martina decaroli madre 69 ii. esempi storici e artistico

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martina decaroli madre 69 ii. esempi storici e artistico
MARTINA DECAROLI
MADRE
II. ESEMPI STORICI E ARTISTICO-LETTERARI
1. IL RIFIUTO DELLA MATERNITÀ
IL MATRICIDIO:
NERONE E AGRIPPINA
L'atteggiamento ambivalente di desiderio di sostituzione nei confronti del padre e di desiderio di possesso
esclusivo nei confronti della madre noto come complesso di Edipo è spesso, come dicevo, vissuto
negativamente, e può talvolta indurre alla risoluzione estrema di sbarazzarsi della madre, ormai divenuta
un fardello troppo pesante ed ingombrante ed un freno decisivo per la crescita psicologica del figlio.
Il più delle volte, per fortuna, il figlio si sbarazza della madre solo metaforicamente, recidendo il simbolico
cordone ombelicale che lo unisce a lei, o quanto meno provandoci: non sempre questo tentativo è coronato
da successo, come nel caso di Agostino e di sua madre Monica, di cui egli cercò goffamente di liberarsi
abbandonandola con uno stratagemma sul lido di Cartagine quando s'imbarcò per Roma, come ho
raccontato nel capitolo dedicato a Monica. Solo più tardi Agostino si renderà conto di quanto amore provi
per lei.
Può tuttavia accadere che il figlio si senta a tal punto esasperato dalla incombente presenza materna, da
arrivare a meditare di sbarazzarsene fisicamente, uccidendola. E' il caso di Nerone e di sua madre
Agrippina Minore.
Agrippina Minore
La vicenda è narrata in termini molto simili sia da Tacito (Annales XIV) che da Svetonio (Vita di Nerone),
sebbene Svetonio, come sempre, indugi molto di più sui dettagli scandalistici: ad entrambi comunque risulta
che Agrippina nutrisse per il figlio una vera e propria idolatria, un amore certamente eccessivo, che l'avrebbe
indotta, secondo le fonti, a sposare in seconde nozze lo zio Claudio solo per garantire la successione al
trono del figlio di primo letto (il cui vero nome era Lucio Domizio Enobarbo, dal momento che era figlio di
Gneo Domizio Enobarbo), per poi avvelenare Claudio con un piatto di funghi, probabilmente la micidiale
Amanita Phalloides. Il legittimo erede, Britannico, figlio di Claudio, solo sedicenne, fu da lei fatto avvelenare.
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Agrippina ottenne la revoca dell'esilio di Seneca, allo scopo di servirsi del celebre filosofo quale nuovo
precettore del figlio. Inoltre, dato che il giovane Lucio dimostrava eccessivo affetto verso la zia Domizia
Lepida, Agrippina, per gelosia, la fece accusare di avere complottato contro l'imperatore, ottenendone da
Claudio la condanna a morte. Nell'occasione, l'undicenne Lucio fu minacciato e costretto dalla madre a
testimoniare contro la zia; poco dopo venne fidanzato con Ottavia, figlia di Claudio, di otto anni, destinata
ad una ben misera fine (verrà barbaramente uccisa dai sicari di Nerone a soli diciannove anni).
Su questo tutti gli storici ai quali sia Tacito che Svetonio attingono sono pressoché concordi. La loro
opinione diverge invece sull'interpretazione di altri fatti, di cruciale importanza.
Il problema più "scottante" - e più imbarazzante per Tacito - è che le fonti tendono ad attribuire ad
Agrippina una relazione incestuosa con il figlio.
Il dissidio esegetico nasce soprattutto dall'interpretazione del senso di questo incesto, che può essere "letto"
in due chiavi opposte:
a) Agrippina era veramente "innamorata" di suo figlio. E' ciò che lascia intendere Tacito quando riporta la
laconica risposta di Agrippina ad alcuni indovini Caldei che le predicevano che Nerone l'avrebbe
assassinata: "Occidat, dum imperet", "Mi uccida pure, purché regni" (Annales XIV 9);
b) Agrippina avrebbe cinicamente "usato" suo figlio, plagiandolo sessualmente, per impadronirsi del
potere. Infatti, morto Claudio nel 54 d.C., Nerone salì al potere quando aveva solo diciassette anni, ed era
troppo giovane per reggere le sorti dell'impero. Di fatto governarono Agrippina stessa, Seneca e il prefetto
del pretorio Afranio Burro, e questo per i primi 5 anni del principato neroniano (il cosiddetto quinquennium
felix).
Comunque stiano le cose, Nerone appare tutt'altro che insensibile alle attenzioni "particolari" della madre: si
veda soprattutto Svetonio (Vita di Nerone 28-29), che su questo punto è piuttosto cauto, ma nello stesso
tempo fin troppo esplicito:
Nam matris concubitum appetisse et ab obtrectatoribus eius, ne ferox atque impotens mulier et hoc genere gratiae
praevaleret, deterritum nemo dubitavit, utique postquam meretricem, quam fama erat Agrippinae simillimam, inter
concbinas recepit. Olim etiam quotiens lectica cum matre veheretur, libidinatum inceste ac maculis vestis proditum
affirmant.
Avrebbe voluto avere rapporti carnali persino con sua madre, ma ne fu dissuaso dai nemici di Agrippina,
che non volevano il predominio di questa donna odiosa e tirannica grazie a questo nuovo genere di favore;
nessuno dubitò mai di questa sua passione, soprattutto quando ammise nel numero delle sue concubine
una prostituta che si diceva somigliante in modo impressionante ad Agrippina. Si assicura anche che in
passato, ogni volta che andava in lettiga con sua madre, si abbandonava alla sua passione incestuosa e che
veniva tradito dalle macchie del suo vestito.
Tacito riporta, sia pur chiosandolo con un prudente "c’è chi lo dice e chi lo nega", un particolare
raccapricciante: Nerone vorrà vedere la madre nuda dopo averla fatta assassinare ed elogerà la bellezza del
suo corpo (Annales XIV 9).
In ogni caso, nonostante subisse il fascino della madre (o forse proprio per questo), Nerone era sempre più
insofferente dei condizionamenti che gliene derivavano; senza contare che mal sopportava il matrimonio
con Ottavia.
La crisi definitiva arrivò quando s'innamorò di Poppea, donna bellissima ed ambiziosa, che, secondo
Svetonio, Nerone fece rapire da Marco Salvio Otone uno dei quattro futuri imperatori dell'anno 69, amico di
Nerone stesso, il quale tuttavia la tenne per sé, instaurando con l'imperatore un ménage à trois. Infine il
princeps la volle solo per sé ed inviò Otone come governatore in Lusitania, l'odierno Portogallo.
Nel 59 Nerone, ormai ventiduenne, decise di prendere in pugno la situazione e di sbarazzarsi degli
ingombranti tutori: organizzò anzitutto il matricidio, dapprima mediante il finto naufragio descritto da
Tacito (Annales XIV 5), che fallì miseramente, poi mediante un agguato di sicari che penetrarono nella villa
della madre e la uccisero (Annales XIV 8). Quindi, nel 62, ripudiò Ottavia relegandola a Ventotene e sposò
Poppea. Non contenta, quest'ultima chiese la testa di Ottavia, che, solo diciannovenne, venne brutalmente
assassinata dai sicari di Nerone. Lo stesso anno Burro morì fose ucciso per ordine di Nerone, e Seneca si
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ritirò a vita privata; la carica di prefetto del pretorio venne assegnata al famigerato Tigellino già esiliato da
Caligola per adulterio con Agrippina.
Presunto ritratto di Poppea
Dal mio punto di vista il crimine più interessante è appunto il matricidio, che, come dicevo, avvenne per
così dire in due fasi: l'attentato fallito e il brutale omicidio.
Riporto entrambi i brani:
Noctem sideribus inlustrem et placido mari quietam quasi convincendum ad scelus dii praebuere. nec multum erat
progressa navis, duobus e numero familiarium Agrippinam comitantibus, ex quis Crepereius Gallus haud procul
gubernaculis adstabat, Acerronia super pedes cubitantis reclinis paenitentiam filii et reciperatam matris gratiam per
gaudium memorabat, cum dato signo ruere tectum loci multo plumbo grave, pressusque Crepereius et statim
exanimatus est: Agrippina et Acerronia eminentibus lecti parietibus ac forte validioribus quam ut oneri cederent
protectae sunt. nec dissolutio navigii sequebatur, turbatis omnibus et quod plerique ignari etiam conscios impediebant.
visum dehinc remigibus unum in latus inclinare atque ita navem submergere: sed neque ipsis promptus in rem subitam
consensus, et alii contra nitentes dedere facultatem lenioris in mare iactus. verum Acerronia, imprudentia dum se
Agrippinam esse utque subveniretur matri principis clamitat, contis et remis et quae fors obtulerat navalibus telis
conficitur: Agrippina silens eoque minus adgnita unum tamen vulnus umero excepit nando, deinde occursu
lenunculorum Lucrinum in lacum vecta villae suae infertur.
Gli dèi concessero una notte luminosa di stelle e tranquilla per la serenità del mare, come per dare la prova
del delitto. E la nave non si era ancora spinta molto al largo, mentre Agrippina era in compagnia di due dei
suoi amici - tra i quali Crepereio Gallo stava in piedi non lontano dal timone, Acerronia invece, distesa ai
piedi di lei che se ne stava sdraiata, le ricordava con gioia il pentimento del figlio e il recuperato prestigio di
madre -, quando, ad un segnale convenuto, si sfasciò il tetto della cabina, appesantito da una gran quantità
di piombo, e Crepereio fu schiacciato e morì sul colpo: Agrippina ed Acerronia furono protette dalle
spalliere del letto sporgenti e casualmente troppo robuste per cedere al peso. E non si verificava di seguito il
previsto sfasciamento della nave, perché la confusione era generale e perché i più, all’oscuro del piano,
ostacolavano anche quelli che ne erano al corrente. Sembrò dunque opportuno ai rematori far inclinare la
nave su un lato e così affondarla: ma non riuscirono a mettersi d’accordo velocemente su una manovra così
repentina, e per di più altri, facendo lo sforzo opposto, resero la caduta in mare meno brusca. Ma Acerronia,
mentre, non comprendendo la situazione, andava gridando di essere Agrippina e che si corresse in aiuto
della madre dell’imperatore, venne finita a colpi di pali e di remi e di ogni altro arnese navale che il caso
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avesse offerto: Agrippina invece, nuotando in silenzio e perciò senza essere riconosciuta - ricevette tuttavia
un’unica ferita alla spalla -, poi, portata al lago Lucrino da alcune barchette accorse in suo aiuto, venne
condotta alla sua villa.
(Tacito, Annales XIV 5)
Interim vulgato Agrippinae periculo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. hi molium obiectus,
hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere. questibus votis
clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus,
atque ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec adspectu armati et minitantis agminis
deiecti sunt. Anicetus villam statione circumdat refractaque ianua obvios servorum abripit, donec ad fores cubiculi
veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. cubiculo modicum lumen inerat et ancillarum
una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidem: aliam fore laetae rei faciem; nunc
solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. abeunte dehinc ancilla, "tu quoque me deseris?" prolocuta
respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito centurione classiario comitatum: ac si ad visendum venisset, refotam
nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere; non imperatum parricidium. circumsistunt lectum
percussores et prior trierarchus fusti caput eius adflixit. iam in mortem centurioni ferrum destringenti protendens
uterum "ventrem feri" exclamavit multisque vulneribus confecta est.
Frattanto, divulgatasi la notizia del pericolo corso da Agrippina, come se fosse accaduto per un incidente,
man mano che la gente ne era stata informata, accorreva alla spiaggia. Chi saliva sulle dighe, chi sulle barche
più vicine; altri avanzavano in mare per quanto il corpo lo consentiva; alcuni tendevano le mani; tutta la
spiaggia era piena dei lamenti, delle preghiere, del chiasso di coloro che rivolgevano domande d’ogni genere
o davano risposte contraddittorie; accorreva una grandissima folla con delle torce, e quando si seppe che
Agrippina era sana e salva, la gente si preparava come per manifestarle la propria gioia, quando fu cacciata
dall’apparire di un drappello armato e minaccioso.
Aniceto circonda la villa con un picchetto e, sfondata la porta, spinge da parte i servi che gli si fanno
incontro, fino ad arrivare alla porta della camera da letto; davanti dalla quale stavano pochi servi, poiché
tutti gli altri erano stati terrorizzati dallo spavento dell’irruzione. Nella stanza da letto c’era una fioca luce ed
una sola delle ancelle, ed Agrippina era di ora in ora più ansiosa perché nessuno veniva da parte del figlio e
neppure Agermo: ben altri sarebbero stati i segni di una situazione favorevole; ora invece solitudine e
rumori improvvisi e tutti i segni della catastrofe imminente. E poiché, poi, se ne andava anch l’ancella, dopo
averle detto “Anche tu mi abbandoni?”, si volta e vede Aniceto, accompagnato dal trierarca Erculeio e dal
capitano di marina Obarito: e disse che, se era venuto per farle visita, riferisse che s’era ormai ristabilita; se
invece era venuto per commettere un delitto, si rifiutava di attribuirlo al figlio: non aveva comandato il
matricidio.
Gli assassini circondano il letto: per primo il trierarca la colpì alla testa con un bastone. E lei, protendendo
l’utero verso il centurione che brandiva il ferro ormai per ucciderla, gridò: “Colpisci il ventre!”, e cadde
crivellata di colpi.
(Tacito, Annales XIV 8)
Comunque la si voglia giudicare, la figura di Agrippina resta indelebilmente scolpita nella memoria del
lettore: la sintesi del suo rapporto controverso con il ruolo di madre è proprio in quest'ultima immagine di
lei che, dopo avere disperatamente negato a se stessa l'evidenza del fatto che il figlio non la ama, anzi la
odia, compresa in extremis la verità, trova il coraggio di morire rescindendo il legame uterino con lui: e con
l'ultimo fiato che le resta in gola urla di colpirla al ventre, di colpire proprio quell'utero che ha generato il
mostro.
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IL MATRICIDIO IN ESCHILO, SOFOCLE ED EURIPIDE
Sul delicatissimo tema del matricidio l'opinione dei tre grandi tragici greci è nettamente divergente: la
prima considerazione che si impone è che, mentre Eschilo pone questo tema al centro della sua meditazione
sul senso dell'esistenza, Sofocle lo tratta esplicitamente in una sola tragedia, l'Elettra, mentre Euripide non
se ne occupa affatto.
Il confronto in questa sede avverrà fra Eschilo ed Euripide, dal momento che Sofocle appare "sbilanciato" su
un altro versante; inoltre sarebbe molto imprudente, per non dire di peggio, trarre qualsivoglia deduzione in
merito al matricidio a partire dall'Elettra, la cui interpretazione è oggetto di un'accanita disputa fra i critici,
come pure la sua collocazione cronologica. Concordo con chi, come Luciano Canfora, la considera posteriore
all'omonima tragedia di Euripide e "abbassa" notevolmente la datazione tradizionale, portandola al 410-409.
Non è qui il caso di affrontare questo vero e proprio ginepraio esegetico; mi limiterò a dire che a mio parere
l'interpretazione in chiave etica di questa tragedia è semplicemente improponibile e condurrebbe o a
legittimare il matricidio, o a far fare a Sofocle affermazioni comunque aberranti, in totale contraddizione con
le altre sue opere; si dovrà quindi pensare che la chiave di lettura più corretta dell'Elettra sia quella politica,
che vede in questa singolare tragedia una sorta di metafora politica legata al ripristino violento della
democrazia dopo il colpo di stato dei Quattrocento del 411 (ripristino avvenuto nel 410), specie se si
considera la necessità, da parte di Sofocle, di "rifarsi una verginità" di fronte alla πόλις dopo l'ambiguo ruolo
da lui svolto in veste di "probùlo" nel 412 (di fatto i probùli avevano aperto le porte al colpo di stato
oligarchico).
Sir Frederic Leighton, Elettra, 1869
Proprio perché l'Elettra di Sofocle è illeggibile (o difficilmente leggibile) in chiave etica, è di scarso interesse
per il mio argomento. Se mai, più interessante è il rapporto incestuoso tra Edipo e Giocasta nell'Edipo Re,
che causa il suicidio di Giocasta stessa: ma, se di matricidio si tratta, esso avviene in modo del tutto
involontario e inconsapevole, a causa di quell'ἁμάρτημα che Sofocle pone al centro della sua meditazione
tragica e che, impedendo qualsiasi comprensione dell'accaduto, vanifica completamente il senso del dolore
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e si contrappone recisamente al meccanismo del τῷ πάθει μάθος di Eschilo, che non a caso scaturisce dalla
colpa e non dall'errore.
Tuttavia, per quanto interessante, il tema dell'incesto ha a che fare con il complesso di Edipo, e non con il
matricidio.
Charles François Talibert, Edipo e Antigone, circa 1860
Ecco perché, come dicevo, in questa sede mi limiterò a prendere in considerazione Eschilo ed Euripide.
Ci si potrebbe domandare perché occuparsi di Euripide, se è vero che - come ho detto - del matricidio non si
interessa affatto. La risposta è che proprio il suo silenzio è significativo; ed ancor più del suo silenzio, è
significativo il capovolgimento della prospettiva da lui operato: in Euripide infatti non è il figlio che
uccide la madre, ma la madre che uccide il figlio. Si faccia mente locale ad un dettaglio: le tragedie di
Euripide a noi note (escludendo Alcesti, che è un "quarto dramma" e come tale a lieto fine) si aprono con una
madre che uccide i figli, Medea, e si chiudono con una madre che uccide il figlio, Agave (nelle Baccanti,
rappresentate postume). Il che non è certamente un caso.
Preliminare a tutto è chiarire il senso della figura materna per entrambi i tragediografi: la madre, infatti,
assurge per entrambi a simbolo della Natura, la Grande Madre universale. E' dunque sulla φύσις che si
svolge la loro meditazione, e non sulla singola figura di una qualche madre umana.
Su tale punto la loro visione del mondo differisce radicalmente, fino ad essere antitetica.
Sintetizzando il più possibile, si può dire che per Eschilo ciò che chiamiamo Natura è un ordine
precostituitoda Dio, regolato da leggi, e che violare quest'ordine è ὕβρις.
Tuttavia lo scopo dell'esistenza umana non è l'immobilismo, la passiva attesa della rivelazione della verità
attraverso la fede: quello che Eschilo vede nella vita dell'uomo è un percorso dinamico, che porta all'azione
ed ha una finalità conoscitiva, ossia passa attraverso l'esercizio della ragione.
Agire, sbagliare, soffrire è necessario per fermarsi a riflettere sul senso del dolore e ricavarne un
insegnamento: a parere di Eschilo questo meccanismo è voluto da Dio stesso, non certo per una sterile
volontà punitiva, o, peggio, per il perverso gusto di infliggere sofferenza alle sue creature, ma per una
finalità altamente positiva: consentire il progresso (intellettuale e morale) all'essere umano.
Il fine dell’esistenza umana è dunque la conoscenza.
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Dio vuole che conosciamo (razionalmente): per questo ci induce a sbagliare ed a soffrire. Collabora con
l’uomo nel determinare la colpa: il libero arbitrio consiste nello scegliere fra alcune alternative
predeterminate, tutte sbagliate. Di conseguenza l'azione è sempre sbagliata: l'uomo sbaglierà e soffrirà in
ogni caso, appunto perché senza sofferenza gli è precluso ogni progresso interiore.
Non è evidentemente automatico che l'uomo che soffre comprenda: in tal caso la sofferenza è stata inutile
(per quel singolo individuo), e continuerà a rimbalzare su altri individui finché qualcuno capirà. Allora - e
solo allora - la catena dei lutti potrà interrompersi.
Tuttavia il male immesso nel mondo, per qualsiasi motivo sia stato compiuto, non resta mai senza
conseguenze e provoca necessariamente una reazione di segno contrario: perché tale reazione a catena si
interrompa, è necessario creare un meccanismo di contrappesi che sia in grado di compensare il danno
prodotto senza infliggere altro male; e questo è impossibile sul piano individuale, dove ogni reazione al
male subìto si configura automaticamente come vendetta; ma neppure il perdono è la risposta giusta, perché
lasciando il male impunito non elimina lo squilibrio che si è prodotto.
Occorre dunque spostarsi su un piano collettivo e delegare la punizione del male e la compensazione del
danno alla società civile, cioè allo Stato, il cui compito è quello di riequilibrare la situazione non già per
infliggere a sua volta del male, ma per il puro scopo di ristabilire il principio della giustizia. Per questo
motivo vengono create le leggi.
