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Giuseppe Santoro L’OSPITE Uscire dal tunnel del Parkinson è possibile Giuseppe Santoro, L’ospite Copyright© 2016 Edizioni del Faro Gruppo Editoriale Tangram Srl Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizionidelfaro.it – [email protected] Prima edizione: dicembre 2016 – Printed in EU ISBN 978-88-6537-527-3 Stampa su carta ecologica proveniente da zone in silvicoltura, totalmente priva di cloro. Non contiene sbiancanti ottici, è acid free con riserva alcalina. La vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile. Bisogna che non solo il medico sia pronto a fare da sé le cose che debbono essere fatte, ma anche il malato, gli astanti, le cose esterne. Ippocrate Ai miei figli, a mia moglie …e anche a me L’OSPITE Uscire dal tunnel del Parkinson è possibile PREMESSA A tutti è capitato di ricevere in casa una visita di un qualcuno/a inatteso e poco gradito. Si entra in un avvicendarsi a catena di sensazioni tumultuose quali disagio, impazienza, frenesia. Si avverte un bisogno impellente di porre fine a tale visita, cercando a denti stretti di non fare trasparire questo disagio all’interlocutore non gradito del momento. Finalmente l’ospite non gradito va via, subentra fisicamente un rilassamento muscolare spontaneo e si viene invasi da una sensazione di benessere che pone termine al disagio. Provate ora a immaginare un ospite non atteso, non voluto, che si intrufola e prende possesso del nostro corpo dominandolo progressivamente sempre più fino a vincerlo definitivamente. A nulla può la propria integrità mentale nel contrastare e contenere questo dominio parassitario e arbitrario del proprio corpo. La mente può solo farci rendere conto di ciò che sta avvenendo e può solo buttarci in un tunnel ove sono di casa disperazio11 ne, sconforto, angoscia e soprattutto voglia di porre fine a tutto con il compimento di gesti estremi. In contrasto, però, la mente può, sotto lo stimolo di input positivi, arrivare a uno stato di accettazione e di convivenza con l’ospite che alberga il proprio corpo. Si arriva a stipulare un rapporto di simbiosi amichevole con l’ospite, inatteso e non cercato. Tutto ciò è accaduto a me. Ebbene si sono albergatore di un ospite-amico che porto dentro di me da circa 10 anni. Voglio condividere, in questo scritto, con chi leggerà l’impatto disastroso che ho avuto con l’arrivo dell’ospite inatteso. Voglio condividere la disperazione, le ansie, le ambasce, i sentimenti contrastanti e le tante lacrime versate in solitudine dentro le mura di una stanza, scaturite dalla consapevolezza di essere schiavo a vita di un ospite inatteso. Voglio condividere la metamorfosi che l’ospite non gradito ha determinato in me non solo nel fisico ma soprattutto nel mio essere uomo pensante e razionale. Voglio condividere l’egoismo che l’ospite mi ha portato come dono della sua presenza e voglio condividere le decisioni e le scelte avventate e frettolose che hanno dato benessere apparente e transitorio solo al mio ego. Voglio condividere la scia di dolore che ho arrecato nei miei cari accecato da miraggi che mai avrei accettato nel mio modus vitae prima dell’avvento dell’ospite. Voglio condividere la certezza che può esserci un giro di boa positivo per rinascere, anche se profondamente feriti, a vita nuova riparando quanto più possibile i danni fatti a sé stessi e agli altri, e fare tesoro del vissuto non 12 conforme ai propri principi morali cercando di vivere al meglio perché la vita è bella. Ebbene vi state chiedendo chi è questo ospite non gradito e di cui sono ormai amico, anche se in una convivenza che non sempre è serena. Il mio amico è il M. di Parkinson giovanile. Del mio connubio con lui discorrerò in questo scritto. Ah! Non ho ancora parlato di me come persona sociale. È necessario farlo per rendere più fluida la comprensione degli eventi che narrerò. Ho 52 anni. Faccio il lavoro che ho sempre desiderato dal quando avevo 5 anni e cioè il medico ma soprattutto il cardiologo. Il mio lavoro per me è