e l`insegnamento della storia
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RS RICERCHE STORICHE Anno XXXII N. 86 - Dicembre 1998 Direttore Ettore Borgh i Direttore Responsabile Piergiorgio Paterlini Le immagini che vengono pubblicate sono state gentilmente concesse da Carla Nironi eGiuseppe Fontana ~diredazillle Lorenzo Notari Comitato di Redazione: Laura Artioli, Glauco Bertani, Antonio Canovi, Maria Nella Casali, Alberto Ferraboschi, Cesare Grazioli, Marco Paterlini, Massimo Storchi, Antonio Torrenzano Progetto grafico Pietro Mussini Direzione, Redazione, Amministrazione Via Dante, 11 - Reggio Emilia Telefono (0522) 437.327 FAX 442668 http://www.istoreco.re.it e.mail:[email protected] c.c.p. N. 14832422 Cod. Fisc. 363670357 Prezzo del fascicolo Numeri arretrati il doppio Abbonamento annuale Abbonamento sostenitore Abbonamento benemerito Rivista quadrimestrale di Istoreco (Istituto per la storia della resisistenza e della società contemporanea in provincia di Reggio Emilia) L. 20.000 L. 50.000 L. 100.000 L. 500.000 Abbonamento estero 40,00 I versamenti vanno intestati a ISTORECO, specificando il tipo di Abbonamento, utilizzando il Conto Corrente Cassa di Risparmio RE n. 1170lJl La collaborazione alla rivista è fatta solo per invito o previo accordo con la redazione. Ogni scritto pubblicato impegna politicamente e scientificamente l'esclusiva responsabilità dell'autore. I manoscritti e le fotografie non si restituiscono. Sbqm GRAFITALIA - Via Raffaello, 9 Tel. 0522 511251 EdtIre~ ISTORECO Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Reggio Emilia cod. fisco 80011330356 Registrazione presso il Tribunale di Reggio Emilia n. 220 in data 18 marzo 1967 In copertina: Solagna anni '20 [Voltai re] è il primo che non vede nelle battaglie e nelle grandi catastrofi, negli intrighi politici di corte e di assemblee la realtà storica esclusiva. Si fece carico del fatto che nessuno di questi aspetti è la vita umana. Questa è di più di quelli, è anteriore ad essi, è il contrario: è il quotidiano. J. Ortega y Gasset (1933) 7 9 Ettore Borghi Editoriale Marco Minardi 13 Nota introduttiva Un luogo della memoria: la "Coop" Conversazioni a cura di Antonio Canovi Antifascismo e contemporaneità. Intervista a Enzo Traverso Saggi 19 Marco Minardi Tutti per uno e uno per tutti. La Cooperativa Agricola di Santa Vittoria attraverso il racconto di due suoi dirigenti 31 Antonio Canovi Sologno: per una topologia della formazione malaguzziana 53 Crocevia Giampaolo Calchi Novati 63 Curdi e questione curda: un popolo, tanti Stati nessuno Stato Didattica Cesare Grazioli "Il documento dei Saggi" e l'insegnamento della storia Recensioni 73 Ettore Borghi Giannetto Magnanini, Il 1948 a Reggio Emilia 77 Antonio Zambonelli AA.VV., 1948-1998. Il 50° della Festa dell' Unità a Bibbiano 81 Marco Fincardi La società emiliana improntata dalle passate emigrazioni 85 Azio Sezzi L'Emilia tra caso, modello e stereotipo 91 Lorenzo Capitani Antonio Canovi, Roteglia, Paris. L'esperienza migrante di Gina Pifferi, RS Europa - Libri 93 Antonio Zambonelli Cavriago ad Argenteuil. Migrazioni Comunità Memorie, Comune di Cavriago, RS Europa-Libri 95 Giannetto Magnanini Alfredo Gianolio, Sant'Ilario d'Enza. Dall'Unità d'ltalia alla Liberazione, Comune di Sant'Ilario d'Enza 98 a cura della redazione Pubblicazioni di storia contemporanea relative alla provincia di Reggio Emilia Una. premessa per il futuro Esce con grave ritardo l'ultimo numero del 1998, ed è obbligo scusarsene con i lettori. Ma ancor più doveroso è non tenerli all'oscuro di un'ombra che minaccia l'esistenza stessa della rivista. Senza voler anticipare decisioni che spettano agli organi statutari dell'Istituto, è bene si sappia che il 1999 non sarà un anno qualsiasi per RS. Forse sarà un "anno sabbatico", per usare un'espressione consolatoria, in realtà un anno di assenza. Si dovrà poi, nel caso migliore, prendere in esame la periodicità della pubblicazione ed il costo unitario e complessivo. Le ragioni, niente affatto misteriose, stanno nel fatto che la rivista non possiede entrate proprie che ne coprano i costi, e pertanto deve gravare sulle spese generali di Istoreco, quindi competere con le necessità di funzionamento elementare dell'Istituto stesso, oggi non abbastanza garantite. Come si sa, nel corso degli anni l'attività di Istoreco si è ingigantita, sia sul piano della ricerca, sia su quello dei servizi. La redazione di RS si lusinga che la rivista faccia parte di entrambi gli ambiti e, nei suoi limiti, rispecchi con fedeltà l'opera dell'Istituto. Ma, appunto, essa non è più, se mai lo è stata, la forma per eccellenza di proiezione esterna, né il concentrato massimo del lavoro di Istoreco. Di ciò bisognerà tener conto se si imporranno scelte dolorose. Il punto fondamentale, detto semplicemente, è che, mentre dall'associazionismo sono sempre giunte attestazioni di riconoscimento ed atti concreti di generoso sostegno, non altrettanto pronta sensibilità si è dimostrata dalla parte, in senso lato, istituzionale. Non è nostro compito andare oltre sul piano della polemica. È però amaro anche solo pensare che la sopravvivenza operativa di un vitalissimo Istituto possa in futuro esigere il sacrificio della più che trentennale fedeltà che la nostra rivista, esempio rarissimo, può vantare. ETTORE BORGHI 7 - " -' - - -' - -:~: - _. ' ; , , " :_'.' '.,:',-[<-\ .,':; ..•••.........•.....•.•..................•...... :.............. c.••....... .. . ., , . Un luogo della memona: la "Coop" Qualche tempo fa, in un comune della bassa reggiana, nell'ambito di un laboratorio didattico sulla trasformazione del paesaggio agrario e la rappresentazione del territorio tra il XVI e XVIII secolo, agli scolari coinvolti nell'iniziativa didattica chiesi di rappresentare, liberamente, attraverso un disegno, il paesaggio in cui abitavano. Trattandosi di un piccolo centro gran parte delle mappe riportavano i luoghi più significativi della località, che poi sono quelli tipici dei paesi di campagna. In alcune, con nostro grande stupore, oltre alla chiesa, il Municipio, la scuola e la mia casa, era segnata la "Coop". Subito accolta con divertimento da parte dei compagni di classe e dall'insegnante e dal sottoscritto, la cosa venne tralasciata e il laboratorio didattico proseguì lungo le linee previste dal programma. MARCO MINARDI Riflettendo con più calma su quel segno lasciato su quei tre disegni, che potevano rappresentare una sorta di mappa mentale del proprio ambiente fisico, mi venne da pensare come in fondo per quei bambini la cooperativa di consumo rappresentasse un punto significativo del paesaggio quotidiano e come questo venisse considerato parte integrante della rappresentazione del proprio paese e quindi della propria quotidianità. Non era una novità. Quante volte nel raccogliere la testimonianza di partigiani, braccianti, donne, amministratori locali, militari, artisti, ci si imbatte nella "cooperativa di consumo"? Quante volte, senza che sia il tema dell'intervista, chi racconta pone al centro della sua storia la cooperativa di lavoro o di consumo, senza per altro considerarla rilevante nell'economia del suo racconto. C'era e basta. 9 Uno scherzo della memoria oppure una presenza ormai acquisita, quasi scontata, come il Municipio? È indubbio che la seconda ipotesi sia a mio parere più convincente. La "cooperativa", di consumo o di lavoro che sia, rientra pienamente nella storia, nella vita e nel paesaggio dell'Emilia, e non solo. Un elemento che scaturisce dalle vicende storiche del nostro secolo e si intreccia indissolubilmente con la storia del Novecento in Emilia, determinato dalla volontà di riscatto dalla miseria e dall'indigenza delle masse popolari ma anche dal forte vincolo che legava le persone al proprio comunità. Solagna anni '50 lO Solagna anni '50 Anifascismo e Contemporaneità. Intervista a Enzo Traverso D. Sul revisionismo. Come spiega la reale difficoltà della storigrafia antifascista a configurarsi criticamente con la propria esperienza? Infatti, almeno in Italia, sull'antifascismo procedono prevalentemente discorsi e analisi di decostruzione (quando non di rigetto tout court). Traverso. Le difficoltà della storiografia antifascista sono legate, mi sembra, a un contesto politico-culturale europeo in cui, da una decina d'anni a questa parte (grosso modo dalla caduta del muro di Berlino) tutta la tradizione comunista, alla quale la storiografia antifascista era strettamente collegata, viena messa pesantemente sotto accusa. Ma non si tratta soltanto dei contraccolpi di un mutato clima politico. In questa nuova situazione, tutti i limiti intrinseci della storiografia antifascista sono emersi in modo molto netto, non solo nei paesi dell' ex blocco sovietico, dove l'antifascismo era ridotto a ideologia di Stato, ma anche nei paesi occidentali, e soprattutto in Italia in cui è stato egemone sul piano culturale per lunghi decenni. Il suo limite fondamentale? Aver instaurato e reso permanente un approccio pedagogico, esemplare, edificante, che all'origine aveva fatto la sua forza e che nessuno osava contestare, un approccio che consisteva, più che nello scrivere la storia, nel limitarsi ad affermare alcuni valori civili, morali e politici. Ciò ha spesso reso l'antifascismo incapace di procedere a una rilettura critica del proprio percorso. Con l'emergere di una nuova generazione che non ha vissuto l'esperienza della guerra, questo approccio si è dimostrato drammaticamente insufficente. Le storie della Resistenza alla Roberto Battaglia, che si a cura di ANTONIO CANOVI ENZO TRAVERSO Insegna Scienze Politiche della università della Picardie, ad Amiens, e tiene seminari all'E.M.F.S.S. a Parigi. Tra le sue opere: L'Histoire déchirée. Essai sur Auschwitz et les intellectuels, Les Éditions du Cerf, Paris, 1997; in lingua italiana Gli ebrei e la Germania Auschwitz e la "simbiosi ebraicotedesca'; Il Mulino, Bologna, 1994. 13 riducevano a una galleria di nefandezze dei fascisti e di atti eroici dei partigiani convincono sempre meno, non perché siano false, ma perché gli uni e gli altri vanno spiegati, analizzati nella loro genesi, nei loro sviluppi, nelle motivazioni degli attori, e non soltanto condannati o celebrati. Non sono però così pessimista da aderire completamente alla valutazione implicita nella sua domanda: un libro come Una guerra civile di Claudio Pavone, che ha rinnovato completamente la storiografia italiana della guerra e della Resistenza, è un' opera che si situa incontestabilmente nel solco dell' antifascismo (come l'autore indica fin dal sottotitolo). Non vedo l'equivalente, per il momento, in altri paesi. D. Lei tiene fortemente al suo percorso di intellettuale "engagé". Mi viene da chiederle, con Gramsci: oggi a chi o che cosa si ritiene e vorrebbe essere "organico"? Traverso. Penso, con Edward Said, che tutti quelli che trattano con sarcasmo (e con un sottile disprezzo) gli intellettuali "impegnati" dimostrano soltanto la loro cinica indifferenza di fronte a un mondo che dovrebbe suscitare l'indignazione di chiunque possieda ancora un briciolo di umanità. Rivendico quindi il mio engagement come un dovere, ma non lo vivo come una missione né lo esibisco come una posa. Detto altrimenti, non ho mai pensato di proporrni come modello e da molto tempo ho smesso di credermi parte di una "avanguardia" capace di illuminare le masse. Quanto a Gramsci, la sua teoria dell'intellettuale organico mi convince sempre di meno. In un senso strettamente sociologico, la dicotomia intellettuale tradizionale/organico non mi sembra superata. Sono pur sempre degli intellettuali coloro che elaborano e difendono la visione del mondo delle classi dominanti (il neoliberalismo non è solo una prassi dei potenti ma una corrente di pensiero), siano essi "interpreti", come vuole Zygmunt Bauman, o intellettuali "specifici", secondo Foucault. Quel che non mi convince più nel Gramsci dei Quaderni - tutta l'esperienza storica del comunismo mi sembra confermarlo in modo lampante - è la sua visione dell'intellettuale "organico" come componente del "moderno Principe", ossia come funzionario ideologico del partito. Non dico che l'intellettuale non debba per principio aderire a un partito o a un movimento, ma 14 l'esperienza indica che l'intellettuale di partito è l'antitesi dell'intellettuale autentico, la cui funzione principale, quella di essere critico, esige libertà e indipendenza assolute. D. Sembra prevalere la tendenza a leggere il 'novecento come secolo dei totalitarismi, e allo storico pare quasi non restare altro del computo degli stermini. Il suo lavoro su Auschwitz mi pare che cerchi di sfuggire a questa lettura, riproponendo una serie di questioni epistemologiche, quindi il valore delle "idee" insieme ai "fatti". Traverso. Il Novecento è il secolo dei totalitarismi, ma gli stermini che lo hanno costellato non possono essere attribuiti soltanto a Hitler, a Stalin e ai loro emuli. La Prima Guerra mondiale e il genocidio degli armeni, il primo del XX secolo, precedono i dittatori di cui sopra; la bomba atomica su Hiroshima è opera della potenza democratica che ha sconfitto il nazismo, e gli esempi si potrebbero moltiplicare. In altri termini, le violenze e la barbarie del Novecento - Auschwitz ne è il paradigma - non mettono in causa soltanto i totalitarismi, ma più in generale la modernità, di cui essi non sono la negazione ma soltanto una variante possibile. D. Praticando la storia del tempo presente, mi preoccupo del modo in cui interrogare le memorie, per rendermi prossimo alla contemporaneità. D'altronde, allo storico si richiede di mantenere una "distanza" dal proprio oggetto di studio. Il dibattito è certo apertissimo, non saremo noi a chiuderlo dal punto di vista metodologico, ma a lei domando: in che relazione epistemologica pone storia e memoria? Traverso. Storia e memoria sono due sfere distinte che interferiscono continuamente fra loro. Gli attori della storia portano con sé ricordi, esperienze, conoscenze acquisite, insegnamenti che forgiano la loro coscienza e influiscono sulle loro azioni. In questo senso, la memoria non è solo archiviazione del passato ma un fattore attivo nel presente, nello "svolgimento" della storia. Poi la memoria, quella individuale come quella collettiva, non è un museo ordinato e immobile, ma un cantiere, un universo di fatti, immagini, sensazioni in continua trasformazione. La visione del passato si modifica col 15 tempo e col filtro (sociale, culturale) del presente. Tutti gli storici che hanno fatto ricorso alle "fonti orali" lo hanno verificato. La memoria si è ormai tagliata uno spazio legittimo e importante in seno alla ricerce storica, e questo è bene. lo difendo la causa di un dialogo tra storia e memoria, tenendole però distinte, senza cioè pretendere un impossibile superamento della loro dicotomia, e senza neppure voler stabilire priorità epistemologiche. Farò un esempio a proposito di un tema che conosco un po' meglio di altri: la storia del genocidio degli ebrei. Raul Hilberg l'ha ricostruita magistralmente basandosi esclusivamente sulle fonti tradizionali dello storico: gli archivi e la documentazione scritta, opponendo un secco rifiuto metodologico all'uso delle testimonianze dei protagonisti. Claude Lanzmann ha cercato, all'opposto, di raccontare la Shoah attraverso la voce di chi l'ha vissuta. Molto si potrebbe dire ed è stato detto sia sull' opera di Hilberg che sul film di Lanzmann; io credo che per cercare di capire Auschwitz siano entrambi indispensabili. Penso infine, con Saul FriedHinder, che lo storico del tempo presente non possa evitare une parte di transfert nel suo rapporto col passato che ha deciso di studiare; che sia inevitabilmente preso in una trama di influenze legate alle sue origini, alla sua formazione culturale, alla sua generazione, alle sue esperienze, ecc. Sarebbe perfettamente inutile e illusorio voler rimuovere questa dimensione soggettiva che ciascuno di noi porta con sé; è meglio esserne coscienti e "assumerla" cercando di stabilire nei suoi confronti la necessaria distanza critica. Non credo sia facile, ma non vedo altra via, a meno di ricadere nel mito positivista dell'assoluta neutralità assiologica delle scienze sociali. 16 Roma, 3' Conferenza Nazionale del P.C.I. per la Scuola, 15-17 febbraio 1980 ··aIJ· .. = Tutti per uno e uno per tutti. La Cooperativa Agricola di Santa Vittoria attraverso il racconto di due suoi dirigenti Raccontare la propria esperienza lavorativa diventa, per un diri- MARCO MINARDI gente cooperatore, un modo per raccontare di sé, delle proprie passioni politiche e del ruolo del movimento cooperativo nell'emancipazione materiale e culturale dei ceti sociali più deboli. Una autorappresentazione che ribadisce il ruolo chiave che il racconto soggettivo e la memoria svolgono nel grande e complesso racconto della storia degli emiliani nel Novecento. lo non ho studiato ma mi sono formato sulla memoria, sulla pratica. Proprio perché io il movimento cooperativo l'ho vissuto nel lavoro, con gli anziani della cooperativa che parlavano a noi più giovani del movimento. Così inizia il suo racconto Ferruccio Daolio, che ha trascorso gran parte della sua vita nella Cooperativa Agricola di Santa Vittoria. In questa frazione -prosegue Daolio- a partire dal 1890 hanno cominciato a parlare dei movimenti cooperativi e nel 1896 hanno avviato la cooperativa di consumo. Perché per prima la cooperativa di consumo? Perché alla gente andava male e dovevano mangiare e non avevano la possibilità di pagare. Alla cooperativa di consumo si andava a fare la spesa con illibretto e marcavano, e quando avevano i soldi pagavano. E quindi la cooperativa diede un grande contributo alla frazione. È dalla Cooperativa di consumo che è nata la Cooperativa braccianti agricola. Prima solo braccianti, poi nel 1911 è diventata Cooperativa braccianti agricoli ... 1 1 Testimonianza orale di Ferruccio Daolio, 1998. La storia delle cooperative di Santa Vittoria è la storia di un villaggio, di una comunità che trasferisce le proprie difficoltà, le proprie speranze, il proprio impegno nella sfida e nel progetto 19 2 Marco Fincardi, Vergnanini e il villaggio, in "L'Almanacco" Rassegna di studi storici e di ricerche sulla società contemporanea, a. VI, n.11, Reggio Emilia 1987. rappresentato dal modello cooperativo che si andò affermando nelle campagne emiliane sul finire del XIX secolo, grazie all'insegnamento di Antonio Vergnanini. La cooperazione integrale che nel reggiano raggiunge risultati eccellenti e che rappresentò un modello per il movimento cooperativa nazionale. Soprattutto nella fase che precedette il fascismo, come ricorda Marco Fincardi, quando fiorì una "matura esperienza collettivistica che aveva voluto legare la comunità povera alla sua terra'',2 Angiolino Ponti, presidente della Cooperativa Agricola nel secondo dopoguerra, ricorda come la cooperativa a Santa Vittoria era in pratica l'econoIIÙa del paese. Distribuiva 1'occupazione a tutti i braccianti, svolgeva la funzione di collocamento, mentre la cooperativa dei braccianti faceva i lavori industriali di bonifica. Anche per Angiolino alla base dello sviluppo della cooperativa, era la pratica e l'esperienza. 3 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998. 20 È stata l'esperienza pratica, vissuta di queste gestioni che ha convinto i cooperatori di Santa Vittoria ad accettare la logica del riforIIÙsmo. Avevano capito che piuttosto di pensare ad obbiettivi lontani, bisognava pensare a quelli di tutti i giorni, di vivere quello che si poteva: restavano convinti che nell'unione c'era la forza, la distribuzione della IIÙseria costituiva comunque la meno peggio. È stata la differenza tra Santa Vittoria e Gualtieri che ha finito per creare una divisione anche tra i socialisti, prima ancora che tra i comunisti, perché là c'erano gli estreIIÙsti e qua a Santa Vittoria i riforIIÙsti. Gli estreIIÙsti, socialisti prima e comunisti poi, erano quelli che volevano la lotta di classe a tutti i costi. Ancora prima del fascismo, nel 1910, i socialisti perdono il Comune proprio perché i riforIIÙsti non riescono a fare l'accordo con questi. Da sempre Santa Vittoria non è andata d'accordo con Gualtieri. A Gualtieri comunque i comunisti sono sempre stati IIÙnoranza, la maggioranza era della Dc. Tutta la fascia rivierasca del Po è fatta di piccoli proprietari, da sempre, e quindi nel dopoguerra legati alla chiesa e ai democratici cristiani. Qua invece c'era un bracciantato, fin dall' epoca della presenza dei conti Greppi. A costruire la cooperativa erano i socialisti di Prampolini, che poi diventano nel dopoguerra comunisti riforrnisti, che hanno retto fino ad oggi. La presenza dei sindacalisti rivoluzionari a Gualtieri si spiega ... intanto erano braccianti e i socialisti rimasero una minoranza, senza riuscire a realizzare gli obbiettivi che si erano dati e quindi molti pensavano di raggiungerli tutti con la lotta". 