l`ultima riva di michel houellebecq (2)

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l`ultima riva di michel houellebecq (2)
1 settembre 2016
Frontiera di Pagine
Frontiera di Pagine
magazine on line
www.polimniaprofessioni.com/rivista/
POESIA CONTEMPORANEA
L’ultima riva di Michel
Houellebecq
DI ANDREA GALGANO
Prato, 1 settembre 2016
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1 settembre 2016
Il
Frontiera di Pagine
territorio di Michel Houellbecq (1956) scopre l’intima e sorgiva coltre
della sopravvivenza, dell’urlo lacerato e della sofferenza dispiegata.
La vita è rara. Tutte le poesie1 (2016) edito da Bompiani, che raccoglie l’intero
corpus poetico, staglia e inizia con un “metodo”, già caro a Orazio e Rainer Maria
Rilke, immaginando, come avviene nella prima opera Restare vivi (1991), che
l’esperienza accumulata possa in qualche modo essere utile a un principiante, permettendogli di
trovare la sua strada, mostrandogli gli errori più comuni e l’atteggiamento mentale necessario a
migliorarci. Come i lettori dei romanzi e dei saggi di Houellebecq potranno facilmente immaginare,
nel suo «metodo» c’è ben poco di incoraggiante, e spesso, leggendo queste pagine nitide e
angoscianti, siamo costretti a domandarci se quelle che abbiamo di fronte sono davvero delle
istruzioni poetiche rivolte a un ipotetico novizio, oppure il cupo bilancio di una battaglia personale
contro il mondo e contro la vita, battaglia che ovviamente è persa ancora prima di iniziare 2.
La strada della poesia vive di questo territorio di sofferenza dispiegata, appunto, che
riconosce l’interstizio umbratile del nulla nell’essere, la sua prominenza scura, la
peculiare vibrazione del dolore cieco come un nodo che si estende fino all’assenza
che si cerca per la memoria, «e consapevoli del fatto che ogni passo in direzione della2
verità è anche un ulteriore approfondirsi della distanza tra sé e gli altri, una conferma
della propria solitudine 3».
Restare vivi è condensare la sopravvivenza solitaria della scrittura, per lavorare sul
grido articolato dell’incarico della poesia, e il poeta, come un sacro scarabeo, entra
nel suo teatro debordante e fallimentare, ma è un docile fallimento che non ha paura
della felicità perché non esiste e che cerca, indissolubilmente, l’eternità:
Il mondo è una sofferenza dispiegata. Alla sua origine, c’è un nodo di sofferenza. Ogni esistenza è
un’espansione e uno schiacciamento. Tutte le cose soffrono, finchè esistono. Il nulla vibra di dolore,
fino a giungere all’essere: in un abietto parossismo. Gli esseri si diversificano e diventano più
complessi, senza perdere nulla della loro natura originaria. A partire da un certo livello di coscienza,
si produce l’urlo. Ne deriva la poesia. E anche il linguaggio articolato. (Dapprima, la sofferenza).
Con Il senso della lotta (1996), la percezione del reale di Houellebecq «lo conduce a
una specie di darwinismo di secondo grado, nel quale l’ambiente naturale ha ceduto il
passo a un reticolo di scambi sociali nel quale, paradossalmente, proprio chi è più
consapevole è più incapace di adattamento4»: «Ci sono state notti in cui avevamo
1
HOUELLEBECQ M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.
TREVI E., Consigli disperati per rimanere vivi, in “Corriere della Sera”, 28 aprile 2016.
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perso anche il senso della lotta / tremavamo di paura, soli nella pianura immensa, /
Avevamo male alle braccia / Ci sono state notti incerte e molto dense».
Esiste sempre una sorta di stanca trasparenza pervasa dalla sofferenza, come se ci
fosse un lividore che intesse la superficie invisibile che delimita l’aria, le parti
separabili e separate del corpo, il pomeriggio abbozzato dal dolore, l’attesa
dell’avvenire non ancora venuto:
Fuori fa molto caldo e il cielo è splendido, / La vita fa volteggiare i corpi giovanili / Che la natura
chiama alle feste primaverili / Lei è solo, ossessionato dall’immagine del vuoto, / E sente pesare la
sua carne solitaria / E non crede più alla vita sulla Terra / Il suo cuore stanco palpita con difficoltà /
Per rimandare il sangue alle sue membra troppo pesanti, / Ha dimenticato come si fa l’amore, / La
notte cade su di lei come una condanna a morte (Pomeriggio).
