La mediazione scolastica - Centro psicopedagogico per la pace e la
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La mediazione scolastica - Centro psicopedagogico per la pace e la
DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA OPERATORE AMICO O MEDIAZIONE TRA PARI? Intervista a Ersilia Menesini a cura di Elena Buccoliero Ersilia Menesini, docente di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni citiamo Bullismo che fare? (2000) e la collaborazione ai volumi Il bullismo in Italia e Il gioco crudele curati entrambi da Ada Fonzi, rispettivamente nel 1997 e 1999. L’ultimo testo di cui è curatrice, Bullismo: le azioni efficaci della scuola. Percorsi italiani alla prevenzione e all’intervento (Ed. Ericksson, 2003) ritorna sulle caratteristiche essenziali del bullismo. Q uali sono le premesse del supporto tra pari? Questo tipo di intervento, che tende a far riflettere i ragazzi sul significato di alcuni comportamenti, sul limite entro cui un modo di relazionarsi agli altri può essere considerato accettabile e rispettoso del compagno, mira a prevenire una cultura che legittima e sostiene le prepotenze. Rispetto al bullismo, dove la prevaricazione è un modello di relazione diffuso e capillare, questa diventa una strategia naturale per affermarsi, entra nella cultura e nei valori del gruppo. Se il bullo è ganzo, molti compagni tenteranno di emularlo. Questa è anche una indicazione di lavoro per gli insegnanti affinché lavorino sulla prevenzione, senza aspettare che compaiano nelle loro 12 classi situazioni di disagio eclatante… Sì, io credo che molto lavoro antibullismo nella scuola potrebbe essere ricondotto alla prevenzione primaria, ad affrontare e gestire i conflitti che si manifestano in classe, ad un’educazione di tipo prosociale ai valori della tolleranza, del rispetto, dell’aiuto reciproco. Questa è un po’ l’ottica con cui la scuola dovrebbe guardare il problema. Una educazione che possa instillare nei ragazzi comportamenti che rappresentano una difesa, un antidoto naturale rispetto a una cultura della prevaricazione. Il problema grosso che molti insegnanti pongono è la difficoltà di proporre un certo tipo di valori quando la società nel suo insieme, i media stessi propongono modelli opposti, che valorizzano la persona vincente in tutte le circostanze, il farsi valere anche a discapito degli altri e con mezzi non sempre leciti. Certo, il problema è grosso. Potremmo pensare, forse ingenuamente?, che quello che i ragazzi possono sperimentare sulla loro pelle abbia un impatto in qualche modo maggiore rispetto ai modelli imposti dalla comunicazione mediatica, e comunque in modo meno personale e diretto. Possiamo dire almeno questo: sicuramente vivere modelli che si pongono in alternativa rispetto a quelli della cultura imperante permette ai ragazzi di scegliere con più cognizione di causa, di essere maggiormente consapevoli rispetto agli effetti dei loro comportamenti, alle strategie che utilizzano, rispetto anche ai benefici che possono trarre, perché - non dimentichiamolo - possono esserci forti benefici anche grazie ad un comportamento collaborativo, prosociale, disponibile verso gli altri. Benefici che non riguardano solo chi riceve aiuto ma anche chi lo dà. Forse a livello educativo vale la pena dare ai ragazzi la possibilità di sperimentare situazioni in cui una persona ha valore e conta all’interno della classe perché merita fiducia, perché sa mettersi a disposizione degli altri. DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA L’operatore amico Q uesto introduce il modello dell’operatore amico? Sì, è una forma di aiuto tra pari che propone un modello relazionale opposto rispetto alla prevaricazione. L’operatore amico è un ragazzo della classe che è capace, per un certo periodo, di essere disponibile, di aiutare, di mettersi al servizio degli altri, e per questo viene riconosciuto come persona importante, che ha un ruolo significativo e riconosciuto da tutti. È uno strumento per certi versi molto antico, soprattutto nella scuola elementare. Forse da sempre gli insegnanti chiedono a chi ha una competenza di un certo tipo di sostenere un compagno più debole, fa parte del crescere insieme nella stessa classe. Difatti questi modelli si basano sul comportamento naturale dei bambini e dei ragazzi che non sono inclini solo verso comportamenti negativi ma agiscono anche comportamenti di aiuto e di prosocialità. In questo senso l’aiuto tra pari si innesta su questa naturale base del comportamento umano, che è non solo di tipo individualistico ma anche attento e sensibile verso gli altri. I n quale tipo di scuola è stato sperimentato l’operatore amico? Soprattutto nelle scuole dell’obbligo, ed è stato sufficientemente validato nelle medie inferiori dove sembra essere un modello particolarmente congeniale. Alcune esperienze pilota ma molto stimolanti si hanno nel secondo ciclo delle elementari e nelle superiori. Probabilmente però tra i più grandi occorre ritagliare dei ruoli con un’impronta e un taglio più specialistico, perché i ragazzi sono più grandi, hanno maggiore autonomia sia di spostamento che di scelta personale, la dimensione dell’amicizia è meno legata alla classe e comincia ad essere un rapporto privilegiato, intimo, tra persone affini. Tra i più giovani invece questo tipo di intervento funziona abbastanza bene. C ome viene applicato? All’interno di una classe, con una preparazione iniziale rivolta a tutto il gruppo e poi la selezione di alcuni ragazzi che, per un certo periodo di tempo, agiscono come operatori amici. Questi ragazzi vengono scelti dai compagni e, dopo un training formativo di uno o due giorni, assumono l’incarico che mantengono per un periodo variabile, a seconda dell’organizzazione scolastica, da un mese all’intero anno. Si ritiene però che sia importante una turnazione in modo che tutti i ragazzi possano provarsi in questo ruolo, che pone delle richieste di comportamento alte e quindi può portare benefici anche ai ragazzi più problematici, nella misura in cui possono sperimentarlo. Il rischio è altrimenti quello di istituzionalizzare una figura che dovrebbe essere percepita in modo molto spontaneo. Ognuno può imparare ad essere operatore amico, a fare proprio un atteggiamento di ascolto, di aiuto, di sensibilità così come viene richiesto in questo ruolo. L’ aiuto dell’operatore amico viene attivato su richiesta del compagno in difficoltà, dietro suggerimento di un insegnante o di altri studenti…? Le applicazioni sono diverse a seconda delle scuole. Abbiamo visto che nelle medie inferiori c’è un utilizzo abbastanza spontaneo del compagno operatore, soprattutto se il clima all’interno della classe è abbastanza buono e se questo modello è stato acquisito dalla classe durante la fase di preparazione, che può durare anche alcuni mesi, come modo per esemplificare modalità di aiuto e di sostegno reciproco. P erché è così importante il lavoro di preparazione e su che cosa si basa? È una fase delicata per tutto il gruppo in cui si prepara il terreno, altrimenti si corre il rischio che l’intervento venga percepito come una decisione degli adulti che interessa solo pochi eletti e non tutto il gruppo. È invece molto importante che la classe condivida gli obiettivi, i valori, i comportamenti che fondano la figura dell’operatore amico. È naturale che chi viene eletto sarà chiamato ad utilizzare questi comportamenti più degli altri, ma questo tipo di istituto è al servizio di tutti. Concretamente si predispone la classe attraverso giochi, letture, spezzoni di film, approcci di vario tipo che portano a riflettere sul comportamento prepotente e sul comportamento di aiuto. L’operatore amico diventa una figura non gerarchica, che la classe decide di darsi per un certo periodo per stare meglio insieme. A questo punto il ruolo è ben conosciuto, i ragazzi hanno capito cosa vuol dire essere amici, cosa vuol dire sentirsi in difficoltà con i compagni e avere bisogno di essere sostenuti. Generalmente i ragazzi delle medie si rivolgono spontaneamente al compagno per un momento di colloquio, di ascolto. Alle elementari l’utilizzo spontaneo 13 DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA dell’operatore è più difficile. Qui i ragazzi vengono coinvolti su progetti, su attività che siano sempre di aiuto e disponibilità verso gli altri ma in modo più strutturato e guidato dagli adulti. Ad esempio, i bambini incaricati possono organizzare i giochi di animazione per la ricreazione, aiutare un compagno in una materia o partecipare alla preparazione di una festa. Questi compiti vengono sperimentati anche alle medie inferiori, per esempio nei progetti di accoglienza attraverso forme di tutoraggio o nella redazione del giornalino scolastico, ma come abbiamo visto sono integrati con un uso più informale. C 14 he cosa fa l’operatore amico di fronte ad un compagno che ha un problema da porre? La sua funzione, soprattutto quando un compagno chiede aiuto, è di attivare una funzione di ascolto attivo affinché l’altro riesca a mettere a fuoco il problema e a trovare una soluzione. L’operatore non dà soluzioni, lo ripetiamo regolarmente ai ragazzi durante i training, ma guida il compagno in un momento di sfogo che poi diventa di approfondimento rispetto ad un problema. Di per sé mettere a fuoco le difficoltà è un buon inizio per trovare una soluzione conseguente. È una richiesta