Perché raccogliere storie?
Transcript
Perché raccogliere storie?
ARGOMENTO Perché raccogliere storie? Gaia Marsico R2EM (Research Group on Rights and Ethics in Medicine) Gruppo di Lavoro “Malattie Rare e Medicina Narrativa” Centro Nazionale Malattie Rare, ISS [email protected] Ho detto alla mia mamma una frase: perché i miei fratelli sono normali e io no? Lei ha detto “così così” ha cercato una risposta. Sono diversa, cerco di aiutarmi1 . NARRARE LA MALATTIA In Narrare la malattia, l’esperto in antropologia medica, B. Good2, sostiene che il significato della malattia è costruito attraverso pratiche narrative che vedono protagoniste le persone che vivono la malattia, le loro famiglie, i terapeuti. Le “storie di malattia” fanno riferimento all’esperienza personale e alla percezione soggettiva (illness) che ciascuna persona ha della propria malattia (disease) e costituiscono una specifica competenza insostituibile e preziosa, anche per gli operatori. La medicina è luogo dove si svolge normalmente la vita, luogo di sofferenza e di ritorno alla speranza, di dolore e di stanchezza di vivere, di paura e di incertezza: ha bisogno del punto di vista di chi vive questi momenti. “Ascoltare una storia di malattia non è [solo] un atto terapeutico ma è dare dignità a quella voce” (A. Frank). Una storia ha valore perché è una testimonianza che dice, implicitamente o esplicitamente, “io ti racconterò non ciò che vorresti sentire ma ciò che io so essere vero perché l’ho vissuto”3. Riservare spazi dove chi vuole “prenda parola”, anche senza conoscere metodi e aver frequentato corsi di empowerment, significa costruire percorsi di partecipazione e aver interiorizzato una cultura dell’ascolto e dello sguardo. “Il diritto di vedersi riconosciuta l’assoluta liberà nel parlare di sé resta sempre la regola di base dell’autobiografia. Dobbiamo sentirci autorizzati e destinatari di attenzione per tutto quel che diciamo. […] Nessun giudizio deve inquinare la testimonianza autobiografica; nessuno può permettersi di correggerci, indurci a variare una sfumatura o un’opinione”4. Tuttavia né ascoltare, né raccontare è semplice, le persone che non narrano, o non riescono a narrare, forse sono l’esperienza più forte, l’universo nascosto, irraggiungibile. Gianni Scopelliti, medico e padre di Benedetta, sa esprimere con delicatezza questa realtà: Grazie a tutti quei genitori, che hanno accolto l’invito a raccontarsi e a far riR&P 2007; 23: 0 10 7-0 20 5 Ascoltare una storia di malattia non è solo un atto terapeutico, è anche dare dignità a quella voce. Riservare spazi dove si possa prendere la parola significa costruire percorsi di partecipazione per una cultura dell’ascolto e dello sguardo. 18 G. Marsico: Perché raccogliere storie? emergere emozioni molto spesso dolorose, perché altri capiscano ciò che dà gioia e ciò che ferisce. Grazie anche a tutti quei genitori che, pur non riuscendo a raccontare ciò che ancora tengono chiuso nel cuore, testimoniano ogni giorno l’amore con la loro stessa vita5. Le esperienze, raccontate fuori dalle strettoie di questionari o interviste, offrono un’occasione preziosa per contestualizzare i dati clinici, i bisogni, le domande di salute, rendono visibile l’unicità delle storie/persone, permettono di vedere “con gli occhi degli altri”. Troppo spesso il linguaggio che descrive o che si usa nei contesti medici non racconta la vita, non evoca l’incertezza, le differenze, la paura, le emozioni. “Ho l’impressione che i medici non mi vogliano più bene. Li deprimo. […] Perché non mi dicono semplicemente che morirò? […] Se dici “morire” in un ospedale, nessuno sente. Puoi star sicuro che ci sarà un vuoto d’aria e che si parlerà d’altro. […] Fanno come se si venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre