speciale - ALLRUGBY

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speciale - ALLRUGBY
in collaborazione con
www.allrugby.it
speciale
2016, leggende a Roma
Storia e storie del rugby fra Italia e Nuova Zelanda
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Men in
“Qual è stato il contributo del rugby nell’offrire,
all’inizio, un senso di cameratismo a una popolazione
rurale solitaria e sparpagliata sul territorio?
Quanto le imprese delle nostre squadre del 1905 e del
1924 hanno portato un’idea di patria a una nazione
giovane?
In quale misura il gioco contribuisce allo sviluppo del
carattere e del fisico dei giovani?
Dove altro i pakeha (i neozelandese bianchi) e i
polinesiani trovano un’affinità così naturale?
Che significato ha il gioco per l’orgoglio dei Maori,
i cui rappresentanti lo hanno sempre interpretato
magnificamente?
Tutto ciò sta alla base del rugby, come lo conosciamo
in questo paese, e per queste e altre ragioni, migliaia
di noi continuano a sostenere il gioco e dedicargli il
loro tempo.”
Wilson Whinerary, All Black dal 1957 al 1965,
capitano dal 1958, “patron” della Federazione
neozelandese dal 2003 al 2013 (dall’introduzione del
volume “Men in Black”).
Gli interrogativi di Whinerary sintetizzano, nelle
parole di colui che era stato considerato il più
grande capitano neozelandese di tutti i tempi, il
significato e la profondità del rugby nella cultura
della Nuova Zelanda.
Uno sport che offriva svago e opportunità di
socializzazione a una popolazione abituata a
lavori pesanti e che trovava nel rugby occasioni
di incontro, sparsa com’era sul territorio. “Noi
siamo una piccola nazione - ha ricordato di recente
Steve Hansen - che ha cominciato a dedicarsi a
un gioco inventato dagli inglesi, i quali all’inizio ci
guardavano dall’alto in basso, anche se eravamo
piuttosto bravi, perché il rugby rispondeva
perfettamente alle caratteristiche fisiche degli
agricoltori e dei lavoratori del tempo. Così si è
formato un senso di appartenenza, una storia
intorno alla quel ora c’è un’enorme aspettativa
ed è qualcosa di cui noi come neozelandesi
siamo tutti enormemente orgogliosi”.
Nelle pagine che seguono, Allrugby ha cercato
di riassumere lo straordinario apporto dato al
gioco dalla Nuova Zelanda attraverso contributi,
immagini e testimonianze di chi li ha affrontati
sul campo e visti giocare dal vivo. Troverete anche
i profili di alcuni protagonisti di oggi, l’allenatore
Steve Hansen, Brodie Retallick, i fratelli Savea e
quelli di due campioni del passato: Dave Gallaher,
capitano degli “Originals” e George Nepia, forse
la prima grande star del rugby neozelandese.
Buona lettura. (glb)
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Black
speciale
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LE
A Roma nel 2012 gli Azzurri schierati di
fronte all’haka.Nel riquadro, mischia
tra Italia e All Blacks a Auckland
nel 1987: Tito Lupini fronteggia Mc
Dowell.
Nelle pagine seguenti, Martin
Castrogiovanni tenta una percussione
tra Carl Hayman e Chris Jack (in
sostegno c’è Roland de Marigny)
nel match di esordio della Coppa
del Mondo 2007 in Francia. In otto
edizioni dei Mondiali, l’Italia ha
affrontato cinque volte gli All Blacks
nella fase a gironi del torneo.
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speciale
SFIDE
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Nuova Zelanda
popolazione 4.400.000
superficie 268 mila km2
irb ranking 1
Edoardo “Ugo” Gori placcato da
Brodie Retallick a Roma nel 2012.
Nella foto piccola la meta di Mauro
Bergamasco contro la Nuova
Zelanda, nel 2004 al Flaminio.
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speciale
Tra Italia e Nuova Zelanda è la sfida numero 14
data e luogo
28 novembre 1979*, Stadio Battaglini, Rovigo
22 maggio 1987, Eden Park, Auckland
13 ottobre 1991, Welford Rd, Leicester
28 ottobre 1995, Stadio Dall’Ara, Bologna
14 ottobre 1999, McAlpine Stdm, Huddersfield
25 novembre 2000, Stadio L. Ferraris, Genova
8 giugno 2002, Waikato Stadium, Hamilton
11 ottobre 2003, Colonial Stadium, Melbourne
13 novembre 2004, Stadio Flaminio, Roma
8 settembre 2007, Velodrome, Marsiglia
27 giugno 2009, Jade Stadium, Christchurch
14 novembre 2009, San Siro, Milano
17 novembre 2012, Stadio Olimpico, Roma
World Cup
World Cup
World Cup
World Cup
World Cup
risultato
mete
12-18
70-6
31-21
6-70
101-3
19-56
64-10
70-7
10-59
76-14
27-6
6-20
10-42
1:2
12:0
4:2
0:8
14:0
2:8
9:1
11:1
1:9
11:2
3:0
0:1
1:5
* La partita del 1979 non è considerata Test match dalla Federazione neozelandese.
44
18
È il numero delle coppie di
fratelli che hanno indossato
la maglia della nazionale
neozelandese: soltanto
dieci di queste però sono
formate da atleti che hanno giocato insieme, gli
ultimi Julian e Ardie Savea.
Sono le vittorie consecutive
conquistate dagli All Blacks a
partire dall’8 agosto 2015 (19-27
contro l’Australia). E’ il nuovo
record assoluto per squadre
nazionali, supera il precedente
di 17 detenuto dal Sudafrica di Nick Mallett (19971998), dagli All Blacks del 2013-2014 e del 1965-1969.
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Gli Azzurri che hanno segnato
una meta agli All Blacks: Nello
Francescato, Marcello Cuttitta,
Bonomi, Bortolami, Lo Cicero,
Saviozzi, Phillips, Mauro Bergamasco, Stanojevic,
Mirco Bergamasco e Alberto Sgarbi. Nessuno ne ha
messa a segno più di una.
Mauro Bergamasco è il giocatore che
ha affrontato più volte gli All Blacks in
maglia azzurra, 7.
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Marsiglia, Velodrome, 8 settembre 2007
Nuova Zelanda vs Italia 76-14 (primo tempo 43 -7)
Marcatori: 2’ e 7’ mt McCaw tr Carter, 11’ cp Carter, 12’ mt
Howlett tr Carter, 15’ mt Muliaina tr Carter, 19’ e 30’ mt
Sivitavu tr Carter, 38’ mt Stanojevic tr Bortolussi; Secondo
tempo: 51’ mt Jack tr Carter, 59’ mt Howlett tr Carter, 64’
meta Howlett nt, 73’ e 70’ mt Collins tr McAlister, 77’ mt Mi.
Bergamasco tr De Marigny.
Cartellini gialli: 44’ Hayman, 61’ Perugini. Arbitro: Barnes (Inghilterra)
Spettatori: 54.000
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Marsiglia 2007 speciale
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Milano, stadio San Siro, 14 novembre 2009
Italia vs Nuova Zelanda 6-20 (primo tempo 3 -14)
Marcatori: Italia vs Nuova Zelanda 6-20 (primo tempo 3 -14)
Marcatori: 3’ cp Gower, 8’ e 15’ cp McAlister, 28’ mt Flynn, 43’ cp
McAlister. Secondo tempo: 45’ cp McAlister, 61’ cp Gower, 75’ cp
McAlister.
Cartellini gialli: 44’ Garcia, 74’ Tialata
Arbitro: Dickinson (Australia)
Spettatori: 80.000
Nella foto, battaglia fra mischie in Italia v All Blacks a San Siro nel 2009. Nel finale gli Azzurri
misero la Nuova Zelanda alle corde con una serie di mischie a un passo dalla meta. L’arbitro
però non ebbe il coraggio di concedere ai padroni di casa la meritata meta di punizione. Qui,un
momento del braccio di ferro da Perugini e Tialata (stappato, con il numero 3). Alla fine il
neozelandese riceverà un cartellino giallo per i ripetuti crolli del pack in maglia nera.
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Milano 2009 speciale
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Roma, Stadio Olimpico, sabato17 novembre 2012
Italia v Nuova Zelanda 10-42 (primo tempo 7-13)
Marcatori: 13' cp Cruden, 17' mt Read tr Cruden, 20' cp Cruden,
26' mt Sgarbi tr Orquera; secondo tempo: 4' cp Cruden, 9' mt
Nonu tr Cruden, 13' drop Orquera, 28' mt Jane, tr Cruden, 33'
mt Savea, 36' mt Savea tr Cruden.
Arbitro: Alain Rolland (Irlanda) Spettatori: 73.000
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Roma 2012 speciale
La meta di Alberto Sgarbi
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Dieci Azzurri
raccontano la
loro esperienza
faccia a faccia con
i neozelandesi
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speciale
Ho sfidato
gli All Blacks
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Marzio Innocenti (1987)
Salvatore Bonetti (1977)
Noi gli All Blacks a mala pena li vedevamo in televisione. Per anni sono girate solo le immagini del
famoso match con i Barbarians, quello del 1973. Per
cui figuratevi le emozioni, le sensazioni, quando
Mario Martone, l’allora presidente federale, ci disse che i neozelandesi, in viaggio per la Francia, si
sarebbero fermati in Italia e avrebbero volentieri
disputato una partita di preparazione. Non sarebbe stato un test match, per cui fu deciso di giocare
con i Dogi, che in quell’epoca si difendevano molto bene anche contro squadre straniere molti forti,
rinforzati da me, Guy Pardies e Nelson Babrow. La
squadra fu ribattezzata “XV del presidente” e io fui
scelto come capitano.
Non vi nascondo che la settimana di avvicinamento
alla partita fu una settimana di dubbi e preoccupazioni. Mi chiedevo: sarò all’altezza? Saprò reggere il
ritmo e gli impatti fisici?
Ci preparammo per il match ad Abano dove alloggiavano anche i neozelandesi, per cui la sera, quando facevamo quattro passi dopo l’allenamento, ci
incontravamo. Li scrutavamo, li osservavamo come
si fa con fenomeni che vedi per la prima volta da
vicino. Guardavo i loro centri Osborne e Robertson
e pensavo a Nello e Bruno Francescato che li avrebbero avuti di fronte. Ci preparò Carwin James, che
alla guida dei Lions li aveva battuti nel 1971 e poi,
con Llanelli, nel 1972. Fu importante perché ci convinse che ce la saremmo potuta giocare, ci diede
fiducia e convinzione. Finì 17-9 per loro, la meta di
Nello fu l’unica che gli All Balcks subirono in tutto
il tour. Trent’anni dopo, a Brescia, venne a giocare
Deon Kingi. Un giorno sua moglie mi disse “ti porto
i saluti di mio padre”. Era la figlia di Bruce Robertson
che quel giorno era stato il capitano della squadra
all’Appiani. Si ricordava di me e io di lui. Una partita
di cui vado orgoglioso.
