speciale - ALLRUGBY
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in collaborazione con www.allrugby.it speciale 2016, leggende a Roma Storia e storie del rugby fra Italia e Nuova Zelanda 1 Men in “Qual è stato il contributo del rugby nell’offrire, all’inizio, un senso di cameratismo a una popolazione rurale solitaria e sparpagliata sul territorio? Quanto le imprese delle nostre squadre del 1905 e del 1924 hanno portato un’idea di patria a una nazione giovane? In quale misura il gioco contribuisce allo sviluppo del carattere e del fisico dei giovani? Dove altro i pakeha (i neozelandese bianchi) e i polinesiani trovano un’affinità così naturale? Che significato ha il gioco per l’orgoglio dei Maori, i cui rappresentanti lo hanno sempre interpretato magnificamente? Tutto ciò sta alla base del rugby, come lo conosciamo in questo paese, e per queste e altre ragioni, migliaia di noi continuano a sostenere il gioco e dedicargli il loro tempo.” Wilson Whinerary, All Black dal 1957 al 1965, capitano dal 1958, “patron” della Federazione neozelandese dal 2003 al 2013 (dall’introduzione del volume “Men in Black”). Gli interrogativi di Whinerary sintetizzano, nelle parole di colui che era stato considerato il più grande capitano neozelandese di tutti i tempi, il significato e la profondità del rugby nella cultura della Nuova Zelanda. Uno sport che offriva svago e opportunità di socializzazione a una popolazione abituata a lavori pesanti e che trovava nel rugby occasioni di incontro, sparsa com’era sul territorio. “Noi siamo una piccola nazione - ha ricordato di recente Steve Hansen - che ha cominciato a dedicarsi a un gioco inventato dagli inglesi, i quali all’inizio ci guardavano dall’alto in basso, anche se eravamo piuttosto bravi, perché il rugby rispondeva perfettamente alle caratteristiche fisiche degli agricoltori e dei lavoratori del tempo. Così si è formato un senso di appartenenza, una storia intorno alla quel ora c’è un’enorme aspettativa ed è qualcosa di cui noi come neozelandesi siamo tutti enormemente orgogliosi”. Nelle pagine che seguono, Allrugby ha cercato di riassumere lo straordinario apporto dato al gioco dalla Nuova Zelanda attraverso contributi, immagini e testimonianze di chi li ha affrontati sul campo e visti giocare dal vivo. Troverete anche i profili di alcuni protagonisti di oggi, l’allenatore Steve Hansen, Brodie Retallick, i fratelli Savea e quelli di due campioni del passato: Dave Gallaher, capitano degli “Originals” e George Nepia, forse la prima grande star del rugby neozelandese. Buona lettura. (glb) 2 Black speciale 3 LE A Roma nel 2012 gli Azzurri schierati di fronte all’haka.Nel riquadro, mischia tra Italia e All Blacks a Auckland nel 1987: Tito Lupini fronteggia Mc Dowell. Nelle pagine seguenti, Martin Castrogiovanni tenta una percussione tra Carl Hayman e Chris Jack (in sostegno c’è Roland de Marigny) nel match di esordio della Coppa del Mondo 2007 in Francia. In otto edizioni dei Mondiali, l’Italia ha affrontato cinque volte gli All Blacks nella fase a gironi del torneo. 4 speciale SFIDE 5 Nuova Zelanda popolazione 4.400.000 superficie 268 mila km2 irb ranking 1 Edoardo “Ugo” Gori placcato da Brodie Retallick a Roma nel 2012. Nella foto piccola la meta di Mauro Bergamasco contro la Nuova Zelanda, nel 2004 al Flaminio. 6 speciale Tra Italia e Nuova Zelanda è la sfida numero 14 data e luogo 28 novembre 1979*, Stadio Battaglini, Rovigo 22 maggio 1987, Eden Park, Auckland 13 ottobre 1991, Welford Rd, Leicester 28 ottobre 1995, Stadio Dall’Ara, Bologna 14 ottobre 1999, McAlpine Stdm, Huddersfield 25 novembre 2000, Stadio L. Ferraris, Genova 8 giugno 2002, Waikato Stadium, Hamilton 11 ottobre 2003, Colonial Stadium, Melbourne 13 novembre 2004, Stadio Flaminio, Roma 8 settembre 2007, Velodrome, Marsiglia 27 giugno 2009, Jade Stadium, Christchurch 14 novembre 2009, San Siro, Milano 17 novembre 2012, Stadio Olimpico, Roma World Cup World Cup World Cup World Cup World Cup risultato mete 12-18 70-6 31-21 6-70 101-3 19-56 64-10 70-7 10-59 76-14 27-6 6-20 10-42 1:2 12:0 4:2 0:8 14:0 2:8 9:1 11:1 1:9 11:2 3:0 0:1 1:5 * La partita del 1979 non è considerata Test match dalla Federazione neozelandese. 44 18 È il numero delle coppie di fratelli che hanno indossato la maglia della nazionale neozelandese: soltanto dieci di queste però sono formate da atleti che hanno giocato insieme, gli ultimi Julian e Ardie Savea. Sono le vittorie consecutive conquistate dagli All Blacks a partire dall’8 agosto 2015 (19-27 contro l’Australia). E’ il nuovo record assoluto per squadre nazionali, supera il precedente di 17 detenuto dal Sudafrica di Nick Mallett (19971998), dagli All Blacks del 2013-2014 e del 1965-1969. 11 7 Gli Azzurri che hanno segnato una meta agli All Blacks: Nello Francescato, Marcello Cuttitta, Bonomi, Bortolami, Lo Cicero, Saviozzi, Phillips, Mauro Bergamasco, Stanojevic, Mirco Bergamasco e Alberto Sgarbi. Nessuno ne ha messa a segno più di una. Mauro Bergamasco è il giocatore che ha affrontato più volte gli All Blacks in maglia azzurra, 7. 7 Marsiglia, Velodrome, 8 settembre 2007 Nuova Zelanda vs Italia 76-14 (primo tempo 43 -7) Marcatori: 2’ e 7’ mt McCaw tr Carter, 11’ cp Carter, 12’ mt Howlett tr Carter, 15’ mt Muliaina tr Carter, 19’ e 30’ mt Sivitavu tr Carter, 38’ mt Stanojevic tr Bortolussi; Secondo tempo: 51’ mt Jack tr Carter, 59’ mt Howlett tr Carter, 64’ meta Howlett nt, 73’ e 70’ mt Collins tr McAlister, 77’ mt Mi. Bergamasco tr De Marigny. Cartellini gialli: 44’ Hayman, 61’ Perugini. Arbitro: Barnes (Inghilterra) Spettatori: 54.000 8 Marsiglia 2007 speciale 9 Milano, stadio San Siro, 14 novembre 2009 Italia vs Nuova Zelanda 6-20 (primo tempo 3 -14) Marcatori: Italia vs Nuova Zelanda 6-20 (primo tempo 3 -14) Marcatori: 3’ cp Gower, 8’ e 15’ cp McAlister, 28’ mt Flynn, 43’ cp McAlister. Secondo tempo: 45’ cp McAlister, 61’ cp Gower, 75’ cp McAlister. Cartellini gialli: 44’ Garcia, 74’ Tialata Arbitro: Dickinson (Australia) Spettatori: 80.000 Nella foto, battaglia fra mischie in Italia v All Blacks a San Siro nel 2009. Nel finale gli Azzurri misero la Nuova Zelanda alle corde con una serie di mischie a un passo dalla meta. L’arbitro però non ebbe il coraggio di concedere ai padroni di casa la meritata meta di punizione. Qui,un momento del braccio di ferro da Perugini e Tialata (stappato, con il numero 3). Alla fine il neozelandese riceverà un cartellino giallo per i ripetuti crolli del pack in maglia nera. 10 Milano 2009 speciale 11 Roma, Stadio Olimpico, sabato17 novembre 2012 Italia v Nuova Zelanda 10-42 (primo tempo 7-13) Marcatori: 13' cp Cruden, 17' mt Read tr Cruden, 20' cp Cruden, 26' mt Sgarbi tr Orquera; secondo tempo: 4' cp Cruden, 9' mt Nonu tr Cruden, 13' drop Orquera, 28' mt Jane, tr Cruden, 33' mt Savea, 36' mt Savea tr Cruden. Arbitro: Alain Rolland (Irlanda) Spettatori: 73.000 12 Roma 2012 speciale La meta di Alberto Sgarbi 13 Dieci Azzurri raccontano la loro esperienza faccia a faccia con i neozelandesi 14 speciale Ho sfidato gli All Blacks 15 Marzio Innocenti (1987) Salvatore Bonetti (1977) Noi gli All Blacks a mala pena li vedevamo in televisione. Per anni sono girate solo le immagini del famoso match con i Barbarians, quello del 1973. Per cui figuratevi le emozioni, le sensazioni, quando Mario Martone, l’allora presidente federale, ci disse che i neozelandesi, in viaggio per la Francia, si sarebbero fermati in Italia e avrebbero volentieri disputato una partita di preparazione. Non sarebbe stato un test match, per cui fu deciso di giocare con i Dogi, che in quell’epoca si difendevano molto bene anche contro squadre straniere molti forti, rinforzati da me, Guy Pardies e Nelson Babrow. La squadra fu ribattezzata “XV del presidente” e io fui scelto come capitano. Non vi nascondo che la settimana di avvicinamento alla partita fu una settimana di dubbi e preoccupazioni. Mi chiedevo: sarò all’altezza? Saprò reggere il ritmo e gli impatti fisici? Ci preparammo per il match ad Abano dove alloggiavano anche i neozelandesi, per cui la sera, quando facevamo quattro passi dopo l’allenamento, ci incontravamo. Li scrutavamo, li osservavamo come si fa con fenomeni che vedi per la prima volta da vicino. Guardavo i loro centri Osborne e Robertson e pensavo a Nello e Bruno Francescato che li avrebbero avuti di fronte. Ci preparò Carwin James, che alla guida dei Lions li aveva battuti nel 1971 e poi, con Llanelli, nel 1972. Fu importante perché ci convinse che ce la saremmo potuta giocare, ci diede fiducia e convinzione. Finì 17-9 per loro, la meta di Nello fu l’unica che gli All Balcks subirono in tutto il tour. Trent’anni dopo, a Brescia, venne a giocare Deon Kingi. Un giorno sua moglie mi disse “ti porto i saluti di mio padre”. Era la figlia di Bruce Robertson che quel giorno era stato il capitano della squadra all’Appiani. Si ricordava di me e io di lui. Una partita di cui vado orgoglioso. 