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I misteri della Storia
Franco Ivaldo
NEL DIARIO SEGRETO DEL NOCCHIERO SAVONESE , LEON PANCALDO,TUTTI I RETROSCENA DELLA MORTE DEL GRANDE NAVIGATORE PORTOGHESE, FERDINANDO MAGELLANO . PERCHEʹ IL RESOCONTO DI ANTONIO PIGAFETTA SULLA CIRCUMNAVIGAZIONE DEL GLOBO VENNE CENSURATO ALLA CORTE DI CARLO V ? Lʹodissea di Leon Pancaldo ROMANZO SINOPSI
Ulisse (Odisseus), re di Itaca, dellʹ ʺOdisseaʺ di Omero era un personaggio mitologico, scaturito da ataviche leggende dellʹantica Grecia. Il protagonista di questo romanzo, Leon Pancaldo, invece, è un personaggio storico savonese, un navigatore del XVI secolo, che partecipò, come nocchiero, alla spedizione di Ferdinando Magellano sulla caravella ammiraglia, la ʺTrinidadʺ, alla ricerca di un passaggio che portasse, da Ovest, verso le Isole delle Spezie, verso il Catai ed il Cipango, quelle terre già descritte da Marco Polo, nel Livre des merveilles (ʺIl Milioneʺ). Cristoforo Colombo, aveva creduto di averle raggiunte, senza forse rendersi conto ‐almeno in un primo tempo ‐ di aver scoperto un Nuovo Mondo. Furono quattro le spedizioni del grande genovese. Ma quando, in Europa, vi fu la consapevolezza che la via marittima per lʹEstremo Oriente non era stata scoperta, i potenti della terra si affrettarono a predisporre le spedizioni dei Caboto, di Amerigo Vespucci, di Pinzon, di Alfonso de Hojeda. Gli spagnoli, giunti a Panama, compresero che effettivamente doveva esservi un paso tra i due oceani dato che gli oceani erano due ( la scoperta dellʹOceano Pacifico da parte di Nunez de Balboa). Si comprende, quindi, la decisione di Carlo V di finanziare lʹimpresa di Magellano, volta a scoprire il passaggio tra i due Oceani. Impresa osteggiata dal re del Portogallo, Manuel, il quale non aveva dato ascolto a Ferdinando Magellano, salvo poi pentirsene, quando il grande navigatore si pose al servizio della Spagna, sottoponendo i suoi progetti a Carlo V che li accettò, fornendogli cinque caravelle. Magellano è un personaggio omerico; la sua vita fu una vera e propria odissea. A metà del viaggio, quando lo Stretto, el paso, era stato finalmente scoperto ed una parte dellʹOceano Pacifico attraversata, venne ucciso nellʹisola di Mactan. Si disse dai selvaggi con i quali aveva ingaggiato battaglia. Da quel momento, le rimanenti navi che avevano a bordo i sopravvissuti della spedizione si separarono. Pancaldo rimase a bordo della ʺTrinidadʺ, mentre quelli della ʺVictoriaʺ tentarono, riuscendovi, la circumnavigazione del globo. Giunsero a Siviglia diciotto superstiti, tra i quali il vicentino Antonio Pigafetta ed il savonese Martino de Judicibus. Cosa accadde a Pancaldo ? Venne catturato dai portoghesi, assieme ad altri marinai della seconda nave superstite. Solo dopo tre anni, riuscì a tornare a Savona. Poi accettò un nuovo incarico, da parte di armatori spagnoli di Valencia, per rifare il viaggio che aveva già compiuto sulle navi di Magellano. Il suo viaggio riprese dal porto di Cadice e si concluse in quella che è oggi la città di Buenos Aires. Fu il primo italiano ad arrivarvi. Vedremo in quali circostanze e come terminò la sua vita avventurosa. Nel suo diario segreto, i misteri legati alla morte di Ferdinando Magellano. LʹAUTORE Franco Ivaldo è un giornalista professionista. E' nato a Savona nel 1940. Ha studiato
giornalismo presso l'Università di Urbino (rettore magnifico Carlo Bo), E' stato corrispondente da
Bruxelles di diversi quotidiani politici ed economici (Il Messaggero, Il Secolo XIX, Italia Oggi) e
sportivi (Gazzetta dello Sport, Tuttosport, Il Corriere dello Sport). Redattore diplomatico ed
inviato del quotidiano di via del Tritone ha svolto numerosi servizi nelle capitali estere. S'interessa
di letteratura francese ed inglese. E' l'autore del libro “Inchiesta sul delitto Pertinace” (F.lli Frilli
Editori.Genova)
DEDICA
Allʹamico e collega VITTORIO EMILIANI, storico direttore de “IL MESSAGGERO”, scrittore di chiara fama e scopritore di veri e propri talenti del giornalismo italiano che egli ha tenuto, per così dire, a battesimo, aiutandoli a trovare il loro luminoso percorso nel mondo dellʹinformazione. In ricordo dei bei tempi degli anni ruggenti nella redazione del quotidiano di via del Tritone. LA MORTE DI UN “IMMORTALE”
Ferdinando Magellano era caduto a terra di schianto. Una freccia conficcata nellʹunica gamba sana, quella destra. Lui, azzoppato e ferito in tante battaglie, era stato trafitto ancora una volta. Ma quella freccia indigena gli sarebbe stata fatale. Era avvelenato il dardo, lanciato da un selvaggio, nellʹisola di Mactan, nellʹ arcipelago delle Filippine., affacciato sullʹOceano Pacifico. Era stato lʹammiraglio portoghese al servizio della Spagna di Carlo V, a dargli quel nome, dopo aver scoperto lo Stretto, anchʹesso ribattezzato ʺdi Magellano.ʺ Unʹ impresa che, almeno per lui, si concludeva inopinatamente in quel modo sulla spiaggia di unʹisola sperduta nellʹimmensità oceanica, con le scialuppe e le rimanenti navi paralizzate da unʹinvalicabile barriera corallina e, dunque, non in grado dʹintervenire in modo efficace per soccorrerlo in tempo. La tragedia era scaturita, almeno in apparenza, stando ai resoconti ufficiali, da un ʹ inutile esibizione di forza, contro indigeni avvantaggiati soltanto dal proprio numero e da circostanze fortuite. Il caso , in genere, non fa bene le cose. La punta di una freccia che, per destino, colpisce qualche centimetro più a destra o a sinistra. Il difetto nella corazza di Magellano, lʹorgoglio di non indietreggiare davanti alla sfida di un selvaggio, sottovalutato per il semplice fatto che egli era munito dellʹunica forza temibile a questo mondo, quella della disperazione. Non aveva archibugi, non corazze, solo frecce. Una forza occulta, non palese, la disperazione, che cova come il fuoco sotto le ceneri e non si vede. Inganna i più forti; è lʹultima arma dei deboli, forse la più temibile. Un Magellano, dopo la scoperta del Paso tra i due Oceani, forse pervaso da un irrefrenabile senso di onnipotenza. Un complesso, approfondito solo in tempi moderni ma sempre esistito e non raro nei grandi condottieri; essi erano consapevoli di avere compiuto storiche missioni e, quindi, persuasi che nessuna volontà al mondo potesse fermare le loro decisioni carismatiche. Lʹ indigeno, per giunta, era davvero sullʹultima spiaggia: difendeva disperatamente le capanne di paglia della sua gente, poi date alle fiamme; le difendeva da quegli invasori armati venuti dal mare a dare man forte al sovrano di Cebu, suo nemico. Si trattava di rivalità tribali, ma quale sia stato il ruolo dei diversi capi indigeni rimane un mistero. Tutta la vicenda che costò la vita allʹammiraglio portoghese è punteggiata da enigmi che sono rimasti tali nel corso dei secoli. Su quella remota isola di Mactan, punto irrilevante nella distesa azzurra di quellʹoceano in perenne bonaccia (salvo in alcuni periodi, quando la furia tropicale rende assai poco pacifiche quelle acque solitamente chete) si compì il destino del navigatore. I suoi uomini, impotenti, lʹ avevano visto cadere di schianto. Al suo fianco vi era il criado, lʹuomo di fiducia, Antonio Pigafetta, anchʹegli raggiunto da una freccia non munita di veleno letale, ma pur sempre in grado di procurargli una vistosa ferita. Ritirata generale sotto un nugolo di frecce e di lance. Rincorsa alle scialuppe e poi dritti sulle restanti navi. Magellano muore attorniato da indigeni urlanti che si accaniscono contro il suo corpo facendone scempio, con il volto affondato nellʹacqua, dove si era abbattuto come una statua di marmo. Irrigidito e con unʹespressione di orrore e di incredulità sul viso. Sullʹammiraglia Trinidad, un uomo cui era stato imposto di rimanere a bordo, per ogni evenienza , scrutava con una certa ansia quel gruppo di isole verso le quali si era avviata la ʺspedizione punitivaʺ dellʹammiraglio e dei suoi uomini. Era il nocchiero della caravella, Leon Pancaldo, sbigottito e sgomento al veder sopraggiungere il resto dellʹequipaggio, senza il suo comandante e decimato nei ranghi. Lui ed Antonio Pigafetta avevano avuto sin dallʹinizio un triste presentimento: quella apparentemente facile sortita di marinai in armi, comunque improvvisata e sotto lʹ incalzare di dubbie circostanze, colorata dallʹorgoglio e dalla superbia del “condottiero invincibile”, sarebbe potuta finire male. Così, infatti, avvenne. Nelle radiose giornate dellʹintrepido esploratore al sole del trionfo per gli obiettivi ormai raggiunti si era sostituita, come durante una giornata estiva turbata da un improvviso, violento, temporale, lʹombra nera della sconfitta e della morte. ʺNon abbiamo neppure potuto recuperare il suo corpo!ʺ ‐ gli gridò da una scialuppa Pigafetta in lacrime, prima di risalire a bordo. ʺAbbiamo perso un padre, il nostro buon pastore, la nostra guida!ʺ Pigafetta appariva inconsolabile. Quasi dimentico della propria ferita. Quasi un orfano. Pancaldo era , come i compagni, lʹimmagine del dolore e del rimpianto. Ma prese la cosa con maggiore fermezza, dando prova di carattere deciso. Tutti, però, sentivano che la missione grandiosa era giunta ad una svolta. Non certo favorevole. Cassandre inascoltate, fino allʹultimo, Pigafetta e Pancaldo avevano esortato lʹammiraglio portoghese, nelle cui mani tutti avevano riposto il loro destino, a rinunciare a dare una lezione al ribelle Silapulapu. In fondo un indigeno di pochissimo conto, nel quadro generale di unʹavventura di tale rilevanza: la circumnavigazione del globo, la scoperta della via dʹOccidente per raggiungere le orientali Isole delle spezie. Un avvenimento storico. Perché perdere tempo e rischiare una battaglia con un qualsiasi indigeno ? Se lo erano chiesto anche gli uomini più vicini allʹammiraglio, come Duarte Barbosa e Joao Serrao. Ma perché mai rischiare il tutto per tutto ? ʺEʹ un impresa incerta, comandante ‐ gli avevano detto ‐ questi selvaggi sono imprevedibili e messi con le spalle al muro possono essere pericolosi.ʺ Ma con Magellano insistere poteva persino rivelarsi controproducente, testardo comʹera, se il tiranno dei mari la pensava diversamente. Il raja di Cebu, Carlo Humaubon, con tutti i suoi guerrieri si era convertito al Cristianesimo. Più per la forma o con sottile perfidia anchʹegli aveva consigliato a Magellano di rinunciare allo scontro. In realtà, poteva esservi una trama occulta dietro gli avvenimenti che solo più tardi prenderà forma, alimentando i sospetti di una vera e propria congiura dallʹalto, di un compromesso dei potenti di questo mondo che difendono poteri oligarchici, di casta, di sangue blu , di colossali privilegi. Carlo V aveva fatto con Magellano un patto che riteneva troppo oneroso: un quinto delle terre scoperte, titoli di governatori per i discendenti. E che altro ? Ma, in fondo, non era tenuto a rispettarlo perché tutti i rischi li aveva presi lʹammiraglio portoghese. Eppoi, Carlo non si fidava di lui. Per questo lʹaveva attorniato di capitani spagnoli, vere e proprie spie, che si ribellarono, a San Julian, in Patagonia, e furono giustiziati, senza alcuna pietà. Carlo V seppe dellʹesecuzione dei suoi capitani, nobili appartenenti alle casate spagnole più in vista, dagli ammutinati di una caravella che, dopo la scoperta dello Stretto, avevano invertito la rotta ed erano tornati a Siviglia. Avevano potuto così dare la loro versione dei fatti, in assenza del più diretto interessato, Magellano, dipinto in modo naturalmente con i colori più cupi e torvi dinnanzi ad un tribunale dʹinchiesta spagnolo. Carlo era andato su tutte le furie. Come? Quellʹuomo aveva osato far giustiziare, e per giunta, secondo quanto riferito, in modo sommario, i suoi capitani ? Lʹavrebbe pagata di sicuro quel presuntuoso arrogante. Restava solo da decidere in che modo fargli scontare la sua superbia, e lʹinammissibile e crudele misfatto di essersi sbarazzato, con inconcepibile audacia, dei suoi nobili capitani ed hidalgos. Coloro i quali il re in persona aveva deciso dovessero essere, in qualche sorta, i suoi pari grado. Anche unʹaltra persona ce lʹaveva a morte con Magellano: il re portoghese Manuel. Precedentemente, non aveva accordato al suo suddito e soldato, i fondi richiesti per la spedizione. Poi se ne era pentito, dando ordine alle sue navi di aprire la caccia alle cinque caravelle spagnole partite da San Lucar de Barrameda. Era unʹepoca in cui i contorni dellʹ Europa si ridisegnavano frequentemente, le alleanze si concludevano e si disfacevano, i rapporti dinastici sʹincrociavano a parentele e ad eredità di colossali fortune da difendere con qualsiasi mezzo ed a discapito di chiunque si fosse opposto ai progetti segreti che sʹintessevano nelle rispettive corti. Manuel del Portogallo aveva finito per sposare in terze nozze, la figlia di Carlo, Leonora. I rapporti tra i due parenti erano mutati in meglio, cancellati i vecchi banali dissapori; così tra le due maggiori potenze marittime del tempo regnava di nuovo la concordia. Chi ne farà le spese ? . In questo contesto storico‐politico di calamitosi rivolgimenti , Magellano, lʹidealista, il navigatore visionario , fanaticamente cristiano, austero ed intransigente, era una semplice, insignificante pedina sullo scacchiere mondiale. Una partita a scacchi, tra re e regine (più tardi Elisabetta dʹInghilterra) ma più grande di lui. Non consapevole del suo trascurabile ruolo di esploratore di nuovi mondi, di fronte a tante teste coronate. Si sentì sul serio in dovere di dare una lezione al suo ʺnemicoʺ Silapulapu, che non solo continuava ad adorare idoli pagani, ma non riconosceva né la sovranità di Humaubon , né quella dei conquistadores,né ‐ peggio che mai ‐ quella della Chiesa Cattolica? Sembra un poʹ debole, come ipotesi, riferita per giunta ad un uomo stremato da un lunghissimo viaggio non ancora completato, come sfiniti dovevano essere i suoi marinai, ma è quanto gli archivi di Stato spagnoli e portoghesi hanno riservato ai posteri. Prendiamo, allora, tutte le ipotesi per quello che sono. Da questo brodo di coltura, comunque, secondo la versione ufficiale, nacque lo strano e repentino attacco mal preparato e ancora più mal condotto; da qui il disastro: tutti quei marinai, che avevano già tollerato sulla loro pelle mille privazioni, fame, sete, sotto un sole implacabile, senza trovare unʹ isola per suprema mala sorte in un Oceano che di isole è ricco come un cielo di stelle. Così la tragedia era, ma solo parzialmente, compiuta. Lui scomparso, eccoli tutti lì, marinai e sotto comandanti, privi di una guida di una luce in piene tenebre, di un capo carismatico. Passato il triste giorno del dolore, i comandanti, anziché levare le ancore, ebbero la malaugurata idea di fidarsi ancora dellʹinfido sovrano di Cebu, quel Humaubon che aveva aggiunto alla sua incerta genealogia una quasi parentela con ʺCarloʺ, si era nominato come il suo presunto modello che regnava sulla Spagna ed il cui impero non vedeva mai tramontare il sole. Almeno così aveva detto, astutamente, Humaubon a Magellano entusiasta della conversione di questo ʺsovranoʺ indigeno. Un invito ad una cena fatale. Una trappola tesa a spagnoli ormai non più “graditi ospiti”. Vengono uccisi proditoriamente Duarte Barbosa, cognato di Magellano e Joao Serrao, fedelissimo dellʹammiraglio portoghese, assieme ad una quindicina di compagni. Stranamente, nessun portoghese si salverà. Erano partiti in venti assieme al loro ammiraglio al servizio della Spagna. Tutti considerati traditori e rinnegati da Lisbona. Perché questo ribaltamento di scena da parte del raja di Cebu? ʺ Carloʺ Humaubon era stato testimone della morte di Magellano, a bordo delle sue piroghe. Non era intervenuto a soccorrere i marinai ed il loro ammiraglio. Dunque, questi stranieri venuti dal mare non erano invincibili. Aveva così riflettuto, con un certo sorpreso compiacimento. Non facevano più paura. Neppure con le loro corazze argentee e scintillanti. Non erano quegli dei immortali, dunque, non erano creature di un altro mondo. Anchʹessi potevano morire! Eppoi, un altro motivo, riferito in una relazione dal savonese Martino de Judicibus, testimone oculare: ʺFeminarum stupra causam perturbationis dedisse arbitrantumʺ. Eppure, Magellano aveva posto il divieto assoluto di portare donne indigene a bordo (ʺvestite solo dei loro capelliʺ, come riferirà pudicamente lo scrupoloso Pigafetta). Aveva cercato, lʹammiraglio, di impedire le violenze sulle donne degli ospiti indigeni, ma invano. Le molestie si erano ripetute a Cebu? Qualche favorita di Humaubon era stata molestata dai naviganti spagnoli ? Possibile. Comunque, per una serie di motivi , il re dellʹisola di Cebu tradì, compiendo una strage dei convitati. Non si salvò nessuno dei commensali. In tutto, una ventina. Ma anche in questo caso, diciamocelo sottovoce, è credibile che ufficiali e marinai, a pochi