considerazione l’esperienza che lo spettatore fa del gioco. Ignorandola completamente la cronaca sportiva rimane impantanata nella piú positivistica e rozza delle concezioni di quel che significa guardare («X fa una finta e supera un placcaggio prima di passarla a Y, che segna nell’angolo»). La situazione è assurda. Per migliaia di persone, i pomeriggi invernali del sabato rappresentano il culminedell’interasettimana, un’esperienza di cui poi non riescono a parlare perché gli mancano le parole. Divorano i giornali sportivi affamati di panematrovanosolopietre. Perciòsevogliamoparlare dell’attrazione esercitata dal rugby sulle masse dobbiamo cominciare da zero, con l’esame piú elementare della nostra coscienza. Sotto quale categoria possiamo dire che cade la nostra esperienza quandoguardiamolapartita? Ho il sospetto che abbia molto a che vedere con la nostra esperienza del tempo. L’attrazione di una partita di football è in primo luogo quelladeltemposottrattoalla cronicità, un’oasi di ottanta minuti prelevati dalla routine consequenziale del tempo, il tempo dell’entropia, dell’esaurirsi dell’universo. Il gioco promette di dare senso aunlassoditempo(inquesto è simile a una narrativa), e mantiene la promessa abbastanza spesso da fare tornare lo spettatore. Per individui post-religiosi, le cui vite sono sommerse nel chronos, che si sentono morirementresonoancorain vita, l’esperienza di aver dato unsensoaltempo–qualcosa che potremmo definire una piccola esperienza di trascendenza – è cosí frequente che il sabato pomeriggio è piú importante delladomenicamattina. Non è solo nella struttura generale come agone o gara che il gioco promette la liberazione dal tempo dell’orologio, ma anche nei dettagli. Forse piú che in qualsiasi altro gioco in cui i concorrenti si inseguono nello stesso spazio e stesso tempo, le varietà di football procurano quelle esperienze momentanee (che in gergo giornalistico si chiamano «emozioni») in cui il senso del tempo dello spettatore si allunga e la lancetta dei secondi rallenta: un corpo si tende per superarne un altro, un passaggio è troppo lento, una presa la sfiora, la manca; la palla è sospesa in aria, un corpobalzainalto,l’afferra. Tali momenti di per sé non sono niente. La loro realtà fenomenologica può essereriprodottanelcortiledi casa. Ma quando se ne fa l’esperienza in mezzo a una folla di migliaia di persone, l’attenzionediognispettatore carica di valore ogni momento. Ognuno è dunque impegnato a creare e a confermarevaloreperciascun altro.Leanalogietralepartite di football e i raduni politici tendonoaesserefalsementre l’analogia con gli spettacoli religiosi può essere meno banale. (Nessuno riesce a convincere il pubblico che le trasmissioni in differita del rugby possano risultare altrettanto emozionanti di quelle in diretta). Ciò perché il pubblico sa che la redenzione del tempo può avvenire solo nel tempo e in seconda battuta perché conosceilrisultato. Una seria analisi fenomenologica dello spettacolo del rugby procederebbe dall’esperienza del tempo a quella del momentum della gara, e da altre categorie di esperienza estetica e cinestetica che, persinonellacriticadiun’arte del movimento cosí evoluta comeladanza,nonsembrano essereancorabensviluppate. Se si osservano i bambini intenti al gioco si possono, nelle forme piú elaborate, notare due fasi, una in cui si discutono le regole e una in cuisigioca.Nellaprimafasei bambinidefiniscono,percosí dire, uno spazio in cui può svilupparsi la fantasia del gioco;nellasecondasigiocail gioco fino, in un certo senso, a saturare quello spazio e al sopraggiungere della noia. A questo punto si torna alla prima fase, e le regole vengonomodificate,oppureil giocotermina.Spessolefasisi alternano rapidamente. A volte i giocatori vanno letteralmente fuori fase: alcuni giocano il gioco mentre altri giocano il gioco delle regole (erroneamente definito «discutere del gioco»).Questoèilmomento delconflitto. Generalmente si tende a considerare la prima fase come un semplice preliminare. Ma in realtà si tratta della fase di maggiore creatività, paragonabile alla definizione del problema in opposizione alla risoluzione del problema. Le due fasi sono naturalmente in rapportodialettico. Se scopo della seconda fase, il gioco stesso, è consentire una esibizione di eccellenza (misurata forse dalla vittoria) qual è allora lo scopo della prima fase, il gioco delle regole? Una sola risposta è possibile: definire un buon gioco. Potremmo soffermarci a stabilire alcune delle qualità di un buon gioco, ma non è questo il punto;ilpunto,invece,èchei bambini che compongono i giochisitrovanod’accordosu queste qualità, come se avessero un paradigma di quellocheèunbuongiocoin generale. Da dove provenga tale paradigma – da fonti culturali o ereditarie – non saprei. Penso che si potrebbe provareasostenerelapriorità di quest’ultima categoria, ma nonavrebbealcunarilevanza. Sonoperfettamented’accordo con Johan Huizinga quando affermacheèsbagliatovedere il gioco come qualcosa che esprime solo se stesso: «Il concettodigiocodevesempre rimanere distinto da tutte le altreformedipensiero» 1. Possiamo definire lo sport come un gioco giocato secondo regole precise. Per definizione dunque il giocatore di uno sport è escluso dal giocare il gioco delle regole. In cambio di questa rinuncia gli viene offerto un regolamento perfettamente articolato che garantisce, per lo piú, la realizzazione di un buon gioco. In altri termini, quando pratico uno sport gioco il gioco (come si dice), quello degli altri, non piú il miogioco.Semiannoiodevo sopportare la mia noia. La noia diventa il destino, non trovapiúpostonelladialettica delgioco. A scuola, e soprattutto nelle scuole maschili, c’è una netta divisione tra «gioco libero» e sport, e sempre a svantaggio del gioco. Mentre allo sport è attribuita un’esplicita funzione ideologica («formazione del carattere») il gioco resta qualcosa di sospetto, di frivolo. Molto prima dell’adolescenza si fa pressione sul bambino affinché lasci i giochi all’aperto e si metta sotto la protezione delle regole. L’ontogenesi qui riassume la filogenesi. Le vecchie varietà locali dei giochi, dotate di regole non codificate ma basate sul consenso, che variavano a ogni occasione, erano guardate con sospetto dalle autorità e finirono col diventare irrilevanze pittoresche. Il bambino che si sottomette al regolamento e gioca il gioco mette in atto perciò un momento culturale di profonda importanza: il momento in cui si compie il compromesso edipico, il momento in cui il ginocchio si piega al governo. Questo è ilmomentoincuisiseparano lo sport e le arti, le due piú complesse forme di gioco. Nelle arti creative l’artista deve comporre il gioco e anche giocarlo. Egli asserisce cosí un’onnipotenza cui il giocatore sportivo si arrende. Ciò aiuta a spiegare perché l’autorità politica utilizzi cosí facilmente gli sport e se ne appropri mentre le arti restano inafferrabili, resistenti, inaffidabili come terreno formativo morale per igiovani. In questi appunti ho parlato del rugby del tutto dall’esterno. Un resoconto piú pieno implicherebbe, tra le altre cose, un’analisi dall’interno, che coprirebbe aree come l’esperienza che il giocatorehadelgioco(incui potrebbero prevalere categorie come il controllo dello spazio e lo sforzo) e la politica interna del rugby. Il rugby, piú di qualsiasi altro sportspettacolare,èriuscitoa tenere soldi e potere lontano dalle mani dei giocatori lasciandoli in quelle delle cricche degli amministratori. Un’analisi di questo tipo potrebbe riguardare il funzionamento della macchina del rugby – per mezzo di quali canali istituzionali i giocatori, uomini adulti, vengano persuasi a lasciarsi trattare come bambini; come vadano gestiti i «facinorosi» (a ogni livello del gioco); come operi il sistema delle sponsorizzazioni attraverso cui i giocatori vengono indirizzati entro organismi commerciali a loro volta collegati con gli amministratori; quale sia esattamente la rete di relazioni tra l’amministrazione del rugby, il sistema educativo e il governo,unaretechesembra costituire la risposta sudafricana alla rete degli «oldboys»britannici,comesi costruiscano le carriere e come si avvicendino gli amministratori,qualisianole mutue dipendenze tra giornalismo e amministratori – tutto questo costituirebbe un ricco campo di indagine per qualcuno che abbia accesso al sistema senza dipenderne finanziariamente, setalepersonaesistesse. [1978]. Strutturetriangolaridel desiderionellapubblicità Latransazione. Sonofrequentileformedi pubblicità in cui l’immagine di un prodotto (per esempio una bottiglia di profumo) e quella di un modello (per esempio, una donna bellissima) sono associate a untestochelegailmodello(o piú precisamente lega la sua proiezione, il suo benessere, la sua bellezza e cosí via) al prodotto («La fragranza adatta a come ti senti oggi» potrebbe essere un tipico esempio). Scopo di un annuncio pubblicitario di questo tipo è creare un legame – il legame dato dall’acquisto – tra il prodotto pubblicizzato e il fruitore della pubblicità. La necessitàdiunterzoelemento nellatransazione–ilmodello – non è quindi affatto ovvia. Tuttavia la prassi pubblicitaria sembra aver dimostratochealmenoinuna certa gamma di situazioni la forma della pubblicità in cui l’immagine del prodotto è mediata per il consumatore attraverso l’immagine di un consumatore idealizzato – il modello – «funziona» meglio di una forma non mediata in cui si presenti soltanto l’immagine del prodotto (in entrambiicasi,naturalmente, a giocare il ruolo di mediazione c’è comunque il testo). Si sarebbe tentati di pensare che, nella forma mediata,latransazione«vera» sia quella effettuata tra il prodotto e il consumatore, cheilmodellosiainessenziale e che possa essere eliminato come si eliminano i calcoli fattiinbruttacopiaunavolta trovata la risposta a un problema di aritmetica. Quellocheintendosostenere, invece, è che la struttura intrinseca delle informazioni pubblicitariechesiservonodi modelli è autenticamente triangolare (in altre parole, che non c’è modo di ridurre la struttura da una triade a unadiadesenzafalsificarla),e che la particolare struttura sviluppata dal critico René Girard per parlare di mediazione del desiderio nel romanzosipuòapplicarealla strutturadellapubblicità,con apprezzabilirisultati. Il mio ambito di discussionesilimitadunquea quelle forme di pubblicità in cui sia apertamente presente un modello a mediare tra prodotto e consumatore. Tuttavia,comeaccenneròpiú avanti, anche quando il modello è assente sarebbe un errorepensarealrapportotra consumatore e prodotto nei termini di una diade, in quanto la macchina fotografica media tra i due con il ruolo non neutrale di occhio desiderante. La mia argomentazione è basata sull’impiantofenomenologico di Girard, anche se tale approccio ignora i vantaggi della ricerca positivista applicata alle dinamiche psicologichedellapubblicità. Il desiderio consumatore. del Le spiegazioni ortodosse della psicologia della risposta del consumatore alla pubblicità rientrano in due ampie categorie. La prima poggia sul meccanismo dell’identificazione: il consumatorevienepersuasoa identificarsi con il consumatore idealizzato ritratto dal modello, e di conseguenzaindottoavolere, ausare,acomprarequelcheil modellosembravolere,usare, comprare. La seconda si basa sulprocessodell’associazione: l’immagine pubblicitaria è talecheilprodottoconvoglia sudiséleassociazioniconciò che è fascinoso, desiderabile, superiore e cosí via (in generale si tratta di associazioniinesprimibilicon le parole) cosicché il consumatore è indotto a desiderare il possesso del prodotto,alfinedicatturarne leassociazionieincorporarle. Entrambe queste interpretazioni aspirano a spiegarepraticamentel’intera gamma degli annunci pubblicitari. Dal momento che possono essere tra loro complementari, si possono chiamareincausanellostesso momento; come del resto fa chi lavora nell’industria pubblicitaria. Nella misura in cui indaga sulle proprie basi costitutive (e non invece quando svolge indagini di mercato) l’industria opera all’interno dei paradigmi dell’identificazione e dell’associazione. A chiunque voglia sviluppare una critica della pubblicità in quanto parte dell’ordine capitalista, questo fatto dovrebbe fornire materia di riflessione: se l’industria stessa utilizza tranquillamente tali paradigmi esplicativi, è improbabile che una critica che si serve degli stessi paradigmi possa avere un qualchevalore. Non è mia intenzione discutere ulteriormente le teorie dell’identificazione e dell’associazione, o cercare di sostenerne la debolezza rispetto alla teoria che intendo abbozzare. La scelta tra teorie psicologiche in competizione tra loro dipende sostanzialmente da quellecheciascunoconsidera provevalide.Inparticolare,la base positivista della teoria delle associazioni comporta l’utilizzazione dei soli comportamentiquantificabili, mentre l’interpretazione fenomenologica si oppone alla richiesta di dati separati dall’esperienza del soggetto. Ogni tentativo di mettere a confronto spiegazioni rivali, prescindendo dai loro fondamenti filosofici, è dunquedestinatoanonavere alcun effetto. Evitando i confronti, mi limiterò semplicementeaillustrareper accenni una risposta del soggetto all’informazione pubblicitaria dimostrando come entri in conflitto con tutte e due le tesi appena menzionate. Questa spiegazione si basa ingranpartesull’analisidella forma del desiderio triangolare sviluppata da René Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca. Prendiamo due esempi di annunci pubblicitari con mediatori espliciti e leggiamoli secondo la teoria diGirard. Ho già accennato alla primapubblicità.L’immagine di una donna bellissima guarda l’osservatore dalle paginediunarivista.Vicinoa lei, ma su un altro piano, l’immaginediunaboccettadi profumo X. Il testo collega il «tu» che è al tempo stesso modella e osservatore con il profumo (in altri casi l’immaginedellaboccettapuò essere semplicemente collegata in modo metonimicoallabellezzadella modella). La promessa della pubblicitàèche«tu»cheusiil profumoXseibellissima. Secondo la teoria dell’identificazione,sicompra il profumo X perché ci si identifica con (o piú precisamente, si desidera identificarsi con) quella bellissimadonna.Inbasealla teoria dell’associazione lo si compra perché lo si associa, mediante uno slittamento metonimico, a donne bellissime e pertanto si spera chelabellezzasiassociatutte le donne che usano quel profumo. Nella lettura girardiana, si desidera il profumo X perché si è raggiunto lo stadio in cui si cede la scelta dei propri desideri a modelle come questa: desideriamo quello che crediamo sia lei a desiderare:ilprofumoX. Il secondo esempio è leggermentepiúcomplesso.Il ritratto di una donna bellissima, e vicino a lei una boccetta del profumo X. Accantoc’è,inposafascinosa e dominante, un uomo desiderabile. Di nuovo, secondo la lettura girardiana, dal momento che si è abdicatoinfavoredeimodelli allasceltadeipropridesideri, sidesideraciòchedesiderala modella:nonsoltantol’uomo (chedesiderandolaasuavolta legittima la scelta di lei come modello)mailprofumoX. Non voglio sostenere che una o l’altra di queste immagini si possa leggere soltanto in senso girardiano. (Peraltro, nel secondo esempio, la lettura girardiana sembra ignorare la logica del «se usi il profumo X sarai desiderata da uomini desiderabili» perfettamente soddisfatta dalla teoria dell’identificazione. E d’altra parte, se questa particolare logica fosse impeccabile, allora la modella non dovrebbeesserebellissimama appena appena attraente, come quelle delle pubblicità dei detersivi). Fino a questo punto mi sono limitato a mostrare come potrebbe presentarsi una struttura triangolare del desiderio. Ora è necessario spendere due parole di spiegazione sul desiderio. Lo sguardo della modella raramente è mostrato, avido ed eccitato, come fisso sul bene di consumo. La ragazza guarda invece fuori dalla pagina, è un’immagine di desiderio attivo ma appagato. Ha già usato (assorbito, consumato) ilprofumo,chehafattodilei ciò che è (felice, bellissima, non appena cerchiamo di descrivere lo stato d’animo della modella di regola ci ritroviamo a chiamare in causa l’intero suo essere): adessoèsoddisfattama(come il consumatore) è insaziabile pernatura. Da questi esempi è chiaro che il desiderio triangolare è, persuaessenza,vicario.Nella letteratura i piú celebri esempi di desiderio vicario sono Emma Bovary e Don Chisciotte. Non soltanto imitano il comportamento esteriore dei modelli che trovano nei libri, ma consentono liberamente ai lorodesideridiesseredefiniti, per loro conto, da tali modelli. Cosí che non c’è semplicementeilsoggettoche desidera e l’oggetto desiderato, ma anche il terzo vertice del triangolo, il modello attraverso cui sono mediati i desideri. La tesi generale di Girard è che Flaubert e Cervantes, cosí comegliautoridialcunialtri romanzi romanesques (in contrasto con romantiques) «comprendono in modo intuitivo e concreto, attraverso il medium della loro arte, se non in modo formale, quel sistema [di desiderio triangolare] in cui sono stati inizialmente imprigionati insieme ai loro contemporanei» 1 . Gli obiettivi dell’arte romanesque sono quindi insieme critici e liberatori. La maggior parte dello studio di Girard riguarda l’analisi di forme di mediazione del desiderio piú complesse di quelle di Emma Bovary e di Don Chisciotte, formeincuiilmediatorenon è un personaggio remoto o inventato ma una persona la cuipossibilesferadiazioneva a incidere su quella del soggetto,edèpertantoinuna qualche misura un rivale, oltrecheunmodello(edaqui si sviluppa il pensiero di Girardsullarivalitàmimetica espresso in La violenza e il sacro) 2. Mentre una vera rivalità tra consumatore e modello è chiaramente impossibile nell’annuncio pubblicitario, una rivalità fantasmatica – nella quale il consumatore è sempre destinatoaperdere–nonloè. Cosíanchel’analisigirardiana delle conseguenze di questo genere di mediazione è pertinentealmioscopo. Girard si colloca in una tradizionefilosoficachevada Hegel fino a Sartre, e che annette importanza centrale alla capacità del soggetto di scegliere i propri desideri. In effetti, in Hegel lo stadio dell’autocoscienzanonarriva: l’«io» non perviene a essere finchéilsoggettonondiventa consapevole di sé in quanto locusdiunamancanza,diun desiderio. Cosí l’essere dell’«io» è totalmente implicitoneipropridesiderie per l’«io» cedere la propria autonomia di soggetto desiderantesignificacedereil proprio essere. Questa cessione è ciò che Girard definisce «malattia ontologica»: nel rivolgere il desiderio verso il mediatore desiderante, il soggetto rinuncia alla propria autonomiaontologica: Il soggetto non è in grado di desiderare da solo; non ha alcuna fiducia in una scelta esclusivamentesua.Ilrivale[e modello] è necessario perché soltanto il desiderio dell’altro puòconfermareilvalore 3. L’oggetto non è che un mezzo per raggiungere il mediatore. È all’essere del mediatore che mira il desiderio […] Il soggetto che desideravuoletrasformarsinel mediatore; vuole carpirgli l’essere [per esempio] di cavaliere perfetto o di seduttore irresistibile (MR, p. 49). Naturalmentesorgesubito spontanea la domanda: Perchél’iosifidacosípocodi se stesso da non poter desiderare desideri suoi propri? Girard non fornisce unarispostaunivocaaquesto interrogativo, ma il ragionamento che emerge dall’intera sua analisi dei romanzieri romanesques è essenzialmenteditipostorico. Il desiderio triangolare fa la sua prima comparsa, diventandooggettodianalisi, nelDonChisciotte, che segna l’inizio dell’era moderna nonché quello della tradizione romanesque della narrativa critica. È quindi un fenomeno specificamente moderno che nasce come conseguenza dell’umanesimo post-religioso, e si moltiplica con il livellarsi delle differenze sociali. In un mondo in cui «i rapporti piú importanti non sono quelli tra superiori e inferiori a livello sociale, ma quelli tra pari,ancheseraramentesono vissuti come rapporti di “uguaglianza”», la presenza del «rivale metafisico» (ovvero il modello fantasmatico del desiderio) diventa «sempre piú ossessiva»(DB,p.80). Nella lettura di Girard è Dostoevskij a emergere come l’analista piú sottile delle strutturedellamediazionedel desiderio. La risposta di Dostoevskij alla domanda sul perché l’io non possa desiderare i propri desideri è che la promessa che deriva dallanotiziacheDioèmorto e che l’Uomo ne ha preso il posto non si realizza nell’esperienza. Tutti gli uomini scoprono nella solitudine della loro coscienza che la promessa è fallace,manessunoècapacedi universalizzare questa esperienza. La promessa rimane vera per gli altri [...] Ciascuno si crede solo all’inferno, e l’inferno è proprioquesto(MR,p.52). Neconseguecheleretidel desiderio mediato saranno le piú inclusive nelle moderne società individualistiche e materialistiche dove regna l’ideologiapubblicadellepari opportunità per tutti e l’individuo di conseguenza vive il fallimento come una vergognaprivata,ontologicae irredimibile.Daquestopunto divistaGirardsicollocanella tradizione della critica conservatrice europea nei confronti della democrazia americana,criticachetrovain Tocqueville il suo principale esponente: Nonsoltantolademocrazia porta ogni uomo a dimenticare i propri antenati, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai contemporanei; lo rigetta indietro per sempre, su se stesso soltanto, e alla fine minaccia di confinarlo del tutto nella solitudine del suo cuore 4. Anche se l’impresa di Girardconsisteneldescrivere parte della psicologia sociale del mondo moderno, la metodologia che segue non è consueta per il sociologo empirico. A chiarire questo puntoèlostessoGirard: Credo che esista in alcune opere [letterarie] una conoscenza di rapporti desideranti superiori a tutti quelli proposti [altrove]. Non si tratta affatto di sfidare la scienza, ma di ricercarla ovunque la si possa trovare, per quanto insolito possa essere il luogo in questione (DB,p.49). Analogamente una volta ammesso che i «rapporti desideranti» sono sempre sostanzialmente impliciti nella pubblicità non è azzardato ammettere la possibilitàcheneiromanzieri e nei loro interpreti, cosí come nei comportamenti quantificabili dei consumatori, si possano trovareintuizionisulmodoin cuioperaildesiderio. I punti della teoria di Girard piú immediatamente rilevanti per l’analisi della pubblicità si possono riassumerecomesegue: 1. Le strutture triangolari del desiderio hanno origine in un anelito verso la trascendenza che resta insoddisfatto nelmondomoderno. 2. Il desiderio triangolare comportapersuanatura cheilsoggettodeleghial modello la scelta dei propridesideri. 3. Le caratteristiche emozioni concomitanti sonosfiduciainsestessi, invidia, gelosia, risentimento. Lamodella. Nominalmente la modella giocaunruolodimediazione tra consumatore e prodotto. Lamodella(quièappropriato usare il femminile) dovrebbe effettuare il collegamento tra soggettodesideranteeoggetto desiderato, e scomparire nel processo. In effetti, nel discorso economico, della modellanonsiparla:sitratta soltanto del rapporto soggetto-oggetto. Nell’immagine pubblicitaria la modella non ha una didascalia, non è nominata. Tra le qualità che l’hanno fatta scegliere tra le aspiranti modelle c’è la mancanza di una individualità identificabile: i suoi tratti fisici devono essere cosí plastici, sotto le mani dell’artistachelatruccaperla sessione fotografica, da non lasciarla riconoscere da un contratto al successivo, in modo che non venga associata con un prodotto in particolare. In altri termini, è una sorta di zerodesiderante, unanullitàicuidesiderisono infinitamente mobili, che desidera non perché questo oggettoparticolarelaspingaa desiderarlo (se cosí fosse, l’oggettolascerebbesudileila sua traccia) ma semplicemente perché desiderareèlasuaessenza. Occorre qui fare attenzione nel distinguere la modelladallastar,lacelebrità (avolteancheleiproveniente dall’ambientemodelle!)dicui si utilizza proprio l’identificabilità per vendere prodotti. Il trattamento riservato alla star è esattamente l’opposto di quello fin qui descritto: se ne sottolinea l’unicità e, a differenza della modella, le si puòconsentirediidentificarsi con uno o due prodotti specifici. La star di fatto costituisce un caso piú semplice di mediazione del desiderio e di delega dell’essere, rispetto alla modella. Si tratta di quello che Girard definisce «mediazione esterna», fornita a Don Chischiotte da AmadigidiGaula.Neglianni d’oro di Hollywood, la gente venivainvitataa«viverecome lestar»,imparavaadesiderare quello che desideravano le star, ovvero quello cui le star prestavanolaloroimmagine. I volti indossati dalla modella – dal momento che leièsenzavolto–seguonole prescrizioni della moda. Le persone che approntano quei voltinonnesonogliautori.È la moda a essere l’autore, e lí nessuno pretende di essere creatore. Se si risale ai cosiddetti «fashion setter», i «creatori di tendenze», ci si sentedirechenonfannoaltro che«rispondereaitempi».«X èallamoda,Yèfuorimoda», dicono con un’asserzione al tempo stesso dichiarativa e ottativa. Le immagini della soggettività desiderante offerte dalle modelle ai fruitori sono elementi di un repertorio che si modifica in modo imprevedibile e di cui nessuno conosce l’origine. Con un gesto tipicamente mistificatorio, lo specchio è sempre rivolto verso il soggetto. «Questa è l’immaginedeltuomodello,– dice la voce della Moda, – perché è cosí che desideri apparire».Lamistificazionesi produce di nuovo negando l’esistenza della modella, affermandone la nullità, asserendochenonèaltroche un’immagine del desiderio del soggetto, del soggetto desiderante. Intrappolato in questa galleriadispecchi,ilsoggetto (ilconsumatore)nonpuòche fallire nell’impresa di afferrare l’esistenza di un modellotantofantasmatico.Il soggetto prova l’invidia e lo sconcerto che Girard (sulla scia di Stendhal, Nietzsche e Scheler) descrive, ma in una modalitàcheèpeculiaredella societàdeiconsumi:poichéla mistificazionederivaappunto dalfattochelamodella/rivale è invisibile, uno zero, non esiste, l’invidia ha l’impressione di essere priva di oggetto o di origine: non solo è impotente, ma non conosce nemmeno il proprio nome. Accade con la stessa vaghezza di un malessere, di unoscontento,diunsensodi vuoto interiore. L’analisi piú penetrante della vita vissuta in questo malessere, attraversoivalorifasullicreati dall’invidia nel tentativo di nascondersi, resta quella di MaxScheler 5. Non è mia intenzione attribuire responsabilità, cercare di imputare la prevalenza dell’invidia affiorante nella pubblicità e nell’industria della moda al sistematardo-capitalistaoalla morte di Dio, non foss’altro perché l’analisi stessa di Girard mette in discussione l’attività dell’attribuire colpe. Nondimeno, c’è un dato che difficilmentepuòsottrarsialla nostra attenzione: il fatto che ci sia chi trae un beneficio materiale dai modelli di desiderio, che questi modelli debbano apparire privi di autore, e che i sentimenti suscitati nell’osservatore debbano comprendere anche l’invidia e un senso di disistima che non può essere placato, per quante cose egli acquisti,poichéidesideriche cerca di soddisfare sono trascendenti. E non può sfuggire all’attenzione dello storico che, mentre nel diciannovesimo secolo lo strumento scelto per attirare, sedurre e intrappolare i colonizzati in una economia di mercato era l’alcol, oggi tale funzione si effettua nel Terzo Mondo mediante la propagazione di immagini e modelli di desiderio, e pertanto l’espressione creazione della dipendenza si puòusareinmodoaltrettanto appropriato attribuendola a immaginioasostanze. Iltriangolo. Ho discusso fin qui di un solo genere di pubblicità: quellaincuil’immaginedella modella è presente in modo esplicito. Si pone ora la domanda:sitrattainuncerto senso di un genere chiave, grazie al quale possiamo svelare i meccanismi psicologici di altri generi, in cui la triangolarità della struttura del desiderio non è altrettanto chiaramente manifesta?Quioccorreessere cauti: non possiamo ignorare la gran quantità di indagini empiriche condotte dall’industria stessa, per quanto interessate siano le loro finalità e per quanto svilita sia la teoria che le sorregge. Tali ricerche sottolineano di continuo la varietàdifunzionisvoltedalla pubblicità e la varietà di mezzi che deve utilizzare. Qualunque analisi lucida del fenomeno deve affrontare la possibilità che essa sia di naturaproteiforme. Inoltre, anche nel caso del genere su cui mi sono concentrato, in cui è piú evidente l’esistenza di una struttura triangolare sottostante, l’analisi fornita non è esaustiva. Non ho discusso i processi di acculturazione mediante i quali si instaura l’anelito verso modelli specifici. E nemmeno ho affrontato la struttura che insorge tra lo sguardo della modella, lo sguardo (maschile) della fotocamera desiderante e lo sguardo del soggetto (femminile) che la osserva. Néhotentatodidescrivereil repertorio iconologico di cui puòdisporrequestogenere,o la semiologia degli sguardi, deigestiedelleposturedicui si serve. Ancora, non ho discusso la reazione dell’osservatore al narcisismo della modella, né la natura dell’osservare in quanto atto voyeuristico, né le caratteristiche assunte dall’esperienza personale in unmondodiimmagini. D’altra parte non arriverò al punto di ammettere che la struttura triangolare è semplicemente una delle molte strutture a cui può ricorrere la pubblicità. Nella misura in cui il pubblicitario in quanto soggetto desiderantesiinterponetrail soggetto di cui desidera formare i desideri e l’oggetto che desidera vendere, la forma dell’atto pubblicitario elementare deve essere triangolare; e nella misura in cui la natura della pubblicità esige che il desiderio del pubblicitario resti nascosto, dissimulatosottoaltraforma, lo scopo della critica dovrebbe essere quello di rivelare quel triangolo nascosto. Pertanto, per fare l’esempio piú semplice, un catalogo di vendita sembra utilizzare in apparenza solo un soggetto diadico – le strutture dei soggetti-oggetti: è ritratto un articolo in vendita, con un prezzo e una breve descrizione. Ma perché proprio questa immagine, questadescrizione?Immagine edescrizionenonsonol’unica o la migliore rappresentazione possibile dell’articolo (quale che sia): rappresentano l’immagine che qualcuno ha di quell’articolo in quanto oggetto di uno sguardo desiderante: sono la rappresentazione di un articolo desiderato, un articolo desiderato con la modalità del modello, non l’articolo in sé. Cosí la struttura di quell’atto in apparenza diadico è di fatto triangolare: il mediatore, come sempre, si maschera e l’analisichelosmascheraèun attodidemistificazione. Analisiconcorrenti. L’aspettosucuil’analisidi Girarddelleformetriangolari del desiderio dovrebbe essere della massima utilità per una criticastoricadellapubblicità èpurtroppoquelloabbozzato in modo piú sommario, ovvero la documentazione relativa alla diffusione del fenomeno nella società. Nondimeno,lettadiconcerto con i suoi testi chiave – i romanzi di Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij e Proust – fornisce un’ampia eziologia delle perplessità e degli stati d’animodimolticonsumatori disocietàtardo-capitalistenei confronti degli oggetti che sono invitati a consumare. Inoltrelavisionediun’«epoca ante quo» che troviamo in Girard mi sembra storicamente difendibile: meno difendibile è una creazione della nostalgia, come si ritrova nella visione della storia propugnata dalla critica umanistica della pubblicità, con cui abbiamo piú familiarità in Sudafrica. Persostanziarequestopunto, vorrei citare brevemente uno studio che rappresenta, dal punto di vista dell’acume e della tensione morale, il meglio della scuola di F. R. Leavis:The Imagery of Power diFredInglis 6. Incontrastoconloschema girardiano, in cui la transazione primaria è quella tra consumatore e oggetto, mediataattraversoilmodello, la transazione primaria nello schema di Inglis è tra pubblicitario e consumatore, mediata dall’annuncio pubblicitario.Dalsuo«punto diosservazioneanonimo»che sta dietro all’annuncio, il pubblicitario intende fornire pseudosoluzionialle«fantasie immanenti»delconsumatore; soluzioni che sortiscono l’effetto di «contenere ogni uomo e ogni donna all’interno dei loro sentimenti, impendendo loro di vedere apertamente quella che è una condizione comune». Cosí anche Inglis, come Girard, indica da una parte il rinforzo morale reciprocodiindividualismoe solitudine,edall’altrailregno dei modelli (che sono, in Inglis, modelli negativi). Ma per spiegare il potere che modelli negativi proposti dalla pubblicità esercitano sulla mente delle persone, Inglisnonfaaltrocheparlare delle loro qualità di «fascinazione». Da qui deriva undualismochetroviamo,in unaformaonell’altra,intutta la critica umanista della pubblicità: il dualismo dell’astuziadelpubblicitarioe dellasemplicitàinnocentedel consumatore.Maèaltamente improbabile che davvero i pubblicitari si pongano al di fuori del sistema di fantasie che regna nella società, per manipolarlo ai propri fini. È molto piú probabile che dicano la verità, quando sostengono di credere in quello che fanno (qualsiasi cosa significhi «credere»), cioè che siano coinvolti nelle stesse fantasie dei consumatori. In tal caso il centro focale dell’analisi dovrebbe essere il sistema stesso: prima il desiderio che lomodella,poileforzechelo creano. Quando Inglis arriva a parlare dell’annuncio pubblicitario in sé, il dualismo precedente emerge in un’altra forma come opposizione tra l’oggetto del consumo e l’«atmosfera morale» (ovvero, di solito, il glamour fasullo) della sua immagine. Le energie del pubblicitario, secondo Inglis, sono rivolte a rendere invisibile tale opposizione, a celare il divario tra oggetto e immagine. Nella mente del consumatore l’oggetto deve diventare la sua immagine; e il pubblicitario è tanto piú abile in quanto riesce a dissimulare quel divario. E qui sorge una semplice domanda: perché il consumatore si lascia tanto facilmente «affascinare» fino a confondere significato e significante? Le denunce contro la capacità manipolatoriadeipubblicitari si possono troppo facilmente ribaltare e trasformare in denunce contro l’ingenuità dei consumatori. Entrambe sono tentativi di trovare un capro espiatorio, e nessuna delle due approda a qualche cosa.Dietrotuttoildualismo del bene contro il male che troviamonellecriticheabase umanista della pubblicità, c’è un’opposizione astorica tra l’era edenica precedente e l’epocaattualedopolacaduta. Inglis (Leavis prima di lui) è chiaramente convinto che amore, sesso, famiglia e cosí via si sviliscano quando sono usati per conferire fascino a beni materiali in vendita. «Com’è possibile amare davvero, – ragiona l’argomentazione tacitamente sottesa, – se si è convinti che il profumo X o il deodorante Y siano il prerequisito dell’amore? Il contrasto immediato è quello tra un mondoincuisiproval’amore vero (non mediato) e un mondo in cui X e Y sono considerati condizioni indispensabili per l’amore. Ma il contrasto piú profondo è quello tra un mondo originario di vero (non mediato) amore in cui X e Y non esistevano (perché non c’era bisogno di loro) e un mondo moderno in cui esistono. In altre parole, il contrasto è tra un originale nonmediatoeunamodernità post-edenica e mediata; e l’anelito nascosto è rivolto a un mondo non mediato, ovvero un mondo senza linguaggio. [1980]. RicordidelTexas Nel settembre del 1965 (questo saggio non può cominciare in altro modo) approdaiaNewYorkabordo di una nave italiana, in precedenza adibita al trasportotruppe,oraaffollata di giovani da varie parti del mondo che andavano a studiare in America. Avevo venticinque anni, ero partito dall’Inghilterra ed ero diretto adAustin,conuncontrattodi lavoroall’UniversitàdelTexas per 2100 dollari all’anno. Avrei insegnato inglese alle matricole mentre seguivo i corsipostlauream. Avevo studiato inglese in colonia, il mio luogo di origine, in un corso universitario piuttosto convenzionale dove avevo imparato a pronunciare correttamente le vocali nei versidiChaucerealeggerela grafia elisabettiana. ConoscevoilpoetadiPearl e ThomasMoreeJohnEvelyne molti altri grandi. Sapevo «fare» critica letteraria anche se non capivo bene in che cosa differisse dalla recensionediunlibroodalla conversazione letteraria. In definitiva questa pallida imitazione degli studi di Oxford si era dimostrata ben misera cosa ed ero stato contento di lasciarla per abbracciare la matematica: ma dopo quattro anni nell’industria informatica in cui persino durante il sonno ero invaso da insignificanti problemidilogica,eropronto aprovarcidinuovo. In una Austin piú calda e piú umida dell’Africa che ricordavo, mi iscrissi a dei corsi di bibliografia e di antico inglese. Da William B. Todd imparai i meccanismi delcollettorediHinman.Per il corso di Rosamund Lehmannprogettaiedeseguii una classificazione minuziosamente dettagliata delle figure retoriche dei sermoni del vescovo Wulfstan, per il quale mi fu assegnato il voto di A–, il menomispiegòeradovutoal fatto che un lavoro come il mio dava cattiva fama alla filologia. Aveva ragione: non me la presi anche se non capivocomeavreiproseguito. Nel fondo dei manoscritti della biblioteca trovai i quaderni su cui Beckett, mentre si nascondeva dai tedeschi,avevascrittoWattin una casa colonica nel Sud della Francia. Passai settimane a esaminare i manoscritti, riflettendo sui disegni, i numeri e gli scarabocchi sui margini, sconcertato di scoprire che la bendocumentataagoniadella composizione di un capolavoro non avesse lasciato altre tracce che tali stupidaggini. Mi chiedevo se l’angoscia non fosse tutta nell’attesa,nellostaresedutia fissarelapaginavuota. Uno studente di nome Charles Whitman (un mio collega? Erano tutti e 23 000 miei colleghi?) prese l’ascensore fino alla torre dell’orologio e cominciò a sparare sulle persone nel piazzalesottostante.Neuccise un bel numero prima che qualcuno uccidesse lui. Per tuttoiltemporimasinascosto sotto la scrivania. A Cape Town un greco assassinò Hendrik Frensch Verwoerd, l’artefice della filosofia dell’apartheid. «Se non sei d’accordo con la guerra, – disseunamico,intendendola guerra in (al?) Vietnam, – perché non te ne vai? Che cosatitrattiene?»Maluinon mi aveva capito. Non si trattava di complicità – un concetto troppo sottile per l’epoca. Il problema era saperequellocheaccadeva.Il problemaeracomesfuggirea quellaconoscenza. Glistudenticheseguivano le mie lezioni di composizione sarebbero potutiesserenatividelleisole Trobriandesi, tanto incomprensibilipermeerano lalorocultura,idivertimenti, le idee che li eccitavano. Mi muovevo in un unico strato della comunità universitaria, quello degli studenti postlaurea e dei dottorandi che vivevanoviteineconomia,in appartamenti in affitto, con i giocattoli sparsi sul pavimento e che si arrabattavano per completare icorsieprepararsiagliesami orali o scrivere le tesi. Quando non parlavano degli insegnanti (loro personalità e deficienze), i discorsi riguardavano come scappare, trovareunlavoroaHuntsville o a Texarkana, come mettere le mani sui soldi veri. In mancanza di obiettivi meno concreti di questi, o forse in assenza totale di obiettivi, mi davo da fare sui miei testi in antico inglese e sulla grammaticatedesca. La domenica giocavo a cricket su un campo di baseball con un gruppo di indiani. Formammo una squadra, andavamo a College Station,elígiocavamocontro una squadra della Texas A&M formata di nostalgici reietti delle colonie, e perdevamo. Mi tornò in mente un amico indiano dei tempi dell’Inghilterra con cui facevamo lunghe passeggiate nella campagna del Surrey, una campagna che per noi, concordavamosuquesto,non significava nulla. «Almeno in America, – diceva (aveva passato del tempo a Columbus, Ohio), – ci sono chioschi di hamburger aperti tutta la notte». Per quanto nonavessialcuninteresseper gli hamburger, l’America di cui parlava sembrava un grande passo avanti rispetto all’Inghilterra che conoscevo. Ora che mi trovavo in America, o per lo meno in Texas, le verdi colline erano altrettanto aliene per me come quelle del Surrey. Mi parevadisentirelamancanza dispaziovuoto,terravuotae cielo vuoto a cui il Sudafrica miavevaabituato.L’altracosa che mi mancava era il suono diunalinguadicuicapivole sfumature. La lingua parlata in Texas sembrava non avere sfumature,osec’eranononle coglievo. Scrissi una tesina per il corso di Archibald Hill sulla morfologiadellelinguenama, malay e olandese, lingue di ceppi diversi che nel Capo di Buona Speranza si erano trovate a influenzarsi l’una con l’altra. Trovai in bibliotecalibrimaipiúaperti dagli anni Venti, rapporti sul territorio dell’Africa sudoccidentale di esploratori e amministratori tedeschi, resoconti di spedizioni punitive contro i nama e gli erero, dissertazioni sull’antropologia fisica dei nativi, monografie di Carl Meinhofsullelinguekhoisan. Lessi le grammatiche rudimentali formulate dai missionari, tornai ancora piú indietroneltempoalleprime registrazionilinguistichedelle vecchie lingue del Capo, liste di vocaboli compilate da marinai del diciassettesimo secolo e poi seguii le fortune degli ottentotti in una storia scritta non da loro ma per loro,dall’alto,daviaggiatorie missionari, tra i quali il mio lontano antenato Jacobus Coetzee,floruit1760.Qualche anno piú tardi, a Buffalo, ancora su questa traccia, mi sarei avventurato a scrivere qualcosa sulla storia degli ottentotti, una sorta di memoir che si ampliò fino a essere assorbito nel mio primo romanzo Terre al crepuscolo. Un’altrapistamiportòdai nama e i malay ad approfondire la sintassi delle lingue esotiche, in incursioni che si ramificavano sempre oltre (stavo riscoprendo la ruota) fino a scoprire che il termine primitivo non aveva alcun senso, che ciascuna delle 700 lingue del Borneo era un sistema coerente e complesso e impenetrabile all’analisi quanto l’inglese. Lessi Noam Chomsky e Jerrold Katz e i nuovi grammatici universali e arrivai a domandarmi: se dovessero mai costruire un’arca in cui mettere il meglio che l’umanità ha creatoericominciaredacapo suqualcheremotopianeta,se mai dovesse accadere, non dovremmolasciarciallespalle i drammi di Shakespeare e i quartetti di Beethoven per farespazioall’ultimoparlante di dyirbal anche se si fosse trattato di una vecchia grassa rognosa e puzzolente? Una strana posizione per uno studente di inglese, la piú grande lingua imperiale. Doppiamente strana per uno animato da ambizioni letterarie,perquantovaghe– ambizioni di parlare un giorno con la sua voce – trovarsi a sospettare che le lingueparlavanogliindividui o almeno che parlavano attraversodiloro. Lasciai il Texas nel 1968. Non capii mai perché l’università e i contribuenti americani avessero elargito tanto denaro perché io seguissi i miei capricci. A volte pensavo si trattasse di una svista, una svista insignificante, permessa dal sistema, per cui non importavasetralemigliaiadi ingegneri petroliferi e di politologi sfornati ogni anno, ne venivano fuori uno o due diquellicomeme.Altrevolte pensavo che il programma di scambio Fulbright fosse qualcosa di molto lungimirante e molto generoso di cui tutti avrebberosentitoibeneficiin un lontano futuro. La verità stavaforsenelmezzo. Néall’andatanéalritorno ebbi alcun rimpianto. Me ne andavo, pensai, indenne, non scalfito se non dai tempi. Nessuno aveva cercato di insegnarmi qualcosa, cosa di cui ero grato. Quello che avevo imparato nel corso di tre anni non era poco, per quanto appreso quasi per caso. Avevo avuto a disposizione una grande biblioteca,emieroimbattuto in libri di cui non avrei altrimenti neppure sospettato l’esistenza. Passando davanti alla porta dello studio di JamesSleddallecinquediun sabato pomeriggio, il ticchettio della sua macchina da scrivere mi aveva rassicurato che la provincia degli studi di anglistica non era roba per dilettanti, come lo stile di vita dei miei insegnanticolonialisembrava dimostrare. Avrei potuto venirneviaconmoltomeno. [1984]. Confessioneedoppio pensieroinTolstoj,Rousseau, Dostoevskij Nel libro secondo delle ConfessioniAgostinoracconta che da ragazzo rubò, insieme a degli amici, una gran quantitàdiperedalfruttetodi un vicino non perché volessero mangiarle (e in effettilediederoaimaiali)ma per il piacere di commettere un’azione vietata. Fui «malvagio senza motivo, senza che esistesse alcuna ragione della mia malvagità […] non già nella ricerca disonesta di qualcosa, ma dellasoladisonestà[…]Siha pudore a non essere spudorati» 1. Nel passato di cui parlano Leconfessioni, il furto suscita vergogna nel cuore del giovane Agostino. Ma quel che brama il cuore del ragazzo(comericordal’uomo adulto) è proprio quel sentimento di vergogna. Il suo cuore non è umiliato (castigato) dal sapere che desidera conoscere la vergogna: al contrario, la consapevolezza di avere un desiderio ignominioso soddisfa il desiderio dell’esperienzadellavergogna e al tempo stesso alimenta il senso di vergogna. E questo sensodivergognanonsolodà una certa soddisfazione se riconosciuto per mezzo di una ricerca consapevole, ma diventa fonte ulteriore di vergogna, e cosí via all’infinito. «Nei campi e negli antri, nelle caverne incalcolabili dellamemoria»(X,17,361)la vergogna perdura nell’uomo adulto.«Chipuòdistricareun nodo cosí tortuoso e aggrovigliato? È sudicio, non voglio piú riflettervi» (II, 10, 59). Agostino si trova in una difficoltà estrema. Vorrebbe conoscere quel che c’è all’origine del groviglio della vergogna ricordata, da dove proviene, ma la matassa è infinita, i passaggi di autoanalisi richiesti per raggiungere il bandolo sono innumerevoli. E tuttavia finché non arriverà a trovare l’originedell’attovergognoso, l’iononavràpace. La confessione è un elemento di una sequenza – trasgressione, confessione, penitenza e assoluzione – in cui l’assoluzione rappresenta la fine dell’episodio, la conclusione del capitolo, la liberazione dall’oppressione della memoria. In tal senso l’assoluzione è la meta imprescindibile di ogni confessione, sacramentale o laica che sia. La trasgressione invece non è un elemento indispensabile. Nel racconto diAgostinolatrasgressioneè rappresentata dal furto delle pere, ma ciò che richiede d’essereconfessatoèqualcosa che sta dietro il furto, una verità su se stesso che lui ancora non conosce. L’episodio delle pere è dunqueladupliceconfessione diqualcosachesa(l’atto)edi qualcosa che ancora non conosce:«Confesseròdunque quanto so di me, e anche quanto ignoro di me […] quanto ignoro di me, lo ignorofinchélemietenebresi mutino quale il mezzodí nel tuo volto» (X, 5, 337). La verità su se stessi che concluderà la ricerca dell’origine interiore di ciòche-è-sbagliato, lui afferma, resterà inaccessibile all’introspezione. In questo saggio mi propongo di verificare in un certo numero di confessioni laiche, sia romanzesche che autobiografiche, come gli autoriaffrontinooevadanoil problema della conoscenza della verità dell’io senza cadere nell’autoinganno e comeportinoaconclusionela confessione nello spirito di quello che ritengono sia l’equivalente laico dell’assoluzione.Neltrasporre il termine confessione da un contesto religioso a uno laico è inevitabile una certa approssimazione. Ciò nondimeno è possibile individuare una modalità della scrittura autobiografica chechiamiamolaconfessione, che si distingue dalla memoria autobiografica (memoir)edall’apologiasulla base della volontà sottesa di dire una verità essenziale sull’io 2. È il genere a volte praticato da Montaigne 3, ma sostanzialmente è quello definito da Rousseau nelle Confessioni. Quanto alla confessione romanzesca si tratta di una modalità già praticata da Defoe nelle confessioni fittizie di peccatoricomeMollFlanders e Roxana. Nella nostra epoca il romanzo confessionale è diventato un sottogenere del romanzo che mette in primo pianoiproblemidelracconto della verità e dell’autoconsapevolezza, dell’inganno e dell’autoinganno 4. Due delle opere che discuto in questo saggio, Memorie del sottosuolo di Dostoevskij e Sonata a Kreutzer di Tolstoj, rientrano a pieno titolo nel genere confessionale perché consistono per la maggior parte di rappresentazioni di confessioni di azioni abiette compiute dai narratori. La «Spiegazione» di Ippolít Terentyev nell’Idiota è un’apologiasullettodimorte che si misura con i problemi della verità e dell’autoconoscenza caratteristici della confessione. Infine, la confessione di Stavrogin ne I demoni pone il problema, lasciato in sospeso dai tempi di Montaigne, se la confessione secolare in presenza di un ascoltatore o diunpubblico,realeofittizio, maprivadiunconfessorecon ilpoterediassolvere,possain qualche modo condurre a quella fine del capitolo il cui raggiungimento è la meta dellaconfessione 5. Tolstoj. È la seconda sera di un lungo viaggio in treno. La conversazionetraipasseggeri si è concentrata su matrimonio, adulterio, divorzio. Un signore dai capelligrigiparlaconcinismo dell’amore. Quando rivela di chiamarsi Pozdnyšev e di avere scontato una condanna per uxoricidio i compagni di viaggio si spostano lasciandolo solo con l’anonimo narratore a cui si offre di raccontare «tutto dal principio» 6.Laconfessionedi Pozdnyšev, ripetuta dal narratore, è il soggetto della Sonata a Kreutzer di Tolstoj (1889). Quella di Pozdnyšev è la storia di un uomo che ha vissuto i rapporti con le donne in un «abisso di errore» e che, alla fine, in un «episodio» di gelosia patologica ha ucciso sua moglie.Solopiútardi,dopola condanna al carcere, «mi si sono improvvisamente aperti gli occhi e ho cominciato a vedere tutto sotto un’altra luce.Tuttoallarovescia,tutto alla rovescia!» (p. 35). Il momento in cui tutto si capovolge (navyvorot′) è il momento dell’illuminazione che gli apre gli occhi sulla verità e rende possibile la confessione vera. La confessione su cui si imbarca intrenohadunqueduefacce: i fatti relativi all’«episodio», che sono già emersi al processo, e la verità su se stessosucuiglisisonoaperti gli occhi. Nel confessare quest’ultima Pozdnyšev si trova a denunciare una condizione di errore in cui, a suo parere, si trova tutta la classedacuiproviene. Con la sua aria nervosa, il rumore curioso che ogni tanto emette (a metà fra la tosse e una risatina interrotta), le sue strane idee sulsessoelastoriadiviolenza alle spalle, Pozdnyšev è certamente un personaggio bizzarro e non ci sarebbe niente da stupirsi se la verità cheraccontafosseinconflitto con la verità compresa dal tranquillo e giudizioso ascoltatore che poi la racconterà a noi. In altri termini non ci sorprenderemmoditrovarcia leggereunodiqueilibriincui chi parla è convinto di stare dicendo una verità mentre per noi, man mano, emerge che è un’altra la verità di cui parla – un libro analogo a FuocopallidodiNabokov,ad esempio, in cui il narratore crededistareparlandoperse stesso mentre i lettori presto si rendono conto che sta parlandocontrosestesso. Comincerò col riassumere la verità cosí come la vede Pozdnyšev,permettendoglidi parlareconlasuavoce. LaveritàdiPozdnyšev. Com’è consuetudine nel mio ambiente sono stato iniziato sessualmente in un bordello. L’esperienza con le prostitute ha rovinato per sempreimieirapporticonle donne.Etuttavia,nonostante «le centinaia di disgustosi crimini contro le donne» (p. 39) che mi pesano sulla coscienza, ero il benvenuto nellecasedeimieiparichemi permettevano di ballare con mogliefiglie. Mi fidanzai con una ragazza. Fu un periodo di promessa sensuale resa piú intensa dagli abiti seducenti, labuonatavola,lavitaoziosa. La luna di miele fu una delusione e la vita coniugale alternava ondate di ostilità a ondate di sensualità. Non ci rendemmocontochel’ostilità che ciascuno provava per l’altro era una protesta della «natura umana» contro le sopraffazioni della «natura animale». Per il tramite di medici e preti la società consente pratiche innaturali: rapporti sessualidurantelagravidanza e l’allattamento, la contraccezione. La contraccezionefuallabasedi tutto quanto accadde, perché consentí a mia moglie di frequentare uomini sconosciuti «nel pieno rigoglio di una donna sulla trentina che non partoriva piú figli, era supernutrita e aveva un’immaginazione eccitata»(pp.79-80). Un violinista di nome Truchačevskij entrò in scena. Spinto da uno «strano impulso, quasi fatale» (p. 88) ne incoraggiai l’amicizia con mia moglie, e cominciò «il giocodell’ingannoreciproco» (p.89).Luisuonavadeiduetti conmiamoglie,ioribollivodi gelosia ma facevo finta di niente e mia moglie era eccitata dalla mia gelosia mentre una «corrente elettrica»fluivatraidue.Col senno di poi mi rendo conto che suonare insieme, cosí comeballareinsieme,ocome la prossimità degli scultori alle modelle e dei medici alle pazienti, sono strade aperte verso le relazioni illecite consentitedallasocietà. Mi allontanai da casa per un viaggio ma mi ricordai qualcosa che aveva detto il fratello di Truchačevskij, che lui andava a letto solo con le donne sposate perché erano piú sicure e non si sarebbe preso un’infezione. Sopraffatto dalla gelosia mi precipitai a casa. Truchačevskij e mia moglie stavano suonando un duetto. Gli piombai addosso con un pugnale. Truchačevskij scappòmentremiamogliemi supplicava: «Non c’è stato nulla…Telogiuro!»(p.118). Lapugnalai. In prigione ebbi un «rivolgimento morale» e vidi come si era compiuto il mio destino. «Se avessi saputo quelchesoora,tuttosarebbe stato diverso […] non mi sareimaidovutosposare». LaveritàdiTolstoj. Nel 1890, in risposta alle missive dei lettori della Sonata a Kreutzer che gli chiedevanocosaavessevoluto dire, Tolstoj pubblicò una Postilla in cui lo esplicitò in una serie di precetti. È sbagliato avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. Le persone dovrebbero imparare a condurre uno stile di vita naturale e a mangiare con moderazione; troverebbero piú facile cosí l’astinenza sessuale. Bisognerebbe insegnargli che l’amore carnale è «una condizione animalesca e umiliante per la persona umana». La contraccezione e la pratica sessuale durante l’allattamento dovrebbero cessare.Lacastitàèpreferibile almatrimonio 7. L’altra verità Pozdnyšev. «di» Se si rilegge tuttavia la storia di Pozdnyšev sottolineando degli elementi diversi da quelli che lui e il TolstojdellaPostillascelgono di evidenziare, si arriva a un’altra verità. Se lasciassi esprimereaPozdnyševquesta verità alternativa con la sua stessa voce, mi si potrebbe imputare di stare pregiudicando il caso attribuendo la stessa autorità alle sue due voci. Mi si consenta allora di presentare quest’altra verità come se appartenesseaPozdnyševper ipotesi, ricavandola dalle sue stesseparolepurnonessendo la verità che lui stesso riconosce. Nelle sale da ballo e nei salotti della classe sociale di Pozdnyšev vige la regola di non guardare mai sotto l’aspetto esteriore dei giovani «azzimati, ben rasati, profumati» (p. 39) per scoprirecomesononelleloro sudice nude notti depravate con le prostitute. Secondo un’altra di queste regole ci sonoduetipididonne,quelle per bene e le prostitute, sebbeneall’occasioneanchele donne per bene si vestano come le prostitute, «si denudano generosamente le braccia, le spalle e il seno, si fascianostrettamenteilsedere per metterlo meglio in risalto»(p.44).Sivestonoper fare strage: «Quella vista m’incuteunveroterrore[…] mivienvogliadichiamareun poliziotto perché mi difenda controquelpericolo»(p.49). Pozdnyševsisposaeparte per la luna di miele, ma l’esperienza è deludente: è stato come pagare il biglietto per uno spettacolo da baraccone e scoprire, una volta dentro, di essere stato ingannato, ma ti vergogni troppodellatuaingenuitàper mettere in guardia gli altri visitatori che si tratta di una frode. Ricorda in particolare lo spettacolo di una donna barbuta che era andato a vedere a Parigi. Quanto al rapporto sessuale, questo conduce all’odio e infine al delitto, un delitto che viene continuamente perpetrato: «tutti, tutti continuano ad uccidere…»(p.61).Etuttavia persino quando la donna è incinta, quando «un grande evento» si sta compiendo dentro di lei, lei permette l’ingresso all’attrezzo maschile. Ecco che entra in scena Truchačevskij,«conunsedere particolarmente sviluppato» (p. 82), il passo scattante e l’abitudine di tenersi il cappello contro la coscia irrequieta. Malgrado l’antipatia per Truchačevskij, «uno strano impulso, quasi fatale, mi indusse non a respingerlo […] bensí al contrario, ad avvicinarmelo» (p. 88), e lui si mise «a disposizione» di mia moglie. Pozdnyšev accetta che lui porti il violino per suonare conlei.«Findalprimoistante in cui i loro occhi si erano incontrati avevo visto che la bestia, che dormiva dentro lorodue,sieradestata[…]e aveva chiesto: “Si può?” e aveva anche risposto: “Ma sí, certo che si può!”» (pp. 9091). Correndo a casa per sorprenderli insieme, Pozdnyšev estremizza la sua gelosiaimmaginandoilmodo incuiTruchačevskijvedesua moglie:«Èverocheleinonè piú tanto giovane, le manca un dente di lato ed è un po’ troppo grassa» (p. 108) ma almenononavràunamalattia venerea.Lacosacheangoscia maggiormente Pozdnyšev è che «io mi attribuivo un pieno e indiscutibile diritto sul corpo di lei […] e allo stesso tempo sentivo che io noneroingradodidominare quel corpo […] e che lei invecepotevadisporrediesso comeleparevameglio,enella fattispecie voleva disporne diversamentedacomevolevo io»(pp.110-11). Avvicinandosi furtivamente alla stanza da cui proviene la musica, Pozdnyšev teme che si separeranno in tutta fretta prima che arrivi in modo da privarlodellaprovalampante della loro colpa. Nel momentoincuisiapprestaa pugnalare sua moglie, lei grida che «non c’è stato nulla». «Io avrei ancora indugiato, ma quelle sue ultime parole, da cui io conclusi tutto il contrario, e cioè che c’era già stato tutto tra loro, esigevano una risposta» (p. 118), e cosí la uccide. Questocollagedicitazioni dal racconto di Pozdnyšev dice una storia diversa da quella che lui racconta. È la storia di un uomo ossessionato dal fallo, che vede apparire beffardamente o spuntare minacciosamente dai corpi di uomini e donne. Sièsposatonellasperanzadi conoscere il segreto sessuale (la barba della donna) ma è stato deluso. Immagina il rapporto sessuale come un fallo vendicativo che ricerchi nel corpo della madre la vita del bambino non nato con il qualesiidentifica.Alpensiero che il corpo di sua mogliemadre non appartenga a lui solo,sentel’angosciadelfiglio edipico. Cerca di risolvere il problemacedendosuamoglie al minaccioso rivale (che lui vede come un fallo che cammina) in modo da avere unasortadicontrollomagico sullacoppia.Maquandoloro non recitano la scena nel modo in cui l’ha prescritto e permesso,perdeilcontrolloe si accende di una furia omicida. Semettiamoinrilievouna certasequenzadielementidel testo ignorando quelli su cui Pozdnyšev vuole attirare la nostra attenzione – le visite alle prostitute, la dieta carnivora, e cosí via – lo sentiremo enunciare quest’«altra» verità. Con lo stesso metodo riusciremo senza dubbio a leggere una terza e una quarta verità nel testo. Ma la mia tesi non comprende un’infinità di interpretazioni, bensí solo quellachePozdnyševeilsuo interlocutore da un lato e Tolstoj e il suo pubblico dall’altro agiscano all’interno di un’economia in cui è possibileunasecondalettura, quellaadesempiocheindaga negliinterstizideldiscorsodi Pozdnyšev e in cui si manifesta la verità «inconscia», nelle strane associazioni, le false razionalizzazioni, i vuoti, le contraddizioni. Se la verità «inconscia» di Pozdnyšev si avvicina a quella da me delineata, allora la sua è una di quelle confessioni «ironiche» in cui il parlante crede di stare dicendo una cosa mentre sta dicendo qualcosa di molto diverso. In particolare,Pozdnyševritiene chedall’«episodio»glisisiano «aperti» gli occhi e lui abbia raggiunto una certa consapevolezzadisestessosia come individuo che come rappresentante di una classe socialecheloautorizzaadire quello che di «sbagliato» era in lui e quanto ancora di sbagliatoc’ènellasuaclasse(i cuimembri,tuttitranneuno, rifiutano di ascoltare la diagnosi e si trasferiscono in un’altra carrozza). Ma la verità vera «di» Pozdnyšev è che lui conosce ben poco di sé. Mentre «so che se avessi saputo allora ciò che so adesso […] non mi sarei mai sposato», non sa perché non si sarebbe dovuto sposare né perché abbia ucciso sua moglie. Ma la cosa sorprendente è che Tolstoj nella Postilla si schiera senza riserve dalla sua parte ritenendo che Pozdnyšev vedagiustonellasuadiagnosi del tutto incompetente dei malidellasocietà. Fino a questo punto non hodettomoltodinuovosulla Sonata a Kreutzer. Secondo Donald Davie, «le convenzioniallabasedeltesto sonoconfuse.Illettorenonsa dacheparteprenderlo.Eper quanto ci è dato capire, questa ambiguità non era voluta dall’autore. Per questo sitrattadiun’operaaltamente imperfetta» 8. «Privo di struttura», è il verdetto di T. G. S. Cain: «racconto magnifico della decadenza morale di un matrimonio […] introdotto e parzialmente intrecciato a una serie di generalizzazioni ossessive, poco intelligenti, semplicistiche […] espresse da Pozdnyšev […] ma senza dubbio sottoscritte da Tolstoj» 9. I commenti di Davie e di Cain e le mie osservazioni rilevano un problema di mediazione. Una confessione basata su un’autoanalisi del tutto incompetente viene mediata da un narratore che nonmostrainalcunmododi dubitare dell’analisi, analisi successivamente riaffermata («quel che volevo dire») dall’autore in uno scritto esterno al romanzo. Si direbbe che questi mediatori di Pozdnyšev siano troppo prestosoddisfattimentreèfin troppo facile leggere un’altra «piú profonda» verità nella sua confessione. Eppure se si cerca in Pozdnyšev la prova chesiadisturbatodallosforzo di dare voce a una verità («consapevolmente») mentre un’altra verità parla «inconsapevolmente», non si trovano altro che i sintomi misteriosi di una tossetta o risatina pre-verbale che possono essere sintomo di tensione ma potrebbero anche indicare disprezzo; quando si cercano nel narratore i segni di un atteggiamento di dubbio si trova solo il silenzio, e quando si guarda a Tolstoj si trova una pugnace e semplicistica convalida della verità di Pozdnyšev. A ogni livello della presentazione dunque manca la riflessione. La Sonata a Kreutzer narra una storia, asserisce la sua interpretazione(lasuaverità) e asserisce altresí che non ci sono problemi di interpretazione. La volontà di credere che le cose stiano in un certo modo quando invece sono in un altro è una forma di autoinganno. Il testo non ci dice se Pozdnyšev si stia ingannando o se il narratore vengaingannato.Ladomanda sePozdnyševstiaingannando se stesso può solo significare: «quella di Pozdnyšev è la rappresentazionediunuomo che si inganna?», ma il testo non riflette su questo punto. Poiché il narratore tace, non sappiamo se il narratore sia ingannato oppure no da Pozdnyšev. Ma vale la pena chiedersi se lo stesso Tolstoj, scrittoreecriticoconsapevole di se stesso, si stia, nel caso migliore,ingannandoquando afferma che Pozdnyšev è un critico della società degno di fede, un uomo che comprendelasuastoriaeche perciòlasuaconfessionepuò essere accettata come veritiera. In primo luogo perché c’è ampia testimonianza biografica che l’abitudineditenereundiario nel bizzarro ambiente domestico di Tolstoj lo poneva quotidianamente di fronte alla tentazione dell’inganno e ai problemi dell’insincerità e dell’autoinganno insiti nella forma diaristica e in generale in quella confessionale 10. In secondoluogoperchéilfulcro psicologico dei romanzi del periodo mediano di Tolstoj è proprio sui meccanismi dell’autoinganno. Ciòchesorprende,avendo in mente tutto questo, è che Tolstojabbiascrittoun’opera come Sonata a Kreutzer cosí muta sulle ambivalenze dell’impulso confessionale e le deformazioni della verità prodotte dalla situazione confessionale,situazionidove c’è sempre un altro a cui si confessa anche se, come nel diario privato, la natura dell’Altro può essere lasciata indefinita, sospesa. Non si solleva alcun dubbio né sulla confessione nella confessione (quando Pozdnyšev mostra i suoi diari alla fidanzata) né sulla confessione fatta al narratore. Cosí come è stato facile per Pozdnyšev, dopo avervistolaluce,liberarsidel suo io precedente e considerarlo senza alcuna simpatia, allo stesso modo sembrerebbecheperilTolstoj del 1889, dopo avere «conosciuto la verità», sia stato facile voltare le spalle al suo io passato che aveva consideratoilraggiungimento della verità come pericolosamente minacciato dall’autoinganno e dal compiacimento,econsiderare le problematiche relative al direlaveritàcomesecondarie inconfrontoallaveritàstessa. Si potrebbe affermare che la SonataaKreutzer è non solo untestoapertoaunaseconda e a una terza lettura, ma che lo è in maniera indifferente, come se Tolstoj fosse indifferente agli oziosi giochi interpretatividichihatempo da perdere. La Sonata a Kreutzer segna in realtà il rifiutodiTolstojdiuntalento il cui tratto maggiore era, come afferma Rilke, la capacitàdiconosceresestesso «finonellaprofonditàdelsuo sangue» 11. La vita di Pozdnyšev si dividetraunprimaeunpoi, il prima dell’«abisso dell’errore»eilpoidel«tutto capovolto». La sua collocazione temporale nel poi gli conferisce, ai suoi occhi, quella completa autoconoscenza che William C. Spengemann trova caratteristica del «narratore convertito»,ilcuiionarrante consapevole e convertito, appunto, si affianca all’io di cui parla 12. Sull’esperienza della conversione di Pozdnyševiltestotacetranne quando dice che la consapevolezza arriva dopo i «tormenti». E tuttavia finché continuiamo a leggere la Sonata a Kreutzer come l’espressione di un io convertito piuttosto che la cornice per una serie di precetti («astieniti dalle prostitute, astieniti dalla carne…») possiamo continuareacercareneltesto tracce di quel senso di verità raggiunto dal narratore convertito assieme a quella che lui ritiene essere la piena comprensionedelpassato. A conferma del profondo interesse di Tolstoj per un io che incarna la verità – e per l’esperienza stessa del processo di conversione – possiamovolgercinonsoload Anna Karenina ma anche a un documento scritto dieci anni prima della Sonata a Kreutzer, La confessione. Ne La confessione Tolstoj analizza una sua crisi personale del 1874 in cui la ragione gli diceva che l’esistenzaeraprivadisensoe fu vicino a suicidarsi finché una forza interiore, da lui definita consapevolezza istintiva della vita respinse le conclusionidellaragioneelo salvò. Valelapenaesaminarenei dettagli il linguaggio con cui Tolstoj presenta questo scontro di forze. Per quanto associata con la ragione, la condizione mentale che lo porta a nascondere «tutte le corde perché non mi venisse la voglia d’impiccarmi» e a smettere di «andare a caccia col fucile» 13, viene descritta comeunostatopassivo,«uno strano stato di torpore […] unarresto,percosídire,della vita» (p. 24). Viceversa l’impulso che gli salva la vita non è semplicemente una forza vitale fisica ma partecipa dell’intelletto: è un «vagosospettochelemieidee eranosbagliate»,il«sensoche avessi commesso qualche errore»,«dubbi»(p.58).Eper quanto l’impulso venga alla fine nominato come «consapevolezza istintiva della vita», è accompagnato da «un sentimento tormentoso che non posso chiamare in altro modo se non come ricerca di Dio» (p. 75). L’opposizione dunque non è quella tra la netta e definitiva convinzione dell’assurdità della vita da un lato e la spinta animale e istintuale a vivere dall’altro: l’errore, la pulsione di morte, è una fiacchezza crescente, come l’esaurirsi della vita stessa mentre la verità salvifica deriva da un potere intellettuale che oscuramente diffida della ragione. In un certo senso non c’è conflitto seguito da sconfitta tra la secondaforzaelaprima,anzi i due stati mentali sono presenti simultaneamente, quello dell’arresto della vita, unasortadicupiodissolvi,che semplicemente accade [na menya stali naxodit′ minuty snacala nedoumeniya, ostanovki zizni: «mi capitava dapprima di avere dei momentidiperplessità,come selavitasiarrestasse»(p.24)] e quello che consiste in un sospetto, una cautela. Per motivi misteriosi che la ragione non sa decifrare la tendenza si inverte, la seconda forza lentamente prende il sopravvento, la primacominciaadisperdersi. Non è errato scorgere una certa pignoleria filosofica in questa descrizione. Tolstoj avrebbe potuto scegliere un tipo di linguaggio piú convenzionale per descrivere l’esperienza della conversione,unalinguaincui l’io egoisticamente sceglie di seguire la voce della ragione ma viene salvato dall’errore da una voce che parla dal cuore. Potrebbe trattarsi dell’opposizione tra il linguaggio del falso sé e quello del vero sé, in cui il falso sé è quello razionale e socialmente condizionato e il vero sé quello istintivo e individuale. Ma in Tolstoj non esiste questo semplice dualismo di vero e falso sé. Piuttosto il sé è un luogo in cui la volontà agisce in modi solo oscuramente accessibili all’introspezione. Non è il sé, ounsécheanelaaDiomail sé sperimenta piuttosto un protendersi (iskaniem Boga, «una ricerca di Dio»). Il sé non cambia (cambiamento nel senso riflessivo del trasformarsi); piuttosto si verifica un cambiamento nel luogodelsé:«Quandoecome si verificò in me questo rivolgimento [soveršilsya vo mne etot perevorot] non sapreidirlo»(p.78). A proposito della risposta alla domanda sulla condizionedellaveridicità,La confessioneaffermachederiva dall’attenzione e dalla reazione a un impulso interiore che Tolstoj chiama ricerca di Dio. La condizione dellaveridicitànonèperfetta autoconoscenza ma quella determinazione di verità, quella che il contadino in Anna Karenina definisce «vivereperlapropriaanima», parole che per Levin giungono come un’accecante illuminazione 14. Nel suo scetticismo sull’autoconoscenza razionale, nella sua convinzione che gli uomini agiscano in sintonia con