III. Gli impianti siderurgici

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III. Gli impianti siderurgici
III. Gli impianti siderurgici
1. L’applicazione dell’energia idraulica alla siderurgia in Italia e in E uropa
(secc. XII-X VII)
1.1. O RIGI NI E DIF FUSIONE DEL MUL INO DA FER RO
L’applicazione dell’energia idraulica alla siderurgia è generalmente indicata come una delle
innovazioni tecniche chiave del periodo medievale. è accertato, infatti, che in tutta Europa il
processo di riduzione del ferro basato sul metodo diretto abbia subìto una notevole evoluzione ed un
rapido aumento della produttività grazie all’uso delle ruote idrauliche nell’azionamento di magli e
mantici. Nonostante la sua importanza, però, le origini del mulino da ferro rimangono piuttosto
oscure ed è ancora ampiamente dibattuta la questione del dove e quando l’energia motrice
dell’acqua fu per la prima volta utilizzata nell’azionare alcune delle macchine coinvolte nella
produzione di oggetti in ferro. Ciò è dovuto al fatto che le prime evidenze documentarie di questa
innovazione tecnologica, oltre a provenire da aree geografiche molto distanti tra loro, sono spesso
ambigue, talvolta basate su documenti vaghi o equivoci, e quindi suggeriscono, più che provare, la
presenza di impianti di questo genere. Maggiormente chiari e probanti, come vedremo in seguito,
sono i dati provenienti da alcune indagini archeologiche: essi hanno fatto molta luce sul problema,
ma sono tuttavia ancora troppo rari per permettere un approccio ampio alla questione e qualunque
conclusione definitiva a livello europeo.
Un ulteriore problema è costituito dall’identificazione tecnica delle operazioni svolte nei siti
siderurgici dotati di impianto idraulico. La sola caratteristica comunemente espressa nei testi
medievali, infatti, è la presenza di una installazione che utilizzava l’energia dell’acqua, ma della
quale la funzione non viene quasi mai chiarita. Non riusciamo a capire, in parole semplici, se le
ruote ad acqua erano utilizzate per azionare magli oppure mantici e, nel caso di questi ultimi, se
quelli delle forge o dei focolari di riduzione1. [139] Pare assai probabile, tuttavia, che la prima
applicazione dell’energia idraulica alla siderurgia, forse soprattutto a partire dall’area dell’arco
alpino, abbia riguardato solamente i magli meccanizzati, che utilizzavano un sistema di camme
simile a quello già da tempo usato per le mazze battenti nella follatura della lana e nella lavorazione
della canapa. Soltanto più tardi sembra che sia stato adottato il più complicato sistema necessario
per i mantici idraulici2.
Alcuni degli studi classici sulla prima comparsa di macchine idrauliche nella siderurgia
1
Si vedano, a questo proposito, le osservazioni di Arnoux, 1994, p. 33.
Ibidem e Reynolds, 1983, p. 85. Si trova in Reynolds, 1985, l’ipotesi di una origine del maglio
idraulico dalla zona alpina, riguardo alla quale sappiamo che il monastero di Bellevaux nel 1119 possedeva un
moulin martin, definizione che probabilmente implica l’uso di un maglio idraulico; inoltre nella regione
mineraria della Stiria il monastero di Admont nel 1135 possedeva un molendinum unum et stanf unum, mentre
un documento analogo del 1175, dallo stesso sito, menziona un mulino ed uno stanf: sono entrambi
riferimenti interpretabili, forse, come meccanismi a pestelli per frantumare il minerale (ibidem e Forbes,
1962b, p. 70). Nelle Alpi occidentali il monastero di Saint Hugon aveva forge lungo il fiume Bens nel 1170
(ibidem).
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hanno tentato di dimostrare che questa innovazione fosse già operante, in varie parti d’Europa, a
partire almeno dagli inizi dell’XI secolo3. Tali ipotesi, tuttavia, non si basano su attestazioni sicure
dell’esistenza di mulini da ferro, ma piuttosto su indizi, talvolta contenuti in testi la cui autenticità
appare dubbia, o i cui termini sono stati letti in modo inesatto, o infine su frasi ambigue, che in
alcuni studi recenti sono state per la massima parte reinterpretate in modo tale da escludere che si
tratti di attestazioni dell’uso di mantici o magli idraulici4.
Lasciando dunque da parte tutti gli indizi di dubbia interpretazione o autenticità, la prima
allusione sicura ad un mulino da ferro risale al 1136 e riguarda la forgia del monastero cistercense
di Clairvaux: [140] si tratta di un testo di Arnaud de Bonneval che contiene la descrizione, già
citata in precedenza, della costruzione dell’abbazia5. Si passa poi ad una attestazione di fine XII,
riguardante le concessioni fatte dal vescovo Absalon di Lund al monastero cistercense di Soroe in
Svezia. Il documento originale del 1197 è andato perduto, ma conosciamo il suo contenuto grazie
ad una trascrizione del 1201 con la quale il vescovo Andreas definisce i limiti della donazione del
suo predecessore (nella quale erano compresi boschi, un corso d’acqua ed una miniera di ferro):
nelle confinazioni di tali beni rispetto a quelli appartenenti agli abitanti del villaggio di Tvaaker,
viene citato come punto di riferimento il “molendino ubi fabricatur ferrum”6. In tale contesto è di
estremo interesse notare il coinvolgimento sia dei due vescovi, entrambi membri della casa reale
danese, sia di un monastero cistercense, nella produzione di ferro probabilmente destinato
all’approvvigionamento del regno di Danimarca, cui all’epoca questi territori appartenevano. Ma
sul mulino di Tvaaker torneremo tra breve.
In area italiana l’uso dell’energia idraulica per la lavorazione dei metalli è probabilmente
attestato nel 1179 per la regione di Bergamo, ove il vescovo concede diritti d’uso di un corso
d’acqua in connessione con un forno per l’argento7; inoltre da una carta del 1214, pertinente allo
sfruttamento delle miniere argentifere del vescovo di Trento, dove vengono citate delle “rotae cum
3
Alcuni esempi: la presenza nel sud della Germania di un luogo chiamato “Smidimulni”
(schmied=fabbro, muehle= mulino) suggerirebbe l’associazione fra energia idraulica e ferro nel 1024 (White,
1967, p. 149; Gimpel, 1977, p. 14; Reynolds, 1983, p. 86); due mulini del Somersetshire censiti nel
Domesday Book del 1086, pagavano tributi sotto forma di blumi di ferro (Gille, 1960a, p. 26); per la
Catalogna documenti del 1004, 1138, 1155, 1190 mostrano la vicinanza di grandi forge con corsi d’acqua,
suggerendo l’applicazione della ruota idraulica (ivi, p. 26). Sempre in Spagna un documento che cita un
molinum fornacium potrebbe essere interpretato come indizio della presenza di un mulino da ferro (Reynolds,
1985, p. 63). Anche l’ipotesi riguardo alla possibile esistenza di mulini da ferro nell’area del Monte Amiata
(Toscana meridionale) fin dal IX sec. deve basarsi solo sull’indizio del pagamento di un censo in attrezzi di
ferro da parte di un molino nell’anno 890, cfr. Farinelli, 1996. Così come non convince del tutto l’interpretare
il termine gualciera, attestato nella documentazione amiatina di XII sec., attribuendogli il significato di
opificio metallurgico idraulico piuttosto che destinato alla lavorazione dei tessuti (ivi, p. 44). Molto
interessanti sono i documenti di seconda metà X-inizi XI sec. citati a proposito di opifici siderurgici della
zona sud dei Pirenei, che appaiono spesso in connessione con corsi d’acqua (Sancho i Planas, 1995), in attesa
dei risultati definitivi dello scavo in corso in uno di essi.
4
Braunstein, 1987, nota 35; Belhoste, 1995, p. 389: questo autore ha proposto un riesame completo ed
una reinterpretazione globale di tutti i testi precoci che vengono di solito citati a proposito della siderurgia
idraulica europea, giungendo spesso ad accettare come attestazioni sicure solo quelle contenute in testi a
partire dalla metà del XIII secolo.
5
Cfr. Cap. II, nota 90: “Alii caedebant ligna, alii lapides conquadrabant, alii muros struebant, alii
diffusis limitibus partiebantur fluvium, et extollebant saltus aquarum ad molas. Sed et fullones et pistores et
coriarii et fabri, aliique artifices, congruas aptabant suis operibus machinas, ut scaturiret et prodiret,
ubicumque opportunum esset, in omni domo subterraneis canalibus deductus rivus ultro ebulliens”. A
proposito di questo documento, si vedano anche Benoit-Cailleaux, 1991, p. 357; Verna-Benoit, 1991.
6
Karlsson, 1985, p. 62; Magnusson, 1995b, p. 33; Magnusson, 1995d.
7
Arnoux, 1994, p. 31.
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uno furno”8.
Il quadro offerto dalle poche testimonianze documentarie certe è stato recentemente ampliato
con i dati scaturiti da alcune indagini archeologiche. Gli scavi condotti a Lapphyttan (Svezia
centrale) e le indagini attualmente in corso nel già citato distretto di Tvaaker (regione di Halland,
Svezia meridionale), sembrano indicare l’area scandinava come uno dei primi luoghi in cui fu
utilizzata questa tecnologia. In particolare il caso di Tvaaker si presenta come eccezionale, per la
corrispondenza tra le indicazioni delle fonti scritte ed i risultati delle ricerche sul campo. Nel
distretto minerario di Halland sono stati individuati numerosi siti di lavorazione del ferro ed in
particolare quello di Ugglehult, che si differenzia dagli altri per la vicinanza con un torrente e la
presenza di tracce di una ruota, due canalizzazioni ed uno sbarramento per il controllo dell’acqua.
[141] Molti indizi portano a credere che si tratti di una forgia idraulica, una delle più antiche
conosciute in Europa: un campione delle scorie recuperate sul luogo, infatti, è stato datato, tramite il
radiocarbonio, al XII secolo9. A Lapphyttan è stata riportata alla luce un’area di produzione del
ferro che includeva un bacino di riserva, strutture di sbarramento ed una canalizzazione per
l’azionamento di una ruota idraulica collegata ai mantici di una fornace. Numerose analisi effettuate
sui resti di questa struttura fanno propendere per una datazione delle più antiche fasi d’uso alla fine
del XII secolo10.
Di estremo interesse sono poi i dati provenienti da una vasta indagine archeologica condotta
sul sito produttivo siderurgico legato all’attività dell’abbazia cistercense di Bordesley, in Gran
Bretagna11: lo scavo ha evidenziato un complesso sistema di controllo delle acque di un fiume
prossimo all’abbazia, mediante la creazione di canali di deviazione, canali di drenaggio, bacini di
raccolta. Il bacino principale alimentava una struttura di produzione metallurgica, più
specificamente una forgia per la produzione di piccoli oggetti sia semilavorati che finiti, la
riparazione di manufatti ed il riutilizzo del ferro di scarto. La fase più antica dell’attività siderurgica
con impiego dell’energia idraulica a Bordesley è stata datata con estrema precisione, grazie al
ritrovamento di una quantità impressionante di strutture lignee, al 1174/75 circa12. Già a questa data,
dunque, la forza motrice dell’acqua era certamente utilizzata in Inghilterra per muovere macchinari
complessi, probabilmente sia magli che mantici; ciò ha permesso di anticipare di circa 175 anni la
prima evidenza di un martinetto nell’isola (prima attestazione documentaria nel 1349), fornendo
una datazione molto più vicina alle prime citazioni inglesi di mulini a follone13.
In attesa di nuove informazioni, in particolare provenienti da scavi archeologici, il quadro
così tracciato con i pochi dati sicuri a nostra disposizione porterebbe a concludere che l’impiego
dell’energia idraulica nella siderurgia europea fosse operante almeno dagli inizi del XII secolo, con
una successiva espansione nel corso del XIII. Un ruolo preponderante nell’applicazione e nella
trasmissione delle nuove tecnologie in campo siderurgico pare sia stato svolto dai Cistercensi.
Bertrand Gille14, nel suo articolo ormai classico sulle origini del mulino da ferro, parla di una
“ipotesi cistercense”, a sottolineare il fatto che moltissimi documenti in materia siderurgica
indicano un forte coinvolgimento dell’Ordine nella produzione di ferro e tendenze monopolistiche
che ambiscono a dominare il commercio europeo di questo metallo, qualitativamente e
8
Braunstein, 1987, p. 753.
Tuttavia Braunstein fa notare che è necessaria una certa cautela nell’ipotizzare un
trasferimento di tecnologie dalla lavorazione dell’argento a quella del ferro.
9
Magnusson, 1995d.
10
Magnusson, 1994, p. 365; Magnusson, 1995b; Magnusson, 1995c, p. 65 e comunicazione personale.
11
Si veda l’edizione completa dello scavo: Astill, 1993.
12
Proprio la presenza di una enorme quantità di reperti in legno, tra i quali si annoverano i rivestimenti
dei canali di adduzione dell’acqua alla ruota e parti della ruota stessa e dei meccanismi, costituisce la
caratteristica peculiare di questo scavo e gli conferisce un carattere di eccezionalità.
13
Astill, 1993, pp. 302-303.
14
Gille, 1960a.
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quantitativamente [142]. Moltissimi atti del XII e degli inizi del XIII sec., relativi alla siderurgia di
area francese, inglese, spagnola e tedesca, sono collegati allo sfruttamento cistercense15, che dava
largo spazio all’uso dell’energia idraulica. Di tutte le concessioni per miniere in Francia, il 75%
vede l’iniziativa dei Cistercensi, in Inghilterra il 100%16. Per quanto riguarda la Francia, centro di
irradiazione dell’ordine, Catherine Verna ha evidenziato l’esistenza di una siderurgia cistercense dai
tratti peculiari, che vede l’estrazione e la lavorazione del ferro avvenire all’interno del sistema
produttivo delle grange, con accumulo di un surplus e sua vendita all’esterno17. La metallurgia
cistercense, documentata a partire dal 1140 circa, vede ben presto il coinvolgimento di numerose
abbazie, che acquistano diritti sulle miniere, i boschi, le acque, accettano qualunque giacimento di
ferro loro offerto, mettono in funzione numerose forge18.
È anche possibile che i Cistercensi siano stati chiamati da signori laici per sfruttare con le
nuove tecniche i giacimenti di ferro nelle loro signorie19, ma è soprattutto importante la tesi secondo
la quale la fondazione di certi monasteri avvenne in funzione della presenza di un giacimento. è ben
studiato il caso di Clairvaux20, che cominciò lo sfruttamento di miniere probabilmente subito dopo
la fondazione, avvenuta nel 1115, e che nel 1330 possedeva almeno 8 forge, tutte situate lungo corsi
d’acqua, e numerosi impianti di lavaggio. Lo studio del Karlsson sulla mappa delle filiazioni di
questa abbazia mostra che esse, in ogni parte d’Europa, erano in stretta connessione con miniere
conosciute di ferro21. Una ipotesi simile propone anche Astill per la provenienza del ferro lavorato
nella forgia di Bordesley: è probabile, infatti, che i blumi arrivassero da Flaxley Abbey, filiazione di
Bordesley, fondata nel 1151 entro la regione mineraria della foresta di Dean, [143] probabilmente
proprio allo scopo di sfruttarne il minerale tramite gli ampi privilegi reali ottenuti in proposito22.
Lo sfruttamento dell’energia idraulica è documentato dal progressivo spostamento di forge e
ferriere presso corsi d’acqua in luoghi anche molto lontani dai monasteri23 o spesso dalla presenza
entro i monasteri stessi di edifici di forgia e officine a forza idraulica che univano diverse attività
sotto uno stesso tetto24. L’esempio più impressionante, anche perché perfettamente conservato fino
ad oggi, è forse la forgia dell’abbazia di Fontenay, alla cui eccezionale struttura architettonica, in
connessione con l’attività metallurgica di questo monastero, recentemente è stato dedicato un vasto
ed accurato studio25. In questo stesso volume, che tratta il tema specifico dei rapporti fra ordini
monastici e sviluppo tecnologico della metallurgia in Francia, sono state in gran parte confermate e
15
Le già citate Soroe e Bordesley sono abbazie cistercensi; Chaligny sfruttava miniere nel 1161,
Byland e Rielvaux, in Inghilterra, attorno al 1143, Fountains nel 1166-1177. Loccum, in Baviera, appena
fondata, a fine XII, immediatamente sfrutta miniere e sembra quasi che il sito sia stato scelto per la presenza
di giacimenti. Waldrassen, sempre in Baviera, nei primi anni del 1300 possiede ben 7 martinetti idraulici, cfr.
Gille, 1960a, pp. 27-28. Un aggiornamento completo delle più recenti acquisizioni documentarie riguardo alla
siderurgia francese è stato proposto da Chauvin, 1991. Si vedano inoltre i dati relativi all’attività mineraria e
metallurgica delle abbazie spagnole di Moreruela e Castaneda recentemente pubblicati in Larrazabal, 1996.
16
Karlsson, 1985, p. 346; si veda anche Astill, 1993, in particolare pp. 302-303.
17
Verna, 1983.
18
Fossier, 1961; Girardot, 1970; Gimpel, 1977, pp. 67-68; Karlsson, 1985; Verna-Benoit, 1991;
Benoit, s.d.
19
Girardot, 1970, p. 16.
20
Fossier, 1961.
21
Cfr. Karlsson, 1985.
22
Astill, 1993, p. 298.
23
Gille, 1960b, a proposito delle abbazie dello Champagne; Karlsson, 1985, p. 347.
24
Si vedano gli esempi in Gille, 1960a, p. 29; Gille, 1962, pp. 660-661; Righetti Tosti-Croce, 1983, p.
116.
25
Cfr. Benoit-Cailleaux, 1991, parte III, con contributi di P. Benoit, I. Guillot, C. Deschamps, D.
Cailleaux. Si veda anche Benoit, s.d.
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rafforzate le ipotesi formulate, ormai molti anni orsono, dal Gille26: il modello cistercense è esistito
in Borgogna e Champagne, Franca-Contea, Lorena, Ardenne, Berry e conferma un ruolo
determinante nella diffusione delle prime tecniche idrauliche nella metallurgia. Il forte interesse in
questo campo dovette portare all’accumulo di un sapere tecnico specializzato che, grazie alla
struttura interna centralistica dell’Ordine, poté essere rapidamente trasmesso verso filiazioni fondate
in siti lontanissimi tra di loro. Accanto ai Cistercensi anche altri ordini monastici27 ed ordini militari28
dettero il loro contributo in questo settore quando, nel XII sec., la metallurgia del ferro cominciò il lungo processo che la
condusse a stabilirsi presso i corsi d’acqua necessari a mettere in azione i magli idraulici, prime macchine destinate
a rimpiazzare la forza umana nella fabbricazione dei metalli.
La concentrazione delle strutture siderurgiche lungo i corsi d’acqua, a partire dalla metà del
XII sec., appare essenzialmente compiuta prima della metà del XIV, periodo durante il quale le
attestazioni dell’uso dell’energia idraulica nella metallurgia del ferro si moltiplicano, mostrando una
diffusione di magli e mantici dalla Spagna alla Scandinavia, dall’Inghilterra alla Boemia.
Particolarmente studiato, ancora una volta, il caso della Francia, per la quale molto recentemente
Jean François Belhoste ha realizzato un inventario delle testimonianze documentarie datate con
sicurezza, esaminando il contesto in cui sono collocate e soprattutto il vocabolario tecnico utilizzato
per [144] designare le diverse installazioni29. Vediamo dunque dei “molina ferrea” fare la loro
comparsa a partire dal 1311 in concessioni reali in Linguadoca e nel 1300 circa nella zona dei
Pirenei30. Una “ferreria” o “fusina” idraulica è in funzione ad Arvieux nel 1311, una “fusina seu
martinetus ad ferrum faciendum” è documentata nella Svizzera francese nel 1344. Nel 1313 ben 14
forge idrauliche sono in funzione a Carcassonne31, nel 1315 gli abitanti di Allevard nel Delfinato
ricevono la concessione di costruire “fabrica, martinetus, fusina” utilizzando l’energia dell’acqua.
Una “forge per yawe” compare come installazione di tipo innovativo in Lorena nel 1323 ed una
“forge à àeawe” a Namur nel 1345. Seguono testimonianze sempre più esplicite nei loro particolari
tecnici durante la seconda metà del XIV secolo.
L’uso della forza motrice dell’acqua in edifici di forgia è documentato archeologicamente
prima della fine del XIII sec. per la Westfalia dove, grazie ad analisi al radiocarbonio ed ai resti
ceramici, una soffieria idraulica è stata datata al 1270 ca.32. In Stiria le tecnologie idrauliche sono
certamente presenti intorno al 1290, in Slesia dal 132833. In Boemia l’uso dell’energia idraulica per
azionare i magli è esplicitato in testimonianze scritte del 1344, 1390, 1399 e pare un’introduzione
recente che segna l’inizio di una nuova fase nella produzione siderurgica della regione34. Per quanto
26
Benoit-Cailleaux, 1991, p. 357.
Mordefroid, 1991.
28
Cailleaux, 1991.
29
Belhoste, 1995, pp. 386 e sgg.: a questo contributo si rimanda per le notizie riportate qui di seguito e soprattutto come
punto della situazione riguardo aglistudi editi precedentemente.
30
Il caso della contea di Foix nei Pirenei è stato in particolare studiato da Catherine Verna: le prime
installazioni siderurgiche idrauliche appaiono nelle fonti scritte attorno al 1300 e sembrano una acquisizione
recente, che succede ad una fase di equipaggiamento idraulico caratterizzato da mulini da grano e per la
follatura. Il più antico mulino da ferro è in funzione di certo tra 1300 e 1304 e in seguito i testi ci rivelano una
vera e propria esplosione di tali opifici fino al 1349. Purtroppo pochi sono i dettagli tecnici forniti dalle fonti:
ad esempio è impossibile sapere se i mantici erano azionati dalla forza idraulica già agli inizi del XIV sec.,
mentre certamente lo era il maglio (cfr. Verna, 1995, in particolare le pp. 53-54; inoltre Verna, 1996). Sempre
riguardo alla zona dei Pirenei sappiamo che in Andorra l’energia dell’acqua era utilizzata in opifici siderurgici
di XIII-XIV sec. (Solans et alii, 1995) e nei Paesi Baschi dal XIV e molto probabilmente già dal XIII sec.
(Arbide Elorza - Urcelay Urcelay, 1995; Urteaga Artigas, 1995).
31
Per questa notizia v. Arnoux, 1994, p. 31.
32
Soennecken, 1977, pp. 19 e sgg. cit. in Braunstein, 1987, p. 753.
33
Belhoste, 1995, nota 25.
34
Mihok, 1995.
27
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riguarda l’Inghilterra, abbiamo visto come i dati archeologici collochino l’introduzione di tali
tecnologie almeno alla seconda metà del XII sec.; inoltre lo scavo della struttura produttiva di
Chingley, dipendente dall’abbazia cistercense di Boxley, mostra una situazione ove è fortemente
ipotizzabile una attività di forgia con utilizzo di un maglio idraulico nella prima metà del XIV
secolo, mentre non sembrano essere in uso mantici meccanizzati35. [145]
Per l’Italia le notizie disponibili sono piuttosto scarse e frammentarie: è accertato l’impiego
dell’energia idraulica nelle ferriere liguri durante il XIII sec.36, un forno da ferro munito di
installazioni idrauliche situato a Scalve (Alpi lombarde) è descritto in una carta del 125137, un
mulino da ferro è citato in Calabria nel 127438. Nel 1282 a Brusolo in Val di Suse (Piemonte) è
documentata una “fusina” idraulica ed ancora una “fusina” a Bovegno in Val Trompia nel 131439.
Estremamente interessante, infine, è la descrizione del 1346 di “unam fossinam ab aqua pro
coquendo ferro et aliam fossinam a manu pro laborando ferrum coctum et illud bazegando, ambas
cum manticis et aliis instrumentis et feramentis necessariis”situate ad Edelo (Brescia)40: si tratta
evidentemente di un esplicito riferimento a mantici idraulici utilizzati per la riduzione del minerale.
L’impiego della forza dell’acqua per la ventilazione dei forni nelle strutture siderurgiche va
indicato come innovazione decisiva ed elemento fondamentale per la possibilità di ottenere
temperature particolarmente elevate e soprattutto per stabilire un controllo costante su queste
ultime, evitando gli sbalzi improvvisi, fatali per la buona riuscita delle operazioni. L’impiego di
mantici idraulici fu dunque certamente il fattore chiave, insieme alla struttura dei forni, per
l’introduzione di un nuovo sistema siderurgico, il cosiddetto metodo indiretto. Infatti, se per tutta
l’Antichità e buona parte del Medioevo il processo generalmente utilizzato nella lavorazione del
ferro consisteva nella riduzione diretta del minerale entro bassi fuochi41, il metodo indiretto
prevedeva una produzione sistematica, entro forni a manica o altoforni, di ghisa destinata ad essere
ulteriormente trasformata in ferro e acciaio nelle affinerie. Tale tecnica richiedeva una installazione
idraulica possente e complessa, suscettibile di muovere simultaneamente i mantici del forno, quelli
dell’affineria ed il maglio della forgia, con vincoli di localizzazione ancora più stretti, poiché
l’azionamento dei macchinari costringeva ad una collocazione lungo corsi d’acqua con portata e
salti adeguati per le ruote42. [146]
Fu forse per caso che, nei secoli medievali, durante un processo di riduzione in un basso
fuoco particolarmente ben costruito ed efficiente, fu raggiunta l’alta temperatura necessaria alla
fusione del ferro ed alla produzione di una colata di ghisa; ma ciò che potrebbe essere accaduto per
un caso fu messo in uso regolare in varie parti del continente alla fine del Medioevo43. Sulla base
35
Crossley, 1985, pp. 36-37; Cleere-Crossley, 1985, pp. 106-107: si deve tuttavia sottolineare il fatto
che lo scavo di Chingley ha provocato molte discussioni a proposito della reale consistenza della struttura
produttiva nella prima fase d’uso, a causa del disturbo provocato dagli interventi successivi.
36
Calegari, 1977.
37
Sprandel, 1968, p. 373; Menant, 1987, pp. 784-785
38
Gille, 1960a, p. 25.
39
Belhoste, 1995, p. 387.
40
Menant, 1987, nota 53.
41
V. infra note 124 e 126.
42
Per una trattazione generale delle caratteristiche del sistema, il suo diffondersi, la tipologia dei forni,
si rimanda soprattutto a Calegari, 1989; Cima, 1991b; Cima 1991a; Arnoux, 1994 ed a molti dei contributi
raccolti in Magnusson, 1995a, con le fonti e la bibliografia ivi citate; si veda anche infra note 53 e 281.
43
Cleere-Crossley, 1985, p. 219; Cima, 1991b, pp. 140 e sgg.
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degli scavi archeologici condotti negli ultimi anni a Lapphyttan in Svezia44, a Kierspe (contea di
Mark) e nel Baden-Wuerttemberg in Germania45, adesso siamo in grado di dire che nel XIII secolo
il sistema dell’altoforno con mantici idraulici per la produzione della ghisa esisteva almeno in
queste due regioni europee, dove tale tecnologia sembra essere apparsa quasi simultaneamente ed in
forme molto simili, anche se il caso svedese sembra per il momento leggermente più antico.