molto alta, questa che viene posta ai ragazzi-operatori. Richiama immediatamente la funzione del consulente. Difatti questa è la radice. Certo però non pretendiamo che un operatore amico sia uno psicologo o un operatore di sportello, ci si limita a dare ai ragazzi degli strumenti perché possano fare in misura migliore e con più consapevolezza quello che tante volte già fanno: aiutare, ascoltare, dare conforto a chi è in difficoltà per trovare una soluzione ai problemi che incontra. E gli adulti che cosa fanno? Sono fondamentali. L’aiuto tra pari si basa, è vero, sul fatto che i ragazzi siano coinvolti e responsabilizzati, e per primi trovino le strategie per prevenire e ridurre i problemi, ma dietro deve esserci un grosso sostegno degli adulti che introducono i temi, organizzano la macchina organizzativa, la selezione, il training e poi svolgono una supervisione periodica, settimanale o ogni quindici giorni. È molto importante che un insegnante referente o uno psicologo della scuola – dove c’è – mantenga il contatto con gli operatori amici della classe, anche perché spesso questo tipo di intervento fa da filtro rispetto a casi abbastanza gravi. Ragazzi con situazioni personali o familiari difficili, o con problemi di natura clinica, possono presentarsi all’operatore amico; è necessario che sappia a sua volta a chi chiedere aiuto e come indirizzare il compagno in difficoltà verso la forma di sostegno più giusta per lui. Ci sarebbe altrimenti il rischio di deresponsabilizzare un po’ gli adulti. Come dire: lo psicologo forma gli operatori amici, alcuni ragazzi aiutano i compagni, e gli insegnanti… possono fare a meno di mettersi in gioco. Invece non è questo, per niente. No, anzi. Questo tipo di intervento vede la scuola come contesto privilegiato attraverso cui leggere segnali di disagio ma che può anche consentire percorsi di intervento particolarmente significativi. È assolutamente richiesto il coinvolgimento degli insegnanti, come adulti che quotidianamente sono a contatto con la classe e conoscono bene i problemi dei ragazzi. Questo è il grosso limite che si incontra nella scuola, soprattutto nelle superiori dove molti docenti tendono ad interpretare il loro ruolo in modo molto rigido, poco attento agli aspetti relazionali. Poi sarebbe utile raggiungere i genitori, se ci si riesce, ma almeno iniziamo con gli insegnanti. Questo percorso dura alcuni mesi, per una scuola implica un impegno piuttosto corposo. Significa, cioè, riconoscere la funzione educativa come parte integrante del proprio agire, non come aspetto periferico o puramente formale. La disponibilità ad assumersi un ruolo educativo forse è una delle prime cose che bisognerebbe chiedere alle scuole e ai docenti. Certo è un po’ un problema nella situazione attuale, in cui la riforma della scuola tende a dare un’impostazione soprattutto cognitiva alla scuola ed è sempre più difficile trovare spazi sistematici per occuparsi delle relazioni. Questo è vero soprattutto alle superiori, dove è più difficile per i docenti intraprendere dei percorsi perché l’impostazione è molto professionalizzante, i ragazzi stessi sembrano diventare parte del meccanismo produttivo e intanto si omologano i livelli, i ragazzi più problematici stanno tra loro, innescando processi di socializzazione ad alto rischio per tutta la società. Come, del resto, la realtà degli Stati Uniti sta già dimostrando. La mediazione tra pari Q uali esperienze ha raccolto invece nel campo della mediazione tra pari? Ho avuto modo di fare piccole esperienze in questo campo, con DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA ragazzi di III media in cui si era attivato un percorso sulla gestione dei conflitti attraverso la tecnica della mediazione. In quel caso cercavamo una applicazione anche rispetto ai problemi di bullismo. Abbiamo monitorato questa esperienza con una ricerca valutativa che è stata anche oggetto di tesi di laurea e ha messo a confronto l’applicazione della mediazione tra pari, quella dell’operatore amico e l’andamento di un gruppo di controllo. C he cosa emergeva? I casi di mediazione formale sono stati pochi, una decina in tutto l’anno scolastico e hanno affrontato le situazioni più persistenti, in cui i mediatori stessi hanno cominciato a instillare l’idea che la mediazione potesse rappresentare una risorsa. In effetti il ricorso all’aiuto di terzi non è così immediato, almeno nella cultura italiana. Tuttavia, tutti i casi hanno avuto esito positivo, si sono risolti con l’individuazione di un accordo e non hanno avuto strascichi successivi. In sintesi potremmo dire che la mediazione è in sé positiva, ma trova scarsa possibilità di applicazione. L’operatore amico è una presenza diffusa e fa un lavoro di rete, è sempre presente nella classe, interviene su tanti piccoli aspetti legati alle relazioni nel quotidiano, il mediatore invece interviene in una mediazione formale e questo significa una richiesta formalizzata, un appuntamento, una stanza apposita, la tenuta di un registro… Resta particolarmente stimolante invece lavorare sulla cultura della mediazione, verso un modello di “mediazione informale”. C he cosa intende? Nella nostra sperimentazione, al di là delle sedute di mediazione, ragazzi e insegnanti hanno imparato molto dal lavoro svolto. Hanno riconosciuto l’importanza di capire la natura dei conflitti, di approfondire alcune tecniche per la gestione di un colloquio di ridefinizione del problema, di accogliere il punto di vista dell’altro e la molteplicità dei punti di vista… hanno lavorato sul problem solving come una delle tecniche metacognitive che può permettere di identificare delle soluzioni che possano essere condivise. L’intero percorso, di preparazione alla mediazione formale e che può essere riferito ad un contesto informale, ci è sembrato particolarmente promettente. Nella scuola può essere utile introdurre i modelli della mediazione non tanto perché la si faccia in modo strutturato, quanto perché i ragazzi acquisiscano strumenti e competenze sulla gestione dei conflitti, per risolvere le piccole o grandi dispute di ogni giorno. I l mediatore poteva essere interpellato solo dai compagni della sua classe o anche da quelli di altre classi? Si lavorava per classi, e probabilmente questo ha costituito una ulteriore difficoltà. Si pensa al mediatore come ad una figura neutrale, non coinvolta nelle dinamiche del conflitto, nel nostro caso la neutralità era molto difficile. Un altro modello di gestione dei conflitti molto sperimentato all’estero, soprattutto in Inghilterra, è quello della consulenza tra pari. Io non l’ho mai applicato perché mi sembra una forzatura eccessiva per il nostro contesto culturale, in cui ancora nelle scuole sono poco diffusi i punti di ascolto gestiti dagli adulti. In quel caso, comunque, il counselor non appartiene mai alla classe di chi chiede aiuto, proprio per garantire imparzialità e distacco. Il gruppo nel caso dell’operatore amico dovrebbe continuare a crescere con gli operatori designati. Tra l’altro uno dei compiti che si possono attribuire agli operatori amici è quello di attivare momenti di discussione in classe. Poi, oltre a responsabilizzare gli eletti si promuove il gruppo che può aiutare il processo stando vicino, denunciando i problemi se ci sono. Nel caso della mediazione ci sono dei modelli che coinvolgono tutta la classe e sono stati sperimentati soprattutto in Inghilterra e in Svezia, ma anche in alcune scuole superiori italiane. Il Metodo dell’Interesse Condiviso di Pikas e il Metodo Senza Accusa, riportati in miei testi precedenti sul bullismo ed anche su “Bulli e prepotenti nella scuola” di Sharp e Smith, sono percorsi in cui tutti i ragazzi vengono interpellati, individualmente e poi come gruppo, per trovare una soluzione condivisa ad un problema di prepotenza. Questi percorsi però dovrebbero essere guidati dagli insegnanti perché hanno una maggiore complessità e presuppongono un grosso lavoro su tutta la classe: vittima, spettatori e prepotenti stessi. N ella vostra esperienza la mediazione tra pari può essere applicata in un caso di bullismo? La mediazione trova un migliore utilizzo quando un conflitto è riconosciuto, e la consapevolezza di stare in una situazione conflittuale induce le parti a richiedere l’intervento 15 DOSSIER di una terza parte che aiuti un processo di riavvicinamento. Nel caso del bullismo non sempre la vittima è consapevole di essere parte del conflitto, e lo stesso vale per il prepotente. Il bullismo, nonostante abbia una forte natura conflittuale e aggressiva, è caratterizzato da una asimmetria tra le parti che porta entrambe, per ragioni diverse, a negare l’evidenza del problema. L’aggressore non riconosce la posizione del compagno, che a sua volta in molti casi fa fronte alla situazione cercando di non pensarci, di sfuggire al problema. Con queste premesse, difficilmente si arriva ad una mediazione. Per la vittima è più facile chiedere l’intervento di un operatore amico. E poi c’è la situazione di squilibrio di forze per cui una mediazione, se il processo non è ben preparato, può avere degli effetti controproducenti perché la vittima potrebbe non avere la forza di avanzare le proprie richieste o potrebbe temere ritorsioni successive. Certo, una mediazione potrebbe essere efficace dopo un grosso lavoro di supporto alla vittima che la aiuti ad acquisire consapevolezza del proprio essere in gioco e che riporti la relazione di prepotenza su un piano più malleabile che è quello del conflitto. 