La mediazione scolastica - Centro psicopedagogico per la pace e la

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La mediazione scolastica - Centro psicopedagogico per la pace e la
DOSSIER
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
OPERATORE AMICO
O MEDIAZIONE TRA PARI?
Intervista a Ersilia Menesini
a cura di Elena Buccoliero
Ersilia Menesini, docente di Psicologia dello Sviluppo presso l’Università di
Firenze. Tra le sue pubblicazioni citiamo Bullismo che fare? (2000) e la
collaborazione ai volumi Il bullismo in Italia e Il gioco crudele curati entrambi
da Ada Fonzi, rispettivamente nel 1997 e 1999.
L’ultimo testo di cui è curatrice, Bullismo: le azioni efficaci della scuola.
Percorsi italiani alla prevenzione e all’intervento (Ed. Ericksson, 2003) ritorna
sulle caratteristiche essenziali del bullismo.
Q
uali sono le premesse del
supporto tra pari?
Questo tipo di intervento, che tende a
far riflettere i ragazzi sul significato di
alcuni comportamenti, sul limite entro
cui un modo di relazionarsi agli altri
può essere considerato accettabile e
rispettoso del compagno, mira a
prevenire una cultura che legittima e
sostiene le prepotenze. Rispetto al
bullismo, dove la prevaricazione è un
modello di relazione diffuso e
capillare, questa diventa una strategia
naturale per affermarsi, entra nella
cultura e nei valori del gruppo. Se il
bullo è ganzo, molti compagni
tenteranno di emularlo.
Questa è anche una indicazione di
lavoro per gli insegnanti affinché
lavorino sulla prevenzione, senza
aspettare che compaiano nelle loro
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classi situazioni di disagio eclatante…
Sì, io credo che molto lavoro
antibullismo nella scuola potrebbe
essere ricondotto alla prevenzione
primaria, ad affrontare e gestire i
conflitti che si manifestano in classe,
ad un’educazione di tipo prosociale ai
valori della tolleranza, del rispetto,
dell’aiuto reciproco. Questa è un po’
l’ottica con cui la scuola dovrebbe
guardare il problema. Una educazione
che possa instillare nei ragazzi
comportamenti che rappresentano
una difesa, un antidoto naturale
rispetto a una cultura della
prevaricazione.
Il problema grosso che molti
insegnanti pongono è la difficoltà di
proporre un certo tipo di valori quando
la società nel suo insieme, i media
stessi propongono modelli opposti,
che valorizzano la persona vincente in
tutte le circostanze, il farsi valere
anche a discapito degli altri e con
mezzi non sempre leciti. Certo, il
problema è grosso.
Potremmo pensare, forse
ingenuamente?, che quello che i
ragazzi possono sperimentare sulla
loro pelle abbia un impatto in qualche
modo maggiore rispetto ai modelli
imposti dalla comunicazione
mediatica, e comunque in modo meno
personale e diretto.
Possiamo dire almeno questo:
sicuramente vivere modelli che si
pongono in alternativa rispetto a quelli
della cultura imperante permette ai
ragazzi di scegliere con più
cognizione di causa, di essere
maggiormente consapevoli rispetto
agli effetti dei loro comportamenti, alle
strategie che utilizzano, rispetto anche
ai benefici che possono trarre, perché
- non dimentichiamolo - possono
esserci forti benefici anche grazie ad
un comportamento collaborativo,
prosociale, disponibile verso gli altri.
Benefici che non riguardano solo chi
riceve aiuto ma anche chi lo dà.
Forse a livello educativo vale la pena
dare ai ragazzi la possibilità di
sperimentare situazioni in cui una
persona ha valore e conta all’interno
della classe perché merita fiducia,
perché sa mettersi a disposizione
degli altri.
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L’operatore amico
Q
uesto introduce il modello
dell’operatore amico?
Sì, è una forma di aiuto tra pari che
propone un modello relazionale
opposto rispetto alla prevaricazione.
L’operatore amico è un ragazzo della
classe che è capace, per un certo
periodo, di essere disponibile, di
aiutare, di mettersi al servizio degli
altri, e per questo viene riconosciuto
come persona importante, che ha un
ruolo significativo e riconosciuto da
tutti.
È uno strumento per certi versi molto
antico, soprattutto nella scuola
elementare. Forse da sempre gli
insegnanti chiedono a chi ha una
competenza di un certo tipo di
sostenere un compagno più debole,
fa parte del crescere insieme nella
stessa classe.
Difatti questi modelli si basano sul
comportamento naturale dei bambini e
dei ragazzi che non sono inclini solo
verso comportamenti negativi ma
agiscono anche comportamenti di
aiuto e di prosocialità. In questo senso
l’aiuto tra pari si innesta su questa
naturale base del comportamento
umano, che è non solo di tipo
individualistico ma anche attento e
sensibile verso gli altri.
I
n quale tipo di scuola è stato
sperimentato l’operatore
amico?
Soprattutto nelle scuole dell’obbligo,
ed è stato sufficientemente validato
nelle medie inferiori dove sembra
essere un modello particolarmente
congeniale. Alcune esperienze pilota
ma molto stimolanti si hanno nel
secondo ciclo delle elementari e nelle
superiori. Probabilmente però tra i più
grandi occorre ritagliare dei ruoli con
un’impronta e un taglio più
specialistico, perché i ragazzi sono
più grandi, hanno maggiore
autonomia sia di spostamento che di
scelta personale, la dimensione
dell’amicizia è meno legata alla classe
e comincia ad essere un rapporto
privilegiato, intimo, tra persone affini.
Tra i più giovani invece questo tipo di
intervento funziona abbastanza bene.
C
ome viene applicato?
All’interno di una classe, con una
preparazione iniziale rivolta a tutto il
gruppo e poi la selezione di alcuni
ragazzi che, per un certo periodo di
tempo, agiscono come operatori
amici. Questi ragazzi vengono scelti
dai compagni e, dopo un training
formativo di uno o due giorni,
assumono l’incarico che mantengono
per un periodo variabile, a seconda
dell’organizzazione scolastica, da un
mese all’intero anno.
Si ritiene però che sia importante una
turnazione in modo che tutti i ragazzi
possano provarsi in questo ruolo, che
pone delle richieste di comportamento
alte e quindi può portare benefici
anche ai ragazzi più problematici,
nella misura in cui possono
sperimentarlo. Il rischio è altrimenti
quello di istituzionalizzare una figura
che dovrebbe essere percepita in
modo molto spontaneo. Ognuno può
imparare ad essere operatore amico,
a fare proprio un atteggiamento di
ascolto, di aiuto, di sensibilità così
come viene richiesto in questo ruolo.
L’
aiuto dell’operatore amico
viene attivato su richiesta del
compagno in difficoltà,
dietro suggerimento di un insegnante
o di altri studenti…?
Le applicazioni sono diverse a
seconda delle scuole. Abbiamo visto
che nelle medie inferiori c’è un
utilizzo abbastanza spontaneo del
compagno operatore, soprattutto se il
clima all’interno della classe è
abbastanza buono e se questo
modello è stato acquisito dalla classe
durante la fase di preparazione, che
può durare anche alcuni mesi, come
modo per esemplificare modalità di
aiuto e di sostegno reciproco.
P
erché è così importante il
lavoro di preparazione e su
che cosa si basa?
È una fase delicata per tutto il gruppo
in cui si prepara il terreno, altrimenti si
corre il rischio che l’intervento venga
percepito come una decisione degli
adulti che interessa solo pochi eletti e
non tutto il gruppo. È invece molto
importante che la classe condivida gli
obiettivi, i valori, i comportamenti che
fondano la figura dell’operatore amico.
È naturale che chi viene eletto sarà
chiamato ad utilizzare questi
comportamenti più degli altri, ma
questo tipo di istituto è al servizio di
tutti.
Concretamente si predispone la
classe attraverso giochi, letture,
spezzoni di film, approcci di vario tipo
che portano a riflettere sul
comportamento prepotente e sul
comportamento di aiuto. L’operatore
amico diventa una figura non
gerarchica, che la classe decide di
darsi per un certo periodo per stare
meglio insieme.
A questo punto il ruolo è ben
conosciuto, i ragazzi hanno capito
cosa vuol dire essere amici, cosa vuol
dire sentirsi in difficoltà con i
compagni e avere bisogno di essere
sostenuti. Generalmente i ragazzi
delle medie si rivolgono
spontaneamente al compagno per un
momento di colloquio, di ascolto.
Alle elementari l’utilizzo spontaneo
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dell’operatore è più difficile. Qui i
ragazzi vengono coinvolti su progetti,
su attività che siano sempre di aiuto e
disponibilità verso gli altri ma in modo
più strutturato e guidato dagli adulti.
Ad esempio, i bambini incaricati
possono organizzare i giochi di
animazione per la ricreazione, aiutare
un compagno in una materia o
partecipare alla preparazione di una
festa. Questi compiti vengono
sperimentati anche alle medie inferiori,
per esempio nei progetti di
accoglienza attraverso forme di
tutoraggio o nella redazione del
giornalino scolastico, ma come
abbiamo visto sono integrati con un
uso più informale.
C
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he cosa fa l’operatore amico di
fronte ad un compagno che
ha un problema da porre?
La sua funzione, soprattutto quando
un compagno chiede aiuto, è di
attivare una funzione di ascolto attivo
affinché l’altro riesca a mettere a
fuoco il problema e a trovare una
soluzione. L’operatore non dà
soluzioni, lo ripetiamo regolarmente ai
ragazzi durante i training, ma guida il
compagno in un momento di sfogo
che poi diventa di approfondimento
rispetto ad un problema. Di per sé
mettere a fuoco le difficoltà è un buon
inizio per trovare una soluzione
conseguente.
È una richiesta molto alta, questa che
viene posta ai ragazzi-operatori.
Richiama immediatamente la funzione
del consulente.
