Capitolo 1 - Confindustria

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Capitolo 1 - Confindustria
1.
RELAZIONE INTRODUTTIVA
di Giampaolo Galli
1.1
L’economia italiana e internazionale
Il quadro
Nel quadro che presentiamo in questo Rapporto, migliorano gradualinternazionale mente le condizioni delle principali economie dei paesi industrializzati. Il
tasso di crescita dell’Italia passa da un modestissimo 0,4% nel 2002 all’1,4%
nel 2003. Si riduce il divario di crescita fra l’Italia e l’area dell’euro. Quest’ultima dovrebbe crescere dello 0,8% nel 2002 e dell’1,5% nel 2003.
In entrambi gli anni gli Stati Uniti cresceranno più dell’Europa perché
è maggiore il loro potenziale di medio termine e perché sono state più pronte le reazioni del mercato e delle politiche economiche al mutato scenario congiunturale. Il Giappone e l’America latina dovrebbero conseguire tassi di crescita positivi nel 2003 (attorno all’1%), dopo i segni «meno» registrati nella
media del 2002. Dovrebbe continuare la forte crescita dei paesi emergenti dell’Asia, a cominciare dalla Cina, della Russia e dei paesi dell’Europa Centro
orientale che nel 2004 entreranno nell’Unione europea (tab. 1.1).
Negli Stati Uniti e in Europa, non ci sembra giustificato il timore, abbastanza diffuso, che stia per iniziare una nuova fase recessiva. È vero che
la caduta delle borse, dalla primavera del 2000, è stata pressoché senza precedenti per intensità e durata su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ed è vero che è molto difficile valutarne correttamente l’impatto di medio termine
sui bilanci delle famiglie, delle imprese e degli intermediari finanziari. Certamente ci vorrà del tempo perché le ferite si rimarginino, perché si ripristini la fiducia nel sistema finanziario e questo possa tornare a svolgere il suo
ruolo cruciale per lo sviluppo economico. È anche vero che è difficile valutare le conseguenze economiche del terrorismo, o meglio del fatto che la guerra al terrorismo sembra essere diventata uno stato di cose semipermanente.
D’altra parte, se fossimo alle soglie di una recessione, dagli indicatori
congiunturali (fiducia, ordini, aspettative ecc.) emergerebbero segnali negativi più univoci di quelli che effettivamente abbiamo. Invece emergono andamenti alterni di mese in mese su livelli mediamente bassi, non sempre
coincidenti fra paesi. All’interno dei singoli paesi alcuni indicatori volgono
al peggio — ad esempio, la fiducia delle famiglie in Italia — altri danno segnali più incoraggianti — ad esempio, la fiducia delle imprese e gli ordini
dell’industria.
Negli Stati Uniti sono positivi i dati del terzo trimestre (+4% annualizzato).
Nel complesso, in questo Rapporto rivediamo verso il basso le nostre
stime di crescita. Il 2003 sarà probabilmente un anno di «convalescenza»
più che un anno di ripresa. La ripresa potrà consolidarsi nella seconda metà
del 2003 e nel 2004.
Le incertezze e i rischi sono notevoli. Hanno a che fare, tra l’altro, con
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Tab. 1.1 — Le previsioni del CsC: le variabili internazionali e dell’area dell’euro
(Variazioni % salvo diversa indicazione)
Variabili internazionali
Dollaro/euro (a)
Yen/dollaro (a)
Yen/euro (a)
Tasso a 3 mesi euro (a)
Tasso a 3 mesi dollaro (a)
Commercio mondiale
Prezzo del petrolio (b)
Prodotto interno lordo
Mondo
Stati Uniti
Giappone
Nies (c)
Asia (d)
America latina
Europa Centro orientale (e)
Area dell’euro
Prodotto interno lordo
Prezzi al consumo
Occupazione
Tasso di disoccupazione (a)
Tasso di occupazione (a)
Partite correnti (f) (g)
Indebitamento netto della Pa (f)
Debito pubblico (f)
1999
2000
2001
2002
2003
2004
1,07
114
122
2,9
5,4
5,3
17,8
0,92
108
100
4,4
6,5
12,4
28,6
0,90
122
109
4,3
3,8
–0,1
24,4
0,94
125
118
3,3
1,8
1,8
25,0
1,00
118
118
2,9
1,5
5,4
24,5
1,00
116
116
3,4
2,5
6,0
23,0
3,6
4,1
0,7
7,9
6,1
0,2
2,6
4,6
3,8
2,2
8,5
6,9
4,0
3,8
2,3
0,3
–0,3
0,8
5,0
0,3
3,0
2,4
2,4
–0,3
4,1
6,0
–2,0
3,0
3,0
2,5
0,7
4,5
6,2
1,0
3,5
3,4
3,0
1,0
4,5
6,2
3,0
3,5
2,8
1,1
1,8
9,4
60,1
–0,1
1,3
72,5
3,5
2,4
2,1
8,5
61,3
–0,8
0,1
70,1
1,4
2,5
1,3
8,0
62
0,2
1,5
69,3
0,8
2,2
0,5
8,3
62,3
0,6
2,3
69,6
1,5
1,7
0,9
8,2
62,9
0,4
2,1
69,0
2,4
1,6
1,5
7,9
63,8
0,4
1,6
67,8
(a) Livelli; (b) Dollari a barile; (c) Hong-Kong, Corea del Sud, Singapore; Taiwan; (d) Paesi
emergenti dell’Asia, escluse le Nies; (e) I dieci paesi candidati alla Ue; (f) Valori in % del Pil;
(g) Saldi di conto corrente e conto capitale.
le situazioni di crisi di alcuni paesi (Argentina, Brasile e Turchia), con la
possibilità di nuovi attentati terroristici, con gli sviluppi della questione irachena.