16 RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA E se c’è un contrasto tra ragazzi e insegnanti? Certo non si può chiedere agli studenti di fare da mediatori. Quali altri strumenti si possono cercare in questi casi? Nel modello spagnolo viene sperimentata da qualche tempo una ipotesi molto interessante che prevede una équipe di mediazione all’interno della scuola formata da insegnanti, studenti e genitori, tutti volontari, che ricevono una formazione specifica all’inizio dell’anno scolastico. Tutti questi soggetti possono fare mediazione, secondo le richieste delle parti coinvolte che con la richiesta di intervento possono indicare se vogliono, come mediatori, l’una o l’altra figura. I mediatori lavorano sempre in coppia per evitare che uno dei due, non avendo seguito un percorso professionale vero e proprio, stia troppo dalla parte di uno dei due contendenti. Per quanto riguarda la situazione italiana, è interessante che laddove abbiamo introdotto il modello della mediazione tra pari, i professori ci hanno poi chiesto una formazione specifica sul conflitto e sulla mediazione. C’è una sensibilità all’educazione al conflitto che si sta diffondendo. Io credo si cominci a intravedere l’importanza di comprendere che i conflitti non solo soltanto sinonimo di disagio, difficoltà, rottura della relazione. La mediazione trasmette anche intuitivamente il senso che tutti noi viviamo situazioni conflittuali e ci troviamo a doverle in qualche modo gestire. Ancora, aiuta a scoprire che non è sempre necessario andare incontro a esiti negativi, ma che è possibile trovare una soluzione costruttiva che aiuta a mantenere una relazione positiva con l’altro. In questo senso le scuole come realtà di base stanno sviluppando una sensibilità sempre più elevata su uno sviluppo integrato dei ragazzi, sull’attenzione ai loro bisogni, su un lavoro che vada anche al di là del semplice contenuto curriculare. Se penso ai lavori sul bullismo, alcune ricerche conoscitive che provenivano dal mondo universitario hanno progressivamente innestato un grosso movimento di base… C’è stato un grosso progetto finanziato dall’Unione Europea che ha coinvolto Torino, Modena e Ferrara, e poi il lavoro della Asl di Milano, quello dell’Irrsae del Veneto e delle Marche, numerosi progetti in Toscana, a Roma, a Napoli con l’Università e con l’associazione Libera, e ancora in Puglia, in Calabria, in Valle d’Aosta… Resta mancante, urgente in Italia una risposta legislativa nazionale che dia un quadro di insieme a questo grosso lavoro. DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA LA MEDIAZIONE IN PROSPETTIVA EDUCATIVA Paolo Ragusa * “Il sistema-scuola è un contesto sociale entro il quale sempre più si vengono a confrontare sotto-sistemi spesso radicalmente divergenti: gli alunni, gli insegnanti, i genitori, il personale non docente e quello dirigente. Come in qualunque altro sistema complesso molteplici fattori, legati alle differenti aspettative, motivazioni ed interessi degli attori coinvolti, posso determinare situazioni di incomprensione, disaccordo e lite. Le possibilità di conflitto entro il contesto scolastico sono dunque numerose e coinvolgono tutti i protagonisti che a diversi livelli vivono in esso”.(1) A scuola è conflitto: è possibile aggiornare le mappe? P rovando a leggere la scuola attraverso la presente descrizione, parziale e verosimile, ci sembra che si possano individuare alcuni nodi di riflessione utili alla nostra esposizione. Si pone una prima area di domanda e di tras-formazione: è possibile legittimare il conflitto, trattarlo come relazione, e quindi come “oggetto di lavoro” pertinente e specifico per chi educa? Come assumere il conflitto in quanto area di responsabilità professionale degli insegnanti e di quanti altri nella comunità scolastica vivono e operano (bambini, ragazzi, genitori, personale non educativo, dirigenti)? L’educazione(2), se intesa come disciplina, sanzione, punizione, è da considerare antitetica rispetto al conflitto, si tratta di una pratica paradossale e incompetente che tenta di “pacificare” la relazione e creare improbabili condizioni di aconflittualità, di ordine e di assenza di divergenze, di contrasti e di diversità. Il conflitto, (3) se “trattato” come violenza, come incompatibilità personale, come disturbo della relazione e minaccia al potere di chi educa, è classificato come estraneo o meglio “da estraneare” dalla scuola, dalle comunità. Come ci ricorda Anna Oliverio Ferraris “ Crescere significa separarsi, cambiare, differenziarsi; il processo di crescita è sviluppo progressivo verso l’autonomia. E permettere questo processo di crescita e separazione, finalizzato a diventare indipendenti, “è un lavoro che richiede tempo”, difficile tanto per chi cresce che per chi educa. Infatti se da un lato questi ultimi desiderano che i ragazzi siano indipendenti e responsabili e rinuncino alle richieste infantili, dall’altro paventano gli effetti di questa indipendenza e hanno difficoltà a separarsi. È necessario un certo tempo perché un ragazzo o una ragazza acquisti la sicurezza e l’indipendenza necessarie per separarsi definitivamente dal mondo infantile, per compiere scelte autonome e differenziarsi da chi educa, senza paure e sensi di colpa.” (4) Il conflitto, se assunto e riconosciuto in quanto relazione, diventa generatore di potere e responsabilità partecipativa per le diverse competenze del “sistema-scuola”, tra i ragazzi/e e bambini/e e con gli adulti. Il conflitto, se trasformato in quanto evento emotivo, alleggerisce il peso delle relazioni, talvolta insostenibile, e ricodifica, attribuendo significati intenzionali ed espliciti, ai legami, sia in senso sincronico che in senso diacronico. Il conflitto, se integrato in quanto problema, attraverso processi di negoziazione, genera pratiche di comprensione e di coesione interpersonale e comunitaria. Le pratiche educative e le pedagogie(5) ci dicono che l’educazione che rende autonomi e competenti è conflittuale, mira ad attivare processi di differenziazione che integrano il conflitto, considerandolo uno stato-relazionale generativo e creativo, risorsa per la costruzione di relazioni che non possono prescindere dal riconoscere, svelare, valorizzare e contenere le diversità (identità convenzionalecodice implicito) e le differenze (identità specifica – codice esplicito)(6) nei vari segmenti relazionali (adulto-bambino, bambinobambino, adulto-adulto). 17 DOSSIER “Sostare nel conflitto”(7), oltre che descrivere la condizione di chi è in relazione educativa, può rappresentare la prospettiva pedagogica, “la nuova mappa” dell’educazione, nella scuola, nelle diverse comunità educative, nei molteplici frammenti della convivenza sociale. “Sostare nel conflitto” significa creare le condizioni affinché il legame/patto educativo possa reggersi non solo sulla simpatia/armonia ma a partire dalle divergenze e dalle diversità. Si tratta di un processo intenzionale e consapevole che porta a superare la reattività primaria verso una relazione competente, capace di ri-attivare interazioni possibili e a misura delle parti in gioco. Ci piace rappresentarlo come un processo a spirale (azione/reazione/relazione...) che produce nel “tempo relazionale” azioni più efficaci, rea-zioni più competenti , rel-azioni educative responsabili, dove la cura di sé e la cura dell’altro siano gli indicatori interni di assunzione del conflitto. “Sostare nel conflitto” implica un approccio trasformativo ai conflitti in cui prevale la cura e la responsabilità per gli esiti possibili, rispetto alla ricerca delle soluzioni e allo scioglimento del conflitto stesso (terminazione del conflitto(8)). A partire dal riconoscimento delle differenze (personali, culturali, di ruolo,...) e quindi dando legittimità al conflitto, l’esito auspicabile diventa la trasformazione della relazione fra le parti, in modo da attenuare gli effetti reattivi legati al conflitto(9). Non si tratta quindi di volere ri-solvere o dis-solvere il conflitto, bensì di assumerlo come occasione per ristrutturare le relazioni, facendole evolvere e coevolvere in strutture relazionali maieutiche (10). Trasformare i conflitti a scuola: possibile modificare le pratiche? Quale mediazione? 