Un indigesto ricettario del dolore

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Un indigesto ricettario del dolore
La cosa che odio di più del Brotzu sono i negretti ai parcheggi, quelli che ti assillano continuamente
con la loro mercanzia. Poi detesto quella fottuta e lunghissima rampa che devi percorrere, sotto il
sole, per poter raggiungere l’atrio d’ingresso dell’ospedale. E mi prende malissimo anche il fatto
che chirurgia generale, lì dove è ricoverato quel balordo de Il serbo, si trovi al fottutissimo settimo
piano. Santa merda, se ci penso bene, odio tutto di questo cazzo di ospedale. Se potessi, minerei
questa maledetta costruzione e la farei saltare per aria: addio Brotzu, anzi, vaffanculo.
Sto aspettando da un’eternità, insieme ad alcuni civili che mi osservano intimoriti, che l’ascensore
finisca la sua discesa e sia disponibile a caricarmi. Intanto, alle mie spalle, odo un gioviale
buongiorno Tore. Voltandomi mi ritrovo di fronte uno dei nostri spazzini che, sigaretta spenta in
mano, sembra intenzionato ad andare all’esterno per fumarsi la paglia. Anna, che ultimamente
sembra preferire la strategia prevenire è meglio che curare, non se la deve essere sentita di lasciare
incustodito un casino ambulante delle proporzioni de Il serbo senza prendere le dovute precauzioni,
quindi ha sguinzagliato gli spazzini per l’ospedale, in modo che se il suo sicario numero uno
combinasse qualche cazzata, sia già presente in loco chi pulisce.
Ad ogni modo, anche se un po’ stretto, sono riuscito ad entrare nell’ascensore e ad arrivare di fronte
alla porta della stanza numero tre, lì dove soggiorna io mio caro amichetto che durante uno dei suoi
giochetti erotici è finito con l’aprire il fuoco contro il proprio buco del culo. Spalanco la porta e lo
trovo, come al solito, solo nella stanza, con le chiappe all’insù mentre con un’espressione sognante
tra il benedetto dal signore e il mentecatto borderline segue un gioco a premi alla televisione.
Gli dico che denoto come lo stiano sfondando ancora di antidolorifici. Lui sorride, con la parte
destra della faccia schiacciata sul cuscino e mi segue con gli occhi mentre poggio sul suo comodino
di latta una busta piena di riviste d’enigmistica. Borbotta che spera ci sia anche qualche rivista
porno in mezzo a tutta quella cartaccia. La sedia scricchiola maledettamente mentre mi siedo e gli
rispondo candidamente che in mezzo alle pagine de La settimana enigmistica troverà una rivista
porno omosessuale.
Ringrazia e mi domanda come faccia un vegano ad ingrassare come sto facendo io. Me lo domando
da un paio di mesi, cazzo se me lo domando, ma non riesco proprio a darmi una risposta.
Faccio finta di non aver sentito il suo interrogativo e, a mia volta, gli chiedo che ci trovi di
divertente nelle riviste porno per mezzi uomini. Sonnolento risponde che, rispetto alle puttane, nelle
pagine di quelle riviste vede amore, non solo sesso. Lo osservo perplesso mentre lo informo di
come essersi fatto un secondo buco del culo lo ha reso più sentimentale del solito.
Sorridendo come uno scemo, allunga il braccio con il pugno chiuso verso di me. Gli batto il pugno
con il mio e gli chiedo se qualcuno lo abbia informato delle novità. Ritirando il braccio sotto il
cuscino, parla del fatto che gli dispiaccia di come Anna abbia incaricato me della missione Brutale
Animal Liberation Front, soprattutto perché, essendo l’unico che va a trovarlo, si ritroverà solo per
tutta la degenza. Gli dico che è proprio per questo che gli ho portato un po’ di riviste d’enigmistica.
Poi, gli chiedo se sappia del reintegro di Davide tra le fila della divisione intelligence.
Gli si dipinge in viso una gran smorfia divertita che mi fa capire che non era a conoscenza della
cosa. Sospira un sentito peccato, e prosegue dicendo che lo divertiva tanto sentire dei tentativi di
quelli della compagnia assaltatori di cercare di fargliela pagare per la storia della Pfizer.