giorni dallʹuccisione del loro comandante supremo, di cui non erano neppure riusciti a recuperare il corpo, dilaniato dai selvaggi , accettino – è sempre il racconto ufficiale – lʹinvito a cena di un raja indigeno, il cui atteggiamento infido poteva essere facilmente intuito a chilometri di distanza; accettino, come se niente fosse accaduto, di recarsi soli soletti su unʹisola, attorniati da migliaia di indios sorridenti ed apparentemente ospitali per partecipare ad un banchetto in loro onore, che ovviamente si sarebbe trasformato nella loro ultima cena? No, stentiamo a crederlo. Ma quella ventina di uomini – il più stretto entourage di Magellano ‐ venne uccisa. Questo è certo. Per gli altri, una sola prospettiva: la fuga precipitosa. Ormai, via da Cebu! Eʹ la parola dʹordine che riecheggia sui ponti delle caravelle superstiti tra i marinai che per fortuna erano rimasti a bordo. Perché così era stato loro ordinato. Non erano scesi a terra, non avevano partecipato allʹultimo banchetto, quello fatale a tutti i commensali invitati. Non sapevano come erano andate realmente le cose. Non potevano saperlo e la fine degli ultimi fedelissimi di Ferdinando Magellano va ad aggiungersi allʹenigma della sua stessa uccisione. Restavano la Trinidad e la Victoria. La Santiago era miseramente naufragata infrangendosi in cento pezzi sulle rocce della costa della Patagonia, la SantʹAntonio, era caduta nelle mani degli ammutinati che avevano invertito la rotta, per tornare in patria e, sulla via del ritorno avrebbero scoperto le Isole Malvine. La ʺConcepciònʺ , malandata e ormai senza sufficiente equipaggio, era stata data alle fiamme e colata a picco. Dopo la morte di Duarte de Barbosa e di Joao Serrao, prende il comando Juan de Carvalho. Eʹ un disastro come ammiraglio improvvisato. Si comporta male a bordo. Rapisce indigene e fa il violento, si lascia andare ad atti di vera e propria pirateria: cattura giunche malesi e spoglia gli equipaggi dei loro carichi . I marinai, tutti dʹaccordo con i rispettivi ufficiali, decidono di pazientare per qualche tempo, prima di cambiare comandante. Bene o male, dopo sei mesi, le caravelle approdano a Timor. Qui si separano definitivamente. Eʹ il novembre dellʹanno di grazia 1521. Viene deposto – su parere unanime ‐ Carvalho. Juan Sebastian Elcano, pur esitante e poco esperto, assume il comando della Victoria che tornerà a Siviglia lʹ8 settembre dellʹanno di grazia 1522 con diciotto superstiti , tra i quali Antonio Pigafetta ed il savonese Martino de Judicibus. Cosa avviene di Leon Pancaldo ? Il suo destino si legherà a quello della nave ammiraglia Trinidad sino alla fine di quellʹavventura. Ma per lui il futuro avrà in serbo altre tremende sorprese; una peggio dellʹaltra. TRISTE SEPARAZIONE TRA GLI EQUIPAGGI DI DUE CARAVELLE Il distacco tra quei due equipaggi in quellʹestremo lembo di terra avviene tra le lacrime, insolito spettacolo tra gente di mare. Ma i corpi sono esausti, le volontà fievoli lumini che il soffio della sventura rischia di spegnere. Sulla Victoria sono in quarantasei. Comanda, ma con ben poco merito e parecchie incertezze, Juan Sebastian Elcano , neppure un comandante ma una sorta di primo inter pares. Stessa situazione sulla Trinidad , dove ʺcomandaʺ Gomez de Espinosa, condividendo le responsabilità con il genovese Giambattista Poncero, che aveva salito rapidamente la scala gerarchica divenendo ʺgovernador de la armadaʺ. Ma entrambi, nei momenti più difficili, si rivolgeranno ad un solo uomo: Leon Pancaldo, il nocchiero più esperto di tutta la flotta, il marinaio che tutti ammiravano e quasi, segretamente, invidiavano per la sua distaccata sicurezza in ogni difficile circostanza. Lʹuomo che si fonderà quasi misticamente con la propria nave, conoscendone ogni segreto, ogni difetto, ogni pregio. Era stato lui ad avvertire i comandanti: ʺLa Trinidad, così comʹè ridotta, non può farcela. Fermiamoci a Timor e ripariamola!ʺ Un consiglio religiosamente ascoltato. Resteranno cinquanta uomini dʹequipaggio. Alcuni di loro dovranno rimanere a terra per garantire i diritti della corona di Spagna sulle Molucche. Su Tidor e Ternate. Ma quali diritti ? Secondo la spartizione del Trattato di Tordesillas, colmo dellʹironia, le Molucche e le Isole delle Spezie, erano senzʹombra di dubbio nella sfera di proprietà del Portogallo, documento sancito dalla Chiesa di Roma, come un appendice della Donazione di Costantino. con il Trattato di Tordesillas. Da qui, i guai che aspettano dietro lʹangolo delle Molucche lʹequipaggio della Trinidad. Ma Spagna e Portogallo risolveranno le loro apparenti controversie, con lʹesborso di corone sonanti. Carlo e Manuel, niente paura, sapranno mettersi dʹaccordo. Ubi major... Prima che la Victoria salpasse, gli equipaggi si erano scambiati saluti calorosi. Coloro che rimanevano avevano affidato ai partenti messaggi per le famiglie lontane. Chi sapeva scrivere aveva vergato frettolosamente qualche lettera. Gli altri si erano affidati alla parola. Pancaldo aveva salutato tutti i compagni, particolarmente Pigafetta e de Judicibus. ʺMartino, se arrivi a Savona vai dalla mia sposa Teresa e dille che tornerò. In qualche modo, tornerò.. Consegnale questo messaggio che ho scritto per lei. Non so scrivere molto bene. Ma in questa lettera cʹè tutto il mio amore per lei.ʺ Pigafetta era commosso fino alle lacrime. Martino de Judicibus promise che sarebbe tornato a Savona ad informare la sposa di Pancaldo di come si erano dovuti separare ed in quali circostanze. De Judicibus mantenne la promessa, ma neppure lui, per lunghi anni, seppe più nulla di cosa fosse realmente accaduto a quelli dellʹequipaggio rimasti sulla Trinidad. Ecco, dunque, che la Victoria scioglie gli ormeggi e con un vento favorevole si allontana. Quelli della Trinidad non si risolvono a staccarsi dai marinai dellʹaltra caravella. Lʹaccompagnano con battelli e piroghe. Poi le barche fanno ritorno a terra, mentre dalla nave che si allontana ‐ estremo saluto a chi rimane ‐ partono salve di artiglieria Erano trascorsi due anni e mezzo dalla partenza da San Lucar di Barrameda, il 20 settembre dellʹanno di grazia 1519. Per Leon, lʹodissea, ricominciava. O per meglio dire, unʹodissea prendeva termine, per lasciare il posto ad unʹaltra, forse, ben più crudele; durerà quasi tre anni. Eseguite le riparazioni necessarie, in un cantiere del tutto improvvisato, con lʹausilio di tutti i marinai, Gomez de Espinosa, assumendo il comando, decise che era tempo di issare le vele della caravella e di riprendere il cammino nellʹOceano, puntando verso Nord. La meta , era ovviamente la costa messicana, perché se da Panama si era visto lʹOceano Pacifico, costeggiando verso Settentrione, si doveva necessariamente trovare quel punto da dove si era affacciata la spedizione di Vasco Nunez de Balboa. Da lì sarebbero potuti tornare in Spagna, seguendo le rotte ormai abituali sullʹAtlantico. Naturalmente, con unʹaltra imbarcazione, ma quella era terra conquistata dalla Spagna e, quindi, sicura. La nave salpò. Non andarono, in verità, molto lontano. Si lasciarono alle spalle lʹisola di Cyco, puntando verso Nord. I portoghesi stavano, del resto, erigendo una fortezza sullʹisola di Ternate e quelle acque pullulavano delle loro caracche da guerra. Avevano il diritto di fare prigionieri. La navigazione della Trinidad , uno scafo ormai insicuro, anche se la falla nella chiglia era stata riparata alla meno peggio, era molto lenta. Evidentemente, in quei luoghi privi di veri lavoratori del legno, la calafatura della nave non era stata eseguita bene. Travi, tavole, legname più piccolo per le riparazioni: Magellano aveva davvero pensato a tutto. Ma i cantieri non erano quelli di Siviglia o di San Lucar de Barrameda. Soffiavano tremendi venti contrari. Le vele rischiavano di rompere gli alberi sotto quelle raffiche. Ogni giorno ed ogni notte, la perizia di Pancaldo aveva modo di manifestarsi in pieno sotto gli occhi atterriti dei compagni che, ormai, pensavano che tutto fosse perduto e che la caravella sarebbe andata ad infrangersi contro quelle rocce che venivano giù a picco sul lato destro della rotta. Le gomene scricchiolavano in modo sinistro; i segni di croce tra i marinai si sprecavano. “Leon sei per noi lʹinviato dalla provvidenza “ gli aveva detto Gomez de Espinosa, constatando che quellʹuomo di mezza età asciutto, un poʹ chiuso e taciturno, amante della solitudine, con quellʹaspetto dimesso e poco imponente, era in realtà un genio della navigazione, un maestro alla barra della nave, un uomo‐pesce come lʹavevano ribattezzato , per celia, i compagni, tanto si sentiva perfettamente a suo agio su ogni mare, in quellʹelemento liquido che, alla lunga, terrorizzava i più indomiti e coraggiosi. Un pesce, che sapeva cogliere ogni sfumatura del mare, interpretare correttamente lʹintenzione di ogni onda, la sua capacità di trasportare o di nuocere, di rovesciare, di perdere o di salvare. Ed era anche un gabbiano, se è per questo. Non vi era vento che non anticipasse, portando la prua nella giusta direzione, profittando con un colpo dʹocchio, quasi con un colpo dʹala nelle vele, dei mutamenti , per gli altri misteriosi, nelle condizioni del tempo. Osservatore acuto, lavoratore instancabile, abituato a sopportare condizioni di vita inenarrabili. Una forza della natura, un marinaio oscuro ma degno del massimo rispetto; infatti, chi lo conosceva di rispetto gliene tributava. Sempre. Era il nocchiero giusto al posto giusto: pronto ad affrontare le difficoltà del momento, con un distacco ed una freddezza quasi incredibili . Lui ce lʹavrebbe fatta contro onde e maree. Ma la Trinidad, al contrario del suo nocchiero, non ce la faceva più. Come una vecchia matrona gloriosa che ha allevato tanti figli, ma non riesce più a sorreggerli ed a malincuore si arrende. Intanto, le provviste scarseggiavano a bordo. Ogni settimana, moriva di stenti un marinaio, come tanti erano morti, per le atroci difficoltà, in quella lunga agonia che era stata la traversata del Pacifico, agli ordini, di Magellano, uno dei pochi ‐assieme a Pancaldo ‐ a sopportare con stoicismo privazioni di ogni genere, spinto comʹera dal sacro fuoco della ricerca di una gloria che per lui costituiva una rivalsa, anzi una vera e propria vendetta nei confronti dei cortigiani di Lisbona e del loro sovrano che lo aveva crudelmente sottostimato. Magellano, in effetti, era stato mal ripagato per i suoi impegni marziali in Asia ed in Africa. Re Manuel lo guardava sprezzante ed incredulo per il fatto che un semplice uomo di mare potesse tener alta la fronte e non prostrarsi dinnanzi ad una corona. La tragedia per Magellano si era compiuta, restavano gli uomini dei suoi equipaggi, ostaggi di una sorte crudele. “Torniamo a Timor . Non può andare avanti così.” consigliò Leon a de Espinosa. Questʹultimo si guardò bene dal mettere in dubbio la parola del suo primo pilota. Se lo dici tu! pensò tra sé lo spagnolo ed urlò alla ciurma: “Inversione di rotta. Si torna a Timor!” Il consiglio, impeccabile dal punto di vista tecnico, affrettò una situazione che era inevitabile. Una situazione ormai disperata e senza scampo. La cattura della Trinidad da parte di una caracca portoghese, la “Rey Henrique”, che non diede alcuna possibilità di fuga o di salvezza allo sventurato equipaggio. I marinai rimasti a Timor erano stati già tutti catturati. De Espinosa si arrese ai portoghesi e, nel consegnarsi, pareva quasi sollevato tanto quel compito di portare da qualche parte la sventurata caravella gli era sembrato, in verità, troppo grande per le sue spalle. Forse, pensava, qualcosa si poteva ancora tentare. Ma come raggiungere le coste di Panama, come arrivare così lontano ? Impensabile, poi, di ripercorrere la rotta tracciata di Magellano, al punto in cui erano arrivati. Ecco, lì in quei frangenti si comprendeva come gli ammutinati della “SantʹAntonio”, i quali dopo la scoperta dello Stretto avevano invertito la rotta, in fondo, avevano avuto ragione. Se il passaggio tra i due oceani era stato ormai trovato, perché proseguire in condizioni così pericolose con quel Mare del Sud, come lo chiamavano, lì davanti, sconosciuto, inesplorato, pacifico in apparenza ma minaccioso in realtà? Del senno di poi – si diceva Leon, in quel momento – sono piene le fosse. Naturale, che si poteva tornare tutti a Siviglia. Annunciare al mondo la scoperta e poi ripresentarsi davanti allo Stretto con una nuova spedizione, bene equipaggiata, sicura. Quanti uomini, nostri compagni, pensava tristemente il marinaio savonese, sarebbero ancora in vita. E, invece, sono morti. Durante la traversata. LʹOceano è stata la loro tomba. Più di duecento marinai avevano pagato con la vita quella folle impresa. Adesso, il destino era ancora del tutto ignoto per i superstiti. Certo non si intravvedevano rosee prospettive. Erano caduti nelle mani nemiche. Chissà da quanto tempo, la caracca portoghese aveva giocato con la Trinidad come il gatto con il topo. Forse, dalla separazione tra la nave ammiraglia e la Victoria che proseguiva il viaggio verso Occidente. Ma in tal caso, anche .la Victoria era stata individuata e lasciata ripartire... Una stranezza inspiegabile. Che cʹera sotto ? Vedendosi circondato dai portoghesi, il cui comandante , Joao do Carmo, era salito a bordo con fare arrogante ed orgoglioso, Pancaldo esclamò con enfasi: “Voi catturate lʹequipaggio di una grande nave, che ha scritto pagine gloriose sugli Oceani al servizio di un grande comandante come voi portoghese, che, tuttavia, non agiva per la corona del Portogallo né per quella di Carlo di Spagna , ma per lʹ umanità tutta intera, senza confini, senza bandiere. Per la Cristianità che deve regnare sovrana sul mondo e sulle terre di coloro che non hanno ancora ricevuto il Verbo del Salvatore. Ciò che egli ha scoperto, la nuova rotta che ha tracciato appartiene al mondo alla Spagna ed alla Chiesa di Roma.” Inutile allusione e riferimento alla fede comune. Il marinaio ligure solitamente taciturno, per una volta, in una condizione di estremo pericolo, aveva saputo trovare gli accenti di una eloquenza inusuale. Joao do Carmo rispose con fare sprezzante: “Quel che avete scoperto ci appartiene. Appartiene al Portogallo, quanto alla nuova rotta che, visto che siete qui ed avete navigato da Est ad Ovest, è ormai certa, non andrete a rivelarla al mondo tanto presto. Questo ve lʹassicuro; la corona di Lisbona deciderà se farlo e in tempo opportuno. Quando e come lo decide re Manuel sovrano cattolicissimo per il volere di Dio! Questo dovete sapere e, per il resto, non mi pare abbiate molte speranze di rivedere le vostre terre in Europa. Non tanto presto, in ogni caso. ” Si apriva, per i prigionieri, che verranno col tempo separati gli uni dagli altri, il carcere della fortezza di Ternate, i cui lavori erano in via di completamento. Una costruzione mostruosa con alte torri ed una massiccia fiancata. Da lì impossibile evadere. E poi, per andar dove ? Di fronte, soltanto lʹOceano sconfinato ed immenso. In quelle celle umide e malsane i marinai fatti prigionieri dovevano trascorrere lunghi giorni, sorvegliati da carcerieri che pure li ammiravano poiché, essendo anchʹessi marinai, sapevano benissimo quale grande impresa avevano saputo compiere. Ma gli ordini erano ordini. Erano messi a lavorare duro: un comando che Joao do Carmo aveva dato con particolare piacere. Sapeva che Magellano, in qualche modo, aveva tradito il Portogallo ponendosi al servizio di Carlo V e questo per un nobile portoghese bastava per indurlo ad un atteggiamento sprezzante nei confronti di quei marinai che avevano contribuito alla riuscita dellʹimpresa di quellʹammiraglio rinnegato. LA “TRINIDAD” CATTURATA DAI PORTOGHESI
Per ciò che restava dellʹequipaggio della Trinidad , dunque, tribolazioni e patimenti a non finire. Prima in viaggio sugli Oceani e dʹora in poi come prigionieri maltrattati quotidianamente. Sottoposti ad un regime piuttosto duro, almeno agli inizi. Prima che gli interrogatori rivelassero ai portoghesi che, in fondo, quel pugno di prigionieri poteva nuocere ben poco al loro paese, al punto in cui si trovavano le cose. Lisbona già sapeva che il passaggio era stato trovato. Ma era sotto il cinquantesimo parallelo Sud, latitudine estrema per i viaggi delle preziose spezie. A cosa poteva servire quel paso così vicino a terre antartiche? Quali flotte commerciali avrebbero preferito la “rotta di Magellano” a quella dei portoghesi che circumnavigava il continente africano per raggiungere le Indie ? I cartografi di Lisbona, al corrente del tempo impiegato da Magellano per rispuntare ad Occidente con una partenza dallʹEst verso le Molucche, avevano calcolato molto più esattamente del loro connazionale Ruy Faleiro, il grande cartografo ed astronomo che aveva aiutato Magellano come socio nella grande impresa, le dimensioni di quel Mar del Sur.