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Nella pagina precedente:
Marzio Innocenti, con i gradi di
capitano, fronteggia l’haka nel
match inaugurale della Coppa
del Mondo 1987 a Auckland.
Sopra il “XV del Presidente” la
prima squadra italiana ad aver
affrontato gli All Blacks, nel 1977
all’Appiani (9-17).
Sotto Paolo Vaccari e Ivan
Francescato alle prese con Jeff
Wilson nel 1995 a Bologna.
A destra, stesso match,
un’apertura di Alessandro
Troncon e, in basso, Carlo
Checchinato e Ian Jones in
touche a Huddersfield, durante
la Coppa del Mondo del 1999.
Ci era toccato l’onore di giocare, proprio contro
gli All Blacks, la partita inaugurale dei primi Mondiali della storia. Nei giorni precedenti, in giro per
Auckland la gente - che comunque ci riconosceva
ovunque - sorrideva sarcastica facendoci coraggio,
chiedendoci anzi se davvero l’avremmo giocata
quella partita. Che noi preparammo consapevoli dell’impresa ai limiti delle nostre possibilità, ma
anche con tanta voglia di giocarcela per dimostrare
quanto sapevamo onorare la nostra maglia. Giusto
per dire della considerazione nei nostri confronti,
nello spogliatoio, a pochi minuti dal fischio d’inizio,
ad un certo punto entrò un funzionario dell’International Board che spegnendo la luce ci disse “State
per essere visti da qualche milione di spettatori in
tutto il mondo, meglio se restate un po’ al buio a
concentrarvi”. A far tornare il sereno ci pensò Stefano Barba, che in romanesco disse subito “A rega’,
questi ce vonno portà via li portafogli”. Ridemmo
molto per qualche secondo, poi però la testa andò
tutta sul match, che fino al 10’ del secondo tempo
fu un vero match, salvo poi tramutarsi in una tempesta nera su cui sono spesso tornato cercando di
capirne i motivi, senza però mai riuscirci, anche se
alla fine del torneo la stampa mi votò Best Skipper
of the World Cup”. Paolo Vaccari (1991, 1995, 1999)
Giocare contro gli All Blacks è un’esperienza unica.
Talmente importante, talmente speciale che il mio
rammarico è di averne compresa l’importanza solo
quando tutto era finito, dopo aver smesso di giocare. Ai ragazzi giovani vorrei dire: godetevela fino
in fondo, assaporatene tutto il gusto. Perché è un’emozione che capita poche volte nella vita. C’è gente
speciale
dafrica di pochi mesi prima. Ma anche se fosse finita
40-0 il senso di quel pomeriggio non sarebbe cambiato, perché a far male è stata la nostra impotenza,
a livello collettivo e individuale. In campo non siamo
esistiti e io mi sono vergognato, non mi era mai successo. Ci sono stato male anche dopo, per diverso
tempo. Fortunatamente, poi sono andato a giocare
in Francia e lì ho riacquistato l’entusiasmo. Se invece devo dire quando mi sono sentito meglio
dopo un incontro con la Nuova Zelanda, indico la
mia ultima volta, nel 2007 alla Coppa del Mondo in
Francia. Intendiamoci, il rugby è sport di squadra e
prendere quasi 80 punti è comunque grave, però
guardando alla mia prestazione individuale sapevo
di avere affrontato questa squadra come mai mi era
capitato prima, a viso aperto, e di essermi divertito.
Non posso dire altrettanto della partita del 2000, a
Genova, quando una ginocchiata in testa mi mise
fuori combattimento dopo un minuto. Dei trequarti d’ora successivi a quella botta ricordo solo un’idea
fissa: avrei voluto, non so perché, tornarmene immediatamente a casa”.
che per venirvi a vedere giocare contro i più forti
del mondo mette via i soldi per un mese, magari di
più, si alza la mattina presto, viaggia in pullman, in
macchina, in treno. Non date per scontata un’opportunità così, non perdetevi dietro le distrazioni
di un giorno. Pensate che fra un po’ di anni ricorderete questa partita e vi renderete conto di quanto sia stata speciale. Sul campo purtroppo, a parte
la prima volta, quella ai Mondiali del 1991, quando
ero giovane e spensierato (e tutto sommato ce la
cavammo più che bene, perché finì 21-31 e davanti avevamo gente come Zinzan Brooke e Tuigamala…), delle partite successive mi è sempre rimasta
una sensazione di inadeguatezza fisica, mi sono
sempre sentito più debole di loro.
Erano più avanti come preparazione, come mezzi, e non mi sembrava di combattere ad armi pari.
Questo è un grande dispiacere. E poi gli ho sempre
invidiato l’haka, questa capacità di esprimere pubblicamente, con una danza, lo spirito di un popolo,
di una nazione. Estrapolata dal contesto, potrebbe
sembrare una cosa curiosa: mettersi a danzare prima di una partita di rugby davanti a settantamila
persone. Invece per loro è un atto profondo, che
rinsalda i legami di squadra e rafforza la tradizione.
Ecco avrei voluto avere anch’io come squadra la mia
haka. Un’altra delle cose che li rende speciali.
Alessandro Troncon
(1995, 1999, 2000, 2003, 2007)
C’è una partita con gli All Blacks che rimane il peggiore ricordo di tutta la mia carriera rugbistica. È quella
della Coppa del Mondo 1999, a Huddersfield. Intanto
il punteggio: 101-3, l’unica volta che mi è capitato di
prendere 100 punti, avendo saltato il match con il Su-
17
Matteo Mazzantini apre il gioco
a Canberra durante i Mondiali
del 2003. Lo osservano Ramiro
Martinez (a sinistra), Carlo
Checchinato e Totò Perugini.
Carlo Checchinato (1991, 1995, 1999, 2003)
Ho giocato contro gli All Blacks la prima volta ai
Mondiali del 1991. Avevo appena compiuto ventun
anni e pensavo alla Coppa del mondo precedente,
che avevo visto in tv, anzi avevo cercato di vedere
in televisione, alzandomi alle sei la mattina, non tutte le partite venivano trasmesse in Italia. Affrontarli
sul campo fu un’esperienza bellissima, meravigliosa,
anche perché era un’epoca in cui di rugby da noi se
ne vedeva poco, il resto era immaginazione e gli All
Blacks, l’haka e tutto il resto erano la leggenda. Facemmo anche un gran partita (21-31) e Shelford disse
la famosa frase: “ha vinto la Nuova Zelanda ha trionfato l’Italia”. Sul campo hanno la capacità di essere
sempre al posto giusto al momento giusto, velocità, esecuzione. Sanno anche essere cattivi, se serve:
Richard Loe aprì una mano di Franchino Properzi
camminandogli sopra con i tacchetti. Kino dovette
uscire, al suo posto entrò Grespan. Ma fuori sono ragazzi molto, molto umili: a Huddersfield, nel 1999, ci
rifilarono 101 punti (a 3). Per molti di loro era la prima
Coppa del Mondo, per me era già la terza. Dopo la
partita, noi delusi per la batosta, avendo saputo che
io avevo già disputato tre Mondiali vennero a chiedermi se potevano fare una foto con me. Ci penso
ancora adesso e mi viene da ridere.
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Matteo Mazzantini (2002, 2003)
Posso dire di essere stato fortunato: su nove partite
in Nazionale due le ho giocate contro gli All Blacks.
Cosa cambia rispetto a tutti gli altri avversari? Cambia che loro sono i più forti. Anche quando credi di
averli, per un attimo, in pugno, sanno come togliersi
da guai. Credi di averli messi in difficoltà e riescono
sempre a uscire fuori al meglio. Tutti e quindici fanno
sempre la cosa giusta al momento giusto e questo
alla fine fa la differenza più grande. Io l’haka me la
sono trovata di fronte a Hamilton dove gran parte
del pubblico era composto dalla comunità maori: fu
un haka più intima, molto emozionante. A Melbourne, ai Mondiali del 2003, invece, ebbi l’impressione
che Carlos Spencer recitasse per le televisioni. Anche
l’haka una volta era una cosa meno inflazionata, più
personale. Adesso la vedi ovunque, forse anche troppo. Sul combattimento poi sono i numeri uno, ma
quello che ti colpisce di più in campo è la facilità con
cui risolvono le situazioni difficili. E poi quella loro
forza di non darti tregua, quel loro insistere finché a
un certo punto ti senti soffocare. Magari non sbagli
tanti placcaggi, ma loro continuano a far vivere la
palla e alla fine tu non sai più cosa fare. Della tournée
del 2002 ricordo con piacere anche la grande competenza di un paese che vive di rugby. La capacità del
speciale
ché il rugby scorre nelle loro vene, nella loro cultura,
hanno un vissuto diverso che solo chi è cresciuto in
Nuova Zelanda può capire.
Alessandro Zanni (2007, 2009-1, 2009-2, 2012)
Paul Griffen a Marsiglia, ai
Mondiali del 2007, pressato dal
numero 9 avversario Brendon
Leonard
Sotto, lo sforzo di Alessandro
Zanni per contenere la
percussione di McAlister,
agganciato anche da Quintin
Geldenhuys.
Nella pagina seguente, scontro
tra numeri otto: Sergio Parisse
combatte contro Kieran Read e,
in basso, Simone Favaro cerca di
difendersi dall’attacco di
Rico Gear e Conrad Smith.
pubblico, di tutti quanti, di capire il tuo impegno, il
tuo sforzo individuale. E se perdevi, ma avevi fatto il
massimo, ti eri guadagnato il rispetto e l’ammirazione di tanti.
Paul Griffen (2004, 2997)
Gli All Blacks sono la ciliegina sulla torta del rugby e
siccome le ciliegie fanno gola a molti, tutti vogliono
giocare contro di loro: vuol dire assaporare un frutto
speciale. Per me, poi, affrontarli è sempre stata una
cosa particolare. Sono cresciuto in Nuova Zelanda,
ho festeggiato il trionfo degli All Blacks nella prima
Coppa del Mondo, mi ricordo ancora quando da
bambino mi alzavo la notte per vederli giocare nei
tour in Europa e sognavo di indossare quella maglia.
