Renzi_BENJAMIN (Judaica urb.)

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Renzi_BENJAMIN (Judaica urb.)
1
Luca Renzi
Percezione e immagine della Großstadt in Walter Benjamin e Alfred
Döblin.
Dagli
Städtebilder
e
i
testi berlinesi a
Berlin
Alexanderplatz.
Prologo
Dalla metà degli anni Venti si va sempre più formando nell'opera
di Walter Benjamin un progetto letterario che ha come principale
oggetto la descrizione e l'indagine della fisionomia della moderna
metropoli e dei suoi diversi fenomeni culturali, sia rivolta alla
personale esperienza dell'autore, sia alla ricerca del valore
estetico di quel coacervo di fenomeni che va sotto il nome di
Moderne. Questo progetto nasce con il libro Einbahnstraße del 192528 e il Moskauer Tagebuch del 1926-27 e con i primi piani di quel
progetto inconcluso che è il monumentale Passagenwerk benjaminiano
che accompagnerà lo scrittore-filosofo per tutta la vita, se è vero
che nel 1940 l'ultima sua volontà durante la fuga sui Pirenei per
sfuggire alla persecuzioni razziali e prima dell'atto estremo del
suicidio fu rivolta a mettere in salvo i documenti contenenti un
importante manoscritto, il Lebenswerk di Walter Benjamin: «Das
Manuskript muß gerettet werden. Es ist wichtiger als meine
Person»1.
Tale progetto continuerà e diverrà assai più concreto negli anni
successivi con le opere prettamente berlinesi di Benjamin,
caratterizzate dal marcato substrato autobiografico, e con la serie
di programmi radiofonici su Berlino, che coprono un arco di tempo
che va dal 1929 al 1938 (se si tiene conto dei vari rifacimenti
della Berliner Kindheit).
In quanto tentativo di rappresentazione della città alla maniera
dei Tableaux parisiens di Baudelaire, di cui Benjamin fu il
traduttore, la città-metropoli è concepita in Einbahnstraße come
Denkbild2, genere a metà fra prosa letteraria e teoria critica,
montaggio di prodotti grafici e impressioni luminose, cartelli
stradali e réclames, sorta di palcoscenico dei conflitti sociali,
della massa eterogenea sempre in movimento come essa si mostra al
viandante, anticipando o concorrendo nel definire temi che
appartengono non solo a Benjamin, ma tipici dell'Espressionismo,
della Neue Sachlichkeit e del movimento surrealista. Il luogo della
città è soprattutto il campo d'azione del flâneur, di cui Benjamin
si serve nella sua opera come guida e nello stesso tempo come
simbolo vivente delle sue descrizioni di città.
1Così dalla testimonianza di Lisa Fittko, Mein Weg Über die Pyrenäen. Erinnerungen 1940/41. München 1985
2Vedi per ciò: H. Schlaffer, Denkbilder. In: W. Kuttenkeuler (a c. di), Poesie und Politik... 1973; J. Fürnkäs,
Surrealismus als Erkenntnis. Walter Benjamin – Weimarer Einbahnstraße und Pariser Passagen. Stuttgart 1988
2
Einbahnstraße è l'opera dove le impressioni metropolitane di
Walter Benjamin prendono forma. Questa forma è surrealistica per
immagini e scrittura: la scrittura di Benjamin viene accolta dalla
città e subito confusa dalle sue molteplici luci, scritte luminose
e colori riflessi:
Die Schrift, die im gedruckten Buche ein Asyl gefunden hatte, wo sie ihr
autonomes Dasein führte, wird unerbittlich von Reklamen auf die Straße
hinausgezerrt
und
den
brutalen
Heteronomien
des
wirtschaftlichen
Chaos
unterstellt. Das ist der strenge Schulgang ihrer neuen Form [...] Film und
Reklame drängen die Schrift vollends in die diktatorische Vertikale. Und ehe der
Zeitgenosse dazu kommt, ein Buch aufzuschlagen, ist über seine Augen ein so
dichtes Gestöber von wandelbaren, farbigen, streitenden Lettern niedergegangen,
daß die Chancen seines Eindringens in die archaische Stille des Buches gering
geworden sind. Heuschreckenschwärme von Schrift, die heute schon die Sonne des
vermeinten Geistes den Großstädtern verfinstern, werden dichter mit jedem
folgenden Jahre werden3
Una riflessione simile è compiuta da diversi rappresentanti della
avanguardia letteraria:
Paul Celan ne darà una prova nella
concezione espressa nel suo saggio teorico Der Meridian, Benn nel
Provoziertes Leben, Döblin con il suo concetto di Depersonation del
romanzo. La vita e le sue complesse relazioni non vengono più viste
come organismo unitario, in grado di essere compreso, bensì caotico
e complesso. Döblin dà forma nella sua opera ad una visione
disarmonica dell'estetica che sarà parte integrante delle moderne
avanguardie: della prima poetica di Benn, di Paul Valéry e di Ernst
Jünger (di questo in particolare le Meditationen über den
'Meeresgeruch').
La concezione della Wahrnehmung della modernità ha, nella sua
trascrizione
poetica,
come
concetto
fondamentale
quella di
frammento, nel senso propagato nel Romanticismo da Friedrich
Schlegel e Novalis. Una concezione estetica frammentaria si
accoppia
ad
una
descrizione
della
Großstadt
in stato di
passeggiatore, di flâneur, 'distratta', dunque: di ciò dà prova
Walter Benjamin nella sua Einbahnstraße. Dunque essa è da
considerare il laboratorio in cui Benjamin costruirà la sua opera
poetica successiva, basata sul ricordo e sul gioco di memoria
'metropolitano'.
La strategia dello shock e della sorpresa, del lampo immediato e
dell'atmosfera surreale non sarà sempre congeniale a Benjamin. Essa
non gli assicurerà quella distanza critica e riflessiva di cui egli
abbisogna per i suoi Städtebilder. Il rapporto distanza-vicinanza
si
rivelerà
di
eccezionale
e
vitale
importanza
nella
identificazione della memoria e nella capacità di immortalare i
momenti del ricordo nella scrittura.
«Zu nahe» sarà ancora una volta l'impressione che Benjamin
ricaverà dai suoi ricordi di Parigi, durante la composizione del
suo Passagenwerk e su cui puntualizza con acume Peter Szondi alla
3Vereidigter Bücherrevisor. In: Einbahnstraße. G.S. IV, 1, p. 103
3
fine della fondamentale postfazione agli Städtebilder4. Tale
distanza creativa Benjamin la troverà retrocedendo nel passato
dell'infanzia: la serie di trasmissioni radiofoniche è concentrata
e rivolta ad un pubblico di bambini5 , così pure la Berliner
Kindheit tratta del ricordo d'infanzia e porterà in seguito la
dedica «Meinem lieben Stefan», al figlio, nella cui immagine
Benjamin potrà vedere rispecchiato il sentimento della propria
fanciullezza.
La regressione nell'infanzia è innanzitutto la maniera di poter
reificare il ricordo del passato per renderlo allegoria del
presente. Vicinanza e lontananza sono i poli entro cui si svolge la
dinamica del ricordo: infanzia significa dunque reificazione della
dimensione sempre percepita del 'senza patria', dello Heimatloser.
Di questa figura Benjamin si serve per descrivere le sensazioni di
lui bambino, così come avviene nel racconto appartenente alla
Berliner Kindheit intitolato Abreise und Rückkehr: «Daher geschah
es, daß ich jedesmal als Heimatloser aus den Ferien kam»6.
Patria, anche e soprattutto nel senso di 'casa', e Geborgenheit,
concetto di difficile traduzione che trasmette il senso di
sicurezza e protezione che solo il calore domestico può donare,
sono concetti linguisticamente 'convergenti/divergenti' (basti
pensare
alla
catena
etimologica
di
«Heim-heimlich-heimischunheimlich») e si rivelano in Benjamin eccezionalmente vicini al
sentimento della loro assenza, del loro essere 'altrove'.
Patria e casa riempiono il ricordo della fanciullezza. Esercitare
questo ricordo è per Benjamin un'arte: l'arte di rievocare
lontananza e estraneità, Ferne e Fremde, alla ricerca della
vicinanza e dell'intimità, Nähe e Vertrautheit, per giungere a
quella «befremdende Nähe»7 formulata magistralmente da Adorno nella
sua postfazione alla ritrovata Fassung letzter Hand dell'Infanzia
berlinese. Essa è l'arte del labirinto, espressa in apertura del
brano Tiergarten:
Sich in einer Stadt zurechtfinden heißt nicht viel. In einer Stadt sich aber
zu verirren, wie man in einem Walde sich verirrt, braucht Schulung [...] Diese
Kunst habe ich spät erlernt; sie hat den Traum erfüllt, von dem die ersten
Spuren Labyrinthe auf den Löschblättern meiner Hefte waren8
Congegno di memoria
4P. Szondi, Nachwort zu Städtebilder. Frankfurt/M. 1992. In: G.S. IV, 1; cfr. anche Denkbilder, cit.
5I riferimenti al bambino e alla sue necessità percettive sono innumerevoli nell'opera di Benjamin. In Einbahnstraße si
pensi solamente al brano Baustelle: “Kinder bilden sich damit ihre Dingwelt [...] Die Normen dieser kleinen Dingwelt
müßte man im Auge haben, wenn man vorsätzlich für die Kinder schaffen will”. In: G.S. IV, 1, p. 92 seg.