16 Nella pagina precedente: Marzio Innocenti, con i gradi di capitano, fronteggia l’haka nel match inaugurale della Coppa del Mondo 1987 a Auckland. Sopra il “XV del Presidente” la prima squadra italiana ad aver affrontato gli All Blacks, nel 1977 all’Appiani (9-17). Sotto Paolo Vaccari e Ivan Francescato alle prese con Jeff Wilson nel 1995 a Bologna. A destra, stesso match, un’apertura di Alessandro Troncon e, in basso, Carlo Checchinato e Ian Jones in touche a Huddersfield, durante la Coppa del Mondo del 1999. Ci era toccato l’onore di giocare, proprio contro gli All Blacks, la partita inaugurale dei primi Mondiali della storia. Nei giorni precedenti, in giro per Auckland la gente - che comunque ci riconosceva ovunque - sorrideva sarcastica facendoci coraggio, chiedendoci anzi se davvero l’avremmo giocata quella partita. Che noi preparammo consapevoli dell’impresa ai limiti delle nostre possibilità, ma anche con tanta voglia di giocarcela per dimostrare quanto sapevamo onorare la nostra maglia. Giusto per dire della considerazione nei nostri confronti, nello spogliatoio, a pochi minuti dal fischio d’inizio, ad un certo punto entrò un funzionario dell’International Board che spegnendo la luce ci disse “State per essere visti da qualche milione di spettatori in tutto il mondo, meglio se restate un po’ al buio a concentrarvi”. A far tornare il sereno ci pensò Stefano Barba, che in romanesco disse subito “A rega’, questi ce vonno portà via li portafogli”. Ridemmo molto per qualche secondo, poi però la testa andò tutta sul match, che fino al 10’ del secondo tempo fu un vero match, salvo poi tramutarsi in una tempesta nera su cui sono spesso tornato cercando di capirne i motivi, senza però mai riuscirci, anche se alla fine del torneo la stampa mi votò Best Skipper of the World Cup”. Paolo Vaccari (1991, 1995, 1999) Giocare contro gli All Blacks è un’esperienza unica. Talmente importante, talmente speciale che il mio rammarico è di averne compresa l’importanza solo quando tutto era finito, dopo aver smesso di giocare. Ai ragazzi giovani vorrei dire: godetevela fino in fondo, assaporatene tutto il gusto. Perché è un’emozione che capita poche volte nella vita. C’è gente speciale dafrica di pochi mesi prima. Ma anche se fosse finita 40-0 il senso di quel pomeriggio non sarebbe cambiato, perché a far male è stata la nostra impotenza, a livello collettivo e individuale. In campo non siamo esistiti e io mi sono vergognato, non mi era mai successo. Ci sono stato male anche dopo, per diverso tempo. Fortunatamente, poi sono andato a giocare in Francia e lì ho riacquistato l’entusiasmo. Se invece devo dire quando mi sono sentito meglio dopo un incontro con la Nuova Zelanda, indico la mia ultima volta, nel 2007 alla Coppa del Mondo in Francia. Intendiamoci, il rugby è sport di squadra e prendere quasi 80 punti è comunque grave, però guardando alla mia prestazione individuale sapevo di avere affrontato questa squadra come mai mi era capitato prima, a viso aperto, e di essermi divertito. Non posso dire altrettanto della partita del 2000, a Genova, quando una ginocchiata in testa mi mise fuori combattimento dopo un minuto. Dei trequarti d’ora successivi a quella botta ricordo solo un’idea fissa: avrei voluto, non so perché, tornarmene immediatamente a casa”. che per venirvi a vedere giocare contro i più forti del mondo mette via i soldi per un mese, magari di più, si alza la mattina presto, viaggia in pullman, in macchina, in treno. Non date per scontata un’opportunità così, non perdetevi dietro le distrazioni di un giorno. Pensate che fra un po’ di anni ricorderete questa partita e vi renderete conto di quanto sia stata speciale. Sul campo purtroppo, a parte la prima volta, quella ai Mondiali del 1991, quando ero giovane e spensierato (e tutto sommato ce la cavammo più che bene, perché finì 21-31 e davanti avevamo gente come Zinzan Brooke e Tuigamala…), delle partite successive mi è sempre rimasta una sensazione di inadeguatezza fisica, mi sono sempre sentito più debole di loro. Erano più avanti come preparazione, come mezzi, e non mi sembrava di combattere ad armi pari. Questo è un grande dispiacere. E poi gli ho sempre invidiato l’haka, questa capacità di esprimere pubblicamente, con una danza, lo spirito di un popolo, di una nazione. Estrapolata dal contesto, potrebbe sembrare una cosa curiosa: mettersi a danzare prima di una partita di rugby davanti a settantamila persone. Invece per loro è un atto profondo, che rinsalda i legami di squadra e rafforza la tradizione. Ecco avrei voluto avere anch’io come squadra la mia haka. Un’altra delle cose che li rende speciali. Alessandro Troncon (1995, 1999, 2000, 2003, 2007) C’è una partita con gli All Blacks che rimane il peggiore ricordo di tutta la mia carriera rugbistica. È quella della Coppa del Mondo 1999, a Huddersfield. Intanto il punteggio: 101-3, l’unica volta che mi è capitato di prendere 100 punti, avendo saltato il match con il Su- 17 Matteo Mazzantini apre il gioco a Canberra durante i Mondiali del 2003. Lo osservano Ramiro Martinez (a sinistra), Carlo Checchinato e Totò Perugini. Carlo Checchinato (1991, 1995, 1999, 2003) Ho giocato contro gli All Blacks la prima volta ai Mondiali del 1991. Avevo appena compiuto ventun anni e pensavo alla Coppa del mondo precedente, che avevo visto in tv, anzi avevo cercato di vedere in televisione, alzandomi alle sei la mattina, non tutte le partite venivano trasmesse in Italia. Affrontarli sul campo fu un’esperienza bellissima, meravigliosa, anche perché era un’epoca in cui di rugby da noi se ne vedeva poco, il resto era immaginazione e gli All Blacks, l’haka e tutto il resto erano la leggenda. Facemmo anche un gran partita (21-31) e Shelford disse la famosa frase: “ha vinto la Nuova Zelanda ha trionfato l’Italia”. Sul campo hanno la capacità di essere sempre al posto giusto al momento giusto, velocità, esecuzione. Sanno anche essere cattivi, se serve: Richard Loe aprì una mano di Franchino Properzi camminandogli sopra con i tacchetti. Kino dovette uscire, al suo posto entrò Grespan. Ma fuori sono ragazzi molto, molto umili: a Huddersfield, nel 1999, ci rifilarono 101 punti (a 3). Per molti di loro era la prima Coppa del Mondo, per me era già la terza. Dopo la partita, noi delusi per la batosta, avendo saputo che io avevo già disputato tre Mondiali vennero a chiedermi se potevano fare una foto con me. Ci penso ancora adesso e mi viene da ridere. 18 Matteo Mazzantini (2002, 2003) Posso dire di essere stato fortunato: su nove partite in Nazionale due le ho giocate contro gli All Blacks. Cosa cambia rispetto a tutti gli altri avversari? Cambia che loro sono i più forti. Anche quando credi di averli, per un attimo, in pugno, sanno come togliersi da guai. Credi di averli messi in difficoltà e riescono sempre a uscire fuori al meglio. Tutti e quindici fanno sempre la cosa giusta al momento giusto e questo alla fine fa la differenza più grande. Io l’haka me la sono trovata di fronte a Hamilton dove gran parte del pubblico era composto dalla comunità maori: fu un haka più intima, molto emozionante. A Melbourne, ai Mondiali del 2003, invece, ebbi l’impressione che Carlos Spencer recitasse per le televisioni. Anche l’haka una volta era una cosa meno inflazionata, più personale. Adesso la vedi ovunque, forse anche troppo. Sul combattimento poi sono i numeri uno, ma quello che ti colpisce di più in campo è la facilità con cui risolvono le situazioni difficili. E poi quella loro forza di non darti tregua, quel loro insistere finché a un certo punto ti senti soffocare. Magari non sbagli tanti placcaggi, ma loro continuano a far vivere la palla e alla fine tu non sai più cosa fare. Della tournée del 2002 ricordo con piacere anche la grande competenza di un paese che vive di rugby. La capacità del speciale ché il rugby scorre nelle loro vene, nella loro cultura, hanno un vissuto diverso che solo chi è cresciuto in Nuova Zelanda può capire. Alessandro Zanni (2007, 2009-1, 2009-2, 2012) Paul Griffen a Marsiglia, ai Mondiali del 2007, pressato dal numero 9 avversario Brendon Leonard Sotto, lo sforzo di Alessandro Zanni per contenere la percussione di McAlister, agganciato anche da Quintin Geldenhuys. Nella pagina seguente, scontro tra numeri otto: Sergio Parisse combatte contro Kieran Read e, in basso, Simone Favaro cerca di difendersi dall’attacco di Rico Gear e Conrad Smith. pubblico, di tutti quanti, di capire il tuo impegno, il tuo sforzo individuale. E se perdevi, ma avevi fatto il massimo, ti eri guadagnato il rispetto e l’ammirazione di tanti. Paul Griffen (2004, 2997) Gli All Blacks sono la ciliegina sulla torta del rugby e siccome le ciliegie fanno gola a molti, tutti vogliono giocare contro di loro: vuol dire assaporare un frutto speciale. Per me, poi, affrontarli è sempre stata una cosa particolare. Sono cresciuto in Nuova Zelanda, ho festeggiato il trionfo degli All Blacks nella prima Coppa del Mondo, mi ricordo ancora quando da bambino mi alzavo la notte per vederli giocare nei tour in Europa e sognavo di indossare quella maglia. Ovviamente quando mi sono trovato contro, invece che con loro, la cosa mi ha fatto un certo effetto, una certa emozione: pensare che quell’inno le cui parole conoscevo fin da piccolo, quella bandiera che sventolava sopra le tribune non erano per me ma per i miei avversari non è stato facile da accettare. L’haka per esempio: per noi in Nuova Zelanda è una tradizione importante, ogni scuola, ogni club ha la sua versione. Essere dall’altra parte mi faceva pensare, mi faceva effetto. E all’haka è legato il ricordo più brutto della mia intera carriera sportiva, quel momento trovo antipatico perfino ricordarlo adesso, dopo tanto tempo. Fu quando a Marsiglia, nel match inaugurale della Coppa del Mondo 2007, fu deciso (dall’allenatore Pierre Berbizier, ndr), che all’haka avremmo dovuto voltare la schiena, stringerci in un cerchio e non guardarla. Per me che ne conosco il significato profondo, il legame con le nostre origini - “è’ la morte, è la vita” e tutto il resto - fu proprio un atto forzato, uno sgarbo grave. Una cosa che mi ha fatto stare male. Poi ricordo che i compagni mi chiedevano “come sono gli All Blacks?”