Ma la piaga di Houellebecq ha un contrabbando inquieto, l’incrocio senza amore
corroso, l’immensità della notte che sfiora gli oggetti esitando, mentre a servizio del
sangue si muove l’oscurità. Forse un ricordo di camera di giornate superflue, forse
uno splendore azzurro che chiede dolcezza o fine, che sospende l’ultimo giorno
precoce di un amore intero da vivere: «E per guardarci ore intere; / Tu spogliavi il tuo
corpo davanti al lavabo / Il tuo viso si contraeva ma il tuo corpo restava bello / Mi
dicevi: “Guardami. Sono intera, / Le mie braccia sono unite al mio busto, e la morte /
Non colpirà i miei occhi come quelli di mio fratello, / Mi hai fatto scoprire tu il senso
della preghiera, / Guardami, guarda, Posa i tuoi occhi sul mio corpo”» (Eccezione
Rue d’Avron).
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L’essenza della realtà e la sua similarità con l’essere lottano, impari, con l’alba livida
delle ripetizioni identiche, con il futuro, divenuto anteriore, delle promesse, con la
quotidianità divorata da un senso acre di ansia e precarietà che però cerca di
trascendere nell’infinità preziosa e nel mistero, purtroppo irrisolto.
L’eternità inseguita allora è un urlo, un magma, un tono di attacco «che possa
straziare il silenzio della notte», che possa spogliare l’interludio di un breve silenzio
dalla propria prigione, dalla propria inconsistenza, dal proprio sogno fragile e
dall’ultima angolatura della scala, come la vita che si disegna sulle reti urbane o come
la presenza nuda del mondo:
Muoiono talvolta d’un sol colpo, / Certe sere / C’erano abitudini che facevano la vita ed ecco che
non / c’è più niente / Il cielo che sembrava sopportabile diventa d’un sol colpo / profondamente
nero / Il dolore che sembrava accettabile diventa d’un sol colpo / lancinante / Non ci sono che
oggetti, oggetti fra i quali si è se stessi / immobilizzati nell’attesa, / Cosa fra le cose, / Cosa più
fragile delle cose / Gran povera cosa / Che aspetta sempre l’amore / L’amore, o la metamorfosi.
Ma la rincorsa dell’amore all’amore è un quasi-oblio vinto, un desiderio altro di vita,
la fine prima dell’inizio, la sopravvivenza delle partenze, la divorato silenzio delle
domande inconcluse come chiarore inevaso, il corpo dolente come testimonianza dei
crepuscoli anneriti, la confusione della dolcezza lontana e l’anima che cerca il sole
nel grigiore livido: «La sera si stabilizza e l’acqua è immobile; / Spirito di eternità,
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vieni a posarti sullo stagno. / Non ho più niente da perdere, sono solo e tuttavia / La
fine del giorno mi ferisce di una ferita sottile».
Contiene una strana ferocia La ricerca della felicità. Ferocia che si dipana per tutta la
durata di questo paesaggio interiore, attraverso il margine delle ragnatele urbane, dei
luoghi svuotati di ipermercati e posteggi, dove le relazioni sembrano quasi una sorta
di soglia di passaggio non riconciliata dove le particelle elementari sono lo sfondo di
un’epica lacerata e confusa. Una domanda e una costatazione di amore tremende, una
lontananza esclusa: «Perché non possiamo mai / mai / essere amati?».
È come scendere in un gorgo di catastrofe e caos, dove il remoto smarrimento
dell’uomo, cavia e pedina, cerca la sua tessitura di speranza e sogno, di esistenza e
lucidità di decifrazione.
Non esiste un punto di appoggio, nella notte lucida e attenta, l’orizzonte resta fluido
negli orizzonti sgranati ma resta la dissolvenza del desiderio, stanato dall’oblio,
irraggiungibile: «Mi disprezzavo tanto che volevo morire, / o vivere momenti forti ed
eccezionali; / oggi mi sforzo di non soffrire troppo, / mi avvicino alla fine. Raggiungo
il reale».