Ovviamente quando mi sono trovato contro, invece
che con loro, la cosa mi ha fatto un certo effetto, una
certa emozione: pensare che quell’inno le cui parole
conoscevo fin da piccolo, quella bandiera che sventolava sopra le tribune non erano per me ma per i
miei avversari non è stato facile da accettare. L’haka
per esempio: per noi in Nuova Zelanda è una tradizione importante, ogni scuola, ogni club ha la sua
versione. Essere dall’altra parte mi faceva pensare, mi
faceva effetto. E all’haka è legato il ricordo più brutto
della mia intera carriera sportiva, quel momento trovo antipatico perfino ricordarlo adesso, dopo tanto
tempo. Fu quando a Marsiglia, nel match inaugurale della Coppa del Mondo 2007, fu deciso (dall’allenatore Pierre Berbizier, ndr), che all’haka avremmo
dovuto voltare la schiena, stringerci in un cerchio e
non guardarla. Per me che ne conosco il significato
profondo, il legame con le nostre origini - “è’ la morte,
è la vita” e tutto il resto - fu proprio un atto forzato,
uno sgarbo grave. Una cosa che mi ha fatto stare
male. Poi ricordo che i compagni mi chiedevano
“come sono gli All Blacks?”. Sono giocatori come gli
altri - dicevo -, solo che hanno qualità migliori per-
Giocare contro gli All Blacks è bellissimo, perché
sono i più forti, e durissimo…perché sono i più forti. Ma più che le loro doti fisiche e tecniche, quando
li affronti colpisce la facilità con cui fanno le cose, la
semplicità dei loro gesti, fanno sempre la scelta giusta. Hanno avanti con le qualità e le abilità dei trequarti e trequarti con caratteristiche atletiche spesso
fuori dal comune. Singolarmente hanno competenze eccezionali e soprattutto non calano mai d’intensità, penso alla partita del 2012 a Roma: il primo
tempo abbiamo retto il confronto, poi inevitabilmente abbiamo cominciato a rallentare e loro hanno
continuato a mantenere lo stesso livello. La sfida più
dura che ricordo è quella del 2007, a Marsiglia, con
McCaw, Sivivatu, ma di quei giocatori ne potrei citare
altri dieci. Avevamo fatto una preparazione durissima e pensavamo in qualche modo di poter reggere
la sfida, c’erano molte aspettative e ci fu anche la storia dell’haka (vedi il racconto di Griffen, ndr): invece
partirono fortissimo e finimmo distrutti, ci fecero 76
punti. Però tutti vogliono giocare contro di loro perché sono i migliori, i più preparati, i più bravi tecnicamente.
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Fotografie
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Roberto Bregani, pagg. 19b, 38; Fotosport, pag. 31; Diego Forti, pag. 12; Tim
Rogers, pag. 15; Daniele Resini, pagg. 2, 4, 6, 8, 10, 14, 16b, 17, 18, 19a, 21, 24b,
25, 30, 32, 36.
Getty Images
Anthony Au-Yeung, pag. 28; Stu Forster, pag. 24; Fiona Goodall, pag. 34;
Kirby, pag. 46; David Rogers, pag. 26; Phil Walter, pagg.1, 22, 27, 37.
speciale
Sergio Parisse
(2002, 2003, 2007, 2009-1, 2009-2, 2012)
Per un rugbista giocare contro gli All Blacks è la partita
della vita. Sono gli avversari che fin da piccolo, sogni di
affrontare. Per me poi hanno rappresentato l’esordio
in Nazionale a 18 anni, a Hamilton, a casa loro. Potete immaginare i ricordi, le sensazioni di quel giorno.
Alla Nuova Zelanda insomma è legata la mia prima,
più grande emozione sportiva. Poi, sul campo sono
veramente i più bravi, il ritmo, la velocità che sanno
dare al gioco non hanno niente niente a che vedere
con quelli delle altre squadre. Nessuna è paragonabile
a loro, nemmeno il Sudafrica e l’Australia. E poi sono
bravissimi a sbloccare le situazioni, anche quando
apparentemente non c’è un vantaggio o uno spazio,
loro sanno trovarlo, con un colpo di estro individuale,
un’intuizione singolare.
Per un giocatore affrontarli è il massimo perché ti
mettono in condizione di misurare le tue doti: sai che
ti di fronte avrai i migliorI al mondo, o quasi. È l’occasione per vedere quanto vali, cosa sai fare al cospetto
dei numeri uno. Sono stato fortunato ad avere avuto
la possibilità di sfidarli diverse volte e devo dire che
parlare di risultato in queste partite è inutile, in questo momento nessuno li batte. Noi dobbiamo pensare
soltanto di dare il massimo senza avere in mente altro.
Paradossalmente per noi è una partita senza pressioni
particolari: nessuno si aspetta che vinciamo e quindi,
semplicemente, dobbiamo fare il meglio che possiamo. Senza tirarci indietro, senza risparmiarci: è la partita della vita, godiamocela come tale.
Simone Favaro (2009-1, 2009-2, 2012)
Per un rugbista giocare contro gli All Blacks è come
andare alle Olimpiadi. Arrivano gli All Blacks e i giornali scrivono di più, gli sponsor sono più interessati,
gli appassionati si mettono in agitazione, perché loro
sono la leggenda, la storia, l’élite assoluta.
Da noi vengono ogni tre o quattro anni. Per questo
dico che sono le Olimpiadi del rugby. Poi in campo
è ovvio che devi considerarli avversari, anzi i migliori avversari possibili, i più forti, quelli che esprimo il
rugby al meglio, ma alla fine è una partita e va giocata
come tale. Io li ho affrontati la prima volta a Wellington, nel 2009, era il mio secondo cap, avevo vent’anni.
Penso all’emozione dell’haka, un rito tribale, un gesto
primitivo, in cui loro richiamano le tradizioni, invocano il loro dio. È una cosa che mi affascina moltissimo,
che mi dà molta carica, non mi provoca soggezione,
ma adrenalina, ecco adrenalina è il termine giusto. Poi
è ovvio: anch’io da bambino li guardavo alla televisione, li ammiravo. Ma poi la partita è sempre la partita…
dura ottanta minuti, le regole sono sempre le stesse
e io non vedo l’ora di affrontarli. Questi All Blacks poi
si dice che siano i migliori di sempre e quindi è il confronto più alto che puoi avere nella tua carriera. Per
noi sarà una sfida al limite. Ma una bella sfida: giochiamo contro il meglio.
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22
speciale
Quota 92
di Gianluca Barca
Steve Hansen allena agli All Blacks
dal 2012 e alla guida della Nazionale
neozelandese ha vinto il 92% delle
partite disputate: nessuno come lui.
Ritratto di un uomo diventato
il tecnico più vincente della storia
del rugby internazionale.
In un’altra epoca, forse in un’altra vita, sportivamente parlando, Steve Hansen, è stato allenatore del Galles con cui vinse 11
delle 31 partite che i Dragoni disputarono fra il febbraio 2002 e
il marzo 2004.
Non fu un’esperienza facile: tra la fine del 2002 e l’agosto 2003
la squadra perse dieci partite consecutive e Hansen era “il secondo uomo più odiato del Galles - esagerò un tabloid, - dopo
Osama Bin Laden e appena prima di Saddam Hussein”.
Ex poliziotto, oltre al fatto di non vincere, molti gli rimproveravano di gestire la squadra come una centrale di polizia. E di
utilizzare metodi odiosi per controllare i giocatori, come quello
di fare il giro del parcheggio, la sera, e poggiare il palmo della
mano sul cofano delle automobili, per verificare chi si era allontanato dal ritiro e da quanto tempo era rientrato in camera,
evitando il coprifuoco.
Oggi evidentemente, dodici anni dopo, e alla guida degli All
Blacks, Hansen ha cambiato registro, visto che a TV3, in una lunga intervista, un anno fa, prima della Coppa del Mondo, spiegò
la sua filosofia di allenatore puntando soprattutto sui concetti
di responsabilità collettiva, umiltà, senso di appartenenza alla
famiglia. Lui che di famiglie ne ha già avute un paio (due divorzi), ma non imputa al rugby la colpa di quei fallimenti: “La
responsabilità devo prendermela io, non posso addebitarla al
rugby - ha detto -. I matrimoni si rompono perché per qualche
ragione le persone non vanno d’accordo”.
23
Fra gli All Blacks invece “Shag” (il soprannome che
alla Canterbury Rugby Union gli affibbiò Steve Tew)
è riuscito evidentemente a creare un clima ideale:
“quando i ragazzi crescono è giusto che comincino
a prendersi qualche responsabilità - ha spiegato -. E
via via che crescono e diventano più saggi, uno di
responsabilità gliene da sempre di più, finché non
sono capaci di camminare da soli a mamma e papà
possono rilassarsi e godersi quel che accade”.
Insomma l’uomo che passava per essere noioso e
autoritario e che chiamavano un “bel bastardo” è
diventato invece autorevole a arguto. “Siamo un
gruppo di persone con un obiettivo comune - dice
- un obiettivo che può essere riassunto in un concetto semplice: vincere ogni partita che giochiamo.
E come certe dinamiche accadono in famiglia, così
vivono in una squadra. Fai una cosa buona e ti meriti una pacca sulla spalla, ne fai una male e, ogni
tanto, ti becchi un calcio nel sedere. Vuoi bene alle
persone con cui lavori, ma a volte non ti sta bene
quello che fanno o come si comportano, e questo è
quello che succede anche a casa. Vuoi bene ai tuoi
figli, a tua moglie, ma certe cose non le tolleri e dici:
‘mi dispiace: qui non si fa così!’. Ci sono degli standard e delle regole e queste vengono definite dal
vertice verso la base e dalla base in su, e nessuno
scappa, nemmeno il sottoscritto”.
La vicenda di Aaron Smith, all’inizio di ottobre, da
questo punto di vista è stata esemplare. Il giocatore ha sbagliato (la vicenda dell’aeroporto di Christchurch) ed è stato immediatamente escluso dalla
sqadra in partenza per il Sudafrica. Senza se e senza
ma.
Hansen a un certo punto della carriera andò in Francia, a La Rochelle, aveva 25 o 26 anni, e scoprì che lì,
come del resto in Italia e altrove, anche gli uomini fra
parenti, o amici, si baciano sulle guance in segno di
affetto. Al mattino quando si incontrano, la sera per
24
speciale
Nelle pagine precedenti, Steve
Hansen, 57 anni, dal 2012 è
alla guida degli All Blacks.
Qui, quando allenava il Galles
(2002-2004): 11 vittorie in 31
partite. Nel 2003, come coach
dei Dragoni, perse a Roma
contro l’Italia (nel riquadro
in basso, la meta di Matthew
Phillips), ma nello stesso anno
si prese la rivincita a Canberra,
ai Mondiali in Australia, dove
i gallesi superarono l’Italia
27-15 nel match decisivo per la
qualificazione ai quarti di finale.
