Renzi_BENJAMIN (Judaica urb.)
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Renzi_BENJAMIN (Judaica urb.)
1 Luca Renzi Percezione e immagine della Großstadt in Walter Benjamin e Alfred Döblin. Dagli Städtebilder e i testi berlinesi a Berlin Alexanderplatz. Prologo Dalla metà degli anni Venti si va sempre più formando nell'opera di Walter Benjamin un progetto letterario che ha come principale oggetto la descrizione e l'indagine della fisionomia della moderna metropoli e dei suoi diversi fenomeni culturali, sia rivolta alla personale esperienza dell'autore, sia alla ricerca del valore estetico di quel coacervo di fenomeni che va sotto il nome di Moderne. Questo progetto nasce con il libro Einbahnstraße del 192528 e il Moskauer Tagebuch del 1926-27 e con i primi piani di quel progetto inconcluso che è il monumentale Passagenwerk benjaminiano che accompagnerà lo scrittore-filosofo per tutta la vita, se è vero che nel 1940 l'ultima sua volontà durante la fuga sui Pirenei per sfuggire alla persecuzioni razziali e prima dell'atto estremo del suicidio fu rivolta a mettere in salvo i documenti contenenti un importante manoscritto, il Lebenswerk di Walter Benjamin: «Das Manuskript muß gerettet werden. Es ist wichtiger als meine Person»1. Tale progetto continuerà e diverrà assai più concreto negli anni successivi con le opere prettamente berlinesi di Benjamin, caratterizzate dal marcato substrato autobiografico, e con la serie di programmi radiofonici su Berlino, che coprono un arco di tempo che va dal 1929 al 1938 (se si tiene conto dei vari rifacimenti della Berliner Kindheit). In quanto tentativo di rappresentazione della città alla maniera dei Tableaux parisiens di Baudelaire, di cui Benjamin fu il traduttore, la città-metropoli è concepita in Einbahnstraße come Denkbild2, genere a metà fra prosa letteraria e teoria critica, montaggio di prodotti grafici e impressioni luminose, cartelli stradali e réclames, sorta di palcoscenico dei conflitti sociali, della massa eterogenea sempre in movimento come essa si mostra al viandante, anticipando o concorrendo nel definire temi che appartengono non solo a Benjamin, ma tipici dell'Espressionismo, della Neue Sachlichkeit e del movimento surrealista. Il luogo della città è soprattutto il campo d'azione del flâneur, di cui Benjamin si serve nella sua opera come guida e nello stesso tempo come simbolo vivente delle sue descrizioni di città. 1Così dalla testimonianza di Lisa Fittko, Mein Weg Über die Pyrenäen. Erinnerungen 1940/41. München 1985 2Vedi per ciò: H. Schlaffer, Denkbilder. In: W. Kuttenkeuler (a c. di), Poesie und Politik... 1973; J. Fürnkäs, Surrealismus als Erkenntnis. Walter Benjamin – Weimarer Einbahnstraße und Pariser Passagen. Stuttgart 1988 2 Einbahnstraße è l'opera dove le impressioni metropolitane di Walter Benjamin prendono forma. Questa forma è surrealistica per immagini e scrittura: la scrittura di Benjamin viene accolta dalla città e subito confusa dalle sue molteplici luci, scritte luminose e colori riflessi: Die Schrift, die im gedruckten Buche ein Asyl gefunden hatte, wo sie ihr autonomes Dasein führte, wird unerbittlich von Reklamen auf die Straße hinausgezerrt und den brutalen Heteronomien des wirtschaftlichen Chaos unterstellt. Das ist der strenge Schulgang ihrer neuen Form [...] Film und Reklame drängen die Schrift vollends in die diktatorische Vertikale. Und ehe der Zeitgenosse dazu kommt, ein Buch aufzuschlagen, ist über seine Augen ein so dichtes Gestöber von wandelbaren, farbigen, streitenden Lettern niedergegangen, daß die Chancen seines Eindringens in die archaische Stille des Buches gering geworden sind. Heuschreckenschwärme von Schrift, die heute schon die Sonne des vermeinten Geistes den Großstädtern verfinstern, werden dichter mit jedem folgenden Jahre werden3 Una riflessione simile è compiuta da diversi rappresentanti della avanguardia letteraria: Paul Celan ne darà una prova nella concezione espressa nel suo saggio teorico Der Meridian, Benn nel Provoziertes Leben, Döblin con il suo concetto di Depersonation del romanzo. La vita e le sue complesse relazioni non vengono più viste come organismo unitario, in grado di essere compreso, bensì caotico e complesso. Döblin dà forma nella sua opera ad una visione disarmonica dell'estetica che sarà parte integrante delle moderne avanguardie: della prima poetica di Benn, di Paul Valéry e di Ernst Jünger (di questo in particolare le Meditationen über den 'Meeresgeruch'). La concezione della Wahrnehmung della modernità ha, nella sua trascrizione poetica, come concetto fondamentale quella di frammento, nel senso propagato nel Romanticismo da Friedrich Schlegel e Novalis. Una concezione estetica frammentaria si accoppia ad una descrizione della Großstadt in stato di passeggiatore, di flâneur, 'distratta', dunque: di ciò dà prova Walter Benjamin nella sua Einbahnstraße. Dunque essa è da considerare il laboratorio in cui Benjamin costruirà la sua opera poetica successiva, basata sul ricordo e sul gioco di memoria 'metropolitano'. La strategia dello shock e della sorpresa, del lampo immediato e dell'atmosfera surreale non sarà sempre congeniale a Benjamin. Essa non gli assicurerà quella distanza critica e riflessiva di cui egli abbisogna per i suoi Städtebilder. Il rapporto distanza-vicinanza si rivelerà di eccezionale e vitale importanza nella identificazione della memoria e nella capacità di immortalare i momenti del ricordo nella scrittura. «Zu nahe» sarà ancora una volta l'impressione che Benjamin ricaverà dai suoi ricordi di Parigi, durante la composizione del suo Passagenwerk e su cui puntualizza con acume Peter Szondi alla 3Vereidigter Bücherrevisor. In: Einbahnstraße. G.S. IV, 1, p. 103 3 fine della fondamentale postfazione agli Städtebilder4. Tale distanza creativa Benjamin la troverà retrocedendo nel passato dell'infanzia: la serie di trasmissioni radiofoniche è concentrata e rivolta ad un pubblico di bambini5 , così pure la Berliner Kindheit tratta del ricordo d'infanzia e porterà in seguito la dedica «Meinem lieben Stefan», al figlio, nella cui immagine Benjamin potrà vedere rispecchiato il sentimento della propria fanciullezza. La regressione nell'infanzia è innanzitutto la maniera di poter reificare il ricordo del passato per renderlo allegoria del presente. Vicinanza e lontananza sono i poli entro cui si svolge la dinamica del ricordo: infanzia significa dunque reificazione della dimensione sempre percepita del 'senza patria', dello Heimatloser. Di questa figura Benjamin si serve per descrivere le sensazioni di lui bambino, così come avviene nel racconto appartenente alla Berliner Kindheit intitolato Abreise und Rückkehr: «Daher geschah es, daß ich jedesmal als Heimatloser aus den Ferien kam»6. Patria, anche e soprattutto nel senso di 'casa', e Geborgenheit, concetto di difficile traduzione che trasmette il senso di sicurezza e protezione che solo il calore domestico può donare, sono concetti linguisticamente 'convergenti/divergenti' (basti pensare alla catena etimologica di «Heim-heimlich-heimischunheimlich») e si rivelano in Benjamin eccezionalmente vicini al sentimento della loro assenza, del loro essere 'altrove'. Patria e casa riempiono il ricordo della fanciullezza. Esercitare questo ricordo è per Benjamin un'arte: l'arte di rievocare lontananza e estraneità, Ferne e Fremde, alla ricerca della vicinanza e dell'intimità, Nähe e Vertrautheit, per giungere a quella «befremdende Nähe»7 formulata magistralmente da Adorno nella sua postfazione alla ritrovata Fassung letzter Hand dell'Infanzia berlinese. Essa è l'arte del labirinto, espressa in apertura del brano Tiergarten: Sich in einer Stadt zurechtfinden heißt nicht viel. In einer Stadt sich aber zu verirren, wie man in einem Walde sich verirrt, braucht Schulung [...] Diese Kunst habe ich spät erlernt; sie hat den Traum erfüllt, von dem die ersten Spuren Labyrinthe auf den Löschblättern meiner Hefte waren8 Congegno di memoria 4P. Szondi, Nachwort zu Städtebilder. Frankfurt/M. 1992. In: G.S. IV, 1; cfr. anche Denkbilder, cit. 5I riferimenti al bambino e alla sue necessità percettive sono innumerevoli nell'opera di Benjamin. In Einbahnstraße si pensi solamente al brano Baustelle: “Kinder bilden sich damit ihre Dingwelt [...] Die Normen dieser kleinen Dingwelt müßte man im Auge haben, wenn man vorsätzlich für die Kinder schaffen will”. In: G.S. IV, 1, p. 92 seg. 6G.S. IV, 1, p. 246 7Cfr. T.W. Adorno, Nachwort zu Berliner Kindheit um 1900. Fassung letzter Hand. Frankfurt/M. 1987 8G.S. IV, 1, p. 237 [Sottolineature dell'autore] 4 La prima riflessione di Benjamin sulla descrizione di città risale probabilmente all'anno 1929 e si pone cronologicamente a metà strada fra la composizione di alcuni Städtebilder e la Berliner Chronik, la cellula originaria da cui da lì a pochi anni sarebbe derivata