VIAGGIO IN OCCIDENTE

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VIAGGIO IN OCCIDENTE
Wu Cheng'en
VIAGGIO IN OCCIDENTE
PARTE II
CAPITOLO 48
MAGICA GELATA
IN CUI L’ORCO SOLLEVA VENTO GLACIALE E TURBINI DI NEVE; I PELLEGRINI, CON IL BUDDHA
NELLA MENTE, SI AVVENTURANO SUL GHIACCIO.
Fra grida e clamori, dice il racconto, la folla dei fedeli del villaggio della famiglia Chen portava
Scimmiotto e Porcellino, con le offerte di carni di porco, pecora e bue e con il vino di riso. Giunti al
Tempio di Meravigliosa Efficacia, collocarono sull’altare il bambino e la bambina. Girando intorno
gli occhi, Scimmiotto guardava le candele di cera, l’incenso e le decorazioni dell’altare; non vi era
alcuna immagine del dio, ma solo la scritta in lettere d’oro:
DIVINITÀ DEL GRANDE RE DI MERAVIGLIOSA EFFICACIA
Disposta in ordine ogni cosa, i fedeli si prosternarono davanti alla scritta e dissero in coro:
«Grande re nostro signore, in quest’ora di questo mese di quest’anno, a nome di Chen Cheng,
maestro del sacrificio del villaggio della famiglia Chen, e di tutti gli altri fedeli, vi abbiamo
rispettosamente portato la nostra offerta annuale secondo l’uso. Offriamo al vostro regale piacere il
maschio Protetto di Guan e la bambina Bilancia Colma d’Oro, con la quantità stabilita di porco,
pecora, bue e vino di riso. Vogliate concederci venti e piogge propizi, e un raccolto abbondante.»
Terminata la preghiera, bruciarono carta votiva e se ne tornarono a casa.
Quando restarono soli, Porcellino propose a Scimmiotto: «Andiamocene a casa anche noi.»
«Dove sarebbe la tua casa?»
«Andiamo a dormire dal vecchio Chen.»
«Bestia, non dire sciocchezze. Hai promesso e ora devi mantenere.»
«Dài a me della bestia, ma lo sei tu. Non penserai di offrirti davvero in sacrificio! Li abbiamo
presi in giro e ci siamo divertiti; adesso basta.»
«Ciò che fai per gli altri non lasciarlo a metà. Non ne verremo a capo se non aspettiamo che
questo re ci venga a divorare. Altrimenti procureremmo soltanto disgrazie, faremmo un bel
disastro.»
Mentre parlavano, si udì il vento sibilare.
«Va male!» brontolò Porcellino. «Ecco il rumore che fa quel coglione quando arriva.»
«Zitto!» lo sgridò Scimmiotto. «Se occorre rispondere, parlo io.»
Dopo un istante il mostro apparve all’ingresso del tempio. Eccolo qua:
Armato d’oro, con rossa cintura,
Con occhi scintillanti come stelle
Della notte, mostrando denti aguzzi
Come seghe. Ondeggiano ai suoi piedi
Brume acquatiche. Il corpo è circondato
Da un umido vapore. Se cammina
Muove vento malefico; da fermo
Ristagna intorno a lui un’aria mefitica.
È minaccioso come un capitano
Del palazzo, più brutto di un guardiano
Del tempio.
Stagliandosi sulla porta del tempio, l’orco domandò: «Quale famiglia offre il sacrificio
quest’anno?»
«Sono onorato dalla vostra domanda» rispose Scimmiotto. «Quest’anno tocca alla famiglia di
Chen Cheng e Chen Qing.»
Il mostro restò perplesso: «Com’è disinvolto questo bambino!» si diceva. «Ha la battuta pronta.
Quelli che mi portano di solito sembrano muti; se ripeto la domanda svengono, se gli metto le mani
addosso sono già morti. Come mai questo bimbetto risponde così bene?» Esitò ad acchiapparli e
fece un’altra domanda: «E come vi chiamate voi due?»
«Io mi chiamo Protetto di Guan; la bambina, Bilancia Colma d’Oro.»
«Secondo l’uso di questo sacrificio, devo incominciare col mangiare te.»
«Prego, s’accomodi.»
Il mostro si sentì ancor meno propenso a passare all’azione. Incominciò a urlare: «Non
prendermi in giro! Ho sempre mangiato il maschio per primo, ma quest’anno voglio incominciare
dalla femmina.»
Porcellino si spaventò e volle dire la sua: «Grande re, bisogna rispettare le usanze. Non sta bene
violare le regole.»
Senza altre spiegazioni l’orco allungò la mano e volle impadronirsi della piccola pettegola. Il
bestione saltò giù, riprese il proprio aspetto e gli assestò un colpo di rastrello. Il mostro ritirò la
mano e si diede alla fuga; si udì però un rumore metallico. «Gli ho staccato un pezzo di armatura»
gridò Porcellino.
Scimmiotto, che aveva ripreso anche lui il suo aspetto, esaminò gli oggetti caduti a terra: erano
due scaglie di pesce dall’aspetto di lastre di ghiaccio.
«Prendiamolo!» gridò; ed entrambi balzarono in aria.
Il mostro non aveva con sé armi d’offesa, e si era pertanto rifugiato sulle nuvole a mani vuote.
Quando li vide arrivare chiese loro: «Da dove uscite, monaci, che venite a perseguitare la gente,
guastare le mie offerte e rovinarmi la reputazione?»
«Fa finta di niente, la maledetta creatura! Noi siamo discepoli di un santo monaco che
l’imperatore dei grandi Tang ha inviato nel Paradiso dell’Ovest in cerca delle scritture. Passavamo
la notte dai Chen, quando abbiamo appreso che c’era qui un essere perverso, che si faceva chiamare
Meravigliosa Efficacia ed esigeva ogni anno un sacrificio di bambini. Di nostra iniziativa, mossi
dalla compassione, abbiamo deciso di salvare i bambini e di catturare l’infame. Confessa finché sei
in tempo! Quanti bambini hai mangiato da quando hai avuto la sfacciataggine di proclamarti grande
re? Se vuoi salvare la pelle, devi confessare tutti i tuoi misfatti.»
Ma il mostro schivò un’altra rastrellata di Porcellino e prese la fuga, dileguandosi nel Fiume
Comunicante con il Cielo.
«Inutile inseguirlo adesso» disse Scimmiotto. «È una creatura del fiume. Domani troveremo il
modo di catturarlo, per costringerlo ad aiutarci nella traversata.»
Andarono al tempio e riportarono dai Chen tutte le offerte, comprese le tavole. Il reverendo e
Sabbioso, che in compagnia dei Chen attendevano notizie, li videro arrivare con il loro carico nella
corte.
«Com’è andata, Consapevole del Vuoto?» chiese Tripitaka facendosi loro incontro.
Scimmiotto raccontò. I due vecchi, tutti contenti, fecero preparare i letti in una stanza e
invitarono gli ospiti a coricarsi.
Intanto il mostro era scampato nel suo palazzo in fondo al fiume. Se ne stava seduto in cupo
silenzio, e la gente acquatica venne a informarsi: «Maestà, ritornate sempre allegro dai sacrifici
annuali. Perché questa volta siete tanto di malumore?»
«Lo vedete anche voi. Le altre volte vi portavo sempre qualcosa da mangiare, ma questa notte
non ho potuto toccare cibo neanch’io. Che sfortuna! Mi sono imbattuto in un paio di avversari, e
poco è mancato che ci lasciassi la pelle.»
«Di chi si trattava, maestà?»
«Sono discepoli di un santo monaco dei grandi Tang che va nel Paradiso dell’Ovest in cerca delle
scritture. Si erano messi in agguato nel tempio, trasformati in bambini: quando hanno ripreso il loro
aspetto me la sono vista brutta. Avevo già sentito parlare di questo monaco cinese: è un certo
Tripitaka che si è coltivato per dieci successive reincarnazioni; basterebbe mangiare un boccone
della sua carne per procurarsi longevità a tempo indefinito. Non mi aspettavo che avesse certa gente
al suo servizio. Mi hanno rovinato la reputazione e distrutto il culto che mi era dovuto. Mi
piacerebbe tanto mettere le mani su quel Tripitaka, ma non credo di essere in grado di farlo.»
Una signora perca in abito rigato si fece avanti, gli fece una gran riverenza e disse: «Ma se vostra
maestà ci tiene tanto, non è difficile. Non ho proprio idea di quale sarebbe la mia ricompensa, se vi
aiutassi.»
«Se mi proponi un piano che arrivi allo scopo, mi rivolgerò a te come sorella giurata e ti godrai
la preda con me, alla mia tavola.»
La signora perca ringraziò della promessa con un altro inchino e riprese a parlare: «Sappiamo
che vostra maestà è abile nel convocare venti e piogge, sollevare il mare e invertire il corso del
fiume. Per caso, ci sapete fare anche con la neve?»
«Ma certo.»
«Se siete in grado di maneggiare la neve, suppongo che potrete provocare un freddo tale da far
gelare il fiume.»
«Si capisce.»
«Dunque» concluse la signora perca ridendo e battendo le mani, «è cosa fatta.»
«Spiegati meglio.»
«Verso la terza veglia, intorno a mezzanotte, dovete sollevare un vento gelato che faccia
ghiacciare l’acqua del fiume. Quelli fra noi che sanno trasformarsi prenderanno forma umana e
cammineranno sul ghiaccio, con sacchi in spalla e ombrelli in mano, spingendo carrette o reggendo
bilancieri, come se venissero dalla riva occidentale. Il monaco cinese sarà certo impaziente di
proseguire il suo viaggio, e quando li vedrà vorrà avventurarsi sul ghiaccio anche lui.
«Intanto vostra maestà se ne starà comodamente seduto a casa sua. Quando sentirà risonare i
passi del monaco, spezzerà il ghiaccio e farà cadere in acqua lui e i suoi discepoli. Li prenderemo in
un colpo solo.»
«Che bel piano!» esclamò contento il mostro. Uscì senz’altro dal palazzo e salì nelle alte sfere
per procurarsi gelo e vento di neve.
Nel frattempo i pellegrini dormirono pacificamente fin verso l’alba; ma a un tratto sentirono il
freddo penetrare sotto le coperte e nei guanciali. Porcellino si mise a tremare e starnutire, si svegliò
e gridò: «Che freddo è venuto, fratelli!»
«Un po’ di contegno, babbeo» brontolò Scimmiotto. «Per chi ha lasciato la sua famiglia non fa
differenza se è caldo o freddo.»
«Tuttavia, discepoli» intervenne Tripitaka, «fa proprio un freddo glaciale.»
Vedete come stavano le cose:
A scaldarti il piumino è insufficiente:
Ti trovi ghiaccio fino nelle maniche.
Sulle fronde gelate vedi crescere
Dei boccioli di vetro; campanelle
Di ghiaccio vedi pendere dai rami
Del vecchio pino. Quell’intenso gelo
Spacca il terreno e imprigiona nel ghiaccio
Tutta la superficie dello stagno.
Il pescatore abbandona la barca,
Non dà segno di vita il monastero,
Il boscaiolo va in cerca di legna,
Mentre carbone al fuoco aggiunge il nobile.
La barba del guerriero divien rigida
Come punte di ferro. Ed il pennello
Del poeta esiliato s’indurisce
Come uno stelo di castagna d’acqua.
Veste di cuoio diviene sottile
E la pelliccia sembra più leggera.
Sui cuscini la vecchia tonaca del monaco assume una rigidità cadaverica. Che protezione sottile, per il viaggiatore,
quella parete divisoria di carta! Anche sotto le coperte ricamate e gli alti piumini, i brividi ti scuotono dalla testa ai
piedi.
Impossibile continuare a dormire. Dovettero alzarsi e vestirsi, e quando aprirono l’uscio videro
un paesaggio candido e scintillante: era caduta la neve.
«Per forza si sentiva tanto freddo: guardate che nevicata!»
Tutti e quattro restarono in contemplazione del bello spettacolo. Guardate:
Denso schermo di cupe nubi, foschia diffusa - sotto quelle nuvole urla il vento gelato, sotto quella foschia una candida
neve copre ogni cosa. I fiocchi esagonali volano come fiori o gioielli; i mille alberi della foresta si adornano di giada
bianca. Spolvera una gran quantità di farina, si accumulano giganteschi ammassi di sale. Il pappagallo bianco perde il
suo candore, la gru diviene invisibile sullo sfondo. La neve si appropria dei mille fiumi di Wu e di Chu, eclissa il fiore
del prugno del sud est.
È come se centomila draghi di giada bianca in rotta riempissero il cielo di scaglie e di frammenti di armature.
Non cercate qui le calzature senza suole di Dongguo, né il letto in cui congelò Yuan An, né il riflesso di luce che serviva
a Sun Kang per leggere. Non ci troverete neppure la barca di Ziyou, la cappa di Wang Gong o il cappello di feltro che
Su Wu finì per mangiarsi. Vedrete soltanto capanne di villaggio come blocchi d’argento, l’immenso paesaggio sotto un
lenzuolo di giada bianca.
Che bella neve! Come se il ponte si fosse riempito di fiocchi di salice, e i tetti si fossero coperti di fiori di pero. Sul
ponte il pescatore si protegge con la sua cappa di paglia; sotto il tetto il vecchio aggiunge al fuoco grosse radici
d’albero. Il viaggiatore non trova più vino con cui riscaldarsi; il servitore si scusa di non essere riuscito a procurare
prugne.
Turbinano i fiocchi come ali di farfalla, danzano e dondolano come piumino d’oca. Il vento spinge la neve caduta,
l’ammassa fino a bloccare le strade. Le raffiche penetrano sotto le cortine troppo corte, creano correnti d’aria che si
insinuano nei tendaggi.
È un segno fasto che cade dal cielo promettendo un buon raccolto; è per gli umani una rara occasione da festeggiare.
Cadeva neve in abbondanza, come frammenti di giada, o come borra di seta. Maestro e discepoli
erano ancora perduti nella contemplazione della scena, che strappava loro sospiri di ammirazione,
quando giunsero due giovani servitori mandati dai vecchi Chen a spazzare il sentiero, e altri due a
portare l’acqua calda per lavarsi. Un momento dopo venivano serviti tè bollente e biscotti al burro.
Infine si portarono dei bracieri nella stanza accanto, e tutti vi si riunirono intorno.
«Stimato donatore» chiese Tripitaka, «voi, da queste parti, conoscete le stagioni? Primavera,
estate, autunno, inverno?»
«Certo viviamo in un angolo di mondo un po’ appartato, dove gente, cose e costumi sono diversi
che nel vostro grande paese; ma vi prego di considerare che ci copre lo stesso cielo. Si capisce che
abbiamo anche noi le stagioni.»
«Ma allora come spiegate un freddo simile e questa grande nevicata?»
«È vero che siamo ancora nella settima luna, ma ieri era il giorno della rugiada bianca, che
annuncia l’imminenza dell’ottava luna. Da noi non sono troppo rare nevicate e gelo nell’ottava
luna.»
«Da noi nell’Est è diverso» si stupì Tripitaka. «Non nevica mai prima dell’inverno.»
Un piccolo servitore portò in tavola della zuppa e li invitò a mangiare. Mentre facevano
colazione continuava a nevicare: in breve la neve fu alta due piedi. Tripitaka piangeva
dall’inquietudine.
«Non ve la prendete, signore» disse il vecchio Chen. «Non badate quanto è alta la neve.
Abbiamo una tale scorta di grano che potrebbe durare metà della vostra vita.»
«Non sapete il mio tormento, caro donatore. Quando la sacra persona dell’imperatore mi fece la
grazia di affidarmi la missione e mi accompagnò personalmente, levando la coppa al banchetto
d’addio con le sue imperiali mani, mi chiese quando sarei ritornato. Io non sapevo quanti ostacoli e
pericoli avrei incontrato per strada, e risposi lì per lì: ‘Ritornerò con le scritture in meno di tre anni.’
E ora sono già passati sette od otto anni, e non ho ancora visto la faccia del Buddha. Temo di avere
superato i limiti, e mi spaventano le violenze dei mostri e degli esseri malefici: perciò l’inquietudine
mi rode. Dal momento che abbiamo avuto la fortuna di godere della vostra ospitalità e che la notte
scorsa i miei stupidi discepoli vi hanno reso un piccolo servigio, speravo proprio che mi procuraste
una barca per attraversare il fiume. Ma ora cade tutta questa neve, che finirà per bloccare le strade.
Mi chiedo quando mai riuscirò a completare la mia missione e a tornare nel paese natale.»
«Signore, rassicuratevi. Che differenza fa qualche giorno di più o di meno? Aspettate che il
ghiaccio si sciolga e che torni il bel tempo. Affronteremo ogni sforzo, ogni spesa per assicurarvi la
traversata.»
Un ragazzo li invitò a consumare un’altra colazione nella sala grande. Dopo poco seguì il pranzo.
Tripitaka si sentiva molto imbarazzato davanti a quell’abbondanza di cibi: «Poiché ci fate la grazia
di ospitarci, ci dovreste trattare più alla buona.»
«Signore, non c’è sontuoso festino che ci possa sdebitare della gratitudine che vi dobbiamo per
aver salvato i nostri bambini.»
Quando cessò di nevicare, la gente riprese a circolare nelle strade. L’aspetto infelice di Tripitaka
indusse il più anziano dei Chen a far spazzare il giardino, recare un grande braciere e invitare la
compagnia a visitare la grotta delle nevi, per distrarsi e godere dello spettacolo.
La cosa fece ridere Porcellino: «Vecchio svanito! In giardino si va in primavera, nella seconda o
terza luna, a godere i fiori. Bel piacere, con il freddo che fa!»
«Si vede che non te ne intendi, bestione» lo punzecchiò Scimmiotto. «Un paesaggio innevato è
bellissimo, ha un fascino distensivo e misterioso. Il nostro maestro ha appunto bisogno di serenità.»
«È proprio quello che pensavo» approvò il vecchio Chen. E li condusse nel giardino, in cui si
vedevano
aria e luce da fine anno in un paesaggio d’autunno. Boccioli di candida giada cresciuti sul vecchio pino; fiori d’argento
pendono sui rami del salice piangente. I gradini muschiosi si sono coperti di bianco; davanti alla finestra il bambù
sembra un delicato gioiello. L’acqua della peschiera è ghiacciata. Sulla sponda impallidiscono i colori dell’ibisco. Il
prugno invernale sembra voler mettere rami nuovi. I padiglioni sono coperti di piumino d’oca, tanto quello delle peonie
che quelli del melograno e del cinnamomo. Tutto è coperto da ali di farfalla. L’acero rosso si macchia di bianco, l’oro
dei crisantemi spunta sotto la siepe. Fra tanti luoghi che il freddo glaciale rende inaccessibili, apprezzate la grotta delle
nevi, che invece è resa confortevole dal grande braciere a zampe d’elefante e musi di animali, in cui arde rosseggiando
un fuoco vivace. Vi sono disposte poltrone laccate ricoperte da pelli di tigre, al riparo di paraventi di carta.
Ai muri sono appese antiche pitture, come i sette saggi che attraversano il passo di montagna, il pescatore solitario sul
fiume ghiacciato, Su Wu che mangia il suo cappello di feltro in un paesaggio di creste innevate, spezza un ramo di
prugno quando incontra il messaggero e traccia un messaggio sul ghiaccio nella foresta di giada. Non si finirebbe mai di
descrivere: qui c’è il padiglione in riva all’acqua, dove si può comprare il pesce, là il sentiero di montagna perduto nella
neve. Sono luoghi magici, vederli rende inutile la visita alle isole incantate.
Dopo aver ammirato, la compagnia si sedette nella grotta. Si parlò della ricerca delle scritture.
Poi venne servito del tè al gelsomino; dopo averlo bevuto il più anziano dei Chen domandò: «Un
po’ di vino, signori?»
«Io non ne bevo» rispose Tripitaka, «ma i miei giovani discepoli ne possono vuotare qualche
coppa.»
Il vecchio Chen ordinò: «Portate qualche piatto di magro e fate intiepidire il vino per riscaldare
questi signori.»
I domestici disposero tavolini intorno al braciere e servirono cibo e vino. Quando il cielo divenne
scuro, furono pregati di ritornare nella sala per la cena. Allora intesero gente per la strada che
esclamava: «Che freddo! Il fiume si è ghiacciato.»
Tripitaka si inquietava: «Consapevole del Vuoto, come si fa, se il fiume è ghiacciato?»
«È un freddo venuto all’improvviso» intervenne il vecchio Chen. «Ci sarà un po’ di ghiaccio in
prossimità della riva.»
«Per quanto è largo, è tutto un blocco di ghiaccio liscio come uno specchio» esclamavano i
passanti. «C’è gente che ci cammina sopra.»
Quando sentì che ci si poteva camminare, Tripitaka volle andare a vedere.
«Non siate precipitoso» consigliò il vecchio Chen; «domani andremo a vedere.» Infatti, finita la
cena, si andarono a coricare.
L’indomani all’alba, quando si alzarono, Porcellino disse: «Maestro e condiscepoli, la notte è
stata ancor più fredda della precedente; vedrete che ghiaccio nel fiume!»
Tripitaka volse gli occhi al cielo e pregò: «Alte divinità che proteggete la dottrina, da quando il
vostro servitore è partito per l’Ovest non si è mai lagnato e ha venerato il Buddha con cuore sincero
per tutta la durata di questo difficile viaggio. Ora ringrazio il cielo dell’aiuto che mi dà congelando
il fiume. Vi esprimo con semplicità la mia gratitudine, in attesa di potervela meglio testimoniare al
ritorno, quando farò il mio rapporto all’imperatore.»
Terminata la preghiera, disse senz’altro a Sabbioso di sellare il cavallo per attraversare il fiume
ghiacciato.
Il rispettabile Chen intervenne di nuovo: «Non abbiate tanta fretta. Fra qualche giorno la neve e
il ghiaccio si scioglieranno. Allora vi troverò una barca.»
«Non è una decisione da prendere alla leggera» disse Sabbioso. «Non conviene fidarsi del sentito
dire: andiamo a vedere con i nostri occhi. Sellerò il cavallo e scenderemo al fiume.»
«Questo è ragionevole» concluse il vecchio Chen. «Ragazzi, andate a sellare sei cavalli per noi;
il monaco cinese ha già il suo.»
La compagnia si recò al fiume. Di certo
l’alba chiara disperde le montagne di nuvole. Il gelo imbianca i mille picchi delle frontiere, il ghiaccio brilla su laghi e
fiumi. Un vento pungente soffia sul suolo scivoloso. I pesci dello stagno si rifugiano fra le alghe, gli uccelli selvatici
restano appollaiati sui rami. Si battono i denti, le dita si congelano, si crepa il ventre del serpente, scrocchiano le zampe
degli uccelli. Che montagne di ghiaccio! Il fiume è ridotto ad un blocco di giada. Se l’Est produce i famosi bozzoli di
ghiaccio, nei ghiacci del Nord scavano gallerie i toporagni. È qui che Wang Xiang si stese sul ghiaccio per scioglierlo?
È là che l’imperatore Guangwu attraversò il fiume ghiacciato? In una notte il ghiaccio ha raggiunto il fondo. L’ampio
fiume comunicante con il cielo non ha più una sola increspatura: il ghiaccio scintillante è solido come la terraferma.
Giunto sulla sponda, Tripitaka trattenne il cavallo per osservare: in effetti si vedeva gente che
camminava sul fiume.
«Dove andrà quella gente, caro donatore?» chiese Tripitaka.
«Dall’altra parte del fiume c’è il paese delle donne, il regno dei Liang dell’Ovest. Quelli che
vedete sono mercanti. Un prodotto che qui costa cento sapeche, là ne può costare diecimila, o
viceversa. Il profitto che dànno i capitali impegnati in questi commerci è enorme; perciò la gente è
disposta a rischiare la vita. Di solito sei o sette persone, a volte dieci, si imbarcano insieme per
tentare la traversata. Ora che il fiume è gelato, si arrischiano a piedi.»
«Gloria e profitto sono le sole cose che contano, in questo basso mondo. Essi trascurano i
pericoli e la morte attirati dal profitto, come noi dalla gloria. Che differenza c’è fra loro e noi?» Su
queste riflessioni, Tripitaka ordinò: «Consapevole del Vuoto, vai a raccogliere i bagagli.
Approfitteremo del ghiaccio per affrettare la nostra marcia verso ovest.»
«Maestro» obiettò Sabbioso, «come dice il proverbio: in mille giorni consumi mille litri di riso.
Visto che possiamo contare sull’ospitalità dei Chen, non sarebbe più sicuro aspettare qualche giorno
che il bel tempo faccia sciogliere il ghiaccio, per attraversare in barca? La fretta potrebbe essere
cattiva consigliera.»
«Consapevole della Purezza, come puoi dire queste stupidaggini? Se fossimo nella prima o nella
seconda luna, potremmo aspettare che la stagione migliori. Ma siamo nell’ottava: c’è tutto l’inverno
davanti a noi. Come possiamo sperare nel disgelo? I pochi giorni di attesa non potrebbero diventare
un ritardo di sei mesi?»
«Non stiamo a discutere» intervenne Porcellino balzando a terra dal cavallo. «Controlliamo se il
ghiaccio è abbastanza spesso.»
«Bestione» chiese Scimmiotto, «l’altra notte hai controllato se l’acqua fosse profonda gettando
un sasso; ora che tutto è solido, come farai?»
«Non te ne intendi, fratello. Gli darò sopra un colpo con il rastrello: se si rompe è troppo sottile e
non ci si può fidare; se resta saldo, vuol dire che è abbastanza spesso. E allora non ci sarebbe
motivo di stare qui ad aspettare.»
«Giustissimo» approvò Tripitaka, «mi sembra molto sensato.»
Il bestione rimboccò la veste, balzò sul ghiaccio e vi batté il suo rastrello a tutta forza: si intese
soltanto un colpo sordo e restarono i segni dei nove denti. Il bestione gridò: «Si può andare dove si
vuole. È gelato fino in fondo.»
Soddisfatto dell’esito, Tripitaka ritornò dai Chen con tutta la compagnia. Non restava che
prepararsi e partire. I loro ospiti, dopo avere invano cercato di trattenerli, si rassegnarono a
preparare per loro pane, gallette e grano grigliato. Tutti i membri della famiglia si prosternarono
davanti a loro, mentre veniva offerta una tazza colma di pezzi d’oro e d’argento: «Vi siamo
profondamente riconoscenti di avere reso la vita ai nostri bambini. Eccovi di che procurarvi un
pasto lungo la strada, a testimonianza del nostro rispetto.»
Tripitaka scosse il capo e fece con la mano un gesto di diniego, spiegando che non poteva
accettare: «Abbiamo lasciato le nostre famiglie e fatto voto di povertà; a che ci servirebbe la
ricchezza? Non possiamo usare denaro lungo il cammino, perché dobbiamo mendicare il nostro
cibo e vivere di elemosine. Però vi siamo grati di pane e grano.»
Poiché i due vecchi insistevano, Scimmiotto prese con la punta delle dita un pezzo di metallo di
circa mezza oncia e lo tese al monaco cinese dicendo: «Maestro, prendetelo a titolo di pia
donazione, per non deludere la buona intenzione di questi nobili vecchi.»
Con ciò si congedarono e raggiunsero la sponda del fiume. Ma gli zoccoli del cavallo
scivolavano sul ghiaccio: per poco Tripitaka non cadde giù.
«Maestro, non è facile avanzare in queste condizioni» si inquietò Sabbioso.
«Aspettate!» gridò Porcellino. «Chiedete una balla di paglia al vecchio signor Chen.»
«A che serve?» si stupì Scimmiotto.
«Già, come potresti saperlo? Si avvolgono nella paglia gli zoccoli del cavallo per impedire che
scivoli; non c’è altro modo di evitare al maestro di fare un ruzzolone.»
Il vecchio Chen, che guardava e sentiva dalla riva, fece portare la balla di paglia e poterono
ripartire.
Dopo tre o quattro li, Porcellino tese a Tripitaka il bastone da pellegrino con nove anelli e gli
disse: «Maestro, tenete questo di traverso sul cavallo.»
«Bestione, che cosa fai?» intervenne Scimmiotto. «Tocca a te di portare il bastone, perché lo dài
al maestro?»
«Tu non hai mai camminato sul ghiaccio» replicò Porcellino. «Se lo avessi fatto, sapresti che qua
e là nella superficie gelata si formano dei buchi. Se ci caschi scendi giù con un bel gorgoglio, come
se scivolassi in una gran marmitta di cui si chiuda il coperchio, e non riesci più a risalire. Per
evitarlo, bisogna tenere in mano un oggetto troppo largo per passare dal buco.»
«Si direbbe che questo bestione abbia passato la sua vita sul ghiaccio» si disse Scimmiotto
sogghignando. Tutti seguirono il consiglio: il reverendo con il bastone da pellegrino, Scimmiotto
con la sbarra di ferro e Sabbioso con il suo randello ammazzadiavoli. Quanto a Porcellino, che già
portava i bagagli appesi a un bilanciere, si legò per soprammercato il rastrello alla vita. I pellegrini
avanzavano con passo sicuro.
Dopo aver camminato fino a notte mangiarono un po’ delle provviste, ma non osarono fermarsi a
lungo: ripresero il cammino alla smorta luce della luna e delle stelle, che si rifletteva sull’immensa
distesa gelata. Non chiusero occhio per tutta la notte. All’alba fecero un’altra breve sosta,
mangiarono un po’ di cibo e ripresero il cammino.
Mentre camminavano, si udì sotto la superficie un gran rumore; il cavallo bianco trasalì e fu per
scivolare.
«Discepoli!» gridò allarmato Tripitaka, «che cosa significa?»
«Son rumori del ghiaccio» spiegò Porcellino. «Probabilmente arriva sino al fondo e raschia il
letto del fiume.»
Tripitaka si rassicurò e spronò la sua cavalcatura.
Intanto il mostro, ritornato nella sua residenza, aveva riunito le creature acquatiche sotto il
ghiaccio. Aspettarono un bel pezzo, e finalmente udirono battere gli zoccoli di un cavallo. Allora il
mostro, con il suo potere magico, spezzò il ghiaccio. Al gran colpo Scimmiotto balzò in aria; gli
altre tre e il cavallo furono inghiottiti.
L’orco afferrò Tripitaka e rientrò in casa alla testa dei suoi spiriti malefici, gridando con voce
tonante: «Dov’è la mia sorella perca?»
Essa lo venne ad accogliere all’ingresso: «Maestà, sono confusa; non oso pretendere...»
«Ma come, saggia sorella! Te lo avevo detto: Sfuggita la parola, non c’è cavallo che la
raggiunga. Avevo promesso che, se avessimo catturato il monaco cinese, ti avrei trattato da sorella
giurata. Non ritiro certo la parola ora che i tuoi piani sono risultati così efficaci e il monaco è nelle
nostre mani.» E ordinò: «Ragazzi, preparate la tavola e affilate i coltelli. Prima di cucinare questo
bonzo bisogna aprirgli il ventre, levare le interiora, scorticarlo e disossarlo. Durante il pranzo, che
consentirà a me e a mia sorella di prolungare indefinitamente la nostra longevità, voglio musica.»
«Non mangiamolo subito, maestà. Ci sono ancora in giro i suoi discepoli, che potrebbero far
chiasso» obiettò la perca. «Pazientate due giorni: il tempo di assicurarvi che tutto sia messo a tacere.
Allora lo cucineremo e pregheremo vostra maestà di sedersi al posto d’onore, circondato da tutta la
sua gente acquatica che lo servirà, canterà, danzerà e farà musica. Non è meglio fare le cose nel
modo più comodo e prudente?»
L’orco seguì il consiglio e per il momento fece mettere il monaco cinese in dispensa, dentro un
cofano di pietra lungo sei piedi che si trovava nel cortile posteriore.
Porcellino e Sabbioso erano invece riusciti a risalire alla superficie, a ripescare i bagagli e a
caricarli sul cavallo. Scimmiotto li vide dall’alto e chiese loro: «Che ne è del maestro?»
«È andato a fondo. Per il momento è impossibile ripescarlo. Torniamo a riva e decidiamo sul da
farsi.»
I pellegrini erano perfettamente a loro agio nell’acqua: Porcellino era l’avatara dell’Ammiraglio
dei Canneti Celesti e aveva avuto ai suoi ordini ottantamila marinai, Sabbioso veniva dal Fiume
delle Sabbie Mobili, il cavallo stesso era figlio del drago dei mari occidentali. Quanto a Scimmiotto,
dirigeva le operazioni dall’alto. Raggiunsero rapidamente la riva orientale, strofinarono e
asciugarono il cavallo e strizzarono i propri vestiti, mentre Scimmiotto scendeva a terra. Se ne
ritornarono così al villaggio dei Chen. I due patriarchi si sentirono annunciare: «Delle quattro
persone in cerca delle scritture, ne restano solo tre.»
I fratelli si affrettarono a uscire per accoglierli, li videro tutti bagnati e commentarono:
«Avevamo pur insistito perché rimaneste qui. Voi avete rifiutato, ed ecco il risultato. Come mai il
reverendo Tripitaka non è con voi?»
«Chiamatelo piuttosto reverendo Colapicco!» brontolò Porcellino.
«Poverino!» esclamarono i vecchi versando lacrime. «Poteva aspettare che il ghiaccio si
sciogliesse, per attraversare in barca. Gliel’avevamo detto, ma non ha voluto, e ora ha perduto la
vita.»
«Non ve la prendete per il vostro amico. Non è mica morto il nostro maestro, e chissà quanto
vivrà ancora» disse Scimmiotto. «Sono convinto che è stato un tiro mancino di quel grande re della
Meravigliosa Efficacia. State tranquilli. Fate inamidare i nostri vestiti, asciugare i documenti di
viaggio e foraggiare il cavallo bianco; intanto noi cercheremo quel tizio e libereremo il nostro
maestro. Vi garantisco che estirperemo la mala pianta dalla radice. Così anche il villaggio non
correrà più rischi e voi potrete vivere in pace.»
La promessa riempì di gioia i vecchi Chen, che ordinarono di servire un pasto di magro.
I tre discepoli si rifocillarono, lasciarono bagaglio e cavallo in custodia dai Chen, lustrarono le
armi e ritornarono al fiume.
Certo che
Andar sui ghiacci non è naturale,
È un’avventura che può finir male.
Se poi si spezzano incontri guai
E alla tua meta non giungerai!
Se non sapete, in fin dei conti, come riuscirono a salvare il monaco cinese, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 49
GUANYIN IN TENUTA DI CASA
IN CUI TRIPITAKA, PRIGIONIERO SOTTO LE ACQUE, VIENE SALVATO DA GUANYIN CON UNA NASSA.
I tre discepoli, dopo essersi congedati dal vecchio Chen, ritornarono in riva al fiume.
«Fratelli» disse Scimmiotto, «decidete chi di voi deve scendere in acqua per primo.»
«Noi due non siamo più forti di tanto» obiettò Porcellino. «Non sarebbe meglio che per primo
scendessi tu?»
«Se si trattasse di un mostro di montagna, potrei anche fare tutto da solo. Ma come sapete nelle
operazioni acquatiche non mi trovo a mio agio. Per muovermi là sotto devo separare le acque,
oppure trasformarmi in pesce o in granchio: ma in quelle condizioni non posso usare il mio
randello, e perciò non sono in grado di battere una creatura malefica. È meglio che ci andiate voi,
che avete familiarità con l’acqua.»
«Io certo in acqua mi muovo bene, fratello» rispose Sabbioso. «Ma le mie possibilità dipendono
dalla profondità a cui si deve arrivare. Andiamoci tutti insieme. Tu potresti trasformarti in qualcosa
che io possa portare facilmente, mentre andiamo alla ricerca del rifugio dell’orco. Quando lo
avremo localizzato, tu andrai in avanscoperta. Se troveremo il maestro sano e salvo, uniremo le
nostre forze per liberarlo. Se invece scopriremo che non è stato catturato da quel mostro, oppure che
è già stato ucciso e mangiato, sarà inutile insistere e bisognerà cercare qualche altra soluzione. Non
vi pare?»
«Va bene. Chi di voi due mi porterà?»
Porcellino si rallegrava segretamente della proposta: «Quella scimmia maledetta me ne ha
giocati, di tiri! Se la porto io, avrò l’occasione di prendermi la rivincita, visto che in acqua non si sa
sbrogliare.»
«Ti porto io, fratello» propose Porcellino, facendo un risolino torto.
Scimmiotto leggeva in lui come in un libro aperto, ma fece finta di niente: «Tanto meglio, sei più
robusto di Sabbioso.»
Così Porcellino lo prese sulle spalle ed entrarono in acqua seguendo Sabbioso, che faceva da
battistrada. Percorso un centinaio di li sul fondo del fiume, il bestione volle attuare il suo piano. Ma
Scimmiotto, che stava attento, si trasformò in una pulce e si attaccò solidamente a un orecchio; sulle
spalle gli lasciò un sosia, ottenuto dalla trasformazione di un pelo.
Il bestione fece mostra di inciampare e diede una bella spinta al suo fardello proiettandolo nella
corrente, che se lo portò via.
«Ma che cosa fai!» s’indignò Sabbioso. «Avrei capito che lasciassi cadere nostro fratello nel
fango; ma perderlo a quel modo!»
«Maledetta scimmia! Scivola via e scompare al primo scossone. Faremo a meno di lui; andiamo
avanti.»
«Nemmeno per sogno, lo dobbiamo ricuperare. Anche se non si trova a suo agio nell’acqua, è
certo più furbo di noi due messi insieme. Io non vado avanti, se non lo si ritrova.»
A questo punto si sentì la voce di Scimmiotto che diceva: «Andate avanti! Non l’avete mica
seminato, il vecchio Scimmiotto.»
«Meno male» disse Sabbioso mettendosi a ridere. «Ora, bestione, passerai un brutto quarto
d’ora: vedrai che cosa avrai guadagnato con i tuoi stupidi scherzi! Lo senti ma non lo vedi: che cosa
conti di fare?»
Porcellino spaventato si prosternò nel fango: «Sono in torto, fratello. Aspetta che abbiamo
salvato il maestro e risaliamo a riva: ti presenterò le mie scuse. Ma dove sei? Mi fai morire di paura!
Ti supplico, fatti vedere: ti porterò come si deve, non mi permetterò più di combinare imbrogli.»
«Sta tranquillo, mi stai già portando come si deve. Non ho tempo di farti paura. Dài, sbrigatevi,
camminate più svelti.»
Porcellino si tirò su borbottando e chiedendo scusa, e riprese il cammino con Sabbioso.
Dopo un altro centinaio di li videro un edificio a vari piani. Sopra l’ingresso c’era un’iscrizione
in quattro grossi caratteri:
RESIDENZA DELLA TARTARUGA ACQUATICA
«Suppongo che il mostro abiti là» disse Sabbioso. «Ma come facciamo a provocarlo a battaglia,
se non sappiamo come stanno le cose?»
«Consapevole della Purezza, vedi acqua davanti alla porta?»
«No, non ce n’è.»
«Allora nascondetevi. Andrò io in cerca di informazioni.»
Diavolo di un grande santo! Si staccò dall’orecchio di Porcellino e si trasformò in una signora
gambero dalle lunghe zampe. Giunto in breve alla soglia, vide il mostro assiso in trono con una
signora perca in abito a righe seduta al suo fianco; ai lati si tenevano file e file di gente acquatica:
parlavano appunto del monaco cinese e di come cucinarlo. Scimmiotto guardò intorno, ma non lo
vide da nessuna parte. Passava in quel momento sotto la galleria ovest un’altra signora gambero di
corporatura matronale; Scimmiotto le andò incontro e chiese: «Signora moglie del fratello
maggiore, dove sarebbe questo monaco cinese di cui si parla tanto?»
«Quello catturato nel ghiaccio da sua maestà? È stato messo in dispensa, nel cofano di pietra del
cortile posteriore. Domani, se non ci saranno complicazioni con i suoi discepoli, sarà il piatto forte
di un festino musicale.»
Scimmiotto continuò a passeggiare qua e là, e finì per spingersi nel cortile posteriore, in cui
trovò il cofano di pietra lungo sei piedi. Accostò l’orecchio e sentì i singhiozzi di Tripitaka. Il
poveretto batteva i denti e salmodiava una lamentazione:
«Detesto il mio destino che mi vuole
Abbandonato alle acque. Già mi accadde
Alla nascita. Ancora di recente
Mi trovai imprigionato al Fiume Nero.
Ed oggi ho perso ogni speranza di essere
Tratto in salvo. Potrò mai rivedere
La corte col mio carico di sutra?»
Scimmiotto gli gridò: «Maestro, non vi lagnate dell’acqua. Dice il sutra: La terra è madre dei
cinque elementi, ma l’acqua li alimenta. Nulla nasce senza la terra, nulla cresce senza l’acqua.
Sono io, il vecchio Scimmiotto!»
«Discepolo, salvami!» gemette Tripitaka.
«State tranquillo. Aspettate che abbia catturato il mostro, e vedrete che vi caverò dagli impicci.»
«Fai presto. Non posso durare molto chiuso qui dentro; morirò soffocato.»
«Non vi inquietate, non capiterà niente di simile. Vado a provvedere.»
Se ne tornò indietro, uscì dalla porta e riprese il suo aspetto.
Porcellino e Sabbioso gli corsero incontro per chiedere com’era andata.
«Quel ghiaccio era davvero una trappola tesa dall’orco per catturare il maestro. Comunque lui sta
bene; il mostro lo ha fatto chiudere dentro un cofano di pietra. Ora voi andate a provocare l’orco a
battaglia e io ritorno a terra. Se vi riesce, catturatelo. Se non è possibile, fingete la fuga e attiratelo
sulla riva: vi aspetterò là.»
«Va pure, fratello» disse Sabbioso. «Noi cercheremo di conoscerlo più da vicino.»
Il Novizio se ne andò allontanando le acque.
Ed ecco Porcellino che si presenta alla porta e grida con voce tonante: «Maledetta creatura!
Rendici il nostro maestro!»
Il portinaio corse spaventato ad annunciare: «Maestà, c’è fuori uno che reclama il suo maestro.»
«Dev’essere quel maledetto bonzo.» E ordinò di portargli le armi, che i mostriciattoli andarono
subito a prendere. Quando l’orco si fu allacciato la corazza ed ebbe impugnato la sua arma, ordinò
di aprire la porta e si fece avanti. Porcellino e Sabbioso poterono osservare la strana creatura.
Di mille fuochi brilla l’elmo d’oro,
Arcobaleno sulla sua corazza,
Perle e gioielli sull’alta cintura,
Gli stivali di un giallo inconsueto.
Naso ritto superbo, larga fronte
Come quella del drago, occhi rotondi
Che lampeggiano, denti come acciaio,
Corti capelli dritti e fiammeggianti,
Lunga barba dorata ed appuntita.
Reca in mano una mazza a nove petali.
Quando s’apre il portone cigolante
Fa udire la sua voce come un tuono.
Raro a vedersi, un tale portamento:
Meravigliosa Efficacia il suo nome.
L’essere perverso avanzò seguito da un centinaio di mostriciattoli divisi in due schiere, che
agitavano spade e lance, e apostrofò Porcellino: «Bonzo, da quale monastero vieni a far baccano
davanti alla mia porta?»
«Te la farò vedere io, maledetta creatura!» strillava Porcellino. «Già una volta l’hai scampata per
un pelo. Non mi dirai che non mi riconosci! Sono il discepolo del santo monaco dei Tang. Tu
imbrogliavi la gente facendoti passare per il grande re di Meravigliosa Efficacia, al solo scopo di
mangiarti i bambini del villaggio dei Chen. Io ero Bilancia Colma d’Oro della famiglia di Chen
Qing: non mi riconosci?»
«Testa matta: accusi me di imbrogliare la gente con una falsa identità, mentre tu hai avuto il
coraggio di farti passare per una bambina. Con quel brutto grugno e quel pancione! Mi hai ferito il
dorso della mano ancor prima che ingoiassi un boccone. Eppure io ti ho lasciato in pace. Perché ora
mi vieni a provocare?»
«Bel modo di lasciare in pace! Hai suscitato un vento gelato, hai fatto cadere una gran nevicata e
te la sei presa con il mio maestro. Se me lo rendi prima che sia troppo tardi, tanti saluti. Ma se dici
di no, assaggerai il mio rastrello: non ti darò quartiere.»
«Ecco un bonzo chiacchierone» sogghignò freddamente il mostro. «Che pretese insensate! È
vero che ho fatto gelare il fiume per rapire il tuo maestro. Ma non penserai che te lo renda perché
sei venuto qui a far baccano. L’altra volta andavo a una funzione religiosa e perciò non ero armato;
e poi mi hai colto di sorpresa. Ma questa volta, bada di non scappare. Ti propongo un torneo in tre
assalti: se li reggi tutti e tre, ti restituisco il tuo maestro; altrimenti ti metto in pentola con lui.»
«È così che la metti? Bada al rastrello!»
«Si vede bene che ti sei fatto monaco a una certa età.»
«Bravo, hai dell’intuito. Come lo hai capito?»
«Da come maneggi il rastrello. Dovevi essere garzone di un giardiniere; lo avrai rubato al
momento di andartene.»
«Eh, no, bello mio: il mio rastrello non è da giardiniere. Guardalo meglio:
Denti più aguzzi delle unghie di drago,
Manico d’oro a forma di pitone:
Fa scintille se tocca l’avversario
E lo riempie di brividi. S’incarica
Di eliminare i mostri o catturarli.
Sole e luna nasconde se lo alzo,
Ma disperde le nuvole e le nebbie.
Sa sconvolger l’oceano e rovesciare
Il Monte Tai. Per quanto tu sia forte,
Da un solo colpo avrai nove ferite.»
Era chiaro che il mostro non ci credeva. Abbatté la sua mazza sul capo di Porcellino, che parò il
colpo con il rastrello ed esclamò: «A quanto pare, anche tu sei diventato un diavolo perverso a una
certa età.»
«Che cosa te lo fa pensare?»
«Quel martello di bronzo che maneggi. Un orafo ti avrà assunto come garzone di fucina e tu,
quando ti sei trovato in mano il martello, lo hai rubato.»
«Questo non è martello per l’incudine di un orafo. Guardalo!
È un fiore a nove petali su stelo sempreverde.
Non è una cosa inerte, per la gente comune:
È un’arma d’immortali. Viene da semi nati
Nello Stagno di Diaspro e da fiori sbocciati
Nel Lago di Smeraldo. Duro come diamante,
Nessun’arma lo vince. Per quanto sian temprati
I denti del rastrello, se toccan la mia mazza
Ne saranno spezzati.»
Eccitato da questo duello verbale, Sabbioso non poté trattenersi e si fece avanti anche lui:
«Maledetta creatura, hai blaterato abbastanza. Come dicono gli antichi, si giudicano le azioni, non
le parole. In guardia, che ti farò assaggiare il mio bastone!»
Il mostro parò il colpo con il manico del martello ed esclamò: «Ecco qui un altro bonzo
dell’ultima ora.»
«Come sarebbe a dire?»
«Tu eri il garzone di un fornaio.»
«Che cosa avrei, del fornaio?»
«Questo bel mattarello.»
«Brutto infame! Tu non hai mai visto un’arma simile.
È un’arma così rara che forse del suo legno
Ti sarà ignoto il nome: esso è legno di sâla,
Che cresce sulla luna. Fuori mostra gioielli,
Dentro racchiude l’oro. Ha prestato servizio
Ai banchetti celesti. Se nessun la conosce
Sulla strada dell’Ovest, è ben nota nel Cielo:
Randello ammazzadiavoli è il suo nome famoso.
E se può ammazzar diavoli,
Ti devi veder morto.»
Il mostro perse gusto alla discussione. Tutti e tre assunsero una grinta feroce, e si vide sul fondo
del fiume una bella mischia.
Combattevano mazza di bronzo contro rastrello e bastone. I due attaccano di conserva la creatura acquatica, che si
difende onorevolmente. Giusta sorte e buon destino permettono di realizzare il grande Tao, che trattiene le sabbie del
Gange per riduzione o produzione. La terra riduce l’acqua; quando l’acqua è asciugata, si vede il fondo. L’acqua
produce il legno, che in ascesa fiorisce. Le meditazioni buddista e taoista giungono allo stesso risultato, alchimia e
raffinazione del cinabro si assoggettano alle tre scuole. La terra è la madre che fa crescere il metallo, che produce
l’acqua divina, che genera il fanciullo. L’acqua è la fonte che nutre la fioritura del legno, che nel suo splendore prende
fuoco. I cinque elementi, che convivono fra loro, sono diversi perché si trasformano e si combattono. Guardate come
sono belli la mazza di nove petali, il bastone che sembra ricamato di mille fili di seta, il rastrello dei nove luminari! Essi
si urtano e si mescolano senza tregua. I discepoli sono pronti a lasciar la vita per il monaco, ignorano la morte in questa
lotta per Sâkyamuni, contrastano continuamente la mazza di bronzo, ora con il bastone, ora con il rastrello.
Il combattimento durò quattro ore buone senza esito. Porcellino valutò che non ne sarebbero mai
venuti a capo e strizzò l’occhio a Sabbioso: finsero di sbandarsi, volsero le spalle al mostro e
fuggirono.
«Ragazzi!» gridò l’orco, «voi vigilate, mentre inseguo quei tipi e li catturo. Ce li porteremo in
tavola.»
E si lanciò dietro di loro verso la superficie, come un uragano che spazza via le foglie morte, o
una tempesta che strappa i fiori del giardino.
Scimmiotto, sulla riva orientale, sorvegliava attentamente la superficie dell’acqua. A un tratto si
sollevarono onde e vortici, poi grida e ruggiti. Sbucò Porcellino: «Arriva! Arriva!», poi Sabbioso:
«Eccolo qua!», e infine arrivò il mostro gridando: «Dove credete di scappare?». A questo punto, si
trovò di fronte Scimmiotto che urlò: «In guardia!» L’orco dovette parare precipitosamente una
randellata. Si batterono in riva al fiume scontrandosi tre volte. Poi il mostro, vistosi alle strette,
balzò nell’acqua e scomparve. Vento e onde si calmarono.
Scimmiotto risalì l’argine per ringraziare i suoi condiscepoli: «È stata dura, fratelli?»
«All’asciutto quella creatura non vale gran che, ma in acqua è una forza» osservò Sabbioso. «Per
mantenere l’equilibrio, bastavamo a stento tutti e due insieme. Che cosa convien fare per salvare il
maestro?»
«Se stiamo a perdere tempo, temo che lo ammazzi e se lo mangi» obiettò Scimmiotto.
«Fratello» propose Porcellino, «questa volta, quando lo portiamo a galla, non ti far vedere e
aspetta per aria. Quando vedrai emergere la testa la colpirai, come il pestello sullo spicchio d’aglio:
mira al cranio e picchia senza sbagliare. Se non morirà, resterà almeno intontito. Io ne approfitterò
per dargli un’altra botta con il mio rastrello: e a questo punto sarà fatta.»
«D’accordo» approvò Scimmiotto. «È quello che si dice un’azione coordinata dall’esterno e
dall’interno, il modo migliore per venirne fuori.»
I due si rituffarono in acqua.
Intanto l’orco, che aveva trovato scampo nella fuga, era giunto alla sua residenza. Tra la folla dei
sudditi che gli andava incontro, sbucò madama perca: «Maestà, dove avete inseguito quei bonzi?»
«Fino alla riva, ma avevano un complice. Mi ha attaccato con una sbarra di ferro appena sono
uscito dall’acqua: mi ha mancato per un pelo. Mi chiedo quanto potesse pesare quella sbarra: non
c’era verso di fermarla, con la mia mazza. Ho sostenuto a stento tre scontri e ho dovuto darmela a
gambe.»
«Vostra maestà può descrivere l’aspetto di questo complice?»
«È un bonzo con la faccia pelosa, una gola da duca del tuono, orecchie aguzze, setto nasale rotto,
occhi di fuoco e pupille d’oro.»
A questa descrizione la signora perca fu presa dai brividi ed esclamò: «Maestà! Per fortuna avete
avuto la saggezza di fuggire in tempo. Se lo aveste affrontato più a lungo, di sicuro avreste perso la
vita. Lo conosco bene, quel bonzo.»
«E chi sarebbe?»
«Quando vivevo nell’oceano orientale, sentii parlare di lui dal vecchio re drago. Si tratta del Bel
Re Scimmia, che cinquecento anni fa provocò gravi disordini in paradiso; è il Grande Santo Uguale
al Cielo, immortale d’oro del Supremo Fastigio del mondo di Sopra, soffio del caos primordiale.
Ora si è convertito alla dottrina del Buddha e protegge il monaco cinese alla ricerca delle scritture
nel Paradiso dell’Ovest, con il nome di Scimmiotto Consapevole del Vuoto, detto il Novizio. Ha
poteri immensi ed è capace di innumerevoli trasformazioni. Come ha potuto vostra maestà correre
un rischio simile? Non c’è nemmeno da pensare a combatterlo.»
Mentre la signora perca parlava, arrivò di corsa il portinaio ad annunciare: «Maestà, quei due
bonzi sono tornati.»
«Saggia sorella, il tuo consiglio è molto sensato: non uscirò più. Voglio vedere che cosa mi
possono fare.» E ordinò: «Ragazzi, barricate bene le porte. Come si dice: Tu chiama a perdifiato,
l’uscio resta serrato. Ci assedino pure per qualche giorno; finiranno per stancarsi e levarsi di torno,
e noi ci godremo con comodo il monaco cinese.»
I mostri portarono rocce e fango in quantità per bloccare tutte le uscite. Vedendo che grida e
provocazioni non ottenevano risposta, Porcellino perse la pazienza e incominciò a picchiare
rastrellate sul portone. Ci vollero vari colpi perché i battenti si rompessero; ma, quando caddero,
non rivelarono altro che un grande ammasso di ciottoli e fango. Sabbioso osservò: «Quella creatura
dev’essere terrorizzata; non credo che si farà più vedere. Sarà meglio che discutiamo un altro piano
con il nostro fratello maggiore.»
E se ne tornarono a riva. Scimmiotto, che li aspettava a mezz’aria con la sbarra in pugno, li
rivide ricomparire senza il mostro. Scese giù a chiedere: «Come mai quello schifoso non vi ha
seguito?»
«La creatura si è asserragliata in casa e rifiuta di metter fuori il naso» spiegò Sabbioso.
«Porcellino gli ha sfondato la porta, ma dietro abbiamo trovato una gran barricata di terra e pietre.
Non sapevamo che altro fare e siamo ritornati da te per consigliarci.»
«Se si comporta così, noi non ci possiamo fare niente. Restate qui a tenerlo d’occhio e a impedire
che scappi via durante la mia assenza.»
«Tu dove vai, fratello?»
«Faccio un salto sul Potalaka, per chiedere alla pusa da dove viene e come si chiama questo
mostro. Individuerò il luogo d’origine e andrò a catturare i suoi familiari e i suoi vicini; a quel punto
vedrete che riusciremo a prendere anche lui e a liberare il maestro.»
«Ma fratello» obiettò Porcellino, «è un metodo molto complicato: prenderà un sacco di tempo.»
«Vedrai che non sarà né complicato né lungo. Ora parto e tornerò presto.»
Il grande santo si allontanò su una luce di buon augurio e andò dritto nei mari del Sud. In meno
di un’ora arrivò in vista del Potalaka e atterrò sulla sua cima, dove lo accolsero gli dèi dei
ventiquattro sentieri, il protettore della montagna, il novizio Moksa, il ragazzo di Buona Fortuna e
la figlia del drago Porta Perla. Gli vennero incontro per riceverlo e chiesero: «Qual buon vento,
grande santo?»
«Ho bisogno di vedere la pusa.»
«Fin da stamane se n’è andata nel bosco di bambù senza permettere a nessuno di seguirla.
Sapeva che voi sareste venuto, e ci ha incaricato di ricevervi. Poiché non potete incontrarla subito,
vi preghiamo di accomodarvi alla Rupe Turchese ad aspettare che si faccia viva e prenda le
disposizioni necessarie.»
Il ragazzo di Buona Fortuna lo salutò con particolare gentilezza: «Devo ringraziare la vostra
eminente santità della generosità che mi ha dimostrato in una certa occasione. La pusa non mi ha
abbandonato e mi ha concesso il privilegio di tenermi con sé: non la lascio mai e la servo ai piedi
del trono di loto. Mi colma veramente di segni di bontà.»
Scimmiotto riconobbe Bimbo Rosso e gli rispose sorridendo: «Allora eri stato sviato da azioni
diaboliche. Ora che hai ottenuto il giusto frutto, avrai capito che il vecchio Scimmiotto, tutto
sommato, non è una cattiva persona.»
Aspettò per un bel pezzo e poi incominciò ad agitarsi: «Vi prego, andate a sollecitarla; se perdo
altro tempo, temo per la vita del mio maestro.»
«Non possiamo, la pusa ce l’ha formalmente proibito. Dovete aspettare che ritorni.»
L’impazienza di Scimmiotto divenne incontenibile: egli balzò via e si mise alla ricerca.
Non c’è santo che possa controllare
Impazienza e capriccio nel re scimmia.
Se ne va dunque al bosco a grandi passi
E vi trova Guanyin sotto i bambù
In tenuta di casa. Non indossa
Il lungo abito azzurro, né la sciarpa
Con le decorazioni sulla spalla.
Non si è lavata il viso; i suoi capelli
Pendono sfatti da tutte le parti;
Porta una camicetta un po’ sgualcita
E una gonna qualsiasi. Piedi nudi
E braccia nude, fa la giardiniera
E raschia delle strisce di bambù,
Tenendo gli occhi fissi al suo lavoro.
Quando la vide, Scimmiotto gridò gioviale: «Ehi, pusa, i miei rispetti!»
«Tu aspetta fuori, brutto impiccione.»
«Ma pusa» insisté Scimmiotto prosternandosi, «il mio maestro è nei guai. Avrei bisogno di
informazioni sulla creatura malefica del Fiume Comunicante con il Cielo.»
«Esci di qui e aspettami fuori.»
Scimmiotto non osò insistere; dovette uscire dal boschetto e ritornare dagli dèi: «Mi sembra che
oggi la pusa sia tutta presa dalle faccende di casa. Perché non si è vestita e seduta come al solito sul
trono di loto, invece di starsene nel bosco a tagliare strisce di canna, ringhiando ai visitatori?»
«Chissà. In effetti stamane è uscita presto dalla grotta e ha persino trascurato la toilette. Poiché ci
ha parlato subito della vostra visita, crediamo che il motivo sia legato ai vostri affari.»
Non c’era altro da fare che aspettare.
Dopo un po’, spuntò dal bosco Guanyin reggendo un paniere di strisce di bambù: «Su,
Consapevole del Vuoto, andiamo a togliere dai guai questo benedetto monaco.»
«Non vorrei aver esagerato nel sollecitarvi» replicò il Novizio inginocchiandosi. «Sarà meglio
che prima facciate la vostra toilette.»
«Ma no, non stiamo a perdere tempo.»
Piantò in asso la compagnia e montò su una nuvola; Scimmiotto non poteva che seguirla.
Giunsero in breve in riva al fiume. Quando li videro arrivare Porcellino e Sabbioso
commentavano: «Figuriamoci che casino deve aver fatto quella scimmia nei mari del Sud, per
costringere la pusa a venir qui in camicia e senza darsi il rossetto.»
Guanyin sorvolò il fiume a mezza altezza su una nuvoletta iridata, snodò una fascia di seta che
portava alla vita, vi legò il paniere, lo gettò nell’acqua e lo trascinò controcorrente ripetendo per
sette volte: «Morto, parti; vivo, resta. Morto, parti; vivo, resta.»
Poi tirò su il paniere, e vi si vide dibattersi un pesce rosso con le branchie palpitanti.
«Consapevole del Vuoto, va giù a liberare il tuo maestro.»
«Ma prima bisognerà catturare il mostro.»
«Il mostro? Eccolo qua.»
«Ma come, era soltanto quel pesce rosso?» chiedevano stupiti Porcellino e Sabbioso.
«Certo. Si tratta di un pesce cresciuto nella mia vasca dei fior di loto. Galleggiava sempre al pelo
dell’acqua per ascoltare i sutra e imparare; in questo modo ha acquisito i suoi poteri. La mazza di
bronzo a nove petali non è che un bocciolo di loto di cui si è fatto un’arma prima che si
dischiudesse. Un bel giorno dev’essere fuggito e sarà arrivato qui sfruttando la marea. Stamane,
mentre contemplavo i fiori, mi sono resa conto che quel bastardo non veniva a presentarmi i suoi
omaggi; allora ho calcolato sulle dita e sulle linee della mano che doveva essere qui, trasformato in
essere malefico, e che aveva cattive intenzioni verso il vostro maestro. Perciò non ho perso tempo a
imbellettarmi e ho costruito questa nassa di bambù per catturarlo.»
«Visto che siete qui» suggerì Scimmiotto, «restate ancora un momento: vorrei chiamare i fedeli
del villaggio dei Chen perché vedano con i loro occhi il volto dorato della pusa. Per loro sarà un
ricordo indimenticabile; e poi il racconto di come avete castigato l’essere malefico che li
tormentava sarà il migliore incitamento perché questa brava gente vi offra il suo culto con cuore
sincero.»
«Va bene; chiamateli pure.»
Porcellino e Sabbioso corsero subito per le strade del villaggio gridando: «Venite, venite tutti a
vedere la pusa Guanyin in carne e ossa!»
Uomini, donne, bimbi e vegliardi, tutto il paese corse al fiume, e tutti si inginocchiarono e si
prosternarono senza badare al fango. Nella folla c’era anche un bravo pittore, che immortalò per i
posteri l’immagine di Guanyin spettinata e con il paniere del pesce.
Poi la pusa se ne tornò nei mari del Sud.
Porcellino e Sabbioso si immersero fino alla residenza della tartaruga alla ricerca del maestro:
tutti i mostri acquatici erano morti e imputriditi. Si recarono nella corte posteriore, aprirono il
cofano di pietra, si caricarono del monaco cinese e lo portarono su in mezzo alla folla. I fratelli
Chen si prosternarono davanti a Tripitaka e rinnovarono i ringraziamenti, ma non si seppero
trattenere dal rinfacciargli: «Vi sareste risparmiato tutte queste prove, se aveste dato retta al nostro
consiglio di restare a casa nostra.»
«Giusto. Ma dovete pensare» fece notare Scimmiotto «che l’anno prossimo vi sareste trovati
daccapo a fare sacrifici umani; invece in questo modo il flagello del grande re è stato estirpato. Caro
vecchio signor Chen, dobbiamo ricorrere ancora una volta ai vostri servigi: ci dovreste procurare
una barca per attraversare il fiume.»
«Ma certo, provvediamo subito» assicurò Chen Qing. E mandò a comprare le assi per costruire la
barca. Tutti i paesani vollero contribuire: «Io pagherò l’albero» diceva uno; «procurerò i remi»
diceva un altro; «e io il cordame» un terzo; e un quarto: «assumerò i barcaioli.»
Ma a un tratto si udì dal fiume una voce possente, che zittì le grida e le esclamazioni sulla riva:
«Grande santo, è inutile che facciate costruire una barca a spese di quella gente; provvederò io a
traghettarvi.»
A tutti venne il batticuore: i meno coraggiosi si rifugiavano in casa, i più audaci tremavano, ma
restavano per vedere che cosa sarebbe accaduto. Ed ecco accostarsi alla riva una strana creatura.
Che aspetto aveva?
La divina creatura ha testa quadra;
Immortale delle acque, gran prudente,
Può trascinar la coda per mille anni.
Si nasconde sul fondo e non si muove.
Talvolta nuota, sale sulla spiaggia
E dorme sotto il sole. Levigata
Dagli anni, è la rugosa tartaruga;
Conosce l’arte di allungar la vita.
«Non perdete tempo a costruire una barca» ripeté la tartaruga. «Penserò io a traghettare maestro
e discepoli.»
«Un momento, infame creatura!» esclamò Scimmiotto brandendo il randello. «Se esci dall’acqua
sei morta.»
«Perché ve la prendete con me mentre sto offrendo di traghettarvi, con le migliori intenzioni del
mondo e per ringraziarvi dei benefici ricevuti?»
«E quali benefici avresti ricevuto?»
«Dunque non sapevate che la Residenza della Tartaruga Acquatica, in fondo al fiume, era la mia
casa avita? Il nome gliel’avevo dato io, e l’avevo restaurata e rinnovata quando avevo raggiunto
l’illuminazione della mia natura fondamentale e avevo acquistato il soffio trascendente. Ma nove
anni fa quel mostro perverso, col favore della marea, venne qui ad attaccarmi con violenza inaudita.
Mi uccise una quantità di figli e di parenti: non fui in grado di resistere e dovetti abbandonare la
casa, in cui si installò lui. È proprio grazie al vostro intervento, anche se non lo sapevate e
pensavate a tutt’altro, che ho potuto ricuperare la mia casa: finalmente ho smesso di vivere rintanata
nel fango con i pochi familiari che mi sono rimasti. La nostra gratitudine è più profonda del mare,
più alta della montagna. Del resto anche i paesani, qui, si sono liberati da un pesante balzello, i loro
bambini ormai non corrono più pericoli. È quello che si dice: tirare un sasso e rompere due teste.
Come potrei sottrarmi dal testimoniare la mia gratitudine?»
«Dici sul serio?» chiese Scimmiotto, riponendo il randello e dissimulando il piacere che questa
dichiarazione gli faceva.
«Come oserei mentire alla vostra eminente santità, cui devo tanto?»
«Se è vero, giuralo.»
«Che il mio corpo si sciolga in acqua, se non traghetterò fedelmente il monaco cinese.»
«Va bene; vieni qui» gli disse Scimmiotto sorridendo.
La tartaruga si arrampicò sulla riva. La folla poté constatare che aveva un enorme carapace
bianco della circonferenza di quattro tese.
«Maestro» propose Scimmiotto, «montiamole dunque in groppa e traghettiamo.»
«Discepolo» obiettò Tripitaka, «ricordi come si scivolava sul ghiaccio, benché fosse tanto
spesso? Temo che nemmeno questo carapace sia tanto sicuro.»
«Non temete» intervenne la tartaruga. «La sicurezza che vi offro è molto maggiore di quella
della più spessa coltre di ghiaccio. In questo caso ci sono sotto io, e so che il minimo beccheggio
potrebbe essere pericoloso.»
«Via, maestro!» insisté Scimmiotto. «Bestia che parla umano, non sa mentire. Fratelli, portate
qui il cavallo.»
Mentre i paesani si inginocchiavano, Scimmiotto ordinò ai condiscepoli di far montare il cavallo
sopra la tartaruga e collocò Tripitaka a sinistra, Sabbioso a destra e Porcellino dietro; lui stesso si
mise ritto a prua. Per escludere a ogni buon conto che la tartaruga facesse impertinenze, si tolse la
cintura di nerbo di tigre e ne fece delle redini; stava dunque con un piede sul carapace e uno sulla
testa, sbarra in una mano e redini nell’altra. Poi gridò alla tartaruga: «Avanti piano! Se provi ad
agitarti, ti do un botto in testa.»
«Me ne guarderò bene» rispose la tartaruga.
La bestia stese le zampe e avanzò nell’acqua con maggiore agio che sulla terra. La folla sulla
spiaggia bruciava incenso e si prosternava, ripetendo: «Namo Amitâbha Buddha!» È il caso di dirlo:
Appare l’avatara di un arhat,
È proprio un vivo pusa avanti agli occhi.
La folla rimase lì e continuò a pregare finché non scomparvero dalla vista.
I pellegrini compirono la traversata di ottocento li in meno di una giornata, e sbarcarono sulla
riva occidentale senza bagnarsi né piedi né mani.
«Cara tartaruga, quanta pena vi siete data!» disse Tripitaka giungendo le mani quando furono a
terra. «Al momento non ho nulla da darvi; ma aspettateci al ritorno.»
«Lasciate stare. C’è una cosa a cui terrei molto. Ho sentito dire che il Buddha del Paradiso
dell’Ovest ha superato la vita e la morte, e che conosce il passato e l’avvenire. Io qui mi sto
coltivando da più di mille anni: ma per quanto allunghi la mia vita e alleggerisca il mio corpo, non
riesco a perdere questo carapace. Dovreste chiedere al Buddha quando me ne potrò sbarazzare e
ottenere un corpo umano.»
«D’accordo, gli porrò la domanda» promise Tripitaka. E la tartaruga ritornò in acqua e se ne
andò.
Scimmiotto aiutò il monaco cinese a rimontare a cavallo, Porcellino prese i bagagli e Sabbioso li
seguì. I pellegrini ripresero di buon passo la strada dell’Ovest.
Fu così che
Per ordine imperiale il santo monaco,
Sfidando mille prove sul cammino,
Senza temer la morte, a cuor sincero,
Varcò il fiume su quella tartaruga.
Se a questo punto volete sapere quante tappe gli restavano da percorrere, e quali vicende liete e
tristi gli toccarono, vi converrà ascoltare il seguito.
CAPITOLO 50
IL PALAZZO DEI FANTASMI
QUANDO I DESIDERI SVIANO I SENTIMENTI E DOMINANO LA NATURA, L’ANIMO TURBATO E LO
SPIRITO SCOSSO INCONTRANO DIAVOLI E LAMIE.
Dice il poema:
Spazzalo, il pavimento del tuo cuore,
Spolvera le affezioni; non accogliere
In un sudicio ambiente Vairocana.
Una purezza costante dell’essere
A conoscenza primaria conduce.
Smoccola la candela della vita,
Esercita il respiro con giudizio,
Cavallo e scimmia tieni controllati:
Solo un lavoro quieto giorno e notte
Infine ti conduce alla tua meta.
Questo poema, che si canta sull’aria del Ramo del Sud, spiega come il monaco cinese poté
sfuggire all’insidia nascosta nel fiume e raggiungere l’altra riva trasportato da una tartaruga bianca.
I quattro pellegrini che si affrettavano verso ovest marciavano ormai in un severo paesaggio
invernale. Si vedevano
Il bosco illuminarsi di una bruma leggera,
Oltre l’acque levarsi chiare forme di monti.
Di nuovo il cammino fu reso aspro da una montagna: la strada si faceva sempre più ripida e
rocciosa, faticosa per gli uomini come per le bestie.
«Discepoli miei!» gridò Tripitaka tirando le redini.
Scimmiotto si volse e chiese: «Che cosa vi serve, maestro?»
«Ecco la montagna. Lupi, tigri o mostri ci potrebbero attaccare: fate attenzione.»
«Non temete, maestro. Siamo uniti tutti e tre nel pensiero e nell’impegno della nostra cerca. Tigri
e lupi, o mostri che siano, non sono temibili, perché disponiamo del potere di sottometterli.»
Tripitaka, più o meno tranquillizzato, continuò il cammino. All’imbocco della valle spinse il suo
cavallo su per il pendio: che montagna!
Uno strapiombo da dar le vertigini,
Creste come tagliate col coltello
Bucan le nubi e nascondon l’azzurro.
Quegli ammassi di rocce sembran tigri
Acquattate, e gli abeti come draghi.
Cantano uccelli sui rami del prugno
Profumato; ai suoi piedi rumoreggia
L’acqua gelata del torrente. Il picco
Si copre di una nube minacciosa.
Turbina neve, il vento morde; tigri
Affamate ruggiscono. Dei corvi
Volano neri; il cervo va cercando
Un riparo. Infelice il viaggiatore
Avanza con gran pena; copre il capo,
Aggrotta i sopraccigli e abbuia il volto.
I quattro pellegrini stavano superando questo pericoloso passo e sfidavano il freddo e la neve,
quando videro da lontano edifici, terrazze e alte torri di linee pure ed eleganti: un sontuoso ritiro fra
le montagne.
«Discepoli!» gridò lieto il monaco cinese. «Che fortuna trovare edifici fra queste montagne,
dopo una giornata di freddo e di fame! Sarà un villaggio, oppure un monastero o un romitaggio.
Chiederemo l’elemosina di un pasto e ripartiremo dopo aver mangiato.»
Scimmiotto osservò accuratamente aguzzando gli occhi: ristagnava in cielo un vapore maligno,
che formava una piccola nube scura. Si volse a Tripitaka: «Maestro, questo è un brutto posto.»
«Non mi pare. Guarda che belle torri e padiglioni!»
«Voi che ne sapete, maestro?» replicò ridendo Scimmiotto. «Sulla strada dell’Ovest ci sono tanti
mostri, diavoli e lamie espertissimi nel far comparire edifici illusori. Può capitare che le torri più
belle e i più ameni padiglioni sorgano solo per ingannare la gente. Per esempio, una delle nove
specie di figli che i draghi possono generare, il bivalve gigante shen, sa emettere vapori che
prendono forma di un intero castello, con parco e stagno. Producono questi miraggi in riva ai grandi
fiumi, quando l’aria è brumosa. Tutti gli uccelli di passaggio che si posano sugli alberi di quel parco
sono inghiottiti dallo shen, anche se fossero uno stormo di migliaia o di diecine di migliaia. I
miraggi sono cose pericolose: bisogna tenersi alla larga.»
«Stiamo dunque alla larga. La mia fame, però, non è illusoria» si lagnò Tripitaka.
«Allora smontate da cavallo e sedetevi in questa radura. Andrò a mendicare cibo per voi;
aspettatemi» propose Scimmiotto.
Tripitaka scese da cavallo e Sabbioso posò i bagagli, aprì un sacco e ne tolse la ciotola per le
elemosine, che tese al Novizio. Questi insisté: «Mi raccomando, saggio fratello, non vi muovete da
qui. Assicurati che il maestro non si muova, mentre vado a mendicare. Vi muoverete solo quando
sarò tornato.»
Sabbioso confermò, ma Scimmiotto si rivolse anche a Tripitaka: «State fermo, maestro, questo
posto non promette niente di buono. Statevene lì, mentre io chiedo l’elemosina.»
«Ho capito, non insistere. Piuttosto cerca di sbrigarti.»
Scimmiotto fece per allontanarsi, ma ritornò indietro: «Maestro, so che siete impaziente e non vi
piace restare seduto a lungo. Permettetemi di usare questa misura di sicurezza: lo faccio per voi.»
Tracciò con la sua sbarra un cerchio al suolo; invitò il monaco a mettersi al centro e Porcellino e
Sabbioso ai lati, con il cavallo e i bagagli a portata di mano. Poi si rivolse a Tripitaka giungendo le
mani: «Vedete, questo cerchio è più sicuro di una parete di bronzo o d’acciaio. Nessuno oserà
accostarsi: né lupi, né tigri, né mostri, né lamie. Ma non ne dovete uscire. Finché sarete lì dentro vi
posso garantire che non vi accadrà nulla, ma guai se mettete il naso fuori. Vi scongiuro, non
dimenticatelo!»
Maestro e discepoli presero solennemente la posa di un gruppo scultoreo, mentre Scimmiotto
balzava su una nuvola e partiva in cerca di un villaggio. Viaggiò verso sud finché vide vecchi alberi
tanto alti da toccare il cielo, che annunciavano la prossimità di un casale. Scese e vide
Dei salici curvati dalla neve,
La peschiera ghiacciata, dei bambù
Che ondeggiavano al vento, alteri pini
Verde cupo. Capanne con i tetti
Imbiancati di neve, un ponticello
Infarinato. L’aia è circondata
Da fiori di narciso. Stalattiti
Di ghiaccio pendon giù dalle tettoie.
Il vento soffia disperdendo i fiori
Profumati del prugno nella neve.
Scimmiotto se ne veniva pian piano contemplando il paesaggio, quando udì cigolare un
cancelletto: ne usciva appoggiandosi al bastone un vecchio con il berretto di pecora, che indossava
una veste sdrucita e calzava sandali di paglia.
«Il vento soffia da nord ovest: domani farà bel tempo» disse guardando il cielo. Alle sue spalle
sbucò fuori un cagnolino tibetano() che si sentì in dovere di abbaiare furiosamente a Scimmiotto. Il
vecchio si accorse solo allora della sua presenza e della sua ciotola.
«Caro donatore, siamo monaci dell’Est incaricati di una missione imperiale di ricerca delle
scritture nel Paradiso dell’Ovest. Poiché la nostra via passa per questa nobile contrada e il mio
maestro è affamato, mi sono permesso di accostarmi alla vostra rispettabile residenza per sollecitare
l’elemosina di un po’ di cibo di magro.»
«Reverendo» rispose il vecchio scuotendo il capo e battendo a terra il suo bastone, «siete fuori
strada.»
«Niente affatto.»
«La strada dell’Ovest passa a mille li da questo posto, verso nord. Che cosa aspettate a
raggiungerla?»
«Certo che si trova a nord» rispose Scimmiotto ridendo. «Infatti il mio maestro si è seduto là ad
aspettare che gli porti qualcosa da mangiare.»
«Che frottole racconta questo bonzo! Se il tuo maestro ti aspetta a mille li, lo avrai lasciato sei o
sette giorni fa, sempre che tu sia un buon camminatore; e per ritornare da lui ti occorre altrettanto.
Non credi che nel frattempo sarà morto di fame?»
«Devo dire, caro donatore» replicò Scimmiotto ridendo, «che l’ho lasciato un momento fa, e
sono arrivato qui in un tempo più corto di quello che occorre a bere una tazza di tè. E adesso fatemi
l’elemosina: tornerò da lui in un tempo altrettanto breve.»
A questa risposta il vecchio si impaurì e pensò: «Questo bonzo non può essere che un fantasma.»
Perciò gli voltò la schiena e fece per correre a chiudersi in casa; ma Scimmiotto lo acchiappò per il
colletto: «Dove andate, caro donatore? Se avete in casa qualcosa di commestibile, sbrigatevi a
darmi la mia parte.»
«Andate via, cercate qualcun altro.»
«Càpita certe volte che il donatore non capisca la situazione. L’avete detto voi che mi trovo a
mille li dalla mia strada. Che cosa dovrei fare: cercare un’altra casa e aggiungere altri mille li?
Allora sì che il mio maestro morirebbe di fame.»
«Dico la verità: in casa siamo sei o sette persone e abbiamo potuto mettere al fuoco non più di tre
litri di riso, che fra l’altro non è ancora cotto. Al momento non ho niente da darvi; forse un’altra
volta.»
«Dicevano gli antichi: meglio trovare una casa che cercarne tre. Non me ne vado.»
Constatando che non c’era verso di sbarazzarsi di lui, il vecchio perse la pazienza e incominciò a
batterlo con il bastone. Scimmiotto si lasciava picchiare sulla testa senza nemmeno schivare i colpi,
come se il vecchio non facesse che grattarlo dove gli prudeva.
«Che zucca dura!» brontolava il vecchio.
«Fate come vi pare, vecchio mio» rispose Scimmiotto; «ma non perdete il conto: per ogni botta
che mi date, mi dovete un litro di riso.»
Il vecchio lasciò subito cadere il bastone e corse a chiudersi in casa urlando: «Il diavolo! Il
diavolo!» Si sentì un gran trambusto là dentro; barricavano le porte e le finestre.
A vedersi chiudere la porta in faccia, Scimmiotto pensava: «Quel vecchio brigante diceva che
hanno messo la pentola al fuoco, ma mi chiedo se sarà vero. Come dice l’adagio: Il taoista
elemosina dal saggio, il buddista dallo stolto. Entriamo a controllare.»
Si rese invisibile e si intrufolò in cucina, dove in effetti vide una pentola piena a metà di riso che
bolliva sul focolare. Vi tuffò la sua ciotola, la riempì per bene e se ne tornò sulle nuvole.
Nel frattempo Tripitaka era stato per un po’ dentro il cerchio ad aspettare Scimmiotto che non
tornava. Scrutava l’orizzonte con aria sconsolata e borbottava: «Dove si sarà mai ficcata a
mendicare quella benedetta scimmia?»
«Figuriamoci se sarà andato a mendicare!» sogghignava Porcellino. «Quello va a passeggio per
divertirsi e lascia noi prigionieri nel pollaio.»
«Perché prigionieri nel pollaio?»
«Lo sapete, no?, che gli antichi per fare un pollaio tracciavano una riga per terra. E ha avuto il
coraggio di dirci che è la migliore protezione contro lupi, tigri eccetera: se ne capitassero davvero,
ci troverebbero serviti sul vassoio.»
«E allora, Consapevole delle Proprie Capacità, che cosa proponi di fare?»
«Qui siamo esposti al vento e al freddo. Io dico che ci conviene continuare per la nostra strada.
Quando il condiscepolo ritornerà, farà presto a raggiungerci; e speriamo che ci porti qualcosa da
mangiare. A stare qui fermi ci guadagniamo solo di congelarci i piedi.»
In quel momento Tripitaka doveva trovarsi sotto una cattiva stella, perché gli diede retta.
Uscirono dal cerchio e ripresero il cammino. In breve giunsero ai begli edifici che avevano visti di
lontano. L’ingresso era protetto da due muri convergenti, imbiancati a calce. La torre del portale
aveva pianta rettangolare, era adorna di fiori di loto rovesciati e dipinta dei cinque colori. I battenti
erano socchiusi. Porcellino legò il cavallo al tamburo di pietra accanto all’ingresso, Sabbioso posò il
suo carico e Tripitaka si sedette nel vano della porta, al riparo dal vento.
«È certo la residenza di una persona importante, un nobile o un ministro» disse Porcellino. «Qui
fuori non c’è nessuno: saranno tutti dentro a scaldarsi al fuoco, con il freddo che fa. Aspettate che
vado a vedere.»
«Abbi modo, non ti buttare sulla gente.»
«Maestro!» rispose il bestione. «Da quando mi sono convertito ho imparato anch’io le buone
maniere; non sono più un contadinotto che viene dal porcile.»
Quel balordo si infilò il rastrello nella cintola, aggiustò la sua tonaca nera e andò avanti dandosi
un’aria molto signorile. Si trovò in una grande sala a tre navate, dove le stuoie delle finestre erano
tutte sollevate. Vi regnava il silenzio. Non v’era traccia di arredi, come tavoli, poltrone o vasellame.
Aggirò il paravento che proteggeva la porta verso l’interno e proseguì la sua esplorazione. Si
attraversava una galleria e si vedeva un grande padiglione: le finestre semiaperte del primo piano
lasciavano scorgere all’interno grandi cortine di mussola gialla.
«Saranno ancora a letto, per paura del freddo» si disse il bestione. Salì dunque le scale a gran
passi, ignorando la buona regola che vieta di passare senza invito dall’area di ricevimento all’area
privata della casa. Alzò disinvoltamente le cortine, ma fu colto di sorpresa: su un grande letto
d’avorio giaceva un gigantesco scheletro candido, il cranio grande come un moggio, tibie e femori
lunghi quattro o cinque piedi.
A Porcellino girò la testa, gli caddero lacrime dagli occhi. Lasciò ricadere la cortina scuotendo il
capo, e si chiese: «Chi sarà stato?
Maresciallo di quale dinastia?
Gran capitano di quale paese?
Di vittoria in vittoria tu volavi,
Ora ti sei ridotto a bianche ossa.
Né donna né bambino ti accudiscono,
I soldati non ti offrono l’incenso.
La potenza che in vita perseguivi
Ha questa conclusione desolata.»
Giunse agli occhi lacrimosi di Porcellino un riflesso di fiamma dietro i tendaggi. «Si direbbe che
qualcuno stia bruciando incenso.» Andò a vedere, ma si rese conto che era soltanto la luce del
giorno filtrata dai vetri colorati di una finestra. Ai suoi piedi c’era un tavolino laccato su cui erano
posate tre giubbe di broccato foderate di seta.
Senza il minimo scrupolo se ne impadronì, ridiscese le scale e ritornò all’ingresso.
«Maestro» disse a Tripitaka, «là dentro non c’è segno di vita: è la casa delle anime morte. Sono
entrato in un padiglione e non ho visto altro che uno scheletro dietro certe cortine di mussola gialla.
Di passata mi son preso queste tre belle giubbe foderate. È un vero colpo di fortuna, ci
proteggeranno dal freddo. Levatevi la tonaca e infilate questa, che è molto più calda:
approfittatene.»
«Ma non è lecito. Dice la legge: Prendere l’oggetto altrui, apertamente o surrettiziamente, è
furto. Se qualcuno lo sapesse e ci portasse in tribunale, verremmo subito condannati. Rimettile dove
le hai prese. Accontentiamoci di riposare qui al riparo dal vento finché non torna Consapevole del
Vuoto. Un monaco non deve cedere alla concupiscenza.»
«Ma qui non c’è nessuno, nemmeno un cane o una gallina. Chi ci dovrebbe portare in tribunale,
se lo sappiamo solo noi? E con quali prove? Questo è semplicemente raccogliere un oggetto
abbandonato: si può dire che non abbiamo preso niente, né in pubblico né in privato.»
«Errore. Anche quando sei solo il Cielo ti vede. Lo insegna il Signore dei Misteri: Quando agisci
nel buio contro la tua coscienza, lo sguardo degli dèi illumina più del lampo. Restituiscili prima che
sia troppo tardi. Non si deve mostrare attaccamento ai beni male acquistati.»
Il bestione non voleva saperne. Disse: «Maestro, di giubbe ne ho avute tante, ma non ne avevo
mai viste foderate di seta. Voi fate come vi pare, ma io una me la metto un momento per scaldarmi
un po’. Quando ritornerà Scimmiotto, la rimetterò al suo posto prima di ripartire.»
«A queste condizioni, ne provo una anch’io» disse Sabbioso.
Si spogliarono dunque delle tonache e indossarono le giubbe. Non l’avessero mai fatto! Appena
infilate, esse li strinsero peggio di camicie di forza; in un istante si trovarono immobilizzati, con le
mani legate dietro la schiena. Tripitaka spaventato corse a cercare di liberarli, ma non c’era niente
da fare. Gridavano e gemevano tanto, che misero in allarme il diavolo nascosto dietro a questa
messinscena.
Conferma il racconto che tutti gli edifici non erano che una fata morgana suscitata da un orco,
che viveva da quelle parti e passava il suo tempo a catturare viandanti. Udendo grida e lamenti, uscì
dalla sua grotta per vedere chi era caduto in trappola. Chiamò alla riscossa i suoi mostriciattoli, fece
scomparire torri e padiglioni, e ordinò di portare nella sua tana tutti quanti, compresi il cavallo e i
bagagli.
Il mostro troneggiava su un’alta pedana, mentre la folla dei diavoletti spingeva avanti il monaco
cinese, che si prosternò nella polvere.
«Da dove vieni, bonzo?» domandò l’orco. «Come ti permetti di venire a rubarmi il guardaroba?»
«Il povero monaco che sono» dichiarò Tripitaka in lacrime, «è incaricato dai grandi Tang delle
terre dell’Est di andare in cerca delle scritture nel Paradiso dell’Ovest. Mentre aspettavo il ritorno
del mio primo discepolo, che è andato a mendicare cibo, sono entrato per errore nel vostro dominio.
La meschina cupidigia dei miei discepoli li ha sfortunatamente indotti a impadronirsi di questi abiti,
benché gli avessi raccomandato di rimetterli al loro posto. Ma non mi hanno ascoltato e hanno
voluto indossarli per riscaldarsi, senza rendersi conto di cadere così nella trappola predisposta da
vostra maestà, né pensare che sarei stato catturato anch’io. Ripongo tutte le mie speranze nella
commiserazione di vostra maestà, perché mi lasci il poco tempo che mi resta da vivere e mi
permetta di trovare i sutra che cerco. Ve ne saremo eternamente riconoscenti e canteremo le vostre
lodi al ritorno nelle terre dell’Est.»
L’orco si mise a ridere: «Sappiamo tutti che basta mangiare un pezzetto della tua carne, perché i
capelli bianchi ritornino neri e i denti caduti ricrescano. Tu capisci che, trovandoti in casa mia senza
nemmeno il fastidio di invitarti, sarei uno stupido se ti lasciassi andare. Come si chiama questo tuo
primo discepolo? Dov’è andato a mendicare?»
Porcellino dichiarò con tono altero: «Il mio condiscepolo è nientemeno che Scimmiotto
Consapevole del Vuoto, il Grande Santo Uguale al Cielo, che parecchi anni fa fece un bel rumore
nel palazzo celeste.»
L’orco non disse nulla, ma corrugò la fronte e pensò: «Certo, ho sentito parlare anche di lui e
delle sue capacità; non mi aspettavo di incontrarlo.»
E ordinò: «Ragazzi, legate bene il monaco cinese. Poi levate le mie giubbe agli altri due e legate
anche loro. Metteteli in dispensa, e vediamo di catturare anche il pezzo che manca. Poi daremo a
tutti loro una bella spazzolata, li laveremo a fondo e li cucineremo al vapore.»
I mostriciattoli corsero a eseguire. Il cavallo bianco fu portato nella stalla, i bagagli gettati in una
stanza, ed essi si dedicarono a preparare le armi per la cattura di Scimmiotto.
Il Novizio, sgraffignata la ciotola di riso dai contadini del villaggio più a sud, ritornò al punto di
partenza e ritrovò il cerchio, ma dentro non c’era più nessuno. Guardò verso le torri e constatò che
erano scomparse: restavano solo alcune rocce di forma insolita.
«C’era da aspettarselo» si disse Scimmiotto allarmato. «Quegli stupidi saranno corsi a gettarsi
nella rete.» E si mise a seguire le tracce degli zoccoli del cavallo sulla carreggiata.
Dopo cinque o sei li vide un vecchio protetto da un mantello di feltro, con la testa coperta da un
passamontagna e stivali un po’ logori, che si appoggiava a un bastone dal pomo a testa di drago. Lo
seguiva un giovane domestico che scendeva cantando dal pendio e reggeva un ramo di prugno
fiorito.
Il Novizio appoggiò a terra la sua ciotola, giunse le mani e gridò: «Ehi nonno, i miei saluti!»
«Dove andate reverendo?» rispose il vecchio rendendo educatamente il saluto.
«Vado all’Ovest per vedere il Buddha e cercare le scritture. Siamo quattro persone; gli altri tre mi
dovevano aspettare mentre mendicavo cibo, ma al ritorno non li ho più trovati. Posso chiedervi se li
avete visti?»
Il vecchio ridacchiò: «Uno dei tre avrebbe un lungo grugno e grandi orecchie?»
«Proprio così.»
«E un altro ha una faccia patibolare? Sono seguiti da un cavallo bianco che porta un monaco
pallido e grassoccio.»
«Ma certo, sono loro.»
«Allora state perdendo tempo. Lasciateli stare.»
«Quello con la faccia pallida è il mio maestro; i due un po’ strani sono i miei condiscepoli.
Siamo uniti dalla pia determinazione di trovare le scritture. Non posso certo lasciarli perdere.»
«Il fatto è che, passando da queste parti, hanno fatto un passo falso e si sono gettati nella gola di
un mostro.»
«Scusate il disturbo, nonno, ma mi potreste descrivere il mostro e dirmi dove abita?»
«Questo è il Monte del Cappuccio d’Oro, su cui c’è una grotta con lo stesso nome in cui vive un
rinoceronte. Ha poteri immensi e un prestigio militare di prim’ordine. Temo che questa volta
nemmeno voi possiate fare niente per i vostri compagni. Se fossi al vostro posto lascerei perdere.
Ma naturalmente non vi posso insegnare io che cosa dovete fare.»
«Grazie del consiglio» rispose Scimmiotto, «ma a rinunciare non ci penso nemmeno.»
Voleva dare al vecchio il riso della sua ciotola per ringraziarlo, quand’egli posò il bastone, prese
la ciotola per tenderla al servitore, e mutò aspetto. Padrone e servitore si prosternarono: «Grande
santo, le umili divinità che siamo non possono tenervelo nascosto più a lungo: siamo il dio della
montagna e la divinità locale, venuti ad accogliervi. Permetteteci di conservare per voi la ciotola,
perché non vi sia d’imbarazzo nell’esercizio del vostro lavoro. Ve la renderemo quando avrete
liberato il monaco cinese da questa prova, perché gliela offriate dimostrando il vostro grande
attaccamento.»
«Diavolacci da pochi soldi che non siete altro! Andate per caso in cerca di legnate?» tuonò
Scimmiotto. «Se sapevate chi sono, perché non vi siete presentati subito? Che cos’è questa maniera
di incassare il collo e nascondere la coda?»
«Tutti sanno che la vostra eminente santità è piuttosto impulsiva. Non osavamo imporre la nostra
presenza a rischio di offendervi. Perciò abbiamo preferito presentarci in incognito.»
«Va bene» disse Scimmiotto calmandosi, «prendo nota della correzione che vi siete meritata.
Custodite bene la ciotola e aspettate che catturi il mostro.»
La divinità locale e il dio della montagna si ritirarono.
Scimmiotto si strinse bene la cintura, rimboccò il grembiule di pelle di tigre e, impugnata la
sbarra con i cerchi d’oro, si slanciò alla ricerca della tana dell’orco. Girando intorno alla rupe
scoprì, contro la parete azzurrina, un ammasso di rocce su cui si disegnavano due battenti di pietra.
Accostandosi vide diversi mostriciattoli che si esercitavano nel maneggio delle armi. Si vedevano
cristallizzazioni di vapori di buon augurio, croste verdazzurre di licheni; corsi di rocce dalle forme strane, zigzag di
ripidi sentieri; danze di fenici come nelle isole incantate; risuonavano fischi di gibboni e canti d’uccelli in un bel
paesaggio.
Nei luoghi più soleggiati i susini incominciano a fiorire, mille bambù verdeggiano, mentre in fondo al burrone dura
ancora la neve e il torrente è parzialmente ghiacciato. La seducente foresta di pini e cedri si adorna dei fiori rossi delle
camelie di montagna.
Ma Scimmiotto non era nello stato d’animo di perdersi a contemplare il paesaggio. Avanzò a
lunghi passi verso l’ingresso della grotta e apostrofò i mostriciattoli con voce tonante: «Filate ad
avvertire il vostro padrone che sono qui: sono il discepolo del santo monaco cinese, Consapevole
del Vuoto, Grande Santo Uguale al Cielo. Ditegli di liberare subito il mio maestro, se non volete che
vi ammazzi.»
La banda dei mostriciattoli si precipitò all’interno per annunciare: «Maestà, c’è alla porta un
monaco con la faccia pelosa e la bocca storta, che dice di chiamarsi Consapevole del Vuoto. È
venuto a reclamare il suo maestro.»
L’orco si rallegrò: «Eccolo qua. Da quando ho lasciato la mia casa d’origine e sono sceso in
questo basso mondo, non ho mai avuto un’occasione seria di esercitare la mia arte militare. Sono
sicuro che questo è un avversario al mio livello.» E ordinò: «Alle armi, ragazzi!»
Tutti i diavoli dell’antro dovettero riunire tutte le loro energie per correre a portare all’orco una
lancia d’acciaio lunga dodici piedi. «State pronti, ragazzi. Chi avanza sarà premiato, chi cede
terreno sarà punito.»
E si fece sulla porta, seguito da tutti i suoi, a gridare: «Dove sarebbe questo Scimmiotto
Consapevole del Vuoto?»
Il Novizio, che si era defilato, constatò che il mostro aveva un aspetto spaventoso:
Un unico grande corno ricurvo, occhi scintillanti; sul cranio ha una protuberanza callosa, il collo mostra una pelle nera e
lustra; lunga lingua, grossi denti ingialliti allineati dentro la grande bocca.
Lo ricopre un cuoio peloso dai riflessi color indaco. I muscoli sono duri come acciaio. È simile al rinoceronte acquatico,
ma non vede nell’acqua; simile al bue, ma non tira l’aratro. Non è utile come il bufalo, che suda al chiar di luna, ma
possiede una forza da far tremare cielo e terra.
Nelle grandi mani blu dai tendini nodosi stringe minacciosa la lancia d’acciaio. Dal suo aspetto feroce, si capisce che
non porta invano il titolo di Grande Re Rinoceronte.
«Ecco qua tuo nonno materno Scimmiotto» ironizzò il grande santo facendosi avanti. «Rendimi
il mio maestro prima che sia troppo tardi, e te la passerai liscia. Ma basta che tu abbia un momento
di incertezza, per garantirti morte senza sepoltura.»
«Castigherò la tua temerità, brutta scimmia. Che abilità puoi avere, per vantarti tanto?»
«Maledetta creatura, tu non mi hai visto all’opera!»
«Il tuo maestro è venuto a rubare nel mio guardaroba: l’ho catturato e intendo cuocerlo al vapore.
Tu chi credi di essere per venire a reclamarlo?»
«Il mio maestro è un monaco onesto e buono; figuriamoci se è venuto a rubare i tuoi ordigni
malefici. Chi vuoi che ti creda?»
«Eppure il tuo maestro si è introdotto nel castello fantasmagorico che avevo suscitato sul ciglio
della strada e, spinto dalla concupiscenza, mi ha rubato tre giubbe di broccato e se le è infilate. Ho
in mano il corpo del reato, perciò mi sento autorizzato ad arrestarlo. Ma se pensi di farcela, vieni a
misurarti con me. Se reggi tre scontri, farò grazia al tuo maestro; se no, andrai a fargli compagnia.»
«Maledetta creatura, lascia perdere le chiacchiere» sogghignò Scimmiotto. «Vuoi combattere?
Detto fatto. Assaggia il mio randello!»
L’orco non si tirò indietro e mise la lancia in resta. Che battaglia!
Sbarra cerchiata d’oro contro lunga lancia: l’una scintilla come il serpente d’oro del fulmine, l’altra brilla come il drago
che esce da un mare d’inchiostro. Davanti all’ingresso i mostri battono i tamburi e si danno da fare per tenere alto il
prestigio della casa. Il grande santo mostra in lungo e in largo la sua bravura. La lancia è maneggiata con energia, il
randello con arte consumata. Sono avversari degni uno dell’altro. Quel diavolo soffia dalla bocca volute di fumo
porporino, il grande santo lampeggia fino alle nuvole lo sguardo con riflessi iridati. Si battono all’ultimo sangue pro e
contro il monaco cinese.
Dopo trenta riprese, lo scontro era lontano da una decisione. Il diavolo ammirava la perfetta
maestria della scherma di quella sbarra: «Che scimmia in gamba! Non ha proprio perso lo smalto,
dai tempi di quella famosa scorribanda nei palazzi del Cielo.»
Da parte sua Scimmiotto ammirava il maneggio impeccabile di quella lancia, che copriva a
destra e parava a sinistra senza mosse inutili: «Com’è bravo! Dev’essere un diavolo che ha rubato
l’elisir.»
Dopo altri dieci o venti scontri, il re diavolo puntò la lancia al suolo e ordinò ai suoi
mostriciattoli di attaccare. Essi, maneggiando sciabole, lance e randelli, accerchiarono Scimmiotto
che gridò: «Bravi, qui vi volevo!» e parava i colpi da tutte le parti. Poiché la gran folla gli limitava i
movimenti, finì per perdere la pazienza e gettò la sua sbarra verso l’alto gridando:
«Trasformazione!» Essa si trasformò in centinaia, migliaia di sbarre tutte uguali, che caddero dal
cielo come una pioggia di serpenti e di draghi. I mostri, impauriti, cercavano di proteggersi la testa e
correvano a perdifiato verso la caverna.
Il re diavolo sogghignò: «Ora, amico scimmia, ti insegnerò un po’ di educazione. Tu vedrai con
quale legna faccio fuoco per scaldarmi.»
Levò dalla manica un candido anello e lo gettò in aria gridando: «Afferra!» L’anello sibilò,
raccolse in un fascio tutte le sbarre, ne fece una sola e la riportò al suo padrone, lasciando
Scimmiotto a mani vuote. Non gli restò che fare una bella capriola e darsela a gambe.
I mostri fecero ritorno in corteo trionfale. Scimmiotto, questa volta, era rimasto sbalordito e non
sapeva più che pesci pigliare. È il caso di dirlo:
La Via sale d’un piede, e il diavolo di sei.
È pur sempre possibile che lo spirito sbagli.
Ahimè, quando la legge esce dal proprio perno,
Pensieri e movimenti cadono nella nassa.
Se in fin dei conti non sapete come la cosa andò a finire, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 51
NUDO COME UN VERME
IN CUI LA SCIMMIA DELLO SPIRITO RICORRE INVANO A MILLE ESPEDIENTI: NÉ L’ACQUA NÉ IL
FUOCO RIESCONO A METTERE IL DIAVOLO IN DIFFICOLTÀ.
Vinto, a mani vuote, come ci ha detto il racconto, il Grande Santo Uguale al Cielo andò a sedersi
sul Monte del Cappuccio d’Oro. Gli scendevano dagli occhi grosse lacrime e diceva: «Maestro, io
speravo
Col favore del Buddha condividere
Con voi la vita, missione e destino,
Pietà e pensieri. Chi avrebbe creduto
Che avrei perso maestro e iniziativa?
A mani vuote, come potrò vincere?»
Scimmiotto si lamentò per un pezzo. Poi gli venne un pensiero: «Questo mostro mi conosce. Per
apprezzare il mio modo di combattere, ha detto a un certo punto che non avevo perso lo smalto.
Questa non è una creatura malefica ordinaria; sarà piuttosto una cattiva stella caduta dal cielo
perché traviata da pensieri mondani. Chissà da dove viene. Mi occorrono informazioni.»
Mediante la riflessione, Scimmiotto ritrovò la fiducia in sé stesso e riprese l’iniziativa: con una
capriola nelle nuvole si catapultò alla porta meridionale del cielo. Subito gli venne incontro il re
celeste Vasto Sguardo, che si inchinò e chiese: «Dove andate, grande santo?»
«Ho bisogno di vedere l’Imperatore di Giada per affari. Ma tu che fai qui?»
«Faccio il mio turno di guardia.»
Ed ecco farsi avanti i quattro marescialli Ma, Zhao, Wen e Guan: «Scusateci di non esservi
venuti incontro, grande santo. Facciamo subito preparare il tè.»
«Non ho tempo» rispose Scimmiotto; e si congedò da Vasto Sguardo e dai marescialli, per recarsi
difilato nella Sala delle Nuvole Misteriose. Là trovò i quattro precettori celesti Zhang Daoling, Ge
Xianweng, Xu Jingyang e Qiu Hongji, sei ufficiali della costellazione del Sud e i sette dell’Orsa
Maggiore: tutti gli vennero incontro e lo salutarono cerimoniosamente: «Che cosa vi conduce qui,
grande santo? Avete forse portato a termine il vostro incarico di proteggere il monaco cinese?»
«No, è troppo presto. La strada è lunga e zeppa di diavoli: siamo solo a metà, e al momento
siamo bloccati alla Caverna del Cappuccio d’Oro, sul monte che porta lo stesso nome. Un
rinoceronte malefico ha imprigionato il mio maestro; ho avuto un duello con lui, ma dispone di
poteri così grandi che mi ha tolto la mia sbarra cerchiata d’oro: adesso catturarlo è un bel problema.
Credo che sia una cattiva stella piovuta nel mondo di Sotto, ma non so identificarla. Perciò ho
bisogno di parlarne con l’Imperatore di Giada, per chiedergli ragione di questo intollerabile
lassismo.»
«Benedetta scimmia!» esclamò Xu Jingyang mettendosi a ridere. «Siete sempre il solito
insolente.»
«Non è insolenza. Dico quello che penso, e ho sperimentato che in questo modo è più facile
venire a capo di molte cose.»
«Non stiamo a discutere» tagliò corto Zhang Daoling. «Vi annunciamo.»
«Vi ringrazio.»
I quattro precettori celesti lo annunciarono subito nella sala d’udienza e lo introdussero ai piedi
del trono di giada.
«Mi dispiace disturbarvi, vecchio mio» si scusò il Novizio tirando giù una riverenza. «Come
sapete sono incaricato di proteggere il monaco cinese in cerca delle scritture al Paradiso dell’Ovest.
Non vi starò a raccontare i vari fastidi che abbiamo incontrato. Al momento siamo arrivati sul
Monte del Cappuccio d’Oro, dove un rinoceronte malefico ha chiuso il mio maestro nella sua tana e
conta di mangiarselo, non so se ridotto a salume, bollito o cotto al vapore. Sono andato a cercarlo e
ho combattuto con lui, ma quell’animale - che mi conosce ed è fortissimo - è riuscito a disarmarmi;
a mani vuote mi sento proprio nudo come un verme. Sono venuto da voi perché sospetto che possa
trattarsi di una cattiva stella caduta dal cielo. Supplico umilmente la vostra celeste maestà di
accondiscendere, nella sua grande compassione, a esaminare il caso, decretare un’inchiesta per
stabilire di quale stella si tratti e inviare truppe per rimettere le cose al loro posto. Vi scongiuro con
timore e tremore.»
E si inchinò molto profondamente: «È quanto mi sono permesso di sottomettere alla vostra
attenzione.»
Ge Xianweng, che si trovava accanto all’Imperatore di Giada, si mise a ridere: «Scimmia, com’è
strano il tuo modo di fare! Arrogante all’inizio e rispettoso alla fine.»
«Mentre parlavo mi è venuto in mente che sono appunto nudo come un verme, ed è meglio che
stia accorto.»
L’Imperatore di Giada prestò ascolto e diede al servizio di sorveglianza le seguenti istruzioni: «In
conformità della supplica di Consapevole del Vuoto, condurre un’inchiesta in tutte le costellazioni e
presso gli dèi sovrani di ciascuna casa, per appurare se qualcuno sia fuggito sulla terra spinto da
pensieri mondani. Riferire sulla missione, non appena compiuta.»
Il responsabile del servizio partì immediatamente per l’ispezione, e il grande santo lo
accompagnò. Incominciarono dagli ufficiali agli ordini degli dèi re delle quattro porte del Cielo;
proseguirono con le divinità delle varie categorie della costellazione dei Tre Recinti minori; poi i
mandarini del Dipartimento Tuoni e Fulmini, Tao, Zhang, Xin, Deng, Gou, Bi, Pang e Liu. Infine
percorsero i trentatré cieli: ma era tutto in ordine. Passarono in rassegna, una dopo l’altra, le
ventotto case: le sette dell’Est, le sette dell’Ovest, le sette del Sud e le sette del Nord. Non un filo
fuori posto. Si spinsero fino al sole, alla luna e ai cinque pianeti, e persino ai quattro astri in
soprannumero. In tutto il cielo, non un solo pensiero mondano.
«Visti i risultati» concluse Scimmiotto, «vi ho disturbato per niente; sono molto imbarazzato. Ti
prego, va a fare il tuo rapporto; io aspetto qui.»
Mentre il capo del servizio di sorveglianza faceva rapporto, Scimmiotto occupava l’attesa
componendo questi versi:
Felice tempo di bonaccia in cielo,
Dove brillan pacifiche le stelle.
Sembra la terra il regno della gioia:
Le asce di guerra restan sotterrate.
«Nessuna assenza da segnalare nelle costellazioni; tutte le sentinelle divine sono ai loro posti di
guardia; nessuno pensa a disertare» riferì il caposervizio all’Imperatore di Giada, a conclusione
della sua esauriente inchiesta.
«Proponi a Consapevole del Vuoto di scegliere qualche capitano celeste per catturare questo
mostro del mondo di Sotto» decise il sovrano degli dèi.
I quattro precettori celesti uscirono subito dalla sala d’udienza per comunicare il decreto
imperiale a Scimmiotto: «Grande santo, dal momento che non è coinvolta nessuna divinità del
palazzo celeste, sua maestà ti concede l’insigne favore di invitarti a scegliere fra i capitani celesti
chi possa catturare quel diavolo.»
Il Novizio rifletteva a testa china: «Fra questi guerrieri del Cielo, non c’è mica molta gente che
arrivi al mio livello. Quando penso a quei centomila uomini, con tutte le loro reti e nasse, che non
furono capaci di mettermi sotto controllo... Dovettero tirar fuori dalla manica il piccolo santo
Erlang, per farmi fronte. Che aiuto potrei cavare da questi mediocri?»
«I tempi cambiano» disse Xu Jingyang, che indovinava i suoi pensieri. «Ci sono tanti giovanotti
in gamba. Lo dice anche il proverbio: una cosa caccia l’altra. Non vorrai disubbidire a un ordine
imperiale! Fa pure le tue valutazioni, ma devi scegliere qualcuno, se non vuoi compromettere i tuoi
affari.»
«Se le cose stanno in questi termini, esprimi la mia profonda riconoscenza a sua maestà. Mi
rendo conto che sarebbe imbarazzante contravvenire alle sue direttive. D’altronde mi dispiacerebbe
aver tanto viaggiato per niente. Dovresti dire all’Imperatore di Giada che mi van bene il re celeste
Li Porta Pagoda e il principe Nata. Almeno loro ne hanno, di armi per abbattere mostri. Staremo a
vedere. Se riusciranno a catturare quell’animale, sarà una bella fortuna; in caso contrario,
decideremo sul campo.»
Il precettore celeste riferì all’imperatore, che ordinò a Li padre e figlio di soccorrere Scimmiotto
alla testa di un’armata celeste. Quando si presentarono da lui, egli disse al precettore celeste: «Sono
molto riconoscente all’Imperatore di Giada, ma avrei ancora una cosa da chiedere: mi servirebbero
un paio di duchi del tuono. Capisci? Quando ingaggeremo battaglia potranno fulminare il mostro
dall’alto, dandogli una botta sulla testa. Non ti sembra una buona idea?»
«Ma certo. Provvediamo subito» rispose ridendo il precettore; e ne riferì all’imperatore, che
ordinò agli uffici del nono cielo di inviare i duchi del tuono Deng Hua e Zhang Fan ad assistere i re
celesti nella cattura del mostro.
La spedizione uscì dal portale sud e in breve arrivò a destinazione.
«Questo è il Monte del Cappuccio d’Oro; siamo arrivati» disse Scimmiotto. «Ora dovete
decidere chi darà battaglia per primo.»
Il re celeste Li abbassò la sua nuvola, dispose le truppe sul fianco della montagna e, con la
dovuta ponderazione, rispose: «Come sapete, grande santo, mio figlio Nata ha al suo attivo
l’abbattimento dei diavoli delle novantasei caverne, è un esperto in trasformazioni ed è munito di
eccellenti armi anti-diavolo. Converrà che il primo sfidante sia lui.»
«Va bene» rispose Scimmiotto. «Lo accompagnerò in veste di ricognitore.»
Nata raccolse le sue possenti energie, balzò sulla montagna e si diresse all’ingresso della grotta
in compagnia del grande santo; trovarono l’ingresso deserto ed ermeticamente sbarrato.
«Apri, diavolo maledetto!» gridò Scimmiotto. «Rendimi il mio maestro!»
Il portinaio andò ad annunciare: «Maestà, Scimmiotto il Novizio è arrivato in compagnia di un
giovanotto per sfidarvi a battaglia.»
«L’ho già disarmata, quella scimmia» si disse il diavolo. «Poiché a mani vuote non può
combattere, avrà cercato rinforzi.» E ordinò: «Portatemi le armi!»
Lancia alla mano, uscì a vedere: si trovò davanti un ragazzo molto vigoroso e di straordinaria
bellezza. Guardate:
Bel volto come giada levigata,
Candidi denti scintillano in bocca,
Lanciano gli occhi fieri sguardi, riccioli
Di capelli ne adornano la fronte.
Ardono fiamme intorno alla cintura,
Brilla il vestito dai riflessi d’oro.
Reca uno specchio appeso sopra il petto,
Gli stivali da guerra sono uniti
All’armatura. Modesta statura,
Ma di voce potente: questo è Nata
Il tremendo, protettor dei tre cieli.
Quando lo vide, il diavolo scoppiò a ridere: «Tu sei il terzo figlio del re Li, quel bamboccio di
Nata. Perché vieni a far chiasso alla mia porta?»
«Perché semini disordine, maledetto diavolo» rispose il principe. «Perché ti sei impadronito del
santo monaco delle terre dell’Est. L’Imperatore di Giada mi manda ad arrestarti.»
«C’è sotto lo zampino di Scimmiotto» replicò il mostro infuriato. «Certo, il monaco l’ho io. Ma
tu, ragazzino, che cosa credi di valere nelle arti marziali per parlarmi con tanta arroganza? Non
scappare, assaggia la mia lancia.»
Il principe lo fronteggiò brandendo la sciabola per decapitare gli esseri malefici. Mentre
venivano alle mani, gridò: «Dove siete, duchi del tuono? Fatevi sotto, datemi una mano!»
Deng e Zhang si fecero subito avanti su un raggio luminoso. Quando li vide pronti a entrare in
azione, il principe si trasformò in guerriero con tre teste e sei braccia, con un’arma diversa in ogni
mano. Stava per abbatterle tutte su quel diavolo, quand’egli a sua volta si presentò con tre teste e sei
braccia, brandendo tre lunghe lance. Allora il principe usò la sua tattica di sterminatore di mostri,
gettando in aria le sue armi: sciabola per decapitare, spada per forare, laccio per legare, mazza per
schiacciare, mazzapicchio traforato e ruota di fuoco. Con un potente grido le moltiplicò per dieci,
per cento, per mille, per diecimila, e tutta questa roba cadeva sulla testa del mostro come una
grandinata. Ma lui non perse la calma: impugnò il cerchio dal candore sfavillante e lo lanciò in alto
gridando: «Afferra!» Esso ridiscese sibilando e aspirò tutto quel visibilio di armi. Nata si ritrovò
disarmato e dovette cercare scampo nella fuga. Il re diavolo trionfava.
Su per aria, i due duchi del tuono se la ridevano sotto i baffi: «Meno male che ci siamo resi conto
in tempo della situazione, e ci siamo guardati bene dal lanciare fulmini. Se ci avesse portato via
anche quelli, con che faccia saremmo ritornati davanti a sua celeste maestà?»
Scesero anche loro dalle nuvole e raggiunsero il principe sul versante sud, dov’era accampato il
re Li: «Quel diavolo dispone di enormi poteri!»
«Ha quell’anello, nient’altro» intervenne Scimmiotto ridendo. «Chissà che cos’è quel tesoro che
aspira tutto.»
«Il grande santo è un bell’incosciente!» gridò indignato Nata. «Abbiamo perduto le armi e siamo
stati messi in rotta per colpa tua. Ci troviamo nei guai fino al collo, e tu ridi!»
«Ti pare che io non mi trovi nei guai? Ma dal momento che piangere non risolve niente, tanto
vale ridere.»
Il re celeste intervenne da moderatore: «Adesso che si fa?»
«Pensateci su anche voi» disse Scimmiotto. «Il mezzo per catturarlo sarà qualcosa che
quell’anello non possa aspirare.»
«Il meglio dovrebbero essere l’acqua e il fuoco» suggerì il re. «Dice l’adagio: acqua e fuoco, chi
li ferma?»
«Giusto!» esclamò Scimmiotto. «Sedetevi qui tranquilli, mentre torno a fare un giretto al piano
di sopra.»
«Che cosa ci tornate a fare?» chiesero i duchi del tuono.
«Non farò perdere tempo all’Imperatore di Giada. Andrò al Palazzo di Rosso Splendore e
chiederò al signore del pianeta della Virtù del Fuoco di portare qui un fuoco che bruci il mostro, o
almeno neutralizzi l’anello e ci consenta la cattura. Voi non potete ritornare a casa senza le vostre
armi, e quanto a me devo tirar fuori il mio maestro da questa prova.»
«Non perdiamo altro tempo» disse il principe, che gradiva molto la proposta. «Preghiamo tutti il
grande santo di partire senza indugio. Noi aspettiamo qui.»
Scimmiotto ritornò dunque alla porta meridionale del Cielo. Vasto Sguardo e i suoi quattro capiguardia lo accolsero chiedendo: «Perché ritornate, grande santo?»
«Il re Li ha mandato a combattere suo figlio, ma quel mostro ha disarmato anche lui. Voglio
chiedere aiuto al signore dell’astro della Virtù del Fuoco.»
I quattro generali non osarono trattenerlo.
Giunto al Palazzo di Rosso Splendore, le divinità del dipartimento Fuochi lo andarono ad
annunciare: «Vostra Signoria, è arrivato Scimmiotto Consapevole del Vuoto, e vorrebbe essere
ricevuto.»
Il signore della Virtù del Fuoco, Tre Soffi del Sud, si aggiustò la veste e gli si fece incontro:
«Siamo già stati ispezionati dal servizio di sorveglianza; qui è tutto in ordine, nessuno ha pensieri
mondani per la testa.»
«Non si tratta di questo. Avremmo bisogno di aiuto, io e i due Li; anche il principe Nata è
rimasto disarmato.»
«Nata è la divinità che presiede la grande assemblea dei Tre Podii; ha immensi poteri e ha già
abbattuto i diavoli delle novantasei caverne. Se lui non ce la fa, che aiuto potrebbe dare un dio
insignificante come me?»
«Ne abbiamo discusso con il re Li: fra cielo e terra, nessuna forza è paragonabile a quelle
dell’acqua e del fuoco. Il mostro possiede un anello che strappa alla gente quello che ha in mano.
Non ci posso giurare, ma dal momento che il fuoco distrugge tutto, pensavo che il dipartimento
Fuochi dovrebbe riuscire a bruciare quel mostro e liberare il mio maestro da questa prova.»
Il signore del pianeta della Virtù del Fuoco fece l’appello delle milizie del dipartimento e
accompagnò Scimmiotto sul versante meridionale del Monte del Cappuccio d’Oro, dove si
trovarono con Li e con gli altri.
«Grande santo» propose Li, «dovreste ritornare a provocarlo. Io ingaggerò battaglia, e quando
tirerà fuori quel maledetto anello indietreggerò e lascerò il campo ai nostri amici del dipartimento
Fuochi, perché facciano il loro mestiere.»
«D’accordo, andiamo» rispose ridendo Scimmiotto.
Virtù del Fuoco si mise in agguato su un picco, con il principe e i duchi del tuono, tutti pronti a
intervenire.
Scimmiotto, giunto davanti alla Grotta del Cappuccio d’Oro, incominciò a gridare: «Apri!
Sbrigati a rendermi il mio maestro!»
Il padrone della grotta venne subito avvertito: «Ecco Scimmiotto che ritorna.»
Il diavolo uscì alla testa dei suoi e apostrofò il Novizio: «Brutta scimmia, chi mi hai portato
questa volta?»
Li Porta Pagoda tuonò: «Ma come, non mi conosci, maledetta creatura?»
Il re diavolo si mise a ridere: «Ecco qua il buon re Li. Suppongo che tu venga a vendicare tuo
figlio e a ricuperare le sue armi.»
«Proprio così; e inoltre a catturarti e a liberare il monaco cinese. Non tirarti indietro: in guardia!»
La creatura evitò una sciabolata con un balzo da lato e vibrò la sua lancia. Che magnifico duello
all’ingresso della caverna! Che spettacolo!
Il re celeste dà fendenti di sciabola, il mostro risponde con la lancia; l’uno divinità inviata dal sovrano degli dèi, l’altro
orribile creatura annidata sul Monte del Cappuccio d’Oro. L’uno dispiega la sua arte militare per opprimere la legge del
Buddha, l’altro lo combatte per liberare il maestro dal pericolo. Il re celeste solleva sabbia e pietre, il diavolo terra e
polvere. La terra sollevata è tanta da immergere l’universo nelle tenebre, la sabbia da intorbidare fiumi e mari. È per il
monaco cinese che vuole salutare il Beato, che i due combattono con tanta energia.
Visto che il duello era avviato, Scimmiotto balzò sul picco e avvertì Virtù del Fuoco:
«Attenzione! Sta arrivando il momento cruciale, quando il mostro tira fuori l’anello.»
In effetti il re celeste balzò indietro e fuggì su una luminosità di buon augurio. Dal suo
osservatorio Virtù del Fuoco trasmise agli dèi del dipartimento l’ordine di entrare in azione. Fu una
scena terribile: che fuoco!
Dice un classico: «Il Sud è l’essenza del fuoco.» Una scintilla basta a incendiare diecimila arpenti di risaia. Perché Tre
Soffi, con la sua potenza, fa scaturire il fuoco in mille posti diversi. Ci sono lance di fuoco, sciabole di fuoco, archi di
fuoco e frecce di fuoco: ogni servizio ha la sua arma. In alto volano gracchiando i corvi di fuoco. Sulla montagna
galoppano i cavalli di fuoco. Topi incandescenti e draghi fiammeggianti corrono in giro a coppie. Gli uni sputano
fiamme ardenti che arroventano a mille leghe, gli altri soffiano un fumo denso che oscura il cielo. Vengono rovesciati i
carri di fuoco e i vasi di fuoco. Stendardi di fuoco agitano tutto il cielo di nubi iridate, bastoni di fuoco incendiano la
terra.
Non pensate a Ning Qi che frustava i suoi buoi, o all’incendio della Rupe Rossa: è tutt’altra cosa. Questo è fuoco del
cielo, ben più terribile del fuoco ordinario: persino il vento è diventato incandescente.
Ma il diavolo non si scompose. Lanciò in aria l’anello, che ricadde aspirando tutto quanto in una
gran succhiata: draghi, cavalli, topi, corvi, lance, sciabole, archi e frecce. Tutto ciò scomparve
dentro quel cerchio magico. Il mostro raccolse le sue truppe e se ne tornò a casa in trionfo.
Il signore della Virtù del Fuoco, reggendo in mano una bandiera divenuta inutile, riunì i suoi
ufficiali sul lato sud della montagna per conferire con il re celeste e con Scimmiotto: «Grande santo,
questa creatura malefica è unica nel suo genere. E adesso che ho perso tutto il mio
equipaggiamento, chi mi salva?»
«Signori, non prendetevela» rispose ridendo il Novizio. «Aspettatemi, che torno subito.»
«Dove conti di andare?» chiese il re celeste.
«Questa creatura non teme il fuoco; ma probabilmente l’acqua gli fa un effetto diverso. L’acqua
vince il fuoco, dice l’adagio. Farò un salto dal signore del pianeta della Virtù dell’Acqua, perché
inondi la grotta e affoghi il mostro. Così ricupereremo la vostra roba.»
«Il piano è buono, ma temo che affogherà anche il vostro maestro.»
«Pazienza. So come rianimarlo, se affoga. Scusate, ma è meglio che non perda tempo.»
«Andate, andate!» esortava Virtù del Fuoco.
Il grande santo, con una capriola nelle nuvole, si recò questa volta alla porta settentrionale del
Cielo. Lo accolse il re celeste Sa Tutto: «Dove vai, grande santo?»
«Vado al Palazzo Cupa Distesa a trovare il signore della Virtù dell’Acqua; gli devo parlare
d’affari. Tu che fai qui?»
«Faccio il mio turno di guardia.»
Comparvero i quattro marescialli celesti Pang, Liu, Gou e Bi, che salutarono il Novizio e lo
invitarono a bere il tè.
«Non vi disturbate» rispose lui. «Devo sistemare un affare urgente.»
Si congedò e corse al Palazzo Cupa Distesa, pregando gli dèi del dipartimento Acque di
annunciarlo d’urgenza.
«È arrivato il Grande Santo Uguale al Cielo.»
Il signore della Virtù dell’Acqua spedì subito tutti i re draghi a ispezionare i quattro mari, i
cinque laghi, gli otto fiumi, i quattro corsi d’acqua, i tre canali, i nove affluenti, senza trascurare
pozzi, ruscelli e pozzanghere. Poi si raddrizzò il berretto, strinse meglio la cintura e uscì ad
accogliere Scimmiotto davanti al palazzo. Mentre lo invitava a entrare disse: «Abbiamo avuto
quella richiesta di ispezione del servizio di sorveglianza, caso mai nel nostro dipartimento si trovi
qualche dio con grilli mondani per la testa. La verifica è ancora in corso.»
«Non credo che il mio diavolo sia una divinità acquatica; ha poteri troppo estesi. Ho avuto
l’aiuto di Li e di suo figlio, assistiti da due duchi del tuono, ma sono stati disarmati con un cerchio
magico. In mancanza di meglio ho chiesto aiuto al signore della Virtù del Fuoco, che è venuto con i
suoi; ma purtroppo quell’anello gli ha portato via draghi e cavalli. Di solito, chi non teme il fuoco
teme l’acqua. Perciò vengo a chiedervi se mi potete aiutare con i vostri mezzi. Oltre a salvare il mio
maestro, bisogna ricuperare tutta l’attrezzatura che è caduta nelle mani di quell’animale.»
Virtù del Fuoco ordinò subito al Conte del Fiume Giallo di accompagnarli per dare aiuto. Il
conte si cavò dalla manica una ciotola di giada bianca: «Questo è il recipiente per l’acqua che ho a
portata di mano. Spero che basti.»
«Quella tazza da tè?» obiettò Scimmiotto. «Come farete ad annegarci un diavolo?»
«Eminente santità, è una tazza sufficiente a contenere l’acqua di tutto il Fiume Giallo quando è
in piena.»
«Non mi rendevo conto. Allora basterà riempirla a mezzo» rispose allegro Scimmiotto.
Si recarono al fiume, riempirono la ciotola a metà e si recarono sul versante meridionale del
Monte del Cappuccio d’Oro, dove ritrovarono la bella compagnia. Tutti si misero a descrivere e
commentare i recenti avvenimenti.
«Non stiamo a entrare in tanti particolari» tagliò corto Scimmiotto. «Adesso il conte deve venire
con me. Quando griderò di aprire, non appena l’uscio si socchiude lui rovescerà l’acqua, senza stare
ad aspettare altro: affogheremo tutta la nidiata. Poi io andrò a ripescare il cadavere del mio maestro
e lo rianimerò.»
Il conte ubbidì. Girarono intorno al monte fino all’ingresso della grotta. Il portinaio, non appena
riconobbe la voce di Scimmiotto, avvertì subito il padrone: «Riecco Consapevole del Vuoto.»
Il diavolo uscì con lancia e anello. Ma quando la porta cigolò sui cardini, il conte vuotò la sua
tazza. Come vide l’acqua, il mostro lasciò cadere la lancia, impugnò l’anello e richiuse
precipitosamente la porta. L’acqua si avviò ribollendo giù per il monte; Scimmiotto e il conte
ebbero appena il tempo di catapultarsi sulla cima più alta. Anche gli dèi dovettero raggiungerli e
rimasero a guardare lo spettacolo di quei flutti che montavano e turbinavano in modo spaventoso.
Che inondazione!
Sta in un cucchiaio e può riempire gli abissi insondabili; perché l’acqua, divinamente mobile e irrequieta, percorre ogni
strada, scorre in ogni rigagnolo, gonfia ogni fiume. Ascoltate il suo rombo che fa tremare la vallata, guardatela
prorompere fino al cielo! Il suo rumore è più imponente del tuono.
Una marea alta mille tese si ingolfa nelle strade, diecimila strati di onde vanno all’attacco delle rupi, con un acciottolio
di sassolini di giada, con schiocchi di corde spezzate.
L’acqua si rompe contro le rocce, sputa tutti i denti e rifluisce in gorghi infiniti. Si insinua in tutte le cavità, fa di ogni
burrone un torrente in piena.
«Che disastro!» esclamava Scimmiotto allarmato. «Nella grotta non entra, e sta invece
inondando la campagna. Che cosa possiamo fare?» E chiedeva al conte di sbrigarsi a raccogliere
tutta quell’acqua.
Ma lui rispondeva: «La mia umile divinità non può farci niente: la so versare ma non raccogliere.
Lo dice anche il proverbio: acqua sparsa non la ripigli.»
Tuttavia le montagne sono alte e l’acqua cade in basso: in breve torrenti e fossi se la portarono
via.
A questo punto si videro ricomparire i mostriciattoli davanti alla grotta: gridavano,
sgambettavano, facevano i bulletti tendendo i pugni e agitando bastoni. In breve ripresero i loro
giochi in perfetto buonumore.
«Abbiamo perso tempo» fece notare il re celeste. «L’acqua non li ha neanche inumiditi.»
Arrabbiato e incapace di contenersi, Scimmiotto corse verso la porta gridando: «Dove andate
voialtri? In guardia!»
I mostriciattoli, spaventati, lasciarono cadere le loro cose e corsero a rifugiarsi in casa: «Maestà,
ci picchia!»
Il re diavolo si fece sull’uscio con la sua lancia in mano: «Brutta scimmia sfacciata! Hai fallito in
tutti i modi, non ti sono serviti né il fuoco né l’acqua. Se mi torni davanti, è proprio perché vuoi che
ti spacci.»
«Ti sbagli, figliolo: la pelle ce la rimetterai tu, non io. Vieni qui a prendere le sberle che ti
toccano.»
«Non imbrogliamo le carte» sogghignò il mostro. «Non hai che i pugni da opporre alla mia
lancia. E sono i poveri pugni di una bestiola tutta pelle e ossa, grandi come noci secche. Va bene,
lascerò da parte la lancia e ti offrirò una partita di pugilato. Ora ti do una bella lezione.»
«Ben detto!» fece Scimmiotto ridendo. «Fatti sotto.»
Il diavolo rimboccò il vestito e si mise in posizione, levando due pugni grossi come le mazze di
ferro che si usano per spremere l’olio. Scimmiotto molleggiò sulle gambe e partì all’attacco con una
gragnola di colpi. Che match!
Volteggiano intorno, si colpiscono a piedi uniti. Mirano al petto e alle costole, colpiscono il cuore e la milza. Assumono
la posizione dell’immortale che addita il cammino, poi quella di Laozi che cavalca la gru. Il più impegnativo è il colpo
della tigre affamata che si getta sulla preda, il più insidioso quello del drago che si attorce nell’acqua.
Il diavolo fece il caimano che si rigira, il grande santo il cervo che perde le corna [...] () Al colpo di Guanyin col palmo
della mano, il Novizio oppone il colpo di piede dell’arhat. Il diretto lungo non ha la stessa forza del gancio corto.
Combattono per varie diecine di riprese con molta perizia e senza debolezze.
Erano talmente virtuosi che il re Li urlava come un tifoso, e Virtù del Fuoco applaudiva. I duchi
del tuono e il principe Nata, alla testa delle truppe celesti, si erano messi in posizione, pronti a
lanciarsi al salvataggio di Scimmiotto. Nell’altro campo la folla dei mostri agitava le bandiere e
batteva sui tamburi, pronta a soccorrere il suo re con spade e lance brandite.
Resosi conto di quanto fosse tesa la situazione, Scimmiotto si strappò un ciuffo di peli, li
sparpagliò intorno e gridò: «Trasformazione!»
Subito una quarantina di scimmiottini si gettarono sul mostro per immobilizzarlo, tenendogli le
gambe, afferrandolo alla vita, mettendogli le dita negli occhi, tirandolo per i capelli. La creatura fu
colta dal panico e tirò fuori l’anello; allora Scimmiotto e il re celeste fuggirono su una nuvola e
rimontarono in vetta. Il diavolo gettò in aria il cerchio, che ricadde aspirando tutti gli Scimmiotti
ritrasformati in peli, e rientrò per festeggiare allegramente la vittoria.
«Il grande santo è sempre il migliore!» gridò il principe. «Questo incontro di pugilato è stato un
vero lavoro di ricamo, fiori su broccato. E la dimostrazione del tuo metodo di moltiplicazione del
corpo è stata perfetta.»
«Signori, voi che vi siete trovati a fare da spettatori» chiese Scimmiotto, «che cosa pensate delle
prestazioni di quella creatura confrontate con le mie?»
«Pugno impreciso, gioco dei piedi più lento» rispose il re Li; «non ha la tua iniziativa e
prontezza di riflessi. Quando hai usato la moltiplicazione, ha dato segni di smarrimento. Ecco
perché non se la cava mai senza ricorrere alla sua risorsa segreta, quell’anello magico.»
«Già; se non fosse per quel cerchio, non sarebbe difficile metterlo sotto» commentò Scimmiotto.
«Bisogna portargli via quella roba. Poi provvederemo noi a catturarlo» dissero Virtù dell’Acqua
e il conte del fiume.
«Ma come si fa? Bisognerebbe rubare.»
«Se c’è di mezzo il rituale del furto» fecero i duchi Deng e Zhang sghignazzando, «il nostro
grande santo è la massima autorità. Ricordate come fecero sensazione a suo tempo il furto del vino
imperiale, lo sgraffignamento delle pesche, il ratto del fegato di drago e del midollo di fenice, senza
parlare dell’elisir del signore Laozi. Un talento incomparabile. Chi altri potremmo assumere per
svolgere un lavoretto di questo genere?»
«Ben detto; del resto le chiacchiere non costano niente» replicò Scimmiotto. «Se la pensate così,
mettetevi seduti e io andrò a vedere che cosa si può fare.»
Il grande santo balzò giù dalla vetta, si avvicinò con discrezione all’ingresso della caverna e si
mutò in una bella moschina molto elegante:
Con ali più sottili di membrane
Di bambù, con un corpo più piccino
Del cuor di un fiore, zampe non più grosse
Di un pelo ed occhi scintillanti. Abile
A seguire gli odori, a navigare
Su ogni alito di vento. Non è in grado
Di far segnare un peso alla bilancia,
Ma possiede il suo lato utile e amabile.
Si accostò con volo leggero a una fessura e scivolò all’interno. I mostri grandi e piccoli si
accalcavano là dentro, e cantavano o danzavano. Il vecchio re troneggiava in alto. Davanti a lui
erano stati serviti in tavola serpenti in spezzatino, cacciagione, zampe d’orso, gobbe di cammello,
verdure e frutta della montagna. Da vasi di porcellana verde celadon si versavano tazze e tazze
ricolme di cumis di capra e di profumato vino di palma.
Scimmiotto si mescolò alla folla dei mostriciattoli assumendo l’aspetto di uno spirito con la testa
di tasso, e pian piano si avvicinò al trono: ma per quanto scrutasse in giro, non vide quel cerchio da
nessuna parte. Allora sgattaiolò dietro il trono e penetrò nella sala posteriore: appesi in alto, sotto le
volte, i draghi di fuoco gemevano e i cavalli di fuoco emettevano lamentosi nitriti. A un tratto scorse
la sua sbarra di ferro appoggiata al muro. Corse ad afferrarla, riprese il suo aspetto e avanzò tra la
folla mulinandola per aprirsi un passaggio. Tutti furono presi dal panico. Il re diavolo non fece in
tempo a reagire: prima che si rendesse conto della situazione, Scimmiotto si era già aperta una via
sanguinosa fino alla porta.
Tanta fiducia ha in sé che di sorpresa
Coglie il mostro e ricupera il randello.
Se poi, in fin dei conti, non sapete come andarono le cose, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 52
CAUTELE DIPLOMATICHE
DOVE CONSAPEVOLE DEL VUOTO DEVASTA LA GROTTA DEL CAPPUCCIO D’ORO, E IL BEATO BUDDHA
INDICA OSCURAMENTE CHI NE È IL PADRONE.
Il racconto ci ha narrato come Scimmiotto ricuperò la sua sbarra cerchiata d’oro e si aprì un
cammino fino all’uscita. D’un balzo risalì sulla vetta e con aria raggiante si rivolse agli dèi.
«Dunque com’è andata?» domandò il re Li.
«Quando sono entrato nella grotta, i mostri cantavano, ballavano e brindavano alla vittoria; non
ho trovato modo di individuare il nascondiglio di quel prezioso anello. Dietro il trono del diavolo ho
sentito nitrire cavalli e gemere draghi: erano le creature del dipartimento Fuochi. Contro il muro,
sulla sinistra, era appoggiata la mia sbarra cerchiata d’oro: l’ho ripresa e mi sono aperto una via fino
all’uscita.»
«Tu hai ricuperato la tua arma; ma le nostre?» si inquietarono gli dèi. «Quando conti di metterci
le mani?»
«Ora è tutto più facile. Con il mio randello troverò il modo di abbattere quell’animale e di farvi
riavere le vostre cose.»
Mentre parlavano si udì venire dal basso un clamore di gong e di tamburi, con grida da far
tremare la terra. Era il grande re Rinoceronte che inseguiva Scimmiotto alla testa delle sue truppe
diaboliche.
«Benone!» esclamò il Novizio. «È quello che ci vuole. Voi amici restate qui; lo vado a prendere
io.»
Diavolo di un grande santo! Brandì il randello e gli corse addosso gridando: «Dove vai,
maledetta creatura? In guardia!»
Il diavolo parò il colpo con la sua lancia e inveì: «Brigante di una scimmia! Impudente! Venirmi
a derubare in pieno giorno!»
«Ora vedrai, bestia immonda! Ti farò mordere la polvere! Il ladro sei tu, che hai rubato le nostre
armi alla luce del sole con il tuo maledetto anello. Ciò che ho preso era roba mia. Non scappare, che
assaggerai il randello del tuo signore e maestro.»
Il mostro rispose mulinando la lancia. Che battaglia!
Il mostro non si sottomette alla feroce potenza del grande santo. Rivaleggiano in prodezze, nessuno dei due molla la
presa. L’uno maneggia la sbarra di ferro con il vigore della coda di un drago, l’altro la lunga lancia con la forza della
testa di un pitone. Sibila l’aria a ogni colpo di randello, la lancia segue ogni movimento con la scioltezza dell’acqua
corrente.
Annebbia la montagna un’oscura bruma colorata, la foresta freme inquieta sotto pesanti nuvole. Gli uccelli smettono di
volare, gli animali si rintanano. I mostriciattoli gettano grida di incoraggiamento. Scimmiotto raccoglie le energie:
l’invincibile sbarra di ferro che ha aperto per mille leghe il cammino verso l’Occidente trova il suo vero avversario in
questa lancia, che regna incontrastata sul Monte del Cappuccio d’Oro; uno scontro per cui non è ammesso il risultato di
parità.
Combattevano da sei ore quando cadde la sera. Il diavolo drizzò la lancia e propose: «Fermati,
Consapevole del Vuoto. Il cielo si va oscurando: non è più tempo di battersi. Ritorniamocene a casa
e prendiamo un po’ di riposo. Domattina riprenderemo il duello.»
«Fermo lì, brutta bestia! Incomincio adesso a scaldarmi. Che cosa importa che ora sia?
Arriviamo fino in fondo!»
La creatura gettò un grido, fece una finta con la lancia e scampò precipitosamente nella sua
grotta, seguita dai suoi; le porte furono chiuse e sbarrate.
Scimmiotto se ne tornò al campo base. Gli dèi si congratularono tutti insieme: «Che forza, che
potenza! Davvero, hai una capacità senza confronti né limiti.»
«Via, non esageriamo» replicò il Novizio sorridendo.
«Non son chiacchiere» insisté il re Li. «Che valore! In questo combattimento non hai fatto niente
di meno di quanto mostravi ai tempi in cui sfidavi cielo e terra.»
«Non rivanghiamo quella vecchia storia. Dopo la batosta il diavolo dev’essere spossato, mentre
io mi sento in piena forma. Ora voi resterete qui e io ritornerò nella grotta a riprendere le indagini
sull’anello. Dovremo pur trovare il modo di portarglielo via, per ricuperare le vostre armi;
altrimenti, con quale faccia potreste ritornare a casa?»
«Ora si è fatto tardi» obiettò il principe Nata. «Sarà meglio che facciamo un buon sonno e che tu
ci vada domattina.»
«Questo ragazzo è ignaro dei fatti della vita» replicò Scimmiotto ridendo. «Quando mai si è visto
uno scassinatore che lavora nell’orario di ufficio? Nella nobile arte di svaligiare, gli affari migliori
si fanno di notte, alla chetichella.»
«Principe, non vi venga in mente di insegnargli qualcosa» intervennero Virtù del Fuoco e i duchi
del tuono. «Noi non ci s’intende di queste cose, mentre il grande santo è un virtuoso pieno di
esperienza. Sa lui che cosa si deve fare. Quel diavolo è stanco, l’oscurità della notte rende più
difficile stare in guardia. Per carità, lasciamolo andare!»
Il grande santo fece un risolino soddisfatto, nascose la sbarra e saltò giù dalla vetta fino
all’ingresso della grotta. Con una scossa si mutò in un grillo. Proprio così.
Duri mustacchi, lunghe antenne nere, occhi lustri e zampette forcute, canta negli angoli bui quando brilla la luna sotto la
brezza leggera. Nella quiete della notte, sembra una voce umana. Una voce rotta, come se piangesse nella fredda
rugiada di un paesaggio desolato.
Il viaggiatore pensieroso, quando lo ode dalla sua finestra, si fa malinconico. Il grillo ama scivolare sotto i letti.
In tre o quattro balzi, stendendo le nere zampette, giunse alla porta ed entrò da una fessura.
Acquattato in un angolo osservava la folla dei mostri grandi e piccoli, che alla luce delle lampade
cenavano mostrando una fame da lupi. Scimmiotto si attardò a far sentire la canzoncina del grillo.
Dopo un po’ le tavole vennero sparecchiate e ciascuno preparò il suo letto e si andò a coricare. Il
Novizio aspettò la prima veglia per introdursi nella camera posteriore, in cui il diavolo stava
fornendo precisamente queste istruzioni: «Ragazzi, tenetevi bene svegli mentre fate la guardia alla
porta. C’è il pericolo che Scimmiotto cerchi modo di intrufolarsi per derubarci, travestito in un
modo qualsiasi.»
Quelli che montavano la guardia nel turno di notte presero a batter cucchiai e suonare
campanelle tutti insieme. Ciò non ostacolava certo l’attività di Scimmiotto, che scivolò nella stanza
e vide un letto di pietra. Certe lamie degli alberi e dei monti, con le brutte facce imbellettate,
stavano intorno al vecchio diavolo, stendevano le coperte sul suo letto, gli cavavano gli stivali e lo
aiutavano a spogliarsi. Quando si trovò a braccia nude, si vide che teneva il candido anello infilato
sul braccio sinistro: lo si sarebbe detto un braccialetto di perle. Ma il diavolo non se lo tolse; anzi,
prima di addormentarsi, lo spinse più su lungo il braccio perché stringesse meglio. Allora
Scimmiotto si trasformò in una pulce gialla, salì sul letto di pietra e scivolò sotto le coperte, si
arrampicò sul braccio e perforò spietatamente. Il mostro si rigirò nel letto brontolando: «Sudicie
donnaccole! Non prendono abbastanza botte. Si sono ben guardate dallo scuotere le coperte e dallo
spolverare il letto. Mi domando quale bestia possa mordere così forte.»
E prima di addormentarsi spinse l’anello ancora più su. Scimmiotto salì sul bracciale e punse di
nuovo. Il diavolo, svegliato di soprassalto, grugnì: «Mi farà morire!»
Ma non c’era verso di indurlo a levare il bracciale. Allora il Novizio scese dal letto, tornò a
trasformarsi in grillo, uscì dalla camera e seguì di nuovo il rumore dei cavalli che nitrivano e dei
draghi che gemevano. Draghi e cavalli di fuoco erano custoditi dietro porte chiuse con pesanti
lucchetti. Scimmiotto riprese il proprio aspetto e aprì a modo suo: mormorò un incantesimo, sfiorò i
catenacci e i loro anelli di ferro caddero a terra. Spinse l’uscio ed entrò: faceva chiaro come in pieno
giorno, con tutti gli ordigni incendiari che erano accatastati là dentro. Fra le armi allineate lungo il
muro riconobbe la sciabola per fendere diavoli, che apparteneva al principe, e gli archi e frecce di
fuoco del signore astrale. Andò in giro rubacchiando dappertutto. Giunse infine a un tavolo di pietra
su cui era posato un canestro intrecciato di bambù, che conteneva un ciuffo di peli di scimmia. Il
grande santo li prese lietamente, ci soffiò sopra, gridò: «Trasformazione!» e ne fece una quarantina
di scimmiottini, che incaricò di trasportare sciabola, spada, mazza, laccio, mazzapicchio, ruota di
fuoco, nonché archi, frecce, lance, carri, vasi, corvi, topi, cavalli di fuoco; insomma tutti gli
strumenti di guerra che erano stati aspirati. Montò poi sui draghi di fuoco e fece loro appiccare un
incendio, dall’interno verso l’esterno, che ardeva tutto al loro passaggio. Si udivano dovunque
sibili, scricchiolii, scoppi come colpi di tuono.
I mostri, grandi e piccoli, presi dal panico si avvolgevano nelle coperte, si coprivano la testa,
urlavano e piangevano disperati. Poiché si trovavano senza via di scampo, la maggior parte finì
carbonizzata nelle fiamme. Era solo mezzanotte quando il Bel Re Scimmia fece il suo ritorno
trionfale.
Dall’alto della vetta, il re celeste e i suoi compagni videro erompere le fiamme dell’incendio, si
precipitarono all’aperto e subito videro giungere il Novizio a cavallo di un drago, seguito da tante
scimmiette. Si dirigeva verso di loro e gridava: «Venite a prendere le vostre armi!»
Il principe ricuperò le sue sei armi, il signore del pianeta della Virtù del Fuoco mandò la gente
del dipartimento a raccogliere l’attrezzatura incendiaria. Scimmiotto, con una scossa, ricuperò i suoi
peli. Tutti gli si facevano intorno, ridevano eccitati e si congratulavano con lui.
Intanto l’incendio infuriava nella Grotta del Cappuccio d’Oro: il grande re Rinoceronte era
sbigottito al punto da sentir l’anima sfuggirgli dal corpo. Balzò dal letto, aprì l’uscio della camera,
strinse l’anello nelle mani e lo protese verso est: il fuoco in quella direzione si spense. Allora lo
protese a ovest e corse dappertutto con il suo tesoro in mano per spegnere le fiamme e riassorbire il
fumo che riempiva l’antro. Cercò poi di soccorrere i suoi mostri, ma la maggior parte era perita
nelle fiamme; tra maschi e femmine, ne restavano un centinaio. Infine si accorse che tutte le armi
custodite nel magazzino erano scomparse. Corse in fondo alla grotta e constatò che Porcellino,
Sabbioso e il reverendo stavano sempre là legati, il cavallo bianco era alla greppia e i bagagli al loro
posto.