William-Adolphe Bouguereau, Oreste perseguitato dalle Erinni, 1862
Le leggi, quindi, non sono pure convenzioni: esse finiscono per rispecchiare la legge divina, dal momento
che, come abbiamo visto, è Dio che ci porta a formularle, attraverso il percorso di sofferenza e di conoscenza
sopra descritto. Esse, pur nella loro varietà e molteplicità, poggiano tutte su un'unica legge di base, in cui
tutti gli esseri umani si riconoscono e che è una sorta di contrassegno divino nell'uomo: il senso di giustizia.
Di tali leggi divine è impressa una traccia profonda, anche se non evidente, nella Natura, in quanto - a parere
di Eschilo - emanazione di Dio, esattamente come l’uomo: non esiste dunque antinomia tra φύσις e νόμος:
si tratta di realtà solo apparentemente in contraddizione, ma chi sappia spingere lo sguardo al di sotto
dell'apparenza arriva a comprendere che entrambe le realtà sono emanazione di Dio e ne rispecchiano le
leggi.
Questa conclusione sembra inserirsi a pieno titolo all'interno del dibattito φύσις-νόμος inaugurato proprio
in quegli anni dai Sofisti e destinato a diventare un leit-motiv della riflessione politico-filosofica ateniese per
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tutto il resto del V secolo, come dimostra anche la grande attenzione riservata al problema dagli altri due
tragici.
Di fronte alla sempre più evidente tendenza sofistica a considerare la φύσις come la sola realtà fornita di
leggi immanenti sovraumane, ed il νόμος come il prodotto arbitrario e convenzionale del patto sociale
stipulato dalla maggioranza dei cittadini per tutelarsi dal predominio dei più forti (il discorso verrà portato
alle estreme conseguenze da Antifonte e Crizia), Eschilo assume una posizione nettamente diversa: le due
realtà non sono in contraddizione, ma derivano entrambe da un medesimo progetto divino e ne portano
l'impronta indelebile, purché si sappia riconoscerla.
Dove i Sofisti vedono antinomia, Eschilo vede conciliazione.
Questa conciliazione è resa evidente in modo addirittura didascalico nel finale dell’Orestea (Eumenidi):
Gustave Moreau, Oreste e le Erinni, 1891
- Oreste viene assolto perché, a differenza di chi lo ha preceduto, è drammaticamente cosciente di avere
sbagliato (ne è prova la sua follia, segno tangibile della consapevolezza dell'orrore): il suo errore è consistito
proprio nel difendere il padre, cioè il νόμος (= Agamennone, l'elemento maschile, il tutore dell'ordine
costituito) a scapito della madre, la φύσις (= Clitennestra, l'elemento femminile, la tutrice delle leggi non
scritte della natura). Del resto, se non avesse agito, avrebbe sbagliato ugualmente, lasciando il male
impunito. Ma questo poco importa: il dato importante è la comprensione dell'errore. Una volta avvenuta tale
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comprensione, la reazione a catena ὕβρις-νέμεσις non ha più ragion d’essere (lo scopo è raggiunto) e può
definitivamente interrompersi;
- il processo contro Oreste è nel contempo divino ed umano (Atena + Areopago), perché le leggi umane
condannano il gesto da lui commesso non meno di quelle divine: ne sono, a tutti gli effetti, il
rispecchiamento;
- le Erinni (φύσις) ed Apollo (νόμος) trovano una finale conciliazione nell'istituzione del culto delle Erinni,
che si trasformano per ciò stesso in Eumenidi: il riconoscimento ufficiale delle ragioni della Natura, che
vengono finalmente comprese e rispettate dal Nomos, fa sì che ogni conflitto cessi automaticamente.
Si noti come tale conclusione sia in netto contrasto con l'idea moderna del tragico, che, a partire dalla celebre
definizione di Goethe, è sempre stato fatto consistere in un "conflitto inconciliabile". Ogni sforzo di Eschilo
sembra invece rivolto proprio al superamento di tutte le possibili antinomie ed alla pacificazione di tutti i
conflitti, possibile soltanto attraverso la comprensione razionale.
A giudicare dall'Orestea (summa del pensiero eschileo), dunque, non solo la visione del tragico di Eschilo non
è pessimistica, né induce all'immobilismo fatalistico, né ha di mira il buio mentale della catarsi, come
pretenderebbe la concezione moderna, ma induce ad un atteggiamento positivo e costruttivo ed è
improntata a virile ottimismo.
Questo sembra dunque essere il significato che Eschilo attribuisce alla figura materna ed al matricidio, che si
configura quindi soprattutto come un crimine contro natura: che il peccato dell'uomo contro la natura sia
centralissimo per Eschilo lo dimostra del resto anche l'attenzione dal lui riservata al tema in altri drammi: ne
I Persiani la vera colpa di Serse, quella per la quale viene così duramente punito, è quella di avere
"aggiogato l'Ellesponto" e di avere tagliato il promontorio Athos, trasformando il mare in terraferma e la
terraferma in mare: egli dunque ha peccato contro la natura; e ne Le Supplici le miti Danaidi, pronte peraltro
a trasformarsi in feroci assassine dei loro mariti, vengono punite proprio per avere rifiutato il matrimonio e
la maternità: un crimine che è nel contempo contro il νόμος e contro la φύσις, non diversamente da quanto
abbiamo visto nelle Eumenidi.
Per Euripide, come accennavo, la prospettiva è capovolta.
Alexandre Cabanel, Fedra, 1880
La φύσις è vista con sospetto: lo “stato di natura” è pericoloso e caotico, non sono ravvisabili in esso leggi
giuste o comprensibili, tali da far pensare che la Natura sia un’emanazione di un qualche Dio.
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Di fronte a questo il νόμος è impotente: non più rispecchiamento (come in Eschilo) di un ordine divino, ma
ridotto a semplice gioco di convenzioni, in cui le regole sono inventate dall’uomo e di volta in volta diverse,
esso non può difenderci in nessun modo dal potere distruttivo della Natura.
Resta una sola speranza, che risiede precisamente in ciò che allontana gli uomini dallo “stato di natura”: il
λόγος .
Esso infatti accomuna tutti gli esseri umani indistintamente, non è soggetto ad arbitrarietà ed è identico in
ogni epoca e sotto ogni cielo.
Accantonata perciò la tradizionale opposizione φύσις / νόμος, Euripide passa ad analizzare la nuova
opposizione: φύσις / λόγος.
La questione si pone in questi termini: può l’uomo, concretamente, esercitare un controllo razionale sulla
realtà, emancipandosi dai condizionamenti della Natura?
E poiché la manifestazione concreta della razionalità è l’esercizio della volontà, che è l’opposto del desiderio
e che, sola, consente l'autodeterminazione, occorrerà verificare proprio questo: se, ed in quale misura,
l’uomo sia in grado di volere.
In un primo momento i personaggi euripidei appaiono per lo meno consci di ciò che fanno, sufficientemente
razionali da comprenderne il senso; ne sono esempi Medea (il suo lacerante conflitto interiore dimostra che
comprende l’enormità di ciò che intende fare), Ippolito (Fedra sa perfettamente che il suo desiderio è
sbagliato), Alcesti (l’eroina si rende ben conto del prezzo enorme che sta per pagare).
Tuttavia il loro esercizio razionale è disturbato dall’interferenza di emozioni violente (πάθη): l’amore per
Alcesti, l’odio per Medea, la passionalità per Fedra.
In seguito i personaggi euripidei appaiono sempre meno consapevoli di ciò che fanno: mentono a se stessi,
agiscono in uno stato psichico profondamente perturbato, hanno improvvise e incontrollabili manifestazioni
di irrazionalità; si vedano ad esempio Eracle (il punto di svolta della tragedia euripidea: l’eroe impazzisce
all’improvviso e fa l’esatto contrario di ciò che vuole), Le Fenicie (in cui pressoché tutti i personaggi agiscono
da forsennati), Oreste (Oreste è un vero e proprio alienato ed Elettra ne è plagiata), Le Troiane (la figura di
Menelao è a dir poco ridicola), Elettra (Oreste ed Elettra si pentono un attimo dopo avere ucciso la madre e
non sanno perché l’hanno fatto), ma soprattutto soprattutto Le Baccanti, vero e proprio testamento spirituale
di Euripide.
Simeon Solomon, Dioniso, 1867
L’esplosione dell’irrazionalità in Pènteo avviene per un fenomeno tutto interno a lui, quando "lo Straniero"
(Dioniso, il dio della Natura e dell'irrazionale) provoca in lui un vero e proprio smascheramento di tipo
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freudiano ante litteram, costringendolo ad ammettere quello che Pènteo non sa neppure di avere in sé: un
malsano interesse sessuale nei confronti di sua madre, una sorta di morbosa attitudine voyeuristica che lo
induce a "voler vedere" la madre mentre "fa sconcezze".
Da questo momento in avanti Pènteo diventa un burattino nella mani di Dioniso, totalmente impotente e del
tutto incapace del benché minimo esercizio della razionalità; si lascerà quindi condurre sul monte Citerone,
dove la madre e le zie, confondendolo con un leone di montagna, lo uccideranno e lo faranno a pezzi.
La stessa Agave, la madre costretta ad uccidere il figlio, è inconsapevole di quello che fa, perché è preda di
una Madre più potente, la φύσις, che ha fin troppo vistosamente la partita in mano e decide la sorte dei suoi
figli secondo il suo insindacabile arbitrio.
La conclusione di Euripide non potrebbe essere più amara:
l’uomo non appare in grado di volere ed
autodeterminarsi, la partita φύσις / λόγος si chiude nettamente a favore della prima. Il bilancio è totalmente
fallimentare.
E' risibile e insignificante il danno che il "figlio", l'uomo, può provocare alla "madre", la natura: è lei ad avere
la partita in mano, ed è lei a provocare all'uomo danni ben più gravi ed irrimediabili. Ecco perché in
Euripide, all'opposto di quanto accade in Eschilo, è la madre ad uccidere il figlio.
Questa visione della madre-natura è certamente debitrice del pensiero sofistico coevo (alludo in particolare
ad Antifonte e Crizia), ma da esso si discosta nettamente proprio nella valutazione negativa della φύσις: se
per Crizia, ad esempio, è un bene che il più forte prevalga sul più debole e che si ripristini la "legge di
natura", per Euripide, che aborre la violenza e la guerra, la natura è una specie di mostro cannibale che si
nutre dei suoi stessi figli, indifferente al loro dolore: non diversamente da quanto affermeranno, molti
secoli dopo, Schopenhauer e Leopardi.
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MADRE
T.S. ELIOT E LA "TERRA STERILE"
The waste land è uno dei capolavori assoluti della letteratura novecentesca, uno dei vertici della cosiddetta
letteratura modernista. Eliot compose il poemetto tra il dicembre del 1921 ed il gennaio del 1922 mentre era
in Svizzera, a Losanna, dove la moglie era ricoverata per problemi di instabilità psichica e dove egli stesso si
era sottoposto a cure psicanalitiche.
Eliot visse con profondo tormento interiore il rapporto con questa donna, la ballerina Vivienne HaighWood, che aveva sposato nel 1915 contro il parere dei suoi genitori e dalla quale si separerà in seguito
all'aggravarsi delle sue condizioni mentali. La separazione, e la morte di lei nel 1947, lasceranno un senso di
rimorso incancellabile nell'animo del poeta, sebbene egli si sia risposato nel 1957.
Nel periodo del ricovero svizzero l'angoscia esistenziale, sommata ai problemi familiari, opprime Eliot con
un peso insopportabile, trovando una meravigliosa sublimazione, oltre che una valvola di sfogo, nella
composizione del poemetto.
Il poeta spedì il dattiloscritto all'amico e connazionale Ezra Pound, che revisionò attentamente il testo, tanto
che Eliot gli dedicò il poemetto definendolo "il miglior fabbro", come Dante Alighieri chiamò il poeta
provenzale Arnaut Daniel (canto XXVI del Purgatorio).
Pound intervenne abbastanza pesantemente sul testo, operando dei tagli che portarono all'eliminazione di
decine e decine di versi (soprattutto nella sezione IV). La versione dattiloscritta speditagli da Eliot era lunga
quasi il doppio della versione pubblicata nel 1922 (la versione integrale del poemetto è oggi disponibile
nell'edizione Rizzoli).
Una foto giovanile di T.S. Eliot
La "terra desolata" di Eliot è contemporaneamente la terre gaste dei poemi epici medievali, cioè un
territorio devastato, sterile e pieno di pericoli che i cavalieri devono attraversare per arrivare al Graal (uno
dei simboli centrali del poemetto), e il mondo moderno, segnato dalla crisi e dalla sterilità della civiltà
occidentale, giunta secondo Eliot al termine del suo percorso: la prima guerra mondiale era terminata
neanche quattro anni prima della pubblicazione del poemetto ed ora se ne percepiva chiaramente la natura
folle, l'insensatezza di un'esplosione di violenza che aveva distrutto milioni di vite e le economie delle grandi
nazioni europee, portandole quasi al collasso. Infine, la "terra desolata" è anche Londra, città dove Eliot
risiedeva, nella quale sono ambientate alcune scene del poemetto.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Di recente si è fatta strada un'altra ipotesi per quanto riguarda il titolo: Eliot, profondo conoscitore di Dante
Alighieri e suo grande ammiratore, potrebbe avere "tradotto" un'espressione dantesca:
In mezzo mar siede un paese guasto
(Dante, Inferno, XIV, 94).
Anche il suono delle parole, quasi identico (waste-guasto) farebbe propendere per questa ipotesi, suffragata
anche dalla presenza di altre citazioni dantesche e dal fatto che il poemetto riporta in chiusa un verso della
Divina Commedia in lingua originale: Poi s'ascose nel foco che gli affina (Purgatorio, XXVI, 148).
Molto probabilmente, però, il titolo eliotiano vuole significare tutte queste cose insieme. Non bisogna inoltre
dimenticare che "The Waste Land" è un prestito da Jessie Weston, autrice di From ritual to romance, opera a cui
Eliot deve molto, in cui l'antropologa analizza il vasto materiale su miti e leggende di età medioevale, in
particolare sul Sacro Graal e i tarocchi. Riporto a parte l'intero testo del poemetto seguito dalla traduzione.
Vivienne Haigh-Wood (a sinistra)
La struttura del poemetto è piuttosto complessa: esso è diviso in cinque movimenti, come una sinfonia o
un quartetto per archi (la struttura in cinque parti torna non a caso nell'ultima grande opera poetica di Eliot,
i Quattro quartetti). Nel corso dei vari movimenti si intersecando voci diverse di diverse persone (allusione
alle "different voices" del romanzo Our Mutual Friend di Dickens, che nelle intenzioni di Eliot avrebbero
dovuto dare il titolo a una sezione dell'opera soppressa da Pound) che parlano anche lingue diverse. Le
diverse voci possono essere di personaggi, oppure citazioni delle più disparate opere letterarie e artistiche in
generale: Dante, Baudelaire, Ovidio, il Tristano e Isotta di Richard Wagner, Tiresia (che funge da alter-ego
del poeta), l'Eneide coesistono in un'ideale Babele. L'epigrafe in apertura del poema doveva essere “The
horror! The horror!” ("L'orrore, l'orrore!"), da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma Ezra Pound, che non
apprezzava Conrad, dissuase Eliot: in apertura venne posto allora un frammento dal Satyricon di Petronio
che parla della Sibilla Cumana, il cui desiderio di invecchiare senza mai morire fu esaudito dal dio Apollo:
ma fu un errore terribile, perché la sua vita - dice Petronio - divenne un’agonia di noia. Il testo di Petronio è
caratterizzato dall'alternanza di frasi in latino e in greco, il che allude alla mescolanza di lingue (di nuovo le
"different voices" di Dickens) che attraversa il poemetto.
Come fa notare la Weston nel già citato From ritual to romance, opera del 1920, vi sono evidenti analogie tra
gli antichi riti misterici e naturali e il tema fondamentale della "ricerca del Sacro Graal", a cominciare
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MADRE
dalla compresenza di elementi maschili (la lancia) e femminili (la coppa); la loro fusione è realizzata in vista
del tema archetipico della fecondità.
Edwin Austin Abbey, Galahad scopre il Santo Graal, 1895
Nell’immaginario medioevale, la ricerca del Graal è la ricerca della verità da parte dell’uomo. Si tratta
però, in questo caso, di una verità molto particolare: i cavalieri devono raggiungere la Cappella Pericolosa e
lì rispondere esattamente alle domande concernenti la coppa e la lancia con cui era stato trafitto il fianco di
Cristo. Uno dei cavalieri viene mandato a far visita al Re Pescatore, il governante impotente di un paese che
era diventato sterile esso stesso (tema, questo, ripreso molte volte nella letteratura, da Sofocle al Parsifal di
Wagner).
Il cavaliere deve porre una domanda al Re, e se essa è ben posta, ne causerà la guarigione, e con essa quella
della terra. È evidente, dunque, come la figura che presiede alla prosperità della terra, il Re, sia essa stessa
preda della desolazione: si pone quindi la necessità di una provvidenziale redenzione.
Impotenza e sterilità sono dunque le dominanti della terre gaste, e la conquista del Graal coincide con il
ritorno della fertilità e della fecondità.
Ben conscio di questa interpretazione della Weston, che evidentemente fa propria, Eliot nel suo The Waste
Land mette subito in rilievo un'umanità distrutta, vuota, apparentemente ancora in vita ma in realtà
disfatta dalla morte: «So many I had not thought death had undone so many» (Waste Land, I. The Burial of the
Dead), ancora una volta un riecheggiamento di Dante (Inferno 3. 55-57): e dietro le venìa sì lunga tratta / di gente,
ch'i' non averei creduto / che morte tanta n'avesse disfatta. Una messa in rilievo ben lontana da ogni sorta di
cinismo, senso del macabro, sarcasmo e da ogni taccia di acquiescenza: bensì, innanzitutto una dolorosa
constatazione ed insieme una presa di distanza da questa condizione.
Eppure, ogni ipotesi positiva sembra ad un primo impatto impossibile o perlomeno improbabile. La stessa
volontà di ricostruzione sembra essere negata dall’incipit («April is the cruellest month»), che configura il
periodo della rinascita (aprile, e dunque la primavera) come periodo di massima crudeltà per chi a tale
nascita non è avvezzo, ma preferisce l’oblio della «forgetful snow» invernale.
La caratteristica dominante è ancora una volta l’assenza di fecondità, fatto che si esplicita già dall’uso che in
questo poemetto Eliot fa del mito, in particolare - per sua stessa ammissione - in riferimento allo studio di
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MARTINA DECAROLI
MADRE
antropologia di Sir James Frazer, Il Ramo d’oro, e al predetto studio sul mito del Graal di Jessie Weston, From
ritual to romance, che pure prende le mosse dalle premesse antropologiche di Frazer.
Da Frazer Eliot trae gran parte della sua simbologia: su tutti la messa in rilievo del tema del Dio che si
sacrifica affinché la sua terra ritorni feconda. È questo un mito che viene direttamente citato in una scena
della prima parte di Waste Land, dove una cartomante afferma: «I do not find the Hanged Man», con
riferimento all'Arcano maggiore numero XII dei Tarocchi (L'impiccato, o meglio L'appeso).
L'appeso, Arcano maggiore numero XII dei Tarocchi
Il riferimento alla simbologia dei Tarocchi, che, come spiega la Weston, è profondamente intrisa del mito del
Graal (i semi non sarebbero altro che un’allusione ai quattro oggetti di tale leggenda: Lancia, Calice,
Pugnale e Piatto), fa già capire l’elevata complessità dei riferimenti bibliografici di Eliot, che continuamente
si intrecciano nel loro dipanarsi.
Ma il punto focale ora è un altro: infatti, con il riferimento all’Uomo Impiccato, Eliot allude direttamente al
Dio Impiccato (Hanged God), che altro non è che il Dio che sacrificandosi riporta vita alla terra.
L’ammissione della sua mancanza («I do not find») si collega direttamente all'assenza di fecondità di cui
parlavamo poc'anzi.
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Oltre che nella struttura simbolica, il riferimento all’assenza di fertilità risulta evidente da alcuni versi del
poemetto stesso. Troviamo infatti un passo della sezione “Il sermone del fuoco” che recita:
But at my back from time to time I hear
The sound of horns and motors, which shall bring
Sweeney to Mrs. Porter in the spring.
O the moon shone bright on Mrs. Porter
And on her daughter
They wash their feet in soda water
Et O ces voix d'enfants, chantant dans la coupole!
Twit twit twit
Jug jug jug jug jug jug
So rudely forc'd.
Tereu
Unreal City
Under the brown fog of a winter noon
Mr. Eugenides, the Smyrna merchant
Unshaven, with a pocket full of currants
C.i.f. London: documents at sight,
Asked me in demotic French
To luncheon at the Cannon Street Hotel
Followed by a weekend at the Metropole.