la Berliner Kindheit um 1900: Wenn man alle Städteschilderungen, die es gibt, nach dem Geburtsorte der Verfasser in zwei Gruppen teilen wollte, dann würde sich bestimmt herausstellen, daß die von Einheimischen verfaßten sehr in der Minderzahl sind. Der oberflächliche Anlaß, das Exotische, Pittoreske wirkt nur auf Fremde. Als Einheimischer zum Bild einer Stadt zu kommen, erfordert andere, tiefere Motive. Motive dessen, der ins Vergangene statt ins Ferne reist. Immer wird das Stadtbuch des Einheimischen Verwandtschaft mit Memoiren haben, der Schreiber hat nicht umsonst seine Kindheit am Ort verlebt9 La riflessione è svolta nel contesto della recensione all'opera di Franz Hessel Spazieren in Berlin, intitolata Die Wiederkehr des Flâneurs10 e ha come principale argomento quei «Motive der Tiefe» che ogni descrizione di città richiede quando essa è compiuta da un suo abitante, da un nativo, come ricordo e introspezione, lavoro di memoria e autobiografia e che fa del narratore una sorta di viaggiatore nel passato. Secondo tale riflessione di Benjamin il narratore di viaggio nativo, lo «einheimischer Stadtbeschreiber», sostituisce al viaggio in lontananza dello straniero, a suo modo, un viaggio nel passato, dunque alla Ferne contrappone e reifica il Vergangenes11. La sua descrizione è perciò quella che meno si serve delle categorie del superficiale, della Oberflächlichkeit, di quell'aura di 'esotico' e di 'pittoresco' che quasi sempre grava sul resoconto di viaggio dello straniero. Ma in Benjamin, sostiene Peter Szondi, eccezionalmente entrambe tali categorie della descrizione di città procurano una profondità dell'argomento, una «Tiefe des Motivs»: i suoi Städtebilder di Mosca e di Napoli e di innumerevoli altri luoghi sono ricordi altrettanto 'profondi' con un potenziale autobiografico quanto lo sono le impressioni scritte su Berlino. Il viaggio in lontananza saprebbe dunque in Benjamin sortire lo stesso effetto del viaggio nel passato: entrambi sono un viaggio nell'estraneo, nel territorio 'straniero', nel Fremde, metodi dunque di regressione. Nel territorio straniero, nella lontananza, il narratore si osserva come un visitatore, un viaggiatore: egli si vede con sguardo 'estraniato', «mit entfremdetem Blick»12 e, soprattutto, come un bambino con la sua particolare maniera di percepire e vedere. Benjamin si serve in questa riflessione di concetti quale Asphalt e flânerie e richiama categorie come quella di epicità e di Memoiren: di immenso significato per la comprensione della sua 9Die Wiederkehr des Flâneurs. In: G.S. III, p. 194 [SdA] 10In: G.S. III 11Cfr. P. Szondi, cit. 12Ivi, p. 112 5 percezione della città; essi richiamano il tema dell'infanzia e della memoria. Lo stesso banale concetto di Asphalt è per più di un motivo di estremo valore per un'indagine del fenomeno della Großstadt negli anni Venti (si pensi solamente al film Asphalt di Joe May e alla definizione di Asphaltliteratur). Benjamin annotava già nel 1926: «Vielmehr nicht eben Steine, die an Berlin nicht das Wichtige sind, sondern im Grunde gerade der 'Asphalt'»13 e allo stesso modo nella recensione su Franz Hessel, su cui spesso ritorneremo, Die Wiederkehr des Flâneurs. La descrizione di città porta Benjamin direttamente in contatto con la dimensione dell'infanzia; da qui il titolo della raccolta di impressioni berlinesi. Infanzia berlinese è il testo che offre esemplarmente l'opportunità di comprendere il valore strutturale della distanza per scatenare il congegno della memoria: «[...] mit dem Blick des Kindes, das wir nicht mehr sind, mit dem Blick des Kindes, dem die Stadt noch nicht vertraut war»14. All'inizio di uno dei suoi Städtebilder, Moskau, del 1927, Benjamin descrive per mezzo di un aforisma fulmineo la relazione a doppio filo e a doppio fondo che lega le sue città: «Schneller als Moskau selber lernt man Berlin von Moskau aus sehen»15. L'estraneo e lo sconosciuto della città sconosciuta sono dunque categorie essenziali per poter guadagnare quella distanza verso la propria città che è luogo del ricordo. La riflessione di Benjamin cui sopra ci si richiamava perde, secondo Szondi, di valore ed effetto proprio tenendo conto dell'esperienza narrativa di Benjamin. I suoi Städtebilder debbono in definitiva la loro poeticità alla sostanza metaforica in essi contenuta: essi operano, secondo l'opinione di Szondi, in un campo di forze di nome e immagine, in un «Kraftfeld von Namen und Bild»16, nel quale la normale lingua quotidiana è esautorata dalla propria funzione o affiancata, a seconda dei casi, dalla forza delle immagini e dei nomi: non senza fascino ed effetto Szondi citerà nella sua postfazione l'inizio della descrizione che Benjamin fa di San Gimignano: Worte zu dem zu finden, was man vor Augen hat - wie schwer kann das sein. Wenn sie dann aber kommen, stoßen sie mit kleinen Hämmern gegen das Wirkliche, bis sie das Bild aus ihm wie aus einer kupfernen Platte getrieben haben17 nominando in tal senso anche la dedica che Benjamin assai significativamente aveva fatto a Hugo von Hofmannsthal. Dal reperto della metaforicità si evidenzia il processo di riconoscimento della distanza quale idea strutturale delle operazioni mnemoniche di Walter Benjamin, poiché: Auch die Intention dieser Texte, die Erfahrung des Entfremdeten und Fremden, erfüllt sich erst im Medium der Sprache, die eine Sprache von Bildern ist18 13G.S. III, p. 316 14Ivi, p. 110 15G.S. IV, p. 316 16P. Szondi, cit. p. 118 17G.S. IV, 1, p. 364 6 La metafora, in quanto analogia e raffronto, aiuta il narratore a ritrovare i propri ricordi per mezzo delle associazioni. La metafisica dei nomi ha qui un ruolo importante, in quanto l'autore può ritrovare i propri luoghi per mezzo dei nomi, siano essi luoghi della fantasia o della ritrovata realtà. La distanza, in quanto «Ferne der Zeit oder des Raums», lontananza del tempo o dello spazio, è necessaria per sfuggire all'abituale, al quotidiano e creare immagini illusorie. «Wer aber in seine Vergangenheit reist, dem treten Wirklichkeit und Name stets wieder auseinander» sostiene Szondi, statuendo in tal modo quella metafisica del nome e del luogo che avrà un posto particolare anche nell'analisi di un romanzo di immenso significato per il tema della metropoli quale Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin. «Kaum je verläßt Benjamin, wenn er das Berlin seiner Kindheit oder die fremden Städte schildert, das Bewußtsein dieses Abstands»19. I libri berlinesi Benjamin intraprese due diverse strade nelle sue opere di carattere storico, entrambe tese a giungere ad una visione critica della realtà sociale e politica dell'epoca contemporanea: la prima riguardava fondamentalmente la storiografia del XIX secolo, soprattutto del secondo Impero francese, con le opere Parigi, capitale del XIX secolo e con gli Studi Baudelaireani (in particolare sulla Bohème, sul flâneur e sulla Moderne), con le quali Benjamin intendeva retrocedere storicamente con un'analisi rivolta sì al secolo passato ma proiettata completamente nella comprensione di quello presente. Il fenomeno-metropoli vi era analizzato osservando come la cultura della Großstadt, con tutte le sue contraddizioni, si calasse negli individui, nelle loro azioni e comportamenti fino negli ambiti più intimi della sfera soggettiva. La seconda strada intrapresa da Benjamin si preoccupava di dar vita in maniera del tutto personale ad un'opera fondata sul ricordo biografico dell'epoca dell'inizio del ventesimo secolo, con ciò prendendo apparentemente le distanze dall'analisi della propria epoca, vale a dire quella della Repubblica di Weimar. La trilogia berlinese rappresenta per più d'un verso, soprattutto con le sue intenzioni di genere letterario autobiografico teso a fornire dei tableaux cittadini, dunque con una forte carica emozionale, un'eccezione dal punto di vista estetico nel Gesamtwerk benjaminiano, cadendo la genesi di queste opere perdipiù esattamente fra la prima e la seconda fase del Passagenwerk. Tutto questo non deve tuttavia far pensare ad una posizione particolare del complesso di scritti in cui Walter Benjamin si occupò più intensamente del tema del ricordo e della memoria dal 18P. Szondi, cit., p. 118 19Ivi, p. 119 7 punto di vista della rilevanza estetica, né tantomeno del loro valore in quanto analisi di un'epoca. Con queste opere Benjamin non intese rinunciare al proprio fondamentale intento di assimilare e elaborare intellettualmente il suo tempo: questo distacco gli fu al contrario necessario per giungere ad elaborare, tramite la distanza, un concetto critico contemporaneo. In differenti maniere si è tentato di dare una spiegazione all'interesse mostrato da Benjamin per la grande città. Non certo ultimo appare essere il motivo che nella metropoli-Berlino Benjamin sia nato e vi abbia vissuto stabilmente fino alla propria gioventù. Ma