«Mi chiedo chi sarà stato il cretino che ci ha dato fuoco per disattenzione e ha provocato questa
catastrofe!» gridava risentito il mostro.
«Maestà» affermò una guardia del corpo, «questo incendio non viene da nessuno di noi. Sarà
stato il saccheggiatore che ha fatto uscire l’equipaggiamento del dipartimento Fuochi e ha rubato le
armi divine.»
Finalmente il diavolo capì: «Ma certo, non può essere stato che quel brigante di Scimmiotto.
Ecco perché non riuscivo a prendere sonno: sarà stato lui, in qualche trasformazione schifosa, che
mi sarà venuto a pungere. Naturalmente avrà voluto rubare il mio tesoro, ma si sarà accorto che non
c’è niente da fare, perché me lo tengo ben stretto; allora si sarà impadronito delle armi e avrà
liberato i draghi di fuoco. Che brutta carogna! Ha cercato di bruciarmi vivo. Ma il tuo inganno non
ha funzionato, vecchio furfante. Tu non sai di che cosa sono capace. Finché ho addosso questo
anello, posso scendere in fondo all’oceano senza affogare, o gettarmi in un lago di fiamme senza
scottarmi. La prossima volta, se prendo quel delinquente, lo scortico vivo: non sarò contento finché
non ne avrò fatto una torcia umana.»
Mentre il diavolo almanaccava e si tormentava, cantavano i galli e si levava l’alba del nuovo
giorno.
Sulla vetta il principe Nata, ricuperate le sue armi, suggerì a Scimmiotto: «Grande santo, non
perdiamo tempo: è già l’alba. Approfittiamo dello scoraggiamento del mostro: ripartiamo all’attacco
con tutte le nostre forze riunite: noi ti sosterremo, insieme al dipartimento Fuochi. Questa volta
l’occasione sta dalla nostra parte.»
«D’accordo» rispose ridendo il Novizio. «Mettiamocela tutta e caviamoci questo gusto.»
Ritornarono all’ingresso della grotta, marciando con aspetto marziale e imponente.
«Esci fuori, maledetto diavolo!» gridò Scimmiotto. «Vieni a batterti!»
I battenti della porta erano stati calcinati dal fuoco; i mostriciattoli stavano spazzando e
raccogliendo polvere e ceneri. Quando videro avvicinarsi gli dèi, dallo spavento lasciarono cadere
le scope, abbandonarono le pale e corsero dentro: «Scimmiotto Consapevole del Vuoto ritorna a
sfidarvi, alla testa di un esercito di divinità.»
Il rinoceronte si allarmò, ma digrignava i denti e roteava gli occhi tanto era furente. Uscì
rizzando la sua lancia, senza dimenticare l’anello che portava sempre su di sé, e si diede alle
imprecazioni: «Furfante di una scimmia, grassatore, saccheggiatore e incendiario, te la farò vedere
io! Che poteri hai tu, per permetterti di trattarmi in questo modo?»
«Maledetta creatura!» rispose il Novizio senza perdere la sua aria allegra, «se vuoi conoscere i
miei poteri, vieni qui e ascolta:
Le mie capacità mi resero famoso
Fin da giovane. Feci pratica della Via
Dell’Immortalità e ottenni la saggezza
Con gioventù perenne. Io percorsi il paese
Dei santi ed esplorai la terra della mente.
Appresi a trasformarmi e a balzar nello spazio.
Catturar tigri e draghi per me è divertimento.
Il mio regno fu il Monte dei Fiori e dei Frutti,
Signore della Grotta Sipario Torrenziale.
Quando mi venne voglia di salir fino al Cielo
Per chiedere un impiego, divenni Grande Santo.
Non mi vidi invitato a un banchetto di Pesche
Dell’immortalità e mi sentii offeso.
Per vendicarmi giunsi allo Stagno di Diaspro,
Rubai vino di giada e fegato di drago,
Senza contar le pesche di mille anni di cui
Mi ero già rimpinzato, e l’elisir che in seguito
Ingoiai in quantità. Non mi facevo scrupoli
Per ciò che mi piaceva. Per mettermi a partito
Fui braccato da un grande esercito celeste.
Io mandai a farsi friggere i nove luminari,
Mi sbarazzai di tutti; non c’era capitano
Che fosse alla mia altezza. Dovettero chiamare
Erlang, Piccolo Santo, perché desse una mano.
Ci scontrammo attraverso molte trasformazioni.
Fu Guanyin, col suo vaso, che venne alla riscossa,
E Laozi che riusciva a farmi catturare
Usando il suo bracciale di diamante. Fui preso
E venni condannato a decapitazione.
Ma non riuscì il carnefice a tagliarmi la testa:
Sul mio collo la sciabola sollevava faville.
Non riuscirono a uccidermi. Il signore Laozi
Infine volle chiudermi nel suo forno. Ne uscii
Più duro dell’acciaio. Ne balzai fuori nero
E più forte che mai. Non sapendo che fare,
Il Cielo chiese aiuto al Buddha, i cui poteri
Sono senza rivali, come la sua saggezza.
Con lui feci scommessa di saltargli di mano,
Ma mi trovai schiacciato sotto una gran montagna.
Restavo imprigionato per cinquecento anni,
Senza un pugno di riso né una goccia di tè.
Quando Cicala d’Oro discese sulla terra,
Fu inviato a recare omaggio al Buddha e a prendere
I veri sutra. Allora da Guanyin fui ingaggiato
Per convertirmi al bene e lasciar le pazzie.
Superata la prova, me ne vado nell’Ovest
A cercar sutra autentici. Maledetto demonio,
Abbandona gli inganni da volpe e restituiscimi
Il monaco cinese, rendi l’omaggio al Buddha!»
Il mostro commentò: «La tua storia dimostra quale gran ladro sei. Assaggia la mia lancia!»
Il Novizio lo affrontò maneggiando la sbarra. Quando ebbero ingaggiato battaglia, il principe
Nata e il signore della Virtù del Fuoco persero la pazienza a saltarono addosso al mostro con tutte le
loro armi e attrezzature. Il grande santo più terribile che mai, il duca del tuono con il fulmine, il re
celeste con la sciabola, tutti si buttarono addosso al nemico senza dargli quartiere.
Ma il mostro rise sarcastico, si tolse dalla manica l’anello, lo lanciò in aria e gridò: «Afferra!»
E quello, con un sibilo sinistro, aspirò di nuovo tutto quanto: le sei armi divine, gli attrezzi
incendiari, folgori, sciabole e la sbarra del Novizio. Tutti quanti si ritrovarono disarmati, e il mostro
se ne andò dicendo ai suoi: «Ragazzi, chiudete l’ingresso con qualche pietra adatta allo scopo,
raccogliete materiale per le riparazioni e cercate di rendere agibili le stanze e i corridoi. Sbrigatevi,
perché poi dobbiamo cucinare il monaco cinese e i suoi due compagni, e celebrare una cerimonia di
ringraziamento alla terra. Infine faremo un bel banchetto e ce li mangeremo.»
La folla dei mostri si mise al lavoro.
Intanto il re Li e gli altri ritornarono al campo base litigando fra loro. Virtù del Fuoco se la
prendeva con Nata per la sua impazienza; il duca del tuono rimproverava al re celeste l’iniziativa
sconsiderata. Il conte del fiume era il solo a starsene zitto. A vederli pieni di vergogna e delusi al
punto di non osare di guardarsi in faccia, Scimmiotto faceva del suo meglio per conservare
l’allegria e nascondere il disappunto: «Amici miei, non state a tormentarvi. Come dicevano gli
antichi: vittoria e sconfitta sono il retaggio delle armi. Quanto a capacità marziali, non è certo un
avversario di cui darsi pensiero; il problema sta tutto in quell’anello. Non ve la prendete: abbiamo
solo bisogno di saperne di più. Lasciate che mi vada a procurare qualche notizia sul suo conto.»
«Ma è stata già fatta quella grande inchiesta in tutto il mondo celeste, da cui non si è cavato
niente. Dove potrai procurarti novità?»
«Pensavo: la legge del Buddha non ha frontiere. Tanto vale fare un salto nel Paradiso dell’Ovest
e chiedere al beato Buddha di volgere i suoi occhi sapienti sui quattro continenti della vasta terra,
per sapere dov’è nato il mostro, dov’è cresciuto, qual’è la sua precedente residenza, quali sono le
proprietà del suo anello. In un modo o nell’altro bisogna pur portare ad effetto il suo arresto, amici
miei, e consentirvi di ritornare in cielo a fronte alta.»
«Se il tuo scopo è questo, non tardare!» gridarono in coro gli dèi. «Parti subito!»
Che bravo Novizio! Fece una capriola nelle nuvole e giunse al Monte degli Avvoltoi.
Contemplava il bellissimo panorama e ne ammirava le attrazioni, quando si sentì chiamare:
«Consapevole del Vuoto, da dove vieni? E dove conti di andare?»
Si volse e vide una venerabile bhiksuni. La salutò: «Venivo a trovare il Beato, dovrei appunto
consultarlo per affari.»
«Bell’arnese che sei! Se devi andare da lui, che cosa aspetti a salire al romitaggio, invece di
restar qui a guardarti intorno?»
«È la prima volta che visito questo nobile luogo, mi sono permesso questa audacia...»
«Dài, vieni con me.»
Scimmiotto la seguì fino all’ingresso del Monastero del Colpo di Tuono. Ai due lati erano
schierati otto imponenti guardiani portatori di folgore.
«Consapevole del Vuoto» disse la bhiksuni, «aspetta qui un momento che ti vado ad annunciare.»
Scimmiotto restò alla porta, mentre lei si presentava al Buddha con le mani giunte: «Scimmiotto
Consapevole del Vuoto vi vorrebbe parlare per un affare che lo preoccupa.»
Il Beato diede ordine di introdurlo e i portatori di folgore lo lasciarono passare.
Quando si fu inchinato e rimase a testa bassa, il Buddha gli domandò: «Consapevole del Vuoto,
ho saputo che la reverenda Guanyin ti ha liberato e ti ha convertito alla nostra dottrina, perché
proteggessi il monaco cinese nella ricerca delle scritture. Come mai non vedo il monaco con te?
Che cosa accade?»
«Permettetemi di esporre i fatti» disse il Novizio prosternandosi. «Il vostro discepolo sta appunto
seguendo il monaco cinese. Ma sul Monte del Cappuccio d’Oro abbiamo incontrato un diavolo
tremendo, che si chiama grande re Rinoceronte; ha immensi poteri magici e ha chiuso nella sua
grotta il mio maestro e i condiscepoli. Poiché non me li voleva restituire con le buone, ci siamo
battuti. Ha un anello candido e sfavillante, con cui mi ha levato la mia arma. Pensavo che fosse un
guerriero divino sceso sulla terra e ho provocato un’inchiesta nel mondo di Sopra, ma senza
risultato. L’Imperatore di Giada ha avuto la bontà di darmi in aiuto i Li, padre e figlio, ma sono stati
disarmati anche loro. Quando ho chiesto aiuto a Virtù del Fuoco, anche lui è stato privato di tutti i
suoi attrezzi incendiari. Virtù dell’Acqua si è provato ad affogarlo, ma non c’è riuscito. Il vostro
discepolo aveva ricuperato le armi, ma le abbiamo perdute di nuovo. Siamo in un vicolo cieco. Ecco
perché mi sono permesso di venire a sollecitare voi, nostro Buddha: spero che avrete la misericordia
di gettare uno sguardo sul vostro discepolo, per aiutarlo a sapere da dove viene questo mostro. Se lo
sapessi potrei, per esempio, catturare i suoi parenti e vicini, e usarli come mezzo di scambio. Allora
potremmo tutti insieme manifestare la nostra sincera devozione e riprendere a cercare il giusto
frutto.»
Con il suo occhio di sapienza, il Buddha seppe subito di che cosa si trattava: «So chi è quel
mostro, ma non te lo posso dire. Non terresti la bocca chiusa, cara la mia scimmia. Se si venisse a
sapere che sono stato io a farti una soffiata, mi verrebbero a rompere le scatole fin sul Monte degli
Avvoltoi, li avrei tutti addosso. Preferisco aiutarti a catturarlo con la potenza della legge.»
«In che cosa consisterebbe l’aiuto della potenza della legge?» domandò Scimmiotto inchinandosi
per ringraziare.
Il Beato fece aprire il magazzino dei tesori da diciotto arhat e ordinò loro di prendere, a sostegno
di Consapevole del Vuoto, altrettante manciate di sabbia di cinabro d’oro.
«Che cosa me ne faccio della sabbia?» chiese stupito Scimmiotto.
«Quando sfiderai il mostro, gli arhat gliela getteranno addosso, e lui resterà paralizzato. Tu
potrai fare di lui quello che vorrai.»
«Ma è una meraviglia!» esclamò Scimmiotto ridendo. «Ci vado senza perdere tempo.»
Gli arhat raccolsero il cinabro e lo seguirono. Scimmiotto rinnovò i ringraziamenti al Buddha e
si mise in cammino. Ma subito si accorse che i reverendi che lo seguivano erano sedici anziché
diciotto. Incominciò a sbraitare: «Ma dove siamo arrivati! Anche qui si comprano le esenzioni?»
«Che cosa si compra? Chi?» chiedevano gli arhat.
«Me ne hanno assegnati diciotto; perché siete soltanto sedici?»
Mentre finiva di parlare, Abbattidraghi e Domatigri uscirono di corsa dal monastero: «Che cosa
significano queste insinuazioni, Consapevole del Vuoto? Eravamo rimasti indietro per ricevere le
istruzioni del Buddha.»
«Non sono nato ieri. Se avessi esitato a piantare rogne, avreste fatto finta di niente e io non vi
avrei più visti.»
Gli arhat salirono sulla loro nuvola ridendo come matti. In breve raggiunsero il Monte del
Cappuccio d’Oro, dove il re Li venne ad accoglierli con i suoi compagni. Uno degli arhat
interruppe il racconto che Scimmiotto faceva per aggiornare sugli ultimi avvenimenti: «Per favore,
rimanda i particolari a un altro momento. Sbrighiamoci a far uscire quel mostro.»
Il grande santo si presentò dunque all’ingresso della grotta: «Sveglia, pentolone di minestra!
Fatti vedere! Vieni a farti picchiare dal tuo buon nonno!»
I mostriciattoli corsero ad annunciarlo; il re diavolo si arrabbiò: «Mi chiedo quale altro imbroglio
stia tramando, quella insopportabile scimmia.»
«È solo, non lo accompagna nessuno» precisarono i mostriciattoli.
«Il suo randello gliel’ho preso. Che cosa vuol fare da solo? Vorrà forse riprendere l’incontro di
pugilato?»
Impugnò la lancia, fece spostare le pietre che proteggevano l’ingresso e balzò fuori tuonando:
«Faresti meglio a ritirarti, brutta scimmia, dopo tante batoste che hai subito. Che cosa ti prende di
tornare qui a far baccano?»
«Sei un diavolo perverso che non distingue il bene dal male. Se non vuoi più che il tuo caro zio ti
venga a trovare, te lo risparmierò, a patto che tu mi presenti le tue scuse e restituisca il mio maestro
con i suoi discepoli.»
«I tre monaci? Sono già lavati e spazzolati, pronti sul tavolo di cucina. Non lo vuoi capire?
Levati dai piedi!»
Scimmiotto arrossì di collera, balzò avanti e gli sferrò un pugno al petto. Il diavolo rispose
allungandogli un colpo di lancia. Il Novizio saltava a destra e a sinistra per disorientare il mostro,
che non si rendeva conto della trappola e lo seguiva allontanandosi dalla grotta. Allora Scimmiotto
fece segno agli arhat che gettarono sul diavolo la sabbia di cinabro d’oro. Era una sabbia di
meravigliosa efficacia.
Come bruma o nebbia, si spande prima fino alle estremità del cielo, con un candore che acceca, con un’oscurità che
smarrisce. Il boscaiolo sorpreso nel bosco perde il compagno, il cercatore di semplici non trova più la strada di casa. Ha
una frazione sottile, che spolvera intorno come farina di frumento, e una più pesante che rotola per terra come grani di
sesamo. Tutti i contorni diventano incerti, scompare la cima delle montagne, lo spazio sfuma, il sole si copre. Non è la
polvere che sollevano il destriero o la carrozza che passa di corsa lasciandosi dietro una scia di profumi. Questa sabbia è
spietata: vela, copre, nasconde, cancella.
Il diavolo ha aggredito la giusta Via e gli arhat hanno ricevuto l’incarico di manifestarne la potenza. Nelle loro mani sta
la perla brillante che, al momento opportuno, acceca i nostri occhi.
Accecato dalla sabbia, il diavolo abbassò la testa e si rese conto che stava sprofondando in una
coltre alta tre piedi. Spaventato si dibatté vigorosamente, con il risultato che la sabbia salì di altri
due piedi. Messo alle strette, perso ormai l’uso delle gambe, il mostro prese affannato l’anello e lo
gettò in aria gridando: «Afferra!»
Quella cosa, con un sibilo, aspirò tutto il cinabro d’oro. Il mostro, sentendosi di nuovo libero, si
precipitò a rintanarsi nella grotta.
Gli arhat fermarono le loro nuvole una accanto all’altra. Scimmiotto si accostò e chiese: «Perché
non gettate più sabbia?»
«Un momento fa abbiamo sentito uno strano rumore, e il nostro cinabro d’oro è scomparso.»
«Vedete, è sempre quel trucco aspiratutto» concluse Scimmiotto con un risolino nervoso.
«Se è invincibile fino a questo punto» si inquietava il re celeste, «come faremo a catturarlo? Chi
avrà il coraggio di ritornare in cielo e di guardare in faccia l’Imperatore di Giada?»
«Consapevole del Vuoto» dissero i due arhat Abbattidraghi e Domatigri, «ricordi il nostro
piccolo ritardo alla partenza?»
«Certo, quando vi sgridavo perché volevate tirarvi indietro.»
«In realtà il Beato ci stava avvertendo che questo diavolo dispone di immensi poteri magici, e ci
dava un messaggio per te nel caso che avessimo perduto la nostra sabbia di cinabro. Devi andare a
rintracciare le sue origini nel Palazzo dei Beati, sopra il trentatreesimo cielo, dal signore Laozi: lui
potrebbe catturarvelo in un baleno.»
«Ma è una cosa esasperante! Il Buddha non fa che prendermi in giro: perché non me lo ha detto
subito, invece di fare questa commedia?»
«Comunque, se il Beato ha dato una direttiva così chiara» fece notare il re Li, «converrà
adeguarsi.»
Il bravo Scimmiotto, con una capriola nelle nuvole, correva già alla porta meridionale del cielo. I
quattro marescialli di guardia gli fecero il saluto militare e chiesero: «Come va l’affare della cattura
del mostro?»
«Siamo ancora in ballo. Ma questa volta ho la pista giusta.»
I quattro marescialli non osarono trattenerlo. Non si recò né alla Sala delle Nuvole Misteriose, né
al Palazzo dell’Orsa Maggiore, ma dritto oltre il trentatreesimo cielo, al Palazzo del Paradiso dei
Beati. In portineria c’erano due giovanotti. Poiché entrava senza guardare in faccia nessuno e senza
dire il suo nome, i due immortali, spaventati, gli corsero dietro: «Chi siete? Dove credete di
andare?»
«Sono il Grande Santo Uguale al Cielo, vado dal vecchio Li.»
«Come potete comportarvi in modo così villano? Restate qui. Aspettate di essere annunciato.»
Scimmiotto non aveva la pazienza di spiegarsi. Con un grugnito tirò dritto e andò a sbattere
appunto contro il signore Laozi, che in quel momento stava uscendo di casa. Scimmiotto gli fece la
riverenza: «Vecchio amico, è un pezzo che non ci vediamo.»
«Che cosa fa qui questa scimmia, invece di andarsene in cerca di scritture?» rispose ridendo
Laozi.
«Le cerco giorno e notte, le scritture. Ma sono passato di qui perché ho incontrato qualche
piccola noia.»
«Gli ostacoli che si trovano sulla strada dell’Ovest non sono fatti miei.»
«Lascia stare l’Ovest. Le tracce che seguo mi portano qui, non nell’Ovest.»
«Questo, caro mio, è il palazzo supremo degli immortali. Tutto è spolverato, qui non ci sono
tracce da cercare.»
Ma Scimmiotto entrò e incominciò a scrutare a destra e a sinistra. Laozi lo seguiva attraverso
portici e cortili, finché giunsero dove trovarono un ragazzo addormentato presso uno stabbio vuoto.
«Qui ci dovrebbe essere un bufalo, vecchio amico» osservò il Novizio. «Vedi che invece non
c’è? È scappato.»
«Quando è scappata, quella bestia maledetta?» gridò Laozi scuotendo il ragazzo addormentato.
Egli saltò su, cadde in ginocchio e rispose: «Non lo so, eccellenza, mi ero addormentato. Non so
quando sia accaduto.»
«Come ti sei potuto addormentare, buono a nulla?» lo sgridò Laozi.
«Avevo raccolto un grano di cinabro caduto a terra nella stanza degli elisir» spiegò il ragazzo
prosternandosi. «L’ho mangiato e sono caduto addormentato.»
«Sarà stato il cinabro sette volte raffinato che abbiamo preparato tempo addietro. Un grano fa
dormire per sette giorni; prima non c’è verso di svegliare chi l’ha mangiato. Dev’essere accaduto
sette giorni fa. Quella brutta bestia ha approfittato del tuo sonno per scappare nel mondo di Sotto.
Vediamo se manca qualche altra cosa in giro.»
«Vi dico io che cosa manca: un anello molto pericoloso» precisò il Novizio.
Il signore Laozi fece le sue verifiche, e in effetti risultò mancante un braccialetto di vajra. «Ecco
che cosa ha rubato quel maledetto!»
«Si tratta proprio di questo!» esclamò il Novizio. «E lo avrei dovuto riconoscere, visto che me lo
tirasti sulla testa ai tempi del duello con Erlang. Fu così che vincesti il tuo vecchio Scimmiotto. Ora
che è capitato nel mondo di Sotto, dovresti vedere che putiferio di cose è riuscito a rubare.»
«Ma dov’è quella bestia immonda?»
«Abita nella caverna del Monte del Cappuccio d’Oro, dove ha chiuso il mio maestro, che ha
rapito, e il mio randello, che ha rubato. Gli fanno buona compagnia le armi di chi mi aiutava: il
principe Nata e il dipartimento Fuochi, che hanno perduto il loro equipaggiamento al completo.
Solo il conte del fiume non si è fatto rubare niente, per quanto non sia riuscito ad affogarlo. Figurati
che gli arhat inviati dal Buddha si son visti rubare la loro sabbia di cinabro d’oro, con cui dovevano
immobilizzarlo. In realtà ti sei preso una bella responsabilità, anche penale, vecchio mio, a lasciare
briglia sciolta a una bestia che ruba e ammazza come quella.»
«Quel braccialetto di vajra è un trovato che avevo realizzato in gioventù, quando attraversai il
passo di Hangu per andare a convertire i barbari. Non lo batte nessun’arma, e nemmeno l’acqua o il
fuoco. Anch’io non saprei come fare, se per esempio mi aspirasse il ventaglio di foglie di banano.»
Il grande santo seguì allegramente Laozi, che teneva in mano il suo ventaglio. Montarono su una
nuvola e viaggiarono insieme. Dalla porta sud del cielo scesero dritti sul Monte del Cappuccio
d’Oro, dove i diciotto arhat, i duchi del tuono, il conte del fiume e i Li padre e figlio gli
raccontarono tutto per filo e per segno.
«Ora bisogna che Consapevole del Vuoto lo vada a provocare un’ultima volta, perché esca
all’aperto e si faccia catturare» concluse Laozi.
Scimmiotto balzò giù dalla vetta e ricominciò a inveire con voce tonante: «Bestia immonda!
Pentolone di minestra! Esci fuori, che la morte ti aspetta!»
Messo sull’avviso e sempre chiedendosi che cos’altro potesse trovare in agguato, il mostro uscì
con lancia e braccialetto.
«Maledetto diavolo!» gli gridò Scimmiotto. «Vedrai che questa volta chiudiamo i conti. Per
incominciare, vieni qui a prenderti uno scappellotto.»
Gli saltò al viso, gli diede una sventola e scappò via. Il mostro si lanciò a inseguirlo, ma udì alle
proprie spalle una voce severa: «Ehi, bufalo, che cosa aspetti a ritornare a casa?»
Levando il capo vide il signore Laozi e si mise a tremare come una foglia: «Come avrà fatto,
quel diavolo di una scimmia, a rintracciare il mio padrone?»
Laozi recitò un incantesimo e agitò il ventaglio: il mostro lasciò cadere il braccialetto e Laozi lo
raccolse. Con un altro colpo di ventaglio, l’animale restò paralizzato e privo di forze, e riprese la
propria forma: in realtà era un bufalo nero. Laozi soffiò il suo alito magico sul braccialetto e lo
passò nelle froge dell’animale; poi sciolse la cintura che serrava la sua tunica, la legò all’anello e ne
tenne in mano l’estremità. È un uso che si pratica ancor oggi; lo si chiama passare la noce di cocco.
Il signore Laozi prese congedo, si sedette a cavalcioni sul bufalo e ritornò con esso al Paradiso
dei Beati su una nuvola colorata.
Scimmiotto e gli dèi forzarono l’ingresso della grotta e massacrarono fino all’ultimo i mostri
sopravvissuti all’incendio. Ciascuno ricuperò le proprie armi. Il grande santo ringraziò il re celeste e
suo figlio che tornarono in Cielo, i duchi del tuono che tornarono in ufficio, Virtù del Fuoco che
rientrò in sede, il conte del fiume che si rituffò nell’acqua e gli arhat che ripartirono per
l’Occidente. Poi andò a liberare Tripitaka, Porcellino e Sabbioso.
Quando i tre liberati ebbero espresso al Novizio la loro gratitudine, venne slegato il cavallo, si
raccolsero i bagagli, e maestro e discepoli uscirono dalla grotta dirigendosi verso la strada maestra.
Mentre camminavano udirono una voce dal ciglio della strada, che diceva: «Santo monaco dei
Tang, non gradireste un pasto vegetariano?»
Il reverendo, colto di sorpresa, sussultò.
Se non sapete chi lo chiamava, non avete che da ascoltare il seguito.
CAPITOLO 53
GRAVIDANZA DI TRIPITAKA
IN CUI IL MAESTRO DI MEDITAZIONE SI RITROVA DIABOLICAMENTE INCINTO, E DONNA GIALLA
PORTA L’ACQUA CHE DISSOLVE IL PERVERSO CONCEPIMENTO.
Compi senza rimpianto ottocento buone azioni,
Accumula tremila meriti in gran segreto,
Ama come te stesso il prossimo e le cose:
Così sarà adempiuto il tuo voto iniziale.
Il gran rinoceronte che non temeva né armi,
Né acqua o fuoco, è tornato a salire nel cielo.
Il signore Laozi l’ha domato; ridendo
Se ne va a cavalcioni del gran bufalo nero.
Chi dunque chiamava i pellegrini? Erano il dio del Monte del Cappuccio d’Oro e la divinità
locale, che tendevano rispettosamente la ciotola d’oro delle elemosine: «Santo monaco, Scimmiotto
aveva mendicato questo riso per voi. Non avete ascoltato i suoi buoni consigli e siete caduto nelle
mani di un diavolo che ha dato molte pene al vostro discepolo. Ma poiché ora vi ha liberato,
prendete questo riso prima di ripartire; non deludete il rispettoso affetto che il grande santo nutre
per voi!»
«Mio caro discepolo» disse allora Tripitaka, «ti devo tutto e non so proprio come ringraziarti. Se
lo avessi saputo, non sarei mai uscito da quel cerchio e non ci saremmo messi in mortale pericolo.»
«Per dire le cose come stanno» rispose Scimmiotto, «non vi siete fidato del mio cerchio e avete
subito il cerchio altrui, che purtroppo vi ha fatto soffrire molto di più.»
«Quale cerchio altrui?» si meravigliò Porcellino.
«Zitto tu, stupido, che hai spinto il nostro maestro in questa prova con la malignità perversa della
tua linguaccia. Ho dovuto smuovere cielo e terra. Quell’anello bianco aspirava tutto: armi, acqua,
fuoco, sabbia del Buddha, tutti gli aiuti che riuscivo a procurarmi. Fu il Beato a lasciar intendere ai
suoi arhat da dove veniva il mostro; e soltanto quando loro me lo hanno riferito, ho potuto pregare
il signore Laozi di venire a sottomettere quel bufalo nero, sceso in terra a combinare guai.»
«Saggio discepolo» esclamava Tripitaka colmo di gratitudine, «la prossima volta seguirò le tue
istruzioni per filo e per segno; puoi credermi, dopo quante ne ho passate.»
I quattro pellegrini si divisero il pasto; il riso era ancora fumante.
«Come fa a essere caldo, dopo tutto questo tempo?» domandò il Novizio.
«L’ho messo io a scaldare, quando ho saputo che il grande santo aveva concluso la sua impresa»
spiegò inginocchiandosi la divinità locale.
Terminato il pasto, riposero la ciotola e si congedarono dai geni del luogo. Il maestro si rimise in
sella e superarono l’alta montagna. È il caso di dirlo:
Lo spirito sereno ritorna consapevole.
Vanno all’Ovest nutrendosi di vento e di speranza.
Viaggiarono a lungo, finché incominciò a manifestarsi una precoce primavera. Si sentivano
pigolare le nere rondini, cantare i rigogoli gialli, le une riempiendosi il becco, gli altri intrecciando i loro trilli.
Il sole si copre di un broccato di petali, il monte si colora come un’incredibile catasta di cuscini ricamati. Sul susino
verdeggiante incominciano a formarsi frutti grandi come piselli; il vecchio cedro sul ciglio dello strapiombo trattiene le
nubi del cielo.
Una foschia luminosa si stende sulla pianura, la sabbia si scalda ai raggi di sole. Qua e là si vedono frutteti in fiore;
dappertutto la stagione rinnova i boccioli dei salici.
Finirono per imbattersi in un fiumicello dall’acqua fresca e limpidissima. Il reverendo tirò le
redini per contemplare a suo agio: sulla riva di fronte si vedevano tetti di capanne che superavano di
poco le verdi chiome dei salici piangenti. Il novizio li additò: «Laggiù abita gente. Di sicuro ci sarà
un traghetto.»
«Ne ha tutta l’aria, ma non si vedono barche» osservò Tripitaka.
Porcellino lasciò scivolare a terra i bagagli e gridò a pieni polmoni: «Ehi, barcaiolo! Da questa
parte!»
Dopo qualche richiamo, una barca sbucò effettivamente da sotto i rami di un salice e si avvicinò
frusciando alla riva. I pellegrini la esaminarono.
Remi leggeri increspano l’acqua, lo scafo è laccato di colori vivaci. È una barca leggera, ma potrebbe navigare anche su
un lago. Non ha cordami di seta né albero d’avorio; il dritto di prua è di pino e i remi di legno di cannella. Certo non
vale uno di quei battelli degli dèi che superano mille leghe, ma è adatta per attraversare la larghezza del fiume: va e
viene fra le rive, accostando sempre agli stessi approdi.
In breve la barca toccò la riva. «Da questa parte!» gridò il barcaiolo. Tripitaka sul suo cavallo si
avvicinò. Che aspetto aveva la persona ai remi?
Il capo avviluppato da un turbante di velluto, i piedi calzati da scarpette di seta nera, pantaloni e veste di cotone cento
volte rammendata, alla vita un grembiule mille volte ricucito. La pelle delle mani è ruvida, i muscoli rozzi, gli occhi
torbidi, la fronte rugosa e il viso screpolato. Ma la sua voce conserva la dolcezza del canto del rigogolo: a guardar
meglio, non c’è dubbio, è persona da indossar gonne e portare gioielli in testa.
«Sei tu il traghettatore?» chiese Scimmiotto.
«Sono io.»
«Come mai il barcaiolo è rimasto a casa e ha mandato la sua barcaiola?»
La donna sorrise e non rispose. Appoggiò con le sue mani la passerella per salire a bordo, che il
maestro superò con l’aiuto del Novizio; Sabbioso caricò i bagagli. Poi la barca accostò di più perché
Porcellino facesse salire il cavallo. Ritirata la passerella, la barcaiola allontanò la barca dalla riva
con una spinta, si mise ai remi e in breve compì la traversata.
Mentre sbarcavano sulla riva occidentale, il reverendo incaricò Sabbioso di pagare qualche
sapeca. La donna intascò il denaro, ormeggiò la barca a un palo che sorgeva dall’acqua e scomparve
in una casetta vicina soffocando piccole risa.
A vedere quell’acqua così limpida, Tripitaka provò sete e disse a Porcellino: «Prendimi una
ciotola d’acqua.»
«Anche a me è venuta voglia di bere.»
Riempì la ciotola e la tese al maestro, che ne bevve un piccolo sorso e gli lasciò il resto.
Quand’ebbero bevuto, Porcellino aiutò Tripitaka a rimontare a cavallo e si avviarono in cerca della
strada dell’Ovest.
Trascorsa meno di un’ora, il reverendo sul suo cavallo incominciò a gemere: «Che mal di
pancia!»
«Anche a me duole la pancia» disse Porcellino.
«Sarà stata l’acqua fredda che avete bevuto» suggerì Sabbioso.
Il maestro gridò più forte: «Ahi, non ne posso più!»
«È un male spaventoso!» gli fece eco Porcellino.
Mentre si lamentavano, i loro ventri ingrossavano a vista d’occhio. A toccarli si sentiva che c’era
dentro qualcosa che premeva e si agitava senza tregua. Tripitaka stava per svenire, quando videro
una capanna sul ciglio della strada; da un ramo d’albero pendevano due sandali di paglia.
«Che fortuna, maestro!» esclamò Scimmiotto. «Ecco un’osteria. Andiamo a chiedere l’elemosina
di un po’ di acqua calda e vediamo se si trovano medici che possano curare il vostro mal di pancia.»
Tripitaka si sentì confortato e frustò il cavallo. Giunsero presto davanti alla porta, dove il
reverendo smontò. Dentro c’era soltanto una vecchia seduta su uno sgabello di giunco, intenta a
filare canapa. Il Novizio la salutò a mani giunte e spiegò: «Nonna, sono un povero monaco che
viene dalle terre dell’Est; il mio maestro è fratello dell’imperatore in persona. Quando abbiamo
attraversato il fiume ne ha bevuto l’acqua, ma gli ha dato mal di pancia.»
La vecchia scoppiò a ridere fragorosamente: «Volete dire che ha bevuto l’acqua di quel fiume?»
«Ma sì, era così limpida che gliene ha fatto venir voglia» rispose Scimmiotto.
«E l’ha trovata di suo gusto?» chiese la vecchia soffocando dalle risate. «Venite dentro, vi
spiegherò tutto.»
Scimmiotto diede il braccio al monaco cinese, mentre Sabbioso sosteneva Porcellino. L’uno e
l’altro non smettevano di gemere, con il ventre gonfio, il viso cereo e le sopracciglia aggrottate dalla
sofferenza. Entrati nella capanna li fecero sedere, e il Novizio ripeté: «Nonna, il mio maestro ha
bisogno di acqua calda. Vi saremo molto riconoscenti.»
Ma la donna, invece di occuparsi di loro, corse nel retrobottega a chiamare: «Venite a vedere
anche voi!»
Dall’interno vennero fuori zoppicando altre tre o quattro vecchie, che stettero a contemplare il
monaco cinese con la bocca spalancata in un riso idiota.
Il Novizio, esasperato, grugnì e arrotò i denti con aria così feroce da mettere in fuga tutta la
compagnia, che spingendo e inciampando si rifugiò precipitosamente nel retrobottega. Ma
Scimmiotto afferrò la vecchia per la collottola e le ripeté: «Acqua calda! E non fare la spiritosa.»
«Vostra signoria» rispose la donna tremando, «l’acqua calda non serve a quei due. Lasciatemi
andare e vi spiegherò.»
Scimmiotto la lasciò andare ed essa raccontò: «Vi trovate nel territorio del regno delle donne dei
Liang dell’Ovest. Il paese è abitato soltanto da donne, non ci sono uomini qui: perciò siamo tanto
contente e curiose di vedervi. Certo sarebbe stato meglio che il vostro maestro non avesse bevuto
quell’acqua. Il fiume da cui l’avete presa si chiama Fiume della Maternità. Da noi non si osa berne
l’acqua prima di aver compiuto vent’anni; quando la si è bevuta, si sentono i dolori della
gravidanza. Alle porte della nostra capitale c’è il posto di accettazione dello yang. Là una sorgente
forma un laghetto in cui, tre giorni dopo aver bevuto, ci si va a specchiare: se si vede il riflesso
sdoppiato, significa che si è concepito un bambino. Ma potete star certo che, se il vostro maestro ha
bevuto acqua del fiume, è rimasto incinto e partorirà un bambino. Non c’è acqua calda che tenga.»
Tripitaka ascoltava ed era livido di spavento: «Discepoli miei, è inaudito! Adesso che cosa
faccio?»
Porcellino gemeva, si torceva e allargava le cosce: «Avi miei! Partorire! È facile dirlo, ma noi
siamo maschi; da dove uscirà quella roba?»
Scimmiotto si mise a ridere: «Melone maturo casca da sé, dicevano gli antichi. Vedrete che al
momento buono vi si aprirà una fessura sotto l’ascella, e il bambino uscirà di là.»
La bella prospettiva diede i brividi a Porcellino; i dolori gli sembrarono più intollerabili che mai
e si mise a gridare: «Facciamola finita! Io crepo, son morto!»
«Non torcerti così, fratellino» lo esortò Scimmiotto ridendo. «Finirai per annodare il cordone
ombelicale e provocare qualche guaio.»
Il bestione si spaventò ancora di più e si aggrappava al Novizio con gli occhi gonfi di lacrime:
«Fratello, informati dalla vecchia se da queste parti si trova una levatrice con la mano leggera.
Chiamane subito una. Sento certe fitte! Saranno i dolori del parto. Svelto, sbrigati!»
«Se sono i dolori del parto, sta quieto, o finirai per perdere le acque» sghignazzava Scimmiotto.
«Nonna» ansimò Tripitaka, «ci sono medici in paese? Non si potrebbe acquistare un farmaco per
abortire?»
«Non credo che un abortivo servirebbe a niente, ammesso che lo si trovi» rispose la brava donna.
«In realtà, seguendo il viale alberato verso sud, si arriva al Monte della Liberazione dallo Yang,
dove si trova la Caverna della Distruzione dei Bambini; là dentro sgorga la Sorgente degli Aborti.
Per sbarazzarsi dalla gravidanza bisognerebbe bere un sorso di quell’acqua. Ma non ci si può più
andare. L’anno scorso si è installato qui un taoista che si chiama Vero Immortale Come Mi Vorrai:
egli ha fatto della caverna una sede dell’Unione Immortali e ha accaparrato la sorgente. Certo non
cede quell’acqua per amor di dio: chi ne vuole una misera tazzina deve pagare una bella somma, e
in più deve offrire carne di pecora, vino e frutta, e mostrare la più rispettosa e sincera devozione.
Voi monaci mendicanti non troverete mai tutti i soldi che occorrono. Sarà meglio che vi rassegnate
al vostro destino e aspettiate pazientemente il parto; non c’è altro da fare.»
Scimmiotto, molto interessato, domandò: «Nonna, che distanza c’è da qui a quel monte?»
«Una trentina di li» rispose la donna.
«Bene. Maestro, rassicuratevi: andrò ad attingere di quell’acqua.» E raccomandò a Sabbioso:
«Prenditi cura del maestro. Se le vecchie si comportano male, ricordati dei metodi che usavi una
volta: fai le boccacce per spaventarle e tienile quiete fino al mio ritorno.»
Intanto la donna era andata a prendere un grosso vaso di ceramica, che gli porse dicendo: «Se
poteste abbondare nel prendere quell’acqua, ci resterebbe poi una provvista per i casi urgenti.»
Scimmiotto prese il vaso, uscì dalla capanna e montò su una nuvola.
«Avi miei!» gridò la buona donna inginocchiandosi. «Il monaco sa cavalcare le nuvole!»
Corse a cercare le sue coetanee perché venissero a prosternarsi davanti al monaco cinese: lo
trattarono da arhat e da pusa. Poi misero l’acqua al fuoco e prepararono un pasto da offrire ai loro
ospiti.
Intanto Scimmiotto, con una capriola nelle nuvole, giunse in vista di una montagna e abbassò la
sua nuvola per contemplare il magnifico spettacolo:
L’erba svolge un tappeto verde brillante sotto il broccato dei fiori selvatici. Liane e cespugli invadono conche e valli, la
foresta ricopre le cime. Cantano gli uccelli, volano stormi di oche, il cervo beve alla fonte, il gibbone si arrampica [...]
Sul versante nord si vedeva la corte di una fattoria, da cui veniva l’abbaiare dei cani. Egli scese
in quel bel posticino:
Un ponticello passa l’acqua viva,
La capanna si addossa alla collina.
Nella siepe guaisce un cagnolino.
Uomini indaffarati vanno e vengono.
Dal cancello Scimmiotto vide un vecchio prete taoista che se ne stava seduto nella posa del sarto
su un cuscino verde. Si avvicinò, posò il suo vaso e giunse le mani per salutarlo. L’uomo del Tao gli
rese la cortesia con un inchino e chiese: «Da dove venite? Quali affari vi portano al nostro umile
eremitaggio?»
«Sono un povero monaco inviato dai grandi Tang a cercare le scritture nel Paradiso dell’Ovest. Il
mio maestro è stato preso da dolori intollerabili e da una dilatazione del ventre, perché ha bevuto
per errore l’acqua del Fiume della Maternità. Secondo la gente del villaggio ne sarebbe rimasto
incinto, e questi dolori si potrebbero guarire solo con un sorso d’acqua della Sorgente degli Aborti,
che si trova nella Grotta della Distruzione dei Bambini sul Monte della Liberazione dallo Yang.
Avreste l’amabilità di farmi da guida?»
Il taoista si mise a ridere: «Ma ci siete già arrivato! Questa è appunto la grotta che cercate,
divenuta una sede dell’Unione Immortali. Io sono proprio il primo discepolo del Vero Immortale
Come Mi Vorrai. Qual’è il vostro nome? Vi vorrei annunciare.»
«Sono il primo discepolo del maestro della legge Tripitaka Tang. Il mio umile nome è
Scimmiotto Consapevole del Vuoto.»
«Dove sono i vostri doni e presenti per il banchetto e le celebrazioni?»
«Non abbiamo potuto procurarci queste cose: siamo poveri monaci mendicanti di passaggio.»
«Siete anche dei begli ingenui» sogghignò il taoista. «Il mio riverito maestro non si sarà
accaparrato la fonte per lasciare che il primo che passa ne faccia l’uso che vuole. Per essere
annunciato, devi prima raccogliere il denaro necessario. Altrimenti scòrdatelo.»
«Relazioni amichevoli valgono più di decreti imperiali. Digli il mio nome e vedrai che sarà
disposto a farmi questo favore; non è escluso che mi regali tutto il pozzo.»
Il taoista si rassegnò ad andare ad annunciarlo al vero immortale, che era intento a pizzicare le
corde della cetra; aspettò che terminasse di suonare e gli riferì: «Maestro, si è presentato un bonzo
che dice di chiamarsi Consapevole del Vuoto e di essere il primo discepolo di Tripitaka Tang;
vorrebbe un po’ d’acqua della Sorgente degli Aborti per il suo maestro.»
All’udire il nome di Consapevole del Vuoto, l’immortale montò in collera e vero odio gli
tormentò la milza. Messa da parte la cetra si alzò bruscamente, sostituì il proprio abito con una
veste taoista, impugnò uno scettro che terminava a uncino e balzò fuori dalla porta gridando:
«Dov’è questo Consapevole del Vuoto?»
Scimmiotto lo osservò:
Un berretto stellato di colori cangianti,
Una veste scarlatta contesta in fili d’oro,
Stivali ricamati, cintura costellata
Di gioielli. Sottana dal bordo in seta fine
Da cui spuntano calze di velluto broccato,
Le maniche di drago. Regge uno scettro d’oro
Ricurvo. Volge intorno degli occhi di fenice,
Denti aguzzi fan cerchia fra le sue labbra rosse.
Una barba di fuoco si agita sul suo mento
E i capelli scarlatti si arrotolano in crocchie.
D’aspetto è più malvagio del maresciallo Wen,
Per quanto differente ne sia l’abbigliamento.
Il Novizio giunse le mani e si inchinò: «Il povero monaco che sono si chiama Consapevole del
Vuoto.»
«Ma è proprio il tuo nome? Non lo avrai usurpato?» insisté il maestro.
«Che cosa vi viene in mente? Gentiluomo non muta nome in casa né cognome in viaggio, come
dice l’adagio. Si capisce, che sono Consapevole del Vuoto.»
«Tu sai chi sono io?»
«Da tanto tempo salgo montagne e attraverso fiumi, per seguire la giusta Via del Buddha, che ho
perso d’occhio gli amici della mia gioventù. Non li vedo da tanto tempo, che forse potrei
incontrarne qualcuno senza saperlo più riconoscere. Il vostro nome l’ho sentito dalla gente che abita
nel villaggio presso il Fiume della Maternità.»
«Va per la tua strada e lascia me sulla mia. Perché mi sei venuto a disturbare?»
«Il mio maestro ha bevuto per errore l’acqua di quel fiume, che lo ha messo incinto e gli ha
procurato mal di pancia. Sono venuto qui soltanto per chiedere una tazza di acqua della Sorgente
degli Aborti, per liberarlo da questa prova.»
«E il tuo maestro sarebbe Tripitaka dei Tang?» chiese il taoista infuriato roteando gli occhi.
«Proprio così.»
«Ti risulta di aver mai incontrato un santo re fanciullo?» insisté quello digrignando i denti.
«Sarà per caso Bimbo Rosso, che viveva sul Monte del Singhiozzo? Perché me lo chiedete?»
«Perché è mio nipote. Io sono il fratello di suo padre, il re diavolo toro, che mi ha scritto una
lunga lettera su come Scimmiotto, primo discepolo di Tripitaka dei Tang, lo ha trattato in modo
odioso e l’ha ucciso. Non sapevo come fare a vendicarlo; ma ecco che mi vieni tu stesso a cercare: e
vorresti anche dell’acqua!»
«Maestro, vi sbagliate. Ero un grande amico del vostro nobile fratello. Da giovani eravamo
fratelli giurati nella confraternita dei sette. Mi dispiace di non avervi subito presentato i miei
rispetti: non sapevo della vostra parentela. Quanto al vostro stimato nipote, in realtà gode ottima
salute e ha trovato una sistemazione eccellente al servizio di Guanyin: ora è il suo ragazzo di Buona
Fortuna. Se la passa certo meglio di voi e di me: e venite a rimproverarmi!»
Il taoista esplose: «Sentila, la scimmia maledetta! Secondo te, mio nipote se la passerebbe
meglio da schiavo in servitù che da libero re. Basta con le insolenze. Ti farò assaggiare il mio
uncino.»
Scimmiotto parò il colpo con la sua sbarra: «Maestro, non ci accapigliamo; datemi un po’ di
quell’acqua e me ne vado.»
«Macaco maledetto! Non capisci che ti stai giocando la pelle? Se riuscirai a sostenere tre scontri,
ti darò l’acqua. Altrimenti giudicherò vendicato mio nipote quando ti avrò ridotto in ragù.»
«Ti insegnerò io le buone maniere, creatura immonda!» gridò il grande santo. «Vuoi batterti? Ti
accontento subito.»
E colpì con la sua sbarra, cui il taoista oppose lo scettro a uncino. Davanti all’eremitaggio
dell’Unione Immortali si svolse un terribile duello.
Il santo monaco aveva bevuto per errore l’acqua che fa concepire. Il novizio aveva perciò chiesto aiuto all’immortale
Come Mi Vorrai. Non poteva sapere che di fatto era un essere malefico, impadronitosi della sorgente con la forza. Non
parlarono di aborti, ma di vecchi risentimenti e litigarono senza cedere l’uno all’altro. Scambiandosi dure parole
scaldarono gli animi, vennero alle minacce e ai propositi di vendetta.
Uno voleva l’acqua per salvare la vita del suo maestro, l’altro la rifiutava perché il nipote aveva perduto la sua libertà.
L’uncino dello scettro era più insidioso dello scorpione, la sbarra cerchiata d’oro più brutale del drago. L’uno dispiega la
sua forza mirando al petto, l’altro dispiega l’inganno cercando di agganciare le gambe. Un colpo basso della sbarra può
infliggere gravi ferite; se il gancio alza il tiro minaccia la testa.
Toccato alla vita: la sbarra è falco che afferra il passero. Tre volte il cranio: il gancio è mantide che aggredisce la cicala.
Avanzano e indietreggiano disputandosi la vittoria, girano intorno senza tregua, senza vinto né vincitore.
Combatterono per più di dieci riprese. Il taoista non era all’altezza del grande santo, che mirava
alla testa con crescente determinazione. La sbarra si abbatteva come una pioggia di stelle filanti. Il
taoista si sentì troppo debole e fuggì verso la montagna con lo scettro penzoloni.
Scimmiotto rinunciò a inseguirlo, ricuperò il vaso di ceramica ed entrò nell’eremitaggio in cerca
d’acqua. Le porte erano state sbarrate fin dall’inizio, ma lui le buttò giù con un calcio e si precipitò
all’interno, dove vide il discepolo curvo sul bordo del pozzo. Lanciò un grido e fece per rompergli
la testa, ma quello corse via. Scimmiotto si accingeva ad attingere l’acqua con un secchio trovato
accanto al pozzo, quando ricomparve il maestro taoista, che gli agganciò una gamba con il suo
uncino e lo mandò lungo disteso sulle lastre di pietra del pavimento. Scimmiotto si rialzò subito e
agitò la sua sbarra; l’altro saltava qua e là per evitare i colpi e lo scherniva: «Vediamo se sei capace
di prendere la mia acqua.»
«Fatti sotto!» gridava il grande santo. «Avrò la tua pelle, sudicia bestia, non solo la tua acqua.»
Il prete si guardava bene dall’esporsi troppo; si accontentava di impedirgli l’accesso al pozzo.
Scimmiotto si provò a roteare la sbarra con la mano sinistra, mentre con la destra agganciava il
secchio alla corda. Ma non riuscì a evitare un nuovo sgambetto che lo fece incespicare e
abbandonare la corda, la quale precipitò con il secchio in fondo al pozzo.
«Questo bel tipo ha proprio bisogno di imparare l’educazione» borbottò il grande santo. Tenendo
la sbarra a due mani fece partire una gragnola di colpi; l’avversario non osò resistere e prese
nuovamente la fuga. Scimmiotto voleva attingere l’acqua, ma aveva perduto il secchio e temeva di
essere nuovamente attaccato. Perciò si disse: «Sarà meglio procurarsi un aiuto.»
Ritornò d’un balzo alla capanna della vecchia e chiamò: «Sabbioso!»
All’interno Tripitaka e Porcellino sopportavano i loro dolori, l’uno gemendo e l’altro grugnendo
senza posa. Quando lo sentirono, gridarono sollevati: «È ritornato Consapevole del Vuoto!».
Sabbioso gli corse incontro: «Hai portato l’acqua, fratello?»
Scimmiotto volle entrare e fece un resoconto di come stavano le cose. Tripitaka gemeva con le
lacrime agli occhi: «Discepolo, come faremo?»
«Porto con me Sabbioso. Mentre combatterò con quella creatura, lui troverà il momento giusto
per attingere l’acqua.»
«Ma noi stiamo male! Se ci abbandonate tutti e due, chi si occuperà di noi?»
Intervenne la vecchia: «Reverendo arhat, rassicuratevi. Non avete bisogno dei vostri discepoli:
vi cureremo noi. Ci siete piaciuti fin dall’arrivo. Ora poi che sappiamo che siete arhat o pusa, come
si vede da quello lì che va e viene sulle nuvole, figuratevi se vi faremmo del male.»
«D’altronde che danno potreste fare, voialtre donne?» disse Scimmiotto con disprezzo.
«Signori miei» replicò ridendo la vecchia, «dovete rendervi conto che avete avuto fortuna a
imbattervi in persone come noi. Se foste capitati altrove, non ne sareste usciti interi.»
«E perché no?» borbottò Porcellino.
«Noi quattro abbiamo ormai una certa età; i giochi del vento e della luna ce li siamo scordati.
Perciò non vi abbiamo aggredito. Ma ci sono in giro molte donne giovani: credete che vi
lascerebbero andare? Esigerebbero di congiungersi con voi; e se non foste disposti a sottomettervi,
vi ammazzerebbero e vi taglierebbero a striscioline sottili, per mettervi nei sacchetti che profumano
la biancheria.»
«Io non corro pericoli» fece Porcellino. «Loro sì, hanno buon odore, ma io puzzo di maiale;
possono ritagliarmi e conciarmi finché vogliono, puzzerò sempre di maiale.»
«Non stancarti a parlare» ribatté Scimmiotto ridendo. «Ti devi tenere da conto per il parto.»
«Non state a perdere altro tempo» tagliò corto la vecchia. «Andate a prendere quell’acqua.»
«Mi potreste prestare un secchio?» chiese Scimmiotto.
La donna ne cercò uno nel ripostiglio e vi aggiunse una misura di corda, che tese a Sabbioso.
«Due misure sarà meglio» disse lui. «Non si sa quanto è profondo il pozzo.»
Una volta equipaggiati, i due montarono su una nuvola e partirono. In breve raggiunsero il
Monte della Liberazione dallo Yang, scesero a terra e raggiunsero l’eremitaggio.
«Tu resta nascosto con secchio e corda» raccomandò il grande santo a Sabbioso, «finché avrò
impegnato il taoista in duello. Aspetta che noi ci siamo allontanati, vai al pozzo, attingi l’acqua e
scappa via.»
Sabbioso promise di rispettare scrupolosamente le consegne.
Scimmiotto impugnò la sua sbarra, si mise davanti all’ingresso e gridò: «Aprite, aprite!»
Il portinaio corse ad annunciare: «Maestro, è ritornato Consapevole del Vuoto.»
«Scimmia impudente!» esclamò il taoista arrabbiato. «Avevo sentito raccontare dei suoi poteri, e
oggi li ho sperimentati a mio danno. In effetti non è facile resistere a quel randello.»
«Maestro» fece notare il discepolo, «per forte che sia, voi non gli siete certo inferiore. Siete un
avversario alla sua altezza.»
«Quando ci siamo scontrati, mi ha battuto.»
«Questo è vero, ma è stato per caso. In seguito, quando lui ha voluto attingere l’acqua, l’avete
fatto ruzzolare due volte: non siete pari? Se è ritornato invece di tenersi alla larga, sarà perché
Tripitaka, più gonfio che mai, lo avrà costretto con i suoi lamenti. Non ne sarà certo grato al suo
maestro, combatterà di malavoglia e voi lo vincerete: ne sono sicuro.»
L’incoraggiamento riempì il vero immortale di euforia. Mal dominando un raggiante sorriso di
vanità, si diede l’aria più importante che poté, drizzò lo scettro uncinato e uscì gridando:
«Maledetto macaco! Che cosa ritorni a fare?»
«Sempre per via di quell’acqua.»
«L’acqua è del mio pozzo. Anche principi e ministri non ne possono avere senza pagarla. A
maggior ragione tu, che sei nemico. Come puoi avere l’audacia di chiederla gratis?»
«Sei ben sicuro di non volermela dare?»
«Non se ne parla nemmeno.»
«E allora bada al mio randello.»
Scimmiotto lo aggredì mirando alla testa. L’immortale saltò da una parte per schivare il colpo e
rispose con il suo uncino. La nuova battaglia fu più accanita della precedente.
Sbarra contro uncino: rabbia e rancore spingono i due. Vola sabbia, rotolano pietre; terra e polvere velano il cielo. Il
grande santo chiede acqua per il suo maestro, il mostro la rifiuta a causa del nipote. I due prodigano sforzi equivalenti,
senza tregua né riposo; sono così accaniti che serrano i denti e li digrignano; sono così tesi che sputano fumo in
quantità, da impensierire diavoli e dèi.
Le armi si urtano: il loro rimbombare fa tremare monti e colline. È un uragano da abbattere la foresta, un vento furioso
peggiore di quello degli scontri di tori. La lotta eccita rabbia e gioia: combattono con ogni impegno all’ultimo sangue.
Erano venuti alle mani davanti all’ingresso, ma con salti e balzi finirono per spostarsi ai piedi del
monte. Sabbioso, con il secchio in mano, poté così precipitarsi dentro. Davanti al pozzo trovò il
discepolo, spalleggiato da un servo, che gli sbarrò la strada apostrofandolo: «Chi sei tu che osi
attingere quest’acqua?»
Sabbioso non perse tempo a rispondere. Posò il secchio, cavò il bastone per abbattere i diavoli e
colpì il discepolo. Il taoista non riuscì a schivare il colpo, che gli ruppe la spalla sinistra. Cadde a
terra e cercò disperatamente di sottrarsi strisciando via.
«Ti volevo ammazzare, bestiaccia; ma dal momento che hai forma umana, ho pietà di te. Ti
risparmierò, ma levati di torno e lasciami attingere l’acqua» disse Sabbioso.
Il taoista, chiamando cielo e terra a testimoni, strisciò via faticosamente. Sabbioso cavò un
secchio d’acqua dal pozzo, uscì con comodo dall’eremitaggio, salì su una nuvola e gridò a
Scimmiotto: «Fratello, puoi lasciar perdere. Abbiamo l’acqua.»
Allora Scimmiotto immobilizzò lo scettro uncinato con la sua sbarra e tenne all’avversario il
seguente discorsetto: «Ascoltami bene: avevo in mente di sterminarvi tutti quanti. Ma non posso
dire che tu abbia commesso dei crimini, e per conto mio non devo dimenticare i miei vecchi legami
d’affetto con tuo fratello, il diavolo toro. Dopo che per due volte mi avevi impedito di attingere
acqua dal pozzo, ho praticato il colpo della tigre attirata lontano dal covo: mentre io ti impegnavo a
combattere, il mio condiscepolo ha preso l’acqua che ci serviva. Se mi ci mettessi sul serio non ne
usciresti vivo, mio caro vero immortale; e con te nessuno dei tuoi. Ma come si dice: meglio lasciare
una vita che prenderla. Ti risparmio e ti lascio gli annetti che ti restano da vivere, ma a patto che tu
la smetta di praticare estorsioni a danno di chi ha bisogno di quell’acqua.»
Tale era l’improntitudine del mostro, che credette di poter ripetere lo scherzo dello sgambetto
con l’uncino. Ma il grande santo schivò il colpo, ne sollevò l’autore e lo scaraventò per terra, dove
rimase a sgambettare senza riuscire a rialzarsi.
Scimmiotto afferrò lo scettro e lo spezzò in due; poi ne riprese i pezzi, li ruppe ancora e li
scaraventò lontano: «Creatura immonda, ripròvati se sei capace.»
Il mostro, che tremava come una foglia, dovette subire l’umiliazione in silenzio.
Il grande santo gli fece una risata in faccia, risalì sulla nuvola e se ne andò. Lo attesta il poema:
Vero piombo ricerca vera acqua,
Vero mercurio asciuga vera acqua.
Né mercurio né piombo han soffio-madre:
Per l’elisir servono sabbia e droga.
Quando il concepimento è una follia,
Per terra-madre è facile aver merito.
Or l’eterodossia vien rovesciata,
Il maestro dello spirito ritorna.
Trasportato da fausta luce, Scimmiotto raggiunse Sabbioso e se ne ritornarono insieme, contenti
di essersi procurati vera acqua. Quando giunsero alla capanna, trovarono Porcellino, con il suo
pancione incinto, che gemeva appoggiato allo stipite.
Scimmiotto si avvicinò a passi felpati: «Bestione mio, sei pronto per la sala parto?»
«Non scherzare fratello» replicò Porcellino che era allo stremo. «Hai portato l’acqua?»
Il Novizio voleva continuare a burlarlo, ma sopraggiunse Sabbioso che gridava allegro: «L’acqua
è arrivata, ecco l’acqua!»
Tripitaka si inchinò faticosamente, vincendo il dolore: «Vi siete dati molta pena, discepoli miei.»
Anche la vecchia era contenta; con le sue amiche uscì a complimentarsi: «Nobili pusa, che
fortuna inaudita!» Poi cercò una tazza di porcellana decorata, la riempì a metà e la tese a Tripitaka:
«Bevete piano, reverendo; basterà un sorso per interrompere la gravidanza.»
«A me la tazza non serve» brontolò Porcellino. «Fatemi bere dal secchio.»
«Ci farete morire di paura, monsignore!» esclamò la vecchia. «Se vuotate il secchio, non
dissolverete soltanto il feto, ma anche le vostre budella.»
Il bestione ebbe una tal paura che non osò fare a modo suo e si accontentò di sorseggiare mezza
tazza.
In breve entrambi si sentirono rimescolare il ventre con dolori più forti che mai: si sarebbe detto
che là dentro cigolasse una vecchia carrucola rugginosa. Alla fine il bestione non ne poté più:
grande bisogno, piccolo bisogno, resti della gravidanza, tutto premeva per uscire con urgenza.
Anche il monaco cinese cercò precipitosamente un angolino appartato in cui soddisfare le stesse
necessità.
«Maestro, per carità» si inquietò Scimmiotto, «non esponetevi a correnti d’aria! Badate che, se
prendete freddo, vi potrebbe venire la febbre puerperale.»
La vecchia procurò loro due pitali, di cui fecero uso ripetutamente: il gonfiore si ridusse, man
mano che la massa di carne e sangue si dissolveva, e il dolore si calmò. Allora le donne prepararono
la pappa di riso bianco per riempire il vuoto.
«Io, nonna, sono un macigno» dichiarò Porcellino. «Non ho bisogno di fortificanti. Piuttosto
scaldatemi acqua per un bagno. Mangerò la pappa dopo essermi lavato.»
«Bada, fratello» obiettò Sabbioso, «non puoi fare il bagno: nel primo mese dopo il parto ogni
contatto con l’acqua può provocare guai.»
«Ma non è mica un parto, era solo una falsa gravidanza. Non inventiamo difficoltà. Io ho
bisogno di ripulirmi.»
La vecchia scaldò dell’acqua perché si lavassero i piedi e le mani. Mentre Tripitaka mangiava la
seconda tazza di pappa, Porcellino ne aveva già vuotate dieci e reclamava l’undicesima.
«Ciccione» disse ridendo il Novizio, «datti una regolata. Che aspetto avrai con il pancione a
forma di sacco di pappa?»
«Lascia stare, non corro rischi. Non sono mica una scrofa.»
Gli si dovette cuocere altro riso.
La vecchia si rivolse al monaco cinese: «Reverendo maestro, date a me l’acqua che avanza.»
«Tu, bestione, non ne vuoi più bere?» chiese il Novizio a Porcellino.
«Il mal di pancia è passato, la gravidanza dev’essere finita. Perché ne dovrei bere, se ormai mi
sento bene?»
«Visto che a noi non serve più, prendetela pure» disse Scimmiotto.
La donna ringraziò, versò l’acqua in una giara di ceramica e corse a sotterrarla nell’orto, dicendo
a chi voleva ascoltarla: «Qui c’è quanto occorre per pagarmi i funerali.»
Tutti erano contenti. Fu preparato un pasto di magro disponendo tavole e sgabelli. I monaci
cenarono tranquillamente e andarono a riposare.
L’indomani all’alba ringraziarono la gente di casa per rimettersi in cammino. Tripitaka montò a
cavallo, Sabbioso si caricò i bagagli, Porcellino teneva la redini e Scimmiotto faceva da battistrada.
Così sia:
Pulisciti la bocca e conservati puro:
Il corpo ripulito ridiventa natura.
Se poi non sapete chi altri incontrarono in quel reame, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 54
TENTAZIONI REGALI
DOVE LE INCARNAZIONI DELLA LEGGE PENETRANO NEL PAESE DELLE DONNE E LA SCIMMIA DELLO
SPIRITO TROVA UNO STRATAGEMMA PER FUGGIRE.
Lasciata la capanna, come il racconto ci ha narrato, Tripitaka e i suoi discepoli avanzarono sulla
via dell’Ovest. Dopo trenta o quaranta li giunsero alla capitale del paese dei Liang occidentali.
«Consapevole del Vuoto» dichiarò il monaco cinese dall’alto del cavallo, additando davanti a sé,
«ci avviciniamo alle mura di quella città; sentite il rumore che viene dal mercato! Dev’essere la
capitale del Regno delle Donne dei Liang occidentali. Dovrete stare attenti, osservare
scrupolosamente le convenienze e tener corta la briglia ai vostri istinti, per non violare gli
insegnamenti della Legge.»
Si trovarono sul viale che conduceva alla porta est. Andavano e venivano gonne lunghe,
giubbetti corti, visi incipriati e capelli impomatati: giovani o vecchie, non si vedevano che donne, le
quali vendevano o compravano ai lati della strada. Quando videro passare quei quattro, si misero a
battere le mani, a ridere e a esclamare gioiosamente: «Ecco dei maschi, questa è semenza di
maschi!»
Tripitaka dovette tirare le redini del cavallo, perché la gente gli ostacolava il cammino; in un
attimo, con suo spavento, la strada fu bloccata da quella folla che cinguettava lietamente.
«Io sono castrato» proclamava Porcellino ai quattro venti. «Non sono altro che un maiale
castrato.»
«Non occorre dir balle» considerò Scimmiotto. «Basterà che tu gli faccia vedere che bel ragazzo
sei.»
Porcellino incominciò a scuotere la testa, a stendere e agitare le sue larghe orecchie a ventaglio, a
torcere la bocca in forma di ninfea pendula e a emettere una serie di grugniti: cose che mandarono
gambe all’aria dallo spavento le donne che lo vedevano da vicino. Lo attestano i versi:
Passava il santo monaco dal paese dei Liang,
Luogo privo di yang e abitato da donne.
Contadine, artigiane, letterate, mercanti,
Pescatrici e braccianti: si vedon solo femmine.
Invitan civettuole e vogliono sedurre
Ogni maschio che passa. Se il nostro Porcellino
Non fosse tanto brutto, come resisterebbe
All’insidia incantevole?
L’impressione fu tale che non osavano più avvicinarsi. Curvavano la schiena e si torcevano le
mani, scuotevano il capo e si mordevano le dita, ma non smettevano di contemplare il monaco
cinese con tremiti e brividi. Anche Scimmiotto, per farsi largo, fece le sue smorfie e Sabbioso, il
patibolare, prese un’aria ancora più tetra. Porcellino tirava il cavallo per le redini, alzando il grugno
e dimenando senza posa le orecchie. Inoltrandosi lungo la strada ammiravano il bell’ordine degli
edifici del sobborgo, le botteghe dalle ricche vetrine che offrivano sale e riso in quantità, le taverne
e le case da tè. Le mercanzie si accumulavano sulla terrazza della torre del tamburo; padiglioni e
magazzini erano chiusi da tende. Giunti in capo alla strada, una doganiera gridò loro: «Forestieri
che venite da lontano, non potete entrare in città senza autorizzazione. Fatevi registrare al posto di
accettazione, consegnate le vostre carte e aspettate che siano esaminate da sua maestà la regina.
Non potrete ripartire senza il visto.»
Tripitaka smontò da cavallo e lesse su un cartello appeso alla porta di un edificio pubblico i tre
caratteri:
POSTO DI ACCETTAZIONE DELLO YANG
«Vedi, Consapevole del Vuoto» fece notare il reverendo, «che al villaggio ci avevano informato
bene? C’è davvero un posto di accettazione dello yang.»
«Fratello» suggerì Sabbioso ridendo, «non sarebbe prudente che ti andassi a specchiare nel
laghetto, per controllare se il tuo riflesso si sdoppia?»
«Non scherzare su queste cose. Non ho forse bevuto la mia dose di acqua della Fonte degli
Aborti?»
«Consapevole del Vuoto, guidaci tu; ma, mi raccomando, con discrezione» disse Tripitaka.
Salutarono la doganiera, che li pregò di entrare, li fece sedere nella sala principale e fece servire
il tè. Constatarono che il servizio era effettuato da ragazze pettinate con tre crocchie e vestite in
gonna e giubbetto, tutte sorridenti e vagamente invitanti. Bevuto il tè, la doganiera fece un inchino e
chiese la loro provenienza.
«Abbiamo la missione di recarci a salutare il Buddha e di cercare le scritture nel Paradiso
dell’Ovest, per ordine di sua maestà il sovrano dei grandi Tang delle terre dell’Est. Il nostro
maestro, che si chiama Tripitaka, è fratello minore di sua maestà. Io sono il primo discepolo,
Consapevole del Vuoto. Gli altri due sono i miei condiscepoli, Consapevole delle Proprie Capacità e
Consapevole della Purezza. Siamo in cinque, con il cavallo, e vi preghiamo di verificare il nostro
passaporto e di autorizzarci a ripartire.»
La doganiera prese nota e si inchinò profondamente: «Ci dovete scusare, monsignore. Io sono
soltanto il capo del posto di accettazione dello yang, e in questa umile posizione non potevo aver
idea di chi foste. Se lo avessi saputo, vi sarei venuta incontro per accogliervi.»
Dopo gli inchini, ordinò che si portassero cibi e bevande: «Monsignori, vogliate mettervi a
vostro agio mentre vado in città a riferire alla nostra regina. Dopo l’apposizione dei visti, riceverete
dei doni e vi accompagneremo verso occidente.»
Tripitaka era incantato.
La capo posto si assettò gli abiti, entrò in città e si presentò alla Torre delle Cinque Fenici, dove
dichiarò la propria identità e chiese di essere introdotta dalla regina. La ciambellana della Porta
Gialla l’annunciò e ricevette l’ordine di farla entrare.
«Che cosa mi devi riferire, capo posto?»
«Ho avuto l’onore di ricevere il fratello del sovrano dei grandi Tang delle terre dell’Est,
accompagnato da tre discepoli. Contando il cavallo sono in cinque e si recano a cercare le scritture
nel Paradiso dell’Ovest. Sono venuta a chiedere istruzioni, se sia opportuno vistare il loro
passaporto e lasciarli ripartire.»
La regina si rallegrò e si rivolse alle sue mandarine civili e militari: «Questa notte ho sognato che
i paraventi d’oro si coprivano di mille colori e che gli specchi di giada diffondevano un’intensa
luce: era il felice presagio di questo arrivo.»
«E perché era un felice presagio?» chiedevano stupite le dame di corte, che si assiepavano e si
inchinavano davanti ai gradini del trono.
«L’uomo dell’Est è un fratello imperiale. Fin dall’inizio del mondo, nessuna regina ha mai visto
un maschio giungere in questo paese. L’arrivo del fratello del sovrano dei Tang non è forse un dono
del cielo? Sono pronta a cedergli tutte le ricchezze del reame, perché sia il mio re e io possa regnare
accanto a lui. Ci uniremo e avremo figli e nipoti, per perpetuare il lignaggio reale. Non è forse un
giorno di festa?»
Le dame si profusero in riverenze e in altre dimostrazioni di assenso.
«Il discorso di vostra maestà è ottimo, se si pensa alla successione al trono» fece notare la capo
posto. «Ma i tre discepoli sono molto brutti, sono dei veri mostri.»
«Descrivimi l’uno e gli altri.»
«Il fratello imperiale è alto, bello, elegante, in tutto degno del suo rango; un vero figlio del fiorito
impero di mezzo del continente del Sud. I tre discepoli hanno un’aria così malvagia che sembrano
creature malefiche.»
«In questo caso» concluse la regina, «visteremo il passaporto dei discepoli, daremo loro qualche
provvista e li spediremo nell’Ovest. Tratterremo qui solo il fratello imperiale. Perché no?»
«Le parole di vostra maestà sono giustissime: noi ci conformeremo rispettosamente. Ma non vi è
matrimonio senza intermediaria. Come dicevano gli antichi: uniti dallo scambio di foglie rosse,
legati dal filo rosso del vecchio della luna.»
«Seguiremo il vostro suggerimento: la grande precettrice svolgerà il compito di intermediaria e
la capo posto di accettazione dello yang dirigerà la cerimonia. Ma per incominciare dobbiamo
proporre il matrimonio al fratello imperiale: se accetta, gli verrò incontro per riceverlo nelle dovute
forme.»
La precettrice e la capo posto lasciarono la corte per eseguire gli ordini.
Tripitaka e i suoi compagni si trattenevano piacevolmente a tavola nella sala grande del posto di
accettazione, quando fu loro annunciato l’arrivo delle due donne: «La grande precettrice di sua
maestà, accompagnata dalla nostra capo posto.»
«Che verrà a fare qui la grande precettrice?» chiese Tripitaka.
«Ci porterà un invito a corte» suggerì Porcellino.
«Vedrete che non sarà un invito, ma una proposta matrimoniale» disse Scimmiotto.
«Consapevole del Vuoto» chiese Tripitaka, «che cosa facciamo se ci trattengono e ci vogliono
costringere al matrimonio?»
«Maestro, acconsentite e non preoccupatevi del resto: ci penserò io» rispose Scimmiotto.
Le due funzionarie entrarono e si inchinarono al reverendo, che rese loro il saluto: «Di quale
virtù o capacità può disporre l’umile monaco che sono, per meritare questo onore?»
La reale precettrice si rallegrava dentro di sé nel constatare la nobiltà e dignità del reverendo. «È
una fortuna per il nostro paese» diceva tra sé. «Quest’uomo è davvero degno di diventare lo sposo
della nostra regina.»
Dopo i saluti le funzionarie rimasero in piedi, l’una accanto all’altra: «Auguri di felicità, vostra
signoria!»
«Io ho lasciato la mia famiglia; da dove mi potrebbe venire questa felicità?»
«Nel nostro regno delle donne dei Liang dell’Ovest non era mai giunto un maschio prima d’ora.
Dal momento che ci avete onorato della vostra visita, sono incaricata dalla regina di sollecitare il
vostro consenso a un’unione matrimoniale.»
«Sono lusingato. Ma l’umile monaco che sono è solo, non ha figli in propria compagnia. Non ho
che questi tre discepoli storditi: quale di loro vorreste chiedere in matrimonio?»
«Quando ho annunciato a corte il vostro arrivo» spiegò la capo posto, «la nostra regina si è
rallegrata e ha narrato che durante la notte aveva fatto un sogno di buon augurio: i paraventi d’oro si
coprivano di mille colori e gli specchi di giada diffondevano un’intensa luce. Quando ha saputo che
venivate da quel paese di superiore civiltà che è il fiorito impero di mezzo, si è detta pronta a
cedervi tutte le ricchezze del regno se acconsentite a divenire il suo sposo e a salire sul trono: sarete
proclamato l’Unico e lei si accontenterà di restare la regina vostra sposa. Ha decretato che la grande
precettrice assumesse il ruolo di intermediaria e che io presiedessi alla celebrazione del matrimonio.
Ecco l’ambasciata che vi portiamo.»
Tripitaka chinò il capo e ammutolì.
«L’uomo di valore non si lascia sfuggire l’occasione» sentenziò la grande precettrice. «Non è
raro che un uomo riceva la proposta di andare a vivere con la famiglia della moglie, ma non è certo
comune che la dote sia un intero reame. Dateci senza esitare il vostro consenso, per consentirci di
riferire la risposta.»
Sembrava che il reverendo avesse perduto la favella. Accanto a lui Porcellino levò
imperiosamente il grugno per dichiarare: «Grande precettrice, riferite questo alla vostra regina: il
mio maestro è un arhat che coltiva la Via da molto tempo, e non desidera le ricchezze, fossero pure
un reame, né la bellezza, per quanto suprema. Rendetegli il passaporto, lasciatelo proseguire per
l’Occidente e prendete me. Che ve ne pare?»
La grande precettrice, atterrita, non osava rispondere. Intervenne la capo posto: «Siete un
maschio anche voi; ma siete troppo brutto per piacere alla nostra regina.»
«Non te ne intendi» replicò Porcellino ridendo. «Come dice il proverbio, il salice non ha rami
inutili: con i grossi si fanno i vagli, con i sottili le bacchette. La bruttezza non esiste.»
«Non dire scemenze» intervenne Scimmiotto. «Il maestro farà a modo suo: se è d’accordo lo
dica, altrimenti tagli corto. Non facciamo perdere il tempo all’intermediaria.»
«Consapevole del Vuoto» rispose Tripitaka, «farò come tu dirai.»
«Secondo me, dovreste accettare la proposta. Come dicono gli antichi, gli incontri matrimoniali
sono guidati da un filo invisibile a mille leghe di distanza. Non trovereste mai più un’occasione
simile.»
«Discepolo» obiettò Tripitaka «se cupidigia di ricchezze e onori ci trattengono qui, chi andrà in
cerca delle scritture nel Paradiso dell’Ovest? Non deluderemo così la speranza che il nostro
sovrano, l’imperatore dei Tang, ha riposto in noi?»
«Devo precisare» disse la precettrice reale, «che la volontà della regina è chiara: ella mi ha
incaricato di proporre il matrimonio a voi solo. Si augura invece che i vostri tre discepoli
proseguano il loro viaggio, dopo aver partecipato al banchetto di nozze, ripreso il passaporto e
ricevute utili provviste.»
«La grande precettrice dice bene» approvò Scimmiotto. «Noi non faremo certo obiezioni: siamo
ben contenti che il nostro maestro diventi marito della vostra sovrana. Ci restituirete il passaporto e
noi ripartiremo per l’Ovest; quando avremo ottenuto le scritture, ripasseremo di qui a salutare
padre e madre e a chiedervi un viatico per il ritorno nel paese dei grandi Tang.»
«Vi siamo molto grate di averci fatto la cortesia di agevolare la conclusione del patto
matrimoniale» dissero inchinandosi le due funzionarie.
«Precettrice, in materia di banchetti non pensate di cavarvela a parole!» protestò Porcellino. «Dal
momento che siamo d’accordo, dite alla vostra padrona di far servire subito il banchetto per il
brindisi del contratto. Che ne dite?»
«Ma certo, faremo subito preparare i festeggiamenti.»
Le due donne se ne andarono, molto soddisfatte di sé, a riferire alla regina.
Intanto Tripitaka tirava Scimmiotto per la tonaca e brontolava: «Testa pazza di scimmia, tu mi
vuoi morto. Come puoi dire queste follie? Mi lascereste qui a sposarmi, mentre voi andreste a
vedere il Buddha: non acconsentirò mai, dovessi morire!»
«Maestro, rassicuratevi» rispose Scimmiotto. «So come la pensate, ma con questa gente e in
questa situazione non abbiamo altra possibilità che di cavarcela con uno stratagemma.»
«In che cosa consiste?»
«Se aveste rifiutato, la regina non ci avrebbe restituito il passaporto e avrebbe ostacolato la
partenza. Magari si sarebbe davvero incattivita fino a ordinare di tagliarci a strisce e di metterci nei
sacchetti per profumare la biancheria. Noi non avremmo potuto restare con le mani in mano: io
avrei dovuto ricorrere ai metodi che conosco per abbattere diavoli e creature malefiche. Sapete bene
che ho la mano pesante e sono bene armato: se mi ci mettessi, non ci terrei molto a massacrare tutta
la popolazione del regno; e, per quanto ci stiano seccando, non si tratta di mostri ma di esseri
umani. Potreste fare una scelta simile voi, che siete sempre tanto pieno di compassione e di bontà e
non volete schiacciare nemmeno le formiche? Sarebbe proprio scegliere il male.»
«Consapevole del Vuoto» si inquietava Tripitaka, «parli come un libro stampato. Ma quando la
regina mi porterà in camera sua, temo che pretenderà da me i riti che praticano gli sposi. E io come
potrei rassegnarmi a disperdere il mio yang primordiale, a rovinare la virtù acquisita nella famiglia
del Buddha? Se mi lasciassi sfuggire lo sperma della verità, perderei il corpo di adepto della nostra
dottrina.»
«Dal momento che non avete fatto difficoltà e avete acconsentito, la regina seguirà di certo
l’etichetta di corte e verrà ad accogliervi alle porte della città: voi continuerete a mostrarvi
accondiscendente, salirete sulla carrozza di draghi e fenici, entrerete nella sala d’udienza e vi
sederete con il viso rivolto a sud. Chiederete alla regina di far recare il sigillo reale e di convocarci
per consegnarci il passaporto vistato e firmato. Intanto verrà preparato il banchetto di nozze, che per
noi sarà anche il banchetto di addio. Quando finirà voi chiederete di attaccare la carrozza. Direte
che, prima di andare con lei, volete accompagnarci alle porte della città. Poiché vi avrà sempre visto
arrendevole, non nutrirà alcun sospetto e acconsentirà. Davanti alle porte scenderete dal carro reale
e, mentre Sabbioso vi aiuterà a montare a cavallo, io paralizzerò tutto il seguito con la magia. Non
dovremo fare altro che rimetterci sulla nostra strada; quando avremo camminato un giorno e una
notte le sveglierò, e loro non potranno fare niente di meglio che ritornarsene a casa. Così non
metteremo in pericolo né la loro vita né la vostra integrità. Sfuggire alla trappola con un finto
matrimonio: questo potrebbe essere il nome dello stratagemma. Non sarebbe prendere due piccioni
con una fava?»
Per Tripitaka fu come il brusco risveglio dal sonno dell’incoscienza. Tutto gli divenne chiaro,
ogni inquietudine svanì ed egli si profuse in ringraziamenti: «Sono profondamente riconoscente al
mio saggio discepolo per avermi fatto partecipe delle sue lungimiranti vedute.»
Le due funzionarie ritornarono a corte e si recarono direttamente ai piedi dei gradini di giada
bianca per annunciare: «Il sogno di vostra maestà era verace: conoscerete senz’altro la gioia del
pesce nell’acqua.»
A questa notizia la regina fece arrotolare le cortine di perle, scese dal real giaciglio e chiese con
la sua voce armoniosa e con un sorriso che rivelava i candidi denti fra le labbra di ciliegia: «Che
cosa dice il fratello dell’imperatore della Cina, saggia consigliera?»
«Lo abbiamo incontrato al posto di accettazione e gli abbiamo esposto l’affare nei particolari.
Lui sembrava un po’ reticente, ma per fortuna il suo primo discepolo lo ha liberalmente esortato ad
acconsentire: da parte sua è disposto a cedervi il suo maestro come sposo e re, a condizione che gli
rendiate il passaporto e lo lasciate proseguire con i suoi compagni. Quando avranno ottenuto le
scritture, si propongono di ritornare a salutare i loro genitori e a chiedere un viatico per il ritorno in
Cina.»
«E il fratello imperiale che cosa ha detto?» insisté sorridendo la regina.
«Non ha detto niente, ed è ben disposto a unirsi con voi. L’unica obiezione l’hanno fatta gli altri
due discepoli, ed è che vogliono bere con voi il vino del consenso.»
La regina fece ordinare ai servizi competenti di preparare il banchetto e di attaccare la grande
carrozza per andare incontro al suo futuro sposo. Le dame di corte eseguirono gli ordini, spazzarono
le sale e prepararono le camere. C’era chi predisponeva il banchetto, veloce come il lampo, e chi
attaccava la carrozza, svelta come una stella filante. Dovete sapere che il regno dei Liang
dell’Ovest, benché fosse un paese di sole donne, spiegava un fasto non inferiore a quello della Cina.
Sei draghi avvolti in volute colorate e doppia fenice portafortuna sostengono la carrozza, che emana delicati effluvi e
inebrianti profumi. Le funzionarie si affollano intorno con acconciature coperte di gioielli, fra un crepitare di giade.
Ventagli di piume di anitra mandarina coprono la carrozza, protetta da cortine di perle e di giada. Una gioia senza limiti
invade la sacra terrazza, l’onda della felicità monta fino al cielo. Il triplo baldacchino di garza è come un’oscillante
volta celeste, gli stendardi multicolori illuminano i gradini reali. Qui dove mai fu scambiata la coppa nuziale, la regina
si unirà oggi per la prima volta a un uomo.
Quando la grande carrozza, uscita dalle mura, giunse al posto di accettazione dello yang, i
viaggiatori ricevettero l’annuncio: «È giunta sua maestà.»
Tripitaka si aggiustò l’abito e uscì dalla sala con i suoi tre discepoli per presentarsi davanti alla
carrozza reale. La regina fece alzare le cortine, discese e chiese quale fosse il fratello
dell’imperatore della Cina.
«È quello che regge il brucia profumi e indossa un abito lungo» informò la grande precettrice.
Socchiudendo gli occhi di fenice e alzando le sopracciglia di falena, la regina lo scrutò con
attenzione. Non era certo un tipo comune. Eccolo qua:
Portamento prestante, dignità del volto, denti candidi come argento da cesello, bocca ben tagliata con labbra rosse,
sommità del capo piatta, fronte larga e tempie piene, occhi limpidi sotto la linea pura delle sopracciglia, lungo mento.
I lobi delle orecchie recano contrassegni di vera eminenza; dalla testa ai piedi non ha nulla di volgare, un’eleganza
sostenuta dall’intelligenza, degno per ogni aspetto della grazia seducente della prima dama del regno dei Liang.
Mentre lo contemplava con delizia e rapimento, la regina si sentì dominata da desideri
impudichi. Socchiudendo le graziose labbra di ciliegia si rivolse a lui: «Nobile fratello
dell’imperatore dei Tang, che cosa aspettate per montare sulla fenice e cavalcare il drago?»
A questa proposta Tripitaka arrossì fino alle orecchie, troppo imbarazzato per alzare gli occhi.
Accanto a lui Porcellino divorava quella donna con gli occhi. La sua bellezza era fragile e delicata:
Sopracciglia di piume di martin pescatore, pelle che ha la dolcezza della giada più fine, guance di fior di pesco, capelli
avvolti in fenice d’oro. L’onda autunnale del suo sguardo vi avvolge nel suo fascino, i germogli primaverili delle sue
dita si muovono con grazia. Sulla sua cintura sono i mille colori della seduzione, l’alta capigliatura brilla di perle e di
smeraldi. Non parliamo di Wang Zhaojun, per quanto superi la Xi Shi d’altri tempi. A ogni movimento del suo busto di
giovane salice tintinnano i ninnoli d’oro, a ciascuno dei suoi passi leggeri si indovinano le sue gambe di giada. Non
sembra una donna mortale: non oserebbero paragonarsi con lei né la dea della luna né le fate del nono cielo. Sembra la
regina madre dell’Ovest presso lo Stagno di Diaspro.
A sbirciarla negli angolini più interessanti il bestione si sentiva venire l’acquolina in bocca, il
cuore gli batteva come un cerbiatto impazzito, sentiva le gambe molli e i muscoli rigidi, fondeva
come neve al fuoco.
La regina si fece avanti, tirò Tripitaka per la manica e gli sussurrò: «Gentile fratello, sali con me
in carrozza e andiamo a unirci nella Sala delle Campanelle d’Oro.»
Il reverendo tremava così forte da reggersi a stento; sembrava istupidito o ubriaco fradicio.
«Su, maestro» gli sibilava Scimmiotto, «non fate tanto il sostenuto, montate in carrozza con lei.
Affrettate il visto del passaporto perché possiamo proseguire.»
Il reverendo era incapace di rispondere, brancolava e non riuscì a trattenere le lacrime. «Non
inquietatevi, maestro! Non tiratevi indietro al momento di godere gli onori e le ricchezze che vi
toccano.»
Tripitaka non aveva scelta. Asciugò le lacrime, cercò di darsi un contegno e seguì la regina a
passetti forzati.
La mano nella mano, presero posto nella vettura reale. La regina, piena di gioia, con il pensiero rivolto a unione e
matrimonio; il reverendo, pieno di inquietudine, ha in testa soltanto il Buddha. L’una pensava solo a folleggiare alla
luce delle candele fiorite della stanza nuziale; l’altro non aspirava che al Monte degli Avvoltoi. Lei era sincera, lui
fingeva. Lei sperava di vivere e invecchiare con lui in armonia condivisa; lui restava deciso a perfezionare solo sé
stesso. Lei si rallegrava di quell’uomo che desiderava abbracciare; lui temeva ogni specie di bellezza femminile, non
vedeva l’ora di fuggire dalla trappola e di riprendere il suo cammino. Mentre salivano sulla carrozza, chi avrebbe detto
che il cuore del monaco cinese fosse tanto lontano?
A vedere la coppia, le funzionarie civili e militari sorridevano intenerite. Il corteo si avviò verso
la città. Scimmiotto affidò i bagagli a Sabbioso e seguì tirando il cavallo bianco per la briglia.
Porcellino corse come un pazzo in testa a tutti per arrivare primo alla Torre delle Cinque Fenici.
«Come volete voi! È una bella coppia, ma non si concluderà niente! Niente si può concludere
finché non avremo brindato alle nozze» gridava. «Se prima non si trinca, gli sposi non entrano!»
Le funzionarie che reggevano le insegne in testa al corteo, spaventate, si presentarono alla
carrozza regia: «Vostra maestà, quello con le grandi orecchie si è messo davanti alla Torre delle
Cinque Fenici e reclama da bere.»
La regina appoggiò la sua tenera spalla a quella del reverendo, premette la guancia di pesca
contro la sua e socchiuse la bocca profumata per dirgli con voce tenera: «Dolce fratello, è un tuo
eminente discepolo quel tipo dal lungo grugno e dalle larghe orecchie?»
«È il mio secondo discepolo. È nato con un ventre enorme, pensa solo a mangiare: sarà meglio
accontentarlo prima di ogni altra cosa.»
«Il servizio dei banchetti ha preparato tutto, sì o no?» chiese impaziente la regina.
«Certamente, ogni cosa è pronta nel padiglione est. Sono stati preparati un menu con carni e uno
vegetariano.»
«Perché due menu?»
«Temevamo che il fratello dell’imperatore della Cina e i suoi eminenti discepoli avessero
abitudini vegetariane, ma non ne eravamo certe.»
La regina si strofinò ancora contro il reverendo con mille risatine e gli chiese se fosse
vegetariano.
«Sì» rispose Tripitaka, «ma il vostro umile monaco non pratica ancora l’astensione dal vino di
magro: per accontentare il mio secondo discepolo, bisognerà vuotarne qualche coppa con lui.»
La precettrice reale venne ad annunciare: «Vogliate prendere posto al banchetto nel padiglione
est. Questa è la sera di un giorno fasto e pertanto potrete sposare sua signoria nell’ora favorevole.
Domani avrà inizio la via gialla dell’eclittica, propizia all’ascesa al trono di sua signoria e all’inizio
di una nuova era.»
La regina si rallegrò dell’oroscopo, prese subito il reverendo per mano e scese con lui dalla
carrozza reale per varcare la soglia del palazzo.
Risuona dalle torri la musica divina
Mentre la gran carrozza attraversa le corti.
I portali si aprono su interni illuminati
Da vive luci. Salgono le volute d’incenso
Dentro la grande sala, dove emerge dall’ombra
Il ricco paravento ornato di pavoni.
Sono splendori degni di paese sovrano,
Ed altrettanto ricchi gli aerei padiglioni.
Quando giunsero nella sala del banchetto, udirono musiche melodiose di canti e flauti, e furono
accolti da due file di fanciulle riccamente abbigliate. Nel mezzo erano disposte due sontuose
mostre: a sinistra di piatti vegetariani, a destra di piatti di carne, seguite da due file di tavole. La
regina sollevò le maniche rivelando le dita sottili, prese a due mani una coppa di giada e si dispose a
distribuire gli invitati. Scimmiotto fece notare: «Noi siamo tutti vegetariani, maestro e discepoli.
Converrà invitare prima il nostro maestro a prender posto a sinistra; e noi, come discepoli,
dovremmo sedere nei tavoli successivi.»
«Perfetto!» approvò la grande precettrice. «Il rapporto fra maestro e discepolo è come quello fra
padre e figlio; perciò non devono sedere accanto.» Le dame si affrettarono a ridistribuire
convenientemente le seggiole. Mentre assegnava i posti, la regina offriva a ciascuno un boccale.
Scimmiotto fece segno a Tripitaka che doveva rendere la cortesia. Egli fece dunque accomodare la
regina per porgerle una coppa di giada. Le funzionarie civili e militari ringraziarono la sovrana della
grazia che ricevevano, prima di prender posto secondo il loro rango. Poi la musica tacque e
incominciarono i brindisi.
Porcellino pensava solo a riempirsi la pancia, senza curarsi d’altro. Che si trattasse di riso grano
di giada, di focacce al vapore, di dolci ricoperti di zucchero, di funghi neri, porcini, germogli di
bambù, orecchiette, cavolfiori, gelatine, rape, colocasia, patate o zafferano: tutto quanto veniva
rumorosamente ingoiato. Dopo aver vuotato sei o sette coppe per sciacquarsi la bocca, si mise a
gridare: «È ora di incominciare a bere. Datemi da bere! Portatemi un bel boccalone, che lo vuoti
due o tre volte prima che ciascuno se ne vada per gli affari suoi.»
«Tu lo lasceresti, questo bel festino, per andare per l’affare tuo?» gli chiese Sabbioso.
«Come dicevano gli antichi» rispose ridendo il bestione, «l’arco all’arcaio, la freccia al
frecciaio. Quelli che si sposano vanno a letto e quelli che cercano scritture vanno per strada, senza
compromettere la loro missione per qualche bicchiere di troppo. Sarà meglio che ci restituiscano
subito il nostro passaporto. È il caso di dirlo: finché il capo è dritto e tosto, ognun tiene il proprio
posto.»
La regina, che li sentiva, fece portare grandi coppe. Le funzionarie del servizio privato si
affrettarono a presentare dei nappi a foggia di pappagallo, dei calici a forma di cormorano, boccali
d’oro, tazze d’argento, coppe di vetro, caraffe d’ambra, grandi ciotole di cristallo e altre più piccole
dette di Penglai. Tutti questi recipienti furono riempiti di densi liquidi e aromatici, e ciascuno ne
ebbe la sua parte.
Poi Tripitaka si alzò, si inchinò giungendo le mani e disse alla regina: «Vi siamo molto grati,
vostra maestà, di questo sontuoso festino. Abbiamo molto bevuto. Ora vi prego di riprendere le
vostre funzioni per vistare il passaporto dei miei discepoli, in modo da permettermi di
accompagnarli tutti e tre fuori della città senza altro indugio.»
La regina acconsentì, prese il reverendo per mano e, dopo avere congedato i convitati, salì alla
sala di udienza. Voleva cedere il trono a Tripitaka, ma egli protestò: «No, non è opportuno. Come ha
detto la grande precettrice, solo domani entreremo nella via gialla. L’umile monaco che sono non si
può permettere di montare prematuramente sul trono per proclamarsi l’Unico. Oggi tocca a voi
apporre il vostro sigillo sul passaporto per congedare i miei discepoli.»
La regina prese quindi posto sul giaciglio del drago, dopo aver fatto collocare a sinistra una
poltrona dorata su cui invitò il monaco a sedersi. I discepoli furono convocati per procedere
all’esame del documento. Il grande santo chiese a Sabbioso di prenderlo dalla sacca e lo presentò
rispettosamente reggendolo con le due mani. La regina lo lesse attentamente: in alto si vedevano i
nove preziosi sigilli dell’imperatore dei grandi Tang, e sotto quelli del paese degli Elefanti Sacri, del
regno del Gallo Nero e di quello di Carrolento.
«Dunque vi chiamate Chen, caro fratello!» esclamò la regina con una graziosa risatina quando
ebbe finito di leggere.
«Chen era il mio nome laico di famiglia; in religione mi chiamo Xuanzang. Mi chiamano anche
Tang, perché il sovrano dei Tang mi ha concesso l’insigne favore di considerarmi suo fratello
minore.»
«Perché i nomi dei vostri eminenti discepoli non figurano su questo documento?»
«I miei tre stupidi discepoli non appartengono alla corte dei Tang.»
«E se non vi appartengono, come hanno acconsentito a seguirvi?»
«Il più anziano viene dal paese di Aolai, nel continente orientale; il secondo da un villaggio
tibetano del continente dell’Ovest e l’ultimo dal Fiume delle Sabbie Mobili. Tutti e tre hanno
commesso crimini e trasgredito i regolamenti celesti; la pusa Guanyin dei mari del Sud li ha liberati
dalle pene che erano state loro inflitte e li ha convertiti e riportati al bene. Hanno acconsentito a
fornire la mia protezione nella ricerca delle scritture nel Paradiso dell’Ovest, per acquisire meriti
che riscattino le loro colpe. Il loro nome non è scritto sul passaporto, perché tutti e tre sono divenuti
miei discepoli dopo la partenza, nel corso del viaggio.»
«Aggiungerò i loro nomi, volete?»
«Sia fatta la volontà di vostra maestà.»
La regina fece portare scrittoio e pennello, strofinò l’inchiostro sulla pietra sino a formarne uno
strato spesso e odoroso, vi intinse le setole del pennello finché ne furono ben intrise e aggiunse in
fondo al foglio i nomi di Scimmiotto Consapevole del Vuoto, Porcellino Consapevole delle Proprie
Capacità e Sabbioso Consapevole della Purezza. Poi prese il sigillo reale e lo impresse con cura,
aggiunse la sua firma e fece riconsegnare il passaporto a Scimmiotto. Questi a sua volta lo diede a
Sabbioso da riporre.
La regina fece quindi portare un vassoio di pezzi d’oro e d’argento, scese dal trono e li offrì a
Scimmiotto: «Questi vi aiuteranno a sostenere le spese di viaggio, perché possiate giungere al più
presto nel Paradiso dell’Ovest. Quando sarete di ritorno, vi dimostrerò la mia gratitudine con
maggiore generosità.»
«Siamo monaci» protestò il Novizio, «e non possiamo accettare né oro né argento. Dobbiamo
mendicare il nostro cibo lungo il cammino.»
Vedendoli fermi nel rifiuto, la regina fece portare dieci rotoli di broccato: «Avete tanta fretta»
disse al Novizio, «che manca il tempo di farvi confezionare degli abiti. Prendeteli per provvedere
lungo il cammino, in modo da proteggervi dal freddo.»
«Un monaco non veste di broccato; per coprirci bastano le nostre tonache di tela.»
Dopo aver constatato che non accettavano nemmeno la seta, la regina fece portare tre litri di riso:
«In mancanza di meglio, ne farete un pasto lungo il cammino.»
Alla vista del riso, Porcellino saltò su e lo infilò immediatamente nel suo sacco.
«Fratellino, i bagagli erano già tanto pesanti: dove troverai la forza per portarli?» motteggiò
Scimmiotto.
«Tu non te ne intendi» rispose ridendo Porcellino. «Il riso va consumato fresco: domani non ne
resterà un solo chicco.» Poi giunse le mani per ringraziare.
«Mi posso permettere di importunare vostra maestà, pregandola di voler venire con me ad
accompagnarli fuori dalla città?» propose Tripitaka. «Mi occorrerà giusto il tempo per fare le ultime
raccomandazioni per il seguito del viaggio, e ritornerò a condividere per sempre la vostra gloria. Per
godere liberamente del piacere delle fenici allacciate, bisogna prima sbarazzarsi da queste
preoccupazioni.»
La regina non sospettò l’inganno e ordinò di preparare la carrozza reale, su cui salì
appoggiandosi a Tripitaka. Attraversarono dunque la città: dappertutto lungo le strade si riempivano
le coppe d’acqua pura e i brucia profumi dell’incenso più fine. Si gioiva tanto del passaggio della
regina, quanto di questa inaudita presenza maschile. Giovani e vecchie si erano pettinate, truccate e
incipriate per l’occasione. Presto il corteo giunse fuori dalla porta occidentale.
Scimmiotto, Porcellino e Sabbioso, tutti insieme, si aggiustarono i vestiti, si recarono accanto
alla carrozza e gridarono forte: «Che la regina non si dia pena di accompagnarci oltre. Noi ci
congediamo qui.»
Il reverendo discese dal veicolo, giunse le mani e disse alla sovrana: «Ritornate, signora, e
vogliate lasciar proseguire nella ricerca delle scritture l’umile monaco che sono.»
La regina impallidì e si aggrappò al monaco: «Caro fratello, per avervi come sposo ho
acconsentito a darvi tutto il mio regno. Domani salirete al trono e sarete proclamato re. Ho accettato
di essere la vostra sposa, abbiamo celebrato il banchetto di nozze: ora non potete cambiare idea!»
Porcellino uscì dai gangheri; torcendo il grugno da tutte le parti e sbattendo le orecchie
all’impazzata, corse alla carrozza gridando: «Noi monaci dovremmo sposare uno scheletro
incipriato come te? Lascia andare il mio maestro!»
La povera regina, sotto l’urto brutale di quest’ultima aggressione, sentì le sue anime
abbandonarla e svenne dentro la carrozza. Sabbioso liberò Tripitaka dalla folla e lo aiutò a montare
in sella. Ma proprio allora si vide ergersi sul ciglio della strada una figura di donna, che gridava:
«Dove vai, fratello dell’imperatore dei Tang? Vieni a divertirti con me al gioco del vento e della
luna!»
«Furfante, sporcacciona!» urlò Sabbioso, e brandì il suo bastone per assestarglielo sulla testa. Ma
la donna sollevò un turbine di vento che si portò via il monaco cinese senza lasciarne traccia.
Ahimè, è il caso di dirlo:
Sfuggire ad una trappola, almeno dilettevole,
Per diventare vittima di un’orca spaventevole!
Se non sapete, in fin dei conti, se la donna fosse umana o malefica, né se il maestro ci lasciò o
meno la pelle, ascoltate il prossimo capitolo.
CAPITOLO 55
LO SCORPIONE INNAMORATO
IN CUI LA PERVERSA DISSOLUTEZZA CARNALE CERCA DI APPROFITTARE DI TRIPITAKA, MA LA SUA
GIUSTA E SERENA NATURA PRESERVA L’INTEGRITÀ DEL SUO CORPO.
Come ci ha narrato il racconto, Scimmiotto e Porcellino, mentre si apprestavano a ricorrere alla
magia per immobilizzare le dame di corte, udirono all’improvviso il mugghiare del vento e il grido
di Sabbioso. Volsero la testa, e il monaco cinese era scomparso.
«Chi lo ha portato via?» chiese il Novizio.
«Una donna ha sollevato il colpo il vento e ha rapito il maestro» rispose Sabbioso.
Scimmiotto balzò sulle nuvole e scrutò nelle quattro direzioni facendosi solecchio con la mano:
verso nord ovest vide un turbine di polvere che si allontanava.
«Fratelli!» gridò subito. «Venite su, inseguiamoli!»
Porcellino e Sabbioso gettarono precipitosamente i bagagli sul dorso del cavallo e tutti insieme
con un sibilo salirono in cielo.
La dame del regno dei Liang dell’Ovest, sbigottite, caddero in ginocchio nella polvere: «Sono
arhat che salgono in cielo in pieno giorno: vostra maestà ha visto con i suoi occhi. Quel fratello
imperiale dev’essere un monaco della Meditazione che ha conseguito il Tao: i nostri occhi terrestri
non hanno saputo riconoscerlo, e l’hanno scambiato per un bell’uomo qualunque del paese di
mezzo. Ci siamo sbagliate, le nostre speranze non avevano fondamento. Vogliate risalire in
carrozza; sarà meglio che ritorniamo a casa.»
E la regina, piena di vergogna, se ne tornò nella sua città, dove noi la lasceremo.
Intanto Scimmiotto e i suoi compagni inseguivano il turbine; lo videro giungere a un’alta
montagna, dove il vento cessò e la polvere ricadde. Non avevano individuato il preciso rifugio
dell’essere malefico e perciò, scesi dalle nuvole, si diedero a perlustrare i dintorni. In breve
notarono sul pendio una grande roccia di granito che rifletteva il sole al tramonto e aveva la forma
di un grande paravento; la aggirarono, tenendo il cavallo alla briglia, e scoprirono che nascondeva
una porta a due battenti su cui erano scritti sei grandi caratteri:
MONTAGNA DEL NEMICO MORTALE - GROTTA DEL PI PA
Porcellino corse avanti, da quello sventato che era, per sfondare i battenti a colpi di rastrello; ma
Scimmiotto lo trattenne in tempo: «Calma, fratellino. Abbiamo seguito il turbine in questa zona e
abbiamo scoperto questa porta, ma non siamo sicuri che ci sia un nesso fra le due cose. Se
sfondassimo la porta sbagliata, non ne caveremmo che grane. Prima di metterci all’opera, converrà
che voi ritorniate con il cavallo al di là dello schermo di pietra e aspettiate che io raccolga
informazioni.»
«Giusto!» esclamò Sabbioso. «È quello che si dice pestar duro con finezza, affrettarsi con
comodo.»
I due ritornarono indietro con il cavallo. Scimmiotto fece un passo magico, recitò un incantesimo
e con una scossa si trasformò in un’ape. Eccola:
Ali sottili che il vento scompiglia,
Livrea splendente, una tromba curiosa
Ed indiscreta, polline sul dorso,
Un aculeo aggressivo e velenoso.
Costa lavoro fabbricare miele!
Vola e torna, modesta e infaticabile.
Ma quest’ape ha un suo piano di battaglia,
Mentre vola danzando verso l’uscio.
Scimmiotto si insinuò attraverso una fenditura del battente, superò anche la porta interna e vide il
mostro femmina seduto sotto un chiosco fiorito e circondato da servette in abiti ricamati a vivaci
colori, pettinate con i capelli in due crocchie. Tutte cianciavano allegre di chissà che cosa.
Scimmiotto si posò discreto sullo stipite della porta, donde poteva ascoltare a suo agio, e vide
giungere due ragazze con i capelli in disordine, raccolti evidentemente in fretta e furia. Ciascuna
portava un piatto caldo di panini cotti al vapore: «Signora, questi sono farciti di carne umana, e
quest’altri di formaggio di soia.»
«Ragazze, accompagnate qui il fratello imperiale» disse sorridendo l’orchessa.
Varie servette si diressero verso il fondo e ne ritornarono sostenendo il monaco cinese. Il maestro
aveva il volto cereo, le labbra pallide e gli occhi rossi gonfi di lacrime. «Santo cielo, me lo avrà
avvelenato» sospirò Scimmiotto.
L’orchessa gli andò incontro e lo prese per un braccio, scoprendo le sue dita fini come cipolline
primaverili: «Rinfrancatevi. Qui non possiamo offrirvi il lusso e la ricchezza del palazzo della
regina dei Liang, ma troverete tutta la quiete necessaria per pregare il Buddha e leggere i sutra. Con
la mia compagnia, avrete cent’anni garantiti di vita armoniosa.»
Tripitaka taceva.
«Smettete di tormentarvi» riprese l’orchessa. «So che al banchetto della regina non avete bevuto
né mangiato, ma ora dovete rimettervi in forze. Scegliete fra questi piatti quello che preferite: uno è
vegetariano, l’altro non lo è.»
Tripitaka era irresoluto: «Devo tacere e rifiutare di mangiare? Ma questa non è la regina, che se
non altro era una persona di buone maniere; questa è un’orchessa, a cui potrebbe saltare il ticchio di
ammazzarmi. Che fare? I miei discepoli non sanno neppure in che mani sono caduto. Se mi uccide,
non avrò sprecato la mia vita per niente?» Per quanto si arrovellasse, non vide altra soluzione che
raccogliere tutto il suo coraggio e aprir bocca: «Di che cosa sono imbottiti?»
«I panini vegetariani sono imbottiti di soia, gli altri di carne umana.»
«Il vostro povero monaco preferisce il piatto vegetariano.»
«Ragazze» disse l’orchessa sorridendo, «portate del tè caldo e servite a monsignore i panini di
magro.»
Una delle servette pose rispettosamente davanti al reverendo una tazza di tè profumato.
L’orchessa ruppe un panino e glielo porse. Lui rese la cortesia offrendole un panino non
vegetariano, ma senza spezzarlo. La sua ospite si mise a ridere: «Perché non lo spezzate, fratello
imperiale?»
«Come monaco, non oso spezzare un pane che contiene carne.»
«Quando vi davate da fare nel Fiume della Maternità eravate meno scrupoloso. E io ho pur
tastato il colaticcio di soia che mangiate voi.»
«Va nel fiume acqua lustrale» rispose Tripitaka; «e la soia non fa male.»()
A sentire la piega che stava prendendo la conversazione, Scimmiotto temette che il maestro
finisse per mettere in pericolo la sua vera natura. Perciò riprese la propria forma, brandì la sua
sbarra e tuonò: «Bestia immonda, un po’ di contegno!»
Come lo vide l’orchessa sputò un pennacchio di fumo che riempì tutto il chiosco e ordinò alle
ragazze di portar via Tripitaka. Afferrò quindi un tridente d’acciaio e lo aggredì urlando: «Scimmia
svergognata! Ti infili in casa mia a fare il guardone. Ora sta fermo e prenditi una bella forchettata
dalla tua vecchia mamma!»
Il grande santo parò il colpo e combatté arretrando, in modo da attirarla all’aperto. Porcellino e
Sabbioso aspettavano davanti allo schermo di pietra. Quando vide che lo scontro era incominciato,
Porcellino passò la briglia al compagno e gli disse: «Sabbioso, sorveglia bagagli e cavallo, che io
vado a dare una mano.»
Il bravo bestione alzò il rastrello a due mani e partì alla carica gridando: «Fatti in là, fratello;
fammi picchiare questa puttanona.»
La quale, alla vista del nuovo avversario, ricorse a un trucco: gettò un grido, lanciò fumo dalla
bocca e fuoco dalle narici, e venne avanti roteando il suo tridente con una tale velocità che non si
capiva quante mani avesse. Gli assalti di Scimmiotto e di Porcellino si arrestarono davanti a quel
visibilio di colpi di punta e di taglio.
«Sei un bell’imbranato, Consapevole del Vuoto» gridava l’orchessa. «Io so chi sei, ma tu non mi
conosci. Non lo sai che mi teme anche il tuo Buddha del Monastero del Colpo di Tuono? Poveri
meschini, che cosa credete di fare? Fatevi sotto, che riceverete una batosta come si deve!»
Fu uno scontro memorabile:
La forza dell’orchessa si contrappone alla collera di Scimmiotto. L’Ammiraglio dei Canneti Celesti, avido di gloria,
mostra le sua capacità con il rastrello. Lei fa fuoco e fiamme, e rotea il tridente con molte mani; gli avversari balzano
nelle nuvole veloci e potenti.
Tutto ciò perché l’orchessa cerca un compagno, mentre il monaco non acconsente a cederle la sua essenza primaria. È la
lotta senza quartiere dello yin e dello yang mal assortiti. Lo yin, nutrito nella quiete e nel buio, si agita perché aspira alla
gloria; invece lo yang aspira alla quiete, evita i desideri e si mantiene puro. Fra i due non c’è concordia; il tridente gioca
il tutto per tutto contro il rastrello e la sbarra. Il rastrello è potente e la sbarra ancor più, ma il tridente d’acciaio della
donna rende dente per dente. Nessuno vuol cedere sul Monte del Nemico Mortale, non si dà quartiere nella Grotta del Pi
Pa! Lei si rallegra di aver trovato un compagno nel monaco cinese, ma loro sono ben decisi a ricondurre il reverendo
alla ricerca dei veri sutra. Una battaglia che muove cielo e terra, oscura gli astri di giorno e di notte, fa tremare le stelle.
Lo scontro a tre proseguì per un bel pezzo senza vinti né vincitori, finché la creatura ricorse al
colpo segreto del dardo che rovescia il cavallo: diede un balzo e colpì Scimmiotto sotto la pelle del
cranio, senza che lui se ne rendesse conto.
«Ahi!» urlò il ferito; e l’insopportabile dolore lo costrinse a rompere il contatto e a fuggire.
Porcellino vide che le cose si mettevano male e batté in ritirata anche lui, trascinandosi dietro il
rastrello. L’orchessa vittoriosa ripose il suo tridente.
Scimmiotto si stringeva la testa fra le mani, con la fronte aggrottata e il viso deformato dal
dolore. Gemeva: «Che male tremendo!»
Porcellino gli chiese: «Fratello, che cosa ti è successo per tirarti indietro nel bel mezzo del
tafferuglio?»
«Sapessi che male mi fa» diceva Scimmiotto stringendosi la testa.
«È un attacco di emicrania?»
«Nemmeno per sogno.»
«Ma non sei ferito. Da dove viene, il tuo mal di testa?»
«Non ne posso più!» gemeva Scimmiotto. «Quando si è vista in difficoltà con il tridente ha fatto
un balzo e mi ha punto la testa, non so come. E mi ha provocato un dolore tale che mi sono dovuto
ritirare.»
«Altre volte ti sei vantato della tua zucca dura trasmutata» osservò ridendo Porcellino. «Come
mai questa volta non sai resistere a una punzecchiatura?»
«La mia testa è stata trasmutata davvero; e quando in cielo volevano decapitarmi, ce la misero
tutta, con sciabola, ascia, mazza, spada; poi Laozi mi mise a cuocere in forno per quarantanove
giorni, e io ne uscii senza fare una piega. Mi chiedo che cos’abbia fatto quella donna alla mia testa.»
«Togli la mano, fammi vedere. Non c’è niente di rotto?»
«Non mi pare.»
«Torno giù nel regno dei Liang a procurarmi qualche pomata lenitiva.»
«A che servono le pomate? Non ho gonfiori né tagli.»
«Fratello» replicò Porcellino sghignazzando, «me la cavavo meglio io quand’ero incinto. A me si
gonfiava la pancia, a te si gonfia la testa; forse perché tu sei più intelligente.»
«Non è il caso di scherzare» intervenne Sabbioso. «Nostro fratello è ferito alla testa, non
sappiamo nemmeno se il maestro è ancora vivo e sta scendendo la notte. Che facciamo?»
«Il maestro non ha niente» riferì Scimmiotto. «Mi ero trasformato in ape e ho trovato la donna
seduta in un chiosco fiorito. Due servette hanno portato dei panini al vapore, altre hanno
accompagnato il maestro perché mangiasse qualcosa e si rassicurasse. Lei gli ha fatto una
dichiarazione. Prima il maestro non rispondeva e non toccava il cibo, poi ha aperto bocca per dire
che preferiva i panini vegetariani. Può darsi che le belle parole incominciassero a far breccia. La
donna ha spezzato un panino imbottito di soia e glielo ha offerto, e il maestro di rimando ne ha
offerto a lei uno di carne. ‘Perché non lo spezzate?’ ha chiesto lei. Lui ha risposto che, come
monaco, non osava spezzare pane non vegetariano. Lei ha ribattuto che si era pur dato da fare con le
acque del Fiume della Maternità, ma il maestro non ha capito il doppio senso e le ha risposto con
degli adagi. Mi è parso che corresse il rischio di farsi infinocchiare e, per interromperli, ho ripreso
la mia forma e ho attaccato. Il maestro è stato portato nelle stanze interne. Il resto lo avete visto.»
Sabbioso si mordeva le dita e commentava: «Non so come, ma quella sudiciona doveva seguirci
da un pezzo, perché sa tutto quello che ci è capitato.»
«E allora» disse Porcellino, «non è il caso che ce ne stiamo con le mani in mano. Bisogna andare
alla sua porta e provocarla a combattere; giorno e notte bisogna urlare e picchiare, per tenerla
occupata e impedirle di farsi il nostro maestro.»
«Per conto mio ho troppo mal di testa» rispose Scimmiotto. «Mi dispiace, ma non posso.»
«Non è necessario tenerla sotto pressione» assicurò Sabbioso. «Da un lato nostro fratello ha mal
di testa, d’altro lato il maestro è un vero monaco e non si farà certo sedurre dalle vanità del sesso.
Sarà meglio che ci troviamo un cantuccio riparato dal vento e che ricuperiamo le forze. Quando si
farà giorno discuteremo sul da farsi.»
I tre condiscepoli legarono il cavallo bianco, scaricarono i bagagli e si stesero a dormire.
Intanto l’orchessa raccomandò alle servette di chiudere e vigilare bene le porte: due di loro
dovevano dare l’allarme al minimo rumore sospetto. Poi prese un’aria mondana e ordinò: «Ragazze,
preparate la mia camera da letto, accendete le candele e riempite d’incenso il brucia profumi. Poi
portatemi il monaco cinese: voglio darmi bel tempo con lui.»
Quando le portarono il reverendo, l’orchessa assunse un’aria seducente, lo prese per mano e gli
disse: «Conoscerai il detto: in confronto al piacere più bello, l’oro non vale un ravanello.
Divertiamoci da marito e moglie.»
Il reverendo stringeva i denti. Avrebbe voluto scappar via, ma temeva di spingerla al delitto e si
rassegnò a seguirla in camera tutto tremebondo. Stava muto e inebetito, incapace di alzare gli occhi,
cieco agli arredi, ai begli oggetti e alle comodità. Le proposte impudiche di quella creatura non le
sentiva nemmeno. Che bravo monaco!
Non vedevano gli occhi quanto il male è attraente,
Le orecchie non udivano le parole lascive.
Oro, perle, broccati, il viso che lusinga
Per lui son spazzatura. La sua sola passione
Nella vita è votarsi alla meditazione.
Mai non lasciò il suo Buddha; come potrà apprezzare
Pelle liscia di giada e profumo di donna,
Lui capace soltanto di coltivar sé stesso?
Se lei, piena di vita, da mille desideri
Viene agitata, lui se ne sta tetro e inerte.
Lei tutta tenerezze, lui solo stoppa e ceneri.
Lei sul letto nuziale si offre lascivamente,
E lui guarda il soffitto, serrando la sua tonaca.
Lei, petto contro petto, vuole allacciar le cosce
Come fenici in estasi; lui sente il desiderio
Di restar faccia al muro dentro una buia cella
E sfidar Bodhidharma nell’immobilità.
La donna si spoglia per far apprezzare la sua pelle dolce e profumata; il monaco cinese si copre meglio, per nascondere
le sue rozze carni.
«Guarda quanto posto c’è sul guanciale e sotto le lenzuola. Perché non ti vieni a coricare?» chiede l’orchessa.
«Il mio cranio è tonsurato, vesto l’abito monastico: non posso tenerti compagnia» risponde il monaco cinese.
«Sono pronta a fare come fece nell’antichità Liu Cuicui» dice lei.
«Il povero monaco che sono non è l’âcârya Chiar di Luna» risponde lui.
«Sono più bella di Xi Shi» replica l’orchessa.
«La conseguenza fu che il re di Wu morì e fu sepolto» dice il monaco cinese.
«Ricordi» dice lei, «i versi:
Meglio morir tra i fiori
Che in qualsiasi altro luogo,
Ed essere un fantasma
Col gusto della vita.»
«Il mio autentico yang non è tesoro che io possa sprecare per te, scheletro imbellettato.»
Continuarono queste schermaglie fino a notte avanzata, ma Tripitaka non dava segno di cedere.
Per quanto l’orchessa tirasse e spingesse con ogni impegno, non c’era verso di smuovere il
reverendo dal suo rifiuto. A mezzanotte lei perse la pazienza e gridò: «Ragazze, portatemi le corde.»
Lo legò come un salame e lo fece appendere sotto la tettoia. Poi si spensero le luci, ciascuno si
coricò e il resto della notte trascorse tranquillo.
Il gallo aveva già cantato tre volte, ma nella grotta non lo avevano sentito. Fuori sulla montagna,
Scimmiotto si stirò dicendo: «La testa mi ha fatto male per un pezzo, ma ora è rimasto soltanto un
po’ di prurito.»
«Per far passare il prurito servirebbe un’altra puntura. Che ne dici?» sogghignò Porcellino.
«Sei il solito maligno codardo» brontolò Scimmiotto sputando.
«Codardo?» rise Porcellino. «Sarà il maestro che si sarà rotto la coda.»
«Basta con i litigi» esortò Sabbioso. «È giorno: non perdiamo tempo e andiamo a catturare la
creatura malefica.»
«Resta dove sei, fratello» disse Scimmiotto, «e occupati del cavallo. Andremo noi.»
Il bestione raccolse le energie, si strinse alla vita la tunica di cotone nero e seguì il Novizio. Con
le armi in pugno balzarono sulla rupe e giunsero in breve davanti allo schermo di pietra.
«Aspettami qui» disse Scimmiotto. «L’orchessa questa notte avrà teso le sue insidie al maestro, e
sarà bene che ci informiamo dell’esito. Se ha vinto, lui ha perduto il suo yang primordiale e la sua
virtù è distrutta: in questo caso sarebbe inutile continuare il viaggio. Se invece lui ha respinto
l’attacco, bisognerà che continui a resistere finché riusciremo ad ammazzare l’essere malefico.»
«L’alternativa non esiste» sogghignò Porcellino. «Dice il proverbio: il pesce secco non è cuscino
per il gatto. Comunque siano andate le cose, è impossibile che lei non abbia potuto arraffare
nemmeno un bocconcino.»
«Smetti di malignare! Vediamo piuttosto come sono andate le cose.»
Il grande santo scomparve dietro lo schermo di pietra e tornò a trasformarsi in ape, volò dentro la
porta e vide le due servette che dormivano con la testa appoggiata sulle loro raganelle da guardiano
notturno, come se fossero guanciali. Fece una ricognizione nel chiosco fiorito: tutte le servette, che
avevano fatto chiasso fino a mezzanotte, dormivano ancora una accanto all’altra e non si rendevano
conto che era già giorno chiaro. Scimmiotto volò verso le stanze interne e udì la voce di Tripitaka:
lo trovò legato e appeso sotto la tettoia. Gli si posò sulla testa e chiamò piano: «Maestro!»
«Sei tu, Consapevole del Vuoto?» rispose il maestro riconoscendo la voce. «Tirami fuori da qui,
salvami la vita!»
«Tutto bene, la notte passata?»
«Piuttosto morire che commettere cose simili» sibilò Tripitaka serrando i denti.
«Ieri mi pareva tenera e affettuosa con voi. Perché ora vi tratta così?»
«Mi ha perseguitato per metà della notte, senza che io slacciassi la cintura o mi accostassi a lei.
Quando ha visto che non ero disposto a sottomettermi, mi ha fatto legare in questo modo. Ti
supplico, liberami; dobbiamo ripartire per la nostra ricerca.»
Il rumore della conversazione svegliò l’orchessa che, per quanto crudele, non poteva risolversi a
rinunciare al monaco. Emergendo dal sonno aveva udito solo le ultime parole: ‘per la nostra
ricerca’. Balzò giù dal letto e chiese: «Quale ricerca ti induce a rifiutare la felicità coniugale?»
Scimmiotto, allarmato, volò subito via e uscì all’aperto, dove riprese il proprio aspetto e chiamò
Porcellino. Il bestione girò intorno allo schermo roccioso e chiese: «Allora, l’ha sverginato o no?»
«Non ancora» rispose ridendo Scimmiotto. «Lo ha stuzzicato ben bene ma poi, visto che non ci
stava, lo ha legato e appeso a un chiodo.»
«Che dice il maestro?»
«Dice che non ha slacciato la cintura e non si è accostato. Mentre mi raccontava queste cose,
l’orchessa si è svegliata e io sono filato via.»
«Bene: è ancora un vero bonzo. Dunque andiamolo a salvare.»
Il bestione, irruente come sempre, non aspettò altro, levò il rastrello e lo abbatté sulla porta con
tutte le sue forze: i battenti volarono in mille pezzi con un terribile schianto. Le ragazze che
dormivano sulle loro raganelle, risvegliate di soprassalto, corsero verso la porta interna urlando:
«Fateci entrare! Quei bruti hanno sfondato la porta!»
L’orchessa uscì dalla sua camera, mentre quattro o cinque servette correvano da lei: «Signora,
quei due orribili omaccioni hanno demolito la porta d’ingresso.»
«Ragazze» rispose la creatura, «preparate l’acqua del mio bagno e portate il fratello imperiale,
legato com’è, nella stanza sul retro. Aspettate che faccia piazza pulita di quei fannulloni.»
Brava orchessa! Uscì brandendo il suo tridente e gridando: «Scimmia maledetta! Porco maiale!
Brutti maleducati! Come vi permettete di sfondarmi l’uscio?»
«Puttanaccia bisunta!» gridò di rimando Porcellino. «Ti permetti di lamentarti dopo aver trattato
in quel modo il nostro maestro? Tu che l’hai intrappolato con l’intenzione di farne il tuo
scaldapiedi! Restituiscilo prima che sia troppo tardi! Provati a dire di no, e spiano te con tutta la tua
montagna.»
Senza altri scambi di vedute l’orchessa raccolse le forze e, con lo stesso procedimento del giorno
prima, incominciò a buttare fumo e fiamme. Alzò il tridente per colpire Porcellino, che schivò e le
rispose con un colpo di rastrello, mentre Scimmiotto lo appoggiava con la sua sbarra. La creatura
parava magicamente i colpi da tutte le parti e sembrava dotata di un numero incredibile di mani.
Dopo quattro o cinque scontri, fu Porcellino a ricevere una puntura al labbro. Con quale arma?
Mistero. Il bestione cercò scampo nella fuga, mordendosi la parte ferita e trascinandosi dietro il
rastrello, con i segni del più vivo dolore. Scimmiotto, preoccupato, fece una finta con il randello e si
disimpegnò a sua volta. L’orchessa tornò indietro in trionfo e ordinò alle ragazze di disporre pietre
per bloccare l’ingresso.
Sabbioso faceva pascolare il cavallo sul declivio, quando udì singhiozzi e piagnucolii, e vide
arrivare Porcellino che gemeva e si copriva la bocca con le mani.
«Che cosa ti è capitato?»
«È spaventoso, mai sentito un dolore simile.»
Ed ecco sopraggiungere Scimmiotto: «Bravo bestione!» sogghignò. «Ieri ti divertiva la mia
bozza sulla testa, ma oggi sei tu che ti sei preso una bella peste sulle labbra.»
«Non ce la faccio più!» ansimava Porcellino. «È un dolore insopportabile.»
Mentre i tre si trovavano nei guai, si vide comparire una vecchina che reggeva in mano un
paniere verde di bambù.
«Fratello» suggerì Sabbioso, «guarda quella vecchia: le potremmo chiedere informazioni su
questa creatura, chi è e come fa a colpire in questo strano modo.»
«Resta qui, la interrogo io» disse Scimmiotto. Ma osservandola attentamente notò l’aureola di
nubi sopra il suo capo e l’alone profumato che la circondava.
«Fratelli!» gridò il Novizio quando la riconobbe. «Che cosa aspettate? Venite a prosternarvi: è la
nostra pusa!»
Porcellino, malgrado il dolore, si gettò in ginocchio; Sabbioso si inchinò tenendo il cavallo per le
briglie e Scimmiotto si inginocchiò anche lui a mani giunte: «Salve, efficientissima pusa Guanyin,
sempre misericordiosa e compassionevole!»
Dal momento che l’avevano riconosciuta, Guanyin montò sulle nuvole e a mezz’altezza riprese
la sua forma, quella con il paniere dei pesci. Il Novizio la raggiunse per aria e dichiarò
rispettosamente: «Scusate i vostri discepoli se non sono venuti ad accogliervi. Eravamo impegnati
nei nostri sforzi per togliere il maestro dai guai e non sapevamo che ci avreste fatto l’onore di una
visita. Speriamo ardentemente che ci aiuterete nella prova a cui ci sottopone questa diavolessa, che
non è facile da maneggiare.»
«Anzi, è un mostro dei più temibili» rispose Guanyin. «Il suo tridente è fatto di due pinze che fin
dalla nascita formano le sue zampe anteriori. Sulla coda ha un pungiglione ricurvo che infligge
punture dolorose e si chiama dardo che rovescia il cavallo. Si tratta di uno spirito scorpione che ha
sentito predicare il Buddha nel Monastero del Colpo di Tuono; il Beato la respinse con la mano, e
lei lo punse al pollice. Anche lui ne ebbe un dolore intollerabile e la fece arrestare dai guardiani
portatori di folgore. Poi fu liberata e venne qui. Ma non chiedete aiuto a me per salvare il vostro
maestro, rivolgetevi a qualcun’altro: io non sopporto le punture degli scorpioni.»
«Ditemi allora a chi mi devo rivolgere» chiese Scimmiotto, «in modo che possa chiedere il suo
intervento.»
«Va alla porta est del Cielo e sollecita il preposto alla costellazione delle Pleiadi, che risiede nel
Palazzo della Chiarità: con il suo aiuto potrai sconfiggerla.»
E si trasformò in un raggio luminoso che dardeggiò verso i mari del Sud.
Scimmiotto discese a informare Porcellino e Sabbioso: «Rassicuratevi fratelli; una costellazione
ci aiuterà a salvare il maestro.»
«Di quale costellazione si tratta?» chiese Sabbioso.
«La pusa dice di rivolgersi alle Pleiadi. Aspettatemi qui, vado e torno.»
«Fratello» fece Porcellino torcendo la bocca dolorante, «chiedi anche un farmaco per calmare il
male.»
«Non occorrono farmaci; ti passerà durante la notte, come è accaduto a me.»
«Basta con le chiacchiere. Vai!» esortò Sabbioso.
Che bravo Novizio! Con un balzo nelle nuvole si catapultò alla porta orientale del Cielo, dove
incontrò il guardiano Anima Lunga che lo salutò: «Dove andate, grande santo?»
«Nel viaggio verso l’Occidente, in cui sono incaricato della protezione del monaco cinese,
abbiamo incontrato una diavolessa pericolosa; devo passare dal Palazzo della Chiarità per parlarne
con l’ufficiale delle Pleiadi.»
Si fecero avanti per informarsi anche i grandi marescialli Tao, Zhang, Xin e Deng.
«Stamane l’ufficiale delle Pleiadi ha avuto dall’Imperatore di Giada la consegna di ispezionare la
Terrazza della Contemplazione delle Stelle.»
«Ne siete sicuri?»
«Siamo usciti insieme a lui dal Palazzo dell’Orsa Maggiore» rispose il maresciallo Xin. «Non
avremmo certo l’audacia di mentire.»
«Ma è partito da un pezzo e non dovrebbe tardare a rientrare» soggiunse il maresciallo Tao.
«Provate a recarvi al Palazzo della Chiarità, grande santo; se non ce lo trovate, potrete raggiungerlo
alla Terrazza.»
Scimmiotto ringraziò delle informazioni e se ne andò. In effetti al Palazzo della Chiarità non
c’era nessuno. Ma quando stava per allontanarsi, vide marciare a ranghi serrati un plotone militare
seguito dall’ufficiale delle Pleiadi, che portava ancora l’abito da cerimonia dell’udienza imperiale,
intessuto di fili d’oro. Guardate:
Le cinque punte d’oro scintillan sul berretto,
Regge alta nella mano un’insegna di giada,
Sette stelle del Nord son trapunte sull’abito,
La sua cintura reca un disegno d’ottagoni.
Numerosi pendenti ad ogni movimento
Si urtano rimandando suono di campanelle.
Il ventaglio di piume turchese viene aperto,
Fumano nel braciere le braci dell’incenso
E giunge nella corte l’importante ufficiale.
I soldati della prima fila corsero subito a riferirgli: «Signore, il grande santo è qui.»
L’ufficiale astrale dissolse la sua nuvola, si aggiustò il costume da cerimonia e si fece avanti per
salutare e chiedere: «Che cosa vi conduce qui, grande santo?»
«Sono passato a salutarvi e a importunarvi per aiutare il mio maestro, che è in difficoltà.»
«Dove si trova?»
«Nella Grotta del Pi Pa, sulla Montagna del Nemico Mortale, nel Regno dei Liang dell’Ovest.»
«Quale mostro abita quella grotta, perché vi serva l’aiuto dell’umile divinità che sono?»
«La pusa Guanyin dice che si tratta di uno scorpione e ha raccomandato di rivolgersi a voi come
all’unico che possa porvi rimedio. Ecco perché vi sono venuto a sollecitare.»
«Avrei preferito fare prima rapporto all’Imperatore di Giada. Ma dal momento che siete qui e che
non vorrei fare cattive figure con Guanyin, proporrei di partire subito, senza bere nemmeno una
tazza di tè, per limitare i rischi. Distruggiamo senza indugio questa creatura; il mio rapporto lo
presenterò a cose fatte.»
Uscirono insieme dalla porta orientale del Cielo e subito raggiunsero il paese dei Liang
dell’Ovest. «Ecco la montagna» disse il Novizio indicandola. Presero terra ai piedi dello schermo
roccioso. Quando li vide arrivare Sabbioso disse a Porcellino: «Alzati, arriva nostro fratello con chi
ci deve aiutare.»
«Scusate tanto» balbettò a fatica il bestione, che aveva ancora il labbro gonfio. «Sono malato,
perciò non vi posso salutare come si deve.»
«È strano, per un monaco praticante» si stupì l’ufficiale astrale. «Quale malattia avete
contratto?»
«Stamane quella bestia mi ha punto sul labbro, mentre stavo combattendo con lei; e ancora mi
duole.»
«Venite qui, che vi curo.»
Il bestione tolse la mano con cui copriva la bocca e balbettò: «Vi prego, guaritemi. Quando
l’avrete fatto vi saprò ringraziare.»
L’ufficiale astrale palpò il labbro, ci soffiò sopra e il dolore scomparve. Porcellino, felice, si
inchinò profondamente: «Che meraviglia!»
«Potreste dare un’occhiata anche alla mia testa?» chiese Scimmiotto ridendo.
«Perché? Voi non siete stato punto.»
«Sì, ieri è accaduto anche a me, e c’è voluta tutta la notte perché il dolore si attenuasse. Ma sento
ancora prurito e non vorrei che stasera ricominciasse a dolere. Sarebbe meglio che guariste anche
me.»
L’ufficiale astrale fece le stesse operazioni sulla testa di Scimmiotto e dissipò gli ultimi effetti del
veleno.
«E adesso andiamo a schiacciare quella maledetta sudiciona» gridò Porcellino pieno di baldanza.
«D’accordo» approvò l’ufficiale astrale. «Fatela uscire dal suo covo: ad abbatterla penso io.»
Scimmiotto e Porcellino aggirarono lo schermo roccioso. Il bestione, senza mai smettere di
gridare insulti, distrusse con il suo rastrello la barriera di pietre che era stata accumulata davanti alla
porta rotta e si sbarazzò dei detriti usando le mani come panieri. Attaccò poi la porta interna, che
volò in pezzi al primo colpo di rastrello. Le servette, ali ai piedi, corsero ad annunciare: «Signora,
sono ritornati i bruti e ci hanno sfondato anche la porta interna.»
L’orchessa stava appunto liberando il monaco cinese dai suoi legami per servirgli un pranzetto di
magro; udendo la notizia, balzò fuori dal chiosco e si lanciò contro Porcellino roteando il tridente.
Lui l’accolse con il rastrello, mentre Scimmiotto lo spalleggiava con la sua sbarra. L’orchessa li
incalzava allo scopo di portarsi a distanza utile per praticare il suo velenoso giochetto, ma i due
compagni, che sapevano che cosa si potevano aspettare, volsero le spalle e fuggirono. La creatura li
inseguì sulla montagna; quando ebbe superato lo schermo roccioso, il Novizio gridò: «Pleiadi, dove
siete?»
L’ufficiale astrale era salito in alto sul pendio e aveva assunto il suo vero aspetto, che era quello
di un gigantesco gallo a doppia cresta: dritto sulle zampe era alto sei o sette piedi. Lanciò un
possente chicchirichì non appena vide il mostro, che riprese anche lui il suo vero aspetto: era un
enorme scorpione, grande come un pi pa. Al secondo chicchirichì la creatura si contorse fra gli
spasimi e morì.
Lo attestano i versi:
Cresta fiorita, floridi bargigli,
Taglienti artigli e speroni possenti,
Fissa gli occhi furiosi e attacca impavido
Coi suoi gridi di guerra. Non è un pollo,
Questo, di bassa corte: fra le stelle
Ha un posto di rilievo. Lo scorpione
Cerca invano rifugio in forma umana,
Ma deve rivelar le sue fattezze.
Porcellino le pose il piede sull’addome: «Bestiaccia immonda, il tuo dardo ha finito di rovesciar
cavalli.» E il corpo già immoto della creatura fu spiaccicato a colpi di rastrello. L’ufficiale astrale si
concentrò in un raggio luminoso e ritornò ai propri affari, mentre Scimmiotto, Porcellino e Sabbioso
rivolti al cielo esprimevano la loro gratitudine: «Vi abbiamo dato molto disturbo! Passeremo a
trovarvi uno dei prossimi giorni, per esprimervi la nostra riconoscenza.»
Quando i tre penetrarono nella grotta, le servette grandi e piccole si prosternarono dicendo:
«Signori, noi non siamo creature malefiche, ma donne del regno dei Liang che l’orchessa aveva
rapite. Il vostro maestro se ne sta tutto solo nel salottino posteriore, e non fa che piangere.»
Scimmiotto osservò attentamente l’atmosfera e constatò che in effetti non conteneva più miasmi
malefici. Perciò si inoltrò fino alle stanze posteriori chiamando: «Maestro!»
A vederseli davanti il monaco cinese non stava in sé dalla gioia. Disse loro: «Saggi discepoli, in
quanti guai vi ho coinvolto! Ma che ne è di quella donna?»
«Quella là? Non era una donna, ma un grosso scorpione femmina» spiegò Porcellino. «Il fratello
maggiore, grazie alle indicazioni della pusa Guanyin, ha ottenuto dall’ufficiale delle Pleiadi che
venisse ad abbatterla, e io l’ho spiaccicata coscienziosamente. Perciò abbiamo potuto spingerci
avanti senza pericolo per rivedere il vostro volto.»
Il monaco cinese si profuse in ringraziamenti. Trovarono riso e tagliatelle, con cui prepararono
un pasto vegetariano che consumarono di buon appetito. Dopo pranzo accompagnarono le ragazze
rapite ai piedi della montagna e mostrarono loro la strada per ritornare a casa.
Quando la grotta fu vuota, accesero una torcia e appiccarono il fuoco in vari punti, in modo che
l’incendio distruggesse tutto. Poi invitarono Tripitaka a rimontare a cavallo per riprendere la strada
maestra dell’Ovest. È il caso di dirlo:
Rotti i legami mondani,
Respinte le tentazioni,
Rifiutato il mare d’oro:
Quest’è la meditazione.
Se poi non sapete, in fin dei conti, quanti anni ci vollero per raggiungere e realizzare la Verità,
ascoltate il prossimo capitolo.
CAPITOLO 56
INCONTRO CON I BRIGANTI
IN CUI LA SCIMMIA DELLO SPIRITO, IN PREDA AL FURORE, PUNISCE I BRIGANTI; E LA VIA,
OTTENEBRATA NELLA PERSONA DEL MAESTRO, LA SCACCIA.
Come si esprime il poema:
Diciamo puro il vuoto basamento
Dello spirito, sgombro da pensieri.
Alla briglia la scimmia ed il cavallo,
Non cercar gloria: scaccia i sei briganti
E attendi ai tre veicoli. Ogni ostacolo
Caduto, giungi all’illuminazione.
Vinta per sempre la sensualità
Gioia assoluta avrai nell’Occidente.
Il racconto ha detto come Tripitaka conservò intatto il suo corpo con una determinazione che gli
avrebbe consentito di mordere chiodi e masticare ferro, e come Scimmiotto e compagni uccisero lo
scorpione e lo liberarono. Nelle tappe successive non incontrarono accidenti degni di nota, e presto
ritornò l’estate. Era quando
La brezza è profumata d’orchidee
E l’acquazzone rinfresca il bambù.
Invade l’artemisia le colline,
Fiori e canneti coprono i ruscelli.
Sono attirate le api vagabonde
Dal melograno; si affolla di uccelli
L’ombra dei salici. Come scambiarsi
I dolci triangolari della festa
Del Doppio Cinque e godersi la gara
Delle barche, lontano da ogni fiume?
Maestro e discepoli camminavano godendosi questo paesaggio del trionfo dello yang, mentre
trascorreva la festa del solstizio d’estate, quando videro un’alta montagna sorgere sulla loro strada.
Il reverendo tirò le redini e volse la testa per ammonire: «Consapevole del Vuoto, su una
montagna simile bisogna stare attenti: temo che incontriamo altre creature malefiche.»
«Maestro, rassicuratevi. Abbiamo abbracciato con sincerità la nostra fede, in essa rimettiamo il
nostro destino e perciò non abbiamo niente da temere.»
Confortato da queste parole, il reverendo frustò il suo cavallo drago per riprendere il cammino.
Giunsero in breve sull’orlo di una rupe e guardarono davanti a sé: che spettacolo! [...]
L’ascesa fino alla vetta fu lunga e faticosa; discesero poi lungo il versante occidentale, dove
trovarono un tratto pianeggiante soleggiato. Porcellino, che voleva far mostra di energia, diede i
bagagli a Sabbioso e corse a incitare il cavallo agitando il suo rastrello. Ma esso mantenne il suo
ambio pacifico, senza farsi impressionare dagli urli e dalle minacce del bestione.
«Perché vuoi farlo correre, fratellino?» intervenne Scimmiotto. «Lascialo andare a modo suo.»
«Il fatto è che si fa tardi e mi è venuta una gran fame, dopo tutta quella arrampicata.
Sbrighiamoci a trovare un abitato dove si possa mendicare cibo.»
«Se è questo che vuoi, ci penso io.»
Bastò che lanciasse un grido e agitasse il suo randello, perché il cavallo si mettesse a galoppare
veloce come una freccia.
Perché il cavallo temeva il Novizio e non Porcellino? chiederete. Il motivo era che cinquecento
anni prima Scimmiotto era stato equipuzio nelle scuderie dell’Imperatore di Giada. È una tradizione
che dura ancora: i cavalli hanno paura delle scimmie.
Le redini sfuggirono al reverendo, che dovette aggrapparsi alla sella. Il cavallo bianco riprese
l’ambio solo dopo aver galoppato per una ventina di li. D’un tratto si udì un colpo di gong e, dai lati
della strada, sbucò una trentina di uomini armati di lance, sciabole e bastoni: sbarravano il cammino
gridando: «Dove credi di andare, bonzo?»
Tripitaka si spaventò; tremava tanto che cadde da cavallo, e rovesciato nell’erba balbettava:
«Pietà, risparmiatemi, grandi re!»
«Non ti toccheremo» gli dissero due omaccioni che dovevano essere i capi, «a patto che tu ci dia
il tuo viatico.»
Solo allora il reverendo si rese conto di essere incappato nei briganti di strada. Si alzò in piedi e
li guardò:
Uno ha la faccia vinosa e i denti in fuori, eclisse della stella della disgrazia; l’altro, con i globi sporgenti dei suoi
occhiacci, promette funerali. Irti capelli rossi incendiano le loro tempie; setolosi peli giallastri costellano di spine il loro
mento. Berretti di pelle di tigre calcati in capo, gonnelle da battaglia di martora cinte alla vita; uno stringe un bastone
armato di denti di lupo, l’altro appoggia sulla spalla uno staffile nodoso di giunchi. Fanno pensare alla tigre di montagna
e al drago che sorge improvviso dall’acqua.
Davanti a quei ceffi patibolari, Tripitaka giunse le mani davanti al petto e implorò: «Grandi re, il
povero monaco che sono è inviato dal sovrano dei Tang delle terre dell’Est a cercare le scritture nel
Paradiso dell’Ovest. Ho lasciato Chang’an da tanti anni, che non mi resta nulla del mio viatico. Noi
che abbiamo lasciato le nostre famiglie viviamo di elemosine. Come potremmo avere denaro con
noi? Ripongo ogni speranza nella vostra misericordia: lasciate andare l’umile monaco che sono!»
«Il nostro è mestiere da tigri» risposero i due capi. «Non blocchiamo la strada maestra per
divertirci, ma per far grana. Non perdere tempo a sviolinare di misericordia: se non hai soldi
spogliati, lascia i vestiti e il cavallo, e potrai passare.»
«Emituofo!» supplicò Tripitaka. «Ho mendicato questo vestito pezzo per pezzo: chi mi ha dato la
stoffa, chi ha donato le cuciture. Se mi spogliate mi condannate a morte. Non avete che questa vita
per agir bene, nella prossima rischiate di trovarvi mutati in bestie selvagge.»
Uno dei briganti si innervosì e alzò un gran randello per assestargli un colpo in testa. Il reverendo
pensava: «Infelice! Credi di avere un buon randello, ma non hai visto quello del mio discepolo.»
Davanti al bastone levato il reverendo, che in vita sua non aveva mai mentito, si lasciò andare a
un trucchetto di bassa lega: «Non toccarmi! Mi seguono dei discepoli: sono loro che portano i soldi,
parecchi tael d’argento. Prendete quelli.»
«Non c’è gusto a picchiare questo bonzo meschino, che andrebbe subito fuori combattimento.
Legatemelo bene.»
I briganti si gettarono su di lui, lo legarono e lo appesero al ramo più alto di un albero.