3 Nel 1890 per iniziativa della lega Sindacale Braccianti e del partito socialista era quindi nata la Società Anonima Cooperativa Braccianti di Santa Vittoria, composta inizialmente da settantaquattro soci, con il proposito di gestire direttamente cantieri di opere pubbliche e di interventi di bonifica. Otto anni dopo prese avvio la Cooperativa Agricola con «l'assunzione di un appezzamento di terreno di circa 20 ettari a mezzadria», da coltivare a risaia, parte della ben più vasta tenuta dei conti Greppi a Santa Vittoria. Negli anni a cavallo del secolo le terre gestite dalla cooperativa continuarono ad estendersi. Nel 1902 un secondo podere di 42 ettari, sempre sotto forma di affittanza collettiva, entrava a far parte della gestione cooperativa, compresa la casa colonica e la stalla (capienza 30 capi bovini adulti per la produzione del latte). Trascorsero appena dodici mesi e un nuovo podere di 33 ettari, confinante con il primo, si aggiunse. Progressivamente la terra lavorata dai cooperatori si estese fino a raggiungere i 171 ettari e un nutrito patrimonio bovino da latte nel 1906. Al termine del primo decennio del secolo la Cooperativa Agricola aveva raggiunto un tale livello di affidabilità che diversi proprietari preferirono affittare i propri terreni alla società cooperativa piuttosto che a privati, che li avrebbero spezzettati e quindi subaffittati a singoli contadini. Nel 1911 il grande balzo. La cooperativa decide di acquistare definitivamente la tenuta dei conti Greppi, 300 ettari circa al costo di f 715 mila (finanziati: un terzo in contanti e due terzi a mutuo) e fu legalmente costituita la Società Anonima Cooperativa Agricola di Santa Vittoria. lo ho sempre lavorato nella cooperativa. Come diceva il mio povero papà, che era un bifolco: «Invece di andare all' estero c'era la cooperativa!» ricorda sempre Ferruccio Daolio-. Quando venivo a casa da scuola andavo a curare il bestiame che era al pascolo ... e così via, fino a dopo il soldato quando ho cominciato a lavorare ricoprendo sempre dei posti. .. importanti diciamo. Tanto è vero che sono stato 1'organizzatore di tutta 1'azienda, distribuivo la gente. Il presidente aveva i compiti amministrativi, io avevo quello di dirigere 1'azienda. Dico questo perché il movimento cooperativo ha dato un grande contributo anche politicamente. Perché? Perché hanno capito che la comunità poteva migliorare tutti insieme. Faccio un esempio nel caso una famiglia che aveva terra in compartecipazione -il cui ricavo era in parte del prodotto coltivato- si trovava in difficoltà perché il capo famiglia o qualcuno si 21 4 Testimonianza di Ferruccio Daolio, 1998. ammalava tutti gli altri soci andavano ad aiutare ... e dico che solo questo fu un grande contributo associativo per la comunità. Prima della guerra tutti i lavori venivano fatti a mano, non c'era macchinario, non c'era niente. Dopo c'erano solo tre macchine a vapore per la trebbiatura e l'aratura. Prima ancora lavoravano solo con i buoi... ecco. Dopo la guerra hanno cominciato a migliorare le condizioni. Allora hanno cominciato la motorizzazione, fu un cambiamento enorme. Un'azienda come questa aveva tantissima gente che lavorava. Si lavorava con le braccia e i buoi. Dopo la guerra ha cominciato ad industrializzarsi: hanno cominciato ad entrare le macchine. Mi ricordo che venne un negoziante che vendeva le trebbiatrici. Allora il presidente mi chiese di andare a parlare con lui. ... lo gli ho detto: «Guardi io credo che siano una cosa positiva ... io ho gli stivali e vado giù quattro o cinque dita nelle risaie, come fa una macchina a mietere? .. » Lui si è messo a ridere e mi dice: «Lei ha ragione ma noi abbiamo già progettato un cingolo che non solo sopporta la macchina ma anche tutta la parte che imballa il riso». E aveva ragione ... Comunque allora anche se con le macchine c'era bisogno di meno gente, i soci si salvavano perché lavoravano all'interno della cooperativa. Adesso il cambiamento è stato furioso ... Adesso si è associata con la cooperativa di Novellara... saranno 4 o 5 mila biolche di terra. Adesso con dieci persone fanno andare l'azienda ... fanno tutto a macchina, fin la mungitura a macchina ... Si tratta ormai di una cooperativa senza uomini! Fanno tutto le macchine ... Oggi una falciatrice in una giornata è capace di falciare 60 biolche, una volta ci volevano una sessantina di uomini, un uomo per biolca per fare quello che fa la macchina. Oggi con sette o otto persone fai tutto ... una cooperativa senza uomini. Un patrimonio di macchinari che fanno tutto. lo dico che allora ha dato un grande contributo in quel momento perché dalla nascita della cooperativa di consumo è nata la cooperativa braccianti agricola, sui terreni Greppi, poi quella dei barbieri, la cooperativa dei muratori, la cooperativa ... [del truciolo, cooperativa dei biracciai, cooperativa falegnami, cooperativa fabbri e la banda musicale, anch'essa cooperativa] insomma Santa Vittoria era tutta una cooperativa. 4 Ma la grande minaccia fu il fascismo, -ricorda Angiolino- con il fascismo, a partire dal 1930, la cooperativa ha avuto tre anni di gestione commissariale. Il commissario è poi riuscito a difendere e salvare la proprietà originale, che ormai si era allargata a 800 ettari, tra proprietà, affittanza e mezzadria; con la famosa quota 90 del' 30 e con i debiti che aveva naturalmente ... ha dovuto chiudere. Si è salvata la proprietà grazie ad un mutuo dello stato e dovendo però trasformare la gestione famigliare; restava la gestione collettiva soltanto per il settore zootecnico, le foraggere e le risaie. Tutti gli altri prodotti venivano coltivati direttamente dai soci in gestione famigliare. Veniva assegnata una biolca di terreno all'uomo e mezza biolca alla donna, che poi ognuno poteva scegliere il prodotto che desiderava produrre: frumento, formenton, pomodoro, cocomeri, 22 23 Solagna anni '20 24 meloni, uva ... Naturalmente portava a casa i prodotti in natura, in un periodo in cui si consumavano i prodotti che c'erano in casa; soprattutto per fare la polenta e ingrassare il maiale che poi si consumava ... tutto in casa. L'uva serviva per fare il vino sempre in casa ... si faceva un terzo di vino buono e due terzi di vino sottile che aveva soltanto il colore ... Quando si consumava così avere quei prodotti era importante. Nel dopoguerra invece si ritorna ad una gestione collettiva completa. Siamo usciti dall'ultima guerra -prosegue Ponti- con una voglia sola, quella di ritornare alla autogestione della vita sociale, dove c'era un senso antifascista, non solo per quello che era stato ma anche per quello che aveva fatto, per la guerra e le sue conseguenze, la gente era molto povera e aveva bisogno di capire come meglio organizzare la distribuzione della miseria. E allora si gestì la distribuzione della miseria nel migliore modo possibile. Se lo gestivano loro con più autorità e autonomia rispetto a quando c'era ancora il regime. Comunque durante il ventennio fascista, nonostante tutto, nonostante la gestione commissariale riuscirono a trovare un accordo tra fascisti e socialisti per fare un consiglio di amministrazione per far sopravvivere la cooperativa durante il periodo del fascio. Fu così che nel dopoguerra si poté ritornare ad una gestione collettiva completa. La proprietà era sempre quella originale, sempre però divisa in poderi e la gestione non era più famigliare ma era diventata poderale. Ad ogni casa colonica della cooperativa corrispondeva del terreno che costituiva il podere. Ogni podere aveva il suo piano culturale, il suo capo uomo e produceva un po' tutta la produzione dell' azienda. Sarà solo dopo il 1960 che si sarebbe passati alla gestione aziendale superando la gestione poderale ... il che voleva dire che aveva un piano colturale unico. il che significava fare le colture a dimensioni più vaste. Quando, ad esempio, avevi bisogno di irrigare non andavi a danneggiare le altre colture, perché trattandosi di terreno argilloso e non sistemato, l'irrigazione a scorrimento che ti costringeva a far passare l'acqua attraverso colture diverse per raggiungere quella desiderata, mandava inevitabilmente acqua anche dove non volevi, con danno per quelle colture. In una gestione aziendale l'acqua attraversava campi coltivati con la medesima coltura. Con la nuova gestione rimasero le case coloniche, il bestiame ... la manodopera però girava nelle colture, girava per i singoli poderi. Chi lavorava nella cooperativa era anche socio. Lavoravano a turno perché la quantità di manodopera era esuberante rispetto alla disponibilità di lavoro. Lavoravano anche solo tre giorni alla settimana, intercalati a secondo dei bisogni. Quando non lavoravano lì potevano lavorare per la cooperativa di braccianti dei lavori industriali o per singoli agricoltori attraverso la Camera del lavoro. Però l'organizzazione del collocamento della manodopera veniva sempre fatta dalla cooperativa. Allora riusciva a distribuire uguali turni, cosa importante perché c'erano le tariffe differenziate: la cooperativa aveva una tariffa, la braccianti quella industriale e gli agri25 5 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998. coltori singoli avevano quella sindacale, perciò bisognava distribuire la quantità di lavoro e la quantità di salario, diversificato ... Perciò l'ordinatrice che avevamo in azienda doveva conoscere bene tutti i soci, le loro capacità, per stabilire chi inviare quando un datore di lavoro richiedeva manodopera, che tipo di manodopera doveva inviare, con quali attrezzature, per quanti giorni. .. un lavoro organizzato bene, bene, bene ... era ormai diventato storico. 5 6 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998. La cooperativa di consumo nel dopoguerra -ricorda Angiolino- conserva la funzione di servizio popolare: calmiere dei prezzi rispetto alle botteghe private, dove la stragrande maggioranza continua a preferirla come emblema soprattutto perché ha tutta la storia che ha dietro, senza però mai dimenticare la funzione di calmiere ... Il grande edificio sulla strada era la casa dei conti Greppi, tutta la storia della cooperativa di Santa Vittoria è nata dentro lì. Quando poi all'inizio degli anni Sessanta si è cominciato a parlare delle unificazioni, noi dicemmo «prima facciamo gli investimenti ... la cooperativa aveva delle riserve, poi ci uniamo». Inizialmente la cooperativa di consumo era su in paese vicino al ponte ... aveva un immobile vecchio. Venne così costruita la nuova sede della coop di consumo in paese. Capivano l'importanza ormai che era necessario unirsi ma prima gli investimenti poi le nuove cooperative, anche perché disponeva di una piccola riserva che poteva essere utile in quel frangente. Prima hanno fatto quella a Reggio poi questa a Santa Vittoria, ed è ancora uno spazio moderno anche se fatto agli inizio degli anni Sessanta. Costruendo questo immobile nuovo si è liberato quello là che poi è stato lasciato a disposizione di un gruppo di artigiani che si sono messi a lavorare insieme e hanno costituito la famosa "L.P.", un'azienda industriale importante per Santa Vittoria, nata sotto il tetto della cooperativa di consumo, una costola del movimento cooperativo, anche se oggi sono degli industriali. La logica era: prima ci modernizziamo poi ci unifichiamo; il rischio era perdere tutto, riserve comprese. Con l'amministrazione: eravamo noi di Santa Vittoria a vincere le elezioni a Gualtieri, perché là vinceva l'altra parte. Con il sindaco Prati si andava d'accordo, era un socialista, presidente della cooperativa braccianti, ma non c'erano problemi perché noi eravamo unitari, poi lui era di sinistra tra i socialisti ... ancora oggi è ancora convinto, è per l'unità, anche se a livello nazionale c'erano ragioni che ci dividevano, a livello locale no ....6 Serafino Prati ancora oggi rivendica fiero la sua posizione unitaria Ho sempre seguito le mie idee, anche quando mi si chiese di rompere l'unità con il partito comunista per formare una alleanza di centro sinistra, come era avvenuto a Guastalla. lo ero però il Sindaco della sinistra 26 e anche se mi avevano proposto di restare Sindaco anche con la nuova maggioranza, non accettai. 7 7 Testimonianza di Serafino Prati, 1998. Gli anni Cinquanta segnano un passaggio critico per la cooperazione, non tanto per le conseguenza della guerra ma soprattutto per le profonde trasformazioni della società locale. La cooperativa, nata come è nata, vissuta come è vissuta fino alla fine della guerra è stata accettata dalla grande maggioranza e nessuno era contrario, dopo 1'alluvione nel '51 incominciano a svilupparsi i lavori pubblici per la ricostruzione ... , in quel periodo nascono le piccole botteghe artigianali ... e si comincia a preferire altri settori. Fu da lì, da come si riuscì ad abbandonare 1'agricoltura come scelta professionale che questa cooperativa comincia a sbriciolarsi. Infatti noi abbiamo i braccianti, in quell' epoca, che si trasformano: c'è chi va nell' edilizia nella cooperativa muratori, chi va nell'artigianato, i mezzadri cominciano anche loro ad essere superati e c'è chi diventa bracciante, chi diventa operaio, chi diventa piccolo proprietario; poi ci sono i figli dei braccianti che diventano studenti. .. da lì comincia a rompersi tutta la storia. 8 8 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998. Ma il sistema delle cooperative aveva anche dei nemici il clero e la democrazia cristiana, perché secondo loro la cooperazione sviluppava la gente e loro, poveretti, perdevano la possibilità di controllarli, perdevano del potere. Tanto è vero che dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1949, nacque la cooperativa ... "Libertas", dicevano la Sacaì (voleva dire differente dagli altri), era la cooperativa dei democristiani, ma durò poco ... Finita la guerra i partiti si riorganizzano e la stragrande maggioranza aderisce al Partito comunista. Abituati come erano a dover prendere per forza la tessera del fascio per potere godere dei diritti, sono rimasti convinti che ancora bisognava avere la tessera del partito, o comunista, o socialista, o della Dc per continuare ad avere dei diritti. Perciò la stragrande maggioranza era iscritta al Partito comunista, i pochi Dc e i pochi socialisti e socialdemocratici, che erano ancora dentro il collettivo non avevano quel potere che forse avevano voluto ... allora sentirono il bisogno di costruire 1'altra cooperativa agricola, alternativa a questa, che nasce con l'impegno della Dc e dei socialdemocratici, nel' 49. La sola sola azienda agricola privata, di una certa consistenza, a Santa Vittoria diventa una cooperativa agricola. Non c'era uno scontro tra le due aziende, come individui ... loro erano democristiani e socialdemocratici, noi eravamo comunisti perciò ... la situazione in quei tempi era vista così. Quella cooperativa si impegnava a rompere la tradizione della distribuzione in forma uguale dell' occupazione. Lei faceva lavorare soltanto i suoi soci e gli altri naturalmente 27 9 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998. lavoravano meno ... mentre noi continuavamo a distribuirci i lavori. Non si poteva essere iscritti in entr~mbe le cooperative. Per scegliere a quale cooperativa aderire c'era intanto se si era di sinistra o se si era democristiano, ma non solo, c'era soprattutto la convinzione che là c'era più occupazione per chi riusciva ad entrare ... Là erano in meno, erano in numero di lavoratori quasi adeguato per il terreno disponibile. Vista in quella logica, gente che usciva volentieri dalla organizzazione della distribuzione della miseria, andava a risolvere i propri problemi individualmente, con le possibilità che quella azienda poteva dare, con il risultato però che non si risolveva il problema complessivo della miseria e che dopo dieci anni è fallita, in seguito all'alluvione del Po nel 1951. L'indebitamento che abbiamo tutti dovuto fare per sistemare ... ricuperare quello che si era perso, risistemare tutti gli stabili e poi cominciare la trasformazione aziendale ... loro hanno fatto un piano di trasformazione molto celere con parecchi investimenti e non riuscirono poi a pagare i mutui ... etc. e sono così finiti con la gestione commissariale ... Noi siamo riusciti, molto più lentamente a sistemare tutto e riprendere. 9 Una cooperativa agricola di 220 ettari acquistati dalla tenuta Bigliana 10 Angiolino Ponti, La Cooperativa agricola di S. Vittoria. Le testimonianza dell'ultimo Presidente, dal 1955 al 1980 (dattiloscritto inedito). col proposito di interrompere l'ormai tradizionale distribuzione dell' occupazione fra tutti i braccianti avventizi del paese, ma anche di costituirsi in azienda cooperativa modema in concorrenza alla vecchia cooperativa rossa, riuscendo però soltanto in piccola parte, nel primo proposito, mentre nel secondo proposito, non soltanto non vi riuscì ma addirittura alla fine del primo decennio di gestione fu costretta alla gestione commissariale per tre anni, ritornando in seguito a gestione cooperativa, senza più ambizione competitiva. lO I due fattori che hanno attraversato la grande esperienza di cooperazione integrale fornito dal distretto cooperativo di Santa Vittoria erano quelli dello spirito di solidarietà e di comunità. Solidarietà all'interno della comunità dove quest'ultima era la vera protagonista e la solidarietà cooperativistica lo strumento per conservare e rafforzare il legame di comunità. Vero confine oltre il quale la cooperazione perdeva, per i cooperatori di Santa Vittoria, i suoi connotati di strumento solidale. Ricorda Angiolino Ponti: La cooperativa ha dato un grande contributo a sviluppare la gente. Nella cooperativa agricola tutti i soci avevano il medesimo diritto. Quello che 28 guadagnava per esempio lavorando metà giornata prendeva la giornata come quello che aveva lavorato tutto il giorno. Nel privato invece era diverso. Intanto prendeva la manodopera più in gamba e quella povera gente che per motivi fisici o per mentalità ... di fatto non andavano a lavorare. Nella cooperativa tutto questo non c'era. Anche chi non era idoneo, ma aveva bisogno di mangiare, la cooperativa lo faceva lavorare lo stesso. E io continuo a ripetere che ha dato un grande contributo alla comunitàY 11 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998. Una solidarietà subordinata all'appartenenza alla comunità: I soci erano solo di Santa Vittoria. Si poteva diventare soci della cooperativa agricola solo se eri di Santa Vittoria. Questo perché abbiamo fatto dei sacrifici per costruirla, sacrifici che abbiamo fatto per i nostri figli e non per altri. «Tutti per uno, uno per tutti». Poi siamo la piccola Russia e il Palazzo ne, 1'ingresso della vecchia proprietà dei conti Greppi, era per tutti il "Cremlino" ... adesso è del Comune. In Russia non c'era la proprietà è vero ma anche là si divideva la miseria. Noi eravamo convinti che facessero come qua. Alla fine noi siamo riusciti a migliorare, loro invece a peggiorare ... non si sono aggiornati. Noi comunisti qua abbiamo accettato le cooperative per unificare il movimento. l2 12 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998. Pagina seguente: Solagna anni '20 29 "Sologno, e poi Parigi". * Per una topologia della formazione malaguzziana 1. Luoghi da abitare ... ANTONIO CANOVI Si può tentare di stabilire un percorso formativo per luoghi nel cammino percorso da Loris Malaguzzi?1 Il criterio topo logico viene esplicitamente suggerito in un suo dattiloscritto (riprodotto nel numero 84/1998 di "RS"). È un reperto di memoria - come tale è stato ritrovato da Laura Artioli in deposito, presso le carte private in possesso del figlio Antonio - di estremo interesse, giacché tradisce un lungo e solitario lavoro alchimistico: l'autore vi ha significativamente fatto "precipitare" i composti contraddittori dell' esperienza per trame un frammento di verità autobiografica. È una verità esperienziale, tanto più suggestiva in quanto richiede d'essere situata nello spazio per farsi tramandare. *Detto popolare diffuso nel paese di Sologno 1. L'esperienza pedagogica di Loris Malaguzzi (Correggio, 1920-Reggio Emilia, 1994) si trova oggi al centro di numerosi studi e riflessioni, per la notorietà internazionale acquisita dalle scuole comunali dell'infanzia di Reggio Emilia. Istoreco, da parte sua, ha appena concluso - per conto del Comune di Reggio Emilia, della società Reggio Children e dell' Associazione Amici di Reggio Children - una ricerca per fonti ed archivi dal titolo "La cultura dell'infanzia e l'esperienza delle scuole comunali di Reggio Emilia". Carte Il interviste sono attualmente in deposito presso .l'Archivio Tempo Presente Istoreco (ATPI). Se è vero ciò che dice Wittgenstein che è importante sapere dei luoghi dove si parla, io ne ho avuti tre di luoghi dove ho appreso a parlare e a vivere. Il primo luogo ad essere enunciato è Sologno, paese montano alle falde del Prampa, nell' Alto Appennino Reggiano. Si tratta, inoltre, del solo luogo dello spirito che abbia rilevanza geografica, trovandosi affiancato ad un manufatto - l'asilo sorto nel 1945 dalle ceneri della guerra a Villa Cella, che incarna una conquista sociale di fortissimo impatto simbolico - e ad una cesura epocale che vi assume valenza metaforica, la Liberazione. 2 L'esperienza di Cella, cui se ne affiancarono immediatamente altre grazie all'impegno dell'Unione Donne Italiane e di alcuni Comitati 2. Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell'insegnare, a cura di Laura Artioli, "Ricerche Storiche" n° 84, maggio 1998, p. 51; la curatrice, confrontando tre diverse versioni del dattiloscritto, ha posto in luce qualche incertezza dell'autore circa il numero reale - tre, o soltanto due? - di questi "luoghi", fra i quali, ad ogni buon conto, Sologno fa da stella fissa (materiale attualmente depositato in ATPI). 31 di Liberazione Nazionale, risulta oggi ricompresa e dunque rimemorata in funzione di quella più complessiva delle scuole comunali dell'infanzia di Reggio Emilia. Quanto alla Liberazione, considerato che il giovane Malaguzzi diviene comunista pur restando alieno da ogni impegno militare, funge da linea di demarcazione per definire la soglia di appartenenza al campo semantico antifascista. La vocazione creativa - pedagogica e politica - di Malaguzzi prende dunque coscienza di sé confrontandosi con il significato dell'evento-guerra. Si è trattato di un processo sofferto, stando alla medesima confessione postuma. 3 Ibidem, pp. 53-54. 4 Ibidem, p. 53. Ma vorrei aggiungere i luoghi della guerra, della Liberazione, della gente, delle vicende che seguirono. Soprattutto degli impeti che con la pace anelano a ripulire le strade sporche della follia. (... ) Non so se la guerra, legata agli eventi cospirativi del prima e del dopo, nella sua tragica assurdità, può essere un' esperienza che spinge al mestiere dell' educare come uno dei tanti ricominciamenti possibili per vivere e lavorare per il futuro. Specie quando quella finisce e i simboli della vita ricompaiono con una violenza pari a quella conosciuta ai tempi della distruzione. Non so bene. Ma credo che sia lì il luogo dove cercare. Il luogo dove ho vissuto nella maniera più intensa patti di alleanza con i bambini, la gente, i reduci delle prigionie, i partigiani della Resistenza: convivendo con un mondo devastato, quando le idee e i sentimenti rivolti al futuro sembravano immensamente più forti di quelli che si fermavano al presente. E quando pareva che non esistessero più cose difficili e incapaci di superare le barriere dell'impossibile. 