Some kind of lovin - Altro

Transcript

Some kind of lovin - Altro
Some kind of lovin’
http://elianto84.altervista.org
Yet another special one
Ci hanno rimproverato di utilizzare troppi
colori, troppe immagini. Stampare una
copia del vostro giornale costa quanto
stamparne venti di Panorama. In tipografia mi stavano per picchiare. E allora
facciamo i bravi bambini e ci adeguiamo.
Tricromia for us. Così nessuno si fa male. Però ci togliamo diversi sfizi. Cambiamo il titolo della testata, assumiamo un
fotografo in redazione e riempiamo Altro
di citazioni, ben oltre la soglia alla quale
il webmaster schizoide ci aveva abituati.
Poi licenziamo l’intera sessione scolastico-giornalistica e linkiamo nuovi blog
entrati di diritto nel ristretto circuito,
quasi una élite, di elianto84. Ultima cosa
porgiamo un saluto reverenziale alla’autentico Jack from Canada. Ciao
splendido. Ciao maestro.
Altro, speciale numero 2
# Ladies and gentlemen #
The winners are
Elianto84
Alucinazioni #10
Maybe #15
Orchyd #18
Rêve2 #20
AncoraMare
Arancione #7
La puttana #8
Divagazioni #17
Salemiele #18
Lineacurva
Tempo #2
Ossodiseppia
E’ strano che Misery non ascolti i White Stripes
Katy87
Il laboratorio astronomico di Pasadena, Massachussets, ci ha avvistati. Peraltro stavamo cantando a squarciagola e dimenandoci come
ossessi, sotto la doccia. Questa violazione della privacy alla Cronoscopio ci ha infastidito. Soprattutto perché ci ha colti in una situazione imbarazzante. Non scommetterei mai sul fatto che voi, ogni giorno, recandovi nel posto di studio o lavoro, cantiate Black Sabbath,
dei Black Sabbath, tratta dal loro primo album, Black Sabbath. Figuratevi se vi scoprono mentre fate ciò sotto la doccia.
Angoscia disgusto disprezzo e siete dimagriti troppo ultimamente,
dovreste alimentarvi più spesso, non potete andare avanti a panini
caffè e 4 tequilas a sera. Certo se vi hanno avvistato avrete pure
qualcosa di interessante da mostrare al mondo. O semplicemente
oggi avete esagerato con l’esibizionismo. Contenetevi, mahatmas.
ItSuNaMi
Summerlude
Faber
G.Ferrigno
Biba
Jenina #4
Bussole #6
Talvolta #13
Sudario #14
Calalunga #16
Venatura #17
La rosa #16
Preghiere #5
Nancy #3
Maybe #15
Sunset Lips #19
Devo #19
I Fratelli #20
Falco #20
Some Kind #21
Dobbiamo intercettare le chiamate del Play. Ma con quale processo?
Se mai vi troverete a Montreal ad abbracciare Michelle, ricordate di portarle le mie spoglie in
fastoso corteo, davanti alla cascata. Ho sempre sognato un enorme fiume che scorre su un letto
di neve. E corrode freddo e lento un vastissimo panorama di desolazione, fragile ed eterno come
un patto di sangue. Ho sempre sognato che Michelle mi desse un bacio.
Comunemente ci aspetteremmo uno spettacolo con una nutrita prefazione. Una sorta di vestibolo
all’interno del quale caratterizzare luoghi e colori, personaggi e miti. Ma lei è appena corsa via ad
inseguire brandelli di luci avventizie, stambecchi di neon sui versanti delle colline che ci porgono il
viso, quei crepacci che si insinuano nella roccia soltanto pochi minuti prima che sopraggiunga
l’alba. Non pretenderete ora che io spenda il mio tempo in affari così poco redditizi come la stesura
di un catalogo architettonico. Soprattutto quando avete già il prodotto concluso tra le mani.
http://elianto84.altervista.org
Altro special #2 pagina 1
Altro special #2 pagina 2
Tempo che arriva alle sette del mattino con la sveglia che salta addosso, che chiede più tempo: ancora un minuto di sonno.
un pezzo di LineaCurva
Tempo per scendere scale, aprire porte e
sentirle richiudere, timbrare biglietti, fare
cenni al barista, seguire la strada ed il
solito quello.
Tempo attraverso vetri di treni segnati a
pennarello nero; tempo d’arrivo, partenza,
con il vuoto in mezzo, che è speranza, curiosità, immaginazione o anche solo un libro
sulle gambe. Tempo in auto che scorre
d’asfalto, verso persone, posti del cazzo o
paradisi terrestri. Tempo in cui non siamo
da nessuna parte e andiamo dappertutto.
Tempo che è un rito, lentezza di cose a
riempire goccia dopo goccia un vaso che
altro non è che mani aperte e labbra assetate mai stanche di reggere. Tempo che è
ritmo, cadenza in spartiti, che incalzano e
inseguono, poi si fermano riposano e vibrano, riprendono e alla fine abbracciano, abbracciano la strada mentre gira il motore, i passi mentre andiamo,
gli alberi e le foglie e le luci che si chiudono addosso, come il pugno attorno alla carta.
Tempo che è attesa. Per quello che verrà. O non vuole venire, ma noi ci crediamo lo stesso. Il tempo perchè la
terra si buchi e qualcosa si offra al sole per crescere. Tempo chiesto. Dovuto. Contato. Sezionato e guardato al
microscopio fiocco dopo fiocco, sempre diverso.
Graffiato sul calendario croce dopo croce, come un calendario dell’avvento senza la data di Natale.
Tempo senza fiato, disperato, impaziente, di marmo freddo sotto al culo mentre l’altoparlante dice che il
treno – il nostro – è in ritardo e di avere pazienza. Dio si scusa. Reclamare è possibile. E volendo, ci faranno
sapere.
Tempo che lo guardi indietro e non è niente, è passato, chiuso, finito. Volato. Sembrava enorme e altissimo ed
invece sei dall’altra parte del muro. Non c’è più e non sembra nemmeno che ci sia mai stato. Come se non
fosse ovvio che le lancette non siano una presa in giro.
Tempo sprecato. Tempo guadagnato. Tempo vinto alla lotteria scommettendo che valeva la pena. Tempo
rubato, di nascosto, nell’ombra dei portoni, al freddo delle quattro di mattina, quando non ci ha visto nessuno.
Ed eravamo vivi un attimo e poi no. Tempo strappato a morsi a quelli che dicevano no. E poi magari avevano
ragione, ma siamo andati via a denti serrati sul nostro averci provato. E allora l’avevamo anche noi.
Tempo nelle rughe dei nonni, come solchi d’aratro, tempo caldo ed usato di un mondo che esiste solo se ce lo
lasciamo raccontare. Tempo seduti a guardarli, loro che lo tengono dentro, e a volte lo devono piangere fuori, il
tempo che è troppo per stare.
Tempo di un caffè. A ritmo di cucchiaini su porcellane. Tempo di un morso a qualcosa e poi via a lavorare.
Tempo lampo di un flash per quattro fototessere orrende. Tempo di un timbro e seimila volte di più per la coda.
Tempo scaduto e pagato con mora. Tempo di chiudere il frigo e aprire solo una birra ghiacciata, che altro non
c’è.
Tempo in cui c’è da parlare, che bisogna dire qualcosa, qualsiasi cosa, anche in lingue incomprensibili o ancora
meglio dimenticate, perchè bisogna saperlo che a volte basta dire, per non lasciare andare. Dire, cazzo, dire.
Anche solo che c’è tempo e si vedrà. Che si vuole. Vorrebbe. Desidera. Il tempo non conosce vergogna.
(Continua a pagina 3)
Altro special #2 pagina 2
Altro special #2 pagina 3
Tempo
un pezzo di LineaCurva
(Continua da pagina 2)
Tempo bellissimo, di silenzio profondo. La sintonia
perfetta di anime, senza suoni, se non il ticchettare
del mondo intorno. Tempo di mani che si tengono
senza peso, di occhi che si guardano come allo
specchio. Tempo di pelle e di pelle sudata. Tempo
della prima volta che si ferma, il tempo.
Tempo che non c’è e lo costruiamo. Di cosa succederà e come lo vediamo disegnato nell’aria. Volontà e desideri incastrati in un tempo futuro che
ha spazio per tutto. Farò. Sarò. Faremo. Saremo.
Tempo piccolo e mai abbastanza, per quattro giacche per terra ed una lattina all’incrocio dei pali, per
gli abbracci con chi non c’era da un pò, per il
sonno sulle tue gambe e le sei del pomeriggio con
il mare che parla.
Tempo di notte, nei passi che rimbalzano da porfido e tacchi, di pioggia che sa di puntina e vinile e
di autobus che passano pigri e deserti.
Il tempo che chiedi, perchè non ce la fai. Ora no
ma domani chissà. Che non ti accorgi che il tempo
passa ora, chiede ora, non fa cambiali e domani
sarà un posto ed una cosa diversa. Che se non ce
la fai, puoi cominciare. Poi semmai, finisco io.
Tempo che mi regali. Quando lo usi per me. L’investimento più azzardato con la tenerezza più
dolce. Un tuo messaggio che vola, un minuto in
meno per te, una carezza anche quando sei troppo
stanca anche per respirare. Un giorno, magari. Che
una vita a regalarla si fa sempre male. Lascia che
mi ci sciolga e va strabene così, tienila tua.
Tempo che ti devo. Non per una legge universale
ma semplicemente per la mia, che è quella sola
che vale la pena che rispetti, e che mi dice che tu
e non altri.
Tempo,tempo, tempo. Ma esiste poi il tempo? Io
non lo so. Non porto nemmeno l’orologio. Quando
chiedo l’ora, fatico a credere a quello che mi dicono. – Ma già? Ma ancora? – penso. Perchè non
sono mai accordato con il tempo. Un tono, un
semitono, qualcosa del genere.
Che c’è me lo suggeriscono le cose che succedono.
Tutte in fila.
Che se ne succede una come dico io, allora poi ci
credo davvero.
Che è ora.
Nancy
un pezzo di Summerlude
“Nancy wore green stockings and she slept with everyone
She never said she'd wait for us, although she was alone”
L. Cohen
Nancy, seduta per terra, guardava incantata le clave con gli
adesivi verdi fosforescenti, mentre Rosi le faceva roteare
nella penombra della stanza. Rosi le faceva roteare, ma di
Rosi non si vedeva nulla, solo i disegni verdi brillavano al
buio, come lucciole impazzite, formando spirali e scie luminose sulle note del vecchio grammofono della madre di
Rosi.
– Mangiato nulla? Io sto crepando di fame… – si lamentò
Rosi, senza smettere di esercitarsi con le clave;
– No, nulla. È da un paio di giorni che non lavoro, ieri è
passato solo Pierre e non mi ha lasciato un centesimo –
Nancy aveva la voce roca per le ultime ore passate in silenzio;
– Che stronzo… senti, e biscotti? Ce n’è più? – Rosi fermò
le clave, e accese la luce.
Nancy sarebbe stata immobile per ore a guardare Rosi giocolare, si sentiva tornare bambina, e forse probabilmente
non ricordava più che quando era piccola i clown la spaventavano, e che una Nancy bambina, davanti a una Rosi
con le guance truccate di rosso e la maschera sugli occhi,
sarebbe scappata via senza starci a pensare troppo. Ora
invece Nancy si lasciava incantare, e dimenticava tutto,
dimenticava suo padre, dimenticava il processo, dimenticava Pierre. Tanto suo padre era innocente, lo avevano deciso ormai, e Pierre era tornato da sua moglie. Quindi tanto
valeva dimenticarsene, e stare a guardare i disegni tracciati
dalle clave di Rosi. Nancy si incantava a guardarle roteare
così, quando Rosi si fermò per chiederle dei biscotti, non
le rispose come per dispetto, e continuò a guardare nel
vuoto, finché si accorse che le cosce, protette soltanto
(Continua a pagina 4)
Altro special #2 pagina 3
Altro special #2 pagina 4
Nancy
un pezzo di Summerlude
(Continua da pagina 3)
da pesanti collant verdi, le erano diventate gelide a contatto con il pavimento di mattoni. Allora si alzò sulle ginocchia e tirò allungò la mano verso la scatola di latta
che qualcuno aveva lasciato sulla poltrona: la scatola era
vuota.