“Eʹ enorme. Non adatto a traffici commerciali dallʹEuropa, sulla via delle spezie. Questo è certo.” Avevano assicurato al re lusitano che aveva ritrovato il sorriso, anche perché si era rinsaldata ormai lʹamicizia tra la corona portoghese e quella spagnola, visto che Carlo V aveva altre gatte da pelare con Francesco I di Francia e con i Luterani tedeschi. Ma tutto ciò, né la valutazione delle distanze da percorrere per le navi commerciali, né i destini politici del Vecchio Continente interessavano i marinai prigionieri. Pancaldo si ritrova in una cella, in compagnia di Giambattista Poncero. Sono entrambi nella fortezza di Ternate, assieme ad altri dieci compagni. Alte mura, costruite dai portoghesi per controllare tutte le isole circostanti ed un vasto tratto dellʹOceano. A protezione dei depositi che custodiscono ogni sorta di beni. I prigionieri vengono fatti prima passare su un ponte levatoio, poi destinati alle celle comuni. Poncero è un gigante buono. Genovese di nascita. Sembra prendere la prigionia con un certo qual spirito, ma le sue condizioni fisiche sono davvero inquietanti. Eʹ smunto, dimagrito in modo impressionante e non è più quella forza della natura che era apparso agli uomini degli equipaggi allʹinizio della spedizione. Ma tutti sono provati in maniera indicibile per la lunga traversata del Pacifico, dopo quel lungo inverno australe, trascorso in Patagonia e nella Terra del Fuoco. Oltretutto a quei tempi vi fu unʹera glaciale , ma loro non potevano saperlo. Soltanto patirlo sulla loro pelle. Gelo, freddo e fame: questi gli immani sacrifici che avevano dovuto affrontare, con i viveri rigorosamente razionati da un implacabile comandante. La vita a Ternate, nella grande fortezza , ha le cadenze della monotonia carceraria e gli aspetti della disperazione per ciò che riguarda il futuro. Cʹè tutto il tempo di riflettere e la riflessione non aiuta quei poveri diavoli, intrappolati nelle isole della Sonda, a sentirsi meglio. Devono accollarsi, deboli come sono, i lavori forzati‐ quando sono fatti uscire dalle celle ‐ per aiutare i muratori ed i manovali allʹopera di completamento delle mura del forte. ʺLavorate, fannulloni! Siete stati anche troppo senza far nulla sulla vostra nave!ʺ urla il guardiano armato che sorveglia quegli strani galeotti, che si reggono appena in piedi e sono costretti a portare pietre da costruzione. Dopo quattro mesi, erano ridotti a scheletri. Irriconoscibili, gli uomini che erano stati a bordo della Trinidad sentivano di avere i giorni contati. Poi, improvvisamente, qualcosa mutò. Per ragioni inspiegabili, forse per direttive venute dallʹalto. DallʹEuropa, da Lisbona. Vi fu un primo trasferimento. Pancaldo e Poncero vennero inviati alle isole Banda. Subivano continui interrogatori da parte delle autorità portoghesi, che volevano conoscere per filo e per segno i dettagli di quella loro avventura e si facevano disegnare carte nautiche e mappe oceanografiche sulla base dei loro ricordi. Gli ordini venivano da re Manuel del Portogallo in persona. Non si era mai rassegnato al fatto di essersi lasciato sfuggire Magellano che, assieme a Ruy Faleiro, dopo aver sottratto carte e mappe segrete appartenenti allʹArchivio di Stato era andato in Spagna ad offrire i suoi servigi a Carlo V, allora solo un re diciottenne. In virtù della parentela tra i due sovrani, con lo sposalizio di Leonora, sorella di Carlo, da parte di Manuel, questʹultimo avrebbe anche potuto fare affidamento sulla nuova unione per dirimere qualsiasi controversia fosse sorta con la Spagna. Lʹanimosità tra i due Stati iberici, del resto, non assunse mai i connotati di un vero e proprio conflitto . Era una rivalità tra cugini, nulla di più. Anzi tra due stati confinanti e quasi amici in nome del cattolicesimo, inteso da entrambi con un fanatismo assoluto. Papa Borgia non aveva voluto che i diletti figli del Portogallo e della Spagna si azzuffassero per spartirsi le reciproche scoperte del mondo ed aveva fatto ricorso alla raya alla spartizione del globo terracqueo, tagliato in due come si taglia una mela. Ma fino alla spedizione di Magellano, nessuno conosceva la vastità e lʹestensione delle terre da spartire, dagli oceani da dividere, insomma la mela era stregata e, soprattutto , misteriosamente ignota. Dovʹera lʹUltima Thule ? Nessuno poteva dirlo o immaginarlo. Eppoi per un pontefice, dopo la scoperta colombiana, cominciava singolarmente a scricchiolare lʹedificio tolemaico, e con esso la visione aristotelica di una terra al centro dellʹUniverso, con il sole e tutto il resto a girargli intorno. Era anche lʹepoca di Machiavelli, in fondo ; quando sia alle corti medicee, come in quelle degli Este o degli Sforza o dei Gonzaga risuonava il motto ʺil fine giustifica i mezziʺ, seguito da tutti i principi rinascimentali. Non faceva eccezione Francesco I di Valois, non faceva eccezione Carlo V, che ‐ sconfiggendo lʹavversario francese a Pavia (ʺmadre ‐scrisse Francesco ormai prigioniero del rivale ‐ tutto è perduto fuorché lʹonoreʺ) ‐ riuscì a conquistare il titolo conteso di ʺimperatore del Sacro Romano Imperoʺ, annettendo anche i territori lasciatigli dal nonno paterno, Massimiliano I dʹAsburgo. Epoca dei cavalieri di ventura, anche sui mari (Andrea Doria), quando questi grandi condottieri davano quasi in affitto i loro servigi, ora al Papa Clemente VII, ora alla Francia o alla Spagna. Come diceva il popolino romano: Franza o Spagna, purché se magna! Ma questa indifferenza politico ‐strategica portò al Sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi. Proprio a causa dellʹinerzia e della noncuranza del papa della famiglia Medici. Carlo V dissociò le proprie responsabilità da quelle dei Lanzichenecchi, ma la barbara strage contro il popolo romano era ormai avvenuta. Manuel, il fortunato, dunque, si era sbagliato rifiutando a Magellano il finanziamento dellʹimpresa marittima; aveva sentito il peso di quellʹerrore e non aveva perdonato quellʹammiraglio così fiero, il quale dopo avergli richiesto con sfrontata audacia una pensione ed un vitalizio per i suoi servigi militari in India ed in Africa, aveva avuto la presunzione di offrire proprio a lui di finanziare lʹavventura di cui si sarebbe poi reso protagonista, servendo la Spagna. Il re portoghese non amava Magellano, non ne sopportava il carattere altero; quellʹuomo dalla fluente barba nera, con quellʹaria da pirata, non si inchinava a lui con la dovuta deferenza, insomma, aveva intuito che quellʹuomo, claudicante per le ferite ricevute, si reputava, forse, superiore. Col suo dannato orgoglio, dava risposte secche e quasi noncuranti dellʹalto lignaggio che aveva di fronte, come si fosse trattato di un commilitone e non di un re. Non era lʹatteggiamento che un sovrano si attendeva dai sudditi, tanto meno dai suoi uomini di corte. I cortigiani erano untuosi e servili con i forti, arroganti e prepotenti con i deboli. Magellano smentiva il cliché. E questo nessuna testa coronata lʹavrebbe accettato mai. Così il re aveva respinto le sue richieste. Salvo pentirsene più tardi, quando le spie lo informarono che, invece , Carlo V aveva trovato un accordo con lʹammiraglio transfuga e la spedizione alla ricerca del passaggio verso il Mar del Sur era quasi pronta. Da allora, ogni bastione portoghese nel mondo, ogni fortezza, ogni nave nellʹOceano Indiano ed oltre aveva ricevuto un solo ordine: catturare gli equipaggi delle cinque caravelle. A tutti i costi. Nelle isole della nuova prigionia, Pancaldo rifletteva, comprendeva oscuramente lo strano comportamento del re di Cebu, isola forse già toccata dai portoghesi; poteva, il raja Humaubon, forse essere stato contattato in anticipo dagli emissari di Lisbona ? Magellano, in fondo, approdando in quelle isole non aveva trovato indigeni pronti ad accogliere come sovrano Carlo V, ma che già erano stati istruiti e corrotti dal potere e dallʹinfluenza portoghese in quellʹarea. La sorte di Magellano era segnata, comunque, perché neppure il re di Spagna, in fondo, era molto propenso a riconoscergli certi diritti. Non per nulla gli aveva affiancato sulle altre caravelle dei capitani spagnoli. Uno in particolare, Juan de Cartagena, era un alter ego , una conjuncta persona. Il fiero hidalgo aveva un carattere del tutto incompatibile con quello del portoghese. Per il semplice fatto che entrambi avevano esattamente lo stesso carattere. Da qui, si spiegava benissimo il navigatore ligure, il continuo timore di un tradimento che poi si era, infatti, verificato a San Julian, con quel colpo di mano finito male per i rivoltosi. Già quella tremenda punizione inflitta da Magellano ai capitani spagnoli catturati e destituiti. Ma più che ribelli erano dei capi inquieti che volevano dallʹammiraglio risposte sulla rotta impossibili da ottenere, perché ad un certo punto nemmeno lʹammiraglio era così sicuro di dove stava andando. Dunque, rivolta e repressione, lì a San Julian. Ne era stato testimone oculare, Leon, ovviamente; ma preferiva non pensarci più. Troppo triste, troppo avvilente, quella punizione marziale e spietata del tutto incomprensibile allo spirito di un vero marinaio; egli rimaneva un sognatore, un amante della libertà di orizzonti infiniti e non ostacolati dalle asprezze della legge degli uomini, una porta aperta sullʹeternità fattasi oceano, a contatto con la misericordia divina. Sapeva per intuizione quotidiana che quelle leggi trascendenti predicate dai frati e dai preti, rivelate dalle Scritture, non si accordavano sempre con quelle sue attente osservazioni del cielo, dellʹimmensità oceanica, di quella terra ricoperta di acque sconosciute e misteriose, terra che sentiva vibrare, muoversi e forse ‐ pensiero eretico ed impossibile ‐ persino ruotare sotto la volta celeste. Non lo sapeva, non voleva ammetterlo nel più profondo della propria coscienza dʹuomo, ma il dubbio della creatura immersa nellʹoggetto creato, sperduta nellʹinfinito, era ormai sorto. Ignorava come esprimerlo. Aveva scienza nautica sufficiente , ma non conoscenze astronomiche tali da poter trarre conclusioni da vaghe sensazioni, più che spirituali quasi fisiche. Anzi, solidamente corporali. Ma il suo occhio non si era mai chinato su un cannocchiale di Galileo; le sue dita non avevano mai sfogliato una pergamena di Copernico. Questi giganti del pensiero verranno dopo di lui. Ma è arbitrario pensare che un uomo qualsiasi, protagonista di una simile avventura, nellʹepoca delle grandi scoperte geografiche possa aver in qualche modo intuito lʹindicibile, lʹineffabile, lʹimpossibile ? Senza poterlo esprimere, anzi neppure pensando di poterlo fare con parole che, in ogni modo,la Chiesa, la sua Chiesa avrebbe condannato come eretiche e lʹInquisizione punito col rogo. Ma il mondo tolemaico piatto e centro dellʹuniverso, lo si voglia o no, dopo Magellano cominciava a cadere in rovina come una vetusta costruzione ormai inaffidabile e contraddetta dai fatti. Leon rimaneva attaccato ai suoi dogmi, al suo credo e non avrebbe messo in dubbio una sola virgola delle Sacre Scritture neppure se ‐ seduto sulla Luna ‐ avesse visto con i propri occhi la Terra girare su se stessa e attorno al Sole. Ebbe un colloquio nella prigione di Banda con un frate portoghese, il suo confessore. Jacinto Munez era un francescano, aveva cercato di convertire più indigeni che poteva, ma non apprezzava i metodi dei conquistadores. Aveva compreso che il navigatore ligure era un uomo di fede e profondamente onesto, per cui, cristianamente, cercava di confortarlo come poteva. Dimostrava parecchia umanità questo frate di Coimbra, nelle conversazioni con i prigionieri. ʺDunque, sei ligure...ʺ aveva detto a Pancaldo. ʺEsattamente sono savonese. Ma ormai non credo che rivedrò le torri della mia città...ʺ rispose lui con un amaro tono di sconforto nella voce. ʺCʹè per tutti noi una provvidenza.ʺ aveva risposto il frate. ʺEʹ quella che invochiamo noi marinai nel momento del pericolo!ʺ ʺAppunto. Non perdere la fede. Cʹè sempre una luce in fondo alla galleria più oscura. Una speranza che si accende nello sconforto del buio.ʺ Il frate missionario parlò col governatore delle Molucche per alleviare nella misura del possibile la sorte dei prigionieri catturati sulla Trinidad. ʺLʹimportante ‐ replicò il governatore ‐ è che non vengano resi noti i dettagli della loro avventura. LʹEuropa non è ancora pronta. I nostri informatori ci segnalano che una caravella compie una rotta verso Occidente. Eʹ stata avvistata nellʹOceano. I nostri le danno la caccia. Eʹ da presupporre che solo due navi siano rimaste a galla. Una lʹabbiamo catturata noi. Lʹaltra cerca verosimilmente di doppiare il Capo e di rientrare a Siviglia. Potremo intercettarla. Cʹè da sperarlo in ogni caso, se vogliamo mantenere il controllo totale di questa parte del mondo senza concorrenti...ʺ Lʹuomo di chiesa rispose che i prigionieri non erano altro che marinai, in fondo, esecutori di ordini, non consapevoli e quindi non colpevoli. Ignoravano tutto della posta in gioco. Con loro, il Portogallo doveva mostrarsi clemente. Non sarà così, proprio perché la ʺVictoriaʺ finirà per attraccare a San Lucar de Barrameda e, quindi, si presenterà nel porto di Siviglia, con i suoi diciotto sopravvissuti. Giungeranno sul molo come una processione di spettri, smunti magrissimi e con le barbe incolte, con le vesti lacere; faranno il giro delle chiese, allʹalba di quel giorno di salvezza, seguiti da una folla di curiosi, per rendere grazie al buon Dio di essere scampati alla morte. Penseranno ai loro compagni scomparsi per il resto della loro vita. E a quelli della Trinidad. Già, si chiedevano i diciotto sopravvissuti, che fine avranno fatto i nostri compagni imbarcati su quella caravella ? E i rimanenti della Trinidad a loro volta, in fondo ad una galera, si chiedevano: Chissà se la Victoria sarà potuta tornare in patria ? Se lo chiedevano di certo Pancaldo ed il suo compagno di sventura, che intanto venivano trasportati in giro per le isole in mano al Portogallo . Così, dopo vari trasferimenti, Leon, e Poncero, vennero rinchiusi in una prigione dellʹisola di Giava. Le peregrinazioni non erano ancora terminate. RICORDI DI GIOVENTUʹ : LA SPEDIZIONE ALLE INDIE
I ricordi di Leon da quella tetra prigionia correvano verso il passato, verso il quartiere di Alfama a Lisbona, dove , nelle strette viuzze povere e malfamate ad un tiro dʹarchibugio dallʹaltro popoloso borgo della Mouraria, in mezzo ad una folla variopinta di venditori di ogni genere di mercanzie, lui circolava in quel mese di marzo dellʹanno di grazia l505, giovane marinaio venuto da una città ligure. Era giunto nella capitale lusitana a bordo di una goletta ed era in cerca di ingaggio da parte della potenza navale portoghese che, pur avvalendosi dei propri validissimi marinai, non disdegnava di offrire ingaggi anche ai navigatori di altre nazioni. Genova e Lisbona, dʹaltra parte, erano legati da secolari rapporti di amicizia. Lo dimostra il fatto che Cristoforo Colombo scelse, Joao II, il re portoghese per offrirgli di ʺbuscar per lʹoccidente lʹorienteʺ, subito dopo aver offerto la medesima cosa alla patria genovese. Ma è noto: nessuno è profeta in patria. Anche Joao II, tuttavia, gli rise in faccia, prendendolo per un visionario. Genova era nemica di Savona; entrambe le città, invece, andavano dʹaccordo con Lisbona. E con la Spagna. Al punto che se le caravelle di Colombo erano spagnole, i quattrini dei finanziamenti concessi a Ferdinando ed Isabella vennero sborsati anche da banche genovesi. Ma torniamo nella grande Lisbona. Sia in Liguria che in Portogallo si cucinava in cento modi uʹ bacalau. Ma quel che rendeva più saporito uʹ bacalau ‐ in tutte le città buongustaie ‐ erano quelle meravigliose spezie dʹOriente, i grani di pepe, che valevano quasi quanto lʹargento, i chiodi di garofano, la cannella,la noce moscata, tutte droghe culinarie ricercatissime per rendere saporite le pietanze delle corti e dei principi, ma anche ‐ talvolta ‐ della gente comune. Malgrado i prezzi. Le spezie valevano quanto ‐ e forse più – dellʹargento. Di un ricco la gente comune non diceva “ha un sacco di soldi”. No. Diceva: “Quello ? Eʹ un sacco di pepe!” Anche i grani dʹincenso avevano un bel prezzo. Una manna per i mediatori, poiché le spezie passavano di mano in mano e di dogana in dogana. La differenza ? Beh, quella più o meno di tanti altri generi di consumo. Ma tra il magro contadino e il non sempre facoltoso consumatore, cʹè qualcun altro che guadagna cifre spropositate. Il Portogallo voleva il monopolio della via delle spezie dalle Molucche allʹEuropa. Se non fosse stato per Cristoforo Colombo, per Giovanni e Sebastiano Caboto, per Amerigo Vespucci e per lo stesso Ferdinando Magellano, chissà per quanto tempo ancora i portoghesi sarebbero rimasti i padroni della via marittima verso lʹAsia, circumnavigando lʹAfrica, con grande disappunto della maggiore potenza mondiale la Spagna. Ma dopo i viaggi dei Caboto, anche unʹaltra grande nazione prendeva coscienza delle rotte oltre oceaniche: lʹInghilterra di Enrico VII. Eppoi, installando cantieri navali a Panama, lungo lʹ ismo, anche gli spagnoli una via per giungere ad Oriente lʹavevano trovata. Da Alfama, allora, erano partiti i grandi navigatori portoghesi (Vasco da Gama non da ultimo) e il regno di Manuel I, il Fortunato, aveva assunto, praticamente il controllo dei mari dʹOriente. Nella sua corte di Montemor O Novo, il re progettava una grande espansione portoghese verso il controllo assoluto sulle terre dʹOriente. LʹIndia, le Molucche, le isole delle spezie erano saldamente in mano alla piccola nazione europea affacciata sullʹAtlantico e con a disposizione marinai di primʹordine che la vicina Castiglia le invidiava. Da quando Lisbona ( per la voce sarcastica di Joao II) si era lasciata sfuggire Cristoforo Colombo, permettendo così a Isabella e Ferdinando di Castiglia di mettere a segno la scoperta del nuovo mondo, il prestigio del Portogallo era apparso incrinato. Manuel commetterà un errore anche maggiore lasciando scappare Ferdinando Magellano. Un suddito portoghese, per giunta. Ma al tempo delle spedizioni verso lʹIndia, per il controllo della via delle spezie, quello sbaglio il fiero re del Portogallo non lʹaveva ancora commesso. Tutte queste considerazioni di alta politica erano, comunque, del tutto estranee ai bisogni ed alle necessità di Pancaldo . Era un uomo di natura pratica e sʹintendeva di navigazione come nessun altro, ma di politica non comprendeva granché. Piuttosto tarchiato, capelli color rame, il naso aquilino, gli occhi marroni