non solo: Benjamin, pur alternando in seguito a Berlino residenze in paesi stranieri, in numerose altre città più o meno grandi, fra le quali spicca su tutte Parigi, non ha mai smesso di essere berlinese, secondo la definizione che dà Adorno: Walter Benjamin, in Berlin geboren, hat bis zur Auswanderung dort gewohnt. Weite Reisen, lange Perioden der Abwesenheit in Paris, Capri, auf den Balearen haben ihn der Stadt nicht abspenstig gemacht20 Se un primo rapporto esistente fra Benjamin e la Großstadt va ricercato nel tema della metropoli, evidenziandolo come fenomeno sociale delle masse che Benjamin descrive nei Denkbilder di Einbahnstraße e osserva e analizza negli scritti su Baudelaire e su Parigi, è nel suo legame con Berlino e con i motivi biografici intrinseci ad esso che esistono le premesse della scrittura intimistica della prosa di città: altrettanto che sul tema della metropoli avanzata, intellettuale e allucinata osservata dal flâneur, il soggetto che nella «Großstadtmenge eintaucht wie ein Reservoir elektrischer Energie»21, tale prosa poggia dunque in Benjamin sulla realtà molto più ristretta del proprio ambiente sociale. Nell'Infanzia berlinese forte è il senso di comunanza e nello stesso tempo di ripugnanza nei confronti dell'ambiente borghese della famiglia. Questo ambiente gli ostacola la visione delle realtà popolari così evidenti nella grande città. Difficile è per il fanciullo che vive nel ricordo concepire, ad esempio, la povertà; ma allo stesso tempo forte è il richiamo di quella Bildung famigliare, così fondamentale sia per la successiva formazione, sia per la propria autocoscienza di ebreo: In meiner Kindheit war ich ein Gefangener des alten und neuen Westens. Mein Clan bewohnte diese beiden Viertel in einer Haltung [...] die aus ihnen ein Ghetto machte [...]. In dies Quartier Besitzender blieb ich geschlossen, ohne um ein anderes zu wissen. Die Armen - für die reichen Kinder meines Alters gab es sie nur als Bettler [...]22 D'altronde lo stesso fatto storico che l'assimilazione ebraica abbia avuto luogo perlopiù a Berlino, nella Berlino della borghesia liberale, è motivo vitale di interesse per Benjamin. 20T.W. Adorno, Nachwort, cit., p. 111 21Über einige Motive bei Baudelaire. In: G.S. I, 2, p. 630 22G.S. IV, 1, p. 287 8 Nelle descrizioni di città scritte da Benjamin le persone appaiono secondarie rispetto ai luoghi, esse retrocedono di un passo per far posto a quelle che sono state definite le «Arenen»23 degli incontri, per cui i suoi ricordi possono a buon diritto essere definiti dei resoconti 'urbani'. A questa regola fanno eccezione solamente le brevi e intense raffigurazioni della madre. Nell'introduzione all'edizione del 1938 della Berliner Kindheit Benjamin, sentendo avvicinarsi il momento dell'esilio e del congedo dalla sua città, riteneva di dover far retrocedere il «Gefühl der Sehnsucht» e i «biographische Züge» dalla sua raccolta, concentrandosi non tanto su casuali dati biografici quanto sulla irrecuperabilità sociale del passato di una «Großstadtkindheit» per poter suscitare in se stesso un ricordo, da preservare in seguito, della propria città senza il rischio di cadere in una nostalgica malinconia: Das hat es mit sich gebracht, daß die biographischen Züge, die eher in der Kontinuität als in der Tiefe der Erfahrung sich abzeichnen, in diesen Versuchen ganz zurücktreten. Mit ihnen die Physiognomien - die meiner Familie wie die meiner Kameraden. Dagegen habe ich mich bemüht, der Bilder habhaft zu werden, in denen die Erfahrung der Großstadt in einem Kinde der Bürgerklasse sich niederschlägt24 Berliner Chronik, iniziata nel 1931-32, più tardi rimaneggiata nella Berliner Kindheit, rappresenta il primo stadio di quest'ultima, a cui Benjamin lavorò intensamente a partire dal 1933 e a cui fornisce i rudimenti del tema autobiografico. La struttura particolarmente complicata e la difficoltà nell'individuare una precisa genesi testuale dei singoli elementi della raccolta Berliner Kindheit è dovuta alla contemporaneità di tutta la fase di composizione alla presa di potere dei nazionalsocialisti in Germania e agli eventi legati ad essa. Benché del tutto sciolti da tali eventi appaiono essere la scelta dei temi e il contenuto dei numerosi racconti, strettamente legati ad essi sono i travagliati momenti della composizione e della successiva pubblicazione. Il primo brano pubblicato della Berliner Kindheit porta il titolo Weihnachtsengel e apparve nella «Vossische Zeitung». Il brano Blumeshof 12, apparso sotto lo pseudonimo di Detlef Holz il 14 agosto 1934 nella «Frankfurter Zeitung» è, invece, l'ultimo dei brani pubblicati in Germania. Già nel 1934 Benjamin tentò di offrire una versione riveduta del suo libro d'infanzia a diverse case editrici. I piani di pubblicazione dell'opera sono comunque molteplici e confusi, così come le modifiche, i rimaneggiamenti e le aggiunte e ancora nel 1938 Benjamin, scrivendo a Karl Thieme, parla di una «Vermehrung und eingehende Umarbeitung»25 della sua 23Cfr. G. Smith, Benjamins Berlin. In: T. Buddensteig, K. Düwell u.a. (a c. di), Wissenschaften in Berlin. 3. Band. Berlin 1987, p. 98. Egli afferma: “Doch letzten Endes geht es ihm nicht um die einzelne Stadt, sondern um die 'Dinghaftigkeit' der Städte, der einzigen Schmelztigel historischer Erfahrung in der Industriegesellschaft”. 24G.S. VII, p. 385 25Cfr. G.S. IV, 2, p. 967. Anmerkungen des Herausgebers 9 raccolta, cosi che nello stesso anno apparivano nella rivista «Maß und Wert» ulteriori brani. A questa situazione editoriale non particolarmente chiara va aggiunta la scoperta sensazionale fatta nel 1981 negli archivi della Bibliothéque Nationale di Parigi di alcuni manoscritti di Benjamin, fatti risalire al 1938, della seconda opera berlinese che definivano e rimettevano ordine nella sequenza e nel numero dei brani, con decisivi interventi e tagli. Essa fu pubblicata per la prima volta dall'archivio T. W. Adorno come «Fassung letzter Hand», considerata come la definitiva stesura voluta da Benjamin dell'opera sull'infanzia, integrata nelle opere complete nel settimo volume delle Gesammelte Schriften come «Handexemplar komplett» e posto alla base dell'edizione critica insieme ai precedenti esemplari denominati «Stefan», «Felicitas» e «Adorno». Secondo Gershom Scholem, amico di Benjamin e uno dei curatori della sua opera completa, le annotazioni dalla raccolta Berliner Chronik, benché esse stesse di natura biografica, per tre quinti non trovano riscontro nella Berliner Kindheit. La differenza maggiore fra le due versioni risiederebbe proprio nel diverso peso che l'autore ritenne di dare agli episodi dell'infanzia e alla loro trascrizione. L'interruzione improvvisa della prima raccolta, composta in maniera troppo confusa e frettolosa, significò una concentrazione dei temi autobiografici tratti dal solo periodo della gioventù e dello studio, che pur conservando nella loro conversione poetico-letteraria tratti biografici ben precisi, mancano della poeticità tutta particolare del tema dell'infanzia. Scholem definì il cambiamento di visuale così profondo fra la Cronaca berlinese e il libro d'infanzia una «literarische Metamorphose»26: l'immediata e reale biografia dello scrittore scompare nel posteriore rifacimento a favore del resoconto delle esperienze dell'infanzia, che acquista il valore di metafora di tutta una esistenza nell'Infanzia berlinese. In questo posteriore scritto autobiografico scompaiono sorprendentemente i richiami a motivi ideologici in Benjamin, per esempio riguardo ai convincimenti comunisti dell'autore. Il primo scritto autobiografico, Berliner Chronik, trasmette nel lettore quella sensazione di 'mediatezza' di cui già si è parlato sopra riguardo alla riflessione contenuta nella recensione a Hessel del 1929. Appare qui, cioé, come l'esperienza di Benjamin sia 'mediata', dunque su un piano estetico 'trasmessa', e certamente da intendersi come conversione poetico-letteraria di precedenti esperienze biografiche dell'autore che vengono ora trasposte in una più recente: Paris vécu. Gelebtes Berlin klingt weniger gut, ist aber gleich wirklich. Und nicht nur um diesen Titel handelt sichs hier, sondern in der Tat ist Paris in der Reihe der freiwilligen oder unfreiwilligen Geleiter, deren Reihe ich hier mit dem Kinderfräulein begonnen habe, der vierte [sc. Führer, NdR]. Soll ichs mit einem Wort sagen, was ich Paris für diese Betrachtung verdanke, so ist es: der Vorbehalt27 26Cfr. G. Scholem, Nachwort zu Berliner Chronik. Frankfurt/M. 1970, p. 126 27Berliner Chronik, cit., p. 13 f. [SdA] 10 Benjamin sceglieva, fra diversi altri luoghi e persone, dunque Parigi come sua 'guida' di Berlino e dei suoi ricordi: Kaum wäre es mir möglich, dem Hin und Wieder dieser Erinnerung an mein frühestes Stadtleben mich zu überlassen, stünden nicht von Paris her streng