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NicolaLagioia
Riportando
tuttoacasa
Einaudi
©
2009
Giulio
Einaudi
editore
s.p.a.,
Torino
In
copertina:
un
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di
gipi.
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ISBN
9788858401293
Riportando
tutto
a
casa
C’eraunorsoneiboschi…
Capitoloprimo
C’èunorsoneiboschi.Per
alcuni
è
facilmente
visibile. Altri non lo
vedono affatto. Alcuni
dicono che l’orso è
ammaestrato, altri che è
cattivo
e
pericoloso.
Giacché nessuno può
sapere chi ha davvero
ragione, non sarebbe bello
essere forti quanto l’orso?
Sempre che ci sia, un
orso…
Nella
pioggia
di
messaggi
che
raggiunse
la
città
l’ultima
estate
in
cui
avrei
potuto
battermi
per
dimostrare
che
la
famosa
mappa
di
Billy
Bones
aveva
un
fondo
di
verità,
il
rompicapo
contenuto
nel
precedente
articolo
di
giornale
è
il
testo
del
piú
importante
spot
televisivo
mandato
in
onda
in
quel
periodo,
lo
stesso
in
cui
Amadeus
fece
faville
alla
notte
degli
Oscar
e
il
mio
paese
cessò
di
avere
formalmente
una
religione
di
Stato.
Ma
io
affrontai
l’articolo
con
il
distratto
sentimento
di
superiorità
che
riservavo
ai
quotidiani:
compresi
a
malapena
che
un
attore
di
film
western
aveva
vinto
una
battaglia
elettorale
al
di
là
dell’oceano,
chiusi
le
pagine
del
giornale
e
passai
a
leggere
L’isola
del tesoro
per
la
terza
volta
consecutiva.
Già
l’anno
dopo,
non
avrei
piú
avuto
tempo
per
i
libri:
Vincenzo
e
Giuseppe
sarebbero
entrati
nella
mia
vita
con
l’effetto
di
una
tromba
d’aria.
Ma
poi
finirono
per
trascinarmi
nel
baratro
di
rimpianti
e
notti
insonni
dal
quale
non
sono
ancora
uscito.
Oltre
che
sul
romanzo
di
Stevenson,
avevo
passato
luglio
e
agosto
sui
fumetti
di
Tintin
e
su
qualunque
storia
in
cui
ci
fosse
un
minorenne
che
andava
in
giro
per
il
mondo
senza
ricevere
telefonate
dai
genitori.
Questa
improvvisa
voglia
di
lontananza
offuscava
la
vista
su
ciò
che
era
a
due
passi.
Non
mi
sembrò
ad
esempio
cosí
strano
che
il
nuovo
Concordato
tra
Santa
Sede
e
Repubblica
italiana
potesse
convivere
col
cardinale
Cesare
Baronio,
l’oscuro
porporato
del
XVI
secolo
che,
in
barba
alla
teoria
eliocentrica,
prestava
il
nome
al
liceo
scientifico
a
cui
i
miei
meditavano
di
iscrivermi.
Di
fatto
si
trattava
di
un
cancello
divorato
dalla
ruggine
oltre
il
quale
due
grandi
costruzioni
in
tufo
bianco
lottavano
per
non
ridursi
in
polvere
sotto
il
peso
di
qualche
errore
di
progettazione.
Tra
le
sbarre
del
cancello
e
la
piccola
biblioteca
troneggiava
la
palestra
a
cielo
aperto,
un
manto
d’asfalto
su
cui
una
mano
di
vernice
avrebbe
ancora
delimitato
il
campo
di
pallavolo
se
le
intemperie
non
lo
avessero
ridotto
a
un
democratico
paesaggio
lunare.
Ma
noi
studenti
non
ce
ne
lamentammo
mai
una
volta,
e
gridavamo
«fuori!»
quando
la
palla
superava
una
linea
di
gioco
ricostruita
dall’immaginazione
con
assoluta
sicurezza.
Cosí
come
non
protestammo
quando
poche
dita
di
ghiaccio
fecero
esplodere
le
tubature,
e
tutti
durante
l’inverno
meridionale
–
lungo
e
fastidioso
quanto
un
battito
di
ciglia
davanti
allo
splendore
del
creato
–
seguimmo
le
lezioni
senza
mai
toglierci
i
cappotti.
D’altra
parte
i
miei
genitori,
vedendomi
svanire
ogni
mattina
oltre
il
sentiero
accidentato
che
portava
al
Cesare
Baronio,
erano
certi
di
avermi
affidato
a
una
qualche
Eton
del
Sud.
«Studia,
mi
raccomando,
ti
è
stata
data
un’opportunità
che
io
non
ho
mai
avuto…»
Di
sera,
in
soggiorno,
devastato
da
oscuri
calcoli
sui
prestiti
bancari,
mio
padre
pronunciava
queste
parole
aggrottando
le
sopracciglia
in
un
disegno
doloroso.
Fece
la
stessa
cosa
a
pochi
giorni
dall’inizio
del
mio
ultimo
anno
alle
medie
inferiori,
prima
di
trascinarmi
come
al
solito
in
uno
dei
suoi
giri
di
lavoro.
Per
lui,
la
scuola
che
non
aveva
frequentato
oltre
il
primo
semestre
di
un
istituto
tecnico
era
come
l’ermo
colle
di
Leopardi.
Gli
sfuggiva
il
fatto
che
i
nuovi
sistemi
pedagogici
usavano
la
parafrasi
come
strumento
suicida
–
«quella
collina
mi
è
sempre
piaciuta»,
si
sforzava
di
tradurre
il
nostro
professore
di
italiano
–,
di
conseguenza
l’istruzione
pubblica
era
Leopardi
senza
l’ausilio
della
poesia,
quindi
nient’altro
che
le
Marche
come
massima
intuizione
cosmopolita.
Anzi,
la
Puglia.
Peggio:
Bari,
nel
1984.
Papà
si
era
tirato
fuori
dall’indigenza
contando
solo
sugli
errori
a
proprio
nome;
dunque,
poteva
sorvolare
i
monotoni
bassopiani
della
parificazione
scolastica
senza
licenza
di
volo.
Eppure,
da
qualche
tempo,
aveva
cominciato
a
parlare
per
frasi
fatte.
Ti
è
stata
data
un’opportunitàcheionon
ho mai avuto
era
la
riduzione
del
monologo
di
Amleto
per
interni
famigliari:
infinite
repliche
in
tutti
i
condomini
del
paese.
I
suoi
cali
di
originalità
marciavano
quell’anno
di
pari
passo
col
dinamismo
degli
affari.
Distrutto
da
un
forsennato
viavai
per
le
province
del
borbonico
su
un
camioncino
bianco
stracolmo
di
merletti,
dalle
sedute
con
direttori
di
banca
specializzati
in
terrorismo
finanziario
(il
rapimento
di
Aldo
Moro
non
era
stato
vissuto
a
piazza
del
Gesú
con
l’apprensione
che
in
casa
mia
si
riservava
all’eventualità
di
«ritirare
il
fido»),
si
presentava
davanti
a
me
e
alla
mamma
in
uno
stato
di
consunta
schizofrenia
che,
a
seconda
delle
giornate,
ci
vedeva
ridotti
sul
lastrico
oppure
ricchi,
ricchissimi,
padroni
di
un
futuro
che
aveva
come
sbocco
metafisico
la
croce
bianca
su
sfondo
rosso
degli
istituti
di
credito
elvetici.
Mio
padre
veniva
da
generazioni
di
senzaniente
che
avevano
lavorato
terre
altrui,
pulito
cessi
altrui,
combattuto
guerre
in
cui
non
si
capiva
mai
chi
avesse
vinto
cosa,
ricevendone
in
cambio
non
il
sofisticato
concetto
borghese
di
umiliazione
ma
doni
secolari
quali
fucilazioni,
sfratti,
manicomi,
setticemie,
infanticidi…
Ma
adesso,
era
successo
che
si
era
spalancato
un
varco.
C’era
ottimismo
nell’aria.
Il
vento
dell’autunno
alimentava
nella
calotta
artica
dei
nostri
cuori
uno
sfrenato
desiderio
di
beni
voluttuari:
auto
sportive
da
Maranello,
pellicce
di
visone
da
Pavia,
persino
merletti
e
altra
costosa
biancheria
che
per
le
figlie
di
una
nuova
generazione
di
notabili
non
era
piú
la
via
obbligata
al
matrimonio,
ma:
«Oh,
un
vero
capo
di
artigianato
pugliese!»
Le
vendevamo
dappertutto,
quelle
lenzuola
ricamate
a
mano.
Anche
per
noi
era
arrivato
il
tempo
di
fare
un
po’
di
soldi.
«Se
da
ragazzo
non
fossi
andato
a
vendere
accappatoi
di
spugna
in
Costa
Azzurra,
mi
spieghi
come
me
la
sarei
cavata
l’altro
giorno
coi
funzionari
per
l’importexport?»
Eppure
quella
sera,
quando
mancava
ancora
un
anno
all’inizio
del
liceo,
mentre
parlava
dei
vantaggi
che
avrei
ottenuto
grazie
all’apprendimento
istituzionale
delle
lingue
straniere,
per
la
prima
volta
avvertii
nella
sua
voce
una
nota
stonata.
Fino
all’anno
prima,
avevo
preso
i
sermoni
di
papà
come
qualcosa
di
logico
e
lineare.
Il
trascorrere
del
tempo
doveva
avere
complicato
la
mia
intelligenza,
o
forse
erano
i
libri
e
i
fumetti
divorati
negli
ultimi
mesi.
Cosí,
quando
disse:
«Ma
con
il
mio
francese
non
potrei
mai
sedere
al
tavolo
di
un
ministro
o
di
un
ambasciatore.
Tu,
invece…»,
non
mi
sembrò
soltanto
una
benedizione.
Senza
smettere
di
parlarmi,
iniziò
a
controllare
i
documenti
per
il
nostro
giro
del
giorno
dopo.
Si
rigirava
preoccupato
i
fogli
tra
le
mani.
Sapevo
che
da
quelle
carte
venivano
solo
buone
notizie,
ma
era
come
se
papà
non
reggesse
alla
comparsa
dell’ottavo
zero
sulle
tabelle
di
fatturazione.
A
parole,
aveva
sempre
trasformato
la
passata
miseria
in
un
punto
d’onore
mostrando
un
grande
orgoglio
da
self
made
man.
Ma
sotto
sotto
le
cose
stavano
diversamente:
quella
miseria
era
una
colpa,
una
sorta
di
peccato
originale
che
il
denaro
poteva
adesso
incenerire
facendogli
strappare
il
biglietto
per
l’ingresso
in
società.
Salito
a
bordo,
però,
continuava
a
sentirsi
un
clandestino.
Se
non
a
lui,
sarebbe
toccato
a
suo
figlio
muoversi
senza
imbarazzo
tra
i
quadranti
della
civiltà
–
cosí,
mentre
parlava
della
mia
futura
abilità
di
poliglotta,
sventolava
idealmente
un
fazzoletto
verso
una
nave
appena
salpata
per
gli
oceani.
Ma
a
parte
il
fatto
che
non
stavo
andando
da
nessuna
parte,
in
quel
congedo
immaginario
temetti
di
riconoscere
qualcosa
di
simile
al
rancore.
«Su,
vattene
a
letto»,
disse,
e
poi
si
trasferí
nel
piccolo
studio
tra
il
bagno
e
la
cucina,
dove
avrebbe
continuato
a
fare
calcoli
su
calcoli.
Avrei
voluto
ubbidirgli.
Invece
rimasi
ancora
un’ora
nel
soggiorno,
ipnotizzato
dal
grande
schermo
del
Brionvega
dove
un
comico
con
uno
smoking
dalle
code
svolazzanti
leggeva
quotidiani
ripescati
da
un
cestino
della
spazzatura
in
compagnia
di
un
gigantesco
coniglio
rosa
che
saltellava
avanti
e
indietro
senza
mai
uscire
dall’inquadratura.
Il
giorno
dopo,
papà
mi
svegliò
all’alba.
Facemmo
colazione
con
latte
e
caffè
mentre
il
rosa
del
cielo
contagiava
lentamente
la
cucina.
Si
spazzolò
i
calzoni
da
qualche
briciola
di
fetta
biscottata.
Accostò
l’orecchio
alla
porta
del
corridoio
per
verificare
se
la
mamma
fosse
sveglia.
«Si
parte?»
disse
raccogliendo
dal
pavimento
la
sua
ventiquattrore
di
pelle.
Uscimmo
da
Bari
a
bordo
di
questo
Fiorino
bianco
il
cui
chilometraggio
era
stato
azzerato
un
numero
di
volte
sufficiente
a
coprire
parecchi
giri
della
linea
equatoriale.
Oltre
i
confini
della
città
si
aprivano
scenari
leonardeschi
con
l’aggiunta
dei
metalli
economici:
campi
di
fango
a
bordo
strada,
cieli
carichi
di
nubi
e
dappertutto
muri
sottili
di
lamiera
che
avanzavano
di
giorno
in
giorno
per
contenere
l’espansione
della
proprietà
privata.
Il
Fiorino
rallentò
a
pochi
metri
dai
primi
centri
abitati.
Bitetto,
Triggiano,
Capurso,
Cellamare…
Nei
paesini
ci
aspettavano
le
ricamatrici.
Mio
padre
le
riforniva
di
lino,
di
seta,
di
cotone
e
loro
trasformavano
quei
semplici
tessuti
nella
dote
di
qualche
ricca
sposa
di
cui
non
si
avevano
notizie
fuori
dai
rendiconti
dei
dettaglianti.
Erano
donne
anziane,
spesso
vecchissime.
Le
loro
case,
ai
margini
di
vicoletti
o
strade
senza
uscita,
erano
strani
paradossi
temporali:
si
respirava
un’atmosfera
prerisorgimentale
ma
tra
i
bracieri,
i
tavolacci
di
legno,
le
gabbie
piene
di
conigli
c’erano
anche
televisori
e
radiosveglie.
Ogni
casa
poteva
vantare
una
vedova,
un
orfano,
e
almeno
un
figlio
mongoloide.
E
anche
un
divieto
a
certe
adolescenti
di
entrare
in
cucina
perché
le
tempeste
ormonali
non
traviassero
la
monta
della
crema.
Poi
c’eravamo
noi,
che
ai
loro
occhi
eravamo
una
specie
di
mediazione
col
divino.
Quel
giorno,
a
Sovereto,
ci
toccò
la
casa
di
Annina.
Avevo
presente
questa
ottantenne
piena
di
glaucomi,
visto
che
eravamo
passati
a
visitarla
durante
il
giro
dell’anno
precedente.
Di
figlie
con
handicap
mentali
ne
aveva
addirittura
cinque,
tutte
impiegate
come
ricamatrici.
È
chiaro
che
qualcosa
non
andava
tra
lei
e
suo
marito
a
livello
cromosomico,
ma
la
famiglia
di
Annina
aveva
la
fortuna
di
occupare
un
gradino
cosí
basso
della
scala
sociale
da
essere
praticamente
inattaccabile:
i
problemi
delle
«ragazze»,
lí
dentro,
venivano
considerati
una
sofferenza
come
un’altra.
Il
loro
regno
era
una
continua
ubriacatura
di
sorrisi
senza
denti,
casse
da
morto,
bisbigli
incomprensibili,
conigli
scuoiati
in
una
specie
di
sgabuzzino
sacrificale
che
ricordavo
molto
bene:
l’anno
prima,
dopo
aver
sentito
uno
squittio
oltre
la
porta
chiusa
sul
retro
della
cucina,
mi
ci
ero
avventurato
spinto
dalla
curiosità.
Quando
ne
uscii
avevo
gli
occhi
traboccanti
di
lacrime,
e
loro
–
Annina,
le
figlie
mongoloidi,
le
altre
ricamatrici
–
iniziarono
a
sommergermi
di
risate.
Ridevano
fragorosamente,
contagiosamente,
a
singhiozzi,
scoprendo
le
gengive,
battendosi
le
mani
sulle
cosce.
Io
mi
calmai
all’istante
perché
c’era,
nella
larghezza
di
quelle
risate,
il
piú
potente
contravveleno
dello
scherno,
cioè
la
comprensione.
Per
loro
era
assolutamente
normale
che
un
bambino
di
città
scoppiasse
a
piangere
davanti
allo
sgozzamento
di
un
coniglio
–
ridendo,
cercavano
di
offrirmi
una
patente
di
appartenenza
alla
vita,
con
tutta
la
sua
naturale
impudicizia,
la
sua
oscena
irreversibilità.
Io
smisi
subito
di
piangere.
Loro
smisero
di
ridere.
Un
minuto
di
raccoglimento
per
la
sorte
dei
roditori.
D’accordo
i
conigli
sgozzati.
D’accordo
il
braciere
e
le
gengive
scoperte.
Ma
lemani!
Che
cos’erano
le
mani
di
quelle
donne…
Secche,
legnose,
piene
di
nodi
e
chiazze
rosse,
portavano
l’ago
da
una
parte
all’altra
del
tessuto
con
una
velocità,
una
regolarità,
una
precisione.
Sembravano
governate
non
da
un
dio,
ma
da
un
destino
anteriore
alle
scritture.
Neanche
la
malattia:
solo
la
morte
poteva
fermarle.
Per
il
resto
se
ne
fregavano
dei
glaucomi
e
dei
disturbi
mentali:
era
sufficiente
che
almeno
una
volta
ci
fosse
stato
un
dialogo
tra
il
loro
tessuto
nervoso
e
il
corpo
cellulare
di
un
singolo
neurone
–
ed
ecco
un
punto
croce,
un
punto
smock,
un
fiore
di
seta,
un
grappolo
d’uva…
Non
appena
quel
giorno
entrammo
in
casa
loro,
almeno
venti
mani
smisero
di
ricamare
e
si
posarono
in
attesa
sulle
gonne.
Diciotto
occhi
si
abbassarono.
Annina
abbandonò
la
sedia
e
ci
venne
incontro.
Mi
accarezzò
la
faccia.
Poi
abbracciò
mio
padre
con
la
profonda
benevolenza
che
si
potrebbe
riservare
a
un
figlio
fragile
che
ha
incontrato
la
fortuna.
Iniziarono
a
parlarsi
in
dialetto.
Tra
quei
violenti
raddoppi
di
consonanti
non
ero
mai
stato
a
mio
agio:
dei
loro
discorsi
non
capivo
quasi
niente.
Guardandomi
intorno,
colsi
però
una
serie
di
movimenti
che
fino
all’anno
prima
non
mi
erano
saltati
all’occhio.
Fatta
eccezione
per
quella
che
avevo
ribattezzato
«la
quinta
figlia
mongoloide
di
Annina»
–
una
quarantenne
dai
muscoli
contratti
che
continuava
a
lavorare
senza
lasciarsi
distrarre
da
niente
e
da
nessuno
–
il
nostro
arrivo
aveva
rotto
la
routine
delle
altre
ricamatrici.
Mentre
mio
padre
e
Annina
continuavano
a
parlare,
due
di
loro
si
diressero
con
discrezione
verso
la
cucina.
Un’altra
alleggerí
il
passo
e
imboccò
la
scalinata
che
portava
in
magazzino.
Annina
fece
cenno
a
mio
padre
di
aspettare,
si
allontanò
verso
la
camera
da
letto.
Tornò
da
noi
circondata
dal
silenzio,
con
una
pila
di
lenzuola
ricamate
tra
le
braccia.
Poggiò
la
merce
sul
tavolo.
Papà
le
consegnò
la
busta
col
contante.
La
stanza
tornò
a
riempirsi
allora
di
voci
e
di
sorrisi:
le
altre
donne
iniziarono
a
muoversi
verso
di
noi,
all’improvviso
eravamo
completamente
circondati.
Portavano
il
caffè.
Portavano
vassoi
pieni
di
ciliegie,
cartellate,
fichi
secchi
e
altri
doni
votivi.
Dicevano:
«Vogliate
gradire!
vogliate
gradire!»
con
uno
sguardo
di
riconoscenza
che
superava
il
soffitto
della
casa.
Come
la
maggior
parte
dei
ragazzi,
soffrivo
di
una
certa
ipersensibilità
a
basso
costo
per
le
situazioni
dispari.
Eppure,
non
avvertii
una
vera
sproporzione
di
ruoli.
Noi
avevamo
il
Fiorino
e
la
Bmw,
tra
poco
saremmo
andati
a
stare
in
villa
mentre
loro
vivevano
in
una
specie
di
stamberga
e
interpretavano
il
suffragio
universale
come
un
supplemento
d’obbedienza
agli
abbagli
dei
mariti.
Però
il
denaro
non
le
contaminava
come
faceva
con
noi.
Fuori
dalla
casa
di
Annina
il
nostro
rapporto
non
avrebbe
potuto
definirsi
se
non
col
nome
di
sfruttamento.
Ma
dentro…
dentro
si
consumavano
questi
bonsai
di
scene
bibliche:
l’assenza
di
malizia
spaccava
interi
oceani
di
studi
sulla
lotta
di
classe.
Merito
loro,
è
ovvio
–
la
gentile
sottomissione
di
Annina
non
diventava
mai
cerimoniosità.
Mio
padre
se
ne
rendeva
conto.
Abbassava
la
testa.
Dopo
aver
caricato
i
corredi
sul
furgone,
tornò
in
casa
e
salutò
Annina
stringendola
con
forza.
Allora
gli
crollarono
le
gambe:
sentiva
nelle
ossa
della
donna
la
consistenza
del
lungo,
del
pesantissimo
sonno
in
cui
restavano
sepolti
tutti
i
nostri
antenati,
e
da
cui
lui
invece
si
era
appena
risvegliato.
Tornare
indietro
era
impossibile.
Fuori
c’era
la
luce,
c’era
l’incubo
ammaestrato
della
civiltà.
Ed
eccoci
perfettamente
svegli:
sfrecciamo
sulla
tangenziale
appena
rimessa
a
nuovo.
Superiamo
i
camion
e
le
moto
e
le
auto
della
polizia.
Risplende
il
ferro
del
guardrail.
Risplende
il
bianco
delle
cliniche
private
mentre
la
radio
annuncia
che
Ronald
Reagan
è
stato
eletto
per
la
seconda
volta
presidente
degli
Stati
Uniti
grazie
anche
all’efficacia
di
uno
spot
televisivo
in
cui
viene
messa
in
dubbio
l’esistenza
di
un
orso
che
pure
passeggia
minacciosamente
per
i
boschi
–
una
presenza
(dice
lo
speaker)
di
cui
si
parla
per
l’intera
durata
della
pubblicità
senza
mai
menzionare
l’Unione
Sovietica,
né
la
minaccia
implicita
di
tutto
il
video:
la
guerra
nucleare.
Mio
padre
svoltò
a
destra
e
cosí
uscimmo
dalla
tangenziale.
Dopo
le
ricamatrici
ci
toccò
il
primo
dei
grossisti.
Parcheggiammo
davanti
a
un
capannone
solitario
oltre
il
quale
si
aprivano
le
vigne
e
gli
uliveti.
Superato
il
magazzino
vero
e
proprio
c’era
l’ufficio
di
Loprieno.
Il
suo
sancta
santorum
si
riduceva
a
una
tavola
di
compensato
tenuta
su
con
dei
sostegni
a
X,
una
discreta
quantità
di
bolle
d’accompagnamento
sparse
ovunque,
l’immagine
di
san
Nicola
protettore
dei
commerci
piazzata
su
una
parete
a
cui
le
infiltrazioni
d’acqua
conferivano
un
irriproducibile
colore
giallo
marmorizzato.
Piú
erano
tenuti
male,
quegli
uffici,
piú
era
certo
che
la
baracca
macinava
un
mucchio
di
quattrini.
Il
grossista
era
un
omone
dalle
labbra
carnose
alleggerito
da
un
riporto
svolazzante.
Lui
e
papà
si
riempirono
di
pacche
sulle
spalle
lamentandosi
vorticosamente
delle
tasse,
dei
contributi
da
versare
ai
dipendenti,
e
quindi
anche
della
propria
onestà.
Poi
la
geremiade
si
interruppe
e
papà
iniziò
a
sfilare
gli
articoli
del
campionario
dagli
involucri
di
plastica.
Loprieno
mise
mano
ai
libri
contabili.
Vennero
sparati
prezzi,
quantità,
termini
di
pagamento.
E
ognuno
accusò
l’altro
di
volerlo
rovinare.
Dopo
un’ora
di
sfiancanti
contrattazioni,
firmarono
quello
che
c’era
da
firmare
e
si
strinsero
la
mano.
Richiusero
le
cartelline
con
un
sorriso
tirato.
L’accordo
non
aveva
esaurito
la
mimica
necessaria
a
sostenere
la
pantomima
delle
trattative:
restava
come
un
residuo
di
violenza
che
non
apparteneva
piú
a
nessuno…
iniziarono
a
puntare
me.
Le
loro
facce
adesso
erano
gravi,
ispirate
e
in
qualche
modo
sincrone.
«Tuo
padre…
–
fece
Loprieno
con
aria
costernata
–
non
puoi
nemmeno
immaginare
che
cosa
ha
fatto
per
il
vostro
bene…
–
Sospirò:
–
Avresti
dovuto
vederlo
vent’anni
fa.
Si
alzava
alle
cinque
del
mattino
per
andare
a
spezzarsi
la
schiena
giú
ai
mercati
generali.
Scaricava
queste
casse
pesanti
come…»
Qui
diede
un
secco
fendente
nell’aria
carica
di
fumo,
un
gesto
che
avrebbe
voluto
sottolineare
la
necessità
di
proteggermi
dal
ricordo
dei
sacrifici
che
mio
padre
si
era
dovuto
sobbarcare
per
via
di
un
figlio
che,
all’epoca
–
non
potei
fare
a
meno
di
considerare
con
un
principio
di
bruciore
nello
stomaco
–,
era
meno
di
un’ipotesi
astratta.
Cercò
di
commentare
il
sospirato
arrivo
del
benessere
con
un
altro
gesto
fisico:
stese
il
braccio
verso
la
finestra
come
se
i
campi
circostanti,
e
i
palazzi
in
costruzione
che
si
vedevano
oltre
i
campi,
e
i
centri
abitati
e
l’intera
provincia
fossero
stati
nostri,
o
aspettassero
solo
lo
squillo
di
cavalleria
degli
agenti
di
commercio
per
venire
conquistati
in
uno
spasimo
febbrile
di
cambiali.
Cosí,
nel
giro
di
pochi
secondi,
anche
Loprieno,
che
fino
a
quel
momento
era
stato
solo
un
volgare
opportunista,
acquistò
statura
nelle
parole
di
mio
padre:
«Capisci?
è
partito
che
faceva
il
ragazzo
di
bottega…»
«Ah,
ma
cosa
vuoi
che
possano
capire!»
confidò
nervosamente
a
voce
alta
mio
padre
a
Loprieno
o
Loprieno
a
mio
padre
(a
quel
punto
erano
intercambiabili
nell’estasi).
«Sono
nati
con
il
culo
tra
i
batuffoli
d’ovatta»,
rispose
l’altro
senza
neanche
prendersi
il
disturbo
di
incontrare
il
mio
sguardo.
La
piccola
nota
stonata
che
avevo
avvertito
nella
voce
di
papà
la
sera
prima,
era
adesso
un
rumore
di
ferri
arrugginiti
che
stridevano
tra
loro.
Mi
si
appannò
la
vista.
Eravamo
al
momento
dei
saluti.
Sulle
facce
di
mio
padre
e
di
Loprieno
c’era
adesso
una
vaga
simpatia
che
si
sarebbe
trasformata
in
assoluta
estraneità
quando
ognuno
fosse
tornato
ai
fatti
propri.
Prima
di
richiudere
la
porta,
Loprieno
non
resistette
alla
tentazione:
sentí
il
bisogno
di
benedirmi
con
uno
scappellotto
amichevole.
Spaf.
Rabbrividii.
Avrei
voluto
rovesciargli
la
scrivania.
E
fracassargli
il
telefono
contro
la
parete.
Seguii
invece
papà
oltre
l’uscita
del
magazzino,
dove
le
foglie
degli
ulivi
passavano
dal
verde
scuro
al
verde
chiaro
cullate
dal
vento
di
metà
settembre.
Guardai
gli
alberi.
Un
nuovo
tipo
di
rabbia
iniziò
a
rifluirmi
nelle
vene.
Adesso
eravamo
di
nuovo
sulla
tangenziale.
Superavamo
ambulanze,
motorini,
camion
a
rimorchio
aprendoci
un
varco
nel
piombo
della
tarda
mattinata.
Il
nostro
viaggio
era
agli
sgoccioli:
mancavano
le
banche.
Papà
stringeva
il
volante
tra
le
mani
senza
dire
una
parola.
Passava
con
il
rosso,
accelerava
bruscamente
come
se
la
strada
fosse
l’incarnazione
del
campo
di
battaglia
che
lo
strappava
via
dal
sonno
alle
quattro
e
mezzo
del
mattino
per
fargli
controllare
un
mazzo
di
fatture.
All’inizio
mi
ero
illuso
che
fosse
pungolato
dal
senso
di
colpa
per
la
scenetta
nell’ufficio
del
grossista.
Ma
il
suo
silenzio
era
talmente
chiuso
da
far
pensare
che
nascesse
da
una
solitudine
invincibile,
un
misterioso
stato
d’animo
legato
al
segno
zodiacale
di
un
paese
che
proprio
in
quell’anno
brillava
sulla
cuspide
della
quinta
potenza
industrializzata
del
pianeta
–
un
vento
gelido
proveniente
dallo
spazio,
entrato
da
molto
tempo
negli
studi
dei
notai
dei
farmacisti
dei
medici
di
base,
che
ricadeva
dopo
una
breve
stagnazione
su
quelli
come
noi
soltanto
adesso.
Pasquale
Ladisa…
Oh,
no:
Pasquale
Di Liso.
Il
direttore
di
banca
era
un
signore
alto
e
magro,
con
lo
sguardo
governato
dalla
mobilità
di
chi
vuole
sempre
fare
bella
figura.
La
sua
piccola
filiale,
a
pochi
passi
dal
centro
cittadino,
contava
su
una
mezza
dozzina
di
sportellisti
tutti
in
cravatta
e
gilet
di
lana
verde.
Lui
invece
portava
le
bretelle
sopra
una
camicia
di
Ralph
Lauren.
Ci
ricevette
nella
penombra
di
un
ufficio
striato
dai
magri
raggi
solari
che
attraversavano
le
tapparelle
disposte
scientificamente
davanti
alla
finestra.
Distrutto
dal
complesso
del
primo
della
classe,
lo
si
doveva
immaginare
in
banca
già
alle
sette
del
mattino.
Salutava
gli
addetti
alle
pulizie,
e
prima
ancora
di
controllare
gli
indici
di
borsa
si
piazzava
davanti
alla
finestra
per
trovare
la
giusta
inclinazione
delle
stecche
di
plastica.
La
sua
pena
mattutina:
le
spostava
prima
di
qua,
poi
di
là…
magari
nel
frattempo
saltava
il
Banco
Ambrosiano.
Salutò
mio
padre
con
un
mezzo
inchino.
Poi
quasi
urlò:
«Allora
è
questo,
tuo
figlio!»
con
l’enfasi
di
chi
è
inciampato
in
un
pozzo
di
petrolio
dopo
anni
di
ricerche.
Mi
disse
che
anche
lui
aveva
un
ragazzo
della
mia
età:
«Un
genio
della
matematica…
te
lo
farò
conoscere».
Prendemmo
posto
in
poltrona.
Lui
e
papà
iniziarono
a
parlare
con
le
mani
intrecciate
sulla
scrivania,
disturbati
ogni
cinque
minuti
dall’accensione
della
spia
su
un
grosso
apparecchio
telefonico
smaltato
di
nero.
«No
guarda,
Di
Liso,
non
possiamo
continuare
in
questo
modo…»
disse
papà
portando
gli
occhi
al
cielo
per
caricare
il
colpo
successivo.
Quella
filiale
scalcinata
–
continuò
–
si
era
arricchita
anche
grazie
a
lui:
come
osava
non
dargli
una
proroga?
«Se
tanto
mi
dà
tanto,
–
il
direttore
se
la
ridacchiò,
–
pure
tu
te
li
sei
alzati
un
po’
di
soldi.
Ho
saputo
che
andate
a
stare
in
villa»,
disse
spostando
il
suo
sorriso
su
di
me.
Papà
mi
diede
un
calcio
da
sotto
la
scrivania
per
impedirmi
di
rispondere,
poi
il
suo
volto
diventò
paonazzo
–
quando
gli
si
ventilava
l’evidenza
delle
cose,
e
cioè
il
fatto
che
non
stessimo
propriamente
alla
canna
del
gas,
veniva
attraversato
da
questi
autentici
travasi
di
bile.
E
qui
iniziò
un’altra
prova
sfibrante:
fecero
a
gara
su
chi
stava
messo
peggio.
Di
Liso
sbatté
il
pugno
sulla
scrivania:
«Ti
sembra
una
scrivania
questa
schifezza?
E
le
poltrone
in
finta
pelle?
E
la
vaschetta
per
la
corrispondenza?»
Disse
che
a
ogni
fine
d’anno
inviava
un
dettagliato
fax
di
proteste
alla
sede
centrale,
ma
tutto
ciò
che
riceveva
da
Milano
era
il
solito
Vangelo
di
Franco
Maria
Ricci.
Mio
padre
scattò
in
piedi.
Si
arrotolò
i
pantaloni
sui
polpacci,
alzò
una
gamba
e
sbatté
il
piede
sulla
scrivania:
«Guarda
le
scarpe!,
sono
vent’anni
che
le
porto,
–
disse,
–
vent’anni
che
non
mi
compro
un
paio
di
scarpe
nuove.
Secondo
te,
ho
o
non
ho
il
rispetto
del
denaro?»
Quelle
scarpe
di
camoscio
misura
quarantadue,
fabbricate
secondo
le
regole
della
migliore
tradizione
artigianale
italiana…
Ogni
volta
che
mio
padre
doveva
dimostrare
la
propria
superiorità
morale,
chiamava
in
causa
le
scarpe.
Avevo
sempre
concesso
a
quelle
insostenibili
tirate
la
scusante
di
uno
spirito
da
monaco
stilita.
Ma
adesso,
nel
tempio
del
denaro,
mi
sembrò
che
servissero
a
nascondere
una
brama
che
era
difficile
chiamare
con
il
suo
vero
nome.
Infine,
trovarono
un
accordo
(negli
anni
Ottanta
tutti
trovavano
un
accordo).
Di
Liso
concesse
una
proroga
di
cinquanta
giorni.
Tirò
in
ballo
la
sede
centrale:
«Se
lo
vengono
a
sapere
su
a
Milano…
–
ammoní
sia
mio
padre
che
se
stesso
–
capisci
cosa
rischio
per
te?
Quelli
sono
capaci
di
mandarmi
un
ispettore».
«Ma
cosa
vuoi
che
mandino!»
Mio
padre
simulò
lo
sprezzo
del
pericolo.
Di
Liso
annuí
con
un
sorriso
tutto
volontà
di
potenza.
Bisognava
fare
silenzio:
gli
si
sentiva
l’ipotalamo
friggere
per
la
soddisfazione.
«Allora,
siamo
a
posto?»
disse
dopo
aver
chiuso
la
copertina
di
un’agenda
che
non
aveva
consultato.
Mio
padre
non
batté
ciglio.
I
cinquanta
giorni
guadagnati
per
la
restituzione
del
denaro
sembravano
averlo
confinato
in
un
luogo
di
suprema
indifferenza.
«Cinquanta
giorni…
–
disse
dopo
una
pausa
massacrante
–
è
tutto
quello
che
puoi
fare?»
Il
giro
era
finito
anche
per
quell’anno.
Attraversammo
a
dieci
all’ora
il
grande
ingorgo
soffocante
di
viale
Unità
d’Italia.
Poi
costeggiammo
il
Policlinico.
Mentre
le
strade
alberate
e
il
fthfth
fth
dei
primi
irrigatori
testimoniavano
la
vicinanza
della
zona
residenziale,
pensai
che
Long
John
Silver
era
capace
di
strozzarti
con
la
stessa
mano
che
usava
per
salvarti
dalle
acque.
E
dunque,
conclusi,
dovevo
stare
molto
attento
all’uomo
che
adesso
fischiettava
all’autoradio,
e
poi
diceva:
«Dài,
scendi
che
siamo
arrivati!»
prima
ancora
di
infilarsi
col
Fiorino
tra
le
strisce
del
parcheggio.
Il
vapore
addensato
sulle
finestre
della
cucina
nelle
giornate
d’inverno,
certe
incredibili
mattonelle
a
fiori
finite
poi
tra
il
modernariato
delle
ceramiche
d’interni,
il
secondo
piano
di
una
palazzina
giallo
ocra
costruita
con
inspiegabile
grazia
all’inizio
degli
anni
Settanta.
Pochi
altri
fabbricati
sparsi
qua
e
là,
poi
la
campagna
e
uno
sprazzo
di
collinette
consacrate
al
motocross.
Era
passato
qualche
mese
dall’inizio
della
scuola,
ma
io
sapevo
che
i
centauri
continuavano
a
esibirsi
fino
ai
primi
giorni
di
acquaneve.
Mi
affacciai
sul
balcone
riconoscendo
con
invidia
i
profili
neri
delle
Husqvarna,
delle
Ktm,
delle
Ducati
sospese
in
una
luce
mielosa
da
Super8
in
primavera.
Poi
mi
voltai,
e
stavo
già
piangendo
tra
le
braccia
della
mamma.
Una
figura
ancora
molto
snella,
in
un
vestito
di
sartoria
con
i
bottoni
a
scacchi
e
l’onda
nera
dei
capelli
che
le
copriva
un
occhio,
quindi
la
curva
del
sorriso
che
sussurra:
«È
fatto
cosí,
non
te
la
devi
prendere».
Era
successo
che
mio
padre,
nel
bel
mezzo
del
pranzo,
aveva
lasciato
suonare
il
telefono
senza
che
l’attenzione
con
cui
stava
sorvegliando
la
notizia
di
un
fallito
attentato
a
Margaret
Thatcher
ne
risultasse
scossa.
Ma
dopo
il
sesto
squillo
si
era
alzato,
come
se
quello
fosse
il
segnale
che
lo
autorizzava
a
perdere
il
controllo.
Sollevò
la
cornetta
e
disse
invece
cordialmente:
«Girolamo,
sono
da
te
alle
quattro».
Ma
dopo
qualche
scambio
di
battute
si
rabbuiò:
«Porca
puttana,
arrivo!»
Si
trovò
all’improvviso
con
le
chiavi
della
Bmw
nella
mano
destra,
la
ventiquattrore
nell’altra,
il
soprabito
sulle
spalle
e
una
catena
di
insulti
rivolti
a
Girolamo
Palmieri,
il
suo
rappresentante
per
Puglia
Campania
Lazio
e
chissà
quali
altre
zone,
il
quale
gli
aveva
appena
comunicato
come
Gianfranco
Balestrucci
–
un
grosso
cliente
della
provincia
di
Foggia
–
avesse
svicolato
un’altra
volta
per
eludere
un
pagamento
scaduto
già
due
mesi
prima.
Mia
madre
cercò
di
moderare
la
sua
furia
dicendo:
«Finisci
almeno
di
mangiare…»,
come
se
solo
il
dominio
degli
istinti
avrebbe
potuto
consentirgli
di
risolvere
il
problema.
Papà
rimase
zitto
per
qualche
secondo.
Poi
disse
velenosamente
che
una
donna
che
non
aveva
mai
avuto
bisogno
di
rincorrere
un
cliente
fino
a
Siracusa
per
incassare
il
prezzo
di
una
merce
regolarmente
venduta
stirata
imballata
e
poi
spedita,
non
era
la
persona
piú
adatta
a
dare
consigli
su
questo
genere
di
cose.
Fu
allora
che
presi
la
parola.
Il
cuore
accelerò
di
colpo,
qualcosa
di
covato
molto
a
lungo
iniziò
a
premere
per
venire
allo
scoperto.
Allentai
i
pugni
sulla
tavola,
mi
rivolsi
confidenzialmente
solo
a
lei,
e
dissi
con
disprezzo:
«Lascialo
andare,
è
solo
un
poveraccio.
È
meglio
quando
a
casa
ci
siamo
io
e
te
da
soli».
Mio
padre
puntò
la
mamma
con
aria
incredula.
«Ma
Cristo
e
la
Madonna!
–
sbottò
con
una
voce
cavernosa
–
allora
è
questo
che
gli
racconti
di
me!»
Dopo
averla
accusata
ingiustamente,
si
guardò
intorno.
«Voi
volete
la
mia
rovina…»
aggiunse
declassandoci
e
nello
stesso
tempo
promuovendoci
al
novero
delle
terribili
potenze
astratte
che
volevano
distruggerlo
da
sempre.
Solo
che
noi,
puntualizzò,
avevamo
la
pretesa
di
distruggerlo
pur
continuando
a
beneficiare
dei
suoi
soldi,
per
cui
avremmo
meritato
come
minimo
di
morire
di
stenti
–
cosa
che
la
sua
coscienza
non
avrebbe
purtroppo
tollerato,
concluse
con
sconforto.
Per
liberarsi
del
paradosso
senza
essere
costretto
a
picchiarmi,
sferrò
un
pugno
sulla
parete
della
cucina
facendo
risuonare
le
stoviglie.
Andò
via
sbattendo
la
porta.
Una
piccola
nuvola
d’intonaco
si
raccolse
per
qualche
istante
nel
vano
dell’ingresso.
Fu
a
quel
punto
che
andai
a
rifugiarmi
sul
balcone,
fingendomi
offeso
persino
con
mia
madre.
Confidavo
nella
possibilità
di
farle
credere
che
un
mio
errore
di
valutazione
sul
gioco
delle
parti
(avrebbe
dovuto
ribattere
colpo
su
colpo
e
non
lo
aveva
fatto)
mi
consentisse
di
stringere
il
guinzaglio
del
suo
senso
di
colpa,
vivificando
la
nostra
alleanza
contro
il
resto
del
mondo.
Ma
sul
balcone
si
aprí
lo
spazio
delle
campagne
invase
dalla
luce
del
primo
pomeriggio,
con
i
profili
delle
moto
che
descrivevano
nel
vuoto
le
loro
splendide
parabole.
Sarei
voluto
scendere
in
strada
per
conoscere
da
vicino
questi
ragazzi
che
avevano
imparato
a
pulire
un
carburatore
nel
corso
di
lunghe
giornate
da
cui
ero
stato
completamente
escluso.
E
avrei
voluto
anche
seguirli
–
pensai
con
rabbia
e
con
rimpianto
–
perché
poi,
scesa
la
sera,
avrebbero
portato
le
loro
moto
dentro
garage
pieni
di
attrezzi
e
di
effetti
personali
(polsini
da
tennis
usati
come
segno
di
virilità,
una
bandana
prestata
a
una
ragazza
e
poi
restituita
per
diventare
la
viva
testimonianza
della
scoperta
del
sesso
o
di
un
dolore
successivo)
e
dai
garage,
calcolai,
si
sarebbero
infine
riversati
in
un
disordine
notturno
fatto
di
strade
di
voci
e
soprattutto
di
incontri
–
di
litigi,
di
abbracci,
di
discussioni,
di
addii
(loro,
loro
erano
già
al
momento
degli
addii!)
–
per
fare
parte
del
quale
sarei
stato
disposto
a
vendere
senza
pietà
le
persone
fisiche
dei
miei
genitori.
Poi
feci
qualche
passo
indietro,
sentii
la
pressione
di
una
mano
sulla
spalla
per
ritrovarmi,
già
completamente
arreso,
nelle
braccia
di
mia
madre.
«Non
te
la
devi
prendere…»,
disse
accarezzandomi
la
testa.
Capii
che
non
ci
era
cascata.
Era
perfettamente
conscia
che
io
sapevo
di
non
poter
vantare
crediti
sui
suoi
sensi
di
colpa,
e
nonostante
il
mio
tentativo
di
truffa
la
nostra
alleanza
era
intatta.
Lei
non
aveva
neanche
bisogno
di
perdonarmi
–
essendo
io,
ai
suoi
occhi,
perdonato
per
sempre.
E
dunque,
chi
se
ne
fregava
dei
motociclisti
e
delle
loro
avventure,
se
adesso
questa
donna
mi
stringeva
a
sé?
Mi
riportò
senza
fatica
tra
le
mattonelle
a
fiori
della
cucina.
Da
qui
entrammo
nel
soggiorno
dove,
sul
solito
Brionvega,
il
tg
regionale
parlava
di
cinque
persone
arrestate
per
riciclaggio
di
denaro
legato
al
traffico
di
stupefacenti.
I
carabinieri
avevano
fatto
irruzione
in
un
appartamento
del
quartiere
Japigia
ma
i
due
fratelli
Terlizzi
–
«i
supercapi
del
clan…»
disse
il
cronista
–
l’avevano
fatta
franca
per
l’ennesima
volta.
Mia
madre
spense
il
televisore:
«Siediti,
che
adesso
ti
racconto
una
cosa».
Obbedii.
Si
mise
sul
divano
accanto
a
me,
si
aggiustò
il
vestito
sulle
gambe
e
iniziò
a
parlarmi
di
quando,
all’età
di
sedici
anni,
mio
padre
si
ritrovò
con
due
valigie
cariche
di
brutti
asciugamani
per
le
strade
di
un
paesino
calabrese
in
cui
si
sarebbe
dovuta
tenere
una
fiera
campionaria
annullata
all’ultimo
momento.
E
non
avendo
neanche
il
biglietto
ferroviario
per
ritornare
a
Bari,
in
preda
alla
disperazione
bussò
a
tutte
le
porte
del
paese,
e
riuscí
a
vincere
la
diffidenza
di
chi
gli
apriva
vendendo
sottocosto
ogni
articolo
per
rannicchiarsi
infine
tra
i
sedili
puzzolenti
di
un
interregionale
che
sferragliava
risalendo
nella
notte
gli
Appennini
della
Sila.
Mi
venne
piú
vicino
e
sussurrò:
«Non
puoi
volergliene,
verrà
perseguitato
da
questi
incubi
per
sempre».
La
guardai
pieno
di
gratitudine:
facendomi
entrare
nei
luoghi
piú
bui
dell’adolescenza
di
mio
padre,
non
pretendeva
che
accettassi
le
sue
sfuriate.
Mi
suggeriva
invece
di
abbracciare
l’idea
che
questi
vecchi
sacrifici
non
reclamavano
vendetta
–
cosí
come
un
massacro
di
sioux
non
poteva
ormai
pretendere
un
bel
niente
davanti
ai
grattacieli
di
Manhattan
–
dal
momento
che
io
e
la
mamma
ne
eravamo
la
naturale
evoluzione.
Per
quanto
crudeli,
le
cose
stavano
in
questo
modo:
lui
era
una
cosa,
noi
due
eravamo
un’altra.
«C’è
una
vita
intera
che
ti
aspetta»,
concluse
sorridendo.
E
io
sentii
una
gelida,
meravigliosa
benedizione
calarmi
sulla
testa.
Ascoltavo
mia
madre,
in
quello
come
in
altri
pomeriggi,
e
non
erano
le
parole
a
convincermi
ma
la
sua
incontestabile
bellezza.
Oh,
lei
era
uno
di
quei
meravigliosi
cocktail
di
geni
corretti
al
Plasmon
che
iniziarono
a
far
tremare
i
sedili
delle
sale
cinematografiche
dal
dopoguerra
in
poi.
Di
regola,
si
sarebbe
dovuto
trattare
di
una
lottatrice
dagli
avambracci
enormi
alta
un
metro
e
quarantasette,
in
quanto
figlia
di
coltivatori
diretti
a
loro
volta
figli
di
mezzadri
la
cui
fede
nel
cattolicesimo
era
legata
al
fatto
che
i
ritratti
della
Vergine
disegnati
da
qualche
avanzo
di
parrocchia
risultavano
comunque
piú
appetibili
delle
barbudos
in
scialle
nero
disposte
ad
alveare
tra
le
navate
della
stessa
chiesa.
E
invece
ci
si
era
messa
di
mezzo
la
rivoluzione
alimentare,
questa
improvvisa
disponibilità
di
omogeneizzati
e
biscotti
multivitaminici
che
fece
esplodere
l’adolescenza
della
mamma.
Le
allungò
le
gambe,
le
strinse
il
busto,
le
ammorbidí
la
pelle
senza
per
altro
spodestare
il
genius
loci,
la
cavernosa
tenebra
dello
sguardo
conficcata
nelle
ragazze
meridionali
come
un
paletto
in
grado
di
far
valere
uno
ius
primae noctis
senza
spargimenti
di
sangue.
Per
questo
anche
le
orchesse
della
generazione
precedente
sapevano
sedurre
prima
ancora
di
aver
mostrato
un
solo
neo.
Ma
poi
arrivarono
quelle
come
la
mamma
a
fare
piazza
pulita,
e
bisognava
considerarle
quando
non
avrei
potuto
farlo,
nel
momento
magico
di
fine
anni
Cinquanta
–
il
radioso
movimento
di
lancette
che
separa
la
vasca
polverosa
di
un
cantiere
dalla
prima
scritta
upim.
E
tuttavia,
con
il
trascorrere
dei
mesi,
cominciai
a
diffidare
anche
di
lei.
Da
«Tintin»
ero
passato
a
«Frigidaire»
e
«Mucchio
Selvaggio».
Ero
riuscito
a
procurarmi
una
copia
francese
di
«Métal
Hurlant».
Poi
i
romanzi.
Le
avventure
di
Jim
Hawking
e
Long
John
Silver
avevano
ceduto
il
passo
ai
rovelli
di
Marlow
che
risaliva
il
fiume
Congo.
Nelle
nuove
storie
da
cui
mi
lasciavo
catturare,
non
erano
soltanto
i
personaggi
a
essere
ambigui
o
indecifrabili
ma
il
mondo
intero.
Cosí,
osservando
i
miei
alle
prese
con
la
vita
che
gli
girava
intorno,
notai
come
persino
i
litigi
–
piú
che
segnare
la
frattura
della
loro
presunta
diversità
–
li
avvicinassero
pericolosamente.
Mi
bastava
guardarli
di
sera
mentre
discutevano
della
Lancia
Stratos
di
Palmieri:
un
acquisto
che
la
mamma
giudicava
«una
cafonata»
per
non
lasciar
intendere
che
se
una
simile
automobile
era
alla
portata
di
un
rappresentante
a
noi
sarebbe
dovuta
toccare
come
minimo
una
Jaguar,
e
che
papà
invece
difendeva
per
non
essere
tentato
dall’invidia
–
li
sentivo
alzare
la
voce,
e
mi
sembrava
assurdo
che
due
persone
potessero
usare
tante
scorciatoie
per
esprimere
da
fronti
opposti
gli
stessi
desideri.
Cosí
come
provai
un
moto
di
ribellione
quando,
tutti
e
tre
al
cinema
a
vedere
Staying Alive
durante
le
vacanze
di
Natale
(il
giorno
in
cui
una
bomba
esplose
sul
treno
rapido
Napoli-Milano),
l’intera
sala
si
sollevò
applaudendo
dopo
che
John
Travolta,
ottenuto
un
posto
di
primo
ballerino
al
culmine
di
improbabili
battaglie
per
la
gloria
modellate
sugli
squali
di
Wall
Street,
dichiarò
tutto
incazzato
in
primo
piano:
«E
adesso…
adesso
vado
a
farmi
il
mondo!»
Sentii
che
qualcosa
non
andava,
nella
battuta
e
nell’intero
film
–
solo
che
mio
padre
era
già
scattato
in
piedi
contagiato
dall’entusiasmo
generale,
e
la
mamma
gli
afferrò
la
mano
visibilmente
emozionata.
Allo
stesso
modo,
mi
sembrò
eccessivo
l’entusiasmo
di
mia
madre
nel
momento
in
cui,
facendomi
le
solite
confidenze,
arrivò
a
raccontarmi
di
quando,
nella
lontana
primavera
del
’69,
avendo
appreso
dopo
una
pomiciata
con
un
cowboy
del
Tavoliere
sintonizzato
in
differita
su
Bob
Dylan
che
l’anno
prima
alla
Sorbona
c’erano
stati
dei
casini
tra
studenti
e
polizia,
prese
il
coraggio
a
due
mani
e
in
un
torbido
pomeriggio
di
giugno
diede
il
proprio
contributo
alla
protesta
giovanile:
fuggí
di
casa
insieme
a
Mariolina
Nocenti,
sua
amica
e
sodale;
entrambe
montarono
su
un
pendolino
diretto
in
Magna
Grecia,
praticamente
Taranto,
nella
cui
piazza
principale
si
sarebbe
tenuto
un
concerto
di
Patty
Pravo.
Mamma
e
papà
erano
degli
stupidi.
Il
mondo
intero
era
stupido.
E
dal
momento
che
il
mio
foro
interiore
era
un
luogo
troppo
solitario
per
metterli
alla
gogna,
decisi
di
rivolgermi
al
padre
di
mia
madre.
Raggiunsi
il
nonno
nella
sua
casa
di
campagna
per
domandargli
che
cosa
ricordava
lui,
del
1969.
Il
vecchio
mi
chiamava
qualche
volta
con
il
nome
di
un
nipote
morto
anni
prima
in
un
incidente
stradale.
Ma
non
appena
scandii:
«Primavera
del
’69…»,
la
trivella
del
ricordo
spillò
una
risposta
chiara.
«Una
vendemmia
penosa»,
disse.
Grandine
con
chicchi
fra
i
tre
e
i
cinque
centimetri.
«Lo
sai
cosa
voleva
dire
per
quelli
come
noi?»
«Sí,
ma
la
mamma?
–
lo
incalzai,
–
la
fuga
della
mamma
a
Taranto?»
Vidi
la
faccia
del
nonno
irrigidirsi
come
possono
fare
gli
addominali
di
chi
sta
per
ricevere
un
pugno
nello
stomaco.
Ma
non
cercava
di
difendersi
da
un
colpo,
piú
che
altro
scacciava
i
moschini,
perché
esplose
in
una
secca
risata
beffarda.
Moltiplicò
le
rughe
intorno
agli
occhi
per
evitare
che
un
ricordo
tanto
stupido
potesse
contagiare
la
solidissima
confusione
dei
suoi
ottantasette
anni.
Disse
in
dialetto:
«Pensa
che
io
e
tua
nonna
non
ci
siamo
neanche
presi
la
briga
di
suonargliele».
E
insomma,
mi
fece
capire
che
mia
madre
non
ricevette
punizioni
né
rimproveri
piú
che
altro
per
un
effetto
di
irrealtà.
Non
era
fuggita
di
casa
per
farsi
ingravidare
in
santa
pace,
ma
per
assistere
a
un
concerto.
Unconcerto…
Non
era
la
forza
del
Maggio
francese
ad
avergli
impedito
di
prenderla
a
schiaffi
ma
la
sua
assurda
inconsistenza.
Era
come
se
mia
madre
si
fosse
ripresentata
in
questo
vecchio
casolare
nelle
vesti
di
un
fantasma
–
e
non
si
può
prendere
a
schiaffi
un
fantasma,
non
lo
si
può
chiudere
in
camera
per
una
settimana.
Tornai
a
casa
completamente
soddisfatto.
Con
questo
stato
d’animo,
attraversai
la
città
in
autobus
guardando
le
saracinesche
ormai
abbassate
dei
negozi,
e
i
lampioni
comunali
che
illuminavano
le
strade,
e
le
lucine
azzurre
dei
televisori
nelle
finestre
dei
palazzi.
Non
sarebbe
potuta
essere
meno
fondata,
la
mia
euforia.
Perché
poi
arrivava
la
fine
della
giornata,
le
sere
di
quel
1984,
e
insieme
con
la
sera
scendeva
su
di
noi
un
velo,
un
bagliore
azzurro,
a
metterci
d’accordo,
a
fare
giustizia…
…
da
gennaio
a
dicembre
scendeva
su
mia
madre,
scendeva
su
mio
padre,
sui
direttori
di
banca,
sui
grossisti
ormai
lontani
dai
loro
capannoni,
scendeva
questo
bagliore
che
i
tecnici
sapevano
essere
la
combinazione
dei
tre
colori
primari
–
il
rosso,
il
verde,
il
blu,
mischiati
tra
loro
sullo
schermo
in
tutti
i
possibili
colori.
Non
si
chiamava
ancora
televisione
commerciale.
Era,
semplicemente,
«la
Cosa
Nuova».
E
quello
che
a
me
sembrava
una
presa
diretta
da
una
dimensione
parallela
era
stato
invece
registrato
quarantott’ore
prima
a
Roma,
finito
di
montare
il
giorno
stesso,
precisamente
negli
stabilimenti
della
Dear,
una
lunga
giustapposizione
di
studi
televisivi
e
camerini
e
corridoi
a
collegare
un
braccio
all’altro
della
struttura
verso
la
quale
sugli
autobus,
sui
taxi,
sulle
automobili
private
arrivavano
settimanalmente
le
ballerine
e
i
comici
e
le
loro
spalle
e
questo
cocker
triste
di
proprietà
di
un
caro
amico
del
comico
piú
anziano
che
avremmo
ricordato
per
i
monologhi
di
fine
puntata;
e
insieme
a
loro
l’autore
e
il
regista
della
trasmissione,
gli
unici
a
non
passare
dalla
sala
trucco.
Ma
prima
della
sala
trucco,
prima
dei
camerini
e
dei
travestimenti
–
le
ballerine,
che
poi
non
erano
vere
e
proprie
ballerine
bensí
ragazze
di
bella
presenza
con
una
disperata
vocazione
all’anonimato,
si
travestivano
da
ragazze
fast
food
mentre
i
comici,
i
due
piú
noti
perlomeno,
il
capocomico
di
mezza
età
e
un
trentenne
di
Biella
la
cui
faccia
era
una
vittoriosa
antitesi
delle
facce
degli
attori
d’avanspettacolo
(Ezio
Greggio,
un
monumento
al
niente),
questi
due
comici
indossavano
enormi
giacche
colorate
dai
baveri
taglienti
–,
prima
dei
camerini
e
della
sala
trucco,
delle
lucine
accese
sulle
telecamere,
capitava
che
le
ballerine
parlottassero
tra
loro,
e
i
comici
si
consultavano
con
l’autore
della
trasmissione,
poi
l’autore
col
regista,
poi
arrivava
un
vassoio
coi
bicchierini
di
plastica
sbaffati
di
caffè,
e
ancora
chiacchiere
e
consultazioni
prima
di
andare
in
onda…
E
la
vera
novità
stava
nel
fatto
che,
a
differenza
di
ciò
che
succedeva
negli
spettacoli
televisivi
del
passato,
i
quarantacinque
minuti
della
trasmissione
vera
e
propria
non
erano
la
bella
copia,
il
salire
quei
due
o
tre
gradini
che
separavano
il
rodaggio
precedente
dal
risultato
finale,
ma
una
discesa,
uno
scientifico
abbassarsi
sotto
le
quote
dell’intelligenza,
della
grazia,
dell’arguzia,
dello
spessore
presenti
in
ogni
essere
umano
coinvolto
in
quella
trasmissione.
Per
questo
il
programma
funzionò
cosí
bene,
per
questo
fu
una
rivoluzione.
Drive In…
il
primo
tentativo
serio
di
portare
in
Italia
ciò
che
oltreoceano
stava
accadendo
già
da
qualche
tempo
–
ovvero
cambi
di
scena
fulminanti,
sketch
veloci
il
doppio,
il
triplo
rispetto
a
quelli
del
passato
e
presentati
soprattutto
come
se
fossero
spot
pubblicitari.
E
il
suo
autore,
Antonio
Ricci,
uno
che
durante
il
Maggio
francese
aveva
avuto
diciott’anni,
e
aveva
naturalmente
manifestato
e
ciclostilato
e
cineforumizzato
e
solidarizzato
con
il
lancio
delle
uova
alle
prime
della
Scala…
il
suo
programma
degli
anni
Ottanta
non
fu
il
tradimento
della
sua
vita
precedente,
semmai
al
contrario
la
sua
realizzazione
piú
profonda
–
cosí
come
ci
si
era
avvolti
nel
vento
caldo
della
contestazione,
adesso
si
tendevano
le
vele
per
sfruttare
il
vento
gelido,
che
di
quel
vento
caldo
era
stato
il
mandante,
il
vero
soffio
d’alimento.
Cosí
li
vedevi,
quei
comici
che
non
facevano
ridere,
e
ridevi
lo
stesso.
Le
loro
battute
sovvertivano
la
comicità
cosí
come
la
comicità
si
era
andata
sviluppando,
e
cioè
nient’altro
che
il
sentimento
del
contrario
passato
indenne
lungo
i
secoli
–
fortificato
dalla
peste,
il
sentimento
del
contrario,
fortificato
dagli
anatemi
e
dalle
scomuniche
–
per
andarsi
a
rovesciare
nel
variopinto
crematorio
del
Drive In.
Non
piú
il
sentimento
del
contrario,
ma
dell’identico.
Eppure,
ridevamo
lo
stesso.
«Saaalve!
–
diceva
il
trentenne
di
Biella
saltellando
da
una
parte
all’altra
dell’inquadratura,
–
sono
mister
Tarocò,
con
l’accento
sulla
q!»
(e
ridevamo),
oppure,
nei
panni
dell’imbonitore:
«Asta
Tosta!
oggetti
tosti
per
tutti
i
gosti,
pardon,
gusti…»
(e
ridevamo),
oppure,
con
una
protesi
di
gomma
sulla
fronte
e
un
parrucchino
di
capelli
bianchi
svolazzanti:
«Sono
Zichichirichí,
uno
scienziato
molto
reclamato:
infatti
ogni
mattina
ricevo
i
reclami
delle
bollette
che
non
ho
pagato!»
(e
ridevamo),
oppure,
il
comico
di
mezza
età,
in
uno
dei
suoi
monologhi
di
fine
puntata:
«Come
si
dice
al
mare:
the
show
must
gommon!»
(e
noi,
incredibilmente,
ridevamo).
Ridevo
io,
seduto
tra
le
plastiche
lugubri
di
una
sala
da
pranzo
non
ancora
del
tutto
fuori
dagli
anni
Settanta,
e
rideva
mio
padre,
rideva
mia
madre
dando
le
spalle
alla
cucina
con
una
pentola
fumante
tra
le
mani,
e
superando
le
strade,
i
ponti,
le
piazze
vuote
della
domenica
sera,
a
molte
case
di
distanza
ridevano
i
grossisti
e
gli
impiegati
e
gli
studenti
e
i
disoccupati…
E
nei
paesi
della
provincia
barese,
cosí
diversi
dai
paesi
delle
province
lombarde
ma
accomunati
dal
prodigio
di
un
cavetto
bianco
infilato
in
una
presa
Uhf,
ridevano
anche
quelle
come
Annina.
E
la
prima
figlia
mongoloide
di
Annina
rideva,
la
seconda
figlia
mongoloide
di
Annina
rideva,
la
terza
pure,
la
quarta
idem…
la
«quinta»
invece
no:
invalida
al
novanta
per
cento,
incapace
di
qualunque
ragionamento
o
azione
utile
che
non
fossero
le
sue
mani
sui
tessuti
di
mio
padre,
fissava
con
occhio
vitreo
i
colori
sullo
schermo
e
non
rideva,
alla
battuta
successiva
non
rideva,
ma
alla
battuta
dopo
veniva
scossa
da
un
tremito
che
le
attraversava
le
zone
basse,
e
dallo
stomaco
veniva
su,
e
le
afferrava
la
gola
con
il
suo
guanto
di
ferro,
cominciava
a
manovrarle
i
muscoli
che
circondano
la
bocca
abbandonati
alla
penosa
anarchia
dei
malati
di
mente,
quei
muscoli
per
la
prima
volta
venivano
disciplinati
da
ciò
che
dovrebbe
essere
la
totale
negazione
della
disciplina,
ovvero
la
risata.
L’ultima
figlia
mongoloide
di
Annina
scoppiava
a
ridere
davanti
a
una
battuta
di
Ezio
Greggio
ed
era
quello
il
crollo
della
diga,
bastava
una
sola
scena
del
genere
per
capire
che
DriveIn
aveva
vinto
–
«si
piange
con
il
cuore
ma
si
ride
con
il
cervello»,
una
frase
di
Molière
che
non
sarebbe
piú
stata
vera:
anche
il
cervello,
come
il
cuore,
trasformato
in
un
organo
del
tutto
involontario.
Per
questo
anche
l’ultima
figlia
di
Annina
scoppiava
a
ridere,
per
questo
i
paesi
sperduti,
la
provincia,
forse
anche
un
intero
continente
iniziava
a
risuonare
di
singhiozzi.
La
risata
che
ci
avrebbe
dovuti
seppellire
tutti
quanti
era
arrivata.
L’anno
scolastico
si
concluse
con
un
«ottimo»
agli
esami
di
terza
media.
Ma
a
quel
punto,
io
il
papà
e
la
mamma
eravamo
già
impegnati
in
un
altro
tipo
di
battaglia.
Capitolosecondo
Sottili
e
luccicanti,
due
o
tre
lustrini
rimasero
impigliati
nei
ricci
dell’acrobata
quando
concluse
il
numero
a
dieci
metri
dal
suolo.
Scese
dalla
scala
a
corda
e
ricevette
l’ovazione
dei
presenti
rimanendo
serio.
Poi
arrivarono
i
clown,
e
dopo
i
clown
il
domatore
di
leoni,
quindi
di
nuovo
i
pagliacci
per
lo
sketch
di
chiusura
che
portò
piú
di
un
ragazzo
a
sbellicarsi
dalle
risate
costringendo
metà
dei
maschi
adulti
a
chiudere
con
un
sobbalzo
le
pagine
sportive
del
quotidiano
locale.
Abbandonai
il
tendone
cercando
di
trattenere
l’odore
di
segatura
che
avevamo
respirato
durante
lo
spettacolo.
La
mamma
camminava
evitando
che
il
pietrisco
le
imbiancasse
le
scarpe
da
sera.
Mio
padre
disse
come
al
solito:
«Spicciamoci!»,
e
raddoppiò
l’andatura
man
mano
che
gli
altri
spettatori
facevano
lo
stesso.
Ci
allontanammo
a
bordo
della
Bmw,
ignari
che
quello
spazio
sarebbe
stato
invaso
molto
presto
da
fumiganti
cascate
di
fertilizzante
per
diventare
il
primo
parco
pubblico
di
Bari,
condannando
il
Gran
Circo
di
Budapest
a
non
fare
piú
ritorno
in
città.
Vidi
svanire
i
generatori
di
corrente
e
i
rimorchi
del
trasporto
animali
con
le
loro
feritoie
misteriose.
Nello
specchio
retrovisore
adesso
c’era
solo
la
strada,
nera
e
diritta
–
ma
io
continuavo
a
pensare
a
quell’acrobata:
non
poteva
avere
piú
di
sedici
anni,
ma
già
sembrava
possedere
tutti
i
segreti
di
una
solitudine
preziosa,
stellare.
Mio
padre
accese
l’autoradio.
Dalle
casse
uscí
una
musica
allegra
e
ossigenata,
resa
ancora
meno
consistente
dalla
voce
di
Jane
Fonda.
La
mamma
abbassò
il
volume
e
gli
chiese
se
aveva
riflettuto
sulla
faccenda
dell’Escrivá
de
Balaguer.
Lui
sbuffò.
Ripresero
a
litigare
sul
mio
futuro
mentre
la
macchina
sfrecciava
su
un
cavalcavia.
Tracciai
sulla
fredda
superficie
del
lunotto
la
figura
di
un
omino
in
bilico
che
sembrò
animarsi
fino
a
quando
rimase
circondato
dallo
sfolgorio
della
concentrazione
urbana.
Poi
l’auto
rallentò
e
noi
ci
ritrovammo
sotto
casa.
Io
e
il
ragazzo
del
circo:
scopri
la
differenza
tra
le
vignette.
La
radio
disse:
«Michail
Gorbačëv
pronuncia
il
suo
discorso
di
investitura,
subito
dopo
il
nuovo
pezzo
dei
Righeira».
Concluse
le
medie
inferiori,
bisognava
capire
dove
farmi
proseguire
gli
studi.
Avevo
iniziato
le
elementari
in
un
periodo
–
probabilmente
l’ultimo
in
Italia
–
durante
il
quale
la
brama
di
successo
veniva
ancora
coraggiosamente
rivestita
da
un
unguento
di
grossolana
ipocrisia.
Ma
nel
frattempo
era
accaduto
qualcosa.
Superato
un
confine
invisibile,
un’atmosfera
di
competizione
sfrenata
era
discesa
sul
terzo
scaglione
delle
dichiarazioni
Irpef,
persuadendoci
che
la
scelta
del
liceo
poteva
avere
conseguenze
determinanti
per
chi
imboccava
la
strada
del
diploma
nel
1985.
Due
giorni
prima,
la
mamma
aveva
atteso
che
il
papà
tornasse
dal
lavoro
facendo
avanti
e
indietro
dal
soggiorno
alla
cucina.
Poi,
al
suo
cospetto,
coi
muscoli
del
collo
troppo
tesi
perché
io
non
li
notassi,
dichiarò
che
il
figlio
di
una
sua
cugina
sarebbe
stato
iscritto
a
un
liceo
classico
finanziato
dall’Opus
Dei:
«A
proposito,
–
buttò
lí
con
la
cautela
necessaria
per
centrare
un
grosso
felino
addormentato,
–
lo
sai
che
Cristina
manda
Giulio
all’Escrivá
de
Balaguer?»
Mio
padre
era
entrato
da
poco
nel
suo
trentesimo
milligrammo
di
Serenase
per
superare
la
terza
ora
di
sonno
consecutivo.
Dunque
avvertí
immediatamente
che
le
parole
della
mamma
nascondevano
qualcosa,
ma
il
suo
genio
enigmistico
riformulò
la
frase
nella
frase
persuadendolo
che
sua
moglie
stesse
cercando
di
renderlo
ridicolo:
la
prelatura
fondata
da
Josemaria
Escrivá
era
qualcosa
di
cui
papà
avvertiva
l’importanza,
ma
non
ne
sapeva
altro.
«Opus
Dei…»
considerò
con
tono
grave
e
costernato.
Rimase
due
minuti
a
soppesare
l’offesa
inesistente.
Guardò
la
mamma
e
disse:
«Uhm,
uhm,
non
credo
proprio».
Il
giorno
dopo
andammo
al
circo.
Tre
giorni
dopo
papà
fece
irruzione
in
cucina
comunicandoci
con
una
voce
squillante
che
Di
Liso
aveva
iscritto
suo
figlio
alla
prova
d’ammissione
per
il
Töpffer,
un
collegio
svizzero
a
pochi
chilometri
dal
piú
grande
ghiacciaio
d’Europa.
Era
raggiante.
Sentendo
che
si
parlava
del
figlio
di
Di
Liso,
mi
pietrificai
immediatamente
davanti
alla
tv.
Lui
chiese
alla
mamma:
«Ne
hai
mai
sentito
parlare?»
e
si
lasciò
cadere
tra
i
cuscini
del
divano.
Lei
scosse
la
testa.
Mio
padre
allora
si
sollevò
di
scatto.
Come
era
possibile,
si
domandò
con
le
mani
nei
capelli,
come
era
solo
lontanamente
concepibile
che
una
donna
preoccupata
per
il
futuro
del
proprio
figlio
non
sapesse
che
cos’era
il
Töpffer?
La
mamma
raccolse
un
tovagliolo
dalla
tavola
e
cominciò
a
passarselo
nervosamente
tra
le
mani.
Mio
padre,
ormai
col
vento
in
poppa,
enumerò
i
privilegi
di
cui
il
figlio
di
Di
Liso
avrebbe
goduto
frequentando
quel
collegio.
Equitazione,
scherma,
dizione,
portamento…
queste
erano
solo
alcune
delle
attività
extradidattiche
che,
insieme
con
le
discipline
tradizionali,
avrebbero
consentito
al
figlio
di
Di
Liso
di
guardare
dall’alto
in
basso
i
suoi
colleghi
della
scuola
pubblica.
«Quando
ritornerà
in
Italia
dopo
il
diploma
–
aggiunse
–
tra
lui
e
i
suoi
vecchi
amici
ci
sarà…»
Mimò
con
le
mani
la
versione
in
scala
di
una
voragine.
Bevve
un
bicchier
d’acqua
e
allungò
di
nuovo
il
braccio
verso
il
lavandino,
come
sentisse
il
bisogno
di
raffreddare
il
raschio
di
un
sorriso
che
non
sembrava
riconoscere
del
tutto
come
il
suo.
Mia
madre
era
stata
a
sentirlo
sfilacciando
tra
le
dita
il
tovagliolo
di
cotone
fino
a
quando
la
barchetta
cucita
sul
tessuto
non
era
diventata
una
figura
incomprensibile.
Convinta
che
lo
scopo
di
mio
padre
fosse
dimostrare
la
superiorità
dei
suoi
amici
direttori
di
banca
rispetto
ai
parenti
di
lei,
scattò
in
avanti
all’improvviso.
Si
avvicinò
pericolosamente
a
suo
marito
e
tagliò
corto
con
un
sorriso
di
disprezzo:
«L’equitazione!»
Si
avventurò
cioè
in
una
teoria
che
non
ho
piú
trovato
da
nessuna
parte:
l’equitazione,
disse,
era
un
sistema
infallibile
per
fare
di
un
ragazzo
un
perfetto
imbecille.
«Dalla
Baviera
sono
uscite
le
piú
grandi
teste
di
questo
continente!»
obiettò
mio
padre
con
orgoglio.
«Maper-favore!
–
lo
mise
a
posto
mamma
agitando
finalmente
lo
spettro
seminascosto
dalla
tensione
dei
giorni
precedenti,
–
che
cosa
ne
può
sapere
uno
che
ha
la
terza
media…»
In
tv
stavano
dando
un
telefilm
in
cui
un’aliena
con
pretese
da
Joan
Crawford
afferrava
un
topolino
bianco
per
la
coda
e
iniziava
a
infilarselo
in
bocca.
Avevo
gli
occhi
fissi
sullo
schermo
ma
rimanevo
concentrato
sul
litigio
dei
miei.
LaBavieranonè
in Svizzera!,
pensai
con
rabbia.
La
discussione
stava
perdendo
appigli
con
la
realtà
–
si
confrontavano
sull’Opus
Dei
senza
sapere
neanche
cosa
fosse,
sproloquiavano
di
collegi
svizzeri
ritenendo
che
la
nostra
disponibilità
di
denaro
potesse
rendere
tangibili
certe
immagini
a
cui
durante
gli
anni
delle
giacche
di
seconda
mano
avevano
guardato
come
dal
foro
di
un
caleidoscopio
evitando
però
di
farsi
toccare,
mio
padre
e
mia
madre,
dal
sospetto
che
se
l’essenza
del
denaro
è
un
dialogo
tra
specchi,
ogni
sogno
messo
nel
mezzo
serve
solo
a
generare
cento
miraggi
di
tipo
nuovo.
Per
questo
forse
adesso
non
sembravano
difendere
le
proprie
posizioni
né
tantomeno
le
mie,
ma
quelle
di
un
discorso
che
ci
sovrastava,
una
fragorosa
onnipresente
entità
camaleontica
che
per
nascondere
le
proprie
scaglie
da
rettile
aveva
bisogno
di
viaggiare
sui
continui
qui
pro
quo
degli
esseri
umani,
sfruttava
rancori
e
incomprensioni
personali
perché
il
proprio
fine
ultimo
–
la
semplice,
totale
scomparsa
nel
suo
stomaco
per
chi
vi
si
accostava
–
fosse
confuso
con
un
grandioso
approdo
proveniente
dal
futuro.
E
nel
passaggio
dal
fuori
al
dentro
(dalle
fauci
spalancate
del
Grande
Rettile
Contemporaneo
alla
profonda
debolezza
di
carni
e
nervi
e
iridi
venuti
alla
luce
negli
anni
Quaranta)
qualcosa
di
determinante
nelle
menti
di
mio
padre
e
di
mia
madre
si
oscurava,
realizzando
al
contrario
l’intelligenza
–
luminosa,
coerente,
spietata
–
di
qualcos’altro.
«Vinci
un
viaggio
tra
i
leoni
|
con
il
Re
dei
gran
palloni!»,
disse
la
pubblicità.
Staccai
la
testa
dal
televisore
e
guardai
verso
la
finestra.
C’erano
i
campi
da
motocross
completamente
bui,
e
poi
le
luci
gialle
dei
condomini,
e
un
cartellone
di
una
luce
piú
vivida
e
piú
gialla
che
diceva:
«Mago
G».
E
in
lontananza,
sul
tetto
di
un
edificio
di
nuova
costruzione,
un
altro
cartellone
lampeggiante
dal
colore
blu
profondo,
il
richiamo
di
un
oceano
composto
di
pura
materia
stellare:
«Bankamericard.
Praticamente
piú
del
denaro».
Qualcuno
spense
la
televisione.
Andai
a
chiudermi
in
camera.
Mi
infilai
sotto
le
lenzuola
di
flanella
mentre
mamma
e
papà
entravano
e
uscivano
dal
bagno
dopo
aver
abbandonato
le
polemiche
a
una
silenziosa
opera
di
sfaldamento.
Presi
dal
comodino
la
mia
copia
di
«RanXerox»
e
iniziai
a
leggere.
Abbandonai
il
fumetto
e
spensi
l’abatjour.
Riaccesi
l’abat-jour.
Raccolsi
il
fumetto
e
continuai
da
dove
avevo
interrotto:
RanXerox
distruggeva
una
cabina
telefonica.
Poi,
strafatto
di
vinavil,
correva
a
liberare
la
dodicenne
Lubna
dalle
grinfie
di
un
maniaco
«trisessuale».
Scagliai
il
re
dei
fumetti
alternativi
contro
la
parete.
Spensi
l’abatjour.
Restai
tra
le
coperte,
nel
buio,
con
gli
occhi
spalancati.
Se
il
figlio
di
Di
Liso
poteva
essere
portato
come
esempio
per
la
riuscita
di
qualsivoglia
impresa
–
continuavo
a
pensare
senza
riuscire
a
prendere
sonno
–
allora
ogni
speranza
era
perduta,
visto
che
io
il
figlio
di
Di
Liso
stavo
imparando
a
conoscerlo
proprio
in
quei
giorni.
Avevo
la
disgrazia
di
frequentare
questo
ragazzo
di
una
magrezza
spaventosa,
di
una
spigolosità
nevrotica,
con
i
suoi
pantaloni
di
velluto
e
una
zazzera
di
capelli
giallo
sporco
sopra
la
gigantesca
montatura
degli
occhiali
da
presbite
che
suo
padre
doveva
avergli
imposto
scambiandoli
per
un
oggetto
di
sicura
distinzione.
Mentre
no,
erano
occhiali
impossibili
–
il
tipico
modello
che
a
due
settimane
dalla
commercializzazione
risulta
bizzarro,
due
mesi
dopo
è
ridicolo,
dieci
anni
dopo
diventa
un
motivo
di
vergogna
per
chi
l’ha
posseduto.
Daniele
Di
Liso:
questo
il
nome
del
figlio
del
direttore
di
banca,
la
testimonianza
vivente
dei
miei
problemi
nel
1985.
Daniele Di Liso
DanieleDiLisoDanieleDi
Liso…
continuai
a
ripetermi
friggendo
dal
nervoso
mentre
i
miei
dormivano
nella
stanza
matrimoniale.
Com’era
cominciata?
In
un
piovoso
pomeriggio
della
settimana
prima,
mio
padre
era
venuto
a
prendermi
a
catechismo.
I
pini
della
parrocchia
di
Sant’Andrea
erano
circondati
dalla
sfocata
luminescenza
dell’acqua.
Lo
scroscio
si
raccoglieva
sul
terreno
moltiplicandosi
in
tanti
rigagnoli
che
trascinavano
tappi
di
bottiglia
e
mozziconi
di
sigaretta
fino
alla
piccola
tettoia
dove
avevo
trovato
riparo.
Il
denso
manto
grigio
a
cui
si
riduceva
il
campo
visivo
diventò
un
velo
trasparente
contro
due
soli
accesi.
Venne
squarciato
dal
muso
del
Fiorino.
In
macchina,
mio
padre
guardava
nervosamente
l’orologio.
Poi
me,
e
poi
di
nuovo
l’orologio.
Approfittando
di
un
semaforo
rosso
per
ritardare
volontariamente
la
frenata,
inchiodò
all’ultimo
momento
battendosi
una
mano
sulla
fronte:
«Di
Liso!
Porcaputtana!
Mi
sono
dimenticato
di
Di
Liso!»
Affondò
il
piede
sull’acceleratore
e
fece
inversione
a
U.
Senza
aspettare
che
mi
risistemassi
sul
sedile,
spiegò
con
aria
drammatica
che
aveva
appuntamento
con
Di
Liso
per
affrontare
delicate
strategie
di
finanziamento
aziendale
al
riparo
da
orecchie
indiscrete.
A
questo
punto
–
mondato
ai
propri
occhi
dalla
simulazione
dell’imprevisto
–,
invece
di
accompagnarmi
a
casa
trovò
piú
pratico
dirottarmi
insieme
a
lui
verso
l’appartamento
del
direttore
di
banca.
«Piacere,
sono
Daniele…»
Fu
cosí
che
mi
trovai
faccia
a
faccia
con
un
ragazzo
corroso
da
un
metabolismo
la
cui
velocità
doveva
essere
tripla
o
quadrupla
rispetto
a
quella
di
un
quattordicenne
in
normale
stato
di
salute.
Subito
dopo
le
presentazioni,
infilò
le
mani
nelle
tasche
dei
pantaloni.
Faceva
finta
di
studiarmi
per
capire
se
gli
fossi
o
meno
antipatico.
Disse:
«Conosci
gli
sviluppatori
di
software
dell’Imagic?»
Superato
questo
inutile
esame,
mi
invitò
a
seguirlo
nella
sua
stanza.
Raccolse
da
una
pila
di
giornali
l’ultimo
numero
della
rivista
«Video
Giochi»
e
cominciò
a
sfogliarla
su
uno
dei
due
letti
gemelli
allineati
di
fronte
alla
finestra
–
e
la
presenza
del
secondo
letto
era
drammatica,
capii
man
mano
che
iniziammo
a
frequentarci:
Daniele
era
figlio
unico
proprio
come
me,
e
dunque
si
sforzava
di
invertire
agli
occhi
del
mondo
il
nesso
tra
solitudine
e
autarchia,
ma
questo
secondo
letto,
sempre
perfettamente
rifatto,
era
un
grido
di
aiuto
scolpito
nel
frassino
e
rivestito
di
piuma
d’oca.
Trovò
la
pagina
che
gli
interessava
e
me
la
mostrò:
97 175 punti,
Marco
Zambroni,
Bologna.
«È
questo
il
record
da
battere»,
dichiarò
sistemandosi
gli
occhiali
sulle
pinne
del
naso.
Dracula
era
il
nuovo
videogioco
che
l’Imagic
aveva
«sviluppato»
per
l’Intellivision.
«L’Imagic,
attenzione,
non
la
Mattel»,
precisò:
la
Mattel
aveva
progettato
l’hardware
come
io
certamente
sapevo,
ma
i
giochi
della
Mattel
erano
«fesserie»,
e
dal
momento
che
Dracula
era
il
videogioco
«piú
evoluto»
dell’Imagic,
questa
«cazzutissima»
software
house
di
Solvang
(California),
allora
Marco
Zambroni
era
l’uomo
da
sfidare
per
vincere
degnamente
un
abbonamento
alla
rivista.
Parlava
come
se
essere
aggiornati
su
questi
aspetti
della
vita
fosse
l’unica
garanzia
per
la
sopravvivenza
emotiva
della
specie.
«Prendi
quella»,
disse
indicando
una
Polaroid
abbandonata
sul
vano
della
finestra.
Collegò
l’Intellivision
al
piccolo
televisore
incastrato
tra
le
ante
dell’armadio
e
mi
pregò
di
osservarlo
giocare,
e
di
imparare
in
fretta
perché
dopo
cinque
o
sei
partite
«dovrai
provare
a
farne
una
tu».
E
soprattutto
mi
chiese
di
tenermi
pronto
con
la
macchina
fotografica
nel
caso
avesse
infranto
la
soglia
dei
98
000
punti.
Mio
padre
e
Di
Liso
bevevano
cognac
in
soggiorno.
Io
osservavo
questo
sconosciuto
smanettare
su
un
disco
direzionale
come
se
si
trovasse
davvero
tra
la
vita
e
la
morte.
Nelle
settimane
successive,
mio
padre
mi
portò
sempre
piú
spesso
dai
Di
Liso.
Un
sabato
sera,
attraversando
la
città,
guidò
in
uno
stato
d’animo
pericolosamente
vicino
all’entusiasmo
–
sorpassi
a
pelo
di
carrozzeria,
inutili
destra-sinistra
in
prossimità
delle
isole
pedonali
per
il
terrore
dei
passanti.
Mentre
guidava,
non
la
smetteva
di
fare
l’elogio
di
Daniele
(«Oh,
lui
è
un
ragazzino
di
rara
intelligenza…»
«E
com’è,
com’è
che
si
chiamano?»
«Eh
appunto,
le
olimpiadi
della
matematica:
lo
scorso
anno
mi
sa
che
si
è
piazzato
primo
alle
selezioni
regionali…»)
Questo
peana
–
che
io
seguii
senza
dargli
la
soddisfazione
di
un
minimo
cenno
del
capo
–
venne
intonato
sulle
onde
di
uno
strano
pilota
automatico.
Quando
di
punto
in
bianco
passò
a
Di
Liso
senior,
allora
sembrò
metterci
del
vero
impegno:
«Pasquale,
Pasquale…
–
confidò
bonariamente
allo
specchio
retrovisore
–
…
quel
figlio
di
puttana
sarebbe
capace
di
vendere
un
fondo
di
investimento
a
chi
l’ha
emesso…»
Il
padre
di
Daniele
stava
facendo
insomma
un
lavoro
tanto
buono
giú
in
filiale
che
presto
sarebbe
arrivato
il
momento
di
una
promozione.
«Non
possono
negargliela!»
considerò
papà
con
risentimento
mentre
cercava
parcheggio.
Fu
l’unica
parentesi
di
lucidità.
Superata
la
soglia
di
questo
appartamento
dai
pavimenti
sempre
lustri,
mi
mollò
nella
stanza
di
Daniele
e
si
chiuse
in
soggiorno
con
Di
Liso
per
due
lunghissime
ore.
Dopo
quello
che
doveva
essere
stato
l’ennesimo
tentativo
di
persuasione
(«Guarda
che
non
sono
mica
il
proprietario
della
banca!»
sentii
urlare
Di
Liso
piú
di
una
volta,
poi
entrambi
scoppiavano
a
ridere…),
mio
padre,
acceso
dall’ispirazione,
si
ritrovò
nel
lungo
spazio
vuoto
del
corridoio.
In
quel
momento
io
ero
in
bagno.
Ci
separavano
i
dieci
centimetri
di
un
piccolo
tramezzo.
Dedussi
che
stava
raccogliendo
l’apparecchio
telefonico
e
ne
ebbi
la
conferma
quando
disse:
«Allora,
noi
siamo
qui…»
con
il
tono
che
usava
con
mia
madre
per
le
conversazioni
di
routine.
«Sí,
tra
una
mezz’ora,
–
aggiunse,
–
il
tempo
di…»,
e
poi
la
sua
voce
acquistò
una
cascante
indolenza
da
seduttore.
Appoggiai
l’orecchio
destro
sul
tramezzo.
Lo
ascoltai
mentre
diceva
che
era
vero,
avevo
dimenticato
i
libri
a
casa,
però
«che
diamine!»,
di
tanto
in
tanto
si
poteva
cedere
a
qualche
mio
piccolo
capriccio,
no?
Sentii
i
suoi
passi
allontanarsi
e
uscii
dal
bagno
in
uno
stato
di
leggero
stordimento.
Cinque
minuti
dopo,
Daniele
si
trasformava
in
pipistrello
e
poi
nei
grossi
poligoni
monocromatici
che
secondo
gli
ingegneri
dell’Imagic
avrebbero
dovuto
rappresentare
il
conte
Dracula.
Il
rumore
dei
passi
lungo
il
corridoio
raddoppiò.
Mio
padre
e
Di
Liso
fecero
ingresso
nella
stanza
interrompendo
la
partita.
Pensai:
Bene, ora
cisiamo…
Erano
entrambi
sorridenti.
Sembravano
tornati
da
una
battuta
di
caccia
con
interi
stormi
di
fagiani
impallinati
e
già
messi
in
ghiacciaia.
Mio
padre
confermò
tutto
orgoglioso:
«Allora
anche
la
mamma
è
d’accordo,
puoi
fermarti
a
dormire
qui».
Guardava
me,
ma
era
rivolto
a
tutto
l’uditorio
perché
anche
per
Di
Liso
e
per
Daniele
fosse
inequivocabile
il
mio
desiderio
di
passare
la
notte
a
casa
loro.
Per
liberarmi
dalla
trappola
avrei
dovuto
spiegare
a
Daniele
che
non
avevo
niente
contro
di
lui
ma
preferivo
dormire
a
casa
mia,
alla
mamma
che
preferivo
per
una
volta
i
libri
alle
fatiche
del
gioco,
e
soprattutto
mi
sarebbe
servito
un
lettino
in
pelle
nera
dentro
uno
studio
con
affaccio
sul
Prater
per
far
capire
a
mio
padre
che
i
suoi
comportamenti
erano
la
traduzione
di
brame
inconfessabili
eseguita
su
un
vocabolario
in
cui
ogni
lemma
proveniente
dal
subconscio
era
disastrosamente
rovesciato
–
mi
bastava
seguire
la
danza
delle
sue
zampe
di
gallina
intorno
agli
occhi
per
capire
che
adesso
era
davvero
convinto
che
volessi
rimanere
a
dormire
lí;
qualcosa
in
lui
aveva
scrupolosamente
lavorato
sin
dal
tardo
pomeriggio
per
trasformare
la
malafede
in
autoinganno
(che
cos’erano
state,
quelle
gimcane
automobilistiche,
se
non
il
pendolino
oscillante
davanti
alle
sue
palpebre
sempre
piú
pesanti?)
E
proprio
la
forza
di
un’innocenza
ritrovata
scavando
sul
lato
sbagliato
del
tunnel
gli
consentiva
di
coinvolgere
un
numero
crescente
di
persone
in
un
desiderio
che
non
avevo
mai
manifestato:
il
direttore
di
banca
annuiva
soddisfatto,
Daniele
era
già
pronto
a
mettermi
a
disposizione
uno
dei
suoi
pigiami…
Provai
a
isolarmi
mentalmente
dal
resto
del
gruppo.
Chiamai
a
raccolta
tutte
le
mie
forze
perché
l’amore
della
verità
mi
facesse
superare
l’imbarazzo
per
la
delusione
che
avrebbe
crepato
tutti
i
sorrisi
presenti
in
quella
stanza.
Ma
poi
mi
sentii
uscire
dalla
bocca:
«Certo,
rimango
qui…»
con
le
labbra
deformate
in
una
gaia,
infantile,
assolutamente
falsa
espressione
di
sollievo,
come
davvero
volessi
ringraziare
papà
per
aver
realizzato
il
mio
sogno
del
sabato
sera.
Sconfitto,
demoralizzato,
tradito
da
me
stesso,
mi
vidi
accompagnarlo
fino
alla
porta
d’ingresso.
Salutò
me,
Daniele,
e
infine
il
direttore
di
banca.
Sparí
nella
scatola
di
latta
dell’ascensore.
Giocammo
ancora
con
l’Intellivision.
Poi
andammo
a
letto.
Daniele
raccolse
dal
comodino
un
grosso
libro
di
Stephen
King
e
cominciò
a
sfogliarlo.
Gli
chiesi
se
aveva
dei
fumetti
e
mi
passò
un
Topolino.
La
storia
del
Dottor Paperus contro i
saraceni
mi
sembrò
di
una
semplicità
quasi
umiliante.
Daniele
spense
la
luce
e
ogni
cosa
piombò
nel
silenzio.
Rimasi
per
un
po’
a
soppesare
il
buio
della
stanza
sconosciuta.
Chiusi
e
riaprii
gli
occhi.
Mi
rigirai
tra
le
coperte
e
mi
trovai
a
tu
per
tu
con
il
corpo
addormentato
di
mio
padre.
Chiesi:
«Che
ci
fai
ancora
qui?»
Papà
si
stiracchiò,
fece
uno
sbadiglio:
«Vedi
che
avevo
ragione?»,
disse.
Cosí
ci
alzammo
dal
letto
sentendo
sotto
i
piedi
la
consistenza
dell’erba
bagnata,
e
poi
guardammo
il
sole
sorgere
dietro
la
collina
dove
eravamo
esiliati
da
sempre.
Iniziammo
a
camminare
mano
nella
mano
sulla
pendice
punteggiata
da
pochi
anemoni,
sovrastati
da
un
astro
di
rovente
e
interminabile
consanguineità
che
diventava
sempre
piú
caldo,
insopportabile…
Mi
risvegliai
alle
nove
del
mattino.
Il
letto
accanto
era
occupato
da
un
magro
infossamento,
e
tra
il
rumore
di
campane
che
fino
a
poco
prima
riecheggiava
anche
tra
le
bolge
del
mio
sogno
sentii
la
voce
di
Daniele
che
mi
chiamava
per
la
colazione.
L’inverno
passò
sulle
campagne
annichilendo
il
cavolo
e
il
finocchio,
e
accarezzò
la
città
quel
tanto
che
bastava
perché
i
cappotti
delle
madri
di
famiglia
si
trasformassero
in
pellicce
di
visone
a
spasso
tra
le
boutique
del
centro
–
adesso
era
tornato
il
caldo,
ma
le
commesse
rischiavano
come
al
solito
le
convulsioni
a
furia
di
battere
scontrini.
A
molte
strade
da
questi
templi
del
commercio,
Daniele
mi
salutava
con
una
rigida
stretta
di
mano
e
mi
portava
nella
sua
stanza
insieme
a
una
bottiglia
di
aranciata.
Ci
aspettava
una
partita
a
RisiKo
o
all’Allegro
Chirurgo.
Dopo
il
fastidio
iniziale,
provavo
per
Daniele
uno
strano
attaccamento
che
nasceva
dalla
sfida:
se
quell’appartamento
era
stato
il
luogo
della
mia
colpevole
disfatta,
doveva
diventare
il
campo
sul
quale
guadagnarsi
una
rivincita
nei
confronti
di
mio
padre.
Ma
anche
Daniele,
pur
trascorrendo
quasi
tutto
il
tempo
libero
con
me,
sembrava
assorbito
da
una
lunga
e
sanguinosa
prova
in
cui
c’entravo
poco.
Via
via
che
sbaragliava
le
mie
truppe
spostando
carri
armati
dalla
Mongolia
alla
penisola
di
Kamchatka,
sembrava
divorato
da
un’inquietudine
che
non
era
l’ansia
di
sconfiggermi;
lo
guardavo
emergere
da
ogni
vittoria
come
da
uno
scampato
pericolo,
le
pupille
dilatate
attraverso
le
lenti
degli
occhiali,
come
se
i
videogiochi,
i
giochi
da
tavolo,
ma
anche
gli
«eccellente»
che
collezionava
a
scuola
affrontando
la
matematica
con
una
concentrazione
da
pistola
alla
tempia
(nella
sua
classe
i
compagni
lo
chiamavano
«genio»,
non
si
stancava
di
ricordarmi
provando
a
controllare
una
crisi
della
voce
che
svelava
l’atroce
ironia
da
cui
l’epiteto
doveva
essere
circondato)
fossero
l’unico
strumento
a
sua
disposizione
per
sostenere
una
minaccia
che
si
muoveva
su
territori
completamente
diversi.
Cristina
Di
Liso,
la
mamma
di
Daniele:
non
c’era…
A
un
certo
punto
misi
a
fuoco
il
problema.
Lo
feci
con
la
prontezza
di
un
minorato,
o
meglio
al
culmine
dell’ottundimento
che
porta
i
cani
e
i
gatti
ad
archiviare
la
morte
di
un’abitudine
con
settimane,
a
volte
anche
con
mesi
di
ritardo
rispetto
a
quando
il
telefono
ha
squillato
e
uno
dei
proprietari
della
casa
ha
cominciato
a
urlare
sbattendosi
la
cornetta
sulla
fronte.
Subito
dopo
pranzo,
sempre
di
domenica,
eravamo
io
e
lui
da
soli,
seduti
nel
soggiorno.
Avevo
nel
piatto
questo
dolce
dalla
consistenza
perfetta.
Affondai
il
cucchiaio
nello
zucchero
fuso
e
dissi:
«Mia
madre
sbaglia
puntualmente
le
dosi.
I
suoi
budini
sembrano
merde
sciolte.
Per
favore,
fai
i
complimenti
a…»
Mi
azzittii
all’istante.
Tutto
ciò
che
era
sempre
stato
tra
le
pareti
di
quella
casa
iniziò
a
venirmi
addosso:
sentii
un
colpo
invisibile,
poi
sentii
qualcosa
ritrarsi
con
violenza.
«Che
cosa
hai
detto?»
chiesi
a
Daniele
dopo
alcuni
istanti
di
panico
assoluto.
«Preconfezionato,
–
ripeté
lui
a
voce
bassa
–
…
l’abbiamo
preso
al
supermercato».
La
mamma
di
Daniele,
impiegata
di
I
livello
al
Policlinico
con
diploma
regionale
in
scienze
infermieristiche,
aveva
scaricato
Di
Liso
già
da
parecchi
mesi.
Sedici
anni
di
convivenza
le
avevano
donato
la
facoltà
di
far
svanire
in
meno
di
un
quarto
d’ora
il
proprio
guardaroba
dentro
uno
sfilacciato
borsone
da
tennis
e
–
nel
giro
di
una
settimana
–
il
coraggio
per
trasferirsi
al
sesto
piano
di
un
palazzo
spoglio
e
grigio,
collocato
in
uno
dei
grandi
quartieri
dormitorio
difficilmente
raggiungibili
perfino
dalla
nostra
fantasia.
A
differenza
di
ciò
che
succedeva
quasi
sempre,
Daniele
era
stato
affidato
al
genitore
maschio.
Forse
per
sua
scelta,
o
per
qualcosa
di
irriferibile
che
riguardava
la
condotta
di
sua
madre.
A
ogni
modo,
i
miei
non
ne
avevano
mai
fatto
parola:
frequentavo
i
Di
Liso,
trascorrevo
pomeriggi
notti
domeniche
mattine
in
casa
loro,
e
nessuno
aveva
mai
sprecato
una
sillaba
per
sottotitolare
il
gigantesco
labiale
con
cui
anche
i
muri
testimoniavano
l’assenza
della
mamma
di
Daniele.
Per
mio
padre
credo
fosse
una
faccenda
di
sospensione
d’incredulità.
Ammettere
che
Di
Liso
era
stato
piantato
in
quel
modo
avrebbe
offuscato
l’immagine
vincente
che
papà
continuava
a
cucirgli
addosso,
un
professionista
la
cui
vicinanza
trasmetteva
il
contagio
dell’avanzamento
sociale
previo
credito
agevolato.
Il
fatto
poi
che
la
signora
Di
Liso
fosse
ricorsa
all’edilizia
di
Japigia
pur
di
non
trascorrere
un
altro
semplice
minuto
in
compagnia
di
suo
marito
(abitazioni
solitamente
ventilate
da
disastri
fognari
attraverso
il
cartone
pressato
dei
muri
portanti)
dimostrava
qualcosa
a
proposito
della
dignità
che
forse
mio
padre
condivideva
nel
profondo
del
cuore:
portarla
alla
luce
avrebbe
però
rischiato
di
rendere
problematica
una
scalata
che
solo
l’assenza
di
rovelli
filosofici
poteva
far
sembrare
tutta
in
discesa.
Anche
la
mamma
non
nominava
mai
la
moglie
di
Di
Liso
in
mia
presenza.
La
separazione
dei
genitori
di
Daniele
mi
si
mostrò
nella
sua
vergogna:
non
per
quel
che
era,
ma
per
come
il
silenzio
dei
miei
iniziava
a
sfigurarla.
A
questo
si
aggiungeva
la
mia
incapacità
di
affrontare
l’argomento.
Era
come
se
sapessi
e,
contemporaneamente,
nonsapessi.
Un
sabato
pomeriggio,
telefonai
a
Daniele.
Ero
rimasto
in
casa
tutto
il
giorno,
e
la
televisione
parlava
del
disgelo
tra
Stati
Uniti
e
Orso
Rosso
con
una
tale
monotona
insistenza
che
una
partita
a
RisiKo
mi
sembrò
l’unico
modo
per
venirne
fuori.
Lui
mi
rispose
con
un
tono
di
strozzata
diplomazia:
«Mi.
Dispiace.
Ma
non.
Posso.
Mia.
Madre.
Mi
porta
al.
Cinema.
Per
il.
Ehm…
Weekend».
Era
chiaro
che
la
proiezione
de
La mia Africa
non
poteva
durare
quarantott’ore.
Daniele
mi
stava
sottilmente
comunicando
che
avrebbe
trascorso
il
fine
settimana
da
sua
madre,
una
trasferta
negli
altiforni
cittadini
in
cui
non
si
sarebbe
sognato
di
invitare
nessuno
dei
suoi
amici
per
timore
che
potessero
restare
scandalizzati
dalle
immense
piste
d’atterraggio
piene
di
crateri
su
cui
nasceva
e
tramontava
quella
metà
di
mondo.
Ma
a
me,
ame
adesso,
seppure
tremando
come
una
foglia,
stava
offrendo
finalmente
una
parziale
verità:
aspettava
che
completassi
l’opera
squarciando
i
fragili
tendoni
della
sala
cinematografica
da
cui
era
nascosta.
Ma
io
mi
limitai
a
rispondere:
«Ok,
d’accordo,
allora
ci
sentiamo
lunedí».
Non
riuscivo
a
domandargli
di
sua
madre.
Daniele,
imbarazzato
dal
mio
imbarazzo,
era
incapace
a
propria
volta
di
parlarmene.
Eravamo
bloccati
da
forze
di
cui
fino
a
quel
momento
ignoravo
l’esistenza.
Il
disonore
da
cui
avrei
dovuto
riscattarmi
non
era
niente
rispetto
alle
ombre
che
si
stavano
allungando
sulle
nostre
giornate.
Passarono
altre
settimane.
Quando
eravamo
insieme,
io
e
Daniele
vivevamo
sepolti
nella
sua
stanza.
Al
momento
di
andare
in
bagno,
per
esempio
(cosa
che
facevamo
soltanto
dopo
i
primi
crampi
alla
vescica),
stavamo
molto
attenti
a
usare
quello
di
servizio,
perché
il
grande
bagno
con
vasca
idromassaggio
era
adiacente
alla
cucina
e
fronteggiava
il
soggiorno
–
e
il
soggiorno
e
la
cucina,
nel
loro
maniacale
e
desertico
lindore,
erano
la
piú
tangibile
dimostrazione
della
mancanza
di
una
donna
adulta
a
ravvivarlo.
Ciò
nonostante,
mi
sentivo
sempre
a
un
passo
dalla
frase
che
avrebbe
sciolto
la
tensione.
Lui
mi
guardava
e
deglutiva.
Io
rimandavo
la
soluzione
del
problema
all’indomani.
E
poi,
in
un
giorno
di
questi
giorni,
la
Realtà
decise
di
stanarci.
Insieme,
sempre
insieme…
divisi
dal
paziente
di
cartone
a
cui
stavo
cercando
di
estrarre
con
cautela
l’osso
del
desiderio,
fummo
interrotti
dal
suono
del
citofono.
Gli
occhi
di
Daniele
si
riempirono
di
panico.
Sua
madre
era
in
anticipo
di
un
quarto
d’ora
sul
loro
appuntamento,
mandando
a
rotoli
il
delicato
gioco
di
incastri
cronologici
a
cui
Daniele
si
era
affidato
–
«Ci
vediamo
alle
sei
meno
venti.
Per… piacere»,
le
aveva
detto
dopo
essersi
assicurato
che
alle
cinque
e
mezzo
sarei
stato
costretto
a
lasciarlo
per
andare
in
palestra.
Quando
veniva
a
prendere
Daniele,
la
ex
signora
Di
Liso
non
oltrepassava
mai
il
confine
della
porta
d’ingresso.
Preferiva
limitare
ai
tabulati
telefonici
i
litigi
furiosi
che
ancora
scoppiavano
tra
lei
e
il
direttore
di
banca,
e
aspettava
di
solito
suo
figlio
tra
gli
schiamazzi
del
traffico
giú
in
strada.
Daniele
riagganciò
la
cornetta
del
citofono.
Tornò
in
camera
e
proferí
un
debolissimo:
«Ora
bisogna
andare».
Si
avviò
verso
la
porta
d’ingresso
senza
dire
una
parola
e
scese
insieme
a
me
le
scale
del
condominio,
un
passo
dopo
l’altro,
come
se
indugiare
sulle
rampe
potesse
ritardare
il
trascorrere
del
tempo.
Si
domandava
probabilmente
con
angoscia
se
avessi
compreso
la
situazione,
e
poi
dovette
essere
colto
dal
terribile
sospetto
che
io
stessi
capendo
solo in
quel preciso istante
–
il
pallore
del
suo
volto
fu
invaso
da
un
tumultuoso
afflusso
di
sangue
che
si
raccolse
intorno
alle
orecchie,
arroventandole
e
facendole
vibrare.
Avrei
voluto
mettergli
una
mano
sulla
spalla.
Ma
appena
uscimmo
dal
portone
lui
allungò
il
passo.
Disse
un
«ciao»
che
sarebbe
voluto
essere
un
normale
atto
di
commiato,
ma
venne
fuori
tra
il
telegrafico
e
il
grottesco.
Poi
si
lanciò
verso
la
strada,
diretto
verso
sua
madre
che
lo
aspettava
con
una
A112
parcheggiata
in
doppia
fila,
questa
donna
di
cui
avrei
dovuto
chiedergli
da
tempo
ma
che,
sprecate
tutte
le
occasioni,
sarebbe
forse
stato
meglio
non
incontrare
piú.