Ancora molti dubbi permangono invece sulle prime applicazioni del metodo indiretto in
Lombardia: l’ipotesi di Sprandel che - basandosi essenzialmente sugli indizi ricavabili dalla
terminologia utilizzata nelle fonti scritte - indicava questa regione come la prima in Europa dove
sarebbe stato praticato il metodo indiretto46, non appare del tutto convincente ed è stata
recentemente sia riproposta47 che criticata48. [147]
Il procedimento indiretto appare sotto la sua forma classica nelle fonti scritte vallone alla
metà del XIV sec., si diffonde in Borgogna, nel bacino di Parigi e nel nord-est della Francia nel
corso del Quattrocento; in questo stesso periodo è utilizzato nell’area alpina, sul finire del secolo in
Normandia ed in Inghilterra49. Dal XV sec. in ambiente centroalpino viene elaborata una versione di
forno a manica molto alto, capace di una produzione elevata, che i ferrieri locali chiamano
“cannecchio”50. Da questo momento il sistema comincia a diffondersi in Italia. Bresciane e
bergamasche sono le maestranze che, a partire dal XV sec. e poi per tutto il XVI e parte del XVII
hanno esclusivo controllo su tutta l’area italiana del processo indiretto; costruiscono forni in
Garfagnana, a Fornovolasco (Lucca), a Isolasanta, nell’area laziale, in Sicilia, proponendosi agli
occhi dei contemporanei come depositari di una soluzione tecnica dalla validità indiscutibile51.
Tuttavia è importante notare come il procedimento indiretto non si sia imposto in effetti a
44
Bjoerkenstan-Fornander, 1985; Magnusson, 1985; Magnusson, 1995c, p. 65; Magnusson, 1995b. Il
forno, collocato su un’area aperta, presenta un corpo di fabbrica rettangolare in pietra connessa con argilla
concotta e la parte interna con profilo rettangolare arrotondato dalle fasi d’uso; è presente una apertura
fortemente strombata per l’accesso al crogiuolo e sul lato destro una cavità per l’alloggio dei mantici idraulici.
45
Sul sito di Kierspe, scavato nel 1992, è venuto alla luce un forno a base rettangolare con pareti in
pietra, che si suppone alto circa 4 m e che presenta forti analogie tipologiche con il forno di Lapphyttan.
L’affinaggio della ghisa avveniva in piccoli focolari vicini al forno, che è stato datato dai reperti ceramici al
XIV-XV sec.. Sono state individuate altre 200 strutture di questo tipo, collocate lungo corsi d’acqua utilizzati
per muovere i mantici, le quali a partire dal XIII sec. si sostituiscono ai bassi fuochi qui precedentemente in
uso tra XI e XIII sec. (su Kierspe v. Knau-Soennecken, 1994; Knau 1995; Rehren-Ganzelewsky, 1995). Nel
Baden-Wuerttenberg sono stati individuati numerosi siti databili a fine XII-inizi XIII, dove sembra che si
producesse ferro altamente carburizzato (Kempa, 1995).
46
Sprandel, 1968, pp. 226-231: secondo questo autore il principale indizio che permette di collocare
l’apparizione di questa pratica nelle Alpi lombarde agli inizi del XIII sec. è lo sdoppiamento delle operazioni
descritte nei documenti tra un furnus ed una fusina, il primo che produceva ferrum crudum, cioè ghisa,
trasformata nella seconda in acciaio (ferrum coctum). Un altro indizio importante secondo Sprandel è anche la
menzione dell’uso della forza idraulica, che però, come abbiamo visto, era ampiamente utilizzata anche nelle
installazioni con basso fuoco.
47
Menant, 1987, pp. 784-785 e note 7, 51, 52: l’autore ritiene che alcuni testi inediti confermino
l’ipotesi di Sprandel di un impiego del procedimento indiretto dagli inizi del XIII sec. in Valtellina e Valleve, ed una
sua generale diffusione nelle valli bergamasche alla metà del secolo (v. ad es. la menzione di acciaio e ghisa nelle tariffe doganiere di
Bergamo attorno al 1240).
48
Mathieu Arnoux (Arnoux, 1994, p. 31) non accetta l’ipotesi di Sprandel, in quanto ritiene che l’utilizzo del
metodo indiretto non sia compatibile con la taglia ridotta delle installazioni (furnus e fusina) descritte nei documenti, né con
l’evoluzione semantica del termine fusina, che nel XII sec. designava in genere l’officina di affinaggio dell’argento ed il suo
equipaggiamento idraulico, ma era anche applicato ad ogni tipo di stabilimento per la lavorazione del metallo.
49
Si veda la bibliografia citata alla nota 42, inoltre Belhoste
et alii , 1991 per la Normandia, CleereCrossley, 1985, pp. 111 e sgg. per il Weald.
50
Cima 1991a, p. 150.
51
Calegari, 1989, p. 78.
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tutto l’Occidente che a partire dal XIX secolo e come il sistema di produzione basato sui bassi
fuochi e sul più antico ‘mulino da ferro’ abbia continuato ad essere operante ed economicamente
conveniente in alcuni bacini siderurgici europei, quali la Liguria, la Normandia, i Paesi Baschi, la
Spagna, fino a tempi estremamente recenti. Lo studio di ciascun caso porta a rinunciare al facile
schema evoluzionistico che prevede ‘tecniche anacronistiche’ soppiantate da ‘tecniche portatrici di
avvenire’ e piuttosto conduce a constatare che ci troviamo di fronte a due sistemi diversi, talvolta
coesistenti entro lo stesso ambito geografico, ma in entrambi i quali il problema dell’acqua
costituisce un fattore determinante52. Per quanto riguarda un caso italiano, la Liguria, il Calegari fa
notare che nel Genovese l’altoforno bresciano coesiste in molte aree col metodo diretto fino al XIX
secolo e non elimina affatto la tecnologia precedente. Spesso, infatti, l’espansione del nuovo
sistema è legata a progetti imprenditoriali e commerciali di grande scala, per lo più collegati
all’iniziativa del potere centrale; di conseguenza la soluzione tecnica si afferma perché capace di
rispondere agli impulsi determinati dal processo politico e non si spiega solo sulla base di criteri
evoluzionistici delle tecnologie53. [148]
1.2. L E RU OTE IDRA ULICHE
Per avere un’idea riguardo alla struttura materiale delle ruote verticali impiegate negli
impianti siderurgici, dobbiamo ricorrere a pochi dati di scavo ed alle raffigurazioni dei trattati
quattro-cinquecenteschi.
Resti di ruote venute alla luce in scavi di impianti siderurgici medievali e post-medievali sono
conosciuti per l’Inghilterra: l’esempio più antico, eccezionale per la quantità dei dati raccolti
riguardo al funzionamento dell’impianto, è la già citata forgia idraulica di Bordesley Abbey. Si
tratta di una ruota verticale ‘per di sotto’, priva di cerchioni laterali, della quale sono stati recuperati
alcuni frammenti entro un canale rivestito in legno parallelo all’edificio. Dai calcoli effettuati sulla
base delle misure di una delle palette perimetrali e della distanza tra fondo del canale e pavimento
dell’edificio, risulta che doveva trattarsi di una ruota del diametro di circa 3-3,5 metri e dello
spessore di circa 55 cm54. Astill fa notare che la ruota idraulica di Bordesley, oltre ad essere il più
antico esempio scavato, è anche l’unico del tipo ‘per di sotto’ conosciuto per l’Inghilterra, mentre
tutti gli 11 esempi di ruote scavate in impianti siderurgici datati tra metà XIV e XVII sec., raccolti
dal Crossley55, sono di tipo verticale ‘per di sopra’. Astill propone quindi l’ipotesi che la ruota di
Bordesley appartenga probabilmente ad una diversa tradizione tecnologica, più antica, che derivava
52
Si vedano le osservazioni di Arnoux, 1994, in particolare pp. 29-30.
Calegari, 1989, p. 76. Un progetto politico vasto e minuzioso fu, ad esempio, alla base di ciò che
avvenne nella siderurgia toscana alla metà del XVI sec., quando Cosimo de’Medici decise di assicurarsi il
monopolio della vena elbana ed importare tecnici dal bresciano per costruire altoforni. Essi costruirono i forni
di Campiglia (1559), Valpiana (tra 1578 e 1580), Follonica (1577-78), Cecina (1595-97), Pracchia. Con
l’iniziativa di Cosimo l’assetto medievale, incentrato sul basso fuoco e parcellizzato sul territorio, lasciò
spazio ad una nuova organizzazione dei mezzi di produzione e ad un chiaro processo di concentrazione e
specializzazione geografica, che privilegiava la fascia costiera maremmana e l’entroterra massetano per la
prima fusione, e la dorsale appenninica e la montagna pistoiese come sede di ferriere di seconda produzione,
dove la ghisa veniva trasformata in prodotti lavorati. L’iniziativa di Cosimo poi, oltre a portare alla nascita di
altoforni, sollecitò la conversione di una densa rete di ferriere, dove in passato si operava la riduzione al basso
fuoco, in una rete di seconda lavorazione, cioè riduzione della ghisa in ferro; incoraggiò inoltre il
potenziamento di impianti di terza lavorazione, cioè forge. A questo proposito si rimanda alla bibliografia
citata nella nota 281.
54
Astill, 1993, p. 254.
55
Crossley, 1985; si veda anche Cleere-Crossley, 1985, pp. 239-242.
53
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dai mulini da grano di XII secolo e che potrebbe essersi protratta fino al XIV56.
Tornando agli esempi di ruote analizzati dal Crossley, esse presentano una comune struttura,
in cui si prevede la presenza di raggi a compasso inseriti entro le tavole della circonferenza e
cassette delimitate da cerchioni laterali. [149] Non sono ben chiari i metodi impiegati per il
fissaggio dei raggi della ruota al mozzo centrale, ma sappiamo che il numero dei raggi stessi poteva
variare da 4, a 6, ad un massimo di 8. Le assi che formavano la circonferenza della ruota erano
ricavate da pezzi di legno spessi 70-110 mm, sagomati con un’ascia secondo il profilo necessario; i
raggi, che terminavano con un tenone, erano incastrati entro mortase ricavate nelle assi della
circonferenza, che spesso trapassavano per essere inchiodati all’esterno. I cerchioni, o dischi
laterali, erano sempre inchiodati alle assi della circonferenza ed erano composti da fasciami di
lunghezza variabile, fino a 2,40 m, a seconda del tipo di legname a disposizione. Le cassette esterne
venivano di solito inchiodate ai cerchioni laterali, ma in un caso si sono riscontrate scanalature
tagliate nei dischi laterali stessi per migliorarne la tenuta. Il diametro delle ruote andava da un
minimo di 2,44 m, per Chingley, ad un massimo di 3,9 m per Batsford57.
Crossley nota che l’aspetto delle ruote inglesi era molto simile a quello delle ruote raffigurate
nelle pitture fiamminghe, sia per le proporzioni che per l’aspetto delicato, quasi fragile58, che
contrasta con il tipo ‘centro-europeo’ raffigurato dall’Agricola59. Nel suo trattato, infatti, l’Agricola
riporta i disegni di un grandissimo numero di ruote idrauliche verticali, sia per di sopra che per di
sotto, impiegate nel drenaggio delle miniere, nelle fasi di trattamento del minerale prima della
fusione, nell’azionamento di mantici. I disegni, molto curati, abbondano di dettagli tecnici e ci
mostrano un tipo di ruota particolare, con caratteristiche che si distaccano anche da quelle delle
ruote raffigurate da Francesco di Giorgio Martini e Biringuccio, che esamineremo più avanti. Il
tratto peculiare più vistoso è rappresentato dalla presenza di tavole trasversali a coppie (in genere 4)
inchiodate all’esterno dei dischi laterali e del mozzo centrale, irrobustendo notevolmente la
struttura. I dischi laterali sono formati da tavole sagomate, in numero variabile (minimo 4),
inchiodate fra loro fino a formare una circonferenza; le cassette perimetrali non sono molto
numerose, ma particolarmente larghe e profonde.
Data la complessità di tali realizzazioni di carpenteria, che dovevano certamente essere
realizzate da maestranze specializzate, non sorprende il fatto che queste ruote richiedessero
riparazioni frequenti. In quasi tutti gli scavi inglesi sono stati rinvenuti pezzi di ruote rotte e
scartate, che rivelano talvolta anche dettagli costruttivi differenti rispetti a quelli delle ruote più
recenti: a Panningridge una ruota completamente nuova fu necessaria solo 12 anni dopo che la
fornace era stata costruita60. Crossley nota che durante il Medioevo le impalcature lignee che
alloggiavano le ruote si svilupparono fino ad esempi impressionanti di carpenteria, con strutture
spesso integrate entro le fondamenta degli edifici che servivano61. [150] Pochissimi sono i dati
riguardanti le ruote ‘per di sotto’, limitati essenzialmente ai rinvenimenti di Bordesley Abbey: qui la
ruota era collocata entro una struttura lignea saldamente ancorata entro la piattaforma su cui sorgeva
l’edificio, mentre il dislivello tra la fine del canale alimentatore e l’inizio di quello di rifiuto era di
56
Astill, 1993, p. 267. Una paletta simile a quella di Bordesley, datata 1090-1100, è stata rinvenuta nel
Leicestershire, mentre altri dati di scavo dalla stessa regione restituiscono evidenza di palette inserite in una
ruota dotata di cerchioni laterali, datata al 1140 ca.; ciò significa che nella stessa area e nello stesso periodo erano in uso tipi
differenti di ruota (ibidem).
57
Cleere-Crossley, 1985, p. 242.
58
La larghezza delle ruote, ad esempio, va da un minimo di 32 cm ad un massimo di 72 cm, ma con
una netta prevalenza di ruote larghe meno di mezzo metro, ibidem.
59
Agricola, 1563, passim.
60
Crossley, 1985, p. 112. Si vedano anche le osservazioni del Muendel riguardo alle caratteristiche
delle ruote utilizzate nei mulini del territorio fiorentino nel XIV secolo, Muendel, 1991b, pp. 510-511.
61
Crossley, 1985, p. 113.
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91 cm su una lunghezza di 3, 2 m, il che garantiva un rapido passaggio dell’acqua nel punto in cui
essa colpiva le pale della ruota. Inoltre lo spazio tra i lati della ruota e le pareti del canale era
limitato a pochi millimetri, consentendo di sfruttare al meglio l’impatto dell’acqua, senza alcuno
spreco di energia62. Delle impalcature associate a ruote ‘per di sopra’ sappiamo che erano alloggiate
entro fosse scavate di fianco all’edificio, subito a valle del bacino di raccolta, e formavano una sorta
di scatola di assi lignee che alloggiava la ruota nella sua parte inferiore e costituiva la prima sezione
del canale di rifiuto. In alcuni casi addirittura pali verticali sostenevano una struttura che
‘inscatolava’ tutta la ruota e supportava la condotta afferente l’acqua dal bacino a cadere entro le
cassette63.
Altri dettagli costruttivi sulle ruote impiegate negli impianti siderurgici sono reperibili in
Francesco di Giorgio Martini e Biringuccio. Il primo raffigura una ruota verticale per di sotto che
aziona una coppia di mantici: l’albero motore non è dotato di mozzo centrale nel punto in cui si
incastrano i raggi, questi ultimi sono solo 4 (nelle ruote raffigurate per mulini arrivano ad un
massimo di 6) e costituiti da tavole non molto spesse, di larghezza costante dall’incastro nell’albero
all’incastro nelle tavole di circonferenza; i dischi laterali sono assai sottili, le cassette poco profonde
ma numerose ed estremamente inclinate64. Non sono presenti le tavole trasversali inchiodate
all’esterno come in Agricola.
A proposito delle ruote idrauliche scriveva Biringuccio: “fatto eletion del sito dove tale edifitio
fabricar vogliate, e che habbi le comodità de lacque, e che similmente sia commodo alla miniera e a legname daffar il
carbone, e che già habbiate fabricato la grandezza e forma de la casa, e coperta e terminato li tramezzi e tutte le muraglie,
e così messo in atto cannali e ruote, e fatto li mantaci e le muraglie” i forni siano accostati “alla parete de una
muraglia commoda per lacqua al edificio de le ruote che han da menare i mantaci [...] e così se
adattano lingegni che alzino i mantaci che con lacqua e mezzo d’una ruota sola a un tempo tutti o
qual vogliano dessi che li mantaci lavorino, che certamente oltre all’esser cosa ingeniosa è molto
utile, perché tal ruota è uno operario gagliardo da supportar molta fadiga, e mai fin che non volete si
possa né straccha e va forte e piano come è di vostro contento, e certamente senza esso mal si può
fare, e sel si facesse farebbe un logro de infiniti huomini”65. [152] L’edizione del 1540 è corredata
da numerose raffigurazioni di ruote idrauliche verticali, i cui dettagli costruttivi non sono però
particolarmente curati: si tratta sempre di ruote a cassette, con compartimenti numerosi, piccoli,
fortemente inclinati. I raggi della ruota sono di solito otto, soltanto in un caso se ne contano sei, e
sono sagomati in modo da assottigliarsi all’estremità inserita nel mozzo centrale, mentre appaiono
più larghi all’aggancio nelle tavole della circonferenza. I cerchioni laterali sono piuttosto larghi, e
ciò conferisce alla ruota un aspetto abbastanza robusto.
1.3. S TRUT TURA MATERI ALE DEL MAG LIO IDRA ULICO
Nella sua struttura essenziale, il maglio non è altro che un pesante martello il cui manico ha il
suo fulcro su un asse di oscillazione. Il movimento alternato della macchina è ottenuto per mezzo di
camme montate su un albero mosso da una ruota idraulica. A seconda del punto nel quale agiscono
le camme, si possono classificare tre diversi tipi di maglio: un tipo ‘terminale’, in cui la camma
agisce sul tratto finale (coda) dell’asta, un tipo ‘laterale’, in cui la camma agisce tra il punto di
oscillazione e la testa del martello, e infine un tipo ‘frontale’, in cui la camma agisce sulla testa
stessa del martello66.
62
Astill, 1993, pp. 252 e sgg.
Crossley, 1985, p. 113.
64
Martini, Trattati, vol. I, tav. 87.
65
Biringuccio, 1540, 49 v.
66
V. la classificazione proposta in Esquisse d’une morphologie , 1960, pp. 9-10. Si veda anche CleereCrossley, 1985, p. 271
63
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Il maglio terminale era montato su di una incastellatura realizzata con due pesanti montanti
litici, o più raramente lignei, collegati fra loro da due coppie di traverse, la prima situata in alto e la
seconda nella parte sepolta. Tra i due montanti veniva collocata l’asta portante la mazza battente,
mentre sul braccio minore agivano le camme, costringendo ad un brusco sollevamento il martello
fino a scagliarlo, una volta finito il contatto, sull’incudine67. Il maglio laterale aveva forti analogie
con il precedente: le differenze più consistenti riguardavano l’incastellatura, di solito interamente
lignea e molto più imponente, e la posizione dell’albero motore, che era cioè parallela all’asta
oscillante, in modo che le camme agissero sul braccio lungo dell’asta, in un punto situato tra la testa
del maglio ed il fulcro di oscillazione68. Il maglio frontale, che compare in epoca più tarda rispetto
ai precedenti, era in genere costituito da un macchinario di notevoli dimensioni, interamente
costruito in ghisa, nel quale un grande volano a camme agiva direttamente sulla mazza battente
sollevandola e poi lasciandola andare per semplice gravità69.
Nel meccanismo del maglio un problema non secondario era quello rappresentato dal punto
di oscillazione dell’asta: era infatti difficile far penetrare in quest’ultima un pezzo metallico senza
diminuirne la solidità [153]; tale difficoltà era aggirata mediante un anello di ferro entro cui passava
l’asta, ad essa fissato con grossi chiodi, che portava due elementi conici impegnati sui montanti per
servire da fulcro70. Il manico del maglio doveva essere sovente protetto con elementi metallici
dall’attrito prodotto dalle camme, costituite da sporgenze lignee fissate direttamente entro l’albero
motore71. Il manico, o asta, del maglio, era necessariamente un pezzo di legno resistente, scelto da
una buona pianta, che doveva restare molto tempo immerso in acqua (più di una dozzina d’anni) e
poi venir rapidamente disseccato72.
Il numero delle camme, e di conseguenza la velocità di lavoro del martello, costituisce un
elemento importante: per il tipo frontale e laterale, però, si contano sempre solo quattro camme e
quindi la velocità era regolata mediante l’afflusso dell’acqua alla ruota73. è quanto avveniva, ad
esempio, nella forgia idraulica di Bienno (XVII sec.), il cui maglio produceva in media circa 200
colpi al minuto (cioè 50 rotazioni per 4 camme), ma che poteva essere regolato, a seconda del
lavoro da svolgere, mediante l’azionamento della saracinesca dell’acqua74.
Alcuni dati di scavo riguardo ai magli idraulici medievali ci vengono ancora una volta
dall’Inghilterra: certamente azionato dall’energia dell’acqua era il maglio della più volte ricordata
Bordesley Abbey (seconda metà XII sec.), che si ipotizza fosse collocato con asse parallelo al
canale della ruota e mosso non direttamente da camme fissate sull’albero motore della ruota
idraulica, ma piuttosto da un asse secondario, a sua volta azionato da una ruota motrice solidale con
l’albero motore principale75. [155] Per Ardingly e Chingley i dati di scavo delle fasi post-medievali
restituiscono evidenza di magli il cui intero meccanismo era sostenuto da una pesante incastellatura
di legno collocata entro l’edificio della forgia. Ad Ardingly non è certo quale tipo di maglio fosse
utilizzato, mentre a Chingley (inizi XVII) la posizione del canale della ruota e dell’incudine
67
Esquisse d’une morphologie, 1960, pp. 13-14; Cima, 1991b, p. 209.
Esquisse d’une morphologie, 1960, pp. 14-15; Cima, 1991b, p. 210.
69
Cima, 1991b, p. 210.
70
Nei notarili genovesi di metà XV sec., tale anello viene denominato
boga, mentre gli zochi sono i
montanti che costituiscono l’incastellatura rigida del maglio, cfr. Baraldi, 1979, pp. 122, 124-125.
71
Esquisse d’une morphologie, 1960, p. 12.
72
Ivi, p. 16.
73
Ibidem.
74
Cuomo di Caprio, 1985, p. 104.
75
Astill, 1993, pp. 267-271. Per Bordesley è stato ipotizzato un complesso sistema di macchinari,
alloggiati nello spazio compreso tra il canale della ruota idraulica e l’edificio della forgia: si tratterebbe di tre
diverse ruote motrici montate su uno stesso albero, sulle quali erano fissate delle sporgenze facenti le funzioni
di camme, che azionavano degli alberi secondari collegati al maglio e ad un bilanciere per due coppie di
mantici (ma che i mantici fossero azionati idraulicamente non è sicuro, anche se ipotizzabile).
68
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suggeriscono l’uso di un maglio terminale, in seguito sostituito da uno laterale76.
Le raffigurazioni di magli idraulici sono piuttosto scarse: le prime compaiono in un codice di
Leonardo e in un dipinto di Jean Bruegel (1568-1625)77. Nessuna illustrazione o descrizione
troviamo nell’edizione del 1540 del De la Pirotechnia di Biringuccio, mentre pochi anni dopo
l’Agricola fornisce nel suo trattato due immagini, anche se non chiarissime, di maglio laterale, che
descrive molto sommariamente78. Nel 1565 Olaus Magnus offre un disegno schematico in cui
compaiono vari impianti di maglio meccanizzato, forse di tipo terminale79. La scarsità di
raffigurazioni è forse spiegabile col fatto che nei secoli XV-XVI, quando i trattatisti affrontano il
problema delle tecniche metallurgiche, la tecnologia del maglio, a differenza di quella del mantice,
è decisamente matura e consolidata, al punto che una descrizione dettagliata appariva priva di
significato80. Pur non trattandosi di raffigurazioni iconografiche, molto importanti sono infine le
descrizioni contenute in un mazzo di documenti notarili genovesi di metà XV sec. che, fornendo
dettagliati elenchi delle attrezzature di opifici siderurgici, consentono di ricostruire bene la struttura
materiale del maglio terminale tardomedievale e soprattuto la terminologia tecnica specifica usata
per designare le singole parti del meccanismo81.
1.4. S TRUT TURA MATERI ALE DEL MAN TICE IDR AULICO
L’importanza cruciale della ventilazione nella metallurgia fece sì che la macchina destinata
ad insufflare aria durante i processi metallurgici fosse oggetto di continua ricerca e che,
particolarmente nei secoli XV-XVI, un grande dibattito si sviluppasse intorno alle possibilità di
migliorare l’efficacia e la potenza del sistema di ventilazione82. [156] Infatti nel tardo Medioevo e
nella prima Età Moderna, fino a tutto il secolo XVI, l’alimentazione dei forni per la riduzione o la
fusione del ferro era assicurata esclusivamente da mantici idraulici, mentre soltanto nel secolo
successivo venne introdotta una nuova macchina, la tromba idroeolica, che finì col soppiantare
almeno in parte l’uso dei grandi mantici83.
La struttura fondamentale del mantice azionato ad acqua deriva dalla corrispondente
macchina manuale, le cui origini si perdono nella preistoria. I primi mantici dovevano essere
costituiti da una semplice pelle di animale legata ad una estremità in cui era inserita la tuy’re,
mentre l’altra estremità poteva essere aperta e chiusa, come una sorta di valvola rudimentale, che
permetteva l’immagazzinamento dell’aria84. In seguito si diffuse un nuovo tipo, più perfezionato,
76
Cleere-Crossley, 1985, p. 271.
Gille, 1960a, p. 30.
78
Agricola, 1563, libro IX, pp. 365 e 369.
79
Cfr. Tylecote, 1985, p. 171.
80
Cima, 1991b, p. 200.
81
Baraldi, 1979.
82
Sull’importanza dei mantici nella metallurgia, basti citare le osservazioni di Biringuccio
(Biringuccio, 1540, libro VII, cap. VII, p. 110): “Importante e necessario effetto al più delle fusioni sonno li
mantaci quali oltre al vedere di averli che sieno morbidi e richi di panno longhi e larchi di tratto e bene
garbati, e che habbino buone ventole longhe e buone canne, e che per rottura non perdino l’aere [...] e perch’
le forze del huomo sonno alle cose grandi debili si va cerchando l’ingegni con adattare diverse lieve overo
l’adiuto de l’acque”.
83
Il periodo di introduzione e diffusione della tromba idroeolica è questione dibattuta: cfr. Cucini,
1990b, p. 750 e nota 7. Il Calegari (Calegari, 1977, pp. 23-25) ritiene che l’introduzione del nuovo tipo di
macchina soffiante nell’Appennino genovese sia avvenuta solo intorno alla prima metà del 1600, anche se
l’origine sarebbe lontanissima; si veda anche Calegari, 1989, p. 87. L’uso di tale macchina nel Pistoiese viene
invece posticipato di un secolo in Breschi-Mancini-Tosi, 1983, p. 89.84
Cucini, 1990b, p. 749 e note 2-3: si forniscono bibliografia ed alcuni esempi di confronti tratti
dall’iconografia antica.
77
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che consisteva in due grandi palmenti di legno fulcrati ad una estremità, rivestiti di cuoio e muniti di
una valvola, i quali agivano come un soffietto e potevano aspirare e comprimere una notevole
quantità d’aria85. Soltanto col basso Medioevo, come si è visto in precedenza, l’energia idraulica fu
applicata all’azionamento dei mantici: il mantice meccanizzato medievale veniva utilizzato nei forni
a manica o nei bassi fuochi, e più raramente nelle forge, che di solito funzionavano con mantici
azionati a mano86. Come già detto nelle pagine precedenti, per due casi di impianti siderurgici
scavati si è proposta la presenza di mantici idraulici già nel XII secolo: Lapphyttan e Bordesley87.
