Sardegna…tracce del passato

Transcript

Sardegna…tracce del passato
Fig. 71 Cartagine
Questo mito dimostra che Cartagine nasce come città importante, fondata dalla principessa di Tiro
con l’apporto del tesoro del tempio di Melqart. Per diversi secoli Cartagine mantenne un legame
forte con Tiro e inviò regolarmente la decima come tributo poiché c’era la volontà di mostrarsi figlia
di Tiro. L’elemento indigeno non venne mai completamente integrato, vi fu sempre la distinzione fra
l’origine orientale della città e i libici.
Nel territorio di Cartagine abbiamo l’abitato, con tracce dell’VIII a.C. nella piana costiera, racchiusa
alle spalle da una serie di colline che nella prima fase vengono destinate alle necropoli (VIII-VI
a.C.). La stessa tipologia di urbanizzazione avvenne a Cagliari con l’abitato situato nella zona di
Santa Gilla e la necropoli nella collina di Tuvixeddu. Le colline di Cartagine sono Byrsa, Junòn,
Duimèt e Dermech. L’abitato arcaico è stato scavato da diverse missioni tedesche (sovrintendente
fu Rakob). Presenta un impianto ortogonale di vie perpendicolari che precede di vari secoli
l’impianto greco. Le case sono semplici e i muri sono rozzi, con zoccolo in pietrame brutto
cementato con malta di fango e pavimenti in terra battuta. Gli scavi presentano strati sovrapposti e
gli archeologi, quando scavano questa tipologia, si trovano davanti a strutture difficili da
interpretare perché i vari muri si incastrano fra loro.
A scavo effettuato, per valorizzare l’area si deve decidere come conservare la struttura e bisogna
far cadere la scelta su cosa mettere in evidenza. Dopo aver scelto la fase che si vuole rendere
fruibile si ricoprono le altre e il visitatore si troverà davanti una zona ben evidenziata relativa ad un
determinato periodo. Durante gli scavi sono stati individuati materiali mediterranei sia di
produzione che di importazione. I materiali eubòici e nuragici mostrano la collaborazione fra questi
e i tiri. In periferia ci sono gli impianti artigianali per la lavorazione della ceramica, dei metalli e del
pesce che sono tenuti lontani dall’abitato per questioni di scorie, calore, gas, rumori e odori.
Questo stesso sistema è diffuso nel mondo mediterraneo e punico, e ancora oggi vediamo che
tutte le società cercano di costruire le zone industriali lontano dal centro abitato.
215
Col passare del tempo l’abitato si allarga e va ad occupare le aree delle necropoli arcaiche, che
precedentemente erano occupate dal quartiere artigianale. Le necropoli si spostano verso l’esterno
e le più recenti sono infatti all’estrema periferia degli abitati.
Fig. 72 Cartagine
Intorno al V a.C. l’abitato si sviluppa verso sud e arriva fino all’area del tophet; successivamente
l’espansione interessa anche le altre direzioni. La città arcaica, ubicata in prossimità della costa, è
stata scavata da varie equipe di tedeschi (Rakob, Neemayer) e da una missione olandese con a
capo Dauteck. Gli scavi hanno operato in ampie aree andando ad intaccare la stratigrafia in
profondità. Per rendere fruibili i vari strati si è pensato di ricostruire i vari periodi andando a
ricoprire gli scavi con pietrame di vari colori per evidenziare i vari periodi (ad esempio l’area di
Magone). In pratica ogni livello ha pietrisco di diverso colore. Anche a Nora hanno fatto una
ricostruzione simile.
In tutti gli scavi di Cartagine sotto gli strati bizantini, romani e punici sono venute fuori strutture più
antiche: lacerti mediterranei e materiali vari che mostrano già dall’VIII a.C. un commercio intenso
con i nuragici e con i greci. L’impianto urbanistico ortogonale è collegabile con l’area sui colli nella
quale si trova la Byrsa che in età arcaica era occupata da numerose tombe. La Byrsa nel V a.C.
viene raggiunta da un quartiere artigianale, sono visibili infatti tracce di impianti metallurgici con
scorie di lavorazione, frammenti di fornace e tuyer. Nel II a.C. la zona è raggiunta
dall’urbanizzazione. Secondo le fonti la Byrsa era la sede dell’acropoli. Appiano racconta che i
romani nel 146 a.C. conquistarono la città combattendo casa per casa e distruggendo tutto.
Considerato che i cartaginesi avevano perso già due guerre contro i romani dobbiamo ritenere che
ebbero le capacità per risollevarsi e riorganizzare un’economia fiorente.
Dopo l’abbandono degli ultimi cartaginesi avvenuto in seguito alla sconfitta nella III guerra punica,
Roma decise di spianare la Byrsa per edificare il nuovo foro della città, proprio per romanizzare
l’area. In età Augustea si decise di ristrutturare la città e Cartagine divenne la città più importante
216
dell’Africa. Quando i romani tagliarono la sommità della collina per ampliare l’area della Byrsa,
gettarono i detriti a valle, ricoprendo con uno strato alto sette metri che sigillò le strutture puniche,
quelle dell’ultima fase dell’urbanizzazione. L’ambiente abitativo è quindi ben conservato.
Le strutture puniche più recenti sono state usate solo per circa 50 anni, e oggi possiamo studiare
la tipologia dell’edilizia popolare di quell’epoca. Una missione archeologica francese ha scavato la
zona e sotto tonnellate di detriti è stato ritrovato il quartiere cartaginese della Byrsa. Secondo
Appiano le case erano alte fino a sei piani con alzato in mattoni crudi e soffitti in legno. Le case
presentano una pianta caratteristica: si affacciano su una corte centrale interna dalla quale
prendono luce, aria e acqua grazie alle cisterne nelle quali confluiva l’acqua piovana che veniva
canalizzata. L’ingresso è collegato alla corte attraverso un corridoio. La fronte della casa, quella
sulla strada, era occupata da alcuni vani che generalmente erano destinati alle attività
economiche, dunque aperti al pubblico o agli animali. Gli ambienti interni al pianterreno erano
quelli di vita: cucina e locali per vivere, mentre la notte si andava nei piani alti per dormire.
Le case erano costruite su uno zoccolo in pietra grossa e alzato in mattoni crudi cementati con
malta di fango. I muri erano intonacati con calce, anche per garantire che l’acqua piovana non si
infiltrasse nelle camere. Gli alzati probabilmente erano progressivamente più sottili perché
dovevano reggere un peso minore. Le scale mostrano la presenza della zona notte. La copertura
del tetto con lastre di pietra a doppio spiovente convogliava l’acqua piovana in canalette che la
indirizzavano poi verso la cisterna. Lo smaltimento delle acque reflue avveniva con dei canali che
confluivano nella strada dove lo scarico era assicurato da pozzetti. Ogni casa aveva la sua
cisterna realizzata con intonaco idraulico e spigoli stondati per una più agevole pulizia. Se vi era un
banco roccioso sotto la casa veniva scavato un vano per ottenere la cisterna, altrimenti si scavava
il terreno e si costruiva un muretto con blocchetti, a loro volta rivestiti in argilla. Le cisterne erano
chiuse con lastre a piattabanda e avevano un pozzetto per attingere l’acqua. L’intonaco con il
quale si rivestiva l’interno della cisterna era grigio perché era costituito da malta, inerti e piccoli
carboncini per aumentare l’impermeabilizzazione. In alternativa si utilizzava il cocciopisto,
materiale utilizzato anche per il tipico pavimento punico. Per ottenerlo si miscelavano degli inerti,
calce e frammenti di ceramica che sono quelli che danno il colore rosato. Le strade, ortogonali,
erano in terra battuta e per recuperare la pendenza presentano scale, quindi non erano percorse
da carri. Le fonti parlano di una Cartagine del II a.C. in forte declino ma i riscontri archeologici, a
partire dalle strutture portuali, descrivono una realtà completamente diversa e mostrano una città
fiorente. Attorno alla città bassa si sviluppano le necropoli. Le più arcaiche sono quelle di Byrsa,
Dermech, Duimès, Santamonica e Odeòn.
Come per Tharros, Ibiza e Cagliari, la necropoli è quella che è stata depredata per prima perché
proprio in questi luoghi si trovano materiali integri e spesso pregiati. Soprattutto nel corso del 1800
gli scavi avevano ideali differenti da quelli odierni: si cercavano materiali esotici, c’era un gusto
antiquario, l’archeologia era una specie di caccia al tesoro.
Un personaggio importante a Cartagine era Padre Delacr, un sacerdote che alla fine dell’Ottocento
ha scavato centinaia di tombe ma, non essendo archeologo, decontestualizzava i reperti per cui
oggi è difficile ricostruire i contesti. Verso la metà del 1800 sulla Byrsa è stata impiantata una
217
cattedrale, governata dai “padri bianchi” e Delacr era uno di questi. La Tunisia era colonia francese
e l’archeologia era indirizzata soprattutto dal governo francese, per cui gli italiani non
parteciparono agli scavi; solo intorno al 1970 qualche missione si è occupata di scavi negli strati
romani. Purtroppo i metodi di scavo erano poco sofisticati e per portare alla luce i sarcofagi si
sbancavano i fianchi delle colline, determinando la distruzione di molte tombe; abbiamo recuperato
molti materiali ma si è persa completamente la possibilità di ricostruire i contesti perché sono stati
smontati tutti gli ambienti che portavano all’imbocco della camera. Se la tomba si trovava a 5 metri
di profondità si procedeva allo smontaggio di tutto ciò che si trovava sopra.
Fig. 73 Cartagine, la Byrsa
Oggi l’area è urbanizzata ed è difficile vedere tombe, tranne che nella zona della Byrsa. Altro
studioso importante è Paul Gockler, francese, che scavò moltissimo ma morì prima di riuscire a
pubblicare i ritrovamenti. Ci restano i suoi appunti di scavo del 1915 nei quali si notano disegni,
corredi, maschere, gioielli, bottoni, amuleti e tanti altri dettagli che purtroppo non è possibile
riconoscere con certezza proprio a causa della mancata pubblicazione di un testo che riordinasse
gli appunti. In origine le tombe della Byrsa si trovavano sul piano di calpestio ma lo spianamento
fatto dai romani le ha coperte con tonnellate di terra e oggi le troviamo in profondità. Gli scavi del
1900 erano eseguiti a trincea con la terra disposta nei fianchi.
Uno dei tipi più antichi è la tomba a fossa, scavata nel terreno. Mentre in tutto l’Occidente in età
arcaica e fino al VI a.C. il rituale di sepoltura è l’incinerazione, a Cartagine fin dalle prime
attestazioni funerarie vediamo il prevalere dell’inumazione. Non sappiamo ancora il motivo di
questa particolarità. Forse l’influenza dell’elemento indigeno, che praticava appunto l’inumazione,
spiega questa caratteristica, ma i libici deponevano i defunti in posizione fetale e ricoperti con ocra
rossa mentre le tombe cartaginesi mostrano scheletri generalmente in posizione supina con le
braccia lungo i fianchi o sul petto. Tra le tombe più antiche troviamo anche qualche incinerazione
secondaria accompagnata dal corredo, forse si tratta di individui ancora legati alla tradizione della
218
madre patria. Troviamo in queste tombe oggetti di gusto orientale e perfino degli avori. La
copertura delle tombe è realizzata con lastre giustapposte, a schiena d’asino.
Fig. 74 Stele con simboli: falce lunare, disco solare, Tanìt, idolo a bottiglia, trono
Un altro tipo di sepoltura diffuso è quello della tomba a camera. Non sono come quelle di Ibiza,
scavate nella roccia, ma simili alle spagnole, costruite al fondo di una grande fossa, soprattutto le
più antiche. Dal V a.C. invece vengono direttamente scavate nella roccia anche a Cartagine. Le
più profonde raggiungono i 30 metri. Sono simili a quelle di Cagliari e prevedono un pozzo
verticale con imbocco di forma rettangolare. Sulle pareti lunghe, nei bordi, ci sono delle sporgenze
laterali (riseghe) e specie di gradini (pedarole) che consentivano la discesa agli addetti
all’inumazione. La bara era invece calata con delle funi. Alla base c’era la camera con la
deposizione. Non sappiamo bene a cosa servissero le riseghe dei pozzi perché le tombe venivano
riempite e le sporgenze non hanno una funzione pratica. Nei casi più semplici ad ogni pozzo
corrisponde una camera, ma a volte abbiamo più camere sovrapposte, aperte nel lato breve del
pozzo, che era rettangolare. All’interno possiamo trovare sarcofagi monolitici in marmo con
copertura a lastre o a cassone con tetto spiovente di tipo greco.
Sopra le tombe venivano messe delle lastre a schiena d’asino per reggere la forte spinta provocata
dalla terra di riempimento. A volte il soffitto era realizzato in legno pregiato ma nulla si è
conservato. Un altro tipo è la tomba a cassone, costituita da blocchi in pietra e lastre poste a
coltello a formare il cassone. Anche queste sono al fondo di grandi fosse e ospitavano inumazioni.
In alcune tombe tarde troviamo dei sarcofagi di tipo greco, con cassone parallelepipedo e
coperchio a doppio spiovente conformato come un timpano, come il frontone del tempio greco.
219
Due sarcofagi che si distinguono fra gli altri, pur essendo anch’essi a cassone monolitico,
presentano sul coperchio un personaggio maschile e uno femminile, forse due sacerdoti. Quello
maschile ha la mano alzata in segno di saluto, o di benedizione, come quelli di Ahiram di Biblo. Il
personaggio femminile presenta una veste particolare con tracce di policromia blu, nera, gialla e
arancio. Come la rappresentazione della divinità nella Cueva d’es Cuyeram, mostra ali ripiegate
sul corpo che nel mondo punico distinguono l’iconografia di Iside. Si è ipotizzato che la tomba sia
di una sacerdotessa di una divinità femminile, raffigurata nei suoi abiti cerimoniali.
In superficie le tombe erano segnalate da stele funerarie che presentano una nicchia, un’edicola,
nella quale è rappresentato un personaggio, una divinità. Si nota spesso l’influenza greca con
colonne ioniche e altri elementi iconografici caratteristici. Essendo i pozzi riempiti, quindi invisibili
dalla superficie, in molti casi ci sono cippi o stele funerarie che indicano la presenza delle tombe.
Fig. 74 Tophet Cartagine
Uno dei contesti più importanti di Cartagine è il tophet. Fu scoperto casualmente nel 1921, è stato
sottoposto a numerosi interventi di scavo mai pubblicati in modo esaustivo. A Cartagine,
diversamente al consueto posizionamento a nord degli abitati, il tophet è ubicato a sud, a
Salammbò, vicino ai porti. I tophet sono un fenomeno della zona centrale mediterranea: li troviamo
in Tunisia (Cartagine e Suss), in Sicilia (Mozia, Lilibeo e Solunto) e in Sardegna (Cagliari, Nora,
Sant’Antioco, Monte Sirai, Tharros). Sono completamente sconosciuti in Oriente, a Cipro, a Ibiza e
in Spagna. Si pensa quindi ad una influenza culturale antica di matrice cartaginese, precedente
alla conquista armata. Quello di Cartagine fu scoperto nel 1921 da un cercatore di pietre che
vendeva le stele agli antiquari. Due appassionati (Icard e Gielly) lo seguirono negli spostamenti e
scoprirono i luoghi dai quali il cercatore prelevava i materiali. Nella zona si succedettero numerosi
studiosi che indagarono la parte dell’area compresa tra le strade. Ancora oggi ignoriamo l’esatta
estensione del tophet perché l’area è fortemente urbanizzata e non è stata ancora completamente
220
scavata. La stratigrafia si presenta complessa. Vi è una successione, alta vari metri, di strati che
contengono migliaia di stele e urne ma non c’è una separazione netta fra le fasi in quanto il tophet
è stato frequentato senza soluzione di continuità, con continui scavi per collocare altre urne. Ciò
costituisce un problema perché un sito rimaneggiato determina l’incomprensione degli strati.
Il primo scavo fu di Icard e Gielly nel 1922, successivamente l’indagine fu svolta da Lapeyre 193436 e Carton, poi Cintas 1944-47 e infine, negli anni Settanta, fu il turno di Stager, 1975-79.
Lo scavo del 1922 fu fatto con delle lunghe trincee che scoprivano la distesa di urne e stele.
Migliaia di manufatti furono portati alla luce ma non si riuscì ad abbinare le stele alle varie urne.
Alcuni articoli pubblicati in quegli anni cercarono di spiegare la stratigrafia ma i contrasti fra i due
appassionati e le autorità tunisine causarono l’interruzione degli scavi. Quando non c’era più
spazio si ricopriva con terra lo strato esistente e si sovrapponevano altre stele e altre urne. La
datazione accettata dagli studiosi è quella dell’americano Kelsey che scavò, pochi anni dopo Icard
e Gielly, con l’inglese Harden, esperto nella datazione delle ceramiche.
La datazione delle stratigrafie antiche segue un metodo che si basa sulle ceramiche, poiché le
monete sono utilizzate solo in tempi più recenti (dopo il V a.C.), il vetro fu introdotto in età romana
e il metallo poteva essere rifuso. La maggior parte dei contenitori domestici e funerari era in
ceramica, e si rompeva facilmente, soprattutto se doveva essere riscaldata col fuoco. L’argilla è un
materiale che riscaldato a certe temperature diventa indistruttibile nel tempo ed era alla portata di
molte famiglie dell’epoca. La datazione dei cocci avviene su base comparativa, nel senso che negli
ultimi 200 anni l’archeologia ha documentato delle sequenza cronologiche relative che hanno
portato ad individuare delle successioni temporali e dei luoghi di origine della produzione e delle
decorazioni. Il confronto fra contesti indica la cronologia. Comparando i materiali del contesto si
può dedurre quando si è formato lo strato perché i materiali più recenti sono l’indizio della
datazione. I materiali antichi si definiscono “residuali”. La cronologia relativa è quella che dice che
uno strato viene prima di un altro, la cronologia assoluta determina la datazione dello strato, il
periodo. I vari studiosi che si alternarono a Cartagine hanno proposto datazioni leggermente
differenti. Harden nel 1925 distingue tre strati principali: Tanìt I, Tanìt II e Tanìt III. Il primo strato,
Tanìt I, presenta le più antiche urne, quelle del VII a.C., che si trovano scavate nella roccia o entro
ciste litiche, nello strato più basso. Non ci sono stele, solo poche urne protette da cumuli di pietre o
in cavità della roccia. Datato intorno al VII a.C. si caratterizza per l’assenza di monumenti lapidei.
Lo strato Tanìt II, VI-IV a.C., vede tante stele e cippi. L’ultimo strato si data al 150 a.C., data della
distruzione di Cartagine da parte dei romani, e vede la presenza di un numero enorme di urne e
stele, ma di diverso tipo.
Negli anni Trenta un sacerdote, Lepeyre, scavò un terreno di proprietà di Carton che morì poco
dopo l’acquisto della proprietà e non poté pubblicare gli scavi.
221
Fig. 75 Cartagine
Meglio documentato è lo scavo del Cintas che fece due campagne. La prima, nel 1944, venne
effettuata nella parte nord, in un’area dove la stratigrafia non era completa, mancavano gli strati
più bassi perché il tophet aveva raggiunto la zona estrema del temenos (nome del recinto sacro
che chiude il tophet). Lo studioso individuò il muro di recinzione costituito da una serie di lastre,
quindi conosciamo il limite nord del santuario, mentre ignoriamo i limiti degli altri punti cardinali.
Nella seconda campagna, quella del 1946, individuò una struttura alla quale diede il suo nome, la
Cappella Cintas. Si tratta di un edificio con una cameretta centrale circondata da muretti di piccole
dimensioni che la dividono da altri piccoli vani. C’era un deposito di fondazione che presentava
materiali arcaici particolari, molto diversi fra loro, sia di importazione greca che locali. Cintas,
basandosi sulle fonti classiche e sulla tipologia di un’anfora, pensò ad una fase antica di
fondazione di Cartagine e ipotizzò il XII a.C. ma studi recenti hanno dimostrato che quell’anfora
cicladica ritrovata, è del 750 a.C. Comunque questo edificio è un unicum nei tophet e ancora non
siamo in grado di interpretarlo in maniera certa. Sempre Cintas ha individuato un breve tratto del
temenos del tophet, costituito da una serie di lastroni piazzati verticalmente.
Dopo il Cintas operò lo Stager che negli anni Settanta, a seguito di un appello dell’Unesco che
coinvolse molte missioni internazionali (tedesche, danesi, inglesi, italiane, americane, polacche e
francesi), iniziò gli scavi a Cartagine e accettò la distinzione in tre fasi proposta da Harden. A oggi
sono state pubblicate solo una parte delle stele e mostrano diverse tipologie. Stager riprende la
stessa stratigrafia del Cintas con Tanìt I, II, III, ma con datazioni differenti divise in nove
sottogruppi. Tanìt I ha poche urne deposte in piccole cavità, datate 730-600 a.C. Tanìt II 600-400
a.C. vede la comparsa dei cippi con stele a trono. Tanìt IIb VI-III a.C. ha cippi con stele a sommità
triangolare e edicola. Tanìt III arriva al 146 a.C.
222
Fig. 76 Utica
Altri esempi sono le stele costituite da un’edicola o dal frontespizio di un tempio con all’interno la
raffigurazione della divinità. Le stele ad edicola presentano divinità sia aniconiche (betilo o idolo a
bottiglia), che iconiche, con figure antropomorfe, più spesso femminili, vestite o nude. Non
sappiamo se volessero rappresentare templi, ma dal VI al IV a.C. ci sono edicole che presentano
elementi architettonici che rimandano all’Egitto: sul basamento ci sono pilastri (non colonne)
sormontati da una trabeazione con sopra una modanatura sgusciata a gola egizia come
coronamento. Nell’architettura templare punica si riprendono i caratteri egiziani ma nelle stele
manca l’aggetto frontale (che però viene ripreso lateralmente). Sopra le modanature ci sono delle
semplici fasce o serpenti, simboli solari egiziani come urei discofori con in testa un disco solare
(fregi ad urei), simboli astrali come falce lunare o sole alato
Tutte le stele e i cippi erano tridimensionali e si trovavano nel secondo strato del tophet, in Tanìt II.
Verso il IV a.C. c’è un cambiamento della tipologia con l’introduzione di stele che perdono la
tridimensionalità e mostrano una lavorazione a bassorilievo o un’incisione solo sulla faccia a vista
(Tanìt III). Abbiamo semplici lastre suddivise in registri, sormontate da un timpano con acroteri
(elementi greci). Nei registri troviamo iscrizioni, fregi, animali, segni di Tanìt, caducei e altri simboli
come sole alato, capitelli ed elementi vegetali.
Il bètilo, la pietra sacra, è rappresentata come un pilastro con sommità tronca o arrotondata. Può
essere singolo o associato (diadi o triadi betìliche) e a Soùssa ci sono 5 bètili affiancati. Altro
simbolo femminile è la “losanga”, raro ma non a Cartagine. Le figure maschili si rifanno al mondo
iconografico orientale, quelle femminili al mondo egizio.
223
Fig. 77 Cartagine
A Cartagine abbiamo anche notizie di un tempio di Eshmun ma non ci sono tracce. Solo le fonti ne
parlano ma quando la Byrsa fu spianata dai romani questo tempio fu distrutto completamente.
Un’altra fonte, Appiano, ci parla di un tempio di Apollo (il Reshef punico) saccheggiato dai romani
al momento della presa della città. Sul tetto c’erano foglie d’oro. I tedeschi hanno forse individuato
questo tempio ma si tratta di poche tracce. La ricostruzione proposta dalla missione tedesca
mostra un edificio con pronao, cella e penetrale (in un piano più basso) diviso in tre ambienti. Nei
vani più interni sono state trovate una serie di crètule o bulle, palline di argilla cruda utilizzate per
sigillare i documenti, che si sono conservate solo perché i romani bruciarono l’edificio, causando
l’indurimento della pasta. All’epoca i templi avevano una funzione sacra accompagnata da quella
economica, da quella amministrativa e di archivio. I documenti ufficiali erano conservati nei templi
e a Cartagine tutto il materiale scrittorio (papiri egiziani) veniva scritto, arrotolato, legato con
cordicelle e sigillato con le cretule. Sono manufatti che presentano su una faccia l’elemento
iconografico (navi, palmette, decorazioni) e sull’altra un dorso di scarabeo, simbolo solare
egiziano. Ogni sigillo era impresso con gli scarabei (anelli o timbri) tutti differenti fra loro, di
proprietà delle famiglie delegate a governare le città. C’erano varie scene con Iside che allatta
Orus o con altre immagini. Le cretule del tempio di Cartagine portano impressa una doppia
immagine (all’esterno il segno del sigillo e all’interno quello del papiro). Le cretule erano
conservate nei templi, insieme ai documenti.
224
A sud della città ci sono i porti. Uno rettangolare esterno, utilizzato come struttura mercantile, e
uno circolare, più interno, con funzioni militari e all’interno un isolotto per l’ammiragliato. I romani
riuscirono a far breccia nelle mura di fortificazione adiacenti le strutture portuali. Il porto militare
poteva contenere quasi 200 navi. Nel III a.C. venne realizzata un’importante opera con i due nuovi
porti. L’archeologia ha fornito dati opposti a quelli delle fonti che parlano di una Cartagine fiaccata
dai romani. Intorno al 150 a.C. il porto poteva contenere quasi 200 navi da guerra e la città doveva
essere ricchissima. Catone aveva dunque ragione quando nei discorsi al senato di Roma avvertiva
che Cartagine era potente e bisognava preoccuparsi. Sia nell’isolotto che nella parte perimetrale
del porto c’era un colonnato con degli spazi che permettevano di portare a secco le navi nella
stagione invernale. Sono rimaste tracce di opere murarie e scivoli lignei.
Anticamente c’era un porto lagunare arcaico, ubicato in quello che oggi è lo stagno di Tunisi, a sud
della città. Scavi recenti hanno dimostrato l’esistenza di un canale scavato che andava dallo
stagno fino ai piedi della Byrsa. Non sono ancora state fatte indagini approfondite ma si è scoperto
che il canale venne interrato e furono costruiti i due nuovi porti. Il porto militare era chiuso con
catene ed era accessibile solo da quello rettangolare. Bisogna tener conto che la navigazione
d’altura era un’attività esclusivamente estiva, pertanto durante la stagione fredda le navi erano
tirate in secca negli appositi spazi ricavati nelle strutture. L’edificio dell’ammiragliato era composto
da una parte bassa con i vani per le barche e una parte alta per i militari.
Le fortificazioni arcaiche sono state indagate dagli scavi tedeschi che hanno individuato due muri
riferiti alla cinta antica. Nel V a.C. venne impiantato un nuovo sistema composto da una serie di
torri, unite da bastioni, che circondava la città, soprattutto sul lato a mare. Negli anni Cinquanta
sono state individuate delle trincee con palizzate, interpretate come una difesa realizzata con
materiali deperibili, lignei. Cartagine, era difesa da una fossa regia per proteggersi da eventuali
attacchi delle popolazioni indigene, i berberi libici, che avevano una propria identità culturale.
Questi subirono l’acculturazione punica ma mantennero anche la propria connotazione. Quando
Cartagine, nella colonizzazione di Sicilia e Sardegna, trasferisce parte della popolazione libica nei
nuovi territori, solo i rappresentanti sono cartaginesi doc. Nella cultura punica sarda interagiscono,
quindi, elementi tiri e libici che si integrano ai locali.
I Tophet
Si tratta di santuari caratteristici dell’area mediterranea centrale. Sono assenti in Libano, Spagna e
Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna
con Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. In Africa di età neo-punica, dopo la prima
distruzione di Cartagine, abbiamo una proliferazione di tophet.