3 Malaguzzi offre così a se stesso, mentre ricompone il proprio quadro esistenziale, la suggestione di una guerra "liberata", cioè di un'umanità dolente che sa - ha saputo, saprà nuovamente - scegliere per liberarsi. È in questa "cospirazione", come la definisce altrimenti, che va a situare "le genesi della mia scelta di stare coi bambini e di starci tutta una vita".4 Il processo dell'educare trascende gli specifici segmenti anagrafici e finisce per implicare coesioni ed alleanze allargate. Ciò che viene trasmesso ai posteri, come ben si vede, costituisce una precisa investitura affidata alla Politica. Una politicità che tutto tiene: pervade l'identità soggettiva e ne connota lo stile engagé, trascende l'azione personale per nutrire il legame sociale. Fare della militanza politica la propria educazione sentimentale significa, allora, prefi- 32 Solagna anni '50 gurare quella polis ideale dove la cittadinanza si fa etica dell' abitare. Prassi, ed insieme utopia, tanto più vibrante in un presente che vede moltiplicarsi l'intangibilità dei "non luoghi". "Perché proprio a ReggIo Emilia?" - si sentono ripetere, ad ogni incontro, gli operatori delle scuole comunali dell'infanzia. Al fuoco di questo crogiuolo affatto scontato, ove i "sentimenti rivolti al futuro" dovevano fungere da imperativo morale per rimodulare il "mestiere dell'educare", è stata "cucinata" - con il concorso di molti, diffusi e diversi coprotagonisti - la particolare "ricetta" inventata da Loris Malaguzzi. La qualità pedagogica e istituzionale raggiunta è il punto sensibile di comparazione, l'esito cui legare - in una sorta di percorso indiziario - quei topoi che si può con ragione ritenere significativi per la costruzione dell'esperienza complessiva delle scuole dell'infanzia a Reggio Emilia. Per "ritornare" a Sologno - il primo e il meno metafisico tra i luoghi che hanno scandito la formazione del "maestro" Malaguzzi - ho così avuto bisogno di condurmi, a ritroso, dall'Istituzione (l'apertura della prima scuola comunale dell'infanzia, nel 1963) all'Educatore. 2. Il Partito Voi conoscete, anche i compagni di base conoscono, anche attraverso sensazioni, magari un poco confuse, tratte dalla loro esperienza personale di genitori le condizioni della scuola italiana. (... ) circa il suo vecchiume, circa la svogliatezza e il disamore che i ragazzi hanno dopo un po' che abbiano frequentato la scuola. L'educazione che molte volte offende e va contro i nostri principi, e i principi democratici (... ). La sua strutturazione in senso classista, il fatto che a dieci anni il nostro ragazzo abbia già il destino segnato, e per lui si apra in maniera decisiva una scelta, sia nel senso di una scelta verso la scuola subaltema, o sia nei termini di una scelta invece verso una scuola per dirigenti o futuri dirigenti. È un passo tratto dalla relazione introduttiva che Loris Malaguzzi propone al Comitato Federale del Partito Comunista (Pci) di Reggio Emilia il 17 aprile 1961, che porta per odg: "Contro il piano de5 Archivio Storico Democratici di Sinistra, Federazione di Reggio Emilia (ASDSRE) , Verbali Comitato Federale PCI Reggio Emilia, seduta 17 aprile 1961. cennale Fanfani per la riforma democratica della scuola".5 Si tratta di una relazione piuttosto corposa, che risente da un lato dell'escandescenza della situazione giovanile - vi si commenta, esplicitamente, il fenomeno dei teddy-boys - e dall'altro partecipa del clima di 34 apertura del centro-sinistra, tra i cui risultati vi sarà in effetti la prima riforma della media unificata (nel 1963). Malaguzzi milita nel Pci sin dal 1945 ed è una presenza costante nel paesaggio politico reggiano, sia da giornalista sia da pedagogista. Non rientra però tra gli intellettuali di punta e tanto "organici" da assumere incarichi di partito. Al Comitato Federale arriva soltanto nel 1959, peraltro portandovi immediatamente una nota vivace, in ciò favorito dalla preoccupata urgenza che - nel biennio 1959-1960 suscita la freschissima "questione giovanile" (cui vengono dedicate sedute di grande interesse). Dopo di che, nel volgere di pochissimi anni, di Malaguzzi nei verbali del Comitato Federale si perdono le tracce; se pure ne fa parte, evidentemente o non partecipa o non interviene (per quanto ho trovato, l'ultimo intervento documentabile risale al 1982). È insomma un compagno aduso a stare negli "organismi collaterali", come si evince dall'approccio del suo primo intervento, dedicato alla situazione del movimento cooperativo: dopo i saluti di prammatica - "Compagni, è la prima volta che partecipo ad un CF, ed è la prima volta che io faccio le mie esperienze ad un livello così alto nella nostra Federazione" - tesse un elogio del cooperatore "integrale", che tale per soltanto motivi economici ma per l'universalità dello sguardo.6 Ed è in tale sarebbe sede che ricorda un passaggio importante per la propria formazione, quando insegnava ai partigiani nel Convitto Scuola di Rivaltella. 6 ASDSRE, Verbali Comitato Federale PCI Reggio Emilia, seduta 3 ottobre 1959. È non a caso, lasciatemi qui ricordare un fatto al quale io sono legato, a particolari ricordi, che oggi a capo di quasi tutte le coop. di produzione e lavoro della nostra provincia vi sono dei compagni, quei ragazzi che studiavano con noi al Convitto di Rinascita. Voglio dire che là hanno potuto abbinare alla loro consapevolezza politica anche l'insegnamento tecnico, l'insegnamento culturale. L'approccio educativo di Malaguzzi vi appare estremamente preoccupato di nutrire i processi formativi con la farina dell'attualità politica. Resta cioè convinto, utilizzo qui un'espressione assai in voga tra i compagni comunisti, che "la politica te la ritrovi dentro la minestra che mangi ogni sera". Non pare interessargli più di tanto la formazione di bravi professionisti, piuttosto di persone consapevoli del tempo in cui sono immersi. Il suo comunismo sta in questo raccordo sociale che avverte come tassello fondamentale, 35 cui volgere e piegare le "tecniche". Dà conto, nel medesimo Comitato Federale, di un'esperienza condotta l'estate precedente in un campeggio cooperativo a Canazei, quando i bambini - "realisticamente versando 10-20-30-40 lire per acquistare medicinali per i popoli coloniali" - erano stati sensibilizzati sul problema della guerra in Algeria. Ne trae l'auspicio che "una educazione spinta e diretta su questa strada indubbiamente contribuisce anche alla 7 ASDSRE, seduta 3 ottobre 1959. formazione sociale dei nostri piccoli figli di cooperatori".7 Piuttosto che ideologo e sostenitore di tesi precostituite, Malaguzzi si presenta come lo sperimentatore di una concreta prassi pedagogica, adattata in progetti e contesti associativi ed istituzionali differenti; meno nella scuola di stato, in modo più approfondito nel movimento 8 Cfr. Michela Marchioro, L'Associazione Pionieri d'Italia, "RS", n. 80, 1996; Marco Fincardi, Pionieri eFalchi Rossi. Associazionismo infantile comunitario e modelli educativi "sovietici" in una provincia emiliana, "L'Almanacco", n. 28, 1997; sempre ''LAImanacco", ha fatto di questo argomento un numero monografico (29/30, dicembre 1997), Pionieri e Falchi Rossi. L'associazionismo infantile di Sinistra nell'Italia del dopoguerra, a cura di Marco Fincardi. educativo militante (in primis i "Pionieri" e i "Falchi Rossi"). 8 Siamo cioè nell'ambito di quella pedagogia alternativa e sperimentale, tanto più vivace in quanto avanguardista e minoritaria, espressa all'epoca da intellettuali ed educatori impegnati sul versante laico e di sinistra come Margherita Zoebeli, Ernesto Codignola, Gianni Rodari, Bruno Ciari, Mario Lodi, ecc. L'intervento del 1961, per l'evidente snodo cronologico che rappresenta, funge da approdo per un percorso politico determinato: in quegli stessi mesi la giunta comunale, con Franco Boiardi assessore all'istruzione, sta accingendosi a predisporre il lancio della prima 9 Cfr. l'intervista a Franco Boiardi ed Anna Appari registrata da Antonio Canovi e Ombretta Lorenzi, il 13 maggio 1998, nell'ambito della ricerca curata da Istoreco e sopra citata (attualmente in deposito AlPI). scuola comunale dell'infanzia. 9 Mi pare, cioè, che il progetto educativo e democratico, pienamente inserito nel percorso politico locale, esprima piena sintonia con l'intera riflessione che aveva poco prima lacerato l'Associazione dei Pionieri (Api); esperienza considerata chiusa dal Pci (come peraltro gli ultimi Convitti Scuola) in 10 A quel passaggio politico ed educativo hanno dedicato pagine appassionate quanto malinconiche Lia Finzi e Girolamo Federici, I ragazzi del collettivo. Il Convitto Francesco Biancotto di Venezia 1947-1957, Venezia, Marsilio, 1993. dipendenza della convinzione che occorreva fare un passo indietro sul fronte della militanza per investire in senso riformatore nella scuola di stato, spezzandone insomma il monopolio clericale e l'uso classista della selezione. lO I risultati di questa strategia si prestano ovviamente a valutazioni difformi od almeno dubitative. Basti pensare al1'esperienza, coeva, svolta a Barbiana da don Lorenzo 11 Penso, ovviamente, allo scandalo che suscitò Lettera a una professoressa, (Scuola di Barbiana, Firenze, LEF, 1967) ma anche al processo per vilipendio delle Forze Armate che aveva fatto seguito alla "Lettera ai Cappellani militari" composta nel 1965 (cfr. L'obbedienza non è più una virtù (Firenze, LEF, 1968). 36 Milani: fautore di una prassi educativa socializzante, fortemente critica nei confronti della separatezza tra vita e saperi coltivata in seno alle strutture scolastiche, viene a propria volta volentieri tacciato di radicalismo e così emarginato dalle istituzioni. 11 È però vero che, sul piano locale - con ciò intendendo lo spazio di governo che ricadeva sotto l'influenza del municipio - quel genere di riflessione consentì, con maggiore consapevolezza e con nuove risorse, di riaprire il discorso sul versante dell' educazione primaria sino ad allora in gran parte gestito, senza grandi pretese e con reciproca conflittualità' dall' associazionismo politico e religioso. Pur con ritardi e difficoltà d'ordine burocratico, dietro la spinta del movimento delle "magliette a strisce" e grazie ai maggiori spiragli aperti con l'entrata del Partito Socialista (Psi) nel governo si riapre come questione pubblica il tema della "formazione", tanto più urgente in un paese che stava modificando in profondità e a ritmi accelerati la propria economia. 12 Vale la pena di riprendere, per esteso, il passaggio conclusivo la relazione di Malaguzzi, ove lo sdegno verso la scuola fino ad allora conosciuta in Italia fa il paio con lo sguardo teneramente utopico (se non patetico, con il senno del poi) riservato all'esperienza che prende a modello comparativo, quella "giovane" Unione Sovietica krusceviana i cui eroi erano gli astronauti volti alla conquista dello spazio siderale. Dicevo prima che tutte le questioni passano attraverso la scuole e vorrei concludere e ricordare a tutti noi che attraverso la scuola è sempre passata la storia di poi, la storia del domani. E dobbiamo fare in modo, affrontando consapevolmente, seriamente, appassionatamente il problema della scuola, dobbiamo fare in modo che i nostri sforzi migliori vengano gettati in questa lotta perché le nuove generazioni non abbiano, non conoscano la scuola che noi abbiamo conosciuto, con le sue deficienze, con i suoi infingimenti, con le sue storture morali e storiche e abbiano invece queste nuove generazioni una scuola degna dell' avvenire dell'uomo così come già si prefigura con il volo al di sopra e attorno alla terra di un giovane astronauta sovietico. Una scuola cioè che liberi dall'angoscia, dal pregiudizio, che liberi dalla paura del dogmatismo, in nome della ragione, della fiducia non solo dell'uomo, ma nella fiducia di tutti gli uomini, cioè non dal cielo, come diceva ieri il compagno Sereni, ma dalla terra tragga le sue strade, per le sue magnifiche, ulteriori e pacifiche avventureY 12 Mi pare così significativo che l'esperienza delle scuole dell'infanzia di Reggio Emilia venga assunta da una studiosa francese dei processi economici - Florence Vidal - come "emblematica" del modello industriale insediatosi nella Terza Italia: «Reggio Emilia, da parte sua, ha creato una scuola materna modello, la scuola Diana, dove un pedagogista eccezionale, Loris Malaguzzi, immagina dei programmi assolutamente innovativi, fondati sulla personalizzazione dell'insegnamento. (... ) Per visitarla, bisogna iscriversi su di una lista d'attesa di parecchi mesi. Essa è citata come una delle dieci migliori scuole del mondo da Nesweek, 2 dicembre 1991.» (cfr. Histoire industriel/e de l'Italie de 1860 à nos jours, Seli Arslan, 1998, pp. 178-179). 13 ASDSRE, Verbali Comitato Federale PCI Reggio Emilia, seduta 17 aprile 1961. 3. L'Associazione Pionieri d'Italia Facendo costantemente capo all'approdo malaguzziano - che nel 1961 sa coniugare politica istituzionale e pedagogia popolare - risulta 37 14 Loris Malaguzzi, Una nostra inchiesta sui ragazzi dell'A.P.I. Non solo figurini o le bambole ma qualcosa di nuovo li interessa, "Progresso d'Italia", 27 e 28 maggio 1950. 15 Paolo Trionfini ha dedicato significative osservazioni al contesto apertamente conflittuale in cui prese avvio il vicariato di Sacche, in Cattolici e comunisti in Emilia-Romagna. Conflitto, competizione e problemi comuni (1948-1953), "Bollettino dell'Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia", set.-dic. 1992, pp.385-410. utile soffermarsi sull'inchiesta dedicata all' Api, uscita in due puntate per "Il Progresso d'Italia" nel maggio 1950. 14 Siamo, a quell'epoca, nella fase di rilancio delle organizzazioni di massa da parte di un Pci che non si è ancora ben ripreso dallo choc della sconfitta patita il18 aprile 1948. Davvero alti sono i toni della polemica con il mondo cattolico, scontro tanto più patito in quanto a condurlo con stile da "crociata" nazionale contro le associazioni ricreative della sinistra (quando Reggio costituiva un pilastro organizzativo a livello nazionale per i Pionieri come per i Falchi Rossi) è proprio il vescovo di Reggio Emilia, Beniamino Socche. 15 L'articolo, per l'occasione, prende le mosse da una progettata quanto vituperata, dalla Curia - esperienza di "Repubblica dei ra16 L:esperienza concretamente consumata a gazzi".16 Dopo aver rilevato che "nell'attacco polemico si è additato Felina nell'estate del 1950 fu in effetti breReggio come la gran patria del vizio e del traviamento infantile", vissima: bastò il progetto sovversivo di un campeggio eletto a "libera ed ideale Repub- Malaguzzi tiene a cogliere della vicenda i risvolti eminentemente blica" per mobilitare i benpensanti, sino a politici. provocarne la chiusura d'autorità con ordi- nanza del Prefetto di Reggio Emilia (ma direttamente ispirata dal vescovo Sacche). Ne diede conto il settimanale della Federazione comunista di Reggio Emilia, "La Verità", nei numeri del 20 e 27 agosto 1950; cfr., inoltre, Marco Fincardi, Pionieri e Falchi Rossi. Associazionismo infantile comunitario e modelli educativi "sovietici" in una provincia emiliana, ciI. (... ) il grido d'allanne lo si comprende benissimo e lo si giustifica: è un monopolio che si sfalda sotto l'urto ed il lievitare di una realtà sociale e politica che ha già montato l'argine. È una tradizione, ritenuta dogmatica che si spezza, sotto la sollecitazione di urgenze che traggono la loro forza e linfa da un'evoluzione storica che non può essere arrestata. (... ) Così l'Api e l'Udi diventano organizzazioni demoniache, pervertitrici, erotiche, scandalose, scuole di perdizione e di rovina morale e materiale. CosÌ si giunge a florilegi di menzogne, nemmeno concepibili, che danno la misura esatta del doloroso svanimento intellettuale di chi li pronuncia: "prima di entrare a far parte dell'API i bimbi sostengono un esame. La prova d'esame consiste in questo: bestemmiare Dio e i Santi per un minimo di 5 minuti. Solo chi supera felicemente l'esame può entrare nelle file dell' Associazione". Le brutture che alimentano florilegi come questi sono di una pornografia morale che fa allibire. 4. Il Convitto Scuola della Rinascita "Luciano Fornaciari" Il Convitto Scuola della Rinascita "Luciano Fornaciari" di Reggio Emilia, organizzato secondo i principi dell'autogoverno e tendente alla formazione culturale e professionale di giovani capaci e privi di mezzi, particolannente provati dalla guerra, chiede di essere incluso nella Federazione nazionale delle collettività di giovani, da Lei promossa. 38 Laris Malaguzzi a Solagna negli anni 1940·'43 17 Fondo Malaguzzi, Archivio Istoreco, lettera 12 gennaio 1949 (Convitto Scuola Partigiano), attualmente in deposito ATPI. 18 Per le citazioni, rimando all'intervista di Marco Fincardi a Loris Malaguzzi, registrata il 12 marzo 1992 nell'ambito della ricerca dedicata al "mito sovietico" condotta assieme ad Antonio Canovi, Marco Mietto, Maria Grazia Ruggerini (cfr. di Antonio Canovi, Marco Fincardi, Marco Mietto, Maria Grazia Ruggerini, Memoria e Parola: le "piccole Russie" emiliane. Osservazioni sull'utilizzo della storia orale, "Rivista di Storia Contemporanea", n. 3/1994-95. La lettera spedita nel gennaio 1949 da Loris Malaguzzi - all'epoca presidente del Convitto partigiano di Rivaltella - al prof. Ernesto Codignola nella sua qualità di rappresentante dell'Unesco per l'Italia, consente bene di esplicitare il suo grado di coinvolgimento in questa che ha rappresentato un'indubbia esperienza pilotaY Si tratta, ancora, di un tassello che si aggiunge alla profonda convinzione interiore, nutrita da Malaguzzi, in favore di pratiche educative popolari e libertarie. La sua entrata nel Convitto avviene nel clima del post Liberazione, quella breve stagione in cui - come egli ha ricordato a Marco Fincardi - "era possibile tutto" e si stava "dentro una specie di grande avventura" .18 Facemmo le cose sul serio anche qui, occupando prima Rivaltella, e lì facemmo una scuola per meccanici agrari, ma sempre lavorando su delle ipotesi... Nel senso che si scelse questa formazione perché (... ) già si pensava che potessero essere utili per le cooperative agricole (...), l'altra invece qui in città era per capi cantiere. Si trattava di professioni assolutamente nuove, inusuali C.. ). Poi c'era una élite di professori, che credo nessuno potesse avere allora, perché erano i nomi più prestigiosi di giovani che stavano crescendo e che poi diventeranno ... o di insegnanti anziani che però avevano un passato culturale abbastanza... Insomma, era gente che si era autciselezionata. (... ) Si ospitavano reduci. Era tutta gente adulta, giovani partigiani o partigiani invece già di una certa età, gente di circa trent' anni che aveva fatto setto o otto anni di guerra militare ... Venivano da tutte le parti d'Italia, ecco. E io ero solo docente di lettere, allora, però (...) aggravandosi le cose - siccome gli animatori e i fondatori erano partigiani - mi ricordo che in un consiglio di insegnanti si determinò che fossi io il direttore di questa scuola convitto, perché in qualche modo ero il più pulito, pulito nel senso che siccome non ero stato un partigiano e siccome godevo ... Insomma, ci voleva una figura più indipendente. E di lì cominciò dal '48 in avanti una battaglia feroce con il Ministero: qualcuno lo voleva chiudere, qualcun altro lo voleva aperto, quindi tutto un casino, fino a che non si rinchiuse tutto. Diventammo persino editori, per dimostrare ... facemmo dei testi per la scuola! C'è stata una battaglia forte, fino a che nel '52 si chiuse e finimmo anche quell' esperienza lì. 5. Le Reggiane Fare una scelta di campo comunista significa, nella Reggio Emilia del post Liberazione, rendersi massimamente prossimi agli operai 40 delle "Reggiane", l'Officina per antonomasia. I suoi vastissimi stabilimenti danno l'impronta al nuovo quartiere industriale di Santa Croce Esterna, dove Malaguzzi approda ragazzo, nel 1929. Come ha tenuto ad annotare: "Tutta l'adolescenza e gli studi magistrali ebbero questo teatro alle spalle".'9 Nasce così, nel settembre 1945, la poesia "Compagno Operaio". 19 Cfr. Che io infilassi la strada dell'insegnare, p. 51, cito Viene pubblicata da "La Verità", settimanale della Federazione Comunista di Reggio Emilia. 20 20 "La Verità", 30.9.1945 Compagno operaio/mi pare oggi/di avere sempre sapute le tue canzonilIn esse io ritrovo 1'essenza/di me stesso.! Essa viene oggi alla luce/da abissi confusi/e scuote da sé la polvere.! Oggi mi conosco, mi tengo.!So perché son nato e vissuto/perché ho sofferto e pianto.!Oggi so perché io vivo.lMi pare oggi d'aver sempre avute/le mani sporche di carbone,/di aver sempre bevute/le fiamme degli alti fomi,/di aver sempre battuto/sulle incudini/ gocce roventi di sudore.lUna mazzata di maglio,/compagno operaio,/ha saldato la nostra stretta di mano. Malaguzzi, a quanto se ne sa, non mutò particolarmente le proprie abitudini, che non erano esattamente quelle di impugnare la mazza e, tanto meno, il maglio. Andava, in effetti, impegnandosi per il "popolo operaio": con la promozione dell'educazione popolare, alla sua maniera. Questo è il contenuto della seconda notizia che lo riguarda, sul medesimo numero de "La Verità": si ritrova coprotagonista di una lodevole iniziativa di solidarietà, perseguita - siamo a ridosso della Liberazione, e bene o male regge ancora il Comitato di Liberazione Nazionale - in collaborazione con un parroco strettamente legato all'esperienza resistenziale. Il resoconto, nella sua linearità, risponde a tali esigenze di "conciliazione'',2' 21 Ibidem. La Scuola del Popolo di S. Pellegrino ha chiuso in data 20 U.s. il corso delle Scuole Medie. La Sezione Comunista locale, promotrice dell'iniziativa, sente il dovere di ringraziare il prof. Loris Malaguzzi, dirigente dei Corsi e gli insegnanti Grasselli Daniele, Barigazzi Laura, Barigazzi Ada che hanno collaborato con tanta passione al funzionamento della Scuola. Sente inoltre il dovere di ringraziare il Provveditore agli Studi e il Parroco di S. Pellegrino, don Cocconcelli, per 1'assistenza e gli aiuti dati nel campo organizzativo e nell'arredamento scolastico. 41 6. Sologno Proseguendo "di balza in balza", ci si imbatte - su "Il Solco Fascista" - in un pezzo all'apparenza di puro "colore", ambientato in una non meglio precisata borgata dell' Appennino. Siamo nel 1942, e Malaguzzi, dopo una breve esperienza a Reggiolo, ha già svolto un anno di insegnamento a Sologno. Il pretesto dell'argomentare è la ridislocazione di una "madonnina". 22 Loris Malaguzzi, La "Madunina d'la Muntagna", "II Solco Fascista", 28.6.1942. Episodio semplice e toccante di fede, di amore e di virtù, sane prerogative della nostra gente di montagna. 