le forze interiori in modi di cui nonsonoconsapevoli,Tolstoj sembra trovarsi in accordo con Schopenhauer 15; ma se ne distacca quando identifica l’impulsoversoDiocomeuna diquesteforze. Tutta l’opera di Tolstoj, romanzi e saggi, si occupa della verità, specialmente nell’ultima fase quando questointeressesovrastaogni altro. L’insofferenza per le verità convenzionali, la strenua ricerca delle condizionidiveridicitàdelsé chesitrovanosianellesezioni cheriguardanoLevininAnna Karenina che negli scritti autobiografici posteriori, hannolasciatosumoltilettori l’impressione di quella «perfetta sincerità» di cui parla Matthew Arnold 16. Nel testo autobiografico La confessione e nei racconti piú tardicomeLamortediIvanIl ′ičèlacrisi(ilconfrontocon la propria morte) a portare l’illuminazione nella vita del protagonista e a fargli capire l’assurdità di continuare a viverenell’autoinganno.Dalí in poi potrà o non potrà vivere come testimone (parziale)dellaverità.Ilsenso di urgenza che la crisi comporta, l’ineluttabilità del processo in cui l’io si spoglia delle sue rassicuranti menzogne, la determinazione nella ricerca della verità sono tuttequalitàcherientranonel terminesincerità. Ci si aspetterebbe dunque che il romanzo confessionale costituisca per Tolstoj un mezzo congeniale e adeguato per il genere di letteratura della verità che voleva scrivere – un romanzo imperniato su una crisi di illuminazione, narrata retrospettivamente da un parlante (ora portatore di verità) sul suo precedente (auto-) ingannato io. Quello che si trova invece nella Sonata a Kreutzer è una mancanza di interesse per il potenziale della forma confessionale a favore di un’altra nozione, dogmatica, dicosasignificadirelaverità. Ne derivano due invalidanti silenzi del testo. Il primo riguarda l’esperienza della conversione,un’esperienzain cui – come mostra l’esempio dellaConfessione di Tolstoj – l’esperienzainteriorediessere portatore di verità è sentita piúintensamenterispettoalla precedente esistenza di autoinganno. Il silenzio su questa esperienza comporta un fallimento di drammatizzazione.Ilsecondo epiúgravesilenzioriguardail narratore. Poiché la confessione di Pozdnyšev è un monologo narrativo caratterizzato da un senso di sicurezzaappenaconquistato, la funzione riflessiva e di verifica della veridicità della verità enunciata da Pozdnyšev deve, faute de mieux, toccare al suo ascoltatore. Ma lui non assolve a questa funzione dando implicitamente sostegnoallanozionediverità presentata da Tolstoj nella Postilla, e cioè che la verità è quellacheèechecisonocose piú importanti da fare che analizzare le macchinazioni della volontà all’opera in chi enuncia la verità. Questa posizione autoritaria nega, in nome di una verità piú alta, l’importanza di analizzare l’interessedichisiconfessae dichiara la sua verità, perché qualechesialavolontàchesi cela dietro la confessione (di fatto, pensava la contessa Tolstoj, la volontà del marito dicolpirla)laveritàèingrado di trascenderla. La verità trascende altresí il sospetto che il processo per cui «la veritàtrascendelavolontàche si cela dietro» sia voluto, utilitaristico. In altri termini la posizione sostenuta nella Sonata a Kreutzer – che si riscontra sia nella cornice interpretativa di cui la circondaTolstojchenellasua mancanza di difese nei confronti di altre letture non autorizzate, altre verità, da leggere come una forma di disprezzo e indifferenza – è quella che permette il corto circuito del dubbio su di sé e dell’autoanalisi in nome di unaveritàautonoma. Dal momento che il movimento essenziale dell’autoriflessività è quello deldubbioedelladomanda,è nella natura della verità detta a se stesso dall’io che riflette, di non essere definitiva. Problemavissutoconunforte senso di angoscia da uno scrittore come Tolstoj orientato verso la verità. Il nodo infinito dell’autoconsapevolezza diventa un nodo gordiano, che se non può essere sciolto puòtuttaviaesseretagliatoin piú modi. Nel 1887 Tolstoj scrisse:«L’uomotagliailnodo gordiano della sua vita e si uccide solo per potere sfuggire alle tormentose contraddizioniinternediuna consapevolezza intelligente, cosa che è stata portata all’estremo nei nostri giorni» 17. In alternativa si può tagliare il nodo annunciando la fine del dubbio in nome della verità rivelata. Ma questo espediente, messo in atto da Tolstoj nella Sonata a Kreutzer, comporta qualche problema. Perché se c’è qualche autorità in una confessione in contesto secolare questa deriva dalla disponibilità eroica di chi si confessa ad affrontare quel chedipeggioc’èdentrodilui (Rousseau sostiene di essere uneroedelgenere).Coluiche non dubita della propria confessione quando ci sono ovvi motivi per farlo (come nel caso di Pozdnyšev) non è migliore di chi rifiuta il dubbio perché non è a suo vantaggio.Nessunodeidueè un eroe, nessuno dei due confessa in maniera autorevole. Rousseau. È noto l’impatto che la lettura di Rousseau ebbe su Tolstoj.Dopoaverloletto,da ragazzo,perunperiodoportò appesoalcollounmedaglione con il suo ritratto. «Sarebbe giusto, – afferma V. V. Zenkovsky, – interpretare tutte le idee di Tolstoj come variazioni del suo rousseauismo – un’influenza profonda che sarebbe durata fino alla fine dei suoi giorni» 18. Le confessioni di Rousseau dapprima lo impressionarono per «il disprezzo per le menzogne umaneel’amoreperlaverità» cherivelavano,ancheseinetà matura confidò a Maxsim Gor′kij la convinzione che «Rousseaumentissecredendo alle sue stesse bugie» 19. I territori della verità, autoconoscenzaesinceritàsu cui Tolstoj s’impegnò per gran parte della sua vita di scrittoreeranoquellidelineati da Rousseau, e solo sporadicamenteTolstojriuscí adandarepiúafondo. Cosí cominciano Le confessioni: «M’impegno in un’impresa senza esempio […] Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura; e quest’uomo sarò io» (p. 7) 20. Rousseau immagina poi di trovarsi davanti a Dio, con il libroinmano,eglidice:«Mi sono mostrato come fui, spregevole e vile quando lo sono stato, buono, generoso, sublime, quando lo sono stato:hosvelatoilmioessere interiore» (p. 7). L’impegno che si è assunto è dunque di totale autorivelazione. Viene subito da chiedersi tuttavia comeunqualsiasilettoredella vita di Rousseau, a meno che non si tratti dell’Onnisciente, possa essere certo che abbia dettolaverità. La prima difesa di Rousseauècheluiriescedove Montaigne fallisce: laddove Montaigne «fingendo di confessare i suoi difetti», si limitasoloaquelli«attraenti» (libro X, tomo II, p. 565) lui, Rousseau, è pronto a confessare anche quelli piú umilianti, come il piacere sensuale che prova a essere picchiatodaunadonna(libro I, tomo I, p. 18). Questo naturalmente non basta a liberarlo dal sospetto che possa essere in buona fede quando dice la verità e tuttavia autoingannarsi. A questo proposito Rousseau spiegacheilsuometodonelle Confessioni è quello di descrivere in dettaglio «tutto quanto mi è capitato, tutto quanto ho fatto, ho pensato, ho sentito» senza nessuna interpretazione: «Tocca a lui [al lettore] mettere insieme questielementiedeterminare l’essere che compongono: il risultatodev’essereoperasua» (libroIV,tomoI,pp.191-92). E se questo può apparire evasivo (ad esempio non rispondeall’accusadeiricordi selettivi), ecco la sua posizione: Posso incorrere in omissioni nei fatti, in trasposizioni,inerrorididate, ma non ingannarmi su quel chehosentito,nésuquelchei miei sentimenti mi hanno indotto a fare […] Assunto specificodellemieconfessioni è di far conoscere con esattezzailmiointimointutte lesituazionidellamiavita.Ho promesso la storia della mia anima, e per scriverla fedelmente non ho bisogno di altrememorie;mibasta,come ho fatto fin qui, rientrare dentro di me (libro VII, tomo I,p.304). Rousseau ritiene dunque che l’autoinganno nei confronti della memoria presente sia impossibile, poiché l’io è trasparente a se stesso.Laconoscenzadisénel presenteèunadonnée. Cosasignificatuttoquesto in pratica? Ritorniamo alla storia spesso discussa del furto del nastro narrata non solo nel libro II delle Confessioni ma anche nel libro IV delle Fantasticherie. Mentre si trova a servizio in una casa Rousseau ruba un nastro. Quando il nastro viene trovato in suo possesso dichiara che gli è stato dato dalla cameriera Marion e ripete l’accusa davanti a lei. Rousseau e Marion sono ambedue licenziati. Il suo commento è che «non è credibile che, dopo quell’episodio, essa trovasse facilmenteunbuonposto».E lui si chiede cupamente se non si sia uccisa (libro II, tomoI,p.95). Per quanto il rimorso lo abbia attanagliato per quarant’anni – Rousseau scrive nel 1766 – non ha mai confessatolasuacolpaprima d’ora. Si è trattato di un atto «atroce» e lo spettacolo della poveraMarioningiustamente accusata avrebbe convertito chiunque tranne «un cuore barbaro». E nondimeno il senso delle Confessioni sarebbesconfessatoseluinon cercassedipresentarelaverità profondadellastoria,cheèla seguente: «L’accusai di aver fattoquelchevolevofareio», ecioèluihaaccusatoMarion di avergli dato il nastro perché era sua «intenzione» darloalei.Quantopoialnon ritrattare la bugia quando fu messo a confronto con Marion questo era dovuto a una «invincibile paura della vergogna». «Ero uscito appena dall’infanzia» e non era in grado di gestire la situazione» (libro II, tomo I, pp.95-96). PauldeMandistinguedue componenti in questa storia: un elemento di confessione il cuiscopoèrivelareunaverità verificabile, e un elemento di scusa il cui scopo è convincere il lettore che le cose sono ed erano proprio come Rousseau le vede 21. Sebbene De Man sbagli nell’affermare che la verità che si confessa debba essere in linea di principio verificabile (si possono confessarepensieriimpuri,ad esempio), la sua distinzione tra la confessione vera e propriaelascusacipermette di capire perché la confessione del tipo che incontriamo in Rousseau sollevi problemi di certezza che non sorgono con la confessione di un fatto. Si trattò di un gesto malvagio, dice Rousseau, ma mosso da un’intenzione buona e pertanto non del tutto biasimevole. Analogamente incolpare Marion fu un atto malvagio ma causato dalla paura e dunque in qualche modo scusabile. L’autoanalisi di Rousseau a questo punto cessa ma il processo di puntualizzazione da lui cominciatopuòessereportato avanti. Come può sapere se quella parte di sé che ricorda la buona intenzione dietro l’azione sbagliata non stia costruendo l’intenzione a posteriori solo per discolparlo? D’altro canto (possiamo immaginare che l’autobiografo continui) dobbiamo stare attenti a mettere sullo stesso piano il beneeilmale:checosac’èin mechepotrebbedesideraredi minimizzare le buone intenzioni etichettandole come razionalizzazioni a posteriori 22? E tuttavia non è forse una domanda come questa che porrei se stessi cercandodiproteggermidalla conoscenza della parte peggioredime?Eppure… Per giungere alla verità «vera» sulla storia del nastro, DeManvaoltrel’equivalenza delle rivendicazioni di buone e cattive intenzioni per dedicarsi all’analisi del linguaggio della confessione. «La soddisfazione evidente del tono e l’eloquenza del passo[…]ilfacilefluiredelle iperboli […] il piacere manifestoconcuiildesiderio dinascondereèrivelato»(pp. 305-6) – tutti questi elementi dello stile mostrano che «ciò che Rousseau realmente voleva non è né il nastro né Marion,malascenapubblica del denudamento che egli in effettiottiene»(p.306). Sia il furto che il tardivo pentimento nascondono dunque il «vero» desiderio di Rousseau di mettersi a nudo. E se è questo il vero motivo allora tanto maggiore la colpa, maggiore l’occultamento, maggiore il ritardonellarivelazione,tanto meglio. Il desiderio «veramente vergognoso» che Rousseau non ha il coraggio di confessare è quello di denudarsi, ed è a questo che viene sacrificata Marion. Questo processo di vergogna edimessaanudo,affermaDe Man, come quello della confessione e della puntualizzazione, produce una regressione all’infinito: «Ogni nuova tappa nello svelamento suggerisce una vergogna piú profonda, una piú grande impossibilità di rivelare, e una piú grande soddisfazione nel tentativo di superare quest’impossibilità» 23. Èforseingenuodapartedi deManparlaredi«quelloche Rousseau voleva veramente», come se si trattasse di qualcosa di storicamente conoscibile. Può anche apparire incauto fondare l’interpretazionesull’analisidi caratteristiche stilistiche. In questo De Man ha dalla sua non solo l’autorità di Rousseau ma ancora prima quella della poetica romantica.Daunaposizione, semplicemente anticlassicista che trova nella sincerità, intesa come relazione sincera delloscrittoreconsestesso,il sostituto dell’apprendistato suiclassici 24,ilRomanticismo si sposta rapidamente alla formula di Keats che capovolge le implicazioni: non solo la verità implica la bellezza, ma la bellezza implicalaverità.Daquestoa dire che la poesia crea i suoi propri autonomi criteri di bellezzailpassoèbreve 25. La nozione secondo cui l’artista crea la sua verità assume una forma particolarmenteestremanelle Confessioni,dalmomentoche Rousseaustascrivendoinuna forma – l’autobiografia – che ha legami piú stretti con la storia e con i criteri verificabili della verità che con la poesia. Se seguiamo il tema del denudamento nelle Confessioni potremo rintracciare i vari stadi attraverso i quali Rousseau si avvicinaaquestaposizione. Nel libro III Rousseau descrive una serie di atti di esibizione sessuale compiuti da ragazzo. La descrizione di questi atti è di per sé, naturalmente, una forma di esibizionismo. Quali motivi hanno in comune queste due forme di autorivelazione? Jean Starobinski suggerisce una risposta: ambedue rappresentano un ricorso all’«efficacia magica» della «seduzione immediata»: il soggetto si protende verso gli altrisenzausciredasestesso; si mostra cosí com’è mentre resta se stesso e dentro se stesso 26. Le autorivelazioni di Rousseau hanno sempre il fine di conquistarsi amore e accettazione. L’autorivelazione offre la verità dell’io, una verità che glialtripossonoessereindotti a vedere. Secondo l’analisi di Starobinskidell’esibizionismo di Rousseau, che qui riporto: «Leconfessionisono,inprima istanza, un tentativo di rettificare l’errore altrui, non la ricerca di un “tempo perduto”. La preoccupazione di Rousseau ha inizio coll’interrogativo: perché il sentimento interno […] non trova eco in un riconoscimento accordato con altrettanta immediatezza?» Perché si realizzi questo intento persuasivo bisogna inventare un linguaggio (écriture) che renda il sapore unico dell’esperienza personale, «una scrittura sufficientemente elastica e variataperdireladiversità,le contraddizioni, gli infimi dettagli, le “inezie”, il concatenarsidelle“percezioni minute” il cui tessuto costituiscel’esistenzaunicadi Jean-Jacques» 27. Ecco il commento di Rousseau a questoprogettostilistico: Avrò sempre quello [lo stile] che mi verrà; a seconda dell’umore lo cambierò senza scrupoli, dirò ogni cosa come la sento e vedo, senza affettazione, senza imbarazzo, senzasentirmiintralciatodalla varietà dei colori. Abbandonandomi insieme al ricordo dell’impressione ricevuta e al sentimento presente, dipingerò due volte [jepeindraidoublement]ilmio statod’animo 28. L’immediatezza della lingua immaginata da Rousseauèunagaranziasulla verità del passato che racconta. Non si tratta piú di una lingua come quella dello storico che domina l’argomento. Al contrario è unalinguaingenuacherivela colui che si confessa nel momento della confessione e allo stesso tempo rivela il passato che lui confessa – un passato divenuto di necessità incerto.Nellaformulazionedi Starobinski ci spostiamo dal campo della verità, in cui la confessioneèancorasoggetta alla verifica storica, a quello dell’autenticità. Questa non richiede che la lingua riproduca una realtà, ma piuttosto che la lingua manifesti la «sua» verità, in cuièabolitaladistanzatral’io che scrive e la fonte dei sentimenti di cui scrive. Ed è proprio questa abolizione a distinguere l’autenticità dalla sincerità – poiché la fonte è sempre qui e ora. «Il tutto avviene in una tale purezza del presente che perfino il passato vi è rivissuto come sentimento presente» 29. Il primo prerequisito è dunque esseresestessi.Sièinpericolo dinonesseresestessiquando si vive una distanza riflessiva da se stessi (un capovolgimento di valori rivelatorio per l’autobiografia). La lingua diventa dunque per Rousseau l’essenza dell’io autentico, respingendo ogni appelloauna«verità»esterna. L’unicotipodilettore,inoltre, chepuògiudicaretraveritàe falsità in Rousseau mentre accetta – anche solo in via provvisoria – le premesse del suo progetto confessionale, deve essere qualcuno come DeManchecercadiscoprire momenti inautentici dell’autore attraverso momenti inautentici del suo linguaggio. L’analisi di De Man dell’episodio del nastro sifondasullapremessachela confessione tradisce l’inautenticità quando chi si confessa cade nel linguaggio dell’Altro. Cosí, mentre De Man accusa Rousseau di (auto)ingannosullabasedella «soddisfazione»chetradisceil suo tono, il «piacere» nelle sue rivelazioni, la soddisfazione e il piacere si rivelano anche nell’«eloquenza» e «nel fluire delle iperboli», e cioè in aspettidellinguaggiochenon gli appartengono. Rousseau non sta parlando con la sua voce, è qualcun altro che parlaattraversodilui 30. Se non vogliamo contestare questa equazione di autenticità e verità non avremo molte speranze di poter leggere in maniera diversa Le confessioni, allo stesso modo in cui senza contestarelaveritàdogmatica di Tolstoj, non potremo dare una lettura diversa della Sonata a Kreutzer. De Man riesce a offrire una seconda lettura dell’episodio del nastro solo scoprendo e analizzando una crepa nel testo, una caduta di autenticità. Finché il linguaggio utilizzato resta suo, Rousseau sembra restare l’unicoautoredellasuaverità. Per mostrare che esiste una diversa possibilità di lettura del testo, attraverso momenti di incoerenza piuttosto che di falso stile, vorrei prendere un brano in cui Rousseau discute il suo atteggiamento nei confronti del danaro (libro I, tomo I, pp. 30-32). Qui Rousseau si presenta come un uomo di «passioni ardentissime» che dominato dal sentimento è capace di essere «sfrontato, violento, intrepido» (p. 41) ma questi momenti durano poco.Presto,sopraffattodalla «paura e dalla vergogna», ricade nell’«indolenza e la timidezza»,imbarazzatodagli sguardi altrui al punto da volersi nascondere. Non soltanto i suoi desideri vengono limitati dall’indolenza e dalla timidezza, ma anche i suoi gusti.«Nessunodeimieigusti dominanti è fatto di cose che si comprano, – scrive. – Il danaro li avvelena tutti». «Donne prezzolate perderebbero per me ogni fascino, dubito persino che potreigoderle.Ècosídituttii piaceri che mi sono accessibili. Se non sono gratuiti, li trovo insipidi» (p. 41). Perché il danaro dovrebbe avvelenare il desiderio? La spiegazionediRousseauèche per lui lo scambio è sempre a suo svantaggio. «Vorrei una cosabuonaperlasuaqualità: col danaro, sono sicuro di averla cattiva [je suis sûr de l’avoir mauvaise]. Compro caro un uovo fresco, ed è stantío; un bel frutto, ed è acerbo; una ragazza, ed è bacata»(pp.41-42). La prima spiegazione che dàlacolpaall’uovooalfrutto o alla ragazza non è supportata dai fatti (l’unica ragazza che pagherà non è bacata, bensí è lui a essere impotente) 31. La frase «sono sicurodiaverlacattiva»èpiú rivelatoria: in confronto con ciò che vuole, quello che compra (non quello che ottiene) certamente sarà stantío/acerbo/bacato. «Solo quando non pago i miei piacerisannodiqualcosa».La profezia che ciò che compro sarà cattivo è pienamente realizzata. Rousseau ci dà ora degli esempi di come vive la transazione dell’acquisto. Entra nella bottega di un pasticciere e nota che le donne ridono tra loro del «piccolo ghiottone». Va dal fruttivendolo ma vede dei passanti che la sua miopia trasforma in «persone di mia conoscenza». «Dovunque mi sento intimidito, trattenuto da qualche ostacolo; il mio desiderio cresce con la mia vergogna,erincasocomeuno sciocco, roso dalla bramosia, avendo in tasca di che soddisfarlo, e non avendo osatocomprarnulla»(p.42). Che cos’è che gli occhi intorno a lui minacciano di scoprireederiderequandolui entrainunnegozio?Èquello che vuole (comprare)? È il modo in cui lo chiede? È l’atto di offrire dei soldi? Invecedicercareunarisposta, Rousseau compie un tipico movimentodiinversioneedi ritrattazione. Via via che il lettore segue la storia della suavita,afferma,eimpareràa conoscere il suo «carattere, sentirà tutto ciò senza che io mi perda troppo in descrizioni» (p. 42). Alla sua sindrome darà il nome di «una delle mie pretese contraddizioni [contradiction]: quella di associare un’avarizia quasi sordida col piú grande disprezzodeldanaro»(p.42). La scusa per l’avarizia è che «lo [il danaro] conservo a lungo senza spenderlo, non potendolousareamiopiacere [faute de savoir l’employer à mafantaisie]». Procede poi a distinguere tra il possesso del danaro (in cui il danaro diventa uno «strumento di libertà»elaricercadeldanaro (dove è «strumento di schiavitú»), una distinzione che vanifica elegantemente il vizio dell’avarizia ammesso pocoprima. Perché lui non ha alcun desiderio di denaro? La sua risposta è che il denaro non può essere goduto di per sé, perché «fra il danaro e il possesso desiderato c’è sempre un intermediario; invece fra la cosa e il suo godimento non ve n’è nessuno. Vedo la cosa, mi tenta; se non vedo che il mezzo d’acquistarla, non mi tenta. Sono stato, dunque [donc], un briccone; e a volte sonoancorataleperleinezie che mi attraggono e che preferisco prendere anziché domandare»(p.43). Vale la pena esaminare la logicadiquestobranocheper Starobinski è esemplare di quello che Rousseau intende quando dice che il «danaro avvelena tutto» 32. Ma se parafrasiamo accuratamente la logica di Rousseau, lo leggeremo cosí: «desidero la cosa e non il mezzo che conduceallacosa,perciòrubo la cosa ma non il mezzo» e non«desiderolacosamanon il mezzo, perciò prendo (rubo)lacosapernonusareil mezzo». Alla domanda «Perché rubare?» questo brano non dice niente di meglio che: «Perché preferisco prendere piuttosto che chiedere». Rousseau non spingeoltrel’esplorazionedel suo atteggiamento verso il denaro, sebbene nelle Confessioni riprenda spesso l’argomento 33. Poiché Rousseau non fa alcunprogressonellospiegare la sua «pretesa contraddizione» e poiché l’illuminazione che promette al lettore non arriva mai, almeno per qualche lettore, voglio provare a spiegare l’insieme dei suoi comportamenti. Prestando minore attenzione alle sue riflessioni che alle scene dei negozi che lui descrive, notiamo che ciò che offende Rousseau è la franchezza e la legittimità della transazione monetaria. Entrare in un negozio e dire «Vorrei un pasticcino» e offrire dei soldi significa adattarsi a una modalità di trattare il suo desiderio che lo avvelena. Reso pubblico, il suo desiderio viene omologato a quello di un qualsiasi Tizio o Caio che entri nel negozio perdendo la sua unicità; diventa noto (a tutti quegli occhi curiosi) nello stesso momento in cui lui perde il controllodeiterminineiquali vuole che si conosca; diventa speso agli occhi del pubblico in soldi e franchi. Per Rousseauisuoidesiderisono risorse fino a quando restano unici, nascosti – in altri termini finché restano potenzialmente confessabili. Resi di pubblico dominio si rivelano desideri come quelli di tutti gli altri. Il sistema di scambio che turba Rousseau, il sistema cui non vuole partecipareèquellopercuiil suo desiderio di una mela viene esaudito per il mezzo pubblico del denaro, perché ogni volta che tale scambio avviene il desiderio perde valore. Vergogna e valore sono dunque termini intercambiabili. Questo perché, nell’economia della confessione,gliuniciappetiti, isoli,checostituisconovaluta confessabile, sono quelli vergognosi. Un desiderio disonorevoleèundesideriodi valore. Viceversa perché un desiderio abbia valore deve avere una componente segreta, vergognosa. La confessione consiste in un doppio movimento di offerta per spendere «cose di poco valore» e trattenere abbastanza per mantenere la libertà che deriva dal possedereuncapitale.Questo processo di rivelare a metà e poidiritrarsinelmistero,un processo inteso a sedurre, è chiaramente esemplificato nell’insiemedelbrano. Se comprare non è accettabile perché colloca il desiderio su una scala pubblica (tale è la natura del denaro),rubare,benchéasua volta riveli l’equivalente del desiderio nell’oggetto rubato, trova compensazione nella sostituzione del desiderio rivelato, e dunque non piú vergognoso,conunreato–di per sé valuta confessabile; e nel manifestare il mistero di perché rubi quando potrebbe comprare, il mistero da lui introdotto ma che rifiuta di risolvere. Non è mia intenzione sostenere che questa lettura costituisca la verità che Rousseau avrebbe dovuto confessare sul denaro, cosa chenonhafattoononpoteva fare, cosí come non intendo sostenerechelaletturadame datadelPozdnyševdiTolstoj sia la verità che lui non è riuscito a vedere su se stesso. Anzi, una delle funzioni secondarie di queste riletture è quella di mettere in questionelanozionestessadi veritàunica. Esiste d’altro canto la possibilità di seguire un’altra viapiúproduttivaperquanto piústretta,diquellasostenuta daDerridasecondocuil’idea di verità appartiene a una certa epoca, l’«epoca della supplementarità», e permette una pratica della scrittura funzionandocomeunaspecie di «macchia cieca» verso cui la scrittura si muove per una serie infinita di «supplementi» che differisconocontinuamentela verità 34.Nellamisuraincuile letture che Rousseau e Pozdnyševdannodisestessie le riletture che io ne ho fatto trovano nella verità la loro giustificazione, sono di certo supplementi derrideiani, e la decostruzione delle pratiche dameapplicatanellarilettura di Rousseau e di Pozdnyšev potrebbe certamente condurre a una «migliore» e «piú piena» lettura, e cosí all’infinito. Ma mentre Derrida sostiene qualcosa di rilevante nei confronti di qualsiasi scrittura della verità io intendo sostenere che la possibilità di leggere la verità «dietro»unaveraconfessione ha implicazioni particolari per il genere della confessione. Tornando alla Sonata a Kreutzer e alle Confessioni di Rousseau notiamo che in ciascun caso siamo passati attraverso una progressione analoga.Èstatoconfessatoun crimine (assassinio, furto), per la cui spiegazione si è avanzata una causa, una ragione o un motivo psicologico, poi la rilettura dellaconfessionehaportatoa una spiegazione piú veritiera. La domanda da porsi ora è: qualesaràlareazionedichisi confessaaquestaoaqualsiasi altra correzione «piú veritiera» della sua confessione?Larisposta,ame sembra,ècheselanuova«piú profonda» verità viene riconosciutacomevera,lasua reazione dovrà contenere un elementodivergogna.Perché o chi ha confessato era consapevole di questa verità piú profonda e la teneva nascosta, nel qual caso stava ingannando il confessore, o nonloera(eoraloammette), nel qual caso il suo status di penitente è messo in questione. Ciò che veniva offerto come un segreto, la monetadellasuaconfessione, non era il vero segreto, ma una moneta falsa; si è verificato un nuovo inganno che è nuova causa di confessione 35. Fin qui ho preso in considerazione il caso ipoteticodiunRousseauodi unPozdnyševchedifrontea una lettura della sua confessione latrice di una verità «piú profonda» di quella da lui riconosciuta riconosce la nuova verità e cambialasuaposizione.Intal caso,potremmochiederci,fin dovechiconfessamanterràle sueposizioni?Perchéinlinea di principio se abbiamo fatto una prima rilettura della sua storia potremmo farne una seconda. Se chi confessa è in linea di principio disposto a cambiare posizione a ogni nuova lettura, ammesso che possa essere convinto che sia «piú veritiera» della precedente,alloranonèaltro che un biografo di se stesso, uncostruttorediipotesisuse stesso suscettibili di essere miglioratedaaltribiografi.In tal caso la sua confessione non ha maggiore autorità di quella di un qualsiasi biografo: si basa sulla conoscenza, non sull’autoconsapevolezza. La possibilità per chi si confessa di arrivare a una nuova verità su se stesso dipende dalla natura del suo impegno verso la confessione originaria. Quanto piú profondamente ha riconosciuto la verità della sua confessione, tanto piú profondamentelasuaveritàè diventata parte della sua identità personale. Di conseguenza arrendersi alla nuova verità comporta un danno alla sua identità. Nel caso sia di Pozdnyšev che di Rousseau il danno è particolarmente grave perché parte della loro identità è quelladiesserereiconfessi,di averedettolaverità. In alternativa chi confessa puòrifiutarediarrendersialla nuova verità assumendo cosí la posizione del soggetto che si autoinganna, di colui che preferisce non ammettere la «vera» verità su se stesso e neppure di riconoscere tale preferenza, e cosí via all’infinito 36.Intalcasocome potrà dire la differenza tra se stesso e chi si confessa autoingannandosi, la cui verità è una bugia dal momento che ambedue «credono» di conoscere la verità? Una terza possibilità è quella di confessare con la «menteaperta»,riconoscendo fin dall’inizio che ciò che lui dichiaraesserelaveritàpossa non esserlo. Ma c’è qualcosa di veramente vergognoso in questa posizione. Perché se una persona ammette che le trasgressioni di cui è «veramente» colpevole possano essere piú gravi di quelle di cui si accusa, potrebbe analogamente sostenere che le trasgressioni di cui è «veramente» colpevole possano essere menogravidiquelledicuisi accusa (per quanto attiene al suo caso Rousseau è esplicito sull’ultimo tipo di consapevolezza,vedinota22). La consapevolezza di sé in questa postura – che inevitabilmente consegue dall’avere una mente aperta sulla questione della propria sincerità–èdipersémateria di confessione; essere consapevoli che la posizione non è colpevole (in quanto inevitabile) è materia di ulteriore vergogna e confessione, e cosí via all’infinito. Quel che ho scritto finora indica che il progetto di confessione quando il soggetto si trova in uno stato di elevata consapevolezza di sé ed è aperto al dubbio, solleva problemi intricati e intrattabili a proposito della verità, problemi il cui denominatore comune sembraessereunaregressione all’infinito di consapevolezza e dubbio su di sé. Non è per niente chiaro se questi problemi siano visibili al Rousseau delle Confessioni o al Tolstoj della Sonata a Kreutzer. Ma sarebbe incauto pensarecheneltestodebbano apparire i segni di tale consapevolezza, quando non ènell’interessedinessunodei due scrittori mostrarne l’esistenza. A questo punto possiamosoloaffermarechei problemi non sono articolati. Ci troviamo per ora nella posizione di Hume, che davantiauninterlocutoreche ritiene di avere una conoscenza immediata di se stesso (e dunque, anche se questo non è in Hume, una conoscenza della propria verità)nonpuòfarealtroche interrompere la discussione per mancanza di un terreno comune 37. Dostoevskij. Le confessioni abbondano nell’operadiDostoevskij.Nei casi piú semplici Dostoevskij leutilizzacomeunmezzoper consentire al personaggio di mettersianudo,didirelasua verità. La confessione del principe Valkovskij in Umiliati e offesi (1861) ad esempio è poco piú di un espediente del genere 38. Perfino in questo romanzo giovanile tuttavia un elemento di gratuità si insinua nella confessione: la libertàdellarivelazionenonè strettamente richiesta da esigenze della trama o da motivazioni psicologiche; la sua schiettezza non è in carattere. Nei romanzi piú maturi il livello di gratuità crescealpuntochenonsipuò piú pensare alla confessione come mero espediente di denudamento:laconfessione, con tutti i problemi connessi diordinepsicologico,morale, epistemologico e metafisico, sispostaalcentrodellascena. Perquantointeressantepossa rivelarsi, in un discorso critico diverso, trattare della confessione nei romanzi maturi di Dostoevskij come da un lato una forma di masochismo o un vizio che l’autore considera tipico dell’epoca 39, e dall’altro uno dei vari generi che vanno a formare il romanzo di Dostoevskij 40, propongo in questa sede di isolare tre dei principali episodi di confessione da Memorie del sottosuolo, L’idiota e I demoni, e verificare come viene risolto il problema del finale di fronte alla tendenza dell’autoconsapevolezza di prolungare la confessione all’infinito. Memorie del sottosuolo (1864)èformatodadueparti, la prima una disquisizione sulla consapevolezza di sé, la secondaunastoriadelpassato del narratore. Per quanto diverse possono ambedue ritenersiconfessioni,laprima rivelatoriadellapersonalità,la seconda rivelatoria di una storia vergognosa. Nella prima parte, di carattere piú speculativo, la rivelazione di sé è inserita in una discussione piú ampia sulla possibilità di dire la verità su se stessi in un’epoca di intensacoscienzaodi«troppa coscienza», la malattia di quello che l’anonimo narratore definisce il «nostro disgraziato secolo diciannovesimo» e di San Pietroburgo,«lapiúastrattae artificiosa città di tutto il globo terrestre» (p. 8). Le «leggi»dell’ipercoscienza,che impongono una continua consapevolezza della consapevolezza fanno dell’uomo iperconscio l’antitesi dell’uomo normale. Non potendo poggiare sulla certezza, non può prendere decisioninéagire.Nonriesce neppureadagiresullapropria consapevolezza per tenerla bloccata in una o un’altra posizione, poiché obbedisce solo alle sue leggi. Né può considerare se stesso agente responsabilepoichéassumersi leproprieresponsabilitàèuna posizione finale. (Il che non vuoldirenaturalmentechelui si biasima per nulla: al contrariosiprendelacolpadi tutto. Ma lo fa in un movimento riflesso che ha origine nelle leggi dell’ipercoscienza) 41. Qui finisce la teoria. Però, prima di imbarcarsi sui suoi vergognosi ricordi, l’eroenarratoreinvocailprecedente diRousseau: Voglio sperimentare se almeno con se stessi si può essere perfettamente sinceri […] Debbo notare in propositocomeHeineaffermi che le autobiografie fedeli sono quasi impossibili, e che unapersonasulproprioconto dice sicuramente le cose false. Secondo la sua opinione, Rousseau, per esempio, si è calunniato nella sua confessione, e si è calunniato perfinopremeditatamente,per vanità. Sono sicuro che Heine haragione(pp.40-41). Nelsuocaso,tuttavia,non avendo lettori non avrà, cosí afferma, la tentazione di mentire. Il progetto di non mentire viene messo alla prova piú drasticamente nel racconto del suo rapporto con la giovaneprostitutaLiza.Dopo una notte di «depravazione […] senza amore» (p. 91) racconta di essersi svegliato nel letto della ragazza e di averla trovata intenta a fissarlo. Sentendosi a disagio lui comincia a parlare senza premeditazione, spingendola a emendarsi e offrendosi di aiutarla. Perché lo fa? Si chiede piú tardi. La spiegazione che si dà è «per gioco», per il divertimento di «sconvolgerle l’anima e spezzarleilcuore»(p.105).E comunqueglivieneildubbio cheadattrarlononsia«soloil gioco»(p.106). Il giorno dopo prova la sensazionediuna«disgustosa verità», di essere stato sentimentale. Per reazione comincia a odiare Liza, e comunque non può dimenticare il suo «pietoso, contorto, inutile sorriso» (p. 112) mentre lo guardava. «Qualcosa si sollevava, si sollevava incessantemente, con dolore nell’animo mio, e nonvolevaplacarsi»(p.111). Dopo qualche giorno Liza vaatrovarloperricordarglila suapromessa,econunsenso di «tremendo rancore» (p. 122) lui si imbarca nella sua crudele confessione. Le dice che quando le esprimeva i suoi bei sentimenti dentro di sé rideva di lei. Dopo essere stato umiliato dai suoi amici aveva deciso di umiliare lei a sua volta. Voleva solo divertirsi. Ora lei poteva anche andare in malora. Si rendecontocheluinonpotrà mai perdonarla di essere venutaalsuoappartamentoe avere visto le misere condizioni in cui vive? Lui la farà solo soffrire perché lui è «il piú schifoso, il piú ridicolo, il piú meschino, il piúsciocco,ilpiúinvidiosodi tutti i vermiciattoli della terra»(p.125),eperilfattodi averlo sentito parlare da uomo per «una sola volta nella vita» (p. 125), lei deve esserepunitaancoradipiú,e cosívia. Dapprincipio Liza è colta di sorpresa dal suo cinismo, poi sorprendentemente lo abbraccia, perché ha capito cheancheluièinfelice.Luiè sopraffatto. «Non mi permettono […] Non posso essere […] buono!» (p. 126) singhiozza tra le sue braccia. Masubitocominciaaprovare vergogna di trovarsi in una tale posizione «umiliata e calpestata» e nel suo cuore si accende unsentimentodidominazione e di possesso. I miei occhi brillarono di passione, e le serrai forte le mani. Come la odiavo e com’ero attratto verso di lei in quel momento! Un sentimento rinforzava l’altro. Sembrava quasi una vendetta! [...] Sul suo volto si dipinse dapprima come un senso di stupore, come un senso perfino di paura, ma soloperunattimo[…]Ellami abbracciòconrapimentoecon ardore(p.127). Nella «febbre dell’incertezza» tipica dell’ipercoscienza, le sue mosse successive sono quasi prevedibili.Lemetteinmano deisoldiperindicarecheper luirestasolounaputtana;poi quando lei va via, la insegue «con vergogna e disperazione», riflettendo tuttavia che all’origine della sua vergogna c’è la natura «libresca» (p. 129) del suo gesto. Abbandona l’inseguimentoconvincendosi chel’offesasubita«laeleveràe purificherà» (p. 130). È soddisfatto di questa spiegazione e si disprezza perchésisentesoddisfatto. Aquestopuntolastoriadi Lizasiconclude:«Nonvoglio piúscriveredal“sottosuolo”», dice il narratore che tuttavia appone al testo una nota autoriale: «Le Memorie di questo paradossista non finisconoancoraqui.Eglinon haresistitoehaseguitato.Ma ancheanoisembrachequici sipossafermare»(p.132). Il riassunto che ho dato della confessione su Liza non èfineasestesso.Homessoin evidenza i momenti in cui qualcosa emerge dalle profondità del narratore che lui non capisce neanche alla distanza di quindici anni. La primapartecihapreparatoa unaconfessioneincuinessun movente resterà nascosto alla luce dell’ipercoscienza, in cui Rousseau sarà superato in franchezza. I momenti in cui il narratore non capisce se stesso hanno dunque una caratteristica particolare: o nonsonostaticapitiquindici anni prima quando era protagonistadellasuastoria,e ora vengono registrati senza cheluiliinterroghiinqualità dichisiconfessa,oppureneè stata data retrospettivamente una spiegazione strana non tanto perché è falsa ma perché è definitiva, e dunque non è sottoposta all’infinita regressione della autocoscienza.Diquestodarò unesempiopiúoltre. La confessione su Liza potrebbeesserecontestatanei seguentipunti: 1. Se umiliare Liza è semplicementeungioco che cosa motiva il narratore «al di là del gioco»? 2. «Qualcosa non moriva dentro di me, nel profondo del cuore e della coscienza, non voleva morire […] qualcosa si sollevava, si sollevava incessantemente, con dolorenell’animomio,e non voleva placarsi. Tornai a casa proprio sconvolto.Comesesulla mia coscienza pesasse undelitto»(p.111).Che cosaèquel«qualcosa»,e di quale delitto si sta parlando? 3.«Nonmilasciano–non posso essere buono!», singhiozza pronunciando parole chesembranoprovenire daunestraneodentrodi lui. Che cosa vuol dire? Secondo una lettura sta continuando il suo «gioco» con Liza fingendo di essere tormentato e infelice. Secondo un’altra lettura la voce dentro di lui potrebbe essere la voce repressa di un sé migliore che «gli altri» non gli permettono di esprimere. 4. Tra le braccia di Liza passa attraverso una rapida serie di sentimenti notevoli per laloroambivalenza.Per quanto cripticamente espressi questi includono:iltrionfoper avere espresso la sua aggressiva confessione senza essere rimproverato, il desiderio di apporre il suo sigillo sulla vittoria attraverso il possesso sessuale della ragazza, e lavolontàdicontinuare a umiliarla. Non c’è dubbio che i due personaggi hanno le caratteristiche della coppia sadomasochista cosí comune in Dostoevskij. Ma i dati da me riferiti sono ricavati unicamente dalladescrizionechelui fa del suo stesso stato interioreediquelloche leggesulvoltodiLiza. Quello che lei legge sul volto di lui (mentre lui legge sulvoltodilei)risvegliainlei dapprima stupore e terrore poi una reazione di voluttà. Stasbagliandoquandoscorge «vero amore» dove dovrebbe leggeresolodesideriosadico? In un certo senso sí: lui la prendeingiroperessereuna cattiva lettrice che ha sbagliato fin dall’inizio nel ritenerlo sincero quando non lo era. Bisogna ricordare tuttavia che in qualità di autore della sua storia lui si trova in una posizione privilegiata da cui orientare i lettori. Le sue Memorie impongono la lettura in cui Liza viene ingannata sia al bordello che nell’appartamento. Lui non soloèl’autoredellasuastoria, è anche colui che conduce i duedialoghiconLiza,quando le rivolge le domande, e le dicechileièechecosafa.In un solo caso il giudizio della ragazza su di lui viene riportato: «Mi pare che voi […] parlate come un libro» (p. 100). Per il resto la sua lettura viene registrata nelle Memorie solo in due sguardi: «due occhi aperti che mi esaminavano con curiosità e insistenza»(p.90)quandolui sisveglianellastanzadilei,e quello nel suo appartamento quando lei gli legge in faccia la passione. Non c’è molto altromaterialedacuiricavare laletturadellaragazzaeppure possiamo farci un’idea di ciò che vedono i suoi occhi aperti: un uomo che ha pagato per passare due ore con lei facendo sesso «senza amore, volgarmente e svergognatamente» (p. 91). Anchelasuaosservazioneche lui parla come un libro è giusta. Possiamo dunque credere che lei fraintenda quandoluidicedivolerlafare evadere dalla prostituzione, e poi quando dice di provare della passione nei suoi confronti e persino di avere bisogno di lei? Sembra plausibile che Liza capisca, o quanto meno veda dentro il narratoreinunmodochelui – proprio in quanto tale – nonpuòammettere:echeda questo punto di vista (osservatorio privilegiato) i tre momenti di percezione concessi a Liza siano falle nellatramadeltesto. Sarebbe ingenuo proporre una lettura del racconto – basandolasuitremomentidi Lizaesuqueimomentiincui in lui parla una voce spontanea – in cui l’eroe emerge in tutta la sua verità, come un giovane infelice e tormentato che desidera l’amore di una donna e tuttaviahapauradiscoprirei suoidesideri.C’èun’ironiaal fondo di Memorie del sottosuolo che non consiste nel fatto che l’eroe non è poi cosí cattivo come dice di essere, quanto piuttosto che mentre promette una confessione che supererà in sincerità Rousseau, una confessione che ritiene di essereingradodifareperché possiedeunaipercoscienzadi sé, la sua confessione rivela soprattutto l’impotenza della confessione di fronte al desiderio dell’io di costruirsi lasuaverità. Vale la pena tornare sulla prima parte delle Memorie per vedere quello che il personaggio dice sul desiderio.Secondoilpuntodi vista degli illuminati anni Sessanta dell’Ottocento, dice, il desiderio obbedisce a una legge, la legge secondo cui l’uomo desidera ciò che gli porta vantaggio 42. Ma la veritàècheognitantol’uomo desidera ciò che gli reca danno allo scopo di avere il dirittodidesiderarealdifuori diqualsiasilegge.Luidesidera la libertà, l’autodeterminazione per affermare «la cosa piú importanteepiúcara,cioèla nostra personalità e la nostra individualità» (p. 30). Il desideriooriginarioèdunque quellodiunalibertàchel’eroe identifica con l’individualità unica. La domanda che sorge immediata è: come fa il soggetto a sapere che le sue scelte, persino quelle «perverse»chenonglirecano alcun vantaggio, sono veramente non determinate? Comefaasaperecheluinon èloschiavodiunmodellodi scelte perverse (un modello patologico, forse) il cui disegno è visibile a tutti tranne che a lui? L’autocoscienza non gli dà la rispostaperchénelleMemorie del sottosuolo questa è una veramalattiachesinutredise stessa, che trova sempre un movente dietro l’altro movente, un’altra maschera dietro ogni maschera, fino a quell’ultimo che deve rimanere mascherato (altrimenti la regressione infinita avrebbe fine e la malattia guarirebbe). Quello che potremmo chiamare la ragione per smascherarsi. Quello che l’uomo del sottosuolo non può sapere nella sua autointerrogazione dunqueèperchévuoledirela verità su se stesso e c’è la possibilità che la verità su se stesso che racconta (la verità perversa,laveritàcomestoria della «libera» scelta perversa chehafatto)possaessereessa stessaunaveritàperversa,una scelta perversa fatta secondo undisegnoinvisibilealuima forsenonaglialtri. A questo punto siamo oltre ogni questione di sincerità. La possibilità che abbiamo è quella di una confessione fatta attraverso un processo di implacabile autosmascheramento che potrebbenonessereancorala verità ma una finzione opportunistica perché il principio sottostante non analizzato e non analizzabile potrebbe essere non il desiderio della verità ma il desideriodiessereinuncerto modo. La possibilità per il lettoredicapiresesitrattadi una vera confessione è inversamente proporzionale alla coerenza di questa ipotetica finzione del sé. Una veritàchepossiamoverificare solo quando si contraddice o è in conflitto con qualche verità «esterna» verificabile, situazioni che un accorto narratore confessante è in teoriaingradodievitare.Non avremmo motivo di dubitare della verità della confessione dell’uomo del sottosuolo e specificamente della sua tesi che la sua qualità massima è lacoscienza,senoncifossero delle imperfezioni nella superficie della confessione, nei momenti in cui ad esempio il corpo sotto pressione pronuncia parole come «Non posso essere buono», segni di una lotta interiore che non viene analizzata. Non ci sorprenderebbe, nel caso in cui la confessione del narratore fosse una costruzione mendace e opportunistica, se la verità repressa emergesse dalla superficie, specialmente in momenti di stress, sotto forma di turbolenze del cuore, accenni della non riconosciuta espressione dell’io interiore o se la verità venisse di nuovo repressa. Quello che delude nelle Memoriedelsottosuolo–selo consideriamoun’esplorazione dellaconfessioneedellaverità –, è che faccia affidamento perlasua verità non solo sul ritorno del rimosso al livello delsoggettocheagisce(l’eroe dellastoriadiLiza)maanche sullaconseguentemancanzadi censuraallivellodelsoggetto narrante (l’eroe che racconta la sua storia quindici anni dopo l’evento). È come se il solo processo a non essere soggetto all’analisi dell’autocoscienza fosse proprio quello narrativo. Nel presentare la storia del suo rapporto con Liza, per frammenti, come quella di due individui autonomi (a Lizaèconcessalasuavoce,il suoaspetto),nelriproporrela voce dal sottosuolo che gli parlò quindici anni prima, il narratore rende possibile leggere un’altra verità, una verità«migliore»diquellache sta raccontando. È solo l’ingenuità che permette alla voce dell’«altra» verità di esprimersi senza censure, la prova di un richiamo segreto e ambiguo al lettore che il narratore non riconosce? Certamente lui presenta in modo ambivalente la questione se la sua storia sia una confessione «pubblica» o «privata»:ineffettidiventaun documento pseudopubblico, mainrealtà privato 43. Ma le Memorie finiscono in maniera vaga. I paradossi dell’autocoscienzapotrebbero andare avanti all’infinito, come sostiene la coda autoriale in forma di scusante. Nondimeno le domande da me sollevate restano non solo senza risposta (è nella loro natura non avere risposta) ma non analizzate. In Memorie del sottosuoloDostoevskijnonha trovato una soluzione al problema di come finire la storia,soluzioneche,secondo Michael Holquist, sarà il trionfo della sua fase matura 44. L’idiota (1868-69) è per moltiversiunlibrosullecose ultime. Basta pensare ai riferimenti all’Apocalisse e al dipinto di Holbein del Cristo morto,aIppolítdifrontealla sua morte imminente, e alle molte storie degli ultimi attimi dei condannati a morte. Il senso pervasivo che esiste un limite temporale influenza anche l’atteggiamento nei confronti della confessione, si insiste tropposullaricercadelgiusto confessore e si mostra intolleranzaperleconfessioni pocoserie. I principali episodi di confessioneneL’idiotasonoil gioco della verità in casa di Nastas′ja Filippovna e la «Spiegazione» di Ippolít. Ma prima voglio considerare un episodio che esprime in sintesi alcuni problemi filosoficidellaconfessione. Keller, «tutto effusioni e confidenze» (p. 304) arriva dal principe Myškin con storievergognosesusestesso, sostenendo di essere pentito maraccontandolecomesene andasse fiero. Il principe lo lodaperlasuasinceritàmasi chiede quale possa essere il motivo della confessione: vuoledeisoldiinprestito?Sí, confessa Keller: «Preparai […] la mia confessione […] perché mi agevolasse[ro] la via e perché voi, inteneritovi, mi snocciolaste centocinquanta rubletti. Secondo voi, non è una bassezza?»(pp.306-7) 45. È subito chiaro che ci troviamo all’inizio di una potenziale regressione all’infinito di presa di coscienza e di autodenigrazione in cui il candore compiaciuto di ogni livello di confessione di un motivoimpurodiventanuova fonte di vergogna e ogni fremito di vergogna nuova fonte di autocompiacimento. Un modello ricorrente nelle Memoriedelsottosuolo,eben noto ai personaggi de L’idiota, sempre pronti a scorgere il verme della vanità nell’autodenigrazione degli altri ma che reagiscono con indignazione quando gliela si fanotareinloro.Allabasedi questo comportamento c’è quello che Myškin definisce dvoinaya mysl, letteralmente «doppio pensiero», ma che si spiega meglio come forma di ripiegamentodelpensiero,un movimento caratteristico dell’autocoscienza. È un doppio pensiero a spingere Keller a volersi sinceramente confessare a Myškin per giovare al proprio «perfezionamento spirituale» mentre allo stesso tempo vuole chiedergli dei soldi; è un ripiegamento quello che svilisce l’integrità della volontà di confessarsi scoprendodietrounavolontà di inganno, e dietro questo secondo motivo un terzo motivo (il desiderio di essere ammirati per il proprio candore),ecosívia. Myškin identifica cosí nel «doppiopensiero»lamalattia che rende la confessione incapace di dire la verità una volta per tutte. In realtà Myškin va oltre la diagnosi della malattia. «Tutti gli uomini [sono] cosí», dice: anchealuiècapitatodiavere doppi pensieri. Ma il riconoscimento dell’universalità del doppio pensieroèdiperséundoppio pensiero, come vede subito Myškin: «Mi è perfino accaduto qualche volta di pensare […] che tutti gli uomini siano cosí, tanto che [takcto]giàavevocominciato ad approvarmi» (p. 307) (corsivo mio). Il moto stesso di riconoscimento cosí lo intrappolanellasindrome. Vale la pena sottolineare questo punto. Sia Keller che Lébedev (che un paio di pagine piú avanti fa una confessione a Myškin) affrontano in maniera diretta il problema del perché scelgano il Principe come confessore.Questionicomelo spirito in cui si fa la confessione e l’adeguatezza delconfessorenonsipossono piú ignorare dopo il gioco della verità in casa di Nastas ′jaFilippovna,doveilgirodi confessioni delle azioni peggiori della loro vita ha lasciatogliospitivergognosie insoddisfatti, tanto da giustificare il cinico commento di Totskj che la confessioneèsolo«unaforma particolaredivanità».Kellere Lébedev danno la stessa spiegazione della loro scelta diMyškincomeconfessore:li giudicherà«umanamente»(p. 307) (po-celoveceski, «da uomo»).Inoltre,poichénonè pienamente uomo, ma un idiota, un semplice (come lo chiama esplicitamente Keller), un topo (mys), è estraneo al gioco fin troppo umanodiusarelaveritàperi propri fini. È un essere che non si comporta né come un dionellasuaseverità(sebbene Aglaja Epančín esprima qualche dubbio che nella sua devozioneallaveritàluipossa giudicare senza indulgenza), né come un uomo che assoggetta la verità al desiderio. Nella scelta di Myškin come confessore Keller e Lébedev stanno dunque cercando – per quanto oscuramente e per motivi impuri, doppi – il perdono piuttosto che il giudizio, Cristo piuttosto che Dio. A questa figura ideale di confessore possiamo contrapporre gli ospiti del ricevimento che si trovano a fare da confessori per la «spiegazione» di Ippolít. Ancor prima che Ippolít abbia cominciato a leggere la sua confessione, alcuni degli ascoltatori si sono già fatti un’idea sulle implicazioni possibili del suo atto di confessione pubblica. Myškin lo vede come un espediente che Ippolít ha creato per forzarsi a procedere con il suicidio;Rogozinalcontrario lo vede come un modo per Ippolít di spingere i suoi ascoltatori a impedire che si suicidi. Ambedue dunque vedono la sua confessione al servizionondellaveritàmadi un desiderio piú profondo (morire,vivere). Quanto alla confessione veraepropria,questasitrova in conflitto con le sue motivazioni in un modo che abbiamo già incontrato in Dostoevskij. Per prima cosa, dice Ippolít, la sua confessione conterrà «unicamente la verità» (p. 383), dal momento che sta morendo di tubercolosi e dunque non ha motivo di mentire (in altri termini la sua confessione è scritta all’ombra delle cose ultime). In secondo luogo i suoi ascoltatori saranno in grado dicoglierequalsiasielemento di falsità nella sua confessione, poiché lui ha intenzionalmente scritto il documento in fretta senza alcuna correzione (il motivo dell’autenticità dello stile ripreso da Rousseau). Terzo, pur essendo consapevole che la sua confessione può essere considerata come strumentale, un modo per giustificarsi o chiedere perdono,luinegaambeduele motivazioni. Trovandosi per cosí dire sul patibolo, e dunque in una posizione privilegiata, afferma il diritto di confessarsi semplicemente perchélovuole,eildirittodi rivendicare la confessione libera e immotivata contro ogni accusa di motivazione. Lasuaconfessioneappartiene alle cose ultime, è una cosa ultima e perciò inattaccabile da qualsiasi critica. La sincerità che la muove non può essere impugnata, dice, perché ha la garanzia della morte di chi l’ha confessata. D’altro canto la sincerità di qualsiasi critica a lui rivolta può e deve essere sottoposta alla critica senza fine. I suoi autori impugnano la sua motivazione per una loro motivazione, non vogliono conoscerelaveritàsullavitae sulla morte e a questo fine sono pronti a imporgli il silenzio e la doppiezza che conseguequandoilsilenzioè presoperacquiescenza:«nella coscienza della propria debolezza e nullità c’è un limite di vergogna, oltre il qualel’uomononpuòandare, e dal quale egli comincia a provare nella sua stessa vergogna un’immensa voluttà» (p. 409). La verità che i suoi ascoltatori non voglionosentireèchenonc’è vitadopolamorteecheDioè semplicemente «una enorme e ripugnante tarantola» (p. 404). Il suo suicidio è pertanto un’affermazione della libertà di non vivere l’esistenza alle «condizioni tanto derisorie» (p. 410) imposteall’uomo. L’argomentopresentatoda Ippolít è dunque che davanti alla morte la divisione dell’io prodotta dall’autocoscienza può essere trascesa e la regressione infinita del dubbio può essere superata dalla volontà dominante di direlaverità.Ilmomentoche precedelamorteappartienea ungenerediversoditempoin cui la verità ha alla fine il poterediapparirenellaforma dellarivelazione.L’esperienza del tempo fuori del tempo è descritta molto chiaramente negli attacchi epilettici di Myškin nell’ultimo istante di chiarezza prima che cada l’oscurità: La mente e il cuore s’illuminavano di una luce straordinaria: tutte le ansie, tutte le inquietudini, tutti i dubbi sembravano placarsi all’improvviso e risolversi in una calma suprema, piena di limpida, armoniosa gioia e speranza, piena d’intelligenza epregnadifinalità[...]Quegli istanti appunto altro non erano che uno straordinario intensificarsi dell’autocoscienza […] e al tempo stesso di un’autoappercezione in sommo grado immediata (pp. 224-25). Riflettendo su questi momenti Myškin pensa alle parole «non esisterà piú il tempo» (p. 226), le stesse parole con cui piú tardi Ippolít comincerà la sua confessione(p.379). Ilmomentoincuitermina il tempo terreno, cessa il dubbio su di sé, l’io è integrato e la verità è nota, ricorre nelle storie di esecuzioni di Myškin. In una di queste racconta della straordinaria ricchezza con cui il condannato rivive i piú banali dettagli della vita. In un altro immagina un uomo sul patibolo che nell’ultimo momento sa tutto. Piú tardi Myškin ha la sua esperienza di una «straordinaria luce interiore»(p.233)cheinonda l’animo dell’uomo sotto la lamadelboia. Ippolít sostiene di trovarsi sul patibolo allo stesso modo deicondannatidiMyškin.Da questa posizione privilegiata desidera lasciare all’umanità la sua «verità», che lui immagina come un seme che può crescere e dare grandi frutti. In particolare, spera che la sua morte possa avere sensoinununiversocheneè privo se riuscirà a seminare nella mente degli uomini l’ideadiunsuicidiofilosofico comeilsuo. Ma Ippolít possiede «veramente»ilprivilegiodella verità? La prognosi di morte entro un mese è stata pronunciata da un semplice studente di medicina; Ippolít nonsitrovaaffattosullettodi morteelamaggiorpartedegli ospiti reagisce alla sua «Spiegazione» senza mascherare un senso di irritazione (p. 411), considerandola come una manovra da parte di un ragazzo vanesio per attirare l’attenzione.Lororifiutanodi considerare sincera la sua decisione di uccidersi. A sua volta lui rifiuta di ritenere sincera la loro indifferenza allasuaconfessione,elalegge come una forma di pressione sudiluiaffinchéprocedacon il suicidio. Trovandosi all’improvviso di fronte alla ridicolasituazioneincuiluie i suoi ascoltatori sono diventati come giocatori di poker che cercano di giocare alrialzobluffando,incuisesi uccide potrebbe farlo per dispetto o frustrazione e in cui la richiesta piú urgente cherisparmilasuavitaviene da Lébedev, che non vuole sporcare il pavimento, si mette la pistola alla tempia e preme il grilletto solo per scoprire che non è carica. Quello che era cominciato come un progetto di suicidio filosoficodegenerainuncaos di risate e lacrime. La domanda se Ippolít avesse una «vera» comprensione privilegiata della vita e della morte viene enunciata nuovamente da Keller in una nuova forma banale: aveva dimenticato di caricare la pistola o era stato tutto un trucco? Il finale farsesco dell’episodio riafferma il problema che Ippolít sosteneva di avere trasceso, il problema dell’autoinganno e della regressione all’infinito del dubbio su di sé. Il progettodelsuicidiocomeun mezzo per garantire la verità del proprio racconto con il pegno estremo della vita inaridisce sotto l’acido commento di Rogozin: «Non cosí andava accomodata la cosa» (p. 381). Doveva essere fatta cioè, senza una «spiegazione», senza un perché e un percome in silenzio e nell’oscurità. La spiegazione, la verità privilegiata pagata con la morte,èinrealtàunseme,un mezzo per vivere dopo la morte. E perciò getta un dubbio sulla sincerità della decisione di morire. La sola veritàèilsilenzio. Il sogno che Ippolít raccontanellasuaconfessione rende piú estremo il paradosso. Ippolít sogna di chiedere a un uomo di fondere tutto il suo oro e farne una bara, poi scavare il suo bambino «gelato» e seppellirlo nuovamente nella bara d’oro. Il sogno è basato su un fatto realmente accaduto in cui Ippolít ha fatto una buona azione per uno sconosciuto ritenendola unsemescagliatoacasoperil mondo. Nella complessa condensazione del sogno, il diciottenne Ippolít è il bambino gelato, la «Spiegazione» è la bara dorata. Piantato nel terreno come un seme il sogno predice che il bambino non risorgerà (subito dopo il sognoIppolítpensaalquadro di Holbein del Cristo morto, un Cristo che non potrà mai risorgere). Parlando come nelle esternazioni non richieste dell’eroe delle Memoriedelsottosuolo,daun livello «piú profondo» e «piú vero»delsé,ilsognorivelail dubbiodiIppolítsullafertilità del suo seme e svilisce lo statuto privilegiato di verità della «Spiegazione» di cui fa parte 46. L’effettopoeticodelsogno è dirompente. E tuttavia piuttostocheleggereilsogno come verità privilegiata proveniente dall’«interiorità» diIppolít–unprocedimento che assegnerebbe all’inconscio la posizione di fonte della verità – preferisco chiedere a questo punto, comehofattoperleMemorie del sottosuolo, come mai i personaggi che si confessano nonriescanoacensuraredalle confessioni le tracce di una verità «piú profonda» che contraddice la verità che cercano di esprimere. Una risposta possibile è che Dostoevskij, nel trasferire in una narrazione in prima persona lo stesso miscuglio «menippeo» di generi che caratterizzaisuoiromanziin generale – un miscuglio che includeesposizionefilosofica, confessioni, e sogni – tratta l’autoinganno del narratore come una questione puramente formale che solo un realista superficiale prenderebbe sul serio. La questione tuttavia resta inquietante. Continuiamo a pensare che quando Dostoevskij ricade su un’univoca verità «interiore», egli tradisca l’interrogazione di nozioni di sincerità che altrimenti espone attraverso una rigorosa dialettica consapevole. L’uomo del sottosuolo si mette a scrivere le sue confessioni vagamente oppresso da memorie del passato,altrimentiannoiatoe ozioso.Raccontalesuestorie per acquietare se stesso, dice la verità perché, a differenza di Rousseau, lui scrive solo perisuoiocchi.Ciòvalesolo per l’esame della sua motivazione alla confessione, lospiritoconcuisiconfessae il significato di un pubblico, questioni che L’idiota mette inprimopiano.NeL’idiotala confessione può rivolgersi solo a un confessore adeguato,epersinoilprincipe Myškin, l’uomo-Cristo, si rivela inadatto, incapace di assolverechisiconfessa(cosí comeèincapacediredimersi) dalla spirale del doppio pensiero. Quanto allo spirito della confessione, dice L’idiota,èassurdocredereche la verità possa essere detta comepergioco,perpassareil tempo.Nessunattodivolontà appareingradodicostringere la verità a emergere, neppure quello di un momento di illuminazione determinato dall’atto di darsi la morte, perchéanchequestopotrebbe essereundoppiopensiero.La critica di Dostoevskij alla confessione ci porta sull’orlo diunaconcezionedellaverità chesiavvicinaallagrazia. Il passo successivo, e l’ultimo, che Dostoevskij compie nell’analisi dei limiti della confessione laica, avviene ne I demoni (187172). Due sono gli episodi rilevanti nel romanzo. Kirillov, come Ippolít, decide di uccidersi per piantare un seme di verità nella mente degli uomini. La differenza è che Kirillov si uccide veramente e che l’interesse dell’autore non è sulla spiegazione che lui dà del suicidio (il seme) – una spiegazione piena di irragionevoli grandiose e blasfeme motivazioni 47 – ma sulsuicidiostesso. In realtà la questione se Kirillov analizzi i suoi motivi per presentare il suo manifesto per il suicidio (si esita a definirlo confessione), eseluisiasoggettoaldubbio su di sé e all’autoinganno, diventa quasi irrilevante perché il romanzo non dà accesso alla mente del personaggio. La scena del suicidio è presentata attraverso gli occhi del piú giovane Verchovenskij (è un paradossotipicodelromanzo che mentre Kirillov pensa di uccidersiperaffermarelasua libertà, viene spinto al suicidio da Verchovenskij). È dunque attraverso i gesti, la postura, e i dettagli esterni che dobbiamo, per quanto ci è possibile, leggere gli ultimi istanti di Kirillov che «spera, [uccidendosi], di legarsi a se stesso, – come dice René Girard, – in un possesso vertiginoso» 48 mentre cerca di raggiungere la trascendenza attraverso la morte. Nascosto dietro un armadioinunastanzaoscura, Kirillov entra in uno stato di trance, gli occhi «completamente immobili e fissi in un certo punto dello spazio»(p.640).Selosilegge correttamente – tenendo a mentelaletturadiMyškindei condannati – sembrerebbe essere in attesa del momento in cui l’io sia del tutto presenteasestessoeiltempo sifermi,perfarsiesplodereil cervello. In questa lettura Kirillov è piú avanti di qualsiasi altro personaggio di Dostoevskij nel ritenere la mortecomeunicagaranziadi verità della storia che si racconta. Ma bisogna rammentare che Kirillov è nella sua ultima ora sempre piú un pazzo e un animale (l’ultimo gesto prima di ammazzarsi è di mordere Verchovenskij) e che la lettura dall’esterno che Dostoevskijciimponesegnala forse che la coscienza di Kirillov è spietata, disumana, illeggibile. Il capitolo intitolato Da Tichon, espunto dalla versione a puntate de I demoni dal direttore del «Russian Herald» e successivamente escluso dall’autore dall’edizione in volume del romanzo, riprende l’indagine scettica dell’impulso alla confessione. Stavrogin va a trovare il monaco Tichon e gli mostra un opuscolo che intende rendere pubblico in cui confessa un crimine nei confrontidiunabambina;ma ben presto sono le motivazioni di Stavrogin alla confessione a diventare oggetto di analisi e dunque temaulteriorediconfessione. Stavrogin racconta il suo crimine (di natura sessuale non specificata, seguito dall’intenzione di suicidarsi) senzaspiegarelamotivazione, tranneche«pernoia»,sepuò valere come spiegazione. Invece dell’analisi di un movente, che – come accade in Rousseau – scivola facilmente nell’autogiustificazione, troviamo l’insistenza di Stavrogin sulla propria colpa e responsabilità. Anche quandoannidopolabambina comincia ad apparirgli in visioni, lui insiste che non si tratta di visioni involontarie, macheèluiaevocarledisua volontà, benché non possa impedirsi di farlo (p. 719). L’immagine della bambina non è dunque emanazione di un sé colpevole «interiore» o «inconscio». Lo stesso sé colpevole dell’atto si confronta in maniera compulsiva con i ricordi colpevoli, non c’è alcuna distanza tra il sé che ha l’intenzione e quello che agisce 49. L’atto di Stavrogin viene considerato abominevole sia da Stavrogin che da Tichon. Ciò che Tichon mette in questioneètuttaviailmotivo che sta dietro il desiderio di Stavrogindirenderepubblica la sua colpa. L’indagine intorno a questo motivo, palesata nelle domande di Tichon a Stavrogin, prende il posto dell’autointerrogazione interiorizzata a cui siamo abituati dai racconti confessionali in prima persona. Nel fare questo Tichon apre il divario che Stavrogin aveva cercato di chiudere tra l’autoconsapevolezza del soggettoelaverità. L’incontro tra Stavrogin e Tichon consiste in una doppia verifica. Per tutta la durata dell’incontro Tichon mette alla prova la verità dei motivi addotti da Stavrogin per rendere pubblica confessione,mentreStavrogin metteallaproval’adeguatezza di Tichon in quanto confessore.VuolecheTichon dimostri il suo potere di assolvere scoprendo la verità dietro le menzogne che gli propinapercoprirla.Macosí come ci sono dei limiti sul tipo di penitenza e il tipo di perdono che Stavrogin è disposto ad accettare, ci sono limiti al tipo di verità che a Tichonèconsentitodivedere. In particolare Stavrogin non vuole che Tichon possa turbare quel nocciolo di identità a cui lui tiene. Cosí, nonostante la sua disponibilità a rinunciare a qualsiasidirittoperspiegareil crimineescusarelasuacolpa – una disponibilità che dà l’impressione che lui voglia una verità e un’assoluzione assoluta – la confessione di Stavrogindiventaungiocoin cui certi limiti non saranno trasgrediti, per quanto i partecipanti fingeranno con sestessieconglialtrichenon ci sono limiti. Si tratta dunque di un gioco di ingannoediautoinganno,un gioco di verità limitata, cui Tichon pone fine rompendo leregole 50. L’identità che Stavrogin vuole affermare è quella del grande peccatore. Egli presentailsuocriminecontro la bambina come tanto piú disprezzabile – grande nella sua spregevolezza – perché il motivoeraozioso,lapassione scarsa. Tichon ritiene che un crimine cosí meschino e tuttavia cosí pretenzioso possa suscitare solo riso e consiglia Stavrogin di accettare una tranquilla penitenza piuttosto che cercare una sofferenza infinita, mettendo cosí in questione l’enormità che Stavrogin attribuisce alla sua colpa e alla sua punizione. Stavrogin chiede una sofferenza infinita in proporzione del crimine commesso; e l’enormità della sua colpa è conseguente alla banalità del male del suo crimine. Tichon gli fa balenare la possibilità che lui sia semplicemente un dissoluto, un aristocratico sradicato con pretese byroniane che vuole raggiungere la fama per la scorciatoia di commettere un facile abominio e confessarlo inpubblico. È importante notare che Tichon non presenta questo resocontoaStavrogincomela verità su di lui, perché se lo facesse si proclamerebbe fonte di verità assoluta. La presenta come una possibile verità, la possibilità che Stavrogindovrebbeaffrontare se fosse veramente in cerca della verità su se stesso in un progetto di autoanalisi spirituale (cosí come Tichon dovrebbe esaminare i motivi che lo spingono a minimizzare la portata del male di Stavrogin nel corso della sua autoanalisi). Per questo Tichon taglia corto sulla perversa regressione infinita della autoconsapevolezza – una regressione che si identifica piú chiaramente nell’atteggiamento vittimista e autocolpevolizzante di Marmeladov e di Lébedev, la cui spudoratezza della confessione è motivo ulteriore di vergogna, e cosí via all’infinito, che non in Stavrogin, la cui versione della regressione è che la malvagitàdelsuoattohauna suagrandezza,elameschinità di questo trucco consapevole un ulteriore tipo di grandezza, e cosí via – per sostituirla con un’altra regressionediautoanalisiche hailpotenzialediprolungarsi all’infinito ma ha anche il vero potenziale di finire nell’autoindulgenza. L’autoassoluzione comporta la chiusura del capitolo, la fine della spirale discendentedell’autoaccusala cui profondità è impossibile da scandagliare perché decidere di fermarsi in un momento qualsiasi per un atto di volontà, decidere che la colpa termina in un certo momento,èunattodipersé potenzialmente falso che merita di essere analizzato. Come distinguere la differenza tra un momento «reale» di autoperdono e un momento di compiacimento quando il sé decide di essere andato abbastanza a fondo nell’autoanalisi è un mistero che Tichon non spiega, lasciandolo forse al consigliere spirituale «un asceta, di una saggezza cristiana tale da non poter essere compresa né da me né da voi» (p. 727) a cui raccomandaStavrogin.Mase si legge attentamente Dostoevskij si può capire che ilmonacononlofarebbemai ritenendo che una volta spiegata la differenza, questa farebbeognisforzoperessere incorporata in un nuovo gioco di inganno e autoinganno; e inoltre che articolare la decisione di non articolare la differenza potrebbediperséessereparte del gioco; e cosí all’infinito. Lacatenainfinitasimanifesta non appena entra in gioco l’autoconsapevolezza; come entrare in possesso della verità su se stessi, come raggiungere l’autoassoluzione e trascendere il dubbio, sembrerebbe destinato, per motivi strutturali, a dover rimanereavvoltonelmistero, e persino la demarcazione in questo campo, persino la specificazione dei motivi strutturali, dovrebbe per motivianaloghirimanerenon articolata, incluse le motivazionidelsilenzio. Ilfinedellaconfessione. Il fine della confessione è direlaveritàaepersestessi. L’analisi del destino della confessionedametracciatoin tre romanzi di Dostoevskij indica quanto e perché lo scrittorefossescetticosultipo di confessione secolare praticato da Rousseau, e prima ancora da Montaigne. Dostoevskij fa capire che a causa della natura della coscienzal’iononpuòdirela verità su se stesso a se stesso edesserecertochenoncisia stato autoinganno. La vera confessione non viene dallo sterilemonologodell’ionédal dialogo dell’io con i dubbi su di sé, ma dalla fede e dalla grazia, e in questo andiamo oltre Tichon. Memorie del sottosuolo, L’idiota e la confessione di Stavrogin possono leggersi come una sequenza di testi in cui Dostoevskij esplora l’impasse della confessione secolare, indicandoilsacramentodella confessione come l’unica stradacheportaallaveritàsu sestessi. Inunalungarecensionedi Anna Karenina, che apparve nel Diario di uno scrittore, Dostoevskij ammira Tolstoj per la profondità dell’analisi psicologica condotta nel romanzo, una profondità esemplificata nell’episodio dellamalattiaquasimortaledi Anna. Nel corso della malattia Anna, Vronski e Karenin «allontanano da se stessi l’inganno, la colpa e il crimine in uno spirito di generosità umana ma subito dopolaguarigionediAnnasi ritrovano su un sentiero in discesa in quella condizione fatale in cui il male, impadronitosidell’uomo,lega ogni sua mossa, paralizza in lui ogni desiderio di resistere» 51. Nel caso di Karenin la pietà, il rimorso e la gioia liberatoria che sente nel perdonare Anna non lo mettono al riparo dalla vergogna che prova quando rientra in società nel ruolo designato di marito umiliato, di zimbello. Prima prova un sensodiautocommiserazione, poiilsospettovergognosoche nelperdonareAnnaluipossa avere espresso non la generosità dell’io cui aspira ma la debolezza e forse l’impotenzadell’iocherifiuta. L’introspezione gli permette dunque di negare quello che aveva precedentemente provatocomeliberatoriodella sua parte piú vera e migliore nelnomediunanuovaverità, «piú profonda» in quanto mina la precedente. Questa «piú profonda» verità è in effetti niente altro che un autoinganno opportunistico che,nelcommentodiTolstoj, consente a Karenin di «dimenticare quello che non voleva ricordare». In una persona cosí laica (era un sincero credente, interessato alla religione soprattutto per il suo aspetto politico) l’autoanalisi non è uno strumentodiveritàmasolola volontà di sentirsi in pace, giudicato positivamente, e cosívia. La domanda che generalmente si pone a proposito della Sonata a Kreutzerè:comemai,dopola profonda analisi psicologica che caratterizza Anna Karenina (1874-76), e in particolare l’analisi dell’autoinganno che vi troviamo, Tolstoj ha potuto scrivereunlibrocosíingenuo in cui la verità del narratore consiste in una serie di crudi precetti sul controllo degli istinti? Prima di accettare la domanda in questa formulazione dobbiamo ricordaretrecose.Laprimaè che in Anna Karenina già troviamo lo spettacolo di un cercatore di verità che, per quanto assediato dal dubbio comechiunquealtro,latrova non nei processi tortuosi dell’autoanalisi ma in una illuminazione dall’esterno (nel caso di Levin, l’improvvisa illuminazione delleparolediuncontadino). La seconda è che non c’è alcuna possibilità di controbattere l’affermazione dell’uomo del sottosuolo secondo cui l’autocoscienza halesueleggi,unadellequali è che dietro ogni vera, definitiva posizione ce n’è sempreun’altrapiúveraepiú definitiva. Da un certo punto di vista si tratta di una legge feconda poiché permette la proliferazione infinita del testo dell’io come si vede in Memoriedelsottosuolo.Daun altropuntodivista,quellodi chi è affamato di verità, è sterile poiché sposta la verità all’infinito senza mai arrivare alla fine. La terza cosa da ricordare è che il genere di trascendenza dell’autocoscienza che Dostoevskij indica come soluzionefinalepotrebbenon essere accettabile per un cristiano razionalista etico comeTolstoj,chepuòtrovare laveritàinpersonesemplicie inconsapevoli ma è scettico sulla possibilità di arrivare a una verità che è oltre l’autocoscienza attraverso l’autocoscienzastessa. Con queste considerazioni in mente potremmo allora riformulare la domanda in modo che si trovi piú in sintonia con il tardo Tolstoj: uno scrittore per cui la psicologia dell’autoinganno nonèuncampoillimitatogià conquistato a tutti gli effetti, per cui il dubbio su se stessi ha dimostrato di essere un tran tran infinito, quale possibilità di raggiungere la verità può esserci nell’autoanalisi di una coscienza che si confessa? Non c’è dubbio che Tolstoj avrebbe potuto rendere la confessione di Pozdnyšev «piú ricca» e «piú profonda» sul piano psicologico rendendolaambigua–iltesto èdipersériccodielementidi ambiguità – ma bisogna immaginare che Tolstoj si chieda, a quale scopo? Perciò quando è stato approntato l’intero apparato narrativo (il narratore pronto a fare la parte di chi interroga e dell’Altro interrogato, la sequenza di tracce che portano a una verità che metteindubbioecomplicala veritàdicoluicheconfessa),a me pare che sopravvenga un senso di disillusione, di noia perquestomododispremere la verità dalle menzogne, di insofferenza per le procedure che bisogna mettere in atto prima di far emergere la verità (una verità che è comunque sempre provvisoria, segnata dal dubbio dai processi che ha attraversato), e per la decisione (avventata?) di dichiarare la verità come se dopo una vita di analisi si fossero acquisite le credenziali, si fosse accumulata l’autorità per farlo. [1985]. Nellastanzabuia:loscrittore eloStatoinSudafrica Ha scritto Nathaniel Hawthorne che quando si fonda una colonia tra le prime e piú urgenti necessità pratichec’èquelladi«adibire a cimitero un lotto della [loro] terra vergine e sceglierne un altro per costruire una prigione» 1. Le prigioni,quei«fiorineridelle società civili», prosperano dappertuttoinSudafrica.Non è consentito disegnarle né fotografarle, pena una severa condanna. Non so se negli altri paesi esistano leggi che vietano la rappresentazione delleprigioni.