Sono santuari a cielo aperto in cui l’elemento preponderante non è l’edificio, anche se a volte può
esserci. Il tophet è sempre circondato da un temenos, all’interno del quale c’è la deposizione di
urne in ceramica e stele in pietra. Generalmente si trova a nord dell’abitato in una posizione
periferica e non viene mai spostato: qualora si dovessero fortificare le città si arriva a modificare il
percorso delle mura per non spostare il tophet. Le urne contengono le ceneri di fanciulli, infanti,
agnelli e capretti e, sporadicamente, uccelli. I bambini potevano essere feti o neonati ma a volte si
225
arrivava fino ai tre-quattro anni. Le urne sono sempre vasi in ceramica di diversa forma ma
dobbiamo intendere l’urna come elemento di una funzione e non come vaso.
È sempre dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt, attestata come “manifestazione di Baal”,
che lo affianca a partire dal V a.C. per poi soppiantarlo. Il primo è una divinità dinastica minore
attestata raramente in oriente ma a Cartagine acquista importanza e spesso è accompagnata dalla
divinità femminile. I greci lo identificano con Krono e i romani con Saturno, quindi è una divinità
ancestrale, cioè deriva dai remoti antenati. Anche Tanìt è una divinità orientale che raramente è
attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante insieme ad Astarte. Nelle
interpretazioni greca e latina era assimilata a Era o Celèstis (Giunone). Prima del tophet di
Cartagine sono stati individuati quello di Nora, precisamente sulla spiaggia orientale della città nel
1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma non furono interpretati come santuari, si pensò a semplici
necropoli ad incinerazione. Solo a Cartagine vennero eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si
rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani,
come quelli documentati nella Bibbia. Non bisogna dimenticare che i primi archeologi erano
semitisti che si formarono sulla Bibbia e quindi pensarono ai sacrifici celebrati in oriente vicino a
Gerusalemme e menzionati in alcuni brani delle Sacre Scritture. Ci sono diversi passi che parlano
di tophet e di figli che vengono offerti agli dei con il passaggio dentro il fuoco. Il rito era condannato
da Dio ma ci si rese conto che i tophet vicino a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel
Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano essere gli stessi. È evidente che i mediterranei non li
chiamavano così, è stata una nostra associazione. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura delle fonti
classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato ad un rituale con sacrificio di
bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione ma questa
ipotesi è stata confutata dal Moscati che evidenzia importanti elementi: le analisi istologiche hanno
mostrato la presenza di feti, mettendo in dubbio la teoria del sacrificio; altro elemento è
l’interpretazione delle fonti classiche perché non si trattava di usanze ma di casi di particolare
pericolo: pestilenze, guerre e quindi uccisioni in situazioni eccezionali. Anche nella Bibbia si parla
di fatti occasionali e non di uccisioni rituali ripetute.
Ad esempio nel Deuteronomio è scritto: “e persino bruciavano al fuoco per i loro Dei i figli e le figlie
loro”; o ancora “non deve trovarsi in te chi fa passare nel fuoco il figlio o la figlia sua”; oppure dal
libro dei Re: “camminò per la strada dei re d’Israele e fece perfino passare per il fuoco il suo
figliolo secondo gli abominevoli rituali delle genti che il Signore aveva cacciate davanti ai figli
d’Israele”. Un rituale dunque non accettato da Dio ma voluto da una divinità estranea. Vicino a
Gerusalemme c’è un luogo chiamato Tophet, è nominato ad esempio nel libro dei Re: “Lì farò il
Tophet, nella valle di Ben Innom, e nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di
Moloch”; e ancora Geremia: “costruiscono un altare di Tophet nella valle di Ben Innom per bruciare
i propri figli nel fuoco, ma io non ho comandato né mai mi venne in mente perciò verrà il tempo,
dice il Signore, che non si chiamerà più tophet né valle di Ben Innom ma Valle dell’eccidio, e si
seppelliranno nel tophet per mancanza di posto”. Geremia: Hanno eretto un altare per bruciarvi col
fuoco i loro figli in olocausto a Baal, cose tutte non comandate da me, né mai venutemi alla mente,
226
perciò ecco che vengono i giorni, dice il Signore, che questo luogo non si chiamerà più Tophet ne
Valle di Ben Innom, ma Valle della strage”.
Quindi Tophet non è un nome generico ma il nome di un luogo in cui si svolgeva un rito pagano,
non voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco. Nel momento in cui
hanno trovato a Cartagine queste urne con centinaia di bambini incinerati, hanno attribuito il luogo
a quello di cui parlava la Bibbia, un tipo di santuario simile a quello documentato in oriente. Questa
teoria del sacrificio umano dei primogeniti alle divinità è andata avanti e ancora Barreca nel 1980
la porta avanti ma le fonti classiche non parlano in maniera esplicita di sacrifici umani di bambini,
ma di sacrifici di persone per placare l’ira delle divinità solo in caso di condizioni di pericolo ed
eventi drammatici: pestilenze o nemici fuori dalle mura.
Dice Gaudesio: “c’era l’usanza presso gli antichi, in caso di grave pericolo, che i capi della città o
della popolazione, per evitare la distruzione di tutto, facessero sacrificio dei più cari dei loro figli,
come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di un
rituale cerimoniale misterioso”.
Ē un toponimo preciso, riferito ad una valle presso Gerusalemme dove i Fenici si diceva
"passassero per il fuoco" i bambini. Dalla valle di Ben Innom (come si dice nel Vecchio
Testamento) il tofet passerà, nella letteratura storico-archeologica, ad indicare tutti i santuari simili
rinvenuti successivamente in area occidentale. Naturalmente ciò fornì il pretesto per stigmatizzare
questa usanza da parte degli israeliti, i quali fecero di tutto per proibire tale rito. In realtà il termine
"passare per il fuoco" è stato sempre strumentalizzato per porre in cattiva luce i fenici, mentre con
tutta probabilità si tratta di un rito di passaggio, del "salto" di un fuoco da parte di un bambino,
accompagnato da un adulto, il quale con questa "prova" accedeva a tutti gli effetti tra i membri
attivi della comunità. Si tratta di una straordinaria analogia col fuoco di S.Giovanni al solstizio
d'estate. È simile a quando si salta un falò in spiaggia, retaggio di un antico rituale di passaggio
all'età adulta.
Come si può facilmente vedere la questione dei tofet investe l'archeologia, la storiografia, l'esegesi
biblica, l'antropologia, le tradizioni culturali.
Secondo Moscati nei tophet c’erano i resti di sacrifici di quei bambini non ancora passati attraverso
il rito di introduzione nella comunità (battesimo e circoncisione). Non facevano ancora parte del
mondo degli adulti e non potevano essere sepolti con loro. Dovevano essere purificati col fuoco e
sepolti a parte, in apposite urne, e in qualche caso si sacrificava alle divinità qualche piccolo
animale. Un gran numero di iscrizioni ritrovate nei tophet riportano delle formule rituali sempre
uguali: denominazione dell’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione del rito
(molch), il verbo della dedica o del dono, il nome e la genealogia dell’offerente, la divinità (BaalAmmon o Tanìt) e il motivo dell’offerta, che si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la
sua voce”. Questa formula viene poi cambiata mettendo prima il nome della divinità.
Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO
SULL’ALTARE (tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL
SUONO DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la richiesta, la preghiera.
227
Ad oggi non sappiamo se ogni stele sia legata ad un urna in particolare, ne se le offerte erano
rituali periodici. Sono in pietra locale, tenera (arenaria o tufo), rappresentano cippi (le più antiche) o
piccoli tempietti con all’interno la rappresentazione della divinità.
In letteratura, dividiamo i monumenti votivi in cippi e stele funerarie.
Il cippo semplice è una pietra aniconica non molto lavorata dove prevale l’altezza sulle altre
dimensioni e rappresenta direttamente la divinità. È posto come segnacolo per individuare la
fossa, infissa nel terreno o posta sopra un basamento in pietra. A volte i cippi sono montati su basi
attraverso incastri. Queste basi sono costituite da un plinto tronco piramidale, sormontato da un
listello rettangolare con sopra una gola egizia, (un elemento lapideo aggettante egizio acquisito dai
punici). Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non conosciamo
l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari, sacri, abitativi e altri, quindi un segno
con molti significati. Fra i cippi più antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono, (stele trono e
cippi trono), a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla seduta, altre
volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al centro. In questi casi, cioè quando una
pietra sacra si trova sul trono, parliamo di “betilo” (casa del Dio). In qualche caso un “idolo a
bottiglia” sostituisce il betilo. Nell’ambito del VI a.C. possiamo trovare i cippi trono posti su
basamento. Il trono può essere affiancato da due bruciaprofumi. Questi monumenti sono
documentati in pochi siti: Cartagine, Mozia, Solunto e Tharros.
Le zone più importanti del territorio cartaginese sono il Cap Bòn e il litorale (Sael), che hanno
restituito strutture puniche dalle quali siamo risaliti alla fisionomia dell’area in età antica. Le città più
importanti sono Utica e Sousse. Il sito principale di Cap-Bon è Kerkouàne, munito di fortificazioni
con torri costiere che servivano per gli avvistamenti. Altri siti importanti sono: Ràs Fortàss, Ràs adDrèk e Kelìbia. Oltre questi abbiamo santuari e necropoli.
Kerkouàne
È la città meglio conservata perché alla metà del III a.C. c’è stata la distruzione e si è conservata
come cristallizzata. Mohamad Fantar ha eseguito gli scavi ma ha pubblicato solo la struttura e non
i cocci. Fondata nel VI a.C. è un centro libico che subisce un forte influsso cartaginese. Venne
distrutta due volte: nel 310 a.C. da Agatocle e nel 255 a.C. da Attilio Regolo che interruppe
definitivamente la vita della città. Le fortificazioni mostrano mura con due porte di ingresso, a
oriente e occidente, e varie torri. Le strutture sono state scavate solo in alcuni punti e mostrano
una fase antica con pietre strutturate a spina di pesce. L’alzato è stato ricostruito per consentirne
una migliore fruizione e presenta tecniche costruttive con alzati in mattoni crudi. L’architettura
abitativa era regolare, organizzata per insule ma l’impianto delle strade non è perfettamente
ortogonale. Il nucleo più antico vede, come nella Byrsa, case con diversi spazi che si affacciano su
una corte centrale, nella quale ci sono delle vasche vicine alla cucina. Le coperture sono piane,
realizzate con materiale deperibile, forse assi di legno. Le sale da bagno (vasche) presentano delle
tubazioni per essere riscaldate dalle cucine e hanno una struttura sofisticata con bordi a sedere.
Il santuario è organizzato su due nuclei collegati da uno stretto ingresso, uno per i sacerdoti e
l’altro per i fedeli. Davanti all’ingresso ci sono due pilastri a spigolo e l’aula presenta diversi
228
ambienti. Sul fondo ci sono due basamenti con edicole e in alcuni ambienti si notano residui di
produzione coroplastica: manufatti di argilla, un forno, una vasca di decantazione e un tornio.
Fig. 78 Kerkouane
La produzione degli ex-voto era, quindi, interna al santuario e acquistabile in loco, pertanto i fedeli
non dovevano portarla con loro. Le due necropoli importanti di Kerkouane sono: Giebel-Mleja e
Areg el-Gazuan. Le due varianti funerarie sono a dromos e a pozzo. Il dromos consente una
discesa graduale verso la tomba e naturalmente la presenza di un tipo esclude l’altro. Tuvixeddu,
Cartagine, Lilibeo, Monte Luna e Villamar hanno moduli a pozzo con riseghe e pedarole. Quelli a
dromos sono a Solunto, Monte Sirai, Sant’Antioco e Tharros. Non sappiamo perché gli abitanti dei
siti preferissero uno o l’altro tipo, inoltre le tombe a dromos, stranamente, non sono documentate
a Cartagine. Nel dromos si può verificare che i gradini occupino tutto il lato del dromos nella parte
breve, oppure entrambi, ma non quello lungo. All’interno della camera, a volte, ci sono dei banconi
con strutture idonee a ospitare sarcofagi oppure fosse scavate nel pavimento con inumati in
posizione supina o fetale con intorno il corredo funerario. Le interferenze religiose fra indigeni e
cartaginesi, quindi, non impedivano il normale svolgersi della vita. L’archeologia documenta anche
un sarcofago ligneo con una rappresentazione femminile sul coperchio, come a Santa Monica: la
dama di Kerkouàn. La documentazione di Giebel-Mleja è ricca di pitture funerarie, realizzate in
ocra rossa nelle pareti della fossa, stranamente non documentata a Cartagine. A Cagliari abbiamo
tombe a fossa come a Cartagine e pitture funerarie come a Giebel-Mleja. In Tunisia abbiamo delle
specie di domus de janas chiamate Hanùt (o hanuanèt), contemporanee alle tombe puniche. Sono
ipogeiche ma si possono aprire sul piano roccioso o nella parete. Le hanuanèt presentano pitture
ricchissime con figure di caccia e animali, riportati ad una influenza punica, ma non sappiamo se i
libici dipingono quando i punici avevano già eseguito le loro opere subendone il fascino o avvenne
il contrario. Il fregio a losanga della tomba 5 di Giebel-Mleja è libico, lo troviamo infatti anche nella
ceramica berbera. Nella parete di fondo è rappresentata la città dei morti e in una nicchia c’è Tanìt.
Sui due lati c’è un mausoleo con un altare e un gallo, forse rappresentazione allegorica del
defunto, che è in viaggio verso la città dei morti. Ē un’ipotesi di Fantar ma qualcuno pensa ad una
229
rappresentazione della necropoli con la collina di Gieben-Mleja così come si presentava sopra la
necropoli: un’area curata, con una serie di strutture simili a cappelle di famiglia, legate ai sepolti. A
volte sul prospetto dell’ingresso troviamo delle iscrizioni sul defunto, come a Tharros.
Fig. 79 Gieben-Mleja, la tomba 5 dipinta
La Sicilia
L’isola è importante per tutta l’area centro mediterranea, sia dal punto di vista politico che da quello
culturale. A differenza della Sardegna c’è la presenza dell’elemento greco. Vi è anche una
componente indigena dell’interno, a sua volta distinta in tre gruppi etnici che continuano a
svilupparsi dopo l’arrivo dei coloni greci e fenici, avvenuto nell’VIII a.C.: gli Elimi ad ovest, i Sicani
al centro e i Siculi ad est.
Secondo Tucidide i primi a giungere furono i fenici di Tiro che con l’arrivo dei greci si ritirarono nella
costa occidentale alleandosi con gli elimi e dando vita alle tre città principali: Mozia-Lilibeo,
Palermo e Solunto. L’incontro fra le genti fu importante sia per la crescita delle rispettive culture,
sia per l’aspetto militare. Ogni popolo possiede proprie convinzioni religiose e divinità e l’influenza
fu forte. Le città si svilupparono in maniera diversa rispetto alla situazione africana e sarda.
Abbiamo poche città, tutte sulle coste, ed un entroterra controllato dagli Elimi che comunque
mantennero buoni rapporti con i fenici fino al 241 a.C., quando la Sicilia passò sotto il controllo
romano.
Oltre le città principali, altri centri di cultura mediterranea sono Selinunte, colonia greca che ha
subito 150 anni di controllo cartaginese, Erice, centro indigeno, Monte Adranone e Pizzo Cannìta
dove sono stati ritrovati due sarcofagi antropoidi, influenzati dal mondo greco. Dal V a.C. le città
ebbero un rapporto conflittuale con le città rivali greche, soprattutto Siracusa.
230
Fig. 80 Mozia, muro di cinta
Mozia
É la città che ha restituito le tracce più antiche. Si trova sull’isolotto di San Pantaleo, localizzato
nello stagno di Marsala, ed è separata dalla costa da uno specchio d’acqua molto basso, circa 1.5
m, che consentiva una buona difesa da eventuali attacchi navali esterni, offrendo allo stesso
tempo ai residenti la possibilità di rifornirsi velocemente di ciò che serviva per la vita quotidiana.
Quindi un’isola protetta dai bassi fondali e vicinissima alla costa. Fu scavata agli inizi del
Novecento ma è ancora indagata e ospita i vigneti dai quali si produce il Marsala, il famoso vino
liquoroso siciliano. Il sistema fortificato circondava l’intera isola ed era stato impiantato intorno al
550 a.C. e visto che i rapporti fra levantini e indigeni sono sempre pacifici, non troviamo strutture
fortificate antecedenti questo periodo. Chi riusciva a raggiungere l’isola, con difficoltà visti i bassi
fondali, era controllato ed eventualmente attaccato dall’interno delle fortificazioni. Ci sono quattro
porte nei quattro punti cardinali, ma quella a est non è stata ancora individuata. Il centro venne
distrutto nel 397 a.C. da Dionigi di Siracusa e gli abitanti si spostarono nella costa fondando la città
di Lilibeo. Le fortificazioni vivono 4 fasi costruttive e sono state scavate soprattutto a nord dell’isola.
231
Fig. 81 Mozia, l’isola
La fase più antica presenta un muro semplice con uno zoccolo in pietrame non squadrato,
cementato con malta di fango, e alzato in mattoni crudi. A distanza regolare, ogni 20 m, ci sono
delle torri di guardia aggettanti rettangolari alte 12 m che comprendono 2 ambienti. Gli scavi della
Ciasca, negli anni Settanta, hanno documentato i mattoni crudi protetti da un altro paramento
murario. Nella seconda fase, sempre nel VI a.C. viene costruito un altro muro, addossato al
precedente, che diminuisce l’aggetto delle torri. La terza fase, nel V a.C., vede paradossalmente
una tecnica costruttiva militare greca, il nemico principale dei cartaginesi. I greci avevano armi
d’assedio comprendenti arieti e minatori, pertanto l’aspetto militare fu quello percepito prima dai
residenti: dovevano difendersi e impararono velocemente le tecniche del nemico. Costruivano con
blocchi isodomi messi in opera a secco con disposizione di testa e di taglio per raddoppiare la
consistenza e la resistenza allo sfondamento. Le mura inglobano la prima fase, mentre la fase
centrale viene riempita. L’ultima fase, sempre nel V a.C., integra brevi tratti di fortificazioni con
scheggioni messi in opera con malta di fango e ci sono grandi torri quadrangolari per rinforzare
alcuni punti delle mura.
La porta sud è in corrispondenza del bacino del Cothon e all’esterno dell’area furono ritrovati dei
merli crollati. Questi elementi lapidei di forma centinata, che misurano circa un metro, hanno fatto
ipotizzare il coronamento della struttura. Elementi di questo tipo sono rari e i ritrovamenti si
limitano a 4 siti: Mozia, Tharros, Lilibeo e in Gallia.
232
L’abitato è stato scavato solo in piccola parte e non ne conosciamo l’estensione. Dopo la
distruzione, avvenuta nel 397 a.C. ad opera di Dionigi, Mozia ha continuato a vivere perché i suoi
abitanti, che si trasferirono sulla terraferma costruendo una rocca inespugnabile, continuarono a
frequentare l’isola. Greci e romani non riuscirono mai a conquistarla e solo alla fine della II guerra
punica, con la resa di Cartagine, la città passò sotto il controllo romano. Inizialmente la
sistemazione dell’abitato, ipotizzata dall’archeologo inglese Taylor, era ortogonale e poi si sarebbe
raccordata con l’andamento delle fortificazioni dell’isola che seguivano la forma della costa, quindi
un passaggio da ortogonale a radiale. Tuttavia recenti scavi hanno dimostrato che l’impianto
originale era molto frastagliato e non certo ortogonale.
La porta nord è stata scavata da Withaker agli inizi del Novecento. La struttura è costituita da un
lungo corridoio suddiviso in due parti e sbarrato da tre porte consecutive che costituivano una
difesa dall’esterno. Gli inglesi hanno scavato la porta nord trovando due saccelli, di cui rimangono
solo le fondazioni. Quello a destra, rettangolare di 5 x 7 m, aveva addossato ad uno dei muri 4
anfore infisse nel terreno legate ad una offerta o ad un culto indigeno. Fu identificata anche una
grande quantità di ciotole e scodelle. L’altro saccello attualmente è di forma quadrata ma in antico
era rettangolare, più piccolo. Gli scavi nell’area hanno riportato alla luce alcuni frammenti di
capitelli: uno dorico e alcuni angolari fogliati. Si è ipotizzato che la struttura della prima fase avesse
un aspetto greco, mentre nella seconda fase, nel V a.C., fosse stata sistemata con elementi di tipo
orientale. Forse gli stessi moziesi, in occasione dell’attacco di Dionigi di Siracusa, hanno raso al
suolo la struttura per evitare che fosse utilizzata dal nemico. Non conosciamo la funzione dei
saccelli ma considerato che sono fuori dalle porte, in una zona di contatto con l’esterno attraverso
una strada che porta verso la costa, si è pensato ad un punto in cui c’era l’incontro fra gli abitanti
dell’isola e quelli della terraferma, forse una guardiola per riscuotere i dazi doganali.
La parte centrale dell’abitato fu scavata da Tusa e mostra strutture arcaiche molto semplici. In una
di queste, forse un magazzino, furono trovate una serie di file di anfore da trasporto vuote, (casa
delle anfore). La vecchia casa padronale di Withaker è stata musealizzata e al suo interno si
trovano molti materiali scavati nelle stratigrafie. In occasione del rifacimento del pavimento del
capannone costruito per la produzione del vino sono state individuate tracce della frequentazione
moziese. Gli ambienti e i materiali sono visibili attraverso passerelle che hanno salvaguardato
l’impianto originale.
233
Fig. 82 Mozia, muro a telaio
L’edificio abitativo più importante è la casa dei mosaici, scavata da più studiosi. Si trova a sud del
villaggio, vicina alle fortificazioni. È costituita da un nucleo di rappresentanza, a nord, e una serie
di strutture relative alla vita e allo stoccaggio delle derrate alimentari, a sud. La casa è su due livelli
a causa del declivio verso il mare. Nella parte alta, quella di rappresentanza, c’è una corte, (un
peristilio), con un pavimento decorato con ciottoli di fiume neri, bianchi e grigi che formano dei
mosaici raffiguranti la lotta di un leone con un toro e un grifone alato che attacca un cervo. Il
mosaico è un unicum nel mondo punico e gli studiosi hanno problemi di datazione: Acquaro parla
del VI a.C., Tusa lo data al momento della distruzione della città, agli inizi del IV a.C. In questo
caso si accetta l’influenza dei mosaici macedoni ed ellenistici come quelli documentati a Pella nello
stesso periodo. C’è da considerare che sono stati scavati materiali del V a.C. al di sotto del piano
di calpestio, pertanto la datazione più probabile è quella del Tusa.
La necropoli arcaica dell’VIII a.C. si trova nella parte settentrionale dell’isola. Attualmente è a
ridosso delle fortificazioni ma in origine non era così perché l’impianto è precedente alla
costruzione delle fortificazioni, infatti l’archeologa Ciasca ha trovato delle tombe sotto le torri. I
primi scavi sono di Withaker ma negli anni Sessanta Tusa ha scavato alcune sepolture
individuando 162 tombe, quasi esclusivamente ad incinerazione con deposizione secondaria.
Sopra lo strato di roccia vi era mezzo metro di terra, asportato durante lo scavo, nel quale erano
scavate le fosse per porre la cista litica costituita da lastre in pietra poste verticalmente, oltre quella
sul fondo. All’interno della cista ci sono l’urna e i materiali di corredo. Negli scavi è stato riportato
alla luce un vaso antropomorfo e altro materiale con elementi greci che consentono una datazione
puntuale (intorno a sequenze di 25 anni), al contrario di ciò che avviene per i materiali
mediterranei, molto più conservativi nello stile. La necropoli arcaica finisce nel VII a.C. ma Mozia
continua a vivere fino al 397 a.C.
La necropoli più recente si pensava fosse sulla terraferma (per risparmiare spazio utilizzabile),
infatti gli scavi hanno mostrato una strada, sommersa da mezzo metro d’acqua, larga fra i 7 e i 12
234
m e lunga 1500 m che partendo dalla porta nord conduce a Birgi, sulla terraferma, dove furono
individuate delle tombe puniche. Recentemente gli scavi nella zona hanno individuato anche delle
tombe cosiddette fenicie con una percentuale inversa di defunti: a Mozia 1 su 3 è greca, a Birgi 1
su 3 è fenicia, quindi si è ipotizzato che Birgi sia la necropoli di un centro ancora da identificare
ubicato sulla costa. Sulla base di alcuni ritrovamenti recenti si è ipotizzato che la necropoli punica
di Mozia si trovi diffusa sulla spiaggia, all’esterno delle fortificazioni, in una serie di tombe ad
inumazione (a cassone e a sarcofago) vicino alla porta nord. A ridosso delle fortificazioni sono
state individuate dalla Ciasca anche delle tombe ellenistiche ad incinerazione. Sappiamo che
questo rito risente dell’influenza greca perché il fenomeno si riafferma nel IV e nel III a.C., e nelle
tombe molti materiali sono greci. In base a questa interpretazione si è escluso che la strada che
collega l’isola a Birgi servisse ai moziesi per raggiungere i defunti.
Il santuario di Mozia si trova a Cappidazzu (cappellaccio, forse nome dello spaventapasseri per i
vigneti) e ha una lunga vita, fino al periodo bizantino. La parte arcaica è costituita da tracce di
fondamenta e fosse profonde circa 30 cm con resti di sacrifici animali bovini e ovini. La seconda
fase (VII a.C.) vede la costruzione di muretti e la presenza di un pozzetto. Durante la fase punica
venne impiantato un edificio monumentale che aveva in opera delle gole egizie. Il monumento
venne smontato in età ellenistica per costruire un edificio a tre navate.
La parte settentrionale della città è importante per la fiorente attività artigianale, soprattutto per la
produzione di manufatti in ceramica. Nell’area addossata alle fortificazioni ci sono forni ceramici
ben conservati e vasche per la preparazione e la tintura di pelli e tessuti. I forni sono di fase
punica: sono di forma circolare, non ad omega, ma persiste ancora il muretto che non è stato
sostituito dal pilastro centrale. La suola in argilla che ingloba i mattoni piano-convessi è ben
visibile, così come il vano di combustione e il vano di attizzaggio.
Un’altra area artigianale è denominata “zona K”. Ha restituito sia una fase arcaica di lavorazione,
con un pozzo per l’acqua e un forno ad omega, sia una fase punica con un grande forno circolare
e un muretto con alzato in mattoni crudi che si è conservato perché inglobato nelle fortificazioni.
Nella zona K è stato rinvenuto “il giovane di Mozia”, una statua greca in marmo del V a.C. che
rappresenta forse una divinità o un’auriga o un sacerdote. Nella testa, nel petto e nella schiena ci
sono dei fori per attacchi metallici. Forse si tratta di una statua di committenza punica realizzata da
artigiani greci che fu sepolta dai moziesi per preservarla dall’attacco di Dionigi di Siracusa. Oggi è
esposta nel museo di Mozia.
235
Fig. 83 Mozia, il Cothon
Presso la porta sud si trova il Cothon, un bacino rettangolare del VI a.C., scavato nella roccia
profondo 2.5 m, con un passaggio che da direttamente sul mare. Il vascone, che misura 30 metri di
lunghezza, è stato completamente svuotato e scavato dagli archeologi inglesi e presenta un fondo
naturale con le pareti rivestite di blocchi sovrapposti a secco. Non si riesce ancora ad interpretarlo:
non è un porto, (troppo piccolo), forse era un allevamento di pesci, oppure un bacino per le
operazioni di carico e scarico delle merci, o un bacino di carenaggio. Qualche studioso ha pensato
a un luogo di culto, perché nelle vicinanze sono stati trovati elementi di un edificio interpretato
come tempio. Il passaggio dal mare al bacino è consentito da un canale provvisto di una
scalanatura che fa pensare ad uno spazio ricavato per consentire il passaggio della chiglia.