Parti del cuoio di rivestimento dei mantici e caratteristici chiodi sono stati trovati, inoltre, nei livelli
post-medievali di Chingley, Pippingford e Panningridge88. [157]
Gli impianti meccanizzati tramite energia idraulica, al fine di garantire un getto continuo di aria,
elemento essenziale per la buona riuscita del processo di riduzione o di fusione, prevedevano una coppia
di mantici affiancati. Vincolando a uno dei due palmenti di ognuno dei mantici un’asta collegata ad
un bilanciere, era possibile comprimere la camera di un mantice nel momento in cui quella
dell’altro si dilatava e viceversa89. Questi attrezzi poteva no essere anche molto massicci, con tavole
lunghe fino a 4,5-5 m, e di conseguenza dovevano essere di solito sostenuti da una incastellatura, in
genere di pali di legno, cui erano ancorate le parti fisse del meccanismo90. Data la complessità
costruttiva e i materiali impiegati (pelle, cuoio, legno), essi erano assai costosi ed il loro valore
superava talvolta quello del forno; per di più, la loro manutenzione era difficile ed onerosa, poiché
spesso si incendiavano a causa dei lapilli, anche se generalmente venivano protetti da un muro di
mattoni91.
L’azionamento dei mantici tramite una ruota idraulica poteva avvenire per mezzo di un albero
a camme o un sistema biella-manovella92. Il sistema a camme, più antico e più semplice, consisteva
in una coppia di mantici i cui palmenti superiori rimanevano in posizione fissa, mentre quelli
inferiori, lasciati liberi di cadere, portavano a termine la fase di aspirazione; le camme montate
sull’albero di una ruota idraulica verticale eseguivano lo schiacciamento verso l’alto
85
Ivi, note 4-5: si citano esempi di epoca romana.
Cima, 1991b, p. 215. Un accurato studio è stato dedicato da Costanza Cucini ad un esemplare di
mantice a mano, risalente probabilmente al XVI sec., conservato a Bergamo: nell’articolo si cita un apparato
di confronti iconografici e descrizioni tecniche di mantici manuali tratti dalla trattatistica di XVI-XVII sec.,
riguardanti in particolare macchine di piccole dimensioni impiegate nella fucinatura e nella lavorazione dei
metalli preziosi (Cucini, 1990b). Si vedano inoltre la descrizione ed i disegni del mantice ad azionamento
manuale per la fucinatura del rame ancora conservato in situ nel villaggio abbandonato di Buttifinera (Val
Soana): Cima-Nisbet, 1982, pp. 484-488.
87
Magnusson, 1985; Astill, 1993, pp. 267-269.
88
Cleere-Crossley, 1985, p. 251.
89
Ivi, p. 252; Cima, 1991b, pp. 216-217.
90
Cleere-Crossley, 1985, pp. 252-253.
91
Montagni, 1993, p. 178.
92
È un metodo che richiede che un organo meccanico con cerniere cilindriche alle due estremità, cioè
la biella, sia interposto tra un elemento a gomito, cioè la manovella, fatto girare dall’albero della ruota
idraulica, e l’oggetto cui si vuol trasmettere il moto alternato. La manovella semplice era già conosciuta
nell’antichità (White, 1967, pp. 166-167) ma la prima raffigurazione risale al IX sec. (nel Salterio di Utrecht,
cfr. Reynolds, 1984, p. 116). In epoca piuttosto tarda sostitu” la camma soprattutto nella metallurgia e per azionare pompe e
pistoni, cfr. Reynolds, 1983, pp. 89-90 ed illustrazioniin Agricola, 1563, lib. VI, pp.161-163.
86
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alternativamente di uno e dell’altro palmento mobile, assicurando così un soffio continuo93. Nel
sistema biella-manovella la parte finale dell’albero motore, terminante con un elemento ricurvo
(manovella), era collegata tramite una biella ad una delle estremità di un bilanciere fulcrato al
centro [158] e con un contrappeso all’altra estremità, che innalzava e abbassava alternativamente i
palmenti superiori dei mantici94. [159]
Per le prime raffigurazioni iconografiche di mantici idraulici si devono attendere le opere dei
tecnici ed ingegneri rinascimentali: Mariano Taccola mostra una coppia di tali attrezzi azionati da
un albero a camme mosso da una ruota per di sopra95. Un secondo impianto, basato su un sistema
biella-manovella azionante la coppia asta-bilanciere, è descritto a breve distanza di tempo da
Bartolomeo Neroni detto il Ricco96. Le due strutture appaiono entrambe funzionali e quindi
possiamo ritenere che nel corso del XV sec. fossero piuttosto diffuse. Un disegno di mantice
verticale a tre palmenti, di cui i laterali fissi e quello centrale azionato dal sistema biella-manovella
[160] con ruota per di sopra, compare nel Taccuino di Francesco di Giorgio Martini97. Quasi un
secolo più tardi Biringuccio dedicherà un intero capitolo del De la Pirotechnia alla costruzione dei
mantici, fornendone ben otto disegni, tra i quali tre raffiguranti il tipo meccanizzato, di cui abbiamo
già parlato in precedenza98. Una menzione particolare meritano infine, per la loro peculiarità, i
mantici descritti dal Filarete nel 1460 per il forno di Ferriere in Val di Nure: si trattava di attrezzi di
grandi dimensioni (alti 6 braccia, larghi 4, con una valvola quadrata di 1 braccio di lato)99, riguardo
93
Si veda l’esempio dell’albero motore dei mantici della forgia di Chingley, sul quale erano montate
due serie di tre camme; ciò significava che erano presenti due coppie di mantici che insufflavano aria tre volte
per ciascuna rivoluzione della ruota idraulica (Cleere-Crossley, 1985, pp. 252-253). Molto chiara risulta la
descrizione particolareggiata di questo tipo di mantici fornita da Biringuccio (Biringuccio, 1540, libro VII,
cap. VII, p. 110), corredata dall’illustrazione di una coppia di mantici mossa da un albero a quattro camme:
“Per il che alcuni sonno che acconciano una ruota a bottacci grande di diametro 6, 7, et 8 bracci secondo li luochi e quantità d’acqua
che il fuossi e passi sotto alla ponta dellatavola che viene sotto li mantaci dallabanda di dietro, e che in esso sieno fatte alli suoi luochi
due lieve traverse poste al contrario l’una dall’altra, e la tavola di sopra alli mantaci sia ferma e quella di sotto per non essere d’alcuna
cosatenuta caschi e venga a aprire el mantace, e tanto s’estenda che l’arrivi sopra alla traversa dello stile della ruota. Per il che dala forza
de l’acqua fatta girare le traverse dello stile che venghino a levare in su la ponta delle tavole che sonno sotto limantacie a ferrarla con la
parte di sopra e così passata el mantaco recaschi, eche sempre dalla ponta delle lieve traverse siapresa la ponta delle tavole che
avanzano di sotto alli mantaci”.
94
Ancora esplicativa è la descrizione di Biringuccio (Biringuccio, 1540, libro VII, cap. VII, pp. 110111), che illustra due varianti di coppie di mantici di questo tipo e ne fornisce le raffigurazioni: “Fassi prima
una ruota a bottacci come quella che v’ho detto avanti, e nela fine del suo biligo dove si possa si fa di ferro
uno asse torto come quello d’un manicho di ruota da coltelli, el quale alzando abassi, et abassando tiri al alto
un stile che sta biligato sopra alli mantaci che ha due braccioli come una croce alli quali sonno attachate le
tavole de mantaci de sopra de quali la ruota girando in alto sempre ne tiene suspesa una. L’altro modo sie
facendo simile alle sopradette una ruota e in capo del biligo sia un simile asse, e sopra alli mantaci sia una
traversa biligata che a una testa habbi un contrapeso, e da l’altra sia el manicho che è presso dal’asse torto che
girando tira giù e spegne in su, e così legati alli loro luochi li mantaci, uno sene viene abassar quando el
contrapeso s’alza, l’altro ha alzare quando cala”. La differenza nei due disegni consiste solo nella presenza,
nel secondo, del contrappeso posto all’estremità del bilanciere; entrambi non raffigurano con esattezza
l’elemento biella di raccordo tra la manovella ed il bilanciere.
95
Cfr. Cima, 1991b, fig. 10. 47.
96
Ivi, fig. 10. 48.
97
Ivi, fig. 10. 51. Del resto questo autore raffigura anche mantici mossi da un albero a camme e ruota
per di sotto: Martini, Trattati, tav. 87.
98
V. note 93 e 94. Biringuccio descrive inoltre la grande ruota idraulica che, con un sistema di
bilanceri collegati, azionava ben quattro coppie di mantici nella ferriera di Boccheggiano (Biringuccio, 1540,
libro VII, cap. VII, p. 112).
99
Calegari, 1989, p. 85 e tavv. 2-3: pubblica le ricostruzioni degli impianti di Ferriere e Fornovolasco.
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ai quali l’autore enfatizza il fatto che erano installati verticalmente, “in coltello”, e non
orizzontalmente come avveniva di solito. Tylecote fa notare a questo proposito che una tale
struttura poteva essere azionata anche da una ruota idraulica orizzontale ed istituisce un confronto
con un disegno cinese del 1313, raffigurante un doppio mantice simile a quello del Filarete, mosso
da una ruota di questo tipo100. Più recentemente una accurata analisi del testo e del disegno di
Filarete è stata proposta dal Calegari101, anche in base al confronto con altre raffigurazioni coeve 102:
si conclude che i mantici descritti da questo autore erano due, distinti l’uno dall’altro, posti
verticalmente nel senso della loro maggiore lunghezza, paralleli al forno, dove soffiavano l’aria con
una canna posta invece in senso trasversale; ai palchi dei mantici il movimento era impresso da un
albero basculante, mosso da una ruota verticale, che trasmetteva il suo movimento alternato a due
braccia metalliche snodate.
2. Struttura e caratteristiche tecnologiche degli impianti siderurgici nel bacino
Farma-Merse
La ricostruzione delle tecnologie impiegate negli impianti siderurgici di età comunale nel
nostro comprensorio, ancor più che per la struttura materiale dei mulini da macina, presenta
notevoli difficoltà, dovute alle scarne indicazioni delle fonti scritte (si pensi che mancano, ad
esempio, accenni di qualsiasi tipo alla lavorazione del ferro in questa zona nelle normative
comunali) [161] ed alla sporadicità dei dati provenienti dalla sola ricognizione di superficie. Buona
parte degli impianti abbandonati fin dall’epoca medievale, infatti, sono completamente spariti, così
che non è stato neanche possibile individuarli sul territorio, oppure hanno lasciato come unica
traccia gli accumuli di scorie della lavorazione o pochi resti murari quasi completamente distrutti
dalle piene. Quelli che invece hanno proseguito l’attività in epoca post-medievale sembrano aver
subìto pesanti modifiche strutturali, soprattutto in seguito all’introduzione di nuove tecnologie
metallurgiche; di conseguenza è spesso difficile ricostruirne la situazione originaria in assenza di
scavi.
A causa di tutti questi fattori, per il Medioevo sono pochi gli interrogativi cui si è in grado di
rispondere in modo esauriente, mentre molti sono i punti che rimangono oscuri. Riguardo ad essi
possiamo solo rimanere nel campo delle ipotesi, formulate per confronto con casi esterni all’area
indagata, oppure talvolta utilizzare notizie relative agli impianti della nostra area ma risalenti ai
secoli post-medievali, nel tentativo di ricostruire retrospettivamente alcuni aspetti che forse non
furono oggetto di rilevanti modificazioni attraverso il tempo. Una notevole mole di dati tecnici per
gli impianti di XVI-XVII sec., infatti, ci proviene soprattutto dalle carte raccolte nell’Archivio
Venturi Gallerani; queste notizie riguardano talvolta, ad esempio, la struttura materiale dei magli
idraulici e dei mantici, riguardo ai quali, invece, pochissimo sappiamo per i secoli precedenti. Nei
paragrafi in cui si trattano le caratteristiche tecnologiche di tali macchinari, dunque, abbiamo in
parte attinto a queste fonti, pur con tutta la cautela del caso. Abbiamo inoltre deciso di accennare
sinteticamente, nell’ultimo paragrafo, ai tentativi attuati tra la fine del XVI sec. e l’inizio del secolo
successivo, per introdurre nella nostra zona il metodo indiretto di lavorazione del ferro: come
100
Tylecote, 1985: su questa base l’autore lancia l’ipotesi di una eventuale origine orientale
dell’applicazione dell’energia idraulica alla siderurgia.
101
Baraldi-Calegari, 1991, p. 136.
102
Tra le quali un disegno di un manoscritto anonimo, conservato al British Museum, di autore
italiano della seconda metà del Quattrocento di probabile ambiente senese (Baraldi-Calegari, 1991, fig. 7).
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vedremo, infatti, il diffondersi in Toscana di tali tecnologie e la crisi del sistema basato sul basso
fuoco, segneranno di fatto il declino delle attività siderurgiche in questo bacino.
2.1. I MPIA NTI DI R IDUZIONE E FORGE
Uno dei primi interrogativi che è necessario affrontare consiste nel valutare quali, tra le
strutture idrauliche documentate in quest’area, fossero destinate alla vera e propria riduzione del
minerale in ferro e quali, invece, alla forgiatura del ferro grezzo prodotto in altri impianti. Alcuni
anni fa, quando furono pubblicate le prime testimonianze documentarie riguardanti la siderurgia
della Val di Merse, venne proposto un criterio di distinzione, fra impianti di riduzione e forge,
basato esclusivamente sulla terminologia impiegata nelle fonti, cioè fabrica ed hedificium103. [162]
In realtà la distinzione proposta è difficilmente applicabile in modo rigido senza incorrere in errori o
perlomeno notevoli incomprensioni: per fare solo alcuni esempi, si noti che la ferriera di Gonna,
certamente una struttura destinata alla riduzione del minerale, nella Tavola delle Possessioni del
1318-1320 viene definita “hedificio fabrice et fabrica”104 ed allo stesso modo il Sito IIIa, viene
definito nel 1308 “edifitium” e nel 1318-1320 “hedificio fabrice”. Anche per descrivere la ferriera
di Ruota (Sito 4), certamente un impianto di riduzione, nel 1390 si impiega la locuzione
“medietatem pro indiviso unius edifitii sive fabrice apte ad fieri faciendum et cudendum ferrum” e
poco più avanti “ipsum edificium seu fabricam”: tutte definizioni, cioè, che mostrano dunque una
notevole intercambiabilità nell’uso dei termini. Per questo riteniamo che si debba procedere con
estrema prudenza nel voler tentare di distinguere fra impianti di riduzione e forge solamente in base
alle laconiche indicazioni dei testi due-trecenteschi, spesso redatti da notai probabilmente del tutto
ignari del significato tecnico di alcuni termini. Pesanti dubbi rimangono, insomma, sul reale
significato da attribuire sia alla parola fabrica, sia alla parola hedificium/edificium. Quest’ultima, in
un caso, viene addirittura chiaramente impiegata per designare le unità produttive del ferro inserite
all’interno di più generiche strutture edilizie: “edifitiorum in ipsis domibus existentium actorum ad
103
Borracelli, 1984, pp. 51-52: il termine fabrica starebbe ad indicare “il luogo in cui lavoravano i
fabri”, che trasformavano in prodotti finiti i semilavorati provenienti dalle “ferriere”; solo in seguito, dal ‘500
in poi, fabrica avrebbe acquistato il significato generico di manifattura produttiva. Invece gli impianti definiti
hedificium o “defizio” sarebbero stati opifici in cui il minerale veniva ridotto nei bassi fuochi in semilavorati
atti alla vendita; tuttavia a tale proposito si faceva notare che talvolta una certa confusione può essere
ingenerata dal fatto che all’impianto di riduzione era annessa la fucina per la forgiatura. Per questa ipotesi il
Borracelli proponeva un opinabile parallelo con la situazione ligure, in cui peraltro la terminologia usata nelle
fonti si presenta ben chiara, ma ben diversa da quella riscontrata nei documenti senesi. In Liguria, infatti, a
partire dal XV sec., l’edificio in cui si convertiva la vena in ferro col metodo del basso fuoco e la si lavorava
al maglio, era chiamato sempre “ferriera” o “ferreria”, mentre invece il “maglietto” o “fucina” era una
costruzione, separata dalla ferriera vera e propria, in cui il primo prodotto molto grossolano veniva tirato in
verghe e più raramente in prodotti finiti, v. Baraldi, 1979, p. 12.
104
Sito 1 UT 1: posteriormente al succitato accenno della Tavola delle Possessioni, riguardo a questo
sito non possediamo testi originali fino al 1406, quando l’impianto è definito hedificium ferri. La terminologia
impiegata nei regesti di epoca post-medievale non è elemento probante in favore di tale o tal altra soluzione
tecnica, in quanto non sappiamo quali fossero le parole latine che comparivano nel testo originale; tuttavia,
sulla base delle trascrizioni dei compilatori si ricava l’impressione che anche negli originali per questo sito si
facesse riferimento ad un impianto di una certa consistenza, destinato alla riduzione del minerale.
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faciendum ferrum”105. [163]
Riguardo alla natura delle operazioni metallurgiche svolte in un dato impianto, è possibile
utilizzare anche altri criteri interpretativi, i quali possono scaturire dalla sola indagine di superficie
sul sito, ancor prima di ricorrere, ad esempio, allo scavo e ad analisi di laboratorio106. è un
indicatore importante, innanzitutto, la consistenza degli accumuli di scorie eventualmente
documentati per il sito: essi, se presenti in grande quantità, indicano la probabile presenza sul luogo,
in passato, di un impianto di riduzione. Anche l’osservazione macroscopica delle scorie può fornire
indicazioni in questo senso: la presenza di grandi quantitativi di scorie di tipo tapped107, in
particolare di grossa taglia, è forte indizio a favore dell’esistenza di una struttura di riduzione,
mentre quelle di tipo non-tapped, nel caso di impianti idraulici, sembrano piuttosto indicare la
presenza di forge. Nei siti individuati in Val di Merse sono spesso presenti entrambi i tipi, il che
confermerebbe l’associazione, nello stesso sito, tra impianto di riduzione e forgia. Venendo ad una
conclusione, ipotizziamo che nell’area indagata si operasse la riduzione del minerale in ferro
grezzo, oltre che nei già citati Siti 1 (UT 1), 4, IIIa, anche nei Siti 8108, 10 (UT 3) 109, 11 110, 22 111, 23
(UT 1)112, 25113, I114, II115, mentre incertezze rimangono per i Siti IVb116,VI117, XVIII118. [164]
105
Sito 25, a. 1320. Sull’ambiguità nell’uso dei termini nella documentazione scritta, diversi confronti
provengono da altre aree toscane: per gli impianti siderurgici dell’Elba si parla genericamente di “fabricae”,
con riferimento ad opifici nei quali si operava certamente la riduzione del minerale, mentre non è chiaro il
significato del termine “carsornia”, v. Corretti, 1990, pp. 17-18. Nell’area amiatina, in un caso è documentata
la distinzione tra “fabriche”, cioè semplici botteghe in cui lavoravano “fabbri de mano” (anni 1344-45 e 1430)
e “fabbriche grosse” o “difitii da fare ferro”, probabilmente bassi fuochi per la riduzione (1430); tuttavia
nell’impianto che nel 1318-20 viene definito solo “fabrica di sotto”, nel 1366 è documentata la riduzione in
un basso fuoco: “sextam partem pro indiviso unius igni qui vulgariter dicitur El fuoco di sotto”, cfr. Piccinni,
1989, pp. 207-208.
106
Si vedano, a questo proposito, anche alcuni dei criteri proposti in Serneels, 1994, pp. 75-76, per
tentare di individuare in quali siti avveniva la riduzione del minerale ed in quali la forgiatura.
107
Che provengono, cioè, da forni che evacuavano le scorie allo stato liquido, in una o più colate,
durante la fase di riduzione, secondo la distinzione proposta in Cleere, 1972, fra slag-tapping furnace e non
slag-tapping furnace.
108
Si vedano soprattutto i grandi accumuli di scorie ancora presenti sul sito, oltre a quelle asportate nel
1952: a tale data ne furono stimate ca. 1200 tonnellate.
109
Nella concessione di recupero del 1952 si parla di “scorie ferrifere costituite da ciottoli di minerale
più o meno ridotto dal fuoco, con presenza anche di oligisto, magnetite”. Tuttavia la quantità di scorie stimata
è piuttosto scarsa: 400-500 quintali.
110
Oltre al toponimo “Defizio”, si considerino gli accumuli di scorie documentati nel 1952, stimati in
oltre 400 m≥ (ca. 300 tonnellate).
111
Anno 1382: “edifizio”; a. 1390: “Edifizio e carbonigli”; si vedano inoltre i grandi accumuli di
scorie ancora presenti sul sito.
112
In questo caso si tratta di un impianto piuttosto tardo, attivo dalla metà del XVI sec.: a. 1559
“feriera [...] per fare el ferro”.
113
Anno 1318: “hedifitiorum actorum ad ferrum colandum et faciendum”; a. 1320: “edifitiorum in
ipsis domibus existentium actorum ad faciendum ferrum”.
114
L’impianto esisteva dalla seconda metà del XIII sec.; nel 1493 si parla di “difitii de ferro” anche
con riferimento alla ferriera sul Gonna. Si veda inoltre l’acquisto di minerale, nel 1427, in previsione del
ripristino dell’attività.
115
Nel 1427 si progetta il ripristino dell’attività ed acquisto di minerale per la riduzione;
probabilmente essa vi avveniva anche in precedenza.
116
Anno 1319: “gora fabrice”.
117
Anno 1318: toponimi “fabrica” e “le fabriche”
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Se è certo che tutti questi impianti utilizzavano l’energia idraulica, non abbiamo indicazioni
precise riguardo alla loro consistenza tecnica, in quanto solo raramente le fonti citano in modo
esplicito l’esistenza di magli o mantici, mentre in genere si limitano a specificare l’ubicazione delle
strutture produttive lungo i corsi d’acqua e la presenza di opere di derivazione e canalizzazione. Coi
soli dati della ricognizione di superficie, dunque, non possiamo che rimanere nel campo della pura
ipotesi, proponendo un confronto con impianti coevi sul tipo dei francesi moulins à fer119. I siti in
cui avveniva la riduzione erano probabilmente officine equipaggiate di maglio idraulico e di
focolare alimentato da mantici, forse anch’essi azionati ad acqua. In questi impianti di prima
produzione avvenivano la riduzione del minerale ed una immediata battitura al maglio; invece nelle
forge il primo prodotto dei bassi fuochi, costituito da masselli molto grossolani, veniva trasformato
in semilavorati. Questi opifici dovevano essere dotati di maglio idraulico, forse anche più magli di
varie dimensioni, mentre è possibile che i mantici non fossero idraulici, in quanto non era
strettamente necessario raggiungere altissime temperature nei focolari.
Per quanto riguarda la circolazione nel senese del ferro a vari stadi di lavorazione, per il XIV
sec. siamo in parte informati dai libri della Gabella del comune e da alcuni libri contabili120:
sappiamo, infatti, che circolava sul mercato vena di ferro alla stessa condizione in cui usciva dalla
miniera, cioè senza aver subìto trattamenti pre-riduzione; erano inoltre presenti masselli o blumi
(“ferro in peççi”, “ferro”, “fero”, “frero”), cioè masse spugnose ottenute nel basso fuoco con peso
variabile tra 6 e 12,4 libbre (anche il ferro cosiddetto “grosso” è probabilmente da identificarsi con
il “ferro in peççi”). Tutti questi prodotti venivano trasportati con carri o a soma e fuori dal mercato
senese subivano un aumento di prezzo del 63%. Circolavano inoltre semilavorati ferrosi con forma
ben definita come le “spiagie”, le “spiagiuole” ed i “verghonni”: questi ultimi prodotti erano
trasportati a soma e costavano il 13% in più del ferro grezzo121. Una tale circolazione, dunque,
sottintende l’esistenza, anche nel territorio senese, di una siderurgia abbastanza organizzata per una
produzione differenziata, in grado di rifornire sia il mercato interno che mercati più lontani. Non si
può comunque specificare in che quantità questi prodotti (minerale, blumi, ecc.), fossero lavorati
negli impianti del senese - e meno ancora in quale area -, ed in quale quantità invece soltanto vi
transitassero.
A partire dal XV secolo gli edifici destinati alla produzione di semilavorati ferrosi, e non alla
riduzione del minerale, saranno ben distinguibili in quanto detti “distendini”, cioè opifici in cui si
poteva preparare il ferro alla vendita e ‘distenderlo’ [166] per successive lavorazioni nelle botteghe
dei fabbri cittadini o per immediata produzione di oggetti finiti di largo consumo (ad es. chiodi)122.
Tali strutture lavoravano in connessione con le ferriere vere e proprie, ma erano costruzioni
separate, che potevano trovarsi subito accanto all’edificio principale oppure ad una certa distanza,
ma comunque sempre in zona123.
118
L’unico dato disponibile è la definizione, dell’anno 1278,come“hedifitium a ferro”.
Cfr. supra par. 1.1.
120
Guarducci, 1980, p. 614.
121
Ivi, p. 616.
122
Sito 10 UT 2: fine XV sec.: “distendino o battiferro”, a. 1567: “battiferro da distendare il ferro da
fare chiodi”. Sito 1 UT 1, a. 1545: “poter fare un Distendino a esso suo Edifizio Nuovo”. Sito 2 UT 2, a.
1585: “distendino”. Sito 6, a. 1600: “edifitio da far ferro detto la ferriera di Campo Starchi et il distendino
continuo al detto edifitio”.
123
In Liguria la struttura corrispondente è chiamata “maglietto”: qui il primo prodotto della riduzione,
che aveva subìto già dei trattamenti al maglio nelle ferriere, veniva tirato in verghe e più raramente
trasformato in prodotti finiti, v. Baraldi, 1979, p. 12. In genere i due edifici erano distinti ma posti uno accanto
all’altro; nel caso in cui i due impianti si fossero trovati entro un’unica costruzione, i relativi strumenti erano
posizionati agli antipodi l’uno dell’altro, v. Montagni, 1993, p. 180.
119
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Per i secoli XIII-XV non abbiamo dati, né provenienti dalle fonti scritte, né dalla ricognizione
di superficie, che permettano di ricostruire quale specifico tipo di forno per la lavorazione del ferro
fosse adottato negli opifici siderurgici del bacino Merse-Farma. Per l’assetto degli impianti nel
periodo precedente al XV secolo, dunque, è possibile fare soltanto delle osservazioni di carattere
molto generale, sulla base del contesto tecnologico toscano. è ragionevole ipotizzare, per prima
cosa, che si trattasse di bassi fuochi, nei quali con il metodo diretto il ferro era prodotto allo stato
solido sotto forma di spugna o blumo grezzo. Le impurità venivano eliminate tramite la formazione
di scorie, poi rimosse per liquefazione, mentre quelle ancora rimanenti venivano spremute dal
blumo con successivi riscaldamenti e passaggi al maglio124. Nelle nostre fonti, infatti, fino al tardo
XVI sec., non è possibile rintracciare elementi che possano far pensare all’impiego del metodo
indiretto, e quindi di forni a manica o ‘cannecchi’; al contrario compaiono, come vedremo anche
poco più avanti, alcuni espliciti riferimenti alla permanenza del sistema basato sul basso fuoco fino
almeno a tutto il Cinquecento125. [167]
È possibile che i bassi fuochi qui impiegati rientrassero in una tipologia collocabile tra il tipo
127
.