– Cos’è quell’aria depressa? Non ci pensare più a tuo padre, ormai è andata, lo sapevi che gli avrebbero parato il
culo, lui è sempre stato al sicuro, pensavi che qualcuno
avrebbe creduto a te?
Nancy non rispose, ma mostrò a Rosi la scatola di biscotti
vuota, senza dire una parola. Rosi, ignorandola, cercò il
vaso di ceramica con le ultime briciole del loro fondocassa.
– Senti, io non ce la faccio più, vado a prendermi una
pizza al take-away… dove cazzo sono i soldi? Li hai presi
tu? Eh, dillo, li hai presi tu? Che ci hai fatto con i soldi?
– Che ti frega? Ci sono andata al cinema, con i soldi –
disse Nancy con calma. Sotto il lungo maglione di lana, la
sua mano sinistra cercava di nascosto, nella tasca della
gonna, gli ultimi spiccioli rubati. Intanto, con lo sguardo,
Nancy cercava la sua giacca di pelliccia sintetica, aggirandosi per la camera con finta noncuranza.
– Non ci credo. Quello là non solo non ti lascia un centesimo, ma si prende pure i nostri soldi? No, non mi dire…
ecco perché quell’aria da funerale… non c’entra tuo padre… stai pensando a Pierre… allora, se n’è tornato da
sua moglie, vero? È andato dalla mogliettina, lo stronzo…
– Fatti i cazzi tuoi – urlò Nancy, ormai completamente
vestita, la voce rotta dai rimorsi, e uscì, sbattendo la porta dietro di sé.
Fuori la sera aveva già avvolto la città. Nancy correva in
pantofole lungo il marciapiede, percorrendo a passi rapidi
e isterici i pochi metri che la separavano dalla prima cabina telefonica e ripetendo mentalmente le cifre del numero di telefono di Pierre, una per passo, 4568… quattrocinque-sei, a ogni cifra pestava forte il piede sulla strada.
Nella cabina, con gli stessi gesti meccanici del passato,
tirò fuori dalla tasca sinistra le monetine gelide, e dopo
averle fatte inghiottire al telefono, schiacciò i tasti nella
solita sequenza.
Nancy aspettava una risposta, le foto graffiate di ragazze
e travestiti la fissavano dagli annunci erotici appiccicati
sul vetro della cabina.
– Pronto? Chi è a quest’ora?
– Suo marito ha dimenticato i documenti a casa mia.
– Mio marito? I documenti?
– Sì, insomma, la carta d’identità, il portafogli, quello dove tiene le foto di moglie e bambini… insomma, mica ci
tiene la mia, di foto…
– Ma chi è lei?
– Lo sa benissimo chi sono, solo non vuole ammetterlo…
– Non capisco, cosa vuole da me?
– Senta, io non voglio fare la stronza, volevo solo essere
utile…
La signora aveva messo giù.
– Neanche un ringraziamento, come al solito… – disse
Nancy al telefono muto, quando c’era solo una fredda cabina telefonica ad ascoltarla.
Jenina
un pezzo di OssoDiSeppia
Jenina si alza al mattino e siede davanti alla finestra aperta della cucina. L’aria pungente ancora
conserva la lanugine bagnata della notte. La pelle
è tiepida, ribelle a lasciarsi rianimare. Con un movimento lento, che le nasce dal centro dello sterno,
si ingrossa il rumore del mare. Le rimbalza in ogni
vena e Jenina si ritrae e dà le spalle alla finestra.
Com’era ieri il mare? Fermo, come rappreso. Offuscato, dal respiro lento. Vuoto, distante, impossibile da prendere in mano, anche a tratti nemico. Ma
quieto e solenne.
Mentre si alza e chiude una per una le conserve,
allineandole nella credenza, ricorda la passeggiata
sulla sabbia, fresca nel chiarore annunciato
dall’odore aspro dell’acqua, distesa nel profumo di
iodio. Le dita contavano i passi distanti dalla riva,
allargandosi e avvicinandosi a scatti.
Apre il barattolo della marmellata di ciliegie, intinge il dito sino in fondo, lo gira, lo assaggia, si screzia l’arancio della bocca.
La voce del mare le chiede compagnia. Copre le
linee di fuga delle città e lambisce la piccola insenatura, a pochi metri da casa, delimita i giochi della luce, accosta la schiuma allo scoglio, al cancello,
al pavimento. Si mescola col ricamo della tendina
della finestra, spesso e ruvido.
Jenina si sofferma sulla soglia della sua stanza.
Non vorrebbe entrare. Vorrebbe indugiare anche
tutto il giorno, ferma lì sull’orlo, scivolando sul refolo di vento che spinge l’anta della persiana, che
sbatte contro il muro.
Sul pavimento, vicino allo specchio, i suoi piedi inciampano brevemente nell’accappatoio. Si china ad
accarezzarlo, il cotone è consumato in più punti e
con attenzione evita di smuoverlo da quella posa
(Continua a pagina 5)
Altro special #2 pagina 4
Altro special #2 pagina 5
Preghiere per domani
Jenina
un pezzo di OssoDiSeppia
(Continua da pagina 4)
raccolta, le braccia aggrappate l’una all’altra, la tasca
sinistra leggermente scucita, la cintura sfilata a poca
distanza.
Nel tempo la sua voce s’era mescolata con la certezza
di una tregua, di una imprecisa e indeterminata distanza tra le cose.
Ieri sera, prima di addormentarsi, l’ha sentita infiltrarsi
tra le persiane. Era bianca, com’è sempre quando la
notte cambia, col fruscio di un’ala che s’alza in volo, e
nel bianco Jenina si rassicura e sa come confondere
una lingua di cirro vagante in un lago turchese, come
mutarla in un tocco violento di corpi.
Oggi strepita la voce del mare, ma senza convinzione,
si smorza rapidamente, senza frastuono. Quando gli
intervalli tra un’ondata e l’altra diventano regolari, Jenina scende le scale.
Rosata, l’aria che le portano i fiori della magnolia in
giardino le bagna le guance e le spalle. Percorre il sentiero ondulato nella pineta e arriva in spiaggia; il sole
le lascia rapide scosse e l’odore di rosmarino e, come
un gatto, Jenina si fa accarezzare.
Quanto tempo è passato? La sferzata gelida dell’acqua
le afferra le caviglie e risale repentina sino alle ginocchia. Il fondale si abbassa e Jenina avverte lo schiaffo
sul corpo, che s’arriccia in tremori. Una nuova allegria
la rincuora, sente di potersene fidare, sente il richiamo
morbido del vento, profondo sotto di sé. Sente il fiato,
che non sa se sia sale o vento, scenderle dentro, stringerle il petto con cattiveria. Con decisione. Sciabolate
d’acqua gelida la tirano in ogni direzione.
La voce del mare non le porta dolore e le fa docile lo
spasimo dello stomaco, languido l’affanno sguaiato del
sangue, remissiva la smorfia della bocca.
E le gambe e le braccia si sciolgono piene e rilassate.
Jenina si vede affacciata alla finestra della cucina, dove con gli anni aveva imparato a lenire la nostalgia del
fucsia dell’oleandro sul ciglio della strada, del verde
tiepido del gelso in giardino, del rosso che fascia il
cuore della rosa vicino al cancello, del lento imbiancarsi dei suoi capelli.
Ora quella nostalgia le si insinua tra le dita e Jenina la
stringe con rabbia, finché può. Poi scioglie la sua stretta e la lascia allontanare, nella profondità del buio e
nel silenzio dell’acqua.
un pezzo di ItSuNaMi
“Dì le tue ultime preghiere”, mi ordinarono acidi e sghignazzanti mentre ero condannata a morte. O almeno mi
sentivo così. E allora pensai al domani, quando tutto questo terribile strazio sarebbe finito, quando avrei dovuto
aprire finalmente gli occhi ed affrontare il nuovo mondo.
Pensai.
Da domani non voglio più essere la stessa. O meglio, voglio solo essere una versione migliore di me stessa, per
quel che significa l’essere migliori secondo me. Voglio
incrociare le persone e non farmi da parte, ma aspettare
che siano loro a farlo. Sì, abbassate gli occhi e scansatevi,
fatemi largo. Non perché mi ritenga superiore a voi ma,
dato che è l’unico modo di farvi capire che non sono neanche inferiore, così sia, procediamo. Non so per chi mi
avete presa, ma di sicuro mi avete presa per il verso sbagliato, e allora divento furiosa e picchio, faccio molto
male, sapete.
Ma spero, da domani, di non aver bisogno di tirar fuori
tutto questo, perché finché posso voglio rivolgermi a tutto e tutti con estrema tranquillità, col sorriso sulle labbra.
Siamo intesi, spero; io farò la brava se tutti voi farete i
bravi con me. Prima voi, però. Sono io qui quella che sta
per morire, anche se rinascerò; io che detto le regole. Almeno questo, almeno oggi mi è concesso.
Voglio fare di tutto, cazzo, lavorare e sudare per superare
quegli ostacoli che non fate altro che mettermi tra i piedi;
voglio anche farmi male, perché no, ma state certi che li
supererò,anzi li distruggerò, e una volta dall’altra parte
non mi volterò indietro a pentirmi dei danni che ho causato per ottenere ciò che volevo.
Voglio dei compagni, una squadra leale, fatta di pochi,
ma che stiano dalla mia parte nel torto o nella ragione, e
avranno tutta me stessa, o quasi. E guai a chi tradisce.
Se c’è qualcuno o qualcosa che desidero non voglio più
girarci intorno intimorita, senza mai fare un passo per
paura di farlo falso. Voglio arrivare al punto, centrare il
bersaglio e prendermi ciò che mi spetta. E alla fine di tutta questa corsa voglio guardarvi dritto negli occhi e dirvi
col cuore che, per quanto vi dispiaccia, non c’è nessuno
più soddisfatto di me.
La prospettiva non è male.
E allora, cazzo, basta con quest’agonia…
Cosa aspettiamo a dare inizio al gioco?
http://tasmegalpa.altervista.org
Altro special #2 pagina 5
Altro special #2 pagina 6
Bussole
un pezzo di OssoDiSeppia
Ho incontrato poi gli occhi asciutti, fermi e senza sguardo delle donne al mercato.
Portano arance rosse nelle mani.
Mentre mi sposto tra filari di camicie e banconi di pesce guizzante, il fumo è acre di là del fiume torbido, che
non riesce a marcarne il confine, l’accoglie appena e lo distende sull’acqua, in spirali piatte.
Penso ai loro capelli nascosti e li immagino liberi e fluenti, mossi in cadente riposo sulle spalle. Poi conosco la
grazia e il timore dei loro occhi, che abbassano, distolgono, alzano verso il cielo. Non li chiudono mai, non
hanno paura del cielo.
Gli occhi dei loro figli invece si socchiudono spesso, nel bel mezzo di un colore o di uno strappo della strada,
di un lenzuolo di corsia.
Mi avvicino al venditore ambulante di thè. Tra la sua pelle e il sudore del volto si addensa una polvere nera,
spessa. La sua voce avida si ripete, in ritmica sovrapposizione con altre e rimbomba insistente. Il caldo è assordante e le voci in un colpo si affievoliscono.
Tacciono e un silenzio pungente e aspro si diffonde in questo mercato straniero, dove giungo al termine della
mia ricerca.
Sento che le vene mi pulsano all’impazzata e allora le parole ritornano. Usuali, note, materne negli accenti
stretti di vicoli bassi.
Parlano la voce di mia madre, quando mi guidava a sorprendere l’odore dei mercati, ché diceva ce n’era uno
solo, non si smorzava di giorno sotto il bagliore intenso del sole più cattivo, se racchiuso tra un ballatoio e la
piazza, se affacciato sul mare. Pure nel frastuono delle ventate sanguigne e speziate, io assorbivo un solo
profumo, salso.
Quella del mare era una pronuncia insopprimibile per entrambe.