Il tophet è stato individuato da Whitaker e scavato dalla Ciasca ed è l’unico ad essere stato
indagato completamente. Si trova ad ovest della porta nord e sono evidenti due fasi di utilizzo: A e
B. Al momento della costruzione delle mura il tophet, che era preesistente, venne inglobato
all’interno con una deviazione. Generalmente il tophet non viene mai trasferito, si deviano le mura
ma non si spostano le sepolture. La fase A viene datata alla fine dell’VIII a.C. e mostra un’area
trapezoidale, circondata da un temenos, che presentava un vasto campo d’urne centrale, un
edificio allungato, un pozzo e un edificio quadrato che poi venne smontato ed obliterato, non
sappiamo se fosse interamente chiuso. Alla fase arcaica si riferiscono i primi 3 dei 7 strati in cui si
suddivide l’utilizzo. Lo strato settimo, quello più antico risalente alla fine dell’VIII a.C. è composto
da incinerazioni con deposizione direttamente sullo strato roccioso naturale e le urne, come a
Cartagine, sono avvolte con pietre senza nessuna stele. Lo strato sesto risale al VII a.C., è stata
fatta una gettata di terra sul vecchio strato e si nota l’aumento delle urne ma ancora niente stele.
Lo strato V si data alla prima metà del VI a.C. e troviamo la comparsa delle prime stele, alcune ad
edicola. Successivamente l’area viene ampliata, con la costruzione di un edificio sacro (contenente
236
un bancone) che viene separato dal tophet, e vengono edificate le fortificazioni. Gli scavi hanno
portato alla luce un capitello dorico e si è ipotizzato che il saccello potesse essere stato realizzato
con una architettura mista: struttura greca con capitelli dorici e copertura piana a lastre. Nel 397
a.C. il saccello venne smontato e parte della struttura fu utilizzata come favissa. Gli strati
successivi sono sfalsati rispetto ai primi e abbiamo il quarto strato (fine VI a.C.) che si trova allo
stesso livello del settimo (nonostante sia affiancato) a causa del declivio dell’area verso il mare. Gli
strati seguenti (inizio V a.C.) vedono il riutilizzo delle stele per aumentare l’altezza del muro di
contenimento ma le urne rimangono in posizione originaria. Dallo strato secondo (fine V a.C.)
abbiamo la scomparsa delle stele. Lo strato primo vede migliaia di urne e il tophet continua dopo la
distruzione della città avvenuta all’inizio del IV a.C.
Lilibeo
I moziesi nel 397 a.C. si trasferirono di fronte, sul Capo Boero e impiantarono una città,
denominata Lilibeo, oggi Marsala. C’è una poderosa cinta muraria che circonda la città: resistette
all’attacco di Pirro nel 276 a.C. e all’attacco romano successivo. É una città fortificata che non
venne mai conquistata. Furono i cartaginesi nel 241 a.C. a cederla ai romani quando la guerra fu
persa. Oggi rimangono le fortificazioni, la necropoli e qualche traccia del porto.
Il porto era strutturato in due settori: uno esterno con moli lignei e uno interno, più protetto e dotato
di fondale molto basso che solo gli esperti marinai del luogo potevano raggiungere, infatti sul fondo
dello stagno era stato scavato un canale che consentiva solo a chi lo conosceva di giungere al
porto interno senza arenarsi.
Le fortificazioni erano trapezoidali e correvano in modo rettilineo su tre lati, mentre sul lato a mare
seguivano l’andamento della costa. Sono ben visibili: nell’area di porta Trapani ci sono mura
possenti a doppio paramento parallelo, spesse 6 metri, costituite da blocchi squadrati messi in
opera a secco resistenti sia agli arieti che ai minatori, i guerrieri che realizzavano gallerie sotto le
mura per farle crollare dalle fondamenta. Erano mura resistenti e si economizzò sulla manodopera
perché solo i paramenti esterni erano lavorati: ciò che non era a vista veniva riempito con pietrame
e materiale di risulta. A distanza regolare vi erano torri quadrangolari aggettanti, vicine alle porte e
alle postierle. Un fossato d’acqua largo 28 metri e posto a 30 metri di distanza dalle mura
costituiva un’ulteriore barriera per gli eventuali invasori. Evitava che i minatori e gli arieti potessero
giungere sotto le fortificazioni.
In tempo di pace c’erano ponti mobili, posti su sostegni, e in caso di guerra varie gallerie
consentivano ai soldati a cavallo di effettuare attacchi a sorpresa. Anche a Lilibeo c’è la presenza
di un merlo a coronatura della cinta. Non abbiamo tracce di abitato della Lilibeo punica, sono state
ritrovate solo quelle di età romana e offrono pochissimi dati perché la città antica si trova sotto la
Marsala moderna. Sono documentati ambienti che mostrano l’utilizzo di tecniche che
caratterizzano l’architettura punica: pavimenti in cocciopisto e muri a telaio, quelli tipici delle unità
abitative. Anche i romani accolsero la tecnica del muro a telaio, con pilastri costruiti con blocchi di
pietra posti a distanza regolare che sostenevano l’architettura. Fra i pilastri si inserivano paramenti
237
di struttura muraria con pietrame di piccola pezzatura cementata con malta di fango. Si
risparmiava sulla manodopera e sul materiale.
Lungo la costa abbiamo tracce di attività artigianale e nel cortile del museo di Lilibeo (Baglio
Anselmi) è stato individuato un forno ceramico (visibile grazie ad una tenso-struttura) di età
ellenistica, di forma circolare, del tipo nel quale il muretto centrale era sostituito dal pilastro di
sostegno.
Le tracce archeologiche maggiori di Lilibeo provengono dalle necropoli a nord-est, fuori dalle mura
della città. Sono documentate da scavi, resi possibili per la minore urbanizzazione di quella zona.
Sono del IV a.C. ma continuano in epoche successive fino ai romani. Le tombe più caratteristiche
sono a camera, come quelle di Tuvixeddu e Cartagine, con pozzo verticale a pianta rettangolare su
cui si affacciano una o due camere sui lati brevi. Nelle pareti si notano pedarole per la discesa e
riseghe per poggiare la copertura a lastre. Le riseghe sono generalmente due: una posizionata a
circa 2 m di profondità, l’altra più in basso, in corrispondenza della camera. Le riseghe di Lilibeo, a
differenza del resto del mondo punico mediterraneo, hanno una funzionalità: sono utilizzate per
chiudere la tomba. Il pozzo, dopo la deposizione, veniva lasciato vuoto, a differenza di Cagliari e
Cartagine dove veniva riempito con terra. La tomba era poi sigillata con un chiusino in pietra. Sono
tombe familiari e sono state ritrovate bare lignee, senza sarcofagi. Le più diffuse sono le tombe a
fossa: a causa del fatto che le camere sotto erano più di una, si trovano ad una certa distanza fra
loro e in mezzo ci sono piccole fosse con deposizioni individuali, spesso con rito di inumazione.
Meno frequenti sono le deposizioni a incinerazione in urne. Altro tipo è quello a cassone litico con
lastre infilate nel terreno che formano il luogo della deposizione. Molto caratteristica la produzione
di età romana con strutture intonacate dipinte che hanno ancora i segni punici con Tanìt e
caduceo, con il defunto sdraiato raffigurato nell’edicola.
In una decina di casi abbiamo camere duplicate, opposte, che si aprono sui lati brevi del pozzo. Le
più diffuse sono le tombe a fossa parallelepipeda scavata nella roccia che ospitano inumazioni con
defunti posti in posizione supina con le mani lungo i fianchi o sul petto. A volte le deposizioni sono
entro enchitrismòi, cioè grandi vasi da trasporto tagliati in due in senso verticale o orizzontale.
Queste tombe sono più frequenti in età ellenistica (IV-III a.C.) ma ci sono dei casi che arrivano fino
all’età bizantina. In queste tombe, generalmente usate per la sepoltura dei bambini, il corredo è
quasi sempre assente e la deposizione è ad incinerazione secondaria. Per la copertura si
utilizzano lastre, a volte a doppio spiovente. Altre tombe sono quelle ad incinerazione scavate nella
roccia in cavità di forma regolare, spesso ovoidale, che ospitano l’urna con i resti incinerati del
defunto che era stato bruciato da un’altra parte, in un ustrinum. I resti sono deposti in pentole simili
a quelle usate per la cottura dei cibi. É un usanza che troviamo in età ellenistica ma anche in età
romana repubblicana. Un altro tipo è quello delle tombe a cassone con la particolarità che i
cassoni ospitano spesso incinerati con deposizione primaria, si capisce dalle tracce di bruciato
sulle pareti del cassone. L’ultimo tipo è quello della semplice fosse scavata nella terra, che si
afferma dal 150 a.C. In queste abbiamo incinerazioni primarie, qualche incinerazione secondaria e
molte inumazioni.
238
A Lilibeo abbiamo anche attestazioni di cippi funerari. Un cippo antropoide rinvenuto all’interno di
una tomba a fossa del IV a.C. presenta un corpo rozzo e il volto in cui sono tratteggiati i segni
anatomici. Abbiamo anche 15 stele ad edicola di provenienza sconosciuta che mostrano la
persistenza di simboli punici pur essendo di età più tarda. Sono cippi di tipo greco riferiti ad età
repubblicana e imperiale. Al centro della nicchia vi è la rappresentazione del defunto sdraiato
circondato da una serie di oggetti e personaggi legati alla sua vita. Tutto intorno ci sono elementi
decorativi simbolici: vegetali, Tanìt, caducei, altari brucia profumo, iscrizioni, melegrane, tutto
intonacato e dipinto.
Possiamo ipotizzare un tophet per il ritrovamento di stele nella zona “Timpòne di S.Antonio”. Sono
simili a quelle cartaginesi di Tanìt 3, con sommità triangolare e acroteri. Le incisioni riportano una
falce lunare, un altare con tre bètili, un sacerdote davanti ad un incensiere (caratteristico orientale
a corolle rovesciate), un simbolo di Tanìt con le braccia alzate e la solita dedica a Baal-Ammon
“perché ha ascoltato la sua voce e lo benedica”. Il tipo di stele più numeroso è quello a edicola di
tipo classico con all’interno personaggi femminili abbigliati alla maniera greca, con le mani rivolte in
alto a compiere dei riti davanti all’incensiere. Sono datate IV-III a.C. Altre 6 stele si riferiscono ad
un tophet, ma a Lilibeo non è ancora stato trovato e pensiamo possa essere anche a Mozia. Una
di esse è piatta, lavorata ad incisione, con sommità a timpano e acroteri laterali, con una cornice
suddivisa su due piani: al piano inferiore c’è l’iscrizione e a quello superiore c’è la
rappresentazione figurata. L’iscrizione recita: “Al Signore Baal Ammon dedica di…figlio di…figlio
di…perché ha ascoltato la sua voce”. Nella parte superiore abbiamo i soliti personaggi con la
mano alzata in segno di saluto. Nelle stele con schema greco abbiamo l’edicola, non più
egittizzante, con personaggi vestiti alla greca e con in mano oggetti per il rituale davanti a
caduceo, brucia profumo e Tanìt.
Nel mare è stato rinvenuto il relitto di una nave lunga 34 m, larga 5 m, con una stazza di 120
tonnellate, impiegata nella II guerra punica all’inizio del III a.C., con una sola fila di rematori. É una
nave punica (visibile al Baglio Anselmi a Mozia) in quanto sono impresse nel legname delle lettere
puniche che servivano per l’assemblaggio dei vari pezzi che venivano realizzati separatamente.
Non conteneva armamenti ma solo resti di alimenti conservati per l’equipaggio (uccelli, bovini,
ovini, cavalli, daini, suini e caprini), resti vegetali (mandorle, olive e noci), contenitori di vino e resti
di hashish, una sostanza molto diffusa anche a quei tempi.
Palermo
Come ci dice Tucidide è una delle prima fondazioni mediterranee in Sicilia, insieme a Mozia e
Solunto. La città antica si trova sotto quella attuale e abbiamo il solito problema degli scarsi indizi
della storia passata. Dal VII a.C. fino ad oggi vi è la sovrapposizione continua degli strati. La città
punica è nota solo dalle fortificazioni e dalle sepolture. L’area di quella antica corrisponde
all’attuale nucleo medievale (mura bizantine, arabe e normanne) denominato “Cassaro”. La cinta
muraria di questo quartiere ha 9 porte di età medievale e si trova ad una certa distanza dal mare,
239
ma in antico un’insenatura consentiva all’acqua di arrivare a lambire l’abitato. Questo
allontanamento della città è dovuto all’azione di due fiumi, oggi asciutti, che scorrevano ai due lati
della città: il Papireto e il Kemùnia. Un altro fiume oggi asciutto, l’Oreto posto a sud, contribuiva
anch’esso al trasporto dei detriti a valle, con il conseguente innalzamento di tutta l’area.
Sappiamo dalle fonti che Palermo aveva una paleopolis (città vecchia) e una neapolis (città
nuova), ambedue identificate all’interno del Cassaro. In un’area che corrisponde oggi al tratto fra la
Chiesa di San Francesco e Piazza Marina (il quartiere commerciale Transkemonia) sono stati
ritrovati materiali di età ellenistica. Tutti i materiali ritrovati, compresi quelli all’interno del Cassaro,
sono tardi e fuori contesto e si riferiscono ad età ellenistica, a partire dal III a.C.
Si ipotizza un’ascendenza punica della città per il fatto che nella zona sud vicina alle mura, vicino
al Palazzo dei Normanni in Piazza Vittorio e in Corso Vittorio Emanuele, vi è un impianto viario
molto regolare di tipo ortogonale, con una divisione in isolati che secondo alcuni studiosi
corrisponderebbe al cubito punico.
Le fortificazioni dell’area del Cassaro mostrano in alcuni punti una chiara origine punica perché
sono presenti blocchi squadrati, messi in opera a secco con alternanza di testa e di taglio, che
presentano segni grafici punici e una torre aggettante rispetto al filo delle mura nella quale è
evidente la tecnica di realizzazione punica. Altri tratti delle mura sono realizzati con una tecnica
greca ascrivibile al V-IV a.C. Anche un tratto della caserma della Legione dei Carabinieri è
realizzato con blocchi squadrati di testa e di taglio ma si nota una risega di fondazione sporgente e
delle lettere puniche che sono chiari segnali che l’origine dei blocchi è di cava più antica. Queste
tracce si trovano nelle attuali zone di Santa Caterina, Via dei Candelabri e sotto il Palazzo Reale,
quello dei Normanni, dove durante il rifacimento di una cappella Cinquecentesca, sotto il
pavimento, è stato individuato parte del primo impianto delle mura del fine VI-V a.C. con una
postierla, una piccola porta di servizio che la popolazione usava per uscire dalle mura della città in
tempo di pace. La parte sommitale della postierla è arcuata ed è difesa da una piccola torre
aggettante. Nella stessa area vi era una porta larga oltre 5 m fiancheggiata da 2 torri, tutto messo
in opera a secco con blocchi di calcare perfettamente combacianti, anche se in alcuni tratti si
notano anche delle strutture di fondazione con blocchi bugnati di stile greco. Non dimentichiamo
che l’elemento greco e quello punico vennero in contatto in modo conflittuale e i punici acquisirono
le tecniche costruttive greche proprio per difendersi dagli assalti con gli arieti, specialità del
nemico.
Le tracce maggiori della città antica le abbiamo nella necropoli, ubicata a sud fuori dalla cinta
muraria, nell’area attigua all’attuale Corso Calatafimi. Dall’Ottocento sono state individuate molte
tombe, soprattutto a camera con modulo di accesso a dromos. Gli scavi più recenti sono stati
condotti presso la caserma Tukory e la campagna di scavo è stata valorizzata con una
musealizzazione. Sono state realizzate delle passerelle in metallo che consentono la fruizione del
sito. Oggi la ricostruzione delle tombe è completata dall’inserimento del corredo del defunto anche
se, ovviamente, nei sepolcri sono state inserite delle copie. La necropoli è stata individuata in
un’area destinata alla realizzazione di un parcheggio. Alcune delle tombe sono mediterranee ad
incinerazione, scavate direttamente nella roccia e risalgono alla fine del VII a.C. Bisogna
240
considerare che nonostante gli abitati risalgano spesso al VIII a.C., le tombe più antiche sono
sempre circa un secolo più tarde. Il tipo più diffuso in età punica è quello delle tombe a camera con
inumazione del defunto posto in posizione supina all’interno di sarcofagi litici. La roccia è friabile e i
moduli a dromos non si sono conservati bene. Una caratteristica che a Palermo costituisce un
unicum nel panorama punico è la copertura dei sarcofagi realizzata con tegoloni fittili di tipo greco
affiancati anziché chiusi con la tradizionale copertura litica. Nei corredi abbiamo una fortissima
incidenza di materiali greci, di importazione coloniale oppure prodotti in loco ma influenzati dalla
cultura greca (ceramica micenea, ceramica figurata, skifos, coppe pregiate). Ricordiamo che
Palermo è la città punica più influenzata dal mondo greco in tutto il panorama mediterraneo.
Abbiamo anche sepolture ad enchitrismòs, di solito superficiali o poste direttamente nel dromos
delle tombe. Anche a Palermo dal IV a.C. si assiste ad un ritorno al rito dell’incinerazione con
deposizione secondaria, all’interno di pentole in ceramica di vario tipo o in cinerari litici conformati
alla maniera greca con cassetta parallelepipeda e copertura a doppio spiovente.
È stata rinvenuta una grande quantità di cippi funerari. Sono semplici o con alla sommità una
vaschetta per bruciare degli incensi in occasione dei rituali funerari o nel corso di cerimonie
celebrate durante l’anno.
Nell’Ottocento sul Monte Pellegrino è stata recuperata fuori contesto una stele con sommità
timpanata, affiancata da acroteri, con al centro l’immagine di un personaggio con la mano alzata in
segno benedicente. Presenta un’iscrizione che dice: “Alla signora Tanìt, volto di Baal e al signor
Baal Ammon che ha dedicato…e il nome del dedicante”. Si tratta di un chiaro indizio della
presenza di un tophet ancora non individuato, forse perché questa traccia è troppo distante dal
Cassaro.
Solunto
Si trova sulla costa ad est di Palermo, vicino a Santa Flavia. Tucidide riferisce questo centro ad età
fenicia intorno all’VIII a.C. descrivendolo come una delle più antiche colonizzazioni della Sicilia ma
la città, che conosciamo fin dall’Ottocento, è quella localizzata sul Monte Catalfano, una zona
impervia posta ad una certa distanza dalla costa che presenta soltanto strutture ellenistiche a
partire dal IV a.C. Tuttavia negli anni Novanta gli scavi di Caterina Greco hanno individuato delle
strutture artigianali di età arcaica nella zona di Sòlanto, in contrada San Cristoforo. Si è così
ipotizzato che la città arcaica non sia sul promontorio perché quest’ultima fu edificata quando i
soluntini si allontanarono dalla città in occasione della guerra con Dionigi di Siracusa (397 a.C.)
che oltre distruggere Mozia, distrusse anche Solunto. Gli abitanti si rifugiarono in un punto elevato,
241
e quindi troviamo l’abitato arcaico sulla costa e la città ellenistica sul promontorio di Monte
Catalfano. La necropoli si trova a metà strada fra i due centri.
Per evitare incomprensioni dobbiamo dettagliare la differenza fra due parole: ellenico è un termine
culturale che corrisponde a “greco” ed ellenistico è un termine cronologico che indica quella fase
che segue la morte di Alessandro Magno, dal 330 a.C.
La Solunto ellenistica, cioè quella nuova sul promontorio, è una città che a prima vista
sembrerebbe di impianto greco, con un tessuto urbano costituito da strade parallele e
perpendicolari che formano un reticolo che delimita degli isolati regolari. Lo schema prevede una
diversa destinazione per le varie aree, con edifici pubblici (Agorà, teatro, odeon e ginnasio) in
periferia, plateie (strade larghe principali) con edifici commerciali, abitazioni ai lati della plateia e
stenopòi (strade strette non percorribili da carri) che intersecano le plateie con gradini che
recuperano il dislivello del promontorio. Le case sono di tipo greco e si articolano attorno ad una
corte centrale su cui si aprono i diversi ambienti. L’area in forte pendenza consente il passaggio
dal tetto di una casa al pavimento di quella posta più in alto. Lo schema costruttivo è mantenuto
anche in età romana quando viene impiantato un peristilio (colonnato) in parte coperto. Anche a
Solunto, quindi, i punici subirono una fortissima influenza dal mondo culturale greco, tanto che nel
momento in cui si sono trovati a costruire da zero una nuova città hanno deciso di adottare uno
schema greco. Ci sono tre edifici di culto. Il più noto si affaccia sulla plateia principale ed è
denominato “area sacra con altare a tre betili”. Davanti è composto da tre vani non comunicanti fra
loro, e l’altare in pietra è intonacato. É caratterizzato da tre elementi betilici e conserva su un lato
una vasca e delle canalette. Si è ipotizzato che in quest’area si effettuassero dei sacrifici animali,
sono infatti stati trovati resti bovini e ovini bruciati.
Un'altra struttura importante è quella denominata “edificio di culto a due navate”, che presenta due
ambienti affiancati non comunicanti che presentano sul lato di fondo un bancone-altare circondato
da gradini. Nell’Ottocento venne rinvenuta una statua di Zeus e si è pensato che provenisse da
una delle due stanze di questo tempio mentre nell’altra ci sarebbe stata la paredra femminile, ma
non abbiamo modo di documentarlo. Si è pensato all’ascendenza punica proprio per la presenza di
un culto a due divinità affiancate: Baal-Ammon e Tanìt. Anche l’archeologo Tusa ha ipotizzato che
la statua di Zeus, individuata nel 1800 e conservata a Palermo, provenga da questo sito.
L’ultimo tempio è il cosiddetto “edificio a forma di labirinto”. Benché all’interno non siano stati
individuati dei materiali di chiara matrice cultuale, Tusa ha ipotizzato che sia un tempio per la
pianta molto articolata, con nicchie e altri elementi.
In località Sola di San Cristoforo, in prossimità del promontorio, c’è un’area artigianale che ha
restituito dei forni: uno piccolo ad omega, le cui strutture si datano nell’ambito del V a.C. ma
impiantata in una zona frequentata già dal VI a.C. perché negli strati sotto il forno sono stati scavati
materiali etruschi e greci datati appunto al VI a.C. Questo forno è costituito da un vano bilobato
diviso da un muretto centrale e a lato c’è il vano di attizzaggio, funzionale al funzionamento della
camera di combustione.
A Sòlanto, vicino alla costa, è stata individuata un’altra fornace arcaica e a pochi metri vi era una
tomba a forno, dell’inizio del secondo Millennio a.C., svuotata in età ellenistica e riempita con
242
materiale di scarto di età arcaica. I materiali sono datati dal 625 a.C. ad età ellenistica. Tra gli scarti
di fornace sono stati rinvenuti elementi di ambito funerario come, ad esempio, vasi con orlo a
fungo. A 50 m da questo contesto si trovavano un pozzo e un altro forno ad omega, riempiti con
materiali di scarto e datati sempre dal 625 a.C. in poi. C’è anche un forno ellenistico di III a.C. di
dimensioni enormi, con un diametro di 5 m. La camera di combustione è circolare, con la suola
sorretta da un pilastro centrale che crea un corridoio anulare con volta ad arco, una specie di
galleria. La camera di cottura è solo impostata perché, come negli altri forni, veniva smontata ad
ogni utilizzo. Il vano di attizzaggio è molto grande e ha restituito due frammenti di cippo a trono e
una stele trono. Si ipotizza quindi che nelle vicinanze ci fosse il tophet.
A metà strada tra Monte Catalfano e Solanto si trova la necropoli, le cui tombe purtroppo sono
andate distrutte o si trovano sotto gli attuali palazzi. Vicino alla stazione di Santa Flavia gli scavi
mostrano tombe puniche integre ma non abbiamo tombe mediterranee ad incinerazione. Gli scavi
più importanti sono quelli del Tusa alla fine degli anni Sessanta e di Caterina Greco negli anni
Novanta. Sono state individuate circa 100 tombe non arcaiche, databili dal VI a.C. fino ad età
ellenistica. Il bancone di roccia è stato scavato con fosse parallelepipede che presentano una
risega perimetrale, funzionale all’inserzione della copertura di lastre litiche giustapposte. Le tombe
hanno spesso una sorta di cuscino per la testa risparmiato nella roccia e vedono sempre la pratica
dell’inumazione. Altre tombe a fossa hanno una nicchia laterale che va sotto il livello del suolo.
Le tombe a camera sono sempre con modulo di accesso a dromos stretto, con gradini sul lato
breve. Presentano dei letti funebri e delle nicchie. Altre tombe hanno il dromos molto largo, quasi
quanto la camera, con 3/4 gradini per accedere e sul lato sud si nota un bancone utilizzato per la
deposizione delle offerte e del corredo funebre. In qualche tomba ci sono sepolture ad enkitrismòs
in corrispondenza del dromos. Le camere erano chiuse con lastroni.
In Sicilia abbiamo anche il centro indigeno di Erice (Elimo) e la città greca Selinunte che, dopo
essere stata conquistata (alla fine del V a.C.) conobbe 150 anni di dominazione punica.
Sardegna
In Sardegna, a differenza di ciò che accadde in Sicilia, non ci fu l’elemento greco: a parte Olbia,
tutti i manufatti greci erano di importazione. Ancora oggi non sono chiare le dinamiche di incontro e
assimilazione fra nuragici e levantini. I commercianti arrivano sempre con atteggiamento pacifico
perché l’obiettivo era quello di reperire materiali nei territori nei quali sbarcavano. Le risorse erano
in mano agli indigeni, e i levantini avevano la necessità di scambiare acquisendo risorse utili alle
proprie necessità.
Fino agli anni Ottanta, studiosi come Barreca e Moscati ritenevano che la fondazione delle colonie
(fine VIII-VII a.C.) seguisse un periodo di frequentazione di alcuni secoli, una pre-colonizzazione.
Oggi riteniamo che la pre-colonizzazione non sia avvenuta. Ipotizziamo che questa fase vede
l’arrivo di genti levantine, provenienti quindi dal Mediterraneo Orientale, che instaurano buoni
rapporti con gli indigeni. Lo desumiamo dalla presenza di materiali orientali in contesti indigeni.
Sono le stesse genti che sbarcarono in nord-Africa, Sicilia e Spagna alla ricerca di nuovi sbocchi
commerciali e risorse minerarie.
243
La cronologia di questo fenomeno di frequentazione levantina si assegna ai secoli XI-IX a.C. Gli
studiosi (la Ubet e altri) concordano sul fatto che il ruolo di protagonista è portato avanti dalla città
di Tiro, che poi fonderà le colonie. La frequentazione precedente comprende anche i tiri ma,
insieme a loro, ci sono varie popolazioni orientali: Aramei (semitici stanziati presso Damasco),
Filistei (stanziati nella Palestina meridionale nella Pentapoli filistea), Siriani (stanziati a nord del
Libano), Eubei (greci dell’isola di Eubea), Ciprioti e altri. Le navi erano composte da equipaggio
misto ed erano cariche di merci provenienti da zone differenti. Non c’erano regni forti che
organizzavano le spedizioni e si affermò l’elemento privato, i grandi commercianti.
In età coloniale la zona di insediamento dei fenici è la parte costiera da Capo Carbonara fino a
Tharros, con porti o insenature naturali attrezzate: Cagliari, Nora, Bithia, Pani Loriga, Sulci, Monte
Sirai, Neapolis, Othoca e Tharros. La presenza pre-coloniale interessa, invece, principalmente le
zone vicine alle miniere: il Sulcis, Alghero, la costa Orientale, il Nuorese e la Valle del Tirso, per
poter penetrare all’interno della Sardegna.
Una teoria che mi affascina da tempo è quella di identificare la mitica Tartesso, da molti studiosi
localizzata alla foce del Guadalquivir in Spagna ma mai trovata, nei territori costieri del Golfo di
Oristano e lungo le sponde del Tirso, il fiume sardo che arriva fino alle cime del Gennargentu, la
montagna ricca di metalli preziosi. Tharros diverrebbe il centro principale di Tartesso e la Sardegna
fulcro dei traffici commerciali dei tartessi.
