Testo trascritto
Transcript
Testo trascritto
La preghiera di Gesù come esultanza nello spirito Prof. Don Claudio Doglio Martedì 19 marzo 2013 Trascrizione dal parlato e adattamenti orto-grammaticali a cura di Paolo Tassinari, non rivisti dal relatore. Il titolo che mi è stato proposto, la preghiera di Gesù come esultanza nello spirito, prende chiaramente lo spunto da una sola espressione evangelica che troviamo nel testo di Luca al capitolo 10 versetto 21, e quindi il mio intervento anzitutto consisterà nel presentare questo testo lucano, facendone esegesi nel contesto letterario in cui si trova. "In quella ora esultò nello Spirito Santo e disse: ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli; si, o Padre, perché così è avvenuta la benevolenza davanti a te". Ho tradotto nel modo più letterale possibile questo testo, che si trova anche nel Vangelo secondo Matteo al capitolo 11 versetti 25 e 26. La stretta somiglianza fra i due testi di Matteo e di Luca, ci fa dire che si tratta di un loghion appartenente alla cosiddetta fonte Q, quella ipotetica fonte che raccoglieva almeno quei 240 versetti comuni alla redazione di Matteo e di Luca, e assenti in Marco. I due testi del loghion sono praticamente identici, è uno dei casi dove la somiglianza nelle redazioni dei due evangelisti è più stretta, con un unico minimo particolare: Luca ha aggiunto la preposizione apò al verbo krýpto. Mentre in Matteo c'è ékrypsas, Luca ha apékrypsas; insignificante variazione, se non per miglioramento stilistico, per fare il parallelo perfetto con apekálypsas, uguale in entrambi. Per il resto è tutto identico. Invece non è uguale l'introduzione, Matteo dice: “In quel tempo” (en ekéino to kairò), 1 in quella occasione, mentre Luca ha: “Nella stessa ora” (en àute tè hora), in quella medesima circostanza; Matteo poi adopera il consueto verbo "rispondere", (apokrithéis), “Rispondendo Gesù disse”, invece Luca ha “Esultò” (egalliàsato). Alcuni codici minori aggiungono la preposizione en, ma sembra che in base alla critica testuale, sia meglio evitare questa preposizione e tenere il dativo semplice, “Esultò relativamente allo Spirito Santo, e disse …”. Dunque l’espressione che ci interessa (esultanza nello spirito) è tipica della redazione lucana, ed è un elemento aggiunto come ritocco teologico; mentre il terzo evangelista conserva perfettamente il dettato che desume dalla fonte dei loghia, si permette di aggiungere questa connotazione che descrive il detto orante di Gesù come una esultanza nello spirito, per cui la nostra interpretazione deve rispondere a questo dato esegetico sinottico, si tratta di un intervento redazionale lucano. E' necessario inoltre contestualizzare la pericope, perché il nostro abituale modo di procedere soprattutto liturgico, ha il difetto di isolare i brani: si chiamano pericopi proprio perché possono essere tagliate tutto intorno, e lette in modo autonomo, però di fatto autonome non sono, perché sono brani cuciti insieme, e adesso noi li troviamo inseriti in una redazione omogenea e organica, per cui è necessario quando si fa esegesi di un piccolo brano, non dimenticare ciò che viene prima e ciò che viene dopo, perché il contesto letterario in cui è stato inserito è importante per il senso della frase che ci interessa, quindi mai isolare piccoli particolari. Se allarghiamo dunque l'orizzonte ci accorgiamo che i contesti in cui questo loghion è inserito sono diversi: un contesto è quello di Matteo, altro contesto è quello di Luca; proviamo ad analizzare anzitutto quello di Matteo. Abbiamo detto che questo loghion si trova al capitolo 11: in Matteo questo capitolo fa 2 seguito al discorso missionario del capitolo 10, e inizia a presentare la rottura dei rapporti con l'ambiente giudaico che circonda Gesù. All'inizio del capitolo c'è la questione di Giovanni Battista, poi segue il giudizio di Gesù sulla generazione contemporanea, paragonata a bambini capricciosi che non accettano nessun tipo di gioco (così