Ottocento_schede opere

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Ottocento_schede opere
OTTOCENTO
SCHEDE OPERE (* immagine nel CD)
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
Aspro combattimento fra antiquari in occasione degli scavi al Colosseo, 1813 (*)
acquaforte acquerellata, mm 253x324; provenienza: acquisto Giulio Landini, 1930
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 426
Iscrizione: “Fierissimo combattimento fra gli antiquari di Roma nell’anno 1813. Dedicato ala Sig.
Barone Vandevivere”.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
L’abate Carlo Fea e gli scavi al Colosseo, 1813
acquaforte, mm 252x306; provenienza: acquisto Maria Luisa Muñoz, 1961
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 15756
Iscrizione: “Iscrizione che serve all'Architetti per fissare l'epoca dei principali Ristauri visibili ne'
sotterranei all'Arena dell'Anfiteatro Flavio. Depositato alla Direz.e Gen.e della Stamperia, e
Libreria”
I due fogli si riferiscono alla vivace controversia sorta intorno all’identificazione delle fabbriche
sotterranee dell’Anfiteatro Flavio venute alla luce durante i lavori diretti tra il 1811 e il 1812 da
Carlo Fea, all’epoca ‘Commissario delle Antichità e degli scavi’, una delle tante iniziative da lui
promosse per restituire leggibilità filologica agli antichi monumenti cittadini. Alle ipotesi
dell’architetto Pietro Bianchi e del professore di archeologia Lorenzo Re, che identificano le
costruzioni ipogee del Colosseo come cavee per le fiere, si oppone l’abate ipotizzando, a torto, che
il livello originario dell’arena fosse più basso e che i muri scoperti negli scavi fossero di epoca più
tarda, scatenando accese discussioni che la caricatura ambienta proprio nel luogo oggetto del
contendere. Fea che, inevitabilmente, esce sconfitto dal diverbio viene rappresentato in uno dei
fogli per ben due volte: la prima mentre, di spalle, contempla l’arena da un livello più basso e, la
seconda, mentre, pensieroso, osserva l’epigrafe indicatagli da Decio Mario Venanzio Basilio
(praefectus urbi che riparò a sue spese il Colosseo danneggiato da un terremoto - nel 484 o 508 testimoniando l’avvenuto restauro attraverso varie iscrizioni), che allude a un’interpretazione del
podio dell’arena più elevato. Alla sinistra del Fea - seduto su una pila di libri - è il nano Baiocco che
lo ammonisce, con l’indice puntato, sbeffeggiandolo per la sua analisi errata. Il Baiocco qui
rappresentato è Giovanni Gigante, noto guardaportone del Caffè Nuovo a Palazzo Ruspoli, che si
occupava di accogliere i numerosi clienti e l’abate, che del locale era uno dei più assidui
frequentatori, veniva – insieme ad altri personaggi pubblici – ripetutamente colpito dai sagaci
commenti del nano, per questo motivo denominato “Tormentator dell’antiquario”.
Bibliografia: Pietrangeli 1971, p. 193, figg. 214-215; D’Amelio in Capitelli, Grandesso, Mazzarelli
2012, pp. 592-593.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
Il Caffè, 1835 circa (*)
inchiostro e acquerello, mm 413x641; provenienza: dono Anna Laetitia Pecci Blunt, 1971
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 4363
Iscrizione: “Il Caffè”
Le figure caricate degli avventori di questo caffè sono distribuite in tutta la scena, il centro è
costituito da un tavolo al quale sono seduti due uomini e una donna insieme ad un cameriere che,
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recando loro un vassoio, rovescia del caffè sul cappello a cilindro di uno dei clienti che gli rivolge
uno sguardo sconcertato e stupito più che seccato. Sulla destra un uomo legge un giornale,
mentre, sulla sinistra sono raffigurati in modo grottesco altri avventori: due fumatori di sigaro, un
consumatore di prelibatezze in sovrappeso e un personaggio il capo del quale è ‘decorato’ da
strane protuberanze. Nella Roma dell’Ottocento vi era la consuetudine di trascorrere nei caffè
gran parte della giornata, i locali ospitavano amici che andavano per giocare a carte, uomini di
affari che e sfaccendati che tra una bibita e un’altra tagliavano i panni addosso a questo e a quello.