È la modulazione del tempo ispessito dal mancato contatto con la realtà interrotto, dal
freddo di ciò che risulta estraneo, dal tempo ontologico in cui ritrovare la gioia, dalla
linea retta delle tracce sicure di ciò che è raro:
I piccoli oggetti puliti / traducono uno stato di non essere. / In cucina, con il cuore stritolato, /
aspetto che tu voglia ricomparire. / Compagna accovacciata nel letto, / più cattiva parte di me stesso
/ passiamo brutte notti, / mi fai paura. Eppure ti amo. / Un sabato pomeriggio, / solo nel rumore del4
boulevard. / Parlo da solo. Che cosa dico? / La vita è rara, la vita è rara.
Scrive Laura Fusco su “L’Indice”:
La realtà è la solita, “gabbia laboratorio”, e l’individuo, un po’ alla Truman Show, molto cavia e
«pedina». Lo sfondo grosso modo quello di Le particelle elementari: metropoli globali, immense
«ragnatele» e soprattutto quei luoghi non luoghi come ipermercati e posteggi, scenari di una
socialità negata, in cui si consuma l'angoscia di riti collettivi svuotati. Insomma Houellebecq, la sua
rivisitazione «epica» del reale, con angeli che volano nella stanza, microbi, metallo, edifici vuoti
che rimandano l'eco dei passi, quella sorta di gigantismo, horror vacui e senso di disperante
catastrofe che è il mondo. Anche se «non abbiate paura, il peggio è passato, siete già morti». Tutto
in modo più “caotico” del solito, come in un “pastiche” postmoderno. O, se si pensa ai suoi ricoveri
in clinica psichiatrica, in certi deliri o negli incubi, in cui è la tessitura da cui non si riesce a uscire
la sostanza e il pauroso del sogno. Houellebecq è lucido e consapevole, «secondo i medici sono il
colpevole»5.
La studiosa, analizzando l’inseguimento di Houellebecq della matrice dettagliata del
reale, continua ancora:
Più che il contenuto del pensiero, scomodo, provocatorio e senza freni, è il flusso la cifra, qui più
che nei romanzi. Anche perché nel libro, diviso in sezioni, come critico, saggista e poeta l'autore
riesce a scavare e tessere associazioni, scarti, accumuli ed escheriane variazioni sul tema, spostando
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FUSCO L., recensione a La ricerca della felicità, in «L’Indice».
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piani e cambiando linguaggi e prospettiva. «Il luogo magico in cui la parola è canto non esiste» –
come la felicità – «ma noi camminiamo verso di esso6.
Il punto iniziale del suo frattale diviene, allora, una meta irriproducibile in questa
vita, come il grido rapido e brevissimo della sofferenza, del dolore, del limite
creaturale del corpo battuto e mescolato alla terra come bestia impura, dell’amore
sospeso e spento, della malattia e della paura della morte: «Fra cinque ore al massimo
il cielo sarà tutto buio; / aspetterò il mattino schiacciando mosche. / Le tenebre
palpitano come piccole bocche; / poi torna il mattino, secco e bianco, senza
speranza».
Il limite di Houellebecq è l’adesione a una territorialità franta, alla parola quasi
bianca degli ospedali, come il gemito della prima sigaretta, come la fame, sempre la
stessa, della fase estrema dell’io che
parla per e a nome dei poeti e dell'umanità, esorta con furia calma, in una sorta di allucinata
ebbrezza, indica una via che è contraddizione, «aderite e tradite subito». L'autore è solo «di fronte
all'ininterrotta presenza di sé»: «nulla interrompe mai il sogno solitario che mi fa da vita». E
ripropone all'infinito i dettagli di quella realtà frattale e matrigna che è il filtro della mente, specchio
che lo chiude in una “non libertà” di sperimentare. Lui capovolge: «il mondo è sofferenza perché
libero7.