Èprobabileche esistano, ma in Sudafrica queste leggi hanno una specialepertinenzasimbolica, come se fosse decretato per legge che l’obiettivo debba chiudersi di fronte a certi luoghi, come se il passante non dovesse avere alcuna conferma che gli edifici visti sorgere dalla sabbia in una vasta spianata di monotono grigiore non erano un miraggioounbruttosogno. La spiegazione è molto semplice.Larispostaconsueta dei legislatori sudafricani a quel che disturba il loro elettoratobiancoèdivietarne la vista. Se la gente muore di famechelofaccialontano,nel bush,doveiloroscarnicorpi non rimproverano nessuno. Se non hanno lavoro, se emigrano in città, che si creino dei posti di blocco, si stabilisca il coprifuoco, si legiferi contro il vagabondaggio,lamendicitàe l’occupazione abusiva delle case, e che i colpevoli venganorinchiusiinprigione cosí che nessuno debba vederli o sentirli. Se le township nere bruciano, che siano vietate le riprese. (Cosa che fa tirare un sospiro di sollievo al grande elettorato bianco: i notiziari sono diventati molto piú sopportabili!) L’apartheid riguarda la segregazione dei neri o quella dei poveri? Una domanda di scarsa importanza quando neri e poveri sono quasi la stessa cosa. Esistono molti paesi in cuileprigionisonousateper rinchiudervipersonechenon hanno l’odore giusto o che hannounaspettosgradevolee non hanno la decenza di nascondersi.InSudafricaèla legge che provvede, per quanto possibile, a rendere invisibili non solo queste persone ma anche le prigioni incuivengonotenute. La sede centrale della polizia politica di Johannesburg, in una piazza cheopportunamenteriprende il nome di Balthazar John Vorster, già primo ministro della Repubblica sotto il cui patrocinio la polizia segreta acquistò la pessima fama che tuttoralacirconda,èunaltro di quei luoghi che non si possono fotografare. Un numero incalcolabile di prigionieri politici è stato portato in questo posto per essere interrogato. Non tutti sono ritornati vivi. In una poesiaintitolataSottoarresto, Christopher van Wyk ha scritto: Ècadutodalnonopiano Sièimpiccato Èscivolatosuunpezzodi saponementresilavava Sièimpiccato Èscivolatosuunpezzodi saponementresilavava Ècadutodalnonopiano Sièimpiccatomentresilavava Èscivolatodalnonopiano Sièimpiccatodalnonopiano Èscivolatodalnonopiano mentresilavava Ècadutodaunpezzodi saponementrescivolava Sièimpiccatodalnonopiano Sièlavatodalnonopiano mentrescivolava Sièimpiccatoaunpezzodi saponementresilavava. Dietroicosiddettisuicidie lemortiaccidentaliacuiVan Wykallude,dietroleautopsie sommarie eseguite dai funzionari governativi, le inverosimili e insulse conclusioni delle inchieste, ci sono le realtà della paura, prostrazione,dolore,crudeltà. Camminando per Johannesburg ci si può trovareaduepassidapersone sottoposte alle piú estreme sofferenze (naturalmente le stanzesonoinsonorizzate).«È come passare davanti a un bordello di prostitute bambine. È come passare davanti a un mattatoio. Sono cose che accadono. Cose che sifanno».Forse.Forsequeste cose si sono sempre fatte, dappertutto.Mac’èunacerta spudoratezza nel farle nel cuore di una grande città, la spudoratezzatipicadituttele operazionidisicurezzadiuno Stato che mette la propria sopravvivenza al di sopra della legge e finanche della giustizia. La poesia di Van Wyk gioca col fuoco, balla il tip tap davanti alle porte dell’inferno. Funziona perché non è una poesia sulla morte ma la parodia delle spiegazioni standard che la poliziapoliticahapronteperi media. Nel 1980 pubblicai Aspettando i barbari, un romanzo sull’impatto della stanza della tortura sulla vita elacoscienzadiunuomo.La tortura ha esercitato un fascino oscuro su molti altri scrittori sudafricani. Come mai? Ritengo che sia per due motivi. Il primo è che le relazioni della stanza della tortura forniscono una metafora,nudaedestrema,di quelle tra l’autoritarismo e le suevittime.Nellastanzadella tortura si esercita un potere illimitato sull’essere fisico di un individuo in una zona di confinetraillegalitàelegalità con lo scopo se non di distruggerlo almeno di distruggere il nocciolo di resistenzaalsuointerno. Cerchiamo di definire la situazione del prigioniero sospettato di crimini contro loStato. Quel che accade a Vorster Square è nominalmente illegale. Articoli di legge vietano alla polizia di esercitare violenza sui corpi dei detenuti tranne che per autodifesa.Maaltriarticolidi legge, invocando ragioni di Stato, pongono sotto protezione le attività della poliziasegreta,elelungaggini diunprocessocherichiedeal prigioniero di accusare i suoi aguzzini e produrre dei testimoni rendono del tutto inutile un procedimento contro la polizia a meno di una grave mancanza. Il prigionieroèconsapevole,ela polizia ne è a conoscenza, di essere del tutto indifeso controqualsiasicosascelgano di fargli. La stanza della torturadiventaalloraanaloga alla camera da letto nella fantasia del pornografo: il luogo in cui, libero da ogni freno fisico e morale, un essere umano può esercitare la sua immaginazione fino all’estremo nell’esercizio dell’abiezionesulcorpodiun altro. Un altro motivo per cui il romanziere subisce il fascino dellastanzadellatorturaèche lí si compie un’esperienza umana estrema, accessibile solo a chi vi partecipa. Nella sua monografia su William Faulkner, a proposito del carattere dello scrittore, John T. Irwin afferma: «È proprio perché si trova fuori della portascuraedesideraentrare nellastanzabuiamanonpuò, che è un romanziere: perché deve immaginare quel che accade oltre la porta. Anzi, è proprio la tensione verso quella stanza vietata a fare della stessa la fonte della sua immaginazione – il grembo dell’arte». Per Irwin, sulla scorta di Freud ma anche di Henry James, il romanziere è unuomoaccampatodavantia una porta chiusa, di fronte a undivietointollerabilechegli facreare,inluogodellascena che gli è vietato vedere, una rappresentazione di quella scena e una storia dei personaggi coinvolti e di come sono arrivati in quel luogo. Dunque non avrei dovuto chiedermi perché gli scrittori in Sudafrica siano attratti dalla stanza della tortura. La stanza vietata, buia, all’origine della fantasia romanzesca.Neldareluogoa un’oscenità, nell’avvolgerla di mistero,involontariamentelo Statocrealaprecondizioneda cuiparteilromanzoperilsuo lavorodirappresentazione. C’ètuttaviaunelementodi cattivo gusto nel seguire lo Statoinquestomodo,nelfare deisuoivilimisterioccasione difantasia.Ilgrossoproblema perloscrittorenonèlasciarsi intrappolare dal dilemma proposto dallo Stato e cioè ignorarne le oscenità o produrne una rappresentazione. La vera sfidaècomestarcisenzastare alle regole dello Stato, come stabilire la propria autorità, comeimmaginarelatorturae la morte alle proprie condizioni. C’è un altro dilemma che lo scrittore si trova davanti, non meno sottile, che riguarda la persona dell’aguzzino. I processi di Norimbergaepiútardiquello di Adolf Eichmann a Gerusalemmecihannomesso di fronte a un paradosso morale: la straordinaria sproporzionetralastaturada pigmei degli uomini sotto processo e l’enormità dei crimini da loro commessi. Tracce dello stesso paradosso sono venute alla luce in Sudafrica nel corso delle due inchieste – relative a Steve BikoeaNeilAggett–incuii membri della polizia segreta sonoemersibrevementedalla lorooscuritàsottogliocchidi tutti. Comesipuòrappresentare l’aguzzino? Se si vogliono evitareiclichédelromanzodi spionaggio, se non si vuole faredeltorturatoreunafigura satanica del male, né un attore da commedia nera, né un anonimo funzionario, né unuomotragicamentediviso che fa un lavoro in cui non crede, cosa resta allo scrittore? Le rappresentazioni della stanza della tortura sono piene di trappole e molti scrittori vi sono caduti. Per esempio,nelromanzoSoweto sulla rivolta del 1976, Sipho Sepamla scrive, cedendo chiaramentealfascinoerotico della scena: «la già logora sottoveste di Bongi venne strappata completamente, esponendo alla bestialità dei due poliziotti l’opulenza del senoconicapezzoliappuntiti […] Con gelida calma, il poliziotto tolse le pinzette da un capezzolo per stringerle all’altro.Bongilanciòunaltro urlo. Le lacrime le colavano sulla pelle bruna e morbida». Inoltre i suoi due torturatori sono troppo satanici – diabolici, dice – e troppo facilmente umani: «Il poliziotto piú giovane stava male[…]eglileavevarivelato le correnti sotterranee che stavano nascoste nel suo carattere […] aveva una doppiapersonalità,eillavoro che faceva era tale da costringerlo ad assumere una personalità scissa per poter sopravvivere» 2. Un libro ben piú forte suglistessieventistoricièTo EveryBirthitsBlood(Perogni nascita il suo sangue) di Mongane Serote. Serote non siponelafalsadomandaseil torturatore sia uomo o demone. Si limita all’esperienza fisica della tortura e, cosa ben piú importante,accettalasfidadi trovare le parole adatte alla rappresentazione dello spazio terribile della stanza della tortura: Gli odori del deodorante e della carta, del tabacco e dei vecchi mobili si combinavano in un unico odore tipico di tutti quei posti le cui funzioni sono proclamate da annunci, dove le pareti sono oppresse da avvisi, banconi e schedari, dove il sudore, le lacrime, il vomito e il sangue delle moltissime persone che sono entrate e uscite o che non ce l’hannofattaauscirnelasciano illorospiritonell’ariachenon potràmaiesserepulita 3. C’èuncertooscurolirismo inquestascrittura,unlirismo ancora piú evidente in Inthe FogoftheSeasons’End(Nella nebbia di fine stagione) di Alex La Guma, un altro romanzo che parla di resistenza e di tortura. Dai tempi di Flaubert il romanzo realistico è stato criticato per il fatto di interessarsi a tutto ciò che è vile, meschino, brutto. Se è nello squallore che il romanziere trova l’occasione per la piú elevata eloquenza poetica, non lo si potrebbeaccusarediricercare la sua squallida materia solo per motivi perversamente letterari? Dall’inizio della sua carriera La Guma, uno scrittore trascurato morto in esilioaCubanel1985,corseil rischio di immortalare una Città del Capo di baracche fatiscentiedipioggiabattente in una prosa di un certo lugubre splendore. Per quanto insista sulla sua banalitàelasuamancanzadi profondità, c’è una tendenza all’enfasi lirica nella rappresentazione del mondo della polizia politica. È come se nell’evitare la trappola di attribuire alla polizia una grandiosità del male, La Guma trovasse necessario trasferirla, in tutta la sua magnitudine ma al negativo, sugli ambienti, attribuendo suggestioni di profondità metafisica alla piattezza di quelmondo:«Dietrolelustre finestre, le inferriate e la vernice del governo, c’era un’altradimensionediterrore […] Dietro il quadro di normalità si nascondevano le ragnateleeilsudiciumediun ragno» 4. La presentazione del mondo dell’inquisitore con una falsa pomposità e un discutibileoscurolirismonon è un difetto tipico dei romanzierisudafricani:sipuò rivolgere la stessa critica alle scene di tortura nel film di GilloPontecorvoLabattaglia diAlgeri. Non voglio sostenere che si debba ignorare o minimizzare il mondo del torturatore. Non vorrei mai rinunciareaunlibrocomeLe veritiere confessioni di un africano albino di Breyten Breytenbach, con le sue analisi acute, basate su esperienze reali, della sfera spirituale dei poliziotti, esseri umani per i quali è possibile al mattino, dopo aver fatto colazione, dare un bacio ai figli e recarsi in ufficio a commettere oscenità. Ma quello di Breytenbach è un libro di memorie e dunque non importa se a volte l’autore sembra volere censurare il desiderio di andare dietro la polizia di Stato(oltrepassarelemura,le lenti scure, scoprire i loro segreti piú intimi), mentre altre volte libera la sua immaginazione poetica per andare sempre piú in profondità nel labirinto del sistema di sicurezza, «fino al sanctasanctorum[…]làdove è eretto l’altare dello Stato [il patibolo]. Nel cuore finale della solitudine» 5. Poiché si tratta di un rapporto provvisorio, una biografia parziale di una fase della vita diBreytenbach,leConfessioni non devono risolvere il problema che angustia il romanziere:comegiustificare l’interesse per persone moralmente dubbie impegnate in un’attività deprecabile; come ridimensionare opportunamente i segreti meschini del sistema di sicurezza; come trattare di qualcosa che, proprio perché utilizzato come la testa di Gorgone per terrorizzare il popolo e paralizzare la resistenza, dovrebbe essere ignorato. L’opera di Nadine Gordimer per quanto mai priva di una dimensione politica non contiene un trattamento esplicito del mondo segreto della polizia politica.Mac’èunepisodioin La figlia di Burger che, in manieraindiretta,affrontagli stessiproblemimoralicheho cercato di individuare. Mi riferisco all’episodio della fustigazionecherichiamaalla mente la famosa scena della fustigazione del cavallo in Delitto e castigo di Dostoevskij. Rosa Burger si aggira in macchina nelle vicinanze dei ghetti neri di Johannesburg, ha perso la strada, quando si imbatteinunafamigliaditre persone su un carretto tirato da un asino, proprio mentre l’uomo in una furia da ubriaco prende a frustate l’asino. Nell’eternità di un attimoRosaosserva: la sofferenza inflitta, staccata dalla volontà che la produce; totalmente staccata, una forza autonoma,unostuprosenzalo stupratore,unatorturasenzail torturatore, una furia, una crudeltà pura spinta oltre le possibilità di controllo degli esseri umani che avevano dedicato migliaia di anni a concepirla. Tutta quella ingegnosità, dal serrapollici e dalla ruota all’elettrochoc, la varietàelagradazioneinfinita della sofferenza creata dalla frusta, dal terrore, dalla fame, dall’isolamento – i campi di concentramento, di lavoro, delle rimozioni coatte, Siberie di neve e sole, le vite di Mandela, Sisulu, Mbeki, Kathrada,Kgosanabeccatedai gabbianisull’isola… 6. Come può reagire Rosa Burger? Potrebbe fermare la frusta dell’uomo, anzi farlo arrestare e condannare facendo leva sulla sua autorità. Ma quest’uomo «nero, povero e brutalizzato» riuscirà a vivere in maniera diversa, priva di brutalità, senzainfliggereadaltriquello cheglièstatoinflitto?Oppure potrebbeproseguireperlasua stradalasciandochelatortura continui. Ma poi dovrà convivere con il sospetto di averlo fatto solo per non esseregiudicatacome«unodi quei bianchi che si preoccupano piú degli animali che delle persone». Cosí procede e pochi giorni dopo lascia il Sudafrica perchénonriescepiúavivere in un paese che nella vita di ognigiornoponeproblemidi questo tipo, impossibili da risolvere. Non bisogna leggere l’episodio in maniera rigidamente simbolica. Il carrettiere e l’asino non coincidono con l’aguzzino e lasuavittima.«Torturasenza torturatore» è la frase chiave. NellamemoriadiRosaicolpi di frusta continueranno per sempre ad abbattersi e la bestia a sussultare dal dolore. Quella scena viene dai gironi piú profondi dell’inferno dantesco, oltre l’ambito della morale. Perché la morale appartieneall’uomomentrele due figure legate al carretto appartengono a un mondo dannato, disumanizzato, servono a definire il posto di Rosa nella sfera dell’umanità. Quellodacuisiallontana,nel fuggire dal Sudafrica, è l’illuminazione negativa che le due figure portano con sé: che esiste, a solo mezz’ora di distanza, un mondo parallelo al suo, un mondo di forza bruta e sofferenza muta, degradato,aldisottodelbene edelmale. Comesifaadandareoltre questo momento buio dell’animo? È questa la domanda che Gordimer si pone nella seconda metà del romanzoquandoRosaBurger ritornaallaterraincuiènata per prendere parte alla sofferenza del suo paese e aspettare il giorno della liberazione.Nonc’ètracciadi falso ottimismo, né da parte sua né di Gordimer. La rivoluzione non porrà fine allacrudeltànéallasofferenza e forse neppure alla tortura. Quello per cui Rosa soffre e che sta aspettando è il tempo in cui l’umanità tornerà ad appartenereallasocietà,incui ogniazioneumana,inclusala fustigazione di un animale, potràrientrarenell’ambitodel giudizio morale. Soltanto alloraavràdinuovounsenso per lo scrittore rivolgere lo sguardo, lo sguardo autorevole del giudizio morale,sullesceneditortura. Quando la scelta non sarà piúlimitataaquellatrasubire ilfascinoorrificodeicolpiche si abbattono o girarsi dall’altra parte, allora il romanzo potrà riappropriarsi dituttal’esperienzaumana,e perfinolastanzadellatortura potràtrovarviposto. [1986]. Discorsodiaccettazionedel JerusalemPrize Questo premio presenta unparadossochemimettein difficoltà: come è possibile cheunapersonacomemeche nonsoloènatamaviveinun paese cosí drammaticamente privodilibertàvengaonorata conunpremioperlalibertà? Inunasocietàdipadronie schiavi nessuno è libero. Lo schiavo non è libero perché non è padrone di se stesso; il padrone non è libero perché non può fare a meno dello schiavo. Per secoli quella sudafricanaèstataunasocietà di padroni e di servi; ora è unaterraincuiiservisonoin aperta ribellione e i padroni sonoinsubbuglio. I padroni in Sudafrica costituiscono una casta ereditaria chiusa di cui fa parte chiunque nasca con la pelle bianca. Poiché non c’è modo di sfuggire alla pelle con cui si nasce (può forse il leopardo cambiare le sue chiazze?) non è possibile dimettersi dalla casta. Si può immaginare di farlo, di operare una dimissione simbolica, ma al di là dello scrollarsi dai piedi la polvere del paese, non c’è modo di farloveramente. Come vivono oggi i padroni del Sudafrica la loro mancanza di libertà? Non intendo dilungarmi a parlare di sonni inquieti, di fantasie di disastro, né di incubi sul ritorno del rimosso. Non lo farò perché a questo punto della storia, e in particolar modo in Israele, con l’ombra dell’Olocaustoallespalle,tutti sannodellabanalitàdelmale, di quel male che non ha coscienza, non ha immaginazione, e probabilmente non ha sogni, che mangia bene e dorme tranquilloedèinpaceconse stesso. Voglio dire qualcosa invece, di molto breve, sulla mancanza di libertà della casta dei padroni cosí come vienevissutanellavitasociale, dasvegli. Agli inizi degli anni Cinquanta,gliannifolliincui siandavaedificandolagrande costruzione dell’apartheid, fu approvata una legge che definiva reato i rapporti sessuali tra padroni e schiavi. Fu l’esempio piú lampante dellaseriedileggipromulgate per controllare tutte le fasi dellavitasociale,alloscopodi impedire ogni forma di rapportoparitariotrabianchi e neri. L’unico rapporto permesso era dunque quello gerarchico,checonsistevanel dareericevereordini. Qual era il significato di questa legge profondamente simbolica?Ritengochelesue origini vadano rintracciate nellapauraenellanegazione: negazione del desiderio inconfessabile di abbracciare l’Africa, abbracciare il corpo dell’Africa, e la paura di essereabbracciatidall’Africa. Il decreto che vietava l’amore tra le razze è stato recentemente abrogato con unaltrogestoprofondamente simbolico, quasi a segnalare che il giorno del giudizio profetizzato quarant’anni fa da Alan Paton è alle porte. «Ho un grande timore nel cuore, – dice un personaggio nerodiPaton,–cheilgiorno in cui loro cominceranno ad amare, noi avremo cominciatoaodiare». Alcuoredellamancanzadi libertà dei padroni ereditari del Sudafrica c’è l’incapacità d’amare. Per dirlo piú chiaramente: non c’è abbastanza amore oggi e non cen’èmaistatoabbastanzada quando sono arrivati sul continente. Inoltre, tutto il loro parlare, l’esubero di parole su quanto amano il Sudafrica è stato sempre direttoallaterra,ecioèverso quello che meno di tutti è probabile che corrisponda l’amore: montagne, deserti, uccelli,animali,fiori. Se non si riesce a cogliere la rilevanza di questo parlare d’amore, basta sostituire la parolaamore con fratellanza. La dissimulata mancanza di libertà dell’uomo bianco in Sudafrica si è sempre fatta sentire piú acutamente quando, scendendo per un attimodalsuotronosolitario, cedendo a un desiderio di fratellanza del tutto umano e comprensibile nei confronti delle persone tra cui vive, ha fattolascopertasconvolgente che la fratellanza non può sussistere da sola, per quanto forte possa essere l’impulso da tutte e due le parti. La fratellanza va inevitabilmente insieme alla libertà e all’uguaglianza. Il vano, e sostanzialmentesentimentale, desiderio che si esprime oggi nel movimento riformista in Sudafrica è quello di avere la fratellanzaacostozero. Qualèilprezzodapagare? Il prezzo piú basso è la distruzione delle innaturali strutture di potere che definiscono lo Stato africano. In merito si potrebbero dire moltecose,maiomilimiterò a un’unica osservazione. La deformazione e il blocco dei rapporti tra gli esseri umani determinati dal colonialismo ed esacerbati dal sistema genericamente chiamato apartheid corrispondono sul piano psichico a una vita interiore deforme e bloccata. Ogni espressione di questa vita interiore, per quanto intensa, per quanto esultante odisperata,soffredellastessa paralisi e deformità. Faccio questa osservazione intenzionalmente e nella piena consapevolezza che si applica a me e alla mia scrittura come a chiunque altro. La letteratura sudafricana è una letteratura in catene, come si manifesta persinoneisuoimomentipiú alti, attraversati come sono dallasensazionedimancanza di patria e dal desiderio di una liberazione senza nome. È una letteratura meno che umana, preoccupata in manieraabnormedalpoteree dalle sue manovre, incapace di spostarsi dalle semplici relazioni di contestazione, dominio e assoggettamento a quel vasto e complesso mondo umano che esiste fuori di essa. È il genere di letteratura che ci si aspetta si possa scrivere in prigione. E nonmiriferiscosoloalgulag sudafricano. Come c’è da aspettarsi in un paese dal territorio cosí vasto, esiste una letteratura sudafricana della vastità. Ma persino questa, esaminata da vicino, rifletteilsensodellaprigionia, prigioniadellospazioinfinito. Due anni fa Milan Kunderaharesoomaggio,da questo stesso podio a Gerusalemme, al primo romanziere, Miguel Cervantes, sulle cui spalle di gigante poggiamo noi scrittori pigmei venuti dopo. Quanto mi piacerebbe potermi unire a quell’omaggio, insieme a molti altri scrittori sudafricani! Quanto desideriamo abbandonare un mondodilegamipatologicie forze astratte, di rabbia e violenza, e prendere dimora in un mondo dove sia possibile uno scambio fecondo di sentimenti e di idee, un mondo dove avremmoveramentequalcosa dafare. Ma come si può entrare nel mondo reale dal nostro mondo di violenti fantasmi? Un problema che Don Chisciotte risolve abbastanza facilmente.Silasciaallespalle lacalda,polverosa,monotona La Mancha per entrare nel regno delle fate con un sempliceattodivolontà.Cosa impedisce allo scrittore sudafricanodiavventurarsisu una strada simile, di tirarsi fuori con la sua scrittura da una situazione in cui la sua arte, per quanto bene intenzionata, è – bisogna dirlointuttaonestà–troppo lenta, troppo antiquata, troppo indiretta per avere un sia pur minimo e tardivo impatto sulla vita della comunità o il corso della storia? A impedirglielo è quello che blocca anche Don Chisciotte: il potere che ha il mondo in cui vive il suo corpo di imporsi su di lui e sulla sua immaginazione che, gli piaccia o no, risiede nel suo corpo. L’asprezza della vita in Sudafrica, la forza nudadellesueattrattive,siaa livello fisico che morale, la suadurezzaelesuebrutalità, lasuafameelasuacollera,la suaaviditàelesuemenzogne, la rendono irresistibile e al tempo stesso impossibile da amare. La storia di Alonso QuixanoaliasDonChisciotte – sebbene non il sottile ed enigmaticolibrodiCervantes, aggiungo io – finisce con la resa dell’immaginazione alla realtà, con il ritorno a La Manchaelamorte.Nietzsche ha affermato che l’arte esiste pernonfarcimorirediverità. In Sudafrica oggi c’è troppa verità perché l’arte possa contenerla; fiumi di verità, tanta verità da inondare e travolgere ogni atto dell’immaginazione. [1987]. L’indolenzainSudafrica I. Gli indigeni hanno tutto in comuneconilbestiamebeota, il che ne ostacola la natura umana[...]Sonobloccatinella parola e goglottano come tacchini o come la gente della Germania alpina cui è venuto il gozzo a causa della dura acqua di neve che bevono [...] il loro cibo consiste di erbe, bestiame, animali selvatici e pesce. Le bestie vengono mangiate insieme ai loro organi interni. Gli intestini vengono un po’ scrollati, ma non lavati e non appena macellati o trovati gli animali vengono mangiati cosí, crudi, con la pelle e tutto [...] Un certo numero di loro dorme insieme nel veld, senza far differenza tra uomini e donne [...] Tutti emanano una puzza feroce, come si può notare a una distanza di tre metri e mezzo contro vento, e hanno anchel’ariadinonessersimai lavati. Le osservazioni di cui sopra sugli ottentotti del Capo di Buona Speranza furono redatte nel 1652 – anno dello stanziamento europeodelCapo–dallacasa editrice di Amsterdam di Jodocus Hondius, a partire dai resoconti dei viaggiatori. Grazie alla quantità di note a pie’ di pagina, di mappe, di incisioni di ottentotti in pose esemplari, il libretto di Hondius sembra voler sottolineareilfattochenonsi tratta di un’opera di fantasia: tutto quello che registra è stato visto davvero. Eppure, proprio sul piano della veridicità, il quadro che offre degli ottentotti appare parziale.Ifatticheciriferisce su di loro sono di per sé notevoli,sceltidagliautoridei rapporti tra la massa di impressioni ricevute al Capo proprio in quanto tali e poi per lo stesso motivo selezionati da Hondius, perché sembrano capaci di colpire allo stesso modo l’uomodellastrada. Nelle prime testimonianze si trova un repertorio di fatti notevoli, ripetuti piú volte, riguardanti gli ottentotti: le loro implosive (goglottano come tacchini), l’uso di mangiare interiora non lavate, l’uso di strofinarsi il corpo col grasso animale, quello di avvolgersi budelli secchi attorno al collo, le peculiarità delle pudenda delle loro donne, la loro incapacitàaconcepireDio,la loro incorreggibile indolenza. Anchesemoltidiquestipunti sono semplicemente copiati da un libro all’altro, dobbiamo credere che in alcuni casi siano stati riscoperti o confermati di prima mano. Costituiscono alcune delle differenze piú ovvie tra l’ottentotto e l’europeo occidentale o almeno l’europeo occidentale cosí come si immaginava di essere. Eppure mentre ci sono certamente delle differenze, quei punti sono percepiti e concepiti all’interno di un contesto di identità, un contesto che deriva dalla tesi generalmente accettata enunciatanelsuccitatobrano di apertura di Hondius: ovvero che anche se gli ottentotti possono sembrare solo bestie sono di fatto uomini. La società ottentotta essendo una società umana deve essere riconducibile a una descrizione interna a un contesto comune a tutte le società umane. Categorie e sottocategorieditalecontesto costituiranno le identità esteseatuttelesocietà.Quelle sarannogliuniversali,mentre le osservazioni particolari inserite nelle varie categorie costituiranno le differenze che caratterizzano le singole società. Sebbene il contesto delle categorie all’interno delle quali gli scrittori di viaggio operano non venga mai esplicitato, non è difficile estrarlo dai loro testi. La lista èpiúomenocomesegue: 1.Aspettofisico 2. Abbigliamento: a) vestiario, b) ornamenti, c) cosmetici 3.Alimentazione:a)cibo, b)cucina 4.Medicina 5. Arti: a) artigianato, b) utensili 6.Tecniche 7.Armi 8.Difesaeguerra 9.Svago 10.Costumi 11. Abitazione: a) case, b) piantadelvillaggio 12. Religione (comprese superstizioni, stregonerieemagia) 13.Leggi 14.Economia 15.Governo 16.Rapporticonl’estero 17.Commercio 18.Lingua 19.Carattere Anche se il numero delle categorie usate può non esseresemprelostesso,dietro ciascuno dei discorsi detti «Resocontosugliottentotti»o «Descrizione degli ottentotti» esiste una griglia del genere. Al livello piú immediato la griglia fa da supporto compositivo per la distribuzione dei dati. Ma a unaltrolivellolagrigliafunge da schema concettuale e in quantotaleesponealpericolo che le informazioni possano esseredeformateperinserirle nell’una o nell’altra categoria mentre invece sono trasversali rispetto alle stesse ochequantonontrovaposto nelloschemapreconcettonon sia nemmeno visto. Cosí, per fare un esempio ipotetico, le osservazioni relative a profezieeatranceindotteda droghe ricadranno probabilmente sotto Medicina o Religione o forse Leggi o Governo ma decisamentenonsottotuttee quattro le categorie suddette. Le osservazioni sui rituali di macellazione del bestiame ricadranno sotto Alimentazione o Abbigliamento o Religione o (forse) Economia ma non sottotutteequattro.Oppure, perportareunesempioreale, troviamo O. F. Mentzel che riflette se l’uso della cosiddetta Pisplechtigheid (minzione cerimoniale) degli ottentotti sia una forma di svago o una cerimonia religiosa o, adducendolo a riprova della povertà espressiva degli ottentotti, il fatto che usino un solo termine (tradotto come andersmaken)percelebrareil matrimonio di una coppia, l’iniziazionediungiovane,la cura di una malattia e l’esorcismo 1. Ovviamente sarebbe eccessivo aspettarsi che marinai, medici di bordo e ufficiali della Compagnia che contribuiscono a quello che da qui in poi chiamerò genericamenteilDiscorsodel Capomettanodaparteiloro schemi concettuali eurocentriciereditatiafavore di uno schema basato su categorie concettuali indigene. Un approccio, questo, del tutto anacronistico.Masipotrebbe aggiungere che ridurre e raggruppare categorie come per esempio Alimentazione, Medicina e Religione minaccerebbelariduzionedel discorso sistematico per ritornare a quello con cui aveva cominciato il viaggiatore ovverosia una seriedidettaglieosservazioni scelte tra dati sensoriali solo in base al fatto che sono impressionanti, notevoli, col risultato di ottenere solo una narrazione anziché una descrizionecompleta. Il peggior difetto della narrativa antropologica rispetto alla descrizione antropologica è che, nel fare affidamento sulla sequenza cronologica,trascural’aspetto atemporale, spaziale e onnicomprensivo della descrizionecategorica.Alcuni scrittori di viaggio hanno cercato di avere il meglio di entrambi i mondi – immediatezza della narrazione e sinossi della descrizione – presentando la seconda sotto le vesti della prima. Qui per esempio è Christopher Fryke che scrive diunavisitaalCaponel1685: La curiosità mi indusse ad entrare in una delle [loro capanne] e vedere che tipo di vita conduceva quella gente. Quando ci entrai ne vidi tanti che giacevano al suolo ammucchiati come altrettanti maiali, profondamente addormentati. Ma appena si accorserodime,saltaronosue mi vennero intorno facendo versi come quelli dei tacchini. Io ero non poco preoccupato anchesepoi,vedendochenon sembravano volermi fare del male, tirai fuori un pezzo di tabacco e glielo diedi. Ne furono oltremodo rallegrati e per mostrarmi la loro gratitudine si tirarono su quelle patte di pelle di pecora chetenevanoappesesullezone intime per farmele vedere. Io mi affrettai a scappare per via della puzza orribile e anche perché avevo subito realizzato che non c’era niente di cosí speciale da vedere. E poi ne sorpresi alcuni che stavano mangiando, cosa che rendeva la puzza ancora piú insopportabilepoichéavevano solounpezzodipelledivacca steso sulle braci ardenti e avevano spremuto il contenuto dalle interiora per poi spalmarselo addosso uno con l’altro. E poi una volta arrostitatiraronofuorilapelle, la batterono e la mangiarono. La cosa mi fece rivoltare lo stomaco tanto che mi affrettai adandarmene 2. La veridicità storica di questa narrazione va messa fortemente in dubbio (qualche pagina dopo Fryke s’imbatte in un serpente che mangia un ottentotto), ma si noti come il breve racconto sia costruito mettendo insiemealcuniluoghicomuni antropologici dalle categorie Aspetto fisico, Abiti, Dieta, Svago, Costumi, Abitazione, LinguaeCarattere: 1. Gli ottentotti dormono di giorno (carattere pigrodegliottentotti)in unacapanna(abitazione degli ottentotti) ammucchiati uno sull’altro (costumi sessuali degli ottentotti) come maiali (posto occupatodagliottentotti nella scala della creazione). 2. Producono un rumore simileaitacchini(lingua degliottentotti). 3. Accettano il tabacco (svagodegliottentotti)e sollevano le patte (abiti degli ottentotti) per esibire(costumisessuali degli ottentotti) le loro zone intime (peculiarità anatomiche degli ottentotti). 4. Fryke è messo in fuga dalla puzza (sporcizia degli ottentotti) e mentre scappa osserva gli ottentotti che si spalmanoavicendacon gli escrementi (cosmetici degli ottentotti) e mangiano leinterioraelapelledei bovini (dieta ottentotti). degli Unodeiluoghicomunidel Discorso del Capo è che gli ottentotti sono oziosi. Poiché non si tratta di un costume madiun’assenzadicostume, non di attività ricreativa ma di assenza della stessa, l’indolenza in genere si colloca nella categoria 19 comepartedelcaratteredegli ottentotti. Curiosamente l’indolenza ottentotta viene raramentecitataneicirca150 resoconti di viaggiatori passati per il Capo prima del 1652eriassuntidaR.RavenHart 3. Tuttavia, man mano chelaCompagniacominciaa stanziarsi nel paese e le descrizioni degli ottentotti si fanno piú dettagliate, il tema si fa piú frequente e l’indolenza viene contemporaneamente descrittaedenunciata. Sono piú pigri delle tartarughe che cacciano e mangiano (Johan Nieuhof, 1654). È gente pigra e sporca che non vuole lavorare [...] sono indolenti e amano stare senza fare niente (Volquart Iversen, 1667). La loro occupazione principale non consiste in altro che nello scavare e mangiare [...] radici [...] Quando sono sazi giacciono senza preoccuparsi di niente (GeorgeMeister,1667). L’occupazione principale degli uomini è bighellonare, a menochenonlispronilafame (JohannSchreyer,1697). Se non hanno fame, non lavorano (Christopher Fryke, 1681). Sono molto pigri, preferiscono non mangiare piuttosto che lavorare (Fr. T. deChoisy,1685). Si garantiscono la comoda indolenza, non coltivano la terra, non seminano, non mietono, non si preoccupano di quello che mangeranno o berranno [...] Chiunque li voglia impiegare come schiavi deve assicurarsi che abbiano sempre fame (William Ten Rhyne,1686). Sono persone di carattere assai pigro [...] Preferiscono vivere [...] poveri e miserabili piuttostochedarsidafareper l’abbondanza (William Dampier,1691). La loro naturale inclinazione all’indolenza e a una vita priva di preoccupazioni renderà difficileriscattarliconpremio punizioni dall’innata inclinazione letargica (John Ovington,1693). Sono molto pigri, capaci di soffrire la fame piuttosto che applicarsi (François Leguat, 1698). Sono senza dubbio nel corpo e nella mente il popolo piú pigro sotto il sole [...] Tutta la loro felicità terrena sembra consistere nell’indolenza e nell’inerzia (PeterKolb,1719). Gli uomini […] sono […] gli esseri piú pigri che si possanoimmaginare,poichéè loroabitudinenonfareniente o davvero molto poco [...] Se c’è una qualunque cosa da fare,lascianochesianoleloro donne a farla (François Valentijn,1726). La tendenza al torpore e all’inattività e stavo quasi per dire all’apatia [...] è la caratteristica principale delle loromenti[...]dicertocausata dalla loro dieta debilitante, dall’estrema inattività e dall’accidia(AndersSparrman, 1783). Pigri, indolenti, sconsiderati (O. F. Mentzel, 1787). Forse la nazione piú pigra della terra [...] [Comunque] le donne sono molto industriose negli affari di famiglia (C. F. Damberger,1801). Malgrado le occasionali voci di dissenso e malgrado i giudizi di tanti scrittori si basino su testimonianze di seconda mano o su idées reçues,nonsipuònonessere colpiti dalla persistenza dei giudizi severi che si prolunga nel periodo dell’occupazione inglese del Capo (vedi sotto). Indolenza, accidia, pigrizia, torpore–sonoterminicheal tempo stesso vogliono definire un vizio ottentotto e permettere allo scrittore di prendere le distanze dallo stesso.Mainellagrandecassa di risonanza del Discorso del Capo si solleva una voce a chiedersi se la vita dell’ottentotto non sia una versionedellavitaprimadella Cacciata dall’Eden (come Bartolomeo della Casa ipotizzava fosse quella degli Indiani del Nuovo Mondo). Unavitaincuil’uomononè ancora condannato a procurarsi il pane col sudore della fronte, ma al contrario può passare i suoi giorni assopito al sole o all’ombra quando il sole si fa troppo cocente,avvertendoappenala brezza sulla pelle e il canto degli uccelli, scuotendosi per mangiareseloprendelafame e godersi il tabacco di una pipa, sentendosi all’unisono con l’ambiente e sconsideratamente contento. L’idea che l’ottentotto possa essere Adamo non viene presa in considerazione nemmeno per essere subito scartata (in base alla considerazione che l’ottentottononconosceDio). Di certo nessuno sogna di chiedersisequellocheappare come il dolce far niente dell’ottentottononsiadifatto la manifestazione esteriore di unasuamodalitàprofondadi vita contemplativa. Su un piano piú pratico nessuno si chiede perché mai un popolo che si nutre da sempre di carne, latte e veldkos (foraggio) dopo il 1652 avrebbe dovuto decidere di preferire le verdure e cominciareacoltivarelaterra o perché, dopo che in loro sono stati risvegliati gli appetiti artificiali per il pane al forno, il tabacco e l’alcol, dovrebbero voler vendere il loro lavoro in misura maggiore rispetto a quella richiesta per l’immediata soddisfazione di quegli appetiti. Nessuno si perita di sollevare–altrocheinmodo retorico – l’interrogativo etico: cosa è meglio, vivere come la formica industriosa cheammassalesueprovviste in inverno o come la cicala che canta al sole tutto dí noncurante del domani? Nessunoaccennaallabanalità secondocuilavitadelpastore erranteconisuoipoveriaveri e le sue scarse esigenze ci insegnerebbe a fuggire dalle ansiedellaciviltà. Non basta rispondere alla domandasulperchémainon venissero sollevati interrogativi di quel tipo asserendo che non sarebbero mai passati per la mente del genere di persona responsabile del Discorso del Capo. Di certo tanti degli scrittoridiviaggioeranosolo funzionari della Compagnia, capitani di fregata o militari; ma tra di loro c’erano anche insigni uomini di scienze (Kolb, Sparrman) cosí come studiosi (Ten Rhyne) e seri osservatori amatoriali (Schreyer). Inoltre in Europa il leggendario ottentotto col tempo entrò a far parte del discorso erudito, anche se meno diffuso nelle ricerche sulla condizione naturale dell’uomo piuttosto che nel dibattito sulla effettiva esistenzadiun’unicacreatura definita Uomo o di svariate razze di uomini, alcune piú vicine alla condizione delle bestie di altre 4. Per capire come mai lo stile di vita ottentotto, caratterizzato dall’indolenza (e perciò stigmatizzato) non fosse in nessun modo considerato nel Vecchio Mondo come modello di vita edenico, bisogna tenere presente l’atteggiamento nei confronti dell’ozio dominante in Europa all’epoca in cui l’Europa,inparticolarequella protestante, colonizzava il Capo. Nella Chiesa medievale la contemplazione era ritenuta un’attività di tipo superiore rispetto al lavoro. Lo status privilegiato della vita contemplativa fu poi condannato da Lutero insiemeallaconsiderazionedi superiorità annessa alla vita spirituale del clero. In particolare in Germania, i predicatori diedero sempre maggiore importanza al lavoro come editto divino fondamentale cui tutti gli uomini devono attenersi per espiare il peccato originale. Rimanereinozioequivalevaa sfidare quell’editto. L’imprevidenza – l’affidarsi alla provvidenza divina per nonmoriredifame–erauna colpa ancora piú grave, una sfida provocatoria nei confronti di Dio. I libri devozionali del periodo tuonano contro «la maledizione dell’indolenza»; la comunità di Herrnhut, fondatanel1727edestinataa faredamodellonellemissioni dei Fratelli Moravi per gli ottentotti africani, rappresentabenel’epocanella richiesta registrata nei suoi statuti che chiunque volesse entrare nella comunità dovevaguadagnarsiilpane. Sempre nella cornice della Riforma, fu rifiutata la distinzione rinascimentale (e sostanzialmente classica) tra volgare indolenza e otium, ovvero il tempo dedicato alla cultura personale. Si riteneva che l’umanità fosse cosí debole che, in assenza di una dura disciplina del lavoro, sarebbe fatalmente ricaduta nel peccato. Bucer arrivò addirittura a proporre la scomunica come estrema punizione per gli oziosi. Nel calvinismo in special modo, sostieneMaxWeber,«perdere tempo è, di tutti i peccati, il primo e quello per principio piúgrave.Laduratadellavita umana è infinitamente breve e preziosa per “fissare” la propria vocazione. Perdere tempo in società, i “discorsi oziosi”, il lusso, persino dormire piú di quanto sia necessarioallasalute[...]sono gravicolpemorali» 5. Al tempo stesso veniva lanciata una guerra contro il parassitismo sociale. Perfino fare l’elemosina veniva ritenuto un peccato grave poiché incoraggiava le persone a sottrarsi all’editto divino sul lavoro. Verso la metà del diciassettesimo secolo era cominciata quella cheMichelFoucaultdefinisce come la «grande reclusione» culminante nella serie di misure designate per mettere fine al vagabondaggio e all’accattonaggio come scelta di vita. Iniziate con la segregazione della categoria dei mendicanti, continuò poi con quella dei pazzi e dei criminali.Duranteiperiodidi crisi dell’occupazione le case di detenzione divennero di fatto prigioni per i disoccupatiedurantequellidi crescitaeconomicadivennero ostelliassociatiallefabbriche. Dalpuntodivistaproduttivo si rivelarono fallimentari ma questononimportava:illoro scopo non era quello di produrre un profitto ma di proclamare il valore etico del lavoro. In questa primissima fase di industrializzazione, nonché di pensiero economico primitivo, sostiene Foucault, il lavoro e la povertà erano ritenuti semplici poli oppositivi: si pensavacheillavorofossein grado di vincere e abolire la povertà: «non tanto a causa della sua potenza produttiva quantoperunacertaforzadi incantomorale» 6. Anche se condotta con maggiore ferocia nei paesi protestanti la guerra contro i mendicanti in Europa si svolsesianelmondocattolico sia in quello protestante e continuò fintanto che il vagabondaggio rappresentò un problema sociale significativo, ovvero fino al diciannovesimo secolo inoltrato. L’anatema lanciato contro l’indolenza che era parte di tale guerra non vacillò neppure con l’Illuminismo, che si limitò a sostituirelavecchiacondanna dell’indolenza come disubbidienza a Dio con l’esaltazione del lavoro come dovere dell’uomo nei confronti di se stesso e dei suoi simili. Attraverso il lavoro l’uomo si imbarca in un viaggio di esplorazione la cui meta ultima è la scoperta dell’uomo;attraversoillavoro l’uomo diventa signore dell’universo; da una comunità che lavora nasce la società. Karl Marx è pienamente figlio dei Lumi quandoaffermache:«tuttala cosiddetta storia del mondo nonèaltrochelagenerazione dell’uomo mediante il lavoro umano» 7. Entrambigliatteggiamenti dicuisopra–l’indolenzaèun peccato e l’indolenza è il tradimento della propria umanità – si possono osservare nel Discorso del Capo. Nei primi cento anni circa dallo stanziamento l’indolenza degli ottentotti viene denunciata allo stesso modo in cui in Europa viene denunciata quella dei mendicanti o dei fannulloni. Si potrebbe dire che la retorica utilizzata per giustificarelalottadiclassein Europa viene trasferita tal qualeeinmodosconsiderato nella colonia per condannare ilrifiutodegliindigeniafarsi trascinare nell’economia come manodopera. Ma si tratta di un’asserzione da chiarire meglio. Perché la prima ondata di denuncia dell’indolenza ottentotta non viene tanto dal discorso della classe dominante del Capo, comecisisarebbeaspettatise il problema di trovare manodopera fosse stato di primaria importanza, quanto dal discorso rozzamente etnografico della prima letteratura di viaggio 8. Inoltre, a voler essere aridamente logici, l’accidia era proprio quello che il colono appena arrivato si potevaaspettaredaunpopolo pagano cui non era giunta la parola di Dio e che non sapeva niente del divieto divinosull’indolenza.Difatto dissimulare un attacco a quella che possiamo definire la resistenza passiva degli ottentotti al lavoro salariato come critica dell’indolenza appartiene a uno stadio successivo della storia del Capo. L’accento posto sull’indolenza ottentotta in letteratura, anche se comprensibile negli osservatori del diciassettesimo secolo di formazione protestante, è la reazione a frustrazioni piú immediate. Quello che significava per i primi etnografi diviene immediatamente chiaro se ci chiediamo che cos’è che l’ottentotto non fa quando viene denunciato per la sua indolenza. Si tratta di una denuncia che spesso si accompagna a una serie di altre definizioni che culminano proprio con quell’accusa: che sono brutti, che non si lavano, anzi al contrariosispalmanoilcorpo di grassi animali, che mangiano cibo sporco, carne cotta a malapena, che si vestono di pelli animali e vivono nelle piú misere capanne, che maschi e femmine si accoppiano in modoindiscriminatoechela lorolinguanonècomequella degli esseri umani. Ad accomunarequesteaccusec’è il fatto che indicano l’ottentotto come sottosviluppato, e non solo secondo gli standard europei masecondoquellidell’Uomo. Se sviluppasse tabú alimentari, uso di abluzioni, costumi sessuali, arti, e una piú varia decorazione del corpo anziché spalmarselo in modo uniforme, un’architettura e una tecnologia domestica, una lingua articolata come quella umana anziché versi animali, diventerebbe, se non proprio un olandese, almeno piú pienamente uomo. E il fatto che come ognun vede non si dedichi a sviluppare le proprie qualità nei modi suddetti ma invece giaccia nullafacente sotto il sole dimostra che a causarne il ritardoèpropriol’accidia. E quale tipo di creatura è questoUomochel’ottentotto nel suo stato presente «da annoverare piú tra le bestie mute che nella compagnia degli uomini dotati di ragione» 9 per indolenza si rifiuta di diventare? È un uomo con un aspetto fisico sviluppato, abiti, alimentazione, medicina, arti ecc. – in altre parole quello che potremmo chiamare l’Uomo antropologico. L’ottentotto è un uomo ma nonancoraantropologicoea mantenerlo nel suo stato di arretratezza è l’indolenza. Dunquelasuaindolenzahail carattere di uno scandalo antropologico, malgrado non sia possibile immaginare nientedipiúremotoedipiú diverso dall’uomo europeo dell’ottentotto. A un esame ravvicinato l’ottentotto si rivela portatore di una ben misera serie di differenze da iscrivere nella tavola delle categorie. Invece di generare dati per le categorie, si limita a esistere pigramente. Invece di avere una religione ha praticamenteunvuoto.Isuoi costumi sono casuali. Il suo governo è rudimentale. Anche se ben piú diverso dall’europeo del turco o del cinese, l’ottentotto, paradossalmente,faregistrare minoridifferenze. La forza della giusta condanna che il Discorso del Capo lancia sull’ottentotto viene dal peso accumulato in Europa in duecento anni di denuncia dell’indolenza, dal pulpito e dal tribunale giudiziario. Ma alla sua indolenza reagisce con particolare animosità lo scrittore di viaggio, il protoantropologo, cui l’ottentotto aveva promesso tanto dal punto di vista delle differenze per poi offrire un cosí magro raccolto. È importante notare che una volta che ci spostiamo dal discorso delle categorie antropologiche – il cui schema richiede allo scrittore di riempire diciotto o diciannove campi con le liste delle differenze notevoli – al discorso della storia che nel casopiúsemplicerichiedeche lo scrittore registri ogni giornolacronacadeglieventi quotidiani degni di nota, l’indolenza degli ottentotti passa in secondo piano. E in effetti nella storia gli ottentotti sembrano fin troppo occupati a complottare tra loro, a trafugare bestiame, a mendicareeaspiare. Sono ben lungi dal voler negare che, nella misura in cui la parola indolenza possiede un qualche significato oggettivo, gli ottentotti fossero indolenti, o dall’asserire che la condanna dell’indolenza degli ottentotti non avesse niente a che fare con il desiderio dei coloni di arruolarli come manodopera. Quello che vorrei qui sottolineareperòèchelaloro quasi universale denuncia tra gli scrittori di viaggio rappresentalareazioneauna sfida, a uno scandalo che li colpisce in particolare in quanto scrittori, ovvero che l’indolenza degli ottentotti interrompe uno dei discorsi piú promettenti sull’uomo primitivo. E questa generazionediscrittorinonè nemmeno l’ultima a reagire con la frustrazione alla reticenza delle colonie che stentano a generare materiali chepossanodarecorpoalsuo discorso. L’etnografo Gustav Fritsch, viaggiando per il Sudafrica nel 1860, osserva che non sarebbe possibile usare la vita dei boeri come materiale narrativo perché nella vita boera non succede mai niente; e piú o meno nellostessoperiodoNathaniel Hawthorne lamenta la «banale prosperità» senza sorpreseerovesci,la«chiarae semplice luce del sole» d’America che rendono impossibile un romanzo americano 10. In tutti e due i casi il materiale coloniale viene condannato come troppo insignificante per la formaeuropea;intuttieduei casi la domanda è se i nuovi materiali non richiedano un ripensamento delle vecchie forme, dei vecchi schemi concettuali. Il momento in cui lo scrittore di viaggio condanna l’ottentotto per la sua inattività è quello in cui l’ottentottolomettedifronte (se solo si degna di riconoscerlo) ai suoi preconcetti. Questo fenomeno è assai piú significativo del semplice fatto che alcuni viaggiatori casualmente prestati alla scrittura,dimentalitàrozzae di idee banali, non siano riusciti a sfuggire ai loro pregiudizietnocentrici.Lasua importanza si evince da uno dei capisaldi della letteratura antropologica, il Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau(1754).Nellostesso paragrafo in cui menziona specificamente gli ottentotti, Rousseau cosí descrive le caratteristiche dell’Uomo nella sua condizione selvaggia:«Solo,ozioso(oisif) e sempre in pericolo»; una creatura che «non può che nutrire un amore smodato per il sonno». L’Uomo si solleva dalla condizione primitiva del selvaggio mediante l’invenzione degli utensili, i quali determinano laprimarivoluzioneculturale umana consentendo una vita piúagevoleemenorischiosa. Inquestanuovafaseincuigli utensili gli permettono di averedeltemporelativamente libero (loisir), l’uomo comincia a creare delle comodità per se stesso, comodità destinate a svilupparsi per diventare, alla lunga, il giogo della civiltà. Tral’indolenzadelselvaggioe larivoluzioneculturalechesi produrrà mediante l’invenzione della metallurgia e dell’agricoltura, l’introduzione della proprietà privata, l’ascesa della disuguaglianza sociale e l’affermazione del lavoro in quanto parte inevitabile della vita quotidiana, si situa dunque questa fase intermedia di tempo libero che Rousseau esalta come «l’epoca piú felice e piú duratura […] L’esempio dei selvaggi, trovati quasi tutti a questo punto, sembra confermare che il genere umano sembra fatto per restarci sempre, che questo stato era la vera giovinezza del mondo, e che tutti gli ulteriori progressi sono […] in effetti [altrettanti passi] verso la decrepitezza della specie» 11. Quando Rousseau giunge a enunciare quale potrebbe essere la vita in questa «piú felice e piú stabile delle epoche»,ladescrizionechene offre, per quanto basata sui rapporti dal Nuovo Mondo, potrebbebenissimoessereun panorama dell’esistenza ottentotta: un popolo che abitainrozzecapanne,vestito di pelli, che si adorna di piumeediconchiglie,haper armiarchiefrecceeusadegli strumenti musicali rudimentali.Qualèdunquela differenza cruciale che impedisce all’ottentotto di essere ammesso nell’età dell’oro? Le sue sgradevoli abitudini personali e la violazione dei tabú europei sulla preparazione e sul consumo della carne hanno certamenteilloropeso.Mala differenza sostanziale sta nel fatto che l’ottentotto è indolente e trascorre dormendo il suo tempo «libero»,mentretraiselvaggi passati per la rivoluzione degli utensili il tempo libero diventa leisure, tempo «industriosamente» dedicato allo sviluppo delle «comodità» (ibid.). In tal modo Rousseau, in linea con il pensiero illuminista, risuscita l’opposizione umanistica che contrappone il tempo libero (otium per i romani, scholé per i greci, tempo dedicato al miglioramento personale) all’indolenza:l’ottentottonon appartieneallapiúfelicedelle epoche perché è pigro 12. Il tempo libero promette di generare tutte quelle differenze che insieme costituiscono la cultura e trasformanol’uomoinUomo antropologico; l’indolenza non contiene in sé alcuna promessa,senonquelladella stasi. II. Condannando l’ottentotto per la sua pigrizia, il primo Discorso del Capo lo estromette a tutti gli effetti dall’Eden decidendo che, benché umano, non fa parte di quella discendenza che procedendodaAdamoarriva, mediante una vita di fatica e lavoro, all’uomo civile. L’ottentotto insomma non è la versione originaria dell’uomo civile. Per quanto nonsiaipotizzabilechedietro il biasimo dei primi autori vi sia un intento cosí lungimirante, nondimeno le loro conclusioni preparano il terreno alla fase successiva dell’attacco contro lo stile di vitadegliottentotti.Unostile di vita che già a metà del diciottesimo secolo non era piú confinato all’etnia degli ottentotti ma aveva trovato proseliti tra i boeri olandesi delle frontiere piú remote. Cosí O. F. Mentzel, che visse al Capo tra il 1732 e il 1741, scrive che alcuni boeri «si sono a tal punto abituati a una vita priva di preoccupazioni, all’indifferenza, alle giornate oziose e alla compagnia di schiavi e ottentotti, che tra i primi e gli ultimi non si possono individuare molte differenze 13. Questa vita «ottentotta» pigra e improvvida, questa lekker lewe, non troverà mai un portavoce nel Discorso del Capo.Lostratagemmaacuisi sarebbepotutorazionalmente far ricorso – asserire un’analogiatragliottentottie l’uomo prima del peccato originale,trailCapoel’Eden, e tramite tale analogia affermare una legittimazione, per quanto esile – non viene mai utilizzato 14; e sebbene la vita oziosa prosegua da entrambe le parti, non ha alcuna legittimazione, è sempre costretta a difendersi e invariabilmente, a ogni denuncia stampata, suscita scandalo. L’indolenzadegliottentotti viene riscoperta nuovamente dai commentatori britannici dopo la conquista inglese del Capo nel 1795. Robert Percival parla della «indolenza peculiare e mancanza di vigoria del carattere degli ottentotti» dovute, diagnostica, a «un difetto originario». John Barrow vede nell’indolenza «la causa principale [della] rovina» degli ottentotti, «una veraepropriamalattia,lacui unica cura sembra essere il terrore», dal momento che il rimedio della fame si è dimostrato inadeguato. William Burchell esalta i missionari moravi e la loro insistenzasullavoromanuale, e predice che, una volta appresa«lanecessitàdiessere onestamente industriosi», gli ottentotti potranno «tagliare alla radice almeno la metà delle disgrazie che affliggono la loro razza». Tutti concordanochelostiledivita ottentotto, caratterizzato da un livello bassissimo di sussistenza che viene garantito ricorrendo il meno possibile al lavoro salariato («pigrizia»), errando in cerca di pascoli piú verdi («vagabondaggio») e adottando spesso un atteggiamento di indifferenza nei confronti della proprietà privata(«abitudinealfurto»), dovràessereri-formatoconla disciplina (una delle parolechiave dell’epoca) se si vuole che gli ottentotti possano avere voce in capitolo («far sentire il loro peso») nella Colonia. Tale atteggiamento si può considerare ostinato nella misura in cui riconosce che nonesistepiúunavitatribale degli ottentotti all’interno delleareeinsediatedaicoloni, e che l’unico futuro possibile per loro è all’interno dell’economia coloniale. Ma quando considera la loro «indolenza» come parte del «carattere» razziale degli ottentotti, come un «difetto originario» che soltanto generazioni di rigida disciplina potranno sradicare («tagliare alla radice»), allora diventa accurato definirlo un atteggiamento razzista. Osservando gli ottentotti, vede soltanto squallore, malanni e un vuoto torpore mentre si rifiuta di accettare la possibilità che, di fronte all’alternativatraindolenza(e lapovertàcheneconsegue)e l’infelicitàdiunavitadeditaal lavoro manuale, qualcuno possa deliberatamente scegliere la prima. Ponendo incontrastol’innataoperosità europea e l’innato torpore degli ottentotti, sembra dimenticare la storia delle prime fasi dell’industrializzazione europea, che richiese una riformadel«carattere»durata molte generazioni prima che la classe lavoratrice abbracciasse il principio di doverlavorarepiúduramente del necessario per conservare illivellodiesistenzamateriale conosciuto alla nascita 15. Per realizzare tale riforma, e convincere la gente che «l’opportunità di guadagnare di piú è [piú] allettante rispettoallavoraredimeno», si rese necessaria una prolungata attività di indottrinamento ideologico, unprogrammaportatoavanti nelle scuole, nelle chiese e sulla stampa popolare, inteso aconvincereleclassiinferiori che il lavoro è «nobile e necessario». Uno scrittore comeBarrow,figliodiunselfmade man e divenuto un consigliere influente in materia di politica coloniale, si dedicò anima e corpo a questa ideologia, e lo stesso fecero i missionari a cui fu affidata la gestione del programma di indottrinamentonelterritorio della Colonia. Per convincere gliottentottidiBethelsdorpa passareiltemporaccogliendo il succo dell’aloe, John Philip della London Missionary Society (LMS) consentí l’apertura di uno spaccio all’interno della missione. Questo «esperimento», ovvero il tentativo di convincere gli ottentotti a lavorare sventolando davanti a loro la tentazione delle merciallettanticheavrebbero potuto comprare, funzionò: «All’istante prese a salire tra di loro la considerazione per il denaro». Non interessa qui la moralità di quella che era, per ammissione dello stesso Philip, «la creazione di bisogni artificiali». È chiaro che secondo il sociologo Philip gli ottentotti non avevano futuro se non avessero imparato a vendere la loro forza lavoro. Come spiega candidamente agli uomini che gli sono stati affidati, costoro non dovevano aspettarsi di utilizzare le missioni come asilipersfuggirealleretidelle autorità coloniali che cercavano di vincolarli alle fattorie come servi della gleba, né come rifugi in cui poter preservare un regime precoloniale indolente, improvvido e moralmente lassista; a parte il fatto che i missionari non avrebbero certo approvato un simile modo di vivere, «il mondo, e la Chiesa di Cristo» che finanziava la missione, «considerava la civiltà e l’industriosità come la prova della capacità [degli ottentotti] di migliorarsi […] [poiché] gli uomini del mondo non avevano altri criteri su cui basarsi nel loro giudizio». In altri termini, se gliottentottinonimparavano a lavorare nelle missioni, le missioni avrebbero chiuso e loro sarebbero stati abbandonati alla mercé degli agricoltori. In un modo o nell’altro, dovevano lavorare. Cosí proprio quando i colonizzatoridenunciavanole missioni della LMS come «nidi di indolenza», l’indolenza era proprio, per i missionari,lacaratteristicada sradicare prima di ogni altra dal «carattere» degli ottentotti 16. Se le missioni dellaLMSnondivenneromai quell’alveare industrioso che definiva la reputazione delle loro omologhe morave, fu soprattutto perché non ricorrevano all’espulsione di quanti venivano a loro non per lavorare ma per condividere la prosperità dei loroparenti.Comelamentava un osservatore, i piú industriosi tra gli ottentotti dell’insediamento del fiume Katsivedevanodivorareogni ricchezza dai «parassiti» (parenti, si immagina) che «indulgonoallasolitapigrizia e all’inattività piú fiacca e indolente»; e John Philip criticava in modo simile le stazioni missionarie dove «i mezzi di cui dispongono gli industriosi [sono] ingoiati daglioziosi». Ma il vero scandalo del diciannovesimosecolononfu l’indolenza degli ottentotti (ormai considerata intrinseca alla razza) bensí quella dei boeri. La tendenza degli agricoltori a scivolare verso unostiledivitaoziososipuò far risalire ai primi decenni dell’insediamento. Il governatore Wagenaar, successore di Van Riebeeck, nel1663scrivevaallaCamera persuggeriredirichiamarein patria una mezza dozzina di agricoltori, a causa della loro «indolenza e […] della vita irregolare e debosciata» che conducevano. Dalla Camera, acuiilproblemaeragiànoto dall’esperienza delle Indie, ricevette un invito alla tolleranza che gli ricordava come «è sempre difficile indurre al lavoro il nostro popolo, quand’è all’estero» accompagnato dal consiglio di contare maggiormente sugli schiavi. «La troppa fortuna ha generato l’oziosità tra gli agricoltori», scrive Grevenbroek nel 1695. Un secolo piú tardi Le Vaillant commenta che «dalla profonda inazione in cui vivono, si direbbe che la loro suprema felicità consista nel nonfarnulla». Nonsoltantogliagricoltori ma anche i cittadini di Città delCaposoffrivanodiquesto decadimento nella pigrizia. Stavorinus descrive una giornata tipo nella vita di un cittadino alla fine del diciottesimo secolo: una lunga fumata e una passeggiataalmattino,un’ora o due per gli affari, un pasto dimezzogiornoseguitodaun pisolino, una serata a giocare a carte – nel complesso «una vita estremamente comoda». Percival e Barrow confermano un decennio dopo questo resoconto: «Un’immagine davvero deplorevole di pigrizia e di stupidità indolente», la definiscePercival. Leosservazionipiúseverei commentatori del diciannovesimo secolo le riservano però ai boeri della frontiera.Nellasuaanalisisul potenziale produttivo della Colonia, Barrow scrive: «Fortunatamente, per loro, forse, la pochezza delle idee impediscecheiltemporisulti unpesoperloro[…][Illoro èun]temperamentofreddoe flemmatico,unsistemadivita inattivo[…]un’indolenzadel corpo e una mente bassa e strisciante». Considerando ormai la pigrizia come parte della «natura» dei boeri, Barrow ipotizza che la Colonia non sarà produttiva finché non cambierà tale «natura» o, se questo non avvenisse, finché i boeri non saranno sostituiti da coloni piú industriosi e intraprendenti. Questo ritornello viene ripreso da tutti i viaggiatori che penetrano nell’entroterra e incontrano gli agricoltori che vivono in abitazioni misere su vaste distese di terreni, sanno a malapena leggere e scrivere, vestono in modo rozzo e si circondano di schiavi e di servi che non hanno quasi nulla da fare, disprezzanoillavoromanuale e si accontentano di un’agricoltura di sussistenza su una terra potenzialmente fertilissima. Commenta Percival:«Noncredosipossa trovare in nessuna parte del mondo un esempio di avventurieri europei cosí totalmente privi di spirito di iniziativa e altrettanto indifferenti