“I grandi alberghi e le pensioni, le trattorie e le infinite osterie, impedivano che nei caffè si facesse
altro che conversare e sorbire le poche bibite calde o fredde, mangiar paste e maritozzi, e giocare
alle carte” (De Cesare 1970, p.127). La datazione è stata ipotizzata grazie alla presenza di una
filigrana rintracciata sul foglio che reca l’iscrizione: “FABRIANO 1835”. Questo, come altri fogli
esposti in mostra, appartiene alla raccolta che Anna Laetitia Pecci Blunt aveva messo insieme
durante la sua vita creando una collezione che portava il nome di “Roma sparita” e che poco prima
di morire, nel 1971, aveva deciso di donare al Museo di Roma. Si tratta di un fondo di circa
milleduecento opere tutte vedute e costumi della città e dei suoi dintorni.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
Lotteria in un teatro, 1830 circa (*)
litografia, mm 623x543
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 7784
I romani hanno mostrato da sempre una grande passione per i giochi d’azzardo, consuetudine che
veniva spesso punita anche con pesanti ammende, che tuttavia non scoraggiavano gli abitanti
dello stato pontificio, abituati a recarsi nelle regioni confinanti per puntare clandestinamente
cospicue somme di denaro. Anche il gioco del lotto, liberalizzato suo malgrado da Clemente XII,
forniva ingenti introiti che erano devoluti in beneficenza o destinati a sovvenzionare importanti
opere pubbliche. Era nella Curia Innocenziana, nel palazzo di Montecitorio, sede del tesoriere
generale della Camera Apostolica, che dal balcone un orfano della chiesa di Santa Maria in Aquiro,
bendato e vestito di bianco estraeva i numeri. La passione per il gioco comprendeva anche
intrattenimenti quali l’estrazione dei numeri della tombola che spesso si svolgeva nelle diverse
piazze nelle stagioni in cui ciò era possibile, o lotterie come in questo caso. La litografia, come
sostiene Carlo Pietrangeli, mostra l’estrazione dei numeri di una lotteria ambientata in un teatro.
Sono raffigurati un bambino che estrae i numeri vincenti da una ruota - in questo caso il 60 -,
mentre in primo piano è colta l’esultanza del vincitore che tiene in mano un foglio che reca il
numero fortunato.
L’ambientazione è quella apparentemente anomala di un teatro, ma era abbastanza frequente che
questi luoghi di ritrovo ospitassero manifestazioni diverse quelle tradizionalmente legate al mondo
dello spettacolo. Ancora una volta l’attenzione dello spettatore sembra catturata dalla
raffigurazione del pubblico che assiste ripreso con grande cura dei dettagli piuttosto che
dall’episodio vero e proprio, infatti le fogge degli abiti indossati, le acconciature, i cappelli delle
signore sembrano i veri protagonisti della scena.