Seduta sul letto, seguivo le pennellate grigie, il loro movimento franto, l’azzurro ostinato vincere sul verde
d’alga e di scoglio. Cercavo il porto delle nuvole, come lo chiamavo, insistendo che fosse in giù e non servisse
sollevare il mio sguardo.
Ad occhi chiusi, i pescherecci rientravano carichi, i pescatori bruni dalla lingua cantilenante spruzzavano di cobalto i primi visitatori del mercato, con i loro stivali verdi di gomma.
Quando il dolore cresceva, correvo verso il bianco della pietra fresca, della calce altera, del tufo farinoso e mi
rintanavo tra le cave, lontano dal paese. Dal senso di vergogna nessuna danza poteva guarirmi, né cordicelle
colorate, né catini colmi d’acqua, se l’ombra spariva e girovagava tra le nenie della masciara e la pianura
marrone cosparsa di spighe.
Respingo meccanicamente il bicchiere di thè che mi viene offerto. Ora respiro con calma e penso che posso
ricominciare a camminare piano.
L’altopiano a distanza, il fiume nervoso, le sagome nere delle madri al mercato. E il mio sguardo adesso è sbilenco, come una striatura di violino, ma saldo nella imprecisa percezione di questa pozzanghera rossa con le
impronte della sabbia posata sulle pietre, sotto il cielo in penombra. O di un qualunque luogo possibile da raggiungere a piedi.
Si perdono ancora sottili
un pezzo di jack202
Tra le lamiere, just a little bit too
strong. Fra le lanterne, quelle a segnare l’occasione giusta per assicurarsi eletti e non si abbia più alcuna occasione per macinare colpe fra le presunte
cause. Sulle montagne dal blu omicida
che si stagliano con contorni appuntiti
sul profondo desiderio di evasione e
mancate opportunità, sulle montagne
della desolazione dalle scarpe rotte e
un intramontabile portami con te ovunque tu vada, perfetto sconosciuto.
Si perdono ancora sottili ruzzolando
sul versante più ripido. Chi mai.
Altro special #2 pagina 6
Altro special #2 pagina 7
Arancione
un pezzo di Ancora Mare
Il viso premeva stanco sul cuscino, notte quasi insonne, i lunghi capelli sparsi, i riccioli ribelli. Rossi.
In verità erano arancioni, si insomma, classico pel di carota , che incorniciavano un viso dolce,
appena macchiato da efelidi, gli occhi scuri, le labbra carnose.
Si, era bella.
Incrociò una gamba sull'altra, la pelle nuda, liscia, appena sfiorata dal lenzuolo di seta, si portò una
mano al seno, i capezzoli eretti, sorrise.
F. aveva lasciato un buon profumo sul letto, fuggendo via dopo ore di passione e sesso compiaciuto. Nessuna traccia di sè, a parte l'odore. Vergogna o voler dimenticare presto. Oppure, meglio, il
tentativo di non affezionarsi troppo a quella casa.
L. si lasciò ancora trasportare dal ricordo, le mani sottili sul suo corpo, il calore fra le cosce, la
stanchezza e la soddisfazione.
--Avevano cenato insieme, un invito casto, di lavoro, nessuna idea di sottofondo. Così la sera prima
L. aveva preparato un buon risotto, un secondo di pesce (sarebbe piaciuto molto a F.), la tavola ben
apparecchiata, due candele accese sul tavolino basso, fra i libri e i fiori secchi, giusto per fare atmosfera e rendere carina la stanza. A completare della musica, il pianoforte di Keith Jarrett che
l'avrebbe acompagnata nella preparazione della cena e l'attesa di F.
Quasi irruente fu l'arrivo di F. che non nascondeva la sua simpatia e voglia di piacere, portava dei
fiori, girasoli e piccole rose blu; velocemente L. li mise dentro il grande vaso rosso, sul mobile
all'angolo. Un bel profumo.
Indossava un abito nero, non molto elegante, ma ben aderente alle sue curve, F. vestiva
ugualmente casual, ma con stile.
L'odore di F. era intenso, e trasmetteva sensazioni
nuove, inaspettate. L. si stupì di certi pensieri, ma
subito tornò alla serata, porgendo un bicchiere di
vino bianco, fresco : un brindisi, le perle sul bicchiere, sul seno, uno sguardo furtivo, sfuggito. Intesa.
Ridotta ogni distanza.
Senza parlare.
Un lungo bacio.
I due corpi si sfiorarono, vibrazioni e voglia.
Sorrisi.
F: Mi fai vedere come hai sistemato la casa?
L. certo! seguimi.
Arrivarono rapidamente alla stanza da letto, grandi
foto in bianco e nero alle pareti, quasi tutte raffiguravano L. , la sua pelle opalina resa eterea dalla fotografia, su una spiccavano i suoi seni turgidi,
ben fatti. F. si fermò su quella, la commentarono insieme. Ancora l'odore di F., penetrante, intenso,
ancora un contatto.
Si abbracciarono senza timore, F. prese l'iniziativa, sfilando la spallina dell'abito nero, chiandosi sui
seni, a lasciarsi un bacio, la lingua fremeva, fra calore e morbidezza.
Anche L. si lasciò andare e fece lo stesso, fino a spogliarsi entrambe.
Intrecci di corpi, pelle su pelle, i lunghi capelli neri di F. riversi sulle cosce di L., le mani a cercare,
la bocca a trovare.
I capelli rossi di L. sul ventre di F., la bocca a dissetarsi, affondare, volere.
Così a lungo, fino all'orgasmo reciproco, intenso, appagante.
Poche parole, L. sul seno procace di F. a respirare, entrambe stanche, entrambe felici.
--L. decise di alzarsi, una macchia di rossetto sul cuscino: era il suo o quello di F.?
Sorrise.
Altro special #2 pagina 7
Altro special #2 pagina 8
La puttana con le ali nascoste,
un pezzo di Ancora Mare
La puttana con le ali nascoste, si riempì le tasche di sassi veloci, perché non si agitasse troppo al vento
d'autunno, le strade troppo piene di domande, e i marciapiedi a chiedere chiedere senza mai dire
moneta, senza fissarti alla gola.
La puttana col sorriso sottovuoto, spense l'ennesima sigaretta di una notte non sua, il rosso dei semafori sempre più giallo, i fari delle auto imploranti un'arresa che non arrivava mai; così si pettinò ancora le
ciglia, serrandosi le cosce fra le mani.
La puttana con le dita nei cassetti, le borse piccole dentro l'armadio, decise di aspettare ancora una
stella, sul cielo opaco e spento, chiuse gli occhi alle sirene lontane, e si piegò alla sodomia di una
parola, ascoltando la voce della luna nuova.
La puttana senza fogli da leccare, negò una carezza a chi voleva tempo, si sorprese di ritrovare un bacio
sul dorso della mano, per uno sconosciuto non vale essere felici, che di orgasmi facili si può morire.
La puttana con le ali nascoste, il sorriso sottovuoto, le dita nei cassetti, senza fogli da leccare, spinse le
scarpe sotto il letto, si strinse sui seni nudi e così decise di aspettare.
La foglia dalle virgole striate, si accovacciò su un ramo sopravvissuto all'inverno fragile, stabilì di essere
viva, e riordinò le idee parlando con la luna.
La foglia dal verde appariscente, condusse all'apice una macchia un po' scura di mestizia, si dipinse come l'albero delle promesse e si fece nuova, per cadere.
La foglia leggera della neve, vorticava dunque al vento felice, che sogghignava complice e solleticava,
piroettando fra cielo e mare, si inventò le nuvole e si posò.
La foglia sentinella audace, si affievolì sulla terra madre, oscurando i sassi, per attraversare il mondo. Si
spense un giorno di dicembre, che le campane tremavano dal sonno e le mani dei bambini restavano
strette agli uomini vanesi.
La foglia dalle virgole striate, il verde appariscente, leggera e sentinella audace, divenne la culla di un
pensiero, e si accompagnò alle pagine del libro, in cui le dita impaurite di F. la posarono per sempre.
La ragazza d'argento e miele si pose fra lama ed inverno, cercando di inventarsi nuova, dimenticando
l'acqua sulla paura e le nuvole da pettinare.
Lei si riempiva le scarpe di polvere futura, indovinando gli occhi dei passanti, e ci riusciva.
La ragazza dalle finestre vuote, dipingeva in chiaro scuro le memorie senza giorni, affievolendo labili venute d'odio, e infatti cancellava ogni volta il rosso e il blu che si incrociavano violenti, usando il bianco di
una nocciolina nella tasca, il nero di un pensiero perso.
La ragazza dalle dita fragili, infilava perline sul tavolo di un'estate finita, le attese non sue su un letto
vuoto, le promesse di baci e suoni stracciati sul cuscino; si chiedeva come e le foglie rispondevano non
so.
La ragazza dalle labbra serpenti, si voltava di scatto al richiamo degli assassini -tutti- che riempiono
sempre i marciapiedi, offrendo loro il braccio dell'arresa, le cosce della conciliazione, ridendo poi, si allontanava asciutta.
La ragazza d'argento e miele, le finestre vuote, con le dita fragili e le labbra serpenti, raggiunse la collina delle tre croci, immolandosi alla sopravvivenza felice, ché veloce trascorre il tempo se non lo chiami
Altro special #2 pagina 8
Altro special #2 pagina 9
La puttana con le ali nascoste,
un pezzo di Ancora Mare
amore.
La bambina dalle treccine allegre, stava riempiendo il cielo di un giorno comune, con l'azzurro dei suoi
pochi anni e la luce dei sorrisi facili.
Si strinse dentro la neve di un'assenza, ma i suoi occhi rimasero curiosi come i camini spenti nelle case
vuote.
La bambina dal cappottino rosso, i disegni di alberi gialli sulle dita, si accorse di una farfalla viola, spenta su un vetro che la accarezzava. Decise di raccoglierne le ali per inventarsi un volo nuovo e una stagione.
Arricciò il naso al vento, e si eclissò.
L'uomo col naso rosso aveva freddo in una notte come tante.
Si girava dentro il cassetto di un sogno, rinvigorito da lettere di fuoco, parole senza senso, appiccicate a
un foglio ingiallito.
Le sue mani grevi, tremavano alla presa di un po' d'aria carpita al cielo, alla stretta di una morsa di fame.
Si chiese chinandosi alla terra, come avrebbe potuto oltrepassare le stelle per farne poltiglia da spedire
al mondo, come guardare uno specchio opaco senza sentirsi almeno un poco
solo.
L'uomo senza cappello dormiva all'angolo di due vite, entrambe chiuse senza occhi per le memorie o la
felicità troppo blasfema; in effetti le tasche non riempivano i vuoti, le briciole ai piccioni si incastravano
fra dente e dente e non servivano richiami.
Nemmeno l'urlo di una bimba dal cappottino rosso, il suo sorriso fra le lacrime, la manina vuota poggiata al muro disegnato di cazzi e voci in lontananza; neppure l'urlo che invocava un perdono.
L'uomo con la cravatta di un passato da signore, sorbiva dalle mani fuliggine, l'acqua che il cielo gli
mandava gratis, senza chiedergli in cambio null'altro che due braccia da inzuppare con la sapienza di
una caduta: si nutriva a tratti come si fa con gli uccellini delle gabbie gialle, appesi davanti alle finestre,
per immaginarsi voli che non faranno mai.
L'uomo dalle scarpe spaiate, usurate dai passi sopra le camere della speranza, non si faceva domande
sulla quiete, sulle campane delle chiese stonate, si infilava fra un minuto e l'altro, cercando il tempo di
non dormire, di non morire, di non essere nient'altro che
un uomo.
Ogni tanto alzava la testa per indovinare un bacio, allungava le labbra a chiederne al vento e lo trovava
fra nuvola e nuvola, perso da chissà quali labbra di donna infelice.
Allora l'uomo dai capelli sfilacciati, rideva di sè, delle tempeste, della masturbazione di menti troppo uguali, si beffava dei troppi amori sui cigli delle strade vuote, si infilava le mani nelle tasche vuote, bucate dalla soddisfazione, moriva piano, e lo sapeva. Ridendo.