invece si viene anche per morire. Hai ragione Oscar. E credo che si commetta lo stesso errore per la vita. Dimentichiamo che la vita è fragile, friabile, effimera. Facciamo tutti finta di essere immortali. […] Nonna Rosa, ho l’impressione che, nel Dizionario Medico, ci siano solo delle cose particolari, dei problemi che possono capitare a questo o a quel tizio. Ma non ci sono le cose che ci riguardano tutti: la Vita, la Morte, la Fede, Dio”6. Negli ultimi anni, in ambito medico, si è sviluppata la narrative medicine, sulla quale ormai c’è molta letteratura (non è questa la sede per entrare nel merito, si rimanda semplicemente alla nota bibliografica). Il punto centrale è appunto la narrazione, per questo molto semplicemente si può ricordare che ascoltare e raccogliere esperienze è medicina/vita narrata. La domanda sugli obiettivi e la finalità della medicina narrativa7 occorre lasciarla aperta, come curiosità da/con cui esplorare. Le esperienze in questo campo non sono molte, sia in Italia, che all’estero, tuttavia cominciano a farsi strada percorsi di specifico coinvolgimento di cittadini/pazienti anche in ambito formativo. Si stanno diffondendo esempi di valorizzazione dell’esperienza dei pazienti e delle competenze pedagogiche di pazienti/familiari8-11. “Ma perché è così difficile? Perché questo metodo così efficace e così poco dispendioso deve essere così inapplicato, sconosciuto, negato? L’ascolto: un’arte dimenticata, necessaria come il latte materno. Come raccontare fiabe. Le famiglie sono considerate espressione di bisogni, prima che fonte di risorse e sostegno. Sono ancora oggetto di pianificazione, più che soggetti attivi in primo piano. Ma quando dati e numeri, parole ed emozioni s’incontrano e riconoscono il loro valore reciproco, diventano fonte di conoscenza vitale. L’incontro è possibile, urgente e necessario”12. R&P 2007; 23: 0 10 7-0 20 5 Molto spesso il linguaggio che si usa nei contesti medici non racconta la vita. In ambito medico, negli ultimi anni, si è sviluppata la narrative medicine. L’ascolto: un’arte dimenticata, necessaria come il latte materno. 19 ARGOMENTO UN BREVE PERCORSO ATTRAVERSO TESTIMONIANZE DI PAZIENTI-FAMILIARI Le testimonianze-esperienze delle persone completano i dati epidemiologici su: la qualità della vita, l’accesso ai servizi, i bisogni, le realtà clinicoassistenziali. Raccontare-ascoltare-raccogliere le esperienze dei/delle pazienti/cittadini/e rappresenta una modalità di fare epidemiologia13 a partire da un punto di vista diverso: quello dei soggetti di cura. Le narrazioni sono soprattutto la testimonianza di un’esperienza vissuta e rielaborata, sono la memoria della fatica, del dolore, della speranza, di ciò che si prova sulla propria pelle. Il racconto consegna un punto di vista nel modo più puro, non condizionato dalle domande esterne; perché scrivere è un modo per raccontarsi, con calma, al di fuori della fretta di un’intervista, o dagli schemi rigidi di un questionario. “La scrittura scioglie l’irrequietezza. La scrittura incarna e produce comunque qualcuno che non c’è finché non nasce dalla nostra penna. [...] La scrittura semina e genera. Ci guida sempre altrove. Comunque lo scrivere ci ferma, ci fa sentire ancora più fisicamente presenti. [...] Non ci sentiamo più liquidi. Lo eravamo pensando... lo stilo, la matita, i tasti ci restituiscono la sensazione di non galleggiare nel vuoto”14. Ascoltando le testimonianze dei pazienti, o di chi se ne prende cura, emergono con più limpidezza eventi come la “diagnosi”, la difficoltà nella la ricerca delle informazioni, la carenza dei servizi, le risorse che non riusciamo ad immaginare. Solo alcuni esempi come finestre su un mondo ancora poco esplorato. Il racconto consegna un punto di