Difatti questa è la radice. Certo però
non pretendiamo che un operatore
amico sia uno psicologo o un
operatore di sportello, ci si limita a
dare ai ragazzi degli strumenti perché
possano fare in misura migliore e con
più consapevolezza quello che tante
volte già fanno: aiutare, ascoltare,
dare conforto a chi è in difficoltà per
trovare una soluzione ai problemi che
incontra.
E
gli adulti che cosa fanno?
Sono fondamentali. L’aiuto tra pari si
basa, è vero, sul fatto che i ragazzi
siano coinvolti e responsabilizzati, e
per primi trovino le strategie per
prevenire e ridurre i problemi, ma
dietro deve esserci un grosso
sostegno degli adulti che introducono
i temi, organizzano la macchina
organizzativa, la selezione, il training e
poi svolgono una supervisione
periodica, settimanale o ogni quindici
giorni.
È molto importante che un insegnante
referente o uno psicologo della scuola
– dove c’è – mantenga il contatto con
gli operatori amici della classe, anche
perché spesso questo tipo di
intervento fa da filtro rispetto a casi
abbastanza gravi. Ragazzi con
situazioni personali o familiari difficili,
o con problemi di natura clinica,
possono presentarsi all’operatore
amico; è necessario che sappia a sua
volta a chi chiedere aiuto e come
indirizzare il compagno in difficoltà
verso la forma di sostegno più giusta
per lui.
Ci sarebbe altrimenti il rischio di
deresponsabilizzare un po’ gli adulti.
Come dire: lo psicologo forma gli
operatori amici, alcuni ragazzi aiutano i
compagni, e gli insegnanti… possono
fare a meno di mettersi in gioco.
Invece non è questo, per niente.
No, anzi. Questo tipo di intervento
vede la scuola come contesto
privilegiato attraverso cui leggere
segnali di disagio ma che può anche
consentire percorsi di intervento
particolarmente significativi. È
assolutamente richiesto il
coinvolgimento degli insegnanti, come
adulti che quotidianamente sono a
contatto con la classe e conoscono
bene i problemi dei ragazzi. Questo è
il grosso limite che si incontra nella
scuola, soprattutto nelle superiori dove
molti docenti tendono ad interpretare il
loro ruolo in modo molto rigido, poco
attento agli aspetti relazionali. Poi
sarebbe utile raggiungere i genitori,
se ci si riesce, ma almeno iniziamo
con gli insegnanti.
Questo percorso dura alcuni mesi, per
una scuola implica un impegno
piuttosto corposo. Significa, cioè,
riconoscere la funzione educativa come
parte integrante del proprio agire, non
come aspetto periferico o puramente
formale. La disponibilità ad assumersi
un ruolo educativo forse è una delle
prime cose che bisognerebbe chiedere
alle scuole e ai docenti.
Certo è un po’ un problema nella
situazione attuale, in cui la riforma
della scuola tende a dare
un’impostazione soprattutto cognitiva
alla scuola ed è sempre più difficile
trovare spazi sistematici per occuparsi
delle relazioni. Questo è vero
soprattutto alle superiori, dove è più
difficile per i docenti intraprendere dei
percorsi perché l’impostazione è molto
professionalizzante, i ragazzi stessi
sembrano diventare parte del
meccanismo produttivo e intanto si
omologano i livelli, i ragazzi più
problematici stanno tra loro,
innescando processi di
socializzazione ad alto rischio per
tutta la società. Come, del resto, la
realtà degli Stati Uniti sta già
dimostrando.
La mediazione tra pari
Q
uali esperienze ha raccolto
invece nel campo della
mediazione tra pari?
Ho avuto modo di fare piccole
esperienze in questo campo, con
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ragazzi di III media in cui si era
attivato un percorso sulla gestione dei
conflitti attraverso la tecnica della
mediazione. In quel caso cercavamo
una applicazione anche rispetto ai
problemi di bullismo.
Abbiamo monitorato questa
esperienza con una ricerca valutativa
che è stata anche oggetto di tesi di
laurea e ha messo a confronto
l’applicazione della mediazione tra
pari, quella dell’operatore amico e
l’andamento di un gruppo di controllo.
C
he cosa emergeva?
I casi di mediazione formale sono stati
pochi, una decina in tutto l’anno
scolastico e hanno affrontato le
situazioni più persistenti, in cui i
mediatori stessi hanno cominciato a
instillare l’idea che la mediazione
potesse rappresentare una risorsa. In
effetti il ricorso all’aiuto di terzi non è
così immediato, almeno nella cultura
italiana. Tuttavia, tutti i casi hanno
avuto esito positivo, si sono risolti con
l’individuazione di un accordo e non
hanno avuto strascichi successivi.
In sintesi potremmo dire che la
mediazione è in sé positiva, ma trova
scarsa possibilità di applicazione.
L’operatore amico è una presenza
diffusa e fa un lavoro di rete, è sempre
presente nella classe, interviene su
tanti piccoli aspetti legati alle relazioni
nel quotidiano, il mediatore invece
interviene in una mediazione formale e
questo significa una richiesta
formalizzata, un appuntamento, una
stanza apposita, la tenuta di un
registro…
Resta particolarmente stimolante
invece lavorare sulla cultura della
mediazione, verso un modello di
“mediazione informale”.
C
he cosa intende?
Nella nostra sperimentazione, al di là
delle sedute di mediazione, ragazzi e
insegnanti hanno imparato molto dal
lavoro svolto. Hanno riconosciuto
l’importanza di capire la natura dei
conflitti, di approfondire alcune
tecniche per la gestione di un
colloquio di ridefinizione del problema,
di accogliere il punto di vista dell’altro
e la molteplicità dei punti di vista…
hanno lavorato sul problem solving
come una delle tecniche
metacognitive che può permettere di
identificare delle soluzioni che
possano essere condivise. L’intero
percorso, di preparazione alla
mediazione formale e che può essere
riferito ad un contesto informale, ci è
sembrato particolarmente
promettente.
Nella scuola può essere utile
introdurre i modelli della mediazione
non tanto perché la si faccia in modo
strutturato, quanto perché i ragazzi
acquisiscano strumenti e competenze
sulla gestione dei conflitti, per
risolvere le piccole o grandi dispute di
ogni giorno.
I
l mediatore poteva essere
interpellato solo dai compagni
della sua classe o anche da
quelli di altre classi?
Si lavorava per classi, e
probabilmente questo ha costituito
una ulteriore difficoltà. Si pensa al
mediatore come ad una figura
neutrale, non coinvolta nelle
dinamiche del conflitto, nel nostro
caso la neutralità era molto difficile.
Un altro modello di gestione dei
conflitti molto sperimentato all’estero,
soprattutto in Inghilterra, è quello della
consulenza tra pari. Io non l’ho mai
applicato perché mi sembra una
forzatura eccessiva per il nostro
contesto culturale, in cui ancora nelle
scuole sono poco diffusi i punti di
ascolto gestiti dagli adulti. In quel
caso, comunque, il counselor non
appartiene mai alla classe di chi
chiede aiuto, proprio per garantire
imparzialità e distacco.
Il gruppo nel caso dell’operatore
amico dovrebbe continuare a
crescere con gli operatori designati.
Tra l’altro uno dei compiti che si
possono attribuire agli operatori amici
è quello di attivare momenti di
discussione in classe. Poi, oltre a
responsabilizzare gli eletti si
promuove il gruppo che può aiutare il
processo stando vicino, denunciando i
problemi se ci sono.
Nel caso della mediazione ci sono dei
modelli che coinvolgono tutta la
classe e sono stati sperimentati
soprattutto in Inghilterra e in Svezia,
ma anche in alcune scuole superiori
italiane. Il Metodo dell’Interesse
Condiviso di Pikas e il Metodo Senza
Accusa, riportati in miei testi
precedenti sul bullismo ed anche su
“Bulli e prepotenti nella scuola” di
Sharp e Smith, sono percorsi in cui
tutti i ragazzi vengono interpellati,
individualmente e poi come gruppo,
per trovare una soluzione condivisa
ad un problema di prepotenza. Questi
percorsi però dovrebbero essere
guidati dagli insegnanti perché hanno
una maggiore complessità e
presuppongono un grosso lavoro su
tutta la classe: vittima, spettatori e
prepotenti stessi.
N
ella vostra esperienza la
mediazione tra pari può
essere applicata in un caso
di bullismo?
La mediazione trova un migliore
utilizzo quando un conflitto è
riconosciuto, e la consapevolezza di
stare in una situazione conflittuale
induce le parti a richiedere l’intervento
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di una terza parte che aiuti un
processo di riavvicinamento.
Nel caso del bullismo non sempre la
vittima è consapevole di essere parte
del conflitto, e lo stesso vale per il
prepotente. Il bullismo, nonostante
abbia una forte natura conflittuale e
aggressiva, è caratterizzato da una
asimmetria tra le parti che porta
entrambe, per ragioni diverse, a
negare l’evidenza del problema.
L’aggressore non riconosce la
posizione del compagno, che a sua
volta in molti casi fa fronte alla
situazione cercando di non pensarci,
di sfuggire al problema. Con queste
premesse, difficilmente si arriva ad
una mediazione. Per la vittima è più
facile chiedere l’intervento di un
operatore amico. E poi c’è la
situazione di squilibrio di forze per cui
una mediazione, se il processo non è
ben preparato, può avere degli effetti
controproducenti perché la vittima
potrebbe non avere la forza di
avanzare le proprie richieste o
potrebbe temere ritorsioni successive.
Certo, una mediazione potrebbe
essere efficace dopo un grosso lavoro
di supporto alla vittima che la aiuti ad
acquisire consapevolezza del proprio
essere in gioco e che riporti la
relazione di prepotenza su un piano
più malleabile che è quello del
conflitto.
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E
se c’è un contrasto tra
ragazzi e insegnanti? Certo
non si può chiedere agli
studenti di fare da mediatori. Quali
altri strumenti si possono cercare in
questi casi?
