e l`insegnamento della storia

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e l`insegnamento della storia
RS
RICERCHE STORICHE
Anno XXXII
N. 86 - Dicembre 1998
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Ettore Borgh i
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Reggio Emilia n. 220 in data 18 marzo 1967
In copertina: Solagna anni '20
[Voltai re] è il primo che non vede nelle battaglie e nelle grandi catastrofi,
negli intrighi politici di corte e di assemblee la realtà storica esclusiva.
Si fece carico del fatto che nessuno di questi aspetti è la vita umana.
Questa è di più di quelli, è anteriore ad essi, è il contrario: è il quotidiano.
J. Ortega y Gasset (1933)
7
9
Ettore Borghi
Editoriale
Marco Minardi
13
Nota introduttiva
Un luogo della memoria: la "Coop"
Conversazioni
a cura di Antonio Canovi
Antifascismo e contemporaneità.
Intervista a Enzo Traverso
Saggi
19
Marco Minardi
Tutti per uno e uno per tutti.
La Cooperativa Agricola di Santa Vittoria
attraverso il racconto di due suoi dirigenti
31
Antonio Canovi
Sologno: per una topologia della formazione
malaguzziana
53
Crocevia
Giampaolo Calchi Novati
63
Curdi e questione curda: un popolo,
tanti Stati nessuno Stato
Didattica
Cesare Grazioli
"Il documento dei Saggi"
e l'insegnamento della storia
Recensioni
73
Ettore Borghi
Giannetto Magnanini, Il 1948 a Reggio Emilia
77
Antonio Zambonelli
AA.VV., 1948-1998. Il 50° della Festa
dell' Unità a Bibbiano
81
Marco Fincardi
La società emiliana improntata dalle
passate emigrazioni
85
Azio Sezzi
L'Emilia tra caso, modello e stereotipo
91
Lorenzo Capitani
Antonio Canovi, Roteglia, Paris. L'esperienza
migrante di Gina Pifferi, RS Europa - Libri
93
Antonio Zambonelli
Cavriago ad Argenteuil. Migrazioni Comunità
Memorie, Comune di Cavriago, RS Europa-Libri
95
Giannetto Magnanini
Alfredo Gianolio, Sant'Ilario d'Enza.
Dall'Unità d'ltalia alla Liberazione,
Comune di Sant'Ilario d'Enza
98
a cura della redazione
Pubblicazioni di storia contemporanea
relative alla provincia di Reggio Emilia
Una. premessa per il futuro
Esce con grave ritardo l'ultimo numero del 1998, ed è obbligo
scusarsene con i lettori. Ma ancor più doveroso è non tenerli all'oscuro di un'ombra che minaccia l'esistenza stessa della rivista.
Senza voler anticipare decisioni che spettano agli organi statutari
dell'Istituto, è bene si sappia che il 1999 non sarà un anno qualsiasi
per RS. Forse sarà un "anno sabbatico", per usare un'espressione
consolatoria, in realtà un anno di assenza. Si dovrà poi, nel caso
migliore, prendere in esame la periodicità della pubblicazione ed il
costo unitario e complessivo. Le ragioni, niente affatto misteriose,
stanno nel fatto che la rivista non possiede entrate proprie che ne
coprano i costi, e pertanto deve gravare sulle spese generali di
Istoreco, quindi competere con le necessità di funzionamento elementare dell'Istituto stesso, oggi non abbastanza garantite. Come si
sa, nel corso degli anni l'attività di Istoreco si è ingigantita, sia sul
piano della ricerca, sia su quello dei servizi. La redazione di RS
si lusinga che la rivista faccia parte di entrambi gli ambiti e, nei
suoi limiti, rispecchi con fedeltà l'opera dell'Istituto. Ma, appunto,
essa non è più, se mai lo è stata, la forma per eccellenza di proiezione
esterna, né il concentrato massimo del lavoro di Istoreco. Di ciò
bisognerà tener conto se si imporranno scelte dolorose. Il punto
fondamentale, detto semplicemente, è che, mentre dall'associazionismo sono sempre giunte attestazioni di riconoscimento ed atti
concreti di generoso sostegno, non altrettanto pronta sensibilità si
è dimostrata dalla parte, in senso lato, istituzionale. Non è nostro
compito andare oltre sul piano della polemica. È però amaro anche
solo pensare che la sopravvivenza operativa di un vitalissimo Istituto
possa in futuro esigere il sacrificio della più che trentennale fedeltà
che la nostra rivista, esempio rarissimo, può vantare.
ETTORE BORGHI
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Un luogo della memona:
la "Coop"
Qualche tempo fa, in un comune della bassa reggiana, nell'ambito
di un laboratorio didattico sulla trasformazione del paesaggio agrario
e la rappresentazione del territorio tra il XVI e XVIII secolo, agli
scolari coinvolti nell'iniziativa didattica chiesi di rappresentare,
liberamente, attraverso un disegno, il paesaggio in cui abitavano.
Trattandosi di un piccolo centro gran parte delle mappe riportavano
i luoghi più significativi della località, che poi sono quelli tipici dei
paesi di campagna. In alcune, con nostro grande stupore, oltre alla
chiesa, il Municipio, la scuola e la mia casa, era segnata la "Coop".
Subito accolta con divertimento da parte dei compagni di classe e
dall'insegnante e dal sottoscritto, la cosa venne tralasciata e il
laboratorio didattico proseguì lungo le linee previste dal programma.
MARCO MINARDI
Riflettendo con più calma su quel segno lasciato su quei tre
disegni, che potevano rappresentare una sorta di mappa mentale del
proprio ambiente fisico, mi venne da pensare come in fondo per
quei bambini la cooperativa di consumo rappresentasse un punto
significativo del paesaggio quotidiano e come questo venisse considerato parte integrante della rappresentazione del proprio paese e
quindi della propria quotidianità.
Non era una novità. Quante volte nel raccogliere la testimonianza
di partigiani, braccianti, donne, amministratori locali, militari, artisti,
ci si imbatte nella "cooperativa di consumo"? Quante volte, senza
che sia il tema dell'intervista, chi racconta pone al centro della sua
storia la cooperativa di lavoro o di consumo, senza per altro considerarla rilevante nell'economia del suo racconto. C'era e basta.
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Uno scherzo della memoria oppure una presenza ormai acquisita,
quasi scontata, come il Municipio? È indubbio che la seconda ipotesi
sia a mio parere più convincente. La "cooperativa", di consumo o
di lavoro che sia, rientra pienamente nella storia, nella vita e nel
paesaggio dell'Emilia, e non solo. Un elemento che scaturisce dalle
vicende storiche del nostro secolo e si intreccia indissolubilmente
con la storia del Novecento in Emilia, determinato dalla volontà di
riscatto dalla miseria e dall'indigenza delle masse popolari ma anche
dal forte vincolo che legava le persone al proprio comunità.
Solagna anni '50
lO
Solagna anni '50
Anifascismo
e Contemporaneità.
Intervista a Enzo Traverso
D. Sul revisionismo. Come spiega la reale difficoltà della storigrafia antifascista a configurarsi criticamente con la propria esperienza? Infatti, almeno in Italia, sull'antifascismo procedono prevalentemente discorsi e analisi di decostruzione (quando non di rigetto
tout court).
Traverso. Le difficoltà della storiografia antifascista sono legate,
mi sembra, a un contesto politico-culturale europeo in cui, da una
decina d'anni a questa parte (grosso modo dalla caduta del muro
di Berlino) tutta la tradizione comunista, alla quale la storiografia
antifascista era strettamente collegata, viena messa pesantemente
sotto accusa. Ma non si tratta soltanto dei contraccolpi di un mutato
clima politico. In questa nuova situazione, tutti i limiti intrinseci della
storiografia antifascista sono emersi in modo molto netto, non solo
nei paesi dell' ex blocco sovietico, dove l'antifascismo era ridotto a
ideologia di Stato, ma anche nei paesi occidentali, e soprattutto in
Italia in cui è stato egemone sul piano culturale per lunghi decenni.
Il suo limite fondamentale? Aver instaurato e reso permanente un
approccio pedagogico, esemplare, edificante, che all'origine aveva
fatto la sua forza e che nessuno osava contestare, un approccio che
consisteva, più che nello scrivere la storia, nel limitarsi ad affermare
alcuni valori civili, morali e politici. Ciò ha spesso reso l'antifascismo
incapace di procedere a una rilettura critica del proprio percorso. Con
l'emergere di una nuova generazione che non ha vissuto l'esperienza
della guerra, questo approccio si è dimostrato drammaticamente insufficente. Le storie della Resistenza alla Roberto Battaglia, che si
a cura di
ANTONIO CANOVI
ENZO TRAVERSO
Insegna Scienze Politiche della università
della Picardie, ad Amiens, e tiene seminari
all'E.M.F.S.S. a Parigi. Tra le sue opere:
L'Histoire déchirée. Essai sur Auschwitz et
les intellectuels, Les Éditions du Cerf, Paris,
1997; in lingua italiana Gli ebrei e la Germania Auschwitz e la "simbiosi ebraicotedesca'; Il Mulino, Bologna, 1994.
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riducevano a una galleria di nefandezze dei fascisti e di atti eroici
dei partigiani convincono sempre meno, non perché siano false, ma
perché gli uni e gli altri vanno spiegati, analizzati nella loro genesi,
nei loro sviluppi, nelle motivazioni degli attori, e non soltanto condannati o celebrati. Non sono però così pessimista da aderire completamente alla valutazione implicita nella sua domanda: un libro
come Una guerra civile di Claudio Pavone, che ha rinnovato completamente la storiografia italiana della guerra e della Resistenza,
è un' opera che si situa incontestabilmente nel solco dell' antifascismo
(come l'autore indica fin dal sottotitolo). Non vedo l'equivalente,
per il momento, in altri paesi.
D. Lei tiene fortemente al suo percorso di intellettuale "engagé".
Mi viene da chiederle, con Gramsci: oggi a chi o che cosa si ritiene
e vorrebbe essere "organico"?
Traverso. Penso, con Edward Said, che tutti quelli che trattano
con sarcasmo (e con un sottile disprezzo) gli intellettuali "impegnati"
dimostrano soltanto la loro cinica indifferenza di fronte a un mondo
che dovrebbe suscitare l'indignazione di chiunque possieda ancora
un briciolo di umanità. Rivendico quindi il mio engagement come
un dovere, ma non lo vivo come una missione né lo esibisco come
una posa. Detto altrimenti, non ho mai pensato di proporrni come
modello e da molto tempo ho smesso di credermi parte di una
"avanguardia" capace di illuminare le masse.
Quanto a Gramsci, la sua teoria dell'intellettuale organico mi
convince sempre di meno. In un senso strettamente sociologico, la
dicotomia intellettuale tradizionale/organico non mi sembra superata.
Sono pur sempre degli intellettuali coloro che elaborano e difendono
la visione del mondo delle classi dominanti (il neoliberalismo non
è solo una prassi dei potenti ma una corrente di pensiero), siano
essi "interpreti", come vuole Zygmunt Bauman, o intellettuali "specifici", secondo Foucault. Quel che non mi convince più nel Gramsci
dei Quaderni - tutta l'esperienza storica del comunismo mi sembra
confermarlo in modo lampante - è la sua visione dell'intellettuale
"organico" come componente del "moderno Principe", ossia come
funzionario ideologico del partito. Non dico che l'intellettuale non
debba per principio aderire a un partito o a un movimento, ma
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l'esperienza indica che l'intellettuale di partito è l'antitesi dell'intellettuale autentico, la cui funzione principale, quella di essere
critico, esige libertà e indipendenza assolute.
D. Sembra prevalere la tendenza a leggere il 'novecento come
secolo dei totalitarismi, e allo storico pare quasi non restare altro
del computo degli stermini. Il suo lavoro su Auschwitz mi pare che
cerchi di sfuggire a questa lettura, riproponendo una serie di questioni
epistemologiche, quindi il valore delle "idee" insieme ai "fatti".
Traverso. Il Novecento è il secolo dei totalitarismi, ma gli stermini
che lo hanno costellato non possono essere attribuiti soltanto a Hitler,
a Stalin e ai loro emuli. La Prima Guerra mondiale e il genocidio
degli armeni, il primo del XX secolo, precedono i dittatori di cui sopra;
la bomba atomica su Hiroshima è opera della potenza democratica
che ha sconfitto il nazismo, e gli esempi si potrebbero moltiplicare.
In altri termini, le violenze e la barbarie del Novecento - Auschwitz
ne è il paradigma - non mettono in causa soltanto i totalitarismi,
ma più in generale la modernità, di cui essi non sono la negazione
ma soltanto una variante possibile.
D. Praticando la storia del tempo presente, mi preoccupo del
modo in cui interrogare le memorie, per rendermi prossimo alla
contemporaneità. D'altronde, allo storico si richiede di mantenere
una "distanza" dal proprio oggetto di studio. Il dibattito è certo
apertissimo, non saremo noi a chiuderlo dal punto di vista metodologico, ma a lei domando: in che relazione epistemologica pone
storia e memoria?
Traverso. Storia e memoria sono due sfere distinte che interferiscono continuamente fra loro. Gli attori della storia portano con
sé ricordi, esperienze, conoscenze acquisite, insegnamenti che forgiano la loro coscienza e influiscono sulle loro azioni. In questo senso,
la memoria non è solo archiviazione del passato ma un fattore attivo
nel presente, nello "svolgimento" della storia. Poi la memoria, quella
individuale come quella collettiva, non è un museo ordinato e
immobile, ma un cantiere, un universo di fatti, immagini, sensazioni
in continua trasformazione. La visione del passato si modifica col
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tempo e col filtro (sociale, culturale) del presente. Tutti gli storici
che hanno fatto ricorso alle "fonti orali" lo hanno verificato. La
memoria si è ormai tagliata uno spazio legittimo e importante in
seno alla ricerce storica, e questo è bene. lo difendo la causa di
un dialogo tra storia e memoria, tenendole però distinte, senza cioè
pretendere un impossibile superamento della loro dicotomia, e senza
neppure voler stabilire priorità epistemologiche. Farò un esempio
a proposito di un tema che conosco un po' meglio di altri: la storia
del genocidio degli ebrei. Raul Hilberg l'ha ricostruita magistralmente basandosi esclusivamente sulle fonti tradizionali dello storico:
gli archivi e la documentazione scritta, opponendo un secco rifiuto
metodologico all'uso delle testimonianze dei protagonisti. Claude
Lanzmann ha cercato, all'opposto, di raccontare la Shoah attraverso
la voce di chi l'ha vissuta. Molto si potrebbe dire ed è stato detto
sia sull' opera di Hilberg che sul film di Lanzmann; io credo che
per cercare di capire Auschwitz siano entrambi indispensabili.
Penso infine, con Saul FriedHinder, che lo storico del tempo
presente non possa evitare une parte di transfert nel suo rapporto
col passato che ha deciso di studiare; che sia inevitabilmente preso
in una trama di influenze legate alle sue origini, alla sua formazione
culturale, alla sua generazione, alle sue esperienze, ecc. Sarebbe
perfettamente inutile e illusorio voler rimuovere questa dimensione
soggettiva che ciascuno di noi porta con sé; è meglio esserne
coscienti e "assumerla" cercando di stabilire nei suoi confronti la
necessaria distanza critica. Non credo sia facile, ma non vedo altra
via, a meno di ricadere nel mito positivista dell'assoluta neutralità
assiologica delle scienze sociali.
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Roma, 3' Conferenza Nazionale del P.C.I.
per la Scuola, 15-17 febbraio 1980
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Tutti per uno e uno per tutti.
La Cooperativa Agricola di
Santa Vittoria attraverso il
racconto di due suoi dirigenti
Raccontare la propria esperienza lavorativa diventa, per un diri-
MARCO MINARDI
gente cooperatore, un modo per raccontare di sé, delle proprie
passioni politiche e del ruolo del movimento cooperativo nell'emancipazione materiale e culturale dei ceti sociali più deboli. Una
autorappresentazione che ribadisce il ruolo chiave che il racconto
soggettivo e la memoria svolgono nel grande e complesso racconto
della storia degli emiliani nel Novecento.
lo non ho studiato ma mi sono formato sulla memoria, sulla pratica. Proprio perché io il movimento cooperativo l'ho vissuto nel lavoro, con gli
anziani della cooperativa che parlavano a noi più giovani del movimento.
Così inizia il suo racconto Ferruccio Daolio, che ha trascorso gran
parte della sua vita nella Cooperativa Agricola di Santa Vittoria.
In questa frazione -prosegue Daolio- a partire dal 1890 hanno cominciato
a parlare dei movimenti cooperativi e nel 1896 hanno avviato la cooperativa di consumo. Perché per prima la cooperativa di consumo? Perché alla
gente andava male e dovevano mangiare e non avevano la possibilità di
pagare. Alla cooperativa di consumo si andava a fare la spesa con illibretto e marcavano, e quando avevano i soldi pagavano. E quindi la cooperativa diede un grande contributo alla frazione. È dalla Cooperativa di consumo che è nata la Cooperativa braccianti agricola. Prima solo braccianti,
poi nel 1911 è diventata Cooperativa braccianti agricoli ... 1
1 Testimonianza orale di Ferruccio Daolio,
1998.