vista nel modo più puro, non condizionato dalle domande esterne. Roberta: i medici decisero di prendere in considerazione quello che io davo ormai per certo Tutto è proceduto nel migliore dei modi fino a quando Matteo non ha compiu- Roberta e suo figlio to 8 anni. […] Durante un soggiorno al mare, qualcosa cominciò a cambiare. Il Matteo, di 8 anni. bambino era strano, svogliato, “sulle nuvole”; cose però molto lievi di cui spesso si può accorgere solo una madre. […] Anche se gli accertamenti non avevano messo in luce nessun problema grave, io cominciai a correlare il tutto alla malattia di mio fratello. Quando parlai di questo mio sospetto con i medici che ci seguivano in pediatria, costoro mi dissero che assolutamente non ci poteva essere alcun nesso e che, secondo loro, avrei danneggiato Matteo con il mio atteggiamento apprensivo e ansioso. Ma io conoscevo mio figlio e, sempre più, mi convincevo che c’era qualcosa di grave da mettere in relazione con la malattia di mio fratello, pur essendo cosciente del fatto che nel suo caso si era parlato di encefalite. […] In realtà Matteo, con il passare dei giorni, peggiorava sempre di più: vista, udito, linguaggio; ogni giorno si presentavano dei peggioramenti. Fu a questo punto che, vedendo la situazione aggravarsi, i medici decisero di prendere in considerazione quello che io davo ormai per certo (che cioè ci fosse un nesso con la malattia di mio fratello) e quindi di farci fare degli esami specifici. Da questi risultò, infatti, che si trattava di adrenoleucodistrofia, nota anche come “Malattia di Lorenzo”: una patologia genetica progressiva che va a ledere la mielina celebrale portando Matteo, in pochi mesi, ad essere incapace di fare le cose che fino ad allora aveva fatto abitualmente15. R&P 2007; 23: 1 07 0-2 05 0 20 G. Marsico: Perché raccogliere storie? Enrico: seguì una pausa lunghissima Credo proprio che il vostro ometto sia affetto da sindrome di Down.[…] Enrico e Andrea, Andrea era nato da pochi minuti, o giorni, o secoli, in quel momento non avrei suo figlio. La diagnosi saputo dirlo, completamente stordito da una sensazione di black-out totale attra- di sindrome di Down. verso la quale filtravano altre parole che il dottore pronunciava da una distanza incredibilmente lontana. Seguì una pausa lunghissima al termine della quale ci chiese: «Come vi sentite?». […] Bè, non ci crederete, ma era la domanda giusta, quella che avrebbe contribuito a dare una svolta alla nostra vita futura, forse perché contribuì a renderci protagonisti della vita di nostro figlio fin dall’inizio.[…] Per mia fortuna non posseggo ricette miracolose […] so soltanto che quelle poche sillabe erano tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento. La realizzazione che non ero solo, che avremmo lavorato insieme, mia moglie, io e quel pediatra per dare ad Andrea il futuro che si meritava16. Angela: la paura di sbagliare Non ho avuto né tempo né spazio per potermi preoccupare del futuro, ma solo Angela e sua figlia del presente. Dopo una gravidanza perfetta e un parto criminale nasce Bianca che, Bianca. a causa di una grave asfissia, è stata molto tempo in pericolo di vita. Incubata per poter mangiare, piena di fili per il monitoraggio dentro una incubatrice, ha dovuto attendere vari giorni per conquistare il mio primo abbraccio. Se mi avessero amputato un braccio avrei sicuramente sentito meno dolore, che in questi casi è veramente fisico oltre che morale. La situazione di Bianca appare subito grave e la sua vita comincia così: tutto da conquistare nulla da dare per scontato. […] Decidere. Quello è stato un vero incubo: la paura di sbagliare, di dover far subire errori a mia figlia che già così tanto aveva pagato per errori umani. Quest’angoscia mi ha molto