I materiali orientali, soprattutto metallici in bronzo, ritrovati nei contesti indigeni dell’isola ci fanno
ipotizzare che i levantini avessero bisogno di fondaci che agevolassero i commerci. Si tratterebbe
di scali, punti d’appoggio sulla costa, attrezzati con strutture semplici ma deperibili: moli lignei,
case ed edifici in cui approvvigionarsi di acqua e alimenti. Questi fondaci vengono solo ipotizzati
perché nessuno studioso ha mai trovato tracce di questi luoghi. Inizialmente l’economia prevedeva
lo scambio di doni, e i materiali scambiati (specchi, attacchi d’ansa, tripodi bronzei e altri oggetti
orientali) hanno mantenuto stile e tipologia simile per alcuni secoli, per cui è difficile stabilire con
precisione la datazione dei reperti. La difficoltà cronologica è ampliata perché spesso i rinvenimenti
sono fuori contesto. I tripodi sono di tradizione egea, in particolare cipriota, e la cronologia è fra XI
e IX a.C., ma c’è un dibattito fra studiosi perché molti manufatti potrebbero essere anche stati
prodotti in loco ma ispirati dalla tradizione orientale.
Cipro è protagonista del filo di contatti fra oriente e occidente. I tiri e le altre popolazioni egeolevantine che arrivano nel X a.C. non sono le prime ad approdare in Sardegna. Già da secoli c’era
la presenza micenea nell’isola e alcuni studiosi, ad esempio Bernardini, ritengono che questi
contatti inoltrati dai micenei non si siano mai interrotti. I levantini si sarebbero inseriti nelle stesse
rotte inaugurate dai micenei e, a causa del decadimento di quella grande civiltà, si sarebbero
sostituiti ad essi. Cipro era un’area miceneizzata e in seguito fu controllata da qualche componente
levantina, pertanto dal crollo dei micenei e fino al X a.C. i protagonisti della pre-colonizzazione
furono i ciprioti. Questo spiega la somiglianza dei manufatti rinvenuti in Sardegna con quelli di
tradizione cipriota. I siti dove questi materiali sono stati individuati sono: Pozzomaggiore, Barumini
e, fuori contesto, nell’area del tophet di Tharros.
244
Fig. 84 Tharros
Forse quindi aramei, tiri, siriani, eubei e filistei non sono arrivati in Sardegna prima del X a.C. Oltre
i tripodi di tradizione cipriota (Su Benatzu, in contesto nuragico) c’erano i torcieri, più recenti ma
forse anch’essi ciprioti, come quello trovato a San Vero Milis (nel nuraghe s’Urachi), un frammento
a Tadasuni in un ripostiglio, uno a Santa Vittoria di Serri e uno a Bithia, in una tomba mediterranea
del VII a.C. Sui torcieri c’era un supporto per bruciare incenso e la cronologia si attesta intorno alla
fine dell’VIII a.C. Proprio in queste datazioni si trova il nodo del concetto: vediamo che la precolonizzazione è precedente alla colonizzazione, perché è evidente che si tratta di un approccio di
mercanti allogeni che intrattengono rapporti cerimoniali e commerciali con gli indigeni, ma gli
scambi con l’interno, soprattutto dei bronzetti, continuano anche dopo che le colonie erano state
fondate. In pratica i mercanti che andavano all’interno erano gli stessi che abitavano sulle coste.
Troviamo quindi manufatti bronzei del VII a.C. all’interno, scambiati con lo stesso approccio della
pre-colonizzazione. Anche schiavi, sale e pelli erano oggetti di scambio ma, per ovvi motivi, questi
e altri manufatti deperibili non possono lasciare tracce. In seguito non abbiamo più traccia degli
indigeni: forse si sono assimilati oppure sono andati nelle zone interne dell’isola.
245
Fig. 85 Monte Sirai
La fase pre-coloniale è visibile soprattutto attraverso una decina di bronzetti levantini, fra i più
famosi dei quali c’è quello ritrovato nell’Ottocento nel nuraghe Flumine Longu di Alghero, fuori
contesto, che vede un personaggio con la tiara siriana datato al 1000 a.C. Altri conosciuti sono i 4
che Atzeni rinvenne a Santa Cristina di Paulilatino, fra i quali la donna nuda con un collare
attorcigliato e le braccia ripiegate davanti al petto. Gli altri bronzetti sono: un nudo maschile con
gonnellino, uno egittizzante da Olmedo, un busto maschile nudo da Bonorva, una figura stante
maschile da Mandas e uno dal pozzo di Genoni, sempre maschile stante che porta al collo un
collier simile a quella della donna di Santa Cristina di Paulilatino.
La cultura materiale dell’area siro-palestinese è uniforme e quando troviamo questi manufatti non
sappiamo la provenienza precisa. Solo quando sono caratterizzanti dal punto di vista culturale,
come ad esempio il frammento del sarcofago filisteo trovato a Neapolis, possiamo capirne la
provenienza e il periodo. Visto che i sarcofagi non si trasportano, abbiamo una prova della
presenza allogena di questi popoli in Sardegna prima del 1000 a.C.
In conclusione, nella fase pre-coloniale abbiamo dei mercanti che partivano da piccole strutture
sulle coste e si inoltravano verso l’interno, forse percorrendo anche le vie fluviali del Cedrino e del
Tirso, arrivavano nei contesti nuragici e scambiavano bronzetti e altri materiali.
Ma nei recenti scavi condotti nel villaggio nuragico Sant’Imbenia, vicino ad Alghero, si sono fatte
delle scoperte che hanno fatto vacillare questa ipotesi.
246
Fig. 86 Anfore e brocche
Il sito fu impiantato nel Bronzo Medio e sono stati ritrovati molti materiali ceramici levantini e greci.
La terracotta non è adatta al commercio, a meno che non contenga qualcosa, infatti anfore e
unguentari erano scambiati in quantità. Oli profumati, olio, vino e derrate alimentari circolavano
all’interno di manufatti ceramici. Ma le forme rinvenute nel sito di Sant’Imbenia ci fanno capire che
non si tratta di un semplice rapporto di scambio con l’interno. Il villaggio algherese presenta degli
isolati con abitazioni a più vani che si raccordano ad una corte centrale. Gli isolati hanno vie,
piazzette e ambienti comunitari. Dall’800 a.C. vediamo comparire molti materiali fenici e greci
come contenitori d’uso quotidiano, vasi e coppe di pregio greche, e altri materiali che fanno capire
che insieme al nucleo di abitanti indigeni coabitava pacificamente anche un nucleo di levantini. I
futuri scavi nell’isola chiariranno se il caso di Sant’Imbenia fosse diffuso in altri siti, così da sfruttare
al meglio le risorse locali. Ad Alghero, dunque, i commercianti non si limitavano ad arrivare,
scambiare e andare via ma coabitavano integrati con i nuragici. A Sant’Imbenia si nota un
progresso enorme nella metallurgia, viene introdotto l’uso del tornio e si ottimizza la coltivazione
della vite, con conseguente aumento della produzione del vino. Nel sito algherese all’inizio dell’VIII
a.C. vi fu una produzione enorme di anfore, trovate poi uguali a Cartagine e in altri siti dell’area
centro-Mediterranea. Erano destinate al trasporto di vino.
247
Fig. 87 Vasi
Sotto una capanna circolare nuragica sono stati trovati due ripostigli con anfore riempite con
panelle di rame. L’anfora utilizzata come contenitore che si trovava al livello inferiore ne conteneva
40 kg ed era realizzata a mano con tecnica nuragica, pur riproducendo un’anfora di tipo levantino.
Nello strato successivo c’era un’altra anfora simile, ma realizzata al tornio, quindi certamente di
fattura orientale. Si era rotta durante la cottura e non era adatta a contenere liquidi o derrate
alimentari. Il riempimento con panelle di rame dimostra che fu prodotta in loco, nata male e non
utilizzata per il trasporto di liquidi. Abbiamo una nuova dimostrazione che il metallo fu la molla per
la proiezione levantina in occidente. L’arrivo dei tiri contribuì certamente al miglioramento delle
tecniche utilizzate dagli indigeni. Due iscrizioni rinvenute a Sant’Imbènia, graffite su frammenti
ceramici, non consentono di capire la provenienza etnica dell’incisore: aramaica, tiria o filistea.
Anche nell’oristanese c’è un sito che documenta anfore e altri materiali indigeni e levantini insieme.
Gli eubei, in questa prima fase, viaggiano con i tiri, senza competizione per diffondere insieme i
materiali prodotti nelle varie zone del Mediterraneo. I materiali euboici sono più facilmente databili
di quelli fenici perché hanno un’evoluzione molto più rapida e riusciamo a distinguerli
stilisticamente. Tiri ed euboici producono stesse forme e tipologie per periodi lunghi. Bisogna
considerare comunque che molti materiali euboici, come ad esempio le coppe a chevrons o gli
skifos, sono realizzati nelle colonie, soprattutto a Pitecusa.
I materiali specificatamente levantini si riconoscono soprattutto dalle decorazioni. I più antichi
hanno un’ambientazione orientale come la produzione fine simile a quella dell’area libanese ma a
partire dal VII a.C. si nota una presenza di manufatti di ambientazione centro Mediterranea.
Bisogna considerare che Cartagine, pur avendo conquistato la Sardegna alla fine del VI a.C. (540510 a.C.), già da tempo influenzava culturalmente tutta l’area centro Mediterranea. Sant’Imbenia
evidenzia questo fenomeno.
In tema di iscrizioni bisogna dire che sono poco frequenti, e sarebbero di grande aiuto per la
comprensione dei fatti. In oriente si parlava semitico (fenicio, aramaico e filisteo sono tutte lingue
248
semitiche) con varianti che possono essere riscontrate nelle iscrizioni, ma i segni grafici di
Sant’Imbenia non ci aiutano.
La fase coloniale inizia alla fine dell’VIII a.C. Le tracce più antiche sono nell’area sulcitana, forse
proprio per la rilevanza mineraria di quest’area.
A Sant’Antioco sono stati rinvenuti materiali dell’VIII a.C. nell’ambito del tophet e dell’abitato,
mentre non ne abbiamo in contesti funerari. I più antichi materiali cimiteriali sono a San Giorgio di
Portoscuso, rinvenuti negli anni Novanta in occasione dello sbancamento di una duna per eseguire
lavori edilizi. La soprintendenza ha salvato alcuni contesti tombali, ad incinerazione con
deposizione secondaria in urne cinerarie entro cista litica costruite con 4 lastre poste a coltello,
oltre il fondo e la copertura. Le brocche con orlo a fungo e le brocche trilobate, rinvenute a San
Giorgio e visibili al museo di Cagliari, sono le più antiche e ci consentono una comparazione
formale stilistica con le varianti più tarde. Si nota un corpo globulare basso e tozzo, il collo
cilindrico con risalto all’innesto dell’ansa e il caratteristico rivestimento di colore rossiccio,
denominato red slip. Quelle di Portoscuso sono le tombe mediterranee più antiche della Sardegna.
Il cadavere, prima di essere bruciato, veniva lavato e unto con oli profumati, e la brocca con orlo a
fungo è adatta a questo scopo. L’orlo trilobato è preferibile per sostanze più fluide. Non sappiamo
se questa necropoli, con una decina di tombe, sia di pertinenza di un contesto coloniale a
Portoscuso. Considerato che le tombe sono arcaiche, potrebbe trattarsi di un fondaco precoloniale
oppure potrebbe essere il più antico insediamento. Ad oggi l’unica traccia visibile si riduce a pochi
muretti e un battuto di terra e non riusciamo quindi ad interpretare il sito.
Le città sarde
Le città della civiltà mediterranea sono soprattutto costiere, Cagliari, Nora, Sulci, Bithia, Othoca,
Tharros, Olbia. Raramente si trovano insediamenti importanti nell’entroterra, solo in età punica si
diffondono anche all’interno. I mediterranei hanno poco interesse ad occupare i territori lontani dal
mare. Fanno eccezione alcuni siti individuati negli anni Sessanta da Barreca che ha proposto una
teoria secondo la quale le città costiere, come ad esempio Sulci, abbiano fondato degli avamposti
militari cinti da mura con lo scopo di proteggere le città dagli indigeni. Monte Sirai e Pani Loriga
(Santadi) sono due di questi centri, ma questa ipotesi è stata recentemente scartata perché
attualmente si pensa che i rapporti fra levantini e indigeni fossero pacifici.
249
Fig. 88 Neapolis
Villasimius
Uno dei primi luoghi sardi interessati dalla presenza levantina è Cuccureddu di Villasimius, ubicato
presso il Capo Carbonara. Gli scavi hanno portato alla luce una struttura che si trova sulla sommità
di una delle tre colline che si affacciano sulla costa di Villasimius. Alla base delle colline ci sono
tracce di insediamento tardo punico del IV-III a.C. Alle pendici del colle ci sono alcuni muri, forse
difensivi (mai scavati) e due scalinate che conducono alla sommità. Nella struttura principale
dell’edificio sono stati svuotati 5 ambienti arcaici che si sono conservati perché erano stati ricoperti
di terra in età romano-repubblicana per costruire un tempio in mattoni crudi, poi crollato sigillando
tutto. Sono 4 piccoli ambienti contigui e uno sfalsato, delimitati da muri rettilinei, intonacati con
argilla, con alla base uno zoccolo in pietrame squadrato e cementato con malta di fango. L’alzato
in mattoni crudi si è sciolto con le intemperie e ha riempito gli ambienti. I pavimenti sono in terra
battuta e le coperture sono in travi lignee ricoperte da canne e rivestite in argilla cruda pressata
che si è cotta durante un incendio. Tutti i materiali sono esposti al museo di Villasimius. La
frequentazione è dal 650 a.C. al 540 a.C. anno della distruzione della struttura, non più reinsediata
fino al II a.C.
Il sito è stato interpretato come tempio dedicato ad Astarte perché nei vani ci sono molti unguentari
e portaprofumi, del tipo di quelli utilizzati nei templi dove si svolgeva la prostituzione sacra,
un’attività che riconduce a questa Dea cipriota. Nel mito di fondazione di Cartagine abbiamo scritto
della leggendaria Elissa che a Cipro imbarcò le sacerdotesse per portarle a Cartagine. C’è anche
un procione configurato a “fallo”, esposto al museo di Villasimius. Vicino all’edificio ci sarebbero
state le abitazioni dei sacerdoti ma non vi sono tracce visibili. Altra testimonianza sulla sacralità del
250
luogo sarebbe offerta da alcune cretule in terracotta, bruciate anch’esse nell’incendio, che
denoterebbero la presenza di documenti. Bartoloni e altri studiosi ipotizzano che l’incendio sarebbe
stato provocato da Cartagine che da quella data cercò in tutti i modi di conquistare l’isola
sbarcando in armi, così come in Sicilia. Cuccureddu era forse un fondaco, un punto d’incontro fra
gli indigeni e le genti che arrivavano per mare, e il tempio sarebbe stato fondato per garantire gli
scambi. Un porto franco dove la divinità garantiva i commerci e le transazioni.
Nel II a.C. al di sopra di questo sito fu edificato, in piena età repubblicana, un altro tempio che ha
restituito molti materiali ceramici. Era dedicato alla divinità femminile Era-Giunone (Astarte per i
classici) e venne ristrutturato da Caracalla e rimasto in uso fino al IV d.C.
Sant’Antioco
Le fonti romane ci parlano di Sulci mentre in lingua semitica, in fenicio, era Sulki. Si trova
sull’omonima isola, sul versante orientale e il reimpianto moderno del paese ha determinato lo
spoglio sistematico delle strutture antiche. Le fortificazioni chiudevano la città e il tophet era al di
fuori delle mura.
Nell’area del cronicario, in corrispondenza dell’ospedale, sono stati individuati negli anni Ottanta
degli ambienti abitativi che si riferiscono all’VIII a.C. É un rinvenimento importante perché in tutta la
Sardegna abbiamo solo pochissime tracce degli insediamenti arcaici: qualche muro e una striscia
di fondazione a Cagliari, un battuto a Nora, pochissimo a Tharros. Non c’è nessuna
monumentalità, solo due isolati con una serie di vani che presentano pavimenti in terra battuta,
muri con zoccolo in pietrame bruto cementato con malta di fango e alzato, oggi scomparso, in
mattoni crudi. I materiali frammentari rinvenuti sono sia di importazione (euboici di Pitecusa e
corinzi), sia di produzione mediterranea, e mostrano che la città fu fondata intorno al 750 a.C.
Alcuni materiali levantini sono di ispirazione varia, come la coppa con forma greca, decorata alla
maniera mediterranea, con un volatile ripreso chiaramente dal repertorio euboico di Ischia, primo
emporio greco in occidente.
Le fortificazioni si trovano nella zona del fortino sabaudo, nell’area chiamata Acropoli. Gli scavi
furono condotti inizialmente da Pesce, poi da Barreca negli anni Settanta e recentemente da
Tronchetti e hanno portato alla luce delle strutture che iniziano dietro il fortino e arrivano ad una
torre. Bartoloni sostiene che le fondazioni del fortino utilizzano una base della precedente torre
punica perché la forma a zig-zag e i blocchi sono tipicamente punici. Le mura corrono fino ad una
torre elicoidale addossata ad una roccia e poi piegano verso il mare chiudendo la città. In questo
ultimo tratto si trova la necropoli punica. Dietro la chiesa di Sant’Antioco si trova un breve tratto
realizzato in blocchi squadrati, in parte bugnati e messi in opera a secco. Barreca ha individuato un
camminamento di ronda, ma non lo ha mai pubblicato. Nell’area alta dell’acropoli, vicino al
deposito della Soprintendenza, ci sono delle strutture bugnate in calcare chiaro e tufo scuro. Vicino
a questa zona c’è un edificio con otto colonne di età repubblicana, di incerta interpretazione, che
racchiude due ambienti.
La datazione delle fortificazioni comporta dei problemi fra studiosi. Per Barreca, che le individua
nella parte alta del Monte de Cresia e nell'Acropoli vicino al fortino sabaudo, sono di età fenicia
251
(come le altre che scavò in giro per la Sardegna), costituite da mura in pietrame bruto, spesso e a
doppio paramento. In seguito ci furono una fase tardo punica, contraddistinta da blocchi squadrati,
e una fase romana.
Bartoloni, già dagli anni Ottanta, non accettò queste posizioni, proponendo che nessuna delle città
mediterranee avesse fortificazioni e che queste, come tutte le altre strutture, si realizzarono solo a
partire dall’inizio del V a.C. quando la Sardegna passò sotto il controllo di Cartagine.
Tronchetti negli anni Novanta ha scavato nelle strutture delle fondazioni trovando materiali romani.
Per lo studioso le mura sono state impiantate in età repubblicana con tecnica punica ma ha
sondato solo pochi punti. Bisognerebbe riprendere gli scavi perché attualmente i dati sono
contradditori. Negli anni Ottanta sono stati trovati i “Leoni di Sulci”, due grandi animali esposti al
museo di Sant’Antioco, in posizione accosciata e con la coda rigirata attorno ad una zampa.
Sono inquadrati all’interno di un elemento che regola lo spazio con una base tronco-piramidale,
rastremata verso l’alto, sormontata da un listello-toro, con sopra una gola egizia. Nella parte
posteriore c’è una superficie piana con un incasso a sezione triangolare, forse per consentire
l’inserimento dei leoni in una struttura monumentale. Al momento del rinvenimento i leoni erano
reimpiegati ai lati di una nicchia occlusa da un muro rettilineo a due filari. Davanti c’era una grande
arena ellittica delimitata da blocchi. La struttura è stata riferita ad età repubblicana, quindi i leoni,
essendo più antichi, sono stati utilizzati per decorare una struttura di tipo ellenistico con terrazze.
Essendo fuori contesto si può fare una datazione solo su base stilistica. I leoni sono di tradizione
orientale, siriana o siro-palestinese, che si mescola con influenze assire ed ittite. Questo tipo di
leoni in oriente erano utilizzati nelle porte dei templi. Per alcuni studiosi ci sono influssi greci
mediati dall’elemento etrusco. La cronologia porta al VI a.C. e la loro funzione era legata alla
destinazione d’uso dell’area: militare per Moscati e Barreca, perché vicina alle fortificazioni e
perché forse erano sistemati ai lati della porta di ingresso; religiosa per Bartoloni e Tronchetti
perché dopo la collocazione militare l’area fu risistemata con una struttura di età repubblicana con
un vano diviso in due, una serie di colonne e pavimento in cocciopisto con tessere bianche, quindi
un tempio con i due leoni ai lati dell’ingresso. Bernardini di recente ha avanzato un’altra ipotesi:
c’era la destinazione sacra dall’inizio e le statue erano all’interno di una struttura punica come
braccioli di un trono monumentale.
Alcuni vasi funerari arcaici, quasi intatti, sono visibili in collezioni private di Sant’Antioco ma non
conosciamo l’ubicazione del cimitero mediterraneo, ad eccezione di una sepoltura scavata presso
Piazza Italia, a 100 m dal mare, e datata al VII a.C. La necropoli punica è in parte ricoperta
dall’attuale urbanizzazione. Si trova a valle delle fortificazioni, all’interno del fossato. Sono
sepolture in grandi camere e, come quelle di Tuvixeddu a Cagliari, sono state riutilizzate fino al
secolo scorso come abitazioni. Ci sono due varianti: la più antica, datata agli inizi del V a.C., è
costituita da tombe con dromos larghi e monumentali con scale ben definite, e camera
rettangolare. Le più recenti, del IV a.C., sono ancora più grandi, con dromos stretto e camera
separata da un tramezzo risparmiato che delimita due vani ben distinti. All’interno la deposizione
funeraria era spesso praticata all’interno di bare lignee in cui si sono ben conservati i resti delle
ceramiche di corredo e qualche legno. La copertura era a lastre e sopra c’erano i segnacoli in
252
pietra. In epoca romana le tombe puniche sono state riutilizzate come catacombe, a volte unendo
le varie camere. Sotto la chiesa ci sono molte di queste tombe e l’area è visitabile, perfino il
ristorante dietro la chiesa della piazza ne conserva alcune nella cantina. Le bare erano spesso
poggiate su due blocchi in pietra, sollevate dal suolo. C’è anche la presenza di linee di pitture sulle
pareti, come nelle tombe africane degli antichi libici, gli indigeni trovati dai levantini durante la
colonizzazione. I cartaginesi non si sono mischiati con loro e i libici, pur subendo l’influenza della
tradizione punica, hanno mantenuto alcuni tratti caratteristici della loro cultura che poi hanno
portato nelle colonie. Quando i cartaginesi hanno conquistato la Sicilia e la Sardegna, attuarono
una politica capillare di sfruttamento delle risorse agrarie e minerarie con una politica di
popolamento nelle colonie perché i nuclei di mediterranei erano minimi. A questo scopo inviarono
nuclei di africani in Sardegna, costituiti solo in minima parte da cartaginesi: suffeti (prefetti) e
amministratori, mentre la maggior parte era composta da indigeni punicizzati. In sostanza la
cultura si è mischiata fra libici, punici, mediterranei e sardi ed ecco spiegati i segni di pittura in ocra
rossa sulle pareti delle tombe, così come a Cagliari, Tharros, Olbia e Monte Luna. A Cartagine non
ci sono tombe dipinte.
A Sant’Antioco negli anni Novanta sono stati trovati due importanti altorilievi posizionati sulla
testata dei tramezzi che dividevano la tomba in due. Uno di essi è stato restaurato malamente, nel
senso che i caratteri originari non sono stati rispettati, ed è in corso un recupero per riportarlo
all’antico. Si tratta di un personaggio maschile con barba, con vesti egizie e in posizione incedente.
Un braccio al petto e l’altro lungo i fianchi, con tracce di nero e arancio. La mano poggiata al petto
porta dei bracciali. La datazione è del V a.C. L’altro, quello scavato da Bernardini, è colorato
vivacemente sempre di nero e arancio e, per evitare il degrado, è stato richiuso nella tomba.
Il tophet si trova all’esterno delle mura, vicino alla torre con blocchi bugnati, ed è datato all’VIII a.C.
Fu scavato negli anni Cinquanta da Pesce e mai pubblicato ma sono state pubblicate le 1500
stele. Impiantato in terreno vergine, sul cosiddetto roccione sacro, presenta urne inserite nelle
spaccature della roccia trachitica, frequentemente in pentole coperte con piatti. Uno dei più
importanti materiali restituiti è un’olla pitecusana (euboica) datata al 730 a.C. Questo vaso non
dovrebbe trovarsi in un tophet, forse si tratta di un levantino che per deporre suo figlio ha comprato
un vaso di grande pregio e l’ha deposto nel tophet, oppure si tratta di un greco euboico che
praticava il culto mediterraneo. Non si è certi se all'interno vi sia un bambino sulcitano figlio di
orientali o pitecusano o euboico, ma comunque è uno straniero. C’è anche un’anfora, a corpo
ovoide, mediterranea del VIII a.C. che ci rimanda ad ambito cartaginese perché la decorazione
metopale a red slip, è tipica di Cartagine. Le urne ricollocate in situ sono riproduzioni, per non
sottoporre le originali al degrado naturale.
Le stele di Sant’Antioco mostrano cippi semplici, a trono e a edicola che nella fase centrale del V
a.C. mostrano una forte influenza egiziana. Alcune raffigurazioni presentano edifici sacri con
pilastri, senza colonne, sormontati da una trabeazione e da una modanatura a gola egizia
delimitata da listelli. Sopra c’è la decorazione ad urei con disco solare (serpenti sacri simboli
solari), tipico fregio del coronamento dei templi egiziani. I personaggi sono vari: femminile con fiore
di loto oppure con disco al petto (per alcuni si tratta di un tamburello per riti musicali); divinità
253
aniconiche; sacerdotesse varie; personaggi maschili con barba e con una lancia in mano e dietro il
tipico ricciolo che troviamo nella tiara di tipo siriano (quindi un elemento orientale). Moscati
sostiene che il personaggio femminile sia una sacerdotessa intenta a suonare un timpano, e quello
con la stola sarebbe il sacerdote. La stele ad edicola con questi personaggi è fra le più diffuse
nell'iconografia sulcitana e non trova riscontro altrove. Quando i personaggi poggiano i piedi su un
podio siamo certi che si tratta di divinità. La maggior parte dei capitelli non sono greci, spesso sono
ripresi dall’architettura egizia.
Curiosamente mentre altrove le stele ad edicola scompaiono nel VI a.C., qui a Sulci continuano ma
si trasformano. Nelle stele troviamo delle edicole con elementi classici greci sia nell'architettura
che, gradualmente, nella iconografia delle nicchie. I personaggi hanno veste classica, anche se il
significato è lo stesso: si passa da personaggi maschili con stola a personaggi femminili con disco.
L'edicola ha capitelli, colonne e timpano con acroteri senza trabeazione (ancora simboli punici). La
prima innovazione è il timpano. C'è un personaggio femminile con disco nel petto che mantiene
abiti punici. In una colonna c'è un personaggio con stola e veste classica, timpano con acroteri con
all'interno una rosetta. Abbiamo anche una stele polimaterica meno pregiata datata al II a.C. con
colonne scanalate, capitelli senza trabeazione, timpano, acroteri e personaggio con stola. Si arriva
alle ultime che sono in materiale meno pregiato, ad esempio marmo, dove si vede l'influenza del
mondo classico con fattezze tipiche greche.
Mentre a Cartagine nel terzo strato si passa alla stele piatta che diventa un supporto per la
rappresentazione, a Sant’Antioco abbiamo un fenomeno unico, con l’edicola tridimensionale che
presenta però elementi classici inseriti in maniera artificiosa nello schema preesistente. Al posto
dei pilastri compaiono delle colonne doriche e il timpano fiancheggiato da acroteri ma scompare la
trabeazione, fatto che porterebbe al crollo del tempio, non esistono infatti templi fatti in questo
modo. Al centro del timpano c’è la falce lunare che sormonta il disco solare, simbolo punico.
Rimane la figura femminile con disco al petto o personaggi maschili con rosetta, con Tanìt e sulla
spalla una stola, una veste di tipo classico, greco. Si arriva dunque ad una commistione di stili e
tradizioni.
Nel II a.C. si arriva a stele in marmo, edicola classica e personaggio con stola. Un’altra tipologia è
quella con stele centinata, che ricompare in età tarda, intorno al III a.C., caratterizzate da animali
passanti, ovi-caprini. Stranamente questa tipologia ricompare dopo secoli di assenza, forse si
tratta di animali sacrificati nei tophet.