Intanto i tre discepoli inseguivano il cavallo. «Il maestro è partito a tutta birra, mi chiedo se gli
verrà in mente di fermarsi ad aspettarci» diceva Porcellino ridendo. Quando vide il maestro appeso
all’albero esclamò: «Guardate che roba! Non gli bastava aspettare, si è arrampicato su una pianta e
fa l’altalena con le liane.»
«Scemo!» disse Scimmiotto. «Non vedi che qualcuno l’ha legato? Avanzate piano, che io vi
precedo per osservare la situazione.»
Salì su un’altura e vide che si trattava di una banda di briganti. «Che bellezza! Finalmente trovo
un’occasione di divertirmi.»
Con una scossa si trasformò in un bonzetto sui sedici anni, vestito di nero e con la bisaccia
azzurra sulle spalle. Andò a gran passi sotto l’albero, guardò su e chiese al maestro: «Che cosa
significa? Chi sono questi cattivi?»
«Discepolo, non fare tante domande, tirami giù.»
«Ma questa gente chi è?»
«Sono briganti da strada che mi hanno fermato e vogliono soldi. Visto che non ne avevo, mi
hanno appeso qui per aspettarvi: altrimenti avrei dovuto cedergli il cavallo.»
«Maestro» si mise a ridere Scimmiotto, «come al solito non siete all’altezza della situazione.
Non sarà facile trovare altri bonzi malleabili come voi. Voi siete mandato in missione da Taizong,
imperatore dei Tang: nessuno vi può privare del vostro cavallo drago.»
«Caro discepolo, che ci posso fare? Vedi come mi hanno appeso. E se si fossero divertiti a
picchiarmi?»
«Voi che cosa avete detto?»
«Mi hanno fatto perdere il sangue freddo; ho dovuto parlare di te.»
«Avreste potuto divagare. Che bisogno c’era di tirarmi in ballo?»
«Per non farmi picchiare ho detto che tu avevi denaro, è stato un sotterfugio per causa di forza
maggiore.»
«Va bene, non parliamone più. Grazie di avermi raccomandato a questa gente. Anche se lo
faceste ventiquattro volte al mese, il vostro vecchio Scimmiotto non potrebbe che ringraziarvi.»
Vedendo il Novizio in conversazione con il maestro, i banditi si fecero avanti e li circondarono:
«Ehi, bonzettino! Tu tieni la grana sotto la cintura, ce l’ha detto il tuo maestro. Sgancia tutto, se
volete uscirne vivi! Provati a farfugliare mezza scusa, e vi facciamo a pezzi tutti e due.»
«Signori ufficiali» rispose Scimmiotto posando il sacco, «è inutile far baccano. Certo che ho qui
qualche riserva. Non è gran che: una ventina di lingotti d’oro e altri venti o trenta d’argento, senza
contare gli spiccioli. Se li volete prendetevi il sacco, ma non toccate il mio maestro. Come dicono
gli antichi libri: la virtù è fondamentale, le ricchezze sono secondarie; sono una cosa senza
importanza. Noialtri monaci abbiamo sempre la risorsa di mendicare. Quando incontriamo uno
spettabile donatore, ci dà vesti e regali: non manchiamo mai di niente. Tirate giù il maestro e
prendete pure quello che vi pare.»
Alla banda questa arringa piacque molto. Dicevano: «Il vecchio è uno spilorcio, ma il giovanotto
è di larghe vedute.» E calarono Tripitaka dall’albero.
Il reverendo si sentì rivivere, balzò a cavallo, lo frustò e partì al galoppo nella direzione da cui
era venuto, senza curarsi di Scimmiotto.
«Sbagliate strada!» gli gridò il Novizio, e prese il sacco per corrergli dietro. Ma i due capi
briganti lo impedirono: «Dove credi di andare? Il sacco lo lasci qui, se non vuoi che ti tostiamo a
modo nostro.»
«Visto che siamo fra gente che parla fuori dai denti» replicò ridendo Scimmiotto, «dividiamo i
fondi in tre.»
«Che bonzetto furbacchione!» disse uno dei due. «Vuol tenersi qualcosa all’insaputa del maestro.
Va bene: tu sgancia e facci vedere. Se i soldi sono tanti come dicevi, ti daremo la mancia per
comperarti le caramelle.»
«Non avete capito niente, belli miei» replicò Scimmiotto. «Che cosa credete? Io non ho un soldo.
I fondi da spartire sono quelli che avete ammucchiato voi, facendo il vostro mestiere.»
La proposta mandò i briganti fuori dai gangheri. Soffocando di rabbia urlavano: «Sfacciato!
Bonzo impunito! Non vuol mollare niente e si aspetta che lo facciamo noi! Sta fermo e vedrai che
cosa ti molliamo!»
Uno dei due capi picchiò con il suo staffile sette od otto volte il cranio rasato di Scimmiotto, che
non fece una piega e con un bel sorriso disse: «Amici miei, potete continuare a picchiare fino alla
prossima primavera, ma non serve a niente.»
«Che testa dura, questo bonzo!» esclamò meravigliato il brigante.
«Mi confondete» disse Scimmiotto ridendo. «Non merito tanti complimenti, ma devo ammettere
che me la cavo.»
I briganti gli saltarono addosso riempiendolo di botte.
«Calma, signori» disse Scimmiotto; «ho qualcosa da farvi vedere.»
Si tastò dietro l’orecchio e ne cavò un ago da ricamo: «Signori, noi monaci siamo poveri: non ho
altro da offrirvi che questo ago.»
«Che scalogna! Ci siamo lasciati scappare il bonzo ricco e c’è rimasto in mano questo
pidocchioso ciuco tonsurato. Che ce ne facciamo del tuo ago?»
Scimmiotto se lo rigirò fra le mani e lo trasformò in un grosso randello.
«Il giovincello ci sa fare, con la magia!» esclamò allarmato uno dei capi.
Scimmiotto piantò il randello per terra e dichiarò: «Lo do a chi riesce a prenderlo.»
I due capi si fecero avanti ma, poveretti, non riuscirono a spostarlo di un pelo: come libellule alle
prese con una colonna di marmo. Non potevano sapere che la sbarra cerchiata d’oro pesava
trentatremila libbre sulle bilance del Cielo. Scimmiotto si accostò, la sollevò senza sforzo e la puntò
sui malfattori, danzando la figura del pitone che si attorce e si srotola: «Che guaio vi càpita, siete
incappati proprio nel vecchio Scimmiotto! Oggi non avete fortuna...»
Un bandito tornò alla carica scaricandogli addosso una sessantina di colpi alla disperata, ma il
Novizio rise: «Ti stanchi le mani; ti restituirò un colpetto solo, col mio bastone, senza calcare
troppo la mano.»
Roteò la sbarra dandole il diametro di una vera di pozzo e un’ottantina di piedi di lunghezza.
Uno dei capi briganti ne fu sfiorato, cadde nella polvere e non si mosse più. L’altro si mise a
gridare: «Questa canaglia di monaco esagera! Invece di sganciare i soldi, ha ammazzato uno di
noi!»
«C’è tempo a tutto» replicò sorridendo Scimmiotto. «Uno per volta, troverete tutti quello che vi
spetta.»
Un altro tocco della sbarra uccise anche il secondo capo; il resto della banda, terrorizzato, scappò
da tutte le parti abbandonando le armi.
Intanto Tripitaka, che galoppava verso est, incontrò Porcellino e Sabbioso che trattennero il suo
cavallo: «Dove andate, maestro? Sbagliate direzione.»
«Discepoli» disse il reverendo, «correte ad avvertire il vostro compagno prima che sia troppo
tardi; ditegli di tener ferma la sua sbarra e di non uccidere i briganti.»
«Aspettatemi qui: vado e torno» disse il bestione, e rifece di corsa la strada gridando a
squarciagola: «Fratello, il maestro ti ordina di non ammazzare!»
«Non ho ammazzato nessuno» bofonchiò Scimmiotto.
«E allora i briganti dove sono?»
«Quei due là si sono addormentati, gli altri se la sono data a gambe.»
Porcellino si mise a ridere: «Li prenda la peste! Quei due devono essersi dati ai bagordi tutta
notte, per cadere addormentati senza cercare neppure un posto adatto per dormire.» E andò a
guardarli da vicino: «Fanno come me, dormono con la bocca spalancata e sbavano.»
«Il fatto è che gli ho spremuto il formaggio di soia dalla testa.»
«Quale formaggio avrebbe in testa la gente?»
«Gli ho fatto schizzare un pochino di cervella.»
Quando Porcellino intese che avevano la testa sfondata, ritornò di corsa da Tripitaka ad
annunciare: «I briganti si sono sbandati.»
«Molto bene. Da che parte sono fuggiti?»
«Sono rimasti sul posto: hanno preso una tale randellata che li ha fatti secchi. Dove potevano
fuggire?»
«Perché mi hai detto che si erano sbandati?»
«Be’, sono morti ammazzati: non è anche quello un modo di sbandarsi?»
«Come li ha ammazzati?»
«Gli ha fatto un buco in testa.»
«Apri il sacco, prendi un po’ di soldi e va subito a comprare una pomata.»
«Scherzate, maestro. La pomata cura bernoccoli e ferite dei vivi. A che serve spalmarla su un
cadavere?»
«Li ha proprio uccisi?» brontolò Tripitaka contrariato; e si mise a borbottare varie osservazioni
poco lusinghiere sulle scimmie. Si recarono tutti insieme nel luogo dove giacevano i cadaveri
coperti di sangue. Lo spettacolo era insopportabile per il reverendo, che ordinò a Porcellino: «Scava
una fossa per seppellirli, mentre io recito il sutra dei morti.»
«Sbagliate indirizzo, maestro» protestò Porcellino. «Li ha ammazzati Scimmiotto; tocca a lui
bruciarli o sotterrarli. Perché dovrebbe essere il vecchio Porcellino a fare il beccamorti?»
Il Novizio, messo di cattivo umore dai rimproveri del maestro, gridò: «Brutto fannullone!
Sotterrali e non stare a discutere. Se la fai lunga, ti farò assaggiare il mio randello.»
Il bestione si impaurì. Scavò con il suo rastrello una fossa profonda tre piedi in fondo al pendio;
raggiunse così uno strato roccioso in cui il suo attrezzo non aveva presa, lo abbandonò e si mise a
frugare col grugno. Scoprì un punto in cui la roccia era spezzata e in pochi colpi approfondì la fossa
di altri cinque piedi. Poi vi calò i corpi, li ricoperse e vi ammucchiò sopra un tumulo.
«Consapevole del Vuoto» disse allora Tripitaka, «vammi a cercare incenso e ceri, per la
cerimonia e la recitazione dei sutra.»
«Non vi rendete conto che siamo in mezzo alle montagne!» esclamò Scimmiotto con una smorfia
di disappunto. «Qui non ci sono né villaggi né botteghe. Anche se avessimo soldi, dove potremmo
procurarci ceri e incenso?»
«Spostati, scimmia zuccona» brontolò Tripitaka furioso. «Sostituirò l’incenso con un pizzico di
terra.»
In lutto il santo monaco,
Spinto dalla bontà,
Recita sulla tomba
Solitaria una prece.
«Vi saluto, uomini coraggiosi, e vi prego di ascoltare la mia preghiera e di intendere le mie
ragioni. Ricordate che io sono un cinese inviato in missione dall’imperatore Taizong per cercare i
testi dei sutra nel Paradiso dell’Ovest. Mentre passavo per questo territorio, ho incontrato per caso
la banda che avevate formato fra le montagne; io non vi conoscevo, non so nemmeno da quale
cantone o prefettura venite. Vi ho supplicato con dolci e civili parole, ma non mi avete ascoltato e
avete risposto alla bontà con l’ira. Allora vi siete imbattuti nel Novizio e siete caduti sotto i colpi
della sua sbarra. Per pietà dei vostri cadaveri esposti alle intemperie, li ho fatti seppellire sotto un
tumulo, ho usato rametti di bambù verde a guisa di bastoncini d’incenso e ho messo tutto il mio
cuore in questa povera cerimonia. Non posso offrirvi che pietre insensibili e insipide, ma lo faccio
con sincerità.
«Quando giungerete davanti al tribunale infernale, e si sradicherà l’albero per giudicarne le
radici, ricordate che lui si chiama Scimmiotto e io mi chiamo Chen: sono nomi diversi, ciascuno ha
il suo. Ogni torto al suo autore, ogni debito al suo debitore: non vi querelate contro di me, il monaco
in cerca delle scritture!»
«Maestro» commentò Porcellino ridendo, «siete bravo a discolpare voi stesso, ma nemmeno noi
due eravamo sul posto quando sono stati colpiti.»
Tripitaka riprese la preghiera raccogliendo un altro pizzico di terra: «Se vi querelate, uomini
coraggiosi, denunciate solo Scimmiotto: Porcellino e Sabbioso non c’entrano.»
Il grande santo sogghignò amaramente: «Grazie, maestro, apprezzo la dimostrazione di amicizia.
Per conto mio mi sono prodigato tante volte, mi sono dato tanta pena per voi in questa ricerca, e voi
ora incitate queste due canaglie di briganti a denunciarmi. Li ho uccisi per proteggere voi. Non sarei
qui e non mi sarei trovato in questa necessità, se non foste partito alla ricerca delle scritture e se io
non fossi divenuto vostro discepolo. Anch’io voglio fare un’invocazione a modo mio.»
Batté tre volte la sua sbarra sul tumulo e dichiarò: «Vi prenda la peste, briganti! Mi avete
picchiato davanti e di dietro; non mi sono certo messo a piangere, ma mi avete fatto perdere la
pazienza: la vostra sfortuna ve la siete andata a cercare. Ora che i miei colpi vi hanno ammazzato,
potete andare a raccontare tutto quello che volete: non farete certo paura al vecchio Scimmiotto.
«L’Imperatore di Giada mi conosce, i re celesti mi dànno retta, le ventotto case mi temono, i
nove luminari hanno paura di me. Si inginocchiano davanti a me gli dèi delle mura e dei fossati di
ogni prefettura e sottoprefettura. Uguale al Cielo del Picco dell’Est trema quando mi vede. I dieci
giudici dell’Inferno sono stati al mio servizio, gli dèi dei cinque cammini della fortuna si rivolgono
a me come a un fratello maggiore, i cinque direttori dei tre mondi e i ministri dei dieci orienti sono
tutti vecchie conoscenze e buoni amici. Andate a fare tutte le denuncie che volete.»
Tripitaka fu impressionato dalla violenza di questo discorso e si credette in dovere di aggiungere:
«Discepolo, con la mia preghiera intendevo soltanto inculcarti la virtù del rispetto della vita, perché
tu diventi buono e caritatevole: non dovevi prendermi sul serio.»
«Non mi sembra un’occasione adatta per gli scherzi» rispose Scimmiotto. «Comunque si sta
facendo tardi; dobbiamo cercare riparo per la notte.»
Il reverendo non poté far altro che dissimulare il proprio risentimento e risalire a cavallo.
Scimmiotto si sentiva ingiustamente offeso, a Porcellino e Sabbioso non era ignota la gelosia:
sotto l’apparente armonia, una sorda ostilità divideva maestro e discepoli. Mentre camminavano
lungo la strada maestra, videro al nord una fattoria. Si presentava bene:
Invasi i sentieri dai fiori selvatici, ombreggiato il portale da begli alberi. Dalla rupe lontana precipita una cascata, nei
campi pianeggianti crescono frumento e girasoli. Giuncheti umidi di rugiada circondano l’aereo padiglione, salici e
pioppi mossi dalla brezza dànno sostegno agli uccelli stanchi del volo. Il turchese dei cipressi rivaleggia con lo
smeraldo degli abeti. L’erigeron scarlatto domina il poligono in una gara di profumi. I cani del villaggio abbaiano, i galli
della sera cantano, vacche e montoni rientrano dal pascolo nella stalla. Il fumo dei focolari su cui cuoce il miglio si
confonde con le brume serali: è il momento in cui la casa alpestre va sfumando nel crepuscolo.
Il reverendo, che precedeva i compagni, vide un vecchio uscire da una capanna e lo salutò
giungendo le mani.
«Da dove venite, monaco?»
«Sono inviato dall’imperatore dei grandi Tang delle terre dell’Est alla ricerca delle scritture nel
Paradiso dell’Ovest. Poiché la nostra strada passa da queste parti e scende la sera, mi sono permesso
di venirvi a chiedere se potrei pernottare nella vostra residenza.»
«Il vostro nobile paese è talmente lontano da qui» si stupì sorridendo il vecchio, «che è difficile
credere che abbiate potuto superare da solo tanti fiumi e montagne.»
«Avete ragione. Sono accompagnato da tre discepoli.»
«Dove sono i vostri eminenti discepoli?»
«Eccoli laggiù, sul ciglio della strada maestra» rispose Tripitaka additandoli.
Il vecchio alzò lo sguardo e, alla vista di quelle facce spaventose, voleva correre a rinchiudersi in
casa. Ma Tripitaka lo trattenne dicendogli: «Rispettabile donatore, vogliate avere l’immensa
compassione di darci un giaciglio per la notte.»
Il vecchio tremava, faceva di no con la testa e agitava le mani, mentre i suoni gli uscivano a
stento dalla gola serrata: «Non hanno aspetto umano... Sono mostri...»
«Non temete, caro donatore» insisté Tripitaka sorridendo. «I miei discepoli non sono mostri;
sono fatti così fin dalla nascita.»
«Ma, reverendo, sono uno yaksa, un diavolo a muso di cavallo e il duca del tuono!»
Questi epiteti fecero arrabbiare Scimmiotto, che urlò a squarciagola: «Eccolo qua Scimmiotto,
duca del tuono! Lo yaksa è il mio pronipote e il diavolo a muso di cavallo il mio bis pronipote!»
Il vecchio sentì le sue anime abbandonarlo e pensava solo a rifugiarsi in casa. Tripitaka lo
accompagnò verso la capanna sostenendolo e dicendogli: «Caro donatore, non dovete aver paura di
loro; sono semplicemente delle persone grossolane, che non sanno parlare educatamente alla
gente.»
Mentre così lo confortava, comparve una donna che teneva per mano un bambino di cinque o sei
anni. «Babbo, che cosa ti spaventa tanto?»
«Prepara il tè, mamma» articolò a fatica il vecchio.
La donna lasciò il bimbo e rientrò per preparare il tè. Dopo averlo bevuto, Tripitaka si alzò dalla
seggiola su cui si era seduto, per salutare la donna: «L’umile monaco che sono è inviato dai grandi
Tang delle terre dell’Est alla ricerca dei sutra. Quando siamo giunti nel vostro nobile paese, ho
sollecitato il favore di poter passare una notte nella vostra residenza. Ma il brutto aspetto dei miei
tre discepoli ha provocato questo timore ingiustificato del venerato capo famiglia.»
«Tanta paura solo perché sono brutti?» si stupì la donna. «Che ti succederebbe se vedessi una
tigre o una pantera?»
«Mamma, non sono tanto le loro facce a terrificarmi, quanto il loro modo di parlare. Ho detto
che sembravano uno yaksa, un diavolo a testa di cavallo e il duca del tuono; allora l’ultimo dei tre
mi ha risposto che si chiamava Scimmiotto, e che gli altri erano i suoi discendenti. È questo che mi
ha fatto paura.»
«Ma no!» disse Tripitaka. «Scimmiotto è il mio discepolo anziano. Porcellino, il secondo, è
quello che può far pensare a un diavolo a testa di cavallo; e quello che vi sembra uno yaksa si
chiama Sabbioso. Per quanto siano brutti, sono monaci che osservano la dottrina e compiono buone
azioni per raccoglierne i frutti. Non sono affatto creature malefiche, e non è il caso di averne
paura.»
Venendo a sapere che erano monaci e che avevano un nome, la vecchia coppia si sentì
rassicurata: «Dunque fateli entrare, prego!»
Il reverendo uscì a chiamare i discepoli, e prima che entrassero raccomandò: «Comportatevi
bene e mostrate un po’ più rispetto delle persone di quanto fate di solito. Il vecchio, a vedervi, si è
preso una bella paura.»
«Io sono bello e gentile» disse Porcellino. «Semmai è il mio primo condiscepolo che è impulsivo
e zotico.»
«Certo che potresti essere un bel ragazzo» commentò Scimmiotto ridendo. «Basterebbe tagliarti
via quel grugno, le orecchie larghe e la testaccia schifosa.»
«Non cominciate i battibecchi» intervenne Sabbioso, «non è il momento di fare dello spirito.
Entriamo.»
Con bagagli e cavallo entrarono dunque nella sala comune della capanna, fecero una bella
riverenza e si sedettero. La saggia moglie si portò via il bambino e andò a ordinare che si mettesse il
riso al fuoco per servire un pasto di magro. Quando maestro e discepoli ebbero mangiato, poiché
cadeva la notte, si portarono lampade per continuare la conversazione alla loro luce.
«Qual’è il vostro stimato nome, caro donatore?» chiese il reverendo.
«Mi chiamo Yang.» E alla richiesta dell’età: «Ho settantaquattro anni.»
«Quanti figli avete?»
«Uno solo. Quello che la mamma ha portato con sé è il mio nipotino.»
«Pregate vostro figlio di venire qui. Mi piacerebbe poterlo salutare.»
«Non lo merita proprio; ho la sfortuna di non averlo saputo educare. D’altronde non è in casa.»
«Dove vive?»
Il vecchio scosse il capo e sospirò: «Ahimè, se si accontentasse di vivere pacificamente in
qualche posto, sarei felice. Ma pensa solo al male: invece di esercitare il suo mestiere di contadino,
non fa che saccheggiare case, rapinare viaggiatori, ammazzare e incendiare. Fa lega solo con i cani
e con le volpi. Da cinque giorni è partito e non lo si è più visto.»
Tripitaka pensò, senza osare di dirlo: «Magari è uno di quelli che Consapevole del Vuoto ha
ucciso.» Si sentì a disagio e s’inchinò per dire: «Bontà divina! Com’è possibile che genitori tanto
saggi abbiano un figlio malvagio?»
Scimmiotto si avvicinò: «A che vi serve, vecchio signore, un figlio simile? Un malvivente ladro
e violento rischia di coinvolgere anche i suoi genitori. Ve lo andrò a cercare e lo sopprimerò, per
rimettere tutto a posto.»
«Qualche volta sono stato io stesso sul punto di farlo» rispose il vecchio. «Ma non ho altri figli:
per cattivo che sia, dovrà pensare lui a seppellirmi.»
Sabbioso e Porcellino si misero a ridere: «Fratello, non ti immischiare. Noi non siamo mica la
polizia; se quello si comporta male, non sono fatti nostri. Chiedi piuttosto al nostro donatore una
balla di paglia e un angolo per dormire. All’alba dovremo ripartire.»
Il vecchio si alzò, guidò Sabbioso nella corte posteriore alla ricerca di due balle di paglia e li
sistemò per la notte in un capanno di stoppie. Scimmiotto legò il cavallo, Porcellino portò dentro i
bagagli e tutti entrarono con il reverendo per mettersi a letto.
Bisogna sapere che il figlio del vecchio Yang faceva proprio parte della banda di briganti che
Scimmiotto aveva disperso quel giorno. Verso la quarta veglia, alle due del mattino, i banditi
giunsero alla porta e bussarono. Il vecchio si infagottò nella veste e disse alla moglie: «Mamma,
ecco i ragazzi.»
«Apri e falli entrare.»
Tutta la banda si precipitò dentro gridando: «Abbiamo fame, dacci da mangiare.» Il figlio del
vecchio Yang si precipitò nelle stanze interne, svegliò sua moglie e le ordinò di cuocere il riso e di
mettere in tavola. Poiché in cucina mancavano fascine, uscì a prenderne nella corte posteriore e
rientrando chiese alla moglie: «Da dove viene quel cavallo bianco?»
«È di un bonzo dell’Est in cerca di scritture. Passa la notte qui da noi. I nonni gli hanno offerto la
cena e l’hanno messo a dormire nel capanno.»
Il marito corse dai suoi soci ridendo e battendo le mani: «Che fortuna, ragazzi! Il nostro nemico
è venuto ad alloggiare proprio qui.»
«Quale nemico?»
«Il bonzo che ha ammazzato i nostri capi: ora dorme nel capanno.»
«Magnifico! Adesso li prendiamo, quei ciuchi tonsurati, li facciamo a pezzi e li mettiamo in
salamoia. Vendichiamo i nostri capi e ci guadagniamo i bagagli e il cavallo.»
«Non precipitiamo le cose. Aspettate che sia pronto il riso, e intanto affilate i coltelli. Quando
saremo a pancia piena, andremo tutti insieme.» E si misero al lavoro: chi affilava le sciabole, chi la
punta delle lance.
Il vecchio, che li aveva sentiti, scivolò nella corte posteriore e svegliò i pellegrini: «Mio figlio è
arrivato con la sua banda. Hanno saputo che siete qui e vi vogliono uccidere. Non posso certo
permetterlo, se penso come venite da lontano. Raccogliete i vostri bagagli: vi farò uscire dal
cancello verso la campagna.»
Tripitaka si prosternò, tutto tremante, per ringraziare il vecchio, ordinò a Porcellino di prendere il
cavallo, a Sabbioso di portare i bagagli e a Scimmiotto di reggergli il bastone da pellegrino. Il
vecchio aprì il cancello dei campi perché fuggissero e, a passi felpati, ritornò nel suo letto.
Era trascorsa la quinta veglia quando finirono di affilare le armi e di mangiare. Allora si
precipitarono tutti nella corte, ma scoprirono che la preda era scomparsa. Cercarono intorno con
torce e lampade, e videro aperto il cancello dei campi.
«Sono scappati di là!» gridarono i briganti. «Inseguiamoli!»
E corsero via come frecce. Scorsero il monaco cinese quando ormai si alzava il sole: egli si volse
e vide venti o trenta persone che correvano verso di lui agitando sciabole e lance.
«Discepoli, i briganti ci hanno raggiunto; che cosa facciamo?»
«State tranquillo» rispose Scimmiotto, «ve ne sbarazzo io.»
«Consapevole del Vuoto, puoi fargli paura, ma niente di più. Non li devi uccidere.»
Il Novizio non era d’umore da badare a queste raccomandazioni. Brandì la sua sbarra e si volse
ad accoglierli: «Dove andate, signori?»
«Canaglia tonsurata, pagherai cara la vita dei nostri capi!» gridavano i briganti. Circondarono
Scimmiotto e fecero piovere i loro colpi su di lui. Il grande santo roteò la sua sbarra dandole il
diametro di una tazza, e in pochi colpi disperse la banda come una nuvoletta nel vento ai quattro
angoli del cielo. Chi riceveva un colpo moriva subito, chi ne era sfiorato se la cavava con le ossa
rotte e la pelle lacerata. Pochi furbi erano fuggiti in tempo; gli altri furono presto in viaggio per
visitare i giudici dell’Inferno.
Tripitaka, a cavallo, vide cadere tutti quegli uomini e si spaventò: partì al galoppo verso
l’occidente, con Porcellino e Sabbioso alle calcagna.
«Dov’è il figlio del vecchio Yang?» chiese Scimmiotto a un ferito.
«Monsignore, è quello con la veste gialla» gemette il brigante.
Scimmiotto gli si accostò, afferrò la sua sciabola, gli mozzò il capo e se lo portò via sotto
braccio, grondante sangue. In pochi balzi raggiunse Tripitaka: «Maestro, ecco il figlio ribelle del
vecchio Yang: questa è la sua testa.»
Tripitaka divenne livido e cadde da cavallo: «Maledetto macaco, vuoi farmi morire di paura!
Porta via quella cosa, non farmela vedere!»
Porcellino lanciò la testa con un calcio al bordo della strada e la coprì di terra con il suo rastrello.
Sabbioso posò il carico e andò ad aiutare il maestro a rialzarsi.
Il reverendo ritornò in sé, seduto per terra, e incominciò a recitare l’incantesimo della costrizione
del cerchio. L’infelice Novizio si rotolava per terra, con le orecchie rosse, la faccia scarlatta e gli
occhi fuori dalle orbite, e gridava: «Basta, Basta!»
Ma il reverendo ricominciò per una diecina di volte. Scimmiotto si contorceva e si rotolava dal
dolore, urlando: «Maestro, perdonatemi! Ditemi quello che avete da dire, ma smettetela!»
Infine Tripitaka smise e gli rispose: «Non ho niente da dirti. Non ti voglio più, ritorna da dove
vieni.»
«Maestro» pregò il Novizio prosternandosi malgrado il dolore, «perché mi scacciate?»
«Maledetta scimmia, la tua violenza sorpassa ogni limite, ed è indegna di un pellegrino in cerca
delle scritture. Ieri ti avevo rimproverato la tua crudeltà, quando avevi ucciso i capi della banda.
Dobbiamo la cena e il riposo della notte a quel vecchio, che ci ha salvato la vita facendoci fuggire.
Che suo figlio fosse un delinquente non era affar nostro: tu non potevi decapitarlo, e ancor meno
distruggere tante vite e attentare continuamente all’armonia dell’universo. Ti ho tanto esortato, ma
non è servito a nulla: in te non c’è un’oncia di bontà. A che cosa servi? Vattene via, se non vuoi che
ricominci a recitare l’incantesimo.»
«Lasciate stare, me ne vado!» gridò Scimmiotto spaventato. E con un balzo nelle nuvole
scomparve senza lasciare traccia.
Ahimè, è il caso di dirlo:
Non prepara cinabro cuor violento,
E non compie la Via spirito instabile.
Se in fin dei conti non sapete dove andò il grande santo, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 57
LA FALSA SPEDIZIONE IN OCCIDENTE
IN CUI SCIMMIOTTO ESPONE LE SUE LAGNANZE SUL POTALAKA, E IL FALSO RE DELLE SCIMMIE
LEGGE IL RESCRITTO IMPERIALE.
Si è detto in quali circostanze partì il grande santo Scimmiotto. Si sentiva depresso e contrariato:
dove andare? Poteva ritornare alla Grotta del Sipario Torrenziale, sul Monte di Fiori e Frutti; ma
temeva che i suoi andirivieni sarebbero apparsi ai suoi mostriciattoli ridicoli e indegni di un prode.
Cercare rifugio in Cielo? Avrebbe corso il rischio che non autorizzassero un soggiorno prolungato.
Le isole del mare? Davanti agli immortali delle tre isole si sarebbe vergognato. La residenza dei
draghi? Sarebbe stato insopportabile comparire in veste di postulante. Non sapeva proprio che fare
di sé stesso, e si disse con amarezza: «Tanto peggio. Per conseguire il giusto frutto, non c’è che
ritornare dal maestro.»
Dunque abbassò la sua nuvola e ricomparve davanti al cavallo di Tripitaka: «Maestro, per questa
volta dovete perdonare il vostro discepolo. Non ricomincerò; ormai non ricorrerò più alla violenza e
accetterò ogni vostro precetto. Vi supplico, lasciate che ritorni a proteggere il vostro viaggio a
Occidente.»
Ma il monaco cinese, invece di rispondere, si mise a recitare l’incantesimo della costrizione del
cerchio, e lo ripeté per una ventina di volta, mentre il grande santo si contorceva per terra e il
cerchio gli entrava di un buon pollice nel cranio. Infine gli chiese: «A che pro sei venuto a
importunarmi?»
«Non lo recitate più, vi prego! Potrei stabilirmi altrove, ma temo che senza di me non riuscirete
mai a raggiungere il Paradiso dell’Ovest.»
«Quante volte mi hai coinvolto nei tuoi massacri e distruzioni di vite, macaco!» esclamò
Tripitaka trasportato dalla collera. «Adesso basta, non voglio più saperne di te. Che io arrivi o no
alla meta del mio viaggio, non ti riguarda. Vattene via! Se mi resti dattorno, ricomincio a recitare
l’autentica formula; e non mi fermerò prima di averti fatto schizzare il cervello fuori dal cranio.»
Scimmiotto si rese conto che non c’era modo di far mutare avviso al suo maestro; in preda a
dolori insopportabili, rifece la capriola nelle nuvole. A un tratto gli venne un’idea: «Poiché il bonzo
non vuole più saperne di me, andrò sul Potalaka a parlarne con la pusa Guanyin.»
In meno di due ore raggiunse i mari del Sud e atterrò dritto sul Monte Potalaka. Mentre si
inoltrava nel Boschetto dei Bambù Porporini, vide venirgli incontro il novizio Moksa che lo salutò
chiedendo: «Dove andate, grande santo?»
«Ho bisogno di vedere la pusa.»
Moksa lo guidò all’ingresso della Grotta del Rumore di Marea, dove fu ricevuto dal ragazzo di
Buona Fortuna, che lo salutò: «Che cosa vi conduce da queste parti, grande santo?»
«Ho subito dei torti di cui mi vorrei querelare con la pusa.»
Il ragazzo scoppiò a ridere: «La nostra scimmia è la solita furbacchiona. Ricordo bene quanti
imbrogli mi facesti, al tempo in cui mi ero impadronito del monaco cinese. La nostra pusa
misericordiosa e compassionevole ha fatto voto di soccorrere ogni pena e ogni dolore con il Grande
Veicolo, nella sua santa bontà senza fine né limiti. Che cosa non ti piace, perché tu possa querelarti
contro di lei?»
Scimmiotto era già di malumore. A queste parole esplose con una tale violenza che quasi fece
cadere a terra il ragazzo di Buona Fortuna: «Come sei zotico, ragazzetto ingrato e stupido! Quando
facevi il mostro, fui io a pregare la pusa di prenderti al suo servizio e di rimetterti sulla retta via; se
hai avuto felicità eterna, libertà e longevità uguale al Cielo, a chi lo devi se non al vecchio
Scimmiotto? Eppure mi vieni a insultare. Io mi lamento di fatti per cui devo chiedere aiuto alla
pusa; come puoi dire che mi lamento di lei?»
«La nostra scimmia è sempre stata uno zolfanello» replicò sorridendo il ragazzo. «Scherzavo.
Non prendere tutto sul serio!»
Il pappagallo bianco venne a svolazzare intorno a loro: compresero che la pusa li convocava.
Moksa e Buona Fortuna lo condussero ai piedi del trono di loto; Scimmiotto levò rispettosamente
gli occhi su Guanyin e si inchinò fino a terra, senza riuscire a trattenere lacrime e singhiozzi. La
pusa ordinò a Moksa e a Buona Fortuna di aiutarlo a rialzarsi: «Consapevole del Vuoto, dimmi
chiaramente che cosa ti dà tanta pena. Non piangere: ti toglierò questo dolore e lo sopprimerò.»
«Non avevo mai subito un torto simile» disse Scimmiotto piangendo e inchinandosi di nuovo.
«Da quando mi avete liberato dal castigo del Cielo, mi sono comportato da sramana fedele
all’insegnamento del Buddha, ho protetto il monaco cinese nella sua ricerca dei sutra, ho rischiato la
vita per salvarlo dagli ostacoli demoniaci. Ma è stato come togliere una lisca dalla gola della tigre, o
sollevare scaglie sul dorso del drago. Ho riposto ogni speranza nel ritorno alla verità e nel
conseguimento del giusto frutto, ho fatto di tutto per redimermi dai miei peccati e per liberarmi dai
cattivi pensieri. Non avrei mai creduto che il reverendo si mostrasse così ingrato, compromettesse
ogni possibilità di migliorare il mio destino e mi infliggesse il dolore di non distinguere il bianco
dal nero.»
«Spiegati meglio, ti ascolto.»
Scimmiotto raccontò nei particolari come si era trovato ad ammazzare i briganti di strada e ciò
che ne era seguito. Spiegò come tutti quei morti ammazzati avessero mosso la bile del monaco
cinese, al punto che, senza distinguere il bianco dal nero, si era messo a recitare l’incantesimo della
costrizione del cerchio e l’aveva ripetutamente scacciato. Non sapendo dove andare, né in cielo né
in terra, era venuto appunto per riferire i fatti alla pusa.
«Tripitaka viaggia per incarico imperiale. È un monaco che coltiva il bene con tutto il suo cuore
e non può tollerare che si attenti in qualunque modo a qualsiasi forma di vita. Con i poteri che hai,
che bisogno avevi di battere a morte quei briganti? Sono dei malvagi, ma sono pur sempre esseri
umani che non si devono uccidere. Se ammazzi mostri, lamie o altre creature malefiche acquisti
meriti; ma se uccidi uomini, dimostri solo la tua inumanità. Per liberare il maestro ti sarebbe bastato
di metter loro paura. A mio imparziale avviso, il torto sta dalla tua parte.»
Il Novizio si prosternò trattenendo le lacrime: «Anche se ho fatto male, avrei potuto riscattarmi
in seguito con buone imprese; non meritavo di essere scacciato così. Vi supplico, nella vostra
grande misericordia, di recitare l’incantesimo che apre il cerchio, in modo che possa togliermelo
dalla testa e rendervelo. Lasciatemi ritornare a vivere nella Grotta del Sipario Torrenziale.»
«Fu il Beato in persona a insegnarmi l’incantesimo della costrizione del cerchio» replicò
sorridendo Guanyin. «L’anno in cui mi mandò nell’Est a cercare qualcuno che potesse compiere
questa ricerca, mi diede tre tesori: il kasâya di broccato, il bastone da pellegrino con nove anelli e i
cerchi Strizza, Spezza, Schizza. Mi insegnò a metterli, ma non a toglierli.»
«Allora permettetemi di congedarmi.»
«Dove vuoi andare?»
«Vado al Paradiso dell’Ovest a parlarne con il Beato; lui saprà come togliere il cerchio.»
«Aspetta: voglio prima verificare se le sorti sono favorevoli o no.»
«Per me è inutile; la mia sorte mi sta bene così com’è.»
«Non la tua, ma quella del monaco cinese.»
La brava Guanyin, seduta sul trono di loto, passava in rassegna tutto l’universo con il suo
sguardo sapiente, facendolo scorrere sui tre mondi uno dopo l’altro. Quindi disse: «Consapevole del
Vuoto, il tuo maestro sta per affrontare una prova che metterà in pericolo la sua vita: non tarderà a
cercarti. Resta qui, mentre io vado a parlargli e gli chiedo di riprenderti con sé per realizzare il
giusto frutto della sua ricerca.»
Scimmiotto dovette acconsentire e restarsene lì buono e tranquillo, rinunciando a combinarne
qualcuna delle sue.
Intanto il reverendo, scacciato Scimmiotto, aveva affidato il cavallo a Porcellino e i bagagli a
Sabbioso. Avevano percorso insieme una cinquantina di li a buona andatura, quando Tripitaka tirò le
redini: «Discepoli, abbiamo lasciato il villaggio prima dell’alba, e le contrarietà che mi ha dato
l’equipuzio contribuiscono ad accrescere fame e sete. Chi di voi vuol mendicare qualcosa per
nutrirmi?»
«Smontate da cavallo, maestro. Vedrò se si trova qui intorno qualche villaggio in cui chiedere
l’elemosina.»
Tripitaka smontò e Porcellino salì su una nuvola; ma per quanto scrutasse, non vedeva che picchi
e montagne senza traccia di abitato. Porcellino ritornò a terra e disse a Tripitaka: «Non si vede
neppure una capanna, non c’è nessun segno di possibili donatori.»
«Se non si possono trovare elemosine, cercami almeno dell’acqua per calmare la sete.»
«Andrò in cerca di un ruscello verso sud.»
Sabbioso gli tese la ciotola delle elemosine e Porcellino ritornò sulle nuvole. Il reverendo
aspettava, seduto sul ciglio della strada, ma il bestione non si rivedeva; l’infelice soffriva la sete,
con la lingua e la gola riarse. Lo attesta il poema:
Per proteggere l’anima, va nutrito il respiro:
Sentimenti e natura non fanno differenza.
La malattia proviene da turbe dello spirito:
Quando il corpo declina, la Via deve perire.
È vana la fatica, se tu perdi i Tre Fiori,
Inutile la lotta se subiscono danno
Le Quattro Grandi Cose. Senza terra né legno,
Soffron metallo ed acqua. Il corpo della legge
Non si compie in mancanza dell’operosità.
Sabbioso vedeva le sofferenze di Tripitaka, e alla fine non ne poté più: legò il cavallo, nascose i
bagagli e propose: «Maestro, restate qui comodo, che io vado a sollecitarlo.»
Il reverendo, trattenendo le lacrime, acconsentì con un cenno del capo. Sabbioso balzò su una
nuvola e scomparve anche lui verso sud.
Il maestro lasciato solo ad aspettare, arso dalla sete, era in preda alle peggiori sofferenze. Si
sentiva ridotto alla disperazione, quando a un tratto udì un rumore accanto a sé che gli fece alzare la
testa di soprassalto: Scimmiotto era inginocchiato accanto a lui e gli tendeva una tazza di ceramica.
«Maestro» disse, «come vedete, senza il vostro vecchio Scimmiotto, non potete nemmeno
togliervi la sete. Bevete questa buona acqua fresca e aspettatemi, che vi andrò a mendicare del
cibo.»
«Non voglio la tua acqua. Preferirei morir di sete. Non voglio più saperne di te, va via!»
«Ma senza di me non raggiungerete mai il Paradiso dell’Ovest.»
«Che ci arrivi o no, non è affar tuo. Maledetto macaco, perché mi vieni a tormentare?»
Il volto del Novizio arrossì di collera. «Questa testa rapata del malanno non ha sentimenti e mi
ha insultato gravemente!» gridò nelle orecchie del reverendo, facendo roteare la sua sbarra e
gettando via la tazza. Mentre Tripitaka cadeva svenuto, si impadronì dei sacchi di feltro nero e
scomparve per aria portandoli con sé.
Nel frattempo Porcellino, con la ciotola delle elemosine in mano, aveva disceso il pendio e
scoperto in una valletta una capanna, che il fianco della montagna aveva fino allora nascosto alla
vista. Avvicinandosi pensò: «Il mio muso spaventerà questa gente; avrò faticato per nulla e non mi
faranno l’elemosina. Sarà meglio che mi trasformi.»
Il bestione fece un passo magico, recitò un incantesimo e, con qualche scossa, si trasformò in un
grosso monaco dalla faccia gialla e malaticcia, che biascicava preghiere. Si fermò sull’uscio e gridò:
«Donatori, se in cucina avanza un po’ di riso, sappiate che c’è gente affamata sulla strada. Il povero
monaco che sono viene dalle terre dell’Est e va al Paradiso dell’Ovest in cerca delle scritture. Il mio
maestro è affamato e assetato: se vi avanzasse in fondo alla pentola un pugno di riso freddo e ce ne
donaste un po’, ci salvereste la vita.»
Gli uomini di casa erano tutti al lavoro in campagna; c’erano solo due donne che avevano
appunto cotto il riso e ne stavano riempiendo due scodelle da portare nei campi. In fondo alla
marmitta restava un po’ di riso incrostato. A vedere quell’aria malata e a sentirlo vaneggiare di
viaggi dall’est all’ovest, pensarono che delirasse e temettero che gli cadesse morto davanti alla
porta di casa. Perciò si affrettarono a raschiare il fondo della pentola per riempire la sua ciotola.
Quando fu piena, il bestione se ne tornò da dove era venuto.
Mentre camminava si sentì chiamare: «Porcellino!» Alzò la testa e vide Sabbioso che gridava
dall’alto della rupe: «Vieni da questa parte!» Poi gli venne incontro e domandò: «Dov’eri andato,
invece di attingere l’acqua limpida di questo ruscello?»
«Mentre venivo qui» rispose Porcellino, «mi sono accorto che nella valletta abita gente e sono
andato a mendicare una ciotola di riso.»
«Serve anche quello, ma ora il maestro muore di sete; dove mettiamo l’acqua?»
«È facile: raccogli il riso in un lembo del tuo vestito, e io riempirò la ciotola d’acqua.»
Ma quando ritornarono, videro Tripitaka giacere nella polvere con la faccia rivolta al suolo,
mentre il cavallo bianco nitriva e scalpitava con i finimenti sciolti, e i bagagli erano scomparsi.
Porcellino, spaventato, si batteva il petto e gemeva: «Non occorre dirlo, sono ancora quei
briganti che Scimmiotto aveva scacciati: i superstiti sono ritornati a uccidere il maestro e a
derubarci.»
«Va a riprendere il cavallo» gli disse Sabbioso. E si tormentava: «E adesso che cosa facciamo? È
il disastro, non ci resta che abbandonare la corsa.» E gridava: «Maestro!» con singhiozzi da
spezzare il cuore.
«Non piangere, fratello» diceva Porcellino. «Al punto in cui siamo, la ricerca delle scritture è
finita. Tu veglia il corpo del maestro, che io monto sul cavallo e vado a cercare una bottega o un
mercato dove possa venderlo per qualche tael, e comperarci una bara per seppellire il maestro. Poi
non ci resterà che andarcene, ciascuno per la sua strada.»
Sabbioso, che non poteva rassegnarsi, ritornò accanto al corpo dell’infelice monaco cinese per
cercare di riscaldargli il viso. Singhiozzava: «Che amaro destino, maestro!»
Ma si accorse che un po’ di fiato caldo usciva ancora dalle narici, e che qualche calore risiedeva
ancora nel petto. Si mise a chiamare: «Vieni qui, Porcellino. Il maestro è ancora vivo.»
Anche Porcellino si avvicinò per sostenerlo, e pian piano il reverendo riprese i sensi. Dapprima
gemette e poi si mise a vituperare ‘quel maledetto macaco che l’aveva battuto a morte’.
«Quale macaco?» chiesero Porcellino e Sabbioso.
Il reverendo serrava le labbra e sospirava. Dopo che gli ebbero inumidito la gola con un po’
d’acqua, disse finalmente: «Discepoli, mentre eravate via mi è venuto a importunare Consapevole
del Vuoto. Poiché rifiutavo fermamente di riprenderlo, mi ha colpito col suo randello e si è portato
via i due sacchi di feltro nero.»
A queste parole Porcellino digrignò i denti, con il cuore arso di indignazione: «Maledetta
scimmia, come ha osato comportarsi così?» E si rivolse a Sabbioso: «Tu bada al maestro, che io
vado da lui a reclamare i nostri sacchi.»
«Non perdere il sangue freddo. Sosteniamo il maestro fino a quella capanna nella valletta e
chiediamo a quella gente un po’ d’acqua calda per il riso che ti hanno dato. Sistemiamo prima il
maestro, e poi partiremo per la ricerca.»
Porcellino seguì il consiglio e aiutò Tripitaka a montare a cavallo. Tutti e tre si diressero alla
capanna, dove trovarono soltanto la vecchia, che a vederli arrivare cercò di nascondersi.
«Buona signora» disse Sabbioso giungendo le mani, «siamo inviati della corte dei Tang delle
terre dell’Est in cammino per il Paradiso dell’Ovest. Il nostro maestro non sta bene: ci occorrerebbe
un po’ di acqua calda per riscaldargli il riso.»
«Poco fa è passato di qui un monaco tisico che veniva dall’Est anche lui, e gli ho fatto
l’elemosina di cibo. Qui non c’è nessun’altro in casa; vi prego, andate a cercare altrove.»
Il reverendo, con l’aiuto di Porcellino, scese da cavallo e si inchinò alla vecchia: «Cara signora,
avevo tre discepoli che mi proteggevano nella ricerca delle scritture presso il Buddha del grande
Monastero del Colpo di Tuono, nel divino paese dell’India. Ho dovuto separarmi dal mio primo
discepolo, perché è dedito alla violenza e non segue la via del bene. Non mi aspettavo che ritornasse
di nascosto, mi colpisse con il suo bastone e mi derubasse dei bagagli. Ora devo mandare uno dei
due discepoli che mi restano a ricuperare le cose rubate. Ma la strada non è un luogo adatto per una
lunga attesa: perciò siamo venuti alla vostra residenza per pregarvi di ospitarci. Non appena avremo
ricuperato i nostri bagagli ce ne andremo.»
«Quel grosso monaco malaticcio che è venuto poco fa diceva anche lui di essere dell’Est. È
possibile che si trovi in giro qui intorno un’altra comitiva come la vostra?»
«Ero io» replicò ridendo Porcellino. «Con le orecchie larghe e il grugno lungo che ho, temevo di
spaventarvi e di sentirmi rifiutare l’elemosina: perciò mi ero trasformato. Se non mi credete,
guardate il riso che il mio condiscepolo porta con sé.»
La vecchia riconobbe il suo riso e li invitò a entrare. Poi mise l’acqua al fuoco e ne tese una
ciotola a Sabbioso perché vi riscaldasse il riso; al maestro offrì del tè che lo rinfrancò.
«Chi di voi andrà in cerca dei bagagli?» chiese il monaco cinese.
«Io sono già andato una volta alla Grotta del Sipario Torrenziale» disse Porcellino. «Conosco la
strada, e quindi tocca a me.»
«È meglio che tu non vada. Non ti sei mai inteso con il macaco, e il tuo modo di fare, o qualche
parola pesante che finirà per sfuggirti, possono facilmente irritarlo e indurlo a batterti. Manderò
Consapevole della Purezza.»
«Va bene, parto subito» disse Sabbioso.
«Quando arriverai» raccomandò il reverendo, «valuta bene la situazione. Se ti rende i bagagli,
fingi gratitudine. Altrimenti non stare a discutere; vai diritto dalla pusa dei mari del Sud, raccontale
l’accaduto e pregala di aiutarci.»
Sabbioso ascoltò e promise, poi fece a sua volta le sue raccomandazioni a Porcellino: «Tu non
brontolare e abbi cura del maestro. Non strapazzare la gente, o non ti daranno più riso. Io ritornerò
presto.»
«Va bene, ma sbrigati» rispose Porcellino scuotendo la testa. «Torna subito, che tu ottenga i
bagagli o no, altrimenti le nostre perdite si aggraveranno: se il bilanciere ha le estremità appuntite,
le fascine cadono da una parte e dall’altra.»
Sabbioso montò sulle nuvole e si lanciò verso il continente dell’Est. È il caso di dirlo:
Se l’anima è sfuggita, la casa resta vuota,
Fornello senza fuoco non trasmuta cinabro.
Donna gialla abbandona il padrone e va in cerca
Del suo vecchio Metallo, mentre Madre del legno
Resta nella capanna a curar Guance glabre.
Dopo questa partenza, quando sarà il ritorno?
È difficile dirlo. Finché resta lontana
La scimmia dello spirito, viene sconvolto il ciclo
Con cui i cinque elementi si creano e si distruggono.
Occorsero a Sabbioso tre giorni e tre notti per raggiungere il grande oceano orientale. Udì il
rumore delle onde e vide la nera bruma velare il cielo di oscuri vapori, la schiuma delle onde
raccogliersi intorno al sole nell’aria fredda dell’aurora. Ma non era d’umore da godersi il
paesaggio, mentre sorvolava le isole degli immortali intento alla sua meta: il Monte di Fiori e Frutti.
Benché portato da venti favorevoli, volò ancora a lungo prima di scorgere in lontananza gli alti
picchi, come una schiera di alabarde rizzate sopra drappi sospesi. Quando raggiunse il picco più alto
atterrò e cercò il sentiero che scendeva alla Grotta del Sipario Torrenziale. Si sentiva un vasto
brusio, che ad avvicinarsi risultò causato da innumerevoli scimmie convenute da tutte le parti.
Sabbioso riconobbe Scimmiotto, seduto su un’alta terrazza rocciosa, che reggeva un foglio di
carta e salmodiava queste parole:
«Noi, Li, imperatore dei grandi Tang delle terre dell’Est, abbiamo convocato alla nostra presenza
il nostro fratello minore, il santo monaco maestro della legge Chen Xuanzang, e gli abbiamo
comandato di recarsi in India a salutare il Buddha nel grande Monastero del Colpo di Tuono sul
Monte degli Avvoltoi - shapo! - e a sollecitare dal Beato le scritture.
«Colpiti da una malattia improvvisa che aveva condotto la nostra anima a vagare nella dimora
infernale, noi abbiamo avuto la fortuna di veder prolungare la durata della nostra vita e di essere
rimandati dal giudice delle tenebre nel mondo dei vivi.
«Per ringraziare di questa concessione, abbiamo ordinato grandi cerimonie per la redenzione dei
trapassati.
«Guanyin, salvatrice e misericordiosa, ci ha fatto la grazia di mostrarci il suo corpo dorato e di
informarci che l’Occidente racchiude sutra capaci di garantire la liberazione delle anime
ottenebrate; perciò inviamo il maestro della legge Xuanzang perché attraversi mille montagne con
la missione di cercare e sollecitare queste scritture.
«Possano i paesi dell’Occidente da cui dovrà passare non rendere vano questo pio proposito e
agire in conformità di questo rescritto, promulgato nel tredicesimo anno dell’era Contemplazione
della Virtù dei grandi Tang.
«Dopo aver lasciato il grande impero, ha attraversato molti paesi e ha raccolto lungo il cammino
tre discepoli: il primo è Scimmiotto Consapevole del Vuoto, il secondo Porcellino Consapevole
delle Proprie Capacità e il terzo Sabbioso Consapevole della Purezza.»
Dopo aver letto ad alta voce dal principio alla fine, ricominciò daccapo; tanto che Sabbioso,
riconosciuto il testo, non si poté trattenere dall’esclamare: «Che cosa significa? Fratello, perché
leggi in pubblico il passaporto del maestro?»
Udendolo il Novizio levò di scatto la testa, lo fissò e gridò: «Prendetelo!»
La folla delle scimmie lo accerchiò, lo spinse e lo tirò davanti a Scimmiotto, che urlò: «Chi sei
tu, per osare di avvicinarti alla nostra grotta?»
Di fronte a questo atteggiamento, Sabbioso si rassegnò a salutare rispettosamente: «Permettimi,
fratello maggiore, di fare appello alla tua equità. È vero che il nostro maestro è andato in collera, ti
ha rimproverato ingiustamente e ingiuriato, ed è arrivato a scacciarti. Non eravamo ancora riusciti a
fargli cambiare opinione e ci eravamo allontanati per cercare acqua e cibo, quando tu sei ritornato in
modo inatteso, forse spinto da un buon impulso. Ma poi lo hai colpito, e quando è svenuto ti sei
portato via i bagagli. Sono venuto a visitarti per parlarti di queste cose, fratello maggiore. Se non sei
giunto a detestare il nostro maestro, se non hai dimenticato la liberazione che gli devi, prendi i
bagagli e ritorna con me, perché andiamo insieme al Paradiso dell’Occidente a conseguire il giusto
frutto del nostro pellegrinaggio. Se invece il tuo rancore ti impedisce di ritornare con noi, ti prego,
rendici almeno i bagagli. Ciò non ti impedirà di godere le gioie agresti del ritiro fra queste
montagne, se così preferisci.»
Scimmiotto sogghignò: «Saggio fratello, il tuo bel discorso non quadra con le mie intenzioni. Se
ho colpito il monaco cinese e gli ho rubato i bagagli, non significa che mi sia ritirato in campagna e
abbia rinunciato a raggiungere l’Occidente. Imparo a memoria le parole che mi hai sentito leggere,
perché mi serviranno per rivolgermi al Buddha e chiedergli le scritture da riportare nelle terre
dell’Est. La gloria di queste gesta la voglio tutta per me; la gente del continente meridionale la
perpetuerà e mi onorerà come suo grande antenato.»
«Il tuo progetto non regge, rispettato fratello» obiettò Sabbioso con un sorriso. «Non si è mai
sentito di una ricerca delle scritture condotta dal Novizio Scimmiotto. La ricerca è affidata alla
persona prescelta dalla pusa Guanyin per incarico del Buddha; il nostro compito è solo di
proteggere quella persona lungo il viaggio con tutte le nostre forze. Sai chi è il prescelto: un
discepolo del Beato, chiamato Cicala d’Oro, bandito dal Monte degli Avvoltoi perché si era
mostrato disattento a una predica del Buddha e rinato nell’Est. L’adempimento di questa missione
gli consentirà di ritrovare la Via. Il Buddha non consegnerà mai i sutra ad altri che al monaco
cinese: il tuo sogno è insensato.»
«Saggio fratello minore» rispose il Novizio, «non sei mai stato una testa forte. Consideri solo un
lato delle cose e non ne vedi gli altri. Continui a mettermi davanti il tuo monaco cinese: ma credi
che sia difficile trovare alternative? Il monaco che occorre me lo fabbrico io, certificato e
brevettato, e domani mi metto in viaggio con lui. Chi me lo può impedire? Se non mi credi, te lo
mostrerò.»
E ordinò: «Ragazzi, dite al maestro di farsi vedere.»
Le scimmie corsero nella grotta e ne ritornarono con un cavallo bianco montato da un altro
Tripitaka, accompagnato da un altro Porcellino con i bagagli e da un altro Sabbioso con il bastone
da pellegrino.
Per Sabbioso questo era troppo; gridò furente: «Io non voglio cambiare identità, nemmeno in
sogno! Non esiste un altro Sabbioso! Basta con le impudenze! Te la faccio vedere io!»
E ruppe con una randellata la testa del falso Sabbioso, che cadde morto: si vide allora che non
era altro che una di quelle scimmie del malanno. La folla scimmiesca circondò Sabbioso, e il
Novizio roteò la sua sbarra cerchiata d’oro; ma l’assediato si aprì un varco a bastonate, riuscì a
montare su una nuvola e fuggì dicendo fra sé: «Quella scimmia maledetta è così insolente, che non
resta altro da fare che denunciarla a Guanyin.»
Il Novizio, da parte sua, non si impegnò nell’inseguimento; fece scorticare la scimmia uccisa e la
fece cucinare e servire in tavola, accompagnata da vini di palma e d’uva. Poi un’altra scimmia della
banda fu trasformata in Sabbioso e si riprese l’addestramento in vista del pellegrinaggio a
occidente.
In capo a un giorno e una notte, Sabbioso raggiunse i mari del Sud e fu in vista del Monte
Potalaka, dove prese terra e contemplò il paesaggio. Che meraviglia!
Questo territorio contiene tutti i misteri dell’universo: vi affluiscono tutti i fiumi, vi si bagnano il sole e le stelle, vi si
congiungono tutte le creature, qui nasce il vento e tremola il riflesso della luna. Quando monta la marea, il leviatano
compie le sue trasformazioni; sotto le onde che si incalzano, nuota la tartaruga gigante. Qui si mescolano le acque di
tutti mari e di tutti gli oceani, e ogni isola ha i propri palazzi di immortali.
Lasciate perdere le Isole Felici, contemplate la grotta fra le nubi del Potalaka: che magnifico paesaggio! L’energia
primordiale plana sulle nuvole iridate delle cime, cristalli lunari galleggiano sulle acque sotto la grande scogliera. Nel
boschetto dei bambù porporini volano i pavoni, sui rami dei verdi salici ciangottano i pappagalli. Qui nascono fiori di
giada e di diaspro, e vi prospera il loto d’oro. Quante volte la bianca gru viene ad appollaiarsi sulle cime, e la fenice a
cercare riparo nel chiosco sulla montagna! Persino i pesci coltivano la loro vera natura prestando ascolto alla
predicazione dei sutra, mentre corrono e balzano fra le onde.
Mentre Sabbioso s’inoltrava passo passo, perduto nella contemplazione del magico paesaggio, si
vide venire incontro Moksa, che gli chiese: «Consapevole della Purezza, che cosa vieni a fare qui,
invece di proteggere il monaco cinese nella ricerca delle scritture?»
«Dovrei parlare di certe faccende alla pusa» rispose Sabbioso, dopo averlo salutato. «Avreste la
cortesia di condurmi da lei?»
Moksa capì che si trattava di Scimmiotto, ma non fece commenti e andò ad annunciarlo a
Guanyin: «È arrivato il più giovane dei discepoli del monaco cinese, Consapevole della Purezza, e
vorrebbe presentarvi i suoi omaggi.»
Scimmiotto, che se ne stava ai piedi del trono, sorrise: «Se Sabbioso viene qui, significa che il
monaco cinese si trova in difficoltà.»
Guanyin ordinò di introdurlo. Sabbioso si inchinò fino a terra, ma quando alzò gli occhi vide
Scimmiotto: senza una parola di spiegazione, brandì il suo randello e glielo assestò sulla testa. Il
Novizio schivò il colpo, ma non diede segno di reagire.
«Vedrai, scimmia maledetta che ha commesso i dieci crimini!» inveì Sabbioso. «Sempre qui a
imbrogliare la pusa!»
«Consapevole della Purezza, tieni a posto le mani e la lingua!» gridò Guanyin. «Dimmi piuttosto
perché sei venuto qui.»
Sabbioso abbassò il bastone, rinnovò gli inchini e, ansando d’indignazione, dichiarò: «Questa
scimmia non fa che commettere violenze. Giorni addietro il maestro lo rimproverò perché aveva
ucciso due briganti; e lui, la mattina seguente, sterminò tutta la banda e portò al maestro una testa
mozzata che grondava sangue. Il maestro si spaventò tanto che cadde da cavallo, e poi lo
rimproverò aspramente e lo mandò via. In seguito al maestro venne sete e noi ci assentammo per
cercare acqua; intanto Scimmiotto ritornò, colpì il maestro e rubò le nostre sacche. Sono andato alla
Grotta del Sipario Torrenziale per chiedere i bagagli in restituzione: lui dapprima ha finto di non
riconoscermi, e poi mi ha detto che non intendeva più proteggere il maestro e che avrebbe
organizzato un altro viaggio in Occidente per conto proprio, allo scopo di attribuirsene tutto il
merito. Io ho obiettato: ‘Come potrai ottenere i sutra senza il monaco cinese?’ E lui mi ha mostrato
un altro maestro con tutto il seguito, il cavallo bianco, Porcellino e me. ‘Ma Sabbioso sono io’ ho
detto, ‘e non può essercene un altro al mondo!’ Ho ucciso questo falso Sabbioso, e ho visto che era
una scimmia malefica. Allora lui ha voluto impadronirsi di me, ma io sono fuggito per venir qui a
riferirvi la situazione. Non pensavo che la sua arte della capriola nelle nuvole gli avrebbe consentito
di precedermi. Chissà quali falsità vi è venuto a raccontare!»
«Non devi accusare le persone alla leggera, Consapevole della Purezza. Consapevole del Vuoto è
qui da quattro giorni, perché l’ho trattenuto io. Come avrebbe potuto reclutare nel frattempo un altro
monaco cinese e organizzare un’altra ricerca delle scritture?»
«Ma ho visto con i miei occhi Scimmiotto nella sua grotta. Come potrei mentirvi?»
«Non lasciarti trasportare dalla collera. Andrai con Consapevole del Vuoto sul Monte di Fiori e
Frutti per vedere come stanno le cose. La verità è una, e l’errore non la può alterare: quando sarete
laggiù, ci vedrai chiaro.»
Dunque il grande santo e Sabbioso presero congedo da Guanyin, per un viaggio destinato
A chiarir cos’è bianco e cos’è nero,
A sceverare il retto dal perverso.
Se voi, in fin dei conti, non sapete come giunsero a questo risultato, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 58
UNA LEZIONE DI ZOOLOGIA COSMICA
IN CUI LO SPIRITO DUPLICATO GETTA IL DISORDINE IN TUTTO L’UNIVERSO, E IL CORPO UNICO
FATICA A REALIZZARE LA VERACE ESTINZIONE.
Scimmiotto e Sabbioso si congedarono da Guanyin, salirono su un raggio luminoso e lasciarono i
mari del Sud. Scimmiotto era molto più veloce, ma Sabbioso lo trattenne dicendo: «Fratello, non è
il caso che tu ci dia sotto a testa bassa e mi mostri soltanto la tua coda, per correre avanti a sistemare
le cose prima del mio arrivo. Aspettami, che possa vedere anch’io.»
Per quanto Scimmiotto fosse animato dalle migliori intenzioni, Sabbioso restava diffidente. I due
navigarono dunque di conserva e presto giunsero in vista del Monte di Fiori e Frutti, dove
atterrarono. Scrutando di lontano, videro in effetti l’altro Scimmiotto che continuava a troneggiare e
si dava alla pazza gioia tra la folla delle scimmie.
Era proprio identico al grande santo: pelo fulvo, cerchio d’oro in capo, pupille folgoranti negli
occhi di fuoco. Indossava la lunga tunica di broccato e recava stretto alla vita il grembiule di pelle
di tigre; impugnava anche lui la sbarra di ferro cerchiata d’oro e recava ai piedi le stesse calzature
scamosciate. Stessa faccia pelosa, stessa gola da duca del tuono, tasche sotto le guance, orecchie
appuntite, larga fronte, zanne sporgenti.
Il grande santo, a quello spettacolo, fu preso dall’indignazione e piantò in asso Sabbioso per
gettarsi avanti brandendo la sua sbarra. Inveiva: «Che essere perverso sei tu, per permetterti di
usurpare il mio aspetto, ingannare i miei ragazzi, intrufolarti nella mia grotta e farti bello del mio
prestigio?»
L’altro Novizio rispose alla sfuriata con il silenzio e si preparò allo scontro. Nella mischia era
assolutamente impossibile distinguere il vero dal falso: che confusione!
Due sbarre e due scimmie: avversari di gran levatura!
Ciascuno pretende di essere il protettore del fratello imperiale, di imporre i suoi meriti, di fondare la sua gloria. Quello
vero ha pronunciato i voti monastici, l’altro non può essere un figlio del Buddha: ma a vederli, dotati come sono degli
stessi poteri di magia e di trasformazione, l’uno vale l’altro: non si distingue il vero dal falso. Uno è il soffio del Caos
delle origini, il Grande Santo Uguale al Cielo; l’altro è lo spirito riduttore della terra, affinato da una lunga ascesi. Qui
la sbarra cerchiata d’oro A Piacer Vostro, là il bastone di ferro Secondo il Tuo Cuore. Parano, fintano, tirano fendenti,
senza vincitore né vinto.
Sono venuti alle mani davanti all’ingresso della grotta; ben presto, eccoli scontrarsi sulle nubi del cielo.
Salirono sempre più in alto, mentre lottavano, finché giunsero al nono cielo. Sabbioso li seguiva,
ma non osava intervenire perché non era in grado di distinguere chi aiutare e chi combattere.
Avrebbe voluto colpire per aiutare il condiscepolo, ma temeva invece di danneggiarlo. Dopo aver
atteso per un bel pezzo nell’incertezza, scese all’ingresso della grotta, mise in rotta i guardiani,
rovesciò i banchi di pietra, ruppe le suppellettili e frugò dappertutto; ma fu inutile, i bagagli non si
trovavano.
La grotta del Sipario Torrenziale doveva il suo nome a una cascata che ne nascondeva l’ingresso
interno. Sembrava un bianco sipario: solo accostandosi si capiva che era un velo d’acqua. Sabbioso
non era pratico del luogo e non fu in grado di spingere più a fondo la sua esplorazione. Perciò risalì
al nono cielo e roteò il suo bastone: ma su chi abbatterlo?
«Sabbioso» disse il grande santo, «qui non mi puoi aiutare. Ritorna dal maestro e riferiscigli che
cosa sta accadendo. Io intanto porterò questa creatura malefica sul Monte Potalaka, perché la pusa
distingua il vero dal falso.»
L’altro Scimmiotto disse le stesse cose, parola per parola, con la stessa voce e nello stesso tono.
Sabbioso non poté che seguire il consiglio e ritornare dal monaco cinese.
Intanto i due Scimmiotti, azzuffandosi con grandi urla e rumore, se ne andavano a sud finché
giunsero sul Monte Potalaka, senza dar tregua ai colpi e agli insulti. Il baccano allarmò i guardiani
celesti protettori della legge, che si affrettarono a recarsi nella Grotta del Rumore di Marea per
annunciare: «Pusa, sono arrivati ben due Consapevoli del Vuoto, e si stanno battendo fra loro.»
Guanyin scese dal suo trono, uscì dalla grotta accompagnata da Moksa, dal ragazzo di Buona
Fortuna e da Figlia del Drago, e gridò: «Dove vai, animale perverso?»
«Pusa, questo bel tomo assomiglia molto al vostro discepolo» risposero i due, parlando insieme
e continuando ad azzuffarsi. «Non abbiamo smesso di batterci da quando ci siamo scontrati davanti
alla Grotta del Sipario Torrenziale, ma non sono ancora riuscito a vincerlo. Gli occhi di Sabbioso
non erano abbastanza penetranti e la sua forza non era di alcuna utilità; perciò il vostro discepolo lo
ha rimandato sulla strada dell’Ovest ad assistere il maestro. Ho portato qui questo sconosciuto,
perché il vostro occhio sapiente distingua il vero dal falso e separi il giusto dal perverso.»
Ma per quanto Guanyin e le altre divinità osservassero con attenzione, non furono capaci di
riconoscere l’autentico.
«Smettete di battervi e venite qui, uno per parte» propose Guanyin. «Voglio esaminarvi meglio.»
Essi le ubbidirono, ma uno diceva: «Io sono il vero!», e l’altro replicava: «Lui è il falso!»
Guanyin chiamò accanto a sé Moksa e Buona Fortuna, e bisbigliò loro: «Teneteli fermi, e io
reciterò in segreto l’incantesimo della costrizione del cerchio: chi soffrirà sarà il vero Scimmiotto.»
Così fecero, ma quando la pusa recitò con la mente l’autentica formula, entrambi gli Scimmiotti
urlarono di dolore, si strinsero la testa fra le mani e si rotolarono a terra gridando: «Basta! Basta!»
Quando la pusa smise, ritornarono ad azzuffarsi e a insultarsi. Guanyin non sapeva che altro fare;
i guardiani celesti e Moksa avrebbero voluto intervenire, ma non sapevano chi aiutare.
«Consapevole del Vuoto!» chiamò Guanyin. Entrambi risposero. «Quand’eri equipuzio» disse la
pusa, «e facesti tutti quei disordini in Cielo, eri molto popolare e tutti gli dèi ti conoscevano. Va
dunque nel mondo di Sopra; lì si troverà qualcuno in grado di distinguervi.»
Il grande santo la ringraziò della sua bontà, e altrettanto fece il suo sosia.
Spingendosi e tirandosi giunsero davanti alla porta meridionale del Cielo, senza smettere di
battersi e di vituperarsi. Vasto Sguardo sbarrò loro il passaggio, alla testa dei quattro marescialli
celesti Ma, Zhao, Wen e Guan e delle loro coorti di divinità maggiori e minori in assetto di guerra:
«Dove andate, voialtri? Vi sembra questo il posto per battervi?»
«Ero stato scacciato da Tripitaka, il monaco che proteggo, per aver ucciso dei briganti di strada;
mentre mi trovavo sul Potalaka per chiedere aiuto a Guanyin, questo mostro ha usurpato il mio
aspetto, battuto il mio maestro e rubato i bagagli. Sabbioso lo ha scoperto sul Monte di Fiori e
Frutti, dove aveva occupato la mia grotta. Da un pezzo sto combattendo con lui; mi assomiglia tanto
che nemmeno la pusa è riuscita a distinguerci. Perciò l’ho trascinato fin qui, perché mi aiutiate con
la potenza dei vostri sguardi a distinguere il vero dal falso.»
Questo discorso fu pronunciato insieme dai due Scimmiotti. La folla degli dèi li esaminava
attentamente, ma nessuno riusciva a distinguerli.
«Se non ne siete capaci» urlarono i due, «fateci passare. Andremo dall’Imperatore di Giada.»
Gli dèi non erano in grado di opporsi: aprirono la porta e li accompagnarono alla Sala delle
Nuvole Misteriose. Il maresciallo Ma si precipitò dentro con i quattro precettori celesti Zhang, Ge,
Xu e Qiu per presentare rapporto: «Due Scimmiotti del mondo di Sotto, identici fra loro, hanno
forzato l’ingresso e pretendono di vedere vostra maestà.»
Mentre ancora parlavano, i due irruppero nella sala vociferando, a tal punto che l’Imperatore,
allarmato, scese dal trono e li apostrofò: «È uno scandalo! Come vi permettete di urlare alla mia
presenza? Volete che vi faccia mettere a morte?»
«Maestà» dicevano i due Novizi, «sono un monaco soggetto alla disciplina monastica, non oserei
certo disturbare i miei superiori. Ma questo mostro ha preso il mio aspetto.»
Ed esposta in lungo e in largo la situazione, conclusero: «Spero che mi concederete la grazia di
distinguere il vero dal falso.»
L’Imperatore di Giada ordinò subito al re celeste Li Porta Pagoda di portare il suo specchio
rivelatore dei mostri, per distruggere il falso e salvare il vero e autentico. Re Li ubbidì e invitò
l’Imperatore e tutte le divinità a osservare l’operazione: il riflesso dei due Scimmiotti apparve nello
specchio al completo, sbarra, abito e smorfie, senza un pelo di differenza.
L’Imperatore stesso non avrebbe saputo come distinguerli, e perciò li fece mettere alla porta.
Uno sogghignava, l’altro sghignazzava. Si afferrarono l’un l’altro alla gola e ricominciarono a
battersi. Dalla porta del Cielo ricaddero sulla strada dell’Ovest, ripetendosi l’un l’altro: «Adesso
andiamo dal maestro.»
Nel frattempo Sabbioso, dopo un viaggio di tre giorni e tre notti, era ritornato alla capanna che
ospitava il monaco cinese, cui narrò gli ultimi avvenimenti. Tripitaka era pieno di rimorsi: «Ho
creduto che fosse Consapevole del Vuoto a colpirmi e derubarmi; non avrei mai sospettato che fosse
invece la trasformazione di un essere malefico.»
«Quella creatura perversa ha prodotto un altro reverendo con il cavallo bianco, un altro
Porcellino con i nostri bagagli, e perfino un altro me stesso. Questo non l’ho potuto sopportare, e
l’ho steso morto con una bastonata: allora ho visto che si trattava di una di quelle scimmie
malefiche. Sono andato a riferire tutto alla pusa, che mi ha mandato con il condiscepolo anziano a
smascherare l’impostore; ma si assomigliavano talmente, che io non sapevo chi aiutare. Ecco
perché sono ritornato a informarvi.»
Sotto l’impressione del racconto, Tripitaka era livido. Porcellino se la ridacchiava: «Com’è
divertente! Aveva ragione la nostra donatrice: c’è proprio in giro un’altra squadra di cercatori di
scritture.»
Vecchi e giovani di casa vennero a chiedere a Sabbioso: «Dove siete stato in questi giorni? Forse
a cercare fondi per il vostro viaggio?»
«Prima sono andato a cercare i nostri bagagli nel continente orientale» rispose sorridendo
Sabbioso. «Poi sono andato a salutare la pusa Guanyin sul Monte Potalaka, nei mari del Sud; e
infine sono tornato qui passando dal Monte di Fiori e Frutti.»
«Fra andata e ritorno, che distanza sarà?» domandò il padron di casa.
«Circa duecentomila li.»
«Monsignore! Una distanza simile in pochi giorni! Queste cose le fa soltanto chi viaggia sulle
nuvole!»
«E questo non è niente» aggiunse Sabbioso. «Il mio condiscepolo anziano non avrebbe
impiegato più di un giorno o due.»
La gente che li ascoltava era convinta di trovarsi di fronte a immortali.
«Nemmeno per sogno» diceva Porcellino. «Gli immortali, in confronto a noi, sono piccoli
mocciosi.»
Mentre discorrevano, sentirono in cielo il clamore di una contesa. Tutti si precipitarono allarmati
all’aperto: erano i due Scimmiotti, sempre impegnati nella zuffa. Porcellino si sentì prudere le mani:
«Lasciate fare a me; ci provo io a distinguerli.»
Il bestione si raccolse per balzare in cielo, annunciando: «Non gridare, fratello. Arrivo subito!»
«Bravo fratellino, vieni su e pesta sodo questo mostro» risposero a una voce i due Scimmiotti.
Divisi fra il piacere e la paura, i contadini dicevano: «Che onore! Questi arhat che cavalcano le
nuvole hanno scelto proprio casa nostra come luogo di convegno. Nemmeno se avessimo fatto voto
di nutrir monaci, ci troveremmo in casa degli ospiti così distinti.» Non risparmiavano né il riso né il
tè, e si sforzavano di prevenire i desideri degli ospiti. Ma dicevano anche: «Da questa guerra fra i
due Scimmiotti non verrà niente di buono. Finiranno per provocare disgrazie e per sconvolgere
l’universo.»
Tripitaka si rese conto che il viso lieto e lusingato del padron di casa nascondeva molta ansietà, e
gli disse: «Caro donatore, non vi tormentate, rassicuratevi. Quando avrò ricuperato il mio discepolo
e lo avrò ricondotto al bene, vi sapremo dimostrare la nostra gratitudine.»
«Non oserei certo pretenderlo» rispondeva con effusione il vecchio.
Sabbioso li interruppe: «Maestro, usciamo da questo vicolo cieco. Voi vi sedete qui e noi
cercheremo di portarveli davanti. Allora voi reciterete per un momento la cosa che sapete: chi
sentirà male sarà il vero, e l’altro il falso.»
«Giusto» approvò Tripitaka.
Sabbioso salì in alto e propose loro: «Fermatevi, voi due: venite dal maestro, perché provi lui a
distinguere il vero dal falso.»
Entrambi i grandi santi si arrestarono. Sabbioso ne afferrò uno per il bavero e gridò a Porcellino:
«Fratello, prendi l’altro e portiamoli giù.»
Quando scesero davanti alla capanna, Tripitaka recitò l’incantesimo e i due scoppiarono in
lamenti e gridarono: «Mi sono già battuto duramente, non recitate l’incantesimo! Fermatevi, vi
supplico!»
Il reverendo, che era di temperamento misericordioso, si fermò; ma gli riusciva impossibile
distinguere l’uno dall’altro. Entrambi si scrollarono dai loro custodi e ripresero ad azzuffarsi.
«Condiscepoli, voi badate al maestro, mentre io vado a chiedere l’aiuto del re Yama»
annunciarono l’uno e l’altro Novizio. E subito scomparvero, spingendosi e tirandosi l’un l’altro.
«Nella Grotta del Sipario Torrenziale» disse Porcellino a Sabbioso, «tu hai visto il falso
Porcellino che portava i nostri bagagli. Perché non glieli hai presi?»
«Quando ho colpito il falso Sabbioso, sono stato circondato e aggredito: ho dovuto fuggire a
precipizio. In seguito, quando sono ritornato alla grotta con il Novizio, ho perlustrato e messo tutto
a soqquadro, ma i bagagli non li ho trovati, e ho dovuto ritornare a mani vuote.»
«Lo vedi che non sei pratico del posto? Quando ero andato io alla grotta per convincere
Scimmiotto a ritornare con noi, ricordo benissimo che era andato a cambiarsi d’abito passando
attraverso una cascata d’acqua: la cascata cela un passaggio, che in realtà è la porta interna della
grotta. Probabilmente quella creatura ha nascosto i nostri bagagli là dietro.»
«Dal momento che conosci i luoghi» intervenne Tripitaka, «potresti approfittare della circostanza
che ora la grotta sarà deserta, per ricuperare le nostre sacche. Così potremmo proseguire la nostra
strada; anche se Scimmiotto ritornasse, non avremmo più bisogno di lui.»
«Vado senz’altro» rispose Porcellino.
«Fratello, ci sarà qualche migliaio di scimmie sul posto. Da solo ti potresti trovare in difficoltà.»
«Quelle non mi fanno paura» replicò Porcellino ridendo. Uscì di corsa, si lanciò su una nuvola e
partì per il Monte di Fiori e Frutti alla ricerca dei bagagli.
Intanto i due Scimmiotti gridavano e si colpivano sul Monte delle Tenebre, terrorizzando i
fantasmi di tutta la montagna, che correvano a nascondersi in tutti i buchi. Alcuni si precipitarono
verso i tribunali infernali, per recare la notizia al Palazzo della Rete della Foresta delle Apparenze:
«Maestà, sul Monte delle Tenebre sono arrivati due Grandi Santi Uguali al Cielo.»
Il re della prima sezione, allarmato, trasmise la notizia a quello della seconda, e così via fino alla
decima e ultima. In breve i dieci re si riunirono e mandarono ad avvertire d’urgenza il loro collega e
patrono Dizang. Se ne stavano chiusi nel Palazzo della Rete, mobilitando tutte le truppe per
catturare tanto il falso quanto l’autentico. Si udì mugghiare un vento violento, ed ecco in un turbine
di nera nebbia i due Scimmiotti rotolare avvinghiati dentro la sala.
I sovrani delle tenebre si avanzarono per sbarrare il passaggio: «Per qual motivo, grandi santi,
venite a turbare la nostra cupa dimora?»
«Mentre proteggevo il monaco cinese nel suo viaggio in cerca delle scritture, sulle montagne del
paese dei Liang dell’Ovest, mi è capitato di uccidere certi briganti che volevano rapinare il mio
maestro. A lui non è garbato, e mi ha scacciato; perciò mi sono allontanato, per chiedere aiuto alla
pusa dei mari del Sud. Questo mostro, non so come, ha avuto sentore della cosa, e in mia assenza ha
assunto il mio aspetto, ha aggredito il maestro e gli ha rubato i bagagli. Quando Sabbioso lo è
andato a trovare sulla mia montagna per reclamare i bagagli, ha preteso addirittura di prendere il
posto del mio maestro nella ricerca delle scritture. Sabbioso è corso anche lui a chiedere aiuto alla
pusa e mi ha trovato ai piedi del suo trono. Siamo ritornati insieme sul Monte di Fiori e Frutti e
abbiamo trovato questa creatura: la pusa non è stata in grado di distinguerci; allora siamo andati in
Paradiso, ma nemmeno gli dèi hanno saputo risolvere il problema. Ritornati dal maestro, i suoi
tentativi di riconoscerci non hanno avuto successo. Ecco perché sono venuto a turbare la vostra
cupa dimora: spero che nei vostri registri voi possiate scoprire l’origine del falso Scimmiotto,
metterlo senza indugio sotto processo e risparmiarci i disordini dello sdoppiamento dello spirito.»
Naturalmente il discorso fu pronunciato a una voce da entrambi.
I sovrani degli Inferi convocarono il giudice responsabile dei registri perché esaminasse i nomi
uno a uno: ma il ‘falso Scimmiotto’ non risultava. Fu esaminato anche il registro delle creature
pelose, dove le centotrenta rubriche concernenti le scimmie erano state cancellate appunto da
Scimmiotto, nell’anno in cui aveva conseguito il Tao e aveva messo sottosopra i tribunali infernali.
Da allora non figurava più alcun nome della specie scimmiesca. Dopo avere compulsato e
analizzato gli elenchi, il giudice venne a presentare il suo rapporto.
«Grandi santi» risposero solennemente i sovrani infernali, impugnando gli scettri, «non ci sono
altri registri da esaminare, presso di noi; dovrete risolvere il vostro problema nel mondo dei vivi.»
Ma mentre parlavano, si fece udire il pusa Dizang: «Aspettate un momento. Incarico Orecchio
Fino di distinguere il vero dal falso.»
Orecchio Fino era una bestiola che stava abitualmente accucciata sotto la scrivania del pusa;
orecchio al suolo, era in grado di distinguere i buoni dai cattivi e i saggi dai matti, fra bestie glabre,
a scaglie, pelose, piumate e con guscio, come fra gli immortali terrestri, celesti, divini, umani e
fantomatici. Per ordine di Dizang, la bestiola si andò ad acquattare in mezzo alla corte della Rete.
Appoggiò l’orecchio al suolo, lo rialzò e disse al suo maestro: «So il nome della creatura, ma non
posso dirlo in sua presenza, né partecipare alla sua cattura.»
«Che cosa accadrebbe, se tu lo dicessi?»
«Temo che la creatura diventerebbe cattiva, turberebbe gravemente il sacro palazzo e
provocherebbe seri guai nella residenza delle Tenebre.»
«E che cosa ti impedisce di collaborare a catturarlo?»
«I poteri di questo mostro non cedono in nulla a quelli del grande santo Scimmiotto. La forza
della legge di cui dispongono i giudici infernali non basta a catturarlo.»
«Se questa è la situazione, che cosa si può fare?»
«La legge del Buddha non conosce limiti.»
Dizang disse perciò ai due Novizi: «Avete entrambi lo stesso aspetto e gli stessi poteri. C’è un
solo modo per stabilire chi è ciascuno di voi: dovete recarvi al Monastero del Colpo di Tuono, dal
Beato dei Sâkya.»
«Avete ragione!» gridò ciascuno dei due. «Ora ti trascinerò nel Paradiso dell’Ovest, per chiedere
al Buddha di condannarti.»
I dieci giudici li accompagnarono all’uscita, presentarono a Dizang i loro ringraziamenti e si
asserragliarono nel Palazzo delle Nuvole Turchese, raddoppiando la guardia a tutti gli accessi.
Vedete dunque i due Scimmiotti che si accapigliano senza sosta fra le nuvole che corrono in cielo
nella direzione del Paradiso dell’Ovest. Lo attestano i versi:
Un cuore doppio conduce al disastro:
Il dubbio invade l’universo intero.
Si vuol denaro e pompa; i ranghi a corte
Non contano al disotto del più alto.
Spedizioni nel sud, campagne al nord,
Senza sosta o riposo. Folle vita.
Ben altra cosa è praticar lo zen
Ed il soffio vitale coltivare.
Tirandosi, spingendosi, afferrandosi, scuotendosi, progredivano nel loro viaggio aereo senza
smettere di lottare e di gridare, fino all’ingresso del Monastero del Colpo di Tuono, sul Monte degli
Avvoltoi nel Paradiso dell’Ovest.
I quattro eminenti pusa, gli otto grandi portatori di folgori, i cinquecento arhat, i tremila
rivelatori di verità, i monaci e le monache mendicanti, bhiksunî e bhiksu, upâsaka e upâsikâ, tutta la
folla dei santi era riunita ai piedi del trono di loto dei sette tesori ad ascoltare il Buddha che
esponeva la legge. Stava appunto spiegando questo passaggio:
«L’essere è nel non essere, il nulla nel qualcosa,
La forma nell’informe, la vacuità nel pieno,
E l’essere non è, il nulla non è il nulla,
Ha forma il senza forma, è vuoto ciò che riempie.
Vuoto e forma non sono nient’altro che sé stessi,
Ma forma non ha forma, è nient’altro che vuoto,
E il vuoto non ha un termine, non è altro che forma.
Il vuoto non è vuoto, la forma è senza forma.
Solo dire parole rischiara l’indicibile.»
La folla, a testa china in segno di ubbidienza, cantava i versi in coro, mentre il Beato faceva
piovere dal cielo fiori a profusione. A un tratto egli si alzò dal trono e disse alla moltitudine: «Voi
che siete uniti nel cuore e nello spirito, guardate venire lo spirito sdoppiato che lotta contro sé
stesso.»
Tutti alzarono gli occhi e videro i due Scimmiotti entrare nel sacro territorio del monastero,
urlando da scuotere il cielo e la terra. Gli otto portatori di folgori, allarmati, si fecero avanti per
fermarli: «Dove credete di andare?»
«Questo mostro ha preso il mio aspetto: devo recarmi ai piedi del trono perché sia il Buddha a
distinguere il vero dal falso.»
Era impossibile trattenerli. Avanzarono entrambi, continuando la baruffa, finché giunsero davanti
al Buddha, si inginocchiarono e dissero rispettosamente: «Il vostro discepolo, che ha l’incarico di
proteggere il monaco cinese in cerca delle autentiche scritture in questo sacro monastero, si è
prodigato molte volte per sormontare le insidie che diavoli e mostri gli tendono lungo la strada.
Negli ultimi tempi ci siamo imbattuti in una banda di briganti e, a due riprese, ne ho uccisi alcuni. Il
maestro me lo ha rimproverato e mi ha scacciato: non vuole più che lo accompagni a rendere
omaggio al corpo dorato del Beato. Non potevo far altro che correre nei mari del Sud per
lagnarmene con Guanyin. Intanto questo mostro ha inopinatamente usurpato il mio aspetto e la mia
voce, ha battuto il maestro e ha rubato i bagagli. Il mio condiscepolo Consapevole della Purezza
l’ha seguito fino alla mia montagna, dove la creatura perversa ha cercato di fargli credere che c’era
un altro santo monaco in cerca delle scritture. Sabbioso è corso anche lui nei mari del Sud a
informare Guanyin, che mi ha ordinato di ritornare in sua compagnia. Da quando ci siamo scontrati
non abbiamo smesso di batterci, in questa lotta fra il vero e il falso. Nessuno, dai palazzi del Cielo
alle sedi infernali, è stato in grado di distinguerci. Ecco perché ho l’estremo ardire di supplicarvi di
esercitare la vostra bontà, di concedermi la vostra commiserazione e di discernere finalmente il
giusto dal perverso; in modo che io possa riprendere ad accompagnare fino a voi il monaco cinese, e
assicuri eterna gloria alla nostra eminente dottrina portandone i sutra nelle terre dell’Est.»
A sentirli dire le stesse parole con la stessa voce, nessuno nella folla sarebbe stato in grado di
distinguerli. Solo il Beato sapeva. Era sul punto di parlare, quando apparve da sud una nuvola
colorata: era Guanyin che veniva a salutare il Buddha. Questi giunse le mani e le chiese: «Cara
Guanyin, di questi due Scimmiotti che vedi, a tuo giudizio, qual’è il vero e qual’è il falso?»
«Io non sono stata capace di distinguerli, quando sono passati dalla mia misera residenza; e
nessuno è riuscito a farlo, in Cielo e all’Inferno. Sono venuta qui appunto per pregarvi caldamente
di chiarirci come stanno le cose.»
«Per quanto sia vasta la potenza della legge» rispose sorridendo il Buddha, «voi non siete in
grado di fare altro che passare in rassegna gli avvenimenti dell’universo; ma non potete conoscere
tutto ciò che esso contiene, né aver notizia di tutte le specie che esistono al mondo.»
Guanyin lo pregò di esporne la classificazione.
«Come sapete ci sono cinque specie di immortali» spiegò il Beato; «cioè: quelli del cielo e della
terra, gli dèi, gli uomini e i fantasmi o diavoli. Ci sono inoltre cinque categorie di animali: glabri, a
scaglie, pelosi, piumati e col guscio. Tuttavia esistono quattro specie di scimmie che non rientrano
in alcuna di queste classificazioni.»
«Posso chiedere di quali scimmie si tratta?»
«La prima è la scimmia di pietra; ha grandi capacità, conosce a fondo le trasformazioni, le
stagioni del cielo e le risorse della terra; sa muovere le stelle e convocare le costellazioni. La
seconda è il macaco con la schiena rossa; è esperto tanto del gioco dello yin e dello yang, quanto
delle vicende degli uomini; è capace di entrare e di uscire, di evitare la morte e di prolungare la vita.
La terza è il gibbone dalle lunghe braccia; sa afferrare il sole e la luna, rimpicciolisce le montagne,
distingue il favorevole dal nefasto e gioca di destrezza in cielo e in terra. La quarta e ultima è il
macaco a sei orecchie, che ha un meraviglioso udito e penetra le leggi della natura, il passato e
l’avvenire: conosce ogni cosa. Queste quattro specie di scimmie non rientrano nelle dieci specie di
creature e non figurano nella lista degli esseri viventi celesti e terrestri. Secondo me, il falso
Scimmiotto non è altri che il macaco a sei orecchie. Dovunque si trovi, egli è in grado di sapere ciò
che avviene a una distanza di mille li, e ascolta ogni suono o parola. Perciò si dice che il suo udito è
meraviglioso e che egli penetra l’ordine della natura, il passato, il futuro e ogni cosa.»
Quando la scimmia udì il Beato rivelare la sua identità, prese paura e si raccolse per balzar via e
fuggire lontano; ma il Buddha ordinò alla folla di gettarsi su di lei. Fu perciò circondata dai quattro
pusa, dagli otto portatori di folgori, dai cinquecento arhat, dai tremila rivelatori, da bhiksu e
bhiksunî, da upâsaka e upâsikâ, da Guanyin e da Moksa; anche Scimmiotto volle essere della
partita.
«Non lo toccare, Consapevole del Vuoto» disse il Buddha. «Ora lo catturerò.»
Il macaco terrorizzato, con il pelo ritto, comprese di non avere via d’uscita; perciò si trasformò in
ape e volò via. Ma il Beato prese la sua ciotola d’oro delle elemosine e gliela rovesciò sopra; ciò
avvenne così rapidamente che nessuno se ne rese conto, e tutti credettero che fosse fuggito.
«Zitti» disse il Buddha sorridendo. «Il mostro non è fuggito: sta sotto la mia ciotola.»
Tutti si accostarono fissando gli sguardi intenti, e il Buddha sollevò la ciotola: ecco in effetti il
macaco a sei orecchie, che aveva ripreso il proprio aspetto. Scimmiotto non riuscì a trattenersi: gli
calò sulla testa un fendente del suo randello e lo uccise. Fu così che la specie si estinse; ai nostri
giorni non si vedono più macachi a sei orecchie.
«Bontà divina!» scappò detto al Beato.
«Non dovreste perdere tempo a impietosirvi di lui. Ha battuto il mio maestro, ci ha rubato i
bagagli: a norma di legge era passibile di decapitazione, per furto alla luce del giorno con violenze e
lesioni.»
«Sarà meglio che ritorni dal monaco cinese e ti sbrighi a condurmelo qui a prendere le scritture.»
«Vi devo informare» obiettò il grande santo prosternandosi, «che il maestro non vuole più
saperne di me. Io ci ritornerei; ma non serve a niente, se non mi vuole. Se non chiedo troppo,
dovreste recitare la formula che apre questo cerchio d’oro, in modo che io possa levarmelo dalla
testa e restituirvelo. Dopo di che, non mi resterà che ritornare allo stato laicale.»
«Non lasciarti sviare dai disordini del pensiero e non fare capricci. Ti accompagnerà Guanyin, e
non correrai nessun rischio che il monaco rifiuti di riprenderti con sé. Tu lo devi proteggere,
comunque vadano le cose. Quando l’impresa sarà compiuta, verrà anche per te il momento di
trovare la gioia suprema e il tuo posto sul trono di loto.»
A queste parole del Buddha, Guanyin giunse le mani e ringraziò per lui; poi se andò via con
Scimmiotto, Moksa e il pappagallo bianco. Presto furono in vista della capanna che ospitava
Tripitaka; quando Sabbioso li vide venire, chiamò il maestro perché uscisse a riceverli.
«Monaco cinese» gli disse Guanyin, «colui che ti ha colpito era un falso Scimmiotto, il macaco
a sei orecchie. Per fortuna il Buddha lo ha saputo smascherare, e Consapevole del Vuoto lo ha
ucciso. Bisogna che tu riprenda in servizio Scimmiotto. Sul cammino ci sono altri ostacoli
demoniaci, e la sua protezione ti è necessaria se vuoi raggiungere il Monte degli Avvoltoi, vedere il
Buddha e ottenere i sutra. Non gli essere ostile!»
«Obbedirò rispettosamente alle vostre istruzioni» rispose Tripitaka prosternandosi.
Mentre si scambiavano i convenevoli, giunse da oriente un turbine di vento. Tutti volsero gli
occhi in quella direzione, e videro Porcellino che ritornava con le due sacche sulle spalle. Alla vista
della pusa il bestione si prosternò per salutarla: «Il vostro discepolo ha trovato nella Grotta del
Sipario Torrenziale un falso monaco cinese e un falso Porcellino. Li ho uccisi entrambi: non erano
che scimmie. Ho ritrovato i bagagli e ho verificato che non mancasse niente. Ma non ho idea di
dove siano andati a finire i due Scimmiotti.»
Guanyin gli raccontò lo smascheramento della creatura malefica. Il bestione si rallegrò e
ringraziò ripetutamente.
Maestro e discepoli espressero la loro gratitudine inchinandosi a Guanyin, prima che se ne
ritornasse a casa. Ostilità e motivi di attrito si erano dissipati: essi avevano ritrovato il buon accordo
di un tempo.
Ringraziarono la gente di casa, misero in ordine i bagagli, sellarono il cavallo e ripartirono in
direzione della strada maestra dell’Ovest. È il caso di dirlo:
Se la separazione turba i cinque elementi,
La lotta contro i mostri di nuovo li riunisce.
Rientrata in sede l’anima, ci si può concentrare
E, sconfitti i sei sensi, l’elisir realizzare.
Se poi non sapete quando Tripitaka ottenne il privilegio di contemplare il Buddha e di ricevere le
scritture, non vi resta che ascoltare il seguito.
CAPITOLO 59
I MONTI DI FUOCO
IN CUI IL CAMMINO DI TRIPITAKA È SBARRATO DAI MONTI DI FUOCO, E SCIMMIOTTO AGITA PER UN
MOMENTO IL VENTAGLIO DI FOGLIE DI BANANO.
Unica la natura delle diverse specie
Ed immenso l’oceano che tutte in sé le accoglie.
Vani i pensieri, vane le pene che vi assalgono:
Nel mezzogiorno in cui conseguirete i meriti,
La legge sarà il sole che brillerà allo zenit.
Non vagare ad oriente, e nemmeno a occidente:
Férmati dove sei, la varietà dei casi
Respingi e ignora. Dentro il forno del cinabro
Concentra vita semplice, scaldala al calor rosso
Che anima il corvo d’oro. Raggiungerai bellezza,
Fascino e seduzione. Ti si vedrà viaggiare
Sull’ali del dragone.
Tripitaka riprese con sé Scimmiotto, secondo le istruzioni di Guanyin, come il racconto ha
riferito; e la comitiva riprese il cammino verso occidente dopo aver posto fine a ogni sdoppiamento
mentale, tenendo alla briglia la scimmia e il cavallo dello spirito, unendo le forze in una comune
volontà.
Non si finirebbe mai di raccontare il rapido avvicendarsi della luce e del buio, del sole e della
luna. Al cielo torrido dell’estate subentrò il gelo del tardo autunno. Guardate:
Rare nuvole lacera il vento d’occidente,
Sul broccato di brina la gru grida remota.
Il paesaggio di gelo si stende interminabile,
Volano oche selvatiche verso i passi del nord.
Neri uccelli ritornano ai sentieri del sud.
Nel suo mantello scuro, il viaggiatore sente
Un brivido percorrerlo, tanta è la solitudine.
Tuttavia, man mano che avanzavano, i quattro pellegrini sentivano la temperatura sempre più
calda, fino a diventare soffocante.
«Da dove può venire questo caldo, in una stagione così avanzata?» si stupì Tripitaka tirando le
redini.
«Non sapete» rispose Porcellino, «che nell’Ovest c’è il paese di Sihali, detto comunemente
Estremità del Cielo? È il posto dove scende il sole al tramonto. Al crepuscolo il re fa battere i
tamburi e suonare le trombe sulle mura, per coprire il rumore del gran ribollire che fa l’acqua
dell’oceano. Infatti quando il sole, che è tutto fuoco yang, si tuffa nell’acqua, essa stride e sibila al
suo contatto. Senza quel baccano di trombe e tamburi, i bambini del paese morirebbero di
convulsioni. Scommetto che sentiamo tanto caldo perché stiamo arrivando nel paese dove tramonta
il sole.»
Udendo queste elucubrazioni, il grande santo scoppiò a ridere: «Bestione, tu parli a vanvera. Sei
già arrivato a Sihali! Ma il maestro, col suo passo, non riuscirebbe ad arrivarci in tre vite, anche se
le impiegasse a camminare dal giorno della nascita a quello della morte.»
«Se questo non è il posto dove tramonta il sole, fratello, sentiamo come spieghi il caldo torrido.»
«Ci dev’essere qualcosa che va storto nel ciclo delle stagioni» intervenne Sabbioso. «A quanto
pare l’estate sta sopraffacendo l’autunno.»
Mentre discutevano, videro al bordo della strada una fattoria dai muri di mattoni rossi, coperta da
un tetto rosso, con porta rossa e finestre rosse: tutto rosso.
Tripitaka smontò da cavallo: «Consapevole del Vuoto, va in cerca di notizie e informati perché fa
così caldo.»
Il grande santo nascose la sua sbarra cerchiata d’oro, si aggiustò gli abiti, si diede l’aria più
distinta che poté e si avviò alla porta della fattoria; la quale si aprì, lasciando uscire un vecchio.
Indossava un abito di leggera tela di pueraria dal colore aranciato, portava un cappello di strisce di bambù color blu
scuro e si appoggiava a una canna di bambù. Sul viso rosso come il rame spuntava la bianca barba. Sopracciglia
cespugliose sovrastavano occhi azzurri e il suo sorriso scopriva denti d’oro.
Quando vide Scimmiotto fu colto di sorpresa, e gridò: «Da dove vieni, strana creatura? Che vieni
a fare alla mia porta?»
«Caro anziano donatore» rispose educatamente Scimmiotto, «non temete, non sono una strana
creatura. Il povero monaco che sono è inviato in missione imperiale dalle terre dell’Est a cercare le
scritture nell’Ovest. Siamo una comitiva di quattro pellegrini e, mentre attraversavamo la vostra
nobile regione, abbiamo notato una temperatura insolitamente alta per questa stagione. Del resto
non conosciamo nemmeno il nome del paese. Mi presento a voi per salutarvi e per chiedere
informazioni in proposito.»
«Non me ne vogliate, reverendo» rispose sorridendo il vecchio rassicurato, «se con la vista
debole della mia tarda età non mi sono reso conto di chi foste.»
«Prego, non c’è di che.»
«Dov’è il vostro rispettato maestro?»
«Eccolo laggiù, all’angolo della strada maestra.»
«Pregatelo dunque di venire.»
Scimmiotto fece allegramente segno di avvicinarsi, e Tripitaka venne avanti con Porcellino,
Sabbioso e il cavallo bianco; tutti salutarono il vecchio. Questi osservava l’aspetto dignitoso del
monaco e le insolite grinte dei suoi discepoli, diviso fra il piacere e il timore. Non poté comunque
sottrarsi dall’invitarli a entrare, mentre ordinava ai suoi di servire il tè e di preparare il pasto.
Tripitaka ringraziò e chiese: «Posso permettermi, nonno, di farvi una domanda? Come mai
l’autunno avanzato è tanto caldo da voi?»
«Il nostro paese si chiama Monti di Fuoco e non conosce stagioni: qui fa sempre caldo.»
«Dove si trovano questi Monti di Fuoco? Non saranno per caso lungo la strada dell’Occidente?»
«L’occidente? Non potete continuare in quella direzione. Le montagne si trovano precisamente
sulla strada maestra, a sessanta li dalla mia casa. Sono ottocento li di fuoco e fiamme, senza ombra
di vita né di vegetazione. Anche se aveste la testa di bronzo e il corpo di acciaio, sareste liquefatti
dal calore prima di arrivare a metà strada.»
Tripitaka impallidì e tacque.
Intanto passava un giovanotto, che spingeva un carrettino rosso e gridava: «Dolci! Comprate
dolci!» Quando si fermò davanti alla porta, Scimmiotto uscì, trasformò un pelo in una moneta di
bronzo e comprò un dolce. Il giovanotto prese per buona la moneta, aprì un sacchetto fumante di
vapore e ne trasse il dolce, che gli tese. Scimmiotto lo prese, e gli sembrò di tenere in mano un
pezzetto di brace incandescente, o un chiodo che uscisse allora da un forno al calor rosso. Se lo
palleggiava da una mano all’altra borbottando: «Scotta! Scotta! Scotta! Come si fa a mangiare
questa roba?»
Il giovanotto rideva: «Se il caldo vi fa paura, non dovevate venire qui. Tutto scotta, da queste
parti.»
«Ragazzo mio, quello che dici è senza senso. Dice l’adagio: senza caldo e senza freddo, niente
cereali. Se qui fa solo caldo, da dove viene la farina di cui è fatto il dolce?»
«Per sapere da dove viene la farina, bisogna chiederlo alla immortale Ventaglio di Ferro.»
«Che fa questa immortale?»
«Possiede un ventaglio di foglie di banano. Se è disposta a prestarvelo, il primo colpo spegne il
fuoco, il secondo fa soffiare il vento e il terzo fa piovere; a questo punto noi seminiamo a
aspettiamo la crescita dei cinque cereali che occorrono per vivere. Senza il ventaglio, qui non
crescerebbe un filo d’erba.»
Soddisfatto delle informazioni, Scimmiotto rientrò in casa per offrire il dolce a Tripitaka:
«Maestro, non vi state sempre a tormentare al pensiero di che cosa accadrà un altr’anno: su con la
vita! Quando avrete mangiato il dolce, vi racconterò qualcosa.»
Il reverendo prese il dolce e si rivolse all’ospite: «Vogliate accettarlo, caro signore.»
«Non mi permetterei di accettare il vostro dolce mentre non è stato ancora servito il tè.»
«Non prendetevi il disturbo di offrirci tè o cibo» disse Scimmiotto. «Mi basta sapere una cosa:
dove abita la immortale Ventaglio di Ferro?»
«A che proposito?»
«Il venditore di dolci mi ha detto che essa possiede un ventaglio di foglie di banano che al primo
colpo spegne il fuoco, al secondo solleva il vento e al terzo provoca la pioggia; e che voi in paese ve
lo fate prestare per coltivare i cereali. Vorrei andarla a trovare per chiederle anch’io in prestito il
ventaglio, che ci permetterà di attraversare i Monti di Fuoco.»
«Ciò che dite è vero, ma sarà difficile che sua santità acconsenta, se non le offrite i doni
opportuni.»
«Quali doni occorrono?» chiese Tripitaka.
«La gente di qui la va a sollecitare ogni dieci anni. Facciamo un bagno rituale e poi ci rechiamo
sulla montagna pregando con devozione, per invitarla a uscire dalla sua grotta e a venir qui a
esercitare i suoi poteri. Le offriamo quattro maiali, quattro montoni, fiori, carta moneta, incenso,
frutta, oche, polli e buon vino.»
«E la montagna dove si trova?» chiese Scimmiotto. «Come si chiama? Quanti li è lontana?
Lasciate che provi a chiederlo, quel ventaglio.»
«La montagna è a sud ovest e si chiama Monte delle Nuvole Turchese; la caverna si chiama
Grotta del Banano. I suoi fedeli impiegano un mese per l’andata e il ritorno, perché bisogna coprire
una distanza di millequattrocento sessanta li.»
«Va bene» concluse Scimmiotto ridendo. «Vado e torno.»
«Aspettate! Bevete il tè e mangiate, mentre prepariamo le provviste. Dovrete avere un paio di
compagni: la strada è infestata da tigri e lupi. Non sarà uno scherzo, è un viaggio lungo e
pericoloso.»
«State tranquillo, non mi serve niente» rispose Scimmiotto ridendo. «Torno presto!»
E scomparve.
«Avi miei!» esclamò il vecchio allarmato. «Ma è una persona divina, che monta per aria e
cavalca le nuvole!»
E mentre quella gente raddoppiava le attenzioni di cui circondava il monaco cinese, Scimmiotto
giunse in un batter d’occhio al Monte delle Nuvole Turchese. Arrestata la sua nuvola, esplorava il
posto per trovare l’ingresso della grotta, quando udì colpi d’ascia cadenzati: un boscaiolo tagliava
legna nel bosco. Il Novizio si rivolse nella sua direzione, e avvicinandosi lo udì canticchiare:
«Riconosco il mio bosco dalle nuvole:
Fra l’erba folta scompare il sentiero.
Sulle colline ad ovest vedo piovere:
Sarà profondo il guado, questa sera.»
Il Novizio si avvicinò e giunse le mani: «Ti saluto, fratello boscaiolo.»
Quello appoggiò l’ascia per rendere il saluto e chiese: «Dove andate, reverendo?»
«Ti posso chiedere, fratello boscaiolo, se questo è il Monte delle Nuvole Turchese?»
«Proprio quello.»
«E dov’è la Grotta del Banano della Immortale Ventaglio di Ferro?»
«C’è una Grotta del Banano» rispose ridendo il boscaiolo, «ma di immortali non ne conosco; c’è
solo la principessa Ventaglio di Ferro, che si chiama anche Râksasî.»
«Dicono che possieda un ventaglio di foglie di banano che spegne le fiamme dei Monti di Fuoco;
è lei?»
«È proprio lei. Il possesso di quel tesoro consente alla santa e saggia persona di spegnere il fuoco
e di proteggere la gente che ci vive vicino, che perciò la chiama immortale Ventaglio di Ferro. La
gente di qui non ha bisogno di lei e la conosce sotto il nome di Râksasî; d’altronde non è altro che la
moglie del re diavolo toro Granforzuto.»
Scimmiotto fu colto di sorpresa: «Mi imbatto in un’altra nemica» si diceva. «Dev’essere la
madre di Bimbo Rosso. Già lo zio, che incontrai nella Caverna della Distruzione dei Bambini sul
Monte della Liberazione dallo Yang, mostrava intenzioni vendicative e voleva rifiutarmi l’acqua che
mi serviva. Figuriamoci se la madre sarà disposta a prestarmi il ventaglio!»
Vedendo il Novizio, immerso nella riflessione, sospirare amaramente, il boscaiolo si mise a
ridere: «Reverendo, voi che avete abbandonato la famiglia, quale preoccupazione potete avere?
Seguite quel sentiero verso est e sarete alla grotta fra cinque o sei li. Non vi state a tormentare!»
«Ti dirò, fratello boscaiolo: io sono il primo discepolo del monaco cinese che la corte dei Tang
delle terre dell’Est ha inviato a cercare le scritture nel Paradiso dell’Ovest. Due anni fa ho avuto da
ridire con il figlio della Râksasî, Bimbo Rosso. Sono inquieto perché penso che lei me ne voglia e si
rifiuti di prestarmi il ventaglio.»
«L’uomo di valore sa leggere sul volto: non inventate pretesti per chiedere il prestito e non datevi
pensiero dei vecchi rancori. Vedrete che riuscirete a ottenerlo.»
Scimmiotto si inchinò profondamente: «Fratello boscaiolo, ti sono grato dei tuoi consigli. Vado.»
Si congedò dal boscaiolo e si recò alla Grotta del Banano, dove trovò la porta serrata. Che bel
paesaggio, tutto intorno!
Le rocce, essenza della terra, formano l’ossatura della montagna. La bruma conserva l’umidità della notte, il muschio
rinfresca il verde [...] È certo un luogo millenario, che reca le tracce dell’immortale [...]
Il Novizio gridò: «Fratello toro, aprimi la porta!» E i battenti cigolarono sui cardini e si aprirono.
Ne uscì una ragazza che reggeva un paniere di fiori e recava in spalla una piccola zappa; non aveva
trucco né gioielli, ma un bel viso vivace che rifletteva lo spirito del Tao. Il Novizio le andò incontro,
giunse le mani e disse: «Figliola, posso pregarti di annunciarmi alla principessa? Sono un monaco
in cerca delle scritture, in viaggio per l’Ovest. Poiché è difficile attraversare i Monti di Fuoco,
vengo a chiedere rispettosamente di avere in prestito per poco tempo il ventaglio di foglie di
banano.»
«Di quale monastero siete? Come vi chiamate? Chi devo annunciare?»
«Vengo dalle terre dell’Est e mi chiamo Scimmiotto Consapevole del Vuoto.»
La ragazza rientrò nella grotta e andò a inginocchiarsi ai piedi della Râksasî: «Signora, c’è alla
porta un monaco dell’Est, Scimmiotto Consapevole del Vuoto, che vorrebbe vedervi per chiedere in
prestito il ventaglio; gli servirebbe per attraversare i Monti di Fuoco.»
Il nome di Scimmiotto ebbe sulla Râksasî l’effetto del sale sulla fiamma, o dell’olio versato sul
fuoco: divenne rossa paonazza e una furia devastatrice le infiammò il cuore: «Scimmia maledetta!
Finalmente è capitata qui. Portatemi la corazza e le armi.»
Indossò subito l’armatura, impugnò in ciascuna mano una spada dalla lama azzurrina e uscì in
gran tenuta. Il Novizio, che si era defilato, la osservava:
Avvolto il capo in un fazzoletto a fiori, indossava una lunga veste di broccato a disegni di nuvole, da cui pendeva l’orlo
ricamato di una gonna; la vita era serrata da una doppia cintura di nerbo di tigre. Le scarpette dalle punte ricurve a
becco di fenice non erano più lunghe di tre pollici; le gambiere terminavano in barbe di drago dorate. Protendeva le
spade e gettava alte grida di collera, con smorfie feroci come quelle della donna della luna.
«Dove sei, Consapevole del Vuoto?»
Scimmiotto si fece avanti con un rispettoso salamelecco: «Cara cognata, vi presento i miei
omaggi.»
«Cognata?» esplose la Râksasî. «Non lo sono mai stata e non so che farmene dei tuoi omaggi.»
«Sono fratello giurato del vostro rispettabile marito, il re diavolo toro; facevamo parte di una
confraternita di sette persone. Come dovrei trattare vostra altezza, sua sposa legittima e principale,
se non da cognata?»
«Scimmia maledetta! Come puoi protestare questi vincoli di fraternità, dopo che hai gettato mio
figlio in un’orribile trappola?»
«Chi è vostro figlio?»
«Mio figlio è Bimbo Rosso, il grande santo re fanciullo della Grotta delle Nuvole di Fuoco nella
Gola del Pino Morto sul Monte del Singhiozzo, e tu lo hai distrutto. Non sapevamo come trovarti
per vendicarci. E ora che vieni alla mia porta, credi che ti possa perdonare?»
«Cognata» rispose Scimmiotto esibendo un largo sorriso, «avete torto a rimproverarmi senza
esaminare il caso. Il vostro benamato figlio aveva acchiappato il mio maestro e lo voleva cucinare,
non ricordo se lesso o al vapore. Per fortuna la pusa Guanyin levò il maestro dai guai e prese vostro
figlio al suo servizio, per esercitare le funzioni di ragazzo di Buona Fortuna. Ormai gode il giusto
frutto come pusa, oltre la vita e la morte, la purezza e l’impurità; condivide la longevità del cielo e
della terra, del sole e della luna. Mi dovreste ringraziare di avergli procurato questo destino
eccezionale, e invece mi venite a rimproverare: non ha senso.»
«Brutta scimmia dalla lingua bugiarda! Mio figlio non avrà perso la vita, ma non può più venire
da me: come potrei rivederlo?»
«Nulla vieta che mia cognata riveda il suo diletto figlio» replicò Scimmiotto, sempre sorridente.
«Voi prestatemi il ventaglio: quando avrò spento le fiamme e il mio maestro avrà potuto passare le
montagne, andrò nei mari del Sud a pregare la pusa di mandare Bimbo Rosso a riportarvelo. È
perfettamente possibile. Potrete constatare che sta benone e non ha un graffio; se non fosse così i
vostri rimproveri potrebbero essere fondati. Ma se è rimasto bello come prima, mi dovreste invece
ringraziare.»
«Scimmia del diavolo! Smettila di blaterare e prenditi in testa un bel colpo di spada. Se lo reggi
ti presterò il ventaglio; altrimenti ti spedirò da Yama, il giudice dell’Inferno.»
«Cognata, ogni vostro desiderio è un ordine» rispose Scimmiotto sorridendo e incrociando le
mani sul petto. «Ecco qua il mio cranio indifeso, che potrete picchiare quanto volete; vi fermerete
quando sarete stanca. Ma poi dovrete prestarmi il ventaglio.»
Senza altro indugio, la Râksasî roteò le spade e le abbatté per una dozzina di volte sulla testa di
Scimmiotto. Sembrava che il Novizio ci si divertisse; la Râksasî si spaventò e volse le spalle per
rifugiarsi nella grotta.
«Dove volete andare, cognatina? Adesso tocca a me: datemi il ventaglio.»
«Il mio tesoro non lo do in prestito così facilmente.»
«Se rifiutate, sarà il vostro cognatino a darvi una legnata sulla testa.»
Che bravo re scimmia! Con una mano la tratteneva; con l’altra, cavò da dietro l’orecchia la sua
sbarra e la fece crescere al diametro di una tazza. La Râksasî si liberò di lui e lo aggredì levando le
spade, mentre il Novizio roteava la sbarra. Non si parlò più di parentele: si scatenò un accanito
combattimento in cui si sfogavano vecchi rancori. Che battaglia!
La dama era un mostro fatto e finito, e odiava Scimmiotto a causa del figlio. Il Novizio sarebbe stato disposto a fare
concessioni, per conseguire lo scopo di aprire il cammino al suo maestro; aveva dapprima richiesto il prestito con buona
grazia e pazienza, senza arroganza né prepotenza. Ma la Râksasî non aveva voluto saperne, e aveva risposto con le armi
agli appelli alla parentela. Una donna non dovrebbe mai battersi con un uomo, perché l’uomo è più duro e finisce per
spezzarla. Che brutalità in quella sbarra cerchiata d’oro, che finezza nel gelido taglio di quelle lame azzurrine! Nessuno
si sottrae alla mischia accanita: con arte consumata, finta a destra, parata a sinistra! Uno affonda coprendosi le spalle,
l’altro manovra a meraviglia. Il sole si avvia al tramonto e il duello giunge al suo culmine. La Râksasî ricorre al suo
autentico ventaglio, e gli imprime un movimento che riempirà di timore uomini e dèi.
Dopo aver sostenuto la lotta fino a sera, la Râksasî incominciò a sentire quanto pesava l’arma di
Scimmiotto e a constatare che i suoi colpi divenivano più fitti. Capì di non avere altra via d’uscita:
prese il ventaglio di foglie di banano, lo fece ruotare lievemente e con un piccolo movimento
provocò una tale folata di vento magico che Scimmiotto non poté reggersi e scomparve
all’orizzonte, senza lasciar traccia. La Râksasî se ne tornò trionfalmente in casa.
Scimmiotto volava come una foglia portata dal vento d’autunno, come un petalo trascinato
dall’acqua del torrente; talvolta sprofondava in tuffi vertiginosi, ma prima che toccasse terra il vento
lo risollevava e lo faceva ruzzolare e capitombolare per aria, senza dargli modo di riprendere
l’equilibrio. Continuò così per tutta la notte; all’alba fu spinto contro una montagna e si aggrappò a
uno spuntone di roccia.
Gli ci volle tempo per riprendere fiato; poi si guardò intorno e non tardò a rendersi conto che era
finito sul Piccolo Sumeru. Sospirò: «Che donna tremenda! Che viaggio mi ha fatto fare! Ricordo di
essere venuto qui a sollecitare l’intervento del pusa Lingji per sconfiggere il mostro Vento Giallo e
liberare il mio maestro. La catena del Vento Giallo è tremila li più a sud: sono stato sospinto
indietro verso il punto di partenza di chissà quante diecine di migliaia di li. Mi informerò dal pusa
Lingji sul modo più rapido di ritrovare la mia strada.»
Mentre scendeva verso il monastero udì un colpo di gong. Il portinaio lo riconobbe e corse ad
annunciarlo: «È ritornato il grande santo con la faccia pelosa, che qualche anno fa vi aveva chiesto
aiuto per sottomettere il mostro Vento Giallo.»
Il pusa capì che si trattava di Scimmiotto, e scese dal suo trono per andargli incontro: «Vi faccio
i miei complimenti! Siete di ritorno con le scritture?»
«Per carità, non siamo ancora arrivati alla meta; ci manca parecchia strada.»
«Perché dunque ritornate sulle nostre desolate montagne, se non avete ancora raggiunto il
Monastero del Colpo di Tuono?»
«Da quando ci avete fatto il piacere di abbattere Vento Giallo, abbiamo incontrato tante prove
lungo il cammino che non ho tenuto il conto. Giunti ai Monti di Fuoco, ci è risultato impossibile
proseguire. La gente del posto mi ha parlato di un ventaglio con cui è possibile spegnere il fuoco.
Lo possiede l’immortale Ventaglio di Ferro; sono andato a trovarla e ho scoperto che è la moglie del
re diavolo toro, e la madre di Bimbo Rosso, di cui a suo tempo avevo fatto un paggio di Guanyin. Si
è rifiutata di prestarmi il ventaglio perché, dice, non può più vedere suo figlio per colpa mia.
Abbiamo combattuto, e quando si è resa conto che la mia sbarra era troppo pesante per lei, mi ha
spedito fin qui con un colpo di ventaglio. Ecco perché vi piombo in casa da maleducato, senza
preavviso. Mi sapreste dire a che distanza sono i Monti di Fuoco?»
«Quella donna si chiama anche Râksasî» rispose Lingji sorridendo. «Il suo ventaglio è un tesoro
meraviglioso, formato dal cielo e dalla terra dietro i monti Kunlun ai tempi della separazione del
Caos. Le foglie sono pura essenza dello Yin supremo; è questo che gli dà il potere di spegnere
qualunque soffio igneo. Un colpo di quel ventaglio provoca un tale vento yin, che un uomo viene
sospinto per ottantaquattromila li prima che cessi. Dal nostro monastero ai Monti di Fuoco ci sono
soltanto cinquantamila li: sarà la vostra abilità nel cavalcare le nuvole che vi ha permesso di non
essere sospinto più lontano, grande santo. Chissà dove sarebbe finito un uomo normale!»
«Quella donna è terribile! Mi chiedo come posso fare a condurre il mio maestro attraverso le
montagne.»
«Rassicuratevi, grande santo. Il vostro arrivo qui era evidentemente destinato dalla Legge, che si
prende cura di voi e vi garantisce il successo.»
«E in che modo lo garantisce?»
«Vedete: quando il Beato mi aveva impartito le sue direttive e mi aveva affidato la canna Drago
Volante, mi aveva dato anche una pillola per calmare il vento, che finora non ho avuto occasione di
utilizzare. Ora la darò a voi: il ventaglio non potrà più niente contro di voi. Così potrete
impadronirvene e compiere la vostra impresa.»
Il Novizio ringraziò calorosamente. Il pusa tolse dalla manica un sacchetto di broccato e ne cavò
una pillola, che Scimmiotto cucì saldamente con ago e filo sotto il collo della sua tunica.
«Non voglio trattenervi» disse il pusa accompagnandolo al cancello. «Troverete la montagna
della Râksasî dritta a nord ovest.»
Il Novizio si congedò e, con una capriola fra le nuvole, ritornò subito sul Monte delle Nuvole
Turchese, dove bussò con il suo randello alla porta della grotta: «Aprite! Il vecchio Scimmiotto
chiede il ventaglio in prestito!»
La ragazza di guardia corse ad annunciare: «Signora, è ritornato quello che chiede il ventaglio.»
La Râksasî si inquietò: «Non è facile sbarazzarsi di quella maledetta scimmia. Il mio tesoro
scaglia la gente a ottantaquattromila li di distanza: come avrà fatto a ritornare così presto? Questa
volta gli sparo una raffica di sventagliate; voglio proprio vedere se riesce ancora a trovare la strada
del ritorno.»
Balzò in piedi, si strinse le fibbie dell’armatura, impugnò le spade e uscì ad apostrofare
Scimmiotto: «Sei ancora qui; vuoi proprio che ti uccida!»
«Cognata» replicò il Novizio ridendo, «non vi credevo così tirchia. Quel ventaglio dovete
proprio prestarmelo. Vi assicuro che lo restituirò non appena il monaco cinese avrà attraversato la
montagna: io sono una persona di parola, non sono di quelli che non restituiscono le cose ricevute
in prestito.»
La Râksasî si infuriò più che mai: «Maledetto macaco, non hai un briciolo di buon senso né di
discrezione. Mi hai levato mio figlio, non te l’ho ancora fatta pagare, e tu mi vieni a chiedere dei
favori. Sarò proprio nello stato d’animo di darti retta! Ora non scappare, ma resta lì ad assaggiare le
spade della tua mammetta.»
Il Novizio parò calmo con la sua sbarra. Incrociarono le armi a sei o sette riprese; la Râksasî fu
presa dall’affanno e sentiva le braccia perdere vigore, mentre Scimmiotto andava in crescendo.
Vedendosi svantaggiata, afferrò il ventaglio e lo agitò davanti al Novizio; il quale non batté ciglio,
abbassò la sbarra e disse con un sorriso canzonatorio: «Questa volta non andrà come la volta
precedente: agitate pure il vostro ventaglio finché vi pare.»
Il tentativo, ripetuto, non ebbe successo. La Râksasî perse il sangue freddo e fuggì
precipitosamente dentro casa, sbattendo la porta alle sue spalle.
Scimmiotto strappò dal suo colletto la pillola antivento, se la mise in bocca, e si trasformò in un
insetto jiaoliao per intrufolarsi da una fessura.
La Râksasî gridava: «Ho una sete terribile. Datemi subito da bere.»
Una cameriera le portò una teiera e versò la bevanda profumata in una tazza; il tè, agitato dai
movimenti affrettati, fece un poco di schiuma. Scimmiotto, che ronzava intorno, ne approfittò per
nascondersi in una bollicina e l’assetata Râksasî, quando vuotò la tazza in due o tre sorsi, inghiottì
inavvertitamente anche lui.
Sceso nel ventre, egli riprese il suo aspetto e gridò a squarciagola: «Cognata, prestami il
ventaglio!»
La donna impallidì di spavento e chiese: «Ragazze, siete sicure che la porta di casa sia chiusa?»
«Ma certo!» risposero in coro le cameriere.
«Eppure sento vicinissima la voce di Scimmiotto.»
«Parlo dal tuo stomaco, come la voce della coscienza.»
«Che trucco è questo, Consapevole del Vuoto?»
«Non so fare giochi di prestigio» rispose Scimmiotto. «Tutto quello che faccio non è illusione,
ma realtà: mi sto effettivamente divertendo dentro le tue nobili budella, rispettabile cognata; qui c’è
il tuo fegato, e quelli sono i tuoi polmoni. So che sei tanto stanca e hai bisogno di stimoli: eccotene
uno per cominciare.»
E diede un bel calcio alla parete dello stomaco: la Râksasî si piegò in due e cadde a terra
gemendo.
«Un’altra cosa che può servire è questa.» E batté una zuccata nel cuore, provocandole un tale
dolore che la fece rotolare qua e là, con le labbra sbiancate e la fronte cerea, mormorando: «Pietà,
cognato!»
«Eccomi dunque riconosciuto per cognato» disse Scimmiotto rinunciando ad altri colpi. «Per
amore del gran fratello toro te la farò passar liscia, se ora mi presti il ventaglio.»
«Ma certo fratellino. Esci a prenderlo.»
«Prima fallo mettere a portata di mano. Non esco, se non lo vedo.»
La Râksasî mandò la cameriera a prendere il ventaglio e lo fece posare accanto a sé. Scimmiotto,
che era risalito fino alla gola per guardare fuori, dichiarò: «Dunque, cognata, ti farò grazia e mi
accontenterò di uscire dalla bocca, invece di aprirmi una strada da qualche altra parte. Ma tu devi
spalancare tre volte le mascelle.»
La Râksasî ubbidì e Scimmiotto volò via in forma di piccolo insetto, senza che lei se ne rendesse
conto. «Su cognatino, deciditi a uscire» diceva, accingendosi a spalancare la bocca per la terza
volta.
«Sono già fuori» rispose il Novizio, che aveva ripreso il suo aspetto ordinario e impugnava il
ventaglio. «Grazie del prestito.»
E se ne andò a lunghi passi, mentre le cameriere si affrettavano ad aprirgli la porta per farlo
uscire.
Il grande santo indirizzò la sua nuvola a est e presto atterrò davanti all’edificio di mattoni rossi.
«Maestro, è ritornato!» esclamò allegro Porcellino quando lo vide.
Tripitaka uscì ad accoglierlo, con il padron di casa e con Sabbioso.
«È il ventaglio giusto?» chiese Scimmiotto, mostrandolo al vecchio.
«Proprio quello» rispose il padron di casa.
«Saggio discepolo» commentò Tripitaka tutto contento, «i tuoi meriti sono davvero esorbitanti.
Avrai dovuto penare molto per ottenere questo tesoro.»
«Non ne parliamo! Sapete chi è l’immortale Ventaglio di Ferro? Nientemeno che la moglie del re
diavolo toro, la madre di Bimbo Rosso.» E Scimmiotto raccontò tutta la storia. [...]
Tripitaka manifestò la sua gratitudine, e poi maestro e discepoli si congedarono dal vecchio.
Percorsero una quarantina di li verso occidente, e il caldo divenne sempre più soffocante. «Sento
i piedi arrostiti» gemeva Sabbioso. «Mi bruciano le zampe» rincarava Porcellino. Il cavallo trottava
svelto e nervoso, per tenere il meno possibile gli zoccoli a contatto del suolo, che era rovente e
rendeva il cammino penosissimo.
«Maestro, smontate da cavallo» propose Scimmiotto. «Fermiamoci qui. Aspettate che spenga il
fuoco e provochi la pioggia: proseguiremo quando il terreno si sarà raffreddato.»
Il Novizio si accostò dunque al fuoco e agitò il ventaglio a tutta forza: le fiamme si alzarono più
alte che mai sul fianco della montagna. Altro colpo di ventaglio: cento volte peggio. La terza volta,
le fiamme salirono a mille tese e lui corse il rischio di finire in cenere: dovette ritirarsi a precipizio,
con i peli delle cosce tutti strinati. Corse verso il monaco cinese: «Marcia indietro! Scappiamo via,
il fuoco viene da questa parte!»
Il maestro rimontò a cavallo e corse con i discepoli per una ventina di li; quando si fermarono,
chiese: «Che cos’è accaduto, Consapevole del Vuoto?»
«Non è mica il ventaglio giusto» brontolò Scimmiotto gettandolo via. «Quella donna mi ha
fregato.»
Tripitaka aggrottò le sopracciglia e si sentì così addolorato che si mise a piangere: «E adesso,
come facciamo?»
«Fratello, perché ci hai fatto scappar via come matti?» chiese Porcellino.
«Al primo colpo di ventaglio il fuoco mugghiava, al secondo ancor più, al terzo le fiamme sono
salite a mille tese. Il mio pelo stava prendendo fuoco.»
«Ma non dici sempre che il fulmine non ti colpisce e il fuoco non ti brucia?» replicò Porcellino
ridendo sarcastico. «Adesso il fuoco ti fa paura?»
«Bestione incompetente che non sei altro! Per difendermi dal fuoco devo stare in guardia e
prendere le mie misure. Oggi non avevo fatto il passaggio per allontanare le fiamme e non avevo
adottato protezioni, perché credevo di poter spegnere tutto senza problemi: ed ecco qua le strinature
che mi sono rimaste sulle cosce.»
«Che facciamo?» domandò Sabbioso. «Non siamo in grado di superare un fuoco così intenso.»
«Si potrebbe passare dove il fuoco non c’è» suggerì Porcellino.
«Da dove?» chiese Tripitaka.
«A est, nord e sud non c’è fuoco» rispose Porcellino.
«E le scritture da che parte sono?»
«Quelle stanno a ovest» concesse Porcellino.
«E io voglio andare dove sono le scritture» concluse Tripitaka.
«Fuoco nella direzione delle scritture; niente scritture nelle altre direzioni. È un vicolo cieco»
chiosò Sabbioso.
Mentre discutevano senza costrutto, una voce chiamò: «Grande santo, non vi arrovellate.
Mettetevi a tavola e mangiate uno spuntino vegetariano; delle vostre difficoltà ci sarà agio di
riparlare.»
Tutti e quattro si volsero e videro un vecchio avviluppato in un mantello ondeggiante, con in
capo un berretto a mezzaluna, in mano un bastone con il pomo a testa di drago e ai piedi stivali di
ferro. Lo seguiva un diavolo con un gran becco di falco e guance di pesce, che recava in capo una
ciotola di rame piena di biscotti, dolciumi, miglio e riso.
«Sono la divinità locale dei Monti di Fuoco» spiegò il vecchio inchinandosi. «Ho saputo che il
grande santo protegge il monaco cinese e che non potete proseguire il vostro cammino; perciò sono
venuto a offrirvi uno spuntino.»
«Il cibo è una cosa secondaria, quando si è immersi in tanti guai» replicò Scimmiotto. «Che
possibilità vedete di spegnere il fuoco e di proseguire?»
«Solo il ventaglio di foglie di banano può spegnere questo fuoco.»
Scimmiotto raccolse da terra il ventaglio, dove l’aveva gettato: «Non è questo il ventaglio? Ma
ad agitarlo il fuoco si attizza: come mai?»
La divinità locale esaminò l’oggetto e si mise a ridere: «Questo non è il vero ventaglio. La
Râksasî vi ha turlupinato.»
«Come posso ottenere quello vero?»
La divinità curvò il dorso e rispose con un sorrisetto: «Per avere l’autentico ventaglio, lo dovrete
chiedere al re Granforzuto.»
Se poi non sapete il perché, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 6O
UNA DONNA OLTRAGGIATA
IN CUI IL DIAVOLO TORO ABBANDONA IL DUELLO PER RECARSI AL FESTINO, E SCIMMIOTTO SI
PROCURA PER LA SECONDA VOLTA IL VENTAGLIO DI FOGLIE DI BANANO.
«Il re Granforzuto non è altri che il re diavolo toro» aggiunse la divinità locale.
«È stato lui a mettere il fuoco in queste montagne?» chiese Scimmiotto.
«Nemmeno per sogno. Vi potrei dire chi è stato, grande santo; ma solo se perdonate in anticipo
l’audacia dell’umile dio che sono.»
«Va bene, sei perdonato; sentiamo.»
«A mettere il fuoco in queste montagne siete stato voi, grande santo.»
«Ma se non sono mai passato da queste parti prima d’ora! Come puoi spacciare questa insulsa
bugia?» reagì il Novizio andando in collera. «Dovrei farmi dare dell’incendiario e restare zitto?»
«Voi non vi ricordate di me. Vedete, in questo posto una volta non c’erano montagne.
Ricorderete quando metteste a soqquadro i palazzi del Cielo, foste catturato dall’illustre santo
Erlang e consegnato al signore Laozi, che vi mise dentro il forno degli otto trigrammi. Quando il
forno venne aperto, voi balzaste fuori e rovesciaste tutto quanto: le braci caddero qui e divennero i
Monti di Fuoco. Io ero l’inserviente addetto a quel forno: fui rimproverato di negligenza e venni
esiliato qui a esercitare le funzioni di divinità locale.»
«Ora mi spiego perché sei agghindato in quello strano modo» brontolò Porcellino di malumore.
«Non sei una vera divinità, ma un taoista travestito.»
«Ma spiegami» insisté Scimmiotto, convinto a metà, «perché è necessario chiedere l’intervento
del re Granforzuto.»
«Il re ha abbandonato la Râksasî ed è andato a vivere nella Grotta Toccanuvole del Monte
Mucchio di Tuoni. Là viveva un re volpe, morto all’età di diecimila anni, che ha lasciato erede
universale la figlia, la principessa Viso di Giada, ricca a milioni e senza alcun sostegno per
amministrare il suo patrimonio. Un paio d’anni fa lei ha preso informazioni sulle grandi capacità del
re diavolo toro e gli ha proposto di mettere i suoi beni nelle sue mani, a condizione che accettasse di
vivere con lei come sposo. Perciò il toro ha piantato in asso la Râksasî. Se ora voi, grande santo, lo
convinceste a ritornare, penso che la Râksasî acconsentirebbe in cambio a ogni vostra richiesta. Se
voi otteneste il ventaglio, ne ricaveremmo tre grandi vantaggi: il primo è che il vostro viaggio
potrebbe proseguire; il secondo, che le fiamme sarebbero spente una volta per tutte: sarebbe un bel
sollievo per chi vive nel paese; il terzo, che non sarebbe più necessario che io resti qui a fare la
guardia alla carbonella: potrei essere perdonato e riammesso in servizio nel palazzo del signore
Laozi.»
«Dove si trova questo Monte Mucchio di Tuoni? Quant’è lontano?»
«Tremila li verso sud.»
Scimmiotto affidò il maestro a Porcellino e Sabbioso, e raccomandò alla divinità locale di far
loro compagnia; poi scomparve in un turbine di vento.
In breve giunse in vista di una montagna alta fino al cielo; abbassò la sua nuvola e contemplò il
panorama.
Quant’è alta? Da toccare l’azzurro. Quanto è grande? I suoi burroni scendono fino alle Sorgenti Gialle. Le pareti sono
tiepide di sole, ma la cresta è coperta di ghiaccio. Sul lato soleggiato crescono alberi che non conoscono l’inverno;
dietro la cresta trovi ancora ghiaccio nel cuore dell’estate. Dal lago di draghi scende una cascata; accanto al rifugio della
tigre, sotto le alte rupi, i fiori sbocciano presto. La cascata si suddivide in mille rivoli di giada. I fiori sbocciati formano
un broccato. Alberi contorti sulle creste dentellate; pini svettanti sulle rupi svettanti.
È quella che si dice un’alta montagna: ripide creste, rupi scoscese, profondi burroni, fiori odorosi, bei frutti, liane rosse,
bambù violetti, pini azzurri, verdi salici: lo stesso immutabile aspetto attraverso il tempo, gli stessi colori dalla più
remota antichità, come i draghi.
Saziatosi dello spettacolo, il grande santo scese passo passo giù per la scarpata e si inoltrò alla
ricerca di un sentiero. Stentava a orientarsi, quando vide sbucare dall’ombra di un pino una bella
donna che teneva in mano un’orchidea profumata. Il grande santo si nascose dietro una roccia per
osservarla:
È dotata della bellezza che può rovesciare gli imperi, e cammina su piedini di loto. Ha il viso di Wang Zhaojun e la
grazia di una ragazza di Chu: un fiore che sa parlare, una giada che emana profumo. Le crocchie dei suoi capelli sono
nero-azzurrine, gli occhi sottolineati in verde. La gonna pieghettata lascia vedere scarpine a punta ricurva; maniche
turchese lasciano spuntare manine affusolate, bianche come la farina. Non parlatemi di piogge della sera e di nubi del
mattino, guardando quei denti scintillanti tra le labbra rosse! La sua pelle è dolce come il Fiume di Broccato, eclissa
Zhuo Wenjun e Xue Tao.
Quando gli fu vicina, Scimmiotto s’inchinò e la salutò dicendole con dolcezza: «Dove andate,
cara pusa?»
La donna restò di sale, al vedersi improvvisamente davanti una faccia tanto brutta. Se ne stava lì
tremante e incapace di avanzare o retrocedere, finché riuscì a balbettare: «Da dove venite? Chi
cercate?»
Scimmiotto rifletté: «Potrebbe essere una parente del re toro: è prudente che non entri nei
particolari. Fingerò di avere un incarico dalla famiglia.»
Intanto la donna si riprese dalla sorpresa e gridò: «Chi sei tu, per permetterti di rivolgermi la
parola?»
«Vengo dal Monte delle Nuvole Turchese» rispose Scimmiotto sorridendo e inchinandosi, «ed è
la prima volta che vedo questi nobili luoghi; perciò non conosco la strada. Posso sapere se questo è
il Monte Mucchio di Tuoni?»
«Certo che lo è.»
«E da che parte si trova la Grotta Toccanuvole?»
«Perché la cerchi?»
«Devo invitare il re diavolo toro da parte della principessa Ventaglio di Ferro, della Grotta del
Banano sul Monte delle Nuvole Turchese.»
A sentir parlare di Ventaglio di Ferro, la donna arrossì fino alla radice dei capelli ed esplose in
ingiurie: «Quella puttana non lo vuol capire! Il re toro è venuto ad abitare qui da nemmeno due
anni, e ha già mandato non so quanto oro, argento, perle e gioielli, rotoli di damasco e di satin. Ogni
anno le faccio spedire la legna, ogni mese il riso. Ha tutto quello che le può occorrere, ma
evidentemente non le basta: invita anche il re. Ditemi voi che cosa vuole!»
Scimmiotto capì che aveva davanti la principessa Viso di Giada e assunse un atteggiamento
minaccioso: «Sei tu la puttana, bella mia, che hai accalappiato il re toro a suon di quattrini. Ti
dovresti vergognare. Ma lo sai chi ti permetti di insultare?»
La donna sentì le sue anime abbandonarla: volse le spalle e fuggì via, inciampando nei suoi loti
d’oro e tremando come una foglia. Scimmiotto le correva dietro strillando. Usciti dal bosco di pini
giunsero all’ingresso di una grotta, in cui la giovane donna si rifugiò sbattendo la porta. Il grande
santo ripose il randello che aveva impugnato e si guardò intorno: davvero un bel posticino.
La fitta foresta si stende fra le rocce scoscese: nel groviglio delle liane penetra il profumo delle orchidee. La sorgente
sgorga in un bacino di giada e scorre fra i bambù e le rocce civettuole, che si adornano di petali caduti. Le cime remote
sono avvolte nella bruma che attenua la luce del sole.
Ai nitriti del drago rispondono i ruggiti della tigre. Grida di gru, canti di rigogoli: regna la quiete sull’erba di diaspro
adorna di fiori preziosi. La grotta regge il confronto con quella della Terrazza del Cielo, è più bella delle isole degli
immortali.
Mentre Scimmiotto si perdeva a contemplare il bel paesaggio, la giovane donna, sudata per
l’affanno, comprimendosi il cuore agitato dallo spavento, si precipitò nella biblioteca, dove il re
toro si abbandonava al tranquillo piacere di leggere libri di alchimia. Si gettò fra le sue braccia e
scoppiò in singhiozzi, tormentandosi le guance e tirandosi i lobi delle orecchie.
«Non tormentarti, bellezza» le disse il re toro sorridendo. «Che cosa ti succede?»
Lei, tutta agitata, si lagnava: «Diavolo che sei, mi farai morire!»
«Perché te la prendi con me?» chiese il re toro senza abbandonare il sorriso.
«Ti avevo chiesto di proteggermi e di occuparti di me, perché ero rimasta sola al mondo. Tu
avevi la reputazione di uomo capace e coraggioso: ma ora scopro che non sei altro che un misero
marito terrorizzato da sua moglie.»
«Bellezza mia» replicò il re toro prendendola fra le braccia, «se ti ho fatto un torto dimmelo
subito: non chiedo di meglio che di ripararlo.»
«Passeggiavo tra i fiori qui vicino e coglievo orchidee, quando mi è sorto davanti un monaco con
la faccia pelosa e la gola da duca del tuono. Quando mi ha salutato, ero paralizzata dalla paura. Poi
mi sono ripresa e gli ho chiesto chi fosse: lui mi ha detto che portava un invito per te da parte della
principessa Ventaglio di Ferro. Non gli ho detto che due parole per metterlo al suo posto, ma lui si è
scatenato e mi ha inseguito alzando un gran bastone: se non avessi corso a tutta velocità, mi avrebbe
uccisa. Dimmi tu se mi procuri altro che guai, e se non posso dire che mi vuoi morta.»
Il re toro le presentò scuse solenni e dovette farle molte coccole, prima di riuscire a calmarla.
Infine manifestò il suo disappunto: «Mia cara, non ti ho mai nascosto niente. La Grotta del Banano
è in un posto fuori mano, ma libero e puro. Mia moglie è un’immortale che ha conseguito il Tao fin
dalla prima giovinezza: tiene in ordine la sua casa e la moralità di chi la abita. Com’è possibile che
si sia servita di un uomo come quello che mi descrivi? Penso che sia un mostro che abusa del suo
nome per avvicinarmi. Aspetta che esca per mettere in chiaro le cose.»
Il bravo re diavolo uscì dalla biblioteca e andò in sala a indossare l’armatura e a prendere un
randello di ferro lavorato. Poi si fece sull’uscio e gridò: «Chi è l’insolente che viene qui a
comportarsi da villano?»
A Scimmiotto, che si teneva defilato, parve che il suo atteggiamento fosse molto diverso da
quello consueto di cinquecento anni prima. Ecco qua:
In capo un elmo di ferro, polito e scintillante come argento, l’armatura d’oro è adorna di broccati e ricami, calza stivali
di daino dalla suola bianca con le punte ricurve, porta alla vita una tripla cintura decorata col motivo del barbaro e del
leone.
Occhi brillanti come specchi e sopracciglia come arcobaleni; labbra scarlatte e denti di bronzo. Al suo ruggito trema la
montagna, il suo fiero passo mette in fuga gli spiriti maligni. Famoso nei quattro mari, è Granforzuto, il re diavolo
dell’Ovest.
Scimmiotto si rassettò e si presentò con una gran riverenza: «Fratello maggiore, riconosci ancora
il tuo fratello minore?»
«E così sei Scimmiotto Consapevole del Vuoto, il Grande Santo Uguale al Cielo» rispose il re
toro rendendogli il saluto.
«Quanto tempo che non ci vediamo! Ho avuto il piacere di ritrovarti, grazie alle indicazioni di
una giovane donna. Mi congratulo, vecchio mio: non ti avevo mai visto un’aria tanto prospera.»
«Sta zitto, chiacchierone» brontolò il re toro. «Ho sentito raccontare che, dopo i disordini che
provocasti in Cielo, il Buddha ti aveva sepolto sotto il Monte dei Cinque Elementi; e che
ultimamente eri stato liberato e proteggevi il monaco cinese che cerca le scritture nell’Ovest. Ora
spiegami perché hai aggredito mio figlio alla Grotta della Nuvola di Fuoco. Io non ti voglio più
vedere; come ti è venuto in mente di venirmi a cercare?»
«Caro fratello maggiore» rispose Scimmiotto inchinandosi di nuovo, «non prendertela con tuo
fratello prima di considerare obiettivamente i fatti. Il tuo benamato figlio si era impadronito del mio
maestro e voleva mangiarselo. Del resto, io non sono riuscito nemmeno a mettergli le mani
addosso: è intervenuta la pusa Guanyin e lo ha riportato sulla buona strada. Adesso tuo figlio è il
suo ragazzo di Buona Fortuna e, se permetti, si trova in una posizione più elevata della tua. Inoltre
gode gioia assoluta e longevità senza limiti. Che cosa c’è in questa storia che tu mi possa
rimproverare?»