L'uomo dagli occhi infiniti, si pettinava col sapore delle lenzuola bianche ad asciugare sui fili della quotidianità, non farne parte era il suo vanto, la sua assenza dai soffitti, gli occhiali da inforcare sui visi spenti; non sceglieva i paesaggi, solo si fidava delle montagne nude, delle ombre di alberi spenti, di una caramella perduta, e dolcissima.
L'uomo dal naso rosso, senza cappello, con la cravatta di un passato da signore, le scarpe spaiate, i capelli sfilacciati, mi regalò un abbraccio quella notte. L'unico vero.
Altro special #2 pagina 9
Altro special #2 pagina 10
Allucinazioni in corpo 8
un pezzo di Elianto84
[Sùffice]
Mi basta avere questa tua immagine che si staglia con forza rossa sui contorni delle case e dei tetti.
Dettagli, colonne d'acciaio, a inceppare l'incedere incauto del mio sguardo. E nuovamente parole
di un gergo perso ed arcaico, così inopportuno e stonato tra le sfumature di oscurità del cielo.
Soffice. Desiderio di stringere forte il piccolo splendore e morderlo,
averlo affianco al risveglio, e nuovamente su di me al tramonto. Soffice.
[me]
Utopia character.
Rivoglio tutti i miei accenti. Pretendo che li disponiate qui di fronte, su un tavolo di cristallo. I miei accenti.
Cosa pensavo iersera. Stordito tra lenzuola calde racconti russi di mercati e demoni e pastrani rossi. Ai bassorilievi.
A come io venga posseduto dall'evidenza di figure che si stagliano e d'un tratto inglobano i passanti e luccicano,
come i bagliori che danno inizio ai peggiori incubi.
Marcate per bene i contorni. Come accidenti si chiamava. La ridicola procedura aveva persino un nome.
Perfetto, eccomi ancora dinanzi ad un parete in maglia metallica, muro a frapporsi con accurato cinismo alla fuga,
ben conoscendo le mie misere capacità di scalatore, umiliandomi.
Mi frugo le tasche ed ho sempre meno. Non riesco a ricordare.
Penso talvolta a quando verranno a giudicarmi e mi porranno delle domande.
Ancora una volta saro' taciturno e nudo, e verro' condannato, anche se incolpevole.
A cosa devo questo. A cosa devo la tua presenza inintaccabile.
Aveva un nome, dannazione, aveva un nome.
[credo conti anche la velocità di esecuzione]
Veloce. Veloce. Di una rapidità impareggiabile.
Per restare a stretto contatto con le immagini e le lettere e le parole
fino ad estirparne quasi le radici e vagabondare in giro
mostrandole orgogliosi alla platea, ovviamente indifferente,
se non addirittura assente. Come le stelle a San Lorenzo.
O solo per completare con consapevole boria la nostra comparsa,
e subire, subire perpetuamente il fluttuare delle nostre passioni fisse.
[Le veglie ad una fattoria presso Dikan'ka]
Vegliatrici. Vegliatrici e marinai. Accuse di esoterismo. Column A.
Column B. Cosa ci sarà di diabolico e sinistro nei versi funebri
di un poeta di evidente ispirazione francese. Pastrani rossi.
Piove ed apro la finestra. Detesto la pioggia, quindi la sfido.
Feriscimi, trapassami pure, se ci riesci. Sono armato di una sopravvivenza sotterranea indistruttibile.
Rossa, sì, rossa. I miei occhi sono dovunque. Possono ucciderti solo schiudendosi.
[Au contraire]
Il vento sferza la mia pelle già ruvida, e c'è molto silenzio.
Questa successione di domande e repliche nei luoghi più impensabili
a tredici minuti le une dalle altre
è quanto di peggio io abbia mai
provato. Iperbole, giustamente. Devi tenere alta la soglia di attenzione su quello per cui tante volte ti ho ripreso,
e successivamente dimenticarlo, in fretta. Più in fretta che puoi, tra i tasti neri. Fiato in gola. Tasti neri.
[automatizzazione. quattro per favore, non due, quattro.]
lascia che scorra il gorgo che lega il tuo stomaco legacci fili di ferro spinato
reti da valicare stadi concerti estate amici baci livia veloce perso per sempre
e distinto, un distinto signore in giacca marrone ma quanto è ridicolo
e vanesio si rimira in ogni specchio e c'è buio c'è dannatamente buio
come quella sera in campagna la festa di daniela i palloncini amicizie straniere
la panda di nicola volevamo leggere in piazza maggiore tutti che leggono
i deliri di cody ed io che ho la voce bassa per due nottate in discoteca sono
stanchissimo veglia chirurgica in piedi con caffè you don't remember ma che rispetto
hai per i tuoi non possiedi davvero confini di malvagità saresti in grado di impiccare tuo padre
come giuda ma tuo padre giuda non è, soltanto burbero, vecchio, malandato e zeppo
di errori come sarai tu fra trent'anni e ti spaventa, eh, ti spaventa da morire.
Lasciati andare in un riposo drammatico tra la musica e la figura di Livia che
arriva due profondissimi bocconi di fumo e via la sigaretta via il dolore giù
a scrivere a rotta di collo come un disperato fantasma sulla montagna
che si è andato a cacciare dannazione non volevo dannazione io sono buono
Altro special #2 pagina 10
Altro special #2 pagina 11
Allucinazioni in corpo 8
un pezzo di Elianto84
sarò un santo vivrò per il bene di tutto avrò la politica perfetta dell'uomo morale
ma che uomo morale, che uomo infame. Un modo di pensare e di scrivere corretto raffinato
ma sono sempre i soliti quattro cardini doresti darti a qualcosa di grandioso
ma come darmi a qualcosa di grandioso se sono così misero e meschino
e mi vado a cacciare nei posti dei disperati, i più vuoti posti da disperato pazzo
e penso a Van Gogh e a Marzia che lo adora per la sua follia e il tagliarsi un'orecchio
è vero non si può fare a meno di un pezzo,
non si può fare a meno di nulla, siamo fatti per vivere agli opposti, per amare il bianco il nero
e nient'altro ma ripenso a quei momenti di infinita dolcezza e sono andati anche loro smarriti per sempre
tra la polvere nella quale adesso vivo e cosa se ne salverà dopo la fine dell'incubo
se ci sarà fine dell'incubo io lo ignoro. Un cielo rosso, magari,
sul quale piangere con compassione le proprie miserie riviste negli occhi di sfortunati banditori
banditori di sguardi e di sofferenze e di desideri brancolanti come lupi selvaggi.
L'uomo rinchiuso nella sua caverna tahitiana Gauguin, non ne ricordo mai il nome di battesimo,
Paul, già, Paul, la sua arte animalesca e di nuovo, pressante, presente, questa macchinosa
filosofia fatta di grandi costruzioni e virgole e punti fissi che quanto è inutile quanto
è incomprensibile ma come faccio a spiegarvi, come faccio. Insegnatemi
prima che io lo faccia con voi.
[la mia E è un ideogramma. La bellezza può ammansire.]
That's what keeps me down. To leave.
Mi leggerai Petrolio di PierPaolo ed io resterò in un angolo, senza porre domande.
E' cresciuto poco alla volta l'odio che tinge gli spazi cavi sotto i bulbi.
Alimentandosi con le visioni traslucide del lago ghiacciato in Central Park.
Meno tre. Si approssima la necessità di una resurrezione. Qui nel mio nido
spazzato dal vento gelido, il più vasto e grave. Le mani affusolate e nere,
gli occhi che si contorcono ad inseguire le raffigurazioni di coloro che.
Potrebbero. Avere bisogno di me. Ancora per qualche tempo. Con una ragione
molto rafforzata scocca il secondo rintocco. Pile di oggetti inutili e rinsecchiti,
ognuno a contenere una parte del mio corpo. Le mie gambe che tremano. Ed è strano,
in genere accade prima, devi averle molto allenate prima di giungere qui.
[l’illuminazione dei giorni a venire]
Erano già le quattro. Ut precipua nostra. Si sbarazzò del maglione scaraventandolo sulla scrivania, aprì la finestra. Sospeso
a quattro metri e mezzo, tratteggio più tratteggio meno, lasciò che il vento scorresse attraverso le braccia, il petto, il dorso.
Innervosito da un sonno che tardava a venire ben sapendo che lì in fondo, superati i tetti grigi i vicoli la collina il grano i
ciottoli e i lastroni. Il mare imbiancava, celato da un buio vibrante e agglomerato in Costellazioni di Orsi. Così, col muso immerso nei gerani, comprese d’impatto che la fissazione per le quantità pari non era casuale.
Due. Impresso con grande forza, a caratteri gotici. Due. C’est a couple. Vorrebbe estromettermi. Altro che cabala. Pensò ai
delfini che si portano a riva compiendo larghe volute due dita al di sotto delle onde, e scelgono. E non hanno più mattine da
affrontare. Si frantumano in un milione di speroni e scogli – un trambusto lacerante – cosa d’alta classe non ferirsi mai.
Considerò allora la possibilità di affrontare qualche frontiera di separazione, qualche sentinella, qualche rivolo di lacrime. E
andare a coricarsi sul bagnasciuga, con lo spirito tetro del che fu.
Pié di pagina a proposito delle novità editoriali relative al cenacolo e alle cose che andrebbero lasciate… “A chi se ne intende.” Sarebbe a dire?
Odio questi due edifici – tu, e il fiato che manca –
il mescolarsi delle mie armi negli anfratti della metro.
[tissue]
L’antico Michele venne meno nell’istante in cui realizzò che l’autentica realtà è custodita dai sogni, mentre la vita d’ogni
giorno tende raramente ad avvicinarsi alla concretezza della poesia, tramite quelle illuminazioni che molti, forse troppi, catalogano come fantasie.
Elianne fissava ancora il vetro sul quale la pioggia creava e disfaceva, in un attimo, personaggi di perduto splendore. Michele si crucciò un poco sentendosi ormai lontano dalla giovinezza e incapace d’afferrare spettacoli impalpabili come quello di
uno scoscio d’acqua. Volle quasi lagnarsi per la pesantezza che quel graffito sulla parete più in ombra, non si vede nulla, gli
conferiva. Ma preferì tacere assistendo con indifferenza alla bellezza che faceva capolino tra la bocca così rossa di Elianne e
il geometrico sconcertante tessuto del ragno, da sempre amico fedele dei condannati.
Senza che vi fosse verso di raggiungere un maggiore disordine, o anche solo schiodare il vecchio tavolo dal suolo, i passi
del secondino risuonarono dal corridoio. Una condanna annidata nella condanna.
[A new Kanji was born]
Altro special #2 pagina 11
Altro special #2 pagina 12
Allucinazioni in corpo 8
un pezzo di Elianto84
E’ sconcertante la rapidità con la quale la sua grafia mutò, inseguendo senza sosta l’inclinazione a cedere ai diversivi del
tempo, delle rive. Sulla baia incastonata tra farfalle e rami di pesco in fiore, segregata dalle avvisaglie di una stagione che
mai ci strinse le mani, un’enorme barca azzurra, munita di un’altrettanto maestosa vela puntuta e rossa, a beffarsi del rigore del maestrale. In un perpetuo moto di violino. Come immersa nella nebbia.
Persino le propaggini del mandorlo, all’esterno delle mura, si divincolavano da pose contorte.
E ancora oggi, mentre fuggo via da me stesso, sotto i portici sconnessi e bui di una città come tante, tra i biglietti delle
scommesse perdute, i volti di coloro che mi rappresentano in una forma più contratta e sofferta, i ricordi che prendono a
girare a vuoto, non capisco quale dovrebbe essere il mezzo per imboccare la tanto agognata retta via. Non scorgo logica
dietro la sfiducia che persino i semafori sembrano riservarmi.
Oggi ho scoperto che i percorsi di una palla da biliardo celano il segreto della trascendenza dei numeri.
Alchè il panorama di ingiustificata follia si è istantaneamente ampliato, correndo veloce sulle note del Niagara Memorial
Concert. Se possono starti arbitrariamente vicino senza mai riuscire a toccarti resterai per sempre un segreto.