Questa deriva di incontri e incroci, ore trascorse, insinuazioni bruciate nel silenzio
delle cose, incrinature silenziose e profonde, latitudini ricercate, chiede il riposo delle
erbe impassibili, del ricordo che nulla cancella, come un tentativo morente di5
resistere, di essere divenire e tempo presente alla ricerca di una felicità pura e di una
via d’uscita dalla paura e dalla mancanza: «Le persone se ne vanno, le persone si
lasciano / vogliono vivere un po’ troppo in fretta / mi sento vecchio, il mio corpo è
pesante / non c’è altro che l’amore»
La Rinascita (1999) che si compie è un azzardo di ciglia. Come una luce liquida che
cola, nonostante il cielo rischiari solo rovine e la pioggia batte forte mentre il sole
attraversa le nuvole: «Adesso il sole attraversa le nuvole, / la sua luce è violenta; / la
sua luce è possente sulle nostre vite schiacciate; / è quasi mezzogiorno e il terrore
s’insedia».
In questa perdita di cocci e partite perse, in questo disordine amaro e fiori sbocciati,
esiste come una brezza inappagata, un limite mortale che interviene nell’universo
duro delle realtà sconnesse e della realtà da riconoscere come la vita: «L’anno della
parola divina / è ancora da reinventare; / sul mio materasso, rumino / realtà
sconnesse».
È un paradiso perduto la rinascita di Houellebecq, giace nel fondo, sembra essere
inseguita nel cuore battuto dei colpi oppressi, nella stanchezza della lotta, in quel che
muore ma forse non si rassegna a farlo nella luce declina (Nizza) o nell’amore che
non basta mai, scavato nella città: «Creatura dalle labbra accoglienti / seduta di
fronte, in metrò, / non essere così indifferente: / di amore non se ne ha mai troppo».
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ID. cit.
ID., cit.
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Nel sesso indocile, nel cielo vuoto, nella stanchezza del corpo, nel mattino dei giorni
che scompare e tutto sembra cancellarsi e coprirsi di sabbia, il tentativo umano è
cercare un contatto con un sapore di vita che non si annulli nella catastrofe e nella
deriva, che entri nelle vene allontanandosi da ogni bestialità e dalla vita senza scopo.
La sopravvivenza è il cuore affranto verso la rinascita scampata dall’universo a
brandelli e sprofondato mentre il corpo freme e desidera carezze. Una mano posata
sul cuore, un soffio che diventerà profumo.
Si avverte sempre una sorta di estranea contemplazione, un interludio nella calma
tremenda dell’azzurro inevitabile della luce uniforme: «nel disgusto, nel tedio /
nell’indifferente natura / metteremo le nostre pelli allo studio, / cercheremo il piacere
puro / le nostre notti saranno interludi / nella calma tremenda dell’azzurro», poi «la
notte ritorna, fine del sole / sulla pineta inevitabile / e i tuoi occhi sono sempre uguali,
/ la giornata e completa e stabile» e «In mezzo a questo panorama / di montagne di
media altezza / riprendo a poco a poco coraggio, / accedo all’apertura del cuore / le
mie mani non sono più impedite, / mi sento pronto per la felicità».
Dopo l’immenso successo di Sottomissione, il romanzo-sintomo e archetipico della
traccia profetica e possibile della Francia e dell’intera Europa, dove, nel 2022, le
elezioni presidenziali vengono vinte da un partito islamico e in cui, come scrive Luigi
Grazioli, la tendenza
a proporre scenari futuri, non sempre cupi o ironici a dire il vero, è una diretta conseguenza
dell’impianto fortemente sociologico della sua visione, oltre che della convinzione, encomiabile,
che un libro o influisce sulla realtà, o non è niente» e in cui le profezie diventano «l’orizzonte6
naturale di queste premesse, la loro logica deriva, prima che un vizio del loro autore, che sarebbe in
fondo innocuo come quello di chi si diletta a far previsioni su questo o quello. E del resto non vale
per se stessa, ma è solo un modo, estremizzato, per leggere il presente, per portarne alla superficie
con maggior efficacia i meccanismi e le deficienze. Se andiamo a cercare negli scrittori previsioni
o, peggio, rassicurazioni, sia pure negative, siamo fritti. Anche quando a pretenderlo è lo scrittore
stesso8,
Configurazioni dell’ultima riva 9, edito da Bompiani, con l’acuta traduzione di Alba
Donati e Fausta Garavini, rappresenta la distintiva e derivata protrusione di uno
sguardo, solo leggermente scostato, dalla drastica apocalisse della grave disperazione
e dove le cose partecipano alla loro aurea manifestazione, vibrano in una prominenza
tracimata e lucente che ama i contraccolpi, le pause impossibili, le esigenze di vita
sofferente contro il fiato del vuoto: «Così, generazioni sofferenti, / Comprese come
pulci d’acqua / Tentano di restare indifferenti / Ai sensori della vita vacua / E tutte
fanno fiasco, senza pianto, / Tutto ricoprirà la notte grama / E la spossatezza
monogama / Di un corpo affondato nel fango».
