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NicolaLagioia Riportando tuttoacasa Einaudi © 2009 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: un disegno di gipi. Questo e-book contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. 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Sempre che ci sia, un orso… Nella pioggia di messaggi che raggiunse la città l’ultima estate in cui avrei potuto battermi per dimostrare che la famosa mappa di Billy Bones aveva un fondo di verità, il rompicapo contenuto nel precedente articolo di giornale è il testo del piú importante spot televisivo mandato in onda in quel periodo, lo stesso in cui Amadeus fece faville alla notte degli Oscar e il mio paese cessò di avere formalmente una religione di Stato. Ma io affrontai l’articolo con il distratto sentimento di superiorità che riservavo ai quotidiani: compresi a malapena che un attore di film western aveva vinto una battaglia elettorale al di là dell’oceano, chiusi le pagine del giornale e passai a leggere L’isola del tesoro per la terza volta consecutiva. Già l’anno dopo, non avrei piú avuto tempo per i libri: Vincenzo e Giuseppe sarebbero entrati nella mia vita con l’effetto di una tromba d’aria. Ma poi finirono per trascinarmi nel baratro di rimpianti e notti insonni dal quale non sono ancora uscito. Oltre che sul romanzo di Stevenson, avevo passato luglio e agosto sui fumetti di Tintin e su qualunque storia in cui ci fosse un minorenne che andava in giro per il mondo senza ricevere telefonate dai genitori. Questa improvvisa voglia di lontananza offuscava la vista su ciò che era a due passi. Non mi sembrò ad esempio cosí strano che il nuovo Concordato tra Santa Sede e Repubblica italiana potesse convivere col cardinale Cesare Baronio, l’oscuro porporato del XVI secolo che, in barba alla teoria eliocentrica, prestava il nome al liceo scientifico a cui i miei meditavano di iscrivermi. Di fatto si trattava di un cancello divorato dalla ruggine oltre il quale due grandi costruzioni in tufo bianco lottavano per non ridursi in polvere sotto il peso di qualche errore di progettazione. Tra le sbarre del cancello e la piccola biblioteca troneggiava la palestra a cielo aperto, un manto d’asfalto su cui una mano di vernice avrebbe ancora delimitato il campo di pallavolo se le intemperie non lo avessero ridotto a un democratico paesaggio lunare. Ma noi studenti non ce ne lamentammo mai una volta, e gridavamo «fuori!» quando la palla superava una linea di gioco ricostruita dall’immaginazione con assoluta sicurezza. Cosí come non protestammo quando poche dita di ghiaccio fecero esplodere le tubature, e tutti durante l’inverno meridionale – lungo e fastidioso quanto un battito di ciglia davanti allo splendore del creato – seguimmo le lezioni senza mai toglierci i cappotti. D’altra parte i miei genitori, vedendomi svanire ogni mattina oltre il sentiero accidentato che portava al Cesare Baronio, erano certi di avermi affidato a una qualche Eton del Sud. «Studia, mi raccomando, ti è stata data un’opportunità che io non ho mai avuto…» Di sera, in soggiorno, devastato da oscuri calcoli sui prestiti bancari, mio padre pronunciava queste parole aggrottando le sopracciglia in un disegno doloroso. Fece la stessa cosa a pochi giorni dall’inizio del mio ultimo anno alle medie inferiori, prima di trascinarmi come al solito in uno dei suoi giri di lavoro. Per lui, la scuola che non aveva frequentato oltre il primo semestre di un istituto tecnico era come l’ermo colle di Leopardi. Gli sfuggiva il fatto che i nuovi sistemi pedagogici usavano la parafrasi come strumento suicida – «quella collina mi è sempre piaciuta», si sforzava di tradurre il nostro professore di italiano –, di conseguenza l’istruzione pubblica era Leopardi senza l’ausilio della poesia, quindi nient’altro che le Marche come massima intuizione cosmopolita. Anzi, la Puglia. Peggio: Bari, nel 1984. Papà si era tirato fuori dall’indigenza contando solo sugli errori a proprio nome; dunque, poteva sorvolare i monotoni bassopiani della parificazione scolastica senza licenza di volo. Eppure, da qualche tempo, aveva cominciato a parlare per frasi fatte. Ti è stata data un’opportunitàcheionon ho mai avuto era la riduzione del monologo di Amleto per interni famigliari: infinite repliche in tutti i condomini del paese. I suoi cali di originalità marciavano quell’anno di pari passo col dinamismo degli affari. Distrutto da un forsennato viavai per le province del borbonico su un camioncino bianco stracolmo di merletti, dalle sedute con direttori di banca specializzati in terrorismo finanziario (il rapimento di Aldo Moro non era stato vissuto a piazza del Gesú con l’apprensione che in casa mia si riservava all’eventualità di «ritirare il fido»), si presentava davanti a me e alla mamma in uno stato di consunta schizofrenia che, a seconda delle giornate, ci vedeva ridotti sul lastrico oppure ricchi, ricchissimi, padroni di un futuro che aveva come sbocco metafisico la croce bianca su sfondo rosso degli istituti di credito elvetici. Mio padre veniva da generazioni di senzaniente che avevano lavorato terre altrui, pulito cessi altrui, combattuto guerre in cui non si capiva mai chi avesse vinto cosa, ricevendone in cambio non il sofisticato concetto borghese di umiliazione ma doni secolari quali fucilazioni, sfratti, manicomi, setticemie, infanticidi… Ma adesso, era successo che si era spalancato un varco. C’era ottimismo nell’aria. Il vento dell’autunno alimentava nella calotta artica dei nostri cuori uno sfrenato desiderio di beni voluttuari: auto sportive da Maranello, pellicce di visone da Pavia, persino merletti e altra costosa biancheria che per le figlie di una nuova generazione di notabili non era piú la via obbligata al matrimonio, ma: «Oh, un vero capo di artigianato pugliese!» Le vendevamo dappertutto, quelle lenzuola ricamate a mano. Anche per noi era arrivato il tempo di fare un po’ di soldi. «Se da ragazzo non fossi andato a vendere accappatoi di spugna in Costa Azzurra, mi spieghi come me la sarei cavata l’altro giorno coi funzionari per l’importexport?» Eppure quella sera, quando mancava ancora un anno all’inizio del liceo, mentre parlava dei vantaggi che avrei ottenuto grazie all’apprendimento istituzionale delle lingue straniere, per la prima volta avvertii nella sua voce una nota stonata. Fino all’anno prima, avevo preso i sermoni di papà come qualcosa di logico e lineare. Il trascorrere del tempo doveva avere complicato la mia intelligenza, o forse erano i libri e i fumetti divorati negli ultimi mesi. Cosí, quando disse: «Ma con il mio francese non potrei mai sedere al tavolo di un ministro o di un ambasciatore. Tu, invece…», non mi sembrò soltanto una benedizione. Senza smettere di parlarmi, iniziò a controllare i documenti per il nostro giro del giorno dopo. Si rigirava preoccupato i fogli tra le mani. Sapevo che da quelle carte venivano solo buone notizie, ma era come se papà non reggesse alla comparsa dell’ottavo zero sulle tabelle di fatturazione. A parole, aveva sempre trasformato la passata miseria in un punto d’onore mostrando un grande orgoglio da self made man. Ma sotto sotto le cose stavano diversamente: quella miseria era una colpa, una sorta di peccato originale che il denaro poteva adesso incenerire facendogli strappare il biglietto per l’ingresso in società. Salito a bordo, però, continuava a sentirsi un clandestino. Se non a lui, sarebbe toccato a suo figlio muoversi senza imbarazzo tra i quadranti della civiltà – cosí, mentre parlava della mia futura abilità di poliglotta, sventolava idealmente un fazzoletto verso una nave appena salpata per gli oceani. Ma a parte il fatto che non stavo andando da nessuna parte, in quel congedo immaginario temetti di riconoscere qualcosa di simile al rancore. «Su, vattene a letto», disse, e poi si trasferí nel piccolo studio tra il bagno e la cucina, dove avrebbe continuato a fare calcoli su calcoli. Avrei voluto ubbidirgli. Invece rimasi ancora un’ora nel soggiorno, ipnotizzato dal grande schermo del Brionvega dove un comico con uno smoking dalle code svolazzanti leggeva quotidiani ripescati da un cestino della spazzatura in compagnia di un gigantesco coniglio rosa che saltellava avanti e indietro senza mai uscire dall’inquadratura. Il giorno dopo, papà mi svegliò all’alba. Facemmo colazione con latte e caffè mentre il rosa del cielo contagiava lentamente la cucina. Si spazzolò i calzoni da qualche briciola di fetta biscottata. Accostò l’orecchio alla porta del corridoio per verificare se la mamma fosse sveglia. «Si parte?» disse raccogliendo dal pavimento la sua ventiquattrore di pelle. Uscimmo da Bari a bordo di questo Fiorino bianco il cui chilometraggio era stato azzerato un numero di volte sufficiente a coprire parecchi giri della linea equatoriale. Oltre i confini della città si aprivano scenari leonardeschi con l’aggiunta dei metalli economici: campi di fango a bordo strada, cieli carichi di nubi e dappertutto muri sottili di lamiera che avanzavano di giorno in giorno per contenere l’espansione della proprietà privata. Il Fiorino rallentò a pochi metri dai primi centri abitati. Bitetto, Triggiano, Capurso, Cellamare… Nei paesini ci aspettavano le ricamatrici. Mio padre le riforniva di lino, di seta, di cotone e loro trasformavano quei semplici tessuti nella dote di qualche ricca sposa di cui non si avevano notizie fuori dai rendiconti dei dettaglianti. Erano donne anziane, spesso vecchissime. Le loro case, ai margini di vicoletti o strade senza uscita, erano strani paradossi temporali: si respirava un’atmosfera prerisorgimentale ma tra i bracieri, i tavolacci di legno, le gabbie piene di conigli c’erano anche televisori e radiosveglie. Ogni casa poteva vantare una vedova, un orfano, e almeno un figlio mongoloide. E anche un divieto a certe adolescenti di entrare in cucina perché le tempeste ormonali non traviassero la monta della crema. Poi c’eravamo noi, che ai loro occhi eravamo una specie di mediazione col divino. Quel giorno, a Sovereto, ci toccò la casa di Annina. Avevo presente questa ottantenne piena di glaucomi, visto che eravamo passati a visitarla durante il giro dell’anno precedente. Di figlie con handicap mentali ne aveva addirittura cinque, tutte impiegate come ricamatrici. È chiaro che qualcosa non andava tra lei e suo marito a livello cromosomico, ma la famiglia di Annina aveva la fortuna di occupare un gradino cosí basso della scala sociale da essere praticamente inattaccabile: i problemi delle «ragazze», lí dentro, venivano considerati una sofferenza come un’altra. Il loro regno era una continua ubriacatura di sorrisi senza denti, casse da morto, bisbigli incomprensibili, conigli scuoiati in una specie di sgabuzzino sacrificale che ricordavo molto bene: l’anno prima, dopo aver sentito uno squittio oltre la porta chiusa sul retro della cucina, mi ci ero avventurato spinto dalla curiosità. Quando ne uscii avevo gli occhi traboccanti di lacrime, e loro – Annina, le figlie mongoloidi, le altre ricamatrici – iniziarono a sommergermi di risate. Ridevano fragorosamente, contagiosamente, a singhiozzi, scoprendo le gengive, battendosi le mani sulle cosce. Io mi calmai all’istante perché c’era, nella larghezza di quelle risate, il piú potente contravveleno dello scherno, cioè la comprensione. Per loro era assolutamente normale che un bambino di città scoppiasse a piangere davanti allo sgozzamento di un coniglio – ridendo, cercavano di offrirmi una patente di appartenenza alla vita, con tutta la sua naturale impudicizia, la sua oscena irreversibilità. Io smisi subito di piangere. Loro smisero di ridere. Un minuto di raccoglimento per la sorte dei roditori. D’accordo i conigli sgozzati. D’accordo il braciere e le gengive scoperte. Ma lemani! Che cos’erano le mani di quelle donne… Secche, legnose, piene di nodi e chiazze rosse, portavano l’ago da una parte all’altra del tessuto con una velocità, una regolarità, una precisione. Sembravano governate non da un dio, ma da un destino anteriore alle scritture. Neanche la malattia: solo la morte poteva fermarle. Per il resto se ne fregavano dei glaucomi e dei disturbi mentali: era sufficiente che almeno una volta ci fosse stato un dialogo tra il loro tessuto nervoso e il corpo cellulare di un singolo neurone – ed ecco un punto croce, un punto smock, un fiore di seta, un grappolo d’uva… Non appena quel giorno entrammo in casa loro, almeno venti mani smisero di ricamare e si posarono in attesa sulle gonne. Diciotto occhi si abbassarono. Annina abbandonò la sedia e ci venne incontro. Mi accarezzò la faccia. Poi abbracciò mio padre con la profonda benevolenza che si potrebbe riservare a un figlio fragile che ha incontrato la fortuna. Iniziarono a parlarsi in dialetto. Tra quei violenti raddoppi di consonanti non ero mai stato a mio agio: dei loro discorsi non capivo quasi niente. Guardandomi intorno, colsi però una serie di movimenti che fino all’anno prima non mi erano saltati all’occhio. Fatta eccezione per quella che avevo ribattezzato «la quinta figlia mongoloide di Annina» – una quarantenne dai muscoli contratti che continuava a lavorare senza lasciarsi distrarre da niente e da nessuno – il nostro arrivo aveva rotto la routine delle altre ricamatrici. Mentre mio padre e Annina continuavano a parlare, due di loro si diressero con discrezione verso la cucina. Un’altra alleggerí il passo e imboccò la scalinata che portava in magazzino. Annina fece cenno a mio padre di aspettare, si allontanò verso la camera da letto. Tornò da noi circondata dal silenzio, con una pila di lenzuola ricamate tra le braccia. Poggiò la merce sul tavolo. Papà le consegnò la busta col contante. La stanza tornò a riempirsi allora di voci e di sorrisi: le altre donne iniziarono a muoversi verso di noi, all’improvviso eravamo completamente circondati. Portavano il caffè. Portavano vassoi pieni di ciliegie, cartellate, fichi secchi e altri doni votivi. Dicevano: «Vogliate gradire! vogliate gradire!» con uno sguardo di riconoscenza che superava il soffitto della casa. Come la maggior parte dei ragazzi, soffrivo di una certa ipersensibilità a basso costo per le situazioni dispari. Eppure, non avvertii una vera sproporzione di ruoli. Noi avevamo il Fiorino e la Bmw, tra poco saremmo andati a stare in villa mentre loro vivevano in una specie di stamberga e interpretavano il suffragio universale come un supplemento d’obbedienza agli abbagli dei mariti. Però il denaro non le contaminava come faceva con noi. Fuori dalla casa di Annina il nostro rapporto non avrebbe potuto definirsi se non col nome di sfruttamento. Ma dentro… dentro si consumavano questi bonsai di scene bibliche: l’assenza di malizia spaccava interi oceani di studi sulla lotta di classe. Merito loro, è ovvio – la gentile sottomissione di Annina non diventava mai cerimoniosità. Mio padre se ne rendeva conto. Abbassava la testa. Dopo aver caricato i corredi sul furgone, tornò in casa e salutò Annina stringendola con forza. Allora gli crollarono le gambe: sentiva nelle ossa della donna la consistenza del lungo, del pesantissimo sonno in cui restavano sepolti tutti i nostri antenati, e da cui lui invece si era appena risvegliato. Tornare indietro era impossibile. Fuori c’era la luce, c’era l’incubo ammaestrato della civiltà. Ed eccoci perfettamente svegli: sfrecciamo sulla tangenziale appena rimessa a nuovo. Superiamo i camion e le moto e le auto della polizia. Risplende il ferro del guardrail. Risplende il bianco delle cliniche private mentre la radio annuncia che Ronald Reagan è stato eletto per la seconda volta presidente degli Stati Uniti grazie anche all’efficacia di uno spot televisivo in cui viene messa in dubbio l’esistenza di un orso che pure passeggia minacciosamente per i boschi – una presenza (dice lo speaker) di cui si parla per l’intera durata della pubblicità senza mai menzionare l’Unione Sovietica, né la minaccia implicita di tutto il video: la guerra nucleare. Mio padre svoltò a destra e cosí uscimmo dalla tangenziale. Dopo le ricamatrici ci toccò il primo dei grossisti. Parcheggiammo davanti a un capannone solitario oltre il quale si aprivano le vigne e gli uliveti. Superato il magazzino vero e proprio c’era l’ufficio di Loprieno. Il suo sancta santorum si riduceva a una tavola di compensato tenuta su con dei sostegni a X, una discreta quantità di bolle d’accompagnamento sparse ovunque, l’immagine di san Nicola protettore dei commerci piazzata su una parete a cui le infiltrazioni d’acqua conferivano un irriproducibile colore giallo marmorizzato. Piú erano tenuti male, quegli uffici, piú era certo che la baracca macinava un mucchio di quattrini. Il grossista era un omone dalle labbra carnose alleggerito da un riporto svolazzante. Lui e papà si riempirono di pacche sulle spalle lamentandosi vorticosamente delle tasse, dei contributi da versare ai dipendenti, e quindi anche della propria onestà. Poi la geremiade si interruppe e papà iniziò a sfilare gli articoli del campionario dagli involucri di plastica. Loprieno mise mano ai libri contabili. Vennero sparati prezzi, quantità, termini di pagamento. E ognuno accusò l’altro di volerlo rovinare. Dopo un’ora di sfiancanti contrattazioni, firmarono quello che c’era da firmare e si strinsero la mano. Richiusero le cartelline con un sorriso tirato. L’accordo non aveva esaurito la mimica necessaria a sostenere la pantomima delle trattative: restava come un residuo di violenza che non apparteneva piú a nessuno… iniziarono a puntare me. Le loro facce adesso erano gravi, ispirate e in qualche modo sincrone. «Tuo padre… – fece Loprieno con aria costernata – non puoi nemmeno immaginare che cosa ha fatto per il vostro bene… – Sospirò: – Avresti dovuto vederlo vent’anni fa. Si alzava alle cinque del mattino per andare a spezzarsi la schiena giú ai mercati generali. Scaricava queste casse pesanti come…» Qui diede un secco fendente nell’aria carica di fumo, un gesto che avrebbe voluto sottolineare la necessità di proteggermi dal ricordo dei sacrifici che mio padre si era dovuto sobbarcare per via di un figlio che, all’epoca – non potei fare a meno di considerare con un principio di bruciore nello stomaco –, era meno di un’ipotesi astratta. Cercò di commentare il sospirato arrivo del benessere con un altro gesto fisico: stese il braccio verso la finestra come se i campi circostanti, e i palazzi in costruzione che si vedevano oltre i campi, e i centri abitati e l’intera provincia fossero stati nostri, o aspettassero solo lo squillo di cavalleria degli agenti di commercio per venire conquistati in uno spasimo febbrile di cambiali. Cosí, nel giro di pochi secondi, anche Loprieno, che fino a quel momento era stato solo un volgare opportunista, acquistò statura nelle parole di mio padre: «Capisci? è partito che faceva il ragazzo di bottega…» «Ah, ma cosa vuoi che possano capire!» confidò nervosamente a voce alta mio padre a Loprieno o Loprieno a mio padre (a quel punto erano intercambiabili nell’estasi). «Sono nati con il culo tra i batuffoli d’ovatta», rispose l’altro senza neanche prendersi il disturbo di incontrare il mio sguardo. La piccola nota stonata che avevo avvertito nella voce di papà la sera prima, era adesso un rumore di ferri arrugginiti che stridevano tra loro. Mi si appannò la vista. Eravamo al momento dei saluti. Sulle facce di mio padre e di Loprieno c’era adesso una vaga simpatia che si sarebbe trasformata in assoluta estraneità quando ognuno fosse tornato ai fatti propri. Prima di richiudere la porta, Loprieno non resistette alla tentazione: sentí il bisogno di benedirmi con uno scappellotto amichevole. Spaf. Rabbrividii. Avrei voluto rovesciargli la scrivania. E fracassargli il telefono contro la parete. Seguii invece papà oltre l’uscita del magazzino, dove le foglie degli ulivi passavano dal verde scuro al verde chiaro cullate dal vento di metà settembre. Guardai gli alberi. Un nuovo tipo di rabbia iniziò a rifluirmi nelle vene. Adesso eravamo di nuovo sulla tangenziale. Superavamo ambulanze, motorini, camion a rimorchio aprendoci un varco nel piombo della tarda mattinata. Il nostro viaggio era agli sgoccioli: mancavano le banche. Papà stringeva il volante tra le mani senza dire una parola. Passava con il rosso, accelerava bruscamente come se la strada fosse l’incarnazione del campo di battaglia che lo strappava via dal sonno alle quattro e mezzo del mattino per fargli controllare un mazzo di fatture. All’inizio mi ero illuso che fosse pungolato dal senso di colpa per la scenetta nell’ufficio del grossista. Ma il suo silenzio era talmente chiuso da far pensare che nascesse da una solitudine invincibile, un misterioso stato d’animo legato al segno zodiacale di un paese che proprio in quell’anno brillava sulla cuspide della quinta potenza industrializzata del pianeta – un vento gelido proveniente dallo spazio, entrato da molto tempo negli studi dei notai dei farmacisti dei medici di base, che ricadeva dopo una breve stagnazione su quelli come noi soltanto adesso. Pasquale Ladisa… Oh, no: Pasquale Di Liso. Il direttore di banca era un signore alto e magro, con lo sguardo governato dalla mobilità di chi vuole sempre fare bella figura. La sua piccola filiale, a pochi passi dal centro cittadino, contava su una mezza dozzina di sportellisti tutti in cravatta e gilet di lana verde. Lui invece portava le bretelle sopra una camicia di Ralph Lauren. Ci ricevette nella penombra di un ufficio striato dai magri raggi solari che attraversavano le tapparelle disposte scientificamente davanti alla finestra. Distrutto dal complesso del primo della classe, lo si doveva immaginare in banca già alle sette del mattino. Salutava gli addetti alle pulizie, e prima ancora di controllare gli indici di borsa si piazzava davanti alla finestra per trovare la giusta inclinazione delle stecche di plastica. La sua pena mattutina: le spostava prima di qua, poi di là… magari nel frattempo saltava il Banco Ambrosiano. Salutò mio padre con un mezzo inchino. Poi quasi urlò: «Allora è questo, tuo figlio!» con l’enfasi di chi è inciampato in un pozzo di petrolio dopo anni di ricerche. Mi disse che anche lui aveva un ragazzo della mia età: «Un genio della matematica… te lo farò conoscere». Prendemmo posto in poltrona. Lui e papà iniziarono a parlare con le mani intrecciate sulla scrivania, disturbati ogni cinque minuti dall’accensione della spia su un grosso apparecchio telefonico smaltato di nero. «No guarda, Di Liso, non possiamo continuare in questo modo…» disse papà portando gli occhi al cielo per caricare il colpo successivo. Quella filiale scalcinata – continuò – si era arricchita anche grazie a lui: come osava non dargli una proroga? «Se tanto mi dà tanto, – il direttore se la ridacchiò, – pure tu te li sei alzati un po’ di soldi. Ho saputo che andate a stare in villa», disse spostando il suo sorriso su di me. Papà mi diede un calcio da sotto la scrivania per impedirmi di rispondere, poi il suo volto diventò paonazzo – quando gli si ventilava l’evidenza delle cose, e cioè il fatto che non stessimo propriamente alla canna del gas, veniva attraversato da questi autentici travasi di bile. E qui iniziò un’altra prova sfibrante: fecero a gara su chi stava messo peggio. Di Liso sbatté il pugno sulla scrivania: «Ti sembra una scrivania questa schifezza? E le poltrone in finta pelle? E la vaschetta per la corrispondenza?» Disse che a ogni fine d’anno inviava un dettagliato fax di proteste alla sede centrale, ma tutto ciò che riceveva da Milano era il solito Vangelo di Franco Maria Ricci. Mio padre scattò in piedi. Si arrotolò i pantaloni sui polpacci, alzò una gamba e sbatté il piede sulla scrivania: «Guarda le scarpe!, sono vent’anni che le porto, – disse, – vent’anni che non mi compro un paio di scarpe nuove. Secondo te, ho o non ho il rispetto del denaro?» Quelle scarpe di camoscio misura quarantadue, fabbricate secondo le regole della migliore tradizione artigianale italiana… Ogni volta che mio padre doveva dimostrare la propria superiorità morale, chiamava in causa le scarpe. Avevo sempre concesso a quelle insostenibili tirate la scusante di uno spirito da monaco stilita. Ma adesso, nel tempio del denaro, mi sembrò che servissero a nascondere una brama che era difficile chiamare con il suo vero nome. Infine, trovarono un accordo (negli anni Ottanta tutti trovavano un accordo). Di Liso concesse una proroga di cinquanta giorni. Tirò in ballo la sede centrale: «Se lo vengono a sapere su a Milano… – ammoní sia mio padre che se stesso – capisci cosa rischio per te? Quelli sono capaci di mandarmi un ispettore». «Ma cosa vuoi che mandino!» Mio padre simulò lo sprezzo del pericolo. Di Liso annuí con un sorriso tutto volontà di potenza. Bisognava fare silenzio: gli si sentiva l’ipotalamo friggere per la soddisfazione. «Allora, siamo a posto?» disse dopo aver chiuso la copertina di un’agenda che non aveva consultato. Mio padre non batté ciglio. I cinquanta giorni guadagnati per la restituzione del denaro sembravano averlo confinato in un luogo di suprema indifferenza. «Cinquanta giorni… – disse dopo una pausa massacrante – è tutto quello che puoi fare?» Il giro era finito anche per quell’anno. Attraversammo a dieci all’ora il grande ingorgo soffocante di viale Unità d’Italia. Poi costeggiammo il Policlinico. Mentre le strade alberate e il fthfth fth dei primi irrigatori testimoniavano la vicinanza della zona residenziale, pensai che Long John Silver era capace di strozzarti con la stessa mano che usava per salvarti dalle acque. E dunque, conclusi, dovevo stare molto attento all’uomo che adesso fischiettava all’autoradio, e poi diceva: «Dài, scendi che siamo arrivati!» prima ancora di infilarsi col Fiorino tra le strisce del parcheggio. Il vapore addensato sulle finestre della cucina nelle giornate d’inverno, certe incredibili mattonelle a fiori finite poi tra il modernariato delle ceramiche d’interni, il secondo piano di una palazzina giallo ocra costruita con inspiegabile grazia all’inizio degli anni Settanta. Pochi altri fabbricati sparsi qua e là, poi la campagna e uno sprazzo di collinette consacrate al motocross. Era passato qualche mese dall’inizio della scuola, ma io sapevo che i centauri continuavano a esibirsi fino ai primi giorni di acquaneve. Mi affacciai sul balcone riconoscendo con invidia i profili neri delle Husqvarna, delle Ktm, delle Ducati sospese in una luce mielosa da Super8 in primavera. Poi mi voltai, e stavo già piangendo tra le braccia della mamma. Una figura ancora molto snella, in un vestito di sartoria con i bottoni a scacchi e l’onda nera dei capelli che le copriva un occhio, quindi la curva del sorriso che sussurra: «È fatto cosí, non te la devi prendere». Era successo che mio padre, nel bel mezzo del pranzo, aveva lasciato suonare il telefono senza che l’attenzione con cui stava sorvegliando la notizia di un fallito attentato a Margaret Thatcher ne risultasse scossa. Ma dopo il sesto squillo si era alzato, come se quello fosse il segnale che lo autorizzava a perdere il controllo. Sollevò la cornetta e disse invece cordialmente: «Girolamo, sono da te alle quattro». Ma dopo qualche scambio di battute si rabbuiò: «Porca puttana, arrivo!» Si trovò all’improvviso con le chiavi della Bmw nella mano destra, la ventiquattrore nell’altra, il soprabito sulle spalle e una catena di insulti rivolti a Girolamo Palmieri, il suo rappresentante per Puglia Campania Lazio e chissà quali altre zone, il quale gli aveva appena comunicato come Gianfranco Balestrucci – un grosso cliente della provincia di Foggia – avesse svicolato un’altra volta per eludere un pagamento scaduto già due mesi prima. Mia madre cercò di moderare la sua furia dicendo: «Finisci almeno di mangiare…», come se solo il dominio degli istinti avrebbe potuto consentirgli di risolvere il problema. Papà rimase zitto per qualche secondo. Poi disse velenosamente che una donna che non aveva mai avuto bisogno di rincorrere un cliente fino a Siracusa per incassare il prezzo di una merce regolarmente venduta stirata imballata e poi spedita, non era la persona piú adatta a dare consigli su questo genere di cose. Fu allora che presi la parola. Il cuore accelerò di colpo, qualcosa di covato molto a lungo iniziò a premere per venire allo scoperto. Allentai i pugni sulla tavola, mi rivolsi confidenzialmente solo a lei, e dissi con disprezzo: «Lascialo andare, è solo un poveraccio. È meglio quando a casa ci siamo io e te da soli». Mio padre puntò la mamma con aria incredula. «Ma Cristo e la Madonna! – sbottò con una voce cavernosa – allora è questo che gli racconti di me!» Dopo averla accusata ingiustamente, si guardò intorno. «Voi volete la mia rovina…» aggiunse declassandoci e nello stesso tempo promuovendoci al novero delle terribili potenze astratte che volevano distruggerlo da sempre. Solo che noi, puntualizzò, avevamo la pretesa di distruggerlo pur continuando a beneficiare dei suoi soldi, per cui avremmo meritato come minimo di morire di stenti – cosa che la sua coscienza non avrebbe purtroppo tollerato, concluse con sconforto. Per liberarsi del paradosso senza essere costretto a picchiarmi, sferrò un pugno sulla parete della cucina facendo risuonare le stoviglie. Andò via sbattendo la porta. Una piccola nuvola d’intonaco si raccolse per qualche istante nel vano dell’ingresso. Fu a quel punto che andai a rifugiarmi sul balcone, fingendomi offeso persino con mia madre. Confidavo nella possibilità di farle credere che un mio errore di valutazione sul gioco delle parti (avrebbe dovuto ribattere colpo su colpo e non lo aveva fatto) mi consentisse di stringere il guinzaglio del suo senso di colpa, vivificando la nostra alleanza contro il resto del mondo. Ma sul balcone si aprí lo spazio delle campagne invase dalla luce del primo pomeriggio, con i profili delle moto che descrivevano nel vuoto le loro splendide parabole. Sarei voluto scendere in strada per conoscere da vicino questi ragazzi che avevano imparato a pulire un carburatore nel corso di lunghe giornate da cui ero stato completamente escluso. E avrei voluto anche seguirli – pensai con rabbia e con rimpianto – perché poi, scesa la sera, avrebbero portato le loro moto dentro garage pieni di attrezzi e di effetti personali (polsini da tennis usati come segno di virilità, una bandana prestata a una ragazza e poi restituita per diventare la viva testimonianza della scoperta del sesso o di un dolore successivo) e dai garage, calcolai, si sarebbero infine riversati in un disordine notturno fatto di strade di voci e soprattutto di incontri – di litigi, di abbracci, di discussioni, di addii (loro, loro erano già al momento degli addii!) – per fare parte del quale sarei stato disposto a vendere senza pietà le persone fisiche dei miei genitori. Poi feci qualche passo indietro, sentii la pressione di una mano sulla spalla per ritrovarmi, già completamente arreso, nelle braccia di mia madre. «Non te la devi prendere…», disse accarezzandomi la testa. Capii che non ci era cascata. Era perfettamente conscia che io sapevo di non poter vantare crediti sui suoi sensi di colpa, e nonostante il mio tentativo di truffa la nostra alleanza era intatta. Lei non aveva neanche bisogno di perdonarmi – essendo io, ai suoi occhi, perdonato per sempre. E dunque, chi se ne fregava dei motociclisti e delle loro avventure, se adesso questa donna mi stringeva a sé? Mi riportò senza fatica tra le mattonelle a fiori della cucina. Da qui entrammo nel soggiorno dove, sul solito Brionvega, il tg regionale parlava di cinque persone arrestate per riciclaggio di denaro legato al traffico di stupefacenti. I carabinieri avevano fatto irruzione in un appartamento del quartiere Japigia ma i due fratelli Terlizzi – «i supercapi del clan…» disse il cronista – l’avevano fatta franca per l’ennesima volta. Mia madre spense il televisore: «Siediti, che adesso ti racconto una cosa». Obbedii. Si mise sul divano accanto a me, si aggiustò il vestito sulle gambe e iniziò a parlarmi di quando, all’età di sedici anni, mio padre si ritrovò con due valigie cariche di brutti asciugamani per le strade di un paesino calabrese in cui si sarebbe dovuta tenere una fiera campionaria annullata all’ultimo momento. E non avendo neanche il biglietto ferroviario per ritornare a Bari, in preda alla disperazione bussò a tutte le porte del paese, e riuscí a vincere la diffidenza di chi gli apriva vendendo sottocosto ogni articolo per rannicchiarsi infine tra i sedili puzzolenti di un interregionale che sferragliava risalendo nella notte gli Appennini della Sila. Mi venne piú vicino e sussurrò: «Non puoi volergliene, verrà perseguitato da questi incubi per sempre». La guardai pieno di gratitudine: facendomi entrare nei luoghi piú bui dell’adolescenza di mio padre, non pretendeva che accettassi le sue sfuriate. Mi suggeriva invece di abbracciare l’idea che questi vecchi sacrifici non reclamavano vendetta – cosí come un massacro di sioux non poteva ormai pretendere un bel niente davanti ai grattacieli di Manhattan – dal momento che io e la mamma ne eravamo la naturale evoluzione. Per quanto crudeli, le cose stavano in questo modo: lui era una cosa, noi due eravamo un’altra. «C’è una vita intera che ti aspetta», concluse sorridendo. E io sentii una gelida, meravigliosa benedizione calarmi sulla testa. Ascoltavo mia madre, in quello come in altri pomeriggi, e non erano le parole a convincermi ma la sua incontestabile bellezza. Oh, lei era uno di quei meravigliosi cocktail di geni corretti al Plasmon che iniziarono a far tremare i sedili delle sale cinematografiche dal dopoguerra in poi. Di regola, si sarebbe dovuto trattare di una lottatrice dagli avambracci enormi alta un metro e quarantasette, in quanto figlia di coltivatori diretti a loro volta figli di mezzadri la cui fede nel cattolicesimo era legata al fatto che i ritratti della Vergine disegnati da qualche avanzo di parrocchia risultavano comunque piú appetibili delle barbudos in scialle nero disposte ad alveare tra le navate della stessa chiesa. E invece ci si era messa di mezzo la rivoluzione alimentare, questa improvvisa disponibilità di omogeneizzati e biscotti multivitaminici che fece esplodere l’adolescenza della mamma. Le allungò le gambe, le strinse il busto, le ammorbidí la pelle senza per altro spodestare il genius loci, la cavernosa tenebra dello sguardo conficcata nelle ragazze meridionali come un paletto in grado di far valere uno ius primae noctis senza spargimenti di sangue. Per questo anche le orchesse della generazione precedente sapevano sedurre prima ancora di aver mostrato un solo neo. Ma poi arrivarono quelle come la mamma a fare piazza pulita, e bisognava considerarle quando non avrei potuto farlo, nel momento magico di fine anni Cinquanta – il radioso movimento di lancette che separa la vasca polverosa di un cantiere dalla prima scritta upim. E tuttavia, con il trascorrere dei mesi, cominciai a diffidare anche di lei. Da «Tintin» ero passato a «Frigidaire» e «Mucchio Selvaggio». Ero riuscito a procurarmi una copia francese di «Métal Hurlant». Poi i romanzi. Le avventure di Jim Hawking e Long John Silver avevano ceduto il passo ai rovelli di Marlow che risaliva il fiume Congo. Nelle nuove storie da cui mi lasciavo catturare, non erano soltanto i personaggi a essere ambigui o indecifrabili ma il mondo intero. Cosí, osservando i miei alle prese con la vita che gli girava intorno, notai come persino i litigi – piú che segnare la frattura della loro presunta diversità – li avvicinassero pericolosamente. Mi bastava guardarli di sera mentre discutevano della Lancia Stratos di Palmieri: un acquisto che la mamma giudicava «una cafonata» per non lasciar intendere che se una simile automobile era alla portata di un rappresentante a noi sarebbe dovuta toccare come minimo una Jaguar, e che papà invece difendeva per non essere tentato dall’invidia – li sentivo alzare la voce, e mi sembrava assurdo che due persone potessero usare tante scorciatoie per esprimere da fronti opposti gli stessi desideri. Cosí come provai un moto di ribellione quando, tutti e tre al cinema a vedere Staying Alive durante le vacanze di Natale (il giorno in cui una bomba esplose sul treno rapido Napoli-Milano), l’intera sala si sollevò applaudendo dopo che John Travolta, ottenuto un posto di primo ballerino al culmine di improbabili battaglie per la gloria modellate sugli squali di Wall Street, dichiarò tutto incazzato in primo piano: «E adesso… adesso vado a farmi il mondo!» Sentii che qualcosa non andava, nella battuta e nell’intero film – solo che mio padre era già scattato in piedi contagiato dall’entusiasmo generale, e la mamma gli afferrò la mano visibilmente emozionata. Allo stesso modo, mi sembrò eccessivo l’entusiasmo di mia madre nel momento in cui, facendomi le solite confidenze, arrivò a raccontarmi di quando, nella lontana primavera del ’69, avendo appreso dopo una pomiciata con un cowboy del Tavoliere sintonizzato in differita su Bob Dylan che l’anno prima alla Sorbona c’erano stati dei casini tra studenti e polizia, prese il coraggio a due mani e in un torbido pomeriggio di giugno diede il proprio contributo alla protesta giovanile: fuggí di casa insieme a Mariolina Nocenti, sua amica e sodale; entrambe montarono su un pendolino diretto in Magna Grecia, praticamente Taranto, nella cui piazza principale si sarebbe tenuto un concerto di Patty Pravo. Mamma e papà erano degli stupidi. Il mondo intero era stupido. E dal momento che il mio foro interiore era un luogo troppo solitario per metterli alla gogna, decisi di rivolgermi al padre di mia madre. Raggiunsi il nonno nella sua casa di campagna per domandargli che cosa ricordava lui, del 1969. Il vecchio mi chiamava qualche volta con il nome di un nipote morto anni prima in un incidente stradale. Ma non appena scandii: «Primavera del ’69…», la trivella del ricordo spillò una risposta chiara. «Una vendemmia penosa», disse. Grandine con chicchi fra i tre e i cinque centimetri. «Lo sai cosa voleva dire per quelli come noi?» «Sí, ma la mamma? – lo incalzai, – la fuga della mamma a Taranto?» Vidi la faccia del nonno irrigidirsi come possono fare gli addominali di chi sta per ricevere un pugno nello stomaco. Ma non cercava di difendersi da un colpo, piú che altro scacciava i moschini, perché esplose in una secca risata beffarda. Moltiplicò le rughe intorno agli occhi per evitare che un ricordo tanto stupido potesse contagiare la solidissima confusione dei suoi ottantasette anni. Disse in dialetto: «Pensa che io e tua nonna non ci siamo neanche presi la briga di suonargliele». E insomma, mi fece capire che mia madre non ricevette punizioni né rimproveri piú che altro per un effetto di irrealtà. Non era fuggita di casa per farsi ingravidare in santa pace, ma per assistere a un concerto. Unconcerto… Non era la forza del Maggio francese ad avergli impedito di prenderla a schiaffi ma la sua assurda inconsistenza. Era come se mia madre si fosse ripresentata in questo vecchio casolare nelle vesti di un fantasma – e non si può prendere a schiaffi un fantasma, non lo si può chiudere in camera per una settimana. Tornai a casa completamente soddisfatto. Con questo stato d’animo, attraversai la città in autobus guardando le saracinesche ormai abbassate dei negozi, e i lampioni comunali che illuminavano le strade, e le lucine azzurre dei televisori nelle finestre dei palazzi. Non sarebbe potuta essere meno fondata, la mia euforia. Perché poi arrivava la fine della giornata, le sere di quel 1984, e insieme con la sera scendeva su di noi un velo, un bagliore azzurro, a metterci d’accordo, a fare giustizia… … da gennaio a dicembre scendeva su mia madre, scendeva su mio padre, sui direttori di banca, sui grossisti ormai lontani dai loro capannoni, scendeva questo bagliore che i tecnici sapevano essere la combinazione dei tre colori primari – il rosso, il verde, il blu, mischiati tra loro sullo schermo in tutti i possibili colori. Non si chiamava ancora televisione commerciale. Era, semplicemente, «la Cosa Nuova». E quello che a me sembrava una presa diretta da una dimensione parallela era stato invece registrato quarantott’ore prima a Roma, finito di montare il giorno stesso, precisamente negli stabilimenti della Dear, una lunga giustapposizione di studi televisivi e camerini e corridoi a collegare un braccio all’altro della struttura verso la quale sugli autobus, sui taxi, sulle automobili private arrivavano settimanalmente le ballerine e i comici e le loro spalle e questo cocker triste di proprietà di un caro amico del comico piú anziano che avremmo ricordato per i monologhi di fine puntata; e insieme a loro l’autore e il regista della trasmissione, gli unici a non passare dalla sala trucco. Ma prima della sala trucco, prima dei camerini e dei travestimenti – le ballerine, che poi non erano vere e proprie ballerine bensí ragazze di bella presenza con una disperata vocazione all’anonimato, si travestivano da ragazze fast food mentre i comici, i due piú noti perlomeno, il capocomico di mezza età e un trentenne di Biella la cui faccia era una vittoriosa antitesi delle facce degli attori d’avanspettacolo (Ezio Greggio, un monumento al niente), questi due comici indossavano enormi giacche colorate dai baveri taglienti –, prima dei camerini e della sala trucco, delle lucine accese sulle telecamere, capitava che le ballerine parlottassero tra loro, e i comici si consultavano con l’autore della trasmissione, poi l’autore col regista, poi arrivava un vassoio coi bicchierini di plastica sbaffati di caffè, e ancora chiacchiere e consultazioni prima di andare in onda… E la vera novità stava nel fatto che, a differenza di ciò che succedeva negli spettacoli televisivi del passato, i quarantacinque minuti della trasmissione vera e propria non erano la bella copia, il salire quei due o tre gradini che separavano il rodaggio precedente dal risultato finale, ma una discesa, uno scientifico abbassarsi sotto le quote dell’intelligenza, della grazia, dell’arguzia, dello spessore presenti in ogni essere umano coinvolto in quella trasmissione. Per questo il programma funzionò cosí bene, per questo fu una rivoluzione. Drive In… il primo tentativo serio di portare in Italia ciò che oltreoceano stava accadendo già da qualche tempo – ovvero cambi di scena fulminanti, sketch veloci il doppio, il triplo rispetto a quelli del passato e presentati soprattutto come se fossero spot pubblicitari. E il suo autore, Antonio Ricci, uno che durante il Maggio francese aveva avuto diciott’anni, e aveva naturalmente manifestato e ciclostilato e cineforumizzato e solidarizzato con il lancio delle uova alle prime della Scala… il suo programma degli anni Ottanta non fu il tradimento della sua vita precedente, semmai al contrario la sua realizzazione piú profonda – cosí come ci si era avvolti nel vento caldo della contestazione, adesso si tendevano le vele per sfruttare il vento gelido, che di quel vento caldo era stato il mandante, il vero soffio d’alimento. Cosí li vedevi, quei comici che non facevano ridere, e ridevi lo stesso. Le loro battute sovvertivano la comicità cosí come la comicità si era andata sviluppando, e cioè nient’altro che il sentimento del contrario passato indenne lungo i secoli – fortificato dalla peste, il sentimento del contrario, fortificato dagli anatemi e dalle scomuniche – per andarsi a rovesciare nel variopinto crematorio del Drive In. Non piú il sentimento del contrario, ma dell’identico. Eppure, ridevamo lo stesso. «Saaalve! – diceva il trentenne di Biella saltellando da una parte all’altra dell’inquadratura, – sono mister Tarocò, con l’accento sulla q!» (e ridevamo), oppure, nei panni dell’imbonitore: «Asta Tosta! oggetti tosti per tutti i gosti, pardon, gusti…» (e ridevamo), oppure, con una protesi di gomma sulla fronte e un parrucchino di capelli bianchi svolazzanti: «Sono Zichichirichí, uno scienziato molto reclamato: infatti ogni mattina ricevo i reclami delle bollette che non ho pagato!» (e ridevamo), oppure, il comico di mezza età, in uno dei suoi monologhi di fine puntata: «Come si dice al mare: the show must gommon!» (e noi, incredibilmente, ridevamo). Ridevo io, seduto tra le plastiche lugubri di una sala da pranzo non ancora del tutto fuori dagli anni Settanta, e rideva mio padre, rideva mia madre dando le spalle alla cucina con una pentola fumante tra le mani, e superando le strade, i ponti, le piazze vuote della domenica sera, a molte case di distanza ridevano i grossisti e gli impiegati e gli studenti e i disoccupati… E nei paesi della provincia barese, cosí diversi dai paesi delle province lombarde ma accomunati dal prodigio di un cavetto bianco infilato in una presa Uhf, ridevano anche quelle come Annina. E la prima figlia mongoloide di Annina rideva, la seconda figlia mongoloide di Annina rideva, la terza pure, la quarta idem… la «quinta» invece no: invalida al novanta per cento, incapace di qualunque ragionamento o azione utile che non fossero le sue mani sui tessuti di mio padre, fissava con occhio vitreo i colori sullo schermo e non rideva, alla battuta successiva non rideva, ma alla battuta dopo veniva scossa da un tremito che le attraversava le zone basse, e dallo stomaco veniva su, e le afferrava la gola con il suo guanto di ferro, cominciava a manovrarle i muscoli che circondano la bocca abbandonati alla penosa anarchia dei malati di mente, quei muscoli per la prima volta venivano disciplinati da ciò che dovrebbe essere la totale negazione della disciplina, ovvero la risata. L’ultima figlia mongoloide di Annina scoppiava a ridere davanti a una battuta di Ezio Greggio ed era quello il crollo della diga, bastava una sola scena del genere per capire che DriveIn aveva vinto – «si piange con il cuore ma si ride con il cervello», una frase di Molière che non sarebbe piú stata vera: anche il cervello, come il cuore, trasformato in un organo del tutto involontario. Per questo anche l’ultima figlia di Annina scoppiava a ridere, per questo i paesi sperduti, la provincia, forse anche un intero continente iniziava a risuonare di singhiozzi. La risata che ci avrebbe dovuti seppellire tutti quanti era arrivata. L’anno scolastico si concluse con un «ottimo» agli esami di terza media. Ma a quel punto, io il papà e la mamma eravamo già impegnati in un altro tipo di battaglia. Capitolosecondo Sottili e luccicanti, due o tre lustrini rimasero impigliati nei ricci dell’acrobata quando concluse il numero a dieci metri dal suolo. Scese dalla scala a corda e ricevette l’ovazione dei presenti rimanendo serio. Poi arrivarono i clown, e dopo i clown il domatore di leoni, quindi di nuovo i pagliacci per lo sketch di chiusura che portò piú di un ragazzo a sbellicarsi dalle risate costringendo metà dei maschi adulti a chiudere con un sobbalzo le pagine sportive del quotidiano locale. Abbandonai il tendone cercando di trattenere l’odore di segatura che avevamo respirato durante lo spettacolo. La mamma camminava evitando che il pietrisco le imbiancasse le scarpe da sera. Mio padre disse come al solito: «Spicciamoci!», e raddoppiò l’andatura man mano che gli altri spettatori facevano lo stesso. Ci allontanammo a bordo della Bmw, ignari che quello spazio sarebbe stato invaso molto presto da fumiganti cascate di fertilizzante per diventare il primo parco pubblico di Bari, condannando il Gran Circo di Budapest a non fare piú ritorno in città. Vidi svanire i generatori di corrente e i rimorchi del trasporto animali con le loro feritoie misteriose. Nello specchio retrovisore adesso c’era solo la strada, nera e diritta – ma io continuavo a pensare a quell’acrobata: non poteva avere piú di sedici anni, ma già sembrava possedere tutti i segreti di una solitudine preziosa, stellare. Mio padre accese l’autoradio. Dalle casse uscí una musica allegra e ossigenata, resa ancora meno consistente dalla voce di Jane Fonda. La mamma abbassò il volume e gli chiese se aveva riflettuto sulla faccenda dell’Escrivá de Balaguer. Lui sbuffò. Ripresero a litigare sul mio futuro mentre la macchina sfrecciava su un cavalcavia. Tracciai sulla fredda superficie del lunotto la figura di un omino in bilico che sembrò animarsi fino a quando rimase circondato dallo sfolgorio della concentrazione urbana. Poi l’auto rallentò e noi ci ritrovammo sotto casa. Io e il ragazzo del circo: scopri la differenza tra le vignette. La radio disse: «Michail Gorbačëv pronuncia il suo discorso di investitura, subito dopo il nuovo pezzo dei Righeira». Concluse le medie inferiori, bisognava capire dove farmi proseguire gli studi. Avevo iniziato le elementari in un periodo – probabilmente l’ultimo in Italia – durante il quale la brama di successo veniva ancora coraggiosamente rivestita da un unguento di grossolana ipocrisia. Ma nel frattempo era accaduto qualcosa. Superato un confine invisibile, un’atmosfera di competizione sfrenata era discesa sul terzo scaglione delle dichiarazioni Irpef, persuadendoci che la scelta del liceo poteva avere conseguenze determinanti per chi imboccava la strada del diploma nel 1985. Due giorni prima, la mamma aveva atteso che il papà tornasse dal lavoro facendo avanti e indietro dal soggiorno alla cucina. Poi, al suo cospetto, coi muscoli del collo troppo tesi perché io non li notassi, dichiarò che il figlio di una sua cugina sarebbe stato iscritto a un liceo classico finanziato dall’Opus Dei: «A proposito, – buttò lí con la cautela necessaria per centrare un grosso felino addormentato, – lo sai che Cristina manda Giulio all’Escrivá de Balaguer?» Mio padre era entrato da poco nel suo trentesimo milligrammo di Serenase per superare la terza ora di sonno consecutivo. Dunque avvertí immediatamente che le parole della mamma nascondevano qualcosa, ma il suo genio enigmistico riformulò la frase nella frase persuadendolo che sua moglie stesse cercando di renderlo ridicolo: la prelatura fondata da Josemaria Escrivá era qualcosa di cui papà avvertiva l’importanza, ma non ne sapeva altro. «Opus Dei…» considerò con tono grave e costernato. Rimase due minuti a soppesare l’offesa inesistente. Guardò la mamma e disse: «Uhm, uhm, non credo proprio». Il giorno dopo andammo al circo. Tre giorni dopo papà fece irruzione in cucina comunicandoci con una voce squillante che Di Liso aveva iscritto suo figlio alla prova d’ammissione per il Töpffer, un collegio svizzero a pochi chilometri dal piú grande ghiacciaio d’Europa. Era raggiante. Sentendo che si parlava del figlio di Di Liso, mi pietrificai immediatamente davanti alla tv. Lui chiese alla mamma: «Ne hai mai sentito parlare?» e si lasciò cadere tra i cuscini del divano. Lei scosse la testa. Mio padre allora si sollevò di scatto. Come era possibile, si domandò con le mani nei capelli, come era solo lontanamente concepibile che una donna preoccupata per il futuro del proprio figlio non sapesse che cos’era il Töpffer? La mamma raccolse un tovagliolo dalla tavola e cominciò a passarselo nervosamente tra le mani. Mio padre, ormai col vento in poppa, enumerò i privilegi di cui il figlio di Di Liso avrebbe goduto frequentando quel collegio. Equitazione, scherma, dizione, portamento… queste erano solo alcune delle attività extradidattiche che, insieme con le discipline tradizionali, avrebbero consentito al figlio di Di Liso di guardare dall’alto in basso i suoi colleghi della scuola pubblica. «Quando ritornerà in Italia dopo il diploma – aggiunse – tra lui e i suoi vecchi amici ci sarà…» Mimò con le mani la versione in scala di una voragine. Bevve un bicchier d’acqua e allungò di nuovo il braccio verso il lavandino, come sentisse il bisogno di raffreddare il raschio di un sorriso che non sembrava riconoscere del tutto come il suo. Mia madre era stata a sentirlo sfilacciando tra le dita il tovagliolo di cotone fino a quando la barchetta cucita sul tessuto non era diventata una figura incomprensibile. Convinta che lo scopo di mio padre fosse dimostrare la superiorità dei suoi amici direttori di banca rispetto ai parenti di lei, scattò in avanti all’improvviso. Si avvicinò pericolosamente a suo marito e tagliò corto con un sorriso di disprezzo: «L’equitazione!» Si avventurò cioè in una teoria che non ho piú trovato da nessuna parte: l’equitazione, disse, era un sistema infallibile per fare di un ragazzo un perfetto imbecille. «Dalla Baviera sono uscite le piú grandi teste di questo continente!» obiettò mio padre con orgoglio. «Maper-favore! – lo mise a posto mamma agitando finalmente lo spettro seminascosto dalla tensione dei giorni precedenti, – che cosa ne può sapere uno che ha la terza media…» In tv stavano dando un telefilm in cui un’aliena con pretese da Joan Crawford afferrava un topolino bianco per la coda e iniziava a infilarselo in bocca. Avevo gli occhi fissi sullo schermo ma rimanevo concentrato sul litigio dei miei. LaBavieranonè in Svizzera!, pensai con rabbia. La discussione stava perdendo appigli con la realtà – si confrontavano sull’Opus Dei senza sapere neanche cosa fosse, sproloquiavano di collegi svizzeri ritenendo che la nostra disponibilità di denaro potesse rendere tangibili certe immagini a cui durante gli anni delle giacche di seconda mano avevano guardato come dal foro di un caleidoscopio evitando però di farsi toccare, mio padre e mia madre, dal sospetto che se l’essenza del denaro è un dialogo tra specchi, ogni sogno messo nel mezzo serve solo a generare cento miraggi di tipo nuovo. Per questo forse adesso non sembravano difendere le proprie posizioni né tantomeno le mie, ma quelle di un discorso che ci sovrastava, una fragorosa onnipresente entità camaleontica che per nascondere le proprie scaglie da rettile aveva bisogno di viaggiare sui continui qui pro quo degli esseri umani, sfruttava rancori e incomprensioni personali perché il proprio fine ultimo – la semplice, totale scomparsa nel suo stomaco per chi vi si accostava – fosse confuso con un grandioso approdo proveniente dal futuro. E nel passaggio dal fuori al dentro (dalle fauci spalancate del Grande Rettile Contemporaneo alla profonda debolezza di carni e nervi e iridi venuti alla luce negli anni Quaranta) qualcosa di determinante nelle menti di mio padre e di mia madre si oscurava, realizzando al contrario l’intelligenza – luminosa, coerente, spietata – di qualcos’altro. «Vinci un viaggio tra i leoni | con il Re dei gran palloni!», disse la pubblicità. Staccai la testa dal televisore e guardai verso la finestra. C’erano i campi da motocross completamente bui, e poi le luci gialle dei condomini, e un cartellone di una luce piú vivida e piú gialla che diceva: «Mago G». E in lontananza, sul tetto di un edificio di nuova costruzione, un altro cartellone lampeggiante dal colore blu profondo, il richiamo di un oceano composto di pura materia stellare: «Bankamericard. Praticamente piú del denaro». Qualcuno spense la televisione. Andai a chiudermi in camera. Mi infilai sotto le lenzuola di flanella mentre mamma e papà entravano e uscivano dal bagno dopo aver abbandonato le polemiche a una silenziosa opera di sfaldamento. Presi dal comodino la mia copia di «RanXerox» e iniziai a leggere. Abbandonai il fumetto e spensi l’abatjour. Riaccesi l’abat-jour. Raccolsi il fumetto e continuai da dove avevo interrotto: RanXerox distruggeva una cabina telefonica. Poi, strafatto di vinavil, correva a liberare la dodicenne Lubna dalle grinfie di un maniaco «trisessuale». Scagliai il re dei fumetti alternativi contro la parete. Spensi l’abatjour. Restai tra le coperte, nel buio, con gli occhi spalancati. Se il figlio di Di Liso poteva essere portato come esempio per la riuscita di qualsivoglia impresa – continuavo a pensare senza riuscire a prendere sonno – allora ogni speranza era perduta, visto che io il figlio di Di Liso stavo imparando a conoscerlo proprio in quei giorni. Avevo la disgrazia di frequentare questo ragazzo di una magrezza spaventosa, di una spigolosità nevrotica, con i suoi pantaloni di velluto e una zazzera di capelli giallo sporco sopra la gigantesca montatura degli occhiali da presbite che suo padre doveva avergli imposto scambiandoli per un oggetto di sicura distinzione. Mentre no, erano occhiali impossibili – il tipico modello che a due settimane dalla commercializzazione risulta bizzarro, due mesi dopo è ridicolo, dieci anni dopo diventa un motivo di vergogna per chi l’ha posseduto. Daniele Di Liso: questo il nome del figlio del direttore di banca, la testimonianza vivente dei miei problemi nel 1985. Daniele Di Liso DanieleDiLisoDanieleDi Liso… continuai a ripetermi friggendo dal nervoso mentre i miei dormivano nella stanza matrimoniale. Com’era cominciata? In un piovoso pomeriggio della settimana prima, mio padre era venuto a prendermi a catechismo. I pini della parrocchia di Sant’Andrea erano circondati dalla sfocata luminescenza dell’acqua. Lo scroscio si raccoglieva sul terreno moltiplicandosi in tanti rigagnoli che trascinavano tappi di bottiglia e mozziconi di sigaretta fino alla piccola tettoia dove avevo trovato riparo. Il denso manto grigio a cui si riduceva il campo visivo diventò un velo trasparente contro due soli accesi. Venne squarciato dal muso del Fiorino. In macchina, mio padre guardava nervosamente l’orologio. Poi me, e poi di nuovo l’orologio. Approfittando di un semaforo rosso per ritardare volontariamente la frenata, inchiodò all’ultimo momento battendosi una mano sulla fronte: «Di Liso! Porcaputtana! Mi sono dimenticato di Di Liso!» Affondò il piede sull’acceleratore e fece inversione a U. Senza aspettare che mi risistemassi sul sedile, spiegò con aria drammatica che aveva appuntamento con Di Liso per affrontare delicate strategie di finanziamento aziendale al riparo da orecchie indiscrete. A questo punto – mondato ai propri occhi dalla simulazione dell’imprevisto –, invece di accompagnarmi a casa trovò piú pratico dirottarmi insieme a lui verso l’appartamento del direttore di banca. «Piacere, sono Daniele…» Fu cosí che mi trovai faccia a faccia con un ragazzo corroso da un metabolismo la cui velocità doveva essere tripla o quadrupla rispetto a quella di un quattordicenne in normale stato di salute. Subito dopo le presentazioni, infilò le mani nelle tasche dei pantaloni. Faceva finta di studiarmi per capire se gli fossi o meno antipatico. Disse: «Conosci gli sviluppatori di software dell’Imagic?» Superato questo inutile esame, mi invitò a seguirlo nella sua stanza. Raccolse da una pila di giornali l’ultimo numero della rivista «Video Giochi» e cominciò a sfogliarla su uno dei due letti gemelli allineati di fronte alla finestra – e la presenza del secondo letto era drammatica, capii man mano che iniziammo a frequentarci: Daniele era figlio unico proprio come me, e dunque si sforzava di invertire agli occhi del mondo il nesso tra solitudine e autarchia, ma questo secondo letto, sempre perfettamente rifatto, era un grido di aiuto scolpito nel frassino e rivestito di piuma d’oca. Trovò la pagina che gli interessava e me la mostrò: 97 175 punti, Marco Zambroni, Bologna. «È questo il record da battere», dichiarò sistemandosi gli occhiali sulle pinne del naso. Dracula era il nuovo videogioco che l’Imagic aveva «sviluppato» per l’Intellivision. «L’Imagic, attenzione, non la Mattel», precisò: la Mattel aveva progettato l’hardware come io certamente sapevo, ma i giochi della Mattel erano «fesserie», e dal momento che Dracula era il videogioco «piú evoluto» dell’Imagic, questa «cazzutissima» software house di Solvang (California), allora Marco Zambroni era l’uomo da sfidare per vincere degnamente un abbonamento alla rivista. Parlava come se essere aggiornati su questi aspetti della vita fosse l’unica garanzia per la sopravvivenza emotiva della specie. «Prendi quella», disse indicando una Polaroid abbandonata sul vano della finestra. Collegò l’Intellivision al piccolo televisore incastrato tra le ante dell’armadio e mi pregò di osservarlo giocare, e di imparare in fretta perché dopo cinque o sei partite «dovrai provare a farne una tu». E soprattutto mi chiese di tenermi pronto con la macchina fotografica nel caso avesse infranto la soglia dei 98 000 punti. Mio padre e Di Liso bevevano cognac in soggiorno. Io osservavo questo sconosciuto smanettare su un disco direzionale come se si trovasse davvero tra la vita e la morte. Nelle settimane successive, mio padre mi portò sempre piú spesso dai Di Liso. Un sabato sera, attraversando la città, guidò in uno stato d’animo pericolosamente vicino all’entusiasmo – sorpassi a pelo di carrozzeria, inutili destra-sinistra in prossimità delle isole pedonali per il terrore dei passanti. Mentre guidava, non la smetteva di fare l’elogio di Daniele («Oh, lui è un ragazzino di rara intelligenza…» «E com’è, com’è che si chiamano?» «Eh appunto, le olimpiadi della matematica: lo scorso anno mi sa che si è piazzato primo alle selezioni regionali…») Questo peana – che io seguii senza dargli la soddisfazione di un minimo cenno del capo – venne intonato sulle onde di uno strano pilota automatico. Quando di punto in bianco passò a Di Liso senior, allora sembrò metterci del vero impegno: «Pasquale, Pasquale… – confidò bonariamente allo specchio retrovisore – … quel figlio di puttana sarebbe capace di vendere un fondo di investimento a chi l’ha emesso…» Il padre di Daniele stava facendo insomma un lavoro tanto buono giú in filiale che presto sarebbe arrivato il momento di una promozione. «Non possono negargliela!» considerò papà con risentimento mentre cercava parcheggio. Fu l’unica parentesi di lucidità. Superata la soglia di questo appartamento dai pavimenti sempre lustri, mi mollò nella stanza di Daniele e si chiuse in soggiorno con Di Liso per due lunghissime ore. Dopo quello che doveva essere stato l’ennesimo tentativo di persuasione («Guarda che non sono mica il proprietario della banca!» sentii urlare Di Liso piú di una volta, poi entrambi scoppiavano a ridere…), mio padre, acceso dall’ispirazione, si ritrovò nel lungo spazio vuoto del corridoio. In quel momento io ero in bagno. Ci separavano i dieci centimetri di un piccolo tramezzo. Dedussi che stava raccogliendo l’apparecchio telefonico e ne ebbi la conferma quando disse: «Allora, noi siamo qui…» con il tono che usava con mia madre per le conversazioni di routine. «Sí, tra una mezz’ora, – aggiunse, – il tempo di…», e poi la sua voce acquistò una cascante indolenza da seduttore. Appoggiai l’orecchio destro sul tramezzo. Lo ascoltai mentre diceva che era vero, avevo dimenticato i libri a casa, però «che diamine!», di tanto in tanto si poteva cedere a qualche mio piccolo capriccio, no? Sentii i suoi passi allontanarsi e uscii dal bagno in uno stato di leggero stordimento. Cinque minuti dopo, Daniele si trasformava in pipistrello e poi nei grossi poligoni monocromatici che secondo gli ingegneri dell’Imagic avrebbero dovuto rappresentare il conte Dracula. Il rumore dei passi lungo il corridoio raddoppiò. Mio padre e Di Liso fecero ingresso nella stanza interrompendo la partita. Pensai: Bene, ora cisiamo… Erano entrambi sorridenti. Sembravano tornati da una battuta di caccia con interi stormi di fagiani impallinati e già messi in ghiacciaia. Mio padre confermò tutto orgoglioso: «Allora anche la mamma è d’accordo, puoi fermarti a dormire qui». Guardava me, ma era rivolto a tutto l’uditorio perché anche per Di Liso e per Daniele fosse inequivocabile il mio desiderio di passare la notte a casa loro. Per liberarmi dalla trappola avrei dovuto spiegare a Daniele che non avevo niente contro di lui ma preferivo dormire a casa mia, alla mamma che preferivo per una volta i libri alle fatiche del gioco, e soprattutto mi sarebbe servito un lettino in pelle nera dentro uno studio con affaccio sul Prater per far capire a mio padre che i suoi comportamenti erano la traduzione di brame inconfessabili eseguita su un vocabolario in cui ogni lemma proveniente dal subconscio era disastrosamente rovesciato – mi bastava seguire la danza delle sue zampe di gallina intorno agli occhi per capire che adesso era davvero convinto che volessi rimanere a dormire lí; qualcosa in lui aveva scrupolosamente lavorato sin dal tardo pomeriggio per trasformare la malafede in autoinganno (che cos’erano state, quelle gimcane automobilistiche, se non il pendolino oscillante davanti alle sue palpebre sempre piú pesanti?) E proprio la forza di un’innocenza ritrovata scavando sul lato sbagliato del tunnel gli consentiva di coinvolgere un numero crescente di persone in un desiderio che non avevo mai manifestato: il direttore di banca annuiva soddisfatto, Daniele era già pronto a mettermi a disposizione uno dei suoi pigiami… Provai a isolarmi mentalmente dal resto del gruppo. Chiamai a raccolta tutte le mie forze perché l’amore della verità mi facesse superare l’imbarazzo per la delusione che avrebbe crepato tutti i sorrisi presenti in quella stanza. Ma poi mi sentii uscire dalla bocca: «Certo, rimango qui…» con le labbra deformate in una gaia, infantile, assolutamente falsa espressione di sollievo, come davvero volessi ringraziare papà per aver realizzato il mio sogno del sabato sera. Sconfitto, demoralizzato, tradito da me stesso, mi vidi accompagnarlo fino alla porta d’ingresso. Salutò me, Daniele, e infine il direttore di banca. Sparí nella scatola di latta dell’ascensore. Giocammo ancora con l’Intellivision. Poi andammo a letto. Daniele raccolse dal comodino un grosso libro di Stephen King e cominciò a sfogliarlo. Gli chiesi se aveva dei fumetti e mi passò un Topolino. La storia del Dottor Paperus contro i saraceni mi sembrò di una semplicità quasi umiliante. Daniele spense la luce e ogni cosa piombò nel silenzio. Rimasi per un po’ a soppesare il buio della stanza sconosciuta. Chiusi e riaprii gli occhi. Mi rigirai tra le coperte e mi trovai a tu per tu con il corpo addormentato di mio padre. Chiesi: «Che ci fai ancora qui?» Papà si stiracchiò, fece uno sbadiglio: «Vedi che avevo ragione?», disse. Cosí ci alzammo dal letto sentendo sotto i piedi la consistenza dell’erba bagnata, e poi guardammo il sole sorgere dietro la collina dove eravamo esiliati da sempre. Iniziammo a camminare mano nella mano sulla pendice punteggiata da pochi anemoni, sovrastati da un astro di rovente e interminabile consanguineità che diventava sempre piú caldo, insopportabile… Mi risvegliai alle nove del mattino. Il letto accanto era occupato da un magro infossamento, e tra il rumore di campane che fino a poco prima riecheggiava anche tra le bolge del mio sogno sentii la voce di Daniele che mi chiamava per la colazione. L’inverno passò sulle campagne annichilendo il cavolo e il finocchio, e accarezzò la città quel tanto che bastava perché i cappotti delle madri di famiglia si trasformassero in pellicce di visone a spasso tra le boutique del centro – adesso era tornato il caldo, ma le commesse rischiavano come al solito le convulsioni a furia di battere scontrini. A molte strade da questi templi del commercio, Daniele mi salutava con una rigida stretta di mano e mi portava nella sua stanza insieme a una bottiglia di aranciata. Ci aspettava una partita a RisiKo o all’Allegro Chirurgo. Dopo il fastidio iniziale, provavo per Daniele uno strano attaccamento che nasceva dalla sfida: se quell’appartamento era stato il luogo della mia colpevole disfatta, doveva diventare il campo sul quale guadagnarsi una rivincita nei confronti di mio padre. Ma anche Daniele, pur trascorrendo quasi tutto il tempo libero con me, sembrava assorbito da una lunga e sanguinosa prova in cui c’entravo poco. Via via che sbaragliava le mie truppe spostando carri armati dalla Mongolia alla penisola di Kamchatka, sembrava divorato da un’inquietudine che non era l’ansia di sconfiggermi; lo guardavo emergere da ogni vittoria come da uno scampato pericolo, le pupille dilatate attraverso le lenti degli occhiali, come se i videogiochi, i giochi da tavolo, ma anche gli «eccellente» che collezionava a scuola affrontando la matematica con una concentrazione da pistola alla tempia (nella sua classe i compagni lo chiamavano «genio», non si stancava di ricordarmi provando a controllare una crisi della voce che svelava l’atroce ironia da cui l’epiteto doveva essere circondato) fossero l’unico strumento a sua disposizione per sostenere una minaccia che si muoveva su territori completamente diversi. Cristina Di Liso, la mamma di Daniele: non c’era… A un certo punto misi a fuoco il problema. Lo feci con la prontezza di un minorato, o meglio al culmine dell’ottundimento che porta i cani e i gatti ad archiviare la morte di un’abitudine con settimane, a volte anche con mesi di ritardo rispetto a quando il telefono ha squillato e uno dei proprietari della casa ha cominciato a urlare sbattendosi la cornetta sulla fronte. Subito dopo pranzo, sempre di domenica, eravamo io e lui da soli, seduti nel soggiorno. Avevo nel piatto questo dolce dalla consistenza perfetta. Affondai il cucchiaio nello zucchero fuso e dissi: «Mia madre sbaglia puntualmente le dosi. I suoi budini sembrano merde sciolte. Per favore, fai i complimenti a…» Mi azzittii all’istante. Tutto ciò che era sempre stato tra le pareti di quella casa iniziò a venirmi addosso: sentii un colpo invisibile, poi sentii qualcosa ritrarsi con violenza. «Che cosa hai detto?» chiesi a Daniele dopo alcuni istanti di panico assoluto. «Preconfezionato, – ripeté lui a voce bassa – … l’abbiamo preso al supermercato». La mamma di Daniele, impiegata di I livello al Policlinico con diploma regionale in scienze infermieristiche, aveva scaricato Di Liso già da parecchi mesi. Sedici anni di convivenza le avevano donato la facoltà di far svanire in meno di un quarto d’ora il proprio guardaroba dentro uno sfilacciato borsone da tennis e – nel giro di una settimana – il coraggio per trasferirsi al sesto piano di un palazzo spoglio e grigio, collocato in uno dei grandi quartieri dormitorio difficilmente raggiungibili perfino dalla nostra fantasia. A differenza di ciò che succedeva quasi sempre, Daniele era stato affidato al genitore maschio. Forse per sua scelta, o per qualcosa di irriferibile che riguardava la condotta di sua madre. A ogni modo, i miei non ne avevano mai fatto parola: frequentavo i Di Liso, trascorrevo pomeriggi notti domeniche mattine in casa loro, e nessuno aveva mai sprecato una sillaba per sottotitolare il gigantesco labiale con cui anche i muri testimoniavano l’assenza della mamma di Daniele. Per mio padre credo fosse una faccenda di sospensione d’incredulità. Ammettere che Di Liso era stato piantato in quel modo avrebbe offuscato l’immagine vincente che papà continuava a cucirgli addosso, un professionista la cui vicinanza trasmetteva il contagio dell’avanzamento sociale previo credito agevolato. Il fatto poi che la signora Di Liso fosse ricorsa all’edilizia di Japigia pur di non trascorrere un altro semplice minuto in compagnia di suo marito (abitazioni solitamente ventilate da disastri fognari attraverso il cartone pressato dei muri portanti) dimostrava qualcosa a proposito della dignità che forse mio padre condivideva nel profondo del cuore: portarla alla luce avrebbe però rischiato di rendere problematica una scalata che solo l’assenza di rovelli filosofici poteva far sembrare tutta in discesa. Anche la mamma non nominava mai la moglie di Di Liso in mia presenza. La separazione dei genitori di Daniele mi si mostrò nella sua vergogna: non per quel che era, ma per come il silenzio dei miei iniziava a sfigurarla. A questo si aggiungeva la mia incapacità di affrontare l’argomento. Era come se sapessi e, contemporaneamente, nonsapessi. Un sabato pomeriggio, telefonai a Daniele. Ero rimasto in casa tutto il giorno, e la televisione parlava del disgelo tra Stati Uniti e Orso Rosso con una tale monotona insistenza che una partita a RisiKo mi sembrò l’unico modo per venirne fuori. Lui mi rispose con un tono di strozzata diplomazia: «Mi. Dispiace. Ma non. Posso. Mia. Madre. Mi porta al. Cinema. Per il. Ehm… Weekend». Era chiaro che la proiezione de La mia Africa non poteva durare quarantott’ore. Daniele mi stava sottilmente comunicando che avrebbe trascorso il fine settimana da sua madre, una trasferta negli altiforni cittadini in cui non si sarebbe sognato di invitare nessuno dei suoi amici per timore che potessero restare scandalizzati dalle immense piste d’atterraggio piene di crateri su cui nasceva e tramontava quella metà di mondo. Ma a me, ame adesso, seppure tremando come una foglia, stava offrendo finalmente una parziale verità: aspettava che completassi l’opera squarciando i fragili tendoni della sala cinematografica da cui era nascosta. Ma io mi limitai a rispondere: «Ok, d’accordo, allora ci sentiamo lunedí». Non riuscivo a domandargli di sua madre. Daniele, imbarazzato dal mio imbarazzo, era incapace a propria volta di parlarmene. Eravamo bloccati da forze di cui fino a quel momento ignoravo l’esistenza. Il disonore da cui avrei dovuto riscattarmi non era niente rispetto alle ombre che si stavano allungando sulle nostre giornate. Passarono altre settimane. Quando eravamo insieme, io e Daniele vivevamo sepolti nella sua stanza. Al momento di andare in bagno, per esempio (cosa che facevamo soltanto dopo i primi crampi alla vescica), stavamo molto attenti a usare quello di servizio, perché il grande bagno con vasca idromassaggio era adiacente alla cucina e fronteggiava il soggiorno – e il soggiorno e la cucina, nel loro maniacale e desertico lindore, erano la piú tangibile dimostrazione della mancanza di una donna adulta a ravvivarlo. Ciò nonostante, mi sentivo sempre a un passo dalla frase che avrebbe sciolto la tensione. Lui mi guardava e deglutiva. Io rimandavo la soluzione del problema all’indomani. E poi, in un giorno di questi giorni, la Realtà decise di stanarci. Insieme, sempre insieme… divisi dal paziente di cartone a cui stavo cercando di estrarre con cautela l’osso del desiderio, fummo interrotti dal suono del citofono. Gli occhi di Daniele si riempirono di panico. Sua madre era in anticipo di un quarto d’ora sul loro appuntamento, mandando a rotoli il delicato gioco di incastri cronologici a cui Daniele si era affidato – «Ci vediamo alle sei meno venti. Per… piacere», le aveva detto dopo essersi assicurato che alle cinque e mezzo sarei stato costretto a lasciarlo per andare in palestra. Quando veniva a prendere Daniele, la ex signora Di Liso non oltrepassava mai il confine della porta d’ingresso. Preferiva limitare ai tabulati telefonici i litigi furiosi che ancora scoppiavano tra lei e il direttore di banca, e aspettava di solito suo figlio tra gli schiamazzi del traffico giú in strada. Daniele riagganciò la cornetta del citofono. Tornò in camera e proferí un debolissimo: «Ora bisogna andare». Si avviò verso la porta d’ingresso senza dire una parola e scese insieme a me le scale del condominio, un passo dopo l’altro, come se indugiare sulle rampe potesse ritardare il trascorrere del tempo. Si domandava probabilmente con angoscia se avessi compreso la situazione, e poi dovette essere colto dal terribile sospetto che io stessi capendo solo in quel preciso istante – il pallore del suo volto fu invaso da un tumultuoso afflusso di sangue che si raccolse intorno alle orecchie, arroventandole e facendole vibrare. Avrei voluto mettergli una mano sulla spalla. Ma appena uscimmo dal portone lui