Il petrolio
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Una delle incognite dello scenario globale è rappresentata dal prezzo
del petrolio, che sta registrando ampie oscillazioni in risposta all’evolversi
delle tensioni in Iraq, paese che è secondo solo all’Arabia Saudita quanto
a riserve petrolifere (112 miliardi di barili). A settembre le quotazioni del
Brent avevano sfiorato i 30 dollari a barile. Dopo l’accordo sulla doppia risoluzione Onu sono scese sino a 23 dollari. Questo dimostra quanto il prezzo del petrolio dipenda nel breve termine dal cosiddetto «premio di guerra». Anche se si è convinti che le tensioni sfoceranno in un conflitto militare di breve durata, resta notevole l’incertezza circa le conseguenze economiche della guerra ed è difficile escludere scenari in cui il prezzo del petrolio salga ben oltre la soglia dei 30 dollari. Verosimilmente un conflitto
di breve durata dovrebbe portare solo ad una temporanea impennata e subito dopo ad un pronunciato ribasso delle quotazioni, anche perché la produzione ufficiale irachena non sarebbe più vincolata dall’accordo oil for food.
Nel nostro quadro le quotazioni del petrolio salgono a 28-30 dollari a barile per due-tre mesi durante la prima metà del 2003 e scendono gradualmente in corso d’anno, sino a 23 dollari.
Le borse e i
mercati
immobiliari
Negli ultimi due mesi le principali borse hanno messo a segno un significativo recupero, del 20% circa sia negli Stati Uniti che nell’area
dell’euro, rispetto al minimo raggiunto agli inizi di ottobre. Il rialzo ha preso avvio sull’onda dei dati favorevoli sui profitti e sulla produttività negli
Stati Uniti per il terzo trimestre dell’anno. In parte si è trattato di un rimbalzo verso quotazioni ritenute più realistiche dagli operatori, dopo i ribassi
forse eccessivi dovuti agli scandali societari. È probabile che un effetto positivo sia stato esercitato anche dall’approvazione negli Stati Uniti del Sarbanes-Oxley Act in materia di governo societario (cfr. cap. 4). È difficile dire se siamo di fronte ad una inversione di tendenza duratura, ma è certo
che la ripresa che si è registrata sino ad oggi è un fattore cruciale di miglioramento del clima economico complessivo.
Qualche preoccupazione suscita il boom che si è registrato nelle quotazioni immobiliari in diversi paesi. Dalla metà del 2000 i prezzi delle abitazioni sono cresciuti di oltre l’8% l’anno negli Stati Uniti, il doppio del
tasso di crescita medio degli ultimi venti anni. Incrementi simili o anche
superiori si sono registrati in diversi paesi europei (Francia, Italia, Olanda, Regno Unito). È evidente che l’investimento in immobili ha rappresentato, durante la crisi delle borse, l’alternativa dove impiegare il risparmio. La crescita dei valori immobiliari ha fatto così da contrappeso alla perdita di ricchezza finanziaria dovuta al crollo dei valori azionari, attenuandone l’impatto negativo sui consumi (cfr. il riquadro: I consumi delle famiglie e i mercati azionario e immobiliare negli Stati Uniti e in Europa). Tuttavia, i prezzi degli immobili sono stati anche gonfiati da fenomeni speculativi e, dunque, vi è il rischio che la situazione attuale non sia
a lungo sostenibile.
Le politiche
macroeconomiche
Il rallentamento produttivo ha riaperto anche in Europa il dibattito
sul ruolo delle politiche macroeconomiche nel governo delle fluttuazioni cicliche. Nella filosofia che ispirò il Trattato di Maastricht, fortemente influenzata dall’esperienza tedesca, le politiche macroeconomiche erano pressoché ininfluenti. La politica monetaria doveva limitarsi a garantire la stabilità dei prezzi e la politica di bilancio a mantenere l’equilibrio fra le entrate e le uscite. Questa impostazione è oggi in discussione anche in Germania. Pesa l’esempio degli Stati Uniti in cui sia la politica monetaria sia
la politica di bilancio sono state utilizzate in modo molto aggressivo per sostenere la domanda aggregata. I tassi d’interesse ufficiali sono stati ridotti, rapidamente, dal 6,5% all’inizio del 2001 all’1,25%. Il bilancio pubblico
aggregato segnava un avanzo di 1,5% del Pil nel 2000; per quest’anno si
prevede un disavanzo di circa il 3%.
La politica
monetaria
Il dibattito europeo ha riguardato soprattutto la politica di bilancio,
malgrado vi siano solidi argomenti per ritenere che il compito di stabilizzare il ciclo dovrebbe spettare anche, se non principalmente, alla Banca centrale. Gli argomenti riguardano la minore tempestività della politica di bilancio (tenuto conto dei tempi di approvazione e attuazione, le variazioni del
bilancio rischiano di arrivare sistematicamente in ritardo rispetto ai problemi) e la sua sostanziale non reversibilità (non si possono ridurre e aumentare le imposte ad anni alterni), per cui tipicamente i cambiamenti non
solo arrivano in ritardo, ma rischiano di aggravare i problemi, ossia di essere prociclici, anziché anticiclici. Nella situazione attuale, una riduzione sostanziale dei tassi ufficiali appare più che giustificata e, semmai, tardiva.