Quei coglioni dei sottoposti di Grande Puffo volevano farsi vendetta da soli per i quattordici
compagni che Davide ha fatto brillare insieme ad un palazzo della Pfizer, volevano infiltrarsi a casa
sua e seccarlo. Sono riusciti ad entrargli in casa, questo è vero, ma peccato che Davide sia un vero
bastardo e li abbia beccati prima che loro riuscissero a fregare lui. Dentro ad un cassonetto li hanno
ritrovati, con i tendini degli arti inferiori tagliati in modo tale da rendere impossibile anche il solo
pensiero di una ricostruzione chirurgica. Fregati per sempre.
Il serbo è interessato a sapere se a Davide, per informarlo del reintegro, gli hanno inviato una
raccomandata o se qualcuno è stato così fesso da provare a suonare al campanello di casa Bullone.
E qui la storia si fa divertente: Anna ha chiesto a Patatone, un malato mentale – non c’è altro modo
di definirlo – arruolato sotto la quarta divisione di Milos, di andare a dare comunicazione a Davide
dall’avvenuto rientro in forze. Patatone è Patatone, un pezzo di pane, un bonaccione con un perenne
sorrisone da andicappato in faccia ma forte come un toro e armato fino di denti: nessuno avrebbe il
coraggio di fargli del male, e per questa ragione Anna lo ha trovato il più adatto a tale scopo. Ma sta
di fatto che Grande Puffo ha chiesto ad Anna di lasciare a lui il piacere di questa missione.
E a sentire questo Il serbo emette un suono di disgusto. Commenta dicendo che il Puffo codardo
faceva prima a rimanere nascosto dietro ai suoi inutili discorsi di cameratismo e onore, che lo sanno
tutti che si caga addosso perché gli mancano pochi anni alla pensione. Il serbo, sempre sbuffando,
scommette che Davide gli deve per forza aver fatto un culo così.
Capisco il discorso de Il serbo, Grande Puffo è uno dei pochi comandanti di Anna che ha tutto da
perdere nell’entrare nel rischiosissimo campo nemico: moglie, figli, un nipote e una liquidazione
milionaria. Davide, come me, come Milos e per certi versi come Il serbo non ha nulla da perdere.
Abbiamo già perso tutto da tempo, e quindi siamo temibili. Però, ciò che rende Grande Puffo la
merda con la emme maiuscola agli occhi de Il serbo, è quel suo modo di giudicare le azioni degli
altri, soprattutto quelle di Davide. Noi dei reparti speciali, solitamente, entriamo in azione,
massacriamo, giriamo il filmino e svaniamo in mezza giornata - quando la missione ha delle
complicazioni, una giornata massimo due. Ma gli addetti allo spionaggio, gli infiltrati come Davide
stanno davanti agli occhi del nemico per giorni, settimane, addirittura mesi, sempre in pericolo,
sempre soli. E’ normale, quindi, che si creino delle vie di fuga nelle quali, l’unica cosa che conta, è
uscirne i più indenni possibile.
Ad ogni modo, rispondo alla precedente affermazione de Il Serbo, quella per la quale Davide deve
aver rotto il culo al Puffo, dicendogli che non c’è arrivato, che il coraggioso Puffo ha preferito
lasciargli sotto la porta di casa la missiva dell’ufficio del personale. In definitiva, la famosa vendetta
della compagnia assaltatori contro il bastardissimo Bullone non si è mai compiuta.
Il serbo sbuffa e borbotta la parola furbo. Poi mi osserva silenzioso; trascorsi alcuni secondi si
informa sulla mia partenza. Gli rispondo che ho l’aereo alla nove, che Zeiss è già sotto casa della
tizia, della mia prima vittima. Incuriosito e visibilmente stupefatto, l’amico mi domanda come abbia
fatto così in fretta a trovare uno dei membri dei Brutale. Gli dico che, in verità, questa tizia non è
una dei Brutale, che il giorno in cui sono stati presi dalla polizia, hanno consegnato dei cani ad un
loro complice. Questo tizio, che poi è la tizia che stiamo per linciare, ha fatto la cosa super
incredibilmente intelligentissima di raggiungere i suoi amichetti in macchina, senza coprire le
targhe. Sta di fatto che a quella ora della notte quella macchina è l’unica che è passata di fronte ad
una delle telecamere di sorveglianza dell’autostrada. Quindi ottenere i dati della vettura è stato
facilissimo, come scoprire che questa era intestata ad una giovane veterinaria della zona. Questa
scema di guerra oltre che ad aver fatto la fesseria di usare la sua macchina, ha anche fatto
l’imperdonabile cazzata di mettere un cartello nel suo studio nel quale metteva a disposizione per
l’adozione quattro beagle.