È un libro in bilico ed appartato che sussurra la distesa grigia di una gioia che rischia
l’invalidamento e la cancellazione ma che fotografa la densità dell’istante spianato 10 e
8
GRAZIOLI L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lerciomisantropo).
9
HOUELLEBECQ M., Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano
2015.
10
MONTEFIORI S., Le mie fotopoesie, in “Corriere della sera – La Lettura”, 12 giugno 2016.
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fuori asse e che segna una precaria solidità: «Se muore il più puro / La gioia si
invalida / Il petto è come svuotato, / E l’occhio conosce bene l’oscuro. / Basta
qualche secondo / Per cancellare un mondo».
Il perimetro di Houellebecq è abitato dall’assenza ciclotimica11 che chiude la vista
delle prossimità («[…] Abitiamo l’assenza. / Poi la vista sparisce / Degli esseri più
prossimi»), fino a non avere fondo, fino a ridursi a una demolizione di calma.
È la lotta continua e consolidata con l’ultimità, il compassionevole oblio che ha
velato il mondo, come «L’elemento bizzarro / Disperso nell’acqua / Risveglia il
ricordo, / Risale al cervello / Come un vino bulgaro» e tutto esita nel vuoto e, come
spiega Fabrizio Sinisi, «Se ciò che domina la vita è un’assenza, se ogni fiducia è
sparita, non è solo un problema ideale o culturale: viene meno la percezione stessa
dell’essere».
L’ossessione che lavora segreta, «lieve come un sorriso lontano», in cui «Lo spazio
fra due pelli / Quando si può accorciare / Apre mondi più belli / D’un grande scoppio
ilàre», risolleva una domanda che è gloria e specimen moriendi di uno scandaglio che
diviene l’annuncio di una manifestazione linguistica, come proclama Celan:
«La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica
per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione certo non sempre sorretta da grande speranza -, che esso possa un qualche giorno e da
qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le
poesie sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta 12».
La singolare domanda di Houellebecq si attesta in questo sottopasso di regni dissolti,
7
dove la notte s’installa indifferente, attraverso l’irreparabilità di ciò che avviene nel
deserto indolente:
Dove ritrovare il gioco innocente? / Dove e come? / Cosa bisogna vivere? / E perché dobbiamo
scrivere / Libri nel deserto indolente? / Sotto la sabbia strisciano serpenti / (Hanno sempre il nord in
testa) / Niente è riparabile dai viventi,. / niente dopo la morte sussiste. / Ogni inverno ha la propria
esigenza / E ogni notte la propria redenzione / E ogni età del mondo, ogni età ha la sua / sofferenza /
S’iscrive nella generazione.
Le sue assenze di durata limitata non consolano bensì occultano, soffocano, persino
astraggono nel loro foglio inquieto e svuotato, finendo per imporre la loro vetrina
solitaria e la loro inquietudine concretata nell’universo lirico, che solo puntualmente
e irrimediabilmente, tenta conciliazioni e si fascia:
Ora soffro tutta la giornata, dolcemente, leggermente, ma con qualche punta orribile che si conficca
nel cuore, imprevedibile e inevitabile, per un istante mi ritorco di sofferenza e poi battendo i denti
ritorno al dolore normale. / La sensazione che mi si strappi un organo se smetto di scrivere.