non accettano né Giovanni, che è austero, né Gesù che partecipa ai banchetti con i peccatori), segue una serie di parole dure contro le città del lago, proprio quelle che hanno visto l'inizio del ministero, e un gran numero di interventi prodigiosi, Corazin, Betsaida e Cafarnao: "In quel giorno Sodoma sarà trattata meglio di come verrà trattata Cafarnao, la città di Gesù". In quel kairos, proprio in quella circostanza, Gesù disse: "Ti rendo lode o Padre", eccetera. Noi siamo abituati a questo incipit liturgico, "In quel tempo Gesù disse": viene abitualmente inserito all'inizio di ogni brano liturgico, e quindi ci sembra un fatto scontato e abituale, ma la formula è rara nei racconti evangelici, anche se la sentiamo abitualmente nella liturgia, nel testo non c'è; in questo caso invece è proprio presente nel testo evangelico, ed è probabilmente la fonte che ha ispirato l'uso liturgico ripetitivo; vuol dire che il narratore, Matteo in questo caso, intende sottolineare che la parola di Gesù rivolta al Padre si colloca nel momento della polemica con le città del lago. Dopo questo loghion Matteo aggiunge altri due versetti, anzi tre, che gli sono esclusivi: "Venite a me voi tutti che siete affaticati oppressi, e io vi darò ristoro; prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita; il mio gioco infatti è dolce, e il mio peso leggero"; questo è un elemento esclusivo matteano. Inizia quindi il capitolo 12 con una serie di polemiche fra Gesù e i maestri della legge. 3 Se andiamo a vedere il contesto lucano, notiamo che il capitolo 10 di Luca, inizia con la missione dei 70 o 72 discepoli (in qualche modo è la ripresa del discorso missionario parallelo a Matteo 10), e prima di narrare il ritorno dei discepoli mandati in missione, Luca inserisce quelle parole di guai contro Corazin, Betsaida e Cafarnao: vuol dire che la vicinanza a questo tipo di detto polemico era tradizionale, sia Matteo e Luca dipendono da una fonte che ha messo vicino, uno di seguito all'altro, il blocco della polemica contro le città incredule, e la preghiera di lode che Gesù innalza al Padre. Luca però compie un lavoro redazionale particolare, raddoppia il discorso missionario, lo fa fare a Gesù due volte: la prima vale per i 12, la seconda per i 70 (è un intento teologico lucano missionario aperto al mondo ellenista: come i 70 o 72 popoli della tavola dei popoli di Genesi 10, così questi discepoli rappresentano un po' tutti i futuri discepoli mandati nel mondo ad annunciare il Vangelo); quando i discepoli ritornano, sono entusiasti. Il testo che ci interessa abbiamo detto che è al versetto 21, leggiamo i versetti precedenti dal 17 al 20, quelli che Luca ha aggiunto quasi come intercapedine fra le minacce alle città incredule e la preghiera di Gesù: "I 72 tornarono pieni di gioia dicendo: Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome. Egli disse loro”, seguono tre loghia indipendenti che Luca ha cucito qui insieme per via di parole gancio, collegamenti verbali e tematici. Primo loghion: "Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore": Gesù esprime con un linguaggio apocalittico la sua esperienza, una sua visione; dice di avere visto Satana cadere dal cielo, è l'annuncio di una caduta, della eliminazione dell'avversario, l'accusatore non è più in cielo, è caduto come la folgore (possibile riferimento al testo di Isaia 14,Lucifero come stella che è caduta nella polvere). Secondo loghion: "Io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e 4 sopra tutta la potenza del nemico, nulla potrà danneggiarvi": dal momento che Gesù è consapevole che Satana è finito, ha perso il potere, è de-caduto, Gesù comunica ai discepoli il potere di schiacciare proprio quei simboli diabolici, serpenti e scorpioni, tutta l'immagine del male (“voi potete dominare, non lasciarvi dominare da questi elementi negativi, non vi danneggeranno, io vi ho dato quel potere, sono io il forte implicitamente dice Gesù - , sono il più forte, per questo