At the violet hour, when the eyes and back
Turn upward from the desk, when the human engine waits
Like a taxi throbbing waiting,
I Tiresias, though blind, throbbing between two lives,
Old man with wrinkled female breasts, can see
At the violet hour, the evening hour that strives
Homeward, and brings the sailor home from sea,
The typist home at teatime, clears her breakfast, lights
Her stove, and lays out food in tins.
Out of the window perilously spread
Her drying combinations touched by the sun's last rays,
On the divan are piled (at night her bed)
Stockings, slippers, camisoles, and stays.
I Tiresias, old man with wrinkled dugs
Perceived the scene, and foretold the rest I too awaited the expected guest.
He, the young man carbuncular, arrives,
A small house agent's clerk, with one bold stare,
One of the low on whom assurance sits
As a silk hat on a Bradford millionaire.
The time is now propitious, as he guesses,
The meal is ended, she is bored and tired,
Endeavours to engage her in caresses
Which are still unreproved, if undesired.
Flushed and decided, he assaults at once;
Exploring hands encounter no defence;
His vanity requires no response,
And makes a welcome of indifference.
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Ma alle mie spalle di tanto in tanto odo
Suoni di trombe e motori, che condurranno
Sweeney da Mrs. Porter a primavera.
Oh la luna splendeva lucente su Mrs. Porter
E su sua figlia
Che si lavano i piedi in "soda water"
Et O ces voix d'enfants, chantant dans la coupole!
Tuit tuit tuit
Giag giag giag giag giag giag
Così brutalmente forzata.
Tiriù
Città irreale
Sotto la nebbia bruna di un meriggio invernale
Mr. Eugenides, il mercante di Smirne,
Mal rasato, con una tasca piena d'uva passa
C.i.f. London: documenti a vista,
M'invitò in un francese demotico
Ad una colazione al Cannon Street Hotel
Seguita da un weekend al Metropole.
Nell'ora violetta, quando gli occhi e la schiena
Si levano dallo scrittoio, quando il motore umano attende
Come un tassì che pulsa nell'attesa,
Io Tiresia, benché cieco, pulsando fra due vite,
Vecchio con avvizzite mammelle di donna, posso vedere
Nell'ora violetta, nell'ora della sera che contende
Il ritorno, e il navigante dal mare riconduce al porto,
La dattilografa a casa all'ora del tè, sparecchia la colazione, accende
La stufa, mette a posto barattoli di cibo conservato.
Pericolosamente stese fuori dalla finestra
Le sue combinazioni che s'asciugano toccate dagli ultimi raggi del sole, sopra il divano (che di notte è il suo
letto)
Sono ammucchiate calze, pantofole, fascette e camiciole.
Io Tiresia, vecchio con le mammelle raggrínzite,
Osservai la scena, e ne predissi il resto Anch'io ero in attesa dell'ospite atteso.
Ed ecco arriva il giovanotto foruncoloso,
Impiegato d'una piccola agenzia di locazione, sguardo ardito,
Uno di bassa estrazione a cui la sicurezza
S'addice come un cilindro a un cafone rifatto.
Ora il momento è favorevole, come bene indovina,
Il pasto è ormai finito, e lei è annoiata e stanca,
Lui cerca d'impegnarla alle carezze
Che non sono respinte, anche se indesiderate.
Eccitato e deciso, ecco immediatamente l'assale;
Le sue mani esploranti non incontrano difesa;
La sua vanità non pretende che vi sia un'intesa,
Ritiene l'indifferenza gradita accettazione.
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Apparizione del Santo Graal a Sir Galahad, Sir Bors and Sir Perceval, arazzo di Edward Burne-Jones (1890-1895)
È questa una complessa parodia della fecondità, nella sua forma più esplicativa, l’atto generativo sessuale.
Da un lato troviamo un uomo (Sweeney) che si reca da una donna (Mrs Porter), oltre al duplice riferimento
ai bambini («her daughter» e la citazione da Verlaine con gli enfants) e alla stagione primaverile. Dall’altro
però siamo messi in guardia dal complesso gioco di citazioni e rimandi presente nel poema, che gettano
l’ombra di un presagio nefasto sulla scena. Il verso «But at my back from time to time I hear», infatti,
riecheggerà nella memoria del lettore inglese il verso di Andrew Marvell, da cui questo è direttamente preso
e che recita: «But at my back I alwaise hear Times winged chariot hurrying near» («Ma alle mie spalle io
sempre odo l’alato carro del tempo che incalza»). Il riferimento alla morte che si avvicina è palese. Non solo:
la poesia da cui è tratto il verso di Verlaine, dal titolo Parsifal, si connette direttamente con il mito del Graal, e
in particolare con la scena della Perilious Chapel - la Cappella dalla quale le voci sono udite, e nella quale il
cavaliere deve superare la tentazione della lussuria.
Proseguendo, l’autoparodia diviene esplicita, se non sfacciata, riproducendo il canto di Filomela, stuprata
dal re Tereo e trasformata in usignolo. Poi il riferimento al Metropole, lussuoso albergo da Brighton, da cui
l’espressione colloquiale “un weekend a Brighton”, che indica un invito ad avere relazioni sessuali irregolari.
Infine nella scena dei due amanti che si trattano come oggetti del piacere, nella più spietata e cinica
indifferenza.
Siamo quindi alle estreme conseguenze di un atto che, se nella sua natura dovrebbe essere il più fecondo, è
qui il più infecondo e meccanico.
Il passo citato è un esempio lampante del tema centrale di The waste land: un poema che grida, attraverso
l’assenza della fertilità di una Terra che non è più Madre, il disperato bisogno di redenzione dei suoi figli.
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2. L'ESALTAZIONE DELLA MATERNITÀ
ELVIA E SENECA
La Consolatio ad Helviam Matrem
L'opera fu scritta da Seneca nel 42-43 per consolare sua madre della sua assenza, essendo egli costretto in
esilio in Corsica dall'imperatore Claudio. Questo in sintesi il contenuto:
Seneca inizia la consolazione dicendo di aver a lungo meditato se scriverla o meno, perché teme di non
ottenere il risultato sperato. Tuttavia afferma che, per poter avere successo, deve rinvigorire il dolore nel
cuore della madre, per poterlo poi eliminare. Ammette che questo può sembrare un controsenso, ma è lo
stesso metodo usato dai medici.
Dopo aver elencato quindi le sventure capitate alla madre, soprattutto i lutti, le fa presente che egli è in
salute e non è infelice, e neanche può diventarlo, essendo seguace dello stoicismo. Seneca è sempre all’erta,
non si affida alla buona sorte come non si affida all’opinione comune. Tutti giudicano male l’esilio, ma per
Seneca non è altro che un cambiamento di luogo: moltissima gente, trasferendosidi città in città, è come se
fosse sempre in esilio; inoltre anche le cose divine sono sempre in movimento e cambiano sempre dimora,
tutte le migrazioni di popoli, le conquiste, sono un esilio collettivo; la stessa fondazione di Roma risale ad un
esule. Tutto è stato stabilito dal Fato, e quindi nulla può essere male nell’universo.
Joseph-Noël Sylvestre, La morte di Seneca, 1975
Quanto alle difficoltà dell’esilio, le necessità per un uomo sono ben poche: per sopravvivere sono sufficienti
un riparo dal freddo e degli alimenti; tutto il resto è superfluo, ed anzi, per i più raffinati l’esilio sarebbe la
cura ideale per guarire il corpo dagli eccessi.
La condotta di vita sfrenata porta l’uomo a impazzire, perché il desiderio non viene mai appagato, mentre
alla ragione e alla natura basta poco. Nessun esilio quindi ha così poche risorse da poter essere considerato
un male. Quello che è messo alla prova in esilio è il corpo dell'esule, ma la sua anima no, è libera e vaga per
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MARTINA DECAROLI
MADRE
l’universo. Se si è ben temprati, si è pronti ad affrontare tutto quello che verrà, ed un uomo grande resta tale
anche se cade.
Appurato dunque che Seneca sta bene, perché piange Elvia? Non per lui, evidentemente, ma per se stessa;
quindi la causa del dolore è in lei, è egoistica.
La causa principale del suo dolore è il fatto di aver perduto un sostegno: Seneca rievoca vari e toccanti
episodi di vita quotidiana vissuti con la madre ed aggiunge che la sorte l’ha punita ancor di più perché al
momento della notizia dell’esilio la madre né era presente, né era preparata all'evento, ma il filosofo la
incoraggia: non è certo questo il primo dei mali che lei ha affrontato e sconfitto.
Egli afferma poi che sentire il dolore è giusto e normale, ma esagerare no: occorre dominarlo. Elvia, donna
colta e forte, che ha voluto studiare filosofia, che ha sempre condotto una vita nel rispetto di una moralità di
stampo virile, non può rinnegarla ora giustificando il suo dolore come "tipico comportamento femminile";
Seneca cita alcuni esempi di madri famose che hanno sopportato stoicamente il dolore ed esorta la madre a
fare altrettanto.
Tuttavia non è aggirando il dolore che si può guarirlo: l’unica via sono gli studi, che fortunatamente Elvia
ha già coltivato in gioventù. Non le resterà che rivolgersi nuovamente ad essi.
Eduardo Barrón, Nerone e Seneca, 1904
Non le mancano del resto i sostegni cui aggrapparsi, come i fratelli di Seneca stesso, che onorano la madre e
si prenderanno cura di lei, i nipoti, che la fanno divertire con la loro allegria, il padre di Elvia, che sarà
sempre un punto di riferimento per lei, e soprattutto la sorella, che è in grado di aiutarla perché è una donna
eccezionale, come ha dimostrato quando ha recuperato, nonostante fosse afflitta dal dolore e dalla paura, il
corpo del marito morto in mare durante una burrasca. Seneca esorta la madre ad accostarsi a lei ogni qual
volta ne sentirà il bisogno ed a seguire il suo esempio. Infine conclude rassicurandola sul suo affetto e sul
fatto che il suo pensiero è spesso rivolto a lei: è normale pensarsi a vicenda, ma Elvia non deve pensarlo
triste, bensì sereno ed in buona salute. Questo dev'essere sufficiente ad una madre per stare di buon animo.
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Elvia e Seneca
Il rapporto tra Elvia e Seneca è, come sappiamo, particolarmente stretto: la figura materna ha avuto per il
filosofo un'importanza eccezionale, superiore a quella della figura paterna, e l'affetto e la stima del figlio nei
confronti di una madre per tanti versi fuori del comune si avverte in ogni pagina della Consolatio.
Tuttavia si esprime in quest'opera la visione forte ed equilibrata dei rapporti umani tipica dello stoicismo,
che assume come regola di tutti i comportamenti la razionalità (Lògos); e il rapporto madre-figlio non fa
eccezione. Seneca aborre gli eccessi scomposti dell'amore cieco e del dolore sfrenato: quando uno mette al
mondo un figlio deve sapere di aver generato un essere mortale, secondo il detto attribuito ad Anassagora;
inoltre innamorarsi del proprio dolore è un comportamento tipicamente umano e assolutamente morboso,
come fa notare Seneca a Marzia nella Consolatio ad Marciam del 39-40, l'opera che più di ogni altra, più
ancora della Consolatio ad Helviam matrem, mette in luce la debolezza del carattere femminile rispetto alla
maternità e al dolore.
Ritratto di Ottaviano Augusto
In tal senso il peggiore esempio che venga in mente a Seneca è quello di Ottavia, sorella di Ottaviano
Augusto, la quale, dopo la morte dell'adorato figlio Marcello, si rinchiuse in un cupo dolore e non
abbandonò mai le vesti da lutto, concependo un vero e proprio odio per la felicità altrui (Consolatio ad
Marciam 2.4-5):
Nullum finem per omne vitae suae tempus flendi gemendique fecit nec ullas admisit voces salutare
aliquid adferentis, ne avocari quidem se passa est; intenta in unam rem et toto animo adfixa, talis per
omnem vitam fuit qualis in funere, non dico non ausa consurgere, sed adlevari recusans, secundam
orbitatem iudicans lacrimas mittere. Nullam habere imaginem filii carissimi voluit, nullam sibi de illo
fieri mentionem. Oderat omnes matres et in Liviam maxime furebat, quia videbatur ad illius filium
transisse sibi promissa felicitas. Tenebris et solitudini familiarissima, ne ad fratrem quidem respiciens,
carmina celebrandae Marcelli memoriae composita aliosque studiorum honores reiecit et aures suas
adversus omne solacium clusit. A sollemnibus officiis seducta et ipsam magnitudinis fraternae nimis
circumlucentem fortunam exosa defodit se et abdidit. Adsidentibus liberis, nepotibus, lugubrem vestem
non deposuit, non sine contumelia omnium suorum, quibus salvis orba sibi videbatur.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Per tutto il resto della sua vita non smise mai di piangere e di lamentarsi, né accettò di
ascoltare alcuna parola che le arrecasse un po' di conforto; non permise neppure di essere
distratta dal suo dolore; rivolta ad un solo pensiero e con la mente totalmente fissa in esso,
rimase per tutta la vita come lo era stata durante il funerale, non dico senza riuscire a
risollevarsi, ma (addirittura) rifiutando di essere tirata su, persuasa che smettere di piangere
significasse perdere il figlio un'altra volta. Non volle avere alcun ritratto del figlio tanto
amato, non volle che le venisse fatto alcun accenno a lui. Odiava tutte le madri e impazziva di
rabbia soprattutto nei riguardi di Livia, perché le sembrava che fosse passata a suo figlio la
felicità che lei si aspettava per il suo. Amica soltanto del buio e della solitudine, senza curarsi
neppure del fratello, respinse le poesie composte per celebrare il ricordo di Marcello ed altri
onori della cultura e chiuse le sue orecchie ad ogni conforto. Appartata dalle cerimonie
ufficiali e odiando profondamente perfino la gloria troppo splendente della grandezza
fraterna, si seppellì viva e si nascose a tutti. Pur circondata dai figli e dai nipoti, non depose
mai la veste da lutto, non senza un atteggiamento offensivo nei confronti di tutti i suoi:
infatti, sebbene essi fossero ancora vivi, lei si considerava sola al mondo.
Seneca, contrastando fermamente l'opinione comune, nega che in tutto questo vi sia alcunché di "naturale":
infatti la natura, per gli stoici, è Lògos, ed è escluso che dalla razionalità immanente possano derivare
comportamenti irrazionali; soffrire troppo è anzi antinaturale, come dimostra l'esempio delle madri animali,
che dopo un breve periodo di intensa sofferenza si dimenticano del loro dolore e tornano alla normalità.
Se il dolore perdura per troppo tempo e ci induce all'egoismo, rendendoci inservibili per noi stessi e per il
prossimo, è comunque sbagliato ed è da combattere con tutte le forze, a prescindere dal nostro sesso.
Amare una persona significa volere il suo bene, non dipendere da lei; ed il suo bene si realizza quando sta
bene fisicamente e spiritualmente: tutto il resto è eccesso e morbosità. In tal senso Seneca si rivela figlio
amorevole, affettuosamente presente ma non invadente, preoccupato del benessere della madre nel modo
più giusto possibile: ossia, al di là di ogni attaccamento viscerale ed egoistico, attento a far sì che la madre
coltivi se stessa in quanto persona ed in quanto essere umano, trovando in questo il necessario equilibrio
psichico.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
MONICA E AGOSTINO
La figura di Monica attraverso le Confessiones
Monica nacque a Tagaste, antica città della Numidia, nel 332 da una famiglia di etnia berbera di buone
condizioni economiche e profondamente cristiana; contrariamente al costume del tempo, le fu permesso di
studiare e lei ne approfittò per leggere la Sacra Scrittura e meditarla. Le notizie sul suo conto ci provengono
dalle Confessioni, straordinario capolavoro della biografia interiore, scritte dal figlio Agostino, che divenne
così anche il suo autorevole biografo.
Sappiamo perciò che nel pieno della giovinezza fu data in sposa a Patrizio, un modesto proprietario di
Tagaste, membro del Consiglio Municipale, non ancora cristiano, buono ed affettuoso ma facile all’ira ed
autoritario. Pur amando intensamente Monica, egli non le risparmiò asprezze e infedeltà; tuttavia Monica
riuscì a vincere, con la bontà e la mansuetudine, sia il caratteraccio del marito, sia i pettegolezzi delle ancelle,
sia la suscettibilità della suocera.
A 22 anni le nacque il primogenito Agostino, che allatterà al seno, in modo piuttosto inconsueto per l'epoca;
in seguito nascerà un secondo figlio, Navigio, ed una figlia di cui s’ignora il nome, ma si sa che si sposò, poi,
rimasta vedova, divenne la badessa del monastero di Ippona.
Monica diede a tutti una profonda educazione cristiana; Agostino afferma che bevve il nome di Gesù con il
latte materno; il bambino appena nato fu iscritto fra i catecumeni, anche se secondo l’usanza del tempo non
fu battezzato, in attesa di un’età più adulta; crebbe con l'insegnamento materno della religione cristiana, i cui
principi saranno impressi nel suo animo anche quando sarà in preda all’errore.
Monica aveva pregato perché il marito si convertisse ed ebbe la consolazione, un anno prima che morisse, di
vederlo diventare catecumeno; fu poi battezzato sul letto di morte nel 369.
Sandro Botticelli, Sant'Agostino nel suo studio, 1480
Monica aveva 39 anni e dové prendere in mano la direzione della casa e l’amministrazione dei beni, ma la
sua preoccupazione maggiore era il figlio Agostino, che correva in modo sfrenato dietro i piaceri del mondo,
mettendo in dubbio anche la fede cristiana; anzi egli aveva tentato, ma senza successo, di convincere la
madre ad abbandonare il cristianesimo per il manicheismo, riuscendoci poi con il fratello Navigio.
Il manicheismo era una religione orientale fondata nel III secolo d.C. da Mani, che fondeva elementi del
cristianesimo e della religione di Zoroastro; suo principio fondamentale era il dualismo di ascendenza
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MARTINA DECAROLI
MADRE
gnostica, cioè l’opposizione di due principi egualmente divini, uno buono e uno cattivo, che dominano il
mondo e anche l’animo dell’uomo.
In questo periodo Agostino condivideva la fede manichea con un carissimo amico del quale ci tace il nome,
un ragazzo che era per lui come un altro se stesso; questi, ammalatosi gravemente, perse conoscenza:
quando la riacquistò impedì bruscamente ad Agostino di parlargli ancora del Manicheismo. Di lì a poco
morì, lasciando un vuoto incolmabile nell'animo di Agostino, che, non riuscendo a sopportare il dolore che
gli dava la vista di quei luoghi, partì per Cartagine, dove porterà a termine gli studi.
Le vicende della vita di Monica sono strettamente legate a quelle di Agostino: rimasta a Tagaste, ella
continuò a seguire con trepidazione il figlio trasferitosi a Cartagine, che nel frattempo si dava alla bella vita e
si era messo a convivere con una donna cartaginese di umili condizioni, dalla quale nel 372, ebbe anche un
figlio, Adeòdato.
Dopo aver tentato tutti i mezzi per riportarlo sulla retta via, Monica alla fine adottò un atteggiamento
intransigente: gli proibì di ritornare nella sua casa con la convivente e il figlio naturale. Agostino, pur
amando profondamente sua madre, non si sentì di cambiare vita, ed essendo terminati con successo gli studi
a Cartagine, decise di spostarsi con la nuova famiglia a Roma, capitale dell’impero, di cui la Numidia era
una provincia; anche Monica decise di seguirlo, ma lui, con uno stratagemma, la lasciò a terra a Cartagine
mentre s'imbarcavano per Roma.
Benozzo Gozzoli, Monica prega per Agostino, 1464-65
(affresco della Chiesa di Sant'Agostino a San Gimignano)
Quella notte Monica la passò in lagrime sulla tomba di S. Cipriano; ma, pur essendo stata ingannata, non si
arrese e continuò la sua opera per la conversione del figlio: nel 385 s’imbarcò anche lei e lo raggiunse a
Milano, dove nel frattempo Agostino, disgustato dall'agire contraddittorio dei manichei di Roma, si era
trasferito per ricoprire la cattedra di retorica. Il vescovo di Tagaste le aveva detto confortandola: “È
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MARTINA DECAROLI
MADRE
impossibile che il figlio di tante lagrime vada perduto”, e la sua predizione si avverò. Qui infatti Monica
ebbe la sorpresa di vederlo frequentare la scuola di Ambrogio, vescovo di Milano.