Nel modello spagnolo viene
sperimentata da qualche tempo una
ipotesi molto interessante che prevede
una équipe di mediazione all’interno
della scuola formata da insegnanti,
studenti e genitori, tutti volontari, che
ricevono una formazione specifica
all’inizio dell’anno scolastico. Tutti questi
soggetti possono fare mediazione,
secondo le richieste delle parti coinvolte
che con la richiesta di intervento
possono indicare se vogliono, come
mediatori, l’una o l’altra figura.
I mediatori lavorano sempre in coppia
per evitare che uno dei due, non
avendo seguito un percorso
professionale vero e proprio, stia troppo
dalla parte di uno dei due contendenti.
Per quanto riguarda la situazione
italiana, è interessante che laddove
abbiamo introdotto il modello della
mediazione tra pari, i professori ci
hanno poi chiesto una formazione
specifica sul conflitto e sulla
mediazione.
C’è una sensibilità all’educazione al
conflitto che si sta diffondendo.
Io credo si cominci a intravedere
l’importanza di comprendere che i
conflitti non solo soltanto sinonimo di
disagio, difficoltà, rottura della
relazione. La mediazione trasmette
anche intuitivamente il senso che tutti
noi viviamo situazioni conflittuali e ci
troviamo a doverle in qualche modo
gestire. Ancora, aiuta a scoprire che
non è sempre necessario andare
incontro a esiti negativi, ma che è
possibile trovare una soluzione
costruttiva che aiuta a mantenere una
relazione positiva con l’altro.
In questo senso le scuole come realtà
di base stanno sviluppando una
sensibilità sempre più elevata su uno
sviluppo integrato dei ragazzi,
sull’attenzione ai loro bisogni, su un
lavoro che vada anche al di là del
semplice contenuto curriculare. Se
penso ai lavori sul bullismo, alcune
ricerche conoscitive che provenivano
dal mondo universitario hanno
progressivamente innestato un grosso
movimento di base… C’è stato un
grosso progetto finanziato dall’Unione
Europea che ha coinvolto Torino,
Modena e Ferrara, e poi il lavoro della
Asl di Milano, quello dell’Irrsae del
Veneto e delle Marche, numerosi
progetti in Toscana, a Roma, a Napoli
con l’Università e con l’associazione
Libera, e ancora in Puglia, in Calabria,
in Valle d’Aosta…
Resta mancante, urgente in Italia una
risposta legislativa nazionale che dia un
quadro di insieme a questo grosso
lavoro.
DOSSIER
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LA MEDIAZIONE IN
PROSPETTIVA EDUCATIVA
Paolo Ragusa *
“Il sistema-scuola è un contesto sociale entro il quale sempre più si vengono a confrontare sotto-sistemi spesso radicalmente
divergenti: gli alunni, gli insegnanti, i genitori, il personale non docente e quello dirigente. Come in qualunque altro sistema
complesso molteplici fattori, legati alle differenti aspettative, motivazioni ed interessi degli attori coinvolti, posso determinare
situazioni di incomprensione, disaccordo e lite. Le possibilità di conflitto entro il contesto scolastico sono dunque numerose e
coinvolgono tutti i protagonisti che a diversi livelli vivono in esso”.(1)
A scuola è conflitto: è possibile
aggiornare le mappe?
P
rovando a leggere la
scuola attraverso la
presente
descrizione,
parziale e
verosimile, ci
sembra che si
possano
individuare alcuni nodi di riflessione
utili alla nostra esposizione.
Si pone una prima area di domanda e
di tras-formazione: è possibile
legittimare il conflitto, trattarlo come
relazione, e quindi come “oggetto di
lavoro” pertinente e specifico per chi
educa? Come assumere il conflitto in
quanto area di responsabilità
professionale degli insegnanti e di
quanti altri nella comunità scolastica
vivono e operano (bambini, ragazzi,
genitori, personale non educativo,
dirigenti)?
L’educazione(2), se intesa come
disciplina, sanzione, punizione, è da
considerare antitetica rispetto al
conflitto, si tratta di una pratica
paradossale e incompetente che tenta
di “pacificare” la relazione e creare
improbabili condizioni di aconflittualità, di ordine e di assenza di
divergenze, di contrasti e di diversità.
Il conflitto, (3) se “trattato” come
violenza, come incompatibilità
personale, come disturbo della
relazione e minaccia al potere di chi
educa, è classificato come estraneo o
meglio “da estraneare” dalla scuola,
dalle comunità. Come ci ricorda Anna
Oliverio Ferraris “ Crescere significa
separarsi, cambiare, differenziarsi; il
processo di crescita è sviluppo
progressivo verso l’autonomia. E
permettere questo processo di crescita
e separazione, finalizzato a diventare
indipendenti, “è un lavoro che richiede
tempo”, difficile tanto per chi cresce
che per chi educa. Infatti se da un lato
questi ultimi desiderano che i ragazzi
siano indipendenti e responsabili e
rinuncino alle richieste infantili, dall’altro
paventano gli effetti di questa
indipendenza e hanno difficoltà a
separarsi. È necessario un certo tempo
perché un ragazzo o una ragazza
acquisti la sicurezza e l’indipendenza
necessarie per separarsi
definitivamente dal mondo infantile, per
compiere scelte autonome e
differenziarsi da chi educa, senza
paure e sensi di colpa.” (4)
Il conflitto, se assunto e riconosciuto in
quanto relazione, diventa generatore
di potere e responsabilità
partecipativa per le diverse
competenze del “sistema-scuola”, tra i
ragazzi/e e bambini/e e con gli adulti.
Il conflitto, se trasformato in quanto
evento emotivo, alleggerisce il peso
delle relazioni, talvolta insostenibile, e
ricodifica, attribuendo significati
intenzionali ed espliciti, ai legami, sia
in senso sincronico che in senso
diacronico.
Il conflitto, se integrato in quanto
problema, attraverso processi di
negoziazione, genera pratiche di
comprensione e di coesione
interpersonale e comunitaria.
Le pratiche educative e le
pedagogie(5) ci dicono che
l’educazione che rende autonomi e
competenti è conflittuale, mira ad
attivare processi di differenziazione
che integrano il conflitto,
considerandolo uno stato-relazionale
generativo e creativo, risorsa per la
costruzione di relazioni che non
possono prescindere dal riconoscere,
svelare, valorizzare e contenere le
diversità (identità convenzionalecodice implicito) e le differenze
(identità specifica – codice
esplicito)(6) nei vari segmenti
relazionali (adulto-bambino, bambinobambino, adulto-adulto).
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DOSSIER
“Sostare nel conflitto”(7), oltre che
descrivere la condizione di chi è in
relazione educativa, può rappresentare
la prospettiva pedagogica, “la nuova
mappa” dell’educazione, nella scuola,
nelle diverse comunità educative, nei
molteplici frammenti della convivenza
sociale.
“Sostare nel conflitto” significa creare le
condizioni affinché il legame/patto
educativo possa reggersi non solo
sulla simpatia/armonia ma a partire
dalle divergenze e dalle diversità. Si
tratta di un processo intenzionale e
consapevole che porta a superare la
reattività primaria verso una relazione
competente, capace di ri-attivare
interazioni possibili e a misura delle
parti in gioco. Ci piace rappresentarlo
come un processo a spirale
(azione/reazione/relazione...) che
produce nel “tempo relazionale” azioni
più efficaci, rea-zioni più competenti ,
rel-azioni educative responsabili, dove
la cura di sé e la cura dell’altro siano
gli indicatori interni di assunzione del
conflitto.
“Sostare nel conflitto” implica un
approccio trasformativo ai conflitti in cui
prevale la cura e la responsabilità per
gli esiti possibili, rispetto alla ricerca
delle soluzioni e allo scioglimento del
conflitto stesso (terminazione del
conflitto(8)).
A partire dal riconoscimento delle
differenze (personali, culturali, di
ruolo,...) e quindi dando legittimità al
conflitto, l’esito auspicabile diventa la
trasformazione della relazione fra le
parti, in modo da attenuare gli effetti
reattivi legati al conflitto(9). Non si tratta
quindi di volere ri-solvere o dis-solvere
il conflitto, bensì di assumerlo come
occasione per ristrutturare le relazioni,
facendole evolvere e coevolvere in
strutture relazionali maieutiche (10).
Trasformare i conflitti a scuola:
possibile modificare le pratiche?
Quale mediazione?
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Ci piace proporre la mediazione come
opzione educativa, come stile
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relazionale diffuso nelle comunità
scolastiche, come pratica
intenzionale di gestione trasformativa
delle situazioni di conflitto.
La mediazione in prospettiva
educativa favorisce la ricerca di
processi e assetti relazionali e
organizzativi possibili e sostenibili
dalle comunità scolastiche medesime
(funzione autoregolante); permette di
strutturare relazioni, legami, aree di
responsabilità personali e collettive
che investono nel futuro, prossimo e a
lungo termine.
La mediazione in quanto procedura,
formale e informale, contagia e
permea in modo diffusivo le relazioni,
tanto da diventare opzione di stile di
una comunità: il conflitto non
spaventa, per quanto crei disagio,
perchè la comunità lo riconosce e si
attiva nel senso dell’aiuto e
dell’accompagnamento nella gestione.
La mediazione, a partire dalle
microrealizzazione tra bambini/
ragazzi /giovani (peer mediation), può
diventare risorsa non solo per i
soggetti direttamente coinvolti ma per
l’intero gruppo classe, per la comunità
educante allargata (insegnanti,
genitori, ...).
La mediazione, in quanto richiesta di
aiuto (11), legittima non solo la
“trattabilità” del conflitto ma soprattutto
l’istanza e il bisogno di aiuto, troppo
spesso implicito e inespresso, di
quanti sperimentano un conflitto. I
bambini e gli adulti apprendono che
chiedere aiuto è un’assunzione di
responsabilità per sé e per l’altro
(individuo o gruppo che sia) e che
rappresenta il primo esito
trasformativo del conflitto.