Meriterei il macello. / Vittoria! Piango come un bambino! Le lacrime scorrono! Scorrono!... / Ho
11
ID., Michel Houellebecq. Il mondo mi sorprende, perciò scrivo poesie: sull’amore, e sulle lavatrici, in “Correiere
della Sera – La Lettura”, 25 ottobre 2015.
12
CELAN P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp.
35-36.
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provato verso le undici qualche minuto d’intesa con la natura. / occhiali neri in un ciuffo d’erba. /
fasciato di bende, davanti a uno yogurt, in una centrale siderurgica.
Scrive Nicola Vacca:
Houellebecq poeta è diverso dall’Houellebecq romanziere. L’abbandono al verso lo rende meno
isterico e inquieto. Qui viene fuori lo scrittore impolitico che si aggira tra le macerie della distesa
grigia della terra e annota sul suo taccuino l’assenza che abita nella tragicità dell’essere. La sua
poesia non rinuncia a un pensare per paradossi, dove una «calma demolita» gioca d’azzardo con un
«cammino senza sapore e senza gioia. Per Houellebecq percepire la realtà significa vivere un
momento forte, essere una definizione perfetta, qualcosa che oltrepassi la morte. Tra le righe dei
suoi versi si può leggere la sfida a viso aperto di un uomo che ha orrore del vuoto che
dilaga. Houllebecq afferma che il mondo lo sorprende ed è per questo che scrive poesie. Per lui la
vita non ha nulla di enigmatico. Nonostante amiamo aggirarci nei paraggi del vuoto, il nostro
disincanto universale lotta quotidianamente con il “naturalismo esistenziale” dell’amore che vive
con tutta la sua fragilità nella gestualità dei corpi che si appartengono e si respingono. Houellebecq
poeta cerca di dare un senso alla condanna. Paradossalmente attraversa un universo lirico in cui per
un istante si intravede un futuro per la speranza ,anche se il nulla propone alla nostra inquietudine
una pace relativa13.
Esiste un punto sincopato ma splendente, dove sembra trasparire una possibilità
impercettibile di riscatto: è l’esperienza amorosa, violenta e definitiva che disincanta
e spezza questo magma spento e subìto, dapprima come esigenza di completezza, poi
come manifestazione e «gioia di ritrovare qualcuno che si è già incontrato, che si è
sempre incontrato, per sempre, in un’infinità d’incarnazioni anteriori. Se non ci si8
crede, è un mistero».
Perderlo significa perdersi, separarsi è annullare la propria smagliatura lucente,
perché tutto ciò che non è affettivo diventa insignificante e allora esso serve «per
legittimare una vita», come sostiene ancora Fabrizio Sinisi, nonostante la sua
affermazione «necessita di una libertà che oggi sembra un peso troppo grave 14».
Il narcisismo macerato e diviso di Houellebecq, nutrito da Baudelaire, Verlaine e
Drieu La Rochelle, come afferma Camillo Langone 15, è pieno di fame, si porge al
respiro vitale, rimanendo nella traccia di un’esistenza possibile, di un colpo di vento
che venga a purificare lo spazio, sebbene conosca ciò che nella vita sempre declina,
quando «tutte le strade portano a stanze chiuse», e quasi finendo per declamare il
bordo infinito dell’essere, tenta una lotta disperata contro l’evidenza di diminuizione:
«Non sapevo di avere nel petto / Questa orrenda ostinazione d’essere / Anche privato
di ogni diletto, / Di ogni piacere, di ogni benessere, / Questa imbecille e sorda forza /
Che vi spinge a proseguire / mentre ogni istante rafforza / L’evidenza di diminuire».
L’esigenza di felicità è un crampo che assomma il bisogno di «avere una fede,
minuscola o sublime, / un insieme di gesti / Come una danza idiota, diciamo la
13
VACCA N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva
(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).
14
SINISI F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre
2015, p.93.
15
LANGONE C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.
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moresca, / una danza modesta / Che si balla senza sforzo, minimo apprendistato /
pochissima riflessione», per raggiungere «la felicità immobile e ciclica della
ripetizione».