Invece,
a
dispetto
delle
nostre
manovre,
adesso
la
vedevo
–
una
figura
magra,
non
piú
alta
di
un
metro
e
sessanta,
con
un
caschetto
simile
alla
spugna
di
un’imbottitura
e
un
naso
affilato
su
labbra
ancora
piú
sottili,
e
un
piumino
senza
maniche
adagiato
insieme
a
lei
sullo
sportello
di
un’utilitaria
ammaccata
in
vari
punti,
e
lo
sguardo…
uno
sguardo
che
era
la
spenta
testimonianza
di
ciò
che
resta
degli
scatti
d’orgoglio
quando
si
infrangono
contro
uno
stock
di
merce
di
seconda
mano
lasciando
a
terra
polvere,
vestiti
rattoppati
e
tristi
paralumi
da
privé
sotto
sequestro.
Ed
era
verso
di
lei
che
ora
Daniele
avanzava
in
stato
catatonico,
insultato
dai
conducenti
d’autobus
e
dai
motociclisti
che
se
lo
ritrovavano
davanti
all’improvviso.
Prima
che
la
donna
potesse
andargli
incontro,
alzò
la
mano
con
un
rigido
gesto
di
servizio
che
si
sforzava
di
prosciugare
ogni
istinto
filiale,
sapendo
di
essere
ancora
sotto
il
mio
sguardo
e
sotto
il
tiro
di
suo
padre,
che
assisteva
alla
scena
affacciato
sul
balcone
con
le
braccia
conserte
–
e
tutto
il
mondo,
il
mondo
intero
adesso
lo
guardava,
ed
esprimeva
sbadigliando
il
suo
implacabile
giudizio
mentre
lui,
Daniele,
provava
a
mantenersi
saldo
sulle
gambe
in
un’isola
di
asfalto,
gas
di
scarico,
strazio
e
solitudine
assoluta.
Quel
giorno,
in
palestra,
eseguii
gli
esercizi
della
ginnastica
correttiva
come
mai
avevo
fatto
prima,
continuando
a
domandarmi
con
angoscia
se
fossi
solo
un
vigliacco
come
tanti.
Speravo
che
lo
sforzo
fisico
mi
impedisse
di
pensarci.
Ma
a
ogni
giro
del
circuito
con
la
palla
medica
sentivo
che
il
mio
legame
con
Daniele
andava
stringendosi
proprio
intorno
al
nodo
dei
problemi
irrisolti:
piú
non
ne
venivo
a
capo,
piú
me
ne
sentivo
attratto.
E
ancora
sbarre
e
trapezi
e
piegamenti
sulle
gambe…
Dopo
il
pomeriggio
in
cui
incontrai
per
un
momento
gli
occhi
di
sua
madre,
io
e
Daniele
continuammo
a
vederci
senza
parlare
mai
dell’accaduto.
Era
come
se
ci
fosse
un
morto
in
casa
e
noi
vegliassimo
su
un
grande
cofano
di
mogano
facendo
finta
di
niente.
Toccò
a
Pasquale
Di
Liso
peggiorare
la
situazione.
Il
direttore
di
banca
non
aveva
molto
a
che
fare
con
il
sardonico
personaggio
che
in
ufficio
maneggiava
i
rubinetti
del
dare
e
dell’avere.
Tra
le
pareti
domestiche,
i
sorrisi
professionali
regredivano
a
un
ghigno
obliquo
e
gorgogliante.
Non
riusciva
a
darsi
pace
per
l’abbandono
del
tetto
coniugale
che
lo
obbligava
a
presentarsi
da
solo
alle
cene
di
rappresentanza:
odiava
la
sua
ex
moglie,
se
ne
sentiva
danneggiato
–
una
di
quelle
persone,
Di
Liso,
convinte
di
essere
sempre
la
prima
scelta
sul
mercato,
quindi
capaci
di
augurare
il
peggio
a
chi
rischia
di
mandare
per
aria
il
delicato
origami
del
mondo
che
si
sono
fabbricati
pur
di
darsi
un’importanza.
Non
potendo
condividere
con
i
suoi
pari
questi
disturbi
della
personalità,
scendeva
pure
lui
nel
Kindergarten.
Un
sabato
sera,
sul
tardi,
tornò
a
casa
dopo
una
cena
con
i
colleghi.
Fece
il
suo
ingresso
nella
stanza
di
Daniele
già
libero
dalle
bretelle:
«Ehi
campioni,
come
butta?»
Si
allentò
il
collo
della
camicia,
chiese
se
qualcuno
lo
aveva
cercato
e
Daniele
recitò
a
memoria
la
lista
delle
chiamate.
Raccolse
un
quotidiano
dalla
piccola
emeroteca
che
suo
figlio
andava
pazientemente
costruendo
grazie
all’edicola
sotto
casa.
Sfogliò
il
giornale
con
disinvoltura:
«Questo
Desmond
Tutu
è
proprio
un
gran
pagliaccio
figlio
di
puttana,
o
mi
sbaglio
ragazzi?»,
domandò
a
bruciapelo
con
le
pupille
scintillanti.
Daniele
annuí
con
compunzione
e
io,
pur
intuendo
di
cosa
stessimo
parlando,
feci
lo
stesso,
perché
nell’aria
c’era
adesso
una
violenza
inesprimibile
che
prometteva
di
rimanere
allo
stato
latente
a
patto
che
ognuno
desse
ragione
all’altro.
Soddisfatto
della
nostra
partecipazione,
Di
Liso
continuò
a
divagare,
dagli
esteri
passò
alla
cronaca
della
sua
cena
di
lavoro
fino
a
quando
il
rampino
della
rivalsa
arpionò
l’argomento
del
night
club:
«Oh,
avreste
dovuto
esserci…»
A
un
certo
punto
piombammo
in
un
locale
dalle
luci
soffuse
popolato
da
donne
leopardo
accoccolate
sui
divani.
«Sapete,
–
disse
cercando
di
appropriarsi
della
nostra
complicità,
–
ci
sono
andato
subito
dopo
cena…»
Non
si
capiva
se
fosse
Bari
o
la
vecchia
Chicago
di
un
teatro
di
posa.
Ma
approfittò
della
nostra
ignoranza
in
materia
per
raccontarci
come
un
Dom
Pérignon
pagato
alla
rossa
in
lamé
del
tavolo
14
avesse
prodotto
un’immediata
fuga
a
due
censurata
sulla
soglia
di
una
camera
privata
(ci
teneva
a
passare
per
un
galantuomo).
Appagato
dall’ammutolimento
mio
e
di
Daniele,
decise
di
gettare
noccioline
anche
sulla
nostra
vanità:
«Le
nuove
generazioni…
che
cosa
cazzo
siete,
ragazzi
miei!
–
disse
indicando
le
carte
del
Trivial
Pursuit
a
cui
stavamo
giocando
prima
del
suo
arrivo,
–
con
tutto
quello
che
sapete
potreste
mandare
in
crisi
un
ingegnere
della
Nasa».
Ci
assicurò
che
molto
presto
Daniele
avrebbe
«rotto
il
culo
a
tutti»
tra
i
ghiacci
eterni
del
Töpffer.
«Ma
pure
tu…»,
mi
concesse
strizzando
l’occhio
con
una
ruga
di
stanchezza
nel
sorriso.
Quando
Di
Liso
gli
faceva
i
complimenti,
Daniele
era
pronto
ad
allargare
il
paniere
delle
sue
letture,
ad
assaltare
atlanti
e
volumi
enciclopedici
pur
di
essere
degno
delle
immagini
evocate
da
suo
padre.
Ma
le
blandizie
di
Di
Liso
seguivano
la
strategia
di
chi
è
disposto
a
farti
grandi
concessioni
solo
per
spostare
il
baricentro
del
discorso
fino
a
vederlo
coincidere
con
l’arbitrio
del
concedente.
La
settimana
dopo,
al
ritorno
da
una
delle
sue
discese
al
Cotton
Club,
per
la
prima
volta
davanti
ai
miei
occhi
avvenne
la
trasformazione:
Di
Lisosimpatico-affabulatore
cedette
il
posto
ad
Aguirre
il
sanguinario.
Entrò
in
stanza
sbattendo
la
porta.
Si
rivolse
a
Daniele
e
urlò:
«Testa
di
cazzo!
si
può
sapere
perché
non
hai
avviato
la
lavatrice?»
Daniele
scattò
in
piedi
in
preda
al
panico:
«Stavo
per
farlo!»
Il
direttore
guardò
implacabilmente
l’orologio:
«Non
dire
puttanate,
–
sibilò,
–
è
l’una
meno
venti
del
mattino…»
Tutto
era
accaduto
cosí
in
fretta
che
dovetti
ricostruire
lo
scambio
di
battute
per
capire
che
cosa
stesse
succedendo.
Ma
ero
già
in
ritardo
sulla
scena
successiva.
Di
Liso
si
avvicinò
al
corpo
inerte
di
suo
figlio
e
gli
urlò
in
faccia
che
ancora
una
volta
non
era
stato
ai
patti:
«Che
cosa
ci
eravamo
detti?
che
cosa
ci
eravamo
detti,
ioe
te?»
Gli
rinfacciò
senza
pietà
la
sua
condizione
di
ospite:
se
non
voleva
trasferirsi
da
sua
madre
nella
Terra
del
Degrado,
disse,
allora
doveva
rendersi
utile
con
le
faccende
domestiche
–
fare aderire la propria
sagoma al fantasma di
sua
madre,
pensai
agghiacciato,
e
da
questa
macabra
sovrapposizione
cambiare
le
federe
ai
cuscini,
scrostare
il
forno,
arieggiare
le
stanze…
tutte
cose
che
Daniele
aveva
sempre
fatto
nelle
pause
dei
nostri
giochi,
ma
a
cui
riuscivo
a
dare
la
vera
dimensione
solo
adesso
–,
e
usando
la
presunta
«ingratitudine»
di
Daniele
arrivò
a
dimostrare
come
suo
figlio
fosse
un
ragazzino
che
della
complicata
macchina
del
mondo
vedeva
solo
l’argento
sulla
carrozzeria,
e
che
il
mondo
avrebbe
ripagato
molto
presto
facendogli
ingrossare
l’immensa
stiva
dei
falliti.
«Un
coglione,
un
coglione!»
ripeté
passeggiando
senza
pace
da
un
capo
all’altro
della
stanza.
Ero
impietrito.
L’istantaneità
della
sfuriata
non
mi
aveva
lasciato
il
tempo
di
capire
neanche
che
faccia
avrei
dovuto
fare.
Il
litigio,
tra
l’altro,
aveva
trovato
cosí
pronti
sia
Daniele
che
suo
padre
da
far
pensare
che
uno
spettacolo
del
genere
era
andato
in
scena
molte
altre
volte.
Di
Liso
si
era
inoltre
sfogato
in
assoluta
libertà:
la
mia
presenza
non
lo
aveva
frenato.
In
qualche
modo
lui
sentiva
quanto
ormai
fossi
compromesso
nel
mio
rapporto
con
suo
figlio…
come
se
avesse
udito
il
clic
che
era
scattato
nella
parte
fragile
della
mia
mente
il
pomeriggio
in
cui
avevo
lasciato
correre
Daniele
verso
sua
madre
senza
dirgli
una
parola.
Mettendomi
a
letto
riflettei
sul
fatto
che
Daniele,
un
attimo
prima
di
dire
«stavo
per
farlo!»
a
proposito
della
lavatrice,
aveva
dato
la
sensazione
di
sapere
che
una
scusa
tanto
idiota
era
il
meglio
che
suo
padre
potesse
chiedere
per
farlo
a
pezzi.
Eppure,
si
era
lasciato
sfuggire
ugualmente
quelle
parole
di
bocca.
Anche
lui
era
sotto
le
lenzuola.
Leggeva
il
suo
libro
di
Stephen
King
come
se
niente
fosse.
Domenica
mattina,
nell’auto
che
mi
riportava
a
casa,
separati
dalla
voce
del
radiogiornale
che
parlava
della
Juventus
finalista
in
Coppa
dei
campioni,
mi
domandai
come
era
possibile
che
mio
padre
non
si
rendesse
conto
di
che
persona
era
Di
Liso
e
in
quale
tipo
di
manicomio
venivo
serenamente
parcheggiato.
Rallentammo
davanti
a
un
capannello
di
curiosi
che
circondava
il
lungo
profilo
di
una
Jaguar
XJ-S
color
verde
smeraldo.
Oh,
se
ne
rendeva
conto
molto
bene.
Poi
c’era
il
terzo
della
compagnia
del
disastro…
A
partire
dai
primi
di
maggio,
il
suono
del
citofono
iniziò
a
riecheggiare
ogni
sera
alle
otto
in
punto
tra
le
pareti
della
casa
dei
Di
Liso.
«Deve
essere
quell’imbecille
di
Mimmo»,
diceva
Daniele
correndo
verso
il
corridoio.
In
due
minuti
si
presentava
ai
nostri
sguardi
un
ragazzo
con
i
capelli
da
mustelide,
troppo
decorosi
e
fuori
moda
e
comunque
sempre
troppo
corti
o
troppo
lunghi
per
non
essere
tagliati
in
casa
da
un
adulto
con
gravi
problemi
di
concentrazione.
Era
Mimmo
Pavone,
un
tredicenne
paffuto
che
faceva
dell’inoffensività
la
sua
bandiera
e
la
frusta
di
chiunque,
praticamente
l’unico
coetaneo
che
Daniele
frequentava
a
parte
me.
I
suoi
genitori
erano
stati
consegnati
(terza
volta
in
due
anni)
a
un
centro
di
recupero
per
alcolisti.
Mimmo
si
attaccava
al
campanello
dopo
avere
trascorso
il
pomeriggio
a
fingere
di
fare
i
compiti
nella
cartoleria
dei
vecchi
zii
(un
signore
curvo
e
taciturno
che
alla
richiesta
«una
penna
Snappy»
scrollava
le
spalle
invitando
i
clienti
a
frugare
tra
la
merce
abbandonata
sulle
mensole,
e
un’anziana
signora
a
rischio
di
trombosi
che,
lentissima
nelle
sue
calze
contenitive,
ricontava
almeno
cinque
volte
l’incasso
della
giornata
prima
di
svuotare
il
registratore
di
cassa).
Dopo
avere
passato
delle
ore
sulla
caduta
dell’Impero
romano
senza
leggere
una
riga,
Mimmo
faceva
il
suo
ingresso
nella
casa
dei
Di
Liso:
sulla
bandiera
issata
del
suo
sorriso
senza
condizioni
ci
riconoscevamo
come
l’unica
alternativa
all’ingrigita
fatiscenza
della
cartoleria,
e
dunque
il
meglio
che
potesse
chiedere
alla
vita.
La
prima
volta
che
lo
vidi,
venne
accolto
da
Daniele
con
la
cura
e
il
rimprovero
preventivo
che
si
potrebbero
riservare
a
un
animale
domestico:
«Che
fai
lí
come
uno
scemo?
ti
vuoi
decidere
a
entrare?»
Scivolammo
sul
campo
minato
del
soggiorno
e
andammo
a
chiuderci
nella
stanza
di
Daniele,
dove
la
partita
a
RisiKo
che
stavamo
disputando
fu
dichiarata
nulla.
Vennero
distribuite
le
carte
e
le
pedine
anche
per
il
nuovo
ospite.
Solo
che
Mimmo
era
un
caso
disperato.
Rimaneva
interdetto
con
i
dadi
nella
mano.
Al
primo
rimprovero
di
Daniele,
pur
di
non
deluderlo,
si
avventurò
in
una
serie
di
manovre
troppo
esplicitamente
suicide
per
non
testimoniare
una
totale
ignoranza
sul
senso
stesso
del
gioco
a
cui
stavamo
gareggiando.
Cosí
il
suo
oggetto
di
venerazione
poté
dirgli:
«Come
al
solito,
non
hai
capito
un
cazzo…»
Dopo
un’ora
di
partite
sgangherate,
Mimmo
borbottò
che
non
poteva
farci
niente
se
non
era
intelligente
come
noi.
Daniele
confermò:
«Ci
mancherebbe!»
Io
abbassai
la
testa
per
non
dover
confermare
a
mia
volta.
La
rialzai
temendo
di
trovarmi
a
sostenere
una
maschera
d’umiliazione:
e
invece
era
ancora
la
tenerezza
di
un
sorriso
immacolato.
Daniele
riprese
a
spiegare,
a
metterlo
in
difficoltà,
e
piú
gli
dava
dell’imbecille
piú
si
tranquillizzava.
Avere
la
conferma
che
in
quella
stanza
era
ospitato
un
soccombente
naturale,
un
ragazzo
che
davanti
a
qualsivoglia
prova
la
vita
lo
avesse
sottoposto
sarebbe
stato
vinto
prima
di
lui
e
di
me:
soltanto
questo
sembrava
metterlo
in
uno
stato
emotivo
prossimo
alla
pace.
Un
effetto
lievemente
diverso,
Mimmo
lo
esercitava
sugli
adulti.
Di
Liso,
in
sua
presenza,
perdeva
le
ultime
tracce
dei
freni
inibitori.
Erano
passati
altri
giorni,
altre
spettacolari
sfuriate
tra
Daniele
e
suo
padre
e
adesso,
una
domenica
mattina,
eravamo
tutti
e
quattro
seduti
nel
soggiorno.
«Oh,
benissimo
ragazzi…»,
fece
Di
Liso
spruzzando
il
seltz
dentro
un
bicchiere
in
cui
Campari,
gin
e
troppo
Punte-mes
erano
la
controfigura
di
un
Negroni
da
Fifth
Avenue.
Infilò
una
mano
nella
tasca
della
giacca,
e
davanti
allo
sguardo
concentrato
di
Daniele,
all’ovina
compassione
di
Mimmo
e
al
mio
sbalordimento
ci
mostrò
un
piccolo
involucro
di
plastica
con
i
bordi
a
francobollo.
Disse
che
«ovvio…»,
sapeva
quello
che
combinavamo
con
le
nostre
compagne
di
scuola,
del
resto
anche
lui
alla
nostra
età
passava
il
tempo
a
inseguire
ragazzine
che
disertavano
i
rosari
di
gruppo
per
stendersi
al
suo
fianco
tra
i
cuscini
di
un
divano.
«Solo
che
adesso…»
aggiunse,
passando
da
una
mano
all’altra
la
confezione
del
preservativo,
gli
angioletti
famelici
che
noi
secondo
lui
già
portavamo
a
letto
con
una
facilità
doppia
e
tripla
se
confrontata
con
gli
sforzi
di
retorica
a
cui
era
dovuto
ricorrere
per
la
resa
di
una
spallina
(da
qui
il
valore
doppio
e
triplo
delle
sue
conquiste
rispetto
alle
nostre),
scopavano
in
giro
come
ossesse:
la
mano
che
ci
stringeva
al
basso
ventre,
assicurò,
portava
ustioni
da
sfregamento
non
piú
vecchie
di
due
ore.
Le
«mezze
troie»
incameravano
sindromi
da
immunodeficienza
e
conservavano
l’attitudine
materna
ad
assaltare
i
patrimoni
altrui
con
il
trucco
piú
vecchio
del
mondo,
specie
se
la
controparte
era
piú
alta
di
un
metro
e
quaranta
e
benestante
(qui
indicò
soltanto
me
e
suo
figlio).
Diede
un
sorso
al
Negroni,
scartò
il
preservativo
e
srotolò
il
lattice
nella
mano
destra.
«Questo
aggeggio,
–
agitò
il
pugno
inguantato
come
fosse
una
marionetta
da
incubo,
–
questo
affare
di
gomma
vi
libera
dal
pensiero».
E
terminò
il
seminario
di
educazione
sessuale
scolpendo
nel
silenzio
un
ultimo
consiglio:
«Sbattetevi
la
stronza,
–
disse,
–
tenetevi
l’aggeggio
finché
potete…
e
poi
sfilatevelo
in
tempo
per
riuscire
a
sborrarle
nei
capelli!»
Raccolse
il
bicchiere
dal
tavolino
di
cristallo.
Seguirono
secondi
di
assoluto
sconcerto.
Credo
fossimo
agghiacciati
da
un
odio
che
non
conoscevamo
ma
che
in
fondo
era
la
darwiniana
conseguenza
dell’eros
da
bagnini
quando
le
lampadine
si
spengono
intorno
alla
balera
e
la
luce
torna
vent’anni
dopo
in
un
ufficio
dove
una
radiolina
trasmette
Sapore di mare
per
una
lampo
dirigenziale
che
va
giú,
seguendo
il
destino
inevitabile
di
un
intero
paese.
Tra
l’altro…
bastava
osservare
la
praticità
con
cui
non
tiravamo
mai
sul
prezzo
quando
qualcuno
ci
mandava
a
far
la
spesa
per
capire
come
la
nostra
intraprendenza
ci
avesse
fatto
guadagnare,
in
campo
femminile,
non
piú
di
due
o
tre
lucidalabbra
la
cui
impronta
ricalcavamo
a
gesso
sul
segnapunti
del
ricordo.
Ma
era
soprattutto
la
pratica
suggerita
da
Di
Liso
(non
l’atto
in
sé,
ma
il
disprezzo
di
cui
l’aveva
circondato)
che
io
Mimmo
e
Daniele
non
potevamo
digerire
senza
tradire
una
parte
segreta
di
noi
stessi.
Perché
noi
tre
–
pensai
nella
piccola
bolla
di
silenzio
che
si
andava
dilatando
nel
soggiorno
–
avevamo
un’idea
del
sesso
tutta
nostra
e
lontana,
opposta
rispetto
a
quella
di
Di
Liso.
Non
odiavamo
le
donne.
Non
odiavamo
le
nostre
madri
e
le
compagne
di
classe
e
le
ragazze
che
sognavamo
di
baciare.
Lo
testimoniavano
i
pomeriggi
precedenti,
quando,
seguendo
un
segnale
invisibile,
a
un
certo
punto
io
e
Mimmo
sgombravamo
il
tavolo
dalla
mappa
del
RisiKo
dichiarando
l’armistizio,
Daniele
raccoglieva
una
rivista
dal
fondo
di
un
cassetto
e
ci
sbatteva
sotto
il
naso
lo
splendore
mammifero
di
Helene
Hanson
inquadrata
dalla
cascata
dei
capelli
alla
doratura
delle
cosce;
uno
sguardo
serio
e
morbido
(da
praghese
nelle
domeniche
di
sole,
o
da
californiana
violentata
sulla
spiaggia
senza
opporre
resistenza),
e
soprattutto
tre
sottili
bende
di
tessuto
nero
a
fasciarle
giusto
l’inguine
e
i
capezzoli
lasciando
completamente
libero
il
fianco
destro,
in
particolare
l’ascella
completamente
rasa,
una
tenera
porzione
di
carne
rivelata
dal
braccio
portato
indietro
in
un
gioco
di
luci
che,
scorrendo
verso
i
fianchi
dopo
averci
mozzato
il
respiro
con
la
curva
del
seno,
si
interrompeva
sul
tessuto
che
le
copriva
il
pube
per
ritornare
a
splendere
sulle
rotondità
dell’ileo,
ovvero
il
piccolo
luogo
intorno
a
cui
sarebbe
dovuto
passare
il
cotone
delle
mutandine
e
dove
invece,
grazie
all’abilità
dei
fotografi
di
«Skorpio»,
la
ragazza
si
mostrava
di
un’impudicizia
superiore
a
quella
del
suo
sesso
spalancato:
«Sono
indifesa,
è
questo
il
mio
coraggio,
sono
qui
perché
voi
approfittiate
di
me».
Uno
dopo
l’altro,
ci
sbottonavamo
i
pantaloni
e
iniziavamo
a
masturbarci
sulla
copertina
di
«Skorpio»,
una
delle
piú
astute
invenzioni
editoriali
degli
anni
Ottanta:
la
prodigiosa
scuola
di
fumetto
di
Buenos
Aires
impaginata
con
lo
specchietto
per
allodole
di
ragazze
seminude
in
copertina
(poi
quasi
completamente
nude
nel
servizio
fotografico
interno)
tra
cui
Valeria
Golino,
Enrica
Bonaccorti,
Carol
Alt
ma
soprattutto
Helene
Hanson,
la
nostra
eroina.
Davanti
a
lei
facevamo
su
e
giú
senza
guardarci
negli
occhi
e
senza
mai
cambiare
formazione
–
io
Mimmo
e
Daniele,
mai
io
e
Daniele
da
soli:
un
terzo
ci
serviva
per
escludere
l’eccessiva
intimità.
Iniziavamo
a
prendercelo
tra
le
dita
con
una
compunzione
da
cadetti
aeronautici
al
battesimo
del
cielo.
Se
Helene
Hanson
fosse
stata
viva
(come
lo
era
attraverso
la
copertina)
sarebbe
forse
rimasta
spaventata
da
questi
sguardi
che
niente
sembravano
concedere
al
nudo
desiderio
–
Daniele
andava
per
strappi
perfettamente
misurati;
Mimmo
dava
l’impressione
che
per
lui
la
copertina
di
«Skorpio»
fosse
davvero
quel
che
era,
una
miscela
di
fibre
vegetali
uniformate
in
uno
stabilimento
tipografico
che
il
suo
sguardo
associava
piú
al
cameratismo
d’occasione
che
a
un’astratta
voluttà,
e
quindi
uno
strabiliante
caso
di
corpi
cavernosi
gonfiati
dal
semplice
bisogno
d’amicizia;
io
mi
davo
da
fare
gettando
gli
occhi
a
destra
e
a
manca
con
la
paura
che
fossimo
ridicoli.
Ma
poi
i
movimenti
uscivano
dalla
partitura,
iniziavamo
a
perdere
il
controllo,
avvertivamo
l’imbarazzo
di
essere
uno
accanto
all’altro
con
le
mutande
abbassate,
perché
soltanto
adesso
lo
eravamo
davvero;
soltanto
adesso
Mimmo
e
Daniele,
esattamente
come
me,
erano
terrorizzati
dalla
possibilità
che
uno
di
noi,
in
preda
alla
frenesia,
potesse
avvicinarsi
troppo
all’altro
fino
a
toccarlo.
Infine
rientrava
anche
questo
pericolo,
e
ci
ritrovavamo
soli
con
la
nostra
immaginazione.
Abbandonavo
i
miei
due
amici
sulle
scintille
svolazzanti
di
un
rogo
mentale
in
cui
bruciavano
festosamente
vecchie
cartolerie
e
madri
lontane
e
padri
assetati
di
vendetta,
vedevo
l’ultimo
bagliore
di
emozione
condivisa
e
poi
davanti
a
me
c’era
solo
Helene
Hanson
col
suo
broncio
assassino.
E
a
separarci,
mi
dicevo
aumentando
i
movimenti
del
pugno
stretto
intorno
al
cazzo,
a
separarci
non
erano
quattrocento
miseri
chilometri
(la
rivista
era
stampata
a
Roma),
non
era
l’insignificanza
degli
anni
(quel
numero
di
«Skorpio»
era
datato
1981)
ma
solo
il
vuoto
luminoso
in
cui
lo
spazio
e
il
tempo
si
annullano,
i
miliardi
di
fotoni
che
viaggiavano
da
sempre
per
il
cosmo
legando
tutti
a
tutto,
impressionati
come
lastre
fotografiche
capaci
di
trasmettere
istantaneamente
l’informazione
agli
altri
mattoncini
del
creato,
la
radiazione
universale
che
adesso
i
miei
occhi
socchiusi
si
sforzavano
di
riconoscere
nella
luce
primaverile
che
scendeva
a
piramide
sul
pavimento
della
stanza
aprendo
una
botola
accecante
nella
quale
convergevano
tracce
vive
di
Helene
Hanson,
e
insieme
a
loro
c’era
il
riflesso
verde
degli
eucalipti
che
si
vedevano
dalla
finestra
e
i
gas
rabbiosi
degli
automobilisti
in
strada,
e
a
pochi
cieli
di
distanza
(lo
stesso
cielo:
una
continua
successione
di
stanze
senza
porte)
c’erano
le
rondini
in
picchiata
che
ferivano
lo
spazio
sulle
pianure
dove
la
ronda
immobile
dei
pali
telefonici
affondava
nell’esplosiva
giovinezza
del
frumento
e
risaliva
a
ondate
verso
le
prime
zone
urbane,
testimoniate
a
pochi
passi
da
me
(dentro
la
stessa
botola
accecante)
dall’arrivo
del
pulviscolo
invisibile
staccatosi
dalle
schiene
nude
delle
ragazze
che
a
Bari
il
giorno
prima
il
giorno
stesso
in quel preciso
istante
venivano
urlando
tra
le
braccia
dei
loro
amanti,
ed
era
allora
che
–
in
breve
ritardo
o
ancor
piú
breve
anticipo
rispetto
a
Mimmo
e
a
Daniele
–
mi
sentivo
tirare
tra
l’ano
e
l’attaccatura
dei
testicoli,
stringevo
forte,
scaraventavo
la
testa
in
avanti
poggiando
tutte
e
due
le
mani
sulla
rivista
aperta
per
non
crollare
a
terra
tra
i
sospiri.
Mimmo
tossí.
La
bolla
di
silenzio
esplose
come
una
bolla
di
sapone.
«Come
hai
detto?»
chiese
il
direttore
di
banca
stringendo
il
suo
sorriso
fino
a
digrignare
i
denti.
«Ho
detto
che
questa
storia
di
venire
nei
capelli
mi
sembra
una
mezza
cretinata»,
mi
sentii
uscire
dalla
bocca
per
la
seconda
volta.
Mimmo
sgranò
gli
occhi.
Daniele
si
irrigidí.
Io
stesso
ero
sorpreso
dalle
mie
parole.
«Oh,
ma
certo
certo…
–
Di
Liso
si
alzò
dal
divano
raccogliendo
il
bicchiere
ormai
vuoto,
–
perché
invece
voialtri
cazzoni
sapete
bene
come
vanno
le
cose…»
Soltanto
quando
iniziò
a
insultarci
capii
che
stavo
difendendo
l’unico
spazio
della
mia
amicizia
con
Daniele
che
in
qualche
modo
era
rimasto
inviolato.
Avevo
detto
la
cosa
giusta
ma
era
come
se
a
dirla
non
fossi
stato
io,
non
riuscivo
neanche
a
esserne
soddisfatto.
Di
Liso
si
mise
a
girarci
intorno:
«Tu…
–
disse
indicandomi
col
mento,
–
tu
fai
tanto
il
saputello
ma
sei
di
quelli
che
al
momento
di
stringere
già
se
la
sono
fatta
addosso».
Si
spostò
davanti
a
Mimmo,
che
lo
guardava
con
i
soliti
occhi
pieni
di
riconoscenza.
«Questo…
–
disse
Di
Liso
dandogli
le
spalle
e
indicandolo
col
pollice
come
dovesse
esporlo
ai
visitatori
di
uno
zoo,
–
questo
è
tanto
se
riesce
ad
annodarsi
i
lacci
delle
scarpe».
Ridacchiò
in
solitudine.
Si
allontanò
da
Mimmo,
e
Mimmo
tirò
un
sospiro
di
sollievo.
Adesso
era
di
fronte
a
Daniele.
Lo
puntò
con
uno
sguardo
divampante,
come
se
fosse
stato
suo
figlio
a
contraddirlo,
non
io:
«Quanto
a
te,
–
disse,
–
che
cosa
possiamo
pretendere
da
te
con
quella…
con
quella
lesbica
che
ti
ritrovi
come
madre!»
Una
lesbica?
Un
rumore
tremendo
mi
perforò
i
timpani.
Una
lesbica!
Daniele
restò
immobile
davanti
a
suo
padre.
I
loro
sguardi
si
scontrarono.
Lottarono
per
qualche
istante.
Si
incamminarono
poi
lungo
un
sentiero
dove
non
era
piú
possibile
seguirli.
Guardai
Mimmo.
Se
ne
stava
seduto
tutto
composto
sul
divano
con
il
quieto
intontimento
a
cui
ci
aveva
abituato:
esercitava
un
tipo
di
perdono
che
lo
faceva
risplendere
sulle
nostre
teste
fin
quasi
a
rarefarsi
–
una
deposizione
delle
armi
che
però,
tra
le
mie
mani,
avrebbe
al
contrario
lasciato
il
segno
della
viltà.
«Parli
cosí
solo
perché
ti
ha
scaricato».
Un’altra
volta…
un’altra
volta
le
parole
mi
erano
uscite
di
bocca
senza
che
lo
avessi
deciso!
Mimmo
se
la
ridacchiò.
Di
Liso
fece
per
dire
qualcosa,
mi
sembrò
di
vederlo
boccheggiare.
«Oh
insomma
smettila!»
Daniele
scattò
in
piedi
e
mi
guardò
con
gli
occhi
pieni
di
rimprovero.
Suo
padre
fece
un
passo
indietro,
abbandonandolo
solo
davanti
a
me.
Daniele
continuava
a
guardarmi
furente,
ed
era
chiaro:
difendeva
lui.
Fu
allora
che
il
nodo
si
sciolse.
La
mia
amicizia
per
Daniele
diede
l’ultimo
respiro,
morí
e
fu
sepolta
–
e
dal
momento
che
lui
e
Di
Liso
erano
stati
tanto
abili
a
trasformare
quell’appartamento
in
un
calvario
rovesciato
dove
i
figli
assumevano
su
di
sé
le
colpe
dei
padri
perché
le
bassezze
di
entrambi
diventassero
le
ragioni
di
ognuno,
niente
avrebbe
potuto
riportarla
in
vita.
E
anche
in
questo
caso,
pensai
con
rabbia,
mi
ero
ridotto
a
riconoscere
l’evidenza
delle
cose
con
un
ritardo
clamoroso:
troppo
prudente
per
affrontare
il
peggio
quando
faceva
capolino
nella
coltre
delle
buone
intenzioni,
e
troppo
pieno
di
amor
proprio
per
accettare
la
piena
connivenza
quando
i
tradimenti
si
mostravano
per
quel
che
erano
senza
possibilità
di
errore.
Di
Liso
si
ritirò
in
camera
da
letto.
Mimmo
intrecciò
le
mani
sulla
pancia.
Daniele,
già
perfettamente
ricomposto,
frugò
nei
nostri
sguardi:
«Un
altro
giro
di
Cluedo?»
Un’ora
dopo,
camminavo
a
passo
svelto
lungo
la
strada
che
portava
a
casa.
Mi
godevo
il
sole
della
domenica
mattina
superando
a
casaccio
gli
incroci
di
via
Re
David
e
poi
le
palme
cariche
di
datteri
e
di
topi
che
costeggiavano
il
campus
universitario…
e
c’era
una
città!
un’intera
città
che
c’era
sempre
stata
mentre
io
mi
ero
ridotto
a
passare
le
giornate
come
un
sepolto
vivo.
«Allora anche la mamma
èd’accordo,puoifermarti
a dormire…» Ci avesse
provato, ci avesse provato
un’altra volta a mettermi
in trappola con questi
trucchi da quattro soldi!
pensai
chiudendo
gli
occhi
al
centro
della
strada
con
una
calda
sensazione
di
rivincita.
Ma
senza
che
io
dovessi
fare
niente,
mio
padre
non
mosse
piú
un
dito
per
costringermi
a
passare
i
fine
settimana
dai
Di
Liso.
Rapidamente.
Le
cose
intorno
a
noi
cambiavano
rapidamente…
Capitoloterzo
A
fine
giugno
dell’85,
qualcosa
di
molto
simile
alla
follia
meteorologica
percorse
l’economia
del
nostro
piccolo
paese.
A
Milano.
A
Napoli.
Nei
formicolanti
centri
abitati
sulle
rive
dell’Adriatico.
Lenzuoline
per
neonati,
trapunte,
servizi
da
tavola…
I
telefoni
nell’azienda
di
mio
padre
cominciarono
a
suonare
all’impazzata.
Sulla
porta
scorrevole
messa
davanti
al
magazzino,
comparve
un
vecchio
grossista
abituato
a
farsi
attendere
per
ore
nell’anticamera
del
suo
ufficio.
Sebbene
fosse
un
uomo
di
lunga
esperienza,
aveva
lo
sguardo
stravolto
dall’itterizia
della
corsa
all’oro.
Tirò
fuori
dalle
tasche
del
trench
un
ventaglio
di
fogli
strappati
da
vecchie
agende-omaggio
e
disse
al
magazziniere:
«Passami
una
penna».
Riempí
i
fogli
in
fretta
e
furia.
Il
magazziniere
disse
lentamente:
«Guardi
che
per
i
prezzi
deve
aspettare
che
torni…»
Il
grossista
lo
interruppe:
«Di’
al
titolare
che
se
riesce
a
consegnarmi
tutta
la
merce
entro
settembre,
per
una
volta
sui
prezzi
nessuno
gli
romperà
i
coglioni.
E
lui
comunque
già
lo
sa!»
Il
numero
degli
ordini
fu
impressionante,
del
tutto
sproporzionato
visto
che
la
stagione
dei
matrimoni
si
era
appena
conclusa
lasciando
nelle
sale
ricevimenti
un
profumo
non
del
tutto
estinto
di
gigli
freschi
e
di
risparmi
inceneriti.
Ma
sotto
quelle
ceneri
c’erano
altri
soldi
che
bruciavano
dalla
voglia
di
passare
di
mano
in
mano,
e
tutta
la
città
marciò
quell’anno
a
ciclo
continuo.
Le
giornate
di
mio
padre
si
allungarono.
Lavorava
anche
sedici
ore
di
seguito:
furente,
su
di
giri,
senza
mai
avvertire
la
fatica,
come
sospinto
da
un
vento
magico.
Affittò
un
nuovo
magazzino.
Allargò
il
giro
delle
ricamatrici.
Iniziò
a
ricevere
i
clienti
al
bar,
nelle
pause
tra
la
banca
e
l’ufficio
del
commercialista.
La
sua
meticolosità
vide
emergere
nuove
sfaccettature.
Moltiplicò
le
riunioni
coi
fornitori
e
cominciò
ad
aggiornare
quotidianamente
il
calendario
degli
insolventi.
Quando
il
ritardo
di
un
incasso
superava
una
soglia
fissata
dall’illuminazione
del
momento,
un
velo
opaco
gli
scendeva
sullo
sguardo.
Allora
telefonava
a
Palmieri,
il
suo
rappresentante:
«Girolamo,
ma
questo
cazzo
di
Balestrucci
ci
ha
fatto
almeno
il
primo
dei
bonifici?»
Palmieri
cercava
di
calmarlo
a
modo
suo:
«Con
tutto
quello
che
sta
succedendo,
tu
ti
preoccupi
di
venti
milioni?
Potresti
guadagnare
il
doppio
in
mezza
settimana
se
ti
facessi
un
giro
sopra
la
linea
gotica.
Bologna.
Parma.
Reggio
Emilia.
Da
quelle
parti
la
situazione
è
esplosiva:
non
ce
la
fanno
piú
a
correre
in
Ferrari
su
e
giú
per
la
Riviera.
La
notte
vanno
a
letto
cercando
di
pensare
a
qualche
cosa
di
tranquillizzante.
E
invece
sognano
continuamente
l’immagine
del
cavallino.
Adesso,
adesso
hanno
bisogno
di
un
corredo!»
Senza
darsi
per
vinto,
mio
padre
telefonò
personalmente
ai
propri
debitori
–
molti
dei
quali,
esasperati
dall’insistenza,
iniziarono
a
farsi
negare.
Una
sera
mia
madre
lo
richiamò
all’ordine:
«Non
credi
di
stare
esagerando?»
Papà
distese
le
dita
della
mano
destra.
Gli
si
dipinse
sulla
faccia
un’espressione
allarmata,
come
se
un
semplice
rimprovero
avesse
il
potere
di
rallentare
gli
aghi
a
inchiostro
della
macchina
per
telex
che
in
ufficio
riempivano
un
ordinativo
dietro
l’altro.
«Questi
signori…
–
proclamò,
–
basta
lasciarli
soli
con
i
loro
pensieri
e
sono
pronti
a
corrompere
un
curatore
fallimentare.
Bisogna
entrare
nel
loro
dormiveglia.
Al
mattino,
prima
di
ricordarsi
chi
sono
e
dove
sono,
si
devono
svegliare
avendo
sulle
labbra
il
tuo
nome
e
cognome!»
Si
poteva
quasi
dire
che
risplendesse
nel
tono
del
discorso.
Dovette
infine
sentir
scendere
sul
proprio
capo
l’ingovernabile
luce
della
fortuna
umana:
si
lanciò
verso
mia
madre.
La
strinse
tra
le
braccia:
«Ma
non
capisci…
non
capisci?
–
disse
piegato
in
due
dall’emozione,
–
è
cosí
che
funzionano
le
cose!»
A
pochi
passi
dall’estate,
i
miei
trovarono
una
nuova
forma
di
complicità,
forse
anche
di
amore.
Papà
sfrecciava
alle
cinque
del
mattino
in
autostrada,
superava
con
scioltezza
i
tornanti
dell’Irpinia
pronto
a
conquistare
nuove
fette
di
mercato
a
Siena,
a
Firenze,
a
Reggio
Emilia.
Durante
una
contrattazione
in
un
ristorante
affacciato
su
piazza
del
Campo
pensava
a
lei,
teneramente,
come
vent’anni
prima
girando
per
le
strade
alla
ricerca
di
una
pianta
d’orchidee.
Cosí
poteva
adesso
dire
al
cliente
della
giornata
con
uno
sguardo
intenso:
«Di
questo
articolo
deve
ordinarne
centocinquanta
pezzi.
Si
fidi,
li
avrà
venduti
prima
che
un
solo
granello
di
polvere
si
sia
posato
sull’ultimo
dei
colli».
La
mamma,
a
cinquecento
chilometri
di
distanza,
sentiva
allora
i
propri
passi
farsi
piú
saldi
muovendosi
tra
piccoli
capolavori
di
ebanisteria
e
orologi
in
stile
Luigi
XVI
–
non
piú
la
timidezza
del
curioso,
ma
il
fiero
cipiglio
dell’incompetenza
armata
di
carnet
d’assegni
che
fa
impazzire
d’entusiasmo
gli
antiquari.
Furono
infine
d’accordo
nel
sospendere
i
lavori
della
nostra
nuova
casa.
Erano
mesi
che
dovevamo
trasferirci
in
una
villa
acquistata
nell’inverno
dell’83.
Solo
che
adesso
una
normale
villa
per
benestanti
poteva
trasformarsi
in
una
vera
abitazione
signorile.
In
questo
clima
di
frenesia
e
trionfo,
si
spensero
le
liti
sul
mio
avvenire.
Il
mondo
su
cui
mamma
e
papà
sognavano
di
fare
capolino
mandandomi
a
studiare
in
un
qualunque
Töpffer
prometteva
di
emergere
proprio
sotto
i
loro
piedi,
come
se
un
intero
immaginario
fosse
disposto
a
farsi
schiavardare
dal
suo
lontano
luogo
d’elezione
per
venire
a
noi.
«Indro
Montanelli,
per
esempio»,
diceva
mamma
sparecchiando
la
tavola.
«Enrico
Fermi,
Indro
Montanelli…
tutti
venuti
fuori
dalla
scuola
pubblica»,
confermava
papà
guardando
la
punta
della
Marlboro
dopo
un
lungo
tiro.
Si
arrivò
a
parlare
del
Cesare
Baronio,
il
liceo
scientifico
a
due
chilometri
da
casa:
i
miei
genitori
portarono
i
moduli
già
riempiti
alle
cascanti
strutture
della
scuola,
consegnandoli
pieni
d’orgoglio
tra
le
mani
di
un
grigio
segretario
la
cui
noia
venne
scossa
dalle
braci
di
questi
occhi
che
si
guardavano
intorno
col
fanatismo
di
due
quaccheri
appena
giunti
in
Pennsylvania.
E
non
Pittsburgh,
non
Cambridge,
ma
Bari
era
la
terra
delle
promesse.
Daniele
mi
telefonava
ancora.
Con
poche
scuse
consecutive
riuscii
a
farlo
desistere:
mollò
la
presa
senza
quasi
lottare.
Con
Di
Liso
mio
padre
continuava
invece
a
frequentarsi,
ma
i
rapporti
di
forza
stavano
cambiando:
papà
per
le
banche
diventava
una
controparte
sempre
piú
allettante,
e
si
poteva
sospettare
che
le
famose
stellette
da
cucire
sulla
marsina
del
direttore
fossero
appese
al
filo
delle
nostre
movimentazioni.
«Non
lo
hanno
ancora
promosso,
–
gli
sentii
dire
un
pomeriggio
quasi
estivo,
qualche
ora
prima
che
Di
Liso
venisse
a
cena
a
casa
nostra,
–
e
pensare
che
con
due
o
tre
clienti
come
noi
persino
un
imbecille
saprebbe
diventare
direttore
di
zona».
Quella
sera
non
aspettavamo
solo
Di
Liso.
Il
fastidioso
rumore
delle
trombe
a
gas
lo
sentimmo
arrivare
dalle
strade
sin
dal
primo
pomeriggio,
e
affacciandosi
al
balcone
si
poteva
riconoscere,
ogni
quattro
o
cinque
utilitarie,
un
drappo
bianconero
che
sventolava
dai
finestrini
aperti.
Insieme
al
direttore
di
banca
sarebbe
arrivato
anche
Palmieri
con
sua
moglie,
e
un
paio
di
nostri
vecchi
dipendenti,
e
un
grosso
cliente
di
Caserta
che
si
trovava
in
Puglia
per
un
viaggio
di
lavoro.
Mia
madre
iniziò
a
estrarre
il
nero
delle
seppie
e
apparecchiò
la
tavola
e
fece
a
fette
una
dozzina
di
arance
per
il
Martini,
in
modo
che
al
momento
di
sedersi
davanti
alla
finale
della
Coppa
dei
campioni
ogni
cosa
fosse
pronta.
Mio
padre
svaní
e
ricomparve
dopo
mezz’ora
con
una
scatola
di
Montecristo.
Alle
otto
erano
già
tutti
a
chiacchierare
con
il
bicchiere
dell’aperitivo
stretto
in
mano.
L’immortale
affresco
della
commedia
umana
si
rinnovò
con
prepotenza
tra
le
lampade
a
stelo
del
soggiorno:
un
gruppo
di
uomini
baciati
in
piena
fronte
dal
successo,
o
comunque
felici
di
condividere
per
una
sera
la
dimensione
privata
del
successo
altrui.
Li
osservavo
contando
i
minuti
che
ci
separavano
dal
fischio
d’inizio:
era
stupefacente
la
trasparenza
con
cui
le
opinioni
di
ognuno,
al
momento
di
incontrare
le
risposte
dell’altro,
si
rafforzavano
oppure
cercavano
di
affievolirsi
rivelando
i
rapporti
di
forza.
Di
Liso,
per
esempio,
veniva
già
guardato
come
un
animale
agonizzante.
Non
era
neanche
la
commedia
umana…
era
come
se
Balzac
avesse
scritto
i
suoi
capolavori
mezzo
secolo
prima
rispetto
a
quando
lo
aveva
fatto,
trovandosi
davanti
una
borghesia
settimina,
naturalmente
gonfia
della
ferocia
e
dell’entusiasmo
che
si
sarebbero
potuti
respirare
in
una
scena
di
vita
parigina,
ma
ancora
incapace
di
certe
sottigliezze
la
cui
arte
stavamo
apprendendo
in
uno
strano
corso
di
recupero,
tipo
due
secoli
in
dieci
anni.
Palmieri
tossicchiò:
«Signori,
le
otto
meno
venti.
Davvero
ci
vogliamo
perdere
il
primo
gol
di
Platini?»
«Le
roi,
le roi»,
lo
corresse
il
commercialista.
«Lo
abbiamo
comprhato
per
un
tozzo
di
pane
e
lui
ci
ha
messo
soprha
il
foie
ghras»,
chiuse
i
giochi
Palmieri
citando
Gianni
Agnelli
al
culmine
di
un’immedesimazione
per
la
quale
il
tifo
calcistico
era
spesso
l’unica
via
di
accesso.
Mio
padre
si
guardò
intorno
alla
ricerca
del
telecomando.
Si
avvicinò
al
televisore
e
lo
accese
manualmente.
Lo
vidi
irrigidirsi.
Palmieri
urlò:
«Quadro!»
Quando
si
allontanò
dallo
schermo,
aveva
sulla
faccia
un’espressione
vuota.
Lo
stesso
sguardo
si
impossessò
degli
altri.
Non
fu
semplicemente
una
doccia
fredda,
non
fu
l’interruzione
di
una
festa.
Eravamo
in
una
dimensione
nuova…
come
se
il
mondo
esterno
e
la
nostra
intimità
si
stessero
schiantando,
con
il
rischio
di
diventare
un
tutt’uno.
La
voce
spenta
di
Bruno
Pizzul
disse:
«ho
accanto
a
me
il
responsabile
della
Uefa
e
mi
conferma…
mi
conferma
che
ci
sono
trentasei
morti».
Il
primo
reality
dell’orrore
c’era
stato
cinque
anni
prima,
quando
venti
milioni
di
persone
seguirono
in
diretta
la
morte
di
un
bambino
precipitato
in
un
pozzo
artesiano.
Ma
Vermicino
non
era
niente
rispetto
a
quello
che
stava
succedendo
adesso.
In
televisione
passavano
immagini
di
cadaveri
calpestati
da
una
folla
che
fuggiva
terrorizzata
e
si
lanciava
oltre
le
transenne
cadendo
nel
vuoto
anche
per
dieci
metri.
Gli
hooligan
avevano
caricato,
era
crollata
una
barriera
nella
curva
Z
e
la
carneficina
aveva
avuto
inizio.
Le
telecamere
inquadravano
gole
aperte
a
bordo
campo,
mucchi
di
corpi
inanimati,
transenne
divelte
e
legate
tra
di
loro
con
uno
spago
per
diventare
lettighe
di
fortuna
sulle
quali
venivano
improvvisate
tracheotomie
e
massaggi
cardiaci.
Alcuni
superstiti
erano
arrivati
nella
tribuna
stampa
e
strattonavano
i
cronisti
mostrando
un
foglietto
con
sopra
scarabocchiati
i
numeri
telefonici
dei
parenti
da
chiamare.
I
corpi
di
altri
tifosi
venivano
trasportati
verso
gli
spogliatoi,
dove
i
medici
sociali
mettevano
a
disposizione
flebo
e
defibrillatori,
e
i
calciatori
della
Juve,
i
calciatori
del
Liverpool,
si
ritrovarono
nel
tunnel
che
portava
al
prato
questi
corpi
insanguinati
e
domandavano
con
uno
sguardo
attonito:
«What
happened?»
La
voce
familiare
di
Bruno
Pizzul
disse:
«I
morti
sono
saliti
a
trentotto,
i
feriti
sono
piú
di
trecento
e…
sí,
scusate
un
attimo…»
Quando
riprese
a
parlare
era
un’altra
voce:
«…
una
notizia
che
mi
lascia
piuttosto
sconcertato
è
che
la
partita
si
giocherà
lo
stesso…
–
la
voce
di
un
vecchio
padre
di
famiglia
che
mette
un
passo
nel
futuro
e
ne
rimane
annichilito
–
…
vi
ripeto…
–
disse
cercando
di
seppellire
l’umiliazione
nello
spirito
di
servizio,
–
vi
ripeto
che
cercherò
di
commentare
nel
modo
piú
impersonale
e
asettico
possibile…»
Cosí
le
squadre
scesero
in
campo
sotto
il
cielo
di
Bruxelles,
Scirea
passò
la
palla
a
Boniek,
e
il
problema
di
cinquanta
milioni
di
italiani
non
fu
piú
trovare
nuovi
insulti
per
definire
gli
hooligan,
la
città
di
Liverpool
e
tutta
la
genia
dei
sassoni,
bensí
decidere
se
tifare
o
meno.
Non
sapevamo
che
la
televisione
tedesca
aveva
interrotto
il
collegamento.
Non
sapevamo
che
la
rete
nazionale
austriaca
aveva
deciso
di
trasmettere
la
partita
senza
audio
–
sugli
schermi
di
Vienna
e
Salisburgo
le
immagini
dei
calciatori
danzavano
nel
vuoto
mentre
una
scritta
scorreva
ossessivamente
da
sinistra
verso
destra:
«Was
wir
senden
ist
keine
Sportveranstaltung»
(quello
che
stiamo
trasmettendo non è una
manifestazione
sportiva…)
Seguimmo
la
partita
senza
sapere
che
cosa
stessimo
guardando.
Era
la
morte,
ed
era
un
gioco,
ed
era
in
qualche
modo
uno
show
televisivo.
Mia
madre
e
la
moglie
di
Palmieri
rimasero
a
occhi
sgranati
per
circa
un
quarto
d’ora.
Poi
sparecchiarono,
come
se
questo
potesse
riportare
la
serata
a
un
qualche
ordine
anteriore.
Mio
padre
aprí
nervosamente
una
bottiglia
di
whisky.
Lui
e
i
suoi
amici
lasciarono
scorrere
i
minuti
bevendo
un
bicchiere
dietro
l’altro.
Guardavano
la
partita
con
aria
spaventata,
come
se
in
un
colpo
di
testa
di
Ian
Rush
sfumato
sulle
immagini
delle
ambulanze
ci
fosse
una
compiuta
allegoria
dei
loro
pensieri
meno
decifrabili.
Fino
a
quando,
all’inizio
del
secondo
tempo,
il
re
del
calcio
europeo
vide
Boniek
a
cinquanta
metri
di
distanza
e
lo
lanciò.
Il
polacco
sgusciò
tra
due
casacche
rosse,
accelerò
e
fu
atterrato
a
mezzo
metro
dall’area
avversaria,
costringendo
l’arbitro
a
fischiare
un
rigore
inesistente
che
il
sangue
e
l’atmosfera
allucinata
resero
subito
legittimo.
E
quando
il
re,
lo
stesso
Platini,
trasformò
il
calcio
di
rigore
(palla
a
sinistra,
tuffo
di
Grobbelaar
sul
lato
opposto),
e
Bruno
Pizzul
disse
«gol»
con
una
voce
sotterrata,
quasi
non
udibile,
fu
allora
che
successe
l’incredibile.
Michel
Platini
iniziò
a
esultare
come
forse
non
aveva
mai
fatto
in
vita
sua.
La
telecamera
lo
seguí
mentre
correva
verso
la
linea
di
fondo
e
strinse
sui
suoi
occhi
scintillanti,
il
pugno
chiuso
alzato
verso
il
cielo
e
la
faccia…
un
sorriso
impazzito
di
gioia
che
era
uno
schiaffo
ai
morti,
ai
vivi,
ai
sopravvissuti,
agli
stessi
hooligan
ma
non
alla
somma
di
tutto
questo:
la
prima
notte
in
cui
la
morte
e
lo
spettacolo
salirono
i
gradini
di
una
scala
planetaria
tenendosi
per
mano.
Mio
padre
e
Di
Liso
si
strinsero
per
le
braccia,
come
rischiassero
di
cadere
sul
pavimento
da
un
momento
all’altro.
Il
sorriso
di
Platini
conquistò
il
centro
dello
schermo,
e
non proprio
mio
padre
e
non proprio
Di
Liso
e
non
gli
amici
di
mio
padre
seduti
sul
divano
ma
i
loro
calchi
radiografici,
impressionati
dalla
violenza
della
scena,
iniziarono
a
vibrare.
Le
loro
bocche
emisero
un
suono
incomprensibile,
una
specie
di
barrito
che
non
si
capiva
bene
cosa
fosse
–
se
gioia,
rivincita,
spavento,
amore
per
l’osceno
–
e,
dalle
finestre
aperte,
lo
stesso
identico
barrito
iniziò
a
salire
a
ondate
verso
le
nostre
orecchie:
Wroom…
wrooom…
wroooooom…
Loro
erano
gli
hooligan,
la
feccia
d’Europa,
i
ragazzi
che
al
grido
di
«anima,
sudore
e
birra»
devastavano
in
trasferta
i
negozi
di
alcolici,
accoltellavano
i
tifosi
avversari,
si
guardavano
sorpresi
le
mani
sporche
di
sangue
quando
un
poliziotto
li
colpiva
in
testa
con
un
manganello.
D’accordo.
Ma
noi?
Cosa
eravamo
noi?
Che
cos’era
questo
strano
urlo
che
ci
usciva
dalla
gola,
cosí
primitivo
eppure
cosí
raffinatamente
ambiguo?
Wroom…
wrooom…
wroooooom…
Erano
settimane
che
mi
ripromettevo
di
non
farmi
piú
coinvolgere
dalle
faccende
degli
adulti.
Ma
adesso
la
tensione
accumulata
mostrava
una
via
di
fuga
troppo
invitante
per
non
sentirsi
costretti
a
farne
uso.
Cosí
anch’io,
senza
sapere
cosa
stessi
facendo,
mi
unii
al
barrito
al
grugnito
al
raglio
che
affratellava
mio
padre
ai
suoi
amici
al
cupo
risuonare
che
arrivava
dai
palazzi
circostanti;
un
sisma
fatto
di
sole
voci
che
sembrava
voler
negare
il
male
pur
mettendo
a
sua
disposizione
un
lungo
ponte
acustico
che
da
Bari
arrivava
probabilmente
su
fino
a
Torino
–
e
poi
di
nuovo
giú,
nello
splendore
tumefatto
di
Palermo
–,
e
in
questo
grido
che
non
aveva
nulla
di
veramente
ragionevole
ma
realizzava
l’aspirazione
potentemente
disastrosamente
umana
di
fabbricarsi
una
cattiva
coscienza,
sentii
per
la
prima
volta
un
lampante
inaggirabile
senso
di
appartenenza
al
mio
paese.
Nei
giorni
successivi,
ripensai
a
lungo
all’accaduto.
Osservai
la
doppiezza
sul
volto
dei
giornalisti
delle
televisioni
nazionali
che,
ormai
a
freddo,
commentavano
la
folle
notte
di
Bruxelles
–
fermi
nella
condanna
ma
insistenti
nel
sottolineare
il
successo
sportivo.
Vidi
moltiplicarsi
sui
muri
della
città
insulti
farneticanti
contro
il
Liverpool
e
contro
il
Regno
Unito
(«Vogliamo
la
riforma
del
codice
penale
|
uccidere
un
inglese
dev’essere
legale»)
che
quegli
stessi
giornalisti
avevano
sobillato
tra
allusioni
e
bizantinismi
(«Non
vogliamo
certo
dire
che
alla
prossima
occasione
i
tifosi
juventini
saranno
legittimati
a
farsi
giustizia
da
soli…»
era
la
frase
ripetuta
da
un
noto
cronista
sportivo)
e
che
l’uomo
della
strada
si
ritrovò
a
far
propri
con
un
compiacimento
quasi
lussurioso
(sentii
Michele
Lorusso,
il
nostro
medico
curante,
pronunciare
queste
precise
parole:
«Se
la
giustizia
fosse
giusta,
dovremmo
sganciare
una
bella
bomba
atomica
su
quella
città
di
merda»).
Poi,
di
notte,
come
per
un
macabro
completamento
sul
puzzle
delle
nostre
vere
identità,
comparvero
sui
muri
scritte
del
tipo:
«Juventino,
bianconero
|
il
tuo
posto
è
il
cimitero»,
«Dieci,
cento,
mille
Bruxelles»,
e
cosí
via.
Chiudevo
gli
occhi
e
mi
sforzavo
di
riprodurre
l’urlo
che
ci
aveva
uniti
davanti
al
televisore.
Quanto
ci
era
voluto
perché
il
cerchio
del
sospetto
si
chiudesse?
Nemmeno
un
anno,
da
quando
Stevenson
non
era
piú
il
mio
autore
preferito…
Bene.
Adesso
diffidavo
di
un
intero
popolo.
Piú
o
meno
un
mese
e
mezzo
dopo,
mio
padre
parlava
di
Di
Liso
con
amabile
disprezzo.
La
finale
di
Bruxelles
li
aveva
visti
cosí
vicini,
eppure
non
era
piú
neanche
un
ricordo.
Lui
continuò
ad
ammazzarsi
di
lavoro.
Mia
madre
ricevette
un
giorno
la
visita
del
marmista:
«Signora,
siamo
cristiani
pure
noi.
Per
il
mosaico
in
travertino
se
ne
parla
a
settembre».
La
città
era
intrappolata
nei
quaranta
gradi
dell’umido
bollore
estivo.
Il
traffico
per
le
strade
si
diradò.
Dal
lungomare
iniziarono
a
vedersi
i
primi
stormi
di
vele,
raggiunte
e
superate
dai
grandi
yacht
per
ricchi
sfondati.
Era
arrivato
agosto.
Partimmo
verso
sud
per
qualche
vacanza.
giorno
di
Immerso
nel
tiepido
splendore
di
settembre,
feci
il
mio
ingresso
al
Cesare
Baronio
vibrando
come
un
diapason.
La
facciata
della
scuola,
attraverso
le
sbarre
malandate
del
cancello,
rivelò
immediatamente
che
non
poteva
trattarsi
di
Eton
né
di
un
Töpffer
di
ripiego.
Ma
non
me
ne
importava
niente,
perché
quello
era
il
banco
di
prova
con
cui
il
destino
mi
stava
sfidando.
Avevamo
trascorso
l’estate
in
una
piccola
villa
presa
in
affitto
nel
Salento
–
venti,
venticinque
giorni
durante
i
quali
avevo
cercato
di
tenermi
alla
larga
dai
miei.
Di
primo
mattino,
mentre
tutti
andavano
in
spiaggia,
pedalavo
in
bmx
verso
Tricase,
dove
il
mio
unico
problema
era
vincere
lo
stupore
dell’edicolante
davanti
al
miglior
cliente
che
gli
fosse
mai
capitato.
Mi
rifugiavo
col
mio
bottino
all’ombra
di
una
piccola
grotta
naturale
poco
distante
dalla
spiaggia.
Che
gli
altri
friggessero
al
sole!
Che
commentassero
il
«Corriere
dello
Sport»,
che
fingessero
di
scandalizzarsi
davanti
ai
primi
topless!
Io
continuavo
a
leggere
«Frigidaire»,
leggevo
i
fumetti
della
Corno,
sfidavo
la
carta
economica
delle
edizioni
estive
dei
classici
(Addii
alle armi
con
i
caratteri
di
copertina
disintegrati,
Guide galattiche per
autostoppisti
che
si
smembravano
tra
le
mani
a
sedicesimi)
e
nel
mio
splendido
isolamento
non
mi
sentivo
solo,
mi
sentivo
unico.
Leggevo
forsennatamente,
disperatamente,
ero
capace
di
arrivare
alla
cinquecentesima
pagina
di
un
romanzo
di
fantascienza
senza
sapere
come.
Avevo
bisogno
di
rifarmi
un
pedigree,
e
soprattutto
avevo
bisogno
di
una
nuova
faccia
con
cui
affrontare
i
miei
compagni
di
liceo,
le
conoscenze
che
avrei
fatto
a
partire
dal
prossimo
autunno,
quando
una
nuova
fase
della
vita
sarebbe
iniziata.
Perché
ero
anche
l’unico…
l’unico
quindicenne
con
un
minimo
di
sale
in
zucca
capace
di
farsi
mettere
nel
sacco
come
avevo
lasciato
che
accadesse
nella
casa
di
Daniele,
l’unico
giocatore
di
Cluedo
a
crollare
miseramente
sull’«elementare
enigma
della
signora
Di
Liso»,
l’unico
lettore
di
fumetti
sofisticati
a
farsi
contagiare
dall’animalesco
spettacolo
della
morte
spacciato
per
una
partita
di
calcio.
Le
mie
letture
non
dovevano
servire
a
fare
colpo
con
una
citazione
dai
Quarantanove racconti
ma
a
darmi
il
privilegio
del
viaggio
in
incognito,
a
cancellare
dai
miei
connotati
le
tracce
di
un
passato
che
io
per
primo
–
se
le
avessi
riconosciute
sulla
faccia
di
un
altro
ragazzo
–
avrei
considerato
sufficienti
per
una
condanna
senza
appello.
Una persona
nuova…
talmente
nuova
da
trasformarsi
in
un
mistero
perfino
per
il
sottoscritto.
Oltrepassai
il
cancello
arrugginito
e
mi
unii
agli
studenti
che
si
accalcavano
in
cortile
lanciandosi
rapide
occhiate
investigative.
Poi
arrivò
un
bidello
a
regolare
il
traffico.
Oltrepassato
un
lungo
corridoio,
i
venticinque
studenti
della
Ib
fecero
ingresso
dentro
la
loro
classe,
uno
stanzone
dove
la
luce
sbatteva
sui
poster
ingialliti
che
documentavano
l’evoluzione
di
varie
specie
viventi:
i
batteri
galleggiavano
nel
brodo
primordiale
per
qualche
milione
di
anni,
e
tutto
ciò
che
non
aveva
speranze
di
trasformarsi
in
una
stella
marina
usciva
dalle
acque
già
pieno
di
risentimento.
Ci
disponemmo
tra
i
banchi.
Subito
dopo
fece
il
suo
ingresso
una
professoressa
dai
capelli
scompigliati.
Disse
«buongiorno»,
si
sedette
dietro
la
cattedra
e
inaugurò
l’appello
con
un
volenteroso
sguardo
di
sconfitta
in
partenza.
Perché mi trovo qui?
–
sembrava
pensare
–
che
cosa ho fatto per essere
sbattutainquestopostodi
merda?
Come
la
maggior
parte
dei
colleghi,
viveva
il
meticciato
della
nostra
scuola
come
una
punizione
–
a
ogni
inizio
d’anno,
il
Cesare
Baronio
vedeva
sfilare
sotto
le
sue
strutture
una
chiassosa
mescolanza
di
ceti
sociali,
e
questo
demoralizzava
i
professori,
la
cui
unica
unica
consolazione
per
i
salari
di
seconda
classe
sarebbe
stata
trovarsi
ad
allevare
la
futura
classe
dirigente.
E
noi
–
questo
era
chiaro
–
non
potevamo
esserlo.
Ma
io
quel
giorno
non
ebbi
quasi
mai
occhi
né
orecchie
per
la
cattedra.
Lanciavo
continuamente
sguardi
ai
miei
compagni…
Alla
mia
destra,
due
banchi
di
distanza,
c’era
un
ragazzo
con
i
capelli
rossi.
Era
seduto
ma
si
riusciva
a
indovinare
una
statura
piú
bassa
della
media.
Continuava
a
massacrarsi
i
brufoli
grattandosi
le
guance,
si
dondolava
sulla
sedia
senza
curarsi
di
quello
che
succedeva
intorno.
Il
volto
in
preda
a
qualche
spirito
agitato,
e
un
sovrappeso
da
cattiva
alimentazione.
L’istintiva
attrazione
che
provai
guardandolo
la
prima
volta
dipendeva
dal
fatto
che
la
sua
non
era
un’obesità
da
resa
ma
una
deformazione
da
dispetto,
da
malaugurio.
Lo
guardai
piú
attentamente.
Faceva
pensare
a
un
adolescente
incastrato
da
anni
in
un
pranzo
domenicale,
gli
interminabili
pranzi
domenicali
del
Sud
Italia,
queste
tavole
su
cui
vengono
scaraventate
badilate
di
lasagne,
rognoni
sfrigolanti,
conigli
ripieni
dalla
trincea
infernale
delle
cucine
a
gas,
un
macabro
trionfo
culinario
che
non
risparmia
nessuno
ma
soprattutto
i
piú
piccoli:
«Perché
non
hai
finito
le
lasagne?
Gesú
si
dispiace…
la
Madonna
piange…
i
bambini
del
Biafra
muoiono
di
fame…»
Il
ragazzo
che
continuava
a
dondolarsi
sulla
sedia
sembrava
sopravvissuto
a
centinaia
di
queste
prove.
Obeso
ma
vittorioso,
perché
dava
l’impressione
di
chi
ha
ceduto
alla
violenza
soltanto
per
restituirla:
D’accordo…
–
poteva
essere
stato
il
suo
ragionamento,
–
volete
checontinuiaingozzarmi
e lo farò. Portatemi le
lasagne. Portatemi i
fegatini e i dolci con le
mandorle. Li mangerò e
continuerò a mangiarli,
ma non mi fermerò al
momento
giusto.
Devasterò i depositi di
merendine,
diventerò
qualcosadicuiperfinovoi
sarete costretti ad avere
paura:ilBiafra
si
ridurrà
a un deserto di ossa sotto
ilsole…
Lo
guardai
in
faccia
tra
la
prima
e
la
seconda
ora,
dopo
che
per
la
seconda
volta
aveva
risposto
all’appello:
«Rubino
Giuseppe».
L’inconfondibile
segno
della
strafottenza:
ecco
cosa
aveva
negli
occhi.
In
fondo
alla
classe,
superando
cinque
o
sei
file
di
studenti,
ecco
l’altro
ragazzo
che
subito
si
guadagnò
la
mia
attenzione.
Alzò
la
mano
una
frazione
di
secondo
prima
che
la
professoressa
potesse
dire:
«Lombardi
Vincenzo».
Ma
quella
mano,
quel
gesto…
lí
c’era
tutto.
C’è
modo
e
modo
di
rispondere
a
un
appello.
E
a
quindici
anni
–
questo
lo
avevo
ormai
capito
–
si
è
sufficientemente
vecchi
per
avere
il
cuore
già
trafitto
con
i
bypass
della
viltà,
del
servilismo,
o
di
un
coraggio
strappato
ai
propri
stessi
limiti.
Cosí,
quel
primo
giorno
di
scuola,
ci
fu
chi
alzò
la
mano
come
un
soldato
semplice
davanti
al
proprio
generale,
chi
per
dare
sostanza
al
proprio
anonimato,
chi
disse:
«Presente»
con
una
voce
timida
e
nascosta
(Nonci
sono, voglio la mamma,
voglio tornare a casa…)
Vincenzo
Lombardi
alzò
la
mano
per
stabilire:
Io.
Sono.Qui.
Aveva
la
testa
percorsa
da
morbide
ondate
di
capelli
biondi,
una
faccia
dalla
carnagione
chiara
con
le
labbra
e
l’osso
frontale
pronunciati
secondo
una
melodia
incrociata
che
addolciva,
anziché
involgarire,
quella
doppia
sproporzione.
La
sua
figura
era
snella
e
asciutta,
senza
residui
flaccidumi
da
lattante.
Era
vestito
inoltre
come
un
damerino:
pullover
tipo
Shetland
con
una
specie
di
grifone
araldico
ricamato
sul
petto,
pantaloni
di
cotone
bianco
e
mocassini
senza
calze
che
scoprivano
sul
piede
grosse
venature
adulte.
Non
appena
si
alzò
in
piedi,
fu
impossibile
trascurare
il
vistoso
fazzoletto
nero
che
aveva
legato
intorno
al
braccio.
Di
che
scherzo
si
trattava?
A
meno
che
non
si
trattasse
di
un
lutto
reale…
Come
ulteriore
provocazione
–
sempre
che
il
fazzoletto
la
fosse
–
sul
suo
banco
c’erano
in
bella
vista
due
pacchetti
di
Marlboro.
Ma
la
faccia…
era
quella
la
vera
provocazione:
la
smorfia
di
freddo
biasimo
con
cui
disse
«presente»
sembrava
auspicare
la
disintegrazione
di
noi
tutti.
Fu
per
questo
forse
–
il
non
voler
ammettere
di
aver
risposto
a
una
donna
il
cui
unico
carisma
consisteva
nel
saper
illustrare
la
teoria
degli
insiemi
–
che
Vincenzo
assunse
un’espressione
estremamente
attenta
nel
corso
dell’appello
(«Ladisa
Michela»,
«Lepore
Giulio»…),
cosí
da
poter
alzare
la
mano
–
chiamandosi
da
solo
–
prima
che
la
professoressa
di
matematica
pronunciasse
effettivamente
il
suo
nome
e
cognome.
Le
ore
trascorsero
una
dopo
l’altra.
I
professori
perdevano
tempo
nei
convenevoli
di
benvenuto
oppure
partivano
direttamente
in
retromarcia
col
Nilo,
il
limo,
i
faraoni
mentre
noi
eravamo
impegnati
in
queste
prove
tecniche
di
personalità.
Tra
la
seconda
e
la
terza
ora,
sia
Giuseppe
che
Vincenzo
avevano
già
vinto
la
battaglia
col
rispettivo
compagno
di
banco.
Giuseppe
si
era
fatto
spazio
dimostrando
la
sua
totale
mancanza
di
rispetto
per
i
beni
di
uso
comune.
La
superficie
in
truciolato
era
irreversibilmente
occupata
per
quattro
quinti
dalle
sue
penne,
dalle
sue
gomme
profumate,
dal
suo
walkman…
E
il
suo
compagno
di
banco,
Emilio
Giannelli,
non
propriamente
un
inetto,
si
era
visto
sottrarre
spazio
minuto
dopo
minuto.
Aveva
cercato
di
arginare
la
prepotenza
con
dignitosa
serietà.
La
sfacciataggine
di
Giuseppe
era
però
piú
seria
e
ferma,
se
confrontata
con
le
occhiate
di
rimprovero
con
cui
Giannelli
cercava
di
mostrare
la
sua
disapprovazione.
E
poi
c’era
la
faccenda
dei
beni
di
consumo
–
per
ogni
gomma
da
cancellare
di
Giannelli,
Giuseppe
ne
aveva
almeno
cinque…
lo
zaino
di
Giuseppe,
per
come
continuava
a
svuotarlo
senza
che
si
svuotasse
mai,
avrebbe
potuto
contenere
un
luna
park.
Quando
il
professore
di
storia
e
geografia
fece
il
suo
ingresso
in
aula,
il
Rubicone
era
già
stato
attraversato:
Giannelli
era
il
disgraziato
a
cui,
nei
romanzi
dell’Ottocento,
si
affitta
una
stanzuccia
in
casa
propria
allo
scopo
di
godersi,
insieme
alla
pigione,
la
progressiva
rovina
del
pigionante.
Vincenzo
Lombardi
sembrava
avere
il
gotico
nel
sangue.
L’umiliazione
del
compagno
di
banco
passò
per
panorami
differenti.
Fu
anche
fortunato,
visto
che
accanto
gli
capitò
Puglisi,
uno
che
adesso
dirige
due
studi
odontoiatrici
e
gli
affari
gli
vanno
a
meraviglia.
Ma
all’epoca
Puglisi
era
di
una
timidezza
sconcertante;
uno
di
quei
ragazzi
che
faticano
moltissimo
a
ingranare
e
ne
fanno
una
tragedia
incomunicabile.
Faticano
a
ingranare
nella
vita
(il
primo
vero
bacio
lo
danno
di
solito
a
vent’anni)
e
per
motivi
che
nessuno
può
comprendere
faticano
a
ingranare
negli
studi.
È
come
se
la
loro
intelligenza
si
chiudesse,
la
loro
sensibilità
fosse
spartita
con
precisione
millimetrica
tra
cariche
positive
e
negative,
per
cui
l’impasse
diventa
la
loro
croce
naturale,
e
rischiano
–
come
Puglisi
faceva
ogni
volta
che
veniva
interrogato,
e
a
ogni
interrogazione
faceva
scena
muta
–
di
pisciarsi
addosso
quando
anche
la
madre
di
tutte
le
domande
cattive
(«Sai
almeno
come
ti
chiami?»)
inizia
a
essere
inghiottita
dal
silenzio,
domanda
che
uno
dei
tanti
professori
a
un
certo
punto
si
lascia
sfuggire,
non
per
malvagità
ma
perché
l’impotenza
di
certi
ragazzi
è
cosí
solida
da
diventare
un
sostegno
perfetto
per
la
fragile
impotenza
degli
adulti.
A
molti
di
questi
pulcini
bagnati
basta
uscire
dalla
scuola
per
ritrovarsi
i
denti
con
cui
iniziare
a
mordere
la
vita:
cosí
come
erano
perduti
durante
gli
anni
dell’apprendimento,
adesso
quasi
niente
può
fermarli.
Ma
quel
giorno
Puglisi
nella
scuola
ci
era
appena
entrato,
e
Vincenzo
lo
mise
a
posto
in
poche
mosse.
La
strategia
poteva
dirsi
opposta
rispetto
a
quella
di
Giuseppe.
Vincenzo
non
sconfinò
nello
spazio
del
compagno.
Se
è
per
questo
non
lo
degnò
di
uno
sguardo.
La
sua
pretesa
di
essere
l’unica
creatura
degna
di
non
soccombere
alla
vergogna
della
creazione,
messa
a
confronto
con
la
fragilità
di
Puglisi,
fece
in
modo
che
una
diga
venisse
sollevata
nel
centro
esatto
del
banco
che
condividevano.
A
un
certo
punto
c’era
questo
confine
invisibile,
che
Puglisi
non
avrebbe
mai
osato
attraversare:
gettava
lo
sguardo
alla
rinfusa,
poi
gli
occhi
gli
cadevano
sul
fazzoletto
nero
e
si
paralizzava.
Vincenzo
a
sua
volta
non
diceva
una
parola;
il
suo
silenzio
pieno
di
dispetto
sembrava
quello
di
un
principe
a
cui
hanno
distrutto
il
regno
due
giorni
prima
dell’incoronazione
–
ma
un
principe
che
ha
talmente
scolpiti
nella
testa
i
diritti
del
sangue
da
non
poterne
fare
una
merce
di
scambio,
per
cui
il
niente
vale
il
tutto,
e
il
mondo
intero
diventa
il
territorio
su
cui
esercitare
un
dovere
patronale.
Puglisi
tratteneva
il
respiro.
A
un
certo
punto
si
controllò
le
mani
con
terrore,
come
se
potessero
tradirlo
sconfinando
nello
spazio
di
Vincenzo.
Ma
le
mani
rimasero
al
loro
posto.
Se
anche
adesso
Vincenzo
gli
avesse
ceduto
tutto
il
banco
sarebbe
stato
un
gesto
che
non
cambiava
niente,
tanto
erano
definiti
(una
volta
e
per
sempre)
i
rapporti
di
dominio.
E
poi
successe
quello
che
nessuno
avrebbe
potuto
evitare.
Giuseppe
e
Vincenzo
cominciarono
a
guardarsi.
Accadde
durante
il
penultimo
cambio
dell’ora.
Giuseppe
piantò
gli
occhi
su
Vincenzo.
Lo
guardava
e
rideva.
Guardava
il
lutto
al
braccio
e
rideva.
Guardava
questa
posa
da
schizzinoso
aristocratico
e
cercava
di
smontarla
con
il
disordine
della
sua
faccia.
Vincenzo
si
rese
conto
delle
attenzioni
di
Giuseppe,
lo
ricambiò
con
uno
sguardo
d’ira.
Ebbe
inizio
una
specie
di
battaglia
telepatica.
Giuseppe
continuava
a
sghignazzare,
una
smorfia
beffarda
piú
incancellabile
di
una
paresi:
Non c’è nessuna
serietà, nessun dramma,
nessuna
durezza
in
pulloveremocassinicheio
non possa divorare…
sembrava
dire
la
sua
faccia.
Vincenzo
lo
fissò
al
culmine
dell’indignazione.
Ma
Giuseppe
non
si
fece
intimidire,
e
il
costone
di
ghiaccio
che
sosteneva
il
mondo
di
Vincenzo
non
scricchiolò
neanche
per
un
attimo.
Arrivò
la
campanella
della
quinta
ora.
Una
dozzina
di
porte
si
spalancarono
contemporaneamente
e
un
centinaio
di
ragazzi
si
riversarono
nei
corridoi
calpestando
sempre
piú
veloci
la
gomma
per
uso
ospedaliero
dei
pavimenti
della
scuola.
Quando
uscimmo
allo
scoperto,
la
chiassosa
orda
umana
delle
altre
classi
aveva
già
riempito
la
scalinata
affacciata
sul
cortile,
e
dal
cortile
si
stava
riversando
in
una
strada
polverosa
che
costeggiava
un
piccolo
frutteto
intrappolato
nella
radiosa
cristalliera
dell’estate
morente.
Giuseppe
Rubino
rideva
sullo
sfondo,
messo
in
secondo
piano
e
poi
scoperto
dai
ragazzi
che
gli
passavano
davanti
scendendo
per
la
scalinata.
Infine
il
sipario
di
questi
studenti
–
cosí
insignificanti
da
meritarsi
un
posto
nei
miei
buchi
di
memoria
–
si
spalancò
definitivamente
per
lasciare
che
Giuseppe
cadesse
indietro,
giú
per
i
gradini,
con
il
naso
coperto
di
sangue.
Vincenzo
si
massaggiò
le
nocche
della
mano
destra
e
sprecò
dei
secondi
preziosi
perché
l’immagine
restasse
incisa
in
tutti
quelli
che
lo
guardavano
dal
basso
verso
l’alto.
Prese
uno
slancio
e
si
avventò
contro
Giuseppe,
che
lo
aspettava
schiena
a
terra
come
un
amante
che
abbia
nel
primo
colpo
a
tradimento
la
sua
ragione
di
vita.
Il
tuffo
fu
troppo
plastico
per
non
risultare
anche
prevedibile.
Giuseppe
fece
scattare
la
gamba
in
avanti,
Vincenzo
reagí
al
calcio
nello
stomaco
strizzando
gli
occhi,
gonfiando
le
guance,
piegandosi
in
due
ma
sempre
in
modo
ragionato.
Alcuni
studenti
si
disposero
in
una
sorta
di
cerchio
floreale.
Altri
si
dileguarono,
attratti
dal
magnete
delle
prime
tavole
imbandite.
Loro
due
continuavano
a
prendersi
a
cazzotti.
Paravano
i
colpi
dell’avversario.
Provavano
a
rialzarsi.
Tornavano
a
cadere…
«Visto
che
ci
tieni
cosí
tanto,
uno
si
chiama
Giuseppe
Rubino
e
l’altro
Vincenzo
Lombardi!»
Fu
qui,
al
suono
di
questo
secondo
nome,
che
la
stanchezza,
forse
anche
la
noia
con
cui
mio
padre
stava
portando
avanti
il
suo
rimprovero
ebbe
un
visibile
colpo
di
arresto.
Fare
a
pugni
nel
cortile
di
una
scuola
era
per
lui
qualcosa
di
scontato:
all’istituto
tecnico
c’erano
ragazzi
che
ti
aggredivano
al
minimo
pretesto
partendo
direttamente
con
la
testa.
Era
stata
mia
madre
a
fulminarlo
con
lo
sguardo
quando
mi
aveva
visto
tornare
da
scuola
con
un
ritardo
di
tre
ore,
sporco
di
terra,
coi
pantaloni
strappati
e
il
collo
pieno
di
graffi.
Questo
era
il
1985,
non
la
Ricostruzione.
Non
mi
avevano
sbattuto
in
un
tecnico
industriale
insieme
ai
figli
dei
magliari,
ma
in
un
liceo,
e
gli
studenti
del
liceo
secondo
mia
madre
tornavano
da
scuola
discutendo
del
Canzoniere.
Non
si
aggredivano
tra
loro
come
i
gatti
randagi,
questo
era
certo.
Cosí
avevo
dovuto
vuotare
il
sacco.
Avevo
confessato
di
essere
stato
«costretto»
a
separare
due
compagni
di
classe
che
si
stavano
picchiando
a
causa
di
«uno
stupido
equivoco».
Non
avevo
detto
che,
al
momento
del
mio
intervento,
la
loro
lotta
non
aveva
ormai
piú
niente
di
selvaggio;
l’avevano
trasformata
in
un
combattimento
cavalleresco,
con
tanto
di
regole
e
pause
ritmiche:
uno
attaccava
e
l’altro
schivava
il
colpo,
una
lotta,
una
danza,
uno
scavo
psicologico.
Il
tipico
corteggiamento
virile
dei
ragazzi
che
si
piacciono.
Il
mio
gettarmi
nella
mischia
aveva
rotto
questo
fragile
equilibrio:
per
qualche
istante
era
tornata
a
essere
una
lotta
confusa,
ma
questa
volta
a
tre,
in
cui
calci
e
pugni
e
schiaffi
erano
volati
in
modo
altrettanto
disordinato.
Non
avevo
messo
mio
padre
al
corrente
dell’entusiasmo
che
mi
aveva
preso
quando
–
seduti
nella
polvere
a
pochi
centimetri
uno
dall’altro
–
Giuseppe
mi
aveva
guardato
per
l’intruso
che
ero,
ma
poi
doveva
aver
apprezzato
la
spericolatezza,
il
disperato
impulso
della
mia
iniziativa,
nella
quale
era
riuscito
a
riconoscere
lo
schietto
desiderio
«di
farne
parte»,
di
qualunque
cosa
si
trattasse.
Cosí
mi
aveva
concesso
di
timbrare
la
tessera
del
club
regalandomi
la
sua
approvazione.
Avevo
detto
a
papà
che
per
far
calmare
queste
«teste
calde»
me
li
ero
portati
a
mangiare
da
Poldo’s,
dove
ci
eravamo
divisi
i
compiti
per
una
ricerca
sulla
fotosintesi
clorofilliana.
Avevo
dunque
taciuto
il
fatto
che
ero
a
stomaco
vuoto,
dal
momento
che
Giuseppe
ci
aveva
invece
trascinati
in
un
bar
tabaccheria
dalle
parti
del
quartiere
Poggiofranco,
dove
aveva
offerto
birra
e
salatini,
e
non
contento
aveva
regalato
a
Vincenzo
una
stecca
di
Marlboro
(Vincenzo
aveva
detto
un
«grazie»
morbido
e
fluente
come
i
suoi
capelli
biondi)
e
a
me
uno
Zippo
con
lo
stemma
Jack
Daniel’s
in
rilievo
sulla
superficie
metallica;
e
piú
inattesa
della
sua
generosità
era
stata
la
fisarmonica
aperta
di
un
portafogli
nel
quale
avevo
riconosciuto
cinque
bigliettoni
da
centomila
lire.
Dopo
il
primo
sorso
di
birra,
Giuseppe
aveva
iniziato
a
esibirsi.
Ci
aveva
invitati
a
correre
in
go-kart
in
un
autodromo
dalle
parti
di
Fasano
(«Sapete…
–
aveva
detto,
–
mio
padre
ha
questa
formidabile
collezione
di
go-kart!»)
Ci
aveva
parlato
dei
negozi
che
vendevano
i
dischi
di
importazione.
Aveva
magnificato
i
luoghi
della
città
in
cui
stava
«accadendo
qualcosa
di
importante»
(il
Camelot,
dove
si
esibivano
i
gruppi
rock;
il
Neon
Club,
un
locale
sotterraneo
consacrato
alla
new
wave;
l’Eclipse,
l’unico
posto
in
città
dove
era
possibile
ballare
l’house
music…)
Poi
aveva
chiesto:
«Lo
avete
mai
visto
un
concerto
degli
Ozric
Tentacles?»
Vincenzo
aveva
abbassato
gli
occhi.
Era
tornato
a
guardarci.
Aveva
dichiarato
in
modo
piano
che
l’ultima
volta
che
aveva
affrontato
qualcosa
di
vagamente
musicale
che
non
lo
avesse
fatto
vergognare
al
posto
degli
esecutori
era
stata
una
Quarta
di
Bruckner
vista
al
teatro
Petruzzelli
insieme
ai
giovani
del
Lyon’s
club.
Nemmeno
questo
avevo
detto
a
mio
padre,
pur
intuendo
che
la
parola
«Lyon’s»
non
doveva
risultargli
sgradita.
Ma
era
difficile
trasmettergli
quello
che
avevo
provato
non
appena
Vincenzo
aveva
aperto
bocca:
sembrava
aver
risposto
per
un
semplice
dovere
di
educazione,
ma
era
stato
capace
–
in
modo
naturale,
senza
offrire
appigli
alla
polemica
–
di
far
retrocedere
immediatamente
in
serie
B
il
mondo
scintillante
evocato
fino
a
quel
momento.
Non
aveva
citato
Bruckner
per
farci
sentire
l’inadeguatezza
della
nostra
cultura
rispetto
alla
sua
(una
sproporzione
che
doveva
dare
per
scontata)
ma
per
segnare
una
frattura.
Di
conseguenza,
anche
la
clamorosa
stranezza
del
lutto
che
portava
al
braccio
era
diventata
qualcosa
su
cui
non
eravamo
riusciti
a
fare
domande.
Averci
trascinato
fuori
dal
ring
per
ottenere
una
vittoria
ai
punti…
E
questo
era
davvero
troppo
complicato
per
poterlo
spiegare
a
papà.
Gli
avevo
detto
che
dopo
l’hamburger
ci
eravamo
concessi
quattro
tiri
a
biliardo.
Qui
non
avevo
mentito.
Vincenzo,
per
sdebitarsi
della
stecca
di
Marlboro
e
forse
anche
del
mio
Zippo,
ci
aveva
portati
in
un
piccolo
tempio
della
Goriziana:
aveva
dato
prova
della
sua
abilità
ribadendo
a
ogni
colpo
come
non
io
e
non
Giuseppe
fossimo
i
suoi
avversari
ma
l’energia
cinetica
in
persona,
l’astratta
geometria
del
tavolo
verde.
Dopo
il
biliardo
avevamo
passeggiato
tra
le
strade
del
quartiere.
Tra
i
pedoni
indaffarati
e
i
veicoli
che
suonavano
all’impazzata,
a
un
certo
punto
si
era
sfilato
un
camioncino
con
la
scritta
EUROGARDEN
dipinta
sulla
fiancata
a
caratteri
verdi.
Aveva
sterzato
verso
destra
fino
a
salire
con
una
ruota
sul
marciapiede.
Nel
cassone
c’erano
tre
uomini
robusti
e
piuttosto
allegri,
operai
o
muratori
a
giudicare
dai
vestiti
impolverati.
Uno
di
loro
aveva
mostrato
il
tizzone
nero
di
una
carie
che
sembrava
reggere
da
sola
l’intera
dentatura:
«Giuse’!
–
aveva
gridato,
–
salta
su
che
ti
portiamo
a
casa».
Giuseppe
era
montato
sul
cassone,
aiutato
da
quattro
o
cinque
mani
immediatamente
protese
verso
di
lui.
Ci
aveva
salutati
mentre
il
camioncino
tornava
a
confondersi
tra
gli
altri
veicoli.
Era
a
quel
punto
che
mio
padre
aveva
chiesto:
«d’accordo,
è
tutto
a
posto.
Sei
il
nostro
mediatore
internazionale.
Ma
posso
sapere
chi
sono
questi
due
ragazzi?»
Dopo
un
breve
tira
e
molla
glielo
avevo
detto.
Papà
aveva
avuto
un
lampo
di
sorpresa
nello
sguardo.
Sorpresa
e
vivo
compiacimento.
«Non
sarà
mica
il
figlio
di
Mario
Lombardi?»,
aveva
domandato.
«Non
lo
so…»,
avevo
risposto
con
il
cuore
in
accelerazione.
Andato
via
Giuseppe,
io
e
Vincenzo
avevamo
camminato
verso
sud.
Ci
eravamo
lasciati
alle
spalle
i
giardinetti
di
largo
Carducci
e
avevamo
attraversato
i
nuovi
condomini
di
via
Lucarelli
passeggiando
tra
i
parcheggi
circondati
dai
pini
e
dagli
ippocastani,
dove
il
rumore
del
traffico
andava
spegnendosi
sul
canto
degli
uccelli
e
gli
uomini
di
mezza
età
approfittavano
del
primo
pomeriggio
per
passare
una
spugna
inumidita
sulla
carrozzeria
delle
loro
automobili.
Restare
solo
con
Vincenzo
mi
mise
addosso
una
strana
tensione.
La
presenza
di
Giuseppe
ci
aveva
consentito
di
non
scoprirci
troppo
pur
rimanendo
noi
stessi.
Adesso,
invece,
la
taciturna
figura
di
Vincenzo
era
una
presenza
che
a
ogni
minuto
si
faceva
piú
inquietante.
Sembrava
di
camminare
accanto
a
un
assassino
costretto
a
mostrare
le
proprie
generalità.
Imboccammo
una
via
senza
nome
lungo
la
quale
la
monotonia
della
zona
residenziale
si
disgregava
verso
la
libera,
luminosa
prospettiva
della
circonvallazione
lanciata
verso
i
paesi
della
costa.
Fu
a
quel
punto
che,
con
la
coda
dell’occhio,
intercettai
qualcosa
alle
spalle,
l’effettoraddoppio
di
un
oggetto
che
solo
adesso
mi
accorgevo
di
avere
visto
piú
di
una
volta
nel
corso
della
passeggiata.
Dissi
a
Vincenzo:
«Mi
sa
che
quel
tizio
non
ha
smesso
di
seguirci
un
solo
istante».
Vincenzo
si
voltò.
A
una
ventina
di
metri
da
noi
c’era
una
station
wagon
con
il
motore
spento.
Di
schiena
contro
lo
sportello,
un
uomo
ci
guardava
a
braccia
conserte.
Indossava
uno
sfilacciato
maglione
a
collo
alto
e
un
paio
di
jeans.
Aveva
il
volto
smunto
e
ossuto
–
il
cranio
chiazzato
da
pochi
ciuffi
di
capelli
neri
sopra
due
occhi
duri
e
spenti.
Mosse
impercettibilmente
la
testa
per
salutarci.
Vincenzo
alzò
la
mano
in
segno
di
risposta.
Poi
si
rivolse
a
me:
«Quello
è
lo
Sghigno,
l’autista
di
famiglia,
–
disse,
–
mio
padre
lo
paga
perché
mi
tenga
d’occhio».
Sulla
sua
bocca
si
disegnò
un
breve
sorriso.
Il
sole
del
pomeriggio
gli
finiva
dritto
in
faccia.
Mi
guardò
piú
intensamente,
cercando
di
decidere
se
fosse
giusto
continuare
a
parlare.
Girai
la
testa
verso
l’autista,
che
ci
fissava
privo
di
espressione.
Lo
guardai
a
mia
volta,
costringendomi
a
incrociare
la
buca
spenta
dei
suoi
occhi.
«Ho
un
problema
con
mio
padre,
–
disse
allora
Vincenzo
stando
attento
a
prosciugare
qualunque
tono
confidenziale.
–
Non
so
se
ti
è
mai
capitato…»,
aggiunse
controllando
un
breve
moto
di
stizza,
come
volesse
intendere
che
no,
nonostante
fossi
in
grado
di
sostenere
lo
sguardo
del
suo
autista,
un
problema
del
genere
io
non
lo
avevo
mai
avuto.
Suo
padre
si
chiamava
dunque
Mario?
Mario
Lombardi?
Non
lo
sapevo.
E
tra
l’altro
non
era
questo
l’importante,
pensai
mentre
papà,
finito
il
suo
rimprovero,
si
preparava
a
correre
in
ufficio.
Il
fatto
è
che
la
laconicità
di
Vincenzo
mi
era
sembrata
piú
minuziosa
di
qualunque
discorso
compiuto.
Luilo
odia…
continuai
a
pensare
finché
quel
pomeriggio
si
disgregò
in
una
normale
sera
di
fine
estate
e
io
mi
ritrovai
nel
letto
a
luci
spente.
E
poi,
nelle
settimane
successive,
«Vincenzo
Lombardi»
diventò
la
canzone
piú
suonata
nei
corridoi
della
nostra
scuola.
Capitoloquarto
«Non
posso
obbligarlo
a
dire
quello
che
non
pensa
e
non
posso
costringerlo
a
sorriderti.
E
non
voglio
metterlo
in
collegio,
fattene
una
ragione.
Sarebbe
peggio.
La
maggior
parte
dei
ragazzi,
quando
vengono
allontanati
dalle
persone
che
credono
di
odiare,
rischiano
di
sentirsene
traditi.
Allora
quel
sentimento
illusorio
può
davvero
capovolgersi
in
maniera
disastrosa.
È
nato
in
questa
casa,
in
questa
casa
c’è
tutto
ciò
di
cui
ha
bisogno
perché
le
sue
idee
si
sfaldino
una
dopo
l’altra.
Gli
ho
fatto
cambiare
scuola.
Ho
chiesto
a
Diego
di
tenerlo
d’occhio.
È
mio
figlio,
è
solo
questione
di
tempo,
allora
anche
quel
ridicolo
fazzoletto
nero
gli
cadrà
di
dosso.
Perché
lui
non
mi
odia,
non
riesce
davvero
a
odiarmi,
è
questo
che
alla
fine
lo
porterà
ad
arrendersi».
Ecco
le
parole
che
il
padre
di
Vincenzo
non
proferí
davanti
alla
sua
seconda
moglie
qualche
giorno
dopo
l’inizio
dell’anno
scolastico,
il
discorso
che
l’immaginazione
condivisa
degli
studenti
del
Cesare
Baronio
tagliò
e
cucí
freneticamente
intorno
a
chi,
già
a
partire
dalla
fine
di
settembre,
diventò
per
noi
una
specie
di
personaggio
leggendario.
Vincenzo
Lombardi…
Venimmo
a
sapere
che
sua
madre
era
morta
due
anni
prima
in
un
incidente
automobilistico
e
che
suo
padre
era
uno
degli
uomini
piú
in
vista
della
città:
il
titolare
dello
«studio
Lombardi»,
tempio
del
cavillo
giurisprudenziale
sin
dall’epoca
in
cui
i
caffè
del
lungomare
erano
pieni
di
uomini
in
tuba
che
discutevano
del
quarto
governo
Giolitti.
Non
fu
difficile
persuaderci
che
l’avvocato
Lombardi
era
un
concentrato
di
intelligenza
reazionaria,
un
uomo
che
considerava
il
proprio
figlio
un
erede
perfetto
proprio
perché
non
gli
riconosceva
una
volontà
autonoma,
e
che
suo
figlio
ricambiava
considerandolo
«il
nemico».
Ad
avallare
la
possibilità
che
lo
fosse
davvero
–
il
nemico
–
c’era
la
presenza
di
Diego,
l’autista
di
famiglia
soprannominato
«lo
Sghigno»
per
via
della
faccia
patibolare,
l’uomo
della
station
wagon
che
avevo
avuto
il
privilegio
di
guardare
da
vicino.
Io
lo
avevo
appreso
dal
diretto
interessato…
ma
a
un
certo
punto
tutti
sapevano
che,
per
ordine
dell’avvocato
Lombardi,
lo
Sghigno
seguiva
Vincenzo
ovunque
andasse.
Ce
n’era
a
sufficienza
per
infiammare
le
polveri
da
sparo
della
nostra
immaginazione.
Non
era
tutto.
Vincenzo
era
arrivato
nel
nostro
quartiere
da
una
galassia
sconosciuta
solo
adesso;
ma
l’anno
prima
c’era
stato
il
«grosso
guaio
al
Di
Cagno
Abbrescia»,
come
lo
definí
per
la
prima
volta
Miriam.
Questa
ragazza
della
sezione
C,
quando
ormai
le
voci
sul
conto
di
Vincenzo
si
stavano
ricomponendo
in
un
puzzle
già
seducente
di
suo,
si
avvicinò
durante
la
ricreazione
a
un
piccolo
gruppo
di
studenti
e
sfoderò
il
carico
da
novanta:
«non
sapete
cos’è
successo
l’anno
scorso,
che
poi
è
il
vero
motivo
per
cui
lui
è
adesso
qui
con
noi…»
disse
facendo
vibrare
ogni
singolo
disco
delle
lentiggini
che
le
invadevano
la
faccia.
Il
Di
Cagno
Abbrescia
era
il
liceo
a
cui
i
primari
del
policlinico,
e
i
giudici
del
tribunale,
e
i
componenti
della
giunta,
e
i
proprietari
dei
pastifici
che
da
decenni
erano
l’orgoglio
commerciale
della
nostra
provincia
sapevano
di
dover
mandare
i
propri
figli
senza
neanche
il
bisogno
di
informarsi.
Vincenzo
era
«ovviamente,
uno
studente
di
quella
scuola
lí».
Solo
che…
qui
Miriam
non
riuscí
a
essere
molto
precisa:
sembrava
che
Vincenzo
avesse
«inguaiato
la
figlia
di
un
pezzo
grosso»,
e
che
a
causa
di
questo
incidente,
attraverso
una
serie
di
passaggi
su
cui
la
ragazza
fu
di
un’indeterminatezza
ancora
piú
solenne,
era
stato
costretto
ad
abbandonare
il
Di
Cagno
Abbrescia
e
a
ripetere
l’anno
da
noi.
I
buchi
neri
lasciati
da
Miriam
vennero
riempiti
velocemente
dal
folto
esercito
di
Sherlock
Holmes
che
si
stava
occupando
del
caso.
Vincenzo
aveva
messo
incinta
la
figlia
di
un
giudice
della
Corte
d’appello.
Anzi
no,
era
la
figlia
di
un
senatore
che
ritornava
a
casa
solo
nel
weekend,
appena
in
tempo
per
invecchiare
di
vent’anni
in
un
secondo
folgorato
dalla
terribile
notizia.
L’aveva
messa
incinta
e
poi
l’aveva
costretta
ad
abortire.
L’aveva
messa
incinta
e
si
era
disinteressato
di
lei.
Non
l’aveva
costretta
ad
abortire
e
non
l’aveva
messa
incinta,
ma
aveva
esercitato
su
di
lei
una
serie
di
torture
psicologiche,
fino
a
quando
alla
ragazza
non
erano
saltati
i
nervi
e
aveva
chiesto
aiuto
ai
genitori…
Se
le
voci
erano
cosí
confuse
su
questo
passato
morbosamente
avvolto
dalle
nebbie,
il
fine
ultimo
dell’impresa
metteva
tutti
d’accordo.
Vincenzo
non
era
«inciampato
in
un
guaio»,
ma
aveva
pazientemente
crudelmente
scientificamente
manipolato
una
ragazza
la
cui
unica
colpa
consisteva
nell’essere
pazza
di
lui
fino
a
farne
la
sottile
cerbottana
con
cui
colpire
alle
spalle
l’avvocato.
Colpo
di
cerbottana
andato
a
segno…
Perché
poi
(ecco
un
altro
pettegolezzo
che
l’unanimità
trasformò
in
documento
ufficiale)
i
genitori
dell’«inguaiata»
erano
andati
a
protestare
da
suo
padre.
Dovevano
averlo
minacciato
o
addirittura
dovevano
averlo
ricattato.
O,
semplicemente,
il
padre
di
Vincenzo
aveva
ritenuto
che
un
sistema
per
mostrare
i
muscoli
a
suo
figlio
e
riparare
il
danno
procurato
a
una
famiglia
che
persino
a
lui
avrebbe
potuto
creare
dei
problemi,
fosse
levargli
il
responsabile
di
torno
–
aveva
spedito
Vincenzo
in
un
liceo
semisconosciuto,
dall’altra
parte
della
città,
in
un
quartiere
in
cui
gli
adulti,
al
solo
nome
«studio
Lombardi»,
dovevano
lottare
con
l’istinto
di
togliersi
il
cappello
dalla
testa.
Non
contento,
gli
aveva
messo
lo
Sghigno
alle
calcagna.
«Vi
rendete
conto
di
che
cosa
ha
dovuto
sopportare
quel
ragazzo?»,
disse
Mara
(IIIf)
stringendo
i
pugni
con
indignato
senso
di
impotenza.
Perché
era
vero,
«inguaiare»
una
ragazza
che
non
c’entrava
niente
non
era
il
piú
bello
dei
comportamenti.
E
tuttavia
(ci
era
chiaro
anche
questo
aspetto)
Vincenzo
non
avrebbe
alzato
cosí
tanto
il
livello
del
conflitto
se
non
avesse
avuto
tra
le
scatole
la
donna
che
diventò
piuttosto
genericamente
«la
seconda
moglie
dell’avvocato»,
e
che
solo
i
piú
sensibili
–
gli
studenti
per
i
quali
l’immedesimazione
era
tutto
nella
vita
–
arrivarono
a
definire
con
trasporto
«quella
troia
di
Sabrina».
Non
proprio
una
«signora»,
se
con
quel
termine
si
voleva
definire
una
persona
matura:
sembrava
che
Sabrina
avesse
appena
ventisei
anni;
dunque,
una
bella
ragazza
«poco
piú
grande
di
noi»
che
ogni
sabato
sera
si
confondeva
con
le
vere
signore
sfilando
per
le
vie
del
centro
prima
di
sparire
tra
le
luci
di
una
boutique
di
Valentino.
Ma
lei
non
era
una
«signora»
neanche
nel
senso
meno
letterale:
un
avvenente
pozzo
senza
fondo
di
ambizione,
ecco
cos’era,
un’avventuriera
fatta
e
finita
vista
l’abilità
con
cui,
discesa
con
quattro
lire
in
tasca
da
un
paesino
sperduto
delle
Murge
per
frequentare
giurisprudenza
a
Bari,
era
riuscita
a
fare
di
se
stessa
l’esca
fatale
per
uno
dei
pesci
piú
grossi
della
città.
Non
era
passato
neanche
un
anno
dalla
morte
della
mamma
di
Vincenzo,
e
lui
l’aveva
sposata.
L’ammaliatrice
senza
scrupoli,
la
Calypso
dell’altopiano
carsico.
Ovvio
che
Vincenzo
muovesse
guerra
anche
a
lei…
Che
meraviglioso
inizio
di
anno
scolastico!
Una
madre
morta
accidentalmente
al
posto
di
un
padre
assassinato,
una
smagliante
fanatica
della
haute
couture
nel
ruolo
dell’usurpatrice,
un
insondabile
sedicenne
capace
di
portare
il
lutto
al
braccio
per
due
anni…
era
difficile
chiedere
di
meglio
perché
il
mito
di
Amleto
rivivesse
nella
scuola
e
nella
classe
in
cui
avevo
la
fortuna
di
frequentare
il
primo
anno
di
liceo.
Ma
Vincenzo?
Non
il
protagonista
della
nostra
narrazione,
del
bisbigliante
frankensteiniano
assemblaggio
di
supposizioni
che
andò
a
comporre
il
personaggio,
ma
la
persona
in
carne
e
ossa:
come
reagí
alla
circostanza
di
essere
lo
studente
piú
chiacchierato
del
Cesare
Baronio?
Non
reagí.
Non
saltò
mai
sul
rozzo
carro
dell’agiografia
che
avevamo
preparato
per
lui.