La mediazione che aiuta sgretola le
pratiche educative, professionali e
genitoriali, difensive e autoreferenziali
(“la mia esperienza pregressa è
l’unico modo che conosco e che uso
per affrontare i conflitti”), creando una
“contro cultura”. (12)
Un insegnante che chiede aiuto è un
professionista competente e
responsabile.
Un genitore che chiede aiuto è un
educatore che ha a cuore il futuro e
l’autonomia del proprio figlio/a.
Un bambino/ragazzo/giovane che
chiede aiuto sperimenta il proprio
potere personale e apprende il limite
delle relazioni. L’aiuto in mediazione
abilita all’esercizio della capacità
decisionale e di scelta, anche nelle
situazioni complesse quali i conflitti.
Permette di misurarsi (riconoscere ed
esprimere) con stati emotivi dalle tinte
forti (rabbia, rancore, fallimento...).
Implementa le competenze
comunicative, sia funzionali che
espressive, di ascolto e di empatia.
Una comunità scolastica che pratica
la mediazione, sa chiedere aiuto ed è
capace di aiutare, attiva le risorse
interne, anche conflittuali, “rinomina” i
significati, troppo spesso impliciti,
dell’educare e dell’istruire. E’ capace
di fare richieste e intraprendere scelte
autonome, progettare il futuro,
piuttosto che praticare la lamentela e il
desiderio di una “scuola ideale” priva
di conflitti.
“In primo luogo il progetto di
mediazione si basa sulla delega, da
parte dei responsabili degli Istituti
scolastici, agli alunni mediatori, di un
certo potere della gestione dei
conflitti. Infatti si tratta di un nonpotere, dal momento che il compito
del mediatore si limita ad aiutare le
parti in conflitto a trovare una
soluzione ai loro problemi. Persino con
questo limite l’idea di delegare un
potere ad alcuni alunni ha suscitato
contrasti all’interno degli Istituti da
parte dei membri della comunità
educativa che temevano un’ulteriore
perdita di potere”. Jean-Pierre BonaféSchmitt (13)
Un’ipotesi: un progetto integrato di
aiuto alla gestione dei conflitti
L’attivazione di uno Spazio
Mediazione Conflitti rappresenta per
la comunità scolastica, uno
strumento/pretesto significativo (14),
DOSSIER
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
che tende a realizzare apprendimenti
e competenze personali e sociali in
vista di una convivenza costruttiva e
rispettosa delle diversità (adultoadulto, adulto-ragazzo/a, ragazzo/aragazzo/a).
Lo Spazio Mediazione Conflitti è l’esito
di un processo di promozione,
alfabetizzazione e formazione alla
gestione/trasformazione dei conflitti,
rivolto alle diverse componenti della
comunità scolastica.
Lo Spazio Mediazione Conflitti ,
risponde ad una funzione diretta di
aiuto alla composizione dei conflitti
tra pari, e indirettamente a
promuovere pratiche relazionali
competenti e forme morbide (15) di
consenso. e di coesione tra adulti che
educano.
Formando e responsabilizzando (16),
all’interno dei gruppi dei pari,
bambini/e e ragazzi/e capaci di
essere mediatori nei conflitti e
facilitatori nelle relazioni, nei contesti
educativi è possibile sperimentare
apprendimenti significativi e nuove
forme di coesione tra pari e con gli
adulti.
Ai genitori vengono proposti gruppi
maieutici di confronto, dove si
sperimentano forme di mutuo
sostegno alla genitorialità e pratiche di
gestione educativa dei conflitti.
Con gli insegnanti si costruiscono
percorsi formativi per la conduzione
delle classi, per la gestione dei
momenti collegiali tra adulti e per la
progettazione di azioni di
sensibilizzazione del contesto intra ed
extrascolastico.
Il progetto integra, nel complesso,
azioni, esiti e tempi diversificati
aggregati attorno alle seguenti aree
di risultato:
✔ Implementare la rete di relazioni tra
insegnanti, genitori, operatori non
educativi e dirigenziali favorendone il
confronto, la differenziazione e la
progettualità in una prospettiva di
coesione educativa.
✔ Facilitare apprendimenti relazionali,
nelle persone e nella comunità
scolastica, in dialogo con il territorio,
relativi ad una cultura del conflitto
come risorsa e area di responsabilità
nella pratica educativa.
✔ Sostenere la comunità scolastica
nella realizzazione, di uno Spazio
Mediazione Conflitti, con funzione di
aiuto diretta con ragazzi/e e bambini/e
e, indiretta con genitori e insegnanti.
Alcune questioni aperte: la
volontarietà, la terzietà, i risultati.
Dal monitoraggio dei progetti in corso
e già realizzati ci sembra di potere
individuare alcune aree di criticità
rispetto alle pratiche di mediazione nei
contesti educativi, comuni e
comunque riconducibili alla
mediazione nel suo significato e uso
più generale.
La volontarietà, costitutiva ed
essenziale (17) della scelta di un
aiuto/accompagnamento nel trattare
una situazione di conflitto, risulta
talvolta compromessa da una certa
direttività da parte degli
adulti/educatori che interpretano la
mediazione come una
“procedura/pratica d’ufficio”, cui
inviare bambini/ragazzi/giovani che
risultano loro “intrattabili”. Si tratta di
una sorta di “ultima spiaggia” per
situazioni e soggetti che il tempo
ordinario e le pratiche educative
consuete non riescono a governare. Al
contrario, si verifica che, in nome del
rispetto/attesa dei tempi e delle
modalità delle persone e degli
accadimenti, le pratiche di mediazione
siano inibite per una bassa
propensione a chiedere aiuto e a
trattare in modo versatile le situazioni
complesse, quali i conflitti.
Ci sembra che la volontarietà di
accesso alla mediazione vada
contestualizzata e promossa. È
impensabile, ad esempio, che si
possa scegliere di fare ricorso alla
mediazione di un pari, se questa
opzione risulta eccessivamente
“contro corrente” rispetto alla cultura
relazionale di riferimento. Promuovere
la volontarietà nelle pratiche di
mediazione significa, ad esempio,
abilitare i bambini/ragazzi/giovani a
chiedere aiuto, a scegliere tra opzioni
diverse possibili, a rischiare di
intraprendere esiti non sempre
soddisfacenti e parziali, a
familiarizzare con stati emotivi caldi,
tipici delle situazioni di conflitto.
La terzietà, in quanto indicatore di
neutralità, sembra talvolta non
garantire (18) “la pulizia “ del
processo mediativo. La condizione di
pari attiva nel mediatore una funzione
di “alleato”, induce ad identificarsi
con il compagno e/o con la situazione,
a tal punto da compromettere il suo
ruolo di terzo rispetto alle parti e al
conflitto (19) Crediamo comunque
che, osando un’opzione educativa e
implementando le competenze dei
mediatori, vada corso il rischio di un
processo e di un esito “non esatto”
ma possibile, a misura del contesto.
Ipotizziamo in proposito che la terzietà
non debba essere considerata una
condizione a priori, contravvenendo
ad un altr’altra delle caratteristiche
auspicabile del mediatore (la
familiarità ai contesti), ma che possa
configurarsi come esercizio di una
competenza, da implementare, da
sperimentare, da rischiare e verificare
di volta in volta.
I risultati “benefici” (20) della
mediazione nei progetti educativi sono
troppo spesso classificati sotto il più
ampio ambito della valutazione degli
obiettivi scolastici: miglioramento del
clima, aumento del rendimento e della
motivazione, riduzione dei “casi
difficili”. Si aggiunga a ciò
un’impropria aspettativa e talvolta
un’illusoria promessa di sospensione
della violenza e di riparazione dei
suoi “ingiusti esiti” (21).
Ci sembra che non si possa chiedere
alla mediazione di trattare oggetti
diversi dal conflitto e di conseguenza
produrre risultati che sono invece da
classificare nell’area della riparazione
del danno e dell’ingiustizia piuttosto
19
DOSSIER
che nell’apprendimento e nella
relazionale.
“… si può comprendere che la
mediazione scolastica sia non solo
una semplice tecnica di gestione
della violenza e un modo di
pacificazione delle relazioni sociali
nell’ambito scolastico, ma debba
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
essere considerata un effettivo
processo educativo in grado di
favorire la diffusione di un nuovo
modello di regolazione dei conflitti,
più consensuale, che fa appello alle
nozioni di contratto, di fiducia, di
equità. La mediazione rappresenta
anche una nuova forma di azione
comune, che rinvia a una
composizione dei rapporti tra lo
Stato e la società civile, alla
costituzione di nuovi spazi
intermedi di regolazione delle
relazioni sociali. La mediazione
scolastica si inscrive in questa
ricomposizione …” (22)
NOTE
(1) Cfr. Ritagrazia Ardone-Cristina Gatti, Cosa pensano gli alunni del conflitto a scuola: una ricerca esplorativa, in Ritagrazia Ardone-Anna Costanza Baldry,
Mediare i conflitti a scuola. Presupposti teorici e intervento psicosociale, Carocci, Roma 2003, pp. 39-40.
(2)Quando mi chiedono “Cos’è l’educazione?”, rispondo in maniera molto banale e semplice: “Costruire l’autonomia”. Il compito educativo consiste nel fare
in modo che il soggetto sia in grado di costruirsi un proprio spazio di riferimento autonomo e creativo, basato sull’utilizzazione migliore delle proprie risorse.”
Cfr. D. Novara L’ascolto s’impara, EGA, Torino 1996, p. 59.
(3) Riportiamo due descrizioni della parola conflitto con accentuazioni (psicorelazionale , la prima, sociologica, la seconda) diverse ma entrambe utilizzabili
in riferimento ai contesti educativi: “Si tratta di uno stato della relazione, che riguarda due o più persone, in cui si presenta un problema che crea un
disagio” , cfr Enrico Euli-Marco Forlani (a cura di), Guida all’azione diretta nonviolenta. Da Comiso a Genova e oltre: come ci si prepara alla protesta, Berti,
Piacenza 2002, p. 81.
