Roma, corrotta e spensierata

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Roma, corrotta e spensierata
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Roma corrotta
e spensierata
Philippe Ridet, Geo, Francia
el 1955, cioè più di sessant’anni
fa, Roma viveva già al ritmo
della dolce vita, quel misto di
spensieratezza e di fascino che
sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica
ino agli anni settanta. E così, mentre venivo al mondo in un piccolo centro della Saône-et-Loire, il settimanale l’Espresso pubblicava sul suo primo numero un’inchiesta
intitolata “Capitale corrotta, nazione infetta”. Manlio Cancogni, l’autore dell’articolo,
scriveva: “Il problema della corruzione nel
campo dell’edilizia è tale che riguarda tutta
l’Italia. Le condizioni morali della capitale
non possono non avere delle conseguenze
per lo stato”.
All’epoca il sindaco di Roma era Salvatore Rebecchini. Sotto il suo mandato fu ristrutturata Termini, la stazione centrale
della città, fu completata via della Conciliazione, la strada che porta al Vaticano, e fu
inaugurato il primo tratto della linea A della
metropolitana. Intanto a Sanremo Claudio
Villa trionfava con la canzone Buongiorno
tristezza. “Oggi ho imparato che cosa è rimpianto / l’amaro rimpianto, l’eterno rimpianto”, si lamentava il cantante dalla voce
di tenore. A quanto pare una donna lo aveva
tradito. Gli aveva detto “a domani”, ma non
era più tornata. “Buongiorno tristezza, amica della mia malinconia”.
E così per Roma viene voglia di dire che
niente è davvero cambiato. Cosa sono in
fondo sessanta miseri anni per una città
fondata nel 735 avanti Cristo? Un po’ di polvere in più sui marmi dei monumenti? Due
nuove linee della metropolitana? Qui il
tempo non passa come altrove. Dovunque
scorre veloce tra le dita, lascia il segno del
suo passaggio sulla forma più o meno felice
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delle nuove costruzioni, dei nuovi piani regolatori. A Roma non è così. Il tempo segue
dei meandri, come il Tevere quando attraversa la città. Torna indietro, ripassa sulle
sue tracce, segna il passo. A Londra e a Parigi si costruisce, a Roma si restaura. “Roma
è un bel posto per aspettare la ine del mondo”, diceva lo slogan di un manifesto francese di Roma, il ilm di Federico Fellini del
1972. Sì, un bel posto, tanto più che, se la ine del mondo dovesse arrivare, certo non
arriverà qui. E poi Roma l’ha già conosciuta
la ine del mondo, come testimoniano nel
foro le colonne solitarie, i resti dei templi
distrutti dai barbari e saccheggiati dagli
stessi romani. Sono secoli che si annuncia
la ine di Roma, che si sorveglia la sua agonia, che si scruta la sua asissia. Ma invano.
Il mondo maioso
Nell’inverno del 2014 la città eterna è stata
scossa da uno dei più grandi scandali di corruzione del paese. Come tutti i corrispondenti in città, anch’io ho parlato di questo
“mondo maioso”, di questa zona equivoca
in cui si mescolano i potenti della politica e
i piccoli delinquenti per spremere Roma
come un limone ino all’ultimo centesimo.