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Le politiche di
Quanto alle politiche di bilancio, la Commissione europea e l’Ecofin
bilancio
hanno notevolmente innovato, in senso meno restrittivo, l’interpretazione
del Patto di Stabilità e Crescita. Sono state rinviate le scadenze per il conseguimento del pareggio di bilancio, si è data un’interpretazione abbastanza generosa del concetto di close to balance, si è accettato di formulare gli
obiettivi in termini di bilanci strutturali, ossia corretti per gli effetti del ciclo economico, anziché di bilanci effettivi. Ulteriori modifiche e affinamenti, in particolare per tenere conto della diversa posizione debitoria dei paesi, sono attualmente in discussione.
Rispetto agli Stati Uniti, però, la ricerca di maggior flessibilità nelle
politiche di bilancio ha dei limiti che derivano essenzialmente dall’essere
l’Europa un’unione monetaria e non ancora un’unione politica. Talché è forte la tentazione di ciascun governo di guadagnare consensi all’interno con
politiche di bilancio generose, sapendo che i costi di tali politiche, in termini di maggiore inflazione o tassi d’interesse, si distribuiscono sull’intera
area monetaria. Manca peraltro un governo europeo che possa coordinare
questi processi. Il problema diventerà assai più complesso con l’allargamento a paesi che hanno esigenze finanziarie ben più cogenti delle nostre,
in termini di servizi essenziali per la collettività, quali sanità, sicurezza sociale e infrastrutture.
La congiuntura
Dato il quadro internazionale e gli andamenti congiunturali in corso,
in Italia
è molto difficile che nella media del 2002 l’Italia possa crescere ad un ritmo superiore allo 0,4% (tab. 1.2). Per avere una crescita dello 0,6% nella
media dell’anno, come prevedevamo a settembre, nel quarto trimestre si dovrebbe avere una accelerazione sino a quasi l’1%.
Sulla modesta performance dell’Italia rispetto alla media dell’area dell’euro hanno pesato, oltre ai fattori strutturali della bassa competitività, anche alcuni fattori congiunturali: la crisi economica e finanziaria in cui versa
la Germania (di gran lunga il nostro principale mercato di sbocco) e la nettissima caduta degli indici di fiducia delle famiglie. Questo fenomeno è iniziato nel gennaio del 2002 e può essere legato ad un effetto changeover più
accentuato, almeno nella percezione dei consumatori, che negli altri paesi dell’area. Ha anche pesato la debolezza dell’Italia nelle produzioni ad alta tecnologia. Questa debolezza ci ha paradossalmente aiutato nel 2001, quando il
crollo degli investimenti mondiali in Ict toccò l’Italia meno degli altri paesi
europei. Nel momento in cui questi investimenti si riportano su livelli normali, con qualche segnale di ripresa, l’Italia se ne avvantaggia meno degli altri. Sul piano strutturale ovviamente questa caratteristica del nostro sistema
produttivo è un fattore di svantaggio, perché significa essere poco presenti in
uno dei settori più dinamici dal punto di vista della domanda mondiale. Ciò
contribuisce a spiegare l’ulteriore erosione della quota di mercato dell’Italia
nel 2002, che si è tradotta in una caduta delle nostre esportazioni (–0,4%), a
fronte di una crescita del commercio mondiale stimata all’1,8%.
Un ulteriore fattore di aggravamento della situazione italiana è la crisi della Fiat. Come è stato fatto notare, la Fiat e il suo indotto non pesano
più dello 0,4-0,6% sul Pil dell’Italia, il calo di fatturato sin qui registrato è
solo una frazione di questo totale e la perdita di posti di lavoro che si prospetta è una piccola parte del turn-over generale del mercato del lavoro italiano. Tuttavia, per il suo valore simbolico e per l’attenzione che ha ricevuto nei mezzi di comunicazione e nell’opinione pubblica, la questione Fiat
sta incidendo negativamente sugli indici di fiducia generali.
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Come per il resto d’Europa, ci aspettiamo che l’attuale fase di debolezza congiunturale si trascini per buona parte del primo semestre 2003. Nel
secondo semestre dell’anno si dovrebbe registrare un recupero dei ritmi produttivi, il che consentirebbe di conseguire un tasso di crescita del Pil
dell’1,4% nella media dell’anno e del 2% tendenziale alla fine dell’anno.
Le componenti
Tale recupero sarebbe innescato dalla domanda mondiale. Questa acdella domanda celererebbe al 5,4%, consentendo alle nostre esportazioni di portarsi al 4,8%.
Si registrerebbe dunque ancora un’erosione della nostra quota del commercio mondiale.
Come spesso accade in una fase di ripresa le importazioni crescerebbero più delle esportazioni (+5,2%). Dato che le esportazioni in quantità sono maggiori delle importazioni, dal punto di vista della contabilità aritmetica della crescita ciò è coerente con un contributo del settore estero (variazione del saldo in quantità rapportato al Pil) attorno allo zero. Dal punto di vista sostanziale, però, il settore estero è cruciale in quanto la ripresa delle esportazioni attiva valore aggiunto e dunque maggiori consumi e
investimenti, una parte dei quali si rivolge all’interno. Un semplice esercizio econometrico indica che, qualora la domanda internazionale crescesse
allo stesso ritmo del 2002 (poco meno del 2%), la crescita italiana scenderebbe sotto l’1%.