Monte Sirai
Si trova a breve distanza da Sulci, sua probabile madre patria. I due centri sono visibili fra loro e
l’area scavata a Monte Sirai è costituita dalla necropoli, dall’acropoli e dal tophet. Barreca
sosteneva che fu fondata intorno al 650 a.C. dai sulcitani e che la postazione ebbe la funzione di
fortezza con mastio e cinta muraria fortificata. Fino alla conquista romana del 238 a.C., data
dell’invasione armata da parte di Roma, rimase un centro prevalentemente militare e solo in
seguito fu trasformato in abitato, con la conseguente demolizione delle fortificazioni. Nel 38 a.C.,
data dello scontro fra Cesariani e Pompeiani, Monte Sirai fu abbandonata definitivamente.
254
Bartoloni ha approfondito gli scavi nell’abitato e ritiene che l’impianto dell’insediamento debba
retrodatarsi di un secolo, all’VIII a.C. La fondazione avvenne ad opera degli abitanti di Sant’Antioco
o di Portoscuso. L’organizzazione urbanistica è differente da quella che si ipotizzava, in quanto
scavando sotto le strutture ellenistiche Bartoloni ha potuto constatare l’esistenza di edifici che
fanno pensare ad una collaborazione con l’elemento indigeno. Fu infatti rinvenuta ceramica
realizzata a mano, tipica nuragica. Diviene fortezza solo molto tempo dopo, in età punica
avanzata, intorno al 380 a.C. Parte dell’insediamento fu distrutto militarmente fra il 540 e il 510
a.C. da parte dei cartaginesi nell’ambito del tentativo di conquista armata della Sardegna da parte
del generale Malco. L’attacco determina una decadenza dell’insediamento che diventa più piccolo
e viene ripopolato con una serie di famiglie africane mandate da Cartagine. La tipologia tombale è
tipica africana, libica, ed è costituita da 13 tombe familiari, quindi Bartoloni ipotizza che Cartagine
inviò proprio 13 famiglie dall’Africa per governare il territorio.
Un cambiamento importante avvenne dunque nel 380 a.C. quando si nota in tutta la Sardegna uno
sforzo immenso di costruzione di fortificazioni in molte città puniche della Sardegna. Monte Sirai
sarebbe diventato un centro più grande, forse sede di una guarnigione, e proprio a questo periodo
si riferirebbero tutte quelle strutture oggi a vista nel sito. Nel 238 a.C. furono demolite le
fortificazioni e il centro, fino al 110 a.C., visse come città non militare.
L’acropoli si trova nella parte superiore della collina ed è costituita da 4 isolati disposti
parallelamente. In assenza di piazze, se non quella vicina all’ingresso, le vie di comunicazione
sono in terra battuta in quanto i mediterranei e i punici non lastricavano le strade. Furono i romani
ad introdurre l’uso di vie rivestite di ciottoli.
L’ingresso all’insediamento presenta una soglia di età romana, ed è fiancheggiato da una serie di
strutture e da un fossato delimitato da un muro rettilineo. L’andamento a cremagliera (a zig-zag),
delle mura tipico delle fortificazioni puniche avanzate ha integrato le strutture arcaiche. In un punto
si trovano infatti dei blocchi in bugnato di trachite, riferiti alle vecchie mura. Davanti all’ingresso ci
sono una serie di torri di varie forme funzionali ad una prima difesa, forse del V a.C., anche se
Bartoloni parla di strutture romane abitative e non di torri, e un corridoio difeso da una porta con
garitta che conduceva alle strutture interne.
L’abitato presenta case tradizionali di tipo punico con corridoio centrale che porta alla corte, sulla
quale si affacciano gli ambienti domestici.
L’unico edificio pubblico identificato è il mastio. Si trova nell’unica piazza di Monte Sirai. Nell’ultima
fase fu utilizzato come edificio sacro. Barreca ipotizzava che il mastio sarebbe stato impiantato nel
VII a.C. sopra un preesistente nuraghe che fu smontato. Si riutilizzarono i conci di base e si costruì
la parte centrale dell’edificio, con due vani separati da un muro e una serie di case matte cieche
utilizzate come fortificazioni. Il mastio fu incendiato alla fine del VI a.C. e ristrutturato nel V a.C. con
l’aggiunta della torre cava con 6 vani ciechi coperti da botole, forse magazzini per armi. In seguito
fu anche rifasciato. Barreca pensava che intorno al 250 a.C. la struttura perse la connotazione
militare e fu trasformata in tempio per il culto di Demetra. Per lo studioso, in età fenicia e punica
non ci sarebbe quindi stato nessun edificio sacro. Per Bartoloni invece la struttura fu sempre un
tempio dedicato ad Astarte e i mediterranei avrebbero usato il nuraghe per le funzioni religiose e
255
per accogliere i loro simboli cultuali. Il nuraghe sarebbe stato smontato attorno al 525 a.C. e dopo
questa data sarebbe stato ricostruito un edificio sacro nel 250 a.C. riutilizzando i conci del nuraghe
stesso del quale però non restano tracce visibili, se non una cisterna.
La struttura è composta da vari edifici: una torre cava, un’area aperta, una cisterna e vari altri
ambienti. Sono stati ritrovati degli altari utilizzati per il culto. All’area aperta si accede tramite due
ambienti separati da un muro, forse coperti, che portano a 4 celle nelle quali sono stati individuati
dei manufatti che ci rimandano ad un ambito cultuale: oggetti votivi, lucerne, bronzetti, placchette
in osso, forse appartenenti ad una cassetta lignea. La copertura era piana in travi di legno o
cannucciato perché le tegole arrivano in Sardegna solo in età romana.
La statua di Astarte mostra una differenza di lavorazione fra la testa rifinita e il corpo, solo
abbozzato. La testa risente dell’influenza orientale e siriana, e viene datata al VII a.C. Il braccio
sinistro è appoggiato sul ventre e il destro è sul petto col pugno chiuso. Forse portava una stola
sulla spalla. Si pensa che per qualche motivo la statua, di età arcaica, sia stata rilavorata in età
punica, forse da un artigiano non esperto.
Per Monte Sirai si è spesso parlato di artigianato popolare, in contrapposizione a quello di alto
livello di Sulci. In realtà vari studiosi ritengono che la differenza di qualità sia dovuta non ad un
diverso ambito culturale, ma semplicemente perché Monte Sirai, essendo un centro secondario,
non disponeva di artigiani altrettanto validi.
In una celletta c’erano una serie di placchette lavorate: una sfinge accosciata in osso e una
palmetta. Gli avori orientali sono molto più belli e la lavorazione, che in questi di Monte Sirai è ad
incisione, in quelli orientali viene eseguita a rilievo. L’iconografia di una delle placchette mostra una
commistione fra tre elementi:
. Bes, il demone nano egiziano, grassoccio con la lingua fuori, con i baffi, i ricci, le orecchie ferine e
il pugno chiuso.
. Melkart-Eracle, il Dio con in evidenzia le zampe della leontè ma non le orecchie di Bes.
. La Gòrgone, un essere mitologico greco, una delle tre sorelle, in questo caso Medusa, quelle che
pietrificavano coloro che le guardavano. Ecco spiegato lo sguardo penetrante con occhi spalancati,
la lingua fuori, il faccione circolare, tutti elementi derivati dall’iconografia di Medusa.
Due bronzetti levantini trovati nei vani dove era presente la statua di culto, rappresentano “il
Citaista” e un personaggio assiso che versa da una brocca askoide, di tradizione nuragica, dentro
una coppa. Sono datati al VI a.C. e dimostrano la convivenza pacifica fra nuragici e fenici,
caratteristica tipica della civiltà mediterranea, riscontrabile in tutti i siti costieri.
256
Fig. 89 Monte Sirai
A Monte Sirai è stata scavata una grande necropoli. Quella mediterranea è vicina all’abitato, quella
punica è più in basso. Il tophet si trova in una valle ancora più in basso.
La necropoli mediterranea prevede tombe ad incinerazione primaria con fosse scavate, nella terra
e nella roccia, nelle quali veniva posto il defunto da bruciare e, una volta terminato il rito, veniva
aggiunto il corredo e sigillata la tomba. In superficie c’erano i segnacoli. Le tombe arcaiche sono
un centinaio, poco regolari, oblunghe, e si distinguono da quelle puniche che sono, invece,
rettangolari. Ben 7 tombe mediterranee sono ad inumazione, con la presenza della brocca con orlo
a fungo. Forse il motivo è legato all’elemento africano, infatti uno dei personaggi sepolti è
femminile in posizione di fianco, la tipica inumazione della zona libica di Kerkouane, mai
documentata a Cartagine. Gli indigeni, anche quelli punicizzati, continuano a farsi inumare in
posizione supina.
Le tombe puniche sono solo 13, oltre un dromos non dotato di camera. Sono molto grandi con
scale nel dromos che occupano tutto il lato breve. Le camere sono quadrangolari con sarcofagi e
nicchie risparmiati nella roccia. Una delle tombe presenta al centro una colonna risparmiata, forse
per sostenere la copertura. Nel tramezzo è ben visibile il simbolo capovolto di Tanìt, utilizzato
come simbolo funerario per riferirsi al mondo dei defunti.
Bartoloni, ha scavato negli anni Sessanta e ritiene che non ci siano altre sepolture perché fra la
conquista cartaginese e il 360 a.C., anno della ristrutturazione, il tono di vita era minore, con la
presenza di poche famiglie. Oltre le tombe scavate nel bancone, ce ne sono altre che modificano
delle domus de janas. La tomba 9 presenta un dromos e una camera non finita e quindi possiamo
capire l'evoluzione: prima si scavava il dromos e poi veniva rifinita. Sono tombe uniformi, forse
fatte dalla stessa confraternita che provvedeva alla costruzione e alla sepoltura dei defunti.
257
A Monte Sirai ci sono anche 3 facce maschili demoniache, ricavate nella parte alta della parete di
una camera tombale. Una di queste è ancora sul posto. In un’altra area ci sono anche delle tombe
infantili ad enkitrismos.
Il tophet non è stato impiantato insieme alla città, si data infatti al 370 a.C. quando ci fu lo sviluppo
urbanistico e demografico dell’insediamento. Si trova 200 m a nord dell’abitato e ha restituito circa
300 urne e 140 stele. Si divide in tre fasi sovrapposte: la prima vede le urne appoggiate
direttamente sulla roccia, talvolta all’interno di casse scavate e conta poche stele. C’è un
passaggio funzionale alla deposizione delle urne. Alla fine del IV a.C. viene fatta una gettata di
terra e argilla, sostenuta con muretti laterali, e quasi la metà delle urne si riferisce a questa fase.
Intorno al 250 a.C. abbiamo la terza fase: viene fatto un interramento con terra e argilla, vengono
posti dei lastroni di trachite per contenere la colmata e viene costruito un edificio di culto. É un fatto
raro, infatti solo a Cartagine c’è la cappella Cintas, e a Mozia e Tharros ci sono tracce di strutture
di culto in tophet, ma questo è l’edificio meglio conservato. Recentemente è stato restaurato
malamente con una gradinata inventata ma prima sorgeva su una piattaforma alla quale si
accedeva attraverso una rampa, ora coperta dalla gradinata. Al di sopra c’era un saccello di 8 x 6
m datato alla fine del III a.C. costituito da un ampio vestibolo affiancato da vari ambienti. La parte
più sacra vedeva un penetrale caratterizzato nello spigolo da un doppio altare. Tracce di fuoco e di
resti ossei animali sono stati scavati vicino all’altare. Le stele documentate nel Tophet mostrano
una stretta correlazione con Sulci. Gli artigiani però non raggiungono l'abilità dei sulcitani. Nelle
edicole troviamo personaggi con stola (sacerdote) e altri con fiore di loto (divinità) in commistione.
In alcune stele c'è anche la tecnica ad incisione che rivedremo nelle stele funerarie del periodo
finale punico e in età romana primo-imperiale.
San Giorgio di Portoscuso
Uno scavo degli anni Novanta della soprintendenza di Cagliari ha documentato una necropoli
mediterranea arcaica costituita da dieci tombe e un insediamento databile al 750 a.C. È forse il più
antico della Sardegna. Lo scavo è stato determinato dalla costruzione del depuratore e un mezzo
meccanico aveva distrutto parte del sito. La tipologia tombale è a cista litica con incinerazione e
deposizione secondaria. Il corredo era di materiali ceramici e ci sono armi in ferro. Fuori contesto
ci sono delle anse di vasi nuragici e si è ipotizzato facessero parte del corredo, anche perché non
è documentata la presenza di insediamenti nuragici nelle vicinanze. Bartoloni ha proposto che si
trattasse di un fondaco pre-coloniale levantino. Nei manufatti abbiamo una brocca arcaica con orlo
cilindrico a fungo, corpo sferico e non ovoide, rivestimento a red slip che si associa sempre ad una
brocca bi-conica. La coppia di brocche serviva per versare un liquido e un fluido profumato per la
preparazione del cadavere.
258
Fig. 90 Stele tophet Monte Sirai
Nora
Dal 1990 le ricerche hanno evidenziato una ricostruzione storica che ha rivoluzionato le concezioni
precedenti. Nora si trova a sud-ovest di Cagliari, nel territorio di Pula. Si tratta di una tipica
sistemazione costiera su un promontorio, come piaceva ai levantini. Fino agli anni Novanta non
avevamo notizie della città arcaica. Nel 1793 fu rinvenuta la “grande norense”, una stele
monumentale con iscrizione ancora al vaglio degli studiosi. A questo manufatto abbiamo dedicato
un apposito paragrafo per aiutare chi volesse cimentarsi con l’interpretazione. L’iscrizione è
dell’inizio del IX a.C. ed è importante perché dimostra una frequentazione della città fin da questo
periodo. Potrebbe riferirsi ad un luogo di culto o alla fondazione della città. I materiali della Nora
più antica si limitano a 4 cocci del VII a.C. rinvenuti da Pesce nel quartiere sud-occidentale della
città, al di sotto delle strutture di età romana che si trovano al livello del piano delle strade attuali
della città.
L’Università di Padova ha indagato il Foro Romano e fino ad allora si pensava, accogliendo
l’ipotesi di Barreca, che i romani costruirono a Nora mantenendo la destinazione funzionale d’uso
precedente, impostando il foro sull’area del mercato, l’abitato sulle case precedenti, i templi
nell’area dei vecchi templi, e così via. In pratica si ipotizzava che i romani costruirono sulla città
punica che, a sua volta, era costruita su quella mediterranea. Gli scavi hanno invece evidenziato
che non c’è stata una continuità d’uso: il foro dei romani fu costruito nel I a.C. in un’area libera.
Sotto le strutture del foro gli scavi hanno individuato una frequentazione precedente al primo
impianto delle strutture che avvenne nel VII a.C. In questa prima fase l’area fu sistemata, spianata
e infine ampliata con l’aggiunta di terra e ciottoli. Poi fu impiantata una struttura muraria in grossi
259
ciottoli legati con argilla. Fu realizzato anche un battuto in terra con inserzioni di blocchetti lapidei
che delimitavano due focolari e un pozzo in parte scavato nella roccia, in parte costruito. Sopra
queste strutture, una volta obliterate, vennero costruiti due edifici e una cisterna a bagnarola lunga
5 m. Nel I a.C. tutta l’area venne riempita e fu costruito il foro.
La città romana dunque non riprende le strutture più antiche, ma viene impiantata con un progetto
nuovo. Lungo la strada verso il mare, vicino al teatro, sotto il livello degli edifici romani vi sono
tracce preesistenti di strutture nelle quali sono stati scavati da Pesce materiali mediterranei, non
pubblicati. Sul livello romano ci sono decine di cisterne costruite con tecnica punica. Essendo
uguali per vari secoli non si riesce a datarle con precisione, possono essere perfino bizantine
perché anche questi ultimi le costruivano con la stessa tecnica.
Gli ultimi scavi sono andati sotto le strutture romane e hanno rivelato che la città mediterranea e
poi punica è compresa in un triangolo fra il tempio di Eshmun, l’alto luogo di Tanìt ed un altro
tempio trovato nell’area denominata F. In età romana il baricentro si è spostato verso ovest. Sotto
la zona delle terme non c’è niente ma bisogna considerare che il livello del mare si è alzato di oltre
due metri negli ultimi 3500 anni e varie strutture si trovano sommerse.
L’alto luogo di Tanìt venne individuato da Patroni agli inizi del Novecento e conserva un basamento
quadrato di 10 m di lato, con vani ciechi che in corso di scavo sono stati svuotati senza risultato.
Probabilmente si tratta di fondamenta per la struttura che era poggiata sopra. Il Patroni individuò
una pietra piramidale che identificò con un betilo dedicato a Tanìt. La struttura è certamente sacra
perché negli anni Novanta nella stessa area, un poco più a sud, vicino alla strada romana sono
stati individuati dei grandi conci sagomati a gola egizia e, recentemente, dei materiali votivi in
terracotta anche se fuori contesto.
Fig. 91 Nora
Fra i ritrovamenti più importanti c’è un capitello con testa umana fra volute, ritrovato da Patroni nel
1902, e una grande gola egizia con gocciolatoio a testa di leone, che si trova ancora sul posto.
260
Il tempio di Eshmun-Esculapio, si trova sulla “Punta de su Coloru” (Punta del serpente), scavato
negli anni Cinquanta da Pesce. Si tratta di un tempio romano perché nel piano di posa del
pavimento della struttura è stata individuata una moneta Costantiniana del IV d.C. ma si ipotizza
che l’impianto sia di età punica. É posto su due livelli, con un’ampia corte centrale mosaicata,
ingresso con scalinata e vestibolo che conduce ad un ampia sala che da accesso ad un abside
bipartito, diviso da un muretto. Nell’area è stata ritrovata una favissa che conteneva due statue alte
circa 80 cm, i cosiddetti incubanti, dormienti avvolti nelle spire del serpente guaritore. Le statue
sono riferite ad età repubblicana e attestano la preesistenza di un edificio di età romana e la
destinazione del tempio come dedicato ad una divinità salutifera, da cui l’ipotesi di assegnazione
ad Esculapio. L’incubante è un fedele, o un malato, che svolge il rito dell’incubazione: dorme
all’interno del tempio per permettere alla divinità di scendere e guarirlo.
La fase precedente a quella repubblicana è attestata da una trabeazione monolitica di una piccola
edicola punica identificata da Pesce dietro l’abside del tempio. Il basamento è ancora in loco e
presenta la tipica sgusciatura a gola egizia con sopra il caratteristico fregio ad urei discofori. Quindi
un piccolo sacello che costituiva il fulcro dell’area santuariale con al centro il simulacro della
divinità, che purtroppo non si è conservato. Un altro elemento di età punica è costituito da una
serie di grandi blocchi in arenaria che costituiscono le fondamenta del tempio romano. Si trovano
sul lato a mare e arrivano fino a sette filari sovrapposti. Altri blocchi di questo tipo sono stati
riconosciuti al centro della struttura. La nuova lettura proposta descrive quindi un tempio
precedente costituito da una grande corte con al centro un’edicola col simulacro. Alcuni tagli nella
roccia che si affaccia a mare hanno fatto ipotizzare un secondo ingresso direttamente a mare, a
dimostrazione che i naviganti erano tenuti in grande considerazione. Anche un importante tempio
(Tas-silg) a Malta presenta la stessa caratteristica.
Fig. 92 Malta, Tas silg
Il tempio dell’area F è stato individuato da Barreca nel 1958 ma fu scambiato per una torre di
fortificazione, mentre la lettura cultuale, santuariale, è degli anni Novanta. È una struttura mal
261
conservata, riferita al VI a.C. costituita da una rampa che conduce ad una terrazza sopraelevata.
C’è una cella mediana con in opera dei grandi blocchi squadrati riferiti ad un edificio precedente. Al
centro si trova un altare, sede delle pratiche cultuali. Il ritrovamento di tessere mosaicali ha fatto
ipotizzare che il pavimento fosse ricoperto da mosaici. Dalla struttura non provengono materiali
ceramici e non sappiamo quale culto fosse praticato, è stata fatta solo un’analisi tipologica: l’unico
edificio che somiglia a questo di Nora è quello delle terrazze cultuali bibliche che si trovano in
ambiente israelitico e non in Libano.
La necropoli si trova in area militare e quindi, essendo l’accesso interdetto, non abbiamo
indicazioni se non per uno scavo fatto a fine Ottocento. Si praticavano delle trincee e quando si
finiva lo scavo si ributtava la terra negli scavi. Sono dunque state risparmiate vaste zone non
scavate e in futuro si potrà forse indagare la zona.
Non sappiamo dove fosse ubicata la necropoli mediterranea. L’unico ritrovamento fu scambiato per
una tomba romana. Si tratta di una cista litica a lastre giustapposte con dentro un’olla e un corredo
funerario con brocca e unguentario. La maggior parte delle tombe puniche di Nora sono a pozzo
non profondo con una nicchia che si allarga sul fondo per ospitare il defunto. Risulta documentata
anche una tomba a camera in fondo ad un pozzo verticale. Sopra l’ingresso c’era un simbolo
astrale, una falce lunare con disco solare. In un’altra area si trovano delle inumazioni infantili con
tombe ad enchitrismos.
Il tophet fu la prima area mediterranea ad essere individuata a Nora. A causa di una mareggiata
nel 1889 si scoprì il santuario, e si iniziò uno scavo a trincee in un’area attualmente privata. Fu il
primo tophet scoperto nel Mediterraneo ma si interpretò come necropoli ad incinerazione. Solo
quando fu individuato il tophet di Cartagine, nel 1921, fu riletto il ritrovamento e si capì che si
trattava di un tophet. Al momento della scoperta restituì 220 urne e 157 stele in arenaria, datate fra
VI e IV a.C., delle quali solo 83 furono portate ai musei di Cagliari e Nora. Le altre furono sotterrate
vicino alla chiesa ma sono state trafugate e in parte utilizzate per costruire la sacrestia della chiesa
stessa. Questa scoperta è stata fatta negli anni Ottanta, in occasione di un restauro. Le urne, pur
essendo state ritrovate a gruppi vicino alle stele, non si è riusciti a ricollegarle alle stele stesse
nonostante il terreno vergine e il numero pressoché uguale. Generalmente la proporzione è molto
a svantaggio per le stele, come ad esempio a Tharros dove per 5000 urne sono state rinvenute
solo 300 stele. A Nora sono attestati prevalentemente simboli aniconici (betili e idoli a bottiglia).
Il tempio di Antas
Si trova sul territorio di Fluminimaggiore in piena area mineraria e non presenta insediamenti vicini.
Fu ricostruito di sana pianta negli anni Settanta. Le fonti letterarie classiche lo descrivono ed è
stato oggetto di problemi storici e archeologici risolti solo negli anni Cinquanta. In particolare
Tolomeo e l’Anonimo Ravennate, citano un tempio del Sardus Pater che non si riusciva ad
262
individuare. Si cercava soprattutto nelle zone di Capo Pecora e Capo Frasca, in strutture che poi si
sono rivelate ville romane.
Fig. 93 Antas, il tempio
Il tempio di Antas era conosciuto ma non si pensava fosse proprio quello del Sardus Pater. Si
individuarono delle iscrizioni nell’epistilio ma erano relative all'iscrizione dedicatoria delle Terme di
Caracalla. Non erano sufficienti per classificare il tempio, e si pensava che la struttura fosse riferita
ad una città romana, forse Metalla. Si è arrivati ad una prima identificazione nel 1954, quando una
laureanda trovò un frammento dell’epistilio che aiutò ad interpretare l’iscrizione. Nel 1967 fu trovato
un altro pezzo nella campagna di scavo promossa dall’Università “La Sapienza” di Roma. Questo
scavo ha portato alla luce un basamento circondato da una serie di elementi. Nel 1974 hanno
ricostruito la parte anteriore della facciata e hanno lavorato blocchi nuovi per adattare la struttura.
Tutti questi lavori riguardano il tempio romano perché quello punico si trova davanti all’ingresso.
A circa 200 m dal tempio si trova un villaggio nuragico del Bronzo Medio, ma l’area del tempio non
è sede di una frequentazione prima del Ferro, intorno agli inizi del IX a.C. Nel 1981 Ugas ha
scavato tre tombe nuragiche a pozzetto, allineate, profonde circa 40 cm, di forma circolare e con
un diametro di circa 80 cm. Nella prima venne individuato un inumato con un corredo composto da
una perlina in bronzo e due vaghi in oro; nella seconda non c’era defunto ma solo un vago in
cristallo di rocca, ed è stata interpretata come cenotafio (monumento funerario a ricordo di un
personaggio sepolto altrove); nella terza tomba c’era un inumato dolicomorfo (molto alto) in
ginocchio, un bronzetto e numerosi oggetti d’ornamento in pasta vitrea, argento, cristallo di rocca e
un anello. Il bronzetto ha influenze orientali.
Successivamente, intorno al 500 a.C., abbiamo l’impianto del tempio punico, costituito da muri
realizzati con schegge cementate con malta di fango e pavimento in calcare e pietrame. Presenta
263
tre gole egizie ma ci manca la fase arcaica. Secondo Barreca il tempio punico avrebbe visto due
fasi. Nella prima ci sarebbe stato un grande recinto quadrato con un edificio di culto di forma
rettangolare che custodiva al centro una roccia sacra, citata in una iscrizione scoperta
recentemente nell’area, circondata da un muretto di protezione. In prossimità della roccia sacra
sono stati trovati resti di fuochi e resti ossei che dimostrano l’adozione di pratiche cultuali. Intorno
al 300 a.C. l’area posteriore del tempio sarebbe stata suddivisa in due da un muretto e sarebbe
stato cambiato l’ordine architettonico utilizzato, nel senso che l’ordine dorico delle colonne sarebbe
stato sormontato da gole egizie. Questa ricostruzione di Barreca è dovuta al fatto che le gole
egizie sono state ritrovate riutilizzate nel tempio romano.
Bernardini capovolge completamente le ipotesi di Barreca: in un articolo divulgativo sostiene che il
recinto non è punico, perché è impiantato sopra strati di deposito romano, e che l’altare in realtà è
la copertura di una sepoltura, invisibile perché posizionata sotto la struttura. Inoltre sostiene che il
tempio punico si trova sotto quello romano ma per verificare questa ipotesi si dovrebbe smontare
tutto per cercarlo.
Ci sono alcune iscrizioni che si riferiscono al tempio punico, come ad esempio la scritta Sid Addir
Bab, e si è ipotizzato che il culto fosse svolto non solo da semplici fedeli ma da funzionari, come se
si trattasse del tempio ufficiale di Cartagine, una sede centrale presso la quale arrivavano fedeli e
funzionari da tutte le città puniche. Gli amuleti ritrovati costituiscono un problema per la
ricostruzione storica di Antas perché nel mondo punico gli amuleti sono caratteristici dell’ambito
funerario. Erano oggetti della vita quotidiana che venivano deposti insieme al defunto. Solo a Kition
(Cipro) abbiamo un tempio nel quale sono stati ritrovati amuleti. Fra gli altri oggetti rinvenuti ci sono
dei piccoli giavellotti in bronzo, una testina maschile in osso, teste in marmo di produzione greca,
numerose monete, caducei in bronzo, amuleti, oggetti in oro e altri manufatti che dimostrano un
livello di benessere molto alto dei fedeli che frequentavano questo tempio.
Le tracce di fuoco dimostrano che la struttura fu distrutta brutalmente e anche gli oggetti votivi
furono frantumati intenzionalmente.
Dopo la fase punica c’è un reimpianto del tempio in età augustea, lo dimostrano alcune terrecotte
architettoniche, come i gocciolatoi a testa di leone, che ci fanno capire che il tempio fu ricostruito
nel I a.C. Una moneta che riporta l’immagine e la dizione del “Sardus Pater” dell’epoca di Azio
Balbo, parente di Augusto, che fu pretore di Augusto in Sardegna nel 59 a.C. venne battuta al
conio fra il 39 e il 19 a.C., quindi il vecchio tempio del Sid Addir Bab fu trasformato in tempio del
Sardus Pater.