allungò il passo. Disse un «ciao» che sarebbe voluto essere un normale atto di commiato, ma venne fuori tra il telegrafico e il grottesco. Poi si lanciò verso la strada, diretto verso sua madre che lo aspettava con una A112 parcheggiata in doppia fila, questa donna di cui avrei dovuto chiedergli da tempo ma che, sprecate tutte le occasioni, sarebbe forse stato meglio non incontrare piú. Invece, a dispetto delle nostre manovre, adesso la vedevo – una figura magra, non piú alta di un metro e sessanta, con un caschetto simile alla spugna di un’imbottitura e un naso affilato su labbra ancora piú sottili, e un piumino senza maniche adagiato insieme a lei sullo sportello di un’utilitaria ammaccata in vari punti, e lo sguardo… uno sguardo che era la spenta testimonianza di ciò che resta degli scatti d’orgoglio quando si infrangono contro uno stock di merce di seconda mano lasciando a terra polvere, vestiti rattoppati e tristi paralumi da privé sotto sequestro. Ed era verso di lei che ora Daniele avanzava in stato catatonico, insultato dai conducenti d’autobus e dai motociclisti che se lo ritrovavano davanti all’improvviso. Prima che la donna potesse andargli incontro, alzò la mano con un rigido gesto di servizio che si sforzava di prosciugare ogni istinto filiale, sapendo di essere ancora sotto il mio sguardo e sotto il tiro di suo padre, che assisteva alla scena affacciato sul balcone con le braccia conserte – e tutto il mondo, il mondo intero adesso lo guardava, ed esprimeva sbadigliando il suo implacabile giudizio mentre lui, Daniele, provava a mantenersi saldo sulle gambe in un’isola di asfalto, gas di scarico, strazio e solitudine assoluta. Quel giorno, in palestra, eseguii gli esercizi della ginnastica correttiva come mai avevo fatto prima, continuando a domandarmi con angoscia se fossi solo un vigliacco come tanti. Speravo che lo sforzo fisico mi impedisse di pensarci. Ma a ogni giro del circuito con la palla medica sentivo che il mio legame con Daniele andava stringendosi proprio intorno al nodo dei problemi irrisolti: piú non ne venivo a capo, piú me ne sentivo attratto. E ancora sbarre e trapezi e piegamenti sulle gambe… Dopo il pomeriggio in cui incontrai per un momento gli occhi di sua madre, io e Daniele continuammo a vederci senza parlare mai dell’accaduto. Era come se ci fosse un morto in casa e noi vegliassimo su un grande cofano di mogano facendo finta di niente. Toccò a Pasquale Di Liso peggiorare la situazione. Il direttore di banca non aveva molto a che fare con il sardonico personaggio che in ufficio maneggiava i rubinetti del dare e dell’avere. Tra le pareti domestiche, i sorrisi professionali regredivano a un ghigno obliquo e gorgogliante. Non riusciva a darsi pace per l’abbandono del tetto coniugale che lo obbligava a presentarsi da solo alle cene di rappresentanza: odiava la sua ex moglie, se ne sentiva danneggiato – una di quelle persone, Di Liso, convinte di essere sempre la prima scelta sul mercato, quindi capaci di augurare il peggio a chi rischia di mandare per aria il delicato origami del mondo che si sono fabbricati pur di darsi un’importanza. Non potendo condividere con i suoi pari questi disturbi della personalità, scendeva pure lui nel Kindergarten. Un sabato sera, sul tardi, tornò a casa dopo una cena con i colleghi. Fece il suo ingresso nella stanza di Daniele già libero dalle bretelle: «Ehi campioni, come butta?» Si allentò il collo della camicia, chiese se qualcuno lo aveva cercato e Daniele recitò a memoria la lista delle chiamate. Raccolse un quotidiano dalla piccola emeroteca che suo figlio andava pazientemente costruendo grazie all’edicola sotto casa. Sfogliò il giornale con disinvoltura: «Questo Desmond Tutu è proprio un gran pagliaccio figlio di puttana, o mi sbaglio ragazzi?», domandò a bruciapelo con le pupille scintillanti. Daniele annuí con compunzione e io, pur intuendo di cosa stessimo parlando, feci lo stesso, perché nell’aria c’era adesso una violenza inesprimibile che prometteva di rimanere allo stato latente a patto che ognuno desse ragione all’altro. Soddisfatto della nostra partecipazione, Di Liso continuò a divagare, dagli esteri passò alla cronaca della sua cena di lavoro fino a quando il rampino della rivalsa arpionò l’argomento del night club: «Oh, avreste dovuto esserci…» A un certo punto piombammo in un locale dalle luci soffuse popolato da donne leopardo accoccolate sui divani. «Sapete, – disse cercando di appropriarsi della nostra complicità, – ci sono andato subito dopo cena…» Non si capiva se fosse Bari o la vecchia Chicago di un teatro di posa. Ma approfittò della nostra ignoranza in materia per raccontarci come un Dom Pérignon pagato alla rossa in lamé del tavolo 14 avesse prodotto un’immediata fuga a due censurata sulla soglia di una camera privata (ci teneva a passare per un galantuomo). Appagato dall’ammutolimento mio e di Daniele, decise di gettare noccioline anche sulla nostra vanità: «Le nuove generazioni… che cosa cazzo siete, ragazzi miei! – disse indicando le carte del Trivial Pursuit a cui stavamo giocando prima del suo arrivo, – con tutto quello che sapete potreste mandare in crisi un ingegnere della Nasa». Ci assicurò che molto presto Daniele avrebbe «rotto il culo a tutti» tra i ghiacci eterni del Töpffer. «Ma pure tu…», mi concesse strizzando l’occhio con una ruga di stanchezza nel sorriso. Quando Di Liso gli faceva i complimenti, Daniele era pronto ad allargare il paniere delle sue letture, ad assaltare atlanti e volumi enciclopedici pur di essere degno delle immagini evocate da suo padre. Ma le blandizie di Di Liso seguivano la strategia di chi è disposto a farti grandi concessioni solo per spostare il baricentro del discorso fino a vederlo coincidere con l’arbitrio del concedente. La settimana dopo, al ritorno da una delle sue discese al Cotton Club, per la prima volta davanti ai miei occhi avvenne la trasformazione: Di Lisosimpatico-affabulatore cedette il posto ad Aguirre il sanguinario. Entrò in stanza sbattendo la porta. Si rivolse a Daniele e urlò: «Testa di cazzo! si può sapere perché non hai avviato la lavatrice?» Daniele scattò in piedi in preda al panico: «Stavo per farlo!» Il direttore guardò implacabilmente l’orologio: «Non dire puttanate, – sibilò, – è l’una meno venti del mattino…» Tutto era accaduto cosí in fretta che dovetti ricostruire lo scambio di battute per capire che cosa stesse succedendo. Ma ero già in ritardo sulla scena successiva. Di Liso si avvicinò al corpo inerte di suo figlio e gli urlò in faccia che ancora una volta non era stato ai patti: «Che cosa ci eravamo detti? che cosa ci eravamo detti, ioe te?» Gli rinfacciò senza pietà la sua condizione di ospite: se non voleva trasferirsi da sua madre nella Terra del Degrado, disse, allora doveva rendersi utile con le faccende domestiche – fare aderire la propria sagoma al fantasma di sua madre, pensai agghiacciato, e da questa macabra sovrapposizione cambiare le federe ai cuscini, scrostare il forno, arieggiare le stanze… tutte cose che Daniele aveva sempre fatto nelle pause dei nostri giochi, ma a cui riuscivo a dare la vera dimensione solo adesso –, e usando la presunta «ingratitudine» di Daniele arrivò a dimostrare come suo figlio fosse un ragazzino che della complicata macchina del mondo vedeva solo l’argento sulla carrozzeria, e che il mondo avrebbe ripagato molto presto facendogli ingrossare l’immensa stiva dei falliti. «Un coglione, un coglione!» ripeté passeggiando senza pace da un capo all’altro della stanza. Ero impietrito. L’istantaneità della sfuriata non mi aveva lasciato il tempo di capire neanche che faccia avrei dovuto fare. Il litigio, tra l’altro, aveva trovato cosí pronti sia Daniele che suo padre da far pensare che uno spettacolo del genere era andato in scena molte altre volte. Di Liso si era inoltre sfogato in assoluta libertà: la mia presenza non lo aveva frenato. In qualche modo lui sentiva quanto ormai fossi compromesso nel mio rapporto con suo figlio… come se avesse udito il clic che era scattato nella parte fragile della mia mente il pomeriggio in cui avevo lasciato correre Daniele verso sua madre senza dirgli una parola. Mettendomi a letto riflettei sul fatto che Daniele, un attimo prima di dire «stavo per farlo!» a proposito della lavatrice, aveva dato la sensazione di sapere che una scusa tanto idiota era il meglio che suo padre potesse chiedere per farlo a pezzi. Eppure, si era lasciato sfuggire ugualmente quelle parole di bocca. Anche lui era sotto le lenzuola. Leggeva il suo libro di Stephen King come se niente fosse. Domenica mattina, nell’auto che mi riportava a casa, separati dalla voce del radiogiornale che parlava della Juventus finalista in Coppa dei campioni, mi domandai come era possibile che mio padre non si rendesse conto di che persona era Di Liso e in quale tipo di manicomio venivo serenamente parcheggiato. Rallentammo davanti a un capannello di curiosi che circondava il lungo profilo di una Jaguar XJ-S color verde smeraldo. Oh, se ne rendeva conto molto bene. Poi c’era il terzo della compagnia del disastro… A partire dai primi di maggio, il suono del citofono iniziò a riecheggiare ogni sera alle otto in punto tra le pareti della casa dei Di Liso. «Deve essere quell’imbecille di Mimmo», diceva Daniele correndo verso il corridoio. In due minuti si presentava ai nostri sguardi un ragazzo con i capelli da mustelide, troppo decorosi e fuori moda e comunque sempre troppo corti o troppo lunghi per non essere tagliati in casa da un adulto con gravi problemi di concentrazione. Era Mimmo Pavone, un tredicenne paffuto che faceva dell’inoffensività la sua bandiera e la frusta di chiunque, praticamente l’unico coetaneo che Daniele frequentava a parte me. I suoi genitori erano stati consegnati (terza volta in due anni) a un centro di recupero per alcolisti. Mimmo si attaccava al campanello dopo avere trascorso il pomeriggio a fingere di fare i compiti nella cartoleria dei vecchi zii (un signore curvo e taciturno che alla richiesta «una penna Snappy» scrollava le spalle invitando i clienti a frugare tra la merce abbandonata sulle mensole, e un’anziana signora a rischio di trombosi che, lentissima nelle sue calze contenitive, ricontava almeno cinque volte l’incasso della giornata prima di svuotare il registratore di cassa). Dopo avere passato delle ore sulla caduta dell’Impero romano senza leggere una riga, Mimmo faceva il suo ingresso nella casa dei Di Liso: sulla bandiera issata del suo sorriso senza condizioni ci riconoscevamo come l’unica alternativa all’ingrigita fatiscenza della cartoleria, e dunque il meglio che potesse chiedere alla vita. La prima volta che lo vidi, venne accolto da Daniele con la cura e il rimprovero preventivo che si potrebbero riservare a un animale domestico: «Che fai lí come uno scemo? ti vuoi decidere a entrare?» Scivolammo sul campo minato del soggiorno e andammo a chiuderci nella stanza di Daniele, dove la partita a RisiKo che stavamo disputando fu dichiarata nulla. Vennero distribuite le carte e le pedine anche per il nuovo ospite. Solo che Mimmo era un caso disperato. Rimaneva interdetto con i dadi nella mano. Al primo rimprovero di Daniele, pur di non deluderlo, si avventurò in una serie di manovre troppo esplicitamente suicide per non testimoniare una totale ignoranza sul senso stesso del gioco a cui stavamo gareggiando. Cosí il suo oggetto di venerazione poté dirgli: «Come al solito, non hai capito un cazzo…» Dopo un’ora di partite sgangherate, Mimmo borbottò che non poteva farci niente se non era intelligente come noi. Daniele confermò: «Ci mancherebbe!» Io abbassai la testa per non dover confermare a mia volta. La rialzai temendo di trovarmi a sostenere una maschera d’umiliazione: e invece era ancora la tenerezza di un sorriso immacolato. Daniele riprese a spiegare, a metterlo in difficoltà, e piú gli dava dell’imbecille piú si tranquillizzava. Avere la conferma che in quella stanza era ospitato un soccombente naturale, un ragazzo che davanti a qualsivoglia prova la vita lo avesse sottoposto sarebbe stato vinto prima di lui e di me: soltanto questo sembrava metterlo in uno stato emotivo prossimo alla pace. Un effetto lievemente diverso, Mimmo lo esercitava sugli adulti. Di Liso, in sua presenza, perdeva le ultime tracce dei freni inibitori. Erano passati altri giorni, altre spettacolari sfuriate tra Daniele e suo padre e adesso, una domenica mattina, eravamo tutti e quattro seduti nel soggiorno. «Oh, benissimo ragazzi…», fece Di Liso spruzzando il seltz dentro un bicchiere in cui Campari, gin e troppo Punte-mes erano la controfigura di un Negroni da Fifth Avenue. Infilò una mano nella tasca della giacca, e davanti allo sguardo concentrato di Daniele, all’ovina compassione di Mimmo e al mio sbalordimento ci mostrò un piccolo involucro di plastica con i bordi a francobollo. Disse che «ovvio…», sapeva quello che combinavamo con le nostre compagne di scuola, del resto anche lui alla nostra età passava il tempo a inseguire ragazzine che disertavano i rosari di gruppo per stendersi al suo fianco tra i cuscini di un divano. «Solo che adesso…» aggiunse, passando da una mano all’altra la confezione del preservativo, gli angioletti famelici che noi secondo lui già portavamo a letto con una facilità doppia e tripla se confrontata con gli sforzi di retorica a cui era dovuto ricorrere per la resa di una spallina (da qui il valore doppio e triplo delle sue conquiste rispetto alle nostre), scopavano in giro come ossesse: la mano che ci stringeva al basso ventre, assicurò, portava ustioni da sfregamento non piú vecchie di due ore. Le «mezze troie» incameravano sindromi da immunodeficienza e conservavano l’attitudine materna ad assaltare i patrimoni altrui con il trucco piú vecchio del mondo, specie se la controparte era piú alta di un metro e quaranta e benestante (qui indicò soltanto me e suo figlio). Diede un sorso al Negroni, scartò il preservativo e srotolò il lattice nella mano destra. «Questo aggeggio, – agitò il pugno inguantato come fosse una marionetta da incubo, – questo affare di gomma vi libera dal pensiero». E terminò il seminario di educazione sessuale scolpendo nel silenzio un ultimo consiglio: «Sbattetevi la stronza, – disse, – tenetevi l’aggeggio finché potete… e poi sfilatevelo in tempo per riuscire a sborrarle nei capelli!» Raccolse il bicchiere dal tavolino di cristallo. Seguirono secondi di assoluto sconcerto. Credo fossimo agghiacciati da un odio che non conoscevamo ma che in fondo era la darwiniana conseguenza dell’eros da bagnini quando le lampadine si spengono intorno alla balera e la luce torna vent’anni dopo in un ufficio dove una radiolina trasmette Sapore di mare per una lampo dirigenziale che va giú, seguendo il destino inevitabile di un intero paese. Tra l’altro… bastava osservare la praticità con cui non tiravamo mai sul prezzo quando qualcuno ci mandava a far la spesa per capire come la nostra intraprendenza ci avesse fatto guadagnare, in campo femminile, non piú di due o tre lucidalabbra la cui impronta ricalcavamo a gesso sul segnapunti del ricordo. Ma era soprattutto la pratica suggerita da Di Liso (non l’atto in sé, ma il disprezzo di cui l’aveva circondato) che io Mimmo e Daniele non potevamo digerire senza tradire una parte segreta di noi stessi. Perché noi tre – pensai nella piccola bolla di silenzio che si andava dilatando nel soggiorno – avevamo un’idea del sesso tutta nostra e lontana, opposta rispetto a quella di Di Liso. Non odiavamo le donne. Non odiavamo le nostre madri e le compagne di classe e le ragazze che sognavamo di baciare. Lo testimoniavano i pomeriggi precedenti, quando, seguendo un segnale invisibile, a un certo punto io e Mimmo sgombravamo il tavolo dalla mappa del RisiKo dichiarando l’armistizio, Daniele raccoglieva una rivista dal fondo di un cassetto e ci sbatteva sotto il naso lo splendore mammifero di Helene Hanson inquadrata dalla cascata dei capelli alla doratura delle cosce; uno sguardo serio e morbido (da praghese nelle domeniche di sole, o da californiana violentata sulla spiaggia senza opporre resistenza), e soprattutto tre sottili bende di tessuto nero a fasciarle giusto l’inguine e i capezzoli lasciando completamente libero il fianco destro, in particolare l’ascella completamente rasa, una tenera porzione di carne rivelata dal braccio portato indietro in un gioco di luci che, scorrendo verso i fianchi dopo averci mozzato il respiro con la curva del seno, si interrompeva sul tessuto che le copriva il pube per ritornare a splendere sulle rotondità dell’ileo, ovvero il piccolo luogo intorno a cui sarebbe dovuto passare il cotone delle mutandine e dove invece, grazie all’abilità dei fotografi di «Skorpio», la ragazza si mostrava di un’impudicizia superiore a quella del suo sesso spalancato: «Sono indifesa, è questo il mio coraggio, sono qui perché voi approfittiate di me». Uno dopo l’altro, ci sbottonavamo i pantaloni e iniziavamo a masturbarci sulla copertina di «Skorpio», una delle piú astute invenzioni editoriali degli anni Ottanta: la prodigiosa scuola di fumetto di Buenos Aires impaginata con lo specchietto per allodole di ragazze seminude in copertina (poi quasi completamente nude nel servizio fotografico interno) tra cui Valeria Golino, Enrica Bonaccorti, Carol Alt ma soprattutto Helene Hanson, la nostra eroina. Davanti a lei facevamo su e giú senza guardarci negli occhi e senza mai cambiare formazione – io Mimmo e Daniele, mai io e Daniele da soli: un terzo ci serviva per escludere l’eccessiva intimità. Iniziavamo a prendercelo tra le dita con una compunzione da cadetti aeronautici al battesimo del cielo. Se Helene Hanson fosse stata viva (come lo era attraverso la copertina) sarebbe forse rimasta spaventata da questi sguardi che niente sembravano concedere al nudo desiderio – Daniele andava per strappi perfettamente misurati; Mimmo dava l’impressione che per lui la copertina di «Skorpio» fosse davvero quel che era, una miscela di fibre vegetali uniformate in uno stabilimento tipografico che il suo sguardo associava piú al cameratismo d’occasione che a un’astratta voluttà, e quindi uno strabiliante caso di corpi cavernosi gonfiati dal semplice bisogno d’amicizia; io mi davo da fare gettando gli occhi a destra e a manca con la paura che fossimo ridicoli. Ma poi i movimenti uscivano dalla partitura, iniziavamo a perdere il controllo, avvertivamo l’imbarazzo di essere uno accanto all’altro con le mutande abbassate, perché soltanto adesso lo eravamo davvero; soltanto adesso Mimmo e Daniele, esattamente come me, erano terrorizzati dalla possibilità che uno di noi, in preda alla frenesia, potesse avvicinarsi troppo all’altro fino a toccarlo. Infine rientrava anche questo pericolo, e ci ritrovavamo soli con la nostra immaginazione. Abbandonavo i miei due amici sulle scintille svolazzanti di un rogo mentale in cui bruciavano festosamente vecchie cartolerie e madri lontane e padri assetati di vendetta, vedevo l’ultimo bagliore di emozione condivisa e poi davanti a me c’era solo Helene Hanson col suo broncio assassino. E a separarci, mi dicevo aumentando i movimenti del pugno stretto intorno al cazzo, a separarci non erano quattrocento miseri chilometri (la rivista era stampata a Roma), non era l’insignificanza degli anni (quel numero di «Skorpio» era datato 1981) ma solo il vuoto luminoso in cui lo spazio e il tempo si annullano, i miliardi di fotoni che viaggiavano da sempre per il cosmo legando tutti a tutto, impressionati come lastre fotografiche capaci di trasmettere istantaneamente l’informazione agli altri mattoncini del creato, la radiazione universale che adesso i miei occhi socchiusi si sforzavano di riconoscere nella luce primaverile che scendeva a piramide sul pavimento della stanza aprendo una botola accecante nella quale convergevano tracce vive di Helene Hanson, e insieme a loro c’era il riflesso verde degli eucalipti che si vedevano dalla finestra e i gas rabbiosi degli automobilisti in strada, e a pochi cieli di distanza (lo stesso cielo: una continua successione di stanze senza porte) c’erano le rondini in picchiata che ferivano lo spazio sulle pianure dove la ronda immobile dei pali telefonici affondava nell’esplosiva giovinezza del frumento e risaliva a ondate verso le prime zone urbane, testimoniate a pochi passi da me (dentro la stessa botola accecante) dall’arrivo del pulviscolo invisibile staccatosi dalle schiene nude delle ragazze che a Bari il giorno prima il giorno stesso in quel preciso istante venivano urlando tra le braccia dei loro amanti, ed era allora che – in breve ritardo o ancor piú breve anticipo rispetto a Mimmo e a Daniele – mi sentivo tirare tra l’ano e l’attaccatura dei testicoli, stringevo forte, scaraventavo la testa in avanti poggiando tutte e due le mani sulla rivista aperta per non crollare a terra tra i sospiri. Mimmo tossí. La bolla di silenzio esplose come una bolla di sapone. «Come hai detto?» chiese il direttore di banca stringendo il suo sorriso fino a digrignare i denti. «Ho detto che questa storia di venire nei capelli mi sembra una mezza cretinata», mi sentii uscire dalla bocca per la seconda volta. Mimmo sgranò gli occhi. Daniele si irrigidí. Io stesso ero sorpreso dalle mie parole. «Oh, ma certo certo… – Di Liso si alzò dal divano raccogliendo il bicchiere ormai vuoto, – perché invece voialtri cazzoni sapete bene come vanno le cose…» Soltanto quando iniziò a insultarci capii che stavo difendendo l’unico spazio della mia amicizia con Daniele che in qualche modo era rimasto inviolato. Avevo detto la cosa giusta ma era come se a dirla non fossi stato io, non riuscivo neanche a esserne soddisfatto. Di Liso si mise a girarci intorno: «Tu… – disse indicandomi col mento, – tu fai tanto il saputello ma sei di quelli che al momento di stringere già se la sono fatta addosso». Si spostò davanti a Mimmo, che lo guardava con i soliti occhi pieni di riconoscenza. «Questo… – disse Di Liso dandogli le spalle e indicandolo col pollice come dovesse esporlo ai visitatori di uno zoo, – questo è tanto se riesce ad annodarsi i lacci delle scarpe». Ridacchiò in solitudine. Si allontanò da Mimmo, e Mimmo tirò un sospiro di sollievo. Adesso era di fronte a Daniele. Lo puntò con uno sguardo divampante, come se fosse stato suo figlio a contraddirlo, non io: «Quanto a te, – disse, – che cosa possiamo pretendere da te con quella… con quella lesbica che ti ritrovi come madre!» Una lesbica? Un rumore tremendo mi perforò i timpani. Una lesbica! Daniele restò immobile davanti a suo padre. I loro sguardi si scontrarono. Lottarono per qualche istante. Si incamminarono poi lungo un sentiero dove non era piú possibile seguirli. Guardai Mimmo. Se ne stava seduto tutto composto sul divano con il quieto intontimento a cui ci aveva abituato: esercitava un tipo di perdono che lo faceva risplendere sulle nostre teste fin quasi a rarefarsi – una deposizione delle armi che però, tra le mie mani, avrebbe al contrario lasciato il segno della viltà. «Parli cosí solo perché ti ha scaricato». Un’altra volta… un’altra volta le parole mi erano uscite di bocca senza che lo avessi deciso! Mimmo se la ridacchiò. Di Liso fece per dire qualcosa, mi sembrò di vederlo boccheggiare. «Oh insomma smettila!» Daniele scattò in piedi e mi guardò con gli occhi pieni di rimprovero. Suo padre fece un passo indietro, abbandonandolo solo davanti a me. Daniele continuava a guardarmi furente, ed era chiaro: difendeva lui. Fu allora che il nodo si sciolse. La mia amicizia per Daniele diede l’ultimo respiro, morí e fu sepolta – e dal momento che lui e Di Liso erano stati tanto abili a trasformare quell’appartamento in un calvario rovesciato dove i figli assumevano su di sé le colpe dei padri perché le bassezze di entrambi diventassero le ragioni di ognuno, niente avrebbe potuto riportarla in vita. E anche in questo caso, pensai con rabbia, mi ero ridotto a riconoscere l’evidenza delle cose con un ritardo clamoroso: troppo prudente per affrontare il peggio quando faceva capolino nella coltre delle buone intenzioni, e troppo pieno di amor proprio per accettare la piena connivenza quando i tradimenti si mostravano per quel che erano senza possibilità di errore. Di Liso si ritirò in camera da letto. Mimmo intrecciò le mani sulla pancia. Daniele, già perfettamente ricomposto, frugò nei nostri sguardi: «Un altro giro di Cluedo?» Un’ora dopo, camminavo a passo svelto lungo la strada che portava a casa. Mi godevo il sole della domenica mattina superando a casaccio gli incroci di via Re David e poi le palme cariche di datteri e di topi che costeggiavano il campus universitario… e c’era una città! un’intera città che c’era sempre stata mentre io mi ero ridotto a passare le giornate come un sepolto vivo. «Allora anche la mamma èd’accordo,puoifermarti a dormire…» Ci avesse provato, ci avesse provato un’altra volta a mettermi in trappola con questi trucchi da quattro soldi! pensai chiudendo gli occhi al centro della strada con una calda sensazione di rivincita. Ma senza che io dovessi fare niente, mio padre non mosse piú un dito per costringermi a passare i fine settimana dai Di Liso. Rapidamente. Le cose intorno a noi cambiavano rapidamente… Capitoloterzo A fine giugno dell’85, qualcosa di molto simile alla follia meteorologica percorse l’economia del nostro piccolo paese. A Milano. A Napoli. Nei formicolanti centri abitati sulle rive dell’Adriatico. Lenzuoline per neonati, trapunte, servizi da tavola… I telefoni nell’azienda di mio padre cominciarono a suonare all’impazzata. Sulla porta scorrevole messa davanti al magazzino, comparve un vecchio grossista abituato a farsi attendere per ore nell’anticamera del suo ufficio. Sebbene fosse un uomo di lunga esperienza, aveva lo sguardo stravolto dall’itterizia della corsa all’oro. Tirò fuori dalle tasche del trench un ventaglio di fogli strappati da vecchie agende-omaggio e disse al magazziniere: «Passami una penna». Riempí i fogli in fretta e furia. Il magazziniere disse lentamente: «Guardi che per i prezzi deve aspettare che torni…» Il grossista lo interruppe: «Di’ al titolare che se riesce a consegnarmi tutta la merce entro settembre, per una volta sui prezzi nessuno gli romperà i coglioni. E lui comunque già lo sa!» Il numero degli ordini fu impressionante, del tutto sproporzionato visto che la stagione dei matrimoni si era appena conclusa lasciando nelle sale ricevimenti un profumo non del tutto estinto di gigli freschi e di risparmi inceneriti. Ma sotto quelle ceneri c’erano altri soldi che bruciavano dalla voglia di passare di mano in mano, e tutta la città marciò quell’anno a ciclo continuo. Le giornate di mio padre si allungarono. Lavorava anche sedici ore di seguito: furente, su di giri, senza mai avvertire la fatica, come sospinto da un vento magico. Affittò un nuovo magazzino. Allargò il giro delle ricamatrici. Iniziò a ricevere i clienti al bar, nelle pause tra la banca e l’ufficio del commercialista. La sua meticolosità vide emergere nuove sfaccettature. Moltiplicò le riunioni coi fornitori e cominciò ad aggiornare quotidianamente il calendario degli insolventi. Quando il ritardo di un incasso superava una soglia fissata dall’illuminazione del momento, un velo opaco gli scendeva sullo sguardo. Allora telefonava a Palmieri, il suo rappresentante: «Girolamo, ma questo cazzo di Balestrucci ci ha fatto almeno il primo dei bonifici?» Palmieri cercava di calmarlo a modo suo: «Con tutto quello che sta succedendo, tu ti preoccupi di venti milioni? Potresti guadagnare il doppio in mezza settimana se ti facessi un giro sopra la linea gotica. Bologna. Parma. Reggio Emilia. Da quelle parti la situazione è esplosiva: non ce la fanno piú a correre in Ferrari su e giú per la Riviera. La notte vanno a letto cercando di pensare a qualche cosa di tranquillizzante. E invece sognano continuamente l’immagine del cavallino. Adesso, adesso hanno bisogno di un corredo!» Senza darsi per vinto, mio padre telefonò personalmente ai propri debitori – molti dei quali, esasperati dall’insistenza, iniziarono a farsi negare. Una sera mia madre lo richiamò all’ordine: «Non credi di stare esagerando?» Papà distese le dita della mano destra. Gli si dipinse sulla faccia un’espressione allarmata, come se un semplice rimprovero avesse il potere di rallentare gli aghi a inchiostro della macchina per telex che in ufficio riempivano un ordinativo dietro l’altro. «Questi signori… – proclamò, – basta lasciarli soli con i loro pensieri e sono pronti a corrompere un curatore fallimentare. Bisogna entrare nel loro dormiveglia. Al mattino, prima di ricordarsi chi sono e dove sono, si devono svegliare avendo sulle labbra il tuo nome e cognome!» Si poteva quasi dire che risplendesse nel tono del discorso. Dovette infine sentir scendere sul proprio capo l’ingovernabile luce della fortuna umana: si lanciò verso mia madre. La strinse tra le braccia: «Ma non capisci… non capisci? – disse piegato in due dall’emozione, – è cosí che funzionano le cose!» A pochi passi dall’estate, i miei trovarono una nuova forma di complicità, forse anche di amore. Papà sfrecciava alle cinque del mattino in autostrada, superava con scioltezza i tornanti dell’Irpinia pronto a conquistare nuove fette di mercato a Siena, a Firenze, a Reggio Emilia. Durante una contrattazione in un ristorante affacciato su piazza del Campo pensava a lei, teneramente, come vent’anni prima girando per le strade alla ricerca di una pianta d’orchidee. Cosí poteva adesso dire al cliente della giornata con uno sguardo intenso: «Di questo articolo deve ordinarne centocinquanta pezzi. Si fidi, li avrà venduti prima che un solo granello di polvere si sia posato sull’ultimo dei colli». La mamma, a cinquecento chilometri di distanza, sentiva allora i propri passi farsi piú saldi muovendosi tra piccoli capolavori di ebanisteria e orologi in stile Luigi XVI – non piú la timidezza del curioso, ma il fiero cipiglio dell’incompetenza armata di carnet d’assegni che fa impazzire d’entusiasmo gli antiquari. Furono infine d’accordo nel sospendere i lavori della nostra nuova casa. Erano mesi che dovevamo trasferirci in una villa acquistata nell’inverno dell’83. Solo che adesso una normale villa per benestanti poteva trasformarsi in una vera abitazione signorile. In questo clima di frenesia e trionfo, si spensero le liti sul mio avvenire. Il mondo su cui mamma e papà sognavano di fare capolino mandandomi a studiare in un qualunque Töpffer prometteva di emergere proprio sotto i loro piedi, come se un intero immaginario fosse disposto a farsi schiavardare dal suo lontano luogo d’elezione per venire a noi. «Indro Montanelli, per esempio», diceva mamma sparecchiando la tavola. «Enrico Fermi, Indro Montanelli… tutti venuti fuori dalla scuola pubblica», confermava papà guardando la punta della Marlboro dopo un lungo tiro. Si arrivò a parlare del Cesare Baronio, il liceo scientifico a due chilometri da casa: i miei genitori portarono i moduli già riempiti alle cascanti strutture della scuola, consegnandoli pieni d’orgoglio tra le mani di un grigio segretario la cui noia venne scossa dalle braci di questi occhi che si guardavano intorno col fanatismo di due quaccheri appena giunti in Pennsylvania. E non Pittsburgh, non Cambridge, ma Bari era la terra delle promesse. Daniele mi telefonava ancora. Con poche scuse consecutive riuscii a farlo desistere: mollò la presa senza quasi lottare. Con Di Liso mio padre continuava invece a frequentarsi, ma i rapporti di forza stavano cambiando: papà per le banche diventava una controparte sempre piú allettante, e si poteva sospettare che le famose stellette da cucire sulla marsina del direttore fossero appese al filo delle nostre movimentazioni. «Non lo hanno ancora promosso, – gli sentii dire un pomeriggio quasi estivo, qualche ora prima che Di Liso venisse a cena a casa nostra, – e pensare che con due o tre clienti come noi persino un imbecille saprebbe diventare direttore di zona». Quella sera non aspettavamo solo Di Liso. Il fastidioso rumore delle trombe a gas lo sentimmo arrivare dalle strade sin dal primo pomeriggio, e affacciandosi al balcone si poteva riconoscere, ogni quattro o cinque utilitarie, un drappo bianconero che sventolava dai finestrini aperti. Insieme al direttore di banca sarebbe arrivato anche Palmieri con sua moglie, e un paio di nostri vecchi dipendenti, e un grosso cliente di Caserta che si trovava in Puglia per un viaggio di lavoro. Mia madre iniziò a estrarre il nero delle seppie e apparecchiò la tavola e fece a fette una dozzina di arance per il Martini, in modo che al momento di sedersi davanti alla finale della Coppa dei campioni ogni cosa fosse pronta. Mio padre svaní e ricomparve dopo mezz’ora con una scatola di Montecristo. Alle otto erano già tutti a chiacchierare con il bicchiere dell’aperitivo stretto in mano. L’immortale affresco della commedia umana si rinnovò con prepotenza tra le lampade a stelo del soggiorno: un gruppo di uomini baciati in piena fronte dal successo, o comunque felici di condividere per una sera la dimensione privata del successo altrui. Li osservavo contando i minuti che ci separavano dal fischio d’inizio: era stupefacente la trasparenza con cui le opinioni di ognuno, al momento di incontrare le risposte dell’altro, si rafforzavano oppure cercavano di affievolirsi rivelando i rapporti di forza. Di Liso, per esempio, veniva già guardato come un animale agonizzante. Non era neanche la commedia umana… era come se Balzac avesse scritto i suoi capolavori mezzo secolo prima rispetto a quando lo aveva fatto, trovandosi davanti una borghesia settimina, naturalmente gonfia della ferocia e dell’entusiasmo che si sarebbero potuti respirare in una scena di vita parigina, ma ancora incapace di certe sottigliezze la cui arte stavamo apprendendo in uno strano corso di recupero, tipo due secoli in dieci anni. Palmieri tossicchiò: «Signori, le otto meno venti. Davvero ci vogliamo perdere il primo gol di Platini?» «Le roi, le roi», lo corresse il commercialista. «Lo abbiamo comprhato per un tozzo di pane e lui ci ha messo soprha il foie ghras», chiuse i giochi Palmieri citando Gianni Agnelli al culmine di un’immedesimazione per la quale il tifo calcistico era spesso l’unica via di accesso. Mio padre si guardò intorno alla ricerca del telecomando. Si avvicinò al televisore e lo accese manualmente. Lo vidi irrigidirsi. Palmieri urlò: «Quadro!» Quando si allontanò dallo schermo, aveva sulla faccia un’espressione vuota. Lo stesso sguardo si impossessò degli altri. Non fu semplicemente una doccia fredda, non fu l’interruzione di una festa. Eravamo in una dimensione nuova… come se il mondo esterno e la nostra intimità si stessero schiantando, con il rischio di diventare un tutt’uno. La voce spenta di Bruno Pizzul disse: «ho accanto a me il responsabile della Uefa e mi conferma… mi conferma che ci sono trentasei morti». Il primo reality dell’orrore c’era stato cinque anni prima, quando venti milioni di persone seguirono in diretta la morte di un bambino precipitato in un pozzo artesiano. Ma Vermicino non era niente rispetto a quello che stava succedendo adesso. In televisione passavano immagini di cadaveri calpestati da una folla che fuggiva terrorizzata e si lanciava oltre le transenne cadendo nel vuoto anche per dieci metri. Gli hooligan avevano caricato, era crollata una barriera nella curva Z e la carneficina aveva avuto inizio. Le telecamere inquadravano gole aperte a bordo campo, mucchi di corpi inanimati, transenne divelte e legate tra di loro con uno spago per diventare lettighe di fortuna sulle quali venivano improvvisate tracheotomie e massaggi cardiaci. Alcuni superstiti erano arrivati nella tribuna stampa e strattonavano i cronisti mostrando un foglietto con sopra scarabocchiati i numeri telefonici dei parenti da chiamare. I corpi di altri tifosi venivano trasportati verso gli spogliatoi, dove i medici sociali mettevano a disposizione flebo e defibrillatori, e i calciatori della Juve, i calciatori del Liverpool, si ritrovarono nel tunnel che portava al prato questi corpi insanguinati e domandavano con uno sguardo attonito: «What happened?» La voce familiare di Bruno Pizzul disse: «I morti sono saliti a trentotto, i feriti sono piú di trecento e… sí, scusate un attimo…» Quando riprese a parlare era un’altra voce: «… una notizia che mi lascia piuttosto sconcertato è che la partita si giocherà lo stesso… – la voce di un vecchio padre di famiglia che mette un passo nel futuro e ne rimane annichilito – … vi ripeto… – disse cercando di seppellire l’umiliazione nello spirito di servizio, – vi ripeto che cercherò di commentare nel modo piú impersonale e asettico possibile…» Cosí le squadre scesero in campo sotto il cielo di Bruxelles, Scirea passò la palla a Boniek, e il problema di cinquanta milioni di italiani non fu piú trovare nuovi insulti per definire gli hooligan, la città di Liverpool e tutta la genia dei sassoni, bensí decidere se tifare o meno. Non sapevamo che la televisione tedesca aveva interrotto il collegamento. Non sapevamo che la rete nazionale austriaca aveva deciso di trasmettere la partita senza audio – sugli schermi di Vienna e Salisburgo le immagini dei calciatori danzavano nel vuoto mentre una scritta scorreva ossessivamente da sinistra verso destra: «Was wir senden ist keine Sportveranstaltung» (quello che stiamo trasmettendo non è una manifestazione sportiva…) Seguimmo la partita senza sapere che cosa stessimo guardando. Era la morte, ed era un gioco, ed era in qualche modo uno show televisivo. Mia madre e la moglie di Palmieri rimasero a occhi sgranati per circa un quarto d’ora. Poi sparecchiarono, come se questo potesse riportare la serata a un qualche ordine anteriore. Mio padre aprí nervosamente una bottiglia di whisky. Lui e i suoi amici lasciarono scorrere i minuti bevendo un bicchiere dietro l’altro. Guardavano la partita con aria spaventata, come se in un colpo di testa di Ian Rush sfumato sulle immagini delle ambulanze ci fosse una compiuta allegoria dei loro pensieri meno decifrabili. Fino a quando, all’inizio del secondo tempo, il re del calcio europeo vide Boniek a cinquanta metri di distanza e lo lanciò. Il polacco sgusciò tra due casacche rosse, accelerò e fu atterrato a mezzo metro dall’area avversaria, costringendo l’arbitro a fischiare un rigore inesistente che il sangue e l’atmosfera allucinata resero subito legittimo. E quando il re, lo stesso Platini, trasformò il calcio di rigore (palla a sinistra, tuffo di Grobbelaar sul lato opposto), e Bruno Pizzul disse «gol» con una voce sotterrata, quasi non udibile, fu allora che successe l’incredibile. Michel Platini iniziò a esultare come forse non aveva mai fatto in vita sua. La telecamera lo seguí mentre correva verso la linea di fondo e strinse sui suoi occhi scintillanti, il pugno chiuso alzato verso il cielo e la faccia… un sorriso impazzito di gioia che era uno schiaffo ai morti, ai vivi, ai sopravvissuti, agli stessi hooligan ma non alla somma di tutto questo: la prima notte in cui la morte e lo spettacolo salirono i gradini di una scala planetaria tenendosi per mano. Mio padre e Di Liso si strinsero per le braccia, come rischiassero di cadere sul pavimento da un momento all’altro. Il sorriso di Platini conquistò il centro dello schermo, e non proprio mio padre e non proprio Di Liso e non gli amici di mio padre seduti sul divano ma i loro calchi radiografici, impressionati dalla violenza della scena, iniziarono a vibrare. Le loro bocche emisero un suono incomprensibile, una specie di barrito che non si capiva bene cosa fosse – se gioia, rivincita, spavento, amore per l’osceno – e, dalle finestre aperte, lo stesso identico barrito iniziò a salire a ondate verso le nostre orecchie: Wroom… wrooom… wroooooom… Loro erano gli hooligan, la feccia d’Europa, i ragazzi che al grido di «anima, sudore e birra» devastavano in trasferta i negozi di alcolici, accoltellavano i tifosi avversari, si guardavano sorpresi le mani sporche di sangue quando un poliziotto li colpiva in testa con un manganello. D’accordo. Ma noi? Cosa eravamo noi? Che cos’era questo strano urlo che ci usciva dalla gola, cosí primitivo eppure cosí raffinatamente ambiguo? Wroom… wrooom… wroooooom… Erano settimane che mi ripromettevo di non farmi piú coinvolgere dalle faccende degli adulti. Ma adesso la tensione accumulata mostrava una via di fuga troppo invitante per non sentirsi costretti a farne uso. Cosí anch’io, senza sapere cosa stessi facendo, mi unii al barrito al grugnito al raglio che affratellava mio padre ai suoi amici al cupo risuonare che arrivava dai palazzi circostanti; un sisma fatto di sole voci che sembrava voler negare il male pur mettendo a sua disposizione un lungo ponte acustico che da Bari arrivava probabilmente su fino a Torino – e poi di nuovo giú, nello splendore tumefatto di Palermo –, e in questo grido che non aveva nulla di veramente ragionevole ma realizzava l’aspirazione potentemente disastrosamente umana di fabbricarsi una cattiva coscienza, sentii per la prima volta un lampante inaggirabile senso di appartenenza al mio paese. Nei giorni successivi, ripensai a lungo all’accaduto. Osservai la doppiezza sul volto dei giornalisti delle televisioni nazionali che, ormai a freddo, commentavano la folle notte di Bruxelles – fermi nella condanna ma insistenti nel sottolineare il successo sportivo. Vidi moltiplicarsi sui muri della città insulti farneticanti contro il Liverpool e contro il Regno Unito («Vogliamo la riforma del codice penale | uccidere un inglese dev’essere legale») che quegli stessi giornalisti avevano sobillato tra allusioni e bizantinismi («Non vogliamo certo dire che alla prossima occasione i tifosi juventini saranno legittimati a farsi giustizia da soli…» era la frase ripetuta da un noto cronista sportivo) e che l’uomo della strada si ritrovò a far propri con un compiacimento quasi lussurioso (sentii Michele Lorusso, il nostro medico curante, pronunciare queste precise parole: «Se la giustizia fosse giusta, dovremmo sganciare una bella bomba atomica su quella città di merda»). Poi, di notte, come per un macabro completamento sul puzzle delle nostre vere identità, comparvero sui muri scritte del tipo: «Juventino, bianconero | il tuo posto è il cimitero», «Dieci, cento, mille Bruxelles», e cosí via. Chiudevo gli occhi e mi sforzavo di riprodurre l’urlo che ci aveva uniti davanti al televisore. Quanto ci era voluto perché il cerchio del sospetto si chiudesse? Nemmeno un anno, da quando Stevenson non era piú il mio autore preferito… Bene. Adesso diffidavo di un intero popolo. Piú o meno un mese e mezzo dopo, mio padre parlava di Di Liso con amabile disprezzo. La finale di Bruxelles li aveva visti cosí vicini, eppure non era piú neanche un ricordo. Lui continuò ad ammazzarsi di lavoro. Mia madre ricevette un giorno la visita del marmista: «Signora, siamo cristiani pure noi. Per il mosaico in travertino se ne parla a settembre». La città era intrappolata nei quaranta gradi dell’umido bollore estivo. Il traffico per le strade si diradò. Dal lungomare iniziarono a vedersi i primi stormi di vele, raggiunte e superate dai grandi yacht per ricchi sfondati. Era arrivato agosto. Partimmo verso sud per qualche vacanza. giorno di Immerso nel tiepido splendore di settembre, feci il mio ingresso al Cesare Baronio vibrando come un diapason. La facciata della scuola, attraverso le sbarre malandate del cancello, rivelò immediatamente che non poteva trattarsi di Eton né di un Töpffer di ripiego. Ma non me ne importava niente, perché quello era il banco di prova con cui il destino mi stava sfidando. Avevamo trascorso l’estate in una piccola villa presa in affitto nel Salento – venti, venticinque giorni durante i quali avevo cercato di tenermi alla larga dai miei. Di primo mattino, mentre tutti andavano in spiaggia, pedalavo in bmx verso Tricase, dove il mio unico problema era vincere lo stupore dell’edicolante davanti al miglior cliente che gli fosse mai capitato. Mi rifugiavo col mio bottino all’ombra di una piccola grotta naturale poco distante dalla spiaggia. Che gli altri friggessero al sole! Che commentassero il «Corriere dello Sport», che fingessero di scandalizzarsi davanti ai primi topless! Io continuavo a leggere «Frigidaire», leggevo i fumetti della Corno, sfidavo la carta economica delle edizioni estive dei classici (Addii alle armi con i caratteri di copertina disintegrati, Guide galattiche per autostoppisti che si smembravano tra le mani a sedicesimi) e nel mio splendido isolamento non mi sentivo solo, mi sentivo unico. Leggevo forsennatamente, disperatamente, ero capace di arrivare alla cinquecentesima pagina di un romanzo di fantascienza senza sapere come. Avevo bisogno di rifarmi un pedigree, e soprattutto avevo bisogno di una nuova faccia con cui affrontare i miei compagni di liceo, le conoscenze che avrei fatto a partire dal prossimo autunno, quando una nuova fase della vita sarebbe iniziata. Perché ero anche l’unico… l’unico quindicenne con un minimo di sale in zucca capace di farsi mettere nel sacco come avevo lasciato che accadesse nella casa di Daniele, l’unico giocatore di Cluedo a crollare miseramente sull’«elementare enigma della signora Di Liso», l’unico lettore di fumetti sofisticati a farsi contagiare dall’animalesco spettacolo della morte spacciato per una partita di calcio. Le mie letture non dovevano servire a fare colpo con una citazione dai Quarantanove racconti ma a darmi il privilegio del viaggio in incognito, a cancellare dai miei connotati le tracce di un passato che io per primo – se le avessi riconosciute sulla faccia di un altro ragazzo – avrei considerato sufficienti per una condanna senza appello. Una persona nuova… talmente nuova da trasformarsi in un mistero perfino per il sottoscritto. Oltrepassai il cancello arrugginito e mi unii agli studenti che si accalcavano in cortile lanciandosi rapide occhiate investigative. Poi arrivò un bidello a regolare il traffico. Oltrepassato un lungo corridoio, i venticinque studenti della Ib fecero ingresso dentro la loro classe, uno stanzone dove la luce sbatteva sui poster ingialliti che documentavano l’evoluzione di varie specie viventi: i batteri galleggiavano nel brodo primordiale per qualche milione di anni, e tutto ciò che non aveva speranze di trasformarsi in una stella marina usciva dalle acque già pieno di risentimento. Ci disponemmo tra i banchi. Subito dopo fece il suo ingresso una professoressa dai capelli scompigliati. Disse «buongiorno», si sedette dietro la cattedra e inaugurò l’appello con un volenteroso sguardo di sconfitta in partenza. Perché mi trovo qui? – sembrava pensare – che cosa ho fatto per essere sbattutainquestopostodi merda? Come la maggior parte dei colleghi, viveva il meticciato della nostra scuola come una punizione – a ogni inizio d’anno, il Cesare Baronio vedeva sfilare sotto le sue strutture una chiassosa mescolanza di ceti sociali, e questo demoralizzava i professori, la cui unica unica consolazione per i salari di seconda classe sarebbe stata trovarsi ad allevare la futura classe dirigente. E noi – questo era chiaro – non potevamo esserlo. Ma io quel giorno non ebbi quasi mai occhi né orecchie per la cattedra. Lanciavo continuamente sguardi ai miei compagni… Alla mia destra, due banchi di distanza, c’era un ragazzo con i capelli rossi. Era seduto ma si riusciva a indovinare una statura piú bassa della media. Continuava a massacrarsi i brufoli grattandosi le guance, si dondolava sulla sedia senza curarsi di quello che succedeva intorno. Il volto in preda a qualche spirito agitato, e un sovrappeso da cattiva alimentazione. L’istintiva attrazione che provai guardandolo la prima volta dipendeva dal fatto che la sua non era un’obesità da resa ma una deformazione da dispetto, da malaugurio. Lo guardai piú attentamente. Faceva pensare a un adolescente incastrato da anni in un pranzo domenicale, gli interminabili pranzi domenicali del Sud Italia, queste tavole su cui vengono scaraventate badilate di lasagne, rognoni sfrigolanti, conigli ripieni dalla trincea infernale delle cucine a gas, un macabro trionfo culinario che non risparmia nessuno ma soprattutto i piú piccoli: «Perché non hai finito le lasagne? Gesú si dispiace… la Madonna piange… i bambini del Biafra muoiono di fame…» Il ragazzo che continuava a dondolarsi sulla sedia sembrava sopravvissuto a centinaia di queste prove. Obeso ma vittorioso, perché dava l’impressione di chi ha ceduto alla violenza soltanto per restituirla: D’accordo… – poteva essere stato il suo ragionamento, – volete checontinuiaingozzarmi e lo farò. Portatemi le lasagne. Portatemi i fegatini e i dolci con le mandorle. Li mangerò e continuerò a mangiarli, ma non mi fermerò al momento giusto. Devasterò i depositi di merendine, diventerò qualcosadicuiperfinovoi sarete costretti ad avere paura:ilBiafra si ridurrà a un deserto di ossa sotto ilsole… Lo guardai in faccia tra la prima e la seconda ora, dopo che per la seconda volta aveva risposto all’appello: «Rubino Giuseppe». L’inconfondibile segno della strafottenza: ecco cosa aveva negli occhi. In fondo alla classe, superando cinque o sei file di studenti, ecco l’altro ragazzo che subito si guadagnò la mia attenzione. Alzò la mano una frazione di secondo prima che la professoressa potesse dire: «Lombardi Vincenzo». Ma quella mano, quel gesto… lí c’era tutto. C’è modo e modo di rispondere a un appello. E a quindici anni – questo lo avevo ormai capito – si è sufficientemente vecchi per avere il cuore già trafitto con i bypass della viltà, del servilismo, o di un coraggio strappato ai propri stessi limiti. Cosí, quel primo giorno di scuola, ci fu chi alzò la mano come un soldato semplice davanti al proprio generale, chi per dare sostanza al proprio anonimato, chi disse: «Presente» con una voce timida e nascosta (Nonci sono, voglio la mamma, voglio tornare a casa…) Vincenzo Lombardi alzò la mano per stabilire: Io. Sono.Qui. Aveva la testa percorsa da morbide ondate di capelli biondi, una faccia dalla carnagione chiara con le labbra e l’osso frontale pronunciati secondo una melodia incrociata che addolciva, anziché involgarire, quella doppia sproporzione. La sua figura era snella e asciutta, senza residui flaccidumi da lattante. Era vestito inoltre come un damerino: pullover tipo Shetland con una specie di grifone araldico ricamato sul petto, pantaloni di cotone bianco e mocassini senza calze che scoprivano sul piede grosse venature adulte. Non appena si alzò in piedi, fu impossibile trascurare il vistoso fazzoletto nero che aveva legato intorno al braccio. Di che scherzo si trattava? A meno che non si trattasse di un lutto reale… Come ulteriore provocazione – sempre che il fazzoletto la fosse – sul suo banco c’erano in bella vista due pacchetti di Marlboro. Ma la faccia… era quella la vera provocazione: la smorfia di freddo biasimo con cui disse «presente» sembrava auspicare la disintegrazione di noi tutti. Fu per questo forse – il non voler ammettere di aver risposto a una donna il cui unico carisma consisteva nel saper illustrare la teoria degli insiemi – che Vincenzo assunse un’espressione estremamente attenta nel corso dell’appello («Ladisa Michela», «Lepore Giulio»…), cosí da poter alzare la mano – chiamandosi da solo – prima che la professoressa di matematica pronunciasse effettivamente il suo nome e cognome. Le ore trascorsero una dopo l’altra. I professori perdevano tempo nei convenevoli di benvenuto oppure partivano direttamente in retromarcia col Nilo, il limo, i faraoni mentre noi eravamo impegnati in queste prove tecniche di personalità. Tra la seconda e la terza ora, sia Giuseppe che Vincenzo avevano già vinto la battaglia col rispettivo compagno di banco. Giuseppe si era fatto spazio dimostrando la sua totale mancanza di rispetto per i beni di uso comune. La superficie in truciolato era irreversibilmente occupata per quattro quinti dalle sue penne, dalle sue gomme profumate, dal suo walkman… E il suo compagno di banco, Emilio Giannelli, non propriamente un inetto, si era visto sottrarre spazio minuto dopo minuto. Aveva cercato di arginare la prepotenza con dignitosa serietà. La sfacciataggine di Giuseppe era però piú seria e ferma, se confrontata con le occhiate di rimprovero con cui Giannelli cercava di mostrare la sua disapprovazione. E poi c’era la faccenda dei beni di consumo – per ogni gomma da cancellare di Giannelli, Giuseppe ne aveva almeno cinque… lo zaino di Giuseppe, per come continuava a svuotarlo senza che si svuotasse mai, avrebbe potuto contenere un luna park. Quando il professore di storia e geografia fece il suo ingresso in aula, il Rubicone era già stato attraversato: Giannelli era il disgraziato a cui, nei romanzi dell’Ottocento, si affitta una stanzuccia in casa propria allo scopo di godersi, insieme alla pigione, la progressiva rovina del pigionante. Vincenzo Lombardi sembrava avere il gotico nel sangue. L’umiliazione del compagno di banco passò per panorami differenti. Fu anche fortunato, visto che accanto gli capitò Puglisi, uno che adesso dirige due studi odontoiatrici e gli affari gli vanno a meraviglia. Ma all’epoca Puglisi era di una timidezza sconcertante; uno di quei ragazzi che faticano moltissimo a ingranare e ne fanno una tragedia incomunicabile. Faticano a ingranare nella vita (il primo vero bacio lo danno di solito a vent’anni) e per motivi che nessuno può comprendere faticano a ingranare negli studi. È come se la loro intelligenza si chiudesse, la loro sensibilità fosse spartita con precisione millimetrica tra cariche positive e negative, per cui l’impasse diventa la loro croce naturale, e rischiano – come Puglisi faceva ogni volta che veniva interrogato, e a ogni interrogazione faceva scena muta – di pisciarsi addosso quando anche la madre di tutte le domande cattive («Sai almeno come ti chiami?») inizia a essere inghiottita dal silenzio, domanda che uno dei tanti professori a un certo punto si lascia sfuggire, non per malvagità ma perché l’impotenza di certi ragazzi è cosí solida da diventare un sostegno perfetto per la fragile impotenza degli adulti. A molti di questi pulcini bagnati basta uscire dalla scuola per ritrovarsi i denti con cui iniziare a mordere la vita: cosí come erano perduti durante gli anni dell’apprendimento, adesso quasi niente può fermarli. Ma quel giorno Puglisi nella scuola ci era appena entrato, e Vincenzo lo mise a posto in poche mosse. La strategia poteva dirsi opposta rispetto a quella di Giuseppe. Vincenzo non sconfinò nello spazio del compagno. Se è per questo non lo degnò di uno sguardo. La sua pretesa di essere l’unica creatura degna di non soccombere alla vergogna della creazione, messa a confronto con la fragilità di Puglisi, fece in modo che una diga venisse sollevata nel centro esatto del banco che condividevano. A un certo punto c’era questo confine invisibile, che Puglisi non avrebbe mai osato attraversare: gettava lo sguardo alla rinfusa, poi gli occhi gli cadevano sul fazzoletto nero e si paralizzava. Vincenzo a sua volta non diceva una parola; il suo silenzio pieno di dispetto sembrava quello di un principe a cui hanno distrutto il regno due giorni prima dell’incoronazione – ma un principe che ha talmente scolpiti nella testa i diritti del sangue da non poterne fare una merce di scambio, per cui il niente vale il tutto, e il mondo intero diventa il territorio su cui esercitare un dovere patronale. Puglisi tratteneva il respiro. A un certo punto si controllò le mani con terrore, come se potessero tradirlo sconfinando nello spazio di Vincenzo. Ma le mani rimasero al loro posto. Se anche adesso Vincenzo gli avesse ceduto tutto il banco sarebbe stato un gesto che non cambiava niente, tanto erano definiti (una volta e per sempre) i rapporti di dominio. E poi successe quello che nessuno avrebbe potuto evitare. Giuseppe e Vincenzo cominciarono a guardarsi. Accadde durante il penultimo cambio dell’ora. Giuseppe piantò gli occhi su Vincenzo. Lo guardava e rideva. Guardava il lutto al braccio e rideva. Guardava questa posa da schizzinoso aristocratico e cercava di smontarla con il disordine della sua faccia. Vincenzo si rese conto delle attenzioni di Giuseppe, lo ricambiò con uno sguardo d’ira. Ebbe inizio una specie di battaglia telepatica. Giuseppe continuava a sghignazzare, una smorfia beffarda piú incancellabile di una paresi: Non c’è nessuna serietà, nessun dramma, nessuna durezza in pulloveremocassinicheio non possa divorare… sembrava dire la sua faccia. Vincenzo lo fissò al culmine dell’indignazione. Ma Giuseppe non si fece intimidire, e il costone di ghiaccio che sosteneva il mondo di Vincenzo non scricchiolò neanche per un attimo. Arrivò la campanella della quinta ora. Una dozzina di porte si spalancarono contemporaneamente e un centinaio di ragazzi si riversarono nei corridoi calpestando sempre piú veloci la gomma per uso ospedaliero dei pavimenti della scuola. Quando uscimmo allo scoperto, la chiassosa orda umana delle altre classi aveva già riempito la scalinata affacciata sul cortile, e dal cortile si stava riversando in una strada polverosa che costeggiava un piccolo frutteto intrappolato nella radiosa cristalliera dell’estate morente. Giuseppe Rubino rideva sullo sfondo, messo in secondo piano e poi scoperto dai ragazzi che gli passavano davanti scendendo per la scalinata. Infine il sipario di questi studenti – cosí insignificanti da meritarsi un posto nei miei buchi di memoria – si spalancò definitivamente per lasciare che Giuseppe cadesse indietro, giú per i gradini, con il naso coperto di sangue. Vincenzo si massaggiò le nocche della mano destra e sprecò dei secondi preziosi perché l’immagine restasse incisa in tutti quelli che lo guardavano dal basso verso l’alto. Prese uno slancio e si avventò contro Giuseppe, che lo aspettava schiena a terra come un amante che abbia nel primo colpo a tradimento la sua ragione di vita. Il tuffo fu troppo plastico per non risultare anche prevedibile. Giuseppe fece scattare la gamba in avanti, Vincenzo reagí al calcio nello stomaco strizzando gli occhi, gonfiando le guance, piegandosi in due ma sempre in modo ragionato. Alcuni studenti si disposero in una sorta di cerchio floreale. Altri si dileguarono, attratti dal magnete delle prime tavole imbandite. Loro due continuavano a prendersi a cazzotti. Paravano i colpi dell’avversario. Provavano a rialzarsi. Tornavano a cadere… «Visto che ci tieni cosí tanto, uno si chiama Giuseppe Rubino e l’altro Vincenzo Lombardi!» Fu qui, al suono di questo secondo nome, che la stanchezza, forse anche la noia con cui mio padre stava portando avanti il suo rimprovero ebbe un visibile colpo di arresto. Fare a pugni nel cortile di una scuola era per lui qualcosa di scontato: all’istituto tecnico c’erano ragazzi che ti aggredivano al minimo pretesto partendo direttamente con la testa. Era stata mia madre a fulminarlo con lo sguardo quando mi aveva visto tornare da scuola con un ritardo di tre ore, sporco di terra, coi pantaloni strappati e il collo pieno di graffi. Questo era il 1985, non la Ricostruzione. Non mi avevano sbattuto in un tecnico industriale insieme ai figli dei magliari, ma in un liceo, e gli studenti del liceo secondo mia madre tornavano da scuola discutendo del Canzoniere. Non si aggredivano tra loro come i gatti randagi, questo era certo. Cosí avevo dovuto vuotare il sacco. Avevo confessato di essere stato «costretto» a separare due compagni di classe che si stavano picchiando a causa di «uno stupido equivoco». Non avevo detto che, al momento del mio intervento, la loro lotta non aveva ormai piú niente di selvaggio; l’avevano trasformata in un combattimento cavalleresco, con tanto di regole e pause ritmiche: uno attaccava e l’altro schivava il colpo, una lotta, una danza, uno scavo psicologico. Il tipico corteggiamento virile dei ragazzi che si piacciono. Il mio gettarmi nella mischia aveva rotto questo fragile equilibrio: per qualche istante era tornata a essere una lotta confusa, ma questa volta a tre, in cui calci e pugni e schiaffi erano volati in modo altrettanto disordinato. Non avevo messo mio padre al corrente dell’entusiasmo che mi aveva preso quando – seduti nella polvere a pochi centimetri uno dall’altro – Giuseppe mi aveva guardato per l’intruso che ero, ma poi doveva aver apprezzato la spericolatezza, il disperato impulso della mia iniziativa, nella quale era riuscito a riconoscere lo schietto desiderio «di farne parte», di qualunque cosa si trattasse. Cosí mi aveva concesso di timbrare la tessera del club regalandomi la sua approvazione. Avevo detto a papà che per far calmare queste «teste calde» me li ero portati a mangiare da Poldo’s, dove ci eravamo divisi i compiti per una ricerca sulla fotosintesi clorofilliana. Avevo dunque taciuto il fatto che ero a stomaco vuoto, dal momento che Giuseppe ci aveva invece trascinati in un bar tabaccheria dalle parti del quartiere Poggiofranco, dove aveva offerto birra e salatini, e non contento aveva regalato a Vincenzo una stecca di Marlboro (Vincenzo aveva detto un «grazie» morbido e fluente come i suoi capelli biondi) e a me uno Zippo con lo stemma Jack Daniel’s in rilievo sulla superficie metallica; e piú inattesa della sua generosità era stata la fisarmonica aperta di un portafogli nel quale avevo riconosciuto cinque bigliettoni da centomila lire. Dopo il primo sorso di birra, Giuseppe aveva iniziato a esibirsi. Ci aveva invitati a correre in go-kart in un autodromo dalle parti di Fasano («Sapete… – aveva detto, – mio padre ha questa formidabile collezione di go-kart!») Ci aveva parlato dei negozi che vendevano i dischi di importazione. Aveva magnificato i luoghi della città in cui stava «accadendo qualcosa di importante» (il Camelot, dove si esibivano i gruppi rock; il Neon Club, un locale sotterraneo consacrato alla new wave; l’Eclipse, l’unico posto in città dove era possibile ballare l’house music…) Poi aveva chiesto: «Lo avete mai visto un concerto degli Ozric Tentacles?» Vincenzo aveva abbassato gli occhi. Era tornato a guardarci. Aveva dichiarato in modo piano che l’ultima volta che aveva affrontato qualcosa di vagamente musicale che non lo avesse fatto vergognare al posto degli esecutori era stata una Quarta di Bruckner vista al teatro Petruzzelli insieme ai giovani del Lyon’s club. Nemmeno questo avevo detto a mio padre, pur intuendo che la parola «Lyon’s» non doveva risultargli sgradita. Ma era difficile trasmettergli quello che avevo provato non appena Vincenzo aveva aperto bocca: sembrava aver risposto per un semplice dovere di educazione, ma era stato capace – in modo naturale, senza offrire appigli alla polemica – di far retrocedere immediatamente in serie B il mondo scintillante evocato fino a quel momento. Non aveva citato Bruckner per farci sentire l’inadeguatezza della nostra cultura rispetto alla sua (una sproporzione che doveva dare per scontata) ma per segnare una frattura. Di conseguenza, anche la clamorosa stranezza del lutto che portava al braccio era diventata qualcosa su cui non eravamo riusciti a fare domande. Averci trascinato fuori dal ring per ottenere una vittoria ai punti… E questo era davvero troppo complicato per poterlo spiegare a papà. Gli avevo detto che dopo l’hamburger ci eravamo concessi quattro tiri a biliardo. Qui non avevo mentito. Vincenzo, per sdebitarsi della stecca di Marlboro e forse anche del mio Zippo, ci aveva portati in un piccolo tempio della Goriziana: aveva dato prova della sua abilità ribadendo a ogni colpo come non io e non Giuseppe fossimo i suoi avversari ma l’energia cinetica in persona, l’astratta geometria del tavolo verde. Dopo il biliardo avevamo passeggiato tra le strade del quartiere. Tra i pedoni indaffarati e i veicoli che suonavano all’impazzata, a un certo punto si era sfilato un camioncino con la scritta EUROGARDEN dipinta sulla fiancata a caratteri verdi. Aveva sterzato verso destra fino a salire con una ruota sul marciapiede. Nel cassone c’erano tre uomini robusti e piuttosto allegri, operai o muratori a giudicare dai vestiti impolverati. Uno di loro aveva mostrato il tizzone nero di una carie che sembrava reggere da sola l’intera dentatura: «Giuse’! – aveva gridato, – salta su che ti portiamo a casa». Giuseppe era montato sul cassone, aiutato da quattro o cinque mani immediatamente protese verso di lui. Ci aveva salutati mentre il camioncino tornava a confondersi tra gli altri veicoli. Era a quel punto che mio padre aveva chiesto: «d’accordo, è tutto a posto. Sei il nostro mediatore internazionale. Ma posso sapere chi sono questi due ragazzi?» Dopo un breve tira e molla glielo avevo detto. Papà aveva avuto un lampo di sorpresa nello sguardo. Sorpresa e vivo compiacimento. «Non sarà mica il figlio di Mario Lombardi?», aveva domandato. «Non lo so…», avevo risposto con il cuore in accelerazione. Andato via Giuseppe, io e Vincenzo avevamo camminato verso sud. Ci eravamo lasciati alle spalle i giardinetti di largo Carducci e avevamo attraversato i nuovi condomini di via Lucarelli passeggiando tra i parcheggi circondati dai pini e dagli ippocastani, dove il rumore del traffico andava spegnendosi sul canto degli uccelli e gli uomini di mezza età approfittavano del primo pomeriggio per passare una spugna inumidita sulla carrozzeria delle loro automobili. Restare solo con Vincenzo mi mise addosso una strana tensione. La presenza di Giuseppe ci aveva consentito di non scoprirci troppo pur rimanendo noi stessi. Adesso, invece, la taciturna figura di Vincenzo era una presenza che a ogni minuto si faceva piú inquietante. Sembrava di camminare accanto a un assassino costretto a mostrare le proprie generalità. Imboccammo una via senza nome lungo la quale la monotonia della zona residenziale si disgregava verso la libera, luminosa prospettiva della circonvallazione lanciata verso i paesi della costa. Fu a quel punto che, con la coda dell’occhio, intercettai qualcosa alle spalle, l’effettoraddoppio di un oggetto che solo adesso mi accorgevo di avere visto piú di una volta nel corso della passeggiata. Dissi a Vincenzo: «Mi sa che quel tizio non ha smesso di seguirci un solo istante». Vincenzo si voltò. A una ventina di metri da noi c’era una station wagon con il motore spento. Di schiena contro lo sportello, un uomo ci guardava a braccia conserte. Indossava uno sfilacciato maglione a collo alto e un paio di jeans. Aveva il volto smunto e ossuto – il cranio chiazzato da pochi ciuffi di capelli neri sopra due occhi duri e spenti. Mosse impercettibilmente la testa per salutarci. Vincenzo alzò la mano in segno di risposta. Poi si rivolse a me: «Quello è lo Sghigno, l’autista di famiglia, – disse, – mio padre lo paga perché mi tenga d’occhio». Sulla sua bocca si disegnò un breve sorriso. Il sole del pomeriggio gli finiva dritto in faccia. Mi guardò piú intensamente, cercando di decidere se fosse giusto continuare a parlare. Girai la testa verso l’autista, che ci fissava privo di espressione. Lo guardai a mia volta, costringendomi a incrociare la buca spenta dei suoi occhi. «Ho un problema con mio padre, – disse allora Vincenzo stando attento a prosciugare qualunque tono confidenziale. – Non so se ti è mai capitato…», aggiunse controllando un breve moto di stizza, come volesse intendere che no, nonostante fossi in grado di sostenere lo sguardo del suo autista, un problema del genere io non lo avevo mai avuto. Suo padre si chiamava dunque Mario? Mario Lombardi? Non lo sapevo. E tra l’altro non era questo l’importante, pensai mentre papà, finito il suo rimprovero, si preparava a correre in ufficio. Il fatto è che la laconicità di Vincenzo mi era sembrata piú minuziosa di qualunque discorso compiuto. Luilo odia… continuai a pensare finché quel pomeriggio si disgregò in una normale sera di fine estate e io mi ritrovai nel letto a luci spente. E poi, nelle settimane successive, «Vincenzo Lombardi» diventò la canzone piú suonata nei corridoi della nostra scuola. Capitoloquarto «Non posso obbligarlo a dire quello che non pensa e non posso costringerlo a sorriderti. E non voglio metterlo in collegio, fattene una ragione. Sarebbe peggio. La maggior parte dei ragazzi, quando vengono allontanati dalle persone che credono di odiare, rischiano di sentirsene traditi. Allora quel sentimento illusorio può davvero capovolgersi in maniera disastrosa. È nato in questa casa, in questa casa c’è tutto ciò di cui ha bisogno perché le sue idee si sfaldino una dopo l’altra. Gli ho fatto cambiare scuola. Ho chiesto a Diego di tenerlo d’occhio. È mio figlio, è solo questione di tempo, allora anche quel ridicolo fazzoletto nero gli cadrà di dosso. Perché lui non mi odia, non riesce davvero a odiarmi, è questo che alla fine lo porterà ad arrendersi». Ecco le parole che il padre di Vincenzo non proferí davanti alla sua seconda moglie qualche giorno dopo l’inizio dell’anno scolastico, il discorso che l’immaginazione condivisa degli studenti del Cesare Baronio tagliò e cucí freneticamente intorno a chi, già a partire dalla fine di settembre, diventò per noi una specie di personaggio leggendario. Vincenzo Lombardi… Venimmo a sapere che sua madre era morta due anni prima in un incidente automobilistico e che suo padre era uno degli uomini piú in vista della città: il titolare dello «studio Lombardi», tempio del cavillo giurisprudenziale sin dall’epoca in cui i caffè del lungomare erano pieni di uomini in tuba che discutevano del quarto governo Giolitti. Non fu difficile persuaderci che l’avvocato Lombardi era un concentrato di intelligenza reazionaria, un uomo che considerava il proprio figlio un erede perfetto proprio perché non gli riconosceva una volontà autonoma, e che suo figlio ricambiava considerandolo «il nemico». Ad avallare la possibilità che lo fosse davvero – il nemico – c’era la presenza di Diego, l’autista di famiglia soprannominato «lo Sghigno» per via della faccia patibolare, l’uomo della station wagon che avevo avuto il privilegio di guardare da vicino. Io lo avevo appreso dal diretto interessato… ma a un certo punto tutti sapevano che, per ordine dell’avvocato Lombardi, lo Sghigno seguiva Vincenzo ovunque andasse. Ce n’era a sufficienza per infiammare le polveri da sparo della nostra immaginazione. Non era tutto. Vincenzo era arrivato nel nostro quartiere da una galassia sconosciuta solo adesso; ma l’anno prima c’era stato il «grosso guaio al Di Cagno Abbrescia», come lo definí per la prima volta Miriam. Questa ragazza della sezione C, quando ormai le voci sul conto di Vincenzo si stavano ricomponendo in un puzzle già seducente di suo, si avvicinò durante la ricreazione a un piccolo gruppo di studenti e sfoderò il carico da novanta: «non sapete cos’è successo l’anno scorso, che poi è il vero motivo per cui lui è adesso qui con noi…» disse facendo vibrare ogni singolo disco delle lentiggini che le invadevano la faccia. Il Di Cagno Abbrescia era il liceo a cui i primari del policlinico, e i giudici del tribunale, e i componenti della giunta, e i proprietari dei pastifici che da decenni erano l’orgoglio commerciale della nostra provincia sapevano di dover mandare i propri figli senza neanche il bisogno di informarsi. Vincenzo era «ovviamente, uno studente di quella scuola lí». Solo che… qui Miriam non riuscí a essere molto precisa: sembrava che Vincenzo avesse «inguaiato la figlia di un pezzo grosso», e che a causa di questo incidente, attraverso una serie di passaggi su cui la ragazza fu di un’indeterminatezza ancora piú solenne, era stato costretto ad abbandonare il Di Cagno Abbrescia e a ripetere l’anno da noi. I buchi neri lasciati da Miriam vennero riempiti velocemente dal folto esercito di Sherlock Holmes che si stava occupando del caso. Vincenzo aveva messo incinta la figlia di un giudice della Corte d’appello. Anzi no, era la figlia di un senatore che ritornava a casa solo nel weekend, appena in tempo per invecchiare di vent’anni in un secondo folgorato dalla terribile notizia. L’aveva messa incinta e poi l’aveva costretta ad abortire. L’aveva messa incinta e si era disinteressato di lei. Non l’aveva costretta ad abortire e non l’aveva messa incinta, ma aveva esercitato su di lei una serie di torture psicologiche, fino a quando alla ragazza non erano saltati i nervi e aveva chiesto aiuto ai genitori… Se le voci erano cosí confuse su questo passato morbosamente avvolto dalle nebbie, il fine ultimo dell’impresa metteva tutti d’accordo. Vincenzo non era «inciampato in un guaio», ma aveva pazientemente crudelmente scientificamente manipolato una ragazza la cui unica colpa consisteva nell’essere pazza di lui fino a farne la sottile cerbottana con cui colpire alle spalle l’avvocato. Colpo di cerbottana andato a segno… Perché poi (ecco un altro pettegolezzo che l’unanimità trasformò in documento ufficiale) i genitori dell’«inguaiata» erano andati a protestare da suo padre. Dovevano averlo minacciato o addirittura dovevano averlo ricattato. O, semplicemente, il padre di Vincenzo aveva ritenuto che un sistema per mostrare i muscoli a suo figlio e riparare il danno procurato a una famiglia che persino a lui avrebbe potuto creare dei problemi, fosse levargli il responsabile di torno – aveva spedito Vincenzo in un liceo semisconosciuto, dall’altra parte della città, in un quartiere in cui gli adulti, al solo nome «studio Lombardi», dovevano lottare con l’istinto di togliersi il cappello dalla testa. Non contento, gli aveva messo lo Sghigno alle calcagna. «Vi rendete conto di che cosa ha dovuto sopportare quel ragazzo?», disse Mara (IIIf) stringendo i pugni con indignato senso di impotenza. Perché era vero, «inguaiare» una ragazza che non c’entrava niente non era il piú bello dei comportamenti. E tuttavia (ci era chiaro anche questo aspetto) Vincenzo non avrebbe alzato cosí tanto il livello del conflitto se non avesse avuto tra le scatole la donna che diventò piuttosto genericamente «la seconda moglie dell’avvocato», e che solo i piú sensibili – gli studenti per i quali l’immedesimazione era tutto nella vita – arrivarono a definire con trasporto «quella troia di Sabrina». Non proprio una «signora», se con quel termine si voleva definire una persona matura: sembrava che Sabrina avesse appena ventisei anni; dunque, una bella ragazza «poco piú grande di noi» che ogni sabato sera si confondeva con le vere signore sfilando per le vie del centro prima di sparire tra le luci di una boutique di Valentino. Ma lei non era una «signora» neanche nel senso meno letterale: un avvenente pozzo senza fondo di ambizione, ecco cos’era, un’avventuriera fatta e finita vista l’abilità con cui, discesa con quattro lire in tasca da un paesino sperduto delle Murge per frequentare giurisprudenza a Bari, era riuscita a fare di se stessa l’esca fatale per uno dei pesci piú grossi della città. Non era passato neanche un anno dalla morte della mamma di Vincenzo, e lui l’aveva sposata. L’ammaliatrice senza scrupoli, la Calypso dell’altopiano carsico. Ovvio che Vincenzo muovesse guerra anche a lei… Che meraviglioso inizio di anno scolastico! Una madre morta accidentalmente al posto di un padre assassinato, una smagliante fanatica della haute couture nel ruolo dell’usurpatrice, un insondabile sedicenne capace di portare il lutto al braccio per due anni… era difficile