6G.S. IV, 1, p. 246
7Cfr. T.W. Adorno, Nachwort zu Berliner Kindheit um 1900. Fassung letzter Hand. Frankfurt/M. 1987
8G.S. IV, 1, p. 237 [Sottolineature dell'autore]
4
La prima riflessione di Benjamin sulla descrizione di città
risale probabilmente all'anno 1929 e si pone cronologicamente a
metà strada fra la composizione di alcuni Städtebilder e la
Berliner Chronik, la cellula originaria da cui da lì a pochi anni
sarebbe derivata la Berliner Kindheit um 1900:
Wenn man alle Städteschilderungen, die es gibt, nach dem Geburtsorte der
Verfasser in zwei Gruppen teilen wollte, dann würde sich bestimmt herausstellen,
daß die von Einheimischen verfaßten sehr in der Minderzahl sind. Der
oberflächliche Anlaß, das Exotische, Pittoreske wirkt nur auf Fremde. Als
Einheimischer zum Bild einer Stadt zu kommen, erfordert andere, tiefere Motive.
Motive dessen, der ins Vergangene statt ins Ferne reist. Immer wird das
Stadtbuch des Einheimischen Verwandtschaft mit Memoiren haben, der Schreiber hat
nicht umsonst seine Kindheit am Ort verlebt9
La riflessione è svolta nel contesto della recensione all'opera
di Franz Hessel Spazieren in Berlin, intitolata Die Wiederkehr des
Flâneurs10 e ha come principale argomento quei «Motive der Tiefe»
che ogni descrizione di città richiede quando essa è compiuta da un
suo abitante, da un nativo, come ricordo e introspezione, lavoro di
memoria e autobiografia e che fa del narratore una sorta di
viaggiatore nel passato. Secondo tale riflessione di Benjamin il
narratore di viaggio nativo, lo «einheimischer Stadtbeschreiber»,
sostituisce al viaggio in lontananza dello straniero, a suo modo,
un viaggio nel passato, dunque alla Ferne contrappone e reifica il
Vergangenes11. La sua descrizione è perciò quella che meno si serve
delle categorie del superficiale, della Oberflächlichkeit, di
quell'aura di 'esotico' e di 'pittoresco' che quasi sempre grava
sul resoconto di viaggio dello straniero.
Ma in Benjamin, sostiene Peter Szondi, eccezionalmente entrambe
tali categorie della descrizione di città procurano una profondità
dell'argomento, una «Tiefe des Motivs»: i suoi Städtebilder di
Mosca e di Napoli e di innumerevoli altri luoghi sono ricordi
altrettanto 'profondi' con un potenziale autobiografico quanto lo
sono le impressioni scritte su Berlino. Il viaggio in lontananza
saprebbe dunque in Benjamin sortire lo stesso effetto del viaggio
nel passato: entrambi sono un viaggio nell'estraneo, nel territorio
'straniero', nel Fremde, metodi dunque di regressione. Nel
territorio straniero, nella lontananza, il narratore si osserva
come un visitatore, un viaggiatore: egli si vede con sguardo
'estraniato', «mit entfremdetem Blick»12 e, soprattutto, come un
bambino con la sua particolare maniera di percepire e vedere.
Benjamin si serve in questa riflessione di concetti quale Asphalt
e flânerie e richiama categorie come quella di epicità e di
Memoiren: di immenso significato per la comprensione della sua
9Die Wiederkehr des Flâneurs. In: G.S. III, p. 194 [SdA]
10In: G.S. III
11Cfr. P. Szondi, cit.
12Ivi, p. 112
5
percezione della città; essi richiamano il tema dell'infanzia e
della memoria. Lo stesso banale concetto di Asphalt è per più di un
motivo di estremo valore per un'indagine del fenomeno della
Großstadt negli anni Venti (si pensi solamente al film Asphalt di
Joe May e alla definizione di Asphaltliteratur). Benjamin annotava
già nel 1926: «Vielmehr nicht eben Steine, die an Berlin nicht das
Wichtige sind, sondern im Grunde gerade der 'Asphalt'»13 e allo
stesso modo nella recensione su Franz Hessel, su cui spesso
ritorneremo, Die Wiederkehr des Flâneurs.
La descrizione di città porta Benjamin direttamente in contatto
con la dimensione dell'infanzia; da qui il titolo della raccolta di
impressioni berlinesi. Infanzia berlinese è il testo che offre
esemplarmente l'opportunità di comprendere il valore strutturale
della distanza per scatenare il congegno della memoria: «[...] mit
dem Blick des Kindes, das wir nicht mehr sind, mit dem Blick des
Kindes, dem die Stadt noch nicht vertraut war»14.
All'inizio di uno dei suoi Städtebilder, Moskau, del 1927,
Benjamin descrive per mezzo di un aforisma fulmineo la relazione a
doppio filo e a doppio fondo che lega le sue città: «Schneller als
Moskau selber lernt man Berlin von Moskau aus sehen»15. L'estraneo
e lo sconosciuto della città sconosciuta sono dunque categorie
essenziali per poter guadagnare quella distanza verso la propria
città che è luogo del ricordo. La riflessione di Benjamin cui sopra
ci si richiamava perde, secondo Szondi, di valore ed effetto
proprio tenendo conto dell'esperienza narrativa di Benjamin.
I suoi Städtebilder debbono in definitiva la loro poeticità alla
sostanza metaforica in essi contenuta: essi operano, secondo
l'opinione di Szondi, in un campo di forze di nome e immagine, in
un «Kraftfeld von Namen und Bild»16, nel quale la normale lingua
quotidiana è esautorata dalla propria funzione o affiancata, a
seconda dei casi, dalla forza delle immagini e dei nomi: non senza
fascino ed effetto Szondi citerà nella sua postfazione l'inizio
della descrizione che Benjamin fa di San Gimignano:
Worte zu dem zu finden, was man vor Augen hat - wie schwer kann das sein. Wenn
sie dann aber kommen, stoßen sie mit kleinen Hämmern gegen das Wirkliche, bis
sie das Bild aus ihm wie aus einer kupfernen Platte getrieben haben17
nominando in tal senso anche la dedica che Benjamin assai
significativamente aveva fatto a Hugo von Hofmannsthal.
Dal reperto della metaforicità si evidenzia il processo di
riconoscimento
della
distanza
quale
idea
strutturale delle
operazioni mnemoniche di Walter Benjamin, poiché:
Auch die Intention dieser Texte, die Erfahrung des Entfremdeten und Fremden,
erfüllt sich erst im Medium der Sprache, die eine Sprache von Bildern ist18
13G.S. III, p. 316
14Ivi, p. 110
15G.S. IV, p. 316
16P. Szondi, cit. p. 118
17G.S. IV, 1, p. 364
6
La metafora, in quanto analogia e raffronto, aiuta il narratore a
ritrovare i propri ricordi per mezzo delle associazioni. La
metafisica dei nomi ha qui un ruolo importante, in quanto l'autore
può ritrovare i propri luoghi per mezzo dei nomi, siano essi luoghi
della fantasia o della ritrovata realtà. La distanza, in quanto
«Ferne der Zeit oder des Raums», lontananza del tempo o dello
spazio, è necessaria per sfuggire all'abituale, al quotidiano e
creare immagini illusorie.
«Wer aber in seine Vergangenheit reist, dem treten Wirklichkeit
und Name stets wieder auseinander» sostiene Szondi, statuendo in
tal modo quella metafisica del nome e del luogo che avrà un posto
particolare anche nell'analisi di un romanzo di immenso significato
per il tema della metropoli quale Berlin Alexanderplatz di Alfred
Döblin. «Kaum je verläßt Benjamin, wenn er das Berlin seiner
Kindheit oder die fremden Städte schildert, das Bewußtsein dieses
Abstands»19.
I libri berlinesi
Benjamin intraprese due diverse strade nelle sue opere di
carattere storico, entrambe tese a giungere ad una visione critica
della realtà sociale e politica dell'epoca contemporanea: la prima
riguardava fondamentalmente la storiografia del XIX secolo,
soprattutto del secondo Impero francese, con le opere Parigi,
capitale del XIX secolo e con gli Studi Baudelaireani (in
particolare sulla Bohème, sul flâneur e sulla Moderne), con le
quali Benjamin intendeva retrocedere storicamente con un'analisi
rivolta sì al secolo passato ma proiettata completamente nella
comprensione di quello presente. Il fenomeno-metropoli vi era
analizzato osservando come la cultura della Großstadt, con tutte
le sue contraddizioni, si calasse negli individui, nelle loro
azioni e comportamenti fino negli ambiti più intimi della sfera
soggettiva.
La seconda strada intrapresa da Benjamin si preoccupava di dar
vita in maniera del tutto personale ad un'opera fondata sul
ricordo biografico dell'epoca dell'inizio del ventesimo secolo,
con ciò prendendo apparentemente le distanze dall'analisi della
propria epoca, vale a dire quella della Repubblica di Weimar. La
trilogia berlinese rappresenta per più d'un verso, soprattutto con
le sue intenzioni di genere letterario autobiografico teso a
fornire dei tableaux cittadini, dunque con una forte carica
emozionale,
un'eccezione
dal
punto
di
vista
estetico
nel
Gesamtwerk benjaminiano, cadendo la genesi di queste opere
perdipiù esattamente fra la prima e la seconda fase del
Passagenwerk.
Tutto questo non deve tuttavia far pensare ad una posizione
particolare del complesso di scritti in cui Walter Benjamin si
occupò più intensamente del tema del ricordo e della memoria dal
18P. Szondi, cit., p. 118
19Ivi, p. 119
7
punto di vista della rilevanza estetica, né tantomeno del loro
valore in quanto analisi di un'epoca. Con queste opere Benjamin
non
intese
rinunciare
al
proprio
fondamentale
intento
di
assimilare e elaborare intellettualmente il suo tempo: questo
distacco gli fu al contrario necessario per giungere ad elaborare,
tramite la distanza, un concetto critico contemporaneo.
In differenti maniere si è tentato di dare una spiegazione
all'interesse mostrato da Benjamin per la grande città. Non certo
ultimo appare essere il motivo che nella metropoli-Berlino Benjamin
sia nato e vi abbia vissuto stabilmente fino alla propria gioventù.