22 L' incipit del racconto - "non è una novella, né un parto della fantasia", come tiene a precisare - riproduce lo stereotipo della montagna costantemente ai margini del flusso del moderno e perciò, in qualche modo, ancora incontaminato. Si tratta dunque di un tema politico. I valori della tradizione e della comunità locale vengono rappresentati nella figura retorica dell' Alpe, dimensione mistica e silente ma anche predisposta ad accogliere pellegrini, la cui armonia viene sovvertita da una modernità percepita quale violenta intromissione. Il silenzio è sacro in questi tempi di giugno: è il silenzio di Dio. Di Dio che benedice la terra, e la terra risponde coi suoi frutti miracolosi. È il silenzio della natura orgogliosa che ammira, tacita se stessa e le sante fatiche dell'uomo. (... ) Ma un bel giorno quel silenzio, che sembrava avesse avvolto in una solitudine di tomba quel piccolo angolo di paradiso, fu invaso da un lottar di picconi e di badili, da un rumore stridulo e assordante di macchine e di motori. Era la civiltà che giungeva. E profanava inesorabilmente quella solitudine d'altro mondo. Demolito il tempietto, l'immagine sacra viene riproposta, impropriamente, sul ciglio della strada. Poi, una sorta di miracolo: la nonnina che aveva eletto il tempietto a luogo di colloquio con il figlio militare in Russia (e di cui, probabilmente, non ha più notizie), se lo ritrova per incanto al tepore del focolare ... Mascherato dietro un finale vagamente patriottico, riaffiora insomma l'incipiente lutto di una guerra che si è fatta talmente pervasiva da giungere sino in montagna. Attorno a questa primigenia percezione dell' Appennino - in quanto luogo remoto e però scosso dal dolente stato di necessità 42 Loris Malaguzzi a Sologno negli anni 1940-'43 23 A proposito del particolare "sguardo", insieme "domestico" ed "esotico", proiettato sull'Appennino Reggiano rinvio alla Presentazione da me curata per Istoreco all'edizione anastatica del Viaggio Agronomico per la montagna reggiana e dei mezzi per migliorare l'agricoltura delle montagne reggiane compilato due secoli or sono da Filippo Re, Parco del Gigante, 1998. 24 Una bella testimonianza di questa "percezione" mondana che il pastore tratteneva di sè, mettendosi in paragone con la staticità del contadino di pianura, la restituisce Giovanni Sassi, (intervistato nella sua abitazione a Solagna, 31 agosto 1997). 25 Cfr. 'Appennino Reggiano nelle immagini di Paul Scheuermeier. Solagna, a cura di Laura Gasparini, AGE, 1995; Paul Strand, Un paese, Firenze, Alinari, 1997. 44 della guerra - verrà intessuto lo straordinario legame tra Malaguzzi e Sologno. Al topos folclorico del viaggio intrapreso alla ricerca delle culture trapassate ed esotiche - fissato in Europa nel corso di questi ultimi tre secoli - ne viene opposto uno incentrato sulla condivisione dell'innocenza. È bene ribadire che, in un caso e nell' altro, si tratta di stereotipi.23 La percezione semplificata di Sologno e dell'alto Appennino come luogo che resta al di fuori della storia è certo il frutto di una gerarchia altimetrica, dove la direzione dello sguardo viene determinata da chi sta più in basso (il pianzàn, uomo-di-pianura, in contrapposizione al muntanàr, uomo-di-montagna). Le modalità di insediamento a Sologno - stazione sulla via del sale che si snocciola lungo un crinale a schiena d'asino, dedita alla pastorizia e ai commerci oltre che ai campi - radicano l'economia e la cultura del paese ad un' esistenza assai mobile, certo migrante ma non per questo periferica. La mobilità che ha caratterizzato molti borghi di questa montagna - attraverso la pratica dei tradizionali mestieri ambulanti, dal pastore all'arrotino al seggiolaio, ma anche dei cavatori come dei primi librai, - fa anzi di queste genti un soggetto assai più mondano del classico contadino insediato stabilmente in pianura nel proprio fazzoletto di terra. 24 Si tratta di una rete geografica e sociale via via accantonata dall'attuale predominanza delle linee di scorrimento vallive, la cui decadenza è peraltro divenuta manifesta già con il processo di unificazione ferroviaria della nazione. L'identità regionale appenninica, centrata sulla comunicazione tra i due versanti, diviene così mera sopravvivenza nel corso del Novecento. Basti riprendere in mano, a questo proposito, la serie fotografica dedicata al paese tra le due guerre mondiali da Paul Scheuerrneier, per confrontarla, semmai, con quella di un altro noto fotografo, Paul Strand, questa volta centrato su Luzzara e il Po. Ci si rende immediatamente conto conto della profonda diversità folclorica - e con ciò intendo, alla lettera, la "conoscenza del popolo" - dei materiali etnografici raccolti tra la pianura e la montagna, colte alla soglia della grande trasformazione imposta dall'introduzione delle macchine. 25 La capacità di resistenza dei caratteri formativi l'etnema rinfocola nei momenti di crisi della comunità, e pare il caso della seconda guerra mondiale: quando Loris Malaguzzi rimase talmente sugge- stionato dalla tipologia ambientale incontrata a Sologno da tradurre il topos regressivo del primitivo nell'epifania rousseauiana della comunità originaria. 26 Quando a fine anno ci dicemmo addio c'erano già i tamburi di guerra e i prilIÙ esalIÙ dell' università. Da allora in poi scuola, università e guerra correranno in parallelo. Non erano, per i lIÙei 19 anni, ancora tre realtà. Erano tre avvenimenti che per immaturità e incoscienza non lIÙ apparivano né impercorribili, né unificabili, né drammatici come narravano in famiglia. Con questo ingenuo stato d'animo l'anno dopo salii a fare il maestro a Solagna di VillalIÙnozzo, alle falde del Cusna. Un piccolo borgo di cui non sapevo l'esistenza. Sapevo che dovevo fare, per raggiungerlo, molti chilometri a piedi. Non ricorderò gli sgomenti iniziali. Dirò solo che fu un' esperienza straordinaria. 26 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell'insegnare, ci!., p.44; cito, di seguito, la versione "C" proposta su "RS" da Laura Artioli. In che modo Sologno diviene un luogo fondativo dello spirito per Loris Malaguzzi? Retrocediamo ancora un poco in questo cammino biografico. Nasce nel 1920 in una famiglia che a Reggio Emilia - il padre è capostazione - possiamo definire piccolo-borghese, cresce in una scuola fascistizzata dove si coltiva il culto della gerarchia, aderisce di malavoglia alla prospettiva di impiegarsi in una società corporativa dove tutto gli appare preordinato e prevedibile. Alle Magistrali viene iscritto d'ufficio dal padre, alla cui "preveggenza" a quanto ci dice - deve il primo incarico lavorativo a Reggiolo. Siamo tra il 1939 e il 1940, nel corso dei mesi in cui l'Italia fascista prepara 1'entrata in guerra. Loris è diplomato ed in età di leva, eppure non sa decidersi sul da farsi. Offre l'immagine di un giovane, stordito, in cerca della propria vocazione. Dichiara, in particolare, la propria incoerenza nei confronti della montante epopea guerriera cui, pure, non mostra di ribellarsi. Si tratta di un atteggiamento che poi volgerà ad una spiegazione generazionale. 27 27 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell'insegnare, cito p. 44. D'altronde io ero, come tutti quelli della lIÙa età, un passeggero pronto ad imbarcarsi su tutte le navi. Quando si trova per la prima volta di fronte ai bambini, reagisce emozionalmente. 28 28 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell'insegnare, cit., p. 45. 45 Né loro, né io sapevamo niente. Capii che quella era la irresponsabile seduzione che ti apriva le porte del mestiere. Vi possiamo leggere l'abbozzo di un atteggiamento che diventerà poi manifesto (l'abbiamo già intravisto nei topos che inanellano il legame con la Politica): la scelta di non essere saggi. 29 Loris Malaguzzi, La pedagogia di Fichte, Tesi di laurea, Università degli Studi di Urbino, 1946 (ATPI). 30 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell'insegnare, cit., p. 45. A Sologno arriva così, la prima volta, alla fine dell'ottobre 1940; per restarvi - salvo alcune discese in città o alcuni esami universitari ad Urbino - sino al giugno seguente. 29 Ed è così che, nella confessione a posteriori, Sologno viene eletto, a futura memoria, luogo primario di riconoscimento. Lassù a 800 metri, per due anni di seguito, imparai mille cose: l'arte di camminare a piedi, di orientarmi con alberi e rocce, di capire i sentieri fasulli e quelli veri, di guadare torrenti, di scoprire la generosità dei castagni, la cordialità dei silenzi, le incredibili capacità arrangiative della gente, i lacci per acchiappare le lepri, gli infiniti spessori della miseria in una terra di confine da cui gli abitanti continuavano a fuggire. A legarmi di un' amicizia profonda coi quindici ragazzi dagli zoccoli di legno, ingiaccati, con giacche enormi ereditate, dalla parlata stretta con l'u francese, curiosi, furbi, dagli occhi sicuri, a mezzadria di fatto con la scuola e le pecore, coi compiti e i lavori della stalla, delle carbonaie e dei campi. 30 In tal senso, dacché il riconoscersi implica uno sguardo riflesso ed induce ad un processo relazionale, la permanenza del giovane maestro diviene un evento memorabile per l'intera comunità locale. Lo si comprende, d'altronde, proprio seguendo la struttura narrativa scelta da Loris per raccontare se stesso in relazione con Sologno. Domina lo scenario, da un lato, dell' Arcadia. 31 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell'insegnare, cit., pp. 45-46. A far funzionare la scuola in una stalla appena evacuata, ad accendere e riaccendere la stufa ogni mattina per via della legna verde, a lottare ogni giorno coi ritardi dei ragazzi, aiutandoli spesso ad asciugare i calzini bagnati, a rifomirli di quaderni su quaderni del patronato scolastico. Ad amare con gratitudine il mulo di Fortunato che viaggiava ogni giorno fino a Castelnuovomonti (nostro corsivo, cosÌ nel testo, nda) per rifornire di riso, vino e salumi i 146 abitanti, 147 con meY Sologno non è però un romitorio, ma già un luogo dove si esprime la civiltà della festa. 46 1955 - Premio "Maria Melato" - In alto, da sinistra: Franco Marani, Loris Malaguzzi, Wando Bertozzi, Luigi Reverberi, Nino Prandi, Lola Braccini, Francesco Montanari, Rossella Falk, Filippo Ampola, Elsa Albani, Renzo Bernazzoni, seno Pietro Marani, Sergio Masini. In basso: Romolo Valli, Anna Maria Guarnieri, Giorgio De Lulio. 32 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell'insegnare, cit., p. 46. Ad attendere con desiderio le anomalie dell' allegria gentile poi chiassosa e sbracata della domenica che mischiava messa e osteria e che finiva a notte fonda coi ragazzi e le donne che venivano a riprendersi i fratelli, i padri, i mariti. 32 Ed è precisamente sulle "anomalie" che si concentra il giovanissimo Loris, cogliendo nella sociabilità - piuttosto che nel ruolo istituzionale del maestro - la chiave d'accesso al paese. Tanto più esaltata per la straordinarietà della congiuntura bellica, quando la comunità paesana è proccupata di difendere la propria identità: prima, al momento della chiamata degli uomini giovani per la guerra, quindi - passato 1'8 settembre 1943 - per far fronte al brutale regime di occupazione nazifascista (pagato con l'incendio di alcune case al termine di un rastrellamento). Il tempo della guerra, a Sologno come nei paesi dell'alto crinale, ha così nutrito la memoria degli anni a venire; mentre la ricostruzione, a questa altimetria, ha coinciso con la grande emigrazione. Poi, con il boom e la società del benessere, le "rondinelle" hanno via via smesso di tornare, salvo il ritrovarsi attorno al Ferragosto, per rimemorare e tramandare l'epoca eroica in cui salvaguardarono - contro i grandi mali del secolo - la coesione della propria microcomunità. 33 L'incontro si è svolto sabato 22 agosto 1998,dietro proposta di Istoreco e dell'Associazione Amici di Reggio Children; il tamtam avviato sul posto dal prof. Giuseppe Fontana ha richiamato un gruppo nutrito ed entusiasta di persone, che hanno gremito la sala parrocchiale. La "scoperta" della relazione intercorsa tra Loris Malaguzzi e Solagna era avvenuta un anno prima, quando trovammo le abitazioni pronte ad aprirsi per parlarne con gioia (il 12 agosto 1997, presenti Giuseppe Fontana, Laura Artioli, Carla Nironi, Angelo Catellani e il sottoscritto. Loris Malaguzzi visse a Sologno anche l'inverno e la primavera 1944, quando la Val d'Asta venne messa a ferro e fuoco, e si comprende come ne sia divenuto memoria presente. L'affetto tributatogli nell'agosto del 1998, nel corso di un'iniziativa condotta sul "filo della memoria" assieme ai suoi ex scolari e compagni d'osteria, ha ampiamente oltrepassato l'alone di curiosità e simpatia riservato ai vecchi amici che si sono fatti strada. 33 È stata, per numerosi abitanti, l'occasione in cui dar la stura al ricco repertorio aneddotico che ogni memoria collettiva alimenta e conserva quale autorappresentazione. I pianzàn presenti hanno piacevolmente toccato con mano cosa avesse significato - per i nativi di Sologno - l'incontro con quel maestro così eterodosso e anticonformista. Molti tra gli scotmaj ancora oggi in voga a Sologno presero a circolare precisamente grazie alla capacità inventiva del giovane Loris, il quale da par suo ne fu immensamente ripagato, ritrovandosi "educatore" al servizio di una comunità. Malaguzzi è insomma divenuto cittadino "onorario" di Sologno non per i successi professionali mietuti (peraltro non così noti a persone che hanno trascorso gran parte dell'esistenza tra montagna ed emigra- 48 zione) ma per quanto ha saputo e voluto condividere del comune stato di necessità. È il maestro di città che giunge in un paese di pastori e di contadini, dove l'insegnamento - mancando lo stabile - si svolge in abitazioni private, gomito a gomito con l'osteria. Piuttosto che storcere il naso, si lascia avvolgere dagli umori di questo ambiente intessuto di contiguità: gioca a carte, suona la fisarmonica, beve il vino in compagnia, impara a sciare. Prende parte alla vita quotidiana, traducendo il tradizionale ruolo autoritario dell'insegnante in una funzione sociale: mentre tutt'attorno si consumano la battaglia partigiana di Cerrè e l'eccidio di Cevarolo, organizza un "teatrino" cui prendono parte gli abitanti del paese, chiamati a rappresentare collettivamente - ricreando situazioni reali, con l'ausilio di soprannomi densi di ironia - la propria comunità. L'invenzione di quel "quadro vivente" nutrito di "macchiette" sarcastiche fungerà - negli anni - da mappa identitaria, atta a ricomporre entro un comune sistema di referenza le spinte centrifughe e conflittuali successive. Lo ha ben testimoniato Ione Bartoli. Inviata dal Partito Comunista nella terra "bianca" di Sologno - siamo alla metà degli anni Cinquanta - raccoglie esattamente questo genere di opinione popolare: "Qui ci vorrebbe Malaguzzi, con lui sÌ che ci comprendiamo ... "?4 34 Riassumo qui il senso di una frase La scuola, inoltre, ha assunto con gli anni una centralità inusitata in questa comunità appenninica. Dapprima subita passivamente - tutto sommato la cosa più importante, all'ombra dei castagni, era l'imparare a far di conto -, poi rivendicata come viatico alla modernità, infine ridotta dal calo demografico alla chiusura. Attorno alla scuola si sono più facilmente cristallizzati i ricordi del "tempo che fu", dei bambini che sciamavano come dei "bravi" maestri che vi esercitavano il loro severo offizio. In altri termini, la memoria "con" e "per" la scuola viene oggi assimilata ad una lotta di riconoscimento: del proprio posto nella comunità d'origine, e tra questa e il mondo esterno. Ed è qui ad esempio che Arrigo Belli - ancora grazie a Loris Malaguzzi - comprende il significato del comunismo e diventa il falegname "rosso" del paese?5 pronunciata a latere dell'intervista di Maria Nella Casali e Ombretta Lorenzi a Jone Bartoli (8 luglio 1998) - registrata nell'ambito della sopra citata ricerca - e ribadita nel convivio solognese (materiale attualmente depositaato in ATPI). 35 Intervista citata, registrata collettivamente a Solagna il 12 agosto 1997 (materiale attualmente depositaato in ATPI). Eh, di lui mi è rimasto intatto il modo come gestiva la scuola. Era diverso da tutti i maestri di allora. Per raccontarle qualche episodio che mi è rimasto impresso. Allora c'era un branco di ragazzi alla prima elementare, eravamo un bordello di ragazzi e poi malnutriti, malvestiti; e di lui notavamo proprio 1'esigenza di vedere i ragazzi curati, ci teneva molto a questo fattore e gli dispiaceva ... Mi ricordo un particolare. Arrivavano i ragazzi che proprio non si dedicavano, arrivavano così per dire, andavano a scuola per modo di dire, e lui gli diceva... 49 faceva degli esempi di questo tipo, in classe. "Lo sai che se non studi, se non t'impegni rimarrai un somaro? Sarai un somaro". E poi gli diceva: "Lo sai cosa vuoI dire somaro?" - "No" - "Lo sapevo che non lo sapevi...". Per dimostrargli cos' era un somaro, diceva: "Vieni qua, tu, mettiti lì", e l'altro gli montava in spalla, poi lo faceva girare intorno alla classe, ma non con violenza. Poi gli diceva: "Il somaro deve portare la soma, allora se tu non studi, se tu non impari ti riduci ad essere uno che porta la soma per tutta la vita". Aveva delle cose diverse da tutti gli altri maestri. Era una cosa eccezionale e mi è rimasto impresso il modo come insegnava. (... ) Lui veramente aveva creato un clima per me diverso dagli altri maestri. Dopo di lui ho fatto fino alla terza elementare, e poi l'ho conosciuto ancora a Reggio. L'ho fatto venire io qui a fare un comizio. Ero segretario di sezione qua, allora una volta a Reggio l'ho trovato a un congresso e c'ho detto: "Loris, lei mi deve fare un favore, mi venga a fare un comizio a Sologno ... ". E quando uscivano dalla chiesa, lì dal salone parrocchiale c'avevo preparato un banchetto, lui ha fatto un discorso. Mai vista tanta gente a un comizio! La gente è andata fuori di testa a sentire Loris Malaguzzi, perché era rimasto, eh... ! Era rimasto un personaggio, proprio di attrazione, perché era diverso, aveva qualcosa in più ... La reciprocità del riconoscimento ha sostenuto e reso possibile i percorsi successivi di entrambi. La comunità solognese si è dispersa per il mondo senza smarrire la memoria delle radici; il giovane maestro, compresa la profonda politicità della propria disciplina, si 36 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell'insegnare, cit.,p. 50. ritrova uomo "dalla parte dei più deboli, della gente che più portava 37 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada dell'insegnare, cit., p. 54. E così può concludere, a partire da Sologno, la propria confessione. 37 con sé speranze". 36 Per quanto abbia spesso restaurato i miei pensieri sono sempre rimasto in quella nicchia. Non ho mai provato rimpianti per quella scelta e per ciò che ho lasciato o mi sono strappato di dosso. 7. .. .Luoghi per educare Pierre Nora, a partire dalle proprie ricerche dedicate alla costruzione dell'identità nazionale francese, ha diffuso tra gli storici la 38 Pierre Nora, La notion de "Iieu de mémoire" est-elle exportable?, in Lieux de Mémoire et Identités Nationales Rencontre France-Pays Bas, Amsterdam, maggio 1992. nozione di luogo della memoria. 38 Si tratta, precisamente, di spazi che fungono da deposito per le memorie collettive che abitano il nostro presente. Ciò avviene a partire da avvenimenti che, per le più disparate ragioni, radicano processi di riconoscimento. Sono quindi gli usi pubblici a configurare un determinato contesto di 50 memoria in quanto spazio simbolico di rimemorazione. Non si tratta, è bene dirlo, di un riscatto indolore. Rammemorare, come ha recentemente osservato Maurice Aymard, significa anche esprimere la capacità ad obliare: il "luogo di memoria" denuncia, altrimenti, un sentimento di perdita e di caducità. 39 La medesima tensione, rispetto alle comici spazio-temporali che reggono il nostro essere-nel-mondo, l'ho avvertita nelle parole pronunciate da Loris Malaguzzi per il cinquantenario del Centro Educativo Itala-Svizzero di Rimini: lo sento che mi manca una territorialità di ordine culturale di ordine civile di ordine politico".4o Ritorna, con evidenza, l'approccio "topologico", e prima che alla "Cultura" alla propria esperienza di educatore nel quotidiano. Loris Malaguzzi, come viene ricordato da vari amici e compagni di strada, non fu tra gli intellettuali "organici" di punta della sinistra reggiana. Sergio Masini lo rappresenta come una persona che ha corso su di un doppio binario: radicato "dentro" ad un ambiente popolare e di aristocrazia operaia, molto legato alla "strada"; e soltanto poi impegnato a proiettare tutto ciò "fuori" dal proprio ambiente, nei circuiti istituzionali e intellettuali. 41 Renzo Bonazzi, da par suo, lo ricorda costantemente sotto traccia, mai davvero protagonista nei luoghi "deputati", già per il percorso scolastico scelto (al Liceo Classico predilige l'Istituto Magistrale, dove è tutt'altro che uno studente modello). 42 La sua visibilità cresce con gli anni, per una serie di attività collaterali, per poi fissarsi attorno alla costruzione delle scuole comunali dell'infanzia. Ma è questo un approdo maturo, varcata la soglia dei quarant' anni. Prima dell' istituzione, e della notorietà, c'è tutto un percorso "sotto traccia", ed il criterio topologico credo possa servire a restituirne meglio ciò che lui ha tenuto a definire il "gioco cospirativo" della propria esistenza. 39 Maurice Aymard, fatta propria la premessa che esistono «due dimensioni del passato, collettiva e individuale, che danno al nostro presente il suo significato e la sua ricchezza», esprime la seguente avvertenza metodologica: «Questa leggibilità viene in effetti minacciata e impoverita dall'oblio, che erode dall'interno il lavoro della memoria. Questa frontiera fragile fra oblio e memoria, l'uno e l'altra necessari alla nostra vita e complementari, costituisce per lo storico unterreno privilegiato, che gli permette di affermare la sua presenza di attore sociale.» Cfr. la sua Prefazione allo studio di Antonio Canovi, Cavriago ad Argenteuil. Migrazioni Comunità Memorie, RS Europa Libri, 1999. 40 Intervento di Loris Malaguzzi (Rimini, 25 maggio 1991) alla presentazione del libro Una scuola una città. " Centro educativo italo-svizzero di Rimini, Venezia, Marsilio, 1991; Malaguzzi venne invitato dalla fondatrice del CEIS, Margherita Zoebeli, per le lunghe frequentazioni comune, di cui ha fornito testimonianza diretta l'attuale direttore Sapucci (intervista del 3 ottobre 1997, depositata in AlPI). 