(a fianco, una carica di Santiago
Dellapé contrastato da Jarvis e
Martin Williams), con Lo Cicero
in sostegno.
augurarsi la buona notte, per salutarsi prima di un
viaggio. “All’inizio mi faceva una certa impressione
- racconta -, noi qui in Nuova Zelanda non indulgiamo in quel tipo di manifestazioni, ma poi l’ho presa
come una dimostrazione di affetto, un bel gesto di
reciproco attaccamento”.
Provò a portare quell’usanza anche a casa. “Ma mio
padre preferiva una vigorosa stretta di mano. Ci salutavamo così la mattina e la sera prima di andare a
letto. Divenne un rituale familiare”.
Oggi quel rituale è stato introdotto anche fra gli All
Balcks: “magari è un abbraccio, una stretta di mano,
un contatto col pugno” e coinvolge tutti, giovani o
vecchi, star o ragazzi appena arrivati.
L’altra cosa che Hansen mette sopra tutto è la squadra: “the team first”. “Il mio obiettivo è lasciare un
giorno la squadra meglio di come l’ho trovata. La
domanda che bisogna sempre porsi è: “questo giova
alla squadra? Se la risposta è sì non c’è difficoltà che
tenga. Al momento della scelta dei 31 per la Coppa
del Mondo ci siamo trovati a valutare il peso di due
giocatori come Cory Jane, 53 cap, e Israel Dagg, 49, al
cospetto delle potenzialità di due ragazzini (Naholo
e Milner-Skudder), uno dei quali aveva giocato mezza partita, ed era convalescente per la frattura alla
gamba, e l’altro aveva nel suo curriculum non più di
due test. Ci siamo chiesti se i due esordienti avrebbero dato alla squadra qualcosa in più e la risposta
è stata unanime: sì. Abbiamo agito di conseguenza”.
Hansen sottolinea come questo sia stato reso possibile anche dalla vittoria del 2011. “La squadra viveva
sotto il perenne incubo di non farcela. Aveva paura
di perdere. E quando hai paura di perdere non osi
prendere rischi. E se non rischi difficilmente raggiungi grandi traguardi.
25
Col tempo l’ex trequarti centro di Canterbury ha imparato anche a non preoccuparsi. “La preoccupazione – per me – è un’emozione inutile. I casi sono due:
o una cosa è successa e allora devi darti da fare per
sistemarla subito, o non è successa, in tal caso devi
lavorare per evitare che accada”.
Ho conosciuto Steve Hansen nel 2003 in Australia.
All’epoca allenava il Galles, un’esperienza durata tre
stagioni e alla quale lui stesso riconosce un valore
pari “a vent’anni in un altro paese”. In quell’edizione dei Mondiali gli Azzurri erano stati inseriti nello
stesso gruppo del Galles (con Nuova Zelanda, Tonga e il Canada) e la pattuglia di giornalisti italiani
catapultata a Melbourne, poi a Canberra e a Sydney,
spesso si intratteneva alle conferenze stampa dei
futuri avversari cercando spunti con i quali tenere alto l’interesse per il torneo in patria. L’Italia, a
Una volta che ci siamo liberati di quella “scimmia”
tutto è diventato più facile. Non siamo più gente
che inciampa all’ultimo ostacolo. Con quel successo
tutti hanno tirato un sospiro di sollievo, tutto il paese. Io sono convinto che bisogna sempre provare a
spingersi al di là dei limiti ed essere coraggiosi, buttarsi. Perché se hai talento e ti butti può succedere
qualsiasi cosa, e puoi raggiungere obbiettivi che gli
altri si sognano”.
E poi l’umiltà: “siamo persone normali, che cercano
di giocare un buon rugby”, ha detto dopo la finale.
Per farlo, hanno spiegato lui e McCaw, il segreto è
lavorare ogni giorno, godendosi ogni minuto. “Devi
vivere giorno per giorno, creare un ambiente in cui
cerchi di migliorare, pensando che dove sei arrivato non è mai abbastanza. Si può sempre fare di più.
Io non sono un motivatore - ha spiegato al canale
neozelandese TV3 -. Il mio lavoro è creare un ambiente nel quale atleti motivati possano esprimersi
al meglio”.
Alcune delle idee che ha messo in pratica con gli All
Blacks, Hansen le ha prese da suo padre Des, che
aveva due fissazioni: il rugby e i cavalli da corsa. Cavalli da allevare per il galoppo, far crescere e portare
alle gare.
“Dai cavalli puoi imparare molto - dice -, mi piacciono e li rispetto. E con loro c’è un rapporto istintivo,
fatto di gesti, non di parole”.
Pare che a un certo punto, l’uomo che oggi guida
una delle squadre più vincenti di tutti i tempi, abbia
frequentato anche un corso per “parlare ai cavalli”.
Il test finale consisteva nel convincere un animale
scontroso e capriccioso a compiere un certo percorso: “non c’era verso di forzarlo – ricorda Hansen –
bisognava prenderlo per il verso giusto e guidarlo
con gentilezza, rispettando i suoi tempi e cercando
di comprenderne il linguaggio del corpo. E’ stato un
processo di apprendimento molto interessante”.
26
Sopra, relax negli spogliatoi, con
Kieran Read (a sinistra), Richie
Mc Caw e Sam Whitelock. A
destra, con la Ellis Cup appena
conquistata, a Twickenham
nel 2015, con Mc Caw.
speciale
febbraio, nel Sei Nazioni, aveva battuto il Galles al
Flaminio (30-22), e la possibilità che i nostri si ripetessero alla Coppa del Mondo non pareva in quei
momenti poi tanto lontana.
Dopo il 2003, l’ho rivisto varie volte, in situazioni diverse. A L’Aquila, nel 2004, venne a chiedere
informazioni sugli Azzurri che la settimana dopo
avrebbero affrontato gli All Blacks a Roma. Lui nel
frattempo aveva lasciato il Galles ed era entrato nello staff di Graham Henry. Poi all’Olimpico, nel 2012,
quando ormai era da quasi un anno capo indiscusso
della Nuova Zelanda.
“Piacere di rivederti”, mi disse lasciandomi sorpreso
per quel gesto inatteso di affabilità. “Complimenti,
hai fatto strada - risposi io – è passata un bel po’ di
acqua sotto i ponti dal tempo di Canberra”.
“Anche voi italiani avete fatto strada”, disse.
Ci stringemmo la mano. Mi diede un pacca sulla
spalla. Un abbraccio sarebbe stato troppo.
Stephen William “Steve” Hansen è nato a Dunedin il
7 maggio 1959. Da giocatore ha vestito la maglia del
Canterbury. Da allenatore dopo essere stato assistente
dei Crusaderes è stato sulla panchina del Galles 20022004 prima di entrare nello staff degli All Blacks dove
è stato al fianco di Graham Henry dal 2004 al 2011.
Dal 2012 è l’head coach degli All Blacks che con lui alla
guida hanno eguagliato lo scorso 8 ottobre il record
di vittorie consecutive 17, per una formazione a livello
internazionale.
27
New age
La Nuova Zelanda domina il rugby sul campo, ma non solo.
Secondo qualcuno, lo controlla anche in tutti i suoi dettagli.
Come i Tutti Neri hanno costruito una squadra invincibile.
di Stefano Semeraro
I nuovi All Blacks sono una giungla feroce che cresce ordinata come un giardino. Un disordine apparente che nasconde una pianificazione accurata,
nutrita da un secolo d’esperienza. Da una cultura
che sa coltivare.
Chiusi in gloria in Mondiali del 2015, i secondi vinti di
fila, tutta una generazione di fenomeni ha salutato
il jersey con la felce argentata - 800 cap o giù di lì,
nomi che resteranno scolpiti nel tempo. Qualcuno si
aspettava se non un tramonto almeno una controra,
qualche anno di siesta, le stagioni necessarie a far
crescere i rimpiazzi di creature ormai mitologiche
come Dan Carter e Richie McCaw. Macché: i ‘new age
All Blacks’ erano già là, piantati e curati per tempo. Un
sottobosco educato alla ricerca di un altissimo cielo
comune, un organismo ben sviluppato che oggi, al
momento di andare in stampa con questo numero di
Allrugby, con una striscia di 15 vittorie filate a livello
di test-match, insegue con fiducia il record di 17 fissato dai ‘vecchi’ All Blacks.
“Quando tagli gli alberi più alti quelli che sono cresciuti nell’ombra hanno più sole”, spiega il Giardiniere
Capo, Steve Hansen. “Una volta che McCaw, Carter e
gli altri hanno smesso, tutti quelli che stavano dietro
erano già pronti a dire: adesso tocca a me”. Perché si
sono alimentati insieme, sono cresciuti insieme, insieme hanno succhiato linfa nobile dal più ricco dei
terreni. Kieran Read è spuntato fra le radici di McCaw,
Beauden Barrett fra i rami di Dan Carter. Nella finale
dell’ultima Coppa del mondo “Beaudley” è andato in
Beauden Barrett sfugge
all’australiano Dane Haylett-Petty
durante il match tra Nuova Zelanda
e Wallabies disputato al Westpac
Stadium di Wellington lo scorso
27 agosto. Gli All Blacks si sono
imposti 29-9.
28
meta contro l’Australia, Carter il magnifico ha trasformato. Dodici mesi dopo, secondo molti, il germoglio
si prepara a superare in altezza la sequoia. Barrett è cresciuto nel Super Rugby, il Rugby Championships lo sta facendo sbocciare definitivamente.
Non come un fiore di serra, però, piuttosto come una
pianta carnivora: ritmo, potenza, velocità; intuizioni
fulminee, passaggi no-look, un gioco al piede tattico
che apre sentieri. E poi quello sprint che perfora le
difese, che lascia fermi i marcatori. Un fisico perfetto per il “power rugby” di oggi (1.87 per 91 kg), più
esplosività di Carter, non meno creatività. Anzi. Può
migliorare nei piazzati (è attorno al 71 per cento, 15
su 23 nelle prime quattro partite del Rugby Championship), ma anche lì sta il tesoro del rugby neozelandese. È in quel margine di crescita - suo ma anche
di Sam Cane, Ardie Savea e altri ancora - che si gioca
All Blacks
un futuro che quasi atterrisce la concorrenza. E stupisce persino i neozelandesi.
“Onestamente non mi aspettavo nemmeno io un successo del genere”, ha ammesso il ct Hansen. “Dopo i
Mondiali abbiamo perso molto in esperienza. La cosa
che mi rende più felice è vedere come i nuovi sono riusciti a colmare la lacuna. Hanno saputo prendere il
toro per le corna, sul campo agiscono come se fossero
un solo organismo, sanno pensare in maniera flessibile. E questo perché sono cresciuti insieme. Davanti
a loro avevano grandi campioni che li chiudevano.