A quanto pare si può ancora mungere un po’
di latte dalle mammelle della lupa di Romolo e Remo, anche se la città accumula miliardi di debiti. A capo di quest’organizzazione criminale che faceva affari con la
nettezza urbana, la manutenzione degli
spazi verdi e l’accoglienza dei profughi,
c’erano due uomini: Massimo Carminati,
ex terrorista di estrema destra, e Salvatore
Buzzi, ex detenuto che una volta tornato
sulla retta via aveva fondato una cooperativa sociale per aiutare le persone uscite dal
carcere. Da soli – ma con la complicità di
varie persone collocate nei posti strategici
dell’amministrazione della città e della provincia – Buzzi e Carminati hanno rubato
milioni di euro di denaro pubblico prima di
essere presi. “Un nuovo sacco di Roma”,
avevamo scritto in francese, in inglese e in
tedesco noi giornalisti esteri. In seguito è
DAVIDE MONTELEONE (VII/LUzPhOTO)
La città è sofocata
dal malgoverno, ma riesce
a conviverci con leggerezza
e ironia, scrive il corrispondente
di Le Monde
inito sotto inchiesta l’ex sindaco Gianni
Alemanno ed è scoppiata una crisi politica
che ha portato alle dimissioni del suo successore, Ignazio Marino. La città oggi è nelle mani di un prefetto e ci resterà ino all’elezione del prossimo sindaco (si vota il 5 giugno). All’epoca dello scandalo ero arrivato
ne sono!) è la prova nauseabonda che c’è
qualcosa di marcio nella città eterna. Il ritardo dell’autobus? L’ennesimo guasto della metro? Tutta l’Italia si allea contro questa
città dove nulla funziona. Mentre Milano,
l’odiata rivale, esce trionfante dalla prova
dell’Expo (venti milioni di visitatori in sei
mesi), la città eterna afonda nella letargia,
indiferente al suo destino. La vorrei allegra, iduciosa ed eccola invece triste, in crisi
di iducia, disprezzata. Come scrive Corneille nella tragedia Orazio, sono in migliaia a desiderare che “tutti i suoi vicini insieme congiurati” possano “minare le sue
fondamenta ancora poco salde”.
Ma in in dei conti a Roma chi se ne preoccupa? Dai romani ho imparato che tutto
passa, tutto stanca, anche il peggio. In una
sala sorvegliatissima allestita in un tribunale nella prigione di Rebibbia, alla periferia
di Roma, è cominciato il processo Maia capitale e durerà fino all’estate prossima.
Ogni tanto la testimonianza di un protagonista ravviva l’interesse di un’udienza.
Quando il verdetto sarà pronunciato è probabile che il caso ridesterà un certo interesse. Ma già Roma non pensa più a Carminati
e a Buzzi, è passata ad altre cose. Se ne farà
una ragione. I romani hanno già dimenticato chi li aveva traumatizzati. Non perché
sono indiferenti, ma perché hanno tutti – o
almeno credono di avere – un legame di parentela con Giulio Cesare, e tremila anni di
storia permettono di relativizzare.
La storia passa inosservata
Roma, i Fori imperiali
alla conclusione che questa volta Roma non
si sarebbe ripresa facilmente. Avevo torto.
Sbagliavo a pensare che questa vicenda
avrebbe permesso a una città grande dodici
volte Parigi e ai suoi tre milioni di abitanti
d’interrogarsi, di rendersi conto della sventura in cui erano caduti. Ormai Roma è si-
nonimo di corruzione, di sperpero inanziario, di cattiva gestione. Il minimo buco
nell’asfalto del centro storico (e Dio sa
quanti ce ne sono!) diventa un motivo per
criticare l’ineicienza dei poteri pubblici.
Un sacco della spazzatura abbandonato
all’angolo di una strada (e Dio sa quanti ce
È un paradosso romano il fatto che nella città più ricca di storia del mondo la storia sia
più leggera. Qui ci s’imbatte così tante volte
nella storia che si inisce per non vederla
più. Ho conservato a lungo una cartolina
postale degli anni sessanta in cui si vedevano nugoli di scooter e di Fiat 500 girare intorno al Colosseo come se si trattasse di una
rotatoria in una città di provincia. All’epoca
nessuno ci faceva caso. C’è voluto un allarme per un misterioso “tumore della pietra”
che corrode l’aniteatro per vietare in parte
la circolazione intorno al monumento.