piccoli, vivacissimi e penetranti, lʹandatura un pò ballonzolante di tutti i marinai, che piegava un pò a dritta ed un pò a manca, era interessato a partire per la grande campagna che la corona portoghese stava preparando nelle Indie. Pagavano bene, questi portoghesi, in fin dei conti. Più che altro si trattava di una spedizione militare, con lʹimpiego delle caracche, che sia Genova che Lisbona adoperavano quando si trattava di far fuoco sia dal castello di poppa che da quello di prua sui nemici nelle battaglie sul mare, o anche nei bombardamenti sulle città costiere nemiche. Una flotta di millecinquecento uomini aveva messo alla fonda sul Tago ed ingaggiava anche marittimi stranieri, purché non appartenessero alla Spagna, alla Francia o allʹInghilterra, le potenziali rivali sugli Oceani. Venezia e Genova, Repubbliche marinare orgogliose e dal passato risplendente, erano ormai tagliate fuori dalla corsa alla ʺvia delle spezieʺ, quindi, niente da temere reclutando tra gli equipaggi lusitani anche qualche marinaio genovese, veneto o di altri porti mediterranei, esclusi, dunque, quelli delle cosiddette ʺgrandi potenzeʺ. Pancaldo si era già fatto le ossa per così dire, navigando nel Mediterraneo per traffici commerciali, ma la sua vera carriera doveva cominciare proprio in India. Quella sera, girava per Alfama, in mezzo ai mercanti, ai mendicanti, agli storpi, ai dicitori della buona sorte (la suerte era sempre buena altrimenti chi consultava gli oracoli da strada poi non pagava). Le gitane ronzavano attorno ai negozi dei piccoli artigiani, qua e là, dei banchi dei pescivendoli e delle friggitorie allʹaperto. Dai forni uscivano gustosi fugassin allʹ olio ed al rosmarino. I vecchi marinai guardavano con un pizzico dʹinvidia quei giovani emuli di Bartholomeu Dias o di Vasco da Gama, che si aggiravano nei vicolo ‐ i ʺcaruggiʺ come li chiamava Leon ‐ a fianco di vistose ragazze, forse non proprio di difficilissimi costumi. Cʹè festa ʹna Mouraria! ‐ disse una zingara, facendo lʹocchiolino a Leon. Il giovane si tenne ben stretta la sacca da viaggio che portava sulle spalle e andò subito a cercarsi una locanda, nel vecchio quartiere della Morella, appunto. Un pò tristunha y sombria la Moirella està agora! ‐ le disse la locandiera dalle forme procaci, perché la festa deve ancora cominciare. Lʹindomani poi sarebbe stata tutta unʹaltra cosa, quando le venti navi, allʹancora sul Tago sarebbero partite per la rotta dʹOriente. Venti navi, il vanto della flotta lusitana. Si mormorava che lʹammiraglio dei mari indiani, Vasco da Gama in persona, anche se ormai vecchio, le avesse passate in rassegna, nei giorni precedenti esaminando con occhio ammirato quellʹenorme armamento che avrebbe assicurato al suo paese il dominio del mondo conosciuto, almeno ad Oriente. Vi sarebbe stata la notte di festa e la mattina seguente la grande messa nella Cattedrale . Sulla piazza, il giuramento solenne degli equipaggi. La benedizione dei vescovi, il discorso del vicere delle Indie e comandante in capo della spedizione, Francisco dʹAlmeida. Ma Pancaldo , quella sera, stanco del viaggio, agognava solo a riposare nel bugigattolo che la locandiera gli aveva mostrato, scrutandone la reazione. Nessun commento. Era un nido di pulci e di pidocchi, né più né meno. Costava una sciocchezza ed, in ogni caso, lui di più non poteva permettersi. Pensava a quellʹingaggio, accettato dai portoghesi che erano rimasti convinti dal suo curriculum marinaresco. Eppoi, lui non partecipava alla spedizione sui mari dellʹIndia, come sobresaliente, mezzo marinaio e mezzo combattente. No, lui era tutto e soltanto marinaio. Compito suo occuparsi delle vele, stare al timone, evitare le secche, guardarsi dalle tempeste. In un certo senso, era più e meno di un sobresaliente. Era un avventuriero, un mercenario, ma non tenuto a maneggiare la spada o a prendere ordini militareschi. Doveva fare il suo mestiere e basta. Un avventuriero del mare, ma senza alcun connotato peggiorativo. Anzi, sapeva in cuor suo, che i portoghesi i migliori marinai del mondo, riconoscevano soltanto i liguri come loro pari (se non superiori) nellʹarte della navigazione, nel saper domare quelle onde spaventose, quelle tempeste minacciose, che strappavano in un baleno, centinaia di vite di marinai meno esperti. Ben diversi, invece, i compiti di un altro portoghese sobresaliente. Anche lui ‐ davvero strana la sorte ‐ si trova in quella sera di marzo alla grande festa in onore degli equipaggi che stanno per partire, a Mouraria. Si chiama Fernao Magalhaes. Lui e Leon hanno più o meno la stessa età. Il portoghese è nato a Porto intorno al 1480 ; ha compiuto da poco i venticinque anni. Leon è più giovane di due anni, essendo nato a Savona nel 1482. Ma mancando le anagrafi, le date di nascita di entrambi oscillano in modo che definirli quasi coetanei non è poi così del tutto sbagliato. Magalhaes, quella sera, aveva una gran voglia di divertirsi, perché era consapevole di cosa lʹaspettava. Stive maleodoranti ed insalubri, dove tutti ammucchiati gli uomini dʹarmi subalterni, come lui, devono dividere i poveri giacigli con mozzi ed equipaggi. Poi anche i combattenti sarebbero stati uguali a tutta la ciurma nei lavori più penosi. Insomma, un sobresaliente, tutto sommato, poteva provare invidia per un semplice mozzo. Ma ormai, Ferdinando aveva firmato, che diamine!, lui apparteneva pur sempre alla piccola, nobiltà portoghese. Era un fidalgo de cota de armes. Col diritto di trasmettere agli eredi un onorifico stemma o blasone, eppoi ‐ricordava, sorridendo ‐ era stato paggio della regina Leonora. Lui, un paggio! Se la rideva, quando ci pensava, tra il barbone nero ed i baffi dello stesso colore. Ma assolutismo reale o no, era pur sempre un fedele suddito portoghese e voleva fare il proprio dovere, con fedeltà a Dio e alla Corona e alla Patria. Sarà accontentato! Quella sera, comunque, si divertì. Come si divertono i portoghesi, ascoltando da solo al tavolo di una taverna frequentata dai marinai, le note malinconiche e struggenti delle cantatrici di fado. Strimpellavano su strumenti a corda, i musici quelle note che dovevano essere state trasmesse dai mauritani, colonizzatori di quel piccolo paese affacciato sullʹOceano, quasi in castigo. Con marinai che doveva essere audaci per forza per affrontare quel mare misterioso, temuto da tutti i navigatori ʺinterniʺ, quelli sul Mediterraneo che si guardavano bene dal superare le Colonne dʹErcole. Il fado, vero riflesso musicale della saudade ‐ con le sue nenie struggenti, uscite dalle labbra di donne brune, tutte vestite di nero, vecchie o giovani, belle o brutte, non importava ‐ era lʹanima di Lisbona. La voce di quelle donne doveva essere un pianto prolungato nella notte e strappare lacrime al cuore di chi le ascoltava. Perché i fantasmi del passato a quelle note tristi si risvegliavano tutti e tenevano compagnia ai solitari. E chi più solo di un marinaio che parte per lʹignoto ? Quelle note così evocative della malinconia erano ancora nelle orecchie di tutti i marinai, quando la mattina dopo sulla piazza prospiciente la Cattedrale, si svolse la cerimonia solenne, il giuramento, con i comandanti inginocchiati davanti allʹaltare della Cattedrale, la comunione collettiva sulla piazza maggiore, la Santa Messa in latino ma con quella cadenza lenta lusitana dei preti. I dignitari di corte lessero un messaggio di re Manuel. Poi la partenza a vele spiegate della flotta portoghese sul Tago. Le caracche avevano bene in vista, a poppa e a prua. le bocche da fuoco, con le quali avrebbero ‐ a tempo debito, un anno dopo ‐ sparato contro le forze dellʹEmiro indiano Zamorino , che aveva accolto con amicizia otto anni prima Vasco da Gama ed i portoghesi, solo per doversene pentire per il resto della sua vita. PANCALDO E MAGELLANO , INCONTRO IN INDIA
Fu proprio in India che i due principali protagonisti di questa storia fecero conoscenza. Correva lʹ anno di grazia 1506, battaglia marittima di Cannanore, India. Pancaldo era partito assieme agli equipaggi in quello storico giorno. Il giorno era storico ma per Leon,‐ lo ricordava come se fosse ieri ‐ era una bella mattinata come quelle solite quando sʹimbarcava. Non vi era nulla al mondo che lo esaltasse di più. Lʹodore del legno di una bella nave, le corde, le vele, i gabbiani bianchi ad ali spiegati come le vele, quella distesa che ‐ lasciato il porto ‐ si offriva ai suoi occhi scrutatori. Ne apprezzava ogni increspatura bianca di quellʹimmenso tavolo azzurro, verde, cristallino come un pittore apprezza con un sol colpo dʹocchio la sua tavolozza di colori. Il mare. Una parola che aveva avuto sulle labbra fin da giovinetto. Ascoltava, nella sua modesta casa a fianco del torrente Letimbro, i racconti dei suoi. Che meraviglia quando, a dieci anni, il nonno gli disse che aveva conosciuto ed era stato amico di quel giovane ardimentoso, Cristoforo, che aveva scoperto il nuovo mondo.
ʺDove nonno?ʺ chiedeva il fanciullo, incuriosito e con gli occhi sognanti. ʺLontano, caro, molto lontano, oltre quellʹorizzonte che vediamo quando andiamo alla foce del nostro torrente. Il mare celava nuove terre ed il figlio del cardaiolo genovese, Domenico, amico mio, le ha scoperte...ʺ Ricordi, un mare di ricordi. E poi, anche lui a navigare, per cercare in quellʹimmensità azzurra la sua stella spendente, il suo destino. Era lì al timone di una delle venti navi della flotta diretta in India, sulla rotta già tracciata da Diaz , da Gama e seguita da Cabral, la circumnavigazione dellʹAfrica, con quel capo tormentoso da aggirare. La sua nave era la Virgen du Carmo, la stessa su cui era imbarcato Magellano. Per tutta la lunga, estenuante, traversata, i due si incroceranno senza parlarsi una sola volta. Ma i volti restano impressi, anche se non ci si conosce. Si conosceranno a Calcutta. Un anno dopo. In circostanze drammatiche per tutti. Il sultano Zamorino di Calcutta, con la sua veste di seta del Catai ricca di pietre preziose, e di ricami di finissimi tessitori giunti persino dal Cipango aveva appena finito di ricevere un messo dei dogi veneziani. Questʹuomo, giunto dalla lontana città lagunare, gli aveva rappresentato un quadro spaventoso della situazione in cui si trovava. Aveva avuto torto di non cacciare i portoghesi da subito. I commerci con Venezia languivano. Anzi erano stati proprio interrotti. Re Manuel , il portoghese perfido ed infido, lʹaveva ingannato. Non doveva aprire le porte del suo palazzo a quegli infedeli, onorarli con doni preziosi, con ricchi presenti dʹoro e dʹavorio. Doveva ucciderli tutti... ʺMa anche tu, veneto, sei un infedele!ʺ aveva ridacchiato Zamorino. Ma sapeva, in cuor suo, che lʹambasciatore di Rialto aveva ragione. Eccome se aveva ragione! Quei miserabili dei portoghesi avevano messo tutti nel sacco. Venezia, la sua maggiore importatrice di spezie pregiate e di seta e di perle di Ceylon in quel lontano mare dʹOccidente, era rovinata. Le parole del suo messo lo indicavano senza equivoci. Che ne sarà del mio regno? si chiedeva non certo a torto il sultano di Calcutta. Aveva deciso: avrebbe attaccato i portoghesi e le loro navi. Aveva forze, cento volte superiori. Bastava prenderli di sorpresa ed il gioco era fatto. Avrebbe liberato la sua terra da quei rapaci che portavano via ogni cosa, trasformando un sultano come lui in un suddito, un regno in un umiliante protettorato, un monarca assoluto in un vassallo. Ma tutto doveva restare segreto. Dal veneziano innominato ebbe la promessa di un aiuto. Non ci contava troppo Zamorino. Non si fidava più di nessuno: né di Lisbona, né di Rialto! ʺQuesto veneziano è un cane cristiano come tutti gli altri. Prima mi libererò dei portoghesi. Poi toccherà ai veneziani.ʺ confidò il sultano al suo più vicino consigliere, Abdul, il quale sogghignò e rispose: ʺCosì vanno trattati questi infedeli. Sono tutti uguali, in realtà. Pensano solo ad arricchirsi a spese nostre...ʺ ʺMa avranno una bella sorpresa!ʺ La sorpresa, invece, non ci fu. Anzi, ci fu. Ma ai danni di Zamorino, il sultano. Girava a quei tempi per il mondo musulmano e per lʹIndia soggiogata dallʹIslam, un singolare avventuriero, Lodovico de Varthema. Nessuno sapeva da dove venisse, né dove andasse. “Non riesco a leggere le noiosissime pergamene con racconti di viaggio – diceva il giovane, con toni faceti – ma se si tratta di andare a vedere, per me il mondo non ha confini.” Era stato quel diavolo di de Varthema, persino alla Mecca. Aveva visto la pietra nera, sacra ai musulmani, nella città santa. Aveva percorso tutte le terre dʹOriente. A piedi, a dorso di asino o di mulo, con le carovane dei mercanti arabi o giudei. Aveva imparato qualche cosa di una miriade di linguaggi e dialetti. Poi doveva averla combinata grossa con qualche sultano. Visita clandestina allʹharem, fingendosi eunuco, o qualcosa del genere. Non lo volle mai raccontare. Fuga precipitosa verso Calcutta, travestito da imam. In una taverna, pullulante di musulmani , aveva sentito qualche cosa relativa al progetto di Zamorino di fare la festa ai portoghesi. Di religioni in India, Lodovico, ne aveva viste ed udite tante, credenze negli dei, nella natura, nella metempsicosi (se rinasco – aveva pensato – voglio essere una scimmia che se la spassa sui rami, ma non un elefante, poveretto che sgobba come... un pachiderma!). Ma di fronte alla minaccia per i suoi correligionari, si era ricordato di essere cristiano. Doveva avvertire i portoghesi, anche se non gli erano particolarmente simpatici, per tutti i templi che avevano distrutto a Ceylon e a Goa. Templi testimonianza di altre fedi, ma soprattutto dellʹIslam, che a sua volta, per la verità aveva distrutto altri templi ed altri simboli sacri: induisti o buddhisti. “Le religioni! Valle a capire tutte! Ognuna di esse proclama la verità assoluta, il dogma e lo proclama di brutto e con brutti metodi...ʺ aveva esclamato lʹavventuriero. Ma qui cʹerano in gioco le vite di quei poveretti sulle navi allʹancora nel porto di Calcutta. Eppoi erano cristiani come lui e la loro religione era superiore a tutte le altre. Come avvertirli, però, dellʹimminente pericolo ?. Sotto il suo turbante di falso imam, si recò al porto. Vide la Virgen du Carmo e scorse a bordo un figura di marinaio che, dallʹalto, osservava lʹandirivieni della folla che si accalcava nelle viuzze sottostanti. “Ehì della nave!” gridò in portoghese, Lodovico de Varthema. “Ebbene? Que quiere usted? Que tal ?” rispose lʹuomo in spagnolo, ma con uno strano accento. “Sei italiano!” replicò Lodovico, cui non sfuggivano le inflessioni fonetiche delle lingue italiche. “Magari ligure!” “Per un musulmano la sai lunga! Che vuoi?” ʺParlare al comandante...ʺ “Non è a bordo!” “Ad un sottufficiale allora....” “Di che si tratta ?” “Di vita o di morte. Della vostra morte, se non mi ascoltate o, se ascoltandomi, non mi crederete.” Pancaldo, perché era lui quel marinaio, comprese che quel tizio, i cui tratti non gli erano del tutto sconosciuti, non raccontava frottole. Aveva sicuramente qualcosa da dire, per chiedere addirittura di essere messo in presenza del comandante.” “Avanti, la scaletta è calata. Sali. Ti autorizzo...” Lodovico de Varthema, con un agile balzo saltò sulla scaletta ed eccolo a bordo. Fu il primo lui a riconoscere il marinaio che aveva di fronte, adesso che poteva osservarlo da vicino. Infatti, lo scrutò ben bene. Eppoi, proruppe in unʹesclamazione di sorpresa e di stupore. “Ma non è possibile. Non credo ai miei occhi. Leon! Tu qui?” A sua volta il marinaio aguzzò lo sguardo. Lodovico si era tolto il turbante ed il mantello, restando a capo scoperto e sotto il mantello aveva un abito di foggia veneziana. “Mi riconosci?” “Lodovico!” “Sì, ci eravamo lasciati nel porto del Pireo, ricordi ?Dopo quella traversata su quella nave, beh, chiamiamola nave, dal porto di Venezia...” “Tu era diretto in Oriente, se ricordo bene... A quanto pare in Oriente ci sei andato!” “E tu, naturalmente, sempre in giro su una nave o su unʹaltra. Ma questa è una nave da guerra portoghese... Che ci fai su una caracca ?” “Il mio mestiere e basta. Le armi le maneggiano gli altri. Però, come è piccolo il mondo. Aveva ragione Colombo a dire che la terra è poca. Dunque, come ti dicevo, io non maneggio armi. Quelle però non mancano a bordo... ” “Tra non molto ne avrete bisogno. Il sultano di Calcutta prepara una sorpresa per tutti voi. Ignoro quando attaccherà, ma per attaccare stanne pur certo che è sicuro!” “Vieni con me!” gli intimò Leon. Fu così che si trovoʹ di fronte il marinaio soldato di guardia. Era uno dei millecinquecento marinai portoghesi pronti a combattere in caso di bisogno. Quella rivelazione salvò la vita a parecchi uomini e fece conoscere Pancaldo a Magellano e questʹultimo ai suoi superiori. Il sobresaliente si prese tutto il merito di aver avvertito il comando del pericolo che sovrastava le loro teste. Ma a Pancaldo interessava la salvezza dellʹequipaggio – e quindi la sua‐ non gli importava molto di riconoscimenti che lʹapparato gerarchico e militare portoghese, del resto , non sarebbe stato mai disposto a riconoscere ad uno straniero. Così il proditorio attacco di Zamorino fu previsto e sventato, almeno in parte. Sì, ricordava Leon , fu una vera strage e gli uomini di Francisco de Almeida uccisero tanti indù musulmani per non venire a loro volta uccisi. Ma vi furono morti numerosi in entrambi i campi. Magellano, da allora fu riconoscente a Pancaldo per la vita. Tanto più che si ritrovarono ancora una volta in pericolo al largo di Goa ed il nocchiero savonese rivelò doti eccezionali di bravura, salvando praticamente una nave dal colare a picco in piena tempesta. Quanto a Lodovico de Varthema quellʹavventuriero, forse era veneziano. No – adesso ricordava – era un bolognese. Strano personaggio davvero, un tipo sanguigno, un poʹ burlone, certo un grande avventuriero. Chissà che fine ha fatto? Voleva seguire la via della Seta, sulle orme di Marco Polo. Che Dio lo protegga. Spero, pensò Leon quella notte, che non si trovi nella situazione in cui mi trovo io, prigioniero e senza alcuna speranza di rivedere la patria così lontana. Anchʹio, pensava il prigioniero, vorrei poter tornare in patria, invece, vengo trasferito da una prigione allʹaltra per colpe che non ho. Mi si rimprovera di aver fatto il marinaio su una flotta della Spagna. Eʹ questo è lʹunico mio crimine. Ma agli occhi dei portoghesi sembra davvero un grave delitto. CERCARE UN PASSAGGIO AD OVEST M a i ricordi di Pancaldo andavano anche dove lo aveva portato, a suo tempo, soltanto lʹimmaginazione. Non era vita vissuta.