. Sono giocatori come gli altri - dicevo -, solo che hanno qualità migliori per- Giocare contro gli All Blacks è bellissimo, perché sono i più forti, e durissimo…perché sono i più forti. Ma più che le loro doti fisiche e tecniche, quando li affronti colpisce la facilità con cui fanno le cose, la semplicità dei loro gesti, fanno sempre la scelta giusta. Hanno avanti con le qualità e le abilità dei trequarti e trequarti con caratteristiche atletiche spesso fuori dal comune. Singolarmente hanno competenze eccezionali e soprattutto non calano mai d’intensità, penso alla partita del 2012 a Roma: il primo tempo abbiamo retto il confronto, poi inevitabilmente abbiamo cominciato a rallentare e loro hanno continuato a mantenere lo stesso livello. La sfida più dura che ricordo è quella del 2007, a Marsiglia, con McCaw, Sivivatu, ma di quei giocatori ne potrei citare altri dieci. Avevamo fatto una preparazione durissima e pensavamo in qualche modo di poter reggere la sfida, c’erano molte aspettative e ci fu anche la storia dell’haka (vedi il racconto di Griffen, ndr): invece partirono fortissimo e finimmo distrutti, ci fecero 76 punti. Però tutti vogliono giocare contro di loro perché sono i migliori, i più preparati, i più bravi tecnicamente. 19 calendario 2017 Finalmente il calendario di Allrugby con le immagini di un anno di grande rugby Prenotatelo subito in rete su www.allrugby.it a soli 13,50 euro (spese di spedizione comprese) Formato aperto: 28 x 43 cm 28 pagine e 14 immagini speciale Supplemento on line al n. 108 di Allrugby mensile. Ruck and Mole editore Soc. Cop arl Tutti i diritti riservati. Divieto di riproduzione di immagini e testi. 20 Fotografie Fotosportit Roberto Bregani, pagg. 19b, 38; Fotosport, pag. 31; Diego Forti, pag. 12; Tim Rogers, pag. 15; Daniele Resini, pagg. 2, 4, 6, 8, 10, 14, 16b, 17, 18, 19a, 21, 24b, 25, 30, 32, 36. Getty Images Anthony Au-Yeung, pag. 28; Stu Forster, pag. 24; Fiona Goodall, pag. 34; Kirby, pag. 46; David Rogers, pag. 26; Phil Walter, pagg.1, 22, 27, 37. speciale Sergio Parisse (2002, 2003, 2007, 2009-1, 2009-2, 2012) Per un rugbista giocare contro gli All Blacks è la partita della vita. Sono gli avversari che fin da piccolo, sogni di affrontare. Per me poi hanno rappresentato l’esordio in Nazionale a 18 anni, a Hamilton, a casa loro. Potete immaginare i ricordi, le sensazioni di quel giorno. Alla Nuova Zelanda insomma è legata la mia prima, più grande emozione sportiva. Poi, sul campo sono veramente i più bravi, il ritmo, la velocità che sanno dare al gioco non hanno niente niente a che vedere con quelli delle altre squadre. Nessuna è paragonabile a loro, nemmeno il Sudafrica e l’Australia. E poi sono bravissimi a sbloccare le situazioni, anche quando apparentemente non c’è un vantaggio o uno spazio, loro sanno trovarlo, con un colpo di estro individuale, un’intuizione singolare. Per un giocatore affrontarli è il massimo perché ti mettono in condizione di misurare le tue doti: sai che ti di fronte avrai i migliorI al mondo, o quasi. È l’occasione per vedere quanto vali, cosa sai fare al cospetto dei numeri uno. Sono stato fortunato ad avere avuto la possibilità di sfidarli diverse volte e devo dire che parlare di risultato in queste partite è inutile, in questo momento nessuno li batte. Noi dobbiamo pensare soltanto di dare il massimo senza avere in mente altro. Paradossalmente per noi è una partita senza pressioni particolari: nessuno si aspetta che vinciamo e quindi, semplicemente, dobbiamo fare il meglio che possiamo. Senza tirarci indietro, senza risparmiarci: è la partita della vita, godiamocela come tale. Simone Favaro (2009-1, 2009-2, 2012) Per un rugbista giocare contro gli All Blacks è come andare alle Olimpiadi. Arrivano gli All Blacks e i giornali scrivono di più, gli sponsor sono più interessati, gli appassionati si mettono in agitazione, perché loro sono la leggenda, la storia, l’élite assoluta. Da noi vengono ogni tre o quattro anni. Per questo dico che sono le Olimpiadi del rugby. Poi in campo è ovvio che devi considerarli avversari, anzi i migliori avversari possibili, i più forti, quelli che esprimo il rugby al meglio, ma alla fine è una partita e va giocata come tale. Io li ho affrontati la prima volta a Wellington, nel 2009, era il mio secondo cap, avevo vent’anni. Penso all’emozione dell’haka, un rito tribale, un gesto primitivo, in cui loro richiamano le tradizioni, invocano il loro dio. È una cosa che mi affascina moltissimo, che mi dà molta carica, non mi provoca soggezione, ma adrenalina, ecco adrenalina è il termine giusto. Poi è ovvio: anch’io da bambino li guardavo alla televisione, li ammiravo. Ma poi la partita è sempre la partita… dura ottanta minuti, le regole sono sempre le stesse e io non vedo l’ora di affrontarli. Questi All Blacks poi si dice che siano i migliori di sempre e quindi è il confronto più alto che puoi avere nella tua carriera. Per noi sarà una sfida al limite. Ma una bella sfida: giochiamo contro il meglio. 21 22 speciale Quota 92 di Gianluca Barca Steve Hansen allena agli All Blacks dal 2012 e alla guida della Nazionale neozelandese ha vinto il 92% delle partite disputate: nessuno come lui. Ritratto di un uomo diventato il tecnico più vincente della storia del rugby internazionale. In un’altra epoca, forse in un’altra vita, sportivamente parlando, Steve Hansen, è stato allenatore del Galles con cui vinse 11 delle 31 partite che i Dragoni disputarono fra il febbraio 2002 e il marzo 2004. Non fu un’esperienza facile: tra la fine del 2002 e l’agosto 2003 la squadra perse dieci partite consecutive e Hansen era “il secondo uomo più odiato del Galles - esagerò un tabloid, - dopo Osama Bin Laden e appena prima di Saddam Hussein”. Ex poliziotto, oltre al fatto di non vincere, molti gli rimproveravano di gestire la squadra come una centrale di polizia. E di utilizzare metodi odiosi per controllare i giocatori, come quello di fare il giro del parcheggio, la sera, e poggiare il palmo della mano sul cofano delle automobili, per verificare chi si era allontanato dal ritiro e da quanto tempo era rientrato in camera, evitando il coprifuoco. Oggi evidentemente, dodici anni dopo, e alla guida degli All Blacks, Hansen ha cambiato registro, visto che a TV3, in una lunga intervista, un anno fa, prima della Coppa del Mondo, spiegò la sua filosofia di allenatore puntando soprattutto sui concetti di responsabilità collettiva, umiltà, senso di appartenenza alla famiglia. Lui che di famiglie ne ha già avute un paio (due divorzi), ma non imputa al rugby la colpa di quei fallimenti: “La responsabilità devo prendermela io, non posso addebitarla al rugby - ha detto -. I matrimoni si rompono perché per qualche ragione le persone non vanno d’accordo”. 23 Fra gli All Blacks invece “Shag” (il soprannome che alla Canterbury Rugby Union gli affibbiò Steve Tew) è riuscito evidentemente a creare un clima ideale: “quando i ragazzi crescono è giusto che comincino a prendersi qualche responsabilità - ha spiegato -. E via via che crescono e diventano più saggi, uno di responsabilità gliene da sempre di più, finché non sono capaci di camminare da soli a mamma e papà possono rilassarsi e godersi quel che accade”. Insomma l’uomo che passava per essere noioso e autoritario e che chiamavano un “bel bastardo” è diventato invece autorevole a arguto. “Siamo un gruppo di persone con un obiettivo comune - dice - un obiettivo che può essere riassunto in un concetto semplice: vincere ogni partita che giochiamo. E come certe dinamiche accadono in famiglia, così vivono in una squadra. Fai una cosa buona e ti meriti una pacca sulla spalla, ne fai una male e, ogni tanto, ti becchi un calcio nel sedere. Vuoi bene alle persone con cui lavori, ma a volte non ti sta bene quello che fanno o come si comportano, e questo è quello che succede anche a casa. Vuoi bene ai tuoi figli, a tua moglie, ma certe cose non le tolleri e dici: ‘mi dispiace: qui non si fa così!’. Ci sono degli standard e delle regole e queste vengono definite dal vertice verso la base e dalla base in su, e nessuno scappa, nemmeno il sottoscritto”. La vicenda di Aaron Smith, all’inizio di ottobre, da questo punto di vista è stata esemplare. Il giocatore ha sbagliato (la vicenda dell’aeroporto di Christchurch) ed è stato immediatamente escluso dalla sqadra in partenza per il Sudafrica. Senza se e senza ma. Hansen a un certo punto della carriera andò in Francia, a La Rochelle, aveva 25 o 26 anni, e scoprì che lì, come del resto in Italia e altrove, anche gli uomini fra parenti, o amici, si baciano sulle guance in segno di affetto. Al mattino quando si incontrano, la sera per 24 speciale Nelle pagine precedenti, Steve Hansen, 57 anni, dal 2012 è alla guida degli All Blacks. Qui, quando allenava il Galles (2002-2004): 11 vittorie in 31 partite. Nel 2003, come coach dei Dragoni, perse a Roma contro l’Italia (nel riquadro in basso, la meta di Matthew Phillips), ma nello stesso anno si prese la rivincita a Canberra, ai Mondiali in Australia, dove i gallesi superarono l’Italia 27-15 nel match decisivo per la qualificazione ai quarti di finale. (a fianco, una carica di Santiago Dellapé contrastato da Jarvis e Martin Williams), con Lo Cicero in sostegno. augurarsi la buona notte, per salutarsi prima di un viaggio. “All’inizio mi faceva una certa impressione - racconta -, noi qui in Nuova Zelanda non indulgiamo in quel