Mentre a Firenze la storia sembra sofocare
la città, confondersi con essa in un’unica
dimensione, a Roma si accumula, si nasconde, si sottrae alla vista. Un’epoca si fa
da parte per lasciare il posto alla successiva,
come ci si stringe intorno a una tavola imbandita per fare posto a un nuovo commensale. Qui l’antichità, il rinascimento, il barocco, l’architettura umbertina dell’ottoInternazionale 1156 | 2 giugno 2016
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cento e quella razionalista del ventennio
fascista si mescolano con armonia. Non siamo in un negozio di antiquariato che intimidisce, ma in un accogliente negozio di rigattiere. Lo scrittore Julien Gracq, che non ha
mai amato Roma ma a volte l’ha capita bene, osservava in Autour de sept collines : “Da
secoli Roma ha raggiunto rispetto alla storia
la sua velocità di liberazione”.
Liberata forse, ma non ignorante. Non
bisogna pensare che i romani disprezzino il
loro passato. L’altro giorno un tassista mi ha
raccontato un aneddoto. Mentre trasportava una coppia di parigini davanti all’arco di
Roma non si afeziona
agli innamorati
di un giorno
o di un decennio
Costantino, sotto il quale gli imperatori facevano passare i loro eserciti vittoriosi, una
voce dai sedili posteriori della sua Fiat bianca ha detto: “Guarda, somiglia all’Arco di
trionfo!”. Con il suo accento romano che
sembra rimbalzare sulle parole, il tassista
ha precisato: “No, è l’Arco di trionfo che somiglia all’arco di Costantino, non esageriamo”. I romani sono così, non si ofendono
facilmente. Protetti da un’ironia a prova di
bomba, disprezzano le critiche che gli vengono rivolte, ma sono afezionati al ruolo
centrale che hanno occupato nelle peripezie dell’umanità. E a lungo hanno occupato
il primo posto nella classiica generale della
potenza, dell’ingegnosità e della bellezza.
Questo ricordo gli basta. La loro grandezza
passata li dispensa dal doversene vantare
troppo.
Ai versi di Corneille i romani sembrano
aver deinitivamente preferito quelli di Joachim Du Bellay, sempre d’attualità anche
dopo cinquecento anni: “Forestiero che
cerchi Roma in Roma / e che nulla di Roma
scorgi in Roma /questi vecchi palazzi, questi vecchi archi / e queste vecchie mura, è
ciò che si chiama Roma”. Sì, Roma è prima
di tutto questi vecchi palazzi, questi vecchi
archi e queste vecchie mura che s’incrociano, si sfiorano e sfidano il nostro tempo
umano. Il Colosseo è sempre in piedi, mentre abbiamo dimenticato i suoi martiri. La
vita è un soio e tutto è relativo.
Per molto tempo ho voluto essere italiano. Volevo portare dei vestiti fatti come si
deve e camminare a braccetto con gli amici
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sul marciapiede all’ombra. In realtà volevo
essere romano e avere anch’io questo rapporto elastico con il tempo che passa, sentirmi proprietario di qualche antica rovina,
“di vecchi palazzi, di vecchi archi e di vecchie mura”, per il semplice motivo che fanno parte del mio paesaggio. Poter andare a
zigzag con la vespa sul ponte Flaminio come Nanni Moretti. Aspettare un autobus
che non arriva senza arrabbiarmi con tutto
e con tutti. Fare la coda alla posta leggendo
il giornale, senza cercare di capire perché il
numero che ho preso al distributore non arriva mai. Prenotare per tre al ristorante e
arrivare in sei, trovare posto e anche il sorriso del proprietario. Avere quell’ironia,
quell’umorismo, talvolta quella grazia, che
permettono di vivere sull’orlo del baratro
senza mai caderci dentro. Lasciarsi trasportare dagli eventi. Ma per mia sventura sono
nato in Saône-et-Loire, sono nipote di contadini e sotto le mie scarpe porto ancora
tanta terra grassa. Una terra che pesa. La
leggerezza mi è interdetta.