Perplesso, Il serbo riassume la storia dicendo che, in pratica, si è suicidata senza nemmeno
rendersene conto. Rispondo affermativamente e lo informo di come, prima di ammazzarla, sarà
torchiata per bene in modo da farsi spifferare l’identità dei Brutale. Poi mi alzo in piedi, e concludo
la visita con qualche convenevole.
Quando lo conobbi, circa quattro anni fa, ancora lo chiamavano Zeiss: l’unico nano di merda che
per poterlo distinguere dalla vegetazione ti occorrono delle lenti di Carl Zeiss. Ma poi è successo
qualcosa. Leggenda vuole che uno dei suoi sottoposti è andato dal capo del personale a domandare
se il capo spazzino fosse in ferie o meno. Quel cretino del capo del personale, che normalmente non
ricorda nemmeno dove cazzo è messo, ha iniziato a scartabellare tutte le richieste di ferie. Dato che
non ne ha trovato, senza nemmeno rendersi conto dell’immane puttanata che stava per compiere,
risponde al sottoposto del capo spazzino che Nicolino non ha fatto nessuna richiesta di ferie. Ora,
immaginate l’ilarità di tutta l’azienda nel sapere che, non solo Dio l’ha preso per il culo infilandolo
nel corpo di un nano mediamente più basso degli altri nani, ma che per giunta persino la mamma – e
a questo punto l’operatore all’anagrafe – l’ha preso maledettamente per il culo chiamandolo
Nicolino.
E si incazza il nano! Oh mamma mia se si incazza quando lo chiami Nicolino. Ma ormai la
macchina sfotti nano si è messa in movimento e non c’è più modo di fermarla: ormai tutti lo
chiamano con il nome di battesimo.
Ma sta di fatto che adesso, l’amico Nicolino, non è incazzato come una belva per come lo chiamo,
ma perché non gli consento di scoparsi la vittima. Lei piagnucola, urla, chiede aiuto dall’angolo
buio nel quale l’abbiamo gettata da circa mezz’ora. Ha le mani legate dietro la schiena. Le gambe,
anche queste ben tese dietro la schiena, le devono richiedere un bello sforzo muscolare per non
rilassarsi e tornare in posizione naturale. Ad aiutarla a sforzarsi il più possibile, le abbiamo pettinato
i lunghi, e oggettivamente molto belli capelli in quattro ciocche che, a due a due, abbiamo poi
legato alle caviglie della giovane veterinaria. In parole povere, se lascia andare le gambe, si ritrova
con l’osso del collo in grande pericolo, ma anche a tenerle così in tensione uno non è che possa
resistere a lunghissimo.
La lasciamo urlare quanto vuole, tanto, ad occhio e croce, il posto è abbastanza sicuro e, soprattutto,
molto affascinate: dal piccolo schermo della videocamera, che sta registrando già da venti minuti, si
denota tutto il pathos che devono avere gli snuff movie fatti con stile. Siamo all’interno di uno
spazioso cavedio di un capannone in costruzione nel profondo di una zona industriale che, a questa
tarda ora, pare priva di qualsiasi forma di vita. Le mura di calcestruzzo grezzo, illuminate dalla luna
e dalle nostre torce al neon è spettacolare: un lieve pulviscolo grigio ondeggia sinuoso a pochi
millimetri dai piloni di cemento rendendo l’ambiente di uno spettrale da urlo. Sembra di essere
dentro ad uno di qui film dell’orrore degli anni settanta. Quando quelli del nucleo strategie ci hanno
indicato questo posto, ero un po’ preoccupato, ma adesso mi rendo conto che non c’è locazione
migliore dove eseguire questo genere di missione.