“Il conflitto è un’interazione tra attori (individui, gruppi, organizzazioni ecc.) in cui almeno un attore percepisce un’incompatibilità con uno o più attori nella
dimensione del pensiero e delle percezioni, nella dimensione emozionale e/o nella dimensione della volontà in una maniera tale che la realizzazione (dei
propri pensieri, emozioni, volontà) venga ostacolata da un altro attore”. Cfr. Friedrich Glasl, Konfliktmanagement. Ein Handbuch fùr Fùhrungskràfte,
Beraterinnen und Beraten, Bern-Stuttgard 1997, p.14.
(4)Anna Oliverio Ferraris, Crescere. Genitori e figli di fronte al cambiamento, Raffaello Cortina, Milano 1992.
(5) Per una rassegna dei vari contributi sul conflitto nei processi di crescita relazionale cfr. Elisabetta Nigris, I conflitti a scuola. La mediazione pedagogicodidattica, Bruno Modadori, Milano 2002
(6) Cfr. Donata Francescato-Anna Putton, Stare meglio a scuola, Mondadori, Milano 1996
(7) Cfr. Daniele Novara, L’alfabetizzazione al conflitto come educazione alla pace, in Fulvio Scaparro (a cura di), Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e
pratiche di risoluzioni alternative delle controversie, Guerini e Associati, Milano 2001
(8) Seppure in riferimento a contesti macro, cfr. E.Arielli,-G. Scotto, I conflitti. Introduzione a una teoria generale, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp 87-99
(9) Con Danilo Dolci potremmo dire “... interpretare e fare emergere quanto di meglio pulsa in sé e negli altri”, in La struttura maieutica e l’evolverci, La
Nuova Italia, Firenze 1996, p. 279
(10) Cfr. Carlo Romano, Comunicare e coevolvere in strutture maieutiche. Un percorso di formazione di adulti, Franco Angeli, Milano 2001
(11) “Insieme, chi dà aiuto e chi lo riceve interagiscono per facilitare la loro comune rielaborazione (esplorazione, comprensione, azione) dei problemi e
degli obiettivi di chi chiede aiuto. Questa è l’essenza della relazione di aiuto”. Robert Carkhuff, L’arte di aiutare, Erikson, Trento 1994, p. 40
(12) Cfr. Jean-Pierre Bonafé-Schmitt, La mediazione scolastica: un processo educativo?, in Gianvittorio Pisapia-Daniela Antonucci, La sfida della
mediatione, CEDAM, Padova 1997, p.123
(13) “L’obiettivo perseguito dal progetto di mediazione non è semplicemente quello di rispondere a problemi immediati con i quali gli Istituti scolastici si
confrontano, come la violenza, il vandalismo, l’assenteismo ... ma di favorire un cammino pedagogico attraverso la diffusione di un nuovo modo di
regolazione dei conflitti: la mediazione.” Jean-Pierre Bonafé-Schmitt, La mediazione scolastica, op. cit., p. 124-125
(14) Jean-Pierre Bonafé-Schmitt La mediazione scolastica, op. cit., p.118.
(15) Cfr. Maurizio Lozzi in Karin Jefferys-Duden, Mediatori efficaci. Come gestire i conflitti a scuola, La Meridiana, Molfetta (BA) 2001. Il testo rappresenta un
esempio, di area tedesca, di percorso formativo e di strumentazioni per i bambini della scuola primaria
(16) Per un percorso strutturato di formazione sperimentato nel contesto ispanico cfr. Juan Carlos Torrego Seijo (a cura di), Vinco Vinci. Manuale per la
mediazione dei conflitti nei gruppi educativi, La Meridiana, Molfetta (BA) 2003.
(17) “Las mediaciones farzadas o impuestas tienen escasas probabilidades de ser exitosas. Igualmente la decisiòn de ir a una mediacion por los
contendientes debe ser libre y coluntaria.” Cfr. Xesùs R. Jares, Educaciòn y conflicto. Guìa de educaciòn para la convivencia, Editorial Popular, Madrid
2001, p.168
(18) In riferimento alla questione legata alla mediazione in generale ci sembra utile il riferimento a Christoph Besemer, Gestione dei conflitti e mediazione,
EGA, Torino 1999, pp. 105-112
(19) “…el mediator/a no es un servidor de los contendientes y no debe estar en funciòn de sus interesse. En este sentido debe evitar las posibles
estrategias de seducciòn o complicidad por alguna o las dos partes, mantenendo sempre su identidad”. Cfr. Xesùs R. Jares, Educaciòn y conflicto, op cit.,
p.166
(20) Cfr. Anna Costanza Baldry, Conflitti e bullismo a scuola. La mediazione scolastica come possibilità di risposta, in Fulvio Scaparro (a cura di), Il
coraggio di mediare, op. cit., p. 231-232
(21) Se la mediazione avesse avuto luogo prima dell’espressione del conflitto, non ci sarebbe stato bisogno della violenza verbale o fisica. La sospensione
(delle parti coinvolte) che ne è seguita è a sua volta una macchina per fabbricare violenza. I Presidi vi fanno sempre a maggiore ricorso perché non
dispongono di alcun altro mezzo”. Jacqueline Morineau, Lo spirito della mediazione, Franco Angeli, Milano 2000, p. 127
(22) Jean-Pierre Bonafé-Schmitt, La mediazione scolastica, op. cit., p. 130-131.
20
* Formatore e consulente educativo del Centro Psicopedagogico per la Pace di Piacenza
DOSSIER
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
GLOSSARIO/MAPPA
PER ORIENTARSI
NELLA MEDIAZIONE
a cura di Elena Galeazzi
T
RASFORMAZIONE
Prendendo atto della esistenza delle
differenze e dei contrasti, e quindi
dando legittimità al conflitto, la
mediazione mira ad una
trasformazione della relazione fra le
parti, in modo da diminuire gli effetti
indesiderati legati al conflitto. Non si
tratta quindi di volere risolvere o
dissolvere il conflitto, bensì di
assumerlo come occasione per
ristrutturare le relazioni, facendole
evolvere in senso costruttivo.
T
ERZIETA’
Il mediatore, presente in situazione
come (ri)animatore della
comunicazione, rompe la situazione
duale in cui le parti sono rimaste
bloccate, irrigidendosi sulle proprie
posizioni e, tirando ognuna dalla
propria parte, rendendo sempre più
inestricabile il nodo della questione
che le vede coinvolte. Il mediatore
aiuta le parti ad uscire da questa
dinamica del tipo “io vinco, tu perdi”,
inserendo nel processo di mediazione
tutti quegli elementi utili a sviluppare
un pensiero “altro” (terzo) rispetto alla
logica del “muro contro muro”.
E
MPOWERMENT (CAPACITAZIONE)
Presupposto della mediazione è la
possibilità per le parti di
riappropriandosi della propria
capacità decisionale. Per questo esse
si rivolgono liberamente ad un
mediatore, che le aiuti a riattivarsi e a
riassumersi la responsabilità della
relazione che le vede coinvolte, senza
più delegare ad altri la soluzione dei
propri problemi.
P
ROCESSUALITA’
Il mediatore, più interessato al
processo che ai risultati della
mediazione, mira ad aiutare le parti ad
acquisire uno stile di comunicazione
efficace, costruttivo, praticabile e
duraturo nel tempo. Allontanando
l’”ansia da soluzione”, permette ai
confliggenti di concentrarsi sul
processo, dando al conflitto il proprio
tempo/spazio per essere pensato,
aiutando le parti a riconoscere i
risultati progressivamente raggiunti e
ad individuare le aree di ulteriore
sviluppo.
G
ENERATIVITA’
Nella mediazione le parti si
impegnano, attraverso l’aiuto del
mediatore, a ricercare quelle opzioni
trasformative del conflitto che siano in
grado di procurare reciproco
beneficio. Ai cofliggenti, che stanno
facendo la fatica di incontrarsi, la
mediazione offre strumenti che
consentano di aprire il campo anche a
quelle opzioni non ancora praticate,
ma praticabili/possibili, e che
permettano di potenziare gli elementi
costruttivi (generativi) della relazione.
D
ISTANZIAMENTO
La mediazione permette di assumere
un distanziamento
temporale/spaziale/emotivo rispetto al
conflitto agito, consentendo alle parti
di continuare a muoversi all’interno di
esso mediatamente e meditatamente:
proprio il contrario di ciò che
farebbero se agissero
immediatamente, per impulso.
V
OLONTARIETÀ
È importante segnalare che
l’intervento del mediatore deve essere
accettato da entrambe le parti in
conflitto. Le mediazioni forzate o
imposte hanno poche probabilità di
riuscita. Allo stesso tempo la
decisione di andare in mediazione per
i contendenti deve essere libera e
volontaria. E a questo va aggiunto che
le parti in conflitto possono ritirarsi in
qualunque momento e senza essere
vittime di pregiudizio.
21
DOSSIER
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
REGOLIAMOCI TRA REGOLE
E RESPONSABILITÀ:
RAGAZZI MEDIATORI A SCUOLA
a cura di Michela Bertazzo *
“Lavorare con i bambini
vuol dire avere a che fare con poche certezze e molte incertezze:
ciò che salva è il cercare.
Occorre avere il coraggio di produrre ostinatamente progetti e scelte.
Questo compete alla scuola e all’educazione”.
1
22
Attra-VERSO il dis-ORDINE e il
dis-AGIO
Agio e disagio a scuola: momenti ed
esperienze quotidiane ed usuali, in cui
tutti ci si ritrova e ci si riconosce.
La difficoltà dell’insegnare la vivi e la
percepisci ogni giorno: nell’incontro o
nello scontro con i ragazzi, nel
riconoscersi e comunicare tra colleghi,
nel sintonizzarsi con il modo di vedere
dei genitori, nel fitto intreccio delle
relazioni tra ragazzi e nella faticosa
costruzione dei saperi e delle
conoscenze.