Nello sport come nella vita quando non riesci a ottenere quello che vorresti puoi sentirti frustrato, e finché
non ti trovi in quella situazione non puoi sapere come
reagirai. Dai test di Wellington è nata una leadership
collettiva, ora nessuno si sente appagato. E questa
squadra non è un prodotto finito. Più esperienza accumulerà, meglio giocherà”.
Non una bella notizia, per il resto del mondo. “Ha perso il rugby”, ha scritto il New Zealand Herald dopo la
vittoria dei Tutti Neri per 41-13 a Cristchurch, contro
le spoglie confuse del Sudafrica, che ha consegnato
con due giornate d’anticipo il titolo del Rugby Championship alla Nuova Zelanda. “La distanza fra gli All
Blacks e le altre squadre non fa che aumentare. Hanno
rifilato 30 punti all’Argentina in un match che è stato
considerato ‘combattuto’, ora hanno riservato lo stesso
trattamento agli Springboks. E senza nemmeno giocare bene”. Per Eric Watson, il patron dei New Zealand
Warriors, il club di Rugby a 13, “i tifosi farebbero meglio
a guardare la League: il Rugby Union non è più nemmeno uno sport vero…”. Gli Abs giocano da soli, gli
altri guardano. Un trionfo che nasce da lontano. 29
Quando nel 2014 Broadie Retallik è stato eletto miglior giocatore dell’anno, qualcuno ha storto il naso:
ma come, una seconda linea? Invece era un segnale
dei tempi, e il simbolo della forza degli All Blacks che
già stavano mutando pelle pur rimanendo fedeli a sé
stessi. Aaron Cruden e Stephen Donald erano stati la
favola dei Mondiali del 2011, i mediani venuti dal nulla (Cruden addirittura dallo spavento per la malattia)
che avevano salvato i Blacks dall’ennesimo flop, rimediando in extremis all’infortunio di Carter. Barrett
e i suoi compagni non sono un miracolo, ma il frutto
di quello spavento e di un sistema che trova nella
continuità tecnica la forza, la spinta quasi vegetale a
riprodursi sempre ad alti livelli. Barrett è stato aggregato alla prima squadra nel 2012,
ha avuto tempo per svezzarsi; quando è arrivato il
suo momento ha spostato con naturalezza di lato
il talento ‘normale’ di Cruden, il traghettatore, per
rimettere al centro della squadra l’eccellenza pura,
assoluta. Oggi ‘the new age All Blacks’ hanno la miglior mediana al mondo, la miglior coppia di centri
(capacissimi di non far rimpiangere Ma’a Nonu & Co.),
il miglior estremo, il miglior tallonatore. All’ala possono contare su una quantità di opzioni imbarazzante,
in ciascun ruolo comunque sono in grado di schierare giocatori universali, piloni dinamici, seconde linee
capaci di off-load funambolici, trequarti tanto veloci
quanto contundenti.
“Bisogna dare credito alla Nuova Zelanda - ammette
con malinconico fair-play Allister Cotzee, il ct degli
Springboks -. Il loro sistema funziona alla perfezione, basta guardare a come Kieran Read ha saputo
raccogliere da McCaw il ruolo di capitano senza far
sentire il passaggio. Sanno quando giocare, dove
giocare. E non sbagliano mai. A loro è riuscita alla
30
perfezione la transizione del dopo-Mondiale che
invece è mancata a noi”.
Con un Sudafrica involuto e nel peggior momento
della sua storia, l’Australia in piena crisi e un’Argentina grintosa ma inevitabilmente soccombente, l’unico
diserbante ovale capace di impensierire gli All Blacks
potrebbe arrivare dall’Inghilterra scafata e sgherra di
Eddie Jones. Felci e rose non si scontreranno prima
del 2018, l’incendiario ct dei Bianchi tiene comunque le sue polveri asciutte e non risparmia qualche
bordata. “La Nuova Zelanda è forte. Maledettamente forte. Ma, come tutte le squadre, è battibile”. E se
Sherlock Holmes è passato alla storia (anche) grazie
ad una soluzione al 7 per cento (The Seven Per Cent
Solution, 1974, Nicholas Meyer), per Jones agli avversari degli Abs basta migliorare di un 3 per cento. “Tutti sostengono che loro sono più forti del 15-20 per
cento, la mia esperienza mi insegna invece che basta
molto meno. Se l’Argentina avesse fatto meglio due
o tre cose nei momenti cruciali l’esito del match con
la Nuova Zelanda sarebbe stato molto più incerto”.
Coach Eddie è convinto che l’Inghilterra possa migliorare molto lavorando su preparazione fisica e
possesso. Molto più difficile, secondo lui, copiare il
dominio che i maghi del continente Sud hanno stabilito sul rugby mondiale anche fuori dal campo. “La
Nuova Zelanda controlla tutto il mondo - sostiene
maliziosamente -, ogni singolo dettaglio del rugby.
Infatti ogni regola che viene approvata è guidata da
laggiù”. Una sorta di Spectre ovale: “preparano i loro
coach in casa, e quando ottengono risultati nel Super Rugby li mandano nell’emisfero Nord ad allenare.
Così oggi hanno sotto controllo il Giappone, il Galles,
l’Irlanda e la Scozia. In questa maniera assorbono una
preparazione completa dei loro tecnici, che quando
tornano a casa sono pronti ad allenare gli All Blacks.
Anche Graham Henry e Steve Hansen sono stati in
Galles durante la loro carriera. Non è dunque un caso
se la Nuova Zelanda è diventata la squadra più forte
in tutti i settori. Anche i coach inglesi dovrebbero imparare qualcosa sull’altra metà del rugby, quello che
si gioca nell’emisfero Sud. Un rugby destrutturato, un
caos molto ben organizzato”. Una giungla perfetta,
dove ogni giovane pianta sa trovare, solo apparentemente per incanto, il suo spazio.
Kieran Read in azione contro
l’Australia nel Championship di
quest’anno. È il giocatore che ha
vinto più touche ed è il terzo nella
graduatoria dei placcatori.
Nehe Milner-Skudder quest’anno
ha dovuto saltare per infortunio
l’intera stagione internazionale.
La formazione neozelandese è
stata in grado di assorbire senza
problemi anche il rinnovamento e
le assenze più gravi.
speciale
31
Black rock
Brodie Retallick
32
speciale
L’uomo in più della mischia degli All Blacks è Brodie
Retallick, ruvida seconda linea, due metri e quattro
centimetri di altezza, oltre centoventi chili di peso. A
inizio estate lui e la moglie Niki, hanno avuto la prima figlia, Sienna, e così tra una sfida di Super Rugby
e un match del Rugby Championship gli è toccato
imparare anche a cambiare qualche pannolino, cosa
che probabilmente gli riesce di fare con la giusta delicatezza: tra le seconde linee di livello internazionale,
Brodie è senz’altro il giocatore con le mani più delica-
te: nell’ultimo Rugby Championship ha completato
la bellezza di 31 passaggi, nessun altro, nel suo ruolo
ne ha fatti più di 16.
Se la cava peggio, invece, nelle relazioni pubbliche: a
giugno del 2014, alla vigilia del tour dell’Inghilterra in
Nuova Zelanda non gli riuscì di citare il nome di uno
solo dei suoi prossimi avversari: “Michael Lawes…”,
farfugliò dopo qualche insistenza dei suoi interlocutori. Il cognome era giusto, ma non il nome di battesimo (Courtney, ndr).
Nel 2011, ventenne, guardò la finale (fra Nuova Zelanda e Francia) con gli amici in una caserma dei vigili del fuoco, dove era stato allestito un maxi schermo per fare il tifo per gli All Blacks. Sei mesi dopo era
titolare in campo contro l’Irlanda.
Giocatore dell’anno 2014
Nel 2014 fu eletto dall’International Board, ora World
Rugby, miglior giocatore dell’anno, prima seconda
linea nella storia del mondo ovale a vincere il premio. I giocatori come lui, normalmente, lavorano in
“sala macchine”, difficilmente catturano l’occhio dei
critici e degli spettatori. Ma Brodie è diverso: ha una
tecnica sopraffina e con la palla in mano non va in
confusione.
Brodie Retallick, contro il
Sudafrica, si fa largo fra
Mtawarira e Pollard nella
semifinale della Coppa
del Mondo del 2015,
a Twickenham.
33
“L’Argentina sta provando a giocare come se le sue
seconde linee fossero Retallick o Whitelock, ma non
lo sono e da un pessimo passaggio di Petti è nata
la meta di Kerevi”, ha commentato Stuart Barnes, a
inizio ottobre davanti all’ennesimo errore dei Pumas
contro l’Australia.
La notizia del premio di miglior giocatore del 2014
raggiunse Retallick sul prato del Millennium Stadium, al termine di Galles v All Blacks. “Beh, peccato
che non ci si possa bere dentro - furono le sue prime
parole -, è solo una targa, ma la esporrò con orgoglio
sul camino a casa”.
Prima di lui il premio era andato al compagno di
squadra Kieran Read, giocatore dell’anno 2013, l’anno
successivo, 2015, è toccato a Dan Carter: gli All Blacks
hanno ottenuto otto volte il riconoscimento negli
ultimi undici anni. Richie Mc Caw e Dan Carter sono
stati premiati tre volte ciascuno.
La superstizione
L’unica sconfitta di Retallick contro una squadra europea è quella del 2012 a Twickenham contro l’Inghilterra, 21-38.
“Al ritorno negli spogliatoi – racconta -, mi accorsi di
aver messo la calza destra sul piede sinistro e viceversa. Quelle che usiamo noi hanno una L (left) e una
R (right) stampate nel tessuto. Non fu certo quella la
ragione della sconfitta, ma da allora sto particolarmente attento indossare le calze nel modo giusto”.
Non si ma mai…
Contro il Galles a Auckland
lo scorso 11 giugno, il primo test
dei campioni del mondo nella
nuova stagione agonistica.
34
speciale
Il segreto
“Il mio segreto è semplice - ha detto -: divertirmi.
Nessuno mi ha ordinato di fare il giocatore di rugby,
pertanto qual è il senso di giocare se non mi diverto?”