Un’ultima trasformazione è del 213 d.C. sotto Caracalla quando il tempio, come indica chiaramente
l’iscrizione nell’epistilio, venne restaurato e sistemato dall’imperatore Caracalla.
Ricapitolando si potrebbe dire che in età nuragica c’era un culto riferito a Sid Addir Bab, ripreso in
età punica e poi trasformato in Sardus Pater in età romana. Manca completamente la fase
mediterranea fra l’VIII e l’inizio del V a.C. Finora il tempio di Antas è l’unico tempio dedicato a Sid
in tutto il Mediterraneo.
Chi è Sid? Si tratta di una divinità secondaria. Nel mondo semitico sono noti molti nomi teofori,
cioè che contengono all’interno il nome della divinità. Ad esempio Amilcare significa Ab Melqart,
264
servo di Melqart. Anche i nomi ebraici che finiscono in “Ele” come Gabriele, Emanuele, Raffaele,
Michele hanno la radice che significa Dio. La divinità Sid, che significa potente, è a volte associata
con Tanìt e altre volte con Melqart, ma ad Antas è da sola. Un altro significato di Sid è “cacciare”, e
in questo caso i giavellotti in bronzo possono essere ben inseriti in un culto al Dio della caccia.
Secondo il Garbini Sid avrebbe il significato di “fondatore”.
Chi è Bab? Pare si riferisca ad una divinità nuragica, Babbai, che indicherebbe un’assimilazione ad
una divinità paterna. In semitico padre si dice Ab, così come ipotizzato da Ferron il quale afferma
che Babai sarebbe da riferire appunto alla radice semitica Ab
La distruzione del tempio ha creato problemi fra studiosi. C’è chi parla dei romani o chi dice siano
stati i mercenari di Cartagine in occasione della rivolta del 241 a.C. L’esercito cartaginese era
composto da mercenari e, poiché Cartagine non rispettò i patti monetari, si ribellarono molti dei
componenti delle varie truppe dislocate nell’isola: iberici, sardi, siciliani, italici, libici e balearici
chiamarono in aiuto Roma e determinarono la perdita della Sardegna da parte di Cartagine.
Il tempio di Antas era strategico ed era simbolo della potenza di Cartagine sull’isola perché questa
aveva bisogno di due cose fondamentali dalle colonie per affermare la supremazia e per tenere in
armi l’esercito: i metalli e le risorse agricole (orzo e grano). Il fatto che Cartagine avesse costruito
un tempio per il culto ufficiale proprio ad Antas dimostra che le risorse minerarie recitarono un
ruolo importante. In sostanza i mercenari distrussero il tempio perché era il simbolo della potenza
cartaginese e vollero cancellarne il ricordo.
Cagliari
Gli scavi dal dopoguerra a oggi hanno modificato radicalmente la visione della città di Cagliari.
L’insediamento arcaico si posiziona nell’area della città-mercato di Sant’Avendrace e S. Gilla e
della vicina centrale elettrica, nella piana compresa fra lo stagno e la zona di Tuvixeddu. Ai bordi di
questo piccolo promontorio si situava il porto, oggi completamente coperto dai fanghi derivanti dal
disinquinamento di S. Gilla. Il porto era lagunare, quello attuale è romano. Un primo insediamento
mediterraneo era ubicato a Sa Illetta, nella collinetta attualmente occupata da Tiscali, ma non sono
mai stati pubblicati scavi. È probabile che qui fosse presente un villaggio nuragico, come farebbe
pensare qualche frammento ceramico del Ferro. Quindi anche per Cagliari, come abbiamo
riscontrato in altri luoghi, il primo insediamento arcaico, fine VIII a.C. avviene, in un ambito
nuragico.
Non sappiamo ancora quando si passa alla vera e propria struttura urbana, ma l’ampiezza e la
qualità della necropoli di Tuvixeddu-Tuvumannu, fanno pensare che già alla fine del VI a.C.,
l’insediamento abbia acquisito lo status urbano. Anche se è molto probabile che si debba risalire
ancora nel tempo. Purtroppo la città moderna occulta molto.
Il promontorio della città mercato-centrale elettrica doveva ospitare il tempio di Melqart, attestato
da un’iscrizione e da una statua di Bes, oggi al Museo; Bes è normalmente associato a Melqart.
L’abitato è stato rinvenuto nelle vie contigue, Brenta, Po, Simeto ecc. I limiti erano dati dal tophet,
265
nell’area delle ferrovie e dal tempio di Eshmun rinvenuto (ed è visibile) sotto l’agenzia viaggi
Orofino davanti alla chiesa dell’Annunziata.
In un qualche momento tra VI e IV sec. a.C. una seconda necropoli con tombe a camera è
localizzata nella collina di Bonaria, collegata, probabilmente, con un secondo centro, periferico, o
meglio, satellite, legato a uno scalo portuale, da collocarsi a San Bartolomeo e connesso con lo
sfruttamento delle saline. Oggi il tutto è stato colmato e al di sopra hanno costruito il quartiere e lo
stadio di Sant’Elia.
A partire almeno dalla fine del IV sec. a.C. si forma un quartiere satellite testimoniato da una terza
necropoli, nella via Regina Margherita e collegata, secondo me, alla necessità di spostare il porto
dall’area di S. Gilla ormai irrimediabilmente impaludata all’attuale collocazione in mare aperto. Non
a caso questa necropoli proseguirà in piena età romana come attestano gli straordinari recenti
scavi nella Scala di Ferro, e la stranota necropoli dei marinai della flotta di Miseno. La singolarità di
Cagliari rispetto alle altre città sarde è proprio questo spostamento. Infatti la vecchia sede urbana
di Santa Gilla resta in vita sino agli inizi del II sec. a.C., in età romano-repubblicana. In questo
momento la città si sposta definitivamente nell’attuale centro, con fulcro in quello che sarà il foro,
Piazza Carmine, sotto la protezione di un nuovo tempio, quello di via Malta, dietro le poste,
dedicato a Venere e Adone, e realizzato da quella che ora è la comunità mista punico-romana.
Tant’è che il tempio è effigiato in una moneta romana emessa dai due suffeti della città, Aristo e
Mutumbal.
Altre tracce puniche si trovano in Castello, nei pressi della Cittadella dei Musei, dove era edificata
l’acropoli, ma le tracce si limitano ad una cisterna a bagnarola e qualche muretto. La stratigrafia è
difficile da studiare perché Cagliari è fortemente urbanizzata molti metri sopra i resti del passato. A
Capo Sant’Elia è stato identificato un tempio, riferito ad età tardo punica e, grazie ad un’iscrizione,
è stato assegnato ad Astarte. La necropoli si trova alle spalle dell’abitato, come a Cartagine, sulla
collina di Tuvixeddu. Da questo momento la città si estende nei quartieri di Stampace e Marina.
Castello in realtà non restituisce resti di acropoli come riteneva Barreca, ma, sinora situazioni o
civili o, forse di culto; non è escluso che potesse esserci un tempio. Ma siamo già decisamente
fuori della città. L’anfiteatro doveva segnarne i limiti.
266
Fig. 94 Cagliari, le tombe parallelepipede a pozzetto di Tuvixeddu
Il Golfo di Oristano
Fu importante in età mediterranea e punica per le risorse agrarie e come via di accesso dal mare
verso l’interno. Era controllato da tre città: Neapolis a sud, nel territorio di Guspini, Othoca al
centro, nel territorio di Santa Giusta e Tharros a nord nel territorio di Cabras. Neapolis significa
città nuova e Othoca indica città vecchia. La città più antica sarebbe Othoca, risalente al VIII a.C.,
poi Tharros e infine Neapolis dopo la conquista cartaginese. Ultimamente a Neapolis sono stati
recuperati materiali dell’VIII a.C. e quindi anche questo centro potrebbe essere una fondazione
mediterranea. Erano tre città indipendenti in seguito controllate da Cartagine.
267
Fig. 95 Tharros
Othoca
Si trova in corrispondenza del bacino lacustre dell’attuale Santa Giusta. Le ultime ricerche hanno
arricchito i ritrovamenti nonostante il centro moderno sia sorto sopra il vecchio insediamento, che
era sotto l’attuale Basilica di Santa Giusta, l’unico rilievo che svetta sulla piana. Sotto la cripta della
chiesa sono state individuate negli anni Novanta delle strutture in parte attribuite ad età nuragica
(quelle curvilinee), e in parte ad età punica (quelle rettilinee che si incontrano ad angolo retto).
Nell'abitato, sulla collina dove si trova la basilica di Santa Giusta, ci sono tracce puniche, forse
l'Acropoli. Nella zona del sagrato c'è una cortina muraria a doppio paramento con blocchi
poligonali in basalto. All'esterno c'è un fossato e, fuori contesto, ci sono materiali arcaici (VIII a.C.)
Nella stessa area, sotto la cripta, sono documentate strutture nuragiche di un villaggio e altre con
materiali di età ellenistica (III a.C.). A fine 1800 sono stati trovati alcuni carnofòiri (bruciatori) con
testa femminile, dedicati a Demetra, un culto introdotto in tarda età e proveniente dalla Sicilia. In
via Foscolo è stato trovato un muro a L con blocchi di basalto attribuito alle fortificazioni arcaiche,
come il muro del sagrato. Gli scavi degli anni Novanta nella parte settentrionale dell’abitato hanno
permesso di individuare delle strutture che forse si riferiscono a fortificazioni o ad abitazioni. C’è
stata continuità d’uso fino al medioevo e ciò che conosciamo meglio è la necropoli, ubicata nella
zona sud di Santa Giusta, in corrispondenza della chiesa romanica di Santa Severa, lungo la via
principale. Già nell’Ottocento furono scavate un gran numero di tombe, ma i materiali sono stati
prevalentemente venduti. Solo pochi reperti sono stati esposti nei musei. Nel 1910, in occasione
della costruzione dell’edificio dell’ex genio civile, vennero individuate una serie di sepolture e nel
268
1984 sono riprese le indagini quando, nel corso della sistemazione del giardinetto della chiesa di
Santa Severa, la ruspa intercettò una grande tomba mediterranea a camera, costruita sul fondo di
una fossa a 4 metri di profondità. Furono utilizzati grandi blocchi in arenaria perché il materiale
litico non è presente a Santa Giusta, infatti il territorio è una piana alluvionale. É una tomba
ricchissima, con oltre cento manufatti ceramici punici e di importazione, un piatto attico, gioielli,
amuleti e strigi (strumenti in ferro ricurvi di tradizione greca utilizzati per detergere e cospargere
d’olio gli atleti che partecipavano a giochi o frequentavano le palestre). Già qualche decennio fa fu
trovata una tomba simile, dalla quale furono prelevati tanti materiali, in parte dispersi, ma quella
tomba non è più stata rintracciata. Il pavimento è in lastre, i paramenti murari presentano delle
nicchie e la copertura è costituita da 4 lastre poste di piatto. La tomba è stata in uso dal VII a.C.
fino al IV d.C. ma alcuni studiosi ritengono che sia punica, visto che i materiali si datano
prevalentemente dal V a.C. Il modulo d’accesso è scavato nel bancone alluvionale ma la forma
dell’ingresso non è chiara perché la tomba risulta aperta più volte. Furono rinvenute delle pitture
che purtroppo sono svanite poche ore dopo l’apertura a causa della luce e dell’aria che hanno
rovinato velocemente l’intonaco non più sigillato. Pare ci fosse la rappresentazione di un cane e di
un simbolo astrale colorato di nero. Le deposizioni erano ad inumazione, ad eccezione di
un’incinerazione deposta all’interno di un’urna cineraria romana.
Nella stessa area, vicino alla chiesa, sono venute fuori tante tombe ma altre si trovano sotto le
costruzioni attuali. La maggior parte sono mediterranee e romane perché probabilmente la
necropoli punica è ubicata in un’altra zona. Le più antiche, del VII a.C., sono a fossa ad
incinerazione secondaria con corredo formato da brocche panciute. Sono sempre coperte da lastre
in arenaria sovrapposte. Il corredo è completato da brocche con orlo a fungo, coppe proto-corinzie,
brocche trilobate, piatti, pentole ed elementi etruschi come i buccheri. In associazione ci sono
oggetti d’ornamento e oggetti di importazione: anelli in argento, scarabei, amuleti e vaghi. A Santa
Giusta è documentata anche l’incinerazione primaria, si nota dalla lunghezza e dalle tracce di
bruciato, nonché dall’argilla delle pareti interne che risulta vetrificata dal calore. In due casi
abbiamo tombe a cista litica con lastre poste a coltello, verticalmente. La maggior parte delle
tombe sono del VI a.C. Le urne sono composte da vasi, a volte tagliati, con all’interno le ossa, il
piatto e il pentolino. In qualche caso i sarcofagi punici sono andati a finire trasversalmente a
precedenti tombe mediterranee, a dimostrazione della frequentazione assidua della zona. Le
tombe puniche, quelle a partire dal V a.C., presentano prevalentemente dei sarcofagi. In un caso è
stata rinvenuta una punta di lancia. Un grande sarcofago punico, lungo oltre due metri, è stato
riutilizzato dai romani come luogo di incinerazione del defunto, si nota dalle bruciature laterali. I
materiali presenti nel sarcofago sono stati spostati all’esterno per fare posto alle ossa del romano e
al suo corredo.
Ci sono anche tombe infantili ad enkitrismos con corredo di braccialetti e altri materiali.
A Santa Giusta l’incinerazione è arrivata prima del resto della Sardegna, con tracce risalenti al VI
a.C., forse a segnalare che l’influenza cartaginese arrivò precocemente. Questa ipotesi è
rafforzata dalla presenza, in una tomba del VI a.C., di un rasoio, strumento tipico dei cartaginesi
non presente in ambito mediterraneo arcaico.
269
In epoca romana si passò all’incinerazione entro urne formate da semplici pentole con coperchio,
mentre più rare sono le tombe ad inumazione.
Dal 2005 sono iniziate le indagini subacque nello stagno. Già nel corso di scavi precedenti erano
state ripescate delle anfore mediterranee e puniche con all’interno resti ovi-caprini di ossa
macellate ma la soprintendenza ha deciso di approfondire l’indagine. I materiali erano sparsi in una
vasta area e si è deciso di montare il cantiere in un’area limitata a 60 x 60 m, con delle maglie di
13 m di lato, per scendere in profondità. Purtroppo l’acqua non è limpida e solo di mattina si sono
potute fare delle foto che hanno evidenziato la situazione. Con una pompa è stato asportato il
sedimento e si è grigliato il materiale. La situazione archeologica ha mostrato la dispersione dei
manufatti e si è notato che sotto un primo strato di fango di circa 50 cm c’erano decine di anfore
sotto le quali si trovava uno strato di conchigliette. Sotto le conchiglie c’era un altro strato di fango
e sotto di questo sono stati rinvenuti numerosi legni (di imbarcazioni e forse di qualche struttura),
alcuni curvi e altri bruciati. Se i legni fossero rimasti in mare non si sarebbero conservati ma in
questo caso la fauna ignivora non era presente perché gli strati erano sedimentati nel fango.
All’interno delle anfore c’erano resti di animali, pesci e derrate alimentari: semi di uva, pigne intere,
pinoli, semi di ciliegie, nocciole, olive, mandorle e altro. L’interpretazione di questo straordinario
giacimento distante 600 m dalla riva pone problemi di natura morfologica perché sappiamo che il
mare si è innalzato di oltre 2 metri negli ultimi 3500 anni e non sappiamo come fosse conformata la
linea di costa. Certamente i materiali sono stati sepolti al massimo nel giro di qualche giorno,
altrimenti le genti del luogo li avrebbero recuperati. Probabilmente si trattò di un evento alluvionale
che ha provocato lo straripamento del Tirso con conseguente trascinamento dei materiali a valle.
Forse una nave carica di anfore è affondata ed è stata portata lì dalla corrente. I materiali, venuti a
contatto con il mare, non sono stati recuperati. Il contenuto delle anfore attesta attività di
allevamento e di conservazione del pesce. Solo in Sardegna ci sono quel tipo di anfore e siamo
dunque certi che la zona, in quell’epoca, svolgeva un ruolo economico importante. Solo a Olbia
sono state trovate anfore con pesce, ma nella maggior parte degli scavi si trovano resti animali.
Questo recentissimo ritrovamento è importante anche per conoscere la situazione faunistica di
quel periodo, il VII a.C., perché si potrebbero datare i reperti entro un margine di 25 anni e scoprire
razze che oggi sono estinte. Nel Mediterraneo sono stati trovati due relitti di navi antiche cariche di
merci: una in Spagna, esposta al museo di Cartagena, e l’altra a Marsala. Con i ritrovamenti di
Othoca si è scoperto che nelle anfore delle navi venivano trasportati, oltre il vino e l’olio, anche
molti altri generi alimentari.
Neapolis
Si trova all'estremità sud del Golfo di Oristano, nel territorio di Guspini. C’era un porto ma
sappiamo poco della città perché gli scavi sono vecchi (Spano nell’Ottocento) e mostrano elementi
romani mentre dell'età punica abbiamo poco. Si pensava che Neapolis fosse di fondazione
cartaginese intorno al 300 a.C., “città nuova” in opposizione a Othoca “città vecchia”, basandosi su
un frammento di 15 cm trovato in superficie riferito ad un vaso ma Bartoloni ha ipotizzato che il
270
pezzo appartenesse a un sarcofago filisteo, anche se è molto piccolo. Il centro poteva riferirsi ad
un fondaco pre-coloniale, infatti la frequentazione è sicuramente antica. Lo Spano descriveva un
circuito murario arcaico curvilineo a blocchi sbozzati e altri conci di età punica. Lilliu ha scavato
negli anni Cinquanta portando alla luce gli impianti termali. Gli ultimi scavi mostrano un altro
elemento: la presenza di materiali fuori contesto del VIII a.C. che stravolgono ciò che era riportato
nei testi: il golfo era controllato da tutti e tre i centri. Non sono state individuate ancora strutture ma
gli scavi procedono. Le indagini superficiali hanno documentato anche manufatti attici del V-IV a.C.
di buona fattura, con vasi di pittori importanti di Atene, quasi ci fosse un rapporto privilegiato fra le
due città. Si parla anche di nome greco della città già dall'origine. Neapolis è nota anche per un
lotto di terrecotte rinvenute da Zucca che ha ipotizzato la città come porto di arrivo delle merci che
poi venivano smerciate. Erano nella favissa di un santuario salutifero del IV-III a.C. Esistono vari
santuari di questo tipo: sono caratterizzati dalla presenza di terrecotte fatte a mano che
rappresentano figure umane che si toccano le parti dolenti del corpo, quindi edifici costruiti per le
dediche dei malati. All'interno sono state trovate anche rappresentazioni fittili anatomiche di
gambe, mani e piedi che si aggiungono alle statuette realizzate al tornio in epoca punica ed
esposte al museo di Sardara. Sono tutte diverse, realizzate con la tecnica a mano del pastillàge.
Le statuette ci danno indicazioni sulle patologie dell'epoca e una delle malattie più diffuse era
sicuramente il tracoma agli occhi.
Tharros
Il testo di Acquaro su questo importante centro è completo e ne consiglio la consultazione.
A Tharros abbiamo la città punica e la città romana ma la Tharros mediterranea non si capisce
dove fosse ubicata. Iniziamo con le due necropoli: quella settentrionale posta nel villaggio di San
Giovanni, e quella meridionale. Tutti i musei del mondo hanno migliaia di reperti mediterranei e
punici provenienti dalle tombe di Tharros. Non sappiamo se le due necropoli servissero due centri
diversi. Della città mediterranea ci sono il tophet e qualche tomba. La necropoli meridionale è
molto estesa e fu saccheggiata nell’Ottocento. Fino a qualche anno fa si pensava che la necropoli
mediterranea fosse piccola e si trovasse presso la Torre Vecchia, mentre la necropoli punica
doveva essersi estesa nell’area circostante ma gli ultimi scavi hanno dimostrato che non è così. Le
tombe arcaiche sono di due tipi: a fossa e a cista litica. In molte di quelle a fossa ci sono tracce di
bruciato e abbiamo incinerazione primaria. Altre, più piccole, sono a deposizione secondaria.
L’unica tomba mediterranea documentata nella necropoli meridionale è stata trovata a filo con una
tomba punica, quindi i punici conoscevano l’esatta ubicazione delle tombe fenicie e scavavano le
loro a filo, rispettando le precedenti. La tomba mediterranea a fossa era coperta con lastre di
arenaria cementate con argilla. Sotto le lastre la deposizione era ad incinerazione secondaria con
il corredo costituito dalla brocca con orlo a fungo, il piatto e la pentola. Nell’Ottocento il Pais
segnalò una tomba a cista litica.
In età punica ci sono due tipi di tombe: a fossa parallelepipeda e a camera. Le prime erano
scavate nella roccia e coperte da lastre, a volte inserite in riseghe scavate in alto e cementate con
271
argilla. Quelle a camera occupavano il terreno in profondità, mentre negli spazi liberi si alternavano
quelle a fossa che erano più superficiali. Il modulo di accesso era a dromos, con scale che nella
fase più antica occupavano tutto il lato breve, mentre nelle tombe più recenti si limitavano ad una
fascia, come quelle africane. Un unicum è costituito da una tomba che ha la scala al centro. Dopo
la deposizione del defunto l’ingresso veniva sigillato con una lastra cementata con argilla e il
dromos della tomba veniva riempito di terra. Le camere sono piccole, spesso con delle nicchie
sulle pareti laterali e i pavimenti si trovano a livello più basso del dromos. In molti casi ci sono delle
linee dipinte in ocra rossa, come le tombe africane e una cinquantina di Cagliari. Come a
Kerkouane, vi sono delle tombe che sono state intercettate dal dromos di altre tombe costruite
successivamente. In questi casi veniva ricostruito il paramento murario della tomba. Il dromos
veniva ultimato prima di costruire la camera perché ci sono casi in cui è completo ma la camera
non è stata costruita perché avrebbe distrutto la tomba adiacente. Gli scavi hanno evidenziato
tantissimi cippi funerari. La necropoli settentrionale è simile dal punto di vista tipologico a quella
meridionale e sono state trovate anche qui delle tombe fenicie integre, scavate nella sabbia
anziché nella roccia, coperte con lastre e il rito di sepoltura prevedeva l’incinerazione primaria. La
necropoli è stata depredata ma le tracce hanno restituito dei materiali interessanti che mostrano
tombe puniche con dentro materiali mediterranei. Anche questa potrebbe essere una prova della
precoce penetrazione da parte dei cartaginesi, già intorno al 680-650 a.C.
Olbia
É una città punica fondata nel IV a.C. ma presenta tracce più antiche. Le fonti greche e latine
(Pausania) parlano di una fondazione attribuita a genti greche guidate da Jolao. Uno dei materiali
più interessanti rinvenuti è un simulacro ligneo trovato fuori contesto nell’area di un pozzo sacro.
Negli scavi della città più volte sono venuti fuori materiali da trasporto greci: anfore ioniche, attiche,
corinzie e coppe ioniche. Tutti questi materiali facevano pensare ad una frequentazione greca della
città, ma negli ultimi 5 anni è stato trovato da Rubens D’Oriano un contesto greco integro con una
grande quantità di materiali mediterranei dell’VIII a.C. accompagnati da materiali greci di VII a.C.
L’ipotesi è che la Olbia arcaica sarebbe di fondazione mediterranea nel 740 a.C. e fino al 650 a.C.,
seguì una fase di frequentazione greca fino al 540 a.C. quando la battaglia navale di Alaria per il
controllo del Mediterraneo occidentale fra greci, etruschi e cartaginesi, combattuta nelle acque fra
Sardegna e Corsica e persa da tutti i contendenti, pone fine alla frequentazione della città. Dal IV
a.C. abbiamo molti più elementi di datazione. Forse era un emporio e l'impianto della città è
fortificato infatti fino all’Ottocento erano percorribili le mura. Le fortificazioni sono quasi del tutto
scomparse, sono visibili solo in pochi punti della città. Si tratta di muri simili a quelli di Lilibeo, con
zoccolo costruito con grandi blocchi di granito, la pietra locale, torri sporgenti e cisterne. La pianta
è trapezoidale con doppio paramento verso nord e ovest, con muro singolo verso il mare. L'area è
quella di Iscia Mariana dove Taramelli mise in luce una struttura complessa con quattro torri
quadrangolari a distanza di 58 m, una delle quali con cisterna a bagnarola. La struttura era cinta
272
con blocchi squadrati in granito a doppio paramento con distanza di 4 m: forse un corridoio
percorribile o forse un riempimento per una maggiore resistenza. Un'altra torre è stata individuata
a "idda zonedda" vicino alla stazione.
Il santuario si trova al centro della città dove c'è la chiesa di San Paolo. Essendo un tempio di
Melqart ci fa capire lo spirito con il quale Cartagine fondò le città. Nello scavo del 1939 sono stati
rinvenuti grossi blocchi squadrati, non certo di una abitazione, e si pensò ad una struttura pubblica.
Rubens Doriano ha individuato un accesso monumentale, un pavimento a ciottoli e altre strutture
che evidenziano un tempio punico con blocchi isodomi in granito, cementati con malta pozzolana.
Il tempio era dedicato a Eracle per la presenza di un frammento fittile, forse una maschera. Una
equipe di subacquei ha recuperato nel 1990 una testa cava del II a.C. rappresentante Eracle, con
la leontè sul capo. È stata riferita ad ambiente di elìte romana che riusciva a far arrivare da Roma
manufatti di fattura elevata. Il manufatto a maschera non è altro che un elemento della testa
recuperata. Quindi un tempio di Melqart (Eracle romano) del IV a.C., molto recente dunque. Per
Rubens Doriano c'è un richiamo alle divinità della prima fondazione con spirito coloniale di
Cartagine. Melqart era protettore delle fondazioni in aree non controllate direttamente dalla città
fondatrice. Gli ultimi scavi evidenziano una città datata dal IV a.C, non sono documentati strati più
antichi. In sintesi notiamo una progettazione fatta a tavolino con impianto regolare simile a Lilibeo.
Le necropoli sono tre: Funtana Noa, Abba Noa e Joanne Canu. Sono in due aree distinte ma
probabilmente era un’unica grande necropoli che l'urbanizzazione ha diviso. Fu scavata da Doro
Levi, dal 1936 al 1940, quando vennero portate alla luce ben 150 tombe. La maggior parte sono
tombe a camera con modulo d’accesso a pozzo, ma in alcuni casi presentano alcuni gradini alla
base e dei banconi dentro le camere, esattamente come molte tombe africane. Questo dimostra
che la fondazione di Olbia fu resa possibile dalla presenza di coloni venuti dall’Africa che hanno
portato le loro tradizioni. Sono documentate anche tombe a camera con pozzo senza riseghe ma
con gradini alla base come quella di Soùsse, a sud della Tunisia. Ci sono anche banconi di tipo
tunisino-libico per la deposizione del corredo. Il sistema di chiusura delle tombe è rappresentato da
muretti costruiti con anfore capovolte da trasporto messe in verticale come quelle che troviamo nei
siti tombali nord-tunisini. Quindi un rapporto strettissimo con la madrepatria africana. Troviamo
anche delle tombe a fossa con riseghe tagliate a diverse altezze oppure delle scalette tagliate su
un lato che non sono documentate in altre aree della Sardegna. La pratica funeraria più diffusa nel
IV a.C., oltre ai primi due tipi, è quella a cassone. Nel III a.C. si diffonde il rito dell’incinerazione,
praticata in tombe a cista e a fossa, che sono però più numerose. Per i materiali preziosi abbiamo
la collana di Funtana Noa del 350 a.C. che presenta una tecnica particolare: in età punica si usava
la tecnica dove la pasta di vetro era applicata sul nucleo di argilla cruda apposto su un bastoncino.