La storia delle cooperative di Santa Vittoria è la storia di un
villaggio, di una comunità che trasferisce le proprie difficoltà, le
proprie speranze, il proprio impegno nella sfida e nel progetto
19
2 Marco Fincardi, Vergnanini e il villaggio,
in "L'Almanacco" Rassegna di studi storici
e di ricerche sulla società contemporanea,
a. VI, n.11, Reggio Emilia 1987.
rappresentato dal modello cooperativo che si andò affermando nelle
campagne emiliane sul finire del XIX secolo, grazie all'insegnamento di Antonio Vergnanini. La cooperazione integrale che nel
reggiano raggiunge risultati eccellenti e che rappresentò un modello
per il movimento cooperativa nazionale. Soprattutto nella fase che
precedette il fascismo, come ricorda Marco Fincardi, quando fiorì
una "matura esperienza collettivistica che aveva voluto legare la
comunità povera alla sua terra'',2
Angiolino Ponti, presidente della Cooperativa Agricola nel secondo dopoguerra, ricorda come
la cooperativa a Santa Vittoria era in pratica l'econoIIÙa del paese. Distribuiva 1'occupazione a tutti i braccianti, svolgeva la funzione di collocamento, mentre la cooperativa dei braccianti faceva i lavori industriali di bonifica.
Anche per Angiolino alla base dello sviluppo della cooperativa,
era la pratica e l'esperienza.
3 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998.
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È stata l'esperienza pratica, vissuta di queste gestioni che ha convinto i
cooperatori di Santa Vittoria ad accettare la logica del riforIIÙsmo. Avevano capito che piuttosto di pensare ad obbiettivi lontani, bisognava pensare a quelli di tutti i giorni, di vivere quello che si poteva: restavano
convinti che nell'unione c'era la forza, la distribuzione della IIÙseria costituiva comunque la meno peggio. È stata la differenza tra Santa Vittoria
e Gualtieri che ha finito per creare una divisione anche tra i socialisti,
prima ancora che tra i comunisti, perché là c'erano gli estreIIÙsti e qua a
Santa Vittoria i riforIIÙsti. Gli estreIIÙsti, socialisti prima e comunisti poi,
erano quelli che volevano la lotta di classe a tutti i costi. Ancora prima
del fascismo, nel 1910, i socialisti perdono il Comune proprio perché i
riforIIÙsti non riescono a fare l'accordo con questi. Da sempre Santa Vittoria non è andata d'accordo con Gualtieri. A Gualtieri comunque i comunisti sono sempre stati IIÙnoranza, la maggioranza era della Dc. Tutta
la fascia rivierasca del Po è fatta di piccoli proprietari, da sempre, e quindi nel dopoguerra legati alla chiesa e ai democratici cristiani. Qua invece
c'era un bracciantato, fin dall' epoca della presenza dei conti Greppi. A
costruire la cooperativa erano i socialisti di Prampolini, che poi diventano nel dopoguerra comunisti riforrnisti, che hanno retto fino ad oggi.
La presenza dei sindacalisti rivoluzionari a Gualtieri si spiega ... intanto
erano braccianti e i socialisti rimasero una minoranza, senza riuscire a
realizzare gli obbiettivi che si erano dati e quindi molti pensavano di
raggiungerli tutti con la lotta". 3
Nel 1890 per iniziativa della lega Sindacale Braccianti e del partito
socialista era quindi nata la Società Anonima Cooperativa Braccianti
di Santa Vittoria, composta inizialmente da settantaquattro soci, con
il proposito di gestire direttamente cantieri di opere pubbliche e
di interventi di bonifica.
Otto anni dopo prese avvio la Cooperativa Agricola con «l'assunzione di un appezzamento di terreno di circa 20 ettari a mezzadria», da coltivare a risaia, parte della ben più vasta tenuta dei
conti Greppi a Santa Vittoria. Negli anni a cavallo del secolo le terre
gestite dalla cooperativa continuarono ad estendersi. Nel 1902 un
secondo podere di 42 ettari, sempre sotto forma di affittanza collettiva, entrava a far parte della gestione cooperativa, compresa la
casa colonica e la stalla (capienza 30 capi bovini adulti per la
produzione del latte). Trascorsero appena dodici mesi e un nuovo
podere di 33 ettari, confinante con il primo, si aggiunse. Progressivamente la terra lavorata dai cooperatori si estese fino a raggiungere i 171 ettari e un nutrito patrimonio bovino da latte nel 1906.
Al termine del primo decennio del secolo la Cooperativa
Agricola aveva raggiunto un tale livello di affidabilità che diversi
proprietari preferirono affittare i propri terreni alla società cooperativa piuttosto che a privati, che li avrebbero spezzettati e
quindi subaffittati a singoli contadini. Nel 1911 il grande balzo.
La cooperativa decide di acquistare definitivamente la tenuta dei
conti Greppi, 300 ettari circa al costo di f 715 mila (finanziati:
un terzo in contanti e due terzi a mutuo) e fu legalmente costituita
la Società Anonima Cooperativa Agricola di Santa Vittoria.
lo ho sempre lavorato nella cooperativa. Come diceva il mio povero papà,
che era un bifolco: «Invece di andare all' estero c'era la cooperativa!» ricorda sempre Ferruccio Daolio-. Quando venivo a casa da scuola andavo a curare il bestiame che era al pascolo ... e così via, fino a dopo il
soldato quando ho cominciato a lavorare ricoprendo sempre dei posti. ..
importanti diciamo. Tanto è vero che sono stato 1'organizzatore di tutta
1'azienda, distribuivo la gente. Il presidente aveva i compiti amministrativi, io avevo quello di dirigere 1'azienda.
Dico questo perché il movimento cooperativo ha dato un grande contributo anche politicamente. Perché? Perché hanno capito che la comunità poteva migliorare tutti insieme. Faccio un esempio nel caso una famiglia che
aveva terra in compartecipazione -il cui ricavo era in parte del prodotto
coltivato- si trovava in difficoltà perché il capo famiglia o qualcuno si
21
4 Testimonianza di Ferruccio Daolio, 1998.
ammalava tutti gli altri soci andavano ad aiutare ... e dico che solo questo
fu un grande contributo associativo per la comunità.
Prima della guerra tutti i lavori venivano fatti a mano, non c'era macchinario, non c'era niente. Dopo c'erano solo tre macchine a vapore per la
trebbiatura e l'aratura. Prima ancora lavoravano solo con i buoi... ecco.
Dopo la guerra hanno cominciato a migliorare le condizioni. Allora hanno
cominciato la motorizzazione, fu un cambiamento enorme. Un'azienda
come questa aveva tantissima gente che lavorava. Si lavorava con le braccia e i buoi. Dopo la guerra ha cominciato ad industrializzarsi: hanno cominciato ad entrare le macchine. Mi ricordo che venne un negoziante che
vendeva le trebbiatrici. Allora il presidente mi chiese di andare a parlare
con lui. ... lo gli ho detto: «Guardi io credo che siano una cosa positiva ...
io ho gli stivali e vado giù quattro o cinque dita nelle risaie, come fa una
macchina a mietere? .. » Lui si è messo a ridere e mi dice: «Lei ha ragione
ma noi abbiamo già progettato un cingolo che non solo sopporta la macchina ma anche tutta la parte che imballa il riso». E aveva ragione ...
Comunque allora anche se con le macchine c'era bisogno di meno gente, i
soci si salvavano perché lavoravano all'interno della cooperativa. Adesso
il cambiamento è stato furioso ... Adesso si è associata con la cooperativa
di Novellara... saranno 4 o 5 mila biolche di terra. Adesso con dieci persone fanno andare l'azienda ... fanno tutto a macchina, fin la mungitura a
macchina ... Si tratta ormai di una cooperativa senza uomini! Fanno tutto
le macchine ... Oggi una falciatrice in una giornata è capace di falciare 60
biolche, una volta ci volevano una sessantina di uomini, un uomo per biolca per fare quello che fa la macchina. Oggi con sette o otto persone fai
tutto ... una cooperativa senza uomini. Un patrimonio di macchinari che
fanno tutto. lo dico che allora ha dato un grande contributo in quel momento perché dalla nascita della cooperativa di consumo è nata la cooperativa braccianti agricola, sui terreni Greppi, poi quella dei barbieri, la
cooperativa dei muratori, la cooperativa ... [del truciolo, cooperativa dei
biracciai, cooperativa falegnami, cooperativa fabbri e la banda musicale,
anch'essa cooperativa] insomma Santa Vittoria era tutta una cooperativa. 4
Ma la grande minaccia fu il fascismo, -ricorda Angiolino- con il fascismo, a partire dal 1930, la cooperativa ha avuto tre anni di gestione commissariale. Il commissario è poi riuscito a difendere e salvare la proprietà originale, che ormai si era allargata a 800 ettari, tra proprietà, affittanza e mezzadria; con la famosa quota 90 del' 30 e con i debiti che aveva
naturalmente ... ha dovuto chiudere. Si è salvata la proprietà grazie ad un
mutuo dello stato e dovendo però trasformare la gestione famigliare;
restava la gestione collettiva soltanto per il settore zootecnico, le foraggere e le risaie. Tutti gli altri prodotti venivano coltivati direttamente dai
soci in gestione famigliare. Veniva assegnata una biolca di terreno all'uomo e mezza biolca alla donna, che poi ognuno poteva scegliere il prodotto che desiderava produrre: frumento, formenton, pomodoro, cocomeri,
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23
Solagna anni '20
24
meloni, uva ... Naturalmente portava a casa i prodotti in natura, in un
periodo in cui si consumavano i prodotti che c'erano in casa; soprattutto
per fare la polenta e ingrassare il maiale che poi si consumava ... tutto in
casa. L'uva serviva per fare il vino sempre in casa ... si faceva un terzo di
vino buono e due terzi di vino sottile che aveva soltanto il colore ... Quando
si consumava così avere quei prodotti era importante. Nel dopoguerra
invece si ritorna ad una gestione collettiva completa.
Siamo usciti dall'ultima guerra -prosegue Ponti- con una voglia sola,
quella di ritornare alla autogestione della vita sociale, dove c'era un senso antifascista, non solo per quello che era stato ma anche per quello che
aveva fatto, per la guerra e le sue conseguenze, la gente era molto povera
e aveva bisogno di capire come meglio organizzare la distribuzione della
miseria. E allora si gestì la distribuzione della miseria nel migliore modo
possibile. Se lo gestivano loro con più autorità e autonomia rispetto a
quando c'era ancora il regime. Comunque durante il ventennio fascista,
nonostante tutto, nonostante la gestione commissariale riuscirono a trovare un accordo tra fascisti e socialisti per fare un consiglio di amministrazione per far sopravvivere la cooperativa durante il periodo del fascio. Fu così che nel dopoguerra si poté ritornare ad una gestione collettiva completa. La proprietà era sempre quella originale, sempre però divisa in poderi e la gestione non era più famigliare ma era diventata poderale. Ad ogni casa colonica della cooperativa corrispondeva del terreno
che costituiva il podere. Ogni podere aveva il suo piano culturale, il suo
capo uomo e produceva un po' tutta la produzione dell' azienda. Sarà solo
dopo il 1960 che si sarebbe passati alla gestione aziendale superando la
gestione poderale ... il che voleva dire che aveva un piano colturale unico. il che significava fare le colture a dimensioni più vaste. Quando, ad
esempio, avevi bisogno di irrigare non andavi a danneggiare le altre colture, perché trattandosi di terreno argilloso e non sistemato, l'irrigazione
a scorrimento che ti costringeva a far passare l'acqua attraverso colture
diverse per raggiungere quella desiderata, mandava inevitabilmente acqua anche dove non volevi, con danno per quelle colture. In una gestione
aziendale l'acqua attraversava campi coltivati con la medesima coltura.
Con la nuova gestione rimasero le case coloniche, il bestiame ... la manodopera però girava nelle colture, girava per i singoli poderi. Chi lavorava
nella cooperativa era anche socio. Lavoravano a turno perché la quantità
di manodopera era esuberante rispetto alla disponibilità di lavoro. Lavoravano anche solo tre giorni alla settimana, intercalati a secondo dei bisogni. Quando non lavoravano lì potevano lavorare per la cooperativa di
braccianti dei lavori industriali o per singoli agricoltori attraverso la Camera del lavoro. Però l'organizzazione del collocamento della manodopera veniva sempre fatta dalla cooperativa. Allora riusciva a distribuire
uguali turni, cosa importante perché c'erano le tariffe differenziate: la
cooperativa aveva una tariffa, la braccianti quella industriale e gli agri25
5 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998.
coltori singoli avevano quella sindacale, perciò bisognava distribuire la
quantità di lavoro e la quantità di salario, diversificato ... Perciò l'ordinatrice che avevamo in azienda doveva conoscere bene tutti i soci, le
loro capacità, per stabilire chi inviare quando un datore di lavoro richiedeva manodopera, che tipo di manodopera doveva inviare, con quali attrezzature, per quanti giorni. .. un lavoro organizzato bene, bene, bene ...
era ormai diventato storico. 5
6 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998.
La cooperativa di consumo nel dopoguerra -ricorda Angiolino- conserva la funzione di servizio popolare: calmiere dei prezzi rispetto alle botteghe private, dove la stragrande maggioranza continua a preferirla come
emblema soprattutto perché ha tutta la storia che ha dietro, senza però
mai dimenticare la funzione di calmiere ... Il grande edificio sulla strada
era la casa dei conti Greppi, tutta la storia della cooperativa di Santa
Vittoria è nata dentro lì. Quando poi all'inizio degli anni Sessanta si è
cominciato a parlare delle unificazioni, noi dicemmo «prima facciamo
gli investimenti ... la cooperativa aveva delle riserve, poi ci uniamo».
Inizialmente la cooperativa di consumo era su in paese vicino al ponte ...
aveva un immobile vecchio. Venne così costruita la nuova sede della
coop di consumo in paese. Capivano l'importanza ormai che era necessario unirsi ma prima gli investimenti poi le nuove cooperative, anche
perché disponeva di una piccola riserva che poteva essere utile in quel
frangente. Prima hanno fatto quella a Reggio poi questa a Santa Vittoria,
ed è ancora uno spazio moderno anche se fatto agli inizio degli anni
Sessanta. Costruendo questo immobile nuovo si è liberato quello là che
poi è stato lasciato a disposizione di un gruppo di artigiani che si sono
messi a lavorare insieme e hanno costituito la famosa "L.P.", un'azienda
industriale importante per Santa Vittoria, nata sotto il tetto della cooperativa di consumo, una costola del movimento cooperativo, anche se oggi
sono degli industriali.
La logica era: prima ci modernizziamo poi ci unifichiamo; il rischio
era perdere tutto, riserve comprese.
Con l'amministrazione: eravamo noi di Santa Vittoria a vincere le elezioni a Gualtieri, perché là vinceva l'altra parte. Con il sindaco Prati si
andava d'accordo, era un socialista, presidente della cooperativa braccianti, ma non c'erano problemi perché noi eravamo unitari, poi lui era
di sinistra tra i socialisti ... ancora oggi è ancora convinto, è per l'unità,
anche se a livello nazionale c'erano ragioni che ci dividevano, a livello
locale no ....6
Serafino Prati ancora oggi rivendica fiero la sua posizione unitaria
Ho sempre seguito le mie idee, anche quando mi si chiese di rompere
l'unità con il partito comunista per formare una alleanza di centro sinistra, come era avvenuto a Guastalla. lo ero però il Sindaco della sinistra
26
e anche se mi avevano proposto di restare Sindaco anche con la nuova
maggioranza, non accettai. 7
7 Testimonianza di Serafino Prati, 1998.
Gli anni Cinquanta segnano un passaggio critico per la cooperazione, non tanto per le conseguenza della guerra ma soprattutto per
le profonde trasformazioni della società locale.
La cooperativa, nata come è nata, vissuta come è vissuta fino alla fine
della guerra è stata accettata dalla grande maggioranza e nessuno era
contrario, dopo 1'alluvione nel '51 incominciano a svilupparsi i lavori
pubblici per la ricostruzione ... , in quel periodo nascono le piccole botteghe artigianali ... e si comincia a preferire altri settori. Fu da lì, da come
si riuscì ad abbandonare 1'agricoltura come scelta professionale che questa cooperativa comincia a sbriciolarsi. Infatti noi abbiamo i braccianti,
in quell' epoca, che si trasformano: c'è chi va nell' edilizia nella cooperativa muratori, chi va nell'artigianato, i mezzadri cominciano anche loro
ad essere superati e c'è chi diventa bracciante, chi diventa operaio, chi
diventa piccolo proprietario; poi ci sono i figli dei braccianti che diventano studenti. .. da lì comincia a rompersi tutta la storia. 8
8 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998.