una missione “divina” e lo amo come amo aiutare il prossimo, specie se malato, e metto in atto il mio essere medico non solo con l’ausilio di farmaci ma soprattutto cuore. Sì, credo molto nella umanizzazione delle cure e questo per me è un vero cavallo di battaglia. Le mie origini sono di umile (e ne vado fiero) provenienza. Provengo da una famiglia operaia-contadina di un piccolo paese della provincia di Cosenza, Bocchigliero. Mi trovo a Bari, e quindi ormai da 33 anni, pugliese di adozione, per motivi di studi universitari. Ho conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia e la specializzazione in Cardiologia presso l’Università degli studi di Bari. Tre mesi prima di conseguire la specializzazione ebbi la fortuna (in quel periodo c’era il blocco dei concorsi) di essere assunto dalla Casa di Cura Villa Bianca di Bari (all’epoca Gruppo CCR, polo di Sanità Privata più grande d’Italia), clinica prettamente car13 diologica e cardiochirurgia. In questa clinica, ottima palestra di crescita professionale, ho lavorato per 6 anni. Arrivò lo sblocco dei concorsi e fui assunto nella sanità pubblica. La mia attività professionale degli ultimi 15 anni, prevalentemente, è stata quella di lavorare come cardiologo interventista nell’ambito elettrofisiologico. Dico questo, non per pura vanteria, ma perché, per motivi logistici il lavoro in quel contesto, ha probabilmente determinato l’arrivo dell’ospite. Questa attività clinica quotidiana imponeva, in sala di elettrofisiologia, l’utilizzo di un camice piombato (del peso di circa 8 kg) al di sotto del camice sterile come protezione obbligatoria dai raggi X necessari per l’espletamento delle procedure di elettrofisiologia. Immaginate e traete le adeguate conclusioni di quali possano essere le conseguenze fisiche di un operatore che indossa una simile armatura per 4-5 ore al giorno continuatamente. Oltre all’aspetto professionale vorrei illustrare e condividere con chi leggerà chi sono io dentro il mio ego e su quali principi si è fondata e costruita la mia esistenza. Questo aspetto è fondamentale per capire come l’avvento dell’ospite non gradito ha determinato una metamorfosi di me stesso rendendomi irriconoscibile agli occhi di chi mi conosce da anni e dei miei cari. I miei principi esistenziali sono sempre stati di lealtà, di giustizia e di solidarietà. Ho sempre basato la mia vita sul principio di non arrecare sofferenza, sia fisica che morale, e ho sempre creduto nella sacralità della famiglia. Ho sempre anteposto interessi e benessere altrui ai miei. Ho sposa14 to nel 1992 una donna stupenda con la quale ho avuto un fidanzamento di 10 anni e un matrimonio di 22 anni culminato nella separazione, fortemente voluta da me, avvenuta nel periodo, anzi citato, di metamorfosi che la presenza simbiotica con l’ospite ha determinato nel mio essere sia fisico che sentimentale. Dal mio matrimonio sono nati 2 splendidi ragazzi, Ferdinando di anni 19 e Paolorocco di anni 13. I miei figli, insieme a mia moglie, sono le persone che hanno ricevuto una enorme quantità di dolore e sofferenza in seguito a scelte scaturite nella fase iniziale dell’arrivo dell’ospite e il tutto facilitato dal sentirmi frastornato e in balia delle onde per l’arrivo di un qualcosa o qualcuno che è già vincente in partenza. Bene. Fatta questa parentesi professionale e personale, che potrebbe apparire fuori luogo e inopportuna, torniamo a occuparci dell’amico-ospite del suo affacciarsi a me e di come pian piano si è inesorabilmente impossessato del mio corpo e forse un po’ anche della mia anima. 