18 Ci piace proporre la mediazione come opzione educativa, come stile RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA relazionale diffuso nelle comunità scolastiche, come pratica intenzionale di gestione trasformativa delle situazioni di conflitto. La mediazione in prospettiva educativa favorisce la ricerca di processi e assetti relazionali e organizzativi possibili e sostenibili dalle comunità scolastiche medesime (funzione autoregolante); permette di strutturare relazioni, legami, aree di responsabilità personali e collettive che investono nel futuro, prossimo e a lungo termine. La mediazione in quanto procedura, formale e informale, contagia e permea in modo diffusivo le relazioni, tanto da diventare opzione di stile di una comunità: il conflitto non spaventa, per quanto crei disagio, perchè la comunità lo riconosce e si attiva nel senso dell’aiuto e dell’accompagnamento nella gestione. La mediazione, a partire dalle microrealizzazione tra bambini/ ragazzi /giovani (peer mediation), può diventare risorsa non solo per i soggetti direttamente coinvolti ma per l’intero gruppo classe, per la comunità educante allargata (insegnanti, genitori, ...). La mediazione, in quanto richiesta di aiuto (11), legittima non solo la “trattabilità” del conflitto ma soprattutto l’istanza e il bisogno di aiuto, troppo spesso implicito e inespresso, di quanti sperimentano un conflitto. I bambini e gli adulti apprendono che chiedere aiuto è un’assunzione di responsabilità per sé e per l’altro (individuo o gruppo che sia) e che rappresenta il primo esito trasformativo del conflitto. La mediazione che aiuta sgretola le pratiche educative, professionali e genitoriali, difensive e autoreferenziali (“la mia esperienza pregressa è l’unico modo che conosco e che uso per affrontare i conflitti”), creando una “contro cultura”. (12) Un insegnante che chiede aiuto è un professionista competente e responsabile. Un genitore che chiede aiuto è un educatore che ha a cuore il futuro e l’autonomia del proprio figlio/a. Un bambino/ragazzo/giovane che chiede aiuto sperimenta il proprio potere personale e apprende il limite delle relazioni. L’aiuto in mediazione abilita all’esercizio della capacità decisionale e di scelta, anche nelle situazioni complesse quali i conflitti. Permette di misurarsi (riconoscere ed esprimere) con stati emotivi dalle tinte forti (rabbia, rancore, fallimento...). Implementa le competenze comunicative, sia funzionali che espressive, di ascolto e di empatia. Una comunità scolastica che pratica la mediazione, sa chiedere aiuto ed è capace di aiutare, attiva le risorse interne, anche conflittuali, “rinomina” i significati, troppo spesso impliciti, dell’educare e dell’istruire. E’ capace di fare richieste e intraprendere scelte autonome, progettare il futuro, piuttosto che praticare la lamentela e il desiderio di una “scuola ideale” priva di conflitti. “In primo luogo il progetto di mediazione si basa sulla delega, da parte dei responsabili degli Istituti scolastici, agli alunni mediatori, di un certo potere della gestione dei conflitti. Infatti si tratta di un nonpotere, dal momento che il compito del mediatore si limita ad aiutare le parti in conflitto a trovare una soluzione ai loro problemi. Persino con questo limite l’idea di delegare un potere ad alcuni alunni ha suscitato contrasti all’interno degli Istituti da parte dei membri della comunità educativa che temevano un’ulteriore perdita di potere”. Jean-Pierre BonaféSchmitt (13) Un’ipotesi: un progetto integrato di aiuto alla gestione dei conflitti L’attivazione di uno Spazio Mediazione Conflitti rappresenta per la comunità scolastica, uno strumento/pretesto significativo (14), DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA che tende a realizzare apprendimenti e competenze personali e sociali in vista di una convivenza costruttiva e rispettosa delle diversità (adultoadulto, adulto-ragazzo/a, ragazzo/aragazzo/a). Lo Spazio Mediazione Conflitti è l’esito di un processo di promozione, alfabetizzazione e formazione alla gestione/trasformazione dei conflitti, rivolto alle diverse componenti della comunità scolastica. Lo Spazio Mediazione Conflitti , risponde ad una funzione diretta di aiuto alla composizione dei conflitti tra pari, e indirettamente a promuovere pratiche relazionali competenti e forme morbide (15) di consenso. e di coesione tra adulti che educano. Formando e responsabilizzando (16), all’interno dei gruppi dei pari, bambini/e e ragazzi/e capaci di essere mediatori nei conflitti e facilitatori nelle relazioni, nei contesti educativi è possibile sperimentare apprendimenti significativi e nuove forme di coesione tra pari e con gli adulti. Ai genitori vengono proposti gruppi maieutici di confronto, dove si sperimentano forme di mutuo sostegno alla genitorialità e pratiche di gestione educativa dei conflitti. Con gli insegnanti si costruiscono percorsi formativi per la conduzione delle classi, per la gestione dei momenti collegiali tra adulti e per la progettazione di azioni di sensibilizzazione del contesto intra ed extrascolastico. Il progetto integra, nel complesso, azioni, esiti e tempi diversificati aggregati attorno alle seguenti aree di risultato: ✔ Implementare la rete di relazioni tra insegnanti, genitori, operatori non educativi e dirigenziali favorendone il confronto, la differenziazione e la progettualità in una prospettiva di coesione educativa. ✔ Facilitare apprendimenti relazionali, nelle persone e nella comunità scolastica, in dialogo con il territorio, relativi ad una cultura del conflitto come risorsa e area di responsabilità nella pratica educativa. ✔ Sostenere la comunità scolastica nella realizzazione, di uno Spazio Mediazione Conflitti, con funzione di aiuto diretta con ragazzi/e e bambini/e e, indiretta con genitori e insegnanti. Alcune questioni aperte: la volontarietà, la terzietà, i risultati. Dal monitoraggio dei progetti in corso e già realizzati ci sembra di potere individuare alcune aree di criticità rispetto alle pratiche di mediazione nei contesti educativi, comuni e comunque riconducibili alla mediazione nel suo significato e uso più generale. La volontarietà, costitutiva ed essenziale (17) della scelta di un aiuto/accompagnamento nel trattare una situazione di conflitto, risulta talvolta compromessa da una certa direttività da parte degli adulti/educatori che interpretano la mediazione come una “procedura/pratica d’ufficio”, cui inviare bambini/ragazzi/giovani che risultano loro “intrattabili”. Si tratta di una sorta di “ultima spiaggia” per situazioni e soggetti che il tempo ordinario e le pratiche educative consuete non riescono a governare. Al contrario, si verifica che, in nome del rispetto/attesa dei tempi e delle modalità delle persone e degli accadimenti, le pratiche di mediazione siano inibite per una bassa propensione a chiedere aiuto e a trattare in modo versatile le situazioni complesse, quali i conflitti. Ci sembra che la volontarietà di accesso alla mediazione vada contestualizzata e promossa. È impensabile, ad esempio, che si possa scegliere di fare ricorso alla mediazione di un pari, se questa opzione risulta eccessivamente “contro corrente” rispetto alla cultura relazionale di riferimento. Promuovere la volontarietà nelle pratiche di mediazione significa, ad esempio, abilitare i bambini/ragazzi/giovani a chiedere aiuto, a scegliere tra opzioni diverse possibili, a rischiare di intraprendere esiti non sempre soddisfacenti e parziali, a familiarizzare con stati emotivi caldi, tipici delle situazioni di conflitto. La terzietà, in quanto indicatore di neutralità, sembra talvolta non garantire (18) “la pulizia “ del processo mediativo. La condizione di pari attiva nel mediatore una funzione di “alleato”, induce ad identificarsi con il compagno e/o con la situazione, a tal punto da compromettere il suo ruolo di terzo rispetto alle parti e al conflitto (19) Crediamo comunque che, osando un’opzione educativa e implementando le competenze dei mediatori, vada corso il rischio di un processo e di un esito “non esatto” ma possibile, a misura del contesto. Ipotizziamo in proposito che la terzietà non debba essere considerata una condizione a priori, contravvenendo ad un altr’altra delle caratteristiche auspicabile del mediatore (la familiarità ai contesti), ma che possa configurarsi come esercizio di una competenza, da implementare, da sperimentare, da rischiare e verificare di volta in volta. I risultati “benefici” (20) della mediazione nei progetti educativi sono troppo spesso classificati sotto il più ampio ambito della valutazione degli obiettivi scolastici: miglioramento del clima, aumento del rendimento e della motivazione, riduzione dei “casi difficili”. Si aggiunga a ciò un’impropria aspettativa e talvolta un’illusoria promessa di sospensione della violenza e di riparazione dei suoi “ingiusti esiti” (21). Ci sembra che non si possa chiedere alla mediazione di trattare oggetti diversi dal conflitto e di conseguenza produrre risultati che sono invece da classificare nell’area della riparazione del danno e dell’ingiustizia piuttosto 19 DOSSIER che nell’apprendimento e nella relazionale. “… si può comprendere che la mediazione scolastica sia non solo una semplice tecnica di gestione della violenza e un modo di pacificazione delle relazioni sociali nell’ambito scolastico, ma debba RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA essere considerata un effettivo processo educativo in grado di favorire la diffusione di un nuovo modello di regolazione dei conflitti, più consensuale, che fa appello alle nozioni di contratto, di fiducia, di equità. La mediazione rappresenta anche una nuova forma di azione comune, che rinvia a una composizione dei rapporti tra lo Stato e la società civile, alla costituzione di nuovi spazi intermedi di regolazione delle relazioni sociali. La mediazione scolastica si inscrive in questa ricomposizione …” (22) NOTE (1) Cfr. Ritagrazia Ardone-Cristina Gatti, Cosa pensano gli alunni del conflitto a scuola: una ricerca esplorativa, in Ritagrazia Ardone-Anna Costanza Baldry, Mediare i conflitti a scuola. Presupposti teorici e intervento psicosociale, Carocci, Roma 2003, pp. 39-40. (2)Quando mi chiedono “Cos’è l’educazione?”, rispondo in maniera molto banale e semplice: “Costruire l’autonomia”. Il compito educativo consiste nel fare in modo che il soggetto sia in grado