tormentato e, ancora oggi, a volte mi tormenta17. Angela: strategie di percorso La conoscenza che ho di mia figlia è basata soprattutto sull’osservazione, sul Angela e il progetto contatto diretto (spesso molto fisico), sulla sperimentazione e non ultimo, sul mio di vita per sua figlia. sesto senso di madre, che molte volte è stato il mio unico alleato. […] Il progetto di vita che abbiamo per lei non è basato su obiettivi fissi ma piuttosto su strategie di percorso che cambiano anche in base alle sue reazioni: utile proporre, valutare, sperimentare; inutile accanirsi senza rispettare i suoi ritmi e le sue risposte. L’accanimento a mio avviso presuppone una non accettazione, un voler cambiare a tutti i costi il proprio figlio, e questo lo reputo dannoso anche in termini di frustrazione che inevitabilmente invade sia l’adulto che il bambino. Nell’accanimento non vedo la fiducia nelle capacità del proprio figlio ma una ricerca di normalità. Ovviamente questo concetto non può e non deve mai diventare una giustificazione per coloro che hanno la responsabilità e il compito di curare o educare i nostri figli: la convinzione che si può fare sempre qualcosa di più dovrebbe essere sempre la prima preoccupazione di tutti coloro che, per qualsiasi motivo, entrano in relazione con i nostri figli18. Come tutte le persone comuni Abbiamo diritto ad avere genitori che la sera non siano stremati o arrabbiati perché “hanno dovuto discutere per la nostra seduta di riabilitazione o per il pulmino scolastico oppure ancora per ciò che ci serve per comunicare con gli altri e R&P 2007; 23: 0 10 7-0 20 5 21 ARGOMENTO che non arriva o che deve essere comprato spendendo tanti soldi”. Che come tutte le persone comuni e come tutte le famiglie abbiamo voglia di serenità, almeno per quel poco o quel tanto di tempo che ci è dato di vivere19. Per quella bambina c’è poco da fare Per quella bambina possono bastare solo poche ore di sostegno: c’è poco da fare. Al massimo un peluche da muoverle davanti agli occhi per qualche minuto. Basta questo20. Bianca ha imparato a dimostrare Con il tempo, Bianca ha imparato a dimostrare sempre più le sue esigenze e i suoi bisogni manifestando ogni preferenza con tutti i mezzi che ha a sua disposizione: usa la mimica facciale, il respiro, gli occhi, la torsione della testa, ecc. Nei casi di incomprensione o di dolore è spesso presente anche l’irrigidimento degli arti che quindi non è solo una condizione di spasticità involontaria ma bensì molto di più: una vera e propria sua forma di comunicazione21. I Servizi Sociali I Servizi Sociali ai quali siamo costretti dalle normative a rivolgerci per ogni richiesta, vedi insegnante di sostegno per la scuola, ausili, assistenza domiciliare (chi l’ha mai vista?) sembrano divertirsi un mondo a farti aspettare in media 3 mesi per un appuntamento, a perdere le pratiche, a sbagliare puntualmente i certificati e sopratutto non si sono mai letti una riga sulla malattia di mia figlia 22. Me lo dissero per telefono, credendo che io già sapessi All’improvviso una debolezza sempre più crescente, i primi svenimenti e il non riuscire a spiegarsi cosa stesse succedendo; in seguito la ricerca affannosa di una diagnosi. Iniziai così la mia avventura nell’assoluta confusione: il timore di non esser creduta, a causa dell’aspetto sano, ed il senso di colpa verso la famiglia, la colpa di essere... cambiata. Ero certa di essere malata anche se nessun dottore sembrava prendermi sul serio, quasi fossi isterica. Per quei dottori, che sorridevano dei miei sintomi, provavo una gran pena e a un certo punto mi rifiutai di sottopormi ad ulteriori visite. Cercai anche di ignorare la mia malattia ma i sintomi, invece di annullarsi, aumentavano: mancanza d’aria, astenia continua, ecc., eppure