Molto vero.
[panico ed emersione]
E’ già quasi svanita la sensazione del dramma, assieme al colore più acceso. Ma è il caso che racconti ugualmente.
Mi trovavo molto lontano dal mare. Infreddolito, senza spiccioli, colpevole di tutte le condizioni. Decisi di rintanarmi in quella che un tempo, quando vivevo diversamente, era la mia casa. Una copia delle chiavi era dietro l’estintore. Non so perché
quando me n’ero andato avevo voluto riservarmi una così tagliente possibilità di ritorno. Fatto sta che, seminato vento, mi
convinsi che non sarebbe stato male concedermi un paio d’ore di conforto nella grotta. Forse avrei trovato anche delle coperte. Dall’interno non provenivano luci, né suoni. La tradizione voleva che in quel periodo dell’anno i proprietari non vi fossero. Sarei stato un visitatore invisibile.
Infilai le chiavi nella toppa. Sembravano non voler girare. Che tragedia, hanno cambiato la serratura.
Ma insistetti, feci un po’ di pressione. Tre mandate. Una. Due. E il boato.
Credo che le urla rientrino tra ciò che in massima misura può sconvolgere un fantasma.
Mi trovai a pochi passi da una donna paffuta, bruna, probabilmente coricatasi da poco. Un latrato di impressionante ferocia.
Mai vista. Farfugliai qualcosa che ora non ricordo, richiusi la porta con garbo e mi precipitai giù al secondo piano.
Cercando di non dare nell’occhio. Durante la discesa incrociai Livia, la salutai. Ricordati della foto, mi disse.
Poi pensai che la donna paffuta avrebbe potuto chiamare qualcuno per segnalare la mia inconsueta presenza.
Percorsi dunque il lungo corridoio e, senza accendere luci, imboccai le scale d’emergenza, a chiocciola.
Quando fui al pian terreno mi resi conto che da quel sottoscala non c’era più modo di uscire all’esterno, avevano
bloccato la porta sul retro. Lavori in corso. Maledetti. Dovevo passare per la portineria. Questo mi seccava.
Mi seccava e mi rendeva nervoso.
Decisi di aspettare. Non so bene cosa. Mi feci luce con l’accendino. Riprese le redini della mia razionalità da uomo evanescente, calcolai quanto segue in merito alla presenza del portiere. Se c’è, la donna grassa non l’ha ancora chiamato, io non
ho motivo di temere alcunché e posso uscire placidamente. Se non c’è, o sta salendo le scale per recarsi dalla donna grassa, o sta sbrigando qualche faccenda chissà dove. E posso uscire placidamente.
Alla luce di ciò mi feci forza ed uscii. Il portiere non c’era. Tornai in stazione, efficacemente dissuaso dai miei intenti.
Il cuore mi batteva forte, ma quando cominciai a considerare le possibili conseguenze del mio gesto mi sfuggì un sorriso.
A) Prima realizzazione circa l’identità della donna grassa. Anche lei era un’intrusa, al pari mio.
B) Motivazione. I condomini sanno bene che le porte non vanno mai chiuse a tre mandate, dato che, per difetto di
collocazione delle serrature, in quella posizione tendenzialmente si incastrano.
E’ il primo avviso del portiere ai nuovi arrivati.
C) Seconda realizzazione circa i testimoni del mio potenziale reato. Grazie al tortuoso percorso da me seguito,
soltanto Livia. E Livia per me giurerebbe cose indicibili. Sono al sicuro. Peraltro molto azzeccata anche la scelta
di aspettare qualche tempo nel sottoscala, in modo da neutralizzare il portiere. Tutto a puntino.
D) Terza realizzazione circa chi potrebbe accusarmi. Ipotesi 1. La donna grassa. Se è valido il punto A), non è nelle
vesti di chi possa accusarmi. Anche a meno del punto A), difficile che sia riuscita a vedermi in volto. Ho richiuso
la porta con relativa rapidità. Ed ero controluce. Ipotesi 2. Il portiere su segnalazione della donna grassa. Anche
qui deve venir meno il punto A). Il portiere in effetti è l’unico che possa sospettare di me, dato che sa che la mia
figura coincide con quella del vecchio proprietario, ovvero l’unico che può possedere una copia delle chiavi.
La semplice scappatoia a questa imponente macchinazione ai miei danni risiede nel fatto che il portiere non mi ha visto.
Sono entrato ed uscito in sua assenza. Potrei negare qualsiasi cosa, se mai si rivelasse necessario.
Terminate le considerazioni, mi sentii allo stesso tempo sollevato dalla colpa e depauperato d’ogni possibile desiderio di avventura, eccetto quello di dormire. Rimediai un cartone e mi accucciai in un angolo. Senza nessuna morale da testimoniare.
La mattina riconobbi chiaramente la sagoma della donna grassa tra quelle che affollavano il mercato.
Avvenne un impercettibile scambio di attenzioni, a distanza. Poi più nulla. Avevo ragione.
Ero un estraneo.
Altro special #2 pagina 12
Altro special #2 pagina 13
Allucinazioni in corpo 8
un pezzo di Elianto84
[Considerazioni sulla variabilità
della magia sotto l’effetto della
nebbia e degli elementi
architettonici]
Ho poco tempo. Questo dovrebbe incitarmi a contrarre le
costruzioni. Di buona lena.
Ero sul fiume, sul ponte, con molta nebbia a offuscare le
distanze. E riflettevo sul fatto che questo colpo di tosse
potrebbe essere lo stesso colpo di tosse di un grande scrittore francese, o del peggiore derelitto che il mondo possa
aver partorito. Altra magia che mai mi sarei sognato
di rivelare è che il germe della società come comune
spasimo è esattamente agli antipodi col segreto del nulla
che, perlomeno nel mio caso, si è rivelato tramite
i medesimi strumenti. Il guardarmi dall’esterno.
Che queste cataste di mattoni e ruderi e il buio non mi
concedono. Nel luogo delle gabbie dei prigionieri, nelle urla
stinte, mi sento protetto. Sono polvere.
O un granello di sabbia che corre con passo meccanico
verso l’ennesimo lasciatemi perdere,
desiderando ardentemente di restare in cima alla duna.
E tanto scomponendosi, egli sprofonda.
[Storico]
Sottoposto alle mie pressanti richieste egli non mi fornì
repliche, né motivazioni.
Ad oggi le conseguenze mi terrorizzano.
Domani sfiderò Dio e creerò un giorno
Che si ripeta perpetuamente
Senza dolore, senza coscienza
Una persistenza di sassofono eterna e incorruttibile
Dove ad ogni attimo sia tribuita
Giustizia. Non mi fermerò neppure
Davanti ai tuoi occhi
Ai tuoi latrati di cane inferocito.
[Vertigine]
Mi arrampicai sulla prima rete, sulla seconda, tentai di raggiungere il tetto. Un cancello me lo impedì.
Ma ciò non aveva importanza. Ero divenuto un gigante, con
grosse difficoltà a girare per strada. C’era una sorta di ponte tra due edifici, com’era in uso durante il medioevo tra
palazzi di nobili famiglie congiunte da un recente matrimonio. Con la mia statura non sapevo come valicarlo. Guardai
giù dalla prima rete,
quindi dalla seconda. La visione del terreno mi fece sentire
uno scheletro vuoto, sferzato dal cielo,
così azzurro stamane.
Talvolta
un pezzo di OssoDiSeppia
Dalla stanza chiusa bisbigli.
D’indaco mi pungono la pelle, come le gocce
sull’ombrello, come la pioggia di mattina, la strada
che sfugge nelle pozzanghere di nuvole.
Brevi cerchi argentini, collane di un gioco ancora un
po’ rauco, le vostre voci. Si spostano nel silenzio di
una domenica mattina, la dilatano allungandola sino
a che non resta più traccia del giorno prima.
Sul balcone il geranio lucido, nella tazzina tintinna il
mio ricordo. Di un riso nervoso, una corsa per le
scale, tu che mi guardi allegro, le mie dita sudate.
Nelle vostre messaggi frenetici, diari sfogliati, il
burro cacao. E i sogni più nudi, che si sfaldano sotto
l’ala del giorno quando riscalda i cuscini.
Tremate, abbandonando la notte.
Il latte scaldato nel microonde, il peluche sul
comodino. E complici di un senso stupito, di uno
specchio fidato, inzuppate biscotti nel caffellatte.
Tremano le spalle sulla sottoveste bianca, l’ombretto
accennato. I tacchi inclementi.
Rotolano sul pavimento e si infilano dietro le tende
improperi su chi non chiama, su chi non risponde.
La stanza si richiude, la porta cigola divertita, poi si
gonfia nel tonfo.
Io mi appoggio allo stipite, un nastro
di menta fradicia in bocca.
Il silenzio, ancora, nel corridoio: un uomo e una
donna in un bar, di verde straziati, trattengono la
notte degli sparvieri.
Altro special #2 pagina 13
Altro special #2 pagina 14
Charles Bukowski
Sudario acquatico
un pezzo di OssoDiSeppia
1920-1994
ogni uomo deve capire
che tutto può sparire molto
in fretta:
il gatto, la donna, il lavoro,
la ruota davanti,
il letto, le pareti, la
stanza; tutte le nostre necessità
amore compreso,
poggiano su fondamenta di sabbia e ogni causa determinata,
per sconnessa che sia:
la morte di un ragazzo a Hong Kong
o una tormenta a Omaha...
può essere la tua rovina.
tutte le tue stoviglie che si spaccano
sul pavimento della cucina, la tua ragazza entra
e tu sei là, ubriaco,
in mezzo alla stanza e lei domanda:
mio dio, cosa succede?
e tu rispondi: non so,
non so...
Sotto i piedi di un
mare assordante.
Con un tentacolo di sangue nero
sbocciato su un colpo di vento.
Su piccoli pesci schiamazzanti.
Nell’onda che non sa risalire su in gola, stracci.
Fortuiti scambi in prestito,
dopotutto.
Valgono quanto i nostri.
Secca e sfogliata di
marrone ammassato
nelle nocche
sulla bocca
dove
frenetici insetti
scappano tra i denti.
A passi veloci
domando bisce vendicative
nel molle acquitrino
del seno
il peso dell’acqua.
Rafficano delfini furibondi
dal cielo
e muoiono
in cerca d’aria.
Di una sola goccia perfetta
di rancore.
Julio Cortázar
Da una ventina d'anni, Parigi è la scena di un pellegrinaggio discreto che può passare inosservato al
culmine dell'effervescenza turistica. Si svolge al cimitero Montparnasse, davanti a una tomba, quella
dello scrittore argentino Julio Cortázar, scomparso il
12 febbraio 1984. Sul suo sepolcro, i pellegrini depongono alcune righe scritte in fretta su un pezzo di
carta, convinti che il sonno eterno dello scrittore
non impedisca di comunicare con lui. Sono lettori
venuti da ogni parte del mondo - spesso scrittori.
Altro special #2 pagina 14
Altro special #2 pagina 15
Maybe Sultans
un pezzo di Summerlude ed Elianto84
Disteso il braccio verso il calesse del sole.
Caterina si svegliò d’improvviso. – Sei solo una ragazzina viziata Scrisse sul muro apertura del diaframma – livello di aberrazione – sentenza.
Chissà se avevano litigato. Tipicamente negandosi gli sguardi. Oppure un lungo incubo. Tremava di freddo senza più Stefano al suo fianco. Senza più braccia che la esplorassero. Era avvolta in un sacco a pelo viola, un grosso bozzolo per una crisalide minuta.
Perquisì la stanza di quegli estranei a partire dagli angoli polverosi, cozzando contro i piatti di ceramica danese alle pareti e la fiammella
azzurra della stufa a gas, fino a soffermarsi su una bottiglia di vodka, quasi vuota, nel mezzo della stanza.
Due o tre metri più in giù si stendeva un deserto di corpi ammonticchiati, sicuramente poco senzienti. Forse si trovavano lì per vigilare sul
ragazzo bruno, semisdraiato a due palmi dalla bottiglia di vodka, che pure non sembrava troppo interessato all’evolversi della storia. In un
maglione nero a collo alto. Con gli occhi verdi intensi, rigati, immobili, come scolpiti. Lei schivò qualche lattina di birra e provò ad incrociare lo sguardo di Michele.