Nicolino, mentre fa scopa per l’ennesima volta, protesta dicendo che, se non mi avesse detto che la
tipa era vegana – cosa che deve aver scoperto mentre gli frugava la casa -, l’avrei lasciato fottere
senza problemi la tipa. Io ci rifletto qualche secondo sulla cosa, ed arrivo a due semplici e
interessanti conclusioni: la prima che la tipa, per la sua stupidità colossale, merita una morte molto
dolorosa, ma il fatto di essere vegana mi impone di consentirle almeno di morire con onore,
evitandole di ritrovarsi tra le gambe un nano maniaco sessuale; la seconda è che il popolo dei
vegani sta diventando sempre più numeroso, e a questa congettura ci arrivo grazie a questa scema
vegana che, come ricompensa, si merita almeno di morire con onore, evitandole di ritrovarsi tra le
gambe un nano maniaco sessuale. Poi rifletto sul fatto che Nicolino, se non la smette di ridermi in
faccia mentre mi fa un culo così a carte, si ritroverà a viaggiare verso la luna grazie alla propulsione
dal calcio in culo che gli sto per mollare. Nicolino sembra leggermi in faccia il nervosismo e mentre
fa le carte per l’ennesima volta, mi dice che sono l’unico stronzo che conosce tanto sfortunato al
gioco quanto in amore. E poi ulula il nome di mia figlia.
Ora, capisco che il nano di merda si voglia vendicare del fatto che non gli consento di abusare della
ragazza, ma questo cercare mia figlia così mi fa incazzare per davvero. In un attimo di cieca pazzia
spacco la cassetta di legno che usiamo come tavolino da gioco con un pugno e ringhio a Nicolino di
piantarla di cagare il cazzo se non vuole fare la stessa fine della scatola. Nicolino sogghigna e mi
dice di ricordarmi che la telecamera ci sta riprendendo e che sarà la prova di quanto sono uno
sfigato testa di cazzo. Sto per ammazzarlo quando la tipa emette un grugnito soffocato. Ci voltiamo
e la osserviamo con la testa rivolta all’indietro e il collo in spettacolare tensione.
In molti pensano che un essere umano sotto tortura non sia in grado di intendere chiaramente o di
concentrarsi adeguatamente sul mondo che lo circonda. Cazzata. Sentono tutto, sono capaci di
capire alla grande e, se stimolati adeguatamente, sono in capacissimi di tirare fuori energie che
nemmeno loro sospettano di possedere.
Sono nervosissimo per le cazzate di Nicolino e me la prendo con la tipa; le urlo di fare forza con
quei maledetti arti inferiori, che se non la pianta di fare la lavativa le sgancio un calcio in pancia che
si ritrova con lo scalpo tra le dita dei piedi. Risultato delle minacce? La tipa piagnucola come una
bambina ma riprende a dare energia ai muscoli delle gambe, riportando la testa in una posizione
accettabile.
Poi mi volto verso il nano, gli punto il dito contro e gli dico che è un coglione di merda. Non ce la
faccio a rimanere di fronte a questo stronzo di mezzo metro: mi alzo e vado verso la tipa, mi siedo
sul freddo e polveroso cemento, la fisso in quei occhi spaventati e giganteschi e le chiedo di dirmi
dei Brutale, che voglio nomi e indirizzi.
Inizia a starnazzare che conosce solo Stefano, che è sardo, che è di Sassari, che possiamo trovare il
suo numero di telefono nel cellulare sotto la voce SS. Prosegue implorandoci di liberarla, adesso, di
lasciarla andare, che lei con questa storia delle cavie non c’entra nulla.
Le domando chi mai abbia parlato di cavie. Lei sgrana gli occhi e riprende a piangere mentre, a
poco a poco, le gambe hanno ripreso a perdere forza, rimettendole in tensione i capelli e girandole il
collo. Intanto Nicolino ha frugato nella borsetta della tipa, estratto un vecchio Nokia e iniziato a
pigiare sulla tastiera. Trascorsi alcuni secondi, borbotta la parola trovato e sempre con il Nokia in
mano estrae il suo cellulare e dal ciao Mario che pronuncia direi che ha chiamato il nostro centro
informazioni.
Qualche giorno fa, quando abbiamo scoperto l’identità di questa stupida vegana, abbiamo chiesto al
nostro centro informazioni di fornirci un piccolo aggeggio che serve ad intercettare gli apparati
cellulari che sono in funzione a tot metri dall’aggeggio stesso. Qualche ora seduti in macchina di
fronte allo studio veterinario della nostra nuova amichetta e bum, ecco il numero di telefono della
cretina. Ottenuto questo, abbiamo richiesto i tabulati telefonici del traffico di quel numero nell’arco
dell’ultimo trimestre, tabulato che ora è in mano a quelli del centro informazioni.