tipo di manifestazioni, ma poi l’ho presa come una dimostrazione di affetto, un bel gesto di reciproco attaccamento”. Provò a portare quell’usanza anche a casa. “Ma mio padre preferiva una vigorosa stretta di mano. Ci salutavamo così la mattina e la sera prima di andare a letto. Divenne un rituale familiare”. Oggi quel rituale è stato introdotto anche fra gli All Balcks: “magari è un abbraccio, una stretta di mano, un contatto col pugno” e coinvolge tutti, giovani o vecchi, star o ragazzi appena arrivati. L’altra cosa che Hansen mette sopra tutto è la squadra: “the team first”. “Il mio obiettivo è lasciare un giorno la squadra meglio di come l’ho trovata. La domanda che bisogna sempre porsi è: “questo giova alla squadra? Se la risposta è sì non c’è difficoltà che tenga. Al momento della scelta dei 31 per la Coppa del Mondo ci siamo trovati a valutare il peso di due giocatori come Cory Jane, 53 cap, e Israel Dagg, 49, al cospetto delle potenzialità di due ragazzini (Naholo e Milner-Skudder), uno dei quali aveva giocato mezza partita, ed era convalescente per la frattura alla gamba, e l’altro aveva nel suo curriculum non più di due test. Ci siamo chiesti se i due esordienti avrebbero dato alla squadra qualcosa in più e la risposta è stata unanime: sì. Abbiamo agito di conseguenza”. Hansen sottolinea come questo sia stato reso possibile anche dalla vittoria del 2011. “La squadra viveva sotto il perenne incubo di non farcela. Aveva paura di perdere. E quando hai paura di perdere non osi prendere rischi. E se non rischi difficilmente raggiungi grandi traguardi. 25 Col tempo l’ex trequarti centro di Canterbury ha imparato anche a non preoccuparsi. “La preoccupazione – per me – è un’emozione inutile. I casi sono due: o una cosa è successa e allora devi darti da fare per sistemarla subito, o non è successa, in tal caso devi lavorare per evitare che accada”. Ho conosciuto Steve Hansen nel 2003 in Australia. All’epoca allenava il Galles, un’esperienza durata tre stagioni e alla quale lui stesso riconosce un valore pari “a vent’anni in un altro paese”. In quell’edizione dei Mondiali gli Azzurri erano stati inseriti nello stesso gruppo del Galles (con Nuova Zelanda, Tonga e il Canada) e la pattuglia di giornalisti italiani catapultata a Melbourne, poi a Canberra e a Sydney, spesso si intratteneva alle conferenze stampa dei futuri avversari cercando spunti con i quali tenere alto l’interesse per il torneo in patria. L’Italia, a Una volta che ci siamo liberati di quella “scimmia” tutto è diventato più facile. Non siamo più gente che inciampa all’ultimo ostacolo. Con quel successo tutti hanno tirato un sospiro di sollievo, tutto il paese. Io sono convinto che bisogna sempre provare a spingersi al di là dei limiti ed essere coraggiosi, buttarsi. Perché se hai talento e ti butti può succedere qualsiasi cosa, e puoi raggiungere obbiettivi che gli altri si sognano”. E poi l’umiltà: “siamo persone normali, che cercano di giocare un buon rugby”, ha detto dopo la finale. Per farlo, hanno spiegato lui e McCaw, il segreto è lavorare ogni giorno, godendosi ogni minuto. “Devi vivere giorno per giorno, creare un ambiente in cui cerchi di migliorare, pensando che dove sei arrivato non è mai abbastanza. Si può sempre fare di più. Io non sono un motivatore - ha spiegato al canale neozelandese TV3 -. Il mio lavoro è creare un ambiente nel quale atleti motivati possano esprimersi al meglio”. Alcune delle idee che ha messo in pratica con gli All Blacks, Hansen le ha prese da suo padre Des, che aveva due fissazioni: il rugby e i cavalli da corsa. Cavalli da allevare per il galoppo, far crescere e portare alle gare. “Dai cavalli puoi imparare molto - dice -, mi piacciono e li rispetto. E con loro c’è un rapporto istintivo, fatto di gesti, non di parole”. Pare che a un certo punto, l’uomo che oggi guida una delle squadre più vincenti di tutti i tempi, abbia frequentato anche un corso per “parlare ai cavalli”. Il test finale consisteva nel convincere un animale scontroso e capriccioso a compiere un certo percorso: “non c’era verso di forzarlo – ricorda Hansen – bisognava prenderlo per il verso giusto e guidarlo con gentilezza, rispettando i suoi tempi e cercando di comprenderne il linguaggio del corpo. E’ stato un processo di apprendimento molto interessante”. 26 Sopra, relax negli spogliatoi, con Kieran Read (a sinistra), Richie Mc Caw e Sam Whitelock. A destra, con la Ellis Cup appena conquistata, a Twickenham nel 2015, con Mc Caw. speciale febbraio, nel Sei Nazioni, aveva battuto il Galles al Flaminio (30-22), e la possibilità che i nostri si ripetessero alla Coppa del Mondo non pareva in quei momenti poi tanto lontana. Dopo il 2003, l’ho rivisto varie volte, in situazioni diverse. A L’Aquila, nel 2004, venne a chiedere informazioni sugli Azzurri che la settimana dopo avrebbero affrontato gli All Blacks a Roma. Lui nel frattempo aveva lasciato il Galles ed era entrato nello staff di Graham Henry. Poi all’Olimpico, nel 2012, quando ormai era da quasi un anno capo indiscusso della Nuova Zelanda. “Piacere di rivederti”, mi disse lasciandomi sorpreso per quel gesto inatteso di affabilità. “Complimenti, hai fatto strada - risposi io – è passata un bel po’ di acqua sotto i ponti dal tempo di Canberra”. “Anche voi italiani avete fatto strada”, disse. Ci stringemmo la mano. Mi diede un pacca sulla spalla. Un abbraccio sarebbe stato troppo. Stephen William “Steve” Hansen è nato a Dunedin il 7 maggio 1959. Da giocatore ha vestito la maglia del Canterbury. Da allenatore dopo essere stato assistente dei Crusaderes è stato sulla panchina del Galles 20022004 prima di entrare nello staff degli All Blacks dove è stato al fianco di Graham Henry dal 2004 al 2011. Dal 2012 è l’head coach degli All Blacks che con lui alla guida hanno eguagliato lo scorso 8 ottobre il record di vittorie consecutive 17, per una formazione a livello internazionale. 27 New age La Nuova Zelanda domina il rugby sul campo, ma non solo. Secondo qualcuno, lo controlla anche in tutti i suoi dettagli. Come i Tutti Neri hanno costruito una squadra invincibile. di Stefano Semeraro I nuovi All Blacks sono una giungla feroce che cresce ordinata come un giardino. Un disordine apparente che nasconde una pianificazione accurata, nutrita da un secolo d’esperienza. Da una cultura che sa coltivare. Chiusi in gloria in Mondiali del 2015, i secondi vinti di fila, tutta una generazione di fenomeni ha salutato il jersey con la felce argentata - 800 cap o giù di lì, nomi che resteranno scolpiti nel tempo. Qualcuno si aspettava se non un tramonto almeno una controra, qualche anno di siesta, le stagioni necessarie a far crescere i rimpiazzi di creature ormai mitologiche come Dan Carter e Richie McCaw. Macché: i ‘new age All Blacks’ erano già là, piantati e curati per tempo. Un sottobosco educato alla ricerca di un altissimo cielo comune, un organismo ben sviluppato che oggi, al momento di andare in stampa con questo numero di Allrugby, con una striscia di 15 vittorie filate a livello di test-match, insegue con fiducia il record di 17 fissato dai ‘vecchi’ All Blacks. “Quando tagli gli alberi più alti quelli che sono cresciuti nell’ombra hanno più sole”, spiega il Giardiniere Capo, Steve Hansen. “Una volta che McCaw, Carter e gli altri hanno smesso, tutti quelli che stavano dietro erano già pronti a dire: adesso tocca a me”. Perché si sono alimentati insieme, sono cresciuti insieme, insieme hanno succhiato linfa nobile dal più ricco dei terreni. Kieran Read è spuntato fra le radici di McCaw, Beauden Barrett fra i rami di Dan Carter. Nella finale dell’ultima Coppa del mondo “Beaudley” è andato in Beauden Barrett sfugge all’australiano Dane Haylett-Petty durante il match tra Nuova Zelanda e Wallabies disputato al Westpac Stadium di Wellington lo scorso 27 agosto. Gli All Blacks si sono imposti 29-9. 28 meta contro l’Australia, Carter il magnifico ha trasformato. Dodici mesi dopo, secondo molti, il germoglio si prepara a superare in altezza la sequoia. Barrett è cresciuto nel Super Rugby, il Rugby Championships lo sta facendo sbocciare definitivamente. Non come un fiore di serra, però, piuttosto come una pianta carnivora: ritmo, potenza, velocità; intuizioni fulminee, passaggi no-look, un gioco al piede tattico che apre sentieri. E poi quello sprint che perfora le difese, che lascia fermi i marcatori. Un fisico perfetto per il “power rugby” di oggi (1.87 per 91 kg), più esplosività di Carter, non meno creatività. Anzi. Può migliorare nei piazzati (è attorno al 71 per cento, 15 su 23 nelle prime quattro partite del Rugby Championship), ma anche lì sta il tesoro del rugby neozelandese. È in quel margine di crescita - suo ma anche di Sam Cane, Ardie Savea e altri ancora - che si gioca All Blacks un futuro che quasi atterrisce la concorrenza. E stupisce persino i neozelandesi. “Onestamente non mi aspettavo nemmeno io un successo del genere”, ha ammesso il ct Hansen. “Dopo i Mondiali abbiamo perso molto in esperienza. La cosa che mi rende più felice è vedere come i nuovi sono riusciti a colmare la lacuna. Hanno saputo prendere il toro per le corna, sul campo agiscono come se fossero un solo organismo, sanno pensare in maniera flessibile. E questo perché sono cresciuti insieme. Davanti a loro avevano grandi campioni che li chiudevano. Nello sport come nella vita quando non riesci a ottenere quello che vorresti puoi sentirti frustrato, e finché non ti trovi in quella situazione non puoi sapere come reagirai. Dai test di Wellington è nata una leadership collettiva, ora nessuno si sente appagato. E questa squadra non è un prodotto finito. Più esperienza accumulerà, meglio giocherà”. Non una bella notizia, per il resto del mondo. “Ha perso il rugby”, ha scritto il New Zealand Herald dopo la vittoria dei Tutti Neri per 41-13 a Cristchurch, contro le spoglie confuse del Sudafrica, che ha consegnato con due giornate d’anticipo il titolo del Rugby Championship alla Nuova Zelanda. “La distanza fra gli All Blacks e le altre squadre non fa che aumentare. Hanno rifilato 30 punti all’Argentina in un match che è stato considerato ‘combattuto’, ora hanno riservato lo stesso trattamento agli Springboks. E senza nemmeno giocare bene”. Per Eric Watson, il patron dei New Zealand Warriors, il club di Rugby a 13, “i tifosi farebbero meglio a guardare la League: il Rugby Union non è più nemmeno uno sport vero…”. Gli Abs giocano da soli, gli altri guardano. Un trionfo che nasce da lontano. 