di costruirsi un proprio spazio di riferimento autonomo e creativo, basato sull’utilizzazione migliore delle proprie risorse.” Cfr. D. Novara L’ascolto s’impara, EGA, Torino 1996, p. 59. (3) Riportiamo due descrizioni della parola conflitto con accentuazioni (psicorelazionale , la prima, sociologica, la seconda) diverse ma entrambe utilizzabili in riferimento ai contesti educativi: “Si tratta di uno stato della relazione, che riguarda due o più persone, in cui si presenta un problema che crea un disagio” , cfr Enrico Euli-Marco Forlani (a cura di), Guida all’azione diretta nonviolenta. Da Comiso a Genova e oltre: come ci si prepara alla protesta, Berti, Piacenza 2002, p. 81. “Il conflitto è un’interazione tra attori (individui, gruppi, organizzazioni ecc.) in cui almeno un attore percepisce un’incompatibilità con uno o più attori nella dimensione del pensiero e delle percezioni, nella dimensione emozionale e/o nella dimensione della volontà in una maniera tale che la realizzazione (dei propri pensieri, emozioni, volontà) venga ostacolata da un altro attore”. Cfr. Friedrich Glasl, Konfliktmanagement. Ein Handbuch fùr Fùhrungskràfte, Beraterinnen und Beraten, Bern-Stuttgard 1997, p.14. (4)Anna Oliverio Ferraris, Crescere. Genitori e figli di fronte al cambiamento, Raffaello Cortina, Milano 1992. (5) Per una rassegna dei vari contributi sul conflitto nei processi di crescita relazionale cfr. Elisabetta Nigris, I conflitti a scuola. La mediazione pedagogicodidattica, Bruno Modadori, Milano 2002 (6) Cfr. Donata Francescato-Anna Putton, Stare meglio a scuola, Mondadori, Milano 1996 (7) Cfr. Daniele Novara, L’alfabetizzazione al conflitto come educazione alla pace, in Fulvio Scaparro (a cura di), Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni alternative delle controversie, Guerini e Associati, Milano 2001 (8) Seppure in riferimento a contesti macro, cfr. E.Arielli,-G. Scotto, I conflitti. Introduzione a una teoria generale, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp 87-99 (9) Con Danilo Dolci potremmo dire “... interpretare e fare emergere quanto di meglio pulsa in sé e negli altri”, in La struttura maieutica e l’evolverci, La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 279 (10) Cfr. Carlo Romano, Comunicare e coevolvere in strutture maieutiche. Un percorso di formazione di adulti, Franco Angeli, Milano 2001 (11) “Insieme, chi dà aiuto e chi lo riceve interagiscono per facilitare la loro comune rielaborazione (esplorazione, comprensione, azione) dei problemi e degli obiettivi di chi chiede aiuto. Questa è l’essenza della relazione di aiuto”. Robert Carkhuff, L’arte di aiutare, Erikson, Trento 1994, p. 40 (12) Cfr. Jean-Pierre Bonafé-Schmitt, La mediazione scolastica: un processo educativo?, in Gianvittorio Pisapia-Daniela Antonucci, La sfida della mediatione, CEDAM, Padova 1997, p.123 (13) “L’obiettivo perseguito dal progetto di mediazione non è semplicemente quello di rispondere a problemi immediati con i quali gli Istituti scolastici si confrontano, come la violenza, il vandalismo, l’assenteismo ... ma di favorire un cammino pedagogico attraverso la diffusione di un nuovo modo di regolazione dei conflitti: la mediazione.” Jean-Pierre Bonafé-Schmitt, La mediazione scolastica, op. cit., p. 124-125 (14) Jean-Pierre Bonafé-Schmitt La mediazione scolastica, op. cit., p.118. (15) Cfr. Maurizio Lozzi in Karin Jefferys-Duden, Mediatori efficaci. Come gestire i conflitti a scuola, La Meridiana, Molfetta (BA) 2001. Il testo rappresenta un esempio, di area tedesca, di percorso formativo e di strumentazioni per i bambini della scuola primaria (16) Per un percorso strutturato di formazione sperimentato nel contesto ispanico cfr. Juan Carlos Torrego Seijo (a cura di), Vinco Vinci. Manuale per la mediazione dei conflitti nei gruppi educativi, La Meridiana, Molfetta (BA) 2003. (17) “Las mediaciones farzadas o impuestas tienen escasas probabilidades de ser exitosas. Igualmente la decisiòn de ir a una mediacion por los contendientes debe ser libre y coluntaria.” Cfr. Xesùs R. Jares, Educaciòn y conflicto. Guìa de educaciòn para la convivencia, Editorial Popular, Madrid 2001, p.168 (18) In riferimento alla questione legata alla mediazione in generale ci sembra utile il riferimento a Christoph Besemer, Gestione dei conflitti e mediazione, EGA, Torino 1999, pp. 105-112 (19) “…el mediator/a no es un servidor de los contendientes y no debe estar en funciòn de sus interesse. En este sentido debe evitar las posibles estrategias de seducciòn o complicidad por alguna o las dos partes, mantenendo sempre su identidad”. Cfr. Xesùs R. Jares, Educaciòn y conflicto, op cit., p.166 (20) Cfr. Anna Costanza Baldry, Conflitti e bullismo a scuola. La mediazione scolastica come possibilità di risposta, in Fulvio Scaparro (a cura di), Il coraggio di mediare, op. cit., p. 231-232 (21) Se la mediazione avesse avuto luogo prima dell’espressione del conflitto, non ci sarebbe stato bisogno della violenza verbale o fisica. La sospensione (delle parti coinvolte) che ne è seguita è a sua volta una macchina per fabbricare violenza. I Presidi vi fanno sempre a maggiore ricorso perché non dispongono di alcun altro mezzo”. Jacqueline Morineau, Lo spirito della mediazione, Franco Angeli, Milano 2000, p. 127 (22) Jean-Pierre Bonafé-Schmitt, La mediazione scolastica, op. cit., p. 130-131. 20 * Formatore e consulente educativo del Centro Psicopedagogico per la Pace di Piacenza DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA GLOSSARIO/MAPPA PER ORIENTARSI NELLA MEDIAZIONE a cura di Elena Galeazzi T RASFORMAZIONE Prendendo atto della esistenza delle differenze e dei contrasti, e quindi dando legittimità al conflitto, la mediazione mira ad una trasformazione della relazione fra le parti, in modo da diminuire gli effetti indesiderati legati al conflitto. Non si tratta quindi di volere risolvere o dissolvere il conflitto, bensì di assumerlo come occasione per ristrutturare le relazioni, facendole evolvere in senso costruttivo. T ERZIETA’ Il mediatore, presente in situazione come (ri)animatore della comunicazione, rompe la situazione duale in cui le parti sono rimaste bloccate, irrigidendosi sulle proprie posizioni e, tirando ognuna dalla propria parte, rendendo sempre più inestricabile il nodo della questione che le vede coinvolte. Il mediatore aiuta le parti ad uscire da questa dinamica del tipo “io vinco, tu perdi”, inserendo nel processo di mediazione tutti quegli elementi utili a sviluppare un pensiero “altro” (terzo) rispetto alla logica del “muro contro muro”. E MPOWERMENT (CAPACITAZIONE) Presupposto della mediazione è la possibilità per le parti di riappropriandosi della propria capacità decisionale. Per questo esse si rivolgono liberamente ad un mediatore, che le aiuti a riattivarsi e a riassumersi la responsabilità della relazione che le vede coinvolte, senza più delegare ad altri la soluzione dei propri problemi. P ROCESSUALITA’ Il mediatore, più interessato al processo che ai risultati della mediazione, mira ad aiutare le parti ad acquisire uno stile di comunicazione efficace, costruttivo, praticabile e duraturo nel tempo. Allontanando l’”ansia da soluzione”, permette ai confliggenti di concentrarsi sul processo, dando al conflitto il proprio tempo/spazio per essere pensato, aiutando le parti a riconoscere i risultati progressivamente raggiunti e ad individuare le aree di ulteriore sviluppo. G ENERATIVITA’ Nella mediazione le parti si impegnano, attraverso l’aiuto del mediatore, a ricercare quelle opzioni trasformative del conflitto che siano in grado di procurare reciproco beneficio. Ai cofliggenti, che stanno facendo la fatica di incontrarsi, la mediazione offre strumenti che consentano di aprire il campo anche a quelle opzioni non ancora praticate, ma praticabili/possibili, e che permettano di potenziare gli elementi costruttivi (generativi) della relazione. D ISTANZIAMENTO La mediazione permette di assumere un distanziamento temporale/spaziale/emotivo rispetto al conflitto agito, consentendo alle parti di continuare a muoversi all’interno di esso mediatamente e meditatamente: proprio il contrario di ciò che farebbero se agissero immediatamente, per impulso. V OLONTARIETÀ È importante segnalare che l’intervento del mediatore deve essere accettato da entrambe le parti in conflitto. Le mediazioni forzate o imposte hanno poche probabilità di riuscita. Allo stesso tempo la decisione di andare in mediazione per i contendenti deve essere libera e volontaria. E a questo va aggiunto che le parti in conflitto possono ritirarsi in qualunque momento e senza essere vittime di pregiudizio. 21 DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA REGOLIAMOCI TRA REGOLE E RESPONSABILITÀ: RAGAZZI MEDIATORI A SCUOLA a cura di Michela Bertazzo * “Lavorare con i bambini vuol dire avere a che fare con poche certezze e molte incertezze: ciò che salva è il cercare. Occorre avere il coraggio di produrre ostinatamente progetti e scelte. Questo compete alla scuola e all’educazione”. 