Erano intuizioni di una mente fertile . Sprazzi di luce, provenienti forse dal profondo insondabile dellʹinconscio. Si raffigurava gli avvenimenti che avevano preceduto la grande spedizione. Così si immaginava nel Castello di Valladolid, in una sala stracolma di mappe marittime gettate alla rinfusa su ampi tavoli di mogano, con le vaste pareti tappezzate di rosso e decorate di arabeschi e oriflammi color ocra, con arazzi e quadri raffiguranti caravelle in mari procellosi, re Carlo V,il figlio di Filippo il Bello e di Giovanna la Pazza, nativo di Gand, nelle Fiandre, ma destinato al Sacro romano impero. Consultava, Carlo appena diciottenne, i nobili consiglieri di Castiglia sulle iniziative da prendere per contrastare quella che ogni giorno diventava lʹespansione portoghese sugli oceani. Sapeva, Carlo V, che la grande impresa di Cristoforo Colombo, dovuta alla concessione da parte dei suoi nonni materni, Ferdinando ed Isabella, delle tre storiche caravelle la Santa Maria, la Nina e la Pinta, aveva aperto alla Spagna la via ad Ovest, tanto ricercata e tanto voluta per far concorrenza ai portoghesi, cui ‐ dopo la spedizione di Vasco da Gama che aveva circumnavigato lʹAfrica‐ era ormai assicurata la via marittima ad Est per raggiungere le Indie. Vi era stata, nel frattempo, la ratifica del Trattato di Tordesillas del 1493, la “raya”, che in pratica spartiva tra Spagna e Portogallo una sfera dʹinfluenza marittima sulle vie delle spezie della Cina e del Catai. Era stato Papa Alessandro VI, Rodrigo Borgia, che era nativo di Valencia, a fare ricorso alla cosiddetta “donazione di Costantino” per suddividere le terre dʹoltremare, appena scoperte e i territori delle missioni attribuendone per lʹappunto la competenza giuridica in parte alla Spagna ed in parte al Portogallo. Ma il Portogallo era avvantaggiato perché le sue caravelle avevano garantita la rotta orientale e, aggirando il continente africano, lʹIndia ed il Catai venivano raggiunti. Galeoni carichi di spezie, che rappresentavano una vera ricchezza per tutti meno i produttori indigeni, ma per gli intermediari e per i raccoglitori dei dazi (cioé i re) era una vera manna. Anche per la Chiesa di Roma: ogni grano dʹincenso aveva il suo valore. Certo, la Spagna aveva proseguito, dopo i viaggi di Colombo, lʹesplorazione del Nuovo Mondo. Finché una spedizione di conquistadores, guidati da Vasco Nunez de Balboa, affacciandosi sulle alture di Panama aveva visto lʹOceano dallʹaltra parte. Quel grande oceano cui Magellano darà il nome di Pacifico. In un certo senso, lo scopritore del Pacifico fu proprio Vasco Nunez de Balboa. Non aveva potuto navigarlo, ma lʹaveva visto! Anzi, qualche imbarcazione nelle acque del nuovo oceano, Nunez de Balboa lʹaveva fatta scendere. Ma si trattava di piccole scialuppe non adatte a lunghe traversate, ovviamente. Così aveva girato un poʹ per le coste e nullʹaltro. ʺDeve assolutamente esistere, nel nuovo continente scoperto da Colombo, un passaggio, una via che porti i nostri galeoni e le nostre caravelle alle Indie, al Catai, sulla via delle spezie e della seta!ʺ esclamò Carlo V, imponente nel suo abito nero, con il labbro inferiore prominente, difetto dei suoi avi ma che i pittori di corte si guardavano bene dallʹaccentuare. Si rivolgeva, Carlo V, appena diciottenne, ai dotti di Salamanca, forse non gli stessi che fino allʹultimo avevano contestato le ardite teorie di Cristoforo Colombo sulla possibilità di una ʺvia ad Ovestʺ per circumnavigare il mondo, ma in ogni caso sempre prudenti di fronte alle ʺnovità”, come tutti i sapienti dellʹepoca. ʺMaestà, può esistere quel passaggio ‐ disse uno dei più apprezzati cartografi di Castiglia che aveva a lungo studiato i calcoli del fiorentino Paolo del Pozzo Toscanelli, convincendosi che la sfera terrestre era molto più grande di quanto aveva previsto il navigatore genovese‐ ma il viaggio potrebbe davvero essere lungo!ʺ ʺMa certo che sarà lungo. Le nostre caravelle sono giunte con Solis fino al Rio de la Plata e questo passaggio non è saltato ancora fuori, i portoghesi lo stanno cercando pure loro e sono fermi al Brasile. Qui si tratta di arrivare primi. I portoghesi sono migliori navigatori questo è riconosciuto, ormai. Ma i loro sovrani hanno poca intraprendenza ed anche questo è noto. Tutti noi sappiamo che prima di rivolgersi alle loro altezze serenissime Ferdinando ed Isabella, Colombo aveva frequentato le corti di mezza Europa a cominciare da quella di Genova la sua patria, ma poi subito dopo era andato a Lisbona e persino alla corte di Londra. Non poteva credere che un paese di così grandi navigatori gli negasse una flotta. Ma lo sappiamo tutti: Giovanni è uno scettico. Stesso discorso per gli inglesi di Enrico VII che si sono svegliati soltanto per spedire Caboto, ma senza scoprire il passaggio tanto ricercato. Adesso, quel che è in gioco è il mondo. La supremazia sugli Oceani rischia di diventare portoghese, dopo che le Repubbliche marinare italiane sono rimaste chiuse nel Mediterraneo. Guardate i dogi veneziani, dopo Marco Polo, con un pò di immaginazione e spirito dʹavventura, potevano spingersi fino al Catai. Sapevano che cʹera, ma non lʹhanno cercato. Né ad Est, passando attorno allʹAfrica e neppure ad Ovest, dove solo noi abbiamo spedito Colombo a cercare la via delle Indie. Ed ecco un nuovo continente là in mezzo allʹOceano inesplorato. Adesso, si tratta di completare lʹopera. Ho preso contatto con un ammiraglio portoghese, pensate un pò, Ferdinando Magellano...ʺ ʺUn ammiraglio portoghese al nostro servizio!ʺ esclamò il nobile Felipe Lopez, quasi incredulo. ʺSì, cʹè poco da meravigliarsi. Eʹ caduto in disgrazia presso il suo sovrano, Manuel il Fortunato. Ma spero che, stavolta, abbia fatto una mossa sfortunata. Almeno per lui e per il Portogallo. Lasciarsi sfuggire un simile navigatore. Magellano cercava un ingaggio. Gli hanno risposto accusandolo di chissà quali torti veri o presunti. Lʹabbiamo ingaggiato noi. Eʹ un ammiraglio terribile, inflessibile e duro con gli equipaggi, temuto dai naviganti, malvisto dai portoghesi, ma è lʹuomo che fa al caso nostro. Su ciò non vi è alcun dubbio. Ha dovuto lasciare la sua patria per varie ragioni che non starò qui ad esporvi. Ma ormai il concetto di patria in questo mondo che ogni giorno diventa più grande, senza confini, che senso può ormai avere per uomini eccezionali. Io stesso sono nato a Gand nei paesi fiamminghi. Non penserete che mi senta un uomo dei Paesi Bassi oppure un Castigliano. Madrid, Gand, Colonia, Amsterdam, Anversa, Bruxelles, che senso ha darsi delle frontiere quando stiamo cercando gli ultimi confini del mondo. La Spagna resterà grande perché lo ha compreso, ha intuito questa realtà, ha favorito gli uomini disposti a tentare le grandi avventure e rischio della vita. Genova non lʹha capito, ma almeno i suoi banchieri ci finanziano. Venezia,per il disappunto di rinunciare alla terrestre “via della seta” non lʹha proprio capito; Lisbona lʹha capito ma spero per i nostri cugini portoghesi che lʹabbiano capito troppo tardi..Intanto, si muovono eccome gli inglesi e con che flotte! Qui, abbiamo avuto le ricchezze del Messico, i tesori dei Maya. La nostra politica lungimirante ha aperto la strada alla conquista di quellʹimmenso continente nuovo, scoperto da Colombo,che in quattro successive spedizioni ha esplorato la costa Sud di Cuba, poi ha scoperto Trinidad ed il Venezuela, esplorato le coste di Honduras,Nicaragua e Panama. Politica di scoperta proseguita con i viaggi di Alonso de Ojeda e di Amerigo Vespucci. Adesso, tocca a Magellano e quel che non è riuscito a Colombo, riuscirà a lui: scovare la via delle Indie passando da Ovest. “Magellano è ancora a Lisbona ?” si azzardò a chiedere un dotto di Salamanca. “No. Eʹ già qui a Valladolid. Domani, lo riceverò e firmeremo un Patto segreto. Toccherà a lui mettere insieme gli equipaggi che parteciperanno alla grande spedizione...Gli ho dato carta bianca fino ad un certo punto per la scelta degli equipaggi. Naturalmente, ci saranno a bordo anche i miei informatori! Per la Spagna, questi sono tempi cruciali. I nostri traffici possono essere garantiti oppure seriamente minacciati. Eʹ in gioco lʹegemonia mondiale.” “Maestà, le ragioni commerciali sono sufficienti a compiere tanti sforzi, ad investire somme elevate per il Tesoro della corona ed a rischiare tante vite?” chiese coraggiosamente un consigliere. “Per un uomo come me che cerca, in tutti i modi, di riunire sotto la corona di Spagna un grande impero dʹOccidente, sia per eredità dinastica che per volontà divina, prendere rischi è non solo indispensabile, ma obbligatorio. Lʹimpero prende forma: Spagna, regno di Napoli e di Sicilia, gli Stati asburgici,ereditati da mio padre Filippo e adesso le colonie americane. Eʹ la riunificazione di un Sacro romano impero, come quello di Carlo Magno, ma stavolta sarà ispanico‐ fiammingo e germanico. La Francia di Francesco I si sente come assediata dalla Spagna, ma è lʹEuropa intera ad essere assediata e non da noi, bensì dai turchi ottomani. Premono sempre più ai confini del mondo cristiano. Credete che mi preoccupi solo dei motivi commerciali ? Per la “via delle spezie e del cotone e della seta, per i nuovi vegetali commestibili? Oppure per lʹoro, lʹargento”.le perle ? Ma andiamo! Certo, vi sono le ricchezze in prospettiva, ma non solo quelle. Pensate cosa vorrebbe dire per la Cristianità tutta intera sbucare alle spalle dei Turchi e dei Saraceni! E come ? Con le potenze marittime europee, finalmente in pace ‐noi ed i cugini portoghesi, in primo luogo – a prendere dʹassalto i musulmani nelle loro roccaforti più sicure, navigando dai porti dellʹEstremo Oriente. Ma la Chiesa ha, in Germania, i suoi guai con Martin Lutero. Qui le Alleanze nascono e muoiono e durano lʹespace dʹun matin, come dicono i francesi, i quali tanto per cominciare , non esitano a stringere alleanze col mondo musulmano, proprio per timore di una nostra egemonia terrestre in Europa e marittima nel Nuovo Mondo. Non venitemi a parlare di rischi per i naviganti e per gli esploratori, perché lʹEuropa vive nel rischio, vive sotto la spada di Damocle di una catastrofe e questi Stati europei vanno avanti con meschine lotte intestine. Noi contro i francesi, i francesi contro di noi, i portoghesi a caccia di unʹegemonia sui mari che nessuno è disposto a concedere. Noi per primi. Ma credete che il Regno dʹInghilterra sia disposto a stare a guardare ? E la stessa Francia ? Credetemi: il mio è un tentativo di unificare lʹEuropa ed il Nuovo Mondo, appena scoperto. Per questo ho bisogno di trovare la via delle Indie, per dare un assetto stabile ad un colosso che se non completato e reso sicuro può avere i piedi di argilla. E le cause di questa vulnerabilità , in una parola, sono queste: non si può dominare il mondo se non si sa quanto il mondo sia grande e quali siano i suoi confini...” Un dotto di Salamanca mormorò tra i denti: “Altro che difesa del Sacro romano impero, questo nostro sovrano vuole dominare il mondo da Est ad Ovest e da Ovest ad Est. Eppoi da Nord a Sud. Ma è vero: prima bisogna sapere quanto è grande e dove finisce questa sfera terrestre. La Casa de contrataciòn, in ogni caso, ricevette lʹordine reale di assecondare in ogni modo le richieste che avrebbe formulate lʹammiraglio portoghese. Magellano pretese cinque caravelle ed il diritto di scegliersi le persone a lui più vicine sulla caravella ammiraglia. Una limitazione ben precisa riguardò il suo entourage portoghese. “Può condurre con sé solo cinque portoghesi – gli dissero quelli della Casa de contratacion‐ perché re Carlo vuole così. Tanto fece e tanto disse che di portoghesi a bordo ne ottenne venti. Ma lui aveva rinunciato alla nazionalità portoghese, assumendo quella spagnola. LEON SI SPOSA E PARTE VERSO LʹIGNOTO
Mentre queste intese si stringevano alla corte di Carlo I (meglio conosciuto però come Carlo V del Sacro Romano Impero), e mentre oscure trame di vendetta sʹintessevano alla corte di Lisbona, da parte dei Manuel che si sentiva tradito da Magellano e dal cartografo migliore del regno Ruy Faleiro, che avevano sottratto dagli archivi di Stato portoghesi preziosi documenti per offrirli alla Spagna, su una nave savonese che faceva la rotta di ritorno da Tunisi verso la città ligure, cʹera al timone proprio lui, Leon che, come tutta la gente di mare dellʹepoca, amava ripetere il detto latino ‐ navigare necesse est. Una vita sul mare perché il mare era la sua vita. Ricordava, eccome, quei tempi felici dellʹepoca gloriosa. Era tornato dallʹOriente con un bel gruzzolo , poi aveva ripreso a navigare nel Mediterraneo. Come agli inizi di carriera.
“Allora, Pancaldo ‐ gli aveva detto il nostromo varazzino Pietro Vivaldi – ho sentito dire che sei impaziente di tornartene a casa, dato che devi sposarti. Eʹ così, vecchio lupo di mare?” “Hai sentito bene, mio caro amico!” gli rispose sorridente Leon. ʺHo navigato parecchio in questi ultimi tempi e ho diritto ad un pò di riposo...ʺ ʺE sposarti me lo chiami riposo?!ʺ aveva replicato lʹaltro, ridendo. Sì, tutto gli veniva in mente. Quello che aveva fatto e detto lui e ciò che aveva risposto Vivaldi. Leon aveva riso di cuore e ribattuto: ʺSempre meglio sposarsi e starsene un pò a casa, che imbattersi in una caracca genovese, pronta a fregarci il carico, visto che siamo diretti a Savona. A proposito, non ho mai capito perché i genovesi ce lʹhanno tanto con quelli della nostra città. Adesso, poi cʹè a Genova, quellʹammiraglio, Andrea Doria, che non mi ispira troppa fiducia. Noi savonesi dovremo aprire bene gli occhi... ʺ ʺ Vecchia ruggine ‐sentenziò Vivaldi ‐ roba di concorrenza commerciale tra due porti così vicini. Io sono varazzino, ma di padre e madri genovesi, sai. Non vi sono mai stati scontri marittimi tra le nostre città. Solo un poʹ di concorrenza nei commerci. ʺ “Ho capito. Vuol dire che non siamo poi così nemici.” “Figuriamoci. Quaranta chilometri di distanza tra le due città. Se siamo nemici noi, allora dove sono gli amici ? “ “I Colombo si erano trasferiti a Savona, ricordò Pancaldo, col vecchio padre Domenico che faceva il cardaiolo. Aveva quattro figli.” “Eʹ storia nota. Ma poi il vecchio Colombo tornò a Genova. Sempre povero come quando era partito. “ “Arricchirsi a Savona non è facile.” “Non è facile neppure a Genova, credimi! Il lavoro bisogna cercarselo dove cʹè.” Leon continuava a tener saldamente in pugno il timone, e sorrideva. A dire il vero, non gliene importava un bel niente delle controversie marittimo‐commerciali tra i suoi e gli altri, anche se doveva ammettere ‐da quel pò di storia patria che un prete gli aveva insegnato ‐ che Savona, puntualmente, finiva per essere quasi sempre nel campo dei perdenti. Già dallʹepoca dei romani. Savo era con i cartaginesi di Annibale, elefanti e tutto il resto, mentre Genua ‐fedele a Roma ‐ aveva vinto la partita. Poi, Savona ghibellina contro Genua guelfa, e avanti di questo passo. Ma che importava! Era tempo di sposarsi. Aveva ormai trentasei anni, con quellʹaria rude e anche severa, ma senza tratti di asprezza, il che rivelava un buon carattere ed una sicura giovialità. Tutti a bordo lo apprezzavano, a partire dal comandante, Luigi Spinola, un genovese anchʹegli ansioso di rivedere la Torretta della Quarda e di poter sbarcare per correre a rivedere la Lanterna e riabbracciare moglie e figli. Pancaldo pensava alle sue imminenti nozze. Era fidanzato con Teresa, una giovane di Varazze, castana con gli occhi celesti come il suo mare, che aveva una famiglia numerosa ma i cui genitori, commercianti, possedevano un discreto reddito e avevano potuto garantire allʹunica figlia una dote piuttosto cospicua. Le nozze ebbero luogo un mese dopo. Ma il mare era il grande avversario di Teresa, la novella sposa. In tutti i porti cominciarono a circolare voci della grande spedizione che si stava preparando a Siviglia. Gli ambienti marittimi di mezza Europa erano informati del fatto che un ammiraglio portoghese, caduto in disgrazia e cacciato dalla corona di Lisbona, era entrato al servizio di Carlo V di Castiglia e di Aragona, ed ora cercava membri di equipaggio tra tutti i marinai più esperti per andare a scoprire la mitica via delle Indie verso Ovest, tralasciando le rotte dellʹEst, ormai controllate dal Portogallo. Leon, quando apprese il nome di quel comandante lusitano non frappose indugi. Non aveva più rivisto Magellano dai tempi dellʹIndia, ma adesso sapeva qualʹ era la sua rotta futura. Ebbe con Teresa una spiegazione franca e serena. Ma dai toni un pò corrucciati e tristi. “Siamo sposati da poco – le disse – ma tutta la mia carriera di marinaio dipende, forse, da questa impresa. Eʹ la più grande avventura del secolo, grande quanto quelle compiute da Cristoforo Colombo, come quella di Amerigo Vespucci, di Giovanni Caboto, di Bartholomeu Dias ,di Vasco da Gama, di Cabral, tanto per rimembrarne alcuni. Forse anche maggiore, in questo caso. Non posso rimanere a casa, mentre altri uomini, marinai come me, stanno per partecipare a questa incredibile esperienza, unica nella vita di un uomo di mare. Sono certo che mi comprenderai...” Teresa provò ad opporre, con fare modesto, qualche timida obiezione. Ma lo fece ben poco convinta, perché, in fondo ‐avendo sposato un marinaio ‐se lʹaspettava, da un giorno allʹaltro. Ma si aggrappò ad un ultimo barlume di speranza. “Non è detto‐ disse ‐ che sia garantito il tuo ingaggio...Eppoi abbiamo appena messo su casa e già vuoi partire. Per chissà quanto ... ” aggiunse pensierosa e malinconica. “Sono certo che quando mi presenterò allʹammiraglio e rivedrà la mia faccia di certo mi riconoscerà. Verrò arruolato di sicuro. Conosco questo Magellano e lui conosce me. Eʹ un capitano portoghese che sa il fatto suo. Credo potrà valutare anche la mia esperienza di marinaio e di nocchiero. A parte il fatto che a Goa...Beh ma questa è storia vecchia. ” “ Sì – rispose la novella sposa – non ti voglio ostacolare, Leon, in alcun modo. Quando ho detto si davanti allʹaltare, sapevo benissimo che da lì a poco saresti ripartito. Certo, non sapevo su quale rotta e quale destinazione. Quando eravamo soltanto promessi, in genere, navigavi nel Mediterraneo... Invece, adesso, si parla di un viaggio lungo nellʹOceano. Chissà quando ti rivedrò...Non sapevo che fosti stato in Asia.” ”Era parecchio tempo prima di conoscerti...” “Comunque sia, chissà quando ci rivedremo...” Lui non rispose, perché non aveva risposte a questo interrogativo. Era un dilemma che lo angustiava, anche se non osava confessarlo neppure a sé stesso. Non si nascondeva i rischi immensi che la nuova avventura sui mari comportava. Ma era disposto a farsi avanti, non solo perché lʹofferta di cui si parlava nei porti, appariva come estremamente vantaggiosa dal punto di vista economico, ma anche perché cʹera in ballo un enorme prestigio da difendere. Insomma, riuscire in quellʹimpresa, partecipare a quella storica spedizione voleva dire assicurarsi un nome negli ambienti marittimi di tutta Europa. Era la consacrazione per qualsiasi uomo di mare, soprattutto per lui che aveva una buona nomea. Non se lo nascondeva, Leon, e lʹambizione che fin da giovane lʹaveva animato e spinto ad intraprendere un mestiere pieno di rischi, ma esaltante, adesso gli suggeriva eloquentemente la via da seguire. Era la via della Spagna. Partì senza indugi, salutando la moglie , i suoi vecchi genitori e tutti i membri della sua nuova famiglia. Il distacco con la giovane sposa fu particolarmente toccante. Teresa gli fece mille raccomandazioni: “Ti aspetterò – gli disse – cerca di agire con prudenza. Io ti raccomando alla Vergine Maria e a tutti i Santi.”Teresa era una donna riservata, e molto devota. Ma aveva un caratterino spigoloso, tanto che i suoi la chiamavano, scherzosamente, “la Selvaggia”. Nei giorni prima della prevista partenza, convinse i suoi familiari a recarsi dal vescovo di Savona, assieme a lei, per fare celebrare una Messa, al fine di raccomandare il marito al buon Dio, affinché lo proteggesse nella sua ardimentosa iniziativa. Il vescovo (era anchʹegli un della Rovere, la famiglia dei Papi savonesi) quando venne a conoscenza dei motivi per i quali Teresa ed i suoi richiedevano la cerimonia religiosa, comprese che si trattava di un avvenimento importante, poiché era a conoscenza dei preparativi che si svolgevano in Spagna. Nulla sfuggiva alla Chiesa, governata in quegli anni( 1513‐1521) da Leone X, cioé Giovanni deʹ Medici, che era il successore di Giulio II (Giuliano della Rovere). Leone X era un raffinato cultore delle arti e delle scienze , aperto,quindi, alle novità. Il vescovo, di fronte allʹonesta richiesta di Teresa fece molto di più. Informò i fedeli della piccola città – in pratica, tutti i cives (dai commercianti agli artigiani, dai marittimi ai coltivatori delle terre circostanti) di quella Messa di preghiera e di giaculatorie per propiziare la Grazia divina in favore dellʹanima del navigatore che si accingeva a partire per una grande impresa, apportatrice di onore e fama per sé stesso e per la sua gente. Il vescovo non ignorava che il Consiglio della Repubblica di Genova aveva ancora motivi di rammarico per non aver compreso la grandezza del progetto di Cristoforo Colombo, sostenuto da un cartografo del calibro di suo fratello Bartolomeo e di aver rifiutato al loro conterraneo i fondi che sarebbero stati necessari per finanziare la spedizione che portò alla storica scoperta del Nuovo Mondo. Una macchia – pensava giustamente il vescovo savonese – che le autorità laiche ed ecclesiastiche, dovevano essere ansiose di cancellare in qualche modo. Per tale motivo, se non per altro, lʹalto prelato dette la dovuta solennità alla celebrazione religiosa pro‐ Pancaldo, invocando sul navigante la protezione del cielo. Leon era anchʹegli credente e devoto, un buon cristiano, ma anche ‐come tutti in quei tempi, particolarmente i marinai – parecchio superstizioso. Appresa la notizia della Messa in Duomo, da Teresa, fece i debiti scongiuri e mormorò tra sé:”Spero non si tratti di un De Profundisʺ. La moglie che lʹaveva udito bisbigliare quel dubbioso interrogativo, sorrise e rispose:”No, è una preghiera collettiva che la tua città ti dedica col cuore, per auspicare la protezione divina sulla tua salute e sul tuo successo, per proteggerti dal male. Quando sarai tornato, faremo celebrare un grande Te Deum di ringraziamento. La povera Teresa lo ignorava, ma sarebbero trascorsi addirittura sei anni interi, prima che tra le navate del Duomo, abbellito e reso ricco da Sisto IV, risuonassero gli organi e gli strumenti musicali di quel grande Te Deum e i Deo Gratia per salutare il ritorno di Leon, coperto di gloria e di onori. Effimeri onori, poiché in questo mondo non vi è bene che non termini, né male che, in qualche modo, non trovi il suo epilogo. Sic transit gloria mundi. Intanto, in una radiosa alba, quando Savona, coi suoi palazzi nobiliari, si risvegliava al canto di unʹinfinità di uccelli, che svolazzavano liberi sulle stradine che a poco a poco si riempivano di gente laboriosa, artigiani e,naturalmente, per primi i panettieri che tiravano fuori dai forni le loro focacce calde, vendendole ad una fila di affamati acquirenti mattutini. In quel sorgere del sole, Pancaldo lasciava la sua città, guardando ancora una volta la Torre della Quarda, simbolo della città piena di torri e di torrette di guardia per proteggere le mura dalle incursioni saracene. A SIVIGLIA PRIMA DELLA GRANDE AVVENTURA
Il viaggio verso Siviglia, intrapreso a bordo di una nave che faceva rotta per il Marocco, fu piuttosto lungo, ma giunse in tempo per farsi ingaggiare non dagli emissari della corona spagnola, ma dal comandante in capo in persona.