29 Quando nel 2014 Broadie Retallik è stato eletto miglior giocatore dell’anno, qualcuno ha storto il naso: ma come, una seconda linea? Invece era un segnale dei tempi, e il simbolo della forza degli All Blacks che già stavano mutando pelle pur rimanendo fedeli a sé stessi. Aaron Cruden e Stephen Donald erano stati la favola dei Mondiali del 2011, i mediani venuti dal nulla (Cruden addirittura dallo spavento per la malattia) che avevano salvato i Blacks dall’ennesimo flop, rimediando in extremis all’infortunio di Carter. Barrett e i suoi compagni non sono un miracolo, ma il frutto di quello spavento e di un sistema che trova nella continuità tecnica la forza, la spinta quasi vegetale a riprodursi sempre ad alti livelli. Barrett è stato aggregato alla prima squadra nel 2012, ha avuto tempo per svezzarsi; quando è arrivato il suo momento ha spostato con naturalezza di lato il talento ‘normale’ di Cruden, il traghettatore, per rimettere al centro della squadra l’eccellenza pura, assoluta. Oggi ‘the new age All Blacks’ hanno la miglior mediana al mondo, la miglior coppia di centri (capacissimi di non far rimpiangere Ma’a Nonu & Co.), il miglior estremo, il miglior tallonatore. All’ala possono contare su una quantità di opzioni imbarazzante, in ciascun ruolo comunque sono in grado di schierare giocatori universali, piloni dinamici, seconde linee capaci di off-load funambolici, trequarti tanto veloci quanto contundenti. “Bisogna dare credito alla Nuova Zelanda - ammette con malinconico fair-play Allister Cotzee, il ct degli Springboks -. Il loro sistema funziona alla perfezione, basta guardare a come Kieran Read ha saputo raccogliere da McCaw il ruolo di capitano senza far sentire il passaggio. Sanno quando giocare, dove giocare. E non sbagliano mai. A loro è riuscita alla 30 perfezione la transizione del dopo-Mondiale che invece è mancata a noi”. Con un Sudafrica involuto e nel peggior momento della sua storia, l’Australia in piena crisi e un’Argentina grintosa ma inevitabilmente soccombente, l’unico diserbante ovale capace di impensierire gli All Blacks potrebbe arrivare dall’Inghilterra scafata e sgherra di Eddie Jones. Felci e rose non si scontreranno prima del 2018, l’incendiario ct dei Bianchi tiene comunque le sue polveri asciutte e non risparmia qualche bordata. “La Nuova Zelanda è forte. Maledettamente forte. Ma, come tutte le squadre, è battibile”. E se Sherlock Holmes è passato alla storia (anche) grazie ad una soluzione al 7 per cento (The Seven Per Cent Solution, 1974, Nicholas Meyer), per Jones agli avversari degli Abs basta migliorare di un 3 per cento. “Tutti sostengono che loro sono più forti del 15-20 per cento, la mia esperienza mi insegna invece che basta molto meno. Se l’Argentina avesse fatto meglio due o tre cose nei momenti cruciali l’esito del match con la Nuova Zelanda sarebbe stato molto più incerto”. Coach Eddie è convinto che l’Inghilterra possa migliorare molto lavorando su preparazione fisica e possesso. Molto più difficile, secondo lui, copiare il dominio che i maghi del continente Sud hanno stabilito sul rugby mondiale anche fuori dal campo. “La Nuova Zelanda controlla tutto il mondo - sostiene maliziosamente -, ogni singolo dettaglio del rugby. Infatti ogni regola che viene approvata è guidata da laggiù”. Una sorta di Spectre ovale: “preparano i loro coach in casa, e quando ottengono risultati nel Super Rugby li mandano nell’emisfero Nord ad allenare. Così oggi hanno sotto controllo il Giappone, il Galles, l’Irlanda e la Scozia. In questa maniera assorbono una preparazione completa dei loro tecnici, che quando tornano a casa sono pronti ad allenare gli All Blacks. Anche Graham Henry e Steve Hansen sono stati in Galles durante la loro carriera. Non è dunque un caso se la Nuova Zelanda è diventata la squadra più forte in tutti i settori. Anche i coach inglesi dovrebbero imparare qualcosa sull’altra metà del rugby, quello che si gioca nell’emisfero Sud. Un rugby destrutturato, un caos molto ben organizzato”. Una giungla perfetta, dove ogni giovane pianta sa trovare, solo apparentemente per incanto, il suo spazio. Kieran Read in azione contro l’Australia nel Championship di quest’anno. È il giocatore che ha vinto più touche ed è il terzo nella graduatoria dei placcatori. Nehe Milner-Skudder quest’anno ha dovuto saltare per infortunio l’intera stagione internazionale. La formazione neozelandese è stata in grado di assorbire senza problemi anche il rinnovamento e le assenze più gravi. speciale 31 Black rock Brodie Retallick 32 speciale L’uomo in più della mischia degli All Blacks è Brodie Retallick, ruvida seconda linea, due metri e quattro centimetri di altezza, oltre centoventi chili di peso. A inizio estate lui e la moglie Niki, hanno avuto la prima figlia, Sienna, e così tra una sfida di Super Rugby e un match del Rugby Championship gli è toccato imparare anche a cambiare qualche pannolino, cosa che probabilmente gli riesce di fare con la giusta delicatezza: tra le seconde linee di livello internazionale, Brodie è senz’altro il giocatore con le mani più delica- te: nell’ultimo Rugby Championship ha completato la bellezza di 31 passaggi, nessun altro, nel suo ruolo ne ha fatti più di 16. Se la cava peggio, invece, nelle relazioni pubbliche: a giugno del 2014, alla vigilia del tour dell’Inghilterra in Nuova Zelanda non gli riuscì di citare il nome di uno solo dei suoi prossimi avversari: “Michael Lawes…”, farfugliò dopo qualche insistenza dei suoi interlocutori. Il cognome era giusto, ma non il nome di battesimo (Courtney, ndr). Nel 2011, ventenne, guardò la finale (fra Nuova Zelanda e Francia) con gli amici in una caserma dei vigili del fuoco, dove era stato allestito un maxi schermo per fare il tifo per gli All Blacks. Sei mesi dopo era titolare in campo contro l’Irlanda. Giocatore dell’anno 2014 Nel 2014 fu eletto dall’International Board, ora World Rugby, miglior giocatore dell’anno, prima seconda linea nella storia del mondo ovale a vincere il premio. I giocatori come lui, normalmente, lavorano in “sala macchine”, difficilmente catturano l’occhio dei critici e degli spettatori. Ma Brodie è diverso: ha una tecnica sopraffina e con la palla in mano non va in confusione. Brodie Retallick, contro il Sudafrica, si fa largo fra Mtawarira e Pollard nella semifinale della Coppa del Mondo del 2015, a Twickenham. 33 “L’Argentina sta provando a giocare come se le sue seconde linee fossero Retallick o Whitelock, ma non lo sono e da un pessimo passaggio di Petti è nata la meta di Kerevi”, ha commentato Stuart Barnes, a inizio ottobre davanti all’ennesimo errore dei Pumas contro l’Australia. La notizia del premio di miglior giocatore del 2014 raggiunse Retallick sul prato del Millennium Stadium, al termine di Galles v All Blacks. “Beh, peccato che non ci si possa bere dentro - furono le sue prime parole -, è solo una targa, ma la esporrò con orgoglio sul camino a casa”. Prima di lui il premio era andato al compagno di squadra Kieran Read, giocatore dell’anno 2013, l’anno successivo, 2015, è toccato a Dan Carter: gli All Blacks hanno ottenuto otto volte il riconoscimento negli ultimi undici anni. Richie Mc Caw e Dan Carter sono stati premiati tre volte ciascuno. La superstizione L’unica sconfitta di Retallick contro una squadra europea è quella del 2012 a Twickenham contro l’Inghilterra, 21-38. “Al ritorno negli spogliatoi – racconta -, mi accorsi di aver messo la calza destra sul piede sinistro e viceversa. Quelle che usiamo noi hanno una L (left) e una R (right) stampate nel tessuto. Non fu certo quella la ragione della sconfitta, ma da allora sto particolarmente attento indossare le calze nel modo giusto”. Non si ma mai… Contro il Galles a Auckland lo scorso 11 giugno, il primo test dei campioni del mondo nella nuova stagione agonistica. 34 speciale Il segreto “Il mio segreto è semplice - ha detto -: divertirmi. Nessuno mi ha ordinato di fare il giocatore di rugby, pertanto qual è il senso di giocare se non mi diverto?” La scheda Brodie Allan Retallick Data di nascita: 31 maggio 1991 Luogo di nascita: Rangiroa Club: Waikato Chiefs Caps: 57, di cui 46 da titolare (2 mete) Tasso di successi: 935 (53 vittorie, 2 pareggi, 2 sconfitte) Altezza: 2,04 Peso: 121 kg Hanno detto Sono sempre stato piuttosto alto, quando sono andato alle scuole superiori ero il più alto di tutti, il primo giorno tutti mi guardavano e nei loro occhi leggevo lo stupore: “cavolo hai visto le dimensioni di quel ragazzo…!” (Brodie Retallick) A scuola cercava di stare sempre seduto, per evitare di far notare la sua statura e quando camminava per strada teneva la testa bassa per non svettare troppo sopra agli altri (Gli amici) Ci siamo sempre stupiti del suo motore. Non smette mai di correre.