Ma il sistema delle cooperative aveva anche dei nemici
il clero e la democrazia cristiana, perché secondo loro la cooperazione
sviluppava la gente e loro, poveretti, perdevano la possibilità di controllarli, perdevano del potere. Tanto è vero che dopo la fine della seconda
guerra mondiale, nel 1949, nacque la cooperativa ... "Libertas", dicevano la Sacaì (voleva dire differente dagli altri), era la cooperativa dei democristiani, ma durò poco ... Finita la guerra i partiti si riorganizzano e la
stragrande maggioranza aderisce al Partito comunista. Abituati come erano
a dover prendere per forza la tessera del fascio per potere godere dei
diritti, sono rimasti convinti che ancora bisognava avere la tessera del
partito, o comunista, o socialista, o della Dc per continuare ad avere dei
diritti. Perciò la stragrande maggioranza era iscritta al Partito comunista,
i pochi Dc e i pochi socialisti e socialdemocratici, che erano ancora dentro il collettivo non avevano quel potere che forse avevano voluto ... allora sentirono il bisogno di costruire 1'altra cooperativa agricola, alternativa a questa, che nasce con l'impegno della Dc e dei socialdemocratici,
nel' 49. La sola sola azienda agricola privata, di una certa consistenza, a
Santa Vittoria diventa una cooperativa agricola.
Non c'era uno scontro tra le due aziende, come individui ... loro erano
democristiani e socialdemocratici, noi eravamo comunisti perciò ... la
situazione in quei tempi era vista così. Quella cooperativa si impegnava a
rompere la tradizione della distribuzione in forma uguale dell' occupazione. Lei faceva lavorare soltanto i suoi soci e gli altri naturalmente
27
9 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998.
lavoravano meno ... mentre noi continuavamo a distribuirci i lavori. Non
si poteva essere iscritti in entr~mbe le cooperative. Per scegliere a quale
cooperativa aderire c'era intanto se si era di sinistra o se si era democristiano, ma non solo, c'era soprattutto la convinzione che là c'era più occupazione per chi riusciva ad entrare ... Là erano in meno, erano in numero di lavoratori quasi adeguato per il terreno disponibile. Vista in quella
logica, gente che usciva volentieri dalla organizzazione della distribuzione della miseria, andava a risolvere i propri problemi individualmente,
con le possibilità che quella azienda poteva dare, con il risultato però che
non si risolveva il problema complessivo della miseria e che dopo dieci
anni è fallita, in seguito all'alluvione del Po nel 1951. L'indebitamento
che abbiamo tutti dovuto fare per sistemare ... ricuperare quello che si
era perso, risistemare tutti gli stabili e poi cominciare la trasformazione
aziendale ... loro hanno fatto un piano di trasformazione molto celere con
parecchi investimenti e non riuscirono poi a pagare i mutui ... etc. e sono
così finiti con la gestione commissariale ... Noi siamo riusciti, molto più
lentamente a sistemare tutto e riprendere. 9
Una cooperativa agricola di 220 ettari acquistati dalla tenuta
Bigliana
10 Angiolino Ponti, La Cooperativa agricola
di S. Vittoria. Le testimonianza dell'ultimo
Presidente, dal 1955 al 1980 (dattiloscritto
inedito).
col proposito di interrompere l'ormai tradizionale distribuzione dell' occupazione fra tutti i braccianti avventizi del paese, ma anche di costituirsi
in azienda cooperativa modema in concorrenza alla vecchia cooperativa
rossa, riuscendo però soltanto in piccola parte, nel primo proposito, mentre nel secondo proposito, non soltanto non vi riuscì ma addirittura alla
fine del primo decennio di gestione fu costretta alla gestione commissariale per tre anni, ritornando in seguito a gestione cooperativa, senza più
ambizione competitiva. lO
I due fattori che hanno attraversato la grande esperienza di cooperazione integrale fornito dal distretto cooperativo di Santa Vittoria
erano quelli dello spirito di solidarietà e di comunità. Solidarietà
all'interno della comunità dove quest'ultima era la vera protagonista
e la solidarietà cooperativistica lo strumento per conservare e rafforzare il legame di comunità. Vero confine oltre il quale la cooperazione perdeva, per i cooperatori di Santa Vittoria, i suoi connotati
di strumento solidale.
Ricorda Angiolino Ponti:
La cooperativa ha dato un grande contributo a sviluppare la gente. Nella
cooperativa agricola tutti i soci avevano il medesimo diritto. Quello che
28
guadagnava per esempio lavorando metà giornata prendeva la giornata
come quello che aveva lavorato tutto il giorno. Nel privato invece era
diverso. Intanto prendeva la manodopera più in gamba e quella povera
gente che per motivi fisici o per mentalità ... di fatto non andavano a
lavorare. Nella cooperativa tutto questo non c'era. Anche chi non era
idoneo, ma aveva bisogno di mangiare, la cooperativa lo faceva lavorare
lo stesso. E io continuo a ripetere che ha dato un grande contributo alla
comunitàY
11 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998.
Una solidarietà subordinata all'appartenenza alla comunità:
I soci erano solo di Santa Vittoria. Si poteva diventare soci della cooperativa agricola solo se eri di Santa Vittoria. Questo perché abbiamo fatto
dei sacrifici per costruirla, sacrifici che abbiamo fatto per i nostri figli e
non per altri. «Tutti per uno, uno per tutti». Poi siamo la piccola Russia e
il Palazzo ne, 1'ingresso della vecchia proprietà dei conti Greppi, era per
tutti il "Cremlino" ... adesso è del Comune. In Russia non c'era la proprietà è vero ma anche là si divideva la miseria. Noi eravamo convinti
che facessero come qua. Alla fine noi siamo riusciti a migliorare, loro
invece a peggiorare ... non si sono aggiornati. Noi comunisti qua abbiamo accettato le cooperative per unificare il movimento. l2
12 Testimonianza di Angiolino Ponti, 1998.
Pagina seguente:
Solagna anni '20
29
"Sologno, e poi Parigi". *
Per una topologia della
formazione malaguzziana
1. Luoghi da abitare ...
ANTONIO CANOVI
Si può tentare di stabilire un percorso formativo per luoghi nel
cammino percorso da Loris Malaguzzi?1 Il criterio topo logico viene
esplicitamente suggerito in un suo dattiloscritto (riprodotto nel
numero 84/1998 di "RS"). È un reperto di memoria - come tale è
stato ritrovato da Laura Artioli in deposito, presso le carte private
in possesso del figlio Antonio - di estremo interesse, giacché tradisce
un lungo e solitario lavoro alchimistico: l'autore vi ha significativamente fatto "precipitare" i composti contraddittori dell' esperienza
per trame un frammento di verità autobiografica. È una verità esperienziale, tanto più suggestiva in quanto richiede d'essere situata nello
spazio per farsi tramandare.
*Detto popolare diffuso nel paese di Sologno
1. L'esperienza pedagogica di Loris Malaguzzi (Correggio, 1920-Reggio Emilia,
1994) si trova oggi al centro di numerosi
studi e riflessioni, per la notorietà internazionale acquisita dalle scuole comunali
dell'infanzia di Reggio Emilia. Istoreco, da
parte sua, ha appena concluso - per conto
del Comune di Reggio Emilia, della società
Reggio Children e dell' Associazione Amici
di Reggio Children - una ricerca per fonti
ed archivi dal titolo "La cultura dell'infanzia
e l'esperienza delle scuole comunali di
Reggio Emilia". Carte Il interviste sono attualmente in deposito presso .l'Archivio
Tempo Presente Istoreco (ATPI).
Se è vero ciò che dice Wittgenstein che è importante sapere dei luoghi dove
si parla, io ne ho avuti tre di luoghi dove ho appreso a parlare e a vivere.
Il primo luogo ad essere enunciato è Sologno, paese montano alle
falde del Prampa, nell' Alto Appennino Reggiano. Si tratta, inoltre,
del solo luogo dello spirito che abbia rilevanza geografica, trovandosi
affiancato ad un manufatto - l'asilo sorto nel 1945 dalle ceneri della
guerra a Villa Cella, che incarna una conquista sociale di fortissimo
impatto simbolico - e ad una cesura epocale che vi assume valenza
metaforica, la Liberazione. 2
L'esperienza di Cella, cui se ne affiancarono immediatamente altre
grazie all'impegno dell'Unione Donne Italiane e di alcuni Comitati
2. Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada
dell'insegnare, a cura di Laura Artioli, "Ricerche Storiche" n° 84, maggio 1998, p. 51;
la curatrice, confrontando tre diverse versioni del dattiloscritto, ha posto in luce
qualche incertezza dell'autore circa il numero reale - tre, o soltanto due? - di questi
"luoghi", fra i quali, ad ogni buon conto,
Sologno fa da stella fissa (materiale attualmente depositato in ATPI).
31
di Liberazione Nazionale, risulta oggi ricompresa e dunque rimemorata in funzione di quella più complessiva delle scuole comunali
dell'infanzia di Reggio Emilia. Quanto alla Liberazione, considerato
che il giovane Malaguzzi diviene comunista pur restando alieno da
ogni impegno militare, funge da linea di demarcazione per definire
la soglia di appartenenza al campo semantico antifascista. La vocazione creativa - pedagogica e politica - di Malaguzzi prende dunque
coscienza di sé confrontandosi con il significato dell'evento-guerra.
Si è trattato di un processo sofferto, stando alla medesima confessione postuma.
3 Ibidem, pp. 53-54.
4 Ibidem, p. 53.
Ma vorrei aggiungere i luoghi della guerra, della Liberazione, della gente, delle vicende che seguirono. Soprattutto degli impeti che con la pace
anelano a ripulire le strade sporche della follia. (... ) Non so se la guerra,
legata agli eventi cospirativi del prima e del dopo, nella sua tragica assurdità, può essere un' esperienza che spinge al mestiere dell' educare come
uno dei tanti ricominciamenti possibili per vivere e lavorare per il futuro.
Specie quando quella finisce e i simboli della vita ricompaiono con una
violenza pari a quella conosciuta ai tempi della distruzione.
Non so bene. Ma credo che sia lì il luogo dove cercare. Il luogo dove ho
vissuto nella maniera più intensa patti di alleanza con i bambini, la gente, i reduci delle prigionie, i partigiani della Resistenza: convivendo con
un mondo devastato, quando le idee e i sentimenti rivolti al futuro sembravano immensamente più forti di quelli che si fermavano al presente.
E quando pareva che non esistessero più cose difficili e incapaci di superare le barriere dell'impossibile. 3
Malaguzzi offre così a se stesso, mentre ricompone il proprio
quadro esistenziale, la suggestione di una guerra "liberata", cioè di
un'umanità dolente che sa - ha saputo, saprà nuovamente - scegliere
per liberarsi. È in questa "cospirazione", come la definisce altrimenti, che va a situare "le genesi della mia scelta di stare coi bambini
e di starci tutta una vita".4
Il processo dell'educare trascende gli specifici segmenti anagrafici
e finisce per implicare coesioni ed alleanze allargate. Ciò che viene
trasmesso ai posteri, come ben si vede, costituisce una precisa
investitura affidata alla Politica. Una politicità che tutto tiene:
pervade l'identità soggettiva e ne connota lo stile engagé, trascende
l'azione personale per nutrire il legame sociale. Fare della militanza
politica la propria educazione sentimentale significa, allora, prefi-
32
Solagna anni '50
gurare quella polis ideale dove la cittadinanza si fa etica dell' abitare.
Prassi, ed insieme utopia, tanto più vibrante in un presente che vede
moltiplicarsi l'intangibilità dei "non luoghi".
"Perché proprio a ReggIo Emilia?" - si sentono ripetere, ad ogni
incontro, gli operatori delle scuole comunali dell'infanzia.
Al fuoco di questo crogiuolo affatto scontato, ove i "sentimenti
rivolti al futuro" dovevano fungere da imperativo morale per rimodulare il "mestiere dell'educare", è stata "cucinata" - con il
concorso di molti, diffusi e diversi coprotagonisti - la particolare
"ricetta" inventata da Loris Malaguzzi. La qualità pedagogica e
istituzionale raggiunta è il punto sensibile di comparazione, l'esito
cui legare - in una sorta di percorso indiziario - quei topoi che si
può con ragione ritenere significativi per la costruzione dell'esperienza complessiva delle scuole dell'infanzia a Reggio Emilia. Per
"ritornare" a Sologno - il primo e il meno metafisico tra i luoghi
che hanno scandito la formazione del "maestro" Malaguzzi - ho così
avuto bisogno di condurmi, a ritroso, dall'Istituzione (l'apertura della
prima scuola comunale dell'infanzia, nel 1963) all'Educatore.
2. Il Partito
Voi conoscete, anche i compagni di base conoscono, anche attraverso
sensazioni, magari un poco confuse, tratte dalla loro esperienza personale di genitori le condizioni della scuola italiana. (... ) circa il suo vecchiume, circa la svogliatezza e il disamore che i ragazzi hanno dopo un po'
che abbiano frequentato la scuola. L'educazione che molte volte offende
e va contro i nostri principi, e i principi democratici (... ). La sua strutturazione in senso classista, il fatto che a dieci anni il nostro ragazzo abbia
già il destino segnato, e per lui si apra in maniera decisiva una scelta, sia
nel senso di una scelta verso la scuola subaltema, o sia nei termini di una
scelta invece verso una scuola per dirigenti o futuri dirigenti.
È un passo tratto dalla relazione introduttiva che Loris Malaguzzi
propone al Comitato Federale del Partito Comunista (Pci) di Reggio
Emilia il 17 aprile 1961, che porta per odg: "Contro il piano de5 Archivio Storico Democratici di Sinistra,
Federazione di Reggio Emilia (ASDSRE) ,
Verbali Comitato Federale PCI Reggio Emilia, seduta 17 aprile 1961.
cennale Fanfani per la riforma democratica della scuola".5 Si tratta
di una relazione piuttosto corposa, che risente da un lato dell'escandescenza della situazione giovanile - vi si commenta, esplicitamente,
il fenomeno dei teddy-boys - e dall'altro partecipa del clima di
34
apertura del centro-sinistra, tra i cui risultati vi sarà in effetti la prima
riforma della media unificata (nel 1963).
Malaguzzi milita nel Pci sin dal 1945 ed è una presenza costante
nel paesaggio politico reggiano, sia da giornalista sia da pedagogista.
Non rientra però tra gli intellettuali di punta e tanto "organici" da
assumere incarichi di partito. Al Comitato Federale arriva soltanto nel
1959, peraltro portandovi immediatamente una nota vivace, in ciò
favorito dalla preoccupata urgenza che - nel biennio 1959-1960 suscita la freschissima "questione giovanile" (cui vengono dedicate
sedute di grande interesse). Dopo di che, nel volgere di pochissimi
anni, di Malaguzzi nei verbali del Comitato Federale si perdono le
tracce; se pure ne fa parte, evidentemente o non partecipa o non
interviene (per quanto ho trovato, l'ultimo intervento documentabile
risale al 1982). È insomma un compagno aduso a stare negli "organismi
collaterali", come si evince dall'approccio del suo primo intervento,
dedicato alla situazione del movimento cooperativo: dopo i saluti di
prammatica - "Compagni, è la prima volta che partecipo ad un CF,
ed è la prima volta che io faccio le mie esperienze ad un livello così
alto nella nostra Federazione" - tesse un elogio del cooperatore "integrale", che tale per soltanto motivi economici ma per l'universalità
dello sguardo.6 Ed è in tale sarebbe sede che ricorda un passaggio
importante per la propria formazione, quando insegnava ai partigiani
nel Convitto Scuola di Rivaltella.
6 ASDSRE, Verbali Comitato Federale PCI
Reggio Emilia, seduta 3 ottobre 1959.
È non a caso, lasciatemi qui ricordare un fatto al quale io sono legato, a
particolari ricordi, che oggi a capo di quasi tutte le coop. di produzione e
lavoro della nostra provincia vi sono dei compagni, quei ragazzi che
studiavano con noi al Convitto di Rinascita. Voglio dire che là hanno
potuto abbinare alla loro consapevolezza politica anche l'insegnamento
tecnico, l'insegnamento culturale.
L'approccio educativo di Malaguzzi vi appare estremamente preoccupato di nutrire i processi formativi con la farina dell'attualità
politica. Resta cioè convinto, utilizzo qui un'espressione assai in
voga tra i compagni comunisti, che "la politica te la ritrovi dentro
la minestra che mangi ogni sera". Non pare interessargli più di tanto
la formazione di bravi professionisti, piuttosto di persone consapevoli del tempo in cui sono immersi. Il suo comunismo sta in
questo raccordo sociale che avverte come tassello fondamentale,
35
cui volgere e piegare le "tecniche". Dà conto, nel medesimo
Comitato Federale, di un'esperienza condotta l'estate precedente in
un campeggio cooperativo a Canazei, quando i bambini - "realisticamente versando 10-20-30-40 lire per acquistare medicinali per
i popoli coloniali" - erano stati sensibilizzati sul problema della
guerra in Algeria. Ne trae l'auspicio che "una educazione spinta
e diretta su questa strada indubbiamente contribuisce anche alla
7 ASDSRE, seduta 3 ottobre 1959.
formazione sociale dei nostri piccoli figli di cooperatori".7
Piuttosto che ideologo e sostenitore di tesi precostituite, Malaguzzi
si presenta come lo sperimentatore di una concreta prassi pedagogica,
adattata in progetti e contesti associativi ed istituzionali differenti;
meno nella scuola di stato, in modo più approfondito nel movimento
8 Cfr. Michela Marchioro, L'Associazione
Pionieri d'Italia, "RS", n. 80, 1996; Marco
Fincardi, Pionieri eFalchi Rossi. Associazionismo infantile comunitario e modelli educativi "sovietici" in una provincia emiliana,
"L'Almanacco", n. 28, 1997; sempre ''LAImanacco", ha fatto di questo argomento un
numero monografico (29/30, dicembre
1997), Pionieri e Falchi Rossi. L'associazionismo infantile di Sinistra nell'Italia del
dopoguerra, a cura di Marco Fincardi.
educativo militante (in primis i "Pionieri" e i "Falchi Rossi"). 8 Siamo
cioè nell'ambito di quella pedagogia alternativa e sperimentale, tanto
più vivace in quanto avanguardista e minoritaria, espressa all'epoca
da intellettuali ed educatori impegnati sul versante laico e di sinistra
come Margherita Zoebeli, Ernesto Codignola, Gianni Rodari, Bruno
Ciari, Mario Lodi, ecc.