Non
avallò
nessuna
delle
nostre
ipotesi.
Se
gli
accadeva
di
sorprendere
un
paio
di
studenti
mentre
confabulavano
di
aborti
clandestini
o
sanguinosi
conflitti
padrefiglio,
passava
avanti
facendo
finta
di
non
aver
sentito.
Prendeva
posto
all’ultimo
banco
e
aspettava
il
secondo
nove
di
fila
a
un’interrogazione
di
storia.
Rieccolo
a
pochi
metri
da
me.
Il
professore
ha
chiesto
a
Giannelli
di
ripercorrere
a
piacere
vita
e
carriera
di
Caio
Giulio
Cesare.
Questo
«a
piacere»,
nelle
intenzioni
del
docente
non
è
una
scelta
di
liberalità
ma
un
obbligo
dettato
dall’esasperazione,
visto
che
Ladisa,
interrogata
per
prima,
ha
già
confuso
Cesare
con
Ottaviano
Augusto.
Però
Emilio
Giannelli
è
uno
studente
in
gamba.
Brucia
in
pochi
minuti
la
giovinezza
di
Cesare.
Affronta
la
guerra
di
Spagna.
Si
immerge
senza
difficoltà
nel
lungo
braccio
di
ferro
con
Pompeo.
Dopo
la
conquista
della
Gallia,
si
dà
però
la
zappa
sui
piedi:
«…ottenne
in
questo
modo
la
carica
di
dictator
per
un
periodo
di…
un
periodo…
un
attimo,
professore…»
Tipico
di
Giannelli.
Nessuno
gli
ha
chiesto
di
questa
carica
ma
lui
ha
voluto
strafare,
scavandosi
la
fossa
che
non
gli
frutterà
piú
di
un
7
all’interrogazione.
«D’accordo,
questa
non
la
sai,
–
dice
il
professore,
–
vediamo
se
c’è
un
volontario
capace
di
aiutarci…»
Si
guarda
intorno
contando
zero
mani
alzate.
Dopo
alcuni
secondi,
la
sua
voce
torna
a
risuonare:
«Rubino,
–
dice,
–
allora,
possiamo
sapere
quanto
dura
questa
benedetta
carica?»
Giuseppe
risponde
prontamente:
«Quattro
secoli!»,
e
segue
divertito
la
mano
dell’esaminatore
che
traccia
sul
registro
il
sensuale,
inconfondibile
segno
di
un
3
pieno.
Il
professore
riporta
il
proprio
sguardo
su
di
noi.
Ripeto
mentalmente:
dieci anni,
dieci anni, dura dieci o
quindici anni quella
carica di merda…
fino
a
quando
sento
che
la
sua
attenzione
mi
ha
scavalcato
e
ora
punta
verso
gli
ultimi
banchi.
Scarta
Giannoccaro.
Minetti
è
fresca
di
interrogazione.
Puglisi…
Puglisi
proprio
no,
Puglisi
rimarrebbe
pietrificato
con
il
suo
sguardo
da
martire
involontario
e
non
è
il
caso
di
farsi
rovinare
la
mattinata
fino
a
questo
punto.
«Lombardi?,
te
la
senti
di
darci
una
mano?»
Vincenzo
si
alza
in
piedi
e
inizia
a
parlare
di
Cesare.
Lo
fa
a
modo
suo.
Racconta
le
imprese
del
grande
dittatore
con
una
tale
ricchezza
di
particolari
che
sembrerebbe
appena
tornato
da
una
riunione
nel
vecchio
senato
romano.
L’episodio
dei
Lupercali…
l’incontro
segreto
tra
Bruto
e
Cassio…
il
vitello
che
Cesare
fa
sacrificare
alla
divinità
a
pochi
giorni
dalle
Idi
di
marzo
senza
che
nessuno
trovi
il
cuore
della
vittima…
Il
professore
lo
interrompe
dimenticandosi
che
la
domanda
iniziale
è
stata
elusa:
«Va
bene
Lombardi,
hai
dimostrato
di
sapere
il
fatto
tuo.
Si
vede
che
hai
studiato
persino
da
altri
libri.
La
faccenda
della
bestia
senza
cuore,
per
esempio…
non
vogliamo
neanche
sapere
da
dove
l’hai
pescata,
ti
abbuoniamo
l’ipotesi
di
un’invenzione
estemporanea».
Vincenzo
si
guarda
intorno
stupefatto.
«Come
sarebbe
a
dire
da
dove
l’ho
pescata?»
dice
tornando
a
puntare
la
cattedra.
Poi
si
costringe
a
proseguire:
«Se
vogliamo
l’ho
pescata
direttamente
dal
fiume
Avon,
professore.
Il
Giulio
Cesare
di
Shakespeare…»
E
qui
il
plurale
maiestatis
del
docente
vacilla
per
la
prima
volta
davanti
ai
nostri
occhi.
Poteva
essere
il
vantaggio
del
ripetente.
Poteva
darsi
che
durante
l’estate
avesse
letto
tutto
Shakespeare
come
io
avevo
letto
tutto
Silver
Surfer.
Ma
perché,
avendo
in
canna
un
colpo
del
genere,
aveva
rischiato
di
sprecarlo
quando
chiunque
altro,
vantando
la
metà
della
sua
preparazione,
avrebbe
alzato
la
mano
e
si
sarebbe
fatto
interrogare
come
volontario?
Era
il
massimo
della
discrezione
o
sperava
di
dare
nell’occhio?
Chi
era,
in
definitiva,
questo
ragazzo
dal
volto
angelico
che,
dopo
avere
irriso
controvoglia
un
uomo
di
sessant’anni,
tornava
a
sedersi
al
proprio
posto
facendo
finta
di
non
essere
il
maniacale
oggetto
d’attenzione
di
tutti
i
suoi
compagni?
Ci
confondeva,
questo
era
certo…
perché
in
certi
momenti,
guardandolo,
arrivavamo
a
credere
che
lui
non
fosse
il
figlio
dell’avvocato
Lombardi,
che
il
«grosso
guaio
al
Di
Cagno
Abbrescia»
fosse
capitato
a
un
altro,
e
che
perfino
sua
madre
fosse
viva.
Eppure
il
lutto
al
braccio
era
reale.
Nero,
assurdo
forse,
ma
reale.
«Ti
rendi
conto
con
chi
trascorrerà
i
prossimi
anni?»
Una
prima
conferma
che
le
chiacchiere
su
Vincenzo
non
erano
campate
per
aria
mi
arrivò
fuori
dalla
scuola.
«Ti
rendi
conto?
–
sentii
ripetere
a
mio
padre
chiuso
in
cucina
con
la
mamma
in
una
sera
di
fine
settembre,
–
certe
amicizie
possono
essere
determinanti
per
il
resto
della
vita.
Io,
per
esempio,
–
continuò,
–
se
fosse
capitato
a me
di
frequentare
da
ragazzo
il
figlio
dell’ambasciatore,
per
ottenere
un
incontro
con
i
manager
della
grande
distribuzione
ci
avrei
messo
la
metà
del
tempo».
Aveva
fatto
le
sue
indagini
e
ora
poteva
rilassarsi:
il
Cesare
Baronio
era
davvero
il
luogo
dove
i
rampolli
della
crema
cittadina
si
preparavano
alla
vita,
se
una
persona
come
Mario
Lombardi
aveva
deciso
di
iscriverci
suo
figlio.
«Dieci
anni,
–
continuò
papà
a
proposito
della
grande
distribuzione,
–
dieci
anni
di
biglietti
da
visita
e
di
cene
tutte
pagate
dame!»
Persi
il
resto
del
discorso
ma
il
concetto
era
chiaro.
Papà
era
fissato
con
la
faccenda
delle
buone
frequentazioni,
e
l’avvocato
Lombardi
doveva
avere
ai
suoi
occhi
la
stessa
importanza
di
lord
Wellington
alla
corte
di
Talleyrand.
Non
se
lo
dissero
l’un
l’altro
e
ovviamente
non
vennero
a
dirlo
a
me,
ma
c’era
da
scommettere
che
in
cuor
loro
i
miei
genitori
erano
riusciti
a
trasformare
la
riprovevole
zuffa
di
cui
mi
avevano
accusato
in
un
colpo
di
fortuna.
Sembrava
proprio
che
avessi
fatto
a
pugni
con
la
persona
giusta.
Sí,
ma
l’altra
persona?
L’unico
che
aveva
dimostrato
di
non
avere
alcun
problema
ad
affrontare
Vincenzo
a
viso
aperto?
Ecco…
Giuseppe
fu
anche
l’unico
a
dimostrarsi
completamente
disinteressato
al
nostro
lavoro
di
mitografi.
Mi
chiedevo
cosa,
precisamente,
potesse
spingere
un
ragazzo
di
quindici
anni
che
se
ne
andava
in
giro
con
mezzo
milione
nel
portafogli
a
trascurare
il
personaggio
leggendario
a
cui
aveva
avuto
l’onore
di
far
perdere
il
controllo.
Era
geloso
di
Vincenzo?
Non
gliene
importava
niente?
O
al
contrario,
–
arrivai
a
pensare
–,
cosí
come
non
avevano
avuto
bisogno
di
parlarsi
per
saltare
uno
al
collo
dell’altro,
adesso
potevano
aver
stretto
un
silenzioso
patto
di
riservatezza.
Di
conseguenza,
c’erano
i
presupposti
perché
io
potessi
essere
geloso
di
loro
due?
Qualunque
fosse
la
risposta,
la
conseguenza
fu
che
(subito
dopo
il
diretto
interessato)
Giuseppe
diventò
la
persona
con
cui
era
piú
difficile
parlare
di
Vincenzo.
Ma
per
alimentare
la
nostra
curiosità
non
servivano
di
certo
le
parole.
Poco
dopo
l’inizio
di
ottobre,
Vincenzo
entrò
in
classe
alla
quarta
ora
per
cinque
giorni
consecutivi.
Non
forní
spiegazioni
sui
ritardi,
né
a
noi
né
tantomeno
ai
professori.
Questo
comportamento
ci
costrinse
a
elaborare
diverse
ipotesi
su
come
trascorresse
il
tempo
fin
quasi
a
mezzogiorno.
Era
impegnato
a
seminare
il
suo
autista?
Andava
in
giro
per
la
città
sprofondato
in
pensieri
abissali?
Raggiungeva
a
piedi
il
cimitero
per
giurare
vendetta
sulla
lapide
di
sua
madre?
Ma
qualche
giorno
dopo,
alle
otto
del
mattino,
chiusi
in
un
autobus
affollato
di
impiegati
e
altri
studenti
come
noi,
io
e
Giannelli
lo
vedemmo.
Se
ne
stava
in
fondo
alla
vettura,
curvo
tra
i
piloni
di
sostegno.
E
aveva
una
ragazza
tra
le
mani,
una
che
ci
sembrava
di
aver
già
visto
oltre
il
cancello
di
un
liceo
classico
poco
distante
dal
Cesare
Baronio.
Tutta
l’indistinzione
da
cui
era
stata
circondata
questa
quattordicenne
in
gonnellina
scozzese
si
rapprese
all’istante
in
un
sentimento
di
invidia
e
rispetto
e
timore
per
come
adesso
lui
se
la
stava
pomiciando
portando
con
sicurezza
la
mano
sotto
il
cotone
di
una
maglietta
dai
colori
accesi
su
cui
era
scritto:
LAND
BY
THE
GRACE
OF
GOD.
Giannelli
si
fece
avanti.
Vincenzo
lo
incenerí
con
lo
sguardo.
Giannelli
tornò
verso
di
me
senza
dire
una
parola.
Era
chiaro
che
Vincenzo
non
avrebbe
tollerato
neanche
che
gli
facessimo
l’occhiolino
prima
di
smontare
dalla
vettura,
era
ovvio
che
ora
saremmo
scesi
dall’autobus
lasciando
lui
e
lei
a
una
deriva
metropolitana
che
–
premuti
l’uno
contro
l’altra
sui
finestroni
impolverati
e
colpiti
dal
sole
–
li
avrebbe
riportati
davanti
alle
rispettive
scuole
con
un
ritardo
colossale.
Lei
allora
si
sarebbe
sentita
troppo
elettrizzata
e
troppo
in
colpa
per
entrare.
Vincenzo
avrebbe
fatto
invece
la
sua
comparsa
alla
quarta
ora
armato
di
un
foglietto
dalla
firma
contraffatta,
sfidando
l’ira
dei
docenti,
protetto
dall’alone
magico
che
noi
gli
avremmo
costruito
intorno.
Questo
sarebbe
successo
solo
alla
fine
della
giornata.
Per
ora
il
professore
ci
raccontava
di
come
Costantino
sconfisse
le
truppe
di
Massenzio
a
Ponte
Milvio:
«L’imperatore
vide
in
sogno
una
croce
fiammeggiante,
e
alla
sommità
del
simbolo
cristiano
c’era
scritto:
in
hoc signo vinces…»
Ma
noi,
trasformatici
in
un
gruppo
di
coreuti,
come
tanti
neuroni
collegati
a
una
sola
mente
pensavamo
tutti
insieme
all’impresa
di
Vincenzo.
Vincenzo
e
la
ragazza.
«Il 115 prosegue la sua
corsa verso sud…»
diceva
il
coro
a
voce
alta.
Probabilmente
sono
scesi
tra
le
strade
di
Japigia,
hanno
visto
i
palazzi
popolari
che
si
alzano
imponenti
verso
il
cielo
e
poi
hanno
imboccato
la
strada
provinciale
in
direzione
della
costa.
Dopo
alcuni
chilometri
di
asfalto,
sono
comparse
le
prime
case
di
villeggiatura,
traboccanti
di
gerani
o
abbandonate
da
decenni
in
un
profumo
di
fogna
e
rosmarino.
A
questo
punto
lui
ha
detto:
«Per
di
qua…»
e
hanno
varcato
un
arco
di
mattoni
oltre
il
quale
le
erbacce
nascondono
i
resti
di
un
vecchio
frigorifero.
È
nella
semioscurità
di
questa
villa
diroccata
che
adesso
lui
la
sta
spogliando.
Le
sta
sfilando
di
dosso
la
maglietta
mentre
il
vento,
passando
nell’oblò
di
una
lavatrice
distrutta
dalla
ruggine,
restituisce
il
vero
senso
della
profondità
marina.
È
qui
che
lui
l’ha
messa
a
terra
facendo
aderire
la
sua
figura
atletica
allo
splendore
lattiginoso
della
ragazza.
(Se
dovevamo
pensare
alla
ragazza,
diventavamo
un
tutt’uno
con
la
sua
resistenza,
la
sua
paura,
infine
il
suo
sconcio
e
violento
abbandono
di
quattordicenne).
Ma
se
pensavamo
a
Vincenzo
non
trovavamo
niente.
E
quando
lui
tornò
in
classe
senza
dare
l’impressione
di
volersi
vantare
di
alcunché,
ci
sembrò
di
non
essere
capaci
di
mettere
perfettamente
a
fuoco
la
sua
faccia.
A
molti
chilometri
di
distanza,
vedevamo
invece
molto
bene
i
collant
della
ragazza:
il
nylon
sulla
carcassa
del
frigorifero,
abbandonato
nella
stasi
del
mattino
come
la
pelle
di
un
serpente.
La
nostra
immaginazione
era
troppo
fragile
per
sollevare
la
parte
non
emersa
di
Vincenzo.
Nei
giorni
successivi
venimmo
però
a
sapere
tutto
di
lei.
Una,
molte
voci
ci
raggiunsero
per
dirci
che
si
chiamava
Giulia.
E
sí,
ricordavamo
bene:
frequentava
il
primo
anno
di
un
liceo
classico
gestito
dalle
suore
a
pochi
incroci
dalla
nostra
scuola.
Era
la
figlia
di
un
parrucchiere
piuttosto
noto
in
città,
un
uomo
sempre
sciolto
e
abbronzato,
furbo
abbastanza
da
sgrossare
le
buone
maniere
dall’ampollosità
della
tradizione
meridionale.
Non
«signora,
si
accomodi…»
ma
«splendore!»,
cosí
accoglieva
le
sue
clienti
in
oro
e
pantacollant,
ricche
madri
di
famiglia
spietatamente
sensibili
a
un
nuovo
tipo
di
approccio
che
le
faceva
sentire
giovani
e
aggiornate.
Giulia
era
cresciuta
tra
spruzzi
di
lacca
e
maschere
di
paraffina,
salutata
nel
salone
di
bellezza
dalle
clienti
che
le
dicevano
quanto
era
bella
in
salopette,
quanto
era
seducente
con
le
prime
minigonne
a
frange
rosse
e
nere,
e
suo
padre
per
completare
il
discorso
le
dava
una
plateale
pacca
sul
sedere
–
un
ossequio
alle
signore,
non
a
sua
figlia.
Ma
Giulia
non
coglieva
la
sottigliezza,
si
ricavava
tutta
contenta
uno
spazio
tra
le
fluorescenze
blu
oceano
del
solarium
sentendosi
l’infanta
prediletta
di
un
nuovo
ordine
mondiale.
«È cresciuta in questo
modo,
–
diceva
il
coro,
–
e
poi sulla sua strada ha
trovato Vincenzo…»
Si
era
lasciata
trascinare
da
lui
in
luoghi
della
città
a
noi
completamente
sconosciuti,
lo
aveva
seguito
immaginando
un’ideale
continuità
con
il
profumo
di
balsamo
e
le
mani
di
suo
padre
e
Morten
Harket
in
canottiera
sulla
copertina
del
disco
dell’anno.
Stupidamente,
perché
nel
giro
di
un’altra
settimana
il
cerchio
si
chiudeva
intorno
a
Giulia.
La
avvistammo
alle
tre
del
pomeriggio
di
un
ventoso
giovedí
nel
luogo
del
loro
appuntamento
quotidiano,
sovrastata
dalla
statua
di
san
Giorgio
davanti
all’istituto
delle
suore
ma
per
il
resto
completamente
sola,
in
canottiera
e
gonna
di
cotone,
con
un
giubbotto
jeans
ripiegato
tra
le
mani
e
un
paio
di
stivali
da
cowboy
che
nessuno
le
aveva
mai
visto.
Non
sapevamo
se
fosse
stato
lui
a
disertare
l’appuntamento
o
se
le
avesse
parlato
chiaro
e
tondo,
ma
in
ogni
caso
la
ragazza
sembrava
contare
disperatamente
sul
fatto
che
la
sua
presenza
lí
–
ritta
per
un’ora
e
mezzo
trattenendo
le
lacrime
–
sarebbe
bastata
per
evocare
l’apparizione
di
Vincenzo.
Dopo
un’altra
mezz’ora
fu
chiaro
che
era
stata
abbandonata.
Continuava
a
guardarsi
gli
stivali
che
ora
sembravano
incredibilmente
stupidi
e
si
stringeva
nelle
braccia
del
giubbotto.
Iniziò
ad
alzarsi
un
vento
freddo,
cosí
pensammo
che
fra
non
molto
sarebbe
stata
costretta
a
tornarsene
nel
salone
di
bellezza
–
dove,
attraversando
le
trine
di
plastica
colorata
con
gli
occhi
circondati
di
mascara
liquefatto,
per
la
prima
volta
sarebbe
stata
fulminata
dal
sospetto
che
tutti
quei
profumi,
quelle
creme,
quei
phon
argentati
e
perfino
il
secondo
bottone
fuggito
all’asola
della
camicia
di
suo
padre,
altro
non
fossero
che
i
componenti
di
un’implacabile
macchina
per
la
sopravvivenza.
Cominciò
ad
allontanarsi.
Alcuni
di
noi
sentirono
a
quel
punto
la
tentazione
di
stringerla
come
una
muta
di
cani
può
circondare
qualcosa
di
morente
per
farla
a
pezzi,
e
noi
per
dirle:
«Lui
non
verrà,
andiamo
a
farci
un
giro…»
scoprendo
con
sgomento
che
quando
le
difese
altrui
sono
azzerate,
il
primo
impulso
è
approfittarne.
Cosí
ecco
la
testimonianza
di
Vincenzo:
una
ragazza
abbandonata
davanti
al
cortile
di
un
istituto
di
suore,
e
noi
a
ringraziare
e
maledire
l’insicurezza
che
ci
impediva
di
saltarle
addosso.
Lontano
dall’eccitazione
del
coro
scolastico
nel
quale
anch’io
facevo
la
mia
parte,
mi
accorsi
che
la
realtà
era
piú
imprevedibile
di
quanto
noi
potessimo
immaginare.
Fui
costretto
a
rendermene
conto
un
pomeriggio
di
metà
ottobre,
il
sabato
innaturalmente
caldo
in
cui
Giuseppe
invitò
me
e
Vincenzo
nella
sua
villa
hollywoodiana.
La
disponibilità
di
denaro
del
nostro
amico
dai
capelli
rossi
era
pari
soltanto
alla
disinvoltura
con
cui
ne
faceva
uso.
Lo
vedemmo
alternativamente
a
bordo
di
una
Vespa
color
prugna,
di
un’Aprilia
Red
Rose,
di
una
Zundapp
125
per
portare
la
quale
non
possedeva
neanche
il
patentino.
Nei
primi
giorni
di
pioggia,
iniziò
a
scandalizzare
i
docenti
arrivando
a
scuola
in
Lamborghini.
Sentivamo
il
rombo
del
motore
a
molte
curve
di
distanza
e
poi,
davanti
ai
nostri
sguardi
stupefatti,
sfilava
una
Countach
5000s
rosso
fuoco
guidata
da
un
corpulento
signore
in
canottiera
che
non
sembrava
avere
niente
a
che
spartire
con
le
costosissime
linee
della
vettura.
Giuseppe
smontava
dal
coupé
e
ci
spiazzava
con
il
solito
sorriso:
«Be’,
che
c’è
di
tanto
strano
da
guardare?»
Non
solo
la
sua
capacità
di
spesa
sembrava
illimitata;
ne
beneficiavamo
pure
noi.
Già
nel
primo
quadrimestre,
piú
di
uno
studente
si
era
trovato
a
ringraziarlo
per
un
cubo
di
Rubik,
un
modellino
Bburago,
un
45
giri
acquistato
e
regalato
senza
pensarci
due
volte.
Per
non
parlare
degli
ingressi
al
cinema
pagati
da
lui.
E
soprattutto
la
sala
giochi:
quando
agli
altri
ragazzi
finivano
i
gettoni,
Giuseppe
cambiava
per
tutti
un
biglietto
da
cento.
«Eri
stato
a
contarti
gli
spiccioli
in
tasca
per
l’intera
settimana
e
a
un
certo
punto
arrivava
lui,
e
be’…
avevi
finalmente
una
speranza
di
superare
il
quarto
livello
a
Donkey
Kong,
–
questo
era
Fulvio
(IId),
interrogato
da
me
quasi
vent’anni
dopo:
–
poi
però
la
cosa
divenne
ossessionante:
dopo
decine,
forse
centinaia
di
partite
a
Donkey
Kong,
tornavo
a
casa
senza
riuscire
a
togliermi
dagli
occhi
l’immagine
dello
scimmione…»
I
nostri
genitori
disapprovavano
lo
stile
di
vita
di
Giuseppe.
Ci
mettevano
in
guardia
dal
frequentarlo
troppo,
partivano
alla
carica
con
interminabili
tirate
su
un
tipo
di
educazione
che
–
senza
essersi
mai
presi
il
disturbo
di
conoscere
mamma
e
papà
Rubino
–
definivano
senza
esitazione
«disastrosa».
Ma
noi
ce
ne
fregavamo:
i
suoi
lo
riempivano
di
soldi
e
Giuseppe
li
spendeva.
Cos’altro
c’era
da
spiegare?
Eppure,
nel
maneggiare
tutta
quella
carta
filigranata,
brillava
in
lui
anche
qualcosa
che
i
nostri
genitori
non
sarebbero
mai
riusciti
a
comprendere.
Qualcosa
di
violento
e
di
(sí,
la
definizione
era
esatta)
purgatoriale.
Da
una
parte
dava
l’impressione
di
essere
disposto
a
sacrificare
anche
l’ultimo
spicciolo
pur
di
tenere
in
piedi
uno
show
di
cui
tutti
dovevamo
essere
partecipi.
Dall’altra
sembrava
quasi
che,
se
solo
avesse
posseduto
il
denaro
necessario
per
comprare
il
mondo
intero,
lo
avrebbe
fatto
al
solo
scopo
di
potersi
sbarazzare
di
ogni
cosa:
del
denaro,
del
mondo
e
perfino
di
se
stesso.
Un
desiderio
di
fare
«piazza
pulita»
che
vantava
remoti
legami
con
lo
stile
di
Vincenzo.
Era
per
questo,
forse,
che
si
erano
riconosciuti
in
quel
modo
il
primo
giorno
di
scuola.
E
sempre
questa
era
probabilmente
la
ragione
per
la
quale,
quel
sabato
pomeriggio,
Giuseppe
invitò
solo
me
e
Vincenzo
a
fare
un
giro
di
giostra
nella
sua
villa
fuori
città.
«Oh,
ragazzi,
la
dovete
vedere!»
iniziò
a
dirci
a
partire
dall’inizio
della
settimana.
Prendemmo
l’autobus
all’inizio
di
via
Napoli
e
abbandonammo
il
centro
abitato,
addentrandoci
in
un
paesaggio
di
campi
arati.
Superato
un
viadotto
sospeso
sulla
linea
ferroviaria,
un
improvviso
furore
di
siepi
e
di
aiuole
di
begonie
annunciò
un
comprensorio
di
ville
che
definire
vistose
era
poco.
Si
alzavano
per
due
o
tre
piani
prendendo
slancio
da
prati
all’inglese
disseminati
di
biciclette
e
piante
ornamentali
che
culminavano
nella
superficie
azzurra
delle
piscine
private
–
man
mano
che
si
procedeva
lungo
il
viale
principale,
le
costruzioni
si
presentavano
cosí
diverse
per
stile,
dimensioni
e
capricci
architettonici
da
far
pensare
a
un
centro
residenziale
interamente
costruito
in
maniera
abusiva.
La
casa
dei
genitori
di
Giuseppe
non
sfigurava
in
quell’eccesso
generalizzato.
Nella
vetrata
che
dominava
il
piano
terra
si
riflettevano
i
discoboli
di
gesso
–
una
sorta
di
incuboellenico-seriale
che
correva
sull’erba
sospinto
dalle
rose
selvatiche
fino
a
incontrare
il
luccichio
del
trampolino
ai
bordi
dell’immancabile
piscina.
Non
appena
mettemmo
piede
sul
vialetto,
una
macchia
marrone
screziato
ci
corse
incontro
con
disperata
vitalità:
sotto
il
minuscolo
cappotto
di
visone
si
nascondeva
Pippa,
il
cane
mosca.
Fece
le
feste
ai
nuovi
arrivati
e
iniziò
a
scorrazzare
tra
le
siepi
–
inseguiva
le
farfalle,
mordeva
i
pantaloni
dei
giardinieri,
girava
intorno
ai
muratori
e
agli
elettricisti
che
si
davano
da
fare
come
se
il
giardino
e
la
villa
e
loro
stessi
fossero
fusi
in
un
cantiere
permanente
alzato
verso
la
felicità.
La
mamma
di
Giuseppe
ci
accolse
in
veranda
con
tre
spremute
di
pompelmo.
La
signora
Rosa
era
una
donna
bassa
e
robusta,
vestita
con
jeans
alla
caviglia
punteggiati
di
strass
e
uno
striminzito
giacchetto
rosa
shocking
che
le
esaltava
il
petto
carico
di
ori:
«Salve
ragazzi,
–
disse
in
maniera
spiccia
e
cordiale
al
tempo
stesso,
–
fate
come
foste
a
casa
vostra.
Dimenticatevi
la
scuola:
oggi
è
sabato,
fa
un
caldo
pazzesco
e
noi
non
abbiamo
ancora
svuotato
la
pisci…»
Non
finí
la
frase,
perché
in
veranda
era
appena
arrivato
un
ragazzo
con
un
paio
di
cesoie
in
mano.
«Be’,
che
ti
è
successo?»,
gli
chiese
dimenticandosi
di
noi.
L’aiuto-giardiniere
disse
con
contrizione
che
un
parassita
sconosciuto
aveva
divorato
il
ficus
dall’interno.
Allora
la
signora
Rosa,
come
sfidata
dal
Nulla
in
persona,
reagí
immediatamente:
si
disinteressò
anche
del
ragazzo,
arpionò
il
telefono
a
forma
di
salamandra
appeso
alla
parete,
compose
il
numero
e
urlò
tutta
trionfante:
«Pasqua’!
ai
frassini
aggiungeteci
tre
palme,
belle
grosse!»
Una
voce
maschile
arrivò
gracchiando
dal
ricevitore:
domandava
se
da
datteri,
da
olio
o
da
cocco,
dovevano
essere
queste
palme;
un
dettaglio
molto
trascurabile,
se
stai
lottando
contro
il
Nulla…
«Grosse
devono
essere
le
palme,
grosse
grosse!»,
ribadí
la
donna.
A
quel
punto
comparve
un
enorme
Buddha
portato
da
due
uomini
che
domandarono
con
un
grugnito
dove
avrebbero
potuto
appoggiarlo.
La
signora
fece
un
gesto
che
mimava
l’infinito,
come
a
dire
che
ogni
posto
andava
bene.
Giuseppe
disse:
«Venite
su
in
camera,
andiamo
a
prendere
i
costumi».
Dopo
avere
sguazzato
in
piscina
per
un’ora,
Giuseppe
fece
uscire
dalla
vasca
il
suo
corpo
bianco
e
molliccio:
«Ne
avete
abbastanza?
–
disse,
–
adesso
vi
faccio
vedere
la
vera
attrazione
della
casa».
Iniziammo
a
rivestirci.
Lui
corse
nel
soggiorno
pieno
di
bambole
di
porcellana
e
finte
pelli
di
leopardo,
e
ritornò
da
noi
stringendo
in
mano
una
scatola
nera.
Lo
seguimmo
fino
al
vialetto
d’ingresso,
dove
il
selciato
si
allargava
in
uno
spazio
rettangolare
percorso
da
quattro
piccoli
binari.
Il
cielo
aveva
iniziato
a
coprirsi
di
nuvole,
il
vento
delle
sei
del
pomeriggio
si
alzava
minaccioso
raffreddandoci
i
vestiti.
Giuseppe
disse:
«Guardate,
guardate
bene!»
Maneggiò
il
telecomando
con
trattenuta
esaltazione
e,
subito
dopo,
la
terra
iniziò
a
scuotersi
sotto
i
nostri
piedi.
Sentimmo
il
rumore
del
metallo
che
andava
liberandosi
dalla
tirannia
delle
giunture,
e
poi
si
sollevò
la
Piattaforma:
un
gigantesco
montacarichi
simile
allo
scheletro
dei
palazzi
in
costruzione,
quattro
pesanti
piloni
d’acciaio
separati
da
tre
pedane
rivestite
d’alluminio
che
salivano
tremando
verso
il
cielo,
mostrandoci
il
profilo
appiattito
della
Lamborghini
Countach,
le
cromature
argentate
di
una
Mercedes,
infine
la
Fiat
Uno
che
i
Rubino
avevano
acquistato
perché
chiunque
potesse
farne
uso.
Il
parcheggio
semovente
svettava
superando
in
altezza
l’ultimo
terrazzo
della
villa.
Non
esisteva
alcun
motivo
logico
che
potesse
spingere
qualcuno
a
rovesciare
una
barca
di
denaro
in
una
simile
mostruosità,
ma
Giuseppe
ci
mostrava
lo
spettacolo
con
feroce
soddisfazione.
Il
vento
trascinava
foglie
morte,
rovesciava
sedie
di
plastica…
Un
lampo
improvviso
invase
il
cielo
con
una
luce
livida
e
sulfurea,
portando
l’entusiasmo
di
Giuseppe
a
deformarsi
fino
a
toccare
un
nucleo
opaco
e
indecifrabile.
Cadde
qualche
goccia
di
pioggia.
Poi
il
vento
trascinò
le
nuvole
lontano.
Il
padre
di
Giuseppe
lo
conoscemmo
qualche
ora
dopo.
Alle
otto
di
sera
il
giardino
fu
percorso
da
un
incrocio
di
fasci
luminosi.
Tre
camioncini
borbottanti
parcheggiarono
a
pochi
metri
dal
cancello,
e
sul
vialetto
comparve
una
squadra
di
uomini
che
parlavano
tra
loro
e
si
battevano
le
mani
sulle
tute
da
lavoro
lasciandosi
alle
spalle
piccole
nuvole
di
polvere.
Arrivò
prima
Cosimo,
il
fratello
maggiore:
un
bel
ragazzo
con
i
capelli
ricci
e
le
spalle
da
giocatore
di
rugby.
Poi
fu
la
volta
di
suo
padre:
Domenico
Rubino
salutò
Giuseppe
con
uno
scappellotto,
bevve
un
po’
d’acqua
direttamente
dalla
pompa
del
giardino
e
quindi
si
presentò
a
me
e
a
Vincenzo
stringendoci
la
mano
con
vigore.
Lo
avevamo
già
visto
alla
guida
della
Lamborghini
nelle
giornate
di
pioggia:
un
signore
panciuto
e
fermo
sulla
terra,
con
un
bel
paio
di
baffi
bianchi
e
le
orecchie
percorse
da
una
ragnatela
di
venuzze
rosse.
La
canottiera
con
il
logo
EUROGARDEN
(lo
stesso
che
scorreva
sulla
fiancata
dei
camioncini)
gli
scopriva
sulle
spalle
una
selva
di
peli
elettricamente
alzati
verso
l’alto.
Ci
chiese
di
fermarci
a
cena
e
si
avviò
verso
la
villa.
Cosí
eccolo
di
spalle,
l’uomo
piú
criticato
dai
professori
del
Cesare
Baronio
nonché
dai
nostri
genitori.
Se
si
fosse
trattato
di
un
vecchio
capitano
d’industria
con
la
puzza
sotto
il
naso
e
il
garage
occupato
da
un’intera
collezione
di
Lamborghini,
nessuno
avrebbe
avuto
niente
da
ridire.
Il
suo
passato,
come
quello
della
mamma
di
Giuseppe,
era
invece
confinato
nel
sottoproletariato
urbano
di
inizio
anni
Cinquanta:
figli
di
contadini
ritrovatisi
in
città
senza
uno
straccio
di
lavoro.
Da
bambino
aveva
lavorato
come
garzone
in
bar
e
autofficine,
facendosi
le
ossa
tra
pavimenti
sporchi
d’olio
in
un
periodo
in
cui
prendere
a
ceffoni
un
ragazzo
di
bottega
o
fargli
trovare
un
sostituto
a
montare
una
marmitta
senza
averlo
prima
licenziato
rappresentava
la
normalità.
Aveva
fatto
il
saldatore,
il
marmista,
aveva
aperto
un
chiosco
di
panini
che
qualcuno
gli
aveva
incendiato
in
seguito
a
una
lite.
E
adesso
possedeva
questa
villa
gigantesca,
questi
discoboli
di
gesso,
queste
siepi
rigogliose,
questa
piscina…
Era
successo
che,
dalla
sera
alla
mattina,
Domenico
Rubino
aveva
messo
su
un’azienda
di
impianti
di
irrigazione
e
forniture
elettriche
che
era
partita
a
meraviglia
facendogli
esplodere
letteralmente
il
giro
d’affari
tra
le
mani.
La
Eurogarden
aveva
continuato
a
fare
faville
anche
negli
anni
successivi:
c’erano
interi
eserciti
di
brizzolati
in
lenti
scure
che
acquistavano,
costruivano,
ristrutturavano
continuamente.
Obbedendo
a
una
vecchia
tradizione,
il
padre
di
Giuseppe
aveva
allora
continuato
a
prendere
con
sé
cognati
e
cugini
e
fratelli
di
cugini…
Arrivavano
in
azienda
come
da
una
lunga
migrazione,
e
se
alla
Eurogarden
non
c’era
un
posto
libero
si
spingevano
senza
problemi
fino
in
villa
(uno
veniva
messo
a
fare
il
giardiniere,
una
la
cuoca,
un
altro
ancora
passava
il
tempo
a
imbiancare
muri,
a
spostare
mobili,
ad
aggiustare
cavi
elettrici
che
saltavano
continuamente).
Arrivavano
dai
bar,
dalle
officine,
dai
cimiteri
di
automobili,
risalivano
dalle
stesse
zone
d’ombra
da
cui
era
emerso
anche
Domenico
Rubino
per
ritrovarsi
tutti
insieme
in
una
grande
famiglia
allargata.
Cenammo
intorno
a
cinque
tavoli
incastrati
tra
di
loro
sotto
un
tendone
bianco.
Dal
barbecue
salivano
continuamente
fumo
e
scintille.
Le
donne,
dirette
energicamente
dalla
signora
Rosa,
facevano
avanti
e
indietro
coi
vassoi
pieni
di
cibo.
Il
padre
di
Giuseppe
sedeva
a
capotavola
in
un
morbido
accappatoio
di
spugna.
Parlava
con
i
propri
dipendenti
cercando
di
annullare
ogni
ordine
gerarchico,
come
cercasse
di
convincerli
che
–
tra
le
guantiere
traboccanti
di
arrosto
e
le
bottiglie
di
Amarone
–
fossero
diventati
ricchi
tutti
quanti
insieme.
Solo
che
poi,
poco
prima
di
mezzanotte,
quando
sulla
tavola
erano
rimasti
solo
i
bicchierini
da
dessert
e
alcuni
commensali
fumavano
in
solitudine
sotto
la
falce
della
luna,
il
padre
di
Giuseppe
perse
il
suo
sorriso.
Ci
fu
il
suono
di
un
motore
a
basso
regime.
Poi,
dal
fondo
della
strada,
comparvero
due
grosse
sfere
bianche.
Prima
che
la
luce
potesse
invadere
anche
una
minima
porzione
di
giardino,
i
fari
della
station
wagon
si
spensero
come
per
un
eccesso
di
discrezione.
L’auto
proseguí
accostando
lentamente
a
ridosso
di
un
muretto,
lasciò
che
le
fronde
di
un
salice
si
spalmassero
sul
parabrezza,
e
solo
allora
si
arrestò.
Si
aprí
e
si
richiuse
uno
sportello.
Sulla
faccia
del
padre
di
Giuseppe
si
disegnò
un’espressione
accigliata.
Sussurrò
qualcosa
all’uomo
che
gli
era
stato
accanto
sin
dall’inizio
della
cena,
il
quale
confermò
a
voce
piú
alta:
«No,
non
ci
ha
avvisati
prima».
Raccolse
dal
tavolo
il
suo
pacchetto
di
MS.
Portò
una
sigaretta
alle
labbra.
Abbandonò
la
sigaretta
accanto
a
un
grosso
accendino
placcato
d’oro.
Si
alzò
nervosamente
e
andò
incontro
all’autista
della
station
wagon
che
ora
sostava
davanti
al
cancello
della
villa.
Lo
fece
entrare,
i
due
si
strinsero
la
mano
e
fu
soltanto
in
quel
momento
(quando
il
cancello
si
aprí,
e
l’uomo
si
accostò
al
padre
di
Giuseppe
uscendo
da
un
lungo
cono
d’ombra)
che
riconobbi
i
jeans
e
il
maglione
a
collo
alto,
la
faccia
lunga
e
ossuta
e
soprattutto
questi
occhi
che
avevano
l’ammutolita
forza
inerziale
di
due
bacini
prosciugati.
Mi
voltai
immediatamente
verso
Vincenzo,
perché
se
quello
non
era
lo
Sghigno,
il
cosiddetto
autista
di
famiglia
con
cui
l’avevo
visto
allontanarsi
nel
giorno
del
nostro
primo
incontro,
allora
voleva
dire
che
ero
diventato
matto.
Vincenzo
si
accarezzò
la
nuca
evitando
di
incrociare
i
miei
occhi.
Cercò
invece
Giuseppe
con
lo
sguardo
e
lo
trovò
a
molti
metri
di
distanza:
inseguiva
il
cane
nel
giardino,
del
tutto
indifferente
a
quello
che
stava
succedendo.
I
due
uomini
ci
passarono
davanti
senza
dirsi
una
parola,
uno
dietro
l’altro,
fino
a
quando
scomparvero
oltre
l’ingresso
della
villa.
Fu
lí
che,
sotto
la
solita
maschera
di
imperturbabilità,
vidi
l’impronta
di
un
sorriso
premere
contro
le
labbra
di
Vincenzo
–
e
fu
sempre
in
quel
momento
che,
senza
capirne
bene
il
motivo
(esattamente
come,
sul
volto
di
una
persona
cara,
riusciamo
un
giorno
a
cogliere
il
segno
certo
di
qualcosa
di
terribile
e
di
inconfessato)
ebbi
la
certezza
che
fosse
tutto
vero:
sua
madre
era
morta
in
un
incidente
stradale,
l’anno
prima
era
accaduto
qualcosa
di
grave
nel
liceo
piú
in
vista
della
città,
l’avvocato
Lombardi
era
il
nemico
per
distruggere
il
quale
avrebbe
fatto
qualunque
cosa.
Capivo
tutto
e
non
capivo
niente.
Sentivo
però
–
in
un
modo
altrettanto
certo
e
nebuloso
–
che
qualcosa
di
profondo
mi
legava
a
questi
due
ragazzi.
Tornato
a
casa,
queste
certezze
mi
si
stravolsero
ulteriormente
nella
testa.
Mi
rigiravo
tra
le
coperte
senza
prendere
sonno.
Pensavo
a
Giuseppe,
pensavo
a
Vincenzo,
mi
grattavo
la
testa
fermo
nel
letto
con
gli
occhi
spalancati.
Accesi
la
televisione.
«C’era
un
orso
nei
boschi…
–
disse
la
voce
fuori
campo.
–
I
due
leader
hanno
soggiornato
insieme
nella
Maison
Fleur
d’Eau…»
continuò
il
giornalista
finalmente
inquadrato
sullo
sfondo
del
lago
di
Ginevra.
A
quanto
pareva,
nella
cittadina
svizzera
si
era
appena
concluso
un
incontro
diplomatico
tra
il
presidente
degli
Stati
Uniti
e
il
segretario
generale
del
Pcus.
Aggirando
le
regole
del
protocollo,
i
capi
delle
due
superpotenze
avevano
discorso
amabilmente
di
fronte
al
caminetto
acceso
dentro
una
bella
villa
dalle
pareti
in
pietra
viva.
Le
rispettive
mogli
avevano
avuto
modo
di
parlarsi
nel
corso
di
lunghi
tè
pomeridiani
invitandosi
a
trascorrere
le
vacanze
estive
in
Illinois
o
in
una
dacia
sulle
rive
del
mar
Nero.
I
due
uomini
avevano
invece
trascorso
le
ore
citando
con
disinvoltura
l’Ecclesiaste,
lí
dove
è
scritto
che
esiste
un
tempo
per
distruggere
e
un
tempo
per
rimettere
le
cose
a
posto.
Avevano
tirato
in
ballo
Einstein
quando
disse
che
la
Quarta
guerra
mondiale
si
sarebbe
combattuta
coi
bastoni
e
con
le
pietre.
Il
presidente
americano
aveva
aggiunto
senza
punte
di
ironia
che
se
la
Terra
fosse
stata
attaccata
dagli
alieni,
loro
due
avrebbero
potuto
fare
a
meno
di
organizzare
tutti
questi
summit
in
giro
per
il
mondo
perché
l’umanità
si
sarebbe
riunita
all’istante
per
fronteggiare
il
pericolo
comune.
Insomma,
la
guerra
fredda
sembrava
una
parola
destinata
a
perdere
il
suo
significato
minaccioso,
e
il
celebre
spot
elettorale
in
cui
solo
due
anni
prima
veniva
paventato
il
rischio
dell’olocausto
atomico
era
già
modernariato.
«Caduto
il
muro,
–
disse
il
corrispondente
con
lo
sguardo
pieno
di
ottimismo,
–
crolleranno
innanzitutto
le
nostre
prigioni
interiori…»
Eppure,
–
pensai
senza
togliermi
dalla
testa
Vincenzo
un
solo
istante,
continuando
a
domandarmi
per
quale
motivo
lo
Sghigno
conoscesse
il
padre
di
Giuseppe
e
come
mai
Vincenzo
aveva
lasciato
che
l’autista
ci
passasse
a
pochi
metri
senza
neanche
salutarlo
–,
bastava
solo
cambiare
canale
per
ritrovarsi
davanti
ai
trailer
dei
film
piú
in
voga
del
momento,
ai
telefilm
piú
visti,
ai
videoclip
piú
popolari,
e
tutto
ciò
che
di
piú
interessante
sarebbe
apparso
sullo
schermo
avrebbe
dato
ragione
al
giornalista
soltanto
per
metà,
suggerendo
che
negli
esseri
umani
c’era
sí
qualcosa
che
aspettava
solo
di
rompere
i
lucchetti
e
le
catene,
e
tuttavia
non
era
detto
che
a
liberarsi
dovesse
essere
la
nostra
parte
luminosa.
Ci
sarebbero
stati
ancora
morti
viventi
in
marcia
nei
supermercati,
e
ragazzine
possedute
dal
demonio,
e
giovani
astronaute
che
portavano
nel
ventre
orribili
creature
aliene…
Ma
piú
insistente
di
tutto
questo
–
pensai
–
ci
sarebbe
stata
una
canzone
che
da
un
paio
d’anni
veniva
trasmessa
senza
sosta
praticamente
ovunque.
Accendevi
la
radio
e
riconoscevi
l’inconfondibile
linea
di
basso
rubata
ai
classici
della
disco
anni
Settanta.
Cambiavi
canale
in
tv,
e
se
eri
fortunato
trovavi
la
versione
integrale
di
un
videoclip
lungo
quasi
un
quarto
d’ora.
Precisamente,
la
parte
in
cui
due
adolescenti
con
la
divisa
del
college
camminano
mano
nella
mano
sotto
la
luna
piena.
Si
scambiano
un
anello
di
fidanzamento
circondati
dalla
morbida
opulenza
di
una
metropoli
occidentale.
A
un
certo
punto
però
lui
inizia
a
essere
squassato
dalle
convulsioni.
Si
prende
la
testa
tra
le
mani.
Si
piega
in
due
come
dovesse
vomitare.
Quando
si
rimette
in
piedi,
al
posto
di
Michael
Jackson
c’è
un
feroce
lupo
mannaro
e
la
ragazza
urla
dal
terrore.
Thriller,
oltre
cento
milioni
di
copie
vendute…
Forse
non
c’era
piú
un
orso
nascosto
oltre
i
confini
del
mondo
conosciuto,
ma
c’era
un
lupo
in
città:
sotto
i
giubbotti
che
indossavamo,
dietro
i
sorrisi
con
cui
affrontavamo
le
giornate.
Lo conosciamo,
ci
appartiene,
è
praticamente ovunque,
pensai
ancora
mentre
le
luci
del
mattino
entravano
morbidamente
nella
stanza,
aspetta solo la
lunapienapercominciare
aululare…
Capitoloquinto
«No,
io
allora
non
ne
sapevo
proprio
niente,
mentre
quello
per
Vincenzo
fu
un
colpo
di
fortuna.
Non
sapevo
niente
io,
e
direi
che
fosse
ovvio.
Ma
non
sapeva
niente
mia
madre,
il
che
significa
che
aveva
deciso
di
non
guardare
oltre
la
punta
del
suo
naso.
Te
le
ricordi
tutte
quelle
bambole
di
porcellana?
Che
ti
devo
dire,
lei
preferiva
credere
al
miracolo
dei
pani
e
dei
pesci».
Questo
lo
disse
Giuseppe,
o
quel
che
restava
di
lui,
nella
primavera
del
2008,
piú
di
vent’anni
dopo
il
nostro
primo
incontro,
a
otto
o
nove
mesi
dalla
mia
decisione
di
tornare
sulle
tracce
del
nostro
comune
passato.
Non
era
stato
sorpreso
di
rivedermi.
Avevo
sostato
davanti
al
cancello
della
villa
senza
sapere
cosa
fare:
ero
a
Bari
da
piú
di
una
settimana,
sarei
dovuto
ripartire
tra
meno
di
ventiquattr’ore,
e
avevo
sprecato
la
maggior
parte
del
mio
tempo
girando
inconcludentemente
tra
strade
e
quartieri
che
mi
sembrava
di
non
vedere
da
un
secolo.
Mentre
ero
alla
guida,
avevo
partorito
e
cestinato
mentalmente
centinaia
di
frasi,
cercando
la
formula
in
grado
di
aprire
senza
scasso
la
cassaforte
di
una
persona
che
non
vedevo
dai
giorni
in
cui
la
sua
vita
aveva
iniziato
a
franare
nel
peggiore
dei
modi.
Ma
era
stato
Giuseppe
ad
accogliermi
con
un
sorriso
prima
ancora
che
potessi
incenerire
sulla
punta
della
lingua
l’ennesima
frase
sconveniente:
«Scommetto
che
se
mi
avessi
visto
per
la
strada,
non
saresti
riuscito
a
riconoscermi»,
aveva
detto.
Ed
era
quello,
bisognava
ammetterlo,
il
modo
piú
onesto
per
rompere
il
ghiaccio:
la
frase
che
–
senza
violenza
ma
con
molta
precisione
–
riassumeva
la
mia
colpa
(non
averlo
cercato
negli
ultimi
vent’anni)
e
la
sua
capacità
di
non
tenerne
conto.
Non
fu
stupito
di
trovarmi
lungo
il
viale
di
quella
che
era
stata
una
cattedrale
alzata
prepotentemente
sull’altare
dello
spreco
e
adesso
irradiava
la
tristezza
solitaria
delle
costruzioni
divorate
dal
tempo
e
dall’incuria.
Era
poco
disposto
a
credere
che
avesse
senso
rivangare
il
passato
insieme
a
un
vecchio
amico.
Ma
doveva
essere
arrivato
alla
conclusione
che
io
fossi
una
di
quelle
persone
convinte
che
ritrovare
a
freddo
il
bandolo
della
matassa
possa
scalfire
l’incomprensibile
enigma
dell’esistenza.
Sebbene
ai
suoi
occhi
rischiassi
dunque
di
sembrare
un
concentrato
di
leziosaggini,
il
sospetto
che
avesse
utilizzato
anche
un
solo
pomeriggio
degli
ultimi
vent’anni
per
darmi
una
precisa
collocazione
nella
mappa
dei
suoi
pensieri
mi
diede
sollievo.
Fu
sulle
ali
di
questo
stato
d’animo
che
avevo
iniziato
a
parlare.
E
quando,
dopo
altri
tentennamenti,
riuscii
a
chiedergli
di
Vincenzo
(la
persona
che,
in
fin
dei
conti,
non
aveva
fatto
niente
per
salvarlo),
fummo
entrambi
spiazzati
da
come
il
suono
di
quel
nome
fosse
tuttora
in
grado
di
risvegliare
le
ballerine
sul
carillon
della
nostra
fantasia.
Un colpo di fortuna…
Ma
Vincenzo
la
sua
fortuna
se
l’era
guadagnata.
Quando
vide
lo
Sghigno
fare
ingresso
nella
villa
dei
Rubino,
gli
bastò
mettere
insieme
i
pezzi
raccolti
nel
corso
dell’ultimo
anno
per
capire
quale
collegamento
ci
fosse
tra
l’autista
di
suo
padre
e
il
padre
di
Giuseppe.
Qualcosa
nella
sua
testa
fece
«bingo!»,
e
io
lo
vidi
soffocare
quel
sorriso.
Adesso
sapevamo
che,
sulla
situazione
dei
Rubino,
Vincenzo
conosceva
ciò
che
persino
la
signora
Rosa
aveva
deliberatamente
deciso
di
ignorare.
Non
sapevamo
però
un
sacco
di
altre
cose.
Giuseppe
non
le
sapeva
e
riteneva
che
venirne
a
capo
non
servisse
a
niente.
Per
me
era
diventata
una
faccenda
di
vita
o
di
morte.
Ad
esempio,
«il
grosso
guaio
al
Di
Cagno
Abbrescia».
Sull’episodio
Giuseppe
scrollò
le
spalle,
e
le
altre
persone
davanti
alle
quali
ero
comparso
non
avevano
niente
da
dire.
Cosí,
per
quella
come
per
altre
zone
d’ombra,
utilizzai
degli
strumenti
che
mi
ostino
a
non
voler
fare
coincidere
con
la
semplice
immaginazione.
Ripensai
a
Vincenzo
in
sala
da
biliardo.
Nel
momento
in
cui
stava
per
dare
il
primo
colpo,
lo
isolai
dal
tavolo
verde.
Legai
la
sua
concentrazione
alla
cupa
altezzosità
che
gli
aveva
fatto
alzare
la
mano
in
anticipo
durante
l’appello
del
primo
giorno
di
scuola.
Trascinai
questo
intrico
di
orgoglio
e
vigile
risentimento
indietro
di
sei
mesi,
e
mi
misi
in
attesa
al
quinto
piano
di
un
palazzo
che
avevo
visto
sempre
e
solo
dall’esterno.
Mi
portai
con
l’orecchio
alla
porta
d’ingresso
e
attesi
ancora,
fino
a
quando
sentii
la
voce
di
un
maschio
adulto
che
diceva:
«Non
devi
prenderlo
come
un
castigo,
la
devi
prendere
come
l’ovvia
conseguenza
delle
tue
azioni»,
ed
eccolo…
ecco
Vincenzo
a
confronto
con
suo
padre
nel
soggiorno
del
loro
appartamento,
il
cuore
di
una
scena
a
cui
non
avevo
mai
assistito.
Un
giorno
primaverile
del
1985.
Un
attico
collocato
in
una
delle
costruzioni
piú
belle
del
centro
cittadino.
Vincenzo
e
suo
padre
sono
seduti
alla
stessa
tavola.
L’avvocato
gli
ha
appena
comunicato
la
decisione
di
farlo
fuori
dal
Di
Cagno
Abbrescia.
A
questo
punto
non
so
ancora
–
come
probabilmente
non
saprò
mai
–
in
cosa
consista
di
preciso
il
«grosso
guaio»
di
cui
stanno
discutendo.
Ma
prendiamo
per
buono
il
giornale
scandalistico
degli
studenti
del
Cesare
Baronio,
ammettiamo
che
Vincenzo
abbia
deliberatamente
messo
incinta
e
abbandonato
l’ultima
studentessa
a
cui
sarebbe
consigliabile
fare
uno
scherzo
del
genere:
la
ragazzina
che,
ammantata
in
un
sudario
di
vergogna,
si
sarebbe
trovata
a
sostenere
lo
sguardo
di
un
vecchio
monumento
della
scuola
democristiana
del
Sud
Italia,
il
quale
avrebbe
prima
indietreggiato
a
occhi
sgranati:
«Non
è
vero,
quello
che
stai
dicendo
non
è
vero!»,
e
poi,
sostituendo
il
pallore
del
padre
dal
cuore
distrutto
con
la
serica
praticità
del
senatore
che
ha
superato
senza
incidenti
la
terza
legislatura
consecutiva:
«Bisognerà
andarci
a
parlare,
con
il
padre
di
questo
delinquente…»
Ammettiamo
che
il
«grosso
guaio»
consista
in
questo
o
in
qualcosa
di
simile,
concediamoci
un
possibile
errore
dal
momento
che
non
è
importante
la
dinamica
dell’episodio
ma
lo
sono
le
dirette
conseguenze,
e
cioè
il
fatto
che
Vincenzo,
nel
momento
in
cui
suo
padre
dice:
«non
devi
prenderlo
come
un
castigo…»
può
finalmente
realizzare:
era questo, dunque, il
modopercolpirlo.
Non
sono
i
musi
lunghi,
non
sono
le
recriminazioni,
non
è
l’ipotesi
di
fuggire
di
casa
–
tutte
sciocchezze
con
cui
Vincenzo
si
è
trastullato
sino
alla
fine
della
scuola
media,
quando
in
fondo
era
ancora
un
bambino.
E
non
è
certo
prendersela
con
la
seconda
moglie
di
suo
padre.
Sabrina…
Quella
ragazza
gli
era
sembrata
interessante
soltanto
fino
a
quando
l’avvocato
non
gliel’aveva
presentata.
Due
lunghe
gambe
dritte
e
una
viva
fiamma
di
determinazione
che
impediva
a
un
volto
perfettamente
levigato
di
ingrossare
il
firmamento
delle
ragazze
belle
e
inconsistenti.
Quando
aveva
fatto
il
suo
ingresso
nell’attico
per
le
presentazioni
ufficiali,
Sabrina
si
era
guardata
intorno
con
l’allarme
e
la
fierezza
delle
ragazze
povere
messe
di
fronte
all’occasione
di
sbarazzarsi
del
passato
una
volta
per
tutte.
In
quella
casa
ci
era
già
entrata
nelle
limpide
e
vuote
mattinate
in
cui
i
domestici
avevano
la
giornata
libera,
Vincenzo
era
a
scuola,
e
l’avvocato
non
l’aveva
portata
in
albergo
né
si
era
lasciato
trascinare
in
quello
che
lei
chiamava
con
torbida
ironia
«il
mio
covo»
(una
stanzetta
semibuia
in
fondo
al
corridoio
di
un
appartamento
invaso
da
un
profumo
di
minestrone
raffreddato
che
Sabrina
condivideva
con
due
studentesse
di
lettere,
e
l’avvocato
apprezzava
per
l’ingenua
sensazione
di
rapinosità
procurata
dai
singhiozzi
della
branda
mentre
facevano
l’amore).
Il
padre
di
Vincenzo
di
tanto
in
tanto
diceva
invece:
«Due
ore
libere,
poi
devo
scappare
in
tribunale:
andiamo
da
me»,
forse
per
praticità,
o
forse
con
l’intento
malevolo
di
farle
annusare
il
profumo
della
ricchezza
prima
di
riconsegnarla
alle
sue
coinquiline.
Ma
in
quelle
mattinate
ogni
cosa
aveva
ruotato
intorno
al
suo
corpo
–
si
trattava
solo
di
scopare,
una
dimensione
in
cui
Sabrina
si
trovava
a
proprio
agio
sin
da
quando
aveva
sedici
anni.
Adesso
invece
entrava
nell’attico
sotto
il
sole
impietoso
dell’ufficialità.
Vincenzo
l’aveva
vista
attraversare
la
porta
d’ingresso,
e
poi
guardarsi
intorno
con
circospezione.
Aveva
iniziato
ad
avanzare
verso
di
lui
misurando
bene
i
passi.
E
c’era
–
era
stato
costretto
a
riconoscere
–
un’effettiva
durezza
in
questa
fuorisede
prossima
alla
laurea,
qualcosa
che
la
teneva
ben
piantata
sui
tacchi
nel
marmo
bianco
del
soggiorno.
Ma
poi,
non
appena
la
ragazza
aveva
detto:
«Bene,
tu
sei
Vincenzo,
sono
davvero
felice
di
conoscerti…»
cercando
di
comprenderlo
in
un
sorriso
troppo
platealmente
indifeso
per
non
dare
l’impressione
di
un
tentativo
di
accerchiamento,
Vincenzo
ne
aveva
ricevuto
la
sensazione
che
è
possibile
provare
davanti
a
un
nemico
molto
atteso
che,
al
momento
dello
scontro
decisivo,
ci
delude
presentando
–
in
luogo
delle
armi
–
un
accordo
diplomatico.
Aveva
preso
a
sopportarla.
Aveva
dovuto
farlo.
Sabrina
si
era
trasferita
a
casa
loro.
Si
era
fatta
sposare.
Adesso
viaggiava
in
decappottabile,
vestiva
Yves
Saint
Laurent,
partecipava
ai
noiosi
tornei
domenicali
di
Burraco
come
solo
la
signora
Lombardi
avrebbe
potuto
fare.
Eppure,
aveva
bisogno
di
farsi
accettare
anche
da
lui.
Non
perché
quel
ragazzo
scontroso
iniziasse
a
fare
breccia
nel
suo
cuore,
e
neanche
per
compiacere
l’avvocato,
ma
per
tirarsi
addosso
l’ultimo
lembo
di
una
legittimità
che
non
sentiva
ancora
di
avere
conquistato.
Si
era
sforzata
di
diventare
per
Vincenzo
una
specie
di
mamma
in
seconda:
provando
a
guadagnarsi
le
sue
confidenze,
offrendogli
un
aiuto
mai
richiesto
e
quasi
sempre
inutile
con
i
compiti
a
casa
e
soprattutto
cercando
(altrettanto
inutilmente)
di
trasformarsi
in
una
mediatrice
in
grado
di
distendere
i
rapporti
tra
un
padre
e
un
figlio
che
si
parlavano
a
malapena.
Vincenzo
rispondeva
a
queste
iniziative
con
un
distacco
che
Sabrina
a
un
certo
punto
aveva
trovato
insopportabile
(credo
si
trattasse
del
sarcasmo
e
della
derisione:
non
dico
che
Sabrina
riuscisse
a
coglierli
in
pieno
quando
il
ragazzo
le
parlava,
ma
intravedeva
qualcosa,
il
che
era
anche
peggio).
Se
ne
era
lamentata
con
l’avvocato,
e
l’avvocato
non
aveva
trovato
di
meglio
che
prendere
Vincenzo
in
disparte
per
fargli
una
predica.
Ma
quella
era
ordinaria
amministrazione,
erano
i
discorsi
perfettamente
padroneggiati
di
un
padre
rivolto
al
proprio
figlio:
quei
tipi
di
discorsi
in
cui
i
padri
non
tentennano
neanche
per
un
momento
–
dalla
vetta
di
una
montagna
nascosta
tra
le
nuvole
spandono
pillole
di
saggezza
su
chi
annaspa
migliaia
di
chilometri
piú
in
basso
senza
poterli
mai
raggiungere.
E
adesso,
invece,
lo
aveva
raggiunto.
Quando
suo
padre
dice:
«Siediti,
per
favore,
dobbiamo
parlare…»,
questi
ruoli
sono
saltati
magicamente
per
aria.
Vincenzo
accoglie
senza
battere
ciglio
la
notizia
che
dovrà
ripetere
il
primo
anno
di
liceo
in
una
scuola
semisconosciuta.
L’avvocato
Lombardi
deve
invece
fare
uno
sforzo
per
riconoscere
suo
figlio
nello
sguardo
imperturbabile
di
questo
quindicenne.
Per
pochi
istanti
non
è
un
ragazzo,
ma
un
adulto.
E
non
è
neanche
un
adulto
qualsiasi,
ma
un
avversario.
Vincenzo
se
ne
accorge.
Tira
un
sospiro
di
sollievo.
Si
tocca
il
fazzoletto
stretto
al
braccio
e
pensa:
Forse
era ridicolo all’inizio…
sarebbe stato ridicolo per
sempre se non fossi
riuscito a farmi guardare
da mio padre in questo
modo.
Ma dal momento
che per lui ora sono un
pericolo,illuttocheporto
al braccio non è stato
ridicolo neanche per un
attimo.
Utilizzando
questa
tecnica
–
senza
l’aiuto
di
Giuseppe
né
di
nessun
altro
–
ero
riuscito
a
guadagnarmi
un
tassello
della
vita
di
Vincenzo
che
altrimenti
non
avrei
recuperato.
Provai
allora
a
spingermi
piú
indietro,
alla
ricerca
del
big
bang:
il
momento
in
cui
qualcosa
in
lui
si
era
ribaltato
per
sempre,
e
la
persona
che
avrebbe
potuto
amare
e
rispettare
come
un
padre
era
diventato
il
nemico
da
distruggere.
Isolai
la
faccia
di
Vincenzo
e
la
portai
indietro
di
un
altro
anno.
Cercai
di
immaginarmelo
nel
momento
in
cui
qualcuno
(suo
padre?
il
padre
di
sua
madre?)
lo
stringe
tra
le
braccia
e
lo
informa
della
morte
della
madre.
Ma
a
questo
punto
mi
accorgevo
sempre
di
avere
fatto
il
passo
piú
lungo
della
gamba.
L’episodio
era
troppo
lontano.
O
era
semplicemente
troppo
intenso,
istantaneo
e
complesso
perché
il
mio
gioco
di
associazioni
riuscisse
a
raggiungerlo
in
pieno.
Rassegnato
a
procedere
senza
un
pezzo
di
tale
portata,
mi
spingevo
allora
un
po’
piú
avanti.
Sei
mesi…
i
mesi
che
separavano
il
«grosso
guaio»
dal
sorriso
che
attraversò
la
faccia
di
Vincenzo
quando
il
suo
autista
comparve
oltre
il
cancello
della
villa
dei
Rubino.
Che
cosa
era
successo
in
quel
periodo?
Oh,
io
questo
lo
sapevo.
A
differenza
del
«grosso
guaio
al
Di
Cagno
Abbrescia»
(di
cui
non
conoscevo
i
dettagli
ma
ero
sicuro
di
possedere
ciò
che
mi
importava)
e
a
differenza
di
quello
che
chiamavo
«il
suo
big
bang»
(di
cui
tutto
mi
era
ignoto),
di
quel
periodo
conoscevo
ogni
passaggio.
Rieccoci
nella
primavera
del
1985.
Vincenzo
ha
sei
mesi
di
vacanza
a
disposizione.
Non
deve
piú
frequentare
il
liceo,
e
il
prossimo
obbligo
scolastico
scatterà
solo
a
partire
da
settembre.
Come
impiega
questo
tempo?
Avvelenare i
pozzi…
pensa
in
continuazione.
Solo
che
adesso
è
piú
libero
ma
anche
piú
isolato
di
prima.
Davanti
a
lui
c’è
un
appartamento
panoramico
pieno
di
marmi
bianchi
e
di
servizi
di
ceramica
giunti
mezzi
spaiati
al
secolo
di
vita.
E
nell’appartamento,
esclusi
i
due
domestici,
ci
sono
solo
suo
padre
e
Sabrina.
L’avvocato,
di
sera,
si
alza
da
tavola
e
si
ritira
nel
soggiorno
per
controllare
i
faldoni
di
una
causa.
Accende
il
televisore,
abbassa
il
volume,
dà
le
spalle
allo
schermo
e
lavora
in
questo
modo:
chino
sulle
carte
mentre
centinaia
di
lampi
azzurri
invadono
l’ambiente
a
intermittenza.
Sabrina
si
avvicina
e
dice:
«Vado
a
letto».
L’avvocato
l’afferra
per
la
mano
e
le
sussurra:
«Aspetta…»
Ogni cosa che lui tocca,
muore,
pensa
Vincenzo.
E
fuori
dall’appartamento?
Fuori
c’è
il
corso
di
inglese
al
British
Institute
che
suo
padre
gli
lascia
frequentare
per
tenerlo
in
allenamento
con
gli
studi.
Ci
sono
i
concerti
di
musica
classica
al
Petruzzelli
a
cui
Vincenzo
assiste
insieme
ai
giovani
del
Lyon’s
club.
Esecuzioni
mediocri,
se
confrontate
con
i
vinili
dei
Berliner,
grazie
alle
quali
però
gli
sembra
di
poter
entrare
in
maggiore
intimità
con
il
genio
di
un
Bach,
di
un
Bruckner
(esattamente
come
chi,
precipitato
in
fondo
a
un
pozzo
riesce
a
cogliere,
nei
pochi
raggi
di
luce
capaci
di
aprirsi
la
strada
tra
le
erbacce,
un’infinità
di
cromatismi
che
sfuggono
a
quelli
che
si
godono
la
stessa
splendida
giornata
a
cielo
aperto).
Ma
a
parte
queste
piccole
consolazioni,
intorno
a
lui
c’è
il
deserto.
Cosí,
senza
quasi
accorgersene,
Vincenzo
inizia
a
osservare
l’autista
di
famiglia
con
piú
attenzione
di
quanto
non
abbia
fatto
in
precedenza.
Diego
Petaroscia,
detto
lo
Sghigno:
un
uomo
alto,
vestito
male,
la
cui
massima
ambizione
sembra
quella
di
passare
come
un’ombra
dalla
sala
d’aspetto
dello
studio
alla
guida
della
station
wagon.
Non
è
stato
da
sempre
alle
dipendenze
dell’avvocato.
È
saltato
fuori
dal
nulla
in
un
momento
che
Vincenzo
non
saprebbe
ritrovare,
tanto
quest’uomo
sembra
avere
il
potere
di
trasfondersi
negli
oggetti
inanimati
con
cui
viene
a
contatto
–
è
la
station
wagon
che
marcia
da
sé,
quando
lo
Sghigno
è
alla
guida;
e
nel
momento
in
cui
trasmette
una
cartellina
al
cancelliere
del
tribunale,
quest’ultimo,
dopo
averlo
visto
svanire
tra
i
corridoi
del
Palazzo
di
giustizia,
deve
vincere
la
sensazione
di
avere
avuto
tra
le
mani
quelle
carte
da
sempre.
Adesso
però
lo
Sghigno
è
diventato
la
seconda
ombra
di
Vincenzo.
«Fammi
il
piacere,
cerca
almeno
di
capire
chi
frequenta»,
gli
ha
detto
l’avvocato.
Cosí
Vincenzo
distingue
sempre
piú
regolarmente
una
grigia
presenza
tra
gli
elementi
dell’arredo
urbano.
È
appena
uscito
dal
British
Institute?
Lo
Sghigno
cammina
dall’altra
parte
della
strada
nel
suo
maglione
sbrindellato.
Dopo
un
concerto
al
Petruzzelli,
ha
deciso
di
farsi
una
lunga
passeggiata
solitaria?
A
poche
strade
dall’inizio
della
periferia
residenziale
(quello
che
io
chiamavo
«centro»,
per
distinguerlo
a
mia
volta
dall’ignota
periferia
malfamata)
spunta
il
muso
a
martello
della
station
wagon.
La
vettura
avanza
con
lentezza,
ignora
un
semaforo
rosso,
occupa
indisturbata
il
centro
dell’incrocio.
Dal
finestrino
emergono
due
zigomi
sporgenti:
«Ti
to’
un
passaccio
fino
a
casa…»
dice
lo
Sghigno
con
la
spenta
ovvietà
di
una
constatazione
atmosferica.
Solo
che
poi,
seduto
nel
posto
del
passeggero,
Vincenzo
lo
osserva
attentamente,
riconoscendo
nell’autista
delle
caratteristiche
che
non
c’entrano
niente
con
suo
padre
né
con
lo
studio
legale
né
tantomeno
con
il
brillante
e
cesellato
contenitore
di
tutto
questo
che
è
il
cosiddetto
consesso
civile.
Innanzitutto
il
modo
in
cui
parla.
Lo
Sghigno
si
esprime
in
dialetto.
Quando
usa
l’italiano
non
fa
che
aggiungere
una
vocale
a
poche
parole
tronche
–
poi,
come
per
vendicarsi
del
tradimento,
trasforma
tutte
le
g
in
c
e
le
d
in
t:
«tove
ha
tetto
che
tevo
antare?»
domanda
all’avvocato
quando
non
è
certo
del
luogo
in
cui
dovrà
sbrigare
una
commissione.
Il
suo
dialetto
non
ha
a
che
fare
con
le
esplosioni
vernacolari
che
l’avvocato
e
i
suoi
colleghi
si
concedono
per
rendere
piú
sapido
un
ragionamento,
un
vezzo
a
cui
ricorrono
perfino
i
professori
universitari
compiacendosi
di
piegare
la
vitalità
popolare
alle
esigenze
del
comando.
Il
dialetto
dello
Sghigno
possiede
l’ottenebrata
circolarità
delle
lingue
morte,
segue
la
logica
dei
buchi
neri.
Cosí,
quando
l’autista
pronuncia
la
parola
«citazione
ciutiziaria»
(l’avvocato
gli
ha
chiesto
di
spedire
dei
documenti
in
tribunale),
sembra
che
gli
oltre
settecento
articoli
del
codice
penale
possano
regredire
a
pochi
segni
cuneiformi
incisi
in
un
blocco
di
basalto;
e
quando,
con
un
veloce
cambiamento
di
accenti,
la
sua
bocca
partorisce
il
termine
«ampurchèr»
(sono
le
dieci
di
sera
e
l’avvocato,
ancora
nello
studio,
gli
ha
chiesto
di
fare
un
salto
nella
vicina
paninoteca),
non
è
il
dialetto
dello
Sghigno
a
rimanere
travolto
dalla
logica
del
fast
food
ma
l’intero
lessico
nordamericano
–
capitato
per
errore
nell’orizzonte
degli
eventi
di
questa
lingua
morta
–
a
esserne
risucchiato,
digerito
e
convertito
al
suo
codice
di
pietra.
Ma
è
soprattutto
il
modo
in
cui
l’autista
si
comporta
davanti
all’avvocato
ad
avere
spiazzato
Vincenzo.
Al
cospetto
di
Mario
Lombardi
i
praticanti
dello
studio
hanno
un
atteggiamento
scodinzolante
mentre
i
clienti
trasudano
un
calcolo
e
un’ipocrisia
restituiti
tra
i
velluti
della
parcella.
Ma
lo
Sghigno…
quando
il
padre
di
Vincenzo
gli
dà
da
sbrigare
un
incarico,
esegue
l’ordine
come
se
a
impartirglielo
non
fosse
neanche
un’altra
persona
ma
qualcos’altro.
Prima
di
mettersi
in
tasca
le
chiavi
della
station
wagon
e
di
girare
i
tacchi
non
sorride,
non
offre
inutili
rassicurazioni,
sul
suo
volto
compare
l’inerte
constatazione
che
tra
chi
ordina
e
chi
esegue
nessuno
è
mai
libero
di
scegliere
davvero.
Come
è
possibile
che
un
individuo
simile
si
trovi
a
lavorare
per
suo
padre?
Due
settimane
dopo
non
se
lo
chiede
neanche
piú,
dal
momento
che
la
provvidenziale
nota
stonata
che
l’autista
rappresenta
è
diventata
per
Vincenzo
la
pista
da
seguire.
Qual
è
la
giornata
libera
dello
Sghigno?
Da
dove
viene?
Dove
abita?
Che
cosa
fa
nelle
ore
in
cui
non
è
al
servizio
dell’avvocato?
Ecco
a
cosa
pensa
quando,
dopo
essere
riuscito
a
pedinarlo
per
cinque
minuti,
lo
vede
salire
sulla
station
wagon
ed
è
costretto
a
perderlo
al
secondo
incrocio.
Dopo
un’altra
settimana,
giunge
a
una
prima
conclusione:
lo
Sghigno
non
passa
molto
tempo
a
pedinarlo.
Se
ha
creduto
di
trovarselo
tra
i
piedi
a
ogni
momento,
era
dovuto
alla
sua
natura
camaleontica
–
anche
quando
davanti
agli
occhi
di
Vincenzo
non
c’erano
che
negozi
e
pali
della
luce,
aveva
sempre
l’impressione
che
l’immobilità
del
panorama
contenesse
quella
dell’autista.
Lo
Sghigno
non
sembra
tra
l’altro
occuparsi
degli
affari
dell’avvocato
per
piú
di
tre
o
quattro
ore
al
giorno.
Guida
dallo
studio
al
tribunale,
accompagna
il
titolare
da
un
perito
e
lo
attende
parcheggiato
in
doppia
fila.
Poi,
a
un
certo
punto
della
giornata,
saluta
tutti
e
scompare.
E
dove
va?
Vincenzo
copre
con
piccola
ma
costante
progressione
i
percorsi
dell’autista
–
un
giorno
dopo
l’altro,
è
capace
di
osservare
il
passaggio
della
station
wagon
tre
o
quattrocento
metri
piú
in
là
rispetto
a
quanto
non
aveva
fatto
il
giorno
prima.
Dopo
qualche
settimana,
si
rende
conto
che
sono
almeno
due
i
percorsi
che
l’autista
segue
abitualmente
dopo
avere
smontato
dallo
studio.
Se
conoscesse
la
geografia
cittadina,
se
solo
non
avesse
passato
tutta
l’infanzia
in
un
incubatoio
fatto
di
abitazioni
signorili
e
associazioni
filantropiche,
concluderebbe
che
lo
Sghigno
imbocca
il
lungomare
verso
San
Giorgio
oppure
si
muove
in
direzione
di
Japigia.
Invece
pensa
solo:
Per di
qua o per di là.
Cosí,
camminando
sotto
il
sole
di
maggio,
scopre
che
il
suo
mondo
rappresenta
un’infinitesima
porzione
di
quell’aperta
vastità
cittadina
che
è
Bari
negli
anni
Ottanta.
Chi
l’avrebbe
detto?
Solo
spostandosi
di
qualche
chilometro
a
est,
le
boutique
scompaiono
del
tutto,
i
palazzi
pieni
di
stucchi
cedono
il
posto
all’imponente
architettura
del
Ventennio
che
a
sua
volta
si
disperde
sui
primi
marciapiedi
in
stato
di
rovina
e
sull’asfalto
maculato
di
fili
verdi
e
gialli.
Mezz’ora
fa
era
un
asfalto
servizievole,
adesso
è
un
ribollente
e
selvaggio
manto
nero
che
si
dilata
in
ogni
direzione
sotto
un
sole
che
picchia
in
verticale
sulla
testa.
Ecco,
pensa
Vincenzo,
questo
paesaggio desolato gli
assomiglia.
Senza
piú
il
bisogno
di
inseguire
il
profilo
della
station
wagon,
inizia
a
farsi
trascinare
dalla
deriva
di
panchine
divelte,
lampioni
fulminati,
strade
interrotte,
grandi
dune
fatte
di
buste
di
immondizia.
Si
muove
con
diffidenza
tra
reticolati
di
metallo
messi
a
protezione
di
un
giacimento
aureo
di
pratoline.
Costeggia
montagne
di
mattoni
abbandonati
a
bordo
strada
e
costruzioni
solitarie
con
la
porta
sbarrata
da
due
assi
di
legno.
Non
pensa
piú:
dove
sono
capitato?
perché
la
perdita
d’orientamento
per
cosí
dire
orizzontale
è
meno
vertiginosa
rispetto
a
questo
andare
giú
sempre
piú
morbido
e
piú
denso.
Un
pomeriggio
di
questi
–
è
a
cinque
o
sei
chilometri
da
casa
ma
ha
l’impressione
di
avanzare
su
una
distesa
marziana,
di
attraversare
un
territorio
in
cui
è
stato
quando
esserci
per
lui
non
era
ancora
concepibile
–,
mentre
ha
preso
un
sentiero
sassoso
che
si
spinge
a
gomitate
verso
l’interno,
sente
alle
spalle
il
ronzio
di
un
grosso
insetto.
Il
Califfone
borbottante
gli
si
accosta.
Sono
in
tre,
hanno
piú
o
meno
la
sua
età,
gli
ultimi
due
sono
aggrappati
con
le
unghie
al
piccolo
sellino
nero.
Iniziano
a
girargli
intorno,
ridono,
urlano
frasi
incomprensibili.
Si
direbbero
spaventati
da
questo
ragazzo
in
abiti
da
sartoria
che
si
aggira
per
luoghi
dove
non
dovrebbe
essere,
lo
spavento
che
coglie
i
poveri
quando
qualcosa
arriva
con
violenza
a
risvegliarli.
Gli
saltano
addosso
e
lo
gettano
per
terra.
Gli
sfilano
l’orologio,
gli
strappano
il
portafogli
dalla
tasca
della
giacca,
rimontano
in
sella
e
vanno
via.
Vincenzo
si
rimette
in
piedi
tra
le
nuvole
di
polvere
ed
è
furente:
vive
in
un
attico,
parla
due
lingue
straniere,
come
hanno
osato
fargli
questo?
Alza
la
testa,
e
ogni
rancore
inutile
gli
scivola
di
dosso:
una
bella
luna
pomeridiana
risplende
con
i
suoi
crateri
pallidi
tra
i
cardi
e
le
spighe
di
grano.
È
allora
che
sente
la cosa.
Grazie
a
questo
paesaggio
impossibile,
forse
grazie
anche
a
un’umiliazione
cosí
rapida
e
in
fin
dei
conti
cosí
onesta
e
circolare,
viene
invaso
da
un’enormità
imprevista
–
gli
sembra
che
sua
madre
possa
essere
ovunque:
un
caldo
diluvio
universale
che,
evaporato
dalle
terre,
è
infine
scomparso
anche
dal
cielo
lasciando
sia
al
cielo
che
alla
terra
un’impronta
disseccata
alla
quale
bastano
solo
un
po’
di
solitudine
e
uno
spavento
per
sciogliersi
in
un
ricordo
vivo.
Riprende
a
camminare.
Oltre
i
pratoni
di
erba
secca
si
vedono
in
lontananza
le
prime
case
popolari:
le
grandi
torri
silenziose,
perfettamente
disegnate
contro
il
cielo
del
tramonto.
Alla
fine
del
sentiero
prende
male
una
discesa:
inciampa,
rotola
tra
le
pietre,
si
mette
in
piedi
edeccola…
La
station
wagon
è
parcheggiata
in
fondo
a
un
grande
spiazzo
nudo.
Accanto
all’auto,
c’è
un
blocco
di
tufo
arancione
che
vorrebbe
essere
una
casa
ma
sembra
una
piccola
ziggurat
riemersa
dal
centro
della
terra.
Appeso
a
una
finestra
c’è
il
bulbo
di
una
lampadina.
Ai
piedi
della
costruzione
giace
un
grosso
bidone
di
alluminio
sul
quale,
ricalcato
un’infinità
di
volte
a
pennarello,
compare
l’inequivocabile
sentenza:
fascit’ ca s’
mor’.
Ma
lui
non
conosce
questa
lingua.
È
nascosto
dietro
un
muretto
a
secco
quando,
qualche
minuto
dopo,
qualcuno
esce
dalla
porta.
Un
donnone
dalla
faccia
larga
e
il
naso
da
pugile,
vestita
in
canottiera
e
pantaloni
corti
della
tuta,
con
una
chioma
nera
tenuta
su
da
un
mollettone
di
plastica.
La
donna
alza
le
braccia.
Si
stiracchia
davanti
agli
ultimi
bagliori
della
giornata
mostrando
i
peli
delle
ascelle
–
uno
sbadiglio,
poi
rientra
in
casa.
Non
ha
mai
visto
una
puttana
ma
sa
che
è
una
puttana:
a
risvegliare
la
forma
originaria
che
evidentemente
riposa
persino
in
uno
come
lui
non
sono
state
le
ecchimosi
intorno
a
due
coscioni
pieni
di
smagliature
ma
l’assoluta,
generosa
eppure
cosí
misurata
semplicità
di
un
corpo
che,
fuor
di
marchetta,
si
affaccia
al
mondo
senza
niente
da
rivendicare.
È
assurdo,
ma
pensa
ancora
al
mistero
di
sua
madre.
Nemmeno
un’ora
dopo
è
scesa
la
sera.
Intorno
a
lui
c’è
un
buio
pressoché
assoluto
che
impedisce
di
capire
cosa
accade
a
un
palmo
dal
naso,
se
si
eccettuano
le
lucine
che
lontano
–
troppo
lontano
però
–
hanno
iniziato
a
sfavillare
segnalando
la
presenza
delle
pizzerie
e
delle
prime
bancarelle
di
frutta
secca.
Poi
accade
qualcosa
che
all’inizio
non
capisce.
Nella
station
wagon
si
accende
la
luce
di
servizio.
Lo
Sghigno
è
seduto
nel
posto
del
guidatore:
si
piega
in
avanti,
controlla
sotto
il
tappetino,
si
rimette
seduto
e
guarda
dritto
davanti
a
sé.
Un’automobile,
un
motorino,
ancora
un’automobile.
Stanno
iniziando
ad
arrivare.
Vincenzo
sente
i
rumori
alle
spalle,
vede
i
fari
sparati
verso
l’alto
e
quindi,
imboccata
la
discesa,
le
luci
si
distendono
mettendosi
le
une
sulle
altre
in
un
valzer
notturno
per
lampadine
da
cinquanta
watt.
A
un
certo
punto
è
come
se
mezza
città
si
fosse
data
appuntamento
proprio
lí:
utilitarie,
berline,
fuoristrada,
ciclomotori,
possenti
moto
da
strada
con
le
marmitte
luccicanti.
Un
uomo
dai
capelli
imbrillantinati
scende
da
una
Panda,
si
infila
con
la
testa
nel
finestrino
della
station
wagon,
ritorna
verso
la
Panda
portando
agli
occhi
il
palmo
della
mano.
Se
Vincenzo
conoscesse
meglio
la
città,
se
fosse
uno
dei
ragazzi
che
frequentano
il
Baraonda
o
il
bar
Thailandia
bis,
per
lui
«lo
Sghigno»
sarebbe
il
nome
di
questa
zona
di
campagna
sfuggita
agli
stradari;
avrebbe
sentito
già
parlare
di
un
luogo
seminascosto
tra
via
De
Lilla
e
la
strada
Sant’Anna
dove
un
«pezzo»,
come
lo
chiamano
i
veterani
(o
uno
«schizzetto»,
come
preferiscono
chiamarlo
gli
studenti),
costa
meno
di
ventimila
lire.
Invece
si
limita
a
pensare:
autista
di
giorno,
spacciatore nel tempo
libero…
Alle
undici
di
sera
il
viavai
è
terminato.
Lo
Sghigno,
dopo
una
pisciata
a
cielo
aperto,
sta
per
tornare
alla
sua
auto.
È
allora
che
se
lo
trova
davanti.
Vincenzo
dice:
«Adesso,
mi
dài
un
passaggio
fino
a
casa».
Ecco
chi
era
dunque
il
ragazzo
che,
neanche
tre
mesi
dopo,
sarebbe
atterrato
al
Cesare
Baronio
scatenando
il
falò
della
nostra
curiosità.
Era
uno
che
sapeva
–
e
per
sapere
aveva
lottato,
e
aveva
a
suo
modo
viaggiato
nel
tempo.
E,
fondato
nel
sangue
o
tra
le
nuvole
che
fosse
il
suo
odio
verso
il
padre,
aveva
dissepolto
un
paio
di
travi
abbastanza
solide
per
mantenere
in
piedi
il
proprio
sogno
di
vendetta.
Non
posso
immaginare
che
lingua
avesse
usato
per
farsi
raccontare
dallo
Sghigno
come
stavano
le
cose.
E
tuttavia
a
un
certo
punto
sapeva
che
l’autista
lavorava
nello
studio
perché
un
grosso
cliente
l’aveva
personalmente
raccomandato
–
uno
con
interessi
sparsi
in
tutta
la
provincia,
dalle
pizzerie
ai
centri
d’abbronzatura
ai
negozi
di
abbigliamento
alle
sale
giochi…
E
il
compito
dello
Sghigno,
studio
Lombardi
a
parte,
non
era
certo
quello
di
spacciare
l’eroina
nelle
campagne
tra
il
lungomare
e
Japigia
(se
avessero
scoperto
che
arrotondava
con
gli
scarti
dell’attività
primaria
sarebbe
finito
male;
ed
ecco
perché,
quando
si
ritrovò
davanti
il
ragazzo,
capí
di
avere
poca
scelta),
ma
farsi
una
volta
al
mese
il
giro
di
tutti
gli
esercizi
commerciali.
Insomma,
lui
era
l’esattore
delle
imposte
per
conto
dei
cosiddetti
soci
occulti,
visto
che
neanche
una
delle
attività
che
questo
grosso
cliente
amministrava
e
il
padre
di
Vincenzo
cercava
di
tenere
a
pelo
di
legalità
era
–
nel
sommerso
delle
sue
origini
–
esente
da
una
decina
d’anni
di
galera.
Lo
Sghigno
era
l’ultima
rotella:
cresciuto
nella
miseria
piú
totale,
sollevato
da
una
Grande
Mano
(c’entrava
coi
fratelli
Terlizzi
di
cui
parlavano
i
giornali
locali?)
e
poi
affidato
a
qualcun
altro
che
a
sua
volta
lo
aveva
fatto
assumere
nello
studio
del
proprio
legale
solo
perché
un
giorno
fosse
ricattato
da
un
piccolo
lord
a
causa
dell’unica
vera
iniziativa
che
avesse
preso
in
vita
sua.
Cosí,
qualche
mese
dopo,
quando
Vincenzo
se
lo
vide
entrare
nella
villa
dei
Rubino,
capí
immediatamente
che
i
genitori
di
Giuseppe
non
erano
padroni
neanche
delle
tavolette
del
cesso
su
cui
sedevano
ogni
mattina.
Giuseppe
non
lo
sapeva.
La
mamma
di
Giuseppe
non
voleva
saperlo.
Vincenzo
invece
sí.
Un altro tassello,
dovette
pensare,
unaltro
pezzochevaaposto…
Ma
un
pezzo
di
cosa,
precisamente?
Aveva
intercettato
una
zona
grigia
nella
vita
di
suo
padre,
ed
era
questo
per
adesso
l’importante.
Per
quanto
mi
riguarda,
di
una
simile
situazione
non
sapevo
proprio
niente.
Perché
Vincenzo
decise
di
eclissarsi
temporaneamente.
Perché
Giuseppe
iniziò
a
trascinarci
per
tutte
le
feste
e
le
festicciole
che
iniziavano
a
scoppiare
in
giro
per
la
città.
E
anche
perché,
visto
che
i
nodi
arrivavano
al
pettine
anche
nelle
altre
famiglie,
mio
padre
ebbe
il
suo
primo
crollo
nervoso.
Capitolosesto
Quando
lo
accompagnavo
nei
suoi
giri
di
lavoro,
piú
di
una
volta
era
accaduto
che
mio
padre
dicesse
con
un
sorriso
amaro:
«Lo
vedi
quello
lí?»
Si
trattava
di
cinquantenni
vestiti
in
modo
diverso
da
lui
–
giubbotti
di
pelle
nera,
vecchi
Ray
Ban
con
le
stanghette
semimolli
–,
nei
cui
gesti
riconoscevo
la
stessa
scuola
di
drammaturgia
che
consentiva
a
mio
padre
di
piazzare
in
un
sol
colpo
cinquanta
camicette
di
lino
nel
cuore
dell’autunno.
«Stagli
alla
larga,
–
diceva
prima
che
l’altro
potesse
accorgersi
di
noi,
–
se
viene
a
salutarci,
fammi
il
favore,
non
gli
stringere
la
mano».
Erano
quelli
che
in
passato
gli
avevano
dato
«una
grossa
fregatura»:
vecchi
soci
che
si
erano
volatilizzati
con
l’incasso
dell’ultimo
semestre
quando
l’impresa
collettiva
aveva
iniziato
a
imbarcare
acqua.
In
completi
beige
con
pantalone
a
zampa
d’elefante,
mio
padre
aveva
attraversato
gli
anni
Settanta
insieme
a
loro
–
giovani
e
spavaldi
e
assetati
di
vittorie,
avevano
condiviso
affari,
donne,
banconi
di
autogrill,
improvvisati
weekend
a
Montecarlo
dove
arrivavano
con
uno
smoking
preso
a
nolo
senza
essersi
concessi
una
sola
ora
di
sonno.
Poi
però
la
società
era
stata
smembrata
e
papà
era
rimasto
solo
a
fronteggiare
i
debiti.
«Se
ha
pugnalato
me
alle
spalle,
–
ripeteva,
–
vuol
dire
che
ha
fregato
anche
te,
da
prima
ancora
che
nascessi».
Nella
sua
voce
non
c’era
solo
un
risentimento
che
avrebbe
potuto
spegnersi
sulla
constatazione
che
lui
aveva
fatto
fortuna
mentre
loro
erano
ancora
circondati
da
un’aura
di
provvisorietà
e
funambolismo,
ma
anche
la
conferma
che
una
vittoria
senza
strascichi
o
ferite
avrebbe
su
questa
terra
il
significato
di
una
bestemmia.
L’uomo
che
ora
usciva
dall’ufficio
del
rappresentante
era
un
nemico
che
portava
sulla
fronte
il
segno
della
potenza
celeste
–
il
messaggero
inconsapevole
di
qualche
cosa
di
piú
grande,
che
aveva
spinto
mio
padre
a
tormentarsi
in
molte
notti
di
fine
anni
Settanta
(pensando
a
occhi
sbarrati:
ogni
minuto il debito cresce di
millelire.Inun’orafanno
sessantamila, in una
notte sono già mezzo
milione. Io dormo, il
debito non dorme. Se mi
addormento, lui resta
sveglio),
ma
solo
perché
l’insonnia
e
il
fegato
ingrossato
rendessero
piú
viva
e
sanguinante
e
infine
comprensibile
la
fortuna
del
decennio
successivo.
E
cosí,
mentre
io
avrei
dovuto
ritirare
la
mano
e
guardarlo
con
ostilità,
l’uomo
in
Ray
Ban
ci
passava
davanti
sbaragliandoci
con
un
sorriso
arreso,
l’intatta
allegria
grazie
alla
quale
certi
adulti
riescono
a
perdonare
se
stessi
avendo
perdonato
già
tutto
quanto
il
resto:
«Eccheccazzo,
rilassatevi:
è
passato
tanto
tempo…»
Ma
mio
padre
conosceva
la
lotta,
ed
era
quello
il
suo
vangelo.
Cosí,
nell’inverno
del
1985,
iniziò
a
dare
di
matto.
Prima
interpretò
in
modo
sballato
i
rendiconti
di
Palmieri.
A
poche
settimane
da
Natale,
chiuso
nel
suo
ufficio,
aprí
col
tagliacarte
la
busta
di
colore
azzurro
pallido
che
il
rappresentante
gli
spediva
quattro
volte
l’anno.
Lesse
le
cifre
e
cominciò
a
smadonnare:
«Ma
guarda
questo
stronzo!»
Si
proiettò
furioso
verso
la
porta
tra
lo
stupore
delle
segretarie,
precipitandosi
verso
le
scale
che
collegavano
l’amministrazione
al
piano
terra.
Saltò
sul
Fiorino
e
mise
in
moto
calcolando
il
costo
mensile
complessivo
di
segretarie,
stiratrici,
magazzinieri
e
ragionieri
per
capire
chi
avrebbe
potuto
mettere
in
cassa
integrazione
senza
che
la
brutta
figura
gli
impedisse
di
uscire
di
casa.
Stirò
il
motore
al
massimo
diretto
verso
Trani,
sede
del
piú
eccellente
esempio
di
romanico
pugliese
secondo
la
volenterosa
corporazione
degli
albergatori
di
zona
ma
per
papà
in
quel
momento
unicamente
semplicemente
fatalmente
la
sede
di
Girolamo
Palmieri,
il
rappresentante
del
cazzo
per
mezza
Italia
che,
invece
di
venire
su
da
lui
con
la
coda
tra
le
gambe
e
dieci
fiale
di
ansiolitico,
gli
aveva
fatto
recapitare
un
documento
da
cui
risultava
un
calo
del
fatturato
trimestrale
del
33
per
cento.
«Com’è
possibile?»
ripeteva
a
voce
alta
attraversando
piccole
fabbriche
di
materassi
e
pastifici
che
scomparivano
con
i
loro
essiccatoi
dopo
ogni
curva
mentre
le
insegne
della
Peroni
e
della
CocaCola
continuavano
a
vedersi
fino
a
quando
le
cisterne
e
gli
altiforni
della
zona
industriale
si
arrendevano
al
paesaggio
della
litoranea.
Possorivendere
la
villa...
pensava
accendendosi
una
sigaretta
col
mozzicone
di
un’altra
sigaretta,
fermare il marmista,
fermare il parquettista.
Posso mandare via la
donna di servizio a costo
di mettermi io a lavare i
pavimenti!
Palmieri
lo
accolse
nel
suo
studio
a
braccia
aperte.
Papà
cercò
di
non
guardarlo
per
vincere
la
tentazione
di
saltargli
al
collo.
Gli
allungò
il
foglio
accartocciato:
«Adesso
mi
spieghi
che
significa».
Palmieri
perse
il
sorriso
e
iniziò
a
leggere.
Rovesciò
la
testa
indietro
portandosi
una
mano
sulla
fronte.
Recuperò
il
suo
buonumore:
«Lavori
troppo,
bello
mio.
Te
l’ho
spiegato
almeno
dieci
volte
negli
ultimi
tre
mesi».
Aprí
l’anta
di
un
armadio
in
cui
erano
allineate
una
decina
di
cartelline
colorate.
Sfilò
una
piccola
risma
di
fogli
da
un
classificatore
di
plastica
trasparente:
«Con
questi
mi
devi
dieci
inviti
nella
tua
piscina
nuova,
–
disse
sghignazzando,
–
ti
voglio
dietro
il
barbecue.
Ti
voglio
col
grembiulino
a
fiori
intorno
alla…»
Mio
padre
crollò
sulla
poltrona.
A
partire
da
quell’inverno,
riuscí
finalmente
a
realizzare,
non
veniva
piú
spedito
un
documento
unico
ma
sette
rendiconti,
uno
per
ciascuna
delle
zone
di
rappresentanza
curate
da
Palmieri.
La
nota
che
lo
aveva
fatto
imbestialire
riguardava
giusto
Bari
e
la
provincia
–
poi
c’era
il
Salento
e
la
zona
di
Napoli,
il
Lazio,
la
Sicilia,
le
nuove
fette
di
mercato
di
EmiliaRomagna
e
Toscana.
«Fatti
due
calcoli…»
disse
Palmieri
passandosi
con
soddisfazione
le
mani
lungo
la
camicia.
Avrebbe
saputo
a
cosa
imputare
un
calo
del
trentatre
per
cento:
clienti
che
non
pagavano,
o
altrimenti
un
raggiro
dello
stesso
Palmieri.
Un
aumento
di
dieci
punti
sarebbe
stato
nel
novero
delle
cose
ragionevoli.
A
un
aumento
di
quaranta
punti
avrebbe
reagito
tornando
a
casa
con
una
confezione
magnum
di
Veuve
Cliquot.
Piú
duecentocinquanta
punti
rispetto
all’anno
prima…
Questa
non
era
una
buona
notizia.
Questa
non
era
neanche
un’ottima
notizia.
Questo
andava
oltre
ogni
realistica
aspettativa,
se
la
fatica,
l’ingegno,
il
sacrificio
avevano
ancora
un
rapporto
umanamente
comprensibile
con
il
loro
risultato.
Aveva
abbracciato
Palmieri
con
gli
occhi
vuoti.
Si
era
rimesso
sul
Fiorino
e
aveva
riattraversato
la
costa
a
trenta
all’ora,
pensando:
Sono ricco, adesso sono
proprio ricco ricco…
senza
capacitarsi
di
come
il
contraccolpo
di
una
buona
notizia
potesse
risultare
cosí
violento.
Era
intontito.
E
lo
sgomento
non
nasceva
dal
fatto
che
spesso
i
trionfi
piú
squillanti
arrivano
in
momenti
non
previsti
(questo
mio
padre
lo
sapeva
benissimo).
Era
piuttosto
l’amore
rivoltato
che
ora
tirava
i
fili
della
sua
azienda…
tutto
era
mosso
da
un
amore
ugualmente
indecifrabile
ma
diverso
rispetto
a
quello
che
ingravidava
il
mondo
con
fatica
perché
il
mondo
mettesse
frutti
con
dolore.
Guidava
verso
Bari
in
stato
confusionale,
cercando
di
combattere
la
strana
sensazione
che
tutta
la
regione
stesse
suonando
a
festa:
il
suono
continuo
e
martellante
delle
domeniche
di
Pasqua.
Le
pianure
scorrevano
ai
bordi
della
strada,
e
oltre
le
pianure
i
centri
abitati
si
mostravano
con
i
palazzi
e
con
le
chiese
e
con
le
insegne
dei
primi
alberghi
per
amanti
in
trasferta.
Ma
i
campanili
erano
immobili
–
a
torre,
a
vela,
a
pianta
circolare:
file
e
file
di
campanili
con
i
battagli
totalmente
fermi.
E allora, questa
musica,dadoveviene?
Il
diciotto
dicembre
arrivò
il
colpo
da
ko.
L’ufficio
era
pieno
di
festoni
e
palle
colorate
e
figurine
di
argomento
natalizio
attaccate
alle
finestre
dalle
segretarie.
Mio
padre
chiese
a
Flora
qualche
notizia
sui
ritardi
dei
fornitori.
Era
la
dipendente
piú
anziana,
l’addetta
al
commerciale
che
da
anni
maneggiava
i
suoi
sbalzi
d’umore
con
il
rigore
di
una
balia
teutonica.
«Non
ci
crederai,
–
disse
sputando
soddisfatta
il
fumo
dalla
Nazionale
che
reggeva
tra
le
dita
dalle
unghie
perfettamente
smaltate,
–
ma
quest’anno
i
tessuti
sono
arrivati
quando
dovevano
arrivare:
le
stiratrici
ci
stanno
lavorando,
la
settimana
prossima
passeremo
ai
ricami».
Poco
convinto,
mio
padre
scese
a
piano
terra,
dove
gli
addetti
all’imballaggio
imbustavano
la
merce
a
pieno
ritmo.
Li
guardò
a
lungo:
non
c’era
niente
che
si
potesse
fare
per
farli
lavorare
meglio.
Risalí
in
amministrazione.
Telefonò
a
Palmieri.
Gli
domandò
quali
fossero
i
grossisti
a
cui
sarebbe
stato
possibile
fare
un’imboscata
prima
che
il
sabba
delle
feste
natalizie
mettesse
cinquanta
milioni
di
cervelli
fuori
uso.
Palmieri
lo
salutò
dal
sottofondo
di
un
Duke
Ellington
sopraffatto
dalle
urla
di
bambini
indemoniati:
«Ma
lo
sai
che
giorno
è
oggi?
–
disse.
–
Molla
tutto
e
vieni
a
farti
un
bicchierino
qui
al
Des
Alpes».
Papà
rispose:
«Non
me
ne
frega
un
cazzo
che
sei
in
vacanza
a
Madonna
di
Campiglio!»,
e
poi
gli
chiese
lo
minacciò
lo
scongiurò
di
dargli
il
nominativo
di
almeno
un
grossista
da
cui
Palmieri
non
fosse
ancora
passato.
Ci
avrebbe
pensato
lui,
si
sarebbe
messo
seduta
stante
alla
guida
del
Fiorino
e
avrebbe
raggiunto
l’ultimo
paesino
nel
buco
di
culo
della
provincia
di
Ragusa:
sarebbe
stato
disposto
a
farsi
massacrare
di
arancini
e
di
marsala,
e
avrebbe
ascoltato
senza
impazzire
gli
interminabili
cunti
di
tradimenti
coniugali
usciti
dalla
bocca
di
un
commerciante
di
Ispica
con
la
prostata
a
brandelli
fino
a
quando
non
cinquanta
copriletti
e
non
duecento
lenzuoline
ma
dieci
merdosi
accappatoi
di
spugna,
l’equivalente
per
coprire
metà
delle
spese
di
benzina
–
ma
un
ordine,
perdio!
–
non
avessero
riempito
la
cartavelina
di
un
documento
di
fatturazione
sul
quale
(mio
padre
lo
giurò
sulla
mia
testa)
Palmieri
avrebbe
ricevuto
la
sua
sacrosanta
provvigione
senza
alzare
il
culo
un
solo
istante
dalle
seggiovie
delle
Dolomiti
di
Brenta.
Palmieri
gli
rispose
che
tutti
i
grossisti
fino
all’ultimo
straccivendolo
erano
stati
passati
al
setaccio,
e
ognuno
aveva
fatto
un
ordine
che
a
mio
padre
avrebbe
dovuto
fare
l’effetto
di
un
oceano
di
camomilla
sparato
dritto
in
vena,
e
per
trovare
un
essere
umano
disposto
(«il
diciotto
dicembre!»)
a
visionare
ancora
quegli
articoli
i
cui
prezzi
e
numeri
di
protocollo
Palmieri
stava
cercando
di
dimenticare
«facendo
su
e
giú
come
un
coglione»
per
tutti
i
circuiti
innevati
del
Trentino,
sarebbe
stato
necessario
che
GesúBambino-in-persona,
al
momento
di
nascere
per
la
millenovecentottantacinq
volta,
portasse
sulla
Terra,
insieme
al
miracolo
dei
supermercati
assaltati
all’arma
bianca,
quello
di
trasformare
tutti
gli
operai
della
Fiat
in
grossisti
di
biancheria
e
le
maestrine
elementari
ancora
nubili
in
virago
col
sangue
alla
testa
disposte
a
raccattare
il
primo
novantenne
con
pensione
d’invalidità
al
solo
scopo
di
acquistare
un
corredo
e
dispensare
lui,
Palmieri,
da
incomprensibili
rotture
di
coglioni
durante
le
vacanze
di
Natale.
«Riposati!»
urlò
il
rappresentante.
E
riattaccò.
Cosí,
in
un
imprecisato
momento
del
tardo
pomeriggio,
mio
padre
si
ritrovò
tutto
solo
ad
aspirare
con
ferocia
un
mezzo
pacchetto
di
Marlboro
nel
cortile
antistante
il
suo
ufficio.
Gli
tremavano
le
mani.
Automobili
piene
di
adulti
sfidavano
il
traffico
dirette
verso
i
negozi
di
giocattoli
e
lui…
non
c’era
niente
che
lui
potesse
fare.
Il
miracolo
della
saturazione
era
compiuto.
Le
banche
non
facevano
pressioni,
perché
i
prestiti
venivano
aperti
e
chiusi
con
puntualità.
Gli
ordini
partivano
uno
dietro
l’altro,
affidati
alla
marcia
inarrestabile
dei
Tir.
I
televisori
erano
pieni
di
pubblicità
pagata
a
peso
d’oro.
I
dettaglianti
vendevano,
quindi
pagavano:
la
situazione
era
talmente
buona
che
avrebbero
continuato
a
farlo
senza
incidenti
per
molto
tempo
ancora.
A
meno
che
non
accadesse
qualcosa
fuori
dal
controllo
di
chiunque:
una
catastrofe
naturale,
il
furto
della
valigetta
atomica
all’ombra
del
Cremlino.
Ma
questi
erano
sogni.
La
verità
era
che
mio
padre
–
per
la
prima
volta
nella
vita
–
avrebbe
potuto
non
fare
assolutamente
nulla
fino
alla
prossima
estate
senza
che
gli
affari
ne
risentissero.
La
macchina…
la
Macchina
lavorava
al
posto
suo.
Continuò
a
fumare
cercando
di
togliersi
di
dosso
questa
nauseante
sensazione
di
rimpiazzo.