(Steve Hansen, coach della Nuova Zelanda) 46 38 Sono i placcaggi che ha completato nell’ultimo Rugby Championship, in cui ha giocato tutte e sei le partite Le sue azioni individuali, con un guadagno medio 3,5 metri a carica. 31 i suoi passaggi nelle sei partite del torneo, un assist. 1110 E’ il numero progressivo di Brodie Retallick nella lista di coloro che hanno vestito la maglia degli All Blacks. Julian Savea, che ha esordito nella stessa partita, è il numero 1111, Aaron Smith il 1112. Il numero 1 è James Allan (per i quindici della prima partita, nel 1884, vale l’ordine alfabetico) 35 Affari di Gli ultimi a dividere l’emozione di vestire, nella stessa partita, la maglia degli All Blacks, erano stati Owen e Ben Franks, piloni neozelandesi, che Graham Henry schierò titolari contro il Galles a Dunedin nel giugno del 2010. Dopo quella partita, Ben ha collezionato altre 45 presenze con la Nuova Zelanda e Owen ne ha aggiunte più di settanta, ma ai due non è più capitato di scendere in campo insieme dal primo minuto. Adesso sono i Savea, Julian e Ardie e ribadire il fatto che in Nuova Zelanda il rugby è spesso un affare di famiglia. I due fratelli hanno giocato titolari, lo scorso 17 settembre, a Christchurch nella prima delle due partite del Rugby Championship disputate quest’anno dagli All Blacks contro il Sudafrica. Julian è il fratello più grande, classe 1990, e con la maglia della Nazionale ha esordito nel 2012, a ventun anni. Ardie, nato il 14 ottobre del 1993, il suo esordio in maglia nera lo ha fatto, dalla panchina, a giugno di quest’anno contro il Galles. Ardie nel 2013 era stato portato dagli All Blacks in Europa come “apprendista non giocatore”, al seguito della squadra che aveva visitato l’Inghilterra, la Francia e l’Irlanda. Julian, al debutto contro l’Irlanda, nel 2012, subito schierato titolare, realizzò tre mete in rapida sequenza. Il fratello più piccolo, per togliersi lo sfizio di vedere il proprio nome comparire nel tabellino, ha dovuto aspettare il secondo cap, di nuovo contro il Galles, come il primo. 36 famiglia Messi in campo insieme da titolari i due, contro il Sudafrica, hanno segnato entrambi: Julian nel primo tempo, Ardie, nella ripresa, i primi fratelli neozelandesi a marcare una meta ciascuno nella stessa partita. A livello internazionale solo Gavin e Scott Hastings erano riusciti nella stessa impresa, nel 1990, con la maglia della Scozia. Mentre Julian deve trovare consistenza e continuità ad alto livello, di Ardie il coach Steve Hansen dice che deve aggiungere alle sue doti ancora un po’ di peso (102 kg): gli servono altri quattro chili, è l’analisi, soprattutto per reggere meglio gli impatti in difesa. In Nuova Zelanda, Julian è soprannominato “The speciale Bus”, pertanto Ardie si è dovuto accontentare del “nickname” di “Mini Van”, oltre a quello di “Ardz”. “Julian a scuola doveva giocare con quelli di tre classi più grandi - racconta la mamma Lina -, era talmente alto e grosso che gli altri genitori si lamentavano. Travolgeva tutti. Dovevo portarmi dietro il certificato di nascita perché non mi credevano quando dicevo la sua età. La mia preoccupazione invece era che non gli venisse un attacco di asma, ogni tanto ne aveva uno ed era importante che avesse sempre a portata di mano uno spray, in caso di necessità”. A sinistra Julian Savea, sotto, Ardie placcato da Faf de Klerk in un match contro il Sudafrica. Julian e Ardie Savea: dal Moon Walk alla maglia degli Al Blacks. 37 “A casa giocavamo sempre insieme, in giardino - raccontano -. E quando non si poteva più giocare all’aperto continuavamo dentro, sfidandoci in ginocchio”. “Era un gioco che la maggior parte delle volte finiva in lacrime - ricorda Julian -, perché Ardie era particolarmente piagnucoloso, frignava in continuazione. Però ho sempre saputo che sarebbe diventato un grande giocatore”. “Mi ricordo l’agitazione all’inizio quando mi chiedevano ‘sei il fratello di Julian?’ - dice il più giovane dei Savea -, e io speravo che in partita non facesse brutta figura sennò gli amici mi avrebbero tormentato per chissà quanti giorni”. “Ardie da bambino il venerdì sera andava a letto con la maglia e i calzoncini per paura di non essere pronto per la partita del giorno dopo e se il match per caso veniva cancellato piangeva per tutto il giorno”, rivela il padre, Masina Savea. All’inizio, Ardie aveva optato per il Seven, ingolosito dell’idea di andare alle Olimpiadi. All’inizio di quest’anno però il giocatore ha deciso di dedicarsi al XV, con gli Hurricanes, una scelta che a un certo punto aveva infastidito la federazione neozelandese che lo avevo inserito nella squadra olimpica, ma che alla lunga si è rivelata un successo sportivo e personale. Julian e Ardie sono due ballerini provetti: “io ero molto meglio di lui - sostiene Ardie rivolto al fratello -, ma gli è andata bene perché crescendo grande e grosso sono diventato meno sciolto nei movimenti, però era davvero bravo”. “Mi piaceva imitare Michael Jackson, il Moon Walk…”, dice Julian. Sul campo, lui e suo fratello sembrano marziani. Altro che la luna. (glb) Coppie di fratelli che hanno giocato insieme negli All Blacks (con il numero di partite che li ha visti in campo uno al fianco dell’altro) Savea, Julian e Ardie (8 Test, 2016) Franks, Owen e Ben - (33, 2010-15) Brooke, Zinzan e Robin (39, 1992-97) Bachop, Graeme E Stephen (4, 1994) Whetton, Alan E Gary (34, 1984-91) Meads, Colin E Stan (14, 1961-66) Clarke, Don e Ian (18, 1956-63) Brownlie, Cyril e Maurice (3, 1924-25) Nicholls, Harry ‘Ginger’ e Mark (1, 1921) Purdue, Charles e Edward ‘Pat’ (1, 1905) 38 speciale 45 8 48 Le mete messe a segno da Julian Savea in 49 partite con la maglia degli All Blacks. Due quelle realizzate contro l’Italia, a Roma nel 2012. Al World Rugby U20 Championship del 2010, disputato in Argentina, Julian Savea fu il miglior marcatore di mete, con 8. Il risultato gli valse la fama di “nuovo Jonah Lomu” La partite di Super Rugby disputate da Ardie, tutte con la maglia degli Hurricanes, 10 le mete realizzate. Il suo debutto nel torneo è avvenuto ad aprile del 2013, contro i Warathas 18 Gli anni di Ardie quando indossò per la prima volta la maglia di Wellington contro Manawatu, a Palmerston North, nel 2012 39 LA STORIA SIAMO NOI Dave Gallaher il volontario di Giorgio Cimbrico Di quella partita, di quel giorno (16 dicembre 1905: a Cardiff pioggia, freddo e fango), è agevole ricordare la meta che non fu meta di Bob Deans: per l’arbitro Dallas, scozzese, buono fu il placcaggio di Teddy Morgan, non la meta: per lui mancavano 15 centimetri. Era l’ultimo match dei 35 giocati dai primi All Blacks che quel nome guadagnarono sin dalle prime esibizioni: perché erano tutti Neri o perché erano così veloci che parevano tutti Backs? Il capitano era David Gallaher, aveva i baffi, era un uomo massiccio, 1,83 per 84 chili, una costante in questi omaccioni che venivano da un lontano che sembra siderale (anche Deans, destinato a scomparire giovanissimo, era ben piantato: 1,86 per 80 abbondanti) e che nel 1897, nel giorno giubilare dedicato a Vittoria avevano destato meraviglia: gli australiani sono tutti vicini ai sei piedi, si meravigliò il cronista del Mail assistendo alla sfilata che poneva carabinieri del Natal accanto a poderosi Ashanti, agili Gurkha a poliziotti canadesi a cavallo in un’atmosfera imperiale che trasformava Londra in novella Roma. Proprio in forza di questa brotherhood, di questa fratellanza ben rappresentata in una stampa che finì su più di un caminetto tardo vittoriano, così come era capitato con la resistenza di Chard e Bromhead a Rorke Drift o con il sacrificio di Gordon a Khartoum, Gallaher aveva seguito il richiamo del sangue ed era andato in Sudafrica, caporale dei fucilieri a cavallo, nella lotta senza quartiere contro i boeri, gli uomini duri dell’aratro, della Bibbia, del fucile. Possibilmente Mauser. La formazione degli All Blacks “Originals” e, a destra, Dave Gallaher. Nelle pagine seguenti Dave Gallaher nella divisa da gioco e un momento dell’incontro con il Middlesex. 