continuavo a fingere. […] A febbraio del 1998 mi fu diagnosticata l’ipertensione polmonare primitiva; ricordo il bianco viso del dottore, lo sgomento negli occhi di mio marito e le lacrime di mia figlia. Nessuno si sentì di spiegarmi la gravità né mi fu data alcuna cura; io ero quasi sollevata: sapevo la causa dei miei sintomi e, ingenuamente, pensai che i miei cari fossero confusi e molto affettuosi! Mi misi alla ricerca di uno specialista e presto scoprii la verità: l’ipertensione polmonare era una malattia grave e progressiva che poteva portare al trapianto o alla morte. Me lo dissero per telefono, credendo che io già sapessi. Non riuscivo ad agganciare la cornetta in un attimo tutto cambiò e nello stesso tempo tutto mi fu chiaro... le lacrime, lo sgomento dei miei, i silenzi23. L’ipertensione polmonare: una malattia grave e progressiva. Rosma: prigioniera del suo corpo L’ammalato è una persona che deve considerare un dono qualsiasi forma di attenzione, o di comprensione, o di sollecitudine affettuosa. In questo senso l’amR&P 2007; 23: 0 10 7-0 20 5 22 G. Marsico: Perché raccogliere storie? malato perde ogni forma di rapporto con i sentimenti della vita, non ha il diritto Rosma: l’ammalato di arrabbiarsi o di lamentarsi per comunicare la propria sofferenza, o di esprime- in quanto individuo è re il senso di disagio e di sconforto. L’ammalato deve essere disciplinato e pazien- portatore di una storia. te, infinitamente dipendente e passivo come nella condizione di chi si trova a vivere in una istituzione totale. L’ammalato diventa prigioniero del suo corpo e dell’ambiente in cui vive; ma in quanto individuo il malato è portatore di una storia, è esso stesso quella storia: ciò significa che attribuisce un senso a ciò che vive in relazione al suo percorso esistenziale, nel quale si vengono a iscrivere la malattia e le cure24. Rosma: l’emozione di un passato da persona “normale” Sono stata in un reparto di terapia intensiva per tredici mesi. Il solo legame che avevo con il mondo esterno era il vento che arrivava dalla finestra aperta sulla pelle del viso. Era la consapevolezza del fatto che riuscivo ancora a sentire, a percepire lo spessore del desiderio, la tensione di volere ancora vivere… […] In una condizione precisa e ritagliata come quella della malattia, la consapevolezza di sé e della propria urgenza espressiva diventa una forma costante di concentrazione sulle ultime, possibili, differenti, formule di comunicazione. […] Si ricorda a fatica l’emozione di un passato da persona “normale”, quello in cui c’è ancora la memoria di un tuffo nel mare, di una passeggiata in montagna, di una scansione del tempo regolata non solo sui bisogni ma anche sui desideri. Prima potevo muovere qualche dito, potevo forse ancora scrivere premendo qualche tasto del computer… prima potevo ancora urlare, tutta la rabbia e la disperazione. Ora, attaccata al tubo di un respiratore, ancora, cerco di capire cosa possa essere la speranza. […] Forse si può sentire nella bocca o nella pressione degli occhi che si chiudono, nel silenzio di un momento, la forma della felicità per qualcosa che può improvvisamente cambiare24. Le testimonianze-storie non si commentano-interpretano, affermano il diritto [negato] di prendere parola, di proporre un altro punto di vista, rispetto a quello dei “tecnici”: semplicemente si ascoltano, se ne coglie il valore di “diagnosi-prognosi”, il valore di “dato”. Rappresentano una metodologia da diffondere, a chi si occupa di formazione, un’opportunità di assumere sguardi e strumenti diversi per chi si occupa di qualità della vita, possono aiutare i medici ad ascoltare e conoscere meglio la realtà e le risorse di chi si confronta con la malattia, la disabilità, la sofferenza. Occorre