Sorregge la crescita anche una certa ripresa della domanda interna,
dovuta in particolare al venir meno dell’effetto changeover che ha depresso i consumi nel 2002. L’ipotesi è che i consumatori si stiano gradualmente abituando alla nuova moneta e che cessino i fenomeni di arrotondamento
verso l’alto che hanno contribuito a tenere elevata l’inflazione sino ad oggi. La ripresa degli investimenti (+2,6%), dopo un 2002 negativo (-1,2%),
sarebbe essenzialmente trainata dal miglioramento delle prospettive della
domanda.
L’occupazione
Dopo due anni molto positivi, il mercato del lavoro italiano sta risentendo del rallentamento congiunturale in atto dal 2001. Nei primi sei mesi del 2002 l’occupazione è cresciuta solo marginalmente e si è arrestata,
per la prima volta dal 1999, la riduzione del tasso di disoccupazione. Suscita in particolare preoccupazione l’andamento delle regioni settentrionali, dove il numero degli occupati ha cominciato a diminuire e il tasso
di disoccupazione è cresciuto. Per la prima volta dal 1997, sembra inoltre
essersi arrestata la crescita degli occupati nel settore dei servizi, motore
dell’espansione occupazionale degli ultimi anni. Grazie al trascinamento
positivo ereditato dallo scorso anno, nella media dell’anno la crescita dell’occupazione si collocherà tuttavia ancora intorno all’1,2%. Al contrario,
la scarsa dinamica occupazionale del 2002 peserà in modo rilevante sulla crescita media annua nel 2003, che dovrebbe attestarsi attorno allo
0,6%.
Per il 2004 e gli anni successivi, ipotizziamo che ci sia una ripresa dell’occupazione legata anche all’approvazione della riforma Maroni del mercato del lavoro. È però cruciale che l’iter parlamentare giunga rapidamente a buon fine e che i decreti delegati siano redatti avendo come obiettivo
quello di consentire all’Italia di raggiungere gli obiettivi di Lisbona in termini di tassi di occupazione. In materia di mercato del lavoro sono già state assunte misure significative, riguardo ai contratti a termine e alle nuove norme sull’emersione del lavoro irregolare.
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Tab. 1.2 — Le previsioni del CsC: Italia
(Variazioni % salvo diversa indicazione)
1999
2000
2001
2002
2003
2004
Prodotto interno lordo
Consumi delle famiglie residenti
Investimenti fissi lordi
Macchinari e mezzi di trasporto
Esportazioni di beni e servizi
Importazioni di beni e servizi
1,6
2,4
5,7
7,7
0,3
5,3
2,9
2,7
6,5
7,1
11,7
9,4
1,8
1,1
2,4
1,5
0,8
0,2
0,4
0,1
–1,2
–3,4
–0,4
0,7
1,4
1,4
2,6
3,3
4,8
5,2
2,2
2,0
3,4
4,0
5,2
5,2
Partite correnti (a) (b)
Saldo commerciale (a)
0,9
2,0
–0,3
0,9
0,1
1,5
0,0
1,3
0,1
1,3
0,3
1,4
Occupazione totale (unità standard)
Tasso di disoccupazione (c)
Tasso di occupazione (c)
0,8
11,4
52,5
1,7
10,6
53,5
1,6
9,5
54,6
1,2
9,1
55,3
0,6
9,0
55,6
1,3
8,7
56,3
Prezzi al consumo
Retribuzioni: totale economia
industria in s. stretto
1,7
2,8
2,9
2,5
3,1
2,6
2,7
3,0
2,9
2,5
2,9
3,3
1,8
3,5
3,0
1,7
2,6
2,8
Indebitamento netto della Pa (a)
Avanzo primario Pa (a)
Spesa corrente al netto interessi (a)
Spesa per interessi (a)
Spesa in conto capitale (a)
Entrate della Pa (a)
1,8
5,0
37,7
6,8
4,0
46,7
1,7
4,7
37,4
6,5
3,7
45,9
2,2
4,1
37,6
6,3
4,1
45,8
2,6
3,3
38,1
6,0
4,0
45,4
2,3
3,5
38,1
5,8
3,8
45,4
2,0
3,6
37,7
5,7
3,7
45,0
114,5
110,5
109,8 110,3 107,7
105,0
Debito della Pa (a)
(a) Valori in % del Pil; (b) Saldi di conto corrente e di conto capitale; (c) Livelli.
L’inflazione
12
L’inflazione è nuovamente aumentata dai mesi estivi ed ha raggiunto
il 2,8% a novembre. Il processo di convergenza dell’inflazione italiana a
quella europea, che si era realizzato con successo fino ai primi mesi del
2002, si è temporaneamente arrestato. Sulla base dell’indice armonizzato
europeo, il divario a sfavore dell’Italia è dello 0,5%.
Il fenomeno non è allarmante se rimane circoscritto nel tempo. Vi è
però il rischio che entrino in gioco fattori di inerzia o addirittura di moltiplicazione dell’inflazione, qualora s’inneschi una corsa al recupero da parte sia dei sindacati sia anche di quelle imprese che ritenessero di non avere adeguato a sufficienza i propri listini. In tal caso perderemmo competitività, a danno dello sviluppo e dell’occupazione. Al riguardo si osserva che
nei nostri due principali concorrenti europei, Francia e Germania, l’inflazione si colloca all’1,9% e all’1,1%, rispettivamente. In entrambi questi paesi la crescita del costo del lavoro negli ultimi anni è stata più bassa che in
Italia. Nel periodo 1999-2002, secondo le stime della Commissione europea,
il costo del lavoro è cresciuto mediamente del 2,8% in Italia, del 2,5% in
Francia e solo dell’1,7% in Germania.