40 speciale 41 LA STORIA SIAMO NOI Tallonatore e terza linea ala, irlandese del Donegal, costa nordoccidentale, segni particolari, bellissimo. W. B. Yeats era di lì, dove gli uomini portano una gonna color cammello e si suona la cornamusa riempiendo la sacca con l’azione del gomito e non come in Scozia, usando la forza delle guance. Dave: tallonatore e terza linea ala, irlandese del Donegal, costa nordoccidentale, segni particolari, bellissimo. W. B. Yeats era di lì, dove gli uomini portano una gonna color cammello e si suona la cornamusa riempiendo la sacca con l’azione del gomito e non come in Scozia, usando la forza delle guance. A dire il vero, Dave del Donegal non aveva un ricordo preciso: a cinque anni via, verso la Nuova Zelanda. In Irlanda la miseria era una nemica che scacciava, una costante, accompagnata dalla piccola nobiltà inglese che metteva le unghie su tutto, a cominciare dai diritti. Prima Katikati, Bay of Plenty, poi Auckland. E’ in città che Dave conosce il rugby: il club è il Ponsonby, illustre. Ha già trent’anni quando guadagna il primo cap, ne ha 32 quando gli consegnano i gradi, capitano della squadra che parte in nave, naviga verso la madre patria, la Gran Bretagna, per dare un seguito al tour del 1888. Contee, selezioni, test: non si finisce mai di giocare e la gente accorre: in un rugby chiuso e molto calciato, quando si era mai visto giocare la palla come facevano questi coloniali in maglia nera che prima del calcio d’inizio accennavano qualche passo di una strana danza? Le leggende nascono nelle battaglie. Dave il capitano va 26 volte in campo, riposa solo per qualche Wednesday match. I test li gioca tutti, ne vince tre, ne perde uno, quello di Cardiff, quello della meta che diventerà l’estremo legato di Deans: “La meta era buona”, mormorò prima di andarsene a 24 anni per le assurde complicazioni di un’appendicite. Nel frattempo gli Originals erano tornati alla loro vita dimenticando le squallide critiche di coloro che in patria avevano tentato di suscitare scandalo per quello scellino giornaliero che i giocatori ricevevano: non era già un onore rappresentare il paese? Uno scellino al giorno è anche il titolo di una poesia di Rudyard Kipling: la paga del soldato vittoriano. Nel ‘14 Dave con il rugby ha smesso, ha 41 anni. Nel mondo lontano, è scoppiata la guerra, ma non ha niente a che fare con quelle scorrerie sotto il sole o nel freddo del veld, aria aperta, grandi scenari, franchi tiratori 42 speciale boeri da inseguire in frenetiche galoppate, imboscate, assalti in albe di cristallo. Lassù, in Fiandra, è il mondo della guerra immobile, del fango, delle trincee, una valle dei topi dove dei morti non sono rimaste neanche le ossa, scriverà Ts Eliot. C’è un modulo di arruolamento che la casa degli All Blacks (in questo roll of honour, Dave è il numero 97) ha conservato: c’è scritto e sottoscritto che David Gallaher è nato a Ramelton il 31 ottobre 1876, tre anni dopo di quanto dica l’anagrafe del paese irlandese. Un falso per trovare un posto nell’Anzac, il corpo d spedizione australiano e neozelandese. Molti finiranno nell’assurdo carnaio di Gallipoli. Il sergente Dave, che a Auckland si guadagnava da vivere come capo del macello è destinato a un altro mattatoio, quello di Fiandra, sull’incerto e devastato confine tra Francia e Belgio. Vede arrivare i sudafricani che portano una springbok destinata a morire di polmonite, è in trincea a Ypres quando i tedeschi lanciano l’attacco usando il gas che da quel luogo guadagnerà nome e sinistra fama: la guerra romantica (se mai lo è stata) è finita. Cade il 4 ottobre 1917 durante l’offensiva di Passchendaele, la solita spallata culminata in un massacro: a Loos, durante il primo autunno di guerra, da una trincea venne alzato un cartello: morti 60,000, yards guadagnate zero. Sarà così sino al ‘18. Viene sepolto al Nine Elms Cemetery, a Poperinge, e sulla sua tomba una mano ignota inciderà una felce. Non viene dimenticato: già nel 1922 la Auckland Union istituisce il Gallaher Shield: il rugby delle province è succo e linfa del movimento. Nel 2000 nasce il Dave Gallaher Trophy, in palio al primo contatto stagionale tra Francia e Nuova Zelanda. A parte il pareggio del 2005, tocca sempre agli All Blacks che nove anni fa, prima di scontrarsi con i Barbarians francesi a Lens, vanno a rendere omaggio alla tomba del vecchio capitano. Neppure l’Irlanda ha rimosso quel figlio che la lasciò bimbo: il Letterkeny Rugby Football Club gli ha intitolato il piccolo stadio e una targa a Ramelton segnala il luogo di nascita: nel 2003 gli All Blacks guidati da Tana Umaga lì andarono quando essa venne scoperta, in quel Donegal dove tutto aveva avuto inizio. IL LIBRO DELLA GLORIA Ci sono momenti che riportano a Moby Dick, ai marinai che, sulla tolda del Pequod, vogliono l’azzardo e subito se ne pentono, ambiscono a quel pezzo d’oro che Achab, il loro comandante, ha piantato nell’albero maestro per premiare chi per primo avvisterà la balena bianca e ne sono spaventati, così come quando appaiono i fuochi di S. Elmo a benedire e maledire quella loro avventura: è così quando ti specchi nell’assoluto. C’è la coralità di Melville e c’è il flusso della coscienza di Joyce nel “Libro della gloria” (Einaudi l’Arcipelago, 206 pagine, euro 13,50) di Lloyd Jones, 54 anni, neozelandese, vincitore del Commonwealth Writers’ Prize per “Mister Pip”, ora narratore della storia dei primi All Blacks, quelli del 1905-1906, i (quasi) Invincibili, gli umili divi alle prese con una popolarità che minaccia di travolgerli, i teorizzatori di un gioco nuovo capaci di metterlo in pratica; i distratti da quell’alluvione di nuovo e pieni di nostalgia, feriti e indomabili, offesi (ma non umiliati) dalle meschinerie scozzesi, gran fumatori di pipa (è possibile oggi avere un team manager che tiene la scatola comune del tabacco e la apre quando si tratta di discutere le tattiche?), mai spaventati senza essere tronfiamente guerrieri, stupiti di fronte al crescere della loro fama (“Accorrete a vedere i meravigliosi All Blacks”, annuncia uno dei manifesti che tappezzano Taunton) , desiderosi di tornare a odorare quell’odore di colline, di pecore che avvertiranno quando la costa delle loro isole sarà un inavvertito filo sull’orizzonte. Lunghi mesi e duri scontri; vittorie facili (molte) e duri faccia a faccia, sino al gusto della sconfitta assaporato a Cardiff dopo la metanon-meta più famosa della storia; amori passeggeri; ricerche delle radici scozzesi, irlandesi; menù sontuosi serviti mentre il dolore dopo la battaglia ancora pulsa; i loro nomi, il loro schieramento: Glasgow e O’Sullivan piloni schierati come un cuneo, senza tallonatore, McDonald, Cunningham e Seeling in seconda linea, Tyler e Casey in terza, con Gallaher sospeso tra gli avanti e i centri (la posizione fece discutere…), Roberts mediano, Stead e Hunter cinque ottavi, Smith, Deans, il povero, pio Deans destinato a scomparire quasi ragazzo, e Mynott centri, Wallace estremo. In ultima battuta, e andando per spostamenti interni, veniva spesso schierato Gillett che amava andare in campo portando un berretto. Facile sbrigare il Libro come una recerche del tempo perduto, come una dichiarazione d’amore di una lontana generazione altrettanto perduta. C’è qualcosa di più e chi lo leggerà potrà trovarvi il suo giardino segreto, le commozioni d’obbligo, il rimpianto di non averli visti, di non aver vissuto un’età dell’oro non ancora contaminata, già minacciata da chi, su di loro, tentò e riuscì a guadagnare scellini, ghinee, sterline. Loro, scandalosamente, si accontentavano di una parte dell’incasso misurando, partita dopo partita, quante righe concedeva il Times alle loro imprese, in un duello con la guerra russo-giapponese, con i primi moti in Russia, con il mondo che li circondava, in un processo di scoperta che coinvolgeva l’impiegato e il maestro d’ascia, il fabbro e lo studente, l’agricoltore e il minatore. I 27 che girarono attorno al mondo e che al mondo consegnarono uno stile che non era solo di gioco. (G.Cim.) 43 LA STORIA SIAMO NOI George Nepia l’invincibile A quel tempo era necessaria l’amnistia, come se campare giocando a rugby fosse un delitto, una faccenda abbietta, un sacrilegio, una profanazione. Lo sport era così, una faccenda governata da quelli che non avevano mai sudato, mai sentito l’odore della terra e avevano denaro e tenute di famiglia e privilegi: a Paavo Nurmi non fecero correre la maratona olimpica di Los Angeles del ‘32 perché nella stagione indoor Usa aveva rimediato un po’ di soldi, gli servirono per aprire quella cartoleria di Helsinki dove avrebbe trascorso gli anni solitari e accidiosi della vecchiaia. E, più vicino a noi nel tempo, anche Allan Wells fu costretto a riqualificarsi: per passare dalle piccole, remote sacche di professionisti che campavano con le corse sul ghiaccio, in Scozia, nei periodi delle feste, al trionfo olimpico sui 100 di Mosca ‘80, l’ingegnere navale conobbe un percorso di forzata espiazione. Dell’amnistia ebbe bisogno George Nepia per il suo meriggio ovale: negli anni trenta della depressione (il capitalismo da sempre ha architettato crisi rovinose…) aveva risposto all’invito dello Streatham and Mitcham, in Inghilterra, e da lì si era trasferito nell’Halifax, rugby league, e al ritorno in patria, nel Manukau, e anche lì aveva conquistato la maglia della Nazionale e lasciato il segno: 16-15 in un memorabile scontro tra Kiwi e Kangaroos che, più che rimonta, fu un risalire della corrente. Nel ‘47, quando fu… graziato, George aveva 43 anni o forse ne aveva 39 (l’incerta data di nascita è prerogativa dei grandi: sufficiente pensare a Napoleone. Nato francese nel 1769 o genovese nel 1768?) e fece ancora in tempo a giocare contro suo figlio quando nel 1950 l’Olympians affrontò il Poverty Bay firmando un record di anzianità per partite di livello assoluto: in quel tempo semplice il rugby provinciale era il top. Al di là c’era solo il nero profondo degli All Blacks. 