umschrieben die beiden einzigen Formen von mir [...]28 La quinta 'guida' della sua esperienza di città è per Benjamin Franz Hessel, al quale originariamente era dedicata la Berliner Chronik, insieme ad Asja Lacis, Sascha Stone e Gershom Scholem. Benjamin nomina Hessel in connessione soprattutto con quella che nella Berliner Chronik è definita la «Nachfeier» delle loro passeggiate parigine-berlinesi, quell’epilogo di festa «die unsern Pariser Gängen nun in der Heimatstadt wie in einem Hafen gegeben war»29. Tuttavia la successiva recensione a Hessel rappresenta uno strumento per ben comprendere il contesto di queste 'mediazioni' di esperienze: «Den Typus des Flâneurs schuf ja Paris»30 è lì annotato, riproponendo quella differenza di fondo fra il nativo e lo straniero nella percezione di una città: Die großen Reminiszenzen, die historischen Schauer - sie sind dem wahren Flâneur ja ein Bettel, den er gerne dem Reisenden überläßt31. Benjamin passa in rassegna i propri ricordi di Parigi, considerata ancora una volta il suo «vierter Führer», attraverso letture ed esperienze, per poterle utilizzare quali metafore per la scoperta di Berlino sotto un nuovo punto di vista. Questa Parigi gli ha insegnato a conoscere e praticare le arti del vagare e dell'errare, «Die Irrekünste» della città, cioé a riscoprire quei labirinti che Benjamin già disegnava sulla carta assorbente dei suoi quaderni di scuola. Poiché l'unica e vera maniera di conoscere una città è proprio quella di 'perdersi' in essa, «sich zu verirren». Ciò è quanto scrive Benjamin nella Berliner Chronik e, con un certo sintomatico spostamento degli elementi della frase, ripete in apertura della Berliner Kindheit32. In essa la città-guida Parigi, protagonista di questa esperienza di scoperta, scompare: «Diese Kunst habe ich später gelernt»33 vi è lì annotato solamente. In Berliner Chronik Benjamin si lascia andare ad una sorta di memoria topografica che non riguarda determinati personaggi, bensì circoli di persone del suo mondo giovanile. E' il procedimento grazie al quale gli giunge alla memoria il ricordo del poeta suo amico e giovane suicida Fritz Heinle: 28Ivi, p. 14 29Ivi, p. 17 30G.S. III, p. 195 31Ivi 32Cfr. G.S. IV, 1, p 237 33Ivi 11 [...] mir scheint heute dennoch der Versuch, dem Toten den äußern Raum, in dem er lebte, ja das Zimmer, in welchem er 'gemeldet' war, nachzuzeichnen, befugter als den geistigen zu umfassen, in welchem er dichtete34 Berlino qui riaffiora prepotentemente nel ricordo: Vielleicht aber ist das auch nur, weil er in diesem letzten, wichtigsten Jahre seines Lebens den Raum durchschnitt, in dem ich geboren bin. Heinles Berlin war zugleich das Berlin des 'Heims'35. Per Benjamin è il caso di parlare di una spirito epico e topografico insieme della sua prosa autobiografica, in primo luogo per quanto riguarda le due opere 'berlinesi', così pure di un'atmosfera di congedo dalla realtà biografica che sta al centro di queste memorie, in particolare della Berliner Kindheit: un «Abschiednehmen» che è realmente e tragicamente documentato nella biografia dell'autore. Questa atmosfera lo accomuna alla sensibilità di Hessel, «Ein wahrer Briefsteller des Scheidens», come Benjamin lo definisce, riconoscendogli parimenti nell'opera Spazieren in Berlin la più profonda conoscenza del mondo del flâneur: «Man hat die Welt des Flâneurs niemals tiefer erfaßt als es Hessel mit diesen Worten getan hat»36. Questo sentimento è documentato perfettamente nell'introduzione alla Fassung letzter Hand, ove si legge: Im Jahr 1932, als ich im Ausland war, begann mir klar zu werden, daß ich in Bälde einen längeren, vielleicht einen dauernden Abschied von der Stadt, in der ich geboren bin, würde nehmen müssen37 Benjamin evitò però accuratamente, almeno nella Kindheit, di fare apparire il sentimento della Sehnsucht, suscitato in lui dallo scatenarsi del ricordo dell'infanzia: «Das Gefühl der Sehnsucht durfte dabei über den Geist ebensowenig Herr werden». Come detto precedentemente, Benjamin desiderava conservare un tipo di ricordo scevro da quel complesso di relazioni normalmente instaurato dalla memoria, per ciò rinunciando al dato biografico esplicito. Grazie ai suoi numerosi, temporanei, distacchi da quel luogo egli poteva considerarsi 'vaccinato' nei confronti di tale meccanismo che, pur suscitando lo Heimweh, non avrebbe, come l'antidoto sul corpo sano, portato con sé la malattia della Sehnsucht: Ich hatte das Verfahren der Impfung mehrmals in meinem inneren Leben als heilsam erfahren; ich hielt mich auch in dieser Lage daran und rief die Bilder, die im Exil das Heimweh am stärksten zu wecken pflegen - die der Kindheit - mit Absicht in mir hervor38 34Berliner Chronik, cit., p. 37 35Ivi 36Ivi, p. 198 37G.S. VII, 1, p. 385. Vedi nota 24! 38Ivi 12 La Berliner Kindheit, nella sua ultima versione, inizia con il brano Loggien. Le logge sono pur'esse nient'altro che un ricordo topografico dell'ambiente di casa, legato alla più generale atmosfera berlinese, che egli coglie nei rumori, nelle abitudini, nei ritmi lavorativi di un cortile e, ovviamente, all'infanzia: Wie eine Mutter, die das Neugeborene an ihre Brust legt ohne es zu wecken, verfährt das Leben lange Zeit mit der noch zarten Erinnerung an die Kindheit. Nichts kräftigte die meine inniger als der Blick in Höfe, von deren dunklen Loggien eine, die im Sommer von Markisen beschattet wurde, für mich die Wiege war, in die die Stadt den neuen Bürger legte39 Nel loggiato Benjamin riconosce un elemento costitutivo della sua memoria e della topografia berlinese. Nei loggiati dei cortili si svolgeva la vita della cerchia di persone che costituiscono il suo passato; nella loro caratteristica, nella loro 'inabitabilità', in cui inizia Berlino, la 'citta-dio', egli ritrova il ricordo semplicemente rievocando il luogo ed i suoi colori: essi sono ora luogo di consolazione per chi nel vivere non riesce a trovarsi a suo agio: Es ist vielleicht des Trostes wegen, der in ihrer Unbewohnbarkeit für den liegt, der selber nicht mehr recht zum Wohnen kommt. An ihnen hat die Behausung des Berliners ihre Grenze. Berlin - der Stadtgott selber - beginnt in ihnen40 La dimensione storica dei ricordi benjaminiani è per la prima volta chiaramente percepibile nel brano Siegessäule, il monumento berlinese alla vittoria di Sedan. Tale percezione non è peraltro differente dalla tipica caratteristica benjaminiana di risalire alla descrizione per mezzo di soffusi richiami a realtà storiche e a ricordi personali, surreali stati d'animo misti alla rilevazione di particolari incuneatisi nella memoria. Così la colonna sta nel centro dell'ampia piazza come la cifra rossa della data di un calendario sul foglio di carta. Benjamin si sovviene delle parate cui ogni anno gli era dato di assistere da bambino nel giorno della vittoria, pur non comprendendo il vuoto ripetersi di un evento nella sua celebrazione e, dunque, il significato di un tale monumento: «Mit der Niederlage der Franzosen schien die Weltgeschichte in ihr glorreiches Grab gesunken, über dem diese Säule die Stele war»41. Secondo Benjamin, perciò, lo si sarebbe dovuto abbattere con l'ultimo giorno di Sedan, e 'strappato' come il foglio del calendario. Gli affreschi dorati e le immagini scolpite degli eroi sul piedistallo incutono nel bambino lo stesso terrore della raffigurazione di un inferno dantesco: essi rappresentano un contraltare alla grazia che circonda in alto sulla colonna l'immagine della Vittoria. I visitatori in cima al 39Ivi, p. 386 40Ivi, p. 388 41Ivi, p. 389 13 monumento sono per Benjamin l'immagine di un «Ewiger Sonntag» o, con gioco di parole, di un «ewiger Sedantag»42. Benjamin si servì ampiamente di una visione critica degli aspetti deleteri dell'architettura cittadina quali assurdi fenomeni della civiltà, per assecondare la sua necessità di descrivere la decadenza della moderna Großstadt e soprattutto per fornire un quadro social-psicologico degli individui metropolitani e della modernità. Le nuove condizioni di vita, il decadimento architettonico, la decadenza delle figure sono a Benjamin concetti strumentali per la raffigurazione e una nuova classificazione di un particolare tipo umano, il cittadino, lo «Städter» che troviamo rappresentato nel flâneur, quale elemento costitutivo - si direbbe - di una nuova visione surreale dell'umanità: la massa, così come Siegfried Krakauer si era concentrato nella descrizione del tipo dell'impiegato, lo «Angestellter», nel suo omonimo libro, quale tipo sociale frutto dell'epoca moderna e tipico della società berlinese. Ma ciò avviene in particolare nel lavoro su Franz Hessel, nel motivo del flâneur ancora una volta, al quale la città-metropoli si schiude come nuova Landschaft e allo stesso tempo essa lo racchiude in sé come Stube. La sua conoscenza del vivere, nel senso di «Wohnen», è definita da