non cedere al ricatto di trasformare storie in indicatori precisi, qualcosa di misurabile e possibilmente da ricondurre a numeri e percentuali, statistiche. Le storie sono lì per rompere questi meccanismi, liberare la realtà, creare spazi di libertà-verità, dare una possibilità che altrimenti non c’è: invitare all’ascolto. È necessario inserire pagine scritte da pazientifamiliari, come contributi non marginali, nei testi su cui studiano i futuri medici, e chiunque affronti le diverse problematiche scientifiche-socialietiche connesse con i percorsi assistenziali. La medicina narrata-narrativa non è [non dovrebbe essere] una tecnica – che si insegna – è la cultura dello sguardo e dell’attenzione: e l’ascolto richiede soprattutto un modo di essere, non occasionale, non costruito, ma normale, quotidiano. R&P 2007; 23: 1 07 0-2 05 0 NOTA Ringrazio le persone che hanno accolto l’invito a raccontarsi, permettendo a me e ai lettori/lettrici di ascoltare. Ringrazio, inoltre, Flavia Luchino (pediatra) per la revisione del testo e il prezioso contributo nella scelta/presentazione dei frammenti di storie. Da diversi anni raccoglie testimonianze e studia, con competenza e profondità, la medicina narrata-narrativa, sul campo e nella letteratura; per prima mi ha invitato all’ascolto e a fare di questo un “progetto di ricerca”. 23 ARGOMENTO Una notte si alzò per andare al gabinetto e crollò a terra Lo portavo piano dal letto di casa alla macchina, guidavo piano, scendevamo lentamente, eseguendo le nostre mosse secondo un rallentatore. Imparavamo quell’andatura, non come correre con un freno a mano tirato, ma come un nuovo modo indicativo necessario a tutti i nostri verbi. Quel tempo era l’adagio. Parlavamo anche così e lui soffriva i suoi dolori sottovoce, tappandosi la bocca quando erano pronti a impennarsi in grido. Non chiedevo, non facevo domande, non mi piaceva quel mondo efficiente solo a sbrigarsi, organizzato sulla parola d’ordine “avanti un altro”. Mio padre moriva, nelle sue ossa c’erano già metastasi, questo sapevo. Ogni curiosità era superflua, per me, oscena. Una notte si alzò per andare al gabinetto e crollò a terra. Non aveva più controllo del bacino. Era paralizzato, il laser l’aveva spezzato in due. Lo raccolsi da terra che piangeva di stupore. Nessuno ci aveva avvisato del rischio, nessuno spiegò che non poteva nemmeno pisciare. Creatura mia ferita, sgarrettata, nemmeno la tortura dell’urina ho potuto risparmiarti, nessuno degli inamidati con cravatta sotto ci aveva avvisato. Metà del corpo era già perduta, l’altra metà picchiava alla schiena. “Lo senti?”. Mi diceva “oggi mi ha dato calci più forti”, oppure “oggi mi fa scoppiare la vescica”. Era “l’operaio”. Lo chiamavamo così quel male che faceva i turni nella miseria del suo corpo. […] La notte delle sue gambe perdute decisi che non l’avrei lasciato più. […] Gli furono applicati dei tubi e non si alzò più […]. L’operaio lavorava di notte e di giorno, e a volte mi diceva di andare in camera mia, perché doveva gridare e doveva tapparsi la bocca e stare per un poco a masticare il freno. […] Non gridava nessuna vocale, solo consonanti lunghe, prolungate, che si impennavano in gola… mai si lasciò andare allo sconforto di una vocale, a dare al grido la dignità di una sillaba. De Luca E. In alto a sinistra. Milano: Feltrinelli, 1994; pp. 121-5. BIBLIOGRAFIA E NOTE 1. Pertile G. Ricordo. In: Noi poeti. Padova 2006. Giulia è una ragazza con Sindrome di Down. 2. Good B. Narrare la malattia. Torino: Ed. Comunità, 1999. 3. Frank A. The Wounded Story Teller. Chicago: The University of Chicago Press, 1995; p. 65. 4. Demetrio D. Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé. Milano: Raffaello Cortina, 1995; p. 171. 5. Scopelliti G (a cura di). 