44 Invidia per chi monta documentari con immagini, vecchi filmati, voci lontane, un buon mixaggio. Perché a questo punto un brizzolato George che abbraccia George junior lascerebbe spazio a un George giovane, dal volto gentile ma anche deciso, al George che guidava la Haka, che allora si chiamava Ko Niu Tireni e non ancora Kapa o’ Pango, al George che cantava un inno tribale (aveva una bellissima voce, raccontano testimoni) e quando lo fece, al St Helen’s di Swansea, di fronte a una folla strabocchevole (40.000 biglietti venduti, ma alla fine i cancelli si aprirono e furono in 50.000 ad ammassarsi), i Gallesi capirono che non sarebbe bastato aver dato fondo al repertorio (Cwm Rhondda, Sospan Fach, Land of My Fathers) perché i cavalieri neri erano spietati (393), perché applicavano il senza quartiere, perché erano invincibili. Gli Invincibili. La capacità coinvolgente di quel canto influenzò James Joyce che, più tardi, in Finnegan’s Wake ne rievocò la forza ancestrale, quegli echi che si arrampicano dalle radici più profonde. Chi scrive ha un piccolo tesoro che tiene in uno scrigno ma che è disposto a dividere con gli amici, con i suoi quattro lettori: un dito piegato in modo innaturale. Era il medio di Frank Leslie Bradshaw, antico vicino di casa, classe 1900, nato a Manchester, ufficiale della Raf con i nastrini della campagna di Birmania e d’Italia, in una lontana gioventù che certo era stata popolata di benevoli professori alla Mr Chips, terza linea del Lancashire che nel ‘24 affrontò i diavoli che venivano dall’altra parte del mondo. Nella villetta sopra la scogliera di Bogliasco, nei suoi lenti e accurati racconti natalizi – racconti d’inverno dickensiani – Leslie alzava quel dito, lo mostrava come un trofeo, un ricordo indelebile: là sopra era passato George in una delle sue volate da estremo che faceva decollare l’azione, tranciando il tendine, lasciando il dito arcuato e rigido, per sempre. Un onore, il più George Nepia e, nelle pagine seguenti,“The Invincibles”, in posa per una foto ufficiale durante il Tour 1924/1925 in Gran Bretagna, Francia e Canada. Gli All Blacks disputarono 32 partite vincendole tutte. speciale Nepia era il figlio di una Nuova Zelanda lontana, rustica, in cui una commistione tra nativi e pakea apparteneva a un’età dell’oro della prima penetrazione bianca, sostituita gradatamente da una segregazione che oggi sarebbe facile etichettare come soft, ma reale. I nativi non erano kaffir, non erano negri, ma erano diversi: tatuati, dediti a strane danze, a singolari rituali. 45 LA STORIA SIAMO NOI incancellabile degli autografi. Non vendibile come altri memorabilia di quel tour che vennero battuti anche da Sotheby’s. La campagna a cavallo tra il ‘24 e il ‘25 cancellò la macchia di vent’anni prima, la meta non meta di Bobby Deans, la sconfitta di Cardiff. Se quei Blacks erano stati il fulmine, questi furono la faretra di Apollo. Nepia era il figlio di una Nuova Zelanda lontana, rustica, in cui una commistione tra nativi e pakea (Jane Campion seppe proporla in Lezioni di piano) apparteneva a un’età dell’oro della prima penetrazione bianca, sostituita gradatamente da una segregazione che oggi sarebbe facile etichettare come soft, ma reale. I nativi non erano kaffir, non erano negri, ma erano diversi: tatuati, dediti a strane danze, a singolari rituali. E così, quando il Sudafrica rifiutò la presenza di maori per il Tour All Blacks del ‘28, la Nzru non battè ciglio e accettò l’imposizione razzista. Ma George fece molto comodo due anni dopo quando fu in campo in tutti e quattro i test 46 che le British isles (i Lions) giocarono contro i Blacks. Furono anche le sue ultime apparizioni in nero: 46 partite e 99 punti. Per quell’epoca di rugby concesso con il gontagocce, numeri quasi moderni. L’esistenza di George è quella di un ragazzo di campagna: la nascita a Wairoa, nei pressi di Hawke’s Bay, la separazione dei genitori (Peta Piripoi Nepia e Riripeti Pirihi) ben assorbita, la scuola per nativi a Nuhaka, la prima educazione rugbystica grazie al padre, il lavoro in un centro per la tosatura delle pecore, la scuola agricola per maori a Hastings sono il succedersi di capitoli che lo proiettano verso la prima, forte esperienza della sua vita: nel ‘21 gli Springbocks, bontà loro, accettano di affrontare i New Zealand Maoris, nel match del settembre del ‘21 a Napier. George è tra gli spettatori e, se diamo per buono il 1905 come anno di nascita, ha sedici anni e fa parte dell’East Coast Districts. L’anno dopo è nell’Hawke’s Bay, ala e cinque ottavi. speciale Nel ‘24 la partita tra Maori del sud e del nord diventa una selezione per la squadra che si accinge a visitare le isole britanniche. I selezionatori lo scelgono e decidono di piazzarlo a estremo e suo cugino Walter McGregor gli allunga qualche buon consiglio: “Calcia nel mucchio, vai a contrastare duro e cerca buone touche”. Un repertorio semplice, efficace. Quando la nave parte, non è il solo maori: anche Jimmy Mill e Lui Paewai hanno guadagnato un posto. Sarà a loro che, durante il lungo viaggio, confiderà i suoi dubbi: “Sono full back da troppo poco tempo. Chissà cosa combinerò”. Il bilancio è 32 partite giocate in Gran Bretagna, Francia e Canada, 32 vittorie, 77 punti. Nel ‘25 il ritorno in patria è un succedersi di celebrazioni, di inviti. Gioca una partita per l’inaugurazione della chiesa di Tikitiki e la sera, al ballo, conosce la ragazza che suona il piano: è Huinga Raupani Kohere. Henare, il padre, è un eroe: tenente di un battaglione del genio, è morto in Francia per le ferite ricevute in battaglia. Si sposano il 6 maggio 1926 nella chiesa decorata da bassorilievi maori. Hanno una figlia, Kiwi Rauponga, così chiamata in onore del simbolo nazionale (la felce d’argento), e tre figli. George (che cadrà nei combattimenti tra truppe del Commonwealth e guerriglieri comunisti in Malaysia, negli anni cinquanta), Te Omanga e Winston, con cui George vivrà in vecchiaia, nella fattoria di Wairoa, dopo la morte di Huinga, nel ‘75. George le sopravvisse undici anni, sino al 27 agosto 1986. Nel ‘90, nei giorni del suo ingresso nella Hall of Fame, la Nuova Zelanda gli dedicò due francobolli. (G.Cim.) 47 Comunicazione promozionale L’energia di Edison L’impegno di Edison nel rugby nasce nel 2007 quando diventa sponsor della Nazionale italiana nelle partite del Sei Nazioni, il più antico torneo al mondo. Da allora Edison ha continuato a credere in questo sport e nei valori altamente educativi che rappresenta. 48 Edison da nove anni sceglie di essere al fianco degli Azzurri e dà tutta la sua energia alla Nazionale italiana di Rugby nel Torneo Sei Nazioni: un campionato ricco di emozioni forti in cui Edison è main-sponsor della Federazione Italiana Rugby. Un’avventura che la società energetica più antica d’Europa ha intrapreso perché il rugby è una disciplina che più di altre è sinonimo di “energia” e “senso di appartenenza”. Il rugby incarna i valori del rispetto e dello spirito di squadra, della lealtà e del sacrifico: tutti principi che Edison è orgogliosa di portare impressi nella sua storia. Ma il rapporto che lega Edison al rugby si è sviluppato in questi nove anni ben oltre la sponsorizzazione della Nazionale, avviata nel 2007. Edison ha visto nel rugby un ottimo strumento formativo per prevenire il disagio giovanile e aiutare chi è venuto meno al rispetto delle regole. Sono così nate iniziative come il Progetto Scuola (in collaborazione con la Federazione Italiana Rugby), che ha portato l’insegnamento del rugby in 2.300 istituti in tutta Italia (dalle elementari alle superiori) coinvolgendo oltre 600 mila ragazzi e ragazze sia in attività didattiche per il rugby in classe che in allenamenti e tornei (provinciali, regionali e nazionali) sul campo da gioco. Ma anche progetti di rinserimento sociale nei centri di detenzione nelle scuole e nei centri di aggregazione, realizzati in collaborazione con la AS Rugby Milano, come “Il senso di una meta” all’interno dell’Istituto di Pena Minorile Beccaria, dove i ragazzi hanno la possibilità di confrontarsi con i loro coetanei che fanno parte della squadra Under 20 del Club milanese; Rugby Barbari Bollate che ha portato alla formazione di una squadra all’interno del carcere di Bollate di Milano; e “Soft Rugby” che insegna questa disciplina nelle scuole elementari e medie milanesi, oltreché nei luoghi di aggregazione della città. A Bagnoli in provincia di Napoli, nell’ex base Nato di Agnano, Edison ha inaugurato lo scorso giugno l’Edison Villaggio del Rugby. Uno spazio polifunzionale di 15.000 metri quadrati per contribuire al rilancio sportivo di Napoli e anche a quello sociale dell’area attraverso la promozione dei valori propri del rugby. Edison Villaggio del Rugby Napoli è la nuova casa dell’associazione Old Rugby Napoli, che raduna ex giocatori e appassionati dei valori del rugby, e degli Amatori Rugby Napoli, società sportiva che insegna questo nobile sport anche nelle scuole elementari, medie e nei Licei di Bagnoli, Fuorigrotta, Soccavo e Posillipo. Tra i suoi obiettivi primari: la formazione di un vivaio giovanile che dia rinnovato slancio alla tradizione rugbistica napoletana, la promozione della socialità insita in questo sport e il recupero e il reinserimento dei giovani a rischio attraverso percorsi formativi dedicati. Edison Sport Azzurro Dal legame di Edison con questo sport sono nati progetti di alto valore sociale ma anche campagne pubblicitarie estremamente creative e ironiche che hanno spopolato sul web. Chi non ricorda Martin Castrogiovanni che voleva portare a tutti i costi il rugby alle Olimpiadi 2012, intrufolandosi negli sport che alle Olimpiadi ci andavano davvero: una serie di divertenti video virali in cui il “grande intruso” si cimentava con le esecuzioni di ginnastica ritmica con le “Farfalle” della nazionale oppure in piscina con Felugo o ancora con la Gioli e le giovani promesse del volley del Club Italia - Centro Pavesi di Milano. 49 DARE ENERGIA ALL’ITALIA È LA NOSTRA META. Sosteniamo gli Azzurri della Nazionale di Rugby con la stessa energia con cui da oltre 130 anni offriamo gas, elettricità e servizi energetici alle imprese e alle famiglie italiane. E DI SON, S PON SOR U FFICIALE DE LLA NAZ IONALE ITALIANA DI R UG BY. 50