Ma non solo: Benjamin, pur alternando in seguito a Berlino
residenze in paesi stranieri, in numerose altre città più o meno
grandi, fra le quali spicca su tutte Parigi, non ha mai smesso di
essere berlinese, secondo la definizione che dà Adorno:
Walter Benjamin, in Berlin geboren, hat bis zur Auswanderung dort gewohnt.
Weite Reisen, lange Perioden der Abwesenheit in Paris, Capri, auf den Balearen
haben ihn der Stadt nicht abspenstig gemacht20
Se un primo rapporto esistente fra Benjamin e la Großstadt va
ricercato nel tema della metropoli, evidenziandolo come fenomeno
sociale delle masse che Benjamin descrive nei Denkbilder di
Einbahnstraße e osserva e analizza negli scritti su Baudelaire e su
Parigi, è nel suo legame con Berlino e con i motivi biografici
intrinseci ad esso che esistono le premesse della scrittura
intimistica della prosa di città: altrettanto che sul tema della
metropoli avanzata, intellettuale e allucinata osservata dal
flâneur, il soggetto che nella «Großstadtmenge eintaucht wie ein
Reservoir elektrischer Energie»21, tale prosa poggia dunque in
Benjamin sulla realtà molto più ristretta del proprio ambiente
sociale.
Nell'Infanzia berlinese forte è il senso di comunanza e nello
stesso tempo di ripugnanza nei confronti dell'ambiente borghese
della famiglia. Questo ambiente gli ostacola la visione delle
realtà popolari così evidenti nella grande città. Difficile è per
il fanciullo che vive nel ricordo concepire, ad esempio, la
povertà; ma allo stesso tempo forte è il richiamo di quella Bildung
famigliare, così fondamentale sia per la successiva formazione, sia
per la propria autocoscienza di ebreo:
In meiner Kindheit war ich ein Gefangener des alten und neuen Westens. Mein
Clan bewohnte diese beiden Viertel in einer Haltung [...] die aus ihnen ein
Ghetto machte [...]. In dies Quartier Besitzender blieb ich geschlossen, ohne um
ein anderes zu wissen. Die Armen - für die reichen Kinder meines Alters gab es
sie nur als Bettler [...]22
D'altronde lo stesso fatto storico che l'assimilazione ebraica
abbia avuto luogo perlopiù a Berlino, nella Berlino della borghesia
liberale, è motivo vitale di interesse per Benjamin.
20T.W. Adorno, Nachwort, cit., p. 111
21Über einige Motive bei Baudelaire. In: G.S. I, 2, p. 630
22G.S. IV, 1, p. 287
8
Nelle descrizioni di città scritte da Benjamin le persone
appaiono secondarie rispetto ai luoghi, esse retrocedono di un
passo per far posto a quelle che sono state definite le «Arenen»23
degli incontri, per cui i suoi ricordi possono a buon diritto
essere definiti dei resoconti 'urbani'. A questa regola fanno
eccezione solamente le brevi e intense raffigurazioni della madre.
Nell'introduzione all'edizione del 1938 della Berliner Kindheit
Benjamin, sentendo avvicinarsi il momento dell'esilio e del
congedo dalla sua città, riteneva di dover far retrocedere il
«Gefühl der Sehnsucht» e i «biographische Züge» dalla sua
raccolta, concentrandosi non tanto su casuali dati biografici
quanto
sulla
irrecuperabilità
sociale
del
passato
di
una
«Großstadtkindheit» per poter suscitare in se stesso un ricordo,
da preservare in seguito, della propria città senza il rischio di
cadere in una nostalgica malinconia:
Das hat es mit sich gebracht, daß die biographischen Züge, die eher in der
Kontinuität als in der Tiefe der Erfahrung sich abzeichnen, in diesen Versuchen
ganz zurücktreten. Mit ihnen die Physiognomien - die meiner Familie wie die
meiner Kameraden. Dagegen habe ich mich bemüht, der Bilder habhaft zu werden, in
denen die Erfahrung der Großstadt in einem Kinde der Bürgerklasse sich
niederschlägt24
Berliner Chronik, iniziata nel 1931-32, più tardi rimaneggiata
nella
Berliner
Kindheit,
rappresenta
il
primo
stadio
di
quest'ultima, a cui Benjamin lavorò intensamente a partire dal
1933 e a cui fornisce i rudimenti del tema autobiografico. La
struttura
particolarmente
complicata
e
la
difficoltà
nell'individuare una precisa genesi testuale dei singoli elementi
della raccolta Berliner Kindheit è dovuta alla contemporaneità di
tutta la fase di composizione alla presa di potere dei
nazionalsocialisti in Germania e agli eventi legati ad essa.
Benché del tutto sciolti da tali eventi appaiono essere la scelta
dei temi e il contenuto dei numerosi racconti, strettamente legati
ad essi sono i travagliati momenti della composizione e della
successiva pubblicazione.
Il primo brano pubblicato della Berliner Kindheit porta il titolo
Weihnachtsengel e apparve nella «Vossische Zeitung». Il brano
Blumeshof 12, apparso sotto lo pseudonimo di Detlef Holz il 14
agosto 1934 nella «Frankfurter Zeitung» è, invece, l'ultimo dei
brani pubblicati in Germania. Già nel 1934 Benjamin tentò di
offrire una versione riveduta del suo libro d'infanzia a diverse
case editrici. I piani di pubblicazione dell'opera sono comunque
molteplici e confusi, così come le modifiche, i rimaneggiamenti e
le aggiunte e ancora nel 1938 Benjamin, scrivendo a Karl Thieme,
parla di una «Vermehrung und eingehende Umarbeitung»25 della sua
23Cfr. G. Smith, Benjamins Berlin. In: T. Buddensteig, K. Düwell u.a. (a c. di), Wissenschaften in Berlin. 3. Band. Berlin
1987, p. 98. Egli afferma: “Doch letzten Endes geht es ihm nicht um die einzelne Stadt, sondern um die 'Dinghaftigkeit'
der Städte, der einzigen Schmelztigel historischer Erfahrung in der Industriegesellschaft”.
24G.S. VII, p. 385
25Cfr. G.S. IV, 2, p. 967. Anmerkungen des Herausgebers
9
raccolta, cosi che nello stesso anno apparivano nella rivista «Maß
und Wert» ulteriori brani. A questa situazione editoriale non
particolarmente chiara va aggiunta la scoperta sensazionale fatta
nel 1981 negli archivi della Bibliothéque Nationale di Parigi di
alcuni manoscritti di Benjamin, fatti risalire al 1938, della
seconda opera berlinese che definivano e rimettevano ordine nella
sequenza e nel numero dei brani, con decisivi interventi e tagli.
Essa fu pubblicata per la prima volta dall'archivio T. W. Adorno
come «Fassung letzter Hand», considerata come la definitiva
stesura voluta da Benjamin dell'opera sull'infanzia, integrata
nelle opere complete nel settimo volume delle Gesammelte Schriften
come «Handexemplar komplett» e posto alla base dell'edizione
critica insieme ai precedenti esemplari denominati «Stefan»,
«Felicitas» e «Adorno».
Secondo Gershom Scholem, amico di Benjamin e uno dei curatori
della sua opera completa, le annotazioni dalla raccolta Berliner
Chronik, benché esse stesse di natura biografica, per tre quinti
non trovano riscontro nella Berliner Kindheit. La differenza
maggiore fra le due versioni risiederebbe proprio nel diverso peso
che l'autore ritenne di dare agli episodi dell'infanzia e alla
loro trascrizione. L'interruzione improvvisa della prima raccolta,
composta in maniera troppo confusa e frettolosa, significò una
concentrazione dei temi autobiografici tratti dal solo periodo
della gioventù e dello studio, che pur conservando nella loro
conversione poetico-letteraria tratti biografici ben precisi,
mancano della poeticità tutta particolare del tema dell'infanzia.
Scholem definì il cambiamento di visuale così profondo fra la
Cronaca berlinese e il libro d'infanzia una «literarische
Metamorphose»26: l'immediata e reale biografia dello scrittore
scompare nel posteriore rifacimento a favore del resoconto delle
esperienze dell'infanzia, che acquista il valore di metafora di
tutta una esistenza nell'Infanzia berlinese. In questo posteriore
scritto autobiografico scompaiono sorprendentemente i richiami a
motivi
ideologici
in
Benjamin,
per
esempio
riguardo
ai
convincimenti comunisti dell'autore.
Il primo scritto autobiografico, Berliner Chronik, trasmette nel
lettore quella sensazione di 'mediatezza' di cui già si è parlato
sopra riguardo alla riflessione contenuta nella recensione a
Hessel del 1929. Appare qui, cioé, come l'esperienza di Benjamin
sia 'mediata', dunque su un piano estetico 'trasmessa', e
certamente da intendersi come conversione poetico-letteraria di
precedenti esperienze biografiche dell'autore che vengono ora
trasposte in una più recente:
Paris vécu. Gelebtes Berlin klingt weniger gut, ist aber gleich wirklich. Und
nicht nur um diesen Titel handelt sichs hier, sondern in der Tat ist Paris in
der Reihe der freiwilligen oder unfreiwilligen Geleiter, deren Reihe ich hier
mit dem Kinderfräulein begonnen habe, der vierte [sc. Führer, NdR]. Soll ichs
mit einem Wort sagen, was ich Paris für diese Betrachtung verdanke, so ist es:
der Vorbehalt27
26Cfr. G. Scholem, Nachwort zu Berliner Chronik. Frankfurt/M. 1970, p. 126
27Berliner Chronik, cit., p. 13 f. [SdA]
10
Benjamin sceglieva, fra diversi altri luoghi e persone, dunque
Parigi come sua 'guida' di Berlino e dei suoi ricordi:
Kaum wäre es mir möglich, dem Hin und Wieder dieser Erinnerung an mein
frühestes Stadtleben mich zu überlassen, stünden nicht von Paris her streng
umschrieben die beiden einzigen Formen von mir [...]28
La quinta 'guida' della sua esperienza di città è per Benjamin
Franz Hessel, al quale originariamente era dedicata la Berliner
Chronik, insieme ad Asja Lacis, Sascha Stone e Gershom Scholem.