Il progetto parve non aver successo. Strisciò allora verso la stufa, intenzionata a sfidare la notte con la musica. La radio passava The Great
Gig In The Sky. Lei era bellissima. Una stella del soul. Ma aveva voglia di vomitare tutti i fantasmi del tramonto, tutti insieme, tutti in un
colpo. Scagliarli giù dal carro in volo all’improvviso. Chissà chi li avrebbe accolti.
Stefano infilza ali e foglie, antenne e ricordi. In ordine, in fila. Il sapore piatto del caffè solubile e la sua collezione di farfalle. La curiosa
serietà degli insetti, e gli amici di Caterina, più bruchi che farfalle. E lei, farfalla precoce e inconsapevole – era incapace di badare a se
stessa, Stefano doveva occuparsi di lei. In ordine, passo dopo passo, senza fare rumore. Ma Caterina sgusciava via a ogni tentativo di salvezza, con disarmante rapidità, come il topo davanti al gatto. A passo di tango. Hickory, dickory, dock - The mouse ran up the clock.
I topi mi insegneranno il tango prima di abbandonare la nave?
Dazed and Confused.
Le guance arrossate dal calore della stufa.
- Hai freddo?
Appena un sussurro. A due dita dalle spalle.
Il ragazzo con gli occhi verdi, d’improvviso fissi nei suoi, appoggiò con dolcezza il braccio sul petto di Caterina, carezzandole il seno. Lei
chiuse gli occhi avvolta dal tepore. Allungò le gambe verso la stufa, fantasie, mentre il ragazzo tuffava il naso nei suoi lunghi capelli arruffati e la stringeva a sé, sempre più forte. Caterina prese a pensare alla casa dove passava l’estate da bambina, al frinire idiota delle cicale,
alla coperta che la avvolgeva nelle sere fresche di giugno. Il naso del ragazzo le sfiorò la guancia. Lei quasi non si mosse. Reclinò solo un
poco la testa, come a porgere il collo alle labbra di lui. Restando in attesa.
Michele pensò allo spettacolo teatrale e alle corse a perdifiato per i vicoli, come immaginava nella Rue Morgue. Si ritrovò a casa del ceffo
che indubitabilmente lo terrorizzava, questi non deluse le aspettative e lo schernì a lungo, pur permettendogli di fuggire.
Magramente nascondendosi dietro la ragione che dev’esserci qualcuno a testimoniare la crudeltà. Circa alle sei del mattino seguente Michele bussò con forza alla saracinesca di un bar dov’era stato mesi prima, con Caterina. Visibilmente scosso e con un aspetto che sapeva
d’impiastricciato.
Il proprietario alzò la serranda con fare indispettito, stranamente riconobbe il cliente e lasciò che si accomodasse. Accese un paio di luci.
Gradisce un caffè? Anticipando la richiesta prevedibile.
Grazie. Anche per avermi aperto a quest’ora. Non si preoccupi, capita spesso.
Il sole era ancora basso.
Nel locale entrò una ragazza, si sedette sullo sgabello accanto al suo.
Anche lei non pareva in vena di commenti loquaci. Michele vi riconobbe Caterina, le sorrise. Forse contraccambiato, impercettibilmente. Il
bancone del bar, superficie di specchi, a riflettere i loro corpi, accovacciati sugli sgabelli. Le loro teste tagliate via dal ritratto, una foto
scattata da un bambino. Caterina. Michele serrò i grandi occhi verdi, meccanicamente. Come una bambola di plastica, al momento di andare a dormire. Dischiuse le labbra, assaporando.
La città era lontana, aveva dato le spalle al suo mare e si era chiusa nel teatro dei festeggiamenti. Caterina sentiva gli occhi di sua madre
ancora fissi su di lei – basta mamma basta – con l’ansia di uno sbirro in pensione che deve dimostrare di avere ancora il fiuto di un tempo,
le domande sempre più strette intorno al suo collo, a soffocarla, un processo ad ogni accento della sua voce, a ogni minima esitazione. Casa sua, il palcoscenico più duro. Poi in strada, gli occhi cerchiati di viola, cerone bianco sulle sue guance, un mimo muto e malinconico:
era più facile fingere davanti a chi non la conosceva. Ora il suo palcoscenico era il molo, i suoi riflettori le luci delle barche dei pescatori,
che dondolavano indecise. E il suo pubblico: un ragazzo conosciuto due giorni prima, che non distoglieva mai da lei lo sguardo colmo
d’attenzione e di ironia mentre Caterina si lasciava scivolare in una goffa danza, incurante delle gocce di pioggia e di cerone che le colavano sul volto. Una bottiglia di spumante di bassa qualità.
- Cosa c’è, non ridi più? Perché?
– Ascolto. Non voglio che il tempo passi più in fretta per le mie chiacchiere
- Vieni, piccola, vieni qua - l’illusione di una felicità sicura ed eterna.
Michele si diresse verso il sorgere del luogo pubblico
con le porte marmoree tinte di nero, incise a scalpello
(Continua a pagina 22)
Altro special #2 pagina 15
Altro special #2 pagina 16
Calalunga
un pezzo di OssoDiSeppia
Ha voci argentine questo labirinto
d’ulivi arricciati,
rubano luce alle nuvole nere
e l’accrescono sulle rocce bianche
frastagliate
in costoni placati nell’acqua.
Noi scendiamo un mattino
il sentiero di vetro striato
di brevi fiori silenziosi
tra cascate di capperi e
chiazze di mandorli ormeggiati.
Ci pizzica la nostalgia di noi,
la spiaggia su cui la pioggia
ha versato ieri
macchie di caffè,
la bassa marea che
ci accumula lunghi i baci
tra le dita della schiuma.
Ci diciamo che il vento
grezzo dei pini allegro
si attorciglia alle gambe,
che formicola infantile sollevando
dai trabucchi di sponde vicine,
saccheggiando, le età, i moti, le scie.
Conserveremo del disincanto
il clandestino germinare.
La Rondine e la Rosa
un pezzo di Katy87
Lo stelo verde di una rosa
Si staglia in alto
Spunta una rondine
Che leggera si libra
Nel cielo profondo
Vola
Quiete stregata
Ad ogni battito d’ali
Gravità in lotta
Le ali vaganti
Fendono l’aria:
appagante silenzio
nella limpida luce
il paesaggio lontano
è tremulo e filigranato
labirinto inestricabile
di colori
lì in basso
il caos
la rosa guarda invidiosa
il volo bianco della rondine.
Luis Mateo Diez
Il sicario
I dati erano sbagliati e uccisi un uomo che non era
quello previsto. Questi lavori così rapidi, così segreti,
ti portano spesso a commettere errori irreparabili.
Ricordo un caso lontano in cui l'errore si ripetè tre
volte. Tutte le vittime mi guardarono con stupore e
solo quella giusta lo fece con tranquillità.
Ti aspettavo - sussurrò quando gli conficcai
il pugnale.
Come sempre dopo aver finito un lavoro, andai a
ubriacarmi; alcuni giorni più tardi, quando mi ripresi
dai postumi della sbornia, tornai a casa e trovai una
lettera spedita la data stessa della morte.
Ti perdono per quello che stai per fare - diceva, - ma
ti maledico per come l'hai fatto male. Un morto che
costa tre morti non è un morto innocente. Oltre a
uccidermi mi hai fatto sentire colpevole e
profondamente infelice.
Altro special #2 pagina 16
Altro special #2 pagina 17
Venatura
un pezzo di OssoDiSeppia
Divagazioni
un pezzo di AncoraMare
Mi sorprendi la preghiera nell’acqua
Graffiata dai miei piedi
Bambini incuranti
Un filo d’aria sulla bocca
Di grani d’uva e di fichi
Un filo di fiori piccoli
E bianchi di brezza
Nell’acqua smagliata
Sotto il cielo pigramente a ventaglio
Deponi il mio nome
In un flutto di tepore
Serbalo nelle mani curvate
Che scorrano il contorno della nuca
L’affanno della cresta dell’onda
La voce frugata del mare
E nel quieto chiudersi dei lembi
Trasparenti di platino
Diramane i bordi
Cancellalo nella superficie
Liscia dei miei fianchi
Nell’incavo del mio ginocchio
Cambialo sotto la tua pelle
Sfumane l’impeto in riparo
Così che io sia
Venatura ospite in te.
Il figlio bugiardo della fortuna, si piegò alla luna troppo pallida perchè si rifiutasse di parlare, ascoltò lento
la luce, perdendosi sulle foglie morte e una lumaca.
Il figlio fragile della paura, si addormentò così, su una
panchina scolorita dalle attese eccessive, infilandosi le
mani nelle tasche affamate. Così lo trovò una nuvola
sparita per un giorno, e ricomparsa proprio sulla piega
della stagione matura.
Il figlio appariscente dell'arresa, si ritrovò rugiada fra
le ciglia accese, una virgola di sole sulle labbra e una
ragione per infilarsi le scarpe. Le sue mani stringevano
un foglio sottile di vento, una scheggia di speranza e il
calore nuovo di un sogno.
Il figlio inventato della verità, si accese un fuoco di
parole e sensazioni, meravigliando i fazzoletti usati, le
vedove a passeggio vuote, i consiglieri di ogni mattina, tutti, evitando di cercarne il senso, incominciò a
correre senza sentiero o storia, correre al cielo azzurro
cielo, correre con il cappotto a pezzi e le domande.
E non si fermò.
L'immagine di capelli appesi, specchiava ricordi e allegorie di albe inventate, coi ghiaccioli ai denti, le
domande sdrucite, i violini e i baci.
La parvenza di un sorriso accorciato, finse amore all'ingordigia d'occhi inesistenti, credendo fuochi fragili,
stordì quel poco che restava, briciole su una foglia
d'autunno.
La sensazione di una voce fottuta, appiccicò le dita ai
seni, come gli orgasmi vuoti dopo la paura, i segni
d'oro sulle cosce ingigantite dall'oltranza, poi si spense
afona e sottile.
La fantasia di mani infelici, raggiunse il lago buio dell'arresa, percorrendo cieli insensati, stelle da pregare,
codici deliranti, per piegarsi lieve alle fatine della pioggia.
Coi capelli appesi da un sorriso accorciato, la voce fottuta e le mani infelici, Flavia si abbandonò sul vento
come un temporale d'agosto, fingendosi inverno,
cominciò a volare e si placò.
She’s gone to the seventh floor to see the sunrise through your mountains
Altro special #2 pagina 17
Altro special #2 pagina 18
Orchyd – Onirofagia
un pezzo di Elianto84
... i can smile and kill when i smile …
Non la voglio nemmeno vedere, mi ripugna. Dai Lucia che ti fa
bene. Ho detto di no (alza il volume dello stereo fino a spaccarsi i timpani). Solo una volta, ti assicuro che ti piacerà. Non fa
nemmeno male. Chiara, ho detto di no. Per favore Lucia, non
essere testarda. CHIARA FINISCILA, CAZZO! Le sbatte la porta
in faccia. Lei cade a terra, colpita al naso. Porta le mani al viso;
quando le allontana, le trova piene di sangue. Lucia, combattuta tra il prenderla a calci e il chiederle perdono, una vigliaccheria qualunque. A cavallo di una smorfia si presentano tutte le
umiliazioni del mattino - union madness - lo sporco della vecchia casa, le menzogne della madre - lo specchio trasuda
un'immagine goffa e deforme - il limite del parossismo è valicato. Un appunto in quarta di copertina grida stridulo: "venti anni
fecero di Telemaco un bulletto di periferia, un espiantato". Sogna gesti da battesimo di fuoco, sogna carovanieri senza scrupoli, sogna abissi oceanici. Che la portino via, Lucia. Lontano
dalle bocche lucide delle orchidee, fiori mostruosi. Che la portino via. Spalanca le ante e si tuffa nuda sul terrazzo, dove il
freddo spugnoso della sera la schiaffeggia. Sul pavimento si
dibatte una macchina scrupolosa; distese di sabbia desertica,
dune di attimi imprigionati, si spandono tutt'attorno, da monito.