Per i prossimi mesi, segnali positivi provengono dalla dinamica moderata dei prezzi alla produzione per i beni finali di consumo, che è in significativo rallentamento rispetto all’anno scorso, e dalle indagini sulle aspettative di prezzi delle imprese. Anche scontando un aumento consistente del
prezzo del petrolio nel corso dei primi mesi del 2003, la debolezza dell’attuale fase ciclica dovrebbe contenere molto le spinte al rialzo sui prezzi.
In questo quadro, la nostra previsione dell’inflazione tendenziale, o inerziale, è 1,8% per il 2003 e 1,7% per il 2004. Risultati migliori possono es-
sere conseguiti se prevarrà la consapevolezza che le rincorse fra prezzi e
salari arrecano danno sia alla competitività del paese sia al potere d’acquisto reale dei lavoratori dipendenti. È questo peraltro il senso di uno strumento come l’inflazione programmata che continua a mantenere la sua validità, proprio in quanto si proponga obiettivi più ambiziosi (1,4%) di quelle che sono le tendenze inerziali del sistema.
I conti pubblici
Secondo le nostre stime, il disavanzo della Pa si attesterà al 2,6% del
Pil quest’anno, al 2,3% nel 2003 e al 2% nel 2004.
Le nostre stime sono meno favorevoli di quelle ufficiali (2,1% nel 2002,
1,5% nel 2003 e 0,6% nel 2004). Date però le diverse valutazioni sulla crescita, per il biennio 2002-2003 esse sono sostanzialmente in linea con l’interpretazione del Patto di Stabilità che è emersa in Europa negli ultimi mesi, in base alla quale i paesi ancora in disavanzo dovrebbero migliorare dello 0,5% ogni anno il saldo strutturale, ossia depurato per gli effetti del ciclo.
Utilizzando la metodologia della Commissione1 per il calcolo dell’output gap
e dei suoi effetti sul saldo (stabilizzatori automatici), otteniamo che il saldo
strutturale dell’Italia migliora di 0,4 punti nel 2002, raggiungendo il 2%, anche se il disavanzo nominale, ossia non corretto per il ciclo, aumenta dal 2,2%
del 2001 al 2,6%. Nel 2003, con le nostre ipotesi sulla crescita (1,4% anziché
il 2,3% previsto nel settembre scorso dal Governo), ad un disavanzo nominale del 2,3% corrisponde un disavanzo strutturale dell’1,5%. Il disavanzo strutturale scenderebbe dunque dello 0,5% rispetto al 2002. Per il 2004 riteniamo che, in assenza di ulteriori manovre, il disavanzo risalirebbe al 2,9%, per
effetto del venir meno delle misure una tantum del 2003. Queste ultime, utilizzando le valutazioni ufficiali, ammontano a quasi 19 miliardi di euro (di
cui sette provenienti dalle cartolarizzazioni già incluse nel tendenziale). Nel
nostro scenario base ipotizziamo una manovra consistente nell’autunno prossimo, tale da portare il disavanzo effettivo del 2004 al 2%.
Il debito
Le prospettive si complicherebbero notevolmente se in Europa prevalesse l’idea di imporre una riduzione del debito di quattro punti all’anno ai
paesi che superano la soglia del 60%. Nelle nostre stime, a meno di rilevanti operazioni finanziarie entro la fine dell’anno, il rapporto fra debito e
Pil dovrebbe salire leggermente nel 2002 e riprenderebbe a scendere, molto gradualmente, negli anni successivi.
Il gettito
tributario
La nostra previsione per il 2002 differisce da quella del Governo essenzialmente per il gettito tributario (+0,5%, anziché il +2,3% della Relazione Previsionale e Programmatica), anche se ipotizziamo che i risultati
dell’autoliquidazione di novembre siano soddisfacenti (anche per effetto del
decreto fiscale n. 209) e comunque tali da evitare che per il complesso dell’anno vi sia una caduta del gettito, come invece è accaduto, per ben 7,3 miliardi di euro, nei primi dieci mesi. Gli elementi di incertezza, in entrambe le direzioni, sono però ancora notevoli, riguardo all’esito effettivo dell’autotassazione, alla possibilità che venga completata entro l’anno la seconda operazione di cartolarizzazione immobiliare, per 7,8 miliardi di euro, lanciata l’8 novembre scorso, agli effetti del decreto «blocca spese».
Il maggior disavanzo 2003 rispetto alla previsione ufficiale (2,3% contro 1,5%) è spiegato dall’effetto netto dei seguenti fattori: trascinamento sul
1 La metodologia è quella del rapporto di autunno della Commissione europea (European
Economy n. 5/2002), che differisce leggermente da quella del rapporto della scorsa primavera, su cui sono basati i calcoli del Programma di Stabilità sottoposto dall’Italia a novembre.
13
2003 del maggior disavanzo 2002 (+0,4%), minor crescita 2003 rispetto alla previsione ufficiale (con effetto sul disavanzo pari ad altri 0,4 punti), minor spesa per interessi nella nostra valutazione (-0,2%), diversa valutazione della manovra della legge finanziaria (+0,2%).