41. Cfr. gli appunti stesi da Laura Artioli nel corso del colloquio con Sergio Masini (14 aprile 1997, Reggio Emilia), attualmente in deposito ATPI. 42. Intervista a Renzo Bonazzi di Antonio Canovi e Ombretta Lorenzi (11 maggio 1998); attualmente in deposito ATPI. Solagna è il luogo del mito: sta in fondo al pozzo dei desideri, perciò è luogo inenarrabile, indimenticabile. Villa Cella è il luogo dell' homo faber, è l'acqua del pozzo con la quale dissetare tutti (coloro che sono di buona volontà), ed è memoria collettiva, in quanto "non ti abbandona più". La Liberazione è il rito di passaggio, la lingua che consente di narrarsi, rappresentarsi, essere-neI-mondo. 51 '.' ••.................•..............•..•............••. · . ,"- - . '- ". Curdi e questione curda: un popolo, tanti Stati, nessuno Stato Stando ai numeri, i curdi sono il più consistente fra i popoli rimasti senza Stato: 24-27, forse 30, milioni di individui sparsi fra Turchia, Iraq, Iran e Siria (più alcune frange nelle repubbliche confinanti dell'ex-Unione Sovietica e anzitutto in Armenia). La mancata realizzazione di uno Stato curdo riflette la specificità di un popolo nel quale le istanze localistiche e i particolarismi hanno sempre avuto la priorità rispetto ai caratteri di un vero e proprio nazionalismo. Anche i molti episodi di ribellismo curdo a sfondo autonomistico che si sono succeduti negli ultimi 80 anni hanno risentito delle condizioni di ognuno degli spazi fisici, territori o Stati, in cui si trovano i curdi. GIAMPAOLO CALCHI NOVATI Èautore di numerosi saggi, anche tradotti, tra i quali segnaliamo: Dalla parte dei leoni, Milano, Il Saggiato re, 1994; 1/ Corno d'Africa nella storia enella politica, Torino, Sei, 1994; Mediterraneo equestione araba nel/a politica estera italiana, in Storia dell'Italia contemporanea, Torino, Einaudi, 1995. Entro l'inverno usciranno in libreria: 1/ canale della discordia, Urbino, ed. Quattroventi e Storia del/'Algeria indipendente, Milano, Bompiani. Invece che di un Kurdistan, come pure si è soliti dire nel linguaggio giornalistico o nel dibattito politico, e i cui confini risulterebbero comunque mal determinati, si dovrebbe parlare di più Kurdistan: un Kurdistan turco, un Kurdistan iracheno, un Kurdistan iraniano. I curdi sottoposti alla giurisdizione di Damasco sono troppo pochi e il loro habitat non è abbastanza compatto per dare origine a un Kurdistan siriano. Il Kurdistan turco è il più importante dal punto di vista demografico ed è qui che, in tempi recenti, 1'autonomismo dei curdi è arrivato ad esprimere più nettamente una tendenza separatista. Nel Kurdistan iracheno i curdi hanno il loro epicentro "nazionale", sia per 1'effettivo ruolo politico svolto qui dalle forze curde che per la presenza di prestigio se istituzioni culturali (a Baghdad e Sulaymaniya), nonché, per la ricchezza petrolifera che potrebbe sorreggere l'economia di un ipotetico Stato curdo. Lo Stato curdo che per la prima e unica volta 53 è stato prospettato dalla diplomazia internazionale - all'atto della dissoluzione dell'Impero Ottomano - aveva sede nella parte sudorientale della Turchia con la possibilità che a esso aderisse il distretto di Mosul, destinato a far parte dell'Iraq. Per affinità etnica i curdi sono più vicini all'Iran, ma la genealogia è incerta. Essi discenderebbero da gruppi indo-europei trasmigrati verso ovest nel primo millennio avanti Cristo, incorporando popolazioni autoctone e elementi arabi e turcomanni divenuti curdi per cultura. La loro lingua, che non è la stessa per tutti i curdi, appartiene al ceppo iranico. Il carattere identitario dei curdi è appunto la lingua. Siccome la religione dei curdi è l'lslam, per lo più di rito sunnita, essi condividono la religione di maggioranza negli Stati di residenza. In passato, la religione comune è anche servita a stabilire rapporti di unità o almeno di complicità fra i curdi e il governo dei rispettivi Stati (per esempio con la Turchia contro gli armeni o i greci). Non esiste nella storia una tradizione unitaria dei curdi, ma sono esistiti principati ed emirati curdi che hanno conservato l'indipendenza anche a lungo. Fra le varie dinastie va ricordata soprattutto quella degli Ayyubiti (è famoso Saladino), che regna dal 1169 al 1250 in gran parte del Medio Oriente, all'epoca delle Crociate. Dopo l'affermazione dello Stato ottomano nel XV-XVI secolo le entità statali curde costituirono l'estremo lembo orientale dell'Impero. La cultura curda fiorì fra l'XI e il XVII secolo in varie corti e nel 1695 vide la luce il poema che è considerato il capolavoro epico della letteratura curda e in cui si evoca un regno curdo unificato. Con il processo di centralizzazione del potere, i curdi sono stati via via assorbiti o nello Stato turco o nello Stato persiano o, in misura minore, nello Stato russo. Agli occhi dei poteri imperiali i curdi erano una specie di "barbari delle frontiere", da impiegare come avamposto in guerre per procura o come cuscinetto per tener separate le varie sfere di sovranità. I curdi erano - e per molti motivi lo sono ancora - divisi in famiglie, clan e tribù, con le nozioni di parentela e il radicamento territoriale che ne derivano, e illealismo stenta a superare questo livello di aggregazione. Quando, ad imitazione delle idee di Stato e nazione elaborate in Europa, nel Medio Oriente si diffusero associazioni o movimenti di ispirazione nazionalistica, i curdi restarono tagliati fuori. Non solo perché le guerre e la diplomazia congiurarono contro di loro ma perché le affiliazioni 54 nel mondo curdo erano a carattere tribale e mancava una classe media o un'élite intellettuale trasversale in grado di formulare un progetto nazionalista valido per tutti i curdi. Se ostacolò e alla fine impedì la formazione di uno Stato, il particolarismo ha avuto tuttavia il grosso vantaggio di preservare le peculiarità culturali dei curdi anche in pendenza di politiche fortemente assimilazionistiche: in un contesto variegato ed eterogeneo come è questa regione del Medio Oriente, di passaggio fra potestà diverse e diverse culture, una zona montagnosa e impervia che è stata terra di rifugio e asilo di molte minoranze nel corso dei secoli, l'autonomia può essere un obiettivo perfettamente coerente con la storia e l'ecologia. La statualità politica nel Medio Oriente come lo conosciamo oggi ha preso forma dalla sconfitta dell'Impero Ottomano nella prima guerra mondiale. La riconversione della Turchia da "impero" a Stato "nazionale" ha liberato in teoria le altre nazionalità racchiuse in esso. È dalla prima guerra mondiale che i curdi hanno cominciato a comportarsi come una comunità etnica e fu allora che i curdi hanno avuto l'occasione di edificare uno Stato. Si pronunciava in questo senso il trattato di pace imposto alla Porta nel 1920. Ma quando la rivoluzione kemalista produsse una Turchia nuova, occidentalizzante, con una concezione dello Stato razziale e centralizzata, i vincitori della guerra preferirono assecondare la Turchia e sacrificare le minoranze. Le esigenze nazionali della Turchia da una parte e degli arabi dall'altra, e certi accorgimenti strategici per contenere la Russia bolscevica, indussero Londra e le altre potenze a tradire le promesse fatte ai curdi. Dello Stato curdo non c'è più traccia nel Trattato di Losanna del 1923 che cancellò il Trattato di Sèvres. Nella sistemazione territoriale delle ex-province arabe dell'Impero Ottomano, dove viveva un'ingente minoranza curda, intervenne il colonialismo europeo, che si ritagliò una serie di possedimenti a titolo di mandati: nel 1925 il territorio di Mosul e Kirkuk, ricchissimo di petrolio, fu annesso all'Iraq, che era una dipendenza della Gran Bretagna. Dopo il 1920, durante il regno di Reza Khan, l'ordine, la disciplina e la centralizzazione portarono anche in Iran (Persia) alla fine delle autonomie tribali e al progressivo assoggettamento dei curdi. Nel periodo fra le due guerre e dopo la seconda guerra mondiale i curdi hanno seguito le vicende degli Stati che li ospitavano e quindi 55 soprattutto di Turchia, Iraq e Iran. Per dare un'idea del loro peso relativo, i curdi sono circa un quinto della popolazione turca, il 25 per cento in Iraq e il 12 in Iran. li massimo di oscuramento della realtà curda si è avuto in Turchia, dove una legge fa esplicito divieto di usare in pubblico la lingua curda, divieto che può equivalere alla premessa di un etnocidio, ma dove nel contempo - pur in presenza di un movimento che ha fatto ricorso alla lotta armata su vasta scala perseguendo l'indipendenza del Kurdistan - più avanzata è l'integrazione delle élites. I curdi hanno raggiunto il massimo di autonomia in Iraq, che ha enunciato solennemente in una Costituzione il principio della binazionalità (Stato arabo e curdo). Cercando di sfruttare le alleanze per i loro scopi di autonomia ed emancipazione, i curdi sono stati coinvolti nella dimensione internazionale della politica mediorientale e - in un sistema inquinato e condizionato dai blocchi - hanno subito di fatto l'iniziativa altrui e in particolare le ipoteche della guerra fredda. Su un punto del resto, al di là di tutte le divergenze, fra gli Stati della regione e le grandi potenze c'è sempre stato accordo: scongiurare con tutti i mezzi Ja nascita di uno Stato curdo, e tanto più pan-curdo, per non sconvolgere gli equilibri geopolitici in una regione cruciale. Così, nel riassetto che segue le grandi crisi (negli anni '20 come negli anni '40 e quindi negli anni '90) prevale sempre una logica conservatrice che penalizza i curdi. Nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale si ebbe una dimostrazione dell'intreccio fra spirito di autonomia delle minoranze e grande politica quando l'Urss favorì la costituzione di due repubbliche autonome sul confine in territorio iraniano: una repubblica azera (capitale Tabriz) e una repubblica curda (con capitale a Mahabad, una delle città storiche del mondo curdo). La Repubblica autonoma di Mahabad visse meno di un anno nel 1946. In essa prestò la sua opera come comandante militare Mustafa Barzani, riparato qui dall'Iraq, che diverrà il capo leggendario dei curdi per circa trent'anni. Per le pressioni internazionali, l'Urss fu costretta a revocare il suo aiuto all'entità curda, che - già minata dalla frammentazione tribale - andò incontro all'inevitabile disfatta sotto l'offensiva dell'esercito dello scià. Barzani si rifugiò in Urss, dove salì tutti i gradini della gerarchia militare e da dove sarebbe tornato (questa volta e definitivamente in Iraq) solo nel 1958. 56 Il 1958 è l'anno della rivoluzione militare in Iraq contro la monarchia hashemita. Il nuovo governo poggiava su un'ampia coalizione che comprendeva nasseriani, Baath, comunisti e curdi. La nuova Costituzione riconobbe la nazione curda accanto alla nazione araba. Ma il clima di liberazione che tenne dietro al crollo di un regime decisamente reazionario (i partiti curdi iracheni avevano partecipato alla lotta delle sinistre per il riscatto dei contadini dallo strapotere degli agrari) non resistette alle contraddizioni di un fronte fin troppo composito e alle durezze di una leadership che aveva il suo fulcro nei militari, poco portati - anche quando, come è accaduto in molti paesi del Medio Oriente, si sono fatti artefici di una politica di progresso nel nome del nazionalismo, dell'antimperialismo e del socialismo - a praticare il pluralismo e la democrazia. Pur fra le molte, e drammatiche, vicissitudini dei regimi militari che hanno governato in Iraq, dal 1968 con il marchio del Baath, il Kurdistan iracheno ha goduto di una sostanziale autonomia o grazie a trattati formali o per l'azione dei partiti militarizzati o - dopo la guerra del Golfo del 1990-1991 - per l'intervento della comunità internazionale. Un trattato in piena regola per l'autonomia delle terre curde dell'Iraq fu sottoscritto nel 1970 da Saddam Hussein, allora vice-presidente e "uomo forte" del governo baathista. L'applicazione dell'accordo, che poteva cambiare la storia dell'Iraq e del popolo curdo in tutto il Medio Oriente, fu deludente. Il vero contenzioso riguardava, come sempre, il petrolio della zona di Mosul e Kirkuk. A decidere, in negativo, le sorti dell'accordo sul Kurdistan iracheno influì anche la politica internazionale. I curdi erano stati armati e protetti a distanza da Mosca: dopo tutto, nonostante i legami feudali o semifeudali in ambito curdo, Mustafa Barzani era stato un maresciallo dell' Armata Rossa. Quando nel 1972 l'Urss e l'Iraq conclusero un Trattato di amicizia e di cooperazione, però, i rapporti fra il governo sovietico e Barzani non potevano più essere quelli di prima, soprattutto se il movimento curdo si poneva in urto frontale con Baghdad. Si assistette a uno spettacolare rovesciamento delle alleanze. Barzani andò a cercare le armi e gli aiuti in Occidente, negli stessi Stati Uniti, e nell'Iran dello scià. Per il giuoco nefasto dei contrappesi, il governo iracheno cominciò a sostenere i curdi iraniani e i gruppi di opposizione all'opera nel Khuzistan, la provincia arabofona dell'Iran. La guerra mise a dura prova la stabilità 57 dei due Stati finché, nel 1975 - mediatore il presidente algerino Houari Boumediène, ispiratore del non-allineamento e del terzomondismo - Saddam e lo scià firmarono un accordo che metteva fine alle ingerenze reciproche per curdi interposti e delimitava il confine dello Shatt-el-Arab. L'accordo iracheno-iraniano del 1975 fu una catastrofe per i curdi. Per fedeltà allo scià, loro grande alleato, gli Stati Uniti lasciarono cadere il sostegno al movimento di Barzani, il cui potere precipitò al minimo storico. Usciva confermato il postulato mai smentito che i protagonisti della politica regionale e internazionale possono aiutare militarmente e politicamente i vari partiti curdi ma fino al limite di una loro possibile vittoria perché, non vogliono mai oltrepassare la linea dello status quo territoriale. Per convinzione o per realismo, né i curdi iracheni né i curdi iraniani avevano parlato di indipendenza, ma anche un grado sostanziale di autonomia era percepito come un precedente pericoloso: su tutto il problema curdo incombe il destino dei curdi della Turchia e l'integrità territoriale e la stabilità politica della Turchia sono fondamentali per gli Stati Uniti ben più di quelle di Iraq e Iran. I curdi tornarono sulla scena nell'incomoda posizione di agenti strumentali e ostaggi quando il regime dello scià fu rovesciato dalla rivoluzione islarnica e l'Iraq aggredì l'Iran facendo a pezzi l'accordo del 1975. I curdi avevano sperato di beneficiare del movimento khomeinista, e in parte furono associati alla rivoluzione, ma ben presto l'autoritarismo del regime degli ayatollah, antitetico già sul piano ideologico ai diritti delle minoranze, soprattutto se musulmane, soffocò ogni pretesa di autonomia. I curdi dell'Iran ritennero di appofittare dell'attacco dell'Iraq per guadagnare terreno nel Kurdistan con le armi. Lo stesso processo si verificò in territorio iracheno. Furono soprattutto i curdi iracheni a pagare quell'azione di disturbo in un paese in guerra. Negli ultimi mesi dell'interminabile conflitto Iraq-Iran, nel 1988, le forze armate di Baghdad riversarono bombe e gas tossici per piegare la resistenza nel Kurdistan e terrorizzare la popolazione civile. I curdi iracheni furono le vittime indirette anche della seconda guerra del Golfo, che si combatté nel 1991 dopo l'occupazione del Kuwait da parte dell'Iraq nell'agosto 1990. L'Iraq fu sconfitto dalla coalizione orchestrata dagli Stati Uniti, ma, perduto irrevocabilmente 58 il Kuwait con il suo petrolio e i suoi sbocchi al mare, il regime baathista poté impiegare la forza per riprendere il controllo del territorio iracheno: al sud contro l'opposizione sciita e al nord contro la rivolta più o meno spontanea dei curdi. Nelle pieghe della politica per indebolire Saddam, in Iraq è stata creata una enclave curda che gode di un' autonomia molto estesa, tanto da aver organizzato nel maggio 1992 le elezioni per un parlamento curdo. Il Kurdistan iracheno ha subito una profonda trasformazione socioeconomica con un processo di urbanizzazione di proporzioni prima sconosciute e la totale dipendenza dal commercio, lecito o di contrabbando, non più attraverso l'Iraq ma attraverso la Turchia. Non è finita la rivalità interclanica e la precaria intesa raggiunta per governare insieme il Kurdistan non trattiene i partiti dei Barzani e dei Talabani dal misurarsi di continuo anche con le armi appoggiandosi di volta in volta all'Iran, alla Turchia o allo stesso Iraq. La partecipazione attiva del governo della Turchia al contenimento anti-iracheno in coincidenza con la guerra del 1990-91, a protezione dei curdi dell'Iraq, ha avuto conseguenze dirompenti per il Kurdistan turco. Ankara non ha più potuto fingere che i curdi non esistano o siano una semplice variante dei turchi. Per qualche tempo i movimenti curdi d'opposizione, a cominciare dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) , impegnato da anni nella guerriglia e nel terrorismo per un Kurdistan indipendente, hanno costituito nel vicino territorio dell'Iraq, destabilizzato e in deficit di sovranità, i "santuari" di cui avevano bisogno. Il governo turco ha oscillato fra le aperture (nel 1991 il presidente Turgut Ozal si spinse fino a prospettare l'abrogazione della legislazione contro l'uso della lingua curda) e la controguerriglia ad oltranza, con raids nei villaggi curdi, brutalità e torture, valendosi anche dell'appoggio degli armati curdi di stanza nel nord dell'Iraq, decisi ormai a disfarsi dei reparti del Pkk per far cessare le rappresaglie turche. Il Pkk è nato nel 1978 con un programma rigorosamente marxista, sebbene non troppo dipendente da Mosca, ed è venuto alla ribalta nel 1984 mentre sembrava esaurirsi l'attività armata degli opposti estremismi che aveva insanguinato la Turchia per anni. Prevenendo l'ondata repressiva seguita al colpo di Stato militare del 1980, il leader del Pkk, Abdullah Ocalan, detto Apo (lo zio), trovò rifugio in Siria e nel Libano sotto controllo siriano. Dal 1984 al 1998, fra 59 vittime del terrorismo, regolamenti interni alla comunità curda e repressione ad opera dello Stato, la guerra ha causato 30 mila morti. È opinione corrente che il Pkk sia ben inserito nelle reti di traffico, smistamento e smercio di eroina dentro e fuori la Turchia. La successione di spostamenti di Ocalan nel 1998, prima a Mosca e poi in Italia, è stata la conseguenza di un compromesso fra Ankara e Damasco, che ha comportato la sospensione dell'aiuto che il governo siriano assicurava ai militanti e combattenti curdi per odio anti-turco. Giunto avventurosamente a Roma, con non poco imbarazzo per le autorità italiane, Ocalan ha rilasciato clamorose dichiarazioni a favore dell'abbandono della lotta armata e dei progetti di secessione in cambio di un negoziato onesto per l'autonomia e i diritti civili dei curdi in un quadro federativo: paradossalmente, l'anomalia di una frazione del movimento curdo che punta all'indipendenza potrebbe rientrare proprio nel momento in cui l'eco del "caso Ocalan" ha "internazionalizzato" la questione curda. È difficile dire se i curdi della Turchia - in quanto parte di uno Stato membro della Nato e candidato all'Unione Europea - avranno più chances di ottenere soddisfazione dei curdi d'Iraq e Iran ovvero se il sistema di sicurezza vigente in Europa si dimostrerà meno disponibile a interferire nella politica interna di uno Stato che funge da punta avanzata dell'Europa e dell'Occidente in quel mare magnum di instabilità che è la zona compresa fra i Balcani e il Caucaso. Certo, più che mai, il nazionalismo o pseudo-nazionalismo curdo, diviso al suo interno dalla geografia, dalla lingua, dal territorio e dalla politica (tradizionalisti contro progressisti), si presenta come un fattore atipico nella controversa e manipolatissima attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli. Continua intanto la migrazione dei curdi, non più solo dalle campagne dei vari Kurdistan verso le città ma dalla Turchia e dal Medio Oriente alla volta dell'Europa e degli Stati Uniti, e nella stessa Italia. 60 1915-1918 - Eccidi incrociati fra curdi e armeni e persecuzione dei curdi, con deportazioni e tentato genocidio, da -parte del movimento nazionale turco. 10 agoslo 1920 - Il primo trattato di pace imposto alla Turchia sconfitta, firmato a Sèvres ma rimasto sulla carta, prevede, in ossequio al principio dell'autodeterminazione dei popoli caro al presidente Wilson, uno Stato curdo in territorio turco con l'eventuale aggiunta del distretto di Mosul. CRONOLOGIA ESSENZIALE DALLA PRIMA GUERRA MONDIALE ALLA GUERRA DEL GOLFO 24 luglio 1923 - Il Trattato di Losanna statuisce l'integrità territoriale della Turchia con la scomparsa dello Stato curdo. Il Trattato tutela le minoranze religiose (cristiani, ebrei) ma i curdi, in quanto musulmani, non godono di nessuna speciale garanzia. 1925 - Rivolta curda in Turchia e nuove deportazioni dal Kurdistan turco (febbraio-aprile). Larea di Mosul, ricchissima di petrolio, viene annessa alle province di Baghdad e Bassora nello Stato dell'Iraq (dicembre). 1930 - Vasta agitazione insurrezionale dei curdi in territorio turco e persiano. Un'altra rivolta nel 1937. 1931 - Il ribellismo curdo si estende all'Iraq. 1946 - Effimera esistenza di una repubblica autonoma curda con capitale a Mahabad, in Iran (gennaio-dicembre): il presidente è Dazi Mohammed e Mustafa Barzani comanda le forze armate. luglio 1958 - Rivoluzione contro la monarchia hashemita a Baghdad e riconoscimento della parità fra arabi e curdi nel nuovo Iraq. 1961 - Si riaccende la ribellione curda in Iraq. 11 marzo 1970 - Il governo baathista sancisce mediante un formale trattato l'autonomia del Kurdistan iracheno, ma restano in discussione i confini e i poteri effettivi. 1974 - La guerra nel Kurdistan iracheno riprende su vasta scala con l'aiuto dello scià e dell'Occidente. 6 marzo 1975 - Laccordo di Algeri fra Iraq e Iran porta al ritiro dell'appoggio incrociato dei due governi ai movimenti autonomisti curdi in territorio altrui. Collasso delle forze di Barzani in Iraq. 1978 - Incomincia l'azione politico-militare del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che darà vita in Turchia a un movimento di massa per l'indipendenza di uno Stato curdo. 1979 - In Iran il movimento curdo parteggia per la lotta di popolo contro lo scià ma l'autonomia acquisita di fatto nel periodo rivoluzionario verrà annullata dal dispotismo del regime khomeinista. 