Monica, ormai anziana e desiderosa di una sistemazione del figlio, lo convinse a rimandare la sua donna in
Africa, mentre Agostino avrebbe provveduto per lei e per il figlio Adeodato, rimasto con lui a Milano. A
questo punto Monica pensava di poter trovare una sposa di buona famiglia adatta al ruolo; ma ben presto il
figlio, incapace di sopportare l'astinenza sessuale, si unì ad un’altra donna.
Agostino era al culmine del successo mondano ma profondissimamente infelice, senza sapere perché; nel
corso di un pomeriggio incredibilmente travagliato, in cui meditò perfino il suicidio, fu improvvisamente
toccato dalla grazia in un giardino di Milano, mentre stava spiegando ad un alunno la lotta interiore che lo
tormentava. Abbandonò allora il mondo e si ritirò in un monastero. Monica restò al fianco del figlio,
consigliandolo nei suoi dubbi, e infine, nella notte di Pasqua del 387, poté vederlo battezzato insieme a tutti i
familiari.
Seguì un periodo di riflessione in un ritiro a Cassiciàco presso Milano con i suoi familiari ed amici, trascorso
a discutere di filosofia e cose spirituali, sempre presente Monica, la quale partecipava con sapienza ai
discorsi, al punto che il figlio volle trascrivere nei suoi scritti le parole della madre, con gran meraviglia di
tutti, perché alle donne non era permesso interloquire.
Lasciarono poi Milano diretti a Roma, poi ad Ostia Tiberina, dove affittarono un alloggio, in attesa di una
nave in partenza per l’Africa.
Agostino narra con commozione dei colloqui spirituali con sua madre che si svolgevano nella quiete della
casa di Ostia; ormai, a suo dire, più che madre ella era la sorgente del suo cristianesimo. Tuttavia Monica gli
disse una volta che non provava più attrattiva per questo mondo: l'unica cosa che desiderava era che il figlio
divenisse cristiano, e non solo questo era avvenuto, ma lo vedeva addirittura consacrato al servizio di Dio:
poteva quindi morire contenta.
Anche queste parole risultarono profetiche: nel giro di cinque-sei giorni Monica si mise a letto con la febbre,
perdendo a volte anche la conoscenza; ai figli costernati disse di seppellire il suo corpo dove volevano, senza
darsi pena, ma di ricordarsi di lei, dovunque si trovassero, all'altare del Signore. Agostino con le lagrime agli
occhi le ripeteva “Tu mi hai generato due volte”, tentando di strapparla alla morte.
La malattia (forse malaria) durò nove giorni: il 27 agosto del 387 Monica morì a 56 anni. La sua perdita
causò un dolore lacerante nel figlio. Il suo corpo rimase per secoli venerato nella chiesa di S. Aurea di Ostia,
fino al 9 aprile del 1430, quando le sue reliquie furono traslate a Roma nella chiesa di S. Trifone, oggi di S.
Agostino, poste in un sarcofago scolpito da Isaia da Pisa, sempre nel sec. XV.
Monica era stata una donna di grande intuizione e di straordinarie virtù: una particolare forza d’animo,
un’acuta intelligenza, una grande sensibilità; nelle riunioni di Cassiciaco raggiunse l’apice della filosofia.
Rispettosa e paziente con tutti, si oppose con fermezza proprio al figlio tanto amato, quando lo vide
percorrere una strada a suo parere completamente sbagliata; era spesso sostenuta da visioni, delle quali
Agostino ci conserva memoria nelle Confessioni.
Monica e Agostino
Monica, a prescindere dal significato religioso della sua figura, che in questa sede non interessa affatto, è una
figura di madre per così dire "pura", altamente emblematica del modo di concepire la maternità tipico del
patriarcato: la sua grandezza si esaurisce tutta nel suo ruolo di madre, senza superare questo limite.
Se da una parte ella dimostrò nei confronti di Agostino una totale autonomia di giudizio, senza lasciarsi
minimamente influenzare dalle sue convinzioni religiose e filosofiche, il che per una donna dell'epoca è da
considerare eccezionale, dall'altra però il suo vivace intelletto e la sua forza di carattere non seppero andare
oltre l'orizzonte del rapporto con il figlio adorato, rendendola per così dire cieca nei confronti del resto del
mondo: ne è prova l'insensibilità con cui allontanò la povera donna che conviveva da anni con Agostino e
che gli aveva dato un figlio; una donna semplice, affezionata e fedele, che aveva la sola colpa di non essere
"alla sua altezza", e che oltre tutto venne privata del figlio, che rimase con Agostino e Monica.
Non si vede da quale punto di vista, men che meno cristiano, questo gesto possa essere considerato
caritatevole ed ispirato da amore per il prossimo: l'unico amore che conta è quello per il figlio, e
specificamente per il figlio maschio.
Madre egoista, dunque, per troppo amore, come spesso le madri. E madre che spinge anche il figlio
all'egoismo, giacché lo stesso Agostino non sa opporsi, incredibilmente, alla volontà materna, pur
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MADRE
soffrendone. È strano come il filosofo non si renda conto della viltà del suo gesto e si autoassolva senza
porsi, apparentemente, alcun problema; strano e per molti versi incomprensibile, se non come frutto di
un'autoindulgenza indotta appunto dalla figura femminile dominante (in questo caso sua madre).
Non è un caso che la spinta vitale di Monica si esaurisca con l'esaurirsi della sua "missione" nei confronti
del figlio, dopodiché, come ella stessa afferma, "può anche morire contenta": questo sottintende e dà per
scontato, in un'ottica prettamente patriarcale, che il solo scopo per cui vive una donna sia il figlio.
Il rapporto tra Monica e Agostino è simbiotico (fu lei il solo vero amore della sua vita): pur così intenso e
nobile, non sa varcare i confini di un sublime egoismo a due, che ricorda per certi versi fenomeni assai meno
nobili e più usuali, come l'attaccamento morboso delle madri mediterranee ai loro figli maschi, non a caso
inguaribilmente "mammoni".
Proprio da questo tipo di atteggiamento aveva messo in guardia Seneca, dimostrando ben altra lucidità, sia
nella Consolatio ad Helviam matrem, ove ricorda a sua madre che una donna, prima di essere madre, è una
persona, che nella Consolatio ad Marciam, in cui bolla come assolutamente sbagliato l'esaurirsi nel ruolo
materno di donne come Ottavia, la sorella di Augusto, da lui eletta ad esempio negativo di madre proprio
per il suo eccessivo attaccamento nei confronti del figlio Marcello.
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MADRE
MICHELANGELO E LA VERGINE MARIA
Michelangelo Buonarroti (1475-1564) è uno dei massimi artisti mondiali, simbolo del Rinascimento italiano.
La sua importanza nel campo delle arti può essere, a buon diritto, considerata “a tutto tondo”, in quanto il
suo genio si cimentò tanto con la scultura (che rimase per tutta la sua vita la forma d’arte più amata), quanto
con la pittura e l'architettura. Sarebbe un’impresa impossibile riassumere in poche righe la portata e la forza
di questo genio irrequieto, e dunque mi limiterò in questa sede a prendere in considerazione un solo, seppur
densissimo aspetto dell’intero operato del Maestro fiorentino: la sua analisi della figura di Maria.
Sin dagli esordi, infatti, Buonarroti appare affascinato dalla figura della Vergine, tanto da dedicarle, nel corso
di tutta la sua esistenza, almeno nove opere di certa attribuzione e numerosi disegni e schizzi preparatori
per opere perdute.
Ritratto di Michelangelo
L’analisi che Michelangelo conduce sulla figura di Maria appare quanto mai accurata, se si comparano le
opere con le parole scritte di suo pugno in alcune lettere ed in qualche verso del suo Canzoniere, come ha
opportunamente messo in luce Irving Stone nella sua documentatissima biografia romanzata del genio
fiorentino Il Tormento e l’Estasi (Casa Editrice Corbaccio, Milano, prima edizione marzo 1996). Buonarroti
era particolarmente affascinato dalla forza interiore di questa apparentemente fragile creatura, in grado di
diventare madre del figlio di Dio e di allevarlo amorevolmente pur consapevole del suo tragico destino sulla
Terra.
Il vivo interesse per le vicende della madre di Dio e la simpatia (nel senso letterale del termine) provata nei
suoi confronti sono interpretati da Stone, sulla scorta di numerosi documenti dello stesso Buonarroti, come
la conseguenza della perdita della madre in tenera età (Michelangelo aveva solo sei anni quando morì la
madre, Francesca Neri): Francesca, infatti, era l’unico membro della famiglia, o tale la ricordava
Michelangelo, che capiva ed apprezzava l’unicità e la genialità del bambino e, probabilmente, la sua morte
prematura portò l’artista ad idealizzarla ed a fondere nel suo inconscio il ricordo materno con l’immagine
della madre più famosa.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Questa ipotesi è confermata dal capolavoro più famoso del Buonarroti, la Pietà Vaticana; realizzata tra il
1497 ed il 1499 (all'età di 22 anni!) per il cardinale francese Jean de Bilhères, ambasciatore di Carlo VIII presso
papa Alessandro VI, il gruppo marmoreo ha, sin dalla sua prima presentazione ufficiale, destato non poco
stupore per il fatto che la Madonna appare chiaramente coetanea, anzi quasi più giovane di Gesù suo
figlio.
Particolare del volto di Maria nella Pietà Vaticana
Ma tutto ciò è facilmente spiegabile se si identifica nella figura di Maria quella di ogni madre sofferente per
la morte del proprio figlio ed, estraniandola dal contesto puramente evangelico, la si fa coincidere con l’idea
pura di madre e, dunque, con quello che doveva essere il ricordo idealizzato di Francesca Neri nella
memoria del giovane Buonarroti.
Ma vediamo nel dettaglio su cosa verte la riflessione di Michelangelo riguardo alla figura di Maria.
La prima opera in ordine cronologico concernente questa tematica ci è di grande aiuto da questo punto di
vista: la Madonna della Scala realizzata attorno al 1491 ed attualmente conservata a Casa Buonarroti, infatti,
è un bassorilievo in marmo di circa 54,5x40 cm che mostra, con il tratto ancora incerto di un ragazzo alle
prime armi con martello e scalpello, una giovane Madonna seduta ai piedi di una scalinata intenta a coprire
con la propria veste il proprio bambino ritratto di schiena; l’opera è particolarmente significativa ai fini di
quest’analisi dal momento che esprime chiaramente quello che Michelangelo interpretava come il dilemma
interiore di Maria: come proteggere il proprio adorato figlio quando Dio ha già predisposto per lui un
tragico destino? Il drammatico presagio di morte è, infatti, sottolineato dalla piccola figura di San Giovanni
che, aggrappandosi al mancorrente della scala, non può non richiamare alla memoria la figura di una croce
sorretta da un innocente, mentre la Madonna, ben conscia del destino del figlio, cerca di proteggerlo
nascondendolo al mondo sotto la propria veste.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Madonna della scala
Nonostante la sua netta predilezione per la scultura, Michelangelo non manca di provare il suo genio
anche nel campo della pittura e dell'affresco; così nel 1537, dopo il già più che riuscito esperimento
pittorico della Volta della Cappella Sistina, il Buonarroti torna a metter piede nella Sistina e mano ai
pennelli con il Giudizio Universale su accorata richiesta di Papa Paolo III.
L’enorme affresco, che occupa la parete con l’altare della cappella, rappresenta Cristo che, circondato da una
schiera di Santi e di Angeli, divide le schiere dei mortali tra dannati e beati; tra le miriadi di figure e di
dettagli che si possono osservare nell’affresco, vorrei qui concentrare l'attenzione sulle due figure
concettualmente centrali nell’opera: quella di Cristo imperante e di Maria al suo fianco.
Cristo, con un chiaro stacco dall’iconografia tradizionale, è qui rappresentato secondo modelli che ricordano
la statuaria classica mentre compie il fatidico gesto di imposizione della condanna o dell’assoluzione eterna;
la sua figura è imperante, statuaria, eterna, le sue orecchie sorde ad ogni richiesta di pietà, il suo volto
superiormente e tremendamente rivolto verso le torme di dannati che si affollano sul lato destro
dell’affresco.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Particolare del Giudizio Universale
A fianco di questa tremenda figura l’autore pone la madre, umilmente rannicchiata sotto il peso del
giudizio del figlio; la Madonna, che nelle intenzioni dell’artista doveva essere l’unica figura interamente
vestita, rannicchia sul petto le braccia richiamando il gesto che nella Madonna Medici compiva per proteggere
il figlio, come ultimo tentativo per ricordare a Cristo la pietà e l’amore materno e salvare qualche anima
implorante perdono. Il suo sguardo, per bilanciare quello imperante di Gesù, è fisso sulle anime salvate che
sembra accompagnare verso la dimora eterna; la sua missione, iniziata tempo prima con l’annunciazione, è
ora definitivamente compiuta ed il Figlio di Dio ha finalmente preso il suo posto ed emesso il suo
insindacabile verdetto.
Agli anni della vecchiaia dell’artista (1550-1564) risalgono le ultime due opere che vorrei prendere in analisi,
ed il caso vuole che siano entrambe Pietà: la Pietà Bandini e la Pietà Rondanini.
La prima, meglio conosciuta come Pietà del Duomo dal momento che è conservata al Museo dell’Opera del
Duomo a Firenze, fu realizzata a partire dal 1550 e fu destinata alla propria tomba dallo stesso
Michelangelo che, tuttavia, in seguito ad un accesso d’ira, qualche anno più tardi, frantumò alcune parti del
gruppo marmoreo, che furono risistemate in seguito da Tiberio Calcagni. In quest’opera Michelangelo, che
da tempo ormai aveva pienamente acquisito la tecnica del non-finito sperimentata nei Prigioni per la tomba
di Giulio II, colloca Maria accovacciata alle spalle del figlio morto mentre tenta di sorreggere il suo corpo
con l’aiuto di Nicodemo e della Maddalena; quest'ultima, di qualità evidentemente inferiore, oltre che
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MARTINA DECAROLI
MADRE
sproporzionata e in stridente contrasto con la drammaticità del resto del gruppo, fu realizzata dall'allievo
Tiberio Calcagni, che si offrì di restaurare e integrare l'opera dopo che fu rovinata da Michelangelo.
La Pietà Bandini e il particolare del meraviglioso volto di Nicodemo
La Pietà Rondandini non è solo l’ultima opera qui presa in analisi, ma è anche l’ultima opera cui
Michelangelo mise mano prima di morire e rappresenta in qualche modo il suo testamento spirituale; i
primi colpi al blocco di marmo destinato a questa insolita pietà furono dati dall’artista già nel 1552, ma la
versione originale fu modificata a partire dal 1555 e fonti vicine all’artista (Giorgio Vasari in primis)
raccontano che vi lavorò sino a pochi giorni prima di morire.
L’impianto è simile a quello della Pietà Bandini, con Maria ed un altro corpo di cui possiamo vedere solo
un arto che sorreggono il corpo senza vita di Gesù, ma a differenza della precedente, questa appare molto
più slanciata e tendente a forme filiformi ed essenziali; da un punto di vista artistico simboleggia il punto
di arrivo dell’evoluzione stilistica di Michelangelo, quell’idea di bellezza pura che l’artista era andato
cercando tutta la vita prima nelle levigazioni maniacali della Pietà Vaticana e nei corpi perfetti come quello
del David e poi nella tecnica del non-finito come negli scenografici Prigioni. In questo gruppo Maria, appena
sbozzata come lo stesso Gesù, è raffigurata in piedi e, in maniera ancora più accentuata della pietà
precedente, il suo corpo appare tutt’uno con quello del figlio senza che, tuttavia, ella sia in grado di
trattenerlo: il corpo di Gesù, infatti, si piega inesorabilmente in avanti, a simboleggiare il distacco dal mondo
necessario ai fini della risurrezione, ma anche dalla madre, che potrà ricongiungersi a lui solo dopo la morte.
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MADRE
Pietà Rondanini
Michelangelo Buonarroti muore il 6 marzo 1564 a Roma, dopo aver trascorso l’intera vita al servizio
dell’arte e della bellezza. Fra le sue innumerevoli qualità artistiche c'è anche quella di essere stato in grado di
sviscerare i segreti di uno dei rapporti più intimi ed affascinanti della storia: quello di una madre e di un
figlio fuori dal comune.
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MADRE
ALESSANDRO MANZONI, LA MADRE DI CECILIA
Alessandro Manzoni manifesta ne I Promessi Sposi un senso altissimo della maternità; ne è un esempio la
stessa figura di Agnese Mondella, la buona popolana dispensatrice di consigli di saggezza non sempre
avveduti (come nel caso del "matrimonio a sorpresa"), ma sinceramente e profondamente affezionata alla
figlia Lucia, che la ricambia di pari affetto, e premurosa anche nei confronti del futuro genero Renzo, che
considera come un figlio.
Tuttavia l'espressione più toccante e più nobile della maternità che Manzoni ci presenti è senza dubbio la
madre di Cecilia.
Alessandro Manzoni in un ritratto giovanile
Nel capitolo XXXIV Renzo si sposta dalla campagna alla città fino al Lazzaretto: sono tre tappe di un climax
ascendente di orrore. La campagna appare desolata ma ancora abitata, la città devastata e ormai quasi
deserta ed il Lazzaretto visto solo da fuori lascia presagire una miseria ancora più grande; ancora una volta
la città è per Renzo un luogo ostile e infernale. Le varie scene del capitolo mostrano il dissolversi della
civiltà umana di fronte allo strapotere della tragedia, come già nella peste di Atene descritta da Tucidide
(Storie II, 47-53) e poi da Lucrezio (De rerum natura VI 1145-1196).
Ma in mezzo al più assoluto degrado morale Renzo assiste ad una fulgida eccezione:
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una
giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran
passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua
andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era
in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma
non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel
sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta
ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per
una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col
petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una
parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono piú forte del sonno:
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MARTINA DECAROLI
MADRE
della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due
ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione
involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, "no!" disse: "non me la toccate
per ora; devo metterla io su quel carro: prendete." Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere
in quella che il monatto le tese. Poi continuò: "promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri
ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così."
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, piú per il nuovo sentimento da cui era
come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La
madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e
disse l'ultime parole: "addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega
intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri." Poi voltatasi di nuovo al monatto, "voi," disse, "passando di qui
verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola."
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina piú piccola,
viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non
si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e
mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia,
al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
La madre di Cecilia giunge per così dire da una sfera superiore: già prima di parlare appare avvolta da un
senso di spirituale regalità, riuscendo ad essere capace di sottrarsi alla generale degradazione. L’immagine
dei corpi ormai senza vita ammucchiati nei carri sottolinea il livello di un’umanità ormai scaduta, rimarcato
dagli “schifosi e mortiferi inciampi” disseminati per le strade e dai sacchi di granaglie cui vengono
paragonati i cadaveri riposti sui carri.
Tuttavia persino la morte non riporta una totale vittoria quando viene contrastata dalla ferma integrità
morale e dalla pietà dei sopravvissuti.
Il dolore della madre di Cecilia è inimmaginabile, inesprimibile: è il dolore di una madre
amorevolissima che vede le sue creature travolte dalla morte, è la disperazione muta di una donna che vede
il suo ruolo di datrice di vita azzerato, annientato.
Ma la bambina morta è "tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo,
come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio".
La forma, che la morte distrugge e riporta a pura materia informe, è difesa strenuamente, al di là di ogni
logica. La madre di Cecilia sa che presto la decomposizione del cadavere annullerà questa sua opera di
paradossale e inutile difesa della bellezza e del decoro, ma questo non ha importanza: importante è
affermare la necessità di difendere questi valori.
La morte può privarci della vita, ma non del rispetto e dell'amore; sta all'uomo mantenere intatto ciò che
appartiene solo a lui, ciò su cui la morte non ha potere.
Non un vero e proprio personaggio, quindi, ma una figura emblematica, che resta indelebilmente impressa
nella mente del lettore per la sua intensissima carica emotiva, il pathos trattenuto e la profonda dignità di cui
dà prova di fronte alla tragedia, diventando in un certo senso l'emblema della resistenza umana di fronte alla
dissoluzione di tutti i valori, della vittoria del Bene sul Male, della Vita sulla Morte.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
LA MADRE IN QUATTRO POETI MODERNI
E' strano, ma significativo, come la visione più nobile ed idealizzata della maternità non sia femminile, ma
maschile. Sono in particolare i figli maschi ad esprimere nei confronti delle loro madri sentimenti di
vivissimo amore, di infinita gratitudine e di profonda ammirazione, come abbiamo già visto nel caso di
Agostino e Monica, Michelangelo e sua madre (identificata con la Vergine Maria) e, sia pure con maggiore
freddezza e razionalità, di Seneca ed Elvia; e non si riesce ad immaginare figura di madre più alta e
commovente di quella della madre di Cecilia raffigurata da Manzoni ne I Promessi Sposi.