all’arte di migliorare la propria condizione». Trova che le donne della frontiera siano particolarmente «pigre, indolenti e inattive», giudizio confermato da J. W. Moodie: sono«esageratamentetorpide e flemmatiche, nei modi e nelle abitudini, e nell’abbigliamento sporche e trasandate». Sulla frontiera «i giorni e gli anni trascorrono insciagurataaccidia»afferma John Campbell. Burchell osserva che il nuovo immigrato,pienodiiniziative e di energia, assurge rapidamente alla prosperità, ma poi «adotta le maniere rozze [dell’Africander] che dapprima disprezzava e, passo dopo passo, la sua vita degenera nella mera vita dei sensi». Burchell ripete la diagnosi di Barrow, secondo cui il torpore è diventato parte integrante del carattere boero, e segue la sua raccomandazione: è necessariaunaqualcheforma di lavoro missionario per portare i boeri nel mondo moderno: «L’agio di una vita indolente, con tutti gli svantaggi che comporta, è tantopiúpiacevole[perloro] della fatica di una vita industriosa con tutti i suoi vantaggi che le esistenze di questi uomini dovranno essere completamente rimodellate prima che siano in grado di accogliere i progressi di altri paesi». Cinquant’annidopoBurchell, Gustav Fritsch trova tra i boeri«unlivellodiindolenza e di indifferenza [che è] applicato con costanza cinese»;eneglianniTrentala Commissione Carnegie constata di nuovo «l’indolenza» del «bianco povero»discendentediquegli agricoltori, un’indolenza che attribuisce,tral’altro,ancheal clima sudafricano, ai pregiudizi sul «lavoro da kaffir» e a una tradizione di vitacomoda. I portavoce del colonialismo restano costernati di fronte allo squallore e al torpore della vita dei boeri perché costituisce la sinistra attestazione di come la popolazione europea possa regredire dopo qualche generazioneinAfrica 17. Accontentandosi di rimediare appena di che vivere dalla terra, il boero sembra tradire vieppiú la missione colonizzatrice in quanto, per giustificare le proprie conquiste, il colonialismodevedimostrare cheilcolonosaamministrare la terra meglio del nativo (il testo citato di norma a sostegno di ciò è Matteo 25, 14-30,laparaboladeitalenti). Non si può ignorare l’elemento sciovinista nel paragone tracciato dai commentatori britannici tra l’operosoyeoman[contadino] inglese e l’indolente boero olandese. Ma nella reazione britannicaallapigriziaboeraè presente un’altra componente, un senso di oltraggio morale scaturito dalla percezione che la vita comoda dei boeri sia resa possibileaspesedellamiseria dischiaviediservi.L’agioin cui vivono gli agricoltori dà scandalo perché è corrotto: il caso della Colonia del Capo sembra confermare un detto popolarerisalenteall’antichità secondo cui lo schiavismo corrompe lo schiavista. «Possedere schiavi e soggiogaregliottentotti[…]è all’origine del piú grave degrado morale in tutte le classi sociali della colonia» 18. «La corruzione della schiavitú, qui come altrove impigrisce l’uomo bianco» 19. Al Capo la corruzione opera in modo particolarmente insidioso perché, a parte i pregiudizi degli schiavisti contro il lavoro manuale, l’ozio come stile di vita diffusocomportaanchecome conseguenza che quasi tutti gli agricoltori - padroni di schiavi finiscono «per raggruppare una banda di dipendentiedifannulloniche lavorano pochissimo in cambio di una retribuzione peggio che misera. Perciò mentre il disprezzo per il lavoro diviene istituzionalizzato tra i padroni, il sistema non provvede nemmeno a quella compensazione che deriva dall’inculcare abitudini industriose nei servi – i quali spesso preferiscono i padroni boeri a quelli britannici perché questi ultimi, sebbene paghino meglio, pretendono che si lavori troppo» 20 (Marais,pp.130-31). D’altra parte, l’oziosità dei boeri non provoca al commentatore in quanto scrittore la stessa crisi suscitata dagli ottentotti nel diciassettesimosecolo.Infatti, mentreilcontestodegliscritti precedenti era quella di una nascente scienza dell’Uomo, con categorie universali e dunquevincolanti,isaggidel diciannovesimo secolo assumono la forma di narrazioni episodiche in cui l’autore,liberodimuoversisu tutta la superficie della Colonia, ammira paesaggi, vive avventure di caccia, incontra persone nuove, registra aneddoti e stranezze. Il genere letterario è di fatto quello della causerie, come indica la tipica lunghezza nelle intestazioni dei capitoli 21.Inquestamodalità, quasi qualsiasi materiale è adatto a riempire lo spazio etnografico lasciato dall’inattività di ottentotti e boeri, purché risulti interessante. Il fatto che i boeri conseguanolaloroinattivitàa spese di una classe servile, differenziandosi sotto questo aspetto cruciale dall’antica pigrizia ottentotta comporta come conseguenza naturale che l’interrogativo filosofico che non si poneva rispetto agliottentottisipongaancora di meno per i boeri: ovvero, se ignoriamo la sporcizia, i nugoli di mosche, gli abiti rozzi,nonpotremmodireche questi agricoltori della frontiera rappresentano un rifiutodellamaledizionedella disciplina e della fatica, a favore di uno stile di vita africano pre-peccato originale, in cui si possono godere i frutti della terra che cadono semplicemente in mano, in cui il lavoro è evitato come un flagello e pigrizia e tempo libero finiscono per coincidere? Dalle osservazioni morali e politiche del tipico visitatore britannico al Capo appare improbabile che qualcuno si ponesse questi interrogativi. Nondimeno la fantasia di un Edenafricanononfudeltutto soppressa, soprattutto dopo che gli sforzi della prima ondata di romanticismo letterario per situare l’uomo pre-caduta in bambini, contadini o selvaggi aveva trasformato in un luogo comune della letteratura di viaggiolaricercadelleorigini dell’uomo. Nessuno si domanda certo se il torpore dell’ottentottoolapigriziadel boerosiasegnodellarisposta a ogni bisogno, del fatto che ogni desiderio sia stato placato, che sia stato recuperato l’Eden. Ma c’è un momento rivelatore nei Travels di Burchell, tra tutti i commentatori del diciannovesimo secolo forse quello piú in sintonia con gli stili di vita dei nativi. Nel 1812 Burchell trascorse una serata con un gruppo di boscimani, in una località imprecisata tra Prieska e De Aar,annotandonelamusicae osservando le loro danze. A mezzanotte si ritirò a letto. Cosícommentalaserata: Se non avessi mai visto e saputo altro riguardo a questi selvaggi,aparteglieventidella giornata e i passatempi della serata, non avrei esitato a dichiararli i piú felici dei mortali. Liberi da ogni preoccupazione, si accontentano di pochissimo e la loro vita sembra scorrere come un placido ruscello che scivolatrapratiinfiore.Senza pensieri e senza crucci, passavano le ore ridendo e sorridendo, incuranti del futuro e dimentichi del passato. Malgrado le condizioni che la introducono («Se non avessimaivistoesaputo…»), questa è una visione dell’uomo prima del peccato originale,unavisionedicuilo stesso Burchell riconosce il fascino: «Mi sono accomodato come se quella capanna fosse casa mia, sentendomi nel mezzo di quell’orda come uno di loro; dimenticando […] per alcuni istanti che ero uno straniero solitario in una terra di selvaggi incolti» 22. Persino Barrow, tanto negativo nei confronti dei boeri e tanto sprezzanteversogliottentotti («forse la piú sciagurata delle razze umane») si lascia impressionare dai kaffir e ipotizza che la naturale nobiltà del loro portamento debba essere la conseguenza di dieta semplice, abitudini regolari, astinenza dall’alcol, aria pura, esercizio fisico abbondante e castità sessuale – in altri termini, la conseguenza dell’essere liberi dai tratti piú debilitanti della civiltà, in un regime che in seguito le scuole private britanniche si sforzeranno di riprodurre. Ma quel che attrae Barrow verso questi spartani d’Africa è prima di tutto«ilbrio,laloroattivitàe vivacità» mentre l’elogio di Burchellgiungesoltantodopo che i boscimani hanno danzato «finché le luci del mattino annunciarono che altri doveri esigevano il loro tempo». Si direbbe che il selvaggio sia costretto a piegare il collo sotto il giogo di«attività»e«doveri»prima dipoterammetterel’ideache egli appartenga all’Età dell’Oro. III . Oggi è improbabile che si critichi in modo tanto negativo la pigrizia degli ottentotti (quello dei boeri è uncasoleggermentediverso). Abbiamoallespalleunsecolo di discipline storiche e antropologiche che ci mettono in guardia dall’osservare la vita delle popolazioni straniere con atteggiamento superficiale e da un punto di vista troppo incentrato su noi stessi. Se avessimo la possibilità di visitare il Capo com’era nel diciassettesimo secolo potremmo ragionevolmente aspettarci di osservare certe caratteristiche della vita degli ottentotti sfuggite agli osservatori dell’epoca. Potremmoesserepiúsensibili allevariazionistagionalidelle attività, e al ritmo della «settimana» ottentotta. Potremmo esitare a definire pigra un’intera popolazione per il fatto che gli uomini oziano in giro mentre le donne lavorano (fatto notato da molti dei primi viaggiatori). Presteremmo meno attenzione al modo di cacciare, pescare e preparare la carne – area in cui i tabú tendono particolarmente a scontrarsi – e piú alle attività svolte da donne e bambini riunitiinsieme.Saremmopiú cauti nel considerare gli ottentotti che vivono ai margini degli insediamenti olandesi come esponenti tipici di tutta la popolazione ottentotta 23. Grazie alla maggiore ampiezza della nostra prospettiva storica, forse apprezzeremmo meglio l’entità della rivoluzione culturale implicita nel passaggio da un’economia di sussistenza a una di previdenza, dalla pastorizia all’agricoltura – passaggio durante cui, di fatto, si potrebbe dire abbia fatto la sua comparsa nella storia il concettodilavoro. Pure è proprio in quell’apertura mentale idealmente estesa agli ottentotti dalla nostra moderna scienza dell’Uomo che risiede il germe di un insidioso tradimento nei loro confronti. Infatti la moderna scienza dell’Uomo deriva da quella che si imbatté nei veri ottentotti e ne fu frustrata, e trovalesuefondamentanella volontàdivedereunacultura all’opera nella società. L’antropologia, a sua volta una disciplina tra quelle che Foucault chiama le discipline della sorveglianza, si prefigge tra l’altro di rintracciare e indagare le società sconosciute in ogni angolo del mondo, nonché fotografarne, registrarne e decifrarne le attività 24. Se gli ottentotti non assorbirono nell’arco di una generazione l’ideologia del lavoro, non possiamo aspettarci che i borghesi occidentali si spoglino in un giorno della loro devozione nei suoi confronti. Sarebbe azzardato aspettarsi che il ricercatore e scrittore moderno possa rispondere con maggiore generosità dei suoi antenati a uno stile di vita talmente indolenteche,nellasuaforma estrema,nonglioffrenullada dire. La tentazione di affermare che ci sia qualcosa all’opera laddove non c’è nulla è sempre forte. Questo lavoro non resiste completamente a tale tentazione. La sfida dell’indolenza nei confronti del lavoro, la sua capacità di creare scandalo, è oggi piú forte che mai. Anzi, benché questo ci porti oltre i limiti della discussione presente, potremmo chiederci se le sfidepresentatedall’indolenza all’indagine filosofica siano meno potenti o sovversive di quella posta dall’erotismo, e in particolare dal silenzio dell’erotismo. La storia dell’indolenza in Sudafrica non è un tema secondario o una semplice curiosità. Basta guardare in faccia i lavoratori sudafricani del ventesimo secolo per trovarne conferma. L’oziosità dei boeri è ancora presente nei tabú che interessano taluni livelli del lavoro manuale (hotnotswerk, kafferwerk)nonchéneirituali del tempo libero, indistinguibili dall’ozio (sedere in veranda, sdraiarsi sulla spiaggia). L’indolenza deinativiètuttorapresentein una tradizione di sovraoccupazione sottopagata, tradizione mantenuta da entrambe le parti, come quando due uomini sono assunti per fare il lavoro di uno solo, e ciascuno lavora per la metà del tempo oziando per l’altra metà, e ciascuno percepisce metà salario. La lussuosa pigrizia del colono è tuttora oggetto di denuncia da parte dell’Europa, la pigrizia del nativo è ancora deplorata dal padrone.Sperosiachiaroche non intendo in alcun modo aggiungerelamiavocealcoro della disapprovazione moralistica. Al contrario, mi augurodiaverapertounavia alla lettura dell’indolenza, a partire dal 1652, in quanto risposta autenticamente nativa a uno stile di vita alieno, reazione raramente difesa negli scritti e, in quei raricasi,soloinmodoevasivo (basti pensare a H. C. Bosman), ma che ha esercitato un’enorme attrattiva popolare fin dall’epoca in cui i commentatori cominciarono a scuotere la testa riguardo a queglieuropeiche,peressere statitroppoacontattocongli ottentotti, finivano per scivolare in un’esistenza accidiosa. Indicativo della persistenza di tale attrattiva fino ai nostri giorni il fatto che, dopo il 1948, le autorità avviassero–enellamisurain cui rispondevano a determinate realtà sociali fossero costrette ad avviare – unprogrammalegislativoper la riforma della società sudafricana. Due misure fondamentali di tale programma furono il cosiddettoImmoralityActeil Mixed Marriages Act, leggi il cui intento principale e il cui effetto pratico era di togliere ai bianchi la libertà di uscire dai ranghi della classe lavoratrice,avererapporticon ledonnedicolore,econdurre un’esistenza piú o meno oziosa, abulica, improvvida, generando eserciti di pargoli straccioni di tutti i colori, un processo che, lasciato a se stesso, avrebbe alla fine presumibilmente portato al crollo della civiltà cristiana bianca nella punta estrema dell’Africa. [1988]. Romanzoruraleeplaasroman Per due decenni del Novecento, tra il 1920 e il 1940,lanarrativaafrikaanssi è occupata quasi esclusivamentedifattorieedi società rurale (platteland), e del doloroso passaggio dell’afrikaner da agricoltore a cittadino. Dei piú importanti romanzieri di lingua inglese, d’altra parte, soltanto Olive Schreiner con Storia di una fattoria africana (1883) e PaulineSmithconTheBeadle (Il sagrestano, 1926) e con i racconti della raccolta The Little Karoo (Piccolo Karoo, 1925erev.1930)hannoscelto di trattare della vita rurale. NonsipuòdirecheSchreiner e Smith abbiano di per sé definito un genere di «romanzo rurale» in inglese parallelo al plaasroman in afrikaans. Si potrebbe addirittura sostenere che nessuna delle due scrive romanzi rurali in senso stretto. In quanto donne, in quanto persone di cultura inglese, in quanto libere pensatrici, si ponevano forse troppo fuori dalla cultura patriarcale e insulare della fattoria boera per poterne scrivere con autentica familiarità. La fattoria di Schreiner si differenzia forse troppo poco dalla natura, quella di Smith si distingue troppo poco dal villaggio. E tuttavia si accostano alla realtàeall’istituzioneruralea partire da una tradizione letteraria specifica, una tradizione del romanzo inglese sulla vita rurale. Ciascuna a suo modo, entrambe concepiscono – anzi, non possono fare a meno di concepire – la fattoria in un contesto piú ampio di quello del romanziere rurale afrikaans. Come minimo, forniscono al plaasroman un termine di paragone, facendone risaltare ipregiudizi. La fattoria africana di Schreiner. Che genere di posto è la fattoriaafricanadicuinarrail romanzo di Schreiner? La tenuta sorge su una «pianura vasta e desolata», una «monotona distesa di friabile sabbiarossa» 1. Il cielo che la sovrastaèvuotoeindifferente come la terra. Quando il giovane Waldo offre un sacrificioaDio,lasuaofferta resta ignorata. Gli aggettivi per descriverla si sprecano: indifferente, vuota, desolata, sterile, ampia, vasta, monotona; e se non bastasse allora forse «qualcosa di piú “indefinito” – Ecco, questa è la parola giusta!» Come ci ricorda la battuta di Roy Campbell, siamo di fronte a unodeitopoidellaletteratura sudafricana: il veld come luogodell’assenzaassoluta,in questo caso, soprattutto, l’assenzadiunDiopersonale. Oltre ad avere una topografia – una pianura sconfinata sotto un cielo sconfinato (anche se, non avendo struttura, dettagli, varietà o articolazione tale topografia è impossibile da leggere) – il Karoo di Schreiner ha anche una cronografia che si estende dalla preistoria alla storia post-umana. In questa cronografial’arcodivitadegli individuiepersinodeipopoli rappresenta un intervallo trascurabile. Nella fattoria esiste anche una seconda scala, non umana,permisuraretempoe distanza – ed è in base a questa che vivono le piante e gli insetti del Karoo. Nella monotona sabbia rossa si svolge una vita pulsante e complessa, generazioni si susseguono,imperisorgonoe tramontano nello spazio di unasolastagione. Inunluogointermediotra l’infinitesimale e l’infinito, la fattoria cerca di affermare unapropriamisuradeltempo e dello spazio secondo cui condurre la propria esistenza autonoma. Le misure covalenti cosmiche e microcosmicherivelanocome tale esistenza sia assurda e di per sé non piú nobile di quelladiserpentieragni. Finora non abbiamo visto niente che distingua la fattoria di Schreiner dalla natura incontaminata: non è addomesticatae,allivelloche ho fin qui descritto, non è addomesticabile. Ma la fattoria è anche luogo di dimoraumana,edèineffetti cosí umana nella sua bigotteria, ipocrisia e indolenza che a redimerla dall’essere una città africana in miniatura c’è soltanto la collocazione nella natura. La fattoria ha dunque due aspetti: la natura e la città. Sonoaspettichesilimitanoa coesistere. Non danno luogo adalcunasintesi. Per via della sua natura divisa,lafattoriaafricananon può produrre un’esistenza integrata.Osivivesullaterra inospitale(comecercadifare Waldo),esiperisce,oppuresi vive nella fattoria soccombendo infine all’età adulta per diventare un’altra Tant’Sannie, a contare il denaro, a contare le pecore. La fattoria infatti è in guerra con la natura. I ragazzini che introducono nella casa il germe della natura (Waldo, Lyndall) se lo vedono estirpare con violenza. Quanto ai neri, i boscimani che vivevano nella natura (nelle grotte, non nelle capanne)sonostatisterminati mentre le donne ottentotte e kaffir assorbite come serve dalla fattoria sono diventate stupide e spietate quanto la loropadrona. La fattoria africana è quindi per Schreiner il microcosmo del Sudafrica coloniale: una piccolissima comunità situata al centro dellanaturasconfinata,lacui esistenza si svolge all’insegna della mentalità ristretta e compiaciuta,cheallontanada séquanti,traisuoi,vannoin cerca del grande uccello bianco della Verità avventurandosi nel veld inesplorato o leggendo al di fuori dell’Unico Libro (chiuso). La fattoria rappresenta la grettezza nel mezzodell’immensità. Poiché è chiaro che Schreiner non si assume il compitodirappresentarecon completezza una fattoria sudafricana, sarebbe ingiusto pretenderlo. Nondimeno la storia che emerge dalla sua penna è squilibrata, unilaterale. Possiamo concepire una storia alternativa della fattoria, una storia che Schreiner non racconta, una storia da identificare con l’agricoltura del Vecchio Mondo piú che con quella delle colonie. In questastorialafattorianonè semplicementeunacasaoun insediamento in un’area recintata,mauncomplesso:è allostessotempounadimora abitativa, un’economia e anche tutte le creature che di taleeconomiapartecipano,in particolare i membri della famiglia (per quanto estesa) che possiedono legalmente la fattoria e insieme sono posseduti da essa – posseduti in quanto le devono il lavoro piú intenso, i loro mezzi di sostentamento e in ultima istanzalalorovitastessa. In questa storia l’agricoltore ha diritti e doveri. Per quanto assoluta possa essere la sua proprietà, ha dei doveri verso la terra, versoisuoieredi(comepure, inmisuraminore,versoisuoi avi)epersinoversol’ecologia dellafattoria–ovveroversola fattoria in quanto parte della natura. Gli è vietato, nel linguaggio del mito, stuprare laterra.Deveinvecesposarla, dedicarle la sua attenzione devota che la condurrà a generare in abbondanza, e al contempo conservarla feconda per le generazioni successive. Nella logica del mito, i figli che ereditano la fattoria sposeranno la stessa terra; o per dirla in altri termini, le generazioni dei mariti-agricoltori ripropongono sempre lo stessouomo(mitico). Dove si colloca Schreiner rispetto a questa venerabile concezione dell’agricoltura del Vecchio Mondo? La risposta è che segue il mito soltanto in senso negativo. Sulla sua fattoria non regna un uomo ma una donna sterile e oziosa; la terra non dà(odàl’impressionedinon dare)nulla(com’ètipicodella scrittura di Schreiner, che in alcunipuntièossessivamente concreta mentre in altri si limita a un abbozzo, Tant’Sannie prospera benché nella fattoria si realizzi ben pocolavoroproduttivo).Quel poco di vita che c’è nel veld non appartiene alle pecore – chesiaggiranopigre,stordite dalcaldo–maagliinsetti.In effetti, da quel che il lettore può vedere riguardo all’economia della fattoria è difficile capire come il possesso di una terra tanto sterile o di un gregge possa rappresentare un’autentica (ovvero non simbolica) ricchezza. Invece di considerare la fattoria di Schreiner come la rappresentazione realistica di un allevamento africano di bestiamepropongodileggerla come una figura al servizio della sua critica della cultura coloniale.Mentrenelmodello delVecchioMondolafattoria è naturalizzata in quanto si integra con la terra, terra che a sua volta viene storicizzata trasformandolainunapagina sucuilegenerazioniscrivono la loro storia, la fattoria di Schreiner è un’imposizione innaturale e arbitraria su un paesaggio caparbiamente astorico. Schreiner è anticoloniale sia quando asserisce l’estraneità della cultura europea in Africa sia quando attribuisce una dote di innaturalità alla vita nella sua fattoria. Accettare la fattoriacomedimorasignifica accettarelamortevivente. Harmonie. Nella valle di Aangenaam [laPleasantvalley]…uominie donneconservavanoancorale antiche usanze altrove estinte 2. Se la fattoria di Schreiner nel Gran Karoo è astorica, quella nel Piccolo Karoo di Smith è decisamente calata nella storia – anzi lo è cosí tanto che segue tradizioni ormai scomparse altrove. In effetti, benché la valle di Aangenaam sia presentata all’iniziocomepovera,aridae «desolata», dimenticata in breve tale desolazione, diventa invece una sorta di Eden che produce una moderata abbondanza, presieduta da un seignor benevolo; qui è possibile vivere, come fa Andrina Steenkamp, in un’innocenza edenica. I valori mitici che si accumulanointornoallavalle sono quelli del grembo materno: l’isolamento («racchiuso tra i monti Teniquota e le alture di Aangenaam») e la fecondità. Quando Andrina si reca in visita al Gran Karoo, d’altra parte, la sua piattezza, aperturaesterilitàlerisultano «opprimentiedesolanti» 3.La fattoria di Harmonie, nel cuoredellavalle,èpresentata come il culmine di una tradizione storica. Anzi, in The Beadle nulla starebbe a indicare che Harmonie non sia la fine della storia – il conseguimento di un equilibrio ideale, di stasi, di finalitàneirapportisociali,in grado di sopravvivere per sempre – se il diffuso tono nostalgico non lasciasse intendere che l’idillio di Harmonie appartiene al passato. Qual è la storia che Smith rivendica per Harmonie? Il primo Van der Merwe, apprendiamo, era un «landrost» [sic] (magistrato) al servizio della Compagnia olandese delle Indie orientali ilqualeportòconsédaiPaesi Bassi articoli di uso comune che si tramandavano nella famiglia. Durante il diciottesimo secolo, gli schiavi della famiglia «si esercitavano a copiare il lavoro dei padroni europei o batavi» producendo mobili, porte, telai di finestre che vanno a finire nella costruzione e nell’arredamento di Harmonie.Perquantosipuò esserevenerabiliinSudafrica, Harmonie ha la venerabilità dellevecchiedimoreolandesi delCapo. La tenuta conserva le migliori tradizioni domestiche della middenstand olandese: «pulizia scrupolosa […] lucidatura abbagliante […] colori intensi e profondi» (p. 19). Quanto all’attuale proprietario, «Stephan Cornelius van der Merwe [era] […] giusto, generoso e paziente […] [con una] tranquilla nobiltà di portamento[…]Parlavapoco ma sempre con autorità» (p. 39). Sotto la sua benevola autorità e/o patrocinio esiste una comunità diversificata: fittavolicomeAalstVlokman, oggetto della sua carità (Johanna e Jacoba Steenkamp), Andrina – un po’ domestica un po’ figlia adottiva–chevive«comeuna della famiglia» (p. 24), ospiti come l’inglese Henry Nind. I Van der Merwe hanno costruitosulloroterrenouna chiesa per tutta la gente della valle.Mulinoeufficiopostale sorgono sulla loro proprietà; senonsipuòdirelostessodel negozio dell’ebrea (il testo nonèspecificoalriguardo),è quantomenoadiacente. Harmonie è quindi non solo una fattoria ma il fulcro della comunità di Aangenaam. Tutta la valle deve andare lí per i sacramenti, per acquistare merci, per le comunicazioni. Se nella fattoria non c’è la prigione è solo perché nell’Eden, finora, non ce n’è statobisogno. Non soltanto Harmonie fornisce l’infrastruttura della comunitàdellavalle,maèqui che si manifestano tutte le espressioni di sentimenti comunitari: la gioia per l’arrivodellacarrozzapostale, il «brusio basso e profondo della vita» durante la cerimoniadelringraziamento (p.82).All’oradicenalacasa madre riunisce la famiglia Van der Merwe, gli ospiti e i servi in una piú intima comunitàdomestica. Naturalmente la concezione di Harmonie come Eden in questa valle isolata è solo il preludio all’ingresso del serpente, Henry Nind, da cui il padre reticente e non dichiarato di Andrina-Eve non può proteggerlaperchénonriesce ad affrontare la confessione del proprio peccato e le sue conseguenze (l’espulsione da quell’Eden di cui «nessun luogo sulla terra gli era piú caro» [p. 274]). Nondimeno, anche se il peccato è sempre già presente nella valle, sotto formadelsegretocolpevoledi Vlokman,èsoltantoVlokman stessoaessereescluso,pervia della condizione della sua anima, dalla piena partecipazione a uno stile di vita che si concretizza nei rapporti sociali ed economici che lo circondano. In altri termini, per un cuore colpevole potrebbe essere impossibile vivere ad Harmonie/Eden, ma Harmonie esiste lo stesso e anzi, continua a esistere persinodopolosvelamentodi Nind, la confessione di Vlokman, la vergogna di Andrina, la morte di Jacoba. L’Eden sopravvive e Andrina può esservi riaccolta, insieme al padre redento e al figlio innocente. Il ruolo di Harmonie in The Beadle è talmente centrale che non dobbiamo esitareaconsiderarlacomela fattoria africana di Smith e a chiedercichegenerediluogo abbiainventato. Laprimacosadaosservare è che Smith non la definisce una fattoria africana, e nemmeno sudafricana. In effetti la parola Africa non è maiusatanellibro.Harmonie non si trova in Sudafrica ma nel Piccolo Karoo; e non nel Piccolo Karoo ma nella valle di Aangenaam. Il libro di Smith riguarda, al piú, il Piccolo Karoo – il netto contrasto con il suo Gran Karoo dovrebbe metterci sull’avviso in tal senso. Harmonie è una risposta regionale (da cui non conseguedinecessitàcheThe Beadle sia un romanzo regionale). Ma se Harmonie è una risposta, a quale domanda risponde? A una domanda sull’ordine rurale ideale. Come dovrebbe essere tale ordine rurale? Dovrebbe essereunordinecompostoda fattorienucleari,ciascunacon unpatriarcachedominasu1) una moglie, 2) i figli maschi, 3) le figlie femmine, 4) i fittavoli, 5) la servitú, 6) gli animali e 7) la terra, rapporti che si possano tradurre tutti in termini di denaro e che possono essere regolati dalla legge? Smith ne ha dato un abbozzoindueraccontidella raccolta The Little Karoo. In The Sisters un agricoltore tratta le figlie come un bene materiale da barattare con la terra(inrealtà,nemmenocon la terra ma con l’ipoteca accesa sulla terra, cioè il prezzo che ha dovuto pagare avendo perso una causa in tribunale – la catena dei baratti risale indietro nel tempo). In The Father un agricoltore si serve del corpo di sua moglie per procurarsi mano d’opera gratuita: grazie a lei si moltiplicherà, e ogni figlio che lei gli darà moltiplicherà a sua volta il prodotto della terra. Il raccontointitolatoDesolation riflette questo medesimo ordine: una vecchia è lasciata morire perché non è piú produttiva. L’ordine delineato in questi racconti è dunque quellosecondocuigliuomini ereditano il potere quando assumono il controllo della fattoriaeinizianoaesercitare il dominio assoluto sulla famiglia, sui fittavoli e sulla terra (e anche sui domestici, si presume, sebbene le persone di servizio in Smith tendano a essere invisibili), usando il danaro come mediazionedelloropotere.È un ordine che potremmo definire capitalismo patriarcale, anche se si tratta di un capitalismo nel suo stadioembrionale. Benché la concezione di mogli e figli come capitale non sia estranea al mondo di TheBeadle,quivienetrattato con una certa leggerezza. E quelchepiúconta,irapporti nonsonomediatiattraversoil denaroperchéildenarosiusa pochissimo nella valle, nella quale vige ancora un’economia basata sul baratto. E sebbene Stephan van der Merwe erediti l’autorità, condivide il potere con la moglie, rinunciando a molte prerogative del patriarcato.Ciascunodeifigli, raggiunta l’età appropriata, riceve la propria indipendenza, maschio o femminachesia.«Anchesela sua famiglia poteva ancora essere,inlargamisura,ditipo patriarcale, Alida van der Merwe aveva concesso, al momento giusto, una certa libertà a tutti i suoi figli, maschiefemmine»(p.240). L’autorità, il potere del patriarcato, il potere del capitale, può dunque essere rifiutatoodelegato;èpresente nella valle ma soltanto in formadiombra(etuttaviachi può dire se il figlio che erediterà Harmonie non sarà undespota?) Quanto alla sostanza dell’ordinesociale,questoèdi tipo precapitalista e fondato suidoveri.Nonèchiaroquali origini Smith ascriva al principio del dovere. È possibile che all’origine ci sia Dio e che Harmonie sia un modello di comunità cristiana. Di certo il piú evidente dovere compiuto da Stephan van der Merwe è la costruzionediunachiesaper il suo popolo, e di certo la preghieraseraleèilmomento in cui si riunisce l’intera famigliaallargatadeiVander Merwe. Ma la religione che osserviamo in The Beadle si limita al devoto compimento dei doveri. Si potrebbe anche sostenere che il principio ultimo è l’istituzione stessa dei doveri – in altre parole, che la valle di Aangenaam è una comunità ideale non necessariamenteperchésegue Dio ma perché segue religiosamenteilsuocodicedi doveri. Il dovere principale del popolo verso il seignor è l’obbedienza: «Fa’ che obbediscaallamiapadrona»e «Fa’chevadadicorsaquando chiama il padrone» sono le preghiere dei due bambini apprendisti domestici (p. 204). Da parte dei Van der Merwe, il dovere corrispondenteèlacarità.Per carità gli estranei come l’«orfana» Andrina e l’invalido Nind sono accolti nella famiglia allargata di clienti,bywonersedomestici. I modelli opposti dell’ordine rurale presentati da Smith nei suoi due libri sonoquindi:a)quelloincuii legami di sangue perdono di importanza e tutti i rapporti umani, persino quelli interni alla famiglia, sono mediati tramite il denaro; e b) quello in cui il denaro non è la misura di tutte le cose e i rapporti umani sono concepiti come vincoli familiari, di maggiore o minoreprossimità. Agricoltura contadina. e cultura Ho sottolineato alcuni tratti di The Beadle che inducono a classificare come precapitalista la valle di Aangenaam. Eccone il riepilogo con qualche aggiunta: 1. La vita della famiglia (allargata) e l’economia della fattoria sono strettamenteintegrate. 2.Laproduzioneèingran parte destinata all’uso familiare o al baratto; il denaro è usato pochissimo. 3. L’esistenza dei meccanismi sociali è finalizzataacontrastare, non a incoraggiare, gli estremidiricchezzaedi povertà. 4. Esistono dei legami affettivi tra le persone e laterra. 5.L’autoritàèpatriarcale. 6. Il matrimonio è consideratounobiettivo universaledell’esistenza. Si tende a contrarre matrimonio molto presto, e all’interno dei confini del distretto. Spesso si tratta di matrimonicombinati. 7. La comunità locale è culturalmente omogenea. Le caratteristiche qui elencate sono comuni a ciò che definisco, seguendo Alan Macfarlane, l’organizzazione classica della società contadina 4. Ma la sovrapposizione non è perfetta. Alcuni tratti della vita contadina classica sono scartatidaSmith,mentrealtri aspettidellavitanellavalledi Aangenaam la distinguono dalloschemaclassico. L’elemento aggiunto da Smith che desidero sottolineareinmodospecifico èlagerarchia.Esisteunascala sociale che va dai Van der Merwe,conlalorogenealogia documentabile, fino ad Andrina che non conosce i suoi genitori. Dall’altra parte, secondo la modalità classica, 1) il lavoro alla fattoria è svolto interamente o quasi dalla famiglia, poiché i dipendentisalariatisonorari; e2)l’autoritàpatriarcalevadi paripassoconlaposizionedi inferiorità delle donne e la tendenzadeifiglimaschi(con le loro mogli) a vivere, ben oltre il conseguimento della maturità, sotto il tetto dei genitori. Entrambi questi elementi sono assenti da Harmonie, ed entrambe queste differenze sono rivelatrici. Laprima,ovveroilsilenzio sulruolodellavorodeineri,è comune non soltanto a Schreiner e a Smith, ma in buona sostanza a tutto il plaasroman afrikaans, e rappresenta il fallimento dell’immaginazione davanti alla difficoltà di integrare i neri diseredati nell’idillio (o, nel caso di Schreiner, nell’anti-idillio) del pastoralismoafricano. La seconda differenza appartieneinmodopeculiare a Smith. Diamo per assodato che il regno dei Van der Merwe rappresenti la sua visione di un patriarcato purificato dal suo aspetto tirannico, un patriarcato benevolo del Piccolo Karoo da contrapporre a quello malvagio del Gran Karoo. La visionebenevoladiHarmonie proposta da Smith tende a soddisfare un desiderio inconscio.Perilmomentomi limiterò a sottolineare un elemento fattuale della vita contadina:moglieefiglisono liberati dalla fatica soltanto quando il loro lavoro non è piú vitale per la prosperità della fattoria. Pertanto le due differenze di Smith sono collegate tra loro: la benevola monarchiadiStephanvander Merwe, liberatore della famiglia, deve fondarsi sulla sua capacità di sostituire il lavoro della famiglia con il lavorodeiservi. Finora ho soltanto affermato l’ovvio: che la valle di Aangenaam di Smith si basa su una visione parziale della vita sociale e domestica precapitalista; e che il suo silenzio selettivo sul lavoro dipendente, gli obblighi lavorativideifiglieiproblemi della successione ereditaria suggeriscono che l’autrice non abbia riflettuto appieno sulle dinamiche dell’economiacontadina. Piú interessante è la domanda sul perché debba esserci un seignor, perché Smithnonabbiaimmaginato, nella sua valle ideale, una società di agricoltori piú o meno uguali e indipendenti, con i loro vari bywoners e fittavoli. Nel creare il suo seignor, per quanto benevolo, emalgradociassicurichenei giornidifesta«ricchiepoveri si mescolavano senza distinzioni di classe» (p. 82) Smith reintroduce infatti il demone della classe nel suo Edenafricano. Per comprendere questa posizione, occorre considerare il genere di cultura creato dai coloni olandesi sul platteland sudafricano. Nella sua descrizione della condizione della colonia del Capo all’inizio del diciannovesimo secolo,JohnBarrowdistingue traqueicontadinichevivono «in modo dignitoso» (sostanzialmente quelli che definisce «piantatori», viticoltoridioriginefrancese) e «il vero agricoltore olandese, o boero» il quale, a differenza del tipico contadino inglese, tende a vivere nell’ozio, trascurando di sfruttare il potenziale della terra. La distinzione di Barrow è dunque tra il prospero agricoltoreproprietario e l’inetto pastoralista, che definisce indifferentemente«contadino olandese» e «contadino africano» 5. Ilterminecontadino usato da Barrow per indicare l’agricoltore di frontiera non sièmaiveramentediffusonel Capo.Malaveritàèchegran parte delle differenze tra l’agricoltore di frontiera e il contadino europeo sono piú apparenti che reali. Se l’agricoltore di frontiera sembra assomigliare piú al proprietarioterrieroliberoda affitti o da doveri che a un contadino, dobbiamo ricordare la classe dei contadini liberi europei, i qualiconquistaronolalibertà dalla schiavitú della gleba esattamente come fecero gli olandesi in Sudafrica: colonizzando nuova terra. Ancora, l’uso estensivo della manodopera indigena distingue certamente i coloni olandesi dagli europei. Ma poiché non si trattava di manodopera pagata in contanti, non comportava necessariamente le stesse concessioni all’economia del denaro fatte in Europa. Anzi, poiché i servi/schiavi, benché non integrati socialmente, erano integrati nel gradino piú basso dell’economia familiare, ci si potrebbe spingere a sostenere che la fattoria africana rappresenta un’estensione del modello classico della famiglia contadina, anziché una deviazione da esso. Infine, se la proprietà rurale generalmente estesa dei coloni olandesi appare molto diversa dalle proprietà piccole, addirittura minuscole, dei contadini europei, dobbiamo però tenere presente la sterilità di questedisteseafricane. Se c’è quindi un motivo per pensare alla fattoria africana come a un’azienda rurale adattata e trapiantata in Africa, potremmo anche provareapensareallacultura della fattoria africana come a una cultura contadina. Gli elementi caratteristici della fattoria rifiutati da Schreiner – sospetto verso le novità, conformismo, antiintellettualismo, gretto materialismo – sono tipici della cultura contadina. Immaginando Harmonie, è possibile che Smith stia cercando di sfuggire a un’atmosferaculturalesimile, riflessa in qualche misura nellesueprimestorie? La letteratura dell’ordine rurale morente, in Sudafrica come in Europa, è piena di storie di figli, maschi e femmine, che una volta assaggiato lo stile di vita cittadino, ripensano all’ambiente contadino in cui sono cresciuti come un’oppressione senza tregua. Non c’è da stupirsene. Le comunitàcontadinedituttoil mondo sono chiuse per natura. I loro valori sono omogenei e conservatori; la tipica reazione nei confronti delle idee nuove è quella di chiudersi a riccio. Poiché le loro modalità produttive richiedonounbassolivellodi specializzazione in svariati ambiti, non manifestano – per dirla con Marx – «alcuna diversità di sviluppo, né varietàditalenti,néricchezza di rapporti sociali». Le persone che, ricche di un’esperienza di vita piú ampia, si trasferiscono nella società rurale – di regola persone appartenenti al clero o alla classe insegnante – si trovanosocialmenteisolate. La cultura contadina è essenzialmente statica e per conservarsi in tale stasi utilizza una gran varietà di esclusioniedisanzioni.Vista dall’esterno, e in particolare dalla prospettiva di una personacolta,perquantoben dispostaneisuoiconfronti,la cultura contadina può giustificare le molteplici oppressioni interne, sugli animali come su donne e bambini, soltanto finché mantiene un’etica del lavoro. Lo spettacolo dell’indolenza contadina, un vacuo tempo libero sostenuto da un meschino dispotismo, suscita un senso di oltraggio morale perfettamente comprensibile. Com’eraevidenteperBarrow, in una cultura dove o c’è il lavoro o non c’è nulla, dove non ci sono arti ma solo artigianato, tempo libero e ozio si riducono alla stessa cosa. Persino un osservatore della vita rurale cosí bendisposto come George Sturt, che scrive dell’Inghilterra rurale degli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, quando i cambiamenti economici cominciavano a creare il «tempo libero», è turbato dalla vacuità del tempo non consacrato al lavoro nelle fattorie. Il cambiamento,scrive: Ha colto gli abitanti del villaggio sforniti di quelle abitudinimentaliefficientiche sarebbero adeguate a tali mutate condizioni, mostrandoli smarriti, privi di idee interessanti in altre direzioni. Non riescono piú a trovare un obiettivo […] La vita è diventata insensata, stupida, nel villaggio regna l’apatia – un’attesa insulsa, di nienteinparticolare 6. Vivendo al di fuori della cultura libresca, al senso di indignazione o di pena di un Barrow o di uno Sturt il contadino oppone soltanto il silenzio. Fin troppo spesso, in effetti, il cittadino si accosta allavitadicampagnaconuna certa, inespressa pretesa di trovarla edificante, e quando ciò non avviene ne resta deluso. La campagna non produce intellettuali (da non confondersi con gli artisti popolari): costoro ricevono altrove la loro formazione – vengono mandati via a studiare – e solo dopo, semmai, tornano alla vita rurale. Pertanto ogni ritorno allafattoriatendeaessereuna variante del genere bucolico in quanto condivide l’ansia dell’(alto) pastoralismo per la giustificazione morale di tale ritorno. «Il ritiro [pastorale] dalmondopuòsimboleggiare un desiderio di contemplazione e una virtuosa mancanza di ambizione; ma può anche essere indice dell’assenza di uno scopo elevato, un rifiuto della specie umana [...] Visto in quest’ottica, può essere un ritiro nell’accidia» scrive Peter Marinelli 7. In altre parole: la ricaduta nell’ozio è un tradimento dell’impulso alto-pastorale. Per questa ragione la questione del lavoro è centrale in tutti gli scritti sulla vita rurale. Se c’è un punto di cruciale differenza tra la fattoria africana di Schreiner e la HarmoniediSmith,èquesto: chelaprimaèunluogod’ozio (e dunque un tradimento degli aneliti pastorali della stessa Schreiner) mentre la seconda è un luogo di industriosità. Ilritornoallaterra. Lanostalgiaperlavitadei campi in The Beadle non è, naturalmente, prerogativa di Smith. È una caratteristica che appartiene a numerosissime opere scritte inInghilterrafinoal1939.Se dobbiamofissareunterminus a quo per questa tendenza inglese al ritorno alla campagna potremmo seguire W. J. Keith e datarla alla «dissociazione urbano-rurale della sensibilità» degli anni Ottanta dell’Ottocento 8, fondata su una serie di cambiamenti epocali sul piano economico e tecnologico. Prima di questa fratturalavitadellacomunità rurale tradizionale era solo uno dei tanti modi di vivere; in seguito finí per essere considerato uno stile di vita in via di estinzione e che doveva pertanto, paradossalmente, essere conservato e imitato (si veda JanMarsh,Back to the Land, Ritorno alla terra, 1982). La differenzatraprimaedoposi puòosservareconparticolare chiarezza se raffrontiamo Richard Jefferies e George Sturt,natiasoliquindicianni di distanza. Jefferies scrive senza alcun accenno al fatto che il modo di vivere che descriveèormaicondannato; mentre in Sturt, malgrado la simpatia che manifesta per la vecchia cultura del villaggio (da lui definita «frugalità»), sono evidenti la posizione dell’antropologo nel documentare una cultura minacciata, cosí come il suo dispiaceredifondo(sivedain particolare A Farmer’s Life, Vitadiuncontadino,1922). Negli Stati Uniti, dove nonostante l’abbondanza di terra non c’è mai stata una classe contadina indigena, le dinamiche pastorali sono state molto diverse, imperniatesulmodoincuiil contadino dovrebbe considerarelaterra:comeuna madre che lo nutre o come oggetto di stupro. Nondimeno, il tema del ritorno alla terra in quanto recupero delle migliori energie della persona (il «mito di Anteo») occupa un ruolo centrale nell’opera, narrativa e non, di Louis Bromfield. È però in Germania, e in particolare nella Germania delperiodotraledueguerre, che la letteratura del ritorno alla terra ha avuto la sua massima fioritura. Le statistiche fornite da Peter Zimmermann evidenziano come il picco nella produzione del Bauernroman sisiaverificatotrail1929eil 1938,quandoquestogeneresi pubblicavadaquasiduecento anni. Diversi fattori precipuamente tedeschi determinarono la fortuna del Bauernroman: l’attrazione che il Kulturpessimismus di Spengler esercitava sugli intellettualidellaclassemedia e il parallelo rifiuto della cultura metropolitana (Großstadtfeindschaft);lacrisi degli anni Venti; la politica delBlutundBodenpromossa dainazisti.Manonpossiamo circoscrivere il ritorno al Boden esclusivamente alla situazione tedesca. Con la Grande Depressione in molti paesi ci si cominciò a preoccupare per lo spopolamento delle campagne e ad auspicare il ritorno alla terra. Un ideale molto simile a quello del Bauernroman si ritrova nei romanzi dello scrittore afrikaans C. M. van den Heever, soprattutto in Groei (1933): un patriarcato illuminato, l’istintualismo, il lavoro dei campi come atto parareligioso in un Lebensraum libero dai rapporti capitalistici e soggettounicamentealleleggi naturali. IlpastoralismodiSmithsi distinguesiadaquellodiVan den Heever sia dal Bauernroman tedesco. La differenza essenziale è che, mentre nel secondo caso gli scrittori immaginano un ritorno a un ordine sociale contadino come programma utopico (e mentre Bromfield immagina una diffusione di piccoli agricoltori illuminati di stampo jeffersoniano), Smith si attiene alla tradizione inglese della celebrazione pastorale piú o meno nostalgica, tradizione che auspica la conservazione degli antichi valori rurali ma che non ambisce a innestare la retromarcia nel motore dellastoria. UnavoltaanalizzataSmith nel contesto della letteratura rurale inglese è piú facile capire perché nella sua valle di Aangenaam si attribuisca una posizione tanto prominente alla nascente aristocrazia coloniale. Se infatti cerchiamo un modello diordinesocialedacuisiano stati espunti i tratti piú ripugnanti della società contadina classica (principalmente il patriarcato e le sue conseguenze), ordine che oltretutto non viene comunemente accusato di oziosità, possiamo trovarne uno nel ritratto del grande proprietario terriero illuminato con la sua obbediente clientela di vassalli, fittavoli e contadini elaborata nella tradizione letteraria inglese conservatrice. Dire questo significa semplicemente affermare che Smith, utopicamente e astoricamente, trapianta in Africa un modello inglese di ordine rurale. Ma esiste un secondolivellodiutopianella sua visione. Infatti, se è utopico voler trovare nel Capoun’aristocraziaolandese parallela a quella inglese, altrettanto lo è voler vedere una classe contadina inglese parallela a quella olandese in Africa. La verità è che l’idealizzazione dell’antico ordine feudale basato sui doverireciprocirisalequanto meno all’Inghilterra di Ben Jonson(«ToPenshurst»)egià allora rappresenta una reazione allo sviluppo di un ordinecapitalistaagricolo 9.È lecito dubitare che in Inghilterra sia esistito, dal sedicesimo secolo in poi, un qualcosa che si possa legittimamentedefinireclasse contadina di stampo classico, con un’economia basata sulla proprietàfamiliaredellaterra. Alan Macfarlane si spinge addirittura a esprimere lo stessodubbiocircal’esistenza di una classe contadina inglese fin nel tredicesimo secolo. Gli statuti del 1290 concedevano a qualunque uomo libero il diritto di «vendere a proprio piacimento la terra e tutti i suoi beni». La proprietà assoluta garantita da questo ordine è diametralmente opposta a quella forma di proprietàfamiliaredellaterra che incontriamo nella società contadina.Inoltre,soltantoin Inghilterra l’usanza della primogenitura – limitata comunque unicamente ad alcune regioni dell’Europa nordoccidentale–èpenetrata fino ai livelli piú bassi della proprietà terriera, facendo di quel paese un caso unico sotto questo aspetto. Inoltre, la primogenitura mal si accorda con la proprietà congiunta. Infine, il capitalismo agricolo in Inghilterra era cosí efficiente e potente che la classe dei piccoli proprietari terrieri fu sempre ridotta e svantaggiata e continuò, fino al 1914, a ridursi e indebolirsi ulteriormente in quanto la terra finiva nelle mani dei grandiproprietari. Cosí lo scrittore che guardasse all’Inghilterra cercandoviunsolidomodello di classe contadina che vanta ogni diritto sulla terra, e che unaretedimutuidoverilega a un’aristocrazia locale analogamente radicata, finirebbe inevitabilmente per spingersisemprepiúindietro nella storia, in un passato sempre piú nebuloso. Il potere del capitale nella campagnainglesesièrivelato irresistibile; l’autentico motivo dietro alla nostalgia per un passato di contadini e di padroni è con ogni probabilità un pio desiderio generato dal rifiuto del capitaleedellasuastoria. Il«plaasroman». La fattoria africana di Schreiner ci mostra il volto orrendo di un modello agricolo in cui il lavoro saltuariodiunaclassediservi della gleba dominati da padroni indolenti riesce – a malapena – a ricavare di che vivere da una terra indifferente. Dalla narrazione di Schreiner non c’è ragione di supporre che il dominio della donna boera e della sua classesulveldafricanodebba avere fine. Da tale dominio Lyndall fugge; Waldo l’affrontaeperisce. Ma come sappiamo, gli anni Ottanta dell’Ottocento avevano in serbo grossi problemi per i proprietari terrieri bianchi in Sudafrica, problemi che un secolo dopo nonsonoancorafinitieilcui effetto è stato spingere o attrarre gran parte di loro verso città piccole e grandi, lasciando le fattorie nelle mani dei latifondisti. Tra le cause di tali difficoltà ci fu l’incremento di capitali in cercadiinvestimentisicuri,la crescita di una rete di trasporti che comportò l’apertura di nuovi mercati e rese piú redditizia l’agricoltura, la coltivazione inefficiente di lotti di terreno che,giàpiccoli,siriducevano ulteriormente a ogni generazione, il fascino esercitato sui figli dei patriarchidalleattrattivedella città. Questa crisi del platteland costituisceilretroterrastorico dell’opera di Smith. Sottende ai racconti di Little Karoo e, per quanto The Beadle si presenti come fuori dalla storia, o almeno precedente all’epoca della crisi, la creazione di Harmonie è evidentemente una risposta agli interrogativi che erano nell’aria negli anni Venti del Novecento. Come reagiscono i contemporanei afrikaans di Smith a queste questioni? La prima cosa da notare riguardo agli autori del plaasroman – e qui vorrei segnalare in particolare D. F. Malherbe, Jochem Van Bruggen,JohannesvanMelle, Mikro,C.M.VandenHeever e Abraham Jonker – è che costoro,inmodopiúesplicito di Smith leggono la crisi del platteland come conflitto tra la modalità di produzione contadinaequellacapitalista. Èmoltocomunequilafigura del cittadino arricchito, di solitouncommerciantemaa volte un avvocato o un medico,spessoebreo(siveda Malherbe, Die Meulenaar; Jonker, Die Plaasverdeling; Van Bruggen, Ampie, parte III; Van den Heever, Gister). A complemento della figura del cittadino con troppi soldi c’è quella dell’agricoltore appenaemersonell’economia del denaro: per ottenere quel capitale che permetterà alla sua fattoria di competere nella nuova economia darwiniana è costretto a ipotecarelaterraoachiedere aiparentidifarloperlui(Die meulenaar, Die Plaasverdeling;ilGroeidiVan denHeever). Il conflitto tra la concezione vecchia (contadina) e quella nuova (capitalista) del valore della terra è quindi ampiamente rappresentato. Questo non significa però che sempre troviamo il riconoscimento esplicitodiunasvoltaepocale nell’economia rurale. Nella maggioranza dei casi il capitalista è ritratto come un perfido maneggione (l’ebreo di Die Meulenaar, la cui giustificazione è: «Gli affari sono affari»; il negoziante ebreo di Die Plaasverdeling che attira lo sventurato eroe nella rete del debito), mentre il nuovo bisogno di denaro è attribuito semplicemente al desiderio di ottenere le gratificazioni degenerate offertedallacittà«inglese»(si veda l’analisi della crisi proposta da Kasper Booysen inAmpie,parteI).Daquesto punto di vista la xenofobia o il moralismo o entrambi trionfano sull’analisi delle forzeingioco,eilplaasroman finisce per avvicinarsi alla reazionaria Großstadtfeindschaft, all’anticapitalismo, antisemitismo, e all’ideologia delBlut und Boden tipica del Bauernroman. L’autorediplaasromanche in questo conflitto spicca come il piú neutrale, il meno inclineasostenereciecamente ivaloricontadini,èAbraham Jonker, il quale fornisce una rappresentazione piuttosto spietata, chiaramente debitricedelNaturalismo,del declino e della sconfitta dei menoattiasopravviverenella lotta della classe rurale per adattarsi alla giungla capitalista. Die Trekboer mostra un agricoltore sconfitto che si sforza di capirel’economiadeldenaro, senzaperòriuscirci.Rifiutadi adattarsivendendolapropria forza lavoro, perde l’autorità patriarcale sulla famiglia e soccombe, in città, all’alcolismo. Nella sua ricettività all’ideologia del darwinismo però Jonker (per il resto uno scrittore mediocre) rappresenta un’eccezione. Nellamaggiorpartedeicasiil plaasroman abbraccia un programma all’insegna del rinnovamento dell’ordine contadinobasatosulmitodel ritorno alla terra: «Dove risiedelaforzalatenteditutte le culture nazionali: [nell’]uomo legato alla terra, cui è misticamente unito da un amore oscuro […] questo èilterrenoincuicresconole generazioni»scriveC.M.Van denHeever 10.Nonsoltantoil proprietario, insieme a figli e figlie, ritroverà se stesso mediante il ritorno alla terra: anche i servi finiranno per riconoscerechelavitadicittà è un’aberrazione, che la vera felicitàsipuòtrovaresoltanto nella fattoria in cui sono nati (questoèiltemadellatrilogia di Toiings di Mikro). L’idealizzato ordine della fattoriaprevedeche«ciascuno riceva la sua porzione […] secondo le usanze stabilite, ciascunodeiservi,delleserve epersinoivicini» 11. Il romanziere che mostra le maggiori capacità di riflessioneedianalisirispetto alla crisi che porterà alla fine del vecchio ordine contadino è Johannes van Melle con il suoDawidBooysen.Inquesto romanàthèseilprotagonista, Booysen,rifiutadistipendiare la sua forza lavoro (al fine di indebolire gli antichi vincoli di reciprocità tra padrone e servi) e di finalizzare la produzione al profitto secondoidettamidellanuova economia di mercato. Mette in pratica la sua opposizione al nuovo ordine economico trasformando la proprietà ereditata in un «klein kooperasie», una piccola cooperativa, con i bywoners che ottengono il godimento per cinquant’anni dei loro lotti mentre proprietari e fittavoli collaborano per conquistare l’indipendenza dall’economia in senso piú ampio, arrivando a cuocersi i mattonieaforgiarsilespade. «Prima dobbiamo chiederci quali sono i nostri bisogni, quellidellanostragenteedei kaffir che vivono nelle nostre fattorie,equellidelbestiame, senza preoccuparci del mercato» dice Booysen 12. Sposa poi una ragazza che, per quanto abbia radici in campagna, non è del vecchio stampo: legge riviste di agricoltura e si interessa ai suoiprogetti. Iltermine«ko-operasie»in effetti non descrive in modo adeguato la comunità di Booysen, che vuole invece esserelaprimadiunaretedi comunità cristiane in tutto il platteland: ciascuna costituita da un proprietario paternalistico,conungruppo difittavolieunostratosociale piú basso di servitori neri, i quali lavorano quanto piú possibile al di fuori dell’economia generale con l’obiettivo di proteggere la classe sempre piú numerosa di contadini bianchi senza terra, oltre che i servi neri senza terra, dai rigori e dalle tentazioni del nuovo ordine capitalista. Il libro che forse ha esorcizzato in maniera definitiva il «fantasma del genere pastorale sudafricano tradizionale»è,secondoA.E. Voss, Il Conservatore di Nadine Gordimer (1974). La soluzione pastorale al problema di come debba vivere l’uomo bianco in Sudafrica è che dovrebbe ritirarsi nell’indipendenza rurale; è questo il fantasma esorcizzato quando, nel romanzo di Gordimer, il lato oscurodellavitacontadina,la sua metà sepolta, il cadavere nero in giardino, viene finalmenteriportatoallaluce. Senza voler minimizzare l’esito del Conservatore, che da tutti i punti di vista è un degno erede di Storia di una fattoria africana all’interno della tradizione antipastorale, michiedosesiapossibileche il fantasma pastorale possa, per sua natura, essere esorcizzato una volta per tutte. È vero che i silenzi nel romanzoruralesudafricano,e soprattutto il silenzio sul posto occupato dai neri nell’idilliopastorale,nonchéil silenzio che crea quando mette in bocca a un contadino nero le parole di un bianco (come fa Mikro nella sua trilogia di Toiings) oggisonoassaipiúassordanti di cinquant’anni fa. Siamo abituati ormai a cogliere i silenzi. Siamo stati educati alla musica di Webern: un silenzio strutturato da tracce di suono. Siamo diventati abili nella lettura dell’altro: vuoti, rovesciamenti, sottotesti; ciò che è velato; l’oscuro, il sepolto, il femminile; il diverso. Di un romanzo pastorale come The Beadle diamo una lettura antipastoralecomequellaqui presentata, attenta agli spazi tralerighe(Dov’èDio?Dov’è l’Africa?) Solo parte della verità,asseriscequestalettura, si trova in quel che il testo afferma su ciò che finora è rimasto inespresso; per il resto, la verità risiede in quel che non osa dire per difendere la sua stessa sicurezza,oinquelchenonsa disestesso:neisuoisilenzi.È una modalità di lettura che, sovvertendo ciò che è dominante, rischia – come tutte le sovversioni trionfanti – di diventare dominante a sua volta. È dunque una varianteutopica(opastorale) immaginare un futuro (o un passato) in cui la verità risiederà in ciò che viene detto (o che è stato detto) e non in ciò che resta inespresso,untempoincuila musica ci apparirà (o ci appariva) come suono che sovrasta il silenzio, e non silenziotraisuoni? [1988]. Leggereilpaesaggio sudafricano EuropaeAfrica. Tra le poesie scritte da Thomas Pringle durante il suo soggiorno in Sudafrica negli anni Venti dell’Ottocento c’è la poesia topografica Evening Rambles (Escursioni notturne) che descrive,perillettoreinglese, alcune vedute del Capo orientale. L’aloedrizzalasuacresta vermiglia, Comemaestosareginaalla pariglia; Eilfagiolodaifiorigiganti scrolla sullefelciirossiciuffi sgargianti 1. Se agli inglesi questi fiori potevano apparire insoliti, noncosíilcontestopoeticoin cuilicollocaPringle:ilritmo familiare di distici tetrametri giambici addomestica in modo rassicurante il contenuto estraneo. Il tema che sottende tutta quanta la poesia è che, dal momento che la natura incontaminata africana non esige sforzi particolaridallalinguainglese e nemmeno dai suoi versi, si può benissimo inserire nella categoriaeuropeadell’esotico. Alcuni decenni piú tardi possiamo vedere all’opera lo stessointentoprogrammatico di contenimento dell’esotico negliesecrabiliversiscioltidi H.H.Dugmore: IlKareigaserpeggianelsuo corsotortuoso tralerivedeisalici;mentre quaelà l’irokodalloscurofogliame alzafierolatesta conmaestosadignità 2. Quel che incontriamo in Pringle e in Dugmore è il primolivello,ilpiúprudente, di un processo autolesionista che consiste nel definire l’Africa come non-Europa – autolesionista perché in ogni singolo dettaglio che porta a identificare l’Africa come non-europea,aesseredefinita è sempre l’Europa, non l’Africa. Questo processo continua fino al ventesimo secolo: ecco Francis Carey SlatersulKaroo: Regioneprivatadelsorriso dell’erbaedelsuoverde gioioso, sterilediboschisilentiche comeNarcisosognanola lorostessaombra. Tuignorilamusicacheallietò Evanell’Eden– L’arpadeifiumi-menestrelli,il flautodeirividalle movenzeleggere 3. Da qui è facile prevedere quale direzione prenderà la poesia di descrizione topografica:oun’applicazione sempre piú frenetica della metafora europea attribuita all’Africa, nel tentativo di costringerla a cedere la propria essenza; oppure l’abbandono delle categorie europee ormai sconfitte in favore di un linguaggio africano che si presume espressivo per natura. Sulla prima di queste vie vediamo avviarsiSlaterinTheKarroo: Amezzogiornoilsolerabbioso punisceaspramentela pianura, Iraggitorriditremano nell’aria,comepuladall’aia dellatrebbia;ondelucenti dicaluraguizzano,come spumaschizzatadai cavalloni, egonfiandosisaltanoe scintillanoinondandoin silenzioledistese 4. LostessofaA.S.Crippsin TotheVeld: Tappetobrunoelacero,vasto enudo, Seminatodiroccegrigie,ferito eanneritodallafiamma! Tappetodiscena,perfar risaltareognibellezza 5. Tali eccessi metaforici scatenano una dinamica poetica chiusa in se stessa. Non riuscendo ad avere la meglio sul veld, a fargli dischiudere la sua essenza, il veld è condannato per la sua incapacità di rispondere al linguaggio. («Come puoi produrre gioia per chi […] | Cerca la Bellezza che sfugge, anela all’incanto della sua voce?», Slater, The Karroo) 6. Ancora un piccolissimo passo, è facile prevedere, e il veld diventerà imperscrutabileeindifferente. L’altra strada impone in primo luogo di decidere che la vera Africa è destinata a scivolare sempre fuori dalle maglie della rete intrecciata dallecategorieeuropee(come chiarisce Patrick Cullinan nella poesia 1818. M. le Vaillant Recalls), e poi di chiedersi se i linguaggi africani nativi possano, a differenza delle lingue europee, essere in armonia con il panorama. Cosí Guy Butler sente il canto di una donnafingo: piúconsono alcielolavatodallapioggiae allacollinapetrosa diognicadenzaspremuta dallamialinguaimpedita 7. The Herdboy’s Flute (Il flauto del pastore) di Slater offre una presentazione piú complessa (ma non elaborata in modo completo) della medesimatesi:ilpastorezulu che non sa rispondere alle domande del poeta sull’ispirazione della musica del suo flauto è, da un lato, troppo stupido (troppo poco curioso, troppo poco articolato) per comprendere che il salto dal paesaggio all’arte (in questo caso, la musica) è essenzialmente metaforico, e – dall’altro – troppo profondamente inserito nel suo paesaggio (troppo poco riflessivo, troppopococonsapevole)per aver bisogno di sapere che il paesaggio e la risposta artistica non sono la stessa cosa. Il dibattito ci ha ormai portati chiaramente a esplicitare la domanda centrale della poesia paesaggistica sudafricana: come dobbiamo leggere il paesaggio entro cui ci troviamo? Illinguaggiodelveld. Se la letteratura paesaggisticanonvuoleessere un’artesecondariaeinferiore, mera trascrizione verbale di una scena già visualmente composta, deve fare, o almeno proporsi di fare, quel che la pittura paesaggistica non può: leggere e articolare il significato del paesaggio. Nellasuaformapiúsemplice, il processo di lettura si limiterà a tradurre in parole lo stato d’animo evocato dal panorama (o da una sua immaginaria rappresentazione pittorica). La poesia sudafricana, e in specie quella in afrikaans, abbonda di esempi di questo genere. Nel caso classico, il panorama suscita nel poeta un determinato stato d’animo, e il movimento corrispondente della poesia va dall’esterno all’interno, a volte spingendosi fino al punto che esterno ed interno si invertono, e l’esterno diventa metafora dell’interiorità (C. M. Van den Heever illustra piú volte questo movimento; ma lo schema vale anche per molte delle poesie in apparenza paesaggistiche di C. Louis Leipoldt e N. P. Van Wyk Louw) 8. Esiste però una corrente della poesia paesaggistica particolarmente forte in Sudafrica, che nasce dalla figura venerabile della natura intesacomelibrodiDio(San Bernardo: natura est codex Dei;Coleridge:«L’universoè, letteralmente,lalinguascritta [diDio]»)chemetteinprimo piano il problema del significato del paesaggio, ascrivendoallapoesiapiúche atuttelealtreartilacapacità di individuare tali significati insiti nel paesaggio. I problemi che soprattutto angustiano i poeti bianchi sudafricanisono,ovviamente, selaterraparliunlinguaggio universale, se il panorama africano si possa descrivere conunalinguaeuropea,segli europei possano sentirsi a proprio agio in Africa. La risposta piú cupa è il monito contenuto in una poesia di Leipoldt, Die Soutpan (La salina):«Hierpraatdieveld’n onverstaanb’re taal» (Qui il veld parla una lingua incomprensibile). CharlesEnglington,inuna poesia dal titolo Old Prospector (Il vecchio cercatore d’oro), presenta un lettore emblematico della terra nella persona di un prospettore che rifiuta lo sguardo dall’alto, la visione generale e onnicomprensiva dell’Africa, preferendo scrutare da vicino la terra. I suoi «occhi di veggente» «leggononeisegnicriptici|la formula di ricche scoperte», perché comprendono «gli arcani del veld». In effetti si allontana dalla prospettiva globale della vecchia arte pittorica coloniale legata a conquiste e dominio, per scegliere un’arte piú umile e locale di particolari resi con cura, basata sull’amore e sull’intimitàconlaterracome terreno [land-as-soil]. La poesia di Englington è degna di nota non soltanto perché segna l’affermazione di una nuova arte paesaggistica non fondata sullo sguardo imperialista,maperchétorna a enunciare un tema ricorrente negli scritti paesaggistici sudafricani: che ilveropanoramasudafricano è fatto di rocce e non di fogliame; e dunque l’artista sudafricano deve adottare uno sguardo geologico, non botanico. È stata Olive Schreiner la prima ad avanzarequestatesi,nellafase iniziale della sua carriera, quando subiva l’influenza delleletturedistorianaturale edellateoriaevoluzionista:le pietredelsuoKarooparlanoa chi è abituato a leggerle, anche se l’argomento di cui parlano è soprattutto l’insignificanza dell’uomo. Questa svolta geologica nella poesia paesaggistica sudafricanaèparticolarmente affascinante in quanto afferma che la vegetazione dissimula il paesaggio, che l’arte paesaggistica tradizionale, che è arte di prospettiva, è superficiale per natura e non è capace di raccontarelaverastoriadella terra, la storia che giace sepolta, o semi-sepolta, sotto la superficie. La nuova arte paesaggistica che chiama in causa antiche analogie tra distanza e superficie, vicinanza e profondità, diventa cosí soprattutto arte di lettura profonda; il pittore versato nella rappresentazione delle superfici deve farsi da parte, lasciando spazio al poeta con la sua arte divinatoria capace dipenetrareinprofondità. Che cosa giace sotto la superficie poco promettente dell’Africa, a parte i metalli inerti? Nella poesia Sweetwater di Guy Butler la risposta è l’acqua. Afferrata non dall’occhio ma dalla lingua, piú primitiva («Senti come è dolce»), bevuta nella reverenziale postura in ginocchio,l’acquasotterranea datrice di vita dell’Africa si offre ai veri figli dell’Africa stessa, nativi, primitivi, veggenti solitari. In altre poesie la verità petrosa dell’Africa emerge sotto forma di fiore: la violetta africander che spunta dal «beetling krantz» (la roccia incombente) e trae la sua sussistenza dal «vecchio e fiero cuore della montagna» (Kingsley Fairbridge), l’aloe che cresce sulla «skurwe randjierug» (la cresta rocciosa) (C. M. Van den Heever, «Hier op die skurwe randjierug»). L’interno roccioso ha quindi un cuore vivo, che si rivela soltanto all’osservatore piú attento e dedicato, a chi cammina in solitudine nella natura. Il locus classicus di questa epifania nel veld è il momento in cui, in Storia di una fattoria africana, un albero proclama a Waldo la sua verità, o è sul punto di proclamarla. Le piú interessanti tra queste poesie paesaggistiche geologiche sono quelle in cui lo sguardo penetrante del poeta rivela non la forma estetica superficiale della terra, ma una forma preistorica sottostante che minaccia di irrompere nuovamente nella storia. La prima, in senso cronologico, di tali poesie è Rounding the Cape(1927)diRoyCampbell incui,sottolosguardoacuto del poeta, emergono dalla montagna i contorni minacciosidiunanerafigura dormiente. Nel Transvaal William Plomer vede «Spalle di quarzo emergere dalla montagna | Come una scultura per metà dissepolta» 9. Sorvolando l’antico letto asciutto del plateau, Anthony Delius si chiede se «Behemoth» non giaccia «sognando come la carpa sotto al fango» nel panoramasenzavita. Accanto a queste poesie cripto-profetiche di giganti e mostri sul punto di svegliarsi da un sonno torpido per reclamare quanto gli è dovuto, possiamo collocare alcune poesie afrikaans storicamente piú positive in cui il paesaggio è raffigurato, imponendo al lettore uno sforzo di immaginazione, come una donna distesa o ancheunamadre(perquanto una madre esigente, piú che generosa): Jan Celliers, Die Vlakte; C. J. Langenhoven, DieStemvanSuid-Afrika. GuyButler. Iltemadelpoetadifronte al paesaggio sudafricano ha impegnato Guy Butler per tutta la sua lunga carriera. Il poeta per Butler è una figura diversificata e complessa: depositaria di un’immaginazione creativa; portavoce di una cultura europea in Africa; uomo afflitto dalla consapevolezza di sé. La sola incarnazione familiarechenontroviamoin Butlerèquelladelpoetacome colui che proietta i suoi stati d’animosulpaesaggioocheè investito dallo stato d’animo delpaesaggio.Valeadireche Butler tratta il rapporto del poeta con il paesaggio dal puntodivistastorico. Nei momenti di alienazionechericorronopiú e piú volte, la memoria di Butlerportaalloscoperto–e lesuepoesiefannorivivere– quei «luoghi del tempo» che gli impongono la traumatica presa di coscienza della sua estraneitàinAfricaeforsenel mondo. In Myths, per esempio, uccide un cobra (e cioè una delle creature africane autoctone) e a un tratto il paesaggio cessa di essere un ambiente confortevole; aloe, massi, licheni, nuvole erompono singolarmente, «all insisting on being seen» (e tutti insistono per farsi vedere). Questo momento di alienazione in cui il mondo prende le distanze dal soggetto è anche il momento in cui il panorama annuncia la propria resistenza al linguaggio. Specificamente, nella formulazione di Butler, questo è il momento in cui il paesaggio africano annuncia la propria resistenza alla linguaeuropea. Nonmisonotrovatosulle mapped’Europa… Devotornareconimiei semplicicinqueschiavi aunaterraancoraselvaggia,in qualchemodoancorapura: Lamiaterrasenzaamore, superficiale,spontanea nelleforme Dovenessunfantasmaporta fascinoalletomberecenti Eognicosa,nelloSpazioenel Tempo,semplicementeè: Qualimetaforepossono illuminarequestiiati nondrammatizzatidanette antitesi? 