«Furbacchione di un macaco! Mettiamo che su mio figlio non ci sia niente da ridire. Ma è vero o
no che, un momento fa, hai maltrattato la mia amata concubina? Perché l’hai minacciata e l’hai
rincorsa fino a casa?»
«Il fatto è che ti stavo cercando e le ho chiesto rispettosamente se mi poteva indicare la tua
residenza; non sapevo nemmeno di parlare alla mia seconda cognata» rispose sorridendo il grande
santo. «Lei mi ha risposto con male parole e io, devo ammetterlo, sono stato un po’ rude e devo
averla spinta un pochino. Ti prego di scusarmi.»
«Visto come metti le cose, in considerazione della nostra vecchia amicizia, sei perdonato.»
«Sei magnanimo, ti ringrazio molto. Oso chiedere il tuo aiuto in una faccenda molto importante
per me.»
«Benedetto macaco impertinente! Ti ho perdonato, e tu dovresti avere il buon gusto di
scomparire. Invece ricominci a rompere le scatole: che cosa vuoi?»
«Devi sapere, fratello, che il monaco cinese che proteggo è bloccato nel suo cammino dai Monti
di Fuoco. La gente del posto mi ha riferito che la mia rispettabile prima cognata possiede un
ventaglio di foglie di banano che risolverebbe il problema. Ieri sono andato alla tua vecchia
residenza a salutarla e chiederle in prestito il ventaglio; ma lei non ne vuol sapere. Questo è il mio
problema. Spero che, nella tua immensa generosità, mi accompagni da lei per convincerla a
prestarmi quell’oggetto; lo restituirò non appena avrò spento le fiamme per far passare il mio
maestro.»
Il re toro divenne rosso dalla rabbia e digrignò i denti: «Ecco da dove vengono i tuoi bei discorsi:
parli per interesse, vuoi solo il ventaglio. Scommetto che hai maltrattato mia moglie; lei ha rifiutato,
e allora te la sei presa anche con la mia concubina. Dice il proverbio: moglie d’amico non umiliare,
la concubina non sfruculiare! E tu, brutto stronzo, che cosa hai fatto? Hai umiliato l’una e
sfruculiato l’altra. Adesso ti do il fatto tuo.»
«Se mi vuoi picchiare, fratello, accòmodati. Ma ti supplico sinceramente di non negarmi il
prestito.»
«Reggi tre assalti, e dirò a mia moglie di dartelo. Altrimenti ti ammazzerò per lavare l’affronto.»
«Ben detto, fratello. Non ci vediamo da tanto tempo, per colpa mia che non ti sono venuto a
cercare: non so a che punto sia arrivata la tua abilità militare. Vediamo come ce la sappiamo cavare
nella scherma col bastone.»
Il re toro non era d’umore conversevole; alzò la sua sbarra di ferro lavorato e l’abbatté a tutta
forza. Il grande santo parò. Fu un bel combattimento:
Hanno i volti alterati e abbandonano il linguaggio amichevole. «Ti odio per il danno che hai recato a mio figlio,
macaco!» Risponde l’altro: «Tuo figlio ha trovato la Via, non hai niente da rimproverarmi.» «Come hai osato bussare
alla mia porta?» «Non lo avrei fatto se non mi fossi trovato in stato di necessità.» L’uno chiede il ventaglio per
proteggere il monaco cinese, l’altro lo nega per avarizia. Scompare ogni amicizia in queste circostanze, resta solo la
collera [...]
In capo a un centinaio di scontri, la situazione era ancora indecisa. A quel punto si sentì chiamare
dalla strada: «Messer toro, il nostro grande re manda i suoi omaggi e vi prega di onorare il suo
banchetto con la vostra presenza.»
Il re toro bloccò la sbarra di Scimmiotto e gli disse: «Fermo, macaco: ora ho altro da fare.
Riprenderemo la discussione quando ritornerò da questo convegno di amici.» E rientrò in casa a
informare la principessa Viso di Giada: «Bellezza mia, quel tizio con la gola da duca del tuono era il
macaco Scimmiotto, che ho messo in fuga con qualche bella legnata. Sta certa che non si farà
rivedere: puoi muoverti e divertirti in tutta sicurezza. Io vado a bere un bicchiere da un amico.»
Levò elmo e corazza, si infilò una giacchetta di velluto giallo canarino, inforcò la bestia dalle
pupille d’oro che allontana le acque e se la filò fra il lusco e il brusco, diretto a nordovest.
Il grande santo, che vedeva tutto dall’alto della montagna, si disse: «Chissà quali amici si è fatto
il vecchio toro in questi ultimi tempi. Andiamo a vedere.»
Il bravo Scimmiotto, con una piccola scossa, si mutò in una corrente d’aria fresca e lo seguì.
Giunsero su un’altra montagna, e il re toro a un tratto scomparve. Scimmiotto riprese la propria
forma e si mise alla sua ricerca. In breve scoprì un profondo lago dalle limpide acque; sulla riva una
stele portava questa scritta in sei grandi caratteri:
LAGO DEI FLUTTI VERDI SUL MONTE DELLE ROCCE CAOTICHE
«Se n’è andato là sotto» pensò Scimmiotto. «L’amico sarà un mostro acquatico: caimano, drago,
pesce o tartaruga. Vediamo.»
Fece un passo magico, recitò un incantesimo e si mutò in un granchio, né grosso né piccolo:
pesava le sue trentasei libbre. Fece un tonfo nel lago e scese sul fondo; là vide un portico con belle
sculture, davanti al quale era legata la bestia dalle pupille d’oro. Oltre l’ingresso, ci si muoveva
all’asciutto. Scimmiotto scivolò dentro e, tendendo l’orecchio, udì che si faceva musica. Si vedeva
un palazzo di perle con archi di conchiglie, diverso dalle costruzioni di questo mondo. Tegole d’oro, travi di giada
bianca. I paraventi sono di gusci di tartaruga, le balaustre di corallo. Luminose nuvole di buon augurio circondano il
trono di loto; esse uniscono gli astri del cielo ai viali della terra. Non è il palazzo del Cielo né il tesoro del mare, ma
rivaleggia con le più belle residenze. Nella vasta sala si trovano riuniti gli ospiti: mandarini grandi e piccoli, con berretti
da cerimonia. Fanciulle di giada servono piatti d’avorio e poi suonano sui loro strumenti musiche celesti. Le cantanti
sono lunghe balene, i danzatori granchi giganteschi; tartarughe suonano il flauto e percuotono il tamburo. Tavole e
coppe brillano di perle luminescenti. Caratteri sigillari in forma di uccelli si allineano su tabelle di piume di martin
pescatore; tendaggi di barbe di gambero pendono dalle pareti delle gallerie.
Gli otto suoni si mescolano in divina armonia; le note scandite risuonano fino all’empireo. Le fanciulle che
intrattengono gli ospiti, carpe dalla testa verde, pizzicano liuti di diaspro, mentre i ragazzi dagli occhi rossi suonano
flauti di giada. Donne pesce servono vassoi di odorosa selvaggina recandoli in capo; le acconciature delle fanciulle
drago agitano ali di fenice d’oro. Che si serve in tavola? I piatti più rari degli otto tesori delle cucine celesti. Che si
beve? Succo di giada liquida delle residenze porporine.
Il re diavolo toro era seduto al posto d’onore, fra tre o quattro caimani. Di fronte a lui
troneggiava un vecchio drago, circondato da una numerosa famiglia. Il vecchio drago si accorse
dell’intruso e ordinò: «Prendetemi quel villano di un granchio.»
Figli e nipoti si gettarono sul grande santo e lo immobilizzarono. Ma Scimmiotto, con voce
umana, gridò: «Pietà! Pietà!»
«Da dove vieni, screanzato?» tuonò il vecchio drago. «Come osi entrare nella mia sala d’onore
davanti ai miei nobili invitati? Se vuoi evitare di essere punito con la morte, confessa tutto!»
Il bravo Scimmiotto inventò una storiella d’occasione: «Vivo da sempre in questo lago: ci sono
nato e abito in una cavità della sua sponda. Per meriti di anzianità ho conseguito il titolo di Svigna
di Fianco; infatti non ho mai imparato a camminare diritto e finisco sempre per impantanarmi o
impigliarmi nelle alghe. Ho offeso la vostra regale dignità senza rendermi conto di quello che
facevo: vi prego umilmente di perdonarmi.»
Udita l’arringa, tutti gli ospiti si inchinarono al padron di casa: «È la prima volta che questo
Svigna di Fianco entra nel palazzo di diaspro. Nella sua semplicità, ignora l’etichetta di corte.
Speriamo che vostra altezza lo perdoni e lo lasci andare.»
Il vecchio drago li ringraziò e ordinò: «Lasciatelo andare. Prendete nota che gli spetta una
bastonatura e fatelo aspettare fuori.»
Scimmiotto uscì dalla sala e si incamminò verso il portico d’ingresso, considerando fra sé: «Quel
re toro è un tal bevitore! Chissà quando si deciderà a lasciare il banchetto. E l’attesa potrebbe essere
inutile, perché non so come convincerlo a prestarmi il ventaglio. Mi converrà rubargli la bestia
dalle pupille d’oro, prendere le sue sembianze e dedicarmi a convincere la Râksasî.»
Il grande santo riprese la propria forma, sciolse la bestia, balzò in sella e cavalcò lontano al
galoppo. Uscito dalle acque del lago, prese l’aspetto del re toro e spronò la bestia a montare su una
nuvola. In breve raggiunse la Grotta del Banano e gridò: «Aprite!» Le ragazze di guardia in
portineria socchiusero l’uscio e, vedendo il re toro, corsero ad annunciarlo: «Signora, è ritornato il
signore.»
A queste parole la Râksasî si aggiustò febbrilmente i capelli e corse ad accogliere Scimmiotto
che, audace e disinvolto, smontava dalla sua cavalcatura e la legava presso l’entrata. Naturalmente
lei cadde nell’inganno e lo condusse per mano dentro casa; fece preparare il tè e disporre le
seggiole: tutta la gente di casa si dava da fare e manifestava il suo rispetto per il padrone.
La conversazione si avviò così: «Signora, è un pezzo che non ci vediamo.»
«Siete il benvenuto. La vostra nuova sposa vi piace tanto che, negli ultimi tempi, avete trascurato
la vostra schiava. Qual buon vento vi riporta da me?»
«In realtà, non mi permetterei mai di trascurarvi. Ma da quando sono stato invitato dalla
principessa Viso di Giada, ho avuto molti affari da sbrigare e molte visite da fare; sono gli
inconvenienti di una seconda casa da gestire.» Poi il falso re toro aggiunse: «Mi hanno detto che si
stava avvicinando ai Monti di Fuoco quel Consapevole del Vuoto che protegge il monaco cinese:
c’è il pericolo che si presenti qui, a chiedere in prestito il ventaglio. Naturalmente non gli posso
perdonare il danno che ha recato a nostro figlio. Se si facesse vedere mi dovete avvertire, perché lo
catturi e lo faccia a pezzi per vendicarci di lui.»
La Râksasî si mise a piangere: «Ahimè, maestà! Come dice l’adagio: marito senza moglie
trascura ogni suo affare, moglie senza marito non sa che cosa fare. Poco è mancato che perdessi la
vita, per colpa di quel macaco.»
«Dunque quella scimmia maledetta è già stata qui?» finse di indignarsi Scimmiotto.
«Certo, e dev’essere ancora nei dintorni. È venuto proprio a chiedere in prestito il ventaglio; io
mi sono armata e l’ho accolto a colpi di spada. Ha avuto la sfacciataggine di chiamarmi ‘cognata’ e
di sostenere che era vostro fratello giurato.»
«Questo è vero: cinquecento anni fa facevamo parte di una confraternita di sette persone.»
«Non ha osato rispondere alle mie invettive, né difendersi dai miei colpi; infine l’ho spazzato via
con un colpo di ventaglio. Ma stamane è ritornato; non so come abbia trovato modo di resistere al
vento, ma non c’è stato verso di scacciarlo di nuovo. Sono tornata ad attaccarlo, ma questa volta ha
reagito. Poiché la sua sbarra era troppo pesante per me, mi son dovuta chiudere in casa. Non so
come abbia fatto, ma è riuscito a intrufolarsi addirittura nel mio ventre: credevo di morire! Ho
dovuto trattarlo davvero da ‘cognato’ e consegnargli il ventaglio.»
«Che disastro!» gridò Scimmiotto, arrivando a battersi il petto dalla disperazione. «Come avete
potuto abbandonare il nostro tesoro nelle mani di quel macaco? Mi farete morire di rabbia!»
«Non ve la prendete» ribatté sorridendo la Râksasî. «Non gli ho dato il ventaglio vero, ma uno
falso.»
«Il vero dov’è?»
«State tranquillo, l’ho messo al sicuro.»
Ordinò alle cameriere di preparare il vino per brindare all’arrivo del padron di casa, gliene
presentò una coppa e disse: «Anche fra i piaceri del vostro nuovo matrimonio, non dovete
dimenticare il nostro legame. Accettate questa insipida bevanda del vostro paese!»
Scimmiotto non osava rifiutare. Sollevò la coppa con una risatina: «Signora, tocca a voi bere per
prima. Voglio mostrarvi la mia gratitudine per la cura che vi siete presa del nostro patrimonio,
mentre ero lontano e impegnato ad amministrare altri beni.»
La Râksasî vuotò la coppa, la riempì nuovamente e gliela tese: «Non si è sempre detto: sposa in
casa, gestione attenta? Ma il marito è il padre che la nutre. Non è il caso di ringraziarmi.»
Dopo queste dimostrazioni di modestia, si sedettero a bere. Mentre chiacchieravano, Scimmiotto
badava di non violare i suoi divieti alimentari e si accontentava di qualche frutto.
Dopo qualche giro di bicchieri, si destò la concupiscenza della Râksasî: gli mormorava paroline
dolci, prendeva le sue mani, gli si strofinava contro, lo accarezzava e lo toccava. Intanto bevevano
dallo stesso bicchiere, un sorso per uno, e si porgevano la frutta bocca a bocca. Il grande santo stava
al gioco. Di certo
nulla vale quanto il vino per disperdere ogni pena: un amo per pescare versi, una scopa per spazzare dispiaceri. Il
ragazzo timido si lascia andare, la ragazza è tutta sorrisi: il suo viso si arrossa come una pesca matura, il suo corpo si
piega come il salice. Essa diventa volubile e non sa più tener ferme le mani: si liscia i capelli, agita le dita delicate;
muove le gambe, scuote le maniche del vestito; china il collo incipriato, torce il vitino di vespa. Mentre chiacchiera,
slaccia i bottoni dorati e scopre metà del seno. Monti di giada che scivolano nell’ebbrezza, occhi d’argento da non
strofinare.
Quando la vide discretamente brilla, Scimmiotto, che si teneva in agguato, buttò lì: «Signora,
dove avete messo il vero ventaglio? Non allentate la vostra vigilanza: Scimmiotto è abilissimo a
trasformarsi e potrebbe ritornare per sottrarvelo.»
La Râksasî fece una risatina e sputò qualcosa non più grande di una foglia di albicocco,
tendendola al compagno: «Eccolo qui!»
Scimmiotto non credeva ai suoi occhi: «Com’è possibile che un oggetto così piccolo possa
spegnere le fiamme? Dev’essere un altro falso.»
La Râksasî, vedendolo pensieroso, strofinò il viso incipriato contro il suo e gli disse: «Dài,
beviamo! Metti via quella cosa. A che stai pensando?»
Scimmiotto colse l’occasione per chiedere: «Come può un oggetto tanto minuscolo avere
efficacia su ottocento leghe di fiamme?»
Troppo ebbra per diffidare, la Râksasî disse: «In questi due anni ti devi essere dato tanto da fare
con quella Viso di Giada, giorno e notte, da uscirne rimbambito. Hai dimenticato come funziona il
tesoro? Basta toccare con il pollice sinistro il settimo filo di seta rossa del manico e dire
Huixuhexixichuihu: allora ingrandirà di dodici piedi. Questo tesoro ha inesauribili possibilità di
trasformazione. E le ottocento leghe di fiamme sa spegnerle in un colpo solo.»
Scimmiotto registrò tutto accuratamente nella memoria, si mise in bocca il ventaglio e si passò la
mano sul volto, per riprendere il proprio aspetto.
«Râksasî» ringhiò, «guardami bene! Ti sembro tuo marito? Ne ho abbastanza dei tuoi approcci
amorosi: non ti vergogni?»
La donna ne ebbe un tal colpo che la presero le convulsioni; cadde a terra rovesciando tavolo e
seggiole e morse la polvere, sconvolta dall’umiliazione: «Questa volta morirò di dispetto!»
Il grande santo tagliò corto e, senza badare se fosse viva o morta, si precipitò fuori dalla grotta.
Come si dice:
Un cuore libero dai desideri
Porta sempre il sorriso sulla bocca.
Montò su una nuvola e si fece trasportare in cima alla montagna, dove sputò il ventaglio per
collaudare il procedimento magico. Toccò con il pollice sinistro il settimo filo rosso del manico e
recitò la formula: l’oggetto ingrandì davvero di dodici piedi. Lo esaminò con attenzione e constatò
che era molto diverso dal ventaglio falso: era circondato da un alone luminoso, raggiava vapori di
buon augurio e aveva trentasei fili di seta rossa intessuti nell’ordito e nella trama.
Scimmiotto aveva imparato a ingrandirlo, ma non sapeva come rimpicciolirlo: qualunque cosa
facesse, il ventaglio conservava il suo grande formato. Non sapendo far meglio, se lo mise in spalla
e ritornò sulla strada dei pellegrini.
Intanto il re diavolo toro, uscendo dal banchetto, cercò invano la sua bestia dalle pupille d’oro
che allontana le acque. Il vecchio drago riunì gli ospiti e fece un’inchiesta per stabilire chi poteva
averla rubata.
«Chi mai avrebbe osato?» risposero gli spiriti animali inginocchiati. «Noi eravamo tutti al
banchetto a passarci cibo e bevande, ad ascoltar musica e a cantare; nessuno di noi si è avvicinato
all’ingresso.»
«D’altronde posso garantire per i miei musicisti. Non si sarà introdotto di nascosto qualche
estraneo?»
«È venuto quel granchio» ricordarono draghi figli e nipoti. «Sarà lui, l’estraneo.»
Il re toro si batté la mano sulla fronte: «Non dite altro! Amico mio, stamane, quando ho ricevuto
il vostro invito, mi stavo sbarazzando di Scimmiotto Consapevole del Vuoto. Mi era venuto a
chiedere il ventaglio di foglie di banano per aiutare a superare i Monti di Fuoco il monaco cinese,
che è incaricato di proteggere. Io ho rifiutato e ci siamo battuti; ma ho lasciato la cosa a mezzo per
venire qui. Quella scimmia maligna è piena di risorse: di certo si è trasformata in granchio per
venirci a spiare, ed è stata lei a rubare la mia cavalcatura, con l’intenzione di ingannare mia moglie
e rubarle il ventaglio.»
Tutti tremarono di paura e chiesero: «È lo stesso Scimmiotto che aveva provocato tutti quei
disordini nei palazzi del Cielo?»
«Proprio lui. Se vi capita di frequentare la strada dell’Ovest, farete bene a guardarvene.»
«Ma come ricupereremo la vostra cavalcatura?» domandò il vecchio drago.
«Ci penso io» replicò sorridendo il re toro. «Grazie, signori: ritiratevi pure. Vado a catturarlo.»
Si aprì il cammino allontanando le acque, balzò fuori dal lago e salì su una nuvola gialla, con cui
in breve raggiunse la Grotta delle Nuvole Turchese. Il gran baccano che faceva la Râksasî si udiva
anche all’aperto: pestava i piedi, urlava, gemeva, si batteva il petto. Il re spinse la porta e vide
subito la sua cavalcatura legata in un angolo. «Da che parte è andato Scimmiotto, signora?» gridò.
Le cameriere si inginocchiarono: «Finalmente siete ritornato, signore!»
La Râksasî se la prese con il marito: si prosternava battendo la testa per terra e lo malediceva:
«Miserabile pendaglio di forca! Come hai potuto essere tanto trascurato da farti rubare la bestia
dalle pupille d’oro da quel lurido macaco, che ha preso il tuo aspetto per venir qui a prendermi in
giro?»
«Da che parte è andato, il macaco?» ripeté il re toro digrignando i denti.
«Mi ha derubato, ha ripreso il suo aspetto ed è fuggito» disse la donna battendosi il petto.
«Morirò di vergogna!»
«Non vi state a tormentare, signora. Aspettate che raggiunga quella bestiaccia, gli riprenda il
tesoro, lo scortichi, gli spezzi le ossa e gli strappi le budella. Portatemi le armi!»
«Le vostre armi non sono qui» gli ricordarono le cameriere.
«Portatemi quelle della vostra padrona.»
Le ragazze gli presentarono le due spade preziose dalla lama azzurrina.
Il re toro si tolse la giacchetta color giallo canarino, la sostituì con un panciotto, impugnò le
spade, una per mano, e si precipitò in direzione dei Monti di Fuoco. Così
L’ingrato avrà ingannato la donna innamorata,
Ma sosterrà l’assalto del demone impulsivo.
Se poi in fin dei conti non sapete il bene o il male che poteva venire da questo inseguimento,
ascoltate il seguito.
CAPITOLO 61
IL GRAN TORO ACCERCHIATO
IN CUI PORCELLINO CONTRIBUISCE ALLA SCONFITTA DEL RE DIAVOLO, E SCIMMIOTTO SI PROCURA
IL VENTAGLIO PER LA TERZA VOLTA.
Come il racconto ha narrato, il re diavolo si diede all’inseguimento di Scimmiotto. Quando lo
scorse con il ventaglio in spalla e la cera allegra e soddisfatta, il re toro si allarmò più che mai: «Si
vede che il macaco è riuscito a estorcere anche le istruzioni per l’uso. Se vado a reclamare la mia
proprietà, non mi dà certo retta; e se gli venisse in mente di farmi vento con quella roba, mi
spedirebbe a cento ottomila li di distanza, e si sbarazzerebbe una volta per tutte di ogni intralcio ai
suoi progetti. Il suo maestro, il monaco cinese, sarà sulla strada ad aspettarlo con gli altri due
discepoli: quello spirito porco e quello spirito delle sabbie mobili, che mi è capitato di incontrare
tanto tempo fa, quando eravamo tutti giovani mostri di belle speranze. Mi converrà assumere
l’aspetto di Porcellino: Scimmiotto sarà tanto fiero del suo successo, che non si terrà troppo in
guardia. È il mio turno di mostrargli che anch’io so giocare qualche tiro birbone.»
Le settantadue trasformazioni le conosceva anche il re diavolo, e nell’arte del duello non la
cedeva a Scimmiotto; era soltanto più corpulento, e non aveva il suo mordente e la sua leggerezza.
Nascose le spade di cui si era armato e, con una scossa, si trasformò nel sosia di Porcellino; quindi
corse giù per la strada incontro al grande santo, gridando: «Ehi, fratello, eccomi qua!»
Scimmiotto era davvero soddisfatto di sé; e, come dicevano gli antichi, gatto che vince si crede
tigre. Sentiva tanta fiducia nelle proprie capacità, che non pensava a guardarsi le spalle; così, alla
vista del falso Porcellino, gridò: «Dove vai, fratellino?»
«Non tornavi mai» rispose il re diavolo, «e il maestro si preoccupava: temeva che il re toro ti
avesse messo in difficoltà. Perciò mi ha mandato a cercarti per darti una mano.»
«Nessun problema» replicò Scimmiotto ridendo. «Come puoi vedere, ho tutto quello che serve.»
«Come hai fatto?»
«Con il toro abbiamo disputato un centinaio di riprese; ma poi lui se n’è andato a una festa in
fondo a un lago. Io mi sono trasformato in granchio e l’ho seguito di nascosto, gli ho rubato la sua
bestia dalle pupille d’oro, ho assunto il suo aspetto e sono ritornato alla Grotta del Banano. La
Râksasî mi ha scambiato per il marito, e non ha opposto resistenza a farsi rubare il ventaglio.»
«Ti sarai fatto una bella sudata. Chissà quanto sei stanco. Il ventaglio lo posso portare io.»
Scimmiotto glielo consegnò senza sospetto.
Il re toro sapeva tutto del ventaglio: come lo ebbe in mano, fece il passo magico opportuno e lo
ridusse alle dimensioni di una foglia di albicocco. Poi riprese il proprio aspetto e disse beffardo:
«Non mi avevi riconosciuto, maledetto macaco?»
A Scimmiotto sfuggì un ruggito di dispetto: «Miseria! Caccio oche selvatiche da tanti anni, e
ancora mi faccio beccare dagli uccellini.» E si scatenò inferocito con la sua sbarra, mentre il re
diavolo cercava di spazzarlo via a colpi di ventaglio. Ma il grande santo, benché non se ricordasse
nemmeno, teneva ancora in tasca la pillola antivento; per quanto le sventagliate si moltiplicassero,
non ci fu verso di smuoverlo. Il re diavolo dovette mettersi in bocca il suo tesoro e impugnare le
spade. Si svolse a mezz’aria un duello all’ultimo sangue:
Il Grande Santo Uguale al Cielo e il re toro che semina confusione nel mondo si disputano con tutte le loro energie il
ventaglio di foglie di banano. Ciò che il negligente Scimmiotto ha ottenuto con l’inganno, il re diavolo l’ha riavuto con
l’astuzia. Il randello cerchiato d’oro non conosce pietà; le spade dalle lame azzurrine sono maneggiate con destrezza. Il
grande santo sputa nuvole colorate, il re toro risponde con lampi luminosi. Si equivalgono per valore e per orgoglio, e
dal furore digrignano i denti. Sollevano tanta terra e polvere da oscurare il cielo; dèi e diavoli si nascondono per
proteggersi dalla sabbia che vola e dai sassi che rotolano. «Come hai osato imbrogliarmi?» «A morte chi inganna la
moglie altrui! Qualunque magistrato ti condannerebbe alla pena capitale.»
L’astuto Scimmiotto e il brutale re Granforzuto non pensano a negoziare, ma solo a uccidere. Le spade parano il
randello che si abbatte: la minima disattenzione può inviare ciascuno dei due a comparire davanti al giudice
dell’Inferno.
Lasciamoli combattere fra loro, considerato che sarebbe pericoloso cercare di separarli; e
ritorniamo al monaco cinese, che se ne stava seduto sul ciglio della strada: il caldo lo soffocava,
l’ansia lo rodeva, la sete lo tormentava. Si rivolse alla divinità locale: «Posso chiedervi, rispettabile
divinità, quale abilità militare possiede questo re diavolo toro?»
«Ha grandi poteri magici e una tal forza da farne un avversario del livello del grande santo.»
«Consapevole del Vuoto è un buon camminatore; sa percorrere in un momento duemila li, andata
e ritorno. Come mai non è ancora qui, dopo un’intera giornata? Starà certo combattendo con quel re
toro» concluse Tripitaka. Chiamò i discepoli: «Consapevole delle Proprie Capacità, Consapevole
della Purezza, chi di voi vuol raggiungere il suo fratello maggiore? Se sta combattendo il nemico,
avrà bisogno di aiuto. Dobbiamo far presto a ottenere quel ventaglio, se vogliamo liberarci dai
nostri tormenti e ricuperare il tempo perduto.»
«Andrei volentieri a cercarlo» rispose Porcellino. «Ma si sta facendo tardi, e io non conosco la
strada del Monte Mucchio di Tuoni.»
«La conosco io» intervenne la divinità locale. «Ti posso accompagnare. Lasciamo qui il
Capitano delle Cortine Arrotolate a tener compagnia al maestro.»
«Vi stiamo procurando molti fastidi, rispettabile divinità» disse Tripitaka, contento della
proposta. «Non finirò mai di ringraziarvi dell’aiuto che ci date.»
Porcellino raccolse le energie, si strinse alla vita la tunica di broccato nero e impugnò il rastrello;
insieme alla divinità locale, salirono su una nuvola e partirono verso l’est. Mentre viaggiavano
udirono i rumori di un feroce scontro e il mugghiare di un gran turbine di vento. Si fermarono per
rendersi conto della situazione, e riconobbero Scimmiotto e il re toro che combattevano.
«Ehi, Ammiraglio dei Canneti Celesti, che cosa aspetti a farti avanti?» gridò la divinità.
«Fratello, arrivo!» urlò Porcellino brandendo il rastrello.
«Grazie tante, ciccione mio, ma ormai l’operazione l’hai mandata all’aria.»
«Mi ha spedito qui il maestro, ma io non conoscevo la strada, si è perso tempo a discutere e il
tudi ha dovuto farmi da guida. Perciò sono in ritardo. In che modo avrei mandato all’aria le tue
grandi manovre?»
«Non è per il ritardo. Questo toro è un vero stronzo. Ero riuscito a sottrarre il ventaglio alla
Râksasî, ma lui ha preso il tuo aspetto e mi è venuto incontro; ero così contento di rivederti, che
gliel’ho affidato e mi sono fatto fregare. Ed eccoci qui a pestarci di santa ragione. Perciò dico che
hai mandato all’aria l’operazione.»
Porcellino fu colto da una rabbia violenta: «Ti colga la peste, mucchio di marciume! Te la farò
vedere io! Come osi imitare l’aspetto di tuo nonno, per imbrogliare il mio condiscepolo e seminar
zizzania tra fratelli?»
E abbatté furioso il suo rastrello. Il re toro, dopo tanti attacchi di Scimmiotto, si sentiva stanco e
temette di non poter sostenere anche la temibile arma di Porcellino; perciò volse le spalle e cercò
scampo nella fuga. Ma la divinità dei Monti di Fuoco, alla testa delle sue truppe infernali, gli tagliò
la ritirata e lo apostrofò: «Re Granforzuto, arrenditi! Non c’è dio che non protegga Tripitaka nella
sua ricerca delle scritture, o cielo che non lo benedica. Lo conoscono i tre mondi, lo sostengono i
dieci orienti. Va senza esitare a spegnere le fiamme con il tuo ventaglio, perché possa passare le
montagne senza ostacolo e senza danno. Altrimenti il Cielo di Sopra ti condannerà e ti castigherà
senza remissione.»
«La tua richiesta, tudi, non è sensata. Quella scimmia maledetta ha catturato mio figlio, ha offeso
la mia concubina, ha ingannato mia moglie e non ha perso occasione per comportarsi da infame nei
miei riguardi. Lo odio tanto che me lo mangerei crudo, per ridurlo in merda e darlo da annusare ai
cani. Non acconsentirò mai a prestargli il mio tesoro.»
Mentre replicava, Porcellino gli fu addosso urlando: «Ruminante del malanno, tira fuori il
ventaglio, se vuoi salvare la pelle!»
Per tutta risposta, il re toro si volse e lo fronteggiò con le sue spade; Scimmiotto corse a dare
manforte. Fu una battaglia di rara violenza.
Uno spirito porco, un mostro toro e una scimmia che ha soggiornato in cielo: è nella natura del dhyâna di raffinarsi
attraverso i conflitti, ma occorre che la terra si unisca alla causa primordiale.
I nove denti del rastrello sono aguzzi e pungenti, il filo delle spade preziose è diritto e tagliente, la sbarra di ferro
controlla la situazione, la divinità locale contribuisce a formare la testa di cinabro. I tre combattono mostrando la loro
abilità. Aggiogate il bue e crescerà il denaro; portate al forno il maiale e dominerete il soffio del legno. Come realizzare
la Via, se lo spirito la abbandona? Per difendere l’anima bisogna legare la scimmia.
Armi di tre specie si urtano fra grida e richiami. Cadono rastrellate e fendenti feroci; la sbarra cerchiata d’oro non si
agita invano. Lottano da oscurare le stelle e far impallidire la luna. Tutto il cielo si copre di gelide nubi.
Il re diavolo si batteva con indomabile coraggio, ma continuava a ritirarsi. La lotta proseguì per
la notte intera; all’alba si trovarono davanti alla Grotta Toccanuvole del Monte Mucchio di Tuoni.
Fra tutti e tre, con il contributo del tudi e delle sue truppe infernali, facevano un tal baccano che la
principessa Viso di Giada balzò dal letto e ordinò alle cameriere di uscire a vedere che cataclisma
fosse. Un mostriciattolo corse ad annunciarle: «Il nostro signore e padrone si sta battendo all’ultimo
sangue con quel tizio di ieri, quello con la gola da duca del tuono. Ci sono anche un monaco con il
grugno lungo e le orecchie larghe, il tudi dei Monti di Fuoco e parecchia altra gente.»
La principessa ordinò a tutti gli ufficiali della guardia esterna di prendere le armi per soccorrere
suo marito. Si riunì così un altro centinaio di combattenti, freschi e desiderosi di mostrare il loro
valore. Agitavano lance e bastoni e gridavano in coro: «Maestà, veniamo di rinforzo per ordine
della signora!»
«Venite al momento giusto, benvenuti» rispose il re toro soddisfatto.
I mostri si lanciarono all’attacco tutti insieme: Porcellino, sommerso dalla folla, dovette fuggire
trascinando il suo rastrello; il grande santo si sottrasse all’accerchiamento con una capriola nelle
nuvole; le milizie infernali si dispersero. Il toro vittorioso riunì i suoi mostri e rientrò nella grotta, di
cui fece chiudere e barricare accuratamente le porte.
Scimmiotto imprecava: «Che pellaccia, questo bel tomo! Ci picchiamo da ieri pomeriggio:
abbiamo incominciato verso le quattro e abbiamo continuato per tutta la notte. Eppure non sembra
molto provato. E non avevamo proprio bisogno di trovarci fra i piedi i suoi mostriciattoli. Ora che si
sono messi tutti al sicuro, bisogna decidere il da farsi.»
«Ma fratello, ieri avevi lasciato il maestro verso le dieci del mattino: come mai hai incontrato il
toro soltanto nel pomeriggio? Che cosa hai fatto in quelle cinque o sei ore?»
«Parecchie cose. Ad arrivare su questa montagna ho impiegato un istante. Qui ho incontrato la
principessa Viso di Giada, ho bisticciato con lei e l’ho messa in fuga, ho litigato e combattuto con il
re toro. Dopo un paio d’ore lui se n’è andato a un banchetto in fondo a un lago; io l’ho spiato in
forma di granchio, gli ho rubato la cavalcatura e ho imitato il suo aspetto per recarmi alla grotta
della Râksasî e sottrarle il ventaglio. Ho imparato come si fa a ingrandirlo, ma non ero capace di
farlo rimpicciolire. Me lo sono messo in spalla così com’era e me ne sono andato. Ma il re toro ha
preso il tuo aspetto e mi è venuto incontro. Il resto lo sai. Ecco come ho passato le sei ore.»
«Come si dice: è il naufragio del battello carico di soia - parte pieno di zuppa e arriva pieno
d’acqua. E adesso come la attraversiamo, quella montagna di fuoco? Ci converrà rinunciare al
ventaglio e fare una deviazione, per lunga che possa essere» concluse Porcellino.
«Non gettate la spugna, Canneti Celesti! E voi, grande santo, non gli date retta e non perdete la
pazienza. Fare una deviazione sarebbe passare dalla porta di servizio e non cogliere il frutto del
lungo lavoro» obiettò il tudi. «Come dice la vecchia massima: la strada che ti porta alla meta, non
la prendi in prestito. Come potreste fare una deviazione? Il vostro maestro vi aspetta sulla giusta e
buona strada, e attende con ansia il vostro successo.»
«Proprio così. Tu, bestione, non dire sciocchezze» esclamò convinto Scimmiotto. «Il tudi ha
ragione. Dobbiamo mettercela tutta. Ho ancora tante risorse da impiegare. Da quando viaggiamo
verso Occidente, non ho mai trovato un avversario del mio livello; questo re toro, in fondo, è anche
lui una trasformazione della scimmia dello spirito. È tempo di risalire alla fonte: dobbiamo avere
quel ventaglio prezioso. Con la sua fresca purezza estingueremo le fiamme, spezzeremo
l’ostinazione del vuoto e vedremo in faccia il Buddha. A cose fatte, saliremo nel paradiso
dell’assoluta felicità e ci sederemo tutti al banchetto del prossimo Buddha.»
A questo discorso, anche Porcellino riprese fiducia e dichiarò energicamente: «D’accordo,
d’accordo, andiamo avanti: chi ci potrà fermare? Le capacità del re toro contano poco: il legno nato
sotto il segno del porco, hai, riporterà il toro alla terra. Dal segno shen nasce il metallo, che è la
scimmia, innocua e piena di dolcezza. Bisognerà utilizzare le foglie di banano nell’idea dell’acqua,
perché estinguendo le fiamme realizzino l’equilibrio della pace. Se ci diamo da fare giorno e notte,
senza risparmiarci, saremo ripagati partecipando alla festa di Ullambana.»
Così tutti quanti corsero all’attacco; sotto i loro colpi la porta della grotta cadde a pezzi. Il capo
della guardia esterna, tremando come una foglia, si precipitò all’interno per annunciare: «Maestà,
Scimmiotto ha forzato la porta con numerose truppe.»
Il re toro stava aggiornando Viso di Giada sull’accaduto e sfogava a parole tutta l’animosità che
sentiva contro Scimmiotto. Alla notizia che aveva buttato giù la porta, il suo furore non conobbe
limiti: indossò precipitosamente l’armatura, afferrò il suo randello e uscì urlando: «Macaco
maledetto! Chi credi di essere? Come ti permetti di fare questo chiasso e di rompermi la porta?»
«E tu, maledetta carcassa scorticata» urlava Porcellino di rimando, «chi credi di essere per
misurarti con noi? Assaggia un po’ il mio rastrello!»
«Balordo, sacco di segatura!» urlava il re toro. «Tu sei uno zero, mandami quella scimmia.»
«Eccomi, ruminante abbrutito» tuonò Scimmiotto. «E dire che siamo stati fratelli giurati. Me ne
vergogno; ormai siamo nemici e basta. Bada al mio randello!»
Il re toro fece fronte valorosamente. Fra i tre eroi si scatenò una mischia ancor più violenta della
precedente. Che battaglia!
Sbarra e rastrello, alleati con la divinità che conduce le sue milizie infernali, assaltano l’antico animale sacrificale, che
tutto solo si difende con potenza uguale al Cielo. Le tre armi fanno meraviglie. Nessuno vuol cedere: l’uno si dichiara
avanguardia, l’altro antesignano.
Le milizie del tudi faticano a distinguere legno e terra in quella mischia tremenda.
«Perché non ci vuoi prestare il ventaglio?» chiedono i due. L’altro risponde: «E voi, perché avete ingannato mia
moglie? Perché chiedete favori, quando devo ancora vendicare mio figlio e la mia concubina?»
Uno replica: «Attento, la mia sbarra ti leverà la pelle appena ti sfiorerà.» L’altro aggiunge: «Tienti alla larga dai nove
denti del mio rastrello, che ti faranno in corpo nove buchi grondanti di sangue.» Ma il diavolo toro non dà segno di
paura e leva alto il suo randello, in cerca del momento giusto per colpire. In quel va e vieni, mentre ciascuno soffia
nebbie e caligini, le nubi strapazzate dal vento di burrasca gettano pioggia. Ciascuno combatte energicamente la sua
dura battaglia, con il cuore pieno di odio. Colpo alto, colpo basso: le loro parate sono impeccabili.
I due fratelli uniscono gli sforzi contro un solo avversario. Combatterono dall’alba a mezzogiorno, finché il diavolo toro
fu sconfitto e circondato.
Lottarono ancora senza risparmio per più di cento riprese. Porcellino approfittava della copertura
di Scimmiotto per abbattere in continuazione il suo rastrello; benché nella sua ostinata stupidità
ripetesse sempre lo stesso movimento, il re toro si sentì sopraffatto da quella pioggia di colpi, ruppe
il contatto e cercò di ripararsi nella grotta. Ma il tudi e i suoi gli tagliavano la ritirata: «Dove vai,
Granforzuto? Non vedi che siamo qui noi?»
Posto nell’impossibilità di ritirarsi, il toro si gettò di lato; ma vide Porcellino e Scimmiotto che
accorrevano. Allora si tolse e gettò precipitosamente elmo, corazza e randello, e con una scossa si
trasformò in cigno. In quella forma volò alto in cielo.
Scimmiotto, che aveva seguito le sue mosse, rise e disse: «Porcellino, indovina dov’è il vecchio
toro.»
Il bestione restò disorientato, e nemmeno il tudi si rendeva conto dell’accaduto: allungavano il
collo a destra e a sinistra, frugando inutilmente con lo sguardo tutti gli angoli del Monte Mucchio di
Tuoni.
«Perdete il vostro tempo. Guardate in alto» suggerì Scimmiotto additando il cielo.
«Si vede soltanto un cigno» replicò Porcellino.
«Ma è proprio lui, il vecchio toro in una delle sue più riuscite trasformazioni.»
«E allora che si fa?» si inquietò il tudi.
«Voi due forzate l’ingresso della grotta, sterminate tutti i suoi mostri e distruggete ogni cosa da
cima a fondo, in modo da tagliargli la ritirata. Intanto io gli darò una bella battaglia di
trasformazioni» propose Scimmiotto.
Porcellino e il tudi seguirono il consiglio. Il grande santo ripose la sbarra cerchiata d’oro, fece un
passo magico, recitò un incantesimo e con una scossa si trasformò in avvoltoio; con un gran colpo
d’ali salì alto nel cielo, attraversò le nubi, e piombò sul cigno per serrare il collo fra gli artigli e
beccare gli occhi. Ma il re toro se ne accorse in tempo; con un colpo d’ala, si trasformò in un grande
astore e prese l’iniziativa dell’attacco. Il Novizio divenne una fenice nera, gran cacciatrice di astori;
ma il toro si trasformò in gru bianca e si diresse verso mezzogiorno lanciando lunghi gridi.
Scimmiotto scosse le piume e con uno stridio imperioso si trasformò in una fenice color cinabro.
Questo è il re degli uccelli: non c’è volatile che oserebbe mancargli di rispetto. La gru bianca prese
terra in un angolo in ombra, ai piedi di una rupe, e si mutò in un daino muschiato, che brucava
timidamente l’erba. Scimmiotto vide tutto, scese anche lui e si trasformò in una tigre affamata, coda
ritta e artigli d’acciaio, pronta a scattare per far preda. Il re diavolo si dovette trasformare
precipitosamente in un leopardo macchiettato d’oro. Si disponeva ad attaccare la tigre, quando
questa scosse la testa e divenne un leone dagli occhi d’oro, ruggito di tuono, testa di bronzo, fronte
di ferro, pronto a mangiarsi qualsiasi leopardo in un boccone. Allora il re toro si trasformò in un
orso gigantesco e allargò le zampe per afferrare il leone. Ma il Novizio, con una capriola, divenne
un elefante dalla proboscide lunga come il pitone, con zanne come grandi getti di bambù; e levò la
proboscide per stritolare l’orso.
Il toro rise sarcastico, e non fece altro che assumere il proprio aspetto originale: quello di un
grande bufalo bianco, dalla testa gibbosa come una catena di montagne e gli occhi lampeggianti. Le
corna erano come pagode di ferro; i denti taglienti come lame. Dalla testa alla coda avrà misurato
più di mille tese; ed era alto ottocento tese, dagli zoccoli alla sommità del dorso.
«E adesso che cosa mi farai, maledetto macaco?» gridò beffardo a Scimmiotto.
Quest’ultimo riprese anche lui il proprio aspetto, impugnò la sbarra, curvò la schiena e gridò:
«Più grande!» La sua statura raggiunse diecimila tese: la testa come il Taishan, occhi come il sole e
la luna, bocca come un lago di sangue, denti come battenti di portoni. Il toro cercava di incornarlo, e
lui gli abbatté la sbarra sul capo. Fu una battaglia che portò terremoti fra i monti, spaventò il Cielo e
scosse la terra. Lo attestano i versi:
La Via cresce d’un piede, cresce di mille tese
Il diavolo; ma, astuta, la scimmia dello spirito
Lo sa addomesticare. Per estinguer le fiamme
Si richiede la pura freschezza del ventaglio.
Mentre la donna gialla sostiene il suo maestro,
Madre del legno vuole fare piazza pulita.
Sono i cinque elementi condotti al giusto frutto
Quando, purificati, ritrovan l’armonia.
Quel gran dispiegamento di magici poteri allarmava tutti gli abitatori dello spazio: divinità di
ogni specie, il rivelatore Testa d’Oro, i sei dèi delle tenebre e i sei del giorno, per non parlare degli
otto difensori della legge. Tutti accerchiarono il re diavolo, che peraltro teneva duro senza dar segno
di timore: guardatelo che rivolge le sue corna d’acciaio scintillante ora a destra, ora a sinistra; carica
a sud e poi a nord, sferza nervoso i fianchi con la lunga coda coronata da un fiocco. Scimmiotto lo
affronta, mentre le divinità lo attaccano sui fianchi. Messo alle strette, il toro riprende forma umana
e questa volta corre a rifugiarsi nella Grotta del Banano. Il Novizio lo insegue con tutti gli dèi, ma il
diavolo si chiude là dentro e non vuol saperne di uscire. Tutto il Monte delle Nuvole Turchese viene
sottoposto a un rigoroso accerchiamento militare.
Mentre Scimmiotto e gli altri si apprestavano a forzare l’ingresso, udirono le grida di Porcellino
e del tudi che sopraggiungevano con le loro milizie.
«Come sono andate le vostre operazioni nella grotta Toccanuvole?» chiese Scimmiotto.
«La moglie del vecchio toro» rispose ridendo Porcellino, «è inciampata nel mio rastrello.
Quando ho spogliato il cadavere, ho visto che si trattava di uno zibetto muso di giada. Fra i mostri
c’era di tutto un po’: asini, muli, tori, vitelli, tassi, volpi, ratti, daini, capre, tigri, antilopi, cervi, e
tanti altri ancora. Li abbiamo sterminati e abbiamo dato fuoco alla casa. Ma il tudi mi ha parlato di
quest’altra residenza, e siamo venuti per distruggere anche questa.»
«Molto bene, saggio fratello; mi congratulo del tuo successo!» esclamò Scimmiotto. «Io non
sono ancora riuscito a concludere. Il vecchio toro si era mutato in un bufalo di dimensioni
incredibili, e io ho dovuto assumere la taglia dalla terra al cielo. Gli dèi hanno avuto la
compiacenza di venire a darmi una mano e circondarlo; ma lui è riuscito a chiudersi là dentro.»
«È quella la Grotta del Banano?»
«Appunto, è il posto dove abita la Râksasî.»
«Non li lasceremo mica là dentro a pomiciare e crescere in età e saggezza» replicò vivamente
Porcellino. «Che cosa aspettiamo a spaccare tutto, ammazzare quella stronza e prenderci il
ventaglio?»
Il bravo bestione! Era talmente pieno di energia che, quando levò alto il rastrello e lo abbatté a
tutta forza, l’intero fronte della rupe in cui si apriva la porta della grotta franò con enorme fracasso.
La ragazza di servizio in portineria corse dentro spiritata: «Padre, qualcuno ha buttato giù la facciata
di casa!»
Il re toro stava giusto riprendendo fiato, e raccontava alla Râksasî come aveva ricuperato il
ventaglio e combattuto Scimmiotto. La notizia lo riempì di furore. Si tolse il tesoro dalla bocca e lo
tese alla moglie, che gli disse con le lacrime agli occhi: «Maestà, diamo il ventaglio a quel macaco e
liberiamocene.»
«Non sia mai, signora; dove sfogherei la rabbia e il rancore? Statevene tranquilla, mentre io
ritorno ad affrontarlo.»
Il diavolo si armò di nuovo e scelse due spade preziose. Piombò su Porcellino che continuava a
colpire i detriti dell’ingresso e, senza perdere tempo in chiacchiere, gli indirizzò un colpo al petto.
Lui alzò il rastrello per proteggersi e indietreggiò di qualche passo. Seguendolo, il re toro si trovò di
fronte Scimmiotto che roteava la sbarra: combattendo si alzarono sulle nubi in un vento di burrasca,
sopra il Monte delle Nuvole Turchese circondato dagli dèi e dalle milizie del tudi. Che battaglia!
Il mondo si copre di nubi, la caligine avvolge l’universo. Mal vento sibila e rotola pietre; vento d’ira romba e solleva le
onde dell’oceano. Il toro è invaso dal furore, determinato da un odio più profondo del mare, e vibra le lame affilate. Il
Grande Santo Uguale al Cielo, come potete vedere, a caccia di gloria, dimentica l’amicizia di una volta.
Anche Porcellino dispiega la sua forza, e gli dèi si gettano sul toro per proteggere la legge. Lui combatte senza tregua, si
copre a destra, para a sinistra, con inesausto vigore. La battaglia infuria al punto che gli uccelli si vanno a posare
lontano e i pesci si rifugiano in acque profonde. Nell’universo oscurato singhiozzano gli dèi, piangono i fantasmi; il sole
impallidisce inquietando i draghi e terrorizzando le tigri.
Il re toro resse alla disperata altri cinquanta attacchi, poi si vide perduto e fuggì verso nord.
Subito lo intercettò il portatore di folgore Diffusione della Legge, dai grandi poteri, quello che
risiede sulla rupe del Diavolo Segreto sul Monte Wutai. «Dove vai, toro?» gli chiese. «Il Buddha
Sâkyamuni ci ha dato l’incarico di stendere reti e nasse per catturarti.»
Non aveva finito di parlare che sbucarono di corsa Scimmiotto, Porcellino e tutta la folla degli
dèi. Il toro, impaurito, fuggì verso sud. Questa volta fu fermato dal portatore di folgore Perfezione
della Vittoria, che dispone dell’immenso potere della legge e abita la Grotta di Pura Freschezza del
Monte Emei. «Dove vai? Il Buddha ha ordinato di arrestarti.»
Il toro fu preso dal panico e si rivolse a est. Qui incontrò il portatore di folgore Grande Forza di
Vaisramana, quello della rupe Gratta Orecchie sul Monte Sumeru. «Dove vai, vecchio toro? Ho
l’ordine segreto del Beato di incarcerarti.»
Il toro sentiva le gambe molli e il cuore gli batteva a precipizio. Si gettò verso ovest, ma urtò
contro il portatore di folgore Eterna Dimora, il re onorato e imperituro delle cime dorate dei monti
Kunlun. «Dove credi di andare, giovanotto? Io monto la guardia per ordine personale del Buddha, e
non ti lascio certo passare!»
Era troppo tardi per i ripensamenti: il re toro si vedeva braccato da tutte le parti, senza via
d’uscita dalla rete che lo imprigionava; e il rumore dei suoi inseguitori si faceva sempre più vicino.
Montò su una nuvola e tentò la fuga verso l’alto.
Nello spazio avevano piantato le tende il re celeste Li Porta Pagoda e il principe ereditario Nata,
seguiti dallo yaksa Pancia di Pesce e dal generale celeste Gigantesco: «Calma, fermo lì!
L’Imperatore di Giada ordina di toglierti di mezzo.»
Il re toro, messo alle strette, riprese l’aspetto di gran bufalo bianco e cercò di incornare il re
celeste, che sguainò la sciabola. Intanto Scimmiotto arrivava di corsa.
Il principe Nata gli gridò: «Scusa tanto, grande santo, se non posso farti un inchino come si deve,
inguainato come sono nella corazza. Ieri, con mio padre, abbiamo incontrato il Buddha, che è
venuto in visita dall’Imperatore di Giada. Ha raccontato che Tripitaka era bloccato sui Monti di
Fuoco e che tu incontravi qualche difficoltà a sottomettere questo re toro. L’Imperatore ci ha
mandati in aiuto.»
«Quel ragazzo ha una pratica di magia di tutto rispetto» osservò Scimmiotto. «Guarda che belle
dimensioni è in grado di assumere.»
«Non c’è problema» replicò il principe sorridendo. «Ora ti faccio vedere come si fa.»
Gridò: «Trasformazione!» e si mutò in una creatura con tre teste e sei braccia; in questa forma
balzò in groppa al toro e gli tagliò la testa con un colpo di spada. Ma quando rinfoderò l’arma, dal
collo amputato spuntò un’altra testa con gli occhi fiammeggianti, che sputava dalla bocca un denso
fumo nero. Per dieci volte Nata gli tagliò la testa, senza venirne a capo. Allora il principe applicò
sulle corna la ruota di fuoco; si sparse un tal fuoco che la bestia muggiva impazzita, scuotendo la
testa e agitando la coda. Cercava di trasformarsi in qualche modo per fuggire, ma il re Porta Pagoda
glielo impediva con il riflesso dello specchio rivelatore dei mostri. Alla fine non gli restò che
arrendersi gridando: «Non mi uccidete! Mi sottometto al Buddha!»
«Se tieni alla pelle» rispose Nata, «tira fuori quel ventaglio.»
«Quello è nelle mani di mia moglie» rispose il re toro.
Allora Nata gli montò in groppa e utilizzò come redini la sua corda per legare mostri.
Scimmiotto si incaricò di raccogliere e ordinare tutta quella massa di gente: portatori di folgore, dèi
del giorno e della notte, guardiani protettori della fede, il re celeste Porta Pagoda, il generale
Gigantesco, Porcellino, il tudi e milizie varie; correndo tutti alle costole del bufalo bianco, fecero
ritorno alla Grotta del Banano.
«Signora!» gridò il toro. «Consegnate il ventaglio e salvatemi la vita!»
La Râksasî si tolse precipitosamente i gioielli e l’abito dai vivaci colori per vestirsi come una
bhiksunî, ponendosi in capo una cuffia da suora taoista: in quella foggia uscì dalla grotta offrendo
sulle mani tese il ventaglio di foglie di banano. Alla vista di tutte quelle divinità si prosternò e disse:
«Spero che vorrete risparmiarci. Offro volentieri questo ventaglio a mio cognato Scimmiotto, e gli
auguro ogni successo nelle sue imprese.»
Il Novizio si fece avanti a prenderlo e poi, accompagnato in folla da tutti gli altri, montò sulle
nuvole per ritornare a est.
Nel frattempo Tripitaka e Sabbioso erano rimasti sul ciglio della strada senza sapere come
passare il tempo, ora passeggiando nervosamente e ora sedendosi a riposare, nell’attesa impaziente
che la lunga assenza di Scimmiotto avesse fine. Ed ecco che finalmente il cielo si coprì di nuvole di
buon augurio, che riempivano lo spazio con riflessi di vivaci colori: si avvicinava il corteo degli dèi.
«Consapevole della Purezza» chiamò spaventato il reverendo, «guarda lassù: che cosa vorrà dire
tutta quella folla divina?»
«Guardate, maestro» rispose Sabbioso. «Ecco i quattro grandi portatori di folgore, il rivelatore
Testa d’Oro, le sei divinità delle tenebre e le sei del giorno; quelli sono i guardiani protettori della
dottrina; e ce ne sono altri. Quello che tira il bufalo con la corda è il terzo principe Nata. Quello con
lo specchio è Li Porta Pagoda. Guardate, ecco il condiscepolo anziano, in compagnia di Porcellino e
del tudi: ha in mano il ventaglio!»
Tripitaka pensò bene di vestirsi da cerimonia, infilando il kasâya e mettendosi in testa il berretto
alla Vairocana, per accogliere le loro santità ed esprimere la sua gratitudine: «Quali meriti potrei
mai vantare, per aver l’audacia di provocare la vostra discesa quaggiù?»
«Allegro, santo monaco!» esclamò un portatore di folgore. «Il vostro eminente compito è
prossimo alla conclusione. Il Buddha ci ha mandati ad aiutarvi. Da parte vostra, non risparmiate gli
sforzi e impegnatevi più che potete.»
Tripitaka si profuse in prosternazioni e offerte di obbedienza.
Scimmiotto, senza perdere tempo, si fece avanti sui Monti di Fuoco e agitò energicamente il
ventaglio: le fiamme si spensero e in breve scomparvero anche i bagliori delle braci. Allora il
Novizio diede allegramente un altro colpo di ventaglio, e soffiò una fresca brezza. Al terzo colpo il
cielo si coprì di nuvole e cadde una sottile pioggerella. Lo testimoniano i versi:
Monti di Fuoco su ottocento leghe,
Celebri in ogni parte della terra.
Non matura il cinabro quando bruciano
Cinque passioni, è turbata la Via
Se ardono i tre passi. Quel ventaglio
Porta pioggia e freschezza, con l’aiuto
Della corte del Cielo. È reso innocuo,
Nelle mani del Buddha, il grande bufalo.
Unendo fuoco ed acqua ottieni pace.
Tripitaka, liberato dalla grande calura e dall’ansia, si sentiva il cuore leggero e lo spirito sereno.
Tutte le varie divinità ricevettero i dovuti ringraziamenti e ritornarono alle loro sedi. Il re celeste e
suo figlio condussero il bufalo nel territorio del Buddha. Non rimase che il tudi, che custodiva la
Râksasî.
«Ora vattene, Râksasî» disse Scimmiotto.
«Spero che avrete la bontà di restituirmi il ventaglio» rispose lei inginocchiandosi.
«Brutta puttana!» urlò Porcellino. «Non sai a chi stai parlando? Non ti basta che ti abbiamo
lasciato viva? Adesso vuoi anche il ventaglio! Una volta passate le montagne, lo venderemo per un
bel po’ di soldi e ci compreremo un visibilio di ghiottonerie. Figuriamoci se ci siamo dati tanto da
fare per restituirlo a te. Lévati dai piedi, non vedi che piove?»
«Grande santo, voi avevate promesso di restituirmelo dopo avere spento le fiamme» ricordò la
Râksasî, restando inginocchiata. «Mi dispiace per tutto quello che è successo. Tutto è cominciato
perché non mi sentivo bene ed ero di malumore. La Via dell’umanità la coltivavamo anche noi,
benché non fossimo giunti al giusto frutto. Ma ora che sono stata testimone del ritorno del vero
corpo all’Ovest, non sarei nemmeno capace di ritornare ad agire sconsideratamente. Se mi
accordaste il ventaglio, incomincerei una nuova vita di pratiche pietose, in modo da far maturare un
nuovo destino.»
«Grande santo» intervenne la divinità locale, «questa donna è esperta nell’arte di spegnere le
fiamme ed estirpare il fuoco alla radice. Se gli rendete il ventaglio, anche l’umile divinità che sono
potrà vivere tranquilla, soccorrere i fedeli e godere le loro offerte. Mi fareste proprio una grazia.»
«I contadini di qui» ricordò Scimmiotto, «mi avevano spiegato che, spente le fiamme con il
ventaglio, restava solo il tempo per produrre un raccolto; poi le fiamme si riaccendevano. Come si
fa a estinguerle definitivamente?»
«Basta agitare il ventaglio quarantanove volte di seguito» rispose la Râksasî. «Allora le fiamme
non si riaccenderanno mai più.»
Scimmiotto afferrò il ventaglio e lo agitò quarantanove volte in direzione delle cime dei monti.
La pioggia divenne torrenziale, ma il ventaglio era tanto preciso che faceva cadere la pioggia solo
dove covava il fuoco. Maestro e discepoli, che si tenevano sulla strada, rimasero sotto il cielo
limpido e non si bagnarono affatto. Passarono la notte sul posto, e il mattino successivo caricarono i
bagagli.
A questo punto Scimmiotto chiamò la Râksasî e le consegnò il ventaglio. «Ecco qua» le disse.
«Non voglio che si dica che manco di parola. Riportalo sulla tua montagna e non provocare più
incidenti. Ti sei pur perfezionata abbastanza da arrivare alla forma umana; è per questo che ti lascio
andare.»
Quando la Râksasî lo ebbe in mano, recitò l’incantesimo per ridurlo alle dimensioni di una foglia
di albicocco e se lo ripose in bocca. Poi ringraziò le loro santità e si ritirò. Avrebbe in seguito
condotto una vita molto appartata e conseguito il giusto frutto, tanto da meritare perpetua memoria
nei sutra del canestro.
La marcia riprese sul suolo rinfrescato dalla pioggia e gradevolmente inumidito. È il caso di
dirlo:
Kan e Li fan l’unione primordiale,
Consentono acqua e fuoco in equilibrio
Il compimento della grande Via.
Se poi non sapete quanti altri anni occorsero perché potessero ritornare nelle terre dell’Est,
ascoltate il seguito.
CAPITOLO 62
LA PAGODA PROFANATA
PER NETTARE LO SPIRITO DA OGNI POLVERE BASTA SPAZZARE UNO STUPA, E COLTIVARSI PER
INCATENARE I DIAVOLI E RITROVARE LA GIUSTA VIA.
Ogni minuto devi ricordare
Le pratiche pietose, ogni occasione
Raccogliere nel corso di cinque anni,
Per ciascuna delle ore che contengono:
L’acqua divina non inaridisca,
Né si riduca il lume della fiamma.
Quando acqua e fuoco sono in armonia,
Si concatenano i cinque elementi.
Se sono yin e yang in equilibrio,
Potrai salir la Torre delle Nuvole,
Montar sulla fenice nei Palazzi
Di Porpora, e inforcare la tua gru
Diretta verso l’isola Yingzhou.
Sono versi da cantare sul motivo di L’immortale in riva al fiume. Ci ricordano che i quattro
pellegrini, Tripitaka e i discepoli, sentivano rinfrescata e purificata la loro natura, godendo
l’equilibrio dell’acqua con il fuoco: acqua del prezioso ventaglio, che era puro yin, e fuoco della
grande montagna. Occorsero più giorni per percorrere gli ottocento li su cui i monti si estendevano,
ma il cammino verso occidente era sereno e sgombro da angosce.
Finiva l’autunno e incominciava l’inverno:
Cadono gli ultimi petali del crisantemo selvatico; il susino già predispone i germogli della prossima primavera. Tutti i
villaggi hanno portato i raccolti al coperto; aleggia il profumo delle minestre cucinate in ogni capanna.
Attraverso i rami spogli della foresta si vedono le montagne lontane, il primo ghiaccio dei torrenti, le pareti delle gole
fino al fondo.
È cessata ogni attività intorno ai bachi da seta. Regna la luna yin, la virtù dell’acqua è all’apogeo, la luce del sole rimane
velata. Scendono i soffi della terra, salgono quelli dei cieli; non appare più l’arcobaleno, stagni e laghi sono spesso
imprigionati dal ghiaccio. Fiori appassiti sul monte esaltano il verde dei pini e dei bambù irrigiditi dal gelo.
Dopo aver camminato parecchio tempo, si avvicinarono nuovamente a un abitato. Il monaco
cinese tirò le redini e disse: «Consapevole del Vuoto, vedi quelle torri? Che posto sarà?»
Scimmiotto osservò e vide che si trattava di una città circondata da mura e da fossati.
La città d’oro ha forma di drago acciambellato, oppure di tigre accovacciata. Da ogni parte giungono carri coperti da
ricchi baldacchini: mille ruote segnano le carreggiate porporine. Sui parapetti dei ponti di giada si allineano chimere
scolpite, su piedistalli d’oro sono erette le statue dei saggi. È proprio la capitale di un continente divino, una metropoli
di diaspro, vasto e stabile dominio; possa prosperare per mille anni!
I barbari vengono a rendere omaggio alla remota grazia sovrana, mari e monti si rivolgono verso il suo santo splendore.
I viali e i regi mercati sono ordinati e puliti. Allegre canzoni risuonano nelle taverne e sulle torri fiorite. Dietro i palazzi,
parchi con alberi di eterna primavera, che potrebbero accogliere il canto rivolto al sole dalle fenici multicolori.
«Maestro» rispose Scimmiotto, «questa è evidentemente la capitale di un regno.»
«Una città cinta da mura sotto il cielo» osservò ridendo Porcellino, «può benissimo essere
capoluogo di prefettura, oppure di sottoprefettura. Come fai a dire che è una capitale?»
«Non sai la differenza fra un capoluogo di prefettura e una capitale? Non vedi che ogni lato delle
mura ha più di dieci porte e supera in lunghezza i cento li? Torri e terrazze sono tanto alte da
perdersi nelle nuvole. Come spiegheresti queste meraviglie, se non fosse una capitale?»
«Tu te ne intendi, fratello» approvò Sabbioso; «è certo una residenza regia. Ma come si
chiamerà?»
«Non vedo stele, né placche o insegne» replicò Scimmiotto. «Quando entreremo in città, lo
chiederemo ai passanti.»
Il reverendo frustò il cavallo e in breve giunsero alle porte. Attraversarono il ponte ed entrarono:
nei viali e nei mercati regnavano l’abbondanza e la ricchezza; la prosperità si manifestava anche
negli abiti della gente. Mentre passeggiavano, videro una decina di bonzi, che indossavano cenci
miserandi, recavano al collo la canga e andavano mendicando di porta in porta.
«La volpe piange la morte della lepre; sono malconci, ma solidali» sospirò Tripitaka. E ordinò:
«Consapevole del Vuoto, chiedi loro perché sono ridotti in quello stato.»
Scimmiotto gridò: «Ehi, bonzi, di quale monastero siete? Perché vi hanno condannati a portare la
canga?»
«Monsignore» dissero i monaci cadendo in ginocchio, «ci hanno fatto torto. Siamo del
Monastero del Lampo d’Oro.»
«Dov’è questo monastero?»
«In fondo alla strada.»
«Raccontateci il torto che vi hanno fatto» disse Scimmiotto guidandoli verso Tripitaka.
«Monsignori, non sappiamo niente di voi, benché abbiate un’aria familiare. Non osiamo
rispondervi qui, in mezzo alla strada. Seguiteci nella nostra umile dimora, perché possiamo parlare
liberamente.»
«È giusto» disse Tripitaka. «Seguiamoli al loro monastero.»
In breve giunsero all’ingresso, sopra il quale era scritto in sette caratteri d’oro:
MONASTERO DEL LAMPO D’ORO, PROTEZIONE DEL PAESE, FONDATO PER ORDINE DEL RE
Varcata la soglia, si offrì agli occhi dei visitatori un triste spettacolo:
Fredde le lampade da incenso nell’antica sala; sotto i porticati deserti il vento spinge qua e là foglie morte. La pagoda
alta mille piedi, circondata dai pini, sale a sfiorare le nuvole. Nella corte crescono fiori selvatici, nessun ospite vi entra
da molto tempo. Sotto le tettoie i ragni tessono indisturbati. Il tamburo è montato, la campana è appesa, ma invano:
nessuno li suona. La polvere copre i colori degli affreschi. Vuoto il pulpito; la sala di meditazione ospita solo qualche
uccellino in cerca di rifugio. Desolazione che strappa un sospiro scoraggiato, triste silenzio dell’abbandono. Il brucia
profumi davanti al Buddha contiene solo ceneri vecchie e qualche petalo secco.
Tripitaka sentì una stretta al cuore e gli vennero le lacrime agli occhi. I monaci con la canga al
collo spinsero la porta della sala principale, e vi introdussero il reverendo perché potesse pregare il
Buddha. Tripitaka entrò, offrì incenso con la mente e si prosternò tre volte. Vennero poi
accompagnati nella cella del superiore, dove videro uno strano spettacolo: sei o sette giovani
monaci erano incatenati ai pilastri. Gli accompagnatori si prosternarono e chiesero: «Padri, i vostri
volti sono diversi dai nostri; venite forse dal paese dei grandi Tang, nelle terre dell’Est?»
«Ecco dei bonzi che sanno arrangiarsi a indovinare senza bisogno di achillea» rispose ridendo
Scimmiotto. «Le cose stanno come dite. Ma voi come lo avete capito?»
«Non siamo veggenti. Non possediamo altro che il dolore per l’ingiustizia che dobbiamo subire,
senza che abbiamo avuto la possibilità di discolparci. Un giorno dopo l’altro, non possiamo far altro
che invocare il Cielo e la Terra. Saremo riusciti a commuovere gli dèi di Sopra? Fatto sta che la
notte scorsa abbiamo fatto tutti lo stesso sogno: stava per giungere un monaco cinese dalle terre
dell’Est, a salvarci la vita e riparare i torti subiti. Perciò, reverendi, vi abbiamo riconosciuti.»
Tripitaka, lieto della notizia, domandò: «Diteci qual’è il nome del paese e quali sono le vostre
lagnanze.»
«Padre» risposero i monaci inginocchiati, «il paese e la città si chiamano Jisai, che significa
Gara di Offerte: è una delle contrade più importanti dell’Ovest. Un tempo i barbari dei quattro
orienti le pagavano il tributo: a sud il regno di Yuetuo, Gobba di Luna; a nord Gaochang; a est il
regno dei Liang dell’Ovest; a ovest il paese di Benbo. Ogni anno portavano le più belle giade e
perle luminose, belle fanciulle e magnifici cavalli. Il riconoscimento come paese dominante era
spontaneo, non dovuto a imprese militari.»
«Evidentemente il vostro sovrano possiede la Via, e i vostri ufficiali civili e militari sono buoni e
saggi» suppose Tripitaka.
«I funzionari civili non sono affatto saggi, e quelli militari tutt’altro che buoni. Quanto al
sovrano, non ha mai cercato la Via. Il motivo era la sacra pagoda del nostro monastero. Era
costantemente avvolta da nubi di buon augurio che torreggiavano nel cielo; di notte, la sua aureola
iridata si vedeva chiaramente da una distanza di diecimila li; di giorno, il suo soffio profumato si
spandeva in tutti i paesi vicini. Perciò i barbari consideravano la nostra città divina e benedetta dal
Cielo, e si inducevano a pagare il tributo. Ma tre anni fa, nella prima notte d’autunno, a mezzanotte,
cadde una pioggia di sangue. L’indomani all’alba paura e scoraggiamento turbarono ogni focolare,
invasero ogni cuore. I ministri, nei loro rapporti, confessavano di non capirci niente. Si ordinò ai
preti taoisti di celebrare i loro servizi, e ai monaci buddisti di recitare sutra per impetrare perdono e
aiuto dal cielo e dalla terra. Chi l’avrebbe mai detto? La nostra pagoda, contaminata, perse la sua
aureola e nessun paese straniero offrì più il tributo. Il nostro sovrano voleva far guerra, ma i
cortigiani lo dissuasero. Dissero che era colpa nostra, che i monaci del monastero avevano rubato il
tesoro della pagoda, e questa era l’origine di tutti i guai. Il nostro ottuso sovrano non indagò oltre: ci
fece arrestare da quei mandarini concussionari, che ci sottomisero a interrogatori e ci torturarono in
tutti i modi. Quando questa storia è incominciata, abitavano qui tre generazioni di monaci: le prime
due non hanno resistito a lungo, sono morti tutti. Ora tocca a noi rispondere del crimine, con canga
e catene. Lo chiedo a voi, monsignore: come avremmo osato commettere un simile delitto?
Speriamo che la commiserazione per i vostri colleghi vi faccia usare la vostra immensa
compassione e la potenza della legge, per salvare le nostre misere vite.»
Tripitaka scosse il capo sospirando: «Che oscura vicenda! Non sarà facile metterla in chiaro. È
evidente che la corte non è governata come si deve; ma d’altra parte siete rimasti vittime di una
calamità naturale. Dal momento che il Cielo aveva inviato quella pioggia di sangue, a essa era
dovuta la contaminazione della vostra pagoda. Perché non faceste rapporto al sovrano, per prevenire
le interpretazioni malevole?»
«Padre, noi non siamo che comuni mortali: come potevamo interpretare le intenzioni del Cielo?
Non seppero farlo nemmeno gli anziani che allora ci reggevano; e noi non siamo che i
sopravvissuti.»
«Che ora è, Consapevole del Vuoto?» domandò Tripitaka.
«Circa le quattro del pomeriggio.»
«Volevo recarmi a corte per presentare il passaporto; ma finché questa faccenda non mi è ben
chiara, non mi sento in grado di parlarne al sovrano. Quando lasciai Chang’an, feci voto di bruciare
incenso in ogni tempio che avessi incontrato sulla strada dell’Ovest, pregare il Buddha in ogni
monastero e spazzare ogni stupa. Voi subite torti a causa di uno stupa. Mentre faccio le mie
abluzioni, procuratemi una scopa. Entrerò nello stupa per nettarlo e indagare sulle circostanze e
ragioni della sua contaminazione, che ha cagionato la scomparsa dell’alone luminoso. Quando ne
sapremo di più, sarò in condizioni di difendervi davanti al re e di liberarvi dalle pene.»
I bonzi con la canga corsero in cucina a prendere un coltello e lo offrirono a Porcellino:
«Monsignore, usatelo per spezzare le catene dei monaci legati alle colonne, in modo che possano
occuparsi della preparazione del pasto e dell’acqua calda per le abluzioni. Intanto noi andremo per
la città a chiedere in elemosina una scopa nuova.»
«Spezzare catene? È facile, e non servono né coltello né ascia» rispose ridendo Porcellino.
«Ditelo al mio condiscepolo con la faccia pelosa: è uno scassinatore provetto, come ce n’è pochi.»
Difatti Scimmiotto si avvicinò e usò la magia che scioglie le catene: gli bastò sfiorarle perché
cadessero a terra. I giovani monaci si precipitarono in cucina, lavarono e strofinarono pentole e
fornelli, e prepararono un pasto vegetariano.
Mentre Tripitaka cenava con i discepoli, scese la sera; con grande soddisfazione del reverendo, i
bonzi con la canga ritornarono recando due scope. Restarono a chiacchierare, finché un monacello
con una lanterna venne ad avvertire che il bagno era pronto. Ormai brillavano le stelle in cielo, e
dalle torri di guardia i rulli di tamburo annunciavano la prima veglia. Era il momento in cui
Si leva un vento freddo, in mille case
Si accendono le lampade, si serrano
Le porte sulla strada. Nei mercati
Le merci son riposte e custodite.
Ormeggiate le barche, i pescatori
Si ritirano in casa. Ogni lavoro
È cessato; gli arnesi son riposti.
Si odono cantilene di fanciulli:
Ripeton la lezione per domani.
Uscito dal bagno, Tripitaka indossò una tunica a maniche corte, calzò stivali comodi, impugnò
una scopa e disse ai monaci: «Prendete tranquillamente il vostro riposo. Io tornerò dopo aver
spazzato lo stupa.»
«Quella pagoda, contaminata dalla pioggia di sangue e ridotta al buio, potrebbe essere un
ricettacolo di creature malefiche» obiettò Scimmiotto. «Se non avrete altro compagno che la brezza
notturna, potrebbe succedervi qualcosa. Vi dispiace se vi faccio compagnia?»
«Mi sembra un’ottima idea.»
Presero una scopa ciascuno e si recarono prima nella sala principale, dove accesero le lampade,
bruciarono incenso e s’inchinarono al Buddha. Tripitaka pregò così: «Il vostro discepolo Chen
Xuanzang, in missione per ricercare le scritture, è giunto al Monastero del Lampo d’Oro del paese
di Jisai. I monaci lo hanno informato che il loro prezioso stupa è stato contaminato, e che il sovrano
del paese li sospetta di averne rubato il tesoro. Per questo oscuro affare, hanno subito un’ingiusta
condanna. Il vostro discepolo intende spazzare lo stupa in sincerità di cuore, nella speranza che il
Buddha, nella sua onniscienza, gli voglia fornire senza indugio indizi per capire il motivo della
contaminazione e per liberare gl'innocenti da ingiuste sofferenze.»
Terminata la preghiera, entrarono nella pagoda e incominciarono a spazzarla, a partire dal piano
terreno. Era proprio
una pagoda che saliva a sfiorare il cielo. Era detta Stupa di vetro a cinque colori, Picco delle reliquie di mille pezzi
d’oro. Al suo interno la scala sale girando, stretta come una gabbia. Il globo d’oro sulla sommità si confronta con la
luna; il tintinnio delle campanelle d’oro segnala la brezza che viene dal mare. Gli spioventi ammiccano alle stelle, la
punta del tetto trattiene le nuvole. I primi sembrano rocce con strane punte tra fiori e fenici; la seconda si circonda di
draghi di bruma.
Dalla cima, che sembra giungere al nono cielo, la vista si estende oltre mille li. Presso la porta di ogni piano c’è una
lampada di vetro, ma è spenta e polverosa; sui parapetti di giada bianca ogni specie di bestiole volanti e striscianti ha
ammucchiato le sue deiezioni. In mezzo allo stupa, davanti al trono del Buddha, non c’è più incenso. Le finestre
destinate a dar luce alle statue delle divinità sono offuscate dalle ragnatele. I brucia profumi mandano solo puzza di
ratto. Quanti infelici monaci hanno perso la vita per la misteriosa scomparsa del tesoro! Tripitaka spazza tutto
energicamente, per riportare lo stupa allo splendore di un tempo.
Dopo aver spazzato un piano, Tripitaka saliva a quello superiore. Alla seconda veglia, quando
giunse al settimo, incominciò a sentirsi stanco.
«Sedetevi un momento» gli disse Scimmiotto; «non ne potete più. Continuerò io.»
«Quanti piani ha la pagoda?»
«Mi pare che siano tredici.»
«Per adempiere il mio voto, li devo spazzare tutti» rispose Tripitaka, sforzandosi di dominare la
stanchezza. Dopo altri tre piani, quando giunse al decimo, gambe e schiena gli dolevano tanto che
lo fecero crollare: «Consapevole del Vuoto, spazza per me i piani che restano.»
Scimmiotto si mise all’opera con grande rapidità. Quando fu al dodicesimo piano, udì qualcuno
che conversava sul tetto.
«Che strano!» pensò. «Già non è un posto per far conversazione; e poi, a quest’ora di notte!
Saranno certo creature malefiche: vediamo un po’.»
Il re scimmia, senza far rumore, si infilò la scopa sotto il braccio, rialzò le falde della tonaca e
scivolò fuori dall’uscio. Montato su una nuvola salì a vedere di che cosa si trattasse, e vide due
mostri seduti al tredicesimo piano, che giocavano alla morra davanti a piatto, caraffa e bicchiere.
Scimmiotto tornò indietro, appoggiò la scopa e brandì la sua sbarra cerchiata d’oro. Poi si fece
sull’uscio del tredicesimo piano gridando: «E bravi mostri! Dunque siete voi i ladri del tesoro!»
Le due creature, spaventate, balzarono in piedi e si provarono a bersagliare Scimmiotto con le
loro stoviglie e a fuggir via. Ma lui bloccava il passaggio con la sua sbarra messa di traverso, e li
strinse contro la parete. «Non tremate tanto!» diceva. «Non vi voglio ammazzare, perché mi dovete
raccontare tutta la storia.» «Pietà!» supplicavano loro. «Risparmiateci, noi non c’entriamo; il ladro
non è qui.»
Scimmiotto li acchiappò entrambi con una sola mano e li portò di peso al decimo piano.
«Maestro, ecco qua i ladri di tesori» annunciò. Tripitaka, che si era addormentato, si svegliò di
soprassalto e accolse con gioia la notizia: «Dove li hai presi?»
«Si divertivano a bere e giocare alla morra in cima alla pagoda» spiegò Scimmiotto, spingendosi
davanti i mostri inginocchiati. «Ho sentito rumore e ho catturato questi uccellini senza colpo ferire.
Sono stato gentile e attento a non rompergli il capino, solo perché non volevo rinunciare a
divertirmi ascoltando la loro storia. Maestro, potete fargli l’interrogatorio, identificarli e scoprire
dove si trova la refurtiva.»
I mostri non facevano che tremare e ripetere: «Pietà, risparmiateci!»
Poi vennero le confessioni: «Ci ha mandati qui a ispezionare la pagoda il re drago Ognissanti, del
Lago dei Flutti Verdi sul Monte delle Rocce Caotiche. Il mio compagno si chiama Benborba e io
Baborben: lui è un pesce siluro, io un pesce nero. Il nostro drago Ognissanti ha una figlia, che anche
lei si chiama Ognissanti ed è più bella della luna, colma di ogni talento. L’ha sposata il principe
consorte Nove Teste, che dispone di immensi poteri magici. Qualche anno fa è venuto da queste
parti in compagnia del re drago, e ha dato saggio dei suoi poteri facendo cadere una pioggia di
sangue. Il sangue ha contaminato lo stupa e ha reso possibile di rubare le reliquie. Poi la principessa
si è introdotta nel Cielo della Grande Rete e, davanti alla Sala delle Nuvole Misteriose, ha rubato
l’angelica a nove foglie della Regina Madre d’Occidente. Il nostro compito è di custodire queste
cose in fondo al lago, dove mandano una luce meravigliosa. In questi giorni si è sentito dire che
doveva passare di qui un certo Scimmiotto Consapevole del Vuoto, in cerca di scritture nell’Ovest;
questo tizio dispone di immensi poteri magici e, strada facendo, si dedica a raddrizzar torti. Ci
mandano spesso qui di pattuglia, per intercettarlo e dare l’allarme, nel caso che arrivasse davvero.»
Scimmiotto sogghignò: «Che infame sporcaccione! Ecco perché l’altro giorno aveva convitato il
re diavolo toro. Ha raccolto tutta una banda di briganti, per commettere un misfatto dopo l’altro.»
Mentre parlavano, spuntò Porcellino in compagnia di due o tre monaci muniti di lanterne:
«Maestro, ora che avete pulito la pagoda, perché ve ne state a chiacchierare, invece di venire a
letto?»
«Arrivi a buon punto» disse Scimmiotto. «Abbiamo saputo che il tesoro è stato rubato dal drago
Ognissanti. Lo hanno confessato questi due mostriciattoli, che erano venuti qui a spiare il nostro
arrivo e che ho colto con le mani nel sacco.»
«Che mostri sono? Come si chiamano?»
«Sono pesci; si chiamano Benborba e Baborben.»
«Benone: sono creature malefiche; hanno confessato; che cosa aspettiamo ad ammazzarli?» E
Porcellino alzò il suo rastrello.
«Sta buono; non sei pratico. Conviene che li teniamo vivi: ci servono come testimoni davanti al
re, e come informatori quando andremo a caccia dei ladri, per ricuperare il tesoro.»
Il bestione abbassò la sua arma e tutti uscirono dalla pagoda. Le creature, saldamente afferrate
l’una da Scimmiotto e l’altra da Porcellino, gridavano: «Fateci grazia!»
«Si pensava giusto di cucinare una bella zuppa di pesce fresco, per rimettere in sesto i nostri
monaci dopo tutti i guai che voi gli avete procurato. Gli ingredienti migliori sono pesce siluro e
pesce nero» li confortò Porcellino.
I giovani bonzi, tutti contenti, facevano strada al reverendo con le loro lanterne. Rientrati nella
sala, corsero ad annunciare la buona notizia agli altri monaci: «Le cose si mettono bene! Rivedremo
il cielo azzurro! Hanno catturato le creature malefiche che ci avevano rubato le reliquie.»
«Portate dei ferri» ordinò Scimmiotto. «Forategli una scapola e incatenateli qui. Mentre
dormiamo, dovrete fargli la guardia. Domani decideremo sul da farsi.»
La guardia fu accuratissima.
All’alba, quando i pellegrini si svegliarono dal sonno, Tripitaka dichiarò: «Vado a corte con
Consapevole del Vuoto, per presentare il passaporto.» Si mise in abito da cerimonia, con il kasâya
dai bordi di broccato e il cappello alla Vairocana, e si avviò accompagnato da Scimmiotto, che
portava i documenti.
«Perché non porti con te anche questi due mostri ladroni?» domandò Porcellino.
«Vedrai che il re li farà convocare, quando gli avremo fatto rapporto.»
Camminando verso il palazzo, videro una quantità di fenici rosse e di draghi gialli dipinti sugli
archi vermigli della grande capitale. Tripitaka si presentò alla porta Splendore dell’Est e salutò
l’alto ufficiale di servizio: «Posso importunare vostra grandezza, pregandola di voler annunciare un
umile monaco, inviato dai grandi Tang delle terre dell’Est in cerca delle scritture nel Paradiso
dell’Ovest? La speranza sarebbe di essere ricevuto in udienza per presentare il passaporto.»
L’ufficiale si recò a rapporto ai piedi del trono: «Ci sono fuori due monaci di strano aspetto,
vestiti in modo inconsueto, che si dicono incaricati dai Tang di cercare le scritture. Vorrebbero
presentarsi a vostra maestà per mostrare il loro passaporto.»
Il re ordinò di introdurli. A vedere Scimmiotto, che seguiva il reverendo, non ci fu uno degli
ufficiali civili e militari che non trasalisse di spavento. Chi diceva che doveva essere una scimmia,
chi affermava che aveva una faccia da duca del tuono. Ma erano tanto spauriti che non osavano
fissarlo. Mentre il reverendo eseguiva il balletto delle riverenze che si usano davanti ai troni, il
grande santo se ne stava dritto e impassibile, a braccia conserte.
«Il vostro servitore è un monaco inviato dai grandi Tang delle terre dell’Est a salutare il Buddha
al Monastero del Colpo di Tuono, in India. La nostra via passa per il vostro nobile paese, e noi non
avremmo osato attraversarlo senza autorizzazione. Porto con me documenti di viaggio che vi prego
di vistare, prima che riprendiamo il cammino.»
Il re si rallegrò. Invitò il santo monaco a salire nella Sala delle Campanelle d’Oro e lo invitò a
sedersi su uno sgabello, su cui fece posare un cuscino ricamato. Tripitaka salì e presentò le sue
carte, prima di ringraziare del regio favore e di osare di sedersi.
Il re lesse e dichiarò: «Fortunato il tuo sovrano, che al bisogno ha potuto scegliere un monaco
eminente da inviare al Buddha senza temere il lungo viaggio. I miei bonzi, qui, pensano solo a
rubare, rovinare il paese e rovesciare il trono.»
«Come sarebbe, rovinare il paese e rovesciare il trono?» chiese cautamente Tripitaka giungendo
le mani.
«Il nostro è il paese dominante nei territori dell’Ovest; i barbari dei quattro orienti ci pagavano il
tributo, per merito della pagoda d’oro del Monastero del Lampo d’Oro, che emetteva un alone di
luce. Ma quei briganti di monaci hanno rubato il tesoro della pagoda: da tre anni l’alone di luce è
scomparso, e i barbari non si fanno più vedere. Non vi so dire quanto sono indignato!»
«Maestà» replicò sorridendo Tripitaka, sempre a mani giunte, «deviare all’origine di un quarto
di pelo porta fuori strada di mille leghe. Ieri sera, arrivando qui, ho incontrato una decina di monaci
che portavano la canga. Quando ho chiesto di quale delitto fossero puniti, mi hanno risposto che
erano stati ingiustamente condannati per questo affare. Mi sono recato al monastero e ho svolto
accurate indagini. Ho scoperto che in effetti quei monaci non sono colpevoli: mentre spazzavo la
pagoda, durante la notte, abbiamo catturato le creature malefiche responsabili del furto.»
«E dove sono?» chiese sorpreso il re.
«I miei umili discepoli le tengono sotto scorta nel Monastero del Lampo d’Oro.»
Il re fece subito recare la piastra d’oro, che ordinava alla guardia in divisa di broccato di recarsi
senza indugio al monastero, per impadronirsi dei ladri e sottoporli a interrogatorio alla presenza del
sovrano.
«Maestà» obiettò Tripitaka, «la guardia in divisa di broccato non se la caverà, senza l’aiuto del
mio umile discepolo.»
«Dov’è il vostro eminente discepolo?»
«Eccolo là, ai piedi dei gradini di giada» rispose Tripitaka additandolo.
Il re, sconvolto, gridò: «Com’è possibile che voi, così distinto, abbiate per discepolo un ceffo
simile?»
Fu Scimmiotto a replicare ad alta voce: «Maestà, dall’aspetto è difficile giudicare tanto l’uomo,
quanto la profondità del mare. Se volete servirvi soltanto di persone distinte, dovrete rinunciare a
catturare mostri e ladri.»
Il re rise: «Avete ragione, santo monaco. Al momento non mi servono concorsi di bellezza, ma la
cattura dei briganti e il ricupero del tesoro della pagoda.»
Mandò quindi l’ufficiale di servizio a preparare una vettura chiusa, e ordinò alle guardie di
mettersi a disposizione del santo monaco.
Giunse subito un grande palanchino con il parasole giallo; la guardia fornì otto portatori e quattro
battistrada per sgombrare il cammino che conduceva al monastero. La gente in città era già in
attesa: nessuno voleva perdere lo spettacolo di Scimmiotto con i mostri prigionieri.
Porcellino e Sabbioso, quando sentirono gridare: «Fate largo!», pensarono che arrivassero inviati
del re e gli andarono incontro: ma a troneggiare nel palanchino trovarono Scimmiotto.
«Hai ricuperato il posto che ti spetta» commentò ridendo Porcellino.
Scimmiotto saltò giù e lo acchiappò per il bavero: «Come sarebbe a dire?»
«Troneggiare sotto il baldacchino di seta gialla di un palanchino da otto portatori, è appunto roba
da re scimmia. Tutto qui.»
«Non prendermi in giro» brontolò Scimmiotto. E fece slegare i due mostri per portarli dal re.
«Fratello, lascia che venga anch’io» pregò Sabbioso.
«Devi sorvegliare i bagagli e il cavallo.»
Intervennero i monaci con la canga: «Monsignori, andate tutti a ricevere i favori della corte.
Penseremo noi a custodire le vostre cose.»
«Va bene» acconsentì Scimmiotto. «Noi andiamo a fare rapporto; al ritorno vi libereremo.»
Porcellino prese in custodia un mostro, e Sabbioso l’altro; Scimmiotto risalì sul palanchino. Le
due creature furono condotte per le vie della città sotto buona scorta.
In breve giunsero ai piedi dei gradini di giada: «Ecco i mostri che hanno rubato il tesoro.» Il re
scese dal trono per esaminarli da vicino, in compagnia di Tripitaka e dei suoi ufficiali. Uno dei due
aveva guance rotonde, scaglie nere, muso appuntito e denti aguzzi; l’altro, una gran pancia con la
pelle liscia e lunghe barbe agli angoli della bocca. Avevano gambe e sapevano usarle, ma per il
resto erano più pesci che uomini.
«Da dove venite, briganti?» chiese il re. «Da dove venite, voi mostri che avete violato il nostro
territorio per rubare il nostro tesoro? Quando lo avete fatto? Come vi chiamate, chi sono i vostri
complici? Confessate!»
Benché avessero il collo insanguinato, le due creature non davano segno di soffrire. Si
inginocchiarono davanti al re e dissero: «Tre anni fa, il primo giorno della settima luna, il re drago
Ognissanti portò i suoi a stabilirsi a sud est di questo paese, a un centinaio di li da questa città, in un
lago detto dei Flutti Verdi sul Monte delle Rocce Caotiche. Quel re ha una figlia di grande fascino e
bellezza, e l’ha data in moglie a Nove Teste, dai poteri ineguagliabili. È stato quest’ultimo, che
conosceva le meraviglie della vostra pagoda, a organizzare il furto delle reliquie d’accordo con il re
drago, dopo aver fatto cadere una pioggia di sangue. Ora esse illuminano notte e giorno il palazzo
del drago. Anche la principessa è un’abile ladra, e ha sottratto la magica angelica della Regina
Madre d’Occidente. Noi non siamo i colpevoli, ma semplici soldati della guardia del re drago.
Siamo stati catturati la notte scorsa. Quanto abbiamo detto è vero, ed è tutto ciò che sappiamo.»
«Se avete detto tutto, come mai non abbiamo sentito i vostri nomi?»
«Il mio nome è Benborba: sono un pesce siluro. Lui è un pesce nero e si chiama Baborben.»
Il re ordinò alle guardie di metterli in cella e decretò: «I monaci del Monastero del Lampo d’Oro
siano amnistiati e liberati da canga e catene. Il servizio competente prepari subito un banchetto nella
Sala dell’Unicorno, per ringraziare il santo monaco della cattura dei ladri. Invitiamo i santi monaci
a procedere anche all’arresto del capo banda.»
Il servizio dei banchetti fece subito servire piatti di magro e non. Il re invitò i pellegrini a
prendere posto nella Sala dell’Unicorno e chiese loro: «Quali sono i vostri rispettabili nomi?»
«L’umile monaco vostro servitore» rispose a mani giunte Tripitaka, «ha il nome di famiglia
Chen, e in religione si chiama Xuanzang. Il nostro sovrano mi ha accordato il nome di Tang e
l’umile soprannome di Tripitaka.»
«E i vostri eminenti discepoli?»
«Non hanno nomi di famiglia» rispose il monaco cinese. «Il primo si chiama Scimmiotto
Consapevole del Vuoto, il secondo Porcellino Consapevole delle Proprie Capacità e l’ultimo
Sabbioso Consapevole della Purezza: sono nomi che ha dato loro la pusa Guanyin dei mari del Sud.
Essi mi onorano del titolo di maestro, e io li chiamo correntemente Novizio, Otto Divieti e Bonzo.»
Esaurientemente informato, il re invitò Tripitaka a sedersi al posto d’onore, con Scimmiotto alla
sinistra, seguito da Porcellino e da Sabbioso. Mangiarono frutta, verdure e riso, bevendo tè, come si
conveniva a un pasto di magro; mentre il re, seduto di fronte a loro, consumava un pasto con carni.
Un centinaio di ufficiali civili e militari si sedettero più in basso, dopo avere ringraziato il sovrano
del privilegio loro accordato. I discepoli si scusarono con il maestro, prima di sedersi ai loro posti.
Poiché Tripitaka non beveva, furono loro a rispondere ai brindisi del re. Intanto strumenti a fiato e a
corde suonavano armoniosamente, sotto l’egida del competente servizio musiche.
Porcellino, la bocca sempre spalancata, ingoiava tutto con appetito da tigre e voracità da lupo,
come potete immaginare: in breve spazzolò la tavola di ogni traccia di frutta e verdura. Si portò un
supplemento di zuppa e di riso, e lui fece scomparire anche quello. Mai che rifiutasse di vuotare una
coppa, qualunque bevanda ci fosse dentro. Il festino proseguì lietamente fino al pomeriggio
avanzato.
A Tripitaka che lo ringraziava della sua munificenza, il re disse: «Non è che l’espressione della
nostra gratitudine per la cattura delle creature malefiche.» E ordinò ai suoi: «Proseguiamo il
banchetto nel palazzo Jianzhang, dove pregheremo i santi monaci di formulare un piano per la
cattura del capo dei briganti e per il ricupero del tesoro.»
«Se è per questo, non datevi altro disturbo» replicò Tripitaka. «Permetteteci di congedarci e di
andare senz’altro a catturare quei mostri.»
Il re non ne volle sapere, e insisté perché si recassero nel palazzo Jianzhang e ricominciassero il
banchetto daccapo.
«Chi di voi guiderà le truppe che sottometteranno i mostri e arresteranno i briganti?» chiese il re
levando la coppa.
«Daremo l’incarico al primo discepolo Scimmiotto» rispose Tripitaka. Il grande santo giunse le
mani in segno di assenso.
«Reverendo Scimmiotto» chiese il re, «quanti uomini e cavalli vi occorrono? Quando volete
partire?»
Porcellino non si trattenne dall’intervenire ruvidamente: «Che ce ne facciamo di uomini e
cavalli? Che differenza fa un’ora o l’altra? Quando avremo finito di sbafare e non avremo più sete
partiremo, e ritorneremo qui quando li avremo messi nel sacco.»
«Sei pieno di zelo, Porcellino!» esclamò lieto Tripitaka.
«Facciamo così» propose Scimmiotto: «lasciamo qui Sabbioso a far compagnia al maestro, e noi
due andiamo insieme.»
«Se non vi occorrono uomini né cavalli, reverendi» insisté il re, «avrete magari bisogno di
armi?»
«Non ci servono le armi che usate voi» rispose ridendo Porcellino. «Abbiamo con noi tutto
quello che serve.»
Allora il re prese un grande calice per vuotarlo in onore della spedizione.
«Io non bevo più» annunciò Scimmiotto. «Per favore, fate portar qui dalle guardie quei due
mostri: ne avremo bisogno come informatori.»
Il re diede l’ordine, e in breve tutti e due, tenendo quelle creature per la collottola, montarono
sulle nubi e volarono via verso sud est. Proprio così.
Quando il re li vide volare,
Capì con chi aveva a che fare.
Se poi non sapete come avvenne la cattura, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 63
UN MOSTRO A NOVE TESTE
IN CUI I DUE MONACI SCENDONO NEL PALAZZO DEL DRAGO E STERMINANO I MOSTRI, E I SANTI
RICUPERANO IL TESORO SOTTRATTO ELIMINANDO LA PERVERSITÀ.
Narra il racconto che il re del paese di Jisai e i suoi ministri, dal più piccolo al più grande, videro
Scimmiotto e Porcellino montare sulle nubi, stringendo per la collottola i due mostri. Essi alzarono
le braccia ed esclamarono: «Non sono storie! Abbiamo la fortuna di vedere con i nostri occhi che
immortali e buddha viventi esistono davvero.»
Quando scomparvero all’orizzonte, il re si rivolse rispettosamente a Tripitaka e Sabbioso per
ringraziarli: «Con i miei occhi materiali e il mio corpo di comune mortale, mi rallegravo che i vostri
eminenti discepoli avessero potuto catturare quei mostri. Ma non immaginavo che fossero
immortali capaci di cavalcare l’aria.»
«L’umile monaco che sono non possiede alcuno dei poteri che la legge può dare» rispose
Tripitaka. «Ma per fortuna mi accompagnano questi tre giovani discepoli.»
«Vostra maestà deve sapere» aggiunse Sabbioso, «che il mio condiscepolo anziano non è altri
che il Grande Santo Uguale al Cielo. Ora si è convertito; ma quando provocò quei tremendi
disordini in paradiso, tanto tempo fa, non bastò un esercito celeste di centomila soldati per
catturarlo: il signore Laozi era allarmato, e l’Imperatore di Giada tremava di paura. Il mio secondo
condiscepolo è stato Ammiraglio dei Canneti Celesti e ha comandato ottantamila marinai della Via
Lattea, il fiume celeste. Solo io non ho i poteri del dharma; ma prima di ricevere l’ordinazione
buddista, sono stato Capitano delle Cortine Arrotolate. Nelle altre cose saremo stupidi e incapaci,
ma se si tratta di catturare mostri, legare lamie, arrestare briganti, buttare a calci il cielo in un pozzo,
sollevare il mare o invertire il corso dei fiumi - in affari di questo genere ce la caviamo bene. Non
parliamo poi di robetta, come cavalcare nuvole, provocar vento e pioggia, spostare montagne, o
togliere la luna dal suo chiodo.»
A sentire questi discorsi, il re raddoppiò la propria considerazione e volle far sedere Tripitaka al
posto d’onore, chiamandolo «reverendo buddha», mentre trattava Sabbioso da pusa. Tutta la corte,
civili e militari, andava in estasi. Ciascuno rendeva omaggio.
Intanto Scimmiotto e Porcellino andarono dritti filati al Lago dei Flutti Verdi sul Monte delle
Rocce Caotiche. Il Novizio trasformò la sua sbarra in un coltello; con esso tagliò un orecchio al
pesce nero e il labbro inferiore al pesce siluro. Poi disse: «Avvertite il re drago Ognissanti che è
arrivato monsignor Scimmiotto, il Grande Santo Uguale al Cielo. Se vuol salvare la sua casa dalla
distruzione, ci deve consegnare il tesoro della pagoda del Lampo d’Oro. Altrimenti devasterò il lago
e farò tutti a pezzi, vecchi e giovani.»
Le due creature furono gettate in acqua, legate com’erano; sul dolore delle mutilazioni prevaleva
la gioia di ritornare a casa. «Perché siete tutti legati?» chiedevano tartarughe e granchi, allarmati.
L’uno nascondeva l’orecchio mozzo, scuoteva la testa e agitava la coda; l’altro si copriva la bocca
con la mano, saltellava e si batteva il petto. Corsero dentro il palazzo del drago, seguiti da un
codazzo di creature acquatiche, e annunciarono: «Maestà, disgrazia!»
Il re, che stava bevendo in compagnia del genero Nove Teste, posò il bicchiere e chiese di che
cosa si trattasse.
«La notte scorsa, mentre eravamo di pattuglia, siamo stati catturati da Scimmiotto e dal monaco
cinese. Stamane ci hanno trascinato all’udienza del re del paese, e ci hanno tagliato un orecchio e un
labbro. Ci mandano a dire che vogliono in restituzione il tesoro della pagoda.»
Il vecchio drago, a sentire che aveva da vedersela con il grande santo, fu preso dal panico. Si
mise a tremare come una foglia e disse al genero: «Con chiunque altro si potrebbe studiare un piano
per sbarazzarcene, ma con quello lì le cose si mettono male.»
«Caro suocero, non temete» rispose il genero sorridendo. «Pratico le arti marziali fin da piccolo,
e posso dire che ho imparato qualcosa. Fra i quattro mari, ho combattuto con fior di campioni: non
sarà certo quel tizio a farmi paura. Voi aspettate qui, mentre lo vado a trovare: vedrete che, in capo a
tre scontri, dovrà ripartire a coda bassa e non oserà più alzare gli occhi.»
Il bravo mostro si armò di tutto punto e impugnò la sua arma preferita: uno spiedo con il manico
coronato da una mezzaluna. Poi uscì dal palazzo a lunghi passi, salì alla superficie del lago e gridò:
«Dov’è questo grande santo? Venga qui ad arrendersi!»
Scimmiotto e Porcellino lo osservavano dalla riva:
In capo l’elmo di argento scintillante, candido come neve; corazza doumou lustra come brina autunnale. Sopravveste di
broccato a nuvole multicolori, stretta alla vita da una cintura ornata di corni di rinoceronte. Ha proprio l’aspetto di un
pitone racchiuso in una crisalide d’oro. La mezzaluna nella sua mano riflette lampi di luce. I suoi stivali di cinghiale
fendono i flutti.
Man mano che si avvicina ci si rende conto che la sua testa ha occhi da tutte le parti: essa guarda nelle otto direzioni. E
possiede nove bocche: il grido che mandano all’unisono fa vibrare il cielo e monta, come volo di gru, sino alla nona
sfera.
Non udendo risposta, ripeté: «Chi è il Grande Santo Uguale al Cielo?»
«Sono io» rispose Scimmiotto brandendo la sbarra di ferro.
«Da dove vieni? Come ti permetti di entrare nel paese di Jisai e atteggiarti a protettore di
conventi, catturare i nostri capitani e spingere l’impudenza fino a sfidarmi sulla nostra montagna
sacra?»
«Vuoi dire, banditello, che non conosci monsignor Scimmiotto? Vieni qui e apri bene le
orecchie:
Fu patria di Scimmiotto la montagna
Di Fiori e Frutti. Divenne immortale
Ed il rango raggiunse di gran santo.
Quando turbò i territori del Cielo
Non bastarono a vincerlo gli dèi:
Dovettero invocare la potenza
E l’infinita sapienza del Buddha.
Sfidai anche lui, ma allora le sue mani
Divennero montagne e mi schiacciarono.
Fui prigioniero cinquecento anni
E liberato infine da Guanyin,
Perché di Tripitaka proteggessi
Il viaggio ad Occidente, e sconfiggessi
I sortilegi sparsi sul cammino.
Quando nel lungo viaggio siamo giunti
A Jisai, da quei monaci in disgrazia
Abbiamo udito come la pagoda
Perdette la sua luce. Nella notte
Abbiamo catturato i vostri pesci
E ascoltato le loro confessioni.
Tu fosti il ladro; il re drago e sua figlia
I tuoi complici. Fu pioggia di sangue
Ciò che ti consentì di sconsacrare
Il luogo sacro. Le testimonianze
Ripetute al sovrano han provocato
L’ordine di venirti ad arrestare.
Che t’importa il mio nome? Se vuoi uscirne
Salvo coi tuoi, devi restituire
Senza indugio il maltolto. Se rifiuti,
Finirà prosciugato il vostro lago.»
Il genero del drago sorrise sdegnoso: «Se sei un monaco in cerca di sutra, perché cambi mestiere
e vuoi fare l’investigatore? Va dal tuo Buddha a chiedere le scritture; che io mi dedichi o meno alla
caccia di tesori, non è affar tuo.»
«Sei un brigante ottuso. Si capisce che non devo niente al re, dal momento che non mangio il suo
riso. Ma la contaminazione della pagoda e il furto hanno messo nei guai i bonzi del Monastero del
Lampo d’Oro, che sono dei nostri: devo pur provvedere ad aiutarli.»
«Se questo è il motivo per cui punti allo scontro, ricordati l’adagio: la guerra non ha pietà.
Quando avrò alzato le mani su di te, non potrai sperare che mi fermi prima della fine. E alla fine tu
sarai morto, e tanti saluti alla tua ricerca!»
«Brutta bestia!» gridò Scimmiotto preso dalla collera. «Come ti permetti tanta presunzione?
Vieni qua a farti sculacciare dal tuo signore e maestro.»
Il genero del drago parò freddamente il colpo con la sua mezzaluna. Sul Monte delle Rocce
Caotiche incominciò una bella battaglia.
Scimmiotto ha promesso al re di catturare il diavolo, che ha privato la pagoda della sua luce e rubato il tesoro. Il
vecchio drago è pieno di paura e tiene consiglio con i suoi; il genero Nove Teste decide di impegnarsi in una prova di
forza. Il Grande Santo Uguale al Cielo leva con rabbia la sua sbarra cerchiata d’oro. I diciotto occhi delle nove teste
mandano lampi in tutte le direzioni. Il Novizio, in un’aura di vapori di buon augurio, solleva mille libbre con braccia
d’acciaio; la mezzaluna scintillante sostiene l’urto. «Smetti di fare l’odioso raddrizza-torti, che ficca il naso
dappertutto!» L’altro risponde: «Ladro maledetto, vergògnati e restituisci il bottino, se vuoi che ti lasci in pace.» Sbarra
e spiedo cercano di prevalere l’una sull’altro, in una serie di scontri senza vincitore né vinto.
Dopo una trentina di scontri, mentre l’esito era incerto, Porcellino si stancò di fare da spettatore e
si accostò al mostro abbattendo il suo rastrello.
La sorpresa era impossibile, perché quello aveva occhi dappertutto; manovrò dunque il suo
spiedo in modo da opporne un’estremità alla sbarra di ferro e l’altra al rastrello. Dopo pochi assalti
finì tuttavia per trovarsi in difficoltà, e si disimpegnò con una capriola nello spazio, dove riprese la
sua forma originale. Bisogna dire che era molto brutto: una bestia a nove teste, schifosa da morire.
Il suo corpo è ricoperto di penne e piume, ha la taglia di una gigantesca tartaruga, un’apertura alare di dozzine di piedi e
nove teste che escono da un solo collo. Il suo volo, dopo quello del roc, è il più potente che ci sia. Il suo grido è più
acuto di quello delle gru degli immortali, e fa tremare il cielo. I lampi dorati degli occhi e l’aria fiera non hanno
paragone in alcun altro volatile.
Porcellino ebbe un brivido di spavento: «Fratello, non avevo mai visto una creatura tanto brutta.
Che incrocio bastardo può aver dato origine a quella cosa?»
«È proprio un animale raro e insolito. Fammelo acchiappare, che lo schiaccio» disse Scimmiotto.
Il grande santo balzò su una nuvola e mirò alla testa. Ma la bestia volò via di sghembo ad ali tese
e scese veloce sulla montagna. Dal ventre le sbucò un’altra testa dalla gran bocca spalancata, rossa
come una bacinella di sangue; calò su Porcellino, lo acciuffò e se lo portò via nel Lago dei Flutti
Verdi. Giunto nel palazzo del drago gettò a terra Porcellino, riprese l’aspetto di guerriero e gridò:
«Ragazzi, dove siete?»
Scampi, trote, carpe e perche corsero subito a frotte, in compagnia di tartarughe e crostacei
assortiti: «L’abbiamo preso!» gridavano, facendo ressa intorno al prigioniero.
«Legate per bene questo bonzo» ordinò il genero del drago. «Adesso vendicheremo i nostri
sottufficiali.»
Mentre la folla urlante dei mostri portava via Porcellino, il re drago venne a fare le sue
congratulazioni: «Mi rallegro, saggio genero! Come hai fatto a catturarlo?» Ascoltato per filo e per
segno il racconto della cattura, ordinò di preparare un banchetto per festeggiare la vittoria.
Scimmiotto, preoccupato per la cattura di Porcellino, si diceva: «Quel tizio è davvero pericoloso.
Se ora ritorno a corte a informare il maestro, farò ridere il re alle mie spalle. Provocare un altro
combattimento non è semplice: in acqua non me la cavo molto bene, e non ho più un appoggio. Sarà
meglio che vada là sotto a vedere che cosa succede. Se troverò un’occasione favorevole, aiuterò
Porcellino a fuggire e potremo riprendere le operazioni insieme.»
Si trasformò in granchio, si tuffò nell’acqua e si recò all’ingresso del palazzo: conosceva la
strada, che aveva già percorso all’inseguimento del re toro. Muovendo di sghembo le lunghe zampe
si avventurò all’interno, e vide il vecchio drago e la bestia a nove teste che trincavano allegramente
in famiglia. Scimmiotto si tenne alla larga dalla sala e scivolò nel portico di sinistra, dove una
brigata di granchi e gamberetti si dava alla pazza gioia. Per un po’ ascoltò le loro chiacchiere, per
mettersi in grado di imitare il loro linguaggio, e infine chiese: «Quel bonzo dal grugno lungo che
sua altezza ha catturato è già morto?»
«Non ancora. È legato come un salame nell’altro portico. Non senti come lagna?»
Alla prima occasione, Scimmiotto si diresse con discrezione al portico di destra, dove in effetti il
bestione grugniva legato a una colonna. Il Novizio si avvicinò: «Otto Divieti, mi riconosci?»
«Eccome fratello! Hai visto dove sono finito?»
Scimmiotto si guardò attorno con circospezione, e constatò che nessuno badava a loro. Dunque
si avvicinò e tranciò le corde con le sue chele. Ma Porcellino, invece di prendere il largo, diceva:
«Fratello, mi hanno disarmato: come faccio?»
«Sai dove hanno messo il rastrello?»
«Il mostro l’ha portato con sé.»
«Vai all’ingresso e aspettami là.»
Porcellino scivolò via, mentre il granchio rampava verso la sala del banchetto. Vide il rastrello di
Porcellino che luccicava in un angolo, appoggiato alla parete; si rese invisibile, lo andò ad afferrare
e si allontanò verso l’ingresso: «Otto Divieti, ecco la tua arma.»
Ritrovatosi in mano l’amato rastrello, il bestione propose: «Tu potresti ritornare in riva al lago.
Da parte mia, farò irruzione nella sala e cercherò di catturare tutti quanti; se non ci riesco, batterò in
ritirata e tu mi verrai in aiuto.»
Scimmiotto approvò e gli raccomandò attenzione. «Non mi fanno mica paura» rispose
Porcellino. «A combattere in acqua, mi trovo a mio agio.»
Così l’uno tornò sulla riva e l’altro, serrata bene la cintura della tonaca, impugnò il rastrello a
due mani e piombò in mezzo ai convitati lanciando grida di guerra. La gente acquatica se la diede a
gambe da tutte le parti: «Catastrofe!»
Anche il vecchio drago, la bestia a nove teste e tutti i parenti, presi alla sprovvista, saltarono su e
corsero a nascondersi. Il bestione passava su ogni cosa come una valanga: porte, tavoli, seggiole,
stoviglie, ogni cosa andò a pezzi. Lo attestano i versi:
Madre del legno venne catturata
Dal mostro, ma la scimmia dello spirito
Presto la liberò. Nel suo furore
Rompe ogni cosa. Fugge il vecchio drago,
Con il genero, i figli ed i nipoti.
Porte e finestre vedono atterriti
Fatte a pezzi dal bruto col rastrello.
Spezzato il grande paravento di scaglie di tartaruga, polverizzati i graziosi rami di corallo. A
questo punto Nove Teste mise al sicuro la sua principessa, impugnò lo spiedo con la mezzaluna e si
fece avanti: «Porcello balordo, come osi scompigliare così la famiglia di mia moglie?»
«E tu, mostro brigante, come ti sei permesso di catturarmi? Sei tu che mi hai portato qui dentro.
Se ora vuoi che me ne vada e rinunci alle ostilità, devi restituirmi il tesoro della pagoda.»
Figuriamoci se il mostro era d’accordo: digrignò i denti e partì all’attacco. Il vecchio drago,
ritornato in sé, fece armare figli e nipoti e li fece avanzare tutti insieme. Porcellino dovette rendersi
conto che da solo non ce la faceva, e si disimpegnò per fuggire. In breve sbucò alla superficie del
lago, inseguito da tutta la famiglia che saltava e capitombolava sul pelo dell’acqua.
Scimmiotto, in agguato, balzò subito su una nuvola e scese in picchiata agitando la sua sbarra: al
primo colpo ridusse in poltiglia il cranio del vecchio drago. Povero infelice! Il suo sangue si
allargava in una macchia rossa sulla superficie dell’acqua e il suo corpo andava alla deriva con tutte
le scaglie scompigliate. Figli e nipoti furono presi dal panico e fuggirono. Il genero Nove Teste
ricuperò il cadavere e si asserragliò nel palazzo.
Scimmiotto e Porcellino rinunciarono per il momento all’inseguimento e restarono sulla riva a
confabulare. «Ho fatto un bel trambusto, in quella casa» assicurava Porcellino. «Non sapevano più
dove nascondersi. Ma mentre me la prendevo con il genero, il suocero ha mandato tutti gli altri alla
riscossa. Meno male che gli hai dato il fatto suo. Ora si occuperanno dei funerali, ma chissà per
quanto tempo non ci sarà verso di farli uscire di casa. E intanto si fa tardi; che facciamo?»
«Non possiamo ritornare indietro senza ricuperare il tesoro. Si torna all’attacco.»
L’indolenza del bestione lo induceva a cercare scuse per tergiversare; ma Scimmiotto insisteva:
«Non perdiamo tempo. Tu ritorni ad attirarli fuori dal lago, e io picchio.»
Mentre discutevano udirono un colpo di vento e videro avvicinarsi un cupo turbine di brume.
Scimmiotto riconobbe l’illustre santo Erlang e i sei fratelli del Monte dei Susini, con cani e falconi.
Avevano archi appesi alla cintura, daghe in pugno e recavano con sé la selvaggina catturata.
«Porcellino, ecco dei buoni amici! Cogliamo l’occasione: invitiamoli a darci una mano. Ora o
mai più.»
«Se sono amici, invitiamoli senz’altro.»
«Mi sento un po’ in imbarazzo: Erlang è quello che mi ha vinto. Va tu a salutarlo. Digli: ‘Il
grande santo è qui e vi manda i suoi omaggi’. Vedrai che si fermerà.»
Porcellino ubbidì. Quando Erlang si sentì chiamare fece cenno ai suoi compagni di arrestare la
loro corsa: «Dov’è il grande santo?»
«Attende i vostri ordini ai piedi della montagna.»
«Fratelli» disse Erlang, «andate da lui e pregatelo di venire.»
Kang, Zhang, Yao, Li, Guo e Zhi si fecero avanti e chiamarono: «Fratello Consapevole del
Vuoto, il nostro fratello maggiore ti vuol vedere.»
Scimmiotto uscì dall’ombra e salì con loro sulla vetta. Erlang lo abbracciò e gli disse: «Eccoti
libero dalla tua lunga prova, entrato nell’ordine monastico e sul punto di compiere la tua missione e
di salire sul trono di loto: mi congratulo con te.»
«Ancora non lo merito» replicò Scimmiotto. «Non mi sono nemmeno sdebitato nei tuoi
confronti. Certo, la mia prova è finita e da un pezzo viaggio verso l’Ovest; ma non so come andrà a
finire. Al momento ci troviamo a Jisai, e stiamo aiutando certi monaci in disgrazia a catturare un
diavolo che ha rubato un tesoro. Visto che la buona fortuna ti ha fatto passare di qui, oso chiederti di
aiutarci. Non so se i tuoi impegni te lo consentano.»
«Non abbiamo impegni» rispose sorridendo Erlang. «Ritorniamo semplicemente da una partita
di caccia. Mi fa piacere che ti rivolga a noi e non abbia dimenticato la nostra vecchia amicizia.
Quando l’obiettivo è di catturare mostri, non mi tiro certo indietro. Di chi si tratta?»
«Gente che conosci: questo è il Monte delle Rocce Caotiche; ai suoi piedi si trova il Lago dei
Flutti Verdi, in cui risiede il drago Ognissanti.»
«Non mi pare che sia nel carattere del vecchio drago di dar noia alla gente» replicò Erlang
sorpreso. «Vuoi dire che adesso va in giro a rubare tesori nei conventi?»
«Si è reso complice del genero, la Bestia con Nove Teste» precisò Scimmiotto. «Hanno
provocato una pioggia di sangue a Jisai, per contaminare la pagoda del Monastero del Lampo d’Oro
e rubarne le preziose reliquie. Il re del posto non ha capito niente, e se l’è presa con i monaci. Il mio
maestro, che è un’anima misericordiosa, ha passato la notte a spazzare lo stupa, e mi ha dato
l’occasione di catturare un paio di spioni che ci hanno raccontato tutto. Il re ci ha incaricato di
arrestare i colpevoli. Nel primo scontro Nove Teste è riuscito a catturare Porcellino; nel secondo ho
ammazzato il vecchio drago. Ora si sono chiusi in casa tutti quanti, e noi stavamo discutendo sul
modo per farli uscire. Non sarà tanto facile; perciò mi sono permesso di disturbarti.»
«Poiché già avete eliminato il vecchio drago, è il momento giusto per portare l’azione fino in
fondo.»
«Sì, certo» fece Porcellino; «ma ormai si fa tardi.»
«Dicono gli strateghi: il momento dell’attacco dipende dall’opportunità, non dall’orologio»
replicò Erlang. «L’ora tarda non è un’obiezione valida.»
«Non c’è nemmeno una speciale urgenza, fratello» opinarono Kang, Yao, Guo e Zhi.
«Quell’animale non scapperà, perché non vorrà abbandonare la moglie. Noi abbiamo per ospiti il
nostro Scimmiotto e Porcellino Setole Rade, che è anche lui un collega; e abbiamo provviste e vino
in abbondanza. Abbiamo tutto l’agio di accendere il fuoco, banchettare e fare quattro chiacchiere.
Dopo una bella nottata trascorsa in allegria, all’alba daremo l’attacco.»
«Mi arrendo, saggi fratelli» concluse Erlang; e ordinò al seguito di preparare il banchetto.
«Non vorrei deludere le vostre buone intenzioni. Noi ora siamo monaci» ricordò Scimmiotto, «e
dobbiamo mangiare di magro.»
«Tutto a posto: abbiamo ogni specie di frutta, e anche il nostro vino è di magro» precisò Erlang.
Gli amici levarono dunque le coppe al chiar di luna; il cielo forniva il padiglione, e il prato la
tovaglia. In verità
Quanto è lunga la veglia solitaria,
Tanto è breve la notte in allegria.
Mentre il cielo schiariva Porcellino, con entusiasmo attizzato da molti bicchieri, dichiarò:
«Ormai si fa giorno. Ora vado di sotto e li provoco al combattimento.»
«Attento, ammiraglio» disse Erlang. «Basta attirarli allo scoperto: del resto ci incarichiamo noi.»
«D’accordo, ho capito» rispose ridendo Porcellino.
Raccoglie le falde della tonaca, impugna il rastrello, si tuffa nell’acqua e in un momento è
arrivato al palazzo in fondo al lago; qui si precipita all’interno lanciando grida di guerra.
Il figlio del drago, nell’abito a lutto di canapa grezza, vegliava il cadavere del padre. Genero e
nipote preparavano il vino per il pranzo funebre. Ed ecco Porcellino che sbuca urlando
all’improvviso, cala il pesante rastrello sul capo del figlio e lo stende morto con nove fori
sanguinanti sulla fronte. Tutti corrono qua e là come impazziti; madama drago singhiozza: «Non
bastava il marito, quel brutto grugno di bonzo mi ha ucciso anche il figlio!»
Al rumore, il genero corse a prendere il suo spiedo con la mezzaluna e venne all’attacco
spalleggiato dal nipote. Porcellino parava i suoi colpi e si andava ritirando, finché apparvero sul
pelo dell’acqua. Il grande santo e i sette fratelli si gettarono allora sul nipote del drago e lo fecero a
pezzi.
Vista la brutta piega che prendeva la situazione, il genero fece una capriola per aria, riprese il suo
aspetto di volatile e spiegò le ali; a larghi giri, incominciò a salire alto nel cielo. Erlang lo prese di
mira con il suo arco d’oro, incoccando un dardo d’argento. La creatura raccolse le ali e scese in
picchiata su di lui, nell’intento di morderlo; ma quando fu vicino al suolo e mise fuori la sua testa
supplementare, uno dei levrieri fece un gran balzo e gliela strappò via, sgocciolante di sangue. La
creatura, con alte strida di dolore, risalì in alto e fuggì in direzione del mare del Nord. Porcellino
voleva inseguirla, ma Scimmiotto lo trattenne: «Lascia stare: non inseguire il nemico che fugge.
Forse non sopravviverà al morso che gli ha dato il cane. Tu piuttosto vieni con me: prenderò il suo
aspetto e ritornerò nel palazzo; tu fingerai di inseguirmi. Io andrò dalla principessa e cercherò di
farmi consegnare il tesoro.»
«Va be’, non inseguiamolo» disse Erlang. «Però se sopravvive finirà per fare altri danni.» In
effetti ancor oggi esiste una bestia del malaugurio, che sanguina sempre e possiede nove teste().
Scimmiotto e Porcellino inscenarono l’inseguimento nelle acque del lago. Quando il primo
giunse nel palazzo, la principessa Ognissanti gli chiese: «Che accade?»
«Il porco ha vinto e mi insegue! Non possiamo resistere qui dentro. Dammi il tesoro, che lo
nasconda in un posto più sicuro.»
Tanto grandi erano il pericolo e l’urgenza, che la principessa non ebbe il tempo di pensarci su.
Corse a prendere un cofano dorato e lo consegnò al supposto marito: «Questo è il tesoro dei
buddisti.» Vi aggiunse una scatola di giada bianca: «Tieni anche la mia angelica magica. Io vado a
impegnare il porco in battaglia per trattenerlo, mentre tu nascondi tutto quanto. Quando avrai fatto,
mi verrai ad aiutare.»
Il Novizio afferrò gli oggetti, si passò una mano sul volto e le chiese: «Che ne dici, continuo a
sembrarti tuo marito?»
La principessa, infuriata, si slanciò per riprendergli le sue cose; ma Porcellino, sopraggiunto alle
sue spalle, l’abbatté con un colpo di rastrello.
A questo punto non restava che madama drago. Mentre cercava di fuggire, Porcellino la
raggiunse e stava per colpirla, quando Scimmiotto gridò: «Ferma! Sarà meglio che riportiamo con
noi un testimone.»
Perciò ritornarono sulla riva con la preda e con la prigioniera e annunciarono a Erlang: «Grazie
al vostro possente aiuto, abbiamo ripulito il paese dai briganti e ricuperato la refurtiva.»
«Cari fratelli, il fatto è che il re di questo paese ha una bella fortuna e la protezione del cielo,
mentre le vostre capacità sono inesauribili. Io non c’entro davvero!»
«Fratello Scimmiotto» dissero i fratelli giurati, «visto che il lavoro è concluso, noi ce ne
andiamo.» E si lasciarono dopo molti saluti e complimenti.
Volando a bassa quota, Scimmiotto che portava i preziosi e Porcellino con la prigioniera giunsero
in breve alla città. I monaci liberati li aspettavano alle porte e si prosternarono per salutarli, prima di
accompagnarli a corte. Il re e il monaco cinese erano in conversazione nella sala d’udienza. Uno dei
bonzi prese il coraggio a due mani e osò entrare per annunciare: «Maestà, i monsignori Scimmiotto
e Porcellino hanno vinto i briganti e ricuperato il tesoro; eccoli che arrivano.»
Il re uscì loro incontro con Tripitaka e Sabbioso e li accolse con infiniti complimenti per le loro
meravigliose imprese, ordinando di disporre un banchetto per dimostrare la sua gratitudine.
«Non offritegli da bere!» protestò Tripitaka. «Festeggeremo quando i miei umili discepoli
avranno riportato il tesoro nella pagoda.» E rivolto a Scimmiotto: «Come mai ci avete messo un
giorno intero?»
Il Novizio raccontò tutti i particolari, con gran diletto degli ascoltatori.
«E questa madama drago sa parlare un linguaggio comprensibile?» chiese il re.
«Era moglie di drago» rispose Porcellino, «e madre dei suoi figli. Come potete pensare che non
sappia parlare?»
«Dunque ci riferisca i fatti, per filo e per segno.»
«Del furto, io non so niente. Fu un intrigo del genero con mio marito: sapevano delle reliquie
buddiste che rendevano luminosa la pagoda, e se ne impadronirono con il trucco della pioggia di
sangue.»
«E l’angelica come è stata rubata?»
«Fu mia figlia, la principessa Ognissanti, che entrò di soppiatto nel Cielo della Grande Rete e
rubò l’angelica a nove foglie. Serve a proteggere da ogni corruzione le reliquie con il suo soffio di
immortalità, e a farle brillare per mille e mille anni. So che, se la si usa per spazzare il pavimento, si
lascia dietro una scia di raggi luminosi con tutti i colori dell’arcobaleno. Ma ora che vi siete
impadroniti di tutto e avete distrutto la mia famiglia, vi supplico, lasciatemi almeno la vita.»
«E perché ti dovremmo risparmiare?» brontolò Porcellino.
«Era solo una parente dei colpevoli» considerò Scimmiotto. «Ti perdoneremo, a patto che ti
dedichi in perpetuo a proteggere la pagoda.»
«Bella morte non vale misera vita: farò come volete.»
Il Novizio fece portare una catena e forò la scapola di madama drago. Dopo averla incatenata, si
organizzò il ritorno del tesoro nello stupa.
Il re venne sul suo carro con Tripitaka, tenendolo per mano, seguito dagli ufficiali civili e
militari. Entrarono nel monastero e salirono fino al tredicesimo piano della pagoda, dove
collocarono le reliquie e misero l’angelica in un vaso. La luce di mille fuochi riprese a fluire nelle
otto direzioni, per la comune edificazione dei vicini dei quattro orienti.
Quando ridiscesero, il re dichiarò: «Senza il reverendo buddha e i tre pusa qui presenti, non
saremmo mai riusciti a mettere in chiaro questo difficile caso.»
«Maestà» osservò Scimmiotto, «il nome della pagoda non è significativo, né adatto per cosa di
lunga durata: il lampo non dura che un istante, e l’oro può essere fuso. Dopo tutta la pena che mi
sono dato per voi, mi permetto di suggerire di intitolare il monastero alla sottomissione dei draghi,
in modo da assicurarne il perpetuo ricordo.»
Il suggerimento fu accolto e il re fece appendere, in luogo del vecchio, un nuovo cartello che
recava la scritta:
MONASTERO DELLA SOTTOMISSIONE DEI DRAGHI,
PROTEZIONE DEL PAESE, FONDATO PER ORDINE DEL RE
Fece quindi preparare un banchetto e convocò i pittori, perché ritraessero le vere sembianze dei
quattro pellegrini; i loro nomi furono scritti nella Torre delle Cinque Fenici. Il re accompagnò poi il
monaco cinese e i discepoli nel suo carro con le campanelle, e volle offrire loro oro e giada; ma essi
rifiutarono fermamente, e non vollero accettare nulla. È il caso di dirlo:
I diavoli abbattuti, ritornata la pace,
Ritorna anche la luce che rischiara la terra.
Se poi non siete informati del seguito del viaggio, non vi resta che continuare ad ascoltare.
CAPITOLO 64
POESIA SILVESTRE
IN CUI PORCELLINO SI IMPEGNA A FONDO SULLA CRESTA DEI ROVI, E TRIPITAKA PARLA DI POESIA
NELL’EREMITAGGIO DEGLI IMMORTALI SILVESTRI.
Si è narrato come i pellegrini rifiutarono oro e giada offerti in dono dal re di Jisai. Egli ordinò
allora all’ufficiale di servizio di far confezionare per ciascuno di loro due abbigliamenti completi,
uguali a quello che indossavano, e di fornire una provvista di cibi secchi. Dopo la restituzione dei
documenti di viaggio, la partenza avvenne in pompa magna, con carri reali, corteo di funzionari,
fanfara, i monaci del Monastero della Sottomissione dei Draghi e tutto il buon popolo di Jisai: i
pellegrini furono accompagnati per un tratto di venti li, che i monaci allungarono di un’altra
cinquantina. C’era chi voleva farsi praticante al loro servizio, e seguirli fino al Paradiso dell’Ovest.
Per liberarsi dagli ammiratori, il Novizio ricorse a un trucco: trasformò una manciata di peli in
tigri feroci, che sbarrarono minacciose la strada. A questo punto i bonzi si scoraggiarono e non
osarono proseguire. Mentre Scimmiotto invitava il maestro a spronare il suo cavallo, i monaci ritti
sul bordo della strada piangevano e gridavano: «Graziosi e nobili signori, la sorte continua a
perseguitarci, se voi rifiutate di aiutarci a conseguire la salvezza.»
Per ogni evenienza, Scimmiotto ricuperò i suoi peli solo dopo un bel tratto di cammino lungo la
strada maestra dell’Ovest.
Il ciclo delle stagioni proseguiva: presto l’inverno fu sostituito dalla primavera, temperata e
propizia al cammino. La strada passava su una lunga cresta montuosa. Tripitaka tirò le redini per
osservare il percorso: rovi spinosi e piante striscianti lo ricoprivano, tanto che della strada restavano
ben poche tracce.
«Discepoli miei, come andremo avanti?» gridò il monaco cinese.
«Qualcosa non va?» chiese Scimmiotto.
«Non vedete? La strada scompare sotto cespugli spinosi: è un posto da serpenti, insetti e creature
che strisciano. Non credo che sia facile da percorrere nemmeno per voi; ma come pensate che possa
farcela il mio cavallo?»
«Non è un problema» disse Porcellino. «Se volete vi spiano il cammino; basta fare come quando
si raccolgono sterpi per far fuoco. Nonché a cavallo, ci potrete passare anche in portantina, se
vorrete.»
«So che sei forte, ma non sappiamo quanto è lungo questo tratto di strada, e se le tue energie
potranno venirne a capo.»
«Vediamo» tagliò corto Scimmiotto. «Salgo a dare un’occhiata.»
Balzò in alto e guardò: la distesa proseguiva a perdita d’occhio. Di certo
la terra vi scompariva fino ai confini del cielo; legno morto e legno nuovo, coperto di foglie novelle, la ricoprivano di
un groviglio impenetrabile. Lo sguardo non ne vedeva la fine: sembrava una nuvola spessa, verde e nera, che stormiva
nel vento e brillava nel sole.
Qua e là si vedevano alberi prigionieri: pini, cedri e bambù; e, più frequenti, susini, salici e gelsi. Le liane aggrediscono
i vecchi alberi e ne allacciano i tronchi; formano come grandi stuoie e pannelli, qua e là colorati da fiori che diffondono
nell’aria i loro profumi selvatici.
Chi non ha mai incontrato spine in vita sua? Ma non ne avrà mai viste tante quante se ne trovano sulla strada dell’Ovest.
Dopo aver osservato, il Novizio ritornò a terra: «Ce n’è parecchie.»
«Dove arrivano?» domandò Tripitaka.
«La fine non si vede. Almeno a mille li.»
«Allora siamo nei guai!» esclamò sgomento Tripitaka. «Come facciamo?»
«Non vi preoccupate» replicò Sabbioso ridendo. «Fate conto che sia un terreno da debbiare:
daremo fuoco alla sterpaglia.»
«Non dire scemenze» obiettò Porcellino. «Il debbio si fa nella decima luna, quando erba e piante
sono secche. Non si può bruciare questa roba piena d’acqua, con foglie verdi e fiori sbocciati.»
«Se poi prendesse fuoco, è una distesa troppo vasta per controllare un incendio: sarebbe
pericoloso» aggiunse Scimmiotto.
«Ma come passeremo?» insisté Tripitaka.
«È semplice» disse Porcellino. «Non avete che da seguirmi.»
Il bravo bestione fece un passo magico, recitò un incantesimo e si curvò in avanti gridando:
«Cresci!» Subito prese una statura di venti tese, e il rastrello la lunghezza di una trentina. Lo
impugnò dunque a due mani e si avviò a gran passi, spazzando la sterpaglia a destra e a sinistra:
«Coraggio, maestro; venite!»
Tripitaka sferzò lieto il suo cavallo e lo seguì; dietro veniva Sabbioso con i bagagli, e
Scimmiotto chiudeva il cammino. Camminarono per l’intera giornata, percorrendo più di cento li. A
sera raggiunsero una radura in cui si rizzava una stele con tre grandi caratteri, seguiti da due
colonne di caratteri più piccoli:
CRESTA DEI ROVI
PER OTTOCENTO LI, FOLTO DI SPINE:
POCA GENTE PERCORRE LE COLLINE.
Porcellino si mise a ridere: «Mancano un paio di versi. Lasciate che li aggiunga io:
Se Otto Divieti fa da battistrada,
Potete andare dovunque vi aggrada.»
«Discepoli, quanto disturbo vi ho dato!» esclamò Tripitaka con voce allegra, smontando da
cavallo. «Possiamo pernottare qui; ripartiremo all’alba.»
«Non fermiamoci, maestro» esortò Porcellino. «Il cielo è ancora chiaro, noi siamo di buona lena:
possiamo continuare anche tutta notte, per venire a capo di questo fottuto percorso.»
Il reverendo non poteva che acconsentire.
Porcellino avanzava infaticabile, e il cavallo e gli altri dietro a lui; proseguirono tutta notte e il
giorno seguente, finché cadde di nuovo la sera. Le folte sterpaglie spinose non davano segno di
finire. A un certo punto si udirono stormire pini e bambù, e la strada sboccò in una spianata in
mezzo alla quale si drizzava un vecchio tempio. La porta era circondata da cedri; peschi e susini
rivaleggiavano in bellezza. Tripitaka scese da cavallo per ispezionare il posto.
Ai piedi della rupe, sulla riva
Del gelido ruscello, si rannicchia
Il vecchio tempio desolato. Intorno
Persin gli alberi son vecchi cadenti.
Di infinite stagioni sono i muschi
Che coprono i gradini. Intorno ai massi
Corrosi, dei bambù tristi si chinano
Senza canto d’uccelli. Si cancellano
I segni umani in quella solitudine,
Abbandonata anche dagli animali.
«Non mi piace questo posto» dichiarò Scimmiotto annusando l’aria. «Sarà meglio che non ci
fermiamo a lungo.»
«Hai torto, fratello» replicò Sabbioso. «Un posto come questo, abbandonato da tutti, non può
ospitare nemmeno mostri o creature malefiche. Non c’è nulla da temere.»
Aveva giusto finito di dirlo, che sibilò il vento e apparve un vecchio vestito modestamente, con
un berretto quadrato, sandali di paglia e una canna in mano; lo seguiva un servo fantasma dalla
faccia blu, la barba rossiccia e i denti sporgenti, che reggeva sul capo un vassoio di focacce. Il
vecchio si inginocchiò: «Grande santo, sono l’umile divinità locale della Cresta dei Rovi. Ho saputo
del vostro arrivo e vi ho fatto preparare queste focacce. È tutto ciò che posso offrirvi, venerati
maestri, in questo luogo solitario dove non si trova nessuna abitazione umana.»
Porcellino si fece avanti tutto contento per assaggiare le focacce, senza badare all’atteggiamento
guardingo e ostile di Scimmiotto. Il quale gli gridò: «Non toccare niente! Questa persona non dice
la verità.» Poi si rivolse all’intruso: «Come ti è venuto in mente di venire a raccontare frescacce al
vecchio Scimmiotto? Bada alla tua zucca!»
Fece per colpirlo, ma il vecchio si trasformò in un sinistro turbine di vento, che avvolse il
reverendo e se lo portò via chissà dove. Il grande santo, colto di sorpresa, non sapeva che fare.
Porcellino e Sabbioso si guardavano, pallidi di paura; persino il cavallo bianco nitriva spaventato.
Tutti quanti si guardavano intorno smarriti e si muovevano come sonnambuli, senza scoprire alcuna
traccia che potesse aiutarli.
Intanto il vecchio depose gentilmente a terra Tripitaka presso una casa di pietra, avviluppata da
brume e caligini, lo prese per mano e gli disse: «Santo monaco, non vi spaventate. Non siamo dei
malfattori, tutt’altro: siamo gente animata da interessi letterari, silvani della Cresta dei Rovi. In
questa bella notte di luna piena volevamo invitarvi a una riunione amichevole, per parlare di poesia
e passare il tempo piacevolmente.»
Il reverendo, che incominciava a riprendersi, spalancò gli occhi per osservare meglio il luogo:
Sotto cielo notturno nuvoloso
Si alza la residenza di immortali,
Luogo di sogno, dove trasmutare
Il corporeo elisir, o coltivare
Bambù svettanti e fiori di montagna.
Frequentano le gru la rupe azzurra,
Cantano le ranocchie nello stagno.
Meglio della montagna del Tiantai,
Rivale del Huashan quanto alla flora!
Se tu vuoi arare nubi o appender luna
Al suo gancio, non c’è posto più adatto.
Quel chiar di luna che puoi contemplare
Dalla finestra, allarga i tuoi pensieri
E li rende profondi come il mare.
Tripitaka passava in rassegna le bellezze del luogo: gli parve di non aver mai visto luna e stelle
così lucenti. Si udì conversare: «Il signor Diciotto() ha persuaso il santo monaco a venirci a trovare»
si diceva. Il reverendo vide tre vegliardi: uno molto distinto, con la testa candida come la brina; un
altro un po’ meno vecchio, con una crocchia di capelli verdi; un terzo di carnagione scura, dall’aria
assente. Anche il loro abbigliamento era eterogeneo. Vennero tutti e tre a salutare Tripitaka.
«Di quali meriti potrò mai vantarmi, per osare di propormi all’attenzione di nobili immortali
come voi?» diceva il reverendo, restituendo i saluti.
«Sappiamo che voi avete conseguito la Via da molto tempo» rispose sorridendo il signor
Diciotto. «Abbiamo a lungo pregustato il piacere, che oggi godiamo, di incontrarvi. Se non siete
geloso dei tesori della vostra sapienza, venite a sedervi e mettervi a vostro agio, in modo che anche
noi impariamo i misteri del dhyâna della vera setta.»
«Posso permettermi di chiedervi i vostri rispettabili nomi?» domandò Tripitaka inchinandosi.
«L’amico dalla testa bianca» rispose il signor Diciotto, «si chiama Rettitudine Solitaria, quello
con i capelli verdi Vacuità Eterea, e l’ultimo, quello con l’aria svanita, Sfiora Nuvole. Il vostro
umile servitore si chiama Frugale.»
«Qual’è la vostra età?»
Rettitudine Solitaria rispose:
«Ho raggiunto mille anni. Tendo rami
Verdi e robusti verso il cielo; reco
Qualche segno del tempo, ma mi riesce
Di far sbocciare ancora molti fiori.
Può durar giovinezza anche da vecchi
Se si coltiva il Vero nella gioia.
Non è luogo di passo per gli uccelli
Ordinari, la selva solitaria
Dove viviamo lontani dal volgo.»
Vacuità Eterea sorrise e prese la parola:
«Anche il mio tronco sfidò mille inverni
Levando in alto i rami. Nella notte
Ne piove la rugiada. Le radici
Che possiede detengono il segreto
Di lunga vita: con le gru ed i draghi
Vivere, star lontano dalla gente
E frequentare solo gli immortali.»
Toccò quindi a Sfiora Nuvole:
«Ho sperperato mille autunni anch’io,
Che mi han scurito la vecchia carcassa.
Mi sono conservato estraniandomi
Dal mondo polveroso. I sette saggi
Son miei compagni di bevute; amici
In poesia i sei eccentrici. Oro e giada
Noi maneggiamo, non chincaglierie!»
Quanto a Frugale, concluse dicendo:
«Ho vissuto per più di mille anni,
Costante e puro. Da pioggia e rugiada
Cavo il mio nutrimento; dai misteri
Dell’universo la mia volontà;
Dalle stagioni e dai molti paesaggi
Della montagna i miei piaceri. Gli ospiti
Intrattengo nell’ombra della casa
A giocare agli scacchi, fare musica
Con il liuto e far lieti conversari.»
Tripitaka si congratulò con loro: «Godete tutti e quattro di un’età ragguardevole. Il reverendo
Frugale supera addirittura i mille anni! Non sarete per caso i quattro canuti vegliardi dei Han?»
«Ci volete proprio lusingare. Non siamo che quattro vecchi che vivono soli sulla montagna, e
non abbiamo niente in comune con i nobili personaggi che dite. Possiamo permetterci di chiedervi
la vostra età?»
Tripitaka giunse le mani, si inchinò e rispose:
«Votato alla disgrazia ancora prima
Di venire alla luce, quarant’anni
Or sono, giacqui abbandonato ai flutti
Finché sul Monte d’Oro fui salvato.
Passai tutta la vita a legger sutra
E pregare devoto il nostro Buddha.
Mentre per un incarico imperiale
Compio un viaggio a Occidente, questo incontro
Mi onora come fatto eccezionale.»
I quattro vegliardi fecero un concerto di elogi: «Il santo monaco si è consacrato alla dottrina del
Buddha fin dalla nascita. Per forza è un bonzo eminente, che possiede la Via! Poiché abbiamo la
rara fortuna di parlarvi, ci permettete di sollecitare qualche notizia sulla legge e sulla meditazione,
che ci conforti per il resto dei nostri giorni?»
Il reverendo, compunto, insegnava: «La meditazione è quiete, la legge è salvezza. Ma la quiete
non basta alla salvezza, se non si raggiunge l’illuminazione; che si ottiene nettando lo spirito da
ogni pensiero, liberandolo da ogni meschinità, abbandonando il mondo di polvere. La maggior
felicità è di rinascere in corpo d’uomo nel Paese di Mezzo e aver modo di conoscere la giusta legge.
La Via della perfetta virtù, senza nome né limiti(), spazza via i sei sensi e le sei percezioni.
«La bodhi non nasce e non muore, non ha lacune e non può essere superata, ingloba l’illusione
come la realtà, ma si disinteressa del sacro come del profano.
«Per percepire la verità occorrono pinze e martello dell’Origine primordiale; per capire la realtà
bisogna cogliere il metodo del Buddha Sâkyamuni. Invia Senza Immagine() , calpesta il nirvana!
Devi svegliare il risveglio e illuminare l’illuminazione, per ottenere la scintilla trascendente che
copre la totalità. Lascia danzare la fiamma ardente che rischiara e percorre in lungo e in largo il
mondo della legge! Tienti fermo nel recondito e nel sottile: la sola parola non basta a superare il
passo misterioso. La nostra meditazione del grande risveglio praticato alle origini può essere
perseguita solo da chi vi è destinato e lo vuole sinceramente.»
I quattro vegliardi pendevano dalle sue labbra e dondolavano beatamente la testa. Alla fine
ringraziarono inchinandosi rispettosamente: «Santo monaco, voi possedete davvero la base
dell’illuminazione contenuta nel segreto della meditazione.»
«Per quanto la meditazione sia quiete e la legge sia salvezza» obbiettò Sfiora Nuvole,
«occorrono comunque la concentrazione dello spirito e la sincerità del cuore. Si ha un bel diventare
immortali del grande risveglio(); si può restare nondimeno sulla Via della non-vita. In questo i nostri
misteri sono completamente diversi.»
«La Via non è cosa ordinaria, perché unisce in sé sostanza e funzione. Quale diversità può
sussistere?» replicò Tripitaka.
Sfiora Nuvole sorrise: «Noi siamo nati solidi e stabili, e abbiamo sostanza e funzione diversi da
voi. Dobbiamo il nostro corpo al cielo e alla terra, e viviamo di pioggia e di rugiada. Non ci
disturbano né il vento né la brina, attraverso i mesi e le stagioni. I nostri mille rami sfidano il tempo
senza che appassisca una sola foglia. Il vuoto non ci riguarda, mentre voi andate a impigliarvi nelle
parole sanscrite. La Via ha le sue radici in Cina: perché consumate i vostri sandali per andarla a
cercare nell’Ovest? Mi chiedo che cosa pensate di trovare. Siete come il leone di pietra che decide
di strapparsi le budella, o la volpe che consuma il molto che ha nell’ardente desiderio del poco che
non ha. Trascurate i fondamenti della vostra natura nella pratica della meditazione e nella folle
ricerca del frutto del Buddha. I vostri discorsi sono più contorti dei rovi che crescono da queste
parti. Come si può seguire un maestro come voi? Come si può accettare il vostro punto di vista?
Dovreste analizzare ciò che avete davanti agli occhi, perché nella quiete si trovano le sponde della
vita: il secchio senza fondo porterà l’acqua, l’albero di ferro metterà fiori. Posate saldamente i piedi
sulla cima dei Gioielli Sacri : avrete l’occasione di incontrare Mile().»