‘a catasta’126 e quello ‘catalano-ligure’, forse con maggiori punti di analogia con quest’ultimo
Tale ipotesi si basa sul fatto che gli impianti erano sempre collocati all’interno di un edificio e non
124
Durante tutta l’Antichità e buona parte del Medioevo la lavorazione del ferro avveniva entro forni,
definiti appunto ‘bassi fuochi’, nei quali non si raggiungevano le alte temperature necessarie per la fusione del
minerale (1536∞), ma in cui con il metodo diretto il minerale era convertito direttamente in ferro a basso
contenuto di carbonio. Sulla classificazione dei vari tipi di basso fuoco, con più o meno accentuate varianti
locali, esiste oggi una vastissima letteratura, a partire dagli studi ormai classici di Forbes, 1950; Cleere, 1972;
Pelet, 1973. Per uno sguardo sintetico sul panorama europeo si vedano Cima, 1991b, pp. 119 e sgg. e CuciniTizzoni, 1992, pp. 32 e sgg., con la bibliografia ivi citata. Per maggiori approfondimenti si consulti la
imponente raccolta bibliografica in Paquier-Mangin, 1992. Per un quadro d’insieme dei più recenti contributi
archeologici riguardo alle caratteristiche tecnologiche delle strutture produttive del ferro in Toscana in epoca
medievale, v. Cortese-Francovich, 1995.
125
Per il XVI sec. dalla testimonianza di Agnolo Venturi si evince che nella ferriera di Ruota si
ricavava direttamente il ferro dalla vena attraverso un focolare che viene semplicemente definito “focinale”
(Venturi, Ruota, p. 26), mentre nel 1570 anche per la ferriera di Gonna (Sito 4) si cita il “quadro del focinale
di ferro”. Si vedano anche le testimonianze di prima metà XVII sec., infra, par. 2.4.
126
La struttura materiale di questo tipo di basso fuoco, estremamente semplice e modesta, in genere
collocata all’aperto o sotto tettoie, prevedeva un piano in muratura appoggiato su un basamento, sopra al
quale si approntava il focolare di riduzione con una cortina circolare di protezione in materiali sciolti. Sul
fondo del focolare si poneva uno strato di carbone, poi una carica di minerale frantumato in piccoli pezzi, che
veniva di nuovo coperta di carbone; in genere era presente un muretto verticale a protezione del mantice
azionato manualmente. Questo genere di focolare era di solito una struttura polivalente, che veniva usata per
la riduzione del minerale, ma anche per riscaldare il massello prima di sottoporlo alla forgiatura. Esempi
toscani di tale tipologia sono il basso fuoco scavato nel castello di Rocca S. Silvestro, databile XI-XII sec.
(Francovich-Parenti, 1987, pp. 91-108; Francovich, 1991, pp. 58-60 e ricostruzioni a p. 84), i forni
documentati per i secc. XII-XIV sull’isola d’Elba, sul promontorio di Piombino, nella valle dell’Alma e nel
golfo di Follonica (v. Gelichi, 1984, pp.37-41; Corretti,1991, pp. 48-51; Cucini-Tizzoni, 1992, pp. 76 e sgg.;Martin,1994).
127
Si tratta in pratica dell’evoluzione del basso fuoco a catasta in una struttura materiale piuttosto
consistente, ben documentata per la zona ligure nei secc. XV-XIX. Il basso fuoco era sempre contenuto entro
un edificio, che comprendeva, inoltre, anche il maglio meccanizzato. Il focolare era infossato entro un
basamento rettangolare di ampie proporzioni, protetto ai lati da muri in pietra refrattaria, che si appoggiava ad
un muro che proteggeva il sistema di ventilazione; uno dei lati presentava un’apertura per l’evacuazione delle
scorie. La ventilazione, nel XV sec., era garantita da mantici idraulici, mentre soltanto nella prima metà del
XVII sec. verranno introdotte le trombe idroeoliche. I ferrieri controllavano il processo mediante l’apertura
superiore, che consentiva di raggiungere con attrezzi a manico lungo il massello. Per la descrizione
particolareggiata di questi impianti ed il lessico tecnico impiegato si vedano Calegari, 1977; Baraldi, 1979;
Baraldi, 1986.
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all’aperto e che risultano essere caratterizzati da una struttura materiale piuttosto consistente: si
pensi alla ferriera di Castiglion della Farma, che nel 1318 ca. ci viene descritta come “duarum
domorum et hedifitiorum actorum ad ferrum colandum et faciendum cum eorum apparatibusì. La
costruzione di un impianto siderurgico alimentato da energia idraulica, infatti, impegnava una
buona dose di conoscenze tecniche, una notevole accuratezza nella messa in opera delle
infrastrutture idrauliche, delle canalizzazioni, delle ruote; il focolare, così come il maglio, doveva
essere collocato in un punto stabilito e fisso dell’edificio, che richiedeva una organizzazione
spaziale rigida e vincolata alla posizione degli alberi motori delle ruote idrauliche. è quindi
probabile che il basso fuoco prevedesse delle murature abbastanza solide, che potevano essere via
via restaurate ed in parte rifatte, ma che non venivano quasi mai spostate del tutto di luogo.
L’intrinseca fissità delle strutture legate allo sfuttamento dell’energia idraulica sembra quindi
contrapporsi all’estrema labilità dei forni a catasta indagati in altre aree della Toscana meridionale
per il periodo precedente al XIV secolo. [168] Riguardo a questi ultimi, infatti, sappiamo che non
prevedevano l’impiego dell’energia idraulica ma erano alimentati da mantici manuali, che quasi
sempre erano collocati all’aperto o sotto semplici tettoie, che venivano continuamente smontati,
ricostruiti, spostati in altro luogo, e talvolta sembravano quasi ‘seguire’ il bosco via via che con il
taglio esso si andava esaurendo128.
Solo per il XV secolo e oltre possiamo contare su alcune testimonianze più esplicite riguardo
alla struttura degli impianti di riduzione: alcuni dati interessanti provengono da documenti scritti di
XVII sec., che fanno però riferimento alla situazione esistente nei secoli precedenti. In particolare
tra 1602 e 1620 Ascanio Venturi, in lite con la comunità di Monticiano a proposito del taglio di
boschi per le ferriere, dichiara che “pretendano che dal Venturi non si possa far tagliare cerri il per
che dicano che quando la Comunità alienò l’edificio (che a que’ tempi lavorava alla casentina) non
se ne consumava [...] e quanto ch’alla casentina non sia solito adoperarsi cierro, se li niegha [...]
come la ferriera de Signori Bolgherini nella corte di Torniella ha lavorato sempre alla casentina [...]
e quanto a far lavorare alla bresciana questo alla Comunità non ha da importare”. Da queste parole
veniamo dunque a sapere che nella ferriera di Torniella si è sempre lavorato “alla casentina”, e che
nella ferriera di Gonna, alla quale in questo periodo il Venturi sta apportando modifiche per passare
al metodo indiretto “alla bresciana”, si lavorava “alla casentina” nel 1460, anno in cui la comunità
vendette l’edificio. [169] Non conosciamo altri particolari su questa variante locale di basso fuoco,
che appare in crisi nel Casentino durante il ‘500129; un altro impianto “alla casentinese” fu fatto
costruire nel 1546 a Follonica dagli Appiano, e nel 1578 fu fatto “riassettare [...] dalla casentina alla
bresciana”, cioè messo in condizioni di lavorare la ghisa130.
2.2. E DIFI CI E RUO TE IDRAU LICHE
Abbiamo detto in precedenza che le strutture di riduzione individuate sono descritte sempre
come inserite all’interno di un edificio e non all’aperto o sotto coperture in materiali deperibili. Che
aspetto avessero questi edifici e come fossero articolati, non è facile da stabilire: le indicazioni delle
fonti scritte, come già più volte sottolineato, sono ancora più avare di informazioni che per i mulini,
mentre i ruderi rimasti sul terreno sono spesso praticamente illeggibili.
Per il periodo dei secoli XIII-XIV, riguardo alla vera e propria officina produttiva, nelle fonti
ricorrono esclusivamente i termini hedificium e fabrica, nelle loro diverse varianti, dei quali
abbiamo già trattato in precedenza. Sappiamo che talvolta il complesso produttivo comprendeva
128
Si veda la bibliografia citata alla nota 126 ed inoltre infra par. 3.1.
Giovagnoli, 1992, p. 18.
130
Rombai-Tognarini, 1986, p. 11.
129
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133
anche edifici destinati ad abitazione131, carbonili 132, depositi per il minerale
, stalle 134, forse
135
ambienti di servizio aperti con copertura ; in pratica gli stessi annessi che vengono elencati anche
nella documentazione dei secoli successivi136. In una raffigurazione settecentesca i ruderi
dell’impianto siderurgico di S. Galgano (Sito 8), vengono rappresentati in pianta con la didascalia
“Vestige dell’Antiche Ferriere”: si tratta di un ambiente unico, con tre pilastri centrali, un lato
absidato, un altro lato con un piccolo ambiente esterno137.
I resti materiali individuati si limitano talvolta ad accumuli di pietre, miste a frammenti di
coppi di copertura, laterizi e refrattari138. [170] Soltanto in pochi casi si sono riscontrati lacerti di
murature sicuramente medievali: ad esempio nel Sito 25, dove si conserva una lunga muratura a
sacco, spessa 75 cm, a corsi regolari di pietre sbozzate legate con malta, che segue con andamento
parallelo il torrente per oltre 12 m; sono inoltre presenti altre strutture murarie poco leggibili, ma
che denotano comunque un complesso piuttosto articolato. Nel Sito 2 UT 1 il mulino
cinquecentesco si impianta sui resti di un edificio più antico, presumibilmente la ferriera che qui
sappiamo essere esistita in precedenza: si tratta di un angolo formato da due grossi muri in filaretto;
nel Sito 6, invece, i resti dell’edificio cinque-seicentesco riutilizzano nelle murature delle grandi
bozze perfettamente squadrate, probabilmente provenienti da un edificio preesistente. Del Sito 22,
una ferriera attiva dal XIV al XVII sec., si conservano vari lacerti murari in pessime condizioni: due
ambienti rettangolari, vicini al torrente, interpretabili come carbonili di servizio della ferriera vera e
propria, che consiste in un edificio rettangolare largo 10 m e lungo almeno 14, diviso in due
ambienti stretti ed allungati; le murature sono molto irregolari in pietre e ciottoli.
Un discorso a parte va fatto invece per il Sito 1 UT 1 ed il Sito 4, nei quali si sono conservate
notevoli strutture disposte in un insieme piuttosto articolato e ben leggibile. Un grosso problema è
però rappresentato dal fatto che questi impianti hanno proseguito la loro attività fino almeno al
XVIII secolo ed hanno quindi subìto notevoli ristrutturazioni e modifiche attraverso gli anni.
Tuttavia, in entrambi i casi, sembra di poter individuare come nucleo più antico e presumibilmente
originario, sulla base della tecnica costruttiva, l’ambiente rettangolare principale immediatamente
sottostante al bottaccio. Entrambe le strutture presentano delle forti analogie: sono rettangolari,
ampie, a vano unico senza traccia di suddivisioni interne né di solai, nonostante un notevole
sviluppo verticale; ad entrambe è stato successivamente addossato di lato un ambiente esterno
rettangolare. In entrambi i casi l’ambiente principale si appoggia al declivio del terreno, in
posizione sottostante al bottaccio, che sostiene con la propria parete. Nel Sito 1 UT 1 si nota che la
parete di sostegno al bottaccio, ora inglobata dal successivo mulino, proseguiva verso sud, cosicché
la forma originaria dell’edificio sembra essere stata ad elle. Nel Sito 4, invece, i carbonili, di più
recente edificazione, sono leggermente staccati dall’edificio principale, disponendosi comunque
ortogonalmente ad esso, sempre a valle del bottaccio (quindi la pianta complessiva assume anche in
questo caso un aspetto ad elle).
131
Sito 25, a. 1318: “duarum domorum et hedifitiorum”; a. 1320: “edifitiorum in ipsis domibus
existentium”. Sito IIIa, a. 1319: terreno “cum domo [...] et cum hedificio fabrice”. Sito 4, a. 1390:
“domorum”.
132
Sito 4, a. 1390: “carbonilium”. Sito 1 UT 1, a. 1407: “carbonilis”.
133
Sito 4, a. 1390: “venariorum”. Sito 1 UT 1, a. 1407: “venarie”.
134
Sito 4, a. 1390: “stabulorum”.
135
Sito II, a. 1319: “cum fabrica et logia”.
136
Sito 4, a. 1571: “cum suis domibus, stabulis, carbonilibusì, cui nel 1575 Agnolo Venturi aggiungerà
una stalla ed una capanna. Sito 6, a. 1600: “edifitio [...] distendino [...] la stalla carbonili et ancho la casa et
capanna che è solito servire per tale Edifitio a Brenna”. Sito 1 UT 1, a. 1631: “carbonili, stalle, magazzini”.
137
Pubblicata in Borracelli, 1989b.
138
V. Sito 8.
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Questa tipologia trova un confronto esterno con gli edifici in cui erano collocati i bassi fuochi
liguri139: questi ultimi avevano di solito una forma ad elle ed erano costituiti da due ambienti
giustapposti ad angolo retto, uno destinato a carbonile, e l’altro, detto “mandraccio”, destinato alle
operazioni metallurgiche. [171] Sopra al “mandraccio” si trovava il bacino di raccolta dell’acqua,
che alimentava la ruota del maglio ed i mantici o la tromba idroeolica. L’interno della ferriera era
suddiviso in tre parti: a monte si trovavano la tromba idroeolica o i mantici, al centro il focolare
appoggiato ad un muretto in cui si inseriva l’ugello per la ventilazione, nella parte a valle si trovava
il maglio. Una articolazione molto simile è documentata anche per le officine canavesane e còrse140.
Abbiamo sottolineato in precedenza il fatto che l’applicazione dell’energia idraulica alla
metallurgia è strettamente legata all’impiego di ruote verticali141: solo una ruota di tale tipo, infatti,
essendo dotata di albero motore orizzontale, poteva azionare magli o mantici con i già descritti
sistemi a camme o biella-manovella. Di conseguenza, anche se nella nostra documentazione scritta
precedente al XVI sec. gli accenni alle ruote idrauliche sono quasi inesistenti142, possiamo
presumere che tutti gli opifici siderurgici individuati, sia ferriere che forge, fossero dotati di una o
più ruote verticali143.
Questi impianti dovevano quindi notevolmente differenziarsi, anche nell’aspetto esteriore, dai
mulini da grano coevi, che come abbiamo visto erano in genere dotati di ritrecine. Una traccia di
quella che agli occhi dei contemporanei doveva apparire in un certo senso come una caratteristica
insolita e peculiare di tali opifici, è implicita già nel nome che anche nei documenti più antichi
viene attribuito al Sito 4, cioè “Ruota”. Questo impianto doveva infatti essere dotato di una ruota
idraulica verticale, probabilmente piuttosto imponente, che, ben visibile sull’esterno dell’edificio,
gli conferiva un aspetto molto diverso da quello dei mulini della zona144. Abbiamo visto, infatti, che
la ruota verticale sembra essere stata relativamente rara in Toscana fino al XIV secolo, quella
colpita dall’alto addirittura rarissima145. [174]
Per gli opifici della nostra zona, soltanto sulla base della morfologia del terreno, e soltanto in
alcuni casi, è possibile fare qualche ipotesi sul tipo di ruote verticali utilizzate, se esse fossero cioè
139
Calegari, 1977, pp. 173-175.
Cima et alii, 1984, pp. 564-565; Mattioli, 1991, fig. 1, p. 261. Altri confronti per la tipologia di
ferriere a vasto ambiente unico, ma in Età Moderna, sono ben reperibili in Toscana: Azzari, 1990; ArmaniniCrusi-Fossati, 1990.
141
V. supra par. 1.2.
142
Soltanto per il Sito 4 nel 1390 si parla di “rotarum”.
143
Un po’ problematica appare la copia di un documento del 1407, relativo al Sito 1 UT 1, nella quale
si legge: “aque fluens rotand(um) reticinorum”. L’accenno a dei ritrecini in questo contesto appare abbastanza
misterioso, visto che un mulino attiguo alla ferriera è documentato solo dal XVII secolo. è possibile, anche se
abbastanza singolare, che con il termine “retecinisì, usato comunemente nel vocabolario tecnico riguardante i
mulini, qui ci si riferisse invece in generale alla presenza di ruote idrauliche nell’opificio.
144
Un esempio simile è riscontrabile anche per il mulino “del Barlettaio”, presso Roccastrada, che nel
1318-20 era sede di un impianto destinato alla lavorazione del minerale di rame locale; era detto anche “del
Rotone”, perché unico nel comprensorio ad essere dotato di una imponente ruota idraulica ad asse orizzontale,
mentre i mulini della zona funzionavano tutti a ritrecine, cfr. Farinelli, 1992, pp. 36 e 49.
145
V. Cap. II, par. 1.1.
140
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colpite dall’acqua in basso, di fianco o dall’alto146. Nei Siti 1 (UT 1) e 4 gli edifici sono appoggiati
ad un dislivello del terreno, al di sopra del quale si trova il bottaccio, il che permetteva una caduta
sufficiente per ipotizzare la presenza di ruote verticali ‘per di sopra’. Un certo dislivello era
utilizzabile anche nei Siti 2 (UT 2) e 23 (UT 1), e ciò avrebbe permesso l’installazione di ruote per
di sopra o più probabilmente ‘alle reni’. Invece la morfologia dei Siti 10 (UT 2), 8, 25 suggerisce la
presenza di ruote ‘per di sotto’; in particolare nel Sito 25 i resti murari sono collocati quasi alla
stessa quota del torrente ed il terreno pianeggiante avrebbe permesso lo scavo di un canale
grossomodo orizzontale con portata d’acqua abbastanza costante.
La ruota, o ruote verticali, erano collocate sul fianco dell’officina, all’esterno, parallelamente
all’edificio, mentre l’albero motore orizzontale, un massiccio tronco di legno lungo diversi metri,
attraverso un’apertura nel muro penetrava all’interno del locale principale. [175] Si veda a questo
proposito la testimonianza, anche se tarda, di Agnolo Venturi relativa alla ferriera di Ruota: “si muri
a secho le buce delle ruote perché non possi entrare nella ferriera per dette buche, com’é avvenuto
più volte che per dette buche e per l’asse primo del maglio c’entrato qualche tristo che ci à guasti i
mantici e furati fer amenti” 147.
Per quanto riguarda la posizione delle ruote nell’edificio, soltanto per i Siti 1 (UT 1) e 4, dove
i resti di murature sono ancora leggibili, è possibile fare delle ipotesi. Nel Sito 4 almeno due ruote
sono probabilmente presenti dal XIV sec.148, una per i mantici ed una per il maglio, e lo stesso
ritengo avvenisse per il Sito 1 UT 1, vista la capienza e la struttura dell’edificio e le testimonianze
dei secoli successivi. L’ipotesi più probabile è che le due ruote fossero collocate su due pareti
diverse e cioè ciascuna su uno dei due lati ortogonali alla curva di livello al di sopra della quale era
situato il bottaccio. L’acqua, da due aperture differenti, doveva essere condotta a cadere sulle ruote
per mezzo di canalette lignee pensili agganciate alle pareti. Si ritiene probabile una tale disposizione
perché per collocare due ruote sulla stessa parete sarebbe stato necessario molto più spazio di quello
disponibile e ciò avrebbe creato anche delle difficoltà per l’organizzazione dell’ambiente interno in
cui si trovavano sia il focolare che il maglio.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, le ruote idrauliche, realizzate quasi interamente
in legno, erano sottoposte ad una forte usura e richiedevano riparazioni frequenti. Infatti,
specialmente nel caso degli impianti siderurgici, dove il lavoro si svolgeva con cicli stagionali, le
ruote dovevano necessariamente rimanere ferme per lunghi periodi, alcune parti erano lasciate
all’asciutto, altre parti restavano immerse nell’acqua, senza contare l’azione della pioggia, che
riempiva le cassette radiali e poi si asciugava per evaporazione. Era inoltre particolarmente
notevole, rispetto alle ruote dei mulini, lo stress dovuto ad un carico intermittente per l’azionamento
di magli e mantici, che si concentrava specialmente sui raggi e sui loro giunti.
Una preoccupazione pressante per problemi di questo genere traspare dallo scritto di Agnolo
Venturi sulla manutenzione della ferriera di Ruota, del 1571 ca., ma nel quale si fa riferimento ad
una serie di aspetti tecnici che possiamo ragionevolmente ritenere del tutto simili a quelli
146
Pur tenendo conto del fatto che questo criterio è applicabile solo con una certa cautela e non
conduce a conclusioni assolutamente certe. Infatti, anche nel caso dei pochi siti per cui sono disponibili i dati
di scavo, come ad es. per la già citata fornace da ferro di Lappytthan, in Svezia, gli studiosi non sempre
concordano sul tipo di ruota impiegato: Magnusson (Magnusson, 1985, pp. 26-27) ritiene che l’acqua cadesse
sulla ruota, pur con un piccolo dislivello, dall’alto; invece Byoerkenstan e Fornander (BjoerkenstanFornander, 1985, p. 190), ritengono improbabile che l’acqua fosse condotta a cadere sulla ruota, mentre
pensano che si trattasse di una ruota per di sotto mossa dall’acqua che scorreva nel canale quasi orizzontale di
fronte alla fornace.
147
Venturi, Ruota, p. 26. Si veda anche la raffigurazione di questa ferriera, in uno schizzo databile con
probabilità alla fine del XVI sec., in cui è ben visibile una ruota verticale all’esterno dell’edificio (AVG, T.
42, fasc. 3).
148
Sito 4, a. 1390: “rotarum”.
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riscontrabili negli impianti dei secoli precedenti [176]: “si cuopri infatti le ruote di frasche perché il
sole non le guasti e alsi le canalette e canale e il canale piano si cuopri di vena, per il sole non le
facci fendare e crepare; e si metti un pontello alla ruota del maglo di drento, che andandovi mai
aqua non possa far andare el maglo e mettare a pericolo di rompare l’ancudine e maglo. Si levi
l’aqua di modo che si lassi alla cateratta solo un pezzetto di (?) che vada tanta acqua alla ferriera
che mantenghi le ruote e canali [...]. Si rimondi le gore e il fiuto e sotto le ruote, e finite queste cose
si lassi venire tanta acqua che basti a mantenere molli le ruote e i canali [...]. E bisogna avartire che
sempre quando e maestri vengano come quando se ne vanno si riveda da loro le ruote, canali e
canalette”149. In questo testo sono presenti anche alcuni accenni relativi ad elementi accessori della
ruota ed alla sua installazione come i “canali”, le “canalette”, la “cateratta”, il “canale piano”150.
Infatti l’opificio idraulico, per funzionare efficientemente, aveva bisogno non solo di grande cura ed
abilità da parte dei carpentieri nella costruzione della ruota, ma anche di una buona installazione
della ruota stessa e di un ben regolato rifornimento dell’acqua151.
2.3. M AGLI , MANT ICI , ATTRE ZZI
Riguardo alla struttura materiale delle due macchine ad azionamento idraulico più importanti
nella metallurgia del ferro, il maglio ed il mantice, possiamo contare soltanto su pochissime
testimonianze di epoca medievale. Nonostante il maglio meccanizzato sia da ritenersi con
probabilità la prima macchina idraulica ad essere stata inserita anche nelle officine siderurgiche
della nostra zona152, la presenza di magli viene citata raramente in modo esplicito nei documenti di
XIV-XV sec.153 e senza fornire mai alcun dettaglio che permetta di fare ipotesi sulla loro tipologia e
funzionamento, se ad esempio fossero ad azionamento terminale o laterale.
Soltanto con le descrizioni di XVI sec. si aggiungono alcuni particolari, ma a questo
proposito è doveroso sottolineare come non sia possibile determinare le eventuali differenze
esistenti rispetto ai congegni di epoca precedente. Nel 1570 (Sito 1 UT 1) si citano il “maglio”, la
“boga” ed un “paio di primacioli per il maglio”; nel 1582 “maglio, ciabatta, bogha”; nel 1571-73
Agnolo Venturi raccomanda: “ancora si tenga uno maglo e una boga d’avanzo perché aviene che
spesse volte si rompe o l’uno o l’altro”. [177] La “boga” era il grosso cerchio di ferro entro il quale
passava il manico del maglio, ed era dotato di due elementi conici laterali che si imperniavano entro
appositi cuscinetti incastrati nei montanti dell’incastellatura fissata al suolo154. I “primacioli” sono
appunto i cuscinetti in ferro di sostegno per l’oscillazione del maglio155, mentre non ho reperito
confronti per chiarire il significato del termine “ciabatta”; è comunque abbastanza chiaro che si
riferisca ad una parte del maglio stesso. Riguardo all’incastellatura del maglio, nel 1571-73 si
149
Venturi, Ruota, pp. 26, 29, 31. Per un confronto cfr. anche Muendel, 1991b, pp. 510 e sgg.
Si vedano anche il Sito 4, a. 1390 “canalium”; Sito 1 UT 1: a. 1570: “canali e canalette sono
montati”, a. 1582 “canali e canalette, chiosi e chioselli, muraglie e muro di bottaccio”. Negli inventari liguri
di XV sec. (Baraldi, 1979, p. 56), i termini “canali”, “canalibusì, “canallesì, “cannai”, indicano sempre
condutture in legno che hanno a che vedere con la caduta dell’acqua sulla ruota, distinte cioè dal canale
principale di alimentazione dell’opificio ovvero la gora.
151
Sulla tipologia, la struttura ed il notevole sviluppo raggiunto durante il Medioevo dalle impalcature
lignee che alloggiavano le ruote, si veda supra, par. 1.2.
152
Sulla precedente diffusione del maglio idraulico rispetto al mantice idraulico gli studiosi di storia
della tecnologia sono concordi, v. sopra, par. 1.1.
153
Sito 4, a. 1390: “malleorum”. Sito 1 UT 1, a. 1407: “malleorum”.
154
Baraldi, 1979, p. 52 e p. 176: il termine è documentato dal XV secolo.
155
Ivi, p. 63.
150
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nominano i “ciocchi e ciochelli”156, ovvero le pesanti travi di legno, interrate nel pavimento della
ferriera, sulle quali si impostavano i montanti laterali157, e nel 1616 (Sito 1 UT 1) si specifica “un
par di ciocchi grandi [...]. Cavare i ciocchi vecchi e far le buche recipienti per mettare i nuovi”.
In stretta connessione col maglio vero e proprio era l’incudine, che viene più volte citata nella
documentazione158, mentre nel 1612, ormai in clima di passaggio al metodo indiretto, si cita “Una
cieppa per mettare sopra la massa secondo che usano i bresciani. [...] Far cavare la buca per mettare
la cieppa che ci va la massa”, ovvero un massiccio tronco di legno confitto nel terreno, sul quale si
poneva la “massa” cioè un grosso parallelepipedo di ghisa, anch’esso parzialmente infossato nel
pavimento, sul quale batteva il maglio159.