L'intervento del 1961, per l'evidente snodo cronologico che rappresenta, funge da approdo per un percorso politico determinato: in
quegli stessi mesi la giunta comunale, con Franco Boiardi assessore
all'istruzione, sta accingendosi a predisporre il lancio della prima
9 Cfr. l'intervista a Franco Boiardi ed Anna
Appari registrata da Antonio Canovi e
Ombretta Lorenzi, il 13 maggio 1998, nell'ambito della ricerca curata da Istoreco e
sopra citata (attualmente in deposito AlPI).
scuola comunale dell'infanzia. 9 Mi pare, cioè, che il progetto educativo e democratico, pienamente inserito nel percorso politico
locale, esprima piena sintonia con l'intera riflessione che aveva poco
prima lacerato l'Associazione dei Pionieri (Api); esperienza considerata chiusa dal Pci (come peraltro gli ultimi Convitti Scuola) in
10 A quel passaggio politico ed educativo
hanno dedicato pagine appassionate quanto
malinconiche Lia Finzi e Girolamo Federici,
I ragazzi del collettivo. Il Convitto Francesco
Biancotto di Venezia 1947-1957, Venezia,
Marsilio, 1993.
dipendenza della convinzione che occorreva fare un passo indietro
sul fronte della militanza per investire in senso riformatore nella
scuola di stato, spezzandone insomma il monopolio clericale e l'uso
classista della selezione. lO I risultati di questa strategia si prestano
ovviamente a valutazioni difformi od almeno dubitative. Basti
pensare al1'esperienza, coeva, svolta a Barbiana da don Lorenzo
11 Penso, ovviamente, allo scandalo che
suscitò Lettera a una professoressa, (Scuola
di Barbiana, Firenze, LEF, 1967) ma anche al
processo per vilipendio delle Forze Armate che
aveva fatto seguito alla "Lettera ai Cappellani
militari" composta nel 1965 (cfr. L'obbedienza
non è più una virtù (Firenze, LEF, 1968).
36
Milani: fautore di una prassi educativa socializzante, fortemente
critica nei confronti della separatezza tra vita e saperi coltivata in
seno alle strutture scolastiche, viene a propria volta volentieri tacciato
di radicalismo e così emarginato dalle istituzioni. 11 È però vero che,
sul piano locale - con ciò intendendo lo spazio di governo che
ricadeva sotto l'influenza del municipio - quel genere di riflessione
consentì, con maggiore consapevolezza e con nuove risorse, di
riaprire il discorso sul versante dell' educazione primaria sino ad allora
in gran parte gestito, senza grandi pretese e con reciproca conflittualità' dall' associazionismo politico e religioso.
Pur con ritardi e difficoltà d'ordine burocratico, dietro la spinta
del movimento delle "magliette a strisce" e grazie ai maggiori
spiragli aperti con l'entrata del Partito Socialista (Psi) nel governo
si riapre come questione pubblica il tema della "formazione", tanto
più urgente in un paese che stava modificando in profondità e a
ritmi accelerati la propria economia. 12
Vale la pena di riprendere, per esteso, il passaggio conclusivo la
relazione di Malaguzzi, ove lo sdegno verso la scuola fino ad allora
conosciuta in Italia fa il paio con lo sguardo teneramente utopico
(se non patetico, con il senno del poi) riservato all'esperienza che
prende a modello comparativo, quella "giovane" Unione Sovietica
krusceviana i cui eroi erano gli astronauti volti alla conquista dello
spazio siderale.
Dicevo prima che tutte le questioni passano attraverso la scuole e vorrei
concludere e ricordare a tutti noi che attraverso la scuola è sempre passata la storia di poi, la storia del domani. E dobbiamo fare in modo, affrontando consapevolmente, seriamente, appassionatamente il problema della
scuola, dobbiamo fare in modo che i nostri sforzi migliori vengano gettati in questa lotta perché le nuove generazioni non abbiano, non conoscano la scuola che noi abbiamo conosciuto, con le sue deficienze, con i
suoi infingimenti, con le sue storture morali e storiche e abbiano invece
queste nuove generazioni una scuola degna dell' avvenire dell'uomo così
come già si prefigura con il volo al di sopra e attorno alla terra di un
giovane astronauta sovietico.
Una scuola cioè che liberi dall'angoscia, dal pregiudizio, che liberi dalla
paura del dogmatismo, in nome della ragione, della fiducia non solo dell'uomo, ma nella fiducia di tutti gli uomini, cioè non dal cielo, come
diceva ieri il compagno Sereni, ma dalla terra tragga le sue strade, per le
sue magnifiche, ulteriori e pacifiche avventureY
12 Mi pare così significativo che l'esperienza
delle scuole dell'infanzia di Reggio Emilia
venga assunta da una studiosa francese dei
processi economici - Florence Vidal - come
"emblematica" del modello industriale insediatosi nella Terza Italia: «Reggio Emilia, da
parte sua, ha creato una scuola materna
modello, la scuola Diana, dove un pedagogista eccezionale, Loris Malaguzzi, immagina
dei programmi assolutamente innovativi,
fondati sulla personalizzazione dell'insegnamento. (... ) Per visitarla, bisogna iscriversi
su di una lista d'attesa di parecchi mesi. Essa
è citata come una delle dieci migliori scuole
del mondo da Nesweek, 2 dicembre 1991.»
(cfr. Histoire industriel/e de l'Italie de 1860
à nos jours, Seli Arslan, 1998, pp. 178-179).
13 ASDSRE, Verbali Comitato Federale PCI
Reggio Emilia, seduta 17 aprile 1961.
3. L'Associazione Pionieri d'Italia
Facendo costantemente capo all'approdo malaguzziano - che nel
1961 sa coniugare politica istituzionale e pedagogia popolare - risulta
37
14 Loris Malaguzzi, Una nostra inchiesta sui
ragazzi dell'A.P.I. Non solo figurini o le
bambole ma qualcosa di nuovo li interessa,
"Progresso d'Italia", 27 e 28 maggio 1950.
15 Paolo Trionfini ha dedicato significative
osservazioni al contesto apertamente conflittuale in cui prese avvio il vicariato di Sacche,
in Cattolici e comunisti in Emilia-Romagna.
Conflitto, competizione e problemi comuni
(1948-1953), "Bollettino dell'Archivio per la
storia del movimento sociale cattolico in
Italia", set.-dic. 1992, pp.385-410.
utile soffermarsi sull'inchiesta dedicata all' Api, uscita in due puntate
per "Il Progresso d'Italia" nel maggio 1950. 14 Siamo, a quell'epoca,
nella fase di rilancio delle organizzazioni di massa da parte di un
Pci che non si è ancora ben ripreso dallo choc della sconfitta patita
il18 aprile 1948. Davvero alti sono i toni della polemica con il mondo
cattolico, scontro tanto più patito in quanto a condurlo con stile da
"crociata" nazionale contro le associazioni ricreative della sinistra
(quando Reggio costituiva un pilastro organizzativo a livello nazionale per i Pionieri come per i Falchi Rossi) è proprio il vescovo
di Reggio Emilia, Beniamino Socche. 15
L'articolo, per l'occasione, prende le mosse da una progettata quanto vituperata, dalla Curia - esperienza di "Repubblica dei ra16 L:esperienza concretamente consumata a gazzi".16 Dopo aver rilevato che "nell'attacco polemico si è additato
Felina nell'estate del 1950 fu in effetti breReggio come la gran patria del vizio e del traviamento infantile",
vissima: bastò il progetto sovversivo di un
campeggio eletto a "libera ed ideale Repub- Malaguzzi tiene a cogliere della vicenda i risvolti eminentemente
blica" per mobilitare i benpensanti, sino a
politici.
provocarne la chiusura d'autorità con ordi-
nanza del Prefetto di Reggio Emilia (ma
direttamente ispirata dal vescovo Sacche).
Ne diede conto il settimanale della Federazione comunista di Reggio Emilia, "La Verità", nei numeri del 20 e 27 agosto 1950;
cfr., inoltre, Marco Fincardi, Pionieri e Falchi
Rossi. Associazionismo infantile comunitario e modelli educativi "sovietici" in una
provincia emiliana, ciI.
(... ) il grido d'allanne lo si comprende benissimo e lo si giustifica: è un
monopolio che si sfalda sotto l'urto ed il lievitare di una realtà sociale e
politica che ha già montato l'argine. È una tradizione, ritenuta dogmatica
che si spezza, sotto la sollecitazione di urgenze che traggono la loro forza
e linfa da un'evoluzione storica che non può essere arrestata. (... ) Così
l'Api e l'Udi diventano organizzazioni demoniache, pervertitrici, erotiche, scandalose, scuole di perdizione e di rovina morale e materiale. CosÌ
si giunge a florilegi di menzogne, nemmeno concepibili, che danno la
misura esatta del doloroso svanimento intellettuale di chi li pronuncia:
"prima di entrare a far parte dell'API i bimbi sostengono un esame. La
prova d'esame consiste in questo: bestemmiare Dio e i Santi per un minimo di 5 minuti. Solo chi supera felicemente l'esame può entrare nelle file
dell' Associazione".
Le brutture che alimentano florilegi come questi sono di una pornografia
morale che fa allibire.
4. Il Convitto Scuola della Rinascita "Luciano Fornaciari"
Il Convitto Scuola della Rinascita "Luciano Fornaciari" di Reggio Emilia, organizzato secondo i principi dell'autogoverno e tendente alla formazione culturale e professionale di giovani capaci e privi di mezzi, particolannente provati dalla guerra, chiede di essere incluso nella Federazione nazionale delle collettività di giovani, da Lei promossa.
38
Laris Malaguzzi a Solagna
negli anni 1940·'43
17 Fondo Malaguzzi, Archivio Istoreco, lettera
12 gennaio 1949 (Convitto Scuola Partigiano),
attualmente in deposito ATPI.
18 Per le citazioni, rimando all'intervista di
Marco Fincardi a Loris Malaguzzi, registrata
il 12 marzo 1992 nell'ambito della ricerca
dedicata al "mito sovietico" condotta assieme ad Antonio Canovi, Marco Mietto, Maria
Grazia Ruggerini (cfr. di Antonio Canovi,
Marco Fincardi, Marco Mietto, Maria Grazia
Ruggerini, Memoria e Parola: le "piccole
Russie" emiliane. Osservazioni sull'utilizzo
della storia orale, "Rivista di Storia Contemporanea", n. 3/1994-95.
La lettera spedita nel gennaio 1949 da Loris Malaguzzi - all'epoca
presidente del Convitto partigiano di Rivaltella - al prof. Ernesto
Codignola nella sua qualità di rappresentante dell'Unesco per l'Italia,
consente bene di esplicitare il suo grado di coinvolgimento in questa
che ha rappresentato un'indubbia esperienza pilotaY
Si tratta, ancora, di un tassello che si aggiunge alla profonda
convinzione interiore, nutrita da Malaguzzi, in favore di pratiche
educative popolari e libertarie. La sua entrata nel Convitto avviene
nel clima del post Liberazione, quella breve stagione in cui - come
egli ha ricordato a Marco Fincardi - "era possibile tutto" e si stava
"dentro una specie di grande avventura" .18
Facemmo le cose sul serio anche qui, occupando prima Rivaltella, e lì
facemmo una scuola per meccanici agrari, ma sempre lavorando su delle
ipotesi... Nel senso che si scelse questa formazione perché (... ) già si
pensava che potessero essere utili per le cooperative agricole (...), l'altra
invece qui in città era per capi cantiere. Si trattava di professioni assolutamente nuove, inusuali C.. ). Poi c'era una élite di professori, che credo
nessuno potesse avere allora, perché erano i nomi più prestigiosi di giovani che stavano crescendo e che poi diventeranno ... o di insegnanti anziani che però avevano un passato culturale abbastanza... Insomma, era
gente che si era autciselezionata.
(... ) Si ospitavano reduci. Era tutta gente adulta, giovani partigiani o partigiani invece già di una certa età, gente di circa trent' anni che aveva
fatto setto o otto anni di guerra militare ... Venivano da tutte le parti d'Italia, ecco. E io ero solo docente di lettere, allora, però (...) aggravandosi le
cose - siccome gli animatori e i fondatori erano partigiani - mi ricordo
che in un consiglio di insegnanti si determinò che fossi io il direttore di
questa scuola convitto, perché in qualche modo ero il più pulito, pulito
nel senso che siccome non ero stato un partigiano e siccome godevo ...
Insomma, ci voleva una figura più indipendente. E di lì cominciò dal '48
in avanti una battaglia feroce con il Ministero: qualcuno lo voleva chiudere, qualcun altro lo voleva aperto, quindi tutto un casino, fino a che
non si rinchiuse tutto. Diventammo persino editori, per dimostrare ... facemmo dei testi per la scuola!
C'è stata una battaglia forte, fino a che nel '52 si chiuse e finimmo anche
quell' esperienza lì.
5. Le Reggiane
Fare una scelta di campo comunista significa, nella Reggio Emilia
del post Liberazione, rendersi massimamente prossimi agli operai
40
delle "Reggiane", l'Officina per antonomasia. I suoi vastissimi stabilimenti danno l'impronta al nuovo quartiere industriale di Santa
Croce Esterna, dove Malaguzzi approda ragazzo, nel 1929. Come
ha tenuto ad annotare: "Tutta l'adolescenza e gli studi magistrali
ebbero questo teatro alle spalle".'9
Nasce così, nel settembre 1945, la poesia "Compagno Operaio".
19 Cfr. Che io infilassi la strada dell'insegnare, p. 51, cito
Viene pubblicata da "La Verità", settimanale della Federazione
Comunista di Reggio Emilia. 20
20 "La Verità", 30.9.1945
Compagno operaio/mi pare oggi/di avere sempre sapute le tue canzonilIn
esse io ritrovo 1'essenza/di me stesso.! Essa viene oggi alla luce/da abissi
confusi/e scuote da sé la polvere.! Oggi mi conosco, mi tengo.!So perché
son nato e vissuto/perché ho sofferto e pianto.!Oggi so perché io vivo.lMi
pare oggi d'aver sempre avute/le mani sporche di carbone,/di aver sempre
bevute/le fiamme degli alti fomi,/di aver sempre battuto/sulle incudini/
gocce roventi di sudore.lUna mazzata di maglio,/compagno operaio,/ha
saldato la nostra stretta di mano.
Malaguzzi, a quanto se ne sa, non mutò particolarmente le proprie
abitudini, che non erano esattamente quelle di impugnare la mazza
e, tanto meno, il maglio. Andava, in effetti, impegnandosi per il
"popolo operaio": con la promozione dell'educazione popolare, alla
sua maniera. Questo è il contenuto della seconda notizia che lo
riguarda, sul medesimo numero de "La Verità": si ritrova coprotagonista di una lodevole iniziativa di solidarietà, perseguita - siamo
a ridosso della Liberazione, e bene o male regge ancora il Comitato
di Liberazione Nazionale - in collaborazione con un parroco strettamente legato all'esperienza resistenziale. Il resoconto, nella sua
linearità, risponde a tali esigenze di "conciliazione'',2'
21 Ibidem.
La Scuola del Popolo di S. Pellegrino ha chiuso in data 20 U.s. il corso
delle Scuole Medie. La Sezione Comunista locale, promotrice dell'iniziativa, sente il dovere di ringraziare il prof. Loris Malaguzzi, dirigente dei
Corsi e gli insegnanti Grasselli Daniele, Barigazzi Laura, Barigazzi Ada
che hanno collaborato con tanta passione al funzionamento della Scuola.
Sente inoltre il dovere di ringraziare il Provveditore agli Studi e il Parroco di S. Pellegrino, don Cocconcelli, per 1'assistenza e gli aiuti dati nel
campo organizzativo e nell'arredamento scolastico.
41
6. Sologno
Proseguendo "di balza in balza", ci si imbatte - su "Il Solco
Fascista" - in un pezzo all'apparenza di puro "colore", ambientato
in una non meglio precisata borgata dell' Appennino. Siamo nel 1942,
e Malaguzzi, dopo una breve esperienza a Reggiolo, ha già svolto
un anno di insegnamento a Sologno. Il pretesto dell'argomentare è
la ridislocazione di una "madonnina".
22 Loris Malaguzzi, La "Madunina d'la
Muntagna", "II Solco Fascista", 28.6.1942.