Benjamin nella Wiederkehr des Flâneurs una «vollendete Kunst»43: Der Masse - und mit ihr lebt der Flâneur - sind die glänzenden, emaillierten Firmenschilder so gut und besser ein Wandschmuck wie im Salon der Bürger ein Ölgemälde, Brandmauern ihr Schreibpult, Zeitungskioske ihre Bibliotheken, Briefkästen ihre Bronzen, Bänke ihr Boudoir und die Caféterrasse der Erker, von wo sie auf ihr Hauswesen herabsieht. Wo am Gitter Asphaltarbeiter [SdA] den Rock hängen haben, ist ihr Vestibül[...]44 e così pure nella posteriore recensione di Benjamin all'opera di Werner Hegemann Das steinerne Berlin del 1930. Lì appariva, insieme ai duri attacchi del materialista storico all'autore, una evidente critica della qualità abitativa nella metropoli Berlino e un pronostico delle conseguenze culturali di cui un tale fenomeno sarebbe stato gravido. Nella Wiederkehr des Flâneurs Benjamin parla tuttavia del flâneur come del «Priester des genius loci» che festeggia gli ultimi 42Ivi, p. 390. Willi Bolle descrive il modo in cui Benjamin riesce a 'spiegare' le parti più recondite delle città, soprattutto di Parigi. Parla di un «surrealistisches Sich-Hingeben» alla fantasia e al 'narcotico' dei nomi delle strade e insieme di una 'decrepitezza', «Hinfälligkeit», della metropoli stessa (cfr. W. Bolle, Walter Benjamin als Physiognomiker der modernen Metropole. In: F.-R. Hausmann, L. Jäger u.a. (a c. di), Literatur und Gesellschaft. Festschrift für Theo Buck. Tübingen 1990. L'autore parla, nel contesto di una trattazione della letteratura sulla percezione della città e della modernità di un “Topos der Hinfälligkeit der modernen Metropole” in autori quali Benjamin, Baudelaire e lo scrittore brasiliano e romanziere Mario de Andrade: egli deduce da questa “Topos-Erfahrung” i seguenti slogan: “Skepsis gegenüber der Ideologie des Fortschritts”; “Kritischer Kosmopolitismus”; “Ironie und Sarkasmus gegenüber den herrschenden Phantasmagorien”; “Auseinandersetzung mit Bildern des Wahnsinns”). 43G.S. III, pg. 195, 196 44Ivi 14 monumenti di una passata Wohnkultur45: in quest'epoca di trapasso la Geborgenheit domestica è sempre più minacciata di divenire luogo di passaggio, «Durchgangsraum». Allo «Stadtflâneur» è demandato in prospettiva il compito, puramente estetico, di salvaguardare questi ambienti di cultura domestica, l'antichità dei quartieri, senza perciò assumere un «am Musealen haftenden Blick»: Berlin hat wenige Tore, aber dieser große Schwellenkundige kennt die geringeren Übergänge, die Stadt von Flachland, Stadtteil von Stadtteil abheben: Baustellen, Brücken, Stadtbahnbögen und Squares46 La figura dell'avventuriero metropolitano, con il suo raggio d'azione nella Großstadt, porta Benjamin a sviluppare un ulteriore complesso di relazioni fra flâneur e città: essa diviene luogo 'selvaggio', come per l'eroe del romanzo di Döblin, Franz Biberkopf, per il quale la città rappresenta oramai una giungla, luogo del permanente verificarsi di nuove e inaspettate relazioni. Egli è dunque un flâneur potenziato, che girovaga per la città e trasforma la sua esistenza in sempre nuove, surreali situazioni. Il mondo della prostituzione, in cui del tutto incurante si muove l'eroe di Döblin, in cui Hessel possiede le sue muse e Benjamin sublima i sensi di colpa della sua appartenenza ebraica (si pensi al brano Bettler und Huren della Kindheit e allo Erwachen des Sexus) è stato analizzato usando il metodo della considerazione sociologica della rappresentazione di città compiuta da Benjamin, per esempio ancora nel Passagenwerk in un'annotazione dal titolo Prostitution, Spiel47. Il protagonista del romanzo che più d'ogni altro ha rappresentato nella letteratura tedesca degli anni Venti il tema della metropoli e di quella Berlino che della letteratura di quegli anni fu il fulcro, può dunque a buon titolo essere considerato una figura-chiave per una teoria della rappresentazione di città sotto specie sociologica. Nel brano Mummerehlen Benjamin spiega la nuova maniera di 'leggere' città e immagini: essa rappresenta il «magisches Lesen» del flâneur, di cui si parla ancora nel brano Über das mimetische Vermögen. Una particolare tecnica di lettura può essere la sola forma con la quale rendere accessibile la percezione della città in Benjamin; la lettura 'dirige' il lettore e agisce su di lui come uno stupefacente. Gli esperimenti con l'hashish di Benjamin e i suoi resoconti scritti, per esempio nel brano Haschisch in Marseille, sono una testimonianza di tali impressioni riguardo alla capacità di percepire e di usare la fantasia, una capacità che si rivela altamente complessa e del tutto personale: passato e 45Ivi 46Ivi, p. 197 47Cfr. M. Opitz, Lesen und Flanieren. Über das Lesen von Städten, vom Flanieren in Büchern. In: Ders., E. Wizisla (a c. di), Aber ein Sturm weht vom Paradiese her. Texte zu Walter Benjamin. Leipzig 1992, p. 162 seg. ed inoltre F. Shor, Walter Benjamin as a Guide. Images on Modern City. In: Jewish Social Studies. Vol. XLIV, Nr. 1. New York 1982. In part. p. 43 15 presente, soggettivo e fantastico si confondono nei racconti d'infanzia della Berliner Kindheit, che non per nulla porta come motto d'apertura una frase dedotta da Benjamin dalle sue esperienze in stato di allucinazione sotto l'effetto di droghe. La lettura è una sorta di 'illuminazione' profana48, il flâneur è un 'illuminato', così pure il lettore. Così Benjamin descrive il romanzo di Hessel e la sua concezione stessa di percezione. Nel suo saggio sul Surrealismo egli descriverà come questo abbia contribuito ad aprire nuovi spazi e procedimenti d'immagine, nuove vie d'accesso verso insospettabili ambiti della soggettività. Benjamin e l'opera epica di Alfred Döblin In conclusione alla sua metafora 'marina', secondo cui l'epico sarebbe nel romanzo di Alfred Döblin un mare, il cui sale costituirebbe l'elemento fondamentale per garantire la Dauerhaftigkeit, la durabilità, all'opera d'arte, Benjamin definì il romanziere come colui che è veramente solo e oramai si è congedato dal popolo: «Der wirklich Einsame, der sich vom Volke verabschiedet hat»: Was den Roman vom eigentlichen Epos trennt, fühlt jeder, der an die homerischen Werke oder an das dantesche denkt. Das mündlich Tradierbare, das Gut der Epik, ist von anderer Beschaffenheit als das, was den Bestand des Romans ausmacht.49 Negli stessi anni in cui si dedicava alla composizione della sua trilogia berlinese, Benjamin trovava in Alfred Döblin esemplarmente formulate e in buona parte realizzate le proprie teorie circa il tentativo di promuovere nel romanzo «neue sehr epische Möglichkeiten». La teoria di Döblin del romanzo quale epos moderno e la concezione di questo quale procedimento di percezione, «Wahrnehmungsvorgang», quale organo 'collettivo', nonché la sua tecnica del montaggio sperimentata in Berlin Alexanderplatz colsero l'attenzione e il plauso di Benjamin. Con ciò va precisato come tre opere di Döblin trovarono una esemplare collocazione in Benjamin, in seguito alle sue tesi sulla restituzione dell'epico nel romanzo: i due scritti teorici susseguenti Schriftstellerei und Dichtung e Der Bau des epischen Werks degli anni 1928-29 e il romanzo berlinese. Soprattutto le tesi di Döblin sull'inadeguatezza di qualsiasi intellettualismo e di ogni forma di strumentalizzazione ideologica nel racconto, a favore, invece, di un ricupero delle forme realmente poetiche trovarono corrispondenza nella difesa compiuta da Benjamin della «Restitution des Epischen» che egli aveva 48Cfr. in particolare M. Opitz, cit., p. 174. Vedi inoltre il saggio di Benjamin Sürrealismus, in: G.S. II, 1, p. 297 seg. 49Cfr. W. Benjamin, Krisis des Romans. Zu Döblins ‘Berlin Alexanderplatz’. In: G.S. III, p. 230 seg. Oppure in: Angelus Novus. Ausgew. Schriften, 2. Frankfurt/M. 1966, p. 437 16 formulato esplicitamente sia nella recensione a Döblin sia alle Kalendergeschichten di O.M. Graf del 1930. La pura e semplice forma del romanzo così come questa si era andata costituendo non era, in seguito ad una crisi del racconto, secondo Döblin e ancor più secondo Benjamin, più praticabile. Ogni tentativo in tal senso si sarebbe scontrato contro l'incommensurabilità dell'esistenza umana: «Einen Roman schreiben heißt in der Darstellung des menschlichen Daseins das Inkommensurable auf die Spitze treiben»50. Essa poteva ancora in Lukacs conservare il proprio diritto ad esistere come un'espressione epica quale categoria di «Epopöe eines Zeitalters», in cui la totalità dell'esistenza era data oramai per esclusa dall'opera d'arte. Benjamin ammirò senza mezzi termini questa nuova forma epica teorizzata programmaticamente da Döblin. In Berlin Alexanderplatz egli vedeva compiuta la sintesi di teoria e prassi di tale nuova forma: so hohe Wellen von Ereignis und Reflex [...] die Gischt der wirklich gesprochenen Sprache [...]. Stilprinzip dieses Buches ist die Montage [...]