A queste parole Tripitaka voleva prosternarsi per prendere commiato, ma il signor Diciotto lo
rialzò. Vacuità Eterea si mise a ridere: «Naturalmente il discorsetto di Sfiora Nuvole fa acqua da
tutte le parti. Non bisogna badare troppo alle sue chiacchiere: non ve la prendete, santo monaco. La
nostra intenzione era di approfittare del chiaro di luna per qualcosa di meglio di una conversazione
religiosa: si pensava di passare il tempo a cantare, a recitare versi, a conversare allegramente.»
«Se è questo che volete» disse sorridendo Sfiora Nuvole, «potremmo entrare a bere il tè nel
nostro piccolo eremitaggio. Che ne dite?»
Il reverendo si inchinò per acconsentire, e si avviarono verso la casa di pietra, che recava sulla
porta la scritta in tre grandi caratteri:
EREMO DEGLI IMMORTALI SILVESTRI
Quando furono entrati e si sedettero, apparve un servo fantasma dal corpo rosso che servì un
piatto di pasticcini di funghi e tazze colme di tè caldo e profumato. Invitato a servirsi per primo,
Tripitaka esitava per diffidenza, e si decise a ingoiare due bocconi solo quando ebbe visto che gli
altri mangiavano allegramente e le tazze venivano riempite una seconda volta. Egli si teneva in
guardia e sbirciava qua e là di sottecchi. Una luce filtrava, come chiar di luna, dalle decorazioni
traforate che ornavano le pareti.
Acqua zampilla lieta al bordo della roccia,
Si diffonde nell’aria il profumo dei fiori.
È un ambiente elegante: non un grano di polvere.
Il reverendo finì per trovarsi a suo agio, e mormorò un verso:
«È la meditazione puro splendor di luna.»
Frugale sorrise e propose un séguito:
«Il poema ispirato ricorda il cielo chiaro.»
Rettitudine solitaria:
«Un verso ben riuscito assomiglia a un ricamo.»
Vacuità Eterea:
«Produce il bello stile la perla senza macchia.»
Sfiora Nuvole:
«Rivive la poesia, se abbandona gli orpelli.»
Tripitaka disse: «Il vostro umile discepolo, preso dall’euforia, si è lasciato andare a balbettare un
verso; ma è proprio come brandire l’ascia davanti al re dei falegnami. A giudicare da quello che
sento, sono in compagnia di veri maestri di poesia.»
«Lasciate stare» protestò Frugale; «non è il caso di scambiarci complimenti inutili. Il buon
monaco porta a termine ciò che intraprende: poiché ci avete proposto il primo verso, a voi la
conclusione.»
«Non ne sono capace» confessò Tripitaka. «Sarei grato al signor Diciotto se provvedesse lui.»
«Non cercate scuse! Non potete rifiutare di finire ciò che avete incominciato. Non siate tanto
avaro dei vostri talenti!»
Tripitaka dovette adattarsi a recitare un distico conclusivo:
«Mentre sono chinato sul guanciale di brezza
Ed il tè è in infusione, mi godo primavera.»
Il signor Diciotto applaudì: «Mi piace il guanciale di brezza!»
«Frugale» lo stuzzicò Rettitudine Solitaria, «si vede la tua competenza in fatto di poesia dalla tua
propensione a rimasticare i versi altrui. Perché non proponi un altro giro?»
Il signor Diciotto non si fece pregare: «Vi proporrò un inizio, e voi dovrete proseguire
riprendendo l’ultima parola.
Lungi da primavera, nella stagione morta,
Sol nubi in cielo e nebbie nell’aria ti puoi attendere.»
Vacuità Eterea:
«Attendere l’amico, che si avanza nell’ombra.»
Continuò Sfiora Nuvole:
«L’ombra delle colline dell’Ovest che percorro,
Benché un semplice cuore del Sud nel petto porti.»
Rettitudine Solitaria aggiunse la sua:
«Porti sulle tue spalle gli attrezzi e il materiale
Che il mestiere richiede con cui campi la vita.»
Il reverendo si profondeva in elogi: «Che bei versi, come sono commoventi! Benché manchi
completamente di talento, posso provarmi anch’io ad aggiungere un distico?»
«Santo monaco, voi che siete colto e avete conseguito la Via, lasciate perdere questi giochi di
società e proponete invece una poesia compiuta. Noi imiteremo il modello meglio che potremo.»
Tripitaka recitò la seguente quartina():
«Sulla strada dell’Ovest, i sutra a ricercare,
Cammino senza tregua e un giorno arriverò.
Ambisco di recarmi il Buddha ad adorare
E la sua santa legge nell’Est riporterò.»
I quattro vegliardi ascoltarono con attenzione e lodarono sperticatamente. Il signor Diciotto
disse: «È certo temerario da parte mia, ma correrò il rischio di recitare versi che osano rimare con i
vostri.
Frugale solitario sul monte a troneggiare
Mi tengo, e non c’è vento cui non resisterò.
Un’ambra millenaria lascio a terra colare
E l’intenso profumo al vento affiderò.»
«Ma è bellissimo!» applaudì Vacuità Eterea. «Come confrontarsi con simili modelli? Propongo
versi miei solo per non interrompere il giro.
Dentro le fitte fronde uccelli ad ospitare
Godo, e di bianca brina la fronte adornerò.
Svettante le stagioni continuo a dominare:
Pur nel gelo invernale io verde resterò.»
«Le vostre quartine sono molto eleganti» constatò Sfiora Nuvole. «Vere borse di broccato che
contengono i ricami più fini. Io sono privo di talento, ma la vostra ispirazione stimola anche il mio
debole spirito. Bene: mi azzardo a recitare versi anch’io; spero che non ne riderete troppo.
Fine e di pelle liscia, nel folto ad elevare
Le mie braccia nel cielo sempre giovane sto.
I miei pregi, son pochi che li sanno apprezzare;
A chi stende le cronache, tavolette offrirò().»
«I vostri poemi» disse Tripitaka, «sono perle cadute dal becco della fenice, al disopra di ogni
elogio. Vi sono infinitamente grato della calorosa ospitalità, ma a questo punto la notte è molto
avanzata; inoltre non so dove siano rimasti ad aspettarmi i miei tre giovani discepoli. Devo
congedarmi e andarli a cercare. Sareste così gentili da mostrarmi in quale direzione era il mio punto
di partenza?»
«Santo monaco, non siate inquieto. Un’occasione straordinaria come questo incontro potrebbe
non ripetersi per altri mille anni. E guardate che bel cielo! La notte profonda è rischiarata dalla luna
scintillante. Mettetevi a vostro agio: in meno che non si dica giungerà l’alba. Allora vi
accompagneremo oltre la cresta, e non mancherete certo di ritrovare i vostri eminenti discepoli.»
Mentre chiacchieravano sopraggiunsero due servette in abito celeste, che reggevano lanterne di
garza di seta rosa. Esse guidavano una immortale che giocherellava con un ramo fiorito di
albicocco. Si profuse in sorrisi e salutò gentilmente tutti i presenti. Che aria aveva, questa fata?
Il suo incarnato, incorniciato dalla scura capigliatura, sfida ogni cosmetico. Gli occhi brillano di incontenibile vivacità
sotto la linea perfetta delle sopracciglia di falena.
Indossa una gonna rosa pallido a fiori di susino multicolori, e sopra un lieve bolero color fiamma nel fumo. Scarpette a
punte ricurve, adorne di becchi di fenici, e calze in broccato di seta di tinta pastello.
Ha il magico fascino delle ragazze dei monti Tiantai, e gareggia con la bellezza di Daji, la famosa favorita.
I vecchi, inchinandosi a loro volta, le chiesero: «A che dobbiamo il piacere della vostra visita,
gentile fata dell’albicocco?»
«Ho saputo che avevate in programma una gara poetica con un ospite di qualità. Posso chiedervi
di presentarmelo?»
«Eccolo qui» rispose il signor Diciotto indicando Tripitaka.
Il monaco cinese si inchinò in silenzio.
«Presto, servite il tè!» ordinò la bella signora. Alle sue spalle emersero dall’ombra altre due
cameriere in abito giallo, che recavano un grande vassoio rosso laccato su cui erano disposte sei
tazze della porcellana più sottile e ogni specie di frutta rara; da una grande teiera di rame
damaschinato di ferro bianco si diffondeva un intenso profumo. La signora versò il tè nelle tazze,
rivelando dita sottili e delicate come cipolline di primavera. Servì per primo Tripitaka, poi i quattro
vegliardi, e infine riempì una tazza per sé, per tener loro compagnia.
«Perché non vi sedete, gentile fata dell’albicocco?» le disse Vacuità Eterea. Solo dopo l’invito
ardì di mettersi seduta. Bevuto il tè, s’inchinò e chiese: «Sareste tanto gentili da riferirmi qualcuno
dei bei versi che vi siete scambiati?»
«Le nostre sono composizioni di gente di campagna» rispose Sfiora Nuvole. «Ma il santo
monaco è davvero degno di questa età d’oro della poesia dei Tang: merita i più alti elogi.»
«Siate generosi, fate ascoltare anche me.»
I quattro vecchi ripeterono i versi del reverendo, e anche il suo discorso sulla meditazione.
«Sono maldestra e dovrei star zitta» replicò la donna sorridendo, «ma non sono capace di
lasciare senza risposta versi così belli. Permettete che tenti di rimare sul modello dell’ultimo
poema.» E recitò:
«L’imperatore Wu mi volle un dì cantare,
Tanta grazia e dolcezza nel mio seno trovò.
Un pulpito a Confucio pur seppi procurare().
Se son troppo matura, marmellata farò.»
I vecchi lodavano i versi e se li ripetevano, la signora sorrideva e si schermiva, mormorando
timidamente: «Sono tanto confusa! Ma il santo monaco non vorrebbe comporre altri dei suoi versi
così sottili e ingegnosi?» E si avvicinava sempre più a Tripitaka, si strofinava contro di lui, finché
giunse a sollecitarlo espressamente: «Mio dolce amico senza pari, cogli la notte propizia, divèrtiti!
Che cosa vogliamo aspettare? La vita è breve: quando troverai un’altra occasione come questa?»
«Santo monaco» perorava il signor Diciotto, «non potete che essere lusingato dai teneri
sentimenti che vi dimostra la nostra cara fata. Se non le diceste di sì, sarebbe un delitto contro il
buon gusto.»
«Il nostro santo monaco è un uomo di grande reputazione» intervenne Rettitudine Solitaria.
«Naturalmente deve salvare la forma, e noi non possiamo insistere perché la trascuri. Sfiora Nuvole
e il signor Diciotto possono fare da intermediari, io e Vacuità Eterea saremo i testimoni; così sarà un
matrimonio come si deve.»
Tripitaka divenne rosso paonazzo e balzò in piedi: «Siete una banda di pervertiti, e cercate
vergognosamente di sedurmi. Passi che si stia a conversare della Via e dei suoi misteri; ma non
penserete di incastrarmi con questa signorina?»
I quattro vecchi guardavano spaventati il reverendo e si mordevano le dita per l’imbarazzo. Ma si
fece avanti il servitore fantasma dal corpo rosso e urlò: «Bonzo meschino, non capisci l’onore che ti
facciamo! Cos’è che non va nella nostra signorina? È bella, sa comporre versi, è abile in ogni lavoro
di casa. È semplicemente perfetta, e tu non la puoi rifiutare. Penserò io a presiedere al matrimonio.»
Tripitaka divenne pallido come un morto, ricadde seduto e non diede più segno di comprendere
qualsiasi cosa gli dicessero. Il fantasma concluse: «Maledetto bonzo, adesso fai il sordo. Ho una
gran voglia di metterti le mani addosso: e se lo faccio, altro che prender moglie! La tua carriera,
caro mio, finisce qui.»
Il reverendo pensava ai suoi discepoli: chissà dov’erano andati a finire e se avrebbero potuto
aiutarlo. Sul suo viso impietrito corsero due lacrime. La donna gli sorrideva e lo accarezzava; trasse
dalla manica un fazzolettino di seta profumato di miele e gli asciugò gli occhi dicendo: «Non ti
preoccupare, dolce amico! Mescoliamo i nostri profumi, diamoci ai piaceri dell’amore! Ti
divertirai!»
Con un singulto di disperazione, il reverendo balzò di nuovo in piedi e corse via. Tutti lo
inseguirono, lo afferravano per la tonaca, lo tiravano di qua e di là e facevano un gran baccano.
A un tratto si sentì gridare: «Maestro! Dove siete? Che cos’è questo chiasso?» Infatti i discepoli,
che erano infaticabilmente andati alla sua ricerca per tutta la notte, su e giù fra spine e sterpi, nella
nebbia e nella guazza, percorrendo l’intera Cresta dei Rovi da un capo all’altro, erano infine giunti
nel posto giusto.
I vecchi, il servo fantasma, la donna e le sue cameriere: tutti quanti scomparvero in un lampo. Ed
ecco i discepoli che gli venivano incontro e chiedevano: «Maestro, come avete fatto ad arrivare fin
qui?»
«Discepoli miei!» sospirò Tripitaka aggrappandosi a Scimmiotto. «Quante pene vi ho dato! Mi
ha portato qui il vecchio che abbiamo incontrato ieri sera, che si era presentato come tudi e che tu,
mio caro, volevi abbattere. Mi ha portato in una compagnia di certi vecchi che mi trattavano da
‘santo monaco’, avevano una conversazione colta e si dilettavano di poesia. Fino a mezzanotte
abbiamo composto versi a gara; poi si è unita a noi una bella donna, che verseggiava anche lei al
lume delle lanterne e mi chiamava ‘dolce amico’. Le sono piaciuto e mi voleva portare a letto.
Quando ho rifiutato, mi hanno perseguitato con le loro proposte di matrimonio; sono fuggito, ma mi
hanno inseguito, e stavamo litigando quando voi siete sopraggiunti. Il timore del vostro intervento,
o forse lo spuntare dell’alba, li ha fatti scomparire.»
Esplorarono il posto e scoprirono la scritta EREMO DEGLI IMMORTALI SILVESTRI incisa nella roccia.
«Eravamo proprio qui» confermò Tripitaka.
Scimmiotto, che scrutava attentamente tutto attorno, notò un immenso ginepro, un vecchio
cipresso, un antico pino e un folto bambù. Dietro a loro si vedeva un acero rosso. A breve distanza
verso la parete rocciosa stava un vecchio albicocco, circondato da due susini invernali e da due
cinnamomi.
«Avete scoperto la bella brigata?» chiese ridendo Scimmiotto.
«Non ancora» rispose Porcellino.
«Eccoli qua: erano gli spiriti di questi alberi.»
«Tu come lo sai?»
«Il signor Diciotto era il pino, Rettitudine Solitaria il cipresso, Vacuità Eterea il ginepro e Sfiora
Nuvole il bambù. Quanto al servitore rosso, era l’acero. Ed ecco lì la fata albicocco, con le sue
cameriere.»
Porcellino, senza perder tempo, corse avanti e abbatté susini, cinnamomi, albicocco e acero a
colpi di rastrello e di grugno: in effetti dalle loro radici uscivano gocce di sangue fresco. Tripitaka lo
volle trattenere: «Consapevole delle Proprie Capacità, non far loro del male! In fondo non mi hanno
fatto niente, benché fossero fantasmi. Lasciamoli perdere e riprendiamo la nostra strada.»
«Maestro» insisté Scimmiotto, «non è il caso di risparmiarli: finirebbero per diventare creature
malefiche e combinerebbero un sacco di guai.»
Il bestione sradicò anche pino, cipresso, ginepro e bambù, e poi invitò il maestro a rimontare a
cavallo. Ripresero così il cammino sulla strada maestra dell’Ovest.
Se poi non sapete che cosa avvenne dopo, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 65
UN PARADISO MALEFICO
IN CUI ESSERI PERVERSI SUSCITANO UN FALSO PICCOLO MONASTERO DEL COLPO DI TUONO, E I
QUATTRO PELLEGRINI CORRONO GRAVI PERICOLI.
Concatenare il frutto alla sua causa consiste, in questo caso, nello spingere l’uomo al bene e allontanarlo
dal male.
Ogni pensiero, riflesso nello specchio divino, è un’azione: che tu sia stupido o intelligente, impara che a
questo non v’è altro rimedio che la cancellazione del mentale.
Metti a profitto la vita coltivando la Via, senza divagare. Getta il guscio e cogli la polpa: questo ti occorre
nella ricerca di lunga vita. Conserva limpida la tua coscienza, e assaggerai il sapore del burro fuso.
Quando i buoni avranno attraversato i tre passi e colmato il mare nero, se ne andranno a cavallo di fenici
e di gru. Per loro la tristezza si muterà in compassione, e raggiungeranno l’assoluta felicità.
Come si è visto, la pietà e la sincerità di Tripitaka erano tali che gli dèi non potevano che
proteggerlo; gli spiriti degli alberi gli risparmiarono persino spine e rovi, che infatti a quel punto
scomparvero dal suo cammino. I quattro pellegrini ripresero il viaggio a Occidente. Camminavano
nella primavera:
Il cucchiaio dell’Orsa Maggiore rivolge il suo manico a est: tutto fiorisce e prospera. La terra verdeggia di piante ed
erbe, ogni riva si ricopre di verdi fronde di salice. Peschi in fiore risalgono i pendii delle colline. L’umidità che evapora
dai torrenti smorza i colori in una garza smeraldina.
Venti e piogge agitano i cuori. Il sole ravviva la bellezza dei fiori sbocciati. Le rondini recano nel becco fili di muschio.
La montagna assume i chiaroscuri della pittura di Wang Wei. La lingua degli uccelli è più dialettica del retore Jizi.
Ma nessuno è presente a godersi questi paesaggi profumati, salvo farfalle danzanti e api ronzanti.
Maestro e discepoli si compiacevano di calpestare l’erbetta, seguendo il cavallo che trotterellava
pacificamente. Giunsero così ai piedi di una montagna alta fino al cielo. Tripitaka la indicò con il
manico del suo frustino: «Consapevole del Vuoto, quanto sarà alta quella montagna? Si direbbe che
arrivi a perforare il firmamento.»
«Ricordate gli antichi versi? Alta del ciel la rocca, nessun monte la tocca» rispose Scimmiotto.
«Può salire finché vuole, ma al cielo non arriva.»
«Allora, perché i Monti Kunlun si chiamano pilastri del cielo?» obiettò Porcellino.
«Non te ne intendi» rispose Scimmiotto. «A nord ovest, dove sorgono i Kunlun, la volta del cielo
è incompiuta. Quei monti si chiamano così perché turano la falla.»
«Non raccontargli balle» intervenne ridendo Sabbioso. «Lui se le beve e poi le va a raccontare
agli altri, come se fossero vere. Andiamo avanti. Sapremo quanto è alta la montagna quando
l’avremo scalata.»
Il bestione corse dietro a Sabbioso, un po’ offeso e un po’ ridendo. Giunsero in breve ai piedi del
pendio e incominciarono l’ascesa.
Soffia il vento nella foresta, l’acqua ribolle in fondo al precipizio che gli uccelli non osano sorvolare: intimorisce
persino gli dèi. Innumerevoli rupi a picco sui burroni, la strada svolta e serpeggia senza fine. Turbini di polvere si
levano in siti inaccessibili. Lo sguardo esplora senza stancarsi quelle rocce dalle forme bizzarre.
Uccelli cantano sugli alberi, i cervi brucano i funghi, le scimmie saltano sui rami cogliendo pesche selvatiche.
Volpi e procioni vanno e vengono, saltano da una roccia all’altra; daini e camosci fanno brevi comparse nei luoghi
impervi. Ruggisce la tigre, lupi grigi e leopardi maculati sbarrano la strada.
C’era di che terrorizzare Tripitaka; ma bastava che Scimmiotto brandisse il suo randello e
lanciasse un grido per gettare il panico tra le fiere e farle fuggire. Salirono un colle e ne stavano
discendendo verso un altopiano, quando videro, fra luci e brume iridate, un complesso di torri,
terrazze e padiglioni da cui giungevano, attutiti dalla distanza, suoni di campane e di pietre sonore.
«Andate a vedere di che cosa si tratta» li esortò Tripitaka.
Scimmiotto osservò accuratamente, facendosi solecchio con la mano: che bei posti!
Preziosi edifici sacri, degni dei più illustri monasteri; ampia valle silenziosa, in cui si spande il profumo del cielo.
Pini azzurri, inzuppati di pioggia, stanno a guardia dei superbi padiglioni; bambù verde giada trattengono le nuvole
intorno alla sala della predicazione. Il palazzo del drago brilla di luce iridata, mille colori fluttuano su quel terreno
sacro. Balaustre vermiglie, portali di marmo, colonne dipinte e travi scolpite.
Dove si spiegano i sutra, sale l’incenso; dove viene rivelata la parola, brilla la luna dalle finestre. L’albero color cinabro
risuona di cinguettii d’uccelli, alla sorgente sul bordo della roccia si abbeverano le gru.
Ovunque i fiori diffondono il fascino del Jetavana, le imposte si aprono sulla luce di Srâvastî. Da torri e terrazze
prospicienti la montagna vibrano lunghi suoni, lenti e pesanti, di campane e di pietre sonore.
Le finestre si spalancano nella brezza, le cortine si arrotolano sulla lieve bruma. L’atmosfera monastica è improntata a
quieta inattività, senza traccia di volgare impazienza.
È un territorio benedetto, su cui il mondo di polvere non ha presa; terra purificata, che invita all’ascesi della Via.
«Maestro» riferì Scimmiotto, «è un monastero; ma in quell’atmosfera di meditazione, che
sembrerebbe così felice, c’è qualcosa di nefasto che non riesco a capire. L’aspetto sarebbe,
nientemeno, quello del Monastero del Colpo di Tuono, ma non è nel posto giusto. Quando ci
arriveremo, sarà meglio essere prudenti: non vorrei brutte sorprese.»
«Se ha l’aspetto del Colpo di Tuono, non saremo per caso arrivati sul Monte degli Avvoltoi?»
gridò Tripitaka. «Non deludere l’attesa del mio cuore sincero, non tardare la realizzazione dei miei
voti.»
«Nemmeno per sogno. Sono stato più volte sul Monte degli Avvoltoi, e non è questo.»
«D’accordo; ma ciò non dimostra che laggiù non viva gente perbene» osservò Porcellino.
«Non perdiamo tempo a sospettare» disse Sabbioso. «La strada ci porta proprio là; quando
saremo arrivati, vedremo di che cosa si tratta.»
«Consapevole della Purezza ha ragione» concluse Scimmiotto.
Il reverendo frustò il cavallo per farlo correre. Quando giunse al portale lesse la scritta
MONASTERO DEL COLPO DI TUONO
e ne fu tanto sorpreso che cadde giù dal cavallo; rotolando per terra inveiva: «Maledetto macaco, tu
mi vuoi morto! Siamo giunti alla meta, e me lo tenevi nascosto!»
«Maestro, non vi arrabbiate» rispose Scimmiotto sorridendo a denti stretti. «Prima di
rimproverarmi, dovreste guardare meglio. Avete letto solo tre caratteri, ma la scritta ne contiene
quattro.»
Il reverendo si rialzò fremente di indignazione e rilesse; in effetti i segni erano quattro:
PICCOLO MONASTERO DEL COLPO DI TUONO
«Se è piccolo» borbottò Tripitaka, «ci sarà dentro un Buddha piccolo. Non penserai che tutti i
tremila buddha di cui parlano le scritture abitino allo stesso indirizzo. Guanyin sta nei mari del Sud,
Puxian sul Monte Emei, Wenshu sul Wutai. Anche qui vivrà un buddha, non so quale. Dice
l’adagio: non c’è Buddha senza sutra, non c’è luogo senza tesori. Entriamo.»
«Questo posto non mi dice niente di buono» insisté Scimmiotto. «Se mi date retta, non entrate; e
se lo fate, non incolpate me di quello che vi accadrà.»
«Se non ci dovesse vivere un Buddha, non mancherà almeno la sua statua: e io ho fatto voto di
rendergli omaggio dovunque lo incontri. Che cosa mi dovrebbe accadere?»
Ordinò quindi a Porcellino di cercargli il suo kasâya, si mise in abito di cerimonia, cambiò il
berretto ed entrò con passo risoluto. Ma dall’interno risuonò una voce, che gridava: «Monaco cinese
venuto dalle terre dell’Est per rendere omaggio al nostro Buddha, come ti permetti quel piglio
tracotante?»
Tripitaka si tuffò immediatamente in una prosternazione, Porcellino lo imitò e Sabbioso cadde in
ginocchio. Scimmiotto li seguiva passo passo, tenendo il cavallo alla briglia, e non fece una piega.
Attraversarono il secondo ingresso e videro la sala del Beato: ai piedi della sacra terrazza su cui la
sala si apriva, erano schierati i cinquecento arhat, i tremila rivelatori, i quattro guardiani portatori di
folgore, gli otto pusa, le bhiksuni, gli upâsaka e la folla innumerevole dei monaci e dei servi. Il
reverendo e i suoi erano così impressionati da quella magnificenza, dall’incenso, dai profumi, i
fiori, la magica atmosfera, che si prosternavano a ogni passo. Ma Scimmiotto non curvava la
schiena e si guardava intorno.
Una voce dal trono di loto gridò: «Scimmiotto Consapevole del Vuoto, perché non ti prosterni
davanti al Beato?»
Il Novizio abbandonò la briglia e si fece avanti gridando a sua volta: «Bestie immonde! Non vi
vergognate di contraffare in questo modo il luogo sacro e di usurpare il nome del Beato?»
Roteò la sua sbarra per colpire, quando dall’alto: bang! cadde una coppia di giganteschi cembali,
che lo imprigionarono come l’imbottitura di un panino. Porcellino e Sabbioso, allarmatissimi,
posero mano alle loro armi, ma tutta quella gente li circondò, li strinse e li malmenò, e alla fine li
catturò; tutti e due, più Tripitaka, furono legati ben stretti.
In effetti, a fare da Buddha sul trono di loto stava un re diavolo, e la folla lì intorno era costituita
dai suoi aiutanti. Quando videro che il finto aspetto celestiale non serviva più, lo abbandonarono e
ripresero le usate facce da mostri. I tre prigionieri furono chiusi in una stanza sul retro; il cavallo fu
portato nella scuderia e i bagagli dentro casa, insieme al kasâya e al berretto strappati a Tripitaka.
Quanto a Scimmiotto, si guardarono bene dal levarlo dai cembali che lo imprigionavano: fu lasciato
dov’era, con l’intenzione di aspettare qualche giorno, finché andasse a male. Allora gli altri
pellegrini si sarebbero potuti cuocere tranquillamente al vapore, dentro l’apposita gabbia di ferro. In
verità:
Solo l’acuta scimmia seppe vedere il vero.
Il segreto del dhyâna si fermò alle apparenze;
Donna gialla seguiva e non seppe vedere;
Madre del legno, stupida, diede retta ai compagni.
La natura è ingannata dalla perversità,
Il diavolo malvagio schernisce l’uomo pio.
La gran porta del male è agevole a imboccare
Assai più del pertugio d’ingresso nella Via.
Scimmiotto, stretto fra i cembali, si trovava immerso nella più nera oscurità e sudava come un
dannato; per quanto spingesse, tirasse e battesse con la sua sbarra, non c’era verso di liberarsi. Fece
il passo per crescere di statura oltre mille tese; i cembali crebbero con lui, senza aprire il minimo
interstizio. Allora si ridusse più piccolo di un grano di senape: ma i cembali lo seguirono e
divennero altrettanti minuscoli. Alitò sulla sbarra il suo fiato magico e la trasformò in una pertica; si
strappò due peli dietro la nuca, e ne fece delle punte di trapano a forma di fiore di susino a cinque
petali; montò i trapani in cima alla pertica, li applicò contro il metallo dei cembali e li fece ruotare
un migliaio di volte. Le punte stridevano, ma non riuscivano a intaccare il metallo.
Scimmiotto si spaventò. Fece un altro passo magico e recitò l’incantesimo: «Om, ram, per il puro
mondo della legge; qian, per le origini e per la virtù della lama.»
Al richiamo, i rivelatori delle cinque direzioni, gli dèi del giorno e della notte e i diciotto
difensori della dottrina si affollarono intorno ai cembali e domandarono: «Grande santo, che cosa vi
serve?»
«Il mio maestro non ha voluto darmi retta» rispose Scimmiotto. «Se questa volta dovesse
crepare, sarebbe tutta colpa sua. Per ora vorrei che trovaste il modo di aprire questi cembali per
liberarmi: c’è buio pesto qui dentro, e fa un caldo soffocante. Quando sarò uscito, ci consulteremo
sul da farsi.»
Le divinità cercarono di allontanare i cembali l’uno dall’altro; ma sembravano saldati insieme,
non si poté aprire nemmeno uno spiraglio.
Il rivelatore Testa d’Oro disse: «Mi chiedo di quale materiale sia fatta questa roba; i cembali
formano un pezzo solo. L’umile divinità al vostro servizio non riesce a separarli.»
«Anch’io, dall’interno, non ho combinato niente. Non c’è verso di smuoverli.»
Il rivelatore distribuì le forze fra la protezione del monaco cinese, la sorveglianza dei cembali e il
servizio di pattuglia nei dintorni, e se ne andò in cielo, alla Sala delle Nuvole Misteriose. Entrò
d’urgenza, senza aspettare di essere convocato, e fece rapporto: «Maestà, sono uno dei rivelatori
delle cinque direzioni che seguono il Grande Santo Uguale al Cielo nella sua missione di protezione
del monaco cinese. La comitiva in viaggio verso occidente ha trovato sulla sua strada un Piccolo
Monastero del Colpo di Tuono e c’è entrata, scambiandolo per quello vero; invece si trattava solo di
una trappola per acchiappare i pellegrini. Il grande santo è rimasto chiuso fra due cembali, e non ha
altra prospettiva che di perderci la vita. Tanto perché vostra maestà lo sappia.»
«Le costellazioni delle ventotto case vadano subito a liberare i pellegrini, e catturino le creature
malefiche che hanno teso la trappola.»
Ed ecco le costellazioni precipitarsi al falso monastero, al seguito del rivelatore. Era la seconda
veglia: i mostri, grandi e piccoli, erano andati a coricarsi, dopo aver ricevuto le lodi del loro capo
per la cattura del monaco cinese. Le costellazioni si introdussero a passi felpati e sgattaiolarono fino
ai cembali di Scimmiotto: «Grande santo, eccoci qua; siamo le ventotto case celesti, mandate
espressamente dall’Imperatore di Giada per togliervi dai guai.»
Lieto del loro arrivo, il Novizio chiese che spezzassero la sua prigione con i loro attrezzi. «Se
battiamo su questi piatti metallici» risposero le costellazioni, «faremo un baccano d’inferno e
sveglieremo tutti quanti. Sarà meglio che tentiamo di aprire un pertugio; appena vedete un filo di
luce, fuggite!»
«Va bene» approvò Scimmiotto.
Si misero al lavoro: chi usava la lancia, chi la spada, o la sciabola, o l’ascia; e spingevano,
tiravano, torcevano, raspavano: ma giunse la terza veglia senza che si vedesse alcun risultato.
All’interno, Scimmiotto tendeva il collo, si contorceva, tastava qua e là; ma di spiragli non ne
comparivano.
Kang, il drago del metallo, disse: «Portate pazienza, grande santo. Questo è un materiale
speciale, chissà quali formule ci vogliono per aprirlo. Cercate, per piacere, un punto più sottile nella
saldatura; cercherò di localizzarlo anch’io e ci infilerò la punta del mio corno. Se vi trasformate in
modo adeguato, potrete uscire dal forellino.»
Scimmiotto cercò accuratamente. Scelsero il punto, la costellazione si miniaturizzò e applicò
strenuamente tutta la forza che poteva - molte migliaia di libbre - al suo corno, ridotto a un ago
sottilissimo. L’estremità della punta riuscì a penetrare. Usando la magia della legge, Kang fece
ingrossare il corno, e poi lo rimpicciolì nuovamente; ma il metallo seguiva tutti i movimenti,
serrando sempre saldamente la punta che lo aveva attraversato, senza aprire alcuno spiraglio.
Scimmiotto gridò: «Così non ce la facciamo. Mi dispiace, ma ti dovrò fare un lavoretto da
dentista.»
Il grande santo riprese i suoi trapani, perforò la punta del corno ricavandone una minuscola
cavità e ci si infilò, dopo aver preso dimensioni molto minori di quelle di un grano di senape.
Quindi gridò: «Ora estrai il corno!»
La costellazione dovette fare uno sforzo terribile; quando la punta del corno si sconficcò
finalmente dai cembali, essa finì gambe all’aria e cadde per terra, dove restò seduta e affranta per un
bel pezzo.
Scimmiotto sgusciò fuori dalla cavità, riprese le sue normali dimensioni e impugnò la sbarra con
tutte le sue energie. Il colpo che abbatté sui cembali diede un clangore assordante, come se battesse
un gong alto come una montagna. Che peccato! L’insigne strumento della casa del Buddha volò in
mille pezzi.
Alle costellazioni e alle altre divinità presenti, quel rumore fece rizzare tutti i capelli che avevano
in capo. I mostri, strappati dal sonno, corsero fuori come impazziti, infilandosi gli abiti,
impugnando le armi, battendo i tamburi. Mentre l’alba spuntava, si riunirono ai piedi della terrazza
e videro Scimmiotto e le costellazioni intorno ai resti dei cembali spezzati. Il loro capo gridò:
«Ragazzi, chiudete le porte e non fate uscire nessuno!»
Scimmiotto balzò in cielo per riaccompagnare le costellazioni al loro posto. Intanto il re diavolo
dovette ingoiare la rabbia che aveva in corpo: fece raccogliere i frammenti metallici, schierò le
truppe per sbarrare le porte del monastero e si armò di tutto punto, impugnando un bastone corto e
flessibile guarnito di denti di lupo. Quindi avanzò a sfidare Scimmiotto: «Un valoroso non se ne
vola via. Vieni giù e accordami uno scontro in tre riprese.»
Il Novizio non poté resistere al desiderio di esaminarlo da vicino e ridiscese; le costellazioni che
erano con lui lo seguirono. L’avversario aveva
una capigliatura arruffata, trattenuta da un sottile cerchio d’oro. Occhi brillanti sotto biondi sopraccigli corrugati, naso
pendente dalle larghe narici, grande bocca quadrata dai denti aguzzi.
Indossava una cotta di maglia metallica serrata alla vita da una cintura di seta; calzava morbidi stivali di cuoio e
impugnava il suo bastone con denti di lupo.
Benché simile a un uomo, c’era nel suo aspetto qualcosa di ferino.
Scimmiotto brandì la sua sbarra e urlò: «Che specie di mostro sei? Dove hai preso l’impudenza
di farti passare per il Buddha e di imitare il Colpo di Tuono?»
«Lo sapevo, macaco, che non mi conoscevi: altrimenti non avresti corso il rischio di violare il
mio territorio. Questo è il piccolo paradiso dell’Ovest. L’ho avuto in dono dal cielo quando, dopo
lunga pratica, ho conseguito il giusto frutto. Sono il buddha dei Sopraccigli Biondi; questa gente
non lo sa, e mi chiama semplicemente mahârâja dei Sopraccigli Biondi. Da un pezzo ero informato
del vostro viaggio e delle tue prodezze. Ho suscitato questo miraggio per attirarvi qui, perché mi
voglio misurare con te. Se mi vinci vi lascerò andare; altrimenti vi ucciderò e andrò io dal Beato a
chiedere le scritture, per acquistare il merito di riportarle in Cina.»
«Sei un chiacchierone» commentò Scimmiotto con un sorriso beffardo. «Se la tua intenzione è di
batterti, le parole sono inutili. In guardia!»
Il re diavolo parò il primo colpo, e incominciò la battaglia.
Entrambi sono armati di bastone, ma quelle armi sono ben diverse: l’una, della casa del Buddha, è corta e flessibile;
l’altra, dal fondo del mare, è lunga e rigida. Sono entrambi grandi esperti di trasformazioni: chi vincerà? Bastone con
denti di lupo o sbarra cerchiata d’oro?
Lo scontro tra scimmia e diavolo, di equivalente forza e abilità, non nasce da un capriccio. Il saggio macaco, divenuto
scimmia dello spirito, difende la legge; mentre la spudorata creatura, con le sue imposture, si fa beffe del cielo.
Sono entrambi furenti e spietati, decisi ad arrivare fino in fondo. Fumano da oscurare il sole, sputano nebbie da coprirne
tutta la montagna. I bastoni mulinano senza requie: si scontrano per la vita e per la morte a causa di Tripitaka.
Dopo cinquanta scontri, l’esito era ancora incerto. I mostri avevano continuato a lanciare grida di
incoraggiamento, battendo gong e tamburi e agitando bandiere. Ma a un tratto le truppe celesti si
fecero avanti, gettarono un grido di guerra e circondarono i combattenti; la loro avanzata gelò il
sangue nelle vene delle truppe diaboliche, che si zittirono.
Il vecchio diavolo, tuttavia, non se la diede per inteso. Mentre con una mano teneva tutti quanti
in rispetto maneggiando il suo bastone, con l’altra levò dalla cintura un sacchetto di tela bianca e lo
gettò in aria: si udì un sibilo, e Scimmiotto, le ventotto costellazioni e i rivelatori dei cinque orienti
vi furono aspirati.
Quando il sacco fu pieno, il diavolo lo raccolse e se lo portò in casa, seguito dalla folla trionfante
dei suoi mostriciattoli. Si fece portare cinquanta lunghezze di corde di canapa, aprì il sacco, ne cavò
uno ad uno i prigionieri e li legò accuratamente: loro sentivano le ossa indolenzite, i muscoli pieni
di crampi, la pelle molle e rugosa. Man mano che venivano legati, erano portati in un magazzino sul
retro e gettati al suolo, uno sull’altro in un gran mucchio. Poi il re diavolo fece disporre un
banchetto: si trincò allegramente dall’alba al tramonto, e infine si andò a dormire.
Nella notte che seguì, dentro la stanza dove tutti i prigionieri giacevano ammucchiati si udivano
singhiozzi disperati. Scimmiotto riconobbe la voce di Tripitaka, che gemeva: «O Consapevole del
Vuoto!
Non diedi retta, ed ora amaramente
Me ne pento. Ho portato a perdizione
Te nei cembali d’oro, e tutti noi
Legati qui come pacchi postali
Che, temo, non saranno mai inoltrati.»
Scimmiotto si commosse: «Come al solito non mi ha dato retta al momento giusto, ma almeno
gli dispiace e pensa anche a me. Approfitterò di questo momento tranquillo, in cui i mostri dormono
e non badano a noi, per liberarlo.»
Il grande santo si rimpicciolì, finché poté scivolare fuori dalle corde che lo legavano e si
avvicinò al monaco cinese. Mormorò: «Maestro!»
Il reverendo riconobbe la voce ed esclamò: «Come hai potuto liberarti e venir qui?»
Scimmiotto lo aggiornò sottovoce sugli ultimi avvenimenti.
«Discepolo mio» gli disse Tripitaka confortato, «liberami subito! In futuro non sarò più testardo,
ti darò sempre ascolto.»
Scimmiotto si mise alacremente all’opera e sciolse i legami di tutta la compagnia. Poi andò a
prendere il cavallo e li invitò a fuggire. Li accompagnò al portone e volle tornare indietro e
raccogliere i bagagli.
«Dài più importanza alle cose che alle persone!» esclamò indignato Kang, il drago del metallo.
«Hai liberato il tuo maestro: che ti importa dei bagagli?»
«Non è vero che dia più importanza alle cose; gli abiti e la ciotola delle elemosine servono
appunto alle persone. Nelle sacche ci sono i nostri documenti, il kasâya e la ciotola d’oro; questi
ultimi sono doni del Buddha: non voglio certo lasciarli per strada.»
«Vai, fratello» disse Porcellino. «Noi ci incamminiamo e ti aspetteremo lungo il cammino.»
Le costellazioni circondarono il monaco cinese e, utilizzando tutte insieme la magia del
rapimento, lo sollevarono con un colpo di vento e lo portarono a qualche distanza oltre il recinto. I
pellegrini e i loro accompagnatori scesero il pendio della montagna e, quando giunsero al piano, si
fermarono per aspettare Scimmiotto.
Era circa mezzanotte, quando Scimmiotto si avviò per introdursi a passi felpati nel monastero.
Tutte le porte erano chiuse, e anche le finestre (come poté constatare arrampicandosi al primo
piano) erano accuratamente serrate. Non era il caso di forzarle, per non far rumore. Si trasformò
quindi in topo di immortali o, come volgarmente si chiama, in pipistrello. Che aspetto aveva?
chiederete.
Un capino appuntito
Con occhietti brillanti
Proprio da topolino.
Ma le grandi ali nere
Battono nella notte
A caccia di zanzare.
Un interstizio fra le tegole e le sporgenze delle travi gli consentì di entrare. Esplorò l’edificio
volando sopra le porte, finché scorse qualcosa che baluginava in un abbaino al secondo piano; non
era lampada né candela, non aveva il colore delle braci, e non era intermittente com’è il lume delle
lucciole. Battendo le ali, si avvicinò a vedere: ed ecco i bagagli. La luce veniva dal kasâya, messo
nella sacca senza ripiegarlo e che in parte ne sporgeva; la emettevano agate, coralli, reliquie e perle
fosforescenti che lo adornavano.
Scimmiotto riprese il suo aspetto e si caricò tutto sulle spalle. Nella furia, tuttavia, non si
assicurò che i bagagli fossero ben legati; così, mentre si muoveva, caddero con un tonfo sul
pavimento. Ahimè, ci mancava anche questa! Il vecchio diavolo si svegliò di soprassalto e balzò dal
letto gridando: «Attenti, c’è qualcuno in casa!» Tutti si alzavano, accendevano lampade e torce,
parlavano, giravano qua e là, esploravano ogni angolo. Qualcuno venne a dire: «Il monaco cinese è
scappato!» E un altro: «Sono scappati anche il Novizio e tutti quanti!»
«Bloccate tutte le porte! Emergenza! Bisogna catturarli!»
Scimmiotto non aveva nessuna voglia di restare di nuovo impigliato nella rete: fece una capriola
e balzò dalla finestra. Ma dovette abbandonare i bagagli.
Per quanto si cercasse, non si trovò traccia né del monaco cinese né degli altri prigionieri fuggiti.
Alla fine, mentre sorgeva l’alba, il mostro uscì alla testa delle sue truppe impugnando il suo
bastone, e presto vide le costellazioni, i rivelatori e tutti gli altri, installati ai piedi della montagna e
circondati da nuvole di buon augurio.
Tutti sanno quali sono le ventotto case celesti: Kang drago del metallo, Nü pipistrello della terra,
Fang coniglio del sole, Xin volpe della luna, Wei tigre del fuoco, Ji leopardo dell’acqua, Dou
unicorno del bosco, Niu toro del metallo, Di tasso della terra, Xu ratto del sole, Wei rondine della
luna, Shi porco del fuoco, Bi porcospino dell’acqua, Kui lupo del bosco, Lou cane del metallo, Wei
maiale della terra, Mao gallo del sole, Bi corvo della luna, Zu scimmia del fuoco, Shen gibbone
dell’acqua, Jing iena del bosco, Gui montone del metallo, Liu daino della terra, Xing cavallo del
sole, Zhang cervo della luna, Yi serpente del fuoco, Zhen verme dell’acqua e Jué caimano del
bosco.
Quando il re diavolo vide quelle divinità tutte insieme, gridò con una risata sarcastica: «Dove
credevate di scappare?». Emise un soffio, e in un attimo fece apparire quattro o cinquemila mostri
dagli aspetti più vari, uno più robusto dell’altro.
«Fratelli, ecco le creature malefiche che ci vengono addosso!» avvertì la costellazione Jué
caimano del bosco. Si scatenò una mischia tremenda; solo Tripitaka e il suo cavallo bianco
restavano inoperosi ai margini di quel bailamme. Che battaglia!
Che può fare natura, in sé dolce e pacifica, contro la perversa malignità del demonio che la tormenta? Nessuno
stratagemma può evitare tante sofferenze. Gli dèi e i santi portano aiuto. Se Madre del legno mostra qualche incertezza,
Donna gialla combatte decisa.
Nella mischia che spaventa il cielo e fa tremare la terra, si stendono le reti. Là si agitano le bandiere e si gettano grida di
guerra; qui risuonano i gong e rullano i tamburi. Lance e sciabole si oppongono in ranghi serrati; un soffio mortale
sibila sulle masse contrapposte delle spade e delle alabarde. Che possono fare i soldati celesti contro il brutale valore
delle truppe dei mostri? Nubi d’angoscia nascondono sole e luna, una caligine crudele si stende sul paesaggio. Lotta
accanita intorno a Tripitaka che vuole recarsi dal Buddha.
Le truppe del mostro combattevano con crescente ferocia e la battaglia era indecisa, quando
risuonò il grido di Scimmiotto: «Eccomi qua!»
Porcellino gli chiese: «Dove sono i bagagli?»
«Non me ne parlare; per poco non ci ho rimesso la pelle.»
«Non state a chiacchierare, voialtri; venite a menar le mani!» intervenne Sabbioso.
Mentre gli dèi erano stretti in difesa, accerchiati dai mostri, il re diavolo venne ad attaccare i tre
condiscepoli. Essi sostennero i suoi assalti fino a sera, ma senza riuscire a vincerlo. La battaglia
durò finché l’astro del giorno tramontò dietro la montagna e quello della notte si levò dall’est.
Vista l’ora tarda, il mostro fischiò per far ritirare le sue truppe e portò la mano alla cintura.
Scimmiotto si accorse che afferrava il suo sacchetto bianco.
«Via! Si mette male!» gridò il Novizio. E fece un balzo fino al nono cielo.
Porcellino, Sabbioso e tutti gli altri non compresero in tempo l’avvertimento, e si trovarono di
nuovo tutti quanti aspirati; solo Scimmiotto era riuscito a fuggire. Il re diavolo ritornò al monastero
con i suoi, e ancora una volta fece portare corde per legare i prigionieri. Tripitaka, Porcellino e
Sabbioso furono appesi a una trave; il cavallo bianco fu legato nella scuderia. Gli dèi furono stipati
dentro la fornace dei mattoni, che venne accuratamente tappata.
Scimmiotto aveva osservato i movimenti dall’alto, e ridiscese dal cielo sulla cima della
montagna. Digrignava i denti e versava lacrime: «Maestro!» si lamentava. «Quante dovete averne
combinate nelle vostre esistenze anteriori, per trovarvi in questa vita a incappare nei malvagi a ogni
passo! Come fare a cavarvi da tutti questi guai?»
Restò a lungo a sospirare, prima di ritrovare la calma dello spirito e di mettersi a riflettere: «Mi
chiedo che cosa sia quel sacchetto dalle straordinarie capacità. Per combatterlo devo chiedere altri
aiuti, ma non voglio farmi rimproverare dall’Imperatore di Giada, che ha già mandato le
costellazioni. Mi rivolgerò a Zhenwu, il reverendo Ammazza Diavoli del Monte Wudang: chiederò
a lui di venire a liberare il maestro da questa prova.»
È il caso di ricordarlo:
Via incompiuta:
Si disperdon la scimmia ed il cavallo.
Spirito senza controllo:
Tutti i cinque elementi si avvizziscono.
Se poi non sapete, in fin dei conti, come andò a finire, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 66
COMMERCIO DI MELONI
IN CUI GLI DÈI SONO VITTIME DI PRATICHE CRUDELI, E MILE FINISCE PER CHIUDERE IN UN SACCO IL
DIAVOLO PERVERSO.
Come si è detto Scimmiotto, messo alle strette, si recò sul Monte Wudang nel continente
meridionale, per chiedere al venerabile Ammazza Diavoli un aiuto alla liberazione di Tripitaka,
Porcellino e Sabbioso, e dei guerrieri celesti imprigionati con loro. Fece la sua capriola nelle nuvole
e viaggiò rapidamente, finché giunse in vista del territorio dell’immortale e planò nella sua
magnifica tenuta.
La divina montagna alta fino al cielo domina il sud est con la sua mole maestosa, in cui spiccano la Cresta del
Baldacchino Porporino e il Picco degli Ibischi. Ne discendono nove fiumi, che scorrono fino alle remote regioni di Jing
e Yang; mille picchi di Yue si tendono verso le stelle. [...]
Bianche gru, compagne delle nuvole, stanno appollaiate sull’antico ginepro; fenici rosse e azzurre cantano rivolte al
sole. Questo territorio dell’illusione di giada è una vera terra di immortali; la compassione dei portali d’oro regna sulla
soglia del mondo.
Il grande patriarca, imperatore di Sopra, era nato nel palazzo imperiale l’anno 1 dell’era
Kaihuang, nel primo giorno della terza luna dell’anno Jiachen(). Era figlio del re Puro Gaudio e
della regina Vincelbene, che lo aveva concepito mentre sognava di ingoiare un raggio di sole e lo
aveva portato per quattordici mesi.
Coraggioso e valoroso sin da fanciullo, mostrò crescendo la sua divina intelligenza e rifiutò il trono per consacrarsi a
pratiche austere. I suoi genitori non poterono impedirgli di abbandonare il palazzo imperiale. Fu su questa montagna
che penetrò i misteri della meditazione. Raccolti i propri meriti e compiute le pratiche, se ne volò via in pieno giorno.
L’Imperatore di Giada decretò che portasse il nome di Zhenwu, Vero Marziale, presiedesse al contatto con il vuoto
tenebroso e fosse servito dalla tartaruga e dal serpente. L’intero universo proclamò la sua onniscienza nelle sei direzioni.
Non vi è mistero che egli non comprenda, né gloria che egli non colga. Dall’inizio alla fine di ogni kalpa, si dedica a
eliminare i diavoli.
Il grande santo attraversò la prima, la seconda e la terza porta della tenuta, finché giunse al
Palazzo della Suprema Armonia. Qui venne circondato da una folla di cinquecento ufficiali,
coronati da luminose aureole di buon augurio. «Chi siete?» gli chiesero.
«Il mio nome è Scimmiotto Consapevole del Vuoto, Grande Santo Uguale al Cielo. Vorrei vedere
il maestro.»
Gli ufficiali lo annunciarono, e il patriarca venne a riceverlo e a informarsi del motivo della sua
visita.
«Durante il viaggio a Occidente, in cui sono responsabile della protezione del monaco cinese,
siamo arrivati su una montagna detta Piccolo Paradiso dell’Ovest, dove sorge un Piccolo Monastero
del Colpo di Tuono. È la residenza di un diavolo; ma il mio maestro, ingannato dall’apparenza, vi è
entrato e si è fatto catturare. Attraverso varie vicende ho avuto l’aiuto delle ventotto case celesti,
inviate espressamente in aiuto dall’Imperatore di Giada; ma non è bastato. Quel diavolo possiede un
sacchetto di tela bianca, con cui è in grado di aspirare e imprigionare tutti quanti, anche i guerrieri
celesti. Io solo mi sono accorto che stava per usarlo e sono fuggito in tempo. Ma mi ritrovo solo e
non so dove mettere le mani. Perciò, maestro, sono venuto a sollecitare il vostro aiuto.»
«Certo in vita mia ne ho domati tanti, di diavoli. Quand’ero in auge nel Nord, ripulii l’intero
continente di tutti gli esseri perversi; era il mio mestiere, e lo facevo per ordine dell’Imperatore di
Giada. Poi ho combattuto soffi neri e vapori malefici del Nord est; me ne andavo a piedi nudi con i
capelli al vento, e avevo il comando di cinque capitani celesti del tuono, di draghi giganti, di leoni e
di molte altre bestie feroci. Il mio committente era allora il venerabile celeste dell’Inizio Originale.
Ma ora sono in pensione, e mi godo il meritato riposo. Nei continenti del Sud e del Nord l’ordine è
ristabilito: non restano tracce di perversità. Può darsi che sulla strada dell’Ovest sia rimasta ancora
qualche piccola cosa, ma non dovrebbe trattarsi di creature veramente pericolose. La tua richiesta di
aiuto mi lusinga, grande santo; a parte l’amicizia, puoi immaginare che cosa prova il vecchio
soldato quando annusa odor di polvere. Tuttavia, per muovere le truppe, dovrei avere ordini di
Sopra, con le dovute autorizzazioni: altrimenti rischierei una bella lavata di capo dall’Imperatore di
Giada. Ma a un amico come te non posso limitarmi a dire di no. Ti presterò il serpente e la
tartaruga, e come rinforzi cinque draghi di formato grande. Vedrai che risolveranno il tuo
problema.»
Il Novizio ringraziò il patriarca e ritornò indietro con i suoi nuovi compagni. Quando giunsero al
monastero, si presentarono al portone per provocare il diavolo a combattere.
Il grande re dai Sopraccigli Biondi, in mezzo alle sue truppe, stava appunto chiedendosi: «Chissà
dove sarà andato a bussare per aiuti, quello Scimmiotto; sono due giorni che non si vede.» Proprio
allora, un mostriciattolo gli venne ad annunciare: «Il Novizio ci sfida a combattere. È accompagnato
da un serpente, da una tartaruga e da certi draghi.»
«Strana accozzaglia ha messo insieme quel macaco» commentò il re diavolo, allacciandosi
l’armatura. Quindi uscì e gridò: «Voi draghi, da dove venite per osare di violare il mio territorio?»
«Maledetto!» gridarono i draghi ergendosi in tutta la loro statura. «Noi siamo al servizio del
venerabile celeste Ammazza Diavoli, maestro dell’Origine del Caos nel Palazzo della Suprema
Armonia sul Monte Wudang. Siamo venuti ad arrestarti. Se vuoi salva la vita, libera subito il
monaco cinese e le costellazioni. Altrimenti ti faremo a pezzi e bruceremo la tua casa.»
La creatura malefica si arrabbiò: «Bestiacce puzzolenti, come vi permettete tanta arroganza? Vi
darò io una bella lezione!»
Si lanciarono tutti all’assalto brandendo le loro armi; i draghi caprioleggiavano e versavano
pioggia, mentre il serpente e la tartaruga sollevavano terra e gettavano sabbia. Fu una gran mischia:
Spade e alabarde mandano riflessi iridati, sciabole e lance scintillano come arcobaleni. Il bastone a denti di lupo è corto,
ma potente; la sbarra cerchiata d’oro è veloce e versatile. Negli urti continui, schiocca il bambù, risuona il ferro. Acqua
e fuoco vanno all’assalto della creatura malefica, i colpi piovono su di lui. Grida di guerra da terrorizzare tigri e lupi,
baccano da far scoppiare la testa a dèi e diavoli. Nella mischia confusa ed ancora indecisa, il diavolo cava di nuovo
dalla cintura il suo tesoro.
Scimmiotto gridò: «Amici miei, fate attenzione!» Ma i suoi compagni non sapevano da che cosa
dovevano guardarsi. Quando il sacchetto fu lanciato in aria li aspirò tutti quanti, salvo Scimmiotto
che fece un balzo fino al nono cielo.
Anche i nuovi prigionieri furono legati e gettati nel forno dei mattoni, di cui si richiuse poi
l’imboccatura con ogni cura.
Ed ecco il grande santo, ridisceso sulla montagna, che si grattava la testa deluso e scoraggiato:
«Come acchiapparla, questa bestiaccia?»
Mentre, per la concentrazione, socchiudeva gli occhi, udì un richiamo accanto a sé: «Grande
santo, non è il momento di dormire. La vita del tuo maestro è appesa a un filo.»
Scimmiotto spalancò gli occhi e riconobbe il protettore del giorno: «Eccoti qua, divinità fottuta!»
gridò. «Dove passi il tuo tempo? A pappare offerte sacrificali, immagino. E poi vieni da me a fare il
terrorista. Allunga un po’ la zampa, che ti ci dò qualche legnata per curarmi il malumore.»
«Grande santo» rispose il protettore profondendosi in riverenze, «non vi lascerete mica
scoraggiare, voi che siete il più allegro di tutti gli immortali. Noi siamo comandati dalla pusa a
seguire come ombre il monaco cinese, mentre voi andate e venite. Perciò non ci si vede spesso; non
è colpa mia.»
«Se lo segui come un’ombra, saprai in quali condizioni si trova. Come sta?»
«In questo momento il vostro maestro è appeso a una trave sotto il portico, insieme ai
condiscepoli; invece gli altri sono chiusi in un forno. In deroga ai miei doveri ero venuto a cercarvi,
perché da due giorni non avevamo più vostre notizie; non sapevo che foste andato in cerca di
rinforzi. Comunque è urgente che facciate qualcosa di efficace.»
«Sai che a questo punto non so più dove battere la testa? Qualunque aiuto chieda, quel
delinquente cattura i miei alleati: mi sono coperto di vergogna, dovunque mi rivolga.»
«Su con la vita, grande santo!» disse sorridendo il protettore. «Credo di potervi dare un buon
consiglio. Nello stesso continente meridionale dove siete andato ultimamente, ci sono i monti Xuyi,
che oggi si chiamano Sizhou. Lì vi recherete nella città di Bincheng e vi troverete un pusa
precettore dello stato, che possiede grandi poteri. Fra i suoi discepoli ci sono un certo Piccolo
Zhang, principe ereditario, e quattro marescialli divini, che una volta sottomisero la regina madre
delle Acque. Vi aiuteranno di sicuro, e sono tanto forti che riusciranno a catturare il mostro e a
liberare il maestro.»
«Tu ritorna da lui e proteggilo» disse Scimmiotto pieno di gioia. «Faccio un salto e torno
subito.»
Balzò fra le nuvole e giunse in breve sul Monte Xuyi. Bei posti, come tutti quelli in cui abitano
gli immortali.
Fra il guado del Fiume, le acque della Huai, il mare e Fengfu, che ne segnano i confini verso i quattro punti cardinali, la
montagna reca sulla cima prestigiosi edifici, e ne sgorgano ricche sorgenti.
Un dedalo di rocce, fra cui sorgono pini superbi e nodosi. Ogni specie di frutta vi matura nelle quattro stagioni, mille
rami vi fioriscono a primavera.
La gente va e viene operosa, come schiere di formiche; le barche sull’acqua sono sempre in movimento, come stormi di
oche selvatiche.
Gli edifici sulla vetta sono il Tempio della Roccia di Buon Augurio, il Palazzo del Picco dell’Est, il Santuario dei
Cinque Illustri e il Monastero di Monte Tartaruga, da cui salgono al cielo suoni di campane e fumo d’incenso. Ci sono
anche la Sorgente di Cristallo, la Valle dei Cinque Stupa, la Terrazza degli Otto Immortali e il Giardino dei Mandorli
Fioriti, che completano le attrazioni della città, sotto candide strisce di nubi, fra i canti instancabili degli uccelli. Non
parlatemi dei quattro picchi sacri: questo posto vale Penglai e Yingzhou.
Scimmiotto, godendosi lo spettacolo, attraversò la Huai ed entrò in città. Quando giunse al
monastero, ne ammirò i magnifici edifici, i lunghi porticati dipinti e l’imponente pagoda.
Mille tese d’altezza che forano le nuvole,
Vaso d’oro nel cielo, che concentra la luce
Che nessun’ombra offusca. La brezza fa oscillare
Le mille campanelle che suonano argentine.
Grandi draghi sul tetto si riscaldano al sole:
Non spaventan gli uccelli che vengono a posarsi.
La Huai brilla nel piano dove scorre perenne.
Quando Scimmiotto raggiunse il secondo portale, uscirono a riceverlo il pusa precettore dello
stato e il principe ereditario Piccolo Zhang. Dopo le cortesie d’uso, quando conobbe il motivo della
visita [...], il precettore disse: «Il caso che ti porta qui è certo importante per la diffusione della
dottrina del nostro Buddha: vorrei e dovrei dunque intervenire di persona. Ma al momento mi trovo
in difficoltà. Ho appena sottomesso il grande santo Gibbone delle Acque. Quel furfante si mette in
agitazione ogni volta che entra in contatto con l’acqua; e in questa stagione, inizio d’estate, le acque
della Huai sono in piena e minacciano l’alluvione. Se il guaio avvenisse mentre sono lontano e
quella bestia incominciasse a combinarne delle sue, qui non ci sarebbe nessuno capace di tenerlo
sotto controllo. Faremo così: ti farò accompagnare dal mio giovane discepolo e da quattro capitani,
perché ti aiutino a catturare il tuo mostro.»
Il Novizio ringraziò e ripartì accompagnato dal principe e da quattro guerrieri. Giunsero in breve
nel Piccolo Paradiso dell’Ovest e corsero a sfidare il mostro. Piccolo Zhang era armato di una lancia
bianca in legno di gelso, e i quattro capitani di spade d’acciaio kunwu.
Quando i mostriciattoli gli annunciarono l’arrivo, il re diavolo fece battere i tamburi, schierò le
sue truppe e uscì ad apostrofare Scimmiotto: «Eccoti di ritorno, macaco. Perché non mi presenti gli
aiutanti che ti sei trovato questa volta?»
Piccolo Zhang si fece avanti e gridò: «Maledetta creatura! Sei ridotto così male che non sei più
in grado di riconoscermi?»
«Da dove venite, guerrin meschini, per mettervi nei guai aiutando questa scimmia?»
«Sono il discepolo del grande santo di Sizhou, il pusa precettore dello stato. Ho l’ordine di
arrestarti, con l’aiuto di questi quattro grandi capitani.»
«Bamboccio!» sghignazzò il re diavolo. «E quali sarebbero le tue referenze militari?»
«Se vuoi saperle, ascolta:
Son nato a Sabbie Mobili, sono figlio del Re.
Sotto cattiva stella, di salute malferma,
Indagavo il segreto che porta a lunga vita.
Lo trovai: col cinabro scacciai la malattia.
Non volli più saperne della regalità,
Ma volli pervenire all’immortalità
E giovane per sempre conservare il mio volto.
Partecipai al banchetto di Longhua; mi recai
Al palazzo del Buddha. I miei grandi poteri
Mi rendono soggetti il maltempo, i demoni
Delle acque e dei monti, come le tigri e i draghi.
Nessun mostro resiste alla mia forte lancia.
Il mio stupa fu eretto sulla riva del mare.
Piccolo Zhang è noto a tutti, in tutto il mondo.
Vive a Bincheng, la sede della lieta fortuna.
Il re diavolo commentò, con un sorrisetto sardonico: «La lunga vita che hai appreso dal tuo pusa
sarà buona per attaccar briga con i pesciolini della Huai. Ma non avresti dovuto fidarti di questo
Scimmiotto, che ti ha fatto attraversare monti e fiumi per venir qui a lasciarci la pelle. Vediamo che
cosa te ne farai, adesso, della tua immortalità!»
Piccolo Zhang, mortalmente offeso, impugnò la lancia e si gettò all’attacco, seguito dai capitani
e da Scimmiotto. Il diavolo si difendeva ordinatamente: parata a destra, copertura a sinistra, botta
frontale, finta di lato. Una feroce battaglia.
Il piccolo principe con la lancia, i capitani con le possenti spade, Scimmiotto con la sbarra accerchiano il mostro.
Ma il re diavolo ha tali poteri che non trema; quel suo bastone a denti di lupo è un tesoro del Buddha, contro il quale
lancia e spade non hanno potere.
Mugghia il vento, esalano soffi malvagi. Finché i tre veicoli non avranno il sopravvento, la battaglia sarà lunga e dura.
Finì come altre volte. Al momento buono il mostro prese il suo sacchetto e il Novizio gridò:
«Attenzione!» e balzò lontano. Il principe e i compagni si guardarono intorno e, prima di capire che
cosa succedeva, si trovarono chiusi nel sacco.
Scimmiotto attese a scendere che i mostri sgombrassero il campo; si sedette per terra e per un
momento si abbandonò alla disperazione. Piangeva e diceva:
«Da tanto tempo vado proteggendo,
Maestro, il vostro viaggio verso il Buddha.
Quanti ostacoli! Strada tortuosa,
pensavamo, si drizza prima o poi.
E invece eccoci in mano a questo mostro.
Molti aiuti sollecito ed ottengo;
Ma nessuno, vedete, va a buon fine.»
A un tratto una nube colorata apparve sulla cima della montagna, e ne cadde una fitta pioggia.
Una voce dallo spazio gridò: «Consapevole del Vuoto, mi riconosci?» Scimmiotto si precipitò in
quella direzione, e che vide?
Una persona dalle grandi orecchie,
Massiccia, spalle larghe e grosso ventre.
La faccia è allegra, gli occhi scintillanti,
Larghe maniche al vento, calzature
Di paglia. Quel gran monaco contento
E spirante energia, dal gran sorriso
Stampato sulla bocca, al Paradiso
Della Gioia Assoluta ha il primo posto:
Si tratta addirittura del gran Mile!
Scimmiotto si prosternò immediatamente e disse: «Dove andate, Buddha sovrano che venite
dall’Est? Perdonatemi se mi trovo sul vostro cammino.»
«Vengo apposta per quel diavolo del Piccolo Colpo di Tuono.»
«Vi sono riconoscente della grazia immensa della vostra debordante virtù. Mi permettete
un’indiscrezione? Chi sarebbe in realtà questo mostro, e che cos’è quel terribile sacchetto in cui
rinchiude tutti quanti?»
«È uno dei miei inservienti, Sopraccigli Biondi; è addetto alla custodia delle pietre sonore. Il
giorno tre del terzo mese rimase solo a guardia del palazzo; io ero stato invitato a pranzo da Inizio
Originale. Ne approfittò per rubare parecchia roba e darsi alla bella vita come essere malefico,
facendosi passare per il Buddha. Il sacchetto è la mia borsa del paradiso futuro, quella che
volgarmente si chiama ‘borsa della semenza umana’. Il bastone dai denti di lupo mi serve per
percuotere le pietre sonore.»
«Ridi, ridi, Mile!» commentò acido Scimmiotto. «Intanto i tuoi giovinastri vanno in giro a
mettere la gente nei pasticci. Non si può dire che tu sappia tenere la disciplina.»
«Non hai tutti i torti. Ma tieni presente che gli ostacoli diabolici sul vostro cammino non sono
ancora finiti. Certe creature scendono sulla terra a rompervi le scatole proprio perché così sta
scritto: fa parte del gioco. Comunque sono venuto a riportarmi a casa il mio scavezzacollo.»
«Come contate di fare? Quel ragazzo è piuttosto pericoloso, e voi non siete armato.»
Mile rise: «Tu vallo a provocare a battaglia. Io intanto costruirò una capanna di paglia e pianterò
un campo di meloni. Ricorda che devi perdere e ritirarti, in modo da attirarlo fra i miei meloni. Ne è
ghiotto e vorrà assaggiarne uno; ma quando lo mangerà, ingoierà inavvertitamente te. Quando sarai
nella sua pancia, avrai mano libera. Sono sicuro che lo terrai impegnato. Io ne approfitterò per
sottrargli il sacchetto e chiudercelo dentro.»
«Vediamo se funziona. Devo guardarmi da quel maledetto sacchetto. Potrebbe non cadere in
trappola e non seguirmi. E quando mi trasformerò in un melone, voi come potrete riconoscermi?»
«Su quest’ultimo punto, sta tranquillo» disse Mile ridendo. «Figuriamoci se io, signore del
mondo, con i miei occhi di eminente saggezza, non sarò capace di riconoscerti. Io ti vedo dentro,
qualunque trasformazione ti venga in mente di fare. Ma è vero che c’è il rischio che mangi la foglia.
Sarà bene che prendiamo le nostre misure. Tendimi la mano.»
Il Novizio tese la mano sinistra e Mile, con la sua divina saliva, tracciò sul palmo la parola
Proibito. Poi gli raccomandò di chiudere il pugno e di non aprirlo che al bisogno: mostrando quel
segno, il mostro lo avrebbe seguito irresistibilmente.
Scimmiotto impugnò quindi la sua sbarra nella mano destra e la fece volteggiare, mentre si
recava allegro e baldanzoso all’ingresso del monastero e gridava a squarciagola: «Dài, mostro!
Nonno Scimmiotto è venuto a trovarti. Vieni fuori, che ti prendo le misure!»
I portinai corsero ad annunciarlo, e il diavolo chiese: «Quanta gente si porta dietro, questa
volta?»
«È solo.»
Il diavolo scoppiò a ridere: «Quel macaco non sa più a che santo votarsi. Sarà la volta buona che
ci sbarazziamo di lui.»
E uscì con la sua attrezzatura ad apostrofarlo: «Consapevole del Vuoto, questa volta non riuscirai
nemmeno a batterti.»
«E perché no?» chiese Scimmiotto.
«Perché sei rimasto senza risorse; ti metterò nel sacco e nessuno verrà ad aiutarti. Non sentiremo
più parlare di te.»
«Grazie tante. Staremo a vedere. E intanto, in guardia!»
Il diavolo vide che maneggiava la sbarra con una mano sola e lo prese in giro: «Che cosa credi di
fare, con una mano sola?»
«Ragazzo mio, usare due mani con te sarebbe uno spreco. Se non fosse per quel sacchetto che
tieni nascosto, anche se tu avessi quattro o cinque mani, a me ne basterebbe una sola per metterti a
posto.»
«Va bene, non userò il sacchetto. Questa volta facciamo sul serio, e vediamo chi è più forte.»
Quando brandì il bastone a denti di lupo e si fece avanti, Scimmiotto aprì la mano sinistra
davanti ai suoi occhi. Poi si accontentò di qualche finta, e gli volse le spalle fuggendo. Il diavolo,
sotto l’effetto della magica parola Proibito, non avvertì alcuna diffidenza e gli corse dietro.
Quando giunsero al campo di meloni, il Novizio ci si catapultò dentro e si trasformò in un grosso
melone maturo, dal dolce profumo. Il diavolo scrutava tutto intorno e non riusciva a scoprirlo.
Quando vide i meloni, si incamminò verso la capanna e chiamò: «Di chi sono questi meloni?»
Mile venne fuori, in veste di vecchio contadino, e disse sorridendo: «Sono miei, mahârâja.»
«Sono maturi?»
«Ma certo.»
«Scegline uno che mi disseti.»
Mile colse il melone-Scimmiotto e lo offrì rispettosamente al re diavolo; il quale, senza altra
indagine, aprì la bocca per dargli un morso. Quando Scimmiotto si vide davanti quella bocca
spalancata, ci scivolò dentro tutto intero e scese giù per la gola. Ed eccolo che torce le budella,
pizzica lo stomaco, danza come una libellula, cammina sulle mani: in breve, fa tutte le bizzarrie che
gli frullano per il capo. Il mostro digrigna i denti, fa smorfie di dolore, piange, si getta per terra,
rotola qua e là come un ossesso: in breve il campo di meloni fu devastato come un’aia dopo la
battitura del grano. E il mostro gemeva: «Basta! Aiuto! Pietà!»
Allora Mile riprese il proprio aspetto e gli disse: «Dunque, brutta bestia, mi riconosci?»
Il mostro si mise sulle ginocchia e si prosternò battendo la testa per terra. Poi si strofinò il ventre
gridando: «Pietà, mio signore! Lasciatemi vivere! Non lo farò più!»
Mile lo perquisì, gli tolse la borsa del paradiso futuro e il bastone delle pietre sonore e gridò:
«Consapevole del Vuoto, ti prego, per riguardo a me, lascialo vivere.»
Ma Scimmiotto aveva ancora molta rabbia da sfogare, e qui colpiva di pugno, là di pedata: ne
faceva di tutti i colori, mentre la povera creatura veniva meno.
«Via, Consapevole del Vuoto» tornò alla carica Mile, «mi pare che abbia avuto il fatto suo. Ora
basta!»
«Che apra la bocca» gridò infine Scimmiotto. «Voglio uscire.»
Al mostro restava un filo di vita addosso, ma il cuore batteva ancora; e, come si sa,
Se il cuore batte
La vita dura.
Per quanto malconcia, la creatura spalancò subito la bocca più grande che poté, e il Novizio saltò
fuori. Gli sarebbe piaciuto ripassare il suo nemico con la sbarra cerchiata d’oro, ma in men che non
si dica Mile l’aveva rinchiuso nel sacchetto. Tenendolo in mano, gridava: «E i cembali d’oro che mi
hai rubato, brutta bestia, dove sono andati a finire?»
La voce soffocata dall’interno del sacchetto balbettò: «I cembali? Li ha rotti Scimmiotto.»
«Bravo, così sono rotti! Almeno, rendimi l’oro di cui erano fatti.»
«L’ho ammucchiato sotto il trono di loto, nella sala grande.»
Mile, con il sacchetto in una mano e il bastone nell’altra, si rivolse ridendo a Scimmiotto: «Vieni,
Consapevole del Vuoto, che andiamo a raccattare l’oro.»
Quando entrarono nel monastero, trovarono i mostriciattoli - che avevano appreso della sconfitta
del loro re - intenti a fare i bagagli per andarsene. Man mano che li incontrava, Scimmiotto gli
rompeva la testa, anche a due o tre per volta. Finì per ammazzarli tutti quanti, e si vide che si
trattava di trasformazioni di creature malefiche della montagna, uccelli e bestie varie.
Mile raccolse il suo oro, recitò una formula magica e ricostruì i cembali. Compiuta la missione,
si congedò da Scimmiotto, montò su una nuvola e ritornò nel Paradiso della Gioia Assoluta.
A quel punto Scimmiotto andò a liberare il monaco cinese, Porcellino e Sabbioso. Il bestione era
così affranto dalla fame che non disse parola, non guardò in faccia nessuno e corse a schiena curva
in cucina. Quando Scimmiotto era giunto al monastero per lanciare l’ultima sfida era quasi ora di
pranzo: i cibi era quindi pronti e intatti nelle pentole e sui piatti. Il bestione vuotò in privato una
mezza marmitta, e ciò gli diede la forza di portare ciotole di riso anche a Tripitaka e a Sabbioso. Le
domande sugli avvenimenti e il loro racconto, con l’aiuto portato da Zhenwu, dal principe ereditario
e da Mile, trovarono luogo dopo il pasto. Il racconto riempì di gratitudine Tripitaka, che si raccolse
in preghiere di ringraziamento. Ma gli venne un dubbio: «Dove saranno andati a finire tutti questi
dèi, mio caro?»
«Che bestia, me n’ero dimenticato! Dovrebbero star chiusi in un forno, a quanto mi hanno detto.
Porcellino, vieni con me a liberarli.»
Localizzarono il forno e Porcellino, rinvigorito dal buon pasto, non ebbe difficoltà a spalancarlo
con un colpo di rastrello. Gli dèi furono slegati e sfilarono davanti a Tripitaka, che per l’occasione si
era messo il suo kasâya da cerimonia e li ringraziò uno per uno. Essi salutarono e se ne tornarono a
casa.
Maestro e discepoli si presero mezza giornata di riposo, durante la quale si limitarono a curare il
cavallo e riordinare i bagagli. La mattina seguente, con una torcia, diedero fuoco a edifici, pagode,
sale di preghiera e trono di loto, in modo da ridurre tutto in cenere. Poi ripresero il loro cammino.
Anche da questa prova escono illesi
E liberi di andar verso la meta.
Se poi non sapete quando riuscirono a raggiungerla, quella meta, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 67
IL SENTIERO DEI CACHI MARCI
IN CUI LA NATURA MEDITANTE SI COMPIACE DEL SALVATAGGIO DI TUOLUO, E IL CUORE DELLA VIA
SI PURIFICA SFUGGENDO ALLA CONTAMINAZIONE.
Lasciato il falso paradiso dell’Ovest, i quattro pellegrini proseguirono allegri per la loro strada.
Un mese dopo, ormai nel cuore della primavera, si ritrovarono al crepuscolo fra boschi e giardini
fioriti, mentre il cielo si incupiva e il vento sferzava la pioggia.
«Discepoli» disse Tripitaka tirando le redini, «si fa tardi e il tempo è cattivo: dove troveremo
riparo?»
«Anche se non trovassimo alloggio per la notte» rispose ridendo Scimmiotto, «non ci mancano le
risorse: alla peggio Porcellino raccoglierà erba per i giacigli e Sabbioso abbatterà qualche pino. Io
mi candido come carpentiere: vi costruirò una capanna sul ciglio della strada, abbastanza comoda
da trascorrervi un anno, se volessimo.»
«Lascia stare, fratello» replicò Porcellino. «Questo non è il posto adatto: di sicuro è infestato da
lupi e fiere, e magari ci bazzicano lamie e gnomi. C’è da guardarsi le spalle di giorno; figurati i
rischi che si corrono di notte.»
«Bestione mio» lo stuzzicò Scimmiotto, «ogni giorno che passa diventi più poltrone. Non per
vantarmi: col mio bastone in mano, cadesse il cielo, mi sentirei di rimetterlo in sesto.»
Mentre chiacchieravano, giunsero in vista di un villaggio. «Siamo a posto!» esclamò
Scimmiotto. «Ecco là il nostro alloggio.»
«Dove?» chiese il reverendo.
«Non vedete? Là, al margine di quel boschetto» fece il Novizio additando un’abitazione.
«Chiederemo riparo per la notte e ripartiremo domattina.»
Il reverendo spronò lieto il cavallo e ne smontò quando giunse al cancello del recinto, che era
saldamente sbarrato. «Aprite! Aprite!» gridò Tripitaka bussando.
Venne ad aprire un vecchio appoggiato al bastone, vestito di tela greggia, con sandali di paglia e
un turbante nero in capo: «Chi fa tutto questo chiasso?»
Tripitaka lo salutò inchinandosi e giungendo le mani sul petto: «Onorevole donatore, questo
povero monaco, vostro servitore, è stato inviato dalle terre dell’Est in cerca dei sutra nel Paradiso
dell’Ovest. Passando per il vostro stimato paese mentre scende la sera, mi permetto di formular voti
perché ci diate riparo per la notte nella vostra nobile residenza. Oso sperare che non vi recheremo
disturbo.»
«Volete andare a ovest, bonzo? Non raggiungerete mai la vostra meta. Siete nella regione del
paradiso minore dell’Ovest; quello maggiore è lontanissimo, e la strada è impraticabile. Non vi sarà
facile nemmeno uscire da questa zona.»
«Perché mai?»
«Trenta li a ovest del villaggio vi imbatterete nel Sentiero dei Cachi Marci e nel Monte delle
Sette Perfezioni.»
«Perché si chiama in quel modo?»
«Il nome è dovuto al fatto che il monte è coperto di alberi di cachi; è molto grande: per giungere
alla pianura sull’altro versante bisogna percorrere ottocento li. Come dicono gli antichi, il cachi
possiede appunto sette perfezioni: raggiunge un’età veneranda; ha la chioma ombrosa; gli uccelli
non vi fanno il nido; i parassiti non lo attaccano; le sue foglie sono molto belle sotto la brina; i suoi
frutti sono superbi; le sue fronde sono ricche e folte. La montagna è poco frequentata, perché la
regione è molto vasta e gli abitanti sono sparsi. Perciò quando i frutti sono maturi nessuno li coglie;
essi cadono sul sentiero incassato tra le rocce e vi restano a marcire. Sono una tale quantità che
formano un enorme strato di fanghiglia e mandano un lezzo pestilenziale: in confronto, la puzza dei
cessi sembra gradevole. Se per il momento non lo sentite, e solo perché fortunatamente sta
soffiando vento di sud est.»
Tripitaka se ne stava mogio e spaventato. Scimmiotto non si trattenne: «Vecchio rimbambito!
Noi veniamo a chiederti ospitalità, e tu cerchi di farci paura. Se la tua baracca è troppo piccola per
ospitarci, dillo, e ce ne andremo a dormire sotto un albero. Che bisogno hai di raccontarci frottole?»
Il vecchio guardò quella brutta faccia e per un momento restò interdetto; poi prese coraggio, gli
puntò contro il bastone e grugnì: «Guardate quella faccia scarnita con il naso schiacciato, piena di
peli fino agli occhi; quel brutto fantasma impestato. Osa mancarmi di rispetto, si permette di
sbraitarmi contro. Se la prende con me: un vecchio!»
«Caro vecchio signore» riprese Scimmiotto con un sorriso a denti stretti, «voi non avete le
pupille in mezzo agli occhi: mi date del fantasma impestato, e non vi rendete conto di chi sono io. I
fisionomisti dicono: viso bizzarro è roccia che racchiude giada. Se uno giudica la gente
dall’aspetto, può prendere delle grosse cantonate. Lo so che sono brutto, ma ho altre qualità.»
«Tu chi sei? Di che qualità ti vanti, se è lecito saperlo?»
Scimmiotto si mise a ridere: «Io?
Vengo dall’Est; sul Monte Fiori e Frutti
Nacqui. Da buon maestro appresi l’arti
Marziali, a me ben note in ogni aspetto.
So rivoltare il mare, batter draghi,
Scacciare il sole e sollevar montagne.
Son specialista nella caccia ai diavoli.
Se occorre, sposto le costellazioni.
In cielo e in terra è temuta la scimmia
Che si sa trasformare in mille modi.»
Il malumore del vecchio lasciò subito posto alla gioia. Divenne persino gentile, e s’inchinò
dicendo: «Signori, vi prego, entrate nella mia umile capanna e mettetevi a vostro agio.»
I quattro pellegrini fecero il loro ingresso con cavallo e bagagli. Rovi spinosi circondavano la
corte e coprivano il muro in cui si apriva l’ingresso della cinta interna; superato il quale videro la
casa, dal tetto di tegole a tre campate. Il vecchio li introdusse, spinse delle seggiole verso di loro e
ordinò di servire il tè e di preparare il pranzo. Poco dopo si misero a tavola, dove furono serviti
molti piatti: glutine di grano, formaggio di soia, patate dolci, radici bianche, senape, rape, riso
profumato e zuppa piccante alla malva. Di che nutrire a sazietà maestro e discepoli.
Alla fine, Porcellino prese in disparte Scimmiotto e gli bisbigliò: «Perché credi che il vecchio ci
abbia offerto questo festino, mentre all’inizio aveva l’aria di non volerci nemmeno ospitare?»
«Non mi pare che abbia fatto niente di speciale» rispose il Novizio. «Domani gli chiederò io di
procurarci dieci specie di frutta e dieci di verdure.»
«Sei un bello sfacciato! Devo ammettere che il tuo atteggiamento da sbruffone ci ha procurato
una scorpacciata. Ma domani ce ne andremo: che cosa ci guadagnerai a essere di nuovo
maltrattato?»
«Sta tranquillo, ci so fare più di quello che sembra.»
Poiché ormai faceva buio, il vecchio fece portare le lampade.
«Potrei conoscere il vostro onorevole nome?» chiese inchinandosi il Novizio.
«Mi chiamo Li.»
«Questo sarà dunque il villaggio dei Li.»
«No, è il villaggio di Tuoluo, in cui vivono più di cinquecento famiglie. I patronimici sono tanti;
io solo mi chiamo Li.»
«Caro donatore Li, quale buona idea vi ha spinto a offrirci questo pranzo sontuoso?»
Il vecchio si alzò per dichiarare: «Avete detto di essere esperti nella caccia alle creature
malefiche. Qui ce n’è una: se voleste darvi la pena di sbarazzarcene, sapremmo dimostrarvi la
nostra gratitudine.»
«Mille grazie dell’incarico» rispose Scimmiotto con una riverenza.
«Guardatelo un po’!» esclamò Porcellino. «È sempre in cerca di guai. Basta che qualcuno gli
parli di mostri, e subito lo festeggia come un parente.»
«Saggio fratello, la mia riverenza significa consenso. L’affare è concluso, non occorre che il
vecchio cerchi altri fornitori.»
«Questa scimmia pensa solo a sé stessa» intervenne Tripitaka. «E se il mostro avesse poteri più
grandi dei tuoi e tu non lo potessi catturare, non avresti forse mentito? E noi monaci non abbiamo
fatto voto di non mentire mai?»
«Maestro» rispose ridendo Scimmiotto, «prima di rimproverarmi, aspettate di saperne di più.»
«Che cosa vi occorre sapere?» chiese il vecchio.
«Il vostro nobile territorio è una grande regione pianeggiante e popolosa, non un angolo sperduto
fra le montagne. Che specie di mostro si è azzardato a stabilirsi qui?»
«Dovete sapere» raccontò il vecchio, «che nel passato in effetti questo era il posto più quieto del
mondo. Ma tre anni fa, nella terza luna, si alzò all’improvviso un gran colpo di vento. Noi eravamo
occupati ciascuno negli affari suoi: chi trebbiava il grano, chi trapiantava il riso. Pensammo che
fosse il maltempo. Invece era un mostro che ci rubò vacche e cavalli al pascolo, rapì montoni e
maiali, ingoiò in un boccone oche e polli; e mangiò vive tutte le persone che incontrava sul suo
cammino. Da quella volta il mostro è ritornato spesso a far preda. Reverendo, se ne siete capace,
sbarazzateci di questa sciagura. Potrete contare sulla nostra gratitudine e sul nostro profondo
rispetto.»
«Non sarà tanto facile» obiettò Scimmiotto.
«Difficilissimo!» fece coro Porcellino. «Non se ne fa nulla. Non è roba per noi, poveri monaci
vaganti, che chiediamo solo un riparo per la notte e domattina ce ne andremo.»
«Siete i soliti monaci scrocconi» brontolò il vecchio. «Un momento fa spostavano le stelle e
cacciavano i diavoli. Poi, visto che c’è bisogno di loro, non sanno più far niente.»
«Vecchio mio» disse Scimmiotto, «bisognerebbe che la gente del posto fosse solidale.»
«Che cosa vi fa pensare che non lo sia?»
«Sopportate il danno da tre anni in qua: chissà quante perdite avete subito. Eppure, in
cinquecento famiglie, non siete stati capaci di mettere insieme cinquecento tael per far venire un
buon esorcista.»
«Magari fosse questione di soldi! Volete proprio farci morire di vergogna. Ogni famiglia ha
speso i suoi quattro o cinque tael. Due anni fa avevamo trovato un monaco che doveva catturare il
mostro, ma non ci riuscì.»
«Raccontatemi il suo modo di procedere.»
«Era un monaco del sangha e portava il kasâya. Prima recitò il sutra del Pavone e quello della
Buona Legge. Bruciò incenso e agitò la campana. Il mostro si irritò, apparve nel villaggio, fra vento
e nuvole, e venne a combattere il monaco. Quel bonzo sapeva solo chiacchierare. Quando il mostro
se ne andò, lo lasciò a terra con la pelata spaccata nel mezzo, come un melone maturo.»
«Ebbe il fatto suo» sghignazzò Scimmiotto.
«Lui ci perse la vita, che valeva poco; ma lasciò grossi debiti a noi. Dovemmo comprare la bara
e pagare i funerali. Poi il suo discepolo volle essere risarcito: gli abbiamo dato un mucchio di soldi,
ma ancor oggi non è contento e minaccia di farci causa.»
«Fu l’unico tentativo?»
«L’anno scorso ci riprovammo con un prete taoista.»
«Come andò?»
«Con il daoshi? Arrivò con una tiara d’oro in testa, il vestito con il collare, acqua magica alla
mano; batteva le sue tavolette per costringere gli dèi a catturare il mostro. Si alzò un uragano e
venne avanti una forma di nebbia spessa e scura, che si gettò addosso al prete. Combatterono tutto il
giorno; noi ci eravamo rintanati per lo spavento. Infine il cielo si schiarì e noi uscimmo a vedere.
Trovammo il prete annegato nel torrente; quando lo tirammo su, non era altro che il cadavere di una
gallina, tutto zuppo d’acqua.»
Il Novizio si divertiva un mondo: «Un altro che ebbe il fatto suo.»
«Anche questa volta ci furono un sacco di spese e di danni da risarcire.»
«Non importa, non vi date pensiero. Questa sarà la volta buona.»
«Se davvero siete capaci di liberarci, inviterò gli anziani del villaggio a firmare un contratto con
voi: se riuscite, avrete come ricompensa la somma che chiederete, non un soldo di meno. Se non
riuscite, saremo indenni da qualunque responsabilità: carta canta.»
«Siete rimasti scottati due volte» esclamò ridendo Scimmiotto. «Ma state tranquillo: noi non
siamo persone di quel tipo. Andate pure a chiamare gli anziani, se volete.»
Il vecchio, tutto contento, mandò subito un garzone a invitare il vicino di destra e quello di
sinistra, il cugino, il cognato, alcuni parenti e amici. Vennero otto o nove persone. Fatte le
presentazioni, si parlò della cattura del mostro.
«Quale degli eminenti discepoli se ne incaricherà?» chiesero.
«Ci penserà l’umile bonzo che vedete» rispose Scimmiotto incrociando le mani.
«Non è possibile!» gridarono quelli. «Si tratta di una creatura gigantesca, fornita di grandi poteri;
mentre questo reverendo è così piccolo e sparuto, che tutto intero non basterebbe a otturargli un
dente.»
«Non avete occhio, cari signori» replicò Scimmiotto con aria canzonatrice. «Sono piccolo, ma
piuttosto robusto. Sono di quelli che hanno bevuto l’acqua della macina, e così hanno imparato a
macinare.»
Gli anziani si inchinarono: «Qual’è il vostro prezzo, reverendo?»
«Non parliamo di ricompense. Dice l’adagio: parli d’oro, e ti stordisci; dell’argento, e ti
abbrutisci; di sapeche, e imputridisci. Siamo monaci cui importa accumulare solo meriti; i soldi
non ci interessano.»
«A quanto pare, siete proprio monaci eminenti che osservano i comandamenti. Ma non possiamo
chiedervi di aiutarci senza corrispettivo. Noi viviamo delle risorse della terra. Poiché non volete
denaro, se ci sbarazzate di quella bestia impura e liberate il paese, ogni famiglia vi darà due mu di
buona terra. Ne metterete insieme mille mu e potrete costruirci un monastero, installarvi maestro e
discepoli, e praticare la meditazione invece di andar vagabondi.»
«Peggio che mai» disse Scimmiotto scoppiando a ridere. «Non parliamo di terra! Vorrebbe dire
allevare cavalli, lavorare la campagna, mietere grano e fieno, coricarsi a notte avanzata e alzarsi
all’alba. Ci sarebbe da crepare di noia.»
«E allora che cosa possiamo darvi?»
«Per noi che abbiamo abbandonato le nostre famiglie, basterà una tazza di tè e un pasto di
magro.»
«Niente di più facile. E come contate di fare?»
«Quando quella bestia si farà vedere, l’acchiapperò.»
«Ma è una creatura gigantesca! È alta dalla terra al cielo, arriva con l’uragano e riparte nella
nebbia. Come vi avvicinerete a lei?»
«Non stiamo a discutere» rispose Scimmiotto ridendo. «Io cavalco vento e nuvole; per quanto
grande sia, so il modo di metterla sotto.»
Mentre conversavano, sibilò il vento. Gli anziani tremarono come foglie e balbettarono: «Questo
bonzo ha sulla bocca il sale della maledizione. Parla del mostro, e subito compare.»
Il vecchio Li aprì una porticina segreta e gridò ai parenti e a Tripitaka: «Presto, entrate nel
rifugio, arriva il mostro!»
Nel panico generale, Porcellino e Sabbioso si avviavano con gli altri. Ma Scimmiotto li afferrò
per il collo: «Siete matti? Vi dimenticate che i monaci non devono entrare nelle stanze interne delle
case? Voi mi fate compagnia: si va nella corte a vedere di che cosa si tratta.»
«Fratello» protestò Porcellino, «a pagare il conto per scoprire di che cosa si tratta ha già
provveduto questa gente. Se si alza il vento, arriva il mostro; non c’è altro da sapere. Se loro vanno
a nascondersi, perché noi, che siamo degli estranei, ci dovremmo esporre?»
Ma Scimmiotto non lo ascoltava nemmeno; senza mollare la presa, se li portò tutti e due nella
corte. Che vento soffiava!
Abbatte piante, riempie di terrore
Persino i lupi. Mette sottosopra
Mari e fiumi, sconvolge fin le rocce
Del Monte Hua, scuotendo l’universo.
I paesani si barricano in casa,
I ragazzi si coprono la testa.
Tutto il mondo è piombato nelle tenebre,
Cupe nubi ricoprono le stelle.
Porcellino si lasciò cadere tremante e infilò il grugno nel terriccio. Sabbioso non osava aprire gli
occhi. Scimmiotto annusava l’aria, alla ricerca di elementi di giudizio. In breve l’uragano cessò e si
videro nello spazio due deboli luci.
«Ragazzi, il vento ha smesso» disse Scimmiotto. «Tiratevi su e guardate.»
Il bestione sollevò il grugno, ne scosse la terra e guardò in alto. Quando vide quelle luci, disse
ridacchiando: «Sembra un tipo beneducato, questo mostro; dovremmo farcelo amico.»
«Come fai a dirlo, se non si vede niente in questo buio pesto?» chiese Sabbioso.
«Ricordati il detto degli antichi: di notte cammina a lume di candela; senza candele, vattene a
letto(). Il mostro lo sa, e cammina a lume di candela.»
«Non si tratta di candele; quelli sono occhi che brillano.»
«Santo cielo!» esclamò il bestione rattrappito dalla paura, tanto che la sua statura scese di tre
pollici. «Se ha occhi di quelle dimensioni, chissà com’è grande la bocca.»
«Non siate fifoni, saggi fratelli» disse Scimmiotto. «Vado su a vedere chi è, e qual’è il suo
umore.»
«Fratello» balbettò Porcellino, «non dirgli che noi siamo qui.»
Il bravo Scimmiotto balzò per aria con un sibilo, impugnando la sbarra di ferro, e gridò a
squarciagola: «Arrivo! Eccomi qua.»
Quando lo scorse, la creatura si mise a danzare agitando una lunga lancia. Il Novizio chiese:
«Chi sei? Dove abiti?» Ma quello bilanciava la sua lancia e non faceva motto. Le domande furono
ripetute, sempre senza risposta.
«Sembra sordomuto» si disse Scimmiotto ridendo fra sé. «Proviamo a tastarlo un po’.»
Il mostro parava i colpi con la lancia e non mostrava la minima paura. Lo scontro continuò fino a
mezzanotte senza vincitore né vinto. Porcellino e Sabbioso lo seguivano dalla corte dei Li: la
creatura non mostrava alcuna velleità aggressiva; si limitava a parare la sbarra di Scimmiotto, che
era costantemente a un pelo dalla sua testa.
«Sabbioso» disse Porcellino, «tu resta qui a far la guardia. Non sembra un mostro molto
pericoloso. Io salgo un momento a dare una mano, altrimenti quella scimmia, come al solito, si
prenderà tutto il merito.»
Il bestione balzò sulle nuvole e cercò di colpire con il suo rastrello, ma il mostro gli oppose una
seconda lancia. Quelle punte di lancia brillavano qua e là come lampi. Porcellino era ammirato:
«Che tipo in gamba! Non è lo stile dietro la montagna, e neppure la treccia di seta. Non mi pare
nemmeno lo stile dei Ma. Si potrebbe chiamare l’asta invisibile.»
«Che cosa blateri, bestia? Non l’ho mai sentita, l’asta invisibile.»
«Vedi anche tu che si serve soltanto delle punte delle lance. Le aste dove le ha nascoste?»
«Magari sarà l’asta invisibile» concesse Scimmiotto. «Questa creatura non sa dire una parola.
Penso che non sappia ancora prendere forma umana e sia dominata dagli umori infernali. Ho paura
che, quando si leverà il sole e prevarrà l’influsso dello yang, correrà a nascondersi. Non dobbiamo
farcela scappare.»
«Hai ragione» approvò Porcellino.
Ripresero ad attaccare e continuarono per un pezzo, finché il cielo si rischiarò: a quel punto la
creatura volse le spalle e fuggì. Scimmiotto e Porcellino si gettarono all’inseguimento, ma ben
presto uno spaventoso fetore di corruzione li trattenne: era il Sentiero dei Cachi Marci.
«Chi è venuto qui a svuotare le sue latrine?» brontolò Porcellino. «C’è un puzzo insopportabile!»
«Bada al mostro! Sbrigati!» gridò Scimmiotto turandosi il naso.
La creatura stava scivolando sull’altro versante della montagna e riprendeva la sua vera forma: si
trattava di un gigantesco pitone a scaglie rosse. Guardate:
Brillan negli occhi le stelle dell’alba,
Dalla bocca la bruma del mattino
Esce a gran fiotti, tra le file aguzze
Dei suoi denti d’acciaio. Grandi artigli
Incurvati e taglienti. Sopra il capo
Reca uno strano corno, come fosse
D’agata risplendente. Il lungo corpo
È maculato dalle scaglie rosse.
Quando lo vedi acciambellato al suolo
Ti sembra una coperta di broccato;
Quando vola nel cielo, arcobaleno.
Si riposa in quel lezzo insopportabile,
E rosse nubi intorno lo circondano.
Quanto è grosso? È un gigante, da nascondere
Il tuo compagno che è dall’altra parte.
Quanto è lungo? Il suo corpo, se disteso,
Da nord a sud traversa tutto il monte.
«Dunque si trattava di un serpentone» esclamò Porcellino. «Certo, per saziare quel corpaccio,
non basterebbero cinquecento persone a pasto.»
«Ecco spiegata l’asta invisibile: parava i colpi con la lingua bifida.» aggiunse Scimmiotto. «La
corsa lo ha spossato; approfittiamone per attaccarlo alle spalle.»
Porcellino si fece avanti e menò un fendente con il suo rastrello. La creatura si precipitò in un
buco del terreno, infilandosi a testa in giù. Porcellino lasciò cadere il rastrello, afferrò la lunga coda
prima che scomparisse e tirò con tutte le sue forze: «L’ho preso, l’ho preso!». Ma, per quanto
tirasse, non lo smuoveva di un dito.
«Dài, bestione, lascialo andare!» rise Scimmiotto. «Ci penso io. Non si dà la caccia ai serpenti
tirandoli per la coda.»
Porcellino lasciò la presa, e la coda scomparve nel buco.
«Lo tenevo in mano, tutto sommato ne avevo già catturato un bel pezzo» si lagnò Porcellino.
«Adesso chi lo fa uscire da lì? Il gioco col serpente è finito.»
«La bestia è grossa e il buco è stretto. Non si può rigirare, lì dentro: può solo andare avanti. Di
sicuro ci sarà un’uscita: tu devi trovarla e bloccarla. Io intanto andrò all’assalto dell’ingresso
principale.»
Il bestione corse sull’altro versante della montagna, scoprì un buco e lo turò con il piede; mentre
Scimmiotto, nel punto in cui il serpente era scomparso, scavava alacremente. Il serpente sbucò dalla
tana con tanto slancio che colse Porcellino di sorpresa; e con un colpo di coda lo stese a terra
dolorante. Scimmiotto, che non trovava nulla, corse dall’altra parte e gridò a Porcellino di mettersi
all’inseguimento. Il bestione, vergognoso, si tirò su e si mise a battere colpi di rastrello tutto intorno
sull’erba.
«Cosa fai?» gridò il Novizio ridendo come un matto. «Che ti prende? Il serpente se n’è andato.»
«Seguo il detto: battere l’erba per scacciare il serpente.»
«Sei un bel cretino. Sbrigati, lo dobbiamo inseguire.»
Attraversarono di gran corsa un crepaccio, e di colpo se lo trovarono di fronte, acciambellato ma
con la testa eretta e la gola spalancata per ingoiarli. Porcellino, spaventato, si fermò; Scimmiotto
continuò la corsa e finì dritto dentro la bocca spalancata. Il serpente lo inghiottì in un boccone,
mentre Porcellino si disperava e si batteva il petto: «Ahimè, fratello, ti ha preso!»
Dal ventre della creatura, la voce soffocata di Scimmiotto gridò: «Non preoccuparti! Il gioco col
serpente non è finito: ora gli faccio fare il ponte.» In effetti il mostro curvò la schiena e assunse la
forma dell’arcobaleno.
«L’aspetto del ponte ce l’ha» concesse Porcellino. «Ma vorrei sapere chi si arrischierebbe a
salirci sopra.»
«Adesso farà la barca. Guarda!» E mise di traverso la sua sbarra di ferro, spingendogli il ventre
verso terra; con la testa drizzata, il povero mostro ricordava una chiatta fluviale.
«Sembra una barca, ma gli manca la vela» scherzò Porcellino.
«Fatti in là: glieli do io i mezzi di utilizzare il vento in poppa!» E gli puntò la sbarra di ferro nella
schiena, allungandola di parecchie tese: sembrava l’albero maestro.
La povera bestia, straziata dal dolore, si mise a correre più del vento giù dalla montagna. Dopo
una ventina di li, si afflosciò nella polvere: aveva esalato l’ultimo respiro. Porcellino, che le era
corso dietro, ne approfittò per batterla ben bene con il rastrello.
Scimmiotto si aprì un passaggio nel fianco del mostro e sbucò all’aperto: «Non vedi che è
morto? Perché lo picchi?»
«Fratello, non sapevi che battere i serpenti morti è una mia specialità?»
Riposero le armi, afferrarono il serpente per la coda e ripresero la via di casa.
Al villaggio di Tuoluo, il vecchio Li diceva a Tripitaka: «La notte è trascorsa e i vostri discepoli
non si vedono. Di certo sono morti.»
«Spero che la situazione non sia tanto grave. Andiamo a vedere.»
In quel momento giunsero Scimmiotto e Porcellino, che si trascinavano dietro l’immenso pitone,
gridando di fare largo. Tutti fecero festa; giovani e vecchi, uomini e donne, tutto il villaggio si
venne a prosternare: «Signori, è proprio il mostro che ci perseguitava. Con la potenza della legge ci
avete liberato dalla perversa creatura. Ora potremo vivere in pace.»
Tutti manifestavano la loro gratitudine, invitavano i pellegrini nelle loro case e offrivano
ricompense.
Maestro e discepoli furono trattenuti per sei o sette giorni, e riuscirono a ripartire solo insistendo
con molta fermezza. Poiché non volevano denaro, tutti offrivano provviste e frutta, caricate su
cavalli e muli. Dopo il banchetto di addio, li accompagnarono in corteo con bandierine e
decorazioni; era un corteo di sette od ottocento persone.
Le manifestazioni di esultanza continuarono per un pezzo, finché si avvicinarono troppo al
Sentiero dei Cachi Marci, perché si riuscisse a pensare ad altro che al fetore e alla sporcizia sparsa
sul cammino. Tripitaka esclamò: «Consapevole del Vuoto, come faremo ad andare avanti in queste
orribili condizioni?»
«Non sembra facile neanche a me» confessò Scimmiotto turandosi il naso.
Tripitaka si mise a piangere, ma il vecchio Li con i suoi compaesani cercò di confortarlo: «Non
temete, reverendo; vi abbiamo accompagnato fin qui proprio per aiutarvi. Per ringraziarvi di averci
liberati dal flagello che ci opprimeva, vi apriremo una nuova strada.»
«Non mi sembra un’idea molto pratica, povero vecchietto» commentò ridendo il Novizio. «Avete
detto che la montagna si estende per ottocento li: come pensate di aprire una strada così lunga? Non
vi crederete l’impresa stradale di Yu il Grande! Questo è pane per i nostri denti, voi non ci
riuscireste mai.»
«Perché dici questo, Consapevole del Vuoto?» domandò Tripitaka scendendo dal cavallo.
«Aprire un’altra strada sarebbe più difficile che percorrere quella che c’è: non abbiamo
alternative sensate. Il problema che mi pongo sono le risorse alimentari.»
«Ma che cosa dite, reverendo?» si indignò il vecchio Li. «Come potete preoccuparvi di risorse
alimentari, quando ci siamo qui noi a pensarci?»
«Se è così, ci dovreste preparare due moggi di riso, insieme a pane e gallette cotte al vapore in
quantità. Il nostro bonzo dalle larghe orecchie si trasformerà in un maiale gigante e, quando avrà
riempito il suo stomaco, ci spazzerà la via con il suo grugno. Noi gli daremo una mano e il maestro
ci seguirà a cavallo: vedrete che procederemo spediti.»
«Fratello» protestò Porcellino, «perché tutti gli altri se ne lavano le mani, e mi ci devo imbrattare
io?»
«Consapevole delle Proprie Capacità» esortò Tripitaka, «devi pensare quanti meriti andranno sul
tuo conto, se sarai capace di farci passare di qui.»
«Caro maestro e cari donatori» dichiarò sorridendo Porcellino, «scherzi a parte: con le
trasformazioni che so fare io, sarei costretto a tirarmi indietro solo se occorresse diventare piccolo,
o leggero, o volare. Ma qui serve ingrossare, ed è la mia specialità: posso fare il bufalo, l’elefante, o
addirittura la collina. Ma la mia pancia cresce in proporzione, e se non la riempio subito mi
ammazza di languore.»
«Ci pensiamo noi!» gridarono i paesani. «Ci siamo portati dietro le provviste per offrirvele al
momento di separarci. È tutto pronto, e se non basterà ne prepareremo ancora.»
Porcellino si levò la tonaca, appoggiò il rastrello e annunciò solennemente: «Al lavoro! Vedrete
come so cavarmela, alle prese con le schifezze.»
In effetti il bestione fece un passo magico, si diede una scossa e si trasformò in un gigantesco
maiale. Eccolo qua:
Quant’è lungo il brutto grugno,
Quant’è grasso quel corpaccio
Ciccioluto in ogni dove!
La cotenna come ferro,
Quelle setole son spade,
Gli zamponi son colonne.
Impressiona la potenza
Dei grugniti, intercalati
Da gentil piagnucolio.
Dopo secoli che gli uomini
Allevar sanno i maiali,
Mai si vide un porcellone
Di una tale dimensione.
Scimmiotto fece subito disporre il cibo e il bestione, senza badare che cosa fosse crudo e che
cosa cotto, inghiottì tutto quanto. Appena ebbe finito, incominciò a spazzare la strada con il grugno,
mentre il maestro saliva a cavallo e Scimmiotto e Sabbioso si levavano le scarpe. Prima di
muoversi, raccomandarono: «Dovreste spedirci lungo la strada altro riso, perché il nostro
condiscepolo abbia la forza di continuare.»
I paesani che erano venuti a cavallo o sul mulo (circa la metà) ritornarono di corsa al villaggio a
preparare riso. Gli altri, venuti a piedi, restarono a guardare i pellegrini che si incamminavano.
Il villaggio distava dalla montagna una trentina di li. Quando il riso fu pronto, i paesani con le
loro cavalcature dovettero inseguire a lungo i pellegrini, che camminavano svelti. Riuscirono a
raggiungerli solo sul far del giorno: «Ehi, cercatori di scritture! Rallentate il passo, per piacere. Vi
portiamo il riso.»
In effetti Porcellino era in preda agli spasimi della fame. Si trovò davanti sette od otto moggi di
cereali vari, e li ingoiò tutti quanti senza guardare che cosa fossero. A pancia piena, ricominciò a
spazzare di buona lena.
I pellegrini ringraziarono e continuarono il cammino.
Scimmiotto abbatte diavoli,
Rimuove Porcellino
Spazzatura di secoli.
I sei coinvolgimenti
Oggi vengono rotti:
Gloria al trono di loto!
Se poi non sapete niente delle tappe successive e delle creature malefiche che le frequentavano,
ascoltate il seguito.
CAPITOLO 68
A PASSEGGIO PER ACQUISTI
NEL PAESE DI VIOLA PORPORA IL MONACO CINESE PARLA DEI TEMPI ANDATI, E SCIMMIOTTO
DIMOSTRA UN’ABILITÀ ECCEZIONALE COME MEDICO.
Raggiunto il bene, cessata ogni causa,
Giunge la fama ai quattro continenti.
Da luce di sapienza son condotti
Alla riva del cielo, dove nascono
Le nubi. Ivi seduti eternamente
Sopra i troni di diaspro, tutti i buddha
Li attendono. Spezzate il sogno umano
Della farfalla!() Cessate! Alla fine
Purificati d’ogni impurità,
Liberi da ogni angoscia ed inquietudine.
Si è narrato come Tripitaka e i suoi, spazzato l’immondo sentiero, poterono proseguire il loro
lungo viaggio. Nell’avvicendarsi dei giorni, ritornò la stagione calda.
Mele granate si spaccano al sole,
Foglie di loto come grandi tazze
Verdazzurre, gli uccelli si nascondono
Tra le fronde dei salici. Il viandante
Cerca respiro agitando il ventaglio.
Giunsero in vista di una città circondata da mura e Tripitaka, tirando le redini, disse: «Discepoli,
che città sarà quella?»
«Mi meraviglio, maestro» lo stuzzicò Scimmiotto. «La corte vi affida missioni ufficiali; ma voi,
a quanto pare, non sapete nemmeno leggere.»
«Io faccio il monaco fin dalla prima infanzia e ho studiato a fondo classici e sutra; come ti
permetti di insinuare che non saprei leggere?»
«Eppure il nome della città è scritto in tre grandi caratteri sulla bandiera che si vede sventolare
sulle mura. Se sapete leggere, perché non leggete?»
«Scimmia maligna!» si adirò Tripitaka. «Soffia il vento; chissà quanto sventola quella bandiera,
ammesso che ci sia scritto qualcosa.»
«Sono tutte scuse; io leggo benissimo.»
«Maestro» intervennero Porcellino e Sabbioso, «non badate alle diavolerie del nostro
condiscepolo. A questa distanza, si distinguono appena le mura e i fossati: niente di più piccolo.»
«Invece si leggono tre caratteri: Regno di Viola Porpora.»
«Dev’essere uno dei regni dell’Ovest in cui dobbiamo presentare il nostro passaporto» concluse
Tripitaka.
«Si capisce» approvò Scimmiotto.
Giunti alla porta della città, Tripitaka smontò da cavallo e attraversarono il ponte. Quando ebbero
superato la terza cinta, si resero conto di trovarsi in un’imponente capitale.
Alte torri e porte superbe, merli ben spaziati, il fossato ricco di acqua corrente, in un paesaggio di grandi montagne
verso nord e verso sud.
Viali e mercati mostrano abbondanza di derrate e gran commercio. Le imbarcazioni fluviali portano giada e tesori da
paesi lontani.
Gli edifici sono più ameni di una catena di colline, con palazzi alti fino al cielo.
La tripla cinta, sorvegliata severamente, garantisce pace e prosperità.
I passanti per le strade erano ben vestiti, dignitosi nel portamento, chiari nell’eloquio: un mondo
per nulla inferiore alla Cina dei grandi Tang.
Lo strano aspetto dei tre discepoli (la bruttezza di Porcellino, la faccia tetra di Sabbioso, quella
pelosa di Scimmiotto) distolse la gente dalle sue attività commerciali e indusse molti ad accalcarsi
per guardarli.
«Non provocate incidenti!» gridava Tripitaka ai suoi. «Camminate a occhi bassi!»
Porcellino abbassava quel suo grugno a forma di ovario di loto, ficcandoselo in petto; Sabbioso
non osava alzar gli occhi. Scimmiotto, invece, camminava guardandosi intorno curioso.
Chi si sapeva comportare dava un’occhiata e si allontanava. Ma non mancavano i balordi (per
non parlare di una banda di monelli) che giravano specialmente intorno a Porcellino, lo burlavano
rumorosamente e spinsero le manifestazioni di allegria fino a tirargli tegole e mattoni. Tripitaka
sudava freddo e sibilava: «Niente incidenti, per carità!» Il bestione non osava alzare il naso.
Girato l’angolo della strada, giunsero davanti a un edificio con la scritta:
PUBBLICA CASA DI RITROVO
«Entriamo là dentro» propose Tripitaka.
«Che ci andiamo a fare?» domandò Scimmiotto.
«Nella casa di ritrovo può entrare chiunque; non disturberemo nessuno e prenderemo un po’ di
riposo prima di recarci a corte. Appena presentato il passaporto, ce ne ripartiremo.»
Porcellino alzò finalmente il naso, seminando il panico fra i suoi ammiratori; una diecina di loro
cadde a terra. «Avete ragione, maestro: andiamo a chiuderci là dentro e mettiamoci al riparo da
questo sciame di moscerini.»
Entrarono dunque nella casa. I curiosi pian piano si dispersero.
Il direttore dell’albergo e il suo vice, che registravano le generalità dei visitatori e in quel
momento stavano accogliendo alcuni funzionari, si stupirono del loro aspetto e chiesero: «Che
specie di gente siete?»
«Questo povero monaco al vostro servizio» rispose Tripitaka giungendo le mani, «è stato
mandato in cerca di scritture nel Paradiso dell’Ovest dall’imperatore dei grandi Tang dell’Est. Non
osiamo passare in incognito dal vostro nobile paese senza far vistare il passaporto. Speriamo che ci
concediate momentaneamente riparo nel vostro rispettabile yamen.»
I due si rassettarono gli abiti, li ricevettero formalmente, fecero preparare le stanze per loro e
diedero ordini in cucina perché fosse servito un pasto vegetariano. Mentre si recavano nelle stanze
per gli ospiti, Scimmiotto commentò: «Che villanzoni! Avrebbero potuto riservarci la sala grande.»
«Non siamo in Cina» osservò Tripitaka, «e del resto quelle persone stavano ricevendo dei
funzionari di passaggio. Non ci dobbiamo stupire che non abbiano potuto assegnarci la sala
grande.»
«Si vede che io tengo alla forma più di voi» concluse Scimmiotto.
Un cameriere portò loro il cibo: una ciotola di riso, una di farina di grano, due manciate di
verdura, quattro pezzetti di formaggio di soia, due focacce di glutine, un piatto di germogli essiccati
di bambù e uno di orecchiette. Disse: «Potete cuocere il cibo nel forno che troverete nella stanza
ovest; è pronto e pulito, basta accendere il fuoco.»
«Scusate» domandò Tripitaka, «sapete se a quest’ora il re riceve in udienza?»
«Il re nostro signore sta appunto tenendo udienza, perché oggi è un giorno particolarmente
fausto. Non lo faceva da parecchio tempo e, se doveste perdere l’occasione per presentare il vostro
passaporto, chissà quanto dovreste aspettarne un’altra. Vi conviene affrettarvi.»
«Consapevole del Vuoto» gridò subito Tripitaka, «pensa tu a cuocere il cibo. Io vado a corte a
presentare i documenti. Quando ritornerò pranzeremo, e poi ripartiremo.»
Porcellino gli porse le carte e il kasâya, che Tripitaka indossò per presentarsi con decoro; quindi
uscì raccomandando che non andassero attorno a provocare scandali.
Quando giunse alla Torre delle Cinque Fenici - in vista di edifici, torri e terrazze di cui non si
finirebbe mai di lodare il magnifico aspetto - si fece annunciare dall’ufficiale di servizio, che si recò
ai piedi dei gradini di giada e disse: «C’è qui un monaco inviato in missione dai grandi Tang
dell’Est per rendere omaggio al Buddha nel Monastero del Colpo di Tuono e chiedergli le scritture.
Vorrebbe far vidimare il suo passaporto e attende la vostra convocazione.»
Il re si rallegrò e disse: «Che caso fortunato! Una lunga malattia ci impedisce da tempo di
svolgere le nostre funzioni. Stavamo appunto per bandire un appello ai medici, quando giunge nel
nostro paese questo monaco eminente, che certo s’intenderà anche di medicina.»
Tripitaka fu ricevuto con ogni cortesia. Dopo che si fu prosternato, il re lo fece salire nella Sala
d’Oro, gli concesse di mettersi seduto e ordinò alla corte dei banchetti di preparare per lui un pranzo
di magro. Tripitaka ringraziò cerimoniosamente e presentò le sue carte, che il sovrano lesse con
molto interesse. Quindi chiese: «Maestro della legge, quanti sovrani si sono succeduti sul trono dei
grandi Tang? E quanti saggi ministri li hanno assistiti? E perché l’imperatore, una volta ricuperata la
salute, vi ha spedito tanto lontano a cercare le scritture?»
Il reverendo s’inchinò, giunse le mani e rispose: «Laggiù, nel paese del povero monaco vostro
servitore,
Tre augusti ressero il mondo; cinque imperatori classificarono le relazioni fondamentali fra gli uomini.
Yao e Shun salirono legittimamente al trono, Yu e Tang pacificarono il popolo.
Ma Cheng e Zhou ebbero molti discendenti che divisero il territorio in molti regni indipendenti: i forti conculcavano i
deboli.
Questi regni furono diciotto, separati da frontiere.
Quando si ridussero a dodici, ci fu un periodo di pace.
Ma presto ripresero ad armarsi e divorarsi fra loro.
Sette stati entrarono in competizione per l’egemonia. Alla fine si arresero a Qin.
Il cielo fece nascere il suo mortale nemico a Lu Pei.
Monti e fiumi pervennero allora nelle mani dei Han, che stabilirono le leggi.
Ai Han subentrarono i Sima, ma i Jin si divisero.
Vi furono al nord dodici signori; al sud Song, Qi, Liang e Chen.
Gli avi si successero finché l’unità fu ripristinata dai grandi Sui. Ma il despota inumano opprimeva il popolo.
Il nostro sovrano, della famiglia Li, diede all’impero il nome di Tang. Dopo Gaozu, regna oggi Shimin.
Limpido scorre il fiume, vasto si stende il mare, perché alta è la sua virtù, ampia la sua bontà.
Un drago divino, spirito delle acque della città di Chang’an, aveva ridotto la quantità di pioggia prescritta e doveva
essere punito con la morte.
Egli sollecitò l’aiuto del nostro sovrano, che glielo promise. All’ora stabilita convocò il suo saggio ministro e lo
impegnò in una partita a scacchi. Ma ciò non impedì che, a mezzogiorno preciso, il ministro decapitasse il drago in
sogno.»
A questo punto il re fece udire un gemito e chiese: «Maestro della legge, chi era quel saggio
ministro?»
«Si chiamava Wei Zheng; era altrettanto competente nella geografia che nell’astronomia e nella
scienza dello yin e dello yang. Grande era stato il suo contributo nella pacificazione del paese e nel
consolidamento della dinastia. Il drago decapitato si appellò ai tribunali infernali per rottura di
promessa. Perciò il nostro imperatore si ammalò di una malattia mortale, e Wei Zheng gli diede una
lettera da consegnare, nell’altro mondo, al giudice Cui Jué della città di Fengdu. L’imperatore morì
e, grazie alla previdenza di Wei Zheng, risuscitò tre giorni dopo. Infatti il giudice Cui, commosso
dalla lettera, aveva alterato i registri aggiungendo vent’anni di vita. L’imperatore promosse per
ringraziamento grandi cerimonie dell’acqua e della terra, e mi inviò dal Buddha a chiedere i tre
panieri di sutra del Grande Veicolo: lo scopo è di ottenere la salvezza dei peccatori e di redimerli dai
tormenti.»
Il re sospirò e disse: «Il vostro grande paese ha davvero una corte celeste; il vostro sovrano può
dire di essere assistito da saggi ministri. Io invece, benché una grave malattia mi tormenti da molto
tempo, non ho nessuno fra i miei cortigiani che mi sappia guarire.»
Il reverendo si azzardò a dargli un’occhiata, e vide che in effetti sua maestà aveva il volto cereo e
scarnito, il corpo emaciato e l’aria depressa. Stava per fargli qualche domanda, quando vennero ad
annunciare che il pranzo era pronto. Il re ordinò di servirlo nella Sala Colma di Profumi e di mettere
in tavola anche per lui: «Pranzerò con il maestro della legge.» Naturalmente Tripitaka gli manifestò
la sua gratitudine.
Intanto, in albergo, i tre discepoli si occupavano anche loro del pasto. Scimmiotto invitò
Sabbioso a preparare tè, riso e verdure.
«Per il tè e il riso non c’è problema» disse Sabbioso, «ma per la verdura non so come fare.»
«Che cosa ti manca?»
«Non ho niente per condire: sale, olio, aceto, salsa...»
«Ho qualche soldo; diamolo a Porcellino perché vada a comprare queste cose.»
Il bestione si voleva imboscare: «Non mi fido a uscire. Pare che io non sia abbastanza bello per
la gente del posto. Se succedono guai, il maestro se la prenderà con me.»
«Non vai mica a rubare, e nemmeno a chiedere l’elemosina. Compri in bottega quel che ti
occorre, e lo paghi. Quali guai ne dovrebbero venire?»
«Non hai visto come si è spaventata la gente, prima che entrassimo qui? Varie persone sono
cascate a terra dallo spavento: se andassi tra la folla del mercato, chissà che ecatombe farei.»
«Che bisogno hai di andare al mercato? Non hai visto quante botteghe ci sono nella strada?»
«Il maestro diceva di camminare a occhi bassi, e io non ho visto niente.»
«C’è una quantità di botteghe di vino, riso, farine; senza parlare delle mercerie, seterie,
drogherie. Belle case da tè e molti ristoranti. Tagliatelle, focacce, pani cotti al vapore; e anche
verdure, spezie, piatti pronti. E tutti quei dolci esotici, timballi, fritture, confetture al miele: una
quantità incredibile di buone cose. Che ne dici? Potremmo uscire insieme.»
Il bestione lo fissava e faceva le bave. Inghiottì la saliva, balzò su e dichiarò: «Fratello,
d’accordo, stavolta offri tu. Quando avrò raggranellato qualche soldo, toccherà a me.»
«Tu, Sabbioso, prepara il riso; noi ti porteremo il condimento» raccomandò Scimmiotto
ridacchiando fra sé.
Sabbioso capì che Scimmiotto voleva burlarsi di Porcellino e stette al gioco: «Andate, comprate
e non restate a becco asciutto.»
Porcellino portò con sé una ciotola e un piatto. Il direttore dell’albergo domandò: «Dove andate,
reverendi?»
«Vogliamo acquistare condimenti» rispose Scimmiotto.
«Seguite la strada verso ovest e girate all’altezza della Torre del Tamburo. Lì c’è l’emporio dei
Zheng, dove troverete olio, sale, aceto, zenzero, pepe, tè. Tutto quello che volete.»
Si presero per mano e si incamminarono. Ma davanti alle botteghe e ai ristoranti Scimmiotto
tirava di lungo e non si fermava. «Fratello, per carità, fermiamoci!» si spazientiva Porcellino. «Non
farmi passare davanti a questo ben di dio senza assaggiare niente.»
Scimmiotto non intendeva fare acquisti, ma contava solo di divertirsi alle sue spalle; perciò
diceva: «Non qui, saggio fratello. Andiamo avanti! Qui i prezzi sono troppo alti; ti manca il senso
dell’economia. Cerchiamo una bottega più grande.»
Ancora una volta la gente si spingeva per venirli a guardare. Quando giunsero alla Torre del
Tamburo, una folla innumerevole, accalcata e vociferante, bloccava il traffico.
«Fratello, ci rinuncio» dichiarò Porcellino. «Fanno più baccano di prima e li credo propensi a dar
la caccia ai bonzi. Finiremo per essere arrestati: che ne sarà di noi?»
«Balle! Fare il monaco non viola nessuna legge; perché ci dovrebbero arrestare? Andiamocene
per i fatti nostri, a fare acquisti nella bottega dei Zheng.»
«Nemmeno per sogno; non voglio guai! In mezzo a tutta questa gente, basta che mi càpiti di
agitare un po’ le orecchie perché ne caschino in terra parecchi. Se poi qualcuno non si rialza, sarà
colpa mia e la faranno pagare a me.»
«Allora fermati qui. Io vado a fare gli acquisti e ti porterò tagliatelle e focacce.»
Il bestione tese al Novizio i suoi recipienti e si fermò faccia al muro, volgendo le spalle agli
spettatori. Non si sarebbe girato per tutto l’oro del mondo.
Scimmiotto, facendosi strada tra la folla, vide che essa si era raccolta per leggere un proclama
affisso alla porta della torre. Spinse anche lui per avvicinarsi, e i suoi occhi di fuoco dalle pupille
d’oro lessero quanto segue:
Da quando noi, sovrano del Paese di Viola Porpora, siamo saliti al trono, i quattro orienti sono pacificati e il popolo
gode vita tranquilla. Ma negli ultimi tempi le preoccupazioni del governo ci hanno procurato una lunga malattia che ci
inchioda a letto. Il reale collegio di medicina ci ha fornito molte eccellenti prescrizioni, ma il male risulta difficile da
curare.
Bandiamo dunque questo appello a tutti i saggi letterati dell’universo, qualunque sia la loro provenienza: ogni esperto in
medicina e farmacologia è urgentemente pregato di presentarsi per ristabilire la nostra real salute. Il primo segno di
guarigione sarà premiato con metà del regno; questa non sarà vana promessa.
Scimmiotto si rallegrò: «Come dicevano gli antichi: mettiti per la strada, e la tua fortuna è già
fatta per due terzi. Meno male che non siamo rimasti chiusi in albergo come poveri scemi. Non c’è
più bisogno di fare acquisti. La ricerca delle scritture può aspettare: ora mi voglio divertire a fare il
medico.»
Il bravo Scimmiotto abbandonò a terra ciotola e piatto, si trasformò in un piovasco ventoso e si
impadronì del proclama, staccandolo dalla porta. Tornò quindi dov’era rimasto Porcellino e lo trovò
che si era addormentato appoggiato al muro. Invece di svegliarlo, gli fece scivolare in grembo il
foglio del proclama e se ne ritornò in albergo.
La gente, alla vista del piovasco, era corsa a ripararsi. Quando la pioggia cessò, ritornarono sul
posto e constatarono sorpresi che l’augusto proclama non c’era più.
L’affissione era avvenuta la mattina stessa, a opera di un corteo di dodici eunuchi di palazzo e di
dodici ufficiali della guardia. Quella scomparsa dopo sole sei ore poteva determinare dure
punizioni: tutti si misero a cercare intorno, tremanti e timorosi. Ed ecco che il foglio spuntava dal
grembo di Porcellino: «Sei stato tu a staccare il proclama reale?»
Il bestione, svegliandosi, alzò il grugno e lo spianò su quella gente, che fece tre passi indietro
inciampando. Ma quando Porcellino cercò di andarsene, i più audaci gli misero le mani addosso:
«Fermo! Perché non vai a corte a guarire sua maestà? Sei stato tu a staccare il proclama?»
«L’avrà staccato vostra sorella, e penserà lei a guarire la maestà di vostra nonna» rispose
Porcellino.
«Fa vedere che cosa tieni lì.»
Porcellino abbassò gli occhi, si accorse del foglio e masticò fra i denti: «Quel macaco mi vuol
morto.» Stava per stracciarlo, ma la folla lo impedì: «Non si può distruggere un proclama del re! Se
tu l’hai staccato, tu lo devi guarire: vieni subito con noi!»
«Siete matti, non sono stato io! Sarà stato il mio condiscepolo Scimmiotto, che me l’avrà gettato
in grembo. Se volete vi porto da lui.»
«Non cercare scuse. Dovremmo lasciare la corda della campana che già dondola, per aspettare
che il fonditore ne fabbrichi una nuova. Il proclama lo avevi in mano tu e ora non ci porti da
nessuno: noi porteremo te a corte, per amore o per forza.»
La folla spingeva e tirava, ma Porcellino sembrava aver messo radici. Li avvertì: «Badate, non
sapete con chi avete a che fare. Se mi fate arrabbiare, ve ne pentirete.»
Lo scandalo del proclama staccato attirava altra gente. Due attempati eunuchi di corte si fecero
avanti, accompagnati da guardie, e lo apostrofarono: «Da dove vieni, signor cocciuto, con quella
faccia strana e quell’accento ridicolo?»
«Siamo gente dell’Est, inviati a cercare le scritture nel Paradiso dell’Ovest. Il nostro capo è un
maestro della legge, fratello dell’imperatore: è andato a corte a presentare il passaporto. Io passavo
di qui con il mio condiscepolo anziano, diretti a far compere; quando ho visto tanta gente
assembrata, non ho osato andare avanti. Dev’essere stato lui a strappare il manifesto e a gettarmelo
in grembo; io non me n’ero nemmeno accorto.»
«In effetti poco fa abbiamo visto un bonzo grassottello, di carnagione chiara, che si presentava a
corte. Sarebbe quello il tuo maestro?»
«Appunto.»
«E il tuo condiscepolo anziano dov’è?»
«Sarà ritornato in albergo. Ci siamo fermati alla Pubblica Casa di Ritrovo.»
«Guardie» conclusero gli eunuchi, «per ora non lo arrestate. Controlliamo prima le sue
dichiarazioni.»
«Queste brave donne sì, che sanno come ci si comporta» approvò Porcellino.
«Stupido, non vedi che sono dignitari e non donne?» lo sgridarono le guardie.
«Vergognatevi» rispose ridendo Porcellino, «di capovolgere yin e yang in questo modo. Quelle
sono due vecchie comari, altro che dignitari!»
«Non fare sarcasmi» tagliarono corto le guardie. «Facci vedere questo tuo condiscepolo.»
Spinti e seguiti dalla folla, che ormai contava almeno cinquecento persone, si avviarono
all’albergo. Sull’uscio Porcellino si fermò e disse: «Un momento, signori: vi devo avvertire che il
mio condiscepolo non è un tipo alla mano come me. Lui prende ogni cosa maledettamente sul serio
ed è irascibile. Se volete che vi riceva, vi consiglio di fargli la riverenza e di trattarlo da monsignor
Scimmiotto.»
«Se è davvero interessato al proclama ed è in grado di guarire il nostro sovrano» risposero gli
eunuchi, «è destinato a ottenere metà del regno. Comunque, per prudenza, lo tratteremo con
rispetto.»
Scimmiotto stava appunto divertendo Sabbioso con il racconto del tiro che aveva giocato a
Porcellino, quando questi entrò seguito da eunuchi e guardie e lo afferrò per il bavero: «Eccolo qui
il vigliaccone che mi aveva promesso tagliatelle e focacce. Le ho aspettate un bel pezzo, ma tu ti sei
limitato a mettermi negli impicci con quel proclama. È così che tratti tuo fratello?»
«Guarda, bestione, che devi aver fatto una bella confusione» sghignazzò Scimmiotto. «Io ti ho
portato buone cose da mangiare, ma tu eri scomparso. E di quale proclama vai cianciando?»
«Ecco qui: senti un po’ le guardie che erano di servizio sul posto.»
Si fecero avanti gli eunuchi: «Monsignor Scimmiotto, oggi il destino sorride al nostro sovrano,
perché vi manda da noi a esercitare il vostro eminente talento medico. Se riuscirete a guarirlo,
acquisterete metà del regno.»
Il Novizio si diede un contegno riservato, lesse il proclama che Porcellino gli tendeva e disse:
«Suppongo che siate voi a sovrintendere a queste cose.»
Gli eunuchi si prosternarono: «I vostri schiavi sono funzionari della corte interna, addetti alla
direzione dei riti. E queste sono guardie in divisa di broccato.»
«È vero: sono stato io a staccare questo appello ai medici, e a farvi guidare fin qui dal mio
condiscepolo. Ricordate l’adagio: la vera medicina non è in vendita. Venga il vostro re a chiedermi
ciò che gli serve. Per guarirlo mi basta tendere la mano.»
Gli eunuchi si meravigliavano. «Non è possibile che avanzi queste incredibili pretese senza
qualche fondamento. Qualcuno di noi resti qui a pregarlo in silenzio; gli altri andranno a corte a
presentare rapporto.»
Un eunuco e alcune guardie andarono a corte e si presentarono ai piedi del trono: «Maestà, vi
annunciamo una rara fortuna.»
Il re, che stava concludendo il colloquio con Tripitaka, chiese: «Quale fortuna?»
«I vostri schiavi hanno diffuso stamane l’appello ai medici, affiggendolo ai piedi della Torre del
Tamburo; lo ha staccato un santo monaco, il reverendo Scimmiotto venuto dall’Est. In questo
momento si trova nella pubblica casa di ritrovo e vorrebbe essere invitato di persona da vostra
maestà. Guarisce con l’imposizione delle mani.»
Il re si rivolse a Tripitaka: «Maestro della legge, parlatemi dei vostri eminenti discepoli.»
«Il povero monaco vostro servitore ha tre stupidi discepoli» rispose Tripitaka giungendo le mani.
«Chi di loro è pratico di medicina?»
«Per dire la verità, i miei discepoli sono gente rozza, che ha il compito di portar pesi, guadare
torrenti e guidare la mia umile persona attraverso le montagne. Nei momenti pericolosi hanno
abbattuto qualche diavolo o catturato qualche mostro, sottomesso draghi o ucciso tigri; ma non
sanno fare altro. Di medicina non se ne intendono.»
«Troppo modesto, maestro della legge! Fu sicuramente il cielo a mandarvi qui il giorno in cui
eccezionalmente mi riusciva di tenere udienza. Se il vostro eminente discepolo non si intendesse di
medicina, non avrebbe staccato l’avviso e non mi chiederebbe di andare ad accoglierlo
personalmente. È certo capace di curare persone di stirpe reale.» E ordinò: «Ministri, sono troppo
debole per arrischiarmi a salire sul carro reale. Andate a mio nome dal reverendo Scimmiotto per
insistere perché venga a farmi una visita medica. Trattatelo con rispetto, rivolgetevi a lui come
reverendo e monaco divino, salutatelo come se fosse il vostro sovrano.»
Ministri, eunuchi e guardie si recarono all’albergo, e si schierarono in ordine di rango per
presentare i loro rispetti. Porcellino fu tanto impressionato, che si andò a nascondere in un
bugigattolo; Sabbioso si ritirò in un angolo per non far notare la sua presenza. Il grande santo
troneggiava impassibile al centro della stanza. Intanto Porcellino smoccolava indignato: «Guardate
che ciurmatore è quel macaco! Lo vengono a omaggiare come se fosse chissà chi, e lui non fa una
piega, non si alza nemmeno da sedere, il brutto cafone.»
Dopo le cerimonie di saluto, i sopraggiunti dichiararono: «Ecco l’incarico che sua maestà ci ha
dato presso il divino monaco, il reverendo Scimmiotto: noi, ministri del sovrano del paese di Viola
Porpora, rendiamo rispettosamente nota la reale direttiva di impetrare una vostra visita a corte, per
esaminare lo stato di salute del re.»
Infine Scimmiotto si decise ad alzarsi: «Perché il malato non è venuto di persona?»
«Il nostro sovrano si sentiva troppo debole per salire sul carro reale; questo è il solo motivo per
cui ha mandato noi a rappresentarlo.»
«In tal caso, verrò con voi.»
I funzionari civili e militari si avviarono per ordine di rango. Porcellino sibilò a Scimmiotto, che
li seguiva: «Fratello, lasciaci fuori da questa storia!»
«D’accordo. Ma dovrete ricevere i farmaci che vi porteranno.»
«Quali farmaci?»
«Qualunque farmaco vi venga presentato.»
Il corteo giunse in breve a palazzo. I ministri entrarono per primi ad avvertire il re, che fece
arrotolare le cortine di perle, volse intorno gli occhi di fenice dalle pupille di drago e domandò:
«Chi di voi è il reverendo monaco Scimmiotto?»
«Il vecchio Scimmiotto sono io!» gridò il Novizio facendo un passo avanti.
Il re, spaventato dalla brutta faccia e dalla brusca risposta, si accasciò tremante sul trono; eunuchi
e dame di servizio si precipitarono a portarlo via.
«Mi ha spaventato a morte» bisbigliava il re. Gli ufficiali non trattennero più le proprie critiche:
«È un bonzo grossolano e sfacciato! Quella mossa di strappare dal muro il proclama reale è
intollerabile!»
Scimmiotto sorrideva: «Signori, avete torto. Disprezzate la gente finché vi pare, ma intanto il
vostro re sarà ancora malato fra mille anni.»
«La vita non dura mille anni.»
«Date tempo al tempo: da sovrano malato diventerà, dopo la morte, fantasma malato; e in seguito
sarà un reincarnato malaticcio. Non vi pare che la cosa possa andare avanti mille anni?»
«Bonzo insolente! Come osi dire tante sciocchezze?»
«Non sono sciocchezze. Date retta:
Gli arcani sottili del medico esigono:
Vedere, ascoltare, tastare e raccogliere
L’anamnesi; il tutto va poi meditato.
Nessun elemento si può trascurare.
Gli umori per primi si osservano: asciutto
Oppure essudante; il grasso ed il magro;
Vivace od ottuso. Secondo, ascoltare
Se chiara è la voce, se parla sensato
Oppure vaneggia. Si indaga per terzo
Sul corso del male, su cibo, bevande
E defecazioni. Il polso per quarto
Si deve tastare, e svolgere indagini
Se i suoi meridiani galleggian, s’immergono
O son capovolti. Ciascun dei passaggi
Non puoi trascurare, se vuoi risanare.»
Un membro del collegio reale di medicina disse: «Le affermazioni di questo bonzo sono
ineccepibili. Nemmeno un immortale potrebbe esercitare la medicina senza unire i quattro metodi:
l’osservazione, l’ascolto, l’inchiesta e la sfigmologia.»
I funzionari si arresero e trasmisero al re, attraverso il servizio intimo, il seguente messaggio: «Il
reverendo desidera applicare i quattro metodi razionali per diagnosticare la malattia e prescrivere la
cura.»
Il sovrano, steso nel letto, ansimava: «Non voglio più vedere quel diavolo straniero. Ditegli di
andar via.»
Perciò il capo del servizio intimo uscì ad annunciare: «Monaco, il re ti ordina di andartene,
perché non può sopportare la vista di un volto sconosciuto.»
«Se non può sopportare la mia faccia» rispose Scimmiotto, «io sono capace di sentire il suo
polso anche mediante un sistema di fili.»
«Abbiamo sentito parlare di questa tecnica» dissero i funzionari, «ma non l’abbiamo mai vista
all’opera. Fatelo sapere a sua maestà.»
Il capo del servizio intimo andò ad annunciare: «Maestà, il reverendo Scimmiotto vi potrebbe
sentire il polso con un sistema di fili, senza farsi vedere.»
Il re pensò che era una novità, mai provata in tre anni di inutili interventi medici, e acconsentì.
Quando Scimmiotto entrò nella sala, il monaco cinese lo aggredì: «Brutto macaco, tu mi vuoi
rovinare!»
«Che cosa vi viene in mente?» rispose sorridendo Scimmiotto. «Semmai sto lavorando per
aumentare il vostro prestigio.»
«Sono anni che stai con me, e non si è mai visto che ti intendessi di medicina» inveì Tripitaka.
«Non sai dove stia di casa la farmacopea, non hai mai letto un rigo di opere di medicina: che
cos’altro puoi fare, se non combinare un disastro?»
«Non siete al corrente, caro maestro» rispose imperturbabile Scimmiotto. «Conosco le virtù di
parecchie piante medicinali. Dopo tutto, quello che conta è che abbia successo: se guarisco il re,
tutto andrà bene. Se invece, poniamo, riuscissi solo ad ammazzarlo, non mi potrebbero accusare che
di incompetenza: non è un reato passibile della pena capitale. Il re corre molti più rischi di noi. E
adesso sedetevi e guardate come me la sbroglio con la sfigmologia.»
«Ma non sai niente! Non hai mai visto le Semplici domande, né il Classico delle difficoltà, né la
Farmacopea, né gli Arcani del polso. Non li sai commentare, non conosci nemmeno una formula.
Tu parli a casaccio, e ci vieni a raccontare che sapresti misurare il polso con i fili!»
«Possiedo i fili adatti, anche se voi non li avete mai visti» rispose ridendo Scimmiotto. Si strappò
tre peli dalla coda e li trasformò in tre fili d’oro lunghi ventiquattro piedi, come i ventiquattro soffi
dell’anno. Quindi li tese a Tripitaka: «Vedete?»
«Reverendo» intervenne l’eunuco del servizio intimo, «per favore, rimandate le discussioni a un
altro momento e venite negli appartamenti privati.»
Scimmiotto si congedò da Tripitaka e seguì l’eunuco. È il caso di ricordarlo:
Il segreto del cuore guarisce una città,
Formula viscerale può dar l’eternità.
Se poi non conoscete né il male che sarà diagnosticato, né il rimedio che lo guarirà, ascoltate il
seguito e ne saprete di più.
CAPITOLO 69
SCIMMIOTTO MEDICO
IN CUI IL MAESTRO DEL MENTALE PREPARA UN RIMEDIO NELLA NOTTE, E IL SOVRANO DURANTE IL
BANCHETTO PARLA DI UN MOSTRO PERVERSO.
L’eunuco di servizio accompagnò Scimmiotto negli appartamenti privati. Davanti alla porta della
camera da letto del re, il Novizio gli diede i tre fili d’oro con queste istruzioni: «Pregate la regina, o
chi al momento l’assiste, di legarli al polso sinistro di sua maestà, nei punti detti pollice, passo e
piede. Poi passatemi l’altro capo attraverso la finestra.»
L’eunuco ubbidì. Scimmiotto prese il capo pollice fra pollice e indice, quello passo fra pollice e
medio e quello piede fra pollice e anulare e regolò la propria respirazione; quindi esaminò i quattro
umori, le cinque oppressioni, i sette sintomi esterni del polso e gli otto interni, senza trascurare le
nove aspettative. Passò dal lieve al medio al pesante, e poi seguì l’ordine inverso; in questo modo fu
in grado di distinguere l’origine del vuoto da quella del pieno. Chiese che i fili fossero legati al
polso destro e ripeté il medesimo esame sistematico; alla fine, con una scossa, ricuperò i suoi peli.
Pronunciò la diagnosi con voce tonante: «Le pulsazioni pollice del polso sinistro di sua maestà
sono forti e tese; quelle passo vischiose e languide; quelle piede cave e sommerse. Quelle del polso
destro, al pollice sono fluttuanti e sfuggenti; al passo lente e nodose; al piede costanti e accelerate.
Nell’ordine, il polso sinistro significa: vuoto interno e dolore al cuore, traspirazione e crampi, orina
rossa e feci sanguinose. Il polso destro: nodosità interne e meridiani bloccati, ritenzione di liquidi,
squilibrio fra pieno pesante e vuoto freddo. Ed ecco la diagnosi dell’augusto male: esso è dovuto
all’ansia e alla paura, e il suo nome è la coppia di uccelli si è perduta.»
Il re, dalla sua camera, raccolse tutta la voce che poteva e gridò: «Bravo, avete capito tutto. Sono
proprio i disturbi di cui soffro. Ora andate a prepararmi un rimedio adatto.»
Quando il grande santo ritornò nella sala d’udienza, si era già sparsa la notizia che il consulto
aveva avuto successo. Tripitaka gli andò incontro a chiedere come si erano svolte le cose. «Ho
sentito il polso e ho fatto la diagnosi» riferì Scimmiotto. «Adesso dovrò scombiccherare una
terapia.»
«Divino monaco, avete diagnosticato la coppia di uccelli si è perduta: che roba è?» chiesero
timidamente i cortigiani.
«C’era una volta una coppia di uccelli» raccontò sorridendo Scimmiotto; «erano molto
affezionati e volavano sempre insieme. Ma all’improvviso una bufera li separò: il maschio cerca la
femmina e non la trova; la femmina cerca il maschio e non lo trova. Non è appunto: la coppia di
uccelli si è perduta?»
Accademici e cortigiani applaudirono: «Questo divino monaco, che gran medico!» E non
finivano più di lodarlo.
«Ora che avete diagnosticato il male» chiesero gli accademici, «quale terapia contate di
applicare?»
«Non compilerò una ricetta, ma doserò gli ingredienti quando li avrò tutti davanti.»
«Secondo i trattati, la farmacopea comprende ottocento sapori; mentre la patologia comprende
quattrocento morbi. Non avrebbe senso utilizzare tutti i farmaci; tanto più che lo stesso malato non
può essere afflitto da tutti i morbi nello stesso tempo. Come pensate di fare?»
«Dicevano gli antichi: non badare alle ricette, scegli il rimedio secondo il caso. Farò come ho
detto: mi occorrono tutti i farmaci, e io li doserò secondo il caso.»
I medici rinunciarono a discutere e mandarono gli uscieri da tutti gli erboristi e farmacisti della
città, per raccogliere tutti i farmaci possibili e metterli a disposizione del Novizio.
«Questo non è il posto adatto per fabbricare medicine» disse Scimmiotto. «Fatemi portare i
farmaci e gli utensili per manipolarli alla Pubblica Casa di Ritrovo; potranno essere consegnati ai
miei condiscepoli.»
I medici reali ubbidirono e fecero consegnare in albergo tre libbre di ciascuno degli ottocento
sapori della farmacopea, con aggiunta di mortai, pestelli, mattarelli, setacci, imbuti, colini e altri
attrezzi del genere; ogni articolo fu esaminato e inventariato in un registro.
Quando il maestro si disponeva a ritornare in albergo con Scimmiotto, giunse l’ordine reale di
farlo pernottare nel Padiglione Splendore della Cultura, e di tenervelo finché il re non avesse tratto
beneficio dai rimedi che gli sarebbero stati somministrati. Sua maestà, non appena ristabilito,
intendeva infatti ringraziarlo, vistare il suo passaporto e accompagnarlo.
«Discepolo» esclamò allarmatissimo Tripitaka, «come vedi mi tengono in ostaggio! Le tue cure
mettono a rischio anche la mia pelle: sarà meglio che la terapia che vai a scombiccherare sia
davvero efficace!»
«Maestro, voi godetevi il soggiorno in questo posto di lusso» esortò Scimmiotto, con la consueta
serenità. «Sapete benissimo che me la cavo sempre.»
Quel diavolo di un grande santo ritornò in albergo, dove Porcellino lo accolse ammiccando con
aria saputa: «Eh, fratello, io ho capito tutto.»
«Che cosa credi di aver capito?»
«Ti sei reso conto che la ricerca delle scritture non porta da nessuna parte, e hai deciso di
stabilirti come commerciante in questo ricco paese. Ma non avevi i capitali per avviare l’attività, e
hai inventato uno stratagemma per rifornire il tuo nuovo negozio di erborista.»