10. Per Butler dunque la difficoltà di trovare un linguaggio per l’Africa è duplice: 1) il paesaggio africanosemplicementeesiste in assenza della «profondità» che possiede il paesaggio quando, per via della lunga associazione con un linguaggio particolare, con la culturaereditataescrittadella popolazione che parla tale lingua, finisce per portare le risonanzestorichedivocidal passato;mentre2)(equestoè il punto in cui Butler è particolarmente acuto) la stradaintrapresadaipoeti,da Pringle in poi, che hanno descritto l’Africa come nonEuropa, drammatizzandola per antitesi, fa dell’Africa un puro riflesso negativo, un’ombra dell’Europa, priva diognisostanza. In tutti i suoi scritti successivi Butler gira attorno al problema già articolato in HomeThoughts,conilrischio discivolareinunarispostadi primitivismo romantico un po’ troppo facile, specie nelle poesie che guardano con nostalgia agli africani o ai bianchi rurali delle generazionipiúvecchiecome a coloro che partecipano di un rapporto perduto ma anelato con la terra. Tale primitivismo è un tratto di ServantGirlediSweet-water, a cui abbiamo già accennato. Ma è tematizzato in modo particolarmente chiaro in Farmer. Qui un vecchio agricoltoredelKarooammira un panorama che conosce da sempre, un paesaggio che «è per lui acqua e respiro di vita». Il rapporto tra questo contadino e il suo paesaggio, afferma nella poesia la voce autorevole, è «reale»: in una popolazione rurale inarticolata come questa, per quante deficienze morali si possanoriscontrare,esisteun sentimento inalienato per la terra, che viene stroncato nel momento in cui si compie l’ascesa verso il linguaggio. Il corollario è che lo stesso impulso a descrivere il paesaggioamatoèlaprovadi unacondizionedicadutaodi alienazione; i tentativi di tornare alla grazia attraverso l’arte sono condannati in partenza. La posizione che Butler sviluppa piú a fondo sulla questione di un linguaggio perl’Africasiincontrainuna poesia tarda, Near Hout Bay. Per quanto questa composizione sembri affrontarenonl’estraneitàdel paesaggio visibile all’occhio ma quella dei suoni della natura (cicale, colombe, vento, onde) possiamo presumere una mera trasposizione dalla vista al suono, e che si tratti della stessacrisi.Lapoesiaesprime unabennotaposizionestoica: la fede nel potere del linguaggio di ricomporre la frattura tra uomo e natura (oltre che tra uomo e uomo) non ha mai avuto un fondamento certo; tanto vale «accettare la separazione», cosí come l’orecchio accetta i «suoniignoranti»dellanatura selvaggia senza preoccuparsi dellorosignificato: diecimilacicalesferzatedal solestrillanoinestasi; vicineelontane,acentinaiale colomberilancianoil messaggio ripetendoloimperturbabili l’unaall’altra; ipinisospiranonelvento,da milleaghiluccicanti; nelventogiàappesantitodal brontolio, perpetuo,maicompianto, dellosgretolarsideimarosi 11. Ma, in quanto discorso poetico, la poesia paradossalmente contraddice lasuatesi,oalmenociprova: i versi citati sono la rappresentazione del paesaggiosonoroneidintorni di Hout Bay, e anche, sembrerebbe, una sua interpretazione: questi suoni «riempiono quel silenzio primitivo | di tristezza e di lodi». Qui la posizione di Butler–cheivariordinidella natura, ciascuno per proprio conto, lodano nondimeno il creatorecomemegliosannoe forse non possono farne a meno – si discosta in modo significativodallaconclusione secondo cui l’impresa di cercare di leggere vedute e suoni dell’Africa è errata. Anzi, non è lontana dal naturacodexDei. Indipendentemente dal titolo, il tema delle poesie di Butler fin qui menzionate è stato un generico paesaggio sudafricano. La poesia piú strettamente legata a uno specificopaesaggioèCradock Mountains, in cui è piú evidente l’entità del debito di Butler nei confronti di Wordsworth e delle sue riflessioni sul potere di «impregnare ed elevare la mente» che hanno le scene dell’infanzia,lesequenzesulle trappole tese agli uccelli e sulla Fiera di Grasmere ne Il preludio [1805] 12, che ne definiscono quasi per intero portata e tematica. Questa poesia solleva un interrogativo wordsworthiano: In che modo siamo stati forgiati dal paesaggio in cui abbiamo vissuto? Ma la risposta è appena accennata. Accontentandosi come fa qui di trattare temi della tradizioneinglesetraspostisu un fondale africano, Butler si prefigge un obiettivo non meno provinciale di quello delThomasPringledeiPoems IllustrativeofSouthAfrica. SidneyClouts. AncheCloutscomeButler mette in primo piano il rapporto tra poeta e paesaggio. In Clouts però il poeta è una figura piuttosto diversa.Nonènéeuropeoné portatore di una cultura europea estranea. Il fatto di possedere autoconsapevolezza e linguaggio non sembra costituire una barriera tra lui e il paesaggio. Se lui se ne sente escluso è soltanto perché il suo linguaggio non ha ancora raggiunto quell’acutezzadipenetrazione cheglipermetteràdiinserirsi nel paesaggio entrando a farne parte, mentre procede nella sua ricerca di un’Africa interiore, un’Africa nell’interno dell’Africa che ci sembra di vedere. Lingua e coscienzadunqueperluinon sono un fardello. Al contrario, attraverso lo strumento che è il poeta, ma anchenellapersonadelpoeta, il paesaggio consegue la sua massima espressione e la pienezzadellasuaesistenza. Nonsonocontemplativoper naturamanellanatura[…] Contemplativonellanatura: lanaturadentrodime,lamia natura 13. Entrare a far parte della naturanonèperòcosafacile. È un risultato che si ottiene lottandoduramentecontrola resistenzadelmondo,lottain cui l’organo principale di penetrazione e di controllo è l’occhio. La poesia After the Poem esprime la volontà del paesaggio di riaffermare la sua identità autonoma dopo la violenza del vedersi imporre un nome, una descrizione,unpossesso. Dopolapoesialacostaprese ilsuopostoconsguardofermo decisaacontestarefieramente ildirittodellapoesiaa possederla[…] Lacostabalenò–balenò, diciamo,comeunaprotesta finoallavettarocciosadel Sentinel chescendeinmare contalforzadaspezzarneogni verso 14. Non si deve tuttavia ignorare il fatto che, proprio in quanto poesia, After the Poem tenta di padroneggiare econtrollareilpaesaggionella sua stessa riaffermazione di sé. La poesia in Clouts è, primaditutto,imperialista. Per Clouts (come per Wordsworth, che definisce la vista «il piú dispotico dei nostri sensi» 15, Il preludio [1805]),l’organodeldominio è l’occhio. Se questo viene meno, se «non entra» (come in Within), la poesia vacilla. Mal’obiettivodellesuepoesie non è tanto tenere il paesaggio sotto il dominio della vista (che è anche l’obiettivo dell’arte paesaggistica,formarealizzata mediante l’autodefinizione del soggetto come colui che osservalanatura,dominando tuttalascenaconlosguardo), quanto entrare nel paesaggio mediante l’occhio, allo scopo di viverne l’esistenza dall’interno. A questo fine è necessario abbandonare la visione complessiva che concepisce il paesaggio come una totalità anche in senso geologico. Le sue poesie passano invece con estrema rapidità da un elemento all’altro del paesaggio, per assumerelavitadiciascunoe poi andarsene. L’occhio del poeta è dunque vorace, divorante. Per parte sua, l’oggetto posseduto inizia a mutare e a sbarazzarsi del vecchio nome quasi immediatamente dopo essere stato assunto dal linguaggio. Lapiúnotevoledituttelesue poesie,Residuum,èunasorta di andirivieni della forza poeticadaunoggettoall’altro: la poesia rifiuta di fermarsi perché se lo facesse sarebbe immediatamente assorbita nell’oggetto. La vita della poesiaèdunque,percosídire, nellospaziotraiversi: Nonc’èunlessico,nonc’èuna parola–pronunciatain fretta–checicorrisponda. Nonc’èunaparolachesiala miadimora[…] Ascolta,ascoltatrale particelle. Vegliasullaterraappena appare. Apri,apri. Entranellavivazolla:tuttoè nuovo[…] Iosonoilmetododelbruscolo edelcorpuscolo 16. Clouts fornisce la risposta piú radicale data finora al fardello assunto dal poeta sudafricano di cultura europea: quello di trovare in Africa una patria per una coscienza formatasi in un linguaggio – e mediante un linguaggio – la cui storia affonda in un altro continente. All’accusa rivolta al poeta di imporre la posizione da prendere per vederel’Africacosícom’è–in altre parole, di voler definire la prospettiva dalla quale l’Africa si sistema in un paesaggio capace di «star bene» nelle categorie fornite dal suo linguaggio – Clouts risponde non prendendo alcunaposizioneoprendendo tutte le posizioni possibili, e nega in tal modo il primato della prospettiva stessa (la posizione dell’osservatore) proponendo invece una dimora provvisoria nel paesaggio. Paesaggionazionale. La poesia paesaggistica in Sudafrica è stata scritta prevalentemente da persone di lingua madre inglese che consideravano la tradizione letteraria inglese, per quanto in modo ambivalente, quella incuisisentivanoacasa.Tra gli scrittori neri, compresi quelli di doppia cultura linguistica, africana e inglese, questaformaartisticachenon ha tradizione nelle lingue vernacolarièstatapraticatadi rado. L’esiguità della poesia paesaggistica in afrikaans potrebbe tuttavia risultare sorprendente. Infatti, la pretesa dell’afrikaner di un futuro nazionale in Africa nonsiesprimeforse(quando non nei termini brutali della pragmatica del potere) nei termini di un rapporto esclusivo con il paesaggio sudafricano, del quale si proclama nativo? E non sarebbe lecito aspettarsi che tale pretesa, con il supremo amore per la terra contestualmente asserito, trovi la sua espressione nel pieno sviluppo dell’arte della poesia paesaggistica? Eppure resta il fatto che la poesia paesaggistica descrittiva in afrikaansèassairara,eancora piú rare sono le riflessioni sulle problematiche del paesaggio. La spiegazione di questo statodicosenonèdifficileda individuare. L’arte paesaggistica è in buona sostanza un’arte del viaggiatore,perlafruizionedi viaggiatori vicari; è strettamente connessa allo sguardo imperialista – sguardo che, vedendo, nomina e domina – e alla vocazione imperiale. I presupposti di tale arte descrittiva del paesaggio non si sono mai verificati nella storia degli afrikaner. Non solo: quando l’afrikaans emerge come lingua letteraria, l’epoca d’oro della scritturapaesaggisticasiègià conclusa. Inoltre la poesia del paesaggio in lingua inglese scaturisce da una poetica ed estetica del paesaggio complessa e articolata filosoficamente, che ha le sue maggiori figure in Wordsworth e in Constable. L’afrikaans non ha una tradizione corrispondente e, laddove elabora una poetica alternativa (la poetica di Tachtig nei Paesi Bassi, per esempio) si preoccupa (come fa Tachtig) non delle problematiche legate alla rappresentazione ma della metafisica dell’empatia tra soggettoepaesaggio. Si potrebbe aggiungere un’altra spiegazione: l’insistenza che si incontra nella poesia in inglese sull’estraneità di un linguaggio europeo rispetto a un paesaggio africano ha un significatoperl’inglese(eper la posizione del poeta di lingua inglese) ma non per l’afrikaans, che – si potrebbe sostenere–ènativo(inheems) dell’Africa come qualsiasi altra lingua africana e pertanto consona «naturalmente» al panorama africano. Resta comunque il fatto che sono rarissime le poesie inafrikaanscome’nHandvol gruis di Leipoldt, in cui una manciata di sassolini in uno scenario dell’infanzia (in questo caso, la regione dell’Hantam) evoca un mondo di ricordi e suscita un’espansione sublime dell’essere. L’impulso a scrivere della natura che emerge nelle società meno rurali sembra trovare uno sbocco in afrikaans sotto forma di scritti sulla fattoria dell’infanzia. La fattoria, piuttosto che la natura, comunque venga definita a livello locale, è concepita come luogo sacro dove l’anima può espandersi in libertà. Cosí nella poesia Plaashek di Uys Krige troviamolafiguradell’errante chetornaallafattoriaincuiè nato e che, nell’atto di aprire il cancello, sperimenta lo stesso presagio, di un ritorno al suo vero io e alle sorgenti primitive della morale, descritto da Wordsworth quandotornaallesuevallieai suoi boschi. Il genere di libertà che la letteratura afrikaans associa alla fattoria si richiama, certamente, a ricordidiinfanziaspensierata ma anche, nel corso del tempo, e in particolare dagli anni Venti del ventesimo secolo in poi, a una perduta indipendenza economica ideale, all’idea della fattoria come «koninkrykie» (piccolo regno) dove l’uomo può essere padrone di se stesso (Totius, Trekkerswee) e per estensione a un sogno permanente di uno Stato autonomo, un «Libero Stato» in cui l’afrikaner finalmente sarà libero di gestire i propri affari come crede. Bisognerebbe quindi chiedersi almeno se l’esiguità della poesia paesaggistica in afrikaans non rifletta un’indifferenza verso la natura rispetto alla fattoria (che è natura parcellizzata e posseduta) o alla terra, intesa nel senso riccamente polisemico con cui ricorre nell’inno nazionale della Repubblica: Ons land SuidAfrika (Nostra terra di Sudafrica). D’altra parte, occorre tenereamentecheilconcetto stessodi«natura»,chesupera in qualche modo il vincolo della terra alle leggi di proprietà, appartiene a una classe sociale piú direttamente fondata, per la propria sopravvivenza, sull’agricoltura e dunque a una società economicamente piúdifferenziatadiquellache esisteva,aqualsiasilivello,tra gli afrikaner fino agli anni Venti.Sesicercanoleassenze nella poesia afrikaans, è l’assenza di un John Clare – poeta proveniente da quello chepotremmogenericamente definirecetorurale–aessere significativa piuttosto che quelladiunWordsworth. Non possiamo trascurare inoltre una modalità descrittiva naturalista, o quanto meno rurale, in afrikaans che non trova riscontro nella letteratura sudafricana di lingua inglese: un’elencazioneabile,rapidae fortemente metonimica dei particolari, il cui effetto serve a evocare lo stato d’animo (stemming)dellascena: Seraallafattoria:dalontano sull’aiagiungelavocediun kaffir[…] unnugolodipolvere,dai contornidorati,sialza soprailkraal, ilrichiamolontanodelle pernici;loschioccodiuna frusta lasciaechinell’ariadesolata 17. La quantità e qualità dei dettagli in questo genere di evocazione–comunetantoin prosa come in poesia – è indice di una comunione di esperienze tra autore e pubblico ben piú vasta di quelladicuipotevagoderelo scrittore di lingua inglese in Sudafrica. Si potrebbe addirittura sostenere che il bozzetto, la rapida annotazione di particolari rivelatori,comequisopra,sia – meglio di una lunga e dettagliata esposizione – la forma descrittiva piú appropriata per una società con un retroterra notevolmenteomogeneo 18. Abbiamo visto come il progetto di descrizione paesaggisticaininglesefinisca per essere dominato dalla preoccupazione di far parlare ilpaesaggio,didarglivoce,di interpretarlo. Non è questa l’ambizione con cui ci si accostava inizialmente al paesaggio dell’Africa meridionale: scrivendo verso la fine del neoclassicismo, Pringleancoraloconsiderava un possibile campo di contemplazione estetica. Ma verso la metà del ventesimo secolo l’incontro tra poeta e paesaggiodiventasemprepiú antagonistico, il poeta combattecontroilsilenziodi un paesaggio che «assorbe l’immaginazione | e non riflettenulla» 19 (Wright) o si sforzadiinterpretarneisegni criptici. Il deserto del plateau sudafricanodiventaladimora di una Sfinge, che tanto piú lascia sconcertati in quanto priva di forma materiale, ovunque presente ma mai visibile. La Sfinge non parla; eppure, indifferente, anzi piú cheindifferenteperchénonè nemmeno presente personalmente per poter essere indifferente, costringe ilpoetanelruolodicoluiche risponde all’indovinello; un indovinello che egli deve, faute de mieux, ovvero in mancanza di altri interlocutori,porreasestesso e per se stesso. La Sfinge che egli affronta in effetti non è diversa dal nulla; è un’assenza, per la quale lo spazio piatto, ventoso, «vuoto»sottouncielouguale e senza nuvole è una figura valida almeno quanto i giganti, le gigantesse e i mostri che l’occhio vigile riescetalvoltaascorgerenella terra. Certo, al silenzio della Sfingesipuòsempreopporre il silenzio. Ma questi poeti avvertono con la massima urgenza che quel silenzio, il silenzio dell’Africa, non deve poter prevalere: quando lo spazio si presenta, dev’essere riempito. In conclusione, nella poesia che celebra l’incontro con il silenzio e il vuoto dell’Africa è difficile non vedere una certa volontà storica di leggere come silenziosa e vuota una terra che è stata, se non del tutto piena,neppurevuotadifigure umane. Una terra arida e infeconda forse, ma non inospitaleperlavitaumanae di certo non disabitata. Da William Burchell a Laurens Van der Post, gli scrittori imperialisti hanno individuato il nativo piú autentico del Sudafrica nel boscimano, la cui fascinazione risiede proprio nelfattodiappartenereauna razza in via di estinzione. La storiografia ufficiale ha raccontato per molto tempo come fino al diciannovesimo secolo dell’era cristiana l’entroterra di quel che oggi chiamiamo Sudafrica fosse spopolato. La poesia dello spazio vuoto potrebbe essere accusata, un giorno, di aver voluto propagare la stessa favola. [1988]. Lefontidellepoesiecitatediseguito sono: G. Butler, Myths, Servant Girl, Cradock Mountains, Sweet Water, Farmer, Home Thoughts, Near Hout Bay(Butler,pp.29-31,33,36-39,40-45, 65-67, 75-76, 100-1); R. Campbell, Rounding the Cape (Campbell, p. 124); J. Celliers, Die Vlakte (Opperman, pp. 34-36); S. Clouts, After the Poem, Residuum, Within, Table Mountain (Clouts, pp. 75, 78-80, 128-130); A. S. Cripps,TotheVeld(Butler&Mann,p. 46); P. Cullinan, 1818. M. François le Vaillant Recalls (Butler & Mann, pp. 193-96); A. Delius, Flying Home (Delius,pp.7-8);H.I.E.Dhlomo,Long Have I Worshipped Thee (Dhlomo, pp. 354-55); H. H. Dugmore, A Reminiscenceof1820(Dugmore,pp.2426); C. Eglington, Old Prospector (Eglington, p. 30); K. Fairbridge, Africanders (Fairbridge, p. 17); U. Krige,Plaashek(Opperman,p.209);C. J. Langenhoven, Die Stem van SuidAfrika (Opperman, p. 95); C. L. Leipoldt,Die soutpan, ’n Handvol gruis (Leipoldt, pp. 31, 193); N. P. Van Wyk Louw, Dennebosse, Vier gebede by jaagetyeindieBoland(Louw,pp.3,8891); W. Plomer, A Transvaal Morning (Plomer, p. 30); T. Pringle, Evening Rambles, in Poems, pp. 20-26; F. C. Slater, The Herdboy’s Flute, In the Highlands, The Karroo (Slater, pp. 18, 111, 210-13); Totius, Trekkerswee (Opperman, p. 49); C. M. Van den Heever,Aand op die plaas, Hier op die skurwe randjierug, Herfs in Holland in Versamelde gedigte, pp. 24, 60, 89; D. Wright,FlyingtoAfrica,December1969 (Wright,pp.20-21). L’amantediLadyChatterleye lostigmadellapornografia Il processo Chatterley». a «Lady Nel1960laPenguinBooks decise di pubblicare il testo integralediL’amantediLady Chatterley, sostituendo l’edizione inglese espurgata con quella pubblicata privatamente a Firenze nel 1928. In risposta a ciò la Coronaannunciòcheavrebbe fatto causa. La vicenda fu condotta in maniera garbata come caso-prova della nuova legge inglese sulle pubblicazionioscene(1959). Anche se quella legge conserva i tratti-chiave della legislazione ottocentesca inglesesull’oscenitàlaverifica se la pubblicazione «tenda a corrompere o depravare le persone che potrebbero leggerla»introduceancheuna serie di criteri, non del tutto compatibili,trattidallacritica letteraria, e in particolare stabilisce che l’opera va giudicata nel suo insieme e che il valore letterario, del quale possono rispondere testimoni esperti, va preso in considerazione; dispone inoltre che non ci debba essere condanna nel caso in cui «la pubblicazione possa essere giustificata per il bene pubblico, sulla base del suo interesse scientifico, letterario, artistico o conoscitivo, o di qualunque altro elemento di interesse pubblico» 1. DelladifesadiL’amantedi Lady Chatterley fu incaricato un gruppo di avvocati, con alle spalle le risorse della Penguin Books, in grado di convocare una serie di testimoni eminenti a propositodeimeritidellibro. L’accusa viceversa o non riuscí a trovare testimoni illustri che ne sostenessero le posizioni o ritenne controproducente chiamare queitestimoni. I testimoni esperti della difesa includevano un vescovo anglicano che sostenne che Lawrence in L’amante di Lady Chatterley cercava di rappresentare il rapporto sessuale fra uomo e donna come «qualcosa di essenzialmente sacro», e uno studioso di teologia che suggeríchelaletturadellibro avrebbe aiutato i giovani a «maturare e a sviluppare un sensodiresponsabilità» 2. [Il guardacaccia] le accarezzò il sedere con la mano[...].«Haiunsederecosí bello», disse nel suo dialetto carezzevoleegutturale.«Haiil piú bel culo che ci sia al mondo.Eilpiúbelculo,ilpiú belculodidonnachecisia!...». [...]Econlapuntadelleditale toccò le due entrate segrete che portavano dentro il suo corpo, una volta dopo l’altra, con una piccola carezza dolce einfuocata.«Esepisciocachi sono contento. Non voglio unadonnachenonpiscienon cachi» 3. Nelsuocommentoallibro Lawrencescrive: Le parole che all’inizio suonano scioccanti, dopo un poco non scioccano affatto [...].Oggisiamo[...]moltopiú evoluti e piú colti dei tabú ancora radicati nella nostra cultura [...]. La potenza evocativa delle cosiddette parole oscene dev’essere stata molto pericolosa per le nature ottuse, violente e cupe del Medioevo,eforsesonotuttora troppofortiperlenaturelente e un po’ spente dei nostri giorni [...]. [Ma] cultura e civiltà ci hanno insegnato [che] al pensiero non fa necessariamente seguito l’atto 4. Nel suo insolitamente illuminato e progressista rifiuto del tabú, Lawrence invoca il sostegno dell’antropologia del suo tempo, quella di J. G. Frazer. In particolare Lawrence utilizza il concetto di sopravvivenze, che Frazer eredita da Henry Burnett Tylor. Le sopravvivenze sono «usanze […] che sono state conservate per forza d’abitudine nella nuova società[…]e[…]rimangono cosí prove ed esempi di una precedente condizione della cultura da cui se ne è sviluppata una nuova» 5. I tabú sulle parole che fanno riferimento alle funzioni sessuali o scatologiche sono dunquesopravvivenzediuno stadio meno evoluto della culturaeuropea. Che male c’è in tali sopravvivenze? Perché mai dovremmo distruggere i vecchi tabú? La risposta data da Lawrence e dai suoi abili difensori è che mantenere i tabú sulle parole vuol dire mantenere un’aura di vergogna intorno al loro referente,cosachefinisceper essere di detrimento alla società. «A cinquanta metri da questo tribunale» dichiarò ilcriticoRichardHoggart, ho sentito un uomo dire «fottiti» tre volte mentre mi passava vicino. Camminava parlando fra sé e ha detto «fottiti, fottiti, fottiti» […] [Usava] quella parola come espressione di disprezzo, e secondo Lawrence era molto preoccupante che una parola legata a un rapporto intimo cosí importante fosse diventata oggetto di volgare insulto [...] [Lawrence] voleva restituire [alla parola] il suo significato, il suo uso proprio» 6. Quali che fossero le simpatie precedenti di ciascuno, difficile leggere gli atti del processo senza provare simpatia per il pubblico ministero. Perché, man mano che il processo procede, è sempre piú chiaro che l’accusa lavora con le mani legate. È difficile che i testimoni si prestino a dichiarare di essere stati corrotti o depravati da un libro quando una testimonianza di quel genere suscita piú lo scherno che la simpatia 7. Solo nei fori piú soffocanti e venerandi troviamoancoraillinguaggio della condanna morale esplicita – e dietro di esso i toni del paternalismo e dell’ostilità di classe. A seguito dell’assoluzione di L’amante di Lady Chatterley, la Camera dei Lord discusse una mozione che proponeva ilbandoperpetuodegliscritti di D. H. Lawrence. «Sono profondamente contrario, – disse Lord Teviot, che aveva presentato la mozione, – a dare licenza incontrollata a chicchessiainquestopaese,e ho molta paura che il nostro mondo divenga a dir poco indecente e depravato». Quanto a L’amante di Lady Chatterley, si trattava di un «affrontodisgustosoevolgare al comune senso del pudore» 8. Alla fine Lord Teviot fu placato dai suoi colleghi e ritirò la sua mozione. Ma la Camera riconobbe che L’amante di Lady Chatterley era stato un episodio deplorevole dal principio alla fine. Lord Gage concluse che la diffusione di un libro «di pessimo gusto» come quello non sarebbe stata certamente «moltoedificante».Quantoai religiosi che si erano prestati alla difesa, la loro testimonianza gli appariva «soloterribilmenteridicola». Il giudizio di Lord Gage era rappresentativo delle posizioni conservatrici, secondo le quali L’amante di Lady Chatterley costituisce una volgare offesa al decoro. Il problema per i Lord era però che le regole del decoro dipendono dal consenso sociale. Nell’Inghilterra vittoriana, alla quale guardavano, i termini di quel consenso erano stati dettati dallaloroclasse.Manel1960 quella classe aveva perso il suopoterenormativoeperdi piú non aveva alcun mezzo perappellarsicontroilrifiuto dei suoi criteri. Perché non esiste una logica, né una dimostrazione che il decoro possaaddurreasuadifesaper giustificarsi. È caratteristico del decoro l’essere sottinteso. Il decoro delimita un territorio sul quale deve regnare il silenzio e conserva il silenzio sul modo in cui i confini di quel territorio vengono segnati. Lo si può dunque indicare ma non codificare.Unavoltamessoin discussionesfugge. Da ciò la preoccupazione sorta alla Camera quando i Lord hanno cominciato a rendersi conto delle implicazioni della legge del 1959.Istituendouncriteriodi primaria importanza relativo al bene pubblico, e richiedendo conferma di tale criterio a testimoni esperti – perlopiústudiosiesternialla vecchia area di consenso – la leggechiedevacheildecorosi difendesse da solo. Se i Lord scuotevano la testa per il ruolo avuto dalla Chiesa nell’assoluzione di L’amante diLadyChatterley,eraperché la Chiesa avrebbe dovuto capiredasolachecisonocose di cui non si discute, come i comandamenti o i tabú. Perché neanche il tabú può difendersi se viene messo in discussione. LadifesadiLawrence. La storia raccontata da Lawrence è quella della moglie di un membro dell’aristocraziainglesecheha una relazione con uno dei servitori, rimane incinta e decide di fuggire con il suo amante.IlrapportodiConnie Chatterleyconilguardacaccia trasgredisce almeno tre regole: è adulterino; viola i confini di casta ed è a volte «contro natura», ovvero anale. La seconda e la terza trasgressione meritano un commento. Anche se per lo piú diciamo che Sir Clifford Chatterley e sua moglie appartengono alla classe alta, essi appartengono piú precisamenteaunacastaalta, sonomembridiunacastaalta paneuropea giunta al tramonto, caratterizzata fra l’altro dall’endogamia e da regole asimmetriche relative airapportisessuali:gliuomini potevano liberamente violare i confini di casta nei loro contatti sessuali, mentre era proibito alle donne o, secondoillinguaggiodicasta, «non si faceva». La spiegazione di tale divieto implicava il concetto di contaminazione: le donne trasmettono il sangue della casta e il ceppo sanguigno viene contaminato quando vieneinvasodalsangue(odal seme,chenellinguaggiodella contaminazione è la stessa cosa) di un uomo di casta inferiore. Tale divieto viene esplicitamente indicato da Lord Chatterley quando dice alla moglie che è pronto a dareilsuonomealfiglioche farà,fintantocheleieserciterà il suo «naturale istinto di decenza e di scelta», non permettendo«altipodiuomo sbagliatoditoccarla»(ALC,p. 55). La terza trasgressione viene commessa dal guardacaccia Mellors quando non solo si unisce alla padrona, ma la sodomizza. Per di piú la sua ex moglie raccontaingirocheMellorsè un sodomizzatore. In tutto il circondariodunquesivienea sapere che Connie Chatterley hasubitosulsuocorpoquello che veniva definito «un crimine contro natura» – un crimine la cui natura trasgressiva veniva sottolineatadalcodicepenale inglese degli anni Venti, che lopunivaseveramente,anche framoglieemarito. Ma oltre a queste trasgressioni ce n’è un’altra: Mellors, secondo l’espressione dei tempi, contaminalamentediConnie insegnandole l’uso di parole proibite. Nella mitologia vittoriana della contaminazione, il turpiloquio è espressione di una mente contaminata. L’unica categoria di donne dallacuiboccacisiaspettadi sentire il turpiloquio è quella delle cosiddette donne perdute, donne in una condizione di corruzione senza riscatto. La trasgressione di Mellors consiste nell’insegnare il turpiloquio a una donna. Il turpiloquio è innocuo fra gli uomini–quandoMellorseil padrediConnies’incontrano, quest’ultimo si riferisce allegramente alla figlia con parolepesanti(ALC,p.352)– ma mina l’innocenza delle donne e dei bambini 9 (una lingua maschile proibita alle donneeunalinguafemminile proibita agli uomini sono fenomeni ampiamente attestati nella letteratura dei tabú, per non parlare poi di una lingua degli adulti proibitaaibambini). Dopo L’amante di Lady Chatterley Lawrence scrisse una serie di testi nei quali si difendevadall’accusadiessere un pornografo: il saggio Pornografia e oscenità (1929) in Introduzione a questi dipinti del 1929, l’introduzione all’edizione privata di Pansies (1929) e il pamphlet À Propos of Lady Chatterley’sLover(1930) 10.Si tratta di scritti nei quali analizza l’origine dell’immaginazione pornografica, origine che a suo giudizio si trova in un’esperienza scatologica del sesso.Cosavuoldirequesto? Lawrence lo spiega cosí. Negli esseri umani «sani», si verificano due tipi di flusso: unflussoescrementizioverso il basso, in cui la forma si dissolve e la materia vivente diventa feci e un flusso sessuale verso l’alto che è al tempo stesso procreativo e creatore della forma. Negli esseri umani «degradati» invece l’istinto a mantenere separate quelle due polarità è venuto meno e il flusso corporeo rivolto solo verso il basso e verso la distruzione, destinato a finire in escrementi. Il gioco sessuale diventa un gioco sporco; il corpo della donna diventa la lorduraconcuil’uomogioca; il sesso, per l’uomo, diventa un atto di profanazione. «Gli individui volgari di questo tipo hanno un atteggiamento disgustoso nei confronti del sesso,undisgustosodisprezzo del sesso, un disgustoso desideriodidegradarlo.Sono individui che, se si uniscono sessualmente a una donna, si sentono fieri di averla sporcata»(SLC,pp.38-39). Questa è la visione di Lawrence dello stato di degrado e corruzione. Ma come e quando è avvenuta la caduta? Con notevole approssimazione Lawrence la situa ai tempi di Elisabetta I. Lo shock prodotto dall’epidemia di sifilide in Inghilterra, soprattutto nell’aristocrazia, ebbe – secondo lui – come risultato una «frattura nella coscienza umana».«Lasifilides’insinuò nel sangue della nazione [...]. E dopo essere entrata nel sangue essa entrò nella coscienza». Ma perché mai propriolasifilideadifferenza di altre malattie dovrebbe aver lasciato quell’eredità? Perché nulla ispira un orrore maggiore dell’idea che l’atto sessuale possa rappresentare uno stigma per il nascituro (SLC,pp.54,55,57). Nell’immaginazione speculativa di Lawrence, allora, da un certo momento storico in poi nasce la paura che il seme maschile possa essere tarato. Il seme può essere marcio, può essere sporco: l’eiaculazione diventa partedelflussoescrementizio. Da questo alla successiva metafora di Lawrence del sesso degradato il passo è breve. Il desiderio sessuale non è piú desiderabile in quanto tale, anzi viene percepito come una ferita infetta nel corpo. La ferita prude, si tocca e non si rimargina, produce sporcizia e aggiunge la sua parte al flusso escrementizio, verso il basso.Toccarsièunodeitanti modi di chiamare la masturbazione, «forse il piú profondo e piú pericoloso cancro della nostra cultura». Il desiderio ripiegato su se stesso,chiusoinsé,siesprime in una forma di puro soggettivismo–quiLawrence sembra pensare a Proust e a Joyce, anche se non li cita (SLC,pp.40-42). Qual è il rimedio? «Il modo di curare il male è metterlo allo scoperto». Dobbiamo adottare «un atteggiamento naturale e aperto nei confronti del sesso» (SLC, p. 40). E piú specificamente dobbiamo recuperarelaParolacaduta,la Parola divenuta «impura». «Oggi se suggerisci che la parola culo esisteva fin dal principioecheeraDioecon Dio, finirai [...] in prigione [...] nella parola culo c’è Dio quanto nella parola faccia». Lamalvagitàènellamente.La mente,cheodiailcorpoeche ha trasformato le vecchie parole che lo esprimono in capriespiatorielehacacciate dalla coscienza. Ora tornano senza sosta a insidiare i margini della coscienza come sciacalli o iene. Bisogna accettarledinuovo,togliereil tabú,senonvogliamorestare al livello dei selvaggi. «Il canguro è un animale innocuo, la parola merda è una parola innocua. Fate un tabúdiunadiesseediventerà pericolosa.L’effettodeltabúè la pazzia». Come esempio Lawrence porta Jonathan Swift, la cui mente era «avvelenata», come da una sorta di «terribile costipazione», dal pensiero che«Celiacaca»(SLC,pp.2830). Macerchiamodiguardare piú da vicino il discorso di Lawrence su Swift e la sua menteavvelenata. CisonoduepoesiediSwift in cui ricorre la frase «Celia caca». Parlano di alcuni giovaniuominichegiocanoal gioco idealizzato dell’amore bucolico, ma scoprono che questo non comprende la realtàdellaloroamataatutto tondo, con le funzioni corporali e tutto il resto. Le due poesie fanno parte di un gruppo di quattro, tutte scritte nel 1732, dieci anni prima che Swift venisse dichiarato pazzo e messo in manicomio,poesiechehanno ottenuto una qualche notorietà sotto il nome di poesie «escrementizie» o «scatologiche» 11. Nella prima poesia in cui «Celia caca», l’innamorato s’insinuanellastanzadiCelia e scopre con disappunto la biancheriasporcadelladonna e il trucco che si nasconde dietro la sua eterea facciata pubblica. Procedendo nell’esplorazione del suo mondo privato, va a finire nella seggetta e si sporca le mani col vaso da notte. Quell’esperienzalosconvolge: nella sua immaginazione alterata da quel momento in poi la vista di una donna richiama la puzza degli escrementi. Nella seconda poesia – un pezzo minore – l’innamorato (uno studente che vive a sua volta in un grande squallore) scoprechenonc’èspazioper «il piú nero degli atti femminili» nella sua Arcadia, ecomel’altrocadeneldelirio. Secondo l’interpretazione letterale si direbbe che le due poesie mettano in guardia contro l’idealizzazione del corpo, contro la tendenza a chiudereocchienasodavanti al flusso verso il basso che è prova della sua natura animale. Ciò che viene repressonellacoscienzatorna inevitabilmente a ossessionarci;losporcodicui si nega l’esistenza ritorna sotto forma di pensieri sporchi, di pornolalia. Le poesie si presentano come il lavoro di un critico e di un moralista che prende apertamente le distanze dall’idealistaedallesuefragili difesecontrolarealtà 12. MaLawrencericordamale e cita erroneamente le poesie di Swift, ignorandone la distanza moraleggiante, tanto che ci si chiede se le conoscesse direttamente o non ne avesse piuttosto solo sentito parlare dall’amico Aldous Huxley 13. Ma voglio concedere a Lawrence il beneficio del dubbio e fare l’ipotesi migliore, ovvero che abbiadatodiSwiftunalettura geniale, riconoscendo nel moralismo solo uno schermo – uno schermo adottato da Swift per rappresentare una sua personale crisi scatologica, e sottrarsi a una confessionenudaecruda. Secondo la sua lettura la vera storia è raccontata dalla narrazione diretta. Una mano, infilata in un buco nero, viene fuori maleodorante di escrementi. Dalla mano, attraverso il naso, la macchia escrementizia invade e avvelena la mente, per vendicare la penetrazione del sanctumdelladonna. Mavendetta,maiassopitadea, puníprestolacuriositàdi Strefone; lasuasconciaimmaginazione collega ognidonnachevedeatuttii suoipuzzi(vv.119-22). Lawrenceritornasuqueste poesie diverse volte alla fine degli anni Venti, sempre con l’intento di utilizzare Swift come un terribile esempio di quello che può succedere quando un tabú viene preso sulserio 14.Laparolamerdaè innocua di per sé, ma fatene untabúeprodurràfollia. Secondo Lawrence Swift viene a contatto con gli escrementi della sua amante, è invaso dal contagio, e impazzisce. E dunque? Dunque – dice Lawrence – dobbiamo distruggere il tabú relativo agli escrementi, non in modo ingenuo come farebbero gli abitanti di Laputo, portando allo scoperto la sostanza stessa, ma simbolicamente, a un altro livello, pronunciando la parola merda, e purificando cosí la mente dalla connotazione della parola, dall’idea di contagio a essa collegata. Che si interpreti comeingenuaocomegeniale, la sua lettura delle poesie di Celia non può che essere frutto di una mente contaminata da qualcosa che è nella poesia. Ciò che tocca Lawrence, ciò che domina nella sua lettura di Swift, è l’idea della macchia scatologica. Nei saggi successivi alla pubblicazione di Lady Chatterley egli comincia denunciando Swift e condannando il tabú degli escrementi e finisce col denunciare e condannare l’idea stessa di contaminazione. La morale che vede sottesa al racconto della seggetta – che merda dovrebbe essere una parola come tutte le altre – è incongruente. La morale che gli interessa dimostrare in realtà è che solo una mente già impura può essere contagiata. E, al contrario, che dovrebbe essere possibile per una mente pura intraprendere una qualunque esplorazione di qualunque funzione del corpo, per quanto tabuizzata, senza subire una qualche forma di autopunizione. Ma Lawrence non si chiede se la lettura stessachedàdiSwiftnonsia possibile proprio in virtú di uno speciale fiuto per la contaminazione, fiuto possibile solo in chi vi ha già avuto a che fare. Un lettore privo di fiuto da che parte incomincerebbe a leggere la poesia? Come farebbe a sapere, per esempio, che la parolachiavediquellapoesia è«infetta»,alverso112?Non esiste forse un rapporto diretto fra lettura, curiosità e fiutoperciòcheèsporco?In una società senza divieti, senza Legge – se pure una società del genere fosse immaginabile – chi mai vorrebbeleggereoscrivere? (Ricordiamo che nella biologia evolutiva la regione della corteccia, che nei mammiferi inferiori è deputata al discernimento olfattivo, nell’homo sapiens assume la funzione del discernimento astratto. L’attività che negli animali è chiamata fiuto negli esseri umani è detta pensiero analitico). A un certo punto sotto il regno di Elisabetta I, dice Lawrence, l’orrore della sifilide – della contaminazione sessuale – passò dal sangue agli strati piú profondi della coscienza degli inglesi. Dopo questa frattura prodottasi nella coscienza la «vera, naturale innocenzadiChaucer»nonfu piú possibile. Mentre Shakespeare è «malato di paura», «niente poteva essere piú bello e impavido di Chaucer» (SLC, pp. 54, 57, 53). La storia del ricco aristocraticoimpotenteconla giovane moglie sensuale che fuggedalmanierodifamiglia per brevi e intensi incontri sessuali col guardacaccia, si direbbe materiale fatto apposta per Geoffrey Chaucer. Ma da Chaucer, è facile immaginarlo, la storia verrebbe trattata comicamente, con (dopo le scuse rituali) sprazzi di cherlish speche: la queynte della signora e la sely thinge del guardacaccia e il piacere del loro swyving nominati senza circonlocuzioni (piú difficile dire se anche in Chaucerilcuoredellasignora «siscioglierebbeinunaspecie diterrore»difronteal«grave, lento e turgido drizzarsi del fallo» del guardacaccia, ALC, p.219). Lawrence parla di un’«innocenza naturale» di Chaucer. E a ragione, nel senso che Chaucer ha a disposizioneunalinguaperil sesso, comica senza essere leziosa, concreta ma non brutaleooffensiva,unalingua che non esisteva piú ai tempi di Lawrence e che non esisteva piú da un pezzo nell’inglese letterario. Nella mitologia letteraria di LawrencecomunqueChaucer occupa un ruolo piú importante di questo ideale nostalgico. Rappresenta un tempo edenico, in cui la sessualità e le funzioni escrementizieavevanoancora i loro significati opposti, quando il tabú degli escrementi non aveva ancora sfiorato le menti con il suo contagio. Tornare a Chaucer, ritornare all’innocenza, allora può prestarsi a due interpretazioni diverse fra le quali Lawrence non sempre haoperatounadistinzione. Nella prima interpretazione, tornare all’innocenzadiChaucervuol dire tornare a un tempo precedente ai tabú sulla rappresentazione del sesso. Vuol dire la libertà di dire pane al pane. Vuol dire tornare a chiamare le cose con il loro nome, soprattutto tornareaquelleparoleoscene «semplicienaturali»chesono state cacciate e che ora assediano i confini dell’immaginazione. Questo tipo di interpretazione non è sostenibile in senso stretto. Ignora il complesso gioco di stileaulicoestilevolgare,dei registriaristocraticiediquelli popolari, presente in Chaucer, attribuendogli un linguaggioprivodilivelliedi registri 15. Oliver Mellors può dire pane al pane, ma sicuramente Geoffrey Chaucer non lo fa. Al contrario,viaccennaconuna grande varietà di metafore e di metonimie. E se può sembrarecheloslittamentoe lo scivolamento delle metafore e delle metonimie relative alle parti del corpo, alle funzioni corporali e ai rapportifraicorpisiaandato aumentando dai tempi di Chaucer a oggi, la cosa è in largapartespiegabilecolfatto che gli archivi della lingua vanno ingrossandosi man mano che ci avviciniamo al presente. La seconda e piú interessante interpretazione della figura di Chaucer in Lawrence è che Chaucer sia sinonimo di un’età in cui il tabú specificamente scatologico non aveva ancora toccatoilsesso;cioèdiun’età precedente a quella in cui, ai tabú tradizionali sul nominaregliorganisessualie gli atti sessuali puliti e per contagio compierli, si sovrapponessero,lordandoli,i tabúscatologici 16.Ilritornoa Chaucer allora richiederebbe l’annullamento del tabú relativo agli escrementi. Anche se è difficile far coincidere tale interpretazione con tutti gli scrittidiLawrencefrail1928 e il 1930 (per esempio con la sua denuncia di tutti i tabú come sopravvivenze dello stadio selvaggio), questa rimane la spiegazione migliore di quello che Lawrencevuolefareconilsuo romanzo. In questa prospettiva l’episodio del rapporto anale assume un’importanza centrale nell’economiadellastoria. Durante il processo del 1960 quella scena fu occasione di una sorta di commedia degli equivoci, dato che, senza voler chiamare le cose con il loro nome, il pubblico ministero cercava di convincere una giuria ignara che, dietro lo schermo della prosa ipermetaforicadiLawrence,si verificava qualcosa di molto sporco 17. L’episodio costituisce un ritodiiniziazioneperConnie. Quando l’ultima «vergogna organica» viene cancellata, la donna muore di «una morte cocente e meravigliosa» e poi riemerge rinata, «una donna diversa».L’annientamentodel pudore è raggiunto dal fallo, che«cacciavia[lavergogna]» nel«cuorestessodellagiungla fisica». Con sorpresa Connie scopre di aver sempre profondamente desiderato proprio la «sensualità penetrante,divoranteeanche un po’ spaventosa» di quell’atto(ALC,pp.307-8). Naturalmente si può leggere l’episodio in modo coerente con il resoconto (forse la razionalizzazione) che Lawrence ne dà nel suo saggio della fine degli anni Venti. Il tabú escrementizio viene ricacciato nella sua tana.Ildio-falloscomparenel labirinto del mondo sotterraneo, caccia il mostro, lo ammazza ed emerge trionfante. Restaperòunproblemain cui il romanzo e il resoconto di Lawrence non coincidono: qualèilfatodelmostro?Nel suo saggio, l’autore sostiene che, una volta spezzata la forza del tabú degli escrementi, possiamo cominciareariavvicinarciallo stadio di innocenza linguistica, e tutto sommato anche sessuale, che caratterizzava Chaucer. Nel romanzo il discorso sembra essereche,avendosuperatoil suo rito di passaggio, Connie èentrataafarpartedell’eletta schiera delle purificate, delle rinate. Cosa fanno le purificate la notte in cui hanno passato la prova dell’iniziazione? L’acuta sensualità della sodomia è ormai bruciata per loro, una volta che hanno distrutto il tabú, caratterizzato dalla vergogna? Si limitano a ritornare al rito del rapporto genitale, un rito finalmente purificato dallo stigma scatologico? Oppure il rito della caccia e dell’uccisione del mostro da parte del dio- fallo può ripetersi all’infinito unanotte-dopol’altra? Questa domanda si può tradurre in un’altra, relativa alla persistenza del tabú: il tabú viene davvero eliminato una volta che è stato trasgredito? 18. Un’altra variante di questa stessa domanda può essere posta a proposito dell’azione che Lawrence sostiene di compiere quando dà alle stampe L’amante di Lady Chatterley, ovvero la purificazione della lingua della tribú. Una volta che le rappresentazioni colpite da tabú vengono messe allo scoperto,checosasuccede?Il tabú muore, oppure la sua uccisione deve essere sempre nuovamente officiata, come un rito? Assolvere L’amante di Lady Chatterley significa metterefineailibrisporchio dareinizioatuttaunaseriedi librisporchi? Nel saggio Lawrence risponde chiaramente: significa la fine dei tabú, la fine della pornolalia, la fine dei libri sporchi. Ma il romanzo che cosa dice in proposito? Secondo la mia lettura L’amantediLadyChatterleyè il racconto di una trasgressione dei limiti – limiti sessuali e limiti sociosessuali. Le sue tensioni interne e la sua forza drammatica dunque dipendono dalla continua vitalità dei tabú. Il tabú è condizione necessaria della sua esistenza. L’economia sessuale degli amanti, l’economia drammatica del racconto,perfinoiguadagnio le perdite derivanti dalla vendita del libro dipendono dalla vitalità dei tabú. Il libro viene aperto, dopo infiniti rinvii, gli amanti vengono denudati, i loro corpi vengono esplorati, alla fine viene detta la loro verità; il libro si può richiudere su di loro. Ma quello stesso libro aspetta di essere riaperto, riesplorato. Ogni volta che viene riaperto gli amanti ritornano davanti a noi, pronti per denudarsi ed esplorarsi, come previsto. Quali che fossero i tabú svaniti con il primo attraversamento del testo, eccoli di nuovo, rianimati. Perfino i divieti che nel frattempohannopersolaloro autorità possono riassumere nelle pagine di certi vecchi librilalorocupaforza.Ilacci del corsetto di Emma Bovary sibilano come serpenti mentre lei si spoglia; se quel momento mantiene la sua forza scandalosa, vuol dire che qualcosa è stato evocato, qualcosaèstatotrasgredito. Questa lettura fa di L’amante di Lady Chatterley un’opera pornografica? È la lettura di un’immaginazione impura? «La pornografia, – dice Lawrence, – è il tentativo di insultare il sesso, di infangarlo» (SLC, p. 37). «Infangare» è un eufemismo per dire cacarci sopra. Pornografo era una definizione dalla quale Lawrencecercòintuttiimodi di liberarsi. Inventò perfino una creatura, di nome Jonathan Swift: «un uomo terribilmente degradato», lo marchiò con l’accusa di sporcareilsessoelorinchiuse inmanicomio,dadove,come uno sciacallo o una iena, continuavaadassediarelasua immaginazione.HenryMiller non dubitava che, nel negare la forza trasgressiva di L’amantediLadyChatterleye nel rivendicare al libro uno scopo morale edificante, Lawrence avesse tradito i mysteriadellibrostesso 19.In effetti aveva permesso allo Swift che era in lui di infangare quel che aveva scrittodopoaverloscritto. Il processo e l’assoluzione del romanzo vengono spesso citati come un evento emblematico: una pubblica liberazione di una forza sessuale inceppata che prelude al successivo luminosodecenniodeglianni Sessanta. È legittimo d’altra parte chiedersi quale fosse esattamente la forza che era stata inceppata e che veniva liberata.Laforzadelromanzo scritto da Lawrence, un romanzo profondamente invischiato e forse perfino imprigionato nella rete del tabú; oppure la forza della lettura retrospettiva che Lawrence aveva dato del suo romanzo?Unaletturache,in virtú della sua recisa razionalizzazioneenegazione del tabú, ha permesso agli avvocatieaitestimoniesperti del processo di costruire una difesa che si sarebbe rivelata inoppugnabile? [1988-92]. ZbigniewHerbertelafigura delcensore DuranteilCongressodegli scrittori sovietici del 1934 Isaac Babel, sottoposto a pressioni perché abbracciasse le ragioni del realismo socialista, annunciò che avrebbepreferitopraticare«il genere del silenzio» 1. Come forma di resistenza alle prescrizioni ideologiche, il genere del silenzio fu caparbiamenteadottatodaun piccolo numero di scrittori russi di punta. Generalmente interpretatocomeilrifiutodi adattare la loro arte alle richieste dello Stato, quel silenzio ebbe un duraturo impatto morale e anche politico. Fino alla morte di Stalin nel 1953, e anche in seguito per alcuni anni, gli scrittori dell’Unione Sovietica e dei suoi Stati satellite furono vittima di quello che StanisławBarańczakdefinisce un «complesso sistema di terrori, provocazioni, menzogne e giustificazioni fallaci» 2. Dopo il 1956 la componentediveroeproprio terrorediquellamiscelaandò diminuendo. In merito alla variante ungherese della nuova e piú manipolativa forma di censura sviluppatasi alloraMiklósHarasztiscrisse: La censura tradizionale presuppone l’opposizione intrinsecadiscrittoriecensori; la nuova censura cerca di eliminare quell’antagonismo. L’artista e il censore – due facce della cultura ufficiale – coltivano diligentemente e serenamente i giardini dell’arte. L’allentarsi del pugno di ferro non comportò dunque un alleggerimento del controllo. Anzi suggerisce Haraszti, interiorizzando la figuradelcensore,loscrittore stesso veniva assimilato dal sistema. Cooperando col censorechelocontrollavaegli diveniva in un certo senso il prototipo del «nuovo individuo» che il comunismo cercavadicreare 3. Anche in Polonia la censura ebbe le sue fasi di gelo e disgelo, alcune delle quali guidate dall’Unione Sovieticaaltreinrispostaagli sviluppiinternialpaese.Negli anni Settanta il controllo fu particolarmente intenso arrivando a circa diecimila interventi censori l’anno. La misuradelcontrollocuierano sottoposti non solo la vita culturale ma il flusso quotidianodelleinformazioni venne alla luce nel 1977 quando uno degli impiegati dell’apparato fece uscire clandestinamente dal paese un fascicolo di direttive ministeriali. Da quei documenti, in seguito divenuti noti come il Libro Nero, emergeva come alcune figure culturali invise al regime venissero trattate secondo un preciso protocollo. Nei casi piú estremi, come quello del filosofo Leszek Kołakowski, non era permesso nemmeno citare il nome del colpevole, né pubblicare commenti favorevolisulsuolavoro.Alla secondacategoria(dellaquale facevano parte Czesław Miłosz e Aleksander Wat) non si poteva accennare a meno di non aver ricevuto il permesso esplicito del ministero; nei mezzi di comunicazione popolari (radio, televisione, stampa) il bando era totale. Per la terza categoria, il bando, meno severo, era limitato alle pubblicazioni accademiche. Nel 1976 fu messo nella lista nera Zbigniew Herbert, insieme ad altri trentasei intellettuali che avevano protestato per gli emendamenti alla costituzione.Ilsuonomenon poteva essere pronunciato senza l’approvazione dell’ufficioresponsabile. L’esistenza stessa di un apparato preposto alla censura andava trattata come informazione riservata. Le istruzioni nel Libro Nero erano rivolte solo al censore «da non rivelare ad alcuno come motivo della censura 4. Ma quando si diffuse il contenuto del Libro Nero, la censura divenne un discorso politico scottante. L’alleggerimento della censura fu tra le prime richieste degli scioperanti di Danzicanel1980 5. Finchéilsistemarimasein piedi,lacensurafecepartedel contesto professionale ma anchepsichicodelloscrittore. E i suoi meccanismi erano complicati dal rapporto degli scrittori con altri colleghi intellettuali che per motivi loro–piúomenodeprecabili – avrebbero potuto avere rapporti con l’apparato. Gestire il rapporto con i censori – interni ed esterni – era divenuta non solo una preoccupazione ma un tema persistente seppure velato della scrittura polacca. Scrive Barańczak: Davanti al censore l’autore fingeva di aver davvero inteso scrivere sui Borgia; al tempo stesso strizzava l’occhio al lettore, insinuando di aver scritto un romanzo sullo stalinismo. Il lettore a sua volta ricambiava l’occhiolino, mostrando di aver colto l’allusione, e il censore faceva lo stesso fingendo di non esserseneaccorto. Alla fine, però, conclude Barańczak quella rete di inganno e autoinganno produceva una letteratura «sterile» 6. Il romanziere Tadeusz Konwicki conferma quel giudizio. La censura in effetti può «stimolare lo scrittore a creare modi di scavalcare il censore [costringendo] lo scrittore a utilizzare metafore che portano la scrittura a un livellosuperiore» 7.Eperòcol tempo anche le sottigliezze nate dal rapporto col censore divengono a loro volta delle convenzioni. «Il linguaggio segreto diventa pubblico e il censore finisce col bandire anche quello. Allora vengono escogitate forme nuove ancora piú sottili. E cosí via all’infinito, la letteratura diviene sempre piú oscura fino a perdere ogni traccia di vita» 8. Il gioco di collusione, connivenza, e reciproco inganno tra autori e intellettuali non si limitava all’ambito testuale, ma si riproduceva nella vita culturale in generale, dove sviluppò una sua propria dinamica,portandoarisultati inattesi. «Lo stesso sistema nato per propagare l’arte socialista, – dice Jeffrey Goldfarb, – [promosse] un’inattesa critica della vita culturale. La lotta con curatori, censori e funzionari severi [portò] all’estraniamento degli artisti percuii“dissidenticulturali” [venivano] riprodotti dal sistemastesso» 9. Zbigniew Herbert aveva ventiquattro anni quando i comunistiandaronoalpotere in Polonia. Ben presto, quando fu evidente che il Partitovolevachegliscrittori fossero, con le parole di Stalin, «ingegneri degli animi umani» Herbert si dimise dal Sindacato degli Scrittori e si ritirònelsilenzio. In merito alla repressione stalinista o, secondo la locuzione revisionista, al «periodo di errori e distorsioni», Herbert aveva osservato: «Credevo che sarebbe andato avanti fino alla fine dei miei giorni. Ne ero assolutamente certo [...] bisognava scegliere l’emigrazione interna [...] Quando ero ancora un membro del Sindacato degli Scrittori mi dissi che non avrei mai scritto niente secondo le direttive del partito.Moltosemplicemente non l’avrei fatto». Per quel rifiuto non rivendicava motivazioni eroiche. «Chiamereste ascetico uno che non prova attrazione per le donne? È una virtú o una invalidità?» 10. Il primo libro di poesie di Herbertapparvenel1956.Col diffondersi della sua fama, il poeta poté viaggiare fuori della Polonia. Tra il 1965 e il 1971epoidinuovodurantei difficili anni dal 1976 al 1980 visseall’estero.Giàneglianni Settanta la sua fama internazionale era troppo solida e diffusa perché la messa al bando in patria potesse danneggiarlo. La sua relazione con i censori fu perciò in un certo senso atipica: nondimeno scrivere sottounregimedicensurain unalinguaparlatainunpaese solo produce un fato qualitativamentediversodallo scrivere per un mercato aperto in una lingua di diffusione mondiale. L’ufficio delcensorecreauncampodi forze che influenza tutti coloro che lavorano nelle sue prossimità che cerchino o meno di ignorarlo. Quel che variadacasoacasoèilmodo in cui quella forza viene avvertita,ilmodoincuiviene trasformatainternamente. C’è poi una dimensione ulteriore. Un’opera che esce sotto un regime di censura viveunasuaesistenzadiversa dall’opera che esce in circostanze prive di restrizioni. Nel primo caso la pubblicazione è un atto con un diverso e piú intenso significato sociale, mentre la lettura è un’attività piú complessa, piú sospetta e forse anche piú acuta. Per quanti sforzi il poeta abbia fatto per bloccare o ignorare la censura le sue poesie non potevanoisolarsidalcontesto nel quale erano destinate a esserelette. È all’interno di questo complessodiforze,interneed esterne, che guardo all’opera poetica di Herbert e la leggo meno come risposta alla censura polacca e al modo in cui si è presentata e ha incarnatocertimomentidella storia postbellica della Polonia che come istanza del piú ampio e complesso problemadellascritturasotto unregimedicensura. Comincerò da una poesia che ha tutta l’aria di essere una dichiarazione antisovietica ammantata dall’allegoria per ingannare l’ottusocensore.Lasituazione drammatica di A Marco Aurelio è ricorrente in Herbert. Il parlante, un esponente del mondo morente che aspetta l’invasione barbarica («è la paura l’eterna oscura paura | ora batte sulla fragile terra») si rivolge a Marco Aurelio: «dammi la mano sopra le tenebre» gli dice 11. Dunque una poesia sulla solidarietà e in particolar modo sulla solidarietà tra compagni di fronte all’estinzione. Nell’ovvia lettura allegorica, MarcoAurelio(eilpoetache protendelamanoversodilui dalla Polonia attraverso i secoli) stanno per i valori dellaciviltàoccidentale–ele ordeminaccioseperirussi. Masvelarelapoesiaaquel modo, proporne la lettura come svelamento, non le rendeaffattogiustizia.Perché l’interrogativo posto dalla poesia, il movimento stesso che propone il disvelamento, è come sia possibile scrivere davverounapoesiasuMarco Aurelio di fronte alle pressioni che spingono a una lettura allegorica. Lettura creata dalle realtà della situazionestoricapolaccaedi fatto anche dalla paranoia della censura stessa, per definizione contraria alla lettura innocente, che diffonde tra i lettori la consuetudine di leggere oltre lerighe. La questione di fondo è quella relativa al concetto stesso di genuino: che cosa è genuino? È possibile scrivere qualcosa di genuino in un paese abituato a leggere oltre le righe? La domanda viene affrontata meno obliquamente in Perché i classici, una poesia ispirata a unpassoautobiograficodiLa guerradelPeloponnesoincui, senza cercare scusanti, Tucididedescrivelasuaunica sconfitta di generale in guerra, una sconfitta per la quale pagò con l’esilio a vita. La poesia di Herbert si conclude con versi che contengono un’esplicita morale: seoggettodell’arte saràunabroccainfranta unapiccolaanimainfranta colmadiautocommiserazione alloraciòcheresteràdinoi saràcomeilpiantodiamanti inunsudicioalberghetto quandoalbeggialacartada parati 12. La sua risposta alla domanda sollevata dal titolo, Perché i classici? è la seguente: i classici perché propongono modelli di reazione alla sfortuna che, diversamente dall’autocommiserazione degli amanti, ci sopravviveranno, i classici perché rispondono al nostro desiderio di un modello per diventare a nostra volta classici, ovvero durare. (Di nuovonellapoesiaGliAntichi Maestri Herbert scrive: «InvocovoiAntichiMaestri| nei difficili momenti del dubbio») 13. Certamente è possibile spingere oltre la lettura di Perché i classici facendo dell’artista o intellettuale polacco l’interlocutore nascosto, cui si prepara un destino di esilio a vita dalla cultura occidentale della qualesisenteparte.Eperòla prima lettura non può essere sommersa dalla seconda. Si tratta di una poesia su come sopravvivere al conquistatore non meno che su come sopravvivere al Tempo che tuttoconquista.D’altraparte, in quanto poesia sul tempo e sulla mortalità, è difficile pensare che non invochi un passato–quelloclassico–che è riuscito ad arrivare fino a noi nel presente: dunque si presta a essere letta tra le righe come una poesia su comefarsícheilpassatonon ricostruito nel presente (quello che sopravvive dell’Occidente in Polonia) giungafinoalfuturo. Scrivere tra le righe è ovviamente una strategia ben nota, di tale ingenuità da mettere lo stesso censore, capace di leggere tra le righe tanto quanto lo scrittore di scriverci, in uno svantaggio tattico: a meno di riuscire a dimostrare la presenza di qualcosa dove sembra non essercicheunvuoto,rischiail ridicolo. Sotto la paternalistica censura poststalinista comunque era stato colonizzato perfino lo spazio tra le righe. Scrivendo dell’Ungheria nei primi anni 1980Harasztiosserva: I dibattiti tra le righe sono una base accettabile per sondare la situazione [...] le opinioni espresse non sono aliene allo Stato ma forse solo premature.Edèquestalavera funzione di tale spazio: è il contenitoredidigressionileali che – per un motivo o per l’altro – non possono essere esplicitamenteespresse 14. Una volta che scrittori e censori hanno raggiunto il livello di accomodamento descritto da Haraszti e lo spazio tra le righe è stato assodato come canale privilegiato della comunicazione esoterica – l’onorevole scrittore può preferirenonfarneuso. Proveròoraadescriverela deformazionesulpianoincui opera Herbert, deformazione determinata dal rapporto tra ilcensoreeillettoreenontra censoreepoeta.Ilfattoèche il campo genuino di riferimento di Herbert e il modo genuino di operare si sovrappongonopesantemente al campo di riferimento e al modus operandi di uno scrittorechescrivaguardando conocchioansiosoalcensore. Herbert è un poeta allusivo e ironico non perché usi allusivitàeironiapersfuggire allamatitarossadelcensoree nemmenoperchélastoriadel suotempol’abbiaresocautoe indiretto per temperamento, maperchéperluil’allusioneè una modalità dell’affermazione umanistica el’ironiaèunvaloreetico 15. Si legga sotto questa luce Tre studi sul tema del realismo 16, la poesia in tre parti ciascuna delle quali descrive (come se si trattasse diundipinto)undiversostile storico del realismo: classicista, romantico, socialista. Il realismo socialistausa«soloduecolori: quello sí e quello no» e utilizza un’iconografia frusta di pugni chiusi e cosí via («Dopo, – dice il suo difensore, – una volta che ci saremo stabiliti nei frutti del nostro lavoro, useremo il colore sottile, forse»). La poesiadunqueè«su»lagrazia del diciassettesimo secolo, il colore e la varietà (ma anche la pesantezza) del diciannovesimo e il grigiore del ventesimo secolo. Ma tali caratterizzazioni non sono enunciate come giudizi su realtà storiche quanto piuttosto come descrizioni di modi della rappresentazione storicamente condizionati, ovvero del realismo. L’occhio del censore può leggere la poesia come se il suo intento fossequellodinascondereun giudizio sulla vita sotto il socialismo in forma di giudiziosull’arte;manellasua ferma logica la poesia rimprovera le letture che confondono la realtà con le suerappresentazioni. In questa poesia, in qualche modo faticosa malgrado il suo slancio verso laleggerezza,èdifficileevitare l’impressione che nel campo diforzecreatodall’istituzione della censura Herbert vada conducendo una dimostrazione didattica di come il censore possa essere condotto a produrre una lettura erronea, assumendo il referente secondario per quelloprimario.(Seilcensore –rendendosicontodeltirodi cui è oggetto – cerca di evitarne la trappola e di prendere la poesia per quello che dice – corre il rischio di apparire ingenuo, di rivelarsi incapace di vedere oltre i travestimenti, cosa che di fatto è pagato per fare, mancando di incarnare la paranoia dello Stato. In mancanza di ogni principio guida non può che fare ricorsoallaletturapoliticapiú opportuna, come fa notare acutamenteGoldfarb) 17. Nonintendoaffermareche Herbert non adotti mai la modalità dell’apologo esopico.Inalcunepoesie,per lo piú poesie in prosa, la forma stessa proclama l’intenzione di farsi parabola: L’imperatore, Il sogno dell’imperatore, Fiaba russa, Descrizione del Re per esempio.Intutteilsoggettoè Stalin, sia pure in modo velato 18. Ilritornodelproconsoleèa prima vista un altro caso di evidente ambiguità: la corte dell’imperatore al quale il proconsole nervosamente ritorna dalle piú remote propaggini dell’impero non può che essere la corte di Stalin (o di uno dei suoi piccoli imitatori) e il destino che lo attende in quel luogo non potrà essere diverso da quello dei tanti luogotenenti diStalin. Ilfatalismodellevittimedi Stalin, perfino la loro paralisi di fronte all’estinzione, sono stati spesso oggetto di discussione. Nella misura in cui la poesia invita a una lettura dell’autoinganno del genere praticato nei monologhi drammatici di Robert Browning per cui il fatalismo si autogiustifica, i versi che seguono appartengono a quella psicologiadell’autoinganno: l’imperatored’altrondeamail coraggiocivile finoauncertopuntofinoaun certoragionevolepunto infindeicontièunuomo comeglialtri 19. Questi versi riguardano la possibilità di prevenire il tiranno e presentargli una faccianondiabiettapaurama di «coraggio civile», in un certo senso come strategia di sopravvivenza, per mettere unadistanzatrasestessiegli altri candidati alla liquidazione. Nella misura in cui non è piú un valore in sé maunmezzoperraggiungere un fine calcolato la versione delcoraggiocheilproconsole programma di adottare è di conseguenzainautentica. Ed è a quel punto che Il ritornodelproconsole torna a interrogarsisuunaltropiano. Lapoesiapresentalesuevere convinzioniallosguardodelle autorità? Se lo fa e se quelle convinzioni sono davvero coraggiose, il loro coraggio non è forse inautentico? Il risultato di un calcolo, un tentativo di prevenirlo? In unasimileletturalaferociao latolleranzadeltirannosono ininfluenti (ovvero non importasesitrattiomenodi Stalin). La poesia è sul rapporto tra il sé e l’autorità nelle condizioni dell’assolutismo, e in particolare sull’impossibilità di essere «genuini», di esprimere il vero sé sotto minaccia (minaccia di morte, minacciadicensura)–ovvero sulla impossibilità di essere sicuri che il sé stia presentandosi in modo autentico. È alla luce di questi interrogativi che riprendo una poesia delle serie del Signor Cogito di Herbert, Il mostro del Signor Cogito. Mentre il cupo incombere della poesia precedente su Marco Aurelio era la definibile (seppure devastante) tenebra della barbarie,èdifficiledirequale siail«mostro»cheminacciail SignorCogito: ècomeunaenorme depressione distesasulpaese nonsilasciaperforare dallapenna dall’argomento dallalancia senonfosseperilpeso opprimente elamortecheinvia losipotrebbecredere unincubo unamalattia dell’immaginazione maluic’è c’èdisicuro comel’ossidodicarbonio ricolma lecaseitempliibazar avvelenaipozzi distruggelecostruzioni dell’intelletto ricopreilpanedimuffa provadell’esistenzadelmostro sonolesuevittime èunaprovaindiretta masufficiente 20. Stanisław Barańczak segnala lo spostamento di fuoco nelle ultime poesie di Herbert,compresaquestache va verso la «diffusa dissoluzione dei sistemi di valori, la banalizzazione del male, il venir meno delle situazioni di soglia in cui l’uomo contemporaneo può definirsiinterminimoraliela mancanza di appigli trascendentali verso i quali orientarsi. Il vuoto […] acquisisce nuove forme e significati» 21. In un certo senso il soffocante sistema depressionariocontroilquale si scaglia il Signor Cogito è metaforadellaseriediperdite o assenze descritta da Barańczak. Ma asserire che «è» una metafora minimizza ilproblemadelSignorCogito. L’«enorme depressione» non esiste: è piuttosto un’assenza che sta per un’assenza: sembra una metafora ma di questahasololaforma,nonil corpo; anzi, non «ha» nemmenolaforma,non«ha» niente; è «del tipo informale» 22. Il compito del Signor Cogito–DonChisciottedella penna – dunque non è tanto uccidere il mostro quando individuarlo. La sua strategia è «offendere il mostro | provocare il mostro» nella speranzadistanarlo primachesopraggiunga l’atterramentoperinerzia unabanalemorteingloriosa l’asfissiaperinformità 23. Èchiarocheilmostronon verrà mai. È chiaro che il Signor Cogito è destinato a vagare per le strade suburbane con la sua lanciapenna, gridando nella nebbia (o in quel che è) finché gli amici e le altre persone «assennate»checredono«che sipuòconvivere|colmostro» lo persuaderanno a tornare a casa e a farsi curare la sua follia. Checos’ècherovinalavita del Signor Cogito? Una risposta possibile, quella che dà Barańczak nel brano citato, è che si tratta di un’inerzia morale pervasiva, un’entropia della civiltà, qualcosa che ha colpito il mondo moderno: la caduta nell’insensato. Una versione alternativa a tale tipo di rispostapotrebbeesserecheè il peso morto del socialismo dell’Europaorientaledipersé svuotatodiognifedemanon ancoraprontoamorire. Perché allora il Signor Cogito è una figura dell’assurdo? Che cosa lo qualificaperl’ironiaconcuiè trattato? Non il fatto di aver deciso che «ogni appiglio trascendentale»èpersooche ilsocialismopolaccosièfatto vecchioemortale:le«persone intelligenti», anche le «persone assennate» sarebbero d’accordo. È piuttostocheilSignorCogito crede nell’esistenza di un mostro, la cui esistenza è provata solo dal fatto che i pozzisonoavvelenati,ilpane è coperto di muffa, e le vittime sono ovunque. Come Don Chisciotte non capisce come funzionino le rappresentazioni di secondo ordine (che includono le metafore). Non capisce che «drago» sta per un certo genere di astrazione (come quelle di cui sopra) il cui effetto è purtroppo fatale. Se simettessealeggereilSignor Cogito quasi certamente si mostrerebbe lettore ingenuo comeDonChisciotte. La grande poesia di Herbert, Il messaggio del SignorCogito,siconclude: va’perchésolocosísarai accoltonellacerchiadei freddicrani nellacerchiadeituoiavi: GilgamešEttoreRolando difensoridelregnosenza confiniedellacittàdelle ceneri siifedeleva’ 24. Il colore dominante de Il messaggio questa volta non è l’ironia ma il paradosso tragico. Per questo Don Chisciotte non è citato tra i «difensori del regno senza confini e della città delle ceneri». Perché tra gli altri compiti che toccano al suo mostro, il Signor Cogito di ZbigniewHerbert,quandodà voce a François Villon e a numerose altre incarnazioni fantasmatiche, c’è l’esortazione: Ripetigliantichiscongiuri dellefiabeeleggende dell’umanità Perchécosíraggiungeraiil benechenonraggiungerai Ripetilegrandiparoleripetile conostinazione Comequellicheavanzavano neldesertoeperivanonella sabbia 25. L’eroenonèuninterprete dei significati di secondo livello ma un lettore ingenuo cheprendelestorieperquello che dicono. L’impegno de Il messaggio è a livello etico quellodellafedeltàinséeper sé e a livello estetico quello alle «grandi parole». L’impegno de Il mostro del Signor Cogito è quello della fedeltà dell’eroe comico nei confronti del suo dovere cavalleresco, il suo impegno estetico quello di una lettura ingenua in cui «mostro» sta permostro 26. NeIcinquecinqueuomini devono affrontare il plotone di esecuzione. In tempi cosí atrocilarilevanzadellapoesia deve essere messa in discussione anche dal poeta. Perché in questi tempi «ho scritto futili poesie sui fiori»? Herbert rimanda la sua risposta al momento in cui avrà chiesto e risposto a una domandaapparentementepiú leggera:dichecosaparlarono i cinque uomini la notte primadell’esecuzione? disogniprofetici diunascappataalbordello dipezzid’automobile diunviaggioinmare delfattochequandoaveva picche nonavrebbedovutoaprire delfattochelavodkaè migliore cheilvinofavenireilmaldi testa diragazze difrutta dellavita. Senza soluzione di continuità torna allora alla prima domanda e cosí risponde: ealloraèlecito usareinpoesiainomidi pastorigreci tentaredifissareicolorid’un cielomattutino scrivered’amore eanche unavoltaancora conserietàmortale offrirealmondotradito unarosa 27. Qual è la logica che permette alla parola «allora» di farsi avanti con tanta decisione? Una risposta possibile, forse quella del lettore, è: poiché i cinque uomini non avevano occupato la loro ultima notte a fare gli eroi, poiché non avevano agito come se si trovassero sul palcoscenico della storia ma avevano continuatoaesserequelliche erano,allora la poesia può (è la parola cauta che sceglie Herbert: non deve) dare al mondo qualcosa di ciò verso cui tende incespicando la gente ordinaria con le sue speranze e i suoi desideri: la visione di un mondo ideale. Lapoesiaallorahaqualcosaa che fare con ciò che è prezioso, ciò che va conservato della storia di quelle cinque vite e di quelle cinquemorti. E nondimeno il passaggio dal poiché al perciò non appartiene alla logica ma alla retorica, mira a convincere, ma la sua capacità di convincere viene specificamente dal salto mozzafiato che fa oltre l’abisso del non sequitur. In teoria ci potrebbe essere qualsiasi cosa dopo le parole «cosí si può usare in poesia», compreseletrombediguerra che chiamano all’azione di certopreferitedachihaposto la domanda: «Perché scrivere futili poesie sui fiori?» fintanto che quello che segue «allora»èdotatodisufficiente potenzaretorica. I cinque può apparire una poesia che difende l’autonomia dell’arte dai tentativi di prescriverle un certoruolosociale,maquesta nonètuttalaverità.Piuttosto I cinque è il tentativo di mettere in scena in poesia il potere dell’arte di autoconvalidarsi. La poesia non argomenta una tesi – come argomentazione ha letteralmente un buco nel mezzo – ma è una argomentazione. Se è su qualcosadunqueèsulpotere: sul suo stesso potere di imporre una logica all’arte e alla storia ma anche, implicitamente,sulpotereche si richiederebbe per far passare una logica contraria sull’arte e sulla storia. E in questosensosiergenonsolo contro i detrattori che attaccanole«poesiefutili»ma contro l’interpretazione, contro ogni interpretazione che cerca di sottometterla e sconfiggerla.QuandoHerbert siopponeaqueidetrattoriea quegli interpreti che includonoilcensoresocialista pronto a condannare atteggiamenti estetizzanti e solipsismi – la prova che propone è alla fine la piú violenta di tutte: quella di sopportare il logorio del tempo, il test della durata, il testdeiclassici. Nel suo studio di Herbert, Barańczak suggerisce che il contesto della sua poesia sia costituita dall’opposizione di Oriente e Occidente, di passato e presente, di mitico ed empirico. Si tratta di polarità che possono di tanto intantocoincidere,prosegue, producendo una polarità sincretico-oppositiva: eredità versus spoliazione, dove l’ereditàèeuropeaeclassicae la spoliazione data, almeno a livello simbolico, al 1944. In nessuna di queste polarizzazioni uno dei poli prevale molto a lungo; gli oppostiinvecesimantengono in«equilibriodinamico». FinquiBarańczakdescrive quellachepotremmopensare come la struttura estetica della poesia prototipica del New Criticism. Ma poi prosegue: «Il modello strutturale della poesia di Herbert non è solo [...] il confronto incessante [...] ma il reciproco smascheramento» delle due serie di valori antinomici e dei due tipi di realtà: la realtà dell’eredità e quella della spoliazione 28. Nella lettura di Barańczak, l’ironia di Herbert è dunque di natura diversa da quella apprezzatadalNewCriticism, che è una specie di campo magnetico in cui la poesia rimane sospesa come una specie di icona verbale. L’ironia di Herbert è piú fondamentale dal punto di vistaontologico:daunaparte –cidice–lastoriadelpassato raccontato dalla grande tradizione europea può presentarsi come realtà, ma l’esperienza contemporanea losmascheracomenient’altro che una serie di finzioni consolatrici; d’altra parte il mondo con la sua presenza empirica bruta rivendica la propria realtà, ma i classici rivelanocomedietrotuttociò simuova–adanimarlo–un tessuto di vecchi miti familiari. (Infine Dalla mitologia smaschera lo stesso dio dell’ironia: «Allora giunseroibarbari.Ancheloro apprezzavanomoltoilpiccolo dio dell’ironia. Lo frantumavano coi tacchi e lo spargevanosuicibi») 29. Se perfino l’ironia può essere frantumata e addomesticata, e usata come condimento,checosarimane che possa opporsi ai barbari? C’èunassolutonellapoesiadi Herbert? Quell’assoluto è forse il nichilismo dei Longobardi, i nuovi padroni delmondocivilizzato,che«si riversanonellavalle|colloro protratto grido niente niente niente»? 