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MUSICA / JOSÉ ADELINO BARCELÓ DE CARVALHO IN TOURNÉE Quarant’anni di musica saudade N’KRUMAH LAWSON DAKU uno sportivo dentro. A quasi 70 anni di vita (li festeggerà il prossimo 7 settembre) e 40 di carriera, José Adelino Barceló de Carvalho sprizza energia come quando aveva vent’anni. Classe 1942, campione dei 400 metri di atletica leggera dal 1966 al 1972 e primatista angolano della distanza, celebra l’uscita di Hora Kota, quarantesima candelina musicale di altrettanti anni di attività. Vibranti come il ritmo che accompagnano, i suoi testi sono lo specchio fedele di un’Angola dal passato coloniale sofferto, indipendenza faticosamente conquistata e epilogo doloroso. L’impero portoghese prima, 27 anni È La roca voce angolana, a quasi 70 anni, presenta il nuovo album Hora Kota, che in patria ha già venduto 20mila copie. Nella sua musica emerge l’identità africana. di GAIA PULIERO, da Parigi 66 di guerra civile (1975-2002) poi, lo vedranno accorato cantore delle libertà angolane. «Ho avuto il coraggio di dire come la penso e di richiamare all’ordine i miei fratelli durante i difficili anni che seguirono l’indipendenza», dice oggi. Del resto, il coraggio non gli è mai mancato. La prima prova passa dal lessico, un’esortazione costante a «vincere, passare il testimone, combattere, riuscire». José Adelino vuol essere “un cantante di peso” (un chanteur de poids), e in questa lotta s’investe in pieno. Contro l’invasore coloniale, José Adelino cambia nome in Bonga Kwenda, canta in lingua kimbundu, sostiene il semba in antitesi all’affermazione del INTERVISTA ALL’ARTISTA “Volevo diventare un cantante mitico” kuduro, genere musicale che nasce nel 1996 da Tony Amado, fusione di breakdance, semba e musica elettronica. «Il semba è l’antenato angolano della samba brasiliana. È nato dalla danza degli schiavi», spiega Bonga. «Le due forme hanno alla base lo stesso contesto culturale: gli strumenti musicali ritrovati a Salvador de Bahia sono tutti strumenti tipici della cultura bantu, come il berimbau o il kilapanga. È l’identità africana che emerge, ed è qualcosa di fantastico». L’ispirazione gli viene dal padre, grande interprete della rebita, il ritmo dei pescatori di Luanda che esprime l’identità di un popolo. Ancora giovane, l’accompagna con la dikanza, strumento tradizionale in bambù. Poi vengono l’esilio, il rifugio capoverdiano di Rotterdam e la scelta politica: l’Europa vede nascere Angola 72, manifesto del cantautore ritrovato, poi Angola 74 e 76. Questi ultimi album respirano già Parigi, che gli varrà la fama internazionale. Risale a questo periodo “Sodade”, cantata da Bonga e poi diventata notissima nella versione di Cesária Évora. È Sono le canzoni dell’inizio. Quando sei obbligato a lasciare la tua terra e ti trovi a dover vivere altrove, tutto è difficile. La mia musica è lo specchio di ciò che vivevo in quegli anni: un ricordo cui sono particolarmente affezionato. Fra le canzoni che più mi stanno a cuore includo “Mona” e “Sodade”, che poi diventò famosa nell’interpretazione di Cesária Évora. Ma fui io a proporla, e fu un successo. Oltre 400 canzoni e una nomina all’Unesco non sono bastate a farla conoscere in Italia. A quando un concerto in una città italiana? Ho avuto un contatto con il Vaticano a fine novembre 2011, quando mi sono esibito in Benin, con il congolese Papa Wemba, in occasione della visita di Benedetto XVI a Cotonou. I miei progetti futuri sono di continuare a cantare in tournée. L’Italia manca. (G.P.) PERRI N onga significa “colui-che-cerca”, “colui-che-va-avanticon-ogni-mezzo”. Tutti le riconoscono una grande energia, una forte motivazione. Quanto il suo passato di sportivo ha influito sul carattere? All’epoca ero molto più combattivo. Ho cominciato a cantare al termine della mia carriera di atleta, che mi aveva dato la possibilità di varcare la frontiera angolana e conoscere il Portogallo. Non so se lo sport ha influito, ma il mio carattere è sempre stato impulsivo. In campo, bisognava vincere, vincere sempre. Poi la dimensione è cambiata e le canzoni sono diventate la mia motivazione. Bisogna passare il testimone. E allora ho cominciato a informare cantando. Volevo essere un cantante di peso, un cantante mitico. Un cantante mitico? Sì! Per me era importante parlare al mio popolo. Fare ciò cantando è stato qualcosa di fantastico. Ho avuto il coraggio di rivolgermi prima ai coloni, poi ai miei fratelli per dir loro di non combattersi gli uni gli altri. Nel corso della sua carriera, il confronto con i produttori musicali non è sempre stato evidente. Negli anni Settanta volevano fare di me il Julio Iglesias africano. Ho detto “no”. Dovevo preservare l’aspetto fondamentale della mia musica. In quel momento le proposte che mi venivano fatte puntavano a trasformarla in un fenomeno esotico. Io mi mescolo facilmente: ho cantato con Bernard Lavilliers, Agnès Jaoui, Cesária Évora. Ma sono state tutte collaborazioni in accordo con la mia musica. C’è una canzone cui è particolarmente affezionato? B Bonga con gli Ebena a Parigi. proprio Parigi a battezzarlo, in un certo senso, come precursore della World Music, prima della formulazione dell’etichetta negli anni Ottanta. Bonga, “il cantante dalla voce roca”, costruisce la sua carriera alternando i palchi di Parigi con quelli di Lisbona, dove ritorna regolarmente, fino alla rivelazione cinematografica di Chacun cherche son chat di Cédric Klapish (1996), di cui cura la colonna sonora. È l’apice della carriera, il successo internazionale del semba e l’affermazione di quel brassage musical che il suo stesso ritmo incarna. Resta la saudade, certo, evidente soprattutto nell’album Kaxexe (letteralmente, “di nascosto”), del 2004, ma l’energia di fondo non cambia: si è trasformata. «Oggi sono più calmo», riconosce. «Prima, invece, bisognava investirsi nel rinnovamento della cultura angolana». La collaborazione con Bernard Lavilliers segna quest’ultimo periodo. Lo scorso febbraio è uscito l’album Hora Kota: l’“ora dei saggi”, il momento della riflessione. Il fremito angolano, che nel 2006 aveva dato vita alla canzone “Palanca Buè”, dedicata alla nazionale di calcio angolana che per la prima volta partecipava ai Mondiali di calcio, si modula qui in una produzione più intima, proposta in versione acustica. Al centro prendono forma la figura del vecchio saggio africano e, indirettamente, la gioventù cui l’album si rivolge. Il brio di oggi resta quello di sempre. In Angola, Hora Kota ha già venduto 20mila copie. E lui, Bonga, è lontano dal volersi fermare. Ripete: «Non bisogna mai stancarsi. Altrimenti, quale eredità lasceremmo noi africani? Quella di un popolo disgraziato? Non è davvero il caso». Parola di Bonga. • nigrizia luglio-agosto 2012 67