Nicolino domanda a Mario di scartabellare i tracciati e dirgli se vede chiamate al numero salvato in
agenda sotto il nome SS. Trascorsi alcuni minuti di silenzio, Nicolino si gira verso di me e mi dice
che ci sono una decina di chiamate, sei in ingresso e quattro in uscita, dice che delle sei in ingresso,
tutte e sei provengono dalla stessa cella. Dall’identificativo di cella che hanno Mario non è ancora
in grado di dirci la posizione precisa sul territorio, ma di certo è localizzata in un punto ics di
Sassari, in Sardegna. Poi, chiudendo la conversazione e infilandosi il cellulare in tasca, mi dice che
Mario dovrebbe essere in grado di richiedere una triangolazione ed entro due giorni avere la
posizione abbastanza precisa da dove sono partite le chiamate. E conclude l’argomento pregando
che il nostro nuovo obiettivo abbia chiamato sempre da casa sua.
Sospiro e ringrazio Dio di essere riusciti ad ottenere informazioni abbastanza precise di uno dei
membri del Brutale così velocemente. Poi faccio un cenno a Nicolino e gli dico di accendere i forni.
Mi avvicino alla videocamera e ammiro quanta bellezza dona alle riprese l’accensione dei tre
fornelli che si trovano sotto una pentola in acciaio inox fiorettato da cinquecento litri – di quelle che
usano per fare la birra - già caricata con trecento litri d’acqua. Nicolino mi ha detto che i suoi per
caricare e portare quella pentola in questo cavedio hanno sofferto e adeguatamente bestemmiato la
Madonna.
Il nano mi informa di come ci vorrà un pochino prima che i tre fornelli riescano a far bollire tutta
quell’acqua. Io, intanto, finito di ammirare le riprese, prendo dei lacci di plastica dalla borsa, mi
avvicino alla vittima, le lego i piedi con i lacci e li porto a far compagnia alle mani, stringendo bene
tutto assieme. Taglio il nastro isolante che le legava i capelli alle caviglie e l’ascolto mentre, sempre
piangendo, emette dei fortissimi respiri.
Ci metto un po’ a calmare la tipa ed ad avere la sua attenzione; non che sia una cosa preoccupante,
di tempo ne ho abbastanza e ci manca ancora molto prima che l’acqua sia pronta. Ad ogni modo,
nel tanto che attendo che lei sia in grado di ascoltarmi, preparo mentalmente la conversazione, nella
quale sarà imperativo farle capire quali sono gli errori che ha commesso. Non che io sia interessato
a torturarla psicologicamente, ma trovo sempre giusto rendere chiaro ad una vittima come c’è finita
in quella scomoda situazione.
In testa ho pronto il canovaccio, ma prima di iniziare a parlare, mi soffermo a domandarmi cosa ne
penserà lo spettatore di questo lungo snuff mentre osserva un ciccione intento a farsi seghe mentali
sulla violenza insita nell’attivismo e un nano in canadese verde shocking che saltella e balla intorno
al fuoco di tre fornelli come fosse un cannibale indiano nano mentecatto. Con questo non voglio
disprezzare il mio lavoro, anzi, sia chiaro che, al di fori della quasi immancabile presenza dello
sfortunato nano di merda, i miei snuff movie sono estremamente apprezzati dal pubblico per
quell’atipico, strano e malinconico sentimentalismo che li pervade. Per dare una misura della cosa,
qualche tempo fa – circa un anno -, la non poco incazzatissima figliola di un mostruosamente ricco
emirato arabo, scoprendo quanto fosse fedifrago l’amato marito, decise di richiedere una nostra
consulenza. Oh merda! O stramaledetta merda quanto ha sofferto il povero coglione mentre durante
le torture i miei occhi grondavano di lacrime raccontando di me e di come mi hanno strappato la
piccola principessa. La cliente, non solo rimase soddisfatta, ma addirittura e letteralmente incantata
dalla potenza emotiva della pellicola, tanto da richiederci una seconda consulenza nei confronti
della suocera.