I
suoi
frutteti
vomitavano
senza
pace
il
risultato
della
concimazione
degli
anni
precedenti.
Non
aveva
nemici,
all’orizzonte
nemmeno
un
Iscariota.
Mentre
Wojtyła
in
tv
parlava
di
speranza,
e
i
parroci
invitavano
i
fedeli
alla
rigenerazione,
mio
padre,
al
centro
del
supremo
mistero
palingenetico
del
Capitale,
fu
invaso
da
una
violenta
straziante
sensazione
di
morte-in-
vita
che
imputò
immediatamente
allo
stress.
Guardò
le
lampadine
accese
che
davano
l’illusione
del
movimento
sui
balconi
del
palazzo
di
fronte.
Spense
l’ennesima
sigaretta
e
tornò
a
casa.
Questa musica? Questa
musica?
Due
sere
dopo,
congestionato
da
un
intero
blister
di
sonniferi,
stava
guardando
la
tv
immerso
in
una
sorta
di
impossibile
stremata
vigilanza
in
fase
rem.
Un
importante
uomo
politico
difendeva
la
decisione
del
governo
di
tagliare
qualche
punto
percentuale
sulla
scala
mobile
e
il
suo
avversario
cercava
di
mettergli
i
bastoni
tra
le
ruote.
Mio
padre
continuava
a
sussurrare:
«Balestrucci,
Balestrucci…»
Ancora
lui.
Gianfranco
Balestrucci
era
questo
povero
cristo
che
in
un’epoca
di
vacche
grasse
non
riusciva
a
mungerne
piú
nemmeno
una:
dopo
avere
ritardato
fino
allo
stremo
i
pagamenti
ai
fornitori,
si
era
cosparso
il
capo
di
cenere
e
aveva
dichiarato
fallimento,
sfidando
gli
attacchi
isterici
di
seconde
mogli
e
amanti
e
figlie
devastate
dal
complesso
di
Elettra
&
Christian
Dior.
Case
al
mare,
camper
e
automobili
sportive:
tutto
nelle
mani
dei
giudici.
A
mio
padre
doveva
una
ventina
di
milioni.
Ci
sarebbe
voluta
un’intera
squadra
di
Balestrucci
perché
gli
affari
di
casa
ne
ricevessero
il
minimo
fastidio.
Ciò
nonostante,
mio
padre
si
aggrappò
a
questa
morosità
come
a
un’ultima
speranza.
«Come
fai
a
non
capire,
cristoiddio?
–
si
lamentava
con
mia
madre,
–
è
già
d’accordo
col
curatore
fallimentare!»
Eppure
una
sentenza
passata
in
giudicato
aveva
già
disposto
che
quei
soldi
erano
nostri,
bisognava
solo
aspettare
che
i
beni
del
Balestrucci
venissero
liquidati
fino
all’ultimo
catamarano.
Aspettare?
Il
20
dicembre,
di
prima
mattina,
papà
telefonò
al
suo
creditore.
Rispose
la
moglie
di
Balestrucci.
Il
tono
della
voce
era
accorato:
«Mi
dispiace,
è
sempre
in
giro,
sono
mesi
che
lo
vediamo
solo
di
domenica…»
In
pochi
giri
di
battute
erano
ai
confidenziali:
«La prego,
–
implorò
la
donna,
–
se
almeno
a
lei
dà
ascolto,
lo
convinca
a
risparmiare
le
porcellane
di
Capodimonte».
L’agenda
di
mio
padre
aveva
visto
i
giorni
della
crisi
petrolifera.
Cosí,
la
sera
dopo,
risalí
senza
fatica
alla
ex
signora
Balestrucci.
Me
lo
ricordo
con
la
cornetta
in
mano
e
lo
sguardo
pronto
all’aggressione.
Poi
cambiò
faccia.
Gli
astratti
furori
di
mio
padre
non
erano
niente
rispetto
alla
tempesta
biliare
che
può
addensarsi
su
una
metà
di
letto
vuota
causa
divorzio
giudiziale:
«Tu
vedi
questo…
–
lo
aggredí
la
donna,
–
ma
sai
che
cazzo
me
ne
può
fregare
a
me
che
quel
figlio
di
una
troia
non
ti
ha
pagato
quattro
stracci
di
merda?
Lo
sai
quant’è
che
ci
ho
rimesso
io
con
questa
storia
della
comunione
dei
beni?
Diciotto
mesi,
tra
l’altro,
che
non
mi
versa
una
lira
di
alimenti…»
Gli
occhi
di
mio
padre
si
accesero
in
una
fiamma
di
sfrigolante
ammirazione:
«Signora,
glielo
assicuro,
gli
farò
sputare
tutto
fino
all’ultimo
centesimo!»
21
dicembre…
Il
pomeriggio
del
21
dicembre
mia
madre,
appena
entrata
in
casa,
alzò
trafelata
la
cornetta
di
un
telefono
che
già
squillava
disperatamente
quando
lei
era
ancora
in
ascensore.
Era
Leone
Mincuzzi,
il
vecchio
giudice
fallimentare:
«Signora,
mi
rivolgo
a
voi
perché
vi
stimo
e
non
posso
fare
altro
considerando
che
vivete
da
vent’anni
con
uno
squallido
individuo
come
vostro
marito…»
Cessata
la
velenosa
ampollosità
del
preambolo,
le
disse
che
se
mio
padre
si
fosse
presentato
un’altra
volta
a
Palazzo
di
giustizia
urlando
per
tutti
i
corridoi
che
lui,
Mincuzzi,
era
un
giudice
corrotto
e
protetto
dalla
massoneria,
be’,
allora
una
querela
per
diffamazione
era
pronta
a
essere
depositata
presso
gli
organi
della
polizia
giudiziaria.
La
notte
del
22
dicembre
tornai
a
casa
mezzo
ubriaco.
Giuseppe
aveva
iniziato
a
trascinarmi
per
decine
di
appartamenti
disinfestati
dalla
presenza
degli
adulti
dove
il
Bailey’s
scorreva
a
fiumi.
Attraversai
il
soggiorno
avvolto
nelle
tenebre,
ripromettendomi
di
svenire
soltanto
dopo
aver
trovato
la
mia
stanza.
Il
Brionvega
testimoniava
la
presenza
di
qualcuno
ancora
sveglio.
Mentre
i
canali
televisivi
scaldavano
le
bobine
in
puro
stile
Betlemme
hollywoodiano
rispolverando
i
classici
di
Riccioli
d’Oro,
io
ero
il
manifesto
della
sbronza
da
boy
scout:
andatura
incerta,
alito
caramellato
da
rum
e
coca
coperti
da
mezzo
tubetto
di
dentifricio
riparatorio
e
i
bordi
delle
labbra
traslucidi
di
quell’inconfondibile
testimonianza
di
ragazze
ossessionate
dall’ordine
dei
farmacisti
che
è
la
paraffina
del
Labello.
Pensai:
Alleggerisci il
passo…Invece
mi
misi
in
trappola
da
solo:
«Tutto
bene?»
disse
il
panico
del
principiante.
Papà
staccò
la
testa
dal
televisore.
Mi
irrigidii.
Il
terrore
di
essere
scoperto
sfumò
sull’ancora
piú
vertiginosa
sensazione
di
venire
oltrepassato
da
uno
sguardo
che
puntava
all’infinito.
Aveva
gli
occhi
lucidi.
Dietro
di
lui,
la
superficie
dello
schermo
riproduceva
Shirley
Temple
vessata
dalla
direttrice
del
collegio.
Era
chiaro
che
la
visione
di
Piccola principessa
aveva
su
papà
l’effetto
che
sulle
persone
esaurite
esercita
il
semplice
planare
di
una
foglia
morta
nel
grigio
cielo
dell’autunno
(o
un
raggio
di
sole
in
una
stanza
vuota
o,
praticamente,
qualunque
cosa).
Mi
chiamò
a
sé
con
uno
sguardo
dolente
e
mortificatissimo.
Senza
accorgersi
dello
stato
in
cui
ero,
mi
mise
una
mano
sulla
spalla
e
disse:
«Io
ho
sempre
lavorato
come
un
cane,
no?»
Iniziò
a
parlarmi
dei
suoi
guai:
un
triste
monologo
notturno
che
l’Havana
Club
rese
poco
comprensibile
e
di
cui
dunque
ho
un
ricordo
sfocatissimo.
Ma
riguardava
genericamente
il
male.
Il
Male
nel
Mondo.
Cioè
gli
immensi
sacrifici
che
gli
imprenditori
onesti
si
sobbarcano
a
beneficio
della
collettività
solo
perché
l’insolvenza
di
qualche
farabutto
giunga
a
vanificarli.
L’iperbole
e
il
cilicio
erano
le
sue
stelle
polari,
ma
quella
notte
sembrava
del
tutto
sopraffatto
dai
propri
demoni.
Non
nominò
mai
apertamente
Balestrucci,
perché
circostanziare
il
discorso
gli
avrebbe
tolto
solennità,
ma
a
un
certo
punto
(ecco
la
cosa
che
mi
spaventò)
alluse
in
modo
nebuloso
alla
possibilità
che
un
giorno
potessi
essere
io
il
suo
vendicatore.
Sarei
diventato
uno
stimato
professionista,
consapevole
e
assetato
di
giustizia
–
assicurò
al
culmine
di
un
delirio
sorvegliatissimo
–,
e
grazie
alle
mie
«future
conoscenze»
avrei
potuto
aiutarlo
a
risolvere
i
problemi
che
lo
tormentavano.
Il
gioco
dei
sottintesi
era
cosí
contorto
da
risultare
inespugnabile,
e
tuttavia
era
anche
chiaro
nel
suo
sbocco:
parlava
di
«conoscenze
future»
per
alludere
piú
che
sottilmente
alle
mie
«frequentazioni
presenti».
Avvampai.
Rimpiansi
di
non
aver
bevuto
cosí
tanto
da
non
vedere
la
sciarada.
Andai
a
letto
cercando
di
dimenticare
al
piú
presto
ogni
parola.
Il
23
dicembre,
poco
dopo
il
telegiornale
della
sera…
eccolo,
il
giorno
è
questo.
Alle
dieci
papà
non
era
ancora
rientrato
in
casa.
Mia
madre
aveva
telefonato
senza
successo
in
ufficio,
ai
nonni,
a
Palmieri
e
anche
a
Di
Liso.
Un
mucchio
di
pacchetti
colorati
si
accendeva
e
si
spegneva
ritmicamente
sotto
le
lampadine
dell’abete
di
plastica.
Trascorse
un’altra
mezz’ora,
e
due
telefonate,
in
rapido
passaggio,
tracciarono
l’assurdo
quadro
della
situazione.
La
prima
durò
pochi
secondi:
«Buonasera,
è
il
Policlinico
di
Bari,
–
disse
la
voce
femminile,
–
deve
venire
a
firmare
per
suo
marito.
È
stato
sottoposto
a
Tso».
Mia
madre:
«Che
cosa…
che
cosa
sta
dicendo?»
La
voce
femminile:
«Trattamento
sanitario
obbligatorio.
Venga
qui
che
le
spieghiamo
tutto».
Tra
la
prima
e
la
seconda
telefonata
passarono
meno
di
cinque
minuti.
Quanto
bastava
perché
mia
madre
restasse
ferma
in
una
zona
morta
di
piastrelle
con
il
volto
pallido
e
i
lineamenti
alla
mercé
di
un
violento
torpore
animale
che
aveva
spazzato
in
un
secondo
tutto
il
fumoso
armamentario
di
ville
da
ristrutturare
e
automobili
da
cambiare,
restituendola
ai
miei
occhi
nuovamente
bella,
il
lungo
e
slanciato
principio
femminile
che
sarebbe
potuta
essere
per
sempre.
Una
donna
in
pena
per
una
persona
cara.
Poi
arrivò
l’altra
telefonata
e,
con
questa,
i
chiarimenti
che
soffocarono
la
forza
del
nudo
sentimento
nella
cornice
di
una
spiegazione.
Era
Lorenzo
Agosti,
l’avvocato
di
papà.
Disse:
«Questa
volta
ha
fatto
un
casino…
ma
un
casino
che
non
ti
puoi
neanche
immaginare».
Era
entrato
nello
studio
dell’avvocato
in
evidente
privazione
dei
freni
inibitori
e
aveva
fatto
irruzione
direttamente
nel
suo
ufficio
dicendo:
«Lorenzo!
Me
li
devi
fare
arrestare,
adesso».
L’avvocato,
che
tra
l’altro
era
un
civilista,
aveva
alzato
gli
occhi
dalle
carte
di
una
lite
condominiale:
«Che
cosa
dici?»
E
mio
padre,
alzando
la
voce:
«Balestrucci!
Balestrucci
e
quell’altro
cravattaro
del
giudice!»
«Ti
rendi
conto?
–
disse
Agosti
per
telefono,
–
non
ho
potuto
fare
a
meno
di
chiamare
i
carabinieri…»
Nello
sguardo
di
mia
madre,
nuovamente,
il
meraviglioso
smarrimento
del
primo
cromosoma
xx
comparso
sulla
Terra.
Durò
un
attimo.
L’avvocato
riprese
a
parlare:
«Ti
giuro
che
ho
cercato
di
fermarlo».
Le
raccontò
che
aveva
spiegato
a
mio
padre
ciò
che
mio
padre
sapeva
già
perfettamente,
e
cioè
che
per
far
arrestare
qualcuno
è
necessario
di
solito
un
complicato
procedimento
per
il
quale
gli
avrebbe
consigliato
un
penalista
che
sapeva
il
fatto
suo.
A
quel
punto
(«ha
fatto
tutto
lui,
io
non
l’ho
provocato
in
alcun
modo»),
mio
padre
aveva
preso
una
sedia
e
gliel’aveva
scaraventata
addosso,
mancandolo.
Poi
aveva
rovesciato
la
scrivania
–
carte,
telefoni,
soprammobili:
tutto
furiosamente
per
aria.
Agosti,
rannicchiato
sul
pavimento,
non
faceva
che
ripetere:
«Ma
sei
impazzito?
sei
impazzito?»
Mio
padre
l’aveva
scavalcato.
Si
era
diretto
verso
la
finestra.
Aveva
spalancato
le
pesanti
tende
che
impedivano
la
vista
sul
grande
albero
di
Natale
piantato
in
via
Sparano
e
aveva
aperto
i
battenti.
Col
vento
in
faccia,
aveva
guardato
le
luci
dei
negozi
sottostanti:
«Città
di
merda…»
era
stata
la
conclusione.
Poi
aveva
riattraversato
la
stanza.
Aveva
staccato
da
una
parete
il
prezioso
didgeridoo
in
eucalipto
acquistato
durante
una
vacanza
in
Australia.
Brandendo
lo
strumento
musicale,
aveva
cercato
di
sfondare
l’acquario
pieno
di
pesci
tropicali
considerati
i
portafortuna
dello
studio.
All’arrivo
dei
carabinieri
era
balzato
con
tutti
e
due
i
piedi
sul
vano
della
finestra
ancora
aperta:
«Mi
butto!
vi
dico
che
mi
butto!»
Lo
avevano
immobilizzato.
Gli
avevano
iniettato
un
potente
neurolettico.
Lo
avevano
trasferito
presso
il
reparto
di
psichiatria
del
Policlinico,
in
mezzo
ai
matti
veri.
«Pericoloso
per
sé
e
per
gli
altri»,
sarebbe
dovuto
rimanere
in
ospedale
per
almeno
due
settimane.
Trascorrere
il
Natale
con
il
capofamiglia
esiliato
nel
piú
infamante
reparto
di
una
struttura
pubblica
ci
avrebbe
tolto
punti.
La
mamma
elettrificò
di
conseguenza
il
piccolo
cordone
sanitario
di
conoscenze
semiinfluenti
che
sono
il
patrimonio
vivo
di
ogni
famiglia
rispettabile.
Lo
dimisero
nel
giro
di
ventiquattr’ore.
Vidi
mio
padre
rientrare
in
casa
imbottito
di
tranquillanti,
scortato
da
un
Palmieri
appena
precipitato
dalle
vette
del
Trentino
con
un’abbronzatura
da
capitano
di
lungo
corso
(del
tipo:
«Ho
navigato
i
sette
mari
e
ne
ho
viste
di
cose
veramente
assurde;
questo
è
solo
un
piccolo
incidente…»)
e
da
Lorusso,
il
nostro
medico
curante,
quello
dell’atomica
su
Liverpool.
Il
medico
–
un
provinciale
a
stelle
e
strisce
di
nuovo
conio,
convinto
che
Reagan
fosse
Dio
e
che
il
Vecchio
continente
meritasse
di
sprofondare
nel
suo
abisso
di
obsolescenza
–
sistemò
ciò
che
restava
di
mio
padre
nel
letto
matrimoniale.
Riempí
di
prescrizioni
una
mezza
dozzina
di
fogli
e
ci
comunicò
con
una
vivacità
intellettuale
prossima
all’entusiasmo
che
certo,
la
letteratura
di
casa
nostra
avrebbe
parlato
banalmente
di
«depressione
da
stress
con
pensieri
paranoidi»,
ma
in
realtà
mio
padre
era
affetto
da
«nikefobia»,
un
tipo
di
patologia
già
diffusa
tra
i
broker
di
Wall
Street
e
i
campioni
dell’Nba,
la
quale
evidentemente
iniziava
a
portare
un
po’
di
civiltà
anche
sulle
rive
del
Mediterraneo.
«Se
proprio
vogliamo
semplificare,
–
disse,
–
si
può
parlare
di
depressione
da
successo
improvviso».
Ci
raccontò
di
questi
campioni
dei
Lakers
o
dei
Chicago
Bulls
che
arrivavano
a
lambire
la
media
stellare
di
trenta
punti
a
partita
e
poi,
nella
stagione
successiva,
crollavano
senza
ragione
apparente.
Per
rincuorarci
ci
confidò
che
mio
padre
era
un
vero
fuoriclasse,
visto
che
in
lui
la
nikefobia
era
assurta
a
un
«secondo
grado
di
gestazione»:
la
sua
segreta
paura
di
vincere
non
gli
aveva
impedito
di
vincere
lo
stesso.
«Qualcosa
nel
profondo
ha
cercato
di
convincerlo
che
avere
successo
è
sbagliato,
–
continuò
il
medico,
–
ma
un
istinto
ancora
piú
tignoso
gli
ha
fatto
mettere
le
premesse
perché
la
parte
distruttiva
non
facesse
troppi
danni.
Per
intenderci,
signora,
in
due
o
tre
mesi
dovrebbe
esserne
fuori.
E,
mi
sembra
di
capire…
cioè,
di
poter
dire…
insomma…
vista
la
vostra
attuale
situazione…
che
questo
non
potrà
minimamente
pregiudicare…
insomma…
Incredibile
cosa
può
fare
la
mente
umana,
vero?»
Insomma,
i
famosi
rendiconti
di
Palmieri
erano
di
dominio
pubblico.
Doxepina,
Parmodalin
e
riposo
assoluto.
Il
medico
e
Palmieri
ci
salutarono.
Riempirono
mia
madre
di
raccomandazioni
scontate.
Circondarono
il
paziente
di
buffetti
a
cui
mio
padre
rispose
con
uno
smorto
sguardo
da
naufrago
su
un’altra
dimensione.
Non
c’è
molto
da
aggiungere:
questa
fu
la
nostra
vigilia
di
Natale.
Quando
crollavano
i
nervi
a
imprenditori
strozzati
dai
debiti,
il
malessere
mentale
veniva
associato
alla
loro
incapacità
di
sfondare
negli
affari:
i
colleghi
li
compiangevano
ardendo
dalla
soddisfazione,
le
mogli
e
i
figli
nell’età
della
ragione
li
trattavano
come
convogli
disgraziati
da
rimettere
sui
binari
della
rispettabilità.
Nel
caso
di
papà,
a
essere
colpito
era
un
imprenditore
baciato
dal
successo:
la
sua
breve
convalescenza
fu
vissuta
come
la
naturale
incubazione
di
successi
ancora
piú
grandiosi.
Fu
mia
madre
a
occuparsi
di
tutto.
Gli
blindò
intorno
un
nido
protettivo
fatto
di
silenzio,
lunghe
dormite
e
tè
verde
a
profusione
–
una
prigione
sanitaria
di
cui
si
fece
l’inflessibile
guardiana.
Arrivarono
in
visita
colleghi,
parenti,
semplici
amici,
tutti
ansiosi
di
marcare
un
credito
di
gratitudine
a
futura
memoria.
Ma
sulla
soglia
di
casa
trovavano
lei.
La
mamma
li
dirottava
in
salotto,
preparava
tè
e
pasticcini,
li
tranquillizzava
sullo
stato
di
salute
del
malato
(«Si
sta
riprendendo,
in
ufficio
per
adesso
me
la
sto
vedendo
io…»)
e
solo
allora
vibrava
il
colpo
di
grazia:
«Mi
dispiace,
te
lo
farei
anche
salutare,
ma
sta
dormendo
e
il
suo
riposo
deve
essere
assoluto»,
come
se
in
fondo
al
corridoio
–
terza
porta
a
sinistra
–
non
ci
fosse
un
uomo
sventrato
da
trent’anni
di
competizione
ma
il
giovane
Siddharta
nella
posizione
del
loto.
Il
visitatore,
riaccompagnato
alla
porta
d’ingresso,
arricciava
penosamente
le
sopracciglia:
«Mi
raccomando
(cioè:
te ne
prego!)
ricordati
di
dirgli
che
sono
passato».
E
lei,
spietata:
«Non
mancherò».
L’innocente
fiamma
di
preoccupazione
che
l’aveva
ringiovanita
di
vent’anni
al
momento
di
ricevere
la
telefonata
dal
Policlinico,
non
si
affacciò
piú
nello
sguardo
di
mia
madre.
Da
come
gestí
l’emergenza
–
fui
costretto
a
constatare
in
quei
mesi
–,
dava
piuttosto
l’idea
di
avere
finalmente
tra
le
mani
il
compasso
per
tracciare
il
primo
segno
di
un
progetto
planetario.
Non
voglio
dire
che
lo
stato
di
mio
padre
la
eccitasse.
E
tuttavia,
la
costanza
pseudoscientifica
con
cui
contava
di
restituire
al
mondo
suo
marito
sembrava
cementare
in
lei
la
convinzione
che
tutto
ciò
che
biasimava
in
papà
fosse
insperatamente
sul
punto
di
dissolversi
–
era
pronta
a
scommettere
che
dall’esaurimento
potesse
riemergere
piú
leggero
ed
evoluto,
libero
dalle
zavorre
del
neorealismo:
una
persona
nuova.
Papà
dormiva
anche
tredici
ore
di
fila.
A
tavola
era
piuttosto
taciturno.
E
in
effetti,
quando
accadeva
che
rievocasse
come
al
solito
il
suo
passato
di
stenti,
non
sembrava
piú
capace
di
entrare
in
contatto
con
gli
episodi
raccontati:
andava
a
memoria,
parlava
senza
convinzione.
Una
volta
alla
settimana
telefonava
in
ufficio
per
aggiornarsi.
Firmava
le
carte
che
la
mamma
gli
passava.
Diceva
sempre:
«Tutto
a
posto».
Ma
poi
lo
sorprendevo
in
bagno:
dopo
avere
deposto
il
rasoio
nel
bicchiere,
si
ravvivava
le
guance
con
due
schiaffetti
di
acqua
di
colonia
e
si
guardava
allo
specchio
con
aria
sospettosa.
Provava
a
riconoscersi.
Chiudeva
e
spalancava
gli
occhi.
Infine,
gli
si
disegnava
sulla
bocca
uno
strano
sorriso
di
compiacimento
(e
io
osservandolo
pensavo
che,
esaurimento
a
parte,
era
pericoloso
fidarsi
di
un
uomo
che
sorrideva
in
quel
modo),
quasi
cedesse
anche
lui
alla
convinzione
–
della
mamma,
delle
persone
che
in
quel
periodo
transitarono
nel
nostro
appartamento,
di
tutti
–
che
la
sua
depressione
avesse
qualcosa
di
soprannaturale:
lui
e
la
sua
azienda,
stretti
in
un
vincolo
energetico
che
funzionava
secondo
la
regola
dei
vasi
comunicanti
(lui
si
ricaricava,
Lei
marciava
a
meraviglia
lungo
tutte
le
nervature
del
tessuto
commerciale,
tornando
a
noi
nei
geroglifici
impazziti
dei
c/c),
come
se
proprio
quello
stato
di
rimbambito
dormiveglia,
drogato
dal
Valium
e
dai
sali
di
litio,
gli
consentisse
di
entrare
in
contatto
con
la
parte
profonda
e
misteriosa
dei
suoi
affari:
la
culla
ancora
vuota
di
una
Natività
dentro
la
quale
l’imperscrutabile
pi
greco
del
far
soldi
e
la
persona
fisica
di
mio
padre
si
sarebbero
fusi
in
un
unico
individuo.
Questa
atmosfera
ebbe
l’effetto
di
stornare
ogni
tipo
di
controllo
su
di
me.
Suonava
il
citofono,
e
in
strada
c’era
Giuseppe
con
il
Red
Rose
dalla
marmitta
scoppiettante.
Si
spalancarono
giorni
di
libertà
assoluta.
Capitolosettimo
Furono
i
mesi
delle
feste
con
pomiciata
finale.
«I
genitori
di
Matteo
sono
in
vacanze
alle
Canarie…»,
era
questo
il
tipo
di
notizia
che
il
pomeriggio
rimbalzava
da
un
telefono
all’altro
arroventando
il
microclima
di
camerette
traboccanti
di
audiocassette
pirata
e
kleenex
appallottolati.
«Abbiamo
un
problema!
–
diceva
un’altra
voce
telefonica,
–
la
casa
è
libera,
ma
ho
rotto
l’amplificatore
dello
stereo».
Scavallato
il
millennio
–
dispersi
ai
quattro
angoli
del
mondo
o
rimasti
a
lavorare
in
un
luogo
che
stentavano
a
riconoscere
come
la
città
in
cui
anni
addietro
avevano
sfilato
per
la
prima
volta
gli
slip
di
una
coetanea
–,
piú
di
un
ex
adolescente
cresciuto
a
Bari
in
quel
periodo
sarebbe
stato
trafitto
dal
ricordo
di
un
concentrato
di
acne
e
adipe
e
capelli
rossi
che,
in
un
vecchio
pomeriggio
ancora
dominato
dall’influsso
astrale
delle
Bangles,
aveva
fatto
ingresso
in
casa
sua
scortato
da
cinque
casse
di
birra
e
da
un
impianto
Bang
&
Olufsen
nuovo
di
zecca.
Era
Giuseppe
a
tenere
le
fila
della
situazione
–
capace
di
sentire
medianicamente
l’assenza
di
esseri
umani
adulti
tra
le
pareti
di
un
appartamento:
allora
partiva
il
giro
di
telefonate
e,
qualunque
fosse
il
problema,
lo
risolveva
anche
per
noi.
Fu
dunque
il
periodo
in
cui,
un
numero
indefinito
di
minorenni
abituati
a
respirare
cupe
atmosfere
famigliari
ancora
pregne
di
Canzonissima’59
si
infilò
due
crocifissi
e
un
paio
di
Clippers
e
scoprí
il
mondo.
O
meglio,
cominciò
ad
attraversarne
il
simulacro
attraverso
il
battesimo
del
pop.
Ma
mentre
le
ragazze
e
i
ragazzi
che
si
erano
rotolati
nudi
dentro
il
fango
sotto
le
tempeste
elettriche
di
Jimi
Hendrix
avevano
sperimentato
la
fiammata
iniziale
del
fenomeno
–
e
quindi
calda
per
forza
di
cose
–
a
noi
toccò
il
cadavere
vestito
a
festa.
Erano
i
tempi
dei
teen
movie
per
futuri
dirigenti
d’azienda
e
dell’assurdo
carrozzone
di
Usa
for
Africa.
Qualcosa
di
morto
arroventava
i
tramonti
delle
nostre
città,
e
piú
era
morto
piú
pretendeva
il
contrario
e
si
riempiva
di
lustrini.
Non
che
Giuseppe
avesse
coscienza
di
questi
aspetti
del
momento
storico.
E
tuttavia
si
dava
da
fare
con
tutte
quelle
feste
come
se
buttarsi
dentro
il
peggio
a
portafogli
spalancati
fosse
l’unico
sistema
per
entrare
in
contatto
con
lo
spirito
del
tempo.
A
onor
del
vero,
le
prime
feste
furono
molto
deludenti.
Sotto
la
puntina
dello
stereo
passavano
gli
insulsi
ritornelli
di
Paul
Young.
Attaccavano
le
prime
note
di
Reality
e
si
passava
ai
lenti.
Chi
l’ha
detto
che
gli
adolescenti
sono
dominati
dagli
istinti?
La
prima
che
mi
capitò
tra
le
mani
fu
Marina,
un
raddoppio
di
felpe
colorate
che
escludeva
la
possibilità
di
un
corpo
fisico.
Eravamo
a
casa
di
Giannelli.
La
ragazza
mi
si
avvinghiò
al
collo
senza
dire
una
parola.
Ballammo
come
due
sacchi
di
patate
mentre
Richard
Sanderson
diceva
dallo
stereo:
«cerco
di
vivere
nei
sogni
|
i
sogni
sono
la
mia
realtà».
Quando
mi
decisi
a
premere
le
labbra
sulle
sue,
eravamo
al
quarto
lento
e
la
ragazza
dava
segni
di
nervosismo.
All’inizio
sembrava
che
a
scegliermi
avesse
fatto
una
grande
concessione.
Poi
però,
considerando
che
non
avevo
mosso
un
dito
nonostante
le
prime
coppie
già
si
dessero
da
fare,
aveva
provato
a
darmi
una
svegliata
infilandomi
un
ginocchio
tra
le
gambe.
Visto
che
non
reagivo,
venne
infine
aggredita
dal
terrore
di
essere
l’unica
là
in
mezzo
a
poter
concludere
la
serata
in
bianco,
l’unico
nome
(il
suo)
accompagnato
da
uno
zero
sul
segnapunti
che
rappresentava
il
vero
deus
ex
machina
della
serata:
la
necessità
di
ricalcare
qualche
scena
da
Il tempo delle mele.
Iniziò
a
guardarmi
con
odio:
Baciami, avanti
stronzo baciami…
Ero
paralizzato.
Meditavo
oscuramente
sul
modo
in
cui
tutti
gli
inviti
a
seguire
i
propri
sogni
che
dominavano
le
hit
del
periodo
potessero
rovesciarsi
sui
nostri
corpi
in
qualcosa
di
cosí
spietato
e
freddo.
Il
pavimento
era
pieno
di
tovaglioli
di
carta,
pezzi
di
crostata
sbriciolata,
bicchierini
di
plastica
che
crepitavano
schiantati
dalle
coppie
che
si
abbracciavano
mentre
la
voce
di
Phoebe
Cates
si
cimentava
nello
svenevole
inciso
di
Paradise.
A
quel
punto
feci
il
mio
dovere
e
la
baciai,
ricevendo
la
conferma
che
a
spingerci
l’uno
verso
l’altra
non
era
stata
l’audacia
né
il
desiderio,
ma
i
quindici
milioni
di
europei
che
avevano
visto
Il tempo
delle mele,
per
non
contare
l’immenso
esercito
di
spettatori
che
aveva
portato
Paradise
a
non
schiodarsi
dalle
classifiche
per
mesi;
e,
se
non
precisamente
questi
due
film,
la
luminosa
gabbia
di
fatturato
e
anaffettività
dentro
la
quale
sembravamo
tutti
ansiosi
di
rinchiuderci
per
poi
gettare
via
la
chiave.
Dieci
minuti
dopo,
anche
io
e
Marina
eravamo
sul
divano.
Continuammo
a
pomiciare
senza
provare
nulla
a
parte
un
principio
di
secchezza
delle
fauci.
«Bella
serata!»
disse
Giuseppe
alla
fine
della
festa
pretendendo
che
gli
battessi
il
cinque.
Ma
le
cose
cambiarono
nel
giro
di
poche
settimane.
Le
pomiciate
si
trasformarono
in
palpatine
un
po’
piú
serie,
e
queste
finirono
per
cristallizzarsi
vividamente
nella
pratica
della
«sega
alla
vergognosa».
Fu
come
se,
da
una
parte
all’altra
della
città,
circolasse
un
messaggio
cifrato
che
ci
invitava
a
essere
meno
ingenui
e
imbalsamati,
in
modo
da
poter
raggiungere
con
stile
il
giacimento
di
fiele
al
centro
del
Grande
Confetto
Rosa
dei
nostri
giorni.
Qualcuno
tolse
definitivamente
Richard
Sanderson
dal
piatto
dello
stereo.
Al
suo
posto
un
cantante
di
Manchester
iniziò
a
farci
ballare
con
strofe
del
tipo:
«Lei
disse:
come
fate
a
non
accorgervi
che
sono
morta?»
Ci
ritrovammo
dotati
all’improvviso
di
una
prontezza
che
ci
faceva
afferrare
con
due
dita
gli
occhiali
della
ragazza
che
stavamo
per
baciare.
Sollevavamo
la
leggerissima
montatura
color
pesca
e,
al
posto
della
compostezza
parrocchiale
che
avevamo
avuto
di
fronte
fino
a
due
secondi
prima,
compariva
uno
sguardo
aperto
e
furbo,
un
vivo
disordine
di
capelli
e
un
sorriso
che
diceva:
Vieni
qua,fattidelmale.
Le
mani
di
queste
ragazzine
si
aprivano
sul
nostro
mento,
poi
si
muovevano
nella
direzione
opposta
portandoci
a
baciarle
prima
che
fossimo
pronti
a
farlo.
Il
loro
sedere
inguainato
nei
jeans
di
marca
si
staccava
dal
divano
per
venirci
meglio
addosso.
Sentivamo
il
fresco
sapore
di
menta
sulle
loro
lingue
–
i
loro
orecchini
e
le
catenelle
e
i
braccialetti
ondeggiavano
sovvertendo
la
smorta
pretesa
di
bella
presenza
con
cui
quegli
stessi
pendagli
le
avevano
offerte
all’inizio
della
festa.
Le
nostre
mani
stringevano
il
maglione
della
ragazza,
toccavano
il
tessuto
dei
jeans,
si
infilavano
nell’incavo
prima
morbido
e
poi
grinzoso
appena
sotto
la
cintura.
A
quel
punto
l’abbandono
delle
labbra
semichiuse
della
ragazza
ridiventava
un
sorrisetto
di
brillante
intelligenza.
Ci
fermava
le
mani.
Compiva
un
rapidissimo
ma
sempre
melodioso
giro
su
se
stessa
in
modo
da
darci
le
spalle
–
le
nostre
pance
contro
la
sua
spina
dorsale,
le
ginocchia
della
ragazza
tra
i
cuscini
del
divano
e
la
sua
guancia
premuta
sulla
parete
contro
cui
il
divano
era
addossato
–,
e
mentre
noi
ci
chiedevamo
macchinosamente
cosa
avremmo
dovuto
fare,
stoc…
sentivamo
la
pancia
rilassarsi
e
subito
dopo
realizzavamo
che
la
ragazza
ci
aveva
appena
sbottonato
i
pantaloni.
Di
spalle,
senza
guardarci,
iniziava
a
carezzarci
i
boxer:
lo
stomaco
ci
risaliva
in
gola
e
poi
la
sensazione
di
un
cubetto
di
ghiaccio
ci
bloccava
l’esofago
quando
sentivamo
senza
poter
sbagliare
(e
alcuni
di
noi
si
sorprendevano
a
pregare:
Mio Dio, fa’ che
mi sbagli!)
le
nocche
ossute
di
una
mano
stringersi
e
allargarsi
sul
cazzo
in
modo
cosí
diverso
da
come
facevamo
noi
(e
tutti,
per
un
attimo,
eravamo
disposti
a
rivedere
le
nostre
posizioni:
Forse
negli anni ho sbagliato
impugnatura, forse una
vera sega si fa proprio in
questomodo…)
oppure
la
fredda
e
inaspettata
consistenza
di
un
anello
con
cuoricino
in
acquamarina
gelarci
e
poi
graffiarci
l’inguine
senza
che
l’«ah!»
che
avremmo
voluto
urlare
ci
uscisse
dalla
bocca.
E
quella,
appunto,
venne
ribattezzata
«sega
alla
vergognosa»:
una
nuova
padronanza
delle
cose
che
sbeffeggiava
il
goffo
autocontrollo
delle
prime
feste,
uno
speaker’s
corner
di
pochi
centimetri
quadrati
che
la
ragazza
si
costruiva
nell’ombra
per
poter
dire
senza
parole
a
noi
e
a
se
stessa:
«Cosí
facevano
le
nostre
nonne
e
forse
anche
le
piú
sprovvedute
delle
nostre
mamme:
spegnevano
la
luce
per
non
guardare
in
faccia
il
proprio
uomo,
affidando
la
responsabilità
delle
loro
gambe
aperte
al
dovere
coniugale,
o
a
Dio,
o
a
quel
principio
di
maschile
e
ignara
prepotenza
che
una
volta
era
stato
il
vero
nome
di
Dio.
Ma
io
sono
nata
in
un
mondo
mostruosamente
libero,
e
da
bambina
ho
visto
Gli
aristogatti
quattordici
volte
di
seguito.
E
ho
letto
per
anni
I consigli
del ginecologo
su
«Cioè»,
questa
rivista
a
cui
si
rivolgevano
le
ragazzine
in
crisi
per
risolvere
strani
dilemmi
esistenziali
che
le
portavano
a
chiedere
all’esperto
se
il
sesso
orale
fosse
un
compromesso
ragionevole
nei
confronti
di
semifidanzati
che
ogni
santo
giorno
provavano
a
far
loro
il
lavaggio
del
cervello
spinti
da
un
qualcosa
che
le
ragazze
non
percepivano
del
tutto
come
amore,
non
percepivano
del
tutto
come
semplice
voglia
di
scopare,
non
si
azzardavano
però
neanche
a
definire,
se
non
velatamente,
come
il
malvagio
intento
di
svergognarle
agli
occhi
del
mondo
(ma allora
cosa,
mi
domandavo…),
e
ricevevano
dal
ginecologo
tutte
le
dritte
per
vivere
l’adolescenza
e
il
sesso
in
modo
dignitoso
libero
e
aggiornato,
come
del
resto
testimoniavano
(poche
pagine
prima,
e
poche
pagine
dopo
I
consigli del ginecologo)
le
foto
di
ragazzine
sorridenti
nella
pubblicità
del
lucidalabbra
allo
zucchero
filato
sos
lèvres,
nelle
pubblicità
del
make-up
‘incolore
e
goloso’
debbie
bubbles,
nelle
pubblicità
del
gel
paillettato
e
profumato
‘con
cui
cospargersi
l’intero
corpo’
baby
roll.
E
ho
visto
mia
madre
e
mio
padre
precipitarsi
in
macchina
nel
cuore
della
notte
verso
un
paesino
della
Basilicata
subito
dopo
il
terremoto
dell’80,
nella
caritatevole
speranza
di
trovare
qualcuno
che
sostituisse
la
cameriera
eritrea
licenziatasi
senza
preavviso
da
un
giorno
all’altro.
E
la
prima
volta
che
ho
baciato
un
ragazzo
ho
capito
che
un
bacio
non
è
un
bacio
ma
la
prova
documentale
intorno
a
cui
possono
scatenarsi
le
crisi
isteriche
delle
tue
migliori
amiche.
E
quando
finalmente,
pochi
mesi
fa,
subito
dopo
l’inizio
della
scuola,
le
otto
del
mattino,
mezzo
immobilizzata
in
un
autobus
pieno
di
facce
anonime,
il
mio
vestito
sopra
il
ginocchio,
le
gambe
accese
dalla
radiosa
tornitura
di
iodio
e
cocco
che
è
il
ricordo
non
ancora
morto
dell’estate,
le
mie
braccia
verso
l’alto,
le
mani
strette
alle
prese
di
cuoio,
le
ascelle
depilate
e
ripassate
col
BABY
ROLL,
quando
ho
sentito
una
pressione
troppo
insistita
per
essere
il
movimento
casuale
di
un
altro
passeggero,
e
ho
girato
la
testa,
e
ho
visto
questo
vecchio
in
giacca
e
borsalino,
uno
che
avrebbe
potuto
essere
mio
nonno,
la
faccia
magra
piena
di
rughe,
le
macchie
rosse
a
punteggiargli
le
tempie,
quando
ho
pensato:
Non
è possibile che mi si stia
strusciandoaddosso,
e
poi
ho
pensato:
Oh sí, lo sta
proprio facendo…,
allora
non
mi
sono
messa
a
urlare,
non
mi
sono
allontanata,
non
ho
nemmeno
sganciato
le
mani
dalle
prese
di
sostegno,
l’ho
lasciato
fare,
ho
risposto
alla
violenza
con
la
resa
piú
totale
perché
oltre
quella
soglia
c’era
qualcosa
di
intestimoniabile,
una
storia
che
non
sarebbe
mai
potuta
finire
sulle
pagine
di
«Cioè»,
non
avrei
mai
potuto
riportarla
alle
mie
amiche
né
all’emancipata
visione
del
mondo
dei
miei
genitori,
una
cosa
mia e
soltanto mia,
l’unica
libertà
che
il
mondo
mostruosamente
libero
in
cui
sono
nata
non
avrebbe
potuto
strapparmi
di
dosso.
Di
conseguenza,
ragazzo
mio,
la
riconosci?
Questa
è
What She Said
degli
Smiths,
quest’altra
è
Joe
le Taxi
di
Vanessa
Paradis…
e
allora,
l’hai
capito
oppure
no
perché
ti
sto
facendo
una
sega
in
questo
modo?»
Il
nuovo
anno
portò
anche
nella
mia
vita
un
piccolo
ma
inaspettato
numero
di
conquiste
femminili.
Non
avevo
invece
idea
di
come
andassero
le
cose
per
Giuseppe,
che
era
il
nostro
anfitrione
ma
che
nessuno
aveva
ancora
sorpreso
con
le
mani
sulla
prima
e
sull’ultima
lettera
della
scritta
BEST
COMPANY
presente
sulle
felpe
indossate
da
quasi
tutte
le
nostre
amiche.
Anni
dopo,
interrogando
alcune
di
loro,
il
quadro
della
situazione
mi
si
è
fatto
chiaro,
e
poche
cose
possono
riassumerlo
come
la
testimonianza
dell’ormai
trentaquattrenne
Irene
Russo
(IIF
al
Giulio
Cesare),
la
quale
disse
con
intatta
partecipazione:
«Ricordo
che
uscii
con
lui
quattro
o
cinque
volte
di
seguito.
Fu
un’esperienza
frustrante.
Ore
e
ore
ad
aspettare
che
facesse
il
primo
passo.
Io
di
Giuseppe
mi
ero
realmente
invaghita.
Voglio
dire…
lui
mi
attraeva
al
di
là
di
tutti
quei
quattrini.
Ero
la
tipica
ragazza
con
l’apparecchio
ai
denti
e
una
passione
sfrenata
per
David
Byrne:
ero
in
grado
di
vedere
come
stavano
le
cose.
Tutta
la
gente
che
gli
girava
intorno.
Ero
convinta
che
lo
stessero…
che
voi
lo
sfruttaste.
Il
che
ovviamente
raddoppiava
il
mio
trasporto.
Cosí
iniziammo
a
uscire
insieme:
cinema,
pizza,
corse
in
moto…
mai
una
volta
che
mi
mettesse
una
mano
addosso.
Quando
si
accorse
che
ero
pronta
ad
arrivare
al
dunque
(e
ci
sarei
arrivata
da
sola,
se
mi
avesse
dato
il
tempo)
mi
liquidò
regalandomi
l’intera
discografia
dei
Talking
Heads.
Voglio
dire,
non
è
che
non
gli
piacessi
io.
Fece
la
stessa
cosa
con
le
altre
ragazze.
Le
mandò
in
bianco.
Anche
quelle
mezze
troie
che
gli
stavano
dietro
nella
speranza
che
prima
o
poi
saltasse
fuori
una
borsa
di
Vuitton».
Il
26
gennaio
1986
ci
fu
una
festa
in
una
strana
villa
piena
di
arazzi
collocata
qualche
chilometro
fuori
città.
«Ci
sarebbe
questa
amica,
–
disse
Giuseppe,
–
questa
mia
cara
amica
e
suo
fratello…»
La
ragazza
si
chiamava
Rachele,
figlia
di
un
colonnello
dell’esercito
partito
con
signora
verso
Napoli
per
assistere
a
una
parata
di
cadetti
della
Nunziatella.
Non
sarebbero
tornati
fino
al
martedí
successivo,
e
gli
inviti
verbali
corredati
da
un
«porta
chi
ti
pare»
girarono
per
i
licei
di
tutta
la
città.
La
villa
si
ergeva
solitaria
nelle
campagne
tra
Bari
e
Triggiano,
annunciata
da
un
lungo
viale
di
terra
battuta
ma
poi
sottratta
agli
occhi
dei
curiosi
grazie
al
massiccio
muro
che
le
correva
intorno.
Io
e
Giuseppe
ci
arrivammo
nel
primo
pomeriggio
per
dare
una
mano
con
i
preparativi,
a
bordo
di
un
taxi
pagato
da
lui.
Venne
ad
aprirci
un
ragazzo
con
una
lunga
chioma
bisognosa
di
uno
shampoo,
jeans
elasticizzati
e
una
maglietta
degli
Iron
Maiden
raffigurante
uno
zombie
che
violentava
Margaret
Thatcher.
«Questo
è
Romano»,
disse
Giuseppe.
Romano
fece
un
«ciao»
con
l’aria
scazzatissima
di
chi
–
rimasto
quarantott’ore
in
una
grande
casa
tutta
per
sé
–
trova
nella
libertà
la
piú
noiosa
delle
trappole.
Ci
fece
entrare
e
svaní
verso
il
piano
superiore.
L’ingresso
della
villa
era
una
sorta
di
manuale
per
la
preparazione
del
perfetto
golpe:
assurde
cornucopie
poggiate
su
colonne
d’alabastro,
collezioni
di
medaglie,
arazzi
che
riproducevano
vecchie
scene
di
battaglia.
Le
foto
incorniciate
sui
tavolini
e
sulle
mensole
riproponevano
la
stessa
coppia
di
mezza
età
(lei
in
vaporosi
completi
azzurri,
lui
sempre
in
divisa
e
sorridente)
in
compagnia
di
sindaci,
alti
ufficiali,
noti
uomini
politici.
Nell’immancabile
foto
con
Giovanni
Paolo
II,
oltre
alla
coppia
c’era
un
bambino
traboccante
di
gioia
nel
quale
riconobbi
i
tratti
di
Romano.
Poco
scostata,
una
bambina
vestita
da
Prima
comunione
reggeva
un
cesto
di
rose
bianche
e
portava
lo
sguardo
pensoso
verso
un
punto
che
la
foto
non
immortalava.
Seguii
Giuseppe
nel
soggiorno.
La
grande
sala
era
dominata
da
un
bel
divano
bianco
e
da
un
tavolo
di
marmo
intorno
a
cui
tre
ragazze
chiacchieravano
tra
loro.
Giuseppe
fece
le
presentazioni,
e
nelle
strette
di
mano
con
queste
mie
coetanee
(«Piacere,
Vanessa»,
«Romina»,
«Io
sono
Stefania,
se
volete
metto
su
dell’altro
caffè»)
trovai
una
piacevole
sensazione
di
tregua
dalla
vita
che
non
rende
cosí
inutile
la
mancanza
di
fascino.
Sul
grosso
televisore
un
giornalista
parlava
dell’imminente
lancio
dello
Shuttle,
mentre
–
dalla
portafinestra
spalancata
sul
giardino
–
il
sole
irrompeva
nel
soggiorno
caricandosi
radiosamente
col
verde
delle
felci.
Clic.
E
poi
quell’ordine
armonioso
comparve
tutto
intero
sulla
porta:
«Buon
pomeriggio
a
tutti!»
Musica
a
prima
vista.
Avvolta
in
un
vestito
senza
maniche,
avanzò
verso
di
noi.
E
mentre
i
suoi
capelli
–
appena
crespi
e
color
rosso
ruggine
–
erano
il
naturale
perfezionamento
di
ciò
che
avevo
visto
nella
foto,
il
suo
corpo
slanciato
(slanciato,
non
atletico)
aveva
poco
da
spartire
con
le
rotondità
della
bambina
che
era
stata
–
nemmeno
una
magrezza
da
dieta,
ma
quell’assenza
di
volontà
in
combutta
con
un
metabolismo
eccezionale
che
lascia
sul
corpo
di
certe
ragazze
l’impronta
della
perfezione.
E
quando
prima
di
salutarci
raggiunse
lo
stereo,
il
suono
del
clarinetto
e
poi
i
tromboni
e
infine
l’esplosione
gioiosa
dei
piatti
fu
come
se
l’avessero
accompagnata
dal
momento
in
cui
si
era
presentata
ai
nostri
sguardi,
perché
i
suoi
movimenti
avevano
la
medesima
freschezza
e
quell’incedere
da
vittoria
senza
vittime
né
prigionieri
tipico
di
George
Gershwin.
Avrei
avuto
del
tempo
per
diventare
cinico
e
informato
quel
tanto
che
basta
per
accogliere
Rhapsody in Blue
con
un’esangue
aria
di
sufficienza.
Ma
quella
era
la
seconda
o
terza
volta
che
la
ascoltavo
in
vita
mia
–
e,
guardando
la
ragazza,
pensai
che
non
aveva
messo
su
la
musica
per
circondarsi
di
un
fascino
che
avrebbe
mantenuto
anche
senza
orchestra,
ma
per
donarci
qualcosa
di
cui
eravamo
sprovvisti.
Quando
baciò
Giuseppe
sulle
guance,
e
poi
disse:
«Piacere,
io
sono
Rachele»
qualche
frazione
prima
di
tendermi
la
mano,
e
io
dal
piano
americano
passai
a
inquadrarle
il
viso
–
una
bocca
che
non
si
caricava
di
voluttà,
gli
occhi
color
nocciola
–,
sentii
che
una
forza
superiore
mi
ordinava
di
uscire
dal
guscio
(un
misto
di
entusiasmo
e
di
terrore,
qualcosa
che
non
c’entrava
coi
corpo
a
corpo
delle
settimane
prima).
Superai
la
paura
del
vuoto,
vinsi
anche
il
senso
del
ridicolo,
strinsi
la
mano
di
Rachele
e
(mio
Dio)
dissi:
«Come
dice
quel
cantante,
non
potresti
avere
piú
di
sedici
anni».
La
ragazza
inclinò
la
testa.
Sorrise.
«Visto
che
ti
piace
Chuck
Berry,
–
pausa,
–
vieni
in
cucina
e
aiutami
a
preparare
una
moretta».
Rimasi
secco.
Fra
i
tanti
tipi
di
reazione,
nessuna
avrebbe
potuto
superare
in
naturalezza
la
sua
capacità
di
passare
su
uno
sgraziato
tentativo
di
avance
senza
calpestarlo.
«Moretta?»
chiesi.
E
lei:
«Caffè,
anice,
rhum
e
scorza
di
limone…
Avanti,
diamoci
da
fare!»
La
seguii
in
cucina,
dove,
per
mantenere
vivo
il
gioco
di
botta
e
risposta:
«Vedrai,
sarà
una
festa
memorabile»,
dissi.
E
lei,
aprendo
gli
sportelli
della
credenza:
«Oh,
no.
Sarà
una
festa
cosí
perfetta
che
nessuno
si
ricorderà
un
bel
niente».
E
io,
cercando
di
non
farmi
annichilire
dalle
Superga
rosse
alzate
sulle
punte
mentre
il
suo
braccio
destro
raggiungeva
vittoriosamente
una
bottiglia
di
sambuca:
«Sarà
una
festa
da
coma
etilico,
sarà
la
tipica
festa
con
delitto».
E
Rachele,
abbassando
la
fiamma
sotto
la
caffettiera:
«Ma
no!
Se
un
morto
ci
dev’essere,
preferisco
l’omicidio.
Altrimenti,
niente
festa».
«Altrimenti,
–
dissi
sentendo
le
gambe
tremare
–
…
altrimenti
ce
ne
andiamo
via
di
qua
con
la
macchina
di
tuo
padre».
La
ragazza
socchiuse
gli
occhi
per
un
attimo:
«Senti,
–
rispose
sorridendo,
e
sul
suo
viso
questa
volta
c’era
una
forzatura
che
stritolava
qualche
grano
di
bellezza
nel
tentativo
di
farmi
superare
il
passo
falso,
–
la
moretta
è
pronta
e
tu
non
hai
mosso
un
dito.
Aiutami
almeno
a
portare
tutto
di
là»,
e
mi
indicò
il
vassoio.
Giuseppe
intratteneva
le
altre
ragazze
parlando
di
motori
di
grossa
cilindrata.
Le
ragazze
lo
guardavano
allibite.
Distribuii
i
piattini
e
le
tazze
cercando
di
non
rompere
niente,
guardato
a
vista
da
Rachele.
Le
mie
mani
erano
salde
quanto
piú
la
sua
attenzione
creava
un
gioco
di
equilibri
nel
quale
anche
un
servizio
di
porcellana
sarebbe
caduto
promettendo
di
non
fare
rumore.
Il
suo
(pensai)
era
il
classico
spirito
da
sangue
blu,
talmente
sprofondato
in
se
stesso
da
esserne
inconsapevole.
Lei
non
era
una
snob.
La
pace
da
cui
era
circondata
faceva
sí
che
fossimo
in
sua
balia
senza
il
minimo
attrito
–
il
semplice,
luminoso
gesto
con
cui
portava
alle
labbra
il
caldo
intruglio
alcolico
redimeva
perfino
la
grottesca
solennità
della
villa
in
cui
passava
le
giornate,
facendo
sí
(immaginai)
che
per
quel
metallaro
perso
di
suo
fratello
lei
fosse
un
motivo
di
invidia,
e
per
il
colonnello
un
enigma
pruriginoso
e
indistricabile
quando,
di
primo
mattino,
vedendosela
passare
come
un
fulmine
dal
corridoio
al
bagno
di
servizio
coperta
a
malapena
da
un
asciugamano
bianco,
desiderava
qualcosa
di
vivo
da
soffocare
tra
le
dita.
Non
feci
in
tempo
a
sprofondare
ulteriormente
in
queste
fantasie,
perché
Giuseppe
gridò:
«Guardate!»,
e
a
una
delle
amiche
di
Rachele
sfuggí
un:
«Cazzo
santo!»,
e
Rachele
disse:
«Mio
Dio!»,
e
mi
strinse
forte
per
un
braccio.
A
settantadue
secondi
dal
decollo,
lo
space
Shuttle
era
esploso.
Lo
schermo
era
occupato
da
una
colonna
bianca
simile
alla
coda
di
un
pesce
forgiata
nel
vapore
da
qualche
vecchio
dio
della
distruzione:
si
espandeva
con
lentezza
sullo
sfondo
azzurro
del
cielo.
La
voce
del
cronista
ribadí:
«Una
tragedia»
e
subito
dopo
venne
dato
il
replay
della
scena
(il
razzo
a
propellente
solido
prendeva
fuoco,
la
navicella
si
trasformava
in
un
caos
di
detriti
e
forze
aerodinamiche
al
collasso).
La
voce
fuori
campo
si
soffermò
su
Christa
McAuliffe:
«La
prima
insegnante
lanciata
nello
spazio».
Le
immagini
tornarono
sui
grandi
frammenti
incendiati
che
ricadevano
nell’oceano,
e
dunque
venne
mandato
un
altro
replay:
l’incidente
visto
dalle
tribune
del
Kennedy
Space
Center.
Il
padre,
il
marito,
gli
studenti
di
Christa
McAuliffe
applaudivano
come
fossero
stati
alla
finale
del
Super
Bowl.
Due
secondi
dopo,
le
loro
facce
senza
lacrime
erano
intrappolate
in
una
sorda
anticamera
di
incredulità.
Giuseppe
disse:
«Puah!
è
molto
meglio
il
cinema».
Il
citofono
suonò:
una,
due
volte.
Rachele
abbandonò
il
mio
braccio
per
andare
a
rispondere
e
io
pensai
che,
se
solo
il
mondo
avesse
avuto
senso,
la
tv
avrebbe
dovuto
mandare
in
onda
le
immagini
dell’intera
Los
Angeles
risucchiata
dalla
faglia
di
Sant’Andrea
perché
lei
mi
cadesse
tra
le
braccia.
Gli
ospiti
iniziarono
ad
arrivare
e
Rachele
era
perduta,
calcolai,
perché
tra
onori
di
casa
e
mobili
da
spostare
la
sua
attenzione
non
avrebbe
piú
potuto
posarsi
su
di
me.
Invece,
in
un
batter
d’occhio,
mi
si
sedette
ancora
accanto.
Poggiò
la
testa
sopra
la
mia
spalla
e
disse
indicando
la
tv:
«Cosa
succede
adesso?»
Ma
era
una
domanda
pretestuosa,
la
vedeva
benissimo
la
pubblicità
progresso
contro
l’Aids.
Le pacchie dell’amore
libero sono finite
–
sembrava
suggerire
l’infinita
cupezza
del
ministero
della
Sanità
–
questo è il momento dei
penitentiedeglizombiche
marciano sulle città
guidati da una messa da
requiem…
In
casa
iniziava
a
esserci
un
certo
movimento.
«Dài,
smettiamola
di
stare
qui
impalati»,
disse
Rachele.
E
poi
sorrise,
ma
la
sua
faccia
non
era
piú
quella
di
prima:
«Aiutami
a
scegliere
un
vestito
per
stasera».
Devo. Aver.
Capito.Male.
Era
la
fine
di
gennaio,
le
tenebre
si
impadronivano
della
città
abbastanza
presto.
E
tuttavia
in
certi
pomeriggi,
una
coltre
di
nuvole
sospesa
a
pochi
metri
dalla
linea
d’orizzonte
consentiva
a
una
sera
per
cosí
dire
artificiale
di
giungere
ancora
piú
in
anticipo
rispetto
alle
previsioni,
ma
solo
perché
poi
–
quando
gli
occhi
si
erano
abituati
al
freddo
delle
lampadine
–
un
tardivo
sussulto
dorato
tornasse
a
squarciare
il
cielo
per
ricadere
sulle
cose
come
un
angelo
pestato
a
sangue.
Il
quadrilatero
di
luce
che
ora
si
apriva
sul
pavimento
della
stanza
di
Rachele,
apparteneva
a
uno
di
questi
prodigi.
Lei
vi
usciva
e
vi
rientrava
saltellando,
a
seconda
che
rivoltasse
l’armadio
o
si
mostrasse
a
me
in
tutto
il
suo
splendore:
«Come
sto?»
Pensavo:
Sta cercando di
sedurmi. È cosí che
funziona. Coraggio, fa’
qualcosa!
E
poi
pensavo:
Si sta solo prendendo
gioco di me, mi sta
trattando come se fossi la
suadamigella…
Appena
entrata
in
questa
stanza
sobria,
senza
poster
alle
pareti,
mi
aveva
guardato
per
un
attimo
in
silenzio.
Poi
aveva
detto:
«Vediamo
che
cosa
posso
mettermi…»
e
aveva
iniziato
a
spogliarsi
senza
vergogna
ma
anche
senza
civetteria,
come
fosse
in
grado
(e
lo
era!)
di
lasciare
alla
semplice
evidenza
del
suo
corpo
l’incarico
di
coprire
tutta
la
scala
delle
possibilità.
Adesso
era
in
completo
intimo:
vedevo
le
sue
belle
gambe
dritte
che
si
staccavano
dal
suolo
e
si
piegavano
elasticamente
per
consentirle
di
frugare
in
un
cassetto
mentre
il
satellite
pietrificato
di
un
neo
risaltava
sull’addome
piatto
come
una
tavola.
Dalle
Superga
gettate
in
un
angolo
proveniva
un’esalazione
acidula
che
ritrovai
in
forma
piú
gentile
nell’incavo
delle
ascelle
quando
fummo
giusto
a
un
passo,
prima
che
ritornasse
verso
l’armadio
calpestando
a
piedi
nudi
i
listoni
del
parquet.
Il
reggiseno
e
gli
slip
completamente
bianchi
contrastavano
con
il
colore
aranciato
della
pelle
–
subito
dopo
aveva
addosso
un
vestito
in
maglina
con
scollatura
a
V,
un
abito
rosso
a
pois
bianchi,
una
fantasia
floreale
con
nastro
di
satin
sotto
il
seno…
Il
sole
era
completamente
tramontato
quando
accese
l’abat-jour:
«Vado
bene
cosí?»
Aveva
addosso
un
vestito
bianco,
molto
semplice,
giusto
un
ricamo
di
greche
intorno
al
collo
e
la
cerniera
laterale
di
un
bianco
piú
profondo.
Io
dissi:
«Sei
bellissima».
Soltanto
fuori
dalla
stanza
mi
resi
conto
che
la
festa
era
iniziata.
Dal
piano
di
sotto
arrivava
a
tutto
volume
ciò
che
nei
nostri
cuori
aveva
sostituito
già
da
un
pezzo
le
variopinte
scenografie
del
Club
Tropicana
coi
grigi
scenari
cittadini
popolati
da
fidanzate
in
coma
e
irreparabile
senso
di
perdita
sotto
i
lampioni
accesi,
che
tutti
insieme
prendevano
il
nome
di
new
wave,
e
che
avevamo
fatto
nostri
sovrapponendo
ai
cieli
di
Manchester
quelli
di
Bari.
Nel
ballatoio
che
portava
alla
rampa
delle
scale
ci
imbattemmo
in
suo
fratello.
Romano
si
arrestò.
Sull’impotenza
che
lo
costrinse
a
non
guardare
Rachele
per
piú
di
due
secondi,
capii
che
tra
me
e
la
ragazza
era
davvero
scattato
qualcosa.
Mi
sbagliavo?
La
villa
dell’ignaro
colonnello
era
invasa
da
un
centinaio
di
ragazzi.
Si
ballava
in
soggiorno.
Si
ballava
in
cucina.
Si
beveva
e
si
fumava
ovunque.
Rachele
era
entrata
in
una
nuova
fase:
faceva
due
salti
a
ritmo
di
musica,
chiacchierava
amabilmente
reggendo
un
bicchiere
da
whisky,
raggiungeva
il
frigo
e
riversava
in
un’insalatiera
decine
e
decine
di
cubetti
di
ghiaccio.
Quando
i
nostri
sguardi
si
incrociavano,
mi
regalava
lo
stesso
sorriso
con
cui
si
rivolgeva
agli
altri
ospiti.
È questa la sua vera
natura,
pensai
sconfortato,
ridurretutto
all’ordine con la scusa
dell’eleganza…
Raccolsi
il
primo
bicchiere
a
portata
di
mano
e
mandai
giú
senza
pensieri.
Iniziai
a
vagare
da
una
stanza
all’altra.
La
lancetta
dei
minuti
compí
un
altro
giro:
le
nove,
poi
le
dieci.
Dalle
casse
dello
stereo
qualcuno
si
lamentò
in
inglese:
«Il
ragazzo
con
la
spina
nel
fianco
|
dietro
il
rancore
nasconde
|
un
atroce
bisogno
di
amore».
Nel
lungo
corridoio
che
divideva
il
soggiorno
dall’ingresso,
Giuseppe
stava
giocando
a
bowling
utilizzando
delle
bottiglie
di
Peroni
al
posto
dei
birilli.
Due
studentesse
del
Giulio
Cesare
ricoperte
da
una
pellicola
di
domopak
saltavano
una
di
fronte
all’altra
in
stato
catatonico.
A
pochi
passi,
una
coppia
stava
litigando:
il
ragazzo
cercava
di
trascinare
la
sua
accompagnatrice
tenendola
per
i
polsi,
lei
liberò
un
braccio,
afferrò
una
radiosveglia
e
provò
a
spaccargliela
in
faccia.
Con
obliquo
tempismo,
lo
stereo
urlò
languidamente:
«E
se
un
autobus
a
due
piani
|
ci
si
schiantasse
addosso
|
oh,
sarebbe
un
modo
celestiale
di
morire».
Mi
allontanai
dalla
scena
pensando:
due minuti di
tregua…
Entrai
in
bagno
e
mi
chiusi
la
porta
alle
spalle.
Buio.
Accesi
la
luce
per
ritrovarmi
in
uno
strano
ambiente
stretto
e
lungo,
con
le
pareti
rivestite
di
sughero
e
un
vaso
di
fiori
secchi
sul
bordo
della
vasca.
Un
ragazzo
era
inginocchiato
con
la
testa
infilata
nel
water.
Un
altro
tizio
lo
osservava
dall’alto
in
basso
(mi
chiesi
come
avesse
potuto
farlo
a
luci
spente).
Il
ragazzo
che
non
vomitava
si
girò
verso
di
me.
Era
magro,
sudatissimo,
con
i
capelli
sparati
per
aria
e
una
maglietta
bianca
con
la
scritta
kill
the
hippies.
Raccolse
un
bicchiere
di
vodka
ghiacciata
dal
lavandino.
«Lo
sai
perché
sta
vomitando?»
chiese
senza
smettere
di
sudare.
Io
feci:
«Be’…»
«Vomita
perché
questa
festa
è
uno
schifo,
–
continuò
grattandosi
uno
sfogo
sul
mento,
–
ma
la
senti
la
musica?
Tre
anni
fa
qui
a
Bari
suonavano
gli
Skizo
e
suonavano
i
Lobotomy.
Dal
vivo.
Sai
almeno
chi
sono
gli
Skizo?»
Ammisi:
«No».
E
lui:
«Lezione
numero
uno:
quello
era
il
punk
e
questa
è
la
new
wave
del
cazzo.
Il
punk
è
stato
il
suicidio
della
musica
rock.
Questo
invece
è
il
funerale.
Sai
che
vuol
dire?»
Non
lo
sapevo.
«Vuol
dire
che
tu
sei
nato
morto.
Lui
vomita
e
tu
sei
nato
morto.
Bella
prospettiva…»
E
mi
passò
il
bicchiere.
Lo
Shuttle
era
effettivamente
esploso.
I
morti
viventi
giravano
per
la
città.
E
non
appena
uscii
dal
bagno,
vidi
i
ragazzi
che
ballavano
abbracciati.
Io
ero
brillo
e
quello
era
il
momento
dei
lenti.
Ancora
una
volta
il
momento
dei
lenti.
Subito
dopo
mi
accorsi
del
problema.
Rachele
si
muoveva
avanti
e
indietro
tra
le
braccia
di
un
ragazzo.
Il
tizio
–
jeans
e
golfino
aragosta
–
mi
dava
le
spalle
tenendola
per
i
fianchi.
Lei
faceva
mezzo
passo
verso
destra,
lui
la
reggeva
con
una
certa
grazia
e
un
senso
della
posizione
che
non
me
lo
fecero
sentire
del
tutto
come
un
impostore.
Ora-si-baciano,
mi
dissi
al
culmine
dell’avvilimento.
A
quel
punto
Rachele
inquadrò
qualcuno
tra
i
ragazzi
che
non
ballavano.
Sorrise
umidamente.
Si
congedò
dal
suo
cavaliere,
che
la
lasciò
andar
via
senza
proteste,
e
io
fui
troppo
sollevato
per
rendermi
conto
che
il
qualcuno
che
non
ballava
e
si
graffiava
i
polpastrelli
con
le
unghie
ero
io.
«Ehi…»
disse
con
una
certa
ampollosità
venendomi
vicino,
mentre
sul
suo
vestito
bianco
credetti
di
riconoscere
le
secrezioni
delle
ghiandole
sudorifere
con
cui
avevo
già
fatto
conoscenza;
se
non
sudava
lei,
ero
io
a
saper
riprodurre
mentalmente
il
distillato
della
sua
essenza…
Ed
ecco,
nella
scena
successiva
ci
stavamo
baciando.
Non
era
la
delizia
delle
nostre
labbra
unite
né
il
disastro
di
rhum
e
caffè
che
le
faceva
risalire
dallo
stomaco
un
magnifico
sapore
da
creatura
agonizzante,
ma
la
certezza
di
aver
saltato
un
fotogramma:
ecco
cosa
mi
fece
vacillare.
Eravamo
uno
di
fronte
all’altra,
subito
dopo
le
nostre
lingue
stavano
lottando
tra
di
loro.
Nel
mezzo
c’era
un
black
out,
una
traccia
fantasma,
uno
dei
rari
momenti
in
cui
la
vita
è
cosí
rapida
da
realizzarsi
nell’elemento
che
davvero
le
appartiene:
il
vuoto.
Di
un’esistenza
trascorsa
per
intero
nel
proprio
regno
d’elezione
non
avremmo
la
possibilità
di
ricordare
il
minimo
dettaglio
–
non
ci
sarebbe
niente
da
riportare
a
casa,
perché
niente
ne
sarebbe
mai
uscito.
Il
nostro
corteggiamento
di
qualche
ora
prima
era
stato
cosí
impalpabile
e
tuttavia
cosí
inequivocabilmente
vero
da
far
sí
che
le
sue
conseguenze
ci
prendessero
alle
spalle.
Continuammo
a
ballare
e
a
baciarci
tra
altri
ragazzi
che
facevano
lo
stesso.
Ci
ritrovammo
su
un
divano.
Le
passai
le
mani
sui
fianchi
e
poi
mi
feci
avanti
fino
al
seno.
Rachele
disse:
«Vieni
qua…»
Mi
accarezzò
i
capelli,
io
le
baciai
le
tempie,
e
quindi
le
strinsi
l’avambraccio
contro
il
collo
come
se
il
mio
compito
fosse
quello
di
strozzarla.
Al
che
Rachele
sussurrò:
«Accompagnami
in
bagno».
Si
liberò
dalla
stretta,
mi
prese
per
la
mano,
superammo
un
imprecisato
numero
di
coppie,
inciampammo
nei
nostri
stessi
passi,
la
voce
del
cantante
disse:
«Oggi
useremo
soltanto
|
benzina
che
sia
priva
di
piombo»
e
io
pensai:
Ora
succede, ora andiamo in
bagno e succede, sta per
succedere…
Ma
quando
entrammo
in
bagno,
chiusi
a
chiave
nel
suo
bagno,
di
nuovo
quelle
pareti
rivestite
di
sughero
mentre
la
luce
della
specchiera
rivelava
ogni
dettaglio
della
ragazza
(fu
allora
che
mi
accorsi
di
un
canino
lievemente
spostato
in
avanti),
la
confusione
e
la
paura
che
mi
gelavano
il
sangue
furono
incenerite
dalla
voce
di
Rachele
che
scandí
perfettamente:
«Devo
fare
la
pipí».
Portò
le
mani
sopra
le
ginocchia,
alzò
di
qualche
centimetro
il
vestito
e
si
sfilò
le
mutandine
mentre
il
vestito,
bloccato
dalla
forza
delle
cosce,
non
andò
giú
di
un
dito.
Vidi
la
curva
perfetta
del
culo
mentre
aderiva
ai
bordi
della
tazza.
Mi
prese
una
mano,
la
strinse
forte
e
–
lei
seduta
in
quel
modo,
io
in
piedi
a
bocca
aperta
–
sentimmo
il
primo
fiotto
contro
la
polla
d’acqua
in
fondo
al
water.
Mentre
continuava
a
pisciare
tenendomi
la
mano,
ebbi
la
sensazione
che
ci
stessimo
disintegrando.
Tutto
era
fermo,
e
noi
ci
trovavamo
di
nuovo
lí,
dall’altra
parte.
Sfilai
la
mano
da
quella
di
Rachele
e
gliela
misi
sulla
fronte.
Chiuse
gli
occhi.
La
accarezzai
come
si
potrebbe
fare
con
una
creatura
extraterrestre
se
fosse
l’unico
sistema
per
impedirle
di
tornare
nella
dimensione
parallela
da
cui
è
saltata
fuori.
Eravamo
dentro
il
tempo,
e
vedevamo
chiaramente,
un
passo
dopo
l’altro,
tutto
ciò
che
avremmo
dovuto
fare
per
salvarci
dalla
vita
e
rimanere
insieme.
Mio
padre,
imbottito
di
ansiolitici
dall’altra
parte
dell’universo,
era
in
un
sogno
governato
da
forze
diametralmente
opposte
rispetto
a
quelle
che
adesso,
qui
in
fondo,
spingevano
la
dinamo
di
un’accesa
beatitudine.
Fa’ che non si svegli mai
piú,
implorai,
oppure fa’
che non mi riaddormenti
io…
Ma
di
qualunque
cosa
fosse
fatta
quell’atmosfera
magica,
stava
iniziando
a
disgregarsi.
Rachele
non
aveva
piú
una
goccia
da
regalare
alle
acque
sotterranee.
Abbandonò
la
schiena
contro
il
coperchio
del
water.
Sospirò.
Le
tolsi
la
mano
dalla
fronte
e
lei
aprí
gli
occhi.
Provammo
a
guardarci,
ma
adesso
tra
di
noi
c’era
solo
l’imbarazzo.
Ogni
cosa
ebbe
un
singhiozzo,
balzò
in
avanti
e
si
stabilizzò.
Era
di
nuovo
il
1986,
l’anno
dell’Aids
e
degli
imprenditori
travolti
dal
successo,
del
compact
disc,
del
videoregistratore,
dei
figli
che
odiavano
i
padri
e
dei
parcheggi
semovibili
che
svettavano
nel
cielo.
Rachele
strinse
le
ginocchia.
Mi
voltai
perché
potesse
rivestirsi
in
pace.
Ci
riconsegnammo
alla
festa
separati
da
una
distanza
doppia
rispetto
a
quella
che
avevamo
iniziato
a
rosicchiare
al
momento
del
nostro
incontro.
Camminavamo
evitando
di
guardarci.
Gli
occhi
di
Rachele
cercavano
con
ansia
qualche
faccia
conosciuta
che
le
consentisse
di
allontanarsi.
Provai
a
fermarla
prendendole
la
mano,
ma
la
mia
mano
non
si
mosse.
Lo
avrei
imparato
facilmente:
quando
ti
avvicini
troppo
a
una
persona,
e
non
sei
in
grado
di
mantenere
la
stretta,
il
miracolo
della
vostra
intimità
è
come
un
piccolo
gioiello
che
–
toccato
appena
nel
suo
profondo
nascondiglio
–
inizia
a
rotolare
sempre
piú
lontano.
Adesso
era
l’una
meno
un
quarto.
Il
volume
della
musica
si
era
dimezzato
e
pochi
residui
di
conversazione
languivano
nell’aria.
Gruppi
di
ragazzi
armeggiavano
con
le
caffettiere
per
affrontare
meglio
la
traversata
che
li
avrebbe
riportati
a
casa.
Altri
frugavano
selvaggiamente
tra
le
montagne
dei
giubbotti.
Dalla
porta
d’ingresso
spalancata
sul
giardino
arrivava
il
vento
freddo
della
notte.
Eppure
nessuno
imboccava
la
via
d’uscita.
I
ragazzi
si
salutavano.
Sbirciavano
verso
un
preciso
punto
della
casa.
Rimanevano
fermi.
Rachele
raggiunse
una
delle
sue
amiche.
Si
strinsero
le
mani.
Poi
si
addossarono
con
la
schiena
contro
la
parete
portando
lo
sguardo
verso
la
scena
da
cui
tutti
i
presenti
venivano
attirati.
Solo
Giuseppe
guardava
senza
nascondersi:
sulla
sua
faccia
c’era
non
la
delusione
ma
come
lo
sbalordimento
di
un
giocatore
al
quale,
dopo
un
numero
di
vittorie
sufficienti
a
regalare
l’illusione
dell’invincibilità,
capiti
un
avversario
capace
di
scaraventarlo
in
poche
mosse
nella
polvere;
e
solo
allora
riconosca
che,
in
un
lontano
incontro
con
quello
stesso
avversario,
c’erano
già
tutte
le
premesse
dell’attuale
scacco
matto.
Era
da
settimane
che
non
si
faceva
vedere
in
giro.
Bene, adesso lui è
qui,
pensai.
Dovevano
essere
arrivati
da
meno
di
mezz’ora,
e
si
muovevano
tra
le
stanze
della
villa
come
ne
fossero
stati
i
padroni.
Non
avevano
salutato
nessuno
–
piú
verosimilmente,
nessuno
era
riuscito
a
salutarli
senza
venire
travolto
da
un
senso
di
inadeguatezza
che
costringeva
al
passo
indietro.
Vincenzo
indossava
una
giacca
nera
sopra
una
camicia
viola
a
pallini
rossi,
un
abbigliamento
fuori
luogo
che
però
(considerata
l’assoluta
mancanza
di
spirito
conciliativo
con
cui
affrontava
il
tutto)
trasformò
la
nostra
festa
in
una
pagliacciata
per
debuttanti
con
qualche
soldo
in
tasca.
Il
merito
era
soprattutto
della
ragazza,
o
meglio
del
modo
in
cui
tutto
ciò
che
sentivamo
inespugnabilmente
conficcato
in
Vincenzo
si
rivelava
attraverso
la
sua
accompagnatrice.
E
la
ragazza
era
in
realtà
una
donna
fra
i
trentacinque
e
i
quarant’anni,
con
un
pesante
fondotinta
sulle
guance
magre
e
ossute
e
una
gonfia
criniera
che
ricadeva
sulle
spalle
di
un
vestito
nero
pieno
di
brillantini.
Una
qualunque
delle
nostre
amiche,
conciata
in
quel
modo,
avrebbe
dato
l’idea
di
una
studentessa
coscienziosa
che
il
sabato
sera,
prima
di
uscire,
gioca
a
fare
la
puttana
davanti
allo
specchio.
Ma
questa
donna
non
sembrava
una
puttana.
Dava
piuttosto
l’impressione
di
una
statua
di
bronzo
scaraventata
ai
piedi
di
un
locale
notturno.
Camminavano
uno
accanto
all’altra,
lentamente,
dalla
cucina
al
centro
del
soggiorno.
Tutti
aspettammo
che
si
prendessero
per
mano,
che
si
scambiassero
la
minima
effusione.
Ma
questo
non
successe.
I
pochi
centimetri
che
li
dividevano
non
erano
una
distanza
da
colmare
per
avere
dall’altro
una
conferma
su
se
stessi,
ma
trasmettevano
quel
senso
di
disinvolta
sazietà
tipico
degli
adulti
abituati
a
risolvere
altrove
le
loro
faccende
personali.
Vincenzo
le
mostrava
la
casa,
faceva
commenti
sui
quadri
e
sugli
arazzi.
Lei
rispondeva
annuendo
con
una
ruvida
fierezza.
Era
come
se
avessero
concordato
di
ignorarci,
ma
mentre
lui
stava
al
gioco
senza
problemi,
la
donna
mostrava
qualche
segno
di
nervosismo.
Fu
in
uno
di
quei
momenti
che
notammo
la
cicatrice:
una
lunga
striscia
bianca
che
partiva
dal
gomito
e
le
correva
lungo
il
braccio
fino
a
toccare
il
polso.
Questa
visione
ci
cadde
addosso
come
un
pianoforte
precipitato
su
un
altro
pianoforte
in
una
stanza
avvolta
dal
silenzio.
Quando
l’aveva
rimorchiata?
E
soprattutto,
come
aveva
potuto
rimorchiare
una
donna
con
cui
non
avremmo
neanche
saputo
che
parole
usare
se
avessimo
dovuto
chiederle
una
sigaretta?
Si
sedettero
sul
divano.
Bevvero
qualcosa
senza
dirsi
niente.
Abbandonata
dall’attenzione
di
Vincenzo,
la
donna
si
guardò
intorno
contando
almeno
trenta
occhi
fissi
su
di
lei.
Soltanto
allora
sembrò
una
prostituta
costretta
a
raccontare
la
sua
vita
in
una
trasmissione
televisiva
per
ragazzi.
Avremmo
giurato
che
fosse
disposta
a
pagare,
pur
di
poter
scomparire
all’istante.
Vincenzo
poggiò
il
bicchiere
sul
tavolino
di
cristallo.
Si
alzò.
Raccolse
dall’attaccapanni
un
cappotto
di
lana
e
glielo
mise
delicatamente
sulle
spalle.
Andarono
via
salutandoci
con
un
breve
gesto
delle
mani.
Capitoloottavo
La
donna
vestita
di
bianco,
con
il
riflesso
del
collier
che
rimbalzava
magicamente
tra
gli
specchi
del
ristorante,
si
rivolse
al
maître
con
aria
sognante
e
disse:
«Rigatoni…»
Prima
che
lo
spot
della
Barilla
svanisse
dallo
schermo,
il
padre
di
Vincenzo
guardò
dall’altra
parte
e
chiese:
«Ne
sei
certo?»
Il
televisore
era
un
18
pollici
poggiato
sul
mobile
con
le
vetrate
a
fondo
di
bottiglia,
attraverso
le
quali
i
volumi
dell’Enciclopedia
del
diritto
si
trasformavano
in
un’esplosione
cubista
di
macchie
gialle.
Se
avesse
cambiato
canale,
avrebbe
trovato
Mister
T
alla
guida
di
una
jeep
o
un
ufficiale
dell’aviazione
impegnato
a
spiegare
le
cause
dell’esplosione
del
Challenger.
Ma
lui
accendeva
la
tv
prima
di
mettersi
alla
scrivania,
e
la
lasciava
per
tutta
la
giornata
a
volume
basso
senza
guardarla.
I
praticanti
non
avrebbero
saputo
dire
se
questo
producesse
in
lui
un
effetto
analgesico
o
la
spinta
di
un’ispirazione.
Ma
quando
i
problemi
di
lavoro
diventavano
cosí
ingarbugliati
e
pieni
di
insidie
da
fargli
avvertire
la
stanchezza,
o
un
calo
di
concentrazione,
o
quel
è troppo, anche per me…
che
sugli
uomini
forti
e
pieni
di
conferme
proietta
l’ombra
dell’Innominabile,
allora
si
faceva
cullare
dal
debole
rumore
dell’anodo
surriscaldato
contro
il
corpo
fluorescente
dello
schermo.
«Certo,
sí,
come
le
ho
tetto»,
confermò
lo
Sghigno
senza
cambiare
espressione.
Gli
aveva
appena
riferito
che
non
c’era
da
preoccuparsi
per
suo
figlio.
Dall’inizio
dell’anno
scolastico,
Vincenzo
rigava
dritto.
Frequentava
la
scuola
normalmente.
Si
divertiva
normalmente.
La
sera
prima,
per
esempio,
era
stato
a
una
festa
organizzata
nella
villa
di
un
altro
studente.
Dovevano
aver
ballato.
Dovevano
aver
bevuto.
Poi
era
tornato
a
casa.
«Normale…»
aveva
ripetuto
l’autista.
L’avvocato
Lombardi
aveva
detto:
«Bene».
L’autista
era
rimasto
come
al
solito
a
guardarlo
senza
parlare.
La
televisione
aveva
detto
a
volume
bassissimo:
«Se
quello
che
cerchi
|
è
un
cuore
da
amare».
L’avvocato
aveva
sospirato
portando
una
mano
sull’agenda.
In
passato,
quando
lo
studio
era
in
mano
a
suo
padre,
concetti
quali
autorevolezza
e
senso
della
realtà
avevano
il
loro
peso.
La
limpidezza
trentina
di
un
De
Gasperi.
Persino
il
malvagio
pragmatismo
di
Henry
Ford.
Era
lí
che
bisognava
scavare
per
comprendere
il
segreto
del
mondo.
Ma
adesso,
incalzato
dai
giornalisti
sui
problemi
finanziari,
il
presidente
degli
Stati
Uniti
dichiarava:
«Il
debito
pubblico
è
talmente
grande
da
badare
a
se
stesso»,
producendo
nelle
orecchie
degli
ascoltatori
un’effettiva
suggestione
da
abbattimento
del
problema
tramite
gag,
arrivando
fin
quasi
a
far
ipotizzare
che
non
la
gag
in
sé
ma
questa
suggestione
generalizzata
potesse
produrre
lo
stesso
risultato
per
cui
un
tempo
sarebbe
stato
necessario
il
«serio
annuncio
di
manovre
irreversibili».
Ed
ecco,
i
nuovi
slogan
pubblicitari
che
passavano
in
tv,
le
risate
registrate
dei
telefilm
pomeridiani,
i
conigli
rosa
saltellanti,
i
poligoni
colorati
delle
ruote
della
fortuna
che
cominciavano
a
girare
con
i
loro
tac tac tac,
producevano
tutti
insieme
un
alfabeto,
un
rumore
a
bassa
frequenza:
la
linea
d’equilibrio
tra
cielo
e
terra
sulla
quale
niente
diventava
reale,
e
tutto
poteva
essere
dominato.
Cosí,
se
qualcuno
un
giorno
fosse
venuto
a
chiedergli
se
aveva
mai
avuto
a
che
fare
con
i
fratelli
Terlizzi,
a
lui
sarebbe
stato
sufficiente
passare
dall’antiquato
patrimonio
dell’esperienza
personale
alla
volatilità
degli
elementi
probatori
per
rispondere
perfettamente
rilassato:
«No,
mai
avuto
a
che
fare
con
loro».
E
se
quel
qualcuno
avesse
sospirato
al
momento
di
passargli
una
foto
segnaletica
raffigurante
due
uomini
sulla
quarantina,
entrambi
robusti
e
dalla
faccia
abbronzata,
uno
vestito
come
un
venditore
ambulante,
l’altro
con
un
terribile
gessato
da
cantante
di
matrimoni:
«Sicuro
di
non
averli
mai
nemmeno
visti?»
«No,
non
li
ho
mai
visti»,
avrebbe
detto.
A
parte
le
incisioni
sull’acqua
del
ricordo,
dov’erano
infatti
le
prove
che
li
conosceva?
Esisteva
un
documento
dal
quale
si
sarebbe
potuto
risalire
all’unico
incontro
che
aveva
avuto
con
loro?
Esisteva
per
caso
la
girata
su
un
assegno?
Ma
esisteva
anche
una
foto,
una
registrazione
telefonica?
No,
non
esisteva.
E
sebbene
ricordasse
molto
bene
i
dettagli
della
sera
in
cui
aveva
dovuto
cenare
con
loro
al
tavolo
di
un
ristorante
completamente
vuoto
per
l’occasione
(Carmelo
gli
era
sembrato
un
uomo
di
rara
intelligenza,
il
fratello
minore
solo
un
buffone
come
tanti),
sebbene
avesse
parlato
a
entrambi
e
gli
avesse
stretto
la
mano
prima
che
ognuno
rientrasse
nei
propri
ruoli,
gli
bastava
adesso
addentrarsi
nel
rumore
che
veniva
dai
piccoli
altoparlanti
del
18
pollici
per
convincere
persino
gli
innocui
questurini
della
sua
coscienza
che
quella
sera
non
era
mai
esistita.
Prima
di
raggiungere
lo
studio,
l’autista
aveva
fatto
il
suo
consueto
giro
di
raccolta.
Aveva
attraversato
la
città
che
risplendeva
sotto
un
cielo
freddo
e
limpido.
Era
passato
per
ristoranti
e
autorimesse
e
sale
giochi
e
cliniche
private.
E
le
persone
davanti
a
cui
era
comparso
dicendo
quello
che
gli
avevano
detto
di
dire,
si
erano
accigliate.
Lo
avevano
guardato
con
odio.
Avevano
gesticolato
in
segno
di
protesta.
Ma
poi,
alle
spalle,
avevano
sentito
il
febbrile
movimento
quantificabile
in
contanti
che
è
la
macchina
degli
affari
a
pieno
ritmo
(i
camerieri
dei
ristoranti
apponevano
sui
tavoli
la
targhetta
«riservato»
alle
dieci
del
mattino,
le
sale
giochi
erano
piene
di
ragazzini
che
avevano
marinato
la
scuola
per
scaricare
quintali
di
gettoni
nelle
feritoie
di
un
Frogger,
di
un
Donkey
Kong).
La
fretta
sulle
loro
mani
aveva
allora
avuto
un
visibile
rallentamento
e
tutti
avevano
annuito,
soffocando
l’impulso
di
aggredirlo.
Lo
Sghigno
si
era
diretto
allora
verso
la
tappa
successiva.
Era
uscito
dalla
città
puntando
verso
sud.
Aveva
attraversato
delle
distese
piatte
e
gialle
che
diventavano
verdi
che
ritornavano
gialle
a
seconda
che
si
trattasse
di
uliveti
o
di
campi
di
grano,
salendo
e
scendendo
in
altitudine
insieme
alla
linea
basculante
dei
fili
telefonici.
Aveva
rallentato
subito
dopo
Casamassima
dove,
sulla
destra,
uno
spaiato
esercito
di
betoniere
e
autocarri
e
martelli
pneumatici
annunciava
un
centro
residenziale
in
via
di
costruzione.
Poco
piú
in
là,
un’enorme
superficie
lutulenta,
rullata
e
quasi
vibrante
per
la
quantità
di
fosforo
presente
nel
concime,
aspettava
di
trasformarsi
nel
primo
golf
club
della
provincia.
Aveva
imboccato
lo
sterrato,
guardando
una
dopo
l’altra
le
ville
circondate
da
operai
e
imbianchini
e
geometri
e
pallide
nuvole
di
insetti
che
vorticavano
intorno
ai
sacchi
di
cemento.
Aveva
visto
il
furgoncino
con
la
scritta
EUROGARDEN.
Subito
dopo
c’era
la
Countach
con
gli
sportelli
alzati
in
verticale
e
il
telaio
pieno
di
spruzzi
disseccati.
La
macchina
era
parcheggiata
a
due
passi
da
una
villa
a
cui
mancavano
giusto
gli
ultimi
ritocchi.
Quattro
operai
–
due
per
lato
–
reggevano
un
cancello
dipinto
di
verde
cercando
di
infilarlo
tra
i
binari.
Il
titolare
dell’impresa
era
invece
concentrato
sulla
centralina
elettrica.
Nonostante
il
clima,
aveva
addosso
un
paio
di
bermuda
e
una
canottiera
celeste
che
gli
scopriva
sulle
spalle
i
muscoli
in
via
di
sgonfiamento.
Non
appena
lo
vide,
il
padre
di
Giuseppe
gli
andò
incontro.
Poche
energiche
falcate.
Poi
si
fermò.
L’imponente
figura
di
Domenico
Rubino
contro
la
spenta
altezza
filiforme
dello
Sghigno.
Guardò
l’autista
e
disse:
«Allontaniamoci».
L’ultima
volta
era
stato
a
un
passo
dal
perdere
il
controllo.
Si
era
chiuso
alle
spalle
la
porta
d’ingresso
mentre
le
scintille
del
barbecue
vorticavano
oltre
i
vetri
delle
finestre:
«Ma
Cristo
santo!
–
aveva
detto
a
voce
alta,
–
non
posso
credere
che
non
sei
in
grado
di
ricordarti
sei
cifre
tutte
insieme.
Quando
ti
presenti
a
casa
mia,
mi
devi
dare
almeno
un
colpo
di
telefono!»
Sapeva
tuttavia
che
se
lo
Sghigno
era
arrivato
senza
appuntamento
non
dipendeva
dalla
volontà
dell’esattore,
ma
dalla
gratuita
e
per
questo
ancora
piú
umiliante
prova
muscolare
di
chi
voleva
ricordargli:
Facciamo
come ci pare, se è per
questotientriamoincasa
anche senza chiedere il
permesso…
e
piú
aveva
riflettuto
sul
fatto
che
l’uomo
in
jeans
e
maglione
sfilacciato
non
c’entrava
niente,
piú
gli
era
venuta
voglia
di
prenderlo
a
cazzotti.
Adesso
ripeté:
«Allontaniamoci…»
Lo
Sghigno
lo
seguí
fino
a
quando
gli
operai
e
il
geometra
non
smisero
di
guardarli.
Il
padre
di
Giuseppe
domandò:
«Qual
è
il
problema?»
L’autista
si
limitò
a
ribadire
quello
che
aveva
già
detto
al
gestore
del
ristorante,
al
titolare
della
sala
giochi
e
a
tutti
gli
altri
che
avevano
avuto
la
tentazione
di
raccogliere
una
mazza
ferrata
dal
retrobottega,
e
cioè
che
a
partire
da
marzo
il
contributo
sarebbe
passato
dal
trenta
al
quaranta
per
cento
sull’incasso
mensile
complessivo
della
ditta.
Il
padre
di
Giuseppe
provò
ancora
una
volta
a
trattenere
la
rabbia:
«Diosanto!
lo
capirei
se
questo
mese
avessimo
incassato
il
dieci
per
cento
in
piú».
Poi
scosse
la
testa:
«Ci
farete
chiudere
bottega.
È
questo
che
succederà
alla
fine…»
disse,
commettendo
l’errore
di
includere
anche
lo
Sghigno
nella
Grande
Persona
Plurale
a
cui
avrebbe
voluto
far
sentire
le
proprie
ragioni.
Qualcosa
di
piú
ruvido
della
semplice
esasperazione
gli
allargò
nella
bocca
un
sorriso
feroce:
«Cos’è,
non
mi
credi?
–
sogghignò
all’improvviso,
–
vuoi
vedere
i
libri
contabili?»
Strinse
i
pugni,
si
avvicinò
all’uomo
fino
a
quando
i
rispettivi
nasi
non
si
sfiorarono
e,
facendo
uno
sforzo
per
evitare
di
colpirlo:
«Non
mi
credi,
eh?
e
allora
te
li
faccio
vedere,
quei
cazzo
di
libri
contabili!
Adesso
vieni
a
casa
mia
che
te
li
faccio
vedere».
Lo
Sghigno
era
salito
accanto
a
lui
sulla
Lamborghini.
Avevano
abbandonato
il
cantiere
facendo
vibrare
ogni
singolo
bullone
delle
impalcature
sotto
il
rombo
del
motore
da
5000
cc.
Il
padre
di
Giuseppe
guidava
e
ringhiava
e
accelerava
sulla
statale
100
stringendo
il
volante
della
macchina
come
volesse
stritolarlo.
Era
per
caso
vestito
come
un
damerino?
Aveva
addosso
un
abito
da
sartoria?
No,
maledizione.
Indossava
un
paio
di
bermuda
e
una
canottiera
sbiadita
con
il
logo
della
ditta.
E
quella
era
una
Lamborghini.
E
lui
era
un
buzzurro
che
guidava
una
macchina
da
centoventi
milioni
fottendosene
quando
sua
moglie
gli
diceva:
«Vatti
almeno
a
comprare
una
giacca
e
una
camicia!»,
ignorando
le
occhiatacce
dei
professori
quando
accompagnava
suo
figlio
a
scuola
e
i
sussurri
ancora
piú
vigliacchi
dei
genitori
degli
altri
ragazzi.
Lui,
anche
volendo,
una
giacca
decente
non
avrebbe
nemmeno
avuto
il
tempo
di
andarsela
a
provare,
visto
che
la
Countach
e
la
villa
e
la
piscina
li
aveva
messi
insieme
senza
staccare
mai
un
cazzo
di
secondo,
lavorando
da
sveglio
e
continuando
a
lavorare
perfino
quando
era
a
letto
addormentato.
E
d’accordo
–
questa
era
l’unica
concessione
che
era
disposto
a
fare
ai
tirapiedi
dei
Terlizzi
–,
una
banca
non
gli
avrebbe
mai
consentito
di
fondare
la
Eurogarden,
nessuno
si
sarebbe
privato
di
punto
in
bianco
di
cinquanta
milioni
per
darli
a
lui
a
meno
che
questo
nessuno
non
fosse
stato
toccato
dal
vero
perfetto
esplosivo
business
di
quegli
anni
(oh,
non
la
plastica,
non
i
cancelli
elettrici,
non
le
borse
di
Gucci
e
non
i
videogiochi).
Solo
che
lui
quei
soldi
li
aveva
moltiplicati,
lo
aveva
fatto
contando
solo
sulle
proprie
forze,
e
questo
doveva
pur
significare
qualche
cosa.
Ecco,
cosa
avrebbe
voluto
che
lo
Sghigno
comprendesse
mentre
toccava
i
duecento
attraversando
a
ritroso
le
campagne.
Ma
il
problema
dello
Sghigno
non
era
dubitare
dei
libri
contabili
né
riflettere
su
quello
che
era
giusto
o
sbagliato
che
accadesse.
La
terra
che
moriva
e
che
nasceva
e
che
moriva
di
nuovo.
Le
forze,
soprattutto:
la
piú
intensa
ha
la
meglio
sulla
piú
debole.
Cosí
il
punto
era
solo
lasciarlo
sfogare.
Lungo
il
vialone
principale,
a
poche
curve
dalla
casa
dei
Rubino,
incrociarono
una
Mercedes
con
dentro
una
vistosa
signora
di
mezza
età
che
li
salutò
con
un
energico
gesto
della
mano.
Poi
comparve
anche
la
villa.
Un’enorme,
inutile
piattaforma
a
tre
livelli
si
sollevò
emergendo
dal
sottosuolo.
Il
padre
di
Giuseppe
disse:
«Adesso
scendi!»
Lo
Sghigno
rimase
ad
aspettarlo
nel
giardino,
circondato
dai
discoboli
e
dalle
siepi
di
rose
selvatiche,
con
la
scaletta
d’emersione
della
piscina
come
ultimo
scintillante
particolare
di
tutta
quella
mostruosità.
Fu
allora
che
vide
una
cosa
che
perfino
la
prodigiosa
macchina
semplificatrice
della
sua
mente
non
fu
in
grado
di
ridurre
all’essenziale.
Al
centro
del
prato,
un
adolescente
dai
capelli
rossi
giocava
con
una
pista
di
automobiline
elettriche
piena
di
rampe
e
giri
della
morte.
Quando
una
delle
piccole
vetture
andava
fuori
strada,
un
cane
mosca
avvolto
in
un
cappotto
di
visone
le
prendeva
in
bocca
e
iniziava
a
girare
istericamente
su
se
stesso.
Abbandonata
nell’erba,
c’era
una
rivista
pornografica.
Il
ragazzo
giocava
e
si
toccava
e
mollava
uno
scappellotto
al
cane
e
poi
guardava
la
rivista
e
continuava
a
carezzarsi
i
pantaloni
senza
mai
smettere
di
fare
nessuna
di
queste
cose.
Non
era
stato
un
unico
particolare,
ma
la
somma
di
tutti
gli
elementi.
Una
sensazione
di
incomprensibilità…
Esattamente
come
per
lui
erano
un
enigma
le
facce
dei
ragazzi
a
cui
vendeva
l’eroina
nelle
campagne
tra
il
lungomare
e
Japigia.
Ci
pensò
durante
i
minuti
di
attesa.
Poi
non
ci
pensò
piú:
Domenico
Rubino
avanzava
verso
di
lui
reggendo
tra
le
mani
due
grossi
volumi
rivestiti
di
tela.
Aveva
l’aria
meno
combattiva.
Era
entrato
in
casa
convinto
di
potersi
giocare
il
tutto
per
tutto:
Esia!ognicosa
a puttane! prendetevi la
villa, prendetevi la ditta,
rivendetevi la villa e fate
fallire
la
ditta
e
vaffanculo!Ma
poi
aveva
visto
Giuseppe
nel
giardino.
E
prima
di
Giuseppe
aveva
visto
sua
moglie
uscire
a
bordo
della
Mercedes
–
una
cosa
che
la
signora
Rosa
faceva
ogni
mattina:
si
caricava
in
macchina
due
o
tre
amiche,
e
insieme
a
loro
assaltava
i
negozi
del
centro
sventolando
una
mezza
dozzina
di
carte
di
credito,
e
acquistava
qualunque
oggetto
servisse
a
dissipare
la
smorfia
che
l’incubo
notturno
del
benessere
le
imprimeva
sulla
faccia
per
il
resto
della
giornata.
Ed
era
questo
(era
stato
costretto
a
riconoscere
tornando
dallo
Sghigno
con
i
libri
contabili)
il
motivo
per
cui
lui
non
poteva
andare
veramente
da
nessuna
parte.
Non
perché
non
avesse
il
coraggio
di
dire
a
sua
moglie
e
al
figlio
minore:
«Si
torna
indietro!
Si
torna
in
una
casa
popolare,
si
tornano
a
contare
i
soldi
per
la
spesa,
si
torna
a
impazzire
ogni
mattina
in
mezzo
al
traffico
in
un’auto
di
seconda
mano»,
ma
perché
loro
ormai,
ascoltandolo,
non
avrebbero
capito
neanche
lontanamente
cosa
stesse
cercando
di
dire.
Spalancò
i
libri
contabili
davanti
agli
occhi
vuoti
dello
Sghigno.
Provò
a
infondersi
una
forza
che
sentiva
venir
meno
ogni
secondo
che
passava
e
disse:
«Vedi,
sfoglia,
leggi
se
sai
leggere
e
dimmi
se
non
ho
ragione…»,
mentre
al
contrario
ogni
ruga
rilasciata
sul
suo
volto
sussurrava:
Quaranta
per
cento
sull’incasso mensile della
ditta? va bene, va bene
cosí…
Soltanto
dopo,
nel
primo
pomeriggio,
lo
Sghigno
era
passato
dallo
studio.
Era
entrato
nell’ufficio
del
padre
di
Vincenzo
e
aveva
guardato
la
pubblicità
sullo
schermo
del
televisore
senza
capire
niente.
Aveva
detto
all’avvocato
che
Vincenzo
stava
rigando
dritto.
L’avvocato
aveva
risposto:
«Bene»,
e
poi
aveva
messo
una
mano
sull’agenda
pensando
che
Vincenzo
stava
tornando
verso
la
normalità.
Aveva
quasi
superato
la
fase
della
ribellione
e
fra
poco
sarebbe
diventato
un
ragazzo
come
gli
altri.
Poi
si
sarebbe
trasformato
nuovamente
in
un
ragazzo
diverso
dagli
altri
–
solo,
muovendosi
nell’altra
direzione:
sarebbe
diventato
scaltro
e
lucido
e
pragmatico,
adatto
al
tempo
che
stavano
vivendo.
Ma
lo
Sghigno
non
gli
aveva
riferito
della
donna.
Non
gli
aveva
soprattutto
detto
che
il
ragazzo
lo
aveva
costretto
per
settimane
–
una
sera
dopo
l’altra
–
a
portarlo
insieme
a
lui
dall’altra
parte,
tra
gli
enormi
tizzoni
dei
palazzi
popolari
conficcati
nell’asfalto
di
Japigia.
Aveva
mentito
all’avvocato.
Non
gli
aveva
mentito:
menzogna
e
verità
erano
concetti
che
lo
Sghigno
coglieva
a
malapena.
La
forza
piú
intensa
aveva
la
meglio
sulla
forza
piú
debole…
E
quando
Vincenzo
lo
aveva
sorpreso
a
spacciare
in
una
notte
di
quasi
un
anno
prima,
quel
ragazzo
era
diventato
istantaneamente
la
forza
piú
intensa.
O
meglio
(per
come
si
poteva
immaginare
che
lo
Sghigno
visualizzasse
il
mondo
intorno
a
sé),
la
bionda
trasparenza
del
figlio
dell’avvocato
si
era
coagulata
in
un
denso
grumo
d’energia
urtando
il
quale
avrebbero
rischiato
di
attivarsi
altre
fonti
d’energia,
che
gli
sarebbero
precipitate
addosso
fino
ad
annientarlo.
Anche
la
sua
attività
di
spacciatore
dipendeva
da
questo.
Quando
aveva
realizzato
che
poteva
sottrarre
un
tot
di
roba
a
settimana
e
poi
rivenderla
senza
che
nessuno
se
ne
accorgesse,
quel
pensiero
che
non
avrebbe
neanche
voluto
concepire
lo
aveva
costretto
ad
allungare
una
mano
su
venti
buste
di
cellophane.
Non
era
colpa
sua.
Non
era
merito
suo.
Questo
era
l’anno
zero:
nessuno
era
padrone
di
un
bel
niente.
Ma
se
gli
occhi
dello
Sghigno
fossero
stati
un
cielo,
il
cielo
di
passaggio
su
Bari
il
27
gennaio
del
1986,
tra
le
forze
e
le
luci
e
le
esplosioni
di
colore
che
avrebbero
punteggiato
i
grigi
quadrilateri
degli
edifici
come
in
un
bombardamento
visto
da
un
aereo,
se
quel
cielo
fosse
stato
dotato
di
una
lente
in
grado
di
stringere
verso
il
secondo
piano
di
una
palazzina
color
ocra
del
quartiere
San
Pasquale,
avrebbe
intercettato
una
bolla
completamente
azzurra
con
un
minuscolo
puntino
rosso
al
centro
che
si
allargava
e
tornava
a
contrarsi
come
una
medusa,
e
sprofondava
infine
tra
le
bianche
creste
di
un
lenzuolo
disgregandosi
in
tante
striature
di
un
azzurro
piú
profondo.
Mi
sollevai
dal
letto
e
confessai
alle
pareti
della
stanza
vuota
che
la
amavo.
Raccolsi
un
kleenex
dal
pavimento
e
mi
pulii
lo
sperma
dalle
dita.
Mi
sfilai
la
maglietta
di
dosso
e
la
gettai
per
terra.
Osservai
dalla
finestra
il
cupo
cielo
invernale,
tornai
a
stendermi
sul
letto
e
pensai
a
ciò
a
cui
non
avevo
smesso
di
pensare
per
tutta
la
giornata.
Era
la
terza
sega
che
le
dedicavo.
Una
appena
sveglio.
Un’altra
nel
bagno
della
scuola.