30. Penso a due poesie che secondo qualsiasi interpretazione non possono cheriferirsiallabarbarie:Alle porte della valle, in cui gli angeli che dividono gli uomini in salvati e dannati ricordanotantoisoldatidelle SSchedividonoiconvoglidei prigionieri in quelli che devono vivere e quelli che devono morire; e Apollo e Marsia, in cui Apollo, dio della razionalità e guardiano dell’ordine olimpico, è anche il barbarico torturatore di Marsia 31. QuelchelegaiLongobardi vittoriosiaglidèidell’Olimpo e agli angeli celesti e a quei funzionari dell’Inquisizione che interrogarono, torturarono e giustiziarono gli Albigesi e i Templari, atrocità che Herbert riferisce ampiamenteneIlbarbaronel giardino,èilloroassolutismo. Tutti credono nella tirannia del sistema e non tollerano eccezioni. Accanto a queste poesie potremmo mettere Il settimo angelo, in cui Shemchele, il settimo angelo, nero e nervoso, con la sua imperfezione umanizza (per cosí dire) il settetto celeste; e Resoconto dal paradiso, rapporto da un paradiso «reale» dove le cose vanno meglio, anche se solo un poco, che sulla terra (la settimana lavorativa di trenta ore, per esempio). In quest’ultimo paradiso, purtroppo non regna la perfezione celeste: qualcuno dimenticachelaresurrezione dovràesseredellacarne,eche una volta ammessi i corpi in paradiso, l’umano, lo spirito di imperfezione dell’umano, di fatto sarà ammesso a sua volta 32. Checosaimplicanoledue ultime poesie – che forse sarebbe giusto definire ambigue – a livello interpretativo? L’operapoeticadiHerbert ci offre una galleria di assolutisti convinti che l’universo presente sia una forma imperfetta di un altro universo, di un ordine ideale – una forma imperfetta di paradiso per esempio – o della società senza classi – o del tipo di società perfettamente duttile creato dal terrore totalitario. Il linguaggio dell’ordine ideale preferito da quegli assolutisti è una forma di linguaggio umano perfettamente astratto,unmezzoimperfetto natoinunmondoimperfetto. Sfortunatamente per gli idealisti, la lingua che la gente, la gente vera, desidera ostinatamente parlare e ascoltare non è perfetta e soprannaturale: rimane l’imperfettalinguadellacarne di questo mondo. L’espediente che permette di riscattare all’ideale la lingua della carne può essere l’astrazione.Nelcompieretale processo, scorticandone la pelle,sisperadivederbrillare sotto lo scheletro la luce dell’ideale. L’interpretazionedunqueè la strada che gli assolutisti prendono per attingere alla verità dietro la poesia. Il censore è la figura del lettore assolutista: colui che legge la poesia per capire che cosa «significhi veramente», per capirnelaverità. Herbert offre due tipi di riflessione su verità e interpretazione.Daunaparte un credo tipo I cinque o Presentimenti escatologici del Signor Cogito 33. In quest’ultima la maschera del Signor Cogito medita esplicitamente sulla possibilità che non gli sia permesso rinunciare al paradiso e restare al servizio delmondo.Dall’altraHerbert offre possibili interpretazioni mitiche. Quello che l’interpretecensore vuole da Herbert e cerca in lui è una scrittura di secondo grado (metafora, allegoria) che si apra per esempio all’interpretazione come fede in un ordine astratto celeste di qualche tipo.Quellochecercadunque èunacertafede.Maunafede che sia fondazione e giustificazione di un secondo ordine della rappresentazione, una fede che per sua natura sanzioni una rivelazione di sé per quanto indiretta – una qualche sua apertura all’interpretazione, resta ostinatamente assente. Herbert continua a essere fedele alla lingua di primo grado,allalinguadellacarne. La lettura che ne ho dato diconseguenza–unprogetto anch’esso non privo di una sua ironia, considerando la resistenza a qualsiasi lettura evidente in Herbert – fa del censore una figura generalizzabile ma anche fortemente problematica. La situazione della vita reale di Herbert può aver spogliato il censore di tanta parte della sua forza inibitoria e repressiva. E nondimeno il censore resta l’emblematico e tirannico lettore di secondo grado, che la sua tirannia sia caratterizzata da assolutismo politico o da riduzione razionalistica.Daunapartesi poneinrelazioneconHerbert come una resistenza necessaria, custode di un limite oltre il quale la poesia vaoltresestessaecominciaa manifestare l’ambizione di partecipare di un ordine ideale. Dall’altra, quale interprete par excellence di unapoesiaperlopiúdeditaa riflettere sulla propria distanza da qualsiasi interpretazione, è una figura dell’assurdo. La presente lettura prende in esame la parte piú potente e intellettualmente piú rigorosa della poesia di Herbert, non ne vuole abbracciare l’opera nella sua completezza. Ci sono certamente poesie nelle quali la tattica della rappresentazione di secondo grado è impiegata in modo spontaneo e aspecifico. Singolarmentelettetalipoesie possono confermare il giudizio di Paul Coates secondo cui «l’arte calcolata di raggirare il censore [ha] ridotto al silenzio alcuni aspetti della sensibilità [del poeta] (e di tutta la sua generazione), per via del ricorso costante alle allusioni classiche che filtrano l’espressione diretta del sentimento avvicinandolo pericolosamente all’estetismo» 34. E nondimeno il corpus poetico di Herbert poggia su un grande segreto che il censore ignora:ilsegretodichecosaè chefaunclassico.Qualunque cosa affermi l’opinione popolare, qualunque cosa sostengano i classici stessi, il classicononappartieneauna sfera ideale, e nemmeno vi si attinge aderendo a una qualche ideologia. Al contrario il classico è l’umano.Oalmenoquelloche sopravvivedell’umano. [1990-91]. BreytenBreytenbacheil lettoreallospecchio AlloStato. Una delle poesie piú importanti della raccolta Skryt 1 di Breyten Breytenbach s’intitola Lettera dello straniero al macellaio (Brief uit die vreemde aan slagter) e ha come sottotitolo per Balthazar. Della raccolta, pubblicata in Olanda nel 1972, in Sudafrica fu vietata anche la distribuzione. Nelle motivazioni della messa al bando il Comitato di controllo editoriale indicò in particolare la Lettera dello straniero al macellaio con la sualistadinomidellepersone morte in prigione e lesse la poesia come piena di «riferimenti specifici» all’allora primo ministro Balthazar John Vorster interpretandone inoltre la conclusione come un’accusa esplicita all’uomo bianco e in particolareall’afrikaner 2. Breytenbach incorporò diverse poesie di Skryt nella raccolta del 1977 Blomskryf (Scrittura-fiore) che ebbe libera circolazione in Sudafrica. Lettera dello straniero non era tra quelle. Fu per quella poesia che chiesescusanel1975durante il processo intentatogli per aver cercato di entrare in Sudafrica illegalmente al fine di reclutare sabotatori per un’organizzazione clandestina: «Vorrei chiedere scusa in particolare al primo ministroperlapoesiavolgare ed offensiva a lui indirizzata. Eradeltuttoingiustificata.Mi dispiace» 3. Poichélaprimapartedella poesia è oscura al punto da essere criptica è possibile che il comitato dei censori sia giuntoallasuadecisionesulla sola base della seconda parte, dove si fa riferimento senza mezzi termini alla tortura e all’uccisione di detenuti da partedellapoliziasegretaeB. J. Vorster viene direttamente chiamato in causa come il macellaio-ostetrico che presiede a quelle morti. Ma questononèunbuonmotivo per ignorare la prima parte della poesia che è uno dei trattamentidellamorteedella resurrezione piú intensamente risolti da Breytenbach ed è intimamente connessa alle accusedellasecondaparte. Lazzaro – l’uomo tornato dal regno dei morti – è una figuracentralenellamitologia poetica di Breytenbach 4. La prima parte della poesia del Macellaio, senza nominare Lazzaro, è pronunciata dalla vocediunuomorisortodalla tomba-cella, che ha conosciuto la morte sotto torturaeperciòhaildirittodi accusareVorsterinnomedei «prigionieri risuscitati dell’Africa». Con la sua propria forza ma anche richiamando le precedenti figurazionidiBreytenbachdel poeta-Lazzaro, cerca di stabilire l’autorità poetica per parlare in nome dei gemarteldes (torturati e martirizzati) di John Vorster Square (sede centrale della polizia segreta), i cui nomi (una quindicina) sono elencati in un’appendice alla poesia. Nel dire «io» allora la poesia implica due diversi lettori: uno cui si rivolge direttamente come «jy» (tu), il macellaio Balthazar, ma anche un’invisibile terza persona, un lettore dietro le spalle, un «prigioniero» pronto a mettere in discussione l’autorità di Breytenbach a parlare a suo nomedicendo«io». Il linguaggio della poesia passa da una complessità tipicamentemodernistaauna certasemplicità.Equestonon avviene solo perché la poesia intendedenudarsimanmano checostruiscelasuadenuncia (il poeta sotto forma di una storia ancora da scrivere punta il dito contro l’oppressore) ma perché mutua la lingua della polizia politica nella sua forma piú cinica e spudorata, mentre impone la menzogna come menzogna con l’arrogante certezza che, anche se nessuno ci crederà, nessuno oserà sconfessarle (faccio riferimento ai resoconti ufficiali di detenuti saltati dallafinestraperchéspintidal rimorso o morti per essere scivolati su saponette, o ancora impiccatisi usando i lorostessivestitiecosívia). sopraimattonimisollevodi fronteagliuomini iosonostatuadiliberazione cheprovaconelettrodiai coglioni agridarelalucenelcrepuscolo scrivoproverbiconurina cremisi sullamiapelleequisoprala terra ecosíinveglia iomisoffocoacordedi budella soprailsaponeioscivoloa spezzarmileossa iostessomiassassinoconil giornaledellasera mibuttogiúdaldecimopiano delcielo checosímirilasciosoprauna stradainmezzolíalla gente. Quando la polizia politica di Vorster spiegò la morte di un prigioniero dicendo che era scivolato su una saponetta,ilseguitoimplicito di quel discorso era: e sfidiamo i tribunali di questo paese a rifiutare questa spiegazione. È sempre stata unadellepratichelinguistiche del totalitarismo mandare messaggi in codice il cui significato è noto a tutti e usare la censura per imporne una lettura letterale, almeno nella pubblica arena. Allora «scivolato su un pezzo di sapone» veniva diffusamente letto come «morto sotto tortura», ma la sua interpretazione pubblica era tuttavia costretta a rimanere «scivolato su un pezzo di sapone». Quando Breytenbach fa la parodia dei codici,comeinquestocaso,il non detto che segue è: Qui creo un’arena nella quale i codici vengono smascherati e denunciati. Dunque la sua sfida avviene nel territorio stesso del potere: contro il poteredipoliziaprotettodalla denunciaedallarappresaglia, istituisce quello della retorica (lacapacitàdelleparole)usata a scopo di scherno sulla pubblica scena. Inutile dire che il motivo della messa al bando della poesia era, negandole visibilità, riasserendo il controllo sulla sua visibilità, impedire alla sua grande capacità retorica dismascherareicodici. Ma è qui che la posizione di una voce che parla da «uit die vreemde» (da luoghi stranieri, dall’estero) solleva difficoltà di ordine morale oltre che pratico. Sia il parlante che la poesia (pubblicata all’estero) operano al di fuori della giurisdizionedelpotererivale (polizia, censori), cosí come operano al di fuori della comunità di parlanti e della comunità politica cui si rivolgono. Ma questo non finisce per vanificare la sfida morale? Non è peregrino ipotizzare il rientro di Breytenbach in Sudafrica nel 1975 come una risposta esistenziale a quell’interrogativo, un atto attraverso il quale il poeta si mettevasullostessopianodel nemico, pronto a mettere in scenailmitodell’umiliazione, incarcerazioneerinascitacon l’autoritàdichièrinato–un mito che conosce una diffusionenonsolocristianae cuilapoesiaattinge. L’attacco a Vorster nella poesia è duplice. Prima di tutto viene denunciato come capo dei torturatori assassini eperciòcomecoluichedovrà rispondere delle loro azioni davantiallastoria: eadessoparlamacellaio: primachequestasia maledizione echesiesprimalatua perorazione soltantonellebocchedelle tombe davantiaiprigionieri risuscitatidell’Africa. Inquantoscrivequilasua storia profetica del futuro, il poeta Lazzaro profetizza il rovesciamento della giurisdizione – l’inevitabilità del passaggio da giudiceesecutore a imputato. Ma nella misura in cui – come asserzione,atto,sfida–mette Vorster sul banco degli imputati la poesia stessa evocal’avventodiquelfuturo. In effetti Breytenbach rivendicaunpotere,quellodi evocareilfuturo,poterechea Vorster manca perfino in quanto timoniere autoproclamatodelloStato. Il secondo attacco di Breytenbach è piú radicale. Dipingendo l’urlo di dolore che esce dal prigioniero che muore come una nascita nel sangue tra le mani del macellaio-ostetricochiede: nellatuagolailcuoresifa rigido quandoleafferriquellecarni spente conlemanichepalperannoi segretidituamoglie? 5. I segreti: Breytenbach avrebbeanchepotutoscrivere le parti segrete. A essere esposti allo sguardo pubblico non sono solo i segreti della stanzadellatortura,nonsono solo le repulsioni private (ipotetiche) di B. J. Vorster stesso (qui l’ironia è complessa: Breytenbach asserisce che Vorster ha una coscienzaelosfidaanegarlo), ma i misteri (misteri proibiti allo sguardo pubblico dalla decenza) del letto matrimoniale di Vorster. La poesia è un colpo basso, una sferzata alle parti private non dell’uomo ma dell’inerme moglie di lui – un insulto all’onore maschile – ancora piú offensivo se si considera l’età dei suoi bersagli (Balthazar e Tini nel 1972 avevano sui cinquantacinque anni).L’eccessodellapoesiaè uneccessodiintimità. Breytenbach e l’innominabile,1964-75. Sebbene la Lettera dello stranieroalmacellaio non sia stata l’unica causa dell’animosità contro Breytenbach e della sua condanna a nove anni (piuttosto che i prevedibili sette o cinque anni) si può asserire che, in quanto insulto, e cioè in quanto discorso intenzionalmente aggressivo e trasgressivo contro Vorster, la polizia politica e la comunità di cui proteggevano gli interessi, la poesia ebbe le sue conseguenzenelmondoreale. Ma non era stata quella la prima trasgressione di Breytenbach. Fin dal 1964 avevaprovatovarievolte,con sempre maggiore audacia, a trasformare il discorso trasgressivo dei suoi scritti in attotrasgressivo. Nella prima raccolta di Breytenbach(1964),lapoesia Breyten prega per Breyten arriva molto vicino a nominare l’innominabile che accade a opera della polizia. Nellapersonadiunborghese bianco che non vuole altro chescivolareattraversolavita senza problemi prende le distanzedagli«altri»che Sianoimprigionati,Stritolati Lapidati Impiccati Frustati Manipolati Torturati Crocifissi Interrogati Condannatialibertà vigilata[...] Sianoesiliatisuisolespente finoallafinedeilorogiorni Imputridiscanoinumide tombe[...] ManonIo AnoinondaremaiPiantoe Dolore 6. In Kouevuur (Cold-fire) (1969) la figura di potere presa di mira è l’imperatore Tiberio che volge lo sguardo (uno sguardo «imprigionato») sui mari dove viaggiano le sue navi, «unmondoordinato»: cosílaseraquandoilrossodio lasciadietroilpromontorio unarossatogatraiflutti inostentatacompagniadi senatoridaigrassiculi lui[può]sguazzare felicemente conleformedelsuobianco corpo nelletorpidefrescheacque dellasuapiscinadi marmo 7. Il fatto che Tiberio sia bianco ci allerta rispetto al fatto che stiamo leggendo un’allegoriadelpoterebianco in Sudafrica. Ma tranne forse che per il demotico «vetgat» (grassoculo)lapoesiamanca di mordente: si accontenta di un misto di fascinazione e repulsione per l’immobilità delpotereimperiale. Nell’allegoria della prosa surrealista Om te vlieg (Volare), del 1971, il Sudafrica bianco è una gigantesca istituzione per malati di mente – i suoi giardini sono controllati da un custode dal camice da macellaio che spara ai pazienti che si comportano male 8. Un regime omicida presiede a un paesaggio di estinzione di massa in nome dellaleggeedell’ordine. Questavisioneapocalittica vienepresentataattraversogli occhi di un paziente confinatodentrolasuacecità «bianca». «Dio è dalla parte dei secondini, dei macellai e degli infermieri», si dice devotamente. Il suo massimo piacere è quello privato di defecare. Ma anche questo presenta dei pericoli: utilizzando vecchi giornali per pulirsi il deretano, deve fare attenzione a non leggerli perché possono essere «frutti proibiti, [...] propaganda sovversiva, [...] libri di poesia ealtredichiarazionidilibertà superflue». Via via che il mondo intorno a lui diventa piú difficile lui si taglia il pene, si taglia la lingua, si cava gli occhi, si ritrae nella suamente(OV,pp.33e19). Cosí Breytenbach arriva a una forma di rigetto dell’ordine sudafricano suddividendo e ripudiando un io narrante confessionale che nello spirito appartiene a quel mondo. Ma poi come per assicurarsi che la sua autodenuncia non venga sopravvalutata, richiama un ioautorialeperspiegareilsuo intento: Anchesequestosaggionon vuole essere simbolico è per me la rappresentazione del nostro cancro e della nostra lebbra, la nostra supercivilizzata raffinatezza e laputrefazionecheècapacedi motivareespiegareassassinie omicididimassa,proceduredi carcerazioneeditortura.Tutti i giorni passavamo davanti ad Auschwitz in treno ma non vedevamo il fumo – guardavamo dall’altra parte dellabaiaaRobbenIslandma pensavamo ci fosse una coloniadilebbrosi(OV,p.92). Questo ansioso intervento autoriale contribuisce fortemente a sovvertire la forza trasgressiva del testo – nonesigua,datelelimitazioni del discorso pubblico nel Sudafrica dei primi anni Settanta, ripudiandone di fatto l’autorità, un’autorità conquistata dalla sua stessa forzanarrativa 9. Oltre a Lettera dello straniero al macellaio, Skryt (1972) contiene molte poesie di denuncia esplicita come per esempio, La terra promessa.Ilproblemachetali poesie sollevano per il loro autore, soprattutto in vista di una loro pubblicazione all’estero, è che pur essendo trasgressive l’unica cosa che trasgrediscono alla fine dei conti è un certo decoro dell’allocuzione. Non si può dire che divengano azioni, ovvero che abbiano un riscontro nella realtà come nel caso della poesia su Vorster. Fondandosi sulla retorica dell’abiura, restano nel regno della retorica e dunque sono suscettibili di esserebattutedaunaretorica ancorapiúviolenta. Lastrategiaavolteseguita da Breytenbach come alternativa all’assalto retorico diretto è l’ironia (in poesie comeLife in the earth, S, pp. 22-23).Mal’ironia,parlarela linguadelnemicoefingeredi identificarsi con lui, soprattuttoquandoèusatain modo sottile, solleva un interrogativopreoccupante:la poesia ironica è solo un surrogato del diario del tiranno oppure il tiranno davvero non conosce la sua stessa mente tanto in profondità come invece la conosce il poeta? E se è cosí, qual è la fonte della segreta simpatia del poeta per il tiranno? In particolare, per ripudiare il Sudafrica bianco bisogna prima essere un sudafricano bianco fin nel midollo? Le implicazioni di tali interrogativi vengono vissute da Breytenbach nell’atto di scrivere in quella «lingua bastarda» che è l’afrikaans 10, la lingua di un io diviso, doppio.Letteradellostraniero al macellaio deve essere scrittanellalinguadeltiranno parlata solo nella terra del tiranno che però è al tempo stesso la lingua madre: «Scrivo poesia nell’afrikaans deglispasmidelcorpo:puzza dibirra|delmioprimolatte, | grana della punta delle dita di mio padre» (YMS, pp. 2021). L’attacco all’afrikaner deve essere un attacco a se stesso e implica un movimento di ritorno alle origini che contiene terribili pericoli regressivi. Nella sua poesiaBreytenbachhavissuto nel modo piú intenso il paradosso dell’appartenenza allatribúafrikaner. Primachepotesseapparire in afrikaans A Season in Paradise, il memoir di una visita in Sudafrica con la moglie nel 1973, l’autore fu costretto ad accettare di tagliare alcuni passi ritenuti allarmanti o offensivi dall’editore sudafricano. Piegandosi a quel veto, di fatto tornava in patria, rientravanell’arenadelpotere edeldiscorsodelnemico.Ma qualunque fosse l’effetto di quel veto, Breytenbach cosí era almeno in grado di portare in prima persona la sua denuncia, come soggetto ecomeoggetto: Noi sudafricani, continueremo a infestare il mondo fino alla fine. Siamo tutti leggermente matti – siamo spaccati in due da una feritainsanguinata[…]Siamo mutilati – siamo umani solo per metà – ma lo sappiamo, siamo matti e sappiamo di esserlo(SP,p.203). Ovviamente è «Breytenbach» che parla, ma èancheilmentitorediCreta. E anche se la sua autodenunciafosseintesaqui comeildiscorsodiunfollele parole con cui si conclude l’arringa sono chiaramente intese a mettere da parte la maschera della follia: «Nel prendere coscienza della naturadellalottaincuisiamo coinvolti e che condividiamo […] estendiamo la nostra umanità e la nostra lingua» (SP, p. 160). La follia – sembra dire – non è propriamente la sua: nella misuraincuièdavverofollia, appartiene agli altri. Breytenbach può avere addosso il marchio di una voglia, come la cicatrice di unaformazionefolle,eanche una seconda cicatrice (come diuncolpodifrusta)lasciata dal folle comportamento che l’hacircondato(«Anch’io[…] mi sono […] trovato nella posizione umiliante di essere sottoposto al sistema discriminatorio che disprezzo» (SP, p. 166) ma non quello della follia vera e propria. La natura del suo coinvolgimento, qualunque sia,continuaasfuggirgli. Di conseguenza il ricorso, nellostessolibro,aundeusex machina, un salvatore che metterà fine al regno della follia per incominciare una nuova era. Davanti a questo messia il poeta impersona il ruolo visionario di Giovanni Battista: eiovidico,dalcuoredelpaese luiarriverà,unodivoi[...] edovunquepasseràsiaprirà unvarco eledonnelascerannocadereil cucito eilfuocousciràtonantedalle bocchedeifucili lecasesifarannonere glialberidificosiseccheranno alcomandodieserciti vendicheràl’ingiustizia esalderàivecchiconti[...] alcunidivoinaturalmente–è nellanaturaumana– striscerannoaterracome grassivermi[...] offrendo[...] qualsiasicosa,«qualsiasi, padroneNero,tutto,tutto trannelamorte,oh padronemio,padrone Nero» luiavràunsorriso meraviglioso eun’aureolaeunoSten [fucile]enonfarà maleaipasseridelveld 11. Ho accennato a un movimento tentennante o altalenante nelle poesie di Breytenbach, tra quelle di denuncia retorica con una sorta di vuoto al centro e poesie di identificazione ironica con il nemico. La poesia citata, per quanto blanda e occasionale, corrisponde alla posizione irrequieta di un poeta che prova disagio sia a parlare dall’interno che a parlare dall’esterno.Infondositratta di un rovesciamento, un regolamento di conti: lo schiavo diventa padrone, mentre il padrone arrogante adotta la parlata umiliante, infantile e nauseante di chi non ha potere, una lingua inferiore. La poesia invoca una violenza magica, da fumetto, capace di portare l’avventodiunmillennioche decreteràlafinedeidisordini edelledivisioni. Scrittidalcarcere. Immaginiamoci un dialogo adue,nelqualelereplichedel secondo interlocutore sono tralasciate, ma in modo tale cheilsensogeneralenonviene affatto turbato. Il secondo interlocutore assiste invisibilmente, le sue parole non vi sono, ma la traccia profonda di queste parole determina tutte le parole presenti del primo interlocutore.[…]Ogniparola presente fa eco e reagisce con tutte le sue fibre all’interlocutore invisibile, accennaaldifuoridisé[…]a una non detta parola altrui […]Laparolaaltrui[...]èsolo sottointesa, però tutta la struttura del discorso sarebbe assolutamente diversa se non ci fosse questa reazione alla sottointesaparolaaltrui. Cosí scrive Bachtin, identificando la polemica nascosta e il dialogo nascosto in tutti i romanzi maturi di Dostoevskij.Econtinua: Non in tutte le situazioni storiche (anzi al contrario), l’istanza semantica di chi crea può esprimersi immediatamente nella diretta, nonriflessa,noncondizionata parola dell’autore. Quando non v’è una propria «ultima» parola, ogni intenzione creativa, ogni pensiero, sentimento, passione, deve rifrangersi attraverso il mezzo della parola altrui, dello stile altrui,dellamanieraaltrui 12. Sarebbe stato altrettanto ingenuo nel caso di Dostoevskij quanto in quello di Breytenbach immaginare che un cambiamento nella «situazione storica», in particolare la rimozione della censura esterna, avrebbe prodotto una «parola diretta, intenzionale, senza riserve, senza rifrazioni» dalla quale sarebbe stato assente il dialogo nascosto. La censura, oalmenol’ufficiodelcensore, non è la sola «istanza semantica»allaqualeaccenna Bachtin, e nondimeno il lavoro di Breytenbach nel periodo 1975-82 era stato portato avanti in condizioni straordinariamente restrittive e malgrado ci sia stata l’opportunità di revisioni successive porta il segno, e nonsempreinmododeltutto ovvio, della censura all’origine. L’idea di Bachtin di un controdiscorso implicito nel dialogo ci ha rivelato aree nascoste del discorso di Dostoevskij, e ci ha anche allertato sulle possibilità di un controdiscorso nascosto in Breytenbach. Nella lettura degli scritti dal carcere di Breytenbach mi concentrerò sulle voci nascoste contro le qualiparlal’autore. Durante la detenzione preventiva a Breytenbach fu permesso di scrivere. Ne uscirono le poesie pubblicate col titolo Voetskrif [voet, piede; skrif, scritto] dedicate al suo primo inquisitore per insistenza di quest’ultimo: «Tudedichiquestoameeio ti permetto che venga pubblicato» come riferisce Breytenbach 13. In prigione scrivere era permesso a quattro condizioni: 1) quello che Breytenbach scriveva non doveva essere mostrato ad altri detenuti o secondini, 2) non doveva essere mandato fuori clandestinamente, 3) ogni pezzo andava consegnato per essere messo al sicuro non appena completato e 4) tutte le note dovevano essere distrutte (VC, 145). Alla fine furono pubblicati quattro volumi di poesia del periodo della prigionia,checostituisconole parti 1-4 di Die ongedanste dans(Ilballononballato) 14. Nelle Veritiere confessioni Breytenbach ricorda la sua posizionediprigionierovis-àvis col censore: «Una situazione bizzarra […] scrivere sapendo che il nemicostaleggendodietrole tuespalle[…]sapendoanche che stai mettendo allo scoperto i tuoi nervi, le tue palpitazioni piú intime, piú personaliperibarbari,icinici che proveranno in questo un sadico piacere» (VC, p. 145). Al di là di questa testimonianza è evidente dal testo che alcune delle poesie di Die ongedanste dans nella prima pubblicazione sono censurate nella maniera piú ovvia. Non tutte le poesie della prigionia sono costruite in forma di dialogo, aperto o nascosto che sia, con un censore oppressivo. E nondimeno perfino quelle apparentementemonologiche esprimono piú il ripudio del dialogocoldetestatoaltroche la determinazione a risolvere il discorso in forma di monologo 15. Altre poesie mostrano un rapporto complesso e perfino ambivalenteneiconfrontidel dialogo. (Language Struggle) per esempio si rivolge ai bambini neri in rivolta nello stilemonotonodibaasskap: Impareraiaessereobbediente, obbedienteesottomesso. Impareraiausarelalingua (afrikaans), elauseraicon sottomissione 16. Seguendo Bachtin, la poesia avrebbe una «doppia voce» pur senza essere dialogica: Breytenbach lo scrittore s’impadronisce del discorso del nemico per uno scopo suo, in questo caso cupamente satirico. Ho già accennato a come questa procedura si possa rivelare contraddittoria (cosa di cui Breytenbach è pienamente consapevole): colui che catturapuòessereasuavolta catturato. A fianco di quella poesia possiamo mettere The Conquerors: poichénonliriconoscemmo comeesseriumani tuttoquelchediumanoc’era innoisièprosciugato enonpossiamopiangerela nostramortepoichénon volemmoaltrochepaurae odio nonriconoscemmolarivolta umanadell’umanità ecercammosoluzionidurema tardive ifiorinelfuoco nessunoèinteressatoalle nostresoluzioni– siamoaldilàdella comprensione siamodiun’altrarazza siamoifiglidiCaino 17. Il monotono degli ultimi quattro versi, parlato da una specie di morte in vita, pronuncia il futuro epitaffio dell’afrikaner. Ma nei versi precedenti c’è un dialogo rudimentale là dove si insinuano le parole dell’altro («umano», «umanità»). Queste due poesie allora parlanodiduemomentidella storiadeldominiobianco:un momento di cecità sonnambula e un primo momento di autoriconoscimento fatalistico. Ma perché Breytenbach, l’esule, il prigioniero, il figlio rifiutato, dice «noi» in entrambe le poesie, mentre intende «voi»? Perché nascondere l’accusa sotto l’autoaccusa o assumere la vocediqualcunocheripudia? Perché i suoi biechi nemici non parlano da soli con le loro voci, non promulgano i loro editti, i loro disperanti epitaffi? Perché deve parlare perentrambeleparti?Perché usareilmonologovicarioma anche perché il dialogo nascosto, perché mai la cripto-polemica con un nemico che in fondo è già morto? La risposta è semplice. Nella vita vera il discorso del nemico contro cui Breytenbach si scaglia non è mai cosí trasparente come lo vorrebbe. Al contrario è evasivo, contorto e autocensurato. Quello che fa Breytenbach in queste poesie è in sostanza la rappresentazione di un ventriloquo, la sostituzione del discorso del nemico, la presentazione del caso del nemico nei toni esagerati, parodistici e autolesionistici con un mezzo – il discorso dell’intellighenzia–alqualeil nemicononavevaaccesso. Poiché gli scontri che mettono in scena sono cosí unilaterali è difficile individuare in poesie come queste un qualunque vero impegno creativo da parte di Breytenbach. Viceversa pensiamoa’nSpieëlvars 18: tututu contevoglioparlare,stronza tenevaiingirosenzasellae senzapatente nellefogneeneicortilidei mieiversi mortemia tuscaviconlatualancianei bianchi solchi dovevolevomoltiplicarmi perlapatriaelanazione (maprestodiquestenon rimarràniente) mortemia[…] tucongliocchigialliela mano sinistra tuconlabarbascomparsatu conlasabbia sullalingua conlacondannaanoveanni comeunagravidanza faròditeunvedovozaczac midaiibrividi emettigemiti dipiacere poggilafrescacarezzadelle tuelabbra quisullamiavita equiequi vienibaciamisullabocca tucaneprescelto vieniamettereordineneimiei giovani pensieri adammucchiarepietresulle miealicadenti quantoancoradevoaspettare? omiaMorteombrabianca comeneve omiapersonalepoliziasegreta saròtuopersempre etusei miamiamia. Una poesia scritta sotto l’influsso evidente di Sylvia Plath, non ultimo per i ritmi frastagliati e per i violenti sbalzi di umore. Ma da Plath Breytenbach ha appreso anche qualcosa di piú profondo: che Io e Tu non devono per forza rappresentare posizioni fisse. L’Io qui è il carceriere e l’assassino vendicativo, dominato dalla morte, ma è anche il sé proteso alla liberazione malgrado l’unica formadiliberazionechevede sia nella morte che incombe. Tu è chiaramente Breytenbach il prigioniero deriso; ma anche la figura persecutoria dello schiavo oppresso cosí come la morte dell’amante che ne agogna il perverso abbraccio («qui e qui»), l’altro sempre vigile nello specchio, e infine una figura con le ali che rispondonoallesueinutiliali. E di fatto tante delle incarnazioni dell’Io: censore, agente della polizia politica, custode-persecutore alato, sono condivise dal Tu. Si tratta insomma di una vera poesia specchio, spieelvers, in cuinonèchiaroqualesiailsé e quale l’immagine. È una poesiadallafrenesiadialogica crescente nella quale non è piú possibile dire quale sia la posizione del sé: lo scambio tra sé e l’altro è in effetti continuo. Lafasedellospecchio. La figura di un uomo che guardanellospecchiodomina la prosa di Breytenbach del periododelcarcereediquello immediatamente successivo, Mouroir e Le veritiere confessioni di un africano albino 19. La superficie dello specchioequelladellapagina vuota sfiorata dalla penna diventano indistinguibili: col movimento della penna, il sé altempostessocreaedevoca su quella superficie un sardonico doppio oppositivo che irride al suo sforzo di vedersi in trasparenza, e gli consiglia di riprovare. La figura allo specchio si comporta di fatto proprio come gli agenti della polizia politica che, all’epoca del primo interrogatorio di Breytenbach, gli misero davantiduefoglibianchiegli dissero di scrivere la storia dellasuavita;poi,quandolui ebbe finito, le lessero, le strapparono e gli dissero di riprovare(VC,pp.23-24). La prima stesura di Veritiere confessioni Breytenbach la realizza parlandoaunregistratore,un procedimento che definisce «questoparlareacaso,questo processo».Qualesaràlaverità che uscirà dal processo? Qualunquesianonpuòessere prevista: si rivelerà solo dal dialogotrailséelospecchiopagina. Se ci dovesse essere un nuovo interrogatorio, un nuovo processo, la verità verrebbe fuori diversamente: «Io sarei qualcun altro – altrettantosincero,altrettanto disposto a collaborare, altrettanto ossessionato dalla necessità di confessare» confessa. Dunque la postura dello scrittore davanti allo specchio-pagina è assimilata all’atteggiamento del prigioniero che coopera durantel’interrogatorio.Echi è l’inquisitore? In un certo senso è il lettore che vuole sentire che cosa ha da dire Breytenbach; ma è anche l’io che si scrive. «Signor Investigatore. Lei sa che noi stiamo sempre inventando le nostre vite […] tu e io intrecciatielegati,parassitae preda, immagine e specchio» 20. Fin qui abbiamo solo un’altra geniale figura poststrutturalista di produzione testuale del sé. Ma la connessione africana non è stata soppressa. Verso la fine della sua lunga confessione, Breytenbachscrive: Signor Investigatore [...] la vedo ora come il mio specchio-fratello oscuro. Abbiamo bisogno di parlare, fratello Io. Devo dirle cosa volevadireessereunalbinoin una terra bianca. Noi siamo per sempre uniti da un’intima conoscenzadelladepravazione versocuil’uomotenderà(VC, p.239). Chi è qui l’investigatore? Non (o non solo) il gemello biancochecontrollalapsiche maancheilfratelloneronello specchio,altrettantoossessivo e persecutorio, un complice del suo crimine storico nel qualecisonostateduepartie nonuna.Inquestocipuòfare da guida Simone Weil. In ogniattodistruttivo,scrive,il sésilasciadietrodelletracce: «L’atto malvagio è un transfertsualtrapersonadella degradazione che si porta in noi» 21. Poiché nella sofferenza la vittima interiorizza la degradazione dell’oppressore, l’Io diventa doppio, molteplicemente doppio: inquisitore e rivoluzionario, criminale e vittima, colonizzatore e colonizzato,perfinocensoree scrittore. Il nero nello specchio non è l’Altro ma l’altrosé,il«fratelloIo». Il lungo monologo nella stanza vuota con cui era iniziato Veritiere confessioni cosículmina,nonneldialogo col fratello scuro, ma con la scopertache,primachepossa darsi la vera conoscenza, il dialogo deve svolgersi con lo specchio. Cosí quando Breytenbach scrive, retrospettivamente, di non dolersi di essere passato per l’esperienza «sotterranea», la parolasiriempiedisignificati non facendo riferimento solo allasuavitadiagentesegreto eprigioniero,maaunastoria diciecobrancolarecheinvece di condurre alla liberazione haportatoall’illuminazione,a capire che nel cercare la luce si deve scavare nel buio. «Quello che si è vissuto diventa un nuovo corridoio chesidelineanellevisceredel labirinto;èunacontinuazione della ricerca del Minotauro, quel centro oscuro che è l’Io (l’occhio), quel Signor Io [mistero]»(VC,p.77). Il poliziotto bianco, il rivoluzionario nero: i nemici avvicinatinellospecchio.Èlo specchio allora il luogo dove si trascende la storia? Il dialogo con il sé rispecchiato si estende al dialogo tra i sé nello specchio? Possibile che il dialogo nello specchio proceda pacificamente o si trasformerà in uno scontro isterico come quello che vediamo in Place of Refuge e poi ancora nel Pre-testo del 1986 di End Papers, dove si rinuncia al controllo sul dialogo per un esperimento sorvegliato e si fa spettacolo di isteriche autoaccuse sprofondandosemprepiúnel pozzo «senza fondo della deprecazioneedeldisgusto»? 22 . Ma tali interrogativi esulano dalla materia di Veritiere confessioni. È in Mouroir 23 che Breytenbach cerca di mettere in pratica – nella pratica della scrittura – lateoriaillustratainVeritiere confessioni. Mouroir è un assemblaggio di storie, parabole, meditazioni e frammenti legati dal doppio simbolismo dello specchio e dellabirinto.Iltestostessoèil filo di Arianna che Breytenbach srotola dietro di sé man mano che avanza attraverso il labirinto della sua finzione verso un incontroconqualcosacheèal tempo stesso il Sé ammiccante dallo specchio – il Signor Io – e il mostruoso Altro che non sarà mai recuperato all’amicizia: la Morte. Naturalmente l’unione tra ilséeilséallospecchiononè mai raggiunta, la superficie della pagina-specchio non si dissolve,ilcuoredellabirinto non viene raggiunto. Invece unanuovasuperficieritornaa ogni svolta, e porta a un ulteriore corridoio del labirinto.Iltestovaavantiper un processo di metamorfosi di immagini come nei sogni. Il testo diviene complanare conlavita:iltestononfinisce finchénonfiniscelascrittura; lascritturanonfiniscefinché nonfinisceilrespiro. Malgrado la sua natura decisamente privata, Mouroir segna un passo avanti nel pensiero e nella scrittura di Breytenbach. Vedendo o sostenendo di vedere attraversol’identitàostileallo specchio, facendo della superficie dello specchio qualcosa che si attraversa, un’apertura verso un progressoinfinito,l’autoreha rimandatoilconfrontoconil suo gemello nemico, e ha anche trasformato quel rimandare in un modello di produzione testuale. Sulla base del momento della genesi descritto in Veritiere confessioni,ilmomentoincui l’inquisitore della polizia gli restituisce la storia della sua vitacolcommento«Riprova» – lui ha costruito un programma di scrittura indistinguibile dalla giustificazione teorica di quel programma. Ma il momento culminante di «Riprova» non è l’unico che la sua scrittura dopo il carcere metta continuamente in scena. Dal repertorio della memoria ritorna, in modo ancora piú monotono, il momento della confessione di Breytenbach alla corte, quando dovette rimangiarsi l’orgoglio e pronunciare scuse imbarazzanti,equandoquella autoumiliazione fu nondimeno respinta perché nonabbastanzasinceradafar ritirarelasentenzapunitiva. Nel resoconto pubblico di come era giunto a fare la sua confessione, Breytenbach dice: «Senza essere esplicitamente politica, era il tentativodispiegarecomeero arrivato a trovarmi in quella situazione, senza rinunciare allemieconvinzioni.Lalegga – sentirà in essa la voce insidiosa[poliziapolitica]del controllore. La dichiarazione andò nelle [sue] mani una settimana prima che il processo cominciasse e lo stesso Vorster l’aveva sulla scrivania prima che venisse letta in tribunale» (VC, pp. 54-55). Da nessuna parte nel suo rapporto Breytenbach accusa la polizia, o B. J. Vorster, di aver cercato di influenzare il giudice del processo. Eppure, l’implicazione sembra essere che fosse stato raggiunto un accordo (scuse, autodegradazione, accettazione pubblica dell’autorità del patriarca in cambio di una sentenza piú mite) e che poi il patto non fosse stato onorato. In modo criptico, Breytenbach scrive: «Non è mia intenzione [in Veritiere confessioni] vendicarmidiunsistemaodi certe persone – almeno non mipare».Eprosegue:«Siamo troppostrettamentelegati». Troppo strettamente legati? Quando mai i legami familiarihannorappresentato un ostacolo alla vendetta? Le molle ispiratrici di Veritiere confessionieMouroir–itesti principali della fase dello specchio di Breytenbach – sono straordinariamente complesse. Malgrado quello che dice, includono un desiderio primitivo di colpire di rimando coloro che lo hannorinchiuso,comeattesta il torrente di insulti in cui i nomi delle persone sono trasformati precisamente in cacofonia (B. J. Vorster in Grande Capo Toro Seduto, per esempio, VC, p. 14). Ma comprendono anche un progetto piú cauto – istigato, forse, dalla consapevolezza di quanto sia infantile schizzare merdaaddossoaquellefigure di potere che rifiutano le sue storiedisé–perincorporare lafiguradelcensoredentrodi sé (chiamandolo la figura nello specchio, chiamandolo l’Io) e manovrarla in tal modo. Il successo di quello stratagemma è dubbio: la prova è Mouroir, e Mouroir alla fine si esaurisce in un distratto giocherellare col filo di Arianna, dimenticato il Minotauro. In Breytenbach non mancano momenti di lucidità sulla natura essenzialmente magica del suo progetto di dominare la voce che dice No. Scrivere è un mezzo di sopravvivenza, dice. «Ma allo stesso tempo […] diventa l’esteriorizzazione della mia reclusione, […] i muri della miaprigionia»(VC,p.141). Uno dei destini della confessione a partire da Rousseau – o almeno della confessione laica – è stato quellodidipanarsiall’infinito nello sforzo di raggiungere la veritàoltreilproprioriflesso. In Breytenbach il compito di assumere su di sé il processo diautoriflessioneinprincipio sembra all’io narrante poco piú di un compito preliminare da svolgere (una sentinella da oltrepassare) primachepossacominciareil lavoro vero, la narrazione della storia: in questo caso la storia della sua clandestinità. Solo in seguito subentra la consapevolezza che raggiungereilverosé(svelare il Mistero Io) è il lavoro di unavita,comepulirelestalle diAugia. IlCensore. Nella sua maschera pubblica, politica, Breytenbach esprime un atteggiamento nei confronti della censura che è quello tipico dell’intellettuale progressista,cosmopolita.«La censuraèunattovergognoso [...] Ha a che fare con la manipolazione, col potere, con […] la repressione». Per loscrittoreaccettarediessere censurato è fatale. «Ti si radicadentrocomeunasorta di paternalismo interiorizzato. […] Diventi il tuo stesso castratore». «Una volta che ti sottometti alle limitazioni dei manager del potere, entri nel loro gioco, […]hannogiàvintoloro» 24. Nonc’èaccennoinqueste dichiarazioni del periodo successivoallacarcerazioneal fattoche,almenoperuncerto lasso di tempo, il poliziottocensoredell’immaginazionesi fosse installato in Breytenbach come il suo io allo specchio, e che la scritturaseppurenonfacevail gioco del censore aveva comunque instaurato un gioco col censore. Nelle occasioni pubbliche questa parte del discorso era stata censurata ed espunta. Quello che ci viene da Breytenbach di conseguenza è un discorso divisosullacensura,divisotra quellocheLeoStrausschiama l’exoterico e l’esoterico 25. Il discorsoexotericoècostituito dadichiarazionipubblichedel tipo che ho citato. In tale discorsoc’èunacompetizione evidente tra una voce che lotta per esprimersi e un bavaglio che la soffoca; il censore è demonizzato. Nel discorsoesoterico,ladottrina chevaricavatadaisuoiscritti piú intimi, è che lo scrittore scrive contro e non può scrivere senza una serie di resistenze interiorizzate che in sostanza non sono cosí diverse da un gemellocensore interiorizzato, al tempostessoamatoeodiato. Nei momenti piú intensi, la scrittura può vomitare residui di lotte sanguinose o soffocanti contro blocchi e resistenze: parole soffocate chevengonoliberate.Lavoce lotta per riprendere fiato, per respirareeschierarsicontrole figure persecutorie. La poesia di Breytenbach, e in particolare la sua poesia del periodo della prigione e di quello immediatamente successivo, è scrittura di questo tipo. Durante quel periodo può essere stato necessario per lui, per il suo progetto di vita, dichiarare pubblicamente la sua ascendenza e definirsi bastardo, né europeo né africano, afflitto dalla coscienza schizofrenica del bastardo. Ma il gesto stesso dell’accusa, cosí diffuso nella sua scrittura, rispecchiando quella che giudice e censore rivolgevanoalui,appartienea una strategia in fin dei conti futile di demonizzazione ed espulsione. Le poesie che sono emerse con lui dalla prigione alla luce del giorno additanouncompitobenpiú arduo: quello di vivere con il suodaimoneisuoidemoni. [1990-91]. Indignarsi L’offesa. All’inizio degli anni Novanta si è verificata una significativa svolta nel discorso pubblico in Sudafrica. I bianchi, che per secoli erano stati cordialmente indifferenti a quellocheineripensavanodi loro e a come li definivano, hannoincominciatoasentirsi irritati e perfino offesi dall’appellativo di «colono». In particolare, uno degli slogan di guerra del Congresso panafricano li pungeva sul vivo: «UN PROIETTILE COLONO ». PER OGNI I bianchi sottolineavano la minaccia di cui era carica la parola «proiettile», ma credo che fosse la parola «colono» quella che piú li disturbava. I «coloni», nel gergo sudafricano bianco, erano i sudditibritannicicheavevano ottenuto terre in Kenya e nelle due Rhodesie, persone che non avevano voluto mettere radici in Africa, che mandavano i figli a studiare all’estero e che continuavano a parlare dell’Inghilterra come della patria. Appena comparverosullascenaiMau Mau,icoloniseneandarono. Per i sudafricani, dunque, neri o bianchi poco importa, quella del «colono» è una figura di passaggio, qualunque sia la definizione chenedàilvocabolario. Quandoglieuropeimisero piede per la prima volta in Sudafrica definirono se stessi «cristiani» e gli abitanti del posto «selvaggi o pagani». La diade cristiani-pagani in seguito mutò per prendere diverse forme, per esempio civilizzati-primitivi, europeiindigeni, bianchi - non bianchi. In tutti i casi però, indipendentemente dai termini della coppia oppositiva adottata, c’era una costante: erano sempre i cristiani (o comunque il bianco, civilizzato, europeo ecc.) ad avere il potere di assegnareilnome,asestesso comeall’altro. Ipagani,inonbianchi,gli indigeni, i primitivi naturalmente avevano a loro voltaproprinomiperdefinire i cristiani-europei-bianchicivilizzati, ma poiché coloro che definivano tale contronomenclatura non lo facevano da una posizione di potere, né di autorità, quei nominoncontavano 1. A partire dalla metà degli anniOttanta,peròviaviache la loro autorità politica andava tramontando, il potere di coloro che si definivano bianchi di nominare, e nominare in modo stabile gli altri e soprattutto, ancora piú significativamente, quello di resistere o ignorare i nomi che venivano assegnati loro andò scemando. Di per sé non c’è nulla di offensivo nel nome«colono».Èuntermine che fa parte del lessico dei bianchi. Ma nel Sudafrica contemporaneo è una parola «rubata»,vienedallaboccadi altri, è pronunciata in modo ostile, e porta con sé un bagagliostoricocheaibianchi non piace. Per la prima volta nella loro storia (una storia che per molti versi non era piú scritta o fatta da loro) i bianchi, sentendo «UN PROIETTILE PER OGNI COLONO »,sisonotrovatinella posizione di coloro cui viene assegnatounnome.Einparte si sono sentiti offesi proprio perilsensodiimpotenzache quell’essere nominati dava loro; in parte per aver scoperto sulla propria pelle che il processo dell’assegnare il nome include il controllo sulla distanza deittica: può tenere la persona nominata a una precisa distanza di sicurezza cosí come può avvicinarlaaffettuosamente. Nonèchiaroilmotivoper cui nomi apparentemente neutri come indigeno (o negronegliStatiUniti)invece disvuotarsidisignificatoman manocheillorousosiradica nella lingua – che è poi il destino di molti nomi – al contrarioabbianoaccresciuto la loro potenzialità di offendere e irritare, al punto che solo gli ostinati o quelli con la pelle dura continuano a usarli. Solo quando consideriamo il loro uso come un atto verbale, come un gesto che segna una distanza,cispieghiamolaloro resistenza all’entropia semantica. Il contenuto (il colore nero del negro, la natura autoctona dell’indigeno) può ridursi fino a che delle parole non restacheungusciovuoto,ma quando irrompe in un atto verbale, quando viene usato come nome, recupera tutto il suopoteresimbolico,ilpotere di chi lo usa di assegnare il nome. Colono sembrerebbe neutro quanto indigeno dal puntodivistadenotativo,ma nello slogan «UN PROIETTILE PER OGNI COLONO» diventa offensivoeviolento;partecipa di un atto che asserisce una distanza oltre che una superiorità storica rispetto al suooggetto.Peribianchiche lo sentivano, che non potevano ignorarlo, né impedirlo, non c’era altro da farecheoffendersi. Ma offendersi non è prerogativa di coloro che si trovano in una condizione di subordinazione o di debolezza, e d’altra parte l’esperienza o la premonizione dell’essere privati del potere mi sembra intrinsecamente presente in tuttiicasiincuicisioffende (èsuggestivoipotizzarechela logica provocatoria dell’ingiuria, quando viene usata come tattica messa in atto dai deboli contro i forti, siaquellapercui,sesiriescea farli offendere, almeno momentaneamente, le due parti si trovano sullo stesso piano). Gliintellettuali. Gli intellettuali laici e razionali non sono portati a offendersi facilmente. Come Poppertendonoacredereche devo imparare a non fidarmi dellaconvinzioneosensazione istintiva che sono io ad avere ragione. Non devo fidarmi di quella sensazione per quanto forte possa essere. In effetti, tantopiúessaèforte,tantopiú devo diffidare, poiché tanto piúèforte,tantopiúgrandeè il pericolo che io stia ingannando me stesso e, di conseguenza,ilpericolocheio diventi un intollerante fanatico 2. Le convinzioni che non sono fondate sulla ragione (cosí ragionano) non sono forti ma deboli; è segno di una posizione debole, non di una posizione forte, il fatto che il suo detentore, se provocato, si offende. Tutti i punti di vista meritano di essere ascoltati (audi alteram partem); e la discussione, secondo le regole della ragione, deciderà chi debba trionfare. Tali intellettuali tendono anche a disporre di spiegazioni ben articolate («teorie») delle emozioni – delle quali la mia stessa spiegazione del meccanismo secondo il quale ci si offende e l’analisi di Popper del «fanatismo» sono esempi – e ad applicare quelle spiegazioni, in modo per quantopossibileconsapevole, alle loro stesse emozioni. Quandosiindignanocercano di farlo in modo programmatico,stabilendo(o credendodistabilire)lesoglie delle loro reazioni e permettendosi(ocredendodi permettersi) di reagire alle provocazionisoloquandosiè andatialdilàdiquellesoglie. Ilmitodelfairplay(ovverola convinzionecheconleregole del fair play hanno piú probabilità di vincere che di perdere),cherappresentauno dei loro valori piú profondamente radicati, favorisce la simpatia per gli emarginati, per i subordinati, e impedisce di infierire sui perdenti. Lacombinazionediqueste due cose, di un controllo attento e razionale delle emozioniedellasimpatiaper i subordinati, tende a produrre una duplice reazione di fronte all’offesa che viene dall’altro. Da una parte l’intellettuale di cui parlo vede l’insulto come un fatto irrazionale o prerazionale e sospetta che si tratti della copertura di una posizione debole. Dall’altra parte, nella misura in cui riconosce nell’offesa la reazionedichinonhapotere, l’intellettuale può finire per schierarsi, almeno dal punto divistaetico,dallapartedella persona insultata. Ovvero senza partecipare del sentimento di chi si sente offeso, anzi magari ritenendolo privatamente un po’ arretrato, una facile caduta in una comoda forma di emotività, ma comunque sulla base della convinzione che l’altro abbia pieno diritto di sentirsi offeso, e in particolare che gli inferiori nondebbanovederaggravato illorostatodisubordinazione dall’imposizione delle forme di ribellione alla loro condizione di subordinazione. L’intellettuale è dunque pronto a rispettare e magari anche a difendere il diritto dell’altro a offendersi allo stessomodoincuièprontoa rispettare il rifiuto di uno a mangiare carne di maiale, mentrepersonalmenteritiene quel tabú una forma di superstizioneediignoranza. Questa tolleranza, che a secondadicomelasiguardaè espressione di grande civiltà oppure di autocompiacimento, ipocrisia e paternalismo, è conseguenza della fiducia degli intellettuali nell’atteggiamento laico e razionale che li caratterizza e della loro convinzione che si possaspiegarepressochétutto e perciò – secondo i loro criteri che annettono la massima importanza alla capacità di spiegare tutto – non possa essere a sua volta oggetto di un qualche altro metodoesplicativoancorapiú generale. La ragione è una forma di potere inconsapevole dell’esperienza dellaprivazionedipotere. Compiaciuti o meno, gli intellettuali del tipo che sto descrivendo, sulla scorta dell’apollineo «conosci te stesso», criticano e incoraggiano la critica delle basistessedellorosistemadi valori.Taleèlalorosicurezza che possono perfino arrivare ad accogliere gli attacchi, e sorridere quando vengono sbeffeggiati e ingiuriati, rispondendo con il massimo apprezzamento agli attacchi piú originali e interessanti. E in particolare accolgono con gioiaitentativididescrivereil loro lavoro relativizzandolo, inserendolo in un contesto storico e culturale. Approvano quelle descrizioni e a loro volta si mettono subito all’opera per inquadrarle all’interno di un progetto razionale, che poi è come dire per recuperarle. Sono,permoltiversi,comeil maestrodiscacchiche,sicuro dellapropriaabilità,siaugura di incontrare rivali alla sua altezza. Io a mia volta sono (e speroanchedinonesserlodel tutto) un intellettuale di quel tipo e le mie reazioni all’aggressione morale o alla dignità offesa sono inquadrate all’interno (anche se, ancora una volta, spero non solo all’interno) dei processi di pensiero e del sistema di valori cui ho accennato.Ècomedirechele mie reazioni sono quelle di uno il cui primo impulso quando viene offeso è di sottoporre quelle sensazioni incipienti al vaglio di una razionalità scettica; di uno che, anche se è capace di offendersi (per esempio, se viene chiamato «colono»), nonprendepoitantosulserio la sua stessa indignazione, e in particolare non la ritiene una ragione sufficiente per prendere un qualsiasi provvedimento. In Memorie del sottosuolo ilprotagonistadiDostoevskij, un altro intellettuale razionale, anche se forse di temperamento piú irascibile di tanti altri, identifica la capacità di sentirsi sinceramente offeso e indignato(comeanchequella di provare un amore senza riserve e una felicità priva di complicazioni) come uno dei tratti della personalità integrata e disinvolta che preferirebbe avere. Al tempo stesso egli però disprezza la felicitàprivadicomplicazioni e in generale la vita non sottoposta a riflessione e non esita a individuare il tarlo dell’autocompiacimento nel cuorestessodellasincerità;la sua acuta analisi identifica l’indignazione per l’offesa patitacomelamossaspavalda del soldato prepotente nonché come ultima risorsa del povero impiegato. E comunque la sua stessa capacità di inquadrare storicamente e sociologicamenteilfenomeno lo svuota di ogni energia e convinzione quando cerca, a sua volta, di sentirsi offeso. Viceversa,laluciditàdellasua diagnosi che considera la razionalità come un’infinita partitadiscacchiconsestessi denuncia in lui il razionalista congenito ed è con quel doppio paradosso, con quell’idra bifronte, che lotta invano. Perchinonrispettafinoin fondo il proprio sentimento di offesa è difficile rispettare profondamente quel sentimento quando si manifesta negli altri. Gli si tributa quello stesso rispetto che si tributa all’osservanza religiosa di alcuni, pur ritenendola una forma di superstizione; in altre parole quelchesirispettaèildiritto di ciascuno a credere in quello che vuole, pur conservando le proprie riserve nei confronti della fede in generale e mantenendo quell’atteggiamento contraddittorio sulla base del principio pragmatico di Locke, secondo il quale se non interferiamo nella vita privata degli altri è meno probabile che questi tendano a interferire nella nostra. Si trattadiuncompromessofra le convinzioni personali e la loro espressione pubblica, compromesso adottato nell’interessedell’ordinecivile e della pacifica convivenza, una posizione che non ha nulla a che fare con l’etica e che ci richiede solo di prendere nota dei punti di vista dei nostri concittadini e di comportarci scrupolosamente, in ogni istanza, come se li rispettassimo. Non ci chiede altro, non ci chiede di rispettare intimamente quei sentimenti e in particolare di rispettare – quando si manifestano–isentimentidi indignazione per l’offesa subita. L’indignazionedeipotenti. Nella mia analisi dell’offesa ho sottolineato come elemento cruciale la debolezza della parte offesa nella genesi del senso di indignazione.Ladebolezzadi unasettareligiosaminoritaria o di una minoranza etnica è cosa facile da vedere. Ma quando, all’estremo opposto, èungovernonazionaleouna chiesa dominante o ancora una classe al potere a sentirsi offesa da una qualche posizione o rappresentazione fino al punto di decidere di sopprimerla, come posso ragionevolmente sostenere che reagisce cosí per debolezza? LacensuradiStatocioffre un indizio. La censura di Stato si presenta come una roccaforte a difesa della società che vuole preservare dalle forze sovversive o corrotte. Trascurare come ipocriti i motivi addotti dallo Stato a questo proposito sarebbe un errore: è caratteristico della logica paranoide della censura ritenere che la virtú, in quanto virtú, debba essere innocente e dunque, se non protetta, vulnerabile alle astuzie del vizio. Perciò la debolezza non deve essere necessariamente e oggettivamente tale: i timori dei potenti non osano manifestarsi chiaramente in quanto,proprioperchétimori deipotenti,debbonoapparire infondati. Inoltre, la possibilità dei potentididifendersicontrola rappresentazione che di essi viene data è sorprendentemente limitata. E piú la rappresentazione è accurata,piúlimitataèquella possibilità. Ortega ipotizza chelamimesisnonsiaguidata da uno spirito di fedeltà, ma da quello della satira 3. Può darsi che come generalizzazione la cosa non regga; ma dal punto di vista della persona imitata deve sicuramente apparire verosimile. Perché piú l’imitazione è riuscita e piú scatena le risa dell’osservatore. Solo in virtú della loro importanza i potenti divengono oggetto di imitazionichelischerniscono o sembrano schernirli e che non possono essere eliminate che con la forza. Eppure nel momento stesso in cui prendonodellemisurecontro quellerappresentazioniperla loro natura intrinsecamente tendenziosa, tradiscono o sembrano tradire una vulnerabilitàallasatira. La logica che ho delineato illuminanonsolol’impotenza del potere – impotenza nel sensocheilpoterenonsapiú che pesci prendere – ma anche la fondamentale crudeltà della rappresentazione (e non penso solo a quella satirica o caricaturale). Coloro che quotidianamente si dedicano alla pratica della rappresentazione non ci vedono niente di magico e dunquenullachesiadegnodi rispettoinchiattribuisceloro poteri magici. Quanto piú l’artista vede che la parte offesa prende sul serio il suo lavoro, quanto piú questo vienedenunciato,tantomeno la prenderà sul serio (il che ovviamente non significa che sottovaluterà la possibile vendettadellaparteoffesa). Lacensuraoggi. Nei sette anni trascorsi da quando ho cominciato a scrivere questo libro, il contesto in cui scrivo ha subito due svolte storiche e forse perfino epocali per quanto riguarda il panorama politico. Da una parte, nel corso del passaggio di potere iniziato nel mio paese a partiredal1990,lacensuradi Statoèvirtualmentecadutain disuso; e questo mentre gli analoghi sistemi di censura cadevano anche nell’Urss e nei paesi dell’Europa orientale. Dall’altra parte, è venuto meno il consenso liberale sulla libertà di espressione che un tempo si poteva dire regnasse indiscusso fra gli intellettuali occidentali e che tanto ha contribuito a definirli come gruppo compatto. Negli Stati Uniti, per esempio, alcune istituzioni culturali hanno approvato la proibizione di certe forme di discorso, mentre le manifestazioni contro la pornografia non sono piú limitate alla sola destra. Perfino in Sudafrica, dove ci si sarebbe potuti aspettare che l’intellighenzia, con la sua esperienza diretta dellacensura,resistesseaquel fenomeno, è iniziata un’inversione di rotta. Per esempio accademici ed editori, gruppi che in precedenza si erano schierati nettamentecontrolacensura, hanno, per contribuire alla generale Säuberungsaktion, collaborato con le autorità istituzionali a espungere le parole di contenuto razzista dalle nuove edizioni dei classicidilinguaafrikaans. Verso la metà degli anni Ottanta potevo dare per scontato che l’intellighenzia in generale condividesse a grandi linee la mia idea; che era preferibile che la libera espressionedelpensierofosse perl’appuntolibera.Sepoisi scopriva che alcune delle forme assunte dalla libertà di espressioneeranodeplorevoli, quello era il prezzo della libertà. La censura istituzionale era segno di debolezzadelloStatoenondi forza; l’elenco dei casi di censura nel mondo era cosí abominevole da screditarla per sempre. Nel 1995 tutto ciò non è piú scontato. Ci sono intellettuali di chiara fama che invocano sanzioni legali e istituzionali contro scritti e film che nel vecchio Sudafrica venivano definiti indesiderabiliecheoggisono generalmente dichiarati offensivi. Mentre la tesi secondolaquale,neiconflitti fra lo scrittore e la legge, la giustizia deve stare sempre dalla parte dello scrittore è a suavoltainprocintodiessere inquadrata storicamente e messadapartecomeastorica, come caratteristica del «liberalismo sconsiderato di trent’annifa» 4. Controlacensura. Questo testo non vuole essereunattaccoallacensura (le polemiche degli scrittori contro i censori raramente fannoonoreallaprofessione). Non è mia intenzione citare esempi estremi per la loro violenza morale o politica, ovvero i casi-limite che sono lamateriapiuttostodifilosofi e legislatori. Mi limito a trattare i due argomenti piú scottanti del dibattito sulla censura oggi, la razza (razzismo) e il sesso (misoginia e omofobia), tralasciando in questa sede il temadellablasfemia. Finoachepuntolasocietà occidentale sia divenuta laica è dimostrato dal generale stuporeconcuièstataaccolta la condanna islamica dei Versi satanici e del suo autore, Salman Rushdie. Il Regno Unito, di cui Rushdie ha la cittadinanza, ha ancora leggi contro l’espressione blasfema,maquelleleggi,ein verità l’idea stessa di affidare il nome dell’Onnipotente alla protezione delle corti giudiziarie, appaiono sempre piú anacronistiche. Per i musulmani credenti la questione scottante è stata capireseiVersisatanicierano blasfemi e, se lo erano, quale dovesse essere la sorte del loro autore. Per gran parte degli inglesi invece l’interrogativo è stato di carattere giurisdizionale: gli stranieri – e in particolare un’autorità religiosa straniera – hanno o no il diritto di condannare a morte un connazionale? La solidarietà neiconfrontidelperseguitato Rushdie è stata rafforzata dal sospetto che anni e anni di risentimento antioccidentale venissero scaricati su di lui e che – anche se la pubblicazionedeiVersiaveva dato fuoco alla miccia – Rushdie fosse stato preso come rappresentante di un intero establishment intellettuale che, acclamando il libro, ne accresceva l’ingiuria. Ilcensoreagisce,ocrededi agire,adifesadellacomunità. In pratica spesso dà voce all’indignazione di quella comunità che si sente offesa, ochecomunqueimmaginasi sentaoffesa;avolteimmagina entrambelecose:lacomunità e l’offesa. Anche se cerco di affrontare il problema della censura come un tema complesso, dai risvolti psicologicioltrechepoliticie morali, i saggi qui raccolti non sono in alcun modo favorevoli all’istituzione della censura. Non mi posso schierare dalla parte del censore, non solo per una vocazione scettica, in parte dovutaalmiotemperamento, in parte alla mia professione, nei confronti delle passioni che derivano dall’indignazione per l’offesa subita,maancheperviadella realtà storica all’interno della qualesonovissutoeperchéso peresperienzapersonalecosa significa la censura una volta che è stata istituita e istituzionalizzata. Nulla di quantohovissutoelettopuò persuadermi di una qualche bontàintrinsecadellacensura di Stato, poiché i mali che produce e rappresenta sono, nel lungo e nel medio periodo,dimoltosuperioriai benefici che qualcuno sostienenederivino. Questo non è un giudizio disinteressato.Cisonoottime ragionistoricheperlequali– apartiredall’invenzionedella stampa e con l’enorme aumento del potere di diffusione che quell’invenzione ha prodotto, almeno fino al declino della posizione dominante della stampa come mezzo di comunicazione – gli scrittori hanno avuto un rapporto difficile con le autorità di governo. L’ostilità fra le due parti, che ben presto divenne permanenteeistituzionale,fu esacerbata dalla tendenza degli artisti, a partire dalla fine del diciottesimo secolo, adassumere,comelororuolo sociale, e a volte addirittura loro vocazione e destino, il controllo dei limiti (ovvero deipuntideboli)delpensiero e dei sentimenti, della rappresentazione, della legge e della stessa opposizione, in modi che la classe al potere non poteva non trovare sgradevolieperfinooffensivi. Ed è alla fine di quel movimento storico che io, in un certo senso, sono nato in quanto scrittore e intellettuale. Ma a parte la spiegazione storica della mia posizione, ho motivi piú pragmatici per diffidare della censura. E primadituttoilfattoche,per quanto ho potuto sperimentare, la cura è peggiore della malattia. L’istituzione della censura mette il potere nelle mani di persone con una mentalità giudiziaria, burocratica: fatto, questo, negativo per la vita culturale e perfino per la vita spirituale della comunità. La tesi fu sostenuta secoli fa da John Milton. Se dobbiamo avere censori professionali e adeguati,diceMilton,bisogna chesianopersone«aldisopra della norma, studiose, colte e sagge». Ma per tali persone studiose,colteesagge non potrebbe esserci lavoro quotidiano piú tedioso e sgradevole [...] che l’essere costretti a leggere perpetuamenteopuscolielibri d’ognisorta[...].Vistodunque chequellichesonooraaddetti a quell’ufficio mostrano apertamente di volersene sbarazzare, e visto che è poco probabile che un uomo di merito […] voglia mai rimpiazzarli [...] noi possiamo facilmente prevedere qual è la specie di censori che dobbiamo aspettarci in avvenire: o ignoranti, arroganti e negligenti, o bassamentevenali 5. Come dire che coloro che finiscono per fare i censori sono proprio quelli che non dovrebberofarlo. A livello individuale la battagliacolcensorerischiadi diventare troppo importante nella vita dello scrittore, cosa che quantomeno lo distrae dalla sua occupazione vera e nella peggiore delle ipotesi lo affascina fino a corromperne l’immaginazione. Nei diari degli scrittori che hanno lavoratoinregimedicensura troviamo descrizioni eloquentieterribilidicomela figura del censore venga incorporata involontariamente nella vita psichica e interiore e porti con sé umiliazione, vergogna edisgustodisé.Nellefantasie involontarie di questo tipo il censore viene generalmente vissutocomeunparassita,un invasore patogeno dell’io corporeo, ripudiato con intensità viscerale ma mai completamenteespulso 6. I paesi piú rispettosi della legge non sono quelli con le carceri piú piene, ma quelli con il minor tasso di criminalità. La legge, compresa quella sulla censura, sogna una cosa sola. Sogna che la ronda quotidiana di identificazione e punizione dei malfattori scomparirà, che la legge e le sue regole saranno cosí profondamente inscritte nei cittadini che gli individui si reprimeranno da soli. La censura guarda con ansia al giorno in cui gli scrittori si censureranno da soli e i censoripotrannotornarsenea casa. È per questo che l’espulsionefisicadelcensore, vomitato come si vomita un demonio,haassuntouncerto valore simbolico per lo scrittore di ascendenza romantica: rappresenta il rifiuto del sogno della ragione, del sogno di una società retta da leggi fondate sulla ragione, leggi cui si obbedisce in quanto sono ragionevoli. La scrittura non fiorisce sotto la censura. Questo non significa che l’editto del censore, o la figura del censore interiorizzata, sia la sola o anche soltanto la principale pressione subita dallo scrittore: ci sono forme di repressione ereditate, acquisite, o autoimposte che possonoesseresentiteancora piúpesantemente.Cipossono essere perfino situazioni in cuilacensuraesternastimola lo scrittore in modo interessante o ne scatena la creatività. Ma le astuzie esopiche prodotte dalla censuraingeneresonotutt’al piú ingegnose, mentre gli ostacoli che lo scrittore è capace di trovare in se stesso sono già abbastanza per non andarseneacercarealtri. E nondimeno, per il bene comune, per il bene dello Stato, di tanto in tanto vengono istituiti apparati normativi e di controllo che crescono e si radicano secondo il desiderio dei censori. È difficile per qualunque scrittore contemplare le dimensioni di tali apparati senza un sorriso di incredulità. Se le rappresentazioni, pure ombre, sono davvero cosí pericolose,cisidice,alloradi certo le contromisure appropriate consistono in altre rappresentazioni, contro-rappresentazioni.Sela satira corrode il rispetto per lo Stato, se la bestemmia insulta Dio, se la pornografia avvilisce le passioni, di certo basteràchelevocicontrariesi alzino,piúfortieconvincenti, a difesa dello Stato, a lode di Dio e in esaltazione dei casti amori. Una risposta, questa, pienamenteinaccordoconla teleologiadelliberalismo,che crede nell’apertura del mercato alle forze in competizione perché alla lunga il mercato tende al bene,ovveroalprogresso,che il liberalismo interpreta in una luce storica e perfino metafisica. Una visione però in totale contrasto con quella delle correnti piú austere dell’islam,delgiudaismoedel protestantesimocristianoche, individuando una forza seduttiva e diabolica alle radici della rappresentazione e non avendo perciò motivo di credere che, nel conflitto fra le rappresentazioni (una guerra senza regole), le immagini buone trionferanno, preferiscono proibire le rappresentazioni figurative. E cosí siamo arrivati ad affrontare la discussione sui diritti dell’individuo contrapposti a quelli della collettività. Un dibattito sufficientementenotodanon aver bisogno di essere riaffrontatoinquestasedeeal quale del resto non potrei portare un contributo personale,salvoforseinvitare alla cautela nei confronti di quel tipo di vigilanza morale che definisce alcune classi di persone vulnerabili, e si appresta a difenderle da pericoli dei quali esse stesse vanno tenute all’oscuro perché (cosí dicono) il solo conoscere il pericolo basterebbeaferirle.Parloqui prima di tutto dei bambini, anche se lo stesso argomento è stato sostenuto a proposito dei cosiddetti credenti ingenui. Ci preoccupiamo di proteggere i bambini, soprattutto di proteggerli dalle conseguenze della loro infinitacuriositàsessuale.Ma non dovremmo dimenticare cheibambinipercepisconoil controllo delle proprie esplorazioni – controllo che per suo stesso principio non può dichiarare esattamente che cosa sia proibito – non come una protezione ma come una frustrazione. Dalle misurechegliadultiadottano perimpedirelasoddisfazione dellalorocuriosità,ibambini non potrebbero legittimamentededurrechela curiosità stessa sia censurabile? E dalle spiegazioni che vengono loro fornite per giustificare quei limiti – spiegazioni peraltro piene di lacune – non potrebbero forse dedurre di non essere rispettati come esserimorali?Enonpotrebbe essere che il torto etico fatto al bambino in tale processo finisca nel lungo periodo per danneggiarlo piú della sua stessacuriosità? 