Sul nucleo, inserito nella pasta di vetro fuso, venivano realizzati i particolari con una pinzetta
applicando gli elementi quando erano caldi. Al raffreddamento si eliminava il nucleo e quindi nella
parte posteriore si vedono le tracce dei fori. Erano più preziosi dell’oro ed erano prodotti in varie
aree mediterranee e puniche. C'era uniformità di produzione in base al tempo e contemporaneità
in varie zone, praticamente delle mode. Erano trasportati per il commercio anche in ambito celtico.
273
Fig. 96 Tunisia, Tomba a Soùsse
274
Capitolo IX
Rapporti commerciali e temporali nel mondo antico
Scambio, merce, valore
L’area dei paesi prospicienti il Mediterraneo, è stata sin dall’antichità estremamente importante
come sorgente di tutta una serie di materie prime oggetto di coltivazione mineraria, che sono state
una delle basi di sviluppo delle civiltà. La storia delle miniere coincide con la storia delle civiltà
umane, non solo nell’area dei paesi che si affacciano direttamente sul Mediterraneo, ma anche di
quelli che con questi commerciavano, consentendone lo sviluppo sia economico che politico e
culturale.
La disponibilità delle risorse minerarie è stata una delle prime motivazioni dei commerci e delle
migrazioni dei popoli, in particolare da quando iniziò l’età dei metalli, la cui utilizzazione è stata il
motore dell’incremento delle tecnologie e delle conoscenze sui materiali. Tuttavia, mineralizzazioni
fonti di materie prime, anche geograficamente lontane tra di loro, possono presentarsi non solo di
aspetto simile, ma esserlo anche dal punto di vista mineralogico e geochimico. Inoltre, al fatto che
alcune delle loro caratteristiche possono cambiare durante il processo di fabbricazione, cioè nel
passaggio da materie prime a manufatti, si deve aggiungere anche la necessità che avevano molti
popoli alla miscelazione di metalli non solo di diversa natura per la composizione delle leghe,
(come rame e stagno per produrre il bronzo), ma anche dello stesso tipo per riciclare ad altro uso
degli oggetti non più utilizzabili. Nell’intraprendere la descrizione delle risorse minerarie del bacino
del Mediterraneo, è importante comunque effettuare una prima distinzione, e cioè tra risorse
minerarie come vengono considerate oggi, e risorse minerarie che potevano essere considerate e
sfruttate dagli antichi. Questa distinzione è assolutamente cruciale per qualsiasi si studio sulle
provenienze, dal momento che non deve essere considerato solo il metallo in sé stesso, ma il suo
modo di presentarsi, la sua reperibilità e la facilità di coltivazione ed estrazione. Per quello che
riguarda il rame le maggiori concentrazioni economiche di rame nell’antichità erano presenti nelle
zone di Cipro e della Sardegna.
Un problema a parte, ancora oggi estremamente dibattuto, è l’eventuale presenza di quantità
economiche, nelle aree prospicienti il Mediterraneo, di minerali di stagno, che rappresenta l’altra
componente necessaria alla fabbricazione del bronzo. Stagno è comunque presente nell’intorno di
Spagna e Portogallo, oltre che nei già ben noti distretti della Bretagna e della Cornovaglia. La
presenza di stagno in Toscana, (mineralizzazioni di Monte Valerio), ed in Sardegna è comunque
estremamente limitata per consentire estrazioni continuate nel tempo e finalizzate alla produzione
di grandi quantità di bronzo. I metalli hanno giocato un ruolo rilevante nello sviluppo della civiltà,
tanto da potersi ritenere che la storia della metallurgia e quella della civiltà siano direttamente
interconnesse: la lavorazione dei metalli, infatti, influenza direttamente l'evolversi di un dato gruppo
umano essendo legata alla produzione di armi, strumenti agricoli, oggetti di culto e della vita di tutti
i giorni.
275
E’ l'incontro tra genti che raccolgono frutti diversi o cacciano differenti animali a creare le condizioni
per uno scambio occasionale. Il baratto e il commercio si sviluppano in regioni a prodotti
differenziati, in cui macchia e spiaggia, foresta e pianura, montagna e vallata si offrono
vicendevolmente prodotti nuovi incoraggiando scambi reciproci.
Il commercio è poco sviluppato quando le condizioni della zona sono cosi uniformi che non c'è
ragione che un distretto scambi beni con un altro. L'origine dello scambio va ricercata, dunque, al
di fuori dell'unità sociale primitiva. Predominano, in una fase primitiva, l'aiuto reciproco e la
cooperazione del lavoro, che escludono lo scambio. Il servizio di ciascuno alla comunità è stabilito
sulla base dell'uso: muta con l'età, il sesso e il grado di parentela. Ma è indipendente dalla ricerca
di una controprestazione che costituisce, invece, la caratteristica essenziale dello scambio. I popoli
che conoscono male la natura, le origini, le condizioni di produzione, l'uso esatto di un prodotto
che ricevono “in cambio” di un altro prodotto, si lasciano governare dall'arbitrio, dal capriccio o dal
caso nella determinazione di questo scambio.
Lo scambio può derivare sia dalla comparsa fortuita di un sovra-prodotto sia da una crisi brusca
dell'economia primitiva, (carestia). In ambedue i casi, il gruppo primitivo che conosce l'esistenza
dei gruppi vicini cercherà di stabilire rapporti di scambio sia con mezzi di rapina sia con mezzi
pacifici. L'incontro di due surplus occasionali, diversi per qualità naturali, per utilità, per valore
d'uso, crea le condizioni più normali di un'operazione di scambio.
Quando un gruppo primitivo dispone regolarmente di un surplus di un prodotto qualsiasi, dopo aver
soddisfatto i suoi bisogni di consumo, inizia una serie di operazioni di scambio più o meno regolari.
La determinazione di rigide regole di scambio non è che il punto di arrivo di una lunga transizione
che parte da una situazione in cui lo scambio sporadico viene praticato senza una misura esatta.
Ai due modi di rifornimento di prodotti esteri, (lo scambio e la guerra), corrispondono presso i
gruppi primitivi due forme transitorie di scambio: il dono cerimoniale e il baratto silenzioso. I contatti
tra gruppi primitivi non sono quasi mai tra gruppi di forze eguali. Implicano relazioni al limite
dell'ostilità e l'esperienza insegna ai gruppi più deboli che è preferibile fuggire all'avvicinarsi di
stranieri temibili. Insegna a questi ultimi che decimando gruppi più deboli, di cui si desiderino i
prodotti, si rischia di perdere ogni possibilità di procurarseli. Così si stabiliscono rapporti di scambio
regolati convenzionalmente che vengono designati col termine di baratto silenzioso. Il gruppo più
debole depone i prodotti destinati allo scambio in un luogo deserto e sparisce finché l'altra parte
non abbia lasciato i suoi prodotti nello stesso luogo. All'interno di un popolo in una prima fase
mancano i rapporti di scambio.
Il cibo e altri oggetti di prima necessità non vengono scambiati, ma divisi. Esistono doni e regali,
(oggetti preziosi, talismani, ornamenti), che vengono convenzionalmente contraccambiati senza
che si effettui un calcolo preciso di equivalenza. Ma quando i gruppi si allargano e si diffondono su
di un territorio troppo largo per poter essere amministrato sotto una direzione comune, si scindono
in tronconi. Lo scambio di regali, si istituzionalizza, si ripete periodicamente in modo cerimoniale e
si regolarizza. Il cerimoniale esprime rapporti di
interdipendenza materiale reale tra questi
sottogruppi, l'uno non potendo sussistere senza l'aiuto dell'altro. La pratica dello scambio
cerimoniale può superare i limiti di una tribù ed estendersi. Esprime uno sforzo per stabilizzare
276
rapporti pacifici di cooperazione.
Quando i rapporti cerimoniali di scambio di regali e di baratto silenzioso si moltiplicano e si
regolarizzano, elementi sempre più numerosi di misura, di calcolo dei regali scambiati si
introducono nella comunità allo scopo di mantenere l'equilibrio economico. Nella maggior parte dei
casi la misura esatta della controprestazione, ha una funzione preponderante. Le equivalenze
sono persino istituzionalizzate, come appare dal codice di Ammurabi.
Lo scambio sviluppato risulta dall'incontro non più di due surplus fortuiti, ma di un surplus abituale
con altri prodotti. Sia il baratto silenzioso sia il dono cerimoniale possono assumere la forma dello
scambio sviluppato. Nella società primitiva, in cui l'artigiano non ha ancora acquistato la sua
autonomia, può apparire una specializzazione in ragione di particolarità specifiche in un territorio
dato. La tribù che abita un tale territorio può dedicarsi in gran parte alla produzione di questa
specialità e apparire di fronte alle tribù vicine come uno specialista collettivo. Essa produrrà un
surplus considerevole del bene in questione e lo scambierà con i prodotti particolari delle altre
tribù. La preistoria indica che gli strumenti di lavoro e gli ornamenti sono i primi prodotti suscettibili
di partire in grande quantità da un dato centro di produzione attraverso operazioni di scambio
sviluppato. Già nell'epoca della pietra scheggiata erano state organizzate vere e proprie officine di
strumenti di pietra.
Con il progresso della produttività del lavoro e la costituzione di piccoli surplus regolari presso
numerose tribù e popolazioni vicine, questo sistema di specializzazione regionale può allargarsi in
una rete regolare di scambi. Per ciascuna tribù la fabbricazione dei prodotti speciali non
rappresenta che un'attività secondaria della vita economica. Quest'ultima resta essenzialmente
basata sulla raccolta, sulla caccia, sulla pesca e sull’agricoltura, cioè sulla sussistenza. Coloro che
oggi fabbricano vasi, domani devono partire per la caccia o lavorare la terra, se la tribù vuol evitare
di soccombere alla carestia.
Con la rivoluzione neolitica, lo sviluppo dell'agricoltura e la costituzione di surplus permanenti
creano la possibilità di uno scambio costante con i popoli che non dispongano ancora di tali
surplus: lo scambio entra in una nuova fase. Gli scambi abbracciano l'insieme dei prodotti di tutta
una regione: fanno la loro comparsa dei mercati locali. Nessun villaggio è più completamente
indipendente da un apporto di prodotto esterni. Numerose comunità dispongono di un surplus di
beni come alimenti, vasi, stuoie o strumenti di legno che, tramite numerosi mercati locali, arrivano
a compratori di altre comunità.
La comunità ben di rado soddisfa tutti i suoi bisogni e il sistema di scambio generalizzato coincide
con gli inizi dell'artigianato professionale. Gli artigiani che abbandonano sempre più il lavoro
agricolo ricevono la sussistenza come ricompensa dei loro servizi. Lo scambio all'interno del
villaggio o della tribù resta dunque rudimentale. Alcuni artigiani ricevono annualmente dalla
comunità del villaggio una certa quantità di cibo, di oggetti di vestiario e di ornamenti come
ricompensa del loro lavoro globale; altri sono aiutati dai membri della tribù nel lavoro effettuato sui
campi. In entrambi i casi, non si tratta di uno scambio in senso stretto.
Lo scambio generalizzato tra villaggi, tribù, popolazioni diverse si effettua in modo più o meno
collettivo tramite gli stessi produttori, tramite una parte della comunità, (le donne), o tramite i
277
rappresentanti della comunità. Non costituisce ancora di per sé un’attività economica specializzata:
dovunque un'industria fosse organizzata in piccole unità artigianali e le merci fossero fabbricate in
piccole quantità o su ordinazione, i produttori e i consumatori potevano trattare reciprocamente
senza l'intervento di un commerciante. Non solo il fabbro o il vasaio del villaggio, ma anche il
macellaio o il fornaio delle città si vendevano reciprocamente i loro prodotti. Questa situazione si
modifica con la rivoluzione metallurgica. I primi metalli che l’uomo seppe utilizzare, il rame e lo
stagno, non si trovano in tutti i paesi, e soprattutto non in quelli che, grazie all'agricoltura mediante
irrigazione, videro il primo fiorire della civiltà.
Le miniere sono localizzate in regioni ben definite soprattutto in zone montagnose e per acquistare
questi minerali, i popoli agricoli che disponevano di surplus di viveri, di tecniche e di tempo
sufficienti, dovevano andare a cercarli dove si trovavano. Lo scambio su grandi distanze non
poteva più essere una attività complementare accanto all'artigianato e all'agricoltura. Si era
prodotta una nuova divisione del lavoro, la pratica dello scambio si era separata dalle altre attività
economiche: era nato il commercio. Presso i popoli primitivi, la rivoluzione metallurgica fa
coincidere la comparsa dell'artigianato professionale con la generalizzazione degli scambi.
I primi artigiani completamente distaccati dai lavori agricoli sono probabilmente fabbri viaggianti.
Presso alcuni popoli la rivoluzione metallurgica, rendendo autonomo il commercio, lo separa
definitivamente dall'artigianato. Sin dal Rame, il commercio si sviluppa particolarmente nella prima
civiltà predinastica egiziana; nella prima civiltà cosiddetta prediluviana in Mesopotamia; nella più
antica civiltà scoperta nella località di Troia nell'Asia Minore; nella civiltà cretese-micenea in
Grecia. Si può ipotizzare che il commercio fu inventato contemporaneamente all’aratro, nello
stesso momento in cui si verificano nell’agricoltura i notevoli cambiamenti determinati dalla
rivoluzione metallurgica.
Con il Bronzo, lo sviluppo dei rapporti commerciali diventa la condizione pregiudiziale per
l'utilizzazione produttiva delle conoscenze tecniche. I giacimenti di rame e di stagno disponibili in
quell'epoca hanno dato il via agli scambi professionali fra i popoli mediterranei che si dedicavano
alla fabbricazione di oggetti di bronzo. Dall’India alla Scandinavia, c'erano infatti solo quattro
regioni in cui si potessero trovare simultaneamente questi due metalli, cioè il Caucaso, la Boemia,
la Spagna e la Cornovaglia. L’Età del Bronzo non è nata in nessuna di queste quattro regioni. I
popoli che hanno presieduto al suo sviluppo, per ottenere questi preziosi metalli dovettero
organizzare vaste spedizioni commerciali; a meno che non fossero spedizioni periodiche di
brigantaggio, come quelle che sottomisero all'Egitto della seconda dinastia le miniere della
penisola del Sinai.
Il carro a ruote e la nave a vela sono invenzioni che datano almeno al Bronzo Antico e
accompagnano i progressi della civiltà in tutto il mondo antico. Carovane regolari collegano l'Egitto
alla Mesopotamia attraverso la penisola del Sinai, la Palestina e la Siria, collegano la Mesopotamia
all'India attraverso l'Iran, la parte settentrionale dell'Afghanistan e la valle dell'Indo, vaste relazioni
commerciali vengono allacciate tra il Mar Baltico e il Mediterraneo, tra la valle del Danubio, la
pianura della Pannonia e le isole britanniche. Quando il commercio internazionale si stabilizza e
diviene pacifico, resta tuttavia un affare di Stato e all'inizio è praticato per il tramite di commercianti
278
funzionari. Un porto-deposito neutrale assicurerebbe l'incontro tra due nazioni.
La produzione delle società primitive è essenzialmente una produzione per soddisfare i bisogni
della propria comunità. Ciò si verifica per i popoli che raccolgono ancora il loro cibo come per quelli
che già lo producono nel senso proprio del termine. I primi imperi costruiti sulla base
dell'agricoltura con irrigazione non presentano caratteristiche economiche diverse da queste. I re o
i preti che centralizzano i surplus, li utilizzano per soddisfare i loro bisogni o i bisogni di tutta la
comunità. È significativo che il re di Babilonia fosse chiamato nelle iscrizioni ufficiali “Contadino di
Babilonia”, “Pastore d'uomini”, “Irrigatore dei campi”. In Egitto, faraone e amministrazione
governativa erano designati con il termine Pr’o, (grande casa). In Cina, uno degli imperatori
leggendari che avrebbero fondato la nazione viene chiamato Heu-tsi, (principe-miglio).
Con l'artigianato autonomo fa la sua comparsa una produzione di tipo nuovo. I produttori,
contadini-artigiani che vivono in seno alla comunità di villaggio, portano sul mercato solo il surplus
della loro produzione, cioè ciò che rimane una volta soddisfatti i bisogni delle loro famiglie e della
comunità. L'artigiano specialista staccato da una comunità, il fabbro o il vasaio viaggiante, non
produce più valori d'uso per soddisfare i propri bisogni. Il complesso della sua produzione è
destinato allo scambio. In cambio dei prodotti del suo lavoro egli otterrà i mezzi di sussistenza, gli
abiti e altro, per soddisfare i suoi bisogni e quelli della sua famiglia.
Chi produce essenzialmente prodotti destinati a soddisfare i propri bisogni o quelli della sua
comunità, trae sostentamento dai prodotti del proprio lavoro. Nella produzione di merci questa
unità è spezzata. Il produttore di merci non vive più direttamente dei prodotti del suo lavoro; al
contrario, non può sostentarsi che a condizione di disfarsi di questi prodotti. Questi primi artigiani si
recano al domicilio dei clienti e ricevono da loro la materia prima per la produzione. Lo stesso
accade nella maggior parte delle società durante il primo sviluppo della produzione di merci:
particolarmente in Egitto e in Cina.
Quando l'artigiano diventa professionale, i contadini e il resto degli artigiani possono continuare a
vivere per secoli come produttori di beni per la propria comunità, scambieranno solo piccoli surplus
della loro produzione per acquistare le poche merci di cui hanno bisogno. Il commercio all’esterno
si limita sulle prime ai metalli e agli ornamenti, (prodotti di lusso), più o meno riservati allo Stato,
(re, principi, tempio). Ma l'invenzione della ruota per i carri permette di sfruttare il principio di
rotazione nella tecnica dei vasi. Il tornio del vasaio è il primo strumento che consenta la
“fabbricazione in serie” di merci esclusivamente destinate al commercio.
Necessità economica è il bisogno di ottenere un maggiore surplus di prodotti allo scopo di
acquistare, con lo scambio, beni necessari al buon andamento della società. Necessità sociale è
quella che costringe a rinunciare regolarmente a un surplus a favore di un potere centralizzatore,
sia nell'interesse della comunità, (per eseguire lavori di irrigazione), sia in seguito a una conquista
che imponga con la forza un simile tributo. Le due necessità possono d'altronde combinarsi. In una
comunità dal momento in cui si stabilisce una divisione del lavoro, l'apporto comunitario di ogni
produttore deve essere misurabile con un criterio comune. Altrimenti la cooperazione del lavoro
tenderebbe a disgregarsi con lo stabilirsi di gruppi che si trovano in condizioni favorevoli e di altri in
condizioni sfavorevoli.
279
Questa misura comune d'organizzazione non può essere che l'economia del tempo di lavoro.
Bisogna che la comunità stabilisca un bilancio del tempo di lavoro disponibile e lo suddivida tra i
settori essenziali. Nell'economia del villaggio il principio di scambio sono le giornate di lavoro degli
uomini. Ciò richiede un libro di conti per confrontare i giorni e gli uomini al lavoro, il numero di
giornate di lavoro fornite. I contadini che ordinano una lancia al fabbro, (che a sua volta è
contadino e fabbro), lavorano sulla terra del fabbro per il tempo in cui quest'ultimo lavora alla
lancia. Lavoro e prodotti del lavoro dettano le regole di organizzazione della vita economica.
Il valore d'uso di una merce dipende dall'insieme delle sue qualità fisiche, che ne determinano
l'utilità. L'esistenza di questo valore d'uso è una condizione indispensabile per la comparsa del
valore di scambio: nessuno, infatti, accetterebbe in cambio del suo prodotto una merce senza
utilità, senza valore d'uso per nessuno. Ma il valore d'uso di due merci, espresso nelle qualità
fisiche, è incommensurabile; non si può misurare con un'unità comune il peso del grano, la
lunghezza della tela, il volume dei vasi, il colore dei fiori. Per consentire uno scambio reciproco tra
questi prodotti, bisogna cercare una qualità comune a tutti che possa al tempo stesso essere
misurata e quantitativamente espressa, e che deve essere una qualità sociale, accettabile per tutti
i membri della società.
Ora, l'insieme delle qualità fisiche delle merci che stabiliscono il loro valore d'uso è determinato dal
lavoro specifico che le ha prodotte: il lavoro del tessitore determina le dimensioni, la finezza, il
peso della tela; il lavoro del vasaio la resistenza, la forma, i colori del vaso. E’ la durata del tempo
di lavoro necessario per produrre la merce che determina la misura del valore di scambio.
Solo quando il commercio e la vita urbana hanno raggiunto un certo grado di sviluppo, quando
hanno creato un mercato sufficientemente ampio, la produzione di merci si sviluppa e a sua volta
si generalizza. Questa produzione di merci effettuata da artigiani, proprietari dei loro mezzi di
produzione, (strumenti di lavoro), è definita piccola produzione
mercantile. Nella piccola
produzione mercantile, il produttore si separa dai suoi prodotti solo per acquistare i viveri che gli
assicureranno la sussistenza.
Più la produzione di merci si estende e più diviene imperiosa la contabilità esatta in ore di lavoro.
Non è il numero di ore di lavoro effettivamente spese per la fabbricazione di un oggetto a
determinarne il valore, ma il numero di ore di lavoro necessarie per fabbricarlo nelle condizioni
medie di produttività della società dell'epoca. I produttori poco capaci, lenti, che lavorano con
metodi arcaici, sono penalizzati. Essi ricevono in cambio del tempo di lavoro individualmente
fornito alla società solo un equivalente prodotto in un lasso di tempo inferiore. Una maggiore
disciplina e una più stretta contabilità del lavoro accompagnano cosi lo sviluppo della produzione di
merci. Ciascun produttore, nei limiti della sua forza fisica e della sua capacità produttiva, (strumenti
di lavoro), può produrre quanto vuole. Questi produttori non producono più valori d'uso per il
consumo di una comunità chiusa; ora producono merci per un mercato più o meno ampio. Se un
artigiano produce più tela di quanto non possa assorbirne il mercato della sua società, una parte
della sua produzione resterà invenduta, non scambiata, il che dimostrerà che ha sprecato tempo.
Questo spreco, in una società coscientemente coordinata, sarebbe stato stabilito a priori dai
costumi o dai commenti degli altri membri della comunità. Sul mercato, la legge del valore lo rivela
280
solo a posteriori, per disgrazia del produttore che non riceverà equivalente per una parte del suo
sforzo, dei suoi prodotti. All'inizio dell'epoca della produzione di merci, nelle corporazioni
dell'antichità, regole fisse, note a tutti, stabilivano contemporaneamente il tempo di lavoro da
dedicare alla fabbricazione di ogni oggetto, la durata dell'apprendistato, le sue spese e
l'equivalente normale da domandare per ciascuna merce.
Divisione cronologica delle ere in Europa
Nell’Europa centrale e nell’Italia settentrionale, si passò all’uso del rame ottenuto per smelting di
minerali tipo Fahlerz, la cui riduzione consentiva di produrre un rame con piccole percentuali di
antimonio, arsenico, argento e nichel, che sommandosi davano l’effetto di una lega e quindi una
maggiore durezza. Ad esempio, l’ascia a margini rialzati scoperta nella palafitta più antica del
Lavagnone, la stessa in cui è venuto alla luce l’aratro, è stata fabbricata con questo tipo di rame.
Verso il 1900 a.C. si osserva la comparsa e poi la rapida diffusione della lega di rame e stagno in
gran parte dell’Europa. Il bronzo era già noto da molto tempo nel Vicino Oriente ma la sua
produzione era sempre stata piuttosto limitata e aveva coesistito con l’uso del rame puro e della
lega di rame e arsenico. A partire dagli inizi del II millennio a.C. anche nel Vicino Oriente, così
come nell’Egeo e in Grecia, la diffusione della lega di rame e stagno si generalizza e soppianta le
precedenti forme di metallurgia.
A cosa sia dovuto questo fenomeno non sappiamo bene,
specialmente perché rimane un problema irrisolto la precisa provenienza dello stagno durante il II
millennio a.C. Lo stagno, infatti, è un metallo particolarmente raro.
Fino a tutto il XVIII a.C. lo stagno utilizzato nelle civiltà del Vicino Oriente arrivava da est,
probabilmente dall’Afghanistan, lo stesso paese da cui proveniva il lapislazzuli. Durante il I
millennio a.C., cioè nel Ferro, e poi anche in età romana, lo stagno proveniva dalle regioni
atlantiche, (Cornovaglia, Bretagna, Galizia), come è attestato sia da fonti antiche sia dalla
documentazione archeologica. Secondo una vecchia tesi, la scoperta della lega rame-stagno in
Europa è avvenuta nella regione dell’Erzgebirge, dove ci sono depositi di stannite e cassiterite.
Mancano, tuttavia, prove archeologiche del loro sfruttamento in età preistorica. Al contrario dello
stagno il rame era ampiamente diffuso e importanti giacimenti si trovavano in Irlanda, in Inghilterra,
nella penisola iberica, in Toscana, nella Slovacchia, in Transilvania e nei Balcani. Per molte di
queste regioni si hanno prove archeologiche dello sfruttamento avvenuto nel Bronzo o nel Ferro,
ad esempio per le miniere di calcopirite di Cabrières presso Montpellier, di Mount Gabriel in
Irlanda, delle Colline Metallifere in Toscana.
Importanti erano sicuramente i giacimenti di rame dell’Erzgebirge in Sassonia, ma le miniere
dell’età del Bronzo meglio conosciute sono quelle delle Alpi Orientali. Nella zona di Mühlbach
Bischofshofen l’ampia documentazione archeologica della miniera del Mitterberg ha permesso di
ricostruire le tecniche estrattive, i processi del trattamento del minerale per ridurre il rame e perfino
di effettuare stime sulla quantità di rame prodotto in un anno (circa 20 tonnellate), il numero dei
lavoratori impiegati, (180), e le dimensioni del disboscamento operato per alimentare le fornaci, (8
ettari all’anno).
281
Al Mitterberg le gallerie venivano scavate in lieve pendenza fino a raggiungere una lunghezza
massima di 160 m. Per sfruttare le vene di pirite di rame si utilizzava il metodo del fuoco, che
facilitava la disgregazione della roccia. Per favorire la ventilazione e la fuoriuscita del fumo, oltre
che per raccogliere l’acqua sul fondo, venivano scavate, partendo da un primo pozzo, due gallerie
che si congiungevano verso il fondo e la galleria inferiore veniva provvista di un’armatura di legno.
Numerose località con concentrazioni di scorie di separazione di materiale e resti di fornaci per la
riduzione del metallo sono note nel Trentino e nell’Alto Adige, ad esempio sull’altopiano del
Lavarone e di Luserna, al passo Redebus, a Kurtatsch. Quasi certamente da qui proveniva il rame
utilizzato dagli abitati palafitticoli del Garda e da quelli terramaricoli della pianura Padana. Verso il
2000-1900 a.C. si diffondono i primi oggetti di bronzo, in genere con una bassa percentuale di
stagno, ma nelle ultime fasi del Bronzo Antico il bronzo standard, con un tenore di stagno variabile
dall' 8 al 12%, è già diventato di uso comune. Se all’inizio la percentuale di stagno può subire
oscillazioni anche forti, in seguito la composizione dei manufatti diventa molto omogenea e varia
soltanto a seconda dei tipi di oggetti che si vogliono fabbricare. Ad esempio nell’area palafitticoloterramaricola si conoscono leghe iperstannifere per alcuni oggetti come spilloni e pendagli; in
questo caso la maggiore percentuale di stagno aveva lo scopo di aumentare la fluidità della lega
per facilitare la colata nello stampo.
Verso la fine del Bronzo Medio e nel Bronzo Recente diventa frequente l’aggiunta di piombo alla
lega, probabilmente allo scopo di risparmiare stagno. Agli inizi del Bronzo Antico l’uso del bronzo
appare abbastanza limitato. Come nel Rame, il metallo è ancora una materia preziosa e un
simbolo di prestigio sociale, ma senza una reale incidenza sul mondo della produzione primaria.