1 22 Attra-VERSO il dis-ORDINE e il dis-AGIO Agio e disagio a scuola: momenti ed esperienze quotidiane ed usuali, in cui tutti ci si ritrova e ci si riconosce. La difficoltà dell’insegnare la vivi e la percepisci ogni giorno: nell’incontro o nello scontro con i ragazzi, nel riconoscersi e comunicare tra colleghi, nel sintonizzarsi con il modo di vedere dei genitori, nel fitto intreccio delle relazioni tra ragazzi e nella faticosa costruzione dei saperi e delle conoscenze. La scuola che ci portiamo dentro c’interroga e ci chiede di superarne i limiti: è la scuola delle domande “illegittime”(1) di cui sappiamo già la risposta e che non costruiscono conoscenza, del programma da finire ad ogni costo, dei saperi inermi e dello sguardo fisso sulle cose … dell’insegnante “locomotiva: che trascina gli altri su un binario fisso, obbligatorio”. È una scuola che entra in contraddizione tutti i giorni con i processi cognitivi interrotti dalle situazioni di disagio, con il disordine e dalla dispersione dei saperi, con i nuovi codici comunicativi e i sistemi complessi, con l’insoddisfazione ed il malessere latente, con le mille situazioni di conflitto e di difesa. Il punto di partenza, quindi, è un quadro di disagio che quotidianamente rileviamo nella scuola e che si traduce in disturbi di relazione e di apprendimento che a loro volta acuiscono e ri-creano nuovi disagi ed incomprensioni. Spesso, dentro le aule, al problema rispondiamo eliminando i sintomi, occultandolo se non a negarlo, stemperando le contraddizioni, facendo rientrare i rumori in un silenzio apatico e ancora una volta ritornando alla nostra “normalità”, in una nicchia che ti garantisce di non perdere il senso dato… finché … in questo “magma” emotivo qualche situazione tenuta sotto pressione esplode, mette sotto il naso di tutti un groviglio di nodi irrisolti, investiti, segnali di disagio che si intrecciano, che si acuiscono, che ripescano dalla memoria, che coinvolgono, che ….. diventano sfida per la complessa pratica del mestiere di insegnante, per una assunzione di responsabilità che “pesano”. 2 A PARTIRE DAGLI INSEGNANTI Il forte desiderio di trovare qualche risposta, di imparare a riconoscere e gestire la relazione quotidiana ci ha portato come insegnanti ad investire per tre anni nella formazione per sperimentarci “Insegnanti efficaci”. Qui, con un gruppo di colleghi più volte ci siamo confrontati sulle difficoltà a cui ogni giorno facciamo fronte: sul sempre più complicato compito educativo, sui comportamenti a volte distruttivi dei nostri ragazzi che ci disorientano o ci portano ad un inasprimento delle sanzioni da applicare, sulla difficoltà ad orientarsi fra gli opposti di una personalizzazione della relazione con gli allievi e l’esigenza di rispettare ruoli e ambiti di “potere”. Abbiamo anche analizzato il significato e il valore di pratiche di disciplina che continuiamo ad utilizzare ma di cui ogni giorno sperimentiamo anche l’inefficacia: i giudizi, le note, le punizioni, le prediche, l’autorità ed il controllo eccessivo, le bocciature o le sospensioni, ma anche l’indifferenza, l’eccessiva indulgenza del lasciar correre e non prendere posizione o il negare e non esplicitare i propri sentimenti negativi: il nervosismo, le preoccupazioni, le delusioni .... Abbiamo insieme provato ad assaporare la possibilità di un metodo più efficace che fa accrescere il senso di autonomia, responsabilità di ogni DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA persona che passa attraverso la definizione condivisa delle regole, l’attenzione ai bisogni e ai messaggi nascosti nei comportamenti per noi inaccettabili, l’attenzione al nostro linguaggio perchè comunichi ascolto, apertura, accettazione ma anche espressione reciproca dei sentimenti che proviamo e l’impegno a definire periodicamente un tempo a disposizione per il confronto su scelte, sui bisogni reciproci e per la soluzione dei problemi. Ecco allora il nascere di alcuni progetti d’Istituto, da condividere tra insegnanti, con gli alunni, con i genitori: i CONTRATTI DI CLASSE E DI SCUOLA gestiti in momenti di progettazione partecipata con gli alunni; i CONTRATTI FORMATIVI con i genitori; gli SPAZI DI PARTECIPAZIONE in classe (assemblee, incontri periodici dei rappresentanti, circle time..) e un sistema di rappresentanti di classe e di scuola per la definizione e la soluzione di problemi ed iniziative che li riguardano o che da loro nascono e li coinvolgono; l’attivazione di una prima esperienza di SPAZIO ASCOLTO per le ragazze ed i ragazzi di scuola media come luogo d’incontro e confronto per essere riconosciuti anche nella narrazione di problemi e situazioni di disagio individuale e di piccolo gruppo, per dare spazio all’ “arte di ascoltare”(2). 3 A PARTIRE DALLE RAGAZZE E DAI RAGAZZI Ripartire da una scuola che accoglie i ragazzi richiede di ripartire dal diritto di parola e dall’arte di ascoltare per poter capire emozioni e resistenze, accogliere i punti di vista e sintonizzarsi: significa innanzitutto lasciar esprimere. Questionari e momenti di circle time, assemblee di classe e di scuola, riportano a galla desideri e bisogni ma anche proposte ed elaborazioni. La possibilità di dire quando non ci si sente bene a scuola: “Non sono accettato dai miei compagni” , “Sono stato malmenato più volte ed ho dovuto cavarmela da solo”, “Non m’impegno a scuola, ma nemmeno la scuola mi ha aiutato molto!” “Ci sono tante situazioni che non approvo e che non ritengo giuste” “Non mi sento libera di esprimermi” Ma anche lo sforzo di dare consigli e fare proposte: ai compagni “Dobbiamo imparare ad essere sempre se stessi ed esprimere sempre le proprie idee, che siano giuste o no” “Non farci condizionare dai giudizi degli altri” “Non sottovalutarci” “Lottare per avere una scuola più bella e più attrezzata” agli insegnanti: “Ogni tanto, nei momenti critici, concedete ai ragazzi e a voi stessi 5 minuti di pausa” “Aiutate di più i ragazzi, dateci fiducia e affidateci incarichi di responsabilità” “Cercate di avere un rapporto meno distaccato con noi ragazzi” “Sappiate ascoltare i nostri problemi.” 4 AZIONI E MEDI-AZIONI RECIPROCHE La necessità allora di intraprendere nuove direzioni e questa volta insieme, insieme tra noi insegnanti, con le ragazze ed i ragazzi con cui condividiamo la quotidianità scolastica, con i loro genitori, ci ha portato alla proposta di “ri-aggiornare le mappe” delle nostre convinzioni sul conflitto, sulla responsabilità ed autonomia dei ragazzi, sulle capacità cooperative di intervento e supporto tra pari, su un nuovo ruolo docente “ed educatore come regista e facilitatore di processi formativi e di apprendimento”(3) all’interno di una struttura “maieutica” che si fonda proprio sull’interdipendenza organica delle parti, sulla reciprocità. E’ nato così, alla scuola media un Progetto Pilota che si aggiunge alle azioni prima elencate: “Regoliamoci tra regole e responsabilità: ragazzi mediatori a scuola” che, costruito insieme con il Centro Psicopedagogico per la Pace, ha coinvolto, per decisione del Collegio Docenti, nell’anno scolastico 2002/03 solo alcune classi ma, pur in forme e modi differenziati, tutte le componenti scolastiche e che, per il corrente anno scolastico (2003/04), dopo aver effettuato una riflessione guidata per capirne significato, punti di forza e debolezza, possibili contaminazioni reciproche, ci ha portato ad allargare e diffondere le pratiche sperimentate efficaci a tutta la scuola media. Saper stare costruttivamente nel conflitto significa anche entrare dentro e saper stare costruttivamente nel disagio. È questa una delle più grosse difficoltà richieste ad insegnanti, alunni e genitori, a chiunque si occupi e pre-occupi di educazione: riconoscere e distinguere il problema dal disagio che percepiamo e non cercare di eliminarlo per non provare sofferenza, ma prendersene cura attraverso un attento riconoscimento ed una profonda accettazione che ci permette di osservarlo, accoglierlo per poi intravedere possibilità di azione. Mantenere la distanza dalle proprie emozioni, il riconoscimento positivo e l’accettazione incondizionata della persona /vs. il possibile cambiamento dei comportamenti, richiede di investire e sviluppare capacità e competenze di sensibilità e discernimento, di rottura delle gabbie dei pre-giudizi per incunearsi invece nelle spesso tortuose vie dei processi di esplorazione dei conflitti. Non e semplice né immediato attuare un cambiamento di percezione, una “ristrutturazione cognitiva”(4) che, attraverso il riconoscimento del 23 DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA IL PROGETTO: FINALITÀ: costituire un gruppo di progetto di Insegnanti, genitori, ragazzi competenti nella gestione/trasformazione dei conflitti PUNTI CHIAVE DEGLI OBIETTIVI ✔ il riconoscimento, la gestione e la trasformazione dei conflitti educativi ✔ efficaci strategie e tecniche per la conduzione formativa della classe ✔ l’attivazione del processo di mediazione ✔ la relazione, confronto e mediazione educativa in gruppo ✔ forme ed occasioni di autoapprendimento 24 disagio e del problema, nel processo attivato nella comunicazione, attraverso tutto quello che nella relazione viene detto e fatto e nel modo con cui avviene, possa trasformare e modificare il proprio e altrui punto di vista fino a far vedere le cose in modo significativamente diverso da prima! Ecco allora un corso di formazione per ognuna delle componenti coinvolte (insegnanti dei consigli di classe coinvolti, alunni mediatori, genitori della scuola). E parallelamente un percorso di azioni concrete che si snodano durante l’anno scolastico e che, con momenti di incontro nel gruppo, di interazione tra componenti, di supervisione con un esperto del CPP, fanno crescere la fiducia nella strada intrapresa, motivano ed appassionano alla pratica, danno i primi frutti, coinvolgono altri pur nelle difficoltà e incomprensioni che sempre accompagnano ogni cammino. Solo così, non dalla collusiva accettazione della ragione del più forte, dalla soluzione veloce da proporre o attuare per mettere a tacere il problema/conflitto, deriva la soddisfazione e la crescita di fiducia nell’azione educativa del conflitto. È proprio dalla fatica intrapresa, dallo sforzo di pensiero per superare il pregiudizio, dall’attenzione alla pratica di un ascolto attento e attivo, dal coinvolgerci e mettere insieme tra pari o tra alunni e insegnanti idee e pensieri continui, progressivi, elaborati che ci fanno esplorare nuovi passaggi, nuovi itinerari, nuove difficoltà ma anche nuove soluzioni. Una fatica che si trasforma in voglia di andare avanti, di approfondire, di crescere ancora. Una sfida? Semplicemente un progetto, da far crescere insieme alle persone! 