La manovra
per il 2003
Riguardo a quest’ultimo punto, i dubbi riguardano soprattutto il gettito dei concordati fiscali e il fatto che non è ancora chiaro a quali provvedimenti vada ascritta una parte non piccola della manovra. Come si ricorderà,
nei comunicati ufficiali di settembre, si disse che la manovra era di oltre 20
miliardi di euro al lordo degli sgravi fiscali del Patto per l’Italia e che al netto di tali sgravi la manovra era pari a circa 13 miliardi. Dalla tabella della
relazione tecnica che quantifica gli effetti della legge Finanziaria, si evince
invece che la manovra netta è di 9,6 miliardi. Mancano all’appello 3-4 miliardi di euro che varie fonti (Banca d’Italia, Isae) classificano come «Altro»
oppure «Altro, Poste e FS». Si tratta di risparmi di spesa di cui il Governo
non ha mai ben chiarito a quali interventi si riferiscano. Va anche rilevato
che sempre dalla Relazione tecnica si evince che gli sgravi fiscali del Patto
per l’Italia valgono, rispetto alla legislazione vigente, non 7 miliardi, ma 4,3
miliardi, talché la manovra al lordo degli sgravi risulta di 13,9 miliardi (16
se si includono anche gli aumenti di spesa) e non di 20.
Al di là delle discrasie fra la comunicazione ufficiale (che è però importante perché su di essa si basano tutti i commenti e i giudizi delle prime settimane) e le cifre della Relazione tecnica, rimane il fatto che ancora
oggi non si hanno valutazioni ufficiali univoche circa l’entità e la composizione effettiva della manovra. La Relazione Previsionale e Programmatica
aggiunge elementi informativi, ma non consente di risolvere gli interrogativi di cui si è detto.
La devolution
Su questi scenari grava l’incognita della cosiddetta devolution e dell’attuazione del federalismo fiscale. Al di là dei giudizi di merito sugli esiti di un processo che nel lungo periodo, se ben governato, potrebbe portare
a maggiore efficienza, nella situazione attuale appare difficile immaginare
che il federalismo possa accompagnarsi ad una riduzione di spese. Più probabilmente vi sarà una moltiplicazione dei centri di costo. Inoltre si porrà
in misura crescente il problema di come far partecipare le amministrazioni locali agli impegni di bilancio presi in sede europea, ossia di come suddividere i tagli di spesa fra Stato centrale e sistema delle autonomie. Come mostrano anche le vicende di questi mesi della Germania, non è un problema politico di facile soluzione. Sarà particolarmente difficile in Italia dato che il disegno istituzionale del federalismo è altamente incompleto e che,
al termine del processo che è stato avviato e che si intende concludere rapidamente, quasi la metà della spesa consolidata della Pubblica amministrazione sarebbe responsabilità delle amministrazioni decentrate.
1.2
Borsa e riforme della corporate governance
In questo Rapporto (capitolo 4) affrontiamo il tema della corporate governance. Ripercorriamo il dibattito che si è sviluppato in seguito agli scandali finanziari negli Stati Uniti e diamo conto delle innovazioni legislative
in atto, con particolare attenzione naturalmente a quello che sta succedendo
in Europa e nel nostro Paese.
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La teoria
economica
Se si passa in rassegna la letteratura economica in materia si scopre
che le debolezze del sistema americano messe in luce dagli scandali erano
da tempo oggetto di studio. Il potenziale conflitto tra azionisti e manager
dell’impresa, che è tipico dei sistemi ad azionariato diffuso, è al centro di
quella che va sotto il nome di «teoria agente-principale». L’agente (ossia il
manager) dovrebbe agire nell’interesse del principale (gli azionisti), ma poiché quest’ultimo non può controllarne pienamente l’operato (un problema
di asimmetria informativa), vi è spazio per comportamenti devianti. A questo si può rimediare in vari modi, ad esempio correlando la remunerazione del manager al risultato d’impresa, cosa che permette di allineare meglio gli interessi delle due parti. Questo naturalmente riduce, ma non elimina il problema. Le stock options, che erano state originariamente pensate proprio per incentivare i manager a perseguire gli stessi obiettivi degli
azionisti, oggi sono oggetto di critiche. Sviluppi più recenti della teoria economica, in particolare il filone che va sotto il nome di Political economy Approach, hanno messo meglio in luce le potenziali implicazioni della contrapposizione agente-principale. Ad esempio è possibile che i manager si accordino con i lavoratori contro i takeover ostili, i primi per mantenere il
controllo della società, i secondi per salvaguardare i posti di lavoro o ottenere salari più elevati.
In definitiva, il conflitto tra manager e azionisti che si riscontra nei sistemi in cui prevale l’impresa ad azionariato diffuso (public company) non
è del tutto eliminabile. Si può per questo concludere che tale modello sia
inferiore a quello ad azionariato ristretto (private company) che invece prevale in Europa e ancor più in Italia? L’evidenza empirica sembrerebbe mostrare che laddove prevale la public company è assicurata nel lungo termine una migliore crescita dell’economia, un risultato che dipende essenzialmente dal fatto che in tale sistema le imprese sono maggiormente contendibili. Di contro, si argomenta, il modello opposto fornirebbe migliori garanzie sul piano della stabilità economico-finanziaria.
Tuttavia, la contrapposizione non può essere affrontata semplicemente
in termini di performance economica. Se nel modello della public company
prevale il conflitto tra azionisti e manager, in quello della private company
è pervasivo il conflitto tra gli azionisti che esercitano il controllo e i soci di
minoranza. I primi puntano a creare valore, ma possono appropriarsene a
scapito dei soci più piccoli. Non a caso in Europa le legislazioni, anche laddove tendono a mantenere nel tempo il controllo riducendo la contendibilità dell’impresa (ad esempio in Germania), garantiscono una serie di presidi a tutela dell’interesse delle minoranze.