Ma tornando a me e alla veterinaria scema, ci dialogo del più e del meno per qualche minuto, ma al
preciso porco dio che normalmente pronuncio quando sto per passare da palo in frasca – dove per
frasca si intende il momento nel quale informo la vittima che sta per essere brutalizzata -, la tipa
inizia ad urlare. Sembra abbia quasi una sovraumana capacità di intendere che le cose stanno
andando sempre peggio per lei perché, se prima ci metteva una forza innaturale nel tenere le gambe
in tensione per non staccarsi da sola il collo, adesso sembra quasi Arnold Schwarzenegger mentre
cerca di liberarsi dei lacci di plastica con il solo risultato di rendere poltiglia la pelle e la carne dei
polsi. In altri casi, con altre donne, in parole povere non fosse vegana, le avrei già sganciato due o
tre pugni in faccia, ma essendo almeno normodotata in fatto di alimentazione, attendo che la pianti
di frignare. Subita da parte mia un’infinità di lacrimosi lasciami andare, lei si rinchiude in sé stessa
e inizia a piagnucolare silenziosa quasi in stato di shock. Questa inoffensiva catatonia mi consente
di iniziare un interessantissimo monologo. Con un fare molto paterno, mi siedo a pochi centimetri
dal viso inespressivo e ansimante della mia sfortunata amica, le levo con un gesto ormai a me
familiare i capelli dal viso e cercando i suoi occhi le prometto un fantastico regalo. Estraggo dalla
tasca un favoloso cento percento cioccolato fondente. Nessun additivo animale, nessun prodotto
sintetico da laboratorio: vera e propria primizia svizzera. Scartando l’ineluttabile bontà le dico di
lasciarlo sciogliere in bocca, di gustarlo lentamente. Poi, infilo il quadrato fondente nella boccuccia
della mia nuova amica e attendo. Non che succeda chissà che, semplicemente osservo il sempre
inespressivo volto della sfortunata veterinaria mentre manda a palla la salivazione nel tentativo di
sciogliere il cioccolatino.
Succede poi che, tutto d’un tratto, la mia veterinaria di fiducia sembra riacquistare un briciolo di
coscienza spostando la testa in una posizione per la quale riuscire a fissarmi con occhioni grandi
così. Capisco che questo è il momento di iniziare il mio personalissimo monologo che nella sua
introduzione suona più o meno così: ho avuto una figlia, una ragazzina, una delle tante, nulla di più.
Muovo braccia e mani nel tentativo di aiutare a rendere più chiara la descrizione: biondina, con la
faccia minuta, una testolina piccola, tanto piccina da rendere incomprensibile la presenza di occhi di
quelle dimensioni nel bel mezzo di una faccina così. Occhi grandi, luminosi, nocciola come quelli
del papà, nocciola come i miei. Poi labbra minuscole, quasi impercettibili se non coperte dal giusto
strato di rossetto. Non troppo, non tanto da sembrare una di quelle stronzette qualsiasi. Il giusto
tanto per farle ammirare, per rendere chiara la loro esistenza. Nulla di speciale, ripeto, una bellezza
comune se non arricchita con le giuste scelte cosmetiche.
Fisso la mia vittima per alcuni secondi, immobile. Ogni volta che parlo di mia figlia finisco per
perdere la capacità di discernere scelte stilistiche da esternazioni puramente emotive. Ma sta di fatto
che a riportarmi alla realtà ci sta il nano di merda che si è avvicinato a me, videocamera in mano, al
solo fine di riprendermi meglio, di dare la giusta inquadratura al momento più sentimentale dello
snuff. Ad ogni modo, cerco di tornare sul personaggio e riprendo il monologo: ho sempre saputo di
avere una figlia, santo cielo, non è possibile dimenticare la nascita della propria pargola. Però, per
motivi superiori a me e che non starò adesso a discutere, l’ho persa, l’ho lasciata portare via da me
per ben diciotto anni. Ma poi è tornata, l’ho conosciuta, l’ho amata e senza poter muovere un dito
l’ho vista ammazzata.
Solo dopo, solo finito il lungo monologo mi accorgerò che già da questa frase ho iniziato a piangere.
Lacrime lente, lunghe, di quelle che ti coprono la faccia senza che ti possa rendere minimamente
conto di essere già fottuto sia da un punto di vista emozionale che dall’altrettanto fondamentale
punto di vista psicologico.