Anche i mantici sono nominati due sole volte nella documentazione di XIV-XV sec.160,
mentre si moltiplicano i particolari nei secoli successivi, spesso con notazioni precise e minuziose
sulla loro costruzione e manutenzione, il che conferma quanto già visto in precedenza161, cioè che i
mantici restano lo strumento cardine e più delicato del ciclo produttivo, soggetto a continuo
ripristino a causa dell’usura, e riguardo al quale si sentiva la necessità di trasmettere consigli tecnici
che ne permettessero il buon funzionamento. Non ci sono tracce dell’introduzione della tromba
idroeolica nella documentazione esaminata, che arriva fino al XVIII secolo, neanche in occasione
del passaggio al metodo indiretto “alla bresciana” nei Siti 1 UT 1 e 4162. [178]
Nel 1570 (Sito 1 UT 1) si parla di “mantaci che sono nuovi e co le tavole nuove e ferramenti
de le tavole da le canne in fuore” e di un “ogiello buono”; nel 1582 si nominano di nuovo “mantaci
e augello”; nel 1616 si raccomanda di “schonficare le cuoia dei mantaci che aviamo a Brenna e
rivederle di quello avessero bisogno con ogni sorta di ligna”; nel 1634 per la ferriera di Gonna (Sito
1 UT 1), si dà incarico al maestro Obizo Martinelli di Castel del Piano di costruire “un mantaco
murato” ed “un mantaco fatto di muraglia” è citato anche per Ruota (Sito 4) nel 1631, in entrambi i
casi con evidente riferimento al muro che proteggeva i mantici stessi dal calore.
Uno spazio tutto particolare merita poi la lunga descrizione sul modo di conciare il cuoio dei
mantici che Agnolo Venturi fa nella sua memoria riguardante la ferriera di Ruota (anno 1571),
consapevole di tramandare ai figli un ricco bagaglio di conoscenze tecniche e segreti del mestiere di
cui pochi erano a conoscenza. Egli sottolinea infatti che “questa cosa de mantaci è di grandissima
importanza e nell’avere i mantaci buoni consiste e importa il guadagnare e perdare e perché molte
volte non si trova cuoia buone da comprare conce in allume163 in Siena, io ò sempre usato di farle
conciare da me per mio logro delle ferriere che ò lavorato e anco ne ò conce molte volte per vendare
156
Venturi, Ruota, p. 31. Vedi anche Sito 6, a. 1600: “ciocchi”.
Nei documenti liguri erano detti “sochi”, “zocchi”, “zoccoli” ecc., e insieme ai piumazzuoli e alle
stanghe formavano l’armatura che sosteneva e fra cui si muoveva il maglio. Si veda la particolareggiata
descrizione fatta dal Baldracco e pubblicata in Baraldi, 1979, pp. 103-104; si veda anche Montagni, 1993, pp.
181-182.
158
Sito 4, a. 1390: “incudinum”; a. 1571: “incudinibus”. Sito 1 UT 1, a. 1407: “acutinum”; a. 1545:
“anchudine”; a. 1570: “rifacitura della ancudine”.
159
Breschi-Mancini-Tosi, 1983, pp. 95, 98.
160
Sito 4, a. 1390: “mantacorum”; Sito 1 UT 1, a. 1407: “mantaciorum”.
161
Par. 1.4.
162
Sul periodo di introduzione della tromba idroeolica si veda supra, par. 1.4, nota 83. Cima fa
comunque notare che la tromba idroeolica non sostituisce mai completamente i mantici, che sono documentati
addirittura per altoforni nel XIX secolo (Cima, 1991b, p.279).
163
Egli aveva specificato in precedenza che “avendosi a rifare si pigli cuoia conce in allume perché l’ò
trovate sempre meglo conce in allume che in mortina; per la pratica ò auta in mortina sono tropo seche, in
allume sonno più morbide et non ricidano come fanno in mortina”, Venturi, Ruota, p. 29.
157
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ad altri per ferriere e ci ò guadagnato di molti denari”164. [179] Si raccomanda inoltre che “di queste
cuoia conce bisogna sempre tenerne perché aviene qualche volta a mezo il lavoro che i mantaci non
soffiano bene che mette conto fare quella spesa di rifarli e non lavorare con mantaci gattivi, ed io mi
so sempre ingengnato di tenere buoni mantaci ancora che molte volte viene da maestri che li fanno
farli buoni o gattivi”165. Inoltre “si avertisca di tenere sempre uno ugello di rame d’avanzo che
qualche volta uno ugello nuovo si rompe e non avendone uno altro da mettare su sarebbe grande
disordine e si perdarebbe tempo alla ferriera 8 o 10 dì”166.
Riguardo agli attrezzi che costituivano il corredo di oggetti mobili necessari per le operazioni
che si svolgevano nelle officine siderurgiche, i pochi documenti di XIV-XV sec. sono come al
solito estremamente laconici, limitandosi a parlare genericamente di “ferramenta” ed
“instrumenta”167, con un solo riferimento specifico alle “tanalliae” 168, che servivano per estrarre il
massello dal focolare e tenerlo fermo sotto il maglio. Un po’ più eloquenti sono i documenti di XVI
secolo: nel 1570 (Sito 1 UT 1) si elencano “paiuolo, padella, accetta, ascia, segha, bacinetta”; nel
1582 (Sito 1 UT 1) è la volta di “achaletta169, ruote et tutti li altri ferramenti e massaritie [...]
tanaglie, verghelle170, oncini da colar la vena 171, zeppe 172 e mazze 173”; nel 1600 (Sito 6) si parla di
164
Ivi p. 30. Questa la descrizione del processo che segue: “Le cuoia da far mantaci per ferriere se si
trovassero di quelle cuoia baccine che vengono di Spagna che pesassero libbre 70 o 80 l’uno chenne viene a
Pisa sarebeno bonissime, ma perché sonno care e ce ne viene di rado io ò usato pigliare bufali più grossi che ò
trovato e farle comprare per la Maremma cioè Civitella, Rocastrada, Massa e Grosseto e altri luoghi, e
bisogna avertire sieno cuoia di bufali masti grandi e corposi e quando si compreno secchi sieno almeno di
peso da 60 a 70 libbre e tenghisi questo ordine: come ne avete rannate 3 o 4 mandinsi alle piscine dei coiari e
da pescinari si faccino condire di calcina tanto che si pelino come fanno le altre de coiari; e quando sonno a
ponto pelate si faccino taglare e fianchi e li fianchi si mandino a chonciare in mortina e le schene si ritornino
in calcina per 4 o 5 giorni più a chausa sieno un poco più fiache che non siano troppo dure e questo bisogna la
discresione del pescinaro secondo ch’el calcinaio è gagliardo o no; state che vi sonno parechi giorni come
detto, si faccino scarnare e poi purgar bene di calcina, di poi si mettino in allume e si facci el bangno in questo
modo: non se ne metta per volta più che 3 o 4 e ongni cuoio piglarai libbre 25 d’allume e libbre 10 di sale per
uno, tanto che se saranno 4 chuoia pigliarai libbre 1000 d’allume e 40 di sale e tutte se ne farà uno bangno e
in una tina che ò già ordenata si pestino con calci e co’ piedi a 2 per volta tutto uno giorno a giudisio de
coiaro; di poi si ritornino tutte insieme nela tina nel medesimo bangno e si lassino stare 4 dì, di poi si ritorni a
sculdare un altro giorno il medesimo bagno e si pestino nel medesimo modo e si ritornino nel bagno e vi si
lassino stare in mollo 10 o 15 dì, di poi si lavino e si mettino asciugare al sole e di state non si tenghino al sole
grande ma solo la mattina e la sera, se è di verno no importa che abbino tutto sole, e come sonno un poco
asciutte cominci il coiaro che n’à cura a manegiarle e distenderle di modo che asciutte che saranno sieno
ancho distese e maneggiate”.
165
Ivi, p. 31.
166
Ivi, p. 32.
167
Sito 4, a. 1390: “ferramentorum, istrumentorum omnium ac lignaminum cesorum et rerum aliarum
omnium pertinentium et expectantium ad ipsum edificium seu fabricam predictam”. Sito 1 UT 1, a. 1407:
“ferramentorum et instrumentorum pertinentium et expectantium ad dictum edificium ferri”.
168
Sito 1 UT 1, a. 1407: “tanalliarum”.
169
Strumento di forma troncopiramidale per forare il buco chiuso con argilla su un lato del focolare e
far defluire le scorie, cfr. ivi, pp. 102 e 106.
170
“Verzelle”: pali di ferro lunghi non meno di 2 m, con cui si estraeva il massello o si smuovevano le
scorie accumulatesi presso il boccolare, cfr. Baraldi, 1979, p. 112.
171
Sorta di uncini per agganciare il massello e trascinarlo al maglio, ivi, p. 46.
172
Dette anche “ceppe”, sono i basamenti su cui poggia l’incudine, ivi, p. 114.
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nuovo semplicemente di “massaritie [...] cioè li ferramenti a peso di stadera”.
2.4. I L PA SSA GGIO AL METODO IN DIRETTO
Nel bacino M erse-Far ma due s ono gli impianti nei qua li si at tuò fors e il
pass aggio da l metodo diretto a quell o indire tto 174: [181] la f erriera di Gonna (Sito 1 UT
1) e quella di Ruota (Sito 4), come vedremo anche nel prossimo capitolo.
Il primo a prendere l’iniziativa di ampliare e rinnovare le strutture introducendo le nuove
tecnologie produttive fu Ascanio Venturi, figlio di Agnolo, che a partire dal 1580 appare fortemente
impegnato nell’attività siderurgica in questa ed in altre aree175. Il primo impianto ad essere
riconvertito sembra essere la ferriera di Gonna: nel 1582, Ascanio, insieme al fratello, prende in
affitto l’impianto e lo acquista nel 1587. Al 1612 risale il contratto con cui egli commissiona al
Maestro Pavolo di Santi “una ruota da mantaci alla bresciana con la sua cighagnola176 e quanto fa di
bisogno per menare i mantaci [...] essia della maggiore grandezza che si potrà fare con li spalloni177
alti, e li coppi178 spessi, e longhi acciò consumi manch’acqua che sia possibile, e sia a sei remi 179. Le
canalette e setolo180 per la detta ruota chuperte e assetto il ...ottone(?) al setolo”; si richiede inoltre
“una cieppa per mettare sopra la massa secondo che usano i bresciani”, il che testimonia che era in
atto un processo di ristrutturazione dell’intero impianto. Tra 1602 e 1620, poi, si colloca la già citata
lunga lite fra Ascanio Venturi e la comunità di Monticiano riguardo al taglio di legname per far
173
Martelli di ferro o legno grossi e pesanti, con manico lungo, con cui si batteva il massello una volta
estratto dal focolare per togliere le scorie ancora attaccate all’esterno e condensarlo prima di dividerlo in
porzioni da portare al maglio, per evitare che cadesse in pezzi al primo colpo di quest’ultimo, ivi, p. 81. Per
questo strumento e per quelli citati in precedenza, cfr. anche il documento del 1332 riportato in Farinelli,
1996, p. 51.
174
Vi sono forti incertezze per il Sito 6, a causa della scarsa leggibilità delle poche strutture murarie
rimaste: l’apertura ad arco in laterizi con forti tracce di combustione, comunque, potrebbe essere la bocca di
inferiore di un forno tipo cannecchio. La stessa incertezza, sempre a causa della cattiva conservazione delle
strutture, vale per la ferriera di Torniella (Sito 23 UT 1): nel catalogo della mostra Lo stato senese, 1980, p.
40, si asserisce con sicurezza che l’impianto, a due forni, era sede di riduzione della ghisa e della spugna di
ferro da prima del 1500; tuttavia il rilievo della pianta dell’edificio, così come le didascalie alle foto,
presentano diverse inesattezze.
175
V. infra, par. 3.5.
176
Il significato del termine non è chiarissimo: in un inventario relativo ai forni di Bagolino (Val
Sabbia) del 1565 si cita “uno arbor da roda una cigagna una [...] a scatto sotto il coperto del forno novo tutti di
nose”. Il Cima, che riporta il documento (Cima, 1991a, pp. 286-287), si limita a dire che queste voci
riguardano “i mantici ed il sistema meccanizzato di azionamento composto da ruota e meccanismi (cigagna)”.
177
Ci si riferisce probabilmente ad un dettaglio della profondità delle cassette.
178
I “coppi” sono le tavole incastrate tra i dischi laterali della ruota per formare il fondo delle cassette
perimetrali, cfr. Breschi-Mancini-Tosi, 1983, p. 91.
179
Evidentemente i raggi della ruota.
180
Ancora un confronto con la Liguria (Baraldi, 1979, pp. 102-103): il “seitro” era la parte terminale
di conduttura, in forte pendenza, che precipitava l’acqua sulle pale della ruota. Secondo la descrizione delle
ferriere liguri fatta da Luigi Bazzano nel 1923 (Ivi, pp. 173-175), dal “bottazzo” l’acqua, attraverso due
aperture con saracinesca, si immetteva in due aperture o “cannai”, una delle quali, detta “seitrou”, si dirigeva
alla ruota del maglio, mentre l’altra alimentava la tromba idroeolica; entrambe erano scoperte. All’apertura
del “seitro” si facevano poi corrispondere le pale della ruota motrice, affinché l’acqua potesse avere più forza
dopo essere uscita dal deposito e caduta per oltre 6 metri. Quando il massello era sotto la testa del maglio un
operaio, per mezzo di un fil di ferro che passava in una carrucola corrispondente alla sommità della paratoia,
immetteva l’acqua sulla ruota e metteva in moto il maglio con velocità diverse, regolando l’afflusso a seconda
degli ordini che gridava il maestro (Ivi, p. 179).
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“lavorare a la bresciana” l’impianto siderurgico, che prima lavorava “alla casentina”, ovvero col
metodo diretto. Infine nel 1622, entro il quadro della generale ristrutturazione, Ascanio
commissiona la costruzione di un “mantaco murato [Ö] che renda fiato bastevole per posser
lavorare il ferro”. [182] È da notare, inoltre, che, forse proprio in previsione di tale ristrutturazione,
nel 1585 Augusto ed Ascanio Venturi avevano costruito un “distendino” sul Gonna (Sito 2 UT 2) a
pochissima distanza dalla ferriera in questione.
Per quanto riguarda la ferriera di Ruota, prima del 1627 Ascanio Venturi aveva progettato la
costruzione di una steccaia murata, forse in previsione di una ristrutturazione dell’impianto
produttivo, ma la mancanza di fondi ne aveva impedito ai suoi figli la realizzazione, tanto che
ancora nel 1631 si osservava: “la quantità di boschi e ragioni di taglio che ha la predetta ferriera [...]
è tale che per servitio di un fuoco sono di avanzo [...] e però si potria ridur l’edifitio con due fuochi
essendone capacissimo il guscio di esso; ma bisognarebbe farci una stechaia di muro”. Sembra
chiaro che con il termine “fuoco” si intenda in questo contesto ancora il basso fuoco o focolare
contenuto all’interno dell’edificio (“guscio”). Alla metà del XVII sec. circa, però, la nuova steccaia
in muratura venne effettivamente costruita ed è estremamente probabile che, in coincidenza con la
sua edificazione, sia avvenuta anche una ristrutturazione generale dei sistemi di alimentazione
idrica e probabilmente l’aggiunta del nuovo ambiente visibile all’esterno del lato N-E.
Per quanto riguarda l’eventuale introduzione del metodo diretto sia nell’impianto di Ruota che in quello di
Gonna (questione che necessiterebbe di ulteriori indagini sulle fonti documentarie e soprattutto sulle strutture di epoca
moderna presenti in situ), sulla base dei primi sopralluoghi, si era ipotizzato di poter identificare gli ambienti addossati
rispettivamente sui lati NE e N delle due ferriere, con dei forni. [183] Ciò tenendo conto della presenza di notevoli strati
di cenere bianca presso le aperture di accesso ed anche delle numerose corrispondenze, sia per quanto riguarda la forma
che le dimensioni, con le descrizioni dei forni “a manica” reperibili a partire dalla fine del XV sec. nelle opere di
tecnici quali Filarete e Biringuccio181, e con i “cannecchi alla bresciana” descritti nelle più tarde
testimonianze di Della Fratta (1678) e del Brocchi (1802 e 1808)182. Entrambi gli ambienti esterni
hanno profilo rettangolare, muratura in pietra con blocchi ben squadrati agli angoli, in basso un
voltino in laterizi, che nel caso dell’impianto di Ruota dava accesso ad un ambiente stretto e
profondo simile ad una galleria. La struttura di Gonna è poco leggibile, in quanto completamente
181
Il Filarete, nel 1460 ca., descrive il forno a manica di Ferriere in Val di Nure; era alto più di 8
braccia (oltre 4 m), con due mantici mossi da una ruota a “bottacci”, dei quali abbiamo già parlato in
precedenza: per maggiori dettagli v. Calegari, 1989, pp. 84 e sgg., si veda anche supra, par. 1.4. Biringuccio
dà una breve descrizione ed una bella immagine di forno a manica rettangolare costruito in pietre refrattarie,
appoggiato ad un muro, dietro al quale si trovano i mantici, con un foro in basso nella parte anteriore da cui
esce una colata di ghisa; specifica che la cavità interna è a tino e rastremata alla base, che il forno è alto tra 6 e
8 braccia (3,48-4,64 m ca.) e che la tuyére del mantice è posta a 2 braccia e mezzo dal fondo del forno (ca.
1,45 m): v. Biringuccio, 1540, p. 17.
182
Il cannecchio alla bresciana rappresenta la cesura tra il forno a manica e l’altoforno, consiste cioè in
una manica più alta dell’ordinario, che funziona producendo ghisa in quantità rilevante a ciclo continuo. Il
Della Fratta raffigura una batteria di tre forni a manica con accanto un forno più alto, il cannecchio, del quale
scrive: “la stessa manica o cannecchio (per dirlo alla bresciana) si fa d’ordinario alto 12 braccia (7 m ca.)
compartendolo sì che la parte superiore sia larga un braccio e mezzo (87 cm ca.) per quadro nel principio e,
discendendo, si restringa a poco a poco per fino sul fondo del terreno, dove resta quadripartita ugualmente alla
misura di mezzo braccio (0,29 m ca.) in circa”. Invece il Brocchi dice che la cavità interna è fatta come 2
imbuti quadrangolari uniti insieme per le loro basi, però con le facce delle piramidi dolcemente incurvate, la
struttura esterna rettangolare, l’altezza di circa 12-13 braccia (7-7,58 m circa), cfr. Cima, 1991a, p. 280,
Calegari, 1989. La parte anteriore del forno presentava in basso un voltino chiuso da una parete in pietre
refrattarie un po’ rientrate, con un buco chiuso da argilla, dietro cui si trovava il fondo del crogiuolo dove si
raccoglieva la ghisa fusa; poco al di sopra del voltino si trovava una parete in mattoni refrattari, incastonata in
mezzo ai blocchi di pietra, che veniva rotta per togliere le scorie che galleggiavano sopra la ghisa a
quell’altezza (ibidem).
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crollata: non possediamo quindi dati sullo sviluppo in altezza, né sul profilo della cavità interna.
L’ambiente esterno addossato alla ferriera di Ruota è invece conservato in elevato per circa 4 metri;
il profilo interno è a forma di tronco di piramide rovesciata a base rettangolare, con le facce e gli
spigoli leggermente curvi, fasciati da una muratura in laterizi. Ulteriori sopralluoghi effettuati in
condizioni di migliore visibilità, tuttavia, hanno riscontrato l’assenza di forti segni di combustione
sull’arco esterno di accesso agli ambienti e, fin dove visibile, sulle pareti interne. Nel Sito 1, invece,
si riscontra la presenza di spesse concrezioni calcaree, evidentemente traccia di scorrimento di
acqua dal soprastante bacino idrico. [184] L’interpretazione di tali ambienti rimane quindi incerta:
potrebbe anche trattarsi, infatti, di strutture destinate a direzionare la caduta dell’acqua su una ruota
idraulica posta all’interno.
Riguardo alla produzione annua col metodo bresciano, abbiamo una sola notizia, relativa a
Ruota, secondo la quale alla fine del XVII sec. l’impianto produceva da 60 a 120 migliara di ferro
all’anno, cioè da 20000 a 40000 Kg. [186] Tale standard produttivo appare però stranamente basso,
se si pensa che quasi un secolo prima, con il metodo diretto, a Ruota si producevano fino a 78
migliara di ferro all’anno183. è possibile, comunque, che si tratti di un dato inesatto e nuove
informazioni potrebbero venire dall’esame dell’abbondante documentazione inedita di XVIII secolo
relativa a questo impianto.
3. Nascita, sviluppo e declino di un polo produttivo (secc. XIII-XV)
3.1. P RIM A DEL L ’ ENER GIA ID R AULIC A : GLI ANTECEDE N TI
Negli ultimi dieci anni numerose ricerche, di taglio principalmente archeologico, hanno
notevolmente ampliato le nostre conoscenze riguardo alle attività siderurgiche nell’area toscana
durante i secoli centrali del Medioevo. In tali contributi particolare attenzione è stata rivolta anche
al tipo di organizzazione del lavoro ed agli aspetti più specificamente tecnologici nella produzione
del ferro. Il moltiplicarsi dei dati a nostra disposizione, soprattutto per l’area elbana, il campigliese e
la costa maremmana, ma anche per zone più interne del territorio senese e grossetano, ci permette
dunque di inserire i risultati scaturiti dall’indagine sul nostro comprensorio entro un quadro
generale delle varie fasi in cui si articolò l’attività siderurgica toscana dall’alto Medioevo all’Età
Moderna184.
Un dato comune, emerso per tutti gli impianti di lavorazione del ferro documentati
archeologicamente per il periodo X-XIII sec., è l’assoluta mancanza di tracce che attestino
l’impiego dell’energia idraulica per muovere mantici e magli. La forza dell’acqua non era utilizzata
né in connessione con il basso fuoco scavato nel castello di Montarrenti185, né nell’impianto
183
Ancora dalla memoria di Agnolo Venturi ricaviamo alcuni dati sulla produzione: la ferriera di
Gonna in un dato anno produsse 72 migliara di ferro (ca. 23.976 Kg) “che fu cosa straordenaria e grande”
(Venturi, Ruota, p. 25). La ferriera di Ruota consumava 4 o 5 centi di vena all’anno e 100/150 some di
carbone, con una produzione da 70 a 78 migliara di ferro (ivi, p. 32).
184
Per una trattazione più particolareggiata di questo argomento si rimanda a Cortese-Francovich,
1995, ed alla bibliografia ivi citata.
185
Durante lo scavo sono stati individuati la base di un basso fuoco ed una certa quantità di scorie, il
tutto databile al X secolo; probabilmente in questa struttura veniva lavorata la limonite affiorante nella vicina
zona di Spannocchia. Tale attività, testimonianza della diffusione parcellizzata di strutture produttive
destinate all’autoconsumo, sparirà nelle fasi di XI-XIII sec., in coincidenza con l’avvento di una produzione
in centri specializzati e con l’allargamento del mercato, cfr. Barker et alii, 1986, p. 257; Francovich-Hodges,
1989, p. 35; Francovich-Cucini-Mannoni-Cucchiara, 1991, p. 59.
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siderurgico recentemente individuato in località Castelluccio186 (entrambi ubicati all’interno del
bacino del Merse), né nei punti di riduzione localizzati presso alcuni castelli maremmani187. Indizi a
questo proposito mancano completamente anche per gli impianti di XII-inizi XIV sec. attribuibili ai
fabri pisani in tutto il comprensorio interessato dalla loro attività. Riguardo ai punti di riduzione
dell’Elba e a quelli della costa maremmana si è giunti, infatti, a conclusioni molto simili. Quasi tutti
i siti individuati erano dislocati lungo i corsi d’acqua locali, ma per essi è tuttavia necessario
escludere l’impiego dell’energia idraulica sulla base di diversi fattori: ad esempio i siti si trovavano
in posizione troppo alta e distante dai torrenti per consentire una derivazione, i corsi d’acqua hanno
una portata scarsissima ed un regime torrentizio talmente accentuato che sarebbe stato impossibile
comunicare il movimento alle ruote con una certa continuità. Per di più ricorre nei documenti la
citazione di un lavorante stagionale, detto menafollis, evidentemente addetto allo specifico compito
di azionare manualmente il mantice188.
Il Corretti fa inoltre notare che, proprio quando in Toscana si diffondono massicciamente le
nuove tecnologie idrauliche e poi il metodo indiretto, sulle attività siderurgiche elbane cala un
silenzio quasi completo e l’industria di lavorazione del ferro si sposta sul continente189. Una
utilizzazione dell’energia idraulica è esclusa anche per le strutture siderurgiche scavate nel castello
di Rocca S. Silvestro, e del resto sono del tutto assenti le disponibilità idriche in loco. Sia il basso
fuoco a catasta di XI-XII sec. che la forgia con basso fuoco a pozzetto di XII-inizi XIII sec.
utilizzavano mantici manuali190. [187] Anche per S. Silvestro si fa notare come fra le principali
cause dell’abbandono del villaggio vada annoverata l’impossibilità di sviluppare le tecnologie
estrattive e soprattutto metallurgiche, mancando la forza idraulica per l’attivazione dei mantici e dei
magli, che proprio a partire dal Duecento si stava affermando in quest’area della penisola191.
3.2. P RIMI IMP IANT I S IDE RU RGICI ID RAUL ICI IN VAL DI M ERSE (XII I SEC .)
Sulla base del quadro tracciato sin qui abbiamo visto che, allo stato attuale delle conoscenze,
in aree limitrofe al nostro comprensorio non si riscontrano attestazioni di impiego della tecnologia
186
Sul versante occidentale del Poggio Fogari (Chiusdino) è stata individuata una notevole
concentrazione di scorie ferrifere pertinenti ad una struttura siderurgica che forse dipendeva dal vicino
castello di Miranduolo. Riguardo a tale struttura si esclude l’impiego dell’energia idraulica, sia per la presenza
di scorie esclusivamente non-tapped, sia per l’eccessiva distanza del forno dal più vicino torrente, la cui
portata sarebbe stata del resto del tutto insufficiente. Viene proposta una datazione ipotetica al XIII sec., cfr.
Nardini, 1994-1995, pp. 110-111, 307-309. Il castello di Miranduolo, proprietà dei Della Gherardesca, fu da
essi incluso nella dotazione dell’abbazia di S. Maria di Serena nel 1004; tale insediamento ebbe certamente
una importanza centrale entro la politica dei conti, in quanto controllava la viabilità verso la Maremma e
Montieri ed un’area in cui erano dislocati giacimenti minerari. Continuamente conteso tra i Gherardeschi, il
vescovo volterrano ed il comune di Siena per tutto l’arco del XII sec., risulta ormai distrutto alla metà del
XIII. Su Miranduolo, v. Cammarosano-Passeri, 1976, p. 306; Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 47-49.
187
Cucini, 1989, pp. 15, 25; Baiocco et alii, 1990, pp. 85, 90, 122-123; Cucini-Tizzoni, 1992, pp. 58,
110-111, 123, 148, 204-205.
188
Corretti, 1991, p. 45; Cucini-Tizzoni, 1992, p. 77. La vicinanza dell’acqua era comunque
importante per la vita dei lavoranti, per il lavaggio del minerale e la realizzazione di manufatti in argilla
pertinenti alla struttura dei forni. Anche gli impianti individuati sul promontorio di Piombino erano ubicati
lungo piccoli fossi, due dei quali oggi completamente privi di acqua, per i quali si può escludere un utilizzo
volto a produrre energia; anche in questo caso, comunque, si rileva che la dislocazione degli impianti sembra
legata alla vicinanza con corsi d’acqua minori per le varie necessità della lavorazione, v. Gelichi, 1984, p. 37.
189
Corretti, 1991, pp. 14-15 e 45.
190
Francovich-Parenti, 1987, pp. 91-108; Francovich, 1991, pp. 58-60 e ricostruzioni grafiche a p. 84.
191
Francovich, 1991, p. 33.