Ebbe un colloquio con i consiglieri marittimi di Castiglia e con Magellano in carne ed ossa, uomo di aspetto imponente, con una barba nera, naso aquilino, sguardo dʹacciaio. Sapeva che quello era un ammiraglio abituato a giudicare le capacità di un marinaio alla prima occhiata. Ma sapeva anche che quella non era la prima occhiata, dati i ricordi della spedizione in India. Egli volle sapere quali viaggi aveva fatto, sotto il comando di chi, in quali periodi e con quali imbarcazioni. Le rispose giunsero sicure e franche. Lʹammiraglio comprese di aver di fronte un uomo esperto e un marinaio ostinato e coraggioso. “Dunque comandante – disse ad un certo punto Leon – non mi riconoscete...Sono così cambiato?” Magellano lo scrutò a lungo. Quasi con diffidenza, poi sʹilluminò in volto: ”Tu qui a Siviglia? Una bella sorpresa,davvero!” “Potevo mancare ?” “No di certo. A Goa, in quel viaggio memorabile, con la tua perizia ci salvasti tutti da quella devastante tempesta. Sì, se non era per te, adesso, non saremmo qui a discutere. Non avevo mai visto tanta perizia al timone, mentre ondate gigantesche si abbattevano su quella nostra caracca, mi pare che fosse “U rey du Portugal” o qualcosa del genere! Ma dovʹeri finito, diavolo dʹun hombre ? Nella mia città, come faccio dopo ogni viaggio per mare.” “Ah, sì Genua!” “No, Savona....” Eʹ lo mismo ! Voi liguri siete curiosi, sempre lì a precisare il luogo esatto della vostra nascita. Io ho viaggiato così tanto che manco mi ricordo dove sono nato. Credo a Porto, ma non ne sono poi tanto sicuro... Siete tutti così pignoli e scrupolosi voi genovesi!?. Ma tu Leon sei il nocchiero che ciascun comandante vorrebbe avere a fianco. Almeno io lo so per certo. Verrai sulla nave ammiraglia – gli disse, dandogli una manata sulla spalla quasi affettuosa ,trattandosi di Magellano – sarai il mio braccio destro sulla Trinidad! A te è inutile che io faccia il discorsetto che faccio a tutti gli altri per farli rigare dritti: che io non tollero errori e sono pronto a premiare i capaci ma anche a punire con estremo rigore coloro che sbagliano. I responsabili di tradimento e di crimini gravi vengono impiccati ai pennoni delle mie navi oppure, se preferiscono vengono squartati o abbandonati sulle rive di paesi inospitali, molto inospitali. Non dico altro. Mi pare che basti. Eppoi tra uomini di mare, queste cose è persino inutile rammentarle. Non è forse vero? ” Pancaldo restò parecchio impressionato. Ma lui non era né un traditore , né un malvivente. Lʹammiraglio si era ricordato di quando al largo di Goa la sua grande abilità aveva salvato lui ed unʹottantina di marinai portoghesi. Ciò gli bastava. I preparativi del grande viaggio verso Ovest andavano un poʹ a rilento. A Siviglia, erano convenuti marinai, avventurieri, mercanti da ogni parte della Spagna e dal resto dʹEuropa. Magellano aveva ordinato ogni cosa con perizia e pignoleria. Aveva preso tutti gli accordi necessari con la Casa de Contrataciòn, con gli alti dignitari statali, i fornitori, gli artigiani, gli armatori i mercanti. La vita degli equipaggi era nelle sue mani. Era scrupoloso quasi da apparire maniacale. Nelle acque del grande estuario, sul Guadalquivir, galleggiavano le cinque caravelle designate dagli armatori di re Carlo, per compiere quella che tutti speravano potesse essere la prima circumnavigazione del mondo, passando attraverso la via ignota dellʹOccidente. Una sera , Leon si recò al porto a vedere le cinque imbarcazioni. Lʹocchio esperto del marinaio, gli fece valutare le caratteristiche di ciascuna di esse: i classici tre alberi, vele quadrate con le croci cristiane rosse in campo bianco,caravelle veloci ed adatte per la navigazione oceanica, solide anche se non molto grandi, con novità nel timone, rispetto ad esempio alle navi veneziane. La Serenissima, certo, aveva armatori di tutto rispetto. Ma le caravelle decisamente erano più adatte allʹoceano che non le navi delle Repubbliche marinare italiane impegnate su rotte mediterranee. Perché le “Colonne dʹErcole” erano ancora il mitico limite del mondo e, persino, molti dotti di Salamanca, malgrado i quattro viaggi di Colombo, ancora si chiedevano come mai le caravelle non fossero precipitate nel baratro, dopo aver superato le Colonne dʹErcole, vale a dire il limite estremo di una terra rotonda ma piatta e, naturalmente, centro dellʹUniverso tolemaico, malgrado i seri dubbi che cominciava ad esprimere dalla Polonia un certo Nicola Copernico. Ammirava le caravelle alla fonda. La sua la “Trinidad” aveva una stazza di centotrenta tonnellate. Avrebbe avuto a bordo cinquantacinque uomini, agli ordini diretti dellʹammiraglio Ferdinando Magellano. Poi cʹera la “Santʹ Antonio” ( 130 tonnellate) sessanta uomini, il suo capitano Juan de Cartagena, aveva fama di essere un duro implacabile con i subordinati; la “Concepciòn” (90 tonnellate) quarantacinque membri dʹequipaggio, capitano Gaspar de Quesada; la “Victoria” (90 tonnellate), 42 uomini capitanati da Luis de Mendoza ed, infine la “Santʹ Jago” (60 tonn.) 32 uomini agli ordini di Giovanni Serrano. In tutto, duecentotrentaquattro uomini, la maggior parte dei quali (175) spagnoli, venti i portoghesi, una trentina gli italiani, alcuni interpreti africani ed asiatici delle nuove e vecchie colonie spagnole, diversi sacerdoti missionari. Cʹera anche un marinaio inglese. Perirà nel Pacifico. Non sarà il solo. Si stavano caricando le provvigioni, che verranno minuziosamente annotate nei diari di bordo e che un resocontista vicentino, Pigafetta, appunto sʹincaricherà di far conoscere ai posteri. Vi furono delle lungaggini. La partenza venne posticipata di un mese. Correvano voci della presenza nella città fluviale andalusa di spie portoghesi. Vi era un clima di grande sospetto. Si sapeva che i portoghesi non erano disposti ad ignorare quella spedizione ed erano pronti (e se è per questo capacissimi) di mettere i bastoni tra le ruote o ,per meglio dire, il piombo nelle prue ed i fori nelle vele alle caravelle di Magellano. Vi furono agenti portoghesi che cercarono di fomentare un ammutinamento, ancor prima della partenza, ma il pugno di ferro di Magellano la stroncò sul nascere. In quei giorni dʹattesa, il marinaio ligure ebbe modo di conoscere meglio quelli che sarebbero stati i suoi compagni di viaggio. Trascorreva le giornate nella grande città fluviale, Siviglia, il cui porto era punteggiato da imbarcazioni e sulle case troneggiava la cattedrale della Giralda. Bellissimo spettacolo, soprattutto al tramonto, quando i contorni neri della cattedrale si stagliavano contro un orizzonte di fuoco. Il pennello di Goya non sarebbe forse bastato a dar conto di tanta vespertina e solenne bellezza. Una sera, passeggiando per i vicoli della città andalusa, Leon si imbatté in un giovane marinaio savonese che conosceva di vista per averlo incontrato decine di volte nelle stradine, nei vicoli di Savona. In quel dedalo di viuzze della città ligure che si dipanavano dalla Torre della Quarda fino alla Torre del Brandale, attorcigliandosi in un intrico fittissimo di viuzze fino alla Cattedrale, il Duomo abbellito dal papa mecenate Sisto IV della Cappella Sistina e poi da Giulio II secondo pontefice della illustre famiglia dei della Rovere. Anche il giovane apparteneva ad una casata savonese: era Martino de Judicibus. Una semplice, reciproca, conoscenza, “di vista” come si suol dire, ma la presenza di entrambi a Siviglia era significativa. ʺ Salve, marinaio! Martino mi sembra sia il tuo nome. Non dirmi perché sei qui, perché di certo non posso ignorarlo. Probabilmente, per le stesse ragioni per le quali ci sono anchʹio.ʺ ʺPer il tuo stesso motivo, vero, concittadino ?ʺ esclamò lʹaltro. ʺ Dunque, non sarò lʹunico savonese a bordo!ʺ ribatté con tono divertito Leon. ʺCosa ti credevi ? Di essere lʹunico ligure che ama lʹavventuraʺ gli rispose il giovane, con tono canzonatorio, concludendo con una sonora e franca risata. Era di qualche anno più giovane, il marinaio semplice, rampollo di una illustre casata savonese. I de Judicibus erano una famiglia di origini nobili, amici dei della Rovere che avevano dato due Papi alla Chiesa . Martino,destinato dal padre severissimo, ad una brillante carriera ecclesiastica (vescovo, chissà, forse un giorno cardinale) , non se lʹera sentita di farsi monaco francescano ed un bel giorno era scappato di casa, imbarcandosi su una nave diretta al Pireo. Né Savona, né i de Judicibus lʹavevano più rivisto. ʺAh, è andata così!ʺ ‐ commentò Leon , al quale Martino aveva confidato il suo segreto di francescano mancato e di fuggiasco dei mari. ʺEʹ andata così. Meglio sul mare che in un convento di frati. Eppoi, magari avrei dovuto fare pure lʹinquisitore, chissà. Non fa per me!ʺ ʺNon lʹhai scritto tu il Malleus Maleficarum., di cui tutta la gente parla con malcelato e superstizioso timore. Il “martello delle streghe”, lo chiamano. Eʹ vero che tutto ciò dà i brividi. Così non hai voluto farti frate, eh ? Motivi di mancanza di fede? Oddio, se vogliamo metterla così..” Sii sincero: dì piuttosto che ti piacciono troppo le sottane! Per darti ad una vita di castità. Non è così?ʺ ʺIn un certo senso...ʺ ridacchiò Martino. ʺMa quanto alla castità. Non mi pare che Papa Borgia fosse proprio tanto casto. E se è per questo, neppure sua figlia Lucrezia, né lʹaltro suo figlio il Valentino. Ma anche di altri prima e dopo di lui se ne raccontano delle belle...ʺ ʺSisto IV era generale dei francescani e, in quanto savonese, ti avrebbe sicuramente favorito come ha favorito suo nipote Giulio II. Comunque, se sui Papi se ne raccontano tante, Martino, tu raccontale se vuoi, ma sottovoce. Sono tempi in cui gli inquisitori non si fanno pregare per spedire al rogo la gente!ʺ ʺ Non lo ignoro. Ma per favorire Martino de Judicibus candidato al convento o per consegnarlo, da eretico, a Torquemada , gli inquisitori spagnoli devono prima scovarlo in fondo a qualche porto. E non credo che ciò avverrà molto presto. Comunque, io sono un buon cristiano. Credo in tutto. Nei miracoli, nella Vergine Maria, nella Resurrezione. Soltanto non me la sono sentita di farmi frate. Niente di male, vero ?ʺ ʺ Hai perfettamente ragione. Quel che conta è credere in Dio. Anchʹio ci credo. Noi tutti crediamo e siamo buoni cristiani.” “Cambiando argomento, ho sentito dire in giro che ci saranno almeno una trentina di italiani in questa spedizione. Li conosceremo tutti ,uno ad uno, un poʹ per volta. Non cʹè fretta. Tanto chi può dire quanto durerà il nostro viaggetto! E adesso, andiamo a mangiare e a bere qualcosa in una taverna perché ho la gola secca e questʹaria sivigliana mi ha messo una fame da lupi. Martino sei mio ospite. Poi mʹinviterai tu allʹarrivo...ʺ “Allora, dovrai aspettare un bel pezzo.” “Va beh. Non fa nulla. Andiamo a mangiare subito. Carpe diem, che del domani non vʹè certezza!” I TRISTI GIORNI DELLA PRIGIONIA. Unʹonda di pensieri, alcuni angosciosi, lo sommergeva, nelle lunghe, interminabili, notti di prigionia. Fu proprio lì a Siviglia, rammentava con le lacrime agli occhi, durante i preparativi della spedizione, che alcuni dei principali protagonisti italiani della grande avventura ebbero occasione di conoscersi e di diventare amici.