i demoni si sottomettono, perché io vi ho dato il potere”). Terzo loghion: "Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli": si tratta di una falsa contrapposizione, non esclude qualcosa per sostituirlo con qualcos'altro ma sottolinea gradi di differente di valore. Luca ha iniziato il racconto dicendo che i discepoli erano contenti, entusiasti dei risultati della loro missione; ritornano, raccordando a Gesù che persino i demoni si sottomettono nel suo nome; hanno sperimentato e hanno visto che effettivamente quel nome è un potere che libera l'uomo dal male. Gesù li ridimensiona, "Non rallegratevi tanto per il potere che avete, quanto per il fatto di essere amati": non contesta la gioia per questi risultati della pastorale che con efficacia libera l'uomo, ma dice che è motivo di maggior gioia sapere di avere il proprio nome scritto nel cielo (altro linguaggio tipicamente apocalittico: si postula l'esistenza di un libro della vita, un registro celeste con l'anagrafe dei nomi conosciuti da Dio, quindi gli eletti). "Il vostro nome è scritto nel cielo", voi siete conosciuti da Dio, voi siete in buona relazione con Dio, proprio perché avete accolto il mio nome e avete accettato di andare in mio nome, e con il mio nome liberate coloro che sono oppressi dal demonio, “Rallegratevi perché siete in buona relazione con me” cioè con Dio. "In quella medesima ora Gesù esultò nello spirito Santo e disse …" 5 Dunque è molto importante il contesto che Luca ha creato letterariamente, collegando la preghiera di esultanza di Gesù al momento di esultanza dei discepoli: loro sono contenti per i risultati, Gesù insegna loro che c'è un altro motivo per cui devono essere contenti, ed è proprio quello il momento in cui anche Gesù ha un lampo di gioia, un’esplosione di contentezza. E' probabile, dicono gli esegeti, che il contesto letterario originale (quello della fonte Q, cioè della prima raccolta di detti), sia simile a quello di Matteo, cioè che il detto della rivelazione ai piccoli e del nascondimento ai sapienti sia stato collegato proprio alla critica delle città che hanno visto le prime azioni potenti di Gesù; ma d'altra parte, il contesto ricostruito da Luca, rende meglio l'ambientazione originale, più storica, perché la contentezza di Gesù si manifesta nel momento in cui concretamente i discepoli accolgono la sua parola, altrimenti non si capisce perché ci sia questa distinzione. L’esultanza di Gesù è legata al fatto che, mentre alcuni non accolgono, altri accolgono; e il bello è che non hanno capito il senso proprio quelli intelligenti, proprio quelli istruiti, quelli che naturalmente avrebbero dovuto essere portati a capire; d'altra parte la rivelazione è fatta ai piccoli. Notiamo che questo testo da solo non si comprende, perché ha al proprio interno un riferimento oscuro, "Hai tenuto nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti": che cosa sono “queste cose”? Non c'è nel contesto immediato un riferimento esplicito, "queste cose" può indicare solo l'insieme del ministero di Gesù, la sua predicazione, la sua parola, la sua rivelazione; Gesù che cosa sta rivelando? La propria persona in relazione con Dio sta rivelando il volto di Dio, lo sta mostrando 6 all'opera ed è un volto liberatore, è il volto di Dio come liberatore dell'uomo schiavo del male, del demonio, del peccato, e il nome di Gesù accolto dai discepoli libera effettivamente; i discepoli sono contenti, e Gesù proprio in quella ora, in quel contesto, esulta anch'egli e si rivolge direttamente a Dio. Non sono frequenti nel Vangelo i testi di preghiere pronunciate da Gesù: si dice che Gesù pregava, ma il contenuto della preghiera raramente è esplicitato; si dice che Gesù insegnava a pregare, ed è presentata la preghiera insegnata da Gesù. Questo è uno degli esempi più importanti che la tradizione evangelica ha conservato di preghiera propria di Gesù, ed è una esclamazione in pubblico, non è il momento del deserto, del ritiro, della confidenza