chiedere di meglio perché il mito di Amleto rivivesse nella scuola e nella classe in cui avevo la fortuna di frequentare il primo anno di liceo. Ma Vincenzo? Non il protagonista della nostra narrazione, del bisbigliante frankensteiniano assemblaggio di supposizioni che andò a comporre il personaggio, ma la persona in carne e ossa: come reagí alla circostanza di essere lo studente piú chiacchierato del Cesare Baronio? Non reagí. Non saltò mai sul rozzo carro dell’agiografia che avevamo preparato per lui. Non avallò nessuna delle nostre ipotesi. Se gli accadeva di sorprendere un paio di studenti mentre confabulavano di aborti clandestini o sanguinosi conflitti padrefiglio, passava avanti facendo finta di non aver sentito. Prendeva posto all’ultimo banco e aspettava il secondo nove di fila a un’interrogazione di storia. Rieccolo a pochi metri da me. Il professore ha chiesto a Giannelli di ripercorrere a piacere vita e carriera di Caio Giulio Cesare. Questo «a piacere», nelle intenzioni del docente non è una scelta di liberalità ma un obbligo dettato dall’esasperazione, visto che Ladisa, interrogata per prima, ha già confuso Cesare con Ottaviano Augusto. Però Emilio Giannelli è uno studente in gamba. Brucia in pochi minuti la giovinezza di Cesare. Affronta la guerra di Spagna. Si immerge senza difficoltà nel lungo braccio di ferro con Pompeo. Dopo la conquista della Gallia, si dà però la zappa sui piedi: «…ottenne in questo modo la carica di dictator per un periodo di… un periodo… un attimo, professore…» Tipico di Giannelli. Nessuno gli ha chiesto di questa carica ma lui ha voluto strafare, scavandosi la fossa che non gli frutterà piú di un 7 all’interrogazione. «D’accordo, questa non la sai, – dice il professore, – vediamo se c’è un volontario capace di aiutarci…» Si guarda intorno contando zero mani alzate. Dopo alcuni secondi, la sua voce torna a risuonare: «Rubino, – dice, – allora, possiamo sapere quanto dura questa benedetta carica?» Giuseppe risponde prontamente: «Quattro secoli!», e segue divertito la mano dell’esaminatore che traccia sul registro il sensuale, inconfondibile segno di un 3 pieno. Il professore riporta il proprio sguardo su di noi. Ripeto mentalmente: dieci anni, dieci anni, dura dieci o quindici anni quella carica di merda… fino a quando sento che la sua attenzione mi ha scavalcato e ora punta verso gli ultimi banchi. Scarta Giannoccaro. Minetti è fresca di interrogazione. Puglisi… Puglisi proprio no, Puglisi rimarrebbe pietrificato con il suo sguardo da martire involontario e non è il caso di farsi rovinare la mattinata fino a questo punto. «Lombardi?, te la senti di darci una mano?» Vincenzo si alza in piedi e inizia a parlare di Cesare. Lo fa a modo suo. Racconta le imprese del grande dittatore con una tale ricchezza di particolari che sembrerebbe appena tornato da una riunione nel vecchio senato romano. L’episodio dei Lupercali… l’incontro segreto tra Bruto e Cassio… il vitello che Cesare fa sacrificare alla divinità a pochi giorni dalle Idi di marzo senza che nessuno trovi il cuore della vittima… Il professore lo interrompe dimenticandosi che la domanda iniziale è stata elusa: «Va bene Lombardi, hai dimostrato di sapere il fatto tuo. Si vede che hai studiato persino da altri libri. La faccenda della bestia senza cuore, per esempio… non vogliamo neanche sapere da dove l’hai pescata, ti abbuoniamo l’ipotesi di un’invenzione estemporanea». Vincenzo si guarda intorno stupefatto. «Come sarebbe a dire da dove l’ho pescata?» dice tornando a puntare la cattedra. Poi si costringe a proseguire: «Se vogliamo l’ho pescata direttamente dal fiume Avon, professore. Il Giulio Cesare di Shakespeare…» E qui il plurale maiestatis del docente vacilla per la prima volta davanti ai nostri occhi. Poteva essere il vantaggio del ripetente. Poteva darsi che durante l’estate avesse letto tutto Shakespeare come io avevo letto tutto Silver Surfer. Ma perché, avendo in canna un colpo del genere, aveva rischiato di sprecarlo quando chiunque altro, vantando la metà della sua preparazione, avrebbe alzato la mano e si sarebbe fatto interrogare come volontario? Era il massimo della discrezione o sperava di dare nell’occhio? Chi era, in definitiva, questo ragazzo dal volto angelico che, dopo avere irriso controvoglia un uomo di sessant’anni, tornava a sedersi al proprio posto facendo finta di non essere il maniacale oggetto d’attenzione di tutti i suoi compagni? Ci confondeva, questo era certo… perché in certi momenti, guardandolo, arrivavamo a credere che lui non fosse il figlio dell’avvocato Lombardi, che il «grosso guaio al Di Cagno Abbrescia» fosse capitato a un altro, e che perfino sua madre fosse viva. Eppure il lutto al braccio era reale. Nero, assurdo forse, ma reale. «Ti rendi conto con chi trascorrerà i prossimi anni?» Una prima conferma che le chiacchiere su Vincenzo non erano campate per aria mi arrivò fuori dalla scuola. «Ti rendi conto? – sentii ripetere a mio padre chiuso in cucina con la mamma in una sera di fine settembre, – certe amicizie possono essere determinanti per il resto della vita. Io, per esempio, – continuò, – se fosse capitato a me di frequentare da ragazzo il figlio dell’ambasciatore, per ottenere un incontro con i manager della grande distribuzione ci avrei messo la metà del tempo». Aveva fatto le sue indagini e ora poteva rilassarsi: il Cesare Baronio era davvero il luogo dove i rampolli della crema cittadina si preparavano alla vita, se una persona come Mario Lombardi aveva deciso di iscriverci suo figlio. «Dieci anni, – continuò papà a proposito della grande distribuzione, – dieci anni di biglietti da visita e di cene tutte pagate dame!» Persi il resto del discorso ma il concetto era chiaro. Papà era fissato con la faccenda delle buone frequentazioni, e l’avvocato Lombardi doveva avere ai suoi occhi la stessa importanza di lord Wellington alla corte di Talleyrand. Non se lo dissero l’un l’altro e ovviamente non vennero a dirlo a me, ma c’era da scommettere che in cuor loro i miei genitori erano riusciti a trasformare la riprovevole zuffa di cui mi avevano accusato in un colpo di fortuna. Sembrava proprio che avessi fatto a pugni con la persona giusta. Sí, ma l’altra persona? L’unico che aveva dimostrato di non avere alcun problema ad affrontare Vincenzo a viso aperto? Ecco… Giuseppe fu anche l’unico a dimostrarsi completamente disinteressato al nostro lavoro di mitografi. Mi chiedevo cosa, precisamente, potesse spingere un ragazzo di quindici anni che se ne andava in giro con mezzo milione nel portafogli a trascurare il personaggio leggendario a cui aveva avuto l’onore di far perdere il controllo. Era geloso di Vincenzo? Non gliene importava niente? O al contrario, – arrivai a pensare –, cosí come non avevano avuto bisogno di parlarsi per saltare uno al collo dell’altro, adesso potevano aver stretto un silenzioso patto di riservatezza. Di conseguenza, c’erano i presupposti perché io potessi essere geloso di loro due? Qualunque fosse la risposta, la conseguenza fu che (subito dopo il diretto interessato) Giuseppe diventò la persona con cui era piú difficile parlare di Vincenzo. Ma per alimentare la nostra curiosità non servivano di certo le parole. Poco dopo l’inizio di ottobre, Vincenzo entrò in classe alla quarta ora per cinque giorni consecutivi. Non forní spiegazioni sui ritardi, né a noi né tantomeno ai professori. Questo comportamento ci costrinse a elaborare diverse ipotesi su come trascorresse il tempo fin quasi a mezzogiorno. Era impegnato a seminare il suo autista? Andava in giro per la città sprofondato in pensieri abissali? Raggiungeva a piedi il cimitero per giurare vendetta sulla lapide di sua madre? Ma qualche giorno dopo, alle otto del mattino, chiusi in un autobus affollato di impiegati e altri studenti come noi, io e Giannelli lo vedemmo. Se ne stava in fondo alla vettura, curvo tra i piloni di sostegno. E aveva una ragazza tra le mani, una che ci sembrava di aver già visto oltre il cancello di un liceo classico poco distante dal Cesare Baronio. Tutta l’indistinzione da cui era stata circondata questa quattordicenne in gonnellina scozzese si rapprese all’istante in un sentimento di invidia e rispetto e timore per come adesso lui se la stava pomiciando portando con sicurezza la mano sotto il cotone di una maglietta dai colori accesi su cui era scritto: LAND BY THE GRACE OF GOD. Giannelli si fece avanti. Vincenzo lo incenerí con lo sguardo. Giannelli tornò verso di me senza dire una parola. Era chiaro che Vincenzo non avrebbe tollerato neanche che gli facessimo l’occhiolino prima di smontare dalla vettura, era ovvio che ora saremmo scesi dall’autobus lasciando lui e lei a una deriva metropolitana che – premuti l’uno contro l’altra sui finestroni impolverati e colpiti dal sole – li avrebbe riportati davanti alle rispettive scuole con un ritardo colossale. Lei allora si sarebbe sentita troppo elettrizzata e troppo in colpa per entrare. Vincenzo avrebbe fatto invece la sua comparsa alla quarta ora armato di un foglietto dalla firma contraffatta, sfidando l’ira dei docenti, protetto dall’alone magico che noi gli avremmo costruito intorno. Questo sarebbe successo solo alla fine della giornata. Per ora il professore ci raccontava di come Costantino sconfisse le truppe di Massenzio a Ponte Milvio: «L’imperatore vide in sogno una croce fiammeggiante, e alla sommità del simbolo cristiano c’era scritto: in hoc signo vinces…» Ma noi, trasformatici in un gruppo di coreuti, come tanti neuroni collegati a una sola mente pensavamo tutti insieme all’impresa di Vincenzo. Vincenzo e la ragazza. «Il 115 prosegue la sua corsa verso sud…» diceva il coro a voce alta. Probabilmente sono scesi tra le strade di Japigia, hanno visto i palazzi popolari che si alzano imponenti verso il cielo e poi hanno imboccato la strada provinciale in direzione della costa. Dopo alcuni chilometri di asfalto, sono comparse le prime case di villeggiatura, traboccanti di gerani o abbandonate da decenni in un profumo di fogna e rosmarino. A questo punto lui ha detto: «Per di qua…» e hanno varcato un arco di mattoni oltre il quale le erbacce nascondono i resti di un vecchio frigorifero. È nella semioscurità di questa villa diroccata che adesso lui la sta spogliando. Le sta sfilando di dosso la maglietta mentre il vento, passando nell’oblò di una lavatrice distrutta dalla ruggine, restituisce il vero senso della profondità marina. È qui che lui l’ha messa a terra facendo aderire la sua figura atletica allo splendore lattiginoso della ragazza. (Se dovevamo pensare alla ragazza, diventavamo un tutt’uno con la sua resistenza, la sua paura, infine il suo sconcio e violento abbandono di quattordicenne). Ma se pensavamo a Vincenzo non trovavamo niente. E quando lui tornò in classe senza dare l’impressione di volersi vantare di alcunché, ci sembrò di non essere capaci di mettere perfettamente a fuoco la sua faccia. A molti chilometri di distanza, vedevamo invece molto bene i collant della ragazza: il nylon sulla carcassa del frigorifero, abbandonato nella stasi del mattino come la pelle di un serpente. La nostra immaginazione era troppo fragile per sollevare la parte non emersa di Vincenzo. Nei giorni successivi venimmo però a sapere tutto di lei. Una, molte voci ci raggiunsero per dirci che si chiamava Giulia. E sí, ricordavamo bene: frequentava il primo anno di un liceo classico gestito dalle suore a pochi incroci dalla nostra scuola. Era la figlia di un parrucchiere piuttosto noto in città, un uomo sempre sciolto e abbronzato, furbo abbastanza da sgrossare le buone maniere dall’ampollosità della tradizione meridionale. Non «signora, si accomodi…» ma «splendore!», cosí accoglieva le sue clienti in oro e pantacollant, ricche madri di famiglia spietatamente sensibili a un nuovo tipo di approccio che le faceva sentire giovani e aggiornate. Giulia era cresciuta tra spruzzi di lacca e maschere di paraffina, salutata nel salone di bellezza dalle clienti che le dicevano quanto era bella in salopette, quanto era seducente con le prime minigonne a frange rosse e nere, e suo padre per completare il discorso le dava una plateale pacca sul sedere – un ossequio alle signore, non a sua figlia. Ma Giulia non coglieva la sottigliezza, si ricavava tutta contenta uno spazio tra le fluorescenze blu oceano del solarium sentendosi l’infanta prediletta di un nuovo ordine mondiale. «È cresciuta in questo modo, – diceva il coro, – e poi sulla sua strada ha trovato Vincenzo…» Si era lasciata trascinare da lui in luoghi della città a noi completamente sconosciuti, lo aveva seguito immaginando un’ideale continuità con il profumo di balsamo e le mani di suo padre e Morten Harket in canottiera sulla copertina del disco dell’anno. Stupidamente, perché nel giro di un’altra settimana il cerchio si chiudeva intorno a Giulia. La avvistammo alle tre del pomeriggio di un ventoso giovedí nel luogo del loro appuntamento quotidiano, sovrastata dalla statua di san Giorgio davanti all’istituto delle suore ma per il resto completamente sola, in canottiera e gonna di cotone, con un giubbotto jeans ripiegato tra le mani e un paio di stivali da cowboy che nessuno le aveva mai visto. Non sapevamo se fosse stato lui a disertare l’appuntamento o se le avesse parlato chiaro e tondo, ma in ogni caso la ragazza sembrava contare disperatamente sul fatto che la sua presenza lí – ritta per un’ora e mezzo trattenendo le lacrime – sarebbe bastata per evocare l’apparizione di Vincenzo. Dopo un’altra mezz’ora fu chiaro che era stata abbandonata. Continuava a guardarsi gli stivali che ora sembravano incredibilmente stupidi e si stringeva nelle braccia del giubbotto. Iniziò ad alzarsi un vento freddo, cosí pensammo che fra non molto sarebbe stata costretta a tornarsene nel salone di bellezza – dove, attraversando le trine di plastica colorata con gli occhi circondati di mascara liquefatto, per la prima volta sarebbe stata fulminata dal sospetto che tutti quei profumi, quelle creme, quei phon argentati e perfino il secondo bottone fuggito all’asola della camicia di suo padre, altro non fossero che i componenti di un’implacabile macchina per la sopravvivenza. Cominciò ad allontanarsi. Alcuni di noi sentirono a quel punto la tentazione di stringerla come una muta di cani può circondare qualcosa di morente per farla a pezzi, e noi per dirle: «Lui non verrà, andiamo a farci un giro…» scoprendo con sgomento che quando le difese altrui sono azzerate, il primo impulso è approfittarne. Cosí ecco la testimonianza di Vincenzo: una ragazza abbandonata davanti al cortile di un istituto di suore, e noi a ringraziare e maledire l’insicurezza che ci impediva di saltarle addosso. Lontano dall’eccitazione del coro scolastico nel quale anch’io facevo la mia parte, mi accorsi che la realtà era piú imprevedibile di quanto noi potessimo immaginare. Fui costretto a rendermene conto un pomeriggio di metà ottobre, il sabato innaturalmente caldo in cui Giuseppe invitò me e Vincenzo nella sua villa hollywoodiana. La disponibilità di denaro del nostro amico dai capelli rossi era pari soltanto alla disinvoltura con cui ne faceva uso. Lo vedemmo alternativamente a bordo di una Vespa color prugna, di un’Aprilia Red Rose, di una Zundapp 125 per portare la quale non possedeva neanche il patentino. Nei primi giorni di pioggia, iniziò a scandalizzare i docenti arrivando a scuola in Lamborghini. Sentivamo il rombo del motore a molte curve di distanza e poi, davanti ai nostri sguardi stupefatti, sfilava una Countach 5000s rosso fuoco guidata da un corpulento signore in canottiera che non sembrava avere niente a che spartire con le costosissime linee della vettura. Giuseppe smontava dal coupé e ci spiazzava con il solito sorriso: «Be’, che c’è di tanto strano da guardare?» Non solo la sua capacità di spesa sembrava illimitata; ne beneficiavamo pure noi. Già nel primo quadrimestre, piú di uno studente si era trovato a ringraziarlo per un cubo di Rubik, un modellino Bburago, un 45 giri acquistato e regalato senza pensarci due volte. Per non parlare degli ingressi al cinema pagati da lui. E soprattutto la sala giochi: quando agli altri ragazzi finivano i gettoni, Giuseppe cambiava per tutti un biglietto da cento. «Eri stato a contarti gli spiccioli in tasca per l’intera settimana e a un certo punto arrivava lui, e be’… avevi finalmente una speranza di superare il quarto livello a Donkey Kong, – questo era Fulvio (IId), interrogato da me quasi vent’anni dopo: – poi però la cosa divenne ossessionante: dopo decine, forse centinaia di partite a Donkey Kong, tornavo a casa senza riuscire a togliermi dagli occhi l’immagine dello scimmione…» I nostri genitori disapprovavano lo stile di vita di Giuseppe. Ci mettevano in guardia dal frequentarlo troppo, partivano alla carica con interminabili tirate su un tipo di educazione che – senza essersi mai presi il disturbo di conoscere mamma e papà Rubino – definivano senza esitazione «disastrosa». Ma noi ce ne fregavamo: i suoi lo riempivano di soldi e Giuseppe li spendeva. Cos’altro c’era da spiegare? Eppure, nel maneggiare tutta quella carta filigranata, brillava in lui anche qualcosa che i nostri genitori non sarebbero mai riusciti a comprendere. Qualcosa di violento e di (sí, la definizione era esatta) purgatoriale. Da una parte dava l’impressione di essere disposto a sacrificare anche l’ultimo spicciolo pur di tenere in piedi uno show di cui tutti dovevamo essere partecipi. Dall’altra sembrava quasi che, se solo avesse posseduto il denaro necessario per comprare il mondo intero, lo avrebbe fatto al solo scopo di potersi sbarazzare di ogni cosa: del denaro, del mondo e perfino di se stesso. Un desiderio di fare «piazza pulita» che vantava remoti legami con lo stile di Vincenzo. Era per questo, forse, che si erano riconosciuti in quel modo il primo giorno di scuola. E sempre questa era probabilmente la ragione per la quale, quel sabato pomeriggio, Giuseppe invitò solo me e Vincenzo a fare un giro di giostra nella sua villa fuori città. «Oh, ragazzi, la dovete vedere!» iniziò a dirci a partire dall’inizio della settimana. Prendemmo l’autobus all’inizio di via Napoli e abbandonammo il centro abitato, addentrandoci in un paesaggio di campi arati. Superato un viadotto sospeso sulla linea ferroviaria, un improvviso furore di siepi e di aiuole di begonie annunciò un comprensorio di ville che definire vistose era poco. Si alzavano per due o tre piani prendendo slancio da prati all’inglese disseminati di biciclette e piante ornamentali che culminavano nella superficie azzurra delle piscine private – man mano che si procedeva lungo il viale principale, le costruzioni si presentavano cosí diverse per stile, dimensioni e capricci architettonici da far pensare a un centro residenziale interamente costruito in maniera abusiva. La casa dei genitori di Giuseppe non sfigurava in quell’eccesso generalizzato. Nella vetrata che dominava il piano terra si riflettevano i discoboli di gesso – una sorta di incuboellenico-seriale che correva sull’erba sospinto dalle rose selvatiche fino a incontrare il luccichio del trampolino ai bordi dell’immancabile piscina. Non appena mettemmo piede sul vialetto, una macchia marrone screziato ci corse incontro con disperata vitalità: sotto il minuscolo cappotto di visone si nascondeva Pippa, il cane mosca. Fece le feste ai nuovi arrivati e iniziò a scorrazzare tra le siepi – inseguiva le farfalle, mordeva i pantaloni dei giardinieri, girava intorno ai muratori e agli elettricisti che si davano da fare come se il giardino e la villa e loro stessi fossero fusi in un cantiere permanente alzato verso la felicità. La mamma di Giuseppe ci accolse in veranda con tre spremute di pompelmo. La signora Rosa era una donna bassa e robusta, vestita con jeans alla caviglia punteggiati di strass e uno striminzito giacchetto rosa shocking che le esaltava il petto carico di ori: «Salve ragazzi, – disse in maniera spiccia e cordiale al tempo stesso, – fate come foste a casa vostra. Dimenticatevi la scuola: oggi è sabato, fa un caldo pazzesco e noi non abbiamo ancora svuotato la pisci…» Non finí la frase, perché in veranda era appena arrivato un ragazzo con un paio di cesoie in mano. «Be’, che ti è successo?», gli chiese dimenticandosi di noi. L’aiuto-giardiniere disse con contrizione che un parassita sconosciuto aveva divorato il ficus dall’interno. Allora la signora Rosa, come sfidata dal Nulla in persona, reagí immediatamente: si disinteressò anche del ragazzo, arpionò il telefono a forma di salamandra appeso alla parete, compose il numero e urlò tutta trionfante: «Pasqua’! ai frassini aggiungeteci tre palme, belle grosse!» Una voce maschile arrivò gracchiando dal ricevitore: domandava se da datteri, da olio o da cocco, dovevano essere queste palme; un dettaglio molto trascurabile, se stai lottando contro il Nulla… «Grosse devono essere le palme, grosse grosse!», ribadí la donna. A quel punto comparve un enorme Buddha portato da due uomini che domandarono con un grugnito dove avrebbero potuto appoggiarlo. La signora fece un gesto che mimava l’infinito, come a dire che ogni posto andava bene. Giuseppe disse: «Venite su in camera, andiamo a prendere i costumi». Dopo avere sguazzato in piscina per un’ora, Giuseppe fece uscire dalla vasca il suo corpo bianco e molliccio: «Ne avete abbastanza? – disse, – adesso vi faccio vedere la vera attrazione della casa». Iniziammo a rivestirci. Lui corse nel soggiorno pieno di bambole di porcellana e finte pelli di leopardo, e ritornò da noi stringendo in mano una scatola nera. Lo seguimmo fino al vialetto d’ingresso, dove il selciato si allargava in uno spazio rettangolare percorso da quattro piccoli binari. Il cielo aveva iniziato a coprirsi di nuvole, il vento delle sei del pomeriggio si alzava minaccioso raffreddandoci i vestiti. Giuseppe disse: «Guardate, guardate bene!» Maneggiò il telecomando con trattenuta esaltazione e, subito dopo, la terra iniziò a scuotersi sotto i nostri piedi. Sentimmo il rumore del metallo che andava liberandosi dalla tirannia delle giunture, e poi si sollevò la Piattaforma: un gigantesco montacarichi simile allo scheletro dei palazzi in costruzione, quattro pesanti piloni d’acciaio separati da tre pedane rivestite d’alluminio che salivano tremando verso il cielo, mostrandoci il profilo appiattito della Lamborghini Countach, le cromature argentate di una Mercedes, infine la Fiat Uno che i Rubino avevano acquistato perché chiunque potesse farne uso. Il parcheggio semovente svettava superando in altezza l’ultimo terrazzo della villa. Non esisteva alcun motivo logico che potesse spingere qualcuno a rovesciare una barca di denaro in una simile mostruosità, ma Giuseppe ci mostrava lo spettacolo con feroce soddisfazione. Il vento trascinava foglie morte, rovesciava sedie di plastica… Un lampo improvviso invase il cielo con una luce livida e sulfurea, portando l’entusiasmo di Giuseppe a deformarsi fino a toccare un nucleo opaco e indecifrabile. Cadde qualche goccia di pioggia. Poi il vento trascinò le nuvole lontano. Il padre di Giuseppe lo conoscemmo qualche ora dopo. Alle otto di sera il giardino fu percorso da un incrocio di fasci luminosi. Tre camioncini borbottanti parcheggiarono a pochi metri dal cancello, e sul vialetto comparve una squadra di uomini che parlavano tra loro e si battevano le mani sulle tute da lavoro lasciandosi alle spalle piccole nuvole di polvere. Arrivò prima Cosimo, il fratello maggiore: un bel ragazzo con i capelli ricci e le spalle da giocatore di rugby. Poi fu la volta di suo padre: Domenico Rubino salutò Giuseppe con uno scappellotto, bevve un po’ d’acqua direttamente dalla pompa del giardino e quindi si presentò a me e a Vincenzo stringendoci la mano con vigore. Lo avevamo già visto alla guida della Lamborghini nelle giornate di pioggia: un signore panciuto e fermo sulla terra, con un bel paio di baffi bianchi e le orecchie percorse da una ragnatela di venuzze rosse. La canottiera con il logo EUROGARDEN (lo stesso che scorreva sulla fiancata dei camioncini) gli scopriva sulle spalle una selva di peli elettricamente alzati verso l’alto. Ci chiese di fermarci a cena e si avviò verso la villa. Cosí eccolo di spalle, l’uomo piú criticato dai professori del Cesare Baronio nonché dai nostri genitori. Se si fosse trattato di un vecchio capitano d’industria con la puzza sotto il naso e il garage occupato da un’intera collezione di Lamborghini, nessuno avrebbe avuto niente da ridire. Il suo passato, come quello della mamma di Giuseppe, era invece confinato nel sottoproletariato urbano di inizio anni Cinquanta: figli di contadini ritrovatisi in città senza uno straccio di lavoro. Da bambino aveva lavorato come garzone in bar e autofficine, facendosi le ossa tra pavimenti sporchi d’olio in un periodo in cui prendere a ceffoni un ragazzo di bottega o fargli trovare un sostituto a montare una marmitta senza averlo prima licenziato rappresentava la normalità. Aveva fatto il saldatore, il marmista, aveva aperto un chiosco di panini che qualcuno gli aveva incendiato in seguito a una lite. E adesso possedeva questa villa gigantesca, questi discoboli di gesso, queste siepi rigogliose, questa piscina… Era successo che, dalla sera alla mattina, Domenico Rubino aveva messo su un’azienda di impianti di irrigazione e forniture elettriche che era partita a meraviglia facendogli esplodere letteralmente il giro d’affari tra le mani. La Eurogarden aveva continuato a fare faville anche negli anni successivi: c’erano interi eserciti di brizzolati in lenti scure che acquistavano, costruivano, ristrutturavano continuamente. Obbedendo a una vecchia tradizione, il padre di Giuseppe aveva allora continuato a prendere con sé cognati e cugini e fratelli di cugini… Arrivavano in azienda come da una lunga migrazione, e se alla Eurogarden non c’era un posto libero si spingevano senza problemi fino in villa (uno veniva messo a fare il giardiniere, una la cuoca, un altro ancora passava il tempo a imbiancare muri, a spostare mobili, ad aggiustare cavi elettrici che saltavano continuamente). Arrivavano dai bar, dalle officine, dai cimiteri di automobili, risalivano dalle stesse zone d’ombra da cui era emerso anche Domenico Rubino per ritrovarsi tutti insieme in una grande famiglia allargata. Cenammo intorno a cinque tavoli incastrati tra di loro sotto un tendone bianco. Dal barbecue salivano continuamente fumo e scintille. Le donne, dirette energicamente dalla signora Rosa, facevano avanti e indietro coi vassoi pieni di cibo. Il padre di Giuseppe sedeva a capotavola in un morbido accappatoio di spugna. Parlava con i propri dipendenti cercando di annullare ogni ordine gerarchico, come cercasse di convincerli che – tra le guantiere traboccanti di arrosto e le bottiglie di Amarone – fossero diventati ricchi tutti quanti insieme. Solo che poi, poco prima di mezzanotte, quando sulla tavola erano rimasti solo i bicchierini da dessert e alcuni commensali fumavano in solitudine sotto la falce della luna, il padre di Giuseppe perse il suo sorriso. Ci fu il suono di un motore a basso regime. Poi, dal fondo della strada, comparvero due grosse sfere bianche. Prima che la luce potesse invadere anche una minima porzione di giardino, i fari della station wagon si spensero come per un eccesso di discrezione. L’auto proseguí accostando lentamente a ridosso di un muretto, lasciò che le fronde di un salice si spalmassero sul parabrezza, e solo allora si arrestò. Si aprí e si richiuse uno sportello. Sulla faccia del padre di Giuseppe si disegnò un’espressione accigliata. Sussurrò qualcosa all’uomo che gli era stato accanto sin dall’inizio della cena, il quale confermò a voce piú alta: «No, non ci ha avvisati prima». Raccolse dal tavolo il suo pacchetto di MS. Portò una sigaretta alle labbra. Abbandonò la sigaretta accanto a un grosso accendino placcato d’oro. Si alzò nervosamente e andò incontro all’autista della station wagon che ora sostava davanti al cancello della villa. Lo fece entrare, i due si strinsero la mano e fu soltanto in quel momento (quando il cancello si aprí, e l’uomo si accostò al padre di Giuseppe uscendo da un lungo cono d’ombra) che riconobbi i jeans e il maglione a collo alto, la faccia lunga e ossuta e soprattutto questi occhi che avevano l’ammutolita forza inerziale di due bacini prosciugati. Mi voltai immediatamente verso Vincenzo, perché se quello non era lo Sghigno, il cosiddetto autista di famiglia con cui l’avevo visto allontanarsi nel giorno del nostro primo incontro, allora voleva dire che ero diventato matto. Vincenzo si accarezzò la nuca evitando di incrociare i miei occhi. Cercò invece Giuseppe con lo sguardo e lo trovò a molti metri di distanza: inseguiva il cane nel giardino, del tutto indifferente a quello che stava succedendo. I due uomini ci passarono davanti senza dirsi una parola, uno dietro l’altro, fino a quando scomparvero oltre l’ingresso della villa. Fu lí che, sotto la solita maschera di imperturbabilità, vidi l’impronta di un sorriso premere contro le labbra di Vincenzo – e fu sempre in quel momento che, senza capirne bene il motivo (esattamente come, sul volto di una persona cara, riusciamo un giorno a cogliere il segno certo di qualcosa di terribile e di inconfessato) ebbi la certezza che fosse tutto vero: sua madre era morta in un incidente stradale, l’anno prima era accaduto qualcosa di grave nel liceo piú in vista della città, l’avvocato Lombardi era il nemico per distruggere il quale avrebbe fatto qualunque cosa. Capivo tutto e non capivo niente. Sentivo però – in un modo altrettanto certo e nebuloso – che qualcosa di profondo mi legava a questi due ragazzi. Tornato a casa, queste certezze mi si stravolsero ulteriormente nella testa. Mi rigiravo tra le coperte senza prendere sonno. Pensavo a Giuseppe, pensavo a Vincenzo, mi grattavo la testa fermo nel letto con gli occhi spalancati. Accesi la televisione. «C’era un orso nei boschi… – disse la voce fuori campo. – I due leader hanno soggiornato insieme nella Maison Fleur d’Eau…» continuò il giornalista finalmente inquadrato sullo sfondo del lago di Ginevra. A quanto pareva, nella cittadina svizzera si era appena concluso un incontro diplomatico tra il presidente degli Stati Uniti e il segretario generale del Pcus. Aggirando le regole del protocollo, i capi delle due superpotenze avevano discorso amabilmente di fronte al caminetto acceso dentro una bella villa dalle pareti in pietra viva. Le rispettive mogli avevano avuto modo di parlarsi nel corso di lunghi tè pomeridiani invitandosi a trascorrere le vacanze estive in Illinois o in una dacia sulle rive del mar Nero. I due uomini avevano invece trascorso le ore citando con disinvoltura l’Ecclesiaste, lí dove è scritto che esiste un tempo per distruggere e un tempo per rimettere le cose a posto. Avevano tirato in ballo Einstein quando disse che la Quarta guerra mondiale si sarebbe combattuta coi bastoni e con le pietre. Il presidente americano aveva aggiunto senza punte di ironia che se la Terra fosse stata attaccata dagli alieni, loro due avrebbero potuto fare a meno di organizzare tutti questi summit in giro per il mondo perché l’umanità si sarebbe riunita all’istante per fronteggiare il pericolo comune. Insomma, la guerra fredda sembrava una parola destinata a perdere il suo significato minaccioso, e il celebre spot elettorale in cui solo due anni prima veniva paventato il rischio dell’olocausto atomico era già modernariato. «Caduto il muro, – disse il corrispondente con lo sguardo pieno di ottimismo, – crolleranno innanzitutto le nostre prigioni interiori…» Eppure, – pensai senza togliermi dalla testa Vincenzo un solo istante, continuando a domandarmi per quale motivo lo Sghigno conoscesse il padre di Giuseppe e come mai Vincenzo aveva lasciato che l’autista ci passasse a pochi metri senza neanche salutarlo –, bastava solo cambiare canale per ritrovarsi davanti ai trailer dei film piú in voga del momento, ai telefilm piú visti, ai videoclip piú popolari, e tutto ciò che di piú interessante sarebbe apparso sullo schermo avrebbe dato ragione al giornalista soltanto per metà, suggerendo che negli esseri umani c’era sí qualcosa che aspettava solo di rompere i lucchetti e le catene, e tuttavia non era detto che a liberarsi dovesse essere la nostra parte luminosa. Ci sarebbero stati ancora morti viventi in marcia nei supermercati, e ragazzine possedute dal demonio, e giovani astronaute che portavano nel ventre orribili creature aliene… Ma piú insistente di tutto questo – pensai – ci sarebbe stata una canzone che da un paio d’anni veniva trasmessa senza sosta praticamente ovunque. Accendevi la radio e riconoscevi l’inconfondibile linea di basso rubata ai classici della disco anni Settanta. Cambiavi canale in tv, e se eri fortunato trovavi la versione integrale di un videoclip lungo quasi un quarto d’ora. Precisamente, la parte in cui due adolescenti con la divisa del college camminano mano nella mano sotto la luna piena. Si scambiano un anello di fidanzamento circondati dalla morbida opulenza di una metropoli occidentale. A un certo punto però lui inizia a essere squassato dalle convulsioni. Si prende la testa tra le mani. Si piega in due come dovesse vomitare. Quando si rimette in piedi, al posto di Michael Jackson c’è un feroce lupo mannaro e la ragazza urla dal terrore. Thriller, oltre cento milioni di copie vendute… Forse non c’era piú un orso nascosto oltre i confini del mondo conosciuto, ma c’era un lupo in città: sotto i giubbotti che indossavamo, dietro i sorrisi con cui affrontavamo le giornate. Lo conosciamo, ci appartiene, è praticamente ovunque, pensai ancora mentre le luci del mattino entravano morbidamente nella stanza, aspetta solo la lunapienapercominciare aululare… Capitoloquinto «No, io allora non ne sapevo proprio niente, mentre quello per Vincenzo fu un colpo di fortuna. Non sapevo niente io, e direi che fosse ovvio. Ma non sapeva niente mia madre, il che significa che aveva deciso di non guardare oltre la punta del suo naso. Te le ricordi tutte quelle bambole di porcellana? Che ti devo dire, lei preferiva credere al miracolo dei pani e dei pesci». Questo lo disse Giuseppe, o quel che restava di lui, nella primavera del 2008, piú di vent’anni dopo il nostro primo incontro, a otto o nove mesi dalla mia decisione di tornare sulle tracce del nostro comune passato. Non era stato sorpreso di rivedermi. Avevo sostato davanti al cancello della villa senza sapere cosa fare: ero a Bari da piú di una settimana, sarei dovuto ripartire tra meno di ventiquattr’ore, e avevo sprecato la maggior parte del mio tempo girando inconcludentemente tra strade e quartieri che mi sembrava di non vedere da un secolo. Mentre ero alla guida, avevo partorito e cestinato mentalmente centinaia di frasi, cercando la formula in grado di aprire senza scasso la cassaforte di una persona che non vedevo dai giorni in cui la sua vita aveva iniziato a franare nel peggiore dei modi. Ma era stato Giuseppe ad accogliermi con un sorriso prima ancora che potessi incenerire sulla punta della lingua l’ennesima frase sconveniente: «Scommetto che se mi avessi visto per la strada, non saresti riuscito a riconoscermi», aveva detto. Ed era quello, bisognava ammetterlo, il modo piú onesto per rompere il ghiaccio: la frase che – senza violenza ma con molta precisione – riassumeva la mia colpa (non averlo cercato negli ultimi vent’anni) e la sua capacità di non tenerne conto. Non fu stupito di trovarmi lungo il viale di quella che era stata una cattedrale alzata prepotentemente sull’altare dello spreco e adesso irradiava la tristezza solitaria delle costruzioni divorate dal tempo e dall’incuria. Era poco disposto a credere che avesse senso rivangare il passato insieme a un vecchio amico. Ma doveva essere arrivato alla conclusione che io fossi una di quelle persone convinte che ritrovare a freddo il bandolo della matassa possa scalfire l’incomprensibile enigma dell’esistenza. Sebbene ai suoi occhi rischiassi dunque di sembrare un concentrato di leziosaggini, il sospetto che avesse utilizzato anche un solo pomeriggio degli ultimi vent’anni per darmi una precisa collocazione nella mappa dei suoi pensieri mi diede sollievo. Fu sulle ali di questo stato d’animo che avevo iniziato a parlare. E quando, dopo altri tentennamenti, riuscii a chiedergli di Vincenzo (la persona che, in fin dei conti, non aveva fatto niente per salvarlo), fummo entrambi spiazzati da come il suono di quel nome fosse tuttora in grado di risvegliare le ballerine sul carillon della nostra fantasia. Un colpo di fortuna… Ma Vincenzo la sua fortuna se l’era guadagnata. Quando vide lo Sghigno fare ingresso nella villa dei Rubino, gli bastò mettere insieme i pezzi raccolti nel corso dell’ultimo anno per capire quale collegamento ci fosse tra l’autista di suo padre e il padre di Giuseppe. Qualcosa nella sua testa fece «bingo!», e io lo vidi soffocare quel sorriso. Adesso sapevamo che, sulla situazione dei Rubino, Vincenzo conosceva ciò che persino la signora Rosa aveva deliberatamente deciso di ignorare. Non sapevamo però un sacco di altre cose. Giuseppe non le sapeva e riteneva che venirne a capo non servisse a niente. Per me era diventata una faccenda di vita o di morte. Ad esempio, «il grosso guaio al Di Cagno Abbrescia». Sull’episodio Giuseppe scrollò le spalle, e le altre persone davanti alle quali ero comparso non avevano niente da dire. Cosí, per quella come per altre zone d’ombra, utilizzai degli strumenti che mi ostino a non voler fare coincidere con la semplice immaginazione. Ripensai a Vincenzo in sala da biliardo. Nel momento in cui stava per dare il primo colpo, lo isolai dal tavolo verde. Legai la sua concentrazione alla cupa altezzosità che gli aveva fatto alzare la mano in anticipo durante l’appello del primo giorno di scuola. Trascinai questo intrico di orgoglio e vigile risentimento indietro di sei mesi, e mi misi in attesa al quinto piano di un palazzo che avevo visto sempre e solo dall’esterno. Mi portai con l’orecchio alla porta d’ingresso e attesi ancora, fino a quando sentii la voce di un maschio adulto che diceva: «Non devi prenderlo come un castigo, la devi prendere come l’ovvia conseguenza delle tue azioni», ed eccolo… ecco Vincenzo a confronto con suo padre nel soggiorno del loro appartamento, il cuore di una scena a cui non avevo mai assistito. Un giorno primaverile del 1985. Un attico collocato in una delle costruzioni piú belle del centro cittadino. Vincenzo e suo padre sono seduti alla stessa tavola. L’avvocato gli ha appena comunicato la decisione di farlo fuori dal Di Cagno Abbrescia. A questo punto non so ancora – come probabilmente non saprò mai – in cosa consista di preciso il «grosso guaio» di cui stanno discutendo. Ma prendiamo per buono il giornale scandalistico degli studenti del Cesare Baronio, ammettiamo che Vincenzo abbia deliberatamente messo incinta e abbandonato l’ultima studentessa a cui sarebbe consigliabile fare uno scherzo del genere: la ragazzina che, ammantata in un sudario di vergogna, si sarebbe trovata a sostenere lo sguardo di un vecchio monumento della scuola democristiana del Sud Italia, il quale avrebbe prima indietreggiato a occhi sgranati: «Non è vero, quello che stai dicendo non è vero!», e poi, sostituendo il pallore del padre dal cuore distrutto con la serica praticità del senatore che ha superato senza incidenti la terza legislatura consecutiva: «Bisognerà andarci a parlare, con il padre di questo delinquente…» Ammettiamo che il «grosso guaio» consista in questo o in qualcosa di simile, concediamoci un possibile errore dal momento che non è importante la dinamica dell’episodio ma lo sono le dirette conseguenze, e cioè il fatto che Vincenzo, nel momento in cui suo padre dice: «non devi prenderlo come un castigo…» può finalmente realizzare: era questo, dunque, il modopercolpirlo. Non sono i musi lunghi, non sono le recriminazioni, non è l’ipotesi di fuggire di casa – tutte sciocchezze con cui Vincenzo si è trastullato sino alla fine della scuola media, quando in fondo era ancora un bambino. E non è certo prendersela con la seconda moglie di suo padre. Sabrina… Quella ragazza gli era sembrata interessante soltanto fino a quando l’avvocato non gliel’aveva presentata. Due lunghe gambe dritte e una viva fiamma di determinazione che impediva a un volto perfettamente levigato di ingrossare il firmamento delle ragazze belle e inconsistenti. Quando aveva fatto il suo ingresso nell’attico per le presentazioni ufficiali, Sabrina si era guardata intorno con l’allarme e la fierezza delle ragazze povere messe di fronte all’occasione di sbarazzarsi del passato una volta per tutte. In quella casa ci era già entrata nelle limpide e vuote mattinate in cui i domestici avevano la giornata libera, Vincenzo era a scuola, e l’avvocato non l’aveva portata in albergo né si era lasciato trascinare in quello che lei chiamava con torbida ironia «il mio covo» (una stanzetta semibuia in fondo al corridoio di un appartamento invaso da un profumo di minestrone raffreddato che Sabrina condivideva con due studentesse di lettere, e l’avvocato apprezzava per l’ingenua sensazione di rapinosità procurata dai singhiozzi della branda mentre facevano l’amore). Il padre di Vincenzo di tanto in tanto diceva invece: «Due ore libere, poi devo scappare in tribunale: andiamo da me», forse per praticità, o forse con l’intento malevolo di farle annusare il profumo della ricchezza prima di riconsegnarla alle sue coinquiline. Ma in quelle mattinate ogni cosa aveva ruotato intorno al suo corpo – si trattava solo di scopare, una dimensione in cui Sabrina si trovava a proprio agio sin da quando aveva sedici anni. Adesso invece entrava nell’attico sotto il sole impietoso dell’ufficialità. Vincenzo l’aveva vista attraversare la porta d’ingresso, e poi guardarsi intorno con circospezione. Aveva iniziato ad avanzare verso di lui misurando bene i passi. E c’era – era stato costretto a riconoscere – un’effettiva durezza in questa fuorisede prossima alla laurea, qualcosa che la teneva ben piantata sui tacchi nel marmo bianco del soggiorno. Ma poi, non appena la ragazza aveva detto: «Bene, tu sei Vincenzo, sono davvero felice di conoscerti…» cercando di comprenderlo in un sorriso troppo platealmente indifeso per non dare l’impressione di un tentativo di accerchiamento, Vincenzo ne aveva ricevuto la sensazione che è possibile provare davanti a un nemico molto atteso che, al momento dello scontro decisivo, ci delude presentando – in luogo delle armi – un accordo diplomatico. Aveva preso a sopportarla. Aveva dovuto farlo. Sabrina si era trasferita a casa loro. Si era fatta sposare. Adesso viaggiava in decappottabile, vestiva Yves Saint Laurent, partecipava ai noiosi tornei domenicali di Burraco come solo la signora Lombardi avrebbe potuto fare. Eppure, aveva bisogno di farsi accettare anche da lui. Non perché quel ragazzo scontroso iniziasse a fare breccia nel suo cuore, e neanche per compiacere l’avvocato, ma per tirarsi addosso l’ultimo lembo di una legittimità che non sentiva ancora di avere conquistato. Si era sforzata di diventare per Vincenzo una specie di mamma in seconda: provando a guadagnarsi le sue confidenze, offrendogli un aiuto mai richiesto e quasi sempre inutile con i compiti a casa e soprattutto cercando (altrettanto inutilmente) di trasformarsi in una mediatrice in grado di distendere i rapporti tra un padre e un figlio che si parlavano a malapena. Vincenzo rispondeva a queste iniziative con un distacco che Sabrina a un certo punto aveva trovato insopportabile (credo si trattasse del sarcasmo e della derisione: non dico che Sabrina riuscisse a coglierli in pieno quando il ragazzo le parlava, ma intravedeva qualcosa, il che era anche peggio). Se ne era lamentata con l’avvocato, e l’avvocato non aveva trovato di meglio che prendere Vincenzo in disparte per fargli una predica. Ma quella era ordinaria amministrazione, erano i discorsi perfettamente padroneggiati di un padre rivolto al proprio figlio: quei tipi di discorsi in cui i padri non tentennano neanche per un momento – dalla vetta di una montagna nascosta tra le nuvole spandono pillole di saggezza su chi annaspa migliaia di chilometri piú in basso senza poterli mai raggiungere. E adesso, invece, lo aveva raggiunto. Quando suo padre dice: «Siediti, per favore, dobbiamo parlare…», questi ruoli sono saltati magicamente per aria. Vincenzo accoglie senza battere ciglio la notizia che dovrà ripetere il primo anno di liceo in una scuola semisconosciuta. L’avvocato Lombardi deve invece fare uno sforzo per riconoscere suo figlio nello sguardo imperturbabile di questo quindicenne. Per pochi istanti non è un ragazzo, ma un adulto. E non è neanche un adulto qualsiasi, ma un avversario. Vincenzo se ne accorge. Tira un sospiro di sollievo. Si tocca il fazzoletto stretto al braccio e pensa: Forse era ridicolo all’inizio… sarebbe stato ridicolo per sempre se non fossi riuscito a farmi guardare da mio padre in questo modo. Ma dal momento che per lui ora sono un pericolo,illuttocheporto al braccio non è stato ridicolo neanche per un attimo. Utilizzando questa tecnica – senza l’aiuto di Giuseppe né di nessun altro – ero riuscito a guadagnarmi un tassello della vita di Vincenzo che altrimenti non avrei recuperato. Provai allora a spingermi piú indietro, alla ricerca del big bang: il momento in cui qualcosa in lui si era ribaltato per sempre, e la persona che avrebbe potuto amare e rispettare come un padre era diventato il nemico da distruggere. Isolai la faccia di Vincenzo e la portai indietro di un altro anno. Cercai di immaginarmelo nel momento in cui qualcuno (suo padre? il padre di sua madre?) lo stringe tra le braccia e lo informa della morte della madre. Ma a questo punto mi accorgevo sempre di avere fatto il passo piú lungo della gamba. L’episodio era troppo lontano. O era semplicemente troppo intenso, istantaneo e complesso perché il mio gioco di associazioni riuscisse a raggiungerlo in pieno. Rassegnato a procedere senza un pezzo di tale portata, mi spingevo allora un po’ piú avanti. Sei mesi… i mesi che separavano il «grosso guaio» dal sorriso che attraversò la faccia di Vincenzo quando il suo autista comparve oltre il cancello della villa dei Rubino. Che cosa era successo in quel periodo? Oh, io questo lo sapevo. A differenza del «grosso guaio al Di Cagno Abbrescia» (di cui non conoscevo i dettagli ma ero sicuro di possedere ciò che mi importava) e a differenza di quello che chiamavo «il suo big bang» (di cui tutto mi era ignoto), di quel periodo conoscevo ogni passaggio. Rieccoci nella primavera del 1985. Vincenzo ha sei mesi di vacanza a disposizione. Non deve piú frequentare il liceo, e il prossimo obbligo scolastico scatterà solo a partire da settembre. Come impiega questo tempo? Avvelenare i pozzi… pensa in continuazione. Solo che adesso è piú libero ma anche piú isolato di prima. Davanti a lui c’è un appartamento panoramico pieno di marmi bianchi e di servizi di ceramica giunti mezzi spaiati al secolo di vita. E nell’appartamento, esclusi i due domestici, ci sono solo suo padre e Sabrina. L’avvocato, di sera, si alza da tavola e si ritira nel soggiorno per controllare i faldoni di una causa. Accende il televisore, abbassa il volume, dà le spalle allo schermo e lavora in questo modo: chino sulle carte mentre centinaia di lampi azzurri invadono l’ambiente a intermittenza. Sabrina si avvicina e dice: «Vado a letto». L’avvocato l’afferra per la mano e le sussurra: «Aspetta…» Ogni cosa che lui tocca, muore, pensa Vincenzo. E fuori dall’appartamento? Fuori c’è il corso di inglese al British Institute che suo padre gli lascia frequentare per tenerlo in allenamento con gli studi. Ci sono i concerti di musica classica al Petruzzelli a cui Vincenzo assiste insieme ai giovani del Lyon’s club. Esecuzioni mediocri, se confrontate con i vinili dei Berliner, grazie alle quali però gli sembra di poter entrare in maggiore intimità con il genio di un Bach, di un Bruckner (esattamente come chi, precipitato in fondo a un pozzo riesce a cogliere, nei pochi raggi di luce capaci di aprirsi la strada tra le erbacce, un’infinità di cromatismi che sfuggono a quelli che si godono la stessa splendida giornata a cielo aperto). Ma a parte queste piccole consolazioni, intorno a lui c’è il deserto. Cosí, senza quasi accorgersene, Vincenzo inizia a osservare l’autista di famiglia con piú attenzione di quanto non abbia fatto in precedenza. Diego Petaroscia, detto lo Sghigno: un uomo alto, vestito male, la cui massima ambizione sembra quella di passare come un’ombra dalla sala d’aspetto dello studio alla guida della station wagon. Non è stato da sempre alle dipendenze dell’avvocato. È saltato fuori dal nulla in un momento che Vincenzo non saprebbe ritrovare, tanto quest’uomo sembra avere il potere di trasfondersi negli oggetti inanimati con cui viene a contatto – è la station wagon che marcia da sé, quando lo Sghigno è alla guida; e nel momento in cui trasmette una cartellina al cancelliere del tribunale, quest’ultimo, dopo averlo visto svanire tra i corridoi del Palazzo di giustizia, deve vincere la sensazione di avere avuto tra le mani quelle carte da sempre. Adesso però lo Sghigno è diventato la seconda ombra di Vincenzo. «Fammi il piacere, cerca almeno di capire chi frequenta», gli ha detto l’avvocato. Cosí Vincenzo distingue sempre piú regolarmente una grigia presenza tra gli elementi dell’arredo urbano. È appena uscito dal British Institute? Lo Sghigno cammina dall’altra parte della strada nel suo maglione sbrindellato. Dopo un concerto al Petruzzelli, ha deciso di farsi una lunga passeggiata solitaria? A poche strade dall’inizio della periferia residenziale (quello che io chiamavo «centro», per distinguerlo a mia volta dall’ignota periferia malfamata) spunta il muso a martello della station wagon. La vettura avanza con lentezza, ignora un semaforo rosso, occupa indisturbata il centro dell’incrocio. Dal finestrino emergono due zigomi sporgenti: «Ti to’ un passaccio fino a casa…» dice lo Sghigno con la spenta ovvietà di una constatazione atmosferica. Solo che poi, seduto nel posto del passeggero, Vincenzo lo osserva attentamente, riconoscendo nell’autista delle caratteristiche che non c’entrano niente con suo padre né con lo studio legale né tantomeno con il brillante e cesellato contenitore di tutto questo che è il cosiddetto consesso civile. Innanzitutto il modo in cui parla. Lo Sghigno si esprime in dialetto. Quando usa l’italiano non fa che aggiungere una vocale a poche parole tronche – poi, come per vendicarsi del tradimento, trasforma tutte le g in c e le d in t: «tove ha tetto che tevo antare?» domanda all’avvocato quando non è certo del luogo in cui dovrà sbrigare una commissione. Il suo dialetto non ha a che fare con le esplosioni vernacolari che l’avvocato e i suoi colleghi si concedono per rendere piú sapido un ragionamento, un vezzo a cui ricorrono perfino i professori universitari compiacendosi di piegare la vitalità popolare alle esigenze del comando. Il dialetto dello Sghigno possiede l’ottenebrata circolarità delle lingue morte, segue la logica dei buchi neri. Cosí, quando l’autista pronuncia la parola «citazione ciutiziaria» (l’avvocato gli ha chiesto di spedire dei documenti in tribunale), sembra che gli oltre settecento articoli del codice penale possano regredire a pochi segni cuneiformi incisi in un blocco di basalto; e quando, con un veloce cambiamento di accenti, la sua bocca partorisce il termine «ampurchèr» (sono le dieci di sera e l’avvocato, ancora nello studio, gli ha chiesto di fare un salto nella vicina paninoteca), non è il dialetto dello Sghigno a rimanere travolto dalla logica del fast food ma l’intero lessico nordamericano – capitato per errore nell’orizzonte degli eventi di questa lingua morta – a esserne risucchiato, digerito e convertito al suo codice di pietra. Ma è soprattutto il modo in cui l’autista si comporta davanti all’avvocato ad avere spiazzato Vincenzo. Al cospetto di Mario Lombardi i praticanti dello studio hanno un atteggiamento scodinzolante mentre i clienti trasudano un calcolo e un’ipocrisia restituiti tra i velluti della parcella. Ma lo Sghigno… quando il padre di Vincenzo gli dà da sbrigare un incarico, esegue l’ordine come se a impartirglielo non fosse neanche un’altra persona ma qualcos’altro. Prima di mettersi in tasca le chiavi della station wagon e di girare i tacchi non sorride, non offre inutili rassicurazioni, sul suo volto compare l’inerte constatazione che tra chi ordina e chi esegue nessuno è mai libero di scegliere davvero. Come è possibile che un individuo simile si trovi a lavorare per suo padre? Due settimane dopo non se lo chiede neanche piú, dal momento che la provvidenziale nota stonata che l’autista rappresenta è diventata per Vincenzo la pista da seguire. Qual è la giornata libera dello Sghigno? Da dove viene? Dove abita? Che cosa fa nelle ore in cui non è al servizio dell’avvocato? Ecco a cosa pensa quando, dopo essere riuscito a pedinarlo per cinque minuti, lo vede salire sulla station wagon ed è costretto a perderlo al secondo incrocio. Dopo un’altra settimana, giunge a una prima conclusione: lo Sghigno non passa molto tempo a pedinarlo. Se ha creduto di trovarselo tra i piedi a ogni momento, era dovuto alla sua natura camaleontica – anche quando davanti agli occhi di Vincenzo non c’erano che negozi e pali della luce, aveva sempre l’impressione che l’immobilità del panorama contenesse quella dell’autista. Lo Sghigno non sembra tra l’altro occuparsi degli affari dell’avvocato per piú di tre o quattro ore al giorno. Guida dallo studio al tribunale, accompagna il titolare da un perito e lo attende parcheggiato in doppia fila. Poi, a un certo punto della giornata, saluta tutti e scompare. E dove va? Vincenzo copre con piccola ma costante progressione i percorsi dell’autista – un giorno dopo l’altro, è capace di osservare il passaggio della station wagon tre o quattrocento metri piú in là rispetto a quanto non aveva fatto il giorno prima. Dopo qualche settimana, si rende conto che sono almeno due i percorsi che l’autista segue abitualmente dopo avere smontato dallo studio. Se conoscesse la geografia cittadina, se solo non avesse passato tutta l’infanzia in un incubatoio fatto di abitazioni signorili e associazioni filantropiche, concluderebbe che lo Sghigno imbocca il lungomare verso San Giorgio oppure si muove in direzione di Japigia. Invece pensa solo: Per di qua o per di là. Cosí, camminando sotto il sole di maggio, scopre che il suo mondo rappresenta un’infinitesima porzione di quell’aperta vastità cittadina che è Bari negli anni Ottanta. Chi l’avrebbe detto? Solo spostandosi di qualche chilometro a est, le boutique scompaiono del tutto, i palazzi pieni di stucchi cedono il posto all’imponente architettura del Ventennio che a sua volta si disperde sui primi marciapiedi in stato di rovina e sull’asfalto maculato di fili verdi e gialli. Mezz’ora fa era un asfalto servizievole, adesso è un ribollente e selvaggio manto nero che si dilata in ogni direzione sotto un sole che picchia in verticale sulla testa. Ecco, pensa Vincenzo, questo paesaggio desolato gli assomiglia. Senza piú il bisogno di inseguire il profilo della station wagon, inizia a farsi trascinare dalla deriva di panchine divelte, lampioni fulminati, strade interrotte, grandi dune fatte di buste di immondizia. Si muove con diffidenza tra reticolati di metallo messi a protezione di un giacimento aureo di pratoline. Costeggia montagne di mattoni abbandonati a bordo strada e costruzioni solitarie con la porta sbarrata da due assi di legno. Non pensa piú: dove sono capitato? perché la perdita d’orientamento per cosí dire orizzontale è meno vertiginosa rispetto a questo andare giú sempre piú morbido e piú denso. Un pomeriggio di questi – è a cinque o sei chilometri da casa ma ha l’impressione di avanzare su una distesa marziana, di attraversare un territorio in cui è stato quando esserci per lui non era ancora concepibile –, mentre ha preso un sentiero sassoso che si spinge a gomitate verso l’interno, sente alle spalle il ronzio di un grosso insetto. Il Califfone borbottante gli si accosta. Sono in tre, hanno piú o meno la sua età, gli ultimi due sono aggrappati con le unghie al piccolo sellino nero. Iniziano a girargli intorno, ridono, urlano frasi incomprensibili. Si direbbero spaventati da questo ragazzo in abiti da sartoria che si aggira per luoghi dove non dovrebbe essere, lo spavento che coglie i poveri quando qualcosa arriva con violenza a risvegliarli. Gli saltano addosso e lo gettano per terra. Gli sfilano l’orologio, gli strappano il portafogli dalla tasca della giacca, rimontano in sella e vanno via. Vincenzo si rimette in piedi tra le nuvole di polvere ed è furente: vive in un attico, parla due lingue straniere, come hanno osato fargli questo? Alza la testa, e ogni rancore inutile gli scivola di dosso: una bella luna pomeridiana risplende con i suoi crateri pallidi tra i cardi e le spighe di grano. È allora che sente la cosa. Grazie a questo paesaggio impossibile, forse grazie anche a un’umiliazione cosí rapida e in fin dei conti cosí onesta e circolare, viene invaso da un’enormità imprevista – gli sembra che sua madre possa essere ovunque: un caldo diluvio universale che, evaporato dalle terre, è infine scomparso anche dal cielo lasciando sia al cielo che alla terra un’impronta disseccata alla quale bastano solo un po’ di solitudine e uno spavento per sciogliersi in un ricordo vivo. Riprende a camminare. Oltre i pratoni di erba secca si vedono in lontananza le prime case popolari: le grandi torri silenziose, perfettamente disegnate contro il cielo del tramonto. Alla fine del sentiero prende male una discesa: inciampa, rotola tra le pietre, si mette in piedi edeccola… La station wagon è parcheggiata in fondo a un grande spiazzo nudo. Accanto all’auto, c’è un blocco di tufo arancione che vorrebbe essere una casa ma sembra una piccola ziggurat riemersa dal centro della terra. Appeso a una finestra c’è il bulbo di una lampadina. Ai piedi della costruzione giace un grosso bidone di alluminio sul quale, ricalcato un’infinità di volte a pennarello, compare l’inequivocabile sentenza: fascit’ ca s’ mor’. Ma lui non conosce questa lingua. È nascosto dietro un muretto a secco quando, qualche minuto dopo, qualcuno esce dalla porta. Un donnone dalla faccia larga e il naso da pugile, vestita in canottiera e pantaloni corti della tuta, con una chioma nera tenuta su da un mollettone di plastica. La donna alza le braccia. Si stiracchia davanti agli ultimi bagliori della giornata mostrando i peli delle ascelle – uno sbadiglio, poi rientra in casa. Non ha mai visto una puttana ma sa che è una puttana: a risvegliare la forma originaria che evidentemente riposa persino in uno come lui non sono state le ecchimosi intorno a due coscioni pieni di smagliature ma l’assoluta, generosa eppure cosí misurata semplicità di un corpo che, fuor di marchetta, si affaccia al mondo senza niente da rivendicare. È assurdo, ma pensa ancora al mistero di sua madre. Nemmeno un’ora dopo è scesa la sera. Intorno a lui c’è un buio pressoché assoluto che impedisce di capire cosa accade a un palmo dal naso, se si eccettuano le lucine che lontano – troppo lontano però – hanno iniziato a sfavillare segnalando la presenza delle pizzerie e delle prime bancarelle di frutta secca. Poi accade qualcosa che all’inizio non capisce. Nella station wagon si accende la luce di servizio. Lo Sghigno è seduto nel posto del guidatore: si piega in avanti, controlla sotto il tappetino, si rimette seduto e guarda dritto davanti a sé. Un’automobile, un motorino, ancora un’automobile. Stanno iniziando ad arrivare. Vincenzo sente i rumori alle spalle, vede i fari sparati verso l’alto e quindi, imboccata la discesa, le luci si distendono mettendosi le une sulle altre in un valzer notturno per lampadine da cinquanta watt. A un certo punto è come se mezza città si fosse data appuntamento proprio lí: utilitarie, berline, fuoristrada, ciclomotori, possenti moto da strada con le marmitte luccicanti. Un uomo dai capelli imbrillantinati scende da una Panda, si infila con la testa nel finestrino della station wagon, ritorna verso la Panda portando agli occhi il palmo della mano. Se Vincenzo conoscesse meglio la città, se fosse uno dei ragazzi che frequentano il Baraonda o il bar Thailandia bis, per lui «lo Sghigno» sarebbe il nome di questa zona di campagna sfuggita agli stradari; avrebbe sentito già parlare di un luogo seminascosto tra via De Lilla e la strada Sant’Anna dove un «pezzo», come lo chiamano i veterani (o uno «schizzetto», come preferiscono chiamarlo gli studenti), costa meno di ventimila lire. Invece si limita a pensare: autista di giorno, spacciatore nel tempo libero… Alle undici di sera il viavai è terminato. Lo Sghigno, dopo una pisciata a cielo aperto, sta per tornare alla sua auto. È allora che se lo trova davanti. Vincenzo dice: «Adesso, mi dài un passaggio fino a casa». Ecco chi era dunque il ragazzo che, neanche tre mesi dopo, sarebbe atterrato al Cesare Baronio scatenando il falò della nostra curiosità. Era uno che sapeva – e per sapere aveva lottato, e aveva a suo modo viaggiato nel tempo. E, fondato nel sangue o tra le nuvole che fosse il suo odio verso il padre, aveva dissepolto un paio di travi abbastanza solide per mantenere in piedi il proprio sogno di vendetta. Non posso immaginare che lingua avesse usato per farsi raccontare dallo Sghigno come stavano le cose. E tuttavia a un certo punto sapeva che l’autista lavorava nello studio perché un grosso cliente l’aveva personalmente raccomandato – uno con interessi sparsi in tutta la provincia, dalle pizzerie ai centri d’abbronzatura ai negozi di abbigliamento alle sale giochi… E il compito dello Sghigno, studio Lombardi a parte, non era certo quello di spacciare l’eroina nelle campagne tra il lungomare e Japigia (se avessero scoperto che arrotondava con gli scarti dell’attività primaria sarebbe finito male; ed ecco perché, quando si ritrovò davanti il ragazzo, capí di avere poca scelta), ma farsi una volta al mese il giro di tutti gli esercizi commerciali. Insomma, lui era l’esattore delle imposte per conto dei cosiddetti soci occulti, visto che neanche una delle attività che questo grosso cliente amministrava e il padre di Vincenzo cercava di tenere a pelo di legalità era – nel sommerso delle sue origini – esente da una decina d’anni di galera. Lo Sghigno era l’ultima rotella: cresciuto nella miseria piú totale, sollevato da una Grande Mano (c’entrava coi fratelli Terlizzi di cui parlavano i giornali locali?) e poi affidato a qualcun altro che a sua volta lo aveva fatto assumere nello studio del proprio legale solo perché un giorno fosse ricattato da un piccolo lord a causa dell’unica vera iniziativa che avesse preso in vita sua. Cosí, qualche mese dopo, quando Vincenzo se lo vide entrare nella villa dei Rubino, capí immediatamente che i genitori di Giuseppe non erano padroni neanche delle tavolette del cesso su cui sedevano ogni mattina. Giuseppe non lo sapeva. La mamma di Giuseppe non voleva saperlo. Vincenzo invece sí. Un altro tassello, dovette pensare, unaltro pezzochevaaposto… Ma un pezzo di cosa, precisamente? Aveva intercettato una zona grigia nella vita di suo padre, ed era questo per adesso l’importante. Per quanto mi riguarda, di una simile situazione non sapevo proprio niente. Perché Vincenzo decise di eclissarsi temporaneamente. Perché Giuseppe iniziò a trascinarci per tutte le feste e le festicciole che iniziavano a scoppiare in giro per la città. E anche perché, visto che i nodi arrivavano al pettine anche nelle altre famiglie, mio padre ebbe il suo primo crollo nervoso. Capitolosesto Quando lo accompagnavo nei suoi giri di lavoro, piú di una volta era accaduto che mio padre dicesse con un sorriso amaro: «Lo vedi quello lí?» Si trattava di cinquantenni vestiti in modo diverso da lui – giubbotti di pelle nera, vecchi Ray Ban con le stanghette semimolli –, nei cui gesti riconoscevo la stessa scuola di drammaturgia che consentiva a mio padre di piazzare in un sol colpo cinquanta camicette di lino nel cuore dell’autunno. «Stagli alla larga, – diceva prima che l’altro potesse accorgersi di noi, – se viene a salutarci, fammi il favore, non gli stringere la mano». Erano quelli che in passato gli avevano dato «una grossa fregatura»: vecchi soci che si erano volatilizzati con l’incasso dell’ultimo semestre quando l’impresa collettiva aveva iniziato a imbarcare acqua. In completi beige con pantalone a zampa d’elefante, mio padre aveva attraversato gli anni Settanta insieme a loro – giovani e spavaldi e assetati di vittorie, avevano condiviso affari, donne, banconi di autogrill, improvvisati weekend a Montecarlo dove arrivavano con uno smoking preso a nolo senza essersi concessi una sola ora di sonno. Poi però la società era stata smembrata e papà era rimasto solo a fronteggiare i debiti. «Se ha pugnalato me alle spalle, – ripeteva, – vuol dire che ha fregato anche te, da prima ancora che nascessi». Nella sua voce non c’era solo un risentimento che avrebbe potuto spegnersi sulla constatazione che lui aveva fatto fortuna mentre loro erano ancora circondati da un’aura di provvisorietà e funambolismo, ma anche la conferma che una vittoria senza strascichi o ferite avrebbe su questa terra il significato di una bestemmia. L’uomo che ora usciva dall’ufficio del rappresentante era un nemico che portava sulla fronte il segno della potenza celeste – il messaggero inconsapevole di qualche cosa di piú grande, che aveva spinto mio padre a tormentarsi in molte notti di fine anni Settanta (pensando a occhi sbarrati: ogni minuto il debito cresce di millelire.Inun’orafanno sessantamila, in una notte sono già mezzo milione. Io dormo, il debito non dorme. Se mi addormento, lui resta sveglio), ma solo perché l’insonnia e il fegato ingrossato rendessero piú viva e sanguinante e infine comprensibile la fortuna del decennio successivo. E cosí, mentre io avrei dovuto ritirare la mano e guardarlo con ostilità, l’uomo in Ray Ban ci passava davanti sbaragliandoci con un sorriso arreso, l’intatta allegria grazie alla quale certi adulti riescono a perdonare se stessi avendo perdonato già tutto quanto il resto: «Eccheccazzo, rilassatevi: è passato tanto tempo…» Ma mio padre conosceva la lotta, ed era quello il suo vangelo. Cosí, nell’inverno del 1985, iniziò a dare di matto. Prima interpretò in modo sballato i rendiconti di Palmieri. A poche settimane da Natale, chiuso nel suo ufficio, aprí col tagliacarte la busta di colore azzurro pallido che il rappresentante gli spediva quattro volte l’anno. Lesse le cifre e cominciò a smadonnare: «Ma guarda questo stronzo!» Si proiettò furioso verso la porta tra lo stupore delle segretarie, precipitandosi verso le scale che collegavano l’amministrazione al piano terra. Saltò sul Fiorino e mise in moto calcolando il costo mensile complessivo di segretarie, stiratrici, magazzinieri e ragionieri per capire chi avrebbe potuto mettere in cassa integrazione senza che la brutta figura gli impedisse di uscire di casa. Stirò il motore al massimo diretto verso Trani, sede del piú eccellente esempio di romanico pugliese secondo la volenterosa corporazione degli albergatori di zona ma per papà in quel momento unicamente semplicemente fatalmente la sede di Girolamo Palmieri, il rappresentante del cazzo per mezza Italia che, invece di venire su da lui con la coda tra le gambe e dieci fiale di ansiolitico, gli aveva fatto recapitare un documento da cui risultava un calo del fatturato trimestrale del 33 per cento. «Com’è possibile?» ripeteva a voce alta attraversando piccole fabbriche di materassi e pastifici che scomparivano con i loro essiccatoi dopo ogni curva mentre le insegne della Peroni e della CocaCola continuavano a vedersi fino a quando le cisterne e gli altiforni della zona industriale si arrendevano al paesaggio della litoranea. Possorivendere la villa... pensava accendendosi una sigaretta col mozzicone di un’altra sigaretta, fermare il marmista, fermare il parquettista. Posso mandare via la donna di servizio a costo di mettermi io a lavare i pavimenti! Palmieri lo accolse nel suo studio a braccia aperte. Papà cercò di non guardarlo per vincere la tentazione di saltargli al collo. Gli allungò il foglio accartocciato: «Adesso mi spieghi che significa». Palmieri perse il sorriso e iniziò a leggere. Rovesciò la testa indietro portandosi una mano sulla fronte. Recuperò il suo buonumore: «Lavori troppo, bello mio. Te l’ho spiegato almeno dieci volte negli ultimi tre mesi». Aprí l’anta di un armadio in cui erano allineate una decina di cartelline colorate. Sfilò una piccola risma di fogli da un classificatore di plastica trasparente: «Con questi mi devi dieci inviti nella tua piscina nuova, – disse sghignazzando, – ti voglio dietro il barbecue. Ti voglio col grembiulino a fiori intorno alla…» Mio padre crollò sulla poltrona. A partire da quell’inverno, riuscí finalmente a realizzare, non veniva piú spedito un documento unico ma sette rendiconti, uno per ciascuna delle zone di rappresentanza curate da Palmieri. La nota che lo aveva fatto imbestialire riguardava giusto Bari e la provincia – poi c’era il Salento e la zona di Napoli, il Lazio, la Sicilia, le nuove fette di mercato di EmiliaRomagna e Toscana. «Fatti due calcoli…» disse Palmieri passandosi con soddisfazione le mani lungo la camicia. Avrebbe saputo a cosa imputare un calo del trentatre per cento: clienti che non pagavano, o altrimenti un raggiro dello stesso Palmieri. Un aumento di dieci punti sarebbe stato nel novero delle cose ragionevoli. A un aumento di quaranta punti avrebbe reagito tornando a casa con una confezione magnum di Veuve Cliquot. Piú duecentocinquanta punti rispetto all’anno prima… Questa non era una buona notizia. Questa non era neanche un’ottima notizia. Questo andava oltre ogni realistica aspettativa, se la fatica, l’ingegno, il sacrificio avevano ancora un rapporto umanamente comprensibile con il loro risultato. Aveva abbracciato Palmieri con gli occhi vuoti. Si era rimesso sul Fiorino e aveva riattraversato la costa a trenta all’ora, pensando: Sono ricco, adesso sono proprio ricco ricco… senza capacitarsi di come il contraccolpo di una buona notizia potesse risultare cosí violento. Era intontito. E lo sgomento non nasceva dal fatto che spesso i trionfi piú squillanti arrivano in momenti non previsti (questo mio padre lo sapeva benissimo). Era piuttosto l’amore rivoltato che ora tirava i fili della sua azienda… tutto era mosso da un amore ugualmente indecifrabile ma diverso rispetto a quello che ingravidava il mondo con fatica perché il mondo mettesse frutti con dolore. Guidava verso Bari in stato confusionale, cercando di combattere la strana sensazione che tutta la regione stesse suonando a festa: il suono continuo e martellante delle domeniche di Pasqua. Le pianure scorrevano ai bordi della strada, e oltre le pianure i centri abitati si mostravano con i palazzi e con le chiese e con le insegne dei primi alberghi per amanti in trasferta. Ma i campanili erano immobili – a torre, a vela, a pianta circolare: file e file di campanili con i battagli totalmente fermi. E allora, questa musica,dadoveviene? Il diciotto dicembre arrivò il colpo da ko. L’ufficio era pieno di festoni e palle colorate e figurine di argomento natalizio attaccate alle finestre dalle segretarie. Mio padre chiese a Flora qualche notizia sui ritardi dei fornitori. Era la dipendente piú anziana, l’addetta al commerciale che da anni maneggiava i suoi sbalzi d’umore con il rigore di una balia teutonica. «Non ci crederai, – disse sputando soddisfatta il fumo dalla Nazionale che reggeva tra le dita dalle unghie perfettamente smaltate, – ma quest’anno i tessuti sono arrivati quando dovevano arrivare: le stiratrici ci stanno lavorando, la settimana prossima passeremo ai ricami». Poco convinto, mio padre scese a piano terra, dove gli addetti all’imballaggio imbustavano la merce a pieno ritmo. Li guardò a lungo: non c’era niente che si potesse fare per farli lavorare meglio. Risalí in amministrazione. Telefonò a Palmieri. Gli domandò quali fossero i grossisti a cui sarebbe stato possibile fare un’imboscata prima che il sabba delle feste natalizie mettesse cinquanta milioni di cervelli fuori uso. Palmieri lo salutò dal sottofondo di un Duke Ellington sopraffatto dalle urla di bambini indemoniati: «Ma lo sai che giorno è oggi? – disse. – Molla tutto e vieni a farti un bicchierino qui al Des Alpes». Papà rispose: «Non me ne frega un cazzo che sei in vacanza a Madonna di Campiglio!», e poi gli chiese lo minacciò lo scongiurò di dargli il nominativo di almeno un grossista da cui Palmieri non fosse ancora passato. Ci avrebbe pensato lui, si sarebbe messo seduta stante alla guida del Fiorino e avrebbe raggiunto l’ultimo paesino nel buco di culo della provincia di Ragusa: sarebbe stato disposto a farsi massacrare di arancini e di marsala, e avrebbe ascoltato senza impazzire gli interminabili cunti di tradimenti coniugali usciti dalla bocca di un commerciante di Ispica con la prostata a brandelli fino a quando non cinquanta copriletti e non duecento lenzuoline ma dieci merdosi accappatoi di spugna, l’equivalente per coprire metà delle spese di benzina – ma un ordine, perdio! – non avessero riempito la cartavelina di un documento di fatturazione sul quale (mio padre lo giurò sulla mia testa) Palmieri avrebbe ricevuto la sua sacrosanta provvigione senza alzare il culo un solo istante dalle seggiovie delle Dolomiti di Brenta. Palmieri gli rispose che tutti i grossisti fino all’ultimo straccivendolo erano stati passati al setaccio, e ognuno aveva fatto un ordine che a mio padre avrebbe dovuto fare l’effetto di un oceano di camomilla sparato dritto in vena, e per trovare un essere umano disposto («il diciotto dicembre!») a visionare ancora quegli articoli i cui prezzi e numeri di protocollo Palmieri stava cercando di dimenticare «facendo su e giú come un coglione» per tutti i circuiti innevati del Trentino, sarebbe stato necessario che GesúBambino-in-persona, al momento di nascere per la millenovecentottantacinq volta, portasse sulla Terra, insieme al miracolo dei supermercati assaltati all’arma bianca, quello di trasformare tutti gli operai della Fiat in grossisti di biancheria e le maestrine elementari ancora nubili in virago col sangue alla testa disposte a raccattare il primo novantenne con pensione d’invalidità al solo scopo di acquistare un corredo e dispensare lui, Palmieri, da incomprensibili rotture di coglioni durante le vacanze di Natale. «Riposati!» urlò il rappresentante. E riattaccò. Cosí, in un imprecisato momento del tardo pomeriggio, mio padre si ritrovò tutto solo ad aspirare con ferocia un mezzo pacchetto di Marlboro nel cortile antistante il suo ufficio. Gli tremavano le mani. Automobili piene di adulti sfidavano il traffico dirette verso i negozi di giocattoli e lui… non c’era niente che lui potesse fare. Il miracolo della saturazione era compiuto. Le banche non facevano pressioni, perché i prestiti venivano aperti e chiusi con puntualità. Gli ordini partivano uno dietro l’altro, affidati alla marcia inarrestabile dei Tir. I televisori erano pieni di pubblicità pagata a peso d’oro. I dettaglianti vendevano, quindi pagavano: la situazione era talmente buona che avrebbero continuato a farlo senza incidenti per molto tempo ancora. A meno che non accadesse qualcosa fuori dal controllo di chiunque: una catastrofe naturale, il furto della valigetta atomica all’ombra del Cremlino. Ma questi erano sogni. La verità era che mio padre – per la prima volta nella vita – avrebbe potuto non fare assolutamente nulla fino alla prossima estate senza che gli affari ne risentissero. La macchina… la Macchina lavorava al posto suo. Continuò a fumare cercando di togliersi di dosso questa nauseante sensazione di rimpiazzo. I suoi frutteti vomitavano senza pace il risultato della concimazione degli anni precedenti. Non aveva nemici, all’orizzonte nemmeno un Iscariota. Mentre Wojtyła in tv parlava di speranza, e i parroci invitavano i fedeli alla rigenerazione, mio padre, al centro del supremo mistero palingenetico del Capitale, fu invaso da una violenta straziante sensazione di morte-in- vita che imputò immediatamente allo stress. Guardò le lampadine accese che davano l’illusione del movimento sui balconi del palazzo di fronte. Spense l’ennesima sigaretta e tornò a casa. Questa musica? Questa musica? Due sere dopo, congestionato da un intero blister di sonniferi, stava guardando la tv immerso in una sorta di impossibile stremata vigilanza in fase rem. Un importante uomo politico difendeva la decisione del governo di tagliare qualche punto percentuale sulla scala mobile e il suo avversario cercava di mettergli i bastoni tra le ruote. Mio padre continuava a sussurrare: «Balestrucci, Balestrucci…» Ancora lui. Gianfranco Balestrucci era questo povero cristo che in un’epoca di vacche grasse non riusciva a mungerne piú nemmeno una: dopo avere ritardato fino allo stremo i pagamenti ai fornitori, si era cosparso il capo di cenere e aveva dichiarato fallimento, sfidando gli attacchi isterici di seconde mogli e amanti e figlie devastate dal complesso di Elettra & Christian Dior. Case al mare, camper e automobili sportive: tutto nelle mani dei giudici. A mio padre doveva una ventina di milioni. Ci sarebbe voluta un’intera squadra di Balestrucci perché gli affari di casa ne ricevessero il minimo fastidio. Ciò nonostante, mio padre si aggrappò a questa morosità come a un’ultima speranza. «Come fai a non capire, cristoiddio? – si lamentava con mia madre, – è già d’accordo col curatore fallimentare!» Eppure una sentenza passata in giudicato aveva già disposto che quei soldi erano nostri, bisognava solo aspettare che i beni del Balestrucci venissero liquidati fino all’ultimo catamarano. Aspettare? Il 20 dicembre, di prima mattina, papà telefonò al suo creditore. Rispose la moglie di Balestrucci. Il tono della voce era accorato: «Mi dispiace, è sempre in giro, sono mesi che lo vediamo solo di domenica…» In pochi giri di battute erano ai confidenziali: «La prego, – implorò la donna, – se almeno a lei dà ascolto, lo convinca a risparmiare le porcellane di Capodimonte». L’agenda di mio padre aveva visto i giorni della crisi petrolifera. Cosí, la sera dopo, risalí senza fatica alla ex signora Balestrucci. Me lo ricordo con la cornetta in mano e lo sguardo pronto all’aggressione. Poi cambiò faccia. Gli astratti furori di mio padre non erano niente rispetto alla tempesta biliare che può addensarsi su una metà di letto vuota causa divorzio giudiziale: «Tu vedi questo… – lo aggredí la donna, – ma sai che cazzo me ne può fregare a me che quel figlio di una troia non ti ha pagato quattro stracci di merda? Lo sai quant’è che ci ho rimesso io con questa storia della comunione dei beni? Diciotto mesi, tra l’altro, che non mi versa una lira di alimenti…» Gli occhi di mio padre si accesero in una fiamma di sfrigolante ammirazione: «Signora, glielo assicuro, gli farò sputare tutto fino all’ultimo centesimo!» 