La scuola che ci portiamo dentro
c’interroga e ci chiede di superarne i
limiti: è la scuola delle domande
“illegittime”(1) di cui sappiamo già la
risposta e che non costruiscono
conoscenza, del programma da finire
ad ogni costo, dei saperi inermi e
dello sguardo fisso sulle cose …
dell’insegnante “locomotiva: che
trascina gli altri su un binario fisso,
obbligatorio”. È una scuola che entra
in contraddizione tutti i giorni con i
processi cognitivi interrotti dalle
situazioni di disagio, con il disordine e
dalla dispersione dei saperi, con i
nuovi codici comunicativi e i sistemi
complessi, con l’insoddisfazione ed il
malessere latente, con le mille
situazioni di conflitto e di difesa.
Il punto di partenza, quindi, è un
quadro di disagio che
quotidianamente rileviamo nella
scuola e che si traduce in disturbi di
relazione e di apprendimento che a
loro volta acuiscono e ri-creano nuovi
disagi ed incomprensioni.
Spesso, dentro le aule, al problema
rispondiamo eliminando i sintomi,
occultandolo se non a negarlo,
stemperando le contraddizioni,
facendo rientrare i rumori in un
silenzio apatico e ancora una volta
ritornando alla nostra “normalità”, in
una nicchia che ti garantisce di non
perdere il senso dato…
finché …
in questo “magma” emotivo qualche
situazione tenuta sotto pressione
esplode, mette sotto il naso di tutti un
groviglio di nodi irrisolti, investiti,
segnali di disagio che si intrecciano,
che si acuiscono, che ripescano dalla
memoria, che coinvolgono, che …..
diventano sfida per la complessa
pratica del mestiere di insegnante, per
una assunzione di responsabilità che
“pesano”.
2
A PARTIRE DAGLI INSEGNANTI
Il forte desiderio di trovare qualche
risposta, di imparare a riconoscere e
gestire la relazione quotidiana ci ha
portato come insegnanti ad investire
per tre anni nella formazione per
sperimentarci “Insegnanti efficaci”.
Qui, con un gruppo di colleghi più
volte ci siamo confrontati sulle
difficoltà a cui ogni giorno facciamo
fronte: sul sempre più complicato
compito educativo, sui comportamenti
a volte distruttivi dei nostri ragazzi che
ci disorientano o ci portano ad un
inasprimento delle sanzioni da
applicare, sulla difficoltà ad orientarsi
fra gli opposti di una
personalizzazione della relazione con
gli allievi e l’esigenza di rispettare ruoli
e ambiti di “potere”.
Abbiamo anche analizzato il
significato e il valore di pratiche di
disciplina che continuiamo ad
utilizzare ma di cui ogni giorno
sperimentiamo anche l’inefficacia: i
giudizi, le note, le punizioni, le
prediche, l’autorità ed il controllo
eccessivo, le bocciature o le
sospensioni, ma anche l’indifferenza,
l’eccessiva indulgenza del lasciar
correre e non prendere posizione o il
negare e non esplicitare i propri
sentimenti negativi: il nervosismo, le
preoccupazioni, le delusioni ....
Abbiamo insieme provato ad
assaporare la possibilità di un metodo
più efficace che fa accrescere il senso
di autonomia, responsabilità di ogni
DOSSIER
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
persona che passa attraverso la
definizione condivisa delle regole,
l’attenzione ai bisogni e ai messaggi
nascosti nei comportamenti per noi
inaccettabili, l’attenzione al nostro
linguaggio perchè comunichi ascolto,
apertura, accettazione ma anche
espressione reciproca dei sentimenti
che proviamo e l’impegno a definire
periodicamente un tempo a
disposizione per il confronto su scelte,
sui bisogni reciproci e per la soluzione
dei problemi.
Ecco allora il nascere di alcuni
progetti d’Istituto, da condividere tra
insegnanti, con gli alunni, con i
genitori: i CONTRATTI DI CLASSE E DI
SCUOLA gestiti in momenti di
progettazione partecipata con gli
alunni; i CONTRATTI FORMATIVI con i
genitori; gli SPAZI DI PARTECIPAZIONE in
classe (assemblee, incontri periodici
dei rappresentanti, circle time..) e un
sistema di rappresentanti di classe e
di scuola per la definizione e la
soluzione di problemi ed iniziative che
li riguardano o che da loro nascono e
li coinvolgono; l’attivazione di una
prima esperienza di SPAZIO ASCOLTO
per le ragazze ed i ragazzi di scuola
media come luogo d’incontro e
confronto per essere riconosciuti
anche nella narrazione di problemi e
situazioni di disagio individuale e di
piccolo gruppo, per dare spazio all’
“arte di ascoltare”(2).
3
A PARTIRE DALLE RAGAZZE
E DAI RAGAZZI
Ripartire da una scuola che accoglie i
ragazzi richiede di ripartire dal diritto
di parola e dall’arte di ascoltare per
poter capire emozioni e resistenze,
accogliere i punti di vista e
sintonizzarsi: significa innanzitutto
lasciar esprimere. Questionari e
momenti di circle time, assemblee di
classe e di scuola, riportano a galla
desideri e bisogni ma anche proposte
ed elaborazioni.
La possibilità di dire quando non ci si
sente bene a scuola:
“Non sono accettato dai miei
compagni” ,
“Sono stato malmenato più volte ed ho
dovuto cavarmela da solo”,
“Non m’impegno a scuola, ma
nemmeno la scuola mi ha aiutato
molto!”
“Ci sono tante situazioni che non
approvo e che non ritengo giuste”
“Non mi sento libera di esprimermi”
Ma anche lo sforzo di dare consigli e
fare proposte:
ai compagni
“Dobbiamo imparare ad essere
sempre se stessi ed esprimere
sempre le proprie idee, che siano
giuste o no”
“Non farci condizionare dai giudizi
degli altri”
“Non sottovalutarci”
“Lottare per avere una scuola più
bella e più attrezzata”
agli insegnanti:
“Ogni tanto, nei momenti critici,
concedete ai ragazzi e a voi stessi 5
minuti di pausa”
“Aiutate di più i ragazzi, dateci fiducia
e affidateci incarichi di responsabilità”
“Cercate di avere un rapporto meno
distaccato con noi ragazzi”
“Sappiate ascoltare i nostri problemi.”
4
AZIONI E
MEDI-AZIONI RECIPROCHE
La necessità allora di intraprendere
nuove direzioni e questa volta
insieme, insieme tra noi insegnanti,
con le ragazze ed i ragazzi con cui
condividiamo la quotidianità
scolastica, con i loro genitori, ci ha
portato alla proposta di “ri-aggiornare
le mappe” delle nostre convinzioni sul
conflitto, sulla responsabilità ed
autonomia dei ragazzi, sulle capacità
cooperative di intervento e supporto
tra pari, su un nuovo ruolo docente
“ed educatore come regista e
facilitatore di processi formativi e di
apprendimento”(3) all’interno di una
struttura “maieutica” che si fonda
proprio sull’interdipendenza organica
delle parti, sulla reciprocità.
E’ nato così, alla scuola media un
Progetto Pilota che si aggiunge alle
azioni prima elencate: “Regoliamoci tra regole e responsabilità: ragazzi
mediatori a scuola” che, costruito
insieme con il Centro
Psicopedagogico per la Pace, ha
coinvolto, per decisione del Collegio
Docenti, nell’anno scolastico 2002/03
solo alcune classi ma, pur in forme e
modi differenziati, tutte le componenti
scolastiche e che, per il corrente anno
scolastico (2003/04), dopo aver
effettuato una riflessione guidata per
capirne significato, punti di forza e
debolezza, possibili contaminazioni
reciproche, ci ha portato ad allargare
e diffondere le pratiche sperimentate
efficaci a tutta la scuola media.
Saper stare costruttivamente nel
conflitto significa anche entrare dentro
e saper stare costruttivamente nel
disagio. È questa una delle più grosse
difficoltà richieste ad insegnanti,
alunni e genitori, a chiunque si occupi
e pre-occupi di educazione:
riconoscere e distinguere il problema
dal disagio che percepiamo e non
cercare di eliminarlo per non provare
sofferenza, ma prendersene cura
attraverso un attento riconoscimento
ed una profonda accettazione che ci
permette di osservarlo, accoglierlo per
poi intravedere possibilità di azione.
Mantenere la distanza dalle proprie
emozioni, il riconoscimento positivo e
l’accettazione incondizionata della
persona /vs. il possibile cambiamento
dei comportamenti, richiede di
investire e sviluppare capacità e
competenze di sensibilità e
discernimento, di rottura delle gabbie
dei pre-giudizi per incunearsi invece
nelle spesso tortuose vie dei processi
di esplorazione dei conflitti.
Non e semplice né immediato attuare
un cambiamento di percezione, una
“ristrutturazione cognitiva”(4) che,
attraverso il riconoscimento del
23
DOSSIER
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
IL PROGETTO:
FINALITÀ: costituire un gruppo di progetto di
Insegnanti, genitori, ragazzi
competenti nella gestione/trasformazione dei conflitti
PUNTI CHIAVE DEGLI OBIETTIVI
✔ il riconoscimento, la gestione e la trasformazione dei conflitti
educativi
✔ efficaci strategie e tecniche per la conduzione formativa
della classe
✔ l’attivazione del processo di mediazione
✔ la relazione, confronto e mediazione educativa in gruppo
✔ forme ed occasioni di autoapprendimento
24
disagio e del problema, nel processo
attivato nella comunicazione,
attraverso tutto quello che nella
relazione viene detto e fatto e nel
modo con cui avviene, possa
trasformare e modificare il proprio e
altrui punto di vista fino a far vedere le
cose in modo significativamente
diverso da prima!
Ecco allora un corso di formazione per
ognuna delle componenti coinvolte
(insegnanti dei consigli di classe
coinvolti, alunni mediatori, genitori
della scuola).
E parallelamente un percorso di azioni
concrete che si snodano durante
l’anno scolastico e che, con momenti
di incontro nel gruppo, di interazione
tra componenti, di supervisione con
un esperto del CPP, fanno crescere la
fiducia nella strada intrapresa,
motivano ed appassionano alla
pratica, danno i primi frutti,
coinvolgono altri pur nelle difficoltà e
incomprensioni che sempre
accompagnano ogni cammino.