In tempi recenti hanno dedicato celebri poesie alla propria madre Gabriele D'Annunzio (Consolazione del
1891), Umberto Saba (Preghiera alla madre del 1932), Eugenio Montale (A mia madre del 1942), Giuseppe
Ungaretti (La madre del 1930) e Pier Paolo Pasolini (Supplica a mia madre del 1964). Riporto di seguito le
ultime quattro.
GIUSEPPE UNGARETTI E EUGENIO MONTALE
Giuseppe Ungaretti, La madre
Eugenio Montale, A mia madre
E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ ombra,
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all’ Eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando mi avrai perdonato
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’ avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
Ora che il coro delle coturnici
ti blandisce dal sonno eterno, rotta
felice schiera in fuga verso i clivi
vendemmiati del Mesco, or che la lotta
dei viventi più infuria, se tu cedi
come un’ombra la spoglia
(e non è un’ombra,
o gentile, non è ciò che tu credi)
chi ti proteggerà? La strada sgombra
non è una via, solo due mani, un volto,
quelle mani, quel volto, il gesto di una
vita che non è un’altra ma se stessa,
solo questo ti pone nell’esilio
folto d’anime e voci in cui tu vivi.
E la domanda che tu lasci è anch’essa
un gesto tuo, all’ombra delle croci.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
La figura materna è un topos della letteratura di ogni tempo e di ogni luogo, ma la costanza è solo
tematica, perché le modalità propositive sia a livello tematico che stilistico, mutano non solo in base al
contesto storico-culturale in cui gli artisti hanno vissuto ed operato, ma anche in base alla loro specifica
individualità culturale e caratteriale.
Come altri poeti del Novecento, anche Ungaretti e Montale hanno proposto la figura della madre nella loro
poesia, ma ce ne danno una rappresentazione e ci descrivono un rapporto con lei e con la morte
completamente antitetico.
Nello specifico, a rendere così diverse le poesie dei due autori dedicate alle rispettive madri è principalmente
la religione: Ungaretti, dopo il periodo di riflessione trascorso nel monastero di Subiaco, trovò nella
religione cattolica lo strumento per uscire dal male di vivere, dalla condizione di uomo di pena, per passare
dal tragico del contingente, alla sublimità dell’assoluto; Montale invece, se si prescinde da una giovanile
influenza di tematiche religiose, resta estraneo ad una riflessione esistenziale e metafisica sul Cristianesimo,
e pertanto il ricordo materno resta legato alla memoria terrena, senza quell’apertura trascendentale che
invece è presente in Ungaretti.
Ma è attraverso l’analisi comparativa dei testi che le suddette differenze emergono meglio.
Il lutto spinge Ungaretti a riflettere sulla propria stessa morte, che gli permetterà, visto che crede nella vita
ultraterrena, di ricongiungersi alla madre, alla condizione d’innocenza che lei rappresenta, ma che egli non
possiede; bisogna quindi che lei invochi il perdono divino affinché tale ricongiungimento possa realizzarsi.
E’ un estremo gesto di amore, che, proprio perché volto all’intercessione divina, non ammette terrene
manifestazioni di affetti; infatti leggiamo nel testo: “E solo quando m’avrà perdonato, | ti verrà desiderio di
guardarmi“.
Il rapporto madre-figlio, come anche il tema della morte, vengono vagliati in una prospettiva religiosa, che
pone come sottotraccia la terrestrità. Anche il ”ridarai la mano”, v. 4 e “l’avrai negli occhi un rapido
sospiro”, v. 15 sono inseriti in una prospettiva religiosa che rimanda al dopo la dimensione umana della
manifestazione affettiva e, non a caso, rende la madre “una statua davanti all’Eterno”, mantenendo la
rigidità morale che la caratterizzava quando era in vita: “Come già ti vedevo | quando già eri in vita”, vv.
6,7. Anche la morte punta verso l’aldilà e non verso gli affetti terreni: ”Mio Dio eccomi”, v. 11, dice infatti
la madre sul punto di morire e non, ad esempio, ”Figlio mio ti lascio”.
Né è presente la dimensione dell’io sofferente per la morte della madre, poiché il poeta costruisce il
componimento esclusivamente sull’ipotesi d’incontro con lei, che, in una sorta di triangolo amoroso, esercita
la sua funzione mediatrice, quale condicio sine qua non per congiungersi affettivamente al figlio. Quanto detto
induce, secondo R. Luperini, a tentare anche una interpretazione psicanalitica: Dio, proprio perché
detentore della legge morale, presenta in sé i caratteri del padre, e l’io solo attraverso il suo perdono può
aspirare a un contatto con la madre, ad una relazione edipica con lei, anche se questa non è da intendersi
nella sua concretezza sessuale, ma nella forma sublimata e metafisica con cui viene proposta nell’ultimo
distico: ”Ricorderai d’avermi atteso tanto | e avrai negli occhi un rapido sospiro”.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Pablo Picasso, Madre e figlio, 1905
Invece la madre è considerata da Montale nella sua materialità unica e irripetibile.
E lei resta viva nella memoria del figlio non certo per via della religione, nella quale pur credeva, quanto per
il ricordo di precisi gesti che la caratterizzavano. La madre riteneva che il corpo fosse un’ombra, l’aspetto
esteriore di una realtà metafisica e che la morte fosse la via che porta alla vita eterna: “...se tu cedi come
un’ombra la spoglia | ... chi ti proteggerà?" vv. 5, 8.
Ma la vita terrena non è per il poeta un’ombra, essa vale per se stessa e a livello memoriale è l’unica forma di
sopravvivenza: “...due mani, un volto | quelle mani quel volto ... | ... | solo questo ti pone nell’eliso”, vv. 9,
10, 12, ossia nel paradiso memoriale di chi le ha voluto bene.
Anche nel secondo verso della poesia di Ungaretti troviamo il termine "ombra": ”E il cuore ... | avrà fatto
cadere il muro d’ombra”, ma diversa è la valenza semantica che il poeta vi attribuisce: per Ungaretti è
l’intero percorso della vita con i suoi possibili errori ad essere ombra che, come baluardo pietroso, impedisce
l’ascesa a Dio. La sacralità nel testo di quest’ultimo si evince anche dall’iniziale maiuscola della parola
Madre, v. 3, e appare perciò anche per tale motivo lontana dalla realtà terrena, tutta proiettata nel ruolo di
“Santa mediatrice”. Il Simbolismo ermetico in cui si inserisce il poeta determina anche la soggettività
emotiva e sentimentale, quasi patetica con la quale viene rappresentata la madre morta: “mi darai la mano”,
v. 5; “Alzerai tremante le vecchie braccia”, v. 9.
Montale, invece, come si è già detto, resta sostanzialmente estraneo al Cristianesimo e, anche quando si
avvicina a Dante, questi lo interessa non per la tematica religiosa della Divina commedia, quanto, attraverso la
sollecitazione eliotiana, per la sua struttura allegorica, che gli consente di dare universalità oggettiva alla
vicenda personale e di utilizzare stilemi, termini e concetti della religione cristiana in chiave completamente
laica o, per meglio dire, per proporre una nuova religione: quella delle lettere; di conseguenza per il poeta è
impossibile allontanarsi dalla concretezza terrena e, in occasione del primo anniversario della morte della
madre, ne propone non solo una considerazione nella sua fisicità memoriale, ma la circonda anche di
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MARTINA DECAROLI
MADRE
particolari concreti, di animali (le coturnici, i clivi vendemmiati del Musco...); inoltre il momento
emozionale soggettivo scompare del tutto e la morte della madre diventa correlativo oggettivo di valori
che la guerra (la lirica è del 1942), a cui si allude nei vv. 4 e 5 (...or che la lotta | dei viventi più infuria...),
nega: il valore dei morti coincide con il recupero dell’infanzia, connotata anche a livello topico con il
riferimento alle Cinque terre, al Mesco, luoghi della fanciullezza appunto, che la rielaborazione del lutto
ripropone alla memoria insieme alla madre con “quel volto, quelle mani”.
La lirica fa parte di Finisterre, I sezione de La bufera ed altro, e, come le altre liriche di tale sezione, si
caratterizza per il monolinguismo e il monostilismo, prima di ricorrere a uno stile più mediato e realistico,
a quel pluristilismo, anche di derivazione dantesca, che il tragico contesto storico imponeva. Finisterre, come
sostiene Montale nell’intervista immaginaria del ’46, “rappresenta la sua esperienza petrarchesca” che si
esplica in un classicismo moderno dato dagli endecasillabi con numerose rime libere (ombra- sgombra,
clivi-rivi, ...), dai vv. 7-8 a scalino e insieme costituenti un endecasillabo, dal lessico aulico e sostenuto (coro,
clivo, eliso), dalla sintassi lineare che si espande strutturalmente in due periodi: la proposizione interrogativa
che pone la domanda e occupa la prima strofa e l’incipit della seconda ed una assertiva che occupa la parte
restante del componimento.
Altrettanto inseribile nel classicismo moderno, d'altra parte, è la lirica La Madre di Ungaretti, che fa parte
della raccolta Sentimento del tempo, silloge in cui l’autore, dopo la stagione più esclusivamente ermetica
della raccolta L'Allegria, non solo mostra di avere ritrovato la dimensione dell’Eterno, ma anche la metrica e
lo stile tradizionali: infatti la lirica è costituita da cinque strofe di endecasillabi e settenari e vi domina un
linguaggio caratterizzato da ricercata semplicità evangelica; proprio per questo esso diviene prezioso e
sublime, caricandosi semanticamente, attraverso un immediato analogismo, di significati metafisici (Madre,
ombra, statua,...).
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MARTINA DECAROLI
MADRE
UMBERTO SABA
Preghiera alla madre
Madre che ho fatto
soffrire
(cantava un merlo alla finestra,il giorno
abbassava, sì acuta era la pena
che morte a entrambi io mi invocavo)
madre
ieri in tomba obliata, oggi rinata
presenza,
che dal fondo dilaga quasi vena
d’acqua, cui dura forza reprimeva,
e una mano le toglie abile o incauta
l’impedimento;
presaga gioia io sento
il tuo ritorno, madre mia che ho fatto,
come un buon figlio amoroso, soffrire.
Pacificata in me ripeti antichi
moniti vani. E il tuo soggiorno un verde
giardino io penso, ove con te riprendere
può a conversare l’anima fanciulla,
inebriatasi del tuo mesto viso,
sì che l’ali vi perda come al lume
una farfalla. E’ un sogno
un mesto sogno; ed io lo so. Ma giungere
vorrei dove sei giunta, entrare dove
tu sei entrata
--ho tanta
gioia e tanta stanchezza!—
farmi, o madre,
come una macchia della terra nata,
che in sé la terra riassorbe ed annulla.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Preghiera alla madre è una lirica di Umberto Saba (1883-1957) che appartiene alla raccolta Cuor morituro (192530).
Saba è particolarmente interessato al significato psicologico profondo rappresentato dalla figura della
madre. In particolare, il recupero del ricordo della madre è sollecitato dall’esperienza psicoanalitica
intrapresa dall’ autore con Edoardo Weiss (cui si fa riferimento ai versi 11-12). Fra l’altro il riaffiorare della
figura materna alla coscienza del poeta può compiersi perché ora vengono meno le ragioni di tensione e di
senso di colpa che avevano caratterizzato il rapporto con lei. La rielaborazione del ricordo della madre può
essere dunque ora ragione di gioia (v. 13) e non di angoscia.
Umberto Saba
Egli rievoca l’angoscia dei primi anni adolescenziali riferendosi a momenti tesi del difficile rapporto tra
madre e figlio. L’aver fatto soffrire la madre poi non implica l’esser stato cattivo o privo di amore per lei, e
anzi, nella prospettiva della matura saggezza, pare al poeta un effetto inevitabile del rapporto madre-figlio,
quasi, addirittura, una conseguenza dello stesso vincolo d’amore. Il recupero nella memoria della figura
della madre comporta un bisogno profondo di ricongiungersi a lei, di ritrovare l’unità madre-figlio
perduta nel corso della vita adulta. Questo desiderio coincide, ora che la madre è morta, con un bisogno (o
una minaccia) di annullamento: ricongiungersi alla madre significa infatti rimettere a lei il potere di
revocare al figlio quella vita che ella stessa gli ha dato mettendolo al mondo. Perciò nella similitudine
finale la madre è implicitamente paragonata alla “terra” che ha prodotto una “macchia”(la vita del figlio) e
che la riassorbe in se stessa annullandola nella morte.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
PIER PAOLO PASOLINI
Supplica a mia madre
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senz’anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
Scritta negli anni sessanta, Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini è una toccante lirica inclusa nel libro
in versi Poesia in forma di rosa, pubblicato nel 1964.
Il ricorso ad un linguaggio discorsivo, quotidiano, quasi prosaico, tipico di questo testo poetico, ha un
significato diametralmente opposto a quello usuale: il linguaggio quotidiano infatti aiuta gli uomini
a scambiarsi dati, nozioni, informazioni, opinioni, ma al contempo li costringe a sperimentare una sorta
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MARTINA DECAROLI
MADRE
d’alienazione, di incomunicabilità. Pur impegnati nel dialogo, essi restano dei perfetti estranei a se stessi ed
agli altri.
La poesia è uno strumento del linguaggio nato proprio per superare questa estraneità tra gli esseri, per
consentire agli uomini di comunicare i loro affetti e per uscire da una sorte di carcere esistenziale.
Da questa prospettiva Supplica a mia madre è una poesia esemplare, perché in un tono dimesso e prosaico il
poeta confessa subito il suo intento di rivelare quel che di segreto, di nascosto si cela nel suo cuore, dire quel
ch’è orrendo conoscere, quello che appunto nella conversazione quotidiana non si potrebbe mai dire.
Questa esigenza della confessione in Pasolini non nasce da un bisogno di perdono, di assoluzione del
peccato, bensì da un sentimento d'amore. Non ci si può nascondere dinnanzi all’essere che si ama e dal quale
si è riamati. L’amore comporta un rapporto di vicinanza, di confidenza che esclude l’alienazione,
l’incomunicabilità, il sentimento di estraneità.
Qual è dunque il segreto che Pasolini nella Supplica rivela alla madre e, pubblicando la poesia, a noi
lettori?
L’omosessualità, un complesso edipico non risolto, la pratica della promiscuità sessuale (l’amore dei corpi
senz’anima), l’amore della purezza assoluta (l’amore dell’anima, della grazia, rappresentata dalla madre)?
Tutto questo insieme ed anche altro, ma soprattutto il disperato bisogno di avere accanto sua madre: è
irrilevante quale ne sia la ragione, se sia "patologica" o meno; il vero male, incurabile, è il male di vivere, di
fronte al quale ogni considerazione di "sanità" o "diversità" diventa risibile. La sola cosa che importa è che ci
sia ancora "un futuro aprile", una nuova primavera, per poter rinascere accanto a lei, solo con lei.
Pasolini, nella Supplica, con il bisturi della poesia apre il suo cuore agli uomini, mostrandone la
complessità e la vulnerabilità, confessando le implicazioni psicologiche di una forte dipendenza, la schiavitù
dell’amore materno e quel che essa comporta: lo scandalo, la dannazione, la solitudine della sua condizione
esistenziale.
Proprio questa poesia è stata scelta dal regista Marco Tullio Giordana come omaggio alla coraggiosa madre
di Peppino Impastato nel film I cento passi del 2000, un capolavoro del nostro cinema. La poesia è letta da
Peppino stesso (interpretato da Luigi Lo Cascio) a sua madre (Lucia Sardo) all'interno del garage in cui il
ragazzo è costretto a nascondersi.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
GUSTAV KLIMT E L'ARCHETIPO DELLA MATERNITÀ
Nell’arte e in letteratura è frequente la testimonianza dell’amore e del trasporto verso la madre, come ho
cercato di mostrare nel capitolo dedicato a Michelangelo: una madre che per tutto il Medioevo e fino al
Seicento si confonde ed rappresentata con l’immagine sacra della Madonna. La presenza della figura
materna così insistente e costante, nella pittura che fino al Novecento è campo d’azione prevalente degli
uomini, compresi i committenti principi, cardinali, re e papi o anche ricchi borghesi, non si spiega se non con
una presenza ancestrale della madre nell’immaginario maschile: una presenza che Gustav Klimt (18621918) rielabora ed esplora attraverso una poetica tutta personale.
La psicoanalisi ha definito l'archetipo materno come “un’immagine centrale del nostro inconscio”; e
tuttavia questo archetipo ha un doppio volto, un'ambiguità di fondo che lo rende tutt'altro che rassicurante.
Nel 1899 Sigmund Freud scrive L'interpretazione dei Sogni, ove emerge un tratto di cultura sessuofobica: la
donna è vista come pericolo; ella incarna il “disordine” naturale, è custode di segreti ancestrali, è natura
infida, sensuale, in cui si fondono “fascinum” (piacere estetico) e “tremendum” (sensazioni negative e
distruttive). Non che questa sia un'idea nuova, anzi: già Euripide nelle Baccanti aveva attribuito queste
caratteristiche a Dioniso, divinità maschile-femminile che rappresenta la natura in quanto luogo della
coincidentia oppositorum.
Così, contemporaneamente alle richieste dell’emancipazione femminile, nella società ancora permeata da un
anacronistico puritanesimo si sviluppa un inconfessato senso di paura.
Klimt rende ampiamente omaggio a questa visione della donna nella Giuditta I e poi nella Giuditta II: in
particolare Giuditta I altera, sprezzante ed enigmatica, è scelta da Klimt quale soggetto simbolo della
punizione inflitta dalla donna all’uomo, che egli deve espiare con la morte: è la donna tagliatrice di teste
nella quale si ricongiungono i freudiani Eros e Thanatos.
Gustav Klimt, Giuditta I, 1901
Il primissimo accenno a quest’intenzione nell’ambito della pittura klimtiana si trova nella Fanciulla di
Tanagra, con il suo abito a fiori stilizzati, la chioma preraffaellita e l’occhio cerchiato d’ombra. Klimt la
dipinse nel 1890, per la decorazione dello scalone del Kunsthistorisches Museum di Vienna. È la Donna, con gli
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MARTINA DECAROLI
MADRE
occhi segnati dalla perversione della vita, che si fa gioco dell’uomo, anzi se ne nutre, gareggiando con lui in
astuzia e crudeltà e vincendo grazie all’arma invincibile della seduzione.
Gustav Klimt, Fanciulla di Tanagra, 1890-91
Ma questa donna temibile, apportatrice di morte, è anche Madre, dispensatrice di vita e di amore per
antonomasia: appunto di questa contraddizione si nutre la sua tremenda ambiguità.
Il doppio volto dell’archetipo materno è il tema del racconto visivo che Klimt compone nel Fregio di
Beethoven del 1902: esso raffigura un cavaliere-artista che, incoraggiato da muse protettive, parte per
raggiungere la Poesia rappresentata da una musicale fanciulla, ma prima deve passare attraverso il regno del
Male, abitato da mostri e donne perverse.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Gustav Klimt, Fregio di Beethoven (dettagli), 1902
Il giardino finale, dove si celebra l’abbraccio tra il Cavaliere e la sua donna, è un universo tutto femminile
abitato da fanciulle-fiore, dove l’eroe compie infine il suo destino: abbracciare la Poesia, ritrovare la donna
del suo cuore. Klimt ci dice così che dal femminile nulla può prescindere, anzi, da esso tutto procede:
nasciamo dalla Donna e in seguito, orfani dell’abbraccio materno, dispensiamo per conquistarla tutta la
nostra energia e la nostra capacità, in un confronto con le forze del Male che hanno anch’esse forma e
origine femminile.
Non sappiamo con certezza quando si iniziò a venerare la Dea Madre (spesso identificata con la Terra
stessa), genitrice di tutte le creature e di conseguenza anche dell’essere umano; è certo però che veniva
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MARTINA DECAROLI
MADRE
adorata e che le venivano dedicate cerimonie e fatte offerte votive di ringraziamento. La testimonianza più
antica che sia stata trovata dedicata alla dea è una statuetta di pietra chiamata la Venere di Willendorf, il cui
nome deriva dal luogo nel quale venne rinvenuta: un piccolo monumento dell’Età della Pietra con ampi
fianchi e grossi seni, ad indicare l’abbondanza e la grande capacità di procreare.
La Venere di Willendorf
Ma ci sono altri esempi di statuette della Dea Madre, anche se non antichi come la Venere di Willendorf.