21 dicembre… Il pomeriggio del 21 dicembre mia madre, appena entrata in casa, alzò trafelata la cornetta di un telefono che già squillava disperatamente quando lei era ancora in ascensore. Era Leone Mincuzzi, il vecchio giudice fallimentare: «Signora, mi rivolgo a voi perché vi stimo e non posso fare altro considerando che vivete da vent’anni con uno squallido individuo come vostro marito…» Cessata la velenosa ampollosità del preambolo, le disse che se mio padre si fosse presentato un’altra volta a Palazzo di giustizia urlando per tutti i corridoi che lui, Mincuzzi, era un giudice corrotto e protetto dalla massoneria, be’, allora una querela per diffamazione era pronta a essere depositata presso gli organi della polizia giudiziaria. La notte del 22 dicembre tornai a casa mezzo ubriaco. Giuseppe aveva iniziato a trascinarmi per decine di appartamenti disinfestati dalla presenza degli adulti dove il Bailey’s scorreva a fiumi. Attraversai il soggiorno avvolto nelle tenebre, ripromettendomi di svenire soltanto dopo aver trovato la mia stanza. Il Brionvega testimoniava la presenza di qualcuno ancora sveglio. Mentre i canali televisivi scaldavano le bobine in puro stile Betlemme hollywoodiano rispolverando i classici di Riccioli d’Oro, io ero il manifesto della sbronza da boy scout: andatura incerta, alito caramellato da rum e coca coperti da mezzo tubetto di dentifricio riparatorio e i bordi delle labbra traslucidi di quell’inconfondibile testimonianza di ragazze ossessionate dall’ordine dei farmacisti che è la paraffina del Labello. Pensai: Alleggerisci il passo…Invece mi misi in trappola da solo: «Tutto bene?» disse il panico del principiante. Papà staccò la testa dal televisore. Mi irrigidii. Il terrore di essere scoperto sfumò sull’ancora piú vertiginosa sensazione di venire oltrepassato da uno sguardo che puntava all’infinito. Aveva gli occhi lucidi. Dietro di lui, la superficie dello schermo riproduceva Shirley Temple vessata dalla direttrice del collegio. Era chiaro che la visione di Piccola principessa aveva su papà l’effetto che sulle persone esaurite esercita il semplice planare di una foglia morta nel grigio cielo dell’autunno (o un raggio di sole in una stanza vuota o, praticamente, qualunque cosa). Mi chiamò a sé con uno sguardo dolente e mortificatissimo. Senza accorgersi dello stato in cui ero, mi mise una mano sulla spalla e disse: «Io ho sempre lavorato come un cane, no?» Iniziò a parlarmi dei suoi guai: un triste monologo notturno che l’Havana Club rese poco comprensibile e di cui dunque ho un ricordo sfocatissimo. Ma riguardava genericamente il male. Il Male nel Mondo. Cioè gli immensi sacrifici che gli imprenditori onesti si sobbarcano a beneficio della collettività solo perché l’insolvenza di qualche farabutto giunga a vanificarli. L’iperbole e il cilicio erano le sue stelle polari, ma quella notte sembrava del tutto sopraffatto dai propri demoni. Non nominò mai apertamente Balestrucci, perché circostanziare il discorso gli avrebbe tolto solennità, ma a un certo punto (ecco la cosa che mi spaventò) alluse in modo nebuloso alla possibilità che un giorno potessi essere io il suo vendicatore. Sarei diventato uno stimato professionista, consapevole e assetato di giustizia – assicurò al culmine di un delirio sorvegliatissimo –, e grazie alle mie «future conoscenze» avrei potuto aiutarlo a risolvere i problemi che lo tormentavano. Il gioco dei sottintesi era cosí contorto da risultare inespugnabile, e tuttavia era anche chiaro nel suo sbocco: parlava di «conoscenze future» per alludere piú che sottilmente alle mie «frequentazioni presenti». Avvampai. Rimpiansi di non aver bevuto cosí tanto da non vedere la sciarada. Andai a letto cercando di dimenticare al piú presto ogni parola. Il 23 dicembre, poco dopo il telegiornale della sera… eccolo, il giorno è questo. Alle dieci papà non era ancora rientrato in casa. Mia madre aveva telefonato senza successo in ufficio, ai nonni, a Palmieri e anche a Di Liso. Un mucchio di pacchetti colorati si accendeva e si spegneva ritmicamente sotto le lampadine dell’abete di plastica. Trascorse un’altra mezz’ora, e due telefonate, in rapido passaggio, tracciarono l’assurdo quadro della situazione. La prima durò pochi secondi: «Buonasera, è il Policlinico di Bari, – disse la voce femminile, – deve venire a firmare per suo marito. È stato sottoposto a Tso». Mia madre: «Che cosa… che cosa sta dicendo?» La voce femminile: «Trattamento sanitario obbligatorio. Venga qui che le spieghiamo tutto». Tra la prima e la seconda telefonata passarono meno di cinque minuti. Quanto bastava perché mia madre restasse ferma in una zona morta di piastrelle con il volto pallido e i lineamenti alla mercé di un violento torpore animale che aveva spazzato in un secondo tutto il fumoso armamentario di ville da ristrutturare e automobili da cambiare, restituendola ai miei occhi nuovamente bella, il lungo e slanciato principio femminile che sarebbe potuta essere per sempre. Una donna in pena per una persona cara. Poi arrivò l’altra telefonata e, con questa, i chiarimenti che soffocarono la forza del nudo sentimento nella cornice di una spiegazione. Era Lorenzo Agosti, l’avvocato di papà. Disse: «Questa volta ha fatto un casino… ma un casino che non ti puoi neanche immaginare». Era entrato nello studio dell’avvocato in evidente privazione dei freni inibitori e aveva fatto irruzione direttamente nel suo ufficio dicendo: «Lorenzo! Me li devi fare arrestare, adesso». L’avvocato, che tra l’altro era un civilista, aveva alzato gli occhi dalle carte di una lite condominiale: «Che cosa dici?» E mio padre, alzando la voce: «Balestrucci! Balestrucci e quell’altro cravattaro del giudice!» «Ti rendi conto? – disse Agosti per telefono, – non ho potuto fare a meno di chiamare i carabinieri…» Nello sguardo di mia madre, nuovamente, il meraviglioso smarrimento del primo cromosoma xx comparso sulla Terra. Durò un attimo. L’avvocato riprese a parlare: «Ti giuro che ho cercato di fermarlo». Le raccontò che aveva spiegato a mio padre ciò che mio padre sapeva già perfettamente, e cioè che per far arrestare qualcuno è necessario di solito un complicato procedimento per il quale gli avrebbe consigliato un penalista che sapeva il fatto suo. A quel punto («ha fatto tutto lui, io non l’ho provocato in alcun modo»), mio padre aveva preso una sedia e gliel’aveva scaraventata addosso, mancandolo. Poi aveva rovesciato la scrivania – carte, telefoni, soprammobili: tutto furiosamente per aria. Agosti, rannicchiato sul pavimento, non faceva che ripetere: «Ma sei impazzito? sei impazzito?» Mio padre l’aveva scavalcato. Si era diretto verso la finestra. Aveva spalancato le pesanti tende che impedivano la vista sul grande albero di Natale piantato in via Sparano e aveva aperto i battenti. Col vento in faccia, aveva guardato le luci dei negozi sottostanti: «Città di merda…» era stata la conclusione. Poi aveva riattraversato la stanza. Aveva staccato da una parete il prezioso didgeridoo in eucalipto acquistato durante una vacanza in Australia. Brandendo lo strumento musicale, aveva cercato di sfondare l’acquario pieno di pesci tropicali considerati i portafortuna dello studio. All’arrivo dei carabinieri era balzato con tutti e due i piedi sul vano della finestra ancora aperta: «Mi butto! vi dico che mi butto!» Lo avevano immobilizzato. Gli avevano iniettato un potente neurolettico. Lo avevano trasferito presso il reparto di psichiatria del Policlinico, in mezzo ai matti veri. «Pericoloso per sé e per gli altri», sarebbe dovuto rimanere in ospedale per almeno due settimane. Trascorrere il Natale con il capofamiglia esiliato nel piú infamante reparto di una struttura pubblica ci avrebbe tolto punti. La mamma elettrificò di conseguenza il piccolo cordone sanitario di conoscenze semiinfluenti che sono il patrimonio vivo di ogni famiglia rispettabile. Lo dimisero nel giro di ventiquattr’ore. Vidi mio padre rientrare in casa imbottito di tranquillanti, scortato da un Palmieri appena precipitato dalle vette del Trentino con un’abbronzatura da capitano di lungo corso (del tipo: «Ho navigato i sette mari e ne ho viste di cose veramente assurde; questo è solo un piccolo incidente…») e da Lorusso, il nostro medico curante, quello dell’atomica su Liverpool. Il medico – un provinciale a stelle e strisce di nuovo conio, convinto che Reagan fosse Dio e che il Vecchio continente meritasse di sprofondare nel suo abisso di obsolescenza – sistemò ciò che restava di mio padre nel letto matrimoniale. Riempí di prescrizioni una mezza dozzina di fogli e ci comunicò con una vivacità intellettuale prossima all’entusiasmo che certo, la letteratura di casa nostra avrebbe parlato banalmente di «depressione da stress con pensieri paranoidi», ma in realtà mio padre era affetto da «nikefobia», un tipo di patologia già diffusa tra i broker di Wall Street e i campioni dell’Nba, la quale evidentemente iniziava a portare un po’ di civiltà anche sulle rive del Mediterraneo. «Se proprio vogliamo semplificare, – disse, – si può parlare di depressione da successo improvviso». Ci raccontò di questi campioni dei Lakers o dei Chicago Bulls che arrivavano a lambire la media stellare di trenta punti a partita e poi, nella stagione successiva, crollavano senza ragione apparente. Per rincuorarci ci confidò che mio padre era un vero fuoriclasse, visto che in lui la nikefobia era assurta a un «secondo grado di gestazione»: la sua segreta paura di vincere non gli aveva impedito di vincere lo stesso. «Qualcosa nel profondo ha cercato di convincerlo che avere successo è sbagliato, – continuò il medico, – ma un istinto ancora piú tignoso gli ha fatto mettere le premesse perché la parte distruttiva non facesse troppi danni. Per intenderci, signora, in due o tre mesi dovrebbe esserne fuori. E, mi sembra di capire… cioè, di poter dire… insomma… vista la vostra attuale situazione… che questo non potrà minimamente pregiudicare… insomma… Incredibile cosa può fare la mente umana, vero?» Insomma, i famosi rendiconti di Palmieri erano di dominio pubblico. Doxepina, Parmodalin e riposo assoluto. Il medico e Palmieri ci salutarono. Riempirono mia madre di raccomandazioni scontate. Circondarono il paziente di buffetti a cui mio padre rispose con uno smorto sguardo da naufrago su un’altra dimensione. Non c’è molto da aggiungere: questa fu la nostra vigilia di Natale. Quando crollavano i nervi a imprenditori strozzati dai debiti, il malessere mentale veniva associato alla loro incapacità di sfondare negli affari: i colleghi li compiangevano ardendo dalla soddisfazione, le mogli e i figli nell’età della ragione li trattavano come convogli disgraziati da rimettere sui binari della rispettabilità. Nel caso di papà, a essere colpito era un imprenditore baciato dal successo: la sua breve convalescenza fu vissuta come la naturale incubazione di successi ancora piú grandiosi. Fu mia madre a occuparsi di tutto. Gli blindò intorno un nido protettivo fatto di silenzio, lunghe dormite e tè verde a profusione – una prigione sanitaria di cui si fece l’inflessibile guardiana. Arrivarono in visita colleghi, parenti, semplici amici, tutti ansiosi di marcare un credito di gratitudine a futura memoria. Ma sulla soglia di casa trovavano lei. La mamma li dirottava in salotto, preparava tè e pasticcini, li tranquillizzava sullo stato di salute del malato («Si sta riprendendo, in ufficio per adesso me la sto vedendo io…») e solo allora vibrava il colpo di grazia: «Mi dispiace, te lo farei anche salutare, ma sta dormendo e il suo riposo deve essere assoluto», come se in fondo al corridoio – terza porta a sinistra – non ci fosse un uomo sventrato da trent’anni di competizione ma il giovane Siddharta nella posizione del loto. Il visitatore, riaccompagnato alla porta d’ingresso, arricciava penosamente le sopracciglia: «Mi raccomando (cioè: te ne prego!) ricordati di dirgli che sono passato». E lei, spietata: «Non mancherò». L’innocente fiamma di preoccupazione che l’aveva ringiovanita di vent’anni al momento di ricevere la telefonata dal Policlinico, non si affacciò piú nello sguardo di mia madre. Da come gestí l’emergenza – fui costretto a constatare in quei mesi –, dava piuttosto l’idea di avere finalmente tra le mani il compasso per tracciare il primo segno di un progetto planetario. Non voglio dire che lo stato di mio padre la eccitasse. E tuttavia, la costanza pseudoscientifica con cui contava di restituire al mondo suo marito sembrava cementare in lei la convinzione che tutto ciò che biasimava in papà fosse insperatamente sul punto di dissolversi – era pronta a scommettere che dall’esaurimento potesse riemergere piú leggero ed evoluto, libero dalle zavorre del neorealismo: una persona nuova. Papà dormiva anche tredici ore di fila. A tavola era piuttosto taciturno. E in effetti, quando accadeva che rievocasse come al solito il suo passato di stenti, non sembrava piú capace di entrare in contatto con gli episodi raccontati: andava a memoria, parlava senza convinzione. Una volta alla settimana telefonava in ufficio per aggiornarsi. Firmava le carte che la mamma gli passava. Diceva sempre: «Tutto a posto». Ma poi lo sorprendevo in bagno: dopo avere deposto il rasoio nel bicchiere, si ravvivava le guance con due schiaffetti di acqua di colonia e si guardava allo specchio con aria sospettosa. Provava a riconoscersi. Chiudeva e spalancava gli occhi. Infine, gli si disegnava sulla bocca uno strano sorriso di compiacimento (e io osservandolo pensavo che, esaurimento a parte, era pericoloso fidarsi di un uomo che sorrideva in quel modo), quasi cedesse anche lui alla convinzione – della mamma, delle persone che in quel periodo transitarono nel nostro appartamento, di tutti – che la sua depressione avesse qualcosa di soprannaturale: lui e la sua azienda, stretti in un vincolo energetico che funzionava secondo la regola dei vasi comunicanti (lui si ricaricava, Lei marciava a meraviglia lungo tutte le nervature del tessuto commerciale, tornando a noi nei geroglifici impazziti dei c/c), come se proprio quello stato di rimbambito dormiveglia, drogato dal Valium e dai sali di litio, gli consentisse di entrare in contatto con la parte profonda e misteriosa dei suoi affari: la culla ancora vuota di una Natività dentro la quale l’imperscrutabile pi greco del far soldi e la persona fisica di mio padre si sarebbero fusi in un unico individuo. Questa atmosfera ebbe l’effetto di stornare ogni tipo di controllo su di me. Suonava il citofono, e in strada c’era Giuseppe con il Red Rose dalla marmitta scoppiettante. Si spalancarono giorni di libertà assoluta. Capitolosettimo Furono i mesi delle feste con pomiciata finale. «I genitori di Matteo sono in vacanze alle Canarie…», era questo il tipo di notizia che il pomeriggio rimbalzava da un telefono all’altro arroventando il microclima di camerette traboccanti di audiocassette pirata e kleenex appallottolati. «Abbiamo un problema! – diceva un’altra voce telefonica, – la casa è libera, ma ho rotto l’amplificatore dello stereo». Scavallato il millennio – dispersi ai quattro angoli del mondo o rimasti a lavorare in un luogo che stentavano a riconoscere come la città in cui anni addietro avevano sfilato per la prima volta gli slip di una coetanea –, piú di un ex adolescente cresciuto a Bari in quel periodo sarebbe stato trafitto dal ricordo di un concentrato di acne e adipe e capelli rossi che, in un vecchio pomeriggio ancora dominato dall’influsso astrale delle Bangles, aveva fatto ingresso in casa sua scortato da cinque casse di birra e da un impianto Bang & Olufsen nuovo di zecca. Era Giuseppe a tenere le fila della situazione – capace di sentire medianicamente l’assenza di esseri umani adulti tra le pareti di un appartamento: allora partiva il giro di telefonate e, qualunque fosse il problema, lo risolveva anche per noi. Fu dunque il periodo in cui, un numero indefinito di minorenni abituati a respirare cupe atmosfere famigliari ancora pregne di Canzonissima’59 si infilò due crocifissi e un paio di Clippers e scoprí il mondo. O meglio, cominciò ad attraversarne il simulacro attraverso il battesimo del pop. Ma mentre le ragazze e i ragazzi che si erano rotolati nudi dentro il fango sotto le tempeste elettriche di Jimi Hendrix avevano sperimentato la fiammata iniziale del fenomeno – e quindi calda per forza di cose – a noi toccò il cadavere vestito a festa. Erano i tempi dei teen movie per futuri dirigenti d’azienda e dell’assurdo carrozzone di Usa for Africa. Qualcosa di morto arroventava i tramonti delle nostre città, e piú era morto piú pretendeva il contrario e si riempiva di lustrini. Non che Giuseppe avesse coscienza di questi aspetti del momento storico. E tuttavia si dava da fare con tutte quelle feste come se buttarsi dentro il peggio a portafogli spalancati fosse l’unico sistema per entrare in contatto con lo spirito del tempo. A onor del vero, le prime feste furono molto deludenti. Sotto la puntina dello stereo passavano gli insulsi ritornelli di Paul Young. Attaccavano le prime note di Reality e si passava ai lenti. Chi l’ha detto che gli adolescenti sono dominati dagli istinti? La prima che mi capitò tra le mani fu Marina, un raddoppio di felpe colorate che escludeva la possibilità di un corpo fisico. Eravamo a casa di Giannelli. La ragazza mi si avvinghiò al collo senza dire una parola. Ballammo come due sacchi di patate mentre Richard Sanderson diceva dallo stereo: «cerco di vivere nei sogni | i sogni sono la mia realtà». Quando mi decisi a premere le labbra sulle sue, eravamo al quarto lento e la ragazza dava segni di nervosismo. All’inizio sembrava che a scegliermi avesse fatto una grande concessione. Poi però, considerando che non avevo mosso un dito nonostante le prime coppie già si dessero da fare, aveva provato a darmi una svegliata infilandomi un ginocchio tra le gambe. Visto che non reagivo, venne infine aggredita dal terrore di essere l’unica là in mezzo a poter concludere la serata in bianco, l’unico nome (il suo) accompagnato da uno zero sul segnapunti che rappresentava il vero deus ex machina della serata: la necessità di ricalcare qualche scena da Il tempo delle mele. Iniziò a guardarmi con odio: Baciami, avanti stronzo baciami… Ero paralizzato. Meditavo oscuramente sul modo in cui tutti gli inviti a seguire i propri sogni che dominavano le hit del periodo potessero rovesciarsi sui nostri corpi in qualcosa di cosí spietato e freddo. Il pavimento era pieno di tovaglioli di carta, pezzi di crostata sbriciolata, bicchierini di plastica che crepitavano schiantati dalle coppie che si abbracciavano mentre la voce di Phoebe Cates si cimentava nello svenevole inciso di Paradise. A quel punto feci il mio dovere e la baciai, ricevendo la conferma che a spingerci l’uno verso l’altra non era stata l’audacia né il desiderio, ma i quindici milioni di europei che avevano visto Il tempo delle mele, per non contare l’immenso esercito di spettatori che aveva portato Paradise a non schiodarsi dalle classifiche per mesi; e, se non precisamente questi due film, la luminosa gabbia di fatturato e anaffettività dentro la quale sembravamo tutti ansiosi di rinchiuderci per poi gettare via la chiave. Dieci minuti dopo, anche io e Marina eravamo sul divano. Continuammo a pomiciare senza provare nulla a parte un principio di secchezza delle fauci. «Bella serata!» disse Giuseppe alla fine della festa pretendendo che gli battessi il cinque. Ma le cose cambiarono nel giro di poche settimane. Le pomiciate si trasformarono in palpatine un po’ piú serie, e queste finirono per cristallizzarsi vividamente nella pratica della «sega alla vergognosa». Fu come se, da una parte all’altra della città, circolasse un messaggio cifrato che ci invitava a essere meno ingenui e imbalsamati, in modo da poter raggiungere con stile il giacimento di fiele al centro del Grande Confetto Rosa dei nostri giorni. Qualcuno tolse definitivamente Richard Sanderson dal piatto dello stereo. Al suo posto un cantante di Manchester iniziò a farci ballare con strofe del tipo: «Lei disse: come fate a non accorgervi che sono morta?» Ci ritrovammo dotati all’improvviso di una prontezza che ci faceva afferrare con due dita gli occhiali della ragazza che stavamo per baciare. Sollevavamo la leggerissima montatura color pesca e, al posto della compostezza parrocchiale che avevamo avuto di fronte fino a due secondi prima, compariva uno sguardo aperto e furbo, un vivo disordine di capelli e un sorriso che diceva: Vieni qua,fattidelmale. Le mani di queste ragazzine si aprivano sul nostro mento, poi si muovevano nella direzione opposta portandoci a baciarle prima che fossimo pronti a farlo. Il loro sedere inguainato nei jeans di marca si staccava dal divano per venirci meglio addosso. Sentivamo il fresco sapore di menta sulle loro lingue – i loro orecchini e le catenelle e i braccialetti ondeggiavano sovvertendo la smorta pretesa di bella presenza con cui quegli stessi pendagli le avevano offerte all’inizio della festa. Le nostre mani stringevano il maglione della ragazza, toccavano il tessuto dei jeans, si infilavano nell’incavo prima morbido e poi grinzoso appena sotto la cintura. A quel punto l’abbandono delle labbra semichiuse della ragazza ridiventava un sorrisetto di brillante intelligenza. Ci fermava le mani. Compiva un rapidissimo ma sempre melodioso giro su se stessa in modo da darci le spalle – le nostre pance contro la sua spina dorsale, le ginocchia della ragazza tra i cuscini del divano e la sua guancia premuta sulla parete contro cui il divano era addossato –, e mentre noi ci chiedevamo macchinosamente cosa avremmo dovuto fare, stoc… sentivamo la pancia rilassarsi e subito dopo realizzavamo che la ragazza ci aveva appena sbottonato i pantaloni. Di spalle, senza guardarci, iniziava a carezzarci i boxer: lo stomaco ci risaliva in gola e poi la sensazione di un cubetto di ghiaccio ci bloccava l’esofago quando sentivamo senza poter sbagliare (e alcuni di noi si sorprendevano a pregare: Mio Dio, fa’ che mi sbagli!) le nocche ossute di una mano stringersi e allargarsi sul cazzo in modo cosí diverso da come facevamo noi (e tutti, per un attimo, eravamo disposti a rivedere le nostre posizioni: Forse negli anni ho sbagliato impugnatura, forse una vera sega si fa proprio in questomodo…) oppure la fredda e inaspettata consistenza di un anello con cuoricino in acquamarina gelarci e poi graffiarci l’inguine senza che l’«ah!» che avremmo voluto urlare ci uscisse dalla bocca. E quella, appunto, venne ribattezzata «sega alla vergognosa»: una nuova padronanza delle cose che sbeffeggiava il goffo autocontrollo delle prime feste, uno speaker’s corner di pochi centimetri quadrati che la ragazza si costruiva nell’ombra per poter dire senza parole a noi e a se stessa: «Cosí facevano le nostre nonne e forse anche le piú sprovvedute delle nostre mamme: spegnevano la luce per non guardare in faccia il proprio uomo, affidando la responsabilità delle loro gambe aperte al dovere coniugale, o a Dio, o a quel principio di maschile e ignara prepotenza che una volta era stato il vero nome di Dio. Ma io sono nata in un mondo mostruosamente libero, e da bambina ho visto Gli aristogatti quattordici volte di seguito. E ho letto per anni I consigli del ginecologo su «Cioè», questa rivista a cui si rivolgevano le ragazzine in crisi per risolvere strani dilemmi esistenziali che le portavano a chiedere all’esperto se il sesso orale fosse un compromesso ragionevole nei confronti di semifidanzati che ogni santo giorno provavano a far loro il lavaggio del cervello spinti da un qualcosa che le ragazze non percepivano del tutto come amore, non percepivano del tutto come semplice voglia di scopare, non si azzardavano però neanche a definire, se non velatamente, come il malvagio intento di svergognarle agli occhi del mondo (ma allora cosa, mi domandavo…), e ricevevano dal ginecologo tutte le dritte per vivere l’adolescenza e il sesso in modo dignitoso libero e aggiornato, come del resto testimoniavano (poche pagine prima, e poche pagine dopo I consigli del ginecologo) le foto di ragazzine sorridenti nella pubblicità del lucidalabbra allo zucchero filato sos lèvres, nelle pubblicità del make-up ‘incolore e goloso’ debbie bubbles, nelle pubblicità del gel paillettato e profumato ‘con cui cospargersi l’intero corpo’ baby roll. E ho visto mia madre e mio padre precipitarsi in macchina nel cuore della notte verso un paesino della Basilicata subito dopo il terremoto dell’80, nella caritatevole speranza di trovare qualcuno che sostituisse la cameriera eritrea licenziatasi senza preavviso da un giorno all’altro. E la prima volta che ho baciato un ragazzo ho capito che un bacio non è un bacio ma la prova documentale intorno a cui possono scatenarsi le crisi isteriche delle tue migliori amiche. E quando finalmente, pochi mesi fa, subito dopo l’inizio della scuola, le otto del mattino, mezzo immobilizzata in un autobus pieno di facce anonime, il mio vestito sopra il ginocchio, le gambe accese dalla radiosa tornitura di iodio e cocco che è il ricordo non ancora morto dell’estate, le mie braccia verso l’alto, le mani strette alle prese di cuoio, le ascelle depilate e ripassate col BABY ROLL, quando ho sentito una pressione troppo insistita per essere il movimento casuale di un altro passeggero, e ho girato la testa, e ho visto questo vecchio in giacca e borsalino, uno che avrebbe potuto essere mio nonno, la faccia magra piena di rughe, le macchie rosse a punteggiargli le tempie, quando ho pensato: Non è possibile che mi si stia strusciandoaddosso, e poi ho pensato: Oh sí, lo sta proprio facendo…, allora non mi sono messa a urlare, non mi sono allontanata, non ho nemmeno sganciato le mani dalle prese di sostegno, l’ho lasciato fare, ho risposto alla violenza con la resa piú totale perché oltre quella soglia c’era qualcosa di intestimoniabile, una storia che non sarebbe mai potuta finire sulle pagine di «Cioè», non avrei mai potuto riportarla alle mie amiche né all’emancipata visione del mondo dei miei genitori, una cosa mia e soltanto mia, l’unica libertà che il mondo mostruosamente libero in cui sono nata non avrebbe potuto strapparmi di dosso. Di conseguenza, ragazzo mio, la riconosci? Questa è What She Said degli Smiths, quest’altra è Joe le Taxi di Vanessa Paradis… e allora, l’hai capito oppure no perché ti sto facendo una sega in questo modo?» Il nuovo anno portò anche nella mia vita un piccolo ma inaspettato numero di conquiste femminili. Non avevo invece idea di come andassero le cose per Giuseppe, che era il nostro anfitrione ma che nessuno aveva ancora sorpreso con le mani sulla prima e sull’ultima lettera della scritta BEST COMPANY presente sulle felpe indossate da quasi tutte le nostre amiche. Anni dopo, interrogando alcune di loro, il quadro della situazione mi si è fatto chiaro, e poche cose possono riassumerlo come la testimonianza dell’ormai trentaquattrenne Irene Russo (IIF al Giulio Cesare), la quale disse con intatta partecipazione: «Ricordo che uscii con lui quattro o cinque volte di seguito. Fu un’esperienza frustrante. Ore e ore ad aspettare che facesse il primo passo. Io di Giuseppe mi ero realmente invaghita. Voglio dire… lui mi attraeva al di là di tutti quei quattrini. Ero la tipica ragazza con l’apparecchio ai denti e una passione sfrenata per David Byrne: ero in grado di vedere come stavano le cose. Tutta la gente che gli girava intorno. Ero convinta che lo stessero… che voi lo sfruttaste. Il che ovviamente raddoppiava il mio trasporto. Cosí iniziammo a uscire insieme: cinema, pizza, corse in moto… mai una volta che mi mettesse una mano addosso. Quando si accorse che ero pronta ad arrivare al dunque (e ci sarei arrivata da sola, se mi avesse dato il tempo) mi liquidò regalandomi l’intera discografia dei Talking Heads. Voglio dire, non è che non gli piacessi io. Fece la stessa cosa con le altre ragazze. Le mandò in bianco. Anche quelle mezze troie che gli stavano dietro nella speranza che prima o poi saltasse fuori una borsa di Vuitton». Il 26 gennaio 1986 ci fu una festa in una strana villa piena di arazzi collocata qualche chilometro fuori città. «Ci sarebbe questa amica, – disse Giuseppe, – questa mia cara amica e suo fratello…» La ragazza si chiamava Rachele, figlia di un colonnello dell’esercito partito con signora verso Napoli per assistere a una parata di cadetti della Nunziatella. Non sarebbero tornati fino al martedí successivo, e gli inviti verbali corredati da un «porta chi ti pare» girarono per i licei di tutta la città. La villa si ergeva solitaria nelle campagne tra Bari e Triggiano, annunciata da un lungo viale di terra battuta ma poi sottratta agli occhi dei curiosi grazie al massiccio muro che le correva intorno. Io e Giuseppe ci arrivammo nel primo pomeriggio per dare una mano con i preparativi, a bordo di un taxi pagato da lui. Venne ad aprirci un ragazzo con una lunga chioma bisognosa di uno shampoo, jeans elasticizzati e una maglietta degli Iron Maiden raffigurante uno zombie che violentava Margaret Thatcher. «Questo è Romano», disse Giuseppe. Romano fece un «ciao» con l’aria scazzatissima di chi – rimasto quarantott’ore in una grande casa tutta per sé – trova nella libertà la piú noiosa delle trappole. Ci fece entrare e svaní verso il piano superiore. L’ingresso della villa era una sorta di manuale per la preparazione del perfetto golpe: assurde cornucopie poggiate su colonne d’alabastro, collezioni di medaglie, arazzi che riproducevano vecchie scene di battaglia. Le foto incorniciate sui tavolini e sulle mensole riproponevano la stessa coppia di mezza età (lei in vaporosi completi azzurri, lui sempre in divisa e sorridente) in compagnia di sindaci, alti ufficiali, noti uomini politici. Nell’immancabile foto con Giovanni Paolo II, oltre alla coppia c’era un bambino traboccante di gioia nel quale riconobbi i tratti di Romano. Poco scostata, una bambina vestita da Prima comunione reggeva un cesto di rose bianche e portava lo sguardo pensoso verso un punto che la foto non immortalava. Seguii Giuseppe nel soggiorno. La grande sala era dominata da un bel divano bianco e da un tavolo di marmo intorno a cui tre ragazze chiacchieravano tra loro. Giuseppe fece le presentazioni, e nelle strette di mano con queste mie coetanee («Piacere, Vanessa», «Romina», «Io sono Stefania, se volete metto su dell’altro caffè») trovai una piacevole sensazione di tregua dalla vita che non rende cosí inutile la mancanza di fascino. Sul grosso televisore un giornalista parlava dell’imminente lancio dello Shuttle, mentre – dalla portafinestra spalancata sul giardino – il sole irrompeva nel soggiorno caricandosi radiosamente col verde delle felci. Clic. E poi quell’ordine armonioso comparve tutto intero sulla porta: «Buon pomeriggio a tutti!» Musica a prima vista. Avvolta in un vestito senza maniche, avanzò verso di noi. E mentre i suoi capelli – appena crespi e color rosso ruggine – erano il naturale perfezionamento di ciò che avevo visto nella foto, il suo corpo slanciato (slanciato, non atletico) aveva poco da spartire con le rotondità della bambina che era stata – nemmeno una magrezza da dieta, ma quell’assenza di volontà in combutta con un metabolismo eccezionale che lascia sul corpo di certe ragazze l’impronta della perfezione. E quando prima di salutarci raggiunse lo stereo, il suono del clarinetto e poi i tromboni e infine l’esplosione gioiosa dei piatti fu come se l’avessero accompagnata dal momento in cui si era presentata ai nostri sguardi, perché i suoi movimenti avevano la medesima freschezza e quell’incedere da vittoria senza vittime né prigionieri tipico di George Gershwin. Avrei avuto del tempo per diventare cinico e informato quel tanto che basta per accogliere Rhapsody in Blue con un’esangue aria di sufficienza. Ma quella era la seconda o terza volta che la ascoltavo in vita mia – e, guardando la ragazza, pensai che non aveva messo su la musica per circondarsi di un fascino che avrebbe mantenuto anche senza orchestra, ma per donarci qualcosa di cui eravamo sprovvisti. Quando baciò Giuseppe sulle guance, e poi disse: «Piacere, io sono Rachele» qualche frazione prima di tendermi la mano, e io dal piano americano passai a inquadrarle il viso – una bocca che non si caricava di voluttà, gli occhi color nocciola –, sentii che una forza superiore mi ordinava di uscire dal guscio (un misto di entusiasmo e di terrore, qualcosa che non c’entrava coi corpo a corpo delle settimane prima). Superai la paura del vuoto, vinsi anche il senso del ridicolo, strinsi la mano di Rachele e (mio Dio) dissi: «Come dice quel cantante, non potresti avere piú di sedici anni». La ragazza inclinò la testa. Sorrise. «Visto che ti piace Chuck Berry, – pausa, – vieni in cucina e aiutami a preparare una moretta». Rimasi secco. Fra i tanti tipi di reazione, nessuna avrebbe potuto superare in naturalezza la sua capacità di passare su uno sgraziato tentativo di avance senza calpestarlo. «Moretta?» chiesi. E lei: «Caffè, anice, rhum e scorza di limone… Avanti, diamoci da fare!» La seguii in cucina, dove, per mantenere vivo il gioco di botta e risposta: «Vedrai, sarà una festa memorabile», dissi. E lei, aprendo gli sportelli della credenza: «Oh, no. Sarà una festa cosí perfetta che nessuno si ricorderà un bel niente». E io, cercando di non farmi annichilire dalle Superga rosse alzate sulle punte mentre il suo braccio destro raggiungeva vittoriosamente una bottiglia di sambuca: «Sarà una festa da coma etilico, sarà la tipica festa con delitto». E Rachele, abbassando la fiamma sotto la caffettiera: «Ma no! Se un morto ci dev’essere, preferisco l’omicidio. Altrimenti, niente festa». «Altrimenti, – dissi sentendo le gambe tremare – … altrimenti ce ne andiamo via di qua con la macchina di tuo padre». La ragazza socchiuse gli occhi per un attimo: «Senti, – rispose sorridendo, e sul suo viso questa volta c’era una forzatura che stritolava qualche grano di bellezza nel tentativo di farmi superare il passo falso, – la moretta è pronta e tu non hai mosso un dito. Aiutami almeno a portare tutto di là», e mi indicò il vassoio. Giuseppe intratteneva le altre ragazze parlando di motori di grossa cilindrata. Le ragazze lo guardavano allibite. Distribuii i piattini e le tazze cercando di non rompere niente, guardato a vista da Rachele. Le mie mani erano salde quanto piú la sua attenzione creava un gioco di equilibri nel quale anche un servizio di porcellana sarebbe caduto promettendo di non fare rumore. Il suo (pensai) era il classico spirito da sangue blu, talmente sprofondato in se stesso da esserne inconsapevole. Lei non era una snob. La pace da cui era circondata faceva sí che fossimo in sua balia senza il minimo attrito – il semplice, luminoso gesto con cui portava alle labbra il caldo intruglio alcolico redimeva perfino la grottesca solennità della villa in cui passava le giornate, facendo sí (immaginai) che per quel metallaro perso di suo fratello lei fosse un motivo di invidia, e per il colonnello un enigma pruriginoso e indistricabile quando, di primo mattino, vedendosela passare come un fulmine dal corridoio al bagno di servizio coperta a malapena da un asciugamano bianco, desiderava qualcosa di vivo da soffocare tra le dita. Non feci in tempo a sprofondare ulteriormente in queste fantasie, perché Giuseppe gridò: «Guardate!», e a una delle amiche di Rachele sfuggí un: «Cazzo santo!», e Rachele disse: «Mio Dio!», e mi strinse forte per un braccio. A settantadue secondi dal decollo, lo space Shuttle era esploso. Lo schermo era occupato da una colonna bianca simile alla coda di un pesce forgiata nel vapore da qualche vecchio dio della distruzione: si espandeva con lentezza sullo sfondo azzurro del cielo. La voce del cronista ribadí: «Una tragedia» e subito dopo venne dato il replay della scena (il razzo a propellente solido prendeva fuoco, la navicella si trasformava in un caos di detriti e forze aerodinamiche al collasso). La voce fuori campo si soffermò su Christa McAuliffe: «La prima insegnante lanciata nello spazio». Le immagini tornarono sui grandi frammenti incendiati che ricadevano nell’oceano, e dunque venne mandato un altro replay: l’incidente visto dalle tribune del Kennedy Space Center. Il padre, il marito, gli studenti di Christa McAuliffe applaudivano come fossero stati alla finale del Super Bowl. Due secondi dopo, le loro facce senza lacrime erano intrappolate in una sorda anticamera di incredulità. Giuseppe disse: «Puah! è molto meglio il cinema». Il citofono suonò: una, due volte. Rachele abbandonò il mio braccio per andare a rispondere e io pensai che, se solo il mondo avesse avuto senso, la tv avrebbe dovuto mandare in onda le immagini dell’intera Los Angeles risucchiata dalla faglia di Sant’Andrea perché lei mi cadesse tra le braccia. Gli ospiti iniziarono ad arrivare e Rachele era perduta, calcolai, perché tra onori di casa e mobili da spostare la sua attenzione non avrebbe piú potuto posarsi su di me. Invece, in un batter d’occhio, mi si sedette ancora accanto. Poggiò la testa sopra la mia spalla e disse indicando la tv: «Cosa succede adesso?» Ma era una domanda pretestuosa, la vedeva benissimo la pubblicità progresso contro l’Aids. Le pacchie dell’amore libero sono finite – sembrava suggerire l’infinita cupezza del ministero della Sanità – questo è il momento dei penitentiedeglizombiche marciano sulle città guidati da una messa da requiem… In casa iniziava a esserci un certo movimento. «Dài, smettiamola di stare qui impalati», disse Rachele. E poi sorrise, ma la sua faccia non era piú quella di prima: «Aiutami a scegliere un vestito per stasera». Devo. Aver. Capito.Male. Era la fine di gennaio, le tenebre si impadronivano della città abbastanza presto. E tuttavia in certi pomeriggi, una coltre di nuvole sospesa a pochi metri dalla linea d’orizzonte consentiva a una sera per cosí dire artificiale di giungere ancora piú in anticipo rispetto alle previsioni, ma solo perché poi – quando gli occhi si erano abituati al freddo delle lampadine – un tardivo sussulto dorato tornasse a squarciare il cielo per ricadere sulle cose come un angelo pestato a sangue. Il quadrilatero di luce che ora si apriva sul pavimento della stanza di Rachele, apparteneva a uno di questi prodigi. Lei vi usciva e vi rientrava saltellando, a seconda che rivoltasse l’armadio o si mostrasse a me in tutto il suo splendore: «Come sto?» Pensavo: Sta cercando di sedurmi. È cosí che funziona. Coraggio, fa’ qualcosa! E poi pensavo: Si sta solo prendendo gioco di me, mi sta trattando come se fossi la suadamigella… Appena entrata in questa stanza sobria, senza poster alle pareti, mi aveva guardato per un attimo in silenzio. Poi aveva detto: «Vediamo che cosa posso mettermi…» e aveva iniziato a spogliarsi senza vergogna ma anche senza civetteria, come fosse in grado (e lo era!) di lasciare alla semplice evidenza del suo corpo l’incarico di coprire tutta la scala delle possibilità. Adesso era in completo intimo: vedevo le sue belle gambe dritte che si staccavano dal suolo e si piegavano elasticamente per consentirle di frugare in un cassetto mentre il satellite pietrificato di un neo risaltava sull’addome piatto come una tavola. Dalle Superga gettate in un angolo proveniva un’esalazione acidula che ritrovai in forma piú gentile nell’incavo delle ascelle quando fummo giusto a un passo, prima che ritornasse verso l’armadio calpestando a piedi nudi i listoni del parquet. Il reggiseno e gli slip completamente bianchi contrastavano con il colore aranciato della pelle – subito dopo aveva addosso un vestito in maglina con scollatura a V, un abito rosso a pois bianchi, una fantasia floreale con nastro di satin sotto il seno… Il sole era completamente tramontato quando accese l’abat-jour: «Vado bene cosí?» Aveva addosso un vestito bianco, molto semplice, giusto un ricamo di greche intorno al collo e la cerniera laterale di un bianco piú profondo. Io dissi: «Sei bellissima». Soltanto fuori dalla stanza mi resi conto che la festa era iniziata. Dal piano di sotto arrivava a tutto volume ciò che nei nostri cuori aveva sostituito già da un pezzo le variopinte scenografie del Club Tropicana coi grigi scenari cittadini popolati da fidanzate in coma e irreparabile senso di perdita sotto i lampioni accesi, che tutti insieme prendevano il nome di new wave, e che avevamo fatto nostri sovrapponendo ai cieli di Manchester quelli di Bari. Nel ballatoio che portava alla rampa delle scale ci imbattemmo in suo fratello. Romano si arrestò. Sull’impotenza che lo costrinse a non guardare Rachele per piú di due secondi, capii che tra me e la ragazza era davvero scattato qualcosa. Mi sbagliavo? La villa dell’ignaro colonnello era invasa da un centinaio di ragazzi. Si ballava in soggiorno. Si ballava in cucina. Si beveva e si fumava ovunque. Rachele era entrata in una nuova fase: faceva due salti a ritmo di musica, chiacchierava amabilmente reggendo un bicchiere da whisky, raggiungeva il frigo e riversava in un’insalatiera decine e decine di cubetti di ghiaccio. Quando i nostri sguardi si incrociavano, mi regalava lo stesso sorriso con cui si rivolgeva agli altri ospiti. È questa la sua vera natura, pensai sconfortato, ridurretutto all’ordine con la scusa dell’eleganza… Raccolsi il primo bicchiere a portata di mano e mandai giú senza pensieri. Iniziai a vagare da una stanza all’altra. La lancetta dei minuti compí un altro giro: le nove, poi le dieci. Dalle casse dello stereo qualcuno si lamentò in inglese: «Il ragazzo con la spina nel fianco | dietro il rancore nasconde | un atroce bisogno di amore». Nel lungo corridoio che divideva il soggiorno dall’ingresso, Giuseppe stava giocando a bowling utilizzando delle bottiglie di Peroni al posto dei birilli. Due studentesse del Giulio Cesare ricoperte da una pellicola di domopak saltavano una di fronte all’altra in stato catatonico. A pochi passi, una coppia stava litigando: il ragazzo cercava di trascinare la sua accompagnatrice tenendola per i polsi, lei liberò un braccio, afferrò una radiosveglia e provò a spaccargliela in faccia. Con obliquo tempismo, lo stereo urlò languidamente: «E se un autobus a due piani | ci si schiantasse addosso | oh, sarebbe un modo celestiale di morire». Mi allontanai dalla scena pensando: due minuti di tregua… Entrai in bagno e mi chiusi la porta alle spalle. Buio. Accesi la luce per ritrovarmi in uno strano ambiente stretto e lungo, con le pareti rivestite di sughero e un vaso di fiori secchi sul bordo della vasca. Un ragazzo era inginocchiato con la testa infilata nel water. Un altro tizio lo osservava dall’alto in basso (mi chiesi come avesse potuto farlo a luci spente). Il ragazzo che non vomitava si girò verso di me. Era magro, sudatissimo, con i capelli sparati per aria e una maglietta bianca con la scritta kill the hippies. Raccolse un bicchiere di vodka ghiacciata dal lavandino. «Lo sai perché sta vomitando?» chiese senza smettere di sudare. Io feci: «Be’…» «Vomita perché questa festa è uno schifo, – continuò grattandosi uno sfogo sul mento, – ma la senti la musica? Tre anni fa qui a Bari suonavano gli Skizo e suonavano i Lobotomy. Dal vivo. Sai almeno chi sono gli Skizo?» Ammisi: «No». E lui: «Lezione numero uno: quello era il punk e questa è la new wave del cazzo. Il punk è stato il suicidio della musica rock. Questo invece è il funerale. Sai che vuol dire?» Non lo sapevo. «Vuol dire che tu sei nato morto. Lui vomita e tu sei nato morto. Bella prospettiva…» E mi passò il bicchiere. Lo Shuttle era effettivamente esploso. I morti viventi giravano per la città. E non appena uscii dal bagno, vidi i ragazzi che ballavano abbracciati. Io ero brillo e quello era il momento dei lenti. Ancora una volta il momento dei lenti. Subito dopo mi accorsi del problema. Rachele si muoveva avanti e indietro tra le braccia di un ragazzo. Il tizio – jeans e golfino aragosta – mi dava le spalle tenendola per i fianchi. Lei faceva mezzo passo verso destra, lui la reggeva con una certa grazia e un senso della posizione che non me lo fecero sentire del tutto come un impostore. Ora-si-baciano, mi dissi al culmine dell’avvilimento. A quel punto Rachele inquadrò qualcuno tra i ragazzi che non ballavano. Sorrise umidamente. Si congedò dal suo cavaliere, che la lasciò andar via senza proteste, e io fui troppo sollevato per rendermi conto che il qualcuno che non ballava e si graffiava i polpastrelli con le unghie ero io. «Ehi…» disse con una certa ampollosità venendomi vicino, mentre sul suo vestito bianco credetti di riconoscere le secrezioni delle ghiandole sudorifere con cui avevo già fatto conoscenza; se non sudava lei, ero io a saper riprodurre mentalmente il distillato della sua essenza… Ed ecco, nella scena successiva ci stavamo baciando. Non era la delizia delle nostre labbra unite né il disastro di rhum e caffè che le faceva risalire dallo stomaco un magnifico sapore da creatura agonizzante, ma la certezza di aver saltato un fotogramma: ecco cosa mi fece vacillare. Eravamo uno di fronte all’altra, subito dopo le nostre lingue stavano lottando tra di loro. Nel mezzo c’era un black out, una traccia fantasma, uno dei rari momenti in cui la vita è cosí rapida da realizzarsi nell’elemento che davvero le appartiene: il vuoto. Di un’esistenza trascorsa per intero nel proprio regno d’elezione non avremmo la possibilità di ricordare il minimo dettaglio – non ci sarebbe niente da riportare a casa, perché niente ne sarebbe mai uscito. Il nostro corteggiamento di qualche ora prima era stato cosí impalpabile e tuttavia cosí inequivocabilmente vero da far sí che le sue conseguenze ci prendessero alle spalle. Continuammo a ballare e a baciarci tra altri ragazzi che facevano lo stesso. Ci ritrovammo su un divano. Le passai le mani sui fianchi e poi mi feci avanti fino al seno. Rachele disse: «Vieni qua…» Mi accarezzò i capelli, io le baciai le tempie, e quindi le strinsi l’avambraccio contro il collo come se il mio compito fosse quello di strozzarla. Al che Rachele sussurrò: «Accompagnami in bagno». Si liberò dalla stretta, mi prese per la mano, superammo un imprecisato numero di coppie, inciampammo nei nostri stessi passi, la voce del cantante disse: «Oggi useremo soltanto | benzina che sia priva di piombo» e io pensai: Ora succede, ora andiamo in bagno e succede, sta per succedere… Ma quando entrammo in bagno, chiusi a chiave nel suo bagno, di nuovo quelle pareti rivestite di sughero mentre la luce della specchiera rivelava ogni dettaglio della ragazza (fu allora che mi accorsi di un canino lievemente spostato in avanti), la confusione e la paura che mi gelavano il sangue furono incenerite dalla voce di Rachele che scandí perfettamente: «Devo fare la pipí». Portò le mani sopra le ginocchia, alzò di qualche centimetro il vestito e si sfilò le mutandine mentre il vestito, bloccato dalla forza delle cosce, non andò giú di un dito. Vidi la curva perfetta del culo mentre aderiva ai bordi della tazza. Mi prese una mano, la strinse forte e – lei seduta in quel modo, io in piedi a bocca aperta – sentimmo il primo fiotto contro la polla d’acqua in fondo al water. Mentre continuava a pisciare tenendomi la mano, ebbi la sensazione che ci stessimo disintegrando. Tutto era fermo, e noi ci trovavamo di nuovo lí, dall’altra parte. Sfilai la mano da quella di Rachele e gliela misi sulla fronte. Chiuse gli occhi. La accarezzai come si potrebbe fare con una creatura extraterrestre se fosse l’unico sistema per impedirle di tornare nella dimensione parallela da cui è saltata fuori. Eravamo dentro il tempo, e vedevamo chiaramente, un passo dopo l’altro, tutto ciò che avremmo dovuto fare per salvarci dalla vita e rimanere insieme. Mio padre, imbottito di ansiolitici dall’altra parte dell’universo, era in un sogno governato da forze diametralmente opposte rispetto a quelle che adesso, qui in fondo, spingevano la dinamo di un’accesa beatitudine. Fa’ che non si svegli mai piú, implorai, oppure fa’ che non mi riaddormenti io… Ma di qualunque cosa fosse fatta quell’atmosfera magica, stava iniziando a disgregarsi. Rachele non aveva piú una goccia da regalare alle acque sotterranee. Abbandonò la schiena contro il coperchio del water. Sospirò. Le tolsi la mano dalla fronte e lei aprí gli occhi. Provammo a guardarci, ma adesso tra di noi c’era solo l’imbarazzo. Ogni cosa ebbe un singhiozzo, balzò in avanti e si stabilizzò. Era di nuovo il 1986, l’anno dell’Aids e degli imprenditori travolti dal successo, del compact disc, del videoregistratore, dei figli che odiavano i padri e dei parcheggi semovibili che svettavano nel cielo. Rachele strinse le ginocchia. Mi voltai perché potesse rivestirsi in pace. Ci riconsegnammo alla festa separati da una distanza doppia rispetto a quella che avevamo iniziato a rosicchiare al momento del nostro incontro. Camminavamo evitando di guardarci. Gli occhi di Rachele cercavano con ansia qualche faccia conosciuta che le consentisse di allontanarsi. Provai a fermarla prendendole la mano, ma la mia mano non si mosse. Lo avrei imparato facilmente: quando ti avvicini troppo a una persona, e non sei in grado di mantenere la stretta, il miracolo della vostra intimità è come un piccolo gioiello che – toccato appena nel suo profondo nascondiglio – inizia a rotolare sempre piú lontano. Adesso era l’una meno un quarto. Il volume della musica si era dimezzato e pochi residui di conversazione languivano nell’aria. Gruppi di ragazzi armeggiavano con le caffettiere per affrontare meglio la traversata che li avrebbe riportati a casa. Altri frugavano selvaggiamente tra le montagne dei giubbotti. Dalla porta d’ingresso spalancata sul giardino arrivava il vento freddo della notte. Eppure nessuno imboccava la via d’uscita. I ragazzi si salutavano. Sbirciavano verso un preciso punto della casa. Rimanevano fermi. Rachele raggiunse una delle sue amiche. Si strinsero le mani. Poi si addossarono con la schiena contro la parete portando lo sguardo verso la scena da cui tutti i presenti venivano attirati. Solo Giuseppe guardava senza nascondersi: sulla sua faccia c’era non la delusione ma come lo sbalordimento di un giocatore al quale, dopo un numero di vittorie sufficienti a regalare l’illusione dell’invincibilità, capiti un avversario capace di scaraventarlo in poche mosse nella polvere; e solo allora riconosca che, in un lontano incontro con quello stesso avversario, c’erano già tutte le premesse dell’attuale scacco matto. Era da settimane che non si faceva vedere in giro. Bene, adesso lui è qui, pensai. Dovevano essere arrivati da meno di mezz’ora, e si muovevano tra le stanze della villa come ne fossero stati i padroni. Non avevano salutato nessuno – piú verosimilmente, nessuno era riuscito a salutarli senza venire travolto da un senso di inadeguatezza che costringeva al passo indietro. Vincenzo indossava una giacca nera sopra una camicia viola a pallini rossi, un abbigliamento fuori luogo che però (considerata l’assoluta mancanza di spirito conciliativo con cui affrontava il tutto) trasformò la nostra festa in una pagliacciata per debuttanti con qualche soldo in tasca. Il merito era soprattutto della ragazza, o meglio del modo in cui tutto ciò che sentivamo inespugnabilmente conficcato in Vincenzo si rivelava attraverso la sua accompagnatrice. E la ragazza era in realtà una donna fra i trentacinque e i quarant’anni, con un pesante fondotinta sulle guance magre e ossute e una gonfia criniera che ricadeva sulle spalle di un vestito nero pieno di brillantini. Una qualunque delle nostre amiche, conciata in quel modo, avrebbe dato l’idea di una studentessa coscienziosa che il sabato sera, prima di uscire, gioca a fare la puttana davanti allo specchio. Ma questa donna non sembrava una puttana. Dava piuttosto l’impressione di una statua di bronzo scaraventata ai piedi di un locale notturno. Camminavano uno accanto all’altra, lentamente, dalla cucina al centro del soggiorno. Tutti aspettammo che si prendessero per mano, che si scambiassero la minima effusione. Ma questo non successe. I pochi centimetri che li dividevano non erano una distanza da colmare per avere dall’altro una conferma su se stessi, ma trasmettevano quel senso di disinvolta sazietà tipico degli adulti abituati a risolvere altrove le loro faccende personali. Vincenzo le mostrava la casa, faceva commenti sui quadri e sugli arazzi. Lei rispondeva annuendo con una ruvida fierezza. Era come se avessero concordato di ignorarci, ma mentre lui stava al gioco senza problemi, la donna mostrava qualche segno di nervosismo. Fu in uno di quei momenti che notammo la cicatrice: una lunga striscia bianca che partiva dal gomito e le correva lungo il braccio fino a toccare il polso. Questa visione ci cadde addosso come un pianoforte precipitato su un altro pianoforte in una stanza avvolta dal silenzio. Quando l’aveva rimorchiata? E soprattutto, come aveva potuto rimorchiare una donna con cui non avremmo neanche saputo che parole usare se avessimo dovuto chiederle una sigaretta? Si sedettero sul divano. Bevvero qualcosa senza dirsi niente. Abbandonata dall’attenzione di Vincenzo, la donna si guardò intorno contando almeno trenta occhi fissi su di lei. Soltanto allora sembrò una prostituta costretta a raccontare la sua vita in una trasmissione televisiva per ragazzi. Avremmo giurato che fosse disposta a pagare, pur di poter scomparire all’istante. Vincenzo poggiò il bicchiere sul tavolino di cristallo. Si alzò. Raccolse dall’attaccapanni un cappotto di lana e glielo mise delicatamente sulle spalle. Andarono via salutandoci con un breve gesto delle mani. Capitoloottavo La donna vestita di bianco, con il riflesso del collier che rimbalzava magicamente tra gli specchi del ristorante, si rivolse al maître con aria sognante e disse: «Rigatoni…» Prima che lo spot della Barilla svanisse dallo schermo, il padre di Vincenzo guardò dall’altra parte e chiese: «Ne sei certo?» Il televisore era un 18 pollici poggiato sul mobile con le vetrate a fondo di bottiglia, attraverso le quali i volumi dell’Enciclopedia del diritto si trasformavano in un’esplosione cubista di macchie gialle. Se avesse cambiato canale, avrebbe trovato Mister T alla guida di una jeep o un ufficiale dell’aviazione impegnato a spiegare le cause dell’esplosione del Challenger. Ma lui accendeva la tv prima di mettersi alla scrivania, e la lasciava per tutta la giornata a volume basso senza guardarla. I praticanti non avrebbero saputo dire se questo producesse in lui un effetto analgesico o la spinta di un’ispirazione. Ma quando i problemi di lavoro diventavano cosí ingarbugliati e pieni di insidie da fargli avvertire la stanchezza, o un calo di concentrazione, o quel è troppo, anche per me… che sugli uomini forti e pieni di conferme proietta l’ombra dell’Innominabile, allora si faceva cullare dal debole rumore dell’anodo surriscaldato contro il corpo fluorescente dello schermo. «Certo, sí, come le ho tetto», confermò lo Sghigno senza cambiare espressione. Gli aveva appena riferito che non c’era da preoccuparsi per suo figlio. Dall’inizio dell’anno scolastico, Vincenzo rigava dritto. Frequentava la scuola normalmente. Si divertiva normalmente. La sera prima, per esempio, era stato a una festa organizzata nella villa di un altro studente. Dovevano aver ballato. Dovevano aver bevuto. Poi era tornato a casa. «Normale…» aveva ripetuto l’autista. L’avvocato Lombardi aveva detto: «Bene». L’autista era rimasto come al solito a guardarlo senza parlare. La televisione aveva detto a volume bassissimo: «Se quello che cerchi | è un cuore da amare». L’avvocato aveva sospirato portando una mano sull’agenda. In passato, quando lo studio era in mano a suo padre, concetti quali autorevolezza e senso della realtà avevano il loro peso. La limpidezza trentina di un De Gasperi. Persino il malvagio pragmatismo di Henry Ford. Era lí che bisognava scavare per comprendere il segreto del mondo. Ma adesso, incalzato dai giornalisti sui problemi finanziari, il presidente degli Stati Uniti dichiarava: «Il debito pubblico è talmente grande da badare a se stesso», producendo nelle orecchie degli ascoltatori un’effettiva suggestione da abbattimento del problema tramite gag, arrivando fin quasi a far ipotizzare che non la gag in sé ma questa suggestione generalizzata potesse produrre lo stesso risultato per cui un tempo sarebbe stato necessario il «serio annuncio di manovre irreversibili». Ed ecco, i nuovi slogan pubblicitari che passavano in tv, le risate registrate dei telefilm pomeridiani, i conigli rosa saltellanti, i poligoni colorati delle ruote della fortuna che cominciavano a girare con i loro tac tac tac, producevano tutti insieme un alfabeto, un rumore a bassa frequenza: la linea d’equilibrio tra cielo e terra sulla quale niente diventava reale, e tutto poteva essere dominato. Cosí, se qualcuno un giorno fosse venuto a chiedergli se aveva mai avuto a che fare con i fratelli Terlizzi, a lui sarebbe stato sufficiente passare dall’antiquato patrimonio dell’esperienza personale alla volatilità degli elementi probatori per rispondere perfettamente rilassato: «No, mai avuto a che fare con loro». E se quel qualcuno avesse sospirato al momento di passargli una foto segnaletica raffigurante due uomini sulla quarantina, entrambi robusti e dalla faccia abbronzata, uno vestito come un venditore ambulante, l’altro con un terribile gessato da cantante di matrimoni: «Sicuro di non averli mai nemmeno visti?» «No, non li ho mai visti», avrebbe detto. A parte le incisioni sull’acqua del ricordo, dov’erano infatti le prove che li conosceva? Esisteva un documento dal quale si sarebbe potuto risalire all’unico incontro che aveva avuto con loro? Esisteva per caso la girata su un assegno? Ma esisteva anche una foto, una registrazione telefonica? No, non esisteva. E sebbene ricordasse molto bene i dettagli della sera in cui aveva dovuto cenare con loro al tavolo di un ristorante completamente vuoto per l’occasione (Carmelo gli era sembrato un uomo di rara intelligenza, il fratello minore solo un buffone come tanti), sebbene avesse parlato a entrambi e gli avesse stretto la mano prima che ognuno rientrasse nei propri ruoli, gli bastava adesso addentrarsi nel rumore che veniva dai piccoli altoparlanti del 18 pollici per convincere persino gli innocui questurini della sua coscienza che quella sera non era mai esistita. Prima di raggiungere lo studio, l’autista aveva fatto il suo consueto giro di raccolta. Aveva attraversato la città che risplendeva sotto un cielo freddo e limpido. Era passato per ristoranti e autorimesse e sale giochi e cliniche private. E le persone davanti a cui era comparso dicendo quello che gli avevano detto di dire, si erano accigliate. Lo avevano guardato con odio. Avevano gesticolato in segno di protesta. Ma poi, alle spalle, avevano sentito il febbrile movimento quantificabile in contanti che è la macchina degli affari a pieno ritmo (i camerieri dei ristoranti apponevano sui tavoli la targhetta «riservato» alle dieci del mattino, le sale giochi erano piene di ragazzini che avevano marinato la scuola per scaricare quintali di gettoni nelle feritoie di un Frogger, di un Donkey Kong). La fretta sulle loro mani aveva allora avuto un visibile rallentamento e tutti avevano annuito, soffocando l’impulso di aggredirlo. Lo Sghigno si era diretto allora verso la tappa successiva. Era uscito dalla città puntando verso sud. Aveva attraversato delle distese piatte e gialle che diventavano verdi che ritornavano gialle a seconda che si trattasse di uliveti o di campi di grano, salendo e scendendo in altitudine insieme alla linea basculante dei fili telefonici. Aveva rallentato subito dopo Casamassima dove, sulla destra, uno spaiato esercito di betoniere e autocarri e martelli pneumatici annunciava un centro residenziale in via di costruzione. Poco piú in là, un’enorme superficie lutulenta, rullata e quasi vibrante per la quantità di fosforo presente nel concime, aspettava di trasformarsi nel primo golf club della provincia. Aveva imboccato lo sterrato, guardando una dopo l’altra le ville circondate da operai e imbianchini e geometri e pallide nuvole di insetti che vorticavano intorno ai sacchi di cemento. Aveva visto il furgoncino con la scritta EUROGARDEN. Subito dopo c’era la Countach con gli sportelli alzati in verticale e il telaio pieno di spruzzi disseccati. La macchina era parcheggiata a due passi da una villa a cui mancavano giusto gli ultimi ritocchi. Quattro operai – due per lato – reggevano un cancello dipinto di verde cercando di infilarlo tra i binari. Il titolare dell’impresa era invece concentrato sulla centralina elettrica. Nonostante il clima, aveva addosso un paio di bermuda e una canottiera celeste che gli scopriva sulle spalle i muscoli in via di sgonfiamento. Non appena lo vide, il padre di Giuseppe gli andò incontro. Poche energiche falcate. Poi si fermò. L’imponente figura di Domenico Rubino contro la spenta altezza filiforme dello Sghigno. Guardò l’autista e disse: «Allontaniamoci». L’ultima volta era stato a un passo dal perdere il controllo. Si era chiuso alle spalle la porta d’ingresso mentre le scintille del barbecue vorticavano oltre i vetri delle finestre: «Ma Cristo santo! – aveva detto a voce alta, – non posso credere che non sei in grado di ricordarti sei cifre tutte insieme. Quando ti presenti a casa mia, mi devi dare almeno un colpo di telefono!» Sapeva tuttavia che se lo Sghigno era arrivato senza appuntamento non dipendeva dalla volontà dell’esattore, ma dalla gratuita e per questo ancora piú umiliante prova muscolare di chi voleva ricordargli: Facciamo come ci pare, se è per questotientriamoincasa anche senza chiedere il permesso… e piú aveva riflettuto sul fatto che l’uomo in jeans e maglione sfilacciato non c’entrava niente, piú gli era venuta voglia di prenderlo a cazzotti. Adesso ripeté: «Allontaniamoci…» Lo Sghigno lo seguí fino a quando gli operai e il geometra non smisero di guardarli. Il padre di Giuseppe domandò: «Qual è il problema?» L’autista si limitò a ribadire quello che aveva già detto al gestore del ristorante, al titolare della sala giochi e a tutti gli altri che avevano avuto la tentazione di raccogliere una mazza ferrata dal retrobottega, e cioè che a partire da marzo il contributo sarebbe passato dal trenta al quaranta per cento sull’incasso mensile complessivo della ditta. Il padre di Giuseppe provò ancora una volta a trattenere la rabbia: «Diosanto! lo capirei se questo mese avessimo incassato il dieci per cento in piú». Poi scosse la testa: «Ci farete chiudere bottega. È questo che succederà alla fine…» disse, commettendo l’errore di includere anche lo Sghigno nella Grande Persona Plurale a cui avrebbe voluto far sentire le proprie ragioni. Qualcosa di piú ruvido della semplice esasperazione gli allargò nella bocca un sorriso feroce: «Cos’è, non mi credi? – sogghignò all’improvviso, – vuoi vedere i libri contabili?» Strinse i pugni, si avvicinò all’uomo fino a quando i rispettivi nasi non si sfiorarono e, facendo uno sforzo per evitare di colpirlo: «Non mi credi, eh? e allora te li faccio vedere, quei cazzo di libri contabili! Adesso vieni a casa mia che te li faccio vedere». Lo Sghigno era salito accanto a lui sulla Lamborghini. Avevano abbandonato il cantiere facendo vibrare ogni singolo bullone delle impalcature sotto il rombo del motore da 5000 cc. Il padre di Giuseppe guidava e ringhiava e accelerava sulla statale 100 stringendo il volante della macchina come volesse stritolarlo. Era per caso vestito come un damerino? Aveva addosso un abito da sartoria? No, maledizione. Indossava un paio di bermuda e una canottiera sbiadita con il logo della ditta. E quella era una Lamborghini. E lui era un buzzurro che guidava una macchina da centoventi milioni fottendosene quando sua moglie gli diceva: «Vatti almeno a comprare una giacca e una camicia!», ignorando le occhiatacce dei professori quando accompagnava suo figlio a scuola e i sussurri ancora piú vigliacchi dei genitori degli altri ragazzi. Lui, anche volendo, una giacca decente non avrebbe nemmeno avuto il tempo di andarsela a provare, visto che la Countach e la villa e la piscina li aveva messi insieme senza staccare mai un cazzo di secondo, lavorando da sveglio e continuando a lavorare perfino quando era a letto addormentato. E d’accordo – questa era l’unica concessione che era disposto a fare ai tirapiedi dei Terlizzi –, una banca non gli avrebbe mai consentito di fondare la Eurogarden, nessuno si sarebbe privato di punto in bianco di cinquanta milioni per darli a lui a meno che questo nessuno non fosse stato toccato dal vero perfetto esplosivo business di quegli anni (oh, non la plastica, non i cancelli elettrici, non le borse di Gucci e non i videogiochi). Solo che lui quei soldi li aveva moltiplicati, lo aveva fatto contando solo sulle proprie forze, e questo doveva pur significare qualche cosa. Ecco, cosa avrebbe voluto che lo Sghigno comprendesse mentre toccava i duecento attraversando a ritroso le campagne. Ma il problema dello Sghigno non era dubitare dei libri contabili né riflettere su quello che era giusto o sbagliato che accadesse. La terra che moriva e che nasceva e che moriva di nuovo. Le forze, soprattutto: la piú intensa ha la meglio sulla piú debole. Cosí il punto era solo lasciarlo sfogare. Lungo il vialone principale, a poche curve dalla casa dei Rubino, incrociarono una Mercedes con dentro una vistosa signora di mezza età che li salutò con un energico gesto della mano. Poi comparve anche la villa. Un’enorme, inutile piattaforma a tre livelli si sollevò emergendo dal sottosuolo. Il padre di Giuseppe disse: «Adesso scendi!» Lo Sghigno rimase ad aspettarlo nel giardino, circondato dai discoboli e dalle siepi di rose selvatiche, con la scaletta d’emersione della piscina come ultimo scintillante particolare di tutta quella mostruosità. Fu allora che vide una cosa che perfino la prodigiosa macchina semplificatrice della sua mente non fu in grado di ridurre all’essenziale. Al centro del prato, un adolescente dai capelli rossi giocava con una pista di automobiline elettriche piena di rampe e giri della morte. Quando una delle piccole vetture andava fuori strada, un cane mosca avvolto in un cappotto di visone le prendeva in bocca e iniziava a girare istericamente su se stesso. Abbandonata nell’erba, c’era una rivista pornografica. Il ragazzo giocava e si toccava e mollava uno scappellotto al cane e poi guardava la rivista e continuava a carezzarsi i pantaloni senza mai smettere di fare nessuna di queste cose. Non era stato un unico particolare, ma la somma di tutti gli elementi. Una sensazione di incomprensibilità… Esattamente come per lui erano un enigma le facce dei ragazzi a cui vendeva l’eroina nelle campagne tra il lungomare e Japigia. Ci pensò durante i minuti di attesa. Poi non ci pensò piú: Domenico Rubino avanzava verso di lui reggendo tra le mani due grossi volumi rivestiti di tela. Aveva l’aria meno combattiva. Era entrato in casa convinto di potersi giocare il tutto per tutto: Esia!ognicosa a puttane! prendetevi la villa, prendetevi la ditta, rivendetevi la villa e fate fallire la ditta e vaffanculo!Ma poi aveva visto Giuseppe nel giardino. E prima di Giuseppe aveva visto sua moglie uscire a bordo della Mercedes – una cosa che la signora Rosa faceva ogni mattina: si caricava in macchina due o tre amiche, e insieme a loro assaltava i negozi del centro sventolando una mezza dozzina di carte di credito, e acquistava qualunque oggetto servisse a dissipare la smorfia che l’incubo notturno del benessere le imprimeva sulla faccia per il resto della giornata. Ed era questo (era stato costretto a riconoscere tornando dallo Sghigno con i libri contabili) il motivo per cui lui non poteva andare veramente da nessuna parte. Non perché non avesse il coraggio di dire a sua moglie e al figlio minore: «Si torna indietro! Si torna in una casa popolare, si tornano a contare i soldi per la spesa, si torna a impazzire ogni mattina in mezzo al traffico in un’auto di seconda mano», ma perché loro ormai, ascoltandolo, non avrebbero capito neanche lontanamente cosa stesse cercando di dire. Spalancò i libri contabili davanti agli occhi vuoti dello Sghigno. Provò a infondersi una forza che sentiva venir meno ogni secondo che passava e disse: «Vedi, sfoglia, leggi se sai leggere e dimmi se non ho ragione…», mentre al contrario ogni ruga rilasciata sul suo volto sussurrava: Quaranta per cento sull’incasso mensile della ditta? va bene, va bene cosí… Soltanto dopo, nel primo pomeriggio, lo Sghigno era passato dallo studio. Era entrato nell’ufficio del padre di Vincenzo e aveva guardato la pubblicità sullo schermo del televisore senza capire niente. Aveva detto all’avvocato che Vincenzo stava rigando dritto. L’avvocato aveva risposto: «Bene», e poi aveva messo una mano sull’agenda pensando che Vincenzo stava tornando verso la normalità. Aveva quasi superato la fase della ribellione e fra poco sarebbe diventato un ragazzo come gli altri. Poi si sarebbe trasformato nuovamente in un ragazzo diverso dagli altri – solo, muovendosi nell’altra direzione: sarebbe diventato scaltro e lucido e pragmatico, adatto al tempo che stavano vivendo. Ma lo Sghigno non gli aveva riferito della donna. Non gli aveva soprattutto detto che il ragazzo lo aveva costretto per settimane – una sera dopo l’altra – a portarlo insieme a lui dall’altra parte, tra gli enormi tizzoni dei palazzi popolari conficcati nell’asfalto di Japigia. Aveva mentito all’avvocato. Non gli aveva mentito: menzogna e verità erano concetti che lo Sghigno coglieva a malapena. La forza piú intensa aveva la meglio sulla forza piú debole… E quando Vincenzo lo aveva sorpreso a spacciare in una notte di quasi un anno prima, quel ragazzo era diventato istantaneamente la forza piú intensa. O meglio (per come si poteva immaginare che lo Sghigno visualizzasse il mondo intorno a sé), la bionda trasparenza del figlio dell’avvocato si era coagulata in un denso grumo d’energia urtando il quale avrebbero rischiato di attivarsi altre fonti d’energia, che gli sarebbero precipitate addosso fino ad annientarlo. Anche la sua attività di spacciatore dipendeva da questo. Quando aveva realizzato che poteva sottrarre un tot di roba a settimana e poi rivenderla senza che nessuno se ne accorgesse, quel pensiero che non avrebbe neanche voluto concepire lo aveva costretto ad allungare una mano su venti buste di cellophane. Non era colpa sua. Non era merito suo. Questo era l’anno zero: nessuno era padrone di un bel niente. Ma se gli occhi dello Sghigno fossero stati un cielo, il cielo di passaggio su Bari il 27 gennaio del 1986, tra le forze e le luci e le esplosioni di colore che avrebbero punteggiato i grigi quadrilateri degli edifici come in un bombardamento visto da un aereo, se quel cielo fosse stato dotato di una lente in grado di stringere verso il secondo piano di una palazzina color ocra del quartiere San Pasquale, avrebbe intercettato una bolla completamente azzurra con un minuscolo puntino rosso al centro che si allargava e tornava a contrarsi come una medusa, e sprofondava infine tra le bianche creste di un lenzuolo disgregandosi in tante striature di un azzurro piú profondo. Mi sollevai dal letto e confessai alle pareti della stanza