7. Questo non è un argomento a favore o contro il tenere materiale pornografico alla portata dei bambini. È solo una riflessione su come i pericoli vadano soppesati da entrambe le parti, su come pesi ciò che è imponderabile, su come, in fin dei conti, si trattidisceglierefraduemali. Nel compiere tali scelte potremmo includere nel nostroragionamentoanchela considerazione che per un bambinolecosechegliadulti fanno con i loro corpi non sono solo affascinanti e repellenti, ma anche brutte e buffe, perfino sciocche. C’è poi un’altra considerazione che, indipendentemente dalla capacità del bambino di bloccareilpensierochequello che vede nel film succede anche fra suoi genitori, è difficile per il genitore non proiettare quel pensiero sul bambino e quindi, rivivendo lacosaattraversoilbambino, nonimbarazzarsi,vergognarsi o perfino adirarsi. Non dovremmo dimenticare neppure chi sia piú imbarazzato quando allo sguardocandidodelbambino viene presentato il crudo spettacolo della nudità degli adulti. È un momento complesso; ma nel nostro desiderio di evitare al bambino quegli spettacoli non potrebbe esserci anche il desiderio di non sminuirci, per associazione, nella stima del bambino, di non divenire oggetto del suo disgusto o perfinodelsuodivertimento? Max Scheler distingue fra la nuditàdiunaVenerescolpita con tale timore reverenziale da apparire ricoperta di un velo di modestia e la «privazione d’anima» che si verifica quando la meraviglia del primitivo e del bambino sonoperduteeilcorponudo viene guardato con occhi consapevoli. Egli collega la perdita dell’anima a quello che chiama «lo sviluppo appercettivo» degli organi sessualidalcorpo,organiche nonsonovistipiúcomeparte integrante del corpo e non ancora come «campi di espressione delle passioni interne»; gli organi sessuali allora, in particolare l’apparatomaschileconilsuo aspetto di visceri fuoriusciti, minacciano di diventare oggetto di disgusto 8. Non è assurdo voler preservare l’infanzia dei bambini proteggendoli da tali spettacoli; ma nel far ciò stiamo proteggendo la nostra sensibilitàolaloro? Gliorganisessuali,osserva sant’Agostino, si muovono indipendentemente dalla volontà. A volte reagiscono quando noi non lo vorremmo, altri restano «congelati» quando vorremmo usarli 9. Da questa disubbidienza della carne, segnodellanostracondizione mortale, nessuno è esente, neppure i guardiani della nostra morale. Un censore cheproibiscequalcosa,chesi tratti di uno spettacolo osceno o di una imitazione satirica,ècomeunuomoche cerchi di bloccare un’erezione. Lo spettacolo è ridicolo,cosíridicolocheegli èbenprestovittimanonsolo del suo membro ribelle ma anche delle risate e delle dita puntatedichiloosserva.Edè per questo che l’istituzione della censura si deve circondare di proibizioni ulteriori contro le offese alla suadignità.Dall’indignazione per lo scherno alla proibizione dello scherno di chi è indignato: un passaggio fin troppo noto della tirannide, un motivo in piú dunque per esortare alla cautela. A proposito della similitudineappenadelineata, non c’è bisogno di ricordare che chi pronuncia il giudizio non deve necessariamente essere maschio. Chi pronuncia il divieto per ciò stesso rivendica a sé il fallo, ma il fallo nella sua forma materiale,ilpene.Assumendo la posizione del censore, costui diventa, in effetti, cieco,lapersonaalcentrodel cerchionelgiocodellamosca cieca. Per un certo tempo, fino a quando non può passareadaltrilabendacheal tempostessolosegna,loeleva e lo impaccia, gli tocca la parte del buffone che inciampa ovunque, di cui tutti ridono e che tutti schivano. Se deve regnare lo spiritodelgioco,lospiritodel bambino, il censore deve accettare la parte del buffone che spetta alla regalità bendata.Ilcensorecherifiuta di essere il buffone, che si strappa la benda e accusa e punisce quelli che ridono, non sta al gioco. E cosí diventa,secondoilparadosso di Erasmo, il vero buffone, o piuttosto il falso buffone. È un buffone perché non sa di esserlo,perchépensadiessere il re, visto che è al centro del cerchio. I bambini non sono innocentiinquantobambini. Siamo tutti stati bambini e sappiamo – a meno che non preferiamo dimenticarlo – quanto poco fossimo innocenti, quanti sforzi di indottrinamento ci siano voluti per farci innocenti, quantevolteabbiamocercato di scappare dalla messa in scena dell’infanzia e con quanta durezza siamo stati ognivoltaricondottiall’ovile. Né tantomeno possediamo una dignità innata. Di certo nasciamo privi di dignità e passiamo abbastanza tempo da soli, nascosti agli sguardi altrui, a fare le cose che facciamo da soli, per non sapere quanto poco diritto abbiamo di rivendicarla. E vediamo anche come alcuni animali (i gatti per esempio) si preoccupino della loro dignità, per non renderci contodicomepossanoessere comichelepretesedidignità. L’innocenza è la condizione nella quale cerchiamo di mantenere i nostri figli; la dignità è una condizione che rivendichiamo per noi stessi. Gli affronti all’innocenza dei nostrifiglioalladignitàdella nostra persona non sono attacchi rivolti alla nostra essenza individuale ma a costruzioni, costruzioni nelle qualiviviamo,mapursempre costruzioni.Equestononper dire che gli affronti all’innocenza o alla dignità non siano veri affronti, o che l’indignazione con la quale reagiamo nei loro confronti non sia reale ovvero realmente sentita. Le violazioni sono reali; ma quellocheèviolatoperònon è la nostra essenza, ma un’ipotesi fondamentale che noi sottoscriviamo, piú o menoconvinti,un’ipotesiche potrebbe anche essere indispensabileperunasocietà giusta, ovvero che gli esseri umanihannounadignitàche li distingue dagli animali e che di conseguenza li protegge dall’essere trattati come animali (sarebbe auspicabile che in futuro, quando agli animali sarà riconosciutalalorodignità,il divieto sia riformulato come divieto che proibisce che una creatura vivente sia trattata comeunacosa). L’ipotesi della dignità ci aiutaadefinirel’umanitàela condizionediumanitàaiutaa definire i diritti dell’uomo. C’è dunque un’accezione reale in cui un affronto alla nostra dignità lede i nostri diritti. Eppure quando, offesi per tale affronto, ci facciamo scudo dei nostri diritti e chiediamogiustizia,faremmo bene a ricordare quanto inconsistente sia la dignità sulla quale quei diritti sono basati.Dimenticandodadove vengono i nostri diritti rischieremmodiassumereun atteggiamento ridicolo quantoquellodelcensore. La vita, dice Erasmo in L’elogio della follia, è teatro: tutti noi abbiamo le nostre battute e le nostre parti da recitare. C’è un tipo di attore che, rendendosi conto di trovarsi dentro a una recita, continuerà comunque a recitare; un altro genere di attore, scioccato dalla scopertadistarepartecipando a una finzione, cercherà di scendere dal palco e uscire dalla scena. Il secondo attore sbaglia, perché non esiste nientealtrocheilteatro,non c’è vita alternativa alla quale partecipare. Lo spettacolo è, per cosí dire, l’unico spettacolo in città. Non c’è altrodafarechecontinuarea recitare la propria parte, anche se forse con una consapevolezza nuova, una consapevolezzacomica. Eccoci arrivati a una coppia di paradossi di Erasmo. Una dignità che merita rispetto e una dignità senza dignità (cosa molto diversa dalla dignità inconsapevole o naturale); un’innocenza meritevole di rispettoeun’innocenzasenza innocenza.Quantoalrispetto stesso si sarebbe tentati di suggerire che si tratti di un concetto superfluo, anche se per il funzionamento del teatro della vita può risultare indispensabile.Ilverorispetto èunavarietàdell’amoreepuò essere sussunto sotto la categoria dell’amore; rispettarequalcunovuoldire, fra le altre cose, perdonargli un’innocenza che, fuori del teatro, sarebbe falsa, una dignità che risulterebbe ridicola. Lapornografia. I conservatori e i loro critici. Suitemidellapornografia, e in generale delle sanzioni legali in campo morale, c’è tutta una serie di posizioni che possono essere genericamente definite come conservatrici. La piú estrema di queste è che, essendo la morale un bene prezioso in sé, qualunque decisione si debba prendere contro l’immoralità in una sua qualunque manifestazione è giustificata. Una posizione piú moderata vorrebbe che, poiché la morale comune – chesiaonobuonadipersé– è ciò che tiene insieme la società, le infrazioni della morale costituiscono un’offesa all’intera società, offesa nei confronti della quale la società stessa è autorizzata a difendersi. In particolare quando tali infrazioni della morale sollevano nel pubblico un’ondatadiintolleranzaedi indignazione, la legge ha il preciso dovere di reagire. Questa posizione moderata non è di per sé considerata parte della morale comune, ma è enunciata come principio autonomo, razionalmentedifendibile 10. Se applicata alle arti, l’asserzionedellasovranitàdel principio morale o, piú moderatamente,delconsenso morale,attribuisceall’artistao aglieditoriedistributoridella suaoperailcompitodievitare l’offesa. Secondo H. L. A. Hart, critico liberale delle posizioni conservatrici, quell’onere non è giusto: accettando il ruolo di custos morum,itribunalisacrificano il principio essenziale di legalità che richiede che i crimini siano definiti il piú precisamente possibile, «cosí chesiapossibileconoscerein anticipo con ragionevole certezza quali atti siano criminali e quali non lo siano» 11. Nell’assumere tale posizione Hart ribadisce l’opposizionedeiMill,padree figlio, alla tirannia della morale popolare: James Mill ha distinto fra azioni veramente ingiuriose, nei confronti delle quali è giustificata la pubblica disapprovazione,eazioniche suscitano semplicemente antipatieinfondate. Ronald Dworkin, nello schieramento conservatore moderato – uno schieramento che sceglie di identificare con le posizioni del giurista inglese Patrick Devlin – distingue due argomenti. Il primo è che quando l’opinione pubblica arriva all’intolleranza, all’indignazione e al disgusto la società ha il diritto di difendersiediimporreisuoi standard. Poiché secondo questo argomento per invocare la legge non si richiede niente di piú di un’appassionata disapprovazione pubblica (l’antipatiainfondatadiJames Mill),taleargomentononha, agliocchidiDworkin,statuto di argomentazione morale 12. Il secondo problema è che ogni società ha bisogno di difendere le sue istituzioni sociali fondamentali, vale a dire che, in virtú di un principio democratico, i legislatori debbono seguire qualunque «consenso o posizione morale» prevalga nellacomunitàallargata.Qui, sostiene Dworkin, i conservatori come Devlin usano la morale e la nozione diunaposizionemoraleinun senso puramente «antropologico»: il consenso cui ci si appella non ha bisogno di avere una base morale adeguata, ma può essere una somma di «pregiudizi [...] razionalizzazione [...] e avversione personale (che nonsibasasullaconvinzione masolosuunodiocieco)» 13. Questo non vuol dire – sottolinea Dworkin – che il legislatore debba ignorare il sentimento della comunità ma, a meno che il consenso cui presta ascolto non derivi dalla «convinzione morale» piuttosto che da una «posizione morale», il legislatore che vi aderisce assumerà una posizione meramente strategica piuttosto che basata su principî morali. Inoltre la convinzione morale dev’essere dimostrata, non solo asserita – per esempio sullabasedi«ragionimoralio argomenticheilmembrotipo della società potrebbe sinceramente e coerentementesostenere» 14. Qui si potrebbe porre un interrogativo: ovvero, se non possiamo essere certi di quellochenoistessicrediamo sinceramente,rispettoaquello in cui ci limitiamo a credere, come fare a sapere con certezza ciò in cui gli altri credono sinceramente? Storicizzandoodecostruendo la nozione di sincerità potremmo con un po’ di fantasia mostrare come la sincerità di tutti, compresa la nostra, altro non sia che una copertura dell’interesse personale. La conclusione sembrainevitabile:anchesolo per evitare l’anarchia dello scetticismo indiscriminato, dobbiamo, quando qualcuno ci dice di credere in qualche cosa, accettare che sia cosí, o almeno reagire come se lo fosse, indipendentemente dallenostreeventualiriserve. Iprincipîliberali. PerJohnStuartMillnonè la società che richiede protezione contro l’individuo deviante, ma sono piuttosto i diritti di quell’individuo a doveressereprotetti,nonsolo contro «la tirannide del magistrato» ma anche contro «la tirannia dell’opinione e del sentimento predominanti», cioè a dire contro la tendenza della società a imporre le sue proprie pratiche e regole di condotta a tutti. Il tema ricorrente del Saggio sulla libertà di Mill è che «l’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire con la libertà d’azione di chiunque al solo fine di proteggersi». Un intervento in nome della salvaguardia del benessere morale dell’individuo non può in nessun caso essere giustificato 15. Lo Stato dovrebbe mantenere una posizione neutrale nelle questioni morali, non promuovere ciò che è moralmente ammirevole e non sanzionare ciò che è moralmentedeplorevole,fino achenonfamaleanessuno. Èpossibileelencareidanni che possono essere soggetti a sanzioneedunquespecificare in quali circostanze la società può essere giustificata a limitare la libertà dell’individuo?InquestoMill segue Jeremy Bentham: nessun atto va considerato come soggetto a sanzione «chenontenda,inunmodoo nell’altro, ad andare a detrimento del pubblico». Il detrimento va considerato in base al calcolo dell’utilità. «Un’azione si può definire conforme al principio di utilità […] quando la sua tendenza ad aumentare la felicità della comunità è maggiore di ogni sua tendenza a diminuirla». Quanto al principio di utilità stesso «non richiede né ammette altro regolatore che se stesso» ed è esterno al sistema 16. La gente a volte soffre o sostienedisoffrireperciòche considera immorale o depravato nelle azioni degli altri,anchequandotaliazioni non la toccano in modo diretto e chiaro. Ora ci si dovrà chiedere se le azioni capaci di creare pura sofferenza morale di questo genere(finoaprodurreoffesa morale, «l’intolleranza, l’indignazione e il disgusto» di Devlin) diminuiscano la felicità generale e di conseguenza si possano ritenere danni punibili secondo il testo di Mill. È giusto distinguere fra azioni di questo tipo e azioni che causano, o delle quali si può sostenere che causino, «disorientamento o menomazione permanente o comunque per un lungo periodo» e che sono per questo piú dimostrabilmente nocive? Mill non affronta questo problema direttamente. Come sottolinea Jeremy Waldron, Mill tende a identificare l’adeguamento ai principî pubblici prevalenti con la stagnazione e l’azione fondata sulle convinzioni personaliconilprogresso:ed è qui che s’incontrano l’etica romantica dello sviluppo personale di Mill e il suo evoluzionismo storico. «La lotta fra una morale che fa appello a principî esterni e quella che si fonda su una convinzione interiore» dice Mill «è la lotta fra la morale progressiva contro quella immobile – della ragione e della discussione contro la deificazione della mera opinioneeabitudine» 17.Cosí in un piú ampio quadro, suggerisce Waldron, la sofferenza morale è per Mill «un elemento positivo delle azioni e dei modi di vita devianti; l’offesa e il fastidio prodotti dalla devianza debbonoessereaccolti,nutriti e incoraggiati nella società libera». Una delle manifestazioni di una società liberaeprogressistaèproprio la sua disponibilità ad accettare quello che Waldron chiama il «confronto etico». Egli parafrasa Mill nel seguente modo: «Se [...] un diffuso disagio morale è avvertibile nella comunità, allora, lungi dall’essere una legittima motivazione per interferire, è un segno positivo e salutare che i processi di confronto etico [...] si stanno effettivamente verificando» 18. Questo passo suggerisce che l’accezione di dannoperMilldovevaessere particolarmente limitata e certamente non doveva includere azioni capaci di causare disagio o offesa, indipendentemente dal loro poteredidisorientare. Per Mill libertà di parola vuol dire immunità dalla censura, specialmente dalla censura precedente alla pubblicazione, ma anche libertà dalle pressioni esercitate dalla società, dalla «tirannia dell’opinione e del sentimento prevalenti». Mill associa censura e pressione sociale(avoltedaluidefinita biasimo)inmodopermenon del tutto convincente. Il biasimo, come dice Frederick Schauer, non è un problema di libertà di espressione in senso stretto. L’intolleranza sociale è un fatto di natura diversadallesanzioniufficiali appoggiate dalla forza della legge:lagentepuòsceglieredi nonessereortodossa 19. La fede di Mill nel valore della libertà di parola nel lungo periodo è per molti aspettiallabasedelRapporto del comitato, diretto da Bernard Williams nel 1979, incaricato di proporre riforme della legislazione inglese su oscenità e censura cinematografica: L’idea fondamentale alla qualeMillcollegavailmodello del mercato rimane tuttora profonda e corretta: ovvero che non sappiamo in anticipo qualisviluppisociali,moralio intellettuali si dimostreranno possibili, necessari o desiderabili per gli esseri umanieperillorofuturo,ela liberaespressione,intellettuale e artistica – qualcosa che può aver bisogno di essere promosso e protetto oltre che permesso–èessenzialeperlo sviluppo umano, in quanto si tratta di un processo che non si limita a verificarsi (in una formaonell’altrasiverificherà comunque)machepuòessere razionalmentecompreso 20. Ronald Dworkin definisce l’approccio qui enunciato come «finalizzato» piuttosto che «basato sul diritto». La posizione del Rapporto Williams è che alla lunga la censuraèpiúpericolosaperla società della libera circolazione dell’oscenità. Dunque non che sarebbe sbagliatoesercitarelacensura sullapornografia–chesiaun beneounmaleperlasocietà –inquantolesivadeidirittidi alcuni individui (compresi probabilmente i suoi produttori e consumatori). Fondainvecelasuaposizione sul cosiddetto «piano inclinato», secondo cui sarebbecomunquedifficilese non impossibile trovare una definizione affidabile cui ricorrere per separare le porcherie dai prodotti dotati di un valore artistico che li riscatti 21. PropriocomeMillèvagoa proposito dei motivi per i quali dovremmo sostenere il progresso, il Rapporto Williamssilimitaadefinirela causa in nome della quale si oppone alla censura come «sviluppo umano». Eppure questa convinzione eminentemente liberale secondo cui la libertà di parola dovrebbe, nel lungo periodo, favorire l’interesse della comunità è stata ampiamente contestata. Qualunquefosseilsuovalore liberatorio ai tempi di Mill, dice Herbert Marcuse, quella convinzione non è piú giustificata nel ventesimo secolo,quandogliStatihanno sviluppato tecniche di utilizzazione della tolleranza per fini sottilmente repressivi 22. Dworkin definisce la tesi liberale a favore del valore primario della libera espressione «altamente problematica, teorica e comunque marginale» (nel caso della pornografia la trova «non solo teorica e marginale ma anchenonplausibile») 23. Laterminologia. «Pornografia» ovviamente non è denominazione neutra materminedispregiativo.Chi fa libri o film sessualmente esplicitiingeneresiaffannaa negarelanaturapornografica dei suoi prodotti. Per il mio scopo qui non terrò conto di tali proteste e chiamerò pornografico quello che la maggior parte degli occidentali laici e colti, di entrambi i sessi, ritiene pornografico. John Ellis mostra come la categoria del pornografico sia onnivora, unacaratteristicachesarebbe stupidosminuire: L’etichetta di pornografico minaccia sempre di sommergere qualunque rappresentazione sessuale sufficientementeesplicita.Non c’è modo che una qualunque forma di rappresentazione – soprattutto se comporta la fotografia – si possa difendere daquell’etichetta 24. Non possiamo sperare di arrivare all’unanimità sul significato del termine pornografico. Nel campo generale definito dall’industria della pornografia e dai suoi tentativi di autolegittimazione; nei tribunali che debbono far rispettareleleggisull’oscenità cosícomenelleistituzioniche vogliono far passare i loro principî; e in ciò che John Ellis definisce come «la mobilitazione generale di posizionimoraliefilosofiche» in un qualsiasi momento sociale, ci saranno sempre definizioni contrastanti che cercherannodiaffermarsi. E tuttavia ci sono alcune distinzioni terminologiche su cui vale la pena soffermarsi. Prima di tutto che osceno e pornografico non fanno riferimento allo stesso oggetto 25. Le scene di eviscerazione per esempio possono essere oscene ma non pornografiche; perché finoachel’osceno,comeuna delle varianti dell’offensivo, include ciò che Joel Feinberg definisce come «stati mentali sgraditi», non si può reagire con netto piacere alla pornografiaealtempostesso chiamarlaoscena 26. L’oscenità ha un impatto particolare sulla persona che colpisce:produceripugnanza, trauma, disgusto (anche se, come fa notare Feinberg, i materiali in questione possonoparadossalmenteallo stesso tempo risultare allettanti) 27. Poiché la persona ferita prova risentimento nei confronti di chi la ferisce, possiamo evincere che percepisca un’intenzionalità dietro l’atto osceno. Un’intenzione può effettivamente essere presente: Max Scheler indica un impulso che è parte dell’atto osceno a cercare di violare ai propri fini l’altrui senso del pudore o della decenza 28. D’altra parte è proprio quando viene individuata l’intenzione di offendere dietro ogni azione offensiva che si spalancano i cancellidellaparanoia. Inoltre, se è vero che l’oscenità e un’offesa, essa non è però necessariamente un danno. In particolare l’offesa non è una forma minore di danno; si tratta di concettidinaturadiversa.Per ungiuristadellatradizionedi Mill, una parte offesa, anche se «profondamente» o «estremamente»offesa,nonè necessariamente anche danneggiata. Iprincipîliberali:lacritica femminista. In un regime liberale la posizione legale dei pornografi e dei consumatori di pornografia rispetto alla legge è piuttosto forte e si fonda su tre principî sovrapponibili: 1) Ognuno senzaeccezionehadirittoalla libertà d’espressione. 2) Questalibertànonpuòessere limitata a meno che non sia dimostrato che il suo esercizio produce danno agli interessi degli altri (dove danno va inteso in senso stretto). 3) La pornografia è comunque una transazione privata fra chi la produce e chilaconsuma. Negli ultimi anni tutti questi principî sono stati contestati dai critici del liberalismo, in particolare dalla critica femminista. In relazione al diritto dei pornografi alla libertà di espressione, è stato sostenuto chesull’ondadellateoriadegli atti linguistici ogni facile distinzione fra espressione e azione è insostenibile: nella loro forza perlocutiva le rappresentazioni pornografiche, come gli insulti pubblici, sono piú similiall’attocheallaparolae perciò non hanno di per sé dirittoaessereprotetti. I principî 2 e 3, che dichiarano la natura privata della pornografia, un fatto tutt’al piú relativo a una coppiaechenoncausadanno dimostrabile ad alcuno, sono stati confutati per diverse ragioni.Primadituttoèstata negata la validità della stessa distinzionepubblico-privatoe conquellalatesisecondocui la pornografia non invade lo spazio privato di nessuno a meno che le persone in questione non lo vogliano 29. In secondo luogo alcune femministe hanno sostenuto che ci sarebbe un rapporto causale empiricamente verificabile fra consumo di materiale pornografico e atti diviolenzacontroledonne 30. La tesi secondo cui la pornografia causerebbe effettivamente un danno conosce anche un’enunciazione piú ampia, per cui non danneggerebbe solo le donne come gruppo ma i costumi di tutta la società nel suo insieme (tesi che richiama alla mente l’argomento dei conservatori secondo cui il diritto di una società a proteggere i suoi principî fondanti trascenderebbe i diritti degli individui). I principî 2 e 3 sono stati confutati anche in base all’argomento della falsa consapevolezza, secondo cui unadonnachesostienechela pornografia non le provocherebbe alcun danno, per esempio, potrebbe pensarlaaquelmodoperaver interiorizzato un’immagine della sessualità femminile costruita dagli uomini. Cosí, nel negare il danno prodotto dalla pornografia, potrebbe manifestare un sintomo del danno piú generale che le è statorecato 31. La pornografia reifica: questaèlatesicondivisadalla critica femminista. Nella pornografia le donne sono considerate oggetti sessuali e gli uomini che consumano pornografia imparano a considerareledonnerealiallo stessomodo.Maqualetipodi male produce la reificazione? Nella tradizione ereditata da Kant si tratta del danno prodotto dal non riconoscere alle persone la piena dignità di persone, nel considerarle come mezzi per raggiungere un fine anziché esse stesse fini. Per Jacqueline Davies la pornografia (che oggi è cosí pervasiva da rappresentare, secondo lei, per la maggior parte della gente l’unica forma effettiva di educazione sessuale)trattaledonnecome mezziinvecechecomefiniin quanto determina anticipatamente il modo in cui va interpretato il loro comportamento, privandolo cosí di libertà e facendo delle donne una classe non libera 32. Dunque la posizione liberalesullapornografiaesul suo diritto alla salvaguardia della libertà di espressione vieneminataallefondamenta dalla critica femminista. E infatti quando i liberali, abbandonateperunattimole lorosterilipreoccupazioni(ad esempio, se si possa o meno sostenere di essere offesi – fino al punto da riportarne danno–damaterialichenon vengonoimpostimachesono al contrario facilmente evitabili), affrontano i feroci attacchi politici a proposito della pornografia da parte di antagonisti come Catharine MacKinnon, quel confronto conferma in modo significativo l’analisi pessimisticadeldiscorsoetico contemporaneo data da Alasdair MacIntyre in After Virtue: Dalle nostre conclusioni antitetichepossiamotornarea discutere degli assunti antitetici; ma quando arriviamo agli assunti la discussionefinisceeappellarsi a un assunto contro un altro diventa solo questione di asserzioneecontro-asserzione. È tipico delle discussioni moderne sulla morale, continuaMac-Intyre,chenon appena abbandonano il terreno comune, i filosofi rivalicomincianoadaccusarsi reciprocamente di irragionevolezza. «Parallelamente all’impossibilitàdiconcludere la discussione pubblica c’è se non altro il sospetto di una preoccupante arbitrarietà privata». Ne deriva la tendenza oggi cosí diffusa a rifugiarsi nell’emotivismo, nella teoria secondo la quale «tutti i giudizi morali non sono altro che espressioni di preferenza, espressioni di atteggiamentiosensazioni» 33. All’interno di tale contesto, i giudizi sulla pornografia sono espressione di un atteggiamento emotivo einquantotaliincontestabili. Cosí per esempio Susan Menduspresentalaposizione di Andrea Dworkin nei confronti della pornografia comematerialepre-filosofico, un abito mentale: «Tale materiale è corrotto, che lo incontri o meno, lei non vuolecheesistano» 34.Questo non è un giudizio morale, sostiene Mendus: i giudizi morali sono basati sulla ragione, mentre il giudizio di Dworkin è basato sui sentimenti. Per loro stessa naturaigiudizinonmoralici allontanano dall’ambito della filosofia morale e dunque dalla discussione sottoposta alle regole della ragione. L’autricecitaMaryWarnock: «L’intollerabile è ciò che non si sopporta. E noi possiamo semplicemente sentire, credere, concludere senza ragione che qualcosa sia insopportabileedunquevada fermata» 35. Un’altra definizione dell’emotivismo di MacIntyre, la teoria secondo cuiigiudizimoralisifondano solo sugli atteggiamenti emotivi, cioè solo sull’orientamentoemotivodel soggetto nei confronti del mondo, è prospettivismo. In quanto forma particolare del relativismo, il prospettivismo può essere piú caratteristico del discorso morale odierno che non il puro emotivismo cui allude Warnock. Il prospettivismo è scritto a chiarelettereintuttoillavoro di Catharine MacKinnon – e difattoèunvezzoinveterato delsuostilepolemico: La liberazione sessuale in senso liberale scatena l’aggressivitàsessualemaschile in senso femminista. Quello che nella visione liberale appare come amore romantico, nella visione femminista appare piuttosto comeodioetortura 36. Ma è anche un tratto comunedellafilosofiamorale post-liberale, profondamente sospettosa dei principî fondativieinparticolaredegli assiomidelliberalismo: Ciò che il liberalismo presenta come l’esigenza neutra di prevenire il danno arrecato agli altri sarà percepitodacolorochehanno una concezione diversa di ciò che è dannoso come l’imposizione di una morale non condivisa. Il liberalismo in sé incarna ideali e precetti morali sostanziali e la sua concezione di ciò che è dannoso evidentemente non ha maggiore diritto di rivendicare il primato rispetto adaltreposizionimorali 37. Visto dalla prospettiva del potenziale consumatore di pornografia, il principio dell’indipendenzamoraledetta una politica di tolleranza. Visto dalla prospettiva femminista detta una politica restrittiva 38. L’abbandono della ricerca di principî comuni a favore del prospettivismo dei «punti di vista» è evidente nel dibattito sulla pornografia come in altri ambiti della filosofia morale. Quanto al discorso vero e proprio della pornografia,daquestononci possiamo attendere alcun contributo nella forma di un’autodifesa filosofica: la pornografia è un fenomeno del tutto privo di atteggiamento autoriflessivo, forse perché la pornografia non ha niente da guadagnare dall’autoconsapevolezza, qualcosa che nell’erotismo può ingenerare invece un ulteriorebrividodipiacere. Ilricorsoallalegge. È possibile provare avversioneperlapornografia, trovarla oltraggiosa (che non coincide esattamente con l’esserne oltraggiati), credere che passare tanto tempo a guardarefilmpornograficisia dannoso per le persone, soprattutto per i giovani, e pur tuttavia non fare il passo successivo,ovveroconcludere che i produttori o i distributori o i rivenditori di materiale pornografico debbano essere per ciò stesso perseguiti dalla legge. Viceversa ci si può accontentare di auspicare malinconicamente che la pornografia abbia minore presasullagente,cosícomesi può desiderare che abbia minore presa l’alcol. Ovvero, mentresiribadiscel’esistenza del problema pornografia si può al tempo stesso individuarne la fonte in una debolezza (non necessariamente una debolezza morale) dell’essere umano, piuttosto che nella facile reperibilità di un certo tipo di materiale visivo allettante. Questo non si discosta molto dalle conclusioni cui giunge Susan Sontag nel famoso saggio L’immaginazione pornografica. Mentre riconosce di provare avversione per la pornografia ediesserepreoccupataperla sua diffusione crescente, Susan Sontag si chiede se la pornografia debba essere distinta da altro materiale, liberamente reperibile sul mercatoeperilqualelagente può non avere la «preparazione psichica» necessaria. «La pornografia è solounotraimoltipericolosi privilegi immessi in questa società e, per quanto poco attraente, forse tra i meno letali e i meni costosi in termini di umana sofferenza» 39. Ciò che è successo fra il 1967, anno in cui Sontag scrisse il saggio in questione, eoggièchesièverificatoun boom nell’industria della pornografia.L’incidenzadella violenza,siaditipodomestico che criminale, contro le donne è inoltre aumentata o comunque è stata riconosciuta in tutta la sua enormità e le femministe hanno messo in relazione i duefattori.Diconseguenzala posizione di Sontag ha finito per apparire superata o fondata sull’ignoranza dei fatti. Nei paesi fondati su un sistema giuridico c’è la tendenza a pensare che i problemi sociali debbano avere soluzioni legali e dunque che i tribunali possano essere utilizzati per riparare ai mali storici e per correggereglisquilibrisociali. Scrive Carol Smart: «L’idea chelaleggeabbiailpoteredi correggere l’ingiustizia è pervasiva.Proprio come la medicina è vista come curativa piuttosto che iatrogena, cosí la legge viene vistacomecapacediampliare l’ambito della giustizia piuttosto che di generare ingiustizia». Inoltre, avverte poi l’autrice, «dobbiamo considerare il fatto che, nell’esercizio della legge, possiamoprodurreeffettiche peggiorano le cose e che, di fronte a una condizione di peggioramento, possiamo commettere l’errore di immaginare di dover applicare la legislazione in modo ancora piú massiccio» 40. LacauteladiSmartriflette il diverso approccio delle avvocatesse femministe inglesi rispetto alle loro colleghe americane. La differenza è percepibile soprattutto nel diverso approccio alla pornografia. Ciò in parte può essere dovutoalfattocheilprogetto puritano di legiferare sugli standard morali non sia ancora esaurito in America; ma si fonda anche su basi giuridiche. In un paese dove lalibertàdiparolaègarantita dalla costituzione (col Primo Emendamento), la pornografia nel passato recente ha goduto di un insolito grado di protezione, basato, secondo alcuni oppositori, su argomenti molto sofisticati; mentre la definizione limitata del concettodidannonelsistema giuridico inglese rende difficile per le femministe inglesi sostenere che la pornografia arreca danno 41. Perfino una commentatrice cosí scettica in merito all’attivismo legislativo come Carole Pateman, per la quale l’obiettivo femminista da perseguire non è distruggere l’industria pornografica ma «minare» l’immagine femminile costruita dalla pornografia, conclude che, se si considerano le dimensioni raggiunte dall’industria della pornografia, «forse per le donne è necessario ricorrere allalegge» 42. Ma sarà bene anche spiegare che cosa intenda Smartpermedicinaiatrogena e legge «giuridogena». Proprio come la medicina non si limita a curare la malattia ma crea tutta una professione medica e un’industria farmaceutica, cosí la legge non si limita a giudicare i singoli casi ma crea una professione legale e un’industria giudiziaria. In particolare le leggi sulla censura creano una burocrazia di censori e un’industria legale parallela (sezioni legali all’interno di case editrici e di produzioni cinematografiche e avvocati che si specializzano nei casi relativi alla libertà d’espressione).NegliStatiche prendono sul serio il loro ruolo censorio il numero dei censori supera quello degli scrittori (l’ex Unione Sovietica) e si spendono piú soldi per censurare che per promuovere le arti (cosa che avveniva in modo massiccio nelvecchioSudafrica). Mentre in teoria il problema può essere riformulato chiedendosi se i pornografi abbiano o no diritto alla libera espressione, in pratica, come potrà confermare chiunque abbia esperienza di censura, il problema diventa come distinguere in modo giusto ciò che è censurabile da ciò che è permissibile. Ma la legislazione in materia di censura, cosí come la sua applicazione, non fa ben sperare né nei paesi dove l’ideologizzazionedelcensore è scoperta (come nell’Urss e inSudafrica)néinquellidove irapportifrapoterepoliticoe ortodossia giuridica passano per una piú complessa mediazione (come negli Stati Uniti). Il ricorso Irigaray. alla legge: Da una piú ampia prospettiva è giusto che le donnecerchinosoddisfazione dalla legge, un sistema le cui origini sono cosí profondamente intrecciate con il patriarcato? Il ricorso allaleggeeallesuecategorieè compatibile con il femminismo come impresa filosofica? Unarispostaovviaèchele donne sono autorizzate a perseguire i loro interessi come meglio credono e facendo uso dei mezzi che vogliono, ivi compresi i tribunali. Nell’affrontare le questioni delle donne è doveroso che le corti e perfino le leggi rinuncino in una certa misura ai loro pregiudizi. Carol Smart risponde in modopiúcauto:ilprezzodel ricorso alla legge per far passare gli «standard femministi»,checomportaun adattamento della teoria femminista alla griglia legale, sarà necessariamente la perdita di gran parte della complessitàdiquellateoria.E per di piú la mossa potrebbe essere azzardata dal punto di vistastrategico:suitemidella censura le femministe si trovano troppo spesso dalla parte del diritto morale. Di Catharine MacKinnon, il cui orientamento politico è quello della sinistra marxista, Smartscrive:«Allafinelasua posizione diventa indistinguibile dal diritto moraleperquantoriguardala sua ostilità alla sessualità e il suo ricorso alle forme piú ottuse della censura legale». Smart ricorda il paradosso della censura enunciato da Annette Kuhn (un paradosso di cui la stessa MacKinnon è consapevole):chedauncerto punto di vista la pornografia ha bisogno della censura per conservare il suo fascino, per costruire il suo oggetto proibito del desiderio e acquisire lo status di una verità repressa, mentre «è l’idea stessa che la pornografia sia la verità del sesso [...] che va combattuta» 43. MaèstataLuceIrigarayad articolare nel modo piú completo il problema del rapporto delle donne con la legge. Secondo la visione di Irigaray le donne partono da una posizione impossibile. «La posizione delle donne è l’esclusione […] è il discorso di lui, in quanto fa la legge […] che può sapere in che consiste tale esclusione». L’esclusione delle donne è «interna a un ordine al quale nulla sfuggirebbe: quello del discorso di lui». È inutile pensare che da una piega interna del discorso maschile –peresempiodall’internodel discorso giuridico – le donne possano mettere il potere femminilealpostodelpotere maschile: mentre appare come un rovesciamento, questa«presadipoterefallico» lascerebbe le donne sempre «comprese nell’economia del medesimo». «Non si esce, in particolare, pensando di risparmiarsi l’interpretazione rigorosa del fallogocratismo. Fuori del quale non si salta semplicemente né ci si trova per il semplice fatto d’esser donna». Il discorso maschile può essere superato solo attraverso la via del mimetismo.Seleparoledella donna non vogliono restare «inintellegibili secondo il codice in vigore» esse vanno «desunte da un modello che lascia in sospeso il mio sesso» 44. Tutto questo non significa però che la legge, in quanto parte del discorso dell’immaginario maschile, debba restare un libro chiuso e proibito. Al contrario, una volta che l’ha riconosciuta e ha tracciato il suo «fuori», la donnapotràsituarsirispettoa essa in quanto donna, «implicata e in pari tempo eccedente». Ma il suo coinvolgimento non potrà che essere ambivalente e dunque non potrà essere preso in considerazione a pieno titolo. Abitare davvero l’immaginario maschile vuol dire abbandonarsi a un semplice rovesciamento del potere, ricadere nell’«economia del medesimo». PerIrigarayfemminismoe giurisprudenza non sono incompatibili. Ma una giurisprudenza femminista che non sia ludica, che in cambio dell’accesso alla legge conceda alla legge stessa di rivendicare la sua dignità e che poi rispetti tale dignità, con quella concessione rinuncia alla sua indipendenza. «Prima libertà dopo una secolare oppressione? Il fallico non è forse la seriosità del senso?» «Sfuggire al ribaltamento puro e semplice della posizione maschile significa […] non dimenticare di ridere» 45. L’oltraggio. Illinguaggiodellaleggenel rapporto con le emozioni è goffo. Cosa sentiamo precisamente quando ci sentiamooffesi?sichiedeJoel Feinberg. La sua risposta, la risposta collettiva della legge (ricavata da secoli di introspezione da parte degli avvocati) è che proviamo un qualche genere di sensazione sgradevole o una somma di sensazioni sgradevoli di varia natura, fra le quali ci sono – ma non solo – il disgusto, la vergogna, il dolore e l’angoscia e anche una certa dose di risentimento nei confronti di chi le ha causate 46. La sgradevolezza del sentirsi offesi non coincide necessariamente con una forma di dolore. La pornografia può produrre eccitazione sessuale, eccitazioneallaqualecisipuò abbandonare e che, in una certa misura, può anche piacere e d’altra parte quell’esperienza può concludersicoldisgustoecol bisognodiripudiaretuttociò che l’ha prodotto. Tale ambivalenza e, dal punto di vista morale, tale ipocrisia riflettono certamente un disturbo a livelli psichici piú profondi e nondimeno si trattadiunprocessoediuna reazionecomuni. Le sfumature degli stati emotivisonopersonalieforse private; interagiscono e si combinano quasi chimicamente. La vergogna è vergogna, l’offesa offesa, ma lavergognapiúl’offesadanno luogo a un nuovo composto perilqualenonabbiamoaltro nomechelasommadeinomi delle sue componenti. La vergogna combinata con l’offesa e il risentimento produceuncompostoancora piú complesso il cui nome potrebbe includere almeno vergogna per il risentimento provato e risentimento per la vergogna provata, due composti già di per sé altamentereattivi. Ma il progetto stesso di definire gli elementi che compongonolasensazionedi offesa–ilprogettodichiarire fino in fondo cos’è l’offesa – può a sua volta essere messo in discussione. Nella sua descrizione delle emozioni morali,basatasullateoriadei sentimenti morali di Adam Smith, Edward Westermarck fa dell’indignazione (offesa, oltraggio)un’emozioneaffine aquelladelcomplessorabbiavendetta,ecollocal’originedi entrambe nella primitiva emozione punitiva del rancore.Scriveinfatti: È il desiderio istintivo di infliggere a propria volta una pena che dà all’indignazione moralelasuacaratteristicapiú importante [...]. Se vengono espressi giudizi morali sugli esseri dotati di volontà o sui loro atti non è solo perché sono dotati di volontà ma anche perché sono capaci di provare sensazioni; e per quantosicerchidiconcentrare lanostraindignazionesull’atto [che reca offesa], esso [il giudizio morale] deriva il suo speciale carattere dall’essere diretto contro un agente sensitivo. Nessun giudizio morale può dunque – dal punto di vista logico – essere espresso sugliistintipunitivi,poichéla punizione è la base del giudiziomoralestesso. Come la tassonomia delle emozioni incarnata dalla legge occidentale, la descrizione delle emozioni datadaSmitheWestermarck è scevra degli artifici della psicologia psicanalitica; e fin qui i due sistemi coincidono. Se, come sostiene Westermarck,leemozionidei gruppi – «la pubblica indignazione e la pubblica approvazione» – sono i prototipi delle emozioni morali 47, allora i sentimenti dellepersonechesiritrovano in un gruppo per denunciare o approvare qualcosa sono i fondamentideigiudizimorali e sarebbe falso cercare di isolare componenti ancora piú primitive (disgusto, vergogna, ansia o altro) nello spirito di denuncia. Potrebbe avere un senso dal punto di vistapraticotrattarelarabbia (indignazione, oltraggio, sensazione di offesa) come l’emozione originaria dalla quale scaturisce l’azione di condanna e lasciar perdere il tentativo di elaborare una basemoralmenteraffinataper quellarabbia.Inaltritermini, nell’ambito della psicologia giuridica può avere un senso essere poco riflessivi, come sono per esempio le femministe della scuola di Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon, che sono state fin qui criticate per la loro irrazionalità: per loro, lamenta Carol Smart «la rabbia è l’analisi»; se trovano che un’immagine è «problematica e di cattivo gusto [...] questo basta a identificare il problema [per loro]eafornireunabaseper lacensura» 48. In un contesto giuridico, mettereindubbioilvaloredel tentativo di distinguere sfumature di emozioni dietro al riflesso censorio non vuol dire concedere una giustificazione etica alla rabbia e all’azione irrazionale chenescaturisce.Larabbiaè un’emozione che soffoca le analisi e le autoanalisi e proprio nella cecità della rabbia cieca vediamo la sua fragilitàetica.C’èqualcosadi paradossale nella rabbia che, mentreconcentraleforzedel corpo e scavalca tutti i freni interiori,conferendoalcorpo una formidabile forza, irrigidisce il pensiero, paralizzalamobilitàediventa vulnerabile alla frecciata maliziosa(lafrecciadiParide nel tallone di Achille), all’ironia, alla risata. Una volta che si è osservata la rabbia freddamente dall’esterno, è difficile vivere lostatod’animodellarabbiao dell’indignazione dall’interno con autenticità. La rabbia di conseguenzanondiventauna risorsa totalmente perduta, masipuòessereinfuriatisolo nello spirito che Irigaray chiamadimimetismo:unpo’ dentro e un po’ fuori da quello stato d’animo. E per questo forse che il primo scopodellarabbiaèquellodi far arrabbiare anche l’antagonista–diaccecarlo. Ilprogettopornografico. Nellamediocritàdellaloro esecuzione,nellamancanzadi immaginazione creativa e ancor piú di immaginazione erotica, nella loro totale incomprensione delle problematiche umane nelle quali rimestano, i prodotti ordinari dell’industria pornografica non sembrano meritare l’attenzione accordata loro da studiosi e magistrati. Eppure la stessa definizione implicita nella parola «ordinario» solleva una domanda: cosa c’è nell’ambito della pornografia chenonsiaordinario? Esiste, certamente, qualcosachevasottoilnome di arte erotica (versi erotici, romanzi erotici, quadri erotici, film erotici) e che vorrebbe rimettere al suo posto la pornografia commerciale dimostrando cheilsessosipuòtrattarecon immaginazione,intelligenzae perfino con gusto. Ma nel momentostessoincuiricorre alla protezione della legge (proclamando un valore estetico che la redime) e dunque misura la sua distanza dalla pornografia, l’erotismo sembra sottrarsi alla prova, si accontenta di essere audace ma in fin dei conti solo chic, oltraggioso senzaprodurreverooltraggio; mentre il pornografico, per quanto volgare, conserva almeno una sua certa qualità cruda,selvaggia. La verità è che non è dall’erotismo, ma dalla pornografiachesonovenutii veri assalti, non solo alle norme morali e in fondo alle stesse norme della condotta umana, ma ai limiti della rappresentazione stessa, o almeno all’idea che la rappresentazione possa avere dei limiti. Non c’è niente di ammirevole in quegli assalti: anzi proprio in virtú della posizione esterna alla morale dalla quale sono lanciati, ammirevole è un elogio che debbono rifiutare. Nondimeno, e malgrado gli eccessi del suo linguaggio, Susan Sontag ha ragione a evidenziarel’importanzadegli scrittori pornografi, come Sade, Lautreamont o Bataille el’ostilitàederisionecheessi riservano all’ideale razionale di integrare il sesso in una vitapiacevole,ordinata,felice e produttiva, del sesso domato e messo al servizio del godimento personale. Nelleloroopere,diceSontag, l’oscenodiventa«unanozione primigenia della coscienza umana» e la sessualità si affermacomequalcosache«è aldilàdelbeneedelmale,al di là dell’amore e del senno [...] una delle forze demoniache operanti nella coscienzaumana»,chespinge l’uomo al «tabú e desideri pericolosi» che vanno «dall’impulso a commettere improvvisa e arbitraria violenza» a un voluttuoso desideriodimorte 49. Sontag dunque vede i grandi pornografi come coloro che ristabiliscono la verità del desiderio che la civiltàtendeacoprire.Mapoi faunerrore,unerroreancora piú curioso trattandosi di un saggio dal titolo L’immaginazione pornografica, quando mette insieme le ambizioni della pornografia con quelle del desideriosessualestesso.Una cosa è riconoscere l’esistenza del demoniaco, altra cosa agirlo.AlivelloprofondoJane Austen trova il sesso demoniaco quanto Sade. Lo trova demoniaco e perciò lo esclude. Ciò che non condivide con Sade è la fede nella capacità dei rituali della scrittura di mimare le emozioni del desiderio demoniaco, di spezzare i limiti del sé. Tale ambizione assolutamente metafisica, legata ma al tempo stesso distinta da quella di trascendere se stessi attraverso la via dell’eccesso sessuale, è ciò che anima la pornografia ossessivamente ripetitiva di Sade, di cui Bataille scrive: «la sventura [gli] permise di vivere questo sogno,questaossessionecheè l’anima della filosofia: l’unità disoggettoeoggetto.Sitratta, in questo caso, dell’identità raggiunta nel superamento dei limiti degli esseri, nell’andar oltre l’oggetto del desiderio e il soggetto che desidera» 50. La pornografia è una forma di guerra: è assurdo immaginare Sade che fa appello alla legge per essere protetto dalle leggi contro l’oscenità. Dal punto di vista di un progetto luciferino (o satanico)comequellodiSade, è assurdo anche pensare al divieto come a una trappola inventata dalla pornografia per rendersi desiderabile, o, con le parole di MacKinnon «sexy». In entrambe le accezioni della locuzione, Sade sta dietro al divieto. Allora è concepibile uno schieramento di forze che collochi la filosofia sadiana della camera da letto, ivi compreso il femminismo sadiano,daunaparte–quella fuorilegge – del divieto sulla pornografia e il patriarcato ancestrale e il femminismo normativo dall’altra, dalla parte della legge. Uno schieramento del genere rifletterebbe – paradossalmente – la posizione delle femministe che mettono in guardia rispetto al divieto della pornografia. «Femministe e maggioranze morali» scrive Linda Williams, dovrebbero guardarealdilàdellaviolenza contro le donne nella pornografia alla varietà delle pratiche sessuali in essa rappresentate,unavarietàche «contribuisce alla sconfitta del desiderio originario dell’economia fallica che vuole fissare l’identità sessuale della donna come specchio del suo stesso desiderio» ovvero definire la donna come oggetto del desiderio maschile. «Nella moltiplicazione delle […] diversepratiche[sessuali],[la pornografia] mina il suo scopo originario di fissare e rappresentare la verità narrativalineareevisibiledel piaceresessualefemminile» 51. Ciò che qui viene sottoscrittoèunapornografia sadiana e perciò perversa che va contro «l’economia fallica». Mentre accetta una concezione semplicistica del desiderio maschile come di un desiderio che conosce il suo oggetto (non riflette per esempio sul concetto piú hegeliano del desiderio che desidera il desiderio dell’altro), Williams alla fine mette in guardia contro una forma di censura che si assume il compito di isolare, giudicare, e classificare i contesti dell’opera pornografica, mettendo da parte come irrilevante la loro diversità e la loro giustapposizioneformale–in altreparoleignorandol’opera nellasuainterezza. Pornografiaepubblicità. Nelle canzoni, nel romanzo e nel cinema degli ultimi trenta o quarant’anni, il sesso è diventato sempre piú esplicito; nella pubblicità la sessualizzazione delle immagini è diventata sempre piúscoperta.Questifenomeni culturali e la crescita dell’industria pornografica sonoindubbiamentecollegati. Il problema è in che modo vada intesa tale relazione. Entrambi i fenomeni – sessualizzazione del contesto ediffusionedellapornografia – sono da intendere come manifestazioni di una sola, piú vasta tendenza storica, oppurelapornografiaèl’arte pionieristica, dalla quale le altre sarebbero state contagiate? A questo interrogativo – che di fondo riguarda l’impatto sociale della pornografia – le femministe hanno risposto in vario modo. Carol Smart per esempiotrovalapubblicità,le soap opera e i romanzi rosa veicoli piú potenti della pornografia nell’indirizzare e fissare le rappresentazioni delle donne 52. D’altra parte Rosalind Coward vede nella pornografia una forza pervasiva: «Mi sembra che l’immagine che oggi [1984] domina nei giornali femminili in generale venga dritta dritta dalla pornografia»; «Le immagini delle donne che incontriamo piúspesso[...]sirifannotutte alle convenzioni secondo le quali le donne sono rappresentate nella pornografia». Per Coward è soprattuttolapornografiache ha creato il sistema e i codici all’interno dei quali vengono lette le immagini delle donne e quindi dei loro corpi. Questo modo di vedere le donne nasceva dallo sguardo rapace e dominatore dell’uomo, in particolare del flaneur cittadino, ma oggi è l’obiettivo che insegna agli uomini, cosí come alle altre donne,avedereladonna 53. Quest’ultimaanalisi,chein un senso piú lato fa della pornografia un terreno di prova delle tecniche di sessualizzazione e di oggettivazione sfruttate dai mediapopolari,inparticolare dalla pubblicità, e che di conseguenza pervade gradualmente sia la vita sociale sia quella privata, porta naturalmente alla conclusione che, per le femministe, la pornografia dovrebbe rappresentare il primobersaglio. Un’analisi alternativa piú cauta, che attribuisce alla pornografia un ruolo meno direttivo,tendeavederesiala pornografia sia la pubblicità che fa ricorso alle immagini come espressioni di forze commerciali interessate tanto a definire, stimolare, mercificare, inscatolare e vendereildesiderio,quantoa propagare nuovi o a rafforzare vecchi modelli del desiderio(attraversogliocchi per esempio) o vendere immagini. Nel grande affare deldesideriodoveilfotografo di moda e il pornografo si muovono negli stessi ambienti e possono essere la stessa persona, la pubblicità può addirittura anticipare la pornografia, non solo perché ilsuogirodisoldièmaggiore ma anche perché dispone di un programma teorico piú coerente. La pubblicità si limitaapromettere,mentrea uncertolivellolapornografia si assume il compito di fare quello che nessuna rappresentazionepuòdifatto fare: mantenere la promessa. La pubblicità rimane tutta all’interno dello statuto del segno, è qualcosa che sta al posto di un’altra cosa; mentre, nel presentarsi come la cosa stessa, la pornografia violailpropriostatuto.Dacui lasuacaratteristicaossessivae ancoralasuaviolenzasempre crescente, che va interpretata come la violenza della frustrazione. Anche nell’uso chefadeltabúlapubblicitàè piú scaltra della pornografia. Sapendo che non può soddisfare, indica il tabú: se non fosse per quello – dice – tipotreifarvederequelloche vuoi; per ora dovrai accontentarti di meno, di un accenno appena. La pornografia, d’altra parte, prima viola il tabú e poi, per la sua stessa sopravvivenza, è costretta a resuscitarlo altrove. Come osserva Roland Barthes l’intravedere ha una valenza erotica piú forte del vedere la cosa nella sua nudità 54. La caratteristica del desiderio è promettere, non mantenere. La pubblicità, diversamente dalla pornografia che spreca il desiderio, usa il desiderio. E in tal senso la pubblicità è al centro dell’industria del desiderio, mentre la pornografiaèmarginale. [1992]. Inconclusione IntervistaconDavidAttwell D. A. Abbiamo cominciato queste conversazioni parlandodiautobiografiae sembra giusto ripartire da líinquestoscambiofinale. Allora aveva parlato del carattere aperto dell’autobiografia assimilandola ad altre forme di scrittura. A questo punto, nel ripensare all’intero progetto le chiederei di riflettere su dove l’ha condotta: quali i momenti dicristallizzazione,qualile frattureolecontinuitàche J. il nostro dialogo le ha permessoditrattareequali leriflessioniulterioricuiè giunto sulla natura stessa dell’autobiografia? M. C. Vorrei tornare su quello che dicevo a proposito dell’autobiografia come attività biografica. La biografia è un genere di narrazioneincuisisceglie il materiale da un passato vissuto, imprimendogli una forma che lo conduce in un presente vivo in modo piú o meno coerente. La premessa di una biografia è nella continuità tra passato e presente. Perfino le biografie della crisi – per esempio le cosiddette storie di conversione – non negano questa continuità. La narrativa di una conversione può presentare il sé rinato come un superamento totale del sé passato, ma tematizza la discontinuità come qualcosa che non si sarebbe potuta verificare naturalmente, che non avrebbe potuto darsi se nonperinterventodivino. Quello che distingue l’autobiografia dalla biografia è, da una parte, che lo scrittore ha un accesso privilegiato al materiale, dall’altra che, poiché seguire la linea tra passato e presente è un’impresa fortemente interessata (interessata in tutti i sensi), la visione selettiva, anche una certa dose di cecità, diventa inevitabile.Cecitàdifronte aquantoèinveceevidente per qualsiasi osservatore occasionale. L’autobiografia è sempre narrazione, la scrittura è sempre autobiografia. In questi dialoghi lei mi ha chiesto che cosa io, nella mia cecità, ho visto nel riconsiderare quel che ho scritto negli ultimi vent’anni e ora mi chiede cosa vedo quando ripenso aquestinostridialoghi. Le devo rispondere che vedosemprepiúcrucialeil saggio su Tolstoj, Rousseau e Dostoevskij, come un punto di svolta. Perché? Per due ragioni. Prima di tutto perché mi vedo ad affrontare in un generediverso,ilsaggio,la domanda che mi ha posto in questi dialoghi: come dire la verità nell’autobiografia. In secondo luogo perché trovo che la storia che racconto di me ha una certa nettezza di contorni fino all’epoca di quel saggio;doposifanebbiosa e si espone alle domande piúarduedelfuturo. Che cosa accadeva in quel saggio? Retrospettivamente vi vedoundialogosommerso tra due persone, una è la persona che avrei voluto essere, quella verso la quale avanzavo a tentoni. L’altra è piú confusa, chiamiamola pure la persona che ero allora, anchesepotrebbetrattarsi di quella che ancora sono. Ilterrenodellorodibattito è la verità dell’autobiografia. La secondapersonaprendela posizionecuihoaccennato sopra, ma in modo piú estremo: non c’è verità definitiva su se stessi, non ha senso cercare di raggiungerla, quello che chiamiamo verità è solo una continua, mobile, rivalutazione di sé, il cui scopo è farci sentire bene, o comunque il meglio possibile nelle circostanze date, considerando che il genere non permette di creare delle costruzioni di pura fantasia. L’autobiografiaèdominata dall’interesse per se stessi (continua la seconda persona); in astratto è possibile essere consapevoli di quell’interesse personale maallafinenonsiriescea metterlo pienamente a fuoco. La sola verità certa nell’autobiografia è che l’interesse personale si situerà nel proprio punto debole. Nei termini messi in risalto dal saggio il dibattito è quello tra cinismoegrazia.Cinismo, come negazione di qualsiasi fondamento dei valori. Grazia, come condizione nella quale la verità può essere detta chiaramente, senza cecità. Il dibattito è messo in scena da Dostoevskij e gli interlocutori sono StavrogineTikhon. Lascicheledicachesemi guardo indietro dall’altura o dall’isola creata dal nostro dialogo presente, riesco a riconoscere la storia degli ultimi vent’annisedecidodifarli ruotare intorno al saggio sulla confessione, scritto trail1982eil1983. Nellaprimametàdiquella storia – una storia parlata con voce esitante perché chi parla non è solo cieco ma scritto come sudafricano bianco nella seconda metà del ventesimosecolo,incapace e squalificato – l’uomoche-scrive reagisce alla situazioneprivadiautorità in cui si trova scrivendo senza autorità. In questa prima parte lui reagisce, non si impegna nella sua situazione a livello filosofico. Capisce presto di essere incapace,ocosíalmenogli sembra, quando guarda indietro alla sua vita per riempire la sua storia. Da ragazzo questa persona, questo soggetto, il protagonista di questa storia, questo io, sebbene scriva, piú o meno segretamente, decide di diventare,sepossibile,uno scienziato e persegue con tenacia una carriera in matematica anche se in quelcampoèpocopiúche mediocre. Come interpretare quella decisione? Direi che cercava una capsula in cui vivere, una capsula in cui non essere costretto a respirarel’ariadelmondo. Èsemprestatoindifferente al suo ambiente, fisico e sociale. Vive, dovunque si trovi,chiusoinsé.Neisuoi scritti giovanili aderisce al modernismo angloamericanonellesueforme piúermetiche.Siimmerge neiCantosdiPound.Ilsuo critico preferito è Hugh Kenner. Del critico ammira le vaste conoscenze e lo spirito brillante (che lui, sfortunatamente, è troppo pedante per imitare) ma anche l’audacia con cui Kenner ignora tutta una seriediesperienze;quanto a vivere, beh, se ne possonooccupareiservial nostroposto. A ventun anni va via dal Sudafrica, con l’idea di lasciarselo alle spalle. Quando verso la metà degli anni Sessanta abbandona l’informatica a favore della vita accademica – una decisione che gli avrebbe salvato la vita – è alla letteratura strettamente intesa come oggetto di studiochesirivolge.Scrive un’analisi formalistica di Beckett concentrandosi su unperiododellavitadello scrittore in cui anche lui era ossessionato dalla forma, dalla lingua come giocoautoreferenziale. Gli manca il Sudafrica? Malgrado non si senta a suo agio in Inghilterra e neppure negli Stati Uniti nonhanostalgiadicasa,e nemmeno si sente particolarmenteinfelice.Si sentesolounostraniero. Vorrei rintracciare in me («me») questa sensazione di essere straniero (di estraneità non di straniamento) risalendo piú indietro nel tempo. È unasensazionecheritrova in sé fin dai primi ricordi. Ma sono in grado, scrivendo oggi, nel 1991, di datarne l’intensificazione. Gli anni trascorsi nella provincia ruralediWorcester(1948- 51)inunascuolamediadi lingua inglese pur provenendo da un background afrikaans e in unperiodoincuiinfuriava il nazionalismo afrikaner, un periodo in cui si cercavadipassareleggiche proibivano di educare in inglese i ragazzi di origine afrikaans. Quella situazione gli produce incubi nei quali viene scoperto e accusato. Già intorno ai dodici anni ha sviluppatoundecisosenso di marginalità sociale. (Quelli come i suoi genitori vengono attaccati dal pulpito come volksverraaiers, traditori del popolo. Ma in verità i suoi genitori non sono traditori, non sono neppure particolarmente sradicati: sono solo, a loro eterno credito, indifferenti alvolkeaisuoidestini). Agli anni di Worcester seguel’adolescenzaaCittà del Capo, in cui lui, protestante, frequenta un liceo cattolico e ha amici ebreiegreciortodossi.Per uncertonumerodiragioni smette di andare nella fattoria di famiglia, il punto della terra che ha definito, immaginato, costruito come suo luogo di origine. Tutto questo confermalasuasensazione (piuttosto accurata) di trovarsi fuori da una cultura che in quel momento storico si apprestaaimporsicomeil nucleo culturale dominantedelpaese. Sociologicamente aiuta, forse, pensarlo quasi ventenne come un raznochinets alla stregua delBazarovdiTurgenevo dell’infinita serie di giovani nei romanzi di Dostoevskij, occhi ardenti nei volti pallidi, col progetto di cambiare il mondo, un giovane intellettuale marginale e socialmente svantaggiato del tardo impero inglese. Svantaggiato? Beh, forse non esattamente ma certamente non privilegiato secondo gli standard della borghesia bianca. I suoi non fanno partedeicircoliafrikaanse nemmenodiquelliinglesi. Hannoproblemifinanziari infiniti e lui si paga l’universitàconlavorettidi ogni tipo se non altro perchélodisgustavederei sacrificidisuamadre. Politicamente il raznochinetspuòandarein una direzione o nell’altra ma durante i suoi anni di studente lui, questa persona,questosoggetto,il mio soggetto, si tiene alla larga dalla destra. Da bambino a Worcester ne ha avuto abbastanza della destra afrikaner, delle sue tirate, della sua arroganza, della sua crudeltà. Gli basta per una vita. Anzi, anche prima di Worcester havistopiúcrudeltàepiú violenza di quanta ne dovrebbe vedere un bambino.Cosídastudente si muove ai margini della sinistra, senza farne davvero parte. Malgrado nutra simpatia per le preoccupazioniumanitarie della sinistra quando è al dunque ne prende le distanze per il linguaggio, infastidito di fatto da qualsiasi linguaggio politico. Da sempre si è sentito a disagio con il linguaggio dogmatico, con ogni linguaggio definitivo, quello che non tende a rivedere scetticamente le sue premesse. Le masse risvegliano in lui qualcosa di simile al panico. Non puòononvuole,nonpuò e non vuole unirsi agli altri, gridare, cantare: la