Bibliografia: Pietrangeli 1971, p. 241
Carl Jacob Lindström (Linköping, 1801-Napoli, 1846)
Il pittore inglese, 1829 circa
matita e penna, mm 194x272;
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 2103
Iscrizione: “When only I have the lineaments I’m sure of the effect”
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Carl Jacob Lindström (Linköping, 1801-Napoli, 1846)
Il pittore francese, 1829 circa (*)
acquerello, mm 182x237; provenienza: acquisto Basile de Lemmerman, 1960
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 6370
Iscrizione: “Il faut faire la nature en sauvage”
Carl Jacob Lindström (Linköping, 1801-Napoli, 1846)
Il pittore tedesco, 1829 circa (*)
acquerello, mm 182x239; provenienza: acquisto Basile de Lemmerman, 1960
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 6374
Iscrizione: “Ach! welch ein gemütliches blümchen”
Carl Jacob Lindström (Linköping, 1801-Napoli, 1846)
Bartolomeo Pinelli in carrozza, 1829 circa (*)
acquerello, mm 180x241; provenienza: acquisto Basile de Lemmerman, 1960
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 6371
Iscrizione: “Più presto di me non farà nessuno”
Dopo aver concluso gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, Carl Jacob Lindström
giunge in Italia nella metà degli anni Venti, in compagnia dell’amico e collega Alexander
Malmquist. Durante la sua lunga permanenza nel nostro paese prima a Roma e, dal 1830, a Napoli
l’artista realizza una vastissima produzione di acquerelli e disegni, tra i quali spiccano quelli a
carattere caricaturale, di ispirazione pinelliana, che incontrano un notevole successo di pubblico.
In questi fogli, preparatorii per le relative litografie appartenenti alla fortunata serie intitolata I
Stranieri in Italia di Lindström, stampata e distribuita nella città partenopea nel 1830, l’artista
deride sempre in modo garbato alcuni tratti caratteristici dei pittori inglese, francese e tedesco. Il
primo è equipaggiato di tutto punto con una raffinata attrezzatura ottica costituita da compassi,
telescopio, camera lucida, camera oscura, che gli permetteranno di ritrarre il paesaggio con
verosimiglianza prospettica; il secondo, sfidando un fragoroso temporale che si sta abbattendo
sulla campagna circostante, si lega a un albero pur di ritrarre l’aspetto ‘sublime’ della natura; del
terzo viene, infine, evidenziata l’estrema concentrazione nel dipingere un piccolo fiore, ignorando
il suggestivo paesaggio.
Nel quarto acquerello, dedicato al pittore italiano, il personaggio rappresentato altri non è che
Bartolomeo Pinelli, ritratto a bordo di una ‘botte’, con il fedele e onnipresente mastino, intento a
disegnare sull’album. Dietro di lui c’è Giovanni Giganti, il famoso nano Baiocco guardaportone del
Caffè Nuovo, con una scorta di fogli. La frase in calce al foglio sembra sia stata pronunciata dallo
stesso Pinelli in presenza di Lindström in riferimento alla propria abilità nell’arte del disegno,
prontamente utilizzata dall’artista svedese per beffarsi in modo bonario del collega.
Bibiografia.: Benedettucci in Charlotte Bonaparte 2010, pp. 112, 134; D’Amelio in Capitelli,
Grandesso, Mazzarelli 2012, pp. 599-600.
Dietrich Wilhelm Lindau (Dresda, 1799-Roma, 1862)
I tre Bajocchi, 1833 (*)
acquaforte, mm 217x335; provenienza: acquisto Basile de Lemmerman, 1960
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 6386
Iscrizione: “I tre Bajocchi. D. Lindau fecit. Romae 1833”
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Giovanni Giganti (1792-1834), popolare personaggio romano sempre seguito e assistito dalla
madre Bibiana che ricambiava con profondo attaccamento, aveva la funzione di accogliere gli
avventori del Caffè Nuovo a palazzo Ruspoli su via del Corso. Come il suo predecessore Francesco
Ravai (1723-1793), mendicante cencioso dalla folta barba, poiché era nano venne soprannominato
Bajocco – dalla monetina di rame dello Stato pontificio che valeva cinque quattrini e costituiva la
centesima parte dello scudo d’argento – che, con grande abilità, poggiava sulla fronte facendolo
saltare con uno scatto per poi riprenderlo velocemente con la bocca. Giganti sostava all’ingresso
del Caffè pulito pettinato e ben vestito, con un soprabito dall’enorme bavero regalatogli da un
ricco cliente, come appare nel disegno di Giovanni Vidoni che lo ritrae – similmente all’acquaforte
di Gagneraux con Ravai – vicino a una grande sedia di legno, ovviamente molto più grande di lui,
sulla quale si intravedono delle piccole monete. Nell’incisione di Lindau – frontespizio del rarissimo
opuscolo stampato nel 1835 e attribuito al marchese Luigi Biondi, dal titolo Genealogia, e gesta di
Giovanni Giganti conosciuto in Roma sotto il nome di Bajocco – il nanetto accende il sigaro a un
militare con un tizzone, stretto tra le molle, mentre nei piccoli tondi ricompare due volte, l’una
mentre accetta una presa di tabacco e l’altra raffigurato sulle spalle della madre con la quale, alla
luce di una lanterna che lui stesso tiene in mano, attraversa di notte le strade di Roma.