1980-1988 - La guerra fra Iraq e Iran permette ai curdi di allargare i propri spazi di autonomia nei rispettivi territori ma i governi centrali riusciranno a riprendere il pieno controllo. Con la fine della guerra, i curdi in territorio iracheno sono vittime di una tremenda repressione con impiego anche di armi chimiche: il villaggio di Halabja diventa il simbolo del martirio del popolo curdo. Esodo di massa verso l'Iran e la Turchia. 1987 - Proclamato lo stato d'emergenza in molte province curde della Turchia per far fronte alla guerriglia indipendentista del Pkk. 1991 - Il regime di Saddam riconquista con la forza il territorio curdo soffocando la rivolta autonomistica che si era sviluppata per effetto della guerra del Golfo (marzo). Si mette in moto un altro esodo di massa. La risoluzione 688 approvata dall'Onu nel quadro delle sanzioni anti-lraq istituisce un sistema di protezione internazionale per il Kurdistan iracheno (5 aprile). Il governo e il fronte curdo raggiungono un accordo sull'autonomia del Kurdistan iracheno (24 aprile). La Turchia inizia vaste operazioni militari in territorio iracheno (agosto). Bibliografia sulla questione curda In francese: G. Chaliand, Le malheur kurde, Seuil, Parigi, 1992; C. Kutschera, Le mouvement national kurde, Flammarion, Parigi, 1979; C. More, Les Kurdes aujourd'hui: mouvement national et parti politique, L'Harmattan, Parigi, 1984; E. Picard (a cura di), La question kurde, Complexe, Bruxelles, 1991. In inglese: H. Arfa, The Kurds, an historical and political study, Oxford U. P., Londra, 1966; M. M. Gunter, The Kurds in Turkey: a political dilemma, Greenwood Press, Westport, 1991 eil recente, completo e documentatissimo affresco storico di D. McDowall, A Modern History of the Kurds, Tauris, Londra, 1996. In italiano: S. Battistella, Minoranze e sicurezza nazionale: il caso kurdo, Ispi, Milano, 1996; A. Chiodi, Il problema curdo nei rapporti tra la Turchia ed i paesi limitrofi, Istituto Diplomatico, Roma, 1997; M. Galletti, I curdi nella storia, Vecchio Faggio, Chieti, 1990. Mirella Galletti, la principale specialista italiana di curdi e Kurdistan, èautrice anche di numerosi saggi di storia edi politica su riviste come "Oriente Moderno" e "Politica Internazionale". 61 ~ ~ ... ;MP• -c _, _ ,~ ;;t:!r§~~[l; .f~ "II documento dei Saggi" e l'insegnamento della storia Mai come in questi mesi l'insegnamento della storia è stato al centro di corsi di aggiornamento e di formazione in servizio degli insegnanti, variamente diffusi su tutto il territorio nazionale. Ciò si deve soprattutto alle misure attuative del decreto Berlinguer sulla storia del Novecento, ovvero alla creazione di commissioni provinciali sulla storia presso tutti i Provveditorati e alle iniziative ad essa collegate: l'individuazione di figure di coordinamento tra docenti (tutor di storia), la creazione di reti di scuole attorno a "scuole-polo", il finanziamento ministeriale di corsi per tutor e per docenti di storia. Tutto ciò si inserisce poi nei più generali processi di trasformazione che, dopo decenni di semi-immobilismo, la scuola italiana sta attraversando: l'autonomia scolastica, l'innalzamento dell'obbligo, il progetto di riordino dei cicli scolastici, i nuovi esami nella scuola superiore, e forse ha senso inserire nell'elenco anche le molte novità del recente contratto di lavoro della scuola. È prematuro tirare le somme di tali iniziative, alcune solo in cantiere, altre in corso di svolgimento ma destinate a protrarsi nei prossimi anni. CESARE GRAZIOLI Per quanto riguarda le conseguenze sulla storia insegnata delle trasformazioni più generali del sistema scolastico, è evidente ad esempio che il nuovo tipo di esame che ha sostituito la Maturità non consente più di considerare la storia "materia di serie B", come di fatto accadeva nella maggior parte delle scuole superiori, ove non figurava tra le materie d'esame. Nel febbrile rincorrersi di nuovi provvedimenti e di iniziative varie, attuate o solo annunciate, al centro e alla periferia, c'è indubbiamente il rischio di un attivismo fine a se stesso, senza chiarezza sul senso 63 complessivo, sugli obiettivi che ci si prefigge, sui nodi di fondo da sciogliere (e sulle "crisi di rigetto" da evitare). Può quindi essere utile... fermarsi a pensare, o meglio a dialogare, e a tal fine assumere come interlocutore il testo più autorevole e insieme più impegnativo sul piano teorico uscito in questa fase: il documento su I contenuti essenziali per la formazione di base, elaborato per 1 Il documento su I contenuti essenziali per la formazione di base", presentato a Roma il 20 marzo 1998, è stato poi oggetto di un'ampia consultazione-dibattito nel mondo della scuola; esso rappresenta la versione sintetica, a cura di un gruppo coordinato dal prof. Maragliano, di un più ampio documento sui "saperi irrinunciabili" per la formazione scolastica del futuro, pubblicato negli "Annali della Pubblica Istruzione", n.l8/9l. il MPI dalla "Commissione dei Saggi" l. Che cosa dice il documento dei Saggi (così è comunemente chiamato) sulla storia? Quali innovazioni suggerisce per l'insegnamento/apprendimento di questa materia? Quali cambiamenti nella struttura dei curricoli, nell' approccio alla disciplina e nelle metodologie didattiche dovrebbero supportare tali innovazioni? I punti fondamentali del "documento dei Saggi" Il documento dice cose importanti soprattutto nella parte generale iniziale, in particolare laddove afferma la necessità di: 1) una nuova logica di organizzazione dei programmi "che preveda l'indicazione dei traguardi irrinunciabili e una serie succinta di tematiche portanti", operando "un forte alleggerimento dei contenuti disciplinari"; 2) l'abbandono "della sequenza tradizionale lezione-studio individuale-interrogazione, per dar vita a comunità di docenti e discenti impegnati collettivamente nell' analisi e nell' approfondimento degli oggetti di studio e nella costruzione di saperi condivisi", mediante il "ricorso a metodi di insegnamento capaci di valorizzare simultaneamente gli aspetti cognitivi e sociali, affettivi e relazionali di ogni apprendimento" (riprendo questo punto dalla versione più ampia del documento); 3) un diverso ruolo delle tecnologie didattiche che, se viste come "ambienti di formazione dell'esperienza e della conoscenza" possono avere un ruolo non solo come strumenti, "ma anche e soprattutto sul piano epistemologico"; 4) un senso e un significato condiviso, ovvero che ciò che si insegna valga la pena di essere insegnato/imparato, abbia un valore formativo agli occhi degli studenti. 64 Poi, nella parte dedicata alle specifiche aree disciplinari, il Documento indica come necessari per la storia: 5) un nuovo approccio metodologico che sviluppi non solo conoscenze ma anche capacità; 6) un "profondo ripensamento dell'impianto della formazione storica, che investa le periodizzazioni e tenga conto del fatto che ci sono tanti tempi quante sono le logiche dei fenomeni che si esaminano"; 7) una nuova idea di storia che abbracci le dimensioni demografica, ambientale, economica, sociale, delle idee, delle mentalità e della vita quotidiana (oltre il tradizionale orizzonte della storia politica, dunque) e non solo 1'ambito nazionale, ma anche quelli europeo e mondiale; 8) uno spazio adeguato alla storia del Novecento e un approccio multi disciplinare e integrato con le scienze sociali, soprattutto per la seconda parte del secolo. Questi ultimi quattro punti, visti nel loro insieme, propongono né più né meno di cambiare le finalità, i metodi, i criteri di selezione dei contenuti e la stessa categoria del tempo, ovviamente fondamentale nel sapere storico. I primi quattro punti (quelli ricavabili dalla parte generale iniziale del documento) potrebbero apparire ovvi e scontati, se considerati dal punto di vista delle scienze dell'apprendimento; appaiono viceversa dirompenti se li leggiamo dal punto di vista della storia-materia, così come è insegnata dalla maggor parte dei docenti nelle scuole elementari, medie e superiori. Questi quattro punti mettono infatti a nudo altrettanti mali di cui la storia soffre più di molte altre materie: 1) il "tuttismo", cioè la logica di "fare tutta la storia", dalle origini al presente (presente che peraltro ... non arriva mai, come dimostra la necessità di farlo entrare per decreto, da parte del Ministro Berlinguer); 2) la preponderanza del modello trasmissivo della lezione frontale, passivizzante e per sua natura inadatto a sviluppare nello studente capacità critiche, oltre che poco stimolante sul piano socioaffettivo-relazionale; 3) la marginalità di materiali didattici diversi dal manuale, come i documenti, il lavoro di laboratorio didattico, le nuove tecnologie; 65 4) il calo di interesse e di motivazioni allo studio della storia negli studenti, per i quali essa ha sempre meno senso e significato. Cambiare l'immagine tradizionale della storia-materia A mio avviso questi mali derivano in larga misura dall'immagine tradizionale della storia-materia concepita come "storia universale" da trasmettere mediante la tema lezione frontale-studio passivo del manuale-interrogazione orale. Tale immagine, eredità ottocentesca rinvigorita dalla riforma Gentile, è tuttora imperante nel senso comune e nella mentalità di molti insegnanti (e ancor più nel mondo accademico): perciò resiste tenacemente, nonostante sia stata ormai superata tanto a livello scientifico quanto nei programmi di quasi tutti gli altri paesi europei. Non credo necessario versare altro 2 Sulla critica dell'insegnamento tradizionale della storia c'è ormai una bibliografia talmente ricca e puntuale da rendere imbarazzante la scelta: mi limito perciò a citare, per la pluralità e la rappresentatività dei soggetti che lo hanno elaborato, il documento "Dalla storia alle storie", che ha avuto un'ampia diffusione ed è stato pubblicato nel dossier Insegnare il Novecento de "I viaggi di Erodoto", n.31, gennaio-aprile 1997, Ed. Scolastiche B. Mondadori, 1997. inchiostro contro questa immagine tradizionale2, che è incompatibile con lo spirito e la lettera del documento dei Saggi e, quel che più conta, con ogni prospettiva di rinnovamento della scuola. Perché il documento non rimanga lettera morta, sia nella denucia dei mali contenuta nei primi quattro punti, sia nelle indicazioni dei successivi quattro, è necessario che diventi patrimonio comune della scuola italiana una nuova e diversa idea della storia-materia, che il documento delinea ma solo in parte e in termini molto generali. Cercherò qui di riassumere, dal dibattito che in questi anni si è sviluppato attorno alla didattica della storia, gli aspetti cruciali di questa nuova concezione, focalizzando in particolare tre aspetti a mio avviso prioritari: a) un nuovo rapporto tra le discipline dell'area geo-storico-sociale; b) un nuovo curricolo verticale di storia; c) un nuova idea di "storia generale" affiancata alla pratica del "laboratorio" . Un nuovo rapporto tra le discipline dell'area geo-storico-sociale Se è vero che la storia muove sempre dai problemi del presente, è del tutto evidente che quelli del nostro presente hanno una forte valenza interdisciplinare con la geografia e le scienze sociali: mi riferisco a problematiche quali: il rapporto sviluppo/sottosviluppo, 66 popolazione e risorse, lo sviluppo sostenibile, la società post-industriale, la globalizzazione e il rapporto con lo stato-nazione e con le identità delle diverse culture e "aree di civiltà", le nuove frontiere della cittadinanza nella società multietnica, che è difficile negare siano le rilevanze del presente e del prossimo futuro. Allo stesso modo, la storia tradizionale di ascendenza ottocentesca era prevalentemente politico-diplomatica perché allora le emergenze del presente erano la costruzione dello stato-nazione e la necessità di formare i sudditi/cittadini, e coerentemente a quell'ottica prioritaria si rileggeva il passato. Senza pensare di abbandonare lo studio della storia politico-istituzionale, è evidente che la storia insegnata nel XXI secolo dovrà essere prevalentemente una geo-storia, aperta ai contributi delle discipline sociali (diritto, economia, sociologia, antropologia), in misura molto maggiore di quanto accade oggi3. Un reale 3 Tra i numerosi contributi in questo senso, "Storia e Geografia: un ... approccio inter o transdisciplinare significa ad esempio che nella cfr.C.GRAZIOLl, matrimonio che s'ha da fare?", in "Continuifutura scuola di base i programmi dell' area geo-storico-antropologica tà eScuola", Anno VIII n.1, gennaio-febbraio 1995, S.Sciascia Editore; e M.GUSSO, "Edudovrebbero essere talmente integrati da non prevedere divisioni orarie cazioni e area geostorico-sociale: una solitra storia, geografia e studi sociali (nella parte iniziale del curricolo, darietà reciproca", in AA.vv., Scienze geoper un curricolo verticale. e anche con economia e diritto, nel segmento intermedio). Se nel storico-sociali Dalla ricerca-azione alla sperimentazione asdocumento dei Saggi c'è l'ambizioso obiettivo del "superamento sistita, IRRSAE Lombardia 1998. delle tradizionali partizioni disciplinari", è evidente che il suo perseguimento può e deve iniziare all'interno di discipline affini, quale appunto l'area geo-storico-sociale. Un nuovo curricolo verticale di storia e il riordino dei cicli Data la natura e le finalità del documento dei Saggi, non avrebbe senso chiedergli di affrontare tutti i problemi, ad esempio quelli di struttura. Tra questi, il problema prioritario per l'insegnamento della storia è la necessità di un nuovo curricolo verticale, nel contesto dell'annunciato riordino dei cicli4 : ovvero la necessità di superare la ripetizione degli stessi contenuti nel passaggio dalle elementari alle medie alle superiori, in favore di una differenziazione dei contenuti, dei traguardi formativi attesi e delle competenze metodo logiche da attivare in ciascun ciclo. In nessun altro paese viene ripetuta per tre volte la "storia universale", cosa che ha un duplice effetto negativo per gli studenti: a) la demotivazione del vedersi somministrata tre volte "la solita minestra"; b) la falsa credenza che 4 Ciò vale sia che il riordino dei cicli si realizzi secondo lo schema 6+6, cioè un sessennio di scuola di base e un altro di scuola secondaria (come previsto dal progetto originario di Berlinguer), sia che ci si orienti, come ora sembra più probabile, verso lo schema 7+5. 67 la storia sia quella e solo quella, cioè un racconto che ogni volta deve partire dalle origini per arrivare al presente e, una volta finito, non possa che ricominciare daccapo, come ... un film al cinema. 5 Tra i contributi più recenti: I.MATIOZZI, "Come analizzare e progettare un programma", in World History -II racconto del mondo, Quaderno n.13-14, supplemento a "I viaggi di Erodoto", cit., n.33, 1997; A.BRUSA, "Verso i nuovi programmi di storia", in "Insegnare" n.9, 1998. Anche sul curricolo verticale, in questi anni, c'è stato ampio dibattito e ricchezza di proposte5, dalle quali estrapolo qui, in modo sommario e a titolo esemplificativo, due ipotesi: IPOTESI A (curricolo tripartito): - alfabetizzazione spazio-temporale (a partire dal vicino e dal presente) e quadri di storia locale, nella prima parte della scuola di base; - storia generale (distribuita su 5 o 6 anni, non su 3 come accade nell'attuale scuola media) entro il compimento dell'obbligo scolastico, e con opportuni collegamenti passato-presente; - approfondimento di temi e problemi, alcuni dei quali con una "curvatura di indirizzo" nel triennio conclusivo della scuola secondaria; IPOTESI B (curricolo bipartito): - alfabetizzazione spazio-temporale, storia locale, grandi quadri di aree di civiltà (con valore di tipologie significative, non necessariamente in successione diacronica) nella scuola di base; - intreccio di storia generale e di monografie tematiche nel quinquennio conclusivo (13-18 anni). Un nuova idea di "storia generale" e la pratica del "laboratorio" Tomo ora alle quattro indicazioni iniziali del documento dei Saggi per cercare di declinarle nello specifico disciplinare della storia (che ovviamente intendo sempre nel senso di area geo-storico-sociale). Come dovrebbe essere un curricolo basato sul'indicazione di "traguardi irrinunciabili e su un forte alleggerimento dei contenuti", che ricorra a una pluralità di strumenti e tecnologie didattiche, che sappia sviluppare abilità e competenze e altresì valorizzare la dimensione affettiva e relazionale dell'apprendimento, motivando gli studenti? I traguardi irrinunciabili devono essere, a me pare, in primo luogo gli aspetti formativi dell'educazione geo-storico-sociale, in termini di "saper fare" e di "saper essere": le competenze trasversali (cioè 68 le operazioni di lettura, smontaggio, schematizzazione, elaborazione dei testi) e quelle specificamente disciplinari (cioè le operazioni sulle fonti e di orientamento nella pluralità degli spazi e dei tempi storici), nonchè le varie "educazioni" cui concorre la formazione storica, che si possono riassumere nel decentramento cognitivo e nell' educazione alla complessità: cioè le capacità di assumere il punto di vista del diverso e del lontano (nel tempo e nello spazio), e di considerare i fenomeni della realtà (presente e passata) come sistemi complessi, risultanti dalla interazione di numerose variabili e dalla stratificazione di temporalità diverse. Oltre a queste finalità, dobbiamo considerare fra i traguardi irrinunciabili anche un certo insieme di contenuti? Sì, ma si tratterebbe di contenuti molto diversi per i differenti segmenti del curricolo verticale, se conveniamo sulla necessità di abbandonare la ciclicità dei programmi. Restringiamo allora l'interrogativo a quel segmento del curricolo che prevederà la "storia generale" (da fare una volta sola, o nella parte centrale o in quella conclusiva del curricolo verticale): che cosa può significare un programma di storia generale basato su "un forte alleggerimento dei contenuti"? La soluzione più razionale mi sembra quella di distinguere tra un "sapere minimo di base", cui dedicare circa la metà del monte-ore annuo (per ciascuno dei 5 o 6 anni in cui dovrebbe essere distribuita la storia generale), e un'altra metà da dedicare ad attività di "laboratorio". Definisco ora, sempre sulla base del dibattito e delle esperienze concrete di innovazione didattica, cosa sia opportuno intendere con i termini "sapere minimo di base" e "laboratorio": a) il sapere minimo di base dovrà essere rappresentato da grandi "mappe spazio-temporali"6 di orientamento che forniscano le macroperiodizzazioni e i modelli relativi ai diversi ambiti di indagine, quali ad esempio: - le società di cacciatori e raccoglitori; le società basate sull' agricoltura e/o l'allevamento; le società industriali; le società postindustriali (questa è la più generale delle periodizzazioni, e non riguarda solo l'economia e la tenologia, ma anche i regimi demografici e il rapporto uomo-ambiente, e indirettamente le forme di organizzazione sociale e la mentalità collettiva); 6 Riprendo il concetto di "mappe spaziotemporali" e molti dei modelli didattici di seguito esemplificati da A.BRUSA, Laboratorio, voI1.1,2,3, Ed.ScoI.B.Mondadori, 1995, e "II nuovo curricolo di storia", in RS, n.81, marzo 1997. - l'organizzazione del potere: da quello personale-carismatico dei 69 primi gruppi umani, attraverso le fondamentali tipologie (il grande impero, la polis, il feudo) fino al processo di formazione dello stato moderno nelle sue diverse fasi di sviluppo; - la gerarchizzazione degli spazi geo-economici, dal sistema centro-periferia legato alla nascita della città, alle economiemondo, all'unificazione del pianeta, col primato europeo nell'Ottocento, la doppia polarizzazione Est-Ovest e Nord-Sud nel Novecento, e la globalizzazione; - le grandi "aree di civiltà" e le relative tradizioni culturali e religiose. Potremmo definire queste grandi mappe spazio-temporali come le 7 Sul significato che attribuisco al "curricolo reticolare", cfr. C.GRAZIOLl, "II Novecento, secolo scorso e storia del presente", in RS, n.B3, dicembre 1997, e "Una proposta di laboratorio didattico sul Novecento", in RS, n.B4, maggio 199B. maglie più larghe di un curricolo reticolare7: infatti, pur diverse tra loro per ampiezza spazio-temporale, hanno ciascuna la scala più ampia possibile in relazione ai fenomeni ad esse pertinenti. Infatti nell' era della globalizzazione, l'indispensabile educazione alla mondialità non si acquisisce dando "il giusto spazio alle culture europee ed extraeuropee" a partire da un' ottica "radicata nella storia del proprio popolo", come recita il documento dei Saggi (nel punto che mi appare il più debole e criticabile); bensì assumendo come prospettiva iniziale di indagine la scala spazio-temporale più ampia per poi "zoommare" su aspetti più circoscritti, sia temporalmente che spazialmente, tra i quali valorizzare le specificità nazionali ed anche locali (soprattutto nell'attività di laboratorio). È superfluo aggiungere che questo "guardare in grande", in una logica di World History e di longue durée può essere la vera risposta alI'esigenza di "forte alleggerimento dei contenuti disciplinari", irrisolvibile se si rimane in una semplice logica di "tagli" nella sequenza evene- mentièlle della storia tradizionale. b) con il termine "laboratorio" possiamo intendere, in senso lato, una serie di moduli (cioè segmenti relativamente autosufficienti e intercambiabili) dedicati all' approfondimento di determinati temi non toccati o toccati sommariamente nella parte generale, da svolgere con pratiche didattiche diversificate: uso delle fonti (scritte, orali, multimediali), analisi di casi, giochi didattici, percorsi di ricerca e di problematizzazione, storia locale, costruzione di ipertesti, ecc. La diversificazione delle attività laboratoriali risponde in questo caso a tre obiettivi fondamentali nei confronti degli studenti: 70 1) attivare in loro una pluralità di competenze diverse; 2) coinvolgerli maggiormente (la varietà attira più della monotonia ... come direbbe Lapalisse!); 3) rispettare le differenze di attitudini e di stili cognitivi presenti in ogni gruppo-classe. Il laboratorio di storia, quindi, può e deve essere anche uno spazio fisico attrezzato, ma prima ancora deve essere soprattutto uno "spazio mentale", ovvero una diversa pratica di insegnamento, complementare a una nuova idea di storia generale. Dalla teoria alla pratica Come sezione didattica di Istoreco, ci muoviamo da anni in questa direzione nel campo della ricerca didattica e della formazione in servizio dei docenti. L'idea-forza di coniugare una nuova idea di storia generale con la pratica del laboratorio è sottesa infatti alle modalità di corsi, che da anni realizziamo, sulla progettazione del curricolo. Si tratta di corsi specifici per i diversi gradi scolastici, a causa degli specifici problemi che essi hanno, in relazione ai diversi programmi e alle diverse fasce d'età degli studenti. Così sono nati e si sono consolidati nel tempo gruppi relativamente stabili di docenti che partecipano a questi corsi-laborario di progettazione curricolare: da tre anni sulla scuola elementare, da due sul biennio e da cinque sul triennio delle superiori, mentre sulle scuole medie si è iniziato quest'anno. La prova migliore dell'efficacia di questa formula, della sua alta spendibilità didattica, credo stia proprio nel fatto che i partecipanti continuino l'esperienza per anni, alI'opposto dell'atteggiamento "mordi e fuggi" che caratterizza gran parte dei corsi di aggiornamento. A queste esperienze si aggiunge un'attività di collaborazione-consulenza verso altri gruppi di insegnanti, in provincia e fuori, che si muovono nella stessa direzione; e, soprattutto negli ultimi due anni, una pioggia di interventi di trasmissione-disseminazione (se non delle esperienze, quanto meno delle idee-forza ad esse sottese, e di materiali didattici esemplificativi) per corsi di aggiornamento organizzati da Provveditorati o da reti di scuole in varie parti d'Italia. 