Benjamin nomina Hessel in connessione soprattutto con quella che
nella Berliner Chronik è definita la «Nachfeier» delle loro
passeggiate parigine-berlinesi, quell’epilogo di festa «die unsern
Pariser Gängen nun in der Heimatstadt wie in einem Hafen gegeben
war»29. Tuttavia la successiva recensione a Hessel rappresenta uno
strumento per ben comprendere il contesto di queste 'mediazioni'
di esperienze: «Den Typus des Flâneurs schuf ja Paris»30 è lì
annotato, riproponendo quella differenza di fondo fra il nativo e
lo straniero nella percezione di una città:
Die großen Reminiszenzen, die historischen Schauer - sie sind dem wahren
Flâneur ja ein Bettel, den er gerne dem Reisenden überläßt31.
Benjamin passa in rassegna i propri ricordi di Parigi,
considerata ancora una volta il suo «vierter Führer», attraverso
letture ed esperienze, per poterle utilizzare quali metafore per
la scoperta di Berlino sotto un nuovo punto di vista. Questa
Parigi gli ha insegnato a conoscere e praticare le arti del vagare
e dell'errare, «Die Irrekünste» della città, cioé a riscoprire
quei labirinti che Benjamin già disegnava sulla carta assorbente
dei suoi quaderni di scuola. Poiché l'unica e vera maniera di
conoscere una città è proprio quella di 'perdersi' in essa, «sich
zu verirren». Ciò è quanto scrive Benjamin nella Berliner Chronik
e, con un certo sintomatico spostamento degli elementi della
frase, ripete in apertura della Berliner Kindheit32. In essa la
città-guida Parigi, protagonista di questa esperienza di scoperta,
scompare: «Diese Kunst habe ich später gelernt»33 vi è lì annotato
solamente.
In Berliner Chronik Benjamin si lascia andare ad una sorta di
memoria topografica che non riguarda determinati personaggi, bensì
circoli di persone del suo mondo giovanile. E' il procedimento
grazie al quale gli giunge alla memoria il ricordo del poeta suo
amico e giovane suicida Fritz Heinle:
28Ivi, p. 14
29Ivi, p. 17
30G.S. III, p. 195
31Ivi
32Cfr. G.S. IV, 1, p 237
33Ivi
11
[...] mir scheint heute dennoch der Versuch, dem Toten den äußern Raum, in dem
er lebte, ja das Zimmer, in welchem er 'gemeldet' war, nachzuzeichnen, befugter
als den geistigen zu umfassen, in welchem er dichtete34
Berlino qui riaffiora prepotentemente nel ricordo:
Vielleicht aber ist das auch nur, weil er in diesem letzten, wichtigsten Jahre
seines Lebens den Raum durchschnitt, in dem ich geboren bin. Heinles Berlin war
zugleich das Berlin des 'Heims'35.
Per Benjamin è il caso di parlare di una spirito epico e
topografico insieme della sua prosa autobiografica, in primo luogo
per quanto riguarda le due opere 'berlinesi', così pure di
un'atmosfera di congedo dalla realtà biografica che sta al centro
di queste memorie, in particolare della Berliner Kindheit: un
«Abschiednehmen» che è realmente e tragicamente documentato nella
biografia
dell'autore.
Questa
atmosfera
lo
accomuna
alla
sensibilità di Hessel, «Ein wahrer Briefsteller des Scheidens»,
come Benjamin lo definisce, riconoscendogli parimenti nell'opera
Spazieren in Berlin la più profonda conoscenza del mondo del
flâneur: «Man hat die Welt des Flâneurs niemals tiefer erfaßt als
es Hessel mit diesen Worten getan hat»36. Questo sentimento è
documentato perfettamente nell'introduzione alla Fassung letzter
Hand, ove si legge:
Im Jahr 1932, als ich im Ausland war, begann mir klar zu werden, daß ich in
Bälde einen längeren, vielleicht einen dauernden Abschied von der Stadt, in der
ich geboren bin, würde nehmen müssen37
Benjamin evitò però accuratamente, almeno nella Kindheit, di fare
apparire il sentimento della Sehnsucht, suscitato in lui dallo
scatenarsi del ricordo dell'infanzia: «Das Gefühl der Sehnsucht
durfte dabei über den Geist ebensowenig Herr werden». Come detto
precedentemente, Benjamin desiderava conservare un tipo di ricordo
scevro da quel complesso di relazioni normalmente instaurato dalla
memoria, per ciò rinunciando al dato biografico esplicito. Grazie
ai suoi numerosi, temporanei, distacchi da quel luogo egli poteva
considerarsi 'vaccinato' nei confronti di tale meccanismo che, pur
suscitando lo Heimweh, non avrebbe, come l'antidoto sul corpo
sano, portato con sé la malattia della Sehnsucht:
Ich hatte das Verfahren der Impfung mehrmals in meinem inneren Leben als
heilsam erfahren; ich hielt mich auch in dieser Lage daran und rief die Bilder,
die im Exil das Heimweh am stärksten zu wecken pflegen - die der Kindheit - mit
Absicht in mir hervor38
34Berliner Chronik, cit., p. 37
35Ivi
36Ivi, p. 198
37G.S. VII, 1, p. 385. Vedi nota 24!
38Ivi
12
La Berliner Kindheit, nella sua ultima versione, inizia con il
brano Loggien. Le logge sono pur'esse nient'altro che un ricordo
topografico dell'ambiente di casa, legato alla più generale
atmosfera berlinese, che egli coglie nei rumori, nelle abitudini,
nei ritmi lavorativi di un cortile e, ovviamente, all'infanzia:
Wie eine Mutter, die das Neugeborene an ihre Brust legt ohne es zu wecken,
verfährt das Leben lange Zeit mit der noch zarten Erinnerung an die Kindheit.
Nichts kräftigte die meine inniger als der Blick in Höfe, von deren dunklen
Loggien eine, die im Sommer von Markisen beschattet wurde, für mich die Wiege
war, in die die Stadt den neuen Bürger legte39
Nel loggiato Benjamin riconosce un elemento costitutivo della sua
memoria e della topografia berlinese. Nei loggiati dei cortili si
svolgeva la vita della cerchia di persone che costituiscono il suo
passato; nella loro caratteristica, nella loro 'inabitabilità', in
cui inizia Berlino, la 'citta-dio', egli ritrova il ricordo
semplicemente rievocando il luogo ed i suoi colori: essi sono ora
luogo di consolazione per chi nel vivere non riesce a trovarsi a
suo agio:
Es ist vielleicht des Trostes wegen, der in ihrer Unbewohnbarkeit für den
liegt, der selber nicht mehr recht zum Wohnen kommt. An ihnen hat die Behausung
des Berliners ihre Grenze. Berlin - der Stadtgott selber - beginnt in ihnen40
La dimensione storica dei ricordi benjaminiani è per la prima
volta chiaramente percepibile nel brano Siegessäule, il monumento
berlinese alla vittoria di Sedan. Tale percezione non è peraltro
differente dalla tipica caratteristica benjaminiana di risalire
alla descrizione per mezzo di soffusi richiami a realtà storiche
e a ricordi personali, surreali stati d'animo misti alla
rilevazione di particolari incuneatisi nella memoria. Così la
colonna sta nel centro dell'ampia piazza come la cifra rossa della
data di un calendario sul foglio di carta. Benjamin si sovviene
delle parate cui ogni anno gli era dato di assistere da bambino
nel giorno della vittoria, pur non comprendendo il vuoto ripetersi
di un evento nella sua celebrazione e, dunque, il significato di
un tale monumento: «Mit der Niederlage der Franzosen schien die
Weltgeschichte in ihr glorreiches Grab gesunken, über dem diese
Säule die Stele war»41. Secondo Benjamin, perciò, lo si sarebbe
dovuto abbattere con l'ultimo giorno di Sedan, e 'strappato' come
il foglio del calendario. Gli affreschi dorati e le immagini
scolpite degli eroi sul piedistallo incutono nel bambino lo stesso
terrore della raffigurazione di un inferno dantesco: essi
rappresentano un contraltare alla grazia che circonda in alto
sulla colonna l'immagine della Vittoria. I visitatori in cima al
39Ivi, p. 386
40Ivi, p. 388
41Ivi, p. 389
13
monumento sono per Benjamin l'immagine di un «Ewiger Sonntag» o,
con gioco di parole, di un «ewiger Sedantag»42.
Benjamin si servì ampiamente di una visione critica degli aspetti
deleteri dell'architettura cittadina quali assurdi fenomeni della
civiltà, per assecondare la sua necessità di descrivere la
decadenza della moderna Großstadt e soprattutto per fornire un
quadro social-psicologico degli individui metropolitani e della
modernità.
Le
nuove
condizioni
di
vita,
il
decadimento
architettonico, la decadenza delle figure sono a Benjamin concetti
strumentali per la raffigurazione e una nuova classificazione di un
particolare tipo umano, il cittadino, lo «Städter» che troviamo
rappresentato nel flâneur, quale elemento costitutivo - si direbbe
- di una nuova visione surreale dell'umanità: la massa, così come
Siegfried Krakauer si era concentrato nella descrizione del tipo
dell'impiegato, lo «Angestellter», nel suo omonimo libro, quale
tipo sociale frutto dell'epoca moderna e tipico della società
berlinese.