golaglisichiude,sirifiuta. Èquestalapersonache,in una versione leggermente piú matura, va in Texas per riprendere gli studi di letteratura. Non voglio denigrare il regime formalista, sostanzialmente linguistico, cui si sottopone per i successivi quindici anni. La disciplina all’interno della quale costui (adesso comincia a sembrare sempre piú vicino a io, l’autrebiographie sfuma nell’autobiografia) era cresciuto lo/mi aveva abituato a pensare portandolo/mi a illuminazioni impensabili seguendounqualsiasialtro percorso.Mailsaggiosulla confessione, rileggendolo ora,segnal’iniziodiunpiú profondo impegno filosofico rispetto a una situazione nel mondo, la sua situazione, e forse tuttora la mia. Andrebbe letto, credo, insieme ad Aspettando i barbari. Il romanzo pone una domanda: perché scegliamodischierarcicon la giustizia quando non è nel nostro interesse materiale farlo? Il Magistratodàunarisposta alquanto platonica: perché nasciamo con l’idea di giustizia. Il saggio, anche se solo in modo implicito, chiede: perché dovrei essere interessato alla verità su me stesso se quella verità potrebbe non essere nel mio interesse? Al che io credo di continuare a dare una risposta platonica: perché nasciamo con l’idea di verità. E questa è la prima parte come la vedo oggi. Alla luce di tutto quanto ci siamo detti, mi fermerei qui. [1991]. Notadelcuratore La riflessione critica di J. M. Coetzee ha dato luogo neglianniaun’altrascrittura, parallela a quella creativa. A partire dai primi anni Settanta dello scorso secolo, quasi in concomitanza con l’esordio narrativo – Terre al crepuscolo esce nel 1974 – Coetzeepubblicavarisaggidi analisi letteraria e culturale, poi raccolti nei volumi in gran parte inediti in italiano, White Writing (1988), Doubling the Point (1992) e Giving Offense (1996) a. Da questi sono tratti i saggi inclusi nel presente volume, riordinati secondo la data di composizione, a rappresentare poco piú di un ventennio di letture e sperimentazioni critiche, in parte motivate dal lavoro accademico dello scrittore presso l’Università di Cape Town. Gli ambiti di ricerca, gli autori, le letture teoriche di riferimento dei saggi sono il frutto delle scelte intellettuali attraverso cui Coetzee riorienta la sua formazione di matematico e poi di programmatore, indirizzandola verso le scienzeumaneelatradizione letterariaeuropea. Questo passaggio è lucidamente descritto nelle interviste di Doubling the Point, dove Coetzee, sollecitato dalle domande del suo interlocutore, il critico sudafricano David Attwell, ripercorre la sua formazione intellettuale, duplicandone per cosí dire i percorsi, e rileggendo alla luce dei vari stimoli recepiti le proprie strategie narrative. Le interviste, qui solo parzialmente riprodotte, ci restituiscono un Coetzee inedito, che riflette su fasi e sceltedellasuavitaedellasua opera con una franchezza e una disponibilità mai piú in seguito verificatesi. All’epoca incuidecidediraccoglierein volumeisuoisaggièl’autore acclamato di sei romanzi b, tradottiinvarielingue,conla fama di un carattere schivo e restio alle interviste. Cosa lo spinge a intraprendere il progetto nella forma inconsueta del dialogo? Lo spiega lui stesso: «Capire il desiderio che mi ha spinto a scrivere quello che ho scritto tra il 1970 e il 1990. Non i romanzi che sono sufficientemente in grado di interrogarsi su se stessi ma tuttoilresto,isaggicritici,le recensioni e cosí via. Scritti cheappartengonoaungenere che per lo piú non permette loro di riflettere su se stessi […]Forseèperquestocheho scelto la forma del dialogo, per superare l’impasse del mio stesso monologo». Monologo e dialogo sono parole chiave per capire l’opera di Coetzee narratore, opera in cui il forte investimento personale si trova spesso occultato, persino negli scritti piú esplicitamente autobiografici, in forme e strategie di straniamento e alienazione. La scrittura, che produca finzioneoanalisicritica,èper lui «sempre autobiografia» perché in quanto gesto intransitivo «la scrittura ci scrive» rivelando all’autore una versione di sé piú veritiera delle intenzioni di partenza. Nelle interviste con Attwell è interessante notare come, fin dall’inizio, lo scrittoreriescaasovrapporre, all’inchiesta rigorosa del critico sull’ontologia del suo discorso narrativo, una sorta di progetto autobiografico corrispondente alla prima intensa fase di scrittura dei romanzi, la piú politica. Ricchecomesonodirimandi ai romanzi, di informazioni sulle loro piú riposte ragion d’essere, le interviste non si limitano dunque a incorniciare e commentare i saggi ma scandagliano nel profondo la complessa interazione tra vita vissuta e operadelloscrittore. Gli argomenti trattati nei saggi rinviano ad ambiti eterogenei non sempre collegabili in maniera immediata ai romanzi. Analisi critiche di classici della letteratura europea si alternano a quelle di letteratura sudafricana; riflessionisullacensuraesulla pubblicità si trovano accanto a letture dell’ideologia dei fumettiedelrugby.Ilregistro di scrittura varia di caso in caso – ironico, brillante, filosofico,accademico–maa unificarlièilrigoreanaliticoe metodologico con cui i temi vengono avvicinati, che si tratti di cultura «alta» o di cultura popolare, quasi l’autore abbia voluto, in ciascun caso, mettere alla prova del suo scrutinio formulazioni critiche di successo e verificarne praticabilità e validità. La lunga permanenza negli Stati Uniti,dal1965al1972,prima come dottorando all’Università di Austin, Texas, poi come docente a Buffalo, avrà un peso determinante nelle scelte metodologiche come negli ambiti di studio privilegiati. Sono gli anni in cui si affermano la linguistica, lo strutturalismo, il poststrutturalismo ecc. e Coetzee sembra ricettivo a ogni stimolo e deciso a sperimentarli nel lavoro accademico che va producendo. E se gli studi su Beckett e su Kafka appaiono pesantemente improntati alla linguistica quantitativa e allo strutturalismo, sono molte altre le letture di singoli pensatori che lo influenzano in maniera consistente e piú in profondità, per esempio Foucault, Lacan, Barthes, Derrida, Girard, De Certeau ecc.,icuiechisiavvertonoin ogni suo romanzo. La questione delle influenze, spesso sollevata nel corso delle interviste, non è mai comunque riconducibile alle soleletturenétantomenoalle mode letterarie del tempo e Coetzee appare restio ad approfondirla, preferendo lasciarenelmisterol’originee i complessi processi di scrittura attraverso cui si producel’opera. Il problema della verità nell’autobiografia appare centralenellariflessionedello scrittore, che spesso si interrogasulladialetticadella reciprocità, sui modi di una scrittura che rispetti la possibilità di interagire con l’altro sul piano del linguaggio. In quanto membro di una comunità, quellaafrikaner,cuirifiutadi appartenere, Coetzee si definisce qualcuno che scrive senza averne l’autorità, col sensodiestraneità,didisagio, di esclusione che ne deriva e che lo accompagna da sempre. Si può leggere in questa chiave il saggio Confessioneedoppiopensiero, sorta di laboratorio dello scrittoreallepreseconalcuni testi dei suoi autori preferiti, Dostoevskij e Tolstoj, che analizza sul piano letterario, filosoficoedeticoinrelazione allalorocapacitàdiesplorare emettereanudolaveritàpiú profonda dell’io, in maniera quasi inconsapevole. E non sorprende che in una delle interviste Coetzee dichiari di sentirsi sdoppiato, combattutotrailcinismoela grazia, come accade ne I demoni, nel confronto tra Stavrogin e Tichon. Il dibattito tra la persona che era,echeinparteèancora,e quella che avrebbe voluto essere è ciò che lui definisce lo «spazio di verità» dell’autobiografia. Un dibattito incompiuto che sembra essere alla base del suo piú recente romanzo, Tempo d’estate (2010), terza parte di una singolare autobiografia cchesisviluppa a partire dalle domande che un critico inglese rivolge, dopo la morte dello scrittore, apersonechehannoavutoun ruolo, per quanto fugace, nella sua vita in un periodo anteriore alla sua fama e al premio Nobel. Ma non è il ritrattodell’artistadagiovane quellochepuòcostruirsidalle loro risposte né tantomeno dai frammenti di diario dello scrittore, che resta fino alla fine un soggetto elusivo e inconoscibile come il personaggio di un romanzo modernista. Le successive raccolte di saggi–WhiteWriting, in cui Coetzee analizza la presenza dell’ideologia «bianca» nella letteratura sudafricana delle origini, e Giving Offense che riunisce vari interventi sul tema della censura – esplorano ambiti nettamente definitiemaggiormentelegati al retroterra culturale dello scrittore. La «scrittura bianca» non si identifica tout court con la scrittura dei bianchi in Sudafrica quanto piuttosto con un’ideologia intrisa di pregiudizi nei confronti della cultura nativa chesimanifestafindaiprimi resoconti dei viaggiatori olandesi verso l’Africa meridionale. Una terra che, fin dall’epoca dei primi insediamenti europei nel 1652, invece di essere percepita come nuovo paradiso in terra è descritta come sua negazione, in cui persino gli agricoltori boeri, generalmente operosi, si riducono allo stato ozioso e degenerato degli ottentotti. L’«indolenza»degliafricani– lalororesistenzaall’ideologia del lavoro – è forse il piú persistente luogo comune sui costumideinatividellaprima antropologia e dei vari osservatori del mondo africano che Coetzee qui prova a ribaltare leggendolo come sfida all’etica capitalistica. Nella lettura del genere nostalgico per eccellenza che è il romanzo afrikaner di ambientazione rurale, accanto ai ricorrenti pregiudizi Coetzee sottolinea soprattutto i silenzi, come quello sul lavoro dei neri, dovuta al «fallimento dell’immaginazione davanti alla difficoltà di integrare i neridiseredatinell’idillio[…] o nell’anti-idillio del pastoralismo africano». Anchenellarappresentazione del paesaggio come qualcosa di estraneo, indifferente, non compreso, nel romanzo e nella poesia sudafricana bianca Coetzee legge una sostanziale mancanza d’amore per il paese e le persone e la paura del «desiderio di abbracciare il corpo dell’Africa», mascherata da amore per la terra,«ciòchemenodituttiè in grado di ricambiare l’amore: montagne, deserti, uccelli,animali,fiori». Tema pervasivo dei saggi diGivingOffenseèlacensura considerata come istituzione giuridica e come pratica di oppressione oltre che come filosofia, estetica e prassi politica.Inunlungoexcursus storico sul sentimento dell’indignazione e del sentirsi offesi spesso all’originedellalegittimazione dell’atteggiamento censorio fino ai nostri giorni, Coetzee denuncia la censura come la passione triste di passati regimi oppressivi surrettiziamente riproposta negli Stati Uniti in alcuni rigurgiti conservatori della critica femminista sul tema della pornografia e del discorsopolitically correct. In difesa dell’illimitata libertà di espressioneCoetzeesiappella tral’altroallevirtúerasmiane del dubbio e della tolleranza, mostrando come ogni condizionamento imposto all’espressione artistica risulti in una forma di impoverimento dell’arte. Tra gli esempi presi in esame spiccano i saggi dedicati al poeta polacco Zbigniew Herbert e al poeta afrikaner Breyten Breytenbach. Un discorso a parte riguarda il processo per oscenità del romanzo di D. H. Lawrence L’amante di Lady Chatterley, del 1928, che gli inglesi poterono leggere in versione integrale solo nel 1960, quando appunto la pubblicazione nei Penguin Books portò al celebre processo.Letestimonianzedi noti intellettuali, vescovi e lettori comuni che negarono l’oscenità dell’opera esaltandone il valore morale ed educativo risultò nella riabilitazione e canonizzazione del romanzo maCoetzeeritienechequesto ne sminuí la carica drammatica e trasgressiva. E richiamandosi a un’altra celebre opera sottoposta a censura riafferma la vitalità del tabú trasgredito: «I lacci del corsetto di Emma Bovary sibilano come serpenti mentre lei si spoglia; se quel momento mantiene la sua forza scandalosa, vuol dire che qualcosa è stato evocato, qualcosaèstatotrasgredito». PAOLASPLENDORE aSuccessivamentepubblicaaltri due volumi, Spiagge straniere. 1993-1999eLavori di scavo. 20002005, editi in italiano da Einaudi, incuisitrovanoraccolte,accantoa saggi e prefazioni, soprattutto le recensioni apparse sulla «New YorkReviewofBooks». b Nel 1974 esce il primo romanzo Terre al crepuscolo, cui fanno seguito Nel cuore del paese (1977), Aspettando i barbari (1980), Vita e tempo di Michael K (1983), Foe (1986), Età di ferro (1990), tutti editi in italiano da Einaudi. c I primi due volumi sono Infanzia(2001)eGioventú(2004). Isaggi:L’indolenzainSudafrica (Idleness in South Africa, prima apparizione in «Social Dynamics», n. 8/1, 1982); Romanzo rurale e «plaasroman» (Farm Novel and Plaasroman, prima apparizione in «EnglishinAfrica»,n.13/2,1986); Leggere il paesaggio sudafricano (Reading the South African Landscape) sono tratti da White Writing. On the Culture of Letters in South Africa (Yale University Press,NewHaven1988). Le interviste con David Attwell (Beckett: Interview; Retrospect: Interview)eisaggi:SamuelBeckett e la tentazione dello stile (Beckett andtheTemptationsofStyle,prima apparizione in «Theoria», n. 41, 1973); Capitan America nella mitologia americana (Captain America in American Mythology, prima apparizione in «University ofCapeTownStudiesinEnglish», n.6,1976);Appuntisulrugby(Four NotesonRugby,primaapparizione in«Speak1»,n.4,1978);Strutture triangolari del desiderio nella pubblicità(TriangularStructuresof Desire in Advertising, prima apparizionein«CriticalArts»,n.1, 1980); Ricordi del Texas (RememberingTexas,pubblicatola primavoltasulla«NewYorkTimes Book Review» con il titolo How I Learned about America and Africa in Texas il 15 aprile 1984); Confessione e doppio pensiero: Tolstoj, Rousseau, Dostoevskij (Confession and Double Thoughts: Tolstoy, Rousseau, Dostoevsky, prima apparizione in «Comparative Literature», n. 37, 1985); Nella stanza buia (Into the Dark Chamber: the Writer and the South African State, prima apparizione in forma ridotta sulla «New York Times Book Review» del 12 gennaio 1986); Discorso di accettazione del Jerusalem Prize (Jerusalem Prize Acceptance Speech, discorso pronunciato a Gerusalemme nell’aprile 1987) sono tratti da Doubling the Point. EssaysandInterviews, a cura di D. Attwell (Harvard University Press, Cambridge1992). «L’amantediLadyChatterley»e lo stigma della pornografia (Lady Chatterley’s Lover: the Taint of the Pornographic,unaprimaversioneè apparsa su «Mosaic: A Journal for the Interdisciplinare Study of Literature»,n.21/1,1988coltitolo The Taint of Pornographic: Defending (against) Lady Chatterley); Zbigniew Herbert e la figura del censore (Z. Herbert and theFigureoftheCensor,unaprima versione del saggio è apparsa in «Salmagundi»,nn.88-89,1990-91); BreytenBreytenbacheillettoreallo specchio (Breytenbach and the Reader in the Mirror, una prima versione del saggio è apparsa in «Raritan», n. 10/4, 1991. Ristampata su concessione di «Raritan: a Quarterly Review», © 1991byRaritan,31MineSt.,New Brunswick,N.J.08903);Indignarsi (Taking Offense) sono tratti da Giving Offense. Essays on Censorship (The University of ChicagoPress,Chicago1996). 1 J. M. Coetzee, Statistical Indices of «Difficulty», in «Language and Style», 2, n. 3, 1969, pp. 226-32. 2Id.,recensionediW.Fucks,Nach allen Regeln der Kunst, in «Style»,5,n.1,1971,pp.92-94. 3 Id., Samuel Beckett «Lessness»: AnExerciseinDecomposition,in «Computers and the Humanities» 7, n. 4, 1973, pp. 195-98. 4 Id., Surreal Metaphors and Random Processes, in «Journal of Literary Semantics», 8, n. 1, 1979,pp.22-30. 5 H. Kenner, Samuel Beckett: A Critical Study, University of California Press, Berkeley 1968, p.132. 6 J. M. Coetzee, Nabokov’s «Pale Fire»andthePrimacyofArt,in «University of Cape Town Studies in English», n. 6, 1974, pp.1-7. 7 R. M. Rilke, A Witold von Hulevicz,inDelpoeta,acuradi N. Sàito, Einaudi, Torino 1955, pp.99-100. 1S.Beckett,Immaginazionemorta immaginate,inRacconti e prose brevi, Einaudi, Torino 2010, p. 192. Nella traduzione italiana non è stata resa la rima azure/verdure cui accenna Coetzeepiúoltre[N.d.T.]. 2 Id., L’innominabile in Trilogia. Molloy, Malone muore, L’innominabile, trad. di A. Tagliaferri, Einaudi, Torino 1996,p.323. 3«Èmezzanotte.Lapioggiasferza i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva affatto», ibid., p. 192[N.d.T.]. 4Ibid.,p.414.Latraduzioneèstata lievementemodificata. 5Ibid.,p.333. 6 Ibid.,p.376. 7Beckett,Bing,inRaccontieprose brevicit.,p.207. 8Id.,Senza,ibid.,p.210. 9Id.,SixResidua,Calder&Boyars, London 1972. La versione italiana dei sei testi è inclusa in Racconti e testi brevi cit. [N.d.T.]. 10 Id., Watt, a cura di G. Frasca, Einaudi, Torino 1998, pp. 11213. 11Ibid.,p.160. 12 Citato in L. E. Harvey, Samuel Beckett on Life, Art, and Criticism,in«ModernLanguage Notes»n.80,1965,p.555. 13 G. Flaubert, lettera a Louis Bonenfant,12dicembre1856,in Correspondance, a cura di J. Bruneau,Gallimard,Paris1980, vol.II,p.652. 14 Id., lettera a Louise Colet, 16 gennaio1852,ibid.,p.31. 15 S. Beckett, Lettera tedesca del 1937,inDisiecta.Scrittisparsie un frammento drammatico, a cura di A. Tagliaferri, Egea, Milano1991,p.69. 16 S. Beckett, cit. in R. N. Coe, Beckett,Oliver&Boyd,London &Edinburgh1964,p.14. 17 S. Beckett, Tre dialoghi, in Disiectacit.,p.205. 18 Del suo amico Bram van Velde Beckett scrive che «è il primo a riconoscerecheessereunartista significa fallire, come nessun altroosafallire,cheilfallimento èilsuomondo»,ibid.,p.205. 1CapitanAmericaandtheFalcon, pubblicato a New York dal Marvel Comics Group, parte della Cadence Industries Corporation. Nel periodo trattato in questo saggio, 197274, il testo era opera di Steve Englehart e la grafica di Sal Buscema (occasionalmente era firmata da Alan Lee Weiss). China, lettering e colorazione eranoacuradellacasaeditrice. 2 Freud: «L’Io è innanzitutto un’entità corporea, non è soltanto un’entità superficiale, ma anche la proiezione di una superficie». In nota Freud aggiunge:«Cioèl’Iopuòdunque venir considerato come una proiezione psichica della superficiedelcorpo»,L’Ioel’Es (1922),inOpere,vol.IX,Bollati Boringhieri, Torino 1986, p. 488. 3 «Principio di prestazione: la forma storica prevalente del principiodellarealtà[diFreud]. La libido è stata deviata per consentire prestazioni socialmente utili, e l’individuo lavora per se stesso soltanto in quanto lavora per l’apparato», H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1968, pp. 80 e 88. 4 Il numero 179 (novembre 1974) ha per tema le reazioni di Capitan America allo scandalo Watergate. 1 J. Huizinga, Homo ludens, Einaudi,Torino2002,p.10. 1R.Girard,Menzognaromanticae verità romanzesca, trad. di L. Verdi-Vighetti, Bompiani, Milano 2005. Citato nel testo comeMR. 2 Id.,Laviolenzaeilsacro,trad.di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano1980. 3 Id., To Double Business Bound, JohnsHopkinsUniversityPress, Baltimore1978,p.66.Citatonel testocomeDB. 4A.deTocqueville,Lademocrazia in America, a cura di G. Candeloro,Bur,Milano1998. 5 M. Scheler, Ressentiment (1915), trad.diB.Holdheim,FreePress, NewYork1961,pp.60-77[trad. it. Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero,Milano1975]. 6F.Inglis,TheImageryofPower:A Critique of Advertising, Heinemann, London 1972, p. 78. 1Agostino,Leconfessioni,acuradi M. Bettetini, Einaudi, Torino 2002,pp.51e59. 2 F. R. Hart definisce, in un utile saggio classificatorio, la confessione come «la storia personale che cerca di comunicare o esprimere l’essenza, la verità dell’io», l’apologia come «la storia personale che cerca di dimostrare o realizzare l’integrità dell’io» e il memoir come «la storia personale che cerca di articolare o di riappropriarsi della storicità dell’io».Perciò«laconfessioneè ontologica, l’apologia etica, il memoir storico o culturale», Notes for an Anatomy of Modern Autobiography, in New Directions in Literary History, a cura di R. Cohen, Johns Hopkins University Press, Baltimore1974,p.227. 3 Per esempio nei saggi Dell’esercizio(libroII,cap. VI )e Della presunzione (libro II, cap. VII ). Nel libro III, cap. v, Montaignedichiara:«mivedoe m’indago fin nelle viscere», M. deMontaigne,Saggi,acuradiF. Garavini,Adelphi,Milano2002, 2voll.,pp.1123-24. 4 Si veda P. M. Axthelm, The Modern Confessional Novel, Yale University Press, New Haven1967. 5 È interessante notare come Oswald Spengler, citando il rimpianto di Goethe per la confessione auricolare abolita dal protestantesimo, sostenga che, dopo la Riforma, l’incanalarsi nelle arti dell’impulso confessionale fu inevitabile, ma anche che, in assenza del confessore, non si potevaimpedirealleconfessioni di diventare «interminabili», Il tramonto dell’Occidente, Guanda,Milano1991. 6 L. N. Tolstoj, SonataaKreutzer, trad. di G. Pacini, Feltrinelli, Milano 2010, p. 34. Le mie citazionidalrussosonotratteda Kreitserova sonata, in id., Sochineniya,IV,Berlin1921,pp. 160-293. 7Id.,Postilladell’autore,inSonata aKreutzercit.,pp.125-42. 8 D. Davie, Tolstoy, Lermontov, and Others, in Russian Literature and Modern English Fiction, a cura di D. Davie, University of Chicago Press, Chicago1965,p.164. 9 T. G. S. Cain, Tolstoy, Elek, London1977,pp.148-49. 10 Quando Pozdnyšev si fidanza, come già Levin in Anna Karenina, mostra alla futura sposa i suoi diari intimi che lei legge orripilata. Per ambedue i romanzi Tolstoj attinge all’episodio autobiografico quando diede in lettura i suoi diariallafidanzata,SonyaBehrs. Nella sua biografia di Tolstoj, Henry Troyat descrive la parte giocata dai diari nel matrimonio. Citando un’annotazione del 1863: «Quasi ogni parola del suo quaderno è una forma di prevaricazione e di ipocrisia. Il pensiero che lei [Sonya] sia ancora qui, a leggere alle mie spalle, soffoca e distorce la mia sincerità», Troyat commenta che le «confessioni private» che la coppia registrava nei propri diari «diventavano inconsciamente soggetti di accusa e difesa dell’uno contro l’altro. Quando la fama di Tolstoj crebbe e fu chiaro che ungiornoisuoidiarisarebbero diventati pubblici, la questione di che cosa lui potesse scrivervi divenne materia di contesa. A volte la moglie annota che lui nel suo diario la insulta. Nell’ultimo anno di vita Tolstoj tenneundiariosegretonascosto nellostivale,chelamogliescovò mentre lui dormiva. H. Troyat, Tolstoy, Penguin, Harmondsworth1970. La contessa Tolstoj considerava La sonata a Kreutzer né un’opera di fantasia né un sermone ma un attacco personale «diretto a me per [offendermi] e [umiliarmi] agli occhi del mondo». In risposta scrisse un romanzo in cui denunciava Tolstoj, il predicatore del celibato, come un bruto sessuale, e a stento si riuscíaimpedirledipubblicarlo. [IlromanzodiSof′jaTolstaja,in rispostaaLa sonata a Kreutzer, èstatopubblicatopostumoein italiano è uscito con il titolo Amore colpevole, trad. di N. Cicognini,LaTartaruga,Milano 2009,N.d.C]. 11 R. M. Rilke, lettera del 21 ottobre 1924, in H. Gifford (a cura di), Tolstoy: A Critical Anthology, Penguin, Harmondsworth1971,p.187. 12 W. C. Spengemann, The Forms of Autobiography, Yale University Press, New Haven 1980,p.15. 13 L. N. Tolstoj, La confessione, trad. di G. Pacini, SE, Milano 2000,p.28. 14 Id., Anna Karenina, trad. di A. Alleva, Mondadori, Milano 2007. 15 L’uomo «conosce se stesso dunque per effetto e in conformità della natura del suo volere: e non già vuole […] per effetto e in conformità del suo conoscere»,A.Schopenhauer,Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di C. Vasoli, Laterza, Bari 1991, vol. II,p.388. 16 M. Arnold, Count Leo Tolstoy, in Essays in Criticism, London 1888,p.283. 17 L. Tolstoj, Life, trad. di R. Edmonds, Penguin, Harmondsworth1954,p.829. 18 V. V. Zenkovsky, A History of Russian Philosophy, Routledge, London1953,vol.I,p.391. 19 Cit.inCain,Tolstoycit.,p.9;M. Gorky,Reminiscences of Tolstoj, Chekhov and Andreev, trad. di K.Mansfield,S.S.Kotelianskye L. Woolf, Hogarth Press, London1968,p.30. 20 J.-J. Rousseau, Le confessioni, Einaudi, Torino 1978, trad. di M. Rago. Le citazioni dal francese sono tratte da Œuvres complètes, vol. I, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond, Gallimard,Paris1959. 21 P. de Man, Allegorie della lettura, a cura di E. Saccone, Einaudi,Torino1997. 22Sitrattadiunastrategiacomune in Rousseau. Per esempio: «lungi dall’aver taciuto nulla, dissimulato nulla che fosse a mio carico, per un giuoco della mente che a fatica mi spiego, e che deriva forse dalla ripugnanza a ogni imitazione, mi sentivo piuttosto portato a mentire nel senso contrario, accusandomi con un eccesso di severità,chescusandomiconun eccesso d’indulgenza; e la coscienza mi assicura che un giorno sarò giudicato meno severamente di quanto non mi sia giudicato io stesso. Le passeggiate solitarie, Quarta passeggiata, in J.-J. Rousseau, Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni,Firenze1989,p.1343. 23 De Man, Allegorie della lettura cit.,p.267. 24 Si veda ad esempio il secondo Essay upon Epytaphs di Wordsworth (1810): «Dove [il] fascino della sincerità si nasconde nella lingua di una lapide e segretamente la pervade, non ci sono errori di stile o di tono per cui rappresentasempre,inuncerto senso,unagratificazione»,Prose Works,acuradiW.J.B.Owene J. W. Smyser, Clarendon Press, Oxford1974,vol.II,p.70. 25 SivedaadesempioT.S.Eliot,I poeti metafisici (1921): «Una teoria filosofica, entrata che sia nella poesia, è “provata” perché daun lato lasua verità o falsità cessa di avere importanza e dall’altro la sua verità ne esce dimostrata», in id., L’uso della poesiael’usodellacritica,acura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1974,p.194. 26 J. Starobinski, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, il Mulino, Bologna 1982,p.270. 27Ibid.,p.299. 28Annalescit.ibid.,p.303. 29 Starobinski, Jean-Jacques Rousseaucit.,p.310. 30 Benché qui sia una facile eloquenzaatradireRousseau,la lingua dell’Altro da cui lui piú spesso si sforza di liberarsi è quella di La Rochefoucauld, La BruyèreePascal.ScriveMargery Sabin: «I grandi prosatori della Francia del diciassettesimo secolo fondarono una lingua autorevole di descrizione psicologica che prese forza proprio dal carattere pubblico della lingua». Rousseau porta la suaprotestacontrolalinguadel sentimento, dice Sabin, a «ogni livello dell’opera, persino nelle implicazioni della sintassi e i significati delle singole parole». Fornisce quindi un’analisi esemplare dello stile di Rousseau nella sua descrizione deisuoisentimentiperMmede Warens,incuilefrasi«ruotano intorno» a quel sentimento elusivo piuttosto che centrarlo. «Se le sue emozioni restano elusive, confuse, parossistiche – bene, lo stile sostiene che è questa la vera natura della sua vita interiore», in English Romanticism and the French Tradition, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1976, pp.19e29. 31L’episodioèraccontatonellibro VII,tomoI. 32 Starobinski ritiene che Rousseau, per chiarire la sua psicologia, usi in primo luogo «ilprincipiodell’immediatezza», ma quasi subito questo principio «assume il valore di unagiustificazionesuperiore,di unimperativomoraleanchepiú stringente delle normali regole del giusto e dell’ingiusto» (p. 175).Inrealtà,nelbranodame considerato,nonsiattribuisceal principio una connotazione morale. 33 Per esempio nella discussione della sua «avarizia» durante la permanenza presso Mme de Warens, o della sua antipatia a pagareperilsesso(libriV,VII, tomoI,p.188). 34J.Derrida,Dellagrammatologia, a cura di G. Dalmasso e S. Facioni, Jaca Book, Milano 1998. 35Sipotrebbeobiettarecheiostia discriminando troppo nettamente tra l’essere consapevoli di una verità «piú profonda» e il non esserlo, ignorando le gradazioni e le sfumature dell’autoinganno che si verificano tra gli estremi di innocenza e menzogna. Ma come riconosce tra gli altri Michel Leiris, l’autobiografo sfida se stesso alla maniera in cuifailtoreroconiltoro:nonci sono scuse per la sconfitta. Età d’uomo, trad. di A. Zanzotto, Mondadori,Milano1980. 36 Devo la spiegazione del meccanismo dell’autoinganno a H. Fingarette, Self-Deception, Routledge, London 1969, pp. 86-87. 37D.Hume,Trattato sulla natura umana, Opere filosofiche I, Laterza,Bari2008. 38F.Dostoevskij,Umiliatieoffesi, trad. di C. Coïsson, Einaudi, Torino1965. 39 Questa è sostanzialmente la posizione sostenuta da Alex de JongeinDostoevskyandtheAge of Intensity, Secker & Warburg, London 1975. Secondo la sua tesigranpartedeipersonaggidi Dostoevskij che si confessano – tra cui Valkovskij, Marmeladov eSvidrigailov–aderisconoaun «cultodell’intensità»fondatoda Rousseauchesibasasulpiacere masochista dell’autodenigrazione. De Jonge considera Dostoevskij uno psicologo della confessione che esplora i modi in cui individui privi di consapevolezza di sé come di sensi di colpa, e senza alcun interesse per la verità, usano l’autorivelazione come strumentodipotereedipiacere. 40 Michail Bachtin sostiene che il romanzo di Dostoevskij sia una forma di satira menippea, un miscuglio di finzione narrativa, dialogo filosofico, confessione, agiografia, fantastico e altri elementi generalmente incompatibili. Bachtin sostiene che Dostoevskij utilizza anche l’antica tradizione europea del Carnevaleincui,abbandonatele regole sociali consuete, i rapporti umani sono governati dalla piú totale sincerità. Dostoevskij cit., cap. 4. Per Bachtindunquelaconfessioneè in primo luogo un elemento strutturale del romanzo di Dostoevskij, sebbene egli poi analizzi l’atteggiamento «dialogico» verso il sé dei narratori in prima persona di Dostoevskij,incuil’iodiventail suostessointerlocutore(cap.5). 41 F. Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, trad. di A. Polledro, Einaudi, Torino 1988, p. 8. La metafora dell’autoconsapevolezza come malattia diventa un luogo comune nell’Europa degli anni Sessanta dell’Ottocento. «L’autoanalisi […] è immancabilmente sintomo di unmalessere»,scrivevaThomas Carlylenel1831:soloquandola «febbre dello Scetticismo» si sarà consumata […] ci sarà «chiarezza, salute», Characteristics, in Critical and Miscellaneous Essays, London 1899,vol.III,pp.7e40.Siveda anche Geoffrey H. Hartman, Romanticism and «Anti-Self- Consciousness», in Romanticism and Consciousness, a cura di H. Blooom, Norton, New York 1970,pp.46-56. 42SullaprimapartediMemoriedel sottosuolo letta come critica al Nichilismo degli anni Sessanta dell’Ottocento si veda J. Frank, Nihilism and Notes from Underground, in «Sewanee Review»,n.69,1961,pp.1-33. 43 «Dichiarounavoltapersempre che, anche se scrivo come rivolgendomi a dei lettori, è unicamente e soltanto per mostra, perché cosí mi è piú facile scrivere […] quanto ai lettori,nonneavròmai»(p.41). 44 «La preoccupazione metafisica per il fine dell’Uomo si realizza negli attributi piú formali della struttura dei romanzi [di Dostoevskij],laformanarrativa. Questoperchéluifutraiprimi a riconoscere che il destino dell’uomo non poteva essere disgiunto dal problema di cosa potesse costituire una storia autentica», M. Holquist, Dostoevsky and the Novel, Princeton University Press, Princeton1977,p.194. 45F.Dostoevskij,L’idiota, trad. di A. Polledro, Einaudi, Torino 1994.Leindicazionidellepagine sono inserite nel testo. Le mie citazionidalrussosonotratteda Idiot, Kartya Moldovenyaske, Kishinev(Ussr)1970. 46 Il paradosso del seme è probabilmente ripreso dal Vangelo secondo Giovanni 12,24: «In verità, in verità vi dico: se il granel di frumento, cadendo in terra, non morrà, rimarrà esso solo; ma se morrà, apporterà gran frutto». Il versettoècitatoinepigrafediF. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, trad. di A. Villa, Einaudi,Torino1962,2voll. 47 «La piena libertà ci sarà solo, quando sarà indifferente vivere o non vivere […] chi vincerà il doloreelapaura,quellodiverrà Dio […] chiunque voglia la libertà suprema, deve avere il coraggiod’uccidersi[…]Chiha il coraggio d’uccidersi, quello è Dio», I demoni, trad. di R. Kufferle, Mondadori, Milano 2000,pp.115-16. 48 Girard, Menzogna romantica e veritàromanzescacit.,p.237. 49 Il paradosso inerente alla nozione di autocompulsività resta tuttavia valido. Nel momento critico in cui Stavrogin confessa «tutta la verità», e cioè che vuole perdonarsi, e chiede una «sofferenza infinita», Dostoevskij ritorna a una psicologia dualistica in cui si esprime un sé «interiore»: Stavrogin parla «come se le parole gli fossero uscite dalla boccacontrolasuavolontà». 50Finchélametaregoladelgiocoè che le regole non vengano esplicitate – in realtà non bisogna dichiarare che non ci sonoregole,eneppureungioco –imeccanismidell’autoinganno nel gioco risultano ben descritti daFingarette(vedinota36). 51 F. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, trad. di E. Lo Gatto, Bompiani,Milano2007. 1 N. Hawthorne, La lettera scarlatta, trad. di A. Busi e C. Covito,inOperescelte,acuradi V. Amoruso, Meridiani Mondadori, Milano 1994, pp. 519e529. 2 S. Sepamla, Soweto (tit. orig. A RideontheWhirlwind),trad.di B. Armellin, Edizioni Lavoro, Roma1989,pp.214,215e268. 3 M. Serote, To Every Birth its Blood, Heinemann, London 1981. 4 A. La Guma, In the Fog of the Seasons’ End, Heinemann, London1972. 5 B. Breytenbach, Le veritiere confessionidiunafricanoalbino, trad.diM.T.Carbone,Costa& Nolan,Genova1989,p.198. 6N.Gordimer,LafigliadiBurger, trad. di E. Capriolo, Feltrinelli, Torino1995,pp.205e206. 1 O. F. Mentzel, A Geographical and Topographical Description of the Cape of Good Hope, Van Riebeck Society, Cape Town 1944,vol.I,pp.281e288. 2Cit.inR.Raven-Hart,CapeGood Hope1652-1702,Balkema,Cape Town1971,vol.II,p.259. 3 Solo tre viaggiatori parlano di indolenza e tutti e tre non perché l’abbiano riscontrata ma per averla dedotta dal fatto che gli ottentotti non praticano l’agricoltura. Edward Terry, 1616; Augustin de Beaulieu, 1622; e Johan Wurfbain, 1646 (in R. Raven-Hart, Before Van Riebeek: Callers at South Africa from1488to1652,Struik,Cape Town1967). 4 François Bernier (1620-88) conclude che gli ottentotti sono una «specie diversa» dai negri dell’Africa. John Locke (16321704) comunque nota che l’intelletto degli ottentotti è simile a quello dei «bruti» solo per via delle condizioni ambientali. Buffon (1707-88) asserisce che la distanza tra l’ottentottoeilprimateèmolto maggiore di quella tra l’ottentotto e il resto degli uomini. Johann Blumenbach (1752-1840) sostiene che se è vero che l’ottentotto può apparirediuna«speciediversa», di fatto esiste «un solo tipo di umanità», cit. in J. S. Slotkin, ReadingsinEarlyAnthropology, Methuen,London1965. 5M.Weber,L’eticaprotestanteelo spirito del capitalismo, trad. di A. M. Marietti, Bur, Milano 1997,p.217. 6 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Bur, Milano 1984,p.102. 7K.Marx,Manoscritti economicofilosofici del 1844, Einaudi, Torino1968,p.125. 8 Van Riebeck allude all’indolenza degliottentottisolounavoltain undispaccioallaCameraindata 14 aprile 1653 in cui prega di essere rimosso da quella gente «stupida,pigraemaleodorante» emandatoinGiappone,dovele sue qualità potrebbero risultare piú utili. Nei suoi diari non fa cenno all’indolenza ottentotta anche se i suoi successori Wagenaar e Borghorst hanno molto da dire su questo tema ma condannano in particolare l’indolenzadegliagricoltori.Cfr. J.VanRiebeck,Journals,3voll., Balkema,CapeTown1952. 9 Reisebeschreibungen von deutschen Beamten und Kriegsleuten im Dienst der Niederländischen West- und Ost-Indischen Kompagnien, 1707-97, a cura di S. P. L’Honoré Naber, vol. VII, Nijhoff,TheHague1931,p.31. 10 N. Hawthorne, Il fauno di marmo, Giunti, Firenze 1995, trad.diF.Fantaccini,pp.4-5. 11 J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianzatragliuomini, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 108e140. 12 Sul retroterra classico riguardo alconcettodioziosivedaS.De Grazia, Of Time, Work, and Leisure, Twentieth Century Fund, New York 1962, pp. 1125. 13 Mentzel, A Geographical cit., vol.II,p.115. 14 Per un’eccezione a tante opinioninegativesivedaSimon de la Loubière, 1687: «In simile povertà [gli ottentotti] sono sempre allegri, sempre intenti a cantare e a ballare, e a vivere senza occupazioni né fatiche» (in Raven-Hart, Cape Good Hopecit.,vol.II,p.269). 15 Weber: «l’uomo “per natura” non vuole guadagnare denaro e sempre piú denaro, ma vivere semplicemente, vivere come è abituato a vivere, e guadagnare tanto quanto è necessario. Ovunqueintrapreselasuaopera di accrescimento della “produttività”dellavoroumano mediante l’aumento della sua intensità, il capitalismo moderno urtò contro la resistenzainfinitamentetenacee ostinata di questo motivo dominante del lavoro economico pre-capitalistico», L’eticacit.,p.83. 16«Nididipigrizia»èl’espressione usata nel 1849 dai magistrati dellecolonienelleaccuserivolte allemissioni. 17 La prospettiva della degenerazione era già presente in Mentzel nel 1787. A proposito dei boeri che «preferiscono vivere tra gli ottentotti nelle zone desertiche piúremote»esprimevailtimore che se non avessero contratto matrimoni con le nuove popolazioni europee sarebbero «degenerati e diverrebbero incivili»comegliscotioisorabi o gli sciti: già ora «sono di natura feroce, di scarsa istruzione, di pensieri meschini e di condotta maleducata» (vol. II,p.120). 18 J. W. D. Moodie, Ten Years in South Africa, vol. I, London 1835,p.176. 19 J.E.Alexander,AnExpeditionof Discovery into the Interior of Africa, vol. I, London 1838, p. 70. 20J.S.Marais,TheCapeColoured People, 1652-1937, Witwatersrand Univ. Press, Johannesburg1957,pp.130-31. 21Untipicosommariodicapitolo: «Wesleyville – Suo delizioso panorama – Seconda e terza stazionemissionaria–Interpreti eguide–Aneddotisuglielefanti –Stranescene–Eloquenzadegli ottentotti – Un’argomentazione seria – Artificio – Critica e umorismo – Giochi – Divertimenti serali – Sparare agliippopotami–IlfiumeKei– L’Incagalo – Il capo kaffir e la suacorte–Aneddoti»(C.Rose, Four Years in Southern Africa, London1829,p.X ). 22 W. Burchell, Travels in the Interior of Southern Africa (1822), vol. II, Batchworth, London1953. 23 Marshall Sahlins descrive «il caratteristico ritmo paleolitico di una giornata o due di lavoro alternataaunaoduediriposo» (Stone Age Economics, Tavistock, London 1974, p. 23). Richard B. Lee osserva, a propositodellacacciadigruppo praticatadaiboscimanidiDobe, che una percentuale sorprendentemente alta della loro dieta è costituita da alimenti vegetali raccolti dalle donne(MantheHunter,Aldine, Chicago 1968, p. 33). Richard Elphick discute gli effetti di abitudini «completamente sconosciute» sulla formazione deipregiudizieuropeicontrogli ottentotti (Kraal and Castle, Yale University Press, New Haven1977,pp.193-200). 24 M. Foucault, Sorvegliare e punire,Einaudi,Torino1976,p. 246. Non tutti i rimandi bibliografici contenuti nel testo sono stati inseritiinnota[N.d.C.]. 1 O. Schreiner, Storia di una fattoria africana, trad. di R. Duranti, Giunti, Firenze 1986, pp.11e14. 2 P. Smith, The Beadle, Cape, London1926,p.81. 3 Il Gran Karoo appare particolarmente desolato nel racconto Desolation contenuto in The Little Karoo. Dagli accenni topografici contenuti nel testo, l’ambientazione del raccontosembraessereilKoup, la parte piú arida e piatta del Karoo. Quando Smith descrive il Gran Karoo, sembra pensare appuntoalKoup. 4 A. Macfarlane, The Origins of English Individualism, Blackwell, Oxford 1978, pp. 3233. 5 J. Barrow, Travels into the Interior of Southern Africa, vol. I,London1806,pp.27-29. 6 G. Sturt, Change in the Village, Kellog,NewYork1969,p.133. 7 P. V. Marinelli, Pastoral, Methuen,London1971,p.59. 8W.J.Keith,TheRuralTradition, University of Toronto Press, Toronto1974,p.150. 9R.Williams,TheCountryandthe City,Chatto&Windus,London 1973,p.35. 10 C. M. van den Heever, Die Afrikaanse gedagte, Van Schaik, Pretoria1935,p.16. 11D.F.Malherbe,Die Meulenaar, Nasionale Pers, Bloemfontein 1926,p.68. 12 J. van Melle, Dawid Booysen, Van Schaik, Pretoria 1933, p. 198. 1 Thealoerearshercrimsoncrest, | Like stately queen for gala drest; | And the bright- bossomed bean-tree shakes | Its coraltuftsabovethebrakes. 2Kareigawindsitsdeviouscourse along | Between its willow’s banks; while here and there | The dark leav’d yellow wood lifts its proud head | In stately dignity (A Reminiscence of 1820). 3 Region bereft of the laughter of grass and its joy-giving greenness, | Barren of still woods dreaming Narcissus-like over their shade. | Alien to you isthemusicthatgladdenedEve in her Eden – | Harping of minstrel-rivers, fluting of lightfootedrills(TheKarroo). 4Atnoontidethesunchastisesthe plain in his anger, | Heat-rays flicker aloft, like chaff from a winnowing-floor; | Glittering heat-waves leap, like spray that istossedbythesurges,|Leaping they shiver and sparkle silently floodingtheplains. 5 Ragged brown carpet, vast and bare, | Seamed with grey rocks, scathed black with flame! | Stage-carpet, foil to all that’s fair. 6 «Whatcanyouyieldofdelightto thosewho[…]|Seekforelusive Beauty,craveforthespellofher voice? 7 more integral | With rain-rinsed sky and sandstone hill | Than any cadence wrung | From my tauttongue(ServantGirl). 8 Herfs in Holland, che rende le scene autunnali in Olanda, e non in Sudafrica, è la poesia paesaggistica piú ortodossa di VandenHeever.Ladescrizione delpaesaggioinVanWykLouw è decisamente superficiale, anche in Vier gebede by jaargetye in die Boland. Solo la giovanile Dennebosse si può leggere come una poesia paesaggistica dal punto di vista dell’intenzionepoetica. 9Shouldersofquartz[protruding] from the hill | Like sculpture halfunhearted. 10 I have not found myself on Europe’s maps […] | I must go backwithmyfivesimpleslaves| To soil still savage, in a sense stillpure:|Myloveless,shallow land of artless shapes | Where no ghosts glamorize the recent graves | And every thing in Space and Time just is: | What similes can flash across those gaps | Undramatized by sharp antithesis?(HomeThoughts). 11tenthousandsun-struckcicadas ecstatically screaming; | near and far hundreds of doves in relays|imperturbablyrepeating themselvestoeachother;|pine woods sighing into the wind from a thousand shimmering needles; | wind already burdened with the grumbling, | perpetual, unpitied | crumbling ofthesurf. 12 W. Wordsworth, Il preludio, OscarMondadori,Milano1990, acuradiM.Bacigalupo,libroI, pp.586-640;libroI,pp.315-32, libroXIII,pp.1-61. 13 I am not contemplative by | nature but in nature […] | Contemplative in nature means |natureinme,mynature(Table Mountain). 14 After the poem the coastline took its place with a forward look | toughly disputing the right of the poem to possess it […] | The coast flashed up – flashed,say,likeobjections|up to the rocky summit of the Sentinel | that sloped into the sea | such force in it that every linewasbroken. 15 Wordsworth, Il preludio cit., libroXI,p.174. 16 No lexicon, just one word accomodates us, quickly said. | No word is my dwelling place […] | Listen, listen among the particles.|Avigilofthelandas itappears.|Open,open.|Enter the quick grain: everything is first […] | I am the method of thespeckandfleck. 17’nkafferstemklinkhardveroor diewerf[…]|’nstofwolkgoudomlynrysbodiekraal,|patryse skreeu daar ver; ’n sweepsklap dwaal | deur die verlate lug in egos aan. (C. M. Van den Heever, Aand op die plaas). Evening on the Farm: from far across the farmyard comes a kaffir voice […] | a cloud of dust, outlined in gold, rises above the kraal, | faroff partridges call; the crack of a whip | lingers in echoes in the forsakenair. 18 Ci sono alcuni passi descrittivi nelle poesie di H. I. E. Dhlomo degli anni Quaranta del Novecento,soprattuttopastiches dipastoraleneoclassica,comein Long have I worshipped thee: «Laggiú i pastorelli intonano i lorocantisilvani;|Esiaggirano lenteemute,brucando,legreggi screziate» (Yonder the herdboys sing their sylvan songs; | And,croppinggrass,crawlmute themotleyherds). 19absorbsimagination|Reflecting nothing. 1 Come ha dimostrato David Saunders, il criterio della capacità di «depravare e corrompere» deriva dalla scienzamedicaeamministrativa vittoriana nella sua missione di controllo della salute morale dellapopolazione,inparticolare quella della classe operaia urbana alfabetizzata. Quanto ai nuovi punti relativi alla critica letteraria contenuti nell’atto, Saunders sottolinea come, oltre ai due criteri suddetti, altri quattro argomenti essenzialmente critico-letterari siano stati usati dalla difesa e accolti dalla corte. Copyright, obscenityandliteraryhistory, in «ELH», 1990, n. 57, pp. 438-39; The Trial of Lady Chatterley’s Lover, in «Southern Review», n. 15,1982,pp.165-70. 2 The Trial of Lady Chatterley, a cura di C. F. L. Rolph, London 1961 (stampato privatamente), pp.70-72,89-90e159. 3 L’amante di Lady Chatterley, trad. it. di S. Melani, Garzanti, Milano 1994, p. 277. Citato nel testocomeALC. 4 À Propos of Lady Chatterley’s Lover,MandrakePress,London 1930,pp.9-10. 5H.B.Tylor,citatodaM.Douglas, Purezza e pericolo, il Mulino, Bologna1975,p.34. 6The Trial of Lady Chatterleycit., p.98. 7 David Saunders, per esempio, scriveapropositodel«grottesco vecchiumedaconfessionale»del prete e dell’editore che, durante il processo del 1967 a Last Exit toBrooklyn,testimoniaronoche illibroavevaintesocorromperli. The Trial of Lady Chatterley’s Lovercit.,p.166. 8Ibid.,pp.253e255. 9 La forza del «linguaggio sporco» che il guardacaccia utilizza con Connieèancorapiúpalesenella prima versione del libro. In un episodio Parkin/Mellors prende in giro l’uso di Connie di chiamarlo«amante»eledicedi essere il suo «stallone». «“Stallone!” le disse, con un lampo negli occhi, come se la volesse colpire». The First Lady Chatterley,Heinemann,London 1972, p. 108. Quest’aggressività verbale non è diretta solo da ParkinaConnie;comefanotare Evelyn J. Hinz, esibendo quel linguaggio osceno, Lawrence mostra anche i denti ai suoi lettori (inglesi). Pornography, novel, mythic narration: the three versions of Lady Chatterley’s Lover, in «ModernistStudies»,n.3,1979, 3,p.41. 10 Per i primi tre, cfr. D. H. Lawrence, Selected Literary Criticism, a cura di A. Beal, Viking,NewYork1966,pp.2630, 32-51, citato nel testo come SLC. 11 The Lady’s Dressing Room, Cassinus and Peter, A Beautiful Young Nymph Going to Bed e StrephonandChloe,inComplete Poems,acuradiP.Rogers,Yale University Press, New Haven 1983, pp. 448-66 [trad. it. Lo spogliatoiodellasignoraedaltre poesie, Einaudi, Torino 1977, p. 9]. 12 Per un’analisi dettagliata di questi versi, cfr. T. B. Gilmore, The comedy of Swift’s scatological poems, in «PMLA», n.91,1976,pp.33-41. 13Lawrencescrive:«C’èunapoesia diSwift[...]scrittaaCelia,lasua Celia – in cui ogni verso si concludeconilrefraindelirante e ossessivo: “Ma – Celia, Celia caca!”», p. 29, Huxley pubblicò il suo saggio su Swift nel 1929. Cfr. On Art and Artists, a cura di M. Philipson, Harper, New York1960,pp.168-76. 14 Lettera a Lady Ottoline Morrell, 28dicembre1928,inLawrence, SelectedLiteraryCriticismcit.,p. 26;IntroduzioneaPansies,ibid., p. 29; A propos of Lady Chatterley’sLover,p.14. 15Cfr.,peresempio,D.Burnley,A Guide to Chaucer’s Language, University of Oklahoma Press, Norman1983,cap.8. 16 In questo periodo Lawrence scrive palesemente sotto l’influenza di Frazer. Per Frazer ciòchecaratterizzailselvaggioè l’incapacità di distinguere fra empietà e impurità. Come fa notareMaryDouglas,relegando l’impuritàalbagnoeallacucina, il cristianesimo la trasforma in un problema (laico) di igiene, facendo della santità una categoria puramente morale e spirituale. Da questo punto di vista – un punto di vista che Lawrenceconlasuaformazione cristiana non conformista sembra condividere – resuscitare ciò che dovrebbe avereachefareconlasemplice igiene come tabú, con tutta la forza della religione (o della superstizione), altro non è che una regressione allo stadio selvaggio. 17Cfr.TheTrialofLadyChatterley cit., p. 221-24. Almeno un osservatoreseneandòconvinto chelagiurianonavessecoltole allusionidelgiudiceistruttore.J. Sparrow, Regina vs Penguin Books Limited, in «Encounter», n. 18/2, febbraio 1962, pp. 3543. 18ScriveBataille:«Latrasgressione organizzata insieme al tabú fanno della vita sociale quello cheè.Inrealtà,lafrequenzaela regolarità delle trasgressioni non infirma affatto l’intangibilità del divieto, di cui è piuttosto l’atteso completamento [...] ovvero come una esplosione che sia provocata da una precedente compressione. Lungi dall’obbedire all’esplosione, la compressione le impartisce energia». Bataille cita Sade: «Il vero modo di estenderne e moltiplicarneidesideri,consiste nel tentare di imporgli dei limiti», L’erotismo, Oscar Mondadori,Milano1972,pp.73 e56. 19 Accettando L’amante di Lady Chatterleycomeunlibroosceno erifiutandol’ideachel’oscenità abbia bisogno di giustificarsi, Miller conclude: è «un peccato [...] che Lawrence abbia voluto scrivere sul tema dell’oscenità, perché facendolo ha temporaneamente invalidato tutto quello che aveva creato». The World of D. H. Lawrence, Capra Press, Santa Barbara 1980, pp. 175-77. La censura può essere stata il nemico di Lawrence, scrive Eugene Goodheart, ma era «un nemico necessario e corroborante», poiché serviva a difendere la «forza trasgressiva» della sessualità nei suoi libri. Censorshipandself-censorshipin D.H.Lawrence,inRepresenting Modernist Texts, a cura di G. Bernstein, University of Michigan Press, Ann Arbor 1991,p.230. 1 M. Hayward, Writers in Russia 1917-1918, a cura di P. Blake, Harcourt, Brace, Jovanovich, NewYork1983,p.136. 2 S. Barańczak, The Gag and the Word, in «Survey», 1980, 25, 1, p.58. 3 M. Haraszti, The Velvet Prison: Artists under State Socialism, Basic Books, New York 1987, pp.7e97. 4 Cit. in J. L. Curry, The Black Book of Polish Censorship, Random House, New York 1984,p.8. 5 S. Barańczak, My Ten Uncensorable Years, in Censorship and Political Communication in Eastern Europe, a cura di G. Schopflin, StMartin’s,NewYork1983,pp. 113-14. 6 Id., Poems and Tanks, in «TriQuarterly», n. 57, 1983, p. 53. 7 T. Konwicki, Interview: The Delights of Writing under Censorship, in «Index on Censorship»,marzo1986,15,3, p.30. 8 Konwicki cit. in J. C. Goldfarb, On Cultural Freedom, University of Chicago Press, Chicago1982,p.90. 9Ibid.,p.90. 10 Citato in J. Trznadel, An Interview with Zbigniew Herbert, in «Partisan Review», 1987,n.54,p.567.Sullacarriera di Herbert si veda anche A. Alvarez, Noble Poet, in The Mature Laurel, a cura di A. Czerniawski, Dufour, Chester Springs (Pa.) 1991, pp. 163-71; M.OramuseM.Szmidt,APoet of Exact Meaning, in «PN Reviews», 1982, 26, 8, 6, pp. 812; D. P. A. Pirie, Engineering the People’s Dreams: an Assessment of Socialist Realist Poetry in Poland 1949-1955, in TheMatureLaurelcit.,pp.13559. 11Z.Herbert,Rapporto dalla città assediata, a cura di P. Marchesani, Adelphi, Milano 1993, p. 31. Non tutte le poesie citate sono presenti in questa raccolta;quandononspecificato la traduzione è di M. Baiocchi [N.d.C.]. 12Ibid.,p.116. 13Rapportocit.,pp.173-74.Report fromtheBesiegedCityandOther Poems,trad.diJ.eB.Carpenter, OxfordUniversityPress,Oxford 1987,pp.10-11.Comeevidenzia Stanisław Barańczak, lo stoicismoacuiaderisceHerbert in queste poesie e altrove, è piú oscuro dello stoicismo classico. Quest’ultimo identifica la virtú conlanaturaefondalasuaetica sull’armonia con essa; una fede assente in Herbert. A Fugitive from Utopia, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)1987,p.118. 14 Haraszti, The Velvet Prison cit., p.145. 15 Nel suo libro di saggi sulla Francia e sull’Italia del 1962, Herbert emerge dalle grotte di Lascaux rafforzato nella convinzionediessere«cittadino del mondo, erede non solo dei GreciedeiRomanimadiquasi tutto l’infinito». Piú oltre cita favorevolmente T. S. Eliot: «Nessun poeta, nessun artista […] ha un suo significato completo da solo […] per contrasto o per confronto lo devi collocare tra i morti». Barbarian in the Garden, trad. di M. March e J. Anders, Carcanet, Manchester 1985, pp. 16e78. 16Z.Herbert,SelectedPoems,trad. di C. Milosz e P. Dale Scott, Penguin,Harmondsworth1968, pp.46-47.Citatoneltestocome Milosz/Scott. 17 Goldfarb, On Cultural Freedom cit.,p.92. 18SivedaMilosz/Scott,pp.68,74, 75 e 133. Che questa lettura critica sia nelle intenzioni di Herbert è confermato dalla sua prudente ammissione che, nella poesia Damaste detto Procuste, vi è senza dubbio una certa somiglianza tra Procuste e Lenin. Si veda J. and B. Carpenter, Zbigniew Herbert: thePoetasConscience,in«Slavic and East European Journal», n. 24,1980,pp.46-47. 19Rapportocit.,p.85. 20Ibid.,pp.195-96. 21AFugitivefromUtopia,p.119. 22 Il termine informel, presente nella traduzione inglese, non si trovainquellaitaliana[N.d.T.]. 23 Rapportocit.,p.198. 24 Ibid.,p.160. 25 Ibid. 26 Con questo spirito, nell’introduzione scritta nel 1973 per una selezione di sue poesie, Herbert cita Cyprian Norwid: «Che le parole significhino quello che significano,enonquellocontro cui sono state usate» (citato in Barańczak, A Fugitive from Utopia,p.66).Allostessomodo, si potrebbe citare Il Signor Cogito e l’ immaginazione. Il Signor Cogito «adorava le tautologie|laspiegazione|idem per idem | che l’uccello è l’uccello|laschiavitúschiavitú| il coltello è coltello | la morte morte(Rapportocit.,p.181). 27Ibid.,p.62. 28 Baranczak, A Fugitive from Utopiacit.,pp.12e64. 29Milosz/Scott,p.82. 30TheLongobards,inMilosz/Scott, p.127. 31 Milosz/Scott,pp.35-37e82-83. 32 Rapportocit.,p.106. 33 Report from the Besieged City cit.,pp.29-31. 34 Gardens of Stone: The Poetry of Zbigniew Herbert and Tadeusz Rozewicz,inThe Mature Laurel cit.,p.178. 1 B. Breytenbach, Skryt, Meulenhoff, Amsterdam 1972; citato nel testo come S. Il neologismo Skryt è un composto di skryf (scrivere) e skyt (merda). Richiama anche stryd (lotta). L’afrikaans di Breytenbach, pieno di giochi di parole e neologismi, presenta talvoltaostacoliinsuperabiliper iltraduttore. 2A.P.Brink,Dievreemdebekende, inWoordeteendiewolk, a cura di A. J. Coetzee, Taurus, Johannesburg1980,pp.1-2. 3J.Viviers,Breytenbach,Tafelberg, CapeTown1978,p.59. 4Lazzaroappareperlaprimavolta in Die ysterkoei moet sweet (La mucca di ferro deve sudare), Afrikaanse Pers Boekhandel, Johannesburg 1964, pp. 6-7. CitatoneltestocomeYMS. 5 Lettera dello straniero al macellaio, trad. it. di E. Sanguineti, in B. Breytenbach, Poesie di un pendaglio da forca, a cura di L. Betti e G. Raboni, Associazione«FondoPierPaolo Pasolini»,Roma1986,pp.34,35 e36.Laddovenondiversamente specificato i versi citati sono tradottidaM.Baiocchi[N.d.C.]. 6 Breyten prega per Breyten, trad. it.diE.Siciliano,inPoesiediun pendaglio da forca cit., pp. 6162. 7 «Tiberius» Cave near Sperlonga in Latium, in Kouevuur, Buren, CapeTown1969,p.67. 8 Om te vlieg, Buren, Cape Town 1971, p. 29. Citato nel testo comeOV. 9 Uno scritto analogo degli anni Sessanta,Diemiernesswellop(Il formicaio si gonfia), Taurus, Johannesburg1980,sichiudein modo simile gettando via la maschera della finzione: «Dovrebbeesserechiarocomeil sole che vi sto incitando alla Ribellione. È dovere dell’artista rovesciare il governo […] Non vedete che la poesia è una bandiera di protesta […] che non può essere un elegante rifugio, piscio annacquato con un aroma di derivazione europea»(p.117). 10ASeasoninParadise,trad.diR. Vaughan, Persea, New York 1980, p. 156. Citato nel testo comeSP. 11JustBecause,ibid.,pp.253-55. 12M.Bachtin,Dostoevskij.Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968,pp.256,253e263. 13 B. Breytenbach, Le veritiere confessionidiunafricanoalbino, trad.it.diM.T.Carbone,Costa & Nolan, Genova 1989, p. 142. La prima edizione italiana di quest’opera omette nel titolo il termine «terrorista», poi reintegrato nella recente ripubblicazione per Alet, Confessioni di un terrorista albino (2010), dove è tagliato l’aggettivoveritiere[N.d.C.]. 14 Eklips (Eclisse, 1983), ‘Yk’ (1983), Buffalo Bill (1984) e Lewendood (Living-death; Lifeand-death, morte-vivente, vitae-morte), 1985, pubblicati tutti dalla Taurus di Johannesburg. In Yk che significa «visto si stampi» c’è un ulteriore gioco tra ek (io) e l’inglese ache (dolore). 15PlaceofRefuge(inEklips,pp.3- 4) ne è un esempio estremo: il nemico altro è demonizzato o trasformato in bestia, le sue parole diventano «un balbettio idiota», e nessuna interazione è possibileconlui. 16Lewendood,pp.143-44. 17BuffaloBill,p.115. 18AMirror-Verse,BuffaloBill,pp. 41-42. 19 Sulla genesi di Mouroir e Veritiere confessioni, si veda S. Egan, Breytenbach’s Mouroir: The Novel of Autobiography, in «Journal of Narrative Technique», 1988, 18, n. 2, pp. 89-90. 20 Veritiere confessioni, pp. 9-10, 13e49.SivedaancheBoek:Deel een,pp.III-IV . 21 S. Weil, L’ombra e la grazia, trad. di F. Fortini, Bompiani, Milano2002,p.131. 22 End Papers, Faber, London 1986,pp.33-34. 23Mouroir,Farrar,Straus,Giroux, New York 1985. Mouroir fu in granpartescrittoinprigione. 24LecitazionisonotrattedaBerlin eKeepClearoftheMad,inEnd Papers,pp.111,133-34e109. 25 L. Strauss, Persecution and the Art of Writing, Free Press, Glencoe 1952, p. 36 [trad.it. Scrittura e persecuzione, Marsilio,Venezia1990]. 1 K. W. Benston indica l’importanza di tale processo di «cancellazione del nome» in mitologia, dove, come parte di una strategia di potere, un dio può deliberatamente evitare di essere nominato. «Il rifiuto di esserenominatoinvocailpotere del Sublime, un impulso trascendente a smontare ogni categoria[...]eaproiettarsialdi là degli schemi e dei rapporti accettati in una posizione di autorità».Benstonriscontratale strategia di autoconferimento del potere presso quegli afroamericani, discendenti di schiavi, che cancellano il loro nome o se lo cambiano. I Am what I Am: the Topos of (Un) naming in Afro-american Literature, in Black Literature and Literary Theory, a cura di H. L. Gates, Methuen, New York1984,p.153. 2 K. R. Popper, Tolleranza e responsabilità intellettuale, in Saggi sull’intolleranza, a cura di S. Mendus e D. Edwards, il Saggiatore,Milano1990,p.28. 3 J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, Guida, Napoli 1986. 4 D. Saunders, Copyright, Obscenity and Literary History, in«ELH»,1990,n.57,p.431. 5J.Milton,Areopagitica,trad.it.a cura di G. Giorello, Laterza, Roma-Bari1987,pp.47-48. 6 D. Kis, Censorship / Selfcensorship, in «Index on Censorship», gennaio 1986, 15, n.1,p.44. 7 Questa discussione poggia in parte sull’ipotesi di Freud secondo la quale la curiosità intellettuale (epistemofilia) avrebbe origine da quella sessuale,cosicchélafrustrazione delle esplorazioni sessuali del bambino potrebbe produrre il soffocamento del suo desiderio disapere.IlpensierodiFreuda proposito della curiosità sessuale sembra essersi avvicinato a questa conclusione frail1905eil1910,daiTresaggi sulla sessualità al saggio su Leonardo. Cfr. T. Moi, Patriarchal Thought and the DriveforKnowledge,inBetween Feminism and Psychoanalysis, a cura di T. Brennan, Routledge, London1989,pp.201-2. 8 M. Scheler, Person and Self- Value, a cura di M. S. Frings, Martinus Nijhoff, Dordrecht 1987,pp.23-24. 9 Agostino, La Città di Dio, 1.14, cap.16. 10 Nel distinguere fra posizioni conservatrici «estreme» e «moderate»seguoH.L.A.Hart, Law, Liberty and Morality, OxfordUniversityPress,Oxford 1981,vol.VII,pp.48-49. 11 Ibid.,p.12. 12 R. Dworkin, Taking Rights Seriously, Harvard University Press,Cambridge1977,pp.24243 e 245 [trad. it. I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologna 1982]. 13Ibid.,pp.253-54. 14Ibid.,pp.255e258. 15 J. Stuart Mill, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 1993,pp.16e22. 16 J. Bentham, Introduzione ai principî della morale e della legislazione, Utet, Torino 1998, cap. XVI , par. 2, p. 307; cap. I , par. 6, p. 91; cap. II , par. 19, p. 116. 17CollectedWorks,X ,p.179,citato in J. C. Rees, John Stuart Mill’s On Liberty, Clarendon Press, Oxford1985,p.45. 18 J. Waldron, Mill and the Value of Moral Distress, in «Political Studies», n. 35, 1987, pp. 413, 414e417. 19 Questo discorso è affrontato ampiamente in F. Schauer, Free Speech:APhilosophicalEnquiry, Cambridge University Press, NewYork1982,vol.II,pp.11925. 20 Obscenity and Film Censorship, a cura di B. Williams, Cambridge University Press, Cambridge1981,p.55. 21 R. Dworkin, A Matter of Principle, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1985, pp.336-37[trad.it.Questionidi principio, Il Saggiatore, Milano 1989]. 22 H. Marcuse, La tolleranza repressiva, in Critica della tolleranza, Einaudi, Torino 1965,pp.82-83. 23 Dworkin, A Matter of Principle cit.,p.352. 24J.Ellis,OnPornography, in The Sexual Subject, a cura di M. Merck, Routledge, London 1992,p.146. 25 Si veda J. Feinberg: «Non c’è errore piú imbarazzante nella discussione sull’oscenità di quello che la identifica, o per significato o per scopo classificatorio, con la pornografia». The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, Oxford University Press, New York 1985,p.127. 26Ibid.,p.1. 27Ibid.,p.123. 28 M. Scheler, Person and SelfValuecit.,p.32. 29 La sfera privata, dice J. MacGregor Davies, è «storicamente […] una sfera di oppressione delle donne», per motivi strategici dunque le femministe dovrebbero evitare l’argomento legale secondo cui la pornografia invaderebbe la loro privacy (Pornographic Harms,inFeministPerspectives, acuradiL.Code,S.Mullett,C. Overall, University of Toronto Press, Toronto 1988, p. 132). Questo è in contrasto con l’argomento liberale classico, avanzatodaD.N.MacCormick, secondo cui coloro che commettono atti indecenti «rinunciano alla propria privacy» piuttosto che invadere quella altrui. Cfr. Privacy and Obscenity, in Censorship and Obscenity,acuradiR.Dhavane C. Davies, Martin Robertson, London1978,p.87. 30 Margaret Intons-Peterson e Beverly Roskos-Ewoldsen sostengono che «la ricerca condottasusoggettimaschiliha regolarmente mostrato che l’esposizione alla sessualità aggressiva della pornografia violenta si associa a una svalutata opinione delle donne, aunaumentoditolleranzadella violenza nei loro confronti e a un incremento delle probabilità di vere e proprie aggressioni contro le donne in ambiente di laboratorio», Mitigating the EffectsofViolentPornographyin For Adult Users Only, a cura di S. Gubar e J. Hoff, Indiana University Press, Bloomington 1989, p. 218. Questa tesi è suffragata da molti studi empirici. D’altra parte, segnalando una lista altrettanto lunga di case-studies, Marcia Pally sostiene che «nessuna ricerca seria oggi trova un legame causale fra immagini sessuali e violenza [...] Nessuno dei tanti articoli scientifici sull’argomento giustifica la tesi secondo cui [...] le immagini sessuali provocherebbero aggressioni». Out of Sight and Out of Harm’s Way, in «Index on Censorship», gennaio 1993, 22/1, n. 146, p. 5. Queste due posizioni non sono assolutamenteincompatibili;ma per riconciliarle c’è bisogno di unalogicaassolutaescrupolosa, forse piú di quanta ne possa sostenere un dibattito di natura essenzialmente politica. L’interrogativoselapornografia causidavveroviolenzasessualeè ulteriormente complicato dal sospetto, manifestato da alcune femministe a proposito delle regole e delle procedure della dimostrazioneempiricastessa. 31 «Poiché le donne in particolare hanno interiorizzato per tanto tempo le visioni maschili della lorosessualitàèdifficileperloro perfino incominciare ad articolare la natura della sofferenza causata dalla pornografia, e tantomeno dunquesonoingradodidirein che modo le loro percezioni della propria sessualità differiscano dalle prescrizioni maschili in proposito». J. Hoff, Why is there no History of Pornography?, in For Adult Users Only cit., p. 83. Carol Smartdefiniscequellaposizione «punto di vista del femminismo». Il punto di vista del femminismo privilegia le opinioni delle donne «che hanno collettivizzato e reinterpretatolaloroesperienza attraverso esperienze come i gruppi di coscienza o analoga attività politica». Unquestionably a Moral Issue: Rethorical Devices and Regulatory Imperatives, in Sex Exposed,acuradiL.SegaleM. McIntosh, Virago, London 1992, p. 197. Una nuova versione dell’argomento della falsa coscienza viene avanzata da David Dyzenhaus. Dyzenhaus usa La servitú delle donnedi J. S.Mill come il testo «piú autorevole», quello «al quale il Saggio sulla libertà dovrebbeaderire».InLaservitú delledonneMillsostienechegli uomini esigono dalle donne piú»diquellocheesigonodagli schiavi: chiedono loro di essere complici compiacenti della loro stessa sottomissione, e dunque difattounafalsacoscienza.Una personachenonsiapienamente autonoma, sostiene Dyzenhaus, non può essere ritenuta testimone autorevole del danno che le viene arrecato: John Stuart Mill and the Harm of Pornography, in «Ethics», n. 102, 1992, pp. 540-43. Cfr. J. S. Mill: «Tutti, i piú brutali eccettuati, vogliono avere nella donnacheèalorostrettamente unita, non una schiava soltanto ma una favorita. Conseguentemente, essi nulla trascurano per educare il suo spirito al servilismo». «Il carattere dei sudditi non è mai stato cosí completamente deformato dai rapporti coi loro padroni nelle altre sorte di dipendenza», La servitú delle donne, R. Carabba, Lanciano s.d.(1926),pp.34e44-45. 32Davies,PornographicHarmscit., pp.137e135. 33 A. MacIntyre, After Virtue, Duckworth,London1981,pp.8 e11. 34S.Mendus,Harms, Offence and Censorship, in Aspects of Tolerationcit.,p.110. 35 Citato in Mendus, Toleration andtheLimitsofLiberalismcit., p.125. 36 C. MacKinnon, Feminism Unmodified,HarvardUniversity Press,Cambridge1987,p.149. 37 Horton, Toleration, Morality andHarmcit.,p.132. 38 Mendus, Toleration and the LimitsofLiberalismcit.,p.128. 39 S. Sontag, Stili di volontà radicale, Mondadori, Milano 1999,p.101. 40 C. Smart, Feminism and the Power of Law, Routledge, London1989,pp.12e161. 41Cfr.C.Pateman,SexandPower, in«Ethics»,n.100,1990,p.404; Smart,FeminismandthePower ofLawcit.,pp.81e130. 42Pateman,Sex and Power cit., p. 407. 43Smart,FeminismandthePower ofLawcit.,pp.114-16e123-25. 44L.Irigaray,Questosessochenon è un sesso, Feltrinelli, Milano 1978,pp.72,107,124e135. 45Ibid.,p.135. 46 Feinberg, Offense to Others cit., pp.1-2. 47Ibid.,p.9. 48Cfr.FeminismandthePowerof Lawcit. 49 Sontag, Stili di volontà radicale cit.,pp.81-83. 50 G. Bataille, Sade, in La letteratura e il male, trad. di A. Zanzotto, Rizzoli, Milano 1973, p.115. 51L.Williams,FetishismandHard Core, in For Adult Users Only cit.,p.215. 52Smart,FeminismandthePower ofLawcit.,p.136. 53 R. Coward, Female Desire, Paladin, London 1984, pp. 59, 102e75. 54 «Lapartepiúeroticadiuncorpo non è forse dove l’abito si dischiude?», Il piacere del testo, Einaudi,Torino1975,p.9. L’estesoapparatodinoterelativoa questo saggio è stato parzialmente ridotto[N.d.C.]. Il libro «D OPPIA R E IL capo», come ogni espressione nella scrittura di J. M. Coetzee, possiede molteplici significati. Di certo ha a che fare con l’idea di un passaggio, una svolta nella continuità: la possibilità, volgendo lo sguardo al cammino compiuto, di rifletteresusestessi. IsaggiraccoltiinDoppiareil capo affrontano argomenti molto diversi: letterari (Rousseau, Tolstoj e Dostoevskij,Beckett…)enon solo (da Capitan America al rugby, dalla pubblicità alla censura), restituendo la varietà degli interessi intellettuali e politici del premio Nobel sudafricano. Ma tutti, a ben vedere, sono tentativi di affrontare il medesimo tormentato problema:comedirelaverità (anche su se stessi) quando quella verità potrebbe non essere nel nostro interesse. Ammesso poi che tale verità esista: «Tutto ciò che scrivi, incluso critica e narrativa, ti scrive mentre lo scrivi. La domanda allora è: questa massiccia impresa autobiografica che riempie una vita, questa imponente opera di costruzione di sé, produce solo finzioni? Oppure tra le varie finzioni, cenesonoalcunepiúveredi altre? Come faccio a sapere che dico la verità su me stesso?» «LosguardodiCoetzeepunta al centro nervoso dell’essere umano:ciòchetrovaèmolto di piú di quanto la maggioranzadegliuominisia disposta ad ammettere su se stessa». L’autore J. M. Coetzee è nato in Sudafrica e attualmente vive in Australia. Di lui Einaudi ha pubblicato, tra gli altri: Vergogna, Aspettando i barbari, La vita e il tempo di Michael K,Infanzia,Gioventú,Slow Man, Spiagge straniere, Diario di un anno difficile, Lavoridiscavo.Saggisulla letteratura 2000-2005 e Tempod’estate.Nel2003è stato insignito del premio Nobelperlaletteratura. Dello stesso autore Aspettandoibarbari Vergogna Infanzia.Scenedivitadiprovincia LavitaeiltempodiMichaelK Gioventú.Scenedivitadiprovincia Terrealcrepuscolo ElizabethCostello Nelcuoredelpaese IlMaestrodiPietroburgo SlowMan Spiaggestraniere.Saggi1993-1999 Etàdiferro Diariodiunannodifficile Lavoridiscavo.Saggisulla letteratura2000-2005 Tempod’estate Doppiareilcapo.Saggieinterviste Foe L’infanziadiGesú Quieora(conP.Auster) Titolioriginalidelleraccolte: WhiteWriting.OntheCultureofLettersin SouthAfrica ©1988byYaleUniversityPress,NewHaven. Allrightsreserved DoublingthePoint.EssaysandInterviews Copyright©1992bythePresidentandFellow ofHarvardCollege, HarvardUniversityPress,Cambridge.All rightsreserved. GivingOffense.EssaysonCensorship ©1996byTheUniversityofChicagoPress, Chicago.Allrightsreserved PublishedbyarrangementwithPeter LampackAgency,Inc.,350FifthAvenue, Suite5300,NewYork,NY10176-0187Usa. ©2011GiulioEinaudieditores.p.a.,Torino Incopertina:illustrazionediFilippoSassòli. ProgettograficodiFabrizioFarina. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziatootrasmessoinpubblico,outilizzato inalcunaltromodoadeccezionediquantoè stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistatoodaquantoesplicitamenteprevisto dallaleggeapplicabile.Qualsiasidistribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge633/1941esuccessivemodifiche. Questoebooknonpotràinalcunmodoessere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita,acquistoratealeoaltrimentidiffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essereimposteanchealfruitoresuccessivo. www.einaudi.it EbookISBN9788858420232