Solo così, non dalla collusiva
accettazione della ragione del più
forte, dalla soluzione veloce da
proporre o attuare per mettere a
tacere il problema/conflitto, deriva la
soddisfazione e la crescita di fiducia
nell’azione educativa del conflitto. È
proprio dalla fatica intrapresa, dallo
sforzo di pensiero per superare il pregiudizio, dall’attenzione alla pratica di
un ascolto attento e attivo, dal
coinvolgerci e mettere insieme tra pari
o tra alunni e insegnanti idee e
pensieri continui, progressivi, elaborati
che ci fanno esplorare nuovi
passaggi, nuovi itinerari, nuove
difficoltà ma anche nuove soluzioni.
Una fatica che si trasforma in voglia di
andare avanti, di approfondire, di
crescere ancora.
Una sfida? Semplicemente un
progetto, da far crescere insieme alle
persone!
5
“Attra-VERSO I LIMITI PER
VARCARE LE NOSTRE TERRE DI
CONFINE”
Ogni esperienza produce
cambiamento, qualcosa cambia,
sempre, anche se non sempre
evidente ed esplicita è la percezione
dei vissuti di ciascuno, il riconoscere
ed accettare in sé ed ancor più negli
altri, la consapevolezza del proprio
cambiamento, del cambiamento del
gruppo da rendere visibile e da cui
partire per nuove sfide, allargando il
cerchio per far entrare nuovi
compagni di viaggio.
Quali i cambiamenti prodotti nella
scuola dopo il primo anno di questa
esperienza?
Ripensando agli incontri di valutazione
delle diverse componenti protagoniste
me ne vengono in mente molti ma ne
proporrò solo alcuni, quelli più
evidenti e più “sofferti”, non quelli che
aprono finte autostrade ma che invece
scoprono nuovi sentieri, tutti in salita
ma che decidiamo di percorrere.
I RAGAZZI MEDIATORI:
consapevolmente attenti al loro
compito, imprevedibilmente capaci di
gestire e co-gestire insieme i propri
vissuti emotivi (la richiesta fatta di
incontrarsi anche tra loro mediatori,
una volta al mese, riporta ad una
ricerca di superamento dei limiti legati
alle incertezze del proprio vissuto e
ad una responsabilità da con-dividere)
ed il lento tras-formarsi della loro
competenza, il loro ruolo nel gruppo
dei compagni: il coraggio del saper
esporsi, di rimanere fedeli ad un
compito a costo di non essere sempre
capiti e di rimettere in discussione,
agli occhi degli altri, il loro ruolo:
“Ho dovuto far capire che il mediatore
non può sempre intervenire”
“A volte i miei compagni prendevano
alla leggera l’incontro settimanale”
“La mia difficoltà? Vincermi,
sciogliermi e parlare agli altri senza
incepparmi”
“I miei compagni pensano che ogni
volta che due persone litigano, anche
picchiandosi, io mi devo mettere in
mezzo”
La consapevolezza che ogni
cambiamento inizia dal cambiamento
di sé e che investiti di un ruolo non
perdiamo comunque la nostra
dimensione personale e le nostre
continue necessità di crescita:
“ Questa esperienza incide prima di
tutto nella tua vita”
“Ho imparato a risolvere anche i miei
conflitti con le mie amiche”
“Ora so di non dare giudizi o avere
pregiudizi, pensare e riflettere prima
di agire, capire di più le ragioni degli
altri”
“ I miei compagni credono che io,
come mediatrice, non devo mai
litigare con nessuno”
“Voglio dire ai miei compagni di non
considerare i mediatori persone sante,
DOSSIER
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
ma compagni che ce la mettono tutta
per aiutarti”
La voglia di andare oltre, di varcare
nuovi confini, di ri-mettersi ancor più in
gioco con nuove proposte e nuovi
investimenti personali e di gruppo
proponendo:
“Espandere il progetto a tutte le
sezioni della scuola”
“Ai professori di incoraggiare i
mediatori ad operare all’interno della
classe valorizzando il progetto,
cercando sempre di aiutare gli alunni
con i loro problemi e i loro conflitti”
“Creare uno spazio mediazione dei
conflitti tra pari nella scuola,come lo
Spazio Ascolto, ma gestito da noi
ragazzi per i nostri compagni”
I GENITORI:
consapevoli che la solitudine, nel
ruolo educativo, sempre più arduo e
difficile, si trasforma in impotenza,
incomprensione, incertezza. Anche se
non sono molte le certezze che si
portano a casa (ma l’obiettivo non era
dare ricette e sicurezze), c’è la voglia
di ritornare a casa “Con il desiderio di
essere più presente con la testa nella
mia famiglia”, l’impegno nel
“Cercherò di dedicare più tempo ai
miei figli”, la consapevolezza che “La
cosa migliore è parlare molto con loro”
e, comunque, “Capisco che ho
necessità di incontrarmi e
confrontarmi con altri genitori” e
“Creare dei gruppi di incontro tra
genitori ed insegnanti”.
GLI INSEGNANTI:
una esperienza che li ha visti
protagonisti privilegiati (la definizione
delle azioni di progetto è stata
possibile proprio perchè prima di tutti
alcuni insegnanti hanno garantito nei
suoi confronti un atto di fiducia e ne
hanno accettato il compito operativo)
e nel cui corso ha visto accrescere
motivazione ed investimento, tanto da
arrivare, alla fine dell’anno al coraggio
di esporsi di fronte ai colleghi più
scettici, di richiederne anche la loro
fiducia, garantendone la valenza
positiva, per allargare l’esperienza a
tutta la scuola.
In un lento processo si è evoluto un
linguaggio comune, dei significati
condivisi e i modi di vedere ed agire
nei conflitti attraverso la capacità di
ascoltare noi e gli altri.
Mi porto a casa che:
“Sui conflitti è meglio so-stare e
davanti ad essi non spaventarsi”,
“Una maggior attenzione verso i
conflitti anche marginali tra ragazzi,
più disponibilità all’ascolto”
“Una maggior consapevolezza del
lavoro da svolgere per migliorare le
relazioni”
La prospettiva di un cambiamento che
passa e non può prescindere né dalla
dimensione individuale né da quella
sociale del confronto e della
condivisione, ritrovando tempi e spazi
dell’ascolto e della narrazione
reciproca:
Ho il desiderio di “Chiarirmi le idee in
merito alla mia personale propensione
a dare regole e farle rispettare.
Cambiano i tempi, è ancora un
valore?”
“Un’occasione per mettersi in gioco
tra colleghi”
La necessità di “abitare le esperienzecon”, protagonisti insieme delle
decisioni in un continuo processo di
decentramento, di scoperta,
valorizzazione e apprendimento
insieme ed attraverso l’altro, sia esso
insegnante, alunno o genitore:
“Provare a far uscire l’esperienza dalle
classi perché diventi di Istituto”
“Assemblee di classe con i genitori
meno istituzionalizzate e più confronto
educativo”
La trasformazione di un modo di
relazionarsi ma anche di far scuola,
perché non è poi così scontato sentir
dire da un insegnante che ha fatto
spazio ai ragazzi dedicando 20-30
minuti del suo orario settimanale in
classe alla gestione dei conflitti:
“Ho la conferma del fatto che in un
ambiente sereno migliorano
decisamente gli apprendimenti”.
E quale, se non questo, il compito
formativo della scuola?
NOTE
(1) P. Perticari, Attesi imprevisti, Bollati Boringhieri 1997
(2) M Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, 2000
(3) D. Novara, L’ascolto si impara, EGA 2002
(4) P. Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 1971
* Insegnante dell’Istituto Comprensivo di Vigodarzere (PD)
25
DOSSIER
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
ACCENNI DI MEDIAZIONE
NONVIOLENTA A SCUOLA
a cura di Maurizio Lozzi *
1
26
“Non possiamo insegnare
direttamente nulla ad un’altra
persona, possiamo solo
facilitare il suo
apprendimento……”. Tra le tante
proposizioni che Carl Rogers(1) ha
elaborato in ambito psicoterapeutico
sulla teoria della personalità e del
comportamento lavorando allo
sviluppo dell’Approccio Educativo
Centrato sulla Persona, questa appare
l’ideale per introdurre il nostro
cammino di conoscenza verso gli
“orizzonti nonviolenti di relazione” che,
anche nella scuola italiana, la
Mediazione consensuale dei conflitti
può contribuire ad edificare. Se fino al
secolo scorso la scuola veniva
considerata come l’istituzione
deputata a diffondere solo
l’alfabetizzazione alla cultura, oggi le
dinamiche che nel tempo ne hanno
ricaratterizzato il profilo, le hanno
confermato una responsabilità
educativa sociale decisamente più
forte. Non può più quindi continuare
ad apparire soltanto come l’“istituzione
rigida” di ieri, ma ha sempre più il
dovere di assumere i connotati
indispensabili di un reale sistema
formativo in grado di prendere
coscienza di quanto gli accade
intorno e potersi aprire così ai bisogni
del suo territorio, di cui in fondo,
insieme ad altre entità, è poi diretta
espressione.
Non è, infatti, un caso se tocca
proprio alla scuola registrare al suo
interno disagi e turbolenze giovanili di
matrice esogena sociale. Tra stress
da eccesso tecnologico a scapito
degli scambi affettivi, (para)noie da
superfluo, crisi covate in silenzio ed
inquietudini che rapidamente si
diffondono, i giovani trovano naturale
esprimere fin troppo spesso i loro
disagi proprio all’interno delle
istituzioni scolastiche. E’ un fenomeno
che, passando attraverso indicatori
come il bullismo, il teppismo, la
dispersione scolastica e via di
seguito, conduce frequentemente ad
episodi incontrollabili di conflitto e di
violenza, la cui escalation, pur
rimbalzando fin troppo sulle cronache
giornalistiche, viene a volte
sottovalutata o, nei casi peggiori,
ignorata anche da chi, pur avendone
le responsabilità educative
istituzionali, preferisce non sporcarsi
le mani magari solo nel tentativo di
capire o di provare ad ascoltare. Si
preferisce per lo più intervenire
dall’alto dell’autorità con norme
disciplinari o sospensioni che
rappresentano una risposta
comunque violenta, sicuramente di
altra natura, ma che anziché diminuire
il carico di aggressività e disagio,
contribuisce invece ad irrobustirlo.