15 L’INIZIO Un giorno qualsiasi, un mese qualsiasi del 2005 D opo aver fatto dei servizi in centro città mi accingo a rientrare casa mia che sta in un quartiere non proprio centrale e a una distanza consistente dal centro. Con borsa personale in spalla mi avvio a piedi verso casa. Ho sempre adorato camminare anche per distanze notevoli e non è mai stato fonte di stanchezza per me. Giunto davanti il cancello di accesso del palazzo di casa mi appresto a estrarre la chiave di casa dalla tasca dei pantaloni, il tutto con la mano dominante e cioè la destra. Mi rendo conto che eseguo tale manovra con una difficoltà che non avevo mai avuto. Avevo la sensazione che l’arto superiore destro era diventato pesante come una trave e non rispondente agli input inviati dal mio cervello. Riesco finalmente a estrarre la chiave dalla tasca e cerco di infilarla nella serratura del cancello. Questa manovra l’ho sempre eseguita con estrema velocità e con un auto17 matismo che va al di là di ogni logica. In quella occasione di automatismi ne erano presenti zero. Anche l’esecuzione di questa seconda manovra per aprire il cancello è avvenuta con una difficoltà mai manifestata in precedenza e tanto da richiedere l’attenzione dei miei occhi e l’ausilio dell’arto contro laterale. Finalmente riesco a raggiungere casa e non attribuisco molto peso all’accaduto. Nei giorni a seguire la mia vita prosegue routinariamente ma forse con un pizzico di consapevolezza di un qualcosa di nuovo dentro di me. Questa consapevolezza è nata nell’attenzione che mi sono trovato a dedicare a cose, anche banali, che mi venivano dette già da prima. Cominciai a prendere consapevolezza che molte persone (amici, colleghi, collaboratori e molti pazienti) mi criticavano per la calligrafia che diventava sempre più piccola e progressivamente più brutta. In effetti ebbi coscienza che l’uso della penna per me era un qualcosa che facevo con meno scioltezza del passato. A questo si aggiunse la percezione di avere un arto superiore destro più pesante dell’altro con dei movimenti sempre più rallentati o eseguiti a scatto. Altro gesto di routinaria esecuzione che mi metteva addosso una ambascia e un’ansia immotivate era quello di abbottonare una camicia. Era una sfida perenne ormai tra le asole e i bottoni. Una guerra aperta che avveniva giornalmente e che mi faceva iniziare la giornata con imprecazioni di sorta a volte anche scurrili. Insomma, cominciai a prendere coscienza di anomalie condizionanti i movimenti del mio corpo e comin18 ciai a pensare razionalmente, anche da medico, che stava succedendo qualcosa. A questo corollario di segni va aggiunto il dolore in regione scapolo-omerale destro. Avevo quindi già dei segni e sintomi che con il passare dei mesi diventavano sempre più importanti e sempre più manifesti. Di mia iniziativa contattai un centro radiologico privato della città e eseguii una RMN della spalla destra. L’esito fu quello di una “infiammazione del tendine del muscolo sovra spinoso che appare assottigliato e con conflittualità”. Mi confezionai autonomamente una spiegazione eziopatogenetica del riscontro della risonanza attribuendo il tutto all’uso quotidiano del camice di piombo indossato durante le procedure effettuate in sala di elettrofisiologia. Il peso gravativo sulle spalle del camice di piombo diventò così la spiegazione logica dei disturbi. Con il referto della risonanza in mano, invogliato da mia sorella che vive a Milano, consultai un collega ortopedico del capoluogo lombardo che in conclusione mi consigliò della fisioterapia. Iniziai a effettuare fisioterapia presso il mio domicilio con la supervisione di una fisioterapista che, oltre a essere molto competente, adeguava le sedute ai miei turni di servizio. L’ottimismo iniziale col passare del tempo, e con la consapevolezza e la percezione di nessun miglioramento dei disturbi, è andato sempre più scemando. Durante le sedute di fisioterapia la brava fisioterapista, dotata anche di una grande umanità, mi parlava ogni giorno di un paziente con SLA 19 che lei seguiva. Questi continui discorsi e la consapevolezza di non avere ottenuto nessun risultato con la fisioterapia accesero nella mia testa un campanello d’allarme e cominciavo a pormi di continuo la domanda: “ma non è che ho qualcosa di neurologico?” Io non sono neurologo ma cominciai a capire che il “sì” era la risposta alla domanda che mi frullava in testa. Appena potevo mi collegavo col PC a internet e divoravo siti neurologici a leggere possibili quadri diagnostici