Schiacciata liquefatta e svanita Lucia si stende a terra. Certo
che sei strana. Adesso ti metti a dormire? Magari potessi, cucciolo di serpente. Sto bene qui - una mattonella mi trafigge una
spalla (ricordi gli artigli dei gatti?) - avvinghiata al mio sangue
non ho risposte da attendere, né domande da scagliare nella
pattumiera, paura. Giaccio come seppellita da strati di cerone il peso opprime i polmoni - sono un buffone senza corte, un
paggio senza destriero. Ghiaccio senza risveglio. Nel riporre i
pezzi salienti abbiam perso qualcosa, ne sono sicura. Lucia
cos'hai? Guardatela caritatevole, col naso sfasciato si preoccupa
di me. Lacrimevolmente tempus fugit. Non voglio che dopo la
morte ci sia qualcosa. Sono stanca dei qualcosa. Sulla balaustra
c'è un sottile strato di polvere, appiccicaticcia. Il seno di Chiara
è stupendo, marmoreo. In un angolo della stanza quattro o
cinque coperte, accatastate. Basta scostarle di pochi centimetri,
un sorriso, ed i gesti attraversano una rapsodia frenetica; le
mani si moltiplicano, si combattono, si trafiggono. Un appunto
in terza di copertina agguanta le braccia di Chiara, immobilizza
le spalle di Lucia. -.. quale allor ci apparìa la vita umana
e 'l fato ..- Una quercia di viale Itaca stilla ancora ambra dal
profondo squarcio in mezzo al petto; due lettere tremule,
impiantate a colpi di taglierino in una mattina che piovevano
spirali di tempo. C, L. Lucia immerge il viso in un geranio, la
labbra sono sottilmente dischiuse. Mattonelle fredde, un piede
accarezza l'altro. Che matta che sei. Ti lascio ai tuoi fiori,
m'infilo sotto la doccia. Quando ti passa fammi un fischio.
-.. sempre caro mi fu quest'ermo colle ..- La sera si accende di
sogni precipitati, s'accorge Lucia di serbare in grembo Icaro.
Una goccia di sangue sul dorso della mano è principio e conclusione dello stesso viaggio. Chiara, aspetta. Che vuoi? Ti ricordi
il nostro primo ..? Certo, in spiaggia, dopo scuola. Ero triste per
te. Chiara, ho smesso con le favole. -..sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno, al tuo perpetuo canto..- La mattina
dopo mi hai regalato un'orchidea. Non è ancora appassita.
Lucia scosta un paio di coperte con le braccia, è rimasta a terra.
Chiara non ha più voglia di fare la doccia.
... i can smile and kill when i smile ...
Salemiele
un pezzo di AncoraMare
Cadimi
addosso
come il silenzio
di mattine
nuove
i fiori spenti
le paure
cadi sulle guance
come la luna
adesso
liquefatta d'aurora
si assopisce
coprimi
l'anima
di temporali
e congetture
solcami
goccia
salemiele e noia
Altro special #2 pagina 18
Altro special #2 pagina 19
Devo
un pezzo di Faber
Segnali di fumo
Si stagliano su tramonti
Emozionali .
Contrasti di luce formano
Figure
incerte
impercettibili
irraggiungibili .
Pochi le vedono .
Nessuno le sente .
Troppi le ignorano .
La ruota gira ,
Sottende
Andate ,
Ritorni impossibili,
partenze ineluttabili .
Da folte chiazze sempreverdi
Le radici si contorcono ,
urlano
ci richiamano alla terra .
Non posso ,
non voglio .
Devo .
Sunset Lips
un pezzo di Faber
[Labbra rosse del tramonto]
L’ombra dell’amore
attende sulla collina
là dove
le nubi si intersecano
nell’ordito purpureo
d’ un tramonto invernale.
Foglie al vento
i nostri pensieri.
Ascolta nell’aria
la melodia
che
al fianco dei pini
sussurra
le vecchie parole,
le nuove stagioni.
Pietre d’un tempo
osservano impassibili
l’evolversi delle cose.
Il bianco scialle
copre delle case
le anziane spalle,
si posa sui tetti che ricordo
sui sentimenti
che non scordo.
Si leggon sui muri
narrate
storie
incantate.
Si cercano in cielo
futuri improbabili,
sogni
sottili e forti ,
pescati in fondo
ad un cassetto,
custoditi in petto,
nelle tasche
piene solo di polvere
e buone intenzioni.
Così osservo il mondo,
la solitudine
delle mie mani
E la frenesia
delle mie scarpe.
Così osservo il tramonto,
labbra rosse che baciano
un’altra notte.
http://elianto84.altervista.org
Altro special #2 pagina 19
Altro special #2 pagina 20
I Fratelli
RÊVE numero2
Un pezzo di Giancarlo Ferrigno
un pezzo di Elianto84
Il mio caro amico, veste nero,
descritto, ora, ancora in fasce,
lamenta uno strano gusto. Di vero,
trascura la festa, di chiunque nasce.
Sogno con D che intreccia del cuoio attorno alla mia
vita, mio padre che armeggia con un coltello e mi
porge una manciata di domande (sono sgomento).
Sono seduto ad un tavolo di vetro, circolare, in
compagnia di M e G, sembra Racciatti dalla luce che
entra dalle grandi vetrate. Contro una di queste un
divano, foderato di rosso. Dal tavolo a sinistra
(questo rettangolare, e ingombro), dove sono seduti
dei ragazzini del mio paese, un volto indispettito si
rivolge a me con uno scioccante "Ma tu sei quello
che". Supero l'imbarazzo con un sorriso da sbruffone e farfuglio qualcosa su un concerto e su mia cugina (m'invita in un condominio che è un mezzo tugurio, aggiungiamo un letto prendendolo da una
stanza vicina, compare il volto di C, severo, imperioso, scende la notte polverosa e calda. Al risveglio
bussano svegliandoci e fanno delle domande alla
ragazza, chi è lui e dove avete preso il letto, lei ribatte sdegnata, il tizio della vigilanza scompare assieme al primo atto. Il primo atto muore sul mio
braccio scomodo sotto al cuscino, tra le labbra di A).
Racconto di conoscenze illustri. E' estate nel secondo atto, il secondo atto prende avvio dal momento
in cui mi addormento sfiorandola. Forse vorrebbe
che fossi ancora più sfacciato. Dovrei confessare a C
dove dormo. Loro sono le entità complementari preposte alla mia sorveglianza. Il divano è in un angolo, in penombra nonostante la stagione. Following
others you won't be EverFirst. Letto oggi nel sottopassaggio.
I fratelli, assaporando, il pane,
notarono, che non c’era la lista,
della ristorazione. Il tale cane,
controllato senza parole, a vista,
rubò il cartello alla parete,
stupido! Il pesce nero, cadde a rete.
Perdeva facilmente il controllo,
forse, fu quella la causa, del suo crollo.
Si faceva chiamare, l’uomo ferro,
così perse, anche nel dopo, il carro.
Ricordo, quando : il mio lui suonava,
a volte, mi stupiva, perché cantava.
La caccia al falco
un pezzo di Giancarlo Ferrigno
Scoppia un incendio, i due demoni,
nella peste funerea,
seguono come conigli, a piedi, il defunto.
Con il loro passo corto,
come quello dei cavalli bianchi,
durante una caccia, sulla bassa marea,
e su secche pianure, i sensi distorti, galoppano.
Pesco! Anche da morto.
Noi siamo come il diavolo greco,
che in dissonanti giostre e balli,
con il suo prostituire piacere, alla voce parlante
dei galli, artiglia il destino. Siamo come i cavalieri
e ultimi signori dell'inferno,
non accettiamo offese, ci ribelliamo alle feste
con il freno.
Eppure! Qualche violento falco, ci troverà. Ad occhio,
comprenderà il nostro lavoro. Poeta e fratello,
mio complice, nella nostra avventura, il mai vecchio,
con le sue memorie, all'acqua e all'aria brucerà.
Ti dono lo stagnolo, oh! Anello.
Altro special #2 pagina 20
Altro special #2 pagina 21
Entravo in San Lorenzo, il bruno e luccicante teatro di
San Lorenzo. Fidi occhiali scuri seguivano la mia camminata
ciondolante, e il capo chino. Mi diressi verso la piccionaia, solo.
Diverse dame del mondo nuovo e signori infagottati stettero a
fissarmi mentre arrancavo per le scale. Non sapevo se dar colpa
all’asma, agli occhiali o al fatto d’esser solo. Mi tranquillizzai solo
col freddo metallico e lustro che proveniva dalla mia tasca
sinistra. Un freddo fermo e infallibile. In scena l’Hystoire e
l’Homme de mer. Il protagonista recitava:
Dormire all’alba di un platano
D’estate, sotto l’alba dei giunchi
Avvolgersi nelle coperte e dire addio
Dire addio, basta, in un buon caldo
Riparo dalle stelle vibranti e dal tempo
Che insulta – fruscio dell’uomo a spazzare
Foglie morte – feuilles mortes, vies perdues…
Il dente forte diverrà sempre più forte
Sulla rupe e sulla scogliera, presso la rocca della Maddalena
Sotto la traslucida corona azzurra che vela
I piedi del gigante a battere impazienti
Sulle spine del selciato dove ogni luce è fioca
Ho ancora la tua nascita negli occhi, Sciamano
Some Kind Of Lovin’
un pezzo di Biba
Una notte qualunque di un’estate qualunque con le eco di un festival ancora nell’aria, a scelta fra New York e San Francisco,
Luke attraversava la strada piena di traffico nervoso da fine serata.
Tra il 1969 e il 1972.
Canticchiava un vecchio blues con la mente e con la mano sinistra contro il vetro di una bottiglia teneva il tempo,
perdendolo ogni tanto tra un sorso di vino ed un pensiero ad un punto lontano della sua memoria.
Incrociava tanta gente, sognatori come lui, distinte Veneri in pelliccia e taxi vuoti. Teneva la chitarra ben protetta dagli
strattoni, facendo attenzione a non farle prendere i colpi degli ubriachi che con la scusa di richiedere un sorriso provavano a
coinvolgerlo nelle loro risate senza senso.
26 anni appena compiuti per lui, giacca di velluto consunta sui gomiti, pantaloni stretti, capelli ribelli del colore delle terre
dell’ovest e una raccolta di poesie di Dylan Thomas in tasca.
Sorriso fiero a chi gli chiedeva due versi
a chi non aveva un posto dove andare.
Sorriso fiero quando pensava a Lauren.
Quella notte qualunque, la luna sottile con la gobba a destra, pensava a lei, Lauren Reed, studentessa di medicina, venuta
in un giorno di maggio di un po’ di anni prima, felice e solare, dall’altro capo degli States per un sit-in contro la guerra in
Vietnam. Anni caldi, tesi e pieni di elettricità nell’aria e buone vibrazioni. Il fumo dolce della marijuana riempiva l’aria come
una voce soave che avrebbe potuto mettersi a cantare delle meraviglie dell’eden se solo qualcuno l’avesse chiesto.
La sala del circolo degli attivisti quel giorno era piena di gente di tutti i tipi: abitanti di colorate comuni con cavalli bianchi al
seguito, cantanti, poeti, artisti, studenti, curiosi che si adagiavano sui tappeti o su divani in pelle sintetica e viola. Un uomo
con la barba lunga e una lunga tunica bianca declamava uno strano decalogo inneggiando a grandi ideali e a dimostrazioni
sconcertanti.
(Continua a pagina 22)
Altro special #2 pagina 21
Altro special #2 pagina 22
Some Kind Of Lovin’
un pezzo di Biba
Ogni tanto qualcuno armato di strumenti improvvisava infinite jam sessions che molto spesso
avevano come tema l’amore libero, l’emancipazione e la richiesta di infinita fantasia.