E
poi
qui,
nella
mia
stanza
di
bambino
e
poi
di
adolescente,
che
era
stata
una
stanza
con
le
pareti
rivestite
da
una
carta
da
parati
a
striscioline
gialle
e
verdi
e
popolata
dalle
riproduzioni
in
lattice
dei
personaggi
Marvel
comics,
e
dai
fumetti
Marvel
comics,
e
da
robot
da
assemblare
seguendo
istruzioni
di
cinquanta
e
passa
pagine
in
modo
che
potessero
attivarsi
con
un
semplice
battito
di
mani
facendo
muovere
le
loro
zampe
sulle
mattonelle
di
quella
che
adesso
era
invece
una
stanza
piena
di
inquietudine,
dove
oscure
fanzine
ciclostilate
tracciavano
le
loro
cronologie
impazzite,
e
audiocassette
al
cromo
giacevano
sul
pavimento
coi
nastri
massacrati
da
continue
reincisioni
mentre
la
carta
da
parati
era
a
sua
volta
massacrata
da
chiodi
e
puntine
utilizzate
per
i
poster
dei
Frankie
Goes
to
Hollywood,
sostituiti
dai
poster
dei
Residents,
sostituiti
a
loro
volta
dai
poster
dei
Ramones,
strappati
via
anche
quelli
nella
soddisfazione
per
una
parete
domestica
che
irradiava
finalmente
la
cupa
e
stravolta
e
magnetica
minaccia
dei
muri
di
città
alla
fine
di
un
vicolo
cieco.
Riavvolsi
ancora
una
volta
il
nastro
per
rivivere
i
minuti
durante
i
quali
io
e
Rachele
eravamo
stati
chiusi
nel
suo
bagno.
Mio
padre,
a
pochi
vani
di
distanza,
iniziava
a
dare
segni
di
recupero.
Mamma
era
uscita
per
sbrigare
delle
commissioni.
I
capi
delle
due
superpotenze
tornavano
a
incontrarsi.
I
titoli
azionari
impazzivano
di
gioia.
Il
mondo
camminava
trascinando
via
ogni
cosa
con
i
suoi
artigli
giganteschi.
Ma
noi
due
(io
e
Rachele)
ci
eravamo
per
un
attimo
sottratti
a
tutto
questo.
Dovevo
rivederla.
Niente telefonate, però,
mi
ammonii
restando
a
letto.
Nessun
invito
al
cinema
o
a
prendere
una
pizza.
Bisognava
evitare
questi
terribili
corteggiamenti
che
ti
portavano
a
imbastire
qualunque
cazzata
sufficientemente
carina
e
dignitosa
e
falsa
da
non
esplicitare
il
piú
che
esplicito
obiettivo
dell’incontro,
col
risultato
che
tutte
le
macchinazioni
per
raggiungerlo
l’avevano
corrotto
prima
ancora
di
arrivare
al
dunque.
Dovevo
ritrovarla
in
città,
pensai.
Perché
in
città
stava
accadendo
qualcosa
di
importante.
Un
movimento
sotterraneo
accendeva
un
freddo
scintillio
negli
occhi
di
ragazzi.
Avrei
percorso
strade
e
frequentato
feste,
sarei
passato
nei
punti
di
ritrovo
per
comitive
che
cambiavano
di
settimana
in
settimana
fino
a
quando
il
Destino
(un
desiderio
che
immaginavo
reciproco,
e
che
chiamavo
già
con
questo
nome)
non
me
l’avesse
fatta
ritrovare
di
fronte
un’altra
volta.
Tornai
alla
finestra.
Premetti
la
pancia
nuda
contro
il
vento
gelido
oltre
il
quale
una
flotta
di
nuvole
listava
a
lutto
il
cielo
di
fine
gennaio.
«Loro
non
sono
mai
stati
d’accordo»,
mi
lamentai
con
Giuseppe
il
giorno
dopo
a
scuola.
«Inconcepibile…»,
rispose
lui
scandalizzato.
«Sono
anni
che
ci
provo,
–
continuai,
–
ma
la
loro
traduzione
del
motore
a
due
tempi
è
sempre
stata:
suicidio su due
ruote».
«Robe
da
pazzi»,
fece
Giuseppe
sempre
piú
carico.
A
qualche
banco
di
distanza,
Vincenzo
era
immerso
nella
consultazione
del
Castiglione-Mariotti.
Sfogliava
le
pagine
del
vocabolario
cercando
di
scrollarsi
di
dosso
le
attenzioni
dei
nostri
compagni:
l’entrata
eclatante
nella
villa
del
colonnello
aveva
riattizzato
le
voci
su
di
lui
–
adesso
lo
guardavamo
con
la
tensione
che
si
riserva
alle
minacce
potenziali.
Giuseppe
mi
diede
di
gomito:
«È
per
la
tipa,
eh?»
sghignazzò.
Cosí,
alla
fine
della
quinta
ora,
il
suo
PK
Special
color
prugna
era
a
mia
disposizione
nel
cortile
della
scuola.
Io
ero
raggiante.
Giuseppe
era
raggiante.
Sembrava
addirittura
lui
grato
ame
per
avergli
dato
l’occasione
di
sbarazzarsi
dello
scooter.
Lo
nascondevo
in
un
rondò
pieno
di
erbacce
a
poche
strade
da
casa.
Di
pomeriggio,
finiti
i
compiti,
mi
inginocchiavo
al
suo
cospetto.
Scioglievo
la
catena
sui
freni
a
tamburo
e
percorrevo
le
umide
spettrali
carreggiate
dei
primi
giorni
di
febbraio.
Contavo
di
vedermela
spuntare
all’improvviso
in
uno
dei
suoi
abiti
smaglianti,
per
il
conseguente
anacronismo
color
seppia
a
cui
le
gonne
e
i
jeans
e
i
bomber
degli
altri
ragazzi
sarebbero
stati
immediatamente
retrocessi.
Ma
invece
di
Rachele
trovai
Giulia.
Un
plumbeo
martedí,
pieno
di
vento.
Ero
un
tutt’uno
con
la
Vespa
parcheggiata
e
controllavo
a
distanza
la
folla
davanti
al
Punto
diVino,
un’enoteca
chiusa
nell’angolo
di
un
anonimo
piazzale
che
in
poche
settimane
si
era
trasformata
in
un
frequentatissimo
luogo
di
ritrovo
per
liceali
che
ci
passavano
l’intero
pomeriggio.
Dalla
massa
chiassosa
dei
corpi,
si
staccò
a
un
certo
punto
una
figurina
macabra.
Iniziò
a
dirigersi
verso
di
me.
Provai
a
metterla
a
fuoco.
Erano
tempi
di
grandi
cambiamenti:
bastava
l’incontro
accidentale
con
Robert
Smith
nelle
cuffie
di
un
walkman
e
un
paninaro
con
problemi
di
autostima
poteva
darsi
al
gotico
dopo
un
travaglio
esistenziale
di
circa
un
quarto
d’ora.
Per
cui,
quando
mi
si
piantò
davanti
questa
snella
ragazzina
vestita
con
maglietta
dead
can
dance,
pantacollant
neri,
scarpe
tigrate
con
punta
in
acciaio,
calze
a
rete
tirate
su
lungo
le
braccia
e
una
gloriosa
acconciatura
che
ricordava
le
vampire
hollywoodiane
degli
anni
Trenta,
sulle
prime
non
la
identificai
come
la
figlia
del
parrucchiere
che
Vincenzo
si
era
fatto
l’autunno
dell’anno
precedente.
Reggeva
in
mano
una
bottiglia
di
Ceres.
Il
fatto
di
essere
mezzo
ubriaca
non
le
impedí
di
sfruttare
l’equilibrio
precario
per
infondere
nelle
sue
gambe
ripiegate
a
X
un
messaggio
di
corrotta
suadenza.
Roteò
un
dito
nel
vuoto.
Poi
disse:
«Ah!
inutile
che
lui
ti
mandi
a
controllare
la
situazione.
Come
puoi
vedere
sto
ma-gni-fi-ca-men…
piuttosto
è
lui…
–
qui
la
faccia,
per
cosí
dire,
le
si
retroilluminò
–
…
è
lui
che
è
pieno
di
problemi!»
E
per
rompere
definitivamente
il
ghiaccio,
mi
assestò
una
manata
sulle
spalle.
Ci
trasferimmo
sotto
le
luci
pallide
del
Paradiso,
un
bar
poco
distante
pieno
di
tavolini
in
plastica
marmorizzata
dove,
insieme
con
l’aperitivo,
ti
portavano
una
ciotola
di
tramezzini
irranciditi.
Stava
iniziando
a
piovere.
La
grande
insegna
BUDWEISER
si
accendeva
e
si
spegneva
creando
un’atmosfera
di
intimità.
Assicurai
alla
ragazza
che
Vincenzo
non
mi
aveva
mandato
a
controllare
proprio
nessuna
situazione.
Mi
concentrai
sul
sincretismo
di
croci
egizie
e
uncinate
e
ortodosse
che
le
pendevano
dal
collo.
Sospirai:
«Piuttosto,
sto
cercando
un’altra
persona».
Giulia
finse
di
aggiustarsi
qualcosa
dietro
la
nuca.
Poggiò
un
gomito
sul
tavolo
e
il
mento
sul
palmo
della
mano.
Chiuse
e
spalancò
gli
occhi.
Con
gli
ubriachi
già
è
difficile
spuntarla.
Ma
con
una
ragazza
che
sfrutta
un
lieve
stato
di
ebbrezza
per
giustificare
il
salto
logico
non
c’è
proprio
partita.
Era
bastato
che
pronunciassi
la
parola
«Vincenzo»,
e
lei
iniziò
a
parlare
della
Dama
in
nero,
la
sconosciuta
con
cui
lui
si
era
presentato
alla
festa.
Saltò
fuori
che
si
trattava
di
una
donna
sposata.
Una
donna
sposata
e
piena
di
guai,
che
Vincenzo
era
andato
a
raccattarsi
nelle
lande
oltrecortina
di
Japigia.
«Suo
marito…»
disse
Giulia
provando
a
infondersi
una
certa
aria
vissuta,
come
se
la
presenza
di
una
donna
sposata
nella
vita
di
Vincenzo
la
tagliasse
fuori
dalla
competizione
ma
nello
stesso
tempo
ammantasse
i
suoi
quindici
anni
in
qualche
cosa
di
piú
serio.
Mi
raccontò
questa
storia
secondo
cui
il
marito
della
Dama
in
nero
era
una
mezza
tacca
di
spacciatore,
un
gregario
scomparso
un
anno
prima
al
largo
dell’Adriatico
dopo
uno
scontro
con
i
pattugliatori
della
Guardia
di
Finanza.
Il
gommone
era
stato
ritrovato
a
due
chilometri
dalle
coste
di
Monopoli.
Lui
invece
era
sparito
nel
nulla:
«Forse
morto,
forse
fuggito
con
la
roba»,
disse
Giulia.
Era
tutto
materiale
da
film.
Ed
era
chiaro
che
la
ragazza
parlava
per
sentito
dire;
ma
un’amante
abbandonata
sviluppa,
a
qualsiasi
età,
una
sensibilità
da
radar,
ed
è
capace
di
estrarre
da
poche
tracce
di
conversazione
portate
dal
vento
le
novità
biografiche
di
chi
è
irraggiungibile.
Qualcosa
di
vero
poteva
esserci.
«Capisci,
–
disse
aggiustandosi
con
professionalità
una
ciocca
di
capelli
dietro
l’orecchio,
–
lei
è
la
moglie…
o
piuttosto
la
vedova
di
un
malavitoso,
e
Vincenzo
non
poteva
trovare
di
meglio
per,
–
fece
una
pausa,
–
voglio
dire,
il
fatto
che
lui
e
lei
adesso…»
La
sua
faccia
venne
per
un
attimo
annientata,
fu
come
se
la
scena
di
Vincenzo
a
letto
con
la
donna
venisse
mostrata
e
censurata
tra
i
riflessi
dello
scadente
vino
rosso
che
ci
eravamo
fatti
portare.
La
vetrata
era
battuta
da
una
pioggia
sempre
piú
insistente.
Fuori,
i
ragazzi
cominciarono
a
inveire
contro
il
cielo.
Saltarono
uno
dopo
l’altro
in
sella
agli
scooter
e
alle
moto
da
enduro,
o
pedalarono
furiosamente
sui
Fifty.
Un
diseguale
stormo
di
lucette
si
allontanò
e
svaní
oltre
il
violento
martellare
dell’acqua
sull’asfalto.
Chiesi:
«In
che
senso
non
poteva
trovare
di
meglio?»
La
ragazza
sgranò
gli
occhi:
«Ma
come?
per
via
di
suo
padre!
–
sbottò,
assicurandomi
che
era
difficile
concepire
una
provocazione
piú
efficace.
«Perché
il
punto
è
sempre
quello,
–
aggiunse,
–
lui
lo
detesta!»
Qui
diventò
un’altra.
La
sua
figura
si
caricò
di
una
bella
tumescenza
improvvisa,
e
il
look
da
darkettona
fu
solo
un
travestimento
fra
i
possibili.
Ordinò
ancora
del
vino
e
cominciò
a
parlare
di
quando
Vincenzo
l’aveva
invitata
a
pranzo
a
casa
sua.
Eravamo
a
qualche
mese
prima,
il
breve
periodo
durante
il
quale
io
e
Giannelli
li
avevamo
sorpresi
a
baciarsi
dentro
un
autobus.
«Vedi,
–
sibilò
con
trasporto,
–
lui
è
uno
che
non
ti
dice
mai
cosa
ti
aspetta
prima
di
farti
trovare
in
una
brutta
situazione».
Mi
raccontò
di
come
si
fosse
preparata
a
questo
pranzo
domenicale:
agghindandosi
come
una
bomboniera,
e
presentandosi
puntuale
all’una
e
un
quarto
nel
grande
attico
affacciato
sul
porto
turistico,
tutta
sorridente
con
una
bottiglia
di
vino
per
il
padre
di
Vincenzo
e
un
bel
mazzo
di
gigli
bianchi
per
la
signora.
Erano
orpelli
a
cui
avrebbe
rinunciato,
ma
il
fatto
che
Vincenzo
avesse
deciso
dopo
quattro
soli
giorni
di
pomiciate
selvagge
di
presentarla
ai
propri
genitori,
unito
al
suono
di
quel
cognome
(«Insomma,
lo
so
anch’io
chi
sono
i
Lombardi
qui
a
Bari»),
generarono
tutti
insieme
una
forza
che
trasformò
la
sua
spontaneità
in
una
gaia
idiozia
saltellante.
Ma
quando
Vincenzo
venne
ad
aprire
la
porta,
la
accolse
con
una
tetra
espressione
da
prova
del
fuoco,
e
Giulia
fu
costretta
a
mettere
in
discussione
tutta
l’artificiosità
del
suo
entusiasmo.
Ma
senza
quello
era
smarrita.
Come
per
darle
una
conferma
leale
delle
sue
brutte
sensazioni,
Vincenzo
si
limitò
a
salutarla
con
due
rapidi
bacetti
sulle
guance.
L’accompagnò
in
soggiorno
senza
raccogliere
la
bottiglia
né
il
mazzo
di
fiori.
La
ragazza
non
prestò
troppa
attenzione
alla
credenza
vecchia
di
due
secoli
né
al
camino
in
pietra
viva,
perché
dall’espressione
sorpresa
che
il
padre
di
Vincenzo
le
riservò
non
appena
comparve
nella
stanza
e
dalla
tavola
apparecchiata
per
tre
sulla
quale
una
domestica
con
grembiule
a
righe
stava
finendo
di
disporre
i
bicchieri,
capí
che
Vincenzo
non
aveva
avvertito
nessuno
del
suo
arrivo.
L’avvocato
raccolse
la
bottiglia.
La
poggiò
su
un
tavolino
di
cristallo
dopo
averla
esaminata
e
quindi
si
presentò
senza
sorridere.
Giulia
cercò
un
approdo
sulla
faccia
di
Vincenzo,
ma
lui
non
ricambiò
lo
sguardo.
Era
una
situazione
assurda,
ma
il
peggio
doveva
arrivare.
In
preda
al
panico,
Giulia
si
ritrovò
tra
le
braccia
l’arma
convenzionale
di
questo
mazzo
di
gigli
avvolti
nel
cellophane.
Si
cercò
addosso
un
sorriso
di
riserva
e
si
rivolse
a
Vincenzo:
«Ecco,
questi
sono
per
tua
madre.
Se
mi
dici
dove…»
In
quel
momento
fece
il
suo
ingresso
una
bella
ragazza
vestita
con
camicetta
a
fiori,
mini
verde
e
sandali
argentati.
Era
difficile
darle
piú
di
venticinque
anni.
Sfiorò
le
labbra
dell’avvocato,
quindi
raccolse
i
gigli
dalle
braccia
di
Giulia.
Era
la
moglie
dell’avvocato,
ma
chiaramente
non
poteva
essere
la
mamma
di
Vincenzo.
Disse:
«Grazie».
Si
sbarazzò
dei
fiori
passandoli
immediatamente
alla
domestica.
Il
piazzale
era
pieno
di
pozzanghere
che
si
allargavano
a
vista
d’occhio.
Se
la
ragazza
avesse
continuato
a
bere,
pensai
guardando
la
pioggia,
sarebbe
crollata
e
me
ne
sarei
dovuto
occupare.
Ma
per
adesso
sembrava
sostenuta
da
uno
di
quei
momenti
magici
nel
corso
dei
quali
le
fibre
resistono
sotto
la
mareggiata
alcolica
e
i
pensieri
acquistano
una
crollante
bellezza
che
quasi
fa
paura.
«Avrei
potuto
scapparmene,
e
invece
sono
rimasta
lí
per
tutto
il
pranzo»,
disse
guardandomi
negli
occhi.
E
il
pranzo,
raccontò,
fu
un
agghiacciante
atto
unico
durante
il
quale
la
tensione
si
tagliava
a
fette:
«Nessuno
spiccicava
una
sola
cazzo
di
parola.
Dio
santo.
Ma
credimi,
–
aggiunse,
–
per
tutta
la
durata
del
supplizio
non
mi
sono
sentita
veramente
abbandonata
un
solo
istante».
Perché,
disse,
superato
lo
shock
iniziale,
aveva
collegato
sin
troppo
facilmente
la
situazione
di
quel
pranzo
al
modo
in
cui
Vincenzo
–
soltanto
qualche
giorno
prima
–
l’aveva
baciata
al
termine
di
una
partita
di
pallavolo
nel
cortile
della
scuola.
L’aveva
spinta
verso
le
grate
di
ferro
che
delimitavano
il
cortile,
e
poi
aveva
premuto
le
labbra
sulle
sue
senza
smancerie
e
senza
quelle
arie
da
spaccone
che
gli
altri
ragazzi
utilizzavano
per
non
restare
disarmati
davanti
alla
terrificante
evidenza
di
un
contatto
fisico.
Al
contrario:
lui
aveva
il
serio
limitato
irresistibile
sguardo
di
un
individuo
che
avanza
soltanto
a
proprio
nome.
Fu
grazie
a
questa
forza
che
Giulia
si
lasciò
premere
contro
il
ferro
della
cancellata
e
solo
allora,
mentre
il
campo
da
pallavolo
diventava
un
tremolio
di
linee
acquatiche
e
la
sua
maglietta
veniva
stropicciata
e
quasi
strappata
di
dosso,
le
sembrò
che
Vincenzo
volesse
dirle,
con
tutta
l’onestà
e
la
crudeltà
di
cui
può
essere
capace
un
sedicenne,
che
in
quello
che
stavano
facendo
c’era
una
scoperta
ma
non
c’era
una
promessa,
perché
l’unica
promessa
ad
avere
valore
è
la
sfida
che
lanciamo
in
solitudine
al
nostro
destino
personale,
e
stranamente
questo
bastò
perché
la
ragazza
provasse
ciò
che
non
aveva
mai
provato
in
vita
sua.
Sentí
i
rumori
e
i
profumi
intorno
a
sé
con
una
forza
fino
ad
allora
inimmaginabile.
Era
come
se
l’intero
apparato
sensoriale
le
si
fosse
spalancato
consentendole
di
riconoscere,
indissolubile
dalla
forza
del
ragazzo,
anche
qualcosa
di
molto
simile
a
una
ferita
aperta,
nonostante
Vincenzo
non
le
avesse
mai
detto
un
bel
niente
di
suo
padre
né
di
Sabrina
né
di
sua
madre
bruciata
viva
in
un
incidente
automobilistico.
Parlare
avrebbe
significato
ridurre
a
quattro
chiacchiere
ciò
che
andava,
semplicemente:
mostrato.
Ed
era
ciò
che
accadde
anche
durante
quel
pranzo
interminabile.
Non
l’aveva
attirata
in
una
trappola…
non
le
prese
mai
una
volta
la
mano
sotto
il
tavolo
per
farle
coraggio,
e
non
si
diede
da
fare
per
stemperare
la
tensione
che
serpeggiò
tra
lui
e
i
due
adulti
dall’antipasto
alla
frutta,
ma
solo
perché
una
simile
premura
avrebbe
chiuso
nella
scatola
blindata
del
decoro
ciò
che
adesso
le
stava
offrendo
con
la
scabrosa
lucentezza
con
cui
la
vita
di
ognuno
dovrebbe
essere
mostrata.
Il
miracolo
si
ripeté:
alla
ragazza
sembrò
ancora
di
poter
cogliere
il
rumore
di
una
foglia
caduta
a
continenti
di
distanza,
ed
ebbe
la
certezza
che
tutta
la
storia
di
Vincenzo
le
venisse
raccontata
senza
che
lui
avesse
pronunciato
una
sillaba.
«E
quella,
–
disse
Giulia,
–
è
stata
la
piú
bella
dichiarazione
d’amore
ricevuta
in
vita
mia».
Adesso
sembrava
che
il
bar
Paradiso
fosse
l’unico
tratto
di
terra
emersa
nel
corso
di
un
diluvio
epocale.
Le
vetrate
erano
un
continuo
esplodere
di
gocce
d’acqua,
l’insegna
BUDWEISER
continuava
a
spegnere
e
riaccendere
le
nostre
facce
dandoci
un’illusione
di
esclusività,
come
fossimo
gli
unici
al
mondo
a
poter
commentare
il
fatto
che
pioveva
sui
palazzi
e
pioveva
sulle
auto
parcheggiate,
pioveva
sui
manifesti
pubblicitari
delle
Big
Babol
e
tutti
erano
corsi
a
rifugiarsi
nei
propri
appartamenti
un
attimo
prima
che
le
acque
sfondassero
la
porta
di
casa
trascinando
con
sé
tonnellate
di
barattoli
di
carne
in
scatola
seguiti
dai
frammenti
dello
Shuttle,
dalla
Ferrari
distrutta
di
Gilles
Villeneuve,
dai
tifosi
della
Juve
schiacciati
nella
curva
Z…
cosí
il
cadavere
degli
anni
Ottanta
avrebbe
sommerso
le
case
di
un
intero
continente
mentre
gli
anni
Ottanta
erano
solo
al
loro
apice,
il
che
non
doveva
sembrare
strano
visto
che
si
trattava
di
un
decennio
assassinato
a
pochi
istanti
dalla
nascita,
e
anche
se
nessuno
era
davvero
annegato,
anche
se
a
nessuno
era
stato
torto
ancora
un
singolo
capello
e
si
trovavano
in
fondo
tutti
là,
seduti
a
guardare
una
puntata
de
IlmioamicoArnold
in
un
rassicurante
tepore
da
merenda
pomeridiana,
io
e
la
ragazza
eravamo
i
soli
a
poter
parlare
di
alluvioni
e
di
annegati,
come
se
la
situazione
ci
mettesse
già
con
mezzo
passo
nel
futuro.
Ma
lei
non
aveva
ancora
smesso
di
parlare.
Allungò
le
braccia
sul
tavolino
del
bar.
Si
stiracchiò.
Le
croci
appese
al
collo
tintinnarono.
Disse:
«Quello
stesso
pomeriggio,
subito
dopo
il
pranzo,
abbiamo
fatto
l’amore
per
la
prima
volta».
Ebbi
una
fitta
al
cuore.
Se
davvero
quel
temporale
portava
delle
gocce
di
pioggia
provenienti
dal
futuro,
e
se
il
futuro
sarebbe
stato
un
mezzo
incubo,
allora
un
improvviso
movimento
di
nuvole
avrebbe
dovuto
far
scendere
su
Giulia
un
piccolo
cono
di
luce,
in
modo
che
la
ragazza
ne
fosse
protetta
e,
avvolta
da
un
bagliore
fuori
dalle
leggi
di
natura,
diventasse
indimenticabile
(cosa
che
dovette
succedere,
se
io
me
la
ricordo
ancora)
perché,
in
avanti
con
gli
anni,
ci
sarebbe
capitato
sempre
piú
spesso
di
sederci
a
un
bar
con
ragazze
e
poi
con
donne
che
sarebbero
venute
a
raccontarci
le
loro
imprese
erotiche,
e
lo
avrebbero
fatto
in
modo
sempre
piú
esplicito
e
dunque
meno
scoperto,
non
per
scandalizzarci
ma
per
ricevere
la
conferma
di
non
essere
state
ancora
scaraventate
fuori
dallo
«spirito
del
tempo»,
lo
stesso
Spirito
che
però
impediva
loro
di
raccontarci
l’aspetto
piú
profondo
e
delicato
di
tutta
la
faccenda:
su
queste
cose
non
riuscivano
piú
a
esprimersi,
come
se
un
guasto,
una
silenziosa
catastrofe
verificatasi
a
un
certo
punto
delle
loro
vite
(nelle
vite
di
tutti
noi)
le
avesse
in
qualche
modo
mutilate;
e
per
avere
una
speranza
di
venirne
fuori
saremmo
stati
allora
costretti
a
ricordarci
di
una
ragazza
con
due
ridicole
calze
a
rete
tirate
sulle
braccia
che
molto
tempo
prima,
circondata
dalla
sua
luce
personale,
aveva
detto:
«E
quello
stesso
pomeriggio,
subito
dopo
il
pranzo,
inevitabilmente
abbiamo
fatto
l’amore
per
la
prima
volta».
«Cosí
come
era
forse
inevitabile…»
aggiunse
ormai
stremata,
abbassando
la
testa.
Era
inevitabile
che
lui
la
settimana
successiva
l’avesse
già
mollata,
disse,
lasciandola
ad
aspettarlo
per
ore
fuori
dal
cortile
della
scuola,
quando
lei
si
era
illusa
che
indossare
un
paio
di
stivali
da
cowboy
nuovi
di
zecca
potesse
arrestare
il
corso
degli
eventi.
Era
giusto
in
fondo
che
Vincenzo
si
facesse
vedere
in
giro
con
la
Dama
in
nero:
la
sfida
mossa
a
suo
padre
doveva
superare
nuovi
confini,
e
poi
quella
donna
–
ammise
la
ragazza
–
aveva
in
sé
qualcosa
di
definitivo
che
a
Vincenzo
poteva
ritornare
utile.
La
pioggia
scendeva
con
meno
insistenza.
Il
Vespino
era
di
nuovo
visibile
grazie
ai
fari
delle
auto
che
ogni
tanto
ci
passavano
davanti.
Giulia
disse:
«Mi
sa
che
devo
andare
a
casa».
Si
alzò
barcollando.
Feci
per
tenerla
in
piedi
stringendola
dai
fianchi.
Lei
si
irrigidí.
Allora
la
lasciai
andare.
La
vidi
allontanarsi
a
piedi,
nascosta
dalle
ombre
della
sera
e
rivelata
sempre
piú
piccina
dalle
luci
gialle
dei
lampioni.
Camminava
senza
fretta,
come
volesse
su
di
sé
tutta
l’acqua
che
ancora
era
possibile
ricevere.
Pensai
di
nuovo
a
Rachele.
Pensai
a
Vincenzo.
Pensai
a
Giuseppe.
I
palazzi
erano
freddi
e
silenziosi.
Una
Ritmo
truccata
mi
passò
davanti
prendendo
in
pieno
una
pozzanghera.
Il
fango
sui
pantaloni
non
contava
niente.
Capitolonono
Lei
dormiva,
Vincenzo
respirava
piano
davanti
alla
finestra
e
quella
era
la
notte.
Il
palazzo
si
alzava
per
quindici
piani,
circondato
dal
freddo
ammutolito
di
febbraio.
Oltre
la
camera
da
letto
partiva
il
breve
corridoio
che
portava
al
soggiorno
con
cucina.
Di
fronte,
c’era
il
bagno
con
la
specchiera
divorata
da
una
nuvola
di
ruggine,
il
rubinetto
gocciolante,
i
grigi
segni
delle
travature
sul
soffitto.
Tutti
insieme,
facevano
pensare
ai
servizi
di
un
antico
ospedale
crollato
sotto
le
scosse
di
una
febbre
epidemica
che
aveva
aggredito
le
fondamenta
dopo
aver
incenerito
le
menti
vive
dei
pazienti
per
materializzarsi
infine
dopo
anni
nel
ventre
di
un
edificio
popolare
della
periferia
estrema
del
sud
barese.
Accese
una
sigaretta.
Vide
il
riflesso
della
brace
allargarsi
sul
vetro
e
poi
ridursi
a
un
unico
puntino
rosso.
La
donna
si
rigirò
nel
letto.
Oltre
l’ingresso,
il
pianerottolo
si
scomponeva
pneumaticamente
verso
il
basso
attraverso
la
tromba
delle
scale.
Qualche
metro
sotto
il
livello
della
strada,
si
apriva
il
grande
sarcofago
del
parcheggio
condominiale,
un
parallelepipedo
liscio
e
grigio,
ulteriormente
denudato
dalle
luci
al
neon,
in
cui
nessuno
custodiva
piú
un
bel
niente
dopo
che
alcuni
tossici
randagi
erano
stati
ritrovati
senza
vita
sul
sedile
posteriore
di
una
Regata.
Ma
adesso
lí
non
c’era
piú
nemmeno
un’automobile.
Cosí
i
tossici,
che
pure
nel
delirio
della
rota
riuscivano
a
seguire
una
precisa
strategia
emotiva
(lo
squallore
non
era
un
deterrente
purché
ci
fosse
il
segno
certo
di
un
passaggio
ancora
umano),
al
momento
di
fare
capolino
nel
parcheggio
indietreggiavano:
era
come
se
tra
quelle
mura
andasse
in
scena
l’incubo
di
qualcuno
che
non
c’era
piú,
il
prodotto
di
una
mente
senza
corpo
che
li
portava
a
trascinare
altrove
i
loro
spasmi
muscolari.
La
stessa
cosa
succedeva
nei
sotterranei
degli
altri
palazzi
dormitorio
che
si
vedevano
dalla
finestra:
tutti
alti
e
solitari,
e
tutti
avvolti
nel
silenzio.
Erano
queste
le
sensazioni
che
stava
ricevendo
da
tre
mesi
a
questa
parte.
Da
quando,
cioè,
aveva
costretto
lo
Sghigno
a
portarlo
ogni
sera
per
le
strade
di
Japigia,
dove
aveva
imparato
a
muoversi
fra
tossici
vaganti
e
torrenti
disseccati
e
impianti
sportivi
in
stato
d’abbandono
intorno
ai
quali
trottavano
piccoli
gruppi
di
cani
divorati
dalla
scabbia.
In
poche
settimane
si
era
separato
dall’autista
per
proseguire
da
solo.
Era
riuscito
a
conoscere
gente.
Si
era
sforzato
di
comprendere
i
meccanismi
del
quartiere.
Adesso
per
esempio
sapeva
che,
alle
tre
del
pomeriggio
di
ogni
giorno,
un
uomo
di
mezza
età
soprannominato
Toquinho
trascinava
una
sdraio
nel
cortile
di
una
palazzina
tra
via
Caldarola
e
via
Peucetia,
si
sedeva
sotto
il
porticato
e
domandava
bruscamente:
«Quanto?»
prima
ancora
che
i
clienti
potessero
aprire
bocca.
Sapeva
che,
dietro
la
chiesa
a
forma
di
fungo
atomico,
i
bambini
continuavano
a
giocare
a
calcio
anche
quando
le
luci
della
sagrestia
perdevano
la
loro
battaglia
davanti
all’avanzare
della
sera:
le
tenebre
si
impadronivano
del
campo
da
pallone
mentre
un
gruppo
di
ombre
saltellanti
veniva
attraversato
da
un’ombra
piú
alta
e
curva
e
lenta
a
cui
nessuno
faceva
caso.
Sapeva
che
quest’ultimo
spettro
si
trascinava
in
solitudine
verso
via
Carabellese,
dove
il
titolare
dell’omonima
farmacia
intercalava
ogni
discorso
sentenziando:
«Tossici
di
merda!»,
senza
che
il
suo
disprezzo
venisse
mitigato
dalla
consapevolezza
che
la
vendita
delle
siringhe
monouso
rappresentava
per
lui
la
metà
dell’incasso
giornaliero.
Aveva
capito
che
le
tante
dicerie
che
circolavano
su
Japigia
non
erano
del
tutto
vere,
visto
che
nella
zona
abitavano
per
lo
piú
famiglie
di
estrazione
popolare
assolutamente
normali.
La
loro
forza
tuttavia
era
nulla
rispetto
a
quella
generata
ogni
minuto
da
uno
dei
piú
febbrili
mercati
d’eroina
a
cielo
aperto
dell’Europa
meridionale.
Sapeva
infine
che,
superata
la
chiesa,
seguendo
l’infittirsi
degli
aghi
di
pino,
camminando
verso
l’umbratile
punto
d’incontro
fra
la
strada
e
la
linea
ferroviaria,
a
un
certo
punto
compariva
il
Jolly.
Si
trattava
dell’unico
centro
ricreativo
della
zona.
Un
bar
che
non
era
un
bar.
Uno
stanzone
senza
insegne
e
senza
tavolini,
dove
pacchetti
di
sigarette
e
birre
dalle
marche
sconosciute
venivano
prelevati
direttamente
dai
cartoni
d’imballaggio
e
consegnati
agli
avventori,
uomini
e
poche
donne
che
parlavano
tra
loro,
fumavano,
facevano
scommesse
oppure
sostavano
sulla
soglia
del
locale
come
aspettassero
sempre
qualcosa,
qualcuno.
E
lui,
una
sera
di
neanche
un
mese
prima,
era
uscito
dal
Jolly
in
compagnia
di
una
donna
alta
e
riccioluta,
vestita
come
una
ex
soubrette
televisiva
richiamata
all’ultimo
minuto
in
trasmissione
per
un
qualche
triste
revival.
Aveva
provato
ad
avvicinarla
dopo
settimane
trascorse
a
fare
avanti
e
indietro
per
le
strade
circostanti,
ad
attaccare
bottone
con
individui
le
cui
facce
cominciavano
a
risultargli
sempre
meno
esotiche,
continuando
a
consumare
asfalto
in
attesa
che
l’aria
del
quartiere
si
depositasse
lentamente
nei
suoi
vasi
sanguigni.
Sapeva
che
si
chiamava
Matilde.
Sapeva
che
era
stata
la
moglie
di
uno
spacciatore
scomparso
con
un
carico
importante
dopo
uno
scontro
con
i
pattugliatori
della
Guardia
di
Finanza.
Non
si
capiva
se
l’uomo
fosse
andato
a
picco
o
se
aveva
sfruttato
l’occasione
per
fare
perdere
le
proprie
tracce
insieme
a
tutto
il
carico.
Nel
caso
fosse
stato
vivo,
poteva
darsi
che
fosse
ancora
in
contatto
con
la
donna.
C’era
insomma
l’eventualità
che
lei
sapesse
dov’era
andato
a
nascondersi.
Vincenzo
aveva
dunque
compreso
che,
quando
Matilde
guardava
fuori
dal
Jolly,
nei
suoi
occhi
c’era
–
non
come
un’aspettativa
trepidante,
ma
come
un’istantanea
contenuta
insieme
ad
altre
foto
nel
bussolotto
del
futuro
–
l’immagine
di
due
o
tre
uomini
che
avanzavano
verso
di
lei
a
pugni
chiusi.
Ma
di
fronte
a
questa
possibilità
non
sembrava
impaurita,
perché
il
suo
collo
lungo
e
nervoso
e
le
sue
labbra
strette
e
la
pelle
tirata
sulla
sporgenza
degli
zigomi
ingialliti
erano
un
vecchio
e
collaudato
messaggio
di
femminilità
notturna
che
diceva:
E sia,
facciamo
girare
il
bussolotto
anche
stasera…
Ecco
cosa
l’aveva
colpito.
Era
stato
a
osservarla
una
sera
dopo
l’altra
riflettendo
sul
fatto
che
la
donna
era
in
una
posizione
di
svantaggio
rispetto
agli
altri
avventori
del
Jolly.
Era
questo
a
renderla
cosí
solida.
E
la
sua
debolezza
era
per
lui
allettante
almeno
quanto
la
sua
forza.
Matilde
aveva
ricambiato
gli
sguardi
di
Vincenzo
in
modo
serio.
Gli
occhi
della
donna
dicevano
senza
brillare:
Se mi guardi in questo
modo un motivo ci
dev’essere.
Allora
guardami
e
fatti
guardare…
Vincenzo
inizialmente
si
era
sentito
a
disagio:
sapeva
come
sfruttare
la
sproporzione
tra
realtà
e
aspettativa
che
le
sue
coetanee
ribattezzavano
stupidamente
con
la
parola
«amore»,
ma
questa
era
una
donna
per
la
quale
–
non
avendo
probabilmente
avuto
l’illusione
mai
alcun
significato
–
il
principio
di
realtà
copriva
già
ogni
spazio
disponibile.
Era
stato
costretto
a
distogliere
lo
sguardo.
Si
era
sottoposto
a
un’altra
settimana
di
vagabondaggi.
Un
giorno,
passando
da
via
Peucetia,
si
era
sentito
abbastanza
sicuro
da
infilarsi
sotto
il
porticato
dove
Toquinho
era
seduto
come
sempre
alla
sua
sdraio.
L’aveva
salutato.
L’uomo
gli
aveva
risposto
con
il
breve
grugnito
che
riservava
alle
facce
conosciute,
e
lui
aveva
acquistato
due
grammi
di
eroina
di
cui
si
era
sbarazzato
gettando
le
bustine
nell’immondizia
dopo
aver
svoltato
l’angolo.
Alcune
sere
dopo
era
tornato
al
Jolly.
Matilde
sembrava
che
non
si
fosse
mai
mossa
di
là.
L’aveva
guardata
dritta
in
faccia.
Poi
si
era
fatto
avanti.
Ma
solo
quando
si
era
trovato
a
camminarle
accanto
lungo
una
successione
di
strade
in
procinto
di
sprofondare
nel
consueto
silenzio
da
coprifuoco,
nel
movimento
di
Matilde
che
aveva
scaricato
il
peso
su
di
lui
assecondando
il
suo
lento
tentativo
di
abbracciarla,
lasciando
che
l’odore
di
una
lacca
scadente
gli
invadesse
le
narici,
soltanto
allora
aveva
sentito
di
poter
condividere
davvero
l’indistruttibile
forza
sepolcrale
della
donna
e
del
quartiere.
Poi
si
era
infilato
nel
letto
di
Matilde,
dove
lei
gli
si
era
abbandonata
con
un’arrendevolezza
che
lo
aveva
spiazzato.
E
con
una
condiscendenza,
una
pretesa…
la
pretesa
che
lui
gestisse
la
situazione
come
le
sue
coetanee
non
gli
avevano
mai
consentito
di
fare.
Scoparsi
le
coetanee
aveva
sempre
significato
vincere
una
resistenza,
farsi
largo
a
bracciate
per
scardinare
le
difese
di
una
virtú
mai
del
tutto
precisata:
cosí,
quando
iniziavano
ad
ansimare
tra
le
sue
braccia
perdendo
il
controllo,
quei
corpi
frementi
dalle
gambe
sode
e
dai
capezzoli
induriti
non
erano
altro
che
l’altra
faccia
del
suo
sforzo,
della
sua
astuzia,
talvolta
persino
della
sua
prepotenza.
Era
lui
che
regalava
a
loro
una
mezz’ora
di
libertà.
Per
questo
gli
erano
poi
cosí
devote,
e
continuavano
a
esserlo
persino
dopo
che
le
aveva
abbandonate.
Ora
accadeva
il
contrario.
Matilde
era
una
donna
adulta,
e
il
suo
potere
consisteva
nel
dargli
potere
per
tutto
il
tempo
necessario:
si
liberava
della
sottoveste,
si
allungava
sul
letto
aspettando
che
il
ragazzo
le
fosse
addosso,
e
a
quel
punto
lui
si
ritrovava
in
un
campo
da
gioco
al
quale
il
legittimo
proprietario
aveva
già
divelto
tutte
le
transenne.
Una
dimensione
nuova.
E
il
segreto
consisteva
nell’affrontare
il
corpo
di
Matilde
come
se
un
tacito
accordo
preventivo
non
ci
fosse
mai
stato,
fingendo
che
quel
diritto
di
vita
e
di
morte
lui
lo
stesse
esercitando
in
base
a
una
decisione
arbitraria,
cosí
da
non
doverle
essere
mai
grato
e
non
deluderla.
Per
farlo,
gli
bastava
ricordarsi
che
aveva
meno
della
metà
dei
suoi
anni.
Matilde
era
forte,
ma
lui
era
forte
ed
era
giovane:
ecco
la
distanza
che
lo
faceva
gareggiare
con
lei
ad
armi
pari.
Dopo
che
si
erano
staccati
l’uno
dall’altra
ed
erano
rimasti
qualche
minuto
con
gli
occhi
fissi
sul
soffitto
senza
dirsi
una
parola,
Matilde
si
rimetteva
in
piedi
e
andava
a
darsi
una
sciacquata.
Tornava
in
camera
da
letto
dove,
nascosta
dietro
l’anta
dell’armadio,
faceva
scorrere
i
vestiti
spingendo
le
grucce
le
une
contro
le
altre
senza
prestargli
piú
la
minima
attenzione.
Per
questo
Vincenzo
la
guardava
ancora
piú
calmo
e
ammirato:
Non
è
innamorata di me.
No,
non
lo
era.
Non
aveva
neanche
preso
una
sbandata,
e
quando
finivano
di
chiacchierare
o
di
scopare
o
di
farsi
semplicemente
compagnia,
lasciava
che
lui
uscisse
di
scena
senza
sentire
il
morso
del
distacco.
Ogni
tanto
gli
diceva:
«non
farti
illusioni,
prima
o
poi
incontrerai
una
ragazza
della
tua
età»,
come
se
fosse
lui
ad
avere
tutto
da
perdere.
Ma
erano
frasi
retoriche,
stupidaggini
dette
per
scandire
il
tempo.
Le
cose
piú
importanti
Vincenzo
riusciva
a
coglierle
nei
momenti
in
cui
non
succedeva
niente.
Aveva
ad
esempio
capito
che
Matilde
non
sapeva
dove
si
trovava
suo
marito,
e
che
qualunque
cosa
fosse
diventato
(i
resti
di
un
cadavere
in
fondo
al
mare;
il
proprietario
di
una
bella
casa
in
Montenegro
che
aspettava
la
prossima
occasione
per
farsi
accoppare)
provava
per
lui
un
sentimento
di
biasimo.
Un
piccolo
spacciatore
con
manie
di
grandezza,
una
persona
talmente
stupida
da
illudersi
che
la
vita
potesse
offrirgli
prima
o
poi
l’occasione
di
una
svolta.
Allo
stesso
modo,
disprezzava
gli
uomini
che
aspettavano
solo
di
sentirsi
abbastanza
frustrati
o
sufficientemente
sicuri
della
propria
arroganza
da
rivolgersi
a
lei
e
riscuotere
il
debito
per
interposta
persona.
L’avrebbero
picchiata?
le
avrebbero
fatto
di
peggio?
Aveva
pena
per
gli
eroinomani
che
marcivano
sotto
gli
occhi
di
tutti
un
giorno
dopo
l’altro
e
aveva
pena
in
generale
del
quartiere
in
cui
era
nata.
E
tuttavia
rivendicava
il
fatto
che
solo
un
posto
pieno
di
uomini
cosí
stupidi
e
violenti
e
disperati
fosse
in
grado
di
generare
una
donna
come
lei.
Poi
si
accorgeva
che
Vincenzo
la
stava
osservando
con
troppa
insistenza
per
essere
semplicemente
un
ragazzo
davanti
a
una
donna
intenta
a
riordinare
una
camera
da
letto.
«Che
guardi?»
diceva
sfilandosi
uno
dei
suoi
vestiti
da
quattro
soldi.
Gli
veniva
incontro
completamente
nuda:
«Fammi
vedere,
fammi
vedere
quanto
sei
bello…»
Gli
metteva
le
mani
lungo
i
fianchi
e
continuava
a
parlargli
della
sua
bellezza,
dimostrando
che
la
loro
differenza
d’età
era
una
cosa
di
cui
era
consapevole
almeno
quanto
lui.
Ne
era
consapevole
anche
di
piú,
ed
era
il
motivo
per
cui
non
se
ne
faceva
soggiogare.
Lasciava
che
Vincenzo
le
accarezzasse
le
braccia
salendo
lungo
la
cicatrice.
Lui
le
premeva
la
mano
sulla
gola,
Matilde
sorrideva,
e
in
quei
denti
scoperti
Vincenzo
credeva
di
riconoscere
lo
scintillio
di
un
ringhio.
A
volte,
capitava
che
restasse
a
dormire
da
lei.
Lo
Sghigno
lo
avrebbe
coperto
con
suo
padre,
cosí
Vincenzo
poteva
farsi
vincere
tranquillamente
dal
sonno
mentre
Matilde
gli
dormiva
accanto
già
da
un
quarto
d’ora.
Chiudeva
gli
occhi
sentendo
il
gocciolio
del
rubinetto
farsi
sempre
piú
lontano.
Si
risvegliava
nel
cuore
della
notte
e
andava
a
fumarsi
una
sigaretta
davanti
alla
finestra,
riconoscendo
nel
panorama
silenzioso
del
quartiere
ciò
che
aveva
appena
sognato
in
un
terrificante
rapporto
di
uno
a
uno.
Allora
si
convinceva
che
Japigia
aveva
in
sé
qualcosa
che
consentiva
a
chi
la
attraversava
di
venire
in
contatto
con
se
stesso.
Era
come
se
tra
quelle
strade
galleggiasse
a
uno
stadio
primordiale
tutto
ciò
che
nel
centro
cittadino
si
caricava
di
orpelli
e
di
chiacchiere
e
di
inutili
giochi
di
specchi.
Il
che
forse
accadeva
perché
il
principio
su
cui
si
reggeva
il
quartiere
era
di
una
semplicità
a
dir
poco
abbacinante.
Superato
il
ponte
sospeso
sulla
linea
ferroviaria,
questa
semplicità
si
complicava
in
un
enorme
flusso
di
denaro
che
ogni
mese
tagliava
il
nastro
d’inaugurazione
di
ristoranti
e
sale
giochi
e
autorimesse
e
negozi
di
vestiti
ai
quali
la
verginità
veniva
restituita
attraverso
gli
ancora
piú
complessi
equilibrismi
degli
studi
legali.
E
cosí
si
tornava
al
centro
del
mondo,
si
tornava
a
suo
padre…
Pensava
allora
ai
fratelli
Terlizzi,
che
non
aveva
mai
visto
ma
di
cui
tutti
parlavano,
e
sulla
cui
latitanza
i
giornali
spendevano
le
ipotesi
piú
fantasiose
mentre
sembrava
che
non
si
fossero
mai
mossi
dal
quartiere.
Si
diceva
che
non
avessero
timore
di
farsi
vedere
in
giro
e
che
il
piú
giovane
facesse
esplodere
intere
batterie
di
fuochi
d’artificio
sulla
terrazza
di
un
palazzo
di
via
Gentile.
Provava
a
immaginare
il
punto
di
contatto
tra
suo
padre
e
due
individui
del
genere,
ma
ogni
volta
i
pensieri
gli
si
appannavano:
era
probabile
che
l’avvocato
agisse
in
una
sfera
cosí
alta
e
distante
da
non
avere
neanche
la
possibilità
di
impantanarsi
nell’oscura
melma
dei
reati
per
spaccio
e
ricettazione,
a
cui
era
collegato
ma
da
cui
pure
veniva
disgiunto
grazie
all’anello
di
puro
vuoto
che
roteava
nel
mezzo.
Ma
Vincenzo
non
era
venuto
quaggiú
per
incastrare
suo
padre
o
per
raccogliere
delle
prove.
Era
sceso
quaggiú
per
venirsi
meglio
incontro,
perché
sentiva
che
nella
notte
senza
fine
delle
strade
di
Japigia
sarebbe
giunto
prima
o
poi
a
toccare
il
puro
seme
del
suo
odio.
Spense
la
sigaretta
e
si
staccò
dalla
finestra.
Andò
a
infilarsi
di
nuovo
dentro
il
letto.
Tra
le
lenzuola,
accarezzò
la
schiena
della
donna.
Matilde
respirava
con
la
testa
sprofondata
nel
cuscino,
tutto
era
calmo
e
ricomposto.
Capitolodecimo
Mio
padre
si
risvegliò
in
una
domenica
di
primavera.
Una
fiammella
azzurra
cessò
di
sprigionare
la
sua
energia
intorno
al
bollitore
pieno
di
foglie
disseccate:
a
pochi
minuti
dall’alba
la
cucina
era
immersa
nella
pace
e
nel
lindore,
e
lui
filtrò
l’infuso
stando
attento
a
non
versare
nulla
fuori
dal
cerchio
della
tazza.
Si
trasferí
in
soggiorno.
Diede
un
sorso
e
si
sedette
sul
divano.
Raccolse
il
telecomando.
Accese
il
Panasonic
nuovo
di
zecca.
Le
immagini
del
telegiornale
attraversarono
lo
schermo
provocandogli
un’immediata
sensazione
di
fastidio.
Migliaia
di
manifestanti
rovesciavano
autocarri
per
le
strade
di
Soweto
al
grido
di:
«Stop
apartheid!»
e
una
bomba
era
esplosa
nel
cuore
della
notte
alla
periferia
di
Beirut.
I
corpi
delle
vittime
giacevano
nel
campo
profughi,
sovrastati
dalla
voce
off
del
giornalista
che
diceva:
«La
commissione
Kahan,
chiamata
a
indagare
dalle
autorità
israeliane…»
Eliminò
l’audio.
Intercettò
il
tasto
con
il
rettangolino
attraversato
da
tante
linee
orizzontali
e
lo
premette.
I
corpi
umani
scomparvero
all’istante,
sostituiti
dai
grossi
poligoni
verde
bottiglia
del
Televideo
–
cioè
il
motivo
per
cui
aveva
avuto
un
senso
comprare
quel
televisore.
Iniziò
a
leggere
le
cifre.
L’indice
Nikkei
aveva
chiuso
bene,
piú
3,4
a
Piazza
Affari
e
mezzo
punto
in
meno
su
Wall
Street,
che
però
nell’ultima
settimana
era
cresciuta
con
misura
cavalcando
i
tecnologici
e
i
colossi
delle
assicurazioni
che
durante
tutto
l’anno
avevano
portato
il
Dow
Jones
verso
il
record
dei
2000
punti
complessivi
mentre
fondi
d’investimento
dai
nomi
piú
o
meno
fantasiosi
quali
Anima
(var.+12),
Aberdeen
(var.+2,2),
Alleanza
(var.
–
0,8),
Merryl
Lynch
(var.+6,5)
continuavano
a
esplodere,
a
calare,
a
contrarsi
da
una
parte
all’altra
del
mondo
libero…
e
sia
che
mio
padre
avesse
guadagnato
sia
che
avesse
perso,
cosa
che
succedeva
ormai
solo
per
piccole
battute
d’arresto,
queste
cifre
che
comparivano
sul
televisore
con
il
loro
commovente
corpo
fosforoso,
la
loro
disarmante
semplicità
di
cifre
uniche
e
la
stupefacente
complessità
d’intreccio,
lo
tranquillizzavano.
Si
alzò
dal
divano.
Entrò
in
punta
di
piedi
in
camera
da
letto.
Ne
uscí
stringendo
tra
le
braccia
un
mucchietto
di
indumenti
e
un
paio
di
scarpe
da
ginnastica.
Si
infilò
nella
tuta
di
Sergio
Tacchini
che
la
mamma
aveva
acquistato
per
rinnovargli
il
guardaroba
e
che
lui
si
era
sempre
rifiutato
di
indossare.
Uscí
di
casa
e
iniziò
a
correre
intorno
all’isolato.
Trottò
per
le
strade
deserte
della
domenica
mattina.
Dopo
i
primi
giri
di
riscaldamento
allargò
il
raggio
d’azione
puntando
all’attraversamento
del
quartiere.
Superò
via
Turati.
Superò
via
Giustino
Fortunato.
Soffocò
un
piccolo
dolore
al
basso
ventre.
Diede
uno
scatto.
Rallentò
e
tornò
ad
accelerare…
adesso
stava
proprio
correndo.
Non
stava
semplicemente
correndo.
I
colletti
bianchi
del
World
Trade
Center
facevano
jogging
a
Central
Park,
le
star
di
Hollywood
facevano
jogging
lungo
la
pista
podistica
di
Venice,
i
colossi
del
filato
made
in
Italy
scoppiavano
di
salute
nei
distretti
commerciali
di
Prato
e
di
Treviso,
sudando
e
irrobustendosi
i
polpacci,
riequilibrando
il
tasso
di
colesterolo
quel
tanto
che
bastava
per
soddisfare
le
aspettative
della
loro
buona
stella.
E
dunque
non
stava
piú
nemmeno
facendo
jogging
perché
lui
ora
era
nell’occhio
del
ciclone
dove
ogni
cosa
è
quieta
e
vuota
e
bella
e
incredibilmente
vantaggiosa,
e
il
risultato
di
tutto
questo
non
erano
le
gambe
doloranti
o
la
terribile
fitta
alla
milza…
il
risultato
era
che
mio
padre
accettava
finalmente
la
vita!
Era
diventato
un
uomo
di
successo
in
un
mondo
che
incominciava
a
fare
del
successo
il
valore
di
scambio
per
ogni
aspetto
dei
rapporti
umani.
A
che
valeva
opporre
ancora
resistenza?
Allargò
la
falcata.
Accelerò
con
il
cuore
sul
punto
di
scoppiargli,
e
quando
fece
ritorno
a
casa,
e
attraversò
la
porta
d’ingresso
rosso
in
faccia,
sudato,
ansimante,
io
e
mia
madre
ci
trovammo
a
fronteggiare
il
famelico
sorriso
di
soddisfazione
di
un
uomo
di
cinquantaquattro
anni.
Urlò:
«Buongiorno!»
e
andò
a
scaraventarsi
sotto
la
doccia.
Vendette
il
Fiorino
e
acquistò
un
Iveco
Passo
Lungo
turbo
diesel.
Prese
in
leasing
una
Mercedes
500
Sec.
Cambiò
barbiere.
Prenotò
un
check-up
ospedaliero
e
si
iscrisse
in
palestra.
Sfogliando
i
quotidiani,
provò
ad
avventurarsi
oltre
le
colonne
d’Ercole
delle
pagine
economiche
(qualcosa
continuava
tuttavia
a
ripetergli
che
affrontare
articoli
del
tipo
Basquiat, Keith
Haring e l’arte della
strada
era
uno
sforzo
inutile).
Acquistò
cinque
paia
di
mocassini
Church’s
in
pelle
martellata.
Ridusse
le
sigarette.
Per
i
viaggi
in
aereo,
fece
la
scoperta
della
business
class…
Naturalmente
tornò
in
ufficio,
cosa
che
per
tutto
il
mese
di
febbraio
aveva
fatto
sí
e
no
un
paio
di
volte
a
settimana.
Gli
ci
volle
un’altra
settimana
per
riprendere
possesso
degli
affari.
E
gli
affari
andavano
bene,
andavano
benone…
Sottopose
a
Flora
l’idea
di
introdurre
degli
incentivi
aziendali
per
i
dipendenti
meritevoli.
L’addetta
al
commerciale
sghignazzò:
«Ragazzo
mio,
benvenuto
nel
presente».
Le
chiese
di
aggiornarlo
sulla
situazione
finanziaria
e
Flora
gli
passò
una
piccola
risma
di
fogli
ben
spillati.
Iniziò
a
leggerli
in
ufficio
e
continuò
a
farlo
a
casa
fino
a
notte
fonda.
Il
giorno
dopo,
di
nuovo
in
ufficio,
tirò
un
lungo
sospiro
e
disse:
«Dunque
Flora,
cerchiamo
di
capirci.
Nell’ultimo
anno
noi
siamo
cresciuti
di
tre
volte
e
mezzo
mentre
lui
non
è
riuscito
neanche…»
Cosí,
per
giorni
e
giorni,
il
telefono
non
fece
che
squillare
a
casa
nostra
alle
ore
piú
impensate.
Mio
padre
osservava
l’apparecchio
a
braccia
conserte.
La
mamma
sollevava
la
cornetta
e:
«Pronto?
–
diceva,
–
oh,
Pasquale,
ciao,
sei
tu…
no,
non
so
se
è
passato
dall’uffi…
e
no,
non
è
nemmeno
in
casa.
Ti
faccio
richiamare,
stai
tranquillo».
Quando
fu
chiaro
che
Di
Liso
non
aveva
intenzione
di
mollare,
mio
padre
decise
di
parlarci.
Dopo
uno
sfiancante
botta
e
risposta
dal
quale
si
capí
come
Di
Liso
fosse
disposto
a
tutto
per
non
perdere
un
cliente
cosí
grosso
(«Pensaci
bene,
te
lo
chiedo
per
favore…
–
riuscivo
a
sentire
la
sua
voce
dall’altro
capo
del
filo,
–
te
ne
prego!
–
implorò
a
un
certo
punto,
–
adesso
questi
stronzi
mi
vogliono
trasferire
giú
a
Noicattaro…»),
mio
padre
fu
in
grado
di
chiudere
la
telefonata
trasformando
l’umiliazione
del
suo
amico
in
qualche
cosa
di
peggiore:
«Ma
no,
–
provò
a
rassicurarlo,
–
vedrai,
vedrai
che
qualche
operazioncina
insieme
riusciamo
ancora
a
farla!»
Non
era
finita.
Un
paio
di
settimane
dopo,
qualcuno
di
non
atteso
bussò
alla
porta
del
nostro
appartamento.
Era
quasi
ora
di
cena.
La
mamma
era
in
giro
a
fare
shopping.
Mio
padre,
rientrato
dall’ufficio,
se
ne
stava
chiuso
in
bagno
da
almeno
un
quarto
d’ora.
Nel
soggiorno,
lo
schermo
del
Panasonic
mandava
lampi
senza
essere
guardato
da
nessuno,
lasciando
Michael
J.
Fox
vestito
da
yuppie
della
prim’ora
tra
le
scenografie
parallele
di
CasaKeaton
in
uno
dei
suoi
celebri
algoritmi:
«Una
persona
che
non
ha
bisogno
di
denaro…
non
ha
bisogno
di
persone».
Risate
registrate.
Secondo
tentativo:
uno
squillo
prolungato
del
campanello,
seguito
da
uno
squillo
quasi
non
udibile,
ci
piombò
addosso
come
un
goffo
richiamo
di
impazienza
e
successivo
pentimento.
Uscii
dalla
mia
camera.
Camminai
a
passo
svelto
verso
il
soggiorno.
Spalancai
la
porta,
e
tutto
questo
(la
fine
di
un
pomeriggio
da
situation
comedy
che
domandava
di
rimanere
chiusa
nel
proprio
guscio
protettivo)
si
azzerò
davanti
a
un
uomo
di
mezza
età
che
mi
guardava
reggendo
un
cappello
floscio
tra
le
mani
enormi.
Io
dissi
stupefatto:
«Salve…»
Mio
padre
urlò
dal
bagno:
«Un
attimo
che
arrivo!»
Indossava
pantaloni
di
flanella,
camicia
a
scacchi
e
una
giacca
di
panno
grigio
la
cui
dignitosità
ebbe
ai
miei
occhi
qualcosa
di
straziante.
Le
orecchie
erano
grandi
padiglioni
di
cartilagine
attraversati
dalla
luce
calda
del
soggiorno.
Il
viso
era
pieno
di
rughe
e
gli
occhi
piccoli
e
leggermente
acquosi.
Farfugliò
qualcosa
a
proposito
di
mio
padre,
mentre
tutto
il
resto
in
lui
diceva:
profondo Sud,
con
una
forza
da
raccolto
distrutto
sotto
una
tempesta
di
grandine.
Mi
sembrò
impossibile
che
un
individuo
simile
fosse
arrivato
fino
a
casa
nostra.
Adesso
rimaneva
fermo
sulla
porta
dell’ingresso.
Una
voce
disse
finalmente:
«Oh,
signor
Michele…
accomodatevi,
non
fate
complimenti!»
Mi
voltai
verso
mio
padre.
Aveva
i
capelli
bagnati,
i
pettorali
erano
gonfi
e
ben
proporzionati
sotto
l’accappatoio
di
spugna,
mentre
un
sorriso
imbarazzato
gli
lampeggiava
sulla
faccia.
L’uomo
non
avanzò
di
un
solo
passo,
cosí
fu
lui
a
raggiungerlo.
Mi
sfilai
dai
due.
Solo
dopo
essermi
allontanato,
avvertii
il
fantasma
di
un
dopobarba
lavato
dal
sudore
e
disseccato
all’aria
aperta.
Lo
associai
al
ribollire
del
ragú
scaldato
a
fuoco
lento,
poi
a
un
sapore
di
stagionatura
femminile
sotto
il
cotone
di
un
grembiule
da
lavoro.
Il
marito di una delle
ricamatrici
di
mio
padre…
conclusi,
uno
di
questi
mezzadri
o
muratori
che
non
avevo
mai
visto
e
la
cui
assenza
era
tangibile
nella
complicità
da
ostacolo
rimosso
che
legava
le
donne
mentre
passavano
il
filo
sul
tessuto.
Lui
e
mio
padre
discutevano
dandosi
del
voi.
Sul
Panasonic,
Michael
J.
Fox
disse
al
suo
vicino
di
casa:
«Skippy,
ricordi
quando
da
piccolo
ti
ho
messo
sotto
con
la
bicicletta?»
Skippy:
«Sí?»
Michael
J.
Fox:
«Adesso
ho
un’automobile…»
Mio
padre
disse
con
espressione
sollevata:
«Trattame…
trattamento
di
fine
rapporto?
Ma
sí,
certo,
ci
mancherebbe…»
Era
difficile
che
una
delle
piú
grosse
aziende
di
ricami
di
tutta
la
provincia
affidasse
ancora
la
manodopera
a
pochi
gruppi
di
donne
ingaggiate
secondo
criteri
pseudofamigliari.
Non
riuscii
a
immaginare
con
che
faccia
mio
padre
fosse
stato
capace
di
entrare
in
ognuna
delle
loro
case
per
annunciare:
«Mi
dispiace,
è
finita».
O
forse
aveva
affidato
il
compito
a
uno
dei
suoi
dipendenti.
Ma
a
ogni
modo,
quello
che
stava
succedendo
davanti
alla
porta
di
casa
aveva
qualcosa
di
clamorosamente
fuori
posto.
Mai
una
delle
ricamatrici
si
sarebbe
azzardata
a
sventolare
lo
spettro
di
un
diritto
fabbricato
sulle
sabbie
mobili
di
un’assemblea
legislativa,
poiché
il
lungo
e
paziente
lavoro
sui
tessuti
si
affidava
a
regole
la
cui
solennità
disdegnava
il
disordine
secolarizzato
di
una
battaglia
sindacale.
E
mai
lo
avrebbe
fatto
uno
dei
loro
mariti.
Ma
adesso
un
uomo
aveva
abbandonato
l’ordine
insonnolito
di
un
paese
che
poteva
essere
Ceglie
o
Mola
o
Sovereto
e
aveva
attraversato
la
città.
Aveva
suonato
al
campanello
di
un
altro
uomo,
considerato
fino
a
poco
tempo
prima
un
inavvicinabile
messaggero
degli
dèi,
e
aveva
chiesto
il
trattamento
di
fine
rapporto
a
beneficio
di
sua
moglie
–
un
diritto
che
nessuna
delle
ricamatrici
avrebbe
tra
l’altro
potuto
vantare,
visto
che
nessuna
aveva
mai
firmato
un
contratto
di
lavoro
subordinato.
Un
diritto
che
mio
padre
fu
però
ben
contento
di
riconoscergli
all’istante,
perché
lo
scricchiolio
che
doveva
aver
sentito
nei
baratri
della
coscienza
si
trasformasse
in
una
semplice
scossa
d’assestamento.
Osservai
meglio
i
sorrisi
di
papà
alle
prese
con
il
visitatore.
Al
momento
di
trovarselo
sulla
porta,
doveva
aver
temuto
che
fosse
venuto
a
rimproverarlo.
E
invece,
malconsigliato
dal
barbiere
del
paese
o
peggio
ancora
da
un
prete
o
da
un
politicante
visto
alla
tv,
quest’uomo
parlava
già
la
lingua
di
mio
padre,
lo
metteva
a
proprio
agio,
e
se
mio
padre
aveva
profanato
qualcosa
licenziando
in
blocco
tutte
le
ricamatrici
lui
adesso
profanava
se
stesso
e
sua
moglie
e
le
colleghe
di
sua
moglie
radendo
al
suolo
il
piccolo
tempio
che
fino
a
ora
li
aveva
protetti
dal
resto
del
mondo.
Cosí
erano
ancora
una
volta
tutti
su
un
territorio
condiviso
–
ma
a
differenza
della
loro
precedente
disuguaglianza,
la
loro
attuale
disuguaglianza
aveva
già
qualcosa
di
gelido,
di
impersonale,
che
avrebbe
autorizzato
molto
presto
le
ricamatrici
a
provare
per
quelli
come
mio
padre
sentimenti
di
adulazione,
di
invidia
se
non
di
vero
e
proprio
odio,
e
lui
a
guardarle
per
la
prima
volta
con
un
misto
di
disprezzo
e
superiorità.
I
cambiamenti
scavano
la
fossa
al
vecchio
mondo
in
modo
che
il
suo
crollo
sia
spesso
molto
silenzioso.
È
cosí
che
cambiano
gli
uomini
–
una
smorfia,
uno
scatto
di
nervi,
una
parola
al
posto
di
un’altra
parola
–,
è
in
questo
modo
che
da
un
momento
all’altro
non
siamo
piú
noi
stessi.
Per
cui,
ai
miei
occhi,
la
cosiddetta
questione
meridionale
(quel
residuo
di
questione
planetaria
che
può
riassumersi
nella
domanda:
ha
ancora
il
sacro
uno
sviluppo
sostenibile?)
morí
definitivamente
nel
giorno
in
cui
il
marito
di
una
ricamatrice
arrivò
tutto
imbarazzato
in
casa
nostra
per
reclamare
un
diritto
inesistente,
e
mio
padre
decise
di
accordarglielo.
Rachele
invece
la
rividi
agli
inizi
di
aprile.
Avevo
passato
almeno
due
mesi
a
inseguire
il
suo
fantasma
senza
ottenere
risultati.
La
casellina
dei
chilometri
sulla
Vespa
di
Giuseppe
era
la
certificazione
dei
miei
fallimenti,
ma
io
riuscivo
a
leggerla
come
un
incoraggiante
contacrediti.
Durante
tutto
quel
periodo
non
ebbi
mai
la
forza
per
liberare
il
mio
delirio
amoroso
dai
mostruosi
laboratori
schilleriani
in
cui
lo
avevo
imprigionato.
Ma
questa
pretesa
di
doverla
vedere
per
la
strada,
di
incontrarla
per caso,
di
non
provare
a
fare
neanche
un
colpo
di
telefono,
di
affidare
a
una
qualche
provvidenza
la
responsabilità
di
portare
a
compimento
ciò
che
avevamo
miracolosamente
iniziato
a
fare
a
casa
sua,
non
rasentava
invece
la
pura
e
semplice
vigliaccheria?
Adesso,
nei
momenti
di
leggerezza,
riesco
a
dirmi
che
uno
dei
territori
piú
danneggiati
dall’interpretazione
creativa
del
romanticismo
è
stato
l’ego
di
tanti
adolescenti
occidentali
nati
in
una
famiglia
di
buone
condizioni
economiche.
Avere
a
disposizione
molto
tempo
e
molti
soldi
porta
a
fantasticare
sulla
possibilità
che
ogni
cosa
possa
essere
controllata
senza
gettarsi
nella
mischia,
persino
i
desideri
e
le
azioni
di
una
bella
ragazza
che
ci
si
è
presi
il
lusso
di
non
raggiungere
con
ogni
mezzo
per
sessanta
e
passa
giorni.
I desideri e le azioni di
una bella ragazza?
Ma
io
ero
convinto
di
poter
controllare
anche
il
tempo!
Nei
pomeriggi
domenicali
pieni
di
sole,
aspettavo
che
i
miei
uscissero
di
casa.
Mi
sedevo
a
gambe
incrociate
sul
divano
e
contemplavo
il
crollo
della
luce
sul
frigorifero
ronzante
riversando
il
mio
amore
per
Rachele
dentro
una
clessidra
senza
sabbia
e
senza
strozzature
fino
a
convincermi
che
dalla
sera
della
festa
a
casa
sua
fosse
passata
sí
e
no
una
manciata
di
minuti:
il
calco
del
corpo
di
uno
era
ancora
caldo
su
quello
dell’altra
e
lei
di
conseguenza,
ovviamente,
era
da
qualche
parte
in
città
a
sperare
di
svoltare
l’angolo
per
sbattere
il
proprio
naso
contro
il
mio.
Al
culmine
di
queste
meditazioni,
accendevo
una
delle
prime
sigarette
della
mia
vita.
Ne
fumavo
un’altra
e
il
tempo
ritornava
a
scorrere.
Uscivo
di
casa,
montavo
in
Vespa
e
correvo
a
cercarla.
Ma
Bari
era
piú
piccola
di
come
me
la
figuravo
io
a
quei
tempi.
I
punti
di
ritrovo
si
contavano
sulle
dita
di
due
mani,
e
il
calcolo
delle
probabilità
a
un
certo
punto
non
poté
fare
a
meno
di
venirmi
incontro.
Di
quel
pomeriggio
ricordo
anche
i
dettagli
scenografici.
Mi
trovavo
in
una
grande
stanza
piena
di
teli
colorati.
Il
pavimento
era
disseminato
da
bicchieri
e
piatti
sporchi
e
da
tanti
piccoli
cuscini
che
circondavano
un
letto
sul
quale
giacevano
in
maniera
altrettanto
caotica:
un
numero
dell’«Eternauta»,
un
quotidiano
nazionale
che
titolava
Michele Sindona
è morto,
un’imprecisata
quantità
di
giubbotti
di
pelle,
una
decina
di
copertine
di
vinili
appena
maneggiati
da
Giuseppe
che
adesso
metteva
l’ennesimo
33
giri
sotto
la
puntina
(«Bela Lugosi Is Dead,
la
conoscete?»),
e
il
luogo
in
cui
stavamo
bivaccando
era
in
definitiva
la
camera
da
letto
di
Luca
Giovinazzo.
I
genitori
di
Luca
Giovinazzo
lavoravano
fuori
Bari
e
ritornavano
solo
nel
weekend.
I
genitori
di
Luca
Giovinazzo
erano
in
viaggio.
I
genitori
di
Luca
Giovinazzo
sarebbero
arrivati,
ma
non
per
oggi.
«Undead
undead
undead…»,
disse
lo
stereo
ripetutamente.
I
genitori
di
Luca
Giovinazzo
erano
quel
tipo
di
genitori
che
non
ci
sono
mai
e
non
si
capisce
mai
il
perché:
non
lo
sapevo
allora,
non
lo
so
adesso,
non
lo
saprò
mai
piú,
ma
questa
assenza
indecifrata
consentí
al
loro
appartamento
(anzi,
alla
camera
da
letto
di
Luca,
dove
ogni
volta
ci
confinavamo
assecondando
un
senso
di
intimità
autoinflitta)
di
diventare
uno
dei
piú
importanti
snodi
di
transito
del
quartiere
Carrassi
sino
alla
fine
della
primavera.
Le
cinque
del
pomeriggio.
Dalle
finestre
aperte
entrava
il
cinguettio
infernale
degli
storni.
Avevamo
finito
di
pranzare
un’ora
prima,
mentre
il
resto
della
città
tornava
negli
uffici.
Giuseppe
aveva
preso
possesso
dello
stereo
passando
al
setaccio
non
i
piú
celebri
ma
i
piú
significativi
pezzi
del
momento:
tutte
canzoni
in
cui
sembrava
sempre
che
qualcosa
di
fondamentale
(una
generica
speranza,
o
forse
il
futuro
in
persona)
fosse
stato
assassinato
ma
continuasse
a
camminare
tra
di
noi
per
motivi
di
rappresentanza.
A
un
certo
punto
erano
arrivate
Romina
e
Vanessa,
le
migliori
amiche
di
Rachele.
Erano
arrivati
ragazzi
che
conoscevo
a
malapena.
Infine
era
passato
anche
Vincenzo
(una
mezz’ora,
poi
era
andato
via).
Il
citofono
suonò
una
volta
ancora.
Poiché
a
ogni
nuovo
arrivo
ero
convinto
fosse
lei
(lo
ero
stato
nelle
settimane
precedenti
e
continuavo
a
esserlo
anche
ora),
quando
sentii
la
voce
di
Rachele
provenire
dall’ingresso
mi
feci
invadere
da
un
assurdo
sentimento
di
ovvietà:
ci
eravamo
dati
un
appuntamento
telepatico,
e
dunque
perché
mai
agitarsi?
tra
pochi
secondi
sarebbe
stata
nuovamente
al
mio
cospetto,
bella
e
scattante
in
uno
dei
vestiti
che
avevo
visto
nel
suo
armadio
e
poi
avevo
continuato
a
inventariare
mentalmente…
ed
ecco,
la
ragazza
che
comparve
in
camera
da
letto
mandò
in
frantumi
la
figurina
alla
cui
manutenzione
mi
ero
dedicato
con
tanta
meticolosità.
Aveva
l’aria
imbronciata,
e
per
di
piú
sembrava
in
preda
a
un
lieve
stato
confusionale
che
la
rendeva
ancora
piú
desiderabile.
Indossava
una
maglietta
nera
di
qualche
taglia
piú
grande,
legata
in
vita
da
una
cinta
sottile
di
cuoio
intrecciato…
Aveva
addosso
questa
maglietta
e
nient’altro!
Il
resto
erano
gambe
gambe
e
ancora
gambe,
le
quali
partivano
snelle
e
pallidissime
a
poche
dita
dai
glutei
arrestandosi
solo
davanti
alla
comodità
di
due
stivaletti
fatti
dello
stesso
cuoio
della
cinta.
Il
suo
biancore
non
suggeriva
costrizione
ma
spreco,
faceva
pensare
a
una
ragazza
con
una
spiaggia
tutta
per
sé
che
non
approfitti
mai
del
sole
per
pura
e
semplice
negligenza.
Era
seducente
e
non
banalmente
seduttiva,
non
cavalcava
l’onda
di
una
magnetica
sensualità
ma
ne
era
travolta.
Ed
era
questo
che
accese
in
me
l’agitazione,
l’inquietudine
(due
mesi… due mesi di tempo
sprecato!),
persino
l’invidia
e
uno
spirito
competitivo
fino
ad
allora
sconosciuto.
Sembrava
che
le
fosse
passato
sopra
un
caterpillar
che
anziché
ucciderla
aveva
lasciato
su
quel
corpo
altrimenti
immacolato
l’impronta
di
una
sanguinante
meravigliosa
sporca
imperfezione.
Salutò
Giuseppe
con
due
bacetti
sulle
guance.
Abbracciò
le
sue
amiche
e
si
rivolse
al
resto
dei
ragazzi
sollevando
la
mano
in
un
cenno
barcollante.
Nel
momento
in
cui
feci
per
avvicinarmi,
sentii
le
gambe
pesanti.
Anche
Rachele
rallentò
il
passo,
come
se
l’incontro
dei
nostri
sguardi
avesse
scatenato
un’improvvisa
forza
repulsiva.
Infine
ci
salutammo
e
lei
mi
strinse
per
le
braccia.
E
strinse
forte,
strinse
fortissimo.
Osservandola
da
vicino,
mi
accorsi
che
aveva
sotto
gli
occhi
la
bruna
macilenza
di
chi
ha
dormito
sí
e
no
quattro
ore
nell’ultima
settimana.
Rachele
mollò
la
presa.
Tirò
un
sospiro
e
disse:
«Mi
avevano
assicurato
che
eri
partito
per
la
Cina».
E
io:
«Pechino
faceva
schifo.
Sono
tornato
solo
ieri».
Lei
fece
per
dire
un’altra
cosa,
poi
rinunciò.
Lo
scambio
di
battute
era
un
residuo
rimasto
inespresso
dai
tempi
della
brillante
chiacchierata
nella
cucina
di
casa
sua
–
adesso
era
sepolto
nella
fossa
dell’umorismo
e
noi
eravamo
entrati
in
una
nuova
fase.
Mi
prese
per
mano
senza
sorridere
e,
usandomi
come
sostegno,
si
sedette
sul
pavimento
insieme
agli
altri.
Mezz’ora
dopo,
la
cucina
era
piena
di
gente
che
si
avvicendava
intorno
a
un’enorme
caffettiera.
Io
e
Rachele
rimanemmo
in
camera
da
letto
insieme
ad
altri
quattro
o
cinque.
Ed
eravamo
vicini,
praticamente
gamba
contro
gamba.
Le
poggiai
una
mano
sulla
schiena
e
iniziai
a
spingere
ripetutamente
con
la
testa
contro
la
sua
spalla,
assecondando
la
parte
del
nostro
legame
che
–
mi
dissi
–
giustificava
una
mossa
del
genere.
Rachele
mi
lasciò
fare,
ferma
davanti
agli
altri
che
ci
guardavano
facendo
finta
di
niente.
Era
eccitante,
ed
era
struggente.
Ma
quando
fui
sul
punto
di
valicare
la
linea
di
confine
tra
il
cotone
della
t-shirt
e
la
meravigliosa
campitura
della
sua
pelle
nuda,
la
ragazza
fece
scroccare
l’osso
della
mascella
e
irrigidí
i
muscoli
offrendo
un’ottusa
resistenza.
Vanessa
disse:
«Ecco
il
caffè!»
e
io
la
odiai.
Bevemmo
il
caffè.
Bevemmo
il
Bailey’s
e
il
Cointreau.
Qualcuno
fece
girare
un
paio
di
canne.
Un
cane
abbaiò
nel
cortile
sottostante,
senza
coprire
tuttavia
gli
storni
venuti
dall’inferno.
Tra
un
sorso
e
l’altro
iniziai
a
sentirmi
sempre
piú
stremato,
gli
uccelli
smisero
di
urlare,
il
pomeriggio
scivolò
verso
il
colore
dell’oro
annerito
e
io
trattenni
per
un
attimo
la
luce
gloriosa
che
fuori
dal
mio
sguardo
era
già
qualcosa
di
morente
sui
capelli
di
Rachele
intenta
a
chiacchierare
con
le
amiche.
Sentii
le
gambe
rilassarsi.
Chiusi
gli
occhi,
li
riaprii,
mi
feci
vincere
dal
sonno.
Quando
mi
risvegliai,
la
stanza
era
quasi
del
tutto
avvolta
nell’oscurità.
Un
fascio
di
scaglie
luminose
ruotava
intorno
alle
pareti
mosso
dai
fari
delle
automobili
giú
in
strada.
Sentii
i
risciacqui
della
lavastoviglie,
ma
per
il
resto
la
casa
sembrava
deserta.
I
ragazzi
erano
andati
via,
forse
era
andato
via
anche
Luca
Giovinazzo,
mi
avevano
abbandonato
e
adesso
erano
a
bere
tutti
insieme
in
qualche
bar
del
centro.
Mi
sentivo
sconfortato.
Staccai
la
guancia
dal
pavimento
e
iniziai
a
sollevarmi.
La
sorpresa
mi
offuscò
la
vista.
Poi
misi
a
fuoco
la
situazione.
Rachele
era
distesa
nel
letto,
le
mani
abbandonate
sul
cuscino
e
la
fluente
massa
dei
capelli
spalmata
per
metà
contro
la
parete.
Indossava
sempre
la
sua
maglietta
nera.
Solo
che
adesso
si
era
sbarazzata
anche
della
cinta
e
degli
stivaletti.
Respirava
profondamente,
stringendo
tra
le
gambe
un
lembo
di
lenzuolo
che
rivelava
e
celava
con
alternanza
il
pallore
della
pelle.
Non
capivo
se
aveva
voluto
aspettarmi
o
se
anche
lei
era
crollata
di
schianto.
Allo
stesso
modo
mi
domandai
se
fossimo
stati
ignorati
dai
nostri
amici
o
se
ci
avessero
lasciati
soli
di
proposito.
Avanzando
sulle
ginocchia,
mi
accostai
al
bordo
del
letto.
Rachele
sbadigliò,
emerse
lentamente
dalle
lenzuola,
si
mise
seduta
sul
materasso
poggiando
a
terra
le
punte
dei
piedi.
Mi
guardava
con
i
capelli
scarmigliati,
e
mentre
la
sua
aria
sonnolenta
non
comunicava
nulla,
nelle
sue
ginocchia
strette
c’era
già
qualcosa
di
pervicacemente
esposto.
Mi
osservò
con
una
specie
di
sorriso
incerto
e
disse:
«Ciao,
dev’essere
tardi».
«Dev’essere
tardi,
sí…»
risposi.
Senza
smettere
di
fissarmi,
si
tirò
via
i
capelli
con
la
mano:
«È
sera…»
constatò.
Le
presi
la
faccia
tra
le
mani
e
la
baciai.
Rachele
si
mosse
in
avanti,
premendo
i
piedi
nudi
contro
il
pavimento
gelido.
I
rispettivi
nasi
si
stritolarono
tra
loro.
Io
spinsi
forte
nella
direzione
opposta
e
rotolai
nel
letto.
Trattenemmo
il
respiro
per
pochi
istanti,
sorpresi
e
paralizzati
dalle
nostre
stesse
azioni.
Poi
Rachele
piegò
le
ginocchia,
portò
le
gambe
leggermente
verso
l’alto
incrociando
le
caviglie,
e
si
sfilò
gli
slip.
Si
scaraventò
in
avanti,
afferrò
il
lenzuolo
con
le
unghie
e
coprí
entrambi,
ma
non
cosí
rapidamente
da
impedirmi
di
sentire
il
profumo
forte
e
aspro
che
iniziava
a
spandersi
nell’aria
intorno
a
noi.
Mezz’ora
dopo
ce
ne
stavamo
nudi
sotto
le
coperte,
la
schiena
di
Rachele
era
distesa
sul
mio
braccio
indolenzito,
e
io
pensavo
che
fumare
una
sigaretta
avrebbe
aggiunto
perfezione
a
perfezione.
Ma
non
potevo
sottrarle
l’appoggio
dopo
che
mi
si
era
offerta
in
modo
tanto
generoso
facendomi
perdere
la
verginità,
e
dopo
che
aveva
sfruttato
i
mesi
in
cui
non
ci
eravamo
visti
per
trasformarsi,
facendo
scendere
cosí
sapientemente
sulla
bellezza
del
suo
metro
e
settanta
l’ombra
di
una
sensualità
misteriosa.
Fu
lei
a
sollevarsi
dal
letto.
Raccolse
dal
comodino
una
Philip
Morris.
La
accese.
Espirò
nervosamente
il
fumo
e
disse:
«Vedi,
c’è
stato
un
ragazzo
nell’ultimo
periodo…»
Trattenni
il
respiro.
Lei
mi
prese
per
mano.
La
strinse
forte
e
continuò
a
parlare.
Brunitura,
scintillio,
e
apertura
di
scenari
sconfinati:
tutto
nello
spazio
di
poche
sillabe.
«Rocco
Splendore,
ma
che
razza
di
nome
è?»
fu
la
prima
reazione
di
cui
mi
sentii
capace.
Nudo
accanto
a
lei,
fui
costretto
a
sorbirmi
la
storia
di
questo
tizio
che
Rachele
aveva
accolto
in
casa
sua
per
tutto
il
mese
di
marzo,
fino
a
quando
era
svanito
nel
nulla
dopo
averle
svaligiato
mezza
villa.
Si
trattava
del
figlio
di
un
piccolo
imprenditore
attivo
nel
campo
della
ristorazione
con
cui
il
colonnello
si
era
messo
in
affari
per
l’approvvigionamento
del
Tredicesimo
artiglieria
terrestre.
Fu
sufficiente
che
il
ragazzo
comparisse
nella
villa
di
Rachele
accompagnando
un
uomo
che
aveva
sulla
fronte
la
croce
ardente
di
un
nuovo
appalto
appena
conquistato,
perché
lei
ne
restasse
colpita.
«La
palpebra
che
gli
batteva
come
una
matta
sull’occhio
destro
senza
che
lui
neanche
se
ne
preoccupasse…
ecco
la
prima
cosa
che
ho
notato»,
disse.
Aveva
diciannove
anni
–
continuò
–
ed
era
alto
e
bruno
e
magro
come
un
chiodo,
seduto
sul
divano
mentre
suo
padre
sciorinava
al
colonnello
una
lunga
lista
di
cibi
precotti.
Rachele
aveva
guardato
tutti
e
tre
con
la
sua
solita
aria
di
crepitante
intelligenza,
passando
dalla
cucina
alle
scale
che
conducevano
al
primo
piano
per
poi
tornare
sui
suoi
passi
come
se
avesse
dimenticato
di
spegnere
un
incendio
divampato
tra
i
fornelli.
Qualcosa
era
scattato
tra
i
due
perché
Rocco,
nei
giorni
successivi,
si
era
presentato
tutto
solo
davanti
al
minaccioso
muro
di
porfido
che
circondava
la
villa
senza
saltare
un
solo
pomeriggio.
Rachele
non
sapeva
come
ci
arrivasse
ogni
volta:
se
in
autobus
o
a
piedi
o
facendo
l’autostop.
Ma
dava
sempre
l’impressione
di
avere
camminato
per
chilometri,
fermo
tra
le
sbarre
del
cancello
con
l’aria
di
chi
si
è
sottoposto
a
una
prova
fisica
per
meritarsi
qualcosa.
Lei
lo
faceva
entrare
e
andava
a
preparare
un
tè.
Lui
rimaneva
qualche
minuto
sotto
lo
sguardo
sospettoso
del
fratello
di
Rachele,
e
sotto
quello
invece
carezzevole
di
sua
madre,
la
quale
non
notava
la
palpebra
danzante
del
ragazzo,
né
si
preoccupava
delle
striminzite
t-shirt
con
cui
affrontava
il
freddo
o
delle
All-Stars
carbonizzate.
«E
sai
il
motivo?
–
insinuò
Rachele
con
uno
sguardo
d’irrisione
di
cui
non
l’avrei
ritenuta
capace,
–
non
si
accorgeva
di
niente
perché
lui
era
il
risultato
di
un
accordo
milionario».
Cosí
l’avrebbe
sintetizzata
il
colonnello,
disse,
mentre
per
sua
madre,
a
cui
persino
la
firma
su
un
assegno
sembrava
già
qualcosa
di
volgare,
tutto
si
traduceva
in
lampade
da
tavolo
e
cassapanche
del
Settecento
e
mazzi
di
orchidee
fresche
e
trionfanti
sul
tavolino
dell’ingresso.
Di
conseguenza,
cosa
poteva
esserci
di
sbagliato
in
questo
ragazzo
un
po’
bizzarro
che
del
ricambio
quotidiano
di
quei
fiori
contribuiva
a
essere
l’emblema?
Soprattutto,
la
mamma
di
Rachele
non
si
mostrò
mai
sorpresa
o
infastidita
dalla
praticità
che
consentiva
a
Rocco
di
entrarle
dritto
in
casa
senza
quasi
salutare,
saltando
i
convenevoli
con
cui
i
ragazzi
cercano
di
rassicurare
le
mamme
delle
coetanee
stringendo
con
le
loro
vaporose
acconciature
un’alleanza
ai
limiti
della
gerontofilia.
Quando
era
lei
ad
aprirgli
la
porta,
lui
si
limitava
a
dire:
«Rachele»,
usando
la
secchezza
telegrafica
con
cui
avrebbe
comprato
un
pacchetto
di
sigarette.
La
signora
si
indispettiva?
Per
meglio
dire:
si
insospettiva?
La
signora
trovava
deliziose
queste
pose
da
uomo
di
poche
parole.
Rispondeva:
«Vado
a
chiamartela»,
e
ci
mancava
pure
che
gli
facesse
l’occhiolino.
Ma
il
piú
delle
volte
la
mamma
di
Rachele
non
era
in
casa,
e
non
c’era
neanche
suo
fratello.
Cosí
lei
e
il
ragazzo
rimanevano
soli
nella
villa.
(Qui,
mentre
Rachele
iniziò
a
dilungarsi
sulle
partite
a
briscola
che
disputavano
sotto
il
gazebo
del
giardino,
stando
tra
l’altro
ben
attenta
a
coprirsi
il
seno
col
lenzuolo
–
e
il
sospetto
che
lo
stesse
facendo
per
non
offendere
l’evocazione
del
suo
amico
iniziò
a
rodermi
lo
stomaco
–,
io
ero
alla
mercé
di
una
domanda:
che
cosa
mai
possono
fare
dopo
aver
giocato
a
carte
due
ragazzi
che
si
piacciono
in
una
villa
tutta
per
loro?)
«A
macchinetta…»,
disse
invece
Rachele.
Mi
stava
passando
delle
preziose
informazioni
su
come
Rocco
parlava
piú
veloce
di
quanto
la
piú
brillante
delle
menti
sia
capace
di
pensare.
Parlava
mangiandosi
continuamente
le
parole,
disse,
era
talmente
rapido
da
ridurre
la
coda
di
certi
ragionamenti
a
una
farragine
di
suoni
dai
quali
tuttavia
–
assicurò
–
si
potevano
ricavare
piú
sfumature
e
guizzi
e
intuizioni
di
quanti
avrebbe
potuto
contenerne
un
discorso
compiuto.
«Era
fantastico,
–
concluse,
–
certe
volte
non
si
capiva
proprio
niente!»
«Senti,
ma
a
parte
giocare
a
carte…
cos’altro
facevate?»
Questo
lo
dissi
sforzandomi
di
dissanguare
la
domanda
da
ogni
rimpianto
ogni
rancore
ogni
scorticante
gelosia,
in
modo
che
lei
fosse
spinta
a
rispondermi
in
maniera
sincera.
Rachele
distolse
gli
occhi
dai
miei,
guardò
pensosamente
il
soffitto:
«Oh,
lui
passava
tutto
il
tempo
a
criticarmi.
Soprattutto
i
miei
genitori».
«Criticava
i
tuoi
genitori?»
«Senza
pietà».
Stando
al
racconto
della
ragazza,
non
è
che
Rocco
si
limitasse
a
insinuarle
qualche
dubbio
sulla
natura
di
chi
l’aveva
messa
al
mondo.
Ci
andava
giú
molto
piú
pesante.
Un
attimo
prima
era
l’adorabile
ragazzo
che
aveva
attraversato
a
piedi
mezza
Bari
per
venire
a
farle
visita.
Poi,
lasciava
emergere
uno
sguardo
accigliato
dai
fumi
del
tè
che
Rachele
aveva
preparato
con
tanta
dedizione,
si
guardava
intorno
e
sentenziava:
«Ma
come
fai
a
vivere
in
questo
posto
di
merda?»
«Ti
diceva
cosí?»
chiesi
sgranando
gli
occhi.
«Be’,
piú
o
meno.
Vedi,
lui
aveva
questi
scatti
improvvisi.
Era
proprio
imprevedibile…»
E
cosí,
imprevedibilmente,
senza
troppi
giri
di
parole
le
diceva…
cioè
le
chiedeva…
cioè
la
costringeva
a
domandarsi
quale
particolare
tipo
di
imbecillità
potesse
spingere
due
adulti
a
riempirsi
la
casa
di
medaglie
al
valore
e
di
foto
ricordo
coi
personaggi
piú
disgustosi
solo
per
darsi
un
po’
di
arie.
Sua
madre!
Aveva
mai
notato
quanto
era
stupida
sua
madre?
La
sua
cerimoniosità,
tutti
quei
sorrisetti
isterici
che
ogni
volta
lo
costringevano
a
controllarsi
per
non
prenderla
a
ceffoni…
che
cosa
poteva
avere
mai
imparato
in
sedici
anni
da
quella
donna
che
non
l’avesse
spinta
a
formulare
una
richiesta
di
adozione?
«E
tu?
come
reagivi?»
domandai
sentendomi
insopportabilmente
solidale
con
la
moglie
del
colonnello.
«Te
l’ho
spiegato,
–
disse,
–
lui
era
rapidissimo…
Io
stavo
cercando
di
formulare
una
buona
risposta
e
Rocco
era
passato
a
demolire
mio
padre».
Lui
lo
vedeva
molto
bene,
che
cosa
entrava
ogni
giorno
in
casa
loro:
salumi
in
quantità
industriale,
intere
forme
di
parmigiano
reggiano,
vino
pregiato
in
confezioni
da
dieci
da
venti
da
cinquanta
bottiglie!
Il
colonnello
gestiva
le
gare
d’appalto
per
l’approvvigionamento
alimentare
della
caserma,
bastava
la
sua
firma
su
un
pezzo
di
carta
per
catapultare
il
proprietario
di
una
macelleria
su
un
altro
mondo
finanziario:
riusciva
Rachele
a
fare
due
piú
due?
Lo
capiva
oppure
no
il
significato
di
tutti
quei
regali?
«E
a
questo
punto?»
domandai.
«A
questo
punto
succedeva
una
cosa
stranissima,
–
disse
Rachele
cercando
sul
comodino
un’altra
sigaretta,
–
lui
si
incupiva,
smetteva
di
parlarmi.
Insomma,
si
offendeva».
«Si
offendeva?
Si
offendeva
lui?»
Non
solo
si
offendeva.
Non
solo
non
le
rivolgeva
piú
neanche
una
parola.
Adesso
questo
«bizzarro»
«imprevedibile»
«rapidissimo»
ragazzo,
sembrava
sull’orlo
di
una
crisi
isterica.
Cominciava
a
sudare.
Gli
tremavano
le
mani.
«Era
come
se
la
mia
presenza…
la
sua
presenza
a
casa
mia
lo
costringesse
a
riflettere
su
quanto
faceva
schifo
il
mondo.
E
il
fatto
che
io
non
afferrassi
la
situazione
lo
gettava
in
questa
specie
di
nevrosi.
Certe
volte
immaginavo
che
in
quei
momenti,
per
la
rabbia,
potesse
gettarsi
dal
balcone.
Allora
mi
sentivo
costretta
a
rabbonirlo».
«E
come…
in
che
modo
ti
sentivi
costretta
a
rabbonirlo?»
«Be’,
–
disse
lei
recuperando
anche
l’accendino,
–
sdrammatizzavo.
Gli
dicevo
cose
stupide
del
tipo:
“Che
vuoi
farci,
mio
padre
è
un
militare.
Si
sa
come
sono
fatti
i
militari…”»
A
quel
punto
gli
occhi
di
Rocco
si
riempivano
di
rabbia:
«Un
militare?
tuo
padre
è
un
fascista
fatto
e
finito».
E
Rachele:
«Questa
sí
che
è
buona!»
E
Rocco:
«Ma
scusa,
lo
sai
almeno
come
ti
chiami?»
E
Rachele:
«Non
capisco
dove
vuoi
arrivare».
E
il
ragazzo:
«Voglio
arrivare
dove
si
è
fermata
la
tua
ignoranza.
Tu
ti
chiami
Rachele,
tuo
fratello
si
chiama
Romano.
E
Rachele
e
Romano
erano
la
moglie
e
il
figlio
di
Benito
Mussolini,
e
perdio
non
può
essere
un
caso!»
A
questo
punto
Rocco
–
lui
non
lei
–
si
alzava
di
scatto
e
se
ne
andava
nel
giardino
a
far
sbollire
la
rabbia,
dove
ovviamente
Rachele
lo
raggiungeva
trafelata.
«Ma
tu,
–
dissi
mentre
Rachele
dava
il
primo
tiro
di
Philip
Morris,
–
cosa
pensavi
tu
durante
quei
litigi?»
Lei
espirò
il
fumo,
si
aggiustò
i
capelli
con
l’altra
mano,
il
lenzuolo
le
scivolò
di
dosso
e
le
sue
piccole
tette
color
latte
mi
accecarono
la
vista:
«Che
aveva
ragione,
–
disse,
–
che
aveva
ragione
praticamente
su
tutta
la
linea».
Avevo
appena
finito
di
fare
l’amore
con
la
ragazza
dei
miei
sogni.
E,
senza
nemmeno
darmi
il
tempo
per
gloriarmene,
la
furia
compensatrice
della
nemesi
arrivava
a
punirmi
con
la
storia
del
personaggio
di
cui
Rachele
era
stata
invaghita
fino
al
mese
prima
(ne
era
ancora
invaghita?
e
soprattutto:
erano stati a letto
insieme?).
Il
quale,
con
la
precisione
di
un
chirurgo
e
la
brutalità
dei
migliori
amanti,
era
riuscito
a
estrarle
dal
profondo
un
canceroso
grumo
di
menzogne
di
cui
lei
avvertiva
la
presenza
solo
in
maniera
intermittente
(«Proprio
cosí,
–
stava
dicendo
adesso,
–
era
come
se
quelle
cose
le
avessi
sempre
sapute.
Solo
che
ora
le
vedevo!»).
La nemesi?
Perché
proprio
la
nemesi
e
non
un
banale
scherzo
del
destino?
Ma
perché
(fui
costretto
a
riconoscere)
quelle
cose
le
sapevo
anch’io.
L’avevo
capito
oppure
no
che
il
colonnello
era
il
grottesco
personaggio
di
cui
parlava
Rocco?
Ero
o
non
ero
in
grado
–
per
il
semplice
fatto
di
aver
attraversato
le
stanze
della
villa
nella
sera
della
festa
–
di
tracciare
lo
sconfortante
quadro
psicologico
dei
suoi
proprietari?
Se
è
per
questo
in
cuor
mio
avevo
già
emesso
un
giudizio
inappellabile...
Ma
allora,
perché
non
lo
avevo
detto
a lei?
Perché
non
glielo
avevo
detto
io?
Che
cos’erano
tutti
questi
scrupoli
a
soli
sedici
anni!
Per
quale
ragione
avevo
preferito
sparire
in
quel
modo
affidando
il
compito
di
conquistarla
a…
a
cosa?
«E
poi
cominciò
la
faccenda
dei
furti»,
disse
Rachele
stiracchiandosi
nel
letto.
Che
Rocco
Splendore
non
fosse
semplicemente
un
elettrico
Savonarola
appena
maggiorenne,
Rachele
se
ne
rese
conto
quando
dalla
villa
iniziarono
a
svanire
alcuni
oggetti
di
valore.
Da
una
sera
all’altra
la
moglie
del
colonnello
si
ritrovò
a
frugare
nei
cassetti
alla
ricerca
di
orecchini,
bracciali
e
altri
articoli
di
gioielleria.
Che
si
trattasse
di
furti
veri
e
propri,
la
ragazza
se
ne
accorse
quando
sua
madre
le
chiese
se
aveva
visto
l’orologio
di
Cartier
serie
Trinity
il
cui
prezzo
di
listino
sfiorava
i
cinque
milioni
di
lire,
e
la
ragazza
pensò
che
sí,
lo
aveva
visto:
il
pomeriggio
precedente,
Rocco
continuava
a
passarselo
dalla
destra
alla
sinistra.
«E
l’hai,
l’hai…»
dissi
sforzandomi
di
non
farmi
uscire
di
bocca
la
parola
denunciato.
«Se
l’ho
detto
a
mia
madre?
Avrei
voluto
parlarne
direttamente
con
lui…»
disse.
E
poi
–
aggiunse
–
sua
madre
in
fondo
quei
furti
se
li
meritava:
dopo
avere
rotto
l’anima
a
tutta
la
famiglia,
a
un
certo
punto
la
donna
fu
colta
dal
sospetto
che
Rocco
fosse
uno
dei
possibili
indiziati.
Tuttavia,
non
si
azzardò
mai
a
formulare
neanche
velatamente
la
sua
accusa,
dal
momento
che…
sí,
insomma,
era
lei
la
prima
vittima
della
cerimoniosa
ipocrisia
di
cui
parlava
Rocco.
E
dunque,
se
lo
meritava
o
no
che
qualcuno
le
rubasse
l’orologio
di
Cartier?
Poi
Rocco
cominciò
a
diradare
le
visite.
E
quando
veniva
a
trovarla
era
piú
ingestibile
di
prima:
«Sembrava
preoccupato
da
qualcosa.
E
comunque,
i
suoi
vestiti…
–
disse,
–
sono
stati
quelli
a
bloccarmi».
«I
vestiti?»
Rachele
sospirò:
«I
suoi
vestiti,
adesso,
puzzavano».
Non
erano
piú
una
tshirt
e
un
paio
di
jeans
portati
eroicamente
nel
freddo
di
marzo.
Erano
un
paio
di
calzoni
diventati
rigidi
per
la
sporcizia.
E
intorno
a
lui…
Rachele
non
se
ne
accorse
subito,
non
volle
rendersi
conto
che
questo
odore
di
disinfettante
andato
a
male
proveniva
da lui.
Non
solo
dai
suoi
vestiti
ma
dal
suo
alito,
dalle
sue
ascelle,
dalla
sua
carne!
Era
lui
a
puzzare.
Perse
un
paio
di
giorni
preziosi
a
cercare
di
farsene
una
ragione:
aveva
appena
accettato
che
fosse
un
ladro,
ma
accettare
questo
costava
piú
fatica.
«È
incredibile,
–
disse,
–
qualunque
fosse
il
mio
proposito,
lui
era
sempre
un
passo
avanti».
E
poi
ci
fu
l’ultima
volta
che
si
videro.
«Tutto
accadde
nel
giro
di
pochi
minuti»,
disse
Rachele.
Adesso
la
immaginavo
pronta
a
spalancargli
i
forzieri
di
famiglia
e
a
fuggire
insieme
a
lui.
Ma
su
quel
pomeriggio
si
andava
addensando
qualcosa
di
piú
strano
del
solito,
e
Rachele
lo
capí
guardando
Rocco
mentre
avanzava
sul
vialetto.
Prima
ancora
dello
sguardo
accigliato
e
dei
vestiti
sporchi…
«Le
scarpe»,
riuscí
a
dirgli
quando
lui
le
fu
di
fronte.
Dai
bordi
sdruciti
dei
jeans
sbucavano
i
suoi
piedi.
Due
piedi
nudi
e
paurosamente
malandati.
Aveva
le
unghie
spezzate,
la
pelle
mangiucchiata
sui
talloni,
e
lungo
le
caviglie
risaltavano
dei
rigagnoli
scuri
che
potevano
essere
fango
o
sangue
raggrumato.
Erano
i
piedi
di
chi
si
è
sbarazzato
delle
scarpe
e
ha
camminato
per
chilometri
in
un
attacco
di
pazzia.
«Le
scarpe,
–
boccheggiò
Rachele,
–
dove
hai
messo
le
scarpe…»
Ma
lui
quel
giorno
non
era
solo
scalzo
e
puzzolente.
Era
sconvolto.
Attraversò
la
porta
dell’ingresso
urtandole
la
spalla.
Senza
darle
spiegazioni,
si
inoltrò
nella
casa
svanendo
per
il
corridoio.
Lei
gli
corse
dietro,
seguí
i
rumori
che
provocava
passando
da
una
stanza
all’altra.
Sbam sbam sbam!
I
cassetti,
ecco
cosa
stava
facendo.
Li
rivoltava
furiosamente,
ma
non
come
farebbe
un
ladro:
sembrava
un
alienato
a
cui
qualcuno
aveva
garantito
che
la
propria
sanità
mentale
era
nascosta
in
uno
dei
cassetti
della
villa.
Rachele
era
spaventata:
«Ma
che
succede?
Mi
vuoi
dire
cosa
cazzo
succede?
Per favore!»
Rocco
le
ringhiò
contro:
«Dammi
i
soldi».
La
ragazza
restò
paralizzata.
Una
mano
invisibile
la
condusse
su
per
le
scale,
le
fece
raccogliere
dalla
sua
stanza
la
Smemoranda
con
la
copertina
azzurra
costringendola
a
tirare
fuori
dall’agenda
tre
biglietti
da
cinquantamila
lire.
Tornò
da
Rocco.
Il
ragazzo
strinse
i
soldi
nel
pugno,
poi
li
intascò.
Per
qualche
istante
il
suo
sguardo
incrociò
quello
di
Rachele.
Non
disse
«grazie».
Non
disse
proprio
niente.
Girò
i
tacchi
e
scomparve.
La
sera
stessa
–
mentre
lei
era
chiusa
in
camera
a
metabolizzare
lo
shock
–
fece
irruzione
nella
villa
il
padre
del
ragazzo,
scortato
dal
colonnello
e
da
sua
moglie.
Parlavano
a
voce
alta,
sembravano
alterati
tutti
e
tre.
La
chiamarono
in
soggiorno.
Le
domandarono
quand’era
l’ultima
volta
che
aveva
visto
Rocco
continuando
contemporaneamente
a
litigare
(il
colonnello
diceva:
«Per
quale
motivo
si
è
deciso
solo
adesso!»
il
padre
di
Rocco
cercava
di
difendersi:
«Le
ripeto
che
non
lo
sapevo.
Non
sapevo
che
mio
figlio
veniva
qui
ogni…»).
«Oggi
pomeriggio,
–
tagliò
corto
Rachele,
–
l’ultima
volta
che
l’ho
visto
è
stato
oggi
pomeriggio».
Saltò
fuori
che
i
genitori
di
Rocco
avevano
perso
le
tracce
del
ragazzo
almeno
da
una
settimana.
Era
scappato
di
casa.
O,
come
cercò
di
precisare
l’uomo
dell’appalto:
«Il
suo
problema
l’aveva
strappato
via
dal
nido
famigliare».
Si
trattava
di
un
tossico,
un
eroinomane
alle
prime
settimane
di
dipendenza.
Non
se
ne
erano
accorti?
Se
è
per
questo
aveva
già
problemi
molto
seri
la
prima
volta
che
aveva
messo
piede
nella
casa
di
Rachele
(«Me
lo
portavo
dietro
perché
speravo
che,
guardandomi
lavorare,
–
disse
il
padre
di
Rocco
sulla
difensiva,
–
insomma…
è
dai
buoni
esempi
che
impariamo
a
correggere
gli
errori,
no?»)