Alcune statuette antropomorfe che sembrano collegate alla dea sono quelle trovate durante gli scavi
archeologici in Bulgaria, in quel territorio che era dei Traci. La presenza di figure dai connotati simili in
molte religioni e mitologie indica l'importanza dell’immagine femminile ‘divinizzata’, in virtù
principalmente delle sue capacità di genitrice. E se questa suggestione ancestrale per secoli aveva potuto
manifestarsi in Europa solo nella rappresentazione cristiana della Natività e in scene di vita quotidiana, la
riscoperta dell’arte primitiva scatena la fantasia e le energie creative degli artisti europei tra Ottocento e
Novecento.
In un clima artistico che rielabora la figura materna in chiave di “divinità ancestrale”, nascono così opere
come Le cattive madri (1894), raffigurato a pagina 5, straordinario capolavoro di Giovanni Segantini, artista
che eserciterà una certa influenza su Klimt.
Il tema della ciclicità della vita è fondamentale nella definizione di un universo matriarcale: nel corpo
femminile si forma la vita e di conseguenza si decide il destino mortale di un nuovo essere: lieta speranza e
insieme caducità della vita. La madre, in fin dei conti, nel momento stesso in cui dona la vita ad un figlio,
lo condanna alla morte: di qui, probabilmente, l'ambiguità dell'archetipo.
La figura della donna-madre, tuttavia, è spesso letta da Klimt e dagli artisti della Secessione come l’unica
speranza in un mondo che attende di essere annientato dal germe della devastazione: lo stesso Klimt ne offre
importanti testimonianze. Il dipinto noto come Speranza I (1903) rappresenta con molto realismo una donna
incinta nuda, accostata ad una mostruosa creatura serpentiforme, un drago terrificante e minaccioso.
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MADRE
Gustav Klimt, Speranza I, 1903
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Il velo azzurro dietro la donna gravida e la striscia rossa dietro il drago sono simbolici dell'acqua e del
sangue collegati alla nascita, mentre nella fascia in alto uno spettro e altre creature demoniache, le tre Parche,
intonano il loro silenzioso spietato coro di morte.
Klimt riprenderà più volte il tema della maternità, sia in dipinti d’ispirazione tradizionale, come nel caso di
Madre con figli (1910), sia in opere dal carattere altamente simbolista come Speranza II (1907- 1908), ma
soprattutto ne Le tre età della donna:
Gustav Klimt, Le tre età della donna, 1905
Il dipinto è una rivisitazione delle tre fasi della vita femminile: l’infanzia, la maternità e l’inevitabile declino
della vecchiaia, descritte con figure asciutte, sintetiche e con un decorativismo geometrico che si materializza
in forme che ricordano oro, sete raffinate e pietre preziose. E' forse la sua migliore raffigurazione della
condizione femminile e della sua inscindibilità rispetto all’ideale di Maternità: infatti la donna ormai
sterile, invecchiata, imbruttita, non può fare altro che piangere; si dà evidentemente per scontato che il sesso
femminile non abbia alcun'altra ragion d'essere oltre a quella procreativa, che implica la necessità di risultare
attraente per il maschio.
Questa visione della donna, espressa da un "civilizzatissimo" e colto esponente del genere maschile, offre un
interessante spunto di riflessione: il pur bellissimo dipinto di Klimt esprime la convinzione
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MARTINA DECAROLI
MADRE
tipicamente maschile che la donna "serva" per procreare oppure per soddisfare le voglie maschili, e al di
fuori di quest'ottica utilitaristica non abbia diritto di cittadinanza; sorprende quanto profonda e radicale sia
la secolare incomprensione fra i due sessi, quanto poco la cultura possa fare per porre rimedio ad essa
e quanto la visione maschile della donna sia rimasta sostanzialmente immutata dall'età delle caverne ad
oggi.
Gustav Klimt, Giuditta II (1909)
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MADRE
Gustav Klimt, Speranza 2 (1907)
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MADRE
Gustav Klimt, Madre con figli (1910)
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III. MATERNITÀ E SCIENZA
L'EUGENETICA
EUGENETICA E NAZISTI
Con il termine eugenetica (dal greco εὖ = "bene" e γένος = "stirpe, razza") s'intende lo studio dei metodi
volti al perfezionamento della specie umana attraverso selezioni artificiali operate tramite la promozione dei
caratteri fisici e mentali ritenuti positivi (eugenetica positiva) e la rimozione di quelli negativi (eugenetica
negativa), mediante selezione o modifica delle linee germinali, secondo le tradizionali tecniche invalse
nell'allevamento animale e in agricoltura basate sulla genetica mendeliana, e quelle rese attualmente o
potenzialmente disponibili dalle biotecnologie moderne.
Nel linguaggio comune, il termine è usato come sinonimo di eugenismo, che è l'ideologia che ritiene che la
soluzione di problemi politici, sociali, economici o sanitari possa essere raggiunta attraverso l'adozione di
pretese soluzioni eugenetiche. Si differenzia anche dall'ortogenetica, che è il ramo della medicina
costituzionalistica che si occupa dei fenomeni e dei problemi relativi allo sviluppo fisico e psichico dell'uomo
dalla vita intrauterina fino alla maturità.
Manifesto del 1925 che inneggia all'eugenetica
Storia dell'eugenetica
Storicamente, l'eugenetica come campo di ricerca è stata per la prima volta suggerita da Platone (Politica 458
segg.), per essere abbandonata durante il Cristianesimo medioevale, che, dando per scontata l'intrinseca
negatività dell'atto sessuale, lascia alla sfera ultraterrena ogni possibilità di "miglioramento". Nel
Rinascimento Tommaso Campanella, nella prospettiva utopica della “Città del sole”, sostiene l'opportunità
di combinare i matrimoni e controllare la vita sessuale dei cittadini. Tra Settecento e Ottocento si afferma la
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MARTINA DECAROLI
MADRE
frenologia, disciplina non scientifica che sosteneva di riuscire ad individuare dalla forma del cranio le
tendenze psicologiche delle persone, in primis la propensione a devianza e criminalità ("determinismo
biologico-ereditario"). Successivamente, Herbert Spencer prese a prestito i concetti chiave dell'evoluzione
darwiniana e li applicò alle scienze sociali, sostenendo l'opportunità e la necessità delle differenze sociali allo
scopo di assecondare il naturale processo di selezione.
Negli anni sessanta dell'Ottocento l'eugenetica venne portata in auge da Francis Galton (cugino di Charles
Darwin), che teorizzò il miglioramento progressivo della razza secondo criteri analoghi a quelli
dell'evoluzione biologica. Sosteneva fosse necessario un intervento delle istituzioni per questo fine, mediante
l'incrocio selettivo degli adatti. Fu Galton stesso ad inventare il termine eugenetica, traendolo dal greco
classico. Specialmente in Inghilterra ed in Germania, questa teoria ebbe grande successo, grazie anche alla
forte impostazione positivista della scienza e all'ideale imperante di progresso. All'inizio del Novecento,
anche grazie all'impegno di soggetti come la Fondazione Rockefeller e la Massoneria di Rito Scozzese,
l'Inghilterra divenne il centro della diffusione delle teorie eugenetiche. Nel 1912 si tiene a Londra il primo
congresso internazionale, con la presenza di una folta delegazione di scienziati italiani, ispirati anche dalle
teorie degenerazioniste di Cesare Lombroso.
Hitler e l'eugenetica
Adolf Hitler entrò in contatto con idee sull'eugenetica durante il suo periodo di detenzione nel carcere di
Landsberg, durante il quale lesse dei trattati di igiene razziale. Egli ritenne da subito che la Germania
avrebbe potuto riacquistare il proprio status di potenza solo se lo stato avesse applicato alla società tedesca i
principi basilari dell'eugenetica e dell'igiene razziale. Hitler attribuiva, infatti, lo stato di debolezza della
nazione all'esistenza di "elementi degenerati" che avevano compromesso la purezza della popolazione. Era
sua opinione quindi che gli "elementi degenerati" avrebbero dovuto essere eliminati il prima possibile. La
riproduzione dei forti e dei razzialmente puri avrebbe dovuto essere incoraggiata, mentre i deboli ed i
razzialmente impuri avrebbero dovuto essere neutralizzati.
Negli anni '20 la teoria del Darwinismo sociale era in voga tra gli scienziati europei, ed aveva grossa
risonanza sulla stampa austriaca. Tuttavia l'influenza del Darwinismo sociale su Hitler è incerta. In
precedenza la politica di infanticidio selettiva praticata nell'antica Sparta era stata discussa da Ernst
Haeckel nel 1876. Nel suo Secondo libro (Zweites Buch), che non fu pubblicato negli anni del Nazismo, Hitler,
similmente a Haeckel, aveva lodato le politiche di Sparta, definendola il primo Stato Völkisch, e aveva dato la
sua approvazione a ciò che gli era sembrato un trattamento eugenico ante-litteram degli infanti deformi:
"Sparta va considerata come il primo stato Völkisch. L'esposizione dei bambini malati, deboli, deformi - in
breve: la loro distruzione è stata più decente ed in verità migliaia di volte più umana della miserevole follia
dei giorni nostri, che protegge i soggetti più patologici a qualsiasi costo, e ciò nonostante toglie la vita mediate la contraccezione o l'aborto - a centinaia di migliaia di bambini sani, solo per poi nutrire una razza
di degenerati carichi di malattie".
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MADRE
Hitler e il suo programma di eugenetica nell'interpretazione di un disegnatore contemporaneo
Il programma di eugenetica nazista
Il programma di eugenetica nazista fu ispirato dai programmi di sterilizzazione coatta attuati in America.
Ufficialmente conosciuto con il nome di Aktion T4, il programma di eugenetica mirava all'eliminazione dei
bambini disabili ed alla pratica dell'eutanasia sugli adulti ricoverati o portatori di malformazioni congenite.
Si stima che l'esecuzione del programma sia costata la vita di oltre 200.000 persone.
In Germania, la Legge per la prevenzione delle nascite affette da malattie ereditarie, promulgata il 14 luglio
1933, aveva richiesto ai medici di registrare qualsiasi caso di malattie ereditarie, ad eccezione di quelle che
affliggessero le donne al di sopra dei 45 anni. La violazione delle norme sulla registrazione era punibile
mediante multe. Nel 1934, il primo anno di entrata in vigore della legge, circa 4.000 persone presentarono
ricorsi amministrativi contro le decisioni delle autorità responsabili per la sterilizzazione. 3.559 ricorsi furono
respinti. Tra il 1933 e la caduta del regime nazista, ebbe luogo l'istituzione di oltre 200 "Corti per la salute
ereditaria" (Erbgesundheitsgerichten), che disposero la sterilizzazione coatta di oltre 400.000 persone.
La clinica di Hadamar era una clinica psichiatrica nella città di Hadamar, usata dai nazisti come sede del
programma Aktion T4. L'Istituto di Antropologia, Ereditarietà ed Eugenica Kaiser Wilhelm fu invece
fondato nel 1927: agli inizi, e durante il periodo nazista, fu associato alle teorie sull'eugenetica e sull'igiene
razziale sostenute dai suoi teorici di spicco Fritz Lenz e Eugen Fischer e dal direttore Otmar von Verschuer.
A Fischer è attribuita la sterilizzazione dei cosiddetti bastardi renani.
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MADRE
JOSEPH MENGELE
Josef Mengele (1911-1979), medico nazista ed ufficiale delle SS tedesco, è tristemente noto per
gli esperimenti medici e di eugenetica che svolse, usando come cavie umane, i deportati, anche bambini, del
campo di concentramento di Auschwitz. Di qui il soprannome di "Angelo della morte".
Joseph Mengele nel 1935
Infanzia e adolescenza
Della sua infanzia-adolescenza non si conosce molto. Quel poco che si sa proviene da testimonianze che lo
ritraggono come una persona socievole, educata e soprattutto molto ambiziosa; Mengele infatti era
ossessionato dal suo futuro: voleva ad ogni costo diventare un medico che la storia avrebbe ricordato per le
sue scoperte (e non possiamo dire che non ci sia riuscito).
Aveva ferme idee politiche, che lo portarono a vent'anni ad iscriversi negli Stahlhelm (Elmetti d'Acciaio), per
poi entrare nel 1934 nelle Sturmabteilungen. In quegli stessi anni, iniziò i suoi studi all'Università Ludwig
Maximilian, dove conseguì la laurea in antropologia nel 1935, con una tesi sulla "Ricerca morfologicorazziale sul settore anteriore della mandibola in quattro gruppi di razze"; ebbe come relatore il professor
Mollison. Nel gennaio 1937, presso l'"Istituto per la biologia ereditaria e per l'igiene razziale" di Francoforte,
divenne assistente di Otmar von Verschuer, un illustre scienziato conosciuto per le sue ricerche nella
genetica, con un particolare interesse per i gemelli, ricerche che influenzarono profondamente Mengele.
Nel 1937, Mengele si iscrisse al partito nazionalsocialista e nel 1938 alle Schutzstaffeln (SS); nello stesso
anno si laureò in medicina, presentando una tesi intitolata "Ricerche sistematiche in ceppi familiari affetti da
cheiloschisi o da fenditure mascellari o palatali", aiutato da Von Verschuer. Mengele si dedicò agli studi con
fermezza (la sua tesi di laurea ottenne anche un discreto successo all'interno della comunità scientifica,
reputata un lavoro valido e preciso), ma si dedicò anche alla mondanità delle serate di Monaco; beveva
birra, fumava e non disprezzava le donne. Sempre in quegli anni si sposò con Irene Schoenbein; il
matrimonio fu molto contrastato e voluto ad ogni costo: la famiglia era contraria al matrimonio in quanto lei
era protestante. Il 1° gennaio 1939 Mengele chiese l'autorizzazione formale all'Ufficio Centrale per la razza e
gli insediamenti umani per poter sposare Irene; la licenza venne concessa con una certa fatica: Mengele, che
appartiene ormai alle SS, non poté dimostrare di appartenere ad una famiglia ariana sin dal 1750, e Irene
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MADRE
aveva qualche difficoltà, mancandole i documenti razziali del nonno americano Harry Lyons Dummer. Alla
fine l'Ufficio diede il suo benestare e la coppia poté celebrare le nozze.
Il matrimonio di Joseph e Irene
La serenità matrimoniale dei due fu interrotta il 1° settembre 1939 dallo scoppio della guerra.
Mengele si presentò volontario e venne inviato dapprima ad un ispettorato sanitario delle Waffen-SS e poi
all'Ufficio di Poznan (Posen) per la razza e gli insediamenti umani. Qui, dal 1940 al gennaio 1942, il giovane
Mengele si occupò di esaminare le "qualità razziali" dei coloni tedeschi che desideravano popolare le terre
dell'Est strappate all'Unione Sovietica.
Questo compito di selezione terminò il 1° gennaio 1942: Mengele venne aggregato come medico militare alla
5a Divisione SS "Wiking" e spedito sul fronte orientale. L'esperienza di guerra durò pochi mesi: nell'estate
del 1942 venne leggermente ferito, decorato con la Croce di Ferro di Prima Classe e promosso
Hauptsturmführer delle SS. Ritenuto inidoneo alla prima linea, fu rimpatriato venne impiegato a Berlino
all'Ufficio Centrale per la razza e gli insediamenti umani.
Contemporaneamente il suo maestro Verschuer era arrivato a Berlino per dirigere il Dipartimento di
Antropologia e Genetica del prestigioso "Kaiser Wilhelm Institut". I due si rincontrarono e il professor
Verschuer propose al suo allievo di unirsi a lui per proseguire gli studi sulla biologia dei gemelli.
Mengele venne a sapere che vi erano enormi possibilità di indagine date dal concentramento ad Auschwitz
di centinaia di migliaia di soggetti subumani da studiare: un'occasione irripetibile per la scienza e per la
carriera accademica di Mengele. Il 30 maggio 1943 Josef Mengele si presentava ad Auschwitz per prendervi
servizio. Poco prima di essere trasferito ad Auschwitz, Mengele venne promosso al rango di "capitano" delle
SS nell'aprile 1943.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Irene Schoenbein
Il matrimonio con Irene, inizialmente sereno (lo stesso Mengele parlò della moglie come di una persona
meravigliosa, l'unico amore della sua vita), iniziò a registrare dei contrasti quando Mengele si trasferì ad
Auschwitz: la moglie decise di non seguirlo. Durante i due anni della permanenza di Mengele nel campo si
recò a fargli visita periodicamente, ed in una di queste rimase incinta di quello che sarebbe stato l'unico figlio
di Mengele, Rolf. Sulla fedeltà di Mengele alla moglie, alcuni prigionieri riferiscono che delle volte sceglieva
tra le prigioniere una bella ragazza per passarci la notte, che poi ordinava di uccidere il giorno dopo.
Rolf, il figlio di Mengele e Irene
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Ad Auschwitz
Nel maggio 1943, Mengele rimpiazzò un altro dottore, che si ammalò, nel campo di concentramento di
Auschwitz, per poter portare avanti i propri studi e ricerche. Il 24 maggio, divenne medico del campo
nomadi nel settore Settore BIIe di Auschwitz-Birkenau; nell'agosto 1944 questo venne smantellato e i
deportati che vi risiedevano furono uccisi nelle camere a gas. In seguito Mengele divenne medico capo del
campo principale di Birkenau, sottoposto comunque a Eduard Wirths.
Durante i 21 mesi di permanenza ad Auschwitz, l'atteggiamento di Mengele nel campo fu registrato da
numerose testimonianze in modo totalmente contraddittorio, che rende difficile una ricostruzione
attendibile della situazione. Alcune parlano di un Mengele "buono", che salva dei gemelli dalla camera a gas
per analizzarli, che si occupa dei bambini portando loro dello zucchero (i bambini zingari paradossalmente
lo chiamavano "Zio Mengele"), che viene chiamato "der weiße Engel" ("l'angelo bianco") dai deportati, per
l'atteggiamento gentile e per il camice candido che indossava quando si apprestava a scegliere chi avesse
dovuto fare parte delle sue ricerche, chi avesse dovuto lavorare e chi era destinato alle camere a gas.
Mengele con due suoi collaboratori
Più spesso tuttavia si mostrava crudele, tanto da guadagnarsi il già citato appellativo di "angelo della
morte": uccideva senza pietà i prigionieri a calci, colpi di pistola o iniezioni di fenolo; in un battito di ciglio
decideva alla banchina se una persona era da destinare al lavoro o alle camere a gas. Egli disegnò una linea
sul muro del blocco dei bambini, alta circa 150 centimetri, gassando chi non raggiungeva questa altezza.
Quando un capannone venne infestato dai pidocchi, Mengele decise di uccidere tutte le 750 deportate che vi
risiedevano.
Secondo molti, egli soffriva di un evidente sdoppiamento di personalità, dovuto alla sua assoluta fedeltà
all'ideologia nazista e quindi all'estrema dedizione con cui svolgeva il suo "dovere" (selezionare e
analizzare), nel compimento del quale era assolutamente distaccato e non tradiva alcuna emozione. Tuttavia,
in momenti meno formali, risultava essere una persona paradossalmente amabile e piacevole, come
raccontano gli stessi medici che con lui collaborarono.
Ad ogni modo, Mengele alternava momenti di calma, pacatezza e rispetto (alcuni gemelli ricordano come,
pur analizzandoli nudi, Mengele fosse stato sempre corretto ed educato con loro e li avesse trattati con
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MARTINA DECAROLI
MADRE
gentilezza, con la professionalità di un dottore) a scatti d'ira incontrollabili (diversi assistenti raccontano di
quando si infuriò per la lentezza con cui venivano fatte le iniezioni di fenolo dallo stesso personale SS e di
come lui stesso abbia strappato dalle mani di uno di questi la siringa per mostrare come il tutto doveva
essere fatto: e stiamo parlando di iniezioni letali).
Uno dei disturbi della personalità di Mengele era legato alla sua estrema attenzione per i dettagli,
l'efficienza e la cura dei particolari in ogni cosa che faceva. Aveva una attenzione maniacale per l'igiene:
i prigionieri sopravvissuti ricordano di Mengele il suo portamento elegante, gli abiti sempre impeccabili
(quando non era in divisa bianca e guanti bianchi) e il profumo. Paradossalmente, alcune prigioniere dello
stesso campo erano infatuate di lui, grazie anche ai suoi lineamenti da divo del cinema.
Nel 1945 Mengele fu costretto ad abbandonare il campo di concentramento portando con sé tutto il
materiale delle sue ricerche che fino ad allora aveva condiviso con alcune personalità del settore medico
come Butenandt e von Verschuer, che lavoravano all’esterno di Auschwitz, a cui inviava relazioni
dettagliate. La fermezza ed il rigore di Mengele nello svolgere le mansioni assegnate si evidenziarono fino
alla sua ultima ora trascorsa nel campo. Il giorno prima dello sgombero dello stesso, Mengele continuò
imperturbabilmente, senza alcuna agitazione o preoccupazione, ad eseguire le selezioni: esaminò l'ultimo
treno con circa 506 prigionieri, condannandone alle camere a gas circa 470-480.