confacenti ai miei disturbi. Nel contempo prorogavo sempre più la decisione che avevo maturato di sentire e farmi vedere da un collega amico se nonché bravissimo neurologo. Questo comportamento era esattamente all’opposto dei consigli e dei suggerimenti che quotidianamente davo, e do tuttora, ai miei pazienti. Ebbene in quella circostanza abbandonai le vesti di medico e indossai quelle del paziente. Cominciai dentro me a pensare come malato. Cominciai a vivere di angosce, di dubbi, di ambasce. Procrastinavo di continuo il contatto e la relativa visita con il mio amico neurologo fino a quando decisi di fare il passo. Spinto forse dalla responsabilità inconscia di padre verso due splendidi ragazzi contattai il mio amico neurologo. A posteriori ho attribuito la decisione di contattare il mio amico neurologo alla spinta e alla voglia matta da parte dell’ospite, che albergava nel mio corpo già da tempo, di mostrarsi e dire “ora ci sono anche io e starò con te 20 fino a che morte non ci separi”. Feci quindi la visita dal mio amico neurologo a cui sono bastati pochi attimi per fare diagnosi; “sindrome extrapiramidale” alias “Parkinson”. Il matrimonio a vita con il mio ospite fu sancito. 21 IL TUNNEL E arrivò la catastrofe. Con lo stesso treno giunsero disperazione, sconforto, sfiducia… Arrivò in definitiva il tunnel. La diagnosi fatta dal mio amico neurologo mi mandò nella disperazione più profonda. Il disagio psicologico che accompagna la comparsa di una malattia, improvvisa e progressiva, rappresenta la rottura di un equilibrio, in grado di produrre cambiamenti nella vita personale, familiare e sociale. Rientrato a casa comunicai il tutto a mia moglie e ai miei figli e sdraiandomi sul letto diedi il nulla osta all’apertura dei dotti lacrimali e iniziò il copioso pianto. Mi ritrovai abbracciato a mia moglie che, piangendo anch’essa, mi dava conforto e sostegno dicendomi: “vedrai andrà tutto per il meglio. Non si muore di Parkinson”. Ma la cosa più bella che mia moglie mi disse, e che ho apprezzato solo a distanza di tempo, quando la forza interiore di me stesso ha ripreso il parziale dominio della mia mente, fu: “Anche se un giorno finirai su una se23 dia rotelle, per me e i ragazzi conterà l’integrità della tua mente e del tuo cuore. Con il tuo cervello potrai essere sempre essere la guida per me e per i ragazzi. Noi saremo le tue gambe e le tue braccia”. Queste bellissime parole sono il frutto del vero amore, puro e disinteressato, di una donna che ha totalmente riservato, e riserva tutt’ora, alla mia persona. Io non merito tanta dedizione di sentimento d’amore visto che, contrariamente a quelli che sono i principi e i valori portanti della mia vita, ho vissuto in modo poco pulito cercando calore fisico nelle braccia di altre donne. Di tutto questo narrerò in seguito. Ritornando al sancimento del connubio forzato e non voluto con l’ospite, immediatamente si materializzò dentro di me la “non accettazione” della diagnosi del mio amico anche se da subito iniziai la terapia da lui prescritta, inconsciamente certo della sua bravura e della sua esattezza della sua diagnosi. Cominciai terapia con un agonista dopaminergico sotto formulazione di cerotto a dosaggio incrementale di settimana in settimana e nel contempo mi attivai per prenotare l’esame “Spet Dat Scan” dei nuclei della base richiestomi dal mio amico neurologo. Una premessa il Parkinson è una patologia del movimento che trova la sua eziopatogenesi in una degenerazione e distruzione delle cellule dei nuclei della base cerebrale. Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa, a evoluzione lenta ma progressiva, che coinvolge, principalmente, alcune funzioni quali il controllo dei movimenti e dell’equilibrio. La malattia fa parte di un 24 11Premessa 17L’inizio 23 Il tunnel 45 Io e la fede 47 Io e l’amore 51 Mia moglie 55 Io padre 59 Gli amici 65 Identikit dell’ospite non gradito 69 Rovescio della medaglia 73 L’uscita dal tunnel e l’inizio di una nuova alba 83 Pensieri e riflessioni conclusive 87Conclusioni