Nel terzo e ultimo foglio lo troviamo in compagnia di due persone una delle quali, seduta, lo sta
scrutando con curiosità attraverso una piccola lente.
Per la sua fama Giganti viene ricordato anche da Giuseppe Gioachino Belli nel sonetto intitolato
L’anima der curzoletto apostolico, del 15 gennaio 1835, con il quale innesca una vera e propria
reazione a catena di altri componimenti dedicati al personaggio.
Er guarda-paradiso, ggiorni addietro
pregava Iddio pe uprí li catenacci
a Ssu’ Eccellenza er cavajjer Mengacci
che strijjò in vita sua piú d’un polletro.
Dio s’allissciava intanto li mostacci,
e ppoi disse co un ghiggno tetro tetro:
«Voi ci date in cotèdine, sor Pietro,
e cci avete pijjati pe ccazzacci.
Cqua nnun è er reggno de voi Santi Padri,
dove la frusta, er pettine e lo stocco
fanno sorte e ttrionfeno li ladri.
E ssi vvoi nun zapete er vostr’uffizio,
le vostre chiave le darò a Bbajocco
e appellateve ar giorno der giudizzio».
Giuseppe Giochino Belli, 15 gennaio 1835
Alla onorata memoria di Giovanni, detto Baiocco
Dal seme de’ giganti io nacqui nano,
e mi dier di Baiocco il soprannome.
Alto fui quattro palmi, appunto come
la mezza-canna al nostro uso romano.
Non ebbe il torso mio nulla di strano,
ma le gambe fur corte e fatte a crome:
grosso il capo, il pel nero, ampie le chiome,
schiacciato il naso, e il piè bello e la mano.
Fui del nuovo caffè guardia e decoro,
di chiunque apparia pronto a’ servigi,
buono, saggio, e, a dir vero, un giovin d’oro.
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Quanti venian da Londra e da Parigi
mi davan doni, e dir solean fra loro:
«Questo baiocco val più d’un luigi».
Sonetto attribuito al marchese Luigi Biondi
Bibliografia: Giuseppe Gioachino Belli 1963, p. 107; Michel 1987, pp. 92-96; Jannattoni 1992, pp.
385-386, Michel 1996, pp. 617-622.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
L’entrata di Carnevale,1820-1830 (*)
inchiostro e acquerello, mm 292x477; provenienza: dono Anna Laetitia Pecci Blunt, 1971
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 1878
Iscrizione: “L’entrata di Carnevale”
Una grassoccia allegoria del Carnevale troneggia al centro della scena mentre fa il suo ingresso su
un carro circondato da varie maschere tra cui si riconoscono Arlecchino e Pulcinella. In primo
piano compaiono tre maiali, mentre teste di maiali, prosciutti e salsicce decorano il carro. Il
Carnevale a Roma era una festa importantissima, basti ricordare che secondo la definizione di un
viaggiatore straniero a Roma, nella città le tre grandi celebrazioni erano il santo Natale, la santa
Pasqua e il santissimo Carnevale. Tutti gli scrittori di passaggio a Roma - citiamo per tutti Goethe dedicano pagine indimenticabili a questa ricorrenza colpiti da spettacoli quali la corsa dei barberi o
il rito dei moccoletti che si consuma nella sera del Martedì grasso, ovvero, prima che abbia inizio il
primo giorno di Quaresima con i suoi riti di penitenza e di mortificazione. E’ infatti solo nel breve
periodo del Carnevale che la popolazione, approfittando della licenza momentanea da
un’esistenza grama e monotona, può dedicarsi ai festeggiamenti più folli e dare sfogo agli istinti
repressi. “Il Carnevale romano ha un’antica reputazione di brio, di eccentricità, di follia,
giustamente meritata….è sulla pubblica via che esplode la gioia e la gioventù di ogni ceto sociale
prende parte alla festa pubblica” (Kauffman, in FIORANI 1970, p. 288) è questa la caratteristica del
Carnevale romano: nelle strade hanno luogo i festeggiamenti più sfrenati, mentre i balli in
maschera si tengono negli splendidi palazzi della nobiltà e sono limitati alla cerchia
dell’aristocrazia.