. Die Montage sprengt den «Roman», sprengt ihn im Aufbau wie auch stilistisch, und eröffnet neue, sehr epische Möglichkeiten. Im Formalen vor allem. Das Material der Montage ist ja durchaus kein beliebiges. Echte Montage beruht auf dem Dokument. Der Dadaismus hat sich in seinem fanatischen Kampf gegen das Kunstwerk durch sie [sc. die Montage, NdR] das tägliche Leben zum Bundesgenossen gemacht [...]. Hier ist sie zum ersten Male für die Epik nutzbar geworden.51 Schiudendone la singolarità linguistica, Döblin ha voluto soprattutto dare, secondo Benjamin, una descrizione dell'ambiente berlinese del romanzo. La tecnica del montaggio compiuta per mezzo di una descrizione 'collagistica' di versi biblici, di statistiche e canzoni e del dialetto berlinese gli è stata in tal senso necessaria per descrivere il proletariato urbano nella Großstadt che agisce in un sottobosco cittadino e tende ad emanciparsi dalle proprie condizioni esistenziali. Così pure per descrivere l'agire quotidiano dei furfanti, categoria cui appartiene di malavoglia l'appena uscito di galera Franz Biberkopf. Nel romanzo di Döblin, Benjamin ammirava il 'gesto' linguistico dei personaggi, quello che lui chiamava il «Berlinischer Sprachgeist», interpretato esemplarmente da Biberkopf, e definì l'intero romanzo un «Monument des Berlinischen» [SdA]52. La concezione del narratore non era quella di rendere una descrizione heimatkünstlerisch della città, secondo il canone esistente negli anni Dieci e Venti, spesso fraintesa arbitrariamente nel romanzo. 50G.S. III, p. 230 seg. 51Ivi, p. 232. Inoltre: A. Döblin, Nachwort zu einem Neudruck, 1955. In: id., Berlin Alexanderplatz, hrsg. und mit einem Nachwort von W. Muschg. München 1965 52Ivi, p. 233 17 Egli parla attraverso la città come da un megafono, unendo suoni, immagini e impressioni. In tal senso, ma disgiunte dalla trattazione del romanzo di Döblin, vanno considerate le numerose digressioni e annotazioni nell'opera di Benjamin in cui egli analizzava le particolarità del dialetto berlinese, non per ultimo nella trasmissione radiofonica «Berliner Dialekt». Benjamin vedeva questo protagonista del romanzo in stretto contatto con la città ed ancora più stretto contatto con quella piazza che insieme danno il nome al romanzo e che di questo si rivelano i veri 'reggenti': Eintausend Meter, länger ist der Radius nicht, der den Bannkreis dieser Existenz um den Platz schlägt. Der Alexanderplatz regiert sein Dasein. Ein grausamer Regent, wenn man will53 sapendo valutare quella capacità döbliniana di descrivere la miseria di quel mondo. Tale descrizione della miseria ha per Benjamin un lato 'gioviale' che egli riconosce e stima nella sua recensione. Secondo Benjamin, Döblin ha saputo, inoltre, dimostrare l'essenza borghese all'interno del romanzo, i cui contorni Benjamin disamina servendosi del raffronto preciso con la forza d'immagine dei criminali-borghesi descritti da Charles Dickens. Benjamin ha sviscerato, tematizzandolo sociologicamente, il motivo della omogeneità fra mondo dei furfanti e piccola borghesia nel romanzo Berlin Alexanderplatz, problematizzandolo con implicazioni che alla fine della sua recensione rendono evidente un certo portato ideologico. In tal senso l'evoluzione di Biberkopf nei suoi tentativi di scalata sociale altro non rappresenterebbe che l'istinto sociale di innalzamento verso una dimensione borghese, presente anche nel protettore di prostitute: ciò che Benjamin ha chiamato la «heroische Metamorphose des bürgerlichen Bewußtseins»54. Nel riconoscere questo Benjamin non trascurava di riconoscere nell'opera di Döblin soprattutto la principale caratteristica della sua epicità, che ha permesso al suo autore di fare di Biberkopf un rappresentante di tutti i furfanti dei bassifondi berlinesi e unica qualità capace di fare di quest'opera un evento 'duraturo'. Il personaggio Biberkopf, con le sue qualità di esemplificazione epica, è per sempre legato a questo romanzo e all'epoca in esso descritta. Il «Butterbrot» cui Biberkopf ambisce, il pane imburrato, metafora della sua - piccolo-borghese - pretesa di 'guadagnare' dalla vita e indicato come slogan all'inizio del romanzo, diverrà un destino autodistruttivo che lo trascinerà attraverso il romanzo. Benjamin avvertì la forte simbolicità di questo personaggio. La chiusura della recensione è una dichiarazione altrettanto istruttiva di Benjamin: là dove termina l'esemplarità del personaggio, termina la sua vera importanza per il lettore. Il 53Ivi, p. 234 54Ivi, p. 235 18 concludersi di questa esemplarità è significativamente indicata nella registrazione del cambiamento di nome del protagonista, alla quale Benjamin rivolge particolare attenzione. La chiusura del romanzo è un atto di estasi; l'eroe del romanzo sperimenta il suo tracollo, prologo di un'ultima, ma anche definitiva, metamorfosi del suo destino: questa è anche l'ultima trasformazione che è data di osservare al lettore e che Benjamin ha definito una trasformazione mistico-ebraica del nome e a cui significativamente si richiamerà anche Adorno nella sua postfazione alla Berliner Kindheit. Fassung letzter Hand, con la figura dello Strepitolino che vivrà fintanto che nessuno conoscerà il suo nome. La città-Babilonia, la «Hure Babylon», giocherà un ultimo ruolo nel tentativo di riappropriarsi di Franz Karl, che, risparmiato dalla morte, andrà incontro ad una nuova vita. Döblin e i nuovi metodi di rappresentazione: «Entseelte Realität Totalität des Wirklichen - 'Depersonation' des Erzählers» Negli anni fra il 1913 e il 1917 Alfred Döblin compose due significativi scritti teorici sul romanzo: il cosiddetto «Programma berlinese» e le Bemerkungen zum Roman. La crisi della narrazione, che richiedeva lo sviluppo di nuovi metodi di rappresentazione, fu tematizzata da Döblin doppiamente: attraverso la sperimentazione delle più moderne tendenze dei moderni processi e attraverso la rappresentazione personale e altamente originale della attualità degli anni Venti. Gli inizi letterari di Döblin sono da ricercare principalmente nell'Espressionismo, senza trascurare le tendenze del Dadaismo, del Surrealismo e della Neue Sachlichkeit, mentre le sue più lontane radici affondano sicuramente nell'esperienza del Naturalismo. Il «Programma berlinese» di Döblin apparve nel 1913 nella rivista «Der Sturm»: esso significò in quegli anni una delle più forti rotture con la tradizione. A Döblin interessava porre in atto una discussione con l'avanguardia letteraria; egli si opponeva radicalmente al romanzo psicologico del XIX secolo. Oggetto del romanzo avrebbe dovuto solamente essere la cosiddetta «entseelte Realität», sola capace di mostrare una totalità del reale, appunto, nella sua forma concreta, senza alcuna motivazione psicologica e senza un destino personale del protagonista. A questo livellamento del protagonista faceva da contraltare la - con un neologismo Döbliniano - cosiddetta Depersonation del narratore. Le grandi mostre futuriste a Berlino negli anni 1912/1913 esercitarono una forte influenza sulle nuove correnti letterarie, soprattutto sullo stesso Döblin, il cui programma è per certi aspetti fortemente in debito con le tesi futuriste. Le prime righe del «Programma berlinese» già proponevano un taglio netto con qualsiasi tradizione precedente: «Io intendo dire che ogni buon speculatore, banchiere, soldato è un migliore poeta che la maggior parte dei nostri moderni autori» (Aufsätze zur Literatur. Olten/Freiburg 1962, p. 15). Il romanzo psicologico veniva degradato a sorta di fantasmagoria e apostrofato quale Romanpsychologie (ivi, 16): «scrivere non significa più mangiarsi 19 le unghie o pulirsi i denti con lo stuzzicadenti, bensì è oramai una faccenda pubblica» (15). Le aporie della moderna, ingenua, psicologia, erano l'esempio cui Döblin poteva richiamarsi per mostrare l'inconsistenza di un'arte che è solo in grado di chiedere il 'perché' e il 'come' degli avvenimenti. Döblin propugnava al contrario un'arte descrittiva capace di affrontare e concepire la simultaneità, il «Neben-» e «Durcheinander» della realtà. Il merito di Döblin giace sul terreno estetico: a lui spetta il merito di aver formulato la rappresentazione estetica dell'arte moderna nella letteratura, tale percezione estetica è detta «Sinnlichkeit der Gestaltungsformel»: «Le formule discorsive servono solo a scopi pratici (...) Mai e poi mai possono essere usate come microscopio o canocchiale della realtà, tali lenti opache (...) Bisogna dunque tener fede al signicato originale, recondito: con ciò si è colto il reale, tolta la magìa alla parola ed evitate le astrazioni artificiali» (16 ss.). In tal senso l'assai versato critico e teorico dei generi Döblin di quegli anni giungeva alla constatazione che solo una totale emancipazione del lettore potesse andare incontro alle