Sperimentazioni umane
L'ingresso ad Auschwitz, come si è detto, venne vissuto da Mengele come un'occasione unica ed
irripetibile: egli poteva eseguire ricerche su tutti i soggetti che gli interessavano, poteva analizzarli, operarli,
sezionarli e ucciderli senza essere esposto a nessuna responsabilità. Sapeva che in nessuna parte del mondo
era possibile svolgere le sue ricerche in un modo anche solo simile. L'obiettivo di Mengele, secondo la
maggior parte degli studiosi, consisteva proprio nel riuscire, tramite gli esperimenti nel campo di
concentramento, ad effettuare scoperte (soprattutto riguardo alla trasmissione dei caratteri e nell'ambito
dell'eugenetica) tali da consacrarlo alla storia per sempre.
Nel periodo che trascorse ad Auschwitz, Mengele sfruttò tutto il tempo a sua disposizione: organizzò una
squadra composta essenzialmente da medici e infermiere, in particolare una antropologa (Teresa W.) e un
patologo (Nyiszli), tutti reclutati all'interno dello stesso campo e quindi a loro volta prigionieri. La squadra
così composta godeva di protezione ed il semplice fatto di ricoprire questo ruolo li salvò da morte quasi
certa.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Mengele ad Auschwitz
I suoi studi nel campo riguardarono essenzialmente due aspetti della genetica:
- il fondamento biologico dell'ambiente sociale, la trasmissione dei caratteri e i tipi razziali;
- persone con elementi di anormalità (difformità, sviluppi morfologici anomali).
Tali studi vennero condotti quasi esclusivamente sui gemelli, che rappresentavano la sua principale
ossessione. Oltre a questi, studiò anche zingari e mostrò un certo interesse anche per i nani e gli ebrei, che
Mengele reputava delle forme umane "anomale".
Tra le sue ricerche nel campo, una parte fu dedicata anche al genoma. Tra gli studi di Mengele a carattere
meno scientifico e di natura prettamente nazista, si ricordano quelli legati agli occhi; di questi, Mengele segui
due filoni, uno riguardante l'eterocromia e l'altro la possibilità di riuscire a mutare il colore degli occhi.
Dopo la morte, i cadaveri erano sottoposti ad autopsia e spesso alcune parti dei corpi o interi feti venivano
conservati in formalina ed inviati al di fuori del campo per effettuare su di essi ulteriori e più approfonditi
esami.
Ricerche e sperimentazioni sui gemelli
Tra le ricerche condotte da Mengele nel campo, quelle a cui dedicò più energia e attenzione (praticate già un
anno prima dell'entrata ad Auschwitz) furono riservate ai gemelli. In particolar modo, Mengele concentrò la
sua attenzione sui gemelli monozigoti. Lo stesso Mengele si recava alla banchina, dove arrivano i treni dei
prigionieri, per selezionare lui stesso i gemelli non appena scendevano. I gruppi di gemelli comprendevano
individui delle età più diverse, da piccoli ad anziani; tra questi veniva scelto il più anziano, che assumeva la
funzione di Zwillingsvater (Capogemelli o padre dei gemelli), per distinguerli ulteriormente dagli altri
prigionieri, gli venivano tatuate insieme al numero anche le due lettere ZW (cioè Zwillinge). Delle sue
ricerche nel KZ (Konzentrationslager, campo di concentramento) Mengele teneva sempre informato il suo ex
professore universitario, Von Verschuer, inviando anche all'istituto di biologia razziale a Berlino esemplari e
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MADRE
relazioni. Mengele analizzava i gemelli insieme, che sottoponeva a ricerche di tipo comparato. Nel suo
analizzare i gemelli identici, Mengele effettuava misurazioni, fotografie, prelievi di sangue spesso ad ogni
visita. Alcuni gemelli superstiti invece, affermano che le ricerche di Mengele riguardarono anche altre
pratiche: utilizzo di sostanze chimiche per analizzare la reazione della pelle, o pressioni su parte del corpo
per misurare la resistenza o iniezioni.
Una coppia di gemelli monozigoti esaminata da Von Verschuer
Sulle relazioni tra Mengele e i gemelli vi sono testimonianze contrastanti. Un assistente dello stesso Mengele,
il dott. Miklos Nyiszli, testimoniò che era lo stesso Mengele ad ucciderli (raccontò in particolare un episodio
in cui uccise in una sola notte, uno dopo l'altro, 14 gemelli di origine zingara). Per quanto riguarda gli altri
prigionieri, diversi dai gemelli, non ci sono invece dubbi alcuni: ne uccise direttamente diversi sparando
loro o attraverso iniezioni di fenolo. Altri, come una sua collaboratrice, Teresa W., affermano di non aver mai
avuto notizia del fatto che Mengele uccidesse i gemelli che studiava, e secondo la stessa, se una cosa del
genere si fosse verificata per lei sarebbe stato impossibile non venirne a conoscenza.
Oggettivamente, al di là di questo, i gemelli conducevano nel campo una vita migliore rispetto agli altri
prigionieri (e questo proprio in virtù del fatto di essere oggetto di ricerca dello stesso Mengele): infatti
veniva loro concesso di continuare ad indossare gli indumenti originari e di non radersi i capelli. I gemelli
vivevano in un blocco speciale, vicino alle baracche dedicate alle ricerche e separati dagli altri prigionieri,
svolgevano i lavori meno faticosi (portaordini), avevano una razione più nutriente e godevano di una
protezione pressoché totale: se rubavano non venivano uccisi, potevano girare nel lager liberamente e non
potevano essere per nessun motivo malmenati o lesi dai prigionieri e dalle stesse SS.
Questo speciale trattamento permise alla maggior parte dei gemelli di sopravvivere per lunghi periodi e
nella maggior parte dei casi di riuscire a giungere fino alla liberazione dello stesso KZ per opera dei russi
(anche qualche anno dopo il loro ingresso). Infatti, le probabilità di sopravvivenza degli altri prigionieri
rispetto a quelle dei gemelli monozigoti erano pressoché nulle, contando il fatto che molti prigionieri furono
gassati appena scesi dai treni e non trascorsero ad Auschwitz neppure una notte.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
La fuga in Sud America
Nell'immediato dopoguerra iniziò la ricerca dei criminali di guerra nazisti, tra cui ovviamente anche
Mengele. Alla sua ricerca si dedicarono in particolar modo i servizi segreti israeliani Mossad, ma anche il
governo americano e quello tedesco. Per agevolare la sua cattura venne anche fissata una taglia di circa
3.000.000 di dollari per chi lo avesse catturato e consegnato alle autorità.
Le modalità della fuga furono simili a quelle di Adolf Eichmann. Gli furono infatti forniti, con modalità non
chiarite dai responsabili (gli amministratori del Comune di Termeno), dei documenti falsi che asserivano si
chiamasse Helmut Gregor, nato nel comune di Termeno in Alto Adige.
Nel 1949 si imbarcò con una nave dal porto di Genova diretto nell'America meridionale, arrivando poi in
Paraguay, dove rimase diversi anni, finché, allertato dall'avvocato di famiglia, fuggì prima in Argentina a
Buenos Aires e poco tempo dopo, nel 1955, in Brasile, dove rimase per circa 25 anni fino alla sua morte.
Durante questo periodo, visse prima in una casa con due sorelle ungheresi anticomuniste, simpatizzanti per
il regime nazista, e poi con una famiglia del luogo, mantenendo sempre nascosta la sua vera identità.
Una rara foto di Mengele in Brasile, con la figlia della famiglia che lo ospitava
All'arrivo in Sud America, Mengele inizialmente nascose la propria identità adottando diversi nomi falsi;
dopo alcuni anni però decise di tornare ad utilizzare il suo vero nome, convinto ormai di essere scampato
alle ricerche di America, Israele e la stessa Germania (in quel periodo il suo nome risultava anche dall'elenco
telefonico). Tuttavia, dopo alcuni anni, in particolar modo a partire dalla cattura di Eichmann avvenuta fra
l'altro proprio in Sud America, Mengele iniziò ad allarmarsi: ritornò ad adottare un'identità falsa e si spostò
diverse volte (fino a giungere in Brasile) e cambiando diverse abitazioni. Nel periodo in cui visse in Sud
America, lavorò come operaio nella stessa industria della famiglia Mengele, che anche in Sud America aveva
degli stabilimenti.
La morte
Nel 1979 Mengele morì in Brasile, all'età di 68 anni, in conseguenza di un attacco cardiaco, mentre stava
nuotando a pochi metri dalla riva nell'Oceano Atlantico. Fu sepolto nel cimitero di Nostra Signora del
Rosario, a Embu, sotto la falsa identità di Wolfgang Gerhard. Nel 1985 il suo corpo fu scoperto, nel 1992 la
salma fu riesumata e il suo DNA fu confrontato con quello del fratello, che inizialmente si rifiutò di fornirlo,
ma successivamente cambiò idea, su pressioni dello stesso governo tedesco. L'esame accertò, con una
probabilità pari al 99,69%, che la persona lì sepolta era proprio Josef Mengele.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
IL GENOMA
La genetica classica definisce genoma (o patrimonio genetico) il corredo di cromosomi contenuti in ogni
cellula di un organismo.
In biologia molecolare, il genoma è definito come l'informazione ereditabile di un organismo (contenuta
nel DNA o, per alcuni virus, nell'RNA). Più nel dettaglio, il genoma include sia i geni che il DNA non
codificante.
Il termine fu coniato nel 1920 da Hans Winkler (professore di botanica ad Amburgo). Secondo l'Oxford
English Dictionary il nome potrebbe essere un portmanteau delle parole gene e cromosoma, ma non se ne
vede la necessità: esistono molte altre parole terminanti in -oma e del tutto scorrelate da cromosoma (come
bioma o rizoma).
Il patrimonio genetico strutturale è scritto nella catena del DNA con un codice detto codice genetico, che
mette in corrispondenza le quattro basi azotate che entrano nella composizione del DNA stesso con gli
amminoacidi. In particolare, ciascuna parola del codice è costituita da una serie di tre basi detta codone o
tripletta. Ognuna di esse indica in modo univoco un solo amminoacido.
Nella biologia evolutiva dello sviluppo con il termine genoma si intende l'assetto completo di tutto il
materiale genetico contenuto in una cellula, pertanto tale disciplina estende il termine genoma anche
all'assetto (= il modo in cui) il materiale genetico viene arrangiato nella cellula; per esempio il termine
genoma viene impiegato anche in riferimento alla frazione ereditabile della regolazione genica quali operoni
e promotori ed al modo in cui la cellula dispone i propri cromosomi all'interno del proprio nucleo.
Nella biologia molecolare con il termine genoma si intende più frequentemente tutto il materiale genetico
ereditabile contenuto in una cellula od in una struttura virale: pertanto tale disciplina tende a trascurare
l'eventuale materiale genetico non ereditabile; per esempio, durante il ciclo virale alcune porzioni del
genoma virale possono non essere trasferite alla generazione successiva di virus: a questa generazione
successiva di virus verrà assegnata una dimensione del genoma differente.
La dimensione del genoma viene calcolata in base al C-value (valore costante): tale parametro misura la
quantità costante di materiale genetico contenuto nella cellula aploide di tutti gli individui di una data specie
animale.
La dimensione del genoma umano è pari a 3.50 C-value(pg).
Genoma umano
Altri metodi di misurazione del genoma consistono nel conteggio del numero delle paia di basi (basi
azotate) di cui è composto il genoma della cellula aploide di una data specie animale: tali metodi trovano
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MARTINA DECAROLI
MADRE
difficile applicazioni al di fuori della microbiologia e della virologia, viste le grandi dimensioni del genoma
di molti organismi.
Il genoma umano può essere considerato come un libretto di istruzioni contenente l'informazione
necessaria perché sia costituito l'intero organismo; esso ha le seguenti caratteristiche:
- ha più di un miliardo di parole;
- è composto da 5000 volumi, ognuno lungo 300 pagine;
- è contenuto nel nucleo di una cellula (delle dimensioni di una capocchia di spillo);
- è contenuto in quasi tutte le cellule dell'organismo.
Il genoma umano è composto da un numero di geni non del tutto sicuro. Secondo i dati raccolti dal
Progetto Genoma Umano, tale numero sarebbe di poco superiore ai 30.000, mentre il sequenziamento di
Celera Genomics ne ha predetti circa 37.000. Stime successive hanno abbassato la stima a 25.000 geni.
Tali geni si trovano su 23 coppie di cromosomi presenti nel nucleo di ciascuna cellula.
Ogni gene è formato da un tratto di molecola di DNA, e contiene una sequenza di coppie di basi azotate.
Diversi geni si trovano sui cromosomi e sono osservabili nelle cellule al momento della divisione (mitosi).
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MADRE
GAIA, LA MADRE TERRA
NELLE VISCERE DI GAIA
L'interno della Terra
Cinque miliardi di anni fa la Terra si formò a partire da una agglomerazione e dal bombardamento di
meteroiti e comete. L'immensa quantità di energia rilasciata sotto forma di calore a causa del
"bombardamento" sciolse l'intero pianeta, che è tuttora in fase di raffreddamento. I materiali più densi delle
meteoriti, come il ferro (Fe), si concentrarono nel nucleo della terra, mentre, al contrario, i composti più
leggeri, quali i silicati (Si), i composti di Ossigeno e l'acqua delle comete, si stabilizzarono presso la
superficie.
Se vogliamo prescindere da bizzarre teorie alternative come quella della "Terra cava", che ha conosciuto un
notevole successo nel recente passato, semplificando la reale complessità della struttura interna della Terra,
possiamo pensarla suddivisa essenzialmente in 4 gusci concentrici. Partendo dal centro della Terra troviamo
(le profondità sono espresse in Km):
5150-6378 Nucleo interno
2900-5150 Nucleo esterno
650-2900 Mantello inferiore
400-650 Strato di transizione (non indicato in figura)
40-400 Mantello superiore
0-40 Crosta
Alcuni testi collocano il limite nucleo esterno - nucleo interno a 5200 km di profondità; altri indicano il limite
a 4980 km; si consideri che il raggio medio terrestre misura 6378 km.
Il nucleo è composto principalmente da ferro e si trova in condizioni di pressione e temperature tali da poter
essere considerato "liquido", con una percentuale di circa il 10% di solfuri (S). Le condizioni di pressione
raggiungono invece nel nucleo interno valori tali da renderlo "solido".
La maggior parte della massa della Terra è costituita dal mantello, che è essenzialmente composto da Ferro
(Fe), magnesio (Mg), alluminio (Al), silice (Si) e composti di silicati di ossigeno (O). Oltre i 1000 gradi
centigradi il mantello risulta solido, ma può deformarsi in modo plastico.
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MARTINA DECAROLI
MADRE
La crosta è molto più sottile degli altri "gusci" (o strati) ed è composta da materiali meno densi e
principalmente da calcio (Ca), e minerali allumo-silicati di sodio (Na). Essendo relativamente fredda essa
risulta fragile e può quindi fratturarsi, dando luogo ai terremoti.
I terremoti comunque avvengono anche a profondità superiori rispetto a quelle crostali, ad esempio nelle
zone di subduzione.
Esploriamo il nucleo della Terra
Come è stato scoperto il nucleo terrestre? Le registrazioni delle onde sismiche generate dai terremoti hanno
dato i primi indizi. Le onde sismiche piegano e si rifrangono alle interfacce dei diversi materiali, come ad
esempio un raggio di luce che attraversa un prisma.
In ogni corpo solido possono propagarsi due tipi di onde indipendenti tra loro, onde longitudinali e onde
trasversali.
Le prime si propagano per compressioni e dilatazioni successive e provocano variazioni di volume. Le
particelle che compongono il corpo vibrano nella direzione della propagazione. Nelle onde trasversali
invece le vibrazioni delle particelle hanno luogo in piani perpendicolari alla direzione di propagazione. Le
onde longitudinali sono più veloci e, pur partendo dall’ipocentro del sisma insieme a quelle trasversali,
arrivano per prime agli strumenti che le rilevano. Sono registrate come onde prime o onde P. Dopo un certo
tempo, proporzionale alla distanza percorsa, arrivano le onde trasversali, dette onde seconde o onde S.
Inoltre i due tipi principali di onde hanno comportamenti differenziati a seconda del materiale attraversato.
Infatti le onde P viaggiano e si propagano sia attraverso materiali solidi che fluidi, Le onde S (che sono onde
caratterizzate da un movimento di taglio) non viaggiano nei fluidi come acqua o aria, che non possono
supportare il movimento "side-to-side" delle particelle, caratteristico delle onde S.
I sismologi hanno notato che le registrazioni di un terremoto, effettuate in tutti i luoghi intorno alla
superficie della terra, cambiavano radicalmente da una certa distanza in poi, in particolare a circa 103
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MARTINA DECAROLI
MADRE
gradi di distanza (in sismologia usa esprimere le distanze in termini angolari come angolo tra ricevitore,
centro della terra e sorgente del terremoto, 1 grado equivale a circa 111 km). Dopo 103 gradi l'ampiezza delle
onde P descresce in maniera molto netta e le prime registrazioni di onde P dirette ricompaiono a distanze
superiori ai 144 gradi. L'area tra 103 e 144 gradi rappresenta un zona d'ombra (shadow zone) per l'arrivo di
onde P dirette. Non si hanno però ancora arrivi di onde S.
Perchè vi sia una zona d'ombra deve esistere un gradiente di velocità negativo (cioè la velocità deve
diminuire all'aumentare della profondità: i raggi alla discontinuità mantello-nucleo "curvano" verso il basso
allontanandosi dalla verticale; si pensi alla legge di Snell ed alle leggi che, ad es., governano l'ottica), e
questo avviene nel passaggio mantello-nucleo esterno. Inoltre, la scomparsa delle S giustifica il fatto che
il nucleo esterno sia fluido. In base a questa osservazioni, la terra deve dunque avere un nucleo esterno
fluido.
Possiamo fare una rozza stima della dimensione del nucleo terrestre semplicemente assumendo che l'ultima
fase delle onde S, prima della zona d'ombra che parte a 103 gradi, viaggi in linea retta.
Per effettuare questa stima abbiamo bisogno della trigonometria, e più precisamente dell'applicazione della
funzione coseno.
Come sappiamo, dato un triangolo rettangolo, il coseno di uno dei due angoli interni adiacenti all'ipotenusa
è definito come il rapporto tra le lunghezze del cateto adiacente all'angolo e dell'ipotenusa.
In questo caso
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MARTINA DECAROLI
MADRE
Sapendo che il raggio della terra è circa 6350 km, abbiamo un triangolo rettangolo ove il coseno della metà
di 103 gradi (in figura è riportato 105 gradi, ma più precisamente la zona d'ombra parte, come s'è detto, da
103 gradi) è uguale al raggio del nucleo, che indicheremo con r, diviso per il raggio della Terra:
Ora, per un angolo di 103/2 gradi, ovvero 51,5 gradi, che arrotondiamo a 52, il coseno è pari
a 0.6156614753256583, come possiamo facilmente calcolare.
Arrotondiamo a 0,61 e calcoliamo:
0,61 = r / 6350
ovvero:
r = 6350 x 0,61
cioè:
r = 3873,5
La stima che viene fuori da questo calcolo, che come abbiamo detto è alquanto rozza, è approssimata al 10%
rispetto al valore di circa 3470 km, che è la dimensione effettiva del raggio del nucleo.
Un'informazione indipendente sul fatto che il nucleo esterno sia fuso e liquido ci viene dal fatto che la terra
ha un campo magnetico: esso, come sappiamo, è di basilare importanza, perché protegge la vita dall’azione
diretta della radiazione solare, che in sua assenza la annienterebbe del tutto.
Una bussola si allinea con il campo magnetico in qualunque punto della terra, ma ad esempio Marte e Luna
non hanno campo magnetico. La Terra non può essere però considerata come un grande magnete
permanente, perchè i minerali perdono il loro magnetismo a temperature superiori a 500° C (temperature
che abbiamo già a poche decine di km di profondità all'interno della terra).
Il solo modo per avere un campo magnetico è mediante circolazione di una corrente elettrica. è proprio la
circolazione e la convezione di ferro fuso ed elettricamente conduttivo nel nucleo esterno a produrre il
campo magnetico. Inoltre tale convezione deve essere relativamente rapida (molto più rapida di quanto
potrebbe esserlo nel mantello plastico) e l'unico luogo dove si ha tale condizione è il nucleo esterno fluido.