Luke, detto “il tamburino”, era come sempre da solo, seduto in un angolo ad ascoltare senza
neanche troppo interesse: a lui della rivoluzione interessava solo il lato poetico.”romantico”
E per questo tirava fuori di tanto in tanto un taccuino con la copertina nera di pelle dalla tasca
interna della giacca e scribacchiava due strofe pensando ad Allen G, il suo mito.
Lauren invece, con i suoi lunghi capelli che sull’orecchio si fermavano a formare dei piccoli ricci
che andavano a coprire quasi le bianche margherite che metteva lì - perché l’aveva visto sulle
ragazze della protesta di San Francisco- ascoltava affascinata le parole di quel santone aggiustandosi gli occhiali quando le cadevano sul naso. Immaginava le parole che sentiva trasformate in realtà e copriva i presenti di mille domande. Aveva appena 20 anni e di quello che le
stava succedendo intorno conosceva il solo lato giocoso, quello dei fiori nei capelli, appunto, e
quello, per lei magico e quasi fiabesco, dell’amore senza limiti. La sua compagna di avventure era seduta dietro di lei, schiena
contro schiena, con gli occhi puntati su un poeta in erba che leggeva ad alta voce le sue stupide rime baciate. Si chiamava
Suzanne Cohen e il solo fatto di avere lo stesso nome della canzone più bella di un cantante che aveva il suo stesso cognome
faceva di lei la più vera delle hippie venute dall’altro capo degli States. 20 anni anche lei, studentessa in lettere e una vena poetica che mal si sposava con l’oggetto del suo sguardo in quel pomeriggio di quel maggio lontano. Amava scrivere storie strane
e versi sintetici per rinchiudersi dietro la motivazione dell’ermetismo ed essere così esente dalle critiche.
Lauren intanto metteva in su gli occhiali, ignorando Luke.
Che era giusto dietro di loro.
Maybe Sultans
un pezzo di Summerlude ed Elianto84
(Continua da pagina 15)
sulle quali rilucevano i segni di una lingua priva di radici
come una vecchia pianta in vaso
a farsi crescere, a fiorire tra gli sbuffi di caffè
di una cucina in lacca rossa
Sussurrò mordimi scombinato e sbilenco
volubile allo scricchiolio della ghiaia su fondo verde
ai presagi della zingara, quel volto di donna a fissarlo
con insistenza dalla tribuna più distante
nell'opposto emiciclo
l'orchestra a sancire il tramonto del secondo atto.
Si annusò nuovamente le dita
indifferente al male tiepido del cielo obliquo
al fruscio mesto degli oleandri
provò a serrare le braccia, a intrappolare il suo odore
tra la mandibola e il soffitto grigio della stanza.
Un poéme pour sa femme di cui andò persa la parte
più consistente - come l'angolo ritagliato dal campo
dove in un grido si risvegliavano pallidi violinisti parigini
ed era concesso morire attraverso debita manifestazione
di desiderio - o solo rendersi irrintracciabili dai ricordi.
Due ansanti battiti di metronomo
rivelavano i tratti marcati
di angeli a capo chino.
Stefano, il suo orgoglio e il suo intuito. Un cacciatore di spettri, sterminatore di incubi, un capitano. Poche stravaganze erano concesse
sulla sua nave: attacchi di manierismo momentaneo, il tango. Spezzato, come il braccialetto di Caterina, cadaveri di conchiglie e brani di
corteccia. E nervoso, come i suoi occhi svegliati di soprassalto dallo stridere della luce dalle fessure delle serrande, forse più impegnati a
proteggere che a nascondere.
(Continua a pagina 23)
Altro special #2 pagina 22
Altro special #2 pagina 23
Maybe Sultans
un pezzo di Summerlude ed Elianto84
Caterina entrò nel bar del porto. Era un posto per squali e pirati, ma a quell’ora dormivano tutti, c’era solo un cucciolo di cane ad accoglierla e a mordicchiarle l’orlo della gonna, promettendo con lo sguardo che l’avrebbe seguita ovunque, almeno fino alla prossima distrazione. La sua danza della sera prima era stata tutt’altro che propiziatoria, Caterina si era fermata, la schiena ormai distesa sulla sabbia umida, lui a schiacciarle il petto con il suo peso. Cavallo in e5. Una elle. Erano una grande elle sulla sabbia. Caterina si sollevò un poco, seduta, lasciando scivolare la testa di Stefano sul suo grembo. Si chinò sul suo volto: una istantanea sottosopra, un disegno sfigurato dalla pioggia. Ripulsa – vetri rotti – specchi.
Al bar del porto, il caffè aveva spesso un retrogusto di sconfitta.
Lo stesso modo d’accavallare le gambe, di tenere la tazzina.
Un sapore così esposto ai pericoli.
Infranto Michele con la testa abbandonata tra i palmi. Stelle irriconoscibili.
Pagò in fretta il conto e fuggì col volto contratto, come trapassato da un’inattesa trovata combinatoria.
Doveva trovarsi nel posto convenuto, ad accogliere il corpo esile di Caterina.
Doveva sopravvivere alla notte, alle istantanee, ai riflettori.
Agli sbalzi di luna, alle veglie dei mostri.
Anche al costo di essere privato di un tetto, di doversi accontentare
di un’unica fetta di pace.
Michele si precipitò giù dalla collina dimenando le braccia. Andò a ripararsi tra le anse del fiume, mal sopportando una luce insolente che
gli feriva gli occhi. Graffiò l'argine di roccia e si sporse, si sporse in un mito greco. Corridoio interminabile, bifore. Piattaforma Miramare,
in volo al di sopra del possesso e della musica. Si gettò a terra e tra i sospiri flebili c'era solo Caterina.
Via via, vieni via con me.
Si nascose tra le rupi e sentì stridere le sue colpe in un memorabile impatto – beati coloro che crebbero col senno divino e la grande spuma
e la risacca mai trascinarono con sé – era allora al terzo piano tra i fogli e il letto di un leggendario compagno, cui le sue imprese non potevano che stonare (tuonare) sgradite – regnava un susseguirsi incontrollabile di piazze e viottoli – con la schiena contro il suolo ad inspirare
la serenità degli alberi, cigni ad ancorarsi sotto i nostri passi, ch’eppure sbuffano e s’intralciano e giunge l’autunno. Michele attendeva.
Credette di vederla, sola come uno sprazzo di viola in un cielo blusfaldato.
Si arrampicò sulla prima rete, poi sulla seconda, tentando di raggiungere il tetto. Un cancello glielo impedì. Ma ciò non aveva importanza.
Era già un gigante, con grosse difficoltà a girare per strada. C’era una sorta di ponte tra due edifici, com’era in uso durante il medioevo tra
palazzi di nobili famiglie congiunte da un recente matrimonio. Con la sua statura, Michele non sapeva come valicarlo. Guardò giù dalla
prima rete, poi dalla seconda, la visione del terreno quasi sgretolò le sue povere ossa di scheletro vuoto.
Pensò che sarebbe stato necessario sparire.
Caterina era incerta sul da farsi. Sulla sedia a dondolo il libro appoggiato alle ginocchia assumeva contorni sempre più indecisi. Ai quindici rintocchi decise che le ambizioni per l’indomani sarebbero state più modeste. Abbandonò i vestiti in un angolo, rilesse Lylium per
l’ultima volta e preparò il letto ad un sonno tortuoso, dagli occhi rigati di nero.
Stefano esaminava i diari di bordo, alla ricerca di una sottile rete di razionalità - vento e topi, merci ammonticchiate nella stiva, dove i dischi di tango prendevano acqua. Aria di burrasca e farfalle nello stomaco, leggera crisi asfittica: sotto quella botola una dimensione nascosta, fatta di scale e muri dipinti di un azzurro onirico. I conti non tornavano, e forse non era solo una questione di numeri, di cadenze esatte
come il beccheggio della vecchia pendola, che moriva nella stiva in attesa di essere scartata.
- Il capitano è sempre l'ultimo ad abbandonare la nave.
- Ma se non scendi al momento giusto, fai la fine del topo.
Michele realizzò che le radici del deja-vu erano da ricercarsi tra le istanze cromatiche avvistate durante il giorno. Il ponte più antico suggeriva grande calore dai riflessi di pietra bianca, pur serbando a coloro che osavano sfidarlo distese di dubbio nitore, avvitate come denti finti
ai pilastri di mattone pieno. E allo stesso modo si srotolava davanti agli avventori più audaci tutto il sudicio del grande albergo, sfuggendo
quasi a intere generazioni di scurini. Con il lungo tappeto di linoleum nero a trattenere la purezza atona delle pareti e dell’insegna.
Accordi di una sinfonia del passato a ripresentarsi malevoli e claudicanti, assumendo il sapore di una veglia troppo a lungo protratta e per
questo bisognosa di sogni. Collezioni di oggetti facilmente reperibili ed assimilabili a dimenticati soggiorni. Al colore dei miti e della coscienza incisa mai confessata.
[Mother Mary come to me ‘cause I’m a wicked child]
Michele si trovò a vagabondare assieme all’intensa fragranza dei forni, nello spazio compreso tra le due edicole del borgo. Alle ore 7:12
c’era una buona luce e le onde a dipanarsi concentriche dai rumori sul letto del fiume, fra lenzuola verdi e litografie di Matisse.
Esplose in un singulto d’originaria bellezza.
(Continua a pagina 24)
Altro special #2 pagina 23
Altro special #2 pagina 24
Some kind of lovin’
http://elianto84.altervista.org
(Continua da pagina 23)
Riflessi nelle minute gocce a danzare un prezioso carillon sull’asfalto (un impercettibile brusio bianco, abbacinante appena svelato, come
lisce pietre nuove a lapidare la notte) c’erano gli occhi di lei, il collo, le mani tornite. Ti va di camminare ancora, andremo a trovare il cartello dai sostegni robusti e la testa rossa, avremo caldo avvinghiati. Percorreremo le mura per l’intera lunghezza, segneremo il nostro passaggio con briciole e vernice. Frequenti soste a rubare l’ospitalità della terra. Ma voleremo bassi e rapidi, come rei di un chilometrico delitto.
Michele provò a perfezionare la pronuncia delle sorde.
A serrare stretti i ricordi fra i denti.
La città dischiusa e ritorta come uno spesso filo di lana o il tronco di un ulivo.
Ti va di affondare le unghie. Sentore di caffè tra labbra ad accoglierlo poco alla volta, le porte della piazza e i deliranti prati preclusi, costoni rocciosi che spiovono troppo in fretta.
Michele pensò di scaraventarsi giù, erano solo dieci o dodici metri in fondo.
Nessun rumore. Nessuno schiocco. Nessun attrito.
Keith Haring a coronare allucinazioni comuni.
I bar che frequentava
tutti ritrovi per gli stranieri e gli sconosciuti.
Case di fortuna per gli avventori del mare.
Le gerarchie del ghiaccio stavano a guardare l’uomo con la piccozza
Sui rivoli bianchi delle montagne
Con quel viso smunto che diveniva il mondo
Col rischio di franare
In possesso
Unicamente di una fune.
Avrebbe potuto prendere un altro caffè
Mentre voi discutevate di odio comune e guerre
E le volpi chiedevano carezze ai rispettivi principi.
Con qualcosa di ingiusto e mostruoso nell'avere un corpo.
Le ultime gocce di luce da sciogliere piano
Prima che la strada deserta e la pioggia battente chiudessero i cancelli
Alle 9:07 di un giorno che l’aveva stretto
Volle espiare i suoi desideri là sul fondo.
Tra antichi colori.
Qualcuno aveva spento la radio. Caterina se ne accorse solo quando sentì le note di una chitarra giungere dai pressi della finestra. Sottovoce, come per non infrangere quell’atmosfera di infinito torpore. Era una melodia infantile, una nenia poco sospinta, con qualche vibrato.
Sortì l’effetto opposto a quello solitamente atteso, facendole aprire gli occhi, riportandola nel bianco cupo della stanza. Stefano stava suonando, lo sguardo fisso su di lei.
Ai suoi piedi due tazze traboccanti di caffè, ormai freddo e imbevibile.
Il primo gennaio stava per giungere, con le redini del sole strette fra i polsi.
Maybe
Sultans
http://elianto84.altervista.org