Finanza,
diritto e
governance
Gli sviluppi più recenti della teoria economica si sono in realtà estesi
ben al di là dell’analisi dei conflitti interni alle imprese. Vari studi hanno
affrontato l’interazione tra finanza, corporate governance e diritto, contrapponendo, da un lato, il modello anglossassone, dove prevale la combinazione tra un diritto basato sulla common law, un sistema societario in
cui prevale la public company e una finanza orientata al mercato; dall’altro, il modello europeo-continentale dove, all’opposto, prevale l’associazione
tra un diritto di matrice francese (civil law) e un sistema economico incentrato sull’azionariato ristretto e l’intermediazione bancaria. Gli studiosi restano tuttavia divisi su molte questioni, in particolare sulla direzione
del nesso causale tra diritto e sistemi economici. Questa letteratura ha comunque avuto il merito di mettere in evidenza come i modelli societari sia-
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no il risultato di un lungo processo storico e dell’interazione di vari fattori
e, pertanto, non siano immediatamente esportabili in un altro contesto. Il
modello della public company richiede precise precondizioni sociali e politiche. Perché possa funzionare il delicato meccanismo di «agenzia», in cui
un azionariato diffuso delega la gestione di un’azienda ai manager, è necessario che ci sia una chiara distinzione di ruoli fra Stato, sindacato e impresa, che le regole del gioco siano chiaramente definite e uguali per tutti,
e che non ci siano interferenze politiche. Non solo in Italia, ma anche nei
principali paesi dell’Europa continentale, queste condizioni sembrano ancora lontane dall’essere realizzate. Queste considerazioni possono aiutare a
spiegare perché in Europa abbia ancora notevole diffusione il controllo ristretto attuato attraverso lunghe catene societarie che altrove si scontrano
con la sanzione del mercato.
Le nuove regole
Negli Stati Uniti i recenti casi di frode sono stati attribuiti ad una cadel governo
renza nei sistemi di controllo sull’informazione societaria. Per questo la legsocietario
ge di riforma, il Sarbanes-Oxley Act, al di là del semplice inasprimento delle pene per i reati di frode contabile, ha imposto agli amministratori delle
società nuovi obblighi di comunicazione al pubblico ed è intervenuta pesantemente sull’attività delle società di revisione. La legge istituisce, a questo riguardo, un nuovo organismo (Public Company Accounting Oversight
Board) col compito di vigilare sulle società di revisione, anche quelle straniere che operino con imprese di diritto statunitense. Non si è invece ravvisata, se non marginalmente, l’esigenza di modificare gli standards di rappresentazione contabile del patrimonio aziendale. Per questo sono rimaste
fuori dal provvedimento — e non a caso qui si appuntano le maggiori critiche alla nuova legge — le stock options, accusate di essere state uno dei
fattori che hanno incentivato i comportamenti fraudolenti.
Anche in Europa, sebbene non vi siano stati episodi di simile entità (il
caso della Vivendi è un caso di cattiva gestione, ma non di frode), gli scandali societari negli Stati Uniti hanno avuto l’effetto di accelerare la riflessione sulle riforme del diritto societario. È difficile scorgere in questo processo un filo conduttore che accomuni i vari paesi europei. Gli interventi di
riforma che si propongono, pur volendo tutti tendere ad assicurare l’efficienza del funzionamento societario e del mercato dei capitali, si caratterizzano per la pluralità degli approcci. Questo in parte si spiega col fatto
che i paesi europei sono alla ricerca di un più preciso modello di equilibrio
del mercato finanziario e dei capitali e, al momento, si trovano in una fase
di transizione di cui non è ancora chiaro l’orientamento preciso, se verso il
mantenimento di un sistema intermediato o l’accoglimento di un sistema
in cui raccolta intermediata e raccolta diretta si pongono in netta concorrenza tra loro. Questa carenza di chiarezza negli obiettivi o, comunque, la
volontà di gestire la transizione accompagnandola con una delicata, e non
sempre facile, opera di fine-tuning, può dar ragione, pur in via solo parziale, della disorganicità e frammentarietà degli interventi sulla disciplina societaria che si riscontra in Europa.
Anche a livello comunitario vi sono varie iniziative in materia di corporate governance, ma l’unica che sinora è stata portata a termine è il Regolamento (maggio 2002) che impone a tutte le società quotate di utilizzare, a partire dal 2005, i principi contabili internazionali. Tutte le altre sono ancora allo stadio pre-legislativo o di studio. Merita in particolare di essere menzionato il lavoro dell’High Level Group of Company Law Experts,
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i cui risultati sono stati diffusi a gennaio, aprile e, da ultimo, agli inizi del
mese di novembre 2002. Vengono indicati sia i principi cui dovrebbe ispirarsi la riforma del diritto societario europeo sia le linee guida per la disciplina europea delle offerte pubbliche di acquisto e scambio. Di queste ultime tiene conto l’ultima versione di proposta di XIII Direttiva sulle offerte pubbliche di acquisto e di scambio (ottobre 2002), una materia su cui una
legislazione a livello comunitario appare indispensabile per creare un level
playing field, ma su cui resta difficile coagulare un consenso.
L’Italia
Nel nostro Paese la regolamentazione in tema di corporate governance ha subito negli ultimi anni un profondo rinnovamento ed un’evoluzione
verso i modelli propri degli ordinamenti anglosassoni. Questa aspirazione
verso gli istituti propri del modello anglosassone è stata necessariamente
contemperata con le caratteristiche del nostro sistema economico, in cui
prevale il controllo ristretto dell’impresa. Ciò ha imposto la ricerca di un
punto di equilibrio tra l’esigenza di assicurare un grado adeguato di contendibilità delle imprese e la tutela degli interessi delle minoranze. In questo senso, particolarmente significativo è stato il cambiamento operato dal
Testo unico per l’intermediazione finanziaria (Tuif), che ha profondamente
riformato le norme di diritto societario applicabili alle società quotate e
quelle in tema di offerte pubbliche di acquisto. Tale evoluzione, che è stata rafforzata dal Codice di autodisciplina per le società quotate (Codice Preda), sta determinando sostanziali miglioramenti nei sistemi di conduzione
delle imprese, anche nel senso di una maggiore e più pregnante supervisione sulla gestione.