Ma ciò avviene in particolare nel lavoro su Franz Hessel, nel
motivo del flâneur ancora una volta, al quale la città-metropoli
si schiude come nuova Landschaft e allo stesso tempo essa lo
racchiude in sé come Stube. La sua conoscenza del vivere, nel
senso di «Wohnen», è definita da Benjamin nella Wiederkehr des
Flâneurs una «vollendete Kunst»43:
Der Masse - und mit ihr lebt der Flâneur - sind die glänzenden, emaillierten
Firmenschilder so gut und besser ein Wandschmuck wie im Salon der Bürger ein
Ölgemälde, Brandmauern ihr Schreibpult, Zeitungskioske ihre Bibliotheken,
Briefkästen ihre Bronzen, Bänke ihr Boudoir und die Caféterrasse der Erker, von
wo sie auf ihr Hauswesen herabsieht. Wo am Gitter Asphaltarbeiter [SdA] den Rock
hängen haben, ist ihr Vestibül[...]44
e così pure nella posteriore recensione di Benjamin all'opera di
Werner Hegemann Das steinerne Berlin del 1930. Lì appariva,
insieme ai duri attacchi del materialista storico all'autore, una
evidente critica della qualità abitativa nella metropoli Berlino e
un pronostico delle conseguenze culturali di cui un tale fenomeno
sarebbe stato gravido.
Nella Wiederkehr des Flâneurs Benjamin parla tuttavia del flâneur
come del «Priester des genius loci» che festeggia gli ultimi
42Ivi, p. 390. Willi Bolle descrive il modo in cui Benjamin riesce a 'spiegare' le parti più recondite delle città, soprattutto
di Parigi. Parla di un «surrealistisches Sich-Hingeben» alla fantasia e al 'narcotico' dei nomi delle strade e insieme di una
'decrepitezza', «Hinfälligkeit», della metropoli stessa (cfr. W. Bolle, Walter Benjamin als Physiognomiker der modernen
Metropole. In: F.-R. Hausmann, L. Jäger u.a. (a c. di), Literatur und Gesellschaft. Festschrift für Theo Buck. Tübingen
1990. L'autore parla, nel contesto di una trattazione della letteratura sulla percezione della città e della modernità di un
“Topos der Hinfälligkeit der modernen Metropole” in autori quali Benjamin, Baudelaire e lo scrittore brasiliano e
romanziere Mario de Andrade: egli deduce da questa “Topos-Erfahrung” i seguenti slogan: “Skepsis gegenüber der
Ideologie des Fortschritts”; “Kritischer Kosmopolitismus”; “Ironie und Sarkasmus gegenüber den herrschenden
Phantasmagorien”; “Auseinandersetzung mit Bildern des Wahnsinns”).
43G.S. III, pg. 195, 196
44Ivi
14
monumenti di una passata Wohnkultur45: in quest'epoca di trapasso
la Geborgenheit domestica è sempre più minacciata di divenire
luogo di passaggio, «Durchgangsraum». Allo «Stadtflâneur» è
demandato in prospettiva il compito, puramente estetico, di
salvaguardare questi ambienti di cultura domestica, l'antichità
dei quartieri, senza perciò assumere un «am Musealen haftenden
Blick»:
Berlin
hat
wenige
Tore,
aber
dieser
große
Schwellenkundige
kennt
die
geringeren Übergänge, die Stadt von Flachland, Stadtteil von Stadtteil abheben:
Baustellen, Brücken, Stadtbahnbögen und Squares46
La figura dell'avventuriero metropolitano, con il suo raggio
d'azione nella Großstadt, porta Benjamin a sviluppare un ulteriore
complesso di relazioni fra flâneur e città: essa diviene luogo
'selvaggio', come per l'eroe del romanzo di Döblin, Franz
Biberkopf, per il quale la città rappresenta oramai una giungla,
luogo del permanente verificarsi di nuove e inaspettate relazioni.
Egli è dunque un flâneur potenziato, che girovaga per la città e
trasforma la sua esistenza in sempre nuove, surreali situazioni.
Il mondo della prostituzione, in cui del tutto incurante si muove
l'eroe di Döblin, in cui Hessel possiede le sue muse e Benjamin
sublima i sensi di colpa della sua appartenenza ebraica (si pensi
al brano Bettler und Huren della Kindheit e allo Erwachen des
Sexus) è stato analizzato usando il metodo della considerazione
sociologica della rappresentazione di città compiuta da Benjamin,
per esempio ancora nel Passagenwerk in un'annotazione dal titolo
Prostitution, Spiel47. Il protagonista del romanzo che più d'ogni
altro ha rappresentato nella letteratura tedesca degli anni Venti
il tema della metropoli e di quella Berlino che della letteratura
di quegli anni fu il fulcro, può dunque a buon titolo essere
considerato
una
figura-chiave
per
una
teoria
della
rappresentazione di città sotto specie sociologica.
Nel brano Mummerehlen Benjamin spiega la nuova maniera di
'leggere' città e immagini: essa rappresenta il «magisches Lesen»
del flâneur, di cui si parla ancora nel brano Über das mimetische
Vermögen. Una particolare tecnica di lettura può essere la sola
forma con la quale rendere accessibile la percezione della città
in Benjamin; la lettura 'dirige' il lettore e agisce su di lui
come uno stupefacente. Gli esperimenti con l'hashish di Benjamin e
i suoi resoconti scritti, per esempio nel brano Haschisch in
Marseille, sono una testimonianza di tali impressioni riguardo
alla capacità di percepire e di usare la fantasia, una capacità
che si rivela altamente complessa e del tutto personale: passato e
45Ivi
46Ivi, p. 197
47Cfr. M. Opitz, Lesen und Flanieren. Über das Lesen von Städten, vom Flanieren in Büchern. In: Ders., E. Wizisla (a c.
di), Aber ein Sturm weht vom Paradiese her. Texte zu Walter Benjamin. Leipzig 1992, p. 162 seg. ed inoltre F. Shor,
Walter Benjamin as a Guide. Images on Modern City. In: Jewish Social Studies. Vol. XLIV, Nr. 1. New York 1982. In
part. p. 43
15
presente, soggettivo e fantastico si confondono nei racconti
d'infanzia della Berliner Kindheit, che non per nulla porta come
motto d'apertura una frase dedotta da Benjamin dalle sue
esperienze in stato di allucinazione sotto l'effetto di droghe.
La lettura è una sorta di 'illuminazione' profana48, il flâneur è
un 'illuminato', così pure il lettore. Così Benjamin descrive il
romanzo di Hessel e la sua concezione stessa di percezione. Nel
suo saggio sul Surrealismo egli descriverà come questo abbia
contribuito ad aprire nuovi spazi e procedimenti d'immagine, nuove
vie d'accesso verso insospettabili ambiti della soggettività.
Benjamin e l'opera epica di Alfred Döblin
In conclusione alla sua metafora 'marina', secondo cui l'epico
sarebbe nel romanzo di Alfred Döblin un mare, il cui sale
costituirebbe
l'elemento
fondamentale
per
garantire
la
Dauerhaftigkeit, la durabilità, all'opera d'arte, Benjamin definì
il romanziere come colui che è veramente solo e oramai si è
congedato dal popolo: «Der wirklich Einsame, der sich vom Volke
verabschiedet hat»:
Was
den
Roman
vom
eigentlichen
Epos
trennt,
fühlt
jeder,
der
an
die
homerischen Werke oder an das dantesche denkt. Das mündlich Tradierbare, das Gut
der Epik, ist von anderer Beschaffenheit als das, was den Bestand des Romans
ausmacht.49
Negli stessi anni in cui si dedicava alla composizione della sua
trilogia
berlinese,
Benjamin
trovava
in
Alfred
Döblin
esemplarmente formulate e in buona parte realizzate le proprie
teorie circa il tentativo di promuovere nel romanzo «neue sehr
epische Möglichkeiten».
La teoria di Döblin del romanzo quale epos moderno e la
concezione
di
questo
quale
procedimento
di
percezione,
«Wahrnehmungsvorgang», quale organo 'collettivo', nonché la sua
tecnica del montaggio sperimentata in Berlin Alexanderplatz
colsero l'attenzione e il plauso di Benjamin. Con ciò va precisato
come tre opere di Döblin trovarono una esemplare collocazione in
Benjamin, in seguito alle sue tesi sulla restituzione dell'epico
nel romanzo: i due scritti teorici susseguenti Schriftstellerei
und Dichtung e Der Bau des epischen Werks degli anni 1928-29 e il
romanzo berlinese.
Soprattutto le tesi di Döblin sull'inadeguatezza di qualsiasi
intellettualismo e di ogni forma di strumentalizzazione ideologica
nel racconto, a favore, invece, di un ricupero delle forme
realmente poetiche trovarono corrispondenza nella difesa compiuta
da Benjamin della «Restitution des Epischen» che egli aveva
48Cfr. in particolare M. Opitz, cit., p. 174. Vedi inoltre il saggio di Benjamin Sürrealismus, in: G.S. II, 1, p. 297 seg.
49Cfr. W. Benjamin, Krisis des Romans. Zu Döblins ‘Berlin Alexanderplatz’. In: G.S. III, p. 230 seg. Oppure in:
Angelus Novus. Ausgew. Schriften, 2. Frankfurt/M. 1966, p. 437
16
formulato esplicitamente sia nella recensione a Döblin sia alle
Kalendergeschichten di O.M. Graf del 1930.