«Negozio di erborista? Sei tutto scemo: non vedo l’ora di guarire il re, perché ce ne possiamo
andare da questo posto.»
«Ma scusa: qui ci sono ottocento prodotti per tre libbre ciascuno. Non vorrai curare un povero
diavolo facendogli ingoiare duemilaquattrocento libbre di roba? Per quanti anni conti di trascinare
la cura?»
Scimmiotto rise: «Si capisce che non sono necessarie tutte queste provviste. Me le sono fatte
portare soltanto perché quei palloni gonfiati degli accademici locali non si possano raccapezzare
sulla ricetta segreta che utilizzerò.»
Mentre conversavano, il direttore e il suo vice vennero a inginocchiarsi per annunciare:
«Preghiamo i monsignori divini monaci di voler favorire a tavola. Il pranzo è servito.»
«Guarda, guarda!» motteggiò Scimmiotto. «Stamane ve l’eravate cavata con molto meno.»
«All’arrivo delle vostre signorie» risposero i due arrossendo e prosternandosi, «la cecità dei
vostri umili servitori impedì loro di riconoscere la vostra eminente dignità. Abbiamo saputo che
siete una celebrità nel campo della medicina, che curate il nostro sovrano e che potreste acquistare
metà del regno: in tal caso ci troveremmo forse fra i vostri sudditi. Questi omaggi sono il minimo
che possiamo fare.»
Scimmiotto apprezzò il discorsetto e andò a sedersi nella sala grande al posto d’onore, con
Porcellino a sinistra e Sabbioso a destra. Mentre si serviva il pranzo, Sabbioso domandò: «Fratello,
che ne è del maestro?»
«Il re se l’è tenuto in ostaggio» spiegò Scimmiotto. «Lo lascerà andare quando sarà guarito.»
«Avrà tutto quello che gli serve?» chiese Sabbioso.
«Lo credo bene, è alloggiato nel palazzo reale. Mentre uscivo, era circondato da tre alti segretari
che lo invitavano a recarsi nel Padiglione Splendore della Cultura.»
«Certo se la passa meglio lui con i suoi alti segretari» commentò Porcellino, «che noi con questi
osti pulciosi. Ma la cosa non mi guasta l’appetito.»
Si godettero la serata, e sul tardi Scimmiotto si fece portare olio da ardere e candele in quantità,
per utilizzare la notte nella fabbricazione del rimedio per il re.
Era già mezzanotte e il silenzio regnava sulla città quando si misero al lavoro. Porcellino si
spazientiva: «Fratello, non perdiamo tempo con le droghe; io ho sonno.»
«Prendi un’oncia di rabarbaro e macinala fine» disse Scimmiotto.
«Il rabarbaro è freddo, amaro e non tossico» commentò Sabbioso; «va a fondo e non galleggia,
decongestiona, distende e rasserena. Ma alla fine è un lassativo: non farà male a una persona in
cattive condizioni di salute?»
«Tu ignori, saggio fratello» spiegava Scimmiotto, «che questa droga agevola la circolazione
degli umori, e scioglie le concrezioni del caldo e del freddo nel ventre. Non criticare, lascia fare a
me. Cercami un’oncia di croton, monda i grani, spremili per estrarre l’olio tossico, e poi macinali.»
«Il croton è acre, caldo e tossico» considerava Sabbioso. «Dissolve i depositi induriti e sgombra
polmoni e viscere dal freddo sommerso. Libera le ostruzioni e favorisce la circolazione di acqua e
grani. È aggressivo come un guerriero: bisogna usarlo a ragion veduta.»
«Tu non sai che inoltre decongestiona il cuore e l’idropisia. Preparalo; bisognerà accompagnarlo
con un coadiuvante.»
Quando le due droghe furono ben macinate, gli aiutanti chiesero: «Fratello, quante altre droghe ti
serviranno?»
«Direi che basta così.»
«Ma come!» s’indignò Porcellino. «Di duemilaquattrocento libbre, non usi che due once. Prendi
in giro la gente!»
«Non rompere le scatole, saggio fratello» rispose Scimmiotto afferrando una coppa di porcellana
decorata di fiori. «Prendi questa e riempila a metà di fuliggine raspata da quella vecchia pignatta.»
«Che cosa te ne fai?»
«Mi serve per la medicina.»
«Non ho mai visto usare quella porcheria come rimedio» esclamò Sabbioso.
«Il fatto è, ragazzi miei, che non vi intendete di farmacia. Si chiama brina di mille piante e cura
tutte le malattie. Non lo sapevate?»
Il bestione raspò. Poi Scimmiotto gli tese una tazza e disse: «Non è finita. Riempi questa a metà
di piscia di cavallo.»
«Che cosa te ne fai?»
«Mi serve per confezionare le pillole.»
«Dài, fratello, è uno scherzo!» rise Sabbioso. «La piscia di cavallo puzza: non si può metterla
nelle medicine. Ho visto farmaci confezionati con i più vari materiali: pasta d’aceto, colla di riso,
miele chiarificato, magari acqua pura. Ma piscia di cavallo! Un malato che l’annusi, vomiterà
l’anima sua. Per di più l’accompagni con il rabarbaro e il croton: quel meschino butterà ciò che
contiene da tutti i buchi. Non ci sarà da divertirsi.»
«Ti sfuggono i particolari: non stiamo parlando di un cavallo qualsiasi. La verità è che userò
piscia di drago dei mari occidentali: quella è un vero toccasana. Certo Porcellino deve trattarlo con
accortezza ed essere paziente, altrimenti non ne verrà a capo.»
Porcellino corse nella stalla e trovò la bestia che dormiva. Le tirò un calcio per svegliarla, le
compresse la vescica e le mise sotto la tazza. Aspettò un bel pezzo, ma non usciva niente. Perciò
ritornò da Scimmiotto e gli disse: «Invece di curare il re, farai bene a occuparti del cavallo. Quel
pendaglio da forca è completamente all’asciutto, non c’è verso di cavarne una goccia.»
Il Novizio rise: «Andiamo insieme.» E Sabbioso: «Vengo a vedere anch’io.»
Quando giunsero nella stalla, il cavallo apostrofò Scimmiotto: «Fratello maggiore, andiamoci
piano con la mia orina. Sai benissimo che se facessi i miei bisogni mentre attraverso un corso
d’acqua, al loro contatto i pesci diventerebbero draghi. Se ne annaffiassi l’erba della montagna, ci
crescerebbe il fungo magico che dona longevità. Non penserai che distribuisca sconsideratamente i
fatti miei in questo volgare mondo di polvere.»
«Ragioniamo, fratello» rispose Scimmiotto. «Intanto qui non sei nel volgare mondo di polvere,
ma in un esimio reame dell’Ovest; e non ti chiedo affatto di fare distribuzioni sconsiderate. Come
dice il proverbio: molti peli fanno la pelliccia. Per guarire il re occorre la collaborazione di tutti noi,
e d’altronde il buon nome ricadrà sull’intera comitiva. Se invece non riusciamo, non sarà facile
uscire di qui.»
«Va be’, aspettate un momento» concluse il cavallo. Si spinse in avanti, si rattrappì all’indietro,
strizzò gli occhi e strinse i denti tanto da farli scricchiolare; alla fine con grande sforzo riuscì a
distillare qualche gocciolina.
«Che delinquente!» grugnì Porcellino. «Manco pisciasse oro liquido! Non potevi farne di più?»
Ma Scimmiotto disse: «La quantità può bastare, venite.»
Ritornati in sala, impastarono gli ingredienti con l’orina e confezionarono tre pillole. «Sono
troppo grosse, cari miei» si inquietò Scimmiotto.
«Non sono più grandi di una noce» obiettò Porcellino. «Toccassero a me, le ingoierei in un
boccone.»
Le chiusero dunque in una scatolina e durante il resto della notte presero un po’ di riposo.
All’alba il re si adattò ad aprire l’udienza, benché non si sentisse bene. Invitò il monaco cinese
presso di sé e spedì i suoi funzionari all’albergo, per presentare i suoi rispetti al divino monaco, il
reverendo Scimmiotto, e sollecitare «la meravigliosa medicina». Il Novizio si fece portare la
scatolina da Porcellino e gliela porse.
«Come si chiama?» domandarono gli inviati. «Lo chiediamo per poterne riferire a sua maestà.»
«È cinabro d’oro nero in pillole.»
«Lo credo che quell’oro è nero!» sghignazzava di nascosto Porcellino. «Con tutta la fuliggine
che ho raspato dalla pignatta!»
«Quali sono le prescrizioni per l’assunzione delle pillole?»
«Possono essere accompagnate in due modi. Uno richiede sei diversi ingredienti.»
«Quali sono?»
«Vediamo: peto di corvo in volo, piscia di carpa nel torrente in piena, cipria dal viso della Regina
Madre d’Occidente, fuliggine del forno di Laozi, un frammento della berretta da notte
dell’Imperatore di Giada e, per finire, cinque peli dai baffi di un drago nei guai. Accompagnata in
questo modo, la medicina guarirà immediatamente il vostro re.»
«Ahimè, sono ingredienti irreperibili in questo basso mondo. Possiamo conoscere l’altro modo?»
«L’altro modo consiste nell’ingoiare le pillole con l’aiuto di acqua senza origine.»
Gli inviati risero: «Questo è decisamente più facile.»
«Perché dite che è facile?»
«Basterà attingere acqua al pozzo o al fiume.»
«Certo no: quell’acqua avrebbe origine dal pozzo o dal fiume. Dev’essere invece acqua del cielo,
che non abbia toccato terra.»
«Non è difficile nemmeno così: aspetteremo la pioggia e raccoglieremo acqua piovana.»
Quando le pillole furono portate al sovrano ed egli fu informato, fece trasmettere ai maghi di
corte dal ciambellano di servizio l’ordine di provocare la pioggia.
Intanto nell’albergo Scimmiotto diceva ai condiscepoli: «Mi sono fatto prendere la mano. La
pioggia potrebbe farsi aspettare chissà quanto. Se vogliamo sbrigarci, sarà meglio aiutare questa
gente.»
«Che si fa?» chiese Porcellino.
«Tu mettiti alla mia sinistra e fammi da stella complementare; Sabbioso, a destra, sarà la
costellazione di soccorso.»
Il grande santo danzò i passi dell’Orsa Maggiore, recitò un incantesimo e apparve in cielo una
nuvola nera che si muoveva lentamente. Quando fu sulle loro teste, una voce dal cielo gridò:
«Grande santo! Ecco Aoguang, drago dei mari orientali, ai vostri ordini.»
«Mi dispiace di averti scomodato; mi occorrerebbe un po’ di acqua piovana.»
«Potevate dirmelo prima. Sapete come sono complicate queste cose. Il vostro umile drago non si
è portato nessuna attrezzatura: vento, nubi, tuoni, fulmini...»
«Non occorrono queste cose, e di acqua ne basterebbe un sorso, tanto da consentire al re di
questo posto di deglutire certe pillole.»
«Se è per questo, basterà che starnuti una volta: potrete usare qualche goccia della mia saliva.»
«Bravo, è più che sufficiente» approvò Scimmiotto.
Il re drago planò sul palazzo reale e, dalla nera nube, schizzò un getto di saliva. I cortigiani
applaudirono: «Gioia inaudita, maestà! Ecco che il cielo ci manda in segno di favore una gentile
pioggerella.»
Il re decretò immediatamente: «Tutti i funzionari di qualsiasi rango, del palazzo interno e di
quello esterno, si muniscano di vasi e vasetti e raccolgano quest’acqua divina per contribuire a
ristabilire la mia salute.»
Figuratevi la confusione: tutti i funzionari, le spose reali dei tre palazzi, le concubine delle sei
corti, le tremila dame di compagnia e le ottocento affascinanti bellezze, con ciotole, vasi, coppe,
bicchieri, piatti si indaffaravano intorno per raccogliere la breve pioggia. Dopo un po’ il drago li
abbandonò, prese congedo dal grande santo e se ne ritornò a casa sua.
Riuniti tutti i recipienti, si trovò che alcuni avevano raccolto un paio di gocce, altri quattro o
cinque; alcuni erano completamente asciutti. Comunque ci fu di che riempire tre bicchieri, che
furono posati come offerta sulla tavola reale.
Strana fragranza riempie quella sala,
Un insolito effluvio li delizia.
Il re si chiuse in camera sua e inghiottì una dopo l’altra le tre pillole, con l’aiuto dei tre bicchieri
di acqua piovana. Alla fine la sua pancia fece udire un rumore tremendo ed egli dovette correre
quattro o cinque volte di seguito a sedersi sul pitale. Poi si lasciò cadere spossato sul letto regale.
Due reali spose esaminarono il contenuto del pitale: fra varie porcherie, che forse è meglio non
descrivere, trovarono un bolo che sembrava fatto di riso agglutinato. Esse annunciarono al re: «La
causa del male è stata espulsa.»
Il re volle bere un po’ di acqua di riso e, pian piano, sentì allargarsi il petto e il sangue circolare
con maggior vigore. Anche le sue gambe riprendevano forza: si alzò, indossò gli abiti da cerimonia
e ritornò nella sala d’udienza: quando vide il monaco cinese, s’inchinò fino a terra. Il reverendo si
prosternò immediatamente, ma il re lo aiutò ad alzarsi con le sue mani e disse a un segretario:
«Prendete un cartoncino e scriveteci qualche formula del tipo: mi prosterno al vostro cospetto,
eccetera. Dovete inoltre invitare qui i tre eminenti discepoli del maestro della legge. La corte dei
banchetti deve aprire la grande sala est e preparare un pranzo di ringraziamento.»
Tutti i funzionari corsero a eseguire, chi alla sala est, chi alle cucine: tutto fu pronto in un
momento. Si sa: lo stato ha una tal forza che rovescia le montagne.
Alla vista dei messi che recavano l’invito reale, Porcellino diceva commosso a Scimmiotto:
«Fratello, bisogna ammetterlo, è tutto merito tuo.»
«Dice l’adagio: gloria d’un solo esalta la famiglia» commentò Sabbioso. «Ciascuno di noi ha
fatto quello che poteva. Non ci rimane che goderci la festa.»
Ed ecco i tre compari giungere a corte, accolti da una folla di cortigiani che li condusse nella
grande sala est. Vi trovarono il sovrano con i suoi segretari e il monaco cinese; quando si furono
inchinati, fecero ingresso tutti gli altri invitati. Nel posto d’onore erano collocate quattro tavole
talmente cariche di cibi, vegetariani e non, che superavano di almeno dieci volte quanto si potesse
mai sognare di mangiare. Più in basso erano disposti quattro o cinquecento tavolini individuali,
apparecchiati con molta eleganza.
Gli antichi dicevano: «Mille sapori dei piatti più rari, mille bicchieri di splendidi vini, crema preziosa di scelti formaggi,
rosso broccato di sapide carni.»
Tra la profusione di decorazioni e di frutti dal delizioso profumo lottano draghi e leoni di zucchero, torreggiano dolci a
forma di fenice.
Il menu non vegetariano offre ogni carne: maiale, montone, pollo, oca, pesce, anitra. Le verdure vanno dai germogli di
bambù, alla soia, alle orecchiette, ai boleti.
Grande abbondanza di odorosa pasticceria e di dolciumi colorati. Il tenero miglio giallo rivaleggia con il candido riso
brillato. Ogni specie di zuppe, piccanti e delicate, in cui l’aspetto invitante accompagna il buon sapore.
Sovrano e sudditi alzano le coppe; i vasi di vino fanno il giro delle tavole.
Il re volle iniziare il banchetto con un brindisi in onore del monaco cinese, che rispose: «Il
povero monaco vostro servitore non può bere bevande alcoliche.»
«Ma questo è vino di magro, maestro della legge» insisté il sovrano. «Vi prego, vuotate almeno
una coppa.»
«Il primo comandamento della comunità dei monaci vieta il vino.»
Il re si mostrò imbarazzato: «Quale altra possibilità mi lasciate di tributarvi onore?»
«I miei stupidi discepoli potrebbero vuotare la coppa al mio posto.»
Il re, rasserenato, porse la coppa d’oro a Scimmiotto, che rivolse un saluto ai convitati e bevve di
gusto. Era tanto brioso che il sovrano gli offrì una seconda coppa, e Scimmiotto vuotò anche quella
d’un fiato.
«Mi pare che ci sia posto per una terza coppa» disse ridendo il re. E Scimmiotto non rifiutò.
«Che ne dite? In onore delle quattro stagioni» disse il re riempiendo la quarta.
Porcellino, con l’acquolina in bocca, si spazientiva nell’attesa del suo turno. Visto che il primo
brindisi andava per le lunghe, non poté trattenersi dall’esclamare: «Maestà, ho dato una mano
anch’io a preparare la medicina. Se sapeste quante difficoltà, con quel cavallo...»
Scimmiotto temette che parlasse troppo e gli passò la coppa; in effetti Porcellino la vuotò
precipitosamente e si zittì.
«Il divino monaco parlava della medicina e di un cavallo; di quale cavallo si tratta?» volle sapere
il re.
«Il mio condiscepolo ha la lingua troppo lunga» rispose Scimmiotto. «Se una ricetta funziona, lui
non sa trattenersi dal raccontarla al mondo intero. Nella medicina che vostra maestà ha preso
stamane sono state utilizzate capsule di aristolochia, le cosiddette sonagliere di cavallo.»
Il re si rivolse ai suoi: «Che sapore hanno queste capsule? Qual’è la loro virtù medicinale?»
I medici del collegio reale risposero: «Maestà:
È un frutto amaro e freddo; non è tossico.
Molto efficace contro flegma ed asma.
Libera umori e scioglie concrezioni,
Dà sollievo alla tosse e mette in forze.»
Il re sorrise: «Sissignore, proprio quello di cui avevo bisogno. Ancora una coppa, reverendo
Porcellino.» Questi, senza commento, ne bevve anche una terza. Poi fu la volta di Sabbioso, e infine
tutti furono invitati a sedere.
Dopo che ebbero lungamente banchettato, il re fece riempire nuovamente un grande nappo e lo
porse a Scimmiotto.
«Non vi disturbate, maestà. Vi prometto di fare la mia parte a ogni giro di bicchieri, e di non dire
mai di no.»
«Ho verso di voi un debito più grande di una montagna, divino monaco. Non vi ringrazierò mai
abbastanza. Questa malinconia di cui soffrivo da anni, voi l’avete dissipata con un solo intervento.»
«Mi sono reso conto» rispose Scimmiotto, «che i disturbi di vostra maestà erano dovuti alla
malinconia; ma ancora non so che cosa vi angosciasse.»
«Dicevano gli antichi: i panni sporchi si lavano in famiglia. Ma al nostro benefattore posso
raccontare di che cosa si trattava, a patto che non ne rida.»
«Non mi permetterei mai. Raccontate, sono curioso.»
«Voi che avete attraversato tanti paesi ne avrete apprese le usanze, e saprete che di solito le
regine portano dei nomi particolari.»
«Certo. Di solito si chiamano: Palazzo Principale, Palazzo dell’Est e Palazzo dell’Ovest.»
«Da noi è un po’ diverso. I nomi sono: Santo Palazzo d’Oro per la sposa principale, Santo
Palazzo di Giada per l’est, e Santo Palazzo d’Argento per l’ovest. Ma ora abbiamo soltanto Giada e
Argento.»
«Dov’è finita Santo Palazzo d’Oro?»
«Mi è scomparsa tre anni fa» disse il re sciogliendosi in lacrime.
«Come andarono le cose?»
«Era la festa del Doppio Cinque, ed eravamo andati con le regine al Padiglione dei Melograni
per mangiare i dolci di riso, adornarci di rami di artemisia, bere vino con acoro e orpimento, e
guardare le gare delle barche drago. All’improvviso scoppiò un uragano e apparve un mostro:
dichiarò di chiamarsi Rivale del Pianeta Malefico, di abitare nella Grotta dell’Unicorno del Monte
dell’Unicorno e di essere in cerca di una moglie. Aveva saputo che Santo Palazzo d’Oro era molto
bella e mi ingiunse di consegnargliela. Se avessi rifiutato, avrebbe divorato me, i cortigiani e tutta la
popolazione. Mi mise addosso una tale angoscia che spinsi fuori dal padiglione la mia moglie
principale, e il vento se la portò via. Temo che il riso agglutinato che stamane mi è uscito dal ventre
sia quello dei dolci che stavo mangiando, bloccato là dentro dalla paura. E il dolore, il tormento e il
mal di ventre non mi hanno più abbandonato per questi tre anni, finché le vostre meravigliose
pillole mi hanno fatto ritrovare la gioia di vivere.»
Scimmiotto, molto interessato, vuotò una coppa di vino e disse: «Immagino quante pene avrete
sofferto. Mi chiedo se oggi il ritorno di Santo Palazzo d’Oro vi farebbe piacere.»
«Ma io continuo giorno e notte a pensare a lei!» esclamò il re, ricominciando a piangere.
«Che ne direste se abbattessi quella creatura malefica?»
Il sovrano si inginocchiò: «Se fate questo e mi restituite la regina, lascerò la città con mogli e
concubine, e vi cederò il trono.»
Porcellino scoppiò in una risata: «Mi pare che questo re non abbia il senso delle proporzioni. A
causa di una donna, arriva a inginocchiarsi davanti a un bonzo e si dice disposto a rinunciare al
regno.»
Scimmiotto aiutò il re ad alzarsi e chiese: «Avete più rivisto quel mostro?»
«Compare un paio di volte l’anno, e ogni volta si porta via una coppia di dame per il servizio
della regina.»
«Non temete queste visite frequenti?»
«Certo che le temo; non si sa mai quali possano essere le sue intenzioni. L’anno scorso ho fatto
costruire un rifugio anti-mostro; quando il sibilo del vento annuncia il suo arrivo, mi chiudo là
dentro con le due regine che mi restano e con le nove concubine.»
«Potrei vedere il rifugio?»
Il re si alzò da tavola e prese Scimmiotto per mano; tutti i convitati si alzarono per seguirli.
«Fratello» gridò Porcellino, «non dài prova di buon senso. Disturbi il banchetto e abbandoni un
ottimo vino, solo per andare in giro a curiosare.»
Il re capì quali erano le preoccupazioni di Porcellino, e si fece portar dietro un paio di tavole, con
cibi vegetariani e vino. Il bestione non ebbe più niente da ridire e invitò ridendo il maestro e
Sabbioso: «Venite, trasferiamoci.»
Il corteo dei convitati si avviò verso il parco reale. Non c’erano edifici in vista, e Scimmiotto
chiese: «Dov’è dunque questo rifugio?»
Proprio allora due eunuchi si avvicinarono a due leve laccate di rosso infisse nel terreno e le
spostarono: subito si aprì fra l’erba un’ampia botola rettangolare.
«Là sotto, a una profondità di nove tese» spiegò il re, «sono state scavate nove camere. Lampade
alimentate da quattro grandi giare d’olio chiaro ardono continuamente. Quando ci siamo nascosti, i
cortigiani richiudono il passaggio e ne cancellano ogni traccia.»
«Non credo che il mostro ce l’abbia con voi» commentò Scimmiotto; «altrimenti questi mezzi
non basterebbero a proteggervi.»
Mentre parlava soffiò da sud un vento d’uragano, che sollevava terra e polvere. «Il bonzo del
malanno deve avere il sale sulle labbra» gridarono risentiti i cortigiani. «Nomina il mostro, ed
eccolo qui.»
Tutti si dispersero; il re e Tripitaka scesero nel buco aperto ai loro piedi, e Porcellino e Sabbioso
cercarono di seguirli. «Fermi lì!» esclamò Scimmiotto afferrandoli per le braccia. «Fratellini, non vi
spaventerete per così poco. Facciamo conoscenza con questa creatura, e vediamo che tipo è.»
«Balle!» protestò Porcellino. «Tutti scappano. Perché noi dobbiamo restar qui come scemi a
reggere il moccolo?» Ma i tentativi di liberarsi dalla ferrea stretta di Scimmiotto furono vani. Ed
ecco comparire il mostro:
Che corpo spaventoso, lungo come la fame!
Occhi come fanali, orecchie da elefante
E le zanne d’acciaio aguzze come chiodi.
Le sopracciglia rosse come un arco di fiamma.
Il gran naso protende narici come truogoli.
Crescono sul suo mento pelacci aggrovigliati,
Rossi sopra pellaccia corrugata e verdastra.
Concludon le zampone certe manacce blu
Con artigli taglienti che stringono uno spiedo.
Il vestito consiste in pelle di leopardo,
Piedi nudi, arruffato: è il diavolo in persona.
«Sabbioso, avevi mai incontrato questo bel tomo?» domandò Scimmiotto.
«Non mi pare di conoscerlo.»
«E tu, Porcellino?»
«Di sicuro non abbiamo mai mangiato alla stessa tavola.»
«Mi ricorda qualcuno» suggerì Scimmiotto. «Assomiglia a quella brutta faccia del portinaio al
servizio di Picco dell’Est Uguale al Cielo.»
«Non credo proprio che sia lui» negò recisamente Porcellino.
«Come fai a escluderlo?»
«Sarebbe un fantasma, e nessun fantasma si fa vedere in giro la mattina; girano solo la notte, o
almeno non prima del crepuscolo. E poi non è da fantasmi cavalcar nuvole. Di vento ne sa fare
anche un fantasma, ma è un refolo gelato, non un uragano come questo. Stiamo ai fatti: sarà Rivale
del Pianeta Malefico.»
«Bravo!» sghignazzò Scimmiotto. «Certe volte sai ragionare anche tu. Restate qui, che vado a
intervistarlo e ad aggiustare la faccenda della moglie del re.»
«Vai dove ti pare» rispose Porcellino, «purché non ci coinvolga.»
Scimmiotto non si degnò di rispondere e balzò per aria. Così vanno le cose:
Inizia la salvezza
Con una guarigione.
Senza amore né odio
Si difende la via.
Se in fin dei conti non avete idea della contesa che ne seguì e della liberazione della bella,
ascoltate il seguito che vi racconterà tutto.
CAPITOLO 70
LA REGINA URTICANTE
IN CUI SCIMMIOTTO SI IMPADRONISCE CON L’ASTUZIA DEL TESORO DEL MOSTRO: I SONAGLI D’ORO
CHE GETTANO FUOCO E FUMO.
Come si diceva, Scimmiotto balzò in aria brandendo la sua sbarra di ferro e gridò: «Da dove
vieni, mostro perverso? Con quali criminose intenzioni?»
«Inchìnati al ricognitore di nostro signore il grande re Rivale del Pianeta Malefico, della Grotta
dell’Unicorno sul Monte dell’Unicorno!» replicò la creatura con voce tonante. «Vengo per ordine
suo a prendere due damigelle del palazzo, per impiegarle al servizio di madama Santo Palazzo
d’Oro. E tu chi sei, per osare di interrogarmi?»
«Sono Scimmiotto Consapevole del Vuoto, il Grande Santo Uguale al Cielo. Ho saputo che la
vostra banda di diavoli perversi taglieggia e umilia il re, e ho deciso di ristabilire l’ordine. Mi stavo
giusto chiedendo dove trovarvi: ed ecco che ti vieni a consegnare spontaneamente nelle mie mani.»
Il mostro non seppe valutare chi aveva di fronte e puntò la lancia:
La sbarra è uno strumento divino per sondare gli oceani, la lancia non è che ferro di forgia umana, e perde forza fin dal
primo contatto. Un diavoluccio qualsiasi osa affrontare l’immortale dell’unità suprema, e rischia l’annientamento.
In breve il ferro della lancia si spezzò.
Il mostro fu preso dal panico e corse via come una saetta. Scimmiotto lo lasciò perdere e
ridiscese sul prato: «Maestro, maestà, venite su! La creatura malefica è scacciata.»
Il monaco uscì dal rifugio sorreggendo il re: videro il cielo limpido, senza traccia di miasmi
diabolici. Il re si avvicinò allora a una tavola, versò una coppa di vino e la offrì a Scimmiotto:
«Lasciate che vi ringrazi senza indugio, divino monaco.»
Scimmiotto la prese, ma in quel momento un ufficiale corse trafelato ad annunciare: «Un
incendio è scoppiato alla porta ovest.»
Invece di portare la coppa alle labbra, Scimmiotto la lanciò in aria colma com’era; l’oggetto
d’oro ricadde a terra. Il re, confuso, si inchinò per scusarsi: «Mille scuse, divino monaco, dovete
perdonarmi. Sono in torto. Avrei dovuto pregarvi di salire nella sala grande e porgervi i miei
ringraziamenti nelle dovute forme; ma il vino era qui, a portata di mano, e io ve l’ho offerto senza
riflettere. Certo è questo che volete rimproverare con il vostro gesto.»
«No, no, il motivo è tutt’altro» rispose sorridendo Scimmiotto.
Ed ecco che vennero ad annunciare: «Che fortuna! Un improvviso rovescio di pioggia ha subito
spento le fiamme dell’incendio. L’acqua ha inondato la strada, ma ha uno strano odore di vino.»
«Vedete?» rise il Novizio. «L’incendio è stato provocato dal mostro che avevo messo in fuga; ho
lanciato in aria la coppa perché il fuoco non ardesse il sobborgo ovest della città. Tutto qui.»
Il re, strabiliato, voleva recarsi nella sala di stato, davanti al notaio, e ceder loro trono e regno.
Ma Scimmiotto disse ridendo: «Non divaghiamo, ora mi occorre un’informazione. Il mostro che ho
messo in fuga si diceva ricognitore del Rivale del Pianeta Malefico: sarà tornato a casa a riferire
come sono andate le cose, ma non credo che il suo capo la manderà giù. Mobiliterà il suo esercito e
lo porterà qui: la guerra, anche se vinta, reca alla gente molti danni e sofferenze. Vostra maestà, poi,
ne sarebbe più terrorizzato che mai. Sarà più pratico portar la guerra in casa del nemico; ma non so
in quale direzione e a quale distanza si trovi la sua residenza.»
«Mi è capitato di mandare spie a raccogliere notizie. Il viaggio di andata e ritorno richiede
cinquanta giorni: saranno tremila li, in direzione sud.»
«Porcellino, Sabbioso!» gridò Scimmiotto. «Badate voi alle nostre cose; io vado e torno.»
«Ma aspettate, divino monaco» insisteva il re. «Riposatevi per un giorno, e dateci il tempo di
preparare le provviste per il viaggio. Vi procurerò il cavallo più veloce e il denaro necessario.»
«Vostra maestà parla come se quei tremila li dovessi percorrerli uno a uno, a passo di rachitico.
Ma io conto di essere di ritorno prima che il vino si raffreddi nei bicchieri.»
«Divino monaco, non vorrei essere indiscreto, ma vi prego di levarmi una curiosità. Come avete
fatto, con la vostra nobilissima faccia - verbigrazia - di gibbone, a procurarvi tutte queste incredibili
capacità?»
Scimmiotto rispose:
«Certo son scimmia, ma trovai la Via
Che senza risparmiarmi praticai.
Fornì la terra il focolare e il cielo
Fornì il tetto. Impiegando luna e sole,
yin e yang, acqua e fuoco, illuminai
I misteri. La Grande Orsa mi orienta
E seguendo il suo manico mi muovo.
Io lavoro al fornello, attizzo il fuoco,
Doso piombo e mercurio, so eseguire
Le procedure richieste dai cinque,
Armonizzare le quattro stagioni,
Richiamare i due soffi, le tre case
Raccogliere in un unico elisir.
Se le mie capriole vi stupiscono,
Considerate che le so eseguire
Grazie alla comprensione delle leggi
Di natura. Io supero d’un balzo
Il Guado delle Nubi Trascendenti
Come i Monti Taihang; mille catene
Di montagne, o di cento fiumi il corso,
Fossero larghi come lo Yangzi,
Non ferman la mia corsa: in un sol balzo
Diciottomila leghe ho superato.»
Il re si beava nell’ascolto, e alla fine riempì nuovamente una coppa e gliela tese: «Che meraviglie
divino monaco! Comunque il viaggio è lungo: bevete questa, vi darà ispirazione.»
Ma il grande santo si apprestava a entrare in azione e non aveva più voglia di bere; perciò
rispose: «Berrò al ritorno.» E scomparve con un sibilo, lasciando tutti esterrefatti.
In breve giunse in vista di un’alta montagna, con la vetta che si perdeva nelle brume, vi atterrò e
contemplò il paesaggio.
Innalza al cielo cime taglienti, affonda nella terra le sue vene minerali. La fitta pineta che la corona scherma il sole; le
nuvole si impigliano fra le sue rocce. Pini sempre verdi attraverso le stagioni; rocce immutate attraverso i millenni. Nei
boschi risuona il lamento del gibbone; pitoni mostruosi strisciano attraverso i torrenti. Chi vola cinguetta, chi affila le
zanne ruggisce. Cervi e camosci si muovono in coppie, corvi e gazze di montagna volano in stormi. Infinite varietà di
piante dànno spettacolo, le pesche celebrano il rinnovarsi della stagione.
Il luogo è inaccessibile e cela pericoli: un vero rifugio di immortali perversi.
Scimmiotto si strappò dalla contemplazione che lo incantava, e voleva mettersi in cerca di indizi
di presenze diaboliche, quando vide scaturire da un anfratto un’immensa fiammata. Il cielo
rosseggiava, e vi saliva una colonna di fumo malvagio ancor più orribile del fuoco:
Luce accecante circondata da miriadi di faville. Il fumo non è di fascine o di fornace; ha cinque colori: blu, rosso,
bianco, nero e giallo. Sale ad affumicare i pilastri del portale sud del Cielo, a strinare le travi della Sala delle Nuvole
Misteriose. Spiuma gli uccelli nel bosco, cuoce vivi gli animali nelle loro tane. Solo a vederlo, quel fumo feroce
scoraggia ogni velleità di avvicinarsi e di affrontarne il padrone.
Il grande santo osservava preoccupato, quando vide scaturire un gran getto di sabbia, da oscurare
il sole:
Crepitando ricopre la vasta terra come una pioggia fitta, fine polvere accecante e granelli come semi di sesamo che si
accumulano colmando le vallate. Il cercatore di semplici perde di vista il suo compagno, il boscaiolo smarrisce la strada
di casa. La vista si annebbia: non sapreste distinguere la perla più luminosa, nemmeno se la teneste in mano.
Lo spettacolo aveva il suo fascino, ma sabbia e fumo facevano starnutire. Scimmiotto dovette
turarsi il naso e, con una scossa, si trasformò in falco. Mentre dal cielo scendeva in picchiata sul
punto d’origine, fuoco, fumo e sabbia cessarono d’incanto. Scimmiotto riprese la propria forma e si
avvicinò cautamente. Si udivano colpi regolari di gong. «Si direbbe che mi sia sbagliato e che mi
stia avvicinando, non a un mostro, ma a un messo postale che percorre la strada maestra per
consegnare corrispondenza. Andiamo a vedere.»
Ed ecco effettivamente sulla strada un mostriciattolo che camminava spedito, con una bandiera
gialla sulla spalla, il sacco della corrispondenza dietro la schiena e in mano un piccolo gong che
batteva senza tregua. «Ecco l’origine del rumore» si disse Scimmiotto. «Vediamo quale specie di
lettere vuole recapitare.»
Il grande santo, con una scossa, si trasformò in una mosca e si posò discretamente sul sacco. Il
mostriciattolo borbottava fra sé: «Il nostro re è proprio malvagio. Si è impadronito della regina di
Viola Porpora ma, poiché non riesce a possederla, si vendica sulle ragazze che rapisce dal palazzo
reale: ne ha già ammazzate quattro. Ne voleva altre, ma questa volta è caduto male: il ricognitore
che ha inviato si è imbattuto in un certo Scimmiotto, e ha dovuto ritornare a mani vuote. Il mio
padrone è furioso e mi invia a consegnare la dichiarazione di guerra. Di certo il re di quel paese, se
non cede, finirà male e il suo regno cadrà nelle nostre mani. Ma il Cielo lo consentirà?»
Scimmiotto si disse: «Ecco un mostriciattolo non privo di scrupoli, che gli fanno onore. Ma
vorrei saperne di più sul conto della regina. Intervistiamolo.»
Si allontanò ronzando di una diecina di li e prese l’aspetto di un sacrestano taoista:
Con i capelli raccolti in due ciuffi,
E l’abito di toppe, regge in mano
Il suo pesce di legno, mentre un inno
Del Tao va canticchiando a mezza voce.
Quando, come per caso, si incrociarono, levò le mani per salutare e domandò: «Soldatino, dove
vai? Quali documenti devi consegnare?»
Il mostro rese il saluto e rispose: «Porto una dichiarazione di guerra al paese di Viola Porpora.»
«Quella tizia venuta da Viola Porpora ha poi finito per andare a letto con il gran re?»
«Nemmeno per sogno. Quando giunse da noi, un immortale le donò un abito nuziale di cinque
colori. Quando lei lo indossò, il suo corpo si coprì di spine, pungenti e urticanti; il re non può
nemmeno sfiorarla senza farsi male, altro che andarci a letto! Il nostro ricognitore, inviato a caccia
di ragazze, è stato messo in fuga da un certo Scimmiotto. Perciò il re, furioso, mi manda a intimare
la guerra, che comincerà domani.»
«Mi dici che è d’umore furioso?»
«Certo. Dovresti andarlo a trovare e cantargli i tuoi inni, se ne conosci di distensivi e
rasserenanti.»
Scimmiotto si inchinò in segno di congedo e fece per riprendere la sua strada. Ma un impulso dal
fondo oscuro dell’animo lo spinse a volgersi e a dare una randellata sulla testa del messaggero, che
andò in pezzi spargendo il proprio contenuto sulla strada.
Il Novizio si pentì: «Sono andato troppo di furia. Prima dovevo chiedergli il suo nome.» Si
impadronì della dichiarazione di guerra e se la fece scivolare nella manica; bandiera e gong, li
nascose nell’erba sul ciglio della via. Mentre trascinava il corpo per farlo scomparire, sentì un
rumore metallico: proveniva da una targhetta d’avorio ricoperta d’oro, che il mostriciattolo portava
alla cintura. C’era scritto: Messo di fiducia. Nome: Va e Vieni. Statura: piccola, circa 5 piedi. Segni
particolari: faccia butterata, imberbe. Da portare sempre. Senza piastra di riconoscimento, è un
impostore.»
Scimmiotto si mise a ridere: «Ecco qua; il mio randello gli ha cambiato nome: ora si chiama Va e
Non Torni Più.» Fissò la targhetta alla propria cintura e stava per sbarazzarsi del corpo, quando,
ripensando alla violenza del fuoco che aveva visto, cambiò idea. Preferì raccogliere il corpo e
ritornare alla base per informare su come stavano le cose.
Fu così che ricomparve davanti alla Sala delle Campanelle d’Oro. Porcellino, che montava la
guardia e lo vide arrivare con quel piccolo corpo in mano, si disse con invidia: «Se avessi saputo
che il nemico era robetta del genere, sarei andato io a catturarlo e a prendermene il merito.»
Scimmiotto gettò la preda sui gradini e Porcellino si precipitò a colpirla con il rastrello,
gridando: «Eccolo sistemato, sei salvo.»
«Che cosa dici, scemo?»
«Poche storie, il merito è mio e posso dimostrarlo: guarda se non ha in corpo i nove buchi del
mio rastrello.»
«Li avrà senz’altro, ma non vedi che è un corpo senza testa?»
«To’, è vero, dove ha messo la testa? Ecco perché non si è mosso quando l’ho colpito.»
«Dov’è il maestro?»
«Nella sala d’udienza, a colloquio con il re.»
«Chiedigli se può uscire un momento.»
Quando Tripitaka uscì, il Novizio gli fece scivolare nella manica la dichiarazione di guerra:
«Tenete questo, maestro, e non mostratelo al re.»
Ed ecco che comparve anche il sovrano, che usciva ad accoglierlo: «Ecco il nostro eroe. A che
punto siamo con la cattura del mostro?»
«Lo vedete ai vostri piedi, ucciso dal vecchio Scimmiotto.»
«È certo un mostro» constatò il re dopo averlo esaminato. «Ma non può essere Rivale del Pianeta
Malefico. L’ho visto due volte: è un marcantonio alto diciotto piedi e largo come cinque colonne,
con la faccia che brilla come l’oro e la voce potente come il tuono. Non ha niente in comune con
questo nanerottolo.»
«Vedo che vostra maestà se ne intende. In effetti non è lui» rispose Scimmiotto ridendo; «è
soltanto il suo messaggero in cui mi sono imbattuto. L’ho portato qui come acconto, per
gloriarmene un po’.»
«Avete fatto bene» disse il re. «Nessuna delle mie spie mi aveva mai riportato niente di tangibile.
Ma voi, divino monaco, alla prima uscita sapete già dove mettere le mani. La vostra bravura è
indiscutibile; lasciate che faccia intiepidire il vino per festeggiare il vostro successo.»
«Questo si può rimandare a un altro momento» disse Scimmiotto. «Volevo chiedervi se Santo
Palazzo d’Oro, al momento di lasciarvi, vi ha dato qualche ricordo. Se così fosse, vorrei vederlo.»
A questa domanda, il re sentì una fitta di dolore; senza riuscire a trattenere le lacrime, rispose:
«Mia moglie fu rapita di sorpresa:
Non ci fu il tempo di manifestare
L’infinito dolore, né mi diede
Un pegno od un sacchetto di profumi.
Non mi poté nemmeno salutare.
Di lei non mi rimane che il rimpianto.»
«Maestà, consolatevi» insisté Scimmiotto, «ma pensateci bene. Se non vi ha lasciato un dono
d’addio, ci sarà pure a palazzo qualche oggetto che amava in modo particolare. Ne avrei bisogno.»
«A che cosa vi serve?»
«Ho constatato che quel mostro possiede eccezionali poteri magici. Ho visto il fuoco, il fumo e i
getti di sabbia che è in grado di fare: non sarà facile ricondurlo alla ragione. Ma se ci riesco, o se
comunque mi si presenta una buona occasione, la regina non mi conosce e potrebbe rifiutarsi di
seguirmi. Ho bisogno di un contrassegno che lei riconosca, con la certezza che provenga da voi.»
«Nel Palazzo Riflesso di Sole, nello spogliatoio della regina, c’è un paio di braccialetti che le
piacevano molto e che portava sempre. Se non li aveva alla festa del Doppio Cinque, è solo perché
in quella occasione si portano al polso i fili di cinque colori. Dovrebbero essere nella sua scatola dei
gioielli. Io non sopporterei di vederli: mi ricorderebbero quanto era bella, temo che avrei una
ricaduta nel mio male.»
«Non parliamone più. Spero che possiate separarvene e che qualcuno dei vostri me li possa
consegnare; alla peggio, mi basterebbe di averne uno.»
Il re diede l’incarico di prenderli a Santo Palazzo di Giada. Quando li ebbe in mano li baciò
dicendo: «Mia dolcissima signora!» e li consegnò a Scimmiotto, che se li mise al polso.
Quel sacripante di un grande santo rifiutò il brindisi d’onore che gli veniva offerto e si catapultò
senza altro indugio sul Monte dell’Unicorno. Mentre si muoveva nei pressi della grotta, udì un
brusio, si nascose e osservò: l’ingresso era guardato, a dir poco, da cinquecento persone di ogni
rango.
Eccoli schierati, con le armi che brillano al sole e le bandiere che sventolano: la schiera è fitta e minacciosa.
Tigri ed orsi si possono trasformare in generali e marescialli, da linci e leopardi si ricavano guerrieri di bel portamento. I
lupi grigi sono ancor più feroci, e l’elefante glabro più valoroso.
L’astuta lepre e il daino malizioso si armano di spade e alabarde; il lungo serpente e il grosso pitone preferiscono
sciabole ed archi.
L’orango, che è il più esperto nel linguaggio umano, dirige la battaglia e organizza il campo da vero esperto.
Quando li vide, il Novizio ritornò indietro; non che gli facessero paura, ma gli era venuta
un’idea. Ritornò dove aveva ucciso il mostriciattolo e ricuperò la bandiera e il gong, si diede una
scossa e prese l’aspetto di Va e Vieni. In quella forma, camminando a gran passi e battendo il gong,
si presentò all’ingresso della grotta. L’orango lo apostrofò: «Tutto a posto, Va e Vieni?»
«Ho fatto.»
«Sbrìgati. Il grande re ti aspetta nel Padiglione degli Scorticati.»
Scimmiotto attraversò il portale e si inoltrò nelle alte sale racchiuse da pareti rocciose a
strapiombo; vi crescevano piante e fiori rari, antichi cedri e pini alteri. In breve raggiunse il secondo
ingresso e scorse un padiglione ottagonale in cui si aprivano otto finestre. Nel mezzo, su una
poltrona ricoperta d’oro, troneggiava il re diavolo, di ripugnante aspetto:
Luce di diaspro intorno alla sua testa,
Aura di morte intorno alla figura.
Sporgono i denti aguzzi dalla bocca,
Lanciano i suoi capelli fuoco e fiamme.
Certi mustacchi duri come frecce,
Un ruvido pelame lo ricopre.
Sono gli occhi brillanti come sfere
Di rame, la statura fino al cielo
E una mazza di ferro è la sua arma.
Scimmiotto si tenne sulle sue, non diede nemmeno segno di averlo visto, e venne avanti battendo
il gong.
«Eccoti qua» disse il re. Il falso messaggero non rispose.
«Va e Vieni!» lo chiamò il diavolo. Nessuna risposta. Allora il mostro scese dal trono e lo
acciuffò per il bavero: «Si può sapere che cosa ti prende? Perché continui a battere il gong, come se
fossi ancora sulla strada maestra, e non mi rispondi?»
«Giù le mani!» fece Scimmiotto, gettando a terra il gong. «Ve l’avevo detto che non ci volevo
andare, ma voi avete insistito. C’era un esercito incredibile, uomini e cavalli schierati. Quando mi
hanno visto, hanno gridato: «Dalli al mostro!» Mi hanno legato come un salame e mi hanno
trascinato davanti al re. Lui ha detto: «Tagliategli la testa!» Per fortuna c’erano dei consiglieri che
obiettavano: «È un ambasciatore, per il diritto internazionale non lo si può decapitare.» Almeno ho
salvato la pelle; si sono accontentati di portarmi davanti ai plotoni schierati e di darmi trenta frustate
sul sedere. Questa è la risposta che vi fanno avere. Non credo che ci metteranno molto ad arrivare
qui.»
«Insomma, non mi rispondevi perché te la sei vista brutta.»
«E anche perché ho il sedere tutto indolenzito.»
«Quanti uomini e cavalli avranno?»
«Come volete che li contassi? Ero morto di paura. Erano una bella massa di gente, e bisognava
vedere quante armi: archi, frecce, sciabole, lance, corazze, picche, alabarde, spade, partigiane, asce,
mezzelune, elmi, scudi, usberghi, panciere, spiedi, mazze, tridenti, archibugi ed elmetti. Stivaloni,
vesti imbottite, armati di fruste, mazzapicchi, palle di bronzo...»
Il re si mise a ridere: «Piantala con il tuo elenco! Con un soffio di fiamma farò piazza pulita di
tutta quella robetta. Informa la signora Santo Palazzo d’Oro e dille di non preoccuparsi. Stamane
piangeva tutte le sue lacrime, vedendomi deciso a partire per la guerra. Tu raccontale quante truppe
ben armate hai visto, così la terremo buona per un po’ di tempo.»
«Bell’idea» pensò Scimmiotto fra sé.
Si diresse a una porticina e ne uscì, con la sicurezza di chi si muove in casa propria. Si trovò in
vasti spiazzi circondati da grandi edifici, fra cui uno spiccava per le ricche decorazioni e il portale
colorato: là abitava la dama Santo Palazzo d’Oro. Scimmiotto entrò e vide che il suo servizio era
svolto da due schiere, una di spiriti volpi e l’altra di spiriti cerbiatte, tutte in aspetto di belle ragazze.
La dama era seduta nel mezzo con il volto addolorato, appoggiava la guancia profumata a una mano
e i suoi occhi erano gonfi di lacrime.
La sua bellezza era affascinante, ma non aveva il coraggio di ungere e pettinare i neri capelli dalle crocchie disfatte.
Non portava gioielli, non aveva cipria né rossetto. Serrava la bocca in una smorfia di dolore, corrugava le sopracciglia
di falena e versava lacrime dagli occhi stellanti.
Serrata nella rete da cui non poteva sfuggire, pensava sempre al re di Viola Porpora.
Sempre fu triste la sorte delle belle, condannate a tacere e a esporre il viso al vento dell’est.
Scimmiotto giunse le mani e disse: «Salve!»
«Brutto insolente!» s’indignò la dama. «Se penso che a Viola Porpora ministri e grandi protettori
si prosternavano nella polvere, e non osavano alzare lo sguardo su di me! Questo entra e mi dice:
salve! come se fossi una sguattera. Da dove esce questo zotico?»
Le cameriere spiegarono: «È un militare; calmate la vostra collera signora. Si chiama Va e Vieni,
ed è il messo di fiducia che stamane ha consegnato la dichiarazione di guerra.»
La regina chiese: «Dunque sei andato a Viola Porpora?»
«Certo. Sono entrato in città, ho visto il re e ho riportato la sua risposta.»
«Tu hai visto il re! Che cosa diceva?»
«Fa preparativi militari e intende resistere. Comunque pensa sempre a voi, signora, e mi ha
affidato un messaggio confidenziale per voi, che non potrei riferire in presenza di estranei.»
Volpi e cerbiatte uscirono; Scimmiotto chiuse l’uscio, si passò la mano sul volto e riprese il
proprio aspetto: «Signora, non temete. Sono uno dei bonzi dell’Est incaricati di recarsi dal Buddha
dell’Ovest a chiedere le scritture. Il nostro maestro è Tripitaka; io mi chiamo Scimmiotto
Consapevole del Vuoto, e sono il suo discepolo anziano. Passando dal vostro paese, abbiamo visto
un appello ai medici per curare la nevrastenia del re: sono stato io a guarirlo. Durante il banchetto di
ringraziamento, sua maestà mi ha raccontato la vostra storia e, visto che so abbattere tigri e draghi,
mi ha incaricato di liberarvi. Sono io che ho messo in fuga il ricognitore; il mostriciattolo di cui
avevo preso l’aspetto l’ho incontrato per strada e ucciso. Questa grotta è ben vigilata; perciò ho
dovuto prendere qualche precauzione per giungere sino a voi.»
La dama restava silenziosa. Scimmiotto le tese i braccialetti: «Vi chiederete se mi potete credere;
guardate questi.»
Quando li vide, essa pianse e si alzò dal suo seggio per inchinarsi davanti a lui: «Reverendo, se
davvero riuscirete a liberarmi e a riportarmi nel mio paese, non lo dimenticherò mai; vi resterò grata
anche quando sarò una vecchia sdentata.»
«Ora mi serve un’informazione: sapete di quale tesoro si serva il padron di casa per produrre
fuoco, fumo e sabbia?»
«Usa tre sonagli d’oro. Agitando il primo suscita fiamme devastatrici alte trecento tese; il
secondo diffonde raffiche di fumo in grado di soffocare chiunque entro un raggio di trecento tese; il
terzo, nello stesso raggio, acceca il mondo con la sabbia gialla. Fuoco e fumo sono il minor male;
ma la sabbia è letale per chi ne respiri.»
«Ho sperimentato queste cose, sono davvero terribili: sono riuscite a farmi starnutire due volte.
Dove nasconde i sonagli?»
«Non li ripone, li tiene sempre con sé appesi alla cintura, anche quando dorme.»
«Se davvero tenete a rivedere il regno di Viola Porpora e a ritrovare vostro marito, dovete fare
uno sforzo. Abbandonate questo aspetto depresso e addolorato; dovete mostrarvi allegra e invitante,
dovete sedurre il mostro. Al momento giusto gli chiederete di affidarvi i sonagli. Se riesco a rubarli,
sarà facile vincerlo e riportarvi a casa.»
La dama promise. Scimmiotto riprese l’aspetto di mostriciattolo, aprì l’uscio e richiamò le
cameriere.
«Sbrigati, Va e Vieni» ordinò la regina. «Come ti ho detto, va nel padiglione anteriore da sua
maestà, e invitalo a farmi visita. Ho molte cose da dirgli.»
Il bravo Scimmiotto grugnì soddisfatto e corse al Padiglione degli Scorticati: «Maestà, la dama
Santo Palazzo chiede di vedervi.»
«Come mai oggi mi cerca, mentre di solito mi scaccia a male parole?» si meravigliò il re diavolo.
«È semplice. Le ho raccontato che a Viola Porpora il re non vuole più saperne di lei, e si è preso
varie nuove mogli. A questo punto le è venuto in mente di rivolgersi a voi.»
«Furbacchione, devo dire che sai renderti utile» esclamò contento il re diavolo. «Quando avrò
conquistato il regno, ti nominerò gran ciambellano.»
Scimmiotto ringraziò e lo seguì al palazzo della regina. La dama fece al diavolo lieta accoglienza
e volle prenderlo per mano, ma lui esitò con manifesto imbarazzo: «Signora, non oso. Non so come
ringraziarvi dei vostri segni di affetto, ma c’è qualcosa... Insomma, ricordo ancora con terrore il
male che sentii alla mano l’unica volta che mi permisi di toccarvi.»
«Prego vostra maestà di sedersi e di mettersi comodo. Parliamone, spiegherò tutto. Sono già
trascorsi tre anni da quando vostra maestà mi ha fatto l’onore di scegliermi, ed è vero, da allora non
abbiamo ancora condiviso il nostro letto. Il fatto è che solo ora mi appare chiaro che il destino,
stabilito dalle nostre vite precedenti, vuole che siamo marito e moglie. Da parte mia sono pronta ad
adeguarmici; ma non credevo che, a questo punto, poteste essere voi a tirarvi indietro. Non devo più
essere un’estranea per voi; fra noi ci deve essere confidenza e intimità. Quand’ero regina di Viola
Porpora, ogni tributo che venisse portato da paesi stranieri veniva esaminato dal re e poi affidato a
me, che provvedevo alla sua custodia. Certo qui non ci sono oggetti di lusso; i vostri si vestono da
selvaggi e si nutrono di sangue; non usate sete o perle, sui pavimenti e sulle pareti non si vedono
che pelli di selvaggina. Ma infine qualcosa di prezioso lo avrete, qualche tesoro che non mi avete
mostrato perché fra noi non c’era confidenza. Per esempio ho sentito parlare di certi sonagli che
suppongo abbiano qualche valore, visto che li portate sempre con voi. Dateli a me: saranno custoditi
con cura, e li avrete a disposizione ogni volta che vorrete. Marito e moglie fanno così. Altrimenti
che cosa sarei per voi? Un’estranea?»
Il re diavolo ridacchiò e si scusò: «Avete ragione, signora; non posso negare che i vostri
rimproveri sono fondati. Ecco il mio tesoro: ve lo affido.» E si sollevò gli abiti per cercare gli
oggetti.
Scimmiotto se ne stava in un angolo con gli occhi ben aperti. Vide che il mostro sollevò due o tre
strati di indumenti prima di arrivare ai sonagli, che teneva a contatto della pelle. Li staccò, li
avvolse in una pelle di leopardo imbottita di fiocco di seta e li tese alla regina: «Vi sembreranno
oggetti di poco pregio, ma vanno conservati con ogni cura, e soprattutto non si devono scuotere.»
«Va bene» disse la dama prendendoli. «Li chiudo in questo cassetto della mia toilette: non li
scuoterà nessuno.» E chiamò: «Ragazze, servite il vino. Voglio celebrare questo felice incontro con
il re vuotando molte coppe.»
Le cameriere disposero sulla tavola frutta e verdure con piatti di cacciagione, e servirono vino di
palma. La dama si occupava personalmente del re diavolo, con modi da ammaliatrice.
Intanto Scimmiotto si mise al lavoro: scivolò pian piano fino alla toilette, si impadronì
dell’involto, riguadagnò cautamente la porta e si eclissò. Mentre passava davanti al Padiglione degli
Scorticati si lasciò indurre dalla curiosità a svolgere la pelle di leopardo: c’era un sonaglio delle
dimensioni di una tazza da tè, affiancato da altri due grossi come pugni. Incosciente del pericolo,
per guardarli meglio li levò dal fiocco che li imbottiva. Subito ci fu un’esplosione, e fuoco fumo e
sabbia sgorgarono incontenibili. In un attimo, un terribile incendio arse il padiglione.
I mostri di guardia, terrorizzati, diedero l’allarme. Il re diavolo corse fuori dal palazzo della
regina e vide Va e Vieni con i suoi sonagli in mano. Urlò: «Schiavo maledetto! Che cosa fai con
quella roba?» E alle guardie: «Prendetelo! Arrestatelo!»
Subito generali tigri, comandanti orsi, capitani leopardi, linci, elefanti, lupi, daini, lepri, pitoni e
oranghi gli si precipitarono addosso. Scimmiotto lasciò cadere i sonagli, riprese il suo aspetto e si
fece strada nella folla con la sbarra di ferro. Il diavolo si gettò a ricuperare il tesoro e ordinò:
«Chiudete l’ingresso!»
Chi combatteva, chi correva a chiudere i battenti. Scimmiotto scelse di trasformarsi in
moscerino, e si andò a posare su un tratto di parete al riparo dalle fiamme. Nessuno più lo vedeva;
corsero ad annunciare: «Maestà, il brigante è scappato.»
«L’avete visto uscire dal portone?»
«Veramente no; quello è chiuso e sbarrato.»
«E allora cercate meglio» rispose il diavolo.
Lasciando ad alcuni il compito di attingere acqua per spegnere l’incendio, tutti gli altri si
dedicarono alla ricerca, frugando dappertutto senza trovare traccia del fuggiasco.
«Chi sarà questo delinquente, così audace da venirmi a rubare il mio tesoro sotto il naso?»
brontolava il diavolo adirato. «Meno male che non è riuscito a portarselo via. Sulla montagna,
esposto al vento, chissà che disastro avrebbe combinato.»
«Il fatto è che vostra maestà ha una fortuna più alta del cielo» disse un generale tigre.
«Sapete, maestà» disse un comandante orso, «chi doveva essere quel brigante? Di certo era
Scimmiotto, lo stesso che ha messo in fuga il nostro ricognitore. Avrà incontrato per strada Va e
Vieni, lo avrà ammazzato e avrà preso le sue cose e il suo aspetto.»
«Penso che tu abbia ragione» approvò il re diavolo. E ordinò: «Ragazzi, continuate le ricerche e
non lo lasciate assolutamente uscire di qui.»
È il gioco del destino:
Dopo l’astuzia, manchi di accortezza.
Qui ti può salvar solo la prodezza.
Se in fin dei conti non avete idea di come il Novizio si cavò dai pasticci, verrete a saperlo
ascoltando il seguito.
CAPITOLO 71
UN CANE LUPO DI PELO GIALLO
IN CUI SCIMMIOTTO, SOTTO FALSO NOME, VINCE IL MOSTRUOSO CANE LUPO; E LA PUSA GUANYIN
FA LA SUA APPARIZIONE PER SOTTOMETTERE IL RE DIAVOLO.
Che la sensualità sia vacuità è risaputo; si dice anche che la vacuità è sensualità. Chi comprende questa
profonda verità non ha bisogno di trasmutare polvere di cinabro. Bisogna sopportare pene e fatiche, senza
rinunciare a una condotta irreprensibilmente virtuosa.
Quando verrà il momento e il lavoro sarà compiuto, rivolgerai al cielo il volto dell’immortale che vive
nell’eternità.
Il racconto ci ha detto come Rivale del Pianeta Malefico fece sbarrare le porte prima di mettersi
alla ricerca di Scimmiotto. La caccia proseguì fino a sera con grande impegno e agitazione, ma non
diede frutto.
Infine il re diavolo convocò le sue truppe nel Padiglione degli Scorticati per dare le consegne.
Ogni porta doveva essere adeguatamente vigilata, le guardie dovevano chiedere la parola d’ordine,
agitare le campanelle, battere il tamburo e schioccare le nacchere. Le ronde dovevano pattugliare
con sciabola sguainata e freccia all’arco.
Il moscerino Scimmiotto si era posato sull’architrave; quando li vide occupati ad adottare tante
severe misure, pensò bene di andare in visita dalla regina. La trovò scoraggiata e accasciata, che
piangeva e gemeva. Si posò sulla nera nube dei suoi capelli scompigliati e la sentì dire: «O signore!
Di certo ci è accaduto, nelle vite anteriori,
Di fare un passo falso, bruciare bastoncini
Incrinati d’incenso. Dopo tre lunghi anni
Che siamo separati, mi è giunto il tuo messaggio.
Ma per quel malinteso sopra i sonagli d’oro
È morto il messaggero, perduta ogni speranza.
Eppure il mio pensiero solo a te so rivolgere.»
Scimmiotto si spostò dietro il lobo dell’orecchio e bisbigliò: «Rassicuratevi, dama Santo
Palazzo. Sono ancora il reverendo Scimmiotto, quello che vi era stato inviato dal vostro re: non
sono morto. Sono stato incauto nel maneggiare i sonagli e non sono riuscito a disimpegnarmi in
tempo quando mi hanno aggredito; perciò ho preferito trasformarmi in moscerino e restare nascosto
qui dentro. Che ne direste di riprovare? Non potreste trattare il mostro da moglie amorosa e
portarvelo a letto? A me darebbe libertà di movimenti, e la possibilità di architettare qualcos’altro
per liberarvi.»
La regina si spaventò; le venne il batticuore, tremava come una foglia e si sentiva svenire: «Sei
uomo o fantasma?»
«Né una cosa né l’altra. Al momento, come vi dicevo, sono un moscerino. Non abbiate paura;
pensate a far venire qui il re diavolo.»
«Incubo, lasciami!» mormorò lei con un filo di voce, sbarrando gli occhi. Credeva di sognare.
«Non volevo spaventarvi. Aprite la mano, che ci salto sopra e mi faccio vedere.»
Lei tese la sinistra e l’insetto si posò sul palmo delicato. Si sarebbe detto
Un pisellino su un botton di loto,
Ape sulla peonia,
Un chicco d’uva in grembo ad un’ortensia,
Un granello sul giglio.
Santo Palazzo d’Oro levò il palmo della mano all’altezza degli occhi e chiamò: «Divino
monaco!» «Eccomi qua» rispose Scimmiotto ronzando. Lei si dovette convincere e chiese: «Che
cosa contate di fare, mentre distrarrò quel bruto?»
«Gli antichi avevano due detti: la via dell’alcol è la più corta per giungere alla rovina; ma
anche: bevi per dimenticare. In effetti l’alcol ha diversi usi. Il più efficace è di farlo bere agli altri.
Chiamate una delle vostre cameriere: io prenderò le sue sembianze e potrò restarvi vicino senza
destar sospetto, e agire al momento giusto.»
La dama chiamò: «Grazia di Primavera!», e una bella volpicina dal volto di giada venne a
inginocchiarsi davanti a lei: «Ordinate, signora.»
«Fa accendere le lanterne di garza e bruciare muschio. Voglio invitare sua maestà a venire a
letto.»
Sette od otto spiriti volpi e cerbiatte si munirono di lanterne e di bruciaprofumi e fecero ala alla
signora, che si alzò con le mani incrociate sul petto.
Nel frattempo Scimmiotto si era posato sulla bella volpicina e aveva mutato uno dei propri peli
in un insetto del sonno: quando esso penetra nel naso, l’effetto è irresistibile. La ragazza si sentì
invasa dal torpore e si diresse barcollando verso il letto, dove cadde riversa e ci restò a russare
pacificamente. Scimmiotto prese il suo aspetto e si mise in fila con le altre cameriere.
Quando un mostriciattolo informò il re diavolo che la signora veniva a trovarlo, egli uscì dal
Padiglione degli Scorticati a incontrarla.
«Grande re, ora che l’incendio è domato e quel brigante è scomparso, potreste venire da me a
prendere un po’ di riposo.»
«Signora» rispose lusingato il mostro, «vi sono davvero grato della vostra attenzione. Ma sono
inquieto, perché quel brigante non è stato scovato ed è molto pericoloso. Non è altri che Scimmiotto
Consapevole del Vuoto, che ha messo in fuga il mio ricognitore, ucciso il mio messaggero e si è
fatto beffe di me in tutti i modi.»
«Evidentemente è riuscito a scappare. Non potete perdere il sonno per questo; venite con me!»
Il diavolo era troppo tentato per rifiutare. Diede tutte le consegne di vigilanza e di prudenza, e
seguì la regina nel palazzo posteriore con il corteo delle cameriere, fra cui la falsa Grazia di
Primavera.
«Servite a sua maestà del vino, per ristorarlo delle sue fatiche» ordinò la regina.
«Mi farà piacere» disse il re diavolo. «Portatene molto, perché servirà a ristorare anche la
signora.»
A mescere si apprestò appunto Grazia di Primavera, mentre le altre portavano tavoli e seggiole, e
servivano frutta e piattini di cacciagione. Dopo il primo giro di coppe, la bella cameriera ne propose
un secondo: «Questa è la prima volta che scambiate le coppe; doppio scambio porta doppia
felicità.»
Dopo il secondo brindisi, Grazia di Primavera propose: «Maestà, per questo felice incontro con
la signora, non converrà che le cameriere mostrino la loro abilità nel canto e nella danza?»
Subito gli strumenti vennero accordati, e si continuò a bere fra canti e danze. Poi la signora fece
ritirare le altre dietro il paravento e trattenne la sola Grazia di Primavera, che continuava a mescere.
La signora mormorava paroline dolci, ed era così seducente che il re diavolo fondeva come neve al
sole ed era pieno di voglie. Ma come affrontare quelle spine urticanti nascoste sotto le gonne? Il
pover’uomo si trovava nella situazione del gatto che addenta una vescica: tanta eccitazione, nessuna
soddisfazione.
Dopo molti giochetti e risatine, la regina si arrischiò ad affrontare l’argomento che le premeva:
«Il tesoro di vostra maestà non avrà subito danni?»
«Non sarebbe facile danneggiare oggetti forgiati prima della separazione del cielo e della terra. È
bruciata soltanto la pelle di leopardo che li avvolgeva.»
«E ora come li custodirete?»
«Non c’è problema. Li ho appesi di nuovo alla mia cintura.»
Allora la falsa Grazia di Primavera, di soppiatto, si strappò alcuni peli, li ridusse in minuti
frammenti e li soffiò addosso al re diavolo. I frammenti si trasformarono nelle tre specie di insetti
odiosi: pulci, pidocchi e cimici. Essi si insinuarono sotto i vestiti e partirono selvaggiamente
all’attacco. Il malcapitato cercò disperatamente di grattarsi, fece qualche preda e si avvicinò alla
lampada per vedere di che cosa si trattasse: erano pulci belle grasse. La dama fu colta da un brivido
di disgusto e osservò: «Presumo che la vostra biancheria non veda il bucato da qualche tempo.»
«Dio mio, non mi ero mai trovato addosso bestie come queste» esclamò il diavolo molto
imbarazzato. «Hanno scelto il momento peggiore per coprirmi di vergogna.»
«Vostra maestà non si stia a vergognare» disse ridendo la dama. «Non si dice: anche
l’imperatore ha le sue pulci, ma sono pulci imperiali? Levatevi gli abiti, vi aiuterò a ripulirli.»
Il diavolo si spogliò di buon grado. Grazia di Primavera osservava le bestiole che venivano alla
luce a ogni successivo strato di vestiario: le pulci saltavano, le cimici succhiavano, i pidocchi
formicolavano a grappoli interi. Sulla nuda carne, anche i sonagli d’oro che vi erano legati
scomparivano sotto innumerevoli insetti.
«Date qui, maestà» disse la cameriera, «bisogna fare piazza pulita di questa porcheria.»
Quando ebbe i sonagli in mano, mentre si dava l’aria di spolverarli, ne fabbricò di falsi mediante
la trasformazione di un pelo e si nascose addosso quelli autentici. Poi, con una scossetta, ricuperò i
peli già trasformati in insetti. Quando restituì i falsi sonagli puliti e lucenti, il re diavolo non
sospettò l’inganno e li consegnò alla regina: «Mi raccomando, questa volta custoditeli con cura.» La
dama li prese cautamente e li depose in un cofano d’abiti, che chiuse con un lucchetto d’oro.
Si trattennero a bere un altro po’, finché la regina ordinò di preparare il letto d’avorio con
coperte di seta: «Spero che vostra maestà vorrà dormire con me.»
«Magari potessi! Ma, sapete, non ho fortuna...» diceva il re diavolo. «Non oso farvi compagnia.
Sarà meglio che mi prestiate una delle vostre cameriere, e che me la porti a letto nell’ala ovest.» E
se ne andò facendole tanti piccoli saluti gentili.
Il gong e le nacchere suonavano mezzanotte. Il bravo Scimmiotto, che aveva raggiunto il suo
scopo, si rese invisibile e, dopo avere ricuperato anche il pelo trasformato in insetto del sonno, si
avviò al portone della grotta. Qui giunto, puntò la sua sbarra e le impresse il movimento che apre le
serrature: catene e catenacci caddero a terra e i battenti si aprirono lentamente. Il Novizio uscì
all’aperto, si allontanò di qualche passo e gridò con voce tonante: «Rivale del Pianeta Malefico,
restituisci Santo Palazzo d’Oro!»
Al grido ripetuto, la folla dei mostri grandi e piccoli fu messa in allarme e corse alla porta. I
battenti erano spalancati. Prima di avvertire sua maestà, rimasero per un po’ indaffarati, con le loro
lanterne, a cercare e rimettere al loro posto i catenacci caduti al suolo.
Le servette corsero a dire sottovoce: «Zitti, per carità! Sua maestà dorme.» Per questa ragione,
benché Scimmiotto facesse il diavolo a quattro, nessuno osava entrare a riferire il messaggio. Per
farli decidere, il Novizio dovette picchiare la sua sbarra sul portone: a questo punto il baccano fu
tale che si annunciò da sé. Il re saltò dal letto in mutande, e uscì a precipizio dalle cortine di garza
per vedere che cosa succedeva.
«Signore» spiegarono le servette inginocchiate, «non sappiamo chi sia. È qualcuno che passa la
notte là fuori a gridare insulti, e adesso se l’è presa con il nostro portone.»
Ed ecco arrivare i mostriciattoli portinai, che si prosternarono e balbettarono: «Qualcuno, là
fuori, ingiuria e reclama Santo Palazzo d’Oro. Abbiamo cercato di zittirlo, ma è un incredibile
maleducato: risponde ai nostri rimproveri con parolacce immonde. Non vedendovi comparire, ha
preso a battere sulla porta.»
«Non aprite! Chiedetegli chi è e da dove viene, e fatemi sapere che cosa risponde.»
Un mostricino tremante si accostò al portone e chiese: «Chi bussa?»
«Sono il nonno! Devo riportare Santo Palazzo a Viola Porpora.»
Il mostro corse a riferire. Il diavolo si recò nei quartieri della signora per chiedere chiarimenti.
Lei si alzò tutta spettinata e si aggiustò come poté per riceverlo, senza avere nemmeno il tempo di
far toilette. Un altro mostriciattolo corse ad annunciare: «Quel signor Nonno ha buttato giù il
portone.»
«Signora» chiese il diavolo, «c’è un certo Nonno fra i generali e capitani alla corte di Viola
Porpora?»
«Non ricordo davvero i loro nomi. Solo a corte c’erano quarantotto brigate e mille comandanti
scelti; alle frontiere del paese, non so nemmeno quanti. Io mi occupavo solo della gestione di casa.»
«Questo intruso dice di chiamarsi Nonno. Non mi pare che sia un nome scritto nel Classico dei
patronimici. Voi che siete più colta di me e avete avuto un’educazione nobiliare, avete mai letto o
sentito un nome simile?»
«Non saprei. Sarà forse nel Testo dei mille caratteri?»
«Ecco, sarà citato là dentro» esclamò il diavolo soddisfatto. Andò a indossare l’armatura, schierò
le truppe e andò incontro al nemico impugnando l’ascia Spandi Fiori. Gridò con voce tonante:
«Dov’è questo signor Nonno che viene da Viola Porpora?»
Scimmiotto si fece avanti: «Eccomi qua, saggio nipote.»
«Ma come!» sbottò il mostro adirato. «Dove hai trovato la sfacciataggine di venirmi a sfidare,
con quell’aspetto a metà tra il fantasma e il macaco?»
«Brutto imbroglione!» gli rise in faccia Scimmiotto. «Sembri avere occhi in faccia, ma non ti
servono a niente. Cinquecento anni fa, quando in cielo correvo la cavallina, non c’era dio o
guerriero che non mi desse dell’onorevole; sta sicuro che chiamarmi adorato nonno non può farti
che bene.»
«Sbrigati a farmi sapere come ti chiami, e quali sono le tue referenze militari.»
«Male t’incoglie a chiedermelo: quando te l’avrò detto, non saprai più dove nasconderti. [...]».
Udito il racconto della vita e delle gesta di Scimmiotto, il re diavolo commentò: «Dunque sei
quel tizio che combinò tanti guai in paradiso. Ma se ora proteggi il monaco cinese che si dirige a
occidente, perché non vai con lui per la tua strada? Che bisogno avevi di immischiarti nei fatti degli
altri e di comportarti da servo del re di Viola Porpora?»
«Brigante che non sei altro!» gridò Scimmiotto. «Non sai quello che dici. Il re di Viola Porpora
mi rende i più alti onori. La mia dignità è molto più elevata della sua: lui mi onora come un
antenato e mi serve come una divinità. Come osi darmi del servo? Tuo nonno si è proprio stufato.
Ora vedrai, fellone ribelle.»
Il diavolo parò il primo colpo con il manico della sua ascia. Un bello scontro!
Sbarra cerchiata d’oro A Piacer Vostro e ascia Spandi Fiori, più tagliente del vento; uno sprizza faville, l’altro digrigna i
denti. Sputano nebbie e brume fino ai palazzi del cielo, sollevano un polverone da offuscare l’Orsa Maggiore: vanno,
vengono, ribattono i colpi, girano e rigirano come saette.
Uno vuol riportare la regina nella capitale, l’altro vuole tenerla per sé.
Una cinquantina di riprese non decisero l’esito, ma convinsero il re diavolo che, ad armi pari,
quell’avversario era un osso troppo duro per lui. Perciò propose: «Fermiamoci un momento,
Scimmiotto. Non mi hai dato nemmeno il tempo di far colazione; mangio qualcosa e ritorno subito
da te.»
Scimmiotto capì benissimo che l’intenzione era di andarsi a munire dei sonagli. Abbassò l’arma
e disse: «Il prode non insegue la lepre sfiatata. Buon appetito, e torna subito a farti conciare per le
feste.»
Il mostro rientrò in casa e corse dalla dama: «Presto, datemi il mio tesoro.»
«Che cosa intendete farne?»
«Mi serve contro quell’imbroglione del mio avversario. Non si chiama Nonno, è il maledetto
Scimmiotto. Non è facile da battere, ma se uso i sonagli lo brucio in un baleno.»
La dama tergiversava, ma non osò resistere alle sue insistenze per non destar sospetti; gli
consegnò i sonagli e, non appena il mostro corse fuori, si sciolse in lacrime al pensiero della brutta
fine che il suo paladino stava per incontrare.
Il mostro si collocò con il vento alle spalle e gridò: «Guarda, Scimmiotto, che bei giocattoli ho
portato.»
«Niente male» rise il Novizio. «Ma anch’io ho i miei.»
«Di che cosa si tratta? Fammi vedere.»
Scimmiotto, per ordine, ridusse la sua barra alle dimensioni di un ago da ricamo, se la infilò
dietro l’orecchia e cavò flemmaticamente dalla cintura i tre sonagli, che tra parentesi erano quelli
autentici: «Ecco qua.»
«Che strano!» si meravigliò il mostro. «Come mai sono identici ai miei? A fabbricarli insieme,
ne uscirebbe pur sempre qualche graffio diverso o segno particolare: qui non si vede la minima
differenza. Da dove vengono?»
«E i tuoi da dove vengono, saggio nipote?»
«I miei» rispose ingenuamente il mostro
«vengono dal profondo della Via Lattea; furono
Da Laozi raffinati nel forno Otto Trigrammi.»
«Anche i miei» rise Scimmiotto.
«Come fu?»
«Il patriarca del Tao, raffinando elisir,
Mise a cuocere in forno anche questi sonagli.
Due volte tre fa sei: sono tesori in serie.
Se quelli sono i maschi, i miei sono le femmine.»
«Non sono mica bestie» obiettò il re diavolo. «Come si distinguerebbero sonagli maschio da
sonagli femmina? La sola differenza che conta è che cosa sanno fare quando li si scuote.»
«Giusto, proviamoli. Comincia tu.»
Il diavolo li agitò uno dopo l’altro, senza ottenere niente: né fuoco dal primo, né fumo dal
secondo, né sabbia dal terzo.
«Che strana faccenda» borbottava preoccupato. «Saranno di quella specie di maschi che si fanno
metter sotto dalle loro femmine: gli basta vederle, per non saper più che pesci pigliare.»
«Saggio nipote» sghignazzò Scimmiotto, «adesso è il mio turno: sta a vedere.»
La brava scimmia impugnò i tre sonagli e li scosse tutti insieme: ed ecco scaturire vampe
scarlatte da illuminare tutta la montagna, torrenti di fumo da oscurarla, e sabbia gialla in quantità. Il
grande santo si volse a sud ovest e ordinò: «Lévati, vento!» e quello incominciò a soffiare nella
direzione più opportuna. Rivale del Pianeta Malefico, in mezzo all’incendio universale, si vide
perduto senza via d’uscita.
In quel momento, dall’alto del cielo, si udì un richiamo: «Consapevole del Vuoto, eccomi qua.»
Scimmiotto alzò la testa e vide la pusa Guanyin, con il suo vaso immacolato e il ramo di salice,
che aspergeva le fiamme per spegnerle. Scimmiotto fece scomparire destramente i sonagli, mentre
le gocce di rugiada benedetta eliminavano rapidamente ogni traccia d’incendio.
«Scusate, grande compassionevole, se mi sono trovato inavvertitamente sul vostro cammino.
Posso chiedervi dove siete diretta?»
«Sono venuta a riprendermi questa creatura malefica.»
«Si può sapere chi è questo impudente, che vi costringe a mettervi in viaggio per venirlo a
cercare?»
«È il cane lupo di pelo giallo che adopero a volte come cavalcatura. Ha colto un momento in cui
il suo custode dormiva, per spezzare con i denti la catena e fuggire quaggiù. È venuto a compiere la
maledizione che gravava sul re di Viola Porpora.»
«A me risulta che ha umiliato il re e ha violato il buon costume cercando di stuprare la regina. In
pratica, non ha fatto altro che combinare guai.»
«Non sai tutto. Quando l’attuale re era ancora principe ereditario, amava molto la caccia. Una
volta si imbatté nei due figli, maschio e femmina, dell’illustre re e pusa Pavone e della madrebuddha dell’Ovest, e li colpì con una freccia. Il maschio ci lasciò le penne; la femmina, benché
ferita, riuscì a ritornare a casa. Sua madre, addolorata, decretò che il colpevole sarebbe stato
separato per tre anni dalla propria compagna, e afflitto dalla malattia che colpisce gli uccelli
vedovati. Fui testimone di queste cose mentre andavo attorno a cavallo del mio cane lupo. Non mi
resi conto che lui ascoltava tutto e non immaginai che si sarebbe incaricato dell’esecuzione. Ma ora
i tre anni sono trascorsi e il tempo è scaduto. Tu sei arrivato al momento giusto, e per me è tempo di
ricuperare il mio mezzo di trasporto.»
«Pusa, mettetela come volete, ma questa brutta bestia ha trasgredito un bel po’ di leggi e meritato
la pena di morte. Visto che siete venuta fin qui, non pretendo di arrivare a tanto, ma un castigo ci
vuole. Diciamo che potrei dargli venti bastonate; dopo di che ve lo porterete via.»
«Consapevole del Vuoto» rispose Guanyin, «sai benissimo che, dopo venti bastonate di quelle
che dài tu, mi riporterei a casa un cencio senza vita. Devi concedere l’indulgenza plenaria; fallo per
riguardo a me.»
Scimmiotto non osò opporsi, e si accontentò di commentare: «In ogni caso sarà bene che non lo
lasciate andare in giro solo: è un pericolo pubblico.»
«Su, brutta bestia» gridò la pusa al cane, «si torna a casa! Che cosa credi di esserti meritato?»
La bestia riprese il suo normale aspetto, scosse il pelo e si avvicinò docilmente. La pusa gli
sedette in groppa, ma si accorse che dal collare mancavano i tre sonagli.
«Consapevole del Vuoto, tirali fuori!»
«Non so di che cosa parliate.»
«Furfante di una scimmia, non farmi perdere la pazienza e restituisci i sonagli» si mise a urlare
Guanyin. «Chi altri avrebbe messo le mani addosso a questa bestia, a rischio di farsi mangiar vivo?»
«Davvero, non so dove siano finiti» insisté Scimmiotto arrischiando un sorriso di sbieco.
«Ho capito. Tu non hai visto i sonagli, e io allora recito l’incantesimo del cerchio.»
«Ferma, per carità» supplicò Scimmiotto spaventato. «Scherzavo: eccoli, i vostri sonagli.»
È il caso di dirlo:
Chi ha staccato i sonagli dal collare?
Chi prima li attaccò lo può spiegare.
La pusa sistemò il collare della sua cavalcatura e montò in alto diretta verso i mari del Sud,
Dei fior di loto facendo cuscino,
Col corpo avviluppato in fili d’oro.
Scimmiotto, da parte sua, penetrò nella Grotta dell’Unicorno e fece piazza pulita di tutti i mostri
che conteneva. Poi si rassettò e andò a invitare Santo Palazzo a ritornare dai suoi. La regina lo
accolse con molte gentilezze e lui le raccontò tutti i particolari delle ultime vicende e degli antefatti.
Quindi si procurò un mucchio di morbida paglia e l’annodò in forma di drago: «Ora, signora,
sedetevi qui sopra e chiudete gli occhi. Non abbiate paura: la nostra destinazione è il palazzo reale,
da vostro marito.» Mentre Scimmiotto usava i suoi poteri magici, la dama gli ubbidiva
scrupolosamente: udì soltanto il vento sibilare nelle orecchie.
In meno di un’ora raggiunsero la città. Scimmiotto gridò: «Ora, signora, potete aprire gli occhi.»
La regina li spalancò, e riconobbe le torri e i padiglioni che le erano familiari. Piena di gioia, si
alzò dal drago di paglia su cui era seduta e corse alla sala d’udienza, seguita dal Novizio.
Il re scese dal trono a precipizio per andarle incontro, ma, quando tese la mano a toccarla, la
ritrasse gemendo: «Dio, che male!» e cadde svenuto.
Porcellino scoppiò a ridere: «Ma guarda che sfortuna! La desiderava tanto, che quando l’ha
rivista è caduto morto.»
«Scemo» gli disse Scimmiotto, «vorrei vedere te.»
«Devo provare ad abbracciarla?»
«A tuo rischio, caro mio. A questa signora sono cresciuti degli aculei velenosi su tutto il corpo. Il
mostro che l’aveva rapita non poté mai toccarla: ci provò una volta all’inizio, e sentì un tale dolore
che bastò a tenerlo alla larga per tutti i tre anni successivi.»
«Ma allora, come faremo?» chiedevano allarmati i funzionari, a sentire queste spiegazioni.
Intanto le mogli Palazzo d’Argento e Palazzo di Giada si prendevano cura del re, lo facevano
ritornare in sé e lo aiutavano ad alzarsi.
Mentre tutti erano disorientati, una voce dall’alto gridò: «Eccomi, grande santo!» Scimmiotto
alzò gli occhi e vide:
Gru battono le ali, lanciando i loro lunghi gridi; la brezza porta spirali di luce splendente. Brume e nuvole sembrano
uscire dal mantello del nuovo arrivato. Ai piedi sandali di paglia di foggia insolita; in mano uno scacciamosche di barbe
di drago; alla vita una cintura di seta.
Erra qua e là sulla terra, a proprio agio e arbitrio, e dovunque annoda il destino degli uomini.
È l’immortale della Nube di Porpora, sceso dalle alte sfere per disperdere l’incantesimo.
«Qual buon vento ti conduce qui, Zhang Ziyang?» chiese Scimmiotto andandogli incontro.
«Grande santo, l’umile immortale Zhang Boduan ti porge i suoi rispetti.»
«Da dove vieni?» chiese Scimmiotto.
«Vengo da casa. Mi ero trovato a passare da queste parti tre anni fa, mentre andavo dal Buddha
per una congregazione. Vidi la prepotenza che subiva il re e m’inquietai per l’afflizione della
regina: se il mostro se la fosse portata a letto, in dispregio ai buoni principi, la storia non avrebbe
potuto concludersi come se niente fosse stato. Presi allora un vecchio vestito di fibre di palma e lo
trasformai in un bell’abito da sposa dei cinque colori, nuovo di zecca. Lo presentai come regalo di
nozze; quando la regina se lo infilò, le fibre si trasformarono in aculei velenosi rivolti all’esterno e
si radicarono sulla sua pelle. Ora che ho appreso come il tuo intervento sia stato coronato dal
successo, sono venuto a rimettere le cose al loro posto.»
«Grazie, amico mio; fai quello che devi.»
L’immortale si avvicinò alla regina e le puntò contro il dito: subito il vestito di fibre cadde a terra
e lasciò il suo corpo più liscio che mai. L’immortale raccolse il vestito, lo scosse e lo ripiegò: «Ora
scusa tanto, grande santo, devo correre via.»
«Aspetta; il re ti vorrà ringraziare.»
«Non è il caso che si disturbi» rispose ridendo l’immortale; fece una riverenza e volò via.
Re, regina e cortigiani pregarono per un pezzo, rivolti al cielo. Poi si aprì il padiglione dell’est e
incominciarono le feste di ringraziamento in onore dei quattro pellegrini.
Mentre si mangiava allegramente, Scimmiotto gridò: «Maestro, fate vedere quella dichiarazione
di guerra!» Il reverendo se la tolse dalla manica e la porse al Novizio, che a sua volta la presentò al
re spiegando: «Questo documento era indirizzato a voi; lo portava il giovane messaggero cui ruppi
la testa e di cui vi mostrai il corpo. Fu con il suo aspetto che mi presentai nella grotta del mostro e
riuscii a giungere fino alla regina; per quanto entrare risultasse più facile che uscire.» Tutti gli
avvenimenti furono narrati con abbondanza di particolari.
«Il felice successo» aggiunse Tripitaka a mo’ di conclusione, «è dovuto in primo luogo alla
fortuna che accompagna la saggezza di vostra maestà; il merito del mio indegno discepolo viene
solo al secondo posto. Il banchetto che ci avete offerto si può ben dire perfetto. Vi ringraziamo, ma
ora è giunto per noi il momento di prendere congedo: non possiamo ritardare ulteriormente il nostro
pellegrinaggio a Occidente.»
Le preghiere del re di prolungare il soggiorno non ebbero successo, ed egli si decise a vistare i
passaporti e a far preparare la carrozza reale; invitò Tripitaka a salirvi, mentre lui con la regina e le
altre spose l’avrebbero tirata. Furono così accompagnati fino al punto in cui presero commiato.
È il caso di dirlo:
Purga il destino ogni malinconia,
Lo spirito riposa nell’assenza
D’ogni pensiero.
Quali avvenimenti lieti e tristi sarebbero seguiti a questa partenza? Ascoltateli nel prossimo
capitolo.
CAPITOLO 72
LE FANCIULLE RAGNO
NELLA GROTTA DELLE RAGNATELE I SETTE AFFETTI SVIANO LA MENTE. ALLA SORGENTE DELLA
PURIFICAZIONE PORCELLINO METTE A DURA PROVA LA SUA BRUTTA FACCIA.
Il racconto ci ha narrato come Tripitaka, congedatosi dal re di Viola Porpora, riprese il suo
cammino. Quante montagne e pianure dovette percorrere, quanti corsi d’acqua guadare! Dopo
l’autunno giunse l’inverno, che fu sostituito dalla splendente primavera.
Maestro e discepoli camminavano godendo appunto il rinnovarsi della vegetazione, quando
scorsero a qualche distanza un romitaggio circondato da un boschetto. Tripitaka si fermò sul ciglio
della strada e smontò da cavallo.
«Maestro» domandò Scimmiotto, «perché ci fermiamo? Non ci sono ostacoli in vista.»
«Non hai riguardo!» lo rimproverò Porcellino. «Il maestro è stanco di cavalcare, vorrà tirare il
fiato.»
«Non è per tirare il fiato. Vedo laggiù un’abitazione, e vorrei mendicare qualcosa da mangiare»
disse Tripitaka.
«Vedi che non avevi capito?» rise Scimmiotto. «Andrò io a mendicare. L’adagio dice: maestro
per un giorno, padre per la vita. Si è mai visto che i discepoli se ne restino seduti e mandino a
mendicare il proprio maestro?»
«Lasciate fare a me» replicò Tripitaka. «Una volta tanto la meta è a portata di mano: non bisogna
andarla a cercare chissà dove, a distanze che non siano alla mia portata.»
«Maestro» intervenne Porcellino, «non sono d’accordo. Dice il proverbio: se tre persone vanno
insieme, i pesi toccano al più giovane. Voi siete della generazione dei padri, noi di quella dei figli.
Come dicono i vecchi libri, tocca a noi darci da fare. Lasciate che vada il vostro vecchio
Porcellino.»
«Fratelli» li ammonì Sabbioso, «non contrariate il maestro, o gli farete passare l’appetito.»
Porcellino trasse dunque dalla sacca la ciotola delle elemosine e la consegnò a Tripitaka, che si
diresse verso la proprietà. Era davvero un bel posticino.
Sul bordo del boschetto d’alberi antichi, s’incurva l’arco di un ponte di pietra che scavalca un ruscello frusciante. Il
canto degli uccelli sale dal boschetto. La piccola capanna oltre il ponte è di linee semplici ed eleganti, un vero
romitaggio di immortali. La finestrella coperta di edera potrebbe ornare il più pittoresco tempio taoista. Laggiù quattro
belle ragazze ricamano disegni di fenici.
Il reverendo, alla vista delle ragazze, non osò farsi avanti. Evidentemente in famiglia non c’erano
figli maschi. Si teneva nascosto dietro agli alberi che crescevano all’imbocco del ponte, e guardava
quelle bellezze con tanto d’occhi. Esse mostravano
Solido cuor di donna e natura gioiosa.
Adornate di rose, con le labbra scarlatte,
Sopracciglia sottili di sicuro disegno
E crocchie di capelli come ali di cicala.
Ferme tra i fiori, le api sarebbero venute
Certo a suggerne il nettare, scambiandole per fiori.
Restò lì per un’ora, senza saper che fare. C’era un gran silenzio, senza canto di gallo né abbaiar
di botolo. Si diceva: «Che figura farò con i miei discepoli? Si dirà che un maestro tanto
incompetente da non saper nemmeno mendicare, non può certo guidare i suoi fino al Buddha.»
Non trovando alternative, il reverendo finì per arrischiarsi sul ponte, benché il cuore gli dicesse
che commetteva uno sbaglio. Vide allora un chiosco di legno di sandalo, in cui altre tre ragazze
giocavano a palla(); erano diverse dalle quattro ricamatrici.
Sventolano le larghe maniche turchese, si agitano le gonne pieghettate. Dalle maniche spuntano ditini di giada, come
teneri germogli di bambù. Le gonne svelano minuscoli fior di loto.
La grazia di quei corpi è perfetta, nei movimenti vivaci. Tengono alta la testa e muovono le gambe con decoro e misura.
Se avanzano, è gettar fiori oltre il muro; se indietreggiano, la grande traversata dell’oceano. Raccolgono i colpi con
calma e li rinviano con precisione; sanno rinviare con l’anca e bloccare col piede. Sono vere virtuose; quando il colpo è
buono, applaudono entusiaste.
Ma ormai sono tutte sudate, il belletto si scioglie sul viso, gli abiti di garza sono zuppi. L’eccitazione si calma,
l’attenzione diminuisce e il gioco langue.
Non si finirebbe mai di descrivere il grazioso spettacolo. Ne parlano anche dei versi:
Fanciulle a primavera giocano con la palla.
Il sudore sui volti fa gocce di rugiada,
La polvere si posa sui fini sopraccigli
Come sopra le foglie del salice al ruscello.
Da quelle lunghe maniche spuntan dita sottili,
Le gonne pieghettate rivelano i piedini.
Il gioco appassionato le lascia senza forze,
Piene di seduzione coi capelli in disordine
E il petto sollevato dal respiro affannoso.
Tripitaka guardava e guardava; alla fine si sentì in obbligo di avanzare di qualche passo e
gridare: «Care pusa, il destino del povero monaco che sono lo costringe a nutrirsi chiedendo
l’elemosina.»
Le ragazze lasciarono subito, chi il ricamo, chi la palla, e gli vennero incontro con risa e piccoli
gridi: «Scusateci, reverendo, non vi avevamo visto. Venite a sedervi: non possiamo certo offrirvi
l’elemosina in mezzo alla strada.»
Tripitaka si diceva: «Meno male. L’Occidente è proprio terra del Buddha: anche le donne si
sentono in obbligo di nutrire i monaci. Chissà quanto sarà grande la pietà degli uomini.»
Salutò compunto e le seguì fino alla capanna. Si accorse che, oltre a quella e al chiosco di legno
di sandalo, non c’erano altri edifici. Si vedevano soltanto
cime alte fino alle nuvole di una catena montuosa estesa fino al mare. Nove curve e nove meandri vegliano sulla porta
oltre il ponte. Il frutteto è piantato di prugni e peschi carichi di frutti. Liane pendono dagli alberi. Si spande intorno il
profumo di diecimila orchidee. Vista dall’esterno, la residenza rupestre è degna delle Isole Felici, il paesaggio montano
è più bello del Monte Hua. È un ritiro lontano da ogni abitato, ma è rifugio di immortali perversi.
Una delle ragazze spinse un battente di pietra della porta e invitò il monaco a entrare; il
reverendo ubbidì. Dentro tutto era di pietra, anche il tavolo e i sedili; l’atmosfera era cupa e fredda.
Tripitaka si sentì invadere dall’inquietudine: «Questo posto non promette niente di buono.»
Le ragazze erano sempre allegre e ridenti, e lo circondarono per farlo sedere. Lui ubbidì
nuovamente, ma un brivido gli corse nella schiena.
«Da quale monastero venite, reverendo?» chiesero le ragazze. «Perché raccogliete fondi? Dovete
costruire ponti, riparare strade, fondare una pagoda, innalzare una statua al Buddha, stampare sutra?
Ci fate vedere il registro delle sottoscrizioni?»
«Io non sto raccogliendo sottoscrizioni.»
«E allora che cosa siete venuto a fare da queste parti?»
«I grandi Tang dell’Est mi mandano a cercare le scritture nel Monastero del Colpo di Tuono del
paradiso occidentale. Passavo per la vostra nobile regione, e la fame mi ha spinto ad accostarmi alla
vostra sontuosa residenza per chiedere in elemosina un semplice pasto, con l’intenzione di ripartire
subito.»
«Benissimo. Dice l’adagio: più strada ha fatto il monaco, più sutra ha letto. Sorelle,
accontentiamo il nostro ospite: prepariamogli un pasto di magro.»
Tre ragazze gli tennero compagnia, e discussero dottamente con lui delle cause germinali e
circostanziali del karma. Le altre si indaffaravano in cucina: rimboccarono maniche e gonne,
nettarono le pentole e accesero il fuoco. Volete sapere i segreti della loro cucina? Misero al fuoco
grasso umano e lo bruciarono ben bene, perché non fosse facile distinguerlo dalla pasta di glutine.
Misero a friggere cervello umano per presentarlo in luogo del formaggio di soia. Poi portarono i
piatti in tavola e dissero al reverendo: «Servitevi! Non abbiamo avuto il tempo di preparare un pasto
più ricco, ma questo basterà a saziare l’appetito; e se non basta, ce n’è dell’altro.»
Il reverendo annusò quegli odori di carne corrotta, e la gola gli si serrò. Si inchinò, giunse le
mani e disse: «Care pusa, io ero vegetariano ancor prima di nascere.»
«Ma reverendo» fecero le ragazze, scoppiando a ridere, «questi sono appunto piatti vegetariani.»
«Amitâbha! Se mangiassi vegetali di questa specie, non riuscirei mai a raggiungere il reverendo
dei reverendi e a ottenerne le scritture.»
«Voi che avete lasciato la vostra famiglia, dovreste mangiare quello che vi dànno, e non fare
tanto lo schizzinoso.»
«Non è certo la mia intenzione. Da quando sono stato incaricato della mia missione, lungo tutta
la strada dell’Ovest mi sono guardato dall’attentare alla vita, anche la più umile, e non ho incontrato
sofferenza che non abbia lenito. Mi sono cibato grano a grano, e vestito filo a filo. Come oserei ora
fare lo schizzinoso con le mie donatrici?»
«Se non siete schizzinoso» insistettero ridendo le ragazze, «perché prima vi fate invitare e poi vi
lamentate dell’offerta? Certo questo è cibo grossolano e insipido, ma che cosa vi costa
assaggiarlo?»
«Non oso davvero, perché violerei il divieto di mangiar carne. Lasciare libero un essere vivente è
ancor più meritevole che nutrirlo: spero che ve ne ricorderete, care pusa. E ora, lasciatemi andare.»
Ma le ragazze gli sbarrarono la strada: «Pensi che rinunciamo a un buon affare che ci è piovuto
in casa senza che lo cercassimo?» gridavano. «Se ti è sfuggito il peto, non lo riprendi con le mani!
Dove credi di andare?»
Erano ragazze sportive, addestrate nelle arti marziali, svelte di piede e di mano. Afferrarono
Tripitaka e lo gettarono giù come un vitello. Quando fu con le spalle a terra, lo legarono stretto e lo
appesero alla trave maestra, nell’atteggiamento detto l’immortale mostra la via: infatti è una
posizione in cui un braccio è teso in avanti, l’altro serrato contro il corpo e i piedi all’indietro.
In questa scomoda posa il reverendo si trovò a penzolare dal soffitto a pancia in giù, appeso a tre
corde. Tratteneva a stento le lacrime e si diceva: «Ma guarda che crudele destino! Credevo di
chiedere l’elemosina a brave persone, e sono caduto nella Geenna. Discepoli miei, venite a
soccorrermi o non mi rivedrete più. Se rimango per qualche ora in queste condizioni, renderò
l’anima.»
Benché immerso nei tormenti, il reverendo osservava le manovre delle ragazze. Dopo averlo
appeso, si spogliarono. Tripitaka pensava allarmato: «Dio mio, si spogliano per mettersi a loro agio
e battermi, o magari mangiarmi!»
In realtà le ragazze si limitarono a sbottonare le camicette e mettere a nudo l’ombelico; ciascuna
ne cavò un bolo di seta grosso come un uovo d’anitra, e lo filò in mille fili argentei e sottilissimi. In
breve ne coprirono tutta la porta.
Scimmiotto, Porcellino e Sabbioso erano rimasti sul ciglio della strada. Uno faceva pascolare il
cavallo, l’altro badava ai bagagli; intanto il Novizio, da quel capriccioso che era, saltava di ramo in
ramo, strappando foglie e cercando frutti. D’un tratto vide qualcosa baluginare e balzò giù
dall’albero su cui si trovava gridando: «Andiamo male, il maestro è nei guai. Non vedete che cosa
accade laggiù?» E con la mano indicava la capanna.
Porcellino e Sabbioso guardarono, e videro al posto della porta un riquadro bianco e brillante,
che splendeva più dell’argento.
«Sono mostri!» gridò Porcellino. «Andiamo all’attacco!»
«Saggi fratelli» li moderò Scimmiotto, «non sappiamo di che cosa si tratti. Aspettatemi, che
andrò in avanscoperta.»
«Sta attento, fratello!» esortò Sabbioso.
«So io che cosa devo fare» rispose Scimmiotto.
Il grande santo si strinse alla vita la gonnella di pelle di tigre, brandì la sbarra cerchiata d’oro e in
pochi lunghi passi fu sul posto: il riquadro era un tessuto di mille fili di seta incrociati, spessi come
funi. A toccarli erano morbidi e appiccicosi. Senza sapere di che cosa fossero fatti, Scimmiotto levò
la sua sbarra e si disse: «Butterò giù tutto, anche se i fili non fossero mille ma diecimila.» Ma poi si
trattenne: «Sono corde morbide e tenaci, non è detto che si rompano. Prima di compiere atti di
ostilità senza sapere con chi ho a che fare, è meglio che raccolga informazioni.»
Da chi raccogliere informazioni? chiederete voi. Fece un passo magico, recitò una formula e
convocò la divinità locale. Il vecchio tudi, nel suo tempio, si mise a girare in tondo come se fosse
addetto a girare la macina.
«Che ti prende, vecchio mio?» gli chiese sua moglie. «Ti agiti come un montone con il
torcicollo. Férmati, che mi dài noia.»
«Se sapessi in che pasticcio mi trovo! È arrivato il grande santo, e non sono andato ad
accoglierlo. E lui ora mi ha convocato.»
«Vallo a vedere, che male c’è? A che cosa ti serve girare in tondo?»
«Il fatto è che ha una sbarra di ferro pesantissima, e picchia la gente per una parola in più o in
meno.»
«Ma vedrà subito che sei un vecchio citrullo, e non ti farà del male.»
«Quello lì passa la vita a bere vino a credito, e di vecchi ne ha già picchiati tanti.»
La coppia continuò a discutere per un po’, ma alla fine il tudi, in mancanza di alternative, dovette
presentarsi e si inginocchiò tremante sul ciglio della strada. «Grande santo, il tudi di questo luogo si
prosterna umilmente davanti a voi» lagnava con voce flebile.
«Alzati» disse Scimmiotto, «e non far finta di essere premuroso, dopo che mi hai fatto aspettare
un bel pezzo. Non ti ho chiamato per batterti. Sono qui di passaggio, ma ho bisogno di informazioni
su questi posti.»
«Che strada avete seguito per arrivare qui?»
«Quella dell’Ovest, venendo da est.»
«Avete passato una catena di montagne?»
«Si capisce.»
«Quelli sono i Monti delle Ragnatele, e qui c’è la Grotta delle Ragnatele dove vivono sette
mostri.»
«Maschi o femmine?»
«Sono femmine.»
«Quali sono i loro poteri?»
«L’umile divinità che sono ha un prestigio così insignificante ed è così debole che non lo sa.
Tutto quello che so è che a tre leghe da qui, verso sud, c’è una sorgente di acqua calda che si chiama
Purificazione. Una volta sette fate del mondo di Sopra venivano regolarmente a farci il bagno. Le
orchesse, quando arrivarono, s’impadronirono della sorgente; le fate si ritirarono senza opporre
resistenza. Vuol dire che i mostri erano più forti di loro.»
«E che cosa se ne fanno, della sorgente?»
«Vanno a bagnarsi tre volte al giorno. Ci sono state alle dieci; la prossima volta sarà intorno a
mezzogiorno.»
«Vai pure, tudi» disse Scimmiotto. «Ci penso io a quelle signore.»
Il vecchio tudi si prosternò di nuovo; quando tornò al suo tempio, tremava ancora di paura.
Il grande santo si trasformò in una mosca e si posò su un ciuffo d’erba, in attesa. Poco dopo si
udirono dei rumori: dapprima un crepitio, come di insetti che mangiano foglie, poi un rombo come
quando sale la marea. In metà del tempo necessario a vuotare una tazza di tè, il tessuto lucente
scomparve e la porta ricomparve come prima. Poi si sentirono stridere i cardini e vennero fuori,
ridendo e scherzando, le sette ragazze.
Scimmiotto le guardava dal suo nascondiglio, mentre avanzavano per strada tenendosi per mano
e chiacchierando gioiose. Erano proprio carine:
Lisce come la giada, profumate
Come fiori dotati di parola;
Sui loro volti, fini sopraccigli
E bocche rosse come le ciliegie.
«Hai capito che cosa attirava là dentro quel marpione del maestro?» sghignazzò Scimmiotto fra
sé. «Ecco spiegato perché voleva andar solo. Devono averlo catturato, ma per il loro appetito non è
una gran preda. Se lo mangiano, basta appena per un pasto; se vogliono farsi montare, non
sopravviverà due giorni. Speriamo che non l’abbiano già distrutto. Sentiamo che cosa dicono e
quali intenzioni hanno.»
Ronzò via leggero e si andò a posare sulla capigliatura della ragazza che camminava in testa.
Mentre attraversavano il ponte, quella in coda gridò: «Sorelle, quel monacello carnoso sarebbe
buono cotto al vapore. Quando si torna dal bagno, ci mettiamo al lavoro?»
«È gente senza il senso dell’economia» si diceva Scimmiotto. «A bollirlo nel brodo
risparmierebbero parecchie fascine.»
Le ragazze andavano verso sud; strada facendo si fermavano a cogliere fiori e a stuzzicarsi a
vicenda con fili d’erba. La sorgente a cui giunsero era circondata da un bellissimo recinto. Il terreno
era tappezzato da orchidee selvatiche, che mandavano un profumo intenso e inebriante. La ragazza
che era in coda corse avanti per prima e spalancò la porta d’ingresso: ed ecco il bacino in cui si
raccoglieva l’acqua calda fumante. Da dove veniva quell’acqua? Ascoltate:
Quando il cielo e la terra si separarono, c’erano dieci soli nel firmamento. Il famoso arciere Hou Yi ne abbatté nove e
lasciò in alto a brillare un solo corvo d’oro, quello che contiene l’autentico fuoco dello Yang supremo. I nove corvi
abbattuti si mutarono in sorgenti di acqua calda. I loro nomi sono: Fresco Odoroso, Compagna del Monte, Acqua Calda,
Orientali Uniti, Montonda, Pace Filiale, Gran Turbine e Bolliacqua, alle quali si aggiunge questa: Purificazione.
Lo dice anche una poesia:
Non sente né l’inverno né l’estate:
Eterna primavera o sempre autunno?
Le onde son calde come nel bucato,
O nella zuppa che cuoce in cucina.
Fan maturar le messi, se le spargi;
Se ti ci immergi, nettano ogni polvere.
Quando le belle vengono a bagnarsi,
Ne escono con la pella fresca e liscia
Come la giada: scompare ogni traccia
Di stanchezza, di sonno o dell’età.
Le ragazze si spogliarono, saltarono nell’acqua e giocarono a schizzarsi.
Scimmiotto si diceva: «Basterebbe rimescolare il calderone con la mia sbarra, e le ammazzerei
tutte quante. Come si dice: gettar l’acqua calda sui ratti, per affogare la nidiata. Ma si direbbe
male di me. Come dice l’adagio: l’uomo non attacca briga con le donne. Sarebbe indegno di un
militare prendersela con le ragazze. Non le toccherò; ma occorre uno stratagemma che le imprigioni
là dentro e impedisca loro di uscire dall’acqua: questo ci vuole.»
Il bravo Scimmiotto fece un passo magico, recitò una formula e si mutò in falco affamato.
Piume di ghiaccio, occhi stellanti. Quando lo vedono, la volpe perversa sente le proprie anime sfuggirle, alla lepre
astuta scoppia la milza dalla paura.
Artigli d’acciaio, aspetto feroce e maestoso. Afferra quello che vuole e se lo mangia. Sale e scende, percorre mille leghe
in un baleno, fora le nuvole: è un signore dello spazio.
Prese il volo con un gran battito d’ali e afferrò con gli artigli tutti gli indumenti delle belle, che
stavano appesi agli attaccapanni. Poi si allontanò e, giunto sulla strada, riprese il proprio aspetto e si
ripresentò a Porcellino e Sabbioso.
Il bestione, a vederlo, si mise a ridere: «Dove è andato a finire quell’impiastro di maestro? Al
Monte di Pietà?»
«Perché dici così?» chiese l’ingenuo Sabbioso.
«Non vedi che il nostro condiscepolo se ne viene con le braccia piene di biancheria usata?»
«Sono i vestiti che portavano le streghe» spiegò Scimmiotto posandoli a terra.
«Sembrano molte, queste streghe» commentò Porcellino.
«Infatti sono sette.»
«E come hai fatto a levargli tutto in un sol colpo?»
«Non le ho spogliate io. Sono andate a lavarsi a una fonte di acqua calda, con l’intenzione di
cucinare il nostro maestro dopo aver fatto il bagno. Io le ho seguite e ho saccheggiato lo spogliatoio.
Non mi sentivo di rompergli le ossa, perché non si dica che me la prendo con le donne. Ma si
vergogneranno di andare in giro senza niente addosso e resteranno per un bel pezzo in bagnarola.
Noi intanto potremo liberare il maestro e riprendere la nostra strada.»
«Fratello, fai sempre le cose a metà» disse Porcellino. «Invece di ammazzarle e risolvere il
problema, le hai lasciate là ad aspettare la sera. Di buio il pudore non sarà più un problema, e loro si
vorranno vendicare. Anche se per ora non ci inseguissero, noi dovremo ripassare da queste parti
sulla strada del ritorno, quando avremo ottenuto le scritture. Come dice il proverbio: se in viaggio
devi proprio lasciare conti in sospeso, meglio quelli in sapeche che quelli in pugni. E se vengono a
tagliarci la strada e vogliono attaccar briga, sei sicuro che avremo la meglio?»
«Che cosa proponi di fare?» domandò Scimmiotto.
«Secondo me, prima dobbiamo ammazzare le streghe e poi liberare il maestro. Questo è sempre
il metodo migliore: sradicare le erbacce.»
«Io non mi ci sporco le mani. Va tu, se vuoi.»
Porcellino si sentì molto onorato; concentrò le energie e partì di buon passo con il rastrello in
resta. Giunse alla sorgente, spinse l’uscio e trovò le sette ragazze rannicchiate nell’acqua che
smozzicavano maledizioni contro il falco: «Maledetto sudicione! Che tu possa finire nella pancia di
un gatto. E ora che si fa? Non possiamo andare in giro senza mutande.»
«Rispettabili pusa» disse loro Porcellino, senza riuscire a reprimere qualche risatina. «Eccovi
qua che fate il bagno. Accettereste la compagnia di un monaco, per servirvi?»
«Bonzo spudorato!» gridarono quelle, sdegnate. «Noi siamo ragazze di buona famiglia, non
siamo bastardi senza tetto come te. Dopo l’età di sette anni, maschi e femmine fanno tavole
separate, come dicono i vecchi libri. Come ti permetti di proporci di fare il bagno con noi?»
«Il fatto è che sono proprio accaldato: c’è poco da scegliere. Vi piaccia o no, devo venire anch’io
a far zuppetta con voi. I vostri vecchi libri e le vostre tavole, di cui non so niente, teneteveli pure.»
Posò il rastrello, si tolse la tunica nera e saltò in acqua con un grande tonfo. Le streghe gli si
gettarono addosso, ma ignoravano di aver a che fare con un nuotatore provetto. In effetti, come
toccò l’acqua, si trasformò in un grosso pesce siluro. Le orchesse cercavano di afferrarlo, ma non
c’era verso: sgusciava loro fra le mani e fra le gambe, da tutte le parti. Per un po’ nuotò in
superficie, poi in profondità; alla fine le ragazze erano esauste, sfiatate e avevano perduto ogni
speranza di poterlo mai acchiappare.
Infine balzò fuori dall’acqua e riprese tunica e rastrello: «Eccomi qua!»
Le streghe, spaventate, lo apostrofarono su tutt’altro tono: «Siete arrivato in aspetto di bonzo, in
acqua siete diventato un pesce siluro inafferrabile, ora siete di nuovo un monaco. Si può sapere chi
siete?»
«Brutta banda di streghe, voi non mi conoscete. Sono discepolo del reverendo inviato dai grandi
Tang a cercare le scritture: mi chiamo Consapevole delle Proprie Capacità, Otto Divieti, ammiraglio
dei canneti celesti. Voi avete chiuso in dispensa il mio maestro e contate di mangiarvelo cotto al
vapore. Capito? Il mio maestro! Cotto al vapore! Adesso mi porgerete le vostre belle testoline, e io
ci appoggerò un colpetto di rastrello ciascuna. Così con voi la facciamo finita.»
Le orchesse erano terrorizzate; si inginocchiavano nell’acqua e supplicavano: «Sollecitiamo
l’indulgenza di vostra signoria. Dovevamo avere buchi al posto degli occhi, per non arrivare a
riconoscere il vostro maestro. È vero che lo abbiamo appeso a una trave, ma non gli abbiamo fatto
del male. Speriamo che, nella vostra grande compassione, ci perdonerete e ci lascerete vivere.
Siamo pronte a offrirvi provviste per il viaggio, e anche ad accompagnarvi lungo la strada, se
volete.»
«Non se ne parla proprio» rispose Porcellino a muso duro. «Lo dice anche il proverbio: da
quando mi ha imbrogliato il venditore di caramelle, non mi fido nemmeno di una parola dolce.
Adesso vi darò le vostre rastrellate, e poi ciascuno per la sua strada!»
Quel rustico zoticone non era tipo da farsi intenerire dalla fragilità femminile. Ma le streghe,
messe alle strette, dimenticarono il pudore e pensarono solo a mettersi in salvo. Balzarono
dall’acqua, coprendosi con le mani come potevano, e ricorsero a uno stratagemma: si cavarono
dall’ombelico più seta che poterono e incominciarono ad avvolgerla alla disperata. In breve ne
nacque un gomitolo gigantesco, in cui Porcellino si trovò impegolato. Levava gli occhi, e non
vedeva più il sole. Alzava una gamba, e quella roba appiccicosa gli tratteneva il piede. Inciampava
dappertutto: se voleva andare a sinistra, batteva la fronte per terra; se a destra, faceva un
capitombolo; dietrofont, e si ritrovava col culo in terra. La testa gli girava, finì per non capire più
niente; disteso al suolo, si mise a ronfare. Allora le orchesse lo lasciarono intrigato dentro il
gomitolo, infilarono l’uscio e corsero a casa.
Qui giunte, recitarono da lontano un incantesimo che fece scomparire il gomitolo, e corsero
dentro la loro grotta. Sfilando davanti al monaco appeso al soffitto, facevano una risatina
imbarazzata e si coprivano le vergogne con la mano. Nelle camere da letto trovarono vecchi abiti
con cui si rivestirono, e uscirono all’aperto a chiamare: «Figlioli, dove siete?»
Cercavano i loro figli adottivi, insetti che erano stati catturati nelle loro tele e che le avevano
commosse per non essere mangiati; perché, come dice l’adagio, ogni bestia ha il suo linguaggio. Si
chiamavano: ape, vespa, scarafaggio, cantaride, grillo, mosca e libellula. Avevano convinto le
streghe a lasciarli vivere in cambio di periodiche testimonianze di affetto filiale. A primavera
offrivano fiori, d’estate portavano erbe e frutti, e così via.
Corsero dunque al richiamo e domandarono: «Care mamme, che cosa possiamo fare per voi?»
«Figlioli, abbiamo fatto lo sbaglio di immischiarci negli affari di un monaco cinese che viene
dalla corte dei Tang; il suo discepolo è venuto a molestarci mentre facevamo il bagno. Ci ha fatte
vergognare e ci ha messe seriamente in pericolo. Ora voi dovete riunire i vostri sforzi per cacciarlo
via. Quando ci sarete riusciti, ci rivedremo da vostro zio.»
Ciò detto se ne andarono a trovare il fratello; le loro lingue perverse avrebbero provocato altri
guai, che racconteremo in seguito. Intanto gli insetti uscirono pieni di baldanza incontro al nemico.
Porcellino, insonnolito e con la testa che ancora girava, aprì gli occhi e si rese conto che il
gomitolo che lo aveva imprigionato era scomparso. Si alzò tutto indolenzito e si mise sulla strada
del ritorno. Quando vide Scimmiotto, gli disse: «Fratello, mi sento la testa gonfia e credo di avere la
faccia tumefatta.»
«Che cosa ti è capitato?»
«Mi hanno imprigionato in certi loro fili, e mi hanno fatto cadere tante volte che mi sento la
schiena rotta. Non riuscivo a muovere un passo. Ho potuto riprendere il controllo solo quando quel
gomitolo è scomparso.»
«Non parliamone più» intervenne Sabbioso. «Hai combinato un bel disastro: ora quelle orchesse
se la rifaranno sul maestro. Dobbiamo andare a soccorrerlo.»
I tre si misero in cammino; ma all’imbocco del ponte trovarono sette mostriciattoli che
sbarravano la via: «Fermi tutti, non si passa!»
«Mi fanno ridere» pensò Scimmiotto dopo averli misurati con un’occhiata. «Sono dei piccoletti
di poco peso: il più alto non arriva a tre piedi, e il più pesante non farà dieci libbre.»
«Chi siete?» domandò.
«Siamo i figli delle sette fatine. Voi avete offeso le nostre mamme, e adesso avete la sfrontatezza
di presentarvi a casa nostra. In guardia!»
Si slanciarono avanti in una gran mischia, agitando a più non posso tutti i loro numerosi piedi. Il
bestione, che era di malumore, li affrontò a colpi di rastrello. Quando li ebbero assaggiati, ripresero
le proprie forme e volarono via gridando: «Trasformazione!» E ciascuno si moltiplicò per cento,
mille e diecimila: un immenso sciame di insetti.
Vanno oscurando il cielo quelle mosche,
Danzano le libellule nel sole;
Api e vespe conducon l’avanguardia,
Le blatte guastafeste se la prendono
Con gli occhi. Cantaridi pungenti
Lo colgono alle spalle, mentre i grilli
Risalgono dal basso. La sua faccia
Diventa nera da fare paura.
Quel ronzio universale è uno spavento!
Porcellino s’impaurì: «Hai un bel dire, fratello, che cercare scritture è facile; su questa maledetta
strada dell’Occidente, persino gli insetti se la prendono con i viandanti.»
«Stai tranquillo, fratellino; adesso ce ne sbarazziamo.»
«E come si fa? Ne ho dieci strati sulla faccia, e da tutte le parti.»
«Sta buono che ci penso io.»
«Sbrigati, fratello» sollecitò Sabbioso. «Qui ce n’è per tutti: se perdi altro tempo, mi vedo già la
testa ridotta come una zucca piena di tubercoli.»
Il grande santo si strappò un ciuffetto di peli, li masticò per ridurli in minuti frammenti e li sputò
intorno, trasformandoli in uccelli da preda.
«Che cosa borbotti?» chiedeva Porcellino. «Non si capisce niente del tuo gergo: poiaspar...»
«Poiana, sparviero, falco, girifalco, avvoltoio, aquila pescatrice, albanella. Ai sette tipi di insetti,
figli di quelle streghe, oppongo sette tipi di uccelli da preda.»
L’abilità di quegli uccelli era straordinaria: di becco, d’ala, d’artigli, abbattevano gli insetti a
bizzeffe. In breve il suolo intorno si coprì di uno strato di bestiole morte alto un piede, e l’aria fu
libera e pura.
I condiscepoli si precipitarono nella grotta e trovarono Tripitaka appeso, che gemeva e sospirava.
Porcellino gli disse: «Sapeste quanti capitomboli ho dovuto fare, mentre voi vi divertivate lassù!»
«Lascia stare» esortò Sabbioso. «Tiriamolo giù.»
Fu Scimmiotto a tagliare le corde e a deporre al suolo il monaco cinese. I discepoli gli si
affollarono intorno chiedendo: «Dove sono andate le streghe?»
«Erano tutte nude!» raccontava Tripitaka. «Sono passate di qui tutte e sette, e sono andate a
chiamare i loro figli.»
«Venite» disse Scimmiotto. «Andiamo a cercarle.» E corsero, armi alla mano, nel cortile
posteriore, ma senza trovare niente e nessuno. Frugarono nei cespugli, si arrampicarono sugli alberi,
ma invano.
«Sembra che se ne siano andate» disse Porcellino.
«Lasciamole perdere» suggerì Sabbioso, «e riprendiamo la nostra strada.»
I tre discepoli accompagnarono il maestro al cavallo e lo fecero montare. «Avete visto, maestro,
che l’elemosina è meglio lasciarla chiedere a noi?»
«Discepoli» rispose Tripitaka, «d’ora in poi non me ne incaricherò di certo, dovessi morir di
fame.»
«Badate al maestro» propose Porcellino, «mentre io butto giù questa baracca a rastrellate.»
«Non stare a faticar tanto» obiettò Scimmiotto. «Poche fascine faranno il lavoro più a fondo e
con meno fatica.»
Il bestione riunì in breve pini morti, bambù spezzati, salici inariditi e liane disseccate: il tutto
prese fuoco allegramente in un grande falò, che fece un fuoco d’inferno.
Quindi maestro e discepoli ripresero tranquillamente il cammino.
Voi però non sapete che ne sia stato delle streghe dopo quella partenza: apprendetelo dal
prossimo capitolo.
CAPITOLO 73
LA SCOLOPENDRA, GRANDE DISTILLATRICE DI VELENI
OVE PASSIONE, GUIDATA DA RANCORE, CAGIONA AVVELENAMENTO; FELICEMENTE IL MAESTRO
DELLO SPIRITO DISTRUGGE I DIABOLICI RAGGI.
Si è detto come i pellegrini avessero raggiunto la strada maestra e ripreso il loro viaggio. Dopo
un po’ giunsero in vista di edifici e torri maestose. Il monaco cinese tirò le redini e chiese a
Scimmiotto: «Discepolo, che sarà mai?»
Scimmiotto osservò attentamente e vide
sullo sfondo dei monti, torri e padiglioni, chioschi e terrazze. Davanti al portale c’è un fitto boschetto di varie essenze in
cui scorre un ruscello; oltre la residenza si scorge un giardino fiorito.
La candida garzetta si posa sul salice, come giada senza macchia nella bruma. Dai peschi giallo-ardenti giunge il canto
del rigogolo. Nel prato verde scorrazzano spensierate coppie di cervi. Fagiani spiccano il volo dagli aceri rossi. La si
direbbe la Grotta della Terrazza del Cielo di Liu e Ruan, residenza di immortali sul Monte Langfeng.
«Maestro, non è residenza di nobili o re, e nemmeno di ricchi borghesi; questo è un eremitaggio
taoista o un monastero buddista. Se ci accostiamo, ne sapremo di più.»
Tripitaka sferzò il cavallo, e in breve giunsero all’ingresso, dove una targa di pietra recava tre
caratteri:
TEMPIO DEL FIORE GIALLO
Porcellino disse: «È una casa di preti taoisti; l’abito è diverso, ma le pratiche sono come le
nostre.»
«Giusto» approvò Sabbioso. «Dunque potremo sostare e far riposare il cavallo. Se non darà
troppo incomodo, potrebbero offrire un pasto di magro al maestro.»
Il reverendo smontò e i quattro entrarono. La seconda porta si adornava di due detti paralleli:
Boccioli gialli, candida neve: residenza immortale.
Erbe di diaspro, insoliti fiori: casa di piume.
«Sarà un daoshi di quelli che giocano col fornello, trasmutano droghe sul fuoco di paglia e
armeggiano tutto il giorno con il crogiolo» sghignazzò Scimmiotto.
Tripitaka lo redarguì: «Zitto, non è mica tuo fratello. Non sono cose che ti riguardino: non farmi
fare brutta figura.»
In effetti, quando giunsero davanti all’ingresso della sala principale, videro sotto il portico est un
prete taoista occupato a preparare elisir. Ecco com’era vestito:
Aveva in capo un cappello sgargiante con la falda dorata, la lunga veste nera come il corvo, calzature dalle punte
all’insù verde bandiera, vita serrata in una larga fascia gialla alla Lü Dongbin. L’ampia faccia scura e rugosa come una
zucca di ferro, occhi lucenti come fiammelle, un nasone musulmano alto e prominente, labbra da tataro. Nello spirito
del Tao si nascondono tuoni e fulmini: era un daoshi coi fiocchi, da domar tigri e draghi.
«Egregio immortale, l’umile monaco che vedete vi porge i suoi saluti» gli disse Tripitaka. Quello
alzò il capo sorpreso, abbandonando i recipienti che stava manipolando, si aggiustò l’abito e scese i
gradini incontro ai visitatori: «Scusate, maestro, se non vi ho fatto la debita accoglienza.
Accomodatevi.»
Il reverendo entrò nella sala e vide troneggiare le immagini dei tre puri, davanti alle quali ardeva
incenso nei bruciaprofumi. Tripitaka ne accese un bastoncino anche lui e si prosternò tre volte,
prima di rivolgersi al daoshi. Due servi ebbero l’ordine di servire il tè e di portare frutta e dolci.
La loro attività destò l’attenzione del nemico. Infatti il fratello di cui avevano parlato le sette
streghe non era altri che quel daoshi, loro maestro nelle arti occulte. Si erano appunto rifugiate in
casa sua ed erano intente a confezionare abiti, quando notarono il va e vieni dei servi: «Sono giunti
ospiti? Per chi state preparando il tè?»
«Sono arrivato quattro monaci, e il padrone ha ordinato di servire.»
«Fra loro non ci sarà per caso un bonzo grassottello dalla faccia anemica?»
«Certo che c’è.»
«E un altro con orecchie larghe in modo inverosimile e un lungo grugno di porco?»
«C’è anche quello.»
«Quando portate il tè, fate segno di nascosto al nostro maestro: gli dobbiamo dire una cosa
importante.»
Il tè fu servito agli ospiti personalmente dal daoshi, che si rimboccò le maniche e porse la tazza a
ciascuno di loro. Quando ebbero bevuto, un servo fece segno al padrone, che si alzò scusandosi:
«Prego, restate seduti. Torno subito.» E a un servo: «Riempi di nuovo le tazze e fa loro compagnia
per un momento.»
Il reverendo e i discepoli ne approfittarono per farsi accompagnare a visitare la casa.
Intanto il daoshi si vide circondato dalle donne, che gli si inginocchiarono davanti e gridavano:
«Maestro e onorato fratello, dovete proprio ascoltare le vostre sorelline.»
«Mi perseguitate da stamane, quando siete arrivate. Prima ero impegnato nella preparazione di
elisir che non tollerano la vicinanza di un forte yin; ora ricevo degli ospiti. Abbiate pazienza;
quando avrò finito vi ascolterò.»
«Ma fratello, vi dobbiamo parlare appunto dei vostri ospiti; se aspettiamo che siano partiti, sarà
troppo tardi.»
«Figuriamoci! Dovrei piantarli in asso per starvi ad ascoltare! Non potrei mostrarmi tanto
incivile nemmeno se fossi uno qualsiasi, anziché un immortale di lunga pratica.»
Ma le donne gli si aggrappavano alle maniche: «Non vi arrabbiate, dovete starci a sentire a tutti i
costi. Da dove vengono i vostri ospiti?»
Il prete, aggrondato, non rispondeva.
«Abbiamo saputo che sono dei bonzi.»
«E allora?»
«Fra loro c’è un rotondetto pallido, e un altro con un lungo grugno e larghe orecchie. Gli avete
chiesto da dove venivano?»
«Come mai conoscete quei due? Li avete già incontrati?»
«Voi non sapete in quale situazione ci siamo trovate. Il bonzo grassoccio è stato inviato dai Tang
a cercare le scritture nel paradiso occidentale. Stamane è arrivato a casa nostra, e noi, che lo
conoscevamo di fama, lo abbiamo catturato.»
«Che cosa volevate farne?»
«Quel monaco si è coltivato attraverso dieci incarnazioni successive e si è formato un corpo di
verità: mangiarne un pezzetto prolungherebbe indefinitamente la vita. Mentre facevamo il bagno
alla Sorgente della Purificazione, l’altro monaco ci ha rubato i vestiti ed è entrato nella nostra vasca:
quello sporcaccione si è trasformato in pesce siluro e ha cercato di stuprarci scivolando fra le nostre
gambe. Poi è uscito dall’acqua e ha cercato di ucciderci con il suo rastrello. Se non fossimo state più
intelligenti di lui, ci avrebbe conciate per le feste. Ecco perché ci siamo rifugiate qui, dopo avere
incaricato i nostri figli adottivi (chissà che fine avranno fatto!) di combattere quei malandrini. In
nome della nostra amicizia e degli studi eminenti che abbiamo fatto insieme, voi ci dovete
vendicare.»
Il daoshi s’indignò: «Davvero si sono comportati in un modo così indecente? Ma allora avete
ragione: gliela farò pagare.»
«Eccoci qua, pronte a entrare in azione con voi.»
«Non ho nessuna voglia di entrare in azione. Come dice il proverbio: venire alle mani è una
brutta malattia. Venite con me.»
Si recarono tutte insieme nella sua stanza. Il padron di casa, con l’aiuto di una scala, prese un
cofanetto che stava nascosto sotto la trave maestra ed era chiuso da una piccola serratura di bronzo.
Cavò poi dalla manica un fazzoletto giallo canarino in cui era annodata la piccola chiave. Il
cofanetto conteneva una droga molto particolare:
Mille libbre di escrementi
D’ogni specie di volatili
Nella pentola bollirono
Con pazienza interi mesi.
Da un barile ad un cucchiaio,
Dal cucchiaio a un solo pizzico,
Rosolato e affumicato
E più volte raffinato.
È un veleno potentissimo,
Di gran pregio e rarità.
Se lo assaggi, basta un attimo:
La tua vita finirà.
«Sorelle mie» spiegò il daoshi alle sette ragazze, «questa preziosa droga è una mia specialità. Un
millesimo di oncia è sufficiente per uccidere istantaneamente un comune mortale. Per un divino
immortale ne occorrono tre millesimi; questa sarà la dose prudenziale per quei monaci. Andatemi a
cercarmi la bilancina dei farmaci.»
Una ragazza gliela portò: «Pesami un centesimo e due millesimi di oncia, e dividi la dose in
quattro parti uguali.»
Il prete si procurò poi una dozzina di giuggiole rosse. Attraverso piccole fenditure introdusse in
ciascuna di esse tre millesimi d’oncia di veleno e le mise dentro quattro tazze da tè; in una quinta
tazza collocò due giuggiole nere. Pose tutte le tazze su un vassoio e diede queste istruzioni: «Ora
ritornerò da quella gente e la interrogherò. Se non vengono dalla corte dei Tang, vuol dire che vi
siete sbagliate sul loro conto; se invece ne provengono, ordinerò di sostituire le tazze da tè, e voi
darete ai servi questo servizio da portare in tavola. Basterà che bevano un sorso, perché voi siate
vendicate e liberate da ogni pericolo di rivederli.»
Le ragazze gli espressero la loro gratitudine.
Il daoshi ritornò in scena con grandi dimostrazioni di riguardo. Invitò il monaco cinese a sedersi
nuovamente al posto d’onore e spiegò: «Non so come scusarmi, egregio maestro. Mi sono dovuto
allontanare per mandare i miei giovani discepoli a raccogliere verdure nell’orto e per ordinare che
preparassero un pasto vegetariano per voi. Ecco il motivo per cui ho disertato la compagnia.»
«Siamo venuti a visitarvi a mani vuote» si scusò a sua volta Tripitaka. «Non vogliamo darvi
disturbo. Non avreste dovuto.»
«Siamo gente che ha lasciato la famiglia, voi e io» replicò sorridendo il daoshi. «Ciascuno di noi
vale i suoi tre sheng di grano alla porta di qualunque monastero. A proposito, posso chiedervi qual’è
il vostro illustre monastero e quali affari vi portano qui?»
«L’umile monaco che sono è stato inviato dai grandi Tang dell’Est in cerca di scritture al
Monastero del Colpo di Tuono. Passavamo di qui, e ci siamo permessi di venirvi a presentare i
nostri rispetti in tutta sincerità.»
A queste parole il prete si rallegrò: «Voi siete, reverendo maestro, un buddha di eminente virtù e
di leale pietà. La mia umile persona lo ignorava. Temo di non avervi accolto secondo il vostro
merito, ve ne chiedo scusa.» E ordinò: «Portate subito altro tè e sbrigatevi a servire il pranzo.»
I servi trovarono le ragazze ad aspettarli in cucina con un vassoio già pronto; dunque lo presero e
lo portarono in tavola. Il daoshi si affrettò a porgere una delle tazze con le giuggiole rosse al
monaco cinese, e poi nell’ordine le altre ai discepoli. Giudicò della loro importanza secondo la
stazza: primo Porcellino, secondo Sabbioso e terzo Scimmiotto, il più piccolo e magro.
Il Novizio notò che la quinta tazza, rimasta sul vassoio, conteneva due giuggiole nere, e si sentì
in dovere di proporre al daoshi: «Scambiamo le nostre tazze.»
«Vedete, reverendo» rispose l’interpellato, «qui fra i monti selvaggi non ho sempre a portata di
mano tutto quello che serve. Ho colto io stesso le dodici giuggiole rosse che vedete nelle vostre
tazze, ma non ne ho trovate altre; perciò ho messo nella mia due giuggiole di qualità inferiore.
Toccano a me, perché voglio manifestarvi il mio rispetto.»
«Che dite mai!» esclamò Scimmiotto. «In casa propria nessuno è tapino, dicevano gli antichi; la
povertà ti ammazza in cammino. Voi possedete una casa, e per giunta molto bella. Semmai la
povertà la conosciamo noi, monaci vaganti. Facciamo il cambio, vi prego.»
«Consapevole del Vuoto» intervenne Tripitaka, «non insistere, non è educato. Il reverendo ci
vuole manifestare la sua ospitalità.»
Il Novizio dovette zittirsi, ma nascose la tazza e stette a vedere che cosa capitava agli altri.
Porcellino diede l’esempio con il suo enorme appetito, che gli faceva ingoiare indiscriminatamente
ogni cibo e bevanda; anche gli altri due mangiarono le giuggiole. Dopo un momento Porcellino
impallidì, a Sabbioso vennero le lacrime agli occhi e al monaco cinese la bava alla bocca. La
vertigine li colse e li fece cadere a terra uno sull’altro.
Il grande santo si alzò da sedere e gettò la tazza con il contenuto in faccia al daoshi, che si
protesse con la manica: la porcellana sottile cadde a terra e si ruppe in mille pezzi.
«Villano!» si indignò il prete. «Come ti permetti di rompere le mie tazze?»
«E tu, bestiaccia» tuonò Scimmiotto, «come spieghi lo stato di questi tre? Che cosa ti abbiamo
fatto, perché tu ci servissi il tè avvelenato?»
«Sai bene che potete prendervela soltanto con voi stessi.»
«Come sarebbe a dire? Ci siamo seduti in buon ordine, ti abbiamo dato le notizie che chiedevi e
non abbiamo certo avuto il tempo né l’occasione di offenderti.»
«E quando chiedevate l’elemosina nella Grotta delle Ragnatele? Quando vi bagnavate alla
Sorgente della Purificazione?»
«Tu parli di quelle sette streghe; dunque sei loro complice, e sei diabolico quanto loro. Ti
romperò altro che la porcellana!»
Si cavò l’ago da dietro l’orecchio, lo ingrandì e menò un fendente, ma il daoshi sguainò a sua
volta una preziosa spada e parò il colpo.
Colpi e rumori dello scontro richiamarono le orchesse, che accorsero gridando: «Fratello, lo
catturiamo noi!»
Quando le vide, Scimmiotto si arrabbiò sul serio e partì all’attacco distribuendo colpi selvaggi.
Ed ecco che le ragazze sbottonarono le gonnelle, esposero al sole i loro candidi bellichi e
incominciarono a secernere freneticamente filo di seta: in breve Scimmiotto ne fu sommerso.
Rendendosi conto che si metteva male, il Novizio mormorò un incantesimo e balzò in cielo,
spezzando l’involucro che lo stava coprendo. Dall’alto vedeva quelle donne correre velocissime
avanti e indietro, come la navetta di un telaio: in breve l’intero Tempio del Fiore Giallo scomparve
sotto una cupola di fili argentei.
«Che persone pericolose!» esclamò Scimmiotto. «L’ho scampata bella. Non mi meraviglio più
che il povero Porcellino non riuscisse a venirne a capo. Come uscire da questa situazione? I miei
sono avvelenati, quella banda è numerosa ed efficiente, e io so ben poco di loro. Sarà bene che
chieda un supplemento di informazioni alla divinità locale.»
Discese al suolo, fece un passaggio magico, recitò la sacra sillaba om e convocò per la seconda
volta il vecchio tudi.
«Grande santo» chiese quello, tenendosi a una certa distanza e prosternandosi tremebondo, «non
dicevate di essere qui di passaggio? Perché non siete ancora partito?»
«I miei sono stati avvelenati dal prete del Tempio del Fiore Giallo, che si è giustificato
riferendosi alle ragazze della Grotta delle Ragnatele. Quando mi sono reso conto che era anche lui
una creatura malefica ho cercato di colpirlo, ma sono accorse le sette ragazze e hanno incominciato
a tessere il loro filo. Per fortuna ho avuto il buon senso di scappare. Non è possibile che tu, come
divinità del posto, non sappia la loro origine. Vuota il sacco, o questa volta non eviterai le botte.»
Il tudi si prosternò precipitosamente: «Un’inchiesta, a suo tempo, l’ho svolta: si tratta di sette
spiriti di ragni. Il filo che cavano dall’ombelico è filo di ragnatela.»
«Se le cose stanno così, la situazione non è grave. Vattene pure: so come vincerle.»
Il tudi rinnovò le prosternazioni e scappò via a precipizio.
Scimmiotto si strappò dalla coda settanta peli, ci soffiò sopra e li trasformò in Scimmiottini. Poi
soffiò sulla sua sbarra e la trasformò in settantuno forche bidenti, che distribuì ai suoi compari
tenendone una per sé. Circondarono la massa di fili che ricopriva il tempio, e tutti insieme vi
affondarono le forche e incominciarono ad arrotolarli come spaghetti. Quando ciascuno ebbe
avvolto una diecina di libbre di filo di ragnatela, rimasero allo scoperto sette ragni giganteschi,
ciascuno delle dimensioni di un panierino di vimini; furono fatti prigionieri, impastoiate le zampe
con il loro stesso filo e legata la corda al collo. Le loro vocine gemevano: «Pietà, pietà!»
I settanta Scimmiottini non diedero segno di clemenza. Scimmiotto disse loro: «Non li battete;
chiedete loro di restituirmi maestro e condiscepoli.»
Le creature malefiche gridavano: «Maestro e fratello, salvateci! Liberate il monaco cinese!»
Sbucò fuori il daoshi: «Arrangiatevi, sorelle mie. Quel monaco me lo voglio mangiare.»
Scimmiotto si arrabbiò: «Vedrai in che stato le riduco, le tue sorelle!» Ricuperò i suoi peli e la
sbarra, abbattendo quest’ultima a due mani sulle teste dei sette ragni, che furono miseramente
spiaccicati: ne rimase un po’ di brodo. Poi si gettò addosso al daoshi, che lo fronteggiò levando la
spada.
Gli avversari furenti si diedero battaglia impiegando tutti i loro poteri magici.
Rotea il mostro la sacra spada, il grande santo impugna la sbarra, a causa di Tripitaka; le sette sorelle, ahimè, sono
ormai fuori causa.
Dispiegano la loro potenza e destrezza; il grande santo forte e brillante, l’immortale perverso potente e intrepido.
Grande la varietà dei colpi, rapide le mani più delle pale del mulino.
Sotto il cielo percorso da nere nubi, le loro armi si scontrano sonore. Non meno delle armi, colpiscono le parole. Sibila
il vento, vola la sabbia sulla terra oscurata, riempiendo di terrore tigri e lupi.
Dopo una cinquantina di assalti, il daoshi si rese conto che non ce la faceva più; allora si sciolse
la cintura e lasciò cadere al suolo la veste che indossava.
«Che cosa credi di fare, giovanotto?» sogghignò Scimmiotto. «Vuoi farti strigliare meglio a pelle
nuda?»
Ma il daoshi sollevò le braccia: sotto le sue ascelle cento paia d’occhi dardeggiavano terribili
raggi d’oro.
Ecco sprigionarsi una spessa caligine dorata: cento paia d’occhi, come secchielli d’oro o campanelle di bronzo,
sprigionano raggi brucianti e implacabili.
La mostruosa magia accieca il cielo, eclissa gli astri, avvolge le persone di un alito che le abbacina e le dissecca. Il
Grande Santo Uguale al Cielo si trova prigioniero della caligine sprigionata dagli occhi d’oro.
Scimmiotto fu preso dal panico: si sentiva prigioniero di quei raggi implacabili e non poteva fare
un passo. Il calore era altissimo. Balzò in alto, ma urtò contro un raggio che lo fece cadere a testa in
giù, come una cipolla piantata nell’orto. Sentì un forte dolore e si portò la mano alla testa: la pelle
era ustionata. «Che disdetta! Una volta resistevo così bene a qualunque arma, e adesso basta un
raggio a lasciarmi il segno. Se va avanti così, mi coprirò di piaghe.»
Nel calore insopportabile, rifletté: «Non riesco ad avanzare né indietreggiare; in alto, non posso
saltare: come me la cavo? Mi resta ancora una via per fotterlo: scapperò verso il basso.»
Recitò un incantesimo e con una scossa si mutò in fora-montagne, o pangolino che dir si voglia.
Quattro artigli d’acciaio, che scavano nella montagna come fosse un mucchio di farina. Con il suo corpo protetto da
scaglie, taglia le rocce come fossero cipolle.
Ha gli occhietti brillanti e un muso appuntito, più potente di un trapano. Fora-montagne corazzato è il suo nome nella
farmacopea; di solito lo si chiama pangolino.
Fece dunque della sua testa un durissimo arnese con cui forò la terra, vi scomparve e ne riemerse
alla distanza di una ventina di li. Così era fuori dalla portata dei raggi d’oro, che non si estendeva
oltre dieci li.
Quando poté riprendere il proprio aspetto, il povero Scimmiotto era esausto e indolenzito. Pianse
e si lamentò: «Maestro,
Sulla strada dell’Ovest molte pene
Abbiamo sopportato in questo viaggio,
Superando un oceano di pericoli.
Dobbiamo ora affogare in un rigagnolo?»
Il desolato re scimmia udì sopraggiungere qualcuno, che a sua volta piangeva e singhiozzava.
Alzò lo sguardo e vide una donna vestita a lutto, che veniva nella sua direzione recando in mano
offerte di cibo e di carta moneta per i morti. Scimmiotto scosse il capo: «È il caso di dirlo:
Lacrime si confrontano con lacrime,
Cuore spezzato con cuore spezzato.
«Quale persona cara avrà perduto questa donna?» Le si fece incontro e si inchinò: «Cara pusa,
chi piangete?»
«Piango mio marito» rispose la donna. «Vado a offrirgli queste offerte per testimoniare il mio
affetto coniugale. L’ha ucciso il prete del Tempio del Fiore Giallo avvelenandogli il tè, dopo aver
litigato con lui sul prezzo di certe pertiche di bambù.»
Scimmiotto lacrimava come una fontana, e la donna si arrabbiò: «Vergognati di scimmiottarmi
per prendermi in giro!»
«Non è certo la mia intenzione, cara pusa» esclamò il Novizio inchinandosi di nuovo. «Vi
spiegherò perché piango. Io sono il primo discepolo di Tripitaka, fratello minore dell’imperatore dei
grandi Tang inviato in missione nel paradiso occidentale. Il daoshi di cui parlate ha avvelenato
anche il mio maestro e i condiscepoli, per vendicare certe creature diaboliche. Io me ne sono
accorto in tempo e l’ho affrontato, ma lui mi ha messo in fuga con i terribili raggi d’oro di cui
dispone.»
La donna posò a terra le offerte che recava per inchinarsi a salutare il Novizio: «Scusatemi, non
sapevo che anche voi foste vittima dello stesso malvagio. Mi sembra di capire che non sappiate chi
è in realtà questo daoshi. Si tratta del signore diabolico dai Cento Occhi, ossia del mostro Occhi
Molteplici. Se siete riuscito a sottrarvi a lui, i vostri poteri magici devono essere immensi; eppure
non riuscite a fronteggiarlo. Ma io so di una santa persona che è in grado di spezzare quei raggi
implacabili e di abbattere il mostro.»
Scimmiotto si rallegrò: «Cara pusa, se conoscete il suo passato e i suoi punti deboli, datevi la
pena di ragguagliarmi. Ci penserò io a sollecitare l’intervento della santa persona di cui parlate,
perché salvi il mio maestro e vendichi vostro marito.»
«Certo mio marito potrà essere vendicato, ma dubito che si possa salvare il vostro maestro.»
«Perché dite questo?»
«Il veleno usato da quell’essere è potentissimo: in tre giorni distrugge le ossa fino al midollo.
Sarà impossibile ottenere un intervento tempestivo.»
«I viaggi veloci sono la mia specialità. Non c’è distanza che mi impensierisca.»
«La santa persona di cui dicevo si chiama Madre Pilan. Abita nella Grotta dei Mille Fiori, sulla
Montagna delle Nubi Porporine, a mille li da questo posto.»
«In quale direzione?»
La donna la additò: «Diritto a sud.» E subito scomparve.
Il Novizio si mise in posa di preghiera e chiese: «Quale pusa siete? La mia povera testa gira
ancora, dopo che l’ho adoperata come trapano sottoterra; perciò non ho saputo riconoscervi. Ma
vorrei sapere almeno il vostro nome, per rendervi grazie.»