vuota che la amavo. Raccolsi un kleenex dal pavimento e mi pulii lo sperma dalle dita. Mi sfilai la maglietta di dosso e la gettai per terra. Osservai dalla finestra il cupo cielo invernale, tornai a stendermi sul letto e pensai a ciò a cui non avevo smesso di pensare per tutta la giornata. Era la terza sega che le dedicavo. Una appena sveglio. Un’altra nel bagno della scuola. E poi qui, nella mia stanza di bambino e poi di adolescente, che era stata una stanza con le pareti rivestite da una carta da parati a striscioline gialle e verdi e popolata dalle riproduzioni in lattice dei personaggi Marvel comics, e dai fumetti Marvel comics, e da robot da assemblare seguendo istruzioni di cinquanta e passa pagine in modo che potessero attivarsi con un semplice battito di mani facendo muovere le loro zampe sulle mattonelle di quella che adesso era invece una stanza piena di inquietudine, dove oscure fanzine ciclostilate tracciavano le loro cronologie impazzite, e audiocassette al cromo giacevano sul pavimento coi nastri massacrati da continue reincisioni mentre la carta da parati era a sua volta massacrata da chiodi e puntine utilizzate per i poster dei Frankie Goes to Hollywood, sostituiti dai poster dei Residents, sostituiti a loro volta dai poster dei Ramones, strappati via anche quelli nella soddisfazione per una parete domestica che irradiava finalmente la cupa e stravolta e magnetica minaccia dei muri di città alla fine di un vicolo cieco. Riavvolsi ancora una volta il nastro per rivivere i minuti durante i quali io e Rachele eravamo stati chiusi nel suo bagno. Mio padre, a pochi vani di distanza, iniziava a dare segni di recupero. Mamma era uscita per sbrigare delle commissioni. I capi delle due superpotenze tornavano a incontrarsi. I titoli azionari impazzivano di gioia. Il mondo camminava trascinando via ogni cosa con i suoi artigli giganteschi. Ma noi due (io e Rachele) ci eravamo per un attimo sottratti a tutto questo. Dovevo rivederla. Niente telefonate, però, mi ammonii restando a letto. Nessun invito al cinema o a prendere una pizza. Bisognava evitare questi terribili corteggiamenti che ti portavano a imbastire qualunque cazzata sufficientemente carina e dignitosa e falsa da non esplicitare il piú che esplicito obiettivo dell’incontro, col risultato che tutte le macchinazioni per raggiungerlo l’avevano corrotto prima ancora di arrivare al dunque. Dovevo ritrovarla in città, pensai. Perché in città stava accadendo qualcosa di importante. Un movimento sotterraneo accendeva un freddo scintillio negli occhi di ragazzi. Avrei percorso strade e frequentato feste, sarei passato nei punti di ritrovo per comitive che cambiavano di settimana in settimana fino a quando il Destino (un desiderio che immaginavo reciproco, e che chiamavo già con questo nome) non me l’avesse fatta ritrovare di fronte un’altra volta. Tornai alla finestra. Premetti la pancia nuda contro il vento gelido oltre il quale una flotta di nuvole listava a lutto il cielo di fine gennaio. «Loro non sono mai stati d’accordo», mi lamentai con Giuseppe il giorno dopo a scuola. «Inconcepibile…», rispose lui scandalizzato. «Sono anni che ci provo, – continuai, – ma la loro traduzione del motore a due tempi è sempre stata: suicidio su due ruote». «Robe da pazzi», fece Giuseppe sempre piú carico. A qualche banco di distanza, Vincenzo era immerso nella consultazione del Castiglione-Mariotti. Sfogliava le pagine del vocabolario cercando di scrollarsi di dosso le attenzioni dei nostri compagni: l’entrata eclatante nella villa del colonnello aveva riattizzato le voci su di lui – adesso lo guardavamo con la tensione che si riserva alle minacce potenziali. Giuseppe mi diede di gomito: «È per la tipa, eh?» sghignazzò. Cosí, alla fine della quinta ora, il suo PK Special color prugna era a mia disposizione nel cortile della scuola. Io ero raggiante. Giuseppe era raggiante. Sembrava addirittura lui grato ame per avergli dato l’occasione di sbarazzarsi dello scooter. Lo nascondevo in un rondò pieno di erbacce a poche strade da casa. Di pomeriggio, finiti i compiti, mi inginocchiavo al suo cospetto. Scioglievo la catena sui freni a tamburo e percorrevo le umide spettrali carreggiate dei primi giorni di febbraio. Contavo di vedermela spuntare all’improvviso in uno dei suoi abiti smaglianti, per il conseguente anacronismo color seppia a cui le gonne e i jeans e i bomber degli altri ragazzi sarebbero stati immediatamente retrocessi. Ma invece di Rachele trovai Giulia. Un plumbeo martedí, pieno di vento. Ero un tutt’uno con la Vespa parcheggiata e controllavo a distanza la folla davanti al Punto diVino, un’enoteca chiusa nell’angolo di un anonimo piazzale che in poche settimane si era trasformata in un frequentatissimo luogo di ritrovo per liceali che ci passavano l’intero pomeriggio. Dalla massa chiassosa dei corpi, si staccò a un certo punto una figurina macabra. Iniziò a dirigersi verso di me. Provai a metterla a fuoco. Erano tempi di grandi cambiamenti: bastava l’incontro accidentale con Robert Smith nelle cuffie di un walkman e un paninaro con problemi di autostima poteva darsi al gotico dopo un travaglio esistenziale di circa un quarto d’ora. Per cui, quando mi si piantò davanti questa snella ragazzina vestita con maglietta dead can dance, pantacollant neri, scarpe tigrate con punta in acciaio, calze a rete tirate su lungo le braccia e una gloriosa acconciatura che ricordava le vampire hollywoodiane degli anni Trenta, sulle prime non la identificai come la figlia del parrucchiere che Vincenzo si era fatto l’autunno dell’anno precedente. Reggeva in mano una bottiglia di Ceres. Il fatto di essere mezzo ubriaca non le impedí di sfruttare l’equilibrio precario per infondere nelle sue gambe ripiegate a X un messaggio di corrotta suadenza. Roteò un dito nel vuoto. Poi disse: «Ah! inutile che lui ti mandi a controllare la situazione. Come puoi vedere sto ma-gni-fi-ca-men… piuttosto è lui… – qui la faccia, per cosí dire, le si retroilluminò – … è lui che è pieno di problemi!» E per rompere definitivamente il ghiaccio, mi assestò una manata sulle spalle. Ci trasferimmo sotto le luci pallide del Paradiso, un bar poco distante pieno di tavolini in plastica marmorizzata dove, insieme con l’aperitivo, ti portavano una ciotola di tramezzini irranciditi. Stava iniziando a piovere. La grande insegna BUDWEISER si accendeva e si spegneva creando un’atmosfera di intimità. Assicurai alla ragazza che Vincenzo non mi aveva mandato a controllare proprio nessuna situazione. Mi concentrai sul sincretismo di croci egizie e uncinate e ortodosse che le pendevano dal collo. Sospirai: «Piuttosto, sto cercando un’altra persona». Giulia finse di aggiustarsi qualcosa dietro la nuca. Poggiò un gomito sul tavolo e il mento sul palmo della mano. Chiuse e spalancò gli occhi. Con gli ubriachi già è difficile spuntarla. Ma con una ragazza che sfrutta un lieve stato di ebbrezza per giustificare il salto logico non c’è proprio partita. Era bastato che pronunciassi la parola «Vincenzo», e lei iniziò a parlare della Dama in nero, la sconosciuta con cui lui si era presentato alla festa. Saltò fuori che si trattava di una donna sposata. Una donna sposata e piena di guai, che Vincenzo era andato a raccattarsi nelle lande oltrecortina di Japigia. «Suo marito…» disse Giulia provando a infondersi una certa aria vissuta, come se la presenza di una donna sposata nella vita di Vincenzo la tagliasse fuori dalla competizione ma nello stesso tempo ammantasse i suoi quindici anni in qualche cosa di piú serio. Mi raccontò questa storia secondo cui il marito della Dama in nero era una mezza tacca di spacciatore, un gregario scomparso un anno prima al largo dell’Adriatico dopo uno scontro con i pattugliatori della Guardia di Finanza. Il gommone era stato ritrovato a due chilometri dalle coste di Monopoli. Lui invece era sparito nel nulla: «Forse morto, forse fuggito con la roba», disse Giulia. Era tutto materiale da film. Ed era chiaro che la ragazza parlava per sentito dire; ma un’amante abbandonata sviluppa, a qualsiasi età, una sensibilità da radar, ed è capace di estrarre da poche tracce di conversazione portate dal vento le novità biografiche di chi è irraggiungibile. Qualcosa di vero poteva esserci. «Capisci, – disse aggiustandosi con professionalità una ciocca di capelli dietro l’orecchio, – lei è la moglie… o piuttosto la vedova di un malavitoso, e Vincenzo non poteva trovare di meglio per, – fece una pausa, – voglio dire, il fatto che lui e lei adesso…» La sua faccia venne per un attimo annientata, fu come se la scena di Vincenzo a letto con la donna venisse mostrata e censurata tra i riflessi dello scadente vino rosso che ci eravamo fatti portare. La vetrata era battuta da una pioggia sempre piú insistente. Fuori, i ragazzi cominciarono a inveire contro il cielo. Saltarono uno dopo l’altro in sella agli scooter e alle moto da enduro, o pedalarono furiosamente sui Fifty. Un diseguale stormo di lucette si allontanò e svaní oltre il violento martellare dell’acqua sull’asfalto. Chiesi: «In che senso non poteva trovare di meglio?» La ragazza sgranò gli occhi: «Ma come? per via di suo padre! – sbottò, assicurandomi che era difficile concepire una provocazione piú efficace. «Perché il punto è sempre quello, – aggiunse, – lui lo detesta!» Qui diventò un’altra. La sua figura si caricò di una bella tumescenza improvvisa, e il look da darkettona fu solo un travestimento fra i possibili. Ordinò ancora del vino e cominciò a parlare di quando Vincenzo l’aveva invitata a pranzo a casa sua. Eravamo a qualche mese prima, il breve periodo durante il quale io e Giannelli li avevamo sorpresi a baciarsi dentro un autobus. «Vedi, – sibilò con trasporto, – lui è uno che non ti dice mai cosa ti aspetta prima di farti trovare in una brutta situazione». Mi raccontò di come si fosse preparata a questo pranzo domenicale: agghindandosi come una bomboniera, e presentandosi puntuale all’una e un quarto nel grande attico affacciato sul porto turistico, tutta sorridente con una bottiglia di vino per il padre di Vincenzo e un bel mazzo di gigli bianchi per la signora. Erano orpelli a cui avrebbe rinunciato, ma il fatto che Vincenzo avesse deciso dopo quattro soli giorni di pomiciate selvagge di presentarla ai propri genitori, unito al suono di quel cognome («Insomma, lo so anch’io chi sono i Lombardi qui a Bari»), generarono tutti insieme una forza che trasformò la sua spontaneità in una gaia idiozia saltellante. Ma quando Vincenzo venne ad aprire la porta, la accolse con una tetra espressione da prova del fuoco, e Giulia fu costretta a mettere in discussione tutta l’artificiosità del suo entusiasmo. Ma senza quello era smarrita. Come per darle una conferma leale delle sue brutte sensazioni, Vincenzo si limitò a salutarla con due rapidi bacetti sulle guance. L’accompagnò in soggiorno senza raccogliere la bottiglia né il mazzo di fiori. La ragazza non prestò troppa attenzione alla credenza vecchia di due secoli né al camino in pietra viva, perché dall’espressione sorpresa che il padre di Vincenzo le riservò non appena comparve nella stanza e dalla tavola apparecchiata per tre sulla quale una domestica con grembiule a righe stava finendo di disporre i bicchieri, capí che Vincenzo non aveva avvertito nessuno del suo arrivo. L’avvocato raccolse la bottiglia. La poggiò su un tavolino di cristallo dopo averla esaminata e quindi si presentò senza sorridere. Giulia cercò un approdo sulla faccia di Vincenzo, ma lui non ricambiò lo sguardo. Era una situazione assurda, ma il peggio doveva arrivare. In preda al panico, Giulia si ritrovò tra le braccia l’arma convenzionale di questo mazzo di gigli avvolti nel cellophane. Si cercò addosso un sorriso di riserva e si rivolse a Vincenzo: «Ecco, questi sono per tua madre. Se mi dici dove…» In quel momento fece il suo ingresso una bella ragazza vestita con camicetta a fiori, mini verde e sandali argentati. Era difficile darle piú di venticinque anni. Sfiorò le labbra dell’avvocato, quindi raccolse i gigli dalle braccia di Giulia. Era la moglie dell’avvocato, ma chiaramente non poteva essere la mamma di Vincenzo. Disse: «Grazie». Si sbarazzò dei fiori passandoli immediatamente alla domestica. Il piazzale era pieno di pozzanghere che si allargavano a vista d’occhio. Se la ragazza avesse continuato a bere, pensai guardando la pioggia, sarebbe crollata e me ne sarei dovuto occupare. Ma per adesso sembrava sostenuta da uno di quei momenti magici nel corso dei quali le fibre resistono sotto la mareggiata alcolica e i pensieri acquistano una crollante bellezza che quasi fa paura. «Avrei potuto scapparmene, e invece sono rimasta lí per tutto il pranzo», disse guardandomi negli occhi. E il pranzo, raccontò, fu un agghiacciante atto unico durante il quale la tensione si tagliava a fette: «Nessuno spiccicava una sola cazzo di parola. Dio santo. Ma credimi, – aggiunse, – per tutta la durata del supplizio non mi sono sentita veramente abbandonata un solo istante». Perché, disse, superato lo shock iniziale, aveva collegato sin troppo facilmente la situazione di quel pranzo al modo in cui Vincenzo – soltanto qualche giorno prima – l’aveva baciata al termine di una partita di pallavolo nel cortile della scuola. L’aveva spinta verso le grate di ferro che delimitavano il cortile, e poi aveva premuto le labbra sulle sue senza smancerie e senza quelle arie da spaccone che gli altri ragazzi utilizzavano per non restare disarmati davanti alla terrificante evidenza di un contatto fisico. Al contrario: lui aveva il serio limitato irresistibile sguardo di un individuo che avanza soltanto a proprio nome. Fu grazie a questa forza che Giulia si lasciò premere contro il ferro della cancellata e solo allora, mentre il campo da pallavolo diventava un tremolio di linee acquatiche e la sua maglietta veniva stropicciata e quasi strappata di dosso, le sembrò che Vincenzo volesse dirle, con tutta l’onestà e la crudeltà di cui può essere capace un sedicenne, che in quello che stavano facendo c’era una scoperta ma non c’era una promessa, perché l’unica promessa ad avere valore è la sfida che lanciamo in solitudine al nostro destino personale, e stranamente questo bastò perché la ragazza provasse ciò che non aveva mai provato in vita sua. Sentí i rumori e i profumi intorno a sé con una forza fino ad allora inimmaginabile. Era come se l’intero apparato sensoriale le si fosse spalancato consentendole di riconoscere, indissolubile dalla forza del ragazzo, anche qualcosa di molto simile a una ferita aperta, nonostante Vincenzo non le avesse mai detto un bel niente di suo padre né di Sabrina né di sua madre bruciata viva in un incidente automobilistico. Parlare avrebbe significato ridurre a quattro chiacchiere ciò che andava, semplicemente: mostrato. Ed era ciò che accadde anche durante quel pranzo interminabile. Non l’aveva attirata in una trappola… non le prese mai una volta la mano sotto il tavolo per farle coraggio, e non si diede da fare per stemperare la tensione che serpeggiò tra lui e i due adulti dall’antipasto alla frutta, ma solo perché una simile premura avrebbe chiuso nella scatola blindata del decoro ciò che adesso le stava offrendo con la scabrosa lucentezza con cui la vita di ognuno dovrebbe essere mostrata. Il miracolo si ripeté: alla ragazza sembrò ancora di poter cogliere il rumore di una foglia caduta a continenti di distanza, ed ebbe la certezza che tutta la storia di Vincenzo le venisse raccontata senza che lui avesse pronunciato una sillaba. «E quella, – disse Giulia, – è stata la piú bella dichiarazione d’amore ricevuta in vita mia». Adesso sembrava che il bar Paradiso fosse l’unico tratto di terra emersa nel corso di un diluvio epocale. Le vetrate erano un continuo esplodere di gocce d’acqua, l’insegna BUDWEISER continuava a spegnere e riaccendere le nostre facce dandoci un’illusione di esclusività, come fossimo gli unici al mondo a poter commentare il fatto che pioveva sui palazzi e pioveva sulle auto parcheggiate, pioveva sui manifesti pubblicitari delle Big Babol e tutti erano corsi a rifugiarsi nei propri appartamenti un attimo prima che le acque sfondassero la porta di casa trascinando con sé tonnellate di barattoli di carne in scatola seguiti dai frammenti dello Shuttle, dalla Ferrari distrutta di Gilles Villeneuve, dai tifosi della Juve schiacciati nella curva Z… cosí il cadavere degli anni Ottanta avrebbe sommerso le case di un intero continente mentre gli anni Ottanta erano solo al loro apice, il che non doveva sembrare strano visto che si trattava di un decennio assassinato a pochi istanti dalla nascita, e anche se nessuno era davvero annegato, anche se a nessuno era stato torto ancora un singolo capello e si trovavano in fondo tutti là, seduti a guardare una puntata de IlmioamicoArnold in un rassicurante tepore da merenda pomeridiana, io e la ragazza eravamo i soli a poter parlare di alluvioni e di annegati, come se la situazione ci mettesse già con mezzo passo nel futuro. Ma lei non aveva ancora smesso di parlare. Allungò le braccia sul tavolino del bar. Si stiracchiò. Le croci appese al collo tintinnarono. Disse: «Quello stesso pomeriggio, subito dopo il pranzo, abbiamo fatto l’amore per la prima volta». Ebbi una fitta al cuore. Se davvero quel temporale portava delle gocce di pioggia provenienti dal futuro, e se il futuro sarebbe stato un mezzo incubo, allora un improvviso movimento di nuvole avrebbe dovuto far scendere su Giulia un piccolo cono di luce, in modo che la ragazza ne fosse protetta e, avvolta da un bagliore fuori dalle leggi di natura, diventasse indimenticabile (cosa che dovette succedere, se io me la ricordo ancora) perché, in avanti con gli anni, ci sarebbe capitato sempre piú spesso di sederci a un bar con ragazze e poi con donne che sarebbero venute a raccontarci le loro imprese erotiche, e lo avrebbero fatto in modo sempre piú esplicito e dunque meno scoperto, non per scandalizzarci ma per ricevere la conferma di non essere state ancora scaraventate fuori dallo «spirito del tempo», lo stesso Spirito che però impediva loro di raccontarci l’aspetto piú profondo e delicato di tutta la faccenda: su queste cose non riuscivano piú a esprimersi, come se un guasto, una silenziosa catastrofe verificatasi a un certo punto delle loro vite (nelle vite di tutti noi) le avesse in qualche modo mutilate; e per avere una speranza di venirne fuori saremmo stati allora costretti a ricordarci di una ragazza con due ridicole calze a rete tirate sulle braccia che molto tempo prima, circondata dalla sua luce personale, aveva detto: «E quello stesso pomeriggio, subito dopo il pranzo, inevitabilmente abbiamo fatto l’amore per la prima volta». «Cosí come era forse inevitabile…» aggiunse ormai stremata, abbassando la testa. Era inevitabile che lui la settimana successiva l’avesse già mollata, disse, lasciandola ad aspettarlo per ore fuori dal cortile della scuola, quando lei si era illusa che indossare un paio di stivali da cowboy nuovi di zecca potesse arrestare il corso degli eventi. Era giusto in fondo che Vincenzo si facesse vedere in giro con la Dama in nero: la sfida mossa a suo padre doveva superare nuovi confini, e poi quella donna – ammise la ragazza – aveva in sé qualcosa di definitivo che a Vincenzo poteva ritornare utile. La pioggia scendeva con meno insistenza. Il Vespino era di nuovo visibile grazie ai fari delle auto che ogni tanto ci passavano davanti. Giulia disse: «Mi sa che devo andare a casa». Si alzò barcollando. Feci per tenerla in piedi stringendola dai fianchi. Lei si irrigidí. Allora la lasciai andare. La vidi allontanarsi a piedi, nascosta dalle ombre della sera e rivelata sempre piú piccina dalle luci gialle dei lampioni. Camminava senza fretta, come volesse su di sé tutta l’acqua che ancora era possibile ricevere. Pensai di nuovo a Rachele. Pensai a Vincenzo. Pensai a Giuseppe. I palazzi erano freddi e silenziosi. Una Ritmo truccata mi passò davanti prendendo in pieno una pozzanghera. Il fango sui pantaloni non contava niente. Capitolonono Lei dormiva, Vincenzo respirava piano davanti alla finestra e quella era la notte. Il palazzo si alzava per quindici piani, circondato dal freddo ammutolito di febbraio. Oltre la camera da letto partiva il breve corridoio che portava al soggiorno con cucina. Di fronte, c’era il bagno con la specchiera divorata da una nuvola di ruggine, il rubinetto gocciolante, i grigi segni delle travature sul soffitto. Tutti insieme, facevano pensare ai servizi di un antico ospedale crollato sotto le scosse di una febbre epidemica che aveva aggredito le fondamenta dopo aver incenerito le menti vive dei pazienti per materializzarsi infine dopo anni nel ventre di un edificio popolare della periferia estrema del sud barese. Accese una sigaretta. Vide il riflesso della brace allargarsi sul vetro e poi ridursi a un unico puntino rosso. La donna si rigirò nel letto. Oltre l’ingresso, il pianerottolo si scomponeva pneumaticamente verso il basso attraverso la tromba delle scale. Qualche metro sotto il livello della strada, si apriva il grande sarcofago del parcheggio condominiale, un parallelepipedo liscio e grigio, ulteriormente denudato dalle luci al neon, in cui nessuno custodiva piú un bel niente dopo che alcuni tossici randagi erano stati ritrovati senza vita sul sedile posteriore di una Regata. Ma adesso lí non c’era piú nemmeno un’automobile. Cosí i tossici, che pure nel delirio della rota riuscivano a seguire una precisa strategia emotiva (lo squallore non era un deterrente purché ci fosse il segno certo di un passaggio ancora umano), al momento di fare capolino nel parcheggio indietreggiavano: era come se tra quelle mura andasse in scena l’incubo di qualcuno che non c’era piú, il prodotto di una mente senza corpo che li portava a trascinare altrove i loro spasmi muscolari. La stessa cosa succedeva nei sotterranei degli altri palazzi dormitorio che si vedevano dalla finestra: tutti alti e solitari, e tutti avvolti nel silenzio. Erano queste le sensazioni che stava ricevendo da tre mesi a questa parte. Da quando, cioè, aveva costretto lo Sghigno a portarlo ogni sera per le strade di Japigia, dove aveva imparato a muoversi fra tossici vaganti e torrenti disseccati e impianti sportivi in stato d’abbandono intorno ai quali trottavano piccoli gruppi di cani divorati dalla scabbia. In poche settimane si era separato dall’autista per proseguire da solo. Era riuscito a conoscere gente. Si era sforzato di comprendere i meccanismi del quartiere. Adesso per esempio sapeva che, alle tre del pomeriggio di ogni giorno, un uomo di mezza età soprannominato Toquinho trascinava una sdraio nel cortile di una palazzina tra via Caldarola e via Peucetia, si sedeva sotto il porticato e domandava bruscamente: «Quanto?» prima ancora che i clienti potessero aprire bocca. Sapeva che, dietro la chiesa a forma di fungo atomico, i bambini continuavano a giocare a calcio anche quando le luci della sagrestia perdevano la loro battaglia davanti all’avanzare della sera: le tenebre si impadronivano del campo da pallone mentre un gruppo di ombre saltellanti veniva attraversato da un’ombra piú alta e curva e lenta a cui nessuno faceva caso. Sapeva che quest’ultimo spettro si trascinava in solitudine verso via Carabellese, dove il titolare dell’omonima farmacia intercalava ogni discorso sentenziando: «Tossici di merda!», senza che il suo disprezzo venisse mitigato dalla consapevolezza che la vendita delle siringhe monouso rappresentava per lui la metà dell’incasso giornaliero. Aveva capito che le tante dicerie che circolavano su Japigia non erano del tutto vere, visto che nella zona abitavano per lo piú famiglie di estrazione popolare assolutamente normali. La loro forza tuttavia era nulla rispetto a quella generata ogni minuto da uno dei piú febbrili mercati d’eroina a cielo aperto dell’Europa meridionale. Sapeva infine che, superata la chiesa, seguendo l’infittirsi degli aghi di pino, camminando verso l’umbratile punto d’incontro fra la strada e la linea ferroviaria, a un certo punto compariva il Jolly. Si trattava dell’unico centro ricreativo della zona. Un bar che non era un bar. Uno stanzone senza insegne e senza tavolini, dove pacchetti di sigarette e birre dalle marche sconosciute venivano prelevati direttamente dai cartoni d’imballaggio e consegnati agli avventori, uomini e poche donne che parlavano tra loro, fumavano, facevano scommesse oppure sostavano sulla soglia del locale come aspettassero sempre qualcosa, qualcuno. E lui, una sera di neanche un mese prima, era uscito dal Jolly in compagnia di una donna alta e riccioluta, vestita come una ex soubrette televisiva richiamata all’ultimo minuto in trasmissione per un qualche triste revival. Aveva provato ad avvicinarla dopo settimane trascorse a fare avanti e indietro per le strade circostanti, ad attaccare bottone con individui le cui facce cominciavano a risultargli sempre meno esotiche, continuando a consumare asfalto in attesa che l’aria del quartiere si depositasse lentamente nei suoi vasi sanguigni. Sapeva che si chiamava Matilde. Sapeva che era stata la moglie di uno spacciatore scomparso con un carico importante dopo uno scontro con i pattugliatori della Guardia di Finanza. Non si capiva se l’uomo fosse andato a picco o se aveva sfruttato l’occasione per fare perdere le proprie tracce insieme a tutto il carico. Nel caso fosse stato vivo, poteva darsi che fosse ancora in contatto con la donna. C’era insomma l’eventualità che lei sapesse dov’era andato a nascondersi. Vincenzo aveva dunque compreso che, quando Matilde guardava fuori dal Jolly, nei suoi occhi c’era – non come un’aspettativa trepidante, ma come un’istantanea contenuta insieme ad altre foto nel bussolotto del futuro – l’immagine di due o tre uomini che avanzavano verso di lei a pugni chiusi. Ma di fronte a questa possibilità non sembrava impaurita, perché il suo collo lungo e nervoso e le sue labbra strette e la pelle tirata sulla sporgenza degli zigomi ingialliti erano un vecchio e collaudato messaggio di femminilità notturna che diceva: E sia, facciamo girare il bussolotto anche stasera… Ecco cosa l’aveva colpito. Era stato a osservarla una sera dopo l’altra riflettendo sul fatto che la donna era in una posizione di svantaggio rispetto agli altri avventori del Jolly. Era questo a renderla cosí solida. E la sua debolezza era per lui allettante almeno quanto la sua forza. Matilde aveva ricambiato gli sguardi di Vincenzo in modo serio. Gli occhi della donna dicevano senza brillare: Se mi guardi in questo modo un motivo ci dev’essere. Allora guardami e fatti guardare… Vincenzo inizialmente si era sentito a disagio: sapeva come sfruttare la sproporzione tra realtà e aspettativa che le sue coetanee ribattezzavano stupidamente con la parola «amore», ma questa era una donna per la quale – non avendo probabilmente avuto l’illusione mai alcun significato – il principio di realtà copriva già ogni spazio disponibile. Era stato costretto a distogliere lo sguardo. Si era sottoposto a un’altra settimana di vagabondaggi. Un giorno, passando da via Peucetia, si era sentito abbastanza sicuro da infilarsi sotto il porticato dove Toquinho era seduto come sempre alla sua sdraio. L’aveva salutato. L’uomo gli aveva risposto con il breve grugnito che riservava alle facce conosciute, e lui aveva acquistato due grammi di eroina di cui si era sbarazzato gettando le bustine nell’immondizia dopo aver svoltato l’angolo. Alcune sere dopo era tornato al Jolly. Matilde sembrava che non si fosse mai mossa di là. L’aveva guardata dritta in faccia. Poi si era fatto avanti. Ma solo quando si era trovato a camminarle accanto lungo una successione di strade in procinto di sprofondare nel consueto silenzio da coprifuoco, nel movimento di Matilde che aveva scaricato il peso su di lui assecondando il suo lento tentativo di abbracciarla, lasciando che l’odore di una lacca scadente gli invadesse le narici, soltanto allora aveva sentito di poter condividere davvero l’indistruttibile forza sepolcrale della donna e del quartiere. Poi si era infilato nel letto di Matilde, dove lei gli si era abbandonata con un’arrendevolezza che lo aveva spiazzato. E con una condiscendenza, una pretesa… la pretesa che lui gestisse la situazione come le sue coetanee non gli avevano mai consentito di fare. Scoparsi le coetanee aveva sempre significato vincere una resistenza, farsi largo a bracciate per scardinare le difese di una virtú mai del tutto precisata: cosí, quando iniziavano ad ansimare tra le sue braccia perdendo il controllo, quei corpi frementi dalle gambe sode e dai capezzoli induriti non erano altro che l’altra faccia del suo sforzo, della sua astuzia, talvolta persino della sua prepotenza. Era lui che regalava a loro una mezz’ora di libertà. Per questo gli erano poi cosí devote, e continuavano a esserlo persino dopo che le aveva abbandonate. Ora accadeva il contrario. Matilde era una donna adulta, e il suo potere consisteva nel dargli potere per tutto il tempo necessario: si liberava della sottoveste, si allungava sul letto aspettando che il ragazzo le fosse addosso, e a quel punto lui si ritrovava in un campo da gioco al quale il legittimo proprietario aveva già divelto tutte le transenne. Una dimensione nuova. E il segreto consisteva nell’affrontare il corpo di Matilde come se un tacito accordo preventivo non ci fosse mai stato, fingendo che quel diritto di vita e di morte lui lo stesse esercitando in base a una decisione arbitraria, cosí da non doverle essere mai grato e non deluderla. Per farlo, gli bastava ricordarsi che aveva meno della metà dei suoi anni. Matilde era forte, ma lui era forte ed era giovane: ecco la distanza che lo faceva gareggiare con lei ad armi pari. Dopo che si erano staccati l’uno dall’altra ed erano rimasti qualche minuto con gli occhi fissi sul soffitto senza dirsi una parola, Matilde si rimetteva in piedi e andava a darsi una sciacquata. Tornava in camera da letto dove, nascosta dietro l’anta dell’armadio, faceva scorrere i vestiti spingendo le grucce le une contro le altre senza prestargli piú la minima attenzione. Per questo Vincenzo la guardava ancora piú calmo e ammirato: Non è innamorata di me. No, non lo era. Non aveva neanche preso una sbandata, e quando finivano di chiacchierare o di scopare o di farsi semplicemente compagnia, lasciava che lui uscisse di scena senza sentire il morso del distacco. Ogni tanto gli diceva: «non farti illusioni, prima o poi incontrerai una ragazza della tua età», come se fosse lui ad avere tutto da perdere. Ma erano frasi retoriche, stupidaggini dette per scandire il tempo. Le cose piú importanti Vincenzo riusciva a coglierle nei momenti in cui non succedeva niente. Aveva ad esempio capito che Matilde non sapeva dove si trovava suo marito, e che qualunque cosa fosse diventato (i resti di un cadavere in fondo al mare; il proprietario di una bella casa in Montenegro che aspettava la prossima occasione per farsi accoppare) provava per lui un sentimento di biasimo. Un piccolo spacciatore con manie di grandezza, una persona talmente stupida da illudersi che la vita potesse offrirgli prima o poi l’occasione di una svolta. Allo stesso modo, disprezzava gli uomini che aspettavano solo di sentirsi abbastanza frustrati o sufficientemente sicuri della propria arroganza da rivolgersi a lei e riscuotere il debito per interposta persona. L’avrebbero picchiata? le avrebbero fatto di peggio? Aveva pena per gli eroinomani che marcivano sotto gli occhi di tutti un giorno dopo l’altro e aveva pena in generale del quartiere in cui era nata. E tuttavia rivendicava il fatto che solo un posto pieno di uomini cosí stupidi e violenti e disperati fosse in grado di generare una donna come lei. Poi si accorgeva che Vincenzo la stava osservando con troppa insistenza per essere semplicemente un ragazzo davanti a una donna intenta a riordinare una camera da letto. «Che guardi?» diceva sfilandosi uno dei suoi vestiti da quattro soldi. Gli veniva incontro completamente nuda: «Fammi vedere, fammi vedere quanto sei bello…» Gli metteva le mani lungo i fianchi e continuava a parlargli della sua bellezza, dimostrando che la loro differenza d’età era una cosa di cui era consapevole almeno quanto lui. Ne era consapevole anche di piú, ed era il motivo per cui non se ne faceva soggiogare. Lasciava che Vincenzo le accarezzasse le braccia salendo lungo la cicatrice. Lui le premeva la mano sulla gola, Matilde sorrideva, e in quei denti scoperti Vincenzo credeva di riconoscere lo scintillio di un ringhio. A volte, capitava che restasse a dormire da lei. Lo Sghigno lo avrebbe coperto con suo padre, cosí Vincenzo poteva farsi vincere tranquillamente dal sonno mentre Matilde gli dormiva accanto già da un quarto d’ora. Chiudeva gli occhi sentendo il gocciolio del rubinetto farsi sempre piú lontano. Si risvegliava nel cuore della notte e andava a fumarsi una sigaretta davanti alla finestra, riconoscendo nel panorama silenzioso del quartiere ciò che aveva appena sognato in un terrificante rapporto di uno a uno. Allora si convinceva che Japigia aveva in sé qualcosa che consentiva a chi la attraversava di venire in contatto con se stesso. Era come se tra quelle strade galleggiasse a uno stadio primordiale tutto ciò che nel centro cittadino si caricava di orpelli e di chiacchiere e di inutili giochi di specchi. Il che forse accadeva perché il principio su cui si reggeva il quartiere era di una semplicità a dir poco abbacinante. Superato il ponte sospeso sulla linea ferroviaria, questa semplicità si complicava in un enorme flusso di denaro che ogni mese tagliava il nastro d’inaugurazione di ristoranti e sale giochi e autorimesse e negozi di vestiti ai quali la verginità veniva restituita attraverso gli ancora piú complessi equilibrismi degli studi legali. E cosí si tornava al centro del mondo, si tornava a suo padre… Pensava allora ai fratelli Terlizzi, che non aveva mai visto ma di cui tutti parlavano, e sulla cui latitanza i giornali spendevano le ipotesi piú fantasiose mentre sembrava che non si fossero mai mossi dal quartiere. Si diceva che non avessero timore di farsi vedere in giro e che il piú giovane facesse esplodere intere batterie di fuochi d’artificio sulla terrazza di un palazzo di via Gentile. Provava a immaginare il punto di contatto tra suo padre e due individui del genere, ma ogni volta i pensieri gli si appannavano: era probabile che l’avvocato agisse in una sfera cosí alta e distante da non avere neanche la possibilità di impantanarsi nell’oscura melma dei reati per spaccio e ricettazione, a cui era collegato ma da cui pure veniva disgiunto grazie all’anello di puro vuoto che roteava nel mezzo. Ma Vincenzo non era venuto quaggiú per incastrare suo padre o per raccogliere delle prove. Era sceso quaggiú per venirsi meglio incontro, perché sentiva che nella notte senza fine delle strade di Japigia sarebbe giunto prima o poi a toccare il puro seme del suo odio. Spense la sigaretta e si staccò dalla finestra. Andò a infilarsi di nuovo dentro il letto. Tra le lenzuola, accarezzò la schiena della donna. Matilde respirava con la testa sprofondata nel cuscino, tutto era calmo e ricomposto. Capitolodecimo Mio padre si risvegliò in una domenica di primavera. Una fiammella azzurra cessò di sprigionare la sua energia intorno al bollitore pieno di foglie disseccate: a pochi minuti dall’alba la cucina era immersa nella pace e nel lindore, e lui filtrò l’infuso stando attento a non versare nulla fuori dal cerchio della tazza. Si trasferí in soggiorno. Diede un sorso e si sedette sul divano. Raccolse il telecomando. Accese il Panasonic nuovo di zecca. Le immagini del telegiornale attraversarono lo schermo provocandogli un’immediata sensazione di fastidio. Migliaia di manifestanti rovesciavano autocarri per le strade di Soweto al grido di: «Stop apartheid!» e una bomba era esplosa nel cuore della notte alla periferia di Beirut. I corpi delle vittime giacevano nel campo profughi, sovrastati dalla voce off del giornalista che diceva: «La commissione Kahan, chiamata a indagare dalle autorità israeliane…» Eliminò l’audio. Intercettò il tasto con il rettangolino attraversato da tante linee orizzontali e lo premette. I corpi umani scomparvero all’istante, sostituiti dai grossi poligoni verde bottiglia del Televideo – cioè il motivo per cui aveva avuto un senso comprare quel televisore. Iniziò a leggere le cifre. L’indice Nikkei aveva chiuso bene, piú 3,4 a Piazza Affari e mezzo punto in meno su Wall Street, che però nell’ultima settimana era cresciuta con misura cavalcando i tecnologici e i colossi delle assicurazioni che durante tutto l’anno avevano portato il Dow Jones verso il record dei 2000 punti complessivi mentre fondi d’investimento dai nomi piú o meno fantasiosi quali Anima (var.+12), Aberdeen (var.+2,2), Alleanza (var. – 0,8), Merryl Lynch (var.+6,5) continuavano a esplodere, a calare, a contrarsi da una parte all’altra del mondo libero… e sia che mio padre avesse guadagnato sia che avesse perso, cosa che succedeva ormai solo per piccole battute d’arresto, queste cifre che comparivano sul televisore con il loro commovente corpo fosforoso, la loro disarmante semplicità di cifre uniche e la stupefacente complessità d’intreccio, lo tranquillizzavano. Si alzò dal divano. Entrò in punta di piedi in camera da letto. Ne uscí stringendo tra le braccia un mucchietto di indumenti e un paio di scarpe da ginnastica. Si infilò nella tuta di Sergio Tacchini che la mamma aveva acquistato per rinnovargli il guardaroba e che lui si era sempre rifiutato di indossare. Uscí di casa e iniziò a correre intorno all’isolato. Trottò per le strade deserte della domenica mattina. Dopo i primi giri di riscaldamento allargò il raggio d’azione puntando all’attraversamento del quartiere. Superò via Turati. Superò via Giustino Fortunato. Soffocò un piccolo dolore al basso ventre. Diede uno scatto. Rallentò e tornò ad accelerare… adesso stava proprio correndo. Non stava semplicemente correndo. I colletti bianchi del World Trade Center facevano jogging a Central Park, le star di Hollywood facevano jogging lungo la pista podistica di Venice, i colossi del filato made in Italy scoppiavano di salute nei distretti commerciali di Prato e di Treviso, sudando e irrobustendosi i polpacci, riequilibrando il tasso di colesterolo quel tanto che bastava per soddisfare le aspettative della loro buona stella. E dunque non stava piú nemmeno facendo jogging perché lui ora era nell’occhio del ciclone dove ogni cosa è quieta e vuota e bella e incredibilmente vantaggiosa, e il risultato di tutto questo non erano le gambe doloranti o la terribile fitta alla milza… il risultato era che mio padre accettava finalmente la vita! Era diventato un uomo di successo in un mondo che incominciava a fare del successo il valore di scambio per ogni aspetto dei rapporti umani. A che valeva opporre ancora resistenza? Allargò la falcata. Accelerò con il cuore sul punto di scoppiargli, e quando fece ritorno a casa, e attraversò la porta d’ingresso rosso in faccia, sudato, ansimante, io e mia madre ci trovammo a fronteggiare il famelico sorriso di soddisfazione di un uomo di cinquantaquattro anni. Urlò: «Buongiorno!» e andò a scaraventarsi sotto la doccia. Vendette il Fiorino e acquistò un Iveco Passo Lungo turbo diesel. Prese in leasing una Mercedes 500 Sec. Cambiò barbiere. Prenotò un check-up ospedaliero e si iscrisse in palestra. Sfogliando i quotidiani, provò ad avventurarsi oltre le colonne d’Ercole delle pagine economiche (qualcosa continuava tuttavia a ripetergli che affrontare articoli del tipo Basquiat, Keith Haring e l’arte della strada era uno sforzo inutile). Acquistò cinque paia di mocassini Church’s in pelle martellata. Ridusse le sigarette. Per i viaggi in aereo, fece la scoperta della business class… Naturalmente tornò in ufficio, cosa che per tutto il mese di febbraio aveva fatto sí e no un paio di volte a settimana. Gli ci volle un’altra settimana per riprendere possesso degli affari. E gli affari andavano bene, andavano benone… Sottopose a Flora l’idea di introdurre degli incentivi aziendali per i dipendenti meritevoli. L’addetta al commerciale sghignazzò: «Ragazzo mio, benvenuto nel presente». Le chiese di aggiornarlo sulla situazione finanziaria e Flora gli passò una piccola risma di fogli ben spillati. Iniziò a leggerli in ufficio e continuò a farlo a casa fino a notte fonda. Il giorno dopo, di nuovo in ufficio, tirò un lungo sospiro e disse: «Dunque Flora, cerchiamo di capirci. Nell’ultimo anno noi siamo cresciuti di tre volte e mezzo mentre lui non è riuscito neanche…» Cosí, per giorni e giorni, il telefono non fece che squillare a casa nostra alle ore piú impensate. Mio padre osservava l’apparecchio a braccia conserte. La mamma sollevava la cornetta e: «Pronto? – diceva, – oh, Pasquale, ciao, sei tu… no, non so se è passato dall’uffi… e no, non è nemmeno in casa. Ti faccio richiamare, stai tranquillo». Quando fu chiaro che Di Liso non aveva intenzione di mollare, mio padre decise di parlarci. Dopo uno sfiancante botta e risposta dal quale si capí come Di Liso fosse disposto a tutto per non perdere un cliente cosí grosso («Pensaci bene, te lo chiedo per favore… – riuscivo a sentire la sua voce dall’altro capo del filo, – te ne prego! – implorò a un certo punto, – adesso questi stronzi mi vogliono trasferire giú a Noicattaro…»), mio padre fu in grado di chiudere la telefonata trasformando l’umiliazione del suo amico in qualche cosa di peggiore: «Ma no, – provò a rassicurarlo, – vedrai, vedrai che qualche operazioncina insieme riusciamo ancora a farla!» Non era finita. Un paio di settimane dopo, qualcuno di non atteso bussò alla porta del nostro appartamento. Era quasi ora di cena. La mamma era in giro a fare shopping. Mio padre, rientrato dall’ufficio, se ne stava chiuso in bagno da almeno un quarto d’ora. Nel soggiorno, lo schermo del Panasonic mandava lampi senza essere guardato da nessuno, lasciando Michael J. Fox vestito da yuppie della prim’ora tra le scenografie parallele di CasaKeaton in uno dei suoi celebri algoritmi: «Una persona che non ha bisogno di denaro… non ha bisogno di persone». Risate registrate. Secondo tentativo: uno squillo prolungato del campanello, seguito da uno squillo quasi non udibile, ci piombò addosso come un goffo richiamo di impazienza e successivo pentimento. Uscii dalla mia camera. Camminai a passo svelto verso il soggiorno. Spalancai la porta, e tutto questo (la fine di un pomeriggio da situation comedy che domandava di rimanere chiusa nel proprio guscio protettivo) si azzerò davanti a un uomo di mezza età che mi guardava reggendo un cappello floscio tra le mani enormi. Io dissi stupefatto: «Salve…» Mio padre urlò dal bagno: «Un attimo che arrivo!» Indossava pantaloni di flanella, camicia a scacchi e una giacca di panno grigio la cui dignitosità ebbe ai miei occhi qualcosa di straziante. Le orecchie erano grandi padiglioni di cartilagine attraversati dalla luce calda del soggiorno. Il viso era pieno di rughe e gli occhi piccoli e leggermente acquosi. Farfugliò qualcosa a proposito di mio padre, mentre tutto il resto in lui diceva: profondo Sud, con una forza da raccolto distrutto sotto una tempesta di grandine. Mi sembrò impossibile che un individuo simile fosse arrivato fino a casa nostra. Adesso rimaneva fermo sulla porta dell’ingresso. Una voce disse finalmente: «Oh, signor Michele… accomodatevi, non fate complimenti!» Mi voltai verso mio padre. Aveva i capelli bagnati, i pettorali erano gonfi e ben proporzionati sotto l’accappatoio di spugna, mentre un sorriso imbarazzato gli lampeggiava sulla faccia. L’uomo non avanzò di un solo passo, cosí fu lui a raggiungerlo. Mi sfilai dai due. Solo dopo essermi allontanato, avvertii il fantasma di un dopobarba lavato dal sudore e disseccato all’aria aperta. Lo associai al ribollire del ragú scaldato a fuoco lento, poi a un sapore di stagionatura femminile sotto il cotone di un grembiule da lavoro. Il marito di una delle ricamatrici di mio padre… conclusi, uno di questi mezzadri o muratori che non avevo mai visto e la cui assenza era tangibile nella complicità da ostacolo rimosso che legava le donne mentre passavano il filo sul tessuto. Lui e mio padre discutevano dandosi del voi. Sul Panasonic, Michael J. Fox disse al suo vicino di casa: «Skippy, ricordi quando da piccolo ti ho messo sotto con la bicicletta?» Skippy: «Sí?» Michael J. Fox: «Adesso ho un’automobile…» Mio padre disse con espressione sollevata: «Trattame… trattamento di fine rapporto? Ma sí, certo, ci mancherebbe…» Era difficile che una delle piú grosse aziende di ricami di tutta la provincia affidasse ancora la manodopera a pochi gruppi di donne ingaggiate secondo criteri pseudofamigliari. Non riuscii a immaginare con che faccia mio padre fosse stato capace di entrare in ognuna delle loro case per annunciare: «Mi dispiace, è finita». O forse aveva affidato il compito a uno dei suoi dipendenti. Ma a ogni modo, quello che stava succedendo davanti alla porta di casa aveva qualcosa di clamorosamente fuori posto. Mai una delle ricamatrici si sarebbe azzardata a sventolare lo spettro di un diritto fabbricato sulle sabbie mobili di un’assemblea legislativa, poiché il lungo e paziente lavoro sui tessuti si affidava a regole la cui solennità disdegnava il disordine secolarizzato di una battaglia sindacale. E mai lo avrebbe fatto uno dei loro mariti. Ma adesso un uomo aveva abbandonato l’ordine insonnolito di un paese che poteva essere Ceglie o Mola o Sovereto e aveva attraversato la città. Aveva suonato al campanello di un altro uomo, considerato fino a poco tempo prima un inavvicinabile messaggero degli dèi, e aveva chiesto il trattamento di fine rapporto a beneficio di sua moglie – un diritto che nessuna delle ricamatrici avrebbe tra l’altro potuto vantare, visto che nessuna aveva mai firmato un contratto di lavoro subordinato. Un diritto che mio padre fu però ben contento di riconoscergli all’istante, perché lo scricchiolio che doveva aver sentito nei baratri della coscienza si trasformasse in una semplice scossa d’assestamento. Osservai meglio i sorrisi di papà alle prese con il visitatore. Al momento di trovarselo sulla porta, doveva aver temuto che fosse venuto a rimproverarlo. E invece, malconsigliato dal barbiere del paese o peggio ancora da un prete o da un politicante visto alla tv, quest’uomo parlava già la lingua di mio padre, lo metteva a proprio agio, e se mio padre aveva profanato qualcosa licenziando in blocco tutte le ricamatrici lui adesso profanava se stesso e sua moglie e le colleghe di sua moglie radendo al suolo il piccolo tempio che fino a ora li aveva protetti dal resto del mondo. Cosí erano ancora una volta tutti su un territorio condiviso – ma a differenza della loro precedente disuguaglianza, la loro attuale disuguaglianza aveva già qualcosa di gelido, di impersonale, che avrebbe autorizzato molto presto le ricamatrici a provare per quelli come mio padre sentimenti di adulazione, di invidia se non di vero e proprio odio, e lui a guardarle per la prima volta con un misto di disprezzo e superiorità. I cambiamenti scavano la fossa al vecchio mondo in modo che il suo crollo sia spesso molto silenzioso. È cosí che cambiano gli uomini – una smorfia, uno scatto di nervi, una parola al posto di un’altra parola –, è in questo modo che da un momento all’altro non siamo piú noi stessi. Per cui, ai miei occhi, la cosiddetta questione meridionale (quel residuo di questione planetaria che può riassumersi nella domanda: ha ancora il sacro uno sviluppo sostenibile?) morí definitivamente nel giorno in cui il marito di una ricamatrice arrivò tutto imbarazzato in casa nostra per reclamare un diritto inesistente, e mio padre decise di accordarglielo. Rachele invece la rividi agli inizi di aprile. Avevo passato almeno due mesi a inseguire il suo fantasma senza ottenere risultati. La casellina dei chilometri sulla Vespa di Giuseppe era la certificazione dei miei fallimenti, ma io riuscivo a leggerla come un incoraggiante contacrediti. Durante tutto quel periodo non ebbi mai la forza per liberare il mio delirio amoroso dai mostruosi laboratori schilleriani in cui lo avevo imprigionato. Ma questa pretesa di doverla vedere per la strada, di incontrarla per caso, di non provare a fare neanche un colpo di telefono, di affidare a una qualche provvidenza la responsabilità di portare a compimento ciò che avevamo miracolosamente iniziato a fare a casa sua, non rasentava invece la pura e semplice vigliaccheria? Adesso, nei momenti di leggerezza, riesco a dirmi che uno dei territori piú danneggiati dall’interpretazione creativa del romanticismo è stato l’ego di tanti adolescenti occidentali nati in una famiglia di buone condizioni economiche. Avere a disposizione molto tempo e molti soldi porta a fantasticare sulla possibilità che ogni cosa possa essere controllata senza gettarsi nella mischia, persino i desideri e le azioni di una bella ragazza che ci si è presi il lusso di non raggiungere con ogni mezzo per sessanta e passa giorni. I desideri e le azioni di una bella ragazza? Ma io ero convinto di poter controllare anche il tempo! Nei pomeriggi domenicali pieni di sole, aspettavo che i miei uscissero di casa. Mi sedevo a gambe incrociate sul divano e contemplavo il crollo della luce sul frigorifero ronzante riversando il mio amore per Rachele dentro una clessidra senza sabbia e senza strozzature fino a convincermi che dalla sera della festa a casa sua fosse passata sí e no una manciata di minuti: il calco del corpo di uno era ancora caldo su quello dell’altra e lei di conseguenza, ovviamente, era da qualche parte in città a sperare di svoltare l’angolo per sbattere il proprio naso contro il mio. Al culmine di queste meditazioni, accendevo una delle prime sigarette della mia vita. Ne fumavo un’altra e il tempo ritornava a scorrere. Uscivo di casa, montavo in Vespa e correvo a cercarla. Ma Bari era piú piccola di come me la figuravo io a quei tempi. I punti di ritrovo si contavano sulle dita di due mani, e il calcolo delle probabilità a un certo punto non poté fare a meno di venirmi incontro. Di quel pomeriggio ricordo anche i dettagli scenografici. Mi trovavo in una grande stanza piena di teli colorati. Il pavimento era disseminato da bicchieri e piatti sporchi e da tanti piccoli cuscini che circondavano un letto sul quale giacevano in maniera altrettanto caotica: un numero dell’«Eternauta», un quotidiano nazionale che titolava Michele Sindona è morto, un’imprecisata quantità di giubbotti di pelle, una decina di copertine di vinili appena maneggiati da Giuseppe che adesso metteva l’ennesimo 33 giri sotto la puntina («Bela Lugosi Is Dead, la conoscete?»), e il luogo in cui stavamo bivaccando era in definitiva la camera da letto di Luca Giovinazzo. I genitori di Luca Giovinazzo lavoravano fuori Bari e ritornavano solo nel weekend. I genitori di Luca Giovinazzo erano in viaggio. I genitori di Luca Giovinazzo sarebbero arrivati, ma non per oggi. «Undead undead undead…», disse lo stereo ripetutamente. I genitori di Luca Giovinazzo erano quel tipo di genitori che non ci sono mai e non si capisce mai il perché: non lo sapevo allora, non lo so adesso, non lo saprò mai piú, ma questa assenza indecifrata consentí al loro appartamento (anzi, alla camera da letto di Luca, dove ogni volta ci confinavamo assecondando un senso di intimità autoinflitta) di diventare uno dei piú importanti snodi di transito del quartiere Carrassi sino alla fine della primavera. Le cinque del pomeriggio. Dalle finestre aperte entrava il cinguettio infernale degli storni. Avevamo finito di pranzare un’ora prima, mentre il resto della città tornava negli uffici. Giuseppe aveva preso possesso dello stereo passando al setaccio non i piú celebri ma i piú significativi pezzi del momento: tutte canzoni in cui sembrava sempre che qualcosa di fondamentale (una generica speranza, o forse il futuro in persona) fosse stato assassinato ma continuasse a camminare tra di noi per motivi di rappresentanza. A un certo punto erano arrivate Romina e Vanessa, le migliori amiche di Rachele. Erano arrivati ragazzi che conoscevo a malapena. Infine era passato anche Vincenzo (una mezz’ora, poi era andato via). Il citofono suonò una volta ancora. Poiché a ogni nuovo arrivo ero convinto fosse lei (lo ero stato nelle settimane precedenti e continuavo a esserlo anche ora), quando sentii la voce di Rachele provenire dall’ingresso mi feci invadere da un assurdo sentimento di ovvietà: ci eravamo dati un appuntamento telepatico, e dunque perché mai agitarsi? tra pochi secondi sarebbe stata nuovamente al mio cospetto, bella e scattante in uno dei vestiti che avevo visto nel suo armadio e poi avevo continuato a inventariare mentalmente… ed ecco, la ragazza che comparve in camera da letto mandò in frantumi la figurina alla cui manutenzione mi ero dedicato con tanta meticolosità. Aveva l’aria imbronciata, e per di piú sembrava in preda a un lieve stato confusionale che la rendeva ancora piú desiderabile. Indossava una maglietta nera di qualche taglia piú grande, legata in vita da una cinta sottile di cuoio intrecciato… Aveva addosso questa maglietta e nient’altro! Il resto erano gambe gambe e ancora gambe, le quali partivano snelle e pallidissime a poche dita dai glutei arrestandosi solo davanti alla comodità di due stivaletti fatti dello stesso cuoio della cinta. Il suo biancore non suggeriva costrizione ma spreco, faceva pensare a una ragazza con una spiaggia tutta per sé che non approfitti mai del sole per pura e semplice negligenza. Era seducente e non banalmente seduttiva, non cavalcava l’onda di una magnetica sensualità ma ne era travolta. Ed era questo che accese in me l’agitazione, l’inquietudine (due mesi… due mesi di tempo sprecato!), persino l’invidia e uno spirito competitivo fino ad allora sconosciuto. Sembrava che le fosse passato sopra un caterpillar che anziché ucciderla aveva lasciato su quel corpo altrimenti immacolato l’impronta di una sanguinante meravigliosa sporca imperfezione. Salutò Giuseppe con due bacetti sulle guance. Abbracciò le sue amiche e si rivolse al resto dei ragazzi sollevando la mano in un cenno barcollante. Nel momento in cui feci per avvicinarmi, sentii le gambe pesanti. Anche Rachele rallentò il passo, come se l’incontro dei nostri sguardi avesse scatenato un’improvvisa forza repulsiva. Infine ci salutammo e lei mi strinse per le braccia. E strinse forte, strinse fortissimo. Osservandola da vicino, mi accorsi che aveva sotto gli occhi la bruna macilenza di chi ha dormito sí e no quattro ore nell’ultima settimana. Rachele mollò la presa. Tirò un sospiro e disse: «Mi avevano assicurato che eri partito per la Cina». E io: «Pechino faceva schifo. Sono tornato solo ieri». Lei fece per dire un’altra cosa, poi rinunciò. Lo scambio di battute era un residuo rimasto inespresso dai tempi della brillante chiacchierata nella cucina di casa sua – adesso era sepolto nella fossa dell’umorismo e noi eravamo entrati in una nuova fase. Mi prese per mano senza sorridere e, usandomi come sostegno, si sedette sul pavimento insieme agli altri. Mezz’ora dopo, la cucina era piena di gente che si avvicendava intorno a un’enorme caffettiera. Io e Rachele rimanemmo in camera da letto insieme ad altri quattro o cinque. Ed eravamo vicini, praticamente gamba contro gamba. Le poggiai una mano sulla schiena e iniziai a spingere ripetutamente con la testa contro la sua spalla, assecondando la parte del nostro legame che – mi dissi – giustificava una mossa del genere. Rachele mi lasciò fare, ferma davanti agli altri che ci guardavano facendo finta di niente. Era eccitante, ed era struggente. Ma quando fui sul punto di valicare la linea di confine tra il cotone della t-shirt e la meravigliosa campitura della sua pelle nuda, la ragazza fece scroccare l’osso della mascella e irrigidí i muscoli offrendo un’ottusa resistenza. Vanessa disse: «Ecco il caffè!» e io la odiai. Bevemmo il caffè. Bevemmo il Bailey’s e il Cointreau. Qualcuno fece girare un paio di canne. Un cane abbaiò nel cortile sottostante, senza coprire tuttavia gli storni venuti dall’inferno. Tra un sorso e l’altro iniziai a sentirmi sempre piú stremato, gli uccelli smisero di urlare, il pomeriggio scivolò verso il colore dell’oro annerito e io trattenni per un attimo la luce gloriosa che fuori dal mio sguardo era già qualcosa di morente sui capelli di Rachele intenta a chiacchierare con le amiche. Sentii le gambe rilassarsi. Chiusi gli occhi, li riaprii, mi feci vincere dal sonno. Quando mi risvegliai, la stanza era quasi del tutto avvolta nell’oscurità. Un fascio di scaglie luminose ruotava intorno alle pareti mosso dai fari delle automobili giú in strada. Sentii i risciacqui della lavastoviglie, ma per il resto la casa sembrava deserta. I ragazzi erano andati via, forse era andato via anche Luca Giovinazzo, mi avevano abbandonato e adesso erano a bere tutti insieme in qualche bar del centro. Mi sentivo sconfortato. Staccai la guancia dal pavimento e iniziai a sollevarmi. La sorpresa mi offuscò la vista. Poi misi a fuoco la situazione. Rachele era distesa nel letto, le mani abbandonate sul cuscino e la fluente massa dei capelli spalmata per metà contro la parete. Indossava sempre la sua maglietta nera. Solo che adesso si era sbarazzata anche della cinta e degli stivaletti. Respirava profondamente, stringendo tra le gambe un lembo di lenzuolo che rivelava e celava con alternanza il pallore della pelle. Non capivo se aveva voluto aspettarmi o se anche lei era crollata di schianto. Allo stesso modo mi domandai se fossimo stati ignorati dai nostri amici o se ci avessero lasciati soli di proposito. Avanzando sulle ginocchia, mi accostai al bordo del letto. Rachele sbadigliò, emerse lentamente dalle lenzuola, si mise seduta sul materasso poggiando a terra le punte dei piedi. Mi guardava con i capelli scarmigliati, e mentre la sua aria sonnolenta non comunicava nulla, nelle sue ginocchia strette c’era già qualcosa di pervicacemente esposto. Mi osservò con una specie di sorriso incerto e disse: «Ciao, dev’essere tardi». «Dev’essere tardi, sí…» risposi. Senza smettere di fissarmi, si tirò via i capelli con la mano: «È sera…» constatò. Le presi la faccia tra le mani e la baciai. Rachele si mosse in avanti, premendo i piedi nudi contro il pavimento gelido. I rispettivi nasi si stritolarono tra loro. Io spinsi forte nella direzione opposta e rotolai nel letto. Trattenemmo il respiro per pochi istanti, sorpresi e paralizzati dalle nostre stesse azioni. Poi Rachele piegò le ginocchia, portò le gambe leggermente verso l’alto incrociando le caviglie, e si sfilò gli slip. Si scaraventò in avanti, afferrò il lenzuolo con le unghie e coprí entrambi, ma non cosí rapidamente da impedirmi di sentire il profumo forte e aspro che iniziava a spandersi nell’aria intorno a noi. Mezz’ora dopo ce ne stavamo nudi sotto le coperte, la schiena di Rachele era distesa sul mio braccio indolenzito, e io pensavo che fumare una sigaretta avrebbe aggiunto perfezione a perfezione. Ma non potevo sottrarle l’appoggio dopo che mi si era offerta in modo tanto generoso facendomi perdere la verginità, e dopo che aveva sfruttato i mesi in cui non ci eravamo visti per trasformarsi, facendo scendere cosí sapientemente sulla bellezza del suo metro e settanta l’ombra di una sensualità misteriosa. Fu lei a sollevarsi dal letto. Raccolse dal comodino una Philip Morris. La accese. Espirò nervosamente il fumo e disse: «Vedi, c’è stato un ragazzo nell’ultimo periodo…» Trattenni il respiro. Lei mi prese per mano. La strinse forte e continuò a parlare. Brunitura, scintillio, e apertura di scenari sconfinati: tutto nello spazio di poche sillabe. «Rocco Splendore, ma che razza di nome è?» fu la prima reazione di cui mi sentii capace. Nudo accanto a lei, fui costretto a sorbirmi la storia di questo tizio che Rachele aveva accolto in casa sua per tutto il mese di marzo, fino a quando era svanito nel nulla dopo averle svaligiato mezza villa. Si trattava del figlio di un piccolo imprenditore attivo nel campo della ristorazione con cui il colonnello si era messo in affari per l’approvvigionamento del Tredicesimo artiglieria terrestre. Fu sufficiente che il ragazzo comparisse nella villa di Rachele accompagnando un uomo che aveva sulla fronte la croce ardente di un nuovo appalto appena conquistato, perché lei ne restasse colpita. «La palpebra che gli batteva come una matta sull’occhio destro senza che lui neanche se ne preoccupasse… ecco la prima cosa che ho notato», disse. Aveva diciannove anni – continuò – ed era alto e bruno e magro come un chiodo, seduto sul divano mentre suo padre sciorinava al colonnello una lunga lista di cibi precotti. Rachele aveva guardato tutti e tre con la sua solita aria di crepitante intelligenza, passando dalla cucina alle scale che conducevano al primo piano per poi tornare sui suoi passi come se avesse dimenticato di spegnere un incendio divampato tra i fornelli. Qualcosa era scattato tra i due perché Rocco, nei giorni successivi, si era presentato tutto solo davanti al minaccioso muro di porfido che circondava la villa senza saltare un solo pomeriggio. Rachele non sapeva come ci arrivasse ogni volta: se in autobus o a piedi o facendo l’autostop. Ma dava sempre l’impressione di avere camminato per chilometri, fermo tra le sbarre del cancello con l’aria di chi si è sottoposto a una prova fisica per meritarsi qualcosa. Lei lo faceva entrare e andava a preparare un tè. Lui rimaneva qualche minuto sotto lo sguardo sospettoso del fratello di Rachele, e sotto quello invece carezzevole di sua madre, la quale non notava la palpebra danzante del ragazzo, né si preoccupava delle striminzite t-shirt con cui affrontava il freddo o delle All-Stars carbonizzate. «E sai il motivo? – insinuò Rachele con uno sguardo d’irrisione di cui non l’avrei ritenuta capace, – non si accorgeva di niente perché lui era il risultato di un accordo milionario». Cosí l’avrebbe sintetizzata il colonnello, disse, mentre per sua madre, a cui persino la firma su un assegno sembrava già qualcosa di volgare, tutto si traduceva in lampade da tavolo e cassapanche del Settecento e mazzi di orchidee fresche e trionfanti sul tavolino dell’ingresso. Di conseguenza, cosa poteva esserci di sbagliato in questo ragazzo un po’ bizzarro che del ricambio quotidiano di quei fiori contribuiva a essere l’emblema? Soprattutto, la mamma di Rachele non si mostrò mai sorpresa o infastidita dalla praticità che consentiva a Rocco di entrarle dritto in casa senza quasi salutare, saltando i convenevoli con cui i ragazzi cercano di rassicurare le mamme delle coetanee stringendo con le loro vaporose acconciature un’alleanza ai limiti della gerontofilia. Quando era lei ad aprirgli la porta, lui si limitava a dire: «Rachele», usando la secchezza telegrafica con cui avrebbe comprato un pacchetto di sigarette. La signora si indispettiva? Per meglio dire: si insospettiva? La signora trovava deliziose queste pose da uomo di poche parole. Rispondeva: «Vado a chiamartela», e ci mancava pure che gli facesse l’occhiolino. Ma il piú delle volte la mamma di Rachele non era in casa, e non c’era neanche suo fratello. Cosí lei e il ragazzo rimanevano soli nella villa. (Qui, mentre Rachele iniziò a dilungarsi sulle partite a briscola che disputavano sotto il gazebo del giardino, stando tra l’altro ben attenta a coprirsi il seno col lenzuolo – e il sospetto che lo stesse facendo per non offendere l’evocazione del suo amico iniziò a rodermi lo stomaco –, io ero alla mercé di una domanda: che cosa mai possono fare dopo aver giocato a carte due ragazzi che si piacciono in una villa tutta per loro?) «A macchinetta…», disse invece Rachele. Mi stava passando delle preziose informazioni su come Rocco parlava piú veloce di quanto la piú brillante delle menti sia capace di pensare. Parlava mangiandosi continuamente le parole, disse, era talmente rapido da ridurre la coda di certi ragionamenti a una farragine di suoni dai quali tuttavia – assicurò – si potevano ricavare piú sfumature e guizzi e intuizioni di quanti avrebbe potuto contenerne un discorso compiuto. «Era fantastico, – concluse, – certe volte non si capiva proprio niente!» «Senti, ma a parte giocare a carte… cos’altro facevate?» Questo lo dissi sforzandomi di dissanguare la domanda da ogni rimpianto ogni rancore ogni scorticante gelosia, in modo che lei fosse spinta a rispondermi in maniera sincera. Rachele distolse gli occhi dai miei, guardò pensosamente il soffitto: «Oh, lui passava tutto il tempo a criticarmi. Soprattutto i miei genitori». «Criticava i tuoi genitori?» «Senza pietà». Stando al racconto della ragazza, non è che Rocco si limitasse a insinuarle qualche dubbio sulla natura di chi l’aveva messa al mondo. Ci andava giú molto piú pesante. Un attimo prima era l’adorabile ragazzo che aveva attraversato a piedi mezza Bari per venire a farle visita. Poi, lasciava emergere uno sguardo accigliato dai fumi del tè che Rachele aveva preparato con tanta dedizione, si guardava intorno e sentenziava: «Ma come fai a vivere in questo posto di merda?» «Ti diceva cosí?» chiesi sgranando gli occhi. «Be’, piú o meno. Vedi, lui aveva questi scatti improvvisi. Era proprio imprevedibile…» E cosí, imprevedibilmente, senza troppi giri di parole le diceva… cioè le chiedeva… cioè la costringeva a domandarsi quale particolare tipo di imbecillità potesse spingere due adulti a riempirsi la casa di medaglie al valore e di foto ricordo coi personaggi piú disgustosi solo per darsi un po’ di arie. Sua madre! Aveva mai notato quanto era stupida sua madre? La sua cerimoniosità, tutti quei sorrisetti isterici che ogni volta lo costringevano a controllarsi per non prenderla a ceffoni… che cosa poteva avere mai imparato in sedici anni da quella donna che non l’avesse spinta a formulare una richiesta di adozione? «E tu? come reagivi?» domandai sentendomi insopportabilmente solidale con la moglie del colonnello. «Te l’ho spiegato, – disse, – lui era rapidissimo… Io stavo cercando di formulare una buona risposta e Rocco era passato a demolire mio padre». Lui lo vedeva molto bene, che cosa entrava ogni giorno in casa loro: salumi in quantità industriale, intere forme di parmigiano reggiano, vino pregiato in confezioni da dieci da venti da cinquanta bottiglie! Il colonnello gestiva le gare d’appalto per l’approvvigionamento alimentare della caserma, bastava la sua firma su un pezzo di carta per catapultare il proprietario di una macelleria su un altro mondo finanziario: riusciva Rachele a fare due piú due? Lo capiva oppure no il significato di tutti quei regali? «E a questo punto?» domandai. «A questo punto succedeva una cosa stranissima, – disse Rachele cercando sul comodino un’altra sigaretta, – lui si incupiva, smetteva di parlarmi. Insomma, si offendeva». «Si offendeva? Si offendeva lui?» Non solo si offendeva. Non solo non le rivolgeva piú neanche una parola. Adesso questo «bizzarro» «imprevedibile» «rapidissimo» ragazzo, sembrava sull’orlo di una crisi isterica. Cominciava a sudare. Gli tremavano le mani. «Era come se la mia presenza… la sua presenza a casa mia lo costringesse a riflettere su quanto faceva schifo il mondo. E il fatto che io non afferrassi la situazione lo gettava in questa specie di nevrosi. Certe volte immaginavo che in quei momenti, per la rabbia, potesse gettarsi dal balcone. Allora mi sentivo costretta a rabbonirlo». «E come… in che modo ti sentivi costretta a rabbonirlo?» «Be’, – disse lei recuperando anche l’accendino, – sdrammatizzavo. Gli dicevo cose stupide del tipo: “Che vuoi farci, mio padre è un militare. Si sa come sono fatti i militari…”» A quel punto gli occhi di Rocco si riempivano di rabbia: «Un militare? tuo padre è un fascista fatto e finito». E Rachele: «Questa sí che è buona!» E Rocco: «Ma scusa, lo sai almeno come ti chiami?» E Rachele: «Non capisco dove vuoi arrivare». E il ragazzo: «Voglio arrivare dove si è fermata la tua ignoranza. Tu ti chiami Rachele, tuo fratello si chiama Romano. E Rachele e Romano erano la moglie e il figlio di Benito Mussolini, e perdio non può essere un caso!» A questo punto Rocco – lui non lei – si alzava di scatto e se ne andava nel giardino a far sbollire la rabbia, dove ovviamente Rachele lo raggiungeva trafelata. «Ma tu, – dissi mentre Rachele dava il primo tiro di Philip Morris, – cosa pensavi tu durante quei litigi?» Lei espirò il fumo, si aggiustò i capelli con l’altra mano, il lenzuolo le scivolò di dosso e le sue piccole tette color latte mi accecarono la vista: «Che aveva ragione, – disse, – che aveva ragione praticamente su tutta la linea». Avevo appena finito di fare l’amore con la ragazza dei miei sogni. E, senza nemmeno darmi il tempo per gloriarmene, la furia compensatrice della nemesi arrivava a punirmi con la storia del personaggio di cui Rachele era stata invaghita fino al mese prima (ne era ancora invaghita? e soprattutto: erano stati a letto insieme?). Il quale, con la precisione di un chirurgo e la brutalità dei migliori amanti, era riuscito a estrarle dal profondo un canceroso grumo di menzogne di cui lei avvertiva la presenza solo in maniera intermittente («Proprio cosí, – stava dicendo adesso, – era come se quelle cose le avessi sempre sapute. Solo che ora le vedevo!»). La nemesi? Perché proprio la nemesi e non un banale scherzo del destino? Ma perché (fui costretto a riconoscere) quelle cose le sapevo anch’io. L’avevo capito oppure no che il colonnello era il grottesco personaggio di cui parlava Rocco? Ero o non ero in grado – per il semplice fatto di aver attraversato le stanze della villa nella sera della festa – di tracciare lo sconfortante quadro psicologico dei suoi proprietari? Se è per questo in cuor mio avevo già emesso un giudizio inappellabile... Ma allora, perché non lo avevo detto a lei? Perché non glielo avevo detto io? Che cos’erano tutti questi scrupoli a soli sedici anni! Per quale ragione avevo preferito sparire in quel modo affidando il compito di conquistarla a… a cosa? «E poi cominciò la faccenda dei furti», disse Rachele stiracchiandosi nel letto. Che Rocco Splendore non fosse semplicemente un elettrico Savonarola appena maggiorenne, Rachele se ne rese conto quando dalla villa iniziarono a svanire alcuni oggetti di valore. Da una sera all’altra la moglie del colonnello si ritrovò a frugare nei cassetti alla ricerca di orecchini, bracciali e altri articoli di gioielleria. Che si trattasse di furti veri e propri, la ragazza se ne accorse quando sua madre le chiese se aveva visto l’orologio di Cartier serie Trinity il cui prezzo di listino sfiorava i cinque milioni di lire, e la ragazza pensò che sí, lo aveva visto: il pomeriggio precedente, Rocco continuava a passarselo dalla destra alla sinistra. «E l’hai, l’hai…» dissi sforzandomi di non farmi uscire di bocca la parola denunciato. «Se l’ho detto a mia madre? Avrei voluto parlarne direttamente con lui…» disse. E poi – aggiunse – sua madre in fondo quei furti se li meritava: dopo avere rotto l’anima a tutta la famiglia, a un certo punto la donna fu colta dal sospetto che Rocco fosse uno dei possibili indiziati. Tuttavia, non si azzardò mai a formulare neanche velatamente la sua accusa, dal momento che… sí, insomma, era lei la prima vittima della cerimoniosa ipocrisia di cui parlava Rocco. E dunque, se lo meritava o no che qualcuno le rubasse l’orologio di Cartier? Poi Rocco cominciò a diradare le visite. E quando veniva a trovarla era piú ingestibile di prima: «Sembrava preoccupato da qualcosa. E comunque, i suoi vestiti… – disse, – sono stati quelli a bloccarmi». «I vestiti?» Rachele sospirò: «I suoi vestiti, adesso, puzzavano». Non erano piú una tshirt e un paio di jeans portati eroicamente nel freddo di marzo. Erano un paio di calzoni diventati rigidi per la sporcizia. E intorno a lui… Rachele non se ne accorse subito, non volle rendersi conto che questo odore di disinfettante andato a male proveniva da lui. Non solo dai suoi vestiti ma dal suo alito, dalle sue ascelle, dalla sua carne! Era lui a puzzare. Perse un paio di giorni preziosi a cercare di farsene una ragione: aveva appena accettato che fosse un ladro, ma accettare questo costava piú fatica. «È incredibile, – disse, – qualunque fosse il mio proposito, lui era sempre un passo avanti». E poi ci fu l’ultima volta che si videro. «Tutto accadde nel giro di pochi minuti», disse Rachele. Adesso la immaginavo pronta a spalancargli i forzieri di famiglia e a fuggire insieme a lui. Ma su quel pomeriggio si andava addensando qualcosa di piú strano del solito, e Rachele lo capí guardando Rocco mentre avanzava sul vialetto. Prima ancora dello sguardo accigliato e dei vestiti sporchi… «Le scarpe», riuscí a dirgli quando lui le fu di fronte. Dai bordi sdruciti dei jeans sbucavano i suoi piedi. Due piedi nudi e paurosamente malandati. Aveva le unghie spezzate, la pelle mangiucchiata sui talloni, e lungo le caviglie risaltavano dei rigagnoli scuri che potevano essere fango o sangue raggrumato. Erano i piedi di chi si è sbarazzato delle scarpe e ha camminato per chilometri in un attacco di pazzia. «Le scarpe, – boccheggiò Rachele, – dove hai messo le scarpe…» Ma lui quel giorno non era solo scalzo e puzzolente. Era sconvolto. Attraversò la porta dell’ingresso urtandole la spalla. Senza darle spiegazioni, si inoltrò nella casa svanendo per il corridoio. Lei gli corse dietro, seguí i rumori che provocava passando da una stanza all’altra. Sbam sbam sbam! I cassetti, ecco cosa stava facendo. Li rivoltava furiosamente, ma non come farebbe un ladro: sembrava un alienato a cui qualcuno aveva garantito che la propria sanità mentale era nascosta in uno dei cassetti della villa. Rachele era spaventata: «Ma che succede? Mi vuoi dire cosa cazzo succede? Per favore!» Rocco le ringhiò contro: «Dammi i soldi». La ragazza restò paralizzata. Una mano invisibile la condusse su per le scale, le fece raccogliere dalla sua stanza la Smemoranda con la copertina azzurra costringendola a tirare fuori dall’agenda tre biglietti da cinquantamila lire. Tornò da Rocco. Il ragazzo strinse i soldi nel pugno, poi li intascò. Per qualche istante il suo sguardo incrociò quello di Rachele. Non disse «grazie». Non disse proprio niente. Girò i tacchi e scomparve. La sera stessa – mentre lei era chiusa in camera a metabolizzare lo shock – fece irruzione nella villa il padre del ragazzo, scortato dal colonnello e da sua moglie. Parlavano a voce alta, sembravano alterati tutti e tre. La chiamarono in soggiorno. Le domandarono quand’era l’ultima volta che aveva visto Rocco continuando contemporaneamente a litigare (il colonnello diceva: «Per quale motivo si è deciso solo adesso!» il padre di Rocco cercava di difendersi: «Le ripeto che non lo sapevo. Non sapevo che mio figlio veniva qui ogni…»). «Oggi pomeriggio, – tagliò corto Rachele, – l’ultima volta che l’ho visto è stato oggi pomeriggio». Saltò fuori che i genitori di Rocco avevano perso le tracce del ragazzo almeno da una settimana. Era scappato di casa. O, come cercò di precisare l’uomo dell’appalto: «Il suo problema l’aveva strappato via dal nido famigliare». Si trattava di un tossico, un eroinomane