La
discussione
proseguí
in
maniera
caotica
per
circa
un’ora:
il
colonnello
cercava
di
non
disintegrarsi
le
mascelle
al
pensiero
di
aver
avuto
un
drogato
in
casa,
sua
moglie
lo
guardava
in
stato
catatonico,
il
padre
di
Rocco
a
un
certo
punto
non
si
capí
se
stesse
cercando
di
raccogliere
informazioni
sul
ragazzo
o
di
comprendere
se
la
parola
«tossicodipendente»,
associata
a
un
discendente
in
linea
retta,
rientrasse
tra
le
cause
per
l’annullamento
di
un
contratto
con
la
pubblica
amministrazione.
«E
questo
è
tutto»,
disse
Rachele
portando
lo
sguardo
verso
una
zona
morta
del
letto.
«L’hai
piú
rivisto?»
chiesi
provando
a
ridurre
la
distanza
da
cui
eravamo
separati.
«No».
Adesso
mi
sembrava
che
la
voce
le
tremasse.
A
questo
punto
successe
una
cosa
molto
strana:
la
abbracciai.
Uno
slancio
sulla
cui
vera
natura
non
mi
feci
domande.
Volevo
consolarla
per
aver
perduto
un
ragazzo
rispetto
al
quale
rappresentavo
una
misera
seconda
scelta?
Volevo
consolare
me?
O
ero
in
preda
a
una
gioia
incontenibile
per
essermi
sbarazzato
di
un
pericoloso
avversario
senza
avere
mosso
un
dito?
Fatto
sta
che
ora
ce
l’avevo
tra
le
braccia.
E
–
cosa
ancora
piú
strana
–
Rachele
non
interpretò
il
mio
abbraccio
come
un
tentativo
di
aiutarla
a
elaborare
il
lutto.
La
testa
le
scattò
in
avanti.
Le
nostre
fronti
si
scontrarono.
Mi
morse
istintivamente
il
labbro
superiore
lasciandomi
mezzo
paralizzato
dalla
sorpresa.
Pochi
minuti
dopo
stavamo
di
nuovo
facendo
l’amore
nel
letto
di
Luca
Giovinazzo.
Fu
in
questo
modo
che
ebbe
inizio
la
mia
storia
con
lei.
Prendemmo
a
vederci
quasi
ogni
giorno,
a
vagare
per
la
città.
Rachele
non
parlò
piú
di
Rocco.
Non
lo
rivide,
non
lo
cercò,
non
si
mobilitò
per
capire
dove
fosse
finito,
e
se
lo
fece
io
comunque
non
ne
seppi
niente.
A
mia
volta,
stavo
attento
a
non
fare
domande.
Ero
convinto
che
la
reticenza
contribuisse
a
imprigionare
l’argomento
nelle
segrete
dove
credevo
che
la
ragazza
lo
avesse
confinato
pur
di
non
pensarci.
Non
provai
neanche
a
indagare
su
una
loro
eventuale
relazione
sessuale,
che
pure
era
il
gingillo
con
cui
mi
tormentavo
almeno
un
paio
di
ore
al
giorno.
Temevo
che
ci
fosse
il
rischio
di
rompere
l’incantesimo,
di
scoperchiare
qualcosa
di
pericoloso.
Mi
sbagliavo.
Rachele
era
molto
piú
in
gamba
di
quanto
riuscissi
a
credere
vent’anni
fa.
Già
allora
rincorreva
un
tipo
di
saggezza
che
a
malapena
si
raggiunge
da
adulti:
la
cognizione
dei
propri
limiti.
Lui
per
lei
era
troppo,
e
questa
consapevolezza
le
sconsigliava
di
vederlo.
Le
aveva
«aperto
gli
occhi
sul
mondo»,
d’accordo,
ma
alla
lunga
avrebbe
potuto
distruggerla.
Oppure
lui
ne
sarebbe
uscito
peggio
di
quanto
non
stesse
già.
Il
che
rese
la
decisione
di
non
cercarlo
dolorosa
e
dignitosa
e
adulta
piú
di
quanto
avessi
mai
potuto
immaginare
allora.
A
dispetto
delle
mie
semplificatorie
paranoie
di
sedicenne,
non
credo
di
essere
stato
per
lei
una
scelta
di
ripiego.
Rachele
non
ragionava
in
questi
termini.
Questo
era
il
modo
in
cui
ragionavo
io.
La
sua
disposizione
nei
miei
confronti
dipendeva
da
un
altro
aspetto:
ero
un
ragazzo
che,
esattamente
come
lei,
aveva
preso
a
farsi
un
sacco
di
domande
sul
mondo
da
cui
era
circondato.
C’era
qualcosa
di
sbagliato,
nel
nostro
mondo
–
e
condividere
un
disagio,
a
una
certa
età,
significa
riuscire
a
condividere
anche
tutto
il
resto.
Cosí,
in
certi
pomeriggi
di
fine
aprile,
capitava
che
attraversassimo
in
motorino
tutta
la
città.
Abbandonavamo
le
vie
del
centro
e
vedevamo
i
palazzi
della
periferia
farsi
sempre
piú
distanti
tra
di
loro.
Superavamo
la
statale
16
e
vagavamo
senza
meta
fino
a
quando
il
profilo
mostruoso
della
zona
industriale
non
compariva
sopra
uno
sfondo
da
giorno
del
giudizio.
Poi
tornavamo
a
casa
e
la
tv
diceva:
«La
nube
tossica
si
sta
spostando
verso
i
paesi
dell’Europa
occidentale.
Nelle
zone
limitrofe
al
luogo
del
disastro,
si
stima
che
le
radiazioni
superino
di
cinquemila
volte
il
valore
massimo
riportato
dagli
strumenti
di
misurazione
attualmente
disponibili…»
Capitolo
undicesimo
Gli
effetti
che
l’esplosione
del
reattore
numero
quattro
produsse
sugli
abitanti
di
Bari
furono
diversi
a
seconda
di
chi
ne
fu
contaminato.
Per
noi
ragazzi
fu
un
lampo
capace
di
dar
ragione
al
sentimento
di
sciagura-in-atto
che
avvertivamo
da
mesi.
Ma
per
gli
adulti…
Ricordo
scene
di
vita
famigliare
che
ho
ritrovato
incise
nella
memoria
di
tutti
i
miei
coetanei.
Vidi
mia
madre
tornare
a
casa
col
bagagliaio
completamente
occupato
da
pacchi
di
pasta
in
confezioni
da
cinque
chili.
Fece
la
stessa
cosa
nei
giorni
successivi,
avventurandosi
in
sorpassi
e
retromarce
che
le
provviste
accumulate
fino
al
tettuccio
resero
problematiche,
se
non
capaci
di
farla
arrivare
in
pochi
istanti
lí
dove
il
lavoro
degli
isotopi
avrebbe
richiesto
anni.
Le
sentii
dire:
«Non
azzardarti
a
toccare
una
sola
foglia
di
insalata!»
E
il
latte:
solo
quello
a
lunga
conservazione.
Spiegò
a
mio
padre
che,
«molto
probabilmente»,
a
partire
dal
1991
nessuno
avrebbe
potuto
piú
addentare
una
forchettata
di
spaghetti
in
vita
propria:
il
grano
duro
regolarmente
conservato
aveva
una
scadenza
di
cinque
anni,
mentre
il
periodo
di
dimezzamento
dell’uranio
sfiorava
i
cento.
Infine,
i
comunisti.
E
niente
era
piú
assurdo
della
parola
«bolscevichi»
uscita
dalle
sue
labbra.
Non
l’avevo
mai
sentita
parlare
di
politica.
Non
ne
avevo
mai
sentito
parlare
da
nessuno.
L’unica
ideologia
a
cui
il
Meridione
d’Italia
si
fosse
mai
davvero
interessato
era
la
necessità
di
trovare
un
rimedio
adatto
ai
tempi
per
perpetrare
se
stesso.
Non
ricordo
da
bambino
una
sola
vera
preoccupazione
per
i
cavalli
dei
cosacchi
davanti
alle
fontane
di
San
Pietro.
Invece
adesso
–
dalla
mamma
ai
ragionieri
di
papà
all’edicolante
sotto
casa
a
un’eterogenea
schiera
di
parenti
e
conoscenti
per
i
quali
l’unica
vera
minaccia
statalista
era
sempre
consistita
nell’ipotesi
che
potesse
interrompersi
il
ciclo
bisestile
dei
condoni
fiscali
–
ci
fu
tutto
un
ribollire
di
maledizioni
dirette
contro
Chrušcëv
(che
era
morto
nel
1964),
contro
l’Internazionale
comunista
(il
cui
ultimo
congresso
risaliva
agli
anni
in
cui
l’Iran
si
chiamava
ancora
Persia),
contro
la
Rivoluzione
d’ottobre,
e
ovviamente
contro
i
cosacchi,
i
quali
–
sepolti
nei
gulag
da
quasi
mezzo
secolo
–
si
rifecero
una
vita
cavalcando
il
piatto
orizzonte
onirico
del
Tavoliere
delle
Puglie.
Mia
madre
non
era
piú
sensibile
alle
sorti
di
Solidarność
di
quanto
non
lo
fosse
alla
decrittazione
dei
codici
maya.
Il
suo
allarmismo
non
era
dunque
politico.
E
non
era
neanche
semplice
allarmismo,
dal
momento
che
gli
strali
venivano
da
una
donna
responsabile,
incline
all’ottimismo,
capace
di
tenere
duro
senza
mai
cedere
allo
sconforto
almeno
fino
a
quando
non
fosse
accaduta
davvero
una
catastrofe.
Dunque,
era
bizzarro
che
ora
si
agitasse
davanti
a
un
pericolo
cosí
intangibile
come
la
nube
tossica
proveniente
dall’Ucraina.
La
sua
ansia
aveva
ai
miei
occhi
qualcosa
di
assurdo.
Ancora
non
capivo
che
gli
adulti,
quando
hanno
i
nervi
a
fior
di
pelle
per
problemi
all’apparenza
incomprensibili,
significa
spesso
che
sono
preoccupati
da
qualche
cosa
di
diverso
e
comprensibilissimo.
E
dunque,
cosa
preoccupava
realmente
mia
madre?
Erano
stati
i
troppi
cambiamenti
dell’ultimo
periodo?
L’impetuosità
della
nostra
scalata
era
forse
circondata
da
qualcosa
di
oscuro,
vago
e
minaccioso
quanto
le
radiazioni
di
Oernobyl?
Probabilmente
mia
madre,
poco
incline
a
formulare
una
spiegazione
per
una
serie
di
nuove
inquietudini
che
cominciavano
a
rosicchiare
la
sua
vita,
preferiva
trovarla
nel
Grande
Niente
venuto
dall’Est.
Mio
padre
invece
no.
Papà
sfruttò
il
disastro
tempestivamente.
Erano
mesi
che
i
suoi
consulenti
finanziari
gli
consigliavano
di
diversificare:
«Si
fidi,
–
dicevano,
–
i
corredi
non
sono
tutto
nella
vita».
Cosí,
a
partire
da
maggio,
fu
possibile
vederlo
in
giro
con
un
certo
Nicola
Bellomo.
Si
trattava
di
un
altro
di
questi
cinquantenni
che
nella
vita
avevano
fatto
ogni
tipo
di
mestiere,
capaci
di
passare
dai
trasporti
all’edilizia
con
la
stessa
furiosa
disinvoltura
che
li
vedeva
correre
dall’ufficiale
giudiziario
con
una
vera
di
brillanti
nascosta
nel
cappotto
per
farsi
annullare
un
protesto.
Adesso,
dopo
avere
sventrato
mezzo
golfo
di
Taranto
con
un
complesso
turistico
ispirato
a
Rosaspina
dei
fratelli
Grimm,
Bellomo
era
stato
fulminato
dall’idea
che
una
buona
risposta
ai
problemi
delle
centrali
sovietiche
fosse
provare
a
vendere
–
nel
centro
di
Bari
–
appartamenti
dotati
di
rifugio
antiatomico.
«Senza
esagerazioni,
–
diceva
Bellomo
a
mio
padre,
–
ci
basta
piazzare
due
o
tre
di
queste
palazzine
prima
che
sfumi
il
panico
e
potremo
festeggiare
un
Capodanno
col
botto».
Nel
giro
di
poche
settimane,
attirarono
nei
loro
uffici
decine
di
potenziali
acquirenti:
cittadine
e
cittadini
con
molti
soldi
in
tasca
a
cui
veniva
chiesto
di
esaminare
le
piccole
cantine
di
complemento
disegnate
sul
progetto
–
semplici
stanzoni
a
cui
le
pareti
rivestite
di
cemento
armato
conferivano
lo
status
di
«rifugio
omologato
dall’Aiea»,
e
che
alcuni
di
questi
facoltosi
individui
iniziarono
a
valutare
con
interesse
quando
vennero
visitati
non
dal
fantasma
di
un
tumore
tiroideo
ma
dal
sospetto
che
in
quegli
immobili
maggiorati
del
venti
per
cento
sul
prezzo
di
mercato
ci
fosse
qualcosa
di
chic.
«Un
piccolo
affare,
ma
molto
vantaggioso.
E
poi
ammettiamolo,
l’idea
è
geniale,
–
disse
papà
durante
un
pranzo
di
quel
periodo
cercando
di
sconfiggere
la
perplessità
di
mia
madre.
–
Tanto
che,
–
continuò,
–
se
solo
riuscissimo
a
trovare
un
terzo
socio…»
E
già
stava
cercando
di
perorare
una
causa
dentro
l’altra.
«Ma
scusa!
–
disse
voltandosi
di
scatto
verso
me
dopo
avere
sbattuto
un
pugno
sul
tavolo.
–
Ma
scusa
scusa
scusa…
–
tornò
a
ripetere
cercando
di
conquistarmi
con
un
sorriso,
–
perché
non
glielo
dici
al
padre
del
tuo
amico?
Come
si
chiama?
Dài,
su,
come
si
chiama…»
Quel
nome
lo
conosceva
benissimo,
pensai,
se
lo
stava
carezzando
ossessivamente
dall’inverno
precedente.
Rimasi
zitto.
«Hai
capito
di
chi
stiamo
parlando?»
chiese,
e
già
nel
suo
sorriso
c’era
un
pizzico
di
delusione,
come
se
la
mia
amnesia
fosse
costruita
ad
arte
per
danneggiarlo
(e
d’accordo,
era
fittizia).
«Ma
sí!
–
concluse
tirando
un
sospiro
del
tipo:
possibile che in
questavitadimerdamela
debba sbrigare sempre da
solo?
–
Ma
sí,
sí!
Mario
Lombardi!
Avvocato
Mario
Lombardi.
Allora,
perché
non
glielo
dici
al
padre
del
tuo
amico?»
Erano
questi
i
diabolici
poteri
di
mio
padre:
contenere,
nello
spazio
di
un
sorriso,
tutta
una
serie
di
ulteriori
significati
rispetto
alla
semplice
richiesta
di
far
presente
al
padre
di
Vincenzo
che
lui
e
un
palazzinaro
multiprotestato
cercavano
soci
per
un
progetto
immobiliare
a
prova
di
bomba
(l’avvocato
Lombardi
avrebbe
avuto
solo
da
guadagnarci,
sottintendeva
il
sorriso
di
papà,
dunque
ci
avrebbe
guadagnato
anche
Vincenzo,
al
quale,
se
ero
davvero
un
amico,
non
potevo
rifiutarmi
di
fare
un
favore
del
genere;
ecco,
cosa
poteva
esserci
in
una
semplice
contrazione
muscolare
di
chi
mi
aveva
messo
al
mondo).
Se
fossero
stati
ancora
i
tempi
di
Long
John
Silver,
probabilmente
avrei
ceduto
al
ricatto
tra
mille
macerazioni
interiori.
Ma
era
passata
molta
acqua
sotto
i
ponti.
E
avevo
grande
stima
dell’odio
di
Vincenzo
per
suo
padre.
E
amavo
una
ragazza
che
era
stata
abbagliata
da
un
tossico
capace
di
mostrarle
cosa
si
nascondeva
dietro
le
quinte
di
un
normale
teatrino
domestico.
Fronteggiai
mio
padre
con
un
sorriso
piú
largo
del
suo:
«Il
numero
dello
studio
Lombardi
è
sulle
Pagine
Gialle.
Chiamalo
direttamente
tu.
Il
padre
di
Vincenzo
sarà
felice
di
essere
dei
vostri».
Mi
lasciavo
alle
spalle
queste
scene,
e
andavo
a
prendere
Rachele
in
motorino.
Non
credo
di
avere
mai
girato
per
una
città
come
feci
con
lei
nel
corso
di
quella
primavera.
Il
combustibile
delle
nostre
peregrinazioni
era
un
denso
sentimento
di
ostilità
per
tutto
ciò
che
di
«ufficiale»
ci
stava
intorno.
Detestavamo
i
nostri
genitori.
Cominciammo
a
detestare
la
scuola.
Odiavamo
la
tv,
di
cui
apprezzammo
in
quel
periodo
solo
i
filmati
delle
città
fantasma
intorno
a
Kiev,
persuadendoci
che
il
devastante
scenario
di
Oernobyl
fosse
un
termometro
forgiato
a
millecinquecento
chilometri
di
distanza
per
misurare
il
livello
d’intossicazione
spirituale
delle
nostre
città.
Disprezzavamo
gli
uomini
politici
italiani,
e
quando
ci
capitava
tra
le
mani
un
quotidiano
che
dedicava
la
prima
pagina
a
un
sempre
componibile
conflitto
tra
Democrazia
Cristiana
e
Pci,
disprezzavamo
il
servilismo
dei
redattori
del
giornale.
Erano
questi
sentimenti
ad
attirarci
magneticamente
(noi
e
il
Vespino)
verso
i
luoghi
della
città
in
cui
potevano
venire
condivisi.
E
luoghi
del
genere,
a
Bari,
avevano
iniziato
a
spuntare
come
funghi:
birrerie
che
funzionavano
come
sale
da
concerto
confinate
a
qualche
metro
sotto
il
livello
stradale,
dove
gruppi
death
metal
si
esibivano
gratuitamente
per
un
pubblico
di
venti,
trenta,
talvolta
persino
cinquanta
persone
che
pogavano
come
matte.
Se
non
erano
questi
luoghi,
erano
i
negozi
di
dischi
d’importazione
o
i
piccoli
club
che
rivendicavano
la
propria
identità
attraverso
le
fanzine
disposte
sul
bancone.
Scaricavamo
la
tensione
che
si
accumulava
nei
nostri
corpi
pogando
insieme
agli
altri
oppure
scopando
a
casa
mia,
per
ritrovarci
nudi
e
svuotati
ma
incredibilmente
ancora
tesi
dentro
un
letto
a
una
piazza.
Era
allora
che,
per
stemperare
il
residuo
nervosismo,
risalivamo
in
motorino
e
puntavamo
lontano,
dove
nessuno
avrebbe
potuto
raggiungerci,
di
corsa
verso
la
zona
industriale,
di
fronte
alle
enormi
chiocciole
delle
turbine
elettriche
e
alla
mostruosità
degli
altiforni
e
delle
lingottiere.
Ritornavamo
in
città
e,
dopo
avere
parcheggiato,
ce
ne
stavamo
seduti
nei
giardinetti
di
piazza
Umberto
a
contare
i
tossici
che
ci
passavano
davanti.
Io
e
Rachele
ce
ne
accorgevamo
solo
adesso,
ma
questi
ragazzi
erano
stati
sotto
i
nostri
occhi
da
sempre,
con
i
loro
sudori
freddi
e
le
loro
piorree,
gli
abiti
trasandati
e
l’ansia
di
raggiungere
un
posto
sempre
diverso
da
quello
in
cui
si
trovavano.
In
quei
momenti
non
potevo
sfuggire
al
fantasma
di
Rocco.
Guardavo
Rachele
accanto
a
me
e
mi
chiedevo
con
angoscia
se
anche
lei
ci stava
pensando.
Tiravo
un
sospiro,
cercavo
di
darmi
una
calmata
e
mi
dicevo
che
il
nostro
interesse
per
i
tossici
era
di
altro
tipo.
Loro
non
andavano
piú
ai
concerti
di
death
metal.
Forse
avevano
smesso
persino
di
innamorarsi,
di
scopare,
non
avevano
interesse
a
distribuire
una
petizione
contro
la
reaganomics
perché
avevano
fatto
del
proprio
stesso
corpo
una
protesta
e
uno
scandalo
vivente.
Erano
i
nostri
martiri
moderni?
Erano
dei
santi?
Con
questi
tetri
interrogativi,
ce
ne
tornavamo
a
casa.
E
poi,
che
strano…
non
era
cosí
infrequente
che,
nel
corso
delle
nostre
scorribande
–
seduti
al
tavolino
di
un
bar
o
in
marcia
anche
loro
per
le
strade
della
città
–,
incrociassimo
i
profili
di
due
persone
conosciute.
La
primavera
del
1986
fu
anche
il
periodo
in
cui
Vincenzo
e
Giuseppe
iniziarono
a
frequentarsi
con
un’intensità
che
non
avevano
piú
avuto
dal
giorno
della
loro
scazzottata
nel
cortile
della
scuola.
Il
corpulento
sedicenne
mai
sfiorato
dal
sospetto
che
suo
padre
rischiava
di
crollare
alla
prima
mossa
falsa
e
l’orfano
di
madre
che
viveva
in
funzione
del
rancore;
il
ragazzo
per
cui
il
mondo
si
riduceva
a
un
luna
park
e
il
ragazzo
che
ogni
sera
risaliva
dai
bassifondi
dei
quartieri
dormitorio…
Eppure,
non
appena
avevano
un
minuto
libero,
correvano
l’uno
verso
l’altro.
Quando
cioè
Giuseppe
non
trascorreva
il
tempo
a
leggere
«Motociclismo»
steso
su
una
sdraio
a
bordo
piscina.
E
quando
Vincenzo
non
restava
nascosto
dentro
la
gigantesca
zona
d’ombra
di
Japigia.
Si
davano
appuntamento
al
parco
pubblico
e
trascorrevano
insieme
il
resto
della
giornata.
Ma
cosa
si
dicevano
nel
corso
dei
lunghi
pomeriggi
da
cui
noi
eravamo
esclusi?
Perché
un’altra
caratteristica
della
loro
frequentazione
fu
proprio
questa:
una
pubblica
intimità
a
prova
di
bomba.
Li
avvistavamo
per
la
strada.
Sapevamo
dell’inatteso
riavvicinamento
che
li
portò
per
qualche
mese
a
diventare
inseparabili.
Ma
il
nocciolo
del
loro
rapporto
ci
era
ignoto.
«Non
ci
crederai,
–
mi
avrebbe
detto
Giuseppe
vent’anni
dopo,
–
ma
non
ci
dicevamo
proprio
niente
di
speciale.
Vincenzo
non
arrivò
a
raccontarmi
quello
che
sapeva
della
mia
famiglia.
E
io
non
fui
mai
in
grado
di
esprimergli
l’ammirazione
che
provavo
per
lui.
Quando
iniziammo
a
uscire
insieme
(quando
Vincenzo
fece
in
modo
che
accadesse,
perché
fu
lui
a
cercarmi
per
primo),
pensai
che
mi
stesse
concedendo
un
enorme
privilegio.
Andarsene
in
giro
al
suo
fianco
faceva
piú
colpo
che
arrivare
a
scuola
direttamente
in
Lamborghini.
Ma
confidenze,
confessioni,
segreti…
niente
di
tutto
questo.
Uscivamo
insieme
e
tanto
bastava.
Se
avessimo
parlato
in
maniera
compiuta
di
qualcosa
sforzandoci
di
essere
espliciti,
allora
l’intensità
delle
nostre
uscite
si
sarebbe
azzerata.
Proprio
la
reticenza
ci
consentiva
di
passeggiare
l’uno
accanto
all’altro
come
se
avessimo
il
cervello
perennemente
spalancato:
ecco
allora
che
ci
dicevamo
tutto».
Ecco
allora
che
si
dicevano
tutto.
Ed
ecco
che
Vincenzo,
in
un
delicato
slancio
di
altruismo,
decideva
di
nobilitare
Giuseppe
portandoselo
a
spasso
come
in
un
racconto
di
Fred
Uhlman.
Ovvio
che
le
cose
non
potevano
stare
in
questo
modo.
Molto
tempo
dopo,
il
primo
a
dischiudermi
uno
spiraglio
sulla
faccenda
fu
l’ormai
trentaquattrenne
Emilio
Giannelli,
trasferitosi
a
Sassuolo
come
ingegnere
in
un’azienda
di
cartelli
stradali.
La
convulsa
giovialità
con
cui
mi
accolse
sembrava
in
grado
di
ridimensionare
tutto
il
resto
–
ad
esempio,
la
comprensibile
sorpresa
(che
non
ebbe)
per
un
ex
compagno
di
classe
perso
di
vista
da
vent’anni,
piovuto
a
casa
sua
allo
scopo
di
ottenere
informazioni
su
altri
due
ex
compagni
anche
loro
spariti
dalla
circolazione.
Oltre
che
alla
mia,
Giannelli
sembrava
entusiasticamente
disinteressato
alle
sorti
di
Vincenzo
e
di
Giuseppe.
Il
che
non
gli
aveva
impedito
di
approfondire
negli
anni
la
questione.
«Scusa,
–
disse
dopo
aver
insistito
perché
bevessi
insieme
a
lui
il
secondo
Ballantine’s
alle
sei
del
pomeriggio,
–
ma
non
hai
mai
associato
il
loro
riavvicinamento
al
fatto
che
Vincenzo
in
quel
periodo
incominciò
ad
andare
in
crisi?»
«In
crisi?
Vincenzo?»
«Ma
sí,
ti
ricordi
come
sfogliava
in
classe
tutti
quei
giornali?
Li
sfogliava
furiosamente».
«Sfogliava
i
giornali…»
«Proprio
cosí».
«È
vero,
sfogliava
i
quotidiani
in
classe.
Ma
non
capisco
dove
vuoi
arrivare».
«Non
lo
capisci
perché
ti
serve
un
altro
bicchierino».
«Emilio,
non
credo
che
ubriacarsi
a
quest’ora
possa
servi…»
A
questo
punto
successe
una
cosa
molto
strana,
una
delle
tante
assurdità
a
cui
mi
capitò
di
assistere
rintracciando
i
nostri
vecchi
amici.
Emilio
scattò
in
piedi
visibilmente
brillo.
Aprí
le
braccia
come
a
voler
comprendere
il
soggiorno
pieno
di
soprammobili
e
di
poltrone
con
la
foderina
e:
«Senti!
–
disse
con
gli
occhi
lucidi,
–
non
sei
venuto
fino
qua
per
chiedermi
se
mi
sento
di
merda
dopo
che
mia
moglie
se
n’è
andata
di
casa,
giusto?»
«Mi
dispiace…»
«Lasciamo
perdere!
–
mi
interruppe,
–
figurati
se
mi
va
di
parlare
di
quella
troia.
Non
sei
venuto
a
chiedermi
di
lei.
Sei
venuto
a
chiedermi
di
loro.
La
cosa
evidentemente
ti
sta
a
cuore.
La
cosa
ti
interessa.
La
cosa
non ti
fa dormire la notte.
Perché
anche
tu,
mio
caro,
stai
di
merda.
Confessalo
–.
Cercò
la
sedia
che
aveva
appena
abbandonato:
–
Se
sei
ancora
ossessionato
da
quei
due,
–
riprese,
–
mi
dici
perché
non
riesci
a
mettere
insieme
i
pezzi
e
io
invece
sí?
Vincenzo.
I
quotidiani
in
classe.
Suo
padre.
I
quotidiani
locali.
Che
cosa
leggevamo
su
quei
giornali
di
merda
durante
la
primavera
del
1986?
Su,
fai
uno
sforzo
di
memoria…»
La
versione
di
Giannelli
fu
avvalorata
da
altre
due
fonti,
e
questa
volta
si
trattava
di
vecchi
amici
in
condizioni
psicofisiche
perfette.
Effettivamente,
sui
giornali
di
quel
periodo,
dopo
le
pagine
dedicate
ai
ritardi
con
cui
le
autorità
sovietiche
avevano
diffuso
la
notizia
del
disastro,
superando
la
politica
interna
e
gli
indici
di
borsa,
si
arrivava
agli
scoppiettanti
fatti
di
cronaca
della
nostra
città,
tra
i
quali
tenne
banco
per
settimane
l’annuncio
di
un
possibile
giro
di
vite
intorno
al
clan
dei
fratelli
Terlizzi.
Leggemmo
di
come
Giovanni
Terlizzi,
il
piú
giovane
dei
due,
fosse
stato
arrestato
nel
vecchio
Stadio
della
Vittoria
durante
l’incontro
calcistico
BariInter.
Stando
ai
cronisti,
Terlizzi
junior
se
ne
stava
bello
comodo
in
tribuna,
da
dove
sarebbe
andato
via
senza
fastidi
al
termine
della
partita
se
il
primo
e
unico
gol
della
squadra
di
casa
(41
´
del
primo
tempo
per
un
match
poi
perso
uno
a
tre)
non
lo
avesse
portato,
«travolto
da
una
gioia
incontenibile»,
a
esplodere
in
aria
due
colpi
di
pistola.
Secondo
Giannelli
e
le
altre
persone
da
me
interpellate,
la
meticolosità
con
cui
effettivamente
(effettivamente
soltanto
adesso
che
ci
pensavo)
Vincenzo
se
ne
stava
confinato
all’ultimo
banco
a
leggere
i
giornali
era
legata
al
desiderio
di
veder
comparire
sulle
pagine
della
cronaca
il
nome
di
suo
padre.
«Se
lo
aspettava,
–
ringhiò
Giannelli,
–
avevano
arrestato
uno
dei
boss,
di
conseguenza
sarebbero
dovuti
arrivare
a
tutto
il
gruppetto
di
notabili,
amministratori
e
piccoli
uomini
politici
senza
i
quali
i
fratelli
Terlizzi
non
sarebbero
andati
oltre
il
contrabbando
di
sigarette».
Ma,
a
parte
una
decina
di
arresti
ai
danni
di
piccoli
e
piccolissimi
spacciatori,
non
accadde
altro.
E
piú
la
vicenda
si
sgonfiava,
piú
i
giornali
indulgevano
in
particolari
sul
folcloristico
arresto
allo
Stadio
della
Vittoria.
Ma
niente
nomi
di
peso.
E
mai
ovviamente
un
solo
accenno
all’avvocato
Mario
Lombardi.
Vincenzo
stava
dunque
«andando
in
crisi»?
«A
questo
devi
aggiungere
l’interruzione
del
suo
rapporto
con
la
Dama
in
nero»,
mi
dissero
separatamente
due
ex
studentesse
del
Cesare
Baronio
che
all’epoca
avrebbero
fatto
qualunque
cosa
per
portarselo
a
letto
–
le
quali,
dall’alto
dei
loro
matrimoni
eccellenti,
avevano
evidentemente
perso
molto
tempo
a
rimuginare
sul
ragazzo
piú
affascinante
che
ritenevano
di
avere
incontrato
nella
vita.
La
Dama
in
nero
era
stata
pestata
a
sangue
dai
creditori
di
suo
marito,
confermarono
le
nostalgiche
signore.
A
loro
dire,
l’arresto
di
Giovanni
Terlizzi
produsse
per
tutta
Japigia
una
scossa
tellurica
di
nervosismo
generalizzato,
quanto
bastò
per
far
decidere
a
«questi
malviventi»
non
solo
che
il
marito
della
Dama
in
nero
era
vivo,
ma
che
lei
era
al
corrente
del
suo
attuale
domicilio.
Miriam
(ex
quinta
C)
mi
assicurò
che
Vincenzo
apprese
la
notizia
al
Jolly
e
cercò
in
tutti
i
modi
di
mettersi
in
contatto
con
la
donna,
inutilmente.
A
questa
già
accorata
descrizione,
si
aggiunse
l’inverosimile
scena
evocata
da
Mara
(ex
sezione
F),
che
mi
parlò
di
un
Vincenzo
implorante
davanti
alla
porta
chiusa
di
Matilde,
la
quale
non
avrebbe
mai
voluto
farsi
vedere
da
lui
ridotta
in
quelle
condizioni
(«aveva
la
faccia
gonfia
come
un’anguria»).
Ma
soprattutto
–
qui
Mara
diede
prova
di
una
certa
perversione
–
la
Dama
in
nero
secondo
lei
tagliò
i
ponti
con
Vincenzo
a
causa
di
una
differenza
di
classe
che
l’incidente
aveva
reso
manifesta
in
modo
irreparabile:
«Lei
apparteneva
a
Japigia,
apparteneva
persino a
quelle botte.
Capisci
allora
che
non
poteva
rivederlo?»
Entrambe
mi
confermarono
tra
l’altro
che,
sempre
nella
primavera
del
1986,
Vincenzo
iniziò
a
frequentare
Santo
Petruzzelli,
l’ambiguo
tenutario
di
una
delle
piú
note
case
tossiche
di
Japigia.
Sapevo
molto
bene
come
le
lucenti
signore
dell’opulenta
borghesia
barese
usassero
la
fantasia
(nonché
un
certo
romanticismo)
per
non
venire
inghiottite
dalle
voragini
di
noia
che
normalmente
esorcizzavano
portando
all’esasperazione
psicoanalisti
di
fama
nazionale.
Dunque,
presi
con
le
pinze
i
racconti
di
Miriam
e
di
Mara.
E
tuttavia,
dal
momento
che
a
partire
da
quel
periodo
nessuno
ebbe
piú
notizie
della
Dama
in
nero,
e
dal
momento
che
Enrico
Portoghese
(sezione
D,
oggi
perito
in
un’agenzia
assicurativa,
un
personaggio
tristissimo
ma
provvidenzialmente
incapace
di
slanci
immaginativi)
mi
diede
una
versione
dei
fatti
non
troppo
diversa,
pensai
che
qualcosa
di
vero
doveva
esserci.
Dunque
fu
per
questo
che
si
riavvicinò
a
Giuseppe?
La
sua
frustrazione?
Il
senso
di
impotenza?
«Il
suo
bisogno
di
farla
pagare
a
qualcun
altro,
cazzo.
La
malvagità
di
quel
figlio
di
puttana!»
disse
Giannelli
prima
di
mettermi
alla
porta.
«Rifletti,
fu
da
allora
che
le
cose
per
Giuseppe
iniziarono
a
precipitare»
(questa
fu
Miriam,
sbattendo
le
ciglia
in
un
caffè
di
via
Sparano).
E
tutti,
a
ogni
modo
–
Giannelli,
Mara,
Miriam,
perfino
il
catacombale
Enrico
Portoghese
–,
furono
concordi
nel
ritenere
che
la
frequentazione
tra
Vincenzo
e
Giuseppe
non
fosse
stata
cosí
avara
di
parole
come
potevo
credere.
E
furono
d’accordo
perfino
sull’oggetto
delle
loro
chiacchierate.
«Aspetta
un
attimo,
–
feci
a
Giuseppe
quando
lo
rividi,
–
ma
allora
questa
storia
secondo
cui
Vincenzo
ti
consigliava
in
continuazione
di
farti
finalmenteunaragazza?»
Sul
viso
devastato
di
Giuseppe
si
disegnò
uno
stranissimo
sorriso:
«Ci
sarei
arrivato…
–
disse
con
aria
sorniona
ai
bordi
di
una
piscina
ormai
putrida,
–
lo
so
che
tutti
sareste
pronti
a
scommettere
sull’ipotesi
del
plagio.
E
invece
le
cose
stavano
diversamente.
Vincenzo
era
affascinato
da
me
almeno
quanto
io
lo
ero
da
lui.
Io
ammiravo
gli
aspetti
visibili
della
sua
personalità.
Vincenzo
forse
di
me
invidiava
le
cose
piú
nascoste,
quelle
che
lui
intuiva
ancora
meglio
di
quanto
riuscissi
a
fare
io.
Lui
sapeva
come,
per
certe
sfide,
fossi
in
grado
di
andare
molto
piú
a
fondo
di
lui.
Piú
a
fondo
di
tutti
quanti
voi,
se
è
per
questo.
E
Dio
sa
quanto
pagherei
oggi
perché
non
fosse
stato
cosí».
A
sentire
Giuseppe,
si
trattò
insomma
di
un
incontro
ad
armi
pari.
Donatella.
Ed
ecco
quale
fu
la
conseguenza.
Donatella
Lattanzi
o
Donatella
Lattanzio?
Il
dubbio
deve
essermi
entrato
nella
testa
subito
dopo
aver
lasciato
Bari,
e
poi
mi
ha
fatto
compagnia
per
anni,
fino
a
quando
non
ho
sentito
il
bisogno
di
cercare
anche
lei,
ritrovandomi
a
scorrere
vertiginosamente
il
dito
indice
tra
i
quasi
centocinquanta
Lattanzi
e
i
ben
trecento
Lattanzio
presenti
sull’elenco
telefonico
della
provincia
di
Bari.
Lattanzi…
Donatella
Lattanzi.
«Sí,
sono
io.
Chi
parla?»
Ah,
di
nuovo
la
sua
voce…
Di
questa
ragazza
si
può
dire
che
nel
1986
aveva
sedici
anni,
che
era
la
primogenita
di
una
maestra
in
pensione
e
dell’arcigno
titolare
di
un
negozio
di
arredamenti,
e
che
sopravvalutava
il
potere
dei
gas
nobili
come
strumento
di
seduzione.
Nei
mesi
precedenti
si
era
fatta
le
ossa
frequentando
il
giro
delle
discoteche
pomeridiane,
dove
cercava
di
fare
colpo
ballando
Who’s That Girl
avvolta
in
un
vestito
rosso
di
tessuto
plastificato
sulle
cui
spalline
aveva
attaccato
quattro
(quattro!)
palloncini
colorati
e
gonfi
di
elio.
«Chi
è
quella
cretina?»
dicevano
i
ragazzi.
Era
riuscita
a
guadagnarsi
un
minimo
di
credibilità
soltanto
di
recente,
dopo
avere
sfondato
un
tavolino
di
cristallo
perdendo
i
sensi
completamente
ubriaca
alla
festa
di
compleanno
della
sua
catechista.
Eri
un
trascurabile
puntino
rosa
tra
i
nodi
di
raccordo
della
ragnatela
cittadina,
ti
succedeva
qualcosa
di
eclatante
e
avevi
finalmente
un
nome.
Adesso
ci
accorgevamo
che
la
presenza
di
Donatella
veniva
registrata
in
qualunque
posto
fosse
possibile
notarla
e,
sbronze
a
parte,
cercava
di
conquistarsi
la
sua
prima
copertina
sul
giornale
scandalistico
sfornato
dalla
nostra
immaginazione
fumando
Rothmans
Blu
in
pantaloni
di
pelle
nera
sotto
incredibili
camicie
di
pizzo
dai
colori
psichedelici.
Non
arrivava
al
metro
e
cinquantotto,
ma
la
sua
frangetta
color
petrolio
e
il
viso
tondo
da
furbastra,
e
un
seno
semplicemente
prodigioso,
facevano
di
lei
una
festa
di
tornanti
che
attraversava
il
chiaroscuro
di
un
Helmut
Newton
di
fortuna
per
deragliare
negli
assolati
parchigioco
delle
bambine
grassottelle.
A
seconda
della
prospettiva
da
cui
inquadravi
le
sue
smorfie,
avevi
voglia
di
rovesciarle
lungo
la
schiena
una
caraffa
di
aranciata
o
di
legarla
a
un
letto.
Se
bisognava
dimostrare
in
maniera
eclatante
di
«sapersi
fare
una
ragazza»,
allora
quella
ragazza
era
lei.
Giuseppe
incominciò
a
puntarla.
Ma
Donatella
aveva
tutto
il
necessario
per
mettere
in
difficoltà
chi
le
si
avvicinava
oltre
la
distanza
di
sicurezza.
Insomma,
lei
era
viva.
Cosa
che
Giuseppe
fu
costretto
a
constatare
sin
dalla
sera
in
cui,
all’uscita
dal
cinema,
la
separò
dal
resto
delle
amiche
puntandole
un
dito
contro:
«Ehi
tu!
tu
sei
quella
che
ha
combinato
tutto
quel
casino
a
casa
della
catechista…»
Seguí
una
grottesca
dichiarazione
d’intenti
con
cui
Giuseppe
assicurò
alla
ragazza
che
«molto
presto»
sarebbe
stata
sua.
Donatella
aggrottò
le
sopracciglia
calibrando
la
smaltata
ostilità
con
cui
ritenne
di
accogliere
chi
le
aveva
procurato
l’immenso
piacere
di
essere
riconosciuta
per
la
strada.
«Ah
sí?»
disse
sfoderando
un
sorriso
pieno
di
scetticismo.
Giuseppe
fece
un
passo
indietro:
«Presto…
–
le
assicurò
sforzandosi
di
continuare
a
sghignazzare,
–
ma
non
adesso.
Adesso
c’ho
da
fare
un’altra
cosa».
Montò
sulla
Zundapp
e
andò
via
coprendo
su
una
ruota
il
breve
tratto
d’asfalto
antistante
il
cinema
Galleria.
A
partire
da
allora
presero
vita
quelli
che
potrei
definire
con
indulgenza
«i
tentativi
di
Giuseppe
di
mettersi
con
Donatella»,
ma
che
di
fatto
furono
solo
una
serie
di
fallimentari
buffonate.
Giuseppe
era
completamente
ignaro
di
cosa
si
dovesse
fare
per
corteggiare
una
ragazza.
Sapeva
spendere,
ma
non
sapeva
sedurre.
Sapeva
regalare,
ma
non
sapeva
conquistare.
Qualunque
bene
di
consumo
prodotto
in
serie
non
aveva
per
lui
molti
segreti,
e
forse
la
sua
libido
si
scatenava
piú
limpidamente
davanti
all’ultimo
modello
di
Ktm
che
al
cospetto
della
prorompente
ragazza
con
cui
sperava
di
dimostrarci
la
sua
virilità.
Credo
che
qualcosa
in
grado
di
spiegare
una
simile
psicologia
fosse
l’ostinazione
con
cui
ci
trascinò
a
vedere
Ghostbusters
ripetutamente:
«Su
ragazzi,
–
ci
implorava,
–
ancora
un’altra
volta!»
Il
che
significava
soprattutto:
«ancora
quella
scena».
La
scena
in
questione
–
un’imprevista
scintilla
di
autocoscienza
scoccata
da
quella
macchina
di
perfetta
obnubilazione
che
fu
il
cinema
hollywoodiano
degli
anni
Ottanta
–
arriva
alla
fine
della
pellicola,
quando
Gozier,
una
divinità
sumera
materializzatasi
dopo
millenni
nel
cielo
di
New
York,
fa
esplodere
fra
i
tuoni
la
sua
voce
cavernosa
dicendo
agli
acchiappafantasmi
arrampicati
sulla
cima
dell’Empire
State
Building
che
il
primo
pensiero
formulato
dalle
loro
teste
prenderà
vita
per
radere
al
suolo
la
città.
A
quel
punto
i
quattro
uomini
in
tuta
bianca
cercano
di
non
pensare
a
niente.
Si
dicono
l’un
l’altro:
«Facciamo
il
vuoto
mentale,
facciamo
il
vuoto
mentale!»
Pochi
secondi
dopo,
le
strade
di
Central
Park
West
vengono
scosse
da
un
rumore
assordante:
un
gigantesco
pupazzo
bianco
vestito
da
marinaretto
compare
tra
i
grattacieli
pronto
a
portare
morte
e
distruzione.
Dan
Aykroyd
confessa:
«Non
è
colpa
mia,
ci
è
entrato
da
sé:
non
ho
potuto
non
pensarci!»
E
quando
Bill
Murray
gli
chiede:
«Ma
insomma,
si
può
sapere
a
cosa
diavolo
hai
pensato?»
lui
dice
sbigottito:
«Al…
al
pupazzetto
della
pubblicità
dei
marshmallow
che
mangiavo
da
bambino».
Era
qui
che
Giuseppe
si
ribaltava
sulla
sedia,
mentre
il
pupazzone
dei
marshmallow
calpestava
le
automobili
tra
le
urla
terrorizzate
dei
passanti,
comunicandoci
come
–
ancora
prima
delle
immagini
libidiche
primarie
–
le
presenze
che
popolavano
i
lati
oscuri
delle
nostre
menti
erano
i
pupazzetti
delle
pubblicità
che
ci
avevano
fatto
compagnia
quando
eravamo
bambini.
Teneri
buffi
amorevoli
fantasmi
che,
incarnati
anni
dopo
in
qualche
cosa
di
reale,
diventavano
mostruosi.
I
quattro
acchiappafantasmi
neutralizzavano
il
pupazzone
dei
marshmallow.
Giuseppe
si
asciugava
le
lacrime
galvanizzato
da
una
strana,
inedita
aggressività
che
gli
consentiva
di
esibirsi
in
scene
come
quella
che
lo
portò
a
puntare
il
dito
contro
Donatella
alla
fine
dello
spettacolo:
«Ehi
tu!»
Quanti
altri
«ehi
tu!»
seguirono,
prima
dell’arrivo
dell’estate?
Giuseppe
non
corteggiò
ma
molestò
Donatella
in
qualunque
luogo
pubblico
se
la
trovasse
davanti.
Utilizzò
gli
unici
canovacci
a
sua
disposizione,
la
maggior
parte
dei
quali
appresi
dai
blockbuster
dove
ragazzi
dalle
mascelle
fuori
sesto
approcciavano
le
coetanee
con
un
linguaggio
degno
di
un
minorato,
e
queste
ultime
–
di
solito
posizionate
davanti
all’armadietto
del
college
–
ci stavano.
A
ogni
epiteto
scurrile
o
dopo
ogni
plateale
tentativo
di
baciarla
davanti
a
tutti
(nemmeno
un
vero
tentativo
ma
un
disperato
segnale
di
preavviso,
una
richiesta
di
venire
neutralizzato),
Donatella
gli
dava
dell’imbecille
e
andava
a
rifugiarsi
nel
gruppetto
delle
sue
amiche.
In
un’altra
situazione
non
avrebbe
opposto
resistenza.
Se
Giuseppe
si
fosse
limitato
a
introdursi
nella
scuola
di
Donatella
durante
il
cambio
dell’ora
prendendola
in
disparte
in
uno
dei
crepuscolari
corridoi
imbottiti
di
amianto
che
attraversavano
il
prefabbricato,
sarebbe
stato
sufficiente
un
semplice
«mi
piaci»
per
ritrovarsi
insieme
a
lei
nei
gabinetti
dotati
di
porta
scorrevole
che
il
liceo
scientifico
Enrico
Fermi
metteva
a
disposizione
dello
sfogo
ormonale
e
del
consumo
di
droghe
leggere.
Ma
invece
di
questa
semplice
impresa,
Giuseppe
scelse
il
circo
pubblico.
Donatella
era
stata
costretta
a
respingerlo
ogni
volta
–
e
all’inizio
si
era
ovviamente
chiesta
come
potesse
piacerle
un
individuo
tanto
idiota
da
infliggere
a
se
stesso
scacco
matto
in
quel
modo.
Ma
poi
doveva
essere
stata
toccata
dal
sospetto
che
l’obiettivo
di
Giuseppe
fosse
quello:
ovvero
chiederle
di
scegliere
mettendola
nella
condizione
di
non
poter
scegliere
affatto.
Imprigionati
nella
gabbia
di
questo
paradosso,
il
modo
in
cui
Giuseppe
cercò
di
renderla
ridicola
in
pubblico
fu
proprio
l’espediente
grazie
al
quale
riuscí
a
introdursi
nel
privato
inaccessibile
rapporto
che
a
un
certo
punto
iniziò
davvero
a
nascere
tra
i
due.
Donatella
era
una
ragazza
molto
semplice,
e
aveva
bisogno
di
immaginare
che
anche
il
mondo
lo
fosse.
Ma
in
un
ragazzo
come
lui,
che
iniziava
a
corteggiarla
come
un
bullo
e
poi
gettava
tutto
in
farsa,
fu
costretta
a
riconoscere
anche
qualcos’altro,
toccando
una
parte
cosí
profonda
e
spinosa
della
faccenda
che
era
costretta
a
risalire
immediatamente
in
superficie.
Bisognava
riportare
le
cose
verso
la
normalità.
E
cosa
c’era
di
piú
normale
delle
scenette
in
cui
le
pink
lady
si
lamentavano
dei
loro
corteggiatori?
«Quello
stronzo!
Non
lo
sopporto
proprio!»
ripeteva
Donatella
alle
sue
amiche.
Ma
era
un
odio
superficiale
e
impenetrabile
come
una
lastra
di
ghiaccio,
sotto
la
quale
lei
sentiva
rifluire
tumultuose
correnti
di
angoscia
e
confusione
–
il
che,
tra
le
contraddittorie
sfumature
di
cui
può
tingersi
il
sentimento
amoroso,
rappresentò
per
Giuseppe
una
seconda
scelta
molto
migliore
della
prima.
Lo
scioglimento
arrivò
agli
inizi
di
luglio.
Il
conclave
del
Cesare
Baronio
aveva
deciso
di
farmi
superare
l’anno
con
la
media
matematica
del
sei
e
qualcosa
(un
esito
che
mi
sembrò
la
naturale
conseguenza
per
aver
trascorso
sui
libri
almeno
tre
quarti
d’ora
al
giorno
negli
ultimi
tre
mesi).
Vincenzo
ottenne
un
risultato
da
ginnasta
sovietica
alle
olimpiadi
estive.
Giuseppe
fu
rimandato
in
tre
materie
–
una
decisione
generosa,
che
scatenò
per
almeno
un
quarto
d’ora
la
furia
di
sua
madre
contro
la
preventiva
ostilità
del
corpo
insegnante.
Questo
piccolo
incidente
non
impedí
ai
Rubino
di
spalancare
i
cancelli
della
villa
a
chiunque
avesse
voluto
approfittarne.
Fu
cosí
che,
da
fine
giugno
agli
inizi
di
agosto,
a
casa
di
Giuseppe
si
presentò
ogni
giorno
una
schiera
difficilmente
quantificabile
di
adolescenti
in
costume
da
bagno
e
lenti
da
sole
e
teli
da
mare
ficcati
in
zaini
già
rigonfi
di
pareo,
oli
abbronzanti
e
borsettine
per
il
trucco.
Molti
erano
compagni
di
scuola.
Ma
arrivarono
anche
ragazzi
quasi
del
tutto
sconosciuti,
i
quali
si
trovarono
insperatamente
a
scorrazzare
sull’erba
a
piedi
nudi,
a
improvvisare
gare
di
nuoto,
a
intonare
un
retorico
«oh-ohh!»
di
meraviglia
ogni
volta
che
Giuseppe
mostrava
il
trucco
del
parcheggio
semovibile.
Ci
muovevamo
in
un
clima
di
chiassosa
impunità,
salutati
benevolmente
da
muratori
e
cuoche
ed
elettricisti
che
avrebbero
corretto
quell’esuberanza
a
suon
di
schiaffi
se
fosse
appartenuta
ai
loro
figli.
L’unica
a
scrutarci
con
riprovazione
fu
Vittoria,
un’anziana
parente
che
i
genitori
di
Giuseppe
avevano
adottato
quando
era
rimasta
sola
tra
i
monti
della
Basilicata,
e
che
adesso
trascorreva
le
giornate
sopra
una
sedia
a
dondolo
di
fronte
alla
veranda.
Guardando
le
ombre
in
movimento
attraverso
il
velo
delle
cataratte,
Vittoria
sembrava
in
grado
di
estrarre,
specie
dall’entusiasmo
degli
imbucati,
anche
una
sorta
di
irrisione
diretta
al
padrone
di
casa
–
gonfi
dell’ingratitudine
di
chi
riceve
gratuitamente
un
beneficio,
consideravano
Giuseppe
un
idiota
incapace
di
tracciare
un
confine
tra
i
suoi
privilegi
e
il
resto
del
mondo,
ammettendo
dei
semisconosciuti
(cioè
loro
stessi)
tra
le
statue
e
i
trampolini
di
quel
paradiso
del
kitsch.
La
vecchia
se
ne
accorgeva,
scuoteva
la
testa
e
continuava
a
osservarci.
Quel
giorno
di
luglio
ce
ne
stavamo
come
al
solito
intorno
alla
piscina.
Donatella
non
aveva
fatto
che
ricevere
per
ore
il
sole
squillante
e
virginale
di
inizio
stagione
distesa
ai
bordi
della
vasca
tra
altre
adolescenti
impegnate
a
sfoggiare
bikini
sgambatissimi
e
montature
zebrate
stile
Jayne
Mansfield.
Intorno
a
mezzogiorno,
per
rendere
il
piú
chiaro
possibile
alle
ignare
concorrenti
quale
fosse
il
suo
posto
in
quel
piccolo
mondo,
si
mise
in
piedi,
fece
due
passi
avanti
e
si
tuffò.
Portò
a
termine
la
vasca
nuotando
stile
impero
–
cioè
tagliò
le
acque
con
la
stessa
stanchezza
padronale
con
cui
un’arciduchessa
avrebbe
attraversato
il
suo
salotto.
Una
volta
riemersa,
si
arrampicò
sulla
scaletta
del
trampolino
e
si
distese
di
schiena
lungo
la
tavoletta,
col
suo
costume
color
pece
carico
di
goccioline
luminose
e
una
gamba
sospesa
nel
vuoto.
A
quel
punto
cominciarono
le
solite
azioni
di
disturbo
di
Giuseppe:
schizzi
d’acqua,
clamorose
richieste
di
fidanzamento
e
qualche
tentativo
di
palpeggio
arrampicato
per
metà
sulla
scaletta.
Donatella
urlò:
«Stronzo!
guarda
che
lo
dico
a
tua
madre!»
Ma
quando,
quasi
completamente
rivestita,
si
presentò
in
soggiorno
accompagnata
da
due
ragazze-confetto
in
tutú
e
fuseaux
di
lycra,
la
signora
Rosa
rispose
alle
fiere
rimostranze
dell’incubo
d’amore
di
suo
figlio
con
la
stessa
svagatezza
che
le
avrebbe
fatto
accogliere
la
notizia
che
uno
di
noi
era
stato
ripescato
dalla
piscina
col
cuore
fermo
in
seguito
a
overdose:
«Ragazzi…
su,
da
bravi,
non
litigate!»
Dopo
il
tramonto
–
stanchi,
scottati
dal
sole
–
ci
eravamo
trasferiti
nella
stanza
di
Giuseppe,
e
osservavamo
le
striature
violacee
con
cui
la
sera
si
sforzava
di
imprimere
un
minimo
di
slancio
narrativo
a
un
cielo
che
fino
a
quel
momento
era
stato
una
tabula
rasa
di
splendore
estivo.
Potevamo
essere
una
decina.
Io
e
Rachele
avevamo
deciso
di
prenderci
una
giornata
di
pausa
dai
nostri
vagabondaggi
–
pallidi
come
lenzuoli
e
orgogliosi
di
esserlo,
ce
ne
stavamo
addossati
pancia
contro
schiena.
Giuseppe
discuteva
con
Giannelli
del
fantomatico
cambio
di
sesso
di
Amanda
Lear
e
Donatella
era
seduta
sul
lato
opposto
con
una
busta
di
patatine
tra
le
mani.
Gli
altri
ragazzi
erano
sparpagliati
per
la
casa
–
stappavano
bottiglie,
utilizzavano
il
telefono
per
chiamate
interurbane,
accendevano
e
spegnevano
il
grande
impianto
stereo
che
dominava
una
parete
della
tavernetta.
Fu
da
questo
trambusto
che
a
un
certo
punto
venne
fuori
Vincenzo.
Non
lo
sentimmo
salire
per
le
scale.
Entrò
nella
stanza
reggendo
in
mano
un
bicchiere
mezzo
vuoto.
Si
sistemò
sul
bordo
del
letto
salutandoci
con
un
sorriso
gentile.
Indossava
una
camicia
di
lino
bianco
e
pantaloni
con
la
piega.
Lui
e
Giuseppe
si
guardarono.
Giannelli
provò
a
ripartire
con
la
discussione.
Poi
fu
Vincenzo
a
rivolgersi
al
padrone
di
casa:
«Buono
questo
vino,
posso
prenderne
dell’altro?»
Giuseppe
–
come
se
Vincenzo
avesse
detto
qualcosa
di
completamente
diverso
–
si
alzò
dal
pavimento
con
una
sicurezza
che
avrebbe
potuto
essere
quella
del
suo
amico.
Si
rivolse
a
Donatella,
e
disse
con
un
sorriso
atroce:
«Adesso
tu
mi
baci.
Mi
baci,
oppure
io
mi
ammazzo».
Qualcuno
scoppiò
a
ridere.
Vincenzo
non
cambiò
espressione.
La
ragazza,
seduta
in
un
angolo,
fu
costretta
per
l’ennesima
volta
a
recitare
la
sua
parte:
«Ti
ammazzi?
Era
ora!»
E
poi,
con
una
faccia
che
non
era
l’esatta
conseguenza
delle
parole
appena
pronunciate,
guardò
Giuseppe
che
attraversava
la
portafinestra
spalancata
sul
balcone.
Lui
attraversò
anche
la
gittata
di
cemento,
scavalcò
la
ringhiera
e,
stringendo
tra
le
mani
la
sottile
linea
di
metallo,
iniziò
a
ondeggiare
nel
vuoto.
Si
teneva
in
equilibrio.
Abbandonava
la
ringhiera
lasciandosi
cadere
indietro
e
afferrava
nuovamente
il
sostegno
dopo
aver
descritto
un
arco
che
cresceva
con
drammatica
stupidità
di
volta
in
volta.
Non
si
capiva
se
stesse
scherzando
o
se
fosse
davvero
disposto
a
sfracellarsi
al
suolo
raggiungendo
in
questo
modo
non
lo
sconcerto
di
Donatella
(che
adesso
disintegrava
le
patatine
tra
le
dita)
e
nemmeno
la
preoccupazione
che
ci
costrinse
ad
allungare
le
braccia
alla
ricerca
del
filo
invisibile
capace
di
riportarlo
indietro
–
non
chi
era
ormai
alla
sua
mercé,
ma
Vincenzo,
che
continuava
a
seguire
la
scena
seduto
sul
letto
senza
dire
una
parola.
Allentò
le
dita
sulla
ringhiera,
gettò
la
testa
all’indietro,
sembrò
lanciarsi
verso
qualcosa
di
definitivo.
Donatella
si
alzò
di
scatto
urlando:
«Basta,
basta!»
e
corse
verso
il
balcone
con
gli
occhi
pieni
di
lacrime.
In
meno
di
un
secondo
Giuseppe
saltò
al
di
qua
del
sostegno,
appena
in
tempo
per
averla
tra
le
braccia,
e
Donatella
(sconfitta
e
confusa
e
finalmente
libera)
non
poté
fare
a
meno
di
sfiorargli
le
labbra
baciandolo
subito
dopo
in
un
tracollo
di
adrenalina,
patatine
e
alito
pesante.
Sentendo
il
suo
sapore
sulla
lingua,
le
sembrò
di
osservare
con
chiarezza
tutto
ciò
che
aveva
solo
intravisto
durante
le
sfiancanti
settimane
del
loro
corteggiamento,
e
se
possibile
fu
ancora
piú
confusa
di
prima.
Ma
dal
frenetico
applauso
che
partí
dalla
nostra
direzione
capí
anche
che
i
suoi
amici
approvavano,
e
continuò
a
baciarlo.
Restammo
ancora
qualche
ora
a
giocare
a
pallone
tra
le
siepi,
ad
ascoltare
musica,
a
chiacchierare
sulle
sdraio
circondati
da
un’atmosfera
fatta
di
mille
luci
accese
e
di
sangria
ghiacciata
in
grandi
coppe
disposte
sul
tavolo
del
giardino.
Partirono
i
brindisi
alla
nuova
coppia.
Giuseppe
fu
costretto
a
salire
sulla
sedia
in
un
assurdo
spirito
da
festa
aziendale.
Pippa
saltava
impazzita
nel
suo
cappottino
di
visone
in
un
tripudio
di
urla
e
bottiglie
stappate.
Donatella
assisteva
alla
scena
cercando
di
riguadagnare
la
spavalderia
che
alla
fine
l’aveva
davvero
portata
sulla
prima
pagina
di
quel
«Bari
Confidential»
a
cui
aveva
ambito
per
tutto
l’anno,
seppure
in
modo
diverso
da
come
avrebbe
immaginato.
Poco
dopo,
lei
e
Giuseppe
ripresero
a
pomiciare
seguendo
il
rodaggio
d’ordinanza
delle
coppie
appena
nate.
Questa
situazione
di
ritrovata
armonia
ebbe
i
suoi
effetti
collaterali.
Intorno
alle
undici
di
sera,
alcuni
dei
nuovi
ospiti
(due
ragazzi
mai
visti
prima)
ritennero
di
usare
per
il
successo
di
Giuseppe
la
stessa
unità
di
misura
con
cui
si
può
stimare
un
credito.
Sentirono
cioè
che
il
padrone
di
casa
gli
doveva
qualcosa
–
qualcosa
in
piú
dell’ospitalità,
dei
frigoriferi
assaltati,
delle
telefonate
scroccate
in
modo
sempre
piú
sfacciato.
Si
allontanarono
dal
resto
dei
presenti,
entrarono
in
casa
e
corsero
su
per
le
scale.
Entrarono
di
soppiatto
nella
stanza
di
Giuseppe,
dove
–
tra
le
pile
dei
vinili
e
le
cartucce
dei
videogiochi
e
le
fibbie
El
Charro
abbandonate
alla
rinfusa
–
c’era
tutto
ciò
che
un
minorenne
dell’epoca
avrebbe
potuto
desiderare.
Contemplarono
il
giacimento
di
meraviglie,
pensarono
al
suo
legittimo
proprietario
e
spalancarono
gli
zaini.
Infilarono
dentro
quanta
piú
roba
possibile,
e
quando
gli
zaini
furono
pieni
usarono
le
tasche
dei
pantaloni.
Scesero
al
piano
terra
e
si
diressero
verso
il
cancello
tenendo
sotto
braccio
le
copertine
dei
33
giri
che
non
avevano
trovato
posto
altrove.
Attraversarono
il
giardino
senza
preoccuparsi
di
sfuggire
allo
sguardo
di
Giuseppe
(che
non
avrebbe
abbandonato
Donatella
per
corrergli
dietro)
né
a
quello
della
signora
Rosa
(che
consentiva
agli
amici
di
suo
figlio
qualunque
tipo
di
condotta),
e
non
badarono
nemmeno
alla
presenza
di
Domenico
Rubino
–
il
quale,
tornato
dal
lavoro
stanco
e
con
la
faccia
scura,
osservava
in
solitudine
una
magnifica
aiuola
di
begonie
come
se
fossero
morte
da
cent’anni.
Quando
anche
il
padre
di
Giuseppe
venne
superato,
allungarono
il
passo.
Ma
a
pochi
metri
dalla
libertà,
gli
si
piantò
davanti
questo
ragazzo
biondo
e
longilineo,
con
la
camicia
sfrontatamente
sbottonata
sul
petto
e
una
minacciosa
fascia
nera
legata
intorno
al
braccio.
Sorrise
freddamente
e
indicò
la
copertina
di
uno
dei
dischi:
«Siberia
dei
Diaframma?
Ottima
scelta,
–
disse
carezzandosi
la
faccia,
–
adesso
torniamo
su
e
ve
lo
faccio
riascoltare
tutto».
Uno
dei
ragazzi
provò
a
mercanteggiare:
«Senti,
se
ti
vuoi
prendere
qualcosa
pure
tu
…»
«Ladri»,
tagliò
corto
Vincenzo.
I
due
si
scambiarono
una
rapida
occhiata
e
decisero
che
non
valeva
la
pena
di
rovinarsi
la
serata
affrontando
un
individuo
sul
cui
volto
risplendeva
non
la
fragile
luce
della
giustizia,
ma
qualcosa
di
piú
oscuro
e
concreto
e
per
questo
molto
piú
pericoloso.
I
ladruncoli
tornarono
sui
loro
passi.
Si
diressero
verso
la
villa
cercando
di
infondersi
la
massima
disinvoltura.
Vincenzo
li
tenne
d’occhio
fino
a
quando
non
scomparvero
sul
retro.
E
poi,
proprio
mentre
stavano
entrando
in
casa,
cominciarono
a
sentire
una
voce
proveniente
dalla
veranda
–
dove,
tra
i
gerani
rigogliosi
e
i
piatti
di
porcellana
appesi
alle
pareti,
c’era
Vittoria
in
attesa
della
morte.
La
vecchia
continuava
a
pronunciare
la
sua
breve
litania,
infilata
in
una
nera
camicia
vedovile,
e
nella
gonna
nera
da
cui
spuntavano
due
gambe
secche
e
incredibilmente
lisce
per
essere
quelle
di
un’ottantenne.
Parlava
da
sola,
muovendo
appena
gli
zigomi
che
rivelavano
una
serica
peluria
da
roditore
alla
luce
della
luna
mentre
lo
sguardo
rimaneva
aggrappato
a
un
approdo
lontanissimo.
I
Rubino
l’avevano
prelevata
dalle
montagne
di
Castelmezzano
per
portarla
lí,
nella
loro
villa,
dove
dormiva
in
una
piccola
stanza
e
per
il
resto
se
ne
stava
in
sedia
a
dondolo
a
guardare
il
succedersi
delle
stagioni
senza
che
le
altre
donne
la
disturbassero
né
si
azzardassero
a
chiederle
un
aiuto
nelle
faccende
domestiche.
Dovevano
considerarla
qualcosa
di
inservibile
e
sacra
al
tempo
stesso,
come
se
gli
ottantadue
anni
di
Vittoria
superassero
perfino
i
novanta
della
nonna
di
Giuseppe
quando
faceva
il
suo
ingresso
nella
villa
circondata
da
un
piccolo
esercito
di
badanti.
E
pur
non
sapendo
cosa
fosse
un
disco
di
vinile,
non
appena
vide
i
ladruncoli
passarle
davanti
(li
vide
senza
mai
distogliere
lo
sguardo
dal
suo
eterno
deragliamento),
la
vecchia
comprese
quello
che
c’era
da
comprendere
e
iniziò
a
lamentarsi.
Un
lamento
il
cui
destinatario
era
Giuseppe
–
ne
sono
convinto
adesso,
ne
ebbi
solo
un’allarmata
sensazione
allora,
mentre,
paralizzato
davanti
alla
veranda,
avevo
appena
sfilato
le
mani
da
sotto
la
maglietta
di
Rachele.
«Povero
ragazzo,
povero
ragazzo,
–
stava
dicendo
Vittoria.
Un
lamento
ciclico
e
privo
di
consolazione,
circondato
dai
grilli
che
avevano
iniziato
a
stridere
senza
pietà:
–
povero…
povero…
povero
ragazzo…»
Rachele
disse:
«Andiamo
via».
Qualcuno
scaraventò
Pippa
in
piscina.
Qualcun
altro
inciampò
nel
carrello
degli
alcolici
mandando
in
frantumi
una
mezza
dozzina
di
bicchieri.
Domenico
Rubino
smise
di
contemplare
le
begonie
e
si
diresse
lentamente
verso
casa.
Giuseppe
si
staccò
da
Donatella
e
urlò:
«Le
angurie!
andiamo
a
prendere
le
angurie!»
Capitolo
dodicesimo
C’è
sempre
qualcosa
di
sbagliato
nel
rintracciare
i
vecchi
amici.
E
quando
l’appesantita
ma
non
per
questo
meno
piacevole
figura
di
Donatella
si
presentò
ai
miei
occhi
sotto
le
luci
dell’insegna
LATTANZI
ARREDAMENTI,
il
suo
sguardo
accigliato
aveva
già
sconfitto
gli
sforzi
per
mantenere
in
piedi
la
propensione
alla
cordialità,
la
nostra
vera
conquista
di
persone
adulte.
Dieci
minuti
prima
era
alle
prese
con
una
coppia
di
fidanzati
che
aveva
trascinato
attraverso
oltre
cinquanta
campioni
di
parquet
appesi
alle
pareti
mobili.
Li
aveva
fatti
sedere
davanti
a
una
scrivania
e
aveva
cominciato
a
stampare
i
preventivi.
Poi
aveva
voltato
la
testa
e
si
era
accorta
che
la
stavo
osservando
al
di
là
della
vetrina.
Lo
sguardo
con
cui
aveva
conquistato
i
due
clienti
era
diventato
un
sorriso
a
redini
tirate
–
qualcosa
in
lei
doveva
aver
sperato
fino
all’ultimo
che
il
nostro
appuntamento
telefonico
non
fosse
mai
esistito.
Invece
io
ero
lí.
E
Donatella
era
pentita
di
avermi
fatto
arrivare.
Strinse
le
mani
ai
fidanzati.
Si
fece
sostituire
dalla
ragazza
che
stava
lucidando
una
piccola
cucina
da
esposizione
e
si
affrettò
verso
l’uscita.
Fu
allora
che
le
luci
bianche
dell’insegna
le
crollarono
addosso,
rivelando
un
volto
su
cui
un
fondotinta
di
buona
marca
cercava
di
attenuare
i
segni
di
un
invecchiamento
lievemente
anticipato.
Ma
per
me
era
come
se
fosse
appena
emersa
dalla
piscina
di
Giuseppe,
bruciando
due
decenni
in
pochi
istanti,
perché
non
sul
prevedibile
rilasciamento
della
pancia
fasciata
da
una
fibbia
D&G
né
sulle
rughe
d’espressione,
ma
nelle
due
fossette
che
le
guizzarono
sulla
guancia
al
di
là
del
suo
rammarico…
fu
lí
che
la
trovai
praticamente
intatta.
Ed
è
questo,
pensai,
l’unico
premio
a
cui
possiamo
ambire:
riuscire
ad
arpionare,
in
uno
spazio
che
di
anno
in
anno
si
fa
sempre
piú
ristretto,
la
parte
viva
e
inalterata
di
ciò
che
un
tempo
pescavamo
a
piene
mani
nelle
persone
che
ci
piacevano.
Ci
abbracciammo.
Poi
Donatella
disse:
«Ti
porto
a
bere
in
un
posto
qui
vicino».
Il
giorno
prima
lo
avevo
trascorso
per
intero
a
casa
di
mia
madre
con
l’elenco
telefonico
spalancato
sulle
gambe,
fermo
a
ripetere
«mi
scusi»
ogni
volta
che
voci
maschili
che
avrebbero
potuto
appartenere
al
marito
di
Donatella,
e
voci
femminili
che
non
erano
la
sua,
mi
confermavano
di
aver
sbagliato
numero.
Sapevo
ormai
che
tipo
di
imprevisti
poteva
scatenare
l’incontro
tra
persone
che
non
avevano
sentito
il
bisogno
di
cercarsi
per
anni
e
–
soprattutto
per
gli
individui
in
pieno
possesso
della
propria
vita,
come
ero
certo
che
Donatella
fosse
diventata
–
immaginavo
quanto
potesse
risultare
sgradevole
anche
la
semplice
telefonata
da
parte
di
una
vecchia
conoscenza.
Ma
il
mio
bisogno
di
raccogliere
la
versione
di
colei
che
era
stata
la
ragazza
ufficiale
di
Giuseppe
e
l’altrettanto
ufficiale
amante
di
Vincenzo
(mi
dicevo
componendo
ancora
un
altro
numero)
avrebbe
dovuto
risultare
piú
intenso
e
allo
stesso
tempo
piú
calmo,
in
definitiva
piúpotente
del
suo
plausibile
fastidio.
Adesso
eravamo
l’uno
di
fronte
all’altra
in
un
pub
a
pochi
passi
dalla
città
vecchia.
Donatella
aveva
perso
due
minuti
a
chiacchierare
col
proprietario
del
locale.
Aveva
fatto
strada
verso
gli
ultimi
tavoli.
Avevamo
bevuto
i
primi
sorsi
di
vino
bianco
rimanendo
zitti.
Per
pochi
istanti
pensai
che
non
avrei
dovuto
essere
lí,
mi
sentivo
in
imbarazzo.
Ma
poi:
«Un
miliardo
e
ottocento
milioni
di
stronzate…
–
ecco
come
esordí
Donatella
sollevando
il
suo
bicchiere,
–
è
stata
questa
la
mia
vera
eredità».
Iniziò
a
coprire
le
tappe
intermedie
di
ciò
di
cui
vedevo
i
risultati
–
un
volto
su
cui
non
un
segno
di
invecchiamento
era
disgiunto
da
una
battaglia
combattuta
e
vinta
–,
raccontandomi
di
come,
a
poche
settimane
dal
suo
ventesimo
compleanno,
suo
padre
fosse
stato
stroncato
da
un
infarto.
«Il
terzo,
–
disse,
–
il
terzo
e
sacrosanto
ultimo
atto».
«Sacrosanto?»
domandai.
«Quattro
pacchetti
di
sigarette
al
giorno
con
due
bypass
aorto-coronarici
sono
un
tentativo
di
suicidio,
–
si
spiegò,
–
ma
se
la
principale
fonte
di
reddito
di
una
famiglia
di
cinque
elementi
è
un
mobilificio
sull’orlo
del
collasso,
allora
si
tratta
di
tentata
strage».
Una
bomba
a
orologeria.
Ecco
le
ultime
disposizioni
di
suo
padre:
un
negozio
che
aveva
fatto
faville
nel
decennio
precedente
ma
che
–
all’inizio
di
quei
Novanta
tanto
minimali,
cosí
ipocritamente
votati
all’astinenza
–
già
appariva
un
ammasso
di
pretenziose
volgarità
barocche.
«Le
suocere…»
disse.
Solo
la
vendetta
di
una
suocera
consumata
grazie
all’acquisto
di
un
divano
a
fiori
tropicali
da
regalare
alla
propria
nuora…
soltanto
questo
genere
di
odio
poteva
spingere
un
cliente
in
quel
negozio
all’inizio
degli
anni
Novanta.
Non
era
successo
prima
dei
bypass,
stava
iniziando
a
succedere
quando
suo
padre
crollò
davanti
allo
sportello
di
un
ufficio
postale
con
le
bollette
strette
in
pugno,
ma
diventò
palpabile
solo
a
un
anno
dalla
sepoltura,
nel
momento
in
cui
il
negozio
registrò
dei
risultati
che
annunciarono
l’imminenza
della
bancarotta.
«Il
problema
non
erano
le
cassapanche
in
palissandro
che
facevano
polvere
in
vetrina»,
disse.
Il
problema
era
il
miliardo
e
ottocento
milioni
di
merce
accatastata
in
magazzino:
orologi
a
pendolo,
angoliere,
bauli
da
viaggio
buoni
per
la
campagna
d’Abissinia,
mappamondi
con
i
segni
zodiacali,
credenze
neoborboniche,
fermacarte
a
forma
di
cicogna…
Centinaia
di
articoli
che
suo
padre
aveva
scelto
con
cura
quando
era
ancora
un
uomo
sano
nel
corpo
e
nella
mente
ma
che,
negli
ultimi
anni,
aveva
invece
accumulato
senza
freni,
quasi
sentisse
incombere
la
morte
e
volesse
sfidarla
a
suon
di
ordinativi.
«Oppure,
peggio,
–
disse,
–
voleva
continuare
a
essere
per
noi
una
presenza
gigantesca,
ossessionante.
Non
c’è
memoria
che
resti
piú
viva
di
quella
che
continua
a
procurare
angoscia
in
chi
rimane.
È
incredibile
l’arroganza
degli
uomini
della
sua
generazione».
O
forse,
pensai,
si
trattava
solo
di
uno
dei
tanti
imprenditori
che
–
abili
e
astuti
e
continuamente
gratificati
dal
successo
negli
anni
Ottanta
–
avevano
cominciato
a
dare
di
matto
nel
decennio
successivo.
«Fatto
sta
che
me
la
sono
dovuta
vedere
tutta
io».
Si
era
rimboccata
le
maniche
e
aveva
rivoltato
l’esercizio
commerciale
di
suo
padre,
pronta
a
non
dormire
per
piú
di
quattro
ore
a
notte
negli
anni
successivi,
accumulando
e
ripianando
debiti,
cercando
in
tutta
Italia
negozianti
a
cui
rivendere
sottocosto
quell’orrore
in
mogano
e
noce
massello.
Rifilava
fregature
ai
futuri
frequentatori
del
monte
di
pietà
e
poi
correva
a
farsi
umiliare
dai
fornitori,
per
i
quali
era
solo
la
figlia
disperata
di
un
uomo
a
cui
aveva
dato
di
volta
il
cervello.
Ma
lei
riuscí
a
guadagnarsi
il
rispetto
persino
di
questi
ultimi.
Era
diventata
convincente
come
un
uomo,
piú
di
un
uomo,
aveva
imparato
a
far
brillare
nello
sguardo
i
capisaldi
di
ogni
buona
trattativa
commerciale
–
seduttività
e
senso
del
comando
–,
cosí
loro
cedevano,
i
fornitori
alzavano
bandiera
bianca
davanti
a
questa
forza
della
natura
in
cinturone
e
tacchi
alti,
e
adesso
bisognava
solo
lavorarsi
il
direttore
di
un’altra
finanziaria.
«È
cosí
che
ho
rimesso
in
ordine
ogni
cosa»,
disse
quando
eravamo
entrati
nel
locale
già
da
una
mezz’ora.
Perché
stava
perdendo
tutto
questo
tempo?
Che
bisogno
aveva
di
partire
in
quarta
parlandomi
della
sua
vita
senza
che
glielo
avessi
chiesto?
Stabilire una distanza…
ecco
perché.
Raccontandomi
delle
difficoltà
attraverso
cui
era
passata,
aveva
forse
voluto
dimostrarmi
come
altri
fossero
stati
i
problemi,
altri
gli
ostacoli
da
superare,
tutto
era
accaduto
dopo
che
ci
eravamo
persi
di
vista.
Il
resto
potevo
vederlo
da
solo:
una
donna
piacente
e
sicura
di
sé,
non
bella,
ma
neanche
cosí
indurita
da
non
poter
esercitare
una
sincera
attrazione
su
una
determinata
categoria
di
uomini.
L’anulare
completamente
libero
mi
fece
ipotizzare
l’assenza
di
una
vita
matrimoniale,
o
perlomeno
la
presenza
di
un
divorzio.
A
un
certo
punto
fui
certo
che
guidasse
un’auto
di
grossa
cilindrata,
che
frequentasse
un
corso
di
ballo,
che
non
avesse
animali
in
casa,
che
tra
le
sue
amiche
ci
fosse
un’operatrice
turistica
che
ogni
estate
la
spediva
a
Phuket
o
all’Avana.
E
ancora
una
volta,
me
ne
facessi
una
ragione:
tutto
questo
era
accaduto
nei
Novanta
e
nei
Duemila,
non
prima.
Ma
poi
afferrò
il
collo
della
bottiglia
e
mi
versò
del
vino.
Tirò
un
sospiro
e
chiese:
«Hai
notizie
di
lui?»
Quel
lui
era
Giuseppe.
Lo
sapevo
senza
bisogno
che
lo
dicesse.
Per
cui
risposi:
«Sí,
ho
sue
notizie»,
guardando
Donatella
regredire
verso
la
ragazza
che
era
stata,
e
poi
godendomi
la
sua
espressione
indispettita
per
il
fatto
di
trasformarsi
controvoglia
in
qualche
cosa
di
troppo
familiare
quando
aggiunsi:
«Lui,
vado
a
trovarlo
fra
due
giorni».
Durante
la
nostra
telefonata,
prima
che
mi
dicesse
che
sí,
d’accordo,
potevo
raggiungerla
in
negozio,
c’erano
stati
dei
secondi
di
assoluto
silenzio.
Nel
corso
di
quell’intervallo
ero
certo
che
Donatella
avesse
intuito
il
motivo
della
mia
visita.
Per
cui
ora
disse:
«Vincenzo»
prima
che
finissi
di
parlare.
Avrebbe
voluto
rispondere:
Comesarebbe
vaiatrovareGiuseppetra
due giorni?
e
invece,
per
dimostrare
di
avere
la
situazione
sotto
controllo,
disse:
«Vincenzo…
hai
coinvolto
pure
lui
nel
tuo
viaggetto
dei
ricordi?»
«Vincenzo
l’ho
già
visto
un
paio
di
mesi
fa»,
risposi
scagliando
il
secondo
colpo
sotto
la
cintura.
A
questo
punto
Donatella
rise.
Gli
angoli
della
bocca
le
andarono
verso
l’alto
e
mostrò
i
denti
in
un
piccolo
singhiozzo
di
disapprovazione,
scosse
la
testa
come
per
dire:
Possibilechenonsiamoin
grado di imparare una
lezionechesiauna?perché
dobbiamo essere ancora
qui, sempre noi, sempre
insieme?
Cosí
si
lasciò
andare.
Smettemmo
di
essere
dei
mezzi
estranei
e
accettammo
la
legge
di
natura
in
base
a
cui
due
persone
che
hanno
condiviso
qualcosa
di
importante
sono
perennemente
legate
tra
di
loro
–
c’è
un
amo
che
possono
tirare
in
qualunque
momento:
possono
ricattarsi,
possono
ferirsi,
possono
costringersi
a
parlare.
L’amo
era
stato
tirato,
e
noi
che
potevamo
fare?
ci
facemmo
trascinare
verso
il
basso.
«Che
cosa
vuoi
sapere?»
disse
Donatella
mantenendo
il
suo
sorriso
di
disapprovazione.
Mandai
giú
d’un
sorso:
«Tutto,
–
risposi,
–
voglio
sapere
tutto
quello
che
non
so».
«Bene,
–
fece
lei,
–
la
prima
volta
che…»
A
questo
punto
sentii
davvero
qualcosa
di
fisico
muoversi
sotto
i
nostri
corpi
–
una
piccola
onda
sismica
ci
rimise
in
sintonia
col
tempo
e
adesso
gli
Eurytmichs
erano
di
nuovo
in
classifica,
di
nuovo
Dirty
Dancing
in
cartellone,
di
nuovo
la
cortina
di
ferro,
la
terza
rielezione
della
Thatcher,
e
rieccoci…
rieccoci
nel
1987.
«La
prima
volta
che
sono
andata
a
letto
con
Vincenzo
è
stato
nella
primavera
del
1987,
a
meno
di
un
anno
dalla
sera
in
cui
fui
praticamente
obbligata
a
diventare
la
ragazza
di
Giuseppe.
Me
lo
ricordo,
che
era
primavera,
–
continuò,
–
perché
proprio
in
quei
giorni
il
mondo
andò
in
subbuglio
per
via
del
ragazzino
che
era
atterrato
sulla
Piazza
Rossa.
Ti
ricordi
che
storia
pazzesca?»
Il
ragazzo
del
Cessna,
–
ricordai
–,
lo
studente
tedesco
che
noleggia
un
monomotore
e
parte
da
Helsinki
depositando
un
finto
piano
di
volo
in
aeroporto,
spegne
la
radio,
cambia
rotta,
e
quando
dalla
torre
di
controllo
iniziano
a
ripetere:
«Che
succede?»
si
è
già
infilato
a
bassa
quota
nel
corridoio
aereo
Helsinki-Mosca;
il
ventunenne
che
atterra
sulla
Piazza
Rossa
in
segno
di
pace
causando
il
licenziamento
di
duemila
addetti
alla
sicurezza
e
la
condanna
di
altri
duecento
ai
lavori
forzati
nelle
pianure
siberiane;
il
dimagrito
pilota
semidilettante
che,
uscito
di
galera,
torna
in
Germania
appena
in
tempo
per
finire
nel
ciclone
di
una
furibonda
rassegna
stampa
(è
un
eroe?
un
pazzo?
un
irresponsabile?
una
minaccia
per
la
pace
universale?);
il
ragazzo
già
prossimo
a
un
esaurimento
nervoso
che
in
seguito
al
delirio
mediatico
va
fuori
di
testa,
si
fa
arrestare
per
tentato
omicidio,
per
tentata
truffa,
per
il
furto
di
un
maglione
di
cachemire
ai
grandi
magazzini;
il
non
piú
giovane
trentenne
davanti
al
quale
il
mondo
diviso
in
due
blocchi
già
non
esiste
piú,
e
niente
del
suo
gesto
del
1987
ha
avuto
nel
gigantesco
cambio
di
scena
il
benché
minimo
ruolo,
quello
che
doveva
accadere
sarebbe
accaduto
ugualmente,
il
suo
atterraggio
di
dieci
anni
prima
compare
sui
giornali
come
un
articolo
commemorativo
che
di
volta
in
volta
si
sposta
dalla
politica
alla
cronaca,
dalla
cronaca
alle
pagine
di
costume,
al
gossip,
alla
barzelletta…
la
sua
bravata
non
ha
prodotto
niente
di
reale
se
si
escludono
duemila
e
duecento
ex
cittadini
sovietici
dalla
vita
distrutta,
se
si
escludono
i
segni
di
squilibrio
sempre
piú
evidenti
in
Mathias
Rust:
non
il
mito
di
cartone
che
atterra
sulla
Piazza
Rossa
ma
il
ragazzo
Mathias
Rust
che
si
rannicchia
nel
suo
letto
e
inizia
a
piangere…
non
il
il
6-3
6-3
6-4
di
Ivan
Lendl
contro
McEnroe
agli
US
Open
di
quell’anno,
ma
Donatella
che
si
riveste
mentre
Vincenzo
è
ancora
steso
nel
suo
letto…
neanche
la
Storia,
che
avanza
come
una
corazzata
su
cui
le
unghie
dei
singoli
lasciano
un
segno
sempre
piú
debole,
poi
invisibile
del
tutto,
ma
le
vite
degli
uomini
di
cui
nessuno
sa
mai
niente.
«Prima,
però,
ci
fu
la
fine
del
1986
e
l’inizio
dell’anno
successivo»,
disse
Donatella.
E
poi
mi
confermò
quello
che
tutti
avevamo
intuito
ma
che
soltanto
adesso
trovava
la
sua
testimonianza
ufficiale:
la
storia
con
Giuseppe
si
rivelò
un
fiasco
sin
dai
primi
giorni.
«Che
disastro!»
disse,
e
mi
versò
ancora
un
po’
di
vino.
Mi
raccontò
di
come
la
loro
intimità
si
riduceva
a
qualche
bacio
scambiato
prevalentemente
in
pubblico.
Si
facevano
poche
confidenze.
Trascorrevano
ore
di
pura
noia
nella
villa
dei
Rubino,
alle
quali
seguivano
ancora
piú
noiose
uscite
in
città
per
fare
shopping
mano
nella
mano.
E
poi,
il
sesso.
«Nove
mesi!»
disse
Donatella.
Quasi
trecento
giorni
di
frequentazione
durante
i
quali
lui
riuscí
sempre
a
eludere
il
problema.
In
questo
campo,
le
nozioni
di
Donatella
si
limitavano
all’essersi
fatta
trascinare
piú
di
una
volta
nei
guardaroba
delle
discoteche
pomeridiane
prima
del
suo
incontro
con
Giuseppe.
«Ma
Giuseppe,
–
disse,
–
lui
fece
tutto
ciò
che
era
in
suo
potere
perché
quel
briciolo
d’esperienza
si
trasformasse
in
panico
assoluto».
Giuseppe,
si
spostava.
Accadeva
che,
chiusi
in
camera
sua
(«Non
so
nemmeno
come,
ma
a
un
certo
punto
riuscivo
a
baciarlo
perfino
quando
eravamo
soli»),
Donatella
provava
a
toccargli
una
gamba
avanzando
lentamente
verso
il
bottone
dei
Levi’s
501.
A
quel
punto
(«Cristo!
–
ridacchiò,
–
sembrava
lo
sciamano
della
scopata
mancata:
lui
era
in
grado
di
evocarli
veramente
quegli
imprevisti!»)
squillava
il
telefono,
o
la
signora
Rosa
faceva
irruzione
nella
stanza
con
le
solite
spremute
di
pompelmo,
oppure
sentivano
raspare
dietro
la
porta
e:
«quel
cazzo
di
cane
col
cappotto
di
visone».
E
se
non
c’erano
imprevisti?
«Be’,
Giuseppe
si
tirava
indietro
sul
bordo
del
letto
e
iniziava
a
consultare
l’agendina
telefonica.
Si
ricordava
che
doveva
fare
lui
una
telefonata
a
qualcuno.
Il
contrattempo
se
lo
procurava
da
solo».
«Aveva
paura»,
provai
a
minimizzare.
«Tu
proprio
non
afferri
il
punto,
–
disse
inchiodandomi
a
uno
sguardo
di
commiserazione.
–
Non
c’entra
la
paura.
Non
c’entra
neanche
il
fatto
che
Giuseppe
era
il
mio
ragazzo
solo
perché
lui
lo
aveva
spinto
a
lanciarsi
in
un’impresa
di
cui
avrebbe
fatto
a
meno.
È
che
proprio
non
voleva.
Aveva
capito
in
che
mondo
stavamo
crescendo.
Chi
meglio
del
proprietario
di
un
cane
in
cappotto
di
visone
poteva
rendersene
conto?
Per
quanto
la
cosa
possa
sembrare
paradossale,
Giuseppe
era
un
puro.
Un
idiota
dalla
testa
ai
piedi.
È
la
persona
piú
pura
che
ho
mai
incontrato
in
vita
mia,
–
strinse
le
mascelle,
–
per
questo
a
un
certo
punto
mi
sono
innamorata
di
lui».
Perché
era
riuscita
a
intravedere
–
pensai
–
la
natura
di
Parsifal
gettato
in
un
registratore
di
cassa
che
si
celava
dietro
quel
ragazzo.
Ma
tutto
il
resto
la
faceva
disperare:
«Lo
guardavo
e
avevo
voglia
di
prenderlo
a
schiaffi:
perché non mi
sbottona la camicetta?,
pensavo,
per quale cazzo
di motivo non possiamo
farecometuttiglialtri?»
«Credo
invece
di
capire
molto
bene»,
provai
a
riguadagnare
il
terreno
perduto.
«Ogni
sera
mi
riaccompagnava
a
casa
con
la
Zundapp,
–
continuò
lei
senza
badarmi,
–
e
a
me
sembrava
di
impazzire.
Hai
presente
le
ragazze
di
paese
che
a
furia
di
restare
chiuse
in
casa
a
un
certo
punto
iniziavano
a
ballare
come
pazze
per
la
strada?
Ecco,
io
invece
tornavo
a
casa
e
accendevo
la
radio
a
tutto
volume.
E
sai
cosa
trovavi
quando
accendevi
la
radio
in
quel
periodo?
Trovavi
Boys
di
Sabrina
Salerno!»
Qui
scoppiò
a
ridere.
«E
gli
altri
ragazzi?
–
la
incalzai,
–
possibile
che
nessuno
in
quel
periodo
si
fosse
fatto
avanti?»
Donatella
alzò
leggermente
la
testa
in
modo
che
potessi
vederle
meglio
il
collo,
e
dopo
il
collo
il
grande
seno
contenuto
nel
top
fucsia
circondato
di
catenine
d’oro.
«Mi
vedi…
–
disse,
–
e
ti
ricordi
com’ero
a
diciassette
anni».
A
diciassette
anni
era
effettivamente
impossibile
non
metterle
gli
occhi
addosso.
Era
difficile
non
metterle
le
mani
addosso.
Eppure,
–
raccontò,
–
da
luglio
fino
alla
primavera
dell’anno
successivo
non
le
si
avvicinò
nessuno.
Era
stata
abituata
a
ricevere
dai
maschi
sguardi
famelici,
ammiccanti,
e
quando
si
trattava
di
sguardi
derisori
(la
trovata
assurda
dei
palloncini
attaccati
alle
spalline)
erano
comunque
sguardi
imbarazzati
dal
desiderio.
E
adesso
invece
niente,
stop,
finito.
Circostanza
che
all’inizio
la
destabilizzò,
non
perché
bramasse
quelli
sguardi
su
di
sé
ma
solo
perché
ci
era
abituata.
«Lui…
–
aggiunse
aggrottando
le
sopracciglia,
–
questo
mi
è
diventato
chiaro
solo
dopo,
ma
fu
lui.
Fu
a
causa
di
Vincenzo
se
nessuno
in
quel
periodo
mi
rivolse
la
parola».
«Mi
vuoi
far
credere
che
Vincenzo
chiese
ai
ragazzi
del
nostro
gruppo
di
non
corteggiarti?»
«Chiedere?
Gliel’ordinò!»
«E
come
fece,
scusa?
–
dissi
sarcastico,
–
li
prese
uno
a
uno,
oppure
radunò
tutti
nella
palestra
della
scuola?»
«L’ha
fatto
e
basta»,
ribatté.
«E
per
quale
motivo?
Per
portarti
a
letto
con
piú
facilità
la
primavera
successiva?»
Donatella
ordinò
un’altra
bottiglia.
Tirò
un
sospiro
esasperato
e
disse:
«Sei
fuori
strada.
Ti
ostini
a
fare
le
cose
troppo
semplici.
Se
ti
dico
che
Vincenzo
provava
per
Giuseppe
dei
sentimenti
che
definire
ambigui
è
poco,
riesci
a
capire
che
cosa
voglio
dire?
Se
ti
dico
che
voleva
proteggerlo,
che
non
avrebbe
mai
permesso
a
nessun
altro
di
farsi
la
ragazza
del
suo
amico.
Se
ti
dico
che
sognava
di
distruggerlo,
che
avrebbe
voluto
proteggerlo
persino
attraverso
il
tradimento.
Vincenzo
era
la
determinazione
fatta
persona,
ma
Giuseppe
a
suo
modo
era
integro,
che
è
molto
piú
della
semplice
determinazione.
Pensa
a
come
Vincenzo
poteva
amare
e
invidiare
una
persona
del
genere.
E
poi
pensa
a
Giuseppe.
Giuseppe
mi
parlava
continuamente
di
Vincenzo.
Non
solo
lo
adorava,
ma
pretendeva
che
lo
adorassi
pure
io.
E
io
ovviamente
in
quei
momenti
lo
detestavo.
Li
detestavo
tutti
e
due.
E
poi
ci
fu
la
festa
dalle
parti
del
Camelot…
te
la
ricordi?»
Il
Camelot
era
una
discoteca
alternativa
situata
appena
fuori
città.
Ci
avevano
suonato
gli
Ozric
Tentacles.
Ci
avevano
suonato
i
Fuzztones.
Naturalmente
ci
avevano
suonato
i
Litfiba
con
Ringo
De
Palma
ancora
vivo
dietro
la
batteria.
Un
identificato
ritrovo
per
fanatici
della
morente
musica
rock.
Ma
la
festa
dalle parti
del
Camelot…
quello
non
si
poteva
neanche
definire
un
luogo
«identificato».
Era
una
villa
abbandonata
in
aperta
campagna,
tra
le
cui
mura
quella
sera
iniziarono
a
transitare
generatori
di
corrente
e
amplificatori
Marshall
che
vennero
impilati
uno
sull’altro
sino
a
formare
un
grande
muro
acustico.
Fu
una
specie
di
rave
prima
della
stagione
dei
rave,
una
bolgia
dove
centinaia
di
ragazzi
ballarono
sui
ritmi
martellanti
della
prima
techno
music,
si
scatenarono,
urlarono,
alcuni
si
impasticcarono
perdendo
litri
di
sudore
e
tutto
questo
fino
all’arrivo
della
polizia.
E
a
un
certo
punto,
in
piedi
su
uno
degli
amplificatori,
c’era
Donatella
che
si
agitava
come
un’indemoniata.
«All’inizio
ero
incazzata
nera.
Ma
poi
salii
sull’amplificatore
e
cominciai
a
ballare».
Mi
spiegò
che
prima
di
arrivare
alla
festa
aveva
trascorso
un
altro
pomeriggio
inconcludente
a
casa
di
Giuseppe.
Arrivò
insieme
a
lui
quando
il
cortile
della
villa
era
già
stracolmo
di
persone.
Si
staccò
dalla
sua
mano
e
alla
prima
occasione
si
mescolò
tra
la
folla,
muovendosi
tra
decine
di
corpi
sudati.
Tutta
quella
confusione,
quelle
urla,
quell’energia.
La
frustrazione
si
ribaltò
in
qualcosa
di
liberatorio,
e
cosí
si
arrampicò
sull’amplificatore
e
incominciò
a
ballare.
Descrisse
con
i
fianchi
dei
movimenti
sempre
piú
sensuali,
catalizzando
l’attenzione
di
chi
la
guardava
a
bocca
aperta
dal
basso
verso
l’alto.
Alzava
le
braccia
e
chiudeva
gli
occhi
e
faceva
roteare
la
testa
come
se
si
stesse
avvicinando
al
primo
vero
orgasmo
della
sua
vita.
Ma
prima
che
qualcuno
potesse
farsi
avanti
–
e
uno
di
questi
tizi
con
le
pupille
grosse
come
noci
si
sarebbe
fatto
avanti
di
sicuro
–,
riaprí
gli
occhi
ritrovandosi
la
lunga
figura
di
Vincenzo
che
la
guardava
pieno
di
rimprovero.
«Erano
incredibili
i
poteri
inibitori
che
sapeva
esercitare
quel
ragazzo.
Due
secondi
prima
stavo
facendo
la
scema
sull’amplificatore.
Lui
disse:
scendi,
e
io
lo
stavo
già
seguendo
buona
buona
verso
le
mura
esterne
della
villa…»
Se
mi
ricordavo?
Se
ricordavo
la
festa
nella
villa
abbandonata?
Io
e
Rachele
quella
notte
ci
scatenammo,
ballammo
fino
a
svenire
cercando
di
tirar
fuori
tutto
il
malessere
che
avevamo
accumulato
negli
ultimi
mesi,
quando
iniziava
a
diventare
chiaro
che
le
fanzine
e
i
concerti
e
le
scorribande
in
motorino
non
erano
una
soluzione
per
i
nostri
problemi.
Se
ricordavo…
ricordavo
soprattutto
quando,
poche
ore
prima,
dopo
aver
parcheggiato
la
Vespa
dalle
parti
della
stazione,
avevo
attraversato
a
passo
svelto
i
giardinetti
di
piazza
Umberto.
Rachele
mi
aspettava
in
piazza
Garibaldi,
cosí
avevo
dovuto
mescolarmi
tra
la
folla
di
via
Sparano,
una
convincente
versione
sottocosto
di
via
Montenapoleone
per
tutte
le
signore
baresi
che
passeggiavano
avanti
e
indietro,
disposte
a
riposarsi
per
il
tempo
di
un
gelato
prima
di
riprendere
la
marcia
verso
i
negozi
d’alta
moda.
Non
so
come
feci
ad
accorgermene
con
tutta
quella
confusione.
Ci
dev’essere
qualcosa
di
soprannaturale
nella
nostra
memoria
fotografica
(un’immediata
capacità
di
associare
il
ricordo
di
un’immagine
completa
al
fuggevole
passaggio
di
un
suo
frammento),
perché
davanti
alla
gioielleria
c’erano
molte
teste,
e
piú
del
doppio
ne
stavano
passando
per
la
strada,
e
io
a
mia
volta
camminavo
a
ritmo
sostenuto
sull’altro
lato
del
marciapiede.
Eppure
mi
fermai.
Mi
fermai
e
guardai
meglio.
Credetti
di
non
aver
capito
bene
e
feci
qualche
passo
avanti.
Cosí
d’accordo,
adesso
invece
capivo
benissimo.
Tailleur
al
ginocchio
su
un
paio
di
scarpe
di
vernice,
mia
madre
indicava
qualcosa
attraverso
la
vetrina.
Accanto
a
lei
una
figura
piú
magra
e
spigolosa,
una
ragazza
forse
non
cosí
elegante
ma
dotata
di
un’aggressività
che
la
rendeva
credibile
nel
suo
lungo
soprabito
leopardato.
Una
sera
di
primavera
come
tante:
mia
madre
e
la
moglie
del
padre
di
Vincenzo
insieme
a
fare
shopping.
La
sala
professori…
ipotizzai,
ilcentroditutti
gli intrighi extrascolastici
del Cesare Baronio!
Era
lí
che
mia
madre
doveva
averla
abbordata.
O
meglio,
visto
che
mi
ero
rifiutato
di
diventare
suo
complice,
mio
padre
doveva
aver
mandato
lei
in
avanscoperta.
Da
quanto
tempo
avevano
iniziato
a
frequentarsi?
E
a
che
punto
erano
giunti
gli
attori
principali
della
commedia?
Mio
padre
e
l’avvocato
Lombardi:
si
erano
stretti
la
mano?
avevano
già
cenato
insieme?
Rimasi
intontito
a
osservare
la
scena
fino
a
quando
le
due
donne
si
staccarono
dalla
vetrina,
risucchiate
dai
passanti
al
centro
della
strada.
Vidi
le
gambe
di
mia
madre
ondeggiare
tra
altre
gambe,
poi
le
sue
scarpe
di
vernice,
poi
piú
niente.
Sarebbe
stato
meglio
sorprenderla
durante
un
adulterio.
Andai
a
prendere
Rachele.
Qualche
ora
dopo
raggiungemmo
la
festa.
Non
ci
importava
della
musica
techno.
Non
ci
importava
nemmeno
piú
del
rock.
Le
spille
attaccate
sui
giubbotti
dei
punk
iniziavi
a
ritrovarle
tali
e
quali
nei
negozi
di
abbigliamento.
Quei
punk,
a
dire
il
vero,
la
sera
si
liberavano
degli
anfibi
e
dormivano
tra
lenzuola
fresche
di
bucato.
Le
loro
mamme
avevano
a
disposizione
un
arsenale
di
sorrisi
rispetto
ai
quali
il
minaccioso
abbigliamento
dei
figli
e
gli
slogan
deliranti
che
uscivano
dai
walkman
erano
l’equivalente
di
una
pistola
ad
acqua
–
erano
mamme
che
avanzavano
a
passo
sicuro
in
sala
professori
nei
loro
abiti
di
sartoria,
portando
a
segno
con
successo
una
missione
diplomatica
per
conto
dei
mariti.
I
nostri
genitori
brillavano
in
un
fuoco
bianco
di
benessere.
Noi
invece
ci
sentivamo
di
merda.
E
mentre
io
e
Rachele
saltavamo
uno
di
fronte
all’altra
per
sfogarci,
a
un
certo
punto
vedemmo
Donatella
sull’amplificatore
che
invitava
praticamente
chiunque
a
sbranarla
viva.
«Mi
fece
scendere
dal
Marshall
e
cominciammo
ad
avviarci
verso
le
mura
esterne
della
villa».
Donatella
si
fece
spazio
tra
la
folla,
seguí
Vincenzo
calpestando
gli
immaginari
quadratini
luminosi
che
si
accendevano
un
momento
prima
che
lei
potesse
fare
un
altro
passo.
Camminarono
per
qualche
minuto
in
aperta
campagna.
La
musica
si
trasformò
in
un
lontano
impasto
sonoro.
Vincenzo
le
mise
una
mano
sulla
spalla
e
solo
allora
Donatella
realizzò
di
avere
sempre
saputo
che
una
scena
del
genere
sarebbe
prima
o
poi
arrivata.
«È
cosí
che
sono
diventata
la
sua
amante»,
disse
alle
dieci
di
sera,
quando
il
locale
aveva
avuto
tutto
il
tempo
di
svuotarsi
per
poi
riempirsi
di
altra
gente.
Confermò
quello
che
avevamo
sospettato
per
quasi
un
anno.
Era
la
ragazza
di
Giuseppe
e
scopava
con
Vincenzo.
Restava
chiusa
per
ore
nella
stanza
di
Giuseppe,
dove
lui
continuava
a
sottoporla
all’ascolto
di
questi
dischi
di
cui
faceva
incetta
piú
velocemente
di
quanto
orecchio
umano
potesse
sostenere.
Cosí
Donatella,
pur
amandolo,
poteva
finalmente
pensare:
lo
odio.
Odiava
lui,
i
dischi,
quella
casa,
il
parcheggio
semovibile…
Il
che
non
impediva
a
Giuseppe
di
togliere
dal
piatto
dello
stereo
le
Bangles
per
metterci
su
It’s My Life
dei
Talk
Talk.
Toglieva
i
Talk
Talk
e
partiva
coi
Depeche,
poi
Cindy
Lauper,
poi
Luis
Miguel,
e
non
perché
non
si
accorgesse
dell’esasperazione
a
cui
stava
portando
la
ragazza.
«Era
come
se
al
contrario
cercasse
di
alimentarla.
Completava
l’opera.
Sbaragliava
il
mio
senso
di
colpa».
Le
donava
la
facoltà
di
inventarsi
una
scusa
e
scappare
da
Vincenzo.
«Era
chiaro
che
Giuseppe
non
credeva
a
quelle
scuse,
–
disse,
–
erano
quasi
sempre
improvvisazioni,
bugie
assurde.
Ma
io
dovevo
immaginare
che
ci
credesse,
altrimenti
sarei
stata
costretta
a
riflettere
sul
fatto
che
facevo
parte
di
un
gioco
in
cui
contavo
poco.
Avrei
pensato
che
era
lui,
Giuseppe,
a
gettarmi
tra
le
braccia
del
suo
amico».
«Dove
vi
vedevate
tu
e
Vincenzo?»
«Oh,
ma
a
casa
sua»,
disse
dopo
aver
cercato
inutilmente
di
fermare
il
cameriere
per
il
conto.
Quando
l’avvocato
e
Sabrina
non
erano
in
casa,
si
davano
appuntamento
in
quelle
stanze
piene
di
luce
affacciate
sul
porto
turistico.
Donatella
arrivava
di
slancio
all’ultimo
piano,
sentendo
ancora
in
ascensore
la
spinta
che
l’aveva
fatta
fuggire
dalla
villa
di
Giuseppe.
«Si
crede
che
i
tradimenti
di
questo
tipo
facciano
male
innanzitutto
a
chi
li
compie
–.
Fece
una
pausa.
–
Prima
e
dopo,
magari».
Disse
che
invece,
al
momento
di
varcare
la
soglia
dell’attico,
si
ritrovava
addosso
una
leggerezza
e
una
rapidità
che
la
facevano
sentire
al
centro
esatto
della
spensieratezza
umana.
Vincenzo
lasciava
socchiusa
la
porta
d’ingresso
dopo
averle
detto
«sali»
attraverso
il
citofono.