Fortunatamente ad atteggiamenti
culturali così sedimentati qualcuno –
terzo settore, associazioni culturali,
operatori sociali, sociologi, ecc. anche nel nostro paese sta
cominciando a rispondere con
modalità altre, proponendo in contesti
scolastici anche provati da queste
fenomenologie, programmi di
formazione alla Mediazione nonviolenta e consensuale dei conflitti
che, per brevità, chiameremo d’ora in
poi Mediazione scolastica. Recepiti
all’interno dei P.O.F. (Piani di Offerta
Formativa) grazie soprattutto alla
sensibilità di singoli insegnanti,
funzioni obiettivo o illuminati direttori
didattici e presidi, questi programmi di
Mediazione scolastica sono riusciti ad
introdurre in alcune scuole sparse un
po’ ovunque in Italia metodologie e
modalità alternative di gestione dei
conflitti che, dove somministrate e
praticate, hanno stimolato un
processo di promozione di valori e
beni relazionali civili e solidali capace
di neutralizzare la dinamica osmotica
passiva con l’ambiente esterno che
invece altrove la scuola continua a
subire. Queste esperienze hanno colto
in pieno il senso che Carl Rogers –
ricordato all’inizio – attribuisce
all’apprendimento e che anche
Bernard Berelson e Gary A. Steiner (2)
confermano, riconoscendolo come
una serie di “cambiamenti nel
comportamento derivanti da
precedenti comportamenti in situazioni
analoghe”. L’apprendimento delle
pratiche di Mediazione è riuscito a
configurarsi così come lo studio di una
efficace dinamica sociale di
cambiamento dal grande impatto
“trasformativo”(3) e, proprio per
DOSSIER
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
questo, in grado di “immunizzare”
contesti scolastici degradati o
contraddistinti da climi relazionali
pesanti, dove non vi era più traccia
delle peculiari identità della scuola;
quelle cioè di privilegiato luogo di
socializzazione e di indispensabile
produzione di sane identità.
2
Le testimonianze che si
possono raccogliere nelle
realtà dove è stata
sperimentata la mediazione
scolastica, rivelano una strategia
comune o meglio un minimo comun
denominatore che è il “gruppo dei
pari” (studenti/studenti,
insegnanti/insegnanti). Nel campo
della Mediazione Scolastica gli
interventi ricadono infatti nell’ambito di
quelle che tra le A.D.R. (Alternative
Dispute Resolutions) sono codificate
appunto come “Peer Mediations”
(Mediazioni tra pari) e questo perché
prima di intervenire a largo raggio –
caso in cui dovremmo chiamare in
causa la Mediazione multiparte - è
opportuno immunizzare gruppo per
gruppo tutti gli attori sociali che
operano ed interagiscono nel contesto
in cui si chiede di intervenire. In ogni
caso le esperienze di cui abbiamo
avuto testimonianza diretta
rappresentano solo una parte di una
vera e propria “testa di ponte” che sta
continuando ad emergere
nell’universo scuola, dove però
seguita a manifestarsi ancora una
ossificata resistenza verso questo
cammino di “nuova comprensione”. E’
una resistenza, se vogliamo, anche
comprensibile in quanto legata non
tanto all’ermetismo endemico che la
scuola per certi versi ancora
conserva, quanto invece alla difficoltà
di affrontare in modo non distruttivo e
non impulsivo le relazioni conflittuali.
Educare alla Mediazione - o se
vogliamo alla composizione nonviolenta delle relazioni conflittuali,
non è semplice e qualcuno ha
azzardato: “Neanche naturale!”. Al di
là però di questa provocatoria
affermazione e sulla scorta dei casi
poco fa visti: “E’ possibile!”.
Le esperienze finora svolte, da poco
in Italia da decenni altrove,
dimostrano che gli “gli orizzonti
nonviolenti di relazione” possono
diventare uno degli obiettivi formativi
della scuola. Basta impegnarsi a
modificare l’atteggiamento negativo
prevalente nella nostra cultura verso il
conflitto e sviluppare un approccio
educativo e pedagogico tale da far
riconoscere in esso una potente
risorsa per la crescita. E’ questo il
punto di vista della cosiddetta
Sociologia Clinica che osserva e
ritiene i conflitti scatenati all’interno
delle relazioni sociali, non con una
valenza negativa, ma come elementi
fondanti per la produzione di
cambiamenti e, per questo, se
adeguatamente guidati, composti,
regolati o mediati, come elementi
creativi, costruttivi e dinamizzanti per
l’edificazione di positive modalità di
relazione. Verso questa direzione
hanno deciso di operare ed
impegnarsi, attraverso un lavoro, non
solo però di carattere sociologico, ma
multidisciplinare e di coordinamento
territoriale - per ora nazionale e
quanto prima europeo - diversi
educatori, formatori e attivisti di
associazioni dedite in Italia a
diffondere la Mediazione che si sono
già riuniti due volte a Firenze per tirare
le somme su quanto finora è stato
realizzato nel nostro paese ed iniziare
così a delineare percorsi comuni di
intervento per quanto si intenderà
articolare e proporre in futuro. La
presenza in questi incontri di alcuni
osservatori provenienti da altre nazioni
europee a noi vicine ha consentito sia
un proficuo scambio di esperienze
che l’inevitabile tessitura di una
confidenziale rete di contatti,
indispensabile per aprire spiragli di
crescita, di verifica e di confronto
reciproci sul cammino verso cui la
Mediazione continuerà a muoversi,
non solo da noi, ma anche altrove.
3
Una testimonianza su
quanto, ad esempio, già
nella scuola primaria si può
iniziare a proporre per far
acquisire ai ragazzi adeguate
competenze comunicative, educarli
alla creatività – intesa come capacità
di uscire dagli schemi prefissati – e
svilupparne lo spirito cooperativo,
proviene dal Nord Europa. Si tratta di
un volume scritto dalla psicologa
tedesca Karin Jeffreys-Duden, tradotto
e pubblicato in Italia nella collana
“Partenze….per educare alla pace”
dalle Edizioni La Meridiana di Molfetta,
sotto l’eloquente titolo di “Mediatori
Efficaci – Come gestire i conflitti a
scuola”. Collocabile tra le proposte
editoriali apprezzabili per il lavoro di
cui è testimonianza, il volume riesce a
mettere in luce le enormi capacità
relazionali ed emotive possedute dai
ragazzi della scuola primaria e che si
rivelano il grande patrimonio che poi
ognuno di noi a quelle età ha. Ed è a
questa ricchezza senza malizia
posseduta dai bambini che la
Mediazione può avere facilità di
accesso, “lasciando intuire con
chiarezza – come si legge nella
prefazione – come ogni individuo alla
nascita non possa affatto essere
ritenuto violento” perché – vorremmo
tutti che così non fosse – purtroppo la
violenza è un comportamento che
crescendo man mano si apprende.
Ecco di nuovo l’apprendimento, ma
non può essere considerato solo una
parola o un concetto che torna. Può e
deve essere considerato qualcos’altro,
magari uno strumento di community
empowerment e quindi di
arricchimento completo dell’ambiente
scuola capace di educare, istruire,
27
DOSSIER
insegnare e far assumere prospettive
relazionali, anziché individualistiche,
plurali. In un certo senso il cosiddetto
“pensar doppio” che, con questo
gioco di parole, spinge al saper
riconoscere parallelamente nel
conflitto, non solo le proprie legittime
esigenze, ma anche gli interessi ed i
bisogni altrettanto legittimi dell’altro.
Una capacità innata, una abilità
acquisibile o una chiave di vita?
Interrogarsi serve a poco anche
perché ognuno può trovare la risposta
che vuole. Meglio allora impegnarsi
contro il tempo visto che la scuola,
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
continuando a rivelarsi terreno fertile
per malesseri e comportamenti
disturbanti o ingestibili che
frequentemente vi emergono, può
invece darsi subito da fare
promovendo laboratori di formazione e
di sensibilizzazione alla Mediazione
Scolastica. Le esperienze fatte finora
in questo ambito, hanno accresciuto
la capacità di rendere i ragazzi – e gli
altri attori sociali che nella scuola
operano – consapevoli sia delle regole
di convivenza civile che della
potenzialità costruttiva e positiva che i
conflitti, se regolati e guidati attraverso
le modalità proprie della Mediazione,
possono generare. Se il destino di
ognuno “assomiglia – come dice
Claudio Magris - a quello di Mosé,
che non raggiunse la Terra Promessa,
ma non smise di camminare nella sua
direzione”(4), è tempo allora di
indirizzare la scuola, agenzia
educativa per eccellenza, verso il
sentiero della Mediazione,
sicuramente impegnativo, ma meno
lacerante e tortuoso di quello della
violenza. In fondo “saper essere e
restare scolari non è poco, - per
Magris infatti - è già quasi essere
maestri”.
NOTE
(1 Carl Rogers, Libertà nell’apprendimento, Giunti Barbera, Firenze, 1973.
(2) Bernard Berelson e Gary A. Steiner, Il comportamento umano, FrancoAngeli, Milano, 1969.
(3) Dell’effetto trasformativo della Mediazione trattano R.A.B. Bush e J.P. Folger in The promise of Mediation:
Responding to conflict through Empowerment and Recognition, Jossey-Bass, San Francisco, 1994.
(4) Claudio Magris, Utopia e disincanto, Milano, Garzanti Libri S.p.A., 1999.
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* Giornalista e sociologo, si occupa di Mediazione non-violenta dei conflitti. E-mail: [email protected]