Una voce dall’alto rispose: «Sono io, grande santo.»
Scimmiotto alzò gli occhi, riconobbe la madre del Monte Li e balzò su accanto a lei per
ringraziarla: «Da dove siete venuta a darmi le vostre riverite istruzioni?»
«Ho saputo che il tuo maestro era in difficoltà mentre ritornavo dall’assemblea dell’albero
Drago-Fiore. Spicciati a cercare la persona che ti ho detto, ma non dirle che ti mando io: ha un
caratteraccio, e non mi ha in simpatia.»
Scimmiotto rinnovò i ringraziamenti e si proiettò immediatamente sulla cima del Monte delle
Nubi Porporine, dove individuò la Grotta dei Mille Fiori:
Azzurri pini decorano il bel paesaggio, cipressi turchese circondano la dimora dell’immortale. I salici invadono i
sentieri con le verdi fronde, fiori inconsueti crescono negli anfratti. L’edificio di pietra è circondato da odorose
orchidee, erbe profumate circondano la base della rupe cristallina.
Corre nel ruscello l’acqua di smeraldo; le lacune nelle fronde dell’antico albero sono rattoppate dalle nubi del cielo.
Cinguettano gli uccelli, il cervo si muove cauto. Sullo sfondo dei fusti slanciati di bambù, i prugni dispiegano il ricco
fogliame. Il corvo freddoloso sta appollaiato sull’albero morto.
Grano estivo nei vasti campi, riso autunnale ricopre il suolo: le quattro stagioni si susseguono senza che mai cadano le
foglie, sbocciano fiori tutto l’anno.
Nell’atmosfera incantata galleggiano nubi di buon augurio, e salgono in alto: vanno a raggiungere il vuoto supremo.
Lo spettacolo incantava Scimmiotto, ma la solitudine era grande.
«Sembra che qui non abiti nessuno» si diceva Scimmiotto. «O forse la persona che cerco è
lontana da casa.» Ma dopo avere percorso qualche li, vide un letto su cui era stesa una monaca.
Ecco il suo aspetto:
Berretto di broccato a cinque fiori,
Veste tessuta d’oro, calzature
A punta di fenice, alta cintura.
Antico il volto come tardo autunno
Ricoperto di brina, ma la voce,
Lieve e argentina, sa di primavera.
Per lei non han misteri i tre veicoli,
Le quattro sante verità la nutrono,
La vacuità del vuoto ha ben compreso
E gode vagabonda libertà.
È il buddha della Grotta Mille Fiori,
Ed è Pilan il suo eminente nome.
Dirigendosi alla sua volta, Scimmiotto gridò: «Pusa, i miei rispetti!»
Essa scese dal suo letto e giunse le mani per salutarlo: «Qual buon vento ti conduce qui, grande
santo? Scusami, se non ti sono venuta incontro.»
«Mi conoscete?»
«Chi mai non ti conosce! Le forze dell’ordine ti ricercavano dappertutto, l’anno che facesti la
rivoluzione in paradiso.»
«Si capisce. La notizia che fai male, corre lontano mille leghe; quella che fai bene, non esce
nemmeno dall’uscio di casa. Perciò, penso, nessuno vi ha raccontato che poi mi sono convertito;
ora sono buddista.»
«Congratulazioni. Da quanto tempo?»
«Da poco; da quando mi hanno liberato dal carcere per arruolarmi a protezione del monaco
cinese, che va nel paradiso occidentale in cerca di scritture. Ma quando siamo arrivati al Tempio del
Fiore Giallo, il prete del posto lo ha avvelenato con una tazza di tè. Ho cercato di combattere questo
daoshi, ma mi ha messo in difficoltà con i suoi raggi d’oro. Pare che voi siate in grado di
neutralizzarli: perciò sono venuto a chiedervi aiuto.»
«Chi ti ha dato la dritta? Non vedo più nessuno dall’ultima festa di Ullambana; non esco di casa
da trecento anni. Non ricevo visite, nessuno mi conosce. Chi ti manda?»
«Non mi manda nessuno. Io sono un topo dei bassifondi, bazzico dappertutto, scavo le
informazioni sottoterra.»
«Non ti dovrei dar retta. Ma mi hai fatto l’onore di venirmi a trovare. E del resto non posso
lasciare che perisca la buona causa: verrò con te.»
Scimmiotto espresse la debita riconoscenza, ma non poté trattenersi dal chiedere: «Scusate la
curiosità: che tecnica adoperate? Qual’è la vostra arma?»
«Quello che ci vuole in questo caso è il mio ago da ricamo.»
«Tutto lì? Signora, non stiamo a perdere tempo» esclamò Scimmiotto. «Di aghi me ne procuro
una botte piena, senza bisogno del vostro aiuto.»
«I soliti aghi non servono. Il mio non è né d’acciaio né d’oro: l’ha forgiato mio figlio nell’occhio
del sole.»
«E chi è il vostro onorevole figlio?»
«È il mandarino della costellazione delle Pleiadi.»
Scimmiotto non se l’aspettava, ma nascose la sua sorpresa.
Quando ritornarono al Tempio del Fiore Giallo, il daoshi era ancora circondato dai suoi terribili
raggi. Madre Pilan tolse dal colletto del proprio vestito un minuscolo ago, non più grosso di un pelo
di sopracciglio e lungo sì e no mezzo pollice: lo rotolò fra le dita, lo lanciò per aria, e i raggi d’oro
vibrarono sonoramente e si spezzarono.
«Che bellezza! Che lavoro svelto!» apprezzò Scimmiotto. «Adesso bisognerà ricuperare l’ago.»
«E questo cos’è?» disse Madre Pilan, mostrandolo sul palmo della mano.
Scimmiotto si avvicinò al daoshi, che stava rigido e immobile, con gli occhi serrati.
«Brutta bestia, non giocare a fare il cieco!» gridò Scimmiotto, e trasse la sua sbarra per colpirlo.
«Fermo! Aspetta: va prima a vedere in quali condizioni è il tuo maestro.»
Il Novizio corse nella sala del tempio e vi trovò maestro e condiscepoli stesi a terra, con la bava
alla bocca. «E adesso come faccio?»
«Non te la prendere» disse la pusa. «Visto che sono venuta qui, tanto vale che faccia l’anima
buona fino in fondo: eccoti delle pillole che porto sempre con me e che combattono efficacemente
molti veleni.»
Dalla manica estrasse un cartoccio mezzo rotto e ne cavò tre pillole di colore rosso vivace.
Scimmiotto le prese, disserrò a forza le mascelle di ciascuno dei giacenti e vi introdusse una pillola.
Quando essa giunse allo stomaco, provocò un vomito che fece uscire il veleno e ne interruppe gli
effetti.
Porcellino si rialzò per primo: «Mi sento proprio istupidito, ho un tal cerchio alla testa!»
E gli altri due: «Abbiamo un gran capogiro, vediamo doppio.»
«Siete stati avvelenati con il tè» li informò Scimmiotto. «Per fortuna la pusa Pilan è venuta a
togliervi dai guai. Dovreste ringraziarla.»
Tripitaka si affrettò a rassettarsi gli abiti e a inchinarsi per esprimere la sua gratitudine.
«Fratello, dov’è andato a finire quel prete?» chiese Porcellino. «Mi piacerebbe sapere come gli è
venuto in mente di farci uno scherzo simile.»
Il Novizio raccontò dell’amicizia del prete con i sette ragni.
«Se chiamava ‘sorelle’ quei mostri, era certo un mostro anche lui» esclamò indignato Porcellino.
«Adesso è là fuori che fa il cieco» informò Scimmiotto.
Porcellino raccolse il suo rastrello e si avviò a cercarlo, con evidenti intenzioni aggressive. Ma la
Madre Pilan gli disse: «Ammiraglio dei Canneti Celesti, càlmati. Come il grande santo ha potuto
vedere, in casa mia non c’è ombra di persona di servizio: voglio assumere questo bel tomo come
portinaio.»
«Fate quello che volete, noi vi dobbiamo solo gratitudine» rispose per lui Scimmiotto. «Ma non
potreste farci vedere il suo aspetto originario?»
«Questo è facile.» Si accostò al daoshi e gli puntò contro il dito: esso affondò nella polvere e
assunse la forma di una gigantesca scolopendra, lunga sette piedi. Vairambha la sollevò con il dito
mignolo e d’un balzo se ne tornò a casa sua.
Porcellino stava a guardare incantato, con gli occhi in alto: «È battagliera la comare! Come sarà
riuscita a venire a capo di quella bestiaccia?»
Scimmiotto si mise a ridere: «Mi ha detto di essere la madre del mandarino delle Pleiadi. Dal
momento che il mandarino è un gallo, costei è in effetti una vecchia gallina; e si sa che le galline
sono il peggior nemico delle scolopendre.»
Quando Tripitaka ebbe concluso i suoi riti di ringraziamento, ordinò la partenza; ma prima
Sabbioso preparò un pasto con il riso che si trovava in cucina. Dopo che lo ebbero consumato,
Scimmiotto incendiò l’edificio, che in breve fu ridotto in cenere.
Furon salvati da Madre Pilan
E ripresero il viaggio ad Occidente.
Che altro poteva capitargli in cammino? Ascoltate il seguito, e lo saprete.
CAPITOLO 74
SCIMMIOTTO INCONTRA GLI SFONDAVENTO
OVE LUNGA VITA DÀ NOTIZIA DELLA FEROCIA DEI MARESCIALLI DIAVOLI, E SCIMMIOTTO FORNISCE
NUOVE DIMOSTRAZIONI DELLA SUA ABILITÀ NELL’ARTE DI TRASFORMARSI.
Nascono le emozioni e i desideri
Dalla stessa sorgente, e insieme dominano.
L’insegnamento in ogni monastero
È il meditar per rendersene liberi.
Fermi e perseveranti occorre essere,
Brillare senza un solo gran di polvere,
Come la luna immacolata in cielo.
Progresso senza errore: al compimento
Ti sveglierai nell’immortalità.
Si è narrato come in quella occasione Tripitaka e i suoi discepoli riuscirono a evadere dalla
trappola dei desideri e dal carcere delle passioni. Il loro viaggio sulla via dell’Occidente proseguì a
briglia sciolta; l’estate giunse alla fine e venne l’autunno. I viaggiatori godevano della rinnovata
freschezza dell’aria.
I piovaschi han disperso la calura
Battendo sulle foglie di sterculia.
Le lucciole ti guidano la sera
Lungo il sentiero dove canta il grillo.
Si specchia il girasole nelle gocce
Di rugiada che coprono il poligono.
I primi ad appassire sono i salici
E i giunchi, mentre l’ultima cicala
Frinisce stancamente al sole tiepido.
Avanzavano verso una catena montuosa alta da toccare il cielo. Il reverendo, preoccupato, si
rivolse a Consapevole del Vuoto: «Che alte montagne! Chissà se vi sarà una strada per
attraversarle.»
«Che cosa dite mai, maestro!» rispose Scimmiotto ridendo. «La montagna più alta ha il suo
cammino, e l’onda più profonda il suo traghetto: si è sempre detto così. Non esistono ostacoli
invalicabili: camminate senza paura.»
Il reverendo stimolò il cavallo e in breve giunsero alle prime rupi. Dopo qualche li incontrarono
un vecchio; il vento gli scompigliava i capelli bianchi e i radi fili d’argento delle lunghe fedine.
Portava al collo un rosario e s’appoggiava a un bastone dal pomo a testa di drago. Dall’alto del
pendio gridò loro: «Reverendi che andate verso occidente, fermatevi! Questa montagna è abitata da
una banda di diavoli perversi, che hanno divorato tutti gli abitanti del posto. Non si può
proseguire!»
Tripitaka impallidì e si sentì male, tanto che vacillò sulla sella, cadde giù come un sacco e rimase
a gemere steso nell’erba.
Scimmiotto lo andò ad aiutare: «Di che cosa avete paura? Sono qui io.»
«Non hai sentito quel vecchio? Da queste parti vivono gli orchi. Chi di voi ha il coraggio di
andare a chiedergli maggiori informazioni?»
«Statevene lì seduto; ci andrò io.»
«Ma sei brutto e brusco di modi: lo spaventerai e non ne caverai niente.»
Scimmiotto rise: «Allora mi farò bello e di gentile aspetto.»
«Vediamo.»
Il grande santo, con una scossa, si trasformò in un bel monacello con gli occhi azzurri e i
lineamenti femminei, dai gesti misurati e dall’eloquio castigato. Assettò la sua tonaca di broccato e
ruotò su sé stesso davanti a Tripitaka: «Maestro, che ne dite?»
«Dico che vai a meraviglia» esclamò lieto Tripitaka, dopo averlo debitamente considerato.
«Si capisce» grugnì invidioso Porcellino. «Lui sa imbrogliare a meraviglia. Io mi potrei strizzare
la gobba per tre anni di seguito, ma non riuscirei mai a diventare così seducente.»
Il grande santo corse verso il vecchio: «L’umile monaco che sono vi saluta, rispettabile nonno»
gli disse inchinandosi.
Il vegliardo contemplò quel ragazzino esile e manieroso, gli batté la mano sulla testa e gli
domandò: «Da dove vieni, bel monacello?»
«Veniamo dai grandi Tang delle terre dell’Est, che ci mandano in cerca di scritture dal Buddha
dell’Ovest. Ci avete gridato che questo posto è frequentato dai diavoli. Il mio maestro è troppo
pauroso per venire a informarsi di persona, e ha mandato avanti me. Sapreste dirci chi sono queste
creature che ostacolano il cammino? Dovreste essere così gentile da fornirmi tutti i particolari, in
modo da consentirmi di catturarli e di mandarli in prigione.»
«Ragazzino sconsiderato!» rise il vecchio. «Che cosa te ne farai delle informazioni? Non bastano
le parole per affrontare quei diavoli, che dispongono di immensi poteri. Altro che catturarli!»
«C’è da pensare che siano vostri parenti e che voi li proteggiate» ribatté Scimmiotto sorridendo.
«Altrimenti perché vantereste tanto le loro capacità? E perché non rivelate i loro precedenti?»
«Come sei chiacchierino, monacello» disse il vecchio crollando il capo. «Suppongo che nei
lunghi viaggi accanto al tuo maestro, tu abbia imparato qualche piccola cosa di arte magica: magari
sei capace di scacciare elfi da un cespuglio e di liberare una casa dagli spiriti. Ma non immagini
nemmeno che cosa sanno fare dei diavoli feroci e potenti.»
«Quanto feroci e potenti?»
«Per darti l’idea, se si recassero al Monte degli Avvoltoi, i cinquecento arhat si precipiterebbero
a riceverli; se andassero a presentare il biglietto da visita alla porta del Cielo, gli undici grandi
luminari gli correrebbero incontro a rendere omaggio. Sono amici dei draghi dei quattro oceani e
giocano a carte con gli immortali delle otto grotte. Con i dieci giudici infernali sono in rapporti
fraterni. Le divinità delle mura e dei fossati, per non parlare delle divinità locali, li considerano loro
patroni.»
Il grande santo si fece una bella risata: «Se la loro forza consiste nell’essere amici dei miei
giovani colleghi e dei miei inservienti, non so che farmene. Se sapessero che sono qui,
aspetterebbero giusto che venga buio per sloggiare di corsa.»
«Ma che cosa dici, monacello? Quelle sante divinità, tuoi colleghi e inservienti! Tu bestemmi!»
«Per dirvela tutta» raccontò Scimmiotto ridendo, «io sono Scimmiotto Consapevole del Vuoto.
Da giovane sono stato mostro anch’io, e ne ho combinate di tutti i colori. Una volta che avevo
bevuto troppo, vennero due messi dei tribunali infernali a condurmi all’altro mondo. Misi
sottosopra il servizio d’ordine della Rete della Foresta delle Apparenze e terrorizzai i giudici, tutti e
dieci: il re Yama divenne davvero bianco come un morto. Firmarono un pezzo di carta per
dichiararsi miei giovani colleghi e servitori, purché gli risparmiassi le botte.»
«Amitâbha Buddha! Le frottole che racconti sono grandi, monacello; non riuscirai mai a
diventare grande come loro.»
«Caro signore, sono già grande abbastanza.»
«Quanti anni hai?»
«Indovinate.»
«Ne avrai sette o otto.»
«Moltiplichiamo per diecimila» fece ridendo Scimmiotto. «Se non avete niente in contrario,
posso mostrarvi il mio vero aspetto.»
«Lo vedo già, il tuo aspetto.»
«Non vedete molto, in verità: ne ho altri settantadue.»
E si passò la mano sul volto. Con la sua faccia feroce dai denti in fuori, le chiappe scarlatte, la
gonnella di tigre stretta alla vita e la sbarra cerchiata d’oro in mano, era proprio il duca del tuono
nato e sputato. Il vecchio impallidì, le gambe non lo ressero e cadde per terra; si rialzò, ma cadde di
nuovo.
«Non spaventatevi fino a questo punto» gli disse Scimmiotto. «Sono brutto, ma abbastanza
gentile. Vi ringrazio della buona intenzione con cui ci avete messo in guardia. Prendetevi il disturbo
di raccontarmi qualcosa di più sui mostri di queste montagne: quanti sono, chi sono? Ve ne sarò
grato.»
Il vecchio tremava come una foglia e non riusciva più a spiccicare una parola. Sembrava che lo
avesse colto una paresi, o che fosse diventato sordomuto. Scimmiotto aspettò per qualche tempo;
poi, vedendo che il vecchio non riusciva a riprendersi, gli volse le spalle e ritornò da Tripitaka.
«Che cosa hai saputo, Consapevole del Vuoto?» gli chiese il reverendo.
«Niente di grave» rispose ridendo Scimmiotto. «Questa banda di mostri sulla montagna è giusto
buona per far paura a questi pavidi montanari. Non vale la pena di parlarne.»
«Ma hai saputo come si chiama la montagna, quanti sono i diavoli, dove abitano precisamente, e
dove passa la strada verso il Monastero del Colpo di Tuono?»
«Maestro» intervenne Porcellino, «con rispetto parlando: in fatto di farse e carnevalate, gare di
travestimento e giochi a moscacieca, il mio condiscepolo anziano è uno specialista senza rivali. Ma
per le cose serie, valgo più io di un battaglione di Scimmiotti.»
«È vero» riconobbe Tripitaka. «Tu sei più solido.»
«Lui è uno che spinge avanti la testa e si dimentica la coda; fa due domande, si perde in ciaccole
e ritorna da noi tutto garrulo senza niente da dire. Mandate me, se volete sapere le cose a fondo.»
«Va pure, Consapevole delle Proprie Capacità; ma sta attento.»
Il bestione si infilò il rastrello nella cintura, rassettò il vestito e corse su per il pendio. Quando
arrivò dal vecchio, si diede un’aria d’importanza e lo arringò: «Salve, nonno!»
Il povero vecchio, allontanatosi Scimmiotto, si era rimesso faticosamente in piedi e si apprestava
a ritornare a casa, appoggiandosi ancora tremante al suo bastone, quando si vide davanti quest’altra
apparizione: «Avi miei! Che cosa ho messo nella mia minestra per soffrire tanti incubi? L’altro
monaco era orrendo, ma forse conservava qualcosa di umano. Invece questo grugno rigonfio, queste
orecchie grandi come ventagli di giunco, questa faccia di latta con i pelacci sul collo, di umano non
hanno proprio niente.»
«Si vede che siete di malumore, caro mio» lo burlò Porcellino. «So che son brutto; ma se vi
abituate a guardarmi, finirete per trovarmi passabile.»
Udendo che parlava con voce umana, il vecchio domandò: «Si può sapere da dove vieni?»
«Sono il secondo discepolo del monaco cinese. I miei nomi in religione sono Consapevole delle
Proprie Capacità e Otto Divieti. Prima avete parlato con il mio condiscepolo anziano, Consapevole
del Vuoto, il Novizio. Il maestro gli ha rimproverato di non essersi informato bene e ha mandato me
a farvi qualche domanda: come si chiama questa montagna? quali mostri la abitano? in quale grotta
risiedono? dove passa la strada per l’Occidente? Tante grazie, se mi vorrete rispondere.»
«Tu parli sul serio?»
«Mai stato così serio in vita mia.»
«Il fatto è che l’altro monaco, poco fa, mi ha raccontato una quantità incredibile di fanfaluche.»
«Certo, lui è un cacciapalle. Io non gli assomiglio affatto.»
Il vecchio si appoggiò meglio al suo bastone e rispose: «Vediamo: questa è la catena montuosa
del Cammello Leone, larga ottocento li; nel bel mezzo c’è una grotta con lo stesso nome, dove
risiedono tre marescialli diavoli.»
«Sciocchezze» commentò Porcellino. «Se si tratta soltanto di tre poveri diavoli, perché venirci a
mettere sull’avviso come se si trattasse di una gran cosa?»
«Non vi fanno paura?»
«Il mio condiscepolo anziano abbatterà il primo con la sua sbarra, io ammazzerò il secondo con
il mio rastrello, e l’altro condiscepolo regolerà il conto del terzo diavolo con il suo randello. Ecco
fatto: e ce ne andremo per la nostra strada.»
«Questo monaco non ha idea della gravità della situazione» esclamò il vecchio. «I marescialli
diavoli sono potentissimi. Le forze ai loro ordini sono composte da cinquemila mostri sul versante
nord, altrettanti a sud, diecimila a est e altrettanti a ovest; senza contarne diecimila di guardia alla
grotta e altri quattro o cinquemila addetti ai servizi di pattuglia. Conta anche gli addetti ai
rifornimenti, e avrai un totale di quarantasette o quarantottomila soldati, tutti inquadrati con
piastrine di riconoscimento, e tutti alimentati con carne umana.»
Fu la volta del bestione di mettersi a tremare; fece dietro-front e ritornò di corsa dal monaco
cinese. Ma invece di riferire le risposte, posò il rastrello e si accucciò per fare i suoi bisogni.
«Che strano modo di mettersi a rapporto» gli gridò Scimmiotto.
«Me la sto facendo addosso dalla paura» rispose Porcellino. «Non c’è proprio altro da dire.
Disperdiamoci e scappiamo, prima che sia troppo tardi.»
«Sudicione incallito! Ho sentito anch’io quel vecchio, e non mi ha detto niente di strano. Tu ci
scambi due parole, e ti spaventi tanto da perdere il controllo del ventre.»
«Insomma, che cosa succede?» domandò Tripitaka.
«Dice il vecchio» rispose Porcellino, «che questa è la montagna del Cammello Leone, larga
ottocento li. In mezzo c’è una grotta dello stesso nome, dove abitano tre mostri che hanno ai loro
ordini quarantottomila cannibali. Fate un po’ voi il conto, che cosa rimarrà di noi se ci mettiamo
piede.»
A Tripitaka si rizzarono i capelli in testa: «Come faremo, Consapevole del Vuoto?»
Scimmiotto rise: «Tranquillizzatevi, maestro. Non c’è niente di grave. Qualche mostro in giro ci
sarà; ma la gente del posto è paurosa e ingrandisce le cose. Comunque, son qui io.»
«Ma che cosa dici fratello?» insisteva Porcellino. «Io non sono approssimativo come te, ho fatto
domande precise. E anche le risposte sono precise, altro che favole di montanari. Monti e valli
formicolano di esseri malefici.»
«Non insistere, bestia» sghignazzò Scimmiotto. «Fai dell’allarmismo inutile. Se la montagna
formicola, schiaccerò le formiche con la mia sbarra. Datemi la metà di una notte, e sgombrerò il
cammino.»
«Sono fanfaronate senza senso. Solo per fare l’appello di tutta quella gente ci vorrebbe una
settimana. Cosa credi di fare?»
«Quali metodi credi che si possano usare?»
«Avrai un bel picchiare, legare o immobilizzare con la magia: sono troppi!»
«Non mi metterò certo a legare tutta quella gente. Fai conto che allunghi questa sbarra di
quaranta tese, e che le dia una circonferenza di otto tese. Con una sola rotazione su tutto l’orizzonte
schiaccerò, diciamo, cinquemila persone in ciascuna delle quattro direzioni: spalmerò per terra
qualcosa come ventimila combattenti. E il colpo si può ripetere.»
«Certo che se ne fai ripieno di ravioli, ne verrai a capo prima di sera.»
«Maestro» disse Sabbioso a Tripitaka, «il nostro condiscepolo anziano ha tali poteri, che non c’è
niente da temere. Risalite a cavallo, e andiamo avanti.»
Tripitaka aveva ascoltato tremebondo il dibattito, e non aveva altra scelta che di sforzarsi di
trovar fondati gli argomenti rassicuranti.
Si accorsero allora che il vecchio era scomparso. «Non era che un mostro venuto qui con il
proposito di intimorirci» ne concluse Sabbioso.
«Non tiriamo conclusioni superficiali» replicò Scimmiotto. «Aspettate, che do un’occhiata in
giro.»
Balzò in alto e scrutò tutto intorno, senza scoprire alcuna traccia; ma quando si volse
all’improvviso, intravide un lontano baluginare di colori. Si lanciò all’inseguimento e riconobbe il
bianco astro del metallo, il pianeta Venere.
Lo raggiunse e lo afferrò per la veste: «Li Lungavita, non hai perduto l’abitudine di comportarti
da schifoso. Se hai qualcosa da dire, dimmela in faccia. Perché questi trucchi meschini?»
«Scusa tanto, grande santo, se non ti ho informato prima» rispose l’astro messo alle strette. «Ma
è vero che quei diavoli sono potentissimi. Dovrai spremere tutte le tue risorse: e basterà il più
piccolo errore o disattenzione, perché tu non ce la faccia e vi riesca impossibile proseguire.»
«Molto obbligato. Se è gente così tosta, quando ritorni di Sopra, non potresti mettere una buona
parola con l’Imperatore di Giada, perché ci mandi rinforzi?»
«Ai tuoi ordini. Centomila su semplice richiesta verbale.»
Scimmiotto ritornò giù a informare Tripitaka: «Quel vecchietto era il pianeta Venere.»
«Corrigli dietro!» esclamò Tripitaka giungendo le mani. «Vedi di raggiungerlo, e chiedigli se non
ci può suggerire un’altra strada.»
«Non possiamo fare deviazioni. La via diretta è già lunga ottocento li: figuriamoci che giro
dovremmo fare per evitarla!»
Tripitaka si mise a piangere: «E come potremo farcela?»
«Non perdete tempo a piangere, è un comportamento stupido. Di certo Li avrà un po’ esagerato
le difficoltà, per stimolarci a tenere sveglia l’attenzione. Come si dice, uomo avvisato vale per due.
Smontate da cavallo e sedetevi qui.»
«Che cosa c’è ancora da discutere?» domandò Porcellino.
«Non è per discutere» rispose Scimmiotto. «Voi badate al maestro, al cavallo e ai bagagli. Io
intanto vado a informarmi su chi abbiamo davanti. Farò un prigioniero per avere notizie
particolareggiate. Potrei anche catturarne parecchi, e liberarli solo a patto che si impegnino a tener
chiusa la grotta finché non siamo passati. Fatemi vedere: si possono fare tante cose.»
«Occhio!» esortava Sabbioso.
«Non essere diffidente» disse il Novizio ridendo. «In un modo o nell’altro aprirò un varco, fosse
pure questa montagna corazzata d’acciaio!»
Quel sacripante di un grande santo balzò in aria con un sibilo e fu subito sulla cima della
montagna. Frugò fra liane e spine, ma non scoprì segno di presenza umana: il luogo era deserto e
silenzioso. Indispettito, si disse: «Ho fatto male a lasciare andar via quel vecchiaccio. Dev’essere
proprio venuto a prendermi in giro. Qui non c’è traccia di mostri; se fossero tanti come diceva, se ne
dovrebbero vedere che giocano e saltano, agitano lance e bastoni, fanno esercizi militari. E invece
non c’è l’ombra di nessuno.»
Ma a un tratto udì avvicinarsi un rumore di tavolette che battevano e di una campanella che
suonava. Si appostò e vide venire avanti un mostro che portava dietro la schiena un gagliardetto con
la parola Ordinanza e camminava battendo le tavolette, mentre la campanella ciondolava dalla sua
cintura. Non era un piccoletto: la sua statura misurava dodici piedi.
«Dev’essere un portaordini» si disse Scimmiotto, con un piccolo riso segreto. «Sentiamo che
cos’ha da raccontare.»
Fece un passo magico, recitò un incantesimo e si trasformò in mosca. In questa forma si andò a
posare sul copricapo del soldato, che marciando borbottava fra sé: «Noi di pattuglia dobbiamo stare
in guardia contro quel Novizio Scimmiotto, che a quanto pare è capace persino di trasformarsi in
una mosca.»
Scimmiotto si stupiva: «Come fa questo qui a conoscere il mio nome, e a sapere che mi sono
trasformato in una mosca?»
Naturalmente il mostro non si era accorto di niente, e non faceva che ripetere le consegne
ricevute. Scimmiotto pensò per un momento di ammazzarlo a scopo cautelare, ma poi cambiò idea:
«Se tutti i quarantottomila sono di questa pasta, non costituiranno un grande problema. Ma non so
che cosa sappiano fare i loro capi. Vediamo di interrogarlo; per passare alle vie di fatto c’è tempo.»
Vi chiederete come contasse di interrogarlo. Volò via dal copricapo, si posò su una pianta e si
trasformò in un mostro uguale a lui, con gagliardetto, tavolette e campana; solo che era quattro o
cinque pollici più alto. Il falso raggiunse il vero biascicando la stessa giaculatoria, e gli gridò:
«Aspettami!»
«Tu chi sei?»
«Non conosci più i tuoi colleghi?»
«Tu non sei un collega.»
«Come sarebbe a dire? Guarda meglio.»
«Mai vista la tua faccia.»
«Ah, capisco! Non mi riconosci perché sono addetto ad accendere il fuoco. Perciò mi vedi di
rado.»
«Neanche per sogno: in cucina non c’è nessuna faccia con quella bocca sporgente.»
«Mi sono fatto la bocca troppo sporgente» pensò Scimmiotto; abbassò la testa, si sfregò la bocca
con la mano e pensò: «Sporgi meno!» Così accadde.
«Cos’è questa storia? Un momento fa avevi una faccia diversa. Ti è bastato toccarla per farla
cambiare: è una cosa loschissima. E poi non sei dei nostri, io non ti ho mai visto. Con la disciplina
che c’è da noi, gli addetti al fuoco stanno sempre in cucina; per la montagna vanno solo le pattuglie.
Nessuno può avere tutti e due gli incarichi.»
L’astuto Scimmiotto spiegò: «In cucina ero così bravo, che mi hanno promosso al servizio di
pattuglia.»
«Se è così, devi essere stato assegnato a un gruppo di pattuglia di quattrocento uomini e a una
sezione di quaranta, e devi avere la piastrina di riconoscimento. Ce l’hai?»
Scimmiotto aveva riprodotto quello che vedeva del suo modello; la piastrina non era in vista.
Però rispose con disinvoltura: «E come non avrei la piastrina! Me l’hanno appena data. Tu piuttosto
ce l’hai? Falla vedere per primo.»
Il mostro sbottonò ingenuamente la giubba e mostrò la sua piastrina, laccata d’oro e appesa a un
filo di lana verde.
Scimmiotto lesse: Piccolo Sfondavento; e sul verso: Per la potenza di tutti i diavoli. Rifletté: «Si
capisce, la parola vento deve entrare nel nome di tutti gli esploratori.» E disse: «Ora ti mostro la
mia.»
Con movimenti tanto rapidi da risultare impercettibili, si strappò un pelo e ne fece una piastrina
identica, compreso il filo verde, solo che il nome era: Capo Sfondavento. Il mostro si stupì: «Ma
come! Noi ci chiamiamo tutti Piccolo Sfondavento. Perché il tuo nome è diverso?»
Scimmiotto non lasciava mai le cose a mezzo; rispose: «Ma allora non sai la novità? Ero così
bravo in cucina, che il grande re mi ha promosso ispettore del vento, e mi ha conferito questa nuova
carica di capo verificatore della tua sezione di quaranta esploratori.»
Il mostro si spaventò e gli fece precipitosamente il saluto: «Comandante, vi giuro che non lo
sapevo. Se vi ho offeso, scusatemi tanto.»
Scimmiotto rise: «Ma no che non mi offendo. Però c’è una cosa a cui tengo molto: il regalo di
benvenuto. Dai miei ragazzi, mi accontento di avere cinque tael a testa.»
«Portate pazienza, comandante; non ho soldi con me. Vi pagherò non appena avrò raggiunto la
mia sezione sul versante sud.»
«Va bene; vengo con te.»
Il mostro ripartì di buon passo, e il grande santo lo seguì.
Dopo molti li giunsero al Picco dei Pennelli, che aveva questo nome perché lo sovrastava un
ammasso roccioso di forma simile a un porta-pennelli. Ai suoi piedi si trovava un buon numero di
mostri soldati. Scimmiotto vi balzò sopra, si assise maestoso e gridò: «Sfondavento, a raccolta!»
«Agli ordini, comandante» risposero i mostri inchinandosi.
«Sapete perché i nostri grandi re mi hanno nominato?»
«Non lo sappiamo.»
«Perché vogliono mangiare il monaco cinese, ma temono la potenza magica di Scimmiotto il
Novizio, e la sua capacità di trasformarsi a volontà. Si teme che batta appunto questa zona, e non è
escluso che, per spiarci, abbia preso l’aspetto di un Piccolo Sfondavento. Io sono il Capo
Sfondavento appunto per verificare che nella sezione non ci sia quell’infiltrato.»
«Siamo tutti autentici, comandante» risposero in coro.
«Può darsi di sì, e può darsi di no. Se siete tutti autentici, saprete tutti di che cosa sono capaci i
nostri grandi re.»
«Certo che lo sappiamo!» gridò una voce.
«Visto che lo sai, dillo. Chi risponde giusto è autentico. Ma il minimo errore rivelerà l’infiltrato,
e io lo porterò davanti ai nostri capi perché decidano la sua sorte.»
A vederlo troneggiare e comandare con tanta autorità, i mostri ne furono soggiogati e non
potevano che ubbidire. Uno disse: «Immensi sono i poteri dei nostri grandi re, sconfinate le loro
capacità: di centomila soldati celesti farebbero un solo boccone.»
«Palle!» urlò Scimmiotto.
«Comandante, io però sono autentico» balbettò il mostro. «Perché non dovrei esserlo?»
«E allora perché parli a vanvera? Come può un tizio, per grosso che sia, mandar giù centomila
soldati celesti?»
«Ma non sapete che i nostri re possono farsi alti da toccare i palazzi del Cielo, o diventare più
piccoli di un seme di cavolo? L’anno che la Regina Madre d’Occidente dimenticò di invitare il
primo grande re alla festa delle pesche di immortalità, lui se la prese con il Cielo. L’Imperatore di
Giada mandò appunto centomila soldati celesti per ricondurlo alla ragione; ma il grande re spalancò
davanti a loro una bocca grande come una città, e quelli ne furono terrorizzati al punto che si
barricarono dietro il portale est del Cielo. Si può ben dire che di centomila soldati celesti farebbe un
solo boccone.»
Scimmiotto sogghignò dentro di sé: «Son cose che so fare anch’io.» E domandò: «Il secondo
grande re che cosa sa fare?»
«Il secondo grande re è alto trenta piedi, ha le sopracciglia di bozzoli di seta, una bella voce
femminile, i denti a rastrello e il naso lungo come un drago. Lo può arrotolare per strappare l’anima
al suo avversario, avesse pure corpo di bronzo e schiena d’acciaio.»
«Il naso prensile è sempre un punto debole in combattimento» si disse Scimmiotto. E chiese: «E
il terzo grande re?»
«Il terzo grande re non è una creatura di questo basso mondo. Si chiama Roc che Supera
Diecimila Li di Nuvole a Ogni Tappa. Quando si muove, si leva il vento e si sconvolge il mare; se si
dirige a sud, fa tremare anche il nord. Porta con sé un tesoro che si chiama vaso dei soffi yin e yang:
una persona chiusa là dentro si liquefà in tre ore e mezza.»
Scimmiotto si allarmò: «Non è che questo diavolo sia più pericoloso di un altro; ma quel vaso
non mi piace.» E chiese: «Quale dei tre vuol mangiare il monaco cinese?»
«Ma comandante, non lo sapete?»
«La so più lunga di te, minchione!» tuonò Scimmiotto. «Ma ho l’ordine di interrogare voi,
perché potreste non saperne abbastanza.»
«I primi due re abitano qui da lungo tempo; ma il terzo viene da fuori. Abita una città dal nome
Cammello Leone, come la nostra montagna, che si trova quattrocento li a ovest. Se ne impadronì
cinquecento anni fa mangiandone il re, i mandarini civili e militari e tutta la popolazione, uomini
donne e bambini. Ormai è una città di soli mostri. È lui che ha sentito parlare di questo monaco
cinese, inviato nell’Ovest dopo aver praticato la disciplina nel corso di dieci successive
incarnazioni: mangiarne un pezzetto rende immortali. Ha deciso di provarcisi, ma non si sentiva
sicuro di riuscirci da solo, per via di un discepolo di quel monaco, Scimmiotto il Novizio, che è
ferocissimo. Perciò si è alleato ai nostri grandi re e ha stretto con loro legami fraterni: per
impadronirsi del monaco cinese uniranno i loro sforzi.»
A queste parole, Scimmiotto fu preso dalla collera: «Brutte carogne! Ce l’ho io la responsabilità
di quel monaco: come gli viene in mente di cercare di mangiarmelo sotto il naso?»
Balzò giù dalla rupe digrignando i denti in un grugnito furente, roteò la sua sbarra e ridusse tutti i
circostanti in un ripieno da ravioli piuttosto morbido. Poi gli venne qualche scrupolo: «Peccato,
erano abbastanza gentili; mi hanno raccontato assai degli affari di famiglia. Tanto peggio. Cosa
fatta, capo ha.»
D’altronde il buon Scimmiotto non aveva da scegliere. Si impadronì di una piastrina di
riconoscimento e, in veste di perfetto Sfondavento, partì alla ricerca della grotta.
È il caso di dirlo:
Del Bel Re Scimmia le trasformazioni
Sembrano non aver limitazioni.
Si inoltrò sulla montagna, lungo il sentiero, e presto giunse dove si udivano nitriti di cavalli e
grida d’uomini: migliaia di mostri erano schierati davanti all’ingresso della grotta, armati di
sciabole, lance e alabarde, con bandiere e gonfaloni al vento. Scimmiotto si disse soddisfatto: «Li
Lungavita non mi aveva mentito.»
L’esercito era schierato in buon ordine, diviso in compagnie di duecentocinquanta soldati
ciascuna. Le quaranta bandiere dai colori vivaci che garrivano al vento mostravano come i diecimila
fossero al gran completo. Scimmiotto pensava: «Se entro e i diavoli mi interrogano a proposito
della mia pattuglia, troverò sempre qualcosa da raccontare. Ma se facessi un passo falso e fossi
costretto a prendere il largo, ecco qui una bella barriera da superare. Per catturare i capi, sarebbe più
sicuro incominciare con lo sbarazzarsi del loro esercito.»
Facile a dirsi! Come contava di fare? Rimuginava: «Questi diavoli non mi hanno mai visto, ma
hanno sentito parlare di me in modo da metter paura. Posso cercare di trarne partito e di metterli in
rotta con qualche fanfaronata. Dopo tutto, che funzioni o no sta scritto nel nostro destino. Se i
benefici che i santi monaci del Paese di Mezzo devono ricavare dalle scritture che cerchiamo sono
davvero così importanti, qualcuno o qualcosa mi aiuteranno. Se invece son tutte balle e il nostro
destino è di non venirne a capo, non riuscirò a infinocchiare questa gente; ma non farà differenza
finir male qui, o in qualsiasi altro posto.»
Mentre rifletteva continuava allegramente la sua marcia, battendo le tavolette e suonando la
campanella. Quando fu all’altezza della prima linea, gli alfieri dissero: «Eccoti qua, Sfondavento.»
Lui non aprì bocca e tirò dritto.
Le guardie della seconda linea lo fermarono e chiesero: «La vostra pattuglia si è imbattuta in
quel famoso Scimmiotto?»
«Certo, io l’ho visto. Stava aguzzando un palo.»
«Che faccia aveva? Di che palo si trattava?» chiedevano i mostri allarmati.
«Se ne stava accovacciato in riva al torrente, come un esorcista. Ma rizzandosi in piedi era alto
più di dieci tese. Aveva in mano una sbarra di ferro lunga come un palo, del diametro di una tazza.
Spruzzava acqua fino alla roccia dell’altra riva, strofinava la sua arma e borbottava: ‘Palo mio, è
molto tempo che non ti adopero. Tu mi spiaccicherai centomila mostri, non ne lascerai vivo
nemmeno uno. E io provvederò ai loro tre capi e te li offrirò in sacrificio.’ Penso che quando l’arma
sarà ben pulita incomincerà da qui, dai diecimila dell’avanguardia.»
I mostri lo ascoltavano con gli occhi fuori dalla testa: non ce n’era uno che non si sentisse le
gambe molli.
Scimmiotto continuava: «Cari miei, della carne di quel monaco a noi non ne toccherà nemmeno
un brandello. Perché dobbiamo correre tutti i rischi di questa sporca faccenda, senza averne nessun
vantaggio? Il buon senso suggerisce che ce la squagliamo prima che sia troppo tardi.»
«Non hai mica torto. Ragazzi, salviamo la pelle, filiamocela!» approvarono tutti i mostri.
Certo, se fossero stati un’armata di gente del paese, dotata di senso del dovere, avrebbero
preferito morire sul posto piuttosto che darsi alla fuga. Ma non erano che spiriti di bestie varie della
montagna: lupi, tigri, leopardi, quadrupedi e volatili. Così il panico corse tra le file, e in breve tutti
scapparono a gambe levate nelle quattro direzioni. Avvenne un po’ come quando i soldati di Liu
Bang intonarono le canzoni del paese di Chu e i loro ottomila avversari, che erano appunto di quel
paese, credettero di essere traditi dai compaesani e si diedero alla fuga.
«Mica male!» si disse Scimmiotto, tutto allegro. «I tre diavoli sono nelle mie mani. Questa gente,
anche se tornasse a raccogliersi, farà fatica a guardarmi in faccia, dopo essere fuggita al solo suono
della mia voce. Comunque sarà prudente che io resti coerente ed entri nella grotta a raccontare le
stesse cose: altrimenti, basterebbero un mostriciattolo o due che mi smentissero per rivelare tutta la
manfrina.»
E si fece temerariamente avanti.
Ma voi certo non sapete come andò il suo incontro con i marescialli diavoli: dunque ascoltate il
seguito!
CAPITOLO 75
ALLEGRO SOGGIORNO NEL VENTRE DEL LEONE
OVE LA SCIMMIA DELLO SPIRITO PERFORA YIN E YANG, E I RE DIAVOLI VENGONO RICONDOTTI ALLA
VERITÀ DELLA GRANDE VIA.
Un orrido spettacolo si offrì agli occhi di Scimmiotto, quando penetrò nella grotta:
Dovunque montagne d’ossa, una foresta di scheletri.
I capelli si riducono a feltro, carne e pelle si decompongono in polvere e fango. Pendono dagli alberi bianchi tendini
umani.
Dal mucchio di detriti cadaverici e dalla palude di sangue emana un fetore insopportabile. A sinistra, giovani mostri
sono intenti a macellare persone che dànno ancora segni di vita; a destra, carne d’uomo cuoce nei calderoni.
Nessuno oserebbe varcare quella soglia; ci vuol proprio l’intrepidezza del Bel Re Scimmia.
Superato il secondo ingresso, lo spettacolo era completamente diverso: ampi spazi, quiete ed
eleganza, piante rare e fiori fatati, alteri pini in primo piano, bambù turchese nello sfondo. Si
camminava per qualche li su vialetti di ghiaia e si giungeva a una terza porta. Scimmiotto scivolò
all’interno e gettò un’occhiata: su alti troni sedevano tre vecchi diavoli, uno più orribile dell’altro.
Quello di mezzo si presentava così:
I denti come grandi cesoie sbilenche, cranio rotondo e muso squadrato, voce di tuono, occhi sfolgoranti, naso rivolto
all’insù.
Le rosse sopracciglia lanciano fiamme. Dove passa, tutti gli animali cadono in preda al panico. Tremano i demoni
intorno a lui, quando siede sul trono. È il re degli animali, lo spirito malefico del leone dal pelo blu.
Quello a sinistra:
Occhi di fenice dalle pupille d’oro, dentoni gialli e larghe zampe. Gli escono dal lunghissimo naso tanti peli argentei,
che sembrano un’altra coda cresciuta sulla faccia.
La fronte bombata è dominata da sopracciglia cespugliose, il corpo è massiccio; da quelle forme di diavolo grottesco
esce però una sottile voce di fanciulla. È l’elefante dalle zanne giallastre, cresciute lunghissime in molti anni di ascesi.
Quanto a quello di destra:
Ali dorate e capo di leviatano, pupille minacciose in occhi di leopardo. Quando si dirige a sud fa tremare anche il nord;
la sua energia, benché la tortora se ne burli, terrorizza i draghi.
Quando scuote le penne, gli uccelli nascondono il capo; quando allarga gli artigli, la gente volatile muore di paura. È il
grande roc, che in un colpo d’ala supera novantamila li sopra le nuvole.
Davanti a loro era schierato un centinaio di ufficiali di vario grado; ciascuno era armato da capo
a piedi e trasudava determinazione omicida, da dare i brividi. Ma Scimmiotto se ne rallegrò
segretamente, si fece avanti a gran passi e posò al suolo le sue tavolette e la campanella.
«Vostre maestà!» gridò rivolto ai troni.
«Eccoti qua, Piccolo Sfondavento. Nel tuo servizio di pattuglia, hai saputo niente di Scimmiotto
il Novizio?» gli chiesero i tre diavoli.
«Non oso parlare alla vostra presenza.»
«Perché non osi?»
«Perché non ho buone notizie. Ho visto un uomo accucciato in riva al torrente, che aguzzava un
palo e lo bagnava nell’acqua. Da lontano sembrava un esorcista, ma levandosi in piedi era alto più
di dieci tese. Mentre puliva la sua arma borbottava che voleva renderla lucente prima di abbatterla
sulle teste delle vostre maestà. Così ho capito che si trattava del Novizio Scimmiotto, e sono venuto
a informarvi.»
La fronte del diavolo più anziano si imperlò di sudore; egli si rivolse agli altri due con voce
tremante: «Fratelli, ve lo dicevo che era meglio non prendersela con il monaco cinese. Quel
discepolo è fortissimo, e sta già aguzzando la sua sbarra contro di noi. Che facciamo?» E ordinò:
«Ritirate le truppe nella grotta, chiudete le porte e lasciate che sulla montagna passi chi vuole.»
Ma un capitano che era al corrente degli ultimi avvenimenti riferì: «Maestà, i soldati di guardia
all’ingresso si sono sbandati.»
«Come mai sono scappati? Avranno annusato il pericolo che si avvicina. Sbarrate
immediatamente le porte!»
E infatti si udirono rinchiudersi i pesanti battenti e risonare i metalli di catene e catenacci.
«Adesso siamo tutti chiusi dentro» pensò inquieto Scimmiotto. «Qualunque cosa non vada per il
suo verso, mi trovo senza una via di ritirata. Sarò più tranquillo se, con qualche frottola
supplementare, riuscirò a fargli riaprire il portone.»
«Vostre maestà, non è tutto: ha detto di peggio.»
«Che cosa ha detto?»
«Diceva che scorticherà vivo il primo gran re, disosserà il secondo e strapperà i tendini del terzo.
Chiudere le porte non serve, perché lui può facilmente trasformarsi, per esempio in una mosca, e
intrufolarsi dalla minima fessura. Se lo facesse, come ci difenderemmo?»
«Fratelli, attenzione! In questa grotta non si vedono mosche da anni: se ne vedete volare una,
non può essere che Scimmiotto.»
«Li servo subito» ridacchiò Scimmiotto fra sé. «Il panico che ne seguirà li costringerà a riaprire
le porte.»
Il grande santo si appartò in un angolo buio, si strappò un pelo dal collo e lo mutò in una mosca
dorata, che andò a volare dritta sulla faccia di un grande re.
«Orrore, fratelli!» gridò quello, con la voce in falsetto dalla paura. «Guardate! la cosa è penetrata
fin qui!»
Nel panico generale, tutti si armarono di scope e di strofinacci per abbattere il nemico. Il grande
santo non riuscì a trattenersi dal ridere a crepapelle: e fece male, perché in questo modo perse il
controllo e per un attimo lasciò trapelare il suo vero aspetto.
Il terzo diavolo gli diede un’occhiata e si gettò verso di lui: «Fratelli, guardate, ci sta
imbrogliando!»
«Chi ci ingannerebbe?» chiese stupito il maggiore.
«Questo mostriciattolo che ha risposto alle nostre domande. Non è un Piccolo Sfondavento: è
Scimmiotto in persona sotto mentite spoglie.»
«Miseria, mi ha riconosciuto!» pensò Scimmiotto. Si passò la mano sul volto per rafforzare il
travestimento, venne verso la luce e disse: «Io sarei Scimmiotto? Le vostre maestà si sbagliano:
guardate, sono uno Sfondavento qualsiasi.»
«Ma sì, lo riconosco» disse il grande re. «Vedo quella faccia tre volte al giorno, quando facciamo
l’appello.» E chiese: «Ce l’hai la piastrina di riconoscimento?»
«Eccola qui» Scimmiotto si sbottonò la giubba e gli tese la piastrina.
«Vedi, fratello? Gli facevi torto.»
«Non faccio torto a nessuno» protestò il terzo re. «Quando si è messo a ghignare, ho visto
benissimo il suo brutto muso da duca del tuono. Quando ho gridato, ha ripreso questo aspetto.» E
ordinò: «Portate subito le corde.»
Gli ufficiali ubbidirono, lo rovesciarono a terra e lo legarono. Quando gli sollevarono i vestiti, si
vide subito pelo di equipuzio: in effetti aveva imitato fedelmente l’aspetto esteriore, ma non si era
curato di cambiare le parti nascoste, come le chiappe scarlatte e la coda scimmiesca.
«Ecco qua!» gridò il primo diavolo. «Testa di Sfondavento su corpo di Scimmiotto. Ragazzi,
portate vino per brindare alla salute del terzo re: è merito suo se abbiamo catturato Scimmiotto. Ora
niente ci impedirà di metterci sotto i denti il monaco cinese.»
«Non è ancora giunto il momento di bere» obiettò il terzo diavolo. «Questo Scimmiotto sa tanti
di quei trucchi, che ci può ancora scivolare fra le dita. Facciamo portare il nostro vaso e
chiudiamocelo dentro: dopo potremo bere tranquillamente.»
«Bravo, la prudenza non è mai troppa» approvò sogghignando il primo diavolo.
Trentasei mostri andarono a prendere il tesoro nell’armeria. Vi chiederete quali dimensioni
potesse avere: era alto solo due piedi e quattro pollici. E occorrevano addirittura trentasei persone
per trasportarlo? Sì, perché trentasei è il numero dell’Orsa Maggiore(): quel vaso racchiudeva le
energie dello yin e dello yang, i sette tesori, gli otto trigrammi e i ventiquattro soffi dell’anno.
Il vaso venne portato nella sala, fu liberato dall’involucro che lo proteggeva e si sollevò il
coperchio. Scimmiotto fu slegato, spogliato e presentato davanti alla bocca del vaso, che lo
risucchiò rumorosamente. Quando fu dentro, l’imboccatura venne richiusa e il coperchio sigillato.
A questo punto i diavoli si dettero a brindare: «Quel macaco può dimenticare la strada
dell’Occidente, e anche quella dell’oriente. Se il monaco vuole ancora trovare scritture, non gli resta
che far girare all’indietro la ruota delle incarnazioni e ricominciare daccapo.» Ridendo e dandosi
pacche sulle spalle, con i boccali in mano, si diressero verso il tavolo del banchetto che doveva
celebrare la loro vittoria.
Scimmiotto stava stretto dentro il vaso; perciò si rimpicciolì e sedette in un angolo, a suo agio.
Sentiva una gradevole frescura, e commentò: «Questi mostri si illudono di avere chissà quali armi.
Perché mai andranno raccontando che questo vaso liquefà la gente in tre ore e mezza? Ci si sta così
comodi, che ci si potrebbe vivere allegramente per sette od otto anni.»
Ma il grande santo, ahimè, non sapeva come funzionava il vaso. Nel perfetto silenzio, il bel
fresco poteva durare anche per un anno filato. Ma guai se si rompeva il silenzio: bastava una parola
per scatenare fiamme che divoravano il chiacchierone. Ancor prima che finisse la frase, il vaso
diventò rovente. Per fortuna il grande santo era pieno di risorse: si limitò a fare il segno che
allontana il fuoco e se ne rimase seduto impassibile nel suo angolino. Dopo un’oretta, ecco spuntare
da tutte le parti quaranta serpenti che venivano a morderlo. Scimmiotto li acchiappò a uno a uno, gli
torse il collo e lo ruppe. Poi comparvero tre draghi di fuoco che lo accerchiarono.
Allora il Novizio incominciò a sentirsi a disagio: «Gli altri erano giochetti, ma questi draghi
possono essere pericolosi. Se me ne resto qui come un salame e il flogisto mi raggiunge il cuore,
che sarà di me? Devo crescere fino a rompere la prigione.»
Recitò un incantesimo e si allungò di una dozzina di piedi; ma anche il vaso crebbe in
proporzione. Ridusse la statura, e il vaso ritornò alle precedenti dimensioni.
«Si mette male» si diceva Scimmiotto spaventato. «Questa roba mi sta incollata addosso come
un vestito su misura.» Gli dolevano le gambe; le toccò e si accorse che il fuoco cominciava a
intaccarle. «Diavolo! Mi si fondono le gambe! Non ho voglia di diventare un mutilato di guerra.»
Non poté evitare di versare qualche lacrima. In realtà
Ciò che lo addolorava in mezzo ai suoi tormenti
Erano i gran pericoli corsi da Tripitaka.
«Maestro!» si lamentava. «Dopo tante avventure al vostro servizio, non avrei mai pensato di
finire per mano di questi orchi. Ai bei tempi avevo ben altra reputazione.»
Ma non si abbandonò alla disperazione fino al punto da abbandonare la riflessione: «Quella
volta, sul Monte del Serpente Acciambellato, la pusa mi donò tre peli d’emergenza. Vediamo se ci
sono ancora.»
Si tastò per cercarli, e trovò dietro la nuca tre peli più rigidi degli altri: «Eccoli qui. Vediamo a
che cosa possono servire.»
Se li strappò, ci soffiò sopra e mutò il primo in un succhiello a punta di diamante vajra, il
secondo in un’asticciola di bambù e il terzo in una cordicella di seta. Passò la corda intorno al
succhiello e ne legò le estremità all’asticciola, incurvandola ad arco; con l’arnese così costruito
trapanò la parete del vaso e vi aprì un forellino, da cui apparve la luce. «Che fortuna!» esclamò.
«Mi caverò dagli impicci anche questa volta.» Presto la temperatura si abbassò, perché i soffi yin e
yang sfuggivano dal foro.
Diavolo di un grande santo! Ricuperò i suoi peli e si mutò in un insettino tanto piccolo da poter
passare dal foro che aveva praticato. Sfuggito al suo carcere, invece di prendere il largo, si andò a
posare sulla testa del primo diavolo.
Questi posò il bicchiere e domandò: «Avrà finito di fondere, quello Scimmiotto?»
«Ma certo: il tempo è trascorso» rispose sorridendo il terzo diavolo.
L’anziano fece dunque portare il recipiente. Ma i trentasei mostri si accorsero subito che ormai il
vaso pesava pochissimo, e corsero spaventati ad annunciare: «Vostra maestà, questo vaso ha perso
ogni peso!»
«Sciocchezze! Come può perdere peso un recipiente pieno di yin e di yang?»
Uno degli addetti lo sollevò con un dito: «Vedete che piuma è diventato?»
Il diavolo tolse il coperchio e guardò dentro, vide il filo di luce che filtrava dal fondo e gridò:
«Ma è vuoto! Il prigioniero è fuggito!»
Scimmiotto, sulla sua testa, lo burlava: «Guarda meglio! Guarda meglio!»
«Correte a chiudere le porte!»
«Eh no!» si disse Scimmiotto. «Sarà meglio che me ne vada.» Riprese il proprio aspetto, si
impadronì dei propri vestiti che giacevano in un angolo, e scappò via; ma prima disse ai suoi ospiti:
«Mi dispiace per quel vaso bucato, che non servirà più a chiuderci la gente. Ma non lo gettate:
potrete sempre usarlo come pitale.»
Balzò fuori e salì su una nuvola, strillando e ballando per allegria.
In breve ritornò dal reverendo, che pregava rivolto al cielo, usando un pizzico di terriccio a guisa
d’incenso. Diceva:
«Supplico gli immortali delle nubi lontane
E le divinità del giorno e della notte
Di dare protezione al mio saggio discepolo
Scimmiotto che dispone di infiniti poteri.»
Scimmiotto si sentì lusingato e incoraggiato. Scese giù e gridò: «Maestro, eccomi qua.»
Il reverendo gli afferrò le mani: «Consapevole del Vuoto, quante preoccupazioni mi dài! Sei
stato via molto tempo sulla montagna, eravamo senza notizie. Che cos’hai scoperto?»
«Maestro» rispose Scimmiotto, «l’esito della nostra missione dipende in primo luogo dai destini
della gente dell’Est, in secondo luogo dai vostri meriti e dalla vostra infinita virtù, ma alla fine
anche da quello che sappiamo fare noi discepoli.» E raccontò per filo e per segno le sue recenti
avventure. «Ora che rivedo il vostro rispettabile volto, mi sento proprio rinascere.»
Il reverendo gli manifestò gratitudine, ma concluse: «Hai liberato te stesso, ma non hai distrutto
quei mostri.»
«È vero; questo non posso dirlo.»
«Quindi non mi puoi garantire il passaggio sulla montagna.»
«Perché no?» gridò Scimmiotto, cui non piaceva non sentirsi vincente.
«La situazione mi sembra confusa; ci saranno altri scontri, e chissà come andranno a finire. Io ho
paura ad andare avanti.»
«Siete poco comprensivo, maestro» si difese Scimmiotto con un risolino imbarazzato. «Come
dice il proverbio: non basta un filo per fare una corda; oppure: non si applaude con una mano sola.
Sono tre diavoli e molte migliaia di mostri: come volete che mi sbarazzi di tutti da solo?»
«Certo, non è corretto affrontare il nemico in condizioni di inferiorità numerica; e non puoi fare
tutto da solo. Parlane un po’ con Porcellino e Sabbioso: anche loro sono abili. Se ce la mettete tutta,
forse riuscirete a sgombrare il cammino e ad assicurarmi il passaggio.»
«D’accordo» rispose Scimmiotto riflettendo. «Sabbioso potrebbe restare a difendervi, mentre
Porcellino viene con me.»
«Non ci penso nemmeno, fratello» gridò allarmato il bestione. «Non vedi che balordo sono?
Faccio fatica a fendere l’aria quando cammino: non ti servirei a niente.»
«Non sei certo una meraviglia, ma fai numero anche tu» replicò Scimmiotto. «Come si dice:
anche un peto fa il suo vento. Se non altro mi potrai incoraggiare.»
«Vengo, ma tu non mi piantare in asso; e soprattutto non mi giocare brutti scherzi quando la
situazione diventa critica.»
«Va, Porcellino, e fa attenzione» esortò Tripitaka. «Sabbioso resterà qui con me.»
Il bestione raccolse tutto il suo coraggio e partì con Scimmiotto. In un turbine di vento fecero
presto a raggiungere l’ingresso della grotta: le porte erano sprangate e il sito deserto.
Il Novizio si fece avanti con la sbarra in mano e gridò con voce terrifica: «Aprite, mostri! Venite
a battervi con il vecchio Scimmiotto!»
Quando lo seppero, i tre diavoli restarono a lungo silenziosi e incerti. «Chi di noi lo va ad
affrontare?» domandò il primo diavolo. Ma i suoi colleghi sembravano diventati sordomuti. Infine il
primo diavolo perse la pazienza: «Che figura ci facciamo? Se ci lasciamo trattare così senza
muovere un dito, abbiamo chiuso con gli affari, sulla strada maestra dell’Occidente. Getterò sulla
bilancia la mia vita di vecchio. Se riesco a batterlo in tre scontri, ci mangeremo il monaco cinese. Se
invece resto soccombente, voi serrate le porte e lasciateli andare per la loro strada.»
Quindi si armò e uscì a gran passi dalla grotta. Scimmiotto e Porcellino, che lo osservavano,
constatarono che era una creatura imponente:
Prezioso elmo di bronzo sulla testa,
Adornato di ghiande scintillanti.
Un paio d’occhi che lanciano fulmini.
Ampia criniera intorno alle sue tempie.
Lunghi artigli affilati come lame,
Denti aguzzi allineati come seghe.
Indossa un’armatura senza maglie
D’oro giallo, ed ha un drago alla cintura.
È armato di una sciabola d’acciaio
E con voce di tuono va gridando:
«Chi è lo sconsiderato che mi sfida?»
Il grande santo si avanzò e gli disse con aria faceta: «Ecco qui il tuo nonnetto, che desideravi
tanto.»
«Saresti tu Scimmiotto il Novizio?» chiese il re diavolo con una smorfia sarcastica. «Macaco
impudente! Io non ti ho provocato: perché mi vieni fra i piedi?»
«Senza vento o marea, non gonfia l’onda: se tu non mi avessi provocato, perché mai ti verrei a
cercare? Non siete forse voialtri, cani e sciacalli, che complottate per divorarvi il mio maestro? E io
vengo a mostrarvi con quale legna accendo il mio fuoco.»
«Tutte queste chiacchiere verrebbero a dire che ti vuoi battere?»
«Proprio così.»
«Sei un bel gigione. Non sai che potrei schierare in campo le mie truppe, al suono dei tamburi e
allo sventolio delle bandiere, e tu saresti sommerso senza neanche vedermi in faccia? Ma io non
sono di quelli che abusano del vantaggio: vediamocela in singolar tenzone.»
«Fatti in là, Porcellino, e fa il tifo per il tuo amico.» Il bestione non se lo fece ripetere.
«Vieni qua» propose il diavolo; «voglio darti un’alternativa. O ti offri da bersaglio e ti fai
assestare tre sciabolate sulla tua testa pelata; in questo caso, lascerò passare il tuo monaco cinese.
Oppure, se preferisci, me lo consegni senz’altro perché sia servito in tavola.»
«Mostro mio, se vuoi toglierti il gusto di battermi sulla testa alla condizione che hai detto, fa
portare carta e pennello, e firmiamo il contratto. Puoi picchiare quest’anno e l’anno prossimo, a me
non fa né caldo né freddo.»
Il diavolo raccolse le energie, allargò le gambe per darsi una base d’appoggio più solida,
impugnò la sciabola con entrambe le mani, l’alzò più in alto che poté e l’abbatté a tutta forza; per
giunta, il grande santo alzò di scatto la testa a incontrare la lama. Ne venne un botto tremendo, e la
lama rimbalzò via con un fascio di faville, ma non lasciò la minima traccia.
«Che testa incredibile ha questa scimmia!» gridò il diavolo meravigliato.
«Sembra proprio che tu non mi conosca» sogghignò Scimmiotto.
«Di ferro è la mia testa, senza pari
Fra cielo e terra: non si romperebbe
Per mazza né per ascia. Da ragazzo
Nel forno di Laozi feci un soggiorno:
Quattro stelle soffiavano sul fuoco
E le costellazioni mi forgiavano.
Né acqua né fiamma posson danneggiarmi.
Quel monaco cinese ha rafforzato
L’opera con il suo cerchio dannato.»
«Basta con le bravate, macaco. Il secondo colpo non ti lascerà vivo.»
«Accòmodati: son qui per questo.»
«Non sai, macaco, che la mia sciabola
è metallo forgiato nel fuoco divino? Essa è stata polita e affilata, temprata e ritemprata mille volte. Flessibile come il
pitone bianco, sottile come un’ala di mosca, ha filo e robustezza come prescrivono gli antichi trattati di arte militare. In
montagna agita le nuvole, nel mare solleva le onde. Giace riposta nell’ombra di un’antica grotta, e non fa la sua
apparizione sul campo di battaglia se non per riportare la vittoria. Del tuo cranio di monaco farà due fette di zucca.»
«Caro il mio mostro, dovresti pensarci due volte prima di dire certe assurdità. Manipolare la mia
testa con i tuoi utensili da cucina, come se fosse una zucca! Comunque io sono di parola, va avanti.
Vediamo che cosa riesci a combinare.»
Il diavolo calò un altro colpo tremendo, e questa volta la testa si aprì in due: anzi, tutto il corpo si
aprì e rotolò per terra. Si alzarono due Scimmiotti. Il mostro, con la lingua fuori, guardava perplesso
e non si capacitava. Porcellino, che stava da parte a contemplare la scena, gli gridò: «Picchia
ancora, che diventano quattro.»
«Sembra che tu sia capace di sdoppiarti» constatò il diavolo. «Perché non lo hai fatto al primo
colpo?»
«Perché non ci avevo pensato» rispose Scimmiotto ridendo. «Ma se vuoi continuare, non fare
complimenti: ti basteranno pochi colpi per fabbricarti un migliaio di buoni amici come me.»
«Macaco diabolico, ti sai sdoppiare, d’accordo; ma sei capace di rimetterti insieme? Fammi
vedere. Potresti ritornare come prima e provare a colpirmi con la tua sbarra.»
«Avevi proposto di darmi tre sciabolate, e me ne hai date solo due. Ma se ho ben capito ti piace
la mia sbarra e vuoi provare che effetto fa sulla tua testa.»
«Proprio così.»
«Agli ordini, signor curioso.»
I due Scimmiotti si abbracciarono, rotolarono avvinti per terra e ridivennero uno solo. Il quale
balzò in piedi, brandì la sbarra e l’abbatté sulla testa del diavolo. Ma quello parò con la sciabola e
gridò: «Macaco insolente, come osi minacciare i superiori con questo bastone da beccamorto?»
«Vuoi saperne di più, sulla mia sbarra?» urlò Scimmiotto. «È famosa in cielo e in terra!»
«Perché mai sarebbe famosa?»
«Fu forgiata di ferro trasmutato
Per nove volte da Laozi in persona.
Fu l’arma di Yu il Grande, «la divina»,
Con cui dragava i fiumi e fissò i mari.
Racchiude al centro la carta del Cielo;
Sui cerchi d’oro delle estremità
Porta segni di draghi e di fenici,
Magiche rune da paralizzare
Diavoli e dèi. Fu nominata Scettro
Dello Yang Trascendente e fu nascosta
In fondo al mare, lungi dagli sguardi
Degli umani. Ma al giunger di Scimmiotto
Arse di ogni colore e diede luce.
La portai sul mio monte e ne saggiai
Le possibilità: la feci grossa
Come una grande giara, oppur sottile
Come un filo di seta; un breve ago
O un’alta vetta. Come io la voglio
Lei si trasforma, ed agita le nubi
E sa lanciare fulmini violenti.
Quando ti appare fra sinistre brume,
Brividi freddi corron la tua schiena.
Dal profondo del mar fino ai confini
Del cielo su di me la custodisco.
Trionfa delle tigri e dei dragoni,
Ai guardiani del cielo si sottrasse
E Nata mise in fuga: quei celesti
Non sapevano più dove nascondersi.
L’Imperatore di Giada, insicuro
Della guardia del tuono e dei ministri,
Al Buddha si rivolse per aiuto.
È retaggio delle armi la sconfitta:
Fui prigioniero cinquecento anni.
Ma quando Guanyin volle protezione
Pel monaco cinese, incaricato
Di ricercare i sutra, ricordò
Questa sbarra implacabile di ferro.
Essa riduce in polvere i perversi
Che infestano la via. Davanti a lei
Tremano i luminari su nel cielo
E i giudici infernali sotto terra.
Non c’è diavolo o mostro che resista.»
C’era di che riempire di pensieri il povero re diavolo. Tuttavia non poteva tirarsi indietro, e
brandì nuovamente la sua sciabola. Il re scimmia lo affrontò allegramente. Lo scontro incominciò
davanti alla grotta e proseguì per aria, dove entrambi ben presto balzarono. Che battaglia!
Ecco la sacra sbarra A piacer vostro che dragò il Fiume Celeste, celebre nel mondo intero. Il diavolo irato le
contrappone la sua temibile sciabola. Nella spietata battaglia, uno cambia di aspetto a volontà, l’altro si allunga fino al
cielo. Una densa bruma nasconde gli astri, la nebbia ricopre le selvagge distese. Uno vuol divorare Tripitaka, l’altro lo
difende.
Il bene e il male, chiaramente contrapposti, si combattono all’ultimo sangue.
Dopo una ventina di scontri, Porcellino non riuscì a trattenersi e si gettò anche lui addosso al
diavolo, minacciandolo con il rastrello. Questi non sapeva che il nuovo nemico era un impulsivo
facile a scoraggiarsi, più rumoroso che pericoloso. A giudicare dalla sua mole, pensò che avesse la
mano pesante: lasciò cadere la sciabola e si diede alla fuga.
«Acchiappa, acchiappa!» gridava Scimmiotto. Il bestione si gettò all’inseguimento levando il
rastrello. Ma ai piedi del pendio il fuggiasco si fermò, si volse verso gli inseguitori e riprese il suo
aspetto originario, spalancando una gola gigantesca. Porcellino s’impaurì: si gettò nei cespugli,
senza badare alle spine che gli laceravano le carni, e ci si rimpiattò tutto tremante, spiando e
tendendo le orecchie in attesa del seguito.
Quando arrivò Scimmiotto, il mostro spalancò di nuovo la gran gola per inghiottirlo, e il Novizio
ne fu ben contento; anzi, rimpicciolì la sua sbarra per entrarci meglio. Il bestione lo vide con terrore
finire là dentro: «Equipuzio inetto! Perché non scappi? Ti vai proprio a buttare nella sua bocca. E
adesso che ci sei finito, addio monaco: domani sarai diventato un bel mucchio di merda.»
Il bestione aspettò che il diavolo trionfante riprendesse la strada di casa, si districò dai cespugli e
corse via nella direzione opposta.
Tripitaka lo vide arrivare ansimante: «Quanta furia, Otto Divieti! Dov’è andato a finire
Consapevole del Vuoto?»
«È andato a finir male: il mostro l’ha ingoiato» rispose piangendo il bestione.
Il povero Tripitaka cadde svenuto. Ci volle un po’ di tempo prima che si riprendesse, e allora
incominciò a pestare i piedi e a battersi il petto: «Ah, discepolo, io dicevo sempre che eri tanto
bravo a sottomettere creature malefiche, e che senza fallo mi avresti condotto alla meta. Non avrei
mai pensato che saresti finito così. Miseria e desolazione! Tutti i nostri sforzi sono finiti in niente.»
Mentre il maestro dava sfogo al suo dolore, il bestione invece di consolarlo gridò a Sabbioso:
«Dài, porta qui i bagagli, che ce li dividiamo.»
«Dividere che cosa?» chiese stupito Sabbioso.
«Dividiamo tutto e ci separiamo. Tu ritorni alle Sabbie Mobili a mangiare la gente di passaggio;
io vado a prendermi cura di mia moglie, nel villaggio del vecchio Gao. Il cavallo bianco lo
vendiamo per comperare una bara al maestro.»
A sentire questi bei propositi il reverendo, che era già pieno d’angoscia, scoppiò perdutamente in
singhiozzi e invocazioni all’augusto cielo.
Nel frattempo, il diavolo anziano era ritornato a casa. «Com’è andata?» «Ho vinto io, e ne ho
catturato uno.» «Quale dei due?» «Scimmiotto il Novizio.» «E ora dov’è?» «Nel mio ventre: l’ho
ingoiato in un boccone.»
«Fratello maggiore!» gridò allarmato il terzo diavolo. «Non lo sapevi? Quella bestia è
assolutamente incommestibile, nessuno riuscirebbe a digerirla.»
Dal ventre si udì risuonare una voce allegra: «Sono più che digeribile. Dopo di me non avrai mai
più bisogno di digerire niente altro.»
«Maestà, si mette male!» gridavano i mostri terrorizzati. «Questa che viene dal vostro corpo è la
voce di Scimmiotto.»
«Parli finché ne ha voglia, non mi fa paura. Come sono stato capace di mangiarlo, saprò pure
dargli il fatto suo. Fate scaldare dell’acqua salata: voglio berla per aiutarmi a vomitarlo fuori. Poi lo
metteremo a friggere, e quando sarà croccante lo masticherò con cura, annaffiandolo di buon vino:
certo in quel modo lo digerirò più facilmente.»
I mostriciattoli portarono l’acqua calda, il diavolo bevve ed ebbe conati di vomito: ma
Scimmiotto non usciva. Sembrava aver messo radici. Il povero diavolo si mise le dita in gola, si
strinse il collo, si batté sullo stomaco e vomitò più volte l’anima sua: gli girava la testa, aveva la
vista annebbiata e la milza a pezzi. Ma il Novizio, niente.
«Sei sempre lì?» chiese ansimando il diavolo.
«Non ho nessuna fretta» rispose sereno Scimmiotto.
«Ma che ci stai a fare?»
«Qualche volta la tua perspicacia lascia un po’ a desiderare. Siamo d’autunno e ormai fa fresco.
Sai che noi monaci meniamo vita austera: la mia tonaca non è foderata e io sono freddoloso. Ma qui
dentro si sta benone: hai una pancia bella calda. E poi sono al riparo dal vento. Per l’inverno non c’è
posto migliore; credo che uscirò a primavera.»
«Avete sentito, maestà?» fremeva la folla dei mostri. «Vuol passare l’inverno dentro di voi!»
«Ci si provi! Io mi metterò in posa di meditazione, mi ibernerò e non mangerò più niente: quel
maledetto equipuzio creperà di fame.»
«Ma lo sai, vecchio mio, che non sei mica tanto sveglio?» replicò Scimmiotto. «Durante il
viaggio con il monaco cinese, siamo passati da Canton. Là ho comperato un bel fornello portatile
per cuocere lo spezzatino, e lo porto sempre con me. Di roba da mangiare ce n’è per tutti i gusti, in
questa dispensa: fettine di fegato, fiocchi di trippe, battuto di stomaco, spuma di polmone... Ho di
che campare fino alla festa del cinque aprile.»
«Fratello!» avvertì terrorizzato il secondo diavolo. «Guarda che quel macaco è capace di tutto!»
«Supponiamo che voglia davvero cuocersi lo spezzatino» filosofò il terzo diavolo. «Dove potrà
appoggiare il fornello?»
«Mi sceglierò un bell’osso a tripla forca» rispose Scimmiotto.
«Ma se accenderai il fuoco» obiettò il terzo diavolo, «il fumo uscirà dal naso del mio fratello
maggiore e lo farà starnutire, non ti pare?»
Scimmiotto si mise a ridere: «Ma no, se è questo che ti preoccupa, ho pronto il rimedio. Gli farò
un bel buco nel cranio con la mia sbarra: servirà da camino, e un po’ anche da finestra. Qui c’è
caldo, ma fa buio.»
Il primo diavolo aveva un bel mostrarsi intrepido, ma stava sulle spine. Prese il coraggio a due
mani: «Fratelli, non temete! Fatemi portare del vino medicato: ne berrò tanto che lo avvelenerò.»
Scimmiotto se la rideva fra sé e si chiedeva: «Ho mangiato e bevuto tante cose in vita mia. Con
quale specie di vino medicato penserà di avvelenarmi, questo bel tomo?»
I mostri riscaldarono due vasi di beverone e ne riempirono una grande caraffa, che porsero al
loro re. Scimmiotto sentì il profumo e lo trovò di suo gusto: «Questo me lo bevo io.»
Rovesciò il capo all’indietro, spalancò la bocca e la applicò in fondo alla gola del suo ospite:
quello beveva dalle labbra, ma era Scimmiotto a raccogliere ogni sorsata. Fu così per la prima
caraffa e per quelle che seguirono, in numero di sette od otto.
Il vecchio diavolo posò il recipiente: «Che strano! Quando bevo questa roba, mi sento sempre lo
stomaco in fiamme fin dal secondo sorso. Ora ne ho bevuti tanti e non sento niente, nemmeno le
guance arrossate.»
Come si sa, il Novizio non era un gran bevitore. Tutto quel vino gli andò alla testa e lo rese
ubriaco fradicio. Cantava canzoni sconclusionate, faceva ginnastica, si aggrappava ai legamenti del
fegato per giocare all’altalena, saltava, capitombolava, si dava a balli sfrenati. La creatura malefica,
colta da dolori lancinanti, crollò a terra pensando di morire.
Se poi non sapete, in fin dei conti, se il diavolo riuscisse o meno a sopravvivere, ascoltate il
seguito.
CAPITOLO 76
VIAGGIO ALLA CITTÀ DEI MOSTRI
DOVE DIMORA IL DIO DELLO SPIRITO, IL DIAVOLO SI ARRENDE ALLA NATURA PROPRIA; MADRE DEL
LEGNO DÀ IL SUO CONTRIBUTO AD ASSOGGETTARE LA CREATURA ALLA VERITÀ INCARNATA.
Abbiamo ascoltato come Scimmiotto si dedicò a un quarto d’ora di ginnastica, e come ciò fece
crollare a terra il maresciallo diavolo. Egli perse la parola e il respiro e restò esanime, tanto che il
Novizio lo credette morto e si arrestò.
«Molto compassionevole e misericordioso pusa, Grande Santo Uguale al Cielo!» esalò il diavolo
ritornando in sé dopo qualche tempo.
«Su con la vita, vecchio mio. Non affaticarti troppo. Chiamami ‘nonno’: risparmierai un sacco di
parole e io mi accontenterò.»
Il mostro, che teneva alla sua pelle, esclamò: «Nonno! Nonno! È stata colpa mia, sono io che ti
ho ingoiato e mi sono messo nelle tue mani. Non mi resta che la speranza che il grande santo
compatisca quest’umile insetto che teme di morire. Se mi risparmi, accompagnerò io il tuo maestro
nella traversata della montagna.»
Scimmiotto era bellicoso, ma non privo di buoni sentimenti, né insensibile ai complimenti;
d’altronde ciò che stava in cima ai suoi pensieri era la missione del maestro e sua. Perciò gridò:
«Creatura malefica, se ti perdono, che cosa ti impegni a fare di preciso?»
«Non ho preziosi da offrire; non ho oro, argento, perle, turchesi, agate, coralli, cristalli, ambra o
gusci di tartaruga. Ma ti prometto che noi tre re trasporteremo il tuo maestro per tutto il percorso
montuoso su un palanchino di rotang profumato.»
«Va bene; è una prestazione che vale molto più di qualunque prezioso» rispose ridendo
Scimmiotto. «Apri bene la bocca, che esco.»
Mentre il diavolo maggiore apriva la bocca, il terzo fratello gli bisbigliò: «Quando te lo senti
sulla lingua, serra le mascelle e mastica forte. Dopo averlo ben masticato, inghiottilo pure: questa
volta non ti nuocerà.»
Ma Scimmiotto tendeva l’orecchio e sentiva tutto. Prima di metter piede dentro la bocca, spinse
avanti la sua sbarra a esplorare il terreno; subito il mostro serrò le mascelle e si udì il rumore dei
denti che si spezzavano.
«Ma bravo!» esclamò Scimmiotto. «Io ti prometto salva la vita, e tu cerchi di mordermi per
togliermi la mia. Non esco più. Tanto farò che ti manderò all’altro mondo, e non uscirò prima di
allora.»
Il maggiore se la prese con il terzo: «Mi hai reso davvero un bel servizio! Guarda i denti che ci
ho rimesso! E adesso che facciamo?»
Il terzo diavolo tentò con altro metodo: la provocazione del soldato. «Scimmiotto» gridò con
voce tonante, «la tua fama di sacripante è arrivata dappertutto. Si raccontano tante frottole sulle tue
imprese in Cielo e altrove. Ma adesso che ti vedo all’opera, devo constatare che non sei altro che un
meschino senza coraggio né mestiere.»
«Perché non avrei coraggio né mestiere?»
«Perché un coraggioso che ci sa fare non si nasconde nella pancia della gente, in mezzo alla
cacca. Un coraggioso si batte sul serio; e a dieci leghe da casa sa farsi una reputazione per mille
leghe.»
Scimmiotto rifletteva: «Non ha tutti i torti. Posso spacciare il suo compare spaccandogli il fegato
o strappandogli le budella. Ma sarebbe piuttosto comodo che decoroso: la mia reputazione ne
soffrirebbe.» E gridò: «Apri bene la bocca, che vengo a battermi con tuo fratello. Però dentro la
grotta non c’è spazio sufficiente per manovrare: dobbiamo batterci all’aperto.»
Il terzo diavolo chiamò a raccolta le sue truppe e riunì in breve più di trentamila mostri, tutti
equipaggiati di armi da punta e da taglio. Uscì con il secondo diavolo e li schierò a battaglia nella
formazione in tre ranghi, pronti a ingaggiare il combattimento. Poi gridò a gran voce: «Vieni,
Novizio: vedrai quante belle manovre potrai fare!»
Il grande santo, dal ventre, sentì tramestio di soldati, gracchiar di corvacci, svolazzar di avvoltoi,
stridere d’aquile. Rifletteva: «Devo uscire per non mancare di parola, ma questi mostri infidi mi
stanno preparando l’accoglienza. La loro parola non vale niente: altro che farsi accompagnatori del
maestro! Li sento che preparano i loro uomini. Tanto peggio. Ciascuno avrà quello che merita.
Intanto sarà meglio che, prima di uscire da qui, ci lasci un ricordo.»
Si strappò un pelo della coda e lo trasformò in un filo più sottile di un capello, ma molto
resistente e lungo quaranta tese. Con un’estremità fece un nodo scorsoio che, al tendersi del filo,
avrebbe serrato il cuore. L’altra estremità la portò con sé, e commentò ridendo: «Sarà meglio che
mantengano la loro promessa, quando sarò uscito. In caso contrario tirerò il filo, e per il mio amico
non sarà meglio che se fossi rimasto dentro la sua pancia.»
Quindi si fece piccolo e si arrampicò nella gola; da lì si vedevano la bocca spalancata e le file dei
denti taglienti, per quanto alcuni si fossero rotti. Sostò di nuovo a pensare: «Se esco di lì con il mio
filo e lui se lo trova fra i denti, finirà per spezzarlo. Mi converrà passare dove non ha denti.»
Infatti si arrampicò su per le fosse nasali. L’irritazione che produsse fece esplodere un grande
starnuto, che lo proiettò lontano.
Come fu all’aperto, il Novizio si diede una statura di tre tese. Il primo diavolo gli assestò un
fendente di sciabola, ma il grande santo parò con la sbarra. L’arma del secondo diavolo era una
lancia, quella del terzo un’alabarda: tutti insieme si gettarono in una mischia indescrivibile.
Scimmiotto temeva che il formicolio di mostri che lo circondava finisse per intralciare
seriamente i suoi movimenti; perciò balzò via e si andò a posare sulla cima deserta della montagna.
Da lì incominciò a tirare il filo. Il primo diavolo si sentì il cuore stretto in una morsa e fece un balzo
in aria, mentre il grande santo lo dirigeva qua e là.
I mostri che assistevano allo spettacolo gridarono: «Maestà, lasciatelo perdere, non lo provocate.
Quel macaco non ha il senso delle convenienze: gioca all’aquilone senza aspettare che venga
primavera.»
Scimmiotto, da parte sua, diede uno strattone che fece piombare il diavolo al suolo con uno
schianto tremendo: scavò un cratere profondo due piedi.
I suoi fratelli, spaventati, corsero a vedere che cos’era successo, si inginocchiarono al suolo e
gridarono: «Grande santo, vi credevamo un immortale intrepido e magnanimo; non avremmo mai
creduto che apparteneste piuttosto alla specie sorniona del ratto o della lumaca. Volevamo darvi
leale battaglia; non pensavamo che sareste ricorso a questi trucchi sadici.»
«Maledetti diavoli spudorati!» sghignazzò Scimmiotto. «Sentili, i cavalieri senza macchia!
Promettono di accompagnare il mio maestro, ma di fatto cercano solo di azzannarmi; uno mi sfida a
duello, e me ne trovo davanti trentamila. Ora porterò questo signore dal mio maestro.»
«Pietà, grande santo! Risparmiatemi!» supplicò il diavolo anziano prosternato nella polvere.
«Siamo pronti a mantenere la promessa di accompagnare il vostro maestro.»
«Per liberarti basta poco» disse Scimmiotto ridendo. «È sufficiente che tagli il filo sottile che ti
esce dal naso.»
«Non oso tagliare: mi fa un male tremendo. E le mie viscere, all’altra estremità, resteranno legate
strette. Che fare?»
«Come vuoi. Se apri la bocca, posso entrare per rimettere tutto a posto.»
«E se poi rifiuti di uscire?» si lamentò il diavolo. «Questa situazione mi fa impazzire.»
«In realtà io posso togliere completamente quel filo senza entrare nel tuo ventre. Se lo faccio,
scorterai davvero il mio maestro?»
«Te lo giuro!»
Il grande santo prese per buono il giuramento e ricuperò il suo pelo con una scossa; subito il
dolore cessò.
I tre diavoli, sollevati, lo ringraziarono e gli dissero: «Dite al monaco cinese di preparare i suoi
bagagli. Noi corriamo a prendere il palanchino.» Intanto i mostri deponevano le armi e rientravano
nella grotta.
Scimmiotto si allontanò in direzione est e, dopo un po’, scorse Tripitaka che giaceva a terra e
singhiozzava, mentre Porcellino e Sabbioso avevano aperto i sacchi dei bagagli e se ne spartivano il
contenuto. «Questa non può essere che l’opera di quel deficiente di Porcellino.» Abbassò la sua
nuvola e chiamò: «Maestro!»
Sabbioso lo sentì chiamare e se la prese con Porcellino: «Sei proprio un beccamorto che pensa
solo al morto. Hai detto che il nostro condiscepolo anziano era stato ucciso, solo per impadronirti
dei bagagli. Ma non è vero: non senti che chiama?»
«Il mostro l’ha mangiato: l’ho visto con i miei occhi. Oggi sarà uno di quei giorni grami in cui
appaiono i fantasmi.»
Scimmiotto gli si piantò davanti e gli diede una sberla da farlo barcollare: «Fesso! Ti sembro un
fantasma?»
«Fratello» rispose il bestione fregandosi la guancia, «sembra di no; eppure l’ho visto, il mostro
che ti mangiava. Come hai fatto?»
«Io non sono una scodella di minestrone buona a niente come te. Gli ho solleticato le budella e
pizzicato i polmoni; prima di uscire gli ho passato un filo intorno al cuore: quando tiravo, lui
vedeva le stelle. Infine si è prosternato e mi ha pregato di risparmiarlo. Ora si mettono a
disposizione del maestro per fargli attraversare la montagna.»
Tripitaka si rizzò in piedi e si inchinò al Novizio: «Discepolo mio, quanto ti sei dato da fare! Se
avessi dato retta a Consapevole delle Proprie Capacità, sarei morto.»
«Stupido!» gridò Scimmiotto prendendo a pugni il colpevole. «Sabotatore, infingardo! Maestro,
non state a tormentarvi: ora verranno a prendervi quei diavoli con un palanchino.»
Anche Sabbioso si sentiva in colpa e cercava di passare inosservato, dandosi da fare per
preparare i bagagli e sellare il cavallo.
Nel frattempo i tre marescialli diavoli erano rientrati nella grotta con le loro truppe di fantasmi.
«Fratello» disse il secondo diavolo al primo, «mi immaginavo quello Scimmiotto come un
gigante con otto code e nove teste: invece non è che un piccolo macaco sbilenco. Peccato che tu
abbia fatto lo sbaglio di ingoiarlo: se ti fossi limitato a combatterlo, lui non l’avrebbe mai spuntata.
Se i nostri gli sputassero addosso tutti insieme, lo affogherebbero. Noi non abbiamo osato attaccarlo
perché tu lo avevi nel ventre e subivi le sue torture. Ma è chiaro che l’impegno di portare il monaco
cinese oltre la montagna è stato soltanto un espediente per stanarlo; non vorremo certo prenderlo sul
serio!»
«Perché no, saggi fratelli?» chiese il fratello maggiore.
«Dammi tremila uomini, e te lo riporto ben legato e impacchettato, quel macaco.»
«Prendine quanti ne vuoi. Puoi utilizzarli tutti, se ti sembra prudente.»
Il secondo diavolo convocò tremila mostri, li schierò lungo la strada maestra e inviò un
messaggero, con gagliardetto azzurro, che portava questo messaggio: «Scimmiotto il Novizio!
Presentati immediatamente per sostenere la guerra che ti dichiara sua maestà il secondo grande re.»
Quando il messaggero arrivò a destinazione, Porcellino si mise a ridere: «Fratello, come dice il
proverbio: frottole a muso tosto, non ci crede la gente del posto. Hai detto le bugie. Quei diavoli
non li hai sottomessi, e adesso ti mandano sfide, altro che palanchini!»
«Il maggiore ha avuto il fatto suo: gli viene mal di pancia solo a sentire il mio nome. È il
secondo fratello che mi sfida: non si rassegnerà ad accompagnarci. Devo dire che quei diavoli
mostrano una solidarietà fraterna degna di rispetto: magari potessimo dire altrettanto noi!
Naturalmente, se vuoi, puoi affrontarlo tu, che sei secondo come lui; tra fratelli maggiori ci siamo
già battuti.»
«Non mi fa mica paura» rispose Porcellino. «Qualche legnata gliela dò volentieri.»
«Va pure.»
«Certo che vado» disse ridendo Porcellino. «Ma mi farebbe comodo una corda.»
«Che cosa te ne faresti? Tu non sei capace di entrargli dentro e di annodargliela intorno al
cuore.»
«No, no. Pensavo di legarmela alla vita, come fune di salvataggio. Voi potreste tenere
un’estremità, e darmi corda se le cose vanno bene; se invece vanno male, potreste tirarla e farmi
uscire di scena.»
«È l’occasione per giocargli un bel tiro» pensò Scimmiotto ridacchiando fra sé. Legò una fune
intorno alla cintura di Porcellino e lo mandò a combattere.
Il bestione corse avanti brandendo il suo rastrello e urlando: «Vieni fuori, mostro! Vieni a batterti
con il tuo avo Porcellino!»
«Maestà» annunciò il messo con il gagliardetto azzurro, «ecco un bonzo con il grugno lungo e le
orecchie larghe, che fa parte della comitiva.»
Il secondo diavolo venne avanti e, senza altra forma di processo, allungò la lancia in faccia a
Porcellino che sopraggiungeva. Il bestione oppose il rastrello. Vennero alle mani, ma bastarono sette
od otto scontri perché Porcellino si trovasse in difficoltà: «Fratello, va male; tira la corda!»
Scimmiotto invece la lasciò cadere.
Il bestione scappò via, ma quella corda fra i piedi lo fece inciampare. Cadde una volta e si rialzò;
cadde di nuovo e restò per un momento con il grugno nella polvere. Il diavolo, sopraggiunto, lo
afferrò saldamente con la proboscide e se lo portò trionfalmente nella grotta, mentre la baraonda dei
mostri intonava un peana di vittoria.
Tripitaka era indignato: «Consapevole del Vuoto, adesso capisco perché Consapevole delle
Proprie Capacità ti vuol morto. Fra voi c’è solo invidia e gelosia, senza traccia dell’amore e dei
sentimenti fraterni che vi dovrebbero animare. Perché non hai tirato quella corda come ti chiedeva,
ma l’hai gettata? Come lo salverai, ora che l’hai spinto a perdersi?»
«Maestro» ribatté Scimmiotto con un sorriso a denti stretti, «non siete mai imparziale, e lo avete
sempre favorito. Quando hanno catturato me vi è sembrato naturale: io sono carne da cannone. Ma
tutti dobbiamo fare l’impossibile per tenere quel bestione lontano dagli spigoli. Lasciate che una
volta tanto soffra anche lui, e si renda conto che la ricerca delle scritture non è una passeggiata.»
«Discepolo, non puoi certo dire che io non abbia sofferto quando hanno catturato te. Ma tu sai
trasformarti in molti modi, hai tante risorse. Quel bestione invece è obeso, goffo e maldestro: perciò
temo sempre il peggio. Non puoi negargli il tuo aiuto.»
«Maestro, non ve la prendete: lo caverò dai guai.»
D’un balzo fu in cima alla montagna. «Così quel bestione mi vuol morto!» si diceva
amareggiato. «Non gli renderò facile la vita. Vediamo che cosa vuol fare di lui il diavolo che l’ha
catturato: non c’è fretta di soccorrerlo.»
Fece un passo magico, recitò una formula e si trasformò in un insetto jaoliao; volò su
un’orecchio di Porcellino ed entrò con lui nella grotta. Il campo dei tremila mostri, con trombe e
tamburi, fu posto davanti all’ingresso; il secondo diavolo che li comandava entrò portando
Porcellino con sé:
«Fratelli, ne ho catturato uno.» «Fa vedere.» «Eccolo qua» e distese la proboscide lasciando
cadere Porcellino. «Non è appunto uno di loro?»
«Lo è, ma non conta nulla» tagliò corto il primo diavolo.
«Maestà» disse Porcellino cogliendo l’occasione, «lasciate andare chi non conta nulla, e
dedicatevi piuttosto alla cattura di chi conta qualcosa.»
«Tu non conti, ma sei pur discepolo del monaco cinese» disse il terzo diavolo. «Sei Porcellino
Otto Divieti. Il tuo lato utile ce l’hai anche tu: ti metteremo a mollo nella fontana finché le tue setole
non cadranno; poi ti caveremo le viscere, ti saleremo e ti metteremo a seccare al sole. Ci aiuterai a
far passare i giorni di maltempo, accompagnato da un bicchier di vino.»
«È la fine» pensava sconsolato Porcellino. «Il destino mi ha messo nelle mani di un salumiere.»
Lo creature malefiche si gettarono su di lui, lo ammanettarono, lo legarono e corsero a gettarlo
nella vasca della fontana, dove lo lasciarono a mollo.
Il grande santo prese il volo e ronzò intorno al grassone, di cui sporgevano dall’acqua le sommità
delle zampe ammanettate e il grugno semisommerso; quest’ultimo sbuffava e fischiava, simile a un
grosso ricettacolo di loto spelacchiato e annerito dopo una gelata della nona luna. Scimmiotto
guardava le sue smorfie e si sentiva diviso fra l’animosità e la compassione. «Che fare?» si diceva.
«Anche lui parteciperà all’assemblea dell’albero drago-fiore. Ma è un vigliacco che approfitta della
prima occasione per mettere le mani sui bagagli, nell’intento di svignarsela; e prova un gusto
particolare a incoraggiare il maestro a recitare l’incantesimo della costrizione del cerchio. Magari lo
aiuterò, ma prima, che si prenda una bella paura! L’altro giorno Sabbioso diceva che ha messo da
parte delle economie; voglio mettere in chiaro se è vero.»
Quel diavolo di un grande santo tornò a posarsi sull’orecchio di Porcellino e lo chiamò
contraffacendo la voce: «Consapevole delle Proprie Capacità, ascolta.»
«Chi mi chiama? Come fai a sapere il mio nome?» chiese Porcellino.
«Sono io» rispose Scimmiotto.
«E chi sei tu?»
«Sono il pubblico ufficiale sgraffignario.»
«Che iella!» pensò Porcellino. E chiese: «Da dove venite, signor ufficiale?»
«Mi manda il re Yama: sei citato a comparire davanti alla quinta corte infernale.»
«Pregate il re Yama di concedermi un rinvio, in nome della sua grande amicizia con Scimmiotto
Consapevole del Vuoto, che è il mio condiscepolo anziano. Tornate un’altra volta.»
«Balle! Se Yama a mezzanotte fissò l’ora, nessuno oserà darti tempo ancora. Seguimi
immediatamente, se non vuoi che ti trascini con la corda al collo.»
«Non lo crederete, capo, ma avrei preferito continuare questa vitaccia, per scomoda che sia.
Comunque, se proprio devo morire, pazienza. Mi serve solo un giorno di rinvio, per dare ai miei
compagni il tempo di catturare i mostri, rivedere il maestro e salutare tutti quanti.»
«D’accordo» rispose Scimmiotto ridendo fra sé. «Ho una lista di trenta persone di cui mi devo
occupare: tutta gente che abita da queste parti. Ti lascerò per ultimo, e questo ti varrà un rinvio di un
giorno. Dammi dunque la mancia per il mio disturbo.»
«Non ho un soldo. Noi monaci non possediamo niente.»
«Se non hai soldi per la mancia, non c’è scusa che tenga: vieni subito con me, e con la corda al
collo.»
«No, capo, la corda no! So che si chiama ‘corda che toglie la vita’ e, se vien messa al collo,
subito si rende l’anima. Non è che proprio non abbia soldi: ne ho pochi.»
«Vediamo. Sbrigati a tirarli fuori.»
«Miseria! Da quando sono diventato bonzo ho raccolto mezza oncia d’argento, accumulando le
monetine che i donatori a volte mi offrono oltre il cibo, in considerazione del mio appetito
inesauribile. Per portarmi dietro comodamente il denaro, l’ho fatto fondere in un pezzo solo da un
orefice, nell’ultima città da cui siamo passati. Ma quel ladro mi ha derubato: il pezzo non pesa più
di quarantasei centesimi. Prendetevelo.»
«Questa bestia non possiede nemmeno i pantaloni; dove terrà l’argento?» si chiedeva Scimmiotto
ridacchiando fra sé. E disse: «Va bene, dov’è questo capitale?»
«L’ho nascosto dentro l’orecchio sinistro. Ho le mani legate. Servitevi da solo.»
Scimmiotto frugò dentro l’orecchio, e vi trovò davvero un lingottino da quarantasei centesimi di
tael, a forma di sella di cavallo. Quando l’ebbe in mano non poté trattenere le risa, e Porcellino
riconobbe la sua voce.
«Pendaglio da forca di un equipuzio!» si mise a urlare sbruffando l’acqua intorno. «Conciato
come sono, hai il coraggio di venirmi a estorcere soldi!»
«Sacco di segatura» rispose Scimmiotto continuando a ridere, «mentre il tuo bravo condiscepolo
si dà da fare per proteggere il maestro, tu sottrai le elemosine per comprarti i dolciumi.»
«Svergognato! Io non ho sottratto niente. Ogni soldo me lo sono, per così dire, levato di bocca;
rinunciavo a spenderlo in cibo perché mi volevo comprare una pezza di tela per farmi un vestito. Sei
tu che me l’hai sottratto con il terrorismo. Almeno, dividiamo!»
«Non dividiamo un bel niente.»
«Va bene, ti lascio tutto» grugnì Porcellino. «Ma tu in cambio tirami fuori di qui.»
«Un momento di pazienza.» Scimmiotto ripose il denaro, riprese il proprio aspetto e avvicinò il
bestione al bordo della vasca con l’aiuto della sua sbarra; quindi lo afferrò per i piedi, lo tirò fuori e
lo liberò dai legami. Porcellino balzò in piedi e si levò la tonaca, per strizzarla e cavarne quanta più
acqua poteva; poi se la rimise e propose: «Fratello, apriamo la porta di servizio e battiamocela.»
«Non è dignitoso scappare dalla porta di servizio. Ci faremo strada a suon di botte e usciremo dal
portone principale.»
«Ma io non riesco a correre; sono rimasto legato così a lungo, che ho le gambe anchilosate»
protestò Porcellino. Scimmiotto non gli diede retta: «Sta zitto e seguimi.»
Il grande santo si incamminò verso l’uscita aprendosi il cammino a colpi di sbarra fra i mostri
che gli si opponevano, mentre Porcellino si sforzava di tenergli dietro con le sue gambe intorpidite.
Ma quando vide il suo rastrello appoggiato alla parete, presso la seconda porta, si ringalluzzì e corse
a impugnarlo. Nelle corti successive avanzarono fianco a fianco, facendo strage di una quantità
incalcolabile di mostriciattoli.
Quando i marescialli diavoli ne furono informati, il maggiore si volse al secondo: «Bel lavoro
hai fatto! Te l’ho detto che non hai catturato la persona giusta: come vedi, Scimmiotto ha liberato
Porcellino, e la stiamo pagando cara.»
Il secondo diavolo impugnò la lancia e si precipitò fuori dalla grotta: «Ferma, maledetto macaco
impudente! Come ti permetti di trattarci in questo modo?»
Il grande santo si volse verso di lui, che lo caricava lancia in resta, e ne parò il colpo con calma
di esperto. Davanti alla grotta si svolse un bel duello:
L’elefante dalle zanne gialle in forma umana ha giurato fraternità al leone, ed entrambi hanno unito le forze per
impadronirsi del monaco cinese. Il grande santo, invece, lo difende e si propone di abbattere il perverso attaccante.
La lancia si scaglia come il pitone nella foresta, la sbarra giravolta come il drago nel mare. Sorge il drago avvolto di
caligini sulla porta dell’oceano; sibila il pitone nel bosco oscuro, squarciando la nebbia.
È una lotta spietata all’ultimo sangue, per quel monaco venuto dalla Cina.
Porcellino, piantato in terra il suo rastrello, se ne rimase a fare da spettatore senza muovere un
dito.
Il mostro, davanti a quel virtuoso della scherma, sfoderò il suo colpo preferito: allungò la
proboscide e cercò di afferrarlo. Ma Scimmiotto, con prontezza, levò alta la sbarra; fu allacciato al
petto, ma conservò libere le braccia.
«Questa volta, il povero mostro non ha avuto fortuna!» gridò Porcellino. «A me aveva stretto
anche le braccia: non mi potevo più muovere. Invece Scimmiotto, che sa certo usar le mani meglio
di me, resta libero di fare quello che vuole: può infilargli la sbarra in quel suo lungo naso, e fargli
soffiare moccio e sangue.»
Scimmiotto apprezzò il suggerimento: ridusse la sbarra al diametro di un uovo e a una tesa di
lunghezza, e la infilò a fondo dentro la proboscide. Il mostro barrì di spavento e lo lasciò andare.
Allora Scimmiotto afferrò la proboscide e la tirò a tutta forza. Il mostro non poté fare altro che
seguirlo docilmente, per cercar di alleviare il dolore che quegli strappi gli procuravano.
A quel punto si fece sotto anche Porcellino e fece piovere i colpi del suo rastrello sui fianchi
della bestia.
«Non colpire con i denti del rastrello!» gridava Scimmiotto. «Lo farai sanguinare, e il maestro
ricomincerà con le sue geremiadi contro i sanguinari. Picchia con il manico, che i colpi non lasciano
segno.»
Scesero dunque la montagna come due cornac che conducono un elefante riottoso, l’uno tirando
la proboscide e l’altro bastonando i fianchi. Tripitaka, che stava all’erta, li vide venire da lontano e
chiese: «Consapevole della Purezza, riesci a capire che cosa sta tirando Consapevole del Vuoto?»
Sabbioso guardò e rispose mettendosi a ridere: «Maestro, si tira dietro un elefante tenendolo per
il naso. Che bello spettacolo!»
«Dio buono, che mostro gigantesco! E quel naso, com’è lungo! Vai a chiedergli se è felice di
guidarci sulla montagna; in caso affermativo lo perdoniamo. Mi raccomando, non vi venga in mente
di ammazzare una bestia così grossa!»
Sabbioso corse loro incontro e riferì il messaggio. La creatura cadde in ginocchio. I
maltrattamenti subiti dal suo naso gli davano la voce di chi sia stato preso da un gran raffreddore:
«Reverendi monaci» nasaleggiava, «se mi lasciate vivere vi porterò dove volete: solleverò il vostro
palanchino.»
«Noialtri siamo persone generose» gli disse Scimmiotto. «Fa come hai detto, porta qui il
palanchino e sarai perdonato. Ma se torni a cambiar musica, non ti aspettare di essere perdonato
un’altra volta.»
Il mostro liberato si prosternò e se ne andò. Scimmiotto ragguagliò Tripitaka sugli ultimi
avvenimenti; mentre Porcellino, vergognoso, si appartò con la scusa della tonaca bagnata e della
necessità di metterla ad asciugare.
Intanto il secondo diavolo ritornava alla grotta, ancora tutto tremebondo e indolenzito. I suoi
fratelli, che avevano avuto notizia del suo insuccesso, gli muovevano incontro con rinforzi. Davanti
alla folla riunita, l’infelice raccontò della magnanimità di Tripitaka. I mostri si guardavano
perplessi, senza dir motto.
«Che ne dite, fratelli?» domandò il secondo diavolo. «Siete d’accordo di accompagnare il
monaco cinese?»
«Non c’è dubbio» esclamò il maggiore. «Quello Scimmiotto, tutto sommato, è generoso.
Quand’era dentro la mia pancia, avrebbe potuto ammazzarmi mille volte; quanto a te, avrebbe
potuto tenerti prigioniero, o strapparti il naso: ma non ha fatto niente di tutto questo.
Accompagnamoli, e leviamoci il pensiero.»
«Ma bravi, fategli da guide alpine!» commentava sarcastico il terzo diavolo.
«Saggio fratello» gli disse il maggiore, «mi sembra che la cosa non ti piaccia. Se tu non vuoi
venire, lo accompagneremo noi.»
«Vedi» rispose il terzo diavolo, «se questo bonzo avesse un po’ di discrezione, si accontenterebbe
di andarsene quatto quatto per i fatti suoi. Ma lui, invece di cogliere la buona occasione, chiede
proprio a noi di accompagnarlo. La cosa mi piace moltissimo. Accetteremo la sua richiesta e lo
faremo cadere in trappola; questo si chiama attirare la tigre giù dalla montagna.»
«Che cosa significa?»
«Significa che faremo l’appello dei nostri mostri e ne sceglieremo mille fra diecimila, cento fra
quei mille, e fra i cento un gruppo di sedici e uno di trenta.»
«Che cosa ce ne faremo dei due gruppi?»
«Il gruppo di trenta dovrà essere costituito dai migliori cuochi e camerieri. Li forniremo di riso di
prima qualità, fior di farina, germogli di bambù, tè in boccioli, orecchiette, porcini, formaggio di
soia e glutine di grano. Ogni venti li, predisporranno un riparo per servire al monaco cinese il tè e
un pasto vegetariano.»
«E il gruppo di sedici?»
«Otto porteranno il palanchino, e otto faranno da battistrada. Noi li seguiremo a una tappa di
distanza. In capo a quattrocento li arriveranno nella mia città, dove gli abitanti faranno loro una
bella accoglienza. Quando arriveranno nei dintorni, non dovremo lasciare a maestro e discepoli il
tempo di mangiare la foglia. La cattura del monaco cinese dipenderà proprio dall’abilità di quei
sedici.»
Il fratello maggiore fu facilmente conquistato: «A meraviglia!»
Si fece dunque l’appello, e si scelsero i trenta cucinieri e i sedici portatori del palanchino di
rotang profumato.
Prima di mettersi in cammino, i diavoli fecero le ultime raccomandazioni: «Ricordatevi che
dovete essere svelti ed efficienti. Il Novizio è diffidente, da quella scimmia che è: se vi vede
temporeggiare o fare movimenti poco chiari, si metterà in sospetto e manderà i nostri piani a gambe
all’aria.»
Il fratello maggiore guidò la truppa sulla strada maestra e gridò: «Reverendo, abbiamo consultato
l’almanacco: oggi non è giorno contrassegnato dalla stella rossa della disgrazia. Sarà bene che ne
approfittiamo per compiere il viaggio.»
«Chi sono questi signori, Consapevole del Vuoto?» chiese Tripitaka.
Scimmiotto rispose: «Quello che parla è uno dei mostri che ho vinto; viene con il palanchino per
trasportarvi di là dalla montagna.»
Tripitaka giunse le mani e alzò gli occhi al cielo: «Buon dio! Mi chiedo, saggio discepolo, come
avrei potuto sopravvivere senza l’aiuto delle tue straordinarie capacità.» E avanzò verso la gente
che sopraggiungeva: «Vi sono molto riconoscente dell’affetto che mi dimostrate. Quando
ritorneremo a Chang’an con le scritture, non mancherò di attestarlo.»
I mostri si prosternarono: «Reverendo, favorite!»
Con i suoi occhi da comune mortale poco furbo, Tripitaka non sospettava l’inganno. Del resto lo
stesso grande santo, immortale d’oro dell’unità suprema, con il suo temperamento diritto e leale, era
convinto che quei diavoli fossero stati soggiogati dalle sue imprese, dalla sua forza e generosità. La
sua opinione finiva per coincidere con quella del maestro, senza sospettare di aver davanti gente con
la testa piena di piani e progetti di tutt’altro genere. Ordinò quindi a Porcellino di caricare i bagagli
sul cavallo, con l’aiuto di Sabbioso, e si mise in testa alla comitiva impugnando la sua sbarra, per
aprire la marcia e vigilare su ogni sopravvenienza che potesse verificarsi.
Non si sognavano di sospettare a che cosa li portasse quella partenza, e non tenevano presente
che la pena segue sempre la gioia. Come dicono i classici: raggiungere il grado supremo
dell’affermazione comporta il ritorno della negazione. Nell’ora del destino, cadranno sotto la stella
della disgrazia e passeranno davanti alla casa dell’impiccato.
La schiera di mostri, unita e determinata, stava sempre in guardia e assicurava da mane a sera il
più premuroso servizio. Dopo trenta li venne offerta una colazione; dopo cinquanta, un’altra;
quando scese la sera, i pellegrini furono invitati a riposare. Un servizio impeccabile: i viaggiatori
erano viziati con tre eccellenti pasti al giorno e un buon sonno con sistemazione confortevole.
Dopo un cammino di oltre quattrocento li verso occidente, giunsero in vista di una città.
Scimmiotto, che precedeva di un li il palanchino con la sua sbarra in spalla, ebbe un colpo al cuore,
da faticare a riprendersi. Vi chiederete che cosa gli prendeva, a un guerriero tanto intrepido: il fatto
è che vedeva la città sovrastata da enormi miasmi diabolici.
Mostri e vampiri l’abitano in folla,
Sono in vedetta alle sue quattro porte
Creature rapaci: le comandano
Una tigre striata ed una lince
Feroce e astuta con il muso bianco.
Cervi corna ramose van portando
I messaggi, e s’aggirano furtive
Volpi maligne. Gli enormi pitoni
Striscian lungo le mura. Altri serpenti
Sbarran le strade; sopra le alte torri
Ai lupi grigi gridano i comandi
Ufficiali leopardi. Ovunque mostri
Rullan tamburi ed agitan stendardi.
Spiriti di montagna fan la guardia.
L’astuta lepre sbuca dalla porta
E attende ai propri affari. Gran cinghiali
Fan da artigiani. L’antica città
È ridotta a rifugio delle fiere.
Mentre Scimmiotto era preso dalla meraviglia e dall’orrore, udì un sibilo dietro di sé e si voltò
appena in tempo per vedere il terzo diavolo che gli piombava alle spalle brandendo a due mani
un’alabarda a cielo quadrato con il manico scolpito, e cercava di rompergli la testa. Il grande santo
si girò di scatto e lo fronteggiò: entrambi ansimavano di collera e combattevano stringendo i denti,
senza dir parola. Il diavolo anziano, da parte sua, sfoderò la sciabola e aggredì Porcellino, che lasciò
il cavallo e impugnò il suo tridente. Il secondo diavolo vibrò la lancia su Sabbioso, che parò con il
randello ammazza-diavoli.
I tre diavoli e i tre monaci si affrontarono in duello, mentre i sedici mostriciattoli, sempre
efficienti secondo le raccomandazioni ricevute, si impadronirono del cavallo e dei bagagli, e corsero
con il palanchino su cui era Tripitaka alla porta della città: «Aprite! Portiamo il monaco cinese, per
ordine delle loro maestà.»
La porta fu subito spalancata. Ai mostri di pattuglia fu ordinato di limitarsi a sventolar bandiere e
rullare i tamburi, con divieto di gridare e di battere i gong: «Le loro maestà ordinano di non
spaventare il monaco cinese, perché la paura non renda le sue carni tigliose e immangiabili.»
I mostri fecero quindi lieta accoglienza, con molte riverenze e segni di rispetto.
Il palanchino portò il monaco cinese fin dentro la Sala delle Campanelle d’Oro, dove fu invitato
a sedere e gli venne offerto il tè. Una folla di servitori si affaccendava intorno a lui, che frastornato
cercava invano fra loro un volto famigliare.
Se poi non sapete, in fin dei conti, che cosa ne fu di lui, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 77
LA PIÚ PRESTIGIOSA DELLE SPEDIZIONI DI SOCCORSO
OVE I DIAVOLI MALTRATTANO NATURA FONDAMENTALE, E IN CORPO E DEPUTAZIONE RENDONO
OMAGGIO ALLA VERITÀ DEL BEATO.
Rinviamo il racconto dei tormenti che attendevano il reverendo e ritorniamo ai tre marescialli
diavoli, che sulle basse colline a est della città si sforzavano con ogni mezzo di prevalere sui tre
discepoli. Una battaglia durissima, spazzola di ferro che raspa marmitta di bronzo: tenevano duro
gli uni e gli altri. Un magnifico scontro:
Sei sostanze ed aspetti, sei le armi,
Sei sentimenti, sei corporature,
Sei sensi, sei dolori e desideri,
Sei porte per sei strade: stan giocando
Tutto per tutto. Sei volte sei forme
Di fallace apparenza non si nominano
Nelle trentasei sale a primavera() .
La sbarra a cerchi d’oro traccia mille
Figure della scherma; l’alabarda
A cielo quadro pur si fa valere
In cento modi. Il rastrello è feroce
E sanguinario; si oppone la sciabola
Maneggiata abilmente. Anche il randello
Di Sabbioso è temibile; il secondo
Dei diavoli gli oppone la sua lancia.
Tre protettori di quel santo monaco
E tre selvaggi che violan le leggi.
Se all’inizio il duello è rispettoso
Delle regole, presto la ferocia
Prevale. Grandi trucchi di magia,
Balzi sopra le nuvole, le nebbie
E le brume dovunque intorno esalano,
E ruggiscono e tuonan minacciosi.
Intanto cadeva la sera; con tutte le nebbie e le brume che i combattenti sollevavano, in breve si
fece buio pesto.
Le difficoltà toccarono prima a Porcellino: quelle sue grandi orecchie finivano per battergli negli
occhi e lo accecavano completamente. Rallentò le mosse, parò qualche colpo con affanno e finì per
rompere il contatto e scappar via trascinandosi dietro il rastrello, inseguito dal diavolo anziano.
Mancò poco che un colpo di sciabola gli tagliasse la testa: fu schivato anche quello, ma sfiorò il
collo fino a raderne le setole. Il diavolo lo afferrò per il colletto, lo trascinò in città e lo diede in
consegna ai mostriciattoli, che lo legarono come un salame nella Sala delle Campanelle d’Oro. Poi
il diavolo ritornò per aria ad aiutare i suoi compari.
Anche la situazione di Sabbioso volse al peggio: fece una finta e si volse per fuggire. Ma il suo
avversario lo afferrò con la proboscide, lo sollevò da terra e lo consegnò ai mostriciattoli, che lo
portarono a far compagnia a Porcellino.
Tutti e tre i diavoli si gettarono allora su Scimmiotto, che a vedere sconfitti i condiscepoli si sentì
scoraggiato: buona mano cede a due pugni, e due pugni a quattro mani. Gettò un grido, respinse le
armi dei tre avversari con un colpo di sbarra e schizzò via con una capriola. Ma il terzo diavolo si
mutò in un volatile e spiegò ali gigantesche. Catturare Scimmiotto, che con una capriola percorreva
cento ottomila li, non era cosa facile; a suo tempo non c’erano riusciti centomila soldati celesti. Ma
quel mostro sapeva percorrere novantamila li con un solo colpo d’ala: due colpi furono più che
sufficienti per raggiungere il fuggiasco e afferrarlo saldamente fra gli artigli. Sfuggirgli non era
possibile, neppure facendosi più grande o più piccolo: il mostro manteneva la stretta. In breve il roc
ritornò sopra la città e lasciò cadere la preda nella polvere; i mostriciattoli si gettarono su
Scimmiotto e portarono anche lui a far compagnia ai condiscepoli.
I tre diavoli salirono nella sala d’udienza. Era pressappoco la seconda veglia, quando i mostri
fecero portare il reverendo nella sala. Alla luce delle lampade egli vide i tre discepoli che giacevano
legati in un canto; si avvicinò a Scimmiotto e gli disse piangendo: «Ahimè, discepolo! Tu sapevi
usare ogni volta i tuoi poteri per procurarci aiuti. Ma questa volta hanno catturato anche te: come
potrà cavarsela il povero monaco che sono?» Anche Porcellino e Sabbioso singhiozzavano.
«Non state a frignare» disse il Novizio abbozzando un sorriso. «Lasciamo sfogare questi diavoli.
Ma non temete: non vi capiterà niente di male, e finiremo per riprendere la nostra strada.»
«Fratello, questa volta la spari grossa. Le corde bagnate si stanno asciugando e stringono sempre
più. Tu sei magro, e magari non te ne accorgi; ma la mia ciccia vien tagliata come il burro. Se non
mi credi, guarda le spalle: le corde sono entrate nella carne di due buoni pollici. Come vuoi che
faccia a liberarmi?»
«Sono pur sempre corde di canapa» obiettò ridendo Scimmiotto. «E anche se fossero gomene di
fibra di palma più grosse di una tazza, non mi darebbero più problemi della brezza d’autunno
quando mi accarezza le orecchie.»
Mentre maestro e discepoli si parlavano sottovoce, udirono il diavolo anziano dire:
«Congratulazioni, saggio fratello! Il tuo ottimo stratagemma ha avuto pieno successo: il monaco
cinese è caduto nelle nostre mani. Ragazzi, cinque di voi vadano ad attingere l’acqua, sette raschino
le pentole, dieci accendano il fuoco e venti vadano a prendere la gabbia di ferro per la cottura a
vapore: è tempo di cucinare i nostri santi monaci. Ciascuno di voi, ragazzi, ne avrà il suo pezzettino:
così godrete anche voi di una longevità indefinita.»
Porcellino si mise a tremare violentemente: «Ascolta, fratello: ci vogliono cuocere al vapore.»
«Non aver paura. Ora vedremo se sono degli esperti o dei pivelli.»
«Fratello» intervenne piangendo Sabbioso, «non è il momento per queste curiosità. Altro che
esperti o pivelli: ci aspetta Yama, il giudice dell’inferno.»
A quel punto si sentì il secondo diavolo che diceva: «Porcellino non è adatto per la cottura al
vapore.»
«Amithâbha Buddha! Acquista meriti per il paradiso, chi dice che non sono adatto per la
cottura.»
«Può darsi» ribatté il terzo diavolo. «Converrà prima scorticarlo, così diventerà più tenero.»
Porcellino, spaventato, piagnucolò: «Non occorre scorticare. La mia pelle sarà un po’ spessa, ma
basta tenerla a bagno nell’acqua.»
«Se è molto duro, lo metteremo a cuocere nello scomparto più basso» suggerì il diavolo anziano.
«Tranquillo, Porcellino» commentò ridendo Scimmiotto. «Lo vedi che non è un dritto, ma solo
un povero pivello?»
«Come fai a dirlo?» si stupì Sabbioso.
«Di regola la cottura al vapore si comincia dall’alto. I pezzi più grossi e più duri, da cuocere più
a lungo, si mettono proprio nello scomparto più alto: si fa un bel fuoco vivo, e il vapore circola
bene. Se invece vengono messi in basso, ostacolano la circolazione del vapore: nelle mani di quel
cuoco, potremo restare sei mesi sul fuoco senza arrivare alla cottura giusta.»
«Sarà peggio, fratello» piagnucolava Porcellino. «Morirò più lentamente. Sarò cotto di sotto, ma
poi si accorgeranno che la parte superiore è ancora cruda: allora attizzeranno il fuoco e mi
rivolteranno dall’altra parte. Comunque all’interno resterò sempre mezzo crudo.»
I mostriciattoli annunciarono che l’acqua bolliva, e il diavolo anziano ordinò di procedere alla
cottura. Porcellino fu sistemato nello scomparto più basso, Sabbioso nel secondo. Scimmiotto,
vedendo arrivare il suo turno, si liberò dai legami e mise al suo posto un sosia, ottenuto dalla
trasformazione di un pelo; quanto a lui, balzò in alto e si mise in osservazione. Il falso Scimmiotto
fu collocato nel terzo scomparto e il monaco cinese in quello più alto, il quarto. Quindi si aggiunse
legna e si fece un fuoco d’inferno.
Il grande santo sospirava: «I condiscepoli possono resistere un po’, ma temo che il maestro
diventi tenero fin dalla prima bollitura: perirà subito, se non trovo modo di soccorrerlo.»
Il bravo Novizio, lassù per aria, fece un passo magico e recitò la formula per convocare il drago
dei mari del Nord: «Om, ram: per il puro mondo della Legge; qian: per le origini e per la virtù della
lama.»
Subito apparve una nera nube, da cui una voce rispose: «Aoshun, l’umile drago dei mari del
Nord, si prosterna ai tuoi piedi.»
«Sei molto gentile, tirati su! Non mi sarei permesso di disturbarti per cosa da poco: ma il mio
maestro è stato per l’appunto messo in pentola. Devi proteggerlo e fare in modo che non gli càpiti
niente di male.»
Il drago si trasformò in un venticello gelato e corse intorno alla gabbia di ferro, isolandola dal
fuoco perché i tre non ne soffrissero.
Verso mezzanotte il diavolo anziano disse ai cuochi: «Ora noi ce ne andiamo a riposare: siamo
stanchi per avere scortato quei pellegrini durante quattro giorni e quattro notti, sacrificando il nostro
riposo, e per averli combattuti duramente. Non scapperanno certo dalla pentola dove stanno
cuocendo; ma voi, per ogni evenienza, tenete gli occhi aperti. Prima dell’alba, alla quinta veglia,
dovrebbero essere cotti appuntino. Quando li sentirete ben teneri, preparerete sale, aceto e salsa
d’aglio e ci sveglierete, perché ci mangiamo di gusto la nostra succulenta prima colazione.» E i tre
diavoli si misero a letto.
Scimmiotto ascoltò le istruzioni, li vide ritirarsi e tese l’orecchio verso la gabbia: non si sentiva
alcun rumore. «Là dentro farà un caldo tremendo; perché stanno zitti? Non saranno mica morti?
Sentiamo.» Si mutò in una mosca nera e si posò sulla sommità della gabbia. Dentro si sentiva
Porcellino che diceva: «Che iella! Mi chiedo se ci cuoceranno al coperto o a cielo libero.»
«Fratello, che differenza fa?» chiedeva Sabbioso.
«Dipende se mettono il coperchio oppure no.»
«Discepoli» diceva Tripitaka che stava nello scomparto più alto, «il coperchio è spostato da un
lato.»
«Meno male» commentava Porcellino. «Cuoceremo con comodo e non soffriremo dell’aria
viziata.»
Scimmiotto, udito che erano vivi, si divertì a spingere il coperchio. «Discepoli!» gridò allarmato
Tripitaka. «Temo che stiano chiudendo la pentola.»
«Che disastro!» disse Porcellino. «Allora ci cuociono al coperto, moriremo presto.»
Sabbioso e il reverendo si misero a piangere.
«Non ve la prendete» disse Porcellino. «A quanto pare, hanno sostituito la squadra che si occupa
del fuoco.»
«Come lo sai?» chiese Sabbioso.
«Quando ci hanno messo qui dentro, era proprio il bagno di vapore di cui avevo bisogno per
curare i miei reumatismi. Ma adesso tutto si è raffreddato. Ehi, capo, sveglia! Vi dispiace
aggiungere legna?»
Scimmiotto sghignazzava fra sé: «Quel cretino non pensa che il fuoco ammazza. Sarà meglio che
mi sbrighi a tirarli fuori, o lo sentiranno e finiranno per accontentarlo. Ma se riprendo il mio
aspetto, i dieci fuochisti faranno baccano e sveglieranno i diavoli. Come si può fare?» E gli venne in
mente: «Molto tempo fa, giocando alla morra con il re celeste Anima Lunga alla porta orientale del
Cielo, vinsi certi insetti del sonno. Dovrei averne ancora.»
Frugò nella cintura e vide che ne restavano una dozzina: «Ne darò dieci di mancia a questa brava
gente, e ne conserverò una coppia per farla riprodurre.»
Il piccolo sciame d’insetti prese il volo e si sparse sulle facce dei mostriciattoli, penetrando nelle
narici. In breve quasi tutti ciondolarono il capo e caddero profondamente addormentati. Solo quello
che teneva l’attizzatoio combatteva contro il sonno; gli occhi gli si chiudevano, ma lui si grattava la
testa, si pizzicava le guance, si tirava il naso e starnutiva a ripetizione.
«Il ragazzo sa fare il suo mestiere. Gli rifilerò una dose doppia.» E gli gettò sul viso un altro
insetto: «L’uno o l’altro degli insetti che gli sono entrati nel naso finiranno per metterlo in pace con
sé stesso.» In effetti l’attizzatore fece un paio di sbadigli, si stirò, lasciò cadere l’attizzatoio e
sprofondò nel sonno.
«Ecco un rimedio naturale, semplice ed efficace» si disse il Novizio. Riprese il proprio aspetto, si
avvicinò alla pentola e chiamò: «Maestro!»
«Aiuto, Consapevole del Vuoto!» esclamò Tripitaka.
«Ci chiami da dentro o da fuori?» chiese stupito Sabbioso.
«Non mi starai chiedendo, per caso, di venire lì dentro a soffrire con voi?»
«È il solito imboscato» brontolò Porcellino. «Noi qui dentro a cuocere a fuoco lento, mentre lui
se ne va a passeggio.»
«Parla piano, bestia» gli disse ridendo Scimmiotto. «Ti farà comodo che ti tolga da lì.»
«Allora sbrigati.»
Il Novizio tolse il coperchio e, in bell’ordine, liberò il maestro, ricuperò il proprio pelo, fece
uscire Sabbioso e infine Porcellino. Il bestione, non appena si sentì libero, voleva alzare i tacchi.
«Piano! Non precipitiamo le cose» ammonì Scimmiotto. Recitando un incantesimo mise in
libertà il drago e spiegò: «Non possiamo rimetterci in cammino senza il cavallo. Pensate quanta
strada dobbiamo fare e quante montagne valicare per giungere a destinazione: il maestro non può
farcela con le sue gambe. Aspettate che ricuperi il cavallo.»
Attraversò a passi felpati la Sala delle Campanelle d’Oro, dove mostri grandi e piccoli giacevano
addormentati, e andò a prendere il cavallo tirandolo cautamente per la cavezza. Da antico
equipuzio, con i cavalli ci sapeva fare; il cavallo drago, da parte sua, mentre avrebbe accolto un
estraneo con impennate e nitriti, lo seguì quieto e ubbidiente. Scimmiotto strinse le cinghie della
sella e invitò il maestro a montare.
Quando il reverendo fu in sella, ancora tutto tremebondo, voleva partire senza indugio. Ma il
Novizio ammonì: «Calma! Non possiamo mica andare in giro senza passaporto, con tutte le
frontiere che dobbiamo ancora attraversare. Aspettate che ricuperi i bagagli.»
«Mi pare che i mostri li abbiano posati nella Sala delle Campanelle d’Oro, appoggiati al muro
sulla sinistra, insieme al bilanciere.»
Scimmiotto andò in esplorazione e vide una luce che emanava in un angolo. Proveniva dalle
perle del kasâya di Tripitaka ed era così intensa che, nel buio, filtrava attraverso il sacco. Verificò
che nulla fosse stato asportato, richiuse le valigie e le consegnò a Sabbioso.
Finalmente si mossero verso la porta meridionale del palazzo, che trovarono saldamente sbarrata
e lucchettata; qua e là, nel buio, si sentivano tintinnare campanelle e gracidare raganelle di
guardiani notturni.
«Come usciamo? Il passo è ben guardato» mormorò Scimmiotto.
«Passiamo dalla porta posteriore» suggerì Porcellino.
Il Novizio li guidò da quella parte: «Che si fa? Anche questa è ben serrata, e anche qui ci sono
guardie notturne. Per noi non sarebbe un problema: potremmo renderci invisibili o cavalcare un
colpo di vento; ma dobbiamo fare i conti con il corpo terrestre del maestro, che resta tributario dei
cinque elementi.»
«Fratello» propose Porcellino. «Facciamo il giro delle mura e cerchiamo un punto che non sia
sorvegliato. Potremo sollevare e spingere il maestro su per il muro.»
«Che seccatura!» commentò Scimmiotto ridendo. «Non abbiamo altra scelta. Ma quando
torneremo a casa, con la tua linguaccia da scemo, sono sicuro che andrai in giro a raccontare che
siamo dei bonzi che scalano i muri di notte.»
«Adesso abbiamo preoccupazioni ben più gravi del buon costume: dobbiamo salvare la pelle»
rispose Porcellino.
Trovarono un angolo tranquillo e si apprestarono alla scalata. Ma ahimè! Tripitaka era vittima
dell’influsso di una stella maligna. Uno dei tre diavoli si svegliò improvvisamente con il
presentimento che il monaco cinese fosse fuggito, e destò i colleghi. Chiamarono i servi, che si
svegliarono a fatica e corsero imbambolati in cucina. Gli addetti al fuoco erano tutti perduti nel
sonno: anche a picchiarli, non sentivano niente; il fuoco era spento, l’acqua fredda e gli scomparti
della gabbia di cottura, vuoti, erano gettati qua e là. I servi, in preda al panico, tornarono ad
annunciare: «Vostre maestà, se ne sono andati!»
I tre corsero a vedere di persona e, constatata la situazione, urlarono tutti insieme: «Presto,
catturate il monaco cinese!»
Gli addetti al fuoco continuavano a ronfare; ma dappertutto, nelle sale del palazzo, mostri
giovani e vecchi balzarono in piedi e corsero in folla verso il portone principale, con un grande
sbatacchiare di sciabole e di lance. La porta era chiusa e i guardiani notturni erano intenti alle loro
ronde come se niente fosse.
«Dov’è fuggito il monaco cinese?»
«Da qui non è passato nessuno.»
Corsero alla porta posteriore, ma anche là tutto era in ordine. Allora si sparsero per ogni dove,
illuminando a giorno ogni angolo con le loro torce e lanterne: ed ecco i quattro monaci intenti a
scalare il muro di cinta.
«Dove credete di andare?» gridò il diavolo anziano, che si trovò da quelle parti.
Il reverendo, terrorizzato, perse la presa, cadde giù come una pera e fu afferrato personalmente
dal diavolo anziano. Porcellino, Sabbioso, il cavallo e i bagagli furono sommersi da una marea di
mostriciattoli. Solo Scimmiotto risultò inafferrabile.
Le prede furono riportate nella sala e vennero legate alle colonne. Ma il primo diavolo stringeva
Tripitaka e rifiutava di mollarlo.
«Che cosa conti di farne?» chiese il terzo diavolo. «Non vorrai mica mangiartelo crudo: sarebbe
sprecato. Una persona catturata a caso sulla strada, puoi anche sgranocchiartela per ingannare
l’appetito. Ma questo è un raro prodotto di una civiltà superiore: bisogna riservarlo a ozi luculliani
in un giorno di pioggia, cucinarlo con cura e gustarlo con ponderazione. Va accompagnato con un
vino adatto e festeggiato con giochi di sciarade o con la morra, mentre musica raffinata suona in
sottofondo.»
«Parli come un libro stampato, amico mio» replicò l’anziano. «Ma il Novizio ritornerà e ce lo
sottrarrà di nuovo.»
«Nel parco del palazzo c’è un chiosco fra i melograni, dove si trova una cassaforte. Spargiamo la
voce che abbiamo divorato crudo il monaco, e chiudiamolo là dentro. Scimmiotto sentirà dire che il
suo maestro è morto, e se ne andrà. Da parte nostra lasceremo passare tre o quattro giorni: se quel
malvivente non ritornerà a romperci le scatole, ci mangeremo il monacello nelle condizioni di
spirito più propizie. Che cosa ne dite?»
La proposta fu approvata. Tripitaka fu immediatamente portato nel chiosco e chiuso dentro la
cassaforte.
Intanto Scimmiotto, fuggito nella notte, provvide per prima cosa a coprirsi le spalle: corse alla
Grotta del Cammello Leone e, con uso accorto della sua sbarra, fece piazza pulita delle diecine di
migliaia di mostri che vi si trovavano. Quando ritornò indietro, il sole sorgeva a oriente. Tuttavia
nei pressi della città si fermò a riflettere. Esitava a farsi avanti da solo: un filo non basta a fare una
corda, né una mano ad applaudire.
Scese dalle nuvole, prese l’aspetto di un mostriciattolo qualsiasi, entrò in città e passeggiò per
viali e vicoli a caccia di notizie. Dovunque si diceva: «Le loro maestà, questa notte, si sono
mangiate quel monaco cinese senza nemmeno levargli la tonaca.» Scimmiotto non sapeva che cosa
pensarne. Si recò nella piazza in cui si apriva il portone del palazzo reale, e osservò un andirivieni
di fantasmi con il berretto di cuoio dorato, giustacuore di tela gialla e bastone laccato di rosso; alla
vita tenevano legata una tessera d’avorio, ed entravano e uscivano senza tregua e senza formalità.
«Sono i mostri ammessi a corte» si disse il Novizio. «Quella è la divisa che bisogna indossare
per andare a procurarsi informazioni più sicure.»
Così fece e si accodò al flusso in entrata. Presto incontrò Porcellino, che gemeva legato a una
colonna. Scimmiotto sostò accanto a lui e bisbigliò: «Consapevole delle Proprie Capacità!»
Il bestione riconobbe la voce: «Sei tu, caro condiscepolo? Tirami fuori da qui!»
«Sta tranquillo, lo farò. Dov’è il maestro?»
«È morto: stanotte i diavoli se lo sono mangiato crudo.»
Il Novizio si mise a piangere. Ma Porcellino soggiunse: «Un momento: questo è quanto si dice.
Io non l’ho visto con i miei occhi. Prima di metterti a piangere, faresti bene a controllare la notizia.»
Scimmiotto proseguì il cammino, e in una sala più interna vide Sabbioso legato a una colonna.
Lo accarezzò e gli disse: «Consapevole della Purezza!»
«Fratello!» esclamò Sabbioso piangendo. «Non sono riusciti a cuocerlo e l’hanno mangiato
vivo.»
L’ennesima conferma della stessa versione fu come un coltello nel cuore del grande santo. Balzò
in aria e ritornò sulle colline a est della città, dove pianse e singhiozzò. Invocava: «Maestro!
Voi mi salvaste dalle conseguenze
Dei miei peccati e poneste al servizio
Del Buddha, per difendervi e raggiungere
La perfezione. Chi avrebbe creduto
Che sarebbe arrivata una mattina
Gelida come questa, in cui ogni cosa
È perduta? Qui ha fine il nostro viaggio
Verso Occidente. L’anima e il respiro
Son separati, non resta più niente.»
In preda alla disperazione, Scimmiotto si diceva: «La colpa è del beato Buddha, che nella sua
beatitudine non ha trovato niente di meglio da fare che collezionare i sutra dentro le sue ceste. Se
davvero possono essere così utili alle terre dell’Est, perché non ce li ha spediti senza tante storie?
Gli sarà dispiaciuto separarsene, e perciò avrà inventato questa pericolosa ricerca. Chi avrebbe mai
pensato, dopo tante avventure e tanti guai felicemente superati, che questa volta il maestro sarebbe
perito? Così sia! Andrò a trovare il Beato e gli racconterò tutto. Se vuole affidarmi le scritture,
compirò io il voto di Tripitaka di diffonderle nell’Est. Altrimenti gli chiederò di recitare
l’incantesimo che apre il cerchio e ritornerò sulla mia montagna, a prendermi cura delle mie
scimmiette.»
Il grande santo fece la capriola nelle nuvole in direzione dell’India e in meno di due ore
raggiunse il Picco degli Avvoltoi. Quattro giganteschi portatori di folgore gli sbarrarono la strada:
«Dove vai?» Scimmiotto si inchinò: «Ho bisogno di conferire con il Beato per affari.»
Il capo posto era il vajrapani Eterna Dimora, noto anche come re Rispetto Indistruttibile della
Cima delle Nubi d’Oro, nei Monti Kunlun. Brontolava: «Macaco screanzato! Quante volte ci siamo
dati da fare per toglierti dai guai! Per esempio con il diavolo toro. Ma tu hai l’aria di pensare che
tutto ti sia dovuto; non dici nemmeno ‘grazie’. I tuoi affari aspetteranno. Noi faremo rapporto, e
quando il Buddha ti vorrà convocare, te lo faremo sapere. Non penserai mica di essere al portale sud
del Paradiso, dove entri ed esci come all’osteria. Aria! Circolare!»
Il grande santo era già d’umor nero e non aveva voglia di incassare la ramanzina: fece tali strilli
e ruggiti, che arrivarono direttamente al trono di loto a nove ordini di petali, su cui il Buddha era
seduto a spiegare sutra ai diciotto arhat. Il Beato aprì dunque la bocca e disse: «È arrivato
Scimmiotto; fatelo entrare.»
La scorta degli arhat giunse in portineria marciando in due colonne, con bandiere e baldacchino,
comunicò che Scimmiotto era convocato dal capo e lo prese in consegna.
Davanti al Buddha, il grande santo s’inchinò fino a terra e pianse come una fontana.
«Consapevole del Vuoto, quale disgrazia ti strappa tante lacrime?»
«La cattiva stella ha fatto cadere il mio povero maestro nelle grinfie di tre diavoli feroci, nella
città del Cammello Leone: un leone, un elefante e un roc. Dopo un tentativo di fuga sfortunato, è
stato mangiato crudo, senza lasciarne nemmeno un ossicino. Questo dicono tutti, e i miei
condiscepoli lo hanno confermato; fra l’altro, non è detto che loro siano destinati a una fine
migliore. Non mi è rimasto altro da fare che venire a rendervi omaggio e sperare che avrete la bontà
di recitare la formula che apre il cerchio d’oro: ve lo restituirò e ritornerò agli ozi del Monte di Fiori
e Frutti.» E piangeva più che mai.
«Non tormentarti troppo, Consapevole del Vuoto» gli disse sorridendo il Beato. «Sei tanto
depresso perché non sei riuscito a prevalere su quei tre diavoli.»
«Devo ammettere» rispose Scimmiotto battendosi il petto, «che dal tempo dei fatti in Paradiso
non ho mai subito tante umiliazioni come da quei tre diavoli.»
«Non prendertela con loro. Io li conosco.»
«Sarebbe a dire che sono vostri parenti?» sbottò Scimmiotto irritato.
«Macaco insolente! Come ti permetti di supporlo?»
«E allora perché dite di conoscerli?»
«Li conosco con l’occhio della saggezza. I primi due hanno i loro padroni.» E chiamò: «Ânanda,
Kâsyapa, andate a chiamare Wenshu e Puxian.»
Mentre i due correvano a eseguire, il Beato spiegò: «Quelli sono i padroni del primo e del
secondo diavolo. Quanto al terzo, a pensarci bene, è pur vero che ha qualche parentela con me.»
«Da parte di padre o di madre?»
«Quando il caos primitivo si divise, il cielo si aprì nell’ora del topo, la terra si separò in quella
del bue e l’umanità nacque nell’ora della tigre. Ogni cosa nacque dall’unione del cielo e della terra:
anche le bestie che corrono e gli uccelli che volano. A capo delle bestie fu messo il liocorno, a capo
degli uccelli la fenice. Dagli accoppiamenti delle fenici nacquero il pavone e il grande roc. Il
pavone, alla nascita, era ferocissimo: mangiò in un boccone tutti gli esseri umani che si trovavano
nel raggio di quarantacinque li. Io mi trovavo sui picchi nevosi; il mio corpo d’oro, alto sedici piedi,
fu aspirato anche lui da quell’uccello. Finii nel suo ventre e, in un primo tempo, pensai di uscire
dall’ano; ma cambiai idea, quando riflettei che il mio corpo autentico si sarebbe imbrattato ben
bene. Perciò preferii aprirmi un passaggio nel dorso. Volevo ucciderlo, ma i buddha intercedettero e
mi fecero notare che sarebbe stato come uccidere mia madre. Questo è il motivo per cui l’ho
inserito nell’assemblea del Monte degli Avvoltoi e gli ho conferito il titolo di pusa Pavone, grande
re illustre, madre del Buddha. Dal momento che il grande roc è fratello del pavone, si può dire che
siamo un po’ parenti.»
«In altre parole» commentò Scimmiotto ridendo, «sareste nipote di quel mostro da parte di
madre.»
«In un certo senso. Per sottometterlo, bisogna che venga di persona.»
Scimmiotto si prosternò: «Riponiamo tutte le nostre speranze nel vostro prezioso avatara.»
Il Beato discese dal trono e uscì dal monastero seguito dalla folla dei buddha. Ânanda e Kâsyapa
vennero loro incontro conducendo Wenshu e Puxian, che salutarono il Buddha.
«Da quanto tempo le vostre bestie sono scese dalla montagna?»
«Da sette giorni.»
«Sulla terra sono sette anni: mi chiedo quante creature avranno distrutto nel frattempo.
Dobbiamo andare subito a ricuperarle.»
La comitiva volò nello spazio con il Buddha alla testa, affiancato dai due pusa. Guardate:
Il cielo si ricopre di nuvole di fede:
Porta la Legge il Buddha, espone le ragioni
Della procreazione e narra della terra
Ogni trasformazione. I suoi arhat lo proteggono
E cinquemila dèi, con Ânanda e Kâsyapa,
Intorno lo accompagnano; ad abbattere diavoli
Si va apprestando, insieme a quei due grandi pusa.
Il grande santo gongolava: che forza, che entratura nei centri del potere! Quella spedizione di
soccorso era la più prestigiosa che fosse mai riuscito a mettere insieme. Fate di meglio, se siete
capaci!
Presto giunsero in vista delle mura della città. «Guardate, Beato!» annunciò Scimmiotto. «Là
dove si vedono salire quei neri miasmi è la città di Cammello Leone.»
«Scendi giù a sfidare i mostri. Non cercare di vincere: devi perdere e fuggire in alto. Quando lo
farai, noi interverremo.»
Il grande santo scese dunque sui merli delle mura e gridò: «Bestiacce immonde, venite a battervi
con il vecchio Scimmiotto! Muovetevi!»
I mostriciattoli spaventati ruzzolavano di sotto e correvano come matti al palazzo per annunciare:
«Vostre maestà, Scimmiotto è sulle mura e vi sfida a combattere.»
«Non lo si è visto per tre giorni; speravo che ormai ci fossimo levata di torno quella scimmia.
Non avrà per caso impiegato il tempo a trovare rinforzi?» suggerì il primo diavolo.
«Andiamo a vedere. Non ci fanno certo paura, né lui né i suoi rinforzi» replicò il terzo.
I marescialli diavoli impugnarono le loro armi preferite e corsero alle mura. Localizzato
Scimmiotto, si scagliarono su di lui senza perder tempo, e furono accolti dal mulinare della sbarra.
Ma dopo sette od otto scontri, Scimmiotto finse di trovarsi in difficoltà. «Dove credi di scappare?»
gridavano i diavoli. Lui balzò sulle nuvole, e i diavoli lo inseguirono.
A questo punto i diavoli non videro più il Novizio, che era scomparso dentro una luce
abbagliante: i cinquecento arhat e i tremila dèi protettori li circondarono. Il cerchio che li stringeva
non avrebbe lasciato passare una goccia d’acqua. Davanti a loro si profilò, nella sua aureola d’oro
fiammante, la triplice immagine del Buddha presente, passato e futuro.
Il primo diavolo fu preso dal panico: «Si mette male, fratelli! Come avrà fatto quel farabutto
intrigante a portar qui i nostri padroni?»
«Dài, fifone, non tremare!» gridò l’intrepido terzo. «Diamo l’assalto al Buddha e conquistiamo il
suo monastero!» Gli incoscienti brandirono le armi e si gettarono davvero all’attacco, colpendo
all’impazzata.
«Siete diventate matte, brutte bestie? Vi faremo pentire noi!» gridarono Wenshu e Puxian.
Recitarono una formula, e i primi due diavoli lasciarono cadere le armi, si rovesciarono a terra e
ripresero, con la coda fra le gambe, la loro forma originale. I due pusa collocarono i loro troni di
loto, rispettivamente, sul dorso del leone azzurro e dell’elefante bianco, e vi sedettero comodi.
Ma il terzo diavolo non si arrendeva. Lasciò cadere l’alabarda e in forma di rapace protese i
taglienti artigli per ghermire Scimmiotto, dovunque si trovasse: non era facile localizzarlo, nascosto
com’era nell’aureola del Buddha. Quest’ultimo comprese le sue intenzioni e diede al proprio capo,
che già aveva portato un nido di gazza(), l’apparenza di un quarto di bue sanguinante. Il mostro non
poté resistere alla tentazione e si avventò per impadronirsene; ma quando fu alto sopra il Buddha,
questi puntò il dito e lo immobilizzò, facendogli riprendere la sua forma originale di gigantesco roc
dalle ali dorate. Aprì il becco e si lagnò: «Perché sprecate la suprema potenza della Legge per
immobilizzare me?»