intima. I due evangelisti, nonostante le differenze che abbiamo evidenziato, conservano entrambi l'idea che Gesù improvvisamente, mentre sta parlando con i discepoli, esclama rivolto ad un altro personaggio, che è Dio, una parola. Non è una cosa così consueta: se io sto parlando a voi, eventualmente parlo di Dio a voi, ma non mi metto a parlare direttamente a Dio. E’ una interruzione del discorso, una parentesi; è come se interrompessi il discorso con voi per parlare al Signore; è una autentica parentesi nella parola di Gesù, come momento di entusiasmo con cui Gesù si rivolge al Padre. La formula di introduzione è tradizionale nel linguaggio soprattutto dei salmi: exomologùmai è il verbo della confessio laudis, corrisponde al verbo latino confiteor, che rende l'ebraico yadàh, il verbo della lode. "Lodate il Signore", che in latino era tradotto confitemini Domino: qui confessione non ha il significato che questa parola ha abitualmente nel nostro linguaggio, né come professione di fede, né come celebrazione del sacramento della penitenza, qui vuol dire riconoscimento, apprezzamento. "Ti rendo lode", cioè ti lodo, ti benedico, ti ringrazio, ti apprezzo, ti riconosco; sono tutte sfumature possibili. 7 "Padre" – è molto probabile che l'originale semitico pronunciato da Gesù contenesse la forma Abbà, è una di quelle sue esclamazioni filiali straordinarie. L'esclamazione, resa con una formula tradizionale del linguaggio salmico, lascia intendere però una esclamazione emotiva: "Sono proprio contento, bravo papà, è così che si fa!"; è una esclamazione di chi interrompe il discorso con un altro, e fa i complimenti ad un terzo. Quella affermazione “Ti benedico”, ti rendo lode, ti confesso o padre, significa propriamente un complimento: nel nostro linguaggio possiamo esprimerci proprio con formule del tipo: "Bravo, ben fatto, è così che si fa, mi piaci", è una esclamazione forte di approvazione ed è rivolta a Dio. Kyrie tu uranù kai tes ghès – è una formula abbastanza rara, “Signore del cielo e della terra”, formula solenne, teologica, liturgica. C'è una grande solennità nella proclamazione del Signore del cielo e della terra. Ma questo rispetto verso il Signore assoluto è preceduto dal termine famigliare di confidenza, infantile, “papà”. Messi insieme fanno una impressione eccezionale. Non è raro chiamare Dio “Padre” nell'Antico Testamento, anche nel mondo classico era comune, lo stesso Jupiter ha nella propria radice il termine “pitar” indoeuropeo di padre: Zeus è detto spesso “il padre degli uomini e degli dèi”, è un'espressione abbastanza comune, dove padre è spesso sinonimo di padrone, paterfamilias come capo di tutti quelli che sono nella sua dipendenza familiare, quindi il padrone che ha il diritto di comandare sugli altri. Originale in Gesù non è il titolo “padre”, quanto piuttosto l’impiego di un termine confidenziale che sembra mancanza di rispetto, tanto è vero che la stessa comunità cristiana non è stata capace, non ha avuto il coraggio, di conservare la formula provocatoria corrispondente nella nostra lingua italiana a papà, o babbo, babbino, a seconda delle varie sfumature dialettali e regionali possibili; la stessa formulazione di Matteo nel “Padre nostro”, è appunto diventata “Pater hemòn”, e in Luca è 8 semplicemente Pater; l'Abbà aramaico è stato tradotto ma non nella forma greca corrispondente confidenziale (bisognerebbe avere il linguaggio parlato, potrebbe essere papàs; però è difficile dirlo, perché i bambini non scrivono i documenti, e se non si ha un testo in lingua popolare, dove si precisa come un bambino chiama suo padre, non è facile saperlo, perché il testo letterario antico è dotto, in genere è frutto di una lingua ricercata e non corrisponde a quello del linguaggio parlato. Di fatto non abbiamo avuto la capacità, anche nelle nostre traduzioni, di conservare il termine confidenziale di Gesù. Pensate al tempo non molto lontano in cui le preghiere davano del “voi” a Dio, perché c'era l'abitudine