La scheda
Brodie Allan Retallick
Data di nascita: 31 maggio 1991
Luogo di nascita: Rangiroa
Club: Waikato Chiefs
Caps: 57, di cui 46 da titolare (2 mete)
Tasso di successi: 935 (53 vittorie, 2 pareggi, 2 sconfitte)
Altezza: 2,04
Peso: 121 kg
Hanno detto
Sono sempre stato piuttosto alto, quando sono
andato alle scuole superiori ero il più alto di tutti, il
primo giorno tutti mi guardavano e nei loro occhi
leggevo lo stupore: “cavolo hai visto le dimensioni
di quel ragazzo…!” (Brodie Retallick)
A scuola cercava di stare sempre seduto, per evitare
di far notare la sua statura e quando camminava per
strada teneva la testa bassa per non svettare troppo
sopra agli altri (Gli amici)
Ci siamo sempre stupiti del suo motore. Non smette
mai di correre.(Steve Hansen, coach della Nuova Zelanda)
46
38
Sono i placcaggi che ha completato nell’ultimo
Rugby Championship, in cui ha giocato tutte e sei
le partite
Le sue azioni individuali, con un guadagno medio 3,5
metri a carica. 31 i suoi passaggi nelle sei partite del
torneo, un assist.
1110
E’ il numero progressivo di Brodie Retallick nella lista
di coloro che hanno vestito la maglia degli All Blacks.
Julian Savea, che ha esordito nella stessa partita, è il
numero 1111, Aaron Smith il 1112. Il numero 1 è James
Allan (per i quindici della prima partita, nel 1884, vale
l’ordine alfabetico)
35
Affari di
Gli ultimi a dividere l’emozione di vestire, nella stessa
partita, la maglia degli All Blacks, erano stati Owen e
Ben Franks, piloni neozelandesi, che Graham Henry
schierò titolari contro il Galles a Dunedin nel giugno
del 2010. Dopo quella partita, Ben ha collezionato altre 45 presenze con la Nuova Zelanda e Owen ne ha
aggiunte più di settanta, ma ai due non è più capitato di scendere in campo insieme dal primo minuto.
Adesso sono i Savea, Julian e Ardie e ribadire il fatto
che in Nuova Zelanda il rugby è spesso un affare di
famiglia. I due fratelli hanno giocato titolari, lo scorso 17 settembre, a Christchurch nella prima delle due
partite del Rugby Championship disputate quest’anno dagli All Blacks contro il Sudafrica.
Julian è il fratello più grande, classe 1990, e con la
maglia della Nazionale ha esordito nel 2012, a ventun
anni. Ardie, nato il 14 ottobre del 1993, il suo esordio
in maglia nera lo ha fatto, dalla panchina, a giugno di
quest’anno contro il Galles.
Ardie nel 2013 era stato portato dagli All Blacks in
Europa come “apprendista non giocatore”, al seguito
della squadra che aveva visitato l’Inghilterra, la Francia e l’Irlanda.
Julian, al debutto contro l’Irlanda, nel 2012, subito
schierato titolare, realizzò tre mete in rapida sequenza. Il fratello più piccolo, per togliersi lo sfizio di vedere il proprio nome comparire nel tabellino, ha dovuto
aspettare il secondo cap, di nuovo contro il Galles,
come il primo.
36
famiglia
Messi in campo insieme da titolari i due, contro il
Sudafrica, hanno segnato entrambi: Julian nel primo tempo, Ardie, nella ripresa, i primi fratelli neozelandesi a marcare una meta ciascuno nella stessa
partita. A livello internazionale solo Gavin e Scott
Hastings erano riusciti nella stessa impresa, nel 1990,
con la maglia della Scozia.
Mentre Julian deve trovare consistenza e continuità
ad alto livello, di Ardie il coach Steve Hansen dice che
deve aggiungere alle sue doti ancora un po’ di peso
(102 kg): gli servono altri quattro chili, è l’analisi, soprattutto per reggere meglio gli impatti in difesa.
In Nuova Zelanda, Julian è soprannominato “The
speciale
Bus”, pertanto Ardie si è dovuto accontentare del
“nickname” di “Mini Van”, oltre a quello di “Ardz”.
“Julian a scuola doveva giocare con quelli di tre classi
più grandi - racconta la mamma Lina -, era talmente
alto e grosso che gli altri genitori si lamentavano. Travolgeva tutti. Dovevo portarmi dietro il certificato di
nascita perché non mi credevano quando dicevo la
sua età. La mia preoccupazione invece era che non
gli venisse un attacco di asma, ogni tanto ne aveva
uno ed era importante che avesse sempre a portata
di mano uno spray, in caso di necessità”.
A sinistra Julian Savea, sotto,
Ardie placcato da Faf de Klerk
in un match contro il Sudafrica.
Julian e Ardie Savea: dal Moon Walk
alla maglia degli Al Blacks.
37
“A casa giocavamo sempre insieme, in giardino - raccontano -. E quando non si poteva più giocare all’aperto continuavamo dentro, sfidandoci in ginocchio”.
“Era un gioco che la maggior parte delle volte finiva
in lacrime - ricorda Julian -, perché Ardie era particolarmente piagnucoloso, frignava in continuazione.
Però ho sempre saputo che sarebbe diventato un
grande giocatore”.
“Mi ricordo l’agitazione all’inizio quando mi chiedevano ‘sei il fratello di Julian?’ - dice il più giovane dei
Savea -, e io speravo che in partita non facesse brutta
figura sennò gli amici mi avrebbero tormentato per
chissà quanti giorni”.
“Ardie da bambino il venerdì sera andava a letto con
la maglia e i calzoncini per paura di non essere pronto per la partita del giorno dopo e se il match per
caso veniva cancellato piangeva per tutto il giorno”,
rivela il padre, Masina Savea.
All’inizio, Ardie aveva optato per il Seven, ingolosito dell’idea di andare alle Olimpiadi. All’inizio di
quest’anno però il giocatore ha deciso di dedicarsi al
XV, con gli Hurricanes, una scelta che a un certo punto aveva infastidito la federazione neozelandese che
lo avevo inserito nella squadra olimpica, ma che alla
lunga si è rivelata un successo sportivo e personale.
Julian e Ardie sono due ballerini provetti: “io ero molto meglio di lui - sostiene Ardie rivolto al fratello -, ma
gli è andata bene perché crescendo grande e grosso
sono diventato meno sciolto nei movimenti, però era
davvero bravo”.
“Mi piaceva imitare Michael Jackson, il Moon Walk…”,
dice Julian. Sul campo, lui e suo fratello sembrano
marziani. Altro che la luna. (glb)
Coppie di fratelli che hanno
giocato insieme negli All Blacks
(con il numero di partite che li ha visti in campo
uno al fianco dell’altro)
Savea, Julian e Ardie (8 Test, 2016)
Franks, Owen e Ben - (33, 2010-15)
Brooke, Zinzan e Robin (39, 1992-97)
Bachop, Graeme E Stephen (4, 1994)
Whetton, Alan E Gary (34, 1984-91)
Meads, Colin E Stan (14, 1961-66)
Clarke, Don e Ian (18, 1956-63)
Brownlie, Cyril e Maurice (3, 1924-25)
Nicholls, Harry ‘Ginger’ e Mark (1, 1921)
Purdue, Charles e Edward ‘Pat’ (1, 1905)
38
speciale
45
8
48
Le mete messe a segno da Julian Savea in 49 partite
con la maglia degli All Blacks. Due quelle realizzate
contro l’Italia, a Roma nel 2012.
Al World Rugby U20 Championship del 2010, disputato in Argentina, Julian Savea fu il miglior marcatore
di mete, con 8. Il risultato gli valse la fama di “nuovo
Jonah Lomu”
La partite di Super Rugby disputate da Ardie, tutte
con la maglia degli Hurricanes, 10 le mete realizzate. Il suo debutto nel torneo è avvenuto ad aprile del
2013, contro i Warathas
18
Gli anni di Ardie quando indossò per la prima volta la
maglia di Wellington contro Manawatu, a Palmerston
North, nel 2012
39
LA STORIA SIAMO NOI
Dave Gallaher
il volontario
di Giorgio Cimbrico
Di quella partita, di quel giorno (16 dicembre 1905: a Cardiff pioggia, freddo e fango), è agevole ricordare la meta che non fu meta
di Bob Deans: per l’arbitro Dallas, scozzese, buono fu il placcaggio
di Teddy Morgan, non la meta: per lui mancavano 15 centimetri.
Era l’ultimo match dei 35 giocati dai primi All Blacks che quel nome
guadagnarono sin dalle prime esibizioni: perché erano tutti Neri o
perché erano così veloci che parevano tutti Backs? Il capitano era
David Gallaher, aveva i baffi, era un uomo massiccio, 1,83 per 84
chili, una costante in questi omaccioni che venivano da un lontano
che sembra siderale (anche Deans, destinato a scomparire giovanissimo, era ben piantato: 1,86 per 80 abbondanti) e che nel 1897,
nel giorno giubilare dedicato a Vittoria avevano destato meraviglia: gli australiani sono tutti vicini ai sei piedi, si meravigliò il cronista del Mail assistendo alla sfilata che poneva carabinieri del Natal
accanto a poderosi Ashanti, agili Gurkha a poliziotti canadesi a cavallo in un’atmosfera imperiale che trasformava Londra in novella
Roma. Proprio in forza di questa brotherhood, di questa fratellanza
ben rappresentata in una stampa che finì su più di un caminetto
tardo vittoriano, così come era capitato con la resistenza di Chard
e Bromhead a Rorke Drift o con il sacrificio di Gordon a Khartoum,
Gallaher aveva seguito il richiamo del sangue ed era andato in Sudafrica, caporale dei fucilieri a cavallo, nella lotta senza quartiere
contro i boeri, gli uomini duri dell’aratro, della Bibbia, del fucile.
Possibilmente Mauser.
La formazione degli All Blacks “Originals”
e, a destra, Dave Gallaher.
Nelle pagine seguenti
Dave Gallaher nella divisa da gioco e un
momento dell’incontro con il Middlesex.
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speciale
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LA STORIA SIAMO NOI
Tallonatore e terza
linea ala, irlandese
del Donegal, costa
nordoccidentale,
segni particolari,
bellissimo. W. B.
Yeats era di lì, dove
gli uomini portano
una gonna color
cammello e si
suona la cornamusa
riempiendo la sacca
con l’azione del
gomito e non come
in Scozia, usando la
forza delle guance.
Dave: tallonatore e terza linea
ala, irlandese del Donegal, costa
nordoccidentale, segni particolari, bellissimo. W. B. Yeats era di
lì, dove gli uomini portano una
gonna color cammello e si suona la cornamusa riempiendo la
sacca con l’azione del gomito e
non come in Scozia, usando la
forza delle guance. A dire il vero,
Dave del Donegal non aveva un
ricordo preciso: a cinque anni via,
verso la Nuova Zelanda. In Irlanda la miseria era una nemica che
scacciava, una costante, accompagnata dalla piccola nobiltà
inglese che metteva le unghie
su tutto, a cominciare dai diritti.