necessità del moderno romanzo: «Il lettore in totale autonomia, solo lui potrà giudicare, non l'autore (...). L'egemonia dell'autore deve venire interrotta per sempre. Il Naturalismo non è un Ismo storico, ma l'eterno tuffo che sempre affiora nell'arte (...). Psicologismo, erotismo devono venir spazzati via; 'Depersonazione' dell'autore (...). Il romanzo deve assistere alla sua rinascita come opera d'arte, epos moderno» (17 ss.). Esternazioni assai simili, come si vede, all'Espressionismo e al Futurismo. Questa esigenza di totalità del reale della grande epica era presente anche in buona parte dei romanzieri e teorici contemporanei a Döblin. Della premessa hegeliana per cui l'epos significherebbe la totalità di un mondo in un'azione individuale, Döblin accettava come espressamente vincolante solo la prima parte: egli vedeva nell'epos un mezzo di rappresentazione attuale della totalità di un mondo, mentre dubitava che questa potesse essere racchiusa in un'azione individuale. Con ciò veniva definitivamente concepita l'incompatibilità nel mondo moderno di destino personale e totalità. Nelle Bemerkungen zum Roman Döblin insisteva sull'inattualità estetica di azione personale, psicologia del protagonista e azione: solo una 'incapacità di lettura' di un pubblico poteva giustificare una tale prosa, una «gedichtete Psychologie» (20). Tale incapacità era, secondo Döblin, fortemente promossa dallo stile giornalistico e cinematografico. Tale ambivalente posizione di Döblin nei confronti in particolare del cinema non deve essere sottaciuta, se si pensa che nello stesso «Programma berlinese» ad esso era riconosciuto un ruolo progressivo. Interessante è ancora notare in questo scritto il confronto costruttivo fra dramma e romanzo. Benchè egli concedesse che il dramma originario avesse ben poco a che spartire con un'azione, egli tuttavia riconosceva l'insuperabile separazione fra la teoria epica del romanzo e l'odierno dramma. Tale trattazione e problematizzazione del dramma da parte di Döblin non aveva solo un senso strumentale per la sua teoria ma rimanda direttamente al 20 rapporto altamente problematico con Brecht, che rimane a margine della nostra trattazione. L'uomo non è né oggetto del dramma, né del romanzo, «entrambi non hanno nulla a che vedere con l'importanza attribuita al singolo eroe e ai suoi problemi (...). Se un romanzo non può venire tagliato in dieci parti come un lombrico e queste parti si muovono autonomamente, allora non serve a niente» (21). Tale a ragione famosa formula 'del lombrico' di Döblin, che egli aveva costruito sull'esempio degli autori classici («essi mostrano - dice - che ogni momento si giustifica autonomamente, così come ogni attimo della nostra vita è una perfetta realtà», 21), racchiudeva la fondamentale esigenza di una forma epica del romanzo: ogni dettaglio deve poter portare in sé una propria realtà. In tale confrontazione l'autore non dovrebbe in alcun modo supplire il lettore, non ordinare 'autorialmente', strutturarlo prospettivamente. L'autore, come già nella drammaturgia di Brecht, dovrebbe tenersi lontano da qualsiasi ambizione artistica: «la vita narra in maniera insuperabile, aggiungervi dell'arte è spesso del tutto superfluo» (22). Lo stile è puro arnese nelle mani di uno scultore: «già di per sé un errore, quando il solo stile viene notato» (22) - esso deve essere puro «maglio» nelle mani dell'autore. Lo scritto terminava con la constatazione della 'immensità' dell'epica, cui necessita una estrema forza rappresentativa e che si raccorda alla metafora 'marina' di Benjamin. Il principio di «Ausschaltung des Erzählers» e di messa al bando dell'individualismo borghese era valso quasi inviolabilmente per il romanzo Berlin Alexanderplatz. Attraverso questo stesso romanzo era però nata quasi contemporaneamente una nuova e più differenziata concezione del ruolo del protagonista all'interno della descrizione delle masse: la vita del protagonista, concepito dall'autore con lo scopo di narrare, reso dall'Io-narratore, cede il passo ad un io immediato un «weltunmittelbares Ich». Tale postulata immediatezza, realizzazione di un nuovo significato dell'Io, fu certamente gravida di consequenze dal punto di vista estetico, del tutto ravvisabili nel successivo scritto teorico Der Bau des epischen Werks. Essa non significò, d'altro canto, una rottura repentina con le visioni precedenti, in quanto già nelle loro realizzazioni pratiche gli eventi sociali erano comunque legati ad un personaggio centrale. Benchè cosciente delle difficoltà della sua teoria, Döblin soggiaceva in questi anni al fascino di una dimensione preletteraria, che fra l'altro, nell'annullamento dell'ordine sintattico, sta alla base del concetto di tecnica del montaggio. Pur non potendo più totalmente rimanere fedele alla precedente impostazione, Döblin si rese conto della necessità di un personaggio-eroe per giungere a quel «weltunmittelbares Ich» teorizzato nel Der Bau des epischen Werks degli anni 1928/29, il quale è da considerarsi pendant teorico del romanzo. Il processo di salvataggio dell'elemento epico, raggiunto facendo successivamente leva sulla tradizione orale a scapito della tradizione narrativa scritta, ciò che Benjamin con termini simili aveva definito il «mündlich Tradierbare» o «Das Gut der Epik» nella 21 sua ormai nota recensione (cfr. p.14), trovava riscontro e fu in parte destato dalla relazione su Schriftstellerei und Dichtung tenuta da Döblin all'Accademia delle Scienze prussiana a Berlino nel 1928, in occasione della sua ammissione quale membro. Döblin aprì la sua relazione con lo slogan programmatico: «Delimitazione del romanzo dall'opera d'arte epica orale» e «delimitazione di attività letteraria e poesia». Egli tendeva dunque a contrapporre una attività letteraria tout-court a quella di Dichtkunst, cioé il romanzo all'opera epica, ciò che storicamente significava un delimitarsi dagli scrittori proletario-rivoluzionari attorno a J.R. Becher che in quegli anni presentavano la loro letteratura cosiddetta del Reportage. Il tentativo di distogliere la vera Dichtkunst dalla sfera di interesse dell'autore e dalla sua volontà di legittimazione per porla in una sfera a sé stante, come «autochtones Gewächs» (94), sembra essere il principale interesse dello scritto di Döblin. Al romanzo, in quanto prodotto «hochkomisch und lächerlich» (92) fu praticamente tolta qualsiasi patente poetica: esso si era rivelato storicamente, in quanto Entwicklungsroman con ambizione psicologica e didascalica, o peggio come foglio agitatorio e palcoscenico d'esibizione, sorta di «cesso letterario» (sic!). Ancora nel Der Bau des epischen Werks Döblin introdusse il concetto di Bericht, processo verbale, racconto-relazione. Mentre la tradizionale concezione di Bericht era ancora da Döblin considerata uno «Schwindel mit verteilten Rollen» (105), sorta di imbroglio dunque, egli tese in seguito a rivalutare tale forma e a introdurla come nuova categoria all'interno della sua teoria del romanzo. Anche nella sua forma di relazione formale, la forma più alta del Bericht assume per Döblin dopo la crisi della finzione epica e dell'illusione un valore sostanziale all'interno della sua poetica, in forza di quella «esemplarità dell'azione e delle figure» (106). Nel programma döbliniano l'epico consegue tale esemplarità andando incontro alla realtà con insistenza, «an ihre Sachlichkeit, ihr Blut, ihren Geruch» (107) ed esso deve in seguito urtare e 'logorare' la realtà: «durchstoßen». L'originalità di tale azione resa dalla forma relazionale la distingue esemplarmente da qualsiasi finzione: «si tratta - dice Döblin - di situazioni elementari, basilari, dell'esistenza umana (...). Sì, queste figure, non idee platoniche, questo Ulisse, Don Chisciotte, Dante che peregrina (...)» (106). La sovranità dello scrittore epico gli permetterà persino la relazione su fatti non accaduti, il cosiddetto «Fabulieren»: un relazionare di 'non-fatti', un gioco con la realtà. A tal punto appare giunta la capacità di astrazione dell'epico che Döblin giunge in questo stesso periodo a teorizzare la 'permeabilità' degli stili e delle forme come nuova e vera chance dello scrittore epico e della sua supposta modernità. La forma relazionale giunge a tale perfezione metodica da essere definita da Döblin una «cortina di ferro» che è giunto il momento di alzare. Il «grande epico», cioé la natura, non necessariamente si ferma alla sola forma oggettiva: «consiglio agli autori di essere drammatici, lirici, riflessivi (...) La forma epica non è certo una forma immobile» (113). A tale apertura fa riscontro una 22 uguale riscoperta dell'Io autoriale, una mediazione fra oggettività della narrazione e l'Io immediato, fra il dogma della cortina, la natura come 'grande epico' e un nuovo Io, ciò che significò sicuramente in parte un ritorno a