Nel giro di pochi secoli, la produzione del Bronzo si intensifica e si diversifica fino a divenire, nel
Bronzo Recente, completamente integrato nella vita quotidiana e nell’economia, riducendo sempre
più l’uso della pietra e della selce. La gamma dei manufatti si amplia in modo considerevole:
spilloni, pendagli, armille, braccialetti, anelli, orecchini, rasoi, pinzette, pugnali, alabarde, spade,
elmi, coltelli, cuspidi di lancia, punte di freccia; armi, teste di fiocina; asce da lavoro e da battaglia,
falci, roncole, lesine, punteruoli, seghe, lime, scalpelli, raspe, martelli e incudini.
Nel XIII a.C. compare, grazie ai contatti con il mondo miceneo, la tecnica della laminatura del
bronzo per fabbricare vasi come situle, tazze, colini, placche da cintura, schinieri, corazze, scudi.
La diffusa presenza di matrici e attrezzi per la lavorazione dei metalli negli abitati di regioni del tutto
prive di risorse minerarie come le pianure alluvionali, ad esempio la pianura padana, dimostra che
la produzione dei manufatti avveniva localmente, ma la materia prima, il rame e lo stagno,
dovevano essere importati.
La capillare diffusione e l’importanza assunta dalla metallurgia presuppongono, quindi, un’attiva ed
efficiente rete di scambi a breve e lunga distanza. Il rame circolava sotto forme diverse a seconda
dei periodi e delle cerchie artigianali. Durante il Bronzo Antico nell’Europa centrale i lingotti
avevano la forma di piccole barre con le estremità ricurve, (Rippenbarren), diffuse soprattutto in
Boemia, Baviera meridionale e Svevia, oppure di collari a capi aperti e arrotolati, (Torques), diffusi
in grandissimo numero specialmente in Moravia, nell’Austria inferiore, lungo i corsi dell’Elba e
dell’Oder e in Baviera, oppure di bipenni con un piccolo foro mediano, diffuse dalla Sassonia alla
282
Renania.
In Italia durante il Bronzo Antico-Medio il rame circola sotto forma di piccoli pani a focaccia, del
peso variante da 400 a 600 grammi, o di barrette quadrangolari. A partire dal XIII secolo a.C.
diventa generale l’uso di pani di forma circolare e sezione piano-convessa, del diametro di 20-26
cm. e del peso di 6-9 kg. Un altro tipo di lingotto, che si ritrova in Sardegna, nella regione alpina e
nell’Italia centro-settentrionale durante il Bronzo Finale, è il pane a piccone o lingot-saumon.
Nelle regioni mediterranee centro-orientali tra il XVI e il XII a.C. il rame è commerciato sotto forma
di lingotti a pelle di bue. Quelli più antichi, del XVI e XV a.C., sono noti soltanto a Creta, nell’Egeo
e in Asia Minore, quelli più recenti hanno una maggiore diffusione, essendo stati scoperti in Siria, a
Cipro, in Asia Minore, in Grecia, in Sicilia e in Sardegna. Si ritiene che il centro di produzione di
questi lingotti fosse Cipro, dal cui nome deriva la parola rame in molte lingue europee.
Sulla provenienza dello stagno durante il Bronzo non si sono ancora raggiunte conclusioni sicure.
Certamente a partire dal Bronzo Finale, come poi per tutto il Ferro e anche all’epoca dell’impero
romano, lo stagno proveniva dalle regioni atlantiche, (Cornovaglia, Bretagna, Galizia). Si accentua
a partire dal Bronzo Medio, come dimostra la composizione dei ripostigli e dei resti di fonderia
scoperti in molti abitati sia palafitticoli, come la Lugana Vecchia
presso Sirmione, che
terramaricoli, come Castellarano in provincia di Reggio Emilia.
La posizione sociale del fabbro nella società europea del Bronzo è stata oggetto di accese
discussioni. Senza dubbio in questo periodo il fabbro è l'unico artigiano che in virtù della sua alta
specializzazione lavora a tempo pieno e non può essere coinvolto nella produzione primaria. Nei
periodi più antichi, i fabbri erano certamente itineranti e prestavano la loro opera presso diverse
comunità, a volte anche molto distanti l'una dall'altra, e ciò è evidenziato dagli evidenti rapporti
tecnologici e stilistici esistenti tra le varie cerchie metallurgiche europee e al loro interno, (padana,
italica, centro-europea, atlantica, nordica, danubiana, baltica). In un periodo più recente, che ha
inizio in momenti diversi a seconda delle regioni, il fabbro diventa un artigiano inserito stabilmente
nella comunità per cui lavora, anche se il fenomeno dell'artigiano metallurgo ambulante non
scomparirà mai del tutto. Questo passaggio sembra adombrato in alcuni miti del mondo classico.
Esistevano, nella mitologia greca, comunità di diversi, circondate da un alone di magia e di
mistero, come i Chalibi del Mar Nero, i Cabiri, i Dattili Idei a Creta, in cui possiamo riconoscere la
diversità socio-culturale, e in una certa misura anche l'emarginazione, dei più antichi artigiani del
metallo. Il mito di Efesto-Vulcano, il dio delle arti metallurgiche, che inizialmente non abitava
stabilmente nell'Olimpo insieme agli altri dei, ma vi fu ammesso soltanto in un secondo tempo,
sembra riflettere l'evoluzione della posizione sociale del fabbro preistorico. Il progresso di
integrazione nella comunità nell'area palafitticola benacense ha avuto inizio forse fin dal Bronzo
Recente. Il ritrovamento di migliaia di oggetti di bronzo nelle palafitte di Peschiera sembra, infatti,
presupporre l'esistenza di officine ormai stabili.
Gli strumenti di lavoro del fabbro del Bronzo erano innanzitutto il crogiuolo, il mantice per ventilare
la fornace, la forma di fusione, l'incudine e il martello per battere il metallo, punzoni e scalpellini per
le decorazioni. I crogiuoli si rivengono frequentemente negli abitati e hanno forma ovale e differenti
dimensioni, in rapporto con la predeterminazione della quantità di bronzo da utilizzare per i diversi
283
tipi di oggetti da fondere. Il manufatto indizio di attività metallurgica che si scopre più
frequentemente negli abitati del Bronzo è il tuyer, l'ugello in terracotta dei mantici. Se ne
conoscono due gruppi: il primo, di forma conica e di piccole dimensioni, lunghezza massima 14
cm, si trova negli abitati del Bronzo Antico e Medio, il secondo ha una forma a corno e maggiori
dimensioni, fino a 30 cm di lunghezza, ed appare per la prima volta nel Bronzo Recente negli
abitati terramaricoli dell'area padana.
Una pittura murale della tomba di Rekhmire, visir di Tebe sotto Thutmosis III, (1504-1450 a.C.), e
Amenhotep II, (1450-1426 a.C.), illustra il funzionamento degli augelli del primo tipo: servivano per
i mantici di piccole fornaci all'aperto. Gli augelli del secondo gruppo documentano uno sviluppo
tecnico legato a fornaci a fossa o a camera, capaci di raggiungere temperature più elevate. La
comparsa dei grossi lingotti a sezione piano-convessa a partire dal Bronzo Recente probabilmente
è da porre in relazione con l'adozione di forni di questo nuovo tipo, che con un solo carico
permettevano di ottenere una maggiore quantità di metallo rispetto ai periodi precedenti grazie
alla temperatura più elevata e più costante che si riusciva a ottenere.
Nel periodo compreso tra la fine del III millennio a.C. e gli ultimi secoli del I, in Europa centrale,
nell'area padana e danubiana-carpatica, si verificano una serie di fenomeni di ordine tecnologico,
economico e sociale: lo sviluppo della metallurgia, (prima del bronzo e poi del ferro), e il formarsi di
"società complesse", ossia il verificarsi di differenziazioni sociali stabili che consentono di definire
tale epoca come protostoria. All'inizio di questi duemila anni l'Europa e l'Italia sono popolate da
piccole comunità di villaggio, per lo più instabili e prive di una stratificazione sociale consolidata,
mentre alla conclusione sono costellate da città e stati e caratterizzate da società articolate in
classi.
L' Europa di quell'epoca ebbe contatti con le società del Vicino Oriente e del Mediterraneo, in cui
livello civile e forme di organizzazione sociale erano totalmente diversi: questi contatti dovettero
offrire occasioni di confronto, esercitando un effetto di stimolo alla trasformazione. Di queste
comunità che si sono succedute nel tempo abbiamo testimonianza soprattutto attraverso i resti
materiali rinvenuti negli abitati, nei sepolcreti ed in altri tipi di deposizione per seppellimento
volontario: ripostigli e deposizioni cultuali. Talvolta, ma solo per il periodo più recente, abbiamo
notizie indirettamente da fonti scritte prodotte presso genti che conoscevano la scrittura e che
erano entrate in contatto con esse.
A partire dall'inizio del II millennio a.C. la produzione metallurgica assume una dimensione
quantitativa, (in alcune parti d'Europa fino a decuplicarsi), e qualitativa mai conosciuta prima. Un
tale sviluppo implica una notevole accumulazione di conoscenze tecnologiche e di capacità
professionali.
Gli oggetti fabbricati durante questo periodo erano in prevalenza beni di prestigio in bronzo, rivolti
a nuovi ceti emergenti. La creazione di una lega resistente e di facile lavorazione, (il bronzo),
determinò la produzione su larga scala di oggetti metallici di differenti classi e ebbe come
conseguenza una serie di miglioramenti economico-sociali quali il potenziamento dell'agricoltura,
attraverso l'uso di attrezzi metallici, l'incremento demografico e la creazione di riserve di ricchezza
da distribuire attraverso il commercio. Questo periodo segna, dunque, una tappa fondamentale
284
nella storia europea.
Uno dei centri più attivi dell'estrazione dei minerali cupriferi e della metallurgia era il territorio alpino
orientale intorno alle miniere di rame del Salisburghese, (Austria), sicuramente sfruttate sin dal
1800-1600 a.C., (Bronzo Antico). Questi luoghi di approvvigionamento e lavorazione del bronzo
divennero punti di incontro di genti di varia provenienza. A partire da questo stesso momento, si
verificano due fattori nuovi: in un certo numero di corredi funebri incominciano a ricorrere in modo
costante regolari combinazioni di oggetti di prestigio spesso di metallo e di fattura tecnicamente
complessa. Da quanto si può dedurre dai sepolcreti, la presenza di alcuni oggetti di corredo
particolarmente rari consente di riconoscere alcune figure eminenti, in particolare emergono alcuni
elementi maschili, contraddistinti come guerrieri. Le stesse categorie di oggetti di prestigio in
metallo come pugnali, alabarde, asce, collari, braccialetti e ornamenti, gruppi di oggetti offerti alle
divinità ritualmente sepolte, attestano forme di accumulazione di ricchezza che ora si affianca a
quella tradizionale costituita dal bestiame. Una terza categoria di rinvenimenti i cui i beni di
prestigio si trovano però singolarmente è quella delle deposizioni cultuali, per le quali il significato
di offerta alla divinità è evidenziato dalla scelta del luogo, (corsi e specchi d'acqua, vette dei monti,
valichi, voragini, anfratti rocciosi).
Le comunità all'interno delle quali avveniva questo processo di differenziazione sociale avevano
dimensioni ridotte, erano piccoli gruppi, dell'ordine di varie decine di individui, legati da rapporti di
parentela e aggregati in villaggi sparsi sul territorio. Sebbene queste comunità praticassero una
agricoltura piuttosto avanzata, basata sull'uso dell'aratro, i loro stanziamenti non possono ancora
considerarsi stabili. Nei sepolcreti europei ed italiani di questo periodo si colgono diverse modalità
di seppellimento e di organizzazione dello spazio: una unica tomba, o un piccolo gruppo di tombe
a carattere monumentale, aggregarsi di nuclei attorno a tombe di personaggi eminenti o gruppi di
maggior spicco. Ciò sembra rispecchiare aggregazioni per discendenza o per differenze di rango.
Nelle pratiche di culto sopravvivono i culti in grotta o presso sorgenti con semplici offerte e iniziano,
secondo una concezione diversa, deposizioni cultuali di oggetti di prestigio. A partire dagli inizi del
Bronzo in Europa comincia a moltiplicarsi il numero degli abitati stabili. Le aree che per prime
videro una continuità di stanziamento furono quelle sud-orientali della penisola balcanica, del
bacino danubiano-carpatico e del sud est della Spagna. In Italia è documentato particolarmente
nella pianura Padana nell'area di Polada.
A partire dal Bronzo Medio si verificano profondi cambiamenti nell'assetto demografico, economico
e sociale delle comunità. Queste si fanno più popolose, dell'ordine di centinaia di individui e più
stabili, cioè più sedentarie: sono frequenti gli stanziamenti che durano diversi secoli. Queste
comunità ci appaiono strutturate su base territoriale. I corredi delle necropoli denotano una
differenziazione sociale ed economica meno vistosa.
Anche la produzione metallurgica cambia carattere: accanto alle armi e agli ornamenti hanno
sempre più importanza gli utensili e gli strumenti di lavoro. In Europa compare al passaggio tra
Bronzo Antico e Bronzo Medio la falce messoria in bronzo che sostituisce quella lignea con
armatura in selce.
Nello stesso periodo si assiste in alcune aree dell'Europa, soprattutto nella parte settentrionale,
285
alla suddivisione di vaste superfici di terreno in piccoli appezzamenti di forma quadrangolare,
estese fino a un ettaro, delimitate da argini o terrazzamenti. Gli abitati presentano un tessuto
insediativo a "scacchiera" con reticolo viario ad assi paralleli. Questi abitati dunque sono costruiti
secondo una pianificazione precisa: sono provvisti di infrastrutture come fortificazioni a terrapieno
e fossati. Certamente hanno comportato un investimento di lavoro consistente, tale da coinvolgere
l'intera comunità.
Il rituale funebre, nel quale prevale in Europa il costume crematorio, sembra rivelare un sistema di
rapporti sociali in cui ciò che conta è la collocazione e la funzione sociale svolta all'interno della
comunità. Alcuni studiosi considerano che in questo periodo la terra sia di proprietà comune e
venga assegnata a rotazione degli appezzamenti di terreno agricolo alle singole famiglie, come è
attestato nelle società arcaiche e barbariche d'Europa. Secondo questo modello anche
l'approvvigionamento dei minerali metalliferi era garantito dalla comunità, (tribù), stessa. La
produzione notevolmente aumentata e l'intensa circolazione da una comunità all'altra di manufatti
implica che alcune persone dovevano essere impegnate a tempo pieno alla lavorazione dei
metalli. Le tracce di lavorazione del bronzo negli insediamenti sono pressoché generalizzate e la
circolazione di metallo grezzo, (pani, lingotti, rottami), suddiviso secondo sistemi ponderali, è molto
ampia.
Nel nuovo assetto sociale il ceto dei guerrieri dominanti si trova al centro di un sistema di forze più
complesso. L'importanza delle élites guerriere durante questi secoli è testimoniata dal grande
sviluppo delle tecnologie militari, come la comparsa della spada e dalla sua evoluzione da arma da
punta ad arma da fendente, o come la diffusione del combattimento a cavallo e su carri a due
ruote e al diffondersi della lancia sia da getto, sia impugnata come arma da punta. Un indizio va
riconosciuto anche nella tendenza a costruire sempre più imponenti fortificazioni degli abitati.
Queste élites controllavano anche lo scambio tra comunità di materiale grezzo, ma anche
manufatti di prestigio. In questo periodo aumenta il numero di ripostigli, (insieme di manufatti rotti,
pani e lingotti). Indipendentemente dalla loro interpretazione, (seppellimento per motivi di sicurezza
o rituale deposizione di offerte alle divinità), i ripostigli sono il risultato di un processo di
accumulazione di riserve di ricchezza il cui proprietario sarà la comunità stessa.
Nelle manifestazioni religiose tende a scomparire la concezione "terrena" della divinità e si
affermano invece gradualmente delle pratiche che collocano il divino in una sfera separata e lo
fanno oggetto di offerte analoghe a quelle che competono ad una figura socialmente eminente. Nel
Bronzo Medio dell'Italia settentrionale si distinguono quattro aree archeologicamente distinte:
quella transpadana centro-orientale, (Lombardia, orientale, Trentino-Alto Adige e Veneto); quella
"terramaricola", (Emilia centro-occidentale, bassa lombarda e veneta), quella nord-orientale, (FriuliVenezia Giulia, parte della Slovenia e della Croazia), quella nord-occidentale, (Lombardia a ovest
dell'Adda,
Piemonte
e
Liguria).
Con
il
Bronzo
Medio
il
processo
di
stabilizzazione
dell'insediamento, che era iniziato in Italia nell'area centro-orientale e in Sicilia nel periodo
precedente, si estende a tutto il resto d'Italia. Aumenta i numero degli abitati su altura in aree
collinari e montane, nelle aree di pianura, in particolare nella Pianura Padana, sorgono, in tempi
diversi, abitati cinti da fortificazioni.
286
Il numero degli insediamenti diminuisce e aumenta la loro estensione: forse ciò rispecchia una
concentrazione della popolazione in alcuni siti. La densità di popolazione negli abitati viene stimata
in una media di 100 persone per ettaro. Il fatto nuovo è l'estensione delle colture agricole nelle
zone collinari con la diffusione dell'arboricoltura, (fico, melo, pero, noce, olivo e vite vinifera).
Riguardo l'allevamento non ci sono dati per distinguere allevamento stanziale, pastorizia, alpeggio
e transumanza. Sulla base dei resti ossei rinvenuti sappiamo che in pianura le principali specie
allevate si equivalgono con una lieve prevalenza del bue; nell'Appennino emiliano-romagnolo
prevalgono capro-ovini e nelle Alpi centrali sono dominanti capro-ovini e scarso è il maiale.
L'Italia in questo periodo è divisa in due ambiti di gusto: l'Italia settentrionale sembra legata, specie
nella produzione metallica, all'Europa centrale e danubiana, quella centro-meridionale sviluppa
nella produzione ceramica, nella fase avanzata del Bronzo Medio, uno stile proprio denominato
"appenninico".
In questo periodo l'Italia settentrionale è ancora divisa in quattro aree archeologicamente
differenziate come nell'epoca precedente. L'Europa centrale è caratterizzata dalla presenza di una
"frontiera culturale" che la taglia da nord a sud, dividendo una zona a nord-ovest delle Alpi,
gravitante maggiormente verso l'Europa occidentale, e una zona a nord-est delle Alpi, legata
all'area danubiano-carpatica. Tale frontiera divide in due anche l'Italia settentrionale. L'elemento
unificante è rappresentato dalla produzione metallurgica. Le sfere metallurgiche occidentale e
orientale costituiscono due aspetti di una medesima unità, la Koinè metallurgica che unisce
l'Europa e il Mediterraneo. Le fogge sono assai simili, spesso tipi identici di spade, armi, fibule,
spilloni, utensili denunciano una circolazione vastissima di modelli e di prodotti dal mediterraneo
alla Scandinavia, dalla Transilvania all'Atlantico. Si assiste ad un grande processo di osmosi. Un
aspetto di questo processo è costituito dalla presenza di ceramica micenea, (sia di produzione che
di imitazione), che risale la penisola fino ad arrivare nell'area transpadana centro-orientale lungo la
valle dell'Adige.
Un altro aspetto è la diffusione di fogge vascolari della facies sub-appenninica centro-meridionale
sia nell'area terramaricola che in quella centro-orientale. Con il Bronzo Recente si completa quel
processo di omologazione dell'economia verso forme organizzate iniziata nel Bronzo Medio:
marginalizzazione della caccia, pesca, raccolta, evoluzione graduale di alcune specie di animali
domestici attraverso forme di allevamento più stanziali. Aumenta il numero di insediamenti.
Nella produzione artigianale si va verso una standardizzazione nella realizzazione di modelli: nel
campo della metallurgia si generalizza la fusione in serie a scapito di tecniche e risultati raffinati
precedenti. In Italia ed in Europa si afferma una nuova produzione di oggetti: viene introdotto il
coltello evoluzione del pugnale, e vengono prodotti oggetti di ornamenti in vetro. Ē un periodo
contraddistinto da una intensa circolazione di cose, persone e idee. Sono sintomi in questo senso
le ceramiche di importazione e i traffici a lunga distanza anche per via marittima. Anche nella
produzione ceramica la circolazione di oggetti e persone è un fenomeno talmente generalizzato da
lasciare poco spazio a differenziazioni locali. La sfera metallurgica assume dimensioni continentali.
A partire dal Bronzo Recente i ripostigli sono caratterizzati da una straordinaria eterogeneità dagli
oggetti sia interi che frammentari: armi da offesa, armi da difesa in lamina, oggetti di ornamento e
287
di abbigliamento, utensili, lingotti e pani, (in particolare a piccone), forme di fusione. Per i
frammenti intenzionali di pani e asce ed altri oggetti è stata avanzata l'ipotesi che si tratti di
elementi con funzione pre-monetale, anche se i materiali potevano essere frammentati per
facilitarne la rifusione, come conferma la rispondenza a precisi valori ponderali. Potevano essere
usati anche come mezzi di scambio. Ē probabile che in questo periodo l'artigiano dipendesse da
un capo locale. Si può supporre che l'emergere dei ceti dell'aristocrazia gentilizia abbia portato alla
formazione di nuovi e più complessi rapporti di produzione: attorno ai gruppi gentilizi si formavano
delle aggregazioni di tipo clientelare. In molte aree dell'Italia continentale prevale il rito della
cremazione. Si estende dunque una concezione sacrificale del rito crematorio: deporre sulla pira
un defunto vestito dei suoi ornamenti e accessori rivela l'idea della consacrazione alla divinità. Le
raffigurazioni ornitomorfe sia sul motivo della barca solare sia isolate in coppia o in serie sono
molto diffuse in questo periodo. Probabilmente sono il simbolo di tramite tra la divinità celeste e
l'uomo. La divinità quindi ora è collocata nell'ambito celeste e atmosferico o comunque verso
l'alto. Anche le deposizioni cultuali di oggetti di bronzo nei corsi o specchi d'acqua rientrano nelle
manifestazioni di religiosità dell'Europa continentale e nordica. Forse legata anche in questo caso
agli uccelli acquatici. Non è facile invece interpretare la sfera di appartenenza del culto dell'arma, o
meglio dell'ascia rappresentata in molte categorie di oggetti, (incisioni rupestri, amuleti, modellini,
decorazioni di vasi), forse legata al fulmine e legata ad una divinità maschile. Alla sfera terrestre e
biologica invece rimandano i simboli della protome taurina e le corna appaiate. Legato forse alla
forza virile, (compare fino al Ferro su tazze, rasoi, pendagli, ornamenti delle travature delle urne a
capanna). Questi oggetti si ritrovano nelle acque, (in particolare armi nei fiumi), o su sommità di
alture: pare che il rituale sia quello dell'offerta di oggetti di prestigio e di valore simbolico,
normalmente attribuiti ad un personaggio di rango con il quale si stabilisce un vincolo di
obbligazione. La divinità viene concepita come entità immateriale, staccata dalla sfera biologica e il
bene offerto viene concepito come qualcosa di astratto. Quasi i due terzi delle deposizioni cultuali
note, si concentrano tra il Bronzo Medio e il Bronzo Recente.
Nel tardo Bronzo fra il XIII e il XII a.C. l'Europa è coinvolta in una serie di movimenti di popoli:
crollano le civiltà degli Ittiti in Asia Minore, quella dei Micenei in Grecia, Troia viene distrutta, viene
anche coinvolto l'impero egiziano. Tra il XII e l'XI a.C. l'ambito Egeo vede il formarsi di numerose
comunità locali che non gestiscono più scambi a vasto raggio e si assiste all'inizio di una grave
recessione economica e culturale. Si osserva il passaggio da una società tribale ad assetto
territoriale a quella gentilizio-clientelare, anche se questo è stato un fenomeno molto variabile a
seconda degli ambiti storico-geografici interessati. Si va da uno spazio di poche generazioni, (un
secolo o due), in Italia meridionale ad una serie di secoli in certe zone d'Europa, (anche un
millennio). Il motivo di questa differenza sta nel fatto che fu caratterizzato da dinamiche di parziale
dissoluzione o degrado delle vecchie strutture sociali.
La comparsa di élites dominanti e la presenza di tensioni antagonistiche all'interno della società ha
dato origine a gruppi legati da rapporti di consanguineità, (le gentes), che erano aggregazioni
gerarchiche di famiglie cellulari. Attorno a ciascun gruppo veniva a formarsi un seguito che aveva
dei rapporti di dipendenza di tipo clientelare, fondati su servigi sia economici che militari forniti in
288
posizione subalterna in cambio di protezione o prestigio sociale. Questa struttura sociale si coglie
bene nelle necropoli, che risultano articolate in grandi aggregati tra loro omologhi, al centro dei
quali si trova un nucleo più significativo.
La produzione e la circolazione di beni di prestigio e molte manifestazioni di culto accomunavano
in cerchie più estese i ceti aristocratici di diverse comunità. Si formarono delle entità federali. Lo
sviluppo dell'artigianato, svolto in officine centralizzate, vide il potenziamento della produzione di
beni di prestigio, destinato a circolare all'interno della comunità o nella sfera comune degli
aristocratici.
Nel Bronzo Finale in Italia settentrionale si sviluppa la facies "proto-villanoviana". Restano
estranee tre facies: quella di Luco, (Tirolo, Svizzera Orientale e Trentino-Alto Adige), quella di
S.Canziano e Leme, (Slovenia e Istria) e quella dei Castellieri carsici-istriani. Nell'area
transpadana vi sono tre facies metallurgiche: occidentale, centrale e orientale in cui sono inseriti il
Friuli e la fascia della pianura veneta. Nell'Italia del Nord si assiste ad un abbandono generalizzato
degli abitati.
In questo periodo vengono introdotte nuove tecniche di allevamento, più selettive: in alcune specie
domestiche si nota un notevole miglioramento sia da un punto di vista qualitativo delle razze, sia
per quanto riguarda la taglia. Il commercio nel Bronzo Finale mantiene una notevole vitalità:
accanto ad alcuni manufatti di circolazione molto ampia, ve ne sono altri importati a distanze minori
all'interno dello stesso ambito culturale. Per quanto riguarda la ceramica, troviamo su tutto il
territorio italiano le stesse forme vascolari, gli stessi motivi decorativi eseguiti con le stesse
tecniche, (stile "proto-villanoviano).
Nella metallurgia si attenua la koiné metallurgica: le diverse cerchie di officine tendono a formare
circuiti chiusi che si traducono in vere e proprie facies metallurgiche regionali. Nell'accumulazione
della ricchezza, sotto forma di metallo, si verifica un profondo cambiamento: in Italia centro
settentrionale vi sono ancora ripostigli con materiali eterogenei, in Italia meridionale si riduce il
numero delle classi di oggetti, fino ad arrivare a comprendere solo asce. Nelle necropoli del nord
Italia e della fascia medio-adriatica si colgono delle differenziazioni dei corredi funebri per rango e
per ricchezza: sono composte da piccoli nuclei, uniformi ciascuno al proprio interno e nettamente
contrapposti fra loro. In Italia centro-meridionale vi sono tombe a inumazione e tombe collettive a
camera, o piccoli nuclei di inumazioni individuali con ricchi corredi, spesso caratterizzate dalla
presenza di armi. Il numero dei siti si riduce e si ingrandiscono le unità territoriali rimaste. Nello
stesso comprensorio naturale si addensano più siti tra loro complementari, strategicamente e
economicamente. Le fonti letterarie antiche che si riferiscono all'Italia protostorica, fanno
riferimento a leghe o entità federali, spesso facenti capo ad un santuario, che raggruppano entità
politiche minori, (la lega Latina e il santuario sul Monte Cavo). L'incinerazione diviene in Italia il rito
funebre esclusivo, tranne in poche aree del centro-sud. Nel Bronzo Finale si è pienamente
compiuto il processo di identificazione della divinità con la sfera celeste, che prende il posto di
quella terrestre. Si moltiplicano sia le raffigurazioni ornitomorfe, sia del sole, talvolta incorporate nel
motivo della barca o del carro solare. Continuano intanto le deposizioni cultuali sulle vette delle
montagne e negli specchi d'acqua.
289