Il vicentino Antonio Pigafetta, conosciuto anche come Antonio Lombardo, andava in giro tutto il giorno sul molo a prendere minuziosi appunti sui suoi diari. Voleva proprio sapere tutto. Sulla calafatura delle navi per rendere stagno il legno affinché, ben cosparse di catrame, le tavole non lasciassero filtrare acqua da eventuali falle. Sulle mercanzie che venivano issate a bordo e caricate nelle stive. Dotato di una curiosità intellettuale prodigiosa, questo giovane dallʹaria mite e dallʹaspetto minuto, era un appassionato viaggiatore, studioso di matematica e di astronomia. Vestiva elegantemente come un caballero, secondo la moda di quei primi anni del XVI secolo. Spadino al fianco, un abito bianco col collo alto. Aveva barbetta e baffi ben curati, capelli neri tagliati corti, naso aquilino,una fronte spaziosa. I suoi modi erano compiti, forse non esenti da una certa affettazione, o almeno ritenuta tale dalla rude gente di mare, il cui linguaggio era più diretto e franco, con meno fronzoli e giri di frase, insomma meno ricercato. Pigafetta era un passeggero pagante e si era presentato in tal veste a Magellano. Questʹultimo con il suo sguardo da aquila lo aveva squadrato dallʹalto in basso. ʺEcco uno spocchioso rampollo di qualche nobile veneto ‐ aveva pensato tra sé lʹammiraglio‐, contando i dobloni dʹoro che il viaggiatore pagante aveva sborsato belli e sonanti‐ lo prenderò a bordo della Trinidad così potrò tenerlo dʹocchio. Visto mai che fosse una spia dei miei cari connazionali?” Il patto, comunque, venne concluso. Pigafetta aveva ottenuto il biglietto, diciamo così, per la spedizione attorno al mondo. Il vicentino era al corrente di ogni risvolto politico di quella spedizione. Uomo di lettere, astronomo dilettante ed erudito, sʹintendeva anche di politica e di affari di Stato. Sapeva benissimo che Manuel del Portogallo fino allʹultimo aveva cercato dʹimpedire quella partenza. Aveva contattato persino Adriano dʹUtrecht, il cardinale (futuro papa) per cercare in qualche modo di convincere lʹammiraglio portoghese ed il suo amico cartografo, Ruy Faleiro, a tornare a Lisbona e a ripensarci. Aveva inviato un emissario, Alvaro da Costa, alla corte di Carlo. Lʹambasciatore lusitano aveva ottenuto il risultato opposto a quello che si era prefisso, rendendo interessanti le proposte di Magellano a Carlo, più che mai convinto della necessità di scovare El Paso. Quante cose sapeva il piccolo vicentino. Quella sera, nella taverna in cui erano entrati gioviali ed allegri Pancaldo e de Judicibus cʹera anche lui. Pigafetta che conosceva benissimo lo spagnolo ed il portoghese, riconobbe dalla conversazione che si svolgeva ad alta voce tra Leon e Martino, due connazionali, almeno abitanti di quella Penisola a forma di Stivale, che pareva un vestito di Arlecchino, tanto era spezzettata sotto lʹaspetto geo‐politico, in Stati, staterelli, principati, protettorati e repubbliche (almeno una: quella di Genova) . Mi sembrano genovesi, riflettè Pigafetta. Si avvicinò al loro tavolo e, senza altre cerimonie, si presentò. Lo fecero accomodare e tra i tre ebbe inizio un sodalizio che doveva durare negli anni. Non capita spesso e, di certo, non a tutti di ritrovarsi fuori dalla propria patria con lʹintenzione di partecipare ad una simile spedizione verso lʹignoto. “Non sei marinaio di professione vero ?” chiese Leon al nuovo compagno. “Lo hai capito da che cosa ?” replicò, con un mezzo sorriso, Pigafetta. “Dalle mani, ovviamente. Troppo curate. Sembrano quelle di un prete. Non di un marinaio. Guarda le mie e quelle di Martino, piene di calli.” “Giustissimo: sei un buon osservatore!” “Ma i viaggi ti interessano...” “Al punto di dare soldi anziché riceverne...” ammise con franchezza il vicentino. “Beh, in fondo, è questione di gusti – disse ridendo Martino – io per esempio amo i viaggi in mare, ma lo faccio come mestiere. E se non vedo i maravedis ed i ducati della corona spagnola, non parto.” “Poiché è il tuo lavoro, mi sembra più che giusto‐ ammise Pigafetta – quanto a me, ho intenzione di tenere quotidianamente un diario, prendendo accuratamente nota di tutto ciò che avverrà durante questa avventura. Non esito, sin dʹora, a definirla storica.” “Lʹhai detto; per essere storica sarà storica!” esclamò Pancaldo, riconoscendo di essere stato spinto a Siviglia anche dallʹenormità dellʹimpresa che quegli uomini ardimentosi si accingevano ad intraprendere, con un notevole sprezzo del pericolo e pronti a sostenere sacrifici immani.” “Eʹ vero che essere un viaggiatore pagante non mi mette in gran buona luce ‐ammise Pigafetta – ma state pur certi che se il mondo, un giorno, conoscerà tutto di ciò che avremo compiuto in questa spedizione, sarà per merito mio.” Avrebbe mantenuto la parola, consegnando alla storia il Resoconto della circumnavigazione del globo che sarà pubblicato un anno dopo il suo ritorno a Siviglia. Ma in quel frangente nessuno fece troppa attenzione alle sue parole. E lui stesso non poteva sapere che quelle pagine sarebbero passate al filtro di una rigorosa censura che le avrebbe edulcorate, svilite, rese bugiarde sotto certi aspetti. Ma quello sarebbe stato il prezzo dellʹimprimatur dettato dalla Spagna di Carlo V. La serata andava avanti tranquilla, quando nella taverna sivigliana scoppiò una rissa tra alcuni brutti ceffi. Uno di loro, vero e proprio energumeno, si lanciò contro il tavolo dove era sistemati i tre italiani. Sferrò un pugno a Martino, che replicò per le rime. Ma a risolvere, la disputa intervenne un marinaio genovese che se ne era rimasto fino ad allora appartato in un angolo. Si chiamava Poncero. Afferrò lʹenergumeno e lo gettò per terra. Poncero era un vero e proprio gigante. Al suo apparire in scena, gli animi dei contendenti come per incanto si placarono. “Intervento provvidenziale – esclamò Martino ‐ ma forse ce lʹavrei fatta da solo, o con lʹaiuto dei miei due amici...” “Meglio uno in più con questi tipacci dal coltello facile!” replicò Poncero. E poi tendendo la mano a de Judicibus, a Pancaldo e a Pigafetta:”Sono genovese. Mi chiamo Gianbattista. Qualcosa mi dice che siamo tutti qui per una certa spedizione. E che rivedremo spesso le nostre facce.” “Indovinato!” esclamarono allʹunisono i tre. E così gli amici erano diventati quattro. Si scambiarono confidenze, segreti, informazioni. Vi fu anche qualche sfottò, tuttʹaltro che garbato di Poncero versus Pigafetta. “Ma è vero che a Vicenza mangiate i gatti? Un veneziano, prigioniero a Genova, mi confidò che chiamavano i vicentini magnagati... Che cʹè di vero ?” Pigafetta non si offese e non si scompose. Conservò il suo aplomb e con noncuranza replicò con una dotta esposizione delle varie ipotesi: “I miei concittadini possono anche essersi nutriti con gatti, riconobbe, ma devono averlo fatto in una delle abituali e non rare carestie che durante tutto il Medio Evo afflissero le nostre belle città italiane. Possono aver appreso la ricetta dai veronesi, molto inventivi, oppure dai padovani veri maestri in cucina. Forse, scarseggiavano in quei secoli bui le quaglie e le pernici. Forse se li erano mangiati i dogi ed i duchi dʹEste o i Visconti o i Medici di Firenze . I vicentini devono,forse, essersi cibati coi felini perché scarseggiavano i cani. Quelli se li erano già mangiati i veneziani, con una ricetta culinaria importata da Marco Polo dal Catai! Anziché i gatti,i vicentini avrebbero volentieri mangiato la trippa destinata ai felini, ma quella se lʹerano già mangiata i genovesi. Forse,nel caso anche a Genova fosse scoppiata una qualche carestia ” Un coro di risate accolse la battuta. Non vi era dubbio: un uomo di spirito ed uno studioso non pedante. Accomodante con gli amici. Poncero rise più forte di tutti gli altri. Ma la serata non era ancora finita ed ecco apparire, fuori della taverna dove avevano cenato, un altro savonese che gironzolava per i vicoli in compagnia di una bella sivigliana. Que guapa! Esclamò innocentemente Poncero. Matteo de Gentil Ricci era lʹaccompagnatore della bruna andalusa, si voltò di scatto e stava valutando lʹopportunità se attaccare o meno briga col colosso Poncero. Poi scorse nella compagnia Martino . I due si conoscevano da lunga data, essendo entrambi rampolli di due casate savonesi. Ed entrambi ribelli alla patria potestas. “Martino, tu qui?!” esclamò Gentil Ricci, “sei scomparso da Savona e ti ritrovo a Siviglia...” “Matteo!” rispose Martino altrettanto sorpreso. Poi, vi furono le presentazioni e la bella sivigliana, Esmeralda, anziché un solo cavalier servente ne ebbe cinque. Matteo spiegò che, pur contro il parere paterno ‐il nobile Domenico Gentil Ricci, avrebbe voluto per il figlio una carriera da giureconsulto, che lo avrebbe proiettato nel gran consiglio cittadino per dirimere gli affari politici, economici e commerciali di una città in piena espansione, grazie al fatto di essere la culla di due pontefici. Matteo, però sentiva il richiamo dellʹavventura sui mari. “Più o meno il mio caso ‐osservò Martino – soltanto che i miei volevano che mi facessi frate! Io frate...” La contagiosa risata di Poncero riecheggiò nella notte andalusa, seguita da quella dei componenti dellʹallegra brigata, Esmeralda compresa, la quale pur non avendo afferrato quasi nulla del dialogo dialettale tra quegli hidalgos liguri, ne apprezzava nel giusto valore lʹallegria e la spontaneità giovanile. MAGELLANO ED I CORTIGIANI Il tempo trascorreva lento e monotono, nella prigione portoghese come prima della grande avventura. Immagini ormai lontane si ripresentavano alla mente del nocchiero tra le sbarre, di quel giorno reso famoso nella storia delle grandi spedizioni marittime. Lontano giorno, ormai avvolto dalle nebbie del tempo. Siviglia, quel dì, era letteralmente invasa da una folla di curiosi e, naturalmente, da un sacco di mercanti. I marinai prescelti per il viaggio erano stati destinati alle rispettive caravelle.
Pancaldo e Pigafetta erano stati destinati alla Trinidad e sarebbero stati, quindi , direttamente agli ordini dellʹammiraglio Magellano. Il grande navigatore portoghese era davvero un personaggio tutto dʹun pezzo. Quel che gli era accaduto a Lisbona non lʹavrebbe dimenticato tanto facilmente. Intriganti di corte,vicini a re Manuel , lʹavevano accusato di connivenza con i mori. Proprio lui che, in Marocco, nella battaglia di Amozar era stato ferito ad una gamba, rimanendo a lungo claudicante. Si era battuto con onore. Ma i cortigiani, cui era inviso per il suo carattere burbero e determinato, avevano lanciato accuse infamanti. Insomma, lo avevano fatto sospettare di traffici con i musulmani ed espellere con ignominia dal paese. La corona portoghese aveva rifiutato le sue idee di esplorare verso Ovest. Malgrado il suo amico cartografo, Ruy Faleiro, avesse documenti di appoggio piuttosto convincenti sulla possibilità tuttʹaltro che remota di trovare questo benedetto passaggio verso le Indie. Faleiro aveva conosciuto a Lisbona, Bartolomeo, il fratello di Cristoforo Colombo, le cui mappe erano famose ormai nel mondo intero. Le corti europee se le disputavano a peso dʹoro. E le tenevano gelosamente segrete. Il cartografo e studioso lʹaveva successivamente accompagnato alla corte spagnola, ma non prima di aver trafugato mappe segrete dallʹArchivio di Stato della corona. Magellano era, dunque, in possesso di una carta nautica che collocava il paso forse allʹaltezza del Brasile (la costa del Brasile era stata avvistata,mentre navigava nellʹAtlantico, da Cabral) o più verosimilmente la mappa lasciava intravvedere la possibilità che il Rio de la Plata potesse essere un mare e non un fiume. In ogni caso, un passaggio doveva esistere. Ma poiché la corona portoghese lʹaveva respinto non gli era rimasto altro da fare che rivolgersi a Carlo. La Spagna già era al corrente che esisteva lʹOceano Pacifico, perché, Vasco Nunez de Balboa lʹaveva visto con i propri occhi dalle alture di Panama,durante una spedizione proseguita per via terrestre. La scoperta di Nunez de Balboa non lasciava dubbi neppure sulla possibilità di un passaggio perché dallʹ i stmo di Panama lʹOceano era visibile, ma non vi era un passaggio via mare. Era altamente improbabile che in tutto un Continente, per quanto grande potesse essere, non vi fosse una via dʹacqua per passare dallʹaltra parte. Nessuno poteva crederlo. Bastava guardare il continente europeo e quello asiatico già conosciuto. Giovanni Caboto, poi ‐intuendo che Colombo non era approdato sulle rive del Catai o del Cipango, aveva proposto alle loro altezze serenissime, Ferdinando ed Isabella di Castiglia di cercare il passaggio più Nord. I reali avevano rifiutato di accordargli le imbarcazioni richieste. Caboto si era rivolto, dunque, a Enrico VII dʹInghilterra che gli aveva finanziato la spedizione, ma senza esiti positivi. Il passaggio per lʹaltro Oceano non si era trovato. In compenso Caboto aveva praticamente scoperto lʹAmerica del Nord. Carlo V, di fronte alle argomentazioni di Magellano, non ebbe più dubbi. Aveva davanti a sé lʹammiraglio che avrebbe tolto al Portogallo quella supremazia sulla via delle spezie che gli aveva garantito a suo tempo la circumnavigazione dellʹAfrica compiuta da Vasco da Gama. Lʹironia della sorte era che Ferdinando Magellano, il quale aveva servito la corona portoghese, proprio alle Indie, come capitano era già stato destituito, una prima volta, dal suo titolo di comandante, perché con inusuale intraprendenza, dalle Molucche si era avventurato con la sua nave (ma senza riceverne lʹautorizzazione) ad esplorare nuove isole . Sempre più ad Oriente. La ricerca del passaggio per aggirare il Nuovo Mondo scoperto da Colombo, era divenuta per lui una vera ossessione. Anche per Carlo V lʹ ossessione era la stessa. Il Trattato di Tordesillas, in pratica riconosceva la preminenza portoghese nei viaggi di circumnavigazione (lʹAfrica, nel caso dei legni lusitani). La Spagna era tagliata fuori dalla via delle spezie (cannella, chiodi di garofano, pepe). Solo un a nuova via marittima a Ponente avrebbe permesso un certo riequilibrio tra le due potenze marittime, Erano scoperte, successive a catena, che avevano per effetto di mutare gli equilibri geo‐politici di un intero continente, quello Europeo. Erano mondi nuovi che venivano scoperti, ma i riflessi politici economici e commerciali erano immensi e, forse, non ancora tutti percepiti. Oppure visti in unʹottica di limitati interessi contingenti. La Chiesa Cattolica intravvedeva la possibilità di una vasta evangelizzazione degli indigeni di quelle terre non ancora del tutto esplorate. Ma vi erano anche timori, nelle alte sfere cattoliche, che quellʹimprovviso contatto con un mondo pagano, con quel globo terracqueo che, diveniva, sempre e dopo ogni spedizione di navigatori, più vasto e misterioso potesse preludere ad una svolta nel modo di pensare, sempre più aperto e possibilista, sempre più intriso di curiosità intellettuali anti‐dogmatiche. Curiosamente, la svolta rinascimentale andava a braccetto con le scoperte di nuove terre e di nuovi esseri umani, da indottrinare, certo, ma la Chiesa di Roma ha sempre mostrato prudenza e cautela di fronte al nuovo. La scoperta del Nuovo Mondo non faceva, certo, eccezione. Parecchi ecclesiastici erano convinti che, in fondo, quellʹecumenismo nascente non poteva che rafforzare la Cristianità e prendere alle spalle, come in una morsa, lʹImpero Turco Ottomano. Scoperte e conseguenze geo‐politiche, economiche e commerciali. Vasco da Gama aveva già rovinato la Repubblica di Venezia perché la via marittima, circumnavigando il continente africano, dal Capo di Buona Speranza, aveva reso obsoleti e non più convenienti i viaggi, via terra, dei mercanti veneziani per raggiungere le Indie ed il Catai, il viaggio di Marco Polo restava lʹesempio più eloquente di una strada ormai non più percorribile. Costosissima, incerta per le mercanzie e che richiedeva anni di fatiche e di viaggio. Le vie del mare erano sicuramente lʹavvenire dei mercanti, dei cercatori dʹoro e dʹargento, dei Conquistadores. Ma ci voleva un re, anzi un imperatore lungimirante. Carlo V lo era come lo erano stati i suoi nonni materni, Ferdinando ed Isabella di Castiglia. Magellano aveva così compiuto il patto con Carlo V e si era visto attribuire cinque caravelle, due in più di quelle che erano state concesse a Colombo per la sua spedizione verso lʹignoto. Le caravelle veloci erano, come è rilevato, le imbarcazioni più adatte per affrontare gli oceani. I preparativi a Siviglia si erano fatti ormai febbrili. Il colloquio più importante per il Patto tra Carlo V e Magellano (presenti i dignitari di corte e Ruy Faleiro) era avvenuto a Valladolid. Lʹimperatore si era reso conto che Magellano era anche un buon negoziatore oltre che un abile navigatore: aveva richiesto per sé il titolo di governatore di tutte le terre che avrebbe scoperto ed un quinto dei proventi (per lui e Faleiro) che sarebbero derivati da quei possedimenti. 20 SETTEMBRE ANNO DI GRAZIA 1519, SAN LUCAR DE BARRAMEDA
La grande avventura era iniziata nel porto di Siviglia il 20 agosto dellʹanno di grazia 1519. E poi, la partenza vera, dopo un mese, il 20 settembre,dal porto di San Lucar de Barrameda,alla foce del fiume Guadalquivir. Leon era andato più volte a vedere la Trinidad, la caravella alla quale era stato destinato dal comandante in capo, Ferdinando Magellano. Quell ʹ uomo imponente, di grande statura fisica e dal cipiglio fiero ed ardito era onnipresente attorno alle sue caravelle. Lo vedevano arrivare al porto con passo leggermente claudicante ma sicuro di sé con la grande fluente barba nera. Un copricapo ed una lunga veste dello stesso colore della barba. Un vero tiranno dei mari che troneggiava sulla nave cui Leon Pancaldo e Antonio Pigafetta erano destinati, la “Trinidad” a fianco delle: la” SantʹAntonio”, la “Victoria”, la “Concepciòn” e la”Santʹ Jago ”. Per questa spedizione, vi erano stati avvisi di ingaggio verbali in tutti i porti del Mediterraneo. Era,dunque, lʹalba del giorno venti settembre dellʹanno di grazia 1519, quando salparono dal porto di San Lucar de Barrameda. Una folla grandissima si era ammassata sui moli a salutare gli equipaggi ed i loro comandanti. Vi erano i rappresentanti della corona in alta uniforme e dignitari dei corpi dʹarmata, uno scintillio di medaglie, di uniformi, di corazze ed alabarde. uno sventolìo di vessilli e la presenza di dame e damigelle, di cavalieri, di religiosi. Vescovi di Spagna e persino un cardinale di Santa romana chiesa. Tra le grida di ʺviva lʹimperatore Carlo Vʺ, tra i saluti della folla agli equipaggi, le cinque caravelle avevano cominciato a solcare le acque dirigendosi verso il largo, seguite da mille sguardi e da continue ovazioni e sventolio di bandiere. Devʹessere stata così anche la partenza di Cristoforo Colombo. Era da una vita che alcuni sognavano quellʹ impresa. Ed era appena cominciata. Intanto era calata la notte e gli equipaggi delle cinque navi riposavano chi in coperta (i marinai semplici) chi sotto coperta, gli ufficiali ed i comandanti. Tutti a bordo avevano il loro daffare. Nessuno era inoperoso. La ʺTrinidadʺ scivolava veloce sulle onde. Il convoglio delle cinque caravelle si dirigeva verso quelle che gli antichi chiamavano le colonne dʹErcole e noi chiamiamo lo stretto fortificato. Vi è una guarnigione della Castiglia a vigilare sullo stretto che porta al grande oceano. Il giorno dopo sarebbe stata una giornata di grande impegno. Non cʹ era davvero tempo per i diari del buon Pigafetta Stavano anche per spegnere i lumi a bordo. Il tempo era meraviglioso. Il mare era tranquillo. Soffiava una leggera brezza che faceva correre veloci le caravelle verso lʹOceano, su una rotta sicura e ormai sperimentata. Anche se ci si avvaleva di bussola e sestante, non esistevano sulle carte nautiche i meridiani ed i paralleli. Veniva calcolata con una certa approssimazione la latitudine. Eppoi vi era il cielo stellato. Quella stella polare, compagna di ciascun navigante a rendere certo il Settentrione. Le caravelle andavano in fila indiana, come gusci di noce, sulle onde. Le stelle erano ancora familiari ed amiche nellʹemisfero Nord, ma sarebbero diventate altrettanti enigmi, una volta superata la linea immaginaria dellʹequatore. Non più un firmamento con la Grande Orsa, con la con il grande Carro, con Cassiopea ed Orione, con Alderaban, e Beltegeuse, con le Sette sorelle, ma un cielo enigmatico con la Croce del Sud, simbolo della Cristianità in espansione, con i crociati del mare, apportatori di novità e anche di grandi miserie. Vi sarà una nebulosa che prenderà il nome di Magellano e tante, ma tante avventure. Per ora, la prua era rivolta alle Canarie. Onde alte come case, in quellʹOceano procelloso e dai ribaltamenti repentini. Il vero viaggio era cominciato superato lo stretto che aveva spalancato alle imbarcazioni le porte dellʹAtlantico. A dire il vero, nulla lasciava presagire la tempesta. Ma per uno di quei ribaltamenti che la natura si compiace non raramente di offrire a chi va per mare, ecco spuntare allʹorizzonte, nuvoloni cupi e bui. Sulle cinque caravelle, che ben presto sembravano gusci di noce in balìa delle onde, riecheggiavano gli ordini secchi e precisi degli ufficiali superiori. Pancaldo cominciava a scorgere la paura negli sguardi dei suoi compagni. Reggeva il timone al meglio che poteva; ma che danza infernale! Tra lo scricchiolio degli alberi e delle gomene.