di dare del voi anche ai genitori! Se possiamo avere ancora memoria noi di un rapporto così serio e rispettoso nei confronti dei genitori, da usare il “voi”, potete immaginare quanto facesse effetto sui contemporanei la confidenza con cui Gesù parlava al Signore del cielo e della terra, chiamandolo papà!. L'esclamazione corrisponde appunto un complimento: "Bravo papà, è così che si fa!" Che cosa? "Hai nascosto queste cose, hai rivelato queste cose", due verbi tecnici: apo-krypto e apo-kalypto, da cui apocrifi e apocalittici (vedete che anche in traduzione diventano verbi tecnici), c'è un nascondere e un mostrare; i destinatari sono diversi, sapienti e intelligenti, probabilmente questa coppia di aggettivi è presa da Deuteronomio 1, 13.15, è una coppia fissa che ritorna poi nella tradizione sapienziale. Sapienti e intelligenti sono sinonimi degli scribi, dei dottori della legge, degli esperti, non delle persone in genere che usano l'intelligenza, ma di quelli che hanno una competenza tecnica, che “la sanno lunga”; è una espressione che ha qualche cosa di ironico, e indica i competenti, gli esperti, gli istruiti (nel nostro linguaggio un tono sarcastico sarebbe ripreso dall'espressione: “quelli che la sanno lunga”, cioè quelli che sono convinti di saperla). 9 "Invece hai rivelato queste cose ai nèpioi: non è piccolo nel senso di statura, o in senso di età, è un termine che corrisponde letterariamente al latino in-fans, nèpios è la negazione di epos; ricordate quando studiavamo epica, cioè la parola che diventa celebrazione dell'eroe, epos è la parola solenne, la parola celebrativa, il nèpios è chi non ha parola, infans è colui che non parla. Neanche tanto il bambino infante, cioè prima che impari a parlare, ma piuttosto quello che non ha diritto di parola: vi è mai capitato da piccoli di sentirvi dire:“Stai zitto tu che sei piccolo?” Ma può capitare anche da grandi: “Sta scritto tu che non te ne intendi!” Questo è il nèpios, che si sente dire da chi la sa lunga "Stai zitto perché tu non capisci niente!". C'è un grande ribaltamento, che corrisponde allo schema apocalittico: i potenti sono abbattuti dai troni, i ricchi mandati via a mani vuote, gli esperti non capiscono niente, e invece gli umili vengono innalzati, i poveri colmati di beni, quelli che non hanno diritto di parola, esclusi ed emarginati, insignificanti, diventano capaci di comprendere i misteri del regno di Dio, il segreto di Dio, e sono ammessi all'intimità del Padre. Questi — Gesù ha davanti i discepoli, gente semplice, gente presa da altri mestieri della vita corrente, del lago — questi hanno accettato Gesù, vengono da Betsaida e da Cafarnao: “quelle città non hanno capito niente e saranno trattate duramente, voi invece avete capito”. E Gesù esulta e loda suo Padre, il papà eppure Signore del cielo e della terra. Ripete “Nai ho patér – Si papà!". Possiamo forzare il testo, immaginando che nell'originale fosse proprio così, "O pater" in greco non è semplicemente nominativo, ma spesso nella lingua della koinè il nominativo con l'articolo ha valore vocativo, quindi "Sì o Padre", quel “si” è enfatico, "Si, è proprio così!". L'espressione che segue è tipicamente semitica: ùtos eudokìa eghèneto è un'espressione quasi incomprensibile in greco. Eudokia è la benevolenza, è la 10 traduzione letterale del termine razòn, comune nel linguaggio giudaico, per indicare il volere di Dio, la volontà, il progetto di Dio. Grazie al prefisso eu, eudokia sottolinea la bontà; c'è una bene-volenza da parte di Dio, un progetto buono. Ricordate il testo importante, sempre lucano, degli angeli che annunciano alla nascita di Gesù "Gloria a Dio nell'alto dei cieli, e pace in terra agli uomini della eudokia", di chi è l'eudokia? Di Dio, "gli uomini della benevolenza", tradotto in latino è diventato bonae voluntatis; eudokia vuol dire voler bene, ma buona volontà non significa volere bene! Il passaggio è naturale però: volere-volontà, volere bene-buona volontà, gli uomini