Proseguo: Rimossa, fatta fuori, portata lontana da questa vita e da questo padre dalle persone che
considerava amiche. Da quei giovani a cui dava la massima fiducia, dai compagni di una estate. E
sai per quale ragione l’hanno accoltellata decine e decine di volte? Sai cosa ho dovuto ascoltare
come motivazione all’omicidio di mia figlia quando ho beccato i colpevoli e li ho torturati a morte?
Nessuna. Nessuna minima considerevole motivazione. Nessuna questione passionale, nessuna
testimonianza scomoda, nessuna questione di eredità. Nulla di nulla. Semplicemente, uno di quei
raptus, una di quelle contingenze che accompagnano i giovani d’oggi quando fanno una cazzata. In
parole povere: mia figlia è morta per un cazzo di nulla.
Il nano mille volte figlio di una madre tanto puttana che avrebbe meritato di essere sventrata da
decine di centinaia di cavalli nani tiene con la mano sinistra la videocamera e nella destra il pugno
stretto in segno di solidarietà. Con lenti gesti della testa mi sprona ad andare avanti; la giovane e
stupida veterinaria, invece, mi osserva sgomenta mentre mi rendo conto che ormai singhiozzo,
piango come una checca isterica il ricordo di mia figlia. Qui, oggettivamente, devo ammettere di
essere emotivamente nella merda, ma tanto che scoppio in un pianto ancora più forte, sempre più
implacabile. Grugnisco sbavando moccio e lacrime il mio senso di colpa, il mio non riuscire ad
allontanare la colpa della morte di una ragazzina da me. Lo urlo, lo soffro e lo esaspero.
Poi, dopo un lungo pianto, ritrovo me stesso ed asciugandomi le lacrimi con la camicia. Riprendo il
mio monologo interrotto anche troppe volte. Le dico: con questo voglio farti semplicemente capire
che si muore senza un senso non solo nel vostro piccolo mondo di attivismo e di criceti da salvare.
Si muore dappertutto. Lì dove passa o è passato l’uomo, c’è sempre un’alta, altissima possibilità che
si sia provocato dolore e morte. E, sempre con altissima possibilità, si è provocato tutto questo per
un beneamato capriccio, per un beneamato cazzo. Così per la morte di mia figlia, così per la morte
di decine di centinaia di animali dati in pasto all’inconcludente ricerca scientifica. Uguale: una, mia
figlia, morta per un cazzo, o volendo a tutti i costi scavare alla ricerca di un motivo, per via della
repressione di un ragazzino di merda che non sapeva come far rivalere il suo orgoglio di inutile
isolano senza speranza; l’altro, il criceto, per la repressione di un ricercatore di merda che non sa
come far rivalere il suo orgoglio di inutile scienziato del cazzo. Però, queste azioni, l’ammazzare
per nulla, può generare delle reazioni, come la mia: non sono andato dai media, come testimone, a
gridare quante ragazze sfortunate ci siano da liberare da piccoli stronzi che non hanno ancora capito
un cazzo della vita, no: ho preferito ammazzare tutti quelli che credevano che facendo una cazzata
come uccidere la mia splendida principessa se la potessero passare liscia. Tutti, cazzo, tutti li ho
sterminati, e nel dolore più atroce. Anche l’ammazzare criceti per un cazzo ha generato nei Brutale
delle reazioni, portando questi individui a compiere degli atti che dimostrassero agli allevatori che
non solo i criceti possono provare dolore, ma anche loro. In parole povere, hanno cercato di rendere
pan per focaccia a coloro che sfruttano per denaro il dolore di altre forme di vita. Però, mentre la
mia vendetta sembra non aver provocato troppi scossoni alla mia vita, il voler far soffrire gli
allevatori ha portato qualche scossone alla vita dei Brutale, poiché qualcuno degli allevamenti si è
incazzato di brutto, e adesso vuole il loro culo, e lo vuole dopo che questo ha sofferto in modo
ineguagliabile. E sai perché sono così incazzati gli allevatori da arrivare a chiamare gente come noi?
Perché reputa i Brutale dei superbi di merda. E dove sta la loro superbia? Nel pensare di sapere cosa
prova, per esempio, una foca linciata per la sua pelliccia. No cazzo, né loro né nessun altro lo può
sapere, può credere di conoscere il dolore. E sai quale è la cosa più atroce di tutta questa storia? Che
è arrivato qualcuno che ha deciso di pagare noi, gente qualificata nella tortura più atroce, per
cercare di rendervi consapevoli del dolore che prova un animale.