Si
spostava
in
sala
da
pranzo
in
modo
che
lei
lo
trovasse
già
lí,
seduto
ad
aspettarla
con
due
tazzine
di
caffè
ancora
fumanti.
Si
salutavano,
bevevano
il
caffè
e
andavano
a
scopare.
«Com’era?
vuoi
sapere
anche
questo?
Be’,
era
come
scopare
con
un
morto»,
disse
lasciandomi
impietrito.
Non
quando
lui
iniziava
a
carezzarle
le
braccia.
Non
quando
si
spogliavano
e
si
infilavano
nel
letto.
«Piú
tardi,
qualche
istante
prima
che
gli
sentissi
il
bacino
tremare.
Allora
lo
guardavo
negli
occhi
e:
niente, –
pensavo,
– in
questo ragazzo non c’è
niente».
Ma
prima
vedeva
altre
cose.
Nel
sincero
trasporto
con
cui
Vincenzo
le
si
infilava
dentro,
ritrovava
ad
esempio
per
un
attimo
Giuseppe.
«Poi
arrivava
suo
padre…»
disse
spingendo
il
racconto
ben
al
di
là
di
quanto
avessi
potuto
immaginare
soltanto
un
paio
d’ore
prima.
«In
fondo
stavamo
scopando
nell’attico
dell’avvocato,
–
continuò,
–
e
non
un
soprammobile,
non
l’ultima
forchetta
presente
in
quella
casa
potevano
considerarsi
disgiunti
dalla
persona
che
lui
odiava».
Donatella
mi
raccontò
di
come
sentisse
questo
sentimento
cosí
umano
e
cosí
gonfio
di
impotenza
vibrargli
sotto
le
palpebre,
sentiva
un
odio
che
non
era
ancora
il
male,
forse
vi
alludeva,
forse
cercava,
desiderava
il
male,
ma
era
condannato
a
non
poterlo
raggiungere.
Infine,
al
culmine
dei
loro
amplessi
pomeridiani,
quando
aspettava
che
il
vero
Vincenzo
si
rivelasse,
lo
guardava
in
faccia.
«Il
vuoto,
–
disse
seccamente,
–
era
come
se
un
individuo
chiamato
Vincenzo
Lombardi
non
fosse
mai
nemmeno
nato».
Questa
volta
fermò
il
cameriere
e
chiese
il
conto.
«Vedi,
–
riprese
dopo
avere
pagato
per
entrambi,
–
credo
che
in
quel
periodo
Vincenzo
stesse
iniziando
a
rendersi
conto
di
un
sacco
di
cose.
Suo
padre,
innanzi
tutto.
Non
ci
sarebbe
mai
potuto
arrivare.
E
poi
la
donna
di
Japigia.
L’aveva
persa».
«In
che
senso?»
chiesi.
«Non
me
ne
ha
mai
parlato.
Successe
qualche
cosa.
Immagino
qualcosa
di
brutto.
La
perse
indipendentemente
dalla
sua
volontà».
«E
tutto
questo
che
conseguenze
avrebbe
prodotto
secondo
te?»
«Oh…
–
disse
con
ferocia,
–
questo,
l’aveva
incattivito.
Hai
idea
di
cosa
poteva
significare
per
una
persona
cosí
piena
di
sé
scontrarsi
a
un
certo
punto
con
la
realtà?
È
per
questo,
che
ci
ha
trascinati
tutti
quanti
a
Japigia.
L’appartamento
di
Santo
Petruzzelli…
È
grazie
a
lui
che
è
iniziato
quel
periodo
di
merda.
Dobbiamo
al
figlio
dell’avvocato
Lombardi
se
Giuseppe
ha
fatto
la
fine
che
ha
fatto.
Il
che
non
toglie
nulla
alle
mie
responsabilità».
«Mi
vuoi
dire…
–
feci
sarcasticamente,
e
qui
tentai
l’unico
bluff
della
serata,
scaricando
su
Donatella
delle
sensazioni
che
erano
anche
le
mie
da
una
decina
d’anni,
–
vuoi
dire
che
Vincenzo
ci
portò
a
Japigia
con
l’intento
preciso
di
farci
del
male?»
«Senti!
–
sbottò
impedendomi
di
finire
la
frase,
–
ti
dico
quest’ultima
cosa
e
poi
direi
che
ci
possiamo
salutare
–.
Si
mise
in
piedi
e
recuperò
la
borsetta:
–
Non
voglio
dire
che
aveva
architettato
un
piano
o
stronzate
del
genere.
Ma
ti
è
mai
capitato
di
aver
raggiunto
un
risultato
nella
vita
–
diciamo
un
risultato
catastrofico
–
e
poi,
guardandoti
alle
spalle,
sei
stato
costretto
a
riconoscere
come
ogni
cosa
in
te
avesse
cercato
proprio
quel
finale,
al
di
là
della
tua
volontà,
al
di
là
del
piú
raffinato
e
acuto
dei
tuoi
pensieri?
Adesso
è
tardi»,
disse
senza
guardare
l’orologio.
Ricordavo
ovviamente
Japigia
e
ricordavo
l’appartamento
di
Santo
Petruzzelli.
Ricordavo
quel
periodo
di
merda
e
soprattutto
il
modo
in
cui
io
e
Rachele,
superando
ogni
giorno
il
ponte
sospeso
sulla
linea
ferroviaria
che
portava
nel
quartiere,
eravamo
convinti
di
aver
trovato
un
rifugio
per
sottrarci
alla
grande
onda
cronologica
che,
crescendo
dal
centro
esatto
della
città,
iniziava
piano
piano
a
travolgere
chiunque
trasformandolo,
dalla
persona
che
era
stata,
in
una
semplice
memoria
storica
–
e
infatti
Giannelli
non
varcò
mai
quel
ponte,
e
non
lo
fece
Puglisi,
e
non
lo
fecero
Vanessa
e
Romina,
i
quali,
già
nell’autunno
del
1987,
divennero
per
me
quello
che
sono
oggi.
Invece
io,
Rachele,
Vincenzo,
Giuseppe,
Donatella…
noi
in
quel
modo
stavamo
continuando
a
vivere
per
sempre.
E
anche
se
adesso
Donatella
era
pronta
a
salutarmi,
pronta
a
sparire
per
sempre,
pronta
forse
anche
a
dirmi
che
la
sua
vita
attuale
non
aveva
niente
a
che
fare
con
quella
di
allora,
e
adesso
mi
stringeva
già
la
mano
fuori
dal
locale,
adesso
invece
mi
dava
le
spalle
allontanandosi
nella
sera
barese
del
2008,
anche
se
la
donna
che
era
diventata
si
infilava
in
un’auto
di
cui
non
conoscevo
la
marca
né
la
cilindrata,
la
ragazza
invece
era
sempre
lí,
bastava
che
io
tirassi
l’amo
e
lei
c’era,
bastava
solo
che
evocassi
il
suo
ricordo
perché
restasse
intrappolata.
Sempre
lí,
sempre
noi,
sempre
insieme.
La prima volta,
–
pensai,
–
la prima volta
che Vincenzo ci portò a
casadiSantoPetruzzeii…
Capitolo
tredicesimo
Non
eravamo
mai
stati
in
un
appartamento
di
drogati.
Non
ci
era
soprattutto
mai
successo
di
attraversare
un
intero
quartiere
in
cui
sembrava
che
il
calendario
gregoriano
fosse
stato
sostituito
dai
turni
degli
spacciatori.
Avevamo
sentito
un’infinità
di
storie
su
Japigia,
ma
metterci
piede
fu
un’altra
cosa.
Ci
arrivammo
in
motorino
un
pomeriggio
autunnale
–
in
sella
alla
Vespa,
io
e
Rachele
tallonavamo
la
Zundapp
su
cui
Giuseppe
e
Donatella
rombavano
in
salita
lungo
il
ponte.
Fu
come
attraversare
un
varco
aperto
tra
due
mondi.
Superammo
la
chiesa
a
forma
di
fungo
atomico.
Svoltammo
a
sinistra
costeggiando
le
cosiddette
«case
basse»,
un
gruppo
di
abitazioni
simili
a
conigliere
rivestite
da
una
colata
di
cemento
armato.
Proseguimmo
su
via
Caldarola,
lasciandoci
alle
spalle
gli
scheletri
di
due
automobili
carbonizzate.
I
grandi
palazzi
popolari
iniziarono
allora
a
comparire
a
ridosso
di
carreggiate
sempre
piú
larghe
e
silenziose
mentre
il
cielo
di
settembre,
completamente
sgombro
sopra
le
nostre
teste,
intratteneva
con
la
linea
d’orizzonte
una
sfida
degna
di
due
numi.
A
quel
punto,
la
sensazione
di
essere
a
migliaia
di
chilometri
da
casa
si
era
già
impossessata
di
noi.
Quando
ci
vide,
Vincenzo
si
alzò
dal
muretto
a
secco
su
cui
ci
stava
aspettando.
Lo
seguimmo
attraverso
il
cortile
di
un
palazzo
che
svettava
in
mezzo
al
niente
per
una
decina
di
piani.
Attraversammo
il
portone
e
salimmo
a
piedi
per
otto
rampe
di
scale.
Non
sapevo
–
e
non
mi
chiesi
–
cosa
Vincenzo
potesse
aver
detto
a
Giuseppe
per
convincerlo
a
formare
questa
piccola
delegazione
in
visita
ai
quartieri
periferici.
A
distanza
di
tempo
continuo
a
dirmi
che
si
sarebbe
dovuta
respirare
tra
di
noi
anche
una
certa
tensione
–
Donatella
andava
a
letto
con
Vincenzo
già
da
qualche
mese,
e
io
e
Rachele
eravamo
al
corrente
di
quello
che
si
diceva
in
giro.
Ma
non
ci
fu
tensione,
e
avanzammo
tutti
e
cinque
per
le
scale
senza
attrito.
Santo
Petruzzelli
ci
accolse
sulla
porta
d’ingresso
in
quella
che
avremmo
imparato
a
riconoscere
come
la
sua
uniforme
per
tutte
le
occasioni:
vestaglia
a
righe,
pantaloni
del
pigiama,
ciabattine
di
spugna
con
sopra
stampato
il
faccione
di
Hello
Kitty.
Poteva
avere
venticinque
anni
e,
oltre
che
da
una
chiara
ambiguità
sessuale,
era
circondato
dal
magico
alone
della
noncuranza.
Sembrava
che
il
peggiore
dei
problemi
non
potesse
che
scivolargli
via
di
dosso.
Era
piuttosto
alto,
di
una
magrezza
scimmiesca
che
veniva
trascinata
su
panorami
vulcaniani
grazie
ai
capelli
sfumati
in
modo
da
formargli
una
piccola
cresta
sulla
sommità
del
cranio.
Le
sopracciglia
ridotte
a
punte
di
grafite
completavano
il
discorso.
Ricordo
che
lo
guardai
con
la
deferenza
che
da
adulti
si
potrebbe
avere
al
cospetto
di
un
capo
di
stato.
Lui
salutò
solo
Vincenzo.
Mise
a
fuoco
per
un
attimo
il
resto
del
gruppo.
Si
diresse
verso
il
corridoio
senza
prestarci
piú
attenzione,
mentre
le
code
della
vestaglia
svolazzavano
a
destra
e
sinistra
spolverando
il
pavimento.
Fatta
eccezione
per
la
camera
da
letto
perennemente
chiusa
a
chiave,
l’appartamento
si
riduceva
a
uno
spoglio
susseguirsi
di
stanze
la
cui
destinazione
era
saltata
per
aria:
alla
cucina
riconoscibile
solo
per
via
di
un
fornello
elettrico,
seguivano
due
grandi
vani
pieni
di
poltrone
e
sacchi
a
pelo
e
materassi
disposti
sul
pavimento
in
modo
casuale,
cui
si
aggiungeva
il
ristagno
del
fumo
e
il
sospetto
di
un
impianto
fognario
non
perfettamente
funzionante.
Una
decina
di
ragazzi
occupavano
le
stanze
principali,
e
sebbene
quel
pomeriggio
soltanto
tre
di
loro
se
ne
stessero
seduti
ad
aspirare
i
fumi
dell’eroina
da
un
foglio
di
carta
stagnola,
era
il
clima
generale
a
far
pensare
che
fossimo
in
un
mondo
governato
da
regole
per
noi
assolutamente
sconosciute.
Il
cedimento
di
un
controsoffitto
o
un’infiltrazione
d’acqua,
sufficienti
a
scalfire
per
settimane
la
stabilità
emotiva
delle
specie
viventi
a
cui
eravamo
abituati,
qui
non
avrebbero
sortito
alcun
effetto.
Passai
un
braccio
intorno
ai
fianchi
di
Rachele,
e
lei
si
lasciò
andare.
Eravamo
eccitati.
Ci
trovavamo
in
un
luogo
che
nessuno
dei
nostri
compagni
di
scuola
avrebbe
immaginato,
che
i
professori
presumevano
di
conoscere
grazie
ai
resoconti
dei
cronisti
piú
esaltati
(gli
stessi
che
sproloquiavano
di
piccoli
ascessi
nella
parte
interna
della
guancia
per
dimostrare
la
trasmissibilità
dell’Hiv
attraverso
un
bacio)
e
che
i
nostri
genitori
intravedevano
nei
loro
incubi
catodici
fatti
di
madri
in
lacrime
dentro
uno
studio
televisivo.
I
nostri
genitori!
sarebbero
svenuti
a
saperci
qui
dentro…
Poi
anche
questo
tipo
di
euforia
sfumò
sulla
consapevolezza
di
trovarci
tra
persone
che
facevano
del
disinteresse
per
le
opinioni
del
mondo
il
loro
punto
di
forza.
Cosí
adesso
io
e
Rachele
non
pensavamo
piú
nemmeno
ai
nostri
genitori
–
ci
tenevamo
per
mano,
ed
eravamo
calmi.
Ma
piú
di
noi
era
Giuseppe
a
sembrare
a
proprio
agio.
Tutta
la
sua
goffaggine,
la
sua
molesta
esuberanza
gli
erano
cadute
improvvisamente
di
dosso.
Era
serio,
rilassato,
in
pace
con
se
stesso.
Occupava
il
centro
della
stanza
con
il
trionfale
intontimento
di
un
naufrago
appena
riportato
a
casa.
Lanciò
uno
sguardo
di
benevolenza
a
Vincenzo
e
Donatella.
Donatella
lo
fissò
come
la
sera
in
cui
aveva
minacciato
di
buttarsi
dal
balcone.
Giuseppe
questa
volta
non
cercava
una
scusa
per
tornare
sui
suoi
passi.
Diede
le
spalle
a
entrambi,
si
avvicinò
ai
tre
ragazzi
impegnati
a
preparare
un’altra
base
e
si
sedette
tra
di
loro.
Poche
ore
dopo,
quando
la
sera
stringeva
l’intero
quartiere
nella
sua
morsa
di
silenzio,
se
ne
stava
gettato
in
solitudine
su
un
materasso
con
le
pupille
ridotte
a
due
capocchie
di
spillo.
Sette
mesi…
se
fossero
una
miccia
accesa,
direi
che
tanto
restava
alla
fine
della
nostra
adolescenza.
Nei
giorni
successivi,
io
e
Rachele
tornammo
sempre
piú
spesso
nella
casa
di
Santo
Petruzzelli.
Ci
tornammo
con
Giuseppe
e
Donatella.
Ci
tornammo
con
Vincenzo.
Poi
ci
sentimmo
sufficientemente
sicuri
per
andarci
io
e
lei
da
soli.
Restare
chiusi
ogni
mattina
in
un’aula
scolastica
ci
sembrò
uno
spreco,
come
sembrava
sempre
piú
inutile
andare
al
cinema
o
confondersi
tra
i
ragazzi
davanti
ai
bar
e
fuori
dalle
discoteche.
Le
ore
trascorse
a
respirare
l’aria
di
Japigia
rosicchiarono
il
tempo
per
qualunque
altra
occupazione.
In
poche
settimane
avevamo
stretto
amicizia
con
la
maggior
parte
dei
frequentatori
della
casa.
Ma
non
riuscivi
a
conoscere
un
ragazzo
che
ne
spuntavano
degli
altri.
Risalivano
dalle
strade
limitrofe.
Arrivavano
a
qualunque
ora
da
Poggiofranco,
da
Carrassi,
dai
sontuosi
appartamenti
del
centro
murattiano.
Certe
volte
si
limitavano
ad
acquistare
un
po’
di
roba
e
non
li
rivedevi
piú.
Ma
c’erano
tizi
che
bivaccavano
lí
dentro
per
giorni.
Dormivano
sui
materassi
gettati
agli
angoli
delle
pareti.
Si
infilavano
nei
sacchi
a
pelo.
Fumavano
eroina,
qualcuno
se
la
iniettava
in
vena,
rimanevano
interi
pomeriggi
a
contemplarsi
le
punte
delle
scarpe.
C’era
chi
era
scappato
di
casa
e
parlava
continuamente
dei
propri
genitori.
Ma
c’erano
anche
quelli
che
non
vedevano
l’ombra
di
un
parente
da
troppo
tempo
per
poter
parlare
ancora
di
una
fuga,
cosí
per
loro
l’appartamento
era
soltanto
uno
dei
luoghi
in
cui
si
erano
trovati
a
passare
la
notte
negli
ultimi
anni.
Di
Santo
Petruzzelli
sapevamo
poco.
Non
avevamo
idea
se
la
casa
fosse
sua,
se
pagasse
un
affitto,
né
riuscivamo
a
immaginare
che
tipo
di
legami
intrattenesse
oltre
la
porta
dell’ingresso.
La
sua
unica
preoccupazione
sembrava
restarsene
dov’era
il
piú
a
lungo
possibile.
Smistava
la
roba
tra
i
frequentatori
della
casa
e
intascava
i
quattrini
con
lo
stesso
distacco
che
gli
consentiva
di
non
battere
ciglio
davanti
a
chi
lo
implorava
di
fargli
credito
contorcendosi
ai
suoi
piedi.
Lo
strappo
alla
regola
erano
i
ragazzi
che
ogni
tanto
scomparivano
oltre
la
soglia
della
sua
camera
da
letto.
Ma
erano
gli
stessi
che
–
perduti
i
loro
privilegi
quando
avevano
cessato
di
essere
i
suoi
amanti
–
potevano
rivoltarsi
in
preda
a
veri
attacchi
isterici.
Gli
davano
del
Giuda.
Strepitavano,
piangevano,
si
graffiavano
le
guance.
Santo
si
limitava
a
sollevare
le
sopracciglia
da
attrice
del
cinema
muto
e,
stretto
nella
sua
vestaglia,
li
guardava
come
se
stessero
parlando
una
lingua
sconosciuta.
Ero
affascinato
da
come
riusciva
a
risultare
autorevole
conciato
in
quel
modo.
Certe
volte
immaginavo
che
fosse
passato
per
qualche
prova
terribile.
Ma
poteva
anche
darsi
che
la
sua
serafica
imperturbabilità
fosse
l’ovvio
risultato
dell’essersi
bruciato
i
ponti
alle
spalle.
Se
pure
da
qualche
parte
esistevano
ancora
per
lui
un
padre
e
una
madre,
non
ne
subiva
piú
il
ricatto.
E
a
proposito
del
suo
disinteresse
a
mettere
il
naso
fuori
di
casa:
che
senso
aveva
affrontare
il
mondo
esterno
quando
era
il
mondo
a
venire
da
te?
Japigia
rappresentava
un
universo
sconosciuto
per
tutti
quelli
che
delegavano
alla
tv
il
compito
di
istruirli
su
ciò
che
succedeva
oltre
la
scrivania
del
proprio
ufficio,
almeno
quanto
era
pacificamente
nota
come
«l’Eldorado
dell’alcaloide»
per
quell’eterogeneo,
nascosto
ma
informatissimo
esercito
di
iniziati
che
erano
i
consumatori
di
droghe
pesanti
sparsi
per
tutta
la
penisola.
E
i
tossici,
in
quel
periodo,
erano
una
marea.
In
certi
giorni
bastava
affacciarsi
alla
finestra
per
sentire
–
tra
le
strade
immense
del
quartiere
–
un’invincibile
forza
d’attrazione
capace
di
produrre
effetti
in
un
raggio
di
centinaia
di
chilometri.
Chiunque
si
trovasse
a
disperarsi
in
un
paesino
di
provincia
dopo
l’arresto
del
proprio
spacciatore,
sapeva
che
a
Japigia
poteva
trovare
un
bazar
a
cielo
aperto
fiorente
e
affidabile.
Apertura
ventiquattr’ore
al
giorno.
Prezzi
concorrenziali.
Cosí
arrivavano
da
Brindisi,
da
Lecce,
dall’inesauribile
terreno
di
reclutamento
per
tossicomani
che
era
la
zona
amministrativa
del
Foggiano.
Ma
raggiungevano
il
quartiere
anche
da
Campobasso,
da
Pescara,
da
Lucca,
da
Vercelli
–
dopo
una
retata
della
polizia
per
le
strade
delle
loro
città,
racimolavano
qualche
soldo
e
si
scaraventavano
su
un
interregionale
diretto
verso
sud.
Le
case
come
quelle
di
Santo
diventarono
a
Japigia
un
continuo
punto
di
passaggio
per
ragazzi
provenienti
da
ogni
angolo
d’Italia.
C’erano
figli
di
operai,
di
cassintegrati,
di
professori
universitari,
di
ferrovieri,
c’erano
rampolli
di
ricche
famiglie
di
industriali
per
i
quali
i
rischi
di
un’overdose
erano
preferibili
a
un
altro
giro
del
Mediterraneo
in
barca
a
vela.
Una
quantità
di
accenti
e
una
disparità
di
ceti
sociali
che
nessuna
scuola,
pubblica
o
privata,
avrebbe
mai
saputo
offrire.
Io
e
Rachele
in
quel
mondo
iniziammo
a
starci
benissimo.
Ci
bastava
attraversare
ogni
giorno
la
soglia
dell’appartamento
per
sentirci
nel
giusto.
Avanzavamo
tra
posacenere
carichi
di
mozziconi
spenti
e
ascoltavamo
i
resoconti
dei
nuovi
arrivati.
Poi
qualcuno
ci
passava
un
po’
di
roba
da
fumare.
Non
ci
sentimmo
mai
piú
solidali,
piú
vicini,
e
forse
non
credemmo
di
poter
essere
insieme
piú
felici
di
cosí.
E
non
avvertivamo
mai
il
bisogno
di
spiegarci
niente:
se
eravamo
tutti
e
due
da
questa parte,
significava
che
nutrivamo
un
disprezzo
finalmente
credibile
per
quell’altra.
La
casa
di
Santo
Petruzzelli
diventò
la
garanzia
del
nostro
amore
e
dei
nostri
ripetuti
accoppiamenti.
Negli
anni
successivi
l’appartamento
è
stato
ristrutturato
passando
di
proprietario
in
proprietario.
Se
esiste
tuttavia
una
memoria
dei
luoghi,
i
calchi
dei
nostri
amplessi
sopravvivono
in
un
salotto
arredato
con
tavolini
Markör
e
altri
componenti
Ikea.
Continua
dunque
a
esistere
il
pomeriggio
in
cui
Rosamaria
–
una
trentenne
del
quartiere
Libertà
che
pernottava
lí
da
giorni,
ammorbando
chiunque
con
i
ricordi
della
sua
infanzia
sfortunata
–
rivoltò
mezza
casa
alla
ricerca
di
un
biglietto
da
cinquantamila
lire
che
forse
non
era
neanche
mai
esistito,
mentre
io
e
Rachele,
celati
agli
sguardi
dei
presenti
grazie
al
sottile
rivestimento
in
nylon,
amoreggiavamo
nel
caldo
bozzolo
di
un
sacco
a
pelo.
E
la
cucina?
Qualunque
cosa
ci
sia
oggi
al
suo
posto,
anche
lí
rimane
viva
la
traccia
del
nostro
passaggio:
la
sera
in
cui
la
casa
era
quasi
tutta
vuota,
Rachele
stava
friggendo
qualcosa
in
padella
dandomi
le
spalle,
e
i
deliziosi
sorrisi
sulle
piegature
delle
gambe
sotto
la
piccola
gonna
di
lana
con
cui
aveva
deciso
di
sfidare
l’inverno
non
furono
piú
seducenti
dell’inequivocabile
messaggio
inciso
tra
labbra
e
occhi
con
cui
mi
chiamò
a
sé
quando
girò
la
testa.
I
ragazzi
erano
in
giro,
e
il
consueto
silenzio
serale
saliva
dalle
strade
come
un
invito
a
riempire
quella
parentesi
di
vuoto.
Mi
avvicinai,
le
misi
una
mano
tra
le
gambe.
Sentii
qualcosa
di
caldo,
di
appiccicoso.
Subito
dopo
due
rivoli
di
sangue
iniziarono
a
scendermi
sull’avambraccio
mentre
lei
chiudeva
gli
occhi
in
un
trionfale
stato
d’abbandono
che
dieci
anni
di
scuola
dell’obbligo
e
altrettanti
di
cene
di
beneficenza
al
Circolo
ufficiali
non
erano
riusciti
a
strapparle
di
dosso.
E
poi
ovviamente
gli
stupefacenti.
Impossibile
non
farne
uso
lí
dentro.
Inalavamo
le
azzurre
serpentine
dell’eroina
in
stato
gassoso
piombando
a
terra
uno
sopra
l’altra.
Se
dovessi
spaccare
in
tanti
piccoli
frammenti
gli
istanti
che
separavano
la
rigida
veglia
invernale
dalla
densa
nuvolaglia
oppiacea
in
cui
sprofondavo
subito
dopo,
dovrei
dire
che
al
senso
di
colpa
seguiva
il
timore
di
trovarmi
davanti
a
una
prova
a
cui
il
nostro
legame
non
avrebbe
resistito.
Venivo
preso
dal
terrore
che
Rachele
–
sulla
quale
immaginavo
che
l’eroina
dovesse
fare
l’effetto
del
siero
della
verità
–
potesse
rivelarmi
da
un
momento
all’altro
che
di
me
non
le
importava
niente.
Temevo
che
arrivasse
a
dirmi
che
era
ancora
innamorata
di
Rocco,
o
che
nelle
sue
piú
recenti
fantasie
c’era
il
desiderio
di
fare
sesso
con
qualcuno
tra
i
ragazzi
che
transitavano
nell’appartamento.
Invece
la
roba
faceva
il
suo
dovere
normalmente:
rallentamento
del
battito
cardiaco,
grandi
vampate
di
calore…
e
c’era
un
attimo
(un
altro
di
questi
minuscoli
frammenti)
in
cui
avevo
l’impressione
che
fossimo
a
un
passo
dalla
separazione
consensuale
–
il
nostro
amore
era
reciproco,
questo
finalmente
era
assodato,
ma
io
e
Rachele
avevamo
deciso
di
intraprendere
ognuno
per
i
fatti
propri
un
lungo
viaggio
verso
mete
lontanissime.
Mi
sentivo
sprofondare
in
me
stesso
fino
a
provare
l’opposta
sensazione
di
disperdermi
in
quel
misero
arredamento
d’interni,
come
se
tra
il
mio
corpo
e
il
materasso
profumato
di
birra
svaporata
su
cui
ero
appoggiato
non
ci
fosse
alcuna
differenza,
come
se
all’improvviso
riconoscessi
l’insospettata
dignità
di
quel
materasso!,
e
la
dignità
del
divano,
e
delle
pareti,
perfino
la
dignità
delle
briciole
di
cracker
sparse
sul
pavimento,
nell’evidenza
che
tutto
ciò
che
esiste
è
eterno
e
si
equivale.
Le
ultime,
estatiche
parti
di
me
che
ancora
unghiavano
il
mondo
della
realtà
auspicavano
allora
che
mio
padre
e
mia
madre
e
tutti
gli
esseri
umani
candidati
dalle
proprie
ambizioni
al
regno
delle
malattie
nervose
si
sottoponessero
a
una
terapia
analgesica
a
base
di
eroina.
Ma
poi
non
c’era
spazio
neanche
per
questo
tipo
di
pensieri.
L’atto
stesso
del
concepire
idee
diventava
superfluo,
e
quello
che
accadeva
dopo
non
è
testimoniabile.
Ritrovavo
Rachele
al
mio
fianco:
emaciata,
esausta,
gli
occhi
gonfi
e
un
insondabile
sorriso
di
sconfitta
a
fior
di
labbra.
I
nostri
risvegli
avevano
sempre
qualcosa
di
traumatico.
Mi
guardavo
intorno.
La
confusione
da
cui
eravamo
circondati,
adesso
mi
sembrava
solo
squallida.
Riconoscevo
sul
volto
dei
ragazzi
che
occupavano
la
casa
qualcosa
di
feroce,
di
rovinato,
e
sull’onda
di
questo
ribaltamento
emotivo
mi
veniva
il
sospetto
che
il
posto
in
cui
trascorrevamo
le
giornate
non
fosse
poi
quel
radioso
paradiso
libertario
che
fino
a
qualche
ora
prima
ero
convinto
di
avere
conquistato.
La
miseria
umana
semplicemente
non
aveva
piú
bisogno
di
nascondersi
tra
i
complicati
meccanismi
di
una
carriera
né
di
impigliarsi
nei
legami
famigliari
–
il
nocciolo
dei
rapporti
di
dominio
rischiava
però
di
rimanere
identico:
il
carisma
di
Santo
Petruzzelli
non
si
limitava
forse
al
fatto
di
tenere
il
coltello
dalla
parte
del
manico?
Guardavo
Rachele.
Anche
lei
sembrava
triste
e
sconfortata.
Mi
guardava
con
un
broncio
che
non
prometteva
niente
di
buono.
Se
adesso
ci
fossimo
parlati,
se
avessimo
cercato
di
restituire
una
forma
alla
plumbea
atmosfera
che
gravava
su
entrambi
ma
ricadeva
su
ognuno
in
maniera
diversa,
avremmo
rischiato
di
non
capirci,
di
litigare.
Allora
andavamo
a
farci
un
giro.
Uscivamo
dall’appartamento
e
provavamo
a
dissipare
le
brutte
sensazioni
camminando
intorpiditi
per
la
strada.
Ricevevamo
senza
un
lamento
il
vento
gelido
che
razziava
quelle
enormi
carreggiate
prive
di
negozi
e
cartelloni
pubblicitari.
Dal
silenzio
della
sera
vedevamo
emergere
le
sagome
degli
eroinomani
veri.
Erano
i
tossici
in
stato
terminale
che
nelle
case
come
quelle
di
Santo
non
avrebbero
avuto
accesso
perché
nessuno
si
fidava
piú
di
loro
–
spettri
vaganti
le
cui
giornate
prevedevano
interminabili
traversate
dei
quartieri
cittadini
dove
affrontavano
ogni
stazione
del
puro
odio
sociale:
insultati,
evitati,
talvolta
malmenati
dai
passanti
a
cui
chiedevano
due
spiccioli.
Erano
quelli
che
avevano
superato
la
soglia
del
rispetto
del
mondo
e
di
se
stessi,
che
si
fregavano
l’un
l’altro
senza
provare
rimorso,
che
molto
presto
sarebbero
morti.
Oppure,
avrebbero
strisciato
a
ritroso
lungo
il
percorso
infernale
della
riabilitazione,
si
sarebbero
scavati
una
tana
di
famiglia
lavoro
e
anonimato
per
arrivare
a
dire,
anni
dopo,
a
cena
con
gli
amici:
«È
stato
il
periodo
piú
terribile
di
tutta
la
mia
vita…»,
e
avrebbero
ringraziato
pubblicamente
il
dio
del
metadone
e
della
camicia
di
forza,
traditi
dal
loro
sguardo
intorpidito
di
ex
tossici
–
una
membrana
di
cuoio
che
sopravvive
sottopelle
e
riduce
lo
spettro
delle
espressioni
disponibili,
testimoniando
quanto
di
orrendo
e
lancinante
ci
fosse
nell’esistenza
di
allora,
e
quanto
vuota
e
sbagliata
e
parimenti
invivibile
sia
quella
attuale.
Di
tanto
in
tanto
tra
quelle
strade
incrociavamo
Giuseppe
e
Donatella.
Due
sagome
disegnate
a
carboncino
risaltavano
nell’immobilità
del
panorama.
Uscivano
dall’ombra
di
un
palazzo
e
ci
venivano
incontro.
Li
ritrovavo
in
uno
stato
peggiore
del
nostro.
Donatella
era
l’emblema
della
confusione
piú
totale:
pallida,
nervosa,
trasandata,
si
guardava
alle
spalle
senza
nessun
motivo.
Giuseppe
aveva
un’aria
di
stremata
padronanza.
Mi
fissava
con
uno
sguardo
vuoto
e
freddo.
Uno
sguardo
involontario.
In
quei
momenti
realizzavo
che
Giuseppe
e
Donatella
erano
stati
inghiottiti
dal
quartiere
senza
che
me
ne
fossi
accorto.
Cosa
facevano,
dove
andavano,
chi
frequentavano…
non
ne
sapevo
niente.
Stava
accadendo
qualcosa
che
ci
impediva
di
mettere
a
fuoco
la
situazione.
Forse
anche
io
e
Rachele
eravamo
terribilmente
confusi.
Stavamo
perdendo
la
cognizione
del
tempo
e
degli
eventi.
Tre
settimane,
tre
giorni,
un mese?
quanto
era
di
preciso
che
avevamo
messo
radici
nel
quartiere?
Ma
il
piú
delle
volte,
durante
quelle
passeggiate,
io
e
Rachele
non
incontravamo
nessuno.
Accompagnati
da
un
lontano
ronzare
di
automobili,
camminavamo
verso
sud,
costeggiavamo
la
zona
semideserta
dove
anni
dopo
sarebbe
sorto
il
palazzetto
dello
sport.
A
qualche
metro
da
noi
si
profilava
una
piccola
collina
sorta
spontaneamente
da
una
discarica
abusiva.
Affrontavamo
il
pendio,
ci
facevamo
largo
tra
i
cespugli
che
spuntavano
qua
e
là
sul
terreno
grigio
e
molle.
Vedevamo
in
lontananza
una
B
una
A
una
N
illuminate
a
giorno
e
salivamo
ancora,
senza
sapere
neanche
piú
se
fossimo
completamente
svegli.
In
pochi
minuti
davanti
ai
nostri
occhi
c’era
tutta
la
città
–
la
città
in
cui
eravamo
nati
con
la
sua
sfolgorante
foresta
di
luci,
i
cartelloni
accesi
di
Bankamericard
e
dell’Amaro
Lucano,
le
lunghe
code
di
automobili
dirette
verso
il
centro,
i
rimorchi
delle
paninoteche
per
il
lungomare,
il
bagliore
proveniente
dagli
yacht
che
prendevano
il
largo.
Era
allora
che
questo
senso
desolante
di
tragedia
in
atto
ci
crollava
addosso.
Sembrava
che
la
città
morisse
dalla
voglia
di
venirci
incontro,
e
di
travolgerci
malgrado
le
nostre
resistenze,
di
assimilarci
in
quel
concerto
di
colori
dentro
il
quale
non
sarebbe
stato
piú
possibile
concepire
anche
l’idea
di
una
singola
nota
stonata.
Avrei
voluto
dire
qualcosa
a
Rachele
–
qualcosa
in
grado
di
fare
ordine,
di
portarci
in
una
dimensione
di
ritrovata
armonia.
Ma
dalla
bocca
non
mi
usciva
niente.
Due
sere
su
cinque
tornavamo
a
casa.
Non
so
quali
scuse
inventasse
Rachele
per
giustificare
tante
notti
trascorse
fuori
dalla
propria
cameretta.
Immagino
i
soliti
accordi
incrociati
con
amiche
compiacenti.
A
ogni
modo
lei
era
una
ragazza
molto
carina
–
e
certe
ragazze
di
buona
famiglia
sviluppano,
insieme
con
lo
slancio
delle
gambe,
anche
una
dolce
propensione
alla
menzogna
a
cui
le
loro
boccucce
infondono
il
profumo
della
santità.
Ricordo
invece
quali
scuse
avevo
bisogno
di
inventare
io.
Nessuna.
Trascorrevo
almeno
venti
notti
al
mese
fuori
casa
e
non
mi
fu
mai
chiesto
di
rendere
conto
delle
continue
assenze
(né
papà
e
mamma
controllarono
la
cassetta
della
posta
con
tanta
tempestività
da
impedirmi
di
intercettare
la
solitaria
minuta
in
carta
bollata
con
cui
il
Cesare
Baronio
lamentò
la
mia
improvvisa
latitanza
dalle
strutture
scolastiche).
L’involontario
responsabile
di
questa
impunità
fu
Vincenzo.
Era
lui
il
mio
salvacondotto
universale.
A
papà
bastava
ricordarsi
che
eravamo
amici
per
presumere
di
sapere
con
chi
passavo
il
tempo
libero,
dal
momento
che
lui
trascorreva
il
proprio
con
l’avvocato
Lombardi:
carezzare
l’ipotesi
delle
vite
parallele
lo
metteva
in
uno
stato
d’animo
vicino
alla
tranquillità.
Mi
ero
insomma
perso
qualcosa
di
molto
prevedibile,
dal
pomeriggio
in
cui
avevo
sorpreso
mamma
fare
shopping
con
Sabrina
in
via
Sparano.
Mario
Lombardi
era
diventato
l’avvocato
di
famiglia,
con
tutto
ciò
che
comportava
fuori
dal
traffico
delle
citazioni
giudiziarie.
Frequentazioni…
Ecco
la
parola
magica.
Lo
studio
Lombardi
aprí
ai
miei
genitori
le
porte
verso
un
mondo
per
avere
accesso
al
quale
il
conto
in
banca
non
era
sufficiente.
Mio
padre
si
trovò
a
stringere
decine
di
nuove
mani,
sorvegliato
dallo
sguardo
sornione
dell’avvocato:
a
cena
al
ristorante
o
nelle
hall
delle
sale
congressi,
seduto
davanti
a
un
cognac
nel
fumoir
del
Circolo
del
mare,
provando
per
la
prima
volta
il
piacere
ineguagliabile
di
transitare
–
da
un
territorio
su
cui
ogni
minima
conquista
portava
su
di
sé
i
segni
della
lotta
–
verso
un
empireo
i
cui
eletti
condividevano
la
sensazione
di
librarsi
senza
sforzo,
spinti
dal
balsamo
inerziale
del
mutuo
soccorso.
Aveva
per
caso
bisogno
il
mio
papà
del
piú
bravo
cardiologo
di
tutto
il
Sud
Italia?
Di
un
chirurgo
plastico?
Di
un
magistrato,
di
un
architetto
che
non
fosse
il
solito
geometra
sotto
mentite
spoglie?
Aveva
avuto
qualche
piccolo
problema
con
il
fisco
e
non
conosceva
nessuno
all’Agenzia
delle
entrate?
Bene,
adesso
li
conosceva
proprio
tutti.
Iniziò
a
vedere
l’avvocato
ogni
domenica
per
giocare
insieme
a
tennis.
Negli
spogliatoi,
con
gli
asciugamani
legati
in
vita,
confabulavano
di
compravendite
e
investimenti
immobiliari.
Discutevano
ovviamente
di
problemi
legali.
E
si
piacevano
da
morire,
questo
era
certo.
Mario
Lombardi
era
affascinato
dalla
propensione
a
tirar
fuori
le
unghie
che
il
suo
nuovo
amico
non
avrebbe
perso
neanche
dopo
dieci
anni
di
Rotary:
per
ogni
affare
al
centro
delle
loro
discussioni,
c’erano
aspetti
che
l’avvocato
non
coglieva
e
che
papà
era
capace
di
snidare
con
un
battito
di
ciglia,
perché
l’attenzione
sfiancante
a
ogni
dettaglio
era
stata
la
sua
belva
da
riporto
per
trent’anni.
Mio
padre
era
estasiato
dall’assoluta
padronanza
emotiva
sfoggiata
dall’avvocato,
risultato
naturale
di
tre
generazioni
abituate
all’esercizio
del
potere.
La
mancanza
di
tensione
con
cui
Mario
Lombardi
affrontava
gli
interessi
colossali
al
centro
di
una
causa,
quell’innato
saper
vivere
capace
di
sedurre
frapponendo
una
distanza
tra
sé
e
chiunque
altro
lo
lasciavano
a
bocca
aperta.
E
le
mogli?
Perché
la
macchina
della
nuova
alleanza
fosse
unta
dal
lubrificante
della
migliore
tradizione,
anche
loro
dovevano
mettersi
d’impegno.
Mia
madre
e
Sabrina
diventarono
amiche
per
la
pelle.
Cominciarono
a
comparire
insieme
a
vernissage,
concerti
di
musica
classica
e
riffe
natalizie.
L’unica
cosa
che
poteva
accomunarle
era
un’origine
quanto
mai
lontana
dagli
ambienti
dell’alta
borghesia.
A
parte
questo,
non
credo
ebbero
mai
il
tempo
neanche
per
domandarsi
se
si
piacessero
davvero
–
ma
fecero
il
proprio
dovere
con
ammirevole
abnegazione,
tenendosi
a
braccetto
per
darsi
coraggio
sotto
gli
sfavillanti
candelabri
di
un
foyer,
scrutate
dalle
perfide
carampane
obbligate
sin
da
piccole
a
suicidare
Schubert
al
pianoforte
che
rappresentavano
l’altra
metà
della
crema
cittadina.
Il
risultato
piú
facilmente
testimoniabile
di
tutte
queste
novità
consistette
nella
decisione
di
interrompere
per
l’ennesima
volta
i
lavori
della
villa
in
cui
saremmo
dovuti
andare
a
vivere
sin
dal
lontano
’85.
Le
rare
volte
in
cui
mi
capitava
di
pranzare
a
casa,
gli
argomenti
che
potevano
trascinarsi
fino
al
caffè
riguardavano
problemi
quali
lo
stile
di
un
lucernario
a
doppio
vetro.
Le
uscite
pubbliche
degli
ultimi
mesi
avevano
fatto
sorgere
nei
miei
il
sospetto
di
un
errore.
Il
profluvio
di
marmi
rosa
considerato
fino
a
poco
tempo
prima
il
sistema
piú
ovvio
per
presentare
le
generalità
di
una
solida
famiglia
di
benestanti,
adesso
rischiava
di
apparire
volgare.
Le
leggi
di
natura
dell’alta
borghesia
non
prevedevano
un
rapporto
necessariamente
proporzionale
tra
gusto
e
quantità
di
denaro
rovesciato
nella
causa
di
un
camino
in
travertino
sorvegliato
da
due
arcangeli
di
un
metro
e
ottantacinque.
Se
si
era
in
grado
di
scegliere,
si
poteva
spendere
di
meno
guadagnando
in
ricercatezza.
«Guarda
qua»,
diceva
mamma
spalancando
un
opuscolo
su
cui
era
rappresentata
un’elegante
consolle
a
bande
verticali
nera
e
panna.
«C’è
un
problema,
–
commentava
scettico
papà,
–
ha
i
piedi
di
forma
diversa».
«Ma
è
voluto!
L’ha
disegnato
Sottsass!»
«E
chi
sarebbe?»
Poi
mamma
iniziava
a
innervosirsi
e,
se
mio
padre
non
doveva
correre
verso
un
impegno,
trovavano
anche
il
tempo
per
litigare.
Nonostante
li
guardassi
attraverso
la
mia
bruciacchiata
ostilità
(cui
si
sovrapponeva
lo
specchio
deformante
dello
sballo
del
giorno
prima),
riuscivo
a
cogliere
in
mia
madre
un’inquietudine
elettricamente
adagiata
sotto
ciascuna
delle
sue
parole,
come
se
eccitarsi
intorno
a
tutti
questi
cambiamenti
fosse
una
tattica
per
non
saggiare
a
fondo
la
materia
di
cui
erano
fatti.
Si
inalberava,
alzava
inutilmente
la
voce
proprio
quando
mio
padre
abbassava
la
propria
ventilando
una
tregua
di
cui
si
sarebbe
avvantaggiato
il
solo
Ettore
Sottsass.
Ma
a
quel
punto
uscivo
di
casa,
raggiungevo
Rachele,
e
in
pochi
scoppi
di
marmitta
il
mondo
dei
nostri
genitori
non
esisteva
piú.
In
questo
modo,
mi
persi
i
colpi
da
maestro
con
cui
Mario
Lombardi
rimise
a
posto
i
nostri
problemi
legali.
Uno
per
tutti:
Gianfranco
Balestrucci.
Al
padre
di
Vincenzo
bastarono
pochi
squilli
di
telefono
perché
lo
stesso
curatore
fallimentare
che
aveva
impiegato
due
anni
a
inventariare
i
beni
del
malcapitato,
in
meno
di
un
ventesimo
del
tempo
desse
il
nullaosta
per
la
liquidazione
di
una
somma
che
gli
interessi
accumulati
non
resero
meno
trascurabile.
Non
contento,
l’avvocato
convocò
mio
padre
nel
suo
studio.
Gli
disse:
«Le
buone
notizie
non
sono
finite»,
e
lo
informò
che
gli
ultimi
averi
di
Balestrucci
sarebbero
stati
venduti
il
lunedí
successivo
a
un’asta
giudiziaria
–
prezzo
base:
una
miseria.
A
quanto
pareva,
Balestrucci
aveva
raccolto
tra
mille
difficoltà
il
denaro
necessario
per
rientrare
in
possesso
di
almeno
qualche
articolo,
e
soprattutto
si
era
venduto
l’anima
perché
alla
notizia
dell’incanto
non
venisse
data
pubblicità
come
previsto
dalla
legge:
«Ma
vedi,
–
disse
l’avvocato
nel
chiaroscuro
dell’ufficio,
–
l’Istituto
vendite
giudiziarie
è
un
porto
di
mare…»
A
quel
punto
spero
che
papà
abbia
almeno
pensato:
Non
posso farlo…
prima
che
una
qualunque
immagine
risalita
dal
pozzo
nero
del
suo
passato
di
stenti
lo
costringesse
invece
a
dire:
«Smobilito
un
po’
di
titoli
e
lunedí
mattina
sono
in
tribunale».
L’avvocato
lo
ammoní:
«Te
lo
vuoi
ritrovare
sotto
casa
con
una
rivoltella
in
mano?
Smobilita
i
titoli,
che
in
tribunale
ci
mandiamo
una
persona
di
fiducia».
Se
di
queste
vicende
mi
accorsi
poco,
mio
padre
non
fu
meno
distratto.
A
Bari,
ogni
individuo
dotato
di
una
partita
Iva
appena
presentabile
veniva
preceduto
da
un
folto
sciame
di
dicerie.
A
papà
arrivò
sicuramente
la
voce
che
gli
affari
dell’avvocato
seguivano
un
doppio
binario.
Preferí
dunque
imputare
all’invidia
certe
informazioni,
e
comunque
le
dimenticò
del
tutto
quando
–
all’inizio
della
primavera
–
lui
e
la
mamma
ebbero
l’onore
di
figurare
tra
gli
invitati
alla
festa
per
gli
ottant’anni
dello
studio
legale.
A
parte
queste
sviste,
papà
e
mamma
non
associarono
una
sola
volta
le
mie
occhiaie
a
qualcosa
che
non
fosse
il
sonno
agitato
degli
adolescenti.
E
non
lo
fecero
mamma
e
papà
Rubino
rispetto
a
Giuseppe,
che
con
le
droghe
ci
stava
andando
pesante
molto
piú
di
me.
Ma
in
quest’ultimo
caso
si
trattava
di
una
donna
che
in
dieci
anni
di
carte
di
credito
bruciate
contro
tutte
le
bande
magnetiche
degli
esercizi
cittadini
non
aveva
mai
intuito
di
non
essere
la
vera
proprietaria
dei
suoi
soldi,
e
di
un
uomo
al
quale
la
luttuosa
comparsa
dello
Sghigno
aveva
rosicchiato
ultimamente
altri
cinque
punti
percentuali.
Difficile
pensare
ad
altro
in
questa
situazione.
Sulle
grigie
spianate
d’asfalto
alla
base
dei
tralicci.
Chiuso
in
un
cesso
o
dietro
le
tendine
di
una
macchina
per
fototessere.
Nel
cortile
posteriore
del
grande
condominio
alla
fine
di
via
Pitagora
–
una
brulla
estensione
di
terriccio
disertata
da
chiunque
a
parte
i
gatti
randagi,
che
saltavano
continuamente
attraverso
le
sbarre
del
cancello
rimanendo
congelati
a
testa
in
giú
nelle
pupille
appena
invase
dal
terzo
flash
della
giornata.
Chiuso
in
un
altro
gabinetto.
Sul
sedile
di
un’automobile
con
segni
d’effrazione
all’altezza
degli
sportelli.
In
marcia
lungo
via
Gentile,
all’altezza
dell’imbocco
per
la
tangenziale,
dove
uno
spacciatore
di
oltre
cento
chili
soprannominato
«il
papa»
se
ne
stava
per
tutta
la
giornata
su
una
poltrona
di
cuoio
al
centro
esatto
di
una
distesa
d’erba.
E
poi
in
appartamenti
simili
a
quello
di
Santo
Petruzzelli,
dove
io
non
ho
mai
messo
piede.
Fu
questo
lo
scenario
in
cui
Giuseppe
sprofondò
senza
che
me
ne
accorgessi.
Nelle
prime
settimane
del
1988
era
parte
integrante
del
quartiere
piú
di
quanto
avessimo
potuto
mai
sperare
di
fare
io
e
Rachele.
Lo
era
piú
di
Vincenzo,
che
pure
frequentava
Japigia
da
molto
tempo
prima
–
ma
cento
Dame
in
nero
non
valevano
da
quelle
parti
l’avere
passeggiato
almeno
una
volta
con
«Maxi
il
bucomane»
lungo
le
sbarre
arrugginite
di
una
cancellata,
introducendosi
nel
cortile
insieme
a
un
paio
di
gatti
proprio
quando
il
sole
era
appena
sprofondato
oltre
il
tetto
dei
palazzi,
superando
i
vasi
rotti
e
le
minuscole
piroghe
delle
foglie
rinsecchite
per
sedersi
schiena
contro
schiena
pronti
a
entrare
nell’ora
zero
che
rappresenta
la
sezione
aurea
di
ogni
vero
tossico.
Maxi
il
bucomane,
e
tutti
gli
altri
(amicizie
che
duravano
per
settimane,
o
semplici
compagni
di
una
dose)
con
cui
Giuseppe
condivise
il
periodo
piú
misterioso
del
ciclo
vitale
degli
eroinomani.
Piú
tardi,
si
entra
per
forza
di
cose
in
una
testimonialità
riconosciuta:
arrivavano
un
nome
e
un
cognome
sui
registri
della
questura
o
di
un
pronto
soccorso,
o
su
una
scheda
di
valutazione
in
cui
si
tiene
conto
di
voci
piuttosto
umilianti
quali
«partecipazione
alle
attività
di
gruppo»
a
proposito
dei
canestri
intrecciati
in
un
centro
di
recupero.
Ma
molto
prima
che
il
tossico
riempia
il
repertorio
ufficiale
dei
nemici
della
società
o
venga
caritatevolmente
restituito
alla
famiglia,
c’è
un
intervallo
durante
il
quale
di
lui
non
si
sa
niente
se
si
eccettuano
voci
di
voci
che
lo
vogliono
in
un
dato
posto,
in
compagnia
di
determinate
persone,
troppo
lontano
e
sempre
troppo
tardi
per
raggiungerlo.
Era
il
periodo
in
cui
lo
incontravo
di
sera
agli
incroci
delle
strade
e
lui
diceva:
«La
vuoi
una
sigaretta?»,
e
io
me
ne
stavo
a
guardarlo
notando
come
la
sua
obesità
si
fosse
trasformata
in
uno
strano
sovrappeso
al
tempo
stesso
ruvido
e
prezioso.
La
luce
sotto
cui
mi
era
apparso
la
prima
volta
tra
i
banchi
di
scuola
adesso
risplendeva
in
una
gradazione
ideale,
convertendo
le
sue
imprese
precedenti
in
un
lungo
esercizio
preparatorio
rispetto
a
un’esperienza
che
consentiva
di
provare
sollievo
dall’intero
processo
vitale.
La
dipendenza
assoluta…
I
dischi
e
gli
abiti
di
marca
e
le
auto
sportive
e
le
campagne
pubblicitarie
a
cui
l’anima
di
un
intero
decennio
si
era
entusiasticamente
già
venduta,
si
ponevano
con
l’eroina
in
un
rapporto
di
discepolo
a
maestro.
Perché,
di
quali
esperti
di
marketing
ha
mai
bisogno
l’eroina?
Di
che
miglioramento
del
prodotto?
Di
che
packaging?
Se
si
trattava
del
prodotto
definitivo,
l’irrevocabile
determinazione
a
vivere
un
vuoto
e
una
perdita
(non
acquistare
una
merce,
ma
vendersi
completamente
a
essa)
consentí
ai
ragazzi
come
Giuseppe
di
entrare
nel
ventre
di
balena
della
loro
epoca.
Ma
in
quei
mesi
avevo
buchi
di
memoria
sempre
piú
frequenti.
Mi
limitavo
a
fargli
compagnia
per
una
decina
di
minuti
senza
capire
cosa
stesse
cercando
di
fare,
e
senza
domandarmi
se
ci
fosse
un
motivo
che
spingeva
invece
me
e
Rachele
a
fumare
la
roba
senza
iniettarcela
in
vena
–
una
voglia
di
sopravvivere
malgrado
tutto,
mi
dico
adesso,
un
inconfessato
desiderio
di
fare
ritorno
verso
quel
mondo
che
tanto
ci
sforzavamo
di
detestare.
Allo
stesso
modo,
mi
limitavo
a
registrare
distrattamente
la
presenza
di
Vincenzo
per
le
strade
del
quartiere.
Elegante
e
spigoloso,
avvolto
in
un
trench,
a
passo
svelto
e
soprattutto
furente
come
certi
personaggi
dostoevskijani
che
camminano
a
occhi
sgranati
per
le
vie
di
Pietroburgo.
Lasciavo
che
mi
passasse
davanti
senza
neanche
fermarlo,
e
per
molto
tempo
evitai
di
chiedermi
che
tipo
di
problemi
avesse.
In
fondo,
era
stato
lui
a
trascinarci
laggiú.
Ma
adesso
stava
cogliendo
in
pieno
la
dimensione
di
un
fallimento
gigantesco.
La
sfida
mossa
all’avvocato
non
aveva
dato
risultati,
mentre
Giuseppe
si
trovava
in
fondo
a
realizzare,
pure
attraverso
il
proprio
annientamento,
ciò
che
l’ex
oggetto
di
culto
di
un
intero
istituto
scolastico
era
costretto
a
riconoscere
di
non
avere
forse
mai
neanche
posseduto:
una
vera
vocazione.
Ma
per
me
allora
Vincenzo
si
ridusse
a
poche
brevi
apparizioni.
E
non
mi
preoccupai
neanche
di
Donatella,
sul
conto
della
quale
iniziarono
a
circolare
voci
sempre
piú
insistenti:
aveva
iniziato
a
farsi
insieme
a
Giuseppe;
aveva
rotto
con
Vincenzo;
aveva
rotto
persino
con
Giuseppe
e
adesso
sbandava
avanti
e
indietro
per
Japigia
abbandonata
da
tutti.
Gli
spacciatori
la
vedevano
passare
e
facevano
scommesse…
Cosí,
sarebbe
stata
una
vittima
perfetta
del
quartiere
se,
proprio
in
quel
periodo,
mamma
e
papà
Lattanzi
non
avessero
trovato
nella
sua
stanza
un
biglietto
da
cinquantamila
sul
margine
di
uno
specchietto
attraversato
da
poche
linee
opache.
Dovettero
riassumere
in
un
colpo
d’occhio
gli
ultimi
mesi
di
vita
della
figlia
e
fu
per
questo
che,
dopo
averla
presa
a
schiaffi,
la
costrinsero
a
salvarsi
imprigionandola
sino
alla
fine
dell’estate
nel
perimetro
di
quella
stessa
stanza,
dalla
quale
né
Vincenzo
né
Giuseppe
né
io
né
nessun
altro
venne
mai
comunque
a
reclamarla.
Stava
davvero
succedendo
tutto
questo?
Non
lo
sapevo,
non
me
ne
interessavo,
non
avevo
voglia
di
pensarci.
Qualcosa
di
nuovo
e
adulto
e
riassuntivo
stava
iniziando
a
rendermi
stanco,
indifferente.
Cosí,
quando
Giuseppe
fece
il
suo
ingresso
nella
casa
di
Santo
dopo
molte
settimane,
mi
limitai
a
salutarlo
sollevando
pigramente
il
braccio
destro,
senza
muovermi
dal
materasso
sul
quale
avevo
poltrito
con
Rachele
per
tutta
la
giornata.
Lo
vidi
mentre
confabulava
con
Santo
e
con
un
altro
paio
di
ragazzi.
A
un
certo
punto
gli
sentii
dire
«dopodomani…»
a
proposito
del
battesimo
di
un
suo
cugino
di
terzo
grado,
una
di
quelle
immense
tavolate
in
una
sala
ricevimenti
color
confetto
dentro
la
quale
l’intero
clan
dei
Rubino
sarebbe
stato
imprigionato
per
tutta
la
giornata.
La
solidarietà
di
gruppo
era
diffusa
tra
i
tossici
non
completamente
rovinati
del
periodo,
e
derubare
l’appartamento
dei
propri
genitori
era
il
sistema
piú
coraggioso
per
metterla
in
pratica.
«Dopodomani,
–
ripeté
Giuseppe
accelerando
la
catastrofe
della
sua
famiglia,
–
dopodomani
a
casa
mia
non
ci
sarà
nessuno».
Solo
la
scena
degli
zombi
in
marcia
nel
supermercato
può
rendere
il
concetto.
Ci
arrivammo
che
potevamo
essere
una
quindicina.
Qualcuno
si
era
fatto
l’ultimo
schizzetto
per
festeggiare
in
anticipo
il
grande
colpo,
e
dunque
bisogna
immaginare
un
gruppo
di
ragazzi
semibarcollanti,
tagliati
dalla
luce
di
fine
marzo,
che
si
accalcarono
davanti
al
cancello
e
poi
iniziarono
a
calpestare
l’erba
del
giardino
inciampando
negli
irrigatori
e
superando
mollemente
le
barriere
delle
siepi.
Giuseppe
infilò
le
chiavi
nella
porta
blindata,
disinnescò
l’allarme
e
diede
il
via
libera.
Ci
addentrammo
tra
le
stanze
della
villa
con
i
sacchi
dell’immondizia
stretti
in
mano.
Iniziammo
ad
aprire
i
cassetti,
a
digitare
combinazioni
sulle
casseforti
a
muro,
ad
allungare
le
mani
verso
le
mensole
facendo
incetta
di
gioielli
e
penne
stilografiche
e
stole
di
giaguaro
e
altri
oggetti
di
valore
che
vennero
sottratti
dalla
loro
ampollosa
prigione.
Quando
Rachele
mi
passò
un
Patek
Philippe
che
avrebbe
potuto
essere
il
pezzo
forte
di
un’asta
internazionale
(e
le
mie
dita
sfiorarono
le
sue
prima
che
l’orologio
finisse
nella
busta
dell’immondizia),
non
venni
rincuorato
per
i
grammi
di
roba
che
ne
sarebbero
venuti
fuori
quanto
dalla
sensazione
che
in
ciascuno
di
quei
furti
ci
fosse
qualcosa
di
sacro,
di
purificatorio.
Tre
quarti
d’ora
dopo
eravamo
tutti
insieme
a
starnazzare
tra
le
acque
stagnanti
della
piscina
–
e
io,
col
liquido
verdastro
fino
al
collo,
accarezzavo
i
capelli
bagnati
di
Rachele
portando
la
sua
fronte
sulla
mia.
Infine
ci
avviammo
verso
il
cancello
lasciandoci
alle
spalle
un’infinità
di
rigagnoli
che
il
vento
avrebbe
presto
cancellato.
Capitolo
quattordicesimo
Lo
Sghigno
aveva
appena
finito
di
pisciare
dietro
la
piccola
costruzione
di
tufo
e
ora
stava
tornando
verso
la
station
wagon.
Un
intenso
profumo
di
polline
invadeva
lo
spiazzo
nudo
e
circolare,
ma
non
sembrava
venire
dai
mandorli
incrociati
nel
tragitto
né
dai
vicini
fili
d’erba,
perché
quell’anno
la
primavera
era
un
unico
corpo
femminile
che
affiorava
da
un
sonno
lungo
e
piatto
per
tornare
subito
dopo
a
inabissarsi
–
e
fino
a
quando
il
risveglio
non
fosse
stato
completo,
sembrava
che
l’intera
pellicola
atmosferica
venisse
pervasa
a
capriccio
da
questi
odori;
i
quali,
in
modo
altrettanto
imprevedibile,
svanivano
sulla
durezza
metallica
di
una
stagione
ancora
non
del
tutto
consumata.
Se
avesse
avuto
intorno
un
paesaggio
pianeggiante,
avrebbe
visto
le
luci
in
lontananza.
Invece
sentí
i
giri
di
un
motore
che
avanzava
con
lentezza,
e
solo
quando
aveva
già
la
mano
tesa
verso
lo
sportello
vide
i
fari
puntare
verso
l’alto
e
poi
abbassarsi
nel
momento
in
cui
una
Fiat
Panda
di
colore
rosso
imboccava
la
discesa.
Entrò
nella
station
wagon,
chiuse
lo
sportello,
sfilò
una
chiave
dal
mazzo
e
aprí
la
serratura
del
cruscotto.
Attese
che
la
Panda
si
fermasse.
Ritardatari…
pensò.
C’erano
sempre
dei
ritardatari,
benché
ormai
chiunque
andasse
a
rifornirsi
dallo
Sghigno
sapeva
che
dopo
le
undici
lí
non
c’era
piú
nessuno:
la
station
wagon
imboccava
la
strada
campestre,
si
immetteva
sul
lungomare
e
scompariva
nella
notte.
Ma
quella
sera
sembrava
che
una
rota
gigantesca
stesse
artigliando
i
tossici
di
tutta
la
città.
C’era
stato
un
continuo
viavai
di
automobili
e
motorini
e
autocarri
e
poveri
sbandati
che
avevano
coperto
a
piedi
chissà
quanti
chilometri
contandosi
il
denaro
tra
le
mani.
Allentò
la
stretta
sulla
chiave
solo
quando
sentí
spegnersi
il
motore.
Lo
sportello
della
Panda
si
aprí.
Ne
venne
fuori
un
ragazzo
in
giubbotto
di
jeans
che
avanzò
verso
di
lui
con
passo
incerto.
Lo
Sghigno
abbassò
il
finestrino,
infilò
la
mano
nel
cruscotto
per
prendere
la
roba,
e
solo
allora
(come
un
ricordo
che
nasca
dalla
linea
non
ancora
spezzata
dei
secondi
immediatamente
precedenti)
risentí
nelle
orecchie
l’impossibile
sfasatura
acustica
del
motore
della
Panda
che
si
spegneva
e
poi
tornava
a
spegnersi
di
nuovo.
Alzò
la
testa.
Fece
scorrere
lo
sguardo
per
l’intero
spiazzo
fino
a
quando,
alla
sommità
della
salita,
vide
la
nera
sagoma
di
altre
due
automobili.
Erano
arrivate
a
luci
spente
e
adesso
bloccavano
l’unica
via
di
accesso
alla
piccola
mulattiera
che
riportava
in
città.
Era
ovvio
che
non
sarebbe
mai
dovuto
rientrare
nella
station
wagon.
E
bisognava
presumere
che
non
sarebbe
arrivata
nessuna
Panda
alle
undici
e
mezzo
di
sera
se,
due
settimane
prima,
l’avvocato
Lombardi
non
gli
avesse
dato
il
benservito.
Lo
aveva
fatto
sedere
dall’altra
parte
della
scrivania.
Aveva
intrecciato
le
mani
sull’agenda
e
aveva
detto:
«Ti
ringrazio».
Gli
aveva
espresso
la
sua
formale
riconoscenza
per
dieci
anni
di
servizio
e
poi
gli
aveva
comunicato
che
lo
studio
Lombardi
non
aveva
piú
bisogno
di
lui.
Lo
Sghigno
aveva
annuito.
L’avvocato
gli
aveva
teso
la
mano.
L’incontro
si
era
svolto
cosí
rapidamente
da
dargli
l’impressione
che
niente
fosse
cambiato
per
davvero:
dopo
neanche
mezz’ora
era
di
nuovo
in
macchina
per
il
consueto
giro
di
raccolta,
fermandosi
ai
semafori
e
poi
marciando
per
le
strade
di
una
città
che
–
a
parte
le
improvvise
folate
di
caldo
–
era
la
solita
di
sempre.
Capiva
che
essere
fuori
dallo
studio
significava
rimanere
senza
protezione.
Non
riusciva
invece
a
spiegarsi
i
motivi
del
licenziamento.
Nei
giorni
successivi
aveva
continuato
a
domandarselo,
ma
quando
ripensava
alla
scena
(l’avvocato
tornava
a
intrecciare
le
mani
sull’agenda,
lui
annuiva,
si
salutavano…)
l’unica
stranezza
era
che,
quel
giorno,
persino
Mario
Lombardi
non
sembrava
del
tutto
padrone
delle
sue
parole
–
come
se
sguardo
e
voce
e
mani
in
movimento
fossero
governati
da
qualcosa
di
remoto,
di
inarrestabile.
Aveva
continuato
nei
suoi
giri
e
poi,
ogni
sera,
si
era
addentrato
nelle
campagne
tra
il
lungomare
e
Japigia
con
dieci
grammi
di
eroina
nel
cruscotto.
Temeva
che
l’interruzione
di
qualunque
abitudine
potesse
destare
dei
sospetti.
Quando
il
ragazzo
si
affacciò
sul
finestrino
semiaperto
e
disse:
«Un
pezzo»,
il
cuore
dello
Sghigno
riuscí
a
non
sussultare.
Evitando
di
guardarlo,
si
piegò
di
tre
quarti
verso
il
cruscotto.
Gli
diede
le
spalle,
offrendo
la
piccola
porzione
di
capelli
nerissimi
aggrappati
tenacemente
alla
base
del
collo.
Il
primo
colpo
gli
trapassò
la
nuca
sfondandogli
l’orbita
dell’occhio
destro.
I
colpi
successivi
lo
raggiunsero
quando
lui
non
c’era
piú.
Che
qualcosa
intorno
a
noi
stesse
cambiando,
si
capiva
dall’atmosfera
di
crepitante
nervosismo
che
attraversava
le
strade.
Nei
primi
giorni
di
aprile,
quando
già
Donatella
non
era
piú
dei
nostri,
a
un
paio
di
settimane
dal
breve
periodo
durante
il
quale
il
silenzio
di
Japigia
venne
rotto
dalle
sirene
delle
autombulanze,
io
e
Rachele
assistemmo
alla
prima
scena
di
violenza
della
nostra
vita.
Eravamo
scesi
a
comprare
le
sigarette
e
stavamo
tornando
verso
casa
di
Santo.
Rachele
aveva
ripreso
a
indossare
i
suoi
vestiti
di
cotone
e
adesso
era
una
vivida
testimonianza
di
bellezza
pomeridiana
che
avanzava
nel
deserto
di
via
Gentile.
Sentimmo
un
urlo.
Quando
girammo
la
testa,
il
ragazzo
in
jeans
e
magliettina
azzurra
ci
aveva
già
superati
correndo
sull’altro
lato
della
strada.
Da
una
via
laterale
sbucò
un
Vespone
a
pieno
regime.
Un
secondo
scooter
prese
la
curva
troppo
larga,
basculò
verso
il
nostro
marciapiede,
poi
il
guidatore
diede
uno
strappo
sul
manubrio
e
accelerò
fino
a
rientrare
nel
tracciato.
Sopra
ogni
moto
c’erano
due
ragazzi.
Il
fuggiasco
deviò
sul
marciapiede,
inciampò
nei
propri
passi,
riprese
a
correre
tenendosi
sul
lato
dei
palazzi.
Una
delle
moto
lo
superò
da
sinistra.
Il
passeggero
di
dietro
descrisse
un
mezzo
giro
con
il
braccio.
La
mazza
da
biliardo
che
fino
a
poco
prima
aveva
stretto
tra
le
mani
si
spaccò.
Contemporaneamente,
il
ragazzo
in
maglia
azzurra
cadde
schiena
a
terra.
Rimase
immobile
per
qualche
istante.
Intrecciò
le
mani
sulla
testa
prima
che
gli
fossero
addosso.
Io
e
Rachele
eravamo
paralizzati.
Uno
degli
aggressori
smise
di
prendere
a
calci
il
ragazzo,
alzò
la
testa
guardando
nella
nostra
direzione.
Urlò
qualcosa.
Non
c’era
nessun
altro
per
la
strada.
Assurdamente,
iniziai
a
camminare
verso
di
lui.
Non
sapevo
neanch’io
cosa
avessi
intenzione
di
fare.
Gli
altri
aggressori
smisero
anche
loro
di
picchiare
il
ragazzo.
Mi
guardarono
tutti
e
quattro
con
aria
incredula.
A
quel
punto,
seppi
di
che
cosa
era
fatto
il
mio
coraggio.
Una
forza
piú
autorevole
della
volontà
mi
bloccò
i
muscoli
delle
gambe.
Indietreggiai.
Non
appena
il
pestaggio
fu
ripreso,
voltai
le
spalle
alla
scena
e
mi
misi
a
correre
a
gambe
levate.
Dopo
una
cinquantina
di
metri
mi
ricordai
di
Rachele.
Mi
arrestai
di
colpo.
Rachele
non
c’era.
In
preda
al
panico,
ripercorsi
a
passo
svelto
la
strada
da
cui
eravamo
venuti.
La
ritrovai
a
due
isolati
di
distanza
–
ferma
accanto
a
un’auto
parcheggiata,
le
braccia
verso
il
basso,
lo
sguardo
intontito.
Capii
che
era
fuggita
prima
di
me.
Sopraffatti
dalla
vergogna,
evitammo
di
parlarci
per
il
resto
del
pomeriggio.
Qualcosa
di
analogo
accadde
un
paio
di
sere
dopo
a
casa
di
Santo
Petruzzelli.
Intorno
alle
dieci,
sentimmo
un
rumore
di
pugni
sferrati
contro
la
porta.
Santo
si
diresse
verso
l’ingresso,
seguito
da
me,
da
Rachele,
e
dai
pochi
curiosi
che
non
erano
completamente
fatti.
Aprí
la
porta,
diede
un’occhiata
fuori.
Dopo
che
ebbe
spinto
con
forza
il
pannello
in
senso
opposto,
una
scarpa
da
ginnastica
si
infilò
nella
fessura.
Il
proprietario
della
scarpa
disse:
«Per
favore,
Santo,
fammi
entrare!»
Lui
continuò
a
spingere,
contrastando
il
movimento
della
gamba.
La
voce
ripeté:
«Per
favore,
cazzo,
per
favore!»
Il
padrone
di
casa
mollò
la
presa.
Per
un
attimo
vedemmo
comparire
nell’ingresso
un
ragazzo
magro
e
riccioluto,
in
felpa
e
pantaloni
gialli.
Ansimava.
Santo
si
strinse
la
cinta
della
vestaglia
e
gli
sferrò
un
calcio
nello
stomaco.
Chiuse
definitivamente
la
porta.
Sentimmo
i
passi
del
ragazzo
dirigersi
di
corsa
verso
il
piano
superiore,
seguiti
da
altri
passi
e
altri
passi
ancora.
Il
rumore
di
un
corpo
scaraventato
dalle
scale
si
fece
sempre
piú
vicino.
Santo
sorrise:
«Fossi
in
voi,
non
uscirei
di
casa
per
almeno
un’ora».
Non
disse
altro.
Tornò
a
sedersi
sul
divano.
Quella
sera,
tornato
a
casa,
mi
addormentai
guardando
il
telegiornale.
L’Unione
Sovietica
si
ritirava
dall’Afghanistan
e
il
presidente
Gorbačëv
si
preparava
a
uno
storico
incontro
col
Segretario
di
Stato
Vaticano.
Un
portavoce
della
Casa
Bianca
confessava
l’impossibilità
di
realizzare
lo
Scudo
stellare
mentre
uno
sciopero
nei
cantieri
navali
di
Danzica
metteva
in
crisi
il
Partito
comunista
polacco.
Il
papa
salmodiava:
«I
bambini
che
hanno
visto
la
guerra
|
sono
l’unica
speranza
per
la
pace».
Madonna
dichiarava:
«Non
potrò
essere
felice
fino
a
quando
non
diventerò
famosa
come
Dio».
Al
mattino,
mi
risvegliai
con
la
sensazione
che
il
mondo
avesse
sognato
molto
piú
intensamente
di
me
–
piú
intensa
e
piú
veloce,
una
bianca
corrente
elettrica
doppiava
tutti
i
meridiani
terrestri
per
miliardi
di
volte
in
una
sola
notte.
Il
padre
di
Vincenzo
disse:
«Ascoltami
adesso,
voglio
darti
un
consiglio…»
Senza
togliersi
le
mani
dalle
tasche,
Vincenzo
disse
a
Giuseppe:
«Allora,
senti,
volevo
dirti
questa
cosa…»
Il
cognato
di
Domenico
Rubino
chiese
a
Domenico
Rubino:
«Ma
come?
ci
andiamo
col
furgone
della
Eurogarden?»
I
due
erano
nel
magazzino
della
ditta,
in
fondo
a
un
lungo
corridoio
pieno
di
merce
sistemata
sui
bancali.
Il
padre
di
Giuseppe
agitò
il
bicchierino
di
plastica
tenendone
i
bordi
tra
le
dita.
Spense
la
macchina
del
caffè.
Portò
una
mano
verso
l’alto
e
spense
anche
l’interruttore
della
caldaia.
Bevve
il
caffè.
Buttò
il
bicchiere
nel
cestino
e
camminò
fino
al
piano
metallico
del
montacarichi.
«Il
dubbio
che
non
siamo
noi
non
li
deve
neanche
sfiorare»,
si
limitò
a
rispondere.
Ruotò
la
manopola
di
plastica
a
forma
di
trifoglio.
Il
pavimento
sotto
i
loro
piedi
sussultò.
Iniziarono
a
muoversi
a
singhiozzo
verso
il
basso.
Due
grossi
tubi
al
neon
ben
ancorati
sul
soffitto
sfarfallarono,
quindi
si
accesero
uno
dopo
l’altro
rivelando
un
caveau
di
forma
rettangolare
la
cui
altezza
non
superava
i
due
metri
e
mezzo.
Una
delle
pareti
era
occupata
da
un
armadio
di
metallo.
Il
cognato
di
Domenico
disse:
«Tex…»
Due
punte
si
drizzarono
in
fondo
allo
stanzone,
dove
la
luce
del
neon
arrivava
a
malapena.
Domenico
Rubino
disse:
«Bello»,
battendosi
una
mano
sulla
coscia.
Il
pastore
tedesco
uscí
definitivamente
dall’ombra.
Era
vecchio
e
appesantito.
Arrancò
scodinzolando
verso
i
due.
Poi
si
sedette
di
fronte
a
loro
con
la
lingua
a
penzoloni.
«Riempi
tu
le
ciotole»,
disse
Domenico.
Quando
l’uomo
tornò
dal
padre
di
Giuseppe,
l’armadio
era
già
stato
aperto.
Al
suo
interno,
un
voluminoso
borsone
di
cuoio
era
a
propria
volta
spalancato
su
due
Berette
semiautomatiche
M34.
Raccolsero
le
armi
e
tornarono
sul
montacarichi.
«Aspetta,
–
disse
il
padre
di
Giuseppe,
–
gli
faccio
fare
un
giro».
Fischiò
la
prima
e
la
seconda
volta,
fino
a
quando
non
vennero
raggiunti
anche
dal
cane.
Al
piano
di
sopra,
recuperò
il
guinzaglio
e
due
mazzi
di
chiavi.
Attraversarono
il
corridoio
e
si
chiusero
alle
spalle
la
porta
scorrevole
del
magazzino.
Sentirono
immediatamente
il
canto
degli
uccelli.
Era
una
mattinata
fredda
e
luminosa,
una
sottile
nebbiolina
azzurra
si
andava
disperdendo
per
i
campi
circostanti.
Gli
altri
due
uomini
fumavano
a
pochi
passi
dal
furgone.
Domenico
disse:
«Andate
pure,
io
torno
a
casa
con
l’altra
macchina».
Senza
neanche
aspettare
che
mettessero
in
moto,
iniziò
a
camminare
con
il
cane
al
guinzaglio.
L’uomo
e
il
pastore
tedesco
seguirono
la
strada
asfaltata
fino
a
quando
non
iniziò
a
sfarinarsi
curvando
verso
la
campagna.
Al
di
là,
si
apriva
un
magnifico
uliveto.
Sganciò
il
guinzaglio
dal
collare
e
scavalcò
il
muretto.
Il
pastore
tedesco
mugolò.
Inclinò
la
testa
e
cominciò
a
scodinzolare.
Abbaiò
un
paio
di
volte.
Infine
si
decise.
Prese
una
piccola
rincorsa
e
saltò,
urtando
con
le
zampe
posteriori
contro
una
pietra
liscia
e
appuntita.
Un
salto
penoso,
ma
ce
l’aveva
fatta.
Domenico
gli
prese
la
testa
tra
le
mani,
e
il
cane
si
liberò
orgogliosamente
dalla
stretta.
Si
inoltrarono
insieme
tra
i
fusti
contorti
degli
ulivi.
Se
avesse
saputo
che
il
corpo
dello
Sghigno
sarebbe
stato
ritrovato
pochi
giorni
dopo,
steso
faccia
a
terra
tra
i
sedili
anteriori
della
station
wagon,
si
sarebbe
fermato
a
riflettere
sulla
complessità
della
situazione.
Avrebbe
capito
che
aria
tirava,
e
forse
non
avrebbe
avuto
tanta
fretta
di
radunare
i
collaboratori
piú
fidati.
E
se
sua
moglie
non
avesse
normalmente
coltivato
delle
opinioni
sbagliate
su
tutto,
le
avrebbe
forse
dato
un
po’
di
credito
quando,
appena
tornati
dalla
sala
ricevimenti,
aveva
iniziato
a
urlare
davanti
alle
casseforti
aperte
e
alle
mensole
completamente
vuote,
inveendo
contro
i
ladri
senza
nome
che
avevano
appena
ripulito
la
villa.
E
soprattutto…
se
da
un
po’
di
tempo
a
questa
parte
non
avesse
cominciato
per
davvero
ad
alterare
i
libri
contabili
(cinquecentomila
in
meno
per
ogni
milione
e
mezzo
di
merce
fatturata),
allora
non
si
sarebbe
convinto
con
tanta
sicurezza
che
quel
furto
fosse
l’ennesima
provocazione,
l’ultimo
ma
non
ultimo
insulto
beffardo
di
chi
era
riuscito
a
fare
di
un
vecchio
prestito
la
sua
condanna.
Non
aveva
neanche
avuto
bisogno
di
compiere
l’inventario
a
vista
degli
oggetti
rubati
come
stava
facendo
sua
moglie
(«Le
bambole!
hanno
preso
pure
quelle!»)
Gli
era
bastato
guardare
il
primo
cassetto
rivoltato
per
farsi
venire
il
sangue
agli
occhi.
Il
furore
non
lo
aveva
abbandonato
nei
giorni
successivi.
Cosí,
quando
era
uscito
dal
magazzino
in
compagnia
di
suo
cognato,
si
poteva
dire
che
fosse
passato
solo
un
minuto
dal
giorno
del
battesimo.
Ed
era
passato
un
altro
minuto
quando,
qualche
ora
dopo,
il
furgone
con
la
scritta
EUROGARDEN
si
era
fermato
in
via
Pasubio
di
fronte
alla
sala
giochi
PLAY
AND
REPLAY,
uno
dei
pochi
esercizi
gestiti
direttamente
da
quelli
che
considerava
ormai
i
suoi
nemici.
Le
lanterne
di
plastica
dell’illuminazione
comunale
ondeggiavano
sopra
le
loro
teste,
e
la
saracinesca
abbassata
per
un
quarto
testimoniava
l’imminente
chiusura
del
locale.
Un
motorino
truccato
riempí
la
strada
con
il
boato
di
un
missile
terra
aria.
Domenico
disse
a
suo
cognato:
«Allora».
Gli
altri
due
uomini
rimasero
a
bordo
del
furgone.
A
parte
un
ragazzino
con
le
tasche
gonfie
di
spiccioli,
impegnato
a
superare
l’ultimo
livello
di
Moon
Patrol,
nella
sala
giochi
c’era
solo
il
cassiere.
Un
uomo
alto,
sbarbato
male,
gli
occhiali
a
catenella
e
un
brutto
maglione
di
cotone
a
scacchi
verdi
e
neri.
Guardò
i
due
con
aria
interrogativa
fino
a
quando
non
gli
furono
vicini.
Il
padre
di
Giuseppe
disse
in
dialetto:
«Apri
la
cassa».
L’uomo
appoggiò
platealmente
una
mano
sulla
guancia
e
urlò
al
ragazzino
di
tornarsene
a
casa.
Il
ragazzo
continuò
imperterrito
a
smanettare
sul
joystick.
Il
cassiere
sospirò,
scosse
la
testa,
tornò
a
guardare
gli
uomini
tenendo
le
mani
bene
in
vista
sul
piccolo
tavolo
di
legno.
Si
rivolse
al
padre
di
Giuseppe
e
disse:
«Non
è
serata».
Domenico
rispose:
«È
tutto
regolare…»,
e
gli
spiegò
che
il
titolare
della
sala
giochi
era
venuto
senza
preavviso
a
fare
una
visita
a
casa
sua,
quindi
lui
adesso
stava
solo
ricambiando
il
favore.
«Tutto
regolare»,
ripeté.
Sulla
faccia
del
cassiere
si
disegnò
un’espressione
di
stanchezza.
Poi
vide
la
pistola
e
sembrò
ancora
piú
stanco
di
prima.
Aprí
il
registratore
di
cassa
e
iniziò
a
rovesciare
sul
tavolo
intere
manciate
di
duecento
lire.
Il
padre
di
Giuseppe
mosse
nel
vuoto
la
Beretta,
spostandola
da
sinistra
verso
destra.
Il
cassiere
sollevò
lentamente
il
coperchio
di
plastica.
Gli
occhi
del
cognato
di
Domenico
vennero
attraversati
da
un
lampo
di
paura,
la
mano
destra
si
ritrovò
a
muoversi
alla
cieca
lungo
la
cinta
dei
pantaloni.
Ma
l’uomo
stava
solo
prendendo
le
banconote
dal
sottocassa.
Tirò
fuori
le
mazzette.
Le
impilò
una
sull’altra
nel
poco
spazio
disponibile.
Il
padre
di
Giuseppe
disse:
«Basta
cosí».
Si
rinfilò
la
pistola
nei
pantaloni,
raccolse
dal
tavolo
duecento
lire
e
–
con
un
gesto
che
lui
stesso
non
aveva
previsto
fino
a
quel
momento
–
le
mostrò
al
cassiere
alzando
la
monetina
tra
pollice
e
indice
fino
a
quando
scintillò
sotto
la
luce
artificiale:
«Di’
al
titolare
che
con
questa
siamo
a
posto.
Non
mi
deve
niente
lui,
non
gli
devo
niente
io».
Il
cassiere
restò
zitto.
Seguí
con
lo
sguardo
i
due
uomini
mentre
tornavano
verso
l’uscita,
attraverso
la
quale
era
ben
visibile
la
fiancata
del
furgone.
Quando
anche
quest’ultimo
scomparve,
iniziò
a
fare
ordine.
Rimise
le
banconote
a
posto.
Sistemò
pazientemente
gli
spiccioli
nelle
scanalature
di
plastica.
Infine,
chiuse
a
chiave
il
registratore
di
cassa.
Non
sembrava
sollevato
né
arrabbiato
né
spaventato
né
niente.
Raccolse
il
giubbotto
di
pelle
dall’attaccapanni.
Aprí
uno
sportello
incassato
nel
muro
e
tirò
giú
una
leva
di
plastica.
Dal
fondo
della
sala,
il
ragazzino
urlò:
«Eccheccazzo!»
Tre
settimane
dopo,
gli
avevano
incendiato
il
magazzino.
Tubi,
condotte
idrauliche,
elettropompe…
centinaia
di
milioni
di
merce
completamente
in
fumo.
Il
vano
dei
gocciolatoi
trasformato
in
un’opera
d’arte
contemporanea.
Il
cane,
morto
asfissiato
nel
caveau.
Sarebbe
finita
molto
peggio.
Sarebbero
venuti
a
regolare
i
conti
di
persona
se,
prima
di
maggio,
il
residuo
di
un
colossale
movimento
tellurico
con
epicentro
a
est
non
li
avesse
trascinati
in
galera
tutti
quanti.
Quando
il
fratello
di
sua
moglie
gli
telefonò
tutto
agitato
urlando:
«Il
magazzino!»,
non
ebbe
neanche
il
tempo
di
pensarci,
perché
(uno
schianto
dopo
l’altro)
stava
ancora
cercando
di
dare
un
senso
alle
immagini
di
suo
figlio
trasportato
d’urgenza
nel
reparto
rianimazione
del
Policlinico
di
Bari.
Soltanto
dopo
qualche
giorno
riuscí
a
pensare
con
la
dovuta
calma
che,
se
solo
non
fosse
entrato
come
un
cowboy
in
sala
giochi,
a
quel
punto
–
abbattuti
i
suoi
nemici
da
una
forza
superiore
–
sarebbe
stato
un
uomo
libero.
A
metà
marzo
licenzia
lo
Sghigno.
A
fine
mese
legge
della
sua
morte
su
un
quotidiano
locale.
Ma
quando
febbraio
è
già
finito
eppure
persiste
magicamente
nella
casella
a
scomparsa
di
ogni
anno
bisestile,
sta
ancora
domandando
al
suo
interlocutore:
«Sei
sicuro?»
L’uomo
rispose:
«Sicuro
come
il
fatto
che
il
prossimo
29
febbraio
di
questo
qua
non
sapremo
piú
che
farcene».
Chiuse
l’atlante
che
li
aveva
divisi
da
un
lato
all’altro
della
scrivania
e
si
spinse
con
la
schiena
contro
la
spalliera
della
sedia.
Poi
aggiunse:
«Mario,
dico
davvero:
liberati
di
loro.
Già
adesso
valgono
la
metà.
Fra
poco
saranno
pesi
morti».
Era
un
uomo
bello,
alto
e
robusto,
il
fisico
da
giocatore
di
rugby
alleggerito
da
un
elegante
completo
mistoseta.
La
testa
grossa
e
i
capelli
corti
e
un
paio
d’occhiali
con
una
ricercata
montatura
nera
comunicavano
una
pretenziosità
che
in
luoghi
meno
provinciali
avrebbe
solo
suggerito
l’idea
di
un
uomo
che
sa
sempre
dove
portarti
al
ristorante.
Era
piú
giovane
dell’avvocato
Lombardi
di
qualche
anno,
ed
era
entrato
nello
studio
alle
tre
del
pomeriggio.
Adesso
erano
le
cinque.
Quando
luomo
aprí
il
repertorio
geografico
e
cominciò
a
tracciare
a
matita
delle
curve
sulla
porosa
grammatura
delle
pagine,
il
padre
di
Vincenzo
chiamò
la
segretaria
e
disse:
«Chiunque
dovesse
cercarmi,
non
ci
sono».
Si
erano
conosciuti
all’inizio
del
decennio,
e
avevano
preso
l’abitudine
di
vedersi
un
paio
di
volte
l’anno
per
fare
il
punto
della
situazione.
Sapevano
tutto
l’uno
dell’altro
grazie
a
semplici
dicerie
la
cui
veridicità
non
veniva
mai
smentita,
come
se
mostrarsi
scoperti
sulla
base
di
fonti
non
verificabili
fosse
l’unico
sistema
per
stringere
un’amicizia
durevole
e
sincera.
Il
padre
di
Vincenzo
non
aveva
mai
assistito
legalmente
questo
suo
visitatore,
e
aveva
sempre
respinto
la
tentazione
di
lasciarsi
coinvolgere
in
uno
dei
tanti
affari
che
portavano
l’uomo
ad
aggiornare
di
continuo
l’orologio
a
seconda
del
paese
che
lo
accoglieva
al
suo
risveglio
in
una
camera
d’albergo.
Anche
questa
era
una
garanzia:
non
avendo
interessi
in
comune,
non
c’era
mai
bisogno
di
mentirsi.
Riempivano
i
bicchieri
con
due
dita
di
cognac.
Si
davano
un
ragguaglio
sulle
rispettive
situazioni
famigliari
e
poi
iniziavano
a
parlare
a
briglia
sciolta.
Ognuno
informava
l’altro
su
situazioni
e
persone
ben
precise,
il
che
causava
dei
piccoli
aggiustamenti
di
tiro
–
l’avvocato
decideva
di
mollare
una
causa
o
si
dava
da
fare
per
ottenerne
il
patrocinio;
il
suo
amico
puntava
un
po’
di
soldi
su
quello
che
Mario
Lombardi
definiva
di
volta
in
volta
il
nuovo
cavallo
vincente
dell’imprenditoria
locale.
Ma
adesso,
esauriti
i
convenevoli,
l’uomo
gli
aveva
consigliato
di
dare
un
taglio
netto.
«Carmelo
Terlizzi,
Savino
Menolascina,
Vito
Lopez,
Dante
Rutigliano…»
Continuò
a
fare
i
nomi
prendendoli
da
una
piccola
ma
non
indifferente
quota
di
clienti
che
l’avvocato
aveva
assistito
negli
ultimi
anni.
Il
padre
di
Vincenzo
sghignazzò:
«Guarda
che
da
soli
fanno
un
terzo
dell’incasso
di
tutta
la
baracca.
E
poi
non
sono
tipi
da
farsi
mollare
su
due
piedi».
L’uomo
finse
di
non
aver
sentito:
«Comincia
a
levarti
dalle
palle
quel
troglodita
dell’autista,
–
disse,
–
poi,
guarda…
senza
nemmeno
il
bisogno
di
convocarli,
spedisci
una
raccomandata
per
ciascuno
e
rinuncia
al
patrocinio».
L’avvocato
si
fece
serio.
L’uomo
si
aggiustò
gli
occhiali
sulle
pinne
del
naso:
«Ti
sto
solo
evitando
un
sacco
di
rotture.
Ti
dico
che
tempo
cinque
mesi,
forse
anche
meno,
e
tutta
questa
gente
non
conterà
piú
niente.
Chi
non
sarà
finito
in
galera
avrà
al
massimo
l’ambizione
di
aprirsi
una
bella
pizzeria».
Il
padre
di
Vincenzo
bevve
un
sorso
dal
bicchiere:
«Non
mi
risulta
che
un’indagine…»
L’uomo
lo
interruppe:
«Un’indagine?
Forse
non
hai
capito.
Stanno
per
essere
travolti
da
qualcosa
di
infinitamente
piú
grande».
Si
corresse:
«Stiamo
per
essere
travolti».
Fece
una
pausa.
Aggiunse:
«Ma
non
capisci
cosa
sta
per
succedere?»
Fu
allora
che
si
alzò,
raggiunse
la
libreria,
sfilò
il
grosso
atlante
delle
edizioni
Treccani
e
tornò
a
sedersi
di
fronte
all’avvocato.
Spalancò
il
volume
e
ne
sfogliò
rapidamente
le
pagine
fino
a
quando
trovò
quella
che
gli
interessava.
Raccolse
una
matita
dal
portapenne
e
iniziò
a
tracciare
sulla
carta
geografica
tanti
piccoli
corridoi
che
arrivavano
in
Italia
partendo
dalla
Repubblica
Socialista
Sovietica
Kazara,
dalla
Repubblica
Socialista
Sovietica
Turkmena,
dalla
Repubblica
Socialista
Sovietica
Uzbeka,
dall’Ungheria,
dalle
valli
del
Tibisco.
«Tutto…
–
disse
rivolto
all’avvocato
–
tutto,
a
partire
da
domani,
passerà
di
qua.
E
queste
–
ricalcò
le
curve
–
sono
le
autostrade
del
futuro.
Chi
ha
capito
ha
già
iniziato
a
darsi
da
fare.
Chi
non
ha
capito
resta
a
terra».
Sospirò:
«Carmelo
Terlizzi
è
tra
quelli
che
non
hanno
capito.
Gli
altri
tuoi
clienti
non
hanno
capito.
Se
si
fossero
già
mossi
lo
saprei.
E
invece
so
di
gente
che
ha
iniziato
a
muoversi
al
posto
loro.
Magari
in
futuro
saranno
questi
i
tuoi
clienti».
L’avvocato
intrecciò
le
mani
sulla
nuca.
Si
stiracchiò:
«Senti…
i
giornali
li
leggo
pure
io.
Ho
capito
che
la
cosa
prima
o
poi
succederà:
il
papa
in
visita
al
Cremlino
e
tutto
il
resto.
Ma
ci
vorrà
del
tempo,
e
allora
se
proprio
vuoi
sapere…»
L’uomo
lo
interruppe
ancora:
«Non
è
leggendo
i
giornali
che
ti
farai
un’idea
della
situazione.
Non
è
neanche
guardando
la
tv.
Hai
un
amico
deputato?
Dimenticatelo.
Lavorati
invece
qualcuno
alla
Camera
di
commercio
e
fatti
aprire
i
repertori
dell’import-export.
Allora
sí
che
scoprirai
delle
cose
interessanti.
Leggerai
di
palazzinari
che
hanno
appena
ottenuto
da
un
funzionario
sepolto
in
qualche
ufficio
governativo
di
Tallin
l’autorizzazione
a
costruire
un
gigantesco
resort
per
turisti
sul
mar
Baltico.
Scoprirai
che
le
strade
di
Varsavia
stanno
per
essere
invase
dai
negozi
di
Benetton
e
di
Calzedonia.
E
la
cosa
divertente,
vedi…
la
cosa
buffa
è
che
se
chiedi
tutto
questo
al
compagno
Ceausescu
lui
non
ne
sa
un
cazzo,
e
non
ne
sanno
niente
il
compagno
Gorbačëv
e
il
compagno
Jaruzelski.
Invece,
vatti
a
fare
una
chiacchierata
con
Toomas.
Parla
con
Andrus,
intrattieniti
con
Mart,
con
Luukas…
chiedi
all’anonimo
funzionario
di
Tallin
quanto
è
stato
facile
falsificare
le
firme
dei
propri
superiori».
Raccolse
il
bicchiere
con
il
cognac
e
diede
un
sorso:
«Quattrocento
milioni
di
anime
affamate
di
Occidente,
–
disse
–
non
è
neanche
un
esercito.
È
un
gigantesco
oceano
di
energia,
desiderio
allo
stato
puro.
Non
esistono
carri
armati
che
possano
fermare
una
cosa
del
genere.
Stiamo
per
essere
travolti
dal
desiderio
di
tutti
questi
Gavril
queste
Dalma
queste
Alina…»
Ci
stette
un
po’
a
pensare.
Alzò
il
bicchiere
verso
il
suo
amico:
«È
cosí
che
diventeremo
tutti
comunisti!»
Il
padre
di
Vincenzo
scoppio
a
ridere:
«Comunisti?
–
L’uomo
abbandonò
il
bicchiere,
puntò
gli
indici
nel
vuoto:
–
Le
civiltà
si
realizzano
proprio
quando
si
dissolvono
nel
nulla.
Pensa
a…
–
Si
interruppe.
Sbuffò,
come
se
tutta
quella
teoria
desse
fastidio
a
lui
per
primo:
–
Ascoltami
bene,
adesso,
–
disincrociò
le
gambe
e
le
incrociò
dall’altra
parte,
–
la
settimana
scorsa
sono
stato
a
Praga.
Dovevo
incontrare
una
persona
per
un
affare,
ma
non
è
questo
il
punto.
Il
punto
è
che
ci
rimango
da
venerdí
a
domenica,
e
questo
tizio
lo
incontro
nella
hall
dell’albergo,
sempre
alle
dieci
di
mattina.
Cosí
il
resto
del
tempo
posso
starmene
per
i
fatti
miei.
Allora
me
ne
vado
a
passeggio
per
questa
città
meravigliosa
e
zac…
venerdí
stesso,
tempo
un
quarto
d’ora
da
quando
ho
messo
piede
fuori
dall’albergo,
vengo
abbordato
da
due
ragazze.
Mi
chiedono
se
parlo
inglese.
Rispondo
di
sí,
certo
che
parlo
inglese.
Vorrebbero
che
chiacchierassi
un
po’
con
loro,
stanno
imparando
la
lingua
e
hanno
bisogno
di
esercitarsi.
Ora,
ti
devi
immaginare
due
ragazze
bellissime.
La
piú
bassa
sarà
stata
un
metro
e
ottanta.
Potrebbero
sfilare
a
Milano
durante
la
settimana
della
moda.
Potrebbero
sfondare
a
Hollywood.
Potrebbero
girare
il
mondo
mettendo
la
loro
bellezza
a
disposizione
di
qualche
cosa
di
volgare
e
molto
redditizio.
Invece
sono
intrappolate
nei
confini
del
loro
paese,
infilate
nelle
loro
camicette
di
pizzo
bianco.
Hai
presente
le
camicette
della
nonna?
Mi
assicurano
che
Praga,
per
come
la
vedono
loro,
è
la
città
piú
noiosa
del
mondo.
Potranno
avere
ventiquattro,
massimo
venticinque
anni.
Ma
quando
dicono
nineteen
dopo
essersi
scambiate
uno
sguardo
di
intesa,
inizio
a
pensare
che
forse
non
sono
neanche
maggiorenni.
Mi
chiedono
da
dove
vengo
e
glielo
dico.
Allora
mi
propongono
di
parlare
in
italiano:
imparare
l’italiano
è
una
cosa
molto
utile,
dicono.
Portarmele
a
letto,
tuttee
due.
Invece
le
porto
a
bere.
Ci
sediamo
in
un
caffè
vicino
a
piazza
Venceslao
e
riprendiamo
la
nostra
chiacchierata.
Inizio
a
corteggiarle.
Un
innocuo
casto
corteggiamento
in
cui
ci
limitiamo
a
dire
cosa
potrebbero
combinare
insieme
un
italiano
di
mezza
età
e
due
ragazze
ceche.
Ridacchiano,
vorrebbero
sapere
dove
le
porterei
se
fossero
le
mie
fidanzate.
E
dove
vuoi
portare
una
ragazza
con
cui
stai
imbastendo
una
conversazione
cosí
meravigliosamente
stupida?
«Ce
ne
andremmo
a
Parigi»,
dico.
Mi
chiedono
dove
le
porterei
di
preciso,
se
fossimo
a
Parigi.
Mi
lancio
nelle
solite
fregnacce:
Notre-Dame,
il
Louvre,
le
piccole
botteghe
dell’Île-SaintLouis.
Arricciano
il
naso.
«Ma
come?
–
domando
–
non
volete
visitare
il
Musée
d’Orsay?»
Non
gliene
potrebbe
fregare
di
meno…
Hanno
frequentato
per
anni
queste
serissime
scuole
statali,
ai
loro
occhi
Rubens,
Goya,
Rodin,
Proust,
Giuseppe
Verdi
e
compagnia
cantante
sono
pallosi
almeno
quanto
la
propaganda
di
partito.
Cerco
di
recuperare
il
terreno
perduto
dicendo
che
la
sera,
dopo
una
passeggiata
sul
Lungosenna,
le
porterei
a
cena
alla
Tour
d’Argent.
Anche
qui:
sospirano
deluse.
«Ma
insomma,
–
faccio,
–
siamo
a
Parigi
e
non
volete
andare
a
cena
alla
Tour
d’Argent?»
È
allora
che
me
lo
dicono…
questi
due
angeli,
a
Parigi
ci
vogliono
andare
per
mangiare
da
McDonald’s
come
le
loro
coetanee
dell’Europa
occidentale.
Vogliono
perdersi
nei
magazzini
Lafayette.
Vogliono
andare
in
pellegrinaggio
al
Club
79.
Non
gliene
fotte
niente
di
Delacroix
ma
sono
pronte
a
farsi
sbattere
dal
primo
scimmione
in
scarpe
da
ginnastica
per
un
cheeseburger.
Cosí
è
proprio
questo
il
punto.
Ho
guardato
ancora
una
volta
i
loro
occhioni
e
mi
sono
convinto
che
neanche
i
nostri
nipoti
o
i
nostri
figli,
ma
noi…
tutti
noi,
molto
presto,
diventeremo
cosí».
«Diventeremo
comunisti…»,
disse
il
padre
di
Vincenzo
senza
perdere
il
sorriso.
«Te
l’ho
detto,
le
civiltà
si
compiono
nel
momento
in
cui
si
dissolvono
nel
nulla».
«E
allora
come
la
metti
col
nazismo?»
lo
sfidò
l’avvocato.
L’uomo
allargò
le
braccia
e
non
disse
niente.
L’avvocato
non
disse
niente.
L’uomo
non
disse
niente.
Il
padre
di
Vincenzo
si
rigirò
il
bicchiere
tra
le
dita:
«Senti,
–
disse,
–
tornando
ai
nostri
piccoli
problemi.
Immaginiamo
che
sia
come
dici
tu.
Poniamo
che
la
cosa
stia
veramente
per
succedere.
Mettiamo
il
caso
che
tutti
i
traffici
illeciti
del
mondo
inizino
a
spianare
la
cortina
di
ferro
e
che
questi
miei
clienti
vengano
tagliati
fuori
dagli
eventi.
E
che
non
contino
piú
niente,
d’accordo.
E
che
si
ritrovino
a
dover
aprire
una
pizzeria
per
tirare
avanti.
Bene.
Ma
se
io
firmo
e
spedisco
quelle
raccomandate,
chi
mi
assicura
che
il
giorno
dopo
non
mi
hanno
fatto
esplodere
la
macchina?
Il
che,
ovviamente,
sarebbe
il
meno».
L’uomo
si
tolse
gli
occhiali
e
il
poggiò
sulla
scrivania:
«Da
quant’è
che
ci
conosciamo?
In
tutto
questo
tempo
non
ho
mai
dovuto
faticare
tanto
per
convincerti
di
qualcosa
–.
Sospirò
profondamente:
–
Tu
dici
che
non
puoi
farlo
adesso.
Ma
il
vento
sta
cambiando
adesso.
Dall’altra
parte
inizia
a
esserci
già
una
certa
turbolenza».
«Quale
altra
parte?»
L’uomo
finse
di
indispettirsi:
«Ah,
quale
altra
parte!
L’altra
parte
del
mondo,
della
città,
del
ponte,
della
luna…
Nel
quartiere,
inizia
a
esserci
una
certa
turbolenza!
Fra
poco
ci
sarà
uno
dei
classici
incidenti.
I
soliti
quindici
venti
disgraziati
saranno
ritrovati
a
occhi
sbarrati
con
una
siringa
in
vena
e
quello
sarà
il
segnale
per
le
forze
dell’ordine.
Farti
esplodere
la
macchina,
allora,
sarà
l’ultimo
pensiero
dei
tuoi
ex
clienti».
Il
padre
di
Vincenzo
ebbe
un
sobbalzo
che
cercò
di
mascherare.
Rimase
zitto
e
impensierito
per
qualche
secondo.
Uní
le
punte
delle
dita
portandosi
le
mani
tra
naso
e
bocca.
Poi
chiese:
«Sei
sicuro?»
L’uomo
annuí
senza
dire
niente.
«E
posso
…
–
l’avvocato
fece
una
pausa,
come
se
stesse
valutando
l’opportunità
di
quello
che
stava
per
dire
–
posso
sapere,
per
una
volta,
chi
ti
ha
dato
un’informazione
cosí
precisa?»
A
questo
punto
l’uomo
si
rimise
in
piedi:
«Non
è
nei
nostri
patti».
Poi
sorrise.
L’avvocato
si
batté
le
mani
sulle
cosce
e
si
mise
in
piedi
pure
lui.
Un
quarto
d’ora
dopo
si
stavano
salutando
affettuosamente
sulla
porta
dell’ingresso.
Mia
madre
entrò
in
soggiorno.
Indossava
un
tubino
nero
e
aveva
un
giro
di
perle
intorno
al
collo.
Papà
la
vide
e
disse:
«Sei
bellissima».
Ed
era
vero:
quel
vestito,
quella
precisa
sera
di
maggio,
la
ponevano
al
centro
di
un
mistero
che
ogni
tanto
porta
le
donne
adulte
a
essere
piú
belle
di
quanto
non
siano
già
state
da
ragazze.
Il
vento
frizzante
della
giovinezza
le
ripercorre
da
capo
a
piedi,
trasformando
perfino
le
pesantezze
dell’età
matura
in
una
quieta
ipnotica
potenza
sovrannaturale.
Uscirono
di
casa.
Montarono
in
Mercedes
e
si
diressero
insieme
verso
il
Circolo
del
mare.
«Al
Circolo
del
mare»,
aveva
detto
il
padre
di
Vincenzo
la
settimana
prima.
Il
ragazzo
lo
aveva
guardato
senza
parlare,
il
che
significava
forse
che
l’avrebbe
accontentato.
Del
resto,
per
tutto
il
corso
della
cena
l’avvocato
era
stato
piú
accomodante
di
quanto
Vincenzo
potesse
prevedere,
e
con
questa
inattesa
disposizione
d’animo
gli
aveva
ribadito
l’importanza
di
averlo
a
suo
fianco
durante
il
piccolo
party
organizzato
per
festeggiare
i
primi
ottant’anni
di
attività.
«Tuo
nonno,
–
aveva
detto
ripercorrendo
una
storia
della
quale
dava
per
scontato
che
facesse
parte
anche
Vincenzo,
–
e
il
padre
di
tuo
nonno,
che
tu
non
hai
mai
conosciuto».
Il
ragazzo
non
aveva
risposto.
Ma
poi
Vincenzo
fece
per
alzarsi
e
l’avvocato
gli
bloccò
una
mano
con
la
sua:
«Aspetta»,
disse.