Il comandante della nave, la ʺTrinidadʺ, cioé Ferdinando Magellano in persona impartiva lʹordine di ammainare le vele con voce dai toni concitati ma al tempo stesso conservando tutto il sangue freddo necessario a non lasciar trapelare una certa inquietudine. I marinai avevano saputo valutare da soli il livello del pericolo. Molto alto, a dire il vero. Tanto più che stava calando la sera ed era una bufera insolita ed imprevista. Le onde sʹinfrangevano senza soste, abbattendosi rumorosamente e con spaventosa regolarità sul ponte e sferzando i volti e le membra degli uomini dellʹequipaggio. Le corde venivano assicurate in ogni punto, mentre gli alberi schiaffeggiati dalla tempesta emettevano sinistri rumori e cigolii, come se volessero dʹun tratto spezzarsi. Intravvedeva, Leon, dal timone che tentava a fatica di controllare con lʹausilio di altri due marinai, la sagoma della nave ammiraglia, la Victoria, con le sue luci di bordo che si spegnevano una dopo lʹaltra. Le raffiche, infatti, portavano letteralmente via le torce dal ponte e montagne dʹacqua riversandosi allʹinterno oscuravano progressivamente la nave che appariva e scompariva tra le onde altissime. Uno spettacolo tremendo più degno di ciclopi che di uomini. Le altre tre imbarcazioni affrontavano le stesse difficoltà. Trascorse così una notte di tregenda davvero spaventosa. Giunsero finalmente alle Canarie, sette isole di origine vulcanica (erano ciò che restava della mitica Atlantide ?). Primo scalo previsto dalla rotta di queste isole ormai conosciute. Ferdinando Magellano consentì agli equipaggi di imbarcare provviste fresche nelle stive e di rimettere un pò in sesto le navi, perché tutti si rendevamo conto del fatto che il viaggio era appena cominciato e le difficoltà, quelle vere, che indubbiamente ci sarebbero state dovevano ancora venire. Lo stato delle navi era buono come quando erano partiti da San Lucar de Barrameda. Leon faceva, intanto, giorno dopo giorno, conoscenza con gli altri uomini dellʹequipaggio. Sia di quello della ʺTrinidadʺ che, durante gli scali, delle altre quattro caravelle. Parlò nuovamente e a lungo con Pigafetta, il vicentino. Allʹinizio sembrava un pò altezzoso. Ma era una falsa impressione, Non si trattava di alterigia. Forse di una naturale timidezza. I suoi modi erano quelli di un perfetto gentiluomo. Pigafetta riconobbe che, allʹimbarco, lʹammiraglio Ferdinando Magellano lo trattava con parecchia condiscendenza, considerandolo più un passeggero che un partecipante alla spedizione. Di fatto lo era, perché lui stesso confermò durante i successivi brevi colloqui, di aver pagato la sua presenza a bordo. Sulla nave ʺTrinidadʺ vi era un veneziano, Matteo Ludovisi. Anche lui aveva lasciato una sposa a casa, tra le calli veneziane. Trascorsero tre giorni alle Canarie. Poi, rotta verso le Isole di Capo Verde. Si trattava di terre scoperte da poco tempo, ma che ormai apparivano sulle carte nautiche di tutta Europa. Il vero viaggio verso lʹignoto doveva ancora iniziare. Tra tutti coloro che si erano imbarcati in quellʹ avventura vi erano anche ceffi poco rassicuranti. Evidentemente, gli emissari marittimi nei porti non erano andati molto per il sottile, nellʹingaggiare i volontari per la spedizione. Ma per fortuna, nella stragrande maggioranza erano saliti a bordo uomini sperimentati ed esperti di navigazione. Ogni regola ha la propria eccezione. Dʹaltra parte, anche se vi erano marinai che avevano conosciuto certamente le galere, non è detto che fossero davvero colpevoli e, per il resto, ebbero tutti ampiamente modo di riscattarsi. Fu, infatti, unʹimpresa per uomini di valore, in tutti i sensi. Ed anche se qualcuno commise errori nella vita, sulle caravelle poté scrivere per sé e per gli altri pagine onorevoli. Non tutti però furono,come vedremo, allʹaltezza della situazione. Parecchi uomini dellʹequipaggio non sapevano né leggere né scrivere. Meno male che cʹera Antonio Pigafetta ed in tal modo col suo Resoconto di viaggio della circumnavigazione del globo, lʹavventura fu nota al mondo; peccato però che quel Resoconto era passato prima dalla corte di Valladolid; quanto a Pancaldo, pur non essendo propriamente un letterato, sapeva leggere e scrivere ed aveva una memoria prodigiosa. Dobbiamo a Pigafetta, i particolari più minuziosi. Ad esempio, quali erano le provviste nelle cambuse e nelle stive: sette tonnellate di pane biscottato, 194 chilogrammi di carne essicata, numerosi barili dʹolio, 381 chili di formaggi, 200 barili di sarde salate, tremila pezzi di pesce essicato. Quando il cibo ‐soprattutto nella traversata del Pacifico – farà crudelmente difetto ed essendo scarsi i risultati della pesca (per mancanza di mezzi adeguati) gli equipaggi, tormentati dalla fame e dalla sete, daranno persino la caccia ai topi per sfamarsi. Ma nella prima parte del viaggio, tutto filò abbastanza liscio. Eccettuata una nuova violenta tempesta in pieno Atlantico, quando le cinque caravelle, lasciatesi dietro i castelli di poppa la Sierra Leone, facevano rotta verso il Brasile. In Sierra Leone non erano rimasti a lungo. Il paese era stato scoperto dal portoghese Pedro de Sintra, nellʹanno di grazia 146O ed offriva un bellissimo spettacolo di una costa orlata di lagune ed incisa di estuari, ma ben pochi rifornimenti. I nativi non sembravano neppure troppo amichevoli, così le caravelle avevano puntato le prue verso lʹAtlantico , dirette a Rio, il villaggio raggiunto per la prima volta nel gennaio del 15O1 da Vespucci, ma fondato successivamente (1° marzo 1565) dal cavaliere portoghese Estacio de Sà, che lo chiamò Sao Sebastiano do Rio de Janeiro (fiume di gennaio) in onore di Sebastiano I, re del Portogallo. Ma già quello inutile rotta lungo le coste africane, per far giungere le caravelle fino alla Sierra Leone aveva suscitato malcontenti a bordo delle navi che seguivano lʹimbarcazione ammiraglia, la Trinidad. Ma come – si dicevano i capitani spagnoli che Carlo V aveva sguinzagliato come mastini alle costole del Magellano – stiamo qui a veleggiare lungo le coste africane, perdendo tempo prezioso in un continente ormai conosciuto, anziché puntare dritto sul Brasile e poi costeggiare alla ricerca del passaggio verso lʹaltro oceano. Perdita inutile di tempo e di provviste. Errore inspiegabile e lʹammiraglio sempre enigmatico e chiuso come unʹostrica. Ma quando si deciderà a consultarci una buona volta prima di stabilire la rotta. La pensava così principalmente Juan de Cartagena, la “conjuncta persona” quasi pari grado del portoghese. Cominciò con qualche segno di ostilità togliendo il saluto della sua nave a quella di Magellano (facevano segnali coi fuochi di bordo). Le lanterne della caravella di de Cartagena rimasero buie. Anche gli altri capitani continuarono ad obbedire ma lo fecero a denti stretti. DOPO LA SOSTA ALLE CANARIE, LA SIERRA LEONE
Avevano lasciato il porto di Santa Cruz de Tenerife nelle Isole Canarie, con rifornimenti adeguati in acqua dolce e gallette. Poi vi fu quella “puntata” verso la Sierra Leone, per motivi che solo Magellano conosceva. Forse voleva sfruttare meglio certe correnti di cui conosceva lʹesistenza per il salto dellʹAtlantico, in modo più rapido. La navigazione , favorita da un buon vento da direzione Nord, fu in effetti abbastanza veloce e spedita. Il mare non riservò altre sorprese mentre si muovevano in pieno Atlantico con la prua rivolta al Brasile . Almeno per qualche tempo fino a quando incocciarono in nuove tempeste. A bordo della “Trinidad” regnava una certa armonia, ma lo stesso non si poteva dire dellʹequipaggio della “SantʹAntonio”. Frequenti liti scoppiavano a bordo ed il suo comandante veniva spesso rimproverato da Magellano in persona, che lo convoca a volte a bordo della Trinidad per fargli le proprie rimostranze. Il capitano era spesso costretto a mettere gli uomini della SantʹAntonio, più indisciplinati e riottosi ai ferri nella stiva.
Giunsero a Rio de Janeiro il 13 dicembre del 1519. Il viaggio aveva avuto i suoi gravi contrattempi. Nel corso di una bufera, tre marinai della Concepciòn e due della Santiago, erano precipitati in mare dai pennoni dovʹerano saliti per aiutare ad ammainare le vele. Non era stato possibile recuperarli, tanto le onde erano gigantesche .LʹOceano Atlantico si rivelò burrascoso per un paio di giorni, mettendo le gomene a dura prova. Poi, vi fu una settimana di bonaccia e le caravelle in mancanza di venti a favore sembravano quasi immobili sulle onde, rendendo la vita a bordo monotona e fastidiosa. Finalmente, videro apparire la costa. Si avvicinava il giorno di Natale. La sacra ricorrenza venne festeggiata a bordo, con preghiere e suppliche al bambinello. Avevano fatto i presepi sulle caravelle. Poveri presepi, in verità, ma a bordo cʹera paglia sufficiente e qualche utensile era stato usato per fare il bambin Gesù , la Madonna, San Giuseppe, i pastori, qualche pecorella e gli asini, attorno alla grotta di Nazareth, ricreata a poppa delle navi. Il presepe era stato ideato da San Francesco dʹAssisi, nel secolo XIII. La ricorrenza riempì gli equipaggi di commozione ed essendo la gente di mare molto superstiziosa, interpretò come di buon auspicio lʹavvicinarsi della prima vera mèta, proprio durante le ricorrenze della nascita del Salvatore. Il 26 dicembre 1519 le cinque navi attraccarono al porto del villaggio di Rio de Janeiro. Avevano per così dire festeggiato il Natale, il giorno precedente, con qualche galletta salata in più per tutti i membri dellʹequipaggio. Insomma, la spedizione procedeva come previsto nella misura in cui qualsiasi previsione fosse possibile per quegli uomini, partiti alla ricerca di un passaggio ad Ovest per raggiungere le Indie. Si fermarono qualche tempo nel villaggio. Poterono in tal modo conoscersi un poʹ meglio durante quella sosta che permise loro di ritemprarsi anime e corpi. Leon rivide il suo concittadino: Martino de Judicibus, che era imbarcato sulla Concepciòn. “Come ti va, Martino? – gli chiese, notando che il giovane appariva molto provato. Come ti trovi in questa impresa? A pensarci bene forse non sarebbe stato del tutto male se fossimo rimasti a navigare in acque conosciute...” “Sono imbarcato sulla” Concepciòn”, col grado di marinaio subalterno. Ero entusiasta di partecipare a questa grande avventura, come ti avevo detto a Siviglia. Ma non hai tutti i torti quando dici che forse era meglio essere più prudenti. Sulle nostre caravelle si sono imbarcati anche brutti ceffi, gente che forse sfuggiva alla forca. Non che mi aspettassi di trovare il fior fiore dellʹaristocrazia castigliana, intendiamoci, ma ho lʹimpressione che re Carlo V abbia dato ordine ai responsabili degli ingaggi marittimi di non guardare tanto per il sottile per quel che riguarda gli equipaggi, o farei meglio a dire la ciurma. Forse era meglio se mi facevo frate !” “Sai bene – rispose Leon – che in mare si trova di tutto: dallʹavventuriero, al tagliaborse, da colui che è scappato dopo aver messo nei guai qualche fanciulla, altri che per delusione amorosa vanno in cerca della morte. Ma ti parrà incredibile... ci sono anche esperti navigatori. E gente degna di tutto rispetto... come noi!” Entrambi scoppiarono in una fragorosa risata. Frequentandosi spesso, divennero presto grandi amici. Rinvangando nei ricordi dʹinfanzia, scoprirono di aver avuto conoscenze in comune nella loro vecchia città. Quella Savona che evocavano, durante le loro conversazioni a terra, sempre con una punta di nostalgia.. Martino de Judicibus aveva navigato anchʹegli nel Mediterraneo, prima di decidere di prendere parte alla grande impresa di Magellano per sfuggire al saio dei francescani. “Penso che tu ed io ‐ gli disse ancora Leon‐ conosciamo il Mare Nostrum degli antichi romani come le nostre tasche. Ma qui è tutta unʹaltra storia.” “ Le tempeste sono davvero tremende. Le costellazioni muteranno in cielo e punti di riferimento non ne avremo. ʺ rispose Martino. ʺNe faremo a meno. Certo Magellano fa paura solo a guardarlo, ma come ammiraglio sembra proprio che conosca il fatto suo.” “Ma è terribile. Quando si infuria fa davvero paura. E se è per questo, anche quando non si arrabbia fa paura lo stesso. Tutti lo temono e girano il più possibile al largo. “Si dice che abbia messo a morte degli insubordinati, facendoli per giunta squartare, ma questa , a mio parere è unʹesagerazione. Noi gente di mare sappiamo inventarcene di balle e le spariamo grosse quando si tratta di fare colpo sulle fanciulle... A proposito, Martino ma tu sei sposato ? “Io no. Ti ho detto che volevano mettermi in un convento di frati. Ti pare che anziché scappare andavo a sposarmi?” “E io,invece, ho una sposa che aspetta il mio ritorno. Chissà quando riuscirò a rivederla.” Leon non sapeva e non poteva sapere che la sua avventura sarebbe durata a lungo, molto più a lungo, di quella degli altri navigatori imbarcati sui quei cinque gusci di noce che dopo aver affrontato un oceano si accingevano ad affrontarne un altro, sotto molti aspetti ben più temibile del primo, malgrado il nome che gli sarà dato proprio da Magellano: lʹOceano Pacifico. SULLE SPIAGGE DI RIO, RACCONTI PAUROSI
Ricordi, ancora ricordi. Belli o brutti. Alcuni tremendi. Altri quasi patetici. Al lume dei fuochi accesi sulle spiagge di Rio, i marinai si narravano storie spaventose di amazzoni che, in groppa a cavalli neri purosangue, usciti dalle bocche infuocate dellʹinferno falciavano i guerrieri delle tribù nemiche. Impugnavano, le amazzoni, falci taglienti fatte con foglie di canna e rami di palma e con queste spiccavano dai busti le teste degli indigeni che osavano opporsi al loro strapotere.
ʺLe ho viste in una notte di luna piena galoppare sullʹorlo di quella foresta, dietro quella piccola vegetazione di palmizi, assicurava il nostromo della ʺConcepciònʺ Vasco Rodriguez ʺEl Sordoʺ. I suoi racconti, solitamente, venivano accolti con mormorii di incredulità tra gli uomini degli equipaggi. Ma cʹera anche chi ‐ non si può mai sapere ‐ si faceva ripetuti segni di croce per scongiurare la nefasta influenza degli spiriti maligni. Compito duro, quello di scongiurare lʹopera ed i malefici del Maligno di cui si occupavano egregiamente i cappellani di bordo, uno per ciascuna caravella. Questo non era il compito di Rodriguez. ʺEl Sordoʺ , non tenendo conto delle obiezioni continuava a narrare storie raccapriccianti. Forse, più che altro per esorcizzare le sue stesse paure ancestrali. ʺCʹè chi si è avventurato allʹinterno, in precedenti esplorazioni ‐ proseguì ‐ ed ha visto con i propri occhi guerrieri spaventosi, seminudi, con tatuaggi e con le facce dipinte di bianco, pieni di penne di pappagallo, che usano, nelle battaglie, tremende cerbottane. Le frecce sono intinte nel curaro, un veleno potentissimo. Uno è colpito e zac. Muere de repente, nel giro di pochi secondi, muere! Sangre de Dios! commentavano, inorriditi, i suoi uditori con le bocche aperte e gli occhi spalancati. ʺMa non è finita. ‐ aggiungeva, compiaciuto di aver catturato lʹattenzione generale ʺEl Sordoʺ . quei selvaggi, dopo aver ucciso con le cerbottane i loro acerrimi nemici, tagliano loro la testa. Poi la gettano in una specie di calderone delle streghe, con un miscuglio di erbe magiche. Fanno bollire tutto sul fuoco. Le teste si rimpiccioliscono fino alle dimensioni di un pugno. Ma la pozione magica conserva le sembianze del volto dei guerrieri morti. Poi cuciono le bocche, forse per farli stare zitti per lʹeternità.ʺ ʺSecondo una leggenda celtica che dalle desolate lande del Nord Europa è giunta, chissà come, in fondo alle foreste del Brasile, i tagliatori di teste di tutte le latitudini tagliavano le teste ai nemici perché credevano che quella fosse la sede dellʹanima...ʺ ʺDunque...ʺ sollecitò un allibito marinaio che batteva i denti dalla paura... ʺDunque, concluse trionfante ʺEl Sordoʺ ‐ gli jivaros dellʹAmazzonia credono come i Druidi dei Celti che la testa umana sia il rifugio dellʹanima e nel timore che il guerriero, benché morto, possa diventare un avatar, un morto vivente, tagliano e non ci pensano più. Secondo le credenze druidiche questo era il motivo della decapitazione, praticata anche nellʹantica Roma.ʺ ʺMa siccome di spettri con o senza testa in giro se ne vedevano troppi , può darsi che i guerrieri di queste foreste abbiano dovuto prendere ulteriori precauzioni...ʺ ʺVale a dire ?ʺ interruppe il solito marinaio impaziente. ʺLʹho già detto! ‐ si spazientì il narratore ‐ rimpiccioliscono le teste e cuciono le bocche...ʺ ʺMa lʹanima del guerriero ucciso può sempre uscire dagli occhi, dal naso o delle orecchie...ʺ ʺSai che ti dico: vaglielo a dire tu stesso di persona ai selvaggi! ʺ ʺLa prossima volta Vasco ‐ disse un altro ‐a questo cantagli una ninna nanna così se ne va a dormire e non rompe...ʺ ʺCome siete permalosi!ʺ Ma ʺEl Sordoʺ ormai era contrariato. E divenne il muto, per il resto della nottata. Ma tra gli uditori, la discussione andò avanti ancora per un bel pezzo. ʺMa come avranno fatto i cacciatori di teste a conoscere i Druidi dei Celti ?ʺ ʺDicono che navigatori vichinghi, guidati da un certo Erik il Rosso, siano giunti sulle coste della Groenlandia. Chissà, forse i continenti non sono poi così distanti tra di loro!ʺ Sì, devʹessere proprio andata così pensò tra sé Pigafetta, che aveva ascoltato in silenzio, divertito ma anche assorto, la leggenda paurosa narrata dal nostromo. Cʹerano più misteri in quelle terre sconosciute che nei labirinti e nei sotterranei del Vaticano pensò, rabbrividendo tra sé pensando a quellʹepoca così superstiziosa, ai roghi dellʹInquisizione, ed allʹimmensità di quellʹoceano che, forse, si apriva su nuove incredibili conoscenze. Forse siamo ad un bivio ‐rifletté tra sé il vicentino – e da un lato abbiamo lʹabisso della paura e della barbarie e dallʹaltro la promesse contenuta nei Vangeli di un nuovo paradiso. Ma, intanto, annotò sul suo diario una ʺvoceʺ che aveva raccolto sul posto: i guerrieri di quelle terre selvagge, a volte, mangiavano i loro nemici uccisi in battaglia. Il cannibalismo faceva rabbrividire il buon vicentino, che si guardava attorno con fare sospettoso. CONTINUA