Anime e cuori
Da qualche mese so che dovrò andare via,
tornare a Parigi. “Corrispondente di Le
Monde in Italia” è purtroppo un mestiere
eimero. È un dolore. Roma mi lascerà partire senza rimpianto, ne sono sicuro, come
ne ha visti partire molti altri che l’hanno
amata da morire. Ma la città non si afeziona agli innamorati di un giorno o di un decennio. Conosce le anime e i cuori. Sa bene
che ne verranno altri, ne arriveranno interi
voli charter. Come un tempo Goethe, Chateaubriand, Stendhal, tutti sgomenti e tutti
ripartiti. Sui giornali leggo che il Giubileo
della misericordia (l’anno santo che durerà
ino al 20 novembre 2016) dovrebbe attirare decine di migliaia di pellegrini e di turisti.
Ci si rallegra per questi arrivi, ma nessuno
tiene conto delle partenze. E della mia ancora meno delle altre. Nel mio piccolo sono
stato un testimone attento, a volte un innamorato sconfortato, quando vedevo i romani così passivi di fronte al declino della loro
città. Ma sono stato anche ricompensato
quando durante una passeggiata Roma mi
ofriva il segreto di un giardino nascosto, la
freschezza di un cortile il cui pesante portone avevo sempre trovato chiuso.
Cosa devo portare con me? Il busto in
terracotta di Bacco, che ha preso il fresco e
l’afa sulla mia terrazza negli ultimi otto anni? Una tegola di uno dei tetti che intravedo
dal mio appartamento? Un sanpietrino da
usare come fermacarte? Una manciata di
sabbia della spiaggia di Anzio dominata
dalla statua di Nerone, ad appena un’ora di
treno da Termini? Quale oggetto potrebbe
concentrare tutto l’afetto che ho provato
per questa città? Una ricetta di cucina? Perché no. Per esempio la vignarola: prendete
dei carcioi, delle cipolle, delle fave, dei piselli e del guanciale. Attenzione, tutto
dev’essere fresco altrimenti il miracolo non
si veriica. L’arte della vignarola – perché di
arte si tratta – consiste nell’incontro eimero di questi ingredienti nell’arco di due mesi (aprile e maggio). Per non farsela sfuggire, bisogna sorvegliare l’arrivo degli ortaggi
nel minuscolo mercato di piazza delle Coppelle. Modestamente io lo so fare, e ne sono
orgoglioso. Mi ci sono voluti otto anni per
arrivare a cogliere un istante fugace in una
città che si dice eterna.
Nel 1972 un mio amico soggiornò a Roma su invito di uno dei suoi zii, alto funzionario della Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite che si trova vicino alle terme di Caracalla.
Al suo ritorno mi ero precipitato da lui per
farmi raccontare se tutto era come nei ilm,
se il ballo dei motorini nelle strette strade
del centro era come l’avevo immaginato, se
il cafè bevuto alla tavola calda era il migliore del mondo. Ma mi deluse dicendomi che
aveva passato il tempo a leggere all’ombra
della terrazza del suo appartamento e che
usciva solo per andare a farsi radere dal barbiere sotto casa. Di Roma conosceva tre vie
del quartiere Parioli. Più di quarant’anni
dopo devo riconoscere che aveva avuto ragione ad aver resistito alla bulimia di impregnarsi al più presto di questa bellezza. Cosa
aveva fatto se non provare a sentirsi romano? Godere di Roma come di uno scenario
perfetto per le sue normali attività?
Ecco, quando sarò grande anch’io tornerò a Roma per passare il tempo a leggere
e ad andare dal barbiere. Troverò, se i mezzi me lo permetteranno, un appartamento
su una collina da dove guarderò la città crogiolarsi al sole. Rassicurato dal saperla immortale. Anch’io sarò indiferente alla rovina che la circonda ma che continua a risparmiarla. E, chissà, forse rimarrà un po’ di
eternità anche per me. u adr
L’AUTORE
Philippe Ridet è un giornalista francese.
È corrispondente dall’Italia per il
quotidiano Le Monde dal 2008.
Ha pubblicato L’Italie, Rome et moi
(Flammarion 2013).