Dibatto sull'atrocità dell'uomo verso gli animali per altri due o tre minuti fino a quando non sento
l'inconfondibile rumore di acqua che bolle. A questo punto, mi levo di tasca un foglietto stropicciato
che altro non è che la fotocopia di una pagina di un libro di ricette che mi sono fatto prestare da
Anna ed inizio a leggere ad alta voce: L’aragosta fa parte della famiglia dei crostaceo nobili e ne
rappresenta l'eccellenza per via del suo distinguersi per la delicatezza delle sue carni; è quindi da
considerarsi tra i prodotti ittici più pregiati. E’ un crostaceo estremamente delicato e particolarmente
costoso, proprio perchè non può essere congelato e quindi deve essere immesso nel mercato e
commercializzato ancora vivo. Questo garantisce il mantenimento delle qualità alimentari del
prodotto. Infatti la maggior parte delle ricette classiche prevedono che l’aragosta venga cucinata
intera e viva.
Al pronunciare di questa frase, inizio ad intravedere un misto di confusione e di senso del pericolo
nello sguardo della donna che tuttavia rimane in silenzio a fissarmi con occhi grandi così.
Proseguo nella lettura: La cottura richiede circa venti minuti per ogni chilo di crostaceo. In una
pentola capiente portate ad ebollizione l'acqua assieme agli aromi e al sale; fate bollire per circa
venti minuti e poi aggiungete il vino.
A questa frase, secondo copione, il nano di merda la pianta di saltellare intorno alla pentola, si
allontana verso una borsa dalla quale estrae una confezione da mezzo litro di vino da cucina. Stappa
il cartone e lo versa completamente dentro il pentolone in ebollizione.
Io, intanto, riprendo: Attesi alcuni minuti, in modo che il vino si mischi completamente, buttate
nella pentola l'aragosta viva. Ricordatevi di legare la coda prima di questa operazione. Lasciatela
lessare per il tempo necessario, quello calcolato a seconda del peso. Lasciatela quindi intiepidire
immersa nel brodo. Quando si sarà raffreddata, scolatela e dividetela in due tagliandola a metà
partendo dalla testa e proseguendo fino alla coda. Tagliate la carne in tocchetti ed utilizzate il
guscio come piatto; guarnirtela con olio extravergine di oliva, aceto, sale e pepe. Servite e buon
appetito.
Appallottolo il foglio di carta, lo butto a terra e con uno sguardo serissimo dico alla mia ancora per
poco nuova amica che è tempo di morire.
Il nano ha preso la sua scaletta e mi attende con la telecamera puntata sulla bocca della pentola; io
ho sollevato di peso l’ammutolita veterinaria che deve essere in profondo stato di shock. Non ci
sono parole per descrivere le urla e il rumore dell’acqua quando l’ho buttata dentro la pentola, ma
sta di fatto che, quasi subito, mi sono voltato verso Nicolino e gli ho detto di spegnere i fornelli tra
venti minuti. Mi sono allontanato con la scusa di preparare le cesoie e l’armamentario necessario
per far a pezzi la ragazza per finire la simulazione della preparazione dell’aragosta lessa, ma sta di
fatto che in verità non me la sentivo di guardare la scena. Probabilmente sto invecchiando, ma non
sono più in grado di sopportare la vista di una ragazza che muore.
Per scolare il cadavere e farlo a pezzi ho indossato una maschera antigas: l’odore era insopportabile,
tanto che anche Nicolino ha dovuto optare per la stessa scelta. Finita la preparazione del piatto,
abbiamo ripreso il tutto da varie angolazioni per poi, finalmente, spegnere definitivamente la
telecamera. Circa tre ore di ripresa. Sospirante, mentre ripone la camera nella custodia, Nicolino mi
confessa di non sentirsi del tutto a posto, che questa operazione l’ha scosso. Gli dico di tornare in sé
e di piantarla con le cazzate, ma anche io provo le stesse sensazioni. Nicolino prendendo la
ricetrasmittente, borbotta come non invidia il lavoro che dovranno svolgere i suoi spazzini per
ripulire la zona. Con un filo di voce gli dico che concordo e raccogliendo una delle torce mi dirigo,
visibilmente turbato, verso l’automobile.