Episodio semplice e toccante di fede, di amore e di virtù, sane prerogative
della nostra gente di montagna. 22
L' incipit del racconto - "non è una novella, né un parto della fantasia",
come tiene a precisare - riproduce lo stereotipo della montagna costantemente ai margini del flusso del moderno e perciò, in qualche
modo, ancora incontaminato. Si tratta dunque di un tema politico. I
valori della tradizione e della comunità locale vengono rappresentati
nella figura retorica dell' Alpe, dimensione mistica e silente ma anche
predisposta ad accogliere pellegrini, la cui armonia viene sovvertita
da una modernità percepita quale violenta intromissione.
Il silenzio è sacro in questi tempi di giugno: è il silenzio di Dio. Di Dio
che benedice la terra, e la terra risponde coi suoi frutti miracolosi.
È il silenzio della natura orgogliosa che ammira, tacita se stessa e le sante
fatiche dell'uomo. (... ) Ma un bel giorno quel silenzio, che sembrava
avesse avvolto in una solitudine di tomba quel piccolo angolo di paradiso, fu invaso da un lottar di picconi e di badili, da un rumore stridulo e
assordante di macchine e di motori. Era la civiltà che giungeva. E profanava inesorabilmente quella solitudine d'altro mondo.
Demolito il tempietto, l'immagine sacra viene riproposta, impropriamente, sul ciglio della strada. Poi, una sorta di miracolo:
la nonnina che aveva eletto il tempietto a luogo di colloquio con
il figlio militare in Russia (e di cui, probabilmente, non ha più
notizie), se lo ritrova per incanto al tepore del focolare ... Mascherato dietro un finale vagamente patriottico, riaffiora insomma
l'incipiente lutto di una guerra che si è fatta talmente pervasiva
da giungere sino in montagna.
Attorno a questa primigenia percezione dell' Appennino - in
quanto luogo remoto e però scosso dal dolente stato di necessità
42
Loris Malaguzzi a Sologno
negli anni 1940-'43
23 A proposito del particolare "sguardo",
insieme "domestico" ed "esotico", proiettato
sull'Appennino Reggiano rinvio alla Presentazione da me curata per Istoreco all'edizione anastatica del Viaggio Agronomico per
la montagna reggiana e dei mezzi per migliorare l'agricoltura delle montagne reggiane compilato due secoli or sono da Filippo
Re, Parco del Gigante, 1998.
24 Una bella testimonianza di questa "percezione" mondana che il pastore tratteneva
di sè, mettendosi in paragone con la staticità
del contadino di pianura, la restituisce Giovanni Sassi, (intervistato nella sua abitazione a Solagna, 31 agosto 1997).
25 Cfr. 'Appennino Reggiano nelle immagini
di Paul Scheuermeier. Solagna, a cura di
Laura Gasparini, AGE, 1995; Paul Strand,
Un paese, Firenze, Alinari, 1997.
44
della guerra - verrà intessuto lo straordinario legame tra Malaguzzi
e Sologno. Al topos folclorico del viaggio intrapreso alla ricerca
delle culture trapassate ed esotiche - fissato in Europa nel corso
di questi ultimi tre secoli - ne viene opposto uno incentrato sulla
condivisione dell'innocenza. È bene ribadire che, in un caso e
nell' altro, si tratta di stereotipi.23
La percezione semplificata di Sologno e dell'alto Appennino come
luogo che resta al di fuori della storia è certo il frutto di una gerarchia
altimetrica, dove la direzione dello sguardo viene determinata da chi
sta più in basso (il pianzàn, uomo-di-pianura, in contrapposizione al
muntanàr, uomo-di-montagna). Le modalità di insediamento a Sologno - stazione sulla via del sale che si snocciola lungo un crinale
a schiena d'asino, dedita alla pastorizia e ai commerci oltre che ai
campi - radicano l'economia e la cultura del paese ad un' esistenza
assai mobile, certo migrante ma non per questo periferica. La mobilità
che ha caratterizzato molti borghi di questa montagna - attraverso
la pratica dei tradizionali mestieri ambulanti, dal pastore all'arrotino
al seggiolaio, ma anche dei cavatori come dei primi librai, - fa anzi
di queste genti un soggetto assai più mondano del classico contadino
insediato stabilmente in pianura nel proprio fazzoletto di terra. 24
Si tratta di una rete geografica e sociale via via accantonata
dall'attuale predominanza delle linee di scorrimento vallive, la cui
decadenza è peraltro divenuta manifesta già con il processo di
unificazione ferroviaria della nazione. L'identità regionale appenninica, centrata sulla comunicazione tra i due versanti, diviene così
mera sopravvivenza nel corso del Novecento. Basti riprendere in
mano, a questo proposito, la serie fotografica dedicata al paese tra
le due guerre mondiali da Paul Scheuerrneier, per confrontarla,
semmai, con quella di un altro noto fotografo, Paul Strand, questa
volta centrato su Luzzara e il Po. Ci si rende immediatamente conto
conto della profonda diversità folclorica - e con ciò intendo, alla
lettera, la "conoscenza del popolo" - dei materiali etnografici raccolti
tra la pianura e la montagna, colte alla soglia della grande trasformazione imposta dall'introduzione delle macchine. 25
La capacità di resistenza dei caratteri formativi l'etnema rinfocola
nei momenti di crisi della comunità, e pare il caso della seconda
guerra mondiale: quando Loris Malaguzzi rimase talmente sugge-
stionato dalla tipologia ambientale incontrata a Sologno da tradurre
il topos regressivo del primitivo nell'epifania rousseauiana della
comunità originaria. 26
Quando a fine anno ci dicemmo addio c'erano già i tamburi di guerra e i
prilIÙ esalIÙ dell' università. Da allora in poi scuola, università e guerra
correranno in parallelo.
Non erano, per i lIÙei 19 anni, ancora tre realtà. Erano tre avvenimenti
che per immaturità e incoscienza non lIÙ apparivano né impercorribili,
né unificabili, né drammatici come narravano in famiglia.
Con questo ingenuo stato d'animo l'anno dopo salii a fare il maestro a
Solagna di VillalIÙnozzo, alle falde del Cusna. Un piccolo borgo di cui
non sapevo l'esistenza. Sapevo che dovevo fare, per raggiungerlo, molti
chilometri a piedi. Non ricorderò gli sgomenti iniziali. Dirò solo che fu
un' esperienza straordinaria.
26 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada
dell'insegnare, ci!., p.44; cito, di seguito, la
versione "C" proposta su "RS" da Laura
Artioli.
In che modo Sologno diviene un luogo fondativo dello spirito per
Loris Malaguzzi?
Retrocediamo ancora un poco in questo cammino biografico.
Nasce nel 1920 in una famiglia che a Reggio Emilia - il padre
è capostazione - possiamo definire piccolo-borghese, cresce in una
scuola fascistizzata dove si coltiva il culto della gerarchia, aderisce
di malavoglia alla prospettiva di impiegarsi in una società corporativa dove tutto gli appare preordinato e prevedibile. Alle Magistrali viene iscritto d'ufficio dal padre, alla cui "preveggenza" a quanto ci dice - deve il primo incarico lavorativo a Reggiolo.
Siamo tra il 1939 e il 1940, nel corso dei mesi in cui l'Italia fascista
prepara 1'entrata in guerra. Loris è diplomato ed in età di leva,
eppure non sa decidersi sul da farsi. Offre l'immagine di un giovane,
stordito, in cerca della propria vocazione. Dichiara, in particolare,
la propria incoerenza nei confronti della montante epopea guerriera
cui, pure, non mostra di ribellarsi.
Si tratta di un atteggiamento che poi volgerà ad una spiegazione
generazionale. 27
27 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada
dell'insegnare, cito p. 44.
D'altronde io ero, come tutti quelli della lIÙa età, un passeggero pronto
ad imbarcarsi su tutte le navi.
Quando si trova per la prima volta di fronte ai bambini, reagisce
emozionalmente. 28
28 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada
dell'insegnare, cit., p. 45.
45
Né loro, né io sapevamo niente. Capii che quella era la irresponsabile
seduzione che ti apriva le porte del mestiere.
Vi possiamo leggere l'abbozzo di un atteggiamento che diventerà
poi manifesto (l'abbiamo già intravisto nei topos che inanellano il
legame con la Politica): la scelta di non essere saggi.
29 Loris Malaguzzi, La pedagogia di Fichte,
Tesi di laurea, Università degli Studi di Urbino, 1946 (ATPI).
30 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada
dell'insegnare, cit., p. 45.
A Sologno arriva così, la prima volta, alla fine dell'ottobre 1940;
per restarvi - salvo alcune discese in città o alcuni esami universitari
ad Urbino - sino al giugno seguente. 29 Ed è così che, nella confessione
a posteriori, Sologno viene eletto, a futura memoria, luogo primario
di riconoscimento.
Lassù a 800 metri, per due anni di seguito, imparai mille cose: l'arte di
camminare a piedi, di orientarmi con alberi e rocce, di capire i sentieri
fasulli e quelli veri, di guadare torrenti, di scoprire la generosità dei
castagni, la cordialità dei silenzi, le incredibili capacità arrangiative della
gente, i lacci per acchiappare le lepri, gli infiniti spessori della miseria
in una terra di confine da cui gli abitanti continuavano a fuggire.
A legarmi di un' amicizia profonda coi quindici ragazzi dagli zoccoli di
legno, ingiaccati, con giacche enormi ereditate, dalla parlata stretta con
l'u francese, curiosi, furbi, dagli occhi sicuri, a mezzadria di fatto con
la scuola e le pecore, coi compiti e i lavori della stalla, delle carbonaie
e dei campi. 30
In tal senso, dacché il riconoscersi implica uno sguardo riflesso
ed induce ad un processo relazionale, la permanenza del giovane
maestro diviene un evento memorabile per l'intera comunità locale.
Lo si comprende, d'altronde, proprio seguendo la struttura narrativa
scelta da Loris per raccontare se stesso in relazione con Sologno.
Domina lo scenario, da un lato, dell' Arcadia.
31 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada
dell'insegnare, cit., pp. 45-46.
A far funzionare la scuola in una stalla appena evacuata, ad accendere e
riaccendere la stufa ogni mattina per via della legna verde, a lottare ogni
giorno coi ritardi dei ragazzi, aiutandoli spesso ad asciugare i calzini bagnati, a rifomirli di quaderni su quaderni del patronato scolastico.
Ad amare con gratitudine il mulo di Fortunato che viaggiava ogni giorno
fino a Castelnuovomonti (nostro corsivo, cosÌ nel testo, nda) per rifornire
di riso, vino e salumi i 146 abitanti, 147 con meY
Sologno non è però un romitorio, ma già un luogo dove si esprime
la civiltà della festa.
46
1955 - Premio "Maria Melato" - In alto, da sinistra: Franco Marani, Loris Malaguzzi, Wando Bertozzi, Luigi Reverberi, Nino Prandi, Lola
Braccini, Francesco Montanari, Rossella Falk, Filippo Ampola, Elsa Albani, Renzo Bernazzoni, seno Pietro Marani, Sergio Masini. In basso:
Romolo Valli, Anna Maria Guarnieri, Giorgio De Lulio.
32 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada
dell'insegnare, cit., p. 46.
Ad attendere con desiderio le anomalie dell' allegria gentile poi chiassosa
e sbracata della domenica che mischiava messa e osteria e che finiva a
notte fonda coi ragazzi e le donne che venivano a riprendersi i fratelli, i
padri, i mariti. 32
Ed è precisamente sulle "anomalie" che si concentra il giovanissimo
Loris, cogliendo nella sociabilità - piuttosto che nel ruolo istituzionale
del maestro - la chiave d'accesso al paese. Tanto più esaltata per la
straordinarietà della congiuntura bellica, quando la comunità paesana
è proccupata di difendere la propria identità: prima, al momento della
chiamata degli uomini giovani per la guerra, quindi - passato 1'8
settembre 1943 - per far fronte al brutale regime di occupazione
nazifascista (pagato con l'incendio di alcune case al termine di un
rastrellamento). Il tempo della guerra, a Sologno come nei paesi
dell'alto crinale, ha così nutrito la memoria degli anni a venire; mentre
la ricostruzione, a questa altimetria, ha coinciso con la grande emigrazione. Poi, con il boom e la società del benessere, le "rondinelle"
hanno via via smesso di tornare, salvo il ritrovarsi attorno al Ferragosto, per rimemorare e tramandare l'epoca eroica in cui salvaguardarono - contro i grandi mali del secolo - la coesione della propria
microcomunità.
33 L'incontro si è svolto sabato 22 agosto
1998,dietro proposta di Istoreco e dell'Associazione Amici di Reggio Children; il tamtam avviato sul posto dal prof. Giuseppe
Fontana ha richiamato un gruppo nutrito ed
entusiasta di persone, che hanno gremito la
sala parrocchiale. La "scoperta" della relazione intercorsa tra Loris Malaguzzi e Solagna era avvenuta un anno prima, quando
trovammo le abitazioni pronte ad aprirsi per
parlarne con gioia (il 12 agosto 1997, presenti Giuseppe Fontana, Laura Artioli, Carla
Nironi, Angelo Catellani e il sottoscritto.
Loris Malaguzzi visse a Sologno anche l'inverno e la primavera
1944, quando la Val d'Asta venne messa a ferro e fuoco, e si comprende come ne sia divenuto memoria presente. L'affetto tributatogli
nell'agosto del 1998, nel corso di un'iniziativa condotta sul "filo della
memoria" assieme ai suoi ex scolari e compagni d'osteria, ha ampiamente oltrepassato l'alone di curiosità e simpatia riservato ai vecchi
amici che si sono fatti strada. 33 È stata, per numerosi abitanti, l'occasione in cui dar la stura al ricco repertorio aneddotico che ogni
memoria collettiva alimenta e conserva quale autorappresentazione.
I pianzàn presenti hanno piacevolmente toccato con mano cosa avesse
significato - per i nativi di Sologno - l'incontro con quel maestro così
eterodosso e anticonformista. Molti tra gli scotmaj ancora oggi in voga
a Sologno presero a circolare precisamente grazie alla capacità inventiva del giovane Loris, il quale da par suo ne fu immensamente
ripagato, ritrovandosi "educatore" al servizio di una comunità.
Malaguzzi è insomma divenuto cittadino "onorario" di Sologno non
per i successi professionali mietuti (peraltro non così noti a persone
che hanno trascorso gran parte dell'esistenza tra montagna ed emigra-
48
zione) ma per quanto ha saputo e voluto condividere del comune stato
di necessità. È il maestro di città che giunge in un paese di pastori
e di contadini, dove l'insegnamento - mancando lo stabile - si svolge
in abitazioni private, gomito a gomito con l'osteria. Piuttosto che
storcere il naso, si lascia avvolgere dagli umori di questo ambiente
intessuto di contiguità: gioca a carte, suona la fisarmonica, beve il vino
in compagnia, impara a sciare. Prende parte alla vita quotidiana, traducendo il tradizionale ruolo autoritario dell'insegnante in una funzione
sociale: mentre tutt'attorno si consumano la battaglia partigiana di Cerrè
e l'eccidio di Cevarolo, organizza un "teatrino" cui prendono parte gli
abitanti del paese, chiamati a rappresentare collettivamente - ricreando
situazioni reali, con l'ausilio di soprannomi densi di ironia - la propria
comunità. L'invenzione di quel "quadro vivente" nutrito di "macchiette"
sarcastiche fungerà - negli anni - da mappa identitaria, atta a ricomporre
entro un comune sistema di referenza le spinte centrifughe e conflittuali
successive. Lo ha ben testimoniato Ione Bartoli. Inviata dal Partito
Comunista nella terra "bianca" di Sologno - siamo alla metà degli anni
Cinquanta - raccoglie esattamente questo genere di opinione popolare:
"Qui ci vorrebbe Malaguzzi, con lui sÌ che ci comprendiamo ... "?4
34 Riassumo qui il senso di una frase
La scuola, inoltre, ha assunto con gli anni una centralità inusitata
in questa comunità appenninica. Dapprima subita passivamente - tutto
sommato la cosa più importante, all'ombra dei castagni, era l'imparare
a far di conto -, poi rivendicata come viatico alla modernità, infine
ridotta dal calo demografico alla chiusura. Attorno alla scuola si sono
più facilmente cristallizzati i ricordi del "tempo che fu", dei bambini
che sciamavano come dei "bravi" maestri che vi esercitavano il loro
severo offizio. In altri termini, la memoria "con" e "per" la scuola viene
oggi assimilata ad una lotta di riconoscimento: del proprio posto nella
comunità d'origine, e tra questa e il mondo esterno. Ed è qui ad esempio
che Arrigo Belli - ancora grazie a Loris Malaguzzi - comprende il
significato del comunismo e diventa il falegname "rosso" del paese?5
pronunciata a latere dell'intervista di Maria
Nella Casali e Ombretta Lorenzi a Jone
Bartoli (8 luglio 1998) - registrata nell'ambito della sopra citata ricerca - e ribadita nel
convivio solognese (materiale attualmente
depositaato in ATPI).
35 Intervista citata, registrata collettivamente
a Solagna il 12 agosto 1997 (materiale attualmente depositaato in ATPI).
Eh, di lui mi è rimasto intatto il modo come gestiva la scuola. Era diverso
da tutti i maestri di allora.