Ambito romano della prima metà del secolo XIX
Maestro e scolari, 1820-1830
inchiostro e acquerello, mm 284x397; provenienza: dono Anna Laetitia Pecci Blunt, 1971
Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 1871
Il disegno mostra un maestro che conduce un gruppo di scolari , ognuno dei quali reca un libro sul
quale si legge un soprannome : Checco Rapa, Giggio Pomata, Figlio di Tata, Peppe Cappio, Citriolo,
“nipote di mio zio”; un altro, Toto Carota, regge un abbecedario, mentre lo scolaro che compare
sulla destra appende al codino del maestro un cartello che reca la scritta: “Est Lucanda”. Ad essere
“caricate” spesso nella satira di questi anni sono più le situazioni che i personaggi, laddove la
caricatura non si pone come obiettivo di divertire, ma di far riflettere mediante lo
smascheramento delle contraddizioni della società o dei comportamenti umani (Segni di gloria
2012, p. 8). In questo caso è attaccata l’istruzione nello stato del papa che costituiva un momento
di grande importanza ed era considerata come base di formazione; il settore era particolarmente
curato dal regime pontificio, vi erano molti istituti che avviavano al lavoro manuale, ma l’intento
primario era quello di contribuire all’educazione morale e religiosa degli individui e di inculcare
comportamenti sociali e valori, completando l’opera di assistenza alle classi popolari con la cura
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dei bambini tolti dalla strada (Bartoccini 1985, pp. 311-320). Si può ipotizzare che il maestro sia la
caricatura di un importante personaggio legato al mondo dell’istruzione, probabilmente il ministro
preposto a questo settore nell’ambito dello stato pontificio.
Ambito francese della prima metà del secolo XIX
Tre uomini davanti al busto della cosiddetta “Madama Lucrezia”, 1820-1835 (*)
acquerello, mm 319x202; provenienza: acquisto Alessandro Castagnari, 1930
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 2792
Il foglio appartiene a una serie acquistata dal Museo di Roma, nel 1930 per lire 850, da Alessandro
Castagnari, proprietario di una Libreria antiquaria in via del Babuino, che li propone come “Tredici
disegni acquarelli a colore di anonimo francese rappresentanti caricature di personaggi della
società romana del sec. XIX”. Questi ritratti vengono acquisiti dal neo-nato museo con l’intento di
creare una raccolta di opere d’arte di vario genere che, similmente agli analoghi esempi già creati
nelle altre capitali europee, fosse in grado di documentare la secolare storia cittadina dal punto di
vista urbanistico, architettonico e soprattutto sociale. Gli acquerelli, – inediti ed esposti per la
prima volta in questa mostra – che a giudicare dai capi d’abbigliamento potrebbero essere datati
entro il primo trentennio dell’Ottocento, raffigurano un gruppo di personaggi appartenenti alla
società cittadina dell’epoca, alcuni dei quali vagamente identificati grazie a brevi annotazioni a
matita sul verso o sul recto dei fogli, come il soffiatore di vetro, il tipografo o un tale Fioroni.