La pura e semplice forma del romanzo così come questa si era
andata costituendo non era, in seguito ad una crisi del racconto,
secondo Döblin e ancor più secondo Benjamin, più praticabile. Ogni
tentativo
in
tal
senso
si
sarebbe
scontrato
contro
l'incommensurabilità dell'esistenza umana: «Einen Roman schreiben
heißt
in
der
Darstellung
des
menschlichen
Daseins
das
Inkommensurable auf die Spitze treiben»50. Essa poteva ancora in
Lukacs
conservare
il
proprio
diritto
ad
esistere
come
un'espressione epica quale categoria di «Epopöe eines Zeitalters»,
in cui la totalità dell'esistenza era data oramai per esclusa
dall'opera d'arte.
Benjamin ammirò senza mezzi termini questa nuova forma epica
teorizzata programmaticamente da Döblin. In Berlin Alexanderplatz
egli vedeva compiuta la sintesi di teoria e prassi di tale nuova
forma:
so
hohe
Wellen
von
Ereignis
und
Reflex
[...]
die
Gischt
der
wirklich
gesprochenen Sprache [...]. Stilprinzip dieses Buches ist die Montage [...]. Die
Montage sprengt den «Roman», sprengt ihn im Aufbau wie auch stilistisch, und
eröffnet neue, sehr epische Möglichkeiten. Im Formalen vor allem. Das Material
der
Montage
ist
ja
durchaus
kein
beliebiges.
Echte
Montage
beruht
auf
dem
Dokument. Der Dadaismus hat sich in seinem fanatischen Kampf gegen das Kunstwerk
durch sie [sc. die Montage, NdR] das tägliche Leben zum Bundesgenossen gemacht
[...]. Hier ist sie zum ersten Male für die Epik nutzbar geworden.51
Schiudendone la singolarità linguistica, Döblin ha voluto
soprattutto dare, secondo Benjamin, una descrizione dell'ambiente
berlinese del romanzo. La tecnica del montaggio compiuta per mezzo
di una descrizione 'collagistica' di versi biblici, di statistiche
e canzoni e del dialetto berlinese gli è stata in tal senso
necessaria per descrivere il proletariato urbano nella Großstadt
che agisce in un sottobosco cittadino e tende ad emanciparsi dalle
proprie condizioni esistenziali. Così pure per descrivere l'agire
quotidiano dei furfanti, categoria cui appartiene di malavoglia
l'appena uscito di galera Franz Biberkopf.
Nel romanzo di Döblin, Benjamin ammirava il 'gesto' linguistico
dei
personaggi,
quello
che
lui
chiamava
il
«Berlinischer
Sprachgeist», interpretato esemplarmente da Biberkopf, e definì
l'intero romanzo un «Monument des Berlinischen» [SdA]52. La
concezione del narratore non era quella di rendere una descrizione
heimatkünstlerisch della città, secondo il canone esistente negli
anni Dieci e Venti, spesso fraintesa arbitrariamente nel romanzo.
50G.S. III, p. 230 seg.
51Ivi, p. 232. Inoltre: A. Döblin, Nachwort zu einem Neudruck, 1955. In: id., Berlin Alexanderplatz, hrsg. und mit einem
Nachwort von W. Muschg. München 1965
52Ivi, p. 233
17
Egli parla attraverso la città come da un megafono, unendo suoni,
immagini e impressioni.
In tal senso, ma disgiunte dalla trattazione del romanzo di
Döblin, vanno considerate le numerose digressioni e annotazioni
nell'opera di Benjamin in cui egli analizzava le particolarità del
dialetto berlinese, non per ultimo nella trasmissione radiofonica
«Berliner Dialekt».
Benjamin vedeva questo protagonista del romanzo in stretto
contatto con la città ed ancora più stretto contatto con quella
piazza che insieme danno il nome al romanzo e che di questo si
rivelano i veri 'reggenti':
Eintausend
Meter,
länger
ist
der
Radius
nicht,
der
den
Bannkreis
dieser
Existenz um den Platz schlägt. Der Alexanderplatz regiert sein Dasein. Ein
grausamer Regent, wenn man will53
sapendo valutare quella capacità döbliniana di descrivere la
miseria di quel mondo. Tale descrizione della miseria ha per
Benjamin un lato 'gioviale' che egli riconosce e stima nella sua
recensione.
Secondo
Benjamin,
Döblin
ha
saputo,
inoltre,
dimostrare l'essenza borghese all'interno del romanzo, i cui
contorni Benjamin disamina servendosi del raffronto preciso con la
forza d'immagine dei criminali-borghesi descritti da Charles
Dickens.
Benjamin ha sviscerato, tematizzandolo sociologicamente, il
motivo della omogeneità fra mondo dei furfanti e piccola borghesia
nel
romanzo
Berlin
Alexanderplatz,
problematizzandolo
con
implicazioni che alla fine della sua recensione rendono evidente
un certo portato ideologico.
In tal senso l'evoluzione di Biberkopf nei suoi tentativi di
scalata sociale altro non rappresenterebbe che l'istinto sociale
di innalzamento verso una dimensione borghese, presente anche nel
protettore di prostitute: ciò che Benjamin ha chiamato la
«heroische Metamorphose des bürgerlichen Bewußtseins»54.
Nel riconoscere questo Benjamin non trascurava di riconoscere
nell'opera di Döblin soprattutto la principale caratteristica
della sua epicità, che ha permesso al suo autore di fare di
Biberkopf un rappresentante di tutti i furfanti dei bassifondi
berlinesi e unica qualità capace di fare di quest'opera un evento
'duraturo'. Il personaggio Biberkopf, con le sue qualità di
esemplificazione epica, è per sempre legato a questo romanzo e
all'epoca in esso descritta. Il «Butterbrot» cui Biberkopf
ambisce, il pane imburrato, metafora della sua - piccolo-borghese
- pretesa di 'guadagnare' dalla vita e indicato come slogan
all'inizio del romanzo, diverrà un destino autodistruttivo che lo
trascinerà attraverso il romanzo.
Benjamin avvertì la forte simbolicità di questo personaggio. La
chiusura
della
recensione
è
una
dichiarazione
altrettanto
istruttiva di Benjamin: là dove termina l'esemplarità del
personaggio, termina la sua vera importanza per il lettore. Il
53Ivi, p. 234
54Ivi, p. 235
18
concludersi di questa esemplarità è significativamente indicata
nella registrazione del cambiamento di nome del protagonista, alla
quale Benjamin rivolge particolare attenzione.
La chiusura del romanzo è un atto di estasi; l'eroe del romanzo
sperimenta il suo tracollo, prologo di un'ultima, ma anche
definitiva, metamorfosi del suo destino: questa è anche l'ultima
trasformazione che è data di osservare al lettore e che Benjamin
ha definito una trasformazione mistico-ebraica del nome e a cui
significativamente
si
richiamerà
anche
Adorno
nella
sua
postfazione alla Berliner Kindheit. Fassung letzter Hand, con la
figura dello Strepitolino che vivrà fintanto che nessuno conoscerà
il suo nome.
La città-Babilonia, la «Hure Babylon», giocherà un ultimo ruolo
nel tentativo di riappropriarsi di Franz Karl, che, risparmiato
dalla morte, andrà incontro ad una nuova vita.
Döblin e i nuovi metodi di rappresentazione: «Entseelte Realität Totalität des Wirklichen - 'Depersonation' des Erzählers»
Negli anni fra il 1913 e il 1917 Alfred Döblin compose due
significativi scritti teorici sul romanzo: il cosiddetto «Programma
berlinese» e le Bemerkungen zum Roman.
La crisi della narrazione, che richiedeva lo sviluppo di nuovi
metodi di rappresentazione, fu tematizzata da Döblin doppiamente:
attraverso la sperimentazione delle più moderne tendenze dei
moderni processi e attraverso la rappresentazione personale e
altamente
originale
della
attualità
degli
anni
Venti.
Gli inizi letterari di Döblin
sono da ricercare principalmente
nell'Espressionismo, senza trascurare le tendenze del Dadaismo, del
Surrealismo e della Neue Sachlichkeit, mentre le sue più lontane
radici affondano sicuramente nell'esperienza del Naturalismo.
Il «Programma berlinese» di Döblin apparve nel 1913 nella rivista
«Der Sturm»: esso significò in quegli anni una delle più forti
rotture con la tradizione. A Döblin interessava porre in atto una
discussione
con
l'avanguardia
letteraria;
egli
si opponeva
radicalmente al romanzo psicologico del XIX secolo. Oggetto del
romanzo avrebbe dovuto solamente essere la cosiddetta «entseelte
Realität», sola capace di mostrare una totalità del reale, appunto,
nella sua forma concreta, senza alcuna motivazione psicologica e
senza un destino personale del protagonista. A questo livellamento
del protagonista faceva da contraltare la - con un neologismo
Döbliniano - cosiddetta Depersonation del narratore.
Le grandi mostre futuriste a Berlino negli anni 1912/1913
esercitarono una forte influenza sulle nuove correnti letterarie,
soprattutto sullo stesso Döblin, il cui programma è per certi
aspetti fortemente in debito con le tesi futuriste.
Le prime righe del «Programma berlinese» già proponevano un
taglio netto con qualsiasi tradizione precedente: «Io intendo dire
che ogni buon speculatore, banchiere, soldato è un migliore poeta
che la maggior parte dei nostri moderni autori» (Aufsätze zur
Literatur. Olten/Freiburg 1962, p. 15). Il romanzo psicologico
veniva degradato a sorta di fantasmagoria e apostrofato quale
Romanpsychologie (ivi, 16): «scrivere non significa più mangiarsi
19
le unghie o pulirsi i denti con lo stuzzicadenti, bensì è oramai
una faccenda pubblica» (15).