Per raccontarle qualche episodio che mi è rimasto impresso. Allora c'era
un branco di ragazzi alla prima elementare, eravamo un bordello di ragazzi
e poi malnutriti, malvestiti; e di lui notavamo proprio 1'esigenza di vedere
i ragazzi curati, ci teneva molto a questo fattore e gli dispiaceva ... Mi ricordo un particolare. Arrivavano i ragazzi che proprio non si dedicavano, arrivavano così per dire, andavano a scuola per modo di dire, e lui gli diceva...
49
faceva degli esempi di questo tipo, in classe. "Lo sai che se non studi, se
non t'impegni rimarrai un somaro? Sarai un somaro". E poi gli diceva:
"Lo sai cosa vuoI dire somaro?" - "No" - "Lo sapevo che non lo sapevi...".
Per dimostrargli cos' era un somaro, diceva: "Vieni qua, tu, mettiti lì", e
l'altro gli montava in spalla, poi lo faceva girare intorno alla classe, ma
non con violenza. Poi gli diceva: "Il somaro deve portare la soma, allora
se tu non studi, se tu non impari ti riduci ad essere uno che porta la soma
per tutta la vita".
Aveva delle cose diverse da tutti gli altri maestri. Era una cosa eccezionale
e mi è rimasto impresso il modo come insegnava. (... ) Lui veramente aveva
creato un clima per me diverso dagli altri maestri. Dopo di lui ho fatto fino
alla terza elementare, e poi l'ho conosciuto ancora a Reggio. L'ho fatto
venire io qui a fare un comizio. Ero segretario di sezione qua, allora una
volta a Reggio l'ho trovato a un congresso e c'ho detto: "Loris, lei mi deve
fare un favore, mi venga a fare un comizio a Sologno ... ". E quando uscivano dalla chiesa, lì dal salone parrocchiale c'avevo preparato un banchetto,
lui ha fatto un discorso.
Mai vista tanta gente a un comizio! La gente è andata fuori di testa a sentire
Loris Malaguzzi, perché era rimasto, eh... ! Era rimasto un personaggio, proprio di attrazione, perché era diverso, aveva qualcosa in più ...
La reciprocità del riconoscimento ha sostenuto e reso possibile
i percorsi successivi di entrambi. La comunità solognese si è dispersa
per il mondo senza smarrire la memoria delle radici; il giovane
maestro, compresa la profonda politicità della propria disciplina, si
36 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada
dell'insegnare, cit.,p. 50.
ritrova uomo "dalla parte dei più deboli, della gente che più portava
37 Loris Malaguzzi, Che io infilassi la strada
dell'insegnare, cit., p. 54.
E così può concludere, a partire da Sologno, la propria confessione. 37
con sé speranze". 36
Per quanto abbia spesso restaurato i miei pensieri sono sempre rimasto in
quella nicchia.
Non ho mai provato rimpianti per quella scelta e per ciò che ho lasciato o
mi sono strappato di dosso.
7. .. .Luoghi per educare
Pierre Nora, a partire dalle proprie ricerche dedicate alla costruzione dell'identità nazionale francese, ha diffuso tra gli storici la
38 Pierre Nora, La notion de "Iieu de
mémoire" est-elle exportable?, in Lieux de
Mémoire et Identités Nationales Rencontre
France-Pays Bas, Amsterdam, maggio 1992.
nozione di luogo della memoria. 38 Si tratta, precisamente, di spazi
che fungono da deposito per le memorie collettive che abitano il
nostro presente. Ciò avviene a partire da avvenimenti che, per le
più disparate ragioni, radicano processi di riconoscimento. Sono
quindi gli usi pubblici a configurare un determinato contesto di
50
memoria in quanto spazio simbolico di rimemorazione. Non si tratta,
è bene dirlo, di un riscatto indolore. Rammemorare, come ha recentemente osservato Maurice Aymard, significa anche esprimere
la capacità ad obliare: il "luogo di memoria" denuncia, altrimenti,
un sentimento di perdita e di caducità. 39
La medesima tensione, rispetto alle comici spazio-temporali che
reggono il nostro essere-nel-mondo, l'ho avvertita nelle parole
pronunciate da Loris Malaguzzi per il cinquantenario del Centro
Educativo Itala-Svizzero di Rimini:
lo sento che mi manca una territorialità di ordine culturale di ordine
civile di ordine politico".4o
Ritorna, con evidenza, l'approccio "topologico", e prima che alla
"Cultura" alla propria esperienza di educatore nel quotidiano. Loris
Malaguzzi, come viene ricordato da vari amici e compagni di strada,
non fu tra gli intellettuali "organici" di punta della sinistra reggiana.
Sergio Masini lo rappresenta come una persona che ha corso su di
un doppio binario: radicato "dentro" ad un ambiente popolare e di
aristocrazia operaia, molto legato alla "strada"; e soltanto poi impegnato a proiettare tutto ciò "fuori" dal proprio ambiente, nei
circuiti istituzionali e intellettuali. 41 Renzo Bonazzi, da par suo, lo
ricorda costantemente sotto traccia, mai davvero protagonista nei
luoghi "deputati", già per il percorso scolastico scelto (al Liceo
Classico predilige l'Istituto Magistrale, dove è tutt'altro che uno
studente modello). 42
La sua visibilità cresce con gli anni, per una serie di attività
collaterali, per poi fissarsi attorno alla costruzione delle scuole comunali dell'infanzia. Ma è questo un approdo maturo, varcata la soglia
dei quarant' anni. Prima dell' istituzione, e della notorietà, c'è tutto un
percorso "sotto traccia", ed il criterio topologico credo possa servire
a restituirne meglio ciò che lui ha tenuto a definire il "gioco cospirativo" della propria esistenza.
39 Maurice Aymard, fatta propria la premessa che esistono «due dimensioni del passato, collettiva e individuale, che danno al
nostro presente il suo significato e la sua
ricchezza», esprime la seguente avvertenza
metodologica: «Questa leggibilità viene in
effetti minacciata e impoverita dall'oblio, che
erode dall'interno il lavoro della memoria.
Questa frontiera fragile fra oblio e memoria,
l'uno e l'altra necessari alla nostra vita e
complementari, costituisce per lo storico
unterreno privilegiato, che gli permette di
affermare la sua presenza di attore sociale.»
Cfr. la sua Prefazione allo studio di Antonio
Canovi, Cavriago ad Argenteuil. Migrazioni
Comunità Memorie, RS Europa Libri, 1999.
40 Intervento di Loris Malaguzzi (Rimini, 25
maggio 1991) alla presentazione del libro
Una scuola una città. " Centro educativo
italo-svizzero di Rimini, Venezia, Marsilio,
1991; Malaguzzi venne invitato dalla fondatrice del CEIS, Margherita Zoebeli, per le
lunghe frequentazioni comune, di cui ha
fornito testimonianza diretta l'attuale direttore Sapucci (intervista del 3 ottobre 1997,
depositata in AlPI).
41. Cfr. gli appunti stesi da Laura Artioli nel
corso del colloquio con Sergio Masini (14
aprile 1997, Reggio Emilia), attualmente in
deposito ATPI.
42. Intervista a Renzo Bonazzi di Antonio
Canovi e Ombretta Lorenzi (11 maggio
1998); attualmente in deposito ATPI.
Solagna è il luogo del mito: sta in fondo al pozzo dei desideri,
perciò è luogo inenarrabile, indimenticabile. Villa Cella è il luogo
dell' homo faber, è l'acqua del pozzo con la quale dissetare tutti (coloro
che sono di buona volontà), ed è memoria collettiva, in quanto "non
ti abbandona più". La Liberazione è il rito di passaggio, la lingua
che consente di narrarsi, rappresentarsi, essere-neI-mondo.
51
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Curdi e questione curda:
un popolo, tanti Stati,
nessuno Stato
Stando ai numeri, i curdi sono il più consistente fra i popoli rimasti
senza Stato: 24-27, forse 30, milioni di individui sparsi fra Turchia,
Iraq, Iran e Siria (più alcune frange nelle repubbliche confinanti
dell'ex-Unione Sovietica e anzitutto in Armenia). La mancata realizzazione di uno Stato curdo riflette la specificità di un popolo
nel quale le istanze localistiche e i particolarismi hanno sempre avuto
la priorità rispetto ai caratteri di un vero e proprio nazionalismo.
Anche i molti episodi di ribellismo curdo a sfondo autonomistico
che si sono succeduti negli ultimi 80 anni hanno risentito delle
condizioni di ognuno degli spazi fisici, territori o Stati, in cui si
trovano i curdi.
GIAMPAOLO
CALCHI NOVATI
Èautore di numerosi saggi, anche tradotti,
tra i quali segnaliamo: Dalla parte dei leoni,
Milano, Il Saggiato re, 1994; 1/ Corno d'Africa
nella storia enella politica, Torino, Sei, 1994;
Mediterraneo equestione araba nel/a politica
estera italiana, in Storia dell'Italia contemporanea, Torino, Einaudi, 1995.
Entro l'inverno usciranno in libreria: 1/ canale
della discordia, Urbino, ed. Quattroventi e
Storia del/'Algeria indipendente, Milano,
Bompiani.
Invece che di un Kurdistan, come pure si è soliti dire nel linguaggio
giornalistico o nel dibattito politico, e i cui confini risulterebbero
comunque mal determinati, si dovrebbe parlare di più Kurdistan: un
Kurdistan turco, un Kurdistan iracheno, un Kurdistan iraniano. I curdi
sottoposti alla giurisdizione di Damasco sono troppo pochi e il loro
habitat non è abbastanza compatto per dare origine a un Kurdistan
siriano. Il Kurdistan turco è il più importante dal punto di vista
demografico ed è qui che, in tempi recenti, 1'autonomismo dei curdi
è arrivato ad esprimere più nettamente una tendenza separatista. Nel
Kurdistan iracheno i curdi hanno il loro epicentro "nazionale", sia per
1'effettivo ruolo politico svolto qui dalle forze curde che per la presenza
di prestigio se istituzioni culturali (a Baghdad e Sulaymaniya), nonché,
per la ricchezza petrolifera che potrebbe sorreggere l'economia di un
ipotetico Stato curdo. Lo Stato curdo che per la prima e unica volta
53
è stato prospettato dalla diplomazia internazionale - all'atto della
dissoluzione dell'Impero Ottomano - aveva sede nella parte sudorientale della Turchia con la possibilità che a esso aderisse il distretto
di Mosul, destinato a far parte dell'Iraq.
Per affinità etnica i curdi sono più vicini all'Iran, ma la genealogia
è incerta. Essi discenderebbero da gruppi indo-europei trasmigrati
verso ovest nel primo millennio avanti Cristo, incorporando popolazioni autoctone e elementi arabi e turcomanni divenuti curdi per
cultura. La loro lingua, che non è la stessa per tutti i curdi, appartiene
al ceppo iranico. Il carattere identitario dei curdi è appunto la lingua.
Siccome la religione dei curdi è l'lslam, per lo più di rito sunnita,
essi condividono la religione di maggioranza negli Stati di residenza.
In passato, la religione comune è anche servita a stabilire rapporti
di unità o almeno di complicità fra i curdi e il governo dei rispettivi
Stati (per esempio con la Turchia contro gli armeni o i greci).
Non esiste nella storia una tradizione unitaria dei curdi, ma sono
esistiti principati ed emirati curdi che hanno conservato l'indipendenza anche a lungo. Fra le varie dinastie va ricordata soprattutto
quella degli Ayyubiti (è famoso Saladino), che regna dal 1169 al
1250 in gran parte del Medio Oriente, all'epoca delle Crociate. Dopo
l'affermazione dello Stato ottomano nel XV-XVI secolo le entità
statali curde costituirono l'estremo lembo orientale dell'Impero. La
cultura curda fiorì fra l'XI e il XVII secolo in varie corti e nel 1695
vide la luce il poema che è considerato il capolavoro epico della
letteratura curda e in cui si evoca un regno curdo unificato.
Con il processo di centralizzazione del potere, i curdi sono stati
via via assorbiti o nello Stato turco o nello Stato persiano o, in
misura minore, nello Stato russo. Agli occhi dei poteri imperiali
i curdi erano una specie di "barbari delle frontiere", da impiegare
come avamposto in guerre per procura o come cuscinetto per tener
separate le varie sfere di sovranità. I curdi erano - e per molti motivi
lo sono ancora - divisi in famiglie, clan e tribù, con le nozioni di
parentela e il radicamento territoriale che ne derivano, e illealismo
stenta a superare questo livello di aggregazione. Quando, ad imitazione delle idee di Stato e nazione elaborate in Europa, nel Medio
Oriente si diffusero associazioni o movimenti di ispirazione nazionalistica, i curdi restarono tagliati fuori. Non solo perché le guerre
e la diplomazia congiurarono contro di loro ma perché le affiliazioni
54
nel mondo curdo erano a carattere tribale e mancava una classe
media o un'élite intellettuale trasversale in grado di formulare un
progetto nazionalista valido per tutti i curdi. Se ostacolò e alla fine
impedì la formazione di uno Stato, il particolarismo ha avuto tuttavia
il grosso vantaggio di preservare le peculiarità culturali dei curdi
anche in pendenza di politiche fortemente assimilazionistiche: in un
contesto variegato ed eterogeneo come è questa regione del Medio
Oriente, di passaggio fra potestà diverse e diverse culture, una zona
montagnosa e impervia che è stata terra di rifugio e asilo di molte
minoranze nel corso dei secoli, l'autonomia può essere un obiettivo
perfettamente coerente con la storia e l'ecologia.
La statualità politica nel Medio Oriente come lo conosciamo oggi
ha preso forma dalla sconfitta dell'Impero Ottomano nella prima
guerra mondiale. La riconversione della Turchia da "impero" a Stato
"nazionale" ha liberato in teoria le altre nazionalità racchiuse in esso.
È dalla prima guerra mondiale che i curdi hanno cominciato a
comportarsi come una comunità etnica e fu allora che i curdi hanno
avuto l'occasione di edificare uno Stato. Si pronunciava in questo
senso il trattato di pace imposto alla Porta nel 1920. Ma quando
la rivoluzione kemalista produsse una Turchia nuova, occidentalizzante, con una concezione dello Stato razziale e centralizzata, i
vincitori della guerra preferirono assecondare la Turchia e sacrificare
le minoranze. Le esigenze nazionali della Turchia da una parte e
degli arabi dall'altra, e certi accorgimenti strategici per contenere
la Russia bolscevica, indussero Londra e le altre potenze a tradire
le promesse fatte ai curdi. Dello Stato curdo non c'è più traccia nel
Trattato di Losanna del 1923 che cancellò il Trattato di Sèvres. Nella
sistemazione territoriale delle ex-province arabe dell'Impero Ottomano, dove viveva un'ingente minoranza curda, intervenne il colonialismo europeo, che si ritagliò una serie di possedimenti a titolo
di mandati: nel 1925 il territorio di Mosul e Kirkuk, ricchissimo di
petrolio, fu annesso all'Iraq, che era una dipendenza della Gran
Bretagna. Dopo il 1920, durante il regno di Reza Khan, l'ordine,
la disciplina e la centralizzazione portarono anche in Iran (Persia)
alla fine delle autonomie tribali e al progressivo assoggettamento
dei curdi.
Nel periodo fra le due guerre e dopo la seconda guerra mondiale
i curdi hanno seguito le vicende degli Stati che li ospitavano e quindi
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soprattutto di Turchia, Iraq e Iran. Per dare un'idea del loro peso
relativo, i curdi sono circa un quinto della popolazione turca, il 25
per cento in Iraq e il 12 in Iran. li massimo di oscuramento della
realtà curda si è avuto in Turchia, dove una legge fa esplicito divieto
di usare in pubblico la lingua curda, divieto che può equivalere alla
premessa di un etnocidio, ma dove nel contempo - pur in presenza
di un movimento che ha fatto ricorso alla lotta armata su vasta scala
perseguendo l'indipendenza del Kurdistan - più avanzata è l'integrazione delle élites. I curdi hanno raggiunto il massimo di autonomia
in Iraq, che ha enunciato solennemente in una Costituzione il principio della binazionalità (Stato arabo e curdo).
Cercando di sfruttare le alleanze per i loro scopi di autonomia
ed emancipazione, i curdi sono stati coinvolti nella dimensione
internazionale della politica mediorientale e - in un sistema inquinato
e condizionato dai blocchi - hanno subito di fatto l'iniziativa altrui
e in particolare le ipoteche della guerra fredda. Su un punto del
resto, al di là di tutte le divergenze, fra gli Stati della regione e
le grandi potenze c'è sempre stato accordo: scongiurare con tutti
i mezzi Ja nascita di uno Stato curdo, e tanto più pan-curdo, per
non sconvolgere gli equilibri geopolitici in una regione cruciale.
Così, nel riassetto che segue le grandi crisi (negli anni '20 come
negli anni '40 e quindi negli anni '90) prevale sempre una logica
conservatrice che penalizza i curdi.
Nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale si ebbe una
dimostrazione dell'intreccio fra spirito di autonomia delle minoranze
e grande politica quando l'Urss favorì la costituzione di due repubbliche autonome sul confine in territorio iraniano: una repubblica
azera (capitale Tabriz) e una repubblica curda (con capitale a
Mahabad, una delle città storiche del mondo curdo). La Repubblica
autonoma di Mahabad visse meno di un anno nel 1946. In essa prestò
la sua opera come comandante militare Mustafa Barzani, riparato
qui dall'Iraq, che diverrà il capo leggendario dei curdi per circa
trent'anni. Per le pressioni internazionali, l'Urss fu costretta a revocare il suo aiuto all'entità curda, che - già minata dalla frammentazione tribale - andò incontro all'inevitabile disfatta sotto l'offensiva
dell'esercito dello scià. Barzani si rifugiò in Urss, dove salì tutti i
gradini della gerarchia militare e da dove sarebbe tornato (questa
volta e definitivamente in Iraq) solo nel 1958.
56
Il 1958 è l'anno della rivoluzione militare in Iraq contro la
monarchia hashemita. Il nuovo governo poggiava su un'ampia
coalizione che comprendeva nasseriani, Baath, comunisti e curdi. La
nuova Costituzione riconobbe la nazione curda accanto alla nazione
araba. Ma il clima di liberazione che tenne dietro al crollo di un
regime decisamente reazionario (i partiti curdi iracheni avevano
partecipato alla lotta delle sinistre per il riscatto dei contadini dallo
strapotere degli agrari) non resistette alle contraddizioni di un fronte
fin troppo composito e alle durezze di una leadership che aveva il
suo fulcro nei militari, poco portati - anche quando, come è accaduto
in molti paesi del Medio Oriente, si sono fatti artefici di una politica
di progresso nel nome del nazionalismo, dell'antimperialismo e del
socialismo - a praticare il pluralismo e la democrazia.
Pur fra le molte, e drammatiche, vicissitudini dei regimi militari
che hanno governato in Iraq, dal 1968 con il marchio del Baath,
il Kurdistan iracheno ha goduto di una sostanziale autonomia o grazie
a trattati formali o per l'azione dei partiti militarizzati o - dopo la
guerra del Golfo del 1990-1991 - per l'intervento della comunità
internazionale. Un trattato in piena regola per l'autonomia delle terre
curde dell'Iraq fu sottoscritto nel 1970 da Saddam Hussein, allora
vice-presidente e "uomo forte" del governo baathista. L'applicazione
dell'accordo, che poteva cambiare la storia dell'Iraq e del popolo
curdo in tutto il Medio Oriente, fu deludente. Il vero contenzioso
riguardava, come sempre, il petrolio della zona di Mosul e Kirkuk.
A decidere, in negativo, le sorti dell'accordo sul Kurdistan iracheno influì anche la politica internazionale. I curdi erano stati
armati e protetti a distanza da Mosca: dopo tutto, nonostante i legami
feudali o semifeudali in ambito curdo, Mustafa Barzani era stato
un maresciallo dell' Armata Rossa. Quando nel 1972 l'Urss e l'Iraq
conclusero un Trattato di amicizia e di cooperazione, però, i rapporti
fra il governo sovietico e Barzani non potevano più essere quelli
di prima, soprattutto se il movimento curdo si poneva in urto frontale
con Baghdad. Si assistette a uno spettacolare rovesciamento delle
alleanze. Barzani andò a cercare le armi e gli aiuti in Occidente,
negli stessi Stati Uniti, e nell'Iran dello scià. Per il giuoco nefasto
dei contrappesi, il governo iracheno cominciò a sostenere i curdi
iraniani e i gruppi di opposizione all'opera nel Khuzistan, la provincia arabofona dell'Iran. La guerra mise a dura prova la stabilità
57
dei due Stati finché, nel 1975 - mediatore il presidente algerino
Houari Boumediène, ispiratore del non-allineamento e del terzomondismo - Saddam e lo scià firmarono un accordo che metteva fine
alle ingerenze reciproche per curdi interposti e delimitava il confine
dello Shatt-el-Arab.
L'accordo iracheno-iraniano del 1975 fu una catastrofe per i curdi.
Per fedeltà allo scià, loro grande alleato, gli Stati Uniti lasciarono
cadere il sostegno al movimento di Barzani, il cui potere precipitò
al minimo storico. Usciva confermato il postulato mai smentito che
i protagonisti della politica regionale e internazionale possono aiutare
militarmente e politicamente i vari partiti curdi ma fino al limite
di una loro possibile vittoria perché, non vogliono mai oltrepassare
la linea dello status quo territoriale. Per convinzione o per realismo,
né i curdi iracheni né i curdi iraniani avevano parlato di indipendenza,
ma anche un grado sostanziale di autonomia era percepito come un
precedente pericoloso: su tutto il problema curdo incombe il destino
dei curdi della Turchia e l'integrità territoriale e la stabilità politica
della Turchia sono fondamentali per gli Stati Uniti ben più di quelle
di Iraq e Iran.
I curdi tornarono sulla scena nell'incomoda posizione di agenti
strumentali e ostaggi quando il regime dello scià fu rovesciato dalla
rivoluzione islarnica e l'Iraq aggredì l'Iran facendo a pezzi l'accordo
del 1975. I curdi avevano sperato di beneficiare del movimento
khomeinista, e in parte furono associati alla rivoluzione, ma ben
presto l'autoritarismo del regime degli ayatollah, antitetico già sul
piano ideologico ai diritti delle minoranze, soprattutto se musulmane,
soffocò ogni pretesa di autonomia. I curdi dell'Iran ritennero di
appofittare dell'attacco dell'Iraq per guadagnare terreno nel Kurdistan con le armi. Lo stesso processo si verificò in territorio iracheno.
Furono soprattutto i curdi iracheni a pagare quell'azione di disturbo
in un paese in guerra. Negli ultimi mesi dell'interminabile conflitto
Iraq-Iran, nel 1988, le forze armate di Baghdad riversarono bombe
e gas tossici per piegare la resistenza nel Kurdistan e terrorizzare
la popolazione civile.
I curdi iracheni furono le vittime indirette anche della seconda
guerra del Golfo, che si combatté nel 1991 dopo l'occupazione del
Kuwait da parte dell'Iraq nell'agosto 1990. L'Iraq fu sconfitto dalla
coalizione orchestrata dagli Stati Uniti, ma, perduto irrevocabilmente
58
il Kuwait con il suo petrolio e i suoi sbocchi al mare, il regime
baathista poté impiegare la forza per riprendere il controllo del
territorio iracheno: al sud contro l'opposizione sciita e al nord contro
la rivolta più o meno spontanea dei curdi. Nelle pieghe della politica
per indebolire Saddam, in Iraq è stata creata una enclave curda che
gode di un' autonomia molto estesa, tanto da aver organizzato nel
maggio 1992 le elezioni per un parlamento curdo.
Il Kurdistan iracheno ha subito una profonda trasformazione socioeconomica con un processo di urbanizzazione di proporzioni prima
sconosciute e la totale dipendenza dal commercio, lecito o di contrabbando, non più attraverso l'Iraq ma attraverso la Turchia. Non
è finita la rivalità interclanica e la precaria intesa raggiunta per
governare insieme il Kurdistan non trattiene i partiti dei Barzani e
dei Talabani dal misurarsi di continuo anche con le armi appoggiandosi di volta in volta all'Iran, alla Turchia o allo stesso Iraq.
La partecipazione attiva del governo della Turchia al contenimento
anti-iracheno in coincidenza con la guerra del 1990-91, a protezione
dei curdi dell'Iraq, ha avuto conseguenze dirompenti per il Kurdistan
turco. Ankara non ha più potuto fingere che i curdi non esistano
o siano una semplice variante dei turchi. Per qualche tempo i
movimenti curdi d'opposizione, a cominciare dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) , impegnato da anni nella guerriglia e nel
terrorismo per un Kurdistan indipendente, hanno costituito nel vicino
territorio dell'Iraq, destabilizzato e in deficit di sovranità, i "santuari"
di cui avevano bisogno. Il governo turco ha oscillato fra le aperture
(nel 1991 il presidente Turgut Ozal si spinse fino a prospettare
l'abrogazione della legislazione contro l'uso della lingua curda) e
la controguerriglia ad oltranza, con raids nei villaggi curdi, brutalità
e torture, valendosi anche dell'appoggio degli armati curdi di stanza
nel nord dell'Iraq, decisi ormai a disfarsi dei reparti del Pkk per
far cessare le rappresaglie turche.
Il Pkk è nato nel 1978 con un programma rigorosamente marxista,
sebbene non troppo dipendente da Mosca, ed è venuto alla ribalta
nel 1984 mentre sembrava esaurirsi l'attività armata degli opposti
estremismi che aveva insanguinato la Turchia per anni. Prevenendo
l'ondata repressiva seguita al colpo di Stato militare del 1980, il
leader del Pkk, Abdullah Ocalan, detto Apo (lo zio), trovò rifugio
in Siria e nel Libano sotto controllo siriano. Dal 1984 al 1998, fra
59
vittime del terrorismo, regolamenti interni alla comunità curda e
repressione ad opera dello Stato, la guerra ha causato 30 mila morti.
È opinione corrente che il Pkk sia ben inserito nelle reti di traffico,
smistamento e smercio di eroina dentro e fuori la Turchia. La
successione di spostamenti di Ocalan nel 1998, prima a Mosca e
poi in Italia, è stata la conseguenza di un compromesso fra Ankara
e Damasco, che ha comportato la sospensione dell'aiuto che il
governo siriano assicurava ai militanti e combattenti curdi per odio
anti-turco. Giunto avventurosamente a Roma, con non poco imbarazzo per le autorità italiane, Ocalan ha rilasciato clamorose dichiarazioni a favore dell'abbandono della lotta armata e dei progetti di
secessione in cambio di un negoziato onesto per l'autonomia e i diritti
civili dei curdi in un quadro federativo: paradossalmente, l'anomalia
di una frazione del movimento curdo che punta all'indipendenza
potrebbe rientrare proprio nel momento in cui l'eco del "caso Ocalan"
ha "internazionalizzato" la questione curda.
È difficile dire se i curdi della Turchia - in quanto parte di uno
Stato membro della Nato e candidato all'Unione Europea - avranno
più chances di ottenere soddisfazione dei curdi d'Iraq e Iran ovvero
se il sistema di sicurezza vigente in Europa si dimostrerà meno
disponibile a interferire nella politica interna di uno Stato che funge
da punta avanzata dell'Europa e dell'Occidente in quel mare magnum
di instabilità che è la zona compresa fra i Balcani e il Caucaso. Certo,
più che mai, il nazionalismo o pseudo-nazionalismo curdo, diviso
al suo interno dalla geografia, dalla lingua, dal territorio e dalla
politica (tradizionalisti contro progressisti), si presenta come un
fattore atipico nella controversa e manipolatissima attuazione del
diritto di autodeterminazione dei popoli. Continua intanto la migrazione dei curdi, non più solo dalle campagne dei vari Kurdistan verso
le città ma dalla Turchia e dal Medio Oriente alla volta dell'Europa
e degli Stati Uniti, e nella stessa Italia.
60
1915-1918 - Eccidi incrociati fra curdi e armeni e persecuzione dei curdi, con deportazioni
e tentato genocidio, da -parte del movimento nazionale turco.
10 agoslo 1920 - Il primo trattato di pace imposto alla Turchia sconfitta, firmato a Sèvres
ma rimasto sulla carta, prevede, in ossequio al principio dell'autodeterminazione dei popoli
caro al presidente Wilson, uno Stato curdo in territorio turco con l'eventuale aggiunta del
distretto di Mosul.
CRONOLOGIA ESSENZIALE
DALLA PRIMA GUERRA
MONDIALE ALLA GUERRA
DEL GOLFO
24 luglio 1923 - Il Trattato di Losanna statuisce l'integrità territoriale della Turchia con
la scomparsa dello Stato curdo. Il Trattato tutela le minoranze religiose (cristiani, ebrei)
ma i curdi, in quanto musulmani, non godono di nessuna speciale garanzia.
1925 - Rivolta curda in Turchia e nuove deportazioni dal Kurdistan turco (febbraio-aprile).
Larea di Mosul, ricchissima di petrolio, viene annessa alle province di Baghdad e Bassora
nello Stato dell'Iraq (dicembre).
1930 - Vasta agitazione insurrezionale dei curdi in territorio turco e persiano. Un'altra
rivolta nel 1937.
1931 - Il ribellismo curdo si estende all'Iraq.
1946 - Effimera esistenza di una repubblica autonoma curda con capitale a Mahabad, in
Iran (gennaio-dicembre): il presidente è Dazi Mohammed e Mustafa Barzani comanda le
forze armate.
luglio 1958 - Rivoluzione contro la monarchia hashemita a Baghdad e riconoscimento della
parità fra arabi e curdi nel nuovo Iraq.
1961 - Si riaccende la ribellione curda in Iraq.
11 marzo 1970 - Il governo baathista sancisce mediante un formale trattato l'autonomia
del Kurdistan iracheno, ma restano in discussione i confini e i poteri effettivi.
1974 - La guerra nel Kurdistan iracheno riprende su vasta scala con l'aiuto dello scià e
dell'Occidente.
6 marzo 1975 - Laccordo di Algeri fra Iraq e Iran porta al ritiro dell'appoggio incrociato
dei due governi ai movimenti autonomisti curdi in territorio altrui. Collasso delle forze di
Barzani in Iraq.
1978 - Incomincia l'azione politico-militare del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk),
che darà vita in Turchia a un movimento di massa per l'indipendenza di uno Stato curdo.
1979 - In Iran il movimento curdo parteggia per la lotta di popolo contro lo scià ma
l'autonomia acquisita di fatto nel periodo rivoluzionario verrà annullata dal dispotismo del
regime khomeinista.
1980-1988 - La guerra fra Iraq e Iran permette ai curdi di allargare i propri spazi di autonomia
nei rispettivi territori ma i governi centrali riusciranno a riprendere il pieno controllo. Con
la fine della guerra, i curdi in territorio iracheno sono vittime di una tremenda repressione
con impiego anche di armi chimiche: il villaggio di Halabja diventa il simbolo del martirio
del popolo curdo. Esodo di massa verso l'Iran e la Turchia.
1987 - Proclamato lo stato d'emergenza in molte province curde della Turchia per far fronte
alla guerriglia indipendentista del Pkk.
1991 - Il regime di Saddam riconquista con la forza il territorio curdo soffocando la rivolta
autonomistica che si era sviluppata per effetto della guerra del Golfo (marzo). Si mette
in moto un altro esodo di massa. La risoluzione 688 approvata dall'Onu nel quadro delle
sanzioni anti-lraq istituisce un sistema di protezione internazionale per il Kurdistan iracheno
(5 aprile). Il governo e il fronte curdo raggiungono un accordo sull'autonomia del Kurdistan
iracheno (24 aprile). La Turchia inizia vaste operazioni militari in territorio iracheno (agosto).
Bibliografia sulla questione curda
In francese: G. Chaliand, Le malheur kurde,
Seuil, Parigi, 1992; C. Kutschera, Le mouvement national kurde, Flammarion, Parigi,
1979; C. More, Les Kurdes aujourd'hui:
mouvement national et parti politique, L'Harmattan, Parigi, 1984; E. Picard (a cura di),
La question kurde, Complexe, Bruxelles,
1991. In inglese: H. Arfa, The Kurds, an
historical and political study, Oxford U. P.,
Londra, 1966; M. M. Gunter, The Kurds in
Turkey: a political dilemma, Greenwood
Press, Westport, 1991 eil recente, completo
e documentatissimo affresco storico di D.
McDowall, A Modern History of the Kurds,
Tauris, Londra, 1996. In italiano: S. Battistella, Minoranze e sicurezza nazionale: il
caso kurdo, Ispi, Milano, 1996; A. Chiodi,
Il problema curdo nei rapporti tra la Turchia
ed i paesi limitrofi, Istituto Diplomatico,
Roma, 1997; M. Galletti, I curdi nella storia,
Vecchio Faggio, Chieti, 1990. Mirella Galletti,
la principale specialista italiana di curdi e
Kurdistan, èautrice anche di numerosi saggi
di storia edi politica su riviste come "Oriente
Moderno" e "Politica Internazionale".
61
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"II documento dei Saggi"
e l'insegnamento della storia
Mai come in questi mesi l'insegnamento della storia è stato al
centro di corsi di aggiornamento e di formazione in servizio degli
insegnanti, variamente diffusi su tutto il territorio nazionale. Ciò si
deve soprattutto alle misure attuative del decreto Berlinguer sulla
storia del Novecento, ovvero alla creazione di commissioni provinciali sulla storia presso tutti i Provveditorati e alle iniziative ad essa
collegate: l'individuazione di figure di coordinamento tra docenti
(tutor di storia), la creazione di reti di scuole attorno a "scuole-polo",
il finanziamento ministeriale di corsi per tutor e per docenti di storia.
Tutto ciò si inserisce poi nei più generali processi di trasformazione
che, dopo decenni di semi-immobilismo, la scuola italiana sta attraversando: l'autonomia scolastica, l'innalzamento dell'obbligo, il
progetto di riordino dei cicli scolastici, i nuovi esami nella scuola
superiore, e forse ha senso inserire nell'elenco anche le molte novità
del recente contratto di lavoro della scuola. È prematuro tirare le
somme di tali iniziative, alcune solo in cantiere, altre in corso di
svolgimento ma destinate a protrarsi nei prossimi anni.