posizioni pre-naturalistiche: «può l'autore intervenire nell'opera epica?, può gettarsi in questo mondo? Risposta: sì, può e deve. Ora mi rammento come stavano le cose, quel che ha fatto Dante nella Divina Commedia: egli stesso girovagava all'interno della sua opera, ha dato un colpetto alle sue figure, si è immischiato insomma» (114). Finale La pretesa di un modello di un'epica arcaica rimase in Döblin per buona parte elusa e senza conseguenze pratiche. Döblin divenne consapevole di come un'epica fondata su modelli antichi si dovesse richiamare non tanto alle sue tecniche, ma necessitasse invece di un'attitudine originale e primitiva: «giungere persino oltre Omero» (114). Nel suo tentativo di rinnovamento epico Döblin considerò l'evidenza che il nuovo ruolo dell'autore all'interno dello spazio d'azione sociale richiedeva soluzioni differenziate. La dissoluzione della «cortina di ferro» è da considerarsi pur'essa un tentativo sulla strada verso nuove possibilità espressive. Döblin intraprese nel suo maggiore saggio teorico una vera e propria «andata alle madri» (115) verso l'opera epica del futuro: una «Sprengung der Tradition», una «Berichtform», in cui la poesia epica «ci possa nuovamente interessare (...) e poter fare di essa una forma del tutto libera» (115). L'intervento del narratore nel romanzo berlinese non smembra questa costruzione teorica. Tale intervento avviene in forma paritetica con quello del lettore e dell'eroe centrale: dunque è da scartare una volontà del tutto soggettiva nel tarda produzione di Döblin. Parimenti il ritrovamento del ruolo del protagonista narrato è da considerarsi come apertura nei confronti del mondo e della natura e tale apertura fu definitivamente inaugurata da Döblin con l'introduzione del concetto di «weltunmittelbares Ich». L'eroe è in tal senso puro protagonista sul quale vengono concentrati gli avvenimenti psichici di una società di massa: egli non è, se non in senso limitato, oggetto della rappresentazione. Le anteriori teorie e i principi della prima fase di riflessione poetologica e di concezione epica di Döblin sono solo accennati in Berlin Alexanderplatz, in quanto l'eroe riacquista lentamente un ruolo tradizionale. Le caratteristiche del tradizionale «Entwicklungsroman» sono nei loro principi riconoscibili nel romanzo: la semplicità e la solitudine del protagonista; la ‘didattica’ della storia e lo sviluppo della figura centrale, che percorre però il suo cammino in una direzione opposta a quella del tradizionale eroe: da un'attiva autocoscienza verso un passivo piegarsi-alla-vita e, in definitiva, un'accettazione del destino senza opposizione. L'ironia, come principio narrativo dell’ umorismo epico, coltivato da Döblin indirettamente già nel suo distanziarsi da ogni forma di estremismo e di riflessione letteraria, trovava pure realizzazione nel romanzo come soluzione alle aporie e alle contraddizioni dello stesso, che nel suo finale è letteralmente 23 pervaso dai «toni taglienti di una ironia demoniaca»55. Nel principio di ironia, concepito da Lukács come «oggettività del romanzo»56 si possono identificare i maggiori punti di contatto fra le posizioni di Th. Mann e quelle di Döblin in quegli anni. Mann condivideva con Lukács proprio la pretesa dell'ironia come elemento condizionante per il raggiungimento di una totalità nel romanzo moderno, anche se quest'ultimo pensava primariamente al romanzo biografico basato sulla figura del protagonista e ne teorizzava la necessità per il romanzo in forza di quella «Psychologie des Romanhelden» che si oggettiva nelle crisi e nelle «crepe» delle moderne situazioni storiche: «Die Form des Abenteuers, des Eigenwertes der Innerlichkeit»; il suo contenuto è la «Geschichte der Seele»57 che esce da sé per conoscersi. Dunque opposto alla concezione teorica di Döblin. Nella tecnica di narrazione collettiva di Döblin si evidenzia il tentativo di una regressione verso elementi primari dell'epico, cioé situazioni elementari dell'esistenza, come già affermato. In tal modo Döblin realizzò un tipo di romanzo che nei suoi principi appariva il più moderno della sua epoca, nei suoi risultati il più tradizionale. Esso appare disposto in tre sostanziali unità epiche: - La rappresentazione della totalità attraverso la città, con un procedimento 'collagistico'; - La rappresentazione dell'azione individuale, in forma di storia truculenta (o Moritat), e con carattere moralizzante; - L'esposizione di un significato intrinseco, con l'uso di citazioni bibliche e mitologiche. Berlin Alexanderplatz si rivela essere il romanzo più moderno e più tradizionale in quanto in esso confluiscono i due elementi portanti della riflessione Döbliniana: le situazioni elementari dell'agire umano e la dinamica dell'esistenza nella modernità. L'epica di questa rappresentazione è colta nella fatale biografia del protagonista, nella sua 'carriera' fino alla definitva accettazione del proprio destino, che sta esemplarmente per una totalità di destini-vittima (tale caratteristica era già contenuta programmaticamente nel romanzo del 1915 Die drei Sprünge des Wanglun, ove il ribelle oppone al proprio destino il saggio nonopporsi). Il protagonista può desumere questo atteggiamento del 'non-piùcontrapporsi', del 'piegarsi', dalle numerose parabole, sapientemente distribuite nel testo. Tale tema della Einwilligung trova il suo pendant didascalico nelle scene del mattatoio e nel racconto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo, sottoposto nello stile Döbliniano ad un particolare processo di riqualificazione. Gli eroi che incarnano i sopraccitati elementi sono l'operaio occasionale Franz Biberkopf e la grande città Berlino. Questa non è 55 Cfr. A. Schöne, Berlin Alexanderplatz. In: B. v. Wiese (a c. di), Der deutsche Roman. Vol. 2. Düsseldorf 1965, p. 303 56 Cfr. G. Lukács, Theorie des Romans. Neuwied/Berlin 1963, p. 79 57 Cfr. id., ivi, p. 73 ss. 24 dunque solo palcoscenico o milieu, bensì un protagonista equiparato all'interno della struttura del romanzo. Nonostante il superamento successivo dell'ostilità verso il dato personale, per Döblin rimaneva valido il principio dell'imperfezione di questo per una dimostrazione della totalità esistenziale: il destino del singolo viene dunque rapportato allo «umgebendes Ganze», da cui la formula: «Das Wahre kommt nur massenhaft vor», teorizzata per ultimo nello scritto Der Geist des naturalistischen Zeitalters del 1924. La città è conseguentemente un Korallenstock, organismo vivente, di cui Biberkopf è la 'sonda', strumento di introspezione. Se la permeabilità degli stili e dei tempi è stata considerata da Döblin la caratteristica precipua dell'opera epica, in maniera suggestiva si manifesta la complessità e frammentarietà del mondo nello stile del romanzo: uno stile associativo, dinamico e caotico, funzionante mediante corrispondenze e assonanze, identità di Io e realtà, che spesso trasgrediscono in modo aberrante gli stessi collegamenti di senso formale per rendere con onomatopee e associazioni illogiche la tensione dialettica fra protagonista e ambiente circostante. La narrazione di aspetti così caotici avviene sovente «in statu nascendi» (123), permettendo al racconto quella che Fritz Martini ha chiamato la «Sichtbarkeit des Werdens»58 come impalcatura della tecnica del montaggio. Questa tecnica permise a Döblin le sue «sfacettature caleidoscopiche» e quei fulminanti cambi di narratore e prospettiva, postulati nella supposta affinità con lo stile di Dos Passos e in generale con lo stile cinematografico. Tale intreccio, «Gleichzeitigkeit im Jetzt», l'incapacità del protagonista di giungere ad un discorso esteriore autonomo, denota un'appartenenza allo stile del discorso vissuto, del flusso di coscienza, anche se la prospettiva del racconto non è sufficientemente evidente per supporre una simile corrispondenza dello stile di Döblin con il monologo interiore, in cui la posizione del narratore è fin troppo collocata prospetticamente all'interno del o dei protagonisti. Alla coincidenza di forma e contenuto spesso non è garantita in quest'opera una validità generale, in quanto il narratore usa sovente distanziarsi criticamente dalla figura narrata, per prendere posizione 'accanto' ad essa. In tal modo avviene quella che Schöne definisce una «equiparazione» di narratore, protagonisti, compilatori di testi di réclames e manifesti, in cui la citazione diviene, in quanto «elemento del montaggio»59 «oggetto d'uso». Se il processo del suo sviluppo a uomo sociale può essere considerato un atto di presa di coscienza di Franz Biberkopf, l'uso della citazione in quanto «dottrina di solidarietà» diviene atto di 'depersonizzazione', in un «parlare collettivo» e nella interpretazione corale del romanzo. (Luca Renzi) 58 Cfr. F. Martini, Das Wagnis der Sprache, p. 362 59 Cfr. A. Schöne, ivi, p. 314