alle prime settimane di dipendenza. Non se ne erano accorti? Se è per questo aveva già problemi molto seri la prima volta che aveva messo piede nella casa di Rachele («Me lo portavo dietro perché speravo che, guardandomi lavorare, – disse il padre di Rocco sulla difensiva, – insomma… è dai buoni esempi che impariamo a correggere gli errori, no?») La discussione proseguí in maniera caotica per circa un’ora: il colonnello cercava di non disintegrarsi le mascelle al pensiero di aver avuto un drogato in casa, sua moglie lo guardava in stato catatonico, il padre di Rocco a un certo punto non si capí se stesse cercando di raccogliere informazioni sul ragazzo o di comprendere se la parola «tossicodipendente», associata a un discendente in linea retta, rientrasse tra le cause per l’annullamento di un contratto con la pubblica amministrazione. «E questo è tutto», disse Rachele portando lo sguardo verso una zona morta del letto. «L’hai piú rivisto?» chiesi provando a ridurre la distanza da cui eravamo separati. «No». Adesso mi sembrava che la voce le tremasse. A questo punto successe una cosa molto strana: la abbracciai. Uno slancio sulla cui vera natura non mi feci domande. Volevo consolarla per aver perduto un ragazzo rispetto al quale rappresentavo una misera seconda scelta? Volevo consolare me? O ero in preda a una gioia incontenibile per essermi sbarazzato di un pericoloso avversario senza avere mosso un dito? Fatto sta che ora ce l’avevo tra le braccia. E – cosa ancora piú strana – Rachele non interpretò il mio abbraccio come un tentativo di aiutarla a elaborare il lutto. La testa le scattò in avanti. Le nostre fronti si scontrarono. Mi morse istintivamente il labbro superiore lasciandomi mezzo paralizzato dalla sorpresa. Pochi minuti dopo stavamo di nuovo facendo l’amore nel letto di Luca Giovinazzo. Fu in questo modo che ebbe inizio la mia storia con lei. Prendemmo a vederci quasi ogni giorno, a vagare per la città. Rachele non parlò piú di Rocco. Non lo rivide, non lo cercò, non si mobilitò per capire dove fosse finito, e se lo fece io comunque non ne seppi niente. A mia volta, stavo attento a non fare domande. Ero convinto che la reticenza contribuisse a imprigionare l’argomento nelle segrete dove credevo che la ragazza lo avesse confinato pur di non pensarci. Non provai neanche a indagare su una loro eventuale relazione sessuale, che pure era il gingillo con cui mi tormentavo almeno un paio di ore al giorno. Temevo che ci fosse il rischio di rompere l’incantesimo, di scoperchiare qualcosa di pericoloso. Mi sbagliavo. Rachele era molto piú in gamba di quanto riuscissi a credere vent’anni fa. Già allora rincorreva un tipo di saggezza che a malapena si raggiunge da adulti: la cognizione dei propri limiti. Lui per lei era troppo, e questa consapevolezza le sconsigliava di vederlo. Le aveva «aperto gli occhi sul mondo», d’accordo, ma alla lunga avrebbe potuto distruggerla. Oppure lui ne sarebbe uscito peggio di quanto non stesse già. Il che rese la decisione di non cercarlo dolorosa e dignitosa e adulta piú di quanto avessi mai potuto immaginare allora. A dispetto delle mie semplificatorie paranoie di sedicenne, non credo di essere stato per lei una scelta di ripiego. Rachele non ragionava in questi termini. Questo era il modo in cui ragionavo io. La sua disposizione nei miei confronti dipendeva da un altro aspetto: ero un ragazzo che, esattamente come lei, aveva preso a farsi un sacco di domande sul mondo da cui era circondato. C’era qualcosa di sbagliato, nel nostro mondo – e condividere un disagio, a una certa età, significa riuscire a condividere anche tutto il resto. Cosí, in certi pomeriggi di fine aprile, capitava che attraversassimo in motorino tutta la città. Abbandonavamo le vie del centro e vedevamo i palazzi della periferia farsi sempre piú distanti tra di loro. Superavamo la statale 16 e vagavamo senza meta fino a quando il profilo mostruoso della zona industriale non compariva sopra uno sfondo da giorno del giudizio. Poi tornavamo a casa e la tv diceva: «La nube tossica si sta spostando verso i paesi dell’Europa occidentale. Nelle zone limitrofe al luogo del disastro, si stima che le radiazioni superino di cinquemila volte il valore massimo riportato dagli strumenti di misurazione attualmente disponibili…» Capitolo undicesimo Gli effetti che l’esplosione del reattore numero quattro produsse sugli abitanti di Bari furono diversi a seconda di chi ne fu contaminato. Per noi ragazzi fu un lampo capace di dar ragione al sentimento di sciagura-in-atto che avvertivamo da mesi. Ma per gli adulti… Ricordo scene di vita famigliare che ho ritrovato incise nella memoria di tutti i miei coetanei. Vidi mia madre tornare a casa col bagagliaio completamente occupato da pacchi di pasta in confezioni da cinque chili. Fece la stessa cosa nei giorni successivi, avventurandosi in sorpassi e retromarce che le provviste accumulate fino al tettuccio resero problematiche, se non capaci di farla arrivare in pochi istanti lí dove il lavoro degli isotopi avrebbe richiesto anni. Le sentii dire: «Non azzardarti a toccare una sola foglia di insalata!» E il latte: solo quello a lunga conservazione. Spiegò a mio padre che, «molto probabilmente», a partire dal 1991 nessuno avrebbe potuto piú addentare una forchettata di spaghetti in vita propria: il grano duro regolarmente conservato aveva una scadenza di cinque anni, mentre il periodo di dimezzamento dell’uranio sfiorava i cento. Infine, i comunisti. E niente era piú assurdo della parola «bolscevichi» uscita dalle sue labbra. Non l’avevo mai sentita parlare di politica. Non ne avevo mai sentito parlare da nessuno. L’unica ideologia a cui il Meridione d’Italia si fosse mai davvero interessato era la necessità di trovare un rimedio adatto ai tempi per perpetrare se stesso. Non ricordo da bambino una sola vera preoccupazione per i cavalli dei cosacchi davanti alle fontane di San Pietro. Invece adesso – dalla mamma ai ragionieri di papà all’edicolante sotto casa a un’eterogenea schiera di parenti e conoscenti per i quali l’unica vera minaccia statalista era sempre consistita nell’ipotesi che potesse interrompersi il ciclo bisestile dei condoni fiscali – ci fu tutto un ribollire di maledizioni dirette contro Chrušcëv (che era morto nel 1964), contro l’Internazionale comunista (il cui ultimo congresso risaliva agli anni in cui l’Iran si chiamava ancora Persia), contro la Rivoluzione d’ottobre, e ovviamente contro i cosacchi, i quali – sepolti nei gulag da quasi mezzo secolo – si rifecero una vita cavalcando il piatto orizzonte onirico del Tavoliere delle Puglie. Mia madre non era piú sensibile alle sorti di Solidarność di quanto non lo fosse alla decrittazione dei codici maya. Il suo allarmismo non era dunque politico. E non era neanche semplice allarmismo, dal momento che gli strali venivano da una donna responsabile, incline all’ottimismo, capace di tenere duro senza mai cedere allo sconforto almeno fino a quando non fosse accaduta davvero una catastrofe. Dunque, era bizzarro che ora si agitasse davanti a un pericolo cosí intangibile come la nube tossica proveniente dall’Ucraina. La sua ansia aveva ai miei occhi qualcosa di assurdo. Ancora non capivo che gli adulti, quando hanno i nervi a fior di pelle per problemi all’apparenza incomprensibili, significa spesso che sono preoccupati da qualche cosa di diverso e comprensibilissimo. E dunque, cosa preoccupava realmente mia madre? Erano stati i troppi cambiamenti dell’ultimo periodo? L’impetuosità della nostra scalata era forse circondata da qualcosa di oscuro, vago e minaccioso quanto le radiazioni di Oernobyl? Probabilmente mia madre, poco incline a formulare una spiegazione per una serie di nuove inquietudini che cominciavano a rosicchiare la sua vita, preferiva trovarla nel Grande Niente venuto dall’Est. Mio padre invece no. Papà sfruttò il disastro tempestivamente. Erano mesi che i suoi consulenti finanziari gli consigliavano di diversificare: «Si fidi, – dicevano, – i corredi non sono tutto nella vita». Cosí, a partire da maggio, fu possibile vederlo in giro con un certo Nicola Bellomo. Si trattava di un altro di questi cinquantenni che nella vita avevano fatto ogni tipo di mestiere, capaci di passare dai trasporti all’edilizia con la stessa furiosa disinvoltura che li vedeva correre dall’ufficiale giudiziario con una vera di brillanti nascosta nel cappotto per farsi annullare un protesto. Adesso, dopo avere sventrato mezzo golfo di Taranto con un complesso turistico ispirato a Rosaspina dei fratelli Grimm, Bellomo era stato fulminato dall’idea che una buona risposta ai problemi delle centrali sovietiche fosse provare a vendere – nel centro di Bari – appartamenti dotati di rifugio antiatomico. «Senza esagerazioni, – diceva Bellomo a mio padre, – ci basta piazzare due o tre di queste palazzine prima che sfumi il panico e potremo festeggiare un Capodanno col botto». Nel giro di poche settimane, attirarono nei loro uffici decine di potenziali acquirenti: cittadine e cittadini con molti soldi in tasca a cui veniva chiesto di esaminare le piccole cantine di complemento disegnate sul progetto – semplici stanzoni a cui le pareti rivestite di cemento armato conferivano lo status di «rifugio omologato dall’Aiea», e che alcuni di questi facoltosi individui iniziarono a valutare con interesse quando vennero visitati non dal fantasma di un tumore tiroideo ma dal sospetto che in quegli immobili maggiorati del venti per cento sul prezzo di mercato ci fosse qualcosa di chic. «Un piccolo affare, ma molto vantaggioso. E poi ammettiamolo, l’idea è geniale, – disse papà durante un pranzo di quel periodo cercando di sconfiggere la perplessità di mia madre. – Tanto che, – continuò, – se solo riuscissimo a trovare un terzo socio…» E già stava cercando di perorare una causa dentro l’altra. «Ma scusa! – disse voltandosi di scatto verso me dopo avere sbattuto un pugno sul tavolo. – Ma scusa scusa scusa… – tornò a ripetere cercando di conquistarmi con un sorriso, – perché non glielo dici al padre del tuo amico? Come si chiama? Dài, su, come si chiama…» Quel nome lo conosceva benissimo, pensai, se lo stava carezzando ossessivamente dall’inverno precedente. Rimasi zitto. «Hai capito di chi stiamo parlando?» chiese, e già nel suo sorriso c’era un pizzico di delusione, come se la mia amnesia fosse costruita ad arte per danneggiarlo (e d’accordo, era fittizia). «Ma sí! – concluse tirando un sospiro del tipo: possibile che in questavitadimerdamela debba sbrigare sempre da solo? – Ma sí, sí! Mario Lombardi! Avvocato Mario Lombardi. Allora, perché non glielo dici al padre del tuo amico?» Erano questi i diabolici poteri di mio padre: contenere, nello spazio di un sorriso, tutta una serie di ulteriori significati rispetto alla semplice richiesta di far presente al padre di Vincenzo che lui e un palazzinaro multiprotestato cercavano soci per un progetto immobiliare a prova di bomba (l’avvocato Lombardi avrebbe avuto solo da guadagnarci, sottintendeva il sorriso di papà, dunque ci avrebbe guadagnato anche Vincenzo, al quale, se ero davvero un amico, non potevo rifiutarmi di fare un favore del genere; ecco, cosa poteva esserci in una semplice contrazione muscolare di chi mi aveva messo al mondo). Se fossero stati ancora i tempi di Long John Silver, probabilmente avrei ceduto al ricatto tra mille macerazioni interiori. Ma era passata molta acqua sotto i ponti. E avevo grande stima dell’odio di Vincenzo per suo padre. E amavo una ragazza che era stata abbagliata da un tossico capace di mostrarle cosa si nascondeva dietro le quinte di un normale teatrino domestico. Fronteggiai mio padre con un sorriso piú largo del suo: «Il numero dello studio Lombardi è sulle Pagine Gialle. Chiamalo direttamente tu. Il padre di Vincenzo sarà felice di essere dei vostri». Mi lasciavo alle spalle queste scene, e andavo a prendere Rachele in motorino. Non credo di avere mai girato per una città come feci con lei nel corso di quella primavera. Il combustibile delle nostre peregrinazioni era un denso sentimento di ostilità per tutto ciò che di «ufficiale» ci stava intorno. Detestavamo i nostri genitori. Cominciammo a detestare la scuola. Odiavamo la tv, di cui apprezzammo in quel periodo solo i filmati delle città fantasma intorno a Kiev, persuadendoci che il devastante scenario di Oernobyl fosse un termometro forgiato a millecinquecento chilometri di distanza per misurare il livello d’intossicazione spirituale delle nostre città. Disprezzavamo gli uomini politici italiani, e quando ci capitava tra le mani un quotidiano che dedicava la prima pagina a un sempre componibile conflitto tra Democrazia Cristiana e Pci, disprezzavamo il servilismo dei redattori del giornale. Erano questi sentimenti ad attirarci magneticamente (noi e il Vespino) verso i luoghi della città in cui potevano venire condivisi. E luoghi del genere, a Bari, avevano iniziato a spuntare come funghi: birrerie che funzionavano come sale da concerto confinate a qualche metro sotto il livello stradale, dove gruppi death metal si esibivano gratuitamente per un pubblico di venti, trenta, talvolta persino cinquanta persone che pogavano come matte. Se non erano questi luoghi, erano i negozi di dischi d’importazione o i piccoli club che rivendicavano la propria identità attraverso le fanzine disposte sul bancone. Scaricavamo la tensione che si accumulava nei nostri corpi pogando insieme agli altri oppure scopando a casa mia, per ritrovarci nudi e svuotati ma incredibilmente ancora tesi dentro un letto a una piazza. Era allora che, per stemperare il residuo nervosismo, risalivamo in motorino e puntavamo lontano, dove nessuno avrebbe potuto raggiungerci, di corsa verso la zona industriale, di fronte alle enormi chiocciole delle turbine elettriche e alla mostruosità degli altiforni e delle lingottiere. Ritornavamo in città e, dopo avere parcheggiato, ce ne stavamo seduti nei giardinetti di piazza Umberto a contare i tossici che ci passavano davanti. Io e Rachele ce ne accorgevamo solo adesso, ma questi ragazzi erano stati sotto i nostri occhi da sempre, con i loro sudori freddi e le loro piorree, gli abiti trasandati e l’ansia di raggiungere un posto sempre diverso da quello in cui si trovavano. In quei momenti non potevo sfuggire al fantasma di Rocco. Guardavo Rachele accanto a me e mi chiedevo con angoscia se anche lei ci stava pensando. Tiravo un sospiro, cercavo di darmi una calmata e mi dicevo che il nostro interesse per i tossici era di altro tipo. Loro non andavano piú ai concerti di death metal. Forse avevano smesso persino di innamorarsi, di scopare, non avevano interesse a distribuire una petizione contro la reaganomics perché avevano fatto del proprio stesso corpo una protesta e uno scandalo vivente. Erano i nostri martiri moderni? Erano dei santi? Con questi tetri interrogativi, ce ne tornavamo a casa. E poi, che strano… non era cosí infrequente che, nel corso delle nostre scorribande – seduti al tavolino di un bar o in marcia anche loro per le strade della città –, incrociassimo i profili di due persone conosciute. La primavera del 1986 fu anche il periodo in cui Vincenzo e Giuseppe iniziarono a frequentarsi con un’intensità che non avevano piú avuto dal giorno della loro scazzottata nel cortile della scuola. Il corpulento sedicenne mai sfiorato dal sospetto che suo padre rischiava di crollare alla prima mossa falsa e l’orfano di madre che viveva in funzione del rancore; il ragazzo per cui il mondo si riduceva a un luna park e il ragazzo che ogni sera risaliva dai bassifondi dei quartieri dormitorio… Eppure, non appena avevano un minuto libero, correvano l’uno verso l’altro. Quando cioè Giuseppe non trascorreva il tempo a leggere «Motociclismo» steso su una sdraio a bordo piscina. E quando Vincenzo non restava nascosto dentro la gigantesca zona d’ombra di Japigia. Si davano appuntamento al parco pubblico e trascorrevano insieme il resto della giornata. Ma cosa si dicevano nel corso dei lunghi pomeriggi da cui noi eravamo esclusi? Perché un’altra caratteristica della loro frequentazione fu proprio questa: una pubblica intimità a prova di bomba. Li avvistavamo per la strada. Sapevamo dell’inatteso riavvicinamento che li portò per qualche mese a diventare inseparabili. Ma il nocciolo del loro rapporto ci era ignoto. «Non ci crederai, – mi avrebbe detto Giuseppe vent’anni dopo, – ma non ci dicevamo proprio niente di speciale. Vincenzo non arrivò a raccontarmi quello che sapeva della mia famiglia. E io non fui mai in grado di esprimergli l’ammirazione che provavo per lui. Quando iniziammo a uscire insieme (quando Vincenzo fece in modo che accadesse, perché fu lui a cercarmi per primo), pensai che mi stesse concedendo un enorme privilegio. Andarsene in giro al suo fianco faceva piú colpo che arrivare a scuola direttamente in Lamborghini. Ma confidenze, confessioni, segreti… niente di tutto questo. Uscivamo insieme e tanto bastava. Se avessimo parlato in maniera compiuta di qualcosa sforzandoci di essere espliciti, allora l’intensità delle nostre uscite si sarebbe azzerata. Proprio la reticenza ci consentiva di passeggiare l’uno accanto all’altro come se avessimo il cervello perennemente spalancato: ecco allora che ci dicevamo tutto». Ecco allora che si dicevano tutto. Ed ecco che Vincenzo, in un delicato slancio di altruismo, decideva di nobilitare Giuseppe portandoselo a spasso come in un racconto di Fred Uhlman. Ovvio che le cose non potevano stare in questo modo. Molto tempo dopo, il primo a dischiudermi uno spiraglio sulla faccenda fu l’ormai trentaquattrenne Emilio Giannelli, trasferitosi a Sassuolo come ingegnere in un’azienda di cartelli stradali. La convulsa giovialità con cui mi accolse sembrava in grado di ridimensionare tutto il resto – ad esempio, la comprensibile sorpresa (che non ebbe) per un ex compagno di classe perso di vista da vent’anni, piovuto a casa sua allo scopo di ottenere informazioni su altri due ex compagni anche loro spariti dalla circolazione. Oltre che alla mia, Giannelli sembrava entusiasticamente disinteressato alle sorti di Vincenzo e di Giuseppe. Il che non gli aveva impedito di approfondire negli anni la questione. «Scusa, – disse dopo aver insistito perché bevessi insieme a lui il secondo Ballantine’s alle sei del pomeriggio, – ma non hai mai associato il loro riavvicinamento al fatto che Vincenzo in quel periodo incominciò ad andare in crisi?» «In crisi? Vincenzo?» «Ma sí, ti ricordi come sfogliava in classe tutti quei giornali? Li sfogliava furiosamente». «Sfogliava i giornali…» «Proprio cosí». «È vero, sfogliava i quotidiani in classe. Ma non capisco dove vuoi arrivare». «Non lo capisci perché ti serve un altro bicchierino». «Emilio, non credo che ubriacarsi a quest’ora possa servi…» A questo punto successe una cosa molto strana, una delle tante assurdità a cui mi capitò di assistere rintracciando i nostri vecchi amici. Emilio scattò in piedi visibilmente brillo. Aprí le braccia come a voler comprendere il soggiorno pieno di soprammobili e di poltrone con la foderina e: «Senti! – disse con gli occhi lucidi, – non sei venuto fino qua per chiedermi se mi sento di merda dopo che mia moglie se n’è andata di casa, giusto?» «Mi dispiace…» «Lasciamo perdere! – mi interruppe, – figurati se mi va di parlare di quella troia. Non sei venuto a chiedermi di lei. Sei venuto a chiedermi di loro. La cosa evidentemente ti sta a cuore. La cosa ti interessa. La cosa non ti fa dormire la notte. Perché anche tu, mio caro, stai di merda. Confessalo –. Cercò la sedia che aveva appena abbandonato: – Se sei ancora ossessionato da quei due, – riprese, – mi dici perché non riesci a mettere insieme i pezzi e io invece sí? Vincenzo. I quotidiani in classe. Suo padre. I quotidiani locali. Che cosa leggevamo su quei giornali di merda durante la primavera del 1986? Su, fai uno sforzo di memoria…» La versione di Giannelli fu avvalorata da altre due fonti, e questa volta si trattava di vecchi amici in condizioni psicofisiche perfette. Effettivamente, sui giornali di quel periodo, dopo le pagine dedicate ai ritardi con cui le autorità sovietiche avevano diffuso la notizia del disastro, superando la politica interna e gli indici di borsa, si arrivava agli scoppiettanti fatti di cronaca della nostra città, tra i quali tenne banco per settimane l’annuncio di un possibile giro di vite intorno al clan dei fratelli Terlizzi. Leggemmo di come Giovanni Terlizzi, il piú giovane dei due, fosse stato arrestato nel vecchio Stadio della Vittoria durante l’incontro calcistico BariInter. Stando ai cronisti, Terlizzi junior se ne stava bello comodo in tribuna, da dove sarebbe andato via senza fastidi al termine della partita se il primo e unico gol della squadra di casa (41 ´ del primo tempo per un match poi perso uno a tre) non lo avesse portato, «travolto da una gioia incontenibile», a esplodere in aria due colpi di pistola. Secondo Giannelli e le altre persone da me interpellate, la meticolosità con cui effettivamente (effettivamente soltanto adesso che ci pensavo) Vincenzo se ne stava confinato all’ultimo banco a leggere i giornali era legata al desiderio di veder comparire sulle pagine della cronaca il nome di suo padre. «Se lo aspettava, – ringhiò Giannelli, – avevano arrestato uno dei boss, di conseguenza sarebbero dovuti arrivare a tutto il gruppetto di notabili, amministratori e piccoli uomini politici senza i quali i fratelli Terlizzi non sarebbero andati oltre il contrabbando di sigarette». Ma, a parte una decina di arresti ai danni di piccoli e piccolissimi spacciatori, non accadde altro. E piú la vicenda si sgonfiava, piú i giornali indulgevano in particolari sul folcloristico arresto allo Stadio della Vittoria. Ma niente nomi di peso. E mai ovviamente un solo accenno all’avvocato Mario Lombardi. Vincenzo stava dunque «andando in crisi»? «A questo devi aggiungere l’interruzione del suo rapporto con la Dama in nero», mi dissero separatamente due ex studentesse del Cesare Baronio che all’epoca avrebbero fatto qualunque cosa per portarselo a letto – le quali, dall’alto dei loro matrimoni eccellenti, avevano evidentemente perso molto tempo a rimuginare sul ragazzo piú affascinante che ritenevano di avere incontrato nella vita. La Dama in nero era stata pestata a sangue dai creditori di suo marito, confermarono le nostalgiche signore. A loro dire, l’arresto di Giovanni Terlizzi produsse per tutta Japigia una scossa tellurica di nervosismo generalizzato, quanto bastò per far decidere a «questi malviventi» non solo che il marito della Dama in nero era vivo, ma che lei era al corrente del suo attuale domicilio. Miriam (ex quinta C) mi assicurò che Vincenzo apprese la notizia al Jolly e cercò in tutti i modi di mettersi in contatto con la donna, inutilmente. A questa già accorata descrizione, si aggiunse l’inverosimile scena evocata da Mara (ex sezione F), che mi parlò di un Vincenzo implorante davanti alla porta chiusa di Matilde, la quale non avrebbe mai voluto farsi vedere da lui ridotta in quelle condizioni («aveva la faccia gonfia come un’anguria»). Ma soprattutto – qui Mara diede prova di una certa perversione – la Dama in nero secondo lei tagliò i ponti con Vincenzo a causa di una differenza di classe che l’incidente aveva reso manifesta in modo irreparabile: «Lei apparteneva a Japigia, apparteneva persino a quelle botte. Capisci allora che non poteva rivederlo?» Entrambe mi confermarono tra l’altro che, sempre nella primavera del 1986, Vincenzo iniziò a frequentare Santo Petruzzelli, l’ambiguo tenutario di una delle piú note case tossiche di Japigia. Sapevo molto bene come le lucenti signore dell’opulenta borghesia barese usassero la fantasia (nonché un certo romanticismo) per non venire inghiottite dalle voragini di noia che normalmente esorcizzavano portando all’esasperazione psicoanalisti di fama nazionale. Dunque, presi con le pinze i racconti di Miriam e di Mara. E tuttavia, dal momento che a partire da quel periodo nessuno ebbe piú notizie della Dama in nero, e dal momento che Enrico Portoghese (sezione D, oggi perito in un’agenzia assicurativa, un personaggio tristissimo ma provvidenzialmente incapace di slanci immaginativi) mi diede una versione dei fatti non troppo diversa, pensai che qualcosa di vero doveva esserci. Dunque fu per questo che si riavvicinò a Giuseppe? La sua frustrazione? Il senso di impotenza? «Il suo bisogno di farla pagare a qualcun altro, cazzo. La malvagità di quel figlio di puttana!» disse Giannelli prima di mettermi alla porta. «Rifletti, fu da allora che le cose per Giuseppe iniziarono a precipitare» (questa fu Miriam, sbattendo le ciglia in un caffè di via Sparano). E tutti, a ogni modo – Giannelli, Mara, Miriam, perfino il catacombale Enrico Portoghese –, furono concordi nel ritenere che la frequentazione tra Vincenzo e Giuseppe non fosse stata cosí avara di parole come potevo credere. E furono d’accordo perfino sull’oggetto delle loro chiacchierate. «Aspetta un attimo, – feci a Giuseppe quando lo rividi, – ma allora questa storia secondo cui Vincenzo ti consigliava in continuazione di farti finalmenteunaragazza?» Sul viso devastato di Giuseppe si disegnò uno stranissimo sorriso: «Ci sarei arrivato… – disse con aria sorniona ai bordi di una piscina ormai putrida, – lo so che tutti sareste pronti a scommettere sull’ipotesi del plagio. E invece le cose stavano diversamente. Vincenzo era affascinato da me almeno quanto io lo ero da lui. Io ammiravo gli aspetti visibili della sua personalità. Vincenzo forse di me invidiava le cose piú nascoste, quelle che lui intuiva ancora meglio di quanto riuscissi a fare io. Lui sapeva come, per certe sfide, fossi in grado di andare molto piú a fondo di lui. Piú a fondo di tutti quanti voi, se è per questo. E Dio sa quanto pagherei oggi perché non fosse stato cosí». A sentire Giuseppe, si trattò insomma di un incontro ad armi pari. Donatella. Ed ecco quale fu la conseguenza. Donatella Lattanzi o Donatella Lattanzio? Il dubbio deve essermi entrato nella testa subito dopo aver lasciato Bari, e poi mi ha fatto compagnia per anni, fino a quando non ho sentito il bisogno di cercare anche lei, ritrovandomi a scorrere vertiginosamente il dito indice tra i quasi centocinquanta Lattanzi e i ben trecento Lattanzio presenti sull’elenco telefonico della provincia di Bari. Lattanzi… Donatella Lattanzi. «Sí, sono io. Chi parla?» Ah, di nuovo la sua voce… Di questa ragazza si può dire che nel 1986 aveva sedici anni, che era la primogenita di una maestra in pensione e dell’arcigno titolare di un negozio di arredamenti, e che sopravvalutava il potere dei gas nobili come strumento di seduzione. Nei mesi precedenti si era fatta le ossa frequentando il giro delle discoteche pomeridiane, dove cercava di fare colpo ballando Who’s That Girl avvolta in un vestito rosso di tessuto plastificato sulle cui spalline aveva attaccato quattro (quattro!) palloncini colorati e gonfi di elio. «Chi è quella cretina?» dicevano i ragazzi. Era riuscita a guadagnarsi un minimo di credibilità soltanto di recente, dopo avere sfondato un tavolino di cristallo perdendo i sensi completamente ubriaca alla festa di compleanno della sua catechista. Eri un trascurabile puntino rosa tra i nodi di raccordo della ragnatela cittadina, ti succedeva qualcosa di eclatante e avevi finalmente un nome. Adesso ci accorgevamo che la presenza di Donatella veniva registrata in qualunque posto fosse possibile notarla e, sbronze a parte, cercava di conquistarsi la sua prima copertina sul giornale scandalistico sfornato dalla nostra immaginazione fumando Rothmans Blu in pantaloni di pelle nera sotto incredibili camicie di pizzo dai colori psichedelici. Non arrivava al metro e cinquantotto, ma la sua frangetta color petrolio e il viso tondo da furbastra, e un seno semplicemente prodigioso, facevano di lei una festa di tornanti che attraversava il chiaroscuro di un Helmut Newton di fortuna per deragliare negli assolati parchigioco delle bambine grassottelle. A seconda della prospettiva da cui inquadravi le sue smorfie, avevi voglia di rovesciarle lungo la schiena una caraffa di aranciata o di legarla a un letto. Se bisognava dimostrare in maniera eclatante di «sapersi fare una ragazza», allora quella ragazza era lei. Giuseppe incominciò a puntarla. Ma Donatella aveva tutto il necessario per mettere in difficoltà chi le si avvicinava oltre la distanza di sicurezza. Insomma, lei era viva. Cosa che Giuseppe fu costretto a constatare sin dalla sera in cui, all’uscita dal cinema, la separò dal resto delle amiche puntandole un dito contro: «Ehi tu! tu sei quella che ha combinato tutto quel casino a casa della catechista…» Seguí una grottesca dichiarazione d’intenti con cui Giuseppe assicurò alla ragazza che «molto presto» sarebbe stata sua. Donatella aggrottò le sopracciglia calibrando la smaltata ostilità con cui ritenne di accogliere chi le aveva procurato l’immenso piacere di essere riconosciuta per la strada. «Ah sí?» disse sfoderando un sorriso pieno di scetticismo. Giuseppe fece un passo indietro: «Presto… – le assicurò sforzandosi di continuare a sghignazzare, – ma non adesso. Adesso c’ho da fare un’altra cosa». Montò sulla Zundapp e andò via coprendo su una ruota il breve tratto d’asfalto antistante il cinema Galleria. A partire da allora presero vita quelli che potrei definire con indulgenza «i tentativi di Giuseppe di mettersi con Donatella», ma che di fatto furono solo una serie di fallimentari buffonate. Giuseppe era completamente ignaro di cosa si dovesse fare per corteggiare una ragazza. Sapeva spendere, ma non sapeva sedurre. Sapeva regalare, ma non sapeva conquistare. Qualunque bene di consumo prodotto in serie non aveva per lui molti segreti, e forse la sua libido si scatenava piú limpidamente davanti all’ultimo modello di Ktm che al cospetto della prorompente ragazza con cui sperava di dimostrarci la sua virilità. Credo che qualcosa in grado di spiegare una simile psicologia fosse l’ostinazione con cui ci trascinò a vedere Ghostbusters ripetutamente: «Su ragazzi, – ci implorava, – ancora un’altra volta!» Il che significava soprattutto: «ancora quella scena». La scena in questione – un’imprevista scintilla di autocoscienza scoccata da quella macchina di perfetta obnubilazione che fu il cinema hollywoodiano degli anni Ottanta – arriva alla fine della pellicola, quando Gozier, una divinità sumera materializzatasi dopo millenni nel cielo di New York, fa esplodere fra i tuoni la sua voce cavernosa dicendo agli acchiappafantasmi arrampicati sulla cima dell’Empire State Building che il primo pensiero formulato dalle loro teste prenderà vita per radere al suolo la città. A quel punto i quattro uomini in tuta bianca cercano di non pensare a niente. Si dicono l’un l’altro: «Facciamo il vuoto mentale, facciamo il vuoto mentale!» Pochi secondi dopo, le strade di Central Park West vengono scosse da un rumore assordante: un gigantesco pupazzo bianco vestito da marinaretto compare tra i grattacieli pronto a portare morte e distruzione. Dan Aykroyd confessa: «Non è colpa mia, ci è entrato da sé: non ho potuto non pensarci!» E quando Bill Murray gli chiede: «Ma insomma, si può sapere a cosa diavolo hai pensato?» lui dice sbigottito: «Al… al pupazzetto della pubblicità dei marshmallow che mangiavo da bambino». Era qui che Giuseppe si ribaltava sulla sedia, mentre il pupazzone dei marshmallow calpestava le automobili tra le urla terrorizzate dei passanti, comunicandoci come – ancora prima delle immagini libidiche primarie – le presenze che popolavano i lati oscuri delle nostre menti erano i pupazzetti delle pubblicità che ci avevano fatto compagnia quando eravamo bambini. Teneri buffi amorevoli fantasmi che, incarnati anni dopo in qualche cosa di reale, diventavano mostruosi. I quattro acchiappafantasmi neutralizzavano il pupazzone dei marshmallow. Giuseppe si asciugava le lacrime galvanizzato da una strana, inedita aggressività che gli consentiva di esibirsi in scene come quella che lo portò a puntare il dito contro Donatella alla fine dello spettacolo: «Ehi tu!» Quanti altri «ehi tu!» seguirono, prima dell’arrivo dell’estate? Giuseppe non corteggiò ma molestò Donatella in qualunque luogo pubblico se la trovasse davanti. Utilizzò gli unici canovacci a sua disposizione, la maggior parte dei quali appresi dai blockbuster dove ragazzi dalle mascelle fuori sesto approcciavano le coetanee con un linguaggio degno di un minorato, e queste ultime – di solito posizionate davanti all’armadietto del college – ci stavano. A ogni epiteto scurrile o dopo ogni plateale tentativo di baciarla davanti a tutti (nemmeno un vero tentativo ma un disperato segnale di preavviso, una richiesta di venire neutralizzato), Donatella gli dava dell’imbecille e andava a rifugiarsi nel gruppetto delle sue amiche. In un’altra situazione non avrebbe opposto resistenza. Se Giuseppe si fosse limitato a introdursi nella scuola di Donatella durante il cambio dell’ora prendendola in disparte in uno dei crepuscolari corridoi imbottiti di amianto che attraversavano il prefabbricato, sarebbe stato sufficiente un semplice «mi piaci» per ritrovarsi insieme a lei nei gabinetti dotati di porta scorrevole che il liceo scientifico Enrico Fermi metteva a disposizione dello sfogo ormonale e del consumo di droghe leggere. Ma invece di questa semplice impresa, Giuseppe scelse il circo pubblico. Donatella era stata costretta a respingerlo ogni volta – e all’inizio si era ovviamente chiesta come potesse piacerle un individuo tanto idiota da infliggere a se stesso scacco matto in quel modo. Ma poi doveva essere stata toccata dal sospetto che l’obiettivo di Giuseppe fosse quello: ovvero chiederle di scegliere mettendola nella condizione di non poter scegliere affatto. Imprigionati nella gabbia di questo paradosso, il modo in cui Giuseppe cercò di renderla ridicola in pubblico fu proprio l’espediente grazie al quale riuscí a introdursi nel privato inaccessibile rapporto che a un certo punto iniziò davvero a nascere tra i due. Donatella era una ragazza molto semplice, e aveva bisogno di immaginare che anche il mondo lo fosse. Ma in un ragazzo come lui, che iniziava a corteggiarla come un bullo e poi gettava tutto in farsa, fu costretta a riconoscere anche qualcos’altro, toccando una parte cosí profonda e spinosa della faccenda che era costretta a risalire immediatamente in superficie. Bisognava riportare le cose verso la normalità. E cosa c’era di piú normale delle scenette in cui le pink lady si lamentavano dei loro corteggiatori? «Quello stronzo! Non lo sopporto proprio!» ripeteva Donatella alle sue amiche. Ma era un odio superficiale e impenetrabile come una lastra di ghiaccio, sotto la quale lei sentiva rifluire tumultuose correnti di angoscia e confusione – il che, tra le contraddittorie sfumature di cui può tingersi il sentimento amoroso, rappresentò per Giuseppe una seconda scelta molto migliore della prima. Lo scioglimento arrivò agli inizi di luglio. Il conclave del Cesare Baronio aveva deciso di farmi superare l’anno con la media matematica del sei e qualcosa (un esito che mi sembrò la naturale conseguenza per aver trascorso sui libri almeno tre quarti d’ora al giorno negli ultimi tre mesi). Vincenzo ottenne un risultato da ginnasta sovietica alle olimpiadi estive. Giuseppe fu rimandato in tre materie – una decisione generosa, che scatenò per almeno un quarto d’ora la furia di sua madre contro la preventiva ostilità del corpo insegnante. Questo piccolo incidente non impedí ai Rubino di spalancare i cancelli della villa a chiunque avesse voluto approfittarne. Fu cosí che, da fine giugno agli inizi di agosto, a casa di Giuseppe si presentò ogni giorno una schiera difficilmente quantificabile di adolescenti in costume da bagno e lenti da sole e teli da mare ficcati in zaini già rigonfi di pareo, oli abbronzanti e borsettine per il trucco. Molti erano compagni di scuola. Ma arrivarono anche ragazzi quasi del tutto sconosciuti, i quali si trovarono insperatamente a scorrazzare sull’erba a piedi nudi, a improvvisare gare di nuoto, a intonare un retorico «oh-ohh!» di meraviglia ogni volta che Giuseppe mostrava il trucco del parcheggio semovibile. Ci muovevamo in un clima di chiassosa impunità, salutati benevolmente da muratori e cuoche ed elettricisti che avrebbero corretto quell’esuberanza a suon di schiaffi se fosse appartenuta ai loro figli. L’unica a scrutarci con riprovazione fu Vittoria, un’anziana parente che i genitori di Giuseppe avevano adottato quando era rimasta sola tra i monti della Basilicata, e che adesso trascorreva le giornate sopra una sedia a dondolo di fronte alla veranda. Guardando le ombre in movimento attraverso il velo delle cataratte, Vittoria sembrava in grado di estrarre, specie dall’entusiasmo degli imbucati, anche una sorta di irrisione diretta al padrone di casa – gonfi dell’ingratitudine di chi riceve gratuitamente un beneficio, consideravano Giuseppe un idiota incapace di tracciare un confine tra i suoi privilegi e il resto del mondo, ammettendo dei semisconosciuti (cioè loro stessi) tra le statue e i trampolini di quel paradiso del kitsch. La vecchia se ne accorgeva, scuoteva la testa e continuava a osservarci. Quel giorno di luglio ce ne stavamo come al solito intorno alla piscina. Donatella non aveva fatto che ricevere per ore il sole squillante e virginale di inizio stagione distesa ai bordi della vasca tra altre adolescenti impegnate a sfoggiare bikini sgambatissimi e montature zebrate stile Jayne Mansfield. Intorno a mezzogiorno, per rendere il piú chiaro possibile alle ignare concorrenti quale fosse il suo posto in quel piccolo mondo, si mise in piedi, fece due passi avanti e si tuffò. Portò a termine la vasca nuotando stile impero – cioè tagliò le acque con la stessa stanchezza padronale con cui un’arciduchessa avrebbe attraversato il suo salotto. Una volta riemersa, si arrampicò sulla scaletta del trampolino e si distese di schiena lungo la tavoletta, col suo costume color pece carico di goccioline luminose e una gamba sospesa nel vuoto. A quel punto cominciarono le solite azioni di disturbo di Giuseppe: schizzi d’acqua, clamorose richieste di fidanzamento e qualche tentativo di palpeggio arrampicato per metà sulla scaletta. Donatella urlò: «Stronzo! guarda che lo dico a tua madre!» Ma quando, quasi completamente rivestita, si presentò in soggiorno accompagnata da due ragazze-confetto in tutú e fuseaux di lycra, la signora Rosa rispose alle fiere rimostranze dell’incubo d’amore di suo figlio con la stessa svagatezza che le avrebbe fatto accogliere la notizia che uno di noi era stato ripescato dalla piscina col cuore fermo in seguito a overdose: «Ragazzi… su, da bravi, non litigate!» Dopo il tramonto – stanchi, scottati dal sole – ci eravamo trasferiti nella stanza di Giuseppe, e osservavamo le striature violacee con cui la sera si sforzava di imprimere un minimo di slancio narrativo a un cielo che fino a quel momento era stato una tabula rasa di splendore estivo. Potevamo essere una decina. Io e Rachele avevamo deciso di prenderci una giornata di pausa dai nostri vagabondaggi – pallidi come lenzuoli e orgogliosi di esserlo, ce ne stavamo addossati pancia contro schiena. Giuseppe discuteva con Giannelli del fantomatico cambio di sesso di Amanda Lear e Donatella era seduta sul lato opposto con una busta di patatine tra le mani. Gli altri ragazzi erano sparpagliati per la casa – stappavano bottiglie, utilizzavano il telefono per chiamate interurbane, accendevano e spegnevano il grande impianto stereo che dominava una parete della tavernetta. Fu da questo trambusto che a un certo punto venne fuori Vincenzo. Non lo sentimmo salire per le scale. Entrò nella stanza reggendo in mano un bicchiere mezzo vuoto. Si sistemò sul bordo del letto salutandoci con un sorriso gentile. Indossava una camicia di lino bianco e pantaloni con la piega. Lui e Giuseppe si guardarono. Giannelli provò a ripartire con la discussione. Poi fu Vincenzo a rivolgersi al padrone di casa: «Buono questo vino, posso prenderne dell’altro?» Giuseppe – come se Vincenzo avesse detto qualcosa di completamente diverso – si alzò dal pavimento con una sicurezza che avrebbe potuto essere quella del suo amico. Si rivolse a Donatella, e disse con un sorriso atroce: «Adesso tu mi baci. Mi baci, oppure io mi ammazzo». Qualcuno scoppiò a ridere. Vincenzo non cambiò espressione. La ragazza, seduta in un angolo, fu costretta per l’ennesima volta a recitare la sua parte: «Ti ammazzi? Era ora!» E poi, con una faccia che non era l’esatta conseguenza delle parole appena pronunciate, guardò Giuseppe che attraversava la portafinestra spalancata sul balcone. Lui attraversò anche la gittata di cemento, scavalcò la ringhiera e, stringendo tra le mani la sottile linea di metallo, iniziò a ondeggiare nel vuoto. Si teneva in equilibrio. Abbandonava la ringhiera lasciandosi cadere indietro e afferrava nuovamente il sostegno dopo aver descritto un arco che cresceva con drammatica stupidità di volta in volta. Non si capiva se stesse scherzando o se fosse davvero disposto a sfracellarsi al suolo raggiungendo in questo modo non lo sconcerto di Donatella (che adesso disintegrava le patatine tra le dita) e nemmeno la preoccupazione che ci costrinse ad allungare le braccia alla ricerca del filo invisibile capace di riportarlo indietro – non chi era ormai alla sua mercé, ma Vincenzo, che continuava a seguire la scena seduto sul letto senza dire una parola. Allentò le dita sulla ringhiera, gettò la testa all’indietro, sembrò lanciarsi verso qualcosa di definitivo. Donatella si alzò di scatto urlando: «Basta, basta!» e corse verso il balcone con gli occhi pieni di lacrime. In meno di un secondo Giuseppe saltò al di qua del sostegno, appena in tempo per averla tra le braccia, e Donatella (sconfitta e confusa e finalmente libera) non poté fare a meno di sfiorargli le labbra baciandolo subito dopo in un tracollo di adrenalina, patatine e alito pesante. Sentendo il suo sapore sulla lingua, le sembrò di osservare con chiarezza tutto ciò che aveva solo intravisto durante le sfiancanti settimane del loro corteggiamento, e se possibile fu ancora piú confusa di prima. Ma dal frenetico applauso che partí dalla nostra direzione capí anche che i suoi amici approvavano, e continuò a baciarlo. Restammo ancora qualche ora a giocare a pallone tra le siepi, ad ascoltare musica, a chiacchierare sulle sdraio circondati da un’atmosfera fatta di mille luci accese e di sangria ghiacciata in grandi coppe disposte sul tavolo del giardino. Partirono i brindisi alla nuova coppia. Giuseppe fu costretto a salire sulla sedia in un assurdo spirito da festa aziendale. Pippa saltava impazzita nel suo cappottino di visone in un tripudio di urla e bottiglie stappate. Donatella assisteva alla scena cercando di riguadagnare la spavalderia che alla fine l’aveva davvero portata sulla prima pagina di quel «Bari Confidential» a cui aveva ambito per tutto l’anno, seppure in modo diverso da come avrebbe immaginato. Poco dopo, lei e Giuseppe ripresero a pomiciare seguendo il rodaggio d’ordinanza delle coppie appena nate. Questa situazione di ritrovata armonia ebbe i suoi effetti collaterali. Intorno alle undici di sera, alcuni dei nuovi ospiti (due ragazzi mai visti prima) ritennero di usare per il successo di Giuseppe la stessa unità di misura con cui si può stimare un credito. Sentirono cioè che il padrone di casa gli doveva qualcosa – qualcosa in piú dell’ospitalità, dei frigoriferi assaltati, delle telefonate scroccate in modo sempre piú sfacciato. Si allontanarono dal resto dei presenti, entrarono in casa e corsero su per le scale. Entrarono di soppiatto nella stanza di Giuseppe, dove – tra le pile dei vinili e le cartucce dei videogiochi e le fibbie El Charro abbandonate alla rinfusa – c’era tutto ciò che un minorenne dell’epoca avrebbe potuto desiderare. Contemplarono il giacimento di meraviglie, pensarono al suo legittimo proprietario e spalancarono gli zaini. Infilarono dentro quanta piú roba possibile, e quando gli zaini furono pieni usarono le tasche dei pantaloni. Scesero al piano terra e si diressero verso il cancello tenendo sotto braccio le copertine dei 33 giri che non avevano trovato posto altrove. Attraversarono il giardino senza preoccuparsi di sfuggire allo sguardo di Giuseppe (che non avrebbe abbandonato Donatella per corrergli dietro) né a quello della signora Rosa (che consentiva agli amici di suo figlio qualunque tipo di condotta), e non badarono nemmeno alla presenza di Domenico Rubino – il quale, tornato dal lavoro stanco e con la faccia scura, osservava in solitudine una magnifica aiuola di begonie come se fossero morte da cent’anni. Quando anche il padre di Giuseppe venne superato, allungarono il passo. Ma a pochi metri dalla libertà, gli si piantò davanti questo ragazzo biondo e longilineo, con la camicia sfrontatamente sbottonata sul petto e una minacciosa fascia nera legata intorno al braccio. Sorrise freddamente e indicò la copertina di uno dei dischi: «Siberia dei Diaframma? Ottima scelta, – disse carezzandosi la faccia, – adesso torniamo su e ve lo faccio riascoltare tutto». Uno dei ragazzi provò a mercanteggiare: «Senti, se ti vuoi prendere qualcosa pure tu …» «Ladri», tagliò corto Vincenzo. I due si scambiarono una rapida occhiata e decisero che non valeva la pena di rovinarsi la serata affrontando un individuo sul cui volto risplendeva non la fragile luce della giustizia, ma qualcosa di piú oscuro e concreto e per questo molto piú pericoloso. I ladruncoli tornarono sui loro passi. Si diressero verso la villa cercando di infondersi la massima disinvoltura. Vincenzo li tenne d’occhio fino a quando non scomparvero sul retro. E poi, proprio mentre stavano entrando in casa, cominciarono a sentire una voce proveniente dalla veranda – dove, tra i gerani rigogliosi e i piatti di porcellana appesi alle pareti, c’era Vittoria in attesa della morte. La vecchia continuava a pronunciare la sua breve litania, infilata in una nera camicia vedovile, e nella gonna nera da cui spuntavano due gambe secche e incredibilmente lisce per essere quelle di un’ottantenne. Parlava da sola, muovendo appena gli zigomi che rivelavano una serica peluria da roditore alla luce della luna mentre lo sguardo rimaneva aggrappato a un approdo lontanissimo. I Rubino l’avevano prelevata dalle montagne di Castelmezzano per portarla lí, nella loro villa, dove dormiva in una piccola stanza e per il resto se ne stava in sedia a dondolo a guardare il succedersi delle stagioni senza che le altre donne la disturbassero né si azzardassero a chiederle un aiuto nelle faccende domestiche. Dovevano considerarla qualcosa di inservibile e sacra al tempo stesso, come se gli ottantadue anni di Vittoria superassero perfino i novanta della nonna di Giuseppe quando faceva il suo ingresso nella villa circondata da un piccolo esercito di badanti. E pur non sapendo cosa fosse un disco di vinile, non appena vide i ladruncoli passarle davanti (li vide senza mai distogliere lo sguardo dal suo eterno deragliamento), la vecchia comprese quello che c’era da comprendere e iniziò a lamentarsi. Un lamento il cui destinatario era Giuseppe – ne sono convinto adesso, ne ebbi solo un’allarmata sensazione allora, mentre, paralizzato davanti alla veranda, avevo appena sfilato le mani da sotto la maglietta di Rachele. «Povero ragazzo, povero ragazzo, – stava dicendo Vittoria. Un lamento ciclico e privo di consolazione, circondato dai grilli che avevano iniziato a stridere senza pietà: – povero… povero… povero ragazzo…» Rachele disse: «Andiamo via». Qualcuno scaraventò Pippa in piscina. Qualcun altro inciampò nel carrello degli alcolici mandando in frantumi una mezza dozzina di bicchieri. Domenico Rubino smise di contemplare le begonie e si diresse lentamente verso casa. Giuseppe si staccò da Donatella e urlò: «Le angurie! andiamo a prendere le angurie!» Capitolo dodicesimo C’è sempre qualcosa di sbagliato nel rintracciare i vecchi amici. E quando l’appesantita ma non per questo meno piacevole figura di Donatella si presentò ai miei occhi sotto le luci dell’insegna LATTANZI ARREDAMENTI, il suo sguardo accigliato aveva già sconfitto gli sforzi per mantenere in piedi la propensione alla cordialità, la nostra vera conquista di persone adulte. Dieci minuti prima era alle prese con una coppia di fidanzati che aveva trascinato attraverso oltre cinquanta campioni di parquet appesi alle pareti mobili. Li aveva fatti sedere davanti a una scrivania e aveva cominciato a stampare i preventivi. Poi aveva voltato la testa e si era accorta che la stavo osservando al di là della vetrina. Lo sguardo con cui aveva conquistato i due clienti era diventato un sorriso a redini tirate – qualcosa in lei doveva aver sperato fino all’ultimo che il nostro appuntamento telefonico non fosse mai esistito. Invece io ero lí. E Donatella era pentita di avermi fatto arrivare. Strinse le mani ai fidanzati. Si fece sostituire dalla ragazza che stava lucidando una piccola cucina da esposizione e si affrettò verso l’uscita. Fu allora che le luci bianche dell’insegna le crollarono addosso, rivelando un volto su cui un fondotinta di buona marca cercava di attenuare i segni di un invecchiamento lievemente anticipato. Ma per me era come se fosse appena emersa dalla piscina di Giuseppe, bruciando due decenni in pochi istanti, perché non sul prevedibile rilasciamento della pancia fasciata da una fibbia D&G né sulle rughe d’espressione, ma nelle due fossette che le guizzarono sulla guancia al di là del suo rammarico… fu lí che la trovai praticamente intatta. Ed è questo, pensai, l’unico premio a cui possiamo ambire: riuscire ad arpionare, in uno spazio che di anno in anno si fa sempre piú ristretto, la parte viva e inalterata di ciò che un tempo pescavamo a piene mani nelle persone che ci piacevano. Ci abbracciammo. Poi Donatella disse: «Ti porto a bere in un posto qui vicino». Il giorno prima lo avevo trascorso per intero a casa di mia madre con l’elenco telefonico spalancato sulle gambe, fermo a ripetere «mi scusi» ogni volta che voci maschili che avrebbero potuto appartenere al marito di Donatella, e voci femminili che non erano la sua, mi confermavano di aver sbagliato numero. Sapevo ormai che tipo di imprevisti poteva scatenare l’incontro tra persone che non avevano sentito il bisogno di cercarsi per anni e – soprattutto per gli individui in pieno possesso della propria vita, come ero certo che Donatella fosse diventata – immaginavo quanto potesse risultare sgradevole anche la semplice telefonata da parte di una vecchia conoscenza. Ma il mio bisogno di raccogliere la versione di colei che era stata la ragazza ufficiale di Giuseppe e l’altrettanto ufficiale amante di Vincenzo (mi dicevo componendo ancora un altro numero) avrebbe dovuto risultare piú intenso e allo stesso tempo piú calmo, in definitiva piúpotente del suo plausibile fastidio. Adesso eravamo l’uno di fronte all’altra in un pub a pochi passi dalla città vecchia. Donatella aveva perso due minuti a chiacchierare col proprietario del locale. Aveva fatto strada verso gli ultimi tavoli. Avevamo bevuto i primi sorsi di vino bianco rimanendo zitti. Per pochi istanti pensai che non avrei dovuto essere lí, mi sentivo in imbarazzo. Ma poi: «Un miliardo e ottocento milioni di stronzate… – ecco come esordí Donatella sollevando il suo bicchiere, – è stata questa la mia vera eredità». Iniziò a coprire le tappe intermedie di ciò di cui vedevo i risultati – un volto su cui non un segno di invecchiamento era disgiunto da una battaglia combattuta e vinta –, raccontandomi di come, a poche settimane dal suo ventesimo compleanno, suo padre fosse stato stroncato da un infarto. «Il terzo, – disse, – il terzo e sacrosanto ultimo atto». «Sacrosanto?» domandai. «Quattro pacchetti di sigarette al giorno con due bypass aorto-coronarici sono un tentativo di suicidio, – si spiegò, – ma se la principale fonte di reddito di una famiglia di cinque elementi è un mobilificio sull’orlo del collasso, allora si tratta di tentata strage». Una bomba a orologeria. Ecco le ultime disposizioni di suo padre: un negozio che aveva fatto faville nel decennio precedente ma che – all’inizio di quei Novanta tanto minimali, cosí ipocritamente votati all’astinenza – già appariva un ammasso di pretenziose volgarità barocche. «Le suocere…» disse. Solo la vendetta di una suocera consumata grazie all’acquisto di un divano a fiori tropicali da regalare alla propria nuora… soltanto questo genere di odio poteva spingere un cliente in quel negozio all’inizio degli anni Novanta. Non era successo prima dei bypass, stava iniziando a succedere quando suo padre crollò davanti allo sportello di un ufficio postale con le bollette strette in pugno, ma diventò palpabile solo a un anno dalla sepoltura, nel momento in cui il negozio registrò dei risultati che annunciarono l’imminenza della bancarotta. «Il problema non erano le cassapanche in palissandro che facevano polvere in vetrina», disse. Il problema era il miliardo e ottocento milioni di merce accatastata in magazzino: orologi a pendolo, angoliere, bauli da viaggio buoni per la campagna d’Abissinia, mappamondi con i segni zodiacali, credenze neoborboniche, fermacarte a forma di cicogna… Centinaia di articoli che suo padre aveva scelto con cura quando era ancora un uomo sano nel corpo e nella mente ma che, negli ultimi anni, aveva invece accumulato senza freni, quasi sentisse incombere la morte e volesse sfidarla a suon di ordinativi. «Oppure, peggio, – disse, – voleva continuare a essere per noi una presenza gigantesca, ossessionante. Non c’è memoria che resti piú viva di quella che continua a procurare angoscia in chi rimane. È incredibile l’arroganza degli uomini della sua generazione». O forse, pensai, si trattava solo di uno dei tanti imprenditori che – abili e astuti e continuamente gratificati dal successo negli anni Ottanta – avevano cominciato a dare di matto nel decennio successivo. «Fatto sta che me la sono dovuta vedere tutta io». Si era rimboccata le maniche e aveva rivoltato l’esercizio commerciale di suo padre, pronta a non dormire per piú di quattro ore a notte negli anni successivi, accumulando e ripianando debiti, cercando in tutta Italia negozianti a cui rivendere sottocosto quell’orrore in mogano e noce massello. Rifilava fregature ai futuri frequentatori del monte di pietà e poi correva a farsi umiliare dai fornitori, per i quali era solo la figlia disperata di un uomo a cui aveva dato di volta il cervello. Ma lei riuscí a guadagnarsi il rispetto persino di questi ultimi. Era diventata convincente come un uomo, piú di un uomo, aveva imparato a far brillare nello sguardo i capisaldi di ogni buona trattativa commerciale – seduttività e senso del comando –, cosí loro cedevano, i fornitori alzavano bandiera bianca davanti a questa forza della natura in cinturone e tacchi alti, e adesso bisognava solo lavorarsi il direttore di un’altra finanziaria. «È cosí che ho rimesso in ordine ogni cosa», disse quando eravamo entrati nel locale già da una mezz’ora. Perché stava perdendo tutto questo tempo? Che bisogno aveva di partire in quarta parlandomi della sua vita senza che glielo avessi chiesto? Stabilire una distanza… ecco perché. Raccontandomi delle difficoltà attraverso cui era passata, aveva forse voluto dimostrarmi come altri fossero stati i problemi, altri gli ostacoli da superare, tutto era accaduto dopo che ci eravamo persi di vista. Il resto potevo vederlo da solo: una donna piacente e sicura di sé, non bella, ma neanche cosí indurita da non poter esercitare una sincera attrazione su una determinata categoria di uomini. L’anulare completamente libero mi fece ipotizzare l’assenza di una vita matrimoniale, o perlomeno la presenza di un divorzio. A un certo punto fui certo che guidasse un’auto di grossa cilindrata, che frequentasse un corso di ballo, che non avesse animali in casa, che tra le sue amiche ci fosse un’operatrice turistica che ogni estate la spediva a Phuket o all’Avana. E ancora una volta, me ne facessi una ragione: tutto questo era accaduto nei Novanta e nei Duemila, non prima. Ma poi afferrò il collo della bottiglia e mi versò del vino. Tirò un sospiro e chiese: «Hai notizie di lui?» Quel lui era Giuseppe. Lo sapevo senza bisogno che lo dicesse. Per cui risposi: «Sí, ho sue notizie», guardando Donatella regredire verso la ragazza che era stata, e poi godendomi la sua espressione indispettita per il fatto di trasformarsi controvoglia in qualche cosa di troppo familiare quando aggiunsi: «Lui, vado a trovarlo fra due giorni». Durante la nostra telefonata, prima che mi dicesse che sí, d’accordo, potevo raggiungerla in negozio, c’erano stati dei secondi di assoluto silenzio. Nel corso di quell’intervallo ero certo che Donatella avesse intuito il motivo della mia visita. Per cui ora disse: «Vincenzo» prima che finissi di parlare. Avrebbe voluto rispondere: Comesarebbe vaiatrovareGiuseppetra due giorni? e invece, per dimostrare di avere la situazione sotto controllo, disse: «Vincenzo… hai coinvolto pure lui nel tuo viaggetto dei ricordi?» «Vincenzo l’ho già visto un paio di mesi fa», risposi scagliando il secondo colpo sotto la cintura. A questo punto Donatella rise. Gli angoli della bocca le andarono verso l’alto e mostrò i denti in un piccolo singhiozzo di disapprovazione, scosse la testa come per dire: Possibilechenonsiamoin grado di imparare una lezionechesiauna?perché dobbiamo essere ancora qui, sempre noi, sempre insieme? Cosí si lasciò andare. Smettemmo di essere dei mezzi estranei e accettammo la legge di natura in base a cui due persone che hanno condiviso qualcosa di importante sono perennemente legate tra di loro – c’è un amo che possono tirare in qualunque momento: possono ricattarsi, possono ferirsi, possono costringersi a parlare. L’amo era stato tirato, e noi che potevamo fare? ci facemmo trascinare verso il basso. «Che cosa vuoi sapere?» disse Donatella mantenendo il suo sorriso di disapprovazione. Mandai giú d’un sorso: «Tutto, – risposi, – voglio sapere tutto quello che non so». «Bene, – fece lei, – la prima volta che…» A questo punto sentii davvero qualcosa di fisico muoversi sotto i nostri corpi – una piccola onda sismica ci rimise in sintonia col tempo e adesso gli Eurytmichs erano di nuovo in classifica, di nuovo Dirty Dancing in cartellone, di nuovo la cortina di ferro, la terza rielezione della Thatcher, e rieccoci… rieccoci nel 1987. «La prima volta che sono andata a letto con Vincenzo è stato nella primavera del 1987, a meno di un anno dalla sera in cui fui praticamente obbligata a diventare la ragazza di Giuseppe. Me lo ricordo, che era primavera, – continuò, – perché proprio in quei giorni il mondo andò in subbuglio per via del ragazzino che era atterrato sulla Piazza Rossa. Ti ricordi che storia pazzesca?» Il ragazzo del Cessna, – ricordai –, lo studente tedesco che noleggia un monomotore e parte da Helsinki depositando un finto piano di volo in aeroporto, spegne la radio, cambia rotta, e quando dalla torre di controllo iniziano a ripetere: «Che succede?» si è già infilato a bassa quota nel corridoio aereo Helsinki-Mosca; il ventunenne che atterra sulla Piazza Rossa in segno di pace causando il licenziamento di duemila addetti alla sicurezza e la condanna di altri duecento ai lavori forzati nelle pianure siberiane; il dimagrito pilota semidilettante che, uscito di galera, torna in Germania appena in tempo per finire nel ciclone di una furibonda rassegna stampa (è un eroe? un pazzo? un irresponsabile? una minaccia per la pace universale?); il ragazzo già prossimo a un esaurimento nervoso che in seguito al delirio mediatico va fuori di testa, si fa arrestare per tentato omicidio, per tentata truffa, per il furto di un maglione di cachemire ai grandi magazzini; il non piú giovane trentenne davanti al quale il mondo diviso in due blocchi già non esiste piú, e niente del suo gesto del 1987 ha avuto nel gigantesco cambio di scena il benché minimo ruolo, quello che doveva accadere sarebbe accaduto ugualmente, il suo atterraggio di dieci anni prima compare sui giornali come un articolo commemorativo che di volta in volta si sposta dalla politica alla cronaca, dalla cronaca alle pagine di costume, al gossip, alla barzelletta… la sua bravata non ha prodotto niente di reale se si escludono duemila e duecento ex cittadini sovietici dalla vita distrutta, se si escludono i segni di squilibrio sempre piú evidenti in Mathias Rust: non il mito di cartone che atterra sulla Piazza Rossa ma il ragazzo Mathias Rust che si rannicchia nel suo letto e inizia a piangere… non il il 6-3 6-3 6-4 di Ivan Lendl contro McEnroe agli US Open di quell’anno, ma Donatella che si riveste mentre Vincenzo è ancora steso nel suo letto… neanche la Storia, che avanza come una corazzata su cui le unghie dei singoli lasciano un segno sempre piú debole, poi invisibile del tutto, ma le vite degli uomini di cui nessuno sa mai niente. «Prima, però, ci fu la fine del 1986 e l’inizio dell’anno successivo», disse Donatella. E poi mi confermò quello che tutti avevamo intuito ma che soltanto adesso trovava la sua testimonianza ufficiale: la storia con Giuseppe si rivelò un fiasco sin dai primi giorni. «Che disastro!» disse, e mi versò ancora un po’ di vino. Mi raccontò di come la loro intimità si riduceva a qualche bacio scambiato prevalentemente in pubblico. Si facevano poche confidenze. Trascorrevano ore di pura noia nella villa dei Rubino, alle quali seguivano ancora piú noiose uscite in città per fare shopping mano nella mano. E poi, il sesso. «Nove mesi!» disse Donatella. Quasi trecento giorni di frequentazione durante i quali lui riuscí sempre a eludere il problema. In questo campo, le nozioni di Donatella si limitavano all’essersi fatta trascinare piú di una volta nei guardaroba delle discoteche pomeridiane prima del suo incontro con Giuseppe. «Ma Giuseppe, – disse, – lui fece tutto ciò che era in suo potere perché quel briciolo d’esperienza si trasformasse in panico assoluto». Giuseppe, si spostava. Accadeva che, chiusi in camera sua («Non so nemmeno come, ma a un certo punto riuscivo a baciarlo perfino quando eravamo soli»), Donatella provava a toccargli una gamba avanzando lentamente verso il bottone dei Levi’s 501. A quel punto («Cristo! – ridacchiò, – sembrava lo sciamano della scopata mancata: lui era in grado di evocarli veramente quegli imprevisti!») squillava il telefono, o la signora Rosa faceva irruzione nella stanza con le solite spremute di pompelmo, oppure sentivano raspare dietro la porta e: «quel cazzo di cane col cappotto di visone». E se non c’erano imprevisti? «Be’, Giuseppe si tirava indietro sul bordo del letto e iniziava a consultare l’agendina telefonica. Si ricordava che doveva fare lui una telefonata a qualcuno. Il contrattempo se lo procurava da solo». «Aveva paura», provai a minimizzare. «Tu proprio non afferri il punto, – disse inchiodandomi a uno sguardo di commiserazione. – Non c’entra la paura. Non c’entra neanche il fatto che Giuseppe era il mio ragazzo solo perché lui lo aveva spinto a lanciarsi in un’impresa di cui avrebbe fatto a meno. È che proprio non voleva. Aveva capito in che mondo stavamo crescendo. Chi meglio del proprietario di un cane in cappotto di visone poteva rendersene conto? Per quanto la cosa possa sembrare paradossale, Giuseppe era un puro. Un idiota dalla testa ai piedi. È la persona piú pura che ho mai incontrato in vita mia, – strinse le mascelle, – per questo a un certo punto mi sono innamorata di lui». Perché era riuscita a intravedere – pensai – la natura di Parsifal gettato in un registratore di cassa che si celava dietro quel ragazzo. Ma tutto il resto la faceva disperare: «Lo guardavo e avevo voglia di prenderlo a schiaffi: perché non mi sbottona la camicetta?, pensavo, per quale cazzo di motivo non possiamo farecometuttiglialtri?» «Credo invece di capire molto bene», provai a riguadagnare il terreno perduto. «Ogni sera mi riaccompagnava a casa con la Zundapp, – continuò lei senza badarmi, – e a me sembrava di impazzire. Hai presente le ragazze di paese che a furia di restare chiuse in casa a un certo punto iniziavano a ballare come pazze per la strada? Ecco, io invece tornavo a casa e accendevo la radio a tutto volume. E sai cosa trovavi quando accendevi la radio in quel periodo? Trovavi Boys di Sabrina Salerno!» Qui scoppiò a ridere. «E gli altri ragazzi? – la incalzai, – possibile che nessuno in quel periodo si fosse fatto avanti?» Donatella alzò leggermente la testa in modo che potessi vederle meglio il collo, e dopo il collo il grande seno contenuto nel top fucsia circondato di catenine d’oro. «Mi vedi… – disse, – e ti ricordi com’ero a diciassette anni». A diciassette anni era effettivamente impossibile non metterle gli occhi addosso. Era difficile non metterle le mani addosso. Eppure, – raccontò, – da luglio fino alla primavera dell’anno successivo non le si avvicinò nessuno. Era stata abituata a ricevere dai maschi sguardi famelici, ammiccanti, e quando si trattava di sguardi derisori (la trovata assurda dei palloncini attaccati alle spalline) erano comunque sguardi imbarazzati dal desiderio. E adesso invece niente, stop, finito. Circostanza che all’inizio la destabilizzò, non perché bramasse quelli sguardi su di sé ma solo perché ci era abituata. «Lui… – aggiunse aggrottando le sopracciglia, – questo mi è diventato chiaro solo dopo, ma fu lui. Fu a causa di Vincenzo se nessuno in quel periodo mi rivolse la parola». «Mi vuoi far credere che Vincenzo chiese ai ragazzi del nostro gruppo di non corteggiarti?» «Chiedere? Gliel’ordinò!» «E come fece, scusa? – dissi sarcastico, – li prese uno a uno, oppure radunò tutti nella palestra della scuola?» «L’ha fatto e basta», ribatté. «E per quale motivo? Per portarti a letto con piú facilità la primavera successiva?» Donatella ordinò un’altra bottiglia. Tirò un sospiro esasperato e disse: «Sei fuori strada. Ti ostini a fare le cose troppo semplici. Se ti dico che Vincenzo provava per Giuseppe dei sentimenti che definire ambigui è poco, riesci a capire che cosa voglio dire? Se ti dico che voleva proteggerlo, che non avrebbe mai permesso a nessun altro di farsi la ragazza del suo amico. Se ti dico che sognava di distruggerlo, che avrebbe voluto proteggerlo persino attraverso il tradimento. Vincenzo era la determinazione fatta persona, ma Giuseppe a suo modo era integro, che è molto piú della semplice determinazione. Pensa a come Vincenzo poteva amare e invidiare una persona del genere. E poi pensa a Giuseppe. Giuseppe mi parlava continuamente di Vincenzo. Non solo lo adorava, ma pretendeva che lo adorassi pure io. E io ovviamente in quei momenti lo detestavo. Li detestavo tutti e due. E poi ci fu la festa dalle parti del Camelot… te la ricordi?» Il Camelot era una discoteca alternativa situata appena fuori città. Ci avevano suonato gli Ozric Tentacles. Ci avevano suonato i Fuzztones. Naturalmente ci avevano suonato i Litfiba con Ringo De Palma ancora vivo dietro la batteria. Un identificato ritrovo per fanatici della morente musica rock. Ma la festa dalle parti del Camelot… quello non si poteva neanche definire un luogo «identificato». Era una villa abbandonata in aperta campagna, tra le cui mura quella sera iniziarono a transitare generatori di corrente e amplificatori Marshall che vennero impilati uno sull’altro sino a formare un grande muro acustico. Fu una specie di rave prima della stagione dei rave, una bolgia dove centinaia di ragazzi ballarono sui ritmi martellanti della prima techno music, si scatenarono, urlarono, alcuni si impasticcarono perdendo litri di sudore e tutto questo fino all’arrivo della polizia. E a un certo punto, in piedi su uno degli amplificatori, c’era Donatella che si agitava come un’indemoniata. «All’inizio ero incazzata nera. Ma poi salii sull’amplificatore e cominciai a ballare». Mi spiegò che prima di arrivare alla festa aveva trascorso un altro pomeriggio inconcludente a casa di Giuseppe. Arrivò insieme a lui quando il cortile della villa era già stracolmo di persone. Si staccò dalla sua mano e alla prima occasione si mescolò tra la folla, muovendosi tra decine di corpi sudati. Tutta quella confusione, quelle urla, quell’energia. La frustrazione si ribaltò in qualcosa di liberatorio, e cosí si arrampicò sull’amplificatore e incominciò a ballare. Descrisse con i fianchi dei movimenti sempre piú sensuali, catalizzando l’attenzione di chi la guardava a bocca aperta dal basso verso l’alto. Alzava le braccia e chiudeva gli occhi e faceva roteare la testa come se si stesse avvicinando al primo vero orgasmo della sua vita. Ma prima che qualcuno potesse farsi avanti – e uno di questi tizi con le pupille grosse come noci si sarebbe fatto avanti di sicuro –, riaprí gli occhi ritrovandosi la lunga figura di Vincenzo che la guardava pieno di rimprovero. «Erano incredibili i poteri inibitori che sapeva esercitare quel ragazzo. Due secondi prima stavo facendo la scema sull’amplificatore. Lui disse: scendi, e io lo stavo già seguendo buona buona verso le mura esterne della villa…» Se mi ricordavo? Se ricordavo la festa nella villa abbandonata? Io e Rachele quella notte ci scatenammo, ballammo fino a svenire cercando di tirar fuori tutto il malessere che avevamo accumulato negli ultimi mesi, quando iniziava a diventare chiaro che le fanzine e i concerti e le scorribande in motorino non erano una soluzione per i nostri problemi. Se ricordavo… ricordavo soprattutto quando, poche ore prima, dopo aver parcheggiato la Vespa dalle parti della stazione, avevo attraversato a passo svelto i giardinetti di piazza Umberto. Rachele mi aspettava in piazza Garibaldi, cosí avevo dovuto mescolarmi tra la folla di via Sparano, una convincente versione sottocosto di via Montenapoleone per tutte le signore baresi che passeggiavano avanti e indietro, disposte a riposarsi per il tempo di un gelato prima di riprendere la marcia verso i negozi d’alta moda. Non so come feci ad accorgermene con tutta quella confusione. Ci dev’essere qualcosa di soprannaturale nella nostra memoria fotografica (un’immediata capacità di associare il ricordo di un’immagine completa al fuggevole passaggio di un suo frammento), perché davanti alla gioielleria c’erano molte teste, e piú del doppio ne stavano passando per la strada, e io a mia volta camminavo a ritmo sostenuto sull’altro lato del marciapiede. Eppure mi fermai. Mi fermai e guardai meglio. Credetti di non aver capito bene e feci qualche passo avanti. Cosí d’accordo, adesso invece capivo benissimo. Tailleur al ginocchio su un paio di scarpe di vernice, mia madre indicava qualcosa attraverso la vetrina. Accanto a lei una figura piú magra e spigolosa, una ragazza forse non cosí elegante ma dotata di un’aggressività che la rendeva credibile nel suo lungo soprabito leopardato. Una sera di primavera come tante: mia madre e la moglie del padre di Vincenzo insieme a fare shopping. La sala professori… ipotizzai, ilcentroditutti gli intrighi extrascolastici del Cesare Baronio! Era lí che mia madre doveva averla abbordata. O meglio, visto che mi ero rifiutato di diventare suo complice, mio padre doveva aver mandato lei in avanscoperta. Da quanto tempo avevano iniziato a frequentarsi? E a che punto erano giunti gli attori principali della commedia? Mio padre e l’avvocato Lombardi: si erano stretti la mano? avevano già cenato insieme? Rimasi intontito a osservare la scena fino a quando le due donne si staccarono dalla vetrina, risucchiate dai passanti al centro della strada. Vidi le gambe di mia madre ondeggiare tra altre gambe, poi le sue scarpe di vernice, poi piú niente. Sarebbe stato meglio sorprenderla durante un adulterio. Andai a prendere Rachele. Qualche ora dopo raggiungemmo la festa. Non ci importava della musica techno. Non ci importava nemmeno piú del rock. Le spille attaccate sui giubbotti dei punk iniziavi a ritrovarle tali e quali nei negozi di abbigliamento. Quei punk, a dire il vero, la sera si liberavano degli anfibi e dormivano tra lenzuola fresche di bucato. Le loro mamme avevano a disposizione un arsenale di sorrisi rispetto ai quali il minaccioso abbigliamento dei figli e gli slogan deliranti che uscivano dai walkman erano l’equivalente di una pistola ad acqua – erano mamme che avanzavano a passo sicuro in sala professori nei loro abiti di sartoria, portando a segno con successo una missione diplomatica per conto dei mariti. I nostri genitori brillavano in un fuoco bianco di benessere. Noi invece ci sentivamo di merda. E mentre io e Rachele saltavamo uno di fronte all’altra per sfogarci, a un certo punto vedemmo Donatella sull’amplificatore che invitava praticamente chiunque a sbranarla viva. «Mi fece scendere dal Marshall e cominciammo ad avviarci verso le mura esterne della villa». Donatella si fece spazio tra la folla, seguí Vincenzo calpestando gli immaginari quadratini luminosi che si accendevano un momento prima che lei potesse fare un altro passo. Camminarono per qualche minuto in aperta campagna. La musica si trasformò in un lontano impasto sonoro. Vincenzo le mise una mano sulla spalla e solo allora Donatella realizzò di avere sempre saputo che una scena del genere sarebbe prima o poi arrivata. «È cosí che sono diventata la sua amante», disse alle dieci di sera, quando il locale aveva avuto tutto il tempo di svuotarsi per poi riempirsi di altra gente. Confermò quello che avevamo sospettato per quasi un anno. Era la ragazza di Giuseppe e scopava con Vincenzo. Restava chiusa per ore nella stanza di Giuseppe, dove lui continuava a sottoporla all’ascolto di questi dischi di cui faceva incetta piú velocemente di quanto orecchio umano potesse sostenere. Cosí Donatella, pur amandolo, poteva finalmente pensare: lo odio. Odiava lui, i dischi, quella casa, il parcheggio semovibile… Il che non impediva a Giuseppe di togliere dal piatto dello stereo le Bangles per metterci su It’s My Life dei Talk Talk. Toglieva i Talk Talk e partiva coi Depeche, poi Cindy Lauper, poi Luis Miguel, e non perché non si accorgesse dell’esasperazione a cui stava portando la ragazza. «Era come se al contrario cercasse di alimentarla. Completava l’opera. Sbaragliava il mio senso di colpa». Le donava la facoltà di inventarsi una scusa e scappare da Vincenzo. «Era chiaro che Giuseppe non credeva a quelle scuse, – disse, – erano quasi sempre improvvisazioni, bugie assurde. Ma io dovevo immaginare che ci credesse, altrimenti sarei stata costretta a riflettere sul fatto che facevo parte di un gioco in cui contavo poco. Avrei pensato che era lui, Giuseppe, a gettarmi tra le braccia del suo amico». «Dove vi vedevate tu e Vincenzo?» «Oh, ma a casa sua», disse dopo aver cercato inutilmente di fermare il cameriere per il conto. Quando l’avvocato e Sabrina non erano in casa, si davano appuntamento in quelle stanze piene di luce affacciate sul porto turistico. Donatella arrivava di slancio all’ultimo piano, sentendo ancora in ascensore la spinta che l’aveva fatta fuggire dalla villa di Giuseppe. «Si crede che i tradimenti di questo tipo facciano male innanzitutto a chi li compie –. Fece una pausa. – Prima e dopo, magari». Disse che invece, al momento di varcare la soglia dell’attico, si