5 “Attra-VERSO I LIMITI PER VARCARE LE NOSTRE TERRE DI CONFINE” Ogni esperienza produce cambiamento, qualcosa cambia, sempre, anche se non sempre evidente ed esplicita è la percezione dei vissuti di ciascuno, il riconoscere ed accettare in sé ed ancor più negli altri, la consapevolezza del proprio cambiamento, del cambiamento del gruppo da rendere visibile e da cui partire per nuove sfide, allargando il cerchio per far entrare nuovi compagni di viaggio. Quali i cambiamenti prodotti nella scuola dopo il primo anno di questa esperienza? Ripensando agli incontri di valutazione delle diverse componenti protagoniste me ne vengono in mente molti ma ne proporrò solo alcuni, quelli più evidenti e più “sofferti”, non quelli che aprono finte autostrade ma che invece scoprono nuovi sentieri, tutti in salita ma che decidiamo di percorrere. I RAGAZZI MEDIATORI: consapevolmente attenti al loro compito, imprevedibilmente capaci di gestire e co-gestire insieme i propri vissuti emotivi (la richiesta fatta di incontrarsi anche tra loro mediatori, una volta al mese, riporta ad una ricerca di superamento dei limiti legati alle incertezze del proprio vissuto e ad una responsabilità da con-dividere) ed il lento tras-formarsi della loro competenza, il loro ruolo nel gruppo dei compagni: il coraggio del saper esporsi, di rimanere fedeli ad un compito a costo di non essere sempre capiti e di rimettere in discussione, agli occhi degli altri, il loro ruolo: “Ho dovuto far capire che il mediatore non può sempre intervenire” “A volte i miei compagni prendevano alla leggera l’incontro settimanale” “La mia difficoltà? Vincermi, sciogliermi e parlare agli altri senza incepparmi” “I miei compagni pensano che ogni volta che due persone litigano, anche picchiandosi, io mi devo mettere in mezzo” La consapevolezza che ogni cambiamento inizia dal cambiamento di sé e che investiti di un ruolo non perdiamo comunque la nostra dimensione personale e le nostre continue necessità di crescita: “ Questa esperienza incide prima di tutto nella tua vita” “Ho imparato a risolvere anche i miei conflitti con le mie amiche” “Ora so di non dare giudizi o avere pregiudizi, pensare e riflettere prima di agire, capire di più le ragioni degli altri” “ I miei compagni credono che io, come mediatrice, non devo mai litigare con nessuno” “Voglio dire ai miei compagni di non considerare i mediatori persone sante, DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA ma compagni che ce la mettono tutta per aiutarti” La voglia di andare oltre, di varcare nuovi confini, di ri-mettersi ancor più in gioco con nuove proposte e nuovi investimenti personali e di gruppo proponendo: “Espandere il progetto a tutte le sezioni della scuola” “Ai professori di incoraggiare i mediatori ad operare all’interno della classe valorizzando il progetto, cercando sempre di aiutare gli alunni con i loro problemi e i loro conflitti” “Creare uno spazio mediazione dei conflitti tra pari nella scuola,come lo Spazio Ascolto, ma gestito da noi ragazzi per i nostri compagni” I GENITORI: consapevoli che la solitudine, nel ruolo educativo, sempre più arduo e difficile, si trasforma in impotenza, incomprensione, incertezza. Anche se non sono molte le certezze che si portano a casa (ma l’obiettivo non era dare ricette e sicurezze), c’è la voglia di ritornare a casa “Con il desiderio di essere più presente con la testa nella mia famiglia”, l’impegno nel “Cercherò di dedicare più tempo ai miei figli”, la consapevolezza che “La cosa migliore è parlare molto con loro” e, comunque, “Capisco che ho necessità di incontrarmi e confrontarmi con altri genitori” e “Creare dei gruppi di incontro tra genitori ed insegnanti”. GLI INSEGNANTI: una esperienza che li ha visti protagonisti privilegiati (la definizione delle azioni di progetto è stata possibile proprio perchè prima di tutti alcuni insegnanti hanno garantito nei suoi confronti un atto di fiducia e ne hanno accettato il compito operativo) e nel cui corso ha visto accrescere motivazione ed investimento, tanto da arrivare, alla fine dell’anno al coraggio di esporsi di fronte ai colleghi più scettici, di richiederne anche la loro fiducia, garantendone la valenza positiva, per allargare l’esperienza a tutta la scuola. In un lento processo si è evoluto un linguaggio comune, dei significati condivisi e i modi di vedere ed agire nei conflitti attraverso la capacità di ascoltare noi e gli altri. Mi porto a casa che: “Sui conflitti è meglio so-stare e davanti ad essi non spaventarsi”, “Una maggior attenzione verso i conflitti anche marginali tra ragazzi, più disponibilità all’ascolto” “Una maggior consapevolezza del lavoro da svolgere per migliorare le relazioni” La prospettiva di un cambiamento che passa e non può prescindere né dalla dimensione individuale né da quella sociale del confronto e della condivisione, ritrovando tempi e spazi dell’ascolto e della narrazione reciproca: Ho il desiderio di “Chiarirmi le idee in merito alla mia personale propensione a dare regole e farle rispettare. Cambiano i tempi, è ancora un valore?” “Un’occasione per mettersi in gioco tra colleghi” La necessità di “abitare le esperienzecon”, protagonisti insieme delle decisioni in un continuo processo di decentramento, di scoperta, valorizzazione e apprendimento insieme ed attraverso l’altro, sia esso insegnante, alunno o genitore: “Provare a far uscire l’esperienza dalle classi perché diventi di Istituto” “Assemblee di classe con i genitori meno istituzionalizzate e più confronto educativo” La trasformazione di un modo di relazionarsi ma anche di far scuola, perché non è poi così scontato sentir dire da un insegnante che ha fatto spazio ai ragazzi dedicando 20-30 minuti del suo orario settimanale in classe alla gestione dei conflitti: “Ho la conferma del fatto che in un ambiente sereno migliorano decisamente gli apprendimenti”. E quale, se non questo, il compito formativo della scuola? NOTE (1) P. Perticari, Attesi imprevisti, Bollati Boringhieri 1997 (2) M Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, 2000 (3) D. Novara, L’ascolto si impara, EGA 2002 (4) P. Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 1971 * Insegnante dell’Istituto Comprensivo di Vigodarzere (PD) 25 DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA ACCENNI DI MEDIAZIONE NONVIOLENTA A SCUOLA a cura di Maurizio Lozzi * 1 26 “Non possiamo insegnare direttamente nulla ad un’altra persona, possiamo solo facilitare il suo apprendimento……”. Tra le tante proposizioni che Carl Rogers(1) ha elaborato in ambito psicoterapeutico sulla teoria della personalità e del comportamento lavorando allo sviluppo dell’Approccio Educativo Centrato sulla Persona, questa appare l’ideale per introdurre il nostro cammino di conoscenza verso gli “orizzonti nonviolenti di relazione” che, anche nella scuola italiana, la Mediazione consensuale dei conflitti può contribuire ad edificare. Se fino al secolo scorso la scuola veniva considerata come l’istituzione deputata a diffondere solo l’alfabetizzazione alla cultura, oggi le dinamiche che nel tempo ne hanno ricaratterizzato il profilo, le hanno confermato una responsabilità educativa sociale decisamente più forte. Non può più quindi continuare ad apparire soltanto come l’“istituzione rigida” di ieri, ma ha sempre più il dovere di assumere i connotati indispensabili di un reale sistema formativo in grado di prendere coscienza di quanto gli accade intorno e potersi aprire così ai bisogni del suo territorio, di cui in fondo, insieme ad altre entità, è poi diretta espressione. Non è, infatti, un caso se tocca proprio alla scuola registrare al suo interno disagi e turbolenze giovanili di matrice esogena sociale. Tra stress da eccesso tecnologico a scapito degli scambi affettivi, (para)noie da superfluo, crisi covate in silenzio ed inquietudini che rapidamente si diffondono, i giovani trovano naturale esprimere fin troppo spesso i loro disagi proprio all’interno delle istituzioni scolastiche. E’ un fenomeno che, passando attraverso indicatori come il bullismo, il teppismo, la dispersione scolastica e via di seguito, conduce frequentemente ad episodi incontrollabili di conflitto e di violenza, la cui escalation, pur rimbalzando fin troppo sulle cronache giornalistiche, viene a volte sottovalutata o, nei casi peggiori, ignorata anche da chi, pur avendone le responsabilità educative istituzionali, preferisce