«Tu hai qui commesso ogni specie di misfatti. Se vuoi redimerti e acquistar meriti, seguimi!»
«In casa vostra si mangia di magro e si vive da poveracci, mentre qui ho a disposizione tutta la
carne umana che voglio. Se mi farete morire di fame, ne sarete responsabile.»
«Nei quattro continenti i miei fedeli sono innumerevoli: raccomanderò a tutti quelli che offrono
sacrifici di incominciare provvedendo al tuo appetito.»
Il roc non era affatto persuaso, ma non aveva scelta: si dovette convertire per forza.
Infine Scimmiotto uscì dal suo nascondiglio e si prosternò davanti al Beato: «Buddha sovrano,
avete sottomesso i mostri ed estirpato un terribile flagello, ma questo non fa ritornare in vita il mio
maestro.»
«Lurida scimmia!» gridò il roc digrignando il becco. «Dovevi proprio tirare in ballo questo
terrificante personaggio per mettermi in difficoltà? E chi lo ha mangiato, il tuo vecchio bonzo
tiglioso? Non se ne sta forse comodamente seduto nella cassaforte del Chiosco di Broccato
Profumato?»
Scimmiotto si prosternò di nuovo e ringraziò il Buddha di cuore. Il grande roc venne nominato
protettore della Legge e costretto come tale a occupare il punto più alto dell’aureola del Buddha. La
comitiva delle personalità si mise in cammino per rientrare al convento.
Scimmiotto, da parte sua, scese a terra e rientrò in città. Le strade erano deserte: i mostri, vista la
mala parata, si erano dispersi. Il serpente non striscia senza capo, né l’uccello svolazza senza ali.
Il Novizio entrò nel palazzo e liberò Sabbioso e Porcellino: «Il maestro non è stato divorato» li
informò. «Ricuperiamo i bagagli e il cavallo, e andiamo a prenderlo.»
Forzarono la porta del chiosco e sentirono Tripitaka che singhiozzava dentro la cassaforte.
Sabbioso fece saltare le serrature con il suo bastone, sollevò il coperchio e chiamò: «Maestro!»
«Discepoli miei!» gridò Tripitaka singhiozzando ancora più forte. «Come ve la siete cavata con
quei diavoli tremendi? Come siete riusciti a trovarmi?»
Scimmiotto gli narrò l’avvenuto per filo e per segno, e Tripitaka espresse la sua infinita
gratitudine. Nella cucina del palazzo trovarono cibi in abbondanza, anche vegetali, con cui
prepararono una colazione. Saziato l’appetito, riordinarono le loro cose, uscirono dalla città e
raggiunsero la strada maestra dell’Occidente.
Trova vere scritture l’uomo vero:
Non servono né intrighi né baccano.
Questa partenza li porterà finalmente di fronte al Buddha? Se non sapete il come e il quando, non
vi resterà che ascoltare il seguito.
CAPITOLO 78
L’ELISIR DI CUORE DI BAMBINO
OVE, PER COMPASSIONE DEI FANCIULLI DEL PAESE DI BHIKSU, SI FA APPELLO AGLI DÈI NASCOSTI; E
NEL PALAZZO REALE SI SMASCHERA UN DIAVOLO CHE DISCORRE DELLA VIA E DELLA VIRTÚ.
Sempre un solo pensiero agita i diavoli:
Nessuna contrizione li mortifica.
Senza esitar bisogna eliminarli
E tenersi ben netti da ogni polvere.
Se sfuggirete a quel sudicio ostacolo,
In alto volerete coi vostri atti.
Abbiamo sentito come se l’era cavata il grande santo, sfruttando le sue conoscenze, nella città di
Cammello Leone; e come i pellegrini la lasciarono per riprendere il viaggio a Occidente. Passarono
molte lune e ritornò l’inverno, quando si vede
L’acqua del lago stretta dolcemente
Da una lama di ghiaccio. Foglie morte
Ricoprono le rive; fra gli scheletri
D’alberi svetta il pino verde giada.
Passano nuvole bianche di neve
Sull’erba intirizzita della piana.
Il tuo sguardo è abbagliato dalla luce
Chiara e gelata, che penetra le ossa.
Maestro e discepoli avanzavano sfidando il freddo, esponendosi alla pioggia e bivaccando nel
vento. E giunsero in vista di un’altra città circondata da mura.
«Consapevole del Vuoto, che città sarà quella?»
«Vedremo quando saremo arrivati. Se è un regno, presenteremo il passaporto; se è soltanto
prefettura o sottoprefettura, ce ne andremo per i fatti nostri.»
Giunsero in breve alla porta; all’ombra del suo arco a tutto sesto dormiva pacifico un vecchio
militare. Scimmiotto lo andò a scuotere e gridò: «Sveglia, sergente!»
La guardia, bruscamente risvegliata, sbatté gli occhi a vedersi davanti quella faccia e si gettò in
ginocchio esclamando: «Comandate, monsignore!»
«Che ti prende?» rise il Novizio. «Non sono mica un diavolo, per essere trattato con tante
cerimonie.»
«Non siete forse nostro signore il duca del tuono?» balbettò il soldato prosternandosi.
«Storie! Sono soltanto un monaco in cerca di scritture. Arrivo in questo momento, e non conosco
il nome del posto. Lo chiedo a te, con preghiera di risposta chiara e breve.»
La guardia balbettò: «Vi prego di scusare. Il paese si chiamava Bhiksu, ma ultimamente ha
cambiato nome, e ora è la Città dei Bambini.»
«Lo avete uno straccio di re?»
«Certo, certo.»
«Ecco qua, maestro» espose Scimmiotto. «Siamo arrivati nel regno di Bhiksu, che attualmente si
chiama Regno dei Bambini. Perché abbia cambiato nome, non lo so.»
«Se si chiama Bhiksu, che cosa c’entrano i bambini?» chiese perplesso Tripitaka.
«Sarà morto il re e gli sarà succeduto un figlio bambino» suggerì Porcellino.
«È inverosimile: non si usa cambiare il nome al regno, in circostanze del genere.»
«Giusto» approvò Sabbioso. «Questo vecchietto sembra fuori di sé dalla paura che gli incute il
nostro condiscepolo. Entriamo in città e chiediamo ai passanti.»
Superarono la triplice porta e si trovarono su un largo viale, che offriva l’animato spettacolo di
un grande mercato: gente elegante, bei vestiti, qualche gomitata. Ecco qua:
Migliaia di negozi e magazzini
Dai prosperi commerci, che ogni strada
Riempiono di ricchezze e merci in mostra.
Sale da tè protette da cortine,
Affollate taverne in cui si canta
E si suona e si grida allegramente.
I mercanti di seta, i trafficanti
D’oro e preziosi, a caccia di guadagni,
Si affaccendan, si accalcano, si sgolano.
È uno scenario di prosperità:
Anni di pace, maniere distinte,
Calme l’acque del mare, puri i fiumi.
I quattro pellegrini, tirandosi dietro il cavallo, si perdevano nelle strade e nei mercati affollati,
incantati dalla loro animazione. Si meravigliarono specialmente di certe gabbie da oche, coperte di
stoffe dei cinque colori, che si vedevano davanti a tutte le porte. «Discepoli» chiedeva Tripitaka,
«chissà perché la gente del posto terrà una gabbia davanti alla propria casa?»
Porcellino suppose: «Sarà un giorno particolarmente favorevole per sposarsi. Le gabbie
serviranno per portare le cibarie del banchetto.»
«Figuriamoci se ci può essere un matrimonio in ogni casa» obiettò Scimmiotto. «Evidentemente
il motivo è un altro: raccoglierò informazioni.»
«Attento» lo trattenne Tripitaka. «Non sarebbe la prima volta che spaventi la gente.»
«Prenderò le mie precauzioni.» In effetti si trasformò in ape, e andò a vedere che cosa si
nascondeva sotto quei panni colorati.
Bambini: ogni gabbia conteneva un bambino, ed erano tutti maschietti. Alcuni giocavano, altri
dormivano, o piangevano, o rosicchiavano una mela. I più grandi non raggiungevano sette anni, i
più piccoli ne avevano quattro o cinque.
Tripitaka, informato, non sapeva che cosa pensare.
Videro l’insegna dorata di una locanda e vi si recarono a chiedere ospitalità. Li venne a ricevere
l’oste, che si informò: «Da dove venite, reverendi?»
«L’umile monaco che sono» rispose Tripitaka «è inviato dai grandi Tang dell’Est a cercare le
scritture nel Paradiso dell’Ovest. Siamo appena arrivati nella vostra nobile città e, prima di
proseguire, vorremmo far vistare i nostri documenti.»
Fu offerto il tè. Quando lo ebbero bevuto, Tripitaka domandò: «Credete che mi sarà possibile
recarmi oggi stesso a corte?»
«Ormai è tardi, non è più possibile; dovrete aspettare domattina. Intanto potrete passare la notte,
spero in modo piacevole, nel mio umile yamen.»
L’oste fece spazzare le camere loro destinate e li invitò alla sua tavola per consumare un pasto di
magro. Tripitaka lo ringraziò cerimoniosamente e, a tavola, riprese la conversazione: «Vi potrei
importunare per chiarirmi un dubbio? Mi chiedo come vengano cresciuti i bambini nel vostro nobile
paese.»
«La ragione umana è una sola, come il sole in cielo» rispose l’oste. «Per crescere bambini
occorre lo sperma del padre e il mestruo della madre; la madre porta il figlio per dieci mesi prima di
partorirlo, e lo allatta per tre anni. Poi, pian piano, il corpo si forma. Come potremmo ignorarlo?»
«Vedo dalle vostre nobili parole che si pratica qui come nel nostro umile paese. Ma entrando in
città ho visto davanti a tutte le case bambini chiusi in gabbia. Mi permettete di chiedere perché?»
L’oste si chinò verso di lui e bisbigliò: «Date retta, reverendo, non immischiatevi di queste cose e
non parlatene con nessuno: acqua in bocca! Ora ve ne andrete tranquilli a riposare e domattina
riprenderete la vostra strada.»
Ma Tripitaka insisteva per aver chiarimenti. Non riuscendo a sbarazzarsene in altro modo, l’oste
fece allontanare i camerieri e, rimasto solo al lume incerto della lucerna, disse a bassa voce: «Non
dovreste insistere. Questa storia delle gabbie è dovuta a una decisione inumana del nostro sovrano.»
«Perché dite che è inumano? Perdonatemi, ma non avrò pace finché non verrò in chiaro di questa
storia.»
«Tre anni fa giunse qui un vecchio prete taoista che portava con sé una fanciulla di sedici anni,
bella come Guanyin. La offrì al re, che se ne infatuò al punto di trascurare le dame dei tre palazzi e
le concubine delle sei corti: ha occhi solo per lei e le ha dato il titolo di Regina di Bellezza. Fa
l’amore con lei notte e giorno, non mangia più: è spossato ed emaciato, da sembrare in punto di
morte. La reale corte di medicina ha esaurito le proprie risorse senza riuscire a guarirlo. Il daoshi,
che ha portato la ragazza e ha ricevuto il titolo di real suocero, afferma di conoscere una ricetta
segreta per prolungare la vita di mille anni, e di avere raccolto tutti i semplici che occorrono per
prepararla nei suoi viaggi attraverso le tre isole e i dieci isolotti. Ma il farmaco, per essere efficace,
dev’essere sciolto in una terribile bevanda: il brodo ricavato dalla bollitura del cuore e del fegato di
millecentodieci bambini. Non è forse inumano? La gente non osa lamentarsi apertamente, per paura
del re. Ma la storia è raccontata nei canti popolari, con sentori di sedizione; ed è per questo che il
paese, che si chiamava Bhiksu, ora vien detto il Regno dei Bambini. Domattina, quando vi recherete
a corte, guardatevi dall’alludere a queste vicende: fate vistare il passaporto e andatevene.»
L’oste non aggiunse altro. Il reverendo era inorridito; versava lacrime ed esclamava: «Sovrano
fuorviato! Ti sei rovinato la salute e per guarirti uccidi fanciulli. Mi sento morire di fronte a una
simile perversità.»
Perde la sua salute il re perverso,
Ad orge dissolute abbandonandosi.
Per sfuggire al castigo egli non esita
A uccidere i fanciulli del paese.
Questa rivelazione strappa al monaco
Pianti e sospiri: al lume della lampada
L’uomo del Buddha invano si dispera.
«Che cosa vi succede, maestro?» domandò Porcellino. «Non state a tormentarvi! Voi non fate
che piangere sui guai degli altri. Dice l’adagio: se il sovrano ordina di morire, il suddito che rifiuta
manca di lealtà; se lo ordina il padre, il figlio che rifiuta manca di pietà filiale. Sono fatti che
riguardano la gente del posto: a voi che cosa importano? Perché non vi spogliate e non vi mettete a
letto?»
«Discepolo, sei privo di compassione» si indignò Tripitaka. «Per noi che abbiamo lasciato le
nostre famiglie, il maggior merito sono le buone azioni verso il prossimo. Come avrà potuto il
sovrano cadere in un inganno così evidente? Quando mai si prolunga la vita mangiando viscere
umane?»
«Maestro, non vi affliggete» intervenne Sabbioso. «Domani, all’udienza, ne parleremo al re. Se
non basterà, cercheremo di saperne di più sul real suocero: magari è un mostro avido di carne
umana, che ha trovato questa scusa per procurarsi il suo cibo preferito.»
«Ha ragione Consapevole della Purezza» approvò Scimmiotto. «Ora, maestro, andate a coricarvi.
Domattina vi accompagnerò a corte, e verremo in chiaro di chi sia veramente questo suocero. Se è
un uomo, è un ignorante che crede di allungare la vita con i farmaci; in questo caso, mi incarico di
convertirlo insegnandogli i grandi principi originari. Se è un mostro lo prenderò e lo mostrerò al re
nel suo vero aspetto. Convincerò il re che non giova alla salute della mente e del corpo dedicarsi
troppo a una donna sola (tanto meno a una mostriciattola), ma è più sano possederne parecchie (). In
ogni caso la faremo finita con questa persecuzione dei bambini.»
Tripitaka s’inchinò e rispose: «Caro discepolo, è un’ottima idea. Ma se il sovrano, che non vuol
sentire parlare di queste cose, ci accusasse di calunniarlo con insinuazioni sediziose?»
«Non dimenticate quanti trucchi conosco» rispose Scimmiotto sorridendo. «Per il caso che le
cose si mettano in quel modo, farò scomparire tutti i bambini rinchiusi nelle gabbie. Se il re vorrà
carne fresca, dovrà rinnovare il suo ordine; noi lo contesteremo subito, e lui non potrà dire che
facciamo insinuazioni.»
«Puoi davvero togliere quei fanciulli dal pericolo?» esclamò sollevato Tripitaka. «Se lo fai,
saggio discepolo, mostrerai una virtù alta come il cielo. Fallo presto, il danno potrebbe essere
imminente.»
Scimmiotto affidò il maestro ai condiscepoli: «Aspettatemi qui. Quando sentirete soffiare il
vento, vorrà dire che i bambini lasciano la città.» E i tre recitarono in coro: «Namo Buddha, signore
dei farmaci e salvatore delle creature, namo Buddha!»
Il grande santo uscì all’aperto, salì in cielo con un sibilo e convocò gli dèi delle mura e dei
fossati, la divinità locale con i suoi assistenti, i rivelatori dei cinque orienti, i quattro protettori, le
sei divinità del giorno e della notte, i difensori della fede, e molti altri. Riuniti davanti a lui, lo
salutarono: «Grande santo, quale affare urgente vi ha indotto a buttarci giù dal letto a quest’ora?»
«Il re di Bhiksu, dove siamo giunti nel nostro viaggio, si appresta a far strappare il cuore e il
fegato ai bambini della città, per farsi preparare un farmaco di lunga vita. Il mio maestro non lo può
tollerare, e mi ha incaricato di salvare le vite innocenti e di distruggere la creatura perversa che ha
suggerito il crimine. Vi prego di aiutarmi. Dovreste portare tutti quei bambini, nelle loro gabbie, in
un posto sicuro, sulla montagna o nel cuore di una foresta, e dovreste custodirli per un paio di
giorni. Bisogna nutrirli di frutta e consolarli, perché non soffrano la fame e non piangano di paura.
Quando avrò ristabilito l’ordine e ricondotto il re sulla retta via, dovreste riportarli al punto di
partenza.»
Gli dèi ubbidirono. La città fu percorsa da un vento gelato, che portava con sé una fitta nebbia.
Un vento di pioggia spazza via le stelle, una coltre di nebbia nasconde la luna per mille leghe. Il vento cresce e diventa
un uragano. Fa freddo da gelare i vestiti addosso. I genitori vorrebbero mettere in salvo i loro bambini, ma l’uragano li
porta via nelle gabbie che li racchiudono. I genitori sono desolati. È una notte d’angoscia; ma sarà seguita da un radioso
mattino.
Lo attestano anche i versi:
È la porta del Buddha piena di compassione:
Egli è chiamato Grande per la grande bontà.
Tutti i santi la praticano, ed i cinque divieti
Legano ai tre rifugi. Soccorrendo i bambini
Per amor del maestro, Scimmiotto acquista meriti
Di certo ancor più grandi delle sei perfezioni.
A mezzanotte i bambini era scomparsi dalla città e si trovavano nascosti in luogo sicuro. Il
Novizio ritornò all’albergo, dove i suoi compagni continuavano a ripetere: «Namo Buddha!», e
gridò: «Eccomi qua. Come vi è sembrata la mia bufera?»
«Magnifica» rispose Porcellino.
«E i bambini?» chiese il maestro.
«Sono al sicuro; ritorneranno a cose fatte.» Il reverendo s’inchinò ripetutamente per ringraziare.
Tripitaka si alzò all’alba e si abbigliò con cura: «Consapevole del Vuoto, voglio approfittare
dell’ora mattutina per sbrigare la presentazione del passaporto.»
«Maestro, non andate da solo: come al solito, non sareste all’altezza della situazione. Lasciate
che vi accompagni e guardi negli occhi questo real suocero.»
«Ma tu rifiuterai di fare gli omaggi consueti, e il re avrà da ridire.»
«Non c’è problema: non mi farò vedere. Resterò invisibile accanto a voi, per proteggervi.»
La soluzione piacque molto a Tripitaka. Porcellino e Sabbioso furono incaricati di custodire
cavallo e bagagli. L’oste li venne a salutare e notò com’era elegante Tripitaka:
Drappeggiato d’un kasâya orlato di broccato e adorno di esotici gioielli, in capo un berretto alla Vairocana, in pugno il
bastone con nove anelli. Reca in mano una busta di seta che contiene i documenti. Una luce divina aleggia intorno a lui.
Sembra un arhat disceso in terra, una vera immagine del Buddha vivente.
L’oste non trascurò di bisbigliargli all’orecchio un nuovo avvertimento a non immischiarsi nei
fatti che non lo riguardavano, e il monaco cinese lo rassicurò con un cenno del capo. Da parte sua
Scimmiotto, che se ne stava da parte, si mutò in un jaoliao e si posò ronzando sul berretto alla
Vairocana.
Quando giunsero all’ingresso del palazzo, Tripitaka si rivolse all’ufficiale di guardia: «L’umile
monaco che vedete è stato inviato dai grandi Tang delle terre dell’Est alla ricerca delle scritture nel
Paradiso dell’Ovest. Giunto nella vostra nobile contrada, sento il dovere di presentare il passaporto.
A questo scopo vorrei recarmi all’udienza di sua maestà: vi supplico di trasmettere la mia richiesta.»
L’ufficiale eseguì, e il re si rallegrò esclamando: «Un monaco che viene da tanto lontano ha certo
conseguito la Via!»
Tripitaka eseguì le cerimonie prescritte ai piedi dei gradini di giada e fu invitato a sedere.
Osservò com’era emaciato e spossato il re: faceva fatica a giungere le mani per salutare, gli si
spezzava ripetutamente la voce. Prese in mano il passaporto di Tripitaka e i suoi occhi torbidi a
lungo vi vagarono sopra, prima che si decidesse ad apporre il sigillo reale e a restituirlo.
Il re si apprestava a chiedergli maggiori notizie sulla sua missione, quando fu annunciato l’arrivo
di sua signoria il real suocero e il re, sostenuto da giovani eunuchi, si affrettò ad alzarsi dal
giaciglio del drago per andargli faticosamente incontro. Il reverendo si fece da parte e vide un
vecchio taoista, che saliva i gradini di giada dandosi arie d’importanza:
Reca in capo una berretta da prete di seta fine con volute di nubi giallo oca pallido, indossa una cappa di seta su una
veste di piumino di gru profumata d’aloe; gli stringe la vita una triplice cordicella di lana blu; calza sandali di fibre di
liana intrecciate dalle punte ricurve. Impugna una canna con nove nodi dal pomo a forma di drago acciambellato; reca
appesa al petto una borsa di broccato ricamata con fenici e draghi intrecciati. Il viso di giada lucente è inquadrato da una
barba canuta. Le penetranti pupille d’oro gettano fiamme, gli occhi si allungano oltre la linea dei sopraccigli. Avanza
avvolto da una pesante atmosfera di profumi, ogni passo ne diffonde una nuvola.
Ai piedi del trono i funzionari lo accolgono rispettosi giungendo le mani, e annunciano con un grido che è giunto alla
corte il suocero di stato.
Il suocero di stato, in atteggiamento sostenuto, non degnò di uno sguardo il re che si inchinava e
diceva: «Siamo felici che ci onoriate della vostra presenza mattutina.» Sedette a sinistra del trono su
un cuscino ricamato.
Tripitaka fece un passo avanti, si inchinò e disse: «Suocero di stato, l’umile monaco che vedete
vi saluta.» Il suocero, seduto sul suo cuscino, non rese il saluto ma si rivolse al re: «Chi sarebbe
costui?»
«È un inviato dei Tang dell’Est che si reca nel Paradiso dell’Ovest in cerca di scritture. È venuto
a corte per presentare il passaporto.»
«La strada del paradiso è tenebrosa()!» considerò il taoista ridendo sarcastico. «A che pro
percorrerla?»
«L’Ovest è sempre stato il paese della felicità» replicò il monaco cinese. «Perché disdegnarlo?»
«Il monaco è discepolo del Buddha: questo è l’antico detto» intervenne il re. «Mi chiedo se
questi monaci siano in grado di ottenere lunga vita dal loro Buddha.»
Tripitaka giunse le mani e disse: «Per chi si è fatto monaco vien meno l’ostacolo del concatenarsi
delle cause. Per chi comprende la natura, tutti i fenomeni sono illusori. La Grande Sapienza () , vasta
e a disposizione di tutti, risiede nella non-nascita; immersa nel silenzio dei veri misteri, essa vaga
nel nirvana. Si vuotano i tre mondi, e allora ogni origine è al suo posto; si purificano i sei sensi, e
allora ogni germe si esaurisce. Chi rafforza sincerità e coscienza, conoscerà il proprio cuore e il
proprio spirito. L’anima purificata è uno specchio terso, che purifica anche ciò che vi si riflette.
«Un volto autentico non manca di nulla e non ha nulla di troppo, e ciò si vede dalla sua vita
precedente. Ogni forma illusoria corre verso la distruzione: non serve a nulla cercarne altre fuori dal
proprio stato. I meriti e la meditazione consentono la concentrazione; elemosine e carità sono le basi
dell’austerità. La suprema abilità sembra goffaggine, perché in ogni circostanza si astiene
dall’azione. Il miglior pianificatore non perde tempo in calcoli, perché sa che bisogna lasciar andare
le cose per il loro verso. Basta non agitare lo spirito, e tutto andrà alla perfezione. L’idea di
rafforzare lo yang attingendo allo yin è sbagliata. Chi promette di cibarti di immortalità, ti inganna
con vane parole.
«Invece bisogna tener presente che tutto è niente, e respingere la polvere che ostacola la
conoscenza. Il segreto del godimento naturale di una vita senza fine risiede nella semplicità e
nell’abbandono dei desideri.»
Il suocero di stato fece un’aspra risata e protese verso il monaco cinese il dito adunco: «Buon
monaco, hai la bocca piena di idiozie! Voi che perseguite la via dell’estinzione di ogni cosa, parlate
della natura in sé, ma non sapete donde viene né dove va. I vostri esercizi di meditazione vi
allenano a essere ciechi e ottusi, come nel detto:
Siedi comodo, e si sa
Che il tuo culo marcirà.
«Non sai che chi gioca col fuoco si brucia le dita? Chi pratica l’immortalità e consegue la via ha
ossa solide e spirito acuto. Io me ne vado in montagna a visitare gli amici; reco con me il paniere e
la zucca per borraccia, e colgo semplici di ogni specie per la salute dell’umanità. Mi fabbrico un
cappello di giacinti e un giaciglio di orchidee. Canto e ballo battendo le mani; poi schiaccio un
pisolino tra le nuvole. Quando espongo le leggi del Tao, diffondo la giusta dottrina del supremo
Laozi. Sbarazzo il mondo dai miasmi distribuendo acqua benedetta. Estraggo dalla terra e dal cielo
le loro sublimi energie e colgo la quintessenza del sole e della luna. L’elisir si compone
dall’agitazione dello yin e dello yang, si cristallizza nell’utero con l’acqua e il fuoco.
«Quando lo yin del doppio otto incomincia a decrescere, regnano l’ombra e l’indistinto. Quando
regna lo yang del doppio nove, cadono le tenebre. Io raccolgo i semplici man mano che li offrono le
quattro stagioni, e ne fabbrico un elisir nove volte raffinato. Salgo al palazzo di porpora a cavallo
della fenice azzurra; sulla bianca gru mi elevo fino alla capitale di diaspro. Mostrando con zelo le
meraviglie del Tao, partecipo agli splendori del cielo. Non vorrai far paragoni con la vostra dottrina
buddista per fannulloni, con la vostra cupa divinità dell’estinzione di ogni cosa, o con la carcassa
puzzolente del nirvana! Tutte cose che non vi levano nemmeno dalla polvere della strada. Non c’è
discussione che tenga sulle tre dottrine: il Tao è sempre stato il solo che meriti rispetto e onore.»
Il re approvò, i cortigiani applaudirono: «Solo il Tao merita rispetto e onore!»
Tripitaka, di fronte al pubblico che applaudiva l’avversario, arrossiva di vergogna e di dispetto.
Comunque il re, assai civilmente, ordinò che si offrisse al monaco forestiero un banchetto
vegetariano da servire presso l’albergo.
Mentre Tripitaka, dopo aver ringraziato, si ritirava, udì Scimmiotto bisbigliargli all’orecchio:
«Maestro, quel suocero di stato è una creatura perversa che plagia il re con il suo soffio malefico.
Voi ritornate in albergo a banchettare, mentre io resterò qui a raccogliere maggiori informazioni.»
Infatti il jaoliao ronzò via e andò a posarsi sul paravento di giada della Sala delle Campanelle
d’Oro, proprio mentre il comandante dei cinque distretti si presentava a rapporto: «Maestà, una
bufera si è portata via, questa notte, tutti i bambini nelle loro gabbie, in tutte le famiglie di tutti i
quartieri; non ne è rimasta traccia.»
Il re, sconvolto, si rivolse al suocero: «Il Cielo ci vuole distruggere! Non vi pare che sia questo il
significato? I medici reali si sono dimostrati impotenti contro il male che da mesi ci accascia. Voi ci
avevate fornito quella divina ricetta, e proprio oggi si sarebbe dovuto procedere a estrarre il cuore e
il fegato dei bambini. Che altro significa la loro scomparsa, se non che il Cielo mi vuol morto?»
«Maestà, non vi addolorate. In realtà è il Cielo stesso che vi manda lunga vita.»
«Come sarebbe a dire?»
«Non appena sono entrato in questa sala, mi sono trovato di fronte un diluente per il farmaco
molto più efficace di quello che si può ricavare dalle viscere dei fanciulli. Con quel diluente, la vita
di vostra maestà sarebbe stata prolungata di mille anni; ma con il nuovo divino ingrediente,
guadagnerete almeno diecimila anni.»
Il re non capiva, e il suocero riprese: «Quel bonzo dell’Est possiede viscere purissime e ha un
viso molto regolare. Per formare un corpo vero come quello, ci sono volute dieci reincarnazioni
nell’austerità. È divenuto monaco fin da piccolo, non ha mai disperso il suo yang: vale ben più di
tutti i bambini della città. Se i miei semplici vengono diluiti nel brodo di cottura del suo cuore e del
suo fegato, vi garantisco diecimila anni di longevità.»
Il re gli credette subito, e replicò: «Perché non me l’avete detto prima? Non l’avrei lasciato
andare.»
«Che differenza fa? Sarà ancora in città, per consumare il banchetto che gli ha preparato il
servizio reale. Fate chiudere le porte della città e circondare l’albergo dalla vostra guardia. Poi lo
farete condurre qui, e gli chiederemo con le buone se non ha niente in contrario a cedere il suo
cuore e il fegato. Se acconsente, lo apriremo seduta stante; sarà sepolto a spese pubbliche e gli
erigeremo un tempio dove la gente gli porterà offerte. In caso contrario, andremo per le spicce: lo
legheremo a una colonna, lo apriremo comunque e getteremo via gli avanzi. Non mi pare che ci
siano difficoltà.»
Il re diede subito ordini alle guardie della Foresta di Piume.
Scimmiotto volò via; quando giunse all’albergo, riprese il suo aspetto e corse dal monaco cinese:
«Disgrazia, maestro!»
Tripitaka si trovava allegramente seduto a tavola quando udì quel grido. Si prese tanta paura che
le sue tre divinità cadaveriche si dispersero. Gli uscì fumo dalle sette aperture, si coprì di sudori
freddi, restò con gli occhi in fico incapace di articolare parola, e cadde nella polvere.
Sabbioso si precipitò ad assisterlo. Porcellino chiedeva: «Di quale disgrazia si tratta? Potevi
essere più cauto!»
«Le guardie stanno circondando l’albergo, perché quella creatura malefica del real suocero ha
convinto il re a far brodo delle viscere del maestro, al posto di quelle dei bambini scomparsi.»
«Vedi, compassionevole, che bel guadagno ci fai!» esclamò Porcellino ridendo di gusto. «Ti dài
da fare per rompere le scatole agli altri nei fatti che non ti riguardano, e ne ricavi delle conseguenze
che ti riguardano da vicino.»
Tripitaka intanto si rialzò e si aggrappò tremebondo a Scimmiotto: «Saggio discepolo, come
faremo?»
«La prima cosa da fare è di scambiar di posto giovane e anziano.»
«Che cosa vuol dire?» chiese Sabbioso.
«Per salvare la vita del maestro, bisogna che si muti in discepolo» rispose Scimmiotto.
«Se mi salvi» supplicò Tripitaka, «diventerò discepolo tuo o di chiunque altro.»
«Non perdiamo altro tempo. Porcellino, portami del fango» ordinò Scimmiotto.
Il bestione uscì a raspare un po’ di terra con il suo rastrello; per non perdere tempo a cercare
acqua, sollevò la tonaca e vi orinò sopra. Portò quindi a Scimmiotto del fango puzzolente, che
quest’ultimo spalmò senza altra spiegazione sul viso e sul corpo del monaco cinese. Quindi recitò
un incantesimo, soffiò su di lui il suo alito magico e gridò: «Trasformati!»
Ed ecco il reverendo reso identico a Scimmiotto. Scambiarono gli abiti, e Scimmiotto assunse a
sua volta le sembianze di Tripitaka. Le trasformazioni erano perfette, da trarre in inganno persino
Porcellino e Sabbioso.
Fecero appena in tempo. Si udirono suonare gong e tamburi, e l’albergo fu circondato da tremila
guardie, con una selva di lance e di sciabole. Entrò un ufficiale della guardia in abito di broccato a
informarsi sulla presenza di un monaco proveniente dall’Est. L’oste atterrito cadde in ginocchio e
indicò la camera: «Si trova negli appartamenti del pianterreno.»
L’ufficiale si fece avanti e disse: «Reverendo, siete convocato dal re.»
Porcellino e Sabbioso sostenevano il falso Scimmiotto, che quasi sveniva. Ma il falso Tripitaka
domandò disinvolto: «Signor ufficiale della guardia in abito di broccato, che cosa vuole il re dalla
mia umile persona?»
L’ufficiale lo afferrò per i polsi e disse: «Vieni con me. Se ti cercano, vuol dire che a qualcosa
servirai.»
Ahimè, è il caso di dirlo:
Se i buoni sentimenti vince perversità,
Solo a un mare di guai conduce carità.
Se in fin dei conti non sapete come essi giocarono quella pericolosa partita, non vi resta che
ascoltare il seguito.
CAPITOLO 79
SCIMMIOTTO DAI MOLTI CUORI
INSEGUENDO I MOSTRI INCONTRANO LA STELLA DELLA LONGEVITÀ; IN PRESENZA DEL SOVRANO
SALVANO I FANCIULLI.
Il falso Tripitaka fu condotto a palazzo dall’armata della Foresta di Piume e consegnato
all’ufficiale di guardia alla porta. Ai piedi dei gradini di giada, il monaco cinese restò ritto fra gli
ufficiali che si inginocchiavano e chiese: «Re di Bhiksu, che cosa volevate dirmi?»
«Da molto tempo siamo afflitti da un male da cui non riusciamo a guarire» rispose il re
sorridendo. «Ma per fortuna nostro suocero ci ha donato tutti gli ingredienti per preparare un
rimedio adatto, salvo l’opportuno diluente. Vi abbiamo convocato appunto allo scopo di
procurarcelo. Se collaborerete alla nostra guarigione, vi faremo costruire un santuario in cui godrete
dei sacrifici di stagione e in cui l’incenso arderà in perpetuo a spese dello stato.»
«Io ho abbandonato la mia famiglia e non possiedo altro che me stesso. Può dirmi vostra maestà
quale ingrediente occorre?»
«Servirebbe il vostro cuore.»
«Quale cuore? Vostra maestà deve sapere che ne possiedo parecchi.»
Il suocero di stato gli puntò contro il dito adunco e gridò: «Quello nero, bonzo!»
«Prestatemi un coltello per aprirmi il torace: sono rispettosamente ai vostri ordini e sarò lieto di
accontentarvi, se possiedo quello che desiderate.»
Il sovrano ringraziò calorosamente e fece portare un coltellaccio con la lama a orecchio di toro. Il
falso Tripitaka lo impugnò, si aprì la veste, gonfiò il petto e lo tagliò da cima a fondo con mano
sicura, producendo un sinistro stridio. Dal petto squarciato uscì ribollendo un gran mucchio di
cuori.
I mandarini civili erano bianchi di terrore, quelli militari paralizzati dallo spavento.
«Ecco un bonzo ambiguo, dai molti cuori!» gridò il suocero di stato seduto sul suo cuscino.
Il falso Tripitaka afferrò i cuori grondanti di sangue a uno a uno, per farli vedere. Ce n’erano di
ogni specie: rosso, bianco, giallino, avaro, ambizioso, geloso, cauto, calcolatore, superbo,
sprezzante, omicida, vizioso, pauroso, prudente, temerario, oscuro e senza nome; cuori malvagi e
altri di tutti i generi. Ma non c’era nessun cuor nero.
Il re era annichilito e non riusciva ad articolare parola. Infine balbettò: «Metti via quella roba,
per piacere.»
Il falso Tripitaka si richiuse tranquillamente il petto e riprese la propria forma: «Gli occhi di
vostra maestà non sanno discernere le cose!» esclamò. «Tutti i monaci condividono un unico cuore
perfettamente buono. Il cuor nero lo possiede vostro suocero: è quello l’ingrediente che vi occorre.
Se non mi credete, ve lo farò vedere.»
Il suocero di stato aveva spalancato gli occhi e fissava l’inattesa apparizione: quel grande santo,
ahimè, era ben noto da più di cinquecento anni. Balzò via nello spazio, inseguito dal Novizio che
gridava: «Fermati, bestia! Assaggia il mio randello!»
Il suocero lo affrontò con la canna dal pomo a forma di drago acciambellato. I due avversari
diedero saggio della loro bravura:
Sbarra contro canna riempiono lo spazio di nuvole. Il suocero di stato è un mostro che utilizza le arti seducenti di una
figlia malefica. Egli indebolisce il sovrano con un male dovuto alla lascivia e lo induce a massacrare i bambini. Ma
interviene il grande santo a sconvolgere i suoi oscuri disegni. Per la canna non è facile contenere gli attacchi della sbarra
di ferro.
Combattono fino a oscurare il cielo della città. Tutti impallidiscono di spavento. I mandarini si sentono svenire. Il viso
delle signore e delle ragazze è sfigurato, con il trucco sconvolto. L’ottuso sovrano trema, non sa a che santo votarsi e
cerca disperatamente un angolo buio per nascondersi. La sbarra si leva come la tigre di montagna che balza sulla preda;
la canna si abbatte come il drago che si tuffa nel mare.
Questo gran tumulto che agita la città di Bhiksu permetterà di sceverare il giusto dal perverso.
Dopo una ventina di scontri, la canna non riuscì a reggere oltre. Il mostro fece una finta, si
trasformò in un gelido raggio e dardeggiò nella corte interna del palazzo per prelevare la degna
rampolla, che si trasformò anche lei in luce fredda; i due scomparvero chissà dove.
Il grande santo ritornò nella sala d’udienza e gridò allegramente: «Avete visto che bel suocero di
stato vi tenevate in casa?»
Tutti si inchinarono per esprimere la propria gratitudine al divino monaco, che li esortò:
«Lasciate perdere le cerimonie. Cercate piuttosto dov’è andato a finire quello scimunito del vostro
re.»
«È corso a nascondersi da qualche parte, quando è iniziato il duello.»
«Per carità, cercatelo subito! Non vorrei che la mostriciattola se lo fosse portato via.»
Gli ufficiali, ignorando per quella volta il divieto di entrare negli appartamenti interni, si
precipitarono subito nel palazzo di Regina di Bellezza. Ma il luogo era deserto, e non si vedeva
traccia né della regina né del re. Le spose reali vennero in folla dal palazzo centrale e da quelli
dell’est e dell’ovest a riverire il grande santo, che disse loro: «Non è ancora il momento di
ringraziare. Scovatemi quel babbeo del vostro signore e re.»
Ma il re non era stato rapito. Dopo un po’ lo si vide sbucare, sostenuto dai suoi eunuchi, da uno
sgabuzzino dietro la Sala di Prudente Condotta. I ministri vennero a prosternarsi ed esclamarono a
una voce: «Signore e maestro! Il vero è stato distinto dal falso ad opera di questo monaco divino: in
effetti il suocero di stato era una creatura malefica. Anche Regina di Bellezza è scomparsa.»
Il re invitò il Novizio nella Sala dei Ricevimenti Solenni e lo ringraziò formalmente. Poi gli
chiese: «Reverendo, quando siete arrivato avevate un nobile e degno aspetto. Come mai siete tanto
cambiato?»
«La verità» rispose il Novizio ridendo, «è che io non sono Tripitaka, fratello dell’imperatore
Tang, ma il suo discepolo Scimmiotto Consapevole del Vuoto. Sapevo che il mostro vi aveva
convinto a strappare il cuore del mio maestro e sono venuto al suo posto per abbattere quella
creatura.»
Il re ordinò subito al primo ministro di recarsi a invitare il vero maestro e gli altri suoi discepoli a
presentarsi a corte.
Tripitaka, che aveva avuto sentore dello scontro fra Scimmiotto e il mostro, era molto
preoccupato, oltre a essere mezzo soffocato dal fango puzzolente con cui gli avevano spalmato la
faccia. Quando lo pregarono di recarsi a corte per ricevere i ringraziamenti, si spaventò ancor più;
ma Porcellino gli disse: «Questa volta non correte rischi: vi vogliono ringraziare. Si vede che il
nostro condiscepolo anziano ha avuto la meglio.»
«Ma come posso presentarmi alla gente con questa porcheria puzzolente sulla faccia?»
«Non c’è scelta, noi non sappiamo come toglierla. Ma lo chiederemo a Scimmiotto, ci penserà
lui.»
Il primo ministro, alla loro vista, non riuscì a nascondere la paura: «Avi miei! Sembrano tutti
quanti mostri malefici.»
«Signor cortigiano» gli disse Sabbioso, «non vi spaventate. Noi siamo brutti soltanto perché
siamo nati così; e il nostro maestro ritornerà bello con l’aiuto del condiscepolo anziano.»
Quando furono a corte, nella sala d’udienza, Scimmiotto andò loro incontro, strappò la maschera
di fango dal volto del maestro, alitò il suo fiato magico e gridò: «Rettifica!» Subito il monaco
riprese il proprio aspetto e si sentì in ottima forma. Il re lo ricevette rivolgendosi a lui come
«reverendo buddha, maestro della Legge».
Scimmiotto prese la parola: «Vostra maestà sa da dove proveniva quel mostro? Sarà prudente
catturarlo, perché non ritorni a provocare altri malanni.»
Quando le regine dei tre palazzi e le concubine delle sei corti, che si tenevano dietro lo schermo
di giada, sentirono le sue intenzioni, corsero fuori e si affollarono intorno a lui senza riguardo
all’etichetta: «Supplichiamo il reverendo buddha e divino monaco di strappare la malerba dalla
radice» esclamarono inchinandosi. «Avremo per voi una gratitudine illimitata e sapremo
ricompensarvi generosamente.»
Scimmiotto rispose che gli servivano indicazioni più precise.
«Tre anni fa, quando giunse da noi» disse il sovrano, pieno di imbarazzo, «mi disse che non
veniva da lontano. Abitava a una settantina di li in direzione sud, in una tenuta detta di Puro
Splendore, ai margini della Foresta dei Salici. Alla sua tarda età non aveva figli maschi, ma solo
quella figlia di sedici anni, nata dal suo ultimo matrimonio. Me la offrì e io la trovai molto attraente,
l’accettai e la trattai da favorita. Ma presto caddi ammalato, e nessun rimedio risultò efficace. Lui
mi assicurò che possedeva una ricetta infallibile, che richiedeva il brodo del cuore di molti bambini.
Io non mi intendo di queste cose, e gli credetti sulla parola. Poi siete arrivati voi e i bambini sono
scomparsi. Allora il mostro mi ha assicurato che il cuore del divino monaco, che ha praticato la
verità nel corso di dieci reincarnazioni senza mai disperdere il suo yang, era molto più efficace di
quelli dei bambini. Ci siamo lasciati sviare. Ma ora che avete smascherato il mostro, spero che
userete tutto il vostro potere per eliminarlo. Da parte mia sono pronto a ricompensarvi con tutta la
ricchezza del paese.»
«Vi dirò» disse Scimmiotto sorridendo: «quei bambini li ho nascosti io per incarico del maestro,
che sentiva compassione per loro. Non parliamo di ricompense, a me basta il merito. Andiamo,
Porcellino.»
«Agli ordini. Ma non valgo molto, a pancia vuota.»
«Che il servizio dei banchetti prepari immediatamente un pasto vegetariano» ordinò subito il re.
E in breve fu servita la colazione.
Quando Porcellino fu ben sazio, seguì Scimmiotto salendo sulle nuvole, mentre re, regine e
mandarini si inginocchiavano e gridavano: «Guardate come salgono in cielo! Sono veri immortali,
buddha discesi sulla terra!»
Il grande santo e Porcellino viaggiarono per settanta li verso sud e si misero alla ricerca della
residenza del mostro. Le limpide acque di un torrente scorrevano tra rive incassate, coperte da
migliaia di salici; ma non appariva nulla che si potesse identificare con la tenuta di Puro Splendore.
Di certo
Estesi a perdita d’occhio
I campi incolti; le dighe
Si nascondon nella bruma
Che intorno ai salici aleggia.
Dopo avere vanamente esplorato, Scimmiotto evocò il tudi, che si avanzò tremante e si
inginocchiò esclamando: «Grande santo, il dio della Foresta dei Salici presenta i suoi omaggi e si
prosterna.»
«Non aver paura, non ti picchio mica. Da queste parti si dovrebbe trovare una tenuta detta di
Puro Splendore. Dov’è?»
«Tenute non ce ne sono; c’è una grotta che porta quel nome. Devo intendere che la vostra santità
viene da Bhiksu?»
«Si capisce. Il mostro della grotta si è preso gioco del re di Bhiksu. Quando siamo arrivati l’ho
affrontato, ma lui si è trasformato in un raggio gelato ed è scappato non so dove. Secondo il re, tre
anni fa gli avrebbe confidato di abitare da queste parti.»
«Spero che vostra santità sarà indulgente» disse il tudi prosternandosi un’altra volta. «Anche
questo è territorio di Bhiksu, soggetto alla mia vigilanza. Ma quel mostro è più forte di me e si
sarebbe vendicato se avessi tradito i suoi disegni: perciò sono stato costretto a mancare ai miei
doveri. Ma ora che è arrivata vostra santità, basterà che si accosti al salice con nove rami sulla riva
sud, gli giri intorno per tre volte in senso orario e per tre in senso antiorario, bussi con entrambe le
mani e gridi tre volte: ‘Apriti!’ In questo modo avrete accesso al palazzo della Grotta di Puro
Splendore.»
Scimmiotto congedò il tudi e scese in riva al torrente a cercare il salice con nove rami. Seguì le
istruzioni: l’albero scomparve con un rumore di tuono e apparve una porta a due battenti che si
aprirono cigolando. Dentro splendeva luce, ma non si vedeva nessuno. Il Novizio entrò senza
esitare e si trovò in un posto magnifico:
Nubi leggere velano il sole e la luna. Bianche nuvole escono dalla grotta, una lieve bruma smeraldina è diffusa nella
corte. Il sentiero è bordato da splendidi fiori rari; piante di diaspro gareggiano in bellezza e profumi. Un clima mite
regna nel giardino fatato, emulo di Penglai e Yingzhou. Le panchine scivolose si coprono di rampicanti, liane pendono
arruffate dal ponticello. Le api lasciano cadere rossi stami di fiori sulle rocce; le farfalle volano fra le orchidee.
Scimmiotto si avvicinò a una quinta di pietra su cui erano tracciati quattro grandi caratteri:
RESIDENZA DI IMMORTALI DI PURO SPLENDORE
Oltre la quinta c’era il mostro, ancora ansimante per la corsa, che stringeva la figlia tra le braccia
e le parlava appunto dell’impresa di Bhiksu: «Era un’occasione così bella! Ci abbiamo lavorato per
tre anni ed eravamo sul punto di riuscire, quando quella scimmia zuccona ha rovinato tutto.»
Il Novizio impugnò la sbarra e corse loro addosso urlando: «Sudicioni, ve la do io la bella
occasione!»
Il mostro si staccò dalla figlia e lo affrontò con la sua canna. Seguì uno scontro ben più terribile
del precedente:
Si drizza la sbarra lanciando riflessi metallici; intorno alla canna turbinano miasmi malefici. «Che cosa cerchi in casa
mia, temerario?» grida il mostro. «La tua diabolica pellaccia!» risponde il Novizio. «I miei rapporti con il re non ti
riguardavano. Perché hai voluto metterci il naso?» «La compassione è il fondamento della condotta dei monaci; non
potevamo tollerare il massacro degli innocenti.»
Vanno e vengono le parole, piene d’odio e di furore; vanno e vengono le armi. Essi badano ad aggredire e calpestano
senza riguardo i bei fiori, strappano muschio e licheni. La lotta continua finché il luogo ameno è devastato e la dolce
vegetazione distrutta, terrorizzati gli uccelli, messe in fuga le belle fanciulle in preda al panico. Nel paesaggio spoglio,
percorso da un vento feroce, restano solo il re scimmia e il mostro che si fronteggiano.
Ecco che escono dalla grotta. Questo mette in gioco anche Consapevole delle Proprie Capacità.
Porcellino, che era rimasto fuori, sentiva rumor di battaglia, che lo eccitava e lo faceva rodere
dall’impazienza di partecipare. Colpì più volte il salice con il suo rastrello, e le nove punte si
macchiarono di sangue, mentre si udivano gemiti soffocati. «È un albero fantasma» pensò; e
continuò a colpire, finché vide comparire Scimmiotto e il mostro. Allora si gettò avanti levando il
rastrello. Il mostro ne aveva già abbastanza di Scimmiotto; quando si vide venire addosso un altro
avversario si disimpegnò, si mutò in un raggio gelato e dardeggiò verso l’est. I due lo inseguirono.
Mentre si apprestavano a sferrare l’attacco conclusivo, apparve una luminosità di buon augurio
da cui provenivano canti di gru e di fenici: era il vecchio della costellazione del Sud. Questi catturò
il raggio gelato e gridò: «Piano, grande santo! Fermati, ammiraglio dei canneti! Eccomi qua, sono il
vostro amico nel Tao.»
«Come sta la nostra brava stella della Longevità?» lo salutò calorosamente Scimmiotto.
«Lo hai preso tu quel malvivente?» gridò Porcellino.
«Ma certo, eccolo qua» rispose la stella; «non può scappare. Spero che gli lascerete la vita.»
«Che ti importa di quella creatura?» si stupì Scimmiotto.
Longevità rise imbarazzato: «Si capisce che mi importa, dal momento che mi serve da mezzo di
trasporto. Sai, è la storia non rara delle bestie di casa che scappano via, si dànno al nomadismo e
diventano mostri.»
«Se ti appartiene, facci vedere il suo vero aspetto.»
Longevità lo liberò e gli disse: «Su, bestiaccia, fa vedere come sei fatta, se vuoi salvar la pelle.»
Si vide che si trattava di un cervo bianco. La canna fu raccolta dalla stella: «Questo pelandrone
non si è fatto scrupolo di rubare la mia canna.»
La bestia s’inginocchiò. Non poteva parlare, ma piangeva e si prosternava.
Il pelo picchiettato, un gran palco di corna.
Bruca l’erba del prato, beve acqua nel ruscello.
Col tempo e con l’ascesi ha appreso a trasformarsi
E a volare nel cielo. Chiamato dal padrone,
Non può che sottomettersi e tornare all’usato.
Longevità montò sul cervo e ringraziò Scimmiotto con l’intenzione di ripartire, ma questi lo
trattenne: «Aspetta, amico mio: ci sono ancora cose da chiarire.»
«Di che si tratta?»
«Non abbiamo ancora preso la Regina di Bellezza, e non ho idea di quale creatura si tratti.
Inoltre dobbiamo mostrare entrambi al re di Bhiksu: non mi è sembrato una persona molto sveglia,
e voglio essere sicuro che si convinca bene.»
«Va pure a catturare questa Bellezza; io aspetterò qui, e poi ti accompagnerò dal re.»
Scimmiotto e Porcellino irruppero nella grotta gridando: «Dagli alla strega!» La povera Bellezza,
terrorizzata, sbucò fuori dalla quinta di pietra, ma si trovò davanti Porcellino. Si mutò in luce fredda
e sfrecciò via accanto a Scimmiotto, che la tramortì al volo con uno scappellotto e la restituì alla sua
forma originale: era una volpe dal muso bianco.
All’incontenibile bestione scappò di mano una rastrellata, che ridusse l’infelice seduttrice di
regni a un mucchietto di peli dentro una pozza di sangue.
«Fermo, l’hai ridotta molto male!» gridò Scimmiotto. «Che cosa ci rimane da mostrare al re?»
Il bestione prese il cadavere per la coda, senza darsi pensiero se si sporcava le mani, e seguì
Scimmiotto che ritornava verso Longevità; il quale si intratteneva con il suo cervo lisciandogli il
muso: «Che cosa ti è venuto in mente, brutta bestia, di lasciare il tuo padrone per darti al mestiere di
mostro? Hai visto che per poco non ci rimettevi la buccia? Meno male che sono arrivato in tempo.»
«Che cosa gli dici, vecchio svanito?» chiese Scimmiotto sopraggiungendo.
«Gli faccio la lezione, perché non ripeta l’errore.»
Porcellino gettò i resti della volpe davanti al cervo: «Ecco qui la tua bella parente.»
Al povero cervo scesero grosse lacrime dagli occhi, mentre gli usciva dal petto un lungo belato
come un lamento. Longevità gli diede una pacca sulla testa: «Tu sei vivo, scemo. Che t’importa di
quest’altra bestia?» Poi gli legò la propria cintura intorno al collo e si dichiarò pronto a recarsi dal
re di Bhiksu.
«Non è finita» insisté Scimmiotto. «Prima dobbiamo disinfettare il posto, perché in futuro non
venga riutilizzato come covo malefico.»
Porcellino corse di nuovo a colpire il vecchio salice, mentre il Novizio recitava l’incantesimo di
convocazione del tudi: «Raccogli legna secca e brucia tutto. È un buon affare anche per te: ti eviterà
in futuro altre noie con esseri malefici.»
La divinità sollevò un gran vento e, con i suoi assistenti, raccolse in breve una quantità di legna e
ramaglie che giacevano sparse da molto tempo, ed erano asciutte e ben combustibili.
«Porcellino, non perdere tempo» gridò Scimmiotto. «Quel salice brucerà con tutto il resto.» In
breve la residenza del mostro fu sommersa da un uragano di fuoco.
Congedato il tudi, si recarono a corte. Longevità teneva alla briglia il cervo, che recava in groppa
i resti della volpe. Entrarono nella sala d’udienza e presentarono quei resti al re: «Che ne dite?
Avete ancora voglia di divertirvi con questa bella figliola?» Il re taceva e batteva i denti.
Quando fu presentata la stella della Longevità, re e sudditi, regine e concubine ammutolirono
dallo stupore. Tutti si inginocchiarono per rendere omaggio.
Il Novizio disse al re: «Questo cervo non è altri che il tuo famoso suocero di stato; quando
veniva a corte, non gli lesinavi i complimenti.»
Il re cambiava colore dalla vergogna: «Divino monaco, grazie di aver salvato i bambini del mio
regno. È stata una grazia del cielo.» E ordinò un festino in onore della vecchia divinità e dei quattro
pellegrini.
Tripitaka volle informarsi: «Come ha potuto il vostro cervo bianco venir qui a commettere tante
nefandezze?»
Longevità raccontò sorridendo: «Il sovrano dell’Est era di passaggio fra i miei monti selvaggi. Io
lo ospitai e gli proposi una partita a scacchi. Questa stupida bestia dovette prendere il largo mentre
giocavamo. Quando il mio ospite ripartì e io non la trovai, calcolai sulle dita dov’era andata a finire.
È così che sono capitato qui, proprio mentre il grande santo la metteva in riga; e se avessi tardato
ancora un momento, l’avrebbe messa nella fossa.»
Fu dato l’annuncio: «La tavola è imbandita!» Fu davvero un magnifico festino:
All’ingresso un trionfo di colori vivaci; la sala è colma di fragranze esotiche. Magnifiche tavole coperte da sete
ricamate, splendidi tappeti rossi sul pavimento. Da preziosi bruciaprofumi a forma di anatra salgono fumi di aloe. La
frutta è disposta in torri e terrazze; i dolci di zucchero imitano draghi che avvolgono nelle spire animali in fuga, leoni,
coppie d’uccelli. I grandi nappi hanno forma di pappagalli, i mestoli di garzette. Che abbondanza di piatti delicati!
Tonde castagne d’acqua, freschezza di pesche e litchi, dolci giuggiole, frittelle di cachi, uve inebrianti, pigne fragranti.
Piatti preparati con il miele, sformati di formaggi, gelati allo zucchero o fritti nell’olio: piatti più vari di fiori su
broccato. I vassoi d’oro recano piramidi di grandi palle di pane, quelli d’argento traboccano di riso profumato. Le
tagliatelle si intingono nel brodo speziato, sapori eccitanti si alternano a sapori soavi. Non si finirebbe mai di raccontare
di quei porcini, orecchiette, germogli di bambù, «sperma giallo», legumi dai dieci profumi, e mille piatti rari: un va e
vieni incessante di servitori li presenta e li sostituisce senza tregua.
Ciascuno si sedette secondo il suo rango; Longevità al primo posto e il reverendo al secondo. Il
re sedette di fronte a loro, invitando alla sua tavola i tre discepoli, insieme a due o tre grandi
precettori. Il servizio di musica suonava, il re levava la sua coppa delle Nuvole Purpuree per
brindare con ciascuno. Tripitaka era il solo che rifiutasse di bere.
Porcellino si rivolse a Scimmiotto: «Ti cedo la frutta, in cambio del riso e delle tagliatelle.» Si
gettò sui piatti e non tardò a fare piazza pulita.
Alla fine del banchetto Longevità si congedò. Il re si inginocchiò ai suoi piedi e lo supplicò di
aiutarlo a guarire del male che lo affliggeva, e a prolungare la vita.
«Sono uscito di casa solo per riprendere il mio cervo; non ho portato con me la valigetta degli
elisir» rispose sorridendo Longevità. «Naturalmente vi potrei suggerire qualche buona ricetta di
pratiche salutiste; ma ho l’impressione che siate conciato maluccio, non credo che le reggereste.
Vediamo un po’. Mi restano nella manica tre giuggiole, di quelle servite nel tè al sovrano dell’Est.
Se non vi formalizzate perché vi offro degli avanzi...»
Il re le ricevette rispettosamente, le mangiò e si sentì subito meglio. In effetti la sua malattia
guarì poi rapidamente. Da quelle giuggiole derivò la grande longevità che da allora fu tradizionale
nella sua famiglia.
Porcellino gridò: «Longevità, dài qualcosa da mangiare anche a me!»
«Non ho altro. Ma la prossima volta che ci vediamo, ti porterò le giuggiole; penso che a te ne
serviranno molte libbre, con l’appetito che ti ritrovi.»
Salutò tutti, montò sul cervo e balzò in alto, scomparendo nel cielo. S’intende che re, regine e
buon popolo stavano a guardare riverenti e bruciavano incenso.
«Discepoli miei, è tempo che ci congediamo anche noi» ordinò Tripitaka.
Il re insisteva perché rimanessero e lo istruissero per risolvere i suoi problemi. Scimmiotto gli
disse: «I consigli che vi possiamo dare sono presto detti. Datevi una regolata, non fate troppo il
birichino con le donne e nei ritagli di tempo pensate a fare qualche buona azione. Impegnatevi sul
serio in ogni impresa e sforzatevi di compensare i vostri punti deboli: è un esercizio che vi manterrà
sano, e in qualche modo contribuirà ad allungarvi la vita. Non abbiamo altro da consigliare.»
Il re offrì loro due vassoi di pezzi d’oro e d’argento alla rinfusa, a titolo di viatico. Ma Tripitaka
precisò che non poteva accettare nemmeno un soldo. Allora non restò che farlo salire sul carro reale,
che il re e le reali spose spinsero con le loro mani sulla strada. Usciti dal palazzo attraversarono le
strade della città fra ali di gente, che libava acqua pura e bruciava incenso. La folla si richiudeva
dietro di loro e li seguiva fuori città.
Quando furono sulla spianata davanti alla porta, ululò il vento e scesero dall’alto millecentodieci
gabbie, ciascuna delle quali conteneva un marmocchio piangente. Si udì la voce degli dèi che
dicevano: «Grande santo, abbiamo sentito che ve ne andate e siamo venuti a riportare le gabbie con
i bambini, secondo le istruzioni.»
Tutti si inginocchiarono. Scimmiotto gridò: «Grazie, signori! Ritornate pure a casa. Raccomando
alla gente di qui di largheggiare in offerte ai vostri templi, per manifestarvi la sua gratitudine.»
Il vento ululò di nuovo; poi pian piano si attenuò e cessò del tutto. I genitori, pazzi di gioia,
riconobbero i loro figli e corsero a consolarli. Dicevano: «Quel monaco cinese, nostro signore e
padre, deve restare fra noi e accettare la nostra riconoscenza.»
Non ci fu niente da fare. Giovani e vecchi, uomini e donne, portarono in trionfo Porcellino,
sollevarono Sabbioso, issarono Scimmiotto sulle spalle. Il carro su cui stava Tripitaka fu preso a
furor di popolo e riportato in città: il re non contava più nulla. E Tizio li invitava a un banchetto,
Caio a un festino; chi non poteva permettersi altro, fabbricava cappelli, sandali, tuniche, scarpe di
tela, biancheria per offrire anche lui qualcosa ai monaci. I quali non poterono liberarsi da quella
gente prima di un mese.
Si vendevano al mercato i loro ritratti, si rizzavano stele commemorative: la gente portava offerte
anche lì, e bruciava incenso.
È proprio vero:
Il salvare un folla di gente
È merito più grande di un monte.
Ma anche questo finì; e se non sapete che cosa avvenne dopo, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 80
UNA BELLA RAGAZZA CHIEDE AIUTO
OVE FANCIULLA SEDUCENTE CERCA UN COMPAGNO PER NUTRIRE LO YANG, E SCIMMIA DELLO
SPIRITO DENUNCIA LA LAMIA PER PROTEGGERE IL MAESTRO.
Quando i quattro pellegrini ripresero il viaggio, furono accompagnati per venti li dal sovrano, dai
ministri e dal popolo di Bhiksu, che ancora insistevano perché rimanessero. Ma infine dovettero
consentire che Tripitaka scendesse dal carro reale, montasse a cavallo e si avviasse con i suoi. La
folla restò sulla strada a guardarli, finché scomparvero all’orizzonte.
Il viaggio proseguì finché l’inverno trascorse e ritornò la primavera. Fiori selvatici tappezzavano
la montagna, riempiendo l’aria di profumi. Davanti a loro si drizzò una cima elevata.
«Discepoli miei» diceva Tripitaka preoccupato, «chissà se ci sarà una strada per superare questa
impervia regione. Stiamo attenti!»
«Maestro» rideva Scimmiotto, «si direbbe che, anziché un provetto viaggiatore in cammino da
tanti anni, siate un figlio di famiglia che non ha visto più mondo di quanto si contempla dalla bocca
del pozzo. Dice l’adagio: nessuna cima ferma la strada. Son domande da fare?»
«Non è la montagna che temo, ma le creature malefiche che può ospitare.»
«State tranquillo. Ormai non siamo molto lontani dalla meta del nostro cammino, e con
l’approssimarsi del Paradiso dell’Ovest le difficoltà si dovrebbero attenuare.»
Chiacchierando erano giunti ai piedi dell’erta. Scimmiotto impugnò il suo randello, balzò su una
rupe per guardarsi intorno e gridò da lassù: «Maestro, c’è una bellissima strada che sale con molte
curve. Venite!»
Il reverendo sollecitò il cavallo. Sabbioso affidò i bagagli a Porcellino e prese le redini per
guidare la cavalcatura dietro a Scimmiotto, che apriva la via di buon passo.
Guardate la montagna:
La cima scompare tra nebbie e nuvole; ne scendono torrenti e cascate che precipitano nei burroni. Il terreno è coperto di
fiori profumati e di alberi folti: susini azzurri e bianchi peri, salici verdi e peschi rossi. Piange il cuculo la primavera che
passa, la rondine celebra la cerimonia della semina all’altare del dio del suolo.
Sotto le chiome verdazzurre dei pini, il sentiero ripido e accidentato si inerpica fra le rocce. Erbe ed arbusti, anafalidi e
licheni tappezzano di verde le altissime rupi.
I picchi maestosi si allineano come alabarde; le acque in tumulto negli innumerevoli burroni rivaleggiano con la voce
del vasto oceano lontano.
Il maestro era immerso nella contemplazione del paesaggio; un canto di uccello destò in lui la
nostalgia. Tirò le redini e disse: «Discepoli miei!
Da quel giorno lontano, festa delle lanterne,
In cui il figlio del cielo mi ordinò di partire,
Quante prove ho affrontato! Nubi e venti, montagne,
Draghi e tigri. Ho percorso tutti i dodici picchi
Dei monti delle Streghe. Quando potrò tornare,
Fratello mio, al paese? Quando ti rivedrò?»()
«Maestro» protestò Scimmiotto, «pensate sempre a casa vostra: non è un atteggiamento da
monaco che ha lasciato la sua famiglia. Conservate l’animo in pace, non vi date pena per queste
cose. Gli antichi dicevano: che cerchi soldi od onorificenze, devi applicarti senza reticenze.»
«Maestro» insinuò Porcellino, «non sarà capitato che il beato Buddha abbia traslocato altrove
con le sue sporte di sutra? Avrà saputo che noi le cerchiamo, e lui magari non avrà voglia di darcele.
Altrimenti, come spiegate il fatto che si cammina, si cammina, e non si arriva mai?»
«Zitto, non inventar frottole!» disse Sabbioso. «Pensa a fare il tuo lavoro e a seguire il
condiscepolo anziano. Prima o poi arriveremo a destino.»
Si avvicinavano a un’immensa e nera abetaia. Il monaco cinese esclamò: «Ai rischi della
montagna ora si aggiungono quelli del bosco oscuro. Stiamo attenti!»
«Tutto bene. Non c’è pericolo» rispose Scimmiotto.
«Lo dici tu. Non fidarti nemmeno di ciò che è retto; guardati dalla malvagità dei buoni. Di
abetaie ne abbiamo viste tante, ma non mai una così fitta e scura.» [...]
Si addentrarono nel folto seguendo il grande santo, che apriva il passaggio con il suo randello.
Dopo mezza giornata di cammino erano ancora immersi nella penombra di quelle fitte piante.
«Discepoli» disse Tripitaka, «dopo tanti monti e tante foreste pericolose che abbiamo
attraversato, questo mi sembra proprio un bel posto, con un sentiero abbastanza confortevole.
Guardate che belle piante, quanti fiori! Vorrei sedermi a riposare; credo che gioverebbe anche al
cavallo. E ho fame: uno di voi dovrebbe andare a mendicare del cibo.»
«Smontate pure» rispose Scimmiotto. «Vado e torno.»
Tripitaka sedette ai piedi di un abete, mentre Porcellino e Sabbioso si guardavano intorno e
coglievano fiori e frutti. Il grande santo prese la ciotola delle elemosine e balzò in aria. Osservando
la foresta dall’alto, constatò con piacere che era sovrastata da un alone di brume di buon augurio.
Pensava: «Ai miei bei tempi, cinquecento anni fa, ero qualcuno: ero indipendente, portavo
corona, abbattevo draghi e tigri, avevo cancellato il mio nome dal registro dei morti. Andavo in giro
con la mia armatura d’oro fino, calzavo scarpe di nuvole, comandavo quarantasettemila diavoli, e
tutti mi trattavano da vostra alta signoria. Ora invece mi devo umiliare e sono a servizio; ma se
questo maestro è circondato dall’alone di buon augurio che si vede, si può star sicuri che tutto finirà
bene, e anch’io avrò fatto un buon affare.»
Mentre si cullava in queste piacevoli considerazioni, si accorse che dalla parte sud della foresta
saliva un soffio nero, spesso e fetido, che ribolliva a turbinava. «C’è sotto qualche maleficio» si
disse allarmato. «Non sono certo Porcellino e Sabbioso a sollevare quella porcheria.»
Tripitaka, là sotto, recitava placido il sutra del cuore, il Mahâ Prajñâ Pâramitâ Hrdaya Sûtra,
quando udì una vocina sottile che gridava: «Aiuto!»
«Bontà divina!» esclamò agitato Tripitaka. «Chi può gridare così in mezzo alla foresta? Sarà
qualcuno aggredito da una belva: dobbiamo aiutarlo.»
Il reverendo si alzò e mosse qualche passo fra gli abeti secolari e i cedri millenari. Ed ecco, in
una piccola radura vide una ragazza legata con liane ritorte a un albero dalla vita in su, mentre la
metà inferiore del corpo era sepolta nel terreno. «Cara pusa, che cosa vi è capitato per ridurvi in
questo stato?»
Non ci voleva molto a capire che la supposta pusa era una lamia o qualcosa di simile. Ma il
reverendo non era mai stato abile a riconoscere questa specie di creature. La ragazza piangeva a
calde lacrime, che rendevano più lustri i suoi occhioni vellutati e animavano il volto, bello da fare
invidia ai fiori e alla luna: i pesci si tuffavano nel fondo, gli uccelli volavano in alto (). Il reverendo
non osava accostarsi, ma ripeteva: «Cara pusa, avete commesso qualche colpa? Vi puniscono per
qualche motivo? Ditelo, vi prego; vorrei aiutarvi.»
La lamia, fingendosi tutta sconvolta e con vocina dolce e accorata, raccontò questa storia: «La
mia famiglia, maestro, abita a Bimbâna, una città a duecento li da questa foresta. Papà e mamma,
che sono molto pii, avevano invitato tutti i parenti a onorare le tombe degli antenati per la Festa
Pura e Limpida. In palanchino e a cavallo abbiamo raggiunto il posto fuori mano dove si trovano le
tombe, abbiamo disposto le offerte e dato fuoco ai cavalli di carta. A questo punto ci ha assalito una
banda di forsennati, suonando gong e tamburi, con le armi in mano. Tutti scappavano; io sono
caduta. Non so correre svelta, e perciò mi hanno presa. Erano briganti, che mi hanno portata nel
loro covo. Il capo voleva tenermi per sé, ma il suo luogotenente aveva la stessa idea; anche altri mi
guardavano e mi trovavano di loro gusto. In breve, l’ottantina di uomini che componeva la banda
incominciò a litigare e a battersi per me; e dal momento che nessuno voleva darla vinta agli altri, mi
hanno legata dove mi vedete e se ne sono andati. Sono qui da cinque giorni e cinque notti: avrei
potuto morire ogni momento. Saranno i meriti di qualche antenato che mi fanno incontrare voi. Vi
supplico, abbiate pietà, salvatemi la vita! Neanche morta dimenticherò la gratitudine per voi.» E
piangeva come una fontana.
Con il suo temperamento compassionevole, Tripitaka entrò subito in simpatia e gli uscirono
lacrime e singhiozzi. Intanto gridava: «Discepoli!» Sabbioso e Porcellino, a caccia di frutti di bosco,
sentirono quel richiamo piagnucolante.
«Che il maestro abbia trovato nel bosco qualche vecchia zia sentimentale?» si chiese il bestione.
E Sabbioso: «Non divagare! Da quando siamo in viaggio non abbiamo incontrato una sola
persona per bene. Figuriamoci se le zie del maestro vanno in giro per una foresta come questa.»
«Non mi dirai che quel monaco si permette confidenze con estranei!»
Corsero da Tripitaka: «Maestro, che cosa succede?»
Il monaco cinese mostrò loro la bella prigioniera: «Porcellino, libera quella povera pusa, salvale
la vita!» E il bestione si mise all’opera senza chiedere altro.
Intanto Scimmiotto vedeva il soffio nero addensarsi ed espandersi fino a cancellare
completamente le brume di buon augurio. «Qualcosa non va per il suo verso» esclamò. «La creatura
malefica dev’essere partita all’attacco. La ricerca del cibo può aspettare.»
Ritornò indietro e trovò Porcellino intento a sciogliere i legami. Gli arrivò alle spalle, lo prese
per le orecchie e lo gettò a terra.
«Perché mi aggredisci?» si lagnò il bestione riconoscendolo. «Ubbidivo al maestro.»
«Fratellino» rispose ridendo Scimmiotto, «non toccare quella lì; non vedi che è una strega che
vuol prenderci in giro?»
«Brutta scimmia!» intervenne Tripitaka. «Eccoti di nuovo a trinciar giudizi. Perché mai questa
fanciulla dovrebbe essere una creatura perversa?»
«Maestro, non avete mai capito niente di queste cose. È una tattica vecchia come il mondo, uno
stratagemma da manuale per chi ha voglia di farsi uno spuntino di carne umana. Possibile che non
vi rendiate conto?»
«Maestro» ribatteva Porcellino imbronciato, «non date retta a quell’equipuzio! Questa non è che
una brava ragazza del posto. Come possiamo giudicare noi, che veniamo da lontano? Quel
malvivente vuole che l’abbandoniamo, per tenersela a disposizione. Più tardi farà una delle sue
capriole nelle nuvole e la verrà a trovare passando dalla porta di servizio.»
«Brutto stronzo!» brontolò Scimmiotto. «Io non corro la cavallina; sei tu che non puoi dire
altrettanto. Ti ricordi la volta che cercasti di metter su famiglia con ragazze che non ti volevano, e
finisti legato a un albero? Sei tu che perdi la testa per le donne, e che sei disposto a dimenticare il
giusto per il tuo profitto.»
«Finitela!» intervenne Tripitaka. «Porcellino, dobbiamo ammettere che di solito le opinioni del
tuo condiscepolo anziano sono risultate fondate. Lasciate stare quella donna e andiamocene.»
«Grazie al cielo!» esclamò Scimmiotto. «Vi posso assicurare che è per il meglio. Rimontate
subito a cavallo e allontaniamoci. Quando usciremo dalla foresta andrò a mendicare il cibo.»
E se ne andarono. La lamia legata all’albero digrignava i denti: «Ho tanto sentito parlare di
questo Scimmiotto guasta disegni, e vedo che la sua fama non è usurpata. Mi volevo accoppiare con
quel monaco, che non hai mai sparso goccia del suo yang primordiale, per divenire immortale.
Doveva proprio venire la scimmia a guastarmi la festa! Se mi avessero slegata, lo avrei subito
catturato e concluso l’affare. Chissà che cosa ha messo sull’avviso la scimmia. Ma non mi sarò data
tanta pena per niente. Non rinuncio di certo. Proverò a parlargli da lontano: vediamo se funziona.»
La brava lamia, senza sciogliere i suoi legami, approfittò di una brezza favorevole per far
pervenire a Tripitaka qualche parolina edificante: «Maestro» sospirava, «tu che abbandoni una
povera fanciulla in difficoltà negandole soccorso, quali sutra speri di ottenere dal Buddha con la tua
devozione ottusa e senza coscienza?»
Il monaco tirò le redini del suo cavallo: «Consapevole del Vuoto, torna indietro; va ad aiutare
quella donna.»
«Che cosa ve la fa tornare in mente, maestro?»
«È lei che mi chiama.»
«Tu hai sentito qualcosa, Porcellino?»
«Non si può dire che le mie orecchie siano piccole, ma non ho sentito niente.»
«E tu Sabbioso?»
«Pensavo ai bagagli che porto, non ho fatto attenzione. Comunque non ho sentito niente.»
«Nemmeno io ho sentito niente. Maestro, perché dite che vi chiama? Che cosa vi dice?»
«Mi dice cose sensate: dice che la devozione senza coscienza di chi non soccorre la gente nel
bisogno non otterrà i sutra dal Buddha. Val più salvare una sola vita umana, che costruire una
pagoda di sette piani. Bisogna salvarla: è più importante della ricerca delle scritture.»
«Quando al maestro viene l’uzzolo delle opere buone, non c’è rimedio al mondo che lo guarisca»
sogghignò Scimmiotto. «Quanti mostri abbiamo incontrato lungo la strada! Vi acchiappano, vi
portano nel loro covo, e io devo venire a tirarvi fuori e a spiaccicarli con la mia sbarra di ferro. La
persona che adesso vi sta cuore è della stessa risma: si può sapere che bisogno avete di andarvi a
consegnare nelle sue mani, per poi mettervi a piangere?»
«Discepoli» rispose Tripitaka, «ricordate sempre il detto degli antichi: nessun bene è tanto
piccolo che non valga la pena di farlo; nessun male è tanto piccolo che non si debba guardarsene.
L’aiuto che ci viene chiesto va sempre dato.»
«Maestro, così sia» disse Scimmiotto. «Non cercherò di dissuadervi: ne ricaverei soltanto il
vostro malumore. Ma questa è una responsabilità che non mi voglio prendere. La volete salvare?
Fatelo voi.»
«Si capisce, scimmia zuccona!» inveì Tripitaka. «Tu resta in panciolle, mi aiuterà Porcellino.»
Il monaco cinese ritornò alla radura con Porcellino, che sciolse i legami e con il rastrello scavò il
terreno in cui la ragazza era semisepolta. La buona lamia scosse il terriccio dalle calzature, si
aggiustò la gonnella e seguì Tripitaka con segni di giubilo e di riconoscenza. Quando la vide
comparire, Scimmiotto sghignazzò. Tripitaka esasperato gli chiese: «Che cosa ti fa ridere, brutto
scimmione?»
«Mi fate ridere voi, maestro. Pensavo al distico:
Se viene la fortuna, amici certo avrai;
E quando essa ti lascia, la bella incontrerai.»
«Tutte bugie, diabolico macaco! Sono monaco da quando mia madre mi ha partorito; sono un
inviato imperiale: non sono di quelli che vanno cercando il proprio guadagno e la soddisfazione
della carne. Perché la fortuna mi dovrebbe lasciare?»
«Maestro» sghignazzò Scimmiotto, «avete un bell’essere monaco: vi avranno insegnato a
leggere i sutra e a pregare il Buddha, ma le leggi non le conoscete. La ragazza è giovane e carina;
voi e io siamo monaci. Aspettate che incontriamo qualche malintenzionato, e ci troveremo davanti a
un tribunale accusati di fornicazione; andate allora a raccontare di Buddha e di ricerca delle
scritture! Se ci assolvessero dall’accusa di fornicazione, resterebbe quella di ratto: bastonate da
lasciarvi mezzo morto, caro il mio maestro, e ritiro della licenza di monaco; Porcellino deportato e
Sabbioso ai lavori forzati. E anch’io, che nel difendermi sarei certo più abile di voi, dubito che
riuscirei a farmi assolvere.»
«Non dire sciocchezze!» gridò Tripitaka. «Comunque la si voglia mettere, è una persona cui
salvo la vita. Perché mai dovrebbero derivarne tante complicazioni? Portiamola con noi: prendo io
tutta la responsabilità.»
«Parlate di responsabilità, ma non sapete quello che dite. Tutto sommato non salvate nemmeno
lei, ma piuttosto le fate del male.»
«Come sarebbe a dire?»
«Se fosse rimasta legata dov’era, entro cinque, dieci o quindici giorni, senza un boccone da
mangiare, sarebbe morta di fame e avrebbe avuto almeno la consolazione di raggiungere gli antenati
con il suo corpo integro. Seguendo voi - che l’avete salvata, come dite - dovrà correre con i suoi
piedini dietro il vostro cavallo e dietro a noi, che filiamo come il vento. Finiremo per perderla e se
la mangerà il lupo. Che guadagno ci avrà fatto?»
«Questo è vero. Come dobbiamo fare, secondo te?»
«Perché non la fate salire sul cavallo e non ve la prendete in braccio?»
Tripitaka rifletté: «No, non possiamo stare insieme sulla stessa cavalcatura. La potrebbe portare
Porcellino.»
Scimmiotto scoppiò a ridere: «Che bella fortuna per il nostro bestione!»
Porcellino osservò: «Nessun peso è leggero, se la strada è lunga. Che fortuna sarebbe, portare
una persona sulle spalle?»
«Quando l’avrai addosso, le rivolgerai quel tuo grugno lungo come un trombone, sussurrerai una
parolina dolce e sarà già una serenata.»
Porcellino si lasciò andare a pestare i piedi e battersi il petto: «Non ne posso più! Maestro,
preferisco essere bastonato. Meglio le botte che i lazzi del condiscepolo anziano: se mi carico in
spalla quella ragazza, non farà che tormentarmi finché non l’avrò messa giù.»
«Ho capito» disse Tripitaka. «Ho gambe anch’io: scenderò da cavallo e proseguirò a piedi. Vorrà
dire che procederemo più lentamente. Porcellino prenderà le redini.»
«Non c’è verso: oggi è giorno di buoni affari per il nostro bestione» rise Scimmiotto. «Il maestro
si preoccupa di affidare a te il moccolo da reggere.»
«Fammi il piacere di tenere per te i tuoi farnetichi. Dicevano gli antichi: il cavallo fa mille leghe,
ma qualcuno deve guidarlo. Scendiamo pian piano la montagna con questa giovane pusa, che così
non si perderà per via. Quando giungeremo a un monastero buddista o a un tempio taoista, o
comunque a un abitato, ce la lasceremo e avremo compiuto la nostra missione di salvataggio.»
«Va bene, è un’idea sensata» approvò finalmente Scimmiotto. «Non perdiamo altro tempo, e
andiamo avanti.»
Tripitaka marciava in testa, Sabbioso seguiva con i bagagli, Porcellino reggeva le briglie del
cavallo e Scimmiotto chiudeva il convoglio conducendo la ragazza. Percorsa una ventina di li,
mentre scendeva la sera, videro un complesso di torri, terrazze e padiglioni.
«Discepoli» disse Tripitaka, «buddisti o taoisti che siano gli edifici, chiederemo ospitalità per la
notte e ripartiremo domattina. Aspettate qui, mentre vado a chiedere: se va tutto liscio, vi
chiamerò.»
I discepoli e la ragazza si fermarono ai piedi di un salice, mentre il reverendo si accostava al
portale. Vide subito che era cadente; il muro pendeva pericolosamente da una parte. Mentre
spingeva il battente roso dal tempo, fu preso dalla malinconia del luogo: porticati deserti dalle
tettoie sfondate, il vecchio tempio desolato, i cortili coperti di muschio, i sentieri cancellati dalle
erbacce. L’unica luce proveniva dalle lucciole, l’unico rumore di vita dalle rane che gracidavano.
Il reverendo si fermò e gli vennero le lacrime agli occhi.
Sale in rovina, stucchi e pitture devastati, celle deserte, porticati distrutti. Giacciono a terra qua e là mattoni e tegole
rotte, frammenti di travi, travicelli contorti. Scompaiono le corti nel verde selvatico. Le cucine, con i loro utensili e
odori, giacciono sotto uno spesso strato di polvere. La torre dell’orologio è crollata, il tamburo è ridotto a una cassa di
legno imputridito. Rotta la lampada di cristallo, il corpo del Buddha ha perduto le dorature, gli arhat sono caduti con le
gambe spezzate. Le infiltrazioni d’acqua hanno reso alla terra l’argilla in cui era plasmata Guanyin; il vaso immacolato
è rotolato al suolo.
Nessun monaco di giorno e, la notte, volpi e fiere che vengono a rintanarsi.
I muri cadono, i battenti degli usci sono scomparsi da molto tempo.
Abbandonato ormai da tanti anni
Senza riparazioni, il vecchio tempio
È sorvegliato da guardiani a pezzi
Ed ospita dei buddha senza testa:
Nemmeno il tudi ci potrebbe vivere.
I vajrapani giaccion nella pioggia;
La campana, perduto ogni supporto,
Se ne sta silenziosa nella polvere.
Tripitaka si armò di coraggio e superò il secondo ingresso. Crollata la torre, la campana di
bronzo era semiaffondata nel terreno, con la parte superiore bianca come neve e l’inferiore verde
cupo: sopra era stata dilavata per lustri dalle intemperie del cielo, sotto era ossidata e scurita dal
soffio della terra. Tripitaka la accarezzò: «Campana!
Dalla cima della torre scandivi il tempo con la tua voce possente: annunciavi l’alba a gara con i galli e accompagnavi il
crepuscolo serale. Dove saranno finiti i monaci che elemosinarono il denaro per fabbricarti, e il fabbro che ti fuse? Tutti
saranno scesi nel mondo delle ombre, e ogni loro traccia sarà cancellata.»
Declamando la sua elegia, il reverendo attirò l’attenzione di una persona che abitava nel
monastero, un inserviente addetto a bruciare l’incenso. Si era già coricato; l’inattesa voce umana lo
svegliò e lo indusse a raccogliere da terra una scheggia di tegola e a tirarla contro la campana.
Il suono improvviso spaventò il reverendo, che pensò di fuggire, ma inciampò in certe radici e
cadde esclamando: «Campana!
Lamentavo la tua sorte, e tu mi hai risposto. Su questa strada dell’Occidente, che nessuno percorre, nel lungo decorso
degli anni sei divenuta un fantasma.»
L’inserviente accorse e lo aiutò a rialzarsi: «Tiratevi su, reverendo. La campana non è diventata
un fantasma, l’ho suonata io.»
Tripitaka guardò quella brutta faccia scura: «Non sarai uno gnomo, o un diavolo dei boschi?
Bada che io non sono un viandante qualsiasi, ma un inviato imperiale, accompagnato da discepoli
capaci di abbattere tigri e domare draghi. Se ti misurassi con loro, correresti dei brutti rischi.»
«Ma no, reverendo» rispose l’uomo inginocchiandosi. «Non sono una creatura malefica, ma un
inserviente del monastero, addetto a bruciare l’incenso. Poco fa, quando ho sentito le vostre belle
parole, il mio impulso è stato di uscire ad accogliervi; ma ho temuto che poteste essere un diavolo
sotto mentite spoglie e, per farmi coraggio, ho suonato la campana.»
Il monaco cinese si rinfrancò: «Quasi morivo di paura, caro inserviente. Fammi visitare gli
edifici.»
L’inserviente guidò Tripitaka nella terza corte, dove lo spettacolo era completamente diverso. Si
vedevano
muri rivestite di piastrelline azzurre con disegni di nuvole, sale di cristallo coperte di tetti verdi. Gradini di giada bianca
salgono a simulacri rivestiti d’oro. La sala del Buddha eminente è illuminata da una luce azzurrina; dal padiglione di
Vairocana esce una nube profumata; la sala di Wenshu è decorata da greche di nuvole. La biblioteca è ornata da pitture
di fiori. Al culmine del triplo tetto è collocato un grande vaso sacro. La Torre delle Cinque Felicità è coronata d’intagli.
I letti di meditazione sono all’ombra di verdi bambù; pini azzurri si stagliano alla porta del Buddha. Dagli edifici irradia
una luce dorata, brume violette li circondano.
Al mattino si respira una brezza che vien di lontano; la sera rintocca il tamburo dalle colline.
Lampade splendenti sul muro della corte posteriore diffondono spire d’incenso.
Tripitaka, intimidito, si fermò sulla soglia e chiese: «Come mai davanti tutto cade in rovina, e la
parte posteriore è così bella?»
«Reverendo» rispose ridendo l’inserviente, «queste montagne sono zeppe di briganti e di
creature malefiche. Nella buona stagione se ne vanno altrove a commettere le loro malefatte; ma in
quella cattiva pretendono di venir qui a ripararsi, rovesciano le statue, rompono gli arredi di legno
per bruciarli nel camino. I monaci non sono in grado di tenergli testa. Perciò hanno abbandonato
alla loro mercé gli edifici verso la strada, e pian piano hanno costruito sul retro il nuovo monastero
che vedete, con le offerte dei benefattori. Il puro e l’impuro abitano l’uno accanto all’altro: è una
situazione comune in queste terre occidentali.»
«Ecco dunque come stanno le cose.»
Accanto all’entrata Tripitaka lesse una scritta in cinque grandi caratteri:
MONASTERO DELLA FORESTA DI MEDITAZIONE, PACIFICATORE DEI MARI
Quando si decise a superare la soglia, gli venne incontro un bonzo. Che aspetto aveva?
Tonaca di lana di Fala, berretto di velluto e broccato con il fermaglio a sinistra, anelli di bronzo alle orecchie. Gli occhi
brillano come l’argento. Agita un tamburello e recita sutra in una incomprensibile lingua barbara. Tripitaka non sapeva
che si trattava di un lama.
Il lama contemplava Tripitaka; osservava il suo bell’aspetto, la larga fronte, il cranio piatto, le
orecchie che giungevano alle spalle, le mani che scendevano oltre le ginocchia, la sua eleganza di
arhat disceso sulla terra. Gli piacque molto, e perciò gli andò incontro con un sorriso da un’orecchia
all’altra e lo festeggiò a modo suo, stringendogli le mani e i piedi, strofinandogli il naso,
pizzicandogli le orecchie. Lo portò nella sua cella e gli chiese: «Da dove venite, reverendo?»
«Il vostro discepolo è inviato in missione speciale dall’imperatore dei Tang delle terre dell’Est,
per sollecitare le scritture dal Buddha del Monastero del Colpo di Tuono, in India. Passavamo
appunto dal vostro prezioso convento mentre scende la sera: permettetemi di chiedervi riparo per la
notte. Partiremo domattina di buon’ora. Spero che potrete darci ospitalità.»
«Non diciamo bestemmie!» esclamò il lama ridendo. «Naturalmente, se abbiamo lasciato le
nostre famiglie, è perché siamo nati sotto cattiva stella: i genitori non potevano mantenerci e noi ci
arrangiamo come possiamo. Ma questo non ci autorizza a mentire.»
«Io non mento.»
«Ma sapete quanto sono lontane le terre dell’Est? E lungo il cammino ci sono infinite montagne,
sulle montagne grotte, e nelle grotte creature malefiche. È mai possibile che una personcina civile
come voi, pallida e con le mani morbide, abbia percorso tutta sola una simile strada?»
«Avete ragione, la mia umile persona da sola non ne sarebbe mai stata capace. Ma ho tre
discepoli che mi aprono la via sui monti e gettano ponti sulle acque. Solo grazie alla loro protezione
ho potuto giungere fin qui.»
«E dove sono i vostri eminenti discepoli?»
«Attendono alla porta.»
«Maestro!» esclamò il lama. «Non sapete che questi posti pullulano di fiere, briganti e diavoli?
Noi osiamo a malapena mettere il naso fuori di giorno chiaro, senza allontanarci troppo, e al
crepuscolo ci barrichiamo in casa. Di notte non si può restare all’aperto!» E gridò: «Discepoli,
invitate a entrare quella gente là fuori!»
Due giovani lama corsero lesti all’ingresso, ma appena intravidero i pellegrini caddero a terra, si
risollevarono precipitosamente e corsero in casa inciampando dappertutto: «Monsignore, che
sfortuna! I discepoli sono scomparsi. Alla porta ci sono soltanto certi orribili mostri.»
«Che aspetto hanno?» chiese Tripitaka.
«C’è il duca del tuono, un mostro dalle orecchie gigantesche, e uno con la faccia blu e le zanne
sporgenti. Hanno catturato una ragazza carina, pettinata con la brillantina, ben truccata e incipriata.»
Tripitaka si mise a ridere: «Quei tre sono appunto i miei discepoli. Alla ragazza ho salvato la vita
in un’abetaia.»
«Com’è possibile, monsignore, che un maestro tanto bello abbia discepoli tanto brutti?»
«Saranno brutti, ma sanno rendersi utili. Ritornate da loro, per piacere, e invitateli a entrare.
Quello che chiamate duca del tuono, se si spazientisce perché non viene invitato, può prendere
l’iniziativa di entrare e permettersi delle violenze. Poverino, non ha avuto genitori che gli abbiano
insegnato le buone maniere.»
I monacelli tremebondi ritornarono fuori e si inginocchiarono: «Signori, il monaco cinese vi
prega di entrare.»
«Fratello» sghignazzò Porcellino, «guarda come tremano!»
«Siamo tanto brutti che gli facciamo paura.»
«Che stupidi! Mica lo facciamo apposta; siamo nati così.»
«Nemmeno loro fanno apposta. Cerca di nasconderti più che puoi.»
Il bestione andò avanti nascondendo il grugno nel colletto, seguito dagli altri. Si recarono nella
cella del superiore, che fece convocare la settantina di monaci presenti nel convento. Dopo le
presentazioni, ciascuno prese posto secondo il suo rango e si preparò il pasto in onore degli ospiti. È
il caso di dirlo:
Solo la compassione vi fa acquistare meriti.
Mutua stima prescrive la Legge ai veri monaci.
Se poi in fin dei conti non sapete che cosa avvenne prima che lasciassero il monastero, ascoltate
il seguito.
CAPITOLO 81
MALANNO DI TRIPITAKA E SEDUZIONE DI SCIMMIOTTO
OVE LA SCIMMIA DELLO SPIRITO CONFONDE LA LAMIA NEL MONASTERO PACIFICATORE DEI MARI, E
I TRE PELLEGRINI VANNO IN CERCA DEL LORO MAESTRO NELLA FORESTA DEGLI ABETI NERI.
I monaci del Monastero della Foresta di Meditazione offrirono la cena ai pellegrini e, quando fu
consumata, diedero cibo anche alla ragazza. Poiché il buio scendeva, si accesero le lampade. Sotto
la loro luce, nella cella del superiore, i monaci si accalcavano numerosi per godersi due attrazioni:
saperne di più sul viaggio del monaco cinese, e guardare la ragazza.
Alla fine Tripitaka chiese al superiore: «Com’è la strada verso l’ovest? Abbiamo intenzione di
ripartire domani all’alba.»
Il lama si gettò in ginocchio, mentre il reverendo si precipitava a rialzarlo: «La strada è piana e in
buono stato. Ma c’è un grave problema di cui vi avrei parlato fin dal primo momento, se
l’imbarazzo non me lo avesse impedito. Sarò felice di ospitare nella mia cella voi, che venite da
tanto lontano a prezzo di molte fatiche. Ma le convenienze non permettono di ospitare la pusa: non
so proprio dove metterla a dormire.»
«Spero non penserete che le nostre intenzioni siano meno che oneste. Ci siamo imbattuti nella
ragazza mentre attraversavamo la Foresta degli Abeti Neri: era legata a un albero. Il mio umile
discepolo Consapevole del Vuoto si rifiutava di slegarla, ma i precetti della bodhi mi hanno spinto a
soccorrerla; e in seguito non potevo certo abbandonarla lungo il cammino. Qualunque sistemazione
andrà bene per lei.»
«Se acconsentite, nella vostra grande generosità, potrei far collocare un pagliericcio nella sala del
Re del Cielo, dietro il simulacro, e mandarla a dormire là.»
«Credo che andrà benissimo.»
I giovani lama accompagnarono la ragazza nel luogo destinato, e tutti si ritirarono per la notte.
«Corichiamoci subito» diceva Tripitaka ai suoi; «la giornata è stata massacrante, e domani dovremo
alzarci presto.» Come al solito, i discepoli dormirono nella sua stessa camera, per proteggerlo.
Nel cielo notturno troneggia la lepre di giada:
Deserti son d’ogni passante i divini sentieri.
Rilucono quiete le stelle del Fiume d’Argento.
In cima alla torre il tamburo scandisce le ore.
Scimmiotto si alzò all’alba, chiamò Porcellino e Sabbioso per preparare cavallo e bagagli, e andò
a destare il maestro, che dormiva ancora. Chiamato, alzò la testa e la lasciò ricadere sul cuscino.
«Maestro, che avete?» chiese inquieto Scimmiotto.
«Non lo so nemmeno io» gemette il reverendo. «Mi gira la testa, sento gli occhi gonfi; ho male
dappertutto.»
Porcellino gli toccò la fronte e la sentì scottare. «Ho capito» disse il bestione. «La buona cucina
vi ha indotto ieri sera a mangiare un piatto di troppo, e avrete dormito con la testa troppo in basso. È
un’indigestione.»
«Sciocchezze» brontolò Scimmiotto. «Ci dica il maestro che cosa è successo.»
«Questa notte mi sono alzato per un bisogno e non ho messo in capo la berretta» spiegò
Tripitaka. «Avrò preso freddo.»
«È una spiegazione più verosimile. Ve la sentite di alzarvi e rimettervi in cammino?»
«Temo di non riuscire nemmeno a mettermi seduto: come potrei cavalcare? Ma non vorrei farvi
perdere tempo.»
«Che dite mai, maestro! Come dice l’adagio: maestro per un giorno, padre per la vita. E noi
discepoli siamo i vostri figli. Si dice anche: non chiedere a tuo figlio che cachi oro o pisci argento,
ma che ti mostri affetto secondo il bisogno del momento. Se non state bene, aspetteremo che vi
rimettiate.»
Per più di due giorni e due notti i discepoli assistettero il maestro; verso la sera del terzo giorno,
Tripitaka riuscì finalmente a mettersi a sedere e chiamò Scimmiotto: «Consapevole del Vuoto, sono
stato tanto male, che non ti ho chiesto nemmeno se la pusa che abbiamo salvato ha ricevuto il cibo
che le occorre.»
Scimmiotto rise: «Che cosa andate a pensare! Badate piuttosto alla vostra salute.»
«Giusto. Aiutami a scendere dal letto e portami carta e pennello; la pietra da inchiostro puoi
chiederla in prestito a quelli del monastero.»
«Che cosa intendete fare?»
«Devo scrivere una lettera, allegare il passaporto e affidartela, perché la consegni a sua maestà
l’imperatore Taizong, a Chang’an.»
«È un incarico facile; altre cose non le saprò fare, ma come postino non ho rivali. Quando avrete
scritto la lettera farò una capriola fino a Chang’an e ritornerò qui con un’altra capriola: il pennello
non avrà il tempo di asciugare. Ma che cosa volete scrivere?»
«Devo scrivere» rispose piangendo il reverendo:
«Tre volte prosternato, l’umile servitore
Augura lunga vita al santo imperatore.
Possano i mandarini legger questo messaggio.
Quando lasciai la Cina ero determinato
A raggiungere il Buddha, come mi era ordinato.
Molti ostacoli han messo a prova il mio coraggio.
Lontano dalla meta, sono attualmente afflitto
Da grave malattia che mi lascia sconfitto.
Se potessi raggiungere il Monte degli Avvoltoi
Ed ottenere i sutra, non risparmiando pene,
Non ne ricevereste utilità né bene,
Perché morirei prima di riportarli a voi.
Il mio viaggio terreno può dirsi terminato:
Debbo invitarvi a scegliere un altro incaricato.»
Scimmiotto non poté trattenersi dallo scoppiare in una fragorosa risata: «Maestro, non ve la
prendete, ma come al solito non siete all’altezza della situazione. Vi viene la bua, e vi sognate già
morto e sepolto. Del resto, se vi colpisse davvero un male grave, da mettervi in pericolo di vita, non
ci sono qui io? Farei subito un’inchiesta: ‘Quale re dell’altro mondo ha preso questa cantonata?
Quale giudice ha commesso l’imprudenza di spiccare il mandato? Fatemi vedere il malcapitato
inviato infernale che si è preso l’incombenza!’ Guai a loro se facessero i furbi o avessero il coraggio
di contrariarmi! Farei terra bruciata fino in fondo all’Inferno; acchiapperei i dieci giudici e gli
romperei le ossa.»
«Discepolo, non fare il fanfarone. Io sto male davvero.»
Si fece avanti Porcellino: «Fratello, se ti dice che sta male, non star lì a discutere: sta male.
Sistemiamo le cose prima che sia troppo tardi: vendiamo il cavallo e, con il ricavato, compriamo
una bara per lui. Poi ci divideremo i bagagli e ce ne andremo ciascuno per la sua strada.»
«Ci mancavano le idee fisse di questa bestia! Non te ne intendi di queste cose: il nostro maestro
fu il secondo discepolo del beato Buddha, sotto il nome di Cicala d’Oro; le prove che sta passando
hanno semplicemente lo scopo di fargli espiare una mancanza di riguardo che commise allora.»
«Qualunque mancanza di riguardo abbia commessa, è stato immerso nel mare di guai della vita
umana, senza parlare delle tremarelle che prova ogni volta che incontra un mostro o un diavolo.
Non è sufficiente? Che bisogno c’è di tormentarlo anche con le malattie?»
«Che cosa ne sappiamo? Pare che si fosse addormentato alla predica del Buddha; inoltre era
caduto e aveva schiacciato un grano di riso con il piede sinistro. Magari la pena prevista in questo
caso sono proprio tre giorni di malattia.»
«Tre giorni per un grano di riso!» gridò Porcellino terrorizzato. «E per i calderoni che ne mangio
io, quanti secoli mi toccherà penare?»
«Fratellino» rispose Scimmiotto, «le bestie come te, il Buddha non le vede nemmeno. Comunque
ricordati:
Cresce il riso nel campo
Con il duro lavoro.
Ogni chicco che hai
Costa sudore e guai.
«Vedrai che per il maestro questo sarà l’ultimo giorno di malattia. Domani sarà guarito.»
«Non mi pare di star molto meglio. Ho la gola secca: potete darmi un po’ d’acqua?» chiese
Tripitaka.
«Bene!» affermò Scimmiotto. «La sete è un segno di miglioramento. Cerco subito l’acqua.»
Afferrò la ciotola delle elemosine e corse in cucina. Si guardò intorno, e notò che tutti i monaci
presenti avevano gli occhi rossi e trattenevano a stento il pianto.
«Come siete meschini!» li apostrofò Scimmiotto. «D’accordo, ci siamo fermati più del previsto;
ma prima di partire faremo i conti e vi pagheremo fino all’ultima sapeca. Vi sembra il caso di
ostentare tanto il fastidio che vi diamo? Non è un comportamento da veri sacchi di merda?»
«Ma noi non ci permetteremmo mai!» esclamarono i monaci gettandosi in ginocchio.
«Non state forse frignando per i vuoti che ha provocato nella vostra dispensa il mio condiscepolo
con il grugno lungo?»
«Potete restar qui mesi interi: non guarderemo certo nel vostro piatto. La nostra disgrazia è
un’altra. Ogni notte due giovani bonzi sono addetti a suonare la campana e battere il tamburo: quelli
delle ultime tre notti sono scomparsi. Ne abbiamo trovato solo un mucchietto di ossa nel giardino
posteriore, accanto ai loro berretti e ai sandali. Non volevamo parlarvene per non affliggervi, perché
sappiamo che il vostro maestro è indisposto; ma non possiamo trattenerci dal piangerli.»
Scimmiotto fu insieme allarmato e contento di sentirsi chiamato in causa: «Non dite altro: è
chiaro che avete in casa una creatura perversa. Penserò io a levarla di torno. La prossima notte farò
il turno da solo.»
«Signoria, i mostri dispongono di poteri soprannaturali: sanno cavalcare le nuvole, andare e
venire dall’inferno. Gli antichi dicevano: temi l’ingiustizia dei giusti, guàrdati dalla malvagità dei
buoni. Non vi arrabbiate, per piacere: se catturaste il colpevole, sarebbe una gioia senza pari; ma se
doveste fallire, ne deriverebbero seri guai.»
«Quali guai ne dovrebbero derivare?»
«Reverendo, parliamoci chiaro. Noi abbiamo lasciato le nostre famiglie fin dall’infanzia.
Com’è la nostra vita?
Quando crescono i capelli, occorre raderli. Se la tonaca si scuce, occorre ricucirla.
Al mattino ci alziamo presto, ci laviamo e ci inchiniamo a mani giunte per ubbidire alla Grande Via.
Quando scende la sera ci riuniamo, bruciamo incenso, borbottiamo devotamente il nome di Amitâbha. Leviamo gli
occhi a contemplare il Buddha sul suo nonuplo trono di loto, che compassionevolmente dispensa la Legge e i Tre
Veicoli; e ci auguriamo di poter contemplare l’onore dei Sâkya nel suo grande parco del Jetavana.
Abbassiamo il capo per scrutare nel nostro cuore, accettare i cinque divieti, trascendere il gran chiliocosmo; e ci
auguriamo di afferrare, attraverso la molteplicità dei fenomeni, il vuoto totale e l’irrealtà della realtà.
Se vengono donatori ciascuno di noi, vecchio o giovane, grande o piccolo, grasso o magro, zotico o gentile, batte il
pesce di legno e la pietra sonora, e salmodia nel naso un paio di rotoli del sutra del Loto, oppure la litania
dell’imperatore dei Liang. Se invece non si vedono donatori, ciascuno giunge le mani e chiude gli occhi, accovacciato
sulla sua stuoia, chiude la porta al chiar di luna e si immerge in contemplazione nel silenzio e nell’oscurità.
La nostra vita è questo, e nient’altro. Chiacchiericcio di uccelli, zuffe di formiche, domar tigri e abbattere draghi, sono
cose che non trovano posto nel grande veicolo della Legge, per grande che sia la compassione. Mostri e diavoli non
sono affar nostro.
Se vostra signoria si trovasse a stuzzicare uno spirito perverso, esso potrebbe prendersela con noi e mangiarci in un
boccone. È facile immaginare le conseguenze: in primo luogo, ricadremmo nel ciclo delle reincarnazioni; secondo,
l’antica Foresta di Meditazione resterebbe distrutta; terzo, non avremmo nemmeno un posticino alla corte del Beato.
Non li chiamereste seri guai?»
Man mano che ascoltava, Scimmiotto si arrabbiava sempre più; sentiva rodere la bile. Urlò:
«Banda di idioti! Ciarlate su ciò che possono fare i diavoli; ma non sapete che cosa so fare io!»
«In effetti, non ne sappiamo niente» mormorarono i monaci.
«Per oggi mi accontenterò di un riassunto succinto. Ascoltatemi bene:
«In vita mia ho abbattuto tigri e draghi sulla terra, e messo sottosopra i palazzi del Cielo. Ho saziato l’appetito
sgranocchiando l’elisir del signore Laozi, e calmato la sete scolando il vino dell’Imperatore di Giada. Se spalanco i miei
occhi dalle pupille d’oro, il cielo sbiadisce e la luna si nasconde. Vado dove voglio senza lasciare traccia né ombra,
stringendo la mia sbarra cerchiata d’oro, corta o lunga a volontà.
Non temo né i mostriciattoli né i grandi diavoli, per malvagi che siano. Non c’è fuggiasco che non acchiappi: corra,
tremi o si nasconda. E chi afferro non mi sfugge: che finisca segato in due, arso, affogato o stritolato. Ho le mie
specialità; posso competere con ciascuno degli otto immortali che passano il mare, o con tutti insieme. Monacelli miei,
acchiapperò la creatura perversa e ve la mostrerò, perché sappiate anche voi chi è il vecchio Scimmiotto!»
I lama pensavano: «Questo bandito peloso è un gran chiacchierone, ma può darsi che ci sia
qualcosa di vero.» Dentro di sé erano scettici, ma per educazione emettevano un indistinto
mormorio di approvazione. Il loro superiore fece sentire un’altra campana: «Lasciate stare, pensate
invece al vostro maestro! Non c’è nessuna fretta di catturar fantasmi. Dice il proverbio: il principe
al banchetto, se non si sazierà, calmerà almeno l’appetito; il prode in battaglia, se non sarà
ammazzato, buscherà almeno una ferita. Proveremmo un eminente dispiacere se il maestro
ammalato subisse danno dalle vostre battaglie con gli spettri.»
«Giusto. Vado a portargli da bere, e torno subito.» Riempì la sua ciotola e portò l’acqua a
Tripitaka. Questi, tormentato dall’arsura, la vuotò in un sorso. In verità
L’acqua per l’assetato è un gran piacere,
Ed è appunto il rimedio che ci vuole.
Il reverendo si sentì subito meglio: il suo volto riprese un po’ di colore e il suo corpo qualche
energia. Scimmiotto lo vide più disteso e domandò: «Maestro, che ne direste di una minestra e di
una tazza di riso?»
«Ne prenderò volentieri. L’acqua mi ha giovato come un buon farmaco: mi sento mezzo
risanato.»
Scimmiotto corse in cucina gridando: «Il maestro sta meglio. Vuol mangiare.»
I monaci si affrettarono a preparare il pasto. Misero al fuoco il riso, impastarono tagliatelle,
prepararono focacce, fecero cuocere qualche panino al vapore e cucinarono vermicelli in brodo.
Servirono quattro o cinque piatti. Tripitaka si limitò a sorbire mezza tazza di brodo, Scimmiotto e
Sabbioso gli fecero parca compagnia e tutto il resto finì nel ventre vorace di Porcellino. Poi i lama
sparecchiarono la tavola e portarono le lampade.
«Da quanto tempo siamo qui?» chiese Tripitaka.
«Da tre giorni» rispose Scimmiotto.
«Tre giorni! Santo cielo, quante tappe perdute!»
«Maestro state tranquillo, nessuna tappa va mai perduta. Domani partiremo e nei prossimi giorni
le percorreremo, ecco tutto.»
«D’accordo. Se non sarò del tutto ristabilito, peggio per me.»
«Visto che domani partiamo, devo impegnare la notte nella cattura di un mostro.»
«Che nuovo mostro ti sei procurato?»
«È qualcuno che gira qui, nel monastero.»
«Discepolo, non ti montare la testa! Se avesse dei poteri più grandi dei tuoi? Se ti mettesse in
pericolo, mentre io non sono ancora del tutto ristabilito?»
«Cercate sempre di smontarmi. Quanti mostri mi avete visto prendere? Ho mai ceduto a
qualcuno? Se mi impegno sul serio, vinco io; ormai dovreste saperlo.»
«Discepolo!» insisteva Tripitaka trattenendolo per le mani. «Le massime che devi avere sempre
fisse in testa sono: Fa il bene ogni volta che puoi. Perdona sempre. Val meglio quiete di spirito che
agitazione, tolleranza che belligeranza.»
«Devo pur dirvelo, visto che siete tanto insistente» finì per dire Scimmiotto. «Non lo faccio per
divertimento. Quel mostro ha mangiato degli esseri umani.»
«Quali esseri umani?» volle sapere Tripitaka, cui si rizzavano i capelli.
«Sei giovani bonzi. Li ha mangiati appunto in questi ultimi tre giorni, dopo il nostro arrivo.»
«La volpe piange la morte della lepre: ogni creatura piange i suoi simili. Se le vittime sono
monaci, considerato che siamo monaci anche noi, non ti posso negare l’autorizzazione. Ma sta
attento.»
«Va da sé. Appena lo avrò fra le mani, lo eliminerò.»
Ed ecco che si scrolla di dosso la noia di tre giorni di inattività, affida il maestro a Porcellino e
Sabbioso, ed esce giubilante dalla camera.
Il cielo era pieno di stelle, ma la luna non si era ancora levata; perciò la grande sala consacrata al
Buddha era immersa nell’oscurità. Scimmiotto accese una lampada di cristallo con fuoco di verità,
tratto dal suo corpo, batté il tamburo e suonò la campana. Poi, con una scossa, si mutò in un piccolo
lama di dodici o tredici anni, con la camicia di tela bianca e la tonaca di seta gialla. Salmodiava
sutra e percuoteva il pesce di legno. Finì la prima veglia senza che accadesse nulla. Durante la
seconda veglia, quando salì in cielo una falce di luna, si levò il vento. E che vento!
Porta con sé nera nebbia e cupe nuvole: come una macchia d’inchiostro che dilaghi ai quattro orizzonti, o una
gigantesca pennellata di pittura color indaco che copra il quadro.
Solleva polvere e abbatte alberi. Vola la polvere a velare lo scintillio delle stelle, si schiantano gli alberi nell’oscurità
dell’eclisse di luna. Il soffio è così forte che Chang’e deve proteggere l’albero di sâla, mentre la lepre di giada gira in
tondo impazzita e non riesce a ritrovare la sua ciotola. Gli ufficiali dei nove luminari devono serrare le imposte, i draghi
dei quattro mari si barricano in casa.
Il dio delle mura e dei fossati dà per dispersi i diavoletti suoi assistenti. Nel palazzo infernale Yama non trova più il fido
accolito col muso di cavallo. I giudici corrono da tutte le parti, inseguendo i loro berretti in volo.
Questo vento smuove le rupi in cima al Monte Kunlun, agita le acque dei laghi e dei fiumi come una zangola.
Infine il vento si calmò e si diffuse profumo di muschio e di orchidea, mentre si udivano giade
tintinnare. Scimmiotto alzò gli occhi e vide salire nella sala una donna molto bella.
Lui borbottava: «Bla, bla, bla...» come se fosse assorto nella recitazione dei sutra. La donna gli si
avvicinò e lo abbracciò dicendo: «Che cosa recita di bello, il mio bonzino?»
«Recito quello che devo recitare.»
«Come mai gli altri, invece, sono andati a dormire?»
«Loro dormono, e io recito.»
La ragazza lo baciò e gli propose: «Che ne dici? Ci vieni là fuori a divertirti con me?»
«Non sarai mica matta!» strillò Scimmiotto.
«Sai qualcosa di fisiomanzia?»
«Ne ho sentito parlare.»
«Che cosa vedi sul mio viso?»
«Che sei capricciosa e puttana; che i tuoi ti hanno cacciata di casa.»
«Non te ne intendi, è tutto sbagliato.
Non sono disonesta, né i parenti
Mi scacciaron di casa. Il mio destino
Determinato da vite anteriori
M’ha unito ad un ragazzo troppo giovane
Che la notte di nozze non sapeva
Proprio che cosa fare. Ecco il motivo
Per cui ho dovuto fuggire da lui.
«Ora approfitteremo del chiar di luna e del destino, che ha deciso il nostro incontro da mille
leghe di distanza; ce ne andremo nel giardino dietro casa e faremo l’amore.»
Scimmiotto tentennava il capo e pensava: «Ecco come sono stati attirati, quegli stupidelli.»
Rispose: «Signora, sono troppo giovane: non sono pratico di queste cose.»
«Vieni con me e imparerai.»
Scimmiotto finì per cedere: «Vediamo che cosa conta di fare» pensava.
Andarono in giardino tenendosi per mano. Improvvisamente lei lo fece cadere a terra con uno
sgambetto, e senza tanti complimenti prese a manipolargli la ‘radice disgustosa’, mentre lanciava
dei gridolini: «Stellina! Come sei carino!»
«Orca miseria!» pensò Scimmiotto. «Questa mi mangia vivo.» Le afferrò a sua volta il polso e
con la mossa della ‘piccola giravolta’ la gettò a terra. «Piccino! Che bravo!» gorgheggiava lei.
«Come sa rovesciare bene la sua donnina!»
«Ora o mai più» pensò Scimmiotto. «Chi dà il primo colpo, alla fine è il più forte; di dare il
secondo impedisce la morte.»
Balzò su con la sbarra in mano, mirando alla testa, e riprese il proprio aspetto. «Che succede al
piccolo lama?» esclamò la ragazza; in un attimo riconobbe il pericoloso discepolo del monaco
cinese, ma non si spaventò e si adeguò subito alla situazione. Chi era quella creatura?
Naso d’oro, morbido pelo. Vive nelle spelonche e ci si trova a proprio agio. È figlia adottiva di Li Porta Pagoda, e
dunque sorella del principe Nata. A suo tempo ha frequentato il Monte degli Avvoltoi; ma le piaceva rodere incenso e
candele, destinate a tutt’altro uso, e il Beato l’ha scacciata.
Non è l’uccello che vuole colmare il mare, né la tartaruga che regge una montagna. Non teme la spada di Lei Huan, né
la sciabola di Lü Qian. Vagabonda come i flutti dello Yangzi e della Huai; sale e scende senza temere le altezze dei
Monti Tai o Heng.
A guardare quel visino seducente, nessuno indovinerebbe che non è altri che il pipistrello, divenuto immortale a forza di
perseveranza.
La vampira balzò in piedi, e due spade preziose comparvero nelle sue mani: si coprì a sinistra e
parò a destra. Scimmiotto era più forte di lei, ma non tanto da dominarla facilmente. Un vento
gelido soffiava da tutte le parti; la falce di luna in cielo restò offuscata. In fondo al giardino si svolse
un magnifico duello.
È un vento diabolico quello che si leva a spegnere il lume della luna. Il monastero giace nella quiete, ma nel giardino
posteriore si combatte accanitamente. Fra Scimmiotto e la selvaggia ragazza, regina fra le donne, la lotta è senza
quartiere. Lei è trasportata d’ira contro il feroce monaco; lui vede rosso davanti alla donna vampiro. Ma quando
maneggia le due spade, non sembra davvero una donna. La sbarra si muove rapida come la folgore; gli anelli d’oro si
urtano, il metallo emette fasci di scintille [...] Nel silenzio notturno tremano di paura i trentadue cieli; gli arhat
applaudono lo spettacolo.
Il grande santo era riposato e in buona forma; la lamia valutò che presto non sarebbe più stata in
grado di sostenere i suoi assalti. Aggrottò le sopracciglia, formulò un piano e gli volse le spalle per
fuggire.
«Dove scappi, carogna? Arrenditi!» gridava Scimmiotto. Ma la vampira non si diede per intesa.
Lasciò che si mettesse all’inseguimento, si tolse la pantofola dal piede sinistro e le diede il suo
aspetto, con tanto di spade in pugno. Il vero corpo si sottrasse in forma di aria fredda.
La cattiva stella di Tripitaka era ancora alta in cielo. Il mostro si introdusse nella camera in cui
dormiva, si impadronì di lui e lo sollevò tacitamente nelle nuvole. In un batter d’occhio raggiunsero
il Monte del Tranello e si tuffarono nell’Abisso Senza Fondo. Là era la sua casa. Chiamò la servitù
e ordinò che preparassero il pranzo di nozze, a ogni buon conto con cibi di magro.
Scimmiotto si era fermato a combattere forsennatamente quella che gli pareva la sua avversaria,
e mise poco tempo a sopraffarla. Ma con suo stupore si trovò tra le mani soltanto una pantofola
ricamata. Comprese l’inganno e corse dal maestro: era scomparso. In un angolo, Porcellino e
Sabbioso commentavano l’accaduto.
Scimmiotto piombò loro addosso inferocito, levando la sbarra e gridando: «Questa volta vi
ammazzo!»
Il bestione non sapeva più dove nascondersi. Sabbioso scelse il metodo della remissività.
S’inginocchiò e disse: «Ti capisco, fratello maggiore. Non si può andare avanti in questo modo, con
continue sorprese e aggressioni di mostri. Ti vuoi sbarazzare di tutti quanti e ritornare a casa tua.»
«Nemmeno per sogno. Voglio sbarazzarmi di voi perché siete dei disutilacci; e poi devo andare a
soccorrere il maestro.»
«Eh no, mio caro!» rispose Sabbioso sorridendo. «Per soccorrere il maestro serviamo anche noi.
Ricordati il proverbio: non c’è corda di un solo filo, né applauso di una sola mano. Per dare
battaglia, bisogna proteggere anche le retrovie: chi sorveglierebbe i bagagli e il cavallo? Prendi a
modello la buona organizzazione di Guan e Bao, che sapevano spendere i loro soldi; piuttosto che
Sun e Pang, che sapevano solo giocare d’astuzia e d’azzardo. Non si è sempre detto: la tigre
combatte con l’aiuto del fratello? E anche: vinci la battaglia solo se hai truppe devote. Risparmiaci
la vita, ti prego; e aspettiamo l’alba per unire cuori e forze nella ricerca del maestro.»
Scimmiotto era fiducioso nelle sue forze, ma non incosciente. Perciò disse a Sabbioso: «Non hai
tutti i torti. Lasciamo stare. Domattina andremo a localizzare il maestro: dovremo mettercela tutta!»
Il bestione si sentì pieno della generosità di chi l’ha scampata bella: «Fratello, penserò io a ogni
cosa.»
I tre fratelli attesero l’alba. Ma di mettersi a dormire, con le preoccupazioni che li agitavano, non
c’era da pensarci. Se avessero potuto, avrebbero ordinato al sole di levarsi dall’albero Fusang a
metà della notte, o avrebbero soffiato per disperdere le stelle in cielo. Rimasero seduti fino al primo
chiarore, e quando si alzarono per uscire trovarono alla porta alcuni monaci, che chiesero: «Dov’è il
reverendo?»
«Non so come dirvelo» sogghignò Scimmiotto imbarazzato. «Mi vantavo tanto di esser bravo a
catturare i mostri, ma il fatto è che invece il mostro ha catturato il maestro.»
«Come avete potuto coinvolgere il maestro nei piccoli problemi del nostro convento? E adesso
dove sarà?»
«Credo di sapere dove cercarlo» rispose Scimmiotto.
«Non abbiate tanta furia; fate colazione, prima di partire.»
Servirono qualche tazza di brodo, che Porcellino vuotò in un sorso: «Bravi monaci, in cucina ci
sapete fare. Ora dobbiamo trovare il maestro, ma ritornerò qui con vero piacere.»
«Ritornerai solo per mangiare il loro riso!» esclamò Scimmiotto. «Fa una cosa utile: controlla
dov’è la ragazza. Dormiva nella sala del Re del Cielo.»
«Non c’è più» risposero i lama. «Scomparve subito dopo la prima notte.»
La risposta mise di buon umore il Novizio; che ripartì verso est, la direzione da cui erano venuti,
seguito da Porcellino e Sabbioso con bagagli e cavallo.
«Sbagli strada, fratello» gridò Porcellino. «Perché dovremmo ritornare indietro?»
«Perché la Foresta degli Abeti Neri è verso est. È là che abbiamo incontrato quella che a voi
sembrava una così brava figliola. Le mie pupille d’oro videro subito che cos’era. I lama li ha
mangiati lei; il maestro lo ha rapito lei. La vostra idea di darle una mano era proprio astuta!
Naturalmente, per cercare il maestro, dobbiamo prender le mosse dal punto dove l’abbiamo
incontrata.»
«Si capisce!» risposero i due sgranando gli occhi. «Sembri un tipo brutale, ma sotto sotto non
manchi di finezza. Andiamo.» E ritornarono di corsa nella foresta. Si vedeva
il sentiero serpeggiante tra le rocce, nella foschia mattutina, che reca impronte di volpi e di lepri. Fra i cespugli si
distinguono altre tracce: tigri, pantere e lupi. Ma non si vedono tracce di mostro: dove sarà passato Tripitaka?
Scimmiotto, esasperato, finì per assumere l’aspetto che aveva quando devastava i palazzi del
Cielo: tre teste e sei braccia, con tre randelli; e si mise a battere a tutta forza alberi e terreno qua e là
nella foresta.
«Sabbioso» disse Porcellino, «quell’uomo è uscito di senno; se mai ci fosse in giro qualche
traccia, la cancellerà senza vederla.»
Ma Scimmiotto aveva uno scopo preciso: in breve sbucarono dagli alberi due vecchietti: il tudi e
il dio della montagna. Si inginocchiarono davanti a lui e dissero: «Grande santo, eccoci qui.»
«Quel randello è tanto efficace» commentava Porcellino, «che un giorno finirà per scovarci la
stella della disgrazia in persona.»
«Begli infami che siete!» li apostrofò Scimmiotto. «Naturalmente avrete l’abitudine di far
comunella con tutti i banditi del territorio, in cambio dello spezzatino di maiale che vi offriranno
ogni volta che le loro ladronerie saranno andate a segno. Siete certo complici di una vampira che
conosco. Il fatto è che stanotte ha rapito il mio maestro. Dove l’ha nascosto? Vuotate il sacco, o
passerò alle vie di fatto.»
«Non meritiamo le accuse di vostra santità!» protestarono i due vecchi dèi, pieni di paura. «Il
mostro che cercate non abita qui, e non è sotto la nostra giurisdizione. Tuttavia il vento che soffiava
stanotte qualche informazione ce l’ha data.»
«Sputate il rospo!»
«La vampira che ha rapito il vostro maestro abita a mille li dalla foresta, in direzione sud» spiegò
il tudi. «Vive sul Monte del Tranello, dentro un profondo abisso detto Senza Fondo.»
Congedate le divinità Scimmiotto riferì la situazione ai condiscepoli: «L’ha portato più lontano
di quanto credevo.»
«Non importa» disse Porcellino. «La distanza è modesta, se saliamo sulle nubi.»
Così fecero, accompagnati dal cavallo, che dopo tutto era la trasformazione di un drago. Bastò
poco per giungere in vista di una grande montagna, che offriva questo spettacolo:
Se i picchi superano le nuvole, la vetta tocca la volta celeste. La ricoprono grandi foreste di molte essenze, nelle quali
risuonano gridi di uccelli di ogni genere. Si vedono correre tigri e pantere; si indovinano cervi e daini all’ombra dei
cespugli. Sui pendii soleggiati piante rare schiudono fiori profumati, mentre nelle zone d’ombra la neve non si scioglie
neppure in piena estate. Rupi scoscese e torrenti incassati. Gli scuri abeti e le grandi rocce bigie dànno i brividi al
viandante. Non vi è traccia di presenze umane, né boscaioli, né erboristi.
Le fiere che vedete sanno suscitar nebbie, le volpi sanno scatenare temporali.
«Si vede subito che in questo posto abitano mostri. Guarda com’è ripido il monte!»
«Si capisce» confermò Scimmiotto. «Ogni gran montagna ha il suo mostro, ogni strapiombo la
sua lamia. Noi due, Sabbioso, aspetteremo qui; mentre Porcellino farà una ricognizione per
verificare la strada, localizzare la grotta e controllare com’è difeso l’ingresso. Quando avremo le
informazioni, ci muoveremo per il meglio.»
«La mia solita fortuna!» brontolava Porcellino. «Tocca sempre a me affrontare la situazione.»
«Perché ti lamenti? Non sei stato tu a dire testualmente: ‘penserò io a ogni cosa’? Hai già
cambiato idea?»
«Non prenderla su questo tono. Non ho detto che non vado.» E in effetti posò il rastrello e corse
via, in cerca del sentiero.
Se poi in fin dei conti non sapete quale piega presero le cose, ascoltate il seguito.
CAPITOLO 82
PREPARATIVI DI NOZZE IN FONDO ALL’ABISSO
OVE FANCIULLA SEDUCENTE CERCA IL MASCHIO, E L’ANIMA ORIGINALE PROTEGGE LA VIA.
Porcellino trovò un sentiero e lo seguì per cinque o sei li, finché vide due mostriciattole che
attingevano acqua da un pozzo. Come si capiva che erano mostriciattole? Avevano pettinature fuori
moda, con alti chignon trattenuti da spilloni di bambù alti un piede e due pollici sopra la testa.
Porcellino le salutò: «Ciao vampire! Come state?»
«Che brutto maleducato, questo bonzo! Non ci siamo mai visti né conosciuti, e tu senti come ci
tratta!» Brandirono le pertiche con cui calavano il secchio nel pozzo e gliele picchiarono sulla testa.
Il bestione, disarmato, non poteva proteggersi dai colpi; ne prese parecchi, finché fuggì su per la
montagna gridando: «Fratelli miei, andiamocene via! Qui ci sono donne tremende.»
«Chi sono, le donne tremende?» chiese Scimmiotto.
«Due creature che attingono acqua da un pozzo, in fondo alla valletta. Le ho salutate e loro, per
tutta risposta, mi hanno preso a legnate.»
«Come le hai salutate?»
«Ho chiesto: vampire, come state?»
«Allora hai avuto quello che meritavi.»
«Grazie tante della solidarietà.»
«Dolce e flessibile, guadagni il mondo; finché stai rigido, tu giri in tondo. Dopo tutto, loro sono
gente del posto, e noi soltanto dei forestieri. Irrompi in casa loro e gli dài del vampiro: come vuoi
che ti rispondano? Per meritare nome d’uomo, colloca sopra ogni cosa i riti e la musica.»
«Non ci avevo pensato.»
«Tu che hai fatto tante esperienze in vita tua, da quando mangiavi i passanti sulle montagne,
saprai che ci sono due tipi di legno.»
«Quali tipi?»
«Il pioppo e il sandalo. Il pioppo è tenero ed è facile da scolpire. Gli artigiani ne fanno statue del
Buddha, coperte di colori, di dorature e di gioielli; quando sono esposte al pubblico, diecine di
migliaia di persone vengono a riverirle e a bruciare incenso. Così il pioppo è un legno benedetto. Il
sandalo invece è duro: ma non serve ad altro che a farne ruote di frantoio. A questo scopo lo si
cerchia di ferro, calzando ogni cerchio a suon di martellate. Lo si picchia appunto perché è duro.»
«Fratello, perché non me l’hai detto prima? Mi sarei risparmiato le legnate.»
«Adesso che lo sai, torna da loro e interrogale per bene.»
«Mi riconosceranno.»
«Basterà che tu cambi aspetto.»
«Va bene, ma ho bisogno di prepararmi. Come devo fare le domande?»
«Salutale educatamente e valuta la loro età. Se sono più o meno nostre coetanee, puoi dar loro
della ‘signorina’; se invece sono anziane, chiamale ‘gentildonne’.»
«Quante cerimonie con queste montanare!» sghignazzò Porcellino.
«Il punto non è questo. Dobbiamo affrettarci a trovare il nostro maestro, per ridurre i rischi che
corre; ma dobbiamo essere certi che abbiamo davanti le persone che lo hanno rapito. Se
sbagliassimo, faremmo torto a gente che non c’entra e perderemmo tempo.»
«Hai ragione. Voi aspettate qui, che torno presto.»
Questa volta, prima di discendere la montagna, il bravo bestione infilò il manico del rastrello
nella cintura. Quando fu nei pressi del pozzo, con una scossa si mutò in un fratacchione dalla faccia
scura; si diede un’aria cerimoniosa, s’inchinò profondamente e disse: «Umile servitor vostro, care
gentildonne!»
Le due lo considerarono con simpatia: «Ecco un bonzo che sa come si saluta gentilmente. Da
dove venite, reverendo?»
«Vengo da dove vengo.»
«Dove andate?»
«Vado dove vado.»
«Ma come vi chiamate?»
«Di solito mi chiamo col mio nome.»
Le due si misero a ridere: «È gentile, ma non sa dove ha la testa e dove i piedi.»
«Gentildonne, perché attingete acqua al pozzo?»
«Non lo sai, bonzo? La nostra padrona ha rapito questa notte un monaco cinese, e lo ospita nella
sua grotta. La padrona ci ha mandato ad attingere quest’acqua, perché è più limpida di quella di
casa. Serve per preparare un banchetto vegetariano, e per festeggiare il matrimonio che avrà luogo
questa sera.»
Tanto bastò perché il fratacchione corresse via. Arrivò dai condiscepoli gridando: «Sabbioso,
prepara i bagagli per la spartizione!»
«Ormai lo sappiamo: è la tua solita mania. Che c’è di nuovo?»
«C’è che il maestro è felicemente sposato. Quelle due stavano preparando il banchetto per
festeggiare il matrimonio.»
«Che sciocchezze dici? Il maestro si roderà dall’impazienza di essere liberato.»
«E come vuoi che riusciamo a liberarlo?»
«Voi mi seguirete con cavallo e bagagli, e io pedinerò le mostriciattole per scoprire l’ingresso
della grotta. Quando lo raggiungeremo, attaccheremo tutti insieme.»
Porcellino non aveva scelta. Il pedinamento durò per una ventina di li; poi le mostriciattole
scomparvero improvvisamente.
«Sono fantasmi di quelli che si vedono alla luce del giorno!» esclamò sbalordito Porcellino.
«Complimenti, che occhio clinico!» commentò Scimmiotto. «Come hai fatto a vederle nel loro
vero aspetto?»
«Lo dico perché un momento fa camminavano con l’orcio sulla spalla, e ora non si vedono più.»
«Saranno arrivate alla loro grotta e ci saranno entrate. Cerchiamo.»
In effetti, al riparo di un’alta rupe, trovarono un pailou a triplo spiovente e quattro ordini di
decorazioni, tutto dipinto e scolpito. Un’iscrizione in sei grandi caratteri diceva:
ABISSO SENZA FONDO DEL MONTE DEL TRANELLO
«Ecco un bell’edificio» apprezzò Scimmiotto. «Ma l’entrata della grotta non è questa.»
«Comunque non può essere lontana» osservò Sabbioso.
Al centro di una spianata rocciosa della circonferenza di una diecina di li, si apriva un foro non
più largo di una giara, dal bordo lustro e consunto per il continuo strofinio.
«Sarà quel buco» gridò Porcellino additandolo.
«Che strano posto!» considerò Scimmiotto guardandosi intorno. «Ho visto tante creature
malefiche e tante grotte in vita mia; ma mai niente di simile. Porcellino, prova a calarti giù per
sondare la profondità.»
Porcellino, che guardava nel foro, rispose: «Non fa per me, grosso e maldestro come sono. Se
non riuscissi a reggermi e cadessi giù, non toccherei il fondo prima di un anno.»
«Possibile che sia tanto profondo?»
«Guarda anche tu.»
Il grande santo si accovacciò sull’orlo e procedette a un esame accurato. Caspita! Era una
voragine profonda, a dir poco, trecento li. «È fonda, ragazzi; mai vista una cosa simile.»
«Lo vedi che non possiamo salvare il maestro?»
«Chi l’ha detto? Si scoraggiano solo i fannulloni. Legate il cavallo da qualche parte e preparate
le vostre armi. Entrerò io a esplorare; se riuscissi a mettere in fuga la lamia, voi l’aspetterete qui
pronti a colpire. Utilizzeremo le forze unite della cooperazione.»
Scimmiotto saltò giù: nuvole colorate scaturivano sotto i suoi piedi e lo proteggevano. Quando
giunse in fondo all’abisso, lo trovò chiaro e luminoso, come se fosse all’aperto. Sole, vento, fiori e
alberi, come in superficie. «Che bel posto!» si rallegrò Scimmiotto. «Mi ricorda un po’ la vecchia
Grotta del Sipario Torrenziale. Non è un luogo sinistro, è una terra benedetta.»
Una torre d’ingresso a doppia gronda era circondata da pini e bambù. Oltre si intravedeva una
corte circondata da vari edifici.
«Sarà la casa della vampira. Andrò a caccia di informazioni.» E per non farsi notare prese
l’aspetto di una mosca. Volò lieve in cima alla torre e vide la creatura malefica che troneggiava
dentro un chiosco di paglia. Era molto più elegante di quando l’avevano incontrata nella foresta:
Raffinate volute di capelli
Corvini sulla giacca di velluto
Verde smeraldo. Le dita sottili
Come germogli di bambù, i suoi piedi
Loti d’oro, non più di mezza spanna.
Come un piatto d’argento la sua faccia,
Incipriata e con le labbra rosse.
È bella e dignitosa, seducente
Più di Chang’e nel mondo della luna.
Il monaco al mattino ha catturato
Per farne il proprio sposo entro la sera.
Scimmiotto tratteneva il respiro. Le labbra rosse come ciliegie si dischiusero per ordinare:
«Ragazze, servite in tavola. Celebriamo questo banchetto, e poi consumerò senza altro indugio le
nozze con il mio caro monaco cinese.»
«Porcellino aveva quasi ragione» sogghignò Scimmiotto fra sé. «E io credevo che scherzasse!
Andiamo a vedere in che stato è il maestro; se si è fatto sedurre, lo lascio come l’ho preso.»
Ronzò intorno, e trovò Tripitaka seduto nel portico est dietro un tramezzo di carta rossa,
trasparente in alto e opaco in basso. Scimmiotto passò da un forellino della carta, andò a posarsi
sulla testa rasata e lo chiamò piano: «Maestro!» Tripitaka bisbigliò: «Discepolo, salvami!»
«Siete il solito pesce fuor d’acqua, maestro. Questa bella ragazza vi offre un festino e poi vi
sposa. Vi darà un figlio, o magari una figlia: avrete la discendenza assicurata. Che cosa non va?»
«Discepolo!» esclamò inorridito Tripitaka. «Da quando ti ho raccolto sul Monte delle Due
Frontiere, ti pare che abbia mai toccato un cibo vietato? Ho mai infranto divieti, fosse pure con il
pensiero? Se cedo il mio yang a questa creatura che lo vuole, che io possa sprofondare nel ciclo
della trasmigrazione ed essere respinto oltre il Monte delle Tenebre, senza speranza di liberazione!»
«Andate piano con i giuramenti» replicò sorridendo Scimmiotto. «Dal momento che la ricerca
delle scritture è sempre in cima ai vostri pensieri, vi aiuterò a uscire da qui.»
«Non riesco a ricordare da quale strada sono venuto.»
«Non vi servirebbe a niente ricordare: uscire di qui non è facile. Per entrare basta scivolar giù;
ma per uscire bisogna fare una poderosa arrampicata.»
«Come facciamo, se è tanto difficile?» gemeva Tripitaka, con gli occhi gonfi di lacrime.
«Difficile non vuol dire impossibile. Potremmo usare un trucco ben sperimentato. Quando vi
inviterà a bere la coppa nuziale, versatele il vino e fatelo spumeggiare agitando la bottiglia. Io mi
trasformerò in un insetto minuscolo e mi nasconderò in una bollicina, in modo da farmi inghiottire
senza che lei se ne accorga. Quando sarò dentro, le spaccherò il cuore e le strapperò le budella: so
che non vi piace la violenza, ma non c’è altro da fare.»
«Ma discepolo, che ferocia!»
«Se volete far del bene anche alle vampire, affar vostro; allora date retta a lei. Comunque sono
animali nocivi.»
«Va bene, va bene. Ma non mi lasciare solo.»
Si capisce che
Scimmiotto il grande santo protegge Tripitaka,
Né questi può contare su altri protettori.
Ed ecco arrivare la lamia, che chiamava il reverendo. Questi dapprima pensò di non rispondere:
aprir bocca è disperdere energia; la lingua agita il vento della discordia. Poi ebbe paura di irritarla
con il silenzio, e disse timidamente: «Signora, sono qui»; gli parve di avere perso cento libbre di
peso.
Certo, per un bonzo tanto conosciuto nella capitale e con incarichi così importanti, era un
comportamento compromettente. Ma non aveva scelto lui di mettersi in quella situazione, ed era il
primo a soffrirne.
La vampira si venne a strofinare, gli fece mille tenerezze e dimostrazioni di passione, senza
rendersi conto di quanto lo metteva in imbarazzo. Scimmiotto sogghignava fra sé: «Chissà se resiste
a questo attacco in grande stile.»
Tentazione diabolica
Per il povero monaco,
La fanciulla sottile
Dalle curve indiscrete.
Lo sfiora con le fresche
Guance di un incarnato
Di pesca. I suoi capelli
Come ali di corvo.
Gli occhi ridono teneri,
E gli prende la mano.
Il monaco smarrito
Sente che la sua tonaca
S’impregna di profumo.
La donna prese per mano Tripitaka e lo guidò verso il chiosco di paglia: «Reverendo, ho
preparato del vino che vorrei bere con voi.»
«Signora, l’umile monaco che sono non può bere bevande alcoliche.»
«Lo so. Per voi ho fatto attingere l’acqua più pura della montagna, unione di yin e yang; e il
pranzo è soltanto di cibi vegetariani.»
Il monaco cinese la seguì.
Il chiosco è parato di seta, la corte si riempie di effluvi d’incenso che salgono da un bruciaprofumi a forma di leone.
Tavoli verniciati di nero e decorati con incrostazioni di madreperla reggono grandi vassoi di bambù laccati di rosso.
Sono ricoperti di ogni specie di cibo vegetale, i frutti che offre la montagna e le verdure di stagione: mele, olive, polpa
di loto, uva, noci, nocciole, pigne e pinoli, litchi, castagne, castagne d’acqua, giuggiole, cachi, noci di ginkgo, mandorle,
kumquat. E poi formaggio di soia, glutine di grano, orecchiette, germogli di bambù, porcini e ogni specie di funghi
profumati. Verdure fritte nell’olio. Fave e fagioli nelle salse adatte. Zucchini, cetrioli, navoni, melanzane ritagliate in
forma di quaglie; meloni d’inverno tagliati a cubetti; colocasia candita, rape macerate nell’aceto; pepe e zenzero. Tutti
quei cibi formano un’impeccabile armonia di sapori.
I ditini di giada afferrarono una scintillante coppa d’oro, la riempirono di vino e la porsero al
monaco cinese: «Mio adorabile reverendo, bevete alla nostra felicità!»
Tripitaka, con le mani che tremavano, prese la coppa, versò qualche goccia di vino ad uso di
libazione e formulò dentro di sé questa preghiera: «Dèi protettori della Legge, rivelatori dei cinque
orienti, protettori delle quattro direzioni, siatemi testimoni. La vostra segreta protezione mi è stata
accordata da Guanyin, cui sarò sempre grato. Questa lamia mi costringe a bere la coppa di vino,
perché vuole celebrare le nozze. Ascoltate il mio giuramento: se è davvero vino analcolico, mi
sforzerò di berlo per assicurare il buon esito della mia missione; ma se non lo fosse, e io bevendolo
violassi il divieto, precipitatemi subito e per sempre nelle sofferenze della trasmigrazione.»
Scimmiotto, che in forma di minuscolo moscerino era posato sul suo orecchio, ben sapendo che
il maestro in realtà nutriva una segreta passione per il vino analcolico, lo incoraggiò a tagliar corto
con le cerimonie. Vuotata la coppa, toccò a Tripitaka di riempirne un’altra da offrire alla padrona di
casa. Come convenuto, scosse la bottiglia in modo da formare schiuma, e Scimmiotto si nascose in
una bollicina.
Ma la lamia perse tempo rivolgendo al reverendo altre tenerezze, e posò per un momento la
coppa prima di bere. Quando la riprese in mano, la schiuma si era dissolta e si vedeva benissimo il
moscerino galleggiante. La ragazza lo raccolse con l’unghia del mignolo e lo scosse via.
Vista la piega che prendevano le cose e l’impossibilità di realizzare il suo piano, Scimmiotto si
trasformò in un falco affamato:
Terribile, con artigli di giada e ali d’acciaio, si lancia in picchiata dalle nuvole. La perfida volpe e la lepre astuta si
sentono venir meno dalla paura, e corrono a nascondersi. La fame lo spinge a fare razzia di colombe; quando è sazio
risale altissimo nel cielo.
Il falco allargò gli artigli e piombò sui cibi, provocando un putiferio: tavole rovesciate, stoviglie
rotte in mille pezzi, frutta e verdure sparse dovunque nella polvere.
«Da dove viene questa bestiaccia? Ha il diavolo in corpo!» Tripitaka tremava, benché si fosse
reso perfettamente conto della manovra di Scimmiotto; la ragazza correva qua e là disperata e non
sapeva che fare. «E dire che mi ero data tanta pena per far bella figura con questo banchetto. Povere
le mie stoviglie!»
«C’è di peggio» informarono le servette. «Di stoviglie, ne abbiamo altre negli armadi; ma di cibo
vegetale in dispensa è rimasto ben poco.»
«Spazzate il pavimento e servite quello che abbiamo, vegetariano o no. Questa bestiaccia
dev’essere stata mandata dal Cielo e dalla Terra, indispettiti perché trattengo presso di me il monaco
cinese. Prepareremo un’altra cerimonia di nozze, e questa volta pregheremo il Cielo di fungere da
mediatore e la Terra da testimone: se vengono coinvolti, non possono guastar tutto un’altra volta.»
In attesa dei nuovi preparativi, Tripitaka venne rispedito sotto il portico.
Quanto a Scimmiotto, volò via fino all’imboccatura dell’abisso; qui riprese il proprio aspetto,
gridò: «Fate largo!» e balzò fuori, fra Sabbioso e Porcellino che si tenevano pronti con le armi in
pugno.
«Hai trovato la vampira? Come sta il maestro?»
«Ma sì, vi mandano i loro saluti.»
«Chissà quante ne deve passare il maestro là dentro. Lo hanno appeso al soffitto? Contano di
lessarlo o di cuocerlo al vapore?» chiedeva Porcellino.
«Niente di tutto questo. La ragazza lo vuole impalmare.»
«Dunque sei rimasto là sotto a brindare alle nozze. Hai una bella fortuna.»
«Bestia! Quali brindisi vuoi fare, mentre il maestro è in pericolo?»
«E allora perché sei risalito?»
Scimmiotto fece il resoconto degli avvenimenti e concluse: «Pazientate ancora e restate qui. Farò
un altro tentativo, e questa volta vedrete che avrò successo.»
Tornò a trasformarsi in mosca e volò sulla torre d’ingresso. Si sentiva la lamia che dava ordini,
con la voce roca di collera: «Avanti con quei piatti! Non importa se sono vegetariani o no. E
portatemi carta da bruciare: devo spedire gli inviti al Cielo e alla Terra.»
«Che spudorata! Vuol farsi il suo bonzo, alla faccia del Cielo e della Terra» si disse Scimmiotto.
«Andiamo a vedere che ne è del maestro.»
Il maestro sedeva sotto il portico, più lacrimoso che mai. Quando Scimmiotto gli si posò sulla
testa e lo chiamò, balzò su indignato: «Macaco del malanno! Sei il peggiore dei miei persecutori. Ti
sei lasciato andare ai tuoi sfoggi di bravura e hai rovinato tutto il cibo commestibile di casa. Il bel
risultato è che l’hai esacerbata: ora vuole costringermi a mangiare cibi proibiti. E io come farò?»
«Via, maestro, non ve la prendete così! Ho un altro modo per togliervi dai guai.»
«Sentiamo.»
«Ho visto un giardino, dietro casa. Voi dovete convincerla ad andare a zonzo là dentro, e io vi
libererò.»
«Come conti di fare?»
«Nel giardino c’è un pesco. Io mi trasformerò in una bella pesca rossa. Voi dovete fermarvi ai
piedi dell’albero e dire che desiderate mangiare una pesca. Lei certamente vorrà farvi compagnia, e
voi dovrete fare in modo che addenti il frutto rosso. In questo modo entrerò dentro di lei e la
ucciderò.»
«Ma se hai la forza di combatterla, perché non l’affronti, invece di scegliere questi sotterfugi
disgustosi?»
«Maestro, dovete rendervi conto della situazione. Sarebbe pericoloso uno scontro in un posto di
difficile accesso come questo: sarebbe facile chiudermi dentro. Per forza bisogna giocare
d’astuzia.»
Tripitaka si rimise al giudizio dell’esperto: «Va bene; ma tu stammi vicino.»
«Sono sulla vostra testa.»
Ai richiami del monaco, la vampira accorse tutta festosa e sorridente: «Che cosa desidera il mio
caro, meraviglioso reverendo?»
«Signora, gli strapazzi del viaggio mi avevano procurato una malattia da cui sono tuttora
convalescente. Devo alla vostra debordante affezione di avermi portato nella vostra bella casa; ma
se resto a lungo seduto il male mi riprende. Non potreste accompagnarmi in una piccola
passeggiata?»
«Ma certo, gioia bella!» rispose lieta la vampira.