di buona volontà, si intendono quelli che ce la mettono tutta, quelli che non sono maliziosi, doppi, ma si impegnano sinceramente; eppure non è questo il senso nel testo originale, sono gli uomini oggetto della benevolenza di Dio, ecco perché la nuova traduzione ha fatto una parafrasi, “Agli uomini che Dio ama”, non è una traduzione ma una parafrasi, oggetto della benevolenza divina. Questa è l'eudokia. Essa eghèneto: “Così benevolenza avvenne èmprosthen su — davanti a te, papà”. È chiaro che si tratta di una traduzione letterale in un greco scorretto, perché calco perfetto di una formula semitica, ed essendo identica la formula in Matteo e in Luca, indipendenti l’uno dall’altro, significa che questa formula risale alla fonte precedente, che è una delle prime traduzioni in greco di un ipsissimum verbum Jesu, di una “stessissima parola di Gesù” come direbbe Joachim Jeremias. Questo è il progetto di Dio, e Gesù è entusiasta che questo progetto si stia realizzando; ora, per esprimere questo entusiasmo di Gesù, Luca adopera il verbo agalliào: è un verbo a suo modo importante, ricorre 11 volte nel Nuovo Testamento, ed è spesso accoppiato al verbo chàiro più legato a charà, la gioia. Sono una coppia comune: gioia ed esultanza. Luca lo adopera soprattutto nei Vangeli dell'infanzia, nei racconti dell'inizio: una delle 11 formule più affini a quella che abbiamo adesso nel testo dell'inno di giubilo, la troviamo proprio all'inizio del Magnificat, in 1,47, "L'anima mia magnifica il Signore, è il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore", è la stessa espressione. Quindi intenzionalmente, dopo che Luca ha messo sulla bocca di Maria l'esclamazione "il mio spirito esulta (letterariamente però è un aoristo, quindi esultò, exsultavit spiritus meo) in Dio che è mio Salvatore", mette sulla bocca di Gesù l'esultanza nello spirito; è il momento della preghiera di gioia, di lode, simile al Magnificat: Maria esplode in un canto di lode, nel momento in cui Elisabetta l'ha riconosciuta come madre e madre del Signore: come fa Elisabetta a sapere che Maria aspetta un bambino? Neanche Maria lo sa! Ha appena ricevuto l'annuncio dell'angelo, che le ha detto “Concepirai”, si è messa in viaggio in fretta, e ha raggiunto la parente la quale sa riconoscere la gravidanza di una donna che ha concepito da pochi giorni, infatti la chiama “madre del mio Signore”; “Allora Maria disse”. C'è un collegamento, c'è una rivelazione, “Allora è vero!”. Non dubitava Maria, ma adesso sa che è già avvenuto, che il Signore è stato concepito in lei; il bambino salta nel seno di Elisabetta (Lc 1,44), di nuovo ritorna il termine, il sostantivo corrispondente, c'è una gioia esultante, il bambino salta di gioia, la madre è piena di Spirito Santo e riconosce la gravidanza di Maria, gravidanza divina, allora Maria salta di gioia, esulta il suo spirito per la grandezza dell'opera di Dio (cfr anche Lc 1,14). Il verbo che l'evangelista Luca adopera, è un tipico verbo di esultanza liturgica ma non di tipo rituale, formale, compassato: è il modo della celebrazione gioiosa, contenta, di chi da spazio alla propria gioia, al proprio entusiasmo; pensate alla scena di Davide che canta davanti all'Arca, che danza, ottenendo il disprezzo della moglie, “Che bell'onore che ti sei fatto! Farti vedere in quello stato dalle serve!”. E invece Davide in quel momento, ha manifestato il proprio entusiasmo sincero; Dante lo presenta ai superbi come esempio di umiltà, "più e men che re", meno che re perché 12 si è abbassato al livello di chiunque altro, ma più che re proprio per il fatto di onorare con gioia il Signore. Vedete come in questi giorni ci fa piacere vedere il Papa in atteggiamento normale, umano, vicino; quello che è normale per un uomo, vederlo fare da un re o da un sommo pontefice dà piacere, cioè si scopre l'umanità, e dà adito proprio all'atteggiamento di lode, di gioia, di manifestazione di contentezza. Quel verbo viene dalla tradizione classica, è un