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idraulica nella metallurgia prima del XIV secolo. Questa osservazione vale in generale per tutta la
Toscana, né la situazione varia di molto allargando il quadro all’Italia intera, in quanto le notizie
riguardanti la comparsa di tali tecnologie sono estremamente scarse e frammentarie nell’arco del
XIII secolo. Del resto in tutta Europa l’uso della forza idrica nella lavorazione dei metalli, attestato
almeno dal XII sec., comincia a diffondersi con una certa ampiezza soltanto nel corso del
Duecento192. Tornando al contesto toscano, sembra quindi di poter individuare nel secolo XIII il
momento in cui si verifica un primo impiego delle tecnologie idrauliche nella metallurgia, forse
anche a livello sperimentale, in quanto tale applicazione apparirà poi piuttosto diffusa, in varie aree
della regione, dagli inizi del XIV secolo. Restringendo di nuovo il campo al bacino Farma-Merse,
vedremo come questa innovazione tecnica nelle strutture produttive del ferro sembri determinare, a
partire dal Duecento, una vera e propria cesura nell’assetto economico della zona, dando vita ad una
fase completamente nuova, che vede l’abbandono di attività siderurgiche marginali e la nascita di
un polo produttivo specializzato.
La prima attestazione documentaria dell’esistenza di una ferriera idraulica azionata dal fiume
Merse risale all’anno 1278193: Giovanna, figlia di Giacomo Lambardi di Monticiano e moglie di
Ruberto del fu Gioacchino, vende all’abbazia di S. Galgano un vasto complesso patrimoniale, che
comprende alcune case nel castello e nel borgo di Monticiano e molti appezzamenti di terra sparsi
tra le località di Lupinari, Campora, Piano Gonfienti, Filicaia, Collegrande. Vende inoltre la
“octavam decimam partem pro indiviso duorum molendinorum et unius hedifitii a ferro et unius ghualcherie cum terris
et lamis et nemoribus et arboribus et omnibus suis pertinentiis sitos in aqua fluminis Merse”. [188] Un’analisi
approfondita di questo documento, il più antico di tale genere per il nostro comprensorio, può
indubbiamente fornire alcuni elementi utili al fine di formulare delle ipotesi riguardo alla prima
comparsa di opifici siderurgici idraulici nella zona. In primo luogo nel contratto compare un
cedente: si tratta di una donna, che evidentemente appartiene ad una fascia di grossi possidenti del
luogo, vista l’entità e la quantità dei beni immobili venduti e la loro dislocazione un po’ su tutto il
territorio di Monticiano194. Di più: insieme alle terre, alle case ed alle strutture produttive, Giovanna
cede ai monaci alcuni diritti, che hanno tutta l’aria di residuali prerogative signorili195. Una ulteriore
informazione ricavabile dal documento riguarda l’acquirente dei beni citati: si tratta del monastero
di S. Galgano, che anche in questa occasione dimostra il proprio interesse verso gli investimenti in
opifici idraulici, stavolta non limitandosi ad impianti molitori, ma investendo anche in altri tipi di
strutture produttive. Terzo punto: sulla base delle sole indicazioni contenute nel documento non è
possibile tentare di localizzare l’impianto siderurgico in questione, né gli altri opifici idraulici, in
quanto non se ne specificano i toponimi; essi potevano quindi trovarsi in una qualsiasi delle località
citate nel testo, in molte delle quali si riscontra già da tempo, o è documentata per questo periodo, la
192
Per le prime attestazioni dell’applicazione delle tecnologie idrauliche alla metallurgia in Italia e in
Europa, v. supra, par. 1.1; si vedano inoltre, per numerosi esempi regionali, molti dei contributi in
Magnusson, 1995a, nei quali si conferma, per tutta l’area europea, una prima comparsa di tali tecnologie nel
XII sec. ed una diffusione nel XIII e XIV secolo.
193
KSG, II, cc. 5r-6v; per la trascrizione del documento, si veda Catalogo, Sito XVIII.
194
Il cognome della donna suggerisce una possibile identificazione con una discendente della famiglia
di Lambardi, nobili locali insediati nel castello di Monticiano dalla fine del secolo XII, che nel 1197 si
trovano in contrasto, a proposito del possesso di alcune terre di confine, con Ranieri, signore di Torniella (cfr.
Cammarosano-Passeri, 1976, p. 343). Tuttavia, essendo il nome Lambardi/Lombardi molto diffuso e comune
in questa ed altre zone, è necessario proporre questa ipotesi con estrema cautela.
195
“Et dictas possessiones tibi vendo cum Curatura platee quam habeo vel habuerunt predecessores
mei et cum pensionibus quas habeo recipere vel predecessores mei habebant recipere in dicto Castro de
Monticiano ab hominibus vel personis dicti castri aliquo modo vel iure” (KSG, II, c. 5v).
©1997 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
presenza di una attività molitoria (Campora, Lupinari, Gonfienti)196. Ultima osservazione: la
proprietà degli opifici idraulici appare già notevolmente frazionata (1/18). Tale fenomeno,
comunemente riscontrabile nelle strutture molitorie, suggerisce innanzitutto l’ipotesi di una
esistenza degli opifici già da un lasso di tempo non brevissimo, rispetto alla loro prima comparsa
nella documentazione; esso costituisce inoltre una ulteriore indicazione a favore della eventuale
originaria appartenenza ad una grande famiglia aristocratica, con successive suddivisioni ereditarie
secondo l’istituto dell’indiviso.
In sintesi sono tre le indicazioni che si possono trarre dal documento: la probabile origine
laica e forse signorile di questo impianto siderurgico, una possibile cronologia attribuibile almeno
alla prima metà del XIII secolo, l’interesse dell’abbazia di S. Galgano verso l’attività siderurgica.
[189]
Mentre non vi sono, per il momento, altri dati che permettano di mettere a fuoco il ruolo
signorile in questa primissima fase di sviluppo della siderurgia idraulica nella valle, possediamo
invece diversi elementi che permettono di affrontare un altro tema di grande importanza, ovvero
quale fu il ruolo svolto dai monaci di S. Galgano nell’introduzione delle tecnologie idrauliche nel
bacino del Merse. L’argomento è affascinante, ma proprio per questo necessita di essere trattato con
una certa cautela, in quanto contiene in sé il rischio di forzare gli elementi oggettivamente esistenti
entro un modello storiografico, ormai riconosciuto valido per molte fondazioni cistercensi in tutta
Europa, che vede questi monaci impegnati nel sistematico sfruttamento delle risorse minerarie
presenti nei territori di molte delle loro abbazie, e soprattutto introdurre per la prima volta l’uso
dell’energia idraulica nella metallurgia197. Pur con tutta la prudenza necessaria, tuttavia, siamo nelle
condizioni di affermare che anche nel nostro caso esiste una serie di indizi significativi i quali, se
considerati nella loro globalità, sembrano avvalorare proprio la tesi di una precoce iniziativa in
questo campo da parte dell’abbazia cistercense.
Vediamo di passarli in rassegna. Consideriamo innanzitutto la presenza dei resti di un
impianto di riduzione del ferro a poche centinaia di metri dai ruderi della chiesa198, nella sottostante
pianura lungo il fiume Merse. Tale impianto sorgeva su terreni che furono in possesso del
monastero fin dai primi anni dopo la fondazione e si trovava in stretta relazione topografica con
l’abbazia stessa. Pur in assenza di materiali datanti, l’ipotesi più probabile sembra quella secondo la
quale l’impianto potrebbe essere sorto nel momento della prima forte espansione del monastero e
soprattutto in connessione con le grandi attività edilizie della prima metà del XIII sec., relative alla
costruzione della chiesa maggiore e degli edifici monastici199. Si noti, infatti, che diffuse tracce di
una attività di forgia sono state riscontrate proprio nelle immediate vicinanze della chiesa, nell’area
ove un tempo sorgevano gli edifici conventuali, sia nei terreni retrostanti200 che in quelli
196
Si veda il Catalogo, Siti VII, IIIa, IVa. Nelle località Lupinari e Gonfienti, a partire dagli inizi del
XIV sec., sarà documentata anche una attività siderurgica, cfr. Siti IIIb, IVb.
197
V. supra, par. 1.1.
198
Per una descrizione particolareggiata, cfr. Catalogo, Sito 8. Sul posto sono presenti grandi accumuli di scorie residui di
quelli asportati nel1952; non vi sono restimurari né è stato possibile reperire materiali ceramicidatantiper l’inizio e la durata
dell’attività della ferriera stessa.
199
Durante la costruzione sorsero, ad esempio, nei dintorni del cantiere, almeno due fornaci per
laterizi, cfr. Canestrelli 1896, p. 70 nota 10; di una di esse, durante la ricognizione sul posto, sono state
individuate tracce a non molta distanza dal sito della ferriera.
200
Cucini-Paolucci, 1985, p. 454: in una zona a nord/nord-est dell’abbazia è stata individuata un’area
su cui erano sparse grandi quantità di laterizi e pietre anche lavorate, frammenti di maiolica arcaica e
abbondanti scorie ferrose soprattutto nell’angolo sud-est, in direzione del luogo ove sorgeva la ferriera; sono
stati recuperati anche 11 chiodi di ferro frammentari del tipo con testa quadrata.
©1997 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
prospicienti201. [190] Tale situazione permette di ipotizzare la presenza di varie fasi di lavorazione
del ferro tra le attività dei monaci: una prima riduzione del minerale grezzo con l’ausilio
dell’energia idraulica, che doveva svolgersi nella ferriera presso il Merse, ed una successiva
forgiatura di prodotti finiti - in particolare chiodi, ma probabilmente anche attrezzi agricoli,
strumenti per la lavorazione della pietra e la carpenteria ñ, che avveniva in più officine situate
nell’insieme degli edifici monastici, senza impiego dell’energia idraulica. Altre tracce di attività
siderurgiche sono poi attestate per l’area circostante il grande impianto molitorio vicino all’abbazia,
il Mulinaccio202; esse potrebbero forse venir messe in relazione con l’attività produttiva del
monastero. Il fatto che la lavorazione del ferro da parte dei monaci di S. Galgano non si svolgesse
solo nell’impianto i cui resti sono stati localizzati, è poi documentato dalla notizia che nel 1369 essi
diedero in affitto a membri della famiglia Azzoni due ferriere sul Merse, segno evidente che doveva
esistere almeno un secondo impianto (Siti 8 e XVIII).
Possiamo ancora ricordare che i Cistercensi di S. Galgano, al di fuori dell’area qui indagata,
avevano impiantato un opificio siderurgico idraulico nei pressi dell’abbazia di Giugnano. Questa
abbazia benedettina era stata concessa al monastero di S. Galgano dal pontefice Innocenzo II già
agli inizi del XIII secolo203 ed a poca distanza dalla chiesa preesistente sorse per iniziativa
cistercense un complesso produttivo metallurgico, che faceva largo uso dell’energia idraulica
fornita dal torrente Bai, mediante notevoli opere di canalizzazione, probabilmente già agli inizi del
‘200204. Del resto, che i monaci di S. Galgano dovessero verosimilmente essere in possesso delle
competenze tecnologiche relative non solo alle discipline idrauliche in generale, ma in particolare a
quelle siderurgiche, lo suggerisce il fatto che all’inizio del XIII secolo un gruppo di nuovi monaci
giunse qui direttamente da Clairvaux205, abbazia ben nota per lo sfruttamento delle miniere e la
lavorazione del ferro su vasta scala già dal XII secolo206. [191] Nel contesto relativo alle attività
siderurgiche dell’abbazia, si deve invece negare valore alla notizia riportata dal Targioni Tozzetti,
secondo la quale i monaci di S. Galgano avrebbero posseduto una miniera all’Elba, da cui
importavano il ferro che veniva lavorato nelle loro officine207; tale dato appare privo di fondamento,
in quanto nella prima metà del XIII sec. l’isola era ancora strettamente in mano ai Pisani, che
detenevano un rigido monopolio sul minerale208.
Anche se le attestazioni non sono numerosissime, gli elementi in nostro possesso ci
201
Nardini, 1994-1995, pp. 53-55 e 352-353: nei campi ad ovest dell’abbazia sono state individuate in
superficie ingenti quantità di scorie ferrifere, scorie della lavorazione del vetro, concentrazioni di laterizi
refrattari misti a frammenti di maiolica arcaica ed acroma depurata. Le dimensioni limitate delle emergenze
indicano due impianti con struttura semplice, quasi certamente contigui, probabilmente sfruttati durante il
lungo periodo nel quale il cantiere di costruzione dell’abbazia era rimasto aperto. Qualche scoria sporadica è
presente anche in altri campi nei dintorni.
202
Sito 10 UT 2 e 3.
203
Canestrelli, 1896, p. 8.
204
Guideri, 1986-1987, pp. 175-176; Farinelli, 1992, pp. 37, 45 e sgg.. Esplicita menzione della
ferriera ubicata presso Giugnano si trova in un documento del 1304 (ASS, Diplomatico S. Salvatore di
Lecceto, 1304 novembre 9): “cuiusdam domus et unius hedificii fabrice pro faciendo ferrum positi in loco
abatie de Jugnanio, cui ex tribus partibus est conventus Sancti Antonii predicti et conventus Rosie et ex alio
latere fossatusì (ringrazio il dott. Farinelli per avermi fornito la trascrizione integrale del documento).
205
Canestrelli, 1896, p. 5.
206
V. supra, par. 1.1.
207
Targioni-Tozzetti, 1768-1779, vol. 4, p. 30: l’autore cita un passo del “Trattato legale de
mineralibusì, di un certo Giovanni Guidi Seniore, nel quale si legge che “consuluit Fed. de Senis in Consilio
207 pro Fratribus S. Galgani, qui venam ferri trahebant insula Ilvae, et illam eorum artificiis redigebant in
ferrum purum, quod licite facerent, et non dicerentur negotiari et no tenerentur ad solutionem gabellae”.
208
V. più avanti, in questo stesso paragrafo.
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permettono di dire che nel corso del XIII secolo cominciarono a sorgere in Val di Merse, per
iniziativa monastica ma probabilmente anche laica (ricordiamo che la ferriera citata nel 1278 viene
venduta da un laico ai monaci), alcuni impianti specializzati nella lavorazione del ferro tramite
l’impiego dell’energia idraulica. Si delineò quindi una fase nuova nelle attività produttive di questa
zona, tra le quali la siderurgia, prima poco presente, cominciò a diventare una voce di rilievo. Nella
fase precedente, infatti, per la quale purtroppo non possediamo molti dati, l’approvvigionamento dei
manufatti in ferro doveva avvenire probabilmente tramite l’acquisto di oggetti finiti o semilavorati
prodotti all’esterno, forse soprattutto sul mercato pisano, oppure tramite una limitata produzione in
strutture siderurgiche parcellizzate, destinate all’autoconsumo di centri locali. A questo primo
periodo appartengono la già citata struttura scavata nel castello di Montarrenti e quella individuata
recentemente in località Castelluccio; per tali lavorazioni si utilizzavano probabilmente alcuni
affioramenti di minerale locale209, ma non è escluso l’impiego di piccoli quantitativi di ematite
provenienti dall’Elba o di limonite del massetano. [192]
La comparsa delle prime ferriere idrauliche nella nostra zona dovette dunque rappresentare
uno stacco tecnologico e produttivo, determinando la creazione di centri metallurgici specializzati,
con attività qualitativamente e quantitativamente elevata210. Questo passaggio si inserisce nel quadro
che, in base alle ricerche degli ultimi anni, si va delineando per i secoli centrali del Medioevo
toscano: ad una prima fase che vede una dispersione di labili centri di fabbrica destinati al consumo
di piccole comunità, spesso in aree incastellate, segue un momento di forti investimenti cittadini,
facenti capo essenzialmente a Pisa, ed una diffusa attività siderurgica in numerosi impianti
parcellizzati, con forti migrazioni stagionali di manodopera itinerante ed intenso sfruttamento delle
miniere elbane. Segue infine una fase che vede la creazione di alcuni poli siderurgici con strutture
209
Oltre al già menzionato affioramento di limonite presso Spannocchia, ricollegabile con l’attività
siderurgica del castello di Montarrenti, è stata individuata nei pressi del castello di Miranduolo una
mineralizzazione a solfuri misti associati ad idrossidi di ferro (cappellaccio limonitico) con tracce di
coltivazioni premoderne, probabilmente connesse con l’attività dell’impianto di Castelluccio, per il quale non
è stata riscontrata alcuna presenza di ematite elbana (Nardini, 1994-1995, pp. 99-100, 305-306). Su tutta
l’aerea del Poggio Fogari sono presenti simili formazioni di antimonio associato a solfuri misti (ibidem).
Ricordiamo inoltre che in una richiesta dell’anno 1952 per il recupero di scorie ferrose presenti in località
Defizio (Sito 11), si riferisce la presenza, lungo le pendici del Masso degli Zingari, di due antiche gallerie, che
i richiedenti suppongono essere resti di antiche escavazioni di minerale locale: di queste gallerie durante la
ricognizione non si sono riscontrate tracce. Sui minerali ferrosi presenti in questa zona al confine con le
Colline Metallifere non sono stati al momento pubblicati studi (per la presenza di ematite non in quest’area
ma nelle vicinanze, cioè sulla Montagnola Senese, si veda Betti-Pagani, 1989, p. 58: si tratta di una
mineralizzazione assolutamente esigua e quasi inutilizzabile; sulla miniera di Lucerena, cfr. anche MascaroGuideri-Benvenuti, 1991, vol. I, p. 116 e Cuteri-Mascaro, 1995, vol. I, p. 144), tuttavia, da alcune ricerche in
corso presso l’Istituto di Geologia dell’Università di Siena risulta che si riscontrano affioramenti di minerale
nella zona di Iesa, sul poggio di Siena Vecchia, nell’area compresa tra Spannocchia e Castiglion Balzetti. Tali
affioramenti sono sporadici, di scarsissima consistenza nel caso dell’ematite e di pessima qualità nel caso
delle altre mineralizzazioni: essi potrebbero però essere stati sfruttati in antico in mancanza di altro materiale
disponibile. Sulla presenza di pirite e limonite nella zona di Scalvaia-Querciglione e presso il Molino del Tifo,
cfr. Cuteri-Mascaro, 1995, vol. I, p. 140.
210
Per dare un’idea dello stacco che l’introduzione dell’energia idraulica nella siderurgia determinò
nella produzione, riporto alcuni dati quantitativi calcolati dal Gordon a proposito delle risorse idriche
utilizzate in impianti siderurgici inglesi nel Medioevo. Le blumerie a mano potevano produrre circa 10 libbre
di ferro al giorno ed avevano bisogno di 6 uomini che si scambiavano per azionare manualmente i mantici; le
blumerie idrauliche potevano produrre 100-150 libbre di ferro al giorno e richiedevano 1 CV per muovere i
mantici per un ciclo continuo di circa 10 ore necessario alla formazione del massello; nelle forge l’energia
necessaria dipendeva dal peso del maglio: per uno piccolo era necessario 1,5 CV, quindi maggiore energia
che per i mantici, ma con azione interrompibile (Gordon, 1985, p. 84). A questo proposito si vedano anche
Tylecote, 1976, pp. 64-65; Cleere-Crossley, 1985, pp. 100-106; Belhoste, 1995, p. 385.
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produttive tecnologicamente più evolute, fisse, specializzate, che richiedevano una diversa
organizzazione degli spazi ed una non meno vitale vicinanza con corsi d’acqua consistenti211. Tale
evoluzione, quindi, determinò successivi spostamenti degli opifici secondo uno schema che in un
primo momento vede sorgere gli impianti nei luoghi di escavazione del minerale (Elba), poi
dislocarsi sulla costa (area maremmana), in una zona ancora abbastanza vicina ai giacimenti
minerari ma dove erano reperibili le risorse boschive che sull’isola si andavano esaurendo, infine
una fase di dislocazione in zone lontane dai punti di estrazione ma particolarmente ricche, oltre che
di boschi, di corsi d’acqua perenni (ad esempio le Alpi Apuane, la Montagna Pistoiese, i Monti
Pisani, il Casentino, la Garfagnana ed inoltre l’Appennino ligure)212. [193]
Tra i fattori che favorirono il diffondersi della siderurgia idraulica in Val di Merse e la localizzazione di
un certo numero di ferriere in questa zona a partire dal XIII secolo, bisogna in primo luogo annoverare l’abbondanza di
risorse naturali, cioè la disponibilità d’acqua in questo bacino idrografico, soprattutto in confronto
alle zone circostanti, e la presenza di estesi boschi che potevano fornire il legname necessario alla
produzione di carbone. In particolare era caratteristica di questa zona un’ampia diffusione del castagno,
specie arborea dalla quale si ricavava un carbone molto adatto alla lavorazione del ferro213.
Quello che mancava era la materia prima, cioè il minerale di ferro, come si è visto presente in
zona solo in modo episodico. Anche se non si può escludere, ancora in questa fase, un parziale
impiego dei modesti affioramenti locali, certamente la stragrande maggioranza del ferro qui ridotto
doveva provenire dall’esterno ed in particolare dall’isola d’Elba. Frammenti di ematite proveniente
da grandi giacimenti, sicuramente non locali, e abbondante minerale polverizzato misto alle scorie,
sono stati rinvenuti nella ferriera presso l’abbazia di S. Galgano e, come vedremo in seguito, presso
alcuni impianti del primo XIV secolo. Una produzione tecnologicamente avanzata, infatti, doveva
collocarsi a dei livelli produttivi piuttosto consistenti, che richiedevano ingenti quantitativi di
minerale, per il cui approvvigionamento non ci si poteva rivolgere che alle principali aree
estrattive214. Del resto, l’alta resa del minerale elbano giustificava i costi derivanti dal trasporto a
lunga distanza, riguardo al quale per questo periodo non abbiamo notizie, ma che doveva avvenire
211
Su tale quadro si veda Cortese-Francovich, 1995.
Cfr. Meniconi, 1984, pp. 220-221. Sulla lontananza di molti impianti toscani dai centri estrattivi
cfr. gli esempi in Herlihy, 1972, p. 60; Cherubini, 1974, p. 138; Gelichi, 1984, p. 40; per la Liguria Calegari,
1977.
213
Un recente studio sulla Tavola delle Possessioni di Monticiano (Estimo, 69) ha permesso di
calcolare alcuni dati significativi riguardo alla diffusione delle colture arboree nella zona agli inizi del XIV
sec.: il 44% del territorio censito era occupato da bosco generico, il 19,3% da bosco di castagni, l’11,3% da
castagni misti a cereali, viti o incolto; il totale della copertura boschiva raggiungeva quindi il 71,8% della
superficie (v. Saffioti, 1993-1994, p. 14). Riguardo all’impiego del carbone di castagno nella siderurgia, cfr.
Biringuccio, 1540, p. 63r e Cherubini, 1981, p. 252.
214
Segnaliamo comunque che nella zona di Boccheggiano, Montieri e Gerfalco, area contigua a quella
qui studiata, sono ubicati importanti giacimenti minerari, cupriferi ed argentiferi, oggetto, com’è noto, di
ampio sfruttamento in epoca medievale. In tutti questi filoni era possibile reperire anche cappellaccio
limonitico e in alcuni casi magnetite e piccoli quantitativi di ematite (cfr. Mascaro-Guideri-Benvenuti, 1991,
pp. 95, 105). è quindi ipotizzabile che negli opifici idraulici citati, oltre al ferro elbano, fosse lavorato anche
minerale estratto in questa zona piuttosto vicina. Dal XV sec. sono, ad esempio, documentati presso
Boccheggiano forni per la lavorazione del ferro elbano insieme a quello locale (ivi, p. 105). A proposito
dell’uso congiunto di minerale locale ed ematite elbana nelle strutture produttive bassomedievali, possiamo
citare un confronto con l’area amiatina, dove il ferro dei filoni locali era usato nei numerosi opifici siderurgici
idraulici per rendere meno ‘dolce’ l’ematite, qui importata in grandi quantità dall’Elba (Farinelli, 1996, p. 47).
212
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completamente a soma, o forse su carri, dopo lo sbarco sulla costa215. [194] In questo periodo
l’estrazione ed il commercio della vena elbana erano in mano alla città di Pisa che, già
massicciamente presente sull’isola fin dagli inizi del XII secolo, dal 1192 aveva visto la completa
legalizzazione del proprio dominio sull’Elba216. Alcune notizie provenienti dalle fonti documentarie
hanno fatto ipotizzare che in un primo momento Pisa abbia attuato una politica protezionistica,
forse limitando le esportazioni di minerale all’esterno, per favorire lo sviluppo di una lavorazione
cittadina del ferro217. Tuttavia a varie riprese le esportazioni di minerale grezzo, note fin dal XII
sec., resero sempre meno rigido, nel corso del XIII, il monopolio per le industrie cittadine218; ciò
permette di ipotizzare che partite di ferro venissero esportate anche verso la nostra area.
Oltre ai fattori relativi alla presenza di risorse naturali ed alla disponibilità di conoscenze
tecnologiche, certamente anche altri elementi, legati soprattutto alla richiesta di metallo,
contribuirono a localizzare qui questa attività siderurgica e determinarono gli investimenti necessari
a rendere applicabili ed economicamente convenienti tali tecnologie. Mi riferisco innanzitutto alla
presenza di un polo di attrazione quale il grande centro monastico di S. Galgano, che doveva già al
suo interno assorbire, almeno in una prima fase, una notevole quantità di metallo (si pensi soltanto
al fabbisogno delle numerose grange direttamente amministrate dall’abbazia o ai lavori di
riparazione della chiesa e degli edifici monastici). Se poi una parte della produzione fosse
commercializzata all’esterno, questo non è provato dai documenti, ma è ipotizzabile, anche
instaurando un parallelo con la politica attuata dall’abbazia cistercense nello sfruttamento dei
mulini219. Un secondo elemento catalizzatore forte fu poi probabilmente il centro urbano in pieno
sviluppo, da parte del quale la richiesta di metallo si faceva sempre più alta. In funzione di questo
mercato dovettero sorgere già nel XIII sec. gli impianti siderurgici che compariranno ben più
numerosi nella documentazione del primo Trecento.
3.3. I L XIV SECO LO : SVIL UPPO E C R IS I
Con l’aprirsi del XIV secolo assistiamo ad un rapido aumento di attestazioni documentarie
che testimoniano un largo e generalizzato impiego dell’energia idraulica nella siderurgia toscana, ed
al moltiplicarsi nella regione di poli siderurgici specializzati, ove si lavorava il ferro elbano, talvolta
misto a ferro locale220. [195] Per quanto riguarda il senese, un forte sviluppo della siderurgia
idraulica si riscontra principalmente in tre aree: nella zona dell’Amiata, in Maremma e nel bacino
215
Esisteva un sistema di trasporto organizzato che prevedeva che i mercanti, i fabbri, gli intermediari
e gli imprenditori interessati all’acquisto della vena, dopo averla comprata dai rappresentanti del comune di
Pisa, facessero eseguire il caricamento ed il trasporto, forse su piccole navi, fino ai punti di approdo sulla
costa; di qui il minerale si avviava via terra ai punti di riduzione (Cucini-Tizzoni, 1992, pp. 63-64). Sul
trasporto della vena in Liguria cfr. anche Calegari, 1977, pp. 25-26.
216
Petti Balbi, 1984, p. 57; Cucini-Tizzoni, 1992, pp. 61-62.
217
Ufficio ILVA, 1938, p. 53; Cucini-Tizzoni, 1992, p. 62.
218
Cucini-Tizzoni, 1992, p. 64
219
Riguardo al grande consumo interno di metallo ipotizzabile per un importante centro monastico
quale S. Galgano, ma anche riguardo alla probabile produzione di un surplus e sua vendita sul mercato, si
veda per un parallelo quanto osserva Astill (Astill, 1993, pp. 299-302) a proposito delle attività siderurgiche
dell’abbazia cistercense di Bordesley.