Mentre il personaggio con favoriti, codino, baffi e pizzetto sembra essere lo stesso che compare in
tre fogli: mentre sosta, nel Cimitero Acattolico, davanti alla lapide di un tale Milord Molas;
abbarbicato alla statua parlante di Madama Lucrezia (truccata e addobbata con fronzoli e nastri, in
occasione del “ballo dei guitti” del I° maggio) in compagnia di due personaggi uno dei quali,
raffigurato di spalle, è il famoso archeologo e collezionista Carlo Fea – che commissionò ad
Annibale Malatesta l’impiombatura degli otto frammenti in cui si era rotta la statua – e, infine,
mentre si libra in volo su un paesaggio marino con un frustino nella mano destra e una fiaccola,
accesa e capovolta, nella sinistra. La glossa manoscritta sul verso di quest’ultimo disegno,
“L’autore che sbarca a Civitavecchia”, ce lo indica come l’artefice delle caricature. Poiché da una
probabile firma trovata su uno dei fogli che, con molta difficoltà a causa di una calligrafia
pressoché illeggibile, potrebbe essere intesa come “Matheus”, non è stato possibile risalire a un
artista compatibile con le opere, è stata avanzata un’ipotesi identificativa con Horace Vernet, sia
per la somiglianza somatica che per un’affinità stilistica con altri suoi schizzi caricaturali poco
conosciuti, conservati presso l’Art Institute di Chicago. Direttore dell’Accademia di Francia dal
1829 al 1834, egli soggiorna a Roma in compagnia dello stravagante padre Carle, anche lui pittore,
famoso sia per le animate scene di vita quotidiana e di strada colte con immediatezza e humor
che per i disegni sui costumi alla moda. E’ possibile che Horace, influenzato sia dalla produzione
paterna che da quella caricaturale del suo maestro François-André Vincent – il cui atelier
frequenta con Géricault – decida di utilizzare, per una produzione assolutamente privata, i toni
ironici peculiari dello spirito francese a raffigurare con estrema cura quei personaggi che ebbe
modo di conoscere durante il suo soggiorno romano.
Il don Pirlone. Giornale di caricature politiche
A.1, n. 1 (1 set. 1848)-a.1, n.234 (2 lug. 1849). – Roma, Tip. Antonio Natali. - ill.; 32 cm. Quotidiano.
La vignetta della testata del primo numero pubblicato il 1 settembre 1848, un pipistrello in abito
talare con la testa dell’aquila asburgica che regge tra gli artigli la costituzione del 1848, introduce
l’intento ridicolizzante del quotidiano nei confronti dei reazionari che ostacolavano le riforme
concesse da Pio IX. Don Pirlone, maschera toscana che rappresenta il benpensante ipocrita,
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raffigurato nella testata dal n.2 sino alla fine con un mantello gonfiato dal vento potente del
cambiamento, è il primo giornale satirico con caricature che osò attaccare il governo del Papa. Il
fondatore Michelangelo Pinto, patriota romano, si riserva, non solo la revisione dei testi, ma la
possibilità di scegliere le composizioni artistiche de’ disegni , riconoscendo alla vignetta un ruolo
dominante. Gli articoli e i disegni non sono firmati, l’ autore delle tavole più significative è il pittore
friulano Antonio Masutti. Il tono satirico dei testi e delle vignette, che colpisce i retrivi, ma non
risparmia i rivoluzionari irresponsabili, provoca nel dicembre del 1848 una condanna per offese
all’autorità e reintroduce la censura preventiva sui disegni al fine di limitare gli effetti dirompenti
delle caricature. Il quotidiano, che favorì il clima che precedette la Repubblica Romana, sospende
le pubblicazioni con l’entrata dei francesi a Roma.
Bibliografia: Pinto 1851-1852; Spada 1868-1869; Majolo Molinari 1963; La satira restaurata 2005.
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