Prima Katikati, Bay of Plenty, poi
Auckland. E’ in città che Dave
conosce il rugby: il club è il Ponsonby, illustre. Ha già trent’anni
quando guadagna il primo cap,
ne ha 32 quando gli consegnano i gradi, capitano
della squadra che parte in nave, naviga verso la madre patria, la Gran Bretagna, per dare un seguito al
tour del 1888. Contee, selezioni, test: non si finisce
mai di giocare e la gente accorre: in un rugby chiuso
e molto calciato, quando si era mai visto giocare la
palla come facevano questi coloniali in maglia nera
che prima del calcio d’inizio accennavano qualche
passo di una strana danza?
Le leggende nascono nelle battaglie. Dave il capitano va 26 volte in campo, riposa solo per qualche
Wednesday match. I test li gioca tutti, ne vince tre,
ne perde uno, quello di Cardiff, quello della meta
che diventerà l’estremo legato di Deans: “La meta
era buona”, mormorò prima di andarsene a 24 anni
per le assurde complicazioni di un’appendicite. Nel
frattempo gli Originals erano tornati alla loro vita dimenticando le squallide critiche di coloro che in patria avevano tentato di suscitare scandalo per quello
scellino giornaliero che i giocatori ricevevano: non
era già un onore rappresentare il paese? Uno scellino al giorno è anche il
titolo di una poesia di
Rudyard Kipling: la paga
del soldato vittoriano.
Nel ‘14 Dave con il rugby
ha smesso, ha 41 anni.
Nel mondo lontano, è
scoppiata la guerra, ma
non ha niente a che fare
con quelle scorrerie sotto il sole o nel freddo del
veld, aria aperta, grandi
scenari, franchi tiratori
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speciale
boeri da inseguire in frenetiche galoppate, imboscate, assalti in albe di cristallo. Lassù, in Fiandra,
è il mondo della guerra immobile, del fango, delle
trincee, una valle dei topi dove dei morti non sono
rimaste neanche le ossa, scriverà Ts Eliot. C’è un modulo di arruolamento che la casa degli All Blacks (in
questo roll of honour, Dave è il numero 97) ha conservato: c’è scritto e sottoscritto che David Gallaher
è nato a Ramelton il 31 ottobre 1876, tre anni dopo
di quanto dica l’anagrafe del paese irlandese. Un
falso per trovare un posto nell’Anzac, il corpo d spedizione australiano e neozelandese. Molti finiranno
nell’assurdo carnaio di Gallipoli.
Il sergente Dave, che a Auckland si guadagnava da
vivere come capo del macello è destinato a un altro
mattatoio, quello di Fiandra, sull’incerto e devastato
confine tra Francia e Belgio. Vede arrivare i sudafricani che portano una springbok destinata a morire
di polmonite, è in trincea a Ypres quando i tedeschi
lanciano l’attacco usando il gas che da quel luogo
guadagnerà nome e sinistra fama: la guerra romantica (se mai lo è stata) è finita. Cade il 4 ottobre 1917
durante l’offensiva di Passchendaele, la solita spallata culminata in un massacro: a Loos, durante il primo
autunno di guerra, da una trincea venne alzato un
cartello: morti 60,000, yards guadagnate zero. Sarà
così sino al ‘18. Viene sepolto al Nine Elms Cemetery,
a Poperinge, e sulla sua tomba una mano ignota inciderà una felce.
Non viene dimenticato: già nel 1922 la Auckland
Union istituisce il Gallaher Shield: il rugby delle province è succo e linfa del movimento. Nel 2000 nasce
il Dave Gallaher Trophy, in palio al primo contatto
stagionale tra Francia e Nuova Zelanda. A parte il
pareggio del 2005, tocca sempre agli All Blacks che
nove anni fa, prima di scontrarsi con i Barbarians
francesi a Lens, vanno a rendere omaggio alla tomba
del vecchio capitano. Neppure l’Irlanda ha rimosso
quel figlio che la lasciò bimbo: il Letterkeny Rugby
Football Club gli ha intitolato il piccolo stadio e una
targa a Ramelton segnala il luogo di nascita: nel 2003
gli All Blacks guidati da Tana Umaga lì andarono
quando essa venne scoperta, in quel Donegal dove
tutto aveva avuto inizio.
IL LIBRO DELLA GLORIA
Ci sono momenti che riportano a Moby
Dick, ai marinai che, sulla tolda del Pequod, vogliono l’azzardo e subito se
ne pentono, ambiscono a quel pezzo
d’oro che Achab, il loro comandante,
ha piantato nell’albero maestro per
premiare chi per primo avvisterà la balena bianca e ne sono spaventati, così
come quando appaiono i fuochi di S.
Elmo a benedire e maledire quella loro
avventura: è così quando ti specchi
nell’assoluto. C’è la coralità di Melville e
c’è il flusso della coscienza di Joyce nel
“Libro della gloria” (Einaudi l’Arcipelago, 206 pagine, euro 13,50) di
Lloyd Jones, 54 anni, neozelandese, vincitore del Commonwealth
Writers’ Prize per “Mister Pip”, ora narratore della storia dei primi
All Blacks, quelli del 1905-1906, i (quasi) Invincibili, gli umili divi alle
prese con una popolarità che minaccia di travolgerli, i teorizzatori di un gioco nuovo capaci di metterlo in pratica; i distratti da
quell’alluvione di nuovo e pieni di nostalgia, feriti e indomabili, offesi (ma non umiliati) dalle meschinerie scozzesi, gran fumatori di
pipa (è possibile oggi avere un team manager che tiene la scatola
comune del tabacco e la apre quando si tratta di discutere le tattiche?), mai spaventati senza essere tronfiamente guerrieri, stupiti di
fronte al crescere della loro fama (“Accorrete a vedere i meravigliosi All Blacks”, annuncia uno dei manifesti che tappezzano Taunton)
, desiderosi di tornare a odorare quell’odore di colline, di pecore
che avvertiranno quando la costa delle loro isole sarà un inavvertito filo sull’orizzonte.
Lunghi mesi e duri scontri; vittorie facili (molte) e duri faccia a faccia, sino al gusto della sconfitta assaporato a Cardiff dopo la metanon-meta più famosa della storia; amori passeggeri; ricerche delle
radici scozzesi, irlandesi; menù sontuosi serviti mentre il dolore
dopo la battaglia ancora pulsa; i loro nomi, il loro schieramento:
Glasgow e O’Sullivan piloni schierati come un cuneo, senza tallonatore, McDonald, Cunningham e Seeling in seconda linea, Tyler e
Casey in terza, con Gallaher sospeso tra gli avanti e i centri (la posizione fece discutere…), Roberts mediano, Stead e Hunter cinque
ottavi, Smith, Deans, il povero, pio Deans destinato a scomparire
quasi ragazzo, e Mynott centri, Wallace estremo. In ultima battuta,
e andando per spostamenti interni, veniva spesso schierato Gillett
che amava andare in campo portando un berretto.
Facile sbrigare il Libro come una recerche del tempo perduto,
come una dichiarazione d’amore di una lontana generazione altrettanto perduta. C’è qualcosa di più e chi lo leggerà potrà trovarvi il suo giardino segreto, le commozioni d’obbligo, il rimpianto
di non averli visti, di non aver vissuto un’età dell’oro non ancora
contaminata, già minacciata da chi, su di loro, tentò e riuscì a guadagnare scellini, ghinee, sterline. Loro, scandalosamente, si accontentavano di una parte dell’incasso misurando, partita dopo partita, quante righe concedeva il Times alle loro imprese, in un duello
con la guerra russo-giapponese, con i primi moti in Russia, con il
mondo che li circondava, in un processo di scoperta che coinvolgeva l’impiegato e il maestro d’ascia, il fabbro e lo studente, l’agricoltore e il minatore. I 27 che girarono attorno al mondo e che al
mondo consegnarono uno stile che non era solo di gioco. (G.Cim.)
43
LA STORIA SIAMO NOI
George Nepia
l’invincibile
A quel tempo era necessaria l’amnistia, come se
campare giocando a rugby fosse un delitto, una faccenda abbietta, un sacrilegio, una profanazione. Lo
sport era così, una faccenda governata da quelli che
non avevano mai sudato, mai sentito l’odore della
terra e avevano denaro e tenute di famiglia e privilegi: a Paavo Nurmi non fecero correre la maratona
olimpica di Los Angeles del ‘32 perché nella stagione
indoor Usa aveva rimediato un po’ di soldi, gli servirono per aprire quella cartoleria di Helsinki dove
avrebbe trascorso gli anni solitari e accidiosi della
vecchiaia. E, più vicino a noi nel tempo, anche Allan
Wells fu costretto a riqualificarsi: per passare dalle
piccole, remote sacche di professionisti che campavano con le corse sul ghiaccio, in Scozia, nei periodi
delle feste, al trionfo olimpico sui 100 di Mosca ‘80,
l’ingegnere navale conobbe un percorso di forzata
espiazione.
Dell’amnistia ebbe bisogno George Nepia per il suo
meriggio ovale: negli anni trenta della depressione
(il capitalismo da sempre ha architettato crisi rovinose…) aveva risposto all’invito dello Streatham
and Mitcham, in Inghilterra, e da lì si era trasferito
nell’Halifax, rugby league, e al ritorno in patria, nel
Manukau, e anche lì aveva conquistato la maglia
della Nazionale e lasciato il segno: 16-15 in un memorabile scontro tra Kiwi e Kangaroos che, più che
rimonta, fu un risalire della corrente. Nel ‘47, quando
fu… graziato, George aveva 43 anni o forse ne aveva
39 (l’incerta data di nascita è prerogativa dei grandi:
sufficiente pensare a Napoleone. Nato francese nel
1769 o genovese nel 1768?) e fece ancora in tempo
a giocare contro suo figlio quando nel 1950 l’Olympians affrontò il Poverty Bay firmando un record di
anzianità per partite di livello assoluto: in quel tempo semplice il rugby provinciale era il top. Al di là c’era solo il nero profondo degli All Blacks.
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Invidia per chi monta documentari con immagini, vecchi filmati, voci lontane, un buon mixaggio.
Perché a questo punto un brizzolato George che
abbraccia George junior lascerebbe spazio a un George giovane, dal volto gentile ma anche deciso, al
George che guidava la Haka, che allora si chiamava
Ko Niu Tireni e non ancora Kapa o’ Pango, al George che cantava un inno tribale (aveva una bellissima
voce, raccontano testimoni) e quando lo fece, al St
Helen’s di Swansea, di fronte a una folla strabocchevole (40.000 biglietti venduti, ma alla fine i cancelli si
aprirono e furono in 50.000 ad ammassarsi), i Gallesi
capirono che non sarebbe bastato aver dato fondo
al repertorio (Cwm Rhondda, Sospan Fach, Land of
My Fathers) perché i cavalieri neri erano spietati (393), perché applicavano il senza quartiere, perché erano invincibili. Gli Invincibili. La capacità coinvolgente
di quel canto influenzò James Joyce che, più tardi, in
Finnegan’s Wake ne rievocò la forza ancestrale, quegli echi che si arrampicano dalle radici più profonde.