ritrovava addosso una leggerezza e una rapidità che la facevano sentire al centro esatto della spensieratezza umana. Vincenzo lasciava socchiusa la porta d’ingresso dopo averle detto «sali» attraverso il citofono. Si spostava in sala da pranzo in modo che lei lo trovasse già lí, seduto ad aspettarla con due tazzine di caffè ancora fumanti. Si salutavano, bevevano il caffè e andavano a scopare. «Com’era? vuoi sapere anche questo? Be’, era come scopare con un morto», disse lasciandomi impietrito. Non quando lui iniziava a carezzarle le braccia. Non quando si spogliavano e si infilavano nel letto. «Piú tardi, qualche istante prima che gli sentissi il bacino tremare. Allora lo guardavo negli occhi e: niente, – pensavo, – in questo ragazzo non c’è niente». Ma prima vedeva altre cose. Nel sincero trasporto con cui Vincenzo le si infilava dentro, ritrovava ad esempio per un attimo Giuseppe. «Poi arrivava suo padre…» disse spingendo il racconto ben al di là di quanto avessi potuto immaginare soltanto un paio d’ore prima. «In fondo stavamo scopando nell’attico dell’avvocato, – continuò, – e non un soprammobile, non l’ultima forchetta presente in quella casa potevano considerarsi disgiunti dalla persona che lui odiava». Donatella mi raccontò di come sentisse questo sentimento cosí umano e cosí gonfio di impotenza vibrargli sotto le palpebre, sentiva un odio che non era ancora il male, forse vi alludeva, forse cercava, desiderava il male, ma era condannato a non poterlo raggiungere. Infine, al culmine dei loro amplessi pomeridiani, quando aspettava che il vero Vincenzo si rivelasse, lo guardava in faccia. «Il vuoto, – disse seccamente, – era come se un individuo chiamato Vincenzo Lombardi non fosse mai nemmeno nato». Questa volta fermò il cameriere e chiese il conto. «Vedi, – riprese dopo avere pagato per entrambi, – credo che in quel periodo Vincenzo stesse iniziando a rendersi conto di un sacco di cose. Suo padre, innanzi tutto. Non ci sarebbe mai potuto arrivare. E poi la donna di Japigia. L’aveva persa». «In che senso?» chiesi. «Non me ne ha mai parlato. Successe qualche cosa. Immagino qualcosa di brutto. La perse indipendentemente dalla sua volontà». «E tutto questo che conseguenze avrebbe prodotto secondo te?» «Oh… – disse con ferocia, – questo, l’aveva incattivito. Hai idea di cosa poteva significare per una persona cosí piena di sé scontrarsi a un certo punto con la realtà? È per questo, che ci ha trascinati tutti quanti a Japigia. L’appartamento di Santo Petruzzelli… È grazie a lui che è iniziato quel periodo di merda. Dobbiamo al figlio dell’avvocato Lombardi se Giuseppe ha fatto la fine che ha fatto. Il che non toglie nulla alle mie responsabilità». «Mi vuoi dire… – feci sarcasticamente, e qui tentai l’unico bluff della serata, scaricando su Donatella delle sensazioni che erano anche le mie da una decina d’anni, – vuoi dire che Vincenzo ci portò a Japigia con l’intento preciso di farci del male?» «Senti! – sbottò impedendomi di finire la frase, – ti dico quest’ultima cosa e poi direi che ci possiamo salutare –. Si mise in piedi e recuperò la borsetta: – Non voglio dire che aveva architettato un piano o stronzate del genere. Ma ti è mai capitato di aver raggiunto un risultato nella vita – diciamo un risultato catastrofico – e poi, guardandoti alle spalle, sei stato costretto a riconoscere come ogni cosa in te avesse cercato proprio quel finale, al di là della tua volontà, al di là del piú raffinato e acuto dei tuoi pensieri? Adesso è tardi», disse senza guardare l’orologio. Ricordavo ovviamente Japigia e ricordavo l’appartamento di Santo Petruzzelli. Ricordavo quel periodo di merda e soprattutto il modo in cui io e Rachele, superando ogni giorno il ponte sospeso sulla linea ferroviaria che portava nel quartiere, eravamo convinti di aver trovato un rifugio per sottrarci alla grande onda cronologica che, crescendo dal centro esatto della città, iniziava piano piano a travolgere chiunque trasformandolo, dalla persona che era stata, in una semplice memoria storica – e infatti Giannelli non varcò mai quel ponte, e non lo fece Puglisi, e non lo fecero Vanessa e Romina, i quali, già nell’autunno del 1987, divennero per me quello che sono oggi. Invece io, Rachele, Vincenzo, Giuseppe, Donatella… noi in quel modo stavamo continuando a vivere per sempre. E anche se adesso Donatella era pronta a salutarmi, pronta a sparire per sempre, pronta forse anche a dirmi che la sua vita attuale non aveva niente a che fare con quella di allora, e adesso mi stringeva già la mano fuori dal locale, adesso invece mi dava le spalle allontanandosi nella sera barese del 2008, anche se la donna che era diventata si infilava in un’auto di cui non conoscevo la marca né la cilindrata, la ragazza invece era sempre lí, bastava che io tirassi l’amo e lei c’era, bastava solo che evocassi il suo ricordo perché restasse intrappolata. Sempre lí, sempre noi, sempre insieme. La prima volta, – pensai, – la prima volta che Vincenzo ci portò a casadiSantoPetruzzeii… Capitolo tredicesimo Non eravamo mai stati in un appartamento di drogati. Non ci era soprattutto mai successo di attraversare un intero quartiere in cui sembrava che il calendario gregoriano fosse stato sostituito dai turni degli spacciatori. Avevamo sentito un’infinità di storie su Japigia, ma metterci piede fu un’altra cosa. Ci arrivammo in motorino un pomeriggio autunnale – in sella alla Vespa, io e Rachele tallonavamo la Zundapp su cui Giuseppe e Donatella rombavano in salita lungo il ponte. Fu come attraversare un varco aperto tra due mondi. Superammo la chiesa a forma di fungo atomico. Svoltammo a sinistra costeggiando le cosiddette «case basse», un gruppo di abitazioni simili a conigliere rivestite da una colata di cemento armato. Proseguimmo su via Caldarola, lasciandoci alle spalle gli scheletri di due automobili carbonizzate. I grandi palazzi popolari iniziarono allora a comparire a ridosso di carreggiate sempre piú larghe e silenziose mentre il cielo di settembre, completamente sgombro sopra le nostre teste, intratteneva con la linea d’orizzonte una sfida degna di due numi. A quel punto, la sensazione di essere a migliaia di chilometri da casa si era già impossessata di noi. Quando ci vide, Vincenzo si alzò dal muretto a secco su cui ci stava aspettando. Lo seguimmo attraverso il cortile di un palazzo che svettava in mezzo al niente per una decina di piani. Attraversammo il portone e salimmo a piedi per otto rampe di scale. Non sapevo – e non mi chiesi – cosa Vincenzo potesse aver detto a Giuseppe per convincerlo a formare questa piccola delegazione in visita ai quartieri periferici. A distanza di tempo continuo a dirmi che si sarebbe dovuta respirare tra di noi anche una certa tensione – Donatella andava a letto con Vincenzo già da qualche mese, e io e Rachele eravamo al corrente di quello che si diceva in giro. Ma non ci fu tensione, e avanzammo tutti e cinque per le scale senza attrito. Santo Petruzzelli ci accolse sulla porta d’ingresso in quella che avremmo imparato a riconoscere come la sua uniforme per tutte le occasioni: vestaglia a righe, pantaloni del pigiama, ciabattine di spugna con sopra stampato il faccione di Hello Kitty. Poteva avere venticinque anni e, oltre che da una chiara ambiguità sessuale, era circondato dal magico alone della noncuranza. Sembrava che il peggiore dei problemi non potesse che scivolargli via di dosso. Era piuttosto alto, di una magrezza scimmiesca che veniva trascinata su panorami vulcaniani grazie ai capelli sfumati in modo da formargli una piccola cresta sulla sommità del cranio. Le sopracciglia ridotte a punte di grafite completavano il discorso. Ricordo che lo guardai con la deferenza che da adulti si potrebbe avere al cospetto di un capo di stato. Lui salutò solo Vincenzo. Mise a fuoco per un attimo il resto del gruppo. Si diresse verso il corridoio senza prestarci piú attenzione, mentre le code della vestaglia svolazzavano a destra e sinistra spolverando il pavimento. Fatta eccezione per la camera da letto perennemente chiusa a chiave, l’appartamento si riduceva a uno spoglio susseguirsi di stanze la cui destinazione era saltata per aria: alla cucina riconoscibile solo per via di un fornello elettrico, seguivano due grandi vani pieni di poltrone e sacchi a pelo e materassi disposti sul pavimento in modo casuale, cui si aggiungeva il ristagno del fumo e il sospetto di un impianto fognario non perfettamente funzionante. Una decina di ragazzi occupavano le stanze principali, e sebbene quel pomeriggio soltanto tre di loro se ne stessero seduti ad aspirare i fumi dell’eroina da un foglio di carta stagnola, era il clima generale a far pensare che fossimo in un mondo governato da regole per noi assolutamente sconosciute. Il cedimento di un controsoffitto o un’infiltrazione d’acqua, sufficienti a scalfire per settimane la stabilità emotiva delle specie viventi a cui eravamo abituati, qui non avrebbero sortito alcun effetto. Passai un braccio intorno ai fianchi di Rachele, e lei si lasciò andare. Eravamo eccitati. Ci trovavamo in un luogo che nessuno dei nostri compagni di scuola avrebbe immaginato, che i professori presumevano di conoscere grazie ai resoconti dei cronisti piú esaltati (gli stessi che sproloquiavano di piccoli ascessi nella parte interna della guancia per dimostrare la trasmissibilità dell’Hiv attraverso un bacio) e che i nostri genitori intravedevano nei loro incubi catodici fatti di madri in lacrime dentro uno studio televisivo. I nostri genitori! sarebbero svenuti a saperci qui dentro… Poi anche questo tipo di euforia sfumò sulla consapevolezza di trovarci tra persone che facevano del disinteresse per le opinioni del mondo il loro punto di forza. Cosí adesso io e Rachele non pensavamo piú nemmeno ai nostri genitori – ci tenevamo per mano, ed eravamo calmi. Ma piú di noi era Giuseppe a sembrare a proprio agio. Tutta la sua goffaggine, la sua molesta esuberanza gli erano cadute improvvisamente di dosso. Era serio, rilassato, in pace con se stesso. Occupava il centro della stanza con il trionfale intontimento di un naufrago appena riportato a casa. Lanciò uno sguardo di benevolenza a Vincenzo e Donatella. Donatella lo fissò come la sera in cui aveva minacciato di buttarsi dal balcone. Giuseppe questa volta non cercava una scusa per tornare sui suoi passi. Diede le spalle a entrambi, si avvicinò ai tre ragazzi impegnati a preparare un’altra base e si sedette tra di loro. Poche ore dopo, quando la sera stringeva l’intero quartiere nella sua morsa di silenzio, se ne stava gettato in solitudine su un materasso con le pupille ridotte a due capocchie di spillo. Sette mesi… se fossero una miccia accesa, direi che tanto restava alla fine della nostra adolescenza. Nei giorni successivi, io e Rachele tornammo sempre piú spesso nella casa di Santo Petruzzelli. Ci tornammo con Giuseppe e Donatella. Ci tornammo con Vincenzo. Poi ci sentimmo sufficientemente sicuri per andarci io e lei da soli. Restare chiusi ogni mattina in un’aula scolastica ci sembrò uno spreco, come sembrava sempre piú inutile andare al cinema o confondersi tra i ragazzi davanti ai bar e fuori dalle discoteche. Le ore trascorse a respirare l’aria di Japigia rosicchiarono il tempo per qualunque altra occupazione. In poche settimane avevamo stretto amicizia con la maggior parte dei frequentatori della casa. Ma non riuscivi a conoscere un ragazzo che ne spuntavano degli altri. Risalivano dalle strade limitrofe. Arrivavano a qualunque ora da Poggiofranco, da Carrassi, dai sontuosi appartamenti del centro murattiano. Certe volte si limitavano ad acquistare un po’ di roba e non li rivedevi piú. Ma c’erano tizi che bivaccavano lí dentro per giorni. Dormivano sui materassi gettati agli angoli delle pareti. Si infilavano nei sacchi a pelo. Fumavano eroina, qualcuno se la iniettava in vena, rimanevano interi pomeriggi a contemplarsi le punte delle scarpe. C’era chi era scappato di casa e parlava continuamente dei propri genitori. Ma c’erano anche quelli che non vedevano l’ombra di un parente da troppo tempo per poter parlare ancora di una fuga, cosí per loro l’appartamento era soltanto uno dei luoghi in cui si erano trovati a passare la notte negli ultimi anni. Di Santo Petruzzelli sapevamo poco. Non avevamo idea se la casa fosse sua, se pagasse un affitto, né riuscivamo a immaginare che tipo di legami intrattenesse oltre la porta dell’ingresso. La sua unica preoccupazione sembrava restarsene dov’era il piú a lungo possibile. Smistava la roba tra i frequentatori della casa e intascava i quattrini con lo stesso distacco che gli consentiva di non battere ciglio davanti a chi lo implorava di fargli credito contorcendosi ai suoi piedi. Lo strappo alla regola erano i ragazzi che ogni tanto scomparivano oltre la soglia della sua camera da letto. Ma erano gli stessi che – perduti i loro privilegi quando avevano cessato di essere i suoi amanti – potevano rivoltarsi in preda a veri attacchi isterici. Gli davano del Giuda. Strepitavano, piangevano, si graffiavano le guance. Santo si limitava a sollevare le sopracciglia da attrice del cinema muto e, stretto nella sua vestaglia, li guardava come se stessero parlando una lingua sconosciuta. Ero affascinato da come riusciva a risultare autorevole conciato in quel modo. Certe volte immaginavo che fosse passato per qualche prova terribile. Ma poteva anche darsi che la sua serafica imperturbabilità fosse l’ovvio risultato dell’essersi bruciato i ponti alle spalle. Se pure da qualche parte esistevano ancora per lui un padre e una madre, non ne subiva piú il ricatto. E a proposito del suo disinteresse a mettere il naso fuori di casa: che senso aveva affrontare il mondo esterno quando era il mondo a venire da te? Japigia rappresentava un universo sconosciuto per tutti quelli che delegavano alla tv il compito di istruirli su ciò che succedeva oltre la scrivania del proprio ufficio, almeno quanto era pacificamente nota come «l’Eldorado dell’alcaloide» per quell’eterogeneo, nascosto ma informatissimo esercito di iniziati che erano i consumatori di droghe pesanti sparsi per tutta la penisola. E i tossici, in quel periodo, erano una marea. In certi giorni bastava affacciarsi alla finestra per sentire – tra le strade immense del quartiere – un’invincibile forza d’attrazione capace di produrre effetti in un raggio di centinaia di chilometri. Chiunque si trovasse a disperarsi in un paesino di provincia dopo l’arresto del proprio spacciatore, sapeva che a Japigia poteva trovare un bazar a cielo aperto fiorente e affidabile. Apertura ventiquattr’ore al giorno. Prezzi concorrenziali. Cosí arrivavano da Brindisi, da Lecce, dall’inesauribile terreno di reclutamento per tossicomani che era la zona amministrativa del Foggiano. Ma raggiungevano il quartiere anche da Campobasso, da Pescara, da Lucca, da Vercelli – dopo una retata della polizia per le strade delle loro città, racimolavano qualche soldo e si scaraventavano su un interregionale diretto verso sud. Le case come quelle di Santo diventarono a Japigia un continuo punto di passaggio per ragazzi provenienti da ogni angolo d’Italia. C’erano figli di operai, di cassintegrati, di professori universitari, di ferrovieri, c’erano rampolli di ricche famiglie di industriali per i quali i rischi di un’overdose erano preferibili a un altro giro del Mediterraneo in barca a vela. Una quantità di accenti e una disparità di ceti sociali che nessuna scuola, pubblica o privata, avrebbe mai saputo offrire. Io e Rachele in quel mondo iniziammo a starci benissimo. Ci bastava attraversare ogni giorno la soglia dell’appartamento per sentirci nel giusto. Avanzavamo tra posacenere carichi di mozziconi spenti e ascoltavamo i resoconti dei nuovi arrivati. Poi qualcuno ci passava un po’ di roba da fumare. Non ci sentimmo mai piú solidali, piú vicini, e forse non credemmo di poter essere insieme piú felici di cosí. E non avvertivamo mai il bisogno di spiegarci niente: se eravamo tutti e due da questa parte, significava che nutrivamo un disprezzo finalmente credibile per quell’altra. La casa di Santo Petruzzelli diventò la garanzia del nostro amore e dei nostri ripetuti accoppiamenti. Negli anni successivi l’appartamento è stato ristrutturato passando di proprietario in proprietario. Se esiste tuttavia una memoria dei luoghi, i calchi dei nostri amplessi sopravvivono in un salotto arredato con tavolini Markör e altri componenti Ikea. Continua dunque a esistere il pomeriggio in cui Rosamaria – una trentenne del quartiere Libertà che pernottava lí da giorni, ammorbando chiunque con i ricordi della sua infanzia sfortunata – rivoltò mezza casa alla ricerca di un biglietto da cinquantamila lire che forse non era neanche mai esistito, mentre io e Rachele, celati agli sguardi dei presenti grazie al sottile rivestimento in nylon, amoreggiavamo nel caldo bozzolo di un sacco a pelo. E la cucina? Qualunque cosa ci sia oggi al suo posto, anche lí rimane viva la traccia del nostro passaggio: la sera in cui la casa era quasi tutta vuota, Rachele stava friggendo qualcosa in padella dandomi le spalle, e i deliziosi sorrisi sulle piegature delle gambe sotto la piccola gonna di lana con cui aveva deciso di sfidare l’inverno non furono piú seducenti dell’inequivocabile messaggio inciso tra labbra e occhi con cui mi chiamò a sé quando girò la testa. I ragazzi erano in giro, e il consueto silenzio serale saliva dalle strade come un invito a riempire quella parentesi di vuoto. Mi avvicinai, le misi una mano tra le gambe. Sentii qualcosa di caldo, di appiccicoso. Subito dopo due rivoli di sangue iniziarono a scendermi sull’avambraccio mentre lei chiudeva gli occhi in un trionfale stato d’abbandono che dieci anni di scuola dell’obbligo e altrettanti di cene di beneficenza al Circolo ufficiali non erano riusciti a strapparle di dosso. E poi ovviamente gli stupefacenti. Impossibile non farne uso lí dentro. Inalavamo le azzurre serpentine dell’eroina in stato gassoso piombando a terra uno sopra l’altra. Se dovessi spaccare in tanti piccoli frammenti gli istanti che separavano la rigida veglia invernale dalla densa nuvolaglia oppiacea in cui sprofondavo subito dopo, dovrei dire che al senso di colpa seguiva il timore di trovarmi davanti a una prova a cui il nostro legame non avrebbe resistito. Venivo preso dal terrore che Rachele – sulla quale immaginavo che l’eroina dovesse fare l’effetto del siero della verità – potesse rivelarmi da un momento all’altro che di me non le importava niente. Temevo che arrivasse a dirmi che era ancora innamorata di Rocco, o che nelle sue piú recenti fantasie c’era il desiderio di fare sesso con qualcuno tra i ragazzi che transitavano nell’appartamento. Invece la roba faceva il suo dovere normalmente: rallentamento del battito cardiaco, grandi vampate di calore… e c’era un attimo (un altro di questi minuscoli frammenti) in cui avevo l’impressione che fossimo a un passo dalla separazione consensuale – il nostro amore era reciproco, questo finalmente era assodato, ma io e Rachele avevamo deciso di intraprendere ognuno per i fatti propri un lungo viaggio verso mete lontanissime. Mi sentivo sprofondare in me stesso fino a provare l’opposta sensazione di disperdermi in quel misero arredamento d’interni, come se tra il mio corpo e il materasso profumato di birra svaporata su cui ero appoggiato non ci fosse alcuna differenza, come se all’improvviso riconoscessi l’insospettata dignità di quel materasso!, e la dignità del divano, e delle pareti, perfino la dignità delle briciole di cracker sparse sul pavimento, nell’evidenza che tutto ciò che esiste è eterno e si equivale. Le ultime, estatiche parti di me che ancora unghiavano il mondo della realtà auspicavano allora che mio padre e mia madre e tutti gli esseri umani candidati dalle proprie ambizioni al regno delle malattie nervose si sottoponessero a una terapia analgesica a base di eroina. Ma poi non c’era spazio neanche per questo tipo di pensieri. L’atto stesso del concepire idee diventava superfluo, e quello che accadeva dopo non è testimoniabile. Ritrovavo Rachele al mio fianco: emaciata, esausta, gli occhi gonfi e un insondabile sorriso di sconfitta a fior di labbra. I nostri risvegli avevano sempre qualcosa di traumatico. Mi guardavo intorno. La confusione da cui eravamo circondati, adesso mi sembrava solo squallida. Riconoscevo sul volto dei ragazzi che occupavano la casa qualcosa di feroce, di rovinato, e sull’onda di questo ribaltamento emotivo mi veniva il sospetto che il posto in cui trascorrevamo le giornate non fosse poi quel radioso paradiso libertario che fino a qualche ora prima ero convinto di avere conquistato. La miseria umana semplicemente non aveva piú bisogno di nascondersi tra i complicati meccanismi di una carriera né di impigliarsi nei legami famigliari – il nocciolo dei rapporti di dominio rischiava però di rimanere identico: il carisma di Santo Petruzzelli non si limitava forse al fatto di tenere il coltello dalla parte del manico? Guardavo Rachele. Anche lei sembrava triste e sconfortata. Mi guardava con un broncio che non prometteva niente di buono. Se adesso ci fossimo parlati, se avessimo cercato di restituire una forma alla plumbea atmosfera che gravava su entrambi ma ricadeva su ognuno in maniera diversa, avremmo rischiato di non capirci, di litigare. Allora andavamo a farci un giro. Uscivamo dall’appartamento e provavamo a dissipare le brutte sensazioni camminando intorpiditi per la strada. Ricevevamo senza un lamento il vento gelido che razziava quelle enormi carreggiate prive di negozi e cartelloni pubblicitari. Dal silenzio della sera vedevamo emergere le sagome degli eroinomani veri. Erano i tossici in stato terminale che nelle case come quelle di Santo non avrebbero avuto accesso perché nessuno si fidava piú di loro – spettri vaganti le cui giornate prevedevano interminabili traversate dei quartieri cittadini dove affrontavano ogni stazione del puro odio sociale: insultati, evitati, talvolta malmenati dai passanti a cui chiedevano due spiccioli. Erano quelli che avevano superato la soglia del rispetto del mondo e di se stessi, che si fregavano l’un l’altro senza provare rimorso, che molto presto sarebbero morti. Oppure, avrebbero strisciato a ritroso lungo il percorso infernale della riabilitazione, si sarebbero scavati una tana di famiglia lavoro e anonimato per arrivare a dire, anni dopo, a cena con gli amici: «È stato il periodo piú terribile di tutta la mia vita…», e avrebbero ringraziato pubblicamente il dio del metadone e della camicia di forza, traditi dal loro sguardo intorpidito di ex tossici – una membrana di cuoio che sopravvive sottopelle e riduce lo spettro delle espressioni disponibili, testimoniando quanto di orrendo e lancinante ci fosse nell’esistenza di allora, e quanto vuota e sbagliata e parimenti invivibile sia quella attuale. Di tanto in tanto tra quelle strade incrociavamo Giuseppe e Donatella. Due sagome disegnate a carboncino risaltavano nell’immobilità del panorama. Uscivano dall’ombra di un palazzo e ci venivano incontro. Li ritrovavo in uno stato peggiore del nostro. Donatella era l’emblema della confusione piú totale: pallida, nervosa, trasandata, si guardava alle spalle senza nessun motivo. Giuseppe aveva un’aria di stremata padronanza. Mi fissava con uno sguardo vuoto e freddo. Uno sguardo involontario. In quei momenti realizzavo che Giuseppe e Donatella erano stati inghiottiti dal quartiere senza che me ne fossi accorto. Cosa facevano, dove andavano, chi frequentavano… non ne sapevo niente. Stava accadendo qualcosa che ci impediva di mettere a fuoco la situazione. Forse anche io e Rachele eravamo terribilmente confusi. Stavamo perdendo la cognizione del tempo e degli eventi. Tre settimane, tre giorni, un mese? quanto era di preciso che avevamo messo radici nel quartiere? Ma il piú delle volte, durante quelle passeggiate, io e Rachele non incontravamo nessuno. Accompagnati da un lontano ronzare di automobili, camminavamo verso sud, costeggiavamo la zona semideserta dove anni dopo sarebbe sorto il palazzetto dello sport. A qualche metro da noi si profilava una piccola collina sorta spontaneamente da una discarica abusiva. Affrontavamo il pendio, ci facevamo largo tra i cespugli che spuntavano qua e là sul terreno grigio e molle. Vedevamo in lontananza una B una A una N illuminate a giorno e salivamo ancora, senza sapere neanche piú se fossimo completamente svegli. In pochi minuti davanti ai nostri occhi c’era tutta la città – la città in cui eravamo nati con la sua sfolgorante foresta di luci, i cartelloni accesi di Bankamericard e dell’Amaro Lucano, le lunghe code di automobili dirette verso il centro, i rimorchi delle paninoteche per il lungomare, il bagliore proveniente dagli yacht che prendevano il largo. Era allora che questo senso desolante di tragedia in atto ci crollava addosso. Sembrava che la città morisse dalla voglia di venirci incontro, e di travolgerci malgrado le nostre resistenze, di assimilarci in quel concerto di colori dentro il quale non sarebbe stato piú possibile concepire anche l’idea di una singola nota stonata. Avrei voluto dire qualcosa a Rachele – qualcosa in grado di fare ordine, di portarci in una dimensione di ritrovata armonia. Ma dalla bocca non mi usciva niente. Due sere su cinque tornavamo a casa. Non so quali scuse inventasse Rachele per giustificare tante notti trascorse fuori dalla propria cameretta. Immagino i soliti accordi incrociati con amiche compiacenti. A ogni modo lei era una ragazza molto carina – e certe ragazze di buona famiglia sviluppano, insieme con lo slancio delle gambe, anche una dolce propensione alla menzogna a cui le loro boccucce infondono il profumo della santità. Ricordo invece quali scuse avevo bisogno di inventare io. Nessuna. Trascorrevo almeno venti notti al mese fuori casa e non mi fu mai chiesto di rendere conto delle continue assenze (né papà e mamma controllarono la cassetta della posta con tanta tempestività da impedirmi di intercettare la solitaria minuta in carta bollata con cui il Cesare Baronio lamentò la mia improvvisa latitanza dalle strutture scolastiche). L’involontario responsabile di questa impunità fu Vincenzo. Era lui il mio salvacondotto universale. A papà bastava ricordarsi che eravamo amici per presumere di sapere con chi passavo il tempo libero, dal momento che lui trascorreva il proprio con l’avvocato Lombardi: carezzare l’ipotesi delle vite parallele lo metteva in uno stato d’animo vicino alla tranquillità. Mi ero insomma perso qualcosa di molto prevedibile, dal pomeriggio in cui avevo sorpreso mamma fare shopping con Sabrina in via Sparano. Mario Lombardi era diventato l’avvocato di famiglia, con tutto ciò che comportava fuori dal traffico delle citazioni giudiziarie. Frequentazioni… Ecco la parola magica. Lo studio Lombardi aprí ai miei genitori le porte verso un mondo per avere accesso al quale il conto in banca non era sufficiente. Mio padre si trovò a stringere decine di nuove mani, sorvegliato dallo sguardo sornione dell’avvocato: a cena al ristorante o nelle hall delle sale congressi, seduto davanti a un cognac nel fumoir del Circolo del mare, provando per la prima volta il piacere ineguagliabile di transitare – da un territorio su cui ogni minima conquista portava su di sé i segni della lotta – verso un empireo i cui eletti condividevano la sensazione di librarsi senza sforzo, spinti dal balsamo inerziale del mutuo soccorso. Aveva per caso bisogno il mio papà del piú bravo cardiologo di tutto il Sud Italia? Di un chirurgo plastico? Di un magistrato, di un architetto che non fosse il solito geometra sotto mentite spoglie? Aveva avuto qualche piccolo problema con il fisco e non conosceva nessuno all’Agenzia delle entrate? Bene, adesso li conosceva proprio tutti. Iniziò a vedere l’avvocato ogni domenica per giocare insieme a tennis. Negli spogliatoi, con gli asciugamani legati in vita, confabulavano di compravendite e investimenti immobiliari. Discutevano ovviamente di problemi legali. E si piacevano da morire, questo era certo. Mario Lombardi era affascinato dalla propensione a tirar fuori le unghie che il suo nuovo amico non avrebbe perso neanche dopo dieci anni di Rotary: per ogni affare al centro delle loro discussioni, c’erano aspetti che l’avvocato non coglieva e che papà era capace di snidare con un battito di ciglia, perché l’attenzione sfiancante a ogni dettaglio era stata la sua belva da riporto per trent’anni. Mio padre era estasiato dall’assoluta padronanza emotiva sfoggiata dall’avvocato, risultato naturale di tre generazioni abituate all’esercizio del potere. La mancanza di tensione con cui Mario Lombardi affrontava gli interessi colossali al centro di una causa, quell’innato saper vivere capace di sedurre frapponendo una distanza tra sé e chiunque altro lo lasciavano a bocca aperta. E le mogli? Perché la macchina della nuova alleanza fosse unta dal lubrificante della migliore tradizione, anche loro dovevano mettersi d’impegno. Mia madre e Sabrina diventarono amiche per la pelle. Cominciarono a comparire insieme a vernissage, concerti di musica classica e riffe natalizie. L’unica cosa che poteva accomunarle era un’origine quanto mai lontana dagli ambienti dell’alta borghesia. A parte questo, non credo ebbero mai il tempo neanche per domandarsi se si piacessero davvero – ma fecero il proprio dovere con ammirevole abnegazione, tenendosi a braccetto per darsi coraggio sotto gli sfavillanti candelabri di un foyer, scrutate dalle perfide carampane obbligate sin da piccole a suicidare Schubert al pianoforte che rappresentavano l’altra metà della crema cittadina. Il risultato piú facilmente testimoniabile di tutte queste novità consistette nella decisione di interrompere per l’ennesima volta i lavori della villa in cui saremmo dovuti andare a vivere sin dal lontano ’85. Le rare volte in cui mi capitava di pranzare a casa, gli argomenti che potevano trascinarsi fino al caffè riguardavano problemi quali lo stile di un lucernario a doppio vetro. Le uscite pubbliche degli ultimi mesi avevano fatto sorgere nei miei il sospetto di un errore. Il profluvio di marmi rosa considerato fino a poco tempo prima il sistema piú ovvio per presentare le generalità di una solida famiglia di benestanti, adesso rischiava di apparire volgare. Le leggi di natura dell’alta borghesia non prevedevano un rapporto necessariamente proporzionale tra gusto e quantità di denaro rovesciato nella causa di un camino in travertino sorvegliato da due arcangeli di un metro e ottantacinque. Se si era in grado di scegliere, si poteva spendere di meno guadagnando in ricercatezza. «Guarda qua», diceva mamma spalancando un opuscolo su cui era rappresentata un’elegante consolle a bande verticali nera e panna. «C’è un problema, – commentava scettico papà, – ha i piedi di forma diversa». «Ma è voluto! L’ha disegnato Sottsass!» «E chi sarebbe?» Poi mamma iniziava a innervosirsi e, se mio padre non doveva correre verso un impegno, trovavano anche il tempo per litigare. Nonostante li guardassi attraverso la mia bruciacchiata ostilità (cui si sovrapponeva lo specchio deformante dello sballo del giorno prima), riuscivo a cogliere in mia madre un’inquietudine elettricamente adagiata sotto ciascuna delle sue parole, come se eccitarsi intorno a tutti questi cambiamenti fosse una tattica per non saggiare a fondo la materia di cui erano fatti. Si inalberava, alzava inutilmente la voce proprio quando mio padre abbassava la propria ventilando una tregua di cui si sarebbe avvantaggiato il solo Ettore Sottsass. Ma a quel punto uscivo di casa, raggiungevo Rachele, e in pochi scoppi di marmitta il mondo dei nostri genitori non esisteva piú. In questo modo, mi persi i colpi da maestro con cui Mario Lombardi rimise a posto i nostri problemi legali. Uno per tutti: Gianfranco Balestrucci. Al padre di Vincenzo bastarono pochi squilli di telefono perché lo stesso curatore fallimentare che aveva impiegato due anni a inventariare i beni del malcapitato, in meno di un ventesimo del tempo desse il nullaosta per la liquidazione di una somma che gli interessi accumulati non resero meno trascurabile. Non contento, l’avvocato convocò mio padre nel suo studio. Gli disse: «Le buone notizie non sono finite», e lo informò che gli ultimi averi di Balestrucci sarebbero stati venduti il lunedí successivo a un’asta giudiziaria – prezzo base: una miseria. A quanto pareva, Balestrucci aveva raccolto tra mille difficoltà il denaro necessario per rientrare in possesso di almeno qualche articolo, e soprattutto si era venduto l’anima perché alla notizia dell’incanto non venisse data pubblicità come previsto dalla legge: «Ma vedi, – disse l’avvocato nel chiaroscuro dell’ufficio, – l’Istituto vendite giudiziarie è un porto di mare…» A quel punto spero che papà abbia almeno pensato: Non posso farlo… prima che una qualunque immagine risalita dal pozzo nero del suo passato di stenti lo costringesse invece a dire: «Smobilito un po’ di titoli e lunedí mattina sono in tribunale». L’avvocato lo ammoní: «Te lo vuoi ritrovare sotto casa con una rivoltella in mano? Smobilita i titoli, che in tribunale ci mandiamo una persona di fiducia». Se di queste vicende mi accorsi poco, mio padre non fu meno distratto. A Bari, ogni individuo dotato di una partita Iva appena presentabile veniva preceduto da un folto sciame di dicerie. A papà arrivò sicuramente la voce che gli affari dell’avvocato seguivano un doppio binario. Preferí dunque imputare all’invidia certe informazioni, e comunque le dimenticò del tutto quando – all’inizio della primavera – lui e la mamma ebbero l’onore di figurare tra gli invitati alla festa per gli ottant’anni dello studio legale. A parte queste sviste, papà e mamma non associarono una sola volta le mie occhiaie a qualcosa che non fosse il sonno agitato degli adolescenti. E non lo fecero mamma e papà Rubino rispetto a Giuseppe, che con le droghe ci stava andando pesante molto piú di me. Ma in quest’ultimo caso si trattava di una donna che in dieci anni di carte di credito bruciate contro tutte le bande magnetiche degli esercizi cittadini non aveva mai intuito di non essere la vera proprietaria dei suoi soldi, e di un uomo al quale la luttuosa comparsa dello Sghigno aveva rosicchiato ultimamente altri cinque punti percentuali. Difficile pensare ad altro in questa situazione. Sulle grigie spianate d’asfalto alla base dei tralicci. Chiuso in un cesso o dietro le tendine di una macchina per fototessere. Nel cortile posteriore del grande condominio alla fine di via Pitagora – una brulla estensione di terriccio disertata da chiunque a parte i gatti randagi, che saltavano continuamente attraverso le sbarre del cancello rimanendo congelati a testa in giú nelle pupille appena invase dal terzo flash della giornata. Chiuso in un altro gabinetto. Sul sedile di un’automobile con segni d’effrazione all’altezza degli sportelli. In marcia lungo via Gentile, all’altezza dell’imbocco per la tangenziale, dove uno spacciatore di oltre cento chili soprannominato «il papa» se ne stava per tutta la giornata su una poltrona di cuoio al centro esatto di una distesa d’erba. E poi in appartamenti simili a quello di Santo Petruzzelli, dove io non ho mai messo piede. Fu questo lo scenario in cui Giuseppe sprofondò senza che me ne accorgessi. Nelle prime settimane del 1988 era parte integrante del quartiere piú di quanto avessimo potuto mai sperare di fare io e Rachele. Lo era piú di Vincenzo, che pure frequentava Japigia da molto tempo prima – ma cento Dame in nero non valevano da quelle parti l’avere passeggiato almeno una volta con «Maxi il bucomane» lungo le sbarre arrugginite di una cancellata, introducendosi nel cortile insieme a un paio di gatti proprio quando il sole era appena sprofondato oltre il tetto dei palazzi, superando i vasi rotti e le minuscole piroghe delle foglie rinsecchite per sedersi schiena contro schiena pronti a entrare nell’ora zero che rappresenta la sezione aurea di ogni vero tossico. Maxi il bucomane, e tutti gli altri (amicizie che duravano per settimane, o semplici compagni di una dose) con cui Giuseppe condivise il periodo piú misterioso del ciclo vitale degli eroinomani. Piú tardi, si entra per forza di cose in una testimonialità riconosciuta: arrivavano un nome e un cognome sui registri della questura o di un pronto soccorso, o su una scheda di valutazione in cui si tiene conto di voci piuttosto umilianti quali «partecipazione alle attività di gruppo» a proposito dei canestri intrecciati in un centro di recupero. Ma molto prima che il tossico riempia il repertorio ufficiale dei nemici della società o venga caritatevolmente restituito alla famiglia, c’è un intervallo durante il quale di lui non si sa niente se si eccettuano voci di voci che lo vogliono in un dato posto, in compagnia di determinate persone, troppo lontano e sempre troppo tardi per raggiungerlo. Era il periodo in cui lo incontravo di sera agli incroci delle strade e lui diceva: «La vuoi una sigaretta?», e io me ne stavo a guardarlo notando come la sua obesità si fosse trasformata in uno strano sovrappeso al tempo stesso ruvido e prezioso. La luce sotto cui mi era apparso la prima volta tra i banchi di scuola adesso risplendeva in una gradazione ideale, convertendo le sue imprese precedenti in un lungo esercizio preparatorio rispetto a un’esperienza che consentiva di provare sollievo dall’intero processo vitale. La dipendenza assoluta… I dischi e gli abiti di marca e le auto sportive e le campagne pubblicitarie a cui l’anima di un intero decennio si era entusiasticamente già venduta, si ponevano con l’eroina in un rapporto di discepolo a maestro. Perché, di quali esperti di marketing ha mai bisogno l’eroina? Di che miglioramento del prodotto? Di che packaging? Se si trattava del prodotto definitivo, l’irrevocabile determinazione a vivere un vuoto e una perdita (non acquistare una merce, ma vendersi completamente a essa) consentí ai ragazzi come Giuseppe di entrare nel ventre di balena della loro epoca. Ma in quei mesi avevo buchi di memoria sempre piú frequenti. Mi limitavo a fargli compagnia per una decina di minuti senza capire cosa stesse cercando di fare, e senza domandarmi se ci fosse un motivo che spingeva invece me e Rachele a fumare la roba senza iniettarcela in vena – una voglia di sopravvivere malgrado tutto, mi dico adesso, un inconfessato desiderio di fare ritorno verso quel mondo che tanto ci sforzavamo di detestare. Allo stesso modo, mi limitavo a registrare distrattamente la presenza di Vincenzo per le strade del quartiere. Elegante e spigoloso, avvolto in un trench, a passo svelto e soprattutto furente come certi personaggi dostoevskijani che camminano a occhi sgranati per le vie di Pietroburgo. Lasciavo che mi passasse davanti senza neanche fermarlo, e per molto tempo evitai di chiedermi che tipo di problemi avesse. In fondo, era stato lui a trascinarci laggiú. Ma adesso stava cogliendo in pieno la dimensione di un fallimento gigantesco. La sfida mossa all’avvocato non aveva dato risultati, mentre Giuseppe si trovava in fondo a realizzare, pure attraverso il proprio annientamento, ciò che l’ex oggetto di culto di un intero istituto scolastico era costretto a riconoscere di non avere forse mai neanche posseduto: una vera vocazione. Ma per me allora Vincenzo si ridusse a poche brevi apparizioni. E non mi preoccupai neanche di Donatella, sul conto della quale iniziarono a circolare voci sempre piú insistenti: aveva iniziato a farsi insieme a Giuseppe; aveva rotto con Vincenzo; aveva rotto persino con Giuseppe e adesso sbandava avanti e indietro per Japigia abbandonata da tutti. Gli spacciatori la vedevano passare e facevano scommesse… Cosí, sarebbe stata una vittima perfetta del quartiere se, proprio in quel periodo, mamma e papà Lattanzi non avessero trovato nella sua stanza un biglietto da cinquantamila sul margine di uno specchietto attraversato da poche linee opache. Dovettero riassumere in un colpo d’occhio gli ultimi mesi di vita della figlia e fu per questo che, dopo averla presa a schiaffi, la costrinsero a salvarsi imprigionandola sino alla fine dell’estate nel perimetro di quella stessa stanza, dalla quale né Vincenzo né Giuseppe né io né nessun altro venne mai comunque a reclamarla. Stava davvero succedendo tutto questo? Non lo sapevo, non me ne interessavo, non avevo voglia di pensarci. Qualcosa di nuovo e adulto e riassuntivo stava iniziando a rendermi stanco, indifferente. Cosí, quando Giuseppe fece il suo ingresso nella casa di Santo dopo molte settimane, mi limitai a salutarlo sollevando pigramente il braccio destro, senza muovermi dal materasso sul quale avevo poltrito con Rachele per tutta la giornata. Lo vidi mentre confabulava con Santo e con un altro paio di ragazzi. A un certo punto gli sentii dire «dopodomani…» a proposito del battesimo di un suo cugino di terzo grado, una di quelle immense tavolate in una sala ricevimenti color confetto dentro la quale l’intero clan dei Rubino sarebbe stato imprigionato per tutta la giornata. La solidarietà di gruppo era diffusa tra i tossici non completamente rovinati del periodo, e derubare l’appartamento dei propri genitori era il sistema piú coraggioso per metterla in pratica. «Dopodomani, – ripeté Giuseppe accelerando la catastrofe della sua famiglia, – dopodomani a casa mia non ci sarà nessuno». Solo la scena degli zombi in marcia nel supermercato può rendere il concetto. Ci arrivammo che potevamo essere una quindicina. Qualcuno si era fatto l’ultimo schizzetto per festeggiare in anticipo il grande colpo, e dunque bisogna immaginare un gruppo di ragazzi semibarcollanti, tagliati dalla luce di fine marzo, che si accalcarono davanti al cancello e poi iniziarono a calpestare l’erba del giardino inciampando negli irrigatori e superando mollemente le barriere delle siepi. Giuseppe infilò le chiavi nella porta blindata, disinnescò l’allarme e diede il via libera. Ci addentrammo tra le stanze della villa con i sacchi dell’immondizia stretti in mano. Iniziammo ad aprire i cassetti, a digitare combinazioni sulle casseforti a muro, ad allungare le mani verso le mensole facendo incetta di gioielli e penne stilografiche e stole di giaguaro e altri oggetti di valore che vennero sottratti dalla loro ampollosa prigione. Quando Rachele mi passò un Patek Philippe che avrebbe potuto essere il pezzo forte di un’asta internazionale (e le mie dita sfiorarono le sue prima che l’orologio finisse nella busta dell’immondizia), non venni rincuorato per i grammi di roba che ne sarebbero venuti fuori quanto dalla sensazione che in ciascuno di quei furti ci fosse qualcosa di sacro, di purificatorio. Tre quarti d’ora dopo eravamo tutti insieme a starnazzare tra le acque stagnanti della piscina – e io, col liquido verdastro fino al collo, accarezzavo i capelli bagnati di Rachele portando la sua fronte sulla mia. Infine ci avviammo verso il cancello lasciandoci alle spalle un’infinità di rigagnoli che il vento avrebbe presto cancellato. Capitolo quattordicesimo Lo Sghigno aveva appena finito di pisciare dietro la piccola costruzione di tufo e ora stava tornando verso la station wagon. Un intenso profumo di polline invadeva lo spiazzo nudo e circolare, ma non sembrava venire dai mandorli incrociati nel tragitto né dai vicini fili d’erba, perché quell’anno la primavera era un unico corpo femminile che affiorava da un sonno lungo e piatto per tornare subito dopo a inabissarsi – e fino a quando il risveglio non fosse stato completo, sembrava che l’intera pellicola atmosferica venisse pervasa a capriccio da questi odori; i quali, in modo altrettanto imprevedibile, svanivano sulla durezza metallica di una stagione ancora non del tutto consumata. Se avesse avuto intorno un paesaggio pianeggiante, avrebbe visto le luci in lontananza. Invece sentí i giri di un motore che avanzava con lentezza, e solo quando aveva già la mano tesa verso lo sportello vide i fari puntare verso l’alto e poi abbassarsi nel momento in cui una Fiat Panda di colore rosso imboccava la discesa. Entrò nella station wagon, chiuse lo sportello, sfilò una chiave dal mazzo e aprí la serratura del cruscotto. Attese che la Panda si fermasse. Ritardatari… pensò. C’erano sempre dei ritardatari, benché ormai chiunque andasse a rifornirsi dallo Sghigno sapeva che dopo le undici lí non c’era piú nessuno: la station wagon imboccava la strada campestre, si immetteva sul lungomare e scompariva nella notte. Ma quella sera sembrava che una rota gigantesca stesse artigliando i tossici di tutta la città. C’era stato un continuo viavai di automobili e motorini e autocarri e poveri sbandati che avevano coperto a piedi chissà quanti chilometri contandosi il denaro tra le mani. Allentò la stretta sulla chiave solo quando sentí spegnersi il motore. Lo sportello della Panda si aprí. Ne venne fuori un ragazzo in giubbotto di jeans che avanzò verso di lui con passo incerto. Lo Sghigno abbassò il finestrino, infilò la mano nel cruscotto per prendere la roba, e solo allora (come un ricordo che nasca dalla linea non ancora spezzata dei secondi immediatamente precedenti) risentí nelle orecchie l’impossibile sfasatura acustica del motore della Panda che si spegneva e poi tornava a spegnersi di nuovo. Alzò la testa. Fece scorrere lo sguardo per l’intero spiazzo fino a quando, alla sommità della salita, vide la nera sagoma di altre due automobili. Erano arrivate a luci spente e adesso bloccavano l’unica via di accesso alla piccola mulattiera che riportava in città. Era ovvio che non sarebbe mai dovuto rientrare nella station wagon. E bisognava presumere che non sarebbe arrivata nessuna Panda alle undici e mezzo di sera se, due settimane prima, l’avvocato Lombardi non gli avesse dato il benservito. Lo aveva fatto sedere dall’altra parte della scrivania. Aveva intrecciato le mani sull’agenda e aveva detto: «Ti ringrazio». Gli aveva espresso la sua formale riconoscenza per dieci anni di servizio e poi gli aveva comunicato che lo studio Lombardi non aveva piú bisogno di lui. Lo Sghigno aveva annuito. L’avvocato gli aveva teso la mano. L’incontro si era svolto cosí rapidamente da dargli l’impressione che niente fosse cambiato per davvero: dopo neanche mezz’ora era di nuovo in macchina per il consueto giro di raccolta, fermandosi ai semafori e poi marciando per le strade di una città che – a parte le improvvise folate di caldo – era la solita di sempre. Capiva che essere fuori dallo studio significava rimanere senza protezione. Non riusciva invece a spiegarsi i motivi del licenziamento. Nei giorni successivi aveva continuato a domandarselo, ma quando ripensava alla scena (l’avvocato tornava a intrecciare le mani sull’agenda, lui annuiva, si salutavano…) l’unica stranezza era che, quel giorno, persino Mario Lombardi non sembrava del tutto padrone delle sue parole – come se sguardo e voce e mani in movimento fossero governati da qualcosa di remoto, di inarrestabile. Aveva continuato nei suoi giri e poi, ogni sera, si era addentrato nelle campagne tra il lungomare e Japigia con dieci grammi di eroina nel cruscotto. Temeva che l’interruzione di qualunque abitudine potesse destare dei sospetti. Quando il ragazzo si affacciò sul finestrino semiaperto e disse: «Un pezzo», il cuore dello Sghigno riuscí a non sussultare. Evitando di guardarlo, si piegò di tre quarti verso il cruscotto. Gli diede le spalle, offrendo la piccola porzione di capelli nerissimi aggrappati tenacemente alla base del collo. Il primo colpo gli trapassò la nuca sfondandogli l’orbita dell’occhio destro. I colpi successivi lo raggiunsero quando lui non c’era piú. Che qualcosa intorno a noi stesse cambiando, si capiva dall’atmosfera di crepitante nervosismo che attraversava le strade. Nei primi giorni di aprile, quando già Donatella non era piú dei nostri, a un paio di settimane dal breve periodo durante il quale il silenzio di Japigia venne rotto dalle sirene delle autombulanze, io e Rachele assistemmo alla prima scena di violenza della nostra vita. Eravamo scesi a comprare le sigarette e stavamo tornando verso casa di Santo. Rachele aveva ripreso a indossare i suoi vestiti di cotone e adesso era una vivida testimonianza di bellezza pomeridiana che avanzava nel deserto di via Gentile. Sentimmo un urlo. Quando girammo la testa, il ragazzo in jeans e magliettina azzurra ci aveva già superati correndo sull’altro lato della strada. Da una via laterale sbucò un Vespone a pieno regime. Un secondo scooter prese la curva troppo larga, basculò verso il nostro marciapiede, poi il guidatore diede uno strappo sul manubrio e accelerò fino a rientrare nel tracciato. Sopra ogni moto c’erano due ragazzi. Il fuggiasco deviò sul marciapiede, inciampò nei propri passi, riprese a correre tenendosi sul lato dei palazzi. Una delle moto lo superò da sinistra. Il passeggero di dietro descrisse un mezzo giro con il braccio. La mazza da biliardo che fino a poco prima aveva stretto tra le mani si spaccò. Contemporaneamente, il ragazzo in maglia azzurra cadde schiena a terra. Rimase immobile per qualche istante. Intrecciò le mani sulla testa prima che gli fossero addosso. Io e Rachele eravamo paralizzati. Uno degli aggressori smise di prendere a calci il ragazzo, alzò la testa guardando nella nostra direzione. Urlò qualcosa. Non c’era nessun altro per la strada. Assurdamente, iniziai a camminare verso di lui. Non sapevo neanch’io cosa avessi intenzione di fare. Gli altri aggressori smisero anche loro di picchiare il ragazzo. Mi guardarono tutti e quattro con aria incredula. A quel punto, seppi di che cosa era fatto il mio coraggio. Una forza piú autorevole della volontà mi bloccò i muscoli delle gambe. Indietreggiai. Non appena il pestaggio fu ripreso, voltai le spalle alla scena e mi misi a correre a gambe levate. Dopo una cinquantina di metri mi ricordai di Rachele. Mi arrestai di colpo. Rachele non c’era. In preda al panico, ripercorsi a passo svelto la strada da cui eravamo venuti. La ritrovai a due isolati di distanza – ferma accanto a un’auto parcheggiata, le braccia verso il basso, lo sguardo intontito. Capii che era fuggita prima di me. Sopraffatti dalla vergogna, evitammo di parlarci per il resto del pomeriggio. Qualcosa di analogo accadde un paio di sere dopo a casa di Santo Petruzzelli. Intorno alle dieci, sentimmo un rumore di pugni sferrati contro la porta. Santo si diresse verso l’ingresso, seguito da me, da Rachele, e dai pochi curiosi che non erano completamente fatti. Aprí la porta, diede un’occhiata fuori. Dopo che ebbe spinto con forza il pannello in senso opposto, una scarpa da ginnastica si infilò nella fessura. Il proprietario della scarpa disse: «Per favore, Santo, fammi entrare!» Lui continuò a spingere, contrastando il movimento della gamba. La voce ripeté: «Per favore, cazzo, per favore!» Il padrone di casa mollò la presa. Per un attimo vedemmo comparire nell’ingresso un ragazzo magro e riccioluto, in felpa e pantaloni gialli. Ansimava. Santo si strinse la cinta della vestaglia e gli sferrò un calcio nello stomaco. Chiuse definitivamente la porta. Sentimmo i passi del ragazzo dirigersi di corsa verso il piano superiore, seguiti da altri passi e altri passi ancora. Il rumore di un corpo scaraventato dalle scale si fece sempre piú vicino. Santo sorrise: «Fossi in voi, non uscirei di casa per almeno un’ora». Non disse altro. Tornò a sedersi sul divano. Quella sera, tornato a casa, mi addormentai guardando il telegiornale. L’Unione Sovietica si ritirava dall’Afghanistan e il presidente Gorbačëv si preparava a uno storico incontro col Segretario di Stato Vaticano. Un portavoce della Casa Bianca confessava l’impossibilità di realizzare lo Scudo stellare mentre uno sciopero nei cantieri navali di Danzica metteva in crisi il Partito comunista polacco. Il papa salmodiava: «I bambini che hanno visto la guerra | sono l’unica speranza per la pace». Madonna dichiarava: «Non potrò essere felice fino a quando non diventerò famosa come Dio». Al mattino, mi risvegliai con la sensazione che il mondo avesse sognato molto piú intensamente di me – piú intensa e piú veloce, una bianca corrente elettrica doppiava tutti i meridiani terrestri per miliardi di volte in una sola notte. Il padre di Vincenzo disse: «Ascoltami adesso, voglio darti un consiglio…» Senza togliersi le mani dalle tasche, Vincenzo disse a Giuseppe: «Allora, senti, volevo dirti questa cosa…» Il cognato di Domenico Rubino chiese a Domenico Rubino: «Ma come? ci andiamo col furgone della Eurogarden?» I due erano nel magazzino della ditta, in fondo a un lungo corridoio pieno di merce sistemata sui bancali. Il padre di Giuseppe agitò il bicchierino di plastica tenendone i bordi tra le dita. Spense la macchina del caffè. Portò una mano verso l’alto e spense anche l’interruttore della caldaia. Bevve il caffè. Buttò il bicchiere nel cestino e camminò fino al piano metallico del montacarichi. «Il dubbio che non siamo noi non li deve neanche sfiorare», si limitò a rispondere. Ruotò la manopola di plastica a forma di trifoglio. Il pavimento sotto i loro piedi sussultò. Iniziarono a muoversi a singhiozzo verso il basso. Due grossi tubi al neon ben ancorati sul soffitto sfarfallarono, quindi si accesero uno dopo l’altro rivelando un caveau di forma rettangolare la cui altezza non superava i due metri e mezzo. Una delle pareti era occupata da un armadio di metallo. Il cognato di Domenico disse: «Tex…» Due punte si drizzarono in fondo allo stanzone, dove la luce del neon arrivava a malapena. Domenico Rubino disse: «Bello», battendosi una mano sulla coscia. Il pastore tedesco uscí definitivamente dall’ombra. Era vecchio e appesantito. Arrancò scodinzolando verso i due. Poi si sedette di fronte a loro con la lingua a penzoloni. «Riempi tu le ciotole», disse Domenico. Quando l’uomo tornò dal padre di Giuseppe, l’armadio era già stato aperto. Al suo interno, un voluminoso borsone di cuoio era a propria volta spalancato su due Berette semiautomatiche M34. Raccolsero le armi e tornarono sul montacarichi. «Aspetta, – disse il padre di Giuseppe, – gli faccio fare un giro». Fischiò la prima e la seconda volta, fino a quando non vennero raggiunti anche dal cane. Al piano di sopra, recuperò il guinzaglio e due mazzi di chiavi. Attraversarono il corridoio e si chiusero alle spalle la porta scorrevole del magazzino. Sentirono immediatamente il canto degli uccelli. Era una mattinata fredda e luminosa, una sottile nebbiolina azzurra si andava disperdendo per i campi circostanti. Gli altri due uomini fumavano a pochi passi dal furgone. Domenico disse: «Andate pure, io torno a casa con l’altra macchina». Senza neanche aspettare che mettessero in moto, iniziò a camminare con il cane al guinzaglio. L’uomo e il pastore tedesco seguirono la strada asfaltata fino a quando non iniziò a sfarinarsi curvando verso la campagna. Al di là, si apriva un magnifico uliveto. Sganciò il guinzaglio dal collare e scavalcò il muretto. Il pastore tedesco mugolò. Inclinò la testa e cominciò a scodinzolare. Abbaiò un paio di volte. Infine si decise. Prese una piccola rincorsa e saltò, urtando con le zampe posteriori contro una pietra liscia e appuntita. Un salto penoso, ma ce l’aveva fatta. Domenico gli prese la testa tra le mani, e il cane si liberò orgogliosamente dalla stretta. Si inoltrarono insieme tra i fusti contorti degli ulivi. Se avesse saputo che il corpo dello Sghigno sarebbe stato ritrovato pochi giorni dopo, steso faccia a terra tra i sedili anteriori della station wagon, si sarebbe fermato a riflettere sulla complessità della situazione. Avrebbe capito che aria tirava, e forse non avrebbe avuto tanta fretta di radunare i collaboratori piú fidati. E se sua moglie non avesse normalmente coltivato delle opinioni sbagliate su tutto, le avrebbe forse dato un po’ di credito quando, appena tornati dalla sala ricevimenti, aveva iniziato a urlare davanti alle casseforti aperte e alle mensole completamente vuote, inveendo contro i ladri senza nome che avevano appena ripulito la villa. E soprattutto… se da un po’ di tempo a questa parte non avesse cominciato per davvero ad alterare i libri contabili (cinquecentomila in meno per ogni milione e mezzo di merce fatturata), allora non si sarebbe convinto con tanta sicurezza che quel furto fosse l’ennesima provocazione, l’ultimo ma non ultimo insulto beffardo di chi era riuscito a fare di un vecchio prestito la sua condanna. Non aveva neanche avuto bisogno di compiere l’inventario a vista degli oggetti rubati come stava facendo sua moglie («Le bambole! hanno preso pure quelle!») Gli era bastato guardare il primo cassetto rivoltato per farsi venire il sangue agli occhi. Il furore non lo aveva abbandonato nei giorni successivi. Cosí, quando era uscito dal magazzino in compagnia di suo cognato, si poteva dire che fosse passato solo un minuto dal giorno del battesimo. Ed era passato un altro minuto quando, qualche ora dopo, il furgone con la scritta EUROGARDEN si era fermato in via Pasubio di fronte alla sala giochi PLAY AND REPLAY, uno dei pochi esercizi gestiti direttamente da quelli che considerava ormai i suoi nemici. Le lanterne di plastica dell’illuminazione comunale ondeggiavano sopra le loro teste, e la saracinesca abbassata per un quarto testimoniava l’imminente chiusura del locale. Un motorino truccato riempí la strada con il boato di un missile terra aria. Domenico disse a suo cognato: «Allora». Gli altri due uomini rimasero a bordo del furgone. A parte un ragazzino con le tasche gonfie di spiccioli, impegnato a superare l’ultimo livello di Moon Patrol, nella sala giochi c’era solo il cassiere. Un uomo alto, sbarbato male, gli occhiali a catenella e un brutto maglione di cotone a scacchi verdi e neri. Guardò i due con aria interrogativa fino a quando non gli furono vicini. Il padre di Giuseppe disse in dialetto: «Apri la cassa». L’uomo appoggiò platealmente una mano sulla guancia e urlò al ragazzino di tornarsene a casa. Il ragazzo continuò imperterrito a smanettare sul joystick. Il cassiere sospirò, scosse la testa, tornò a guardare gli uomini tenendo le mani bene in vista sul piccolo tavolo di legno. Si rivolse al padre di Giuseppe e disse: «Non è serata». Domenico rispose: «È tutto regolare…», e gli spiegò che il titolare della sala giochi era venuto senza preavviso a fare una visita a casa sua, quindi lui adesso stava solo ricambiando il favore. «Tutto regolare», ripeté. Sulla faccia del cassiere si disegnò un’espressione di stanchezza. Poi vide la pistola e sembrò ancora piú stanco di prima. Aprí il registratore di cassa e iniziò a rovesciare sul tavolo intere manciate di duecento lire. Il padre di Giuseppe mosse nel vuoto la Beretta, spostandola da sinistra verso destra. Il cassiere sollevò lentamente il coperchio di plastica. Gli occhi del cognato di Domenico vennero attraversati da un lampo di paura, la mano destra si ritrovò a muoversi alla cieca lungo la cinta dei pantaloni. Ma l’uomo stava solo prendendo le banconote dal sottocassa. Tirò fuori le mazzette. Le impilò una sull’altra nel poco spazio disponibile. Il padre di Giuseppe disse: «Basta cosí». Si rinfilò la pistola nei pantaloni, raccolse dal tavolo duecento lire e – con un gesto che lui stesso non aveva previsto fino a quel momento – le mostrò al cassiere alzando la monetina tra pollice e indice fino a quando scintillò sotto la luce artificiale: «Di’ al titolare che con questa siamo a posto. Non mi deve niente lui, non gli devo niente io». Il cassiere restò zitto. Seguí con lo sguardo i due uomini mentre tornavano verso l’uscita, attraverso la quale era ben visibile la fiancata del furgone. Quando anche quest’ultimo scomparve, iniziò a fare ordine. Rimise le banconote a posto. Sistemò pazientemente gli spiccioli nelle scanalature di plastica. Infine, chiuse a chiave il registratore di cassa. Non sembrava sollevato né arrabbiato né spaventato né niente. Raccolse il giubbotto di pelle dall’attaccapanni. Aprí uno sportello incassato nel muro e tirò giú una leva di plastica. Dal fondo della sala, il ragazzino urlò: «Eccheccazzo!» Tre settimane dopo, gli avevano incendiato il magazzino. Tubi, condotte idrauliche, elettropompe… centinaia di milioni di merce completamente in fumo. Il vano dei gocciolatoi trasformato in un’opera d’arte contemporanea. Il cane, morto asfissiato nel caveau. Sarebbe finita molto peggio. Sarebbero venuti a regolare i conti di persona se, prima di maggio, il residuo di un colossale movimento tellurico con epicentro a est non li avesse trascinati in galera tutti quanti. Quando il fratello di sua moglie gli telefonò tutto agitato urlando: «Il magazzino!», non ebbe neanche il tempo di pensarci, perché (uno schianto dopo l’altro) stava ancora cercando di dare un senso alle immagini di suo figlio trasportato d’urgenza nel reparto rianimazione del Policlinico di Bari. Soltanto dopo qualche giorno riuscí a pensare con la dovuta calma che, se solo non fosse entrato come un cowboy in sala giochi, a quel punto – abbattuti i suoi nemici da una forza superiore – sarebbe stato un uomo libero. A metà marzo licenzia lo Sghigno. A fine mese legge della sua morte su un quotidiano locale. Ma quando febbraio è già finito eppure persiste magicamente nella casella a scomparsa di ogni anno bisestile, sta ancora domandando al suo interlocutore: «Sei sicuro?» L’uomo rispose: «Sicuro come il fatto che il prossimo 29 febbraio di questo qua non sapremo piú che farcene». Chiuse l’atlante che li aveva divisi da un lato all’altro della scrivania e si spinse con la schiena contro la spalliera della sedia. Poi aggiunse: «Mario, dico davvero: liberati di loro. Già adesso valgono la metà. Fra poco saranno pesi morti». Era un uomo bello, alto e robusto, il fisico da giocatore di rugby alleggerito da un elegante completo mistoseta. La testa grossa e i capelli corti e un paio d’occhiali con una ricercata montatura nera comunicavano una pretenziosità che in luoghi meno provinciali avrebbe solo suggerito l’idea di un uomo che sa sempre dove portarti al ristorante. Era piú giovane dell’avvocato Lombardi di qualche anno, ed era entrato nello studio alle tre del pomeriggio. Adesso erano le cinque. Quando luomo aprí il repertorio geografico e cominciò a tracciare a matita delle curve sulla porosa grammatura delle pagine, il padre di Vincenzo chiamò la segretaria e disse: «Chiunque dovesse cercarmi, non ci sono». Si erano conosciuti all’inizio del decennio, e avevano preso l’abitudine di vedersi un paio di volte l’anno per fare il punto della situazione. Sapevano tutto l’uno dell’altro grazie a semplici dicerie la cui veridicità non veniva mai smentita, come se mostrarsi scoperti sulla base di fonti non verificabili fosse l’unico sistema per stringere un’amicizia durevole e sincera. Il padre di Vincenzo non aveva mai assistito legalmente questo suo visitatore, e aveva sempre respinto la tentazione di lasciarsi coinvolgere in uno dei tanti affari che portavano l’uomo ad aggiornare di continuo l’orologio a seconda del paese che lo accoglieva al suo risveglio in una camera d’albergo. Anche questa era una garanzia: non avendo interessi in comune, non c’era mai bisogno di mentirsi. Riempivano i bicchieri con due dita di cognac. Si davano un ragguaglio sulle rispettive situazioni famigliari e poi iniziavano a parlare a briglia sciolta. Ognuno informava l’altro su situazioni e persone ben precise, il che causava dei piccoli aggiustamenti di tiro – l’avvocato decideva di mollare una causa o si dava da fare per ottenerne il patrocinio; il suo amico puntava un po’ di soldi su quello che Mario Lombardi definiva di volta in volta il nuovo cavallo vincente dell’imprenditoria locale. Ma adesso, esauriti i convenevoli, l’uomo gli aveva consigliato di dare un taglio netto. «Carmelo Terlizzi, Savino Menolascina, Vito Lopez, Dante Rutigliano…» Continuò a fare i nomi prendendoli da una piccola ma non indifferente quota di clienti che l’avvocato aveva assistito negli ultimi anni. Il padre di Vincenzo sghignazzò: «Guarda che da soli fanno un terzo dell’incasso di tutta la baracca. E poi non sono tipi da farsi mollare su due piedi». L’uomo finse di non aver sentito: «Comincia a levarti dalle palle quel troglodita dell’autista, – disse, – poi, guarda… senza nemmeno il bisogno di convocarli, spedisci una raccomandata per ciascuno e rinuncia al patrocinio». L’avvocato si fece serio. L’uomo si aggiustò gli occhiali sulle pinne del naso: «Ti sto solo evitando un sacco di rotture. Ti dico che tempo cinque mesi, forse anche meno, e tutta questa gente non conterà piú niente. Chi non sarà finito in galera avrà al massimo l’ambizione di aprirsi una bella pizzeria». Il padre di Vincenzo bevve un sorso dal bicchiere: «Non mi risulta che un’indagine…» L’uomo lo interruppe: «Un’indagine? Forse non hai capito. Stanno per essere travolti da qualcosa di infinitamente piú grande». Si corresse: «Stiamo per essere travolti». Fece una pausa. Aggiunse: «Ma non capisci cosa sta per succedere?» Fu allora che si alzò, raggiunse la libreria, sfilò il grosso atlante delle edizioni Treccani e tornò a sedersi di fronte all’avvocato. Spalancò il volume e ne sfogliò rapidamente le pagine fino a quando trovò quella che gli interessava. Raccolse una matita dal portapenne e iniziò a tracciare sulla carta geografica tanti piccoli corridoi che arrivavano in Italia partendo dalla Repubblica Socialista Sovietica Kazara, dalla Repubblica Socialista Sovietica Turkmena, dalla Repubblica Socialista Sovietica Uzbeka, dall’Ungheria, dalle valli del Tibisco. «Tutto… – disse rivolto all’avvocato – tutto, a partire da domani, passerà di qua. E queste – ricalcò le curve – sono le autostrade del futuro. Chi ha capito ha già iniziato a darsi da fare. Chi non ha capito resta a terra». Sospirò: «Carmelo Terlizzi è tra quelli che non hanno capito. Gli altri tuoi clienti non hanno capito. Se si fossero già mossi lo saprei. E invece so di gente che ha iniziato a muoversi al posto loro. Magari in futuro saranno questi i tuoi clienti». L’avvocato intrecciò le mani sulla nuca. Si stiracchiò: «Senti… i giornali li leggo pure io. Ho capito che la cosa prima o poi succederà: il papa in visita al Cremlino e tutto il resto. Ma ci vorrà del tempo, e allora se proprio vuoi sapere…» L’uomo lo interruppe ancora: «Non è leggendo i giornali che ti farai un’idea della situazione. Non è neanche guardando la tv. Hai un amico deputato? Dimenticatelo. Lavorati invece qualcuno alla Camera di commercio e fatti aprire i repertori dell’import-export. Allora sí che scoprirai delle cose interessanti. Leggerai di palazzinari che hanno appena ottenuto da un funzionario sepolto in qualche ufficio governativo di Tallin l’autorizzazione a costruire un gigantesco resort per turisti sul mar Baltico. Scoprirai che le strade di Varsavia stanno per essere invase dai negozi di Benetton e di Calzedonia. E la cosa divertente, vedi… la cosa buffa è che se chiedi tutto questo al compagno Ceausescu lui non ne sa un cazzo, e non ne sanno niente il compagno Gorbačëv e il compagno Jaruzelski. Invece, vatti a fare una chiacchierata con Toomas. Parla con Andrus, intrattieniti con Mart, con Luukas… chiedi all’anonimo funzionario di Tallin quanto è stato facile falsificare le firme dei propri superiori». Raccolse il bicchiere con il cognac e diede un sorso: «Quattrocento milioni di anime affamate di Occidente, – disse – non è neanche un esercito. È un gigantesco oceano di energia, desiderio allo stato puro. Non esistono carri armati che possano fermare una cosa del genere. Stiamo per essere travolti dal desiderio di tutti questi Gavril queste Dalma queste Alina…» Ci stette un po’ a pensare. Alzò il bicchiere verso il suo amico: «È cosí che diventeremo tutti comunisti!» Il padre di Vincenzo scoppio a ridere: «Comunisti? – L’uomo abbandonò il bicchiere, puntò gli indici nel vuoto: – Le civiltà si realizzano proprio quando si dissolvono nel nulla. Pensa a… – Si interruppe. Sbuffò, come se tutta quella teoria desse fastidio a lui per primo: – Ascoltami bene, adesso, – disincrociò le gambe e le incrociò dall’altra parte, – la settimana scorsa sono stato a Praga. Dovevo incontrare una persona per un affare, ma non è questo il punto. Il punto è che ci rimango da venerdí a domenica, e questo tizio lo incontro nella hall dell’albergo, sempre alle dieci di mattina. Cosí il resto del tempo posso starmene per i fatti miei. Allora me ne vado a passeggio per questa città meravigliosa e zac… venerdí stesso, tempo un quarto d’ora da quando ho messo piede fuori dall’albergo, vengo abbordato da due ragazze. Mi chiedono se parlo inglese. Rispondo di sí, certo che parlo inglese. Vorrebbero che chiacchierassi un po’ con loro, stanno imparando la lingua e hanno bisogno di esercitarsi. Ora, ti devi immaginare due ragazze bellissime. La piú bassa sarà stata un metro e ottanta. Potrebbero sfilare a Milano durante la settimana della moda. Potrebbero sfondare a Hollywood. Potrebbero girare il mondo mettendo la loro bellezza a disposizione di qualche cosa di volgare e molto redditizio. Invece sono intrappolate nei confini del loro paese, infilate nelle loro camicette di pizzo bianco. Hai presente le camicette della nonna? Mi assicurano che Praga, per come la vedono loro, è la città piú noiosa del mondo. Potranno avere ventiquattro, massimo venticinque anni. Ma quando dicono nineteen dopo essersi scambiate uno sguardo di intesa, inizio a pensare che forse non sono neanche maggiorenni. Mi chiedono da dove vengo e glielo dico. Allora mi propongono di parlare in italiano: imparare l’italiano è una cosa molto utile, dicono. Portarmele a letto, tuttee due. Invece le porto a bere. Ci sediamo in un caffè vicino a piazza Venceslao e riprendiamo la nostra chiacchierata. Inizio a corteggiarle. Un innocuo casto corteggiamento in cui ci limitiamo a dire cosa potrebbero combinare insieme un italiano di mezza età e due ragazze ceche. Ridacchiano, vorrebbero sapere dove le porterei se fossero le mie fidanzate. E dove vuoi portare una ragazza con cui stai imbastendo una conversazione cosí meravigliosamente stupida? «Ce ne andremmo a Parigi», dico. Mi chiedono dove le porterei di preciso, se fossimo a Parigi. Mi lancio nelle solite fregnacce: Notre-Dame, il Louvre, le piccole botteghe dell’Île-SaintLouis. Arricciano il naso. «Ma come? – domando – non volete visitare il Musée d’Orsay?» Non gliene potrebbe fregare di meno… Hanno frequentato per anni queste serissime scuole statali, ai loro occhi Rubens, Goya, Rodin, Proust, Giuseppe Verdi e compagnia cantante sono pallosi almeno quanto la propaganda di partito. Cerco di recuperare il terreno perduto dicendo che la sera, dopo una passeggiata sul Lungosenna, le porterei a cena alla Tour d’Argent. Anche qui: sospirano deluse. «Ma insomma, – faccio, – siamo a Parigi e non volete andare a cena alla Tour d’Argent?» È allora che me lo dicono… questi due angeli, a Parigi ci vogliono andare per mangiare da McDonald’s come le loro coetanee dell’Europa occidentale. Vogliono perdersi nei magazzini Lafayette. Vogliono andare in pellegrinaggio al Club 79. Non gliene fotte niente di Delacroix ma sono pronte a farsi sbattere dal primo scimmione in scarpe da ginnastica per un cheeseburger. Cosí è proprio questo il punto. Ho guardato ancora una volta i loro occhioni e mi sono convinto che neanche i nostri nipoti o i nostri figli, ma noi… tutti noi, molto presto, diventeremo cosí». «Diventeremo comunisti…», disse il padre di Vincenzo senza perdere il sorriso. «Te l’ho detto, le civiltà si compiono nel momento in cui si dissolvono nel nulla». «E allora come la metti col nazismo?» lo sfidò l’avvocato. L’uomo allargò le braccia e non disse niente. L’avvocato non disse niente. L’uomo non disse niente. Il padre di Vincenzo si rigirò il bicchiere tra le dita: «Senti, – disse, – tornando ai nostri piccoli problemi. Immaginiamo che sia come dici tu. Poniamo che la cosa stia veramente per succedere. Mettiamo il caso che tutti i traffici illeciti del mondo inizino a spianare la cortina di ferro e che questi miei clienti vengano tagliati fuori dagli eventi. E che non contino piú niente, d’accordo. E che si ritrovino a dover aprire una pizzeria per tirare avanti. Bene. Ma se io firmo e spedisco quelle raccomandate, chi mi assicura che il giorno dopo non mi hanno fatto esplodere la macchina? Il che, ovviamente, sarebbe il meno». L’uomo si tolse gli occhiali e il poggiò sulla scrivania: «Da quant’è che ci conosciamo? In tutto questo tempo non ho mai dovuto faticare tanto per convincerti di qualcosa –. Sospirò profondamente: – Tu dici che non puoi farlo adesso. Ma il vento sta cambiando adesso. Dall’altra parte inizia a esserci già una certa turbolenza». «Quale altra parte?» L’uomo finse di indispettirsi: «Ah, quale altra parte! L’altra parte del mondo, della città, del ponte, della luna… Nel quartiere, inizia a esserci una certa turbolenza! Fra poco ci sarà uno dei classici incidenti. I soliti quindici venti disgraziati saranno ritrovati a occhi sbarrati con una siringa in vena e quello sarà il segnale per le forze dell’ordine. Farti esplodere la macchina, allora, sarà l’ultimo pensiero dei tuoi ex clienti». Il padre di Vincenzo ebbe un sobbalzo che cercò di mascherare. Rimase zitto e impensierito per qualche secondo. Uní le punte delle dita portandosi le mani tra naso e bocca. Poi chiese: «Sei sicuro?» L’uomo annuí senza dire niente. «E posso … – l’avvocato fece una pausa, come se stesse valutando l’opportunità di quello che stava per dire – posso sapere, per una volta, chi ti ha dato un’informazione cosí precisa?» A questo punto l’uomo si rimise in piedi: «Non è nei nostri patti». Poi sorrise. L’avvocato si batté le mani sulle cosce e si mise in piedi pure lui. Un quarto d’ora dopo si stavano salutando affettuosamente sulla porta dell’ingresso. Mia madre entrò in soggiorno. Indossava un tubino nero e aveva un giro di perle intorno al collo. Papà la vide e disse: «Sei bellissima». Ed era vero: quel vestito, quella precisa sera di maggio, la ponevano al centro di un mistero che ogni tanto porta le donne adulte a essere piú belle di quanto non siano già state da ragazze. Il vento frizzante della giovinezza le ripercorre da capo a piedi, trasformando perfino le pesantezze dell’età matura in una quieta ipnotica potenza sovrannaturale. Uscirono di casa. Montarono in Mercedes e si diressero insieme verso il Circolo del mare. «Al Circolo del mare», aveva detto il padre di Vincenzo la settimana prima. Il ragazzo lo aveva guardato senza parlare, il che significava forse che l’avrebbe accontentato. Del resto, per tutto il corso della cena l’avvocato era stato piú accomodante di quanto Vincenzo potesse prevedere, e con questa inattesa disposizione d’animo gli aveva ribadito l’importanza di averlo a suo fianco durante il piccolo party organizzato per festeggiare i primi ottant’anni di attività. «Tuo nonno, – aveva detto ripercorrendo una storia della quale dava per scontato che facesse parte anche Vincenzo, – e il padre di tuo nonno, che tu non hai mai conosciuto». Il ragazzo non aveva risposto. Ma poi Vincenzo fece per alzarsi e l’avvocato gli bloccò una mano con la sua: «Aspetta», disse. Chiamò Sabrina. La ragazza, finita la cena, non aveva fatto che passare continuamente