verbo antico, utilizzato anche nella lingua classica come ornamento, come termine della celebrazione cultuale: pensate che il sostantivo àgalma in greco indica l'ornamento, ma ha finito per designare la statua, l'oggetto liturgico del culto. Ricordo di avere incontrato per la prima volta questo verbo a 17 anni, quando ho studiato i lirici greci. Del poeta Archiloco, il frammento 5 mi è rimasto impresso; sono andato a recuperarlo in questi giorni (vedete quando si scoprono le cose da giovani ti restano impresse!); è un doppio distico eligiaco in cui Archiloco dice: "Uno dei Sai - un popolo nemico - si vanta, si fa bello (agàlletai) dello scudo che io ho abbandonato presso un cespuglio, arma irreprensibile - dotta formula omerica - contro il mio volere, ma ho salvato me stesso, che m'importa di quello scudo? Vada in malora, me ne comprerò un altro non peggiore!” E' una specie di satira, o una contrapposizione alla logica omerica, alla mentalità spartana: dicono che le madri spartane consegnassero lo scudo ai figli che partivano per la guerra dicendo: “O con questo, o sopra di questo!”, o torni vincitore con lo scudo, o torni morto sullo scudo, ma senza scudo non tornare! E Archiloco invece dice: "Io l'ho abbandonato e sono scappato! Se lo sarà preso uno dei nemici e adesso si fa bello! Io però ho salvato la pelle, che è quello che conta, per lo scudo pazienza, ne comprerò un altro!". 13 L'immagine ci aiuta a capire il senso del verbo: “Il vincitore che mi ha preso lo scudo si fa bello, se ne vanta, mostra lo scudo preso ad un nemico”, ecco il senso originale del verbo: farsi bello, ovvero gloriarsi, vantarsi, mostrare qualche cosa di cui essere fiero. È un po' come noi quando nella formula della professione battesimale diciamo: “Questa è la nostra fede, questa è la fede della Chiesa, e noi ci gloriamo di professarla”, potremmo tradurre: siamo contenti, e se fosse in greco dovremmo adoperare questo verbo. “Siamo contenti e fieri, siamo entusiasti, è una cosa bella, ci prende, questa è la nostra fede, e siamo contenti di professarla, non è un peso, è una gioia!”; quando mi rendo conto della bellezza della fede, ne vado fiero, sono contento di questo, ed è proprio lo Spirito Santo che muove questa adesione; Gesù come uomo, in quel contesto preciso, si accorge dell'opera di Dio Padre ed esulta, è fiero di essere suo figlio, dice: “Bravo papà, che belle cose che fai! A quelli che la sanno lunga, tieni nascosto, e a questi che sono emarginati hai rivelato la grandezza! Si, questa è la tua benevolenza! Davanti a te è stato deciso questo, e qui si sta realizzando!”. Pensate che nell'Antico Testamento l'unico collegamento fra questi due termini “esultanza e spirito”(agallìasis e pneuma) lo troviamo proprio nel salmo 50 (51), il Miserere, al versetto 14: "Rendimi la gioia della tua salvezza, mi sostenga uno spirito generoso"; la gioia della salvezza è la agallìasis,“rendimi l'entusiasmo di essere salvato, accendi in me quella gioia che Gesù ha provato”, Lo spirito non è il mio spirito, è lo Spirito Santo, in greco è stato tradotto con pneuma heghenonikòn – uno spirito egemonico, uno spirito condottiero (infatti il latino rendeva con un calco: spiritu principali), e lo si adopera ancora nella preghiera di ordinazione del vescovo, chiedendo al Signore che infonda lo spirito di comando; è preso di qui, lo spirito principale, del 14 principe, di colui che fa da guida, heghemòn – il capo, il condottiero, è lo spirito che guida e sostiene; svegliare la gioia della salvezza, significa essere sorretti da questo spirito deciso, forte, condottiero. Gesù esultò nello Spirito Santo, e disse: "Padre"; notate la splendida fusione trinitaria? E’ il momento dell'incontro dei Tre, ed è la rivelazione che l'evangelista coglie: nello Spirito, il Figlio fa i complimenti al Padre, e la rivelazione dei Tre si manifesta in una gioia entusiasta della salvezza, dell'opera di salvezza per i piccoli, per quelli che storicamente erano emarginati. 15