Allo stato attuale — tenendo anche conto del recente rafforzamento di
alcune disposizioni del Codice di autodisciplina in tema di amministratori
indipendenti — non sembra ravvisarsi un particolare ritardo della nostra
legislazione rispetto a quelle vigenti negli altri paesi avanzati. Peraltro alcune delle misure introdotte nell’ordinamento statunitense con il SarbanesOxley Act erano già previste in Italia. È il caso, ad esempio, della disciplina delle società di revisione, già assoggettate in Italia alla vigilanza di
un’autorità pubblica indipendente, la Consob, e per le quali è da tempo previsto un obbligo di rotazione obbligatoria, nonché un’incompatibilità rispetto alla prestazione di servizi non audit.
La riforma
del diritto
societario
È sentita tuttavia l’esigenza di una riforma più complessiva del diritto societario, che assicuri la coerenza dell’intero impianto legislativo in materia. In questo senso, la proposta formulata dalla Commissione presieduta dal Sottosegretario Vietti rappresenta un provvedimento importante e
da lungo tempo atteso. D’altra parte l’esigenza di un intervento di modernizzazione e razionalizzazione della materia, improntato ai principi di trasparenza, semplificazione del quadro regolamentare esistente e di una maggiore flessibilità organizzativa era divenuta imprescindibile, soprattutto alla luce del livello che ha raggiunto la competizione sui mercati internazionali.
La riforma avanza importanti innovazioni, tra cui vanno segnalate in
particolare la nuova disciplina per le Srl, i nuovi modelli di amministrazione e controllo previsti per le SpA, e una nuova disciplina dei gruppi di
imprese. Per quanto riguarda in particolare le SpA, la riforma introduce
una più ampia autonomia statutaria e una maggiore flessibilità nell’organizzazione degli assetti interni. Le SpA potranno scegliere tra tre modelli
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di amministrazione e controllo: quello monistico (CdA più Comitato per il
controllo interno), di tipo anglosassone; quello dualistico (Comitato di gestione più Consiglio di sorveglianza), di matrice tedesca; quello italiano (CdA
più Collegio dei sindaci). Sui gruppi di imprese, la riforma propone una disciplina basata sulla responsabilità della capogruppo nei confronti delle altre società del gruppo. Introduce, inoltre, alcune innovazioni importanti volte ad aumentare sia il grado di trasparenza nelle operazioni infragruppo
sia la tutela delle minoranze, cui viene riconosciuto un diritto di recesso
qualora la capogruppo si trasformi o modifichi il proprio oggetto sociale.
Dalla nuova disciplina il gruppo esce pienamente legittimato e ne dovrebbe anche derivare un freno al fenomeno delle «scatole cinesi».
Nonostante i notevoli aspetti innovativi della disciplina tracciata, al
momento in cui si scrive si rilevano alcune criticità relative, in particolare,
al coordinamento con altri corpi normativi (legge-delega per la riforma fiscale, adeguamento ai principi contabili internazionali, Codice Preda), al rischio di un eccesso di contenzioso, all’insufficiente chiarezza nella identificazione dei diversi modelli societari.
La riforma del
Un altro importante ambito in cui si impongono interventi miglioratifallimento
vi è quello del diritto fallimentare. La materia è allo studio di una Commissione governativa che tuttavia non ha ancora prodotto una proposta ufficiale. I principi generali cui la riforma dovrebbe ispirarsi, che richiamano
quelli adottati nei paesi più avanzati, sono ampiamente noti e condivisi. Va
abbandonata la concezione punitiva del fallimento nei confronti dell’imprenditore e, al contempo, garantita la continuità dell’attività di impresa o,
dove questo non sia possibile, del suo valore residuo. Le procedure vanno
rese più rapide ed efficienti, minimizzando gli interventi giudiziali ed esaltando il ruolo del mercato col maggior ricorso a soluzioni negoziate tra le
parti.
Gli analisti
finanziari
Un altro punto importante riguarda l’attività degli analisti finanziari.
In tale ambito andrebbe rafforzata la potestà regolamentare della Consob
e previsti a livello legislativo — coerentemente con la proposta di direttiva comunitaria sugli abusi di mercato — obblighi di correttezza a carico di
chi produca o diffonda presso il pubblico studi su strumenti finanziari, nonché obblighi di pubblicità dei conflitti di interesse riguardanti gli strumenti
raccomandati.
Per concludere, anche se in Italia sono stati fatti importanti passi avanti per adeguare le regole del governo societario agli standards dei paesi più
avanzati, molto si può ancora fare, sul piano delle norme e su quello dei
comportamenti, in particolare per migliorare il rapporto fra imprese e mercati finanziari. È auspicabile, in particolare, una più diffusa e cogente applicazione delle regole e dei codici di autodisciplina già esistenti. In generale, occorre garantire un quadro di regole chiaro e trasparente, che assicuri ai risparmiatori la possibilità di scegliere con piena informazione tra
le varie opzioni disponibili e al tempo stesso consenta di punire con severità i comportamenti devianti.
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