8. Gaver A, Borkan JM, Conoscere l’handicap, riconoscere la persona. La Pedagogia dei Genitori. Briciole: CESVOT, 2006; p. 7. 6. Schmitt EE. Oscar e la dama in rosa. Milano: Rizzoli, 2004; pp. 15, 16, 78. 7. Greenhalgh T, Hurwitz B. Why study narrative? BMJ 1999; 318: 48-50. Weingarten MA. Illness in context and families as teachers: a year-long project for medical students. Acad Med 2005; 80: 448-51. 9. Sharma N, Lalinde PS, Brosco JP. What do residents learn by meeting with families of children with disabilities? A qualitative analysis of an experiential learning module. Pediatr Rehabil 2006; 9: 185-9. R&P 2007; 23: 1 07 0-2 05 0 24 G. Marsico: Perché raccogliere storie? 10. Swift TL, Dieppe PA. Using 17. Testimonianza di Angela, expert patients’ narratives as an educational resource. Patient Educ Couns 2005; 57: 115-21. 11. Wykurz G, Kelly D. Developing the role of patients as teachers: literature review. BMJ 2002; 325: 818-21. 12. Luchino F. Il pediatra e la famiglia: percorsi condivisi. Medico e Bambino 2005; 1: 553-7. Consultabile in rete www.conosciamocimeglio.it/par ola_alle_famiglie/docs/MeB_% 20Percorsi_condivisi._luglio_20 03-gennaio_2005.pdf 13. Tognoni G. L’epidemiologia: da disciplina di esperti a cultura condivisa. Assistenza Infermieristica e Ricerca 2004; 23: 53-6. 14. Demetrio D. Autoanalisi per non pazienti. Milano: Raffaello Cortina, 2003; p.152, 180. 15. Roberta madre di Matteo. In: Scopelliti G (2006); p. 33. 16. Barone E. Momenti difficili medici attenti. In: Un pediatra per amico, 3, n. 4, settembreottobre 2003, pp. 12-15, p. 12, successivamente pubblicata su AA.VV. Un mosaico di esperienze. Le narrazioni come testimonianza e formazione. Cascine di Buti (PI): AIPD, 2004; p. 55. mamma di Bianca. In: Scopelliti G (2006); p. 36. 18. Testimonianza di Angela, mamma di Bianca. In: Scopelliti G ( 2006); p. 37. 19. Testimonianza di Cecilia, madre di Benedetta. In: Scopelliti G (2006); p.79. 20. Testimonianza riportata. In: Scopelliti G (2006); p. 77. 21. Testimonianza di Angela, madre di Bianca. In: Scopelliti G (2006); p. 37. 22. Questa testimonianza, come quelle che seguono, è presente nel database di storie del progetto Malattie Rare e Medicina Narrativa, del Centro Nazionale Malattie Rare, Istituto Superiore di Sanità. http://www.iss.it/cnmr.it. 23. Donna affetta da ipertensione polmonare. 24. Rosma, affetta da Sclerosi Amiotrofica Laterale (SLA), vive a Roma attaccata ad un respiratore. NOTA BIBLIOGRAFICA Questa è una breve bibliografia di riferimento che offre diversi tipi di interpretazioni della Medicina Narrativa/Raccolta di Storie: Benaglio C. Per una epidemiologia a partire dalle storie di malattia. Assistenza Infermieristica e Ricerca 2005: 24: 136-41; Cagli V. Malattie come racconti. Roma: Armando editore, 2004. Charon R, Montello M. Stories matter: the role of narrative in medical ethics. New York, Routledge, 2002. Charon R. Narrative medicine: honoring the stories of illness. New York: Oxford University Press, 2006. Gangemi M, Zanetto F, Elli P. Narrazione e prove di efficacia in pediatria. Come integrare evidence-based medicine e medicina narrativa nella pratica clinica. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2006. Greenhalgh T, Hurwitz B (eds.). Narrative based medicine: dialogue and discourse in clinical practice. London: BMJ Books, 1998. Hurwitz B (ed.). Narrative research in health and illness. London: BMJ Books, Blackwell Publishing, 2004. Narrative, ricerca qualitativa e ricerca infermieristica (a cura della redazione). Assistenza Infermieristica e Ricerca 2005; 24: 132-35. Tognoni G. Aneddoti, blob, storie e persone. La narrazione come priorità infermieristica? Assistenza Infermieristica e Ricerca 2005; 24:110-2. R&P 2007; 23: 1 07 0-2 05 0 25