Chiamò
Sabrina.
La
ragazza,
finita
la
cena,
non
aveva
fatto
che
passare
continuamente
da
una
stanza
all’altra.
Era
scalza,
e
quella
sera
aveva
i
capelli
tirati
verso
l’alto,
e
indossava
un
kimono
bianco
a
fiorami
color
porpora.
Era
alla
ricerca
di
un
oggetto
deciso
a
non
farsi
trovare.
Si
immobilizzò
sul
posto
con
le
sue
lunghe
gambe
di
ventinovenne.
L’avvocato
sfoderò
la
faccia
piú
gentile
a
sua
disposizione:
«Ti
dispiace
se
ti
chiedo
di
lasciarci
soli?»
Sabrina
proferí
un:
«Figurati!»
privo
di
astio,
ma
poi
rimase
nel
soggiorno
per
un’altra
manciata
di
minuti.
Quindi
scomparve
verso
la
camera
da
letto.
Fu
a
quel
punto
che
l’avvocato
disse:
«Ascoltami
adesso,
voglio
darti
un
consiglio».
Il
ragazzo
lo
guardò
fisso
negli
occhi.
Suo
padre
continuò
a
carezzarlo
con
il
sorriso
appena
ruvido
di
chi
ha
il
problema
di
gestire
un
vantaggio
a
pochi
minuti
dalla
fine
di
una
partita.
Il
che,
naturalmente,
insospettí
Vincenzo
ancora
di
piú.
Mario
Lombardi
raccolse
una
mela
dal
tavolo
e
iniziò
a
sbucciarla:
«Guarda,
non
ho
idea
di
cosa
tu
faccia
durante
il
tempo
libero.
Dove
vai
quando
esci
da
scuola.
Dove
vai
la
sera.
Il
sabato
sera,
per
esempio.
Dove
vai
a
divertirti
il
sabato
sera,
chi
frequenti…
Io
questo
non
lo
so.
Un
tempo
ti
ho
anche
fatto
controllare.
Magari
è
stato
un
errore.
Se
è
cosí,
ti
chiedo
scusa.
Ma
facciamo
l’ipotesi…
–
Smise
di
sbucciare
la
mela
e
sprofondò
con
i
suoi
occhi
in
quelli
del
ragazzo:
–
Mettiamo
per
assurdo
che
tu
la
sera
vai
a
Japigia».
Vincenzo
cercò
di
restare
impassibile.
Suo
padre
girò
la
mela
dall’altra
parte:
«Mettiamo
che
frequenti
proprio
quelle
zone
e
che,
non
dico
sempre…
di
tanto
in
tanto…
di
tanto
in
tanto
per
vedere
l’effetto
che
fa.
Facciamo
l’ipotesi
che
di
tanto
in
tanto
ti
sei
messo
a
fare
qualche
esperimento
con
la
droga…»
«Mai
fatto
uso
di
droga
in
vita
mia»,
lo
interruppe
con
decisione
il
ragazzo.
Non
mentiva.
E
tuttavia
queste
parole
sorpresero
Mario
Lombardi,
perché
a
sua
memoria
Vincenzo
non
era
mai
stato
tanto
teso
da
interrompere
qualcuno
nel
bel
mezzo
di
un
discorso.
L’avvocato
riprese
a
parlare:
«Certo
che
non
ne
hai
mai
fatto
uso,
ma
stiamo
ragionando
per
assurdo.
Quindi,
sempre
per
assurdo,
immagineremo
invece
che
tu
abbia
fatto
e
continui
a
fare
saltuariamente
uso
di
eroina.
Sono
ovviamente
fatti
tuoi.
Siamo
tra
adulti.
E
se
tra
adulti
i
divieti
sono
sempre
qualcosa
di
volgare,
i
consigli
invece
sono
leciti.
Cosí
il
mio
consiglio
è
di
non
toccare
un
solo
granello
di
quella
merda
per…
diciamo
le
prossime
due
tre
settimane?»
Vincenzo
doveva
controllarsi
per
evitare
di
battere
nervosamente
la
gamba
sotto
il
tavolo
–
un
ragazzo
che
si
sta
facendo
mille
domande,
e
sta
scartando
altrettante
ipotesi,
e
non
ne
viene
a
capo.
Non
aveva
mai
avuto
piú
diciassette
anni
di
cosí.
Suo
padre
poggiò
la
mela
completamente
nettata
sopra
il
tavolo.
Poggiò
anche
il
coltello
e,
disarmatosi
in
questo
modo,
disse
perfettamente
calmo:
«Quelle
che
abbiamo
fatto
fino
a
ora
sono
ipotesi.
La
cosa
certa
è
che
invece,
come
la
definiranno
i
giornali
nei
prossimi
giorni,
Japigia
sta
per
essere
invasa
da
una
valanga
di
eroina
killer.
Come
faccio
a
esserne
sicuro?
Be’,
vedi…
se
tu
non
frequenti
Japigia
e
non
hai
mai
fatto
uso
di
droga
in
vita
tua,
io
invece
ho
a
che
fare
con
gente
che
l’ha
fatta
diventare
la
propria
fonte
di
sostentamento
–.
Fece
un’altra
pausa:
–
Credimi,
so
quello
che
dico».
E
questo
era
davvero
il
colmo
per
il
ragazzo
i
cui
piedi
ormai
ballavano
sul
pavimento,
perché
–
uso
di
droga
a
parte
–
non
solo
l’avvocato
era
al
corrente
delle
sue
frequentazioni,
ma
aveva
appena
sollevato
il
coperchio
sugli
aspetti
meno
confessabili
della
propria
vita,
disinnescando
gli
instancabili
tentativi
di
Vincenzo
di
coglierlo
in
fallo,
e
lo
aveva
fatto
con
un
supremo
atto
di
arbitrio
che
gli
toglieva
il
terreno
sotto
i
piedi.
Cosí
adesso
Vincenzo
era
per
sempre
in
trappola,
oppure
era
completamente
libero
a
seconda
della
prospettiva
da
cui
era
disposto
a
inquadrare
la
faccenda.
Ma
era
difficile
venirne
a
capo,
cosí
come
non
riusciva
a
capire
se
suo
padre
gli
avesse
appena
reciso
qualcosa
di
fondamentale
usando
il
bisturi
della
magnanimità,
oppure
portando
la
furbizia
talmente
in
alto
da
non
fargli
piú
vedere
di
cosa
si
trattasse.
Il
giorno
dopo,
Vincenzo
camminava
furiosamente
per
le
strade
di
Japigia
stringendosi
tra
i
pugni
i
lembi
del
trench.
Erano
le
quattro
del
pomeriggio,
l’afa
continuava
a
salire
pigramente
attraverso
i
granuli
d’asfalto
e
poche
sagome
isolate
salivano
e
scendevano
dai
marciapiedi
con
altrettanta
indolenza.
Avvistò
Giuseppe
a
due
isolati
di
distanza:
di
schiena
contro
una
piccola
inferriata,
parlottava
con
un
uomo
che
se
ne
stava
avvolto
in
un
giubbotto
di
tela.
Era
un
giubbotto
lercio
e
inguardabile
e
strappato
in
vari
punti.
Il
suo
proprietario,
del
resto,
sembrava
rimanere
avvinghiato
al
regno
degli
umani
soltanto
per
ostinazione.
Non
appena
lo
vide,
Giuseppe
gli
andò
incontro.
Vincenzo
infilò
le
mani
nelle
tasche
e
disse:
«Non
è
che
hai
due
minuti?»
Giuseppe
lo
guardò
stringendosi
nelle
spalle.
Fece
un
cenno
di
commiato
a
Maxi
il
bucomane.
Iniziarono
a
passeggiare
verso
ovest,
seguendo
una
strada
in
salita
che
il
sole
pomeridiano
trasformava
in
un
debole
tunnel
di
luce.
Uno
dei
due
ragazzi
disse
all’altro:
«Allora,
senti,
volevo
dirti
questa
cosa…»
La
sala
delle
cerimonie
del
Circolo
del
mare
era
un
semicerchio
di
neanche
cento
metri
quadri
esposto
a
est
sul
porto
turistico,
con
delle
belle
tende
in
panno
rosso
aperte
a
sipario
sui
finestroni
panoramici.
Le
vele
delle
piccole
imbarcazioni
e
i
pennoni
degli
yacht
ondeggiavano
insieme
nell’aria
calda
della
sera.
Una
dozzina
di
tavoli
rotondi
correvano
lungo
il
perimetro
del
pavimento,
mentre
quello
che
in
un’altra
circostanza
si
sarebbe
definito
il
tavolo
degli
sposi
li
dominava
tutti,
disposto
a
pochi
passi
dalla
vetrata
principale.
L’atmosfera
era
del
resto
quella
di
un
matrimonio
o
di
un
anniversario
di
matrimonio,
e
lo
stesso
Circolo
–
la
sala
ricevimenti,
il
corridoio
che
si
spingeva
fino
a
un
piccolo
pontile,
l’accogliente
piano
bar
circondato
da
divani
e
tavolini
–
aveva
un
che
di
sin
troppo
pratico
per
suggerire
l’idea
di
uno
dei
piú
importanti
centri
di
potere
della
città.
Non
possedeva
l’imponenza
del
Palazzo
di
giustizia
né
i
velluti
dell’Aula
magna
dell’università.
E
tuttavia
la
circostanza
che
una
ristretta
cerchia
di
uomini
abituati
a
respirare
ogni
giorno
quell’imponenza
e
a
sedersi
su
quei
velluti
si
ritrovassero
periodicamente
proprio
là,
infondeva
alle
altrimenti
comunissime
pareti
ripassate
di
vernice
impermeabile
una
strana
atmosfera
di
decoro
e
di
minaccia
e
di
potenza
oltremondana
che
avvertivano
persino
gli
addetti
alle
pulizie
quando,
il
giorno
dopo
una
riunione,
ripassavano
l’aspirapolvere
fino
a
che
l’ultima
briciola
era
scomparsa
dal
corpo
lanoso
dei
tappeti.
Anche
quella
sera
c’erano
state
chiacchiere
e
risate
e
abbracci
e
discussioni
tra
uomini
che
almeno
una
volta
erano
stati
ospitati
in
una
trasmissione
televisiva
come
esperti
in
materie
quali
la
cardiochirurgia
o
lo
sviluppo
delle
risorse
agricole,
oppure
vecchie
volpi
conosciute
solo
dagli
addetti
ai
lavori.
Ma
c’erano
anche
dei
volti
nuovi.
Tra
questi
mio
padre
in
una
bella
giacca
di
tweed,
accompagnato
dalla
mamma
con
il
suo
giro
di
perle
intorno
al
collo,
davanti
al
cui
splendore
poche
altre
donne
lí
presenti
riuscirono
a
elaborare
sentimenti
piú
complessi
dell’invidia.
Erano
stati
sistemati
insieme
a
due
anziane
coppie
con
le
quali
se
l’erano
cavata
egregiamente.
A
mia
madre
era
bastata
la
presenza.
Papà
si
era
lanciato
in
una
serie
di
parabole
sul
tema
del
successo
individuale
che
deliziarono
una
platea
abituata
a
intossicarsi
con
anteprime
sul
cambio
di
guardia
ai
vertici
di
qualche
Banca
d’Italia
o
Consob
che
–
in
quelle
occasioni
di
festa
–
scrivevano
l’agenda
di
lavoro
per
il
giorno
dopo.
La
stessa
atmosfera
rilassata
aveva
percorso
gli
altri
tavoli
e
ovviamente
il
tavolo
centrale,
dove
l’avvocato
e
Sabrina
erano
stati
degli
ospiti
perfetti.
Vincenzo,
seduto
tra
i
due,
aveva
tenuto
una
condotta
esemplare.
Adesso
erano
finiti
anche
i
brindisi.
C’era
stato
un
giro
di
caffè
e
di
ammazzacaffè.
I
piú
anziani
e
i
ragazzi
come
Vincenzo
avevano
iniziato
ad
abbandonare
la
sala,
pronti
a
disperdersi
ai
quattro
angoli
della
città.
Altri
invitati
presero
a
salutarsi.
Fra
pochi
minuti
il
party
si
sarebbe
potuto
definire
concluso.
Ma
io,
di
quella
festa,
posseggo
almeno
due
finali
differenti.
Negli
anni
successivi,
quando
ho
iniziato
a
raccogliere
informazioni
anche
sul
divorzio
dei
miei
prendendo
alla
sprovvista
zie
e
prozii
e
cugini
di
terzo
grado,
mi
è
capitato
(navigando
a
vista
in
un
mare
d’evasività)
di
incrociare
di
tanto
in
tanto
qualche
parente
cosí
crudele
e
illuminante
da
far
emergere,
tra
il
cinguettio
delle
nostre
chiacchierate,
l’aculeo
di
un
episodio
inconfessabile
subito
ricoperto
dal
miele
a
lunga
conservazione
di
altre
banalità.
Cosí,
finito
il
party
per
gli
ottant’anni
dello
studio
Lombardi,
mentre
una
copia
carbone
dei
miei
genitori
si
infila
in
Mercedes
e
torna
a
casa,
una
seconda
versione
della
mamma
e
del
papà…
Non
fu
precisamente
una
sorpresa
perché
lui,
prima
di
uscire
di
casa,
aveva
detto:
«Guarda
che
potrebbe
capitare
anche
stasera»,
e
la
mamma,
infilandosi
il
soprabito,
non
aveva
trovato
di
meglio
che
replicare
con
un
sorriso
che
soffocava
il
nervosismo:
«Continua
a
sembrarmi
una
stupidaggine
messa
in
giro
da
qualche
idiota.
Ma
se
succede,
che
ti
posso
dire?
almeno
siamo
in
tanti».
Ne
avevano
parlato
saltuariamente
nelle
ultime
settimane,
ne
avevano
riso,
se
ne
erano
preoccupati,
erano
tornati
a
considerarla
un’eventualità
del
tutto
inverosimile.
Solo
che
poi,
a
qualche
minuto
dalla
mezzanotte,
rimasti
una
ventina
nella
sala
ricevimenti,
si
trasferirono
al
piano
bar.
Da
qui,
dopo
che
uno
degli
invitati
fece
capolino
tra
i
divani
dicendo
con
una
voce
neutra:
«È
arrivata»,
attraversarono
il
corridoio
che
portava
sul
pontile,
dove
–
la
passerella
già
abbassata
sul
lato
estremo
della
struttura
di
legno
–
li
attendeva
un’imbarcazione
non
piú
lunga
di
quindici
metri;
non
un’ammiraglia,
ma
un
piccolo
yacht
dalle
linee
sportive.
Salirono
uno
alla
volta
sull’imbarcazione.
Le
gambe
descrissero
brevi
falcate
nel
vuoto
prima
di
trovarsi
a
calpestare
la
superficie
in
tek.
La
passerella
si
ritrasse
su
se
stessa
e
la
pedana
si
alzò
a
scatti
verso
l’alto.
A
quel
punto
tutti
erano
a
bordo.
Iniziarono
a
sparpagliarsi
verso
una
delle
zone
prendisole,
dove
un
tavolino
di
cristallo
carico
di
bicchieri
da
cocktail
fronteggiava
la
cusciniera
color
latte.
Videro
i
legni
dei
pescatori
scorrere
lí
di
fianco
sulla
carena
nomi
di
donne
o
di
venti
o
di
città
–
e
si
lasciarono
alle
spalle
le
barche
a
vela
e
gli
altri
fuoribordo
ancorati
nella
piccola
tenaglia
del
porto
turistico.
A
meno
di
dieci
chilometri
dalla
costa,
le
luci
di
navigazione
dello
yacht
erano
ancora
visibili
per
chi
si
fosse
affacciato
dal
lungomare
o
dalla
collinetta
artificiale
su
cui
finiva
Japigia
o
dal
minuscolo
sperone
della
cala
di
San
Giorgio.
Poi,
furono
solo
un
puntino
lontano.
Il
vento
di
levante
iniziò
a
soffiare
con
piú
forza
mentre
bevevano
i
cocktail
analcolici
seduti
sulla
cusciniera
o
sporti
sul
pulpito
o
sulla
plancia,
dove
qualcuno
chiacchierava
senza
piú
accalorarsi
né
sorridere,
come
se
adesso
le
parole
servissero
a
confondersi
col
rumore
delle
onde
tagliate
dalla
punta
dello
scafo.
Un
magro
sessantenne
che
nel
corso
della
cena
aveva
parlato
ininterrottamente
di
innesti
e
vini
barricati,
riemerse
dal
pozzetto
facendo
muovere
le
ginocchia
bianche
e
le
mammelle
flosce
e
i
testicoli
completamente
glabri
sotto
la
carne
raggrinzita
che
solcava
l’attaccatura
delle
cosce.
Raccolse
uno
dei
bicchieri,
scambiò
poche
frasi
con
una
robusta
signora
in
abito
rosso
e
guardò
il
mare.
Anche
gli
altri,
lentamente,
iniziarono
a
spogliarsi
mentre
la
mamma
e
il
papà
non
ebbero
il
tempo
di
pensare
chestrano,sta
succedendo
davvero…
perché
ormai
ci
erano
già
dentro.
Questa,
che
non
era
neanche
un’orgia
ma
un
semplice
restare
nudi
come
vermi
sulla
coperta
di
uno
yacht
sorseggiando
un
aperitivo
analcolico,
era
un’abitudine
a
cui
alcuni
frequentatori
del
Circolo
si
dedicavano
saltuariamente
per
un
motivo
mai
del
tutto
dichiarato:
se
per
emulare
le
leggende
che
in
quegli
anni
circondavano
le
vacanze
estive
dell’avvocato
Agnelli
(nudo
al
largo
delle
Bermuda
sul
suo
F100
in
compagnia
di
Kissinger
e
di
Pamela
Churchill),
o
per
un
bisogno
di
esplicitezza
da
contrapporre
a
una
vita
spesa
a
manovrare
tra
luci
e
ombre,
o
per
una
bizzarra
liturgia
che,
se
solo
fosse
stato
possibile,
li
avrebbe
portati
a
liberarsi
anche
delle
ossa
e
dell’intero
corpo
perché
il
lato
spirituale
del
potere
risaltasse
meglio.
O
forse,
per
inseguire
un
sogno
piccolo
borghese
che
iniziava
a
contagiare
persino
questo
tipo
di
uomini.
Mia
madre
si
tolse
prima
una
scarpa
e
poi
l’altra.
Sentí
la
liscia
e
fredda
superficie
del
legno
sotto
i
piedi
e
dunque
fece
scorrere
la
lampo
dietro
il
collo
e
si
sfilò
il
tubino
nero
lasciandolo
cadere
lungo
le
caviglie.
Si
liberò
anche
del
reggiseno
e
delle
mutandine.
La
morbida
preziosità
dei
glutei
e
la
tonda
prominenza
del
seno
risaltarono
sotto
la
pioggia
artificiale
delle
luci
di
cortesia.
Non
seguí
mio
padre
impegnato
nelle
stesse
operazioni,
perché
esibire
la
propria
nudità
come
un
prodigio
su
cui
nessuno
a
parte
lei
poteva
esercitare
dei
diritti
era
un
sistema
per
non
deprimersi
di
fronte
al
campionario
di
cazzi
mosci
e
culi
sfatti
e
pance
rilassate
e
polpacci
senza
un
pelo
da
cui
erano
circondati.
Bevve
l’aperitivo
evitando
di
dare
confidenza
agli
altri
passeggeri.
Si
guardò
intorno
e
iniziò
ad
allontanarsi
dal
gruppo.
Attraversò
uno
dei
camminamenti
laterali
incrociando
nella
penombra
una
signora
piena
di
piegoline
rosa
lungo
i
fianchi.
Poi
fu
la
volta
di
un
altro
sessantenne
che
passeggiava
pensieroso.
Prima
di
giungere
a
poppa,
vide
l’unica
creatura
in
grado
di
competere
con
lei.
Sabrina
se
ne
stava
tutta
sola,
poggiata
di
fianco
contro
la
ringhiera,
le
lunghe
gambe
lisce
e
il
segno
delle
costole
sul
busto
minuto
e
la
perfetta
rotondità
del
seno
e
lo
sbuffo
castano
dei
peli
pubici
illuminato
dal
bagliore
lunare.
Aveva
la
giovinezza
a
fior
di
pelle
come
ruggito
e
come
mancanza
di
controllo.
Ma
la
bellezza
di
Sabrina
in
quel
momento
possedeva
anche
qualcosa
di
straziante,
un’alterigia
a
continuo
rischio
di
mutilazione,
come
se
da
un
momento
all’altro
un
terribile
mostro
marino
potesse
emergere
dalle
acque
strappandole
il
tronco
di
netto.
Mia
madre
le
passò
davanti,
riuscirono
a
guardarsi
senza
guardarsi,
non
si
salutarono,
stabilendo
un’impossibile
distanza
solidale
tra
belle
donne
la
cui
vita
avrebbe
forse
meritato
un
destino
migliore.
Si
lasciò
alle
spalle
la
ragazza
e
raggiunse
la
poppa,
dove
un’altra
zona
prendisole
si
apriva
verso
il
mare.
Il
belvedere
a
forma
di
diamante
era
occupato
da
un
terzetto
di
donne
impegnate
a
parlottare
e
da
due
uomini
di
mezza
età
ognuno
col
suo
bicchiere
in
mano.
Si
sistemò
poco
distante,
poggiando
gli
avambracci
contro
la
ringhiera.
Sporse
il
busto
all’indietro
e
sentí
i
pori
della
pelle
stringersi
per
il
freddo
e
osservò
il
manto
nero
delle
acque
che
si
estendeva
tutto
intorno
senza
che
la
precisa
posizione
dello
yacht
le
risultasse
comprensibile.
Fu
allora
che
successe.
Durò
poco:
quattro,
cinque
secondi
al
massimo.
Non
capí
se
uno
degli
uomini
le
avesse
messo
di
proposito
la
mano
sul
culo
o
se
gli
fosse
successo
inavvertitamente
di
toccarla.
Ma
a
un
certo
punto
la
mano
era
lí,
e
l’uomo
ce
la
tenne
per
tutto
il
tempo
necessario.
Mia
madre
non
si
spostò
né
protestò
né
fece
altro,
a
parte
aspettare
che
lo
sconosciuto
smettesse
di
palparla.
Neanché
si
girò
a
guardarlo,
perché
si
stava
confrontando
con
quel
nero
sconfinato
e
non
voleva
smettere
di
farlo.
E
tuttavia,
era
costretta
a
riconoscere
di
non
essere
stata
sfidata
da
un
meraviglioso
mostro
marino
ma
da
un
uomo
piuttosto
insignificante,
con
il
riporto
spettinato
e
i
piedi
bitorzoluti
e
le
gambe
innaturalmente
magre
se
confrontate
con
le
dimensioni
dello
stomaco.
Allora
si
impadroní
di
lei
una
banale
sensazione
di
bellezza
sprecata,
di
tempo
sprecato,
piú
banalmente
ancora
di
vita
sprecata,
e
suo
marito
era
lontano,
era
dall’altra
parte
dello
yacht,
e
se
–
tra
i
tanti
possibili
–
devo
scegliere
il
momento
in
cui
decise
di
lasciare
mio
padre,
allora
è
proprio
questo.
Il
problema
era
capire
perché
mai
Vincenzo
si
era
preso
il
disturbo
di
andare
a
cercarlo,
se
poi
non
glielo
aveva
detto.
Poteva
aver
avuto
un
ripensamento,
ma
era
l’ipotesi
meno
attendibile.
Avevano
passeggiato
insieme
per
mezz’ora.
Vincenzo
gli
aveva
offerto
una
sigaretta
e
poi
si
era
infilato
in
tanti
giri
di
parole
che
non
toccarono
l’unico
argomento
che
avrebbe
dovuto
affrontare.
Se
fosse
rimasto
a
casa,
il
risultato
sarebbe
stato
identico,
sarebbe
stata
lo
stesso
un’omissione
imperdonabile.
Ma
invece
lo
aveva
raggiunto,
ed
era
questo
il
punto:
assaporare
pienamente
il
peso
e
la
vergogna
del
tradimento.
Avere
accanto
Giuseppe
per
un’ultima
mezz’ora,
guardarlo
in
faccia
ancora
vivo,
poter
estrarre
un
secondo
qualunque
da
quei
trenta
minuti
per
avvisarlo
del
pericolo,
e
non
risolversi
a
farlo.
Il
16
maggio
1988,
intorno
alle
due
del
mattino,
Giuseppe
Rubino
venne
trasportato
nel
reparto
rianimazione
del
Policlinico
di
Bari
in
seguito
a
un
arresto
respiratorio
dovuto
a
overdose
da
eroina.
Quando
la
barella
svoltò
a
destra
al
termine
del
corridoio
–
un
lungo
tunnel
illuminato
male,
sporco
e
cadente
–,
aveva
la
faccia
blu
e
le
pupille
inesistenti.
Un’eco
continua
di
ruote
metalliche
suggeriva
l’idea
che
nel
profondo
corpo
della
struttura
ospedaliera
altre
barelle
corressero
nel
frattempo
su
altri
corridoi
in
una
specie
di
imprevisto
festival
notturno
del
ricovero
d’urgenza.
L’infermiere
attese
che
il
corpo
graduato
della
siringa
si
riempisse
con
0,4
milligrammi
di
naxolone
e
poi
gli
fece
un’iniezione
di
Narcan
per
via
endovenosa.
Giuseppe
non
riprese
conoscenza.
Ma
alla
quarta
iniezione
del
salvavita
riuscí
ad
aprire
gli
occhi.
Le
tre
teste
dell’infermiere
lampeggiarono
e
diventarono
trasparenti
e
infine
si
riunirono
in
un
unico
volto.
Giuseppe
non
fece
in
tempo
a
tastarsi
la
faccia
né
a
sorridere
né
a
dire
grazie.
Non
capí
neanche
se
aveva
le
forze
per
rimettersi
in
piedi.
Qualcun
altro
afferrò
il
sostegno
della
barella
dietro
la
sua
testa,
il
lettino
singhiozzò
e
iniziò
a
muoversi,
l’immagine
dell’infermiere
si
fece
piccola
e
si
sdoppiò
di
nuovo
e
poi
scomparve
oltre
la
porta
del
reparto.
Venne
abbandonato
in
corridoio
dopo
che
un
altro
paramedico
gli
aveva
gettato
addosso
una
brutta
coperta
di
lana
senza
perdere
tempo
a
dirgli
se
doveva
restarsene
lí
o
se
era
da
considerarsi
già
dimesso.
Negli
ultimi
minuti
erano
stati
ricoverati
altri
ragazzi,
cosí
come
altri
nel
pomeriggio,
e
altri
ancora
avrebbero
continuato
ad
arrivare
fino
alle
prime
luci
dell’alba,
salvati
all’ultimo
momento
a
bordo
delle
ambulanze
o
con
il
cuore
fermo
mentre
qualcuno
urlava:
«Un’altra
overdose!»
Ma
quella
stessa
mattina,
portando
l’orologio
indietro
di
circa
quindici
ore,
io
e
Rachele
ci
eravamo
svegliati
nel
nostro
sacco
a
pelo
preferito
mentre
la
promettente
luce
di
maggio
spalancava
i
suoi
poligoni
sulle
pareti.
Era
un
lunedí,
e
ancora
una
volta
ci
eravamo
inventati
una
scusa
per
trascorrere
la
notte
fuori
casa.
Entrammo
in
cucina
e
mettemmo
su
un
po’
di
caffè.
Grattandosi
la
testa,
ci
raggiunse
anche
Marco
Corallo,
uno
dei
nuovi
arrivi,
piovuto
nel
quartiere
nelle
ultime
settimane.
Aveva
addosso
un
pantalone
del
pigiama
sotto
una
maglietta
sbiadita,
era
scalzo
e
assonnato.
Diede
un’occhiata
a
entrambi
e
disse:
«Una
tazzina
anche
per
me…»
Era
un
nanerottolo
poco
piú
piccolo
di
noi,
il
figlio
di
un
carrozziere
di
Acquaviva
che
una
sincera
passione
per
gli
stupefacenti
e
l’era
d’oro
della
psichedelia
avevano
portato
lontano
da
casa,
un
saldo
primaverile
dall’inesauribile
fondo
di
magazzino
della
cultura
fricchettona,
di
quelli
che
riuscivano
ancora
a
chiamarti
«fratello»
senza
provare
imbarazzo.
Un
illuso
e
uno
sprovveduto
da
antologia.
Ma
a
me
stava
simpatico.
Rachele
lo
trovava
addirittura
commovente,
al
modo
in
cui
le
ragazze
sono
talvolta
in
grado
di
sciogliersi
davanti
all’innocenza
quando
non
è
filtrata
dalla
tensione
erotica,
e
tirano
fuori
un
disinteressato
spirito
di
abnegazione
quando
qualcuno
che
non
si
porterebbero
mai
a
letto
risulta
ai
loro
occhi
incapace
di
ogni
male:
cosí
che
occuparsene,
proteggerlo,
diventa
non
un
modo
per
pulirsi
la
coscienza
(davanti
a
queste
creature
il
senso
di
colpa
delle
ragazze,
da
oscuro
che
era,
diventa
addirittura
fiammeggiante),
ma
per
fare
la
cosa
giusta
con
assoluta
sicurezza.
Non
che
potessi
essere
geloso
di
Marco
Corallo.
Sospettavo
tuttavia
che
l’affetto
di
Rachele
per
il
ragazzo
testimoniasse
l’implicita
convinzione
che
tutto
il
resto
avesse
qualcosa
di
sbagliato.
Me
compreso.
Da
quando
avevamo
assistito
al
pestaggio
di
quel
tizio
per
la
strada,
Rachele
mi
era
sembrata
sempre
piú
pensierosa,
come
se
si
stesse
arrovellando
su
qualcosa
di
importante
e
volesse
farlo
senza
interferenze.
Dividemmo
la
colazione
insieme
a
Marco.
Poi
arrivarono
altri
ragazzi
e
prepararono
ancora
del
caffè,
cercarono
nella
dispensa
le
ultime
fette
biscottate
e
scavarono
con
le
dita
in
un
barattolo
di
miele
che
si
passarono
l’un
l’altro
fino
a
quando
il
contenitore
non
venne
abbandonato.
A
questo
punto
si
era
fatto
mezzogiorno.
Cosí
pensai
di
darmi
una
scrollata
e
andare
a
fare
due
passi
per
i
fatti
miei.
Maxi
il
bucomane
era
il
decano
dei
tossici
di
Japigia.
Aveva
poco
meno
di
cinquant’anni
e
aveva
cominciato
a
farsi
quando
era
ancora
in
voga
gettarsi
tra
le
braccia
dell’eroina
in
seguito
a
una
delusione
politica.
Ma
a
lui,
nato
e
cresciuto
nel
quartiere,
della
politica
non
era
mai
importato
niente,
e
aveva
preso
il
vizio
perché
l’inesauribile
coazione
a
ripetere
della
roba
–
acquisto
consumazione
rota,
acquisto
consumazione
rota
–
faceva
il
paio
con
l’eterno
ritorno
all’uguale
che
imprimeva
il
proprio
calco
analgesico
di
non
speranza
e
non
dolore
all’intera
nervatura
della
zona
periferica.
Sebbene
qualcosa
in
Maxi
conservasse
la
remota
routine
di
chi
era
stato
giovane
negli
anni
Settanta,
aveva
subíto
tutte
le
mutazioni
di
quindici
anni
di
dipendenza.
Secondo
gli
opuscoli
del
ministero
della
Sanità
sarebbe
dovuto
già
morire
molte
volte.
Invece
rimaneva
imprigionato
in
questa
specie
di
imperitura
ultima
soglia,
e
se
i
suoi
ragionamenti
sembravano
ogni
tanto
il
prodotto
di
un
cervello
fuori
sesto,
tutto
il
corpo
di
Maxi
era
al
contrario
un
unico
tessuto
cerebrale
perfettamente
coerente,
sul
quale
perfino
la
ricrescita
di
un
singolo
capello
era
orientata
verso
il
prossimo
spacciatore.
Quella
mattina,
lasciata
Rachele
alle
prese
con
Marco
Corallo,
lo
incrociai
tra
via
De
Lilla
e
via
Pitagora,
dove
trascorreva
la
maggior
parte
del
tempo.
Gli
chiesi
come
andava
e
lui
rispose:
«Un
cazzo
di
niente…»,
il
che
significava
che
l’uomo
con
cui
aveva
appuntamento
non
si
era
fatto
vivo.
Passarono
dieci
minuti
durante
i
quali
si
limitò
a
fiutare
l’aria
intorno
a
sé.
Quando
la
roba
non
veniva
da
loro,
erano
loro
a
doversi
dare
una
mossa.
Si
staccò
dall’inferriata
e
iniziò
a
camminare
verso
il
ponte.
Io
lo
seguii.
Uscimmo
da
Japigia
e
attraversammo
l’ultimo
tratto
del
rione
San
Pasquale.
Quindi
puntammo
verso
il
centro.
Il
suo
obiettivo
era
trovare
uno
spacciatore
e,
visto
che
c’era,
raggranellare
un
po’
di
soldi
per
i
giorni
successivi.
Nonostante
l’andatura
sbilenca,
ottimizzava
tempo
e
forze
con
grande
senso
dell’economia.
A
un
incrocio
dalle
parti
della
stazione,
davanti
a
una
porzione
di
asfalto
solcata
da
un’anonima
successione
di
passanti,
fu
come
se
ci
avesse
appena
visto
un
vortice
energetico:
tante
linee
che
si
inseguivano
per
annunciare
qualcosa
di
imminente.
Da
lí
a
poco,
si
materializzò
all’altro
capo
della
strada
un
uomo
avvolto
da
un
giubbotto
militare.
Era
fermo
a
due
passi
dal
semaforo
e
lo
guardava
con
le
mani
in
tasca.
Scosse
la
testa.
Maxi
bofonchiò
qualcosa.
Riprendemmo
a
camminare
puntando
verso
piazza
Umberto.
All’altezza
dell’università,
iniziò
a
terrorizzare
i
passanti
chiedendo
qualche
spicciolo.
Mostrava
le
stimmate
della
dipendenza
come
un
paralitico
la
propria
carrozzella,
cosí
ci
fu
un
fluviale
muro
umano
che
si
disintegrò
man
mano
che
lo
attraversavamo
per
ricomporsi
subito
dopo
alle
nostre
spalle.
Un
signore
di
mezza
età
–
faccia
rosea,
capelli
bianchi,
brutta
giacca
spigata
–
commise
l’errore
di
guardarlo
un
istante
di
troppo.
Maxi
gli
si
piantò
davanti.
L’uomo
si
guardò
intorno
con
aria
allarmata
mentre
gli
altri
tutto
intorno
allungavano
il
passo.
Maxi
si
piegò
di
tre
quarti
strascicando
orribilmente
le
vocali:
per
faavoore…
due
spiiccioli per un caaffè.
L’uomo
strinse
i
pugni.
Maxi
era
cosí
debilitato
che
anche
la
spinta
di
un
bambino
lo
avrebbe
messo
fuori
uso.
L’uomo
avrebbe
voluto
colpirlo,
ma
non
riusciva
a
farlo.
Allora
frugò
istintivamente
nelle
tasche
fino
a
quando
si
ritrovò
col
portafogli
spalancato
tra
le
mani.
Alla
vista
del
denaro,
Maxi
partí
in
automatico,
la
sua
voce
diventò
ancora
piú
nasale
e
le
braccia
si
allungarono
mostrando
un
principio
di
vene
ulcerate.
Non
gli
importava
se
negli
occhi
dell’uomo
si
poteva
adesso
leggere
il
peggior
tipo
di
disprezzo
–
non
l’odio
personale
ma
quello
astratto
–
perché
anche
Maxi
adesso
non
c’era
piú,
al
suo
posto
pulsava
solo
la
fame
d’eroina.
Erano
entrambi
posseduti,
macchine
parlanti,
e
fu
soltanto
in
questo
modo
che
riuscirono
a
superare
l’impasse:
l’uomo
allungò
un
biglietto
da
mille,
e
Maxi
lo
artigliò.
Intorno
alle
tre
del
pomeriggio,
dopo
avere
raccolto
qualche
altro
spicciolo,
eravamo
di
nuovo
a
San
Pasquale.
Nel
corso
dell’ultima
mezz’ora,
Maxi
si
era
fatto
piú
nervoso:
la
rota
doveva
avere
cominciato
a
torturargli
ogni
singola
cellula
e
lui
non
era
ancora
riuscito
a
trovare
uno
spacciatore.
Il
che
era
inspiegabile.
A
pochi
metri
da
due
edifici
scolastici
disposti
uno
di
fronte
all’altro,
nel
silenzio
assoluto
della
controra,
trovò
un
uomo
ad
aspettarlo.
Poteva
avere
trent’anni,
e
indossava
una
tuta
della
Diadora
di
colore
bianco.
Gli
andò
vicino.
Parlottarono
a
testa
bassa.
Le
mani
di
entrambi
rimasero
ferme
ai
loro
posti.
Maxi
tornò
verso
di
me
stringendosi
nelle
spalle.
Sudava
freddo,
faceva
no
no
con
la
testa.
Si
sedette
sul
marciapiede.
Infilò
la
testa
tra
le
ginocchia
e
iniziò
a
piagnucolare.
Un’ora
dopo
eravamo
di
nuovo
per
le
strade
di
Japigia.
Maxi
si
stringeva
nel
giubbotto,
recriminava
tra
sé
e
sé
mentre
un
rumore
lontano
di
motorini
in
corsa
faceva
il
paio
con
la
striscia
di
un
aereo
che
si
allungava
con
lentezza
nella
volta
celeste.
Dall’afa
pomeridiana
sbucò
fuori
un
altro
tossico.
Zampettò
verso
di
noi
attraversando
la
strada
e
chiese
se
ci
serviva
un
po’
di
roba.
Disse
qualcosa
a
proposito
del
prezzo:
«Un
regalo…
praticamente».
Maxi
scosse
la
testa,
un
«no»
stanco
e
sconsolato.
Poi
ci
guardò
come
se
solo
allora
realizzasse
quanto
tutti
fossimo
estranei
gli
uni
agli
altri.
Ci
diede
le
spalle
e
iniziò
a
camminare
verso
i
bordi
della
strada,
alla
ricerca
di
un
posto
in
cui
nascondersi
per
affrontare
le
prossime
ore
che
si
annunciavano
terrificanti.
Fu
allora
che
avrei
dovuto
capire…
Le
mie
gambe
si
sarebbero
dovute
mettere
immediatamente
in
moto.
Avrei
dovuto
battere
il
quartiere
palmo
a
palmo
fino
a
quando
non
avessi
trovato
Giuseppe:
«Stai
attento,
sta
succedendo
qualcosa
di
strano».
Invece
mi
avviai
verso
l’appartamento
di
Santo
Petruzzelli.
Lo
stanzone
era
immerso
nella
penombra,
e
i
pochi
raggi
di
sole
che
passavano
attraverso
le
fessure
degli
scuri
creavano
una
strana
atmosfera
di
sonnolenza
e
abbandono
decennale.
In
casa
a
quell’ora
non
c’era
quasi
nessuno
e
Rachele,
messa
di
fianco
sul
sacco
a
pelo
ripiegato
in
due,
stava
ancora
chiacchierando
col
nostro
amico
di
Acquaviva.
Marco
Corallo
sedeva
a
gambe
incrociate
su
uno
dei
materassi.
Il
secondo
materasso
era
vuoto,
se
si
escludevano
le
scarpe
di
Rachele
abbandonate
una
sull’altra.
Rachele
constatò:
«Rieccoti…»
Marco
si
girò
verso
di
me,
sorrise:
«Vieni
qua».
Avanzai
di
qualche
passo.
Mi
sedetti
tra
i
due
ma
loro
smisero
di
parlare.
Allora
anch’io
non
dissi
niente.
Rachele
accese
una
sigaretta.
Il
fumo
della
prima
boccata
roteò
a
mezz’aria
intercettando
un
raggio
di
luce,
e
fu
come
se
i
rumori
e
le
voci
e
l’intera
storia
della
città
durante
quel
lungo
pomeriggio
entrassero
per
pochi
istanti
nella
stanza.
Il
ragazzo
si
alzò
in
piedi,
superò
primo
e
secondo
materasso,
raccolse
il
suo
zaino
della
Falchi
e
ritornò
a
sedersi.
Rachele
spense
la
sigaretta
sul
pavimento.
Mi
prese
una
mano,
la
tenne
ferma
nella
sua.
Aveva
una
maglietta
verde
smeraldo
e
i
jeans
strettissimi
culminavano
su
una
nervosa
architettura
di
piedi
bianchi.
Santo
Petruzzelli
comparve
nel
vano
della
porta.
Si
guardò
intorno,
constatò
che
c’eravamo
solo
noi
e
andò
via.
Marco
Corallo
disse:
«Va
bene…
allora
adesso
mi
faccio
uno
schizzetto».
Aprí
lo
zaino
e
iniziò
a
preparare
la
roba.
Lo
guardai
senza
dire
una
parola.
Rachele
mi
lasciò
la
mano.
Si
inginocchiò
davanti
al
sacco
a
pelo,
lo
srotolò
con
cura
lungo
il
pavimento,
fece
scorrere
la
cerniera
e
si
infilò
nel
bozzolo
di
tela.
Anche
io
entrai
nel
sacco
a
pelo.
Richiusi
la
cerniera
e
le
appoggiai
le
mani
sulla
schiena.
Quando
sentí
le
dita
infilate
per
metà
nell’elastico
delle
mutandine,
Rachele
provò
a
tenermi
fermo.
Ci
fu
questa
silenziosa,
clandestina
colluttazione.
Ma
poi
riuscii
a
sfilarle
jeans
e
mutandine
fino
alle
ginocchia,
e
non
appena
portai
il
mento
sulla
sua
spalla
vidi
il
ragazzo
che
ricadeva
senza
forze
lungo
il
materasso.
Il
corpo
di
Rachele
si
illanguidí
e
le
mani,
che
avevano
continuato
a
stringersi
sulle
mie
cosce,
allentarono
la
presa
e
rimasero
inerti
fino
a
quando
non
fu
tutto
finito.
Il
suo
respiro
si
fece
pesante
e
cosí
anche
io
presi
sonno.
Rachele
si
risvegliò
alle
cinque
meno
un
quarto.
Le
iridi
color
marrone
chiaro
vennero
rivelate
dall’apertura
delle
palpebre
e
le
pupille
si
ingrandirono
per
indagare
il
chiaroscuro
della
stanza,
dove
un
altro
paio
di
occhi
si
rispecchiò
nei
suoi.
I
primi
in
continua
contrazione,
gli
altri
piú
simili
a
una
laguna
morta.
Mi
svegliai
di
soprassalto
mettendomi
seduto
sul
sacco
a
pelo.
Non
appena
vidi
Rachele
che
allungava
le
mani
nel
buio,
e
piangeva,
e
diceva
a
voce
alta:
«No!
no!
no!»,
compresi
che
la
ragazza
aveva
urlato
solo
pochi
istanti
prima,
e
che
il
mio
dormiveglia
doveva
aver
spostato
l’esplosione
della
voce
in
un
tempo
precedente:
era
come
se
quel
pianto
lo
stessi
ascoltando
da
intere
settimane.
Ma
adesso
ero
completamente
sveglio,
e
quando
provai
a
prendere
Rachele
per
le
braccia,
lei
si
divincolò.
Vidi
il
corpo
di
Marco
Corallo
steso
sul
materasso
con
gli
occhi
spalancati.
Due
secondi
dopo
fece
il
suo
ingresso
nella
stanza
Santo
Petruzzelli,
seguito
da
un
uomo
con
i
capelli
lunghi
tenuti
insieme
da
un
elastico.
Il
padrone
di
casa
disse:
«Che
succede?»
L’uomo
col
codino
corse
ad
aprire
la
finestra.
La
stanza
venne
invasa
dalla
luce,
un
caldo
vento
primaverile
travolse
l’odore
di
chiuso
e
il
cadavere
di
Marco
Corallo
fu
il
cuore
fermo
di
una
scena
che,
ancora
una
volta,
mi
sembrò
avvenuta
tanto
tempo
prima,
mentre
Santo
imprecava
(«Ma
porca
troia!»)
e
la
ragazza
continuava
a
ripetere
sconvolta:
«Per
favore!
per
favore!»
La
polvere
del
pavimento
ardeva
sotto
i
raggi
del
sole.
Non
stavo
sognando,
eppure
avevo
l’assurda
attonita
sensazione
che
tra
il
nostro
dormire
nel
sacco
a
pelo
e
il
successivo
risveglio
fossero
passati
degli
anni,
e
adesso
tutti
e
quattro
(io
e
Rachele,
Santo
Petruzzelli
e
l’uomo
col
codino)
ci
trovavamo
lí
solo
perché
le
nostre
persone
future
stavano
carezzando
contemporaneamente
un
ricordo
condiviso.
Nessuno
di
noi
era
davvero
nell’appartamento:
Santo
aveva
cambiato
casa,
io
ero
andato
via
da
Bari…
lontani
gli
uni
dagli
altri
rivivevamo
nel
presente
il
medesimo
istante.
Fate qualcosa, vi
prego…
La
ragazza
infatti
disse:
«Fate
qualcosa,
vi
prego!»
Indietreggiò,
inciampò
in
uno
dei
materassi,
raccolse
le
scarpe
e
le
infilò
una
dopo
l’altra
senza
smettere
di
piangere.
Santo
Petruzzelli
si
sollevò
dal
corpo
del
ragazzo
e
disse:
«Andato».
Poi si rivolse…
Poi
si
rivolse
all’uomo:
«Aiutami,
portiamolo
da
qualche
parte».
Rachele
riprese
a
urlare.
Santo
disse
spazientito:
«Fatela
stare
zitta!»,
ma
poi
la
sua
figura
perse
consistenza
e
la
vestaglia
a
righe
si
confuse
con
le
striature
della
luce
e
anche
la
voce
venne
riassorbita
dal
pulviscolo
dorato,
lasciando
presumere
che
nel
futuro
dal
quale
stavamo
ricordando
lui
avesse
appena
cessato
di
farlo
(fermo
a
un
incrocio
con
le
mani
sul
volante,
il
verde
era
scattato
un
attimo
dopo
che
avesse
ripensato
di
aver
detto:
«Fatela
stare
zitta!),
ma
io
ancora
una
volta
stavo
cercando
di
raggiungerla.
Rachele
corse
verso
il
corridoio.
La
seguii
fino
all’ingresso.
Ansimava
con
le
spalle
alla
porta
e
mi
guardava
come
un
nemico.
Mi
feci
avanti
e
provai
ad
abbracciarla.
Cercai
di
non
dirlo,
ma
ancora
una
volta
dissi
stupidamente:
«Rachele,
per
favore,
adesso
cerchiamo
di
calmarci
tutti
quanti»,
sperando
che
lei
non
facesse
e
non
dicesse
quello
che
stava
per
dire
e
per
fare
(avevo
ripassato
tante
volte
quella
scena
nella
speranza
di
logorare
l’elastico
del
tempo,
ma
il
tempo
era
l’eterna
vibrazione
di
un
elastico
nascosto),
cosí
Rachele
cercò
come
sempre
di
scacciarmi
prima
ancora
che
potessi
toccarla
e
disse:
«Lasciami
in
pace!»
Aprí
la
porta
e
corse
per
le
scale.
I
passi
si
moltiplicarono
nel
pozzo
di
cemento
e
pochi
istanti
dopo
eravamo
per
strada,
dove
un
grandioso…
…
dove
un
grandioso
tramonto
esplodeva
continuamente
sopra
le
nostre
teste
e
sopra
i
tetti
della
città,
e
mentre
i
palazzi
alti
e
grigi
sembravano
la
muta
sopravvivenza
di
un
set
abbandonato,
il
cielo
era
al
contrario
piú
vivo
e
mutevole
che
mai.
Allora
sentimmo
dei
colpi
in
lontananza,
qualcosa
si
ruppe
definitivamente
mentre
Rachele
continuava
a
camminare
e
io
le
stavo
dietro
superando
un’altra
fila
di
palazzi,
poi
una
distesa
di
erba
gialla
e
farinosa,
e
poi
la
lingua
scura
di
un
sentiero
in
salita.
Cosí
adesso
arrancavamo
sulla
collina
artificiale
che
segnava
la
fine
del
quartiere,
con
la
sua
terra
grigia
e
molle,
e
in
lontananza
i
bei
cespugli
di
lentisco
oltre
i
quali
le
case
facevano
a
gara
per
chi
arrivava
prima
al
porto,
mentre
il
pennone
del
faro
e
il
severo
biancore
della
cattedrale
culminavano
sullo
scintillio
del
mare
impegnato
a
mandare
a
memoria
i
colori
del
tramonto
–
scaglia
e
dopo
scaglia
e
dopo
scaglia
–,
e
in
quel
momento
Rachele
si
voltò
verso
di
me
e
disse
calma
e
ricomposta:
«Ma
non
capisci?»,
e
invece
credevo
di
capire
molto
bene,
perché
la
diga
sulle
nostre
teste
alle
nostre
spalle
davanti
ai
nostri
occhi
dappertutto
era
crollata,
e
pur
mancando
piú
di
un
anno
all’ora
X
l’ora
X
era
invece
scoccata,
e
centinaia
di
migliaia
di
persone
marciavano
festanti
da
levante
a
ponente
attraverso
la
porta
di
Brandeburgo
e
distruggevano
muri
e
dilagavano
da
questa
parte
come
se
questa
parte
fosse
l’estuario
di
ogni
umano
desiderio
e
cancellavano
confini
e
rimboccavano
le
coltri
sui
carri
armati
sugli
arsenali
atomici
intonando
davanti
alle
porte
scorrevoli
dei
centri
commerciali
degli
aeroporti
degli
stadi
il
may-day
may-day
del
nuovo
ordine
mondiale
età
dell’acquario
promessa
di
pace
imperitura,
e
se
al
di
là
del
mare
la
Repubblica
Socialista
Federale
di
Jugoslavia
continuava
a
gloriarsi
pomposamente
dei
giochi
olimpici
del
1984
la
Jugoslavia
era
un
unico
bagno
di
sangue,
anche
rinchiuso
nel
carcere
di
Robben
Island
Nelson
Mandela
vinceva
le
elezioni
per
la
presidenza
del
Sudafrica,
nonostante
sarebbe
accaduto
solo
di
qui
a
poche
ore
il
nostro
amico
Giuseppe
Rubino
era
stato
già
portato
in
ospedale
rendendo
attivo
e
valido
il
tradimento
volontario
di
Vincenzo,
il
tradimento
colposo
della
mia
distrazione
e
della
mia
superficialità,
veniva
salvato
da
quattro
iniezioni
di
Narcan
e
cominciava
a
fare
fuori
e
dentro
gli
ospedali,
fuori
e
dentro
i
centri
di
recupero,
non
era
piú
un
ragazzo
era
un
uomo,
anch’io
ero
un
uomo
e
andavo
via
da
Bari,
di
Giuseppe
non
sapevo
piú
niente
ma
la
ragazza
continuava
a
fronteggiarmi,
ritta
sulla
collina
nella
sua
atroce
bellezza
di
diciassettenne
mentre
il
suo
crescere
e
diventare
adulta
usciva
anch’esso
dal
mio
campo
visivo,
anche
di
lei
non
sapevo
piú
niente,
lanciata
nel
futuro
diventava
un’assenza
diventava
una
mancanza
diventava
un
pensiero
doloroso
diventava
la
donna
a
cui
ero
stato
lí
lí
per
fare
un
colpo
di
telefono
in
una
disordinata
terrificante
notte
nel
1998,
prendevo
in
mano
la
cornetta
ma
poi
lasciavo
perdere
perché
questa
Rachele
continuava
a
dire
«ma
non
capisci?»,
quelle
parole
come
una
maledizione,
checosamai
dovrei
capire?
avrei
continuato
a
chiederle
nel
tempo
portando
il
nastro
sempre
piú
a
ritroso
man
mano
che
il
mondo
ruotava
nella
direzione
opposta
(era
accaduto
dieci
anni
prima,
e
l’anno
dopo
erano
già
undici…),
dovrei
forse
convincermi
che
niente
di
quello
che
successe
allora
ha
una
reale
ricaduta
su
quello
che
succede
adesso,
inutile
di
conseguenza
continuare
ad
arrovellarsi
su
Giuseppe
e
su
Vincenzo,
i
nostri
amici
lontani,
i
nostri
amici
scomparsi,
impossibile
ricevere
telefonate
da
loro,
impossibile
telefonarti
nel
presente
mentre
continui
a
dire
«non
capisci»,
inutile
pensare
che
ci
fu
questa
ragazza
che
una
volta
disse:
«Vieni
in
cucina
e
aiutami
a
preparare
una
moretta...»,
se
non
ha
ricadute
nessuno
potrà
rimettersi
mai
in
piedi,
se
non
esiste
significa
che
non
è
mai
esistito,
ma
allora
come
mai
continua
a
esistere
ogni
sera,
tra
le
striature
viola
del
cielo
della
sera
e
in
uno
stato
addirittura
precedente,
sulla
lunghezza
d’onda
dove
la
luce
non
è
ancora
percepibile
–
il
tempo
che
distrugge
è
il
tempo
che
conserva
–,
di
conseguenza
significa
che
mi
dispiace,
mi
dispiace
e
non
capisco,
non
capisco
bene,
non
lo
capisco
ancora
cosí
bene.
Epilogo
L’8
aprile
2008,
di
pomeriggio,
andò
in
onda
su
un
canale
televisivo
nazionale
la
puntata
pilota
di
un
gioco
a
premi
intitolato
Tutta la verità.
La
presentatrice
era
un’ex
valletta
nota
al
grande
pubblico
per
essere
stata
la
moglie
di
un
calciatore
attivo
durante
gli
anni
Ottanta,
e
per
essersene
liberata
quando
la
carriera
di
quest’ultimo
fu
travolta
da
uno
scandalo
che
arroventò
i
tagli
bassi
di
tutti
i
quotidiani
per
circa
un
mese.
Nel
decennio
successivo
aveva
condotto
con
successo
una
trasmissione
mattutina,
la
cui
attrazione
principale
era
l’innocua
«classifica
dei
segni
zodiacali».
Ma
adesso,
al
centro
di
un’aggressiva
scenografia
dove
uno
sfondo
blu
elettrico
veniva
attraversato
da
tante
linee
gialle,
l’ormai
quarantenne
professionista
(fisico
attraente,
camicetta
bianca,
gonna
nera
sopra
il
ginocchio)
stringeva
tra
le
mani
il
suo
blocchetto
degli
appunti
e
annunciava:
«È
arrivato
il
momento
della
verità:
un
montepremi
di
duecentocinquantamila
euro,
e
un
concorrente
che
cercherà
di
aggiudicarselo».
Dopo
avere
indicato
una
poltrona
vuota,
sul
suo
volto
affiorò
una
traccia
di
indurita
compunzione
che
i
telespettatori
erano
abituati
a
decifrare
come
un
messaggio
di
complicità
e
presa
di
distanza.
Venne
inquadrata
in
primo
piano
e
assicurò
ai
suoi
quattro
milioni
di
confidenti:
«E
comunque
sappiate
che
io,
lí
sopra,
non
mi
ci
siederei
manco
morta».
La
telecamera
strinse
sul
logo
del
programma
–
tre
linee
che
zigzagavano
su
un
foglio
di
carta
millimetrata
simile
a
quello
di
un
referto
medico
–
e
si
passò
alla
pubblicità.
Le
regole
del
gioco
erano
semplici
e
a
loro
modo
rivoluzionarie.
Il
concorrente
sarebbe
stato
sottoposto
a
venti
quesiti
le
cui
risposte
gli
erano
già
note.
Non
poteva
essere
altrimenti,
visto
che
si
trattava
di
domande
sulla
sua
vita
privata.
Nei
giorni
precedenti
–
spiegava
la
presentatrice
dopo
la
pubblicità,
mentre
Michele
da
Bologna,
un
giovane
rappresentante
di
prodotti
farmaceutici
dal
fisico
massiccio
e
i
capelli
imbrillantinati,
prendeva
posto
sulla
poltrona
–
il
concorrente
era
stato
sottoposto
alla
prova
del
poligrafo,
la
piú
comunemente
nota
macchina
della
verità:
«…
utilizzata
dalle
maggiori
agenzie
investigative
del
mondo,
–
ci
tenne
a
ricordare
la
donna,
–
utilizzata
addirittura
dall’Fbi!»
precisò
facendo
leva
sull’ingiustificato
senso
di
inferiorità
degli
italiani
in
materia
di
tecniche
repressive.
Il
marchingegno,
attraverso
la
misurazione
della
pressione
sanguigna
della
sudorazione
della
respirazione
toracica
e
addominale,
aveva
insomma
passato
al
setaccio
il
sistema
nervoso
simpatico
di
Michele
da
Bologna
«fino
al
piú
inconfessabile
dei
suoi
segreti».
I
redattori
del
programma
di
conseguenza
conoscevano,
o
presumevano
di
conoscere,
a
quali
delle
oltre
duecento
domande
sottoposte
il
concorrente
aveva
risposto
senza
mentire
–
e
adesso,
sceltene
venti
e
riordinatele
in
una
scala
drammatica
di
intensità
crescente,
iniziava
il
gioco
vero
e
proprio.
«Sarai
cosí
sincero
da
meritarti
questi
duecentocinquantamila
euro?»
chiese
la
presentatrice
acquistando
magicamente,
con
un
semplice
battito
di
ciglia,
un
tono
e
addirittura
un
aspetto
fisico
in
cui
affetto
materno
e
un
non
mai
chiarificato
appello
alla
responsabilità
individuale
mettevano
in
secondo
piano
il
confessore
lo
psichiatra
e
il
poliziotto,
riuniti
clandestinamente
in
uno
specifico
televisivo
che
riecheggiava
le
dittature
sudamericane
di
fine
anni
Settanta
e
i
film
di
fantascienza.
Michele
da
Bologna
sorrise
come
presumeva
dovesse
fare
un
cowboy
delle
pianure
felsinee:
«Sono
pronto».
A
questo
punto
–
accompagnati
dallo
spostamento
d’aria
del
piccolo
colpo
di
scena
senza
che
un
reale
colpo
di
scena
ci
fosse
stato
(anche
lo
spostamento
d’aria:
com’era
possibile
che
si
riuscisse
a
percepire
attraverso
lo
schermo?)
–
fecero
il
loro
ingresso
nello
studio
i
genitori
del
concorrente,
il
suo
migliore
amico
e
Tania,
una
bella
mora
con
tanto
di
sala
ricevimenti
già
prenotata
per
le
nozze
della
prossima
estate.
«Per
pagarci
la
casa…»
si
giustificò
la
ragazza
alludendo
al
montepremi
durante
la
sua
autopresentazione.
Seguí
la
voce
della
madre
del
concorrente
(una
credibile
versione
femminile
di
Franklin
Delano
Roosevelt,
la
quale
tracciò
il
profilo
di
suo
figlio
con
rapide
pennellate:
«Un
bravo
ragazzo,
ma
spende
troppi
soldi
in
fesserie»),
quella
di
suo
padre
(«Le
multe
soprattutto…
prende
un
sacco
di
multe»),
e
quindi
gli
apprezzamenti
disperatamente
ironici
del
suo
migliore
amico
(«La
cosa
assurda,
–
concluse
ridacchiando,
–
è
che
nella
nostra
comitiva
crede
davvero
di
essere
il
piú
bello»).
Le
luci
dello
studio
si
abbassarono,
la
presentatrice
disse:
«Abbiamo
conosciuto
un
po’
meglio
la
personalità
del
nostro
concorrente.
Ora,
se
Michele
è
d’accordo,
possiamo
passare
alle
domande
del
primo
livello»,
e
il
gioco
ebbe
inizio.
Quando,
dopo
una
decina
di
domande
a
cui
Michele
rispose
in
modo
corretto
cercando
di
ignorare
i
movimenti
tellurici
che
minacciavano
i
volti
dei
suoi
cari
(«Ti
lavi
i
denti
tutte
le
mattine?»
«Chi
è
il
tuo
migliore
amico?»
«Hai
mai
rubato?»
«Hai
mai
vissuto
un’esperienza
omosessuale?»),
lo
stesso
concorrente
rispose
con
fermezza:
«No,
ci
mancherebbe…»,
causando
un
piccolo
tracollo
sul
volto
della
presentatrice,
la
quale
abbassò
gli
occhi
e
proferí
un
costernatissimo:
«Mi
dispiace,
hai
mentito»
e
un
cubitale
50
000
€
a
caratteri
gialli
andò
in
frantumi
sul
maxischermo
che
faceva
da
sfondo
per
entrambi,
e
Tania-la-fidanzata
scoppiò
in
un
pianto
che
non
era
un
pianto
televisivo
e
neanche
un
pianto
normale,
ma
una
lacrimosa
terra
di
nessuno
sulla
quale
il
piú
autentico
dei
sentimenti
perdeva
ogni
possibile
appiglio
e
con
l’empatia
e
col
ritorno
d’immagine,
e
quindi
urlò:
«Se
solo
me
lo
avessi
confessato…
allora
sí
che
avrei
potuto
perdonarti!»
e
la
già
prenotata
sala
ricevimenti
da
250
euro
a
posto
tavola
aleggiò
come
un
fantasma
per
lo
studio
televisivo,
in
quel
preciso
istante,
maledicendomi
per
aver
guardato
tanto
a
lungo,
mi
alzai
dal
divano
e
spensi
il
televisore.
Salutai
mio
padre,
che
era
rimasto
tutto
il
tempo
a
sonnecchiare
sul
divano.
Uscii
dalla
sua
villa.
Montai
sulla
Golf
presa
in
prestito
da
mia
madre
e
mi
diressi
verso
casa
di
Giuseppe.
Mentre
guidavo,
pensai
che
quel
gioco
a
premi
riassumeva
con
traslata
fedeltà
gli
ultimi
vent’anni
della
nostra
vita.
Non
si
trattava
piú
dei
comici
imbecilli
del
Drive In,
sebbene
un
filo
rosso
si
mostrasse
e
scomparisse
tra
le
curve
degli
eventi.
Tracciare
una
cronologia
della
nostra
discesa
verso
il
peggio
considerando
l’importanza
dei
nessi
causali
era
ormai
considerata
una
banalità.
Anche
non
negare
l’evidenza
del
peggioramento
era
percepito
come
un
esercizio
di
retorica.
E
tuttavia,
che
in
quei
venti
minuti
di
trasmissione
ci
fosse
stata
un’impunita
violazione
dei
nostri
diritti
fondamentali
era
innegabile.
Una
macchina
scandagliava
le
profondità
di
un
essere
umano
disintegrando
il
suo
diritto
di
mentire,
saldando
tecnologicamente
tutto
questo
all’antico
teatro
della
gogna.
Il
fatto
che
il
condannato-concorrente
si
fosse
sottoposto
di
sua
spontanea
volontà
a
quest’aberrazione
–
pensai
ancora
percorrendo
a
velocità
sempre
piú
ridotta
una
strada
che
non
vedevo
da
vent’anni
–
non
toglieva
che
l’aberrazione
si
fosse
consumata.
Né
migliorava
la
situazione
la
circostanza
che
un
consapevole
intento
malvagio
fosse
estraneo
alla
conduttrice
del
programma
(il
cui
scopo
era
evitare
di
restare
schiacciata
dalla
competizione
dei
programmi
concorrenti),
e
agli
autori
del
programma
(soddisfare
le
aspettative
del
direttore
di
rete,
continuare
a
pagare
il
mutuo
della
seconda
casa),
e
allo
stesso
direttore
di
rete
e
cosí
via,
salendo
o
scendendo
all’infinito.
La
cosa
perversa
e
prodigiosa
al
tempo
stesso
era
invece
che
un
istintivo
battito
di
ciglia
da
parte
della
conduttrice
(«Dirai
la
verità?»
«Riuscirai
a
essere
sincero?»)
bastava
a
generare
tra
schermo
e
spettatori
una
massa
energetica
fatta
di
emozionalità
allo
stato
puro
che
polverizzava
la
consapevolezza
di
avere
appena
assistito
a
un
piccolo
crimine
contro
l’umanità.
L’importante
a
questo
punto
diventava
dire la verità.
Già:
ma
per
quale
motivo?
E
soprattutto:
a
chi?
Ero
andato
via
da
Bari
da
circa
quindici
anni.
Fra
le
tante
professioni
a
disposizione
di
un
individuo
di
buona
cultura
e
buoni
titoli
di
studio
ne
avevo
scelta
una
che
veniva
ancora
ammantata
da
un
velo
di
fascinosa
seppure
innocua
distinzione.
Non
solo
avevo
scelto
questo
lavoro,
ma
le
cose
non
andavano
male.
Viaggiavo
molto,
conoscevo
continuamente
gente
nuova,
riuscivo
a
guadagnarmi
di
che
vivere
in
maniera
dignitosa.
Potevo
spendere
fino
a
100
euro
per
una
cena
almeno
una
volta
ogni
due
settimane.
Pur
non
avendo
una
stabile
vita
sentimentale,
stringevo
brevi
relazioni
di
amicizia
erotica
che
il
mondo
giudicava,
al
posto
mio,
soddisfacenti.
Una
delle
conseguenze
di
questo
tipo
di
esistenza
era
che,
ad
esempio,
era
andata
smarrita
ormai
da
tempo
la
linea
di
demarcazione
tra
lavoro
e
vita
privata.
A
volte,
a
letto
con
una
donna,
avevo
l’impressione
che
il
coito
fosse
la
prosecuzione
con
altri
mezzi
delle
pubbliche
relazioni.
Quando
mi
ritrovavo
con
un
nuovo
bonifico
sul
conto
corrente,
spesso
non
sapevo
piú
a
quale
mio
precedente
atto
produttivo
fossero
legati
quei
soldi.
Naturalmente
capitava
anche
il
contrario:
recriminavo
per
alcune
mie
presunte
grandi
imprese
prive
di
corrispettivo
adeguato.
Un
secondo
effetto
consisteva
nell’avere
chiaro
–
pressoché
in
tutte
le
occasioni
–
dove
fosse
di
casa
il
buon
senso,
senza
che
questa
lucidità
mi
dicesse
tuttavia
un
bel
niente
a
proposito
di
ciò
che
(in
quelle
stesse
occasioni)
fosse
giusto
o
sbagliato
fare.
Il
terzo
effetto
collaterale:
ogni
tanto,
di
prima
mattina,
venivo
sopraffatto
da
brevi
crisi
di
pianto.
Quarto
effetto:
atterrato
nell’aeroporto
di
una
città
lontana
per
motivi
di
lavoro,
prendevo
il
taxi
e
osservavo
l’autista
mentre
guidava
verso
la
destinazione.
Infilavo
la
tessera
magnetica
nella
feritoia
verticale
della
mia
camera
d’albergo,
entravo
nella
stanza
e
controllavo
immediatamente
il
frigobar.
Controllavo
l’aria
condizionata
e
la
tv
satellitare.
Mi
affacciavo
alla
finestra,
osservavo
le
architetture
di
un
panorama
sconosciuto,
e
avevo
voglia
di
buttarmi
di
sotto.
Cosí,
cinque
giorni
prima,
ero
atterrato
all’aeroporto
di
BariPalese.
Mi
ero
sistemato
a
casa
di
mia
madre
e
avevo
messo
mano
all’elenco
telefonico
nella
speranza
di
contattare
Donatella.
Mia
madre
di
tanto
in
tanto
entrava
nella
stanza
degli
ospiti
reggendo
un
vassoio
con
sopra
una
tazza
di
tè
caldo.
Mi
chiedeva:
«Come
va?»
La
guardavo
e
sorridevo.
Ci
parlavamo
per
frasi
smozzicate,
ma
tra
una
frase
e
l’altra
si
aprivano
silenzi
nei
quali
sentivo
scorrere
qualcosa
di
sensato.
Si
era
risposata
nel
1997,
e
ora
abitava
con
suo
marito
in
questo
bell’appartamento
del
quartiere
Poggiofranco.
Godeva
di
buona
salute,
si
concedeva
un
viaggio
ogni
due
anni
acquistando
pacchetti
all
inclusive
dai
nomi
evocativi
quali:
«Crociera
romantica
tra
i
mari
del
Nord».
Nei
momenti
di
sconforto
si
aggrappava
a
un
senso
della
praticità
duramente
conquistato
negli
anni
immediatamente
successivi
al
suo
divorzio.
Era
scesa
da
molto
tempo
a
un
dignitoso,
intelligente
se
non
addirittura
saggio
patto
con
la
vita.
Mio
padre
ero
andato
a
trovarlo
il
giorno
dopo
avere
visto
Donatella.
Abitava
nella
villa
–
finalmente
terminata
–
in
cui
saremmo
dovuti
andare
a
vivere
venticinque
anni
prima.
Era
una
fredda,
elegante,
spaziosa
abitazione
piena
di
carte
da
parati
un
tantino
démodé
e
mobili
di
ottima
fattura.
Lui
ci
passava
le
notti
in
solitudine
dopo
che
anche
il
suo
secondo
matrimonio
era
andato
a
rotoli.
Quando
andavo
a
trovarlo,
ci
scambiavamo
un
abbraccio
di
media
intensità.
Riguadagnavo
una
distanza
di
due
passi
e
domandavo:
«Come
va?»
Lui
rispondeva:
«Eh…»
senza
distogliere
gli
occhi
dalle
farfalle
stilizzate
della
carta
da
parati.
Il
fatto
di
ritrovargli
sul
comodino
–
lui,
che
aveva
sempre
considerato
la
lettura
una
perdita
di
tempo
–
un
libro
di
Anthony
De
Mello
e
altri
opuscoli
del
tipo
Aristotele,Confucioe
l’arte di essere felici
mi
faceva
venire
voglia
di
saltargli
al
collo
e
abbracciarlo
fino
a
stare
male
tutti
e
due.
Volevo
farlo,
ma
non
riuscivo
a
farlo.
Staccava
gli
occhi
dalla
carta
da
parati
e
domandava:
«Da
quanti
giorni
sei
arrivato?»
Qualunque
cosa
rispondessi,
scuoteva
la
testa
per
i
fatti
suoi.
La
situazione
era
riassunta
dalla
cyclette
piazzata
in
una
stanza
mai
arredata:
tanti
esercizi
mattutini,
nessun
posto
dove
andare.
Rispetto
alla
maggior
parte
dei
suoi
colleghi
imprenditori,
aveva
resistito
molto
bene
ai
continui
tracolli
che
avevano
afflitto
negli
ultimi
anni
l’intera
economia
del
nostro
paese
e
in
particolar
modo
il
suo
settore.
Un
attento
ridimensionamento
dell’azienda
e
qualche
oculato
investimento
in
campo
immobiliare
gli
consentivano
di
vivere
in
modo
decisamente
agiato
(molto
meglio
di
me,
ad
esempio),
con
buone
garanzie
di
continuare
a
farlo
sino
alla
fine
dei
suoi
giorni.
Ma
come
dire…
la
grande
onda,
l’elettrizzante
vento
del
successo
avevano
cessato
di
ingrossarsi
sotto
le
fragili
strutture
dei
suoi
sogni.
E
adesso,
espulso
da
un
turbine
di
adrenalina
che
oramai
soffiava
altrove,
si
ritrovava
a
settant’anni
con
il
normale
patrimonio
di
domande
che
prima
o
poi
affliggono
gli
uomini:
cosa
ho
fatto
nel
corso
della
vita,
dove
sono
i
miei
affetti,
esiste
un
senso
per
tutto
questo.
Le
domande
erano
nuove
e
gigantesche,
lui
non
era
equipaggiato
molto
bene,
e
il
tempo
a
disposizione
rischiava
di
non
essere
abbastanza.
Credo
che
in
certi
momenti
si
sentisse
terrorizzato.
Lo
osservavo
mentre
si
addormentava
sul
divano.
Dovevo
fare
uno
sforzo
per
non
voltare
la
testa
dall’altra
parte.
Avevo
visto
mio
padre
e
mia
madre.
Ero
riuscito
a
incontrare
Donatella.
Agli
inizi
di
febbraio
ero
riuscito
addirittura
a
parlare
con
Vincenzo.
Adesso
stavo
guidando
in
preda
all’ansia
verso
casa
di
Giuseppe.
Ma
tutto
questo
era
iniziato
da
circa
un
anno,
dopo
che
le
mie
crisi
si
erano
intensificate
in
modo
preoccupante
e
la
ricostruzione
del
passato
come
terapia
mi
era
sembrato
un
vecchio
classico
su
cui
puntare
ancora
qualche
monetina.
La
prima
mossa
fu
ricorrere
all’unica
grande
rivoluzione
perfettamente
visibile
e
certificata
nella
storia
recente
del
genere
umano.
Nei
primi
mesi
del
2007
iniziai
a
digitare
su
google
nomi
e
cognomi
che
non
pronunciavo
a
voce
alta
da
molto
tempo,
a
chiedere
amicizie
su
facebook,
a
esplorare
gli
aggiornamenti
dei
blog
e
le
rozze
aperture
siderali
di
myspace.
A
volte
la
traccia
era
labile:
vecchie
conoscenze
che
partecipavano
a
seminari
accademici
o
si
vedevano
pubblicare
su
un
quotidiano
on
line
i
loro
pareri
sulle
ultime
convocazioni
del
ct
della
nazionale
di
calcio.
In
altri
casi
le
testimonianze
su
web
della
persona
che
cercavo
erano
assenti.
In
altri
casi
ancora
passavo
intere
notti
a
scandagliare
gli
archivi
di
un
blog
e
a
rabboccare
tazze
di
caffè
solubile.
La
prima
conclusione
a
cui
giunsi
dopo
queste
immersioni
nelle
profondità
del
www,
fu
che
i
miei
vecchi
amici
usavano
internet
come
un
indispensabile
strumento
difensivo.
Nei
loro
contributi
in
html
elencavano
i
lavori
che
avevano
cambiato
o
i
luoghi
in
cui
avevano
trascorso
le
vacanze
estive,
esprimevano
opinioni
–
talvolta
anche
molto
acute
–
sui
film
della
stagione
o
sulla
nostra
vita
politica.
Ma
si
trattava
di
fumo
negli
occhi.
Persino
le
pagine
personali
piene
di
emoticon
e
altri
espedienti
drammaturgici
sembravano
seguire
una
strategia
di
occultamento:
tentativi
di
depistaggio
attraverso
la
sovraesposizione
di
se
stessi.
Guardando
quelle
pagine
il
cui
scopo
dichiarato
era
darsi
generosamente
in
pasto
a
chiunque,
nulla
emergeva
di
fondamentale
sulla
situazione
dei
loro
autori.
Ragionamenti
intelligenti,
tirate
polemiche
o
spiritose,
piccole
bizzarrie,
quello
sí.
Ma
che
opinione
avevano
davvero
di
se
stessi,
cosa
si
aspettavano
dal
futuro,
da
quali
paure
venivano
perseguitati…
tutto
questo,
provvidenzialmente,
non
veniva
fuori.
Era
come
se
–
nell’epoca
dello
sputtanamento
globale
–
avessero
trovato
un
espediente
per
affidare
alla
parte
divagatoria
delle
loro
vite
il
compito
di
distrarre
i
voyeur
da
tutto
quanto
il
resto.
Se
c’era
qualcosa
di
rivelatorio,
nelle
loro
tracce
telematiche,
era
la
volontà
di
proteggere
se
non
addirittura
di
nascondere
qualcosa.
Mi
sembrò
una
strategia
ammirevole.
Ma
perché
nascondere
qualcosa?
Solo
allora
iniziai
a
realizzare
che,
da
qualche
parte
nel
passato,
doveva
essersi
verificata
una
catastrofe
di
dimensioni
gigantesche.
Una
collisione
invisibile,
un
crollo
silenzioso,
un
trauma
senza
evento.
E
il
cratere
che
l’impatto
aveva
scavato
in
molti
di
noi
rappresentava
il
vero
cuore
del
problema.
Non
esisteva
un
D-day,
un
Hiroshima-day,
un
8
settembre,
un
25
aprile.
Mancava
un
fatto
dal
quale
far
discendere
tutti
gli
altri,
e
al
quale
richiamarsi
con
certezza
per
raccontare
la
nostra
storia.
Ecco
perché
a
un
certo
punto
avevo
spento
il
computer
e
avevo
cominciato
a
rivedere
tutti
quanti.
Non
era
importante
ricevere
conferma
che
Donatella
era
stata
l’amante
di
Vincenzo:
era
fondamentale
poter
vedere
la
faccia
di
Donatella
mentre
me
lo
raccontava.
Se
c’era
uno
sfregio
ma
mancava
il
corpo
del
reato,
era
lo
sfregio
che
bisognava
interrogare.
Vincenzo
era
tra
quelli
che
non
avevano
sentito
il
bisogno
di
pubblicare
un
diario
in
rete.
Il
risultato
che
il
nome
«Vincenzo
Lombardi»
produceva
nei
motori
di
ricerca
sfiorava
il
tetto
delle
ottomila
occorrenze.
Mi
ci
volle
un
lavoro
massacrante
(due
giorni
senza
staccare
gli
occhi
dal
monitor)
per
capire
che
si
trattava
di
semplici
casi
di
omonimia.
Professori
di
statistica,
combattenti
del
Risorgimento
conservati
nelle
teche
di
Wikipedia,
un
tizio
che
vendeva
su
eBay
un
disegno
autografo
di
Charles
Schulz…
settemila
e
ottocento
occorrenze
completamente
inutili.
Ma
poi,
invece,
rieccolo.
Esiste
un
sesto
senso
della
rete,
e
non
appena
quel
nome
–
identico
agli
altri
–
comparve
su
uno
sfondo
celestino
accompagnato
da
un
sobrio
profilo
professionale
alla
voce
«about
us»
dello
studio
legale
Bucks,
Goldsmith,
Lebowitz,
Lombardi
&
Partners,
pensai
immediatamente:
è lui.
Ero
certo
che
si
trattasse
di
Vincenzo,
non
tanto
a
causa
del
legame
con
la
professione
paterna
ma
perché
quelle
quattro
neutre
algide
impenetrabili
note
di
curriculum
erano
tipiche
di
lui.
E
cosí
–
per
quanto
possa
sembrare
assurdo
attraverso
la
parete
fosforosa
di
uno
schermo
–
per
un
attimo
fu
come
se
fossimo
di
nuovo
l’uno
di
fronte
all’altro.
Esplorando
il
sito
fino
all’ultima
pagina,
appresi
che
lo
studio
aveva
sedi
a
Milano
a
Londra
a
New
York
a
Hong
Kong
a
Dubai,
si
avvaleva
di
oltre
cento
professionisti
tra
legali,
periti,
revisori,
e
prometteva
di
assistere
al
meglio
i
propri
clienti
in
settori
quali
il
commercio
internazionale,
le
mediazioni
finanziarie,
la
pianificazione
fiscale
delle
persone
giuridiche.
Telefonai
alla
sede
milanese
nella
speranza
che
lui
fosse
rimasto
in
Italia,
e
«sí»
–
confermò
una
delle
receptionist
–,
Vincenzo
lavorava
nella
sede
di
via
Clerici,
anche
se
al
momento
non
era
in
studio.
Dopo
una
settimana
di
anticamere
telefoniche,
riuscii
a
parlargli.
Fu
gentile,
stringato,
a
suo
modo
perfino
affettuoso:
non
mi
trattò
come
un
estraneo,
ma
come
una
persona
a
cui
aspettava
da
vent’anni
di
non
dire
niente
di
importante.
«Allora
facciamo
tra
una
decina
di
giorni…»,
e
mi
fissò
un
appuntamento.
Agli
inizi
di
febbraio,
andai
a
trovarlo
nel
suo
ufficio.
Era
un
ufficio
lussuoso,
ma
privo
di
quella
vistosità
che
un
tempo
si
riteneva
dovessero
sfoggiare
i
luoghi
di
rappresentanza:
ampio,
luminoso,
minimale,
pieno
di
armadi
dalle
vetrate
color
nuvola,
il
tipico
arredamento
Ikea
se
l’Ikea
producesse
anche
mobili
di
pregio.
Dietro
la
scrivania
–
come
un
meditato
ed
efficace
ribaltamento
di
tutta
questa
leggerezza
–
era
appeso
un
nudo
di
Lucian
Freud
che
si
doveva
presumere
originale.
Vincenzo
mi
disarmò
con
una
stretta
di
mano.
Era
ancora
bello,
magro
e
slanciato,
e
non
appena
mi
venne
incontro
in
un
completo
azzurro
che
gli
toglieva
consistenza
confinandolo
in
una
specie
di
splendore
artico,
furono
sufficienti
il
suo
sorriso
e
questa
stretta
cosí
ben
padroneggiata
per
farmi
capire
che
non
ne
avrei
cavato
niente.
Mi
fece
sedere
di
fronte
a
lui,
fece
portare
caffè
per
due
e
una
bottiglia
di
Perrier.
Iniziò
a
parlarmi
della
sua
carriera
(sette
anni
nello
studio
di
suo
padre,
poi
il
grande
salto
della
law
firm),
della
sua
vita
privata
(due
figli,
un
matrimonio
con
una
ex
ballerina
dell’American
Ballet
Theatre),
quindi
aspettò
che
gli
dicessi
qualcosa
di
me.
Ma
a
quel
punto
non
c’era
niente
che
avrei
potuto
davvero
comunicargli,
perché
nell’arte
della
fuga
era
stato
come
al
solito
sublime:
ogni
parola
pronunciata,
ogni
minimo
gesto
da
parte
sua
avevano
già
creato
un’atmosfera
da
vuoto
pneumatico
nella
quale
anche
il
piú
discreto
tentativo
di
affondo
diventava
inimmaginabile.
Gli
raccontai
di
me
come
–
anni
prima
–
avrei
potuto
fare
a
un
colloquio
di
lavoro.
Poi
però,
mentre
distribuivo
informazioni
inutili
sul
mio
conto,
non
potei
fare
a
meno
di
notare
alle
sue
spalle,
accanto
a
quella
che
doveva
essere
la
foto
di
sua
moglie
(una
bella
donna
dai
tratti
nordici),
anche
l’immagine
del
vecchio
Mario
Lombardi
circondata
da
una
cornice
di
argento
massiccio.
«Come
sta
tuo
padre?»
chiesi
maledicendo
la
mia
mano
che
continuava
a
indicare
la
foto
per
scaricare
su
quella
bella
cornice
la
colpa
della
mia
indiscrezione.
Vincenzo
socchiuse
gli
occhi.
Il
suo
sorriso
lasciò
finalmente
trapelare
uno
squarcio
di
tagliente
cattiveria,
e
la
sua
bocca
rimase
quasi
immobile
mentre
diceva:
«Ma
pensa…
cancro
allo
stomaco».
Quando
aggiunse
che
era
morto
nell’autunno
del
2002,
la
sua
voce
aveva
riguadagnato
l’ufficialità
debolmente
partecipativa
di
un
annuncio
funebre
pubblicato
sul
giornale.
Fu
tutto.
Ma
forse
fu
piú
di
quanto
fosse
lecito
sperare:
quel
suo
ma
pensa…
cosí
sgradevole
e
fulmineo,
pronunciato
mentre
il
vero
Vincenzo
riemergeva
per
un
attimo,
poteva
essere
interpretato
come
una
beffarda
ammissione
di
sconfitta,
visto
che
solo
i
processi
naturali
di
consunzione
e
malattia
avevano
messo
fine
a
una
vecchia
battaglia.
Prima
di
congedarmi,
volle
vendicarsi
di
questa
piccola
debolezza:
disse
che
mi
avrebbe
messo
in
contatto
con
il
reparto
dello
studio
che
si
occupava
dei
diritti
d’autore,
come
per
confermare
a
entrambi
che
ci
stavamo
rivedendo
proprio
come
fanno
i
vecchi
amici
–
una
consulenza,
un
favore,
qualcosa
di
pratico.
Sfoderai
il
sorriso
piú
falso
di
cui
fossi
capace
e
dissi:
«Bene,
allora
aspetto
una
telefonata»,
rassicurando
lui
e
me
stesso
sul
fatto
che
non
ci
saremmo
visti
né
sentiti
mai
piú.
Di
Giuseppe,
su
internet,
non
c’era
neanche
un
esangue
profilo
lavorativo.
Un
post
di
argomento
calcistico,
una
recensione
cinematografica,
la
didascalia
su
una
foto
amatoriale…
Niente
di
niente.
L’ultima
volta
lo
avevo
incrociato
per
caso
quasi
dieci
anni
prima,
nel
1999.
Piú
di
un
incontro
fu
un
calcio
nello
stomaco.
Ero
a
Bari
per
le
feste
di
Natale
(atterraggio
in
aeroporto
22
dicembre,
biglietto
di
ritorno
già
prenotato
per
il
25
sera)
e
stavo
camminando
lungo
via
Sparano,
dove,
alle
20
meno
qualcosa
della
vigilia,
cercavo
di
raccattare
disperatamente
gli
ultimi
regali.
Tra
gli
innumerevoli
forzati
dell’acquisto
natalizio,
ma
distinto
da
tutti
quanti
loro,
a
un
certo
punto
me
lo
trovai
davanti.
Era
sempre
corpulento,
e
una
vistosa
stempiatura
che
non
poteva
ancora
definirsi
calvizie
gli
scopriva
la
testa
fino
alla
sommità
del
cranio.
Indossava
un’assurda
salopette
di
jeans
sotto
un
normale
piumino.
E
non
aveva
una
bella
cera.
Ci
misi
qualche
attimo
per
passare
dal
dubbio
al
pieno
riconoscimento,
ma
non
appena
fui
certo
che
era
lui
lo
avevo
perso.
Non
poteva
non
avermi
visto,
eppure
mi
passò
di
fianco
senza
neanche
mostrare
i
segni
di
uno
slancio
tenuto
a
freno.
Qualche
ora
piú
tardi,
durante
due
cenoni
a
cui
fui
in
grado
di
presenziare
quasi
contemporaneamente
per
non
offendere
nessuno
(il
primo
a
casa
di
mia
madre,
l’altro
nella
villa
di
mio
padre),
mi
ricordai
che
molte
comunità
di
recupero
pretendevano
che
i
loro
ospiti
evitassero
ogni
contatto
con
le
persone
frequentate
durante
la
dipendenza.
Spacciatori,
fidanzate,
amici,
conoscenti…
qualunque
essere
umano
rischiasse
di
evocare
il
ricordo
di
un
vecchio
pomeriggio
interamente
trascorso
alla
caccia
di
una
dose,
non
poteva
essere
avvicinato
neanche
per
andare
a
prendersi
un
caffè
–
pena,
l’espulsione
immediata
dalla
comunità.
Facendo
un
enorme
sforzo
su
se
stesso
per
non
salutarmi,
pensai,
Giuseppe
doveva
essersi
guadagnato
la
sua
licenzia
natalizia.
A
me
era
bastato
uno
sguardo
non
restituito
per
lasciarlo
andare
via.
Sapevo
che
la
famiglia
Rubino
aveva
avuto
dei
problemi
e
che
Giuseppe
era
messo
ancora
peggio.
Ero
riuscito
a
recuperare
un
numero
di
cellulare,
mi
ero
fatto
forza
e
lo
avevo
chiamato.
Nei
giorni
intercorsi
tra
la
visita
a
Donatella
e
il
nostro
appuntamento,
avevo
trascorso
delle
ore
a
guidare
silenziosamente
per
strade
e
quartieri
che
mi
sembrava
di
non
vedere
da
un
secolo.
Ogni
cosa
era
cambiata
intorno
a
me.
Japigia
era
diventata
una
normale
zona
residenziale.
I
locali
underground
erano
stati
sostituiti
dalla
club
culture
alla
moda,
e
perfino
la
droga
–
come
accadeva
del
resto
in
tutto
il
mondo
–
stava
subendo
il
suo
processo
di
lenta
integrazione.
Il
mare
era
una
quieta
campitura
d’azzurro
sotto
un
cielo
altrettanto
sereno.
Della
città
cosí
piena
di
mistero
che
avevo
tanto
amato
e
ripudiato
e
poi
amato
ancora
piú
disperatamente,
non
rimaneva
molto.
Finii
di
percorrere
via
Napoli.
Quindi
svoltai
a
sinistra,
verso
il
complesso
di
ville
in
fondo
al
quale
c’era
stato
il
regno
dei
Rubino.
Il
pomeriggio
primaverile
era
al
suo
culmine
e
l’autoradio
diffondeva
notizie
di
sfiducia
generalizzata.
Per
farmi
coraggio
–
come
era
mia
abitudine
prima
di
ognuno
di
questi
incontri
–
pensai
a
Rachele,
al
fatto
che
non
l’avevo
cercata
né
avevo
intenzione
di
farlo.
Avevo
evitato
di
raccogliere
informazioni
su
di
lei
e
soprattutto
avevo
resistito
alla
tentazione
di
rivederla,
come
se
questa
omissione
nei
confronti
di
una
donna
che
presumevo
in
una
buona
condizione
fisica
e
mentale
(ancora
bella,
con
accanto
un
uomo
che
amava,
moderatamente
delusa
da
una
serie
di
vicende
ma
in
fin
dei
conti
serena
e
senza
un
gran
bisogno
di
ritrovarsi
a
parlare
con
una
vecchia
fiamma,
tutto
secondo
l’inverificabile
parametro
della
mia
immaginazione)
fosse
un
dovuto
atto
di
rispetto,
o
un’uscita
di
sicurezza,
una
zona
lasciata
immacolata
per
bilanciare
quanto
di
sgradevole
e
di
sbagliato
potesse
esserci
nel
resto
della
mia
indagine.
Non
appena
passai
davanti
alle
prime
ville,
notai
un
cambiamento
che
ultimamente
avevo
riscontrato
molto
spesso
in
altre
zone
d’Italia.
Il
bello
diventato
insulto,
l’eccesso
di
vitalità
che
trascolora
nel
delirio
di
impotenza,
l’arroganza
spumeggiante
del
benessere
che
imbocca
la
strada
della
frustrazione.
Erano
state
costruzioni
imponenti,
sfacciate,
traboccanti
di
vizi
e
fuochi
d’artificio,
e
adesso
sembravano
aggrappate
con
le
unghie
e
con
i
denti
al
duro
morso
della
manutenzione:
perché
l’intonaco
non
cadesse
giú
del
tutto
e
la
ruggine
non
penetrasse
gli
infissi
fino
all’anima.
Al
termine
del
viale
principale,
imboccando
la
strada
laterale
che
avevo
percorso
tante
volte
da
ragazzo,
la
villa
dei
Rubino
conquistò
il
parabrezza
come
una
dichiarazione
di
resa.
Il
cancello
era
aperto
per
metà
su
un
giardino
regredito
a
vegetazione
spontanea.
I
rampicanti
rendevano
immortali
i
vecchi
discoboli
di
gesso,
e
un
tappeto
di
muschio
e
foglioline
verdi
ricopriva
la
selce
del
vialetto,
arrestandosi
davanti
a
una
casa
di
tre
piani
divorata
dal
tempo
e
dall’incuria.
Scesi
dalla
macchina,
attraversai
il
cancello
e
solo
allora
mi
accorsi
che,
semiemerso
tra
le
ortiche
e
le
barbe
di
capelvenere,
c’era
lo
stupor
mundi
di
tanti
anni
prima.
Il
parcheggio
semovibile
se
ne
stava
sollevato
per
una
quarantina
di
centimetri
–
bloccato
in
quella
morta
posizione
chissà
da
quanto,
con
tanti
fili
verdi
che
pendevano
nel
vuoto
e
un
indizio
di
radici
e
metallo
pietrificato
che
si
perdeva
nel
chiaroscuro
delle
sue
profondità.
Quando
ancora
non
avevo
mosso
il
primo
passo
sulla
scalinata,
si
aprí
la
porta
d’ingresso
ed
eccolo…
Eccoci
ancora
insieme.
Indossava
un
maglione
di
cotone
e
un
paio
di
jeans.
Ed
era
sfatto,
invecchiato,
quasi
completamente
calvo.
E
giallo.
Ma
fu
lui
a
venirmi
in
soccorso.
Sorrise
–
un
pieno,
reale,
gentile
sorriso
d’amicizia
e
quindi
disse:
«Scommetto
che
se
mi
avessi
visto
per
la
strada,
non
saresti
riuscito
a
riconoscermi»,
disinnescando
il
mio
imbarazzo
e
i
miei
sensi
di
colpa
ma
dando
allo
stesso
tempo
un
colpo
ben
assestato
alle
certezze
su
chi
dovesse
consolare
chi.
Ci
fu
un
abbraccio
delicato
e
pieno
di
attenzione,
durante
il
quale
ognuno
cercò
di
calcolare
al
millimetro
quanto
bisognava
stringere
per
trasmettere
calore
umano
ma
non
turbare
l’altro.
L’interno
della
casa
rispecchiava
lo
sfacelo
del
giardino.
Il
soggiorno
era
un
grande
spazio
vuoto
nel
quale
sopravvivevano
giusto
il
divano
e
la
televisione.
Seguendo
Giuseppe
in
cucina,
dove
scaldò
un
pentolino
pieno
d’acqua,
ebbi
l’impressione
che
solo
una
parte
della
villa
venisse
ancora
utilizzata
–
a
zone
vive
si
contrapponevano
interi
spazi
ricoperti
dal
nevischio
della
polvere.
E
poi
il
silenzio.
Non
era
una
quiete
da
assenza
temporanea,
e
suggeriva
che
Giuseppe
vivesse
lí
dentro
da
solo.
Dei
suoi
genitori,
di
suo
fratello
maggiore,
dei
parenti,
dei
dipendenti
della
Eurogarden
non
si
avvertiva
neanche
l’eco
del
ricordo,
come
se
la
lotta
tra
Giuseppe
e
quel
silenzio
–
una
lotta
lunga,
leale
–
avesse
riempito
piano
piano
tutti
gli
spazi
disponibili.
Mise
le
tazze
d’orzo
su
un
bel
vassoio
sopravvissuto
al
diluvio.
Lo
seguii
verso
il
soggiorno.
Prendemmo
posto
sul
divano
finalmente
libero
dalle
bambole
di
porcellana.
Sebbene
fosse
piú
pratico
spalancare
le
tende
davanti
alla
vetrata,
andò
ad
accendere
la
luce
in
corridoio,
lasciandomi
presumere
che
il
lampadario
del
soggiorno
fosse
fulminato.
Tornò
a
sedersi.
Adesso
eravamo
circondati
da
una
semioscurità
che
la
luce
artificiale
e
i
bagliori
che
passavano
sotto
il
velluto
delle
tende
resero
ancora
piú
innaturale
e
asfittica.
A
pochi
metri
si
apriva
la
scalinata
che
portava
al
piano
di
sopra,
alla
sua
stanza
di
ragazzo.
Cercai
di
non
guardarla.
Cosí
fu
lui,
ancora
una
volta,
a
venirmi
incontro:
mi
chiese
se
ricordavo
quante
feste
avevamo
organizzato
lí
dentro.
Era
ovvio
che
me
ne
ricordavo,
mentre
a
lui
di
ricordare
non
sembrava
importare
un
granché.
Non
dava
l’impressione
di
provare
del
rancore
verso
i
vecchi
tempi,
ma
i
suoi
conti
doveva
averli
fatti
tutti.
Eppure
disse
lo
stesso:
«Ti
ricordi,
quante
feste…»,
aprendo
il
varco
per
episodi
e
intrecci
e
personaggi
di
cui
evidentemente
non
ero
ancora
sazio.
Gli
stetti
dietro.
La
chiacchierata
si
fece
meno
imbarazzante
e
iniziammo
a
parlare
senza
ansia
di
Vincenzo.
Parlammo
di
Donatella.
Parlammo
perfino
di
Rachele.
Bevevamo
dalle
nostre
tazze
e
continuavamo
a
parlare.
Gli
chiedevo
di
aiutarmi
a
fare
luce
sulle
vicende
che
per
me
rappresentavano
ancora
un
rompicapo
e
lui
cercava
di
accontentarmi.
Quando
era
sprovvisto
di
un
tassello,
diceva
solo:
«Non
so»
o
«Non
ricordo»
–
mai
un
rilancio,
mai
un
ulteriore
invito
alla
supposizione,
e
ogni
volta
che
un
pezzo
tornava
a
posto,
sentivo
il
clac
dell’incastro
e
il
movimento
di
una
giuntura
che
riprendeva
a
funzionare.
Ma
a
differenza
di
ciò
che
era
successo
davanti
alle
altre
persone
a
cui
mi
ero
rivolto
nell’ultimo
anno,
a
un
certo
punto
questi
incastri
non
mi
davano
piú
alcuna
soddisfazione.
Non
provavo
il
piacere
dell’enigmista
che
risolve
la
sua
piccola
sciarada
perché
la
semplice
presenza
di
Giuseppe,
seduto
lí
al
mio
fianco,
suggeriva
che
la
ricostruzione
materiale
di
una
vecchia
storia
è
sempre
insufficiente
arrogante
incompleta,
e
non
è
niente…
niente
rispetto
al
gesto
di
stendere
–
su
ciò
che
non
si
sa,
su
quello
che
si
crede
di
sapere
–
il
velo
di
un’indulgenza
che
ha
superato
persino
l’attrito
necessario
a
perdonare.
Quando
tutti
gli
argomenti
furono
esauriti,
quando
cioè
Giuseppe
si
rese
conto
che
io
stesso
riconoscevo
ai
clac clac clac
che
mi
scattavano
continuamente
nella
testa
il
valore
delle
bolle
di
sapone,
abbandonò
la
tazza
di
orzo
e
disse:
«Che
stiamo
facendo
qui?
andiamo
fuori».
Ritornammo
nel
giardino,
dove
le
urla
delle
rondini
riempivano
il
cielo
di
una
sera
quasi
estiva.
Giuseppe
disse:
«Andiamo
a
prendere
le
sdraio».
Ero
confuso,
a
questo
punto
non
capivo
come
dovessi
comportarmi:
lui
aveva
risposto
pazientemente
a
tutte
quelle
domande
e
io
non
ero
stato
in
grado
di
chiedergli
niente
sulla
sua
attuale
situazione.
Per
introdurre
l’argomento,
non
trovai
di
meglio
che
ricorrere
all’espediente
del
cane:
«Pippa,
–
dissi,
–
che
fine
ha
fatto?»
Giuseppe
si
fermò.
Indicò
la
superficie
semiemersa
della
piattaforma:
«Il
cane
è
lí,
lí
sotto»,
disse,
facendomi
capire
che
la
sua
carcassa
giaceva
chissà
da
quanto
nelle
profondità
del
montacarichi.
Forse
era
stata
Pippa
a
scegliere
quel
posto
come
ultimo
rifugio,
o
forse
ce
l’aveva
buttata
qualcuno
dopo
che
aveva
perso
la
sua
battaglia
con
il
tempo.
Smise
di
indicare
il
parcheggio
e
mi
guardò
senza
segni
di
intelligenza.
Fu
l’unico
momento
difficile
della
giornata,
una
specie
di
ammissione
che
tutto
il
nostro
incontro
stava
in
realtà
ruotando
intorno
al
concetto
di
morte
o
di
mortalità.
Raccogliemmo
due
sdraio
e
ce
le
trascinammo
dietro
fino
alla
veranda.
Poi
ci
piazzammo
proprio
lí,
ancora
una
volta
a
bordo
piscina.
La
vasca
era
stata
riempita
dalle
ultime
pioggerelle
e
prima
ancora
dai
rovesci
dell’inverno.
Adesso
era
una
verde
superficie
solcata
dagli
insetti
pattinatori
e
dal
volo
delle
zanzare.
Ci
sistemammo
sulle
sdraio.
Giuseppe
riguadagnò
la
sua
espressione
pacata
e
disse:
«Sai,
ne
sono
finalmente
uscito…»
Risposi:
«Sí,
lo
immaginavo».
Iniziò
a
raccontarmi
di
quindici
anni
passati
fuori
e
dentro
i
centri
di
recupero,
chiuso
a
chiave
in
una
stanza
e
poi
di
nuovo
in
strada
alla
ricerca
di
uno
spacciatore.
Doveva
essere
stata
una
stagione
da
incubo.
Ma
non
si
spinse
nei
particolari,
mi
lasciò
libero
di
immaginarli
o
di
non
pensarci
troppo.
Mi
raccontò
invece
di
suo
padre.
Disse
che
aveva
provato
a
ripartire
con
l’azienda,
ma
l’esplosione
di
Tangentopoli
–
il
blocco
dei
cantieri
e
tutti
quei
clienti
senza
piú
liquidità
–
segnò
il
tramonto
definitivo
dei
sogni
di
grandezza.
Adesso
Domenico
Rubino
si
limitava
a
fare
piccoli
lavori
di
manutenzione
a
domicilio,
sopravviveva,
tirava
avanti
senza
lamentarsi.
«Mia
madre,
invece…»
disse.
La
signora
Rosa
non
aveva
retto
all’idea
di
fare
un
passo
indietro.
Era
andata
fuori
di
testa,
se
per
questo
referto
era
sufficiente
l’affiliazione
a
un
gruppo
di
invasati
nel
nome
di
Dio.
«Testimoni
di
Geova?»
chiesi.
«In
questo
momento,
mentre
noi
parliamo,
–
disse
senza
cattiveria,
–
lei
sta
bussando
alla
porta
di
uno
sconosciuto
per
annunciare
la
fine
del
mondo».
«Fammi
capire,
–
chiesi
ancora,
–
ma
con
i
tuoi
non
vi
vedete
piú?»
Portò
la
testa
verso
l’alto:
«Non
sono
stato
proprio
un
caso
facile».
E
mi
spiegò
che
un
figlio
tossico,
in
una
famiglia
che
ogni
giorno
deve
lottare
per
non
andare
in
pezzi,
rischia
di
diventare
l’ago
della
bilancia.
Cosí
suo
padre
(stanco,
esasperato,
sull’orlo
di
un
collasso),
dovendo
scegliere
se
salvare
lui
o
lei,
aveva
scelto
lei.
«Mia
madre…
–
sospirò
tornando
a
guardarmi,
e
nel
suo
mezzo
sorriso
c’erano
i
segni
di
una
fiacca
comprensione.
–
E
poi
comunque,
guarda,
–
aggiunse
allargando
le
braccia
verso
lo
spazio
circostante,
–
mi
hanno
lasciato
questa
bella
eredità».
Già,
la
villa?
Gli
chiesi
anche
di
questo.
«Non
ci
crederai,
–
disse
scuotendo
la
testa,
–
ma
con
tutti
i
soldi
che
i
miei
spendevano
ogni
mese
in
macchine,
cibo,
vestiti,
gioielli…
insomma,
a
nessuno
dei
due
in
quegli
anni
venne
in
mente
l’idea
di
riscattare
il
mutuo».
Nel
momento
in
cui
fu
certo
che
la
casa
era
perduta,
i
suoi
avevano
deciso
di
andarsene.
Mentre
lui
no,
Giuseppe
era
rimasto,
e
solo
la
lentezza
esasperante
delle
procedure
burocratiche
ritardava
l’arrivo
delle
persone
che
lo
avrebbero
sbattuto
fuori.
E
poi
mi
disse
della
malattia.
Era
perfettamente
fermo
sulla
sdraio,
le
ombre
della
sera
si
allungavano
sull’erba
iniziando
a
mangiucchiarsi
anche
i
dettagli
del
suo
viso.
«Sono
in
lista
di
attesa
per
un
trapianto»,
disse.
Aveva
sconfitto
la
dipendenza
da
eroina,
ma
non
aveva
potuto
evitare
il
decorso
dell’epatite
C.
La
malattia
si
era
cronicizzata
nel
corso
degli
anni
senza
che
se
ne
fosse
accorto,
adesso
rischiava
di
sfociare
in
un
brutto
carcinoma
epatico.
«Speriamo
bene…»
aggiunse,
e
dalla
voce
capii
che
era
spaventato.
Finalmente
ebbi
la
forza
di
starmene
un
po’
zitto.
Anche
Giuseppe
smise
di
parlare.
Le
rondini
continuavano
a
gridare
senza
senso
attraversando
il
cielo.
La
vegetazione
cresceva
lentissimamente
tutto
intorno
e
Giuseppe
era
ancora
vivo,
io
ero
vivo
sulla
sdraio
accanto,
questo
almeno
era
innegabile,
e
mentre
gli
ultimi
vent’anni
lo
avevano
lasciato
solo,
debilitato,
in
una
condizione
che
il
nostro
tempo
avrebbe
liquidato
senza
pietà
come
«fallimentare»,
io
in
teoria
facevo
ancora
parte
delle
persone
piene
di
futuro.
Eppure
mi
sentivo
invaso
da
qualcosa
da
cui
Giuseppe
era
già
riuscito
a
guarire.
Domani,
alla
stessa
ora,
lui
sarebbe
stato
ancora
qui,
–
pensai,
–
mentre
io
avrei
sostato
davanti
al
tabellone
luminoso
di
un
aeroporto
pieno
di
altri
viaggiatori.
Ma
per
adesso
era
soltanto
la
sera
dell’8
aprile,
ce
ne
stavamo
senza
fiatare
ai
bordi
di
una
piscina
dissestata.
Non
si
perde
quello
che
non
si
è
mai
avuto,
non
si
ha
quello
che
non
si
è
mai
perso.
E
mi
sembrò
impossibile
–
semplicemente
–
riuscire
a
ragionare
su
qualche
cosa
di
diverso.
Indice
Capitolo
primo
Capitolo
secondo
Capitolo
terzo
Capitolo
quarto
Capitolo
quinto
Capitolo
sesto
Capitolo
settimo
Capitolo
ottavo
Capitolo
nono
Capitolo
decimo
Capitolo
undicesimo
Capitolo
dodicesimo
Capitolo
tredicesimo
Capitolo
quattordicesimo
Epilogo
Indice
Frontespizio
Colophon
Capitolo
primo
Capitolo
secondo
Capitolo
terzo
Capitolo
quarto
Capitolo
quinto
Capitolo
sesto
Capitolo
settimo
Capitolo
ottavo
Capitolo
nono
Capitolo
decimo
Capitolo
undicesimo
Capitolo
dodicesimo
Capitolo
tredicesimo
Capitolo
quattordicesimo
Epilogo
Indice