da una stanza all’altra. Era scalza, e quella sera aveva i capelli tirati verso l’alto, e indossava un kimono bianco a fiorami color porpora. Era alla ricerca di un oggetto deciso a non farsi trovare. Si immobilizzò sul posto con le sue lunghe gambe di ventinovenne. L’avvocato sfoderò la faccia piú gentile a sua disposizione: «Ti dispiace se ti chiedo di lasciarci soli?» Sabrina proferí un: «Figurati!» privo di astio, ma poi rimase nel soggiorno per un’altra manciata di minuti. Quindi scomparve verso la camera da letto. Fu a quel punto che l’avvocato disse: «Ascoltami adesso, voglio darti un consiglio». Il ragazzo lo guardò fisso negli occhi. Suo padre continuò a carezzarlo con il sorriso appena ruvido di chi ha il problema di gestire un vantaggio a pochi minuti dalla fine di una partita. Il che, naturalmente, insospettí Vincenzo ancora di piú. Mario Lombardi raccolse una mela dal tavolo e iniziò a sbucciarla: «Guarda, non ho idea di cosa tu faccia durante il tempo libero. Dove vai quando esci da scuola. Dove vai la sera. Il sabato sera, per esempio. Dove vai a divertirti il sabato sera, chi frequenti… Io questo non lo so. Un tempo ti ho anche fatto controllare. Magari è stato un errore. Se è cosí, ti chiedo scusa. Ma facciamo l’ipotesi… – Smise di sbucciare la mela e sprofondò con i suoi occhi in quelli del ragazzo: – Mettiamo per assurdo che tu la sera vai a Japigia». Vincenzo cercò di restare impassibile. Suo padre girò la mela dall’altra parte: «Mettiamo che frequenti proprio quelle zone e che, non dico sempre… di tanto in tanto… di tanto in tanto per vedere l’effetto che fa. Facciamo l’ipotesi che di tanto in tanto ti sei messo a fare qualche esperimento con la droga…» «Mai fatto uso di droga in vita mia», lo interruppe con decisione il ragazzo. Non mentiva. E tuttavia queste parole sorpresero Mario Lombardi, perché a sua memoria Vincenzo non era mai stato tanto teso da interrompere qualcuno nel bel mezzo di un discorso. L’avvocato riprese a parlare: «Certo che non ne hai mai fatto uso, ma stiamo ragionando per assurdo. Quindi, sempre per assurdo, immagineremo invece che tu abbia fatto e continui a fare saltuariamente uso di eroina. Sono ovviamente fatti tuoi. Siamo tra adulti. E se tra adulti i divieti sono sempre qualcosa di volgare, i consigli invece sono leciti. Cosí il mio consiglio è di non toccare un solo granello di quella merda per… diciamo le prossime due tre settimane?» Vincenzo doveva controllarsi per evitare di battere nervosamente la gamba sotto il tavolo – un ragazzo che si sta facendo mille domande, e sta scartando altrettante ipotesi, e non ne viene a capo. Non aveva mai avuto piú diciassette anni di cosí. Suo padre poggiò la mela completamente nettata sopra il tavolo. Poggiò anche il coltello e, disarmatosi in questo modo, disse perfettamente calmo: «Quelle che abbiamo fatto fino a ora sono ipotesi. La cosa certa è che invece, come la definiranno i giornali nei prossimi giorni, Japigia sta per essere invasa da una valanga di eroina killer. Come faccio a esserne sicuro? Be’, vedi… se tu non frequenti Japigia e non hai mai fatto uso di droga in vita tua, io invece ho a che fare con gente che l’ha fatta diventare la propria fonte di sostentamento –. Fece un’altra pausa: – Credimi, so quello che dico». E questo era davvero il colmo per il ragazzo i cui piedi ormai ballavano sul pavimento, perché – uso di droga a parte – non solo l’avvocato era al corrente delle sue frequentazioni, ma aveva appena sollevato il coperchio sugli aspetti meno confessabili della propria vita, disinnescando gli instancabili tentativi di Vincenzo di coglierlo in fallo, e lo aveva fatto con un supremo atto di arbitrio che gli toglieva il terreno sotto i piedi. Cosí adesso Vincenzo era per sempre in trappola, oppure era completamente libero a seconda della prospettiva da cui era disposto a inquadrare la faccenda. Ma era difficile venirne a capo, cosí come non riusciva a capire se suo padre gli avesse appena reciso qualcosa di fondamentale usando il bisturi della magnanimità, oppure portando la furbizia talmente in alto da non fargli piú vedere di cosa si trattasse. Il giorno dopo, Vincenzo camminava furiosamente per le strade di Japigia stringendosi tra i pugni i lembi del trench. Erano le quattro del pomeriggio, l’afa continuava a salire pigramente attraverso i granuli d’asfalto e poche sagome isolate salivano e scendevano dai marciapiedi con altrettanta indolenza. Avvistò Giuseppe a due isolati di distanza: di schiena contro una piccola inferriata, parlottava con un uomo che se ne stava avvolto in un giubbotto di tela. Era un giubbotto lercio e inguardabile e strappato in vari punti. Il suo proprietario, del resto, sembrava rimanere avvinghiato al regno degli umani soltanto per ostinazione. Non appena lo vide, Giuseppe gli andò incontro. Vincenzo infilò le mani nelle tasche e disse: «Non è che hai due minuti?» Giuseppe lo guardò stringendosi nelle spalle. Fece un cenno di commiato a Maxi il bucomane. Iniziarono a passeggiare verso ovest, seguendo una strada in salita che il sole pomeridiano trasformava in un debole tunnel di luce. Uno dei due ragazzi disse all’altro: «Allora, senti, volevo dirti questa cosa…» La sala delle cerimonie del Circolo del mare era un semicerchio di neanche cento metri quadri esposto a est sul porto turistico, con delle belle tende in panno rosso aperte a sipario sui finestroni panoramici. Le vele delle piccole imbarcazioni e i pennoni degli yacht ondeggiavano insieme nell’aria calda della sera. Una dozzina di tavoli rotondi correvano lungo il perimetro del pavimento, mentre quello che in un’altra circostanza si sarebbe definito il tavolo degli sposi li dominava tutti, disposto a pochi passi dalla vetrata principale. L’atmosfera era del resto quella di un matrimonio o di un anniversario di matrimonio, e lo stesso Circolo – la sala ricevimenti, il corridoio che si spingeva fino a un piccolo pontile, l’accogliente piano bar circondato da divani e tavolini – aveva un che di sin troppo pratico per suggerire l’idea di uno dei piú importanti centri di potere della città. Non possedeva l’imponenza del Palazzo di giustizia né i velluti dell’Aula magna dell’università. E tuttavia la circostanza che una ristretta cerchia di uomini abituati a respirare ogni giorno quell’imponenza e a sedersi su quei velluti si ritrovassero periodicamente proprio là, infondeva alle altrimenti comunissime pareti ripassate di vernice impermeabile una strana atmosfera di decoro e di minaccia e di potenza oltremondana che avvertivano persino gli addetti alle pulizie quando, il giorno dopo una riunione, ripassavano l’aspirapolvere fino a che l’ultima briciola era scomparsa dal corpo lanoso dei tappeti. Anche quella sera c’erano state chiacchiere e risate e abbracci e discussioni tra uomini che almeno una volta erano stati ospitati in una trasmissione televisiva come esperti in materie quali la cardiochirurgia o lo sviluppo delle risorse agricole, oppure vecchie volpi conosciute solo dagli addetti ai lavori. Ma c’erano anche dei volti nuovi. Tra questi mio padre in una bella giacca di tweed, accompagnato dalla mamma con il suo giro di perle intorno al collo, davanti al cui splendore poche altre donne lí presenti riuscirono a elaborare sentimenti piú complessi dell’invidia. Erano stati sistemati insieme a due anziane coppie con le quali se l’erano cavata egregiamente. A mia madre era bastata la presenza. Papà si era lanciato in una serie di parabole sul tema del successo individuale che deliziarono una platea abituata a intossicarsi con anteprime sul cambio di guardia ai vertici di qualche Banca d’Italia o Consob che – in quelle occasioni di festa – scrivevano l’agenda di lavoro per il giorno dopo. La stessa atmosfera rilassata aveva percorso gli altri tavoli e ovviamente il tavolo centrale, dove l’avvocato e Sabrina erano stati degli ospiti perfetti. Vincenzo, seduto tra i due, aveva tenuto una condotta esemplare. Adesso erano finiti anche i brindisi. C’era stato un giro di caffè e di ammazzacaffè. I piú anziani e i ragazzi come Vincenzo avevano iniziato ad abbandonare la sala, pronti a disperdersi ai quattro angoli della città. Altri invitati presero a salutarsi. Fra pochi minuti il party si sarebbe potuto definire concluso. Ma io, di quella festa, posseggo almeno due finali differenti. Negli anni successivi, quando ho iniziato a raccogliere informazioni anche sul divorzio dei miei prendendo alla sprovvista zie e prozii e cugini di terzo grado, mi è capitato (navigando a vista in un mare d’evasività) di incrociare di tanto in tanto qualche parente cosí crudele e illuminante da far emergere, tra il cinguettio delle nostre chiacchierate, l’aculeo di un episodio inconfessabile subito ricoperto dal miele a lunga conservazione di altre banalità. Cosí, finito il party per gli ottant’anni dello studio Lombardi, mentre una copia carbone dei miei genitori si infila in Mercedes e torna a casa, una seconda versione della mamma e del papà… Non fu precisamente una sorpresa perché lui, prima di uscire di casa, aveva detto: «Guarda che potrebbe capitare anche stasera», e la mamma, infilandosi il soprabito, non aveva trovato di meglio che replicare con un sorriso che soffocava il nervosismo: «Continua a sembrarmi una stupidaggine messa in giro da qualche idiota. Ma se succede, che ti posso dire? almeno siamo in tanti». Ne avevano parlato saltuariamente nelle ultime settimane, ne avevano riso, se ne erano preoccupati, erano tornati a considerarla un’eventualità del tutto inverosimile. Solo che poi, a qualche minuto dalla mezzanotte, rimasti una ventina nella sala ricevimenti, si trasferirono al piano bar. Da qui, dopo che uno degli invitati fece capolino tra i divani dicendo con una voce neutra: «È arrivata», attraversarono il corridoio che portava sul pontile, dove – la passerella già abbassata sul lato estremo della struttura di legno – li attendeva un’imbarcazione non piú lunga di quindici metri; non un’ammiraglia, ma un piccolo yacht dalle linee sportive. Salirono uno alla volta sull’imbarcazione. Le gambe descrissero brevi falcate nel vuoto prima di trovarsi a calpestare la superficie in tek. La passerella si ritrasse su se stessa e la pedana si alzò a scatti verso l’alto. A quel punto tutti erano a bordo. Iniziarono a sparpagliarsi verso una delle zone prendisole, dove un tavolino di cristallo carico di bicchieri da cocktail fronteggiava la cusciniera color latte. Videro i legni dei pescatori scorrere lí di fianco sulla carena nomi di donne o di venti o di città – e si lasciarono alle spalle le barche a vela e gli altri fuoribordo ancorati nella piccola tenaglia del porto turistico. A meno di dieci chilometri dalla costa, le luci di navigazione dello yacht erano ancora visibili per chi si fosse affacciato dal lungomare o dalla collinetta artificiale su cui finiva Japigia o dal minuscolo sperone della cala di San Giorgio. Poi, furono solo un puntino lontano. Il vento di levante iniziò a soffiare con piú forza mentre bevevano i cocktail analcolici seduti sulla cusciniera o sporti sul pulpito o sulla plancia, dove qualcuno chiacchierava senza piú accalorarsi né sorridere, come se adesso le parole servissero a confondersi col rumore delle onde tagliate dalla punta dello scafo. Un magro sessantenne che nel corso della cena aveva parlato ininterrottamente di innesti e vini barricati, riemerse dal pozzetto facendo muovere le ginocchia bianche e le mammelle flosce e i testicoli completamente glabri sotto la carne raggrinzita che solcava l’attaccatura delle cosce. Raccolse uno dei bicchieri, scambiò poche frasi con una robusta signora in abito rosso e guardò il mare. Anche gli altri, lentamente, iniziarono a spogliarsi mentre la mamma e il papà non ebbero il tempo di pensare chestrano,sta succedendo davvero… perché ormai ci erano già dentro. Questa, che non era neanche un’orgia ma un semplice restare nudi come vermi sulla coperta di uno yacht sorseggiando un aperitivo analcolico, era un’abitudine a cui alcuni frequentatori del Circolo si dedicavano saltuariamente per un motivo mai del tutto dichiarato: se per emulare le leggende che in quegli anni circondavano le vacanze estive dell’avvocato Agnelli (nudo al largo delle Bermuda sul suo F100 in compagnia di Kissinger e di Pamela Churchill), o per un bisogno di esplicitezza da contrapporre a una vita spesa a manovrare tra luci e ombre, o per una bizzarra liturgia che, se solo fosse stato possibile, li avrebbe portati a liberarsi anche delle ossa e dell’intero corpo perché il lato spirituale del potere risaltasse meglio. O forse, per inseguire un sogno piccolo borghese che iniziava a contagiare persino questo tipo di uomini. Mia madre si tolse prima una scarpa e poi l’altra. Sentí la liscia e fredda superficie del legno sotto i piedi e dunque fece scorrere la lampo dietro il collo e si sfilò il tubino nero lasciandolo cadere lungo le caviglie. Si liberò anche del reggiseno e delle mutandine. La morbida preziosità dei glutei e la tonda prominenza del seno risaltarono sotto la pioggia artificiale delle luci di cortesia. Non seguí mio padre impegnato nelle stesse operazioni, perché esibire la propria nudità come un prodigio su cui nessuno a parte lei poteva esercitare dei diritti era un sistema per non deprimersi di fronte al campionario di cazzi mosci e culi sfatti e pance rilassate e polpacci senza un pelo da cui erano circondati. Bevve l’aperitivo evitando di dare confidenza agli altri passeggeri. Si guardò intorno e iniziò ad allontanarsi dal gruppo. Attraversò uno dei camminamenti laterali incrociando nella penombra una signora piena di piegoline rosa lungo i fianchi. Poi fu la volta di un altro sessantenne che passeggiava pensieroso. Prima di giungere a poppa, vide l’unica creatura in grado di competere con lei. Sabrina se ne stava tutta sola, poggiata di fianco contro la ringhiera, le lunghe gambe lisce e il segno delle costole sul busto minuto e la perfetta rotondità del seno e lo sbuffo castano dei peli pubici illuminato dal bagliore lunare. Aveva la giovinezza a fior di pelle come ruggito e come mancanza di controllo. Ma la bellezza di Sabrina in quel momento possedeva anche qualcosa di straziante, un’alterigia a continuo rischio di mutilazione, come se da un momento all’altro un terribile mostro marino potesse emergere dalle acque strappandole il tronco di netto. Mia madre le passò davanti, riuscirono a guardarsi senza guardarsi, non si salutarono, stabilendo un’impossibile distanza solidale tra belle donne la cui vita avrebbe forse meritato un destino migliore. Si lasciò alle spalle la ragazza e raggiunse la poppa, dove un’altra zona prendisole si apriva verso il mare. Il belvedere a forma di diamante era occupato da un terzetto di donne impegnate a parlottare e da due uomini di mezza età ognuno col suo bicchiere in mano. Si sistemò poco distante, poggiando gli avambracci contro la ringhiera. Sporse il busto all’indietro e sentí i pori della pelle stringersi per il freddo e osservò il manto nero delle acque che si estendeva tutto intorno senza che la precisa posizione dello yacht le risultasse comprensibile. Fu allora che successe. Durò poco: quattro, cinque secondi al massimo. Non capí se uno degli uomini le avesse messo di proposito la mano sul culo o se gli fosse successo inavvertitamente di toccarla. Ma a un certo punto la mano era lí, e l’uomo ce la tenne per tutto il tempo necessario. Mia madre non si spostò né protestò né fece altro, a parte aspettare che lo sconosciuto smettesse di palparla. Neanché si girò a guardarlo, perché si stava confrontando con quel nero sconfinato e non voleva smettere di farlo. E tuttavia, era costretta a riconoscere di non essere stata sfidata da un meraviglioso mostro marino ma da un uomo piuttosto insignificante, con il riporto spettinato e i piedi bitorzoluti e le gambe innaturalmente magre se confrontate con le dimensioni dello stomaco. Allora si impadroní di lei una banale sensazione di bellezza sprecata, di tempo sprecato, piú banalmente ancora di vita sprecata, e suo marito era lontano, era dall’altra parte dello yacht, e se – tra i tanti possibili – devo scegliere il momento in cui decise di lasciare mio padre, allora è proprio questo. Il problema era capire perché mai Vincenzo si era preso il disturbo di andare a cercarlo, se poi non glielo aveva detto. Poteva aver avuto un ripensamento, ma era l’ipotesi meno attendibile. Avevano passeggiato insieme per mezz’ora. Vincenzo gli aveva offerto una sigaretta e poi si era infilato in tanti giri di parole che non toccarono l’unico argomento che avrebbe dovuto affrontare. Se fosse rimasto a casa, il risultato sarebbe stato identico, sarebbe stata lo stesso un’omissione imperdonabile. Ma invece lo aveva raggiunto, ed era questo il punto: assaporare pienamente il peso e la vergogna del tradimento. Avere accanto Giuseppe per un’ultima mezz’ora, guardarlo in faccia ancora vivo, poter estrarre un secondo qualunque da quei trenta minuti per avvisarlo del pericolo, e non risolversi a farlo. Il 16 maggio 1988, intorno alle due del mattino, Giuseppe Rubino venne trasportato nel reparto rianimazione del Policlinico di Bari in seguito a un arresto respiratorio dovuto a overdose da eroina. Quando la barella svoltò a destra al termine del corridoio – un lungo tunnel illuminato male, sporco e cadente –, aveva la faccia blu e le pupille inesistenti. Un’eco continua di ruote metalliche suggeriva l’idea che nel profondo corpo della struttura ospedaliera altre barelle corressero nel frattempo su altri corridoi in una specie di imprevisto festival notturno del ricovero d’urgenza. L’infermiere attese che il corpo graduato della siringa si riempisse con 0,4 milligrammi di naxolone e poi gli fece un’iniezione di Narcan per via endovenosa. Giuseppe non riprese conoscenza. Ma alla quarta iniezione del salvavita riuscí ad aprire gli occhi. Le tre teste dell’infermiere lampeggiarono e diventarono trasparenti e infine si riunirono in un unico volto. Giuseppe non fece in tempo a tastarsi la faccia né a sorridere né a dire grazie. Non capí neanche se aveva le forze per rimettersi in piedi. Qualcun altro afferrò il sostegno della barella dietro la sua testa, il lettino singhiozzò e iniziò a muoversi, l’immagine dell’infermiere si fece piccola e si sdoppiò di nuovo e poi scomparve oltre la porta del reparto. Venne abbandonato in corridoio dopo che un altro paramedico gli aveva gettato addosso una brutta coperta di lana senza perdere tempo a dirgli se doveva restarsene lí o se era da considerarsi già dimesso. Negli ultimi minuti erano stati ricoverati altri ragazzi, cosí come altri nel pomeriggio, e altri ancora avrebbero continuato ad arrivare fino alle prime luci dell’alba, salvati all’ultimo momento a bordo delle ambulanze o con il cuore fermo mentre qualcuno urlava: «Un’altra overdose!» Ma quella stessa mattina, portando l’orologio indietro di circa quindici ore, io e Rachele ci eravamo svegliati nel nostro sacco a pelo preferito mentre la promettente luce di maggio spalancava i suoi poligoni sulle pareti. Era un lunedí, e ancora una volta ci eravamo inventati una scusa per trascorrere la notte fuori casa. Entrammo in cucina e mettemmo su un po’ di caffè. Grattandosi la testa, ci raggiunse anche Marco Corallo, uno dei nuovi arrivi, piovuto nel quartiere nelle ultime settimane. Aveva addosso un pantalone del pigiama sotto una maglietta sbiadita, era scalzo e assonnato. Diede un’occhiata a entrambi e disse: «Una tazzina anche per me…» Era un nanerottolo poco piú piccolo di noi, il figlio di un carrozziere di Acquaviva che una sincera passione per gli stupefacenti e l’era d’oro della psichedelia avevano portato lontano da casa, un saldo primaverile dall’inesauribile fondo di magazzino della cultura fricchettona, di quelli che riuscivano ancora a chiamarti «fratello» senza provare imbarazzo. Un illuso e uno sprovveduto da antologia. Ma a me stava simpatico. Rachele lo trovava addirittura commovente, al modo in cui le ragazze sono talvolta in grado di sciogliersi davanti all’innocenza quando non è filtrata dalla tensione erotica, e tirano fuori un disinteressato spirito di abnegazione quando qualcuno che non si porterebbero mai a letto risulta ai loro occhi incapace di ogni male: cosí che occuparsene, proteggerlo, diventa non un modo per pulirsi la coscienza (davanti a queste creature il senso di colpa delle ragazze, da oscuro che era, diventa addirittura fiammeggiante), ma per fare la cosa giusta con assoluta sicurezza. Non che potessi essere geloso di Marco Corallo. Sospettavo tuttavia che l’affetto di Rachele per il ragazzo testimoniasse l’implicita convinzione che tutto il resto avesse qualcosa di sbagliato. Me compreso. Da quando avevamo assistito al pestaggio di quel tizio per la strada, Rachele mi era sembrata sempre piú pensierosa, come se si stesse arrovellando su qualcosa di importante e volesse farlo senza interferenze. Dividemmo la colazione insieme a Marco. Poi arrivarono altri ragazzi e prepararono ancora del caffè, cercarono nella dispensa le ultime fette biscottate e scavarono con le dita in un barattolo di miele che si passarono l’un l’altro fino a quando il contenitore non venne abbandonato. A questo punto si era fatto mezzogiorno. Cosí pensai di darmi una scrollata e andare a fare due passi per i fatti miei. Maxi il bucomane era il decano dei tossici di Japigia. Aveva poco meno di cinquant’anni e aveva cominciato a farsi quando era ancora in voga gettarsi tra le braccia dell’eroina in seguito a una delusione politica. Ma a lui, nato e cresciuto nel quartiere, della politica non era mai importato niente, e aveva preso il vizio perché l’inesauribile coazione a ripetere della roba – acquisto consumazione rota, acquisto consumazione rota – faceva il paio con l’eterno ritorno all’uguale che imprimeva il proprio calco analgesico di non speranza e non dolore all’intera nervatura della zona periferica. Sebbene qualcosa in Maxi conservasse la remota routine di chi era stato giovane negli anni Settanta, aveva subíto tutte le mutazioni di quindici anni di dipendenza. Secondo gli opuscoli del ministero della Sanità sarebbe dovuto già morire molte volte. Invece rimaneva imprigionato in questa specie di imperitura ultima soglia, e se i suoi ragionamenti sembravano ogni tanto il prodotto di un cervello fuori sesto, tutto il corpo di Maxi era al contrario un unico tessuto cerebrale perfettamente coerente, sul quale perfino la ricrescita di un singolo capello era orientata verso il prossimo spacciatore. Quella mattina, lasciata Rachele alle prese con Marco Corallo, lo incrociai tra via De Lilla e via Pitagora, dove trascorreva la maggior parte del tempo. Gli chiesi come andava e lui rispose: «Un cazzo di niente…», il che significava che l’uomo con cui aveva appuntamento non si era fatto vivo. Passarono dieci minuti durante i quali si limitò a fiutare l’aria intorno a sé. Quando la roba non veniva da loro, erano loro a doversi dare una mossa. Si staccò dall’inferriata e iniziò a camminare verso il ponte. Io lo seguii. Uscimmo da Japigia e attraversammo l’ultimo tratto del rione San Pasquale. Quindi puntammo verso il centro. Il suo obiettivo era trovare uno spacciatore e, visto che c’era, raggranellare un po’ di soldi per i giorni successivi. Nonostante l’andatura sbilenca, ottimizzava tempo e forze con grande senso dell’economia. A un incrocio dalle parti della stazione, davanti a una porzione di asfalto solcata da un’anonima successione di passanti, fu come se ci avesse appena visto un vortice energetico: tante linee che si inseguivano per annunciare qualcosa di imminente. Da lí a poco, si materializzò all’altro capo della strada un uomo avvolto da un giubbotto militare. Era fermo a due passi dal semaforo e lo guardava con le mani in tasca. Scosse la testa. Maxi bofonchiò qualcosa. Riprendemmo a camminare puntando verso piazza Umberto. All’altezza dell’università, iniziò a terrorizzare i passanti chiedendo qualche spicciolo. Mostrava le stimmate della dipendenza come un paralitico la propria carrozzella, cosí ci fu un fluviale muro umano che si disintegrò man mano che lo attraversavamo per ricomporsi subito dopo alle nostre spalle. Un signore di mezza età – faccia rosea, capelli bianchi, brutta giacca spigata – commise l’errore di guardarlo un istante di troppo. Maxi gli si piantò davanti. L’uomo si guardò intorno con aria allarmata mentre gli altri tutto intorno allungavano il passo. Maxi si piegò di tre quarti strascicando orribilmente le vocali: per faavoore… due spiiccioli per un caaffè. L’uomo strinse i pugni. Maxi era cosí debilitato che anche la spinta di un bambino lo avrebbe messo fuori uso. L’uomo avrebbe voluto colpirlo, ma non riusciva a farlo. Allora frugò istintivamente nelle tasche fino a quando si ritrovò col portafogli spalancato tra le mani. Alla vista del denaro, Maxi partí in automatico, la sua voce diventò ancora piú nasale e le braccia si allungarono mostrando un principio di vene ulcerate. Non gli importava se negli occhi dell’uomo si poteva adesso leggere il peggior tipo di disprezzo – non l’odio personale ma quello astratto – perché anche Maxi adesso non c’era piú, al suo posto pulsava solo la fame d’eroina. Erano entrambi posseduti, macchine parlanti, e fu soltanto in questo modo che riuscirono a superare l’impasse: l’uomo allungò un biglietto da mille, e Maxi lo artigliò. Intorno alle tre del pomeriggio, dopo avere raccolto qualche altro spicciolo, eravamo di nuovo a San Pasquale. Nel corso dell’ultima mezz’ora, Maxi si era fatto piú nervoso: la rota doveva avere cominciato a torturargli ogni singola cellula e lui non era ancora riuscito a trovare uno spacciatore. Il che era inspiegabile. A pochi metri da due edifici scolastici disposti uno di fronte all’altro, nel silenzio assoluto della controra, trovò un uomo ad aspettarlo. Poteva avere trent’anni, e indossava una tuta della Diadora di colore bianco. Gli andò vicino. Parlottarono a testa bassa. Le mani di entrambi rimasero ferme ai loro posti. Maxi tornò verso di me stringendosi nelle spalle. Sudava freddo, faceva no no con la testa. Si sedette sul marciapiede. Infilò la testa tra le ginocchia e iniziò a piagnucolare. Un’ora dopo eravamo di nuovo per le strade di Japigia. Maxi si stringeva nel giubbotto, recriminava tra sé e sé mentre un rumore lontano di motorini in corsa faceva il paio con la striscia di un aereo che si allungava con lentezza nella volta celeste. Dall’afa pomeridiana sbucò fuori un altro tossico. Zampettò verso di noi attraversando la strada e chiese se ci serviva un po’ di roba. Disse qualcosa a proposito del prezzo: «Un regalo… praticamente». Maxi scosse la testa, un «no» stanco e sconsolato. Poi ci guardò come se solo allora realizzasse quanto tutti fossimo estranei gli uni agli altri. Ci diede le spalle e iniziò a camminare verso i bordi della strada, alla ricerca di un posto in cui nascondersi per affrontare le prossime ore che si annunciavano terrificanti. Fu allora che avrei dovuto capire… Le mie gambe si sarebbero dovute mettere immediatamente in moto. Avrei dovuto battere il quartiere palmo a palmo fino a quando non avessi trovato Giuseppe: «Stai attento, sta succedendo qualcosa di strano». Invece mi avviai verso l’appartamento di Santo Petruzzelli. Lo stanzone era immerso nella penombra, e i pochi raggi di sole che passavano attraverso le fessure degli scuri creavano una strana atmosfera di sonnolenza e abbandono decennale. In casa a quell’ora non c’era quasi nessuno e Rachele, messa di fianco sul sacco a pelo ripiegato in due, stava ancora chiacchierando col nostro amico di Acquaviva. Marco Corallo sedeva a gambe incrociate su uno dei materassi. Il secondo materasso era vuoto, se si escludevano le scarpe di Rachele abbandonate una sull’altra. Rachele constatò: «Rieccoti…» Marco si girò verso di me, sorrise: «Vieni qua». Avanzai di qualche passo. Mi sedetti tra i due ma loro smisero di parlare. Allora anch’io non dissi niente. Rachele accese una sigaretta. Il fumo della prima boccata roteò a mezz’aria intercettando un raggio di luce, e fu come se i rumori e le voci e l’intera storia della città durante quel lungo pomeriggio entrassero per pochi istanti nella stanza. Il ragazzo si alzò in piedi, superò primo e secondo materasso, raccolse il suo zaino della Falchi e ritornò a sedersi. Rachele spense la sigaretta sul pavimento. Mi prese una mano, la tenne ferma nella sua. Aveva una maglietta verde smeraldo e i jeans strettissimi culminavano su una nervosa architettura di piedi bianchi. Santo Petruzzelli comparve nel vano della porta. Si guardò intorno, constatò che c’eravamo solo noi e andò via. Marco Corallo disse: «Va bene… allora adesso mi faccio uno schizzetto». Aprí lo zaino e iniziò a preparare la roba. Lo guardai senza dire una parola. Rachele mi lasciò la mano. Si inginocchiò davanti al sacco a pelo, lo srotolò con cura lungo il pavimento, fece scorrere la cerniera e si infilò nel bozzolo di tela. Anche io entrai nel sacco a pelo. Richiusi la cerniera e le appoggiai le mani sulla schiena. Quando sentí le dita infilate per metà nell’elastico delle mutandine, Rachele provò a tenermi fermo. Ci fu questa silenziosa, clandestina colluttazione. Ma poi riuscii a sfilarle jeans e mutandine fino alle ginocchia, e non appena portai il mento sulla sua spalla vidi il ragazzo che ricadeva senza forze lungo il materasso. Il corpo di Rachele si illanguidí e le mani, che avevano continuato a stringersi sulle mie cosce, allentarono la presa e rimasero inerti fino a quando non fu tutto finito. Il suo respiro si fece pesante e cosí anche io presi sonno. Rachele si risvegliò alle cinque meno un quarto. Le iridi color marrone chiaro vennero rivelate dall’apertura delle palpebre e le pupille si ingrandirono per indagare il chiaroscuro della stanza, dove un altro paio di occhi si rispecchiò nei suoi. I primi in continua contrazione, gli altri piú simili a una laguna morta. Mi svegliai di soprassalto mettendomi seduto sul sacco a pelo. Non appena vidi Rachele che allungava le mani nel buio, e piangeva, e diceva a voce alta: «No! no! no!», compresi che la ragazza aveva urlato solo pochi istanti prima, e che il mio dormiveglia doveva aver spostato l’esplosione della voce in un tempo precedente: era come se quel pianto lo stessi ascoltando da intere settimane. Ma adesso ero completamente sveglio, e quando provai a prendere Rachele per le braccia, lei si divincolò. Vidi il corpo di Marco Corallo steso sul materasso con gli occhi spalancati. Due secondi dopo fece il suo ingresso nella stanza Santo Petruzzelli, seguito da un uomo con i capelli lunghi tenuti insieme da un elastico. Il padrone di casa disse: «Che succede?» L’uomo col codino corse ad aprire la finestra. La stanza venne invasa dalla luce, un caldo vento primaverile travolse l’odore di chiuso e il cadavere di Marco Corallo fu il cuore fermo di una scena che, ancora una volta, mi sembrò avvenuta tanto tempo prima, mentre Santo imprecava («Ma porca troia!») e la ragazza continuava a ripetere sconvolta: «Per favore! per favore!» La polvere del pavimento ardeva sotto i raggi del sole. Non stavo sognando, eppure avevo l’assurda attonita sensazione che tra il nostro dormire nel sacco a pelo e il successivo risveglio fossero passati degli anni, e adesso tutti e quattro (io e Rachele, Santo Petruzzelli e l’uomo col codino) ci trovavamo lí solo perché le nostre persone future stavano carezzando contemporaneamente un ricordo condiviso. Nessuno di noi era davvero nell’appartamento: Santo aveva cambiato casa, io ero andato via da Bari… lontani gli uni dagli altri rivivevamo nel presente il medesimo istante. Fate qualcosa, vi prego… La ragazza infatti disse: «Fate qualcosa, vi prego!» Indietreggiò, inciampò in uno dei materassi, raccolse le scarpe e le infilò una dopo l’altra senza smettere di piangere. Santo Petruzzelli si sollevò dal corpo del ragazzo e disse: «Andato». Poi si rivolse… Poi si rivolse all’uomo: «Aiutami, portiamolo da qualche parte». Rachele riprese a urlare. Santo disse spazientito: «Fatela stare zitta!», ma poi la sua figura perse consistenza e la vestaglia a righe si confuse con le striature della luce e anche la voce venne riassorbita dal pulviscolo dorato, lasciando presumere che nel futuro dal quale stavamo ricordando lui avesse appena cessato di farlo (fermo a un incrocio con le mani sul volante, il verde era scattato un attimo dopo che avesse ripensato di aver detto: «Fatela stare zitta!), ma io ancora una volta stavo cercando di raggiungerla. Rachele corse verso il corridoio. La seguii fino all’ingresso. Ansimava con le spalle alla porta e mi guardava come un nemico. Mi feci avanti e provai ad abbracciarla. Cercai di non dirlo, ma ancora una volta dissi stupidamente: «Rachele, per favore, adesso cerchiamo di calmarci tutti quanti», sperando che lei non facesse e non dicesse quello che stava per dire e per fare (avevo ripassato tante volte quella scena nella speranza di logorare l’elastico del tempo, ma il tempo era l’eterna vibrazione di un elastico nascosto), cosí Rachele cercò come sempre di scacciarmi prima ancora che potessi toccarla e disse: «Lasciami in pace!» Aprí la porta e corse per le scale. I passi si moltiplicarono nel pozzo di cemento e pochi istanti dopo eravamo per strada, dove un grandioso… … dove un grandioso tramonto esplodeva continuamente sopra le nostre teste e sopra i tetti della città, e mentre i palazzi alti e grigi sembravano la muta sopravvivenza di un set abbandonato, il cielo era al contrario piú vivo e mutevole che mai. Allora sentimmo dei colpi in lontananza, qualcosa si ruppe definitivamente mentre Rachele continuava a camminare e io le stavo dietro superando un’altra fila di palazzi, poi una distesa di erba gialla e farinosa, e poi la lingua scura di un sentiero in salita. Cosí adesso arrancavamo sulla collina artificiale che segnava la fine del quartiere, con la sua terra grigia e molle, e in lontananza i bei cespugli di lentisco oltre i quali le case facevano a gara per chi arrivava prima al porto, mentre il pennone del faro e il severo biancore della cattedrale culminavano sullo scintillio del mare impegnato a mandare a memoria i colori del tramonto – scaglia e dopo scaglia e dopo scaglia –, e in quel momento Rachele si voltò verso di me e disse calma e ricomposta: «Ma non capisci?», e invece credevo di capire molto bene, perché la diga sulle nostre teste alle nostre spalle davanti ai nostri occhi dappertutto era crollata, e pur mancando piú di un anno all’ora X l’ora X era invece scoccata, e centinaia di migliaia di persone marciavano festanti da levante a ponente attraverso la porta di Brandeburgo e distruggevano muri e dilagavano da questa parte come se questa parte fosse l’estuario di ogni umano desiderio e cancellavano confini e rimboccavano le coltri sui carri armati sugli arsenali atomici intonando davanti alle porte scorrevoli dei centri commerciali degli aeroporti degli stadi il may-day may-day del nuovo ordine mondiale età dell’acquario promessa di pace imperitura, e se al di là del mare la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia continuava a gloriarsi pomposamente dei giochi olimpici del 1984 la Jugoslavia era un unico bagno di sangue, anche rinchiuso nel carcere di Robben Island Nelson Mandela vinceva le elezioni per la presidenza del Sudafrica, nonostante sarebbe accaduto solo di qui a poche ore il nostro amico Giuseppe Rubino era stato già portato in ospedale rendendo attivo e valido il tradimento volontario di Vincenzo, il tradimento colposo della mia distrazione e della mia superficialità, veniva salvato da quattro iniezioni di Narcan e cominciava a fare fuori e dentro gli ospedali, fuori e dentro i centri di recupero, non era piú un ragazzo era un uomo, anch’io ero un uomo e andavo via da Bari, di Giuseppe non sapevo piú niente ma la ragazza continuava a fronteggiarmi, ritta sulla collina nella sua atroce bellezza di diciassettenne mentre il suo crescere e diventare adulta usciva anch’esso dal mio campo visivo, anche di lei non sapevo piú niente, lanciata nel futuro diventava un’assenza diventava una mancanza diventava un pensiero doloroso diventava la donna a cui ero stato lí lí per fare un colpo di telefono in una disordinata terrificante notte nel 1998, prendevo in mano la cornetta ma poi lasciavo perdere perché questa Rachele continuava a dire «ma non capisci?», quelle parole come una maledizione, checosamai dovrei capire? avrei continuato a chiederle nel tempo portando il nastro sempre piú a ritroso man mano che il mondo ruotava nella direzione opposta (era accaduto dieci anni prima, e l’anno dopo erano già undici…), dovrei forse convincermi che niente di quello che successe allora ha una reale ricaduta su quello che succede adesso, inutile di conseguenza continuare ad arrovellarsi su Giuseppe e su Vincenzo, i nostri amici lontani, i nostri amici scomparsi, impossibile ricevere telefonate da loro, impossibile telefonarti nel presente mentre continui a dire «non capisci», inutile pensare che ci fu questa ragazza che una volta disse: «Vieni in cucina e aiutami a preparare una moretta...», se non ha ricadute nessuno potrà rimettersi mai in piedi, se non esiste significa che non è mai esistito, ma allora come mai continua a esistere ogni sera, tra le striature viola del cielo della sera e in uno stato addirittura precedente, sulla lunghezza d’onda dove la luce non è ancora percepibile – il tempo che distrugge è il tempo che conserva –, di conseguenza significa che mi dispiace, mi dispiace e non capisco, non capisco bene, non lo capisco ancora cosí bene. Epilogo L’8 aprile 2008, di pomeriggio, andò in onda su un canale televisivo nazionale la puntata pilota di un gioco a premi intitolato Tutta la verità. La presentatrice era un’ex valletta nota al grande pubblico per essere stata la moglie di un calciatore attivo durante gli anni Ottanta, e per essersene liberata quando la carriera di quest’ultimo fu travolta da uno scandalo che arroventò i tagli bassi di tutti i quotidiani per circa un mese. Nel decennio successivo aveva condotto con successo una trasmissione mattutina, la cui attrazione principale era l’innocua «classifica dei segni zodiacali». Ma adesso, al centro di un’aggressiva scenografia dove uno sfondo blu elettrico veniva attraversato da tante linee gialle, l’ormai quarantenne professionista (fisico attraente, camicetta bianca, gonna nera sopra il ginocchio) stringeva tra le mani il suo blocchetto degli appunti e annunciava: «È arrivato il momento della verità: un montepremi di duecentocinquantamila euro, e un concorrente che cercherà di aggiudicarselo». Dopo avere indicato una poltrona vuota, sul suo volto affiorò una traccia di indurita compunzione che i telespettatori erano abituati a decifrare come un messaggio di complicità e presa di distanza. Venne inquadrata in primo piano e assicurò ai suoi quattro milioni di confidenti: «E comunque sappiate che io, lí sopra, non mi ci siederei manco morta». La telecamera strinse sul logo del programma – tre linee che zigzagavano su un foglio di carta millimetrata simile a quello di un referto medico – e si passò alla pubblicità. Le regole del gioco erano semplici e a loro modo rivoluzionarie. Il concorrente sarebbe stato sottoposto a venti quesiti le cui risposte gli erano già note. Non poteva essere altrimenti, visto che si trattava di domande sulla sua vita privata. Nei giorni precedenti – spiegava la presentatrice dopo la pubblicità, mentre Michele da Bologna, un giovane rappresentante di prodotti farmaceutici dal fisico massiccio e i capelli imbrillantinati, prendeva posto sulla poltrona – il concorrente era stato sottoposto alla prova del poligrafo, la piú comunemente nota macchina della verità: «… utilizzata dalle maggiori agenzie investigative del mondo, – ci tenne a ricordare la donna, – utilizzata addirittura dall’Fbi!» precisò facendo leva sull’ingiustificato senso di inferiorità degli italiani in materia di tecniche repressive. Il marchingegno, attraverso la misurazione della pressione sanguigna della sudorazione della respirazione toracica e addominale, aveva insomma passato al setaccio il sistema nervoso simpatico di Michele da Bologna «fino al piú inconfessabile dei suoi segreti». I redattori del programma di conseguenza conoscevano, o presumevano di conoscere, a quali delle oltre duecento domande sottoposte il concorrente aveva risposto senza mentire – e adesso, sceltene venti e riordinatele in una scala drammatica di intensità crescente, iniziava il gioco vero e proprio. «Sarai cosí sincero da meritarti questi duecentocinquantamila euro?» chiese la presentatrice acquistando magicamente, con un semplice battito di ciglia, un tono e addirittura un aspetto fisico in cui affetto materno e un non mai chiarificato appello alla responsabilità individuale mettevano in secondo piano il confessore lo psichiatra e il poliziotto, riuniti clandestinamente in uno specifico televisivo che riecheggiava le dittature sudamericane di fine anni Settanta e i film di fantascienza. Michele da Bologna sorrise come presumeva dovesse fare un cowboy delle pianure felsinee: «Sono pronto». A questo punto – accompagnati dallo spostamento d’aria del piccolo colpo di scena senza che un reale colpo di scena ci fosse stato (anche lo spostamento d’aria: com’era possibile che si riuscisse a percepire attraverso lo schermo?) – fecero il loro ingresso nello studio i genitori del concorrente, il suo migliore amico e Tania, una bella mora con tanto di sala ricevimenti già prenotata per le nozze della prossima estate. «Per pagarci la casa…» si giustificò la ragazza alludendo al montepremi durante la sua autopresentazione. Seguí la voce della madre del concorrente (una credibile versione femminile di Franklin Delano Roosevelt, la quale tracciò il profilo di suo figlio con rapide pennellate: «Un bravo ragazzo, ma spende troppi soldi in fesserie»), quella di suo padre («Le multe soprattutto… prende un sacco di multe»), e quindi gli apprezzamenti disperatamente ironici del suo migliore amico («La cosa assurda, – concluse ridacchiando, – è che nella nostra comitiva crede davvero di essere il piú bello»). Le luci dello studio si abbassarono, la presentatrice disse: «Abbiamo conosciuto un po’ meglio la personalità del nostro concorrente. Ora, se Michele è d’accordo, possiamo passare alle domande del primo livello», e il gioco ebbe inizio. Quando, dopo una decina di domande a cui Michele rispose in modo corretto cercando di ignorare i movimenti tellurici che minacciavano i volti dei suoi cari («Ti lavi i denti tutte le mattine?» «Chi è il tuo migliore amico?» «Hai mai rubato?» «Hai mai vissuto un’esperienza omosessuale?»), lo stesso concorrente rispose con fermezza: «No, ci mancherebbe…», causando un piccolo tracollo sul volto della presentatrice, la quale abbassò gli occhi e proferí un costernatissimo: «Mi dispiace, hai mentito» e un cubitale 50 000 € a caratteri gialli andò in frantumi sul maxischermo che faceva da sfondo per entrambi, e Tania-la-fidanzata scoppiò in un pianto che non era un pianto televisivo e neanche un pianto normale, ma una lacrimosa terra di nessuno sulla quale il piú autentico dei sentimenti perdeva ogni possibile appiglio e con l’empatia e col ritorno d’immagine, e quindi urlò: «Se solo me lo avessi confessato… allora sí che avrei potuto perdonarti!» e la già prenotata sala ricevimenti da 250 euro a posto tavola aleggiò come un fantasma per lo studio televisivo, in quel preciso istante, maledicendomi per aver guardato tanto a lungo, mi alzai dal divano e spensi il televisore. Salutai mio padre, che era rimasto tutto il tempo a sonnecchiare sul divano. Uscii dalla sua villa. Montai sulla Golf presa in prestito da mia madre e mi diressi verso casa di Giuseppe. Mentre guidavo, pensai che quel gioco a premi riassumeva con traslata fedeltà gli ultimi vent’anni della nostra vita. Non si trattava piú dei comici imbecilli del Drive In, sebbene un filo rosso si mostrasse e scomparisse tra le curve degli eventi. Tracciare una cronologia della nostra discesa verso il peggio considerando l’importanza dei nessi causali era ormai considerata una banalità. Anche non negare l’evidenza del peggioramento era percepito come un esercizio di retorica. E tuttavia, che in quei venti minuti di trasmissione ci fosse stata un’impunita violazione dei nostri diritti fondamentali era innegabile. Una macchina scandagliava le profondità di un essere umano disintegrando il suo diritto di mentire, saldando tecnologicamente tutto questo all’antico teatro della gogna. Il fatto che il condannato-concorrente si fosse sottoposto di sua spontanea volontà a quest’aberrazione – pensai ancora percorrendo a velocità sempre piú ridotta una strada che non vedevo da vent’anni – non toglieva che l’aberrazione si fosse consumata. Né migliorava la situazione la circostanza che un consapevole intento malvagio fosse estraneo alla conduttrice del programma (il cui scopo era evitare di restare schiacciata dalla competizione dei programmi concorrenti), e agli autori del programma (soddisfare le aspettative del direttore di rete, continuare a pagare il mutuo della seconda casa), e allo stesso direttore di rete e cosí via, salendo o scendendo all’infinito. La cosa perversa e prodigiosa al tempo stesso era invece che un istintivo battito di ciglia da parte della conduttrice («Dirai la verità?» «Riuscirai a essere sincero?») bastava a generare tra schermo e spettatori una massa energetica fatta di emozionalità allo stato puro che polverizzava la consapevolezza di avere appena assistito a un piccolo crimine contro l’umanità. L’importante a questo punto diventava dire la verità. Già: ma per quale motivo? E soprattutto: a chi? Ero andato via da Bari da circa quindici anni. Fra le tante professioni a disposizione di un individuo di buona cultura e buoni titoli di studio ne avevo scelta una che veniva ancora ammantata da un velo di fascinosa seppure innocua distinzione. Non solo avevo scelto questo lavoro, ma le cose non andavano male. Viaggiavo molto, conoscevo continuamente gente nuova, riuscivo a guadagnarmi di che vivere in maniera dignitosa. Potevo spendere fino a 100 euro per una cena almeno una volta ogni due settimane. Pur non avendo una stabile vita sentimentale, stringevo brevi relazioni di amicizia erotica che il mondo giudicava, al posto mio, soddisfacenti. Una delle conseguenze di questo tipo di esistenza era che, ad esempio, era andata smarrita ormai da tempo la linea di demarcazione tra lavoro e vita privata. A volte, a letto con una donna, avevo l’impressione che il coito fosse la prosecuzione con altri mezzi delle pubbliche relazioni. Quando mi ritrovavo con un nuovo bonifico sul conto corrente, spesso non sapevo piú a quale mio precedente atto produttivo fossero legati quei soldi. Naturalmente capitava anche il contrario: recriminavo per alcune mie presunte grandi imprese prive di corrispettivo adeguato. Un secondo effetto consisteva nell’avere chiaro – pressoché in tutte le occasioni – dove fosse di casa il buon senso, senza che questa lucidità mi dicesse tuttavia un bel niente a proposito di ciò che (in quelle stesse occasioni) fosse giusto o sbagliato fare. Il terzo effetto collaterale: ogni tanto, di prima mattina, venivo sopraffatto da brevi crisi di pianto. Quarto effetto: atterrato nell’aeroporto di una città lontana per motivi di lavoro, prendevo il taxi e osservavo l’autista mentre guidava verso la destinazione. Infilavo la tessera magnetica nella feritoia verticale della mia camera d’albergo, entravo nella stanza e controllavo immediatamente il frigobar. Controllavo l’aria condizionata e la tv satellitare. Mi affacciavo alla finestra, osservavo le architetture di un panorama sconosciuto, e avevo voglia di buttarmi di sotto. Cosí, cinque giorni prima, ero atterrato all’aeroporto di BariPalese. Mi ero sistemato a casa di mia madre e avevo messo mano all’elenco telefonico nella speranza di contattare Donatella. Mia madre di tanto in tanto entrava nella stanza degli ospiti reggendo un vassoio con sopra una tazza di tè caldo. Mi chiedeva: «Come va?» La guardavo e sorridevo. Ci parlavamo per frasi smozzicate, ma tra una frase e l’altra si aprivano silenzi nei quali sentivo scorrere qualcosa di sensato. Si era risposata nel 1997, e ora abitava con suo marito in questo bell’appartamento del quartiere Poggiofranco. Godeva di buona salute, si concedeva un viaggio ogni due anni acquistando pacchetti all inclusive dai nomi evocativi quali: «Crociera romantica tra i mari del Nord». Nei momenti di sconforto si aggrappava a un senso della praticità duramente conquistato negli anni immediatamente successivi al suo divorzio. Era scesa da molto tempo a un dignitoso, intelligente se non addirittura saggio patto con la vita. Mio padre ero andato a trovarlo il giorno dopo avere visto Donatella. Abitava nella villa – finalmente terminata – in cui saremmo dovuti andare a vivere venticinque anni prima. Era una fredda, elegante, spaziosa abitazione piena di carte da parati un tantino démodé e mobili di ottima fattura. Lui ci passava le notti in solitudine dopo che anche il suo secondo matrimonio era andato a rotoli. Quando andavo a trovarlo, ci scambiavamo un abbraccio di media intensità. Riguadagnavo una distanza di due passi e domandavo: «Come va?» Lui rispondeva: «Eh…» senza distogliere gli occhi dalle farfalle stilizzate della carta da parati. Il fatto di ritrovargli sul comodino – lui, che aveva sempre considerato la lettura una perdita di tempo – un libro di Anthony De Mello e altri opuscoli del tipo Aristotele,Confucioe l’arte di essere felici mi faceva venire voglia di saltargli al collo e abbracciarlo fino a stare male tutti e due. Volevo farlo, ma non riuscivo a farlo. Staccava gli occhi dalla carta da parati e domandava: «Da quanti giorni sei arrivato?» Qualunque cosa rispondessi, scuoteva la testa per i fatti suoi. La situazione era riassunta dalla cyclette piazzata in una stanza mai arredata: tanti esercizi mattutini, nessun posto dove andare. Rispetto alla maggior parte dei suoi colleghi imprenditori, aveva resistito molto bene ai continui tracolli che avevano afflitto negli ultimi anni l’intera economia del nostro paese e in particolar modo il suo settore. Un attento ridimensionamento dell’azienda e qualche oculato investimento in campo immobiliare gli consentivano di vivere in modo decisamente agiato (molto meglio di me, ad esempio), con buone garanzie di continuare a farlo sino alla fine dei suoi giorni. Ma come dire… la grande onda, l’elettrizzante vento del successo avevano cessato di ingrossarsi sotto le fragili strutture dei suoi sogni. E adesso, espulso da un turbine di adrenalina che oramai soffiava altrove, si ritrovava a settant’anni con il normale patrimonio di domande che prima o poi affliggono gli uomini: cosa ho fatto nel corso della vita, dove sono i miei affetti, esiste un senso per tutto questo. Le domande erano nuove e gigantesche, lui non era equipaggiato molto bene, e il tempo a disposizione rischiava di non essere abbastanza. Credo che in certi momenti si sentisse terrorizzato. Lo osservavo mentre si addormentava sul divano. Dovevo fare uno sforzo per non voltare la testa dall’altra parte. Avevo visto mio padre e mia madre. Ero riuscito a incontrare Donatella. Agli inizi di febbraio ero riuscito addirittura a parlare con Vincenzo. Adesso stavo guidando in preda all’ansia verso casa di Giuseppe. Ma tutto questo era iniziato da circa un anno, dopo che le mie crisi si erano intensificate in modo preoccupante e la ricostruzione del passato come terapia mi era sembrato un vecchio classico su cui puntare ancora qualche monetina. La prima mossa fu ricorrere all’unica grande rivoluzione perfettamente visibile e certificata nella storia recente del genere umano. Nei primi mesi del 2007 iniziai a digitare su google nomi e cognomi che non pronunciavo a voce alta da molto tempo, a chiedere amicizie su facebook, a esplorare gli aggiornamenti dei blog e le rozze aperture siderali di myspace. A volte la traccia era labile: vecchie conoscenze che partecipavano a seminari accademici o si vedevano pubblicare su un quotidiano on line i loro pareri sulle ultime convocazioni del ct della nazionale di calcio. In altri casi le testimonianze su web della persona che cercavo erano assenti. In altri casi ancora passavo intere notti a scandagliare gli archivi di un blog e a rabboccare tazze di caffè solubile. La prima conclusione a cui giunsi dopo queste immersioni nelle profondità del www, fu che i miei vecchi amici usavano internet come un indispensabile strumento difensivo. Nei loro contributi in html elencavano i lavori che avevano cambiato o i luoghi in cui avevano trascorso le vacanze estive, esprimevano opinioni – talvolta anche molto acute – sui film della stagione o sulla nostra vita politica. Ma si trattava di fumo negli occhi. Persino le pagine personali piene di emoticon e altri espedienti drammaturgici sembravano seguire una strategia di occultamento: tentativi di depistaggio attraverso la sovraesposizione di se stessi. Guardando quelle pagine il cui scopo dichiarato era darsi generosamente in pasto a chiunque, nulla emergeva di fondamentale sulla situazione dei loro autori. Ragionamenti intelligenti, tirate polemiche o spiritose, piccole bizzarrie, quello sí. Ma che opinione avevano davvero di se stessi, cosa si aspettavano dal futuro, da quali paure venivano perseguitati… tutto questo, provvidenzialmente, non veniva fuori. Era come se – nell’epoca dello sputtanamento globale – avessero trovato un espediente per affidare alla parte divagatoria delle loro vite il compito di distrarre i voyeur da tutto quanto il resto. Se c’era qualcosa di rivelatorio, nelle loro tracce telematiche, era la volontà di proteggere se non addirittura di nascondere qualcosa. Mi sembrò una strategia ammirevole. Ma perché nascondere qualcosa? Solo allora iniziai a realizzare che, da qualche parte nel passato, doveva essersi verificata una catastrofe di dimensioni gigantesche. Una collisione invisibile, un crollo silenzioso, un trauma senza evento. E il cratere che l’impatto aveva scavato in molti di noi rappresentava il vero cuore del problema. Non esisteva un D-day, un Hiroshima-day, un 8 settembre, un 25 aprile. Mancava un fatto dal quale far discendere tutti gli altri, e al quale richiamarsi con certezza per raccontare la nostra storia. Ecco perché a un certo punto avevo spento il computer e avevo cominciato a rivedere tutti quanti. Non era importante ricevere conferma che Donatella era stata l’amante di Vincenzo: era fondamentale poter vedere la faccia di Donatella mentre me lo raccontava. Se c’era uno sfregio ma mancava il corpo del reato, era lo sfregio che bisognava interrogare. Vincenzo era tra quelli che non avevano sentito il bisogno di pubblicare un diario in rete. Il risultato che il nome «Vincenzo Lombardi» produceva nei motori di ricerca sfiorava il tetto delle ottomila occorrenze. Mi ci volle un lavoro massacrante (due giorni senza staccare gli occhi dal monitor) per capire che si trattava di semplici casi di omonimia. Professori di statistica, combattenti del Risorgimento conservati nelle teche di Wikipedia, un tizio che vendeva su eBay un disegno autografo di Charles Schulz… settemila e ottocento occorrenze completamente inutili. Ma poi, invece, rieccolo. Esiste un sesto senso della rete, e non appena quel nome – identico agli altri – comparve su uno sfondo celestino accompagnato da un sobrio profilo professionale alla voce «about us» dello studio legale Bucks, Goldsmith, Lebowitz, Lombardi & Partners, pensai immediatamente: è lui. Ero certo che si trattasse di Vincenzo, non tanto a causa del legame con la professione paterna ma perché quelle quattro neutre algide impenetrabili note di curriculum erano tipiche di lui. E cosí – per quanto possa sembrare assurdo attraverso la parete fosforosa di uno schermo – per un attimo fu come se fossimo di nuovo l’uno di fronte all’altro. Esplorando il sito fino all’ultima pagina, appresi che lo studio aveva sedi a Milano a Londra a New York a Hong Kong a Dubai, si avvaleva di oltre cento professionisti tra legali, periti, revisori, e prometteva di assistere al meglio i propri clienti in settori quali il commercio internazionale, le mediazioni finanziarie, la pianificazione fiscale delle persone giuridiche. Telefonai alla sede milanese nella speranza che lui fosse rimasto in Italia, e «sí» – confermò una delle receptionist –, Vincenzo lavorava nella sede di via Clerici, anche se al momento non era in studio. Dopo una settimana di anticamere telefoniche, riuscii a parlargli. Fu gentile, stringato, a suo modo perfino affettuoso: non mi trattò come un estraneo, ma come una persona a cui aspettava da vent’anni di non dire niente di importante. «Allora facciamo tra una decina di giorni…», e mi fissò un appuntamento. Agli inizi di febbraio, andai a trovarlo nel suo ufficio. Era un ufficio lussuoso, ma privo di quella vistosità che un tempo si riteneva dovessero sfoggiare i luoghi di rappresentanza: ampio, luminoso, minimale, pieno di armadi dalle vetrate color nuvola, il tipico arredamento Ikea se l’Ikea producesse anche mobili di pregio. Dietro la scrivania – come un meditato ed efficace ribaltamento di tutta questa leggerezza – era appeso un nudo di Lucian Freud che si doveva presumere originale. Vincenzo mi disarmò con una stretta di mano. Era ancora bello, magro e slanciato, e non appena mi venne incontro in un completo azzurro che gli toglieva consistenza confinandolo in una specie di splendore artico, furono sufficienti il suo sorriso e questa stretta cosí ben padroneggiata per farmi capire che non ne avrei cavato niente. Mi fece sedere di fronte a lui, fece portare caffè per due e una bottiglia di Perrier. Iniziò a parlarmi della sua carriera (sette anni nello studio di suo padre, poi il grande salto della law firm), della sua vita privata (due figli, un matrimonio con una ex ballerina dell’American Ballet Theatre), quindi aspettò che gli dicessi qualcosa di me. Ma a quel punto non c’era niente che avrei potuto davvero comunicargli, perché nell’arte della fuga era stato come al solito sublime: ogni parola pronunciata, ogni minimo gesto da parte sua avevano già creato un’atmosfera da vuoto pneumatico nella quale anche il piú discreto tentativo di affondo diventava inimmaginabile. Gli raccontai di me come – anni prima – avrei potuto fare a un colloquio di lavoro. Poi però, mentre distribuivo informazioni inutili sul mio conto, non potei fare a meno di notare alle sue spalle, accanto a quella che doveva essere la foto di sua moglie (una bella donna dai tratti nordici), anche l’immagine del vecchio Mario Lombardi circondata da una cornice di argento massiccio. «Come sta tuo padre?» chiesi maledicendo la mia mano che continuava a indicare la foto per scaricare su quella bella cornice la colpa della mia indiscrezione. Vincenzo socchiuse gli occhi. Il suo sorriso lasciò finalmente trapelare uno squarcio di tagliente cattiveria, e la sua bocca rimase quasi immobile mentre diceva: «Ma pensa… cancro allo stomaco». Quando aggiunse che era morto nell’autunno del 2002, la sua voce aveva riguadagnato l’ufficialità debolmente partecipativa di un annuncio funebre pubblicato sul giornale. Fu tutto. Ma forse fu piú di quanto fosse lecito sperare: quel suo ma pensa… cosí sgradevole e fulmineo, pronunciato mentre il vero Vincenzo riemergeva per un attimo, poteva essere interpretato come una beffarda ammissione di sconfitta, visto che solo i processi naturali di consunzione e malattia avevano messo fine a una vecchia battaglia. Prima di congedarmi, volle vendicarsi di questa piccola debolezza: disse che mi avrebbe messo in contatto con il reparto dello studio che si occupava dei diritti d’autore, come per confermare a entrambi che ci stavamo rivedendo proprio come fanno i vecchi amici – una consulenza, un favore, qualcosa di pratico. Sfoderai il sorriso piú falso di cui fossi capace e dissi: «Bene, allora aspetto una telefonata», rassicurando lui e me stesso sul fatto che non ci saremmo visti né sentiti mai piú. Di Giuseppe, su internet, non c’era neanche un esangue profilo lavorativo. Un post di argomento calcistico, una recensione cinematografica, la didascalia su una foto amatoriale… Niente di niente. L’ultima volta lo avevo incrociato per caso quasi dieci anni prima, nel 1999. Piú di un incontro fu un calcio nello stomaco. Ero a Bari per le feste di Natale (atterraggio in aeroporto 22 dicembre, biglietto di ritorno già prenotato per il 25 sera) e stavo camminando lungo via Sparano, dove, alle 20 meno qualcosa della vigilia, cercavo di raccattare disperatamente gli ultimi regali. Tra gli innumerevoli forzati dell’acquisto natalizio, ma distinto da tutti quanti loro, a un certo punto me lo trovai davanti. Era sempre corpulento, e una vistosa stempiatura che non poteva ancora definirsi calvizie gli scopriva la testa fino alla sommità del cranio. Indossava un’assurda salopette di jeans sotto un normale piumino. E non aveva una bella cera. Ci misi qualche attimo per passare dal dubbio al pieno riconoscimento, ma non appena fui certo che era lui lo avevo perso. Non poteva non avermi visto, eppure mi passò di fianco senza neanche mostrare i segni di uno slancio tenuto a freno. Qualche ora piú tardi, durante due cenoni a cui fui in grado di presenziare quasi contemporaneamente per non offendere nessuno (il primo a casa di mia madre, l’altro nella villa di mio padre), mi ricordai che molte comunità di recupero pretendevano che i loro ospiti evitassero ogni contatto con le persone frequentate durante la dipendenza. Spacciatori, fidanzate, amici, conoscenti… qualunque essere umano rischiasse di evocare il ricordo di un vecchio pomeriggio interamente trascorso alla caccia di una dose, non poteva essere avvicinato neanche per andare a prendersi un caffè – pena, l’espulsione immediata dalla comunità. Facendo un enorme sforzo su se stesso per non salutarmi, pensai, Giuseppe doveva essersi guadagnato la sua licenzia natalizia. A me era bastato uno sguardo non restituito per lasciarlo andare via. Sapevo che la famiglia Rubino aveva avuto dei problemi e che Giuseppe era messo ancora peggio. Ero riuscito a recuperare un numero di cellulare, mi ero fatto forza e lo avevo chiamato. Nei giorni intercorsi tra la visita a Donatella e il nostro appuntamento, avevo trascorso delle ore a guidare silenziosamente per strade e quartieri che mi sembrava di non vedere da un secolo. Ogni cosa era cambiata intorno a me. Japigia era diventata una normale zona residenziale. I locali underground erano stati sostituiti dalla club culture alla moda, e perfino la droga – come accadeva del resto in tutto il mondo – stava subendo il suo processo di lenta integrazione. Il mare era una quieta campitura d’azzurro sotto un cielo altrettanto sereno. Della città cosí piena di mistero che avevo tanto amato e ripudiato e poi amato ancora piú disperatamente, non rimaneva molto. Finii di percorrere via Napoli. Quindi svoltai a sinistra, verso il complesso di ville in fondo al quale c’era stato il regno dei Rubino. Il pomeriggio primaverile era al suo culmine e l’autoradio diffondeva notizie di sfiducia generalizzata. Per farmi coraggio – come era mia abitudine prima di ognuno di questi incontri – pensai a Rachele, al fatto che non l’avevo cercata né avevo intenzione di farlo. Avevo evitato di raccogliere informazioni su di lei e soprattutto avevo resistito alla tentazione di rivederla, come se questa omissione nei confronti di una donna che presumevo in una buona condizione fisica e mentale (ancora bella, con accanto un uomo che amava, moderatamente delusa da una serie di vicende ma in fin dei conti serena e senza un gran bisogno di ritrovarsi a parlare con una vecchia fiamma, tutto secondo l’inverificabile parametro della mia immaginazione) fosse un dovuto atto di rispetto, o un’uscita di sicurezza, una zona lasciata immacolata per bilanciare quanto di sgradevole e di sbagliato potesse esserci nel resto della mia indagine. Non appena passai davanti alle prime ville, notai un cambiamento che ultimamente avevo riscontrato molto spesso in altre zone d’Italia. Il bello diventato insulto, l’eccesso di vitalità che trascolora nel delirio di impotenza, l’arroganza spumeggiante del benessere che imbocca la strada della frustrazione. Erano state costruzioni imponenti, sfacciate, traboccanti di vizi e fuochi d’artificio, e adesso sembravano aggrappate con le unghie e con i denti al duro morso della manutenzione: perché l’intonaco non cadesse giú del tutto e la ruggine non penetrasse gli infissi fino all’anima. Al termine del viale principale, imboccando la strada laterale che avevo percorso tante volte da ragazzo, la villa dei Rubino conquistò il parabrezza come una dichiarazione di resa. Il cancello era aperto per metà su un giardino regredito a vegetazione spontanea. I rampicanti rendevano immortali i vecchi discoboli di gesso, e un tappeto di muschio e foglioline verdi ricopriva la selce del vialetto, arrestandosi davanti a una casa di tre piani divorata dal tempo e dall’incuria. Scesi dalla macchina, attraversai il cancello e solo allora mi accorsi che, semiemerso tra le ortiche e le barbe di capelvenere, c’era lo stupor mundi di tanti anni prima. Il parcheggio semovibile se ne stava sollevato per una quarantina di centimetri – bloccato in quella morta posizione chissà da quanto, con tanti fili verdi che pendevano nel vuoto e un indizio di radici e metallo pietrificato che si perdeva nel chiaroscuro delle sue profondità. Quando ancora non avevo mosso il primo passo sulla scalinata, si aprí la porta d’ingresso ed eccolo… Eccoci ancora insieme. Indossava un maglione di cotone e un paio di jeans. Ed era sfatto, invecchiato, quasi completamente calvo. E giallo. Ma fu lui a venirmi in soccorso. Sorrise – un pieno, reale, gentile sorriso d’amicizia e quindi disse: «Scommetto che se mi avessi visto per la strada, non saresti riuscito a riconoscermi», disinnescando il mio imbarazzo e i miei sensi di colpa ma dando allo stesso tempo un colpo ben assestato alle certezze su chi dovesse consolare chi. Ci fu un abbraccio delicato e pieno di attenzione, durante il quale ognuno cercò di calcolare al millimetro quanto bisognava stringere per trasmettere calore umano ma non turbare l’altro. L’interno della casa rispecchiava lo sfacelo del giardino. Il soggiorno era un grande spazio vuoto nel quale sopravvivevano giusto il divano e la televisione. Seguendo Giuseppe in cucina, dove scaldò un pentolino pieno d’acqua, ebbi l’impressione che solo una parte della villa venisse ancora utilizzata – a zone vive si contrapponevano interi spazi ricoperti dal nevischio della polvere. E poi il silenzio. Non era una quiete da assenza temporanea, e suggeriva che Giuseppe vivesse lí dentro da solo. Dei suoi genitori, di suo fratello maggiore, dei parenti, dei dipendenti della Eurogarden non si avvertiva neanche l’eco del ricordo, come se la lotta tra Giuseppe e quel silenzio – una lotta lunga, leale – avesse riempito piano piano tutti gli spazi disponibili. Mise le tazze d’orzo su un bel vassoio sopravvissuto al diluvio. Lo seguii verso il soggiorno. Prendemmo posto sul divano finalmente libero dalle bambole di porcellana. Sebbene fosse piú pratico spalancare le tende davanti alla vetrata, andò ad accendere la luce in corridoio, lasciandomi presumere che il lampadario del soggiorno fosse fulminato. Tornò a sedersi. Adesso eravamo circondati da una semioscurità che la luce artificiale e i bagliori che passavano sotto il velluto delle tende resero ancora piú innaturale e asfittica. A pochi metri si apriva la scalinata che portava al piano di sopra, alla sua stanza di ragazzo. Cercai di non guardarla. Cosí fu lui, ancora una volta, a venirmi incontro: mi chiese se ricordavo quante feste avevamo organizzato lí dentro. Era ovvio che me ne ricordavo, mentre a lui di ricordare non sembrava importare un granché. Non dava l’impressione di provare del rancore verso i vecchi tempi, ma i suoi conti doveva averli fatti tutti. Eppure disse lo stesso: «Ti ricordi, quante feste…», aprendo il varco per episodi e intrecci e personaggi di cui evidentemente non ero ancora sazio. Gli stetti dietro. La chiacchierata si fece meno imbarazzante e iniziammo a parlare senza ansia di Vincenzo. Parlammo di Donatella. Parlammo perfino di Rachele. Bevevamo dalle nostre tazze e continuavamo a parlare. Gli chiedevo di aiutarmi a fare luce sulle vicende che per me rappresentavano ancora un rompicapo e lui cercava di accontentarmi. Quando era sprovvisto di un tassello, diceva solo: «Non so» o «Non ricordo» – mai un rilancio, mai un ulteriore invito alla supposizione, e ogni volta che un pezzo tornava a posto, sentivo il clac dell’incastro e il movimento di una giuntura che riprendeva a funzionare. Ma a differenza di ciò che era successo davanti alle altre persone a cui mi ero rivolto nell’ultimo anno, a un certo punto questi incastri non mi davano piú alcuna soddisfazione. Non provavo il piacere dell’enigmista che risolve la sua piccola sciarada perché la semplice presenza di Giuseppe, seduto lí al mio fianco, suggeriva che la ricostruzione materiale di una vecchia storia è sempre insufficiente arrogante incompleta, e non è niente… niente rispetto al gesto di stendere – su ciò che non si sa, su quello che si crede di sapere – il velo di un’indulgenza che ha superato persino l’attrito necessario a perdonare. Quando tutti gli argomenti furono esauriti, quando cioè Giuseppe si rese conto che io stesso riconoscevo ai clac clac clac che mi scattavano continuamente nella testa il valore delle bolle di sapone, abbandonò la tazza di orzo e disse: «Che stiamo facendo qui? andiamo fuori». Ritornammo nel giardino, dove le urla delle rondini riempivano il cielo di una sera quasi estiva. Giuseppe disse: «Andiamo a prendere le sdraio». Ero confuso, a questo punto non capivo come dovessi comportarmi: lui aveva risposto pazientemente a tutte quelle domande e io non ero stato in grado di chiedergli niente sulla sua attuale situazione. Per introdurre l’argomento, non trovai di meglio che ricorrere all’espediente del cane: «Pippa, – dissi, – che fine ha fatto?» Giuseppe si fermò. Indicò la superficie semiemersa della piattaforma: «Il cane è lí, lí sotto», disse, facendomi capire che la sua carcassa giaceva chissà da quanto nelle profondità del montacarichi. Forse era stata Pippa a scegliere quel posto come ultimo rifugio, o forse ce l’aveva buttata qualcuno dopo che aveva perso la sua battaglia con il tempo. Smise di indicare il parcheggio e mi guardò senza segni di intelligenza. Fu l’unico momento difficile della giornata, una specie di ammissione che tutto il nostro incontro stava in realtà ruotando intorno al concetto di morte o di mortalità. Raccogliemmo due sdraio e ce le trascinammo dietro fino alla veranda. Poi ci piazzammo proprio lí, ancora una volta a bordo piscina. La vasca era stata riempita dalle ultime pioggerelle e prima ancora dai rovesci dell’inverno. Adesso era una verde superficie solcata dagli insetti pattinatori e dal volo delle zanzare. Ci sistemammo sulle sdraio. Giuseppe riguadagnò la sua espressione pacata e disse: «Sai, ne sono finalmente uscito…» Risposi: «Sí, lo immaginavo». Iniziò a raccontarmi di quindici anni passati fuori e dentro i centri di recupero, chiuso a chiave in una stanza e poi di nuovo in strada alla ricerca di uno spacciatore. Doveva essere stata una stagione da incubo. Ma non si spinse nei particolari, mi lasciò libero di immaginarli o di non pensarci troppo. Mi raccontò invece di suo padre. Disse che aveva provato a ripartire con l’azienda, ma l’esplosione di Tangentopoli – il blocco dei cantieri e tutti quei clienti senza piú liquidità – segnò il tramonto definitivo dei sogni di grandezza. Adesso Domenico Rubino si limitava a fare piccoli lavori di manutenzione a domicilio, sopravviveva, tirava avanti senza lamentarsi. «Mia madre, invece…» disse. La signora Rosa non aveva retto all’idea di fare un passo indietro. Era andata fuori di testa, se per questo referto era sufficiente l’affiliazione a un gruppo di invasati nel nome di Dio. «Testimoni di Geova?» chiesi. «In questo momento, mentre noi parliamo, – disse senza cattiveria, – lei sta bussando alla porta di uno sconosciuto per annunciare la fine del mondo». «Fammi capire, – chiesi ancora, – ma con i tuoi non vi vedete piú?» Portò la testa verso l’alto: «Non sono stato proprio un caso facile». E mi spiegò che un figlio tossico, in una famiglia che ogni giorno deve lottare per non andare in pezzi, rischia di diventare l’ago della bilancia. Cosí suo padre (stanco, esasperato, sull’orlo di un collasso), dovendo scegliere se salvare lui o lei, aveva scelto lei. «Mia madre… – sospirò tornando a guardarmi, e nel suo mezzo sorriso c’erano i segni di una fiacca comprensione. – E poi comunque, guarda, – aggiunse allargando le braccia verso lo spazio circostante, – mi hanno lasciato questa bella eredità». Già, la villa? Gli chiesi anche di questo. «Non ci crederai, – disse scuotendo la testa, – ma con tutti i soldi che i miei spendevano ogni mese in macchine, cibo, vestiti, gioielli… insomma, a nessuno dei due in quegli anni venne in mente l’idea di riscattare il mutuo». Nel momento in cui fu certo che la casa era perduta, i suoi avevano deciso di andarsene. Mentre lui no, Giuseppe era rimasto, e solo la lentezza esasperante delle procedure burocratiche ritardava l’arrivo delle persone che lo avrebbero sbattuto fuori. E poi mi disse della malattia. Era perfettamente fermo sulla sdraio, le ombre della sera si allungavano sull’erba iniziando a mangiucchiarsi anche i dettagli del suo viso. «Sono in lista di attesa per un trapianto», disse. Aveva sconfitto la dipendenza da eroina, ma non aveva potuto evitare il decorso dell’epatite C. La malattia si era cronicizzata nel corso degli anni senza che se ne fosse accorto, adesso rischiava di sfociare in un brutto carcinoma epatico. «Speriamo bene…» aggiunse, e dalla voce capii che era spaventato. Finalmente ebbi la forza di starmene un po’ zitto. Anche Giuseppe smise di parlare. Le rondini continuavano a gridare senza senso attraversando il cielo. La vegetazione cresceva lentissimamente tutto intorno e Giuseppe era ancora vivo, io ero vivo sulla sdraio accanto, questo almeno era innegabile, e mentre gli ultimi vent’anni lo avevano lasciato solo, debilitato, in una condizione che il nostro tempo avrebbe liquidato senza pietà come «fallimentare», io in teoria facevo ancora parte delle persone piene di futuro. Eppure mi sentivo invaso da qualcosa da cui Giuseppe era già riuscito a guarire. Domani, alla stessa ora, lui sarebbe stato ancora qui, – pensai, – mentre io avrei sostato davanti al tabellone luminoso di un aeroporto pieno di altri viaggiatori. Ma per adesso era soltanto la sera dell’8 aprile, ce ne stavamo senza fiatare ai bordi di una piscina dissestata. Non si perde quello che non si è mai avuto, non si ha quello che non si è mai perso. E mi sembrò impossibile – semplicemente – riuscire a ragionare su qualche cosa di diverso. 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