220
Per un rapido quadro si vedano: il Pietrasantino, dove almeno 10 fabbriche sono attive nel XIV sec.
(Pel˘, 1975, p. 12); torrente Versilia ed Alpi Apuane (Azzari, 1990, p. 21), dove le prime fucine si impiantano
nei pressi delle miniere locali ma già nel ‘300 lavorano quasi solo ferro elbano; Montagna Pistoiese (Herlihy,
1972, pp. 58-60; Cherubini, 1974, pp. 138-139); Casentino (Cherubini, 1974, p. 138; Muendel, 1985); Monti
Pisani (cenni in Gelichi, 1984, p. 40); inoltre fuori della Toscana il grande sviluppo della siderurgia ligure, già
cominciato nel XIII sec. (Calegari, 1977
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Farma-Merse. Nell’area amiatina almeno quattro impianti siderurgici compaiono nella Tavola delle
222
.
Possessioni del 1318/20221 ed altri impianti sono documentati alla metà ed alla fine del secolo
[169] Nel massetano e nell’area maremmana l’utilizzo dell’energia idraulica nella siderurgia sembra
invece diffondersi soprattutto dopo la metà del Trecento, con l’edificazione di impianti a Valpiana e
nella zona della Marsiliana223. [197]
Nel bacino Merse-Farma l’inizio del XIV sec. vede una sorta di boom della siderurgia
idraulica, quando agli almeno due impianti documentati con certezza nel Duecento si aggiungono
altri 8 sicuramente attivi nel primo trentennio del ‘300 ed un nono a partire almeno dalla seconda
metà del secolo (Sito 22)224. è ragionevole pensare, comunque, che tale sviluppo non sia stato in
realtà così improvviso, ma che fosse iniziato già nella seconda metà del XIII secolo225. Di questi
impianti tre erano localizzati sul Merse (Siti IIIa, IVb, 11), tre sul Farma (Siti 4, 22, 25), tre sul
torrente Gonna (Siti 1 UT 1, I, II), uno su un corso d’acqua minore affluente del Feccia (Sito VI).
Passandoli rapidamente in rassegna vediamo che si tratta delle ferriere di Piana/Piano Gonfienti226,
di Lupinari227, del Defizio 228, di Ruota 229, di Castiglion della Farma 230, del Belagaio 231, Nuova/ di
221
Piccinni, 1989, p. 207; Borracelli, 1989a, pp. 316-317.
Due fabriche del comune di Siena concesse ai Cacciaconti nel 1344-45, che ancora lavorano agli
inizi del ‘400 (Piccinni, 1989, p. 208); una struttura costruita a Castel del Piano nel 1395 (ASS, Mss B 74, p.
388 v); forse altre tre fabriche appartenenti ai Venturini a fine XIV (Borracelli, c.s.). Si vedano anche gli
opifici idraulici per la lavorazione del ferro ubicati ad Arcidosso e Castel del Piano, ceduti dagli
Aldobrandeschi al comune di Siena nel 1332 e inoltre tutta la panoramica sulle attività siderurgiche amiatine
nel XIV sec. offerta in Farinelli, 1996, pp. 46 e sgg.
223
Ad esempio la ferriera diValpiana, presso Massa Marittima, voluta nel 1377 daTolloAlbizzeschi, quella di Scarlino nel
1439 ed il forno sul Cornia, presso Suvereto, attivo prima del 1489 (Gelichi, 1984, p. 41); inoltre la costruzione di una
ferriera in corte della Marsiliana sul fiume Albegna nel 1366 (ASS, Mss B 74, p. 267 v). Sulle ferriere
quattrocentesche in area maremmana cfr. anche Morelli, 1980, nota 15; Tognarini, 1980, p. 249; Borracelli,
c.s..
224
Al numero di 9 qui indicato si deve poi forse aggiungere il Defizio (Sito 11) non precisamente
databile per mancanza di elementi certi, ma con tutta probabilità attivo in questo periodo. Ricordiamo che nel
1369 sono ancora in funzione i due impianti dell’abbazia di S. Galgano, di cui abbiamo trattato per il XIII
sec.. Il numero totale degli opifici attivi alla metà del Trecento dovrebbe dunque aggirarsi attorno alla
dozzina.
225
Ciò è ipotizzabile ad esempio per la Ferriera del Lago, cfr. Catalogo, Sito I.
226
Sito IIIa: nel 1308 appare in possesso di una sotietas in nome della quale Nerio di Giovanni di
Monticiano acquista del legname; nella Tavola delle Possessioni del 1319 compare invece come intera
proprietà di Nerio ed è stimata 1183,7 lire.
227
Sito IVb: compare in alcune confinazioni di terreni nella Tavola delle Possessioni del 1319; non si
hanno notizie sui proprietari.
228
Sito 11: mancano notizie documentarie che permettano di stabilire una cronologia o forniscano
indicazioni sui proprietari dell’imp
229
Sito 4: nel 1331 appartiene per 1/3 a Cennino di Giannino di Monticiano e per 2/3 a Tollo di
Giovanni; nel 1375 appartiene in parte a Pietro figlio di Ghino Azzoni; nel 1379 appartiene per metà agli
Azzoni e per metà ai Lottorenghi del Belagaio; nel 1390 Francesco di Iacopo Lottorenghi vende la propria metà ai
fratelli Gabriello eAntonio figli di PietroAzzoni.
230
Sito 25 e più avanti, in questo stesso paragrafo.
231
Sito 22: nel 1382 Jacomo e Quirico Lottorenghi del Belagaio, che possiedono l’impianto, dividono
i propri beni in modo tale che la ferriera tocca a Quirico.
222
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Sotto/ di Gonna232, di Ripaccio233, Vecchia/ del Lago/ di Sopra234, di Frosini235. [198]
Le notizie ricavabili dalla documentazione di XIV sec. sono relative ai proprietari degli
impianti stessi e ad alcune alienazioni delle strutture o di parti di esse, oltre che naturalmente alle
successioni ereditarie. Il primo dato che salta immediatamente agli occhi è che si trattava di
strutture in mano esclusivamente a privati proprietari laici, alcuni dei quali rivestivano un ruolo di
veri e propri imprenditori del settore, con interessi spesso non in un solo ma in più impianti della
zona. Escludendo le già citate ferriere di S. Galgano, nella documentazione esaminata non si
riscontra nessuna ulteriore iniziativa nel campo siderurgico da parte di enti religiosi, e non compare
adesso né comparirà in seguito alcun intervento del comune cittadino.
Venendo ai proprietari, essi appartenevano in generale ad una fascia di grandi e medi
possidenti, tra cui compaiono alcuni aristocratici locali; quasi tutti risiedevano nella zona in cui
erano sorti gli impianti siderurgici. Grossi possidenti erano sicuramente Nerio e Tollo di Giovanni,
entrambi allirati a Monticiano. All’inizio del XIV sec. il primo era proprietario della ferriera di
Piano Gonfienti (Sito IIIa) e di estesi beni nel luogo per un valore complessivo di 8533 lire, mentre
il secondo nel 1331 possedeva 2/3 dell’impianto di Ruota (Sito 4) ed altri beni a Monticiano per un
totale di 4857 lire. Entrambi si trasferirono a Siena, nel popolo di S. Marco, attorno al 1319-20236.
Non sappiamo invece nulla sul proprietario dell’altro terzo della ferriera di Ruota, Cennino di
Giannino, se non che era anche lui di Monticiano. Poco conosciamo direttamente su Pigino Pieri,
residente a Monticiano, proprietario dell’impianto di Ripaccio, ma risulta che suo fratello Mone,
definito faber, aveva estesi possessi in questa località ed anche fuori zona per un totale di 1540
lire237.
Si distinguono in maniera del tutto particolare ed evidente, per gli investimenti nel campo
della siderurgia locale, i membri della famiglia Azzoni, anch’essi originari di Monticiano238: a
partire da Ghino Azzoni, che agli inizi del XIV sec. costruisce la ferriera Nuova sul Gonna (Sito 1
UT 1), impianto che rimane di proprietà della famiglia per tutto il secolo con successivi passaggi
ereditari; poi suo figlio Pietro, che intorno al 1370 è proprietario di metà della ferriera di Ruota
(Sito 4) e infine i figli di Pietro, Gabriello e Antonio, che nel 1390 rilevano l’altra metà di Ruota dai
Lottorenghi e risultano aver riunito l’intera proprietà della ferriera di Gonna [199] nelle loro mani,
232
Sito 1 UT 1: nel 1317 Ghino Azzoni acquista dalla comunità di Monticiano l’acqua del torrente
Gonna ed il sito per costruire le opere di derivazione. Nel 1319 la ferriera è registrata nella Tavola delle
Possessioni come sua proprietà e stimata insieme al terreno su cui sorgeva 513, 10 lire. Nel 1333 è passata ai
figli Vanni, Pietro e Antonio, nel 1351 ai nipoti Ghinuccio, Iacomo e Pietro, che sono divenuti cittadini
senesi. Nel 1389 la metà dell’impianto, con tutti i suoi beni, è venduta tra componenti della famiglia per 600
fiorini.
233
Sito II: nella Tavola delle Possessioni del 1319 risulta di proprietà di Pigino Pieri ed è stimata
737,7 lire.
234
Sito I: da alcuni confronti con documenti riguardanti la Ferriera Nuova sul Gonna (Sito 1 UT 1), si
ricava che doveva esistere già prima del 1317, ma non se ne hanno più notizie dirette fino al XV secolo.
235
Sito VI: nella Tavola delle Possessioni del 1318 sono riportati solo i toponimi; nulla sappiamo dei
proprietari.
236
Sia Nerio che il fratello Tollo, infatti, oltre che nella Tavola di Monticiano, sono registrati anche
nella Tavola cittadina di S. Marco (Estimo, 107, cc. 431r-439r e cc. 443r-451r), dal che si deduce che si erano
trasferiti in città nell’arco di tempo in cui furono compilati i volumi dell’Estimo
237
Borracelli, 1984, p. 54, nota 19.
238
Ghino Azzoni è allirato a Monticiano nella Tavola delle Possessioni del 1319; i suoi nipoti
divennero cittadini senesi intorno alla metà del XIV sec., cfr. AVG, 102, p. 367. Nel XV sec. facevano parte
del Monte dei Dodici e nel 1487 passarono al Monte dei Gentiluomini, cfr. Giovagnoli, 1992, p. 9, nota 20.
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probabilmente rilevando le quote dei propri cugini239. Ancora dei componenti della famiglia Azzoni,
non meglio identificabili, tengono in affitto nel 1369 le due ferriere sul Merse di proprietà del
monastero di S. Galgano.
Appartengono all’aristocrazia e sono signori del castello del Belagaio Iacopo e Quirico
Lottorenghi, che appaiono piuttosto impegnati nell’attività siderurgica, risultando proprietari di
metà dell’impianto di Ruota nel 1379 e negli stessi anni della ferriera detta appunto del Belagaio,
posta a pochissima distanza dalla precedente, ma sull’altra sponda del Farma, in posizione
sottostante al castello, per l’edificazione della quale si può verosimilmente ipotizzare una iniziativa
dei Lottorenghi stessi. I membri di questa famiglia, in epoca imprecisata, si trasferiranno a Siena e
nel XVI sec. faranno parte del Monte dei Gentiluomini240.
Nulla sapendo sui proprietari degli impianti di Frosini, Lupinari e Defizio, rimane infine da
considerare il caso, particolarmente interessante, della ferriera di Castiglion della Farma, forse un
esempio di impianto siderurgico di origine signorile. I resti della ferriera, registrata nella Tavola
delle Possessioni del 1318/20241, sono ubicati lungo il Farma in posizione esattamente sottostante
alle rovine del castello, ed appaiono quindi in stretta connessione topografica con esso. Dalla
Tavola risulta che la struttura aveva un alto valore (1500 lire), era articolata in vari edifici, era
divisa in tre quote delle quali una spettava ad Angelo Chiarimbaldi, cittadino senese e possessore di
molti beni in zona, un’altra a Vanni Cambi, ed una ai figli ed eredi del conte Ugolino Ardengheschi,
signori del vicino castello242, i cui possedimenti circondavano l’impianto su tutti i lati. Fermo
restando che la limitatezza della nostra documentazione non ci consente di contare su elementi di
assoluta certezza per una retrodatazione, tuttavia è ipotizzabile che la ferriera esistesse già da tempo
e che, data la sua dislocazione nelle immediate adiacenze del castello, su terreni appartenenti ai
signori dello stesso, essa vi fosse stata costruita proprio per iniziativa di questi ultimi243. [200]
In sintesi possiamo concludere che, in un periodo collocabile tra la metà del XIII sec. e gli
inizi del XIV, per iniziativa di un gruppo tutto sommato ristretto di imprenditori, la siderurgia del
bacino Farma-Merse conosce un momento di notevole vivacità ed espansione. Come più volte
sottolineato, erano disponibili localmente ampie risorse boschive ed acqua in abbondanza per
azionare quei meccanismi idraulici la cui tecnologia, sia stata essa introdotta dai Cistercensi o da
altri nella prima metà del XIII sec., appare ormai largamente diffusa.
È poi importante notare che gli impianti siderurgici individuati si dispongono su un’area ben
precisa, che potremmo definire una sottozona, all’interno del bacino idrografico complessivo.
Osservando la carta di distribuzione per questo periodo, infatti, possiamo senz’altro individuare
239
Ancora Antonio e Gabriello Azzoni nel 1406, come vedremo anche in seguito, acquistano l’ex
impianto di Ripaccio (Sito II) ormai in rovina.
240
Giovagnoli, 1992, p. 9, nota 23.
241
Per la trascrizione dei documenti si rimanda al Catalogo, Sito 25.
242
Estimo, 96, cc. 192r-195v; Estimo, 99, c. 186 v. Si veda inoltre Lisini, 1893, p. 109. Nel 1327 Gaio
di Ugolino, col consenso del comune senese, alienò il castello a favore di Vannuccio Cambi (Repetti, 18331846, I, p. 594): si tratta probabilmente dello stesso Vanni Cambi comproprietario della ferriera.
243
Per questo caso è forse possibile instaurare un confronto con il coevo impianto siderurgico
idraulico, che lavorava ematite elbana - cronologia iniziale fine XIII-XIV sec. - in località Defizio, nel
comune di Radicondoli, ricollegabile al castello di Elci ed alla signoria dei Pannocchieschi (Cucini, 1990a, p.
69). A proposito della associazione signori locali-siderurgia si veda il caso delle iniziative signorili nel
Genovesato al momento del decollo della siderurgia del luogo nel XIII-XIV secolo: qui i feudatari della valle
Stura si assumono il ruolo di veri e propri imprenditori, edificando le strutture ed occupandosi dell’acquisto
del minerale elbano e della vendita dei prodotti finiti sul mercato urbano, cfr. Calegari, 1977, pp. 13 e 26.
Invece non compare nessuna partecipazione al business del ferro elbano ed allo sviluppo della siderurgia
locale da parte dell’aristocrazia di area maremmana, dove l’iniziativa spetta esclusivamente a Pisa, cfr.
Cucini-Tizzoni, 1992, p. 69.
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l’epicentro dell’attività siderurgica nel territorio di Monticiano. Le strutture produttive erano
concentrate soprattutto sui torrenti Farma e Gonna, solo alcune erano dislocate nell’alta Val di
Merse, ma comunque sempre gravitanti su questo comprensorio, mentre la siderurgia sembra del
tutto assente nella bassa valle del fiume principale. Si delinea così una sorta di specializzazione
geografica rispetto alla coeva attività molitoria, che abbiamo visto svolgersi soprattutto proprio
nella bassa Val di Merse. Questa differenziazione può essere spiegata sulla base di vari fattori: ad
esempio la maggiore vocazione agricola e minore presenza della forestazione nell’area pianeggiante
lungo il tratto di fiume a valle di Brenna, e all’opposto la maggiore diffusione di boschi, in
particolare di castagno, sui rilievi dell’alta Val di Merse, della Val di Farma e di tutto il territorio di
Monticiano. In secondo luogo si consideri che i mulini, per fornire una macinazione continua
nell’arco dell’anno, necessitavano di disporre di una risorsa idrica sufficiente anche nel periodo
estivo (il pane si mangia sempre e la farina non si conserva a lungo), garantita maggiormente dal
fiume principale. Gli impianti siderurgici potevano invece disporsi anche sui corsi d’acqua a regime
torrentizio più accentuato, in quanto l’organizzazione del lavoro poteva facilmente concentrarsi solo
in alcuni mesi dell’anno e prevedere una interruzione nel periodo estivo. Infine, ma si tratta di un
elemento molto importante, si deve ricordare che la creazione di un ‘polo siderurgico’ nella zona di
Monticiano, del tutto sganciato dal contiguo polo siderurgico monastico, sembra determinata
essenzialmente dalle iniziative di imprenditori locali, con interessi fortemente legati a questo
territorio, che si dimostrano particolarmente attivi e lungimiranti nel valorizzare le risorse naturali
peculiari di una zona ad economia scarsamente agricola e prevalentemente silvo-pastorale. [201]
Il momento di forte espansione del centro urbano e delle sue attività mercantili, la maggiore
disponibilità di capitali per gli investimenti, dovettero incoraggiare fortemente l’impianto di questa
serie di officine siderurgiche in una zona relativamente vicina alla città. L’impiego della tecnologia
idraulica, che determinava un aumento della produttività ed una riduzione dei costi di produzione,
dovette contribuire alla maggiore circolazione dei manufatti, supportata da un notevole commercio
sia della vena grezza, che dei semilavorati, che dei prodotti finiti244. Il ferro ridotto negli impianti
dislocati lungo i corsi d’acqua, a vari stadi di lavorazione, doveva affluire principalmente verso il
mercato urbano - che probabilmente assorbiva buona parte della produzione per il suo fabbisogno
interno - ma veniva certamente in parte smerciato in varie direzioni al di fuori dello Stato senese245.
è probabile che gli operatori del settore siderurgico, almeno in questa fase, si occupassero delle
varie operazioni necessarie alla produzione, muovendosi direttamente ed autonomamente sul
mercato, dal prelievo del minerale, al trasporto, alla lavorazione, alla vendita del prodotto246.
La congiuntura favorevole determinata dalla disponibilità di risorse, tecnologie, espansione
dell’economia di mercato, fu con probabilità ulteriormente favorita da altri due fattori: la mancanza,
in questo periodo, di vincoli signorili forti sull’uso delle acque ed i mutamenti avvenuti nel
controllo del minerale elbano nell’ultimo quarto del XIII secolo. Infatti, se Pisa fino alla prima metà
del Duecento sembrava attuare una politica protezionistica nei confronti del ferro, a partire dal 1274
circa si orientò invece con chiarezza verso una politica economica che tendeva a vendere ferro non
244
Sulla circolazione dei prodotti in ferro, a vari stadi di lavorazione, nel territorio senese, si veda
anche supra, par 2.1. In Gabella, I, c. 26r-v (anno 1298 ca.), dove si stabiliscono le gabelle da pagarsi per le
merci che transitavano dalle porte della città, si elencano le salme di acciaio, di ferro, di vena di ferro; lo
Statuto di inizi XIV sec. elenca la vena di ferro, il ferro, l’acciaio, i vergoni o piastre di ferro (Banchi, 1871a,
pp. 19, 25-26).
245
Mario Borracelli (Borracelli, 1989a e 1989b), pur esagerando talvolta nell’enfatizzare il ruolo
svolto dal territorio senese nel panorama siderurgico italiano e sottolineando forse eccessivamente l’interesse
delle compagnie mercantili senesi nel commercio dei prodotti ferrosi, tuttavia fornisce diverse indicazioni che
testimoniano una attività in questo settore.
246
Si veda ad esempio quanto avviene nello stesso periodo in Liguria, cfr. Calegari, 1977, p. 26.
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lavorato all’esterno, senza operare più un rigido monopolio per le industrie cittadine247. [202] Nella
seconda metà del XIII secolo la Liguria assorbe grandi quantità di minerale e nel 1280 Genova
occupa temporaneamente l’isola. Dal XIV secolo si verifica l’acquisto di ingenti quantitativi di vena
da parte di famiglie nobili pisane e genovesi, che ricoprono un ruolo di veri e propri imprenditori, i
quali acquistano il minerale per rivenderlo a terzi e non sempre sono direttamente interessati alla
lavorazione siderurgica248. Il minerale viene esportato soprattutto in Liguria e Toscana: ad esempio
nel 1320-21 si esporta minerale grezzo a Firenze in cambio di prodotti finiti249. Dopo lo sbarco sulle
coste il trasporto via terra del minerale fino ai punti di riduzione nelle zone interne doveva
impegnare un buon numero di vetturali, probabilmente con una certa difficoltà dovuta alla scarsa
viabilità. Tuttavia questo elemento, come appare proprio nel caso del bacino Farma-Merse, forse
non costituiva un fattore eccessivamente limitante250.
Un elemento che sarebbe molto interessante valutare, per questo periodo di sviluppo della
siderurgia nel nostro comprensorio, è l’impatto che tale attività determinò sulle risorse boschive
presenti nell’area, certamente soggette a notevole consumo da parte di una tecnica metallurgica
poco raffinata, che comportava un forte bisogno di combustibile. Tuttavia per il XIV sec. le fonti
consultate al proposito tacciono. Possediamo solo un indizio, che è forse significativo: sembra
infatti che le ferriere siano in genere impiantate sui terreni appartenenti a persone che disponevano
di vaste estensioni fondiarie, spesso boschive e a castagno, dislocate nelle immediate vicinanze
dell’impianto siderurgico o comunque in zona. Ciò potrebbe far pensare che il sorgere di una
ferriera fosse anche vincolato o piuttosto favorito dalla possibilità, da parte del proprietario, di
approvvigionarsi direttamente in proprio del legname. In ogni caso, le prime dispute con la
popolazione locale a proposito del taglio di boschi cominciano a comparire solo con il XV secolo,
fatto da cui si può cautamente dedurre che fino a quel momento la situazione del patrimonio
boschivo non fosse ancora grave. è anche possibile, comunque, che scontri con gli abitanti non si
verificassero, in questo periodo, in quanto l’attività siderurgica gestita in loco e da proprietari del
posto, comportava un vantaggio economico consistente anche per una parte della popolazione.
[203]
Per concludere, rimangono alcune considerazioni da fare a proposito dell’andamento
dell’attività siderurgica nella seconda metà del XIV-inizi XV sec., per tentare di valutare l’impatto
che ebbe, in questo settore, la generale crisi economica e demografica che comincia alla metà del
247
A tale proposito si veda Herlihy, 1973, p. 168: ancor prima della Meloria in città erano in vendita prodotti siderurgici finiti
di produzione non locale; inoltre gli Statuti del 1286 favoriscono l’esportazione di minerale grezzo e ad esempio
vietano di commerciare con i porti rivali di Talamone e Motrone eccezion fatta per quel che riguarda il ferro.
Inoltre la Gabella genovese mostra che Pisa esportava minerale elbano grezzo e non semilavorato, cfr. Calegari,
1977.A tale riguardo è stato sottolineato il fatto che la crisi economica pisana di fine XIII e la temporanea perdita dell’Elba debbano
aver giocato un ruolo importante nella politica comunale riguardo al ferro; dagli inizi del ‘300 gli interessi diretti del capitale genovese
sembrano determinare la non competitività degli artigiani pisani e la conseguente scomparsa della lavorazione
del ferro sulla costa maremmana nei primi decenni del XIV, cfr. Cucini-Tizzoni, 1992, p. 70.
248
Cucini-Tizzoni, 1992, pp. 64-65, 70-71. In Petti Balbi, 1984, p. 59, si nota come la presenza
costante dei genovesi in questo settore nel XIV secolo debba avere facilitato molto lo sviluppo e la nascita di
nuovi impianti di riduzione sull’Appennino ligure.
249
Herlihy, 1973, p. 168.
250
Per alcune osservazioni sui trasporti, cfr. Balestracci, 1984b, p. 29,che fa notare come talvolta la via terrestre venisse
preferita, anche quando era possibile il trasporto marittimo. Si veda inoltre, a livello europeo, l’approccio di Braunstein,
1995, al problema della circolazione del ferro e dei trasportiin età medievale: l’autore negaalcune idee molto diffusenella
storiografia riguardo alla scarsa mobilità del minerale e dei prodotti in ferro. Si vedano ancora, per un
confronto, i casi studiati da Doswald, 1995, per la Svizzera preindustriale, riguardo ai problemi logistici
nell’approvvigionamento di minerale e combustibile, quando l’applicazione dell’energia idraulica tende ad
aumentare le distanze tra miniere e luoghi di lavorazione.
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Trecento.
Si è da diverse parti sottolineato come nella seconda metà del XIV sec., in seguito al tracollo
demografico, l’industria estrattiva e metallurgica toscana subisca una forte battuta d’arresto
conseguente al lievitare del costo del lavoro ed al calo della domanda per quasi un secolo251; si è
però anche fatto notare che alcuni prodotti come il ferro resistono tutto sommato alla crisi per poi
tornare ad un aumento della produttività nel ‘400252. Questa osservazione, tuttavia, non pare valida
per l’area qui indagata, in seguito all’esame dei dati disponibili per il periodo della grande crisi
europea. Infatti, se il Trecento si era aperto con una notevole fioritura di impianti, il secolo si chiude
con una loro drastica diminuzione. Di tutti gli opifici citati quattro spariscono completamente (Siti
25, IIIa, IVa, VI) e non se ne hanno più notizie dopo la metà del secolo, tanto che solo in un caso i
resti materiali sono ancora individuabili. Altri due sono sicuramente abbandonati e ridotti a ruderi
agli inizi del XV sec. (Siti I e II), mentre non sappiamo quando cessarono l’attività le ferriere di S.
Galgano, l’ultima notizia delle quali riguarda l’affitto del 1369. Facendo un rapido calcolo, pur con
i dovuti margini di cautela, in particolare riguardo ad eventuali carenze nella documentazione, si
può constatare che il numero degli opifici in funzione nella nostra area risulta alla fine del XIV sec.
perlomeno dimezzato. Anche se il rapporto tra attività siderurgica e demografia è estremamente più
mediato rispetto a quello tra popolazione e risorse, ne risulterebbe una corrispondenza, forse non
casuale, con i dati relativi alla crisi demografica conosciuti per il territorio senese.
3.4. L A RIP R ESA NEL XV SECO LO
Se nella seconda metà del ‘300 la generale crisi economica e demografica sembra aver
pesantemente ridotto l’attività siderurgica nel bacino Farma-Merse, a partire dagli anni ‘20 del XV
sec. si comincia a manifestare una inversione di tendenza, con alcuni segnali di ripresa nella
produzione. [204] Nel corso del ‘400, infatti, in concomitanza con fattori che hanno poco a che fare
con l’andamento demografico253, ma sono piuttosto legati ad un incremento delle richieste di ferro
sul mercato dovuto alla frequenza delle guerre ed alla introduzione delle artiglierie, si verifica in
tutta Europa un aumento delle attività minerarie e soprattutto dell’escavazione del minerale
ferrifero254. Tra XV e XVI sec. l’Europa conosce una impennata nel consumo di questo metallo e la
Toscana partecipa alla nuova corsa al ferro con il minerale elbano, producendo 2/3 di quello
necessario in Italia255. Comincia in questo secolo anche l’interesse specializzato di ingegneri e
tecnici (Francesco di Giorgio Martini, Filarete, Taccola) verso lo studio di macchinari destinati alla
lavorazione dei metalli ed in particolare all’ottimale sfruttamento dell’energia idraulica, fattore
251
Balestracci, 1984b, p. 20; Meniconi, 1984, pp. 210-211. Herlihy riporta per Pistoia dei dati
riguardanti le variazioni del prezzo del ferro tra XIV e XV secolo, dai quali si ricava che la crisi di metà
Trecento provocò quasi il raddoppio di prezzo durante le due generazioni successive alla Peste Nera, come
conseguenza del calo di produzione nel contado, cfr. Herlihy, 1972, p. 172.