È un tempo decostruito e viaggiatore che invoca, a denti serrati, la lucidità di un tratto
condiviso, di un corridoio che si agita e sente pena e tremor, avviluppato nella conca
drammatica dell’umano:
Osservando tutti questi corridori, / fra cui certi social-democratici, / Sentivo pena e tremori: / È nel
soffrire che schiattano. / Esaminando questo danese / Come Bjarne Riis noto al paese, / Non penso
più affatto a me; / Il suo viso torturato diventa plissè / Come un viso d’essere umano / Che trova
salvezza nella pena / Con i testicoli, con le mani, / Scriveva la storia umana / Senza bellezza vera,
senza esultanza, / Con la coscienza di un dovere. / Tutto questo si agitava in me: / La coscienza, la
pietà, la speranza.
Ha scritto Chiara Farangola che la Weltanschaung di Houellebecq si inscrive
nella linea di un pensiero tragico che esprime la crisi profonda nelle relazioni tra gli uomini e il
mondo sociale e cosmico. Il «mondo senza qualità» dell’opera houellebecquiana è un mondo
definitivamente abbandonato da Dio, nel quale Dio non è solamente morto, ma non è nemmeno mai
esistito. L’uomo che Houellebecq descrive è lacerato tra l’aspirazione all’infinito e la realtà della
morte, è l’uomo che avendo elaborato lo spazio della scienza razionale, ha rinunciato al concetto
stesso di Dio e perciò a qualsiasi norma veramente etica. Il problema centrale della coscienza
tragica in Houellebecq diventa allora sapere se in questo spazio razionale sia ancora possibile
reintegrare un’etica, dei valori morali sovraindividuali e, se sarà possibile, pensare di nuovo in
termini di «comunità» e di «universo». Questa tesi si propone proprio di mettere in rilievo9
l’importanza, nella visione del mondo veicolata dai romanzi di Michel Houellebecq, dei ressorts
esistenziale e spirituale, rispetto a quello socio-teorico già analizzato in altri studi. Inoltre, vedremo
come questa metafisica houellebecquiana si nutra nell’intuizione poetica di un immaginario
materiale di acqua e di luce e di come questi momenti intuitivi costituiscano la vera voce
dell’autore, quella più intima e sofferta che si strugge nell’assenza dell’Amore 16.
Il fondo della sua vibrazione è la «souffrance ordinaire», calcata nelle miserie
quotidiane e nella separatezza dalle cose, densa nell’amarume ebbro di solitudini,
come attesa di venti forti e inesorabili, nella vita sbattuta e alienata della mancanza
d’amore, divenuta spietata e piena di «oggetti variabili / Di mediocre interesse,
fuggevoli e instabili, / Una luce smorta scende dal cielo astratto. / È il lato B
dell’esistenza, / Senza piacere e senza vera sofferenza / salvo quelle dovute all’usura,
/ Ogni vita è una sepoltura / Ogni futuro è necrologico / Solo il passato ci strazia, / Il
tempo del sogno e della grazia, / La vita non ha nulla di enigmatico».
La propria derelitta spersonalizzazione si affaccia sul mondo muto, sopravvivendo,
senza conduzione al significato ultimo e profondo che radica l’esistere, si sporge
persino nella provocazione sessuale e ribelle, mercificata e indotta, di uno
struggimento di soglie inavvicinabili che interrompe le frasi di un paradiso perduto e
immane.
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Cfr. FARANGOLA C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.
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È lotta narcisista e laterale, male di vivere che sussume lo scuro profilo della perdita,
dell’abbandono, della dissacrazione di ogni promessa bandita e maledetta che,
attraverso un processo di reificazione, scompone la scena del mondo, disciogliendo i
suoi residui: «le strutture del piacere munite del proprio fusibile / Che è la paura.
Dell’altro. E della sua innocenza. / Il sospetto al di là di un’immobile assenza, / Di
qualche cosa infine che rassomigli a un senso / Oltre le nostre pelli. Fantasma di
trascendenza».
L’apocalisse di Houellebecq rappresenta, dunque, il teatro di un destino scarnificato e
catastrofico che ha dismesso la libertà, rendendosi emergenza sognata e distrutta di
un mistero segreto, come egli stesso proclama in questa contraddittoria confessione a
Stefano Montefiori, dal titolo Contro la responsabilità: «Della libertà l’uomo non ne
può più, troppo faticosa. Ecco perché parlo di sottomissione. […] In fondo la
religione per me non è la fraternità, ma la comunione con una potenza spirituale
realmente esistente e attiva. Una potenza anche fisica. […] Il riconoscimento di una
potenza, voglio dire, tale da rendere superflua l’esistenza stessa di una morale 17».