Le aporie della moderna, ingenua, psicologia, erano l'esempio cui
Döblin poteva richiamarsi per mostrare l'inconsistenza di un'arte
che è solo in grado di chiedere il 'perché' e il 'come' degli
avvenimenti. Döblin propugnava al contrario un'arte descrittiva
capace di affrontare e concepire la simultaneità, il «Neben-» e
«Durcheinander» della realtà. Il merito di Döblin giace sul terreno
estetico:
a
lui
spetta
il
merito
di
aver
formulato
la
rappresentazione estetica dell'arte moderna nella letteratura, tale
percezione estetica è detta «Sinnlichkeit der Gestaltungsformel»:
«Le formule discorsive servono solo a scopi pratici (...) Mai e poi
mai possono essere usate come microscopio o canocchiale della
realtà, tali lenti opache (...) Bisogna dunque tener fede al
signicato originale, recondito: con ciò si è colto il reale, tolta
la magìa alla parola ed evitate le astrazioni artificiali» (16
ss.).
In tal senso l'assai versato critico e teorico dei generi Döblin
di quegli anni giungeva alla constatazione che solo una totale
emancipazione del lettore potesse andare incontro alle necessità
del moderno romanzo: «Il lettore in totale autonomia, solo lui
potrà giudicare, non l'autore (...). L'egemonia dell'autore deve
venire interrotta per sempre. Il Naturalismo non è un Ismo storico,
ma l'eterno tuffo che sempre affiora nell'arte (...). Psicologismo,
erotismo devono venir spazzati via; 'Depersonazione' dell'autore
(...). Il romanzo deve assistere alla sua rinascita come opera
d'arte, epos moderno» (17 ss.).
Esternazioni assai simili, come si vede, all'Espressionismo e al
Futurismo. Questa esigenza di totalità del reale della grande epica
era presente anche in buona parte dei romanzieri e teorici
contemporanei a Döblin. Della premessa hegeliana per cui l'epos
significherebbe la totalità di un mondo in un'azione individuale,
Döblin accettava come espressamente vincolante solo la prima parte:
egli vedeva nell'epos un mezzo di rappresentazione attuale della
totalità di un mondo, mentre dubitava che questa potesse essere
racchiusa in un'azione individuale. Con ciò veniva definitivamente
concepita l'incompatibilità nel mondo moderno di destino personale
e totalità.
Nelle Bemerkungen zum Roman Döblin insisteva sull'inattualità
estetica di azione personale, psicologia del protagonista e azione:
solo una 'incapacità di lettura' di un pubblico poteva giustificare
una tale prosa, una «gedichtete Psychologie» (20). Tale incapacità
era, secondo Döblin, fortemente promossa dallo stile giornalistico
e cinematografico. Tale ambivalente posizione di Döblin nei
confronti in particolare del cinema non deve essere sottaciuta, se
si pensa che nello stesso «Programma berlinese» ad esso era
riconosciuto un ruolo progressivo.
Interessante è ancora notare in questo scritto il confronto
costruttivo fra
dramma e romanzo. Benchè egli concedesse che il
dramma originario avesse ben poco a che spartire con un'azione,
egli tuttavia riconosceva l'insuperabile separazione fra la teoria
epica del romanzo e l'odierno dramma. Tale trattazione e
problematizzazione del dramma da parte di Döblin non aveva solo un
senso strumentale per la sua teoria ma rimanda direttamente al
20
rapporto altamente problematico con Brecht, che rimane a margine
della nostra trattazione.
L'uomo non è né oggetto del dramma, né del romanzo, «entrambi non
hanno nulla a che vedere con l'importanza attribuita al singolo
eroe e ai suoi problemi (...). Se un romanzo non può venire
tagliato in dieci parti come un lombrico e queste parti si muovono
autonomamente, allora non serve a niente» (21).
Tale a ragione famosa formula 'del lombrico' di Döblin, che egli
aveva costruito sull'esempio degli autori classici («essi mostrano
- dice - che ogni momento si giustifica autonomamente, così come
ogni attimo della nostra vita è una perfetta realtà», 21),
racchiudeva la fondamentale esigenza di una forma epica del
romanzo: ogni dettaglio deve poter portare in sé una propria
realtà. In tale confrontazione l'autore non dovrebbe in alcun modo
supplire il lettore, non ordinare 'autorialmente', strutturarlo
prospettivamente. L'autore, come già nella drammaturgia di Brecht,
dovrebbe tenersi lontano da qualsiasi ambizione artistica: «la vita
narra in maniera insuperabile, aggiungervi dell'arte è spesso del
tutto superfluo» (22). Lo stile è puro arnese nelle mani di uno
scultore: «già di per sé un errore, quando il solo stile viene
notato» (22) - esso deve essere puro «maglio» nelle mani
dell'autore. Lo scritto terminava con la constatazione della
'immensità'
dell'epica,
cui
necessita
una
estrema
forza
rappresentativa e che si raccorda alla metafora 'marina' di
Benjamin.
Il principio di «Ausschaltung des Erzählers» e di messa al bando
dell'individualismo borghese era valso quasi inviolabilmente per il
romanzo Berlin Alexanderplatz. Attraverso questo stesso romanzo era
però nata quasi contemporaneamente una nuova e più differenziata
concezione del ruolo del protagonista all'interno della descrizione
delle masse: la vita del protagonista, concepito dall'autore con lo
scopo di narrare, reso dall'Io-narratore, cede il passo ad un io
immediato un «weltunmittelbares Ich». Tale postulata immediatezza,
realizzazione di un nuovo significato dell'Io, fu certamente
gravida di consequenze dal punto di vista estetico, del tutto
ravvisabili nel successivo scritto teorico Der Bau des epischen
Werks. Essa non significò, d'altro canto, una rottura repentina con
le visioni precedenti, in quanto già nelle loro realizzazioni
pratiche gli eventi sociali erano comunque legati ad un personaggio
centrale.
Benchè cosciente delle difficoltà della sua teoria, Döblin
soggiaceva in questi anni al fascino di una dimensione preletteraria,
che
fra
l'altro,
nell'annullamento
dell'ordine
sintattico, sta alla base del concetto di tecnica del montaggio.
Pur non potendo più totalmente rimanere fedele alla precedente
impostazione,
Döblin si rese conto della necessità di un
personaggio-eroe per giungere a quel «weltunmittelbares Ich»
teorizzato nel Der Bau des epischen Werks degli anni 1928/29, il
quale è da considerarsi pendant teorico del romanzo.
Il processo di salvataggio dell'elemento epico, raggiunto facendo
successivamente leva sulla tradizione orale a scapito della
tradizione narrativa scritta, ciò che Benjamin con termini simili
aveva definito il «mündlich Tradierbare» o «Das Gut der Epik» nella
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sua ormai nota recensione (cfr. p.14), trovava riscontro e fu in
parte destato dalla relazione su Schriftstellerei und Dichtung
tenuta da Döblin all'Accademia delle Scienze prussiana a Berlino
nel 1928, in occasione della sua ammissione quale membro. Döblin
aprì la sua relazione con lo slogan programmatico: «Delimitazione
del romanzo dall'opera d'arte epica orale» e «delimitazione di
attività letteraria e poesia». Egli tendeva dunque a contrapporre
una attività letteraria tout-court a quella di Dichtkunst, cioé il
romanzo all'opera epica, ciò che storicamente significava un
delimitarsi dagli scrittori proletario-rivoluzionari attorno a J.R.
Becher che in quegli anni presentavano la loro letteratura
cosiddetta del Reportage.
Il tentativo di distogliere la vera Dichtkunst dalla sfera di
interesse dell'autore e dalla sua volontà di legittimazione per
porla in una sfera a sé stante, come «autochtones Gewächs» (94),
sembra essere il principale interesse dello scritto di Döblin. Al
romanzo, in quanto prodotto «hochkomisch und lächerlich» (92) fu
praticamente tolta qualsiasi patente poetica: esso si era rivelato
storicamente, in quanto Entwicklungsroman con ambizione psicologica
e didascalica, o peggio come foglio agitatorio e palcoscenico
d'esibizione, sorta di «cesso letterario» (sic!).
Ancora nel Der Bau des epischen Werks
Döblin introdusse il
concetto di Bericht, processo verbale, racconto-relazione. Mentre
la tradizionale concezione di Bericht era ancora da
Döblin
considerata uno «Schwindel mit verteilten Rollen» (105), sorta di
imbroglio dunque, egli tese in seguito a rivalutare tale forma e a
introdurla come nuova categoria all'interno della sua teoria del
romanzo. Anche nella sua forma di relazione formale, la forma più
alta del Bericht assume per Döblin dopo la crisi della finzione
epica e dell'illusione un valore sostanziale all'interno della sua
poetica, in forza di quella «esemplarità dell'azione e delle
figure» (106).
Nel programma döbliniano l'epico consegue tale esemplarità
andando incontro alla realtà con insistenza, «an ihre Sachlichkeit,
ihr Blut, ihren Geruch» (107) ed esso deve in seguito urtare e
'logorare' la realtà: «durchstoßen». L'originalità di tale azione
resa dalla forma relazionale
la distingue esemplarmente da
qualsiasi finzione: «si tratta - dice Döblin - di situazioni
elementari, basilari, dell'esistenza umana (...). Sì, queste
figure, non idee platoniche, questo Ulisse, Don Chisciotte, Dante
che peregrina (...)» (106). La sovranità dello scrittore epico gli
permetterà persino la relazione su fatti non accaduti, il
cosiddetto «Fabulieren»: un relazionare di 'non-fatti', un gioco
con la realtà. A tal punto appare giunta la capacità di astrazione
dell'epico che Döblin giunge in questo stesso periodo a teorizzare
la 'permeabilità' degli stili e delle forme come nuova e vera
chance dello scrittore epico e della sua supposta modernità.