71 = Q .~ rI:J c .t.~~" .':,~. .. . . . .:. . • ·.",:'J{[f';P.' . ',_ ~ , :, -< <~':5;"<:;- Giannetta Magnanini, /I 1948 a Reggio Emilia, Edizioni Teorema, 1999 Sono ormai parecchi anni che Giannetto Magnanini mette la sua esperienza e la sua passione di militante al servizio di una ricerca storica condotta con grande scrupolo documentario ed efficace capacità rievocativa. La sua ultima fatica si concentra su un momento decisivo nella storia repubblicana, il 1948, ed il riferimento è a Reggio Emilia. Ma giustamente l'orizzonte che viene percorso è più ampio: nel senso dello spazio, per l'attenzione costante al panorama nazionale; nel senso del tempo, per la ricognizione, in linee essenziali ma esaustive, dei precedenti indispensabili per una corretta comprensione di quell' anno cruciale. Così la specificità delle vicende locali assume una più chiara definizione, sia che corrisponda sia che diverga dal quadro complessivo. ETTORE BORGHI A prima lettura, i nuclei fondamentali de1libro appartengono alla sfera politica: la rottura dell'unità antifascista, la conclusione dei lavori della Costituente, le elezioni del 18 aprile, la reazione provocata dall' attentato a Togliatti. Eppure questi aspetti, su cui indubbiamente è più tesa la corda partecipativa dell' Autore, avrebbero rischiato di rimanere in una sia pur corretta dimensione aneddotica senza il continuo confronto con fatti e strutture sociali ed istituzionali. Volendo fare un esempio per tutti, è di grande interesse la ricostruzione compiuta da Magnanini (che pure, per quanto lo riguarda personalmente e biograficamente, risulta prossimo piuttosto all' esperienza operaia e industriale) della complessa situazione agraria della nostra provincia. Un' operazione senz' altro indispensabile per offrire, 73 soprattutto ai lettori più giovani, un quadro adeguato della situazione sociale del dopoguerra nella provincia reggiana, lontana com'era anni luce da quella odierna. Va anche notato che proprio un ambito così (apparentemente) settoriale offre più di un'occasione per compiere illuminanti verifiche sul rapporto reale fra governanti e governati o sulla distanza fra le norme e la prassi (vedi, ad esempio, le vicende legate all'applicazione del "lodo De Gasperi" e della successiva legislazione). Resta il fatto, tuttavia, che Magnanini affida l'esito della sua critica equilibrata, ma non reticente, al banco di prova costituito dai due momenti di maggiore scontro: il 18 aprile e l'attentato a Togliatti. Sul primo punto egli ci offre la rielaborazione, quasi la decantazione, di una vicenda avvertita dalla sinistra in forma traumatica, anche in forza delle illusioni della vigilia. Ma nella sua ricostruzione viene specialmente messa in luce la difficoltà, persino da parte di dirigenti di grande statura, di misurarsi con le ancora incognite reazioni di massa della "ordinaria" democrazia, e di prevenirne gli effetti (gli affollati comizi che mascherano l'esistenza di una folta "maggioranza silenziosa"). Per quanti, alla base almeno, l'attentato a Togliatti si presentò come l'occasione della rivincita? La ricostruzione fatta da Magnanini tanto del quadro complessivo (egli peraltro lamenta le carenze di studi sulle varie situazioni locali) quanto di quello reggiano ci sembrano convincenti. Ci troviamo di fronte ad una sollevazione spontanea cui i quadri dirigenti rispondono con realismo e capacità di mediazione (significativo il giudizio sarcastico dello stesso Secchia su quelle che gli apparivano mal riposte velleità rivoluzionarie). Dal canto suo, la situazione reggiana, vista nel suo insieme e a parte alcune eccezioni, manca delle punte di asprezza che pure si ebbero altrove (Genova, Monte Amiata). La puntigliosa analisi compiuta autorizza dunque la conclusione che l'Autore ricava nei seguenti termini: "Nel complesso ... rispetto lo stato di tensione generale e di quanto avvenne in altre zone di Italia, il movimento di protesta nella provincia di Reggio fu controllato dalle forze democratiche e vi fu una buona collaborazione fra gli organi dello stato (prefettura, questura, comando dei carabinieri) con esponenti del PCI, della Camera del lavoro e parlamentari" (p. 70). 74 Di pari interesse è la storia della repressione successiva al calmarsi delle acque. Anche nelle pagine dedicate a questo fenomeno, così come a quelle, problematiche e interrogative, rivolte a chiarire i riflessi locali del clima della guerra fredda, si ripresenta con vivacità un contesto dimenticato, in cui pure stanno non pochi semi del tempo presente. Frammenti della storia di una Costituzione entrata con grave ritardo nella mentalità corrente, dunque della riluttanza, da molte parti, a farne il fondamento dello spirito pubblico e della prassi di governo. 75 AA.VV., 1948-1998. /I cinquantesimo della festa dell'Unità a Bibbiano, Tipografia La Grafica, 1998 Frutto del lavoro collettivo di un comitato di redazione, il volume, ANTONIO ZAMBONELLI con circa 260 fotografie distribuite lungo cento pagine, ci restituisce in qualche misura mezzo secolo di vita politica e sociale bibbianese, seguendo il filo monografico delle epifanie del popolo di sinistra (feste dell'Unità, appunto, ma non solo). Per chi non è reggiano, diremo che Bibbiano, comune pedecollinare della Val d'Enza, si fregia del titolo di "culla del grana" e, negli ultimi anni, va anche fiera di far parte dei cosiddetti territori matildici. È anche, come molti comuni reggiani del resto, un territorio ininterrottamente governato da consistenti maggioranze di sinistra (Pci-PdS-Ds in primis) dalla Liberazione. Rispetto al sottotitolo, l'opera offre assai più immagini (di donne e di uomini) che ricordi ed episodi. Anche se le immagini stesse ci rimandano ad episodi e al ricordare, nonostante le scarne didascalie che le accompagnano. Oltre le quali - didascalie - il volume è altresì corredato da notizie, redatte da Loris Bottazzi, tese a contestualizzare mezzo secolo di microstoria bibbianese nelle vicende nazionali e mondiali. 1948-1998. Dalla sconfitta del Fronte popolare - che non impedì l'attesa dei landemains qui chantent (o di qualche Sole dell'Avvenire, per tradurre in italiano) - al disincanto del post-comunismo. Riescono le fotografie reperite e pubblicate a render conto di tali cambiamenti? In qualche misura sì. Vediamo come. Intanto, dal confronto tra immagini di feste dell'Unità anni Quaranta e Cinquanta a quelle ultime, balza agli occhi la forte Nella pagina precedente: Solagna anni '20 77 politicità delle prime rispetto al carattere prevalentemente gastrono- mico-spettacolare delle seconde. Le foto anni Quaranta-Cinquanta pullulano di parole d'ordine improntate a grandi certezze e ad incrollabili attese: dal marxiano Proletari di tutto il mondo unitevi ad un oggi inconcepibile Né colonia americana né feudo vaticano. Ma, più in generale, proprio i volti e le cose che si vedono in quella più vecchie foto, ci restituiscono un paesaggio antropologico che ci appare assai lontano. E balzano agli occhi, dal confronto con quelle più recenti, le grandi mutazioni intervenute. Nelle foto di 50, 40 anni or sono cogliamo la intensa partecipazione (di massa) alle manifestazioni politiche che precedevano l'inaugu- razione delle feste dell'Unità. Lunghi, festosi e combattivi cortei percorrevano le vie di Bibbiano. Ognuna delle circa 15 cellule (ora non più esistenti da anni) col suo fantasioso carro allegorico nazionalpopolare. Gruppi di appartenenti a varie categorie (braccianti, mattonai, ex partigiani, ragazze, ecc.) recanti cartelli rivendicativi o affermativi e sventolanti bandiere rosse e tricolori. Documentate anche le iniziative per la raccolta di fondi pro stampa comunista (come la spigolatura del grano, la raccolta di balle di paglia). Nelle foto più recenti ci appaiono affollati ristoranti, lucide cucine "a norma", sovraffollati concerti rock, qualche scritta giustamente problematica. L'immagine che chiude la raccolta, una fotocolor scattata dall'aereo, è una veduta panoramica del vasto verde terreno agricolo (sullo sfondo l'azzurro dei colli reggiano-parmigiani) destinato ad ospitare l'area attrezzata permanente su cui si svolgeranno in futuro le feste dell'Unità delle sezioni Ds riunite di Bibbiano e Barco. Un'area "che possa servire, con spazi ed iniziative varie - recita la didascalia a tutta la collettività bibbianese, ed in particolare ai giovani, durante tutto l'anno". Colpisce peraltro la continuità, lungo mezzo secolo, di alcune presenze umane. Alcuni dei "pionieri" del 1950 (ragazzini sui 1012 anni), li ritroviamo uomini maturi nelle foto di 30 - 40 anni dopo, ancora protagonisti delle "feste" e di altre manifestazioni politiche documentate per immagini. Una continuità che è anche di trasmissione da una generazione all'altra all'interno delle famiglie di un popolo di sinistra. Sulla piazza di Bibbiano tenne il suo 78 primo discorso da Sindaco della Liberazione, il 25 aprile 1945, il vecchio antifascista comunista Prospero Vergalli. Esattamente 50 anni dopo, sulla stessa piazza, tenne l'orazione commemorativa del 25 aprile il neoeletto Sindaco pidiessino di Bibbiano Orio Vergalli, figlio di Prospero. Con questa iniziativa editoriale, i dies sini di Bibbiano ci hanno offerto una sorta di autobiografia collettiva per immagini e sembra ci vogliano dire di aver saputo accogliere i profondi mutamenti intervenuti lungo mezzo secolo senza peraltro rinnegare le proprie radici. 79 La società emiliana improntata dalle passate emigrazioni Gli storici hanno a lungo considerato la società emiliana pressoché esente da significativi processi migratori nell' epoca dell' industrializzazione, e in particolare nel secolo scorso. Solo qualche eccezione veniva fatta per l'emigrazione dall'area appenninica, ma relativamente al XX secolo; e poi per la grande spinta all'inurbamento che negli anni cinquanta e sessanta ha coinvolto anche la pianura. Ciò avrebbe contribuito a caratterizzare un quadro abbastanza statico della regione, con un basso livello di mobilità della popolazione, con limitati squilibri territoriali e con dinamiche culturali facilmente controllabili. Da un decennio, invece, tale prospettiva degli storici va mutando, man mano che emergono dati conoscitivi consistenti sulla realtà migratoria regionale, e che le metodologie d'analisi si raffinano. Innanzitutto, viene riservata una crescente attenzione alle migrazioni temporanee rispetto a quelle definitive. Le prime sono meno documentabili; ma in diverse epoche - con tempi o modi diversi da una zona all' altra - hanno fortemente caratterizzato le culture sociali di questa regione. Le consistenti migrazioni permanenti di interi nuclei familiari colonici risultano infatti abbastanza delimitabili al periodo della grande depressione agraria di fine XIX secolo (ma solo per alcune zone) e alle radicali trasformazioni del sistema produttivo dopo l'ultimo dopoguerra e negli anni del "boom". Invece, le migrazioni temporanee - stagionali, o ripetibili a intermittenza nelle periodiche stagnazioni del locale mercato del lavoro - hanno interessato consistenti settori della società rurale e inciso profondamente sulle sue trasformazioni. Hanno condizionato con forza le culture MARCO FINCARDI Nella pagina precedente: Solagna anni '20 81 sociali e politiche, e trasmesso valori e mentalità delle aree urbane e industriali nelle campagne. Hanno dato, a una parte consistente dei ceti popolari, una visione del mondo meno angusta di quella delle tradizionali classi dirigenti municipali. Inoltre, con le loro rimesse, hanno fatto affluire verso paesi, famiglie, casse di risparmio, associazioni di queste province rurali, dei rilevanti flussi finanziari che sono serviti a modificare concretamente le relazioni sociali e produttive. Talvolta, questo denaro ha incentivato capillarmente le modemizzazioni; altre volte è servito da estremo puntello al mantenimento di culture e modi di vita tradizionali; sempre ha funzionato da ammortizzatore sociale agli sconvolgimenti dovuti al superamento dell'economia di sussistenza e alle brusche trasformazioni del mercato del lavoro. Dopo numerosi studi che hanno preso in considerazione la cultura politica e le reti solidaristiche dell'influente e folta comunità degli antifascisti reggiani esiliati a Parigi, nel 1987 la Consulta regionale per l'emigrazione e immigrazione ha pubblicato un primo studio storico-antropologico sulle colonie di emigrati emiliani nella regione parigina (L'emigrazione emiliano-romagnola in Francia. Gli scaldini, i reggiani, i rocchesi, a cura di Giovanna Campani, Bologna, Regione Emilia-Romagna, 1987); e diverse altre ricerche sono seguite a queste (per una loro parziale sintesi e per l'indicazione di ulteriori sviluppi degli studi sul tema: Antonio Canovi, Paris, Banlieues. Genesi e rappresentazione di un territorio metropolitano, "Memoria e ricerca" 1996, n. 7). Uno spaccato estremamente interessante della società emiliana, e del suo aprirsi a relazioni con tutti i continenti del mondo, dagli ultimi decenni del secolo scorso, l'ha data uno studio sulle migrazioni di salariati - maschi essenzialmente - dall' Appennino modenese: Maurizio Mariani, Giovanna Martelli, Giuliano Muzzioli, Cent'anni di emigrazione da Pavullo e dal Frignano (1860-1960), Pavullo, Amministrazione comunale, 1993. Un recentissimo volume di Cesare Bermani (Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell'emigrazione italiana. 1937-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1998) sui Fremdarbeiter inviati in Germania dal fascismo come braccianti, muratori e operai, utilizza tra l'altro una decina di interviste a protagonisti di quelle migrazioni, raccolte tra Cavriago e Luzzara, dopo che propria la nostra rivista "Ricerche storiche" aveva 82 studiato per prima tale fenomeno (con un articolo di Silvia Pastorini, nel 1985, poi con ricostruzioni - fatte da Egidio Baraldi - dei gruppi migranti, e successivamente di deportati). Ora, un'accurata ricerca d'archivio, condotta con un uso molto attento delle fonti, mette in luce il fenomeno per la montagna reggiana. La cosa importante e originale di questo volume (DalmazIa Notari, Donne da bosco e da riviera. un secolo di emigrazione femminile dall'alto Appennino reggiano (1860-1960), s.l.e., Parco del Gigante, 1998) è però che illumina ampi scorci dell'emigrazione femminile, attraverso un fenomeno finora pochissimo noto nella storiografia italiana: il lavoro in città di serve e balie. I flussi migratori maschili vengono pure presi in considerazione, ma essenzialmente per le interessanti sincronie e per le ricorrenti coincidenze di destinazioni, rispetto a quelli femminili. Il fatto che finora anche studiose dell'emigrazione particolarmente attente alle presenze femminili - come Paola Corti e Patrizia Audenino - non abbiano rilevato simili fenomeni nell'area alpina piemontese, fa supporre che solo limitate aree si siano andate specializzando nel fornire abbondantemente questo genere di ausiliarie domestiche per le famiglie borghesi. Da diversi comuni dell' Appennino emiliano, infatti, per almeno settant' anni il fenomeno si è fatto eccezionalmente rilevante, da occasionale che poteva essere in precedenza. Le ricostruzioni fatte da Dalmazia Notari mostrano la probabile genesi di questo genere di migrazione dalla metà del XIX secolo; anche se le prime documentazioni dettagliate risalgono a un ventennio dopo, quando ormai lo stato nazionale ha reso superati antichi confini che limitavano contatti e mobilità delle popolazioni del crinale appenninico. In poco tempo, questo flusso migratorio ha potuto affermarsi con proprie specifiche reti di solidarietà, o propri modi di comunicare informazioni, utili sia a quelle che erano a servizio in città lontane, sia a quelle che erano in attesa di partire dai paesi d'origine. Anche i circuiti associativi politici - confessionali o di classe - hanno presto preso in considerazione un proprio patrocinio della tutela sindacale o morale di queste lavoratrici, che restavano comunque più inclini ad affidarsi a supporti di aiuto o controllo fomiti da reti parentali o dalle colonie dei compaesani pure essi migrati. Di estremo interesse sono le considerazioni che vengono fatte sull'integrazione tra questa emergente cultura professionale delle giovani e le trasformazioni 83 della società agricola e della famiglia contadina montanare. Di estremo interesse anche le riflessioni sulle complesse casistiche in cui - nel celibato come nelle scelte matrimoniali - queste ragazze e donne condizionino le trasformazioni del costume montanaro; o quando invece recidano i legami con l'ambiente di origine, se le loro scelte di vita sono divenute incompatibili coi ritmi, la mentalità e la morale dei compaesani. La Notari inquadra la posizione di queste migranti sempre all'interno di più complesse strategie familiari, oppure come un momento di traumatica rottura con queste. Se le ricerche su tale soggetto avessero ulteriori sviluppi, sarebbe interessante indagare le modalità di passaggio - maschili e femminili - dalle forme tradizionali di mobilità legate alI'allevamento del bestiame, a quelle proprie delle migrazioni moderne, occasione di scambi costanti tra i casolari del crinale appenninico e le aree urbane, o industriali, o dove si praticano colture cerealicole estensive, nella pianura. Inoltre, risulterebbe utile una comparazione con aree dell'Europa centro-settentrionale in cui la consuetudine di inviare la maggior parte dei giovanissimi a servizio presso altre famiglie rurali (Michael Mitterauer, I giovani in Europa dal medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1991), come forma di apprendistato all'età adulta, sarebbe invalsa per secoli, non solo nell' età industriale. 84 L'Emilia tra caso, modello e stereotipo La nascita del "modello emiliano", o meglio la consapevolezza più precisa di una via originale e positiva allo sviluppo all'interno della regione, avviene nella seconda metà degli anni Settanta con la convergenza di tre "letture" della congiuntura italiana. La prima - di matrice sociologica - inaugurata dagli studi di Arnaldo Bagnasco e Carlo Trigilia individua accanto al tradizionale modello di sviluppo Nord-Sud, la presenza di una "terza Italia" fondata su elevati standard socio-economici, piccole imprese, radicamento di grandi partiti di massa. La seconda, economica, ma aperta ai contributi di altre discipline, fondata sui lavori di Giacomo Becattini, Giorgio Fuà, Sebastiano Brusco, punta alla scoperta e alla valorizzazione dei distretti industriali ossia ai sistemi industriali locali di piccola impresa, sottraendoli alla dimensione marginale e residuale in cui l'analisi economica predominante li aveva relegati. La terza, di natura politica, sottolinea i successi economici e sociali raggiunti da un sistema di enti locali in gran parte governato da una forza politica - il Partito comunista italiano - tradizionalmente all'opposizione a livello nazionale. Un'anomalia - o "diversità positiva" come allora si diceva negli ambienti della sinistra - che gli amministratori e il Partito Comunista utilizzano con vigore a testimoniare l'efficacia della loro azione e la legittimità a porsi come forza di governo nazionale. AZIO SEZZI I caratteri peculiari del "modello emiliano" - peraltro in gran parte condivisi con altre aree della terza Italia - sono da allora noti e ampiamente indagati: la diffusione della piccola e media impresa, la sua organizzazione in distretti industriali, la stratificazione sociale poco polarizzata, la presenza socio-economica femminile, la forte 85 partecipazione politica, le solide reti parentali, la vocazione all'associazionismo, il basso tasso di criminalità, l'elevato rendimento istituzionale, l'alto spirito civico. A ormai venticinque anni dall'avvio di questa riflessione, sullo stato di salute dell'esperienza emiliana, con un occhio alle sue radici e l'altro alle sue prospettive, si interrogano tre volumi - assai diversi per natura e impostazione - pubblicati tra 1997 e 1998. Il primo, L'Emilia-Romagna, Einaudi 1997, curato da Roberto Finzi per la "collezione Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi", riprende e sviluppa da un lato molti degli spunti presenti nel fondamentale Distretti, imprese, classe operaia. l'industrializzazione dell'Emilia-Romagna, curato da Pier Paolo D'Attorre e Vera Zamagni nel 1992 per gli "Annali" dell'Istituto regionale per la storia della resistenza e della guerra di liberazione in Emilia-Romagna e dall'altro tiene costantemente sullo sfondo - anche criticamente le tesi sostenute da Putnam in La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, 1993. Ad evidente impostazione accademica, il volume segue una "classica" quadripartizione - L'economia, la società, La politica, La cultura - con i contributi, tra gli altri, di Vera Zamagni, Pier Luigi Cervellati, Patrizio Bianchi, Giuseppe Alberigo, Luciano Casali, Eugenio Riccomini, ai quali si aggiungono due interessanti saggi - di David Bidussa e di Donald Sassoon sull'Emilia e gli emiliani visti dagli italiani e dagli anglosassoni. Il secondo lavoro, Società, economia e lavoro in Emilia-Romagna. Rapporto 1997, promosso dall'Osservatorio del mercato del lavoro della Regione Emilia-Romagna e curato da un pool di esperti tra i quali Marzio Barbagli, Sebastiano Brusco, Gilberto Seravalli. La ricerca si pone l'obiettivo di fornire un'immagine articolata di quella che gli autori chiamano la "situazione sociale" nell'Emilia-Romagna degli anni Novanta, con particolare riferimento a quattro aspetti tipici del "modello": performance istituzionale, consumi culturali, famiglia e parentela, lavoro. Da sottolineare il massiccio ricorso - attraverso in particolare le Indagini multiscopo ISTAT - a dati empirici e rilevazioni sul campo. Infine, Margini regionali: la Regione che vogliamo. Note metodologiche e riflessioni sulla revisione del Piano Territoriale Regionale dell'Emilia Romagna (FrancoAngeli, 1998), curato da William Brunelli, responsabile dell'ufficio urbanistica dell' Associazione pic86 cole e medie industrie di Bologna, affronta, con un respiro teorico e culturale che spesso oltrepassa i confini dell'oggetto specifico, il tema delle politiche del governo del territorio, con particolare riferimento al Piano territoriale regionale (PTR) , il più originale strumento di programmazione e di pianificazione utilizzato dall'Ente Regione. Di rilievo i saggi della seconda parte del volume, che ospita, in un'ottica di apertura interdisciplinare, i contributi di geografi, sociologi, urbanisti, economisti A questi lavori possono aggiungersi, con riferimento alla provincia di Reggio Emilia e con un taglio più marcatamente storico-economico, gli studi commissionati tra il 1995 e il 1996 dalle principali associazioni imprenditoriali locali in occasione degli anniversari di fondazione. Ricordo in questo senso G. L. Basini, L'industrializzazione di una provincia contadina. Reggio Emilia, 1861-1940, Bari, Laterza, 1995; M. Bianchini, 1mprese e imprenditori a Reggio Emilia 1861-1940, Laterza, Bari, 1995; G.Sapelli-S. Bertini-A. Canovi-A. Sezzi, Terra di imprese. Lo sviluppo industriale di Reggio Emilia dal dopoguerra a oggi, Parma, Pratiche, 1995; A. Canovi-A. Sezzi, Artigiani associati. 