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MADRE
Il campo magnetico deriva quindi da movimenti instabili di fluidi nel nucleo e cambia direzione ad
intervalli irregolari. Nella recente storia geologica del pianeta ci sono state inversioni del campo magnetico
all'incirca ogni 20.000 anni. Qualsiasi tipo di "strato" geologico (ad es. flussi di lava o stratificazioni di
argille) fissa e porta in sè le direzioni del campo magnetico al momento della deposizione. I geofisici possono
perciò misurare i cambiamenti di tali direzioni ed ottenere una magnetostratigrafia del deposito.
Nelle dorsali oceaniche ogni settore del fondale è stato creato in tempi differenti e registra la direzione del
campo al tempo della sua deposizione. Via via che ci si allontana dal centro della dorsale troviamo settori
più antichi e possiamo osservare tutte le volte che si è verificata un'inversione del campo magnetico, come se
stessimo analizzando una registrazione su un nastro magnetico.
Di recente tuttavia (la notizia è stata divulgata il 4/3/2011) la prestigiosa Università di Cambridge ha
scoperto che, sebbene il nucleo terrestre giri più velocemente del resto del Pianeta, la sua velocità era finora
stata sovrastimata. Quantificando questo rallentamento, è stato misurato un errore rispetto alla precedente
misura di circa un grado di milione per anno.
I risultati sono stati pubblicati su Nature Geoscience. A svelare l’errore è stata l’analisi delle onde sismiche
che si propagano verso il centro del Pianeta e il meccanismo con cui gli strati esterni si solidificano a contatto
con lo strato più interno del globo terrestre: 5200 chilometri al di sotto dei nostri piedi, hanno appurato i
ricercatori, si nota una differenza nel processo di raffreddamento degli strati caldi e magmatici durante la
rotazione est-ovest. “Si tratta della prima osservazione della velocità reale del nucleo”, hanno commentato
i ricercatori, “che ci darà importanti informazioni su come si sviluppa il campo geomagnetico della Terra”.
Esplorando il Mantello Terrestre
La convezione ed il rilascio di calore dal nucleo terrestre guidano ulteriori moti convettivi nel mantello. La
convezione nel mantello è il motore del movimento delle placche, dell'apertura dei fondali e del moto dei
continenti. Utilizzando le fasi sismiche relative ai terremoti è possibile effettuare delle ricostruzioni
tomografiche dell'interno della terra, in modo simile a quanto avviene nella tomografia medica (ma con
difficoltà maggiori in quanto non conosciamo, ad esempio, a priori la posizione dell'emettitore, cioè la
localizzazione precisa dell'ipocentro del terremoto).
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MARTINA DECAROLI
MADRE
La parte di mantello al di sotto della crosta, circa 50-100 km al di sotto, è sensibilmente soffice e plastica, e
viene chiamata astenosfera. Il mantello soprastante e la crosta sono freddi abbastanza per essere considerati
elastici e sono detti litosfera.
Un carico pesante sulla crosta, come una calotta polare, grandi laghi glaciali o catene di montagne, possono
flettere la litosfera finanche ai livelli astenosferici ove il materiale può fluire lateralmente.
Quando per una qualsiasi causa il peso diminuirà (erosione, fine della glaciazione, etc.) la litosfera tenderà a
riprendere la forma originale, il processo può durare anche migliaia di anni. Il nome di tale precesso, qui
molto sommariamente descritto, è equilibrio isostatico.
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MADRE
LA RADIOATTIVITÀ: NUCLEI PROGENITORI E NUCLEI FIGLI
Nucleo atomico
I nuclei sono costituiti da protoni e neutroni, detti nell'insieme nucleoni. Sono particelle che si
assomigliano molto, ma mentre il neutrone è elettricamente neutro (q = 0), il protone ha una carica positiva
(q+ = +1).
Il numero di protoni presenti in un nucleo è detto numero atomico (Z); quindi la carica elettrica nucleare è
pari a Z volte la carica di un protone. Normalmente gli atomi sono neutri e questo si deve al pari numero, Z
appunto, di protoni ed elettroni (q- = -1) che li compongono.
Disegno schematico di un atomo
Tutti gli atomi che hanno uguale Z, anche se differiscono per il numero di neutroni, danno origine allo stesso
elemento chimico, hanno in pratica le medesime proprietà e occupano lo stesso posto nella tavola periodica
degli elementi. Per questo motivo atomi con lo stesso numero atomico Z sono detti isòtopi (= stesso posto).
Nel nucleo è concentrata quasi tutta la massa dell'atomo. Infatti, neutroni (m = 1.675x10-27Kg) e protoni (m =
1.673x10-27 Kg) hanno masse molto più grandi (circa 1800 volte) di quella degli elettroni (m = 9.109x10-31 Kg).
Per valutare la massa di un nucleo è fondamentale conoscere il numero N di neutroni che vi compaiono. Se
si trascura la piccolissima differenza esistente tra le masse del protone e del neutrone, si può concludere che
la massa di un nucleo vale Z + N volte la massa del protone.
La quantità Z + N s'indica con la lettera A ed è chiamata numero di massa. Un nucleo specifico, con il suo
numero atomico e il suo numero di massa determinati, si dice nuclide.
Come termine di paragone per le masse atomiche (e nucleari) si è scelto un particolare isotopo del carbonio,
molto abbondante in natura: il carbonio-12. Nel suo nucleo sono presenti 6 protoni e 6 neutroni; il suo
numero di massa A vale dunque 12. L'unità di misura delle masse atomiche (uma) è definita come la
dodicesima parte della massa del carbonio-12 (1 uma = 1.6605 x 10-27 Kg).
Non sempre però la massa di un atomo è pari ad un numero intero di uma; spesso è un numero decimale. La
ragione di ciò risiede nell'esistenza, per uno stesso elemento chimico, d'isotopi di peso diverso: essi
contribuiscono alla massa dell'elemento in modo più o meno accentuato secondo la loro abbondanza in
natura.
Stabilità nucleare
La valutazione della massa degli atomi, e quindi dei nuclei, ha una grande importanza nella fisica nucleare.
La famosa formula E = mc2, scritta per la prima volta da Albert Einstein nel 1905, stabilisce che esiste
un'equivalenza tra massa ed energia, come se fossero due forme sotto cui si presenta la stessa entità fisica.
L'interpretazione della formula è semplice: essa permette di calcolare a quanta energia (E) corrisponde una
certa massa (m); basta moltiplicare la massa per la velocità della luce (c) elevata al quadrato.
Segue che la cessione di energia si accompagna sempre a perdita di massa. La perdita di massa
accompagna indistintamente tutte le perdite di energia, ma normalmente è troppo piccola per essere
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rilevabile. Se però si considera un nucleo atomico, ci si accorge che l'effetto è assolutamente non trascurabile:
un centesimo della massa dei nucleoni si converte in energia di legame.
Tabella riassuntiva delle caratteristiche delle tre particelle fondamentali costituenti un atomo:
Carica
Carica in
Massa
Unitaria
Coulomb (C)
relativa
Elettrone
-1
-1.602 x 1019
1
9.10 x 10-31
0.000549
0,511
Protone
+1
+1.602 x 1019
1836
1.673 x 10-27
1.007277
938,26
Neutrone
0
0
1840
1.675 x 10-27
1.008665
939,55
Particella
Massa in Kg
Massa in
amu
E (MeV)
Se si potessero "pesare", prima un nucleo atomico e successivamente i suoi componenti separati, ci si
troverebbe di fronte ad un fatto sorprendente: la massa del nucleo è leggermente inferiore alla somma delle
masse dei protoni e dei neutroni che lo costituiscono; si ha in pratica un difetto di massa. Si tratta di una
delle conseguenze della relazione d'equivalenza tra massa ed energia intuita da Einstein.
Quando due o più nucleoni s'uniscono a formare un nucleo, parte della loro massa è convertita in energia
di legame nucleare. Il valore positivo dell'energia di legame (E) indica che il nucleo possiede meno energia
dell'insieme dei nucleoni che lo costituiscono; quanto maggiore è l'energia di legame liberata, tanto minore è
l'energia del nuclide (nuclide più stabile). La straordinaria capacità dei nuclei atomici di contenere, stipati
insieme in volume estremamente piccolo, enti elettricamente carichi quali i protoni, chiarisce perché la forza
che tiene insieme i nucleoni sia stata denominata interazione forte (detta anche "forza forte"). Nonostante
le immense forze repulsive che si esercitano tra tali particelle, con carica dello stesso segno, la maggior parte
dei nuclei sopravvive per un tempo indefinito.
L'energia di legame è quella che si deve fornire ad un nucleo per riuscire a separare uno dall'altro gli Z
protoni e gli N neutroni che lo compongono.
E' allora evidente che un nucleo caratterizzato da una grande energia di legame risulta particolarmente
stabile. Maggiore è l'energia di legame per nucleone, più stabile è il nucleo.
Variazione dell'energia di legame nucleare a nucleone: il valore massimo si ha per Fe e Ni, i cui nuclei
contengono nucleoni legati con la massima intensità (energia nucleare minima).
La stabilità spiega anche l'abbondanza in natura di certi isotopi: alcuni sono privilegiati rispetto ad altri
perché hanno un'energia di legame maggiore.
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Le osservazioni effettuate hanno anche permesso di trarre conclusioni importanti sul legame esistente tra il
numero di nucleoni presenti in un nucleo e la sua stabilità:
1. Per piccoli valori di Z e di N le configurazioni nucleari stabili corrispondono a un numero uguale di
protoni e di neutroni (Z = N).
2. I Nuclei più stabili tendono ad avere un numero pari di protoni e di neutroni; è stata quest'osservazione a
suggerire che le forze nucleari sono forze che si esercitano tra coppie di corpi.
3. Al crescere di Z il numero di neutroni necessari a garantire la stabilità aumenta, superando di gran
lunga il numero di protoni presenti nello stesso atomo. Essendo i neutroni privi di carica, essi
contribuiscono alla forza forte, ma non aggiungono nulla alla repulsione elettrostatica. In un nucleo di
numero atomico elevato occorrono perciò molti neutroni per avere ragione della repulsione tra i protoni.
L'andamento appena descritto è reso molto bene dalla cosiddetta curva di stabilità dei nuclei, che si ottiene
riportando tutti i nuclei stabili esistenti in natura su un piano cartesiano i cui assi rappresentano il numero di
protoni Z (ascisse) e il numero di neutroni N (ordinate):
Curva di stabilità dei nuclei: la stabilità nucleare dipende dal numero atomico e dal numero di massa.
Più un nucleo è lontano dalla curva, vale a dire più la coppia Z-N si discosta dai valori ottimali, maggiore
è l'instabilità che lo contraddistingue. Il rapporto tra numero di protoni e numero di neutroni che si
trovano in un nucleo non è dunque casuale.
Reazioni nucleari
In certi nuclei, il rapporto A/Z è tale che le repulsioni tra i protoni hanno il sopravvento, e ciò ne determina
la disintegrazione tramite espulsione di frammenti degli stessi.
La radioattività è frutto della disintegrazione nucleare, cioè della demolizione parziale dei nuclei, che
tendono a portarsi verso configurazioni sempre più stabili. Il cambiamento della composizione di un
nucleo avviene tramite un processo di reazione nucleare. In base alla formula di Einstein, se si conosce con
precisione la massa di un nucleo atomico e dei suoi costituenti, si può valutare l'energia che esso emette nel
corso di reazioni nucleari.
Ciò che ne deriva è spesso un nuclide, detto nucleo figlio, più leggero e chimicamente differente da quello
di partenza; in questo caso si parla di trasmutazione nucleare. L'identità del nucleo figlio dipende dalla
variazione del numero atomico e del numero di massa subita dal nucleo progenitore all'atto dell'emissione
radioattiva.
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Non è detto che un nucleo radioattivo decada direttamente in un nucleo stabile; può accadere che esso
decada in un nucleo instabile, a sua volta soggetto a decadimento radioattivo. Il processo in cascata continua
finchè non si giunge a un nucleo stabile. Si parla allora di serie radioattiva.
Vediamo un esempio di catena di decadimento a partire da uno degli svariati isotopi instabili (o radioattivi)
dello Xeno, lo Xeno 140 e cioè: 54Xe140. Dallo Xeno 140 si hanno successivamente:
Xeno (54Xe140)
Cesio (55Cs140)
Bario (56Ba140)
Lantanio (57La140)
Cerio (58Ce140).
Quest'ultimo risulta finalmente essere stabile.
Ad ogni trasmutazione si accompagna l'emissione di radiazione beta (si veda paragrafo seguente) di modo
che lo schema del decadimento è quello di seguito riportato:
Le radiazioni nucleari sono dunque emesse dai nuclei atomici dei materiali radioattivi al momento della loro
disintegrazione. La capacità di emissione non dipende da variabili macroscopiche come temperatura e
pressione, presenza di campi elettrici e magnetici, eccetera.
E' stato poi scoperto che oltre agli isotopi naturalmente instabili o radioattivi, è possibile provocare
artificialmente la radioattività bombardando gli atomi di certi elementi con delle particelle subatomiche
(neutroni, protoni, etc.).
L'attività del campione coincide col numero di disintegrazioni al secondo (1 disintegrazione/secondo = 1
bequerel, Bq).
L'equazione relativa al decadimento di un isotopo:
Nucleo progenitore -> nucleo figlio + radiazione
riproduce esattamente quella relativa alle relazioni elementari unimolecolari. Questo tipo di disintegrazione
configura un processo indipendente da fattori esterni (es. temperatura). Come nella reazione chimica
unimolecolare, l'equazione cinetica della disintegrazione nucleare è del primo ordine:
Attività = tasso di disintegrazione = k x N
dove k è detta costante di disintegrazione e N è il numero dei nuclei radioattivi.
La legge dice che quanto più numerosi sono i nuclei radioattivi presenti nel campione, tanto maggiore sarà la
velocità di decadimento e, corrispondentemente, tanto più attivo il campione.
Tale legge cinetica del primo ordine implica che la disintegrazione abbia un andamento esponenziale.
La disintegrazione radioattiva si discute generalmente facendo riferimento al tempo di dimezzamento
(semiperiodo, t1/2), cioè il tempo necessario affinché si disintegri la metà del numero iniziale di nuclei. I
valori dei tempi di dimezzamento si estendono ad un campo assai ampio che, a seconda del nucleo
considerato, può oscillare dal millesimo di secondo al miliardo di anni. Il valore di t1/2 è un chiaro indice
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della stabilità del nucleo cui si riferisce: un t1/2 breve è segno d'instabilità e quindi di predisposizione al
decadimento radioattivo; i nuclei stabili invece vantano t1/2 lunghissimi.
Si definisce invece vita media t di un dato elemento o isotopo radioattivo il tempo di esistenza che
mediamente esso ha prima che decada. Il concetto di vita media è strettamente correlato a quello di tempo di
dimezzamento (t1/2).
Radiazioni nucleari
I decadimenti radioattivi sono sempre accompagnati dall'emissione di radiazioni di diversa natura,
corpuscolare e/o elettromagnetica.
Se ne distinguono i seguenti tipi principali:
Radiazioni α = particelle costituite da nuclei di Elio, nHe (2 neutroni e 2 protoni), che hanno una doppia
carica positiva. Tramite decadimento a, il nucleo emettitore si trasforma in un nucleo diverso, con numero
atomico (Z - 2) e numero di massa (A – 4).
Un esempio è il decadimento dell’uranio-238 in torio-234:
Raggi β- = elettroni nucleari, β-. Quando il rapporto neutroni/protoni nel nucleo è troppo elevato, un
neutrone (bn) si trasforma in protone (ep) mediante emissione di una particella avente carica unitaria
negativa e massa nulla, in quanto priva di protoni e neutroni:
In seguito al decadimento β, dunque, si ottiene un nucleo con numero atomico (Z + 1), ma stesso numero di
massa A (transizione isobarica). Insieme all'elettrone viene emesso anche un antineutrino ν- (particella
priva di massa e di carica elettrica che si sposta alla velocità della luce e ha una scarsa capacità d'interagire
con la materia); l'energia totale di disintegrazione si ripartisce in varia misura tra le due particelle.
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Un esempio di decadimento - si ha nel caso della generazione del Tecnezio, 99mTc, scoperto da Carlo Perrier
ed Emilio Segrè (uno degli ex-ragazzi di Via Panisperna) nel 1937: si tratta del radionuclide attualmente più
usato in medicina nucleare e si origina a partire dal Molibdeno, 99Mo, per emissione ß, con tempo di
dimezzamento di 2.3 giorni:
Fotoni (raggi γ, raggi X) = onde elettromagnetiche ad altissima frequenza (superiore a 1020 Hz),
corrispondente a lunghezze d'onda inferiori al picometro (1 pm = 10-12 m).
Esse prendono il nome di raggi gamma quando si producono a seguito di fenomeni di disintegrazione di
nuclei atomici (decadimento gamma); prendono invece il nome di raggi X quando traggono origine dai
processi di rimaneggiamento degli elettroni orbitali (conversione interna). Dal momento che non
posseggono né carica né massa, la loro emissione non comporta un cambiamento delle proprietà chimiche
dell'atomo (transizione isomerica), ma solo la perdita di una determinata quantità di energia sotto forma di
radiazione:
Esempio di transizione isomerica è la già citata emissione gamma del
beta del 99Mo, decade a sua volta a 99Tc, con un'emivita di 6 ore:
Tc che, derivante dal decadimento
99m
Decadimento beta seguito da transizione isomerica
In genere gli elementi pesanti hanno probabilità di emettere radiazioni alfa, mentre quelle beta sono più
caratteristiche degli elementi leggeri.
La radiazione gamma accompagna solitamente una radiazione alfa o una radiazione beta: infatti, dopo
l'emissione alfa o beta, il nucleo è ancora eccitato, perché i suoi protoni e neutroni non hanno ancora
raggiunto la nuova situazione di equilibrio: di conseguenza, il nucleo si libera rapidamente del surplus di
energia attraverso l'emissione di radiazione gamma.
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Per esempio il cobalto-60 si trasforma per disintegrazione beta in nichel-60, che raggiunge il suo stato di
equilibrio emettendo una radiazione gamma:
Decadimento beta accompagnato da emissione di raggi gamma
In alcuni casi lo stato di eccitazione permane per un tempo più o meno lungo dopo l'emissione delle
particelle, come se qualcosa ostacolasse il successivo decadimento gamma. Si forma così un nucleo
metastabile (es. il predetto 99mTc), che è un isomero del nucleo finale derivante dalla disintegrazione e che si
comporta in pratica come un γ-emittente puro.
Altri tipi di radiazioni nucleari sono stati riconosciuti dagli scienziati. Il positrone, β +, per esempio,
possiede la stessa massa dell'elettrone, ma è positivo; esso viene emesso, insieme ad un neutrino ν, in
conseguenza della trasformazione di un protone in neutrone, che si verifica quando il rapporto
neutroni/protoni nel nucleo è troppo basso:
L'emissione di positroni corrisponde dunque ad una transizione isobarica, in seguito alla quale il nuovo
nucleo presenta numero atomico inferiore di un'unità, ma numero di massa uguale a quello del progenitore;
ad esempio:
Una volta perduta la sua energia nell'interazione con la materia, il positrone si combina con un elettrone;
le due particelle allora scompaiono dando origine a due fotoni di 511 KeV ciascuno (l'energia equivalente
appunto alla massa di un elettrone e di un positrone) che si allontanano nella stessa direzione ma in senso
diametralmente opposto. Queste radiazioni, dette di annichilazione, vengono talora sfruttate per esami
scintigrafici (PET) e per altre misurazioni in vivo con l'impiego di speciali apparecchiature basate sulla
tecnica del conteggio in coincidenza.
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Un'altra forma di transizione isobarica che, come la precedente, dà origine a un nuovo nuclide con numero
atomico inferiore di un'unità, è la cosiddetta cattura elettronica. Anch'essa si verifica con nuclei
particolarmente ricchi di protoni: quando un elettrone orbitale attraversa uno di questi nuclei viene
catturato e va a neutralizzare la carica positiva di un protone, che si trasforma così in neutrone;
contemporaneamente viene espulso un neutrino, che porta con sé l'energia perduta nel processo di
trasmutazione. A seguito di quest'evento l'atomo si viene a trovare in stato di eccitazione; per tornare allo
stato basale l'atomo emette perciò una o più radiazioni X caratteristiche. Anche queste, essendo di bassa
energia e non accompagnate da particelle beta, possono essere vantaggiosamente utilizzate per applicazioni
mediche.
Principali modalità di decadimento dei radionuclidi
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MADRE
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http://mstatus.splinder.com/post/14623238/la-gnosi-bogomilocatara-e-la-sua-teoria-sullannientamento-diprocreazione-e-sessualita
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appunti presi in classe
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appunti presi in classe
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