non sporcarsi le mani magari solo nel tentativo di capire o di provare ad ascoltare. Si preferisce per lo più intervenire dall’alto dell’autorità con norme disciplinari o sospensioni che rappresentano una risposta comunque violenta, sicuramente di altra natura, ma che anziché diminuire il carico di aggressività e disagio, contribuisce invece ad irrobustirlo. Fortunatamente ad atteggiamenti culturali così sedimentati qualcuno – terzo settore, associazioni culturali, operatori sociali, sociologi, ecc. anche nel nostro paese sta cominciando a rispondere con modalità altre, proponendo in contesti scolastici anche provati da queste fenomenologie, programmi di formazione alla Mediazione nonviolenta e consensuale dei conflitti che, per brevità, chiameremo d’ora in poi Mediazione scolastica. Recepiti all’interno dei P.O.F. (Piani di Offerta Formativa) grazie soprattutto alla sensibilità di singoli insegnanti, funzioni obiettivo o illuminati direttori didattici e presidi, questi programmi di Mediazione scolastica sono riusciti ad introdurre in alcune scuole sparse un po’ ovunque in Italia metodologie e modalità alternative di gestione dei conflitti che, dove somministrate e praticate, hanno stimolato un processo di promozione di valori e beni relazionali civili e solidali capace di neutralizzare la dinamica osmotica passiva con l’ambiente esterno che invece altrove la scuola continua a subire. Queste esperienze hanno colto in pieno il senso che Carl Rogers – ricordato all’inizio – attribuisce all’apprendimento e che anche Bernard Berelson e Gary A. Steiner (2) confermano, riconoscendolo come una serie di “cambiamenti nel comportamento derivanti da precedenti comportamenti in situazioni analoghe”. L’apprendimento delle pratiche di Mediazione è riuscito a configurarsi così come lo studio di una efficace dinamica sociale di cambiamento dal grande impatto “trasformativo”(3) e, proprio per DOSSIER RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA questo, in grado di “immunizzare” contesti scolastici degradati o contraddistinti da climi relazionali pesanti, dove non vi era più traccia delle peculiari identità della scuola; quelle cioè di privilegiato luogo di socializzazione e di indispensabile produzione di sane identità. 2 Le testimonianze che si possono raccogliere nelle realtà dove è stata sperimentata la mediazione scolastica, rivelano una strategia comune o meglio un minimo comun denominatore che è il “gruppo dei pari” (studenti/studenti, insegnanti/insegnanti). Nel campo della Mediazione Scolastica gli interventi ricadono infatti nell’ambito di quelle che tra le A.D.R. (Alternative Dispute Resolutions) sono codificate appunto come “Peer Mediations” (Mediazioni tra pari) e questo perché prima di intervenire a largo raggio – caso in cui dovremmo chiamare in causa la Mediazione multiparte - è opportuno immunizzare gruppo per gruppo tutti gli attori sociali che operano ed interagiscono nel contesto in cui si chiede di intervenire. In ogni caso le esperienze di cui abbiamo avuto testimonianza diretta rappresentano solo una parte di una vera e propria “testa di ponte” che sta continuando ad emergere nell’universo scuola, dove però seguita a manifestarsi ancora una ossificata resistenza verso questo cammino di “nuova comprensione”. E’ una resistenza, se vogliamo, anche comprensibile in quanto legata non tanto all’ermetismo endemico che la scuola per certi versi ancora conserva, quanto invece alla difficoltà di affrontare in modo non distruttivo e non impulsivo le relazioni conflittuali. Educare alla Mediazione - o se vogliamo alla composizione nonviolenta delle relazioni conflittuali, non è semplice e qualcuno ha azzardato: “Neanche naturale!”. Al di là però di questa provocatoria affermazione e sulla scorta dei casi poco fa visti: “E’ possibile!”. Le esperienze finora svolte, da poco in Italia da decenni altrove, dimostrano che gli “gli orizzonti nonviolenti di relazione” possono diventare uno degli obiettivi formativi della scuola. Basta impegnarsi a modificare l’atteggiamento negativo prevalente nella nostra cultura verso il conflitto e sviluppare un approccio educativo e pedagogico tale da far riconoscere in esso una potente risorsa per la crescita. E’ questo il punto di vista della cosiddetta Sociologia Clinica che osserva e ritiene i conflitti scatenati all’interno delle relazioni sociali, non con una valenza negativa, ma come elementi fondanti per la produzione di cambiamenti e, per questo, se adeguatamente guidati, composti, regolati o mediati, come elementi creativi, costruttivi e dinamizzanti per l’edificazione di positive modalità di relazione. Verso questa direzione hanno deciso di operare ed impegnarsi, attraverso un lavoro, non solo però di carattere sociologico, ma multidisciplinare e di coordinamento territoriale - per ora nazionale e quanto prima europeo - diversi educatori, formatori e attivisti di associazioni dedite in Italia a diffondere la Mediazione che si sono già riuniti due volte a Firenze per tirare le somme su quanto finora è stato realizzato nel nostro paese ed iniziare così a delineare percorsi comuni di intervento per quanto si intenderà articolare e proporre in futuro. La presenza in questi incontri di alcuni osservatori provenienti da altre nazioni europee a noi vicine ha consentito sia un proficuo scambio di esperienze che l’inevitabile tessitura di una confidenziale rete di contatti, indispensabile per aprire spiragli di crescita, di verifica e di confronto reciproci sul cammino verso cui la Mediazione continuerà a muoversi, non solo da noi, ma anche altrove. 3 Una testimonianza su quanto, ad esempio, già nella scuola primaria si può iniziare a proporre per far acquisire ai ragazzi adeguate competenze comunicative, educarli alla creatività – intesa come capacità di uscire dagli schemi prefissati – e svilupparne lo spirito cooperativo, proviene dal Nord Europa. Si tratta di un volume scritto dalla psicologa tedesca Karin Jeffreys-Duden, tradotto e pubblicato in Italia nella collana “Partenze….per educare alla pace” dalle Edizioni La Meridiana di Molfetta, sotto l’eloquente titolo di “Mediatori Efficaci – Come gestire i conflitti a scuola”. Collocabile tra le proposte editoriali apprezzabili per il lavoro di cui è testimonianza, il volume riesce a mettere in luce le enormi capacità relazionali ed emotive possedute dai ragazzi della scuola primaria e che si rivelano il grande patrimonio che poi ognuno di noi a quelle età ha. Ed è a questa ricchezza senza malizia posseduta dai bambini che la Mediazione può avere facilità di accesso, “lasciando intuire con chiarezza – come si legge nella prefazione – come ogni individuo alla nascita non possa affatto essere ritenuto violento” perché – vorremmo tutti che così non fosse – purtroppo la violenza è un comportamento che crescendo man mano si apprende. Ecco di nuovo l’apprendimento, ma non può essere considerato solo una parola o un concetto che torna. Può e deve essere considerato qualcos’altro, magari uno strumento di community empowerment e quindi di arricchimento completo dell’ambiente scuola capace di educare, istruire, 27 DOSSIER insegnare e far assumere prospettive relazionali, anziché individualistiche, plurali. In un certo senso il cosiddetto “pensar doppio” che, con questo gioco di parole, spinge al saper riconoscere parallelamente nel conflitto, non solo le proprie legittime esigenze, ma anche gli interessi ed i bisogni altrettanto legittimi dell’altro. Una capacità innata, una abilità acquisibile o una chiave di vita? Interrogarsi serve a poco anche perché ognuno può trovare la risposta che vuole. Meglio allora impegnarsi contro il tempo visto che la scuola, RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA continuando a rivelarsi terreno fertile per malesseri e comportamenti disturbanti o ingestibili che frequentemente vi emergono, può invece darsi subito da fare promovendo laboratori di formazione e di sensibilizzazione alla Mediazione Scolastica. Le esperienze fatte finora in questo ambito, hanno accresciuto la capacità di rendere i ragazzi – e gli altri attori sociali che nella scuola operano – consapevoli sia delle regole di convivenza civile che della potenzialità costruttiva e positiva che i conflitti, se regolati e guidati attraverso le modalità proprie della Mediazione, possono generare. Se il destino di ognuno “assomiglia – come dice Claudio Magris - a quello di Mosé, che non raggiunse la Terra Promessa, ma non smise di camminare nella sua direzione”(4), è tempo allora di indirizzare la scuola, agenzia educativa per eccellenza, verso il sentiero della Mediazione, sicuramente impegnativo, ma meno lacerante e tortuoso di quello della violenza. In fondo “saper essere e restare scolari non è poco, - per Magris infatti - è già quasi essere maestri”. NOTE (1 Carl Rogers, Libertà nell’apprendimento, Giunti Barbera, Firenze, 1973. (2) Bernard Berelson e Gary A. Steiner, Il comportamento umano, FrancoAngeli, Milano, 1969. (3) Dell’effetto trasformativo della Mediazione trattano R.A.B. Bush e J.P. Folger in The promise of Mediation: Responding to conflict through Empowerment and Recognition, Jossey-Bass, San Francisco, 1994. (4) Claudio Magris, Utopia e disincanto, Milano, Garzanti Libri S.p.A., 1999. 28 * Giornalista e sociologo, si occupa di Mediazione non-violenta dei conflitti. E-mail: [email protected]