50 anni di CNA a Reggio Emilia, Reggio Emilia, Tecnograf, 1996. Un pacchetto di studi, in particolare gli ultimi due, utile per collocare la vocazione imprenditoriale - e il ruolo fondamentale delle associazioni di rappresentanza - nel contesto sociale e culturale più ampio. Sulla esemplarità del caso reggiano si vedano anche i riferimenti contenuti in Florence Vidal, Histoire industrielle de l'ltalie. De 1860 à nos jours, Seli Aslan 1998. Qual è il quadro che viene delineato da questi contributi? Su quali risorse sociali, politiche, culturali può disporre l'Emilia a pochi anni dalla fine del secolo e del millennio? Che tipo di prospettive cela il futuro della nostra regione? Intanto, certamente, c'è il comune riconoscimento della peculiarità e della originalità dell' esperienza emiliana, caratterizzata da una integrazione tra le componenti sociali, economiche e istituzionali che trova pochi riscontri nella storia del nostro Paese. A questo si aggiunge una serie di punti di forza "antropologici" - la capacità di innovare nella tradizione, una forte etica del lavoro, la propensione al cooperare, l'apertura e la vivacità culturale e imprenditoriale. 87 Vi è dunque un patrimonio importante, un capitale soprattutto sociale su cui l'Emilia è in grado di contare e che costituisce un elemento solido per il suo futuro. In questo senso, l'avvio seppure incerto di una riforma dello Stato in senso federalista - con i relativi processi di delega e di trasferimento di competenze e di risorse rappresenta un'occasione importante per un sistema di gestione della cosa pubblica e un welfare locale che nel panorama nazionale si sono storicamente dimostrati tra i più affidabili. Ma accanto a ciò, sono diversi i rischi che si profilano. Primo di tutti, quello di autocelebrazione e di sopravvalutazione della capacità di tenuta e di autoregolazione del sistema. A questo si aggiungono una serie di criticità rispetto alla competitività sociale ed economica della regione e che riguardano le infrastrutture, i bassissimi tassi di natalità, la crescita della frammentazione, un incremento dei fenomeni di illegalità, una fatica istituzionale ad adeguarsi ai mutamenti in corso. Negli ultimi tempi alcuni autorevoli sociologi hanno decretato una sorta di de profundis del modello emiliano. Al di là della perplessità che suscitano approcci così liquidatori - tanto nel bene che nel male - di fenomeni articolati e profondi, è senz'altro vero invece che il sistema affronta oggi un passaggio assai difficile, che prefigura scenari non scontati e che richiede di conseguenza strumenti teorici e pratici altrettanto non scontati. Da un lato vi è una rapidità nelle trasformazioni e una complessità generale che a Reggio-Modena-Bologna - così come in Baviera o in Catalogna - impone di mettere in discussione e ridefinire assetti, equilibri, risposte. In questo senso la condizione della nostra regione non è diversa da quella delle aree più sviluppate dell'Europa: il problema è l'efficacia e la velocità con cui l'Emilia si attrezzerà e saprà rispondere alle sfide contemporanee. Ed anche il grado di consapevolezza di quanto pervasive esse siano, e di come nessuna articolazione del privato e del pubblico potrà sottrarsi al mutamento. Dall'altro - e qui forse sta il punto - la crisi più profonda colpisce la politica e in particolare i partiti che in Emilia - così come in altre regioni - hanno svolto un ruolo di mediazione e integrazione decisivo. È il caso specifico, per la realtà emiliana, del PCI, la cui natura interclassista - e "riformi sta" - ha consentito di comprendere e dare 88 voce al proprio interno a istanze, posizioni, interessi a volte differenti e di ricomporli in una sorta di sintesi che le istituzioni avevano poi il compito di rendere pratica sociale. Oggi a una maggiore frammentazione della rappresentanza corrisponde anche una minore capacità di consenso delle istituzioni, così che il processo di progressivo sganciamento tra istituzioni e politica riserva sempre di più alle prime un ruolo di governo e di gestione della cosa pubblica fondato però su una legittimazione e, ripeto, un consenso di natura assai differente, per quantità e per qualità. Non è - ovviamente un giudizio di valore, è un fatto: gli interessi si moltiplicano, la rappresentanza si complica e le sedi di composizione diminuiscono e arrancano, la progettualità si riduce per respiro e orizzonte temporale, le risposte "pubbliche" inseguono - e non più anticipano i bisogni sociali della comunità. A fronte di queste difficoltà gli altri due soggetti fondamentali sembrano dimostrare una superiore capacità di adeguamento: da un lato, le imprese, anche per mezzo di profondi processi di riorganizzazione, alla competizione internazionale; dall'altro, la cosiddetta società civile - attraverso nuove forme di volontariato e di associazionismo - alla crisi della politica e ai rischi di disimpegno. Si pone dunque oggi la necessità di innescare nuovamente il circolo economia-società-istituzioni, la cui virtuosità - e fluidità - si è incrinata. Il terreno della concertazione, naturalmente nel rispetto e nell'autonomia di ruoli e di responsabilità, sembra di particolare rilevanza per incrementare i processi di partecipazione e di legittimazione sociale delle grandi decisioni ed elevare il livello di coesione generale. Una linea di azione che il sistema regionale dovrà saper sviluppare tenendo conto delle strette relazioni che corrono tra i processi di globalizzazione e le economie e le politiche locali e che caratterizzano oggi la concorrenza tra aree. Ciò richiama in causa una caratteristica tipica dell' esperienza emiliana: il mantenimento del profondo radicamento nel territorio e al tempo stesso tassi di apertura e di innovazione competitivi. Rispetto al primo aspetto, l'identità, il senso di appartenenza e dunque il ruolo della memoria (storica) diventano fattori competitivi importanti, quasi quanto la qualificazione, la formazione, il proficuo scambio tra sedi del sapere e della ricerca e sistema produttivo e sociale per il secondo. 89 Il passaggio che deve attraversare l'Emilia per mantenere nel terzo millennio un ruolo di primo piano è certamente stretto ma non insuperabile. Di sicuro non contribuiranno a un positivo risultato finale atteggiamenti nostalgici che rimpiangano situazioni e protagonisti non più riproponibili o ipotesi fondate su un radicale azzeramento di un'esperienza che invece conserva nel proprio patrimonio genetico risorse e conoscenze che si potranno rivelare ancora molto utili e opportune. 90 Antonio Canovi, Roteglia, Paris. L'esperienza migrante di Gina Pifferi, RS Europa Libri, 1999 La straordinaria avventura esistenziale e politica di Gina Pifferi (1907 -1994), indomita ed inquieta figura di combattente antifascista in Italia ed in Francia, testimone attiva in veste di "migrante" delle correnti più vive e più profonde della fragile democrazia europea, in un secolo drammatico quanti altri mai, può oggi essere meglio conosciuta e meditata grazie ad un prezioso e puntuale lavoro critico di Antonio Canovi, appena pubblicato. (L'esperienza migrante di Gina Pifferi, R.S. Europa - Libri) LORENZO CAPITANI Si tratta di una ricostruzione affettuosa ed emozionante di una vicenda personale che, dalle prime giovanili simpatie socialiste in una Emilia "percorsa da una feroce lotta di classe" alle più meditate scelte nella pratica clandestina tra gli anni venti e trenta, dal rinnovato impegno nella lotta partigiana dopo il forzato esilio in Francia all'azione costante e intelligente nel variegato mondo dell'emigrazione italiana in tutto il dopoguerra, si presenta con i connotati specifici del grande affresco storico. Non sembri una esagerazione. Del resto chi ha avuto il piacere e l'onore di parlare con la Gina nella casa di Roteglia o sui tetti di Parigi, in me St. Laurent, anche negli ultimi anni, quando la sua curiosità intellettuale si arricchiva di nuovi e continui stimoli, non poteva sfuggire ad una strana sensazione, insinuante e confortante, quella cioè di entrare in contatto diretto con la storia, quella vera, che ci attraversa nel profondo. Testimonianze mai scontate, documenti che parlano da soli, immagini di un mondo che dobbiamo imparare a riconoscere e compren91 dere senza pregiudizi o veline interessate, contribuiscono a creare un quadro vivo, che va ben al di là di un semplice lavoro biografico, marcando una metodologia di ricerca peraltro non consueta nel nostro Paese. Del resto così Antonio Canovi si esprime, presentando la propria opera. "Abbiamo qui la fortuna di incontrare la soggettività comunista, e il primo obiettivo storiografico sarà di renderla a noi prossima per comprendere e non giudicare, nonostante e oltre la desolazione burocratica e concentrazionaria cresciuta all' ombra del blocco sovietico - ragioni e sentimenti di quella storia antifascista che ha impregnato l'aria dell'Europa quale noi, oggi, la respiriamo." In un percorso esistenziale, così lungo e travagliato, come quello di Gina Pifferi, nei suoi momenti di slancio etico e politico, come in quelli del ripiegamento e dello sconforto, molto si può leggere e molto si può scoprire. Ancora oggi, anche se il suo malinconico sorriso di appassionata ottantenne non conforta più i nostri ripensamenti e le nostre scorrerie nei mali di un secolo che non vuole finire. 92 ANTONIO CANOVI, Cavriago ad Argenteuil. Migrazioni Comunità Memorie, Comune di Cavriago, RS Europa-Libri, 1999 Quando quelli della mia età erano ancora piuttosto giovani - anni Cinquanta spiranti - si andava a fare il bagno, d'estate, nell'Enza a Montecchio. Tra luglio e agosto diverse auto arrivavano fin sul greto. Erano Citroén, o Renault, e avevano nella targa il numero 75. Il soixantequinze che ci parlava di Parigi. Una Parigi ancora capitale mondiale della cultura, ancora fucina dei Landemains qui chantent. Erano quasi sempre auto di cavriaghini emigrati nella capitale di una Francia per molti di noi mitica. Magari cavriaghini di seconda o terza generazione, talvolta con moglie francese. Accostavamo così il mito parigino di Cavriago. Brandelli di storie di migrazioni spesso a carattere politico. Storie di muratori, braccianti, falegnami che erano dovuti espatriare per sottrarsi alla violenza squadrista del fascismo nascente. Gente che aveva continuato in Francia la propria militanza rossa, talvolta con passaggi in Spagna per combattere nelle file delle Brigate internazionali. Come Fortunato Belloni, caduto a Huesca nel 1937. Gente anche intraprendente, che nella grande Parigi aveva realizzato un soddisfacente inserimento come ménusier (falegname genercio), ébéniste (costruttore di mobili), conduttore di un esercizio commerciale, ecc. ANTONIO ZAMBONELLI Si dava quasi per scontato che ogni cavriaghino fosse mezzo parigino, o avesse comunque forti legami parentali con qualcuno che viveva in Francia. E che a Cavriago, oltre allo svelto dialetto locale, fosse di casa anche l'idioma di Montaigne, magari declinato con la pronuncia e la splendente retorica degli oratori del Front popu del 1936 ... In quel mito ha messo le mani Antonio Canovi con questo suo lavoro, frugando archivi in Francia e in Italia, facendo parlare 93 cavriaghini di qua e di Argenteuil e dintorni. Quella Argenteuil che nelle narrazioni di tanti emigrati pare avesse avuto il nuovo nome di Cveriègh. Cavriago appunto, in forza della folta comunità cavriaghina che in quel comune banlieusard si è insediata da inizio secolo e che è stata arricchita da nuove ondate migratorie negli anni Venti e Trenta e nell'immeidtao secondo dopoguerra. Ora Canovi, dopo essersi anche ripetutamente aggirato per i luoghi di arrivo e di partenza di quelle migrazioni, (anche i toponimi ne risultano caricati di un particolare alone: Les peupliers, Mazagran, Les Coteaux... ) scovandone o carpendone atmosfere ed immagini, ci offre un lavoro invero assai originale per impianto metodo logico e per criteri espositivi. Prendendo le distanze sia dal folclore che dall'oleografia antifascista, Canovi affronta la corposa e complessa materia con una robusta attrezzatura critica di cui rende conto in appositi capitoli, fitti di citazioni e caratterizzati da un intenso dialogare con decine di Autori (molti quelli francesi) che hanno affrontato sul piano teorico il tema migrazioni / luoghi / identità. Vi alterna altri capitoli dedicati a brani di storie di vita (interviste fatte sia a Cavriago che ad Argenteuil) e a reperti documentari (da archivi sia francesi che italiani). Ci viene così vivamente rappresentata, con un libro che è praticamente fatto di tre libri fra loro intersecati, una tradizione migratoria che già a fine Ottocento si dirigeva verso vari paesi del mondo e che si concentra poi su Argenteuil. La filiera Cavriago - Argenteuil verrà percorsa, sia in andata che in ritorno, da centinaia di cavriaghesi, a ondate successive (anni Venti, anni Trenta, immediato secondo dopoguerra) fino a consolidare in quel comune della banlieue parigina un "fuoco comunitario" dai marcati caratteri originari antifascisti e "rossi". L'ottimo risultato del lavoro di Canovi gode peraltro della prestigiosa certificazione di Maurice Aymard, Directeur d'Etudes presso la E.H.E.S.S. di Parigi, il quale scrive nella prefazione che "il libro di Antonio Canovi non avrà soltanto un significato locale - ciò che è già molto - ma anche un significato generale. Cavriago ad Argenteuil aiuta a capirci meglio, e a capire meglio chi e dove siamo". 94 Alfredo -Gianolio, Sant'Ilario d'Enza dall'Unità d'Italia alla liberazione, Comune di Sanf Ilario d'Enza, 1999 .. La storiografia locale reggiana nel secondo dopoguerra ha con- GIANNETTO MAGNANINI sentito alla grande maggioranza dei 45 Comuni della Provincia di avere il proprio libro di storia. Molti di questi libri si limitano al periodo che va tra la fine della prima guerra mondiale e la fine della RS ringrazia l'ANPI per la gentile autorizzazione a pubblicare questo saggio, apparso sul "Notiziario ANPI", n. 4 aprile-maggio 1999. seconda guerra mondiale, cioè tra il 1918 e il 1946. Altri abbracciano il periodo dall'unità d'Italia al secondo dopoguerra. Solo alcuni comuni come Albinea, Bibbiano, Brescello, Gualtieri, Correggio, Novellara, hanno pubblicazioni che racchiudono in un unico volume cenni di storia dalle origini sino ai primi decenni del novecento. Dal Comune sulla via Emilia che è a metà strada tra Reggio e Parma, Lina Violi ci ha offerto nel 1996 un bel libro sulla storia e la cronaca di Sant'Ilario d'Enza dal Medio Evo all'unità d'Italia. Ora, con l'ultima fatica di Alfredo Gianolio è uscito un nuovo libro: Sant'Ilario d'Enza dall'unità d'Italia alla liberazione. Il libro di Gianolio, edito dall' Amministrazione Comunale e con il contributo della Cooperbanca, è di stimolante lettura perché unisce notizie e analisi rigorose con pezzi e brani di cronaca minuta spesso divertente e che favoriscono la comprensione dei vari passaggi storici. Il libro descrive il periodo della Costituzione del nuovo Comune, del primo Novecento con programmi delle idee socialiste e la conquista del Comune da parte dei socialisti stessi, gli anni della prima guerra mondiale, i difficili momenti del biennio rosso, la scalata al potere del fascismo e il ventennio della sua dittatura, per concludersi con la larga partecipazione popolare alla resistenza e alla liberazione. 95 La parte più avvincente ci sembra quella dedicata al sorgere e all'imporsi del movimento socialista. Si rappresentano le immagini della società nelle campagne quando ben 32 processi giudicarono 520 braccianti analfabeti e nullatenenti. Esce uno spaccato chiaro dei rapporti sociali e di classe: da un lato "turbe di braccianti e straccioni affamati vocianti e minacciosi per le vie dei paese che chiedono e impongono lavori utili come la costruzione di una strada" dall'altro lato il potere degli Spalletti "che passano ricchi e ammirati su vetture a cavallo". Dalle vicende di allora con gli integralismi ideologici, come la lotta per l'asilo, la scuola materna, l'insegnamento pubblico che diventa il fiore all'occhiello per i socialisti, ma anche con gli eccessi anticlericali al punto che vi è chi prenota lo spazio dei propri resti con la scritta "ateo qui volle". Da tante noterelle di colore ai fatti documentati esce la storia di un paese, il trasformarsi di una popolazione contadina e arretrata allo sviluppo di idee di emancipazione che riserveranno a Sant'Ilario un posto di primo piano per lo sviluppo economico, con forze giovanili che supereranno l'estremismo radicale del vecchio socialismo e le chiusure di un clericalismo bacchettone, come pure gli impeti internazionalisti dei socialisti di Calerno che inneggiano al moto rivoluzionario di Bèla Kun, in Ungheria, per giungere ad una concezione e dimensione moderna e riformatrice della società. Circa gli aspetti dedicati alla resistenza e alla guerra di liberazione esce una considerazione che richiede ulteriore approfondimenti. Nella storiografia del movimento partigiano della provincia di Reggio mi pare resti in ombra il ruolo che ha avuto Sant'Ilario. Il movimento comunista e partigiano che si è sviluppato a Sant'Ilario ha avuto profondi collegamenti con Parma, forse ancor più rispetto i legami .avuti con Reggio. Le diverse pubblicazioni che riguardano Sant'Ilario (Le memorie di Mauthausen di Piero lotti, Sono dov'è il mio corpo, a cura di Tullio Masoni, con il largo successo avuto sul piano Nazionale, le pubblicazioni curate dal Comune di Sant'Ilario in occasione del 30° e del 50° della liberazione e la pubblicistica nel resto della provincia) richiedono una riflessione anche comparata per avere una visione più organica di tutto il movimento partigiano nella provincia reggiana e i suoi collegamenti con la provincia di Parma e del ruolo di Sant'Ilario in questo contesto. 96 Al punto in cui è giunta la pubblicistica nella maggioranza dei comuni esce 1'esigenza di approfondimenti più specifici. Se un comune come Sant'Ilario nato solo nel 1860 con il distacco da Montecchio può offrire una conoscenza storica locale dal Medio Evo all'unità d'Italia, sino al sorgere della Repubblica, ora si richiedono studi più particolari quali gli aspetti economici e sociali, il formarsi e trasformarsi delle classi sociali (dalla nobiltà alla borghesia alla prima accumulazione capitalistica, ai passaggi della proprietà terriera, alle varie categorie sociali che si modificano nei centri urbani e nelle campagne) per spingerci alle rapide modificazioni che lo sviluppo produttivo di mercato e le scoperte scientifiche e tecnologiche portano a rapidi mutamenti. Tutto ciò può aiutare a capire i problemi di oggi. Anche quest'ultimo libro di Alfredo Gianolio è di stimolo a studi più penetranti e che affrontino anche il periodo dei primi anni della repubblica, e degli anni del miracolo economico e di attuazione della Costituzione. 97 a cura della redazione Pubblicazioni di storia contemporanea relative alla provincia di Reggio Emilia ISTORECO, Sentieri partigiani, Reggio Emilia, Isloreco, 1998. Una guida di dodici itinerari attraverso l'area del medio e alto Appennino reggiano nei luoghi che seppero accogliere i "Volontari della libertà" dall'autunno 1943 alla primavera 1945. Il lavoro, rientrante nell'ambito di un programma di promozione turistica finanziato dalla Provincia, consente di rivisitare con il costante supporto di riferimenti bibliografici della letteratura partigiana vicende e protagonisti della guerra di Liberazione. Comune di Poviglio, L'invenzione della nazione. I monumenti civili nel territorio di Poviglio, Reggio Emilia, 1998. Una carta topografica che, attraverso i monumenti, i cippi, le lapidi e la topo no mastica del territorio di Poviglio, raccoglie le fila della costruzione dell'identità pubblica nell'Italia unita. Riconoscendo nel monumento e nella toponomastica una fonte preziosa per cogliere lo "spirito del tempo", la mappa rappresenta uno strumento originale per la conoscenza del processo storico di "nazionalizzazione" della società italiana, e povigliese in particolare. 98 )