252
Meniconi, 1984, p. 211. Riguardo a Siena Mario Borracelli insiste sul fatto che a fine ‘300-inizi
‘400 la città è ancora sede di un importante mercato del ferro, mentre alcune compagnie senesi operano nel
settore siderurgico con sedi secondarie a Brescia, cfr. Borracelli, 1989a, p. 319.
253
Si veda a questo proposito l’ulteriore decremento demografico nel territorio senese, che prosegue
agli inizi del XV sec. e negli anni ‘30 di quest’ultimo con varie fasi di crisi, forse non meno gravi delle
precedenti, ogni 10-15 anni, cfr. Ginatempo, 1988, pp. 261-265, 351.
254
Tognarini, 1980, p. 244; Balestracci, 1984b, pp. 21 e sgg.; Meniconi, 1984, pp. 211 e 214. Si
vedano anche Braunstein, 1995 e Belhoste 1995.
255
Tognarini, 1980, p. 244.
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considerato ormai indispensabile per la produttività256.
In questo clima di generale ripresa si collocano anche alcuni segnali positivi provenienti dalla
nostra zona. Mentre continuano a lavorare la ferriera Nuova di Gonna (Sito 1 UT 1), quella di Ruota
(Sito 4) e quella del Belagaio (Sito 22), che non erano state travolte o almeno non completamente
dalla crisi del secolo XIV, vengono rimessi in funzione due impianti precedentemente abbandonati,
la ferriera del Lago e quella di Ripaccio. Infatti nel 1427 un gruppo di piccoli imprenditori locali
ottiene un prestito dal banco Bichi ex causa faciendi duo hedifitia destructa apta ad faciendum
ferrum, ricevuti in affitto dalla comunità di Monticiano257. Nella prima metà del XV sec. si hanno
poi le prime notizie sull’attività della ferriera di Brenna, che probabilmente fin da ora appartiene
alla famiglia Saracini258, mentre sul finire del secolo i Venturi costruiranno un distendino per
produrre chiodi (Sito 10 UT 3) presso il Mulinaccio di S. Galgano. [205]
Soprattutto la riparazione di strutture andate in rovina sembra un sintomo abbastanza chiaro
di una certa ripresa nell’industria siderurgica della zona, dopo gli sconvolgimenti del secolo
precedente, mentre l’attività di fabbri sia in città che nel contado, diretta probabilmente in modo
particolare alla produzione delle armi da fuoco, appare piuttosto diffusa259. Certamente il ferro
prodotto nella nostra zona veniva anche in parte commercializzato fuori del territorio senese in varie
direzioni, tra le quali è sicuramente documentata Arezzo260. [206] Una generale ripresa di questo
settore produttivo è testimoniata poi, un po’ in tutto il territorio senese, dalla costruzione ex novo di
256
È un dato ormai acquisito dalla critica che proprio nella Siena del Quattrocento è presente un clima
particolarmente fecondo per le ricerche ed esperienze tecnologiche, che presentano la particolare caratteristica
di un interesse pratico soprattutto nei campi dell’ingegneria idraulica, della metallurgia e della mineralogia. Si
veda supra, par. 1.2 e 1.4; inoltre Chironi, 1992, pp. 5-6 e Galluzzi, 1996.
257
Siti I e II: si tratta di Giovanni di Parisii cuoiaio, Berto di Agnoletto calzolaio e Ceccarino di Turino
di Cenni lavoratore della terra, tutti di Monticiano. La somma presa in prestito è notevole, 1522 lire e 4 soldi,
ed è destinata all’acquisto di vena e dei ferramenta necessari ai due opifici. Per quanto riguarda Ripaccio
bisogna ricordare che già nel 1402 il sito su cui si trovavano i ruderi era stato acquistato da Antonio e
Gabriello Azzoni, largamente impegnati nella siderurgia locale, probabilmente in vista di un ripristino.
Tuttavia tale struttura dovette rientrare tra i beni confiscati nel 1406 ad Antonio e passati appunto alla
comunità di Monticiano.
258
Sito 6: era ubicata nei pressi di Castiglion Balzetti, castello della consorteria, ed ai Saracini
appartiene a fine XVI secolo.
259
A Rosia nella prima metà del ‘400 l’attività di lavorazione del ferro è attestata dalla presenza nei
documenti di numerosi fabbri e maniscalchi, cfr. Francovich-Roncaglia, 1988, nota 60. A Siena è ampiamente
documentata l’attività di botteghe di fabbri, talvolta anche in forma societaria, a fine ‘400, cfr. Borracelli, c.s.
260
Cfr. Dini, 1984, p. 98. Inoltre Borracelli ha raccolto alcuni esempi a proposito della vendita, su
varie piazze, del ferro prodotto in tutto il territorio controllato da Siena, enfatizzando l’importanza della
produzione siderurgica senese e delle attività mercantili ad essa collegate a livello regionale ed italiano.
L’argomento è assai vasto e richiederebbe una serie di studi specifici che esulano dall’ambito di questa
ricerca; tuttavia, anche con una visione non approfondita, mi sembra che i dati elencati da questo autore
testimonino sì una presenza dei prodotti siderurgici nelle attività delle compagnie mercantili senesi fuori dal
territorio dello Stato, ma non siano di una portata tale da poter “dire con tutta tranquillità che Siena e il suo
territorio agli inizi del ‘400 costituivano il polo siderurgico più importante della Toscana”. A questo proposito
cfr. anche Chironi, 1992, p. 11.
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strutture siderurgiche o riattivazione di alcuni vecchi impianti261, mentre chiari segnali in questa
direzione arrivano anche da altre aree toscane262.
Gli operatori impegnati nel settore siderurgico nella nostra zona, con l’eccezione del gruppo
di piccoli imprenditori locali che rimettono in funzione le strutture di Monticiano, appartengono
anche in questa fase a famiglie di livello medio-alto. è ancora notevole l’attività degli Azzoni,
divenuti ormai da tempo cittadini senesi, ma che continuano a mantenere forti interessi nel campo
per tutto il secolo263, anche se a partire dalla metà del ‘400 si nota una certa tendenza a non gestire
più le strutture direttamente ma a concederle in affitto264. I Lottorenghi continuano a possedere la
ferriera del Belagaio, mentre i Saracini, padroni del castello di Castiglion Balzetti e di vasti beni in
zona, sono probabilmente i proprietari della sottostante ferriera di Brenna. Nuove figure
imprenditoriali residenti nel luogo, che compaiono in questo periodo, sono Cristofano di Nanni
Gabrielli, che nel 1460 acquista dalla comunità di Monticiano le due ferriere Vecchia e Nuova sul
Gonna, poi rivendute dai suoi eredi alla fine del secolo, e inoltre Federigo di Meo Galli, che
acquista la ferriera Vecchia nel 1498 e la gestisce anche nel primo ventennio del secolo successivo.
[207]
A partire dalla seconda metà del Quattrocento, poi, si inseriscono nella siderurgia della zona i
componenti della famiglia Venturi, che vi svolgeranno un ruolo di primissimo piano durante il
Cinque-Seicento. Nel 1448 Tommaso e Giovanni di Agnolo prendono in affitto la ferriera di Ruota,
mantenendone la gestione fino alla fine del secolo, mentre sullo scorcio del Quattrocento Mariano265
ed Antonio, figli di Giovanni, costruiscono un distendino per produrre chiodi nei pressi del
Mulinaccio di S. Galgano (Sito 10 UT 2), formando una compagnia commerciale con alcuni
membri della famiglia fiorentina Squarcialupi. Sempre a fine ‘400 Camillo Venturi acquista la
ferriera Nuova di Gonna dagli eredi di Cristofano Gabrielli.
Per quanto riguarda l’organizzazione dell’attività siderurgica, non sappiamo precisamente
261
Alcuni di quei piccoli imprenditori che ristrutturano le ferriere di Ripaccio e del Lago nella nostra
zona, sempre nell’anno 1427 chiedono un secondo prestito al banco Bichi per rimettere in funzione un mulino da ferro
nellaMaremma senese in cortediTorri, preso in affitto dal nobile Griffolo di Ranieri da Liziano per 10 anni, (DBB,
1427, gennaio 6). L’inizio dell’attività delle ferriere sul Cornia è collocabile a fine XV sec., cfr. Morelli,
1980, p. 482, nota 15. Sempre a fine XV sec. è documentato l’impianto di una ferriera presso Piancastagnaio,
cfr. Piccinni, 1989, p. 208. Ancora per l’area amiatina una petizione degli uomini di Arcidosso del 1422 cita
degli edifitii per ferro la cui costruzione inizia in quell’anno, cfr. Borracelli, c.s.. Si segnalano inoltre l’inizio
dell’attività del complesso di Capalbio sul Pescia, intorno al 1420, ed una ristrutturazione della ferriera di
Valpiana, ivi pp. 5 e 7. Si veda anche la ferriera attiva nei pressi di Abbadia a partire dagli inizi del XV sec.,
Farinelli, 1996, p. 45.
262
Ad esempio per Pistoia l’analisi delle variazioni nel prezzo del ferro tra XIV e XV secolo mostra
che la produzione del XV secolo, incrementata dopo la peste da grossi investimenti nelle strutture produttive,
aveva raggiunto e superato i livelli precedenti e prosperava come non aveva mai fatto neppure a inizi XIV,
cfr. Herlihy, 1972, pp. 172, 200.
263
Si tratta in particolare di Antonio e Gabriello figli di Pietro, che possiedono le ferriere di Gonna e
di Ruota (Sito 1 UT 1 e Sito 4) e inoltre acquistano nel 1402 i ruderi della ferriera di Ripaccio (Sito II).
Tuttavia le loro attività furono in parte ridimensionate in seguito alla condanna di Antonio, nel 1406, come
ribelle del comune di Siena: in quella occasione tutti i suoi beni, tra cui la metà delle due ferriere, furono
confiscati e venduti alla comunità di Monticiano; in seguito a ciò Gabriello ottenne uno scambio per cui
cedette la propria metà dell’impianto sul Gonna alla comunità e poté rimanere unico proprietario di Ruota.
264
A partire dal 1445 ca. la ferriera di Ruota, appartenente a Paolo figlio di Gabriello Azzoni, viene
affittata a componenti della famiglia Venturi. Sempre Paolo acquisterà nel 1493 la ferriera Vecchia/del Lago
sul Gonna (Sito I) per rivenderla pochi anni dopo a Federigo di Meo Galli.
265
Su di lui sappiamo che in gioventù era dedito alla mercatura e deteneva vasti possedimenti a
Monticiano. è molto significativo, in questo contesto, il suo matrimonio con Lucrezia d’Appiano nel 1499,
cfr. Giovagnoli, 1992.
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come i proprietari o i gestori delle ferriere acquistassero la vena dal signore di Piombino, in quanto
non vi sono notizie dell’esistenza di una Magona senese prima del 1513, mentre ad esempio i
Genovesi si erano organizzati in una propria Magona già dalla prima metà del ‘400266. è probabile
che per Siena ancora in questo periodo, come in quello precedente, i proprietari o affittuari degli
impianti si occupassero personalmente dell’acquisto e prelievo del minerale; ciò sembrerebbe
confermato anche dai rapporti personali di parentela stabiliti da Mariano Venturi con gli Appiano,
signori di Piombino267.
A partire dal Quattrocento i conflitti tra i padroni di ferriere e le comunità locali, proprietarie
dei castagneti da frutto o che sui boschi vantavano antichi diritti consuetudinari, iniziano a
manifestarsi o perlomeno aumentano di dimensioni al punto di apparire nella documentazione
scritta, sia per la nostra zona che per altre268. [208] Ènoto, infatti, che il castagno, suscettibile di
svariate forme di sfruttamento e diffuso con assidue e secolari cure ben oltre l’estensione che gli
spetterebbe naturalmente, assunse una funzione fondamentale per la vita delle popolazioni di zone
montagnose o poco coltivabili come la nostra, divenendo un vero e proprio “albero da pane”269.
Un esempio del tipo di conflitti che potevano scatenarsi è offerto dalla petizione inviata dagli
uomini di Torniella al comune di Siena nel 1406: ci si lamenta infatti che Gabriello Azzoni,
proprietario di ferriere e dei boschi di Ristonsa, volendo sfruttare il legname esclusivamente per
produrre carbone, ha impedito con azioni violente ai Torniellini di raccogliervi legna e mandarvi i
porci a pascolare, secondo i loro antichi diritti consuetudinari. Il lodo del 1407 cerca di accontentare
un po’ tutti ma non risolve affatto il problema: si ribadisce che la proprietà dei boschi spetta
incontestabilmente all’Azzoni, il quale può farne l’uso che vuole, compreso produrre carbone,
tuttavia si aggiunge che egli non può impedire agli abitanti di raccogliere legna o mandarvi gli
animali (Sito 4).
Ma anche senza arrivare a degli scontri diretti si nota una notevole attenzione, sia da parte dei
proprietari delle ferriere che da parte della comunità, nello stabilire e ribadire con molta precisione i
confini delle aree boschive spettanti a ciascun impianto, e nelle quali è possibile effettuare il taglio
per fare carbone. Ad esempio nel 1460, quando la comunità di Monticiano aliena i due impianti sul
Gonna a Cristofano Gabrielli, si specifica espressamente che con questa vendita si concedono anche
i diritti di taglio nei boschi al di qua e al di là del torrente. Quando nel 1493 Paolo Azzoni
acquisterà uno degli impianti, farà richiesta alla comunità di poter tagliare per fare carbone in tutti i
266
Calegari, 1977, p. 26: questa società appare divisa in funzione delle quote sottoscritte da chi ne fa
parte e concorda col signore di Piombino un prelievo di una certa quantità di minerale, per un numero
variabile di anni, pagando un anticipo. Poi organizza il trasporto della vena dall’Elba fino ai magazzini sulla
costa, prendendo accordi con i singoli padroni di ferriere; qui il minerale viene prelevato dal proprietario o
conduttore dell’impianto siderurgico, che a proprie spese lo porta sul luogo di lavorazione. Calegari sottolinea
quindi uno stacco rispetto al XIII-XIV sec., che consiste nella separazione tra società che monopolizza
l’acquisto e distribuzione del minerale e imprenditori del settore metallurgico.
267
V. sopra nota 265.
268
Si vedano i problemi alimentari causati dal disboscamento all’Elba già nel periodo precedente, cioè
la seconda metà del XIV sec. (Corretti, 1991, pp. 53-54). Inoltre si veda la petizione degli abitanti di
Arcidosso alla Repubblica di Siena, nel 1422, ove si legge “Videro che essi castagni tagliati (per defizi di
ferro) era il taglare la vita alle persone di quella terra et che conveniva essa terra venisse in breve
abandonata”; per questo caso fu quindi decretato che si tagliasse solo un castagno su tre, cfr. Borracelli, c.s. A
proposito delle concessioni di sfruttamento dei boschi per attività estrattive e minerarie Duccio Balestracci
(Balestracci, 1984b, pp. 33-34) riporta alcuni esempi quattrocenteschi per Siena, Volterra, Firenze.
269
Cherubini, 1981, p. 249: a questo saggio fondamentale si rimanda per la trattazione di tutti gli
aspetti legati allo sfruttamento ed alla diffusione dei castagneti in Italia nel tardo Medioevo. Sull’argomento si
veda anche Pinto, 1982. Del resto un’alimentazione basata quasi esclusivamente sul consumo di farina di
castagne è stata testimoniata da fonti orali per la nostra zona fino al Dopoguerra.
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propri possessi di Monticiano ed usare indifferentemente il legname sia per l’edificio di Gonna che
per l’altra sua ferriera di Ruota. Non solo: quando pochi anni dopo rivenderà la ferriera di Gonna a
Federigo Galli, si riserverà i boschi per uso della ferriera di Ruota, segno evidente che l’estensione
dei terreni un tempo necessari per l’alimentazione di due impianti ora bastava per uno solamente.
3.5. C ONTINUITÀ E DECLINO: CENNI SULL’ ANDAMENTO DELL ’ ATTIVITÀ SIDERURGICA NEL
PERIODO XVI-METÀ XVII SEC.
Durante la ricerca sistematica entro le fonti documentarie, ed in particolare l’Archivio Venturi
Gallerani, è stata esaminata una gran quantità di materiale archivistico che concerne l’attività
siderurgica nel comprensorio Farma-Merse nell’arco dei secoli XVI-XVII. [209] Nonostante tale
materiale appartenga quindi ad un ambito cronologico ormai di piena Età Moderna, si è ritenuto
opportuno trattarne molto sinteticamente gli aspetti principali in questo ultimo paragrafo. Infatti ciò
permette di completare in qualche modo un quadro che, iniziato con i primi esordi della siderurgia
nell’area, ne contempli anche le ultime manifestazioni. Molte delle tematiche qui solo accennate,
senza pretese di esaustività, rappresentano dunque altrettanti spunti di ricerca, che potrebbero essere
approfonditi in seguito, tramite lo spoglio completo delle abbondanti fonti documentarie conservate
per questo periodo.
La prima metà del XVI secolo presenta un andamento che sembra di continuità con il secolo
precedente: il numero complessivo degli opifici attivi non subisce in pratica variazioni di rilievo e la
capacità produttiva di questo bacino idrografico sembra rimanere la stessa. Viene abbandonata la
ferriera Vecchia sul Gonna270, mentre compaiono le prime notizie della ferriera di Torniella
appartenente alla famiglia Bulgarini271.
In questo periodo allargano ulteriormente i loro interessi nella siderurgia locale diversi
membri della famiglia Venturi, che per tutto il secolo appaiono a vario titolo impegnati nella quasi
totalità degli impianti attivi. Nella prima metà del Cinquecento la ferriera Nuova di Gonna passa da
Camillo ad Achille Venturi272, che nel 1545 acquista anche i diritti sui boschi dell’ex ferriera
Vecchia (Sito I). I Venturi tengono in affitto dal 1448 la ferriera di Ruota (Sito 4), appartenente agli
Azzoni, finché Agnolo Venturi non la acquista nel 1567, lasciandola poi in eredità ai figli Augusto e
Ascanio; sempre di proprietà dei Venturi è il distendino nei pressi del Mulinaccio di S. Galgano,
che però intorno agli anni ‘30 smette di funzionare273. Agnolo Venturi nel 1559 forma una
compagnia con Paris Bulgarini per cogestire le ferriere di Torniella e di Ruota e dal 1560 tiene in
affitto anche la ferriera del Belagaio, di proprietà dei Lottorenghi, affitto poi continuato dal figlio di
Agnolo, Ascanio, nei primi anni del XVII secolo. Ancora Ascanio nel 1612 prenderà in gestione la
270
Sito I: nel 1545 la comunità di Monticiano vende i diritti sui boschi che erano un tempo di
pertinenza di questo opificio.
271
Sito 23 UT 1: non sappiamo precisamente quando fu edificato l’impianto né quando i Bulgarini ne
divennero proprietari. Abbiamo notizie su interessi di questa famiglia nella zona fin dal XIV secolo; nel 1502
comprarono i diritti che aveva il comune di Siena su 2/6 di tutta la corte di Torniella; nel 1508 Belisario
Bulgarini acquistò metà della corte e nel 1511 tutte le entrate di Torniella, cfr. Giovagnoli, 1992, p. 9 nota 21.
272
Sito 1 UT 1: da Achille la ferriera passò alle figlie, che nel 1545 la vendettero a Persio di Camillo
Venturi; nel 1582 la vedova di Persio affittò l’impianto ai figli di Agnolo Venturi, Augusto e Ascanio, che la
acquistarono nel 1587. Nel 1616 apparteneva ad Ascanio Venturi, nel 1622 a Giovanni Venturi. Cessò
l’attività intorno al 1680.
273
Sito 10 UT 2: dopo un periodo di inattività viene ricomprato da Scipione Venturi, fratello di
Agnolo, in previsione di un ripristino dell’attività, poi mai avvenuto.
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ferriera di Brenna di proprietà dei Saracini274. [210]
In questa fase sembra quindi di notare una generale tendenza, da parte dei vecchi proprietari
delle ferriere della zona, a non occuparsi più direttamente della gestione degli impianti ma a darli in
affitto. Emerge invece con decisione un nuovo gruppo di imprenditori-mercanti, originari di
Monticiano, ma da molto tempo inseriti nella classe dirigente senese275, che gestiscono
personalmente gli impianti, come proprietari o affittuari, occupandosi di tutti gli aspetti della
produzione. Per averne un’idea basti leggere le memorie che Agnolo Venturi lascia ai figli sul modo
di gestire la ferriera di Ruota, in cui si ritrovano consigli pratici che vanno dal modo di scegliere il
minerale a quanti muli tenere per il trasporto, da come sorvegliare i boschi da cui si ricavava il
carbone a quanto pagare i lavoranti, e così via276.
I proprietari e gli affittuari delle ferriere del senese, a partire dal 1513, per l’acquisto del
minerale sono legati alla compagnia Tolomei-Borghesi, di fatto una Magona, che acquista il ferro
dal signore di Piombino e lo distribuisce tra i vari impianti sul territorio della Repubblica277.
Dopo la metà del XVI sec. la siderurgia senese subisce una progressiva marginalizzazione278,
soprattutto in conseguenza dell’intervento di Cosimo I de’ Medici nella siderurgia toscana e dei
profondi mutamenti che ne derivarono. Tognarini rileva che la crisi sembra cominciare già prima
della ‘guerra di Siena’ e ritiene che le cause siano da ricercarsi nella storia politica, economica e
sociale della città verso la metà del XVI secolo. Tra gli altri elementi vanno annoverati il costo del
minerale, l’incidenza dei noli marittimi, le difficoltà logistiche e di trasporto, ma soprattutto il
ritardo tecnologico di fronte alla vera e propria rivoluzione operata da Cosimo in Toscana con
l’introduzione dei forni alla bresciana279. Nel 1543, infatti, Cosimo de’ Medici si era accordato con
Iacopo V d’Appiano per acquistare per i successivi 15 anni tutta la vena dell’Elba; nel periodo
seguente, quindi, tutte le varie Magone (Genova, Roma, Napoli, Bologna, Lucca, Siena, Pistoia,
Ferrara ecc.) diventarono clienti della società granducale, che deteneva di fatto il monopolio280. Dal
1543 cominciò in Toscana l’edificazione di una serie di altoforni di tipo bresciano281 ed il Granduca
divenne il maggior consumatore di ferro e produttore di ghisa del Mediterraneo. [211]
In alcune zone della Toscana282 l’iniziativa granducale si sovrappose alla tradizione
siderurgica locale, determinandone il rapido decadimento, in quanto le ferriere o fucine private
vennero emarginate dalla impari concorrenza delle fabbriche medicee; in molti casi la Magona
acquistò gli impianti dismessi e li ristrutturò inserendoli nel nuovo ciclo produttivo. Per la nostra
zona, nella documentazione esaminata, non si riscontra alcuna traccia di interventi diretti o
investimenti granducali nella riconversione degli impianti a basso fuoco in ferriere di seconda e
terza produzione, né risultano acquisti di impianti dismessi. L’area sembra di fatto rimanere esclusa dal
progetto di riorganizzazione della siderurgia toscana e subisce pesantemente la concorrenza con le strutture medicee
274
Inoltre Ascanio nel 1581, insieme al fratello Augusto, prende in affitto la ferriera di Liziano, di
proprietà degli Incontri, che poi acquista nel 1586 (e rivende nel 1595); nel 1602-1620 tiene in affitto la
ferriera di Bugnano, in corte di Seggiano, di proprietà degli Ugurgieri, cfr. Giovagnoli, 1992, p. 15.
275
Cfr. Giovagnoli, 1992, p. 5 nota 2, ed in particolare su Agnolo Venturi, passim.
276
Venturi, Ruota. Si veda anche ciò che accade nelle ferriere liguri nello stesso periodo, cfr. Calegari,
1977, p. 32.
277
Borracelli, c.s.
278
Tognarini, 1980, p. 249.
279
Ibidem.
280
Calegari, 1989, p. 77.
281
Sull’argomento la bibliografia è vasta: si vedano Lombardi, 1976; Morelli, 1980; Tognarini, 1980;
Arrigoni-Quattrucci-Saragosa, 1985; Rombai-Tognarini, 1986; Calegari, 1989; Azzari, 1990; Morelli, 1991.
Inoltre cfr. supra note 42 e 53.
282
Ad esempio nelle Alpi Apuane, cfr. Azzari, 1990, p. 24.
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maremmane. Le ferriere locali continuano in parte a lavorare anche durante il XVII secolo - Siti 1 (UT 1), 2
(UT 2), 4, 6, 22, 23 (UT 1) ñ, ma principalmente con i vecchi sistemi: [212] come abbiamo visto,
solo in due casi, nei primissimi anni del ‘600, si effettuò con certezza una conversione degli
impianti dal metodo diretto a quello indiretto283, tra l’altro fra notevoli difficoltà dovute alle dispute
con gli abitanti del luogo a proposito dell’aumento nel consumo di legname che il nuovo sistema
comportava284. È il caso del lungo processo tra Ascanio Venturi e gli uomini di Monticiano,
cominciato nel 1594 in seguito all’intimazione ad Ascanio, da parte dei magistrati dei Quattro
Conservatori, di non tagliare castagni di alcuna specie per uso delle ferriere, e trascinatosi fino al
1620 con ripetuti appelli e richieste di intervento, provenienti da entrambe le parti in causa, ai
magistrati senesi ed allo stesso Granduca285. [213]
Fig. 21 - Ru ota idraulica dal trattato dell’Agricola (Agrico la, 1563 , libro VI, p. 1 65).
Fig. 22 - Maglio lat erale e coppia d i mantici (Agricola, 156 3, libro IX, p. 369).
Fig. 23 - Maglio terminale.
Fig. 24 - In castellatura di sostegno ai mant ici (Agricola, 1 563, lib ro IX, p . 325).
Fig. 25 - Mantici azionati d a un alb ero a camme e mantici azionati con il si stema bi ella-man ovella
(Biringuccio , 1540, libro VII, cap. VII, pp. 110-111).
Fig. 26 - Sezione del cumulo di scorie (Sito 8).
Fig. 27 - Ru deri del la ferri era di C astiglio n della Farma (S ito 25).
Fig. 28 - Ri lievo sc hematico della ferriera di Gonna (Sito 1 UT 1)
Fig. 29 - Ri lievo sc hematico della ferriera di Ruota (Sito 4 )
Fig. 30 - Ferriera d i Gonna (Sito 1 UT 1), interno .
Fig. 32 - Am biente esterno d ella ferriera di Gonna (Sito 1 U T 1).
Fig. 33 - Am biente esterno d ella ferriera di Ruota (Sito 4).
Fig. 36 - Di stribuzi one degl i opifici (sec. XV).
Fig. 31 - Co struzion e dei mantici (A gricola, 1563, l ibro IX, p. 320).
Fig. 34 - Di stribuzi one degl i opifici (secon da metà sec. XIII-sec. X IV).
Fig. 35 - Aree di lavorazion e del ferro con impiego dell’energia idraulica nel XIV secolo.
Fig. 37 - Il passagg io al metodo ind iretto (inizi sec. XVII).
283
284
Cfr. supra, par. 2.4.
Riguardo all’impatto del nuovo metodo sulle risorse forestali, cfr. le osservazioni di Arnoux, 1994,
p. 36.
285
AVG, Tomo 44.
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