La forma relazionale giunge a tale perfezione metodica da essere
definita da Döblin una «cortina di ferro» che è giunto il momento
di alzare. Il «grande epico», cioé la natura, non necessariamente
si ferma alla sola forma oggettiva: «consiglio agli autori di
essere drammatici, lirici, riflessivi (...) La forma epica non è
certo una forma immobile» (113). A tale apertura fa riscontro una
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uguale riscoperta dell'Io autoriale, una mediazione fra oggettività
della narrazione e l'Io immediato, fra il dogma della cortina, la
natura come 'grande epico' e un nuovo Io, ciò che significò
sicuramente in parte un ritorno a posizioni pre-naturalistiche:
«può l'autore intervenire nell'opera epica?, può gettarsi in questo
mondo? Risposta: sì, può e deve. Ora mi rammento come stavano le
cose, quel che ha fatto Dante nella Divina Commedia: egli stesso
girovagava all'interno della sua opera, ha dato un colpetto alle
sue figure, si è immischiato insomma» (114).
Finale
La pretesa di un modello di un'epica arcaica rimase in Döblin per
buona parte elusa e senza conseguenze pratiche. Döblin divenne
consapevole di come un'epica fondata su modelli antichi si dovesse
richiamare non tanto alle sue tecniche, ma necessitasse invece di
un'attitudine originale e primitiva: «giungere persino oltre Omero»
(114).
Nel suo tentativo di rinnovamento epico Döblin considerò
l'evidenza che il nuovo ruolo dell'autore all'interno dello spazio
d'azione
sociale
richiedeva
soluzioni
differenziate.
La
dissoluzione della «cortina di ferro» è da considerarsi pur'essa un
tentativo sulla strada verso nuove possibilità espressive. Döblin
intraprese nel suo maggiore saggio teorico una vera e propria
«andata alle madri» (115) verso l'opera epica del futuro: una
«Sprengung der Tradition», una «Berichtform», in cui la poesia
epica «ci possa nuovamente interessare (...) e poter fare di essa
una forma del tutto libera» (115).
L'intervento del narratore nel romanzo berlinese non smembra
questa costruzione teorica. Tale intervento avviene in forma
paritetica con quello del lettore e dell'eroe centrale: dunque è da
scartare una volontà del tutto soggettiva nel tarda produzione di
Döblin. Parimenti il ritrovamento del ruolo del protagonista
narrato è da considerarsi come apertura nei confronti del mondo e
della natura e tale apertura fu definitivamente inaugurata da
Döblin con l'introduzione del concetto di «weltunmittelbares Ich».
L'eroe è in tal senso puro protagonista sul quale vengono
concentrati gli avvenimenti psichici di una società di massa: egli
non è, se non in senso limitato, oggetto della rappresentazione.
Le anteriori teorie e i principi della prima fase di riflessione
poetologica e di concezione epica di Döblin sono solo accennati in
Berlin Alexanderplatz, in quanto l'eroe riacquista lentamente un
ruolo
tradizionale.
Le
caratteristiche
del
tradizionale
«Entwicklungsroman» sono nei loro principi riconoscibili nel
romanzo: la semplicità e la solitudine del protagonista; la
‘didattica’ della storia e lo sviluppo della figura centrale, che
percorre però il suo cammino in una direzione opposta a quella del
tradizionale eroe: da un'attiva autocoscienza
verso un passivo
piegarsi-alla-vita e, in definitiva, un'accettazione del destino
senza opposizione.
L'ironia, come principio narrativo dell’ umorismo epico,
coltivato da Döblin indirettamente già nel suo distanziarsi da ogni
forma di estremismo e di riflessione letteraria, trovava pure
realizzazione nel romanzo come soluzione alle aporie e alle
contraddizioni dello stesso, che nel suo finale è letteralmente
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pervaso dai «toni taglienti di una ironia demoniaca»55. Nel
principio di ironia, concepito da Lukács come «oggettività del
romanzo»56 si possono identificare i maggiori punti di contatto fra
le posizioni di Th. Mann e quelle di Döblin in quegli anni. Mann
condivideva con Lukács proprio la pretesa dell'ironia come elemento
condizionante per il raggiungimento di una totalità nel romanzo
moderno, anche se quest'ultimo pensava primariamente al romanzo
biografico basato sulla figura del protagonista e ne teorizzava la
necessità per il romanzo in forza di quella «Psychologie des
Romanhelden» che si oggettiva nelle crisi e nelle «crepe» delle
moderne situazioni storiche: «Die Form des Abenteuers, des
Eigenwertes der Innerlichkeit»; il suo contenuto è la «Geschichte
der Seele»57 che esce da sé per conoscersi. Dunque opposto alla
concezione teorica di Döblin.
Nella tecnica di narrazione collettiva di Döblin si evidenzia il
tentativo di una regressione verso elementi primari dell'epico,
cioé situazioni elementari dell'esistenza, come già affermato. In
tal modo Döblin realizzò un tipo di romanzo che nei suoi principi
appariva il più moderno della sua epoca, nei suoi risultati il più
tradizionale. Esso appare disposto in tre sostanziali unità epiche:
- La rappresentazione della totalità attraverso la città, con un
procedimento 'collagistico';
- La rappresentazione dell'azione individuale, in forma di storia
truculenta (o Moritat), e con carattere moralizzante;
- L'esposizione di un significato intrinseco, con l'uso di
citazioni bibliche e mitologiche.
Berlin Alexanderplatz si rivela essere il romanzo più moderno e
più tradizionale in quanto in esso confluiscono i due elementi
portanti della riflessione Döbliniana: le situazioni elementari
dell'agire umano e la dinamica dell'esistenza nella modernità.
L'epica di questa rappresentazione è colta nella fatale biografia
del protagonista, nella sua 'carriera' fino alla definitva
accettazione del proprio destino, che sta esemplarmente per una
totalità di destini-vittima (tale caratteristica era già contenuta
programmaticamente nel romanzo del 1915 Die drei Sprünge des Wanglun, ove il ribelle oppone al proprio destino il saggio nonopporsi).
Il protagonista può desumere questo atteggiamento del 'non-piùcontrapporsi',
del
'piegarsi',
dalle
numerose
parabole,
sapientemente distribuite nel testo. Tale tema della Einwilligung
trova il suo pendant didascalico nelle scene del mattatoio e nel
racconto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo, sottoposto
nello
stile
Döbliniano
ad
un
particolare
processo
di
riqualificazione.
Gli eroi che incarnano i sopraccitati elementi
sono l'operaio
occasionale Franz Biberkopf e la grande città Berlino. Questa non è
55 Cfr. A. Schöne, Berlin Alexanderplatz. In: B. v. Wiese (a c. di), Der
deutsche Roman. Vol. 2. Düsseldorf 1965, p. 303
56 Cfr. G. Lukács, Theorie des Romans. Neuwied/Berlin 1963, p. 79
57 Cfr. id., ivi, p. 73 ss.
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dunque solo palcoscenico o milieu, bensì un protagonista equiparato
all'interno della struttura del romanzo.
Nonostante il superamento successivo dell'ostilità verso il dato
personale,
per
Döblin
rimaneva
valido
il
principio
dell'imperfezione di questo per una dimostrazione della totalità
esistenziale: il destino del singolo viene dunque rapportato allo
«umgebendes Ganze», da cui la formula: «Das Wahre kommt nur
massenhaft vor», teorizzata per ultimo nello scritto Der Geist des
naturalistischen Zeitalters del 1924. La città è conseguentemente
un Korallenstock, organismo vivente, di cui Biberkopf è la 'sonda',
strumento di introspezione.
Se la permeabilità degli stili e dei tempi è stata considerata da
Döblin la caratteristica precipua dell'opera epica, in maniera
suggestiva si manifesta la complessità e frammentarietà del mondo
nello stile del romanzo: uno stile associativo, dinamico e caotico,
funzionante mediante corrispondenze e assonanze, identità di Io e
realtà, che spesso trasgrediscono in modo aberrante gli stessi
collegamenti di senso formale per rendere con onomatopee e
associazioni illogiche la tensione dialettica fra protagonista e
ambiente circostante. La narrazione di aspetti così caotici avviene
sovente «in statu nascendi» (123), permettendo al racconto quella
che Fritz Martini ha chiamato la «Sichtbarkeit des Werdens»58 come
impalcatura della tecnica del montaggio.
Questa
tecnica
permise
a
Döblin
le
sue
«sfacettature
caleidoscopiche»
e
quei
fulminanti
cambi
di
narratore
e
prospettiva, postulati nella supposta affinità con lo stile di Dos
Passos e in generale con lo stile cinematografico. Tale intreccio,
«Gleichzeitigkeit im Jetzt», l'incapacità del protagonista di
giungere ad un discorso esteriore autonomo, denota un'appartenenza
allo stile del discorso vissuto, del flusso di coscienza, anche se
la prospettiva del racconto non è sufficientemente evidente per
supporre una simile corrispondenza dello stile di Döblin con il
monologo interiore, in cui la posizione del narratore è fin troppo
collocata prospetticamente all'interno del o dei protagonisti. Alla
coincidenza di forma e contenuto spesso non è garantita in
quest'opera una validità generale, in quanto il narratore usa
sovente distanziarsi criticamente dalla figura narrata, per
prendere posizione 'accanto' ad essa. In tal modo avviene quella
che
Schöne
definisce
una
«equiparazione»
di
narratore,
protagonisti, compilatori di testi di réclames e manifesti, in cui
la citazione diviene, in quanto «elemento del montaggio»59 «oggetto
d'uso».
Se il processo del suo sviluppo a uomo sociale può essere
considerato un atto di presa di coscienza di Franz Biberkopf, l'uso
della citazione in quanto «dottrina di solidarietà» diviene atto di
'depersonizzazione',
in
un
«parlare
collettivo»
e
nella
interpretazione corale del romanzo.
(Luca Renzi)
58 Cfr. F. Martini, Das Wagnis der Sprache, p. 362
59 Cfr. A. Schöne, ivi, p. 314