Tutti i paraggi del vuoto, dissociati dalla vita, attendono una promessa d’amore, come
speranza e desiderio inesorabile e schiuso, profezia tenera malgrado «il limite del mio
reame» che va riempiendo il sollievo di una vita di breve durata e ineluttabile e di un
amore di passaggio, sempre cercato e abolito, come testamento sparito e isolato: «In
fondo l’ho sempre saputo / Avrei aspettato l’amore / E sarebbe arrivato / poco prima
che morissi. / Ho sempre avuto speranza, / Non ho rinunciato / Molto prima della tua
presenza, / Mi eri stata annunciata. / ecco, sarai tu / la mia presenza effettiva / sarò
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nella gioia / della tua pelle non fittizia / così dolce alle carezze, / Così leggera e fine /
Entità non divina, / Animale di tenerezza».
La sua nuda disperazione e il peso di una nullità bruciata, pertanto, entrano nel
bisogno chiuso dei giorni sperduti, nella vecchiaia, nel tremore dell’essere che non
esita a sparire ma che lascia, solo ed esclusivamente, nell’amore e in mezzo al tempo,
«la possibilità di un’isola».
E poi ancora si addentrano nel dono di una vita intera in tutto lo splendore delle
carezze del sole, nel colore di miele di Joséphine, nel cielo in fondo agli occhi come
lacrime che colano, nel risveglio spesso oscurato, assillato dall’eterno («Bisogna
attraversare un universo lirico / Come attraversi un corpo che hai molto amato /
Bisogna risvegliare le potenze oscurate / l’assillo dell’eterno, dubitoso e patetico») e
nello sguardo che scava in fondo al vuoto il tremare di un desiderio confessato e
ultimo, sussurrato quasi con vergogna, come la lettera a Bernard-Henry Lèvy: «Mi
riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere
amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta
dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la
riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che
persiste tuttora18».
17
HOUELLEBECQ M., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”,
17 febbraio 2015.
18
ID. – LÉVY BERNARD H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.
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In questa grazia immobile, «sensibilmente schiacciante, / Che risulta dal passaggio
delle civiltà» e «non ha la morte come corollario», esiste e si percepisce l’unione
paradossale di morte, amore, piacere che destano la consapevolezza della rovina
separata, dell’universo carnale, della scrittura del corpo precario e in cardine
instabile, arreso in una splendente limitatezza, fuso in un’opportunità amorosa che
attraversa lo sfacelo e si rivela come irriducibile e sublime desiderio di eternità, e,
infine, assorbito nella sua interrotta genesi sacrale, come scrivono, in un’interrogativa
finale che ci tocca e ci impasta, Alba Donati e Fausta Garavini, nella nota di copertina
al testo:
Sì, oltre le notti senza cielo, oltre le mattine in cui la speranza esita a raggiungere gli uomini, c’è un
momento di possibile dolcezza, quando le pelli si toccano, si incontrano, in cui il mondo può
addirittura risplendere. Così appena finito di leggere le quasi cento poesie di uno dei più grandi
scrittori francesi “sopravviventi” ci toccherà rimanere indecisi: ci avrà contaminato quel suo senso
di condanna, di maledizione e disincanto, oppure ci avrà fatto sentire tutta l’esitazione, la fragilità e
la bellezza dell’amore, della compassione, dei corpi? 19.
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19
DONATI A. – GARAVINI F., Nota al testo in HOUELLEBECQ M., Configurazioni dell’ultima riva, Bompiani, Milano
2015.
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BIBLIOGRAFIA
HOUELLEBECQ M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.
- Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini,
Bompiani, Milano 2015.
ID. – LÉVY BERNARD H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.
ID., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del
“Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.
CELAN P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe
Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993.
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lercio
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Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.
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VACCA N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva
(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).
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Andrea Galgano 1-09-2016 L’ultima riva di Michel Houellebecq
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