Chi scrive ha un piccolo tesoro che tiene in uno scrigno ma che è disposto a dividere con gli amici, con i
suoi quattro lettori: un dito piegato in modo innaturale. Era il medio di Frank Leslie Bradshaw, antico vicino di casa, classe 1900, nato a Manchester, ufficiale
della Raf con i nastrini della campagna di Birmania e
d’Italia, in una lontana gioventù che certo era stata
popolata di benevoli professori alla Mr Chips, terza
linea del Lancashire che nel ‘24 affrontò i diavoli che
venivano dall’altra parte del mondo. Nella villetta
sopra la scogliera di Bogliasco, nei suoi lenti e accurati racconti natalizi – racconti d’inverno dickensiani
– Leslie alzava quel dito, lo mostrava come un trofeo, un ricordo indelebile: là sopra era passato George in una delle sue volate da estremo che faceva
decollare l’azione, tranciando il tendine, lasciando il
dito arcuato e rigido, per sempre. Un onore, il più
George Nepia e, nelle pagine
seguenti,“The Invincibles”,
in posa per una foto ufficiale
durante il Tour 1924/1925 in Gran
Bretagna, Francia e Canada. Gli
All Blacks disputarono 32 partite
vincendole tutte.
speciale
Nepia era il figlio di una
Nuova Zelanda lontana,
rustica, in cui una
commistione tra nativi
e pakea apparteneva a
un’età dell’oro della prima
penetrazione bianca,
sostituita gradatamente da
una segregazione che oggi
sarebbe facile etichettare
come soft, ma reale. I nativi
non erano kaffir, non erano
negri, ma erano diversi:
tatuati, dediti a strane danze,
a singolari rituali.
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LA STORIA SIAMO NOI
incancellabile degli autografi. Non vendibile come altri memorabilia di quel tour che vennero battuti anche da Sotheby’s. La campagna a cavallo tra il ‘24 e il ‘25 cancellò la macchia di vent’anni
prima, la meta non meta di Bobby Deans, la sconfitta di Cardiff. Se
quei Blacks erano stati il fulmine, questi furono la faretra di Apollo.
Nepia era il figlio di una Nuova Zelanda lontana, rustica, in cui una
commistione tra nativi e pakea (Jane Campion seppe proporla in
Lezioni di piano) apparteneva a un’età dell’oro della prima penetrazione bianca, sostituita gradatamente da una segregazione che
oggi sarebbe facile etichettare come soft, ma reale. I nativi non
erano kaffir, non erano negri, ma erano diversi: tatuati, dediti a
strane danze, a singolari rituali. E così, quando il Sudafrica rifiutò
la presenza di maori per il Tour All Blacks del ‘28, la Nzru non battè
ciglio e accettò l’imposizione razzista. Ma George fece molto comodo due anni dopo quando fu in campo in tutti e quattro i test
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che le British isles (i Lions) giocarono contro i Blacks. Furono anche
le sue ultime apparizioni in nero: 46 partite e 99 punti. Per quell’epoca di rugby concesso con il gontagocce, numeri quasi moderni.
L’esistenza di George è quella di un ragazzo di campagna: la nascita a Wairoa, nei pressi di Hawke’s Bay, la separazione dei genitori (Peta Piripoi Nepia e Riripeti Pirihi) ben assorbita, la scuola per
nativi a Nuhaka, la prima educazione rugbystica grazie al padre, il
lavoro in un centro per la tosatura delle pecore, la scuola agricola
per maori a Hastings sono il succedersi di capitoli che lo proiettano verso la prima, forte esperienza della sua vita: nel ‘21 gli Springbocks, bontà loro, accettano di affrontare i New Zealand Maoris,
nel match del settembre del ‘21 a Napier. George è tra gli spettatori e, se diamo per buono il 1905 come anno di nascita, ha sedici
anni e fa parte dell’East Coast Districts. L’anno dopo è nell’Hawke’s
Bay, ala e cinque ottavi.
speciale
Nel ‘24 la partita tra Maori del sud e del nord diventa una selezione per la squadra che si accinge a visitare le isole britanniche.
I selezionatori lo scelgono e decidono di piazzarlo a estremo e
suo cugino Walter McGregor gli allunga qualche buon consiglio:
“Calcia nel mucchio, vai a contrastare duro e cerca buone touche”.
Un repertorio semplice, efficace. Quando la nave parte, non è il
solo maori: anche Jimmy Mill e Lui Paewai hanno guadagnato un
posto. Sarà a loro che, durante il lungo viaggio, confiderà i suoi
dubbi: “Sono full back da troppo poco tempo. Chissà cosa combinerò”. Il bilancio è 32 partite giocate in Gran Bretagna, Francia e
Canada, 32 vittorie, 77 punti.
Nel ‘25 il ritorno in patria è un succedersi di celebrazioni, di inviti.
Gioca una partita per l’inaugurazione della chiesa di Tikitiki e la
sera, al ballo, conosce la ragazza che suona il piano: è Huinga Raupani Kohere. Henare, il padre, è un eroe: tenente di un battaglione
del genio, è morto in Francia per le ferite ricevute in battaglia. Si
sposano il 6 maggio 1926 nella chiesa decorata da bassorilievi maori. Hanno una figlia, Kiwi Rauponga, così chiamata in onore del
simbolo nazionale (la felce d’argento), e tre figli. George (che cadrà
nei combattimenti tra truppe del Commonwealth e guerriglieri comunisti in Malaysia, negli anni cinquanta), Te Omanga e Winston,
con cui George vivrà in vecchiaia, nella fattoria di Wairoa, dopo la
morte di Huinga, nel ‘75. George le sopravvisse undici anni, sino al
27 agosto 1986.
Nel ‘90, nei giorni del suo ingresso nella Hall of Fame, la Nuova
Zelanda gli dedicò due francobolli. (G.Cim.)
47
Comunicazione promozionale
L’energia di Edison
L’impegno di Edison nel rugby nasce nel 2007
quando diventa sponsor della Nazionale italiana
nelle partite del Sei Nazioni, il più antico torneo al
mondo. Da allora Edison ha continuato a credere
in questo sport e nei valori altamente educativi
che rappresenta.
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Edison da nove anni sceglie di essere al fianco
degli Azzurri e dà tutta la sua energia alla
Nazionale italiana di Rugby nel Torneo Sei
Nazioni: un campionato ricco di emozioni forti
in cui Edison è main-sponsor della Federazione
Italiana Rugby. Un’avventura che la società
energetica più antica d’Europa ha intrapreso
perché il rugby è una disciplina che più di altre è
sinonimo di “energia” e “senso di appartenenza”.
Il rugby incarna i valori del rispetto e dello
spirito di squadra, della lealtà e del sacrifico:
tutti principi che Edison è orgogliosa di portare
impressi nella sua storia. Ma il rapporto che
lega Edison al rugby si è sviluppato in questi
nove anni ben oltre la sponsorizzazione della
Nazionale, avviata nel 2007. Edison ha visto
nel rugby un ottimo strumento formativo per
prevenire il disagio giovanile e aiutare chi è
venuto meno al rispetto
delle regole. Sono così nate
iniziative come il Progetto
Scuola (in collaborazione
con la Federazione
Italiana Rugby), che ha
portato l’insegnamento
del rugby in 2.300 istituti
in tutta Italia (dalle
elementari alle superiori)
coinvolgendo oltre 600
mila ragazzi e ragazze
sia in attività didattiche
per il rugby
in classe che in allenamenti e
tornei (provinciali, regionali
e nazionali) sul campo da
gioco. Ma anche progetti di
rinserimento sociale nei centri
di detenzione nelle scuole e
nei centri di aggregazione,
realizzati in collaborazione con
la AS Rugby Milano, come “Il
senso di una meta” all’interno
dell’Istituto di Pena Minorile
Beccaria, dove i ragazzi hanno
la possibilità di confrontarsi con i loro coetanei
che fanno parte della squadra Under 20 del Club
milanese; Rugby Barbari Bollate che ha portato
alla formazione di una squadra all’interno del
carcere di Bollate di Milano; e “Soft Rugby”
che insegna questa disciplina nelle scuole
elementari e medie milanesi, oltreché nei luoghi
di aggregazione della città.
A Bagnoli in provincia di Napoli, nell’ex base
Nato di Agnano, Edison ha inaugurato lo
scorso giugno l’Edison Villaggio del Rugby. Uno
spazio polifunzionale di 15.000 metri quadrati
per contribuire al rilancio sportivo di Napoli
e anche a quello sociale dell’area attraverso
la promozione dei valori propri del rugby.
Edison Villaggio del Rugby Napoli è la nuova
casa dell’associazione Old Rugby Napoli, che
raduna ex giocatori e appassionati dei valori
del rugby, e degli Amatori Rugby Napoli, società
sportiva che insegna questo nobile sport anche
nelle scuole elementari, medie e nei Licei di
Bagnoli, Fuorigrotta, Soccavo e Posillipo. Tra
i suoi obiettivi primari: la formazione di un
vivaio giovanile che dia rinnovato slancio alla
tradizione rugbistica napoletana, la promozione
della socialità insita in questo sport e il recupero
e il reinserimento dei giovani a rischio attraverso
percorsi formativi dedicati.
Edison Sport Azzurro
Dal legame di Edison con questo
sport sono nati progetti di
alto valore sociale ma anche
campagne pubblicitarie
estremamente creative e
ironiche che hanno spopolato
sul web. Chi non ricorda
Martin Castrogiovanni che
voleva portare a tutti i costi
il rugby alle Olimpiadi 2012,
intrufolandosi negli sport che
alle Olimpiadi ci andavano
davvero: una serie di divertenti
video virali in cui il “grande
intruso” si cimentava con le
esecuzioni di ginnastica ritmica
con le “Farfalle” della nazionale
oppure in piscina con Felugo o
ancora con la Gioli e le giovani
promesse del volley del Club
Italia - Centro Pavesi di Milano.
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DARE ENERGIA
ALL’ITALIA È
LA NOSTRA META.
Sosteniamo gli Azzurri della Nazionale di Rugby con la stessa energia con cui
da oltre 130 anni offriamo gas, elettricità e servizi energetici alle imprese e
alle famiglie italiane.
E DI SON, S PON SOR U FFICIALE
DE LLA NAZ IONALE ITALIANA DI R UG BY.
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