CESARE GRAZIOLI
Per quanto riguarda le conseguenze sulla storia insegnata delle
trasformazioni più generali del sistema scolastico, è evidente ad
esempio che il nuovo tipo di esame che ha sostituito la Maturità
non consente più di considerare la storia "materia di serie B", come
di fatto accadeva nella maggior parte delle scuole superiori, ove non
figurava tra le materie d'esame.
Nel febbrile rincorrersi di nuovi provvedimenti e di iniziative varie,
attuate o solo annunciate, al centro e alla periferia, c'è indubbiamente
il rischio di un attivismo fine a se stesso, senza chiarezza sul senso
63
complessivo, sugli obiettivi che ci si prefigge, sui nodi di fondo
da sciogliere (e sulle "crisi di rigetto" da evitare). Può quindi essere
utile... fermarsi a pensare, o meglio a dialogare, e a tal fine
assumere come interlocutore il testo più autorevole e insieme più
impegnativo sul piano teorico uscito in questa fase: il documento
su I contenuti essenziali per la formazione di base, elaborato per
1 Il documento su I contenuti essenziali per
la formazione di base", presentato a Roma
il 20 marzo 1998, è stato poi oggetto di
un'ampia consultazione-dibattito nel mondo
della scuola; esso rappresenta la versione
sintetica, a cura di un gruppo coordinato
dal prof. Maragliano, di un più ampio documento sui "saperi irrinunciabili" per la
formazione scolastica del futuro, pubblicato
negli "Annali della Pubblica Istruzione",
n.l8/9l.
il MPI dalla "Commissione dei Saggi" l. Che cosa dice il documento dei Saggi (così è comunemente chiamato) sulla storia? Quali
innovazioni suggerisce per l'insegnamento/apprendimento di questa materia? Quali cambiamenti nella struttura dei curricoli, nell'
approccio alla disciplina e nelle metodologie didattiche dovrebbero
supportare tali innovazioni?
I punti fondamentali del "documento dei Saggi"
Il documento dice cose importanti soprattutto nella parte generale
iniziale, in particolare laddove afferma la necessità di:
1) una nuova logica di organizzazione dei programmi "che preveda
l'indicazione dei traguardi irrinunciabili e una serie succinta di
tematiche portanti", operando "un forte alleggerimento dei contenuti disciplinari";
2) l'abbandono "della sequenza tradizionale lezione-studio individuale-interrogazione, per dar vita a comunità di docenti e
discenti impegnati collettivamente nell' analisi e nell' approfondimento degli oggetti di studio e nella costruzione di saperi
condivisi", mediante il "ricorso a metodi di insegnamento capaci
di valorizzare simultaneamente gli aspetti cognitivi e sociali,
affettivi e relazionali di ogni apprendimento" (riprendo questo
punto dalla versione più ampia del documento);
3) un diverso ruolo delle tecnologie didattiche che, se viste come
"ambienti di formazione dell'esperienza e della conoscenza"
possono avere un ruolo non solo come strumenti, "ma anche
e soprattutto sul piano epistemologico";
4) un senso e un significato condiviso, ovvero che ciò che si insegna
valga la pena di essere insegnato/imparato, abbia un valore
formativo agli occhi degli studenti.
64
Poi, nella parte dedicata alle specifiche aree disciplinari, il
Documento indica come necessari per la storia:
5) un nuovo approccio metodologico che sviluppi non solo conoscenze ma anche capacità;
6) un "profondo ripensamento dell'impianto della formazione
storica, che investa le periodizzazioni e tenga conto del fatto
che ci sono tanti tempi quante sono le logiche dei fenomeni
che si esaminano";
7) una nuova idea di storia che abbracci le dimensioni demografica,
ambientale, economica, sociale, delle idee, delle mentalità e
della vita quotidiana (oltre il tradizionale orizzonte della storia
politica, dunque) e non solo 1'ambito nazionale, ma anche quelli
europeo e mondiale;
8) uno spazio adeguato alla storia del Novecento e un approccio
multi disciplinare e integrato con le scienze sociali, soprattutto
per la seconda parte del secolo.
Questi ultimi quattro punti, visti nel loro insieme, propongono né
più né meno di cambiare le finalità, i metodi, i criteri di selezione
dei contenuti e la stessa categoria del tempo, ovviamente fondamentale nel sapere storico.
I primi quattro punti (quelli ricavabili dalla parte generale iniziale
del documento) potrebbero apparire ovvi e scontati, se considerati dal
punto di vista delle scienze dell'apprendimento; appaiono viceversa
dirompenti se li leggiamo dal punto di vista della storia-materia, così
come è insegnata dalla maggor parte dei docenti nelle scuole elementari, medie e superiori. Questi quattro punti mettono infatti a nudo
altrettanti mali di cui la storia soffre più di molte altre materie:
1) il "tuttismo", cioè la logica di "fare tutta la storia", dalle origini
al presente (presente che peraltro ... non arriva mai, come dimostra la necessità di farlo entrare per decreto, da parte del
Ministro Berlinguer);
2) la preponderanza del modello trasmissivo della lezione frontale,
passivizzante e per sua natura inadatto a sviluppare nello studente capacità critiche, oltre che poco stimolante sul piano socioaffettivo-relazionale;
3) la marginalità di materiali didattici diversi dal manuale, come
i documenti, il lavoro di laboratorio didattico, le nuove tecnologie;
65
4) il calo di interesse e di motivazioni allo studio della storia negli
studenti, per i quali essa ha sempre meno senso e significato.
Cambiare l'immagine tradizionale della storia-materia
A mio avviso questi mali derivano in larga misura dall'immagine
tradizionale della storia-materia concepita come "storia universale"
da trasmettere mediante la tema lezione frontale-studio passivo del
manuale-interrogazione orale. Tale immagine, eredità ottocentesca
rinvigorita dalla riforma Gentile, è tuttora imperante nel senso
comune e nella mentalità di molti insegnanti (e ancor più nel mondo
accademico): perciò resiste tenacemente, nonostante sia stata ormai
superata tanto a livello scientifico quanto nei programmi di quasi
tutti gli altri paesi europei. Non credo necessario versare altro
2 Sulla critica dell'insegnamento tradizionale
della storia c'è ormai una bibliografia talmente ricca e puntuale da rendere imbarazzante la scelta: mi limito perciò a citare, per
la pluralità e la rappresentatività dei soggetti
che lo hanno elaborato, il documento "Dalla
storia alle storie", che ha avuto un'ampia
diffusione ed è stato pubblicato nel dossier
Insegnare il Novecento de "I viaggi di Erodoto", n.31, gennaio-aprile 1997, Ed. Scolastiche B. Mondadori, 1997.
inchiostro contro questa immagine tradizionale2, che è incompatibile
con lo spirito e la lettera del documento dei Saggi e, quel che più
conta, con ogni prospettiva di rinnovamento della scuola.
Perché il documento non rimanga lettera morta, sia nella denucia
dei mali contenuta nei primi quattro punti, sia nelle indicazioni dei
successivi quattro, è necessario che diventi patrimonio comune della
scuola italiana una nuova e diversa idea della storia-materia, che
il documento delinea ma solo in parte e in termini molto generali.
Cercherò qui di riassumere, dal dibattito che in questi anni si è
sviluppato attorno alla didattica della storia, gli aspetti cruciali di
questa nuova concezione, focalizzando in particolare tre aspetti a
mio avviso prioritari:
a) un nuovo rapporto tra le discipline dell'area geo-storico-sociale;
b) un nuovo curricolo verticale di storia;
c) un nuova idea di "storia generale" affiancata alla pratica del
"laboratorio" .
Un nuovo rapporto tra le discipline dell'area geo-storico-sociale
Se è vero che la storia muove sempre dai problemi del presente,
è del tutto evidente che quelli del nostro presente hanno una forte
valenza interdisciplinare con la geografia e le scienze sociali: mi
riferisco a problematiche quali: il rapporto sviluppo/sottosviluppo,
66
popolazione e risorse, lo sviluppo sostenibile, la società post-industriale, la globalizzazione e il rapporto con lo stato-nazione e con
le identità delle diverse culture e "aree di civiltà", le nuove frontiere
della cittadinanza nella società multietnica, che è difficile negare
siano le rilevanze del presente e del prossimo futuro. Allo stesso
modo, la storia tradizionale di ascendenza ottocentesca era prevalentemente politico-diplomatica perché allora le emergenze del presente erano la costruzione dello stato-nazione e la necessità di
formare i sudditi/cittadini, e coerentemente a quell'ottica prioritaria
si rileggeva il passato. Senza pensare di abbandonare lo studio della
storia politico-istituzionale, è evidente che la storia insegnata nel XXI
secolo dovrà essere prevalentemente una geo-storia, aperta ai contributi delle discipline sociali (diritto, economia, sociologia, antropologia), in misura molto maggiore di quanto accade oggi3. Un reale 3 Tra i numerosi contributi in questo senso,
"Storia e Geografia: un ...
approccio inter o transdisciplinare significa ad esempio che nella cfr.C.GRAZIOLl,
matrimonio che s'ha da fare?", in "Continuifutura scuola di base i programmi dell' area geo-storico-antropologica tà eScuola", Anno VIII n.1, gennaio-febbraio
1995, S.Sciascia Editore; e M.GUSSO, "Edudovrebbero essere talmente integrati da non prevedere divisioni orarie cazioni
e area geostorico-sociale: una solitra storia, geografia e studi sociali (nella parte iniziale del curricolo, darietà reciproca", in AA.vv., Scienze geoper un curricolo verticale.
e anche con economia e diritto, nel segmento intermedio). Se nel storico-sociali
Dalla ricerca-azione alla sperimentazione asdocumento dei Saggi c'è l'ambizioso obiettivo del "superamento sistita, IRRSAE Lombardia 1998.
delle tradizionali partizioni disciplinari", è evidente che il suo
perseguimento può e deve iniziare all'interno di discipline affini,
quale appunto l'area geo-storico-sociale.
Un nuovo curricolo verticale di storia e il riordino dei cicli
Data la natura e le finalità del documento dei Saggi, non avrebbe
senso chiedergli di affrontare tutti i problemi, ad esempio quelli di
struttura. Tra questi, il problema prioritario per l'insegnamento della
storia è la necessità di un nuovo curricolo verticale, nel contesto
dell'annunciato riordino dei cicli4 : ovvero la necessità di superare
la ripetizione degli stessi contenuti nel passaggio dalle elementari
alle medie alle superiori, in favore di una differenziazione dei
contenuti, dei traguardi formativi attesi e delle competenze metodo logiche da attivare in ciascun ciclo. In nessun altro paese viene
ripetuta per tre volte la "storia universale", cosa che ha un duplice
effetto negativo per gli studenti: a) la demotivazione del vedersi
somministrata tre volte "la solita minestra"; b) la falsa credenza che
4 Ciò vale sia che il riordino dei cicli si
realizzi secondo lo schema 6+6, cioè un
sessennio di scuola di base e un altro di
scuola secondaria (come previsto dal progetto originario di Berlinguer), sia che ci si
orienti, come ora sembra più probabile,
verso lo schema 7+5.
67
la storia sia quella e solo quella, cioè un racconto che ogni volta
deve partire dalle origini per arrivare al presente e, una volta finito,
non possa che ricominciare daccapo, come ... un film al cinema.
5 Tra i contributi più recenti: I.MATIOZZI,
"Come analizzare e progettare un programma", in World History -II racconto del mondo, Quaderno n.13-14, supplemento a "I
viaggi di Erodoto", cit., n.33, 1997;
A.BRUSA, "Verso i nuovi programmi di storia", in "Insegnare" n.9, 1998.
Anche sul curricolo verticale, in questi anni, c'è stato ampio
dibattito e ricchezza di proposte5, dalle quali estrapolo qui, in modo
sommario e a titolo esemplificativo, due ipotesi:
IPOTESI A (curricolo tripartito):
- alfabetizzazione spazio-temporale (a partire dal vicino e dal
presente) e quadri di storia locale, nella prima parte della scuola
di base;
- storia generale (distribuita su 5 o 6 anni, non su 3 come accade
nell'attuale scuola media) entro il compimento dell'obbligo scolastico, e con opportuni collegamenti passato-presente;
- approfondimento di temi e problemi, alcuni dei quali con una
"curvatura di indirizzo" nel triennio conclusivo della scuola
secondaria;
IPOTESI B (curricolo bipartito):
- alfabetizzazione spazio-temporale, storia locale, grandi quadri di
aree di civiltà (con valore di tipologie significative, non necessariamente in successione diacronica) nella scuola di base;
- intreccio di storia generale e di monografie tematiche nel quinquennio conclusivo (13-18 anni).
Un nuova idea di "storia generale" e la pratica del "laboratorio"
Tomo ora alle quattro indicazioni iniziali del documento dei Saggi
per cercare di declinarle nello specifico disciplinare della storia (che
ovviamente intendo sempre nel senso di area geo-storico-sociale).
Come dovrebbe essere un curricolo basato sul'indicazione di "traguardi irrinunciabili e su un forte alleggerimento dei contenuti", che
ricorra a una pluralità di strumenti e tecnologie didattiche, che sappia
sviluppare abilità e competenze e altresì valorizzare la dimensione
affettiva e relazionale dell'apprendimento, motivando gli studenti?
I traguardi irrinunciabili devono essere, a me pare, in primo luogo
gli aspetti formativi dell'educazione geo-storico-sociale, in termini
di "saper fare" e di "saper essere": le competenze trasversali (cioè
68
le operazioni di lettura, smontaggio, schematizzazione, elaborazione
dei testi) e quelle specificamente disciplinari (cioè le operazioni sulle
fonti e di orientamento nella pluralità degli spazi e dei tempi storici),
nonchè le varie "educazioni" cui concorre la formazione storica, che
si possono riassumere nel decentramento cognitivo e nell' educazione
alla complessità: cioè le capacità di assumere il punto di vista del
diverso e del lontano (nel tempo e nello spazio), e di considerare
i fenomeni della realtà (presente e passata) come sistemi complessi,
risultanti dalla interazione di numerose variabili e dalla stratificazione di temporalità diverse. Oltre a queste finalità, dobbiamo
considerare fra i traguardi irrinunciabili anche un certo insieme di
contenuti? Sì, ma si tratterebbe di contenuti molto diversi per i
differenti segmenti del curricolo verticale, se conveniamo sulla
necessità di abbandonare la ciclicità dei programmi. Restringiamo
allora l'interrogativo a quel segmento del curricolo che prevederà
la "storia generale" (da fare una volta sola, o nella parte centrale
o in quella conclusiva del curricolo verticale): che cosa può significare un programma di storia generale basato su "un forte alleggerimento dei contenuti"? La soluzione più razionale mi sembra
quella di distinguere tra un "sapere minimo di base", cui dedicare
circa la metà del monte-ore annuo (per ciascuno dei 5 o 6 anni
in cui dovrebbe essere distribuita la storia generale), e un'altra metà
da dedicare ad attività di "laboratorio". Definisco ora, sempre sulla
base del dibattito e delle esperienze concrete di innovazione didattica, cosa sia opportuno intendere con i termini "sapere minimo di
base" e "laboratorio":
a) il sapere minimo di base dovrà essere rappresentato da grandi
"mappe spazio-temporali"6 di orientamento che forniscano le macroperiodizzazioni e i modelli relativi ai diversi ambiti di indagine, quali
ad esempio:
- le società di cacciatori e raccoglitori; le società basate sull' agricoltura e/o l'allevamento; le società industriali; le società postindustriali (questa è la più generale delle periodizzazioni, e non
riguarda solo l'economia e la tenologia, ma anche i regimi
demografici e il rapporto uomo-ambiente, e indirettamente le
forme di organizzazione sociale e la mentalità collettiva);
6 Riprendo il concetto di "mappe spaziotemporali" e molti dei modelli didattici di
seguito esemplificati da A.BRUSA, Laboratorio, voI1.1,2,3, Ed.ScoI.B.Mondadori,
1995, e "II nuovo curricolo di storia", in RS,
n.81, marzo 1997.
- l'organizzazione del potere: da quello personale-carismatico dei
69
primi gruppi umani, attraverso le fondamentali tipologie (il
grande impero, la polis, il feudo) fino al processo di formazione
dello stato moderno nelle sue diverse fasi di sviluppo;
- la gerarchizzazione degli spazi geo-economici, dal sistema
centro-periferia legato alla nascita della città, alle economiemondo, all'unificazione del pianeta, col primato europeo nell'Ottocento, la doppia polarizzazione Est-Ovest e Nord-Sud
nel Novecento, e la globalizzazione;
- le grandi "aree di civiltà" e le relative tradizioni culturali
e religiose.
Potremmo definire queste grandi mappe spazio-temporali come le
7 Sul significato che attribuisco al "curricolo
reticolare", cfr. C.GRAZIOLl, "II Novecento,
secolo scorso e storia del presente", in RS,
n.B3, dicembre 1997, e "Una proposta di
laboratorio didattico sul Novecento", in RS,
n.B4, maggio 199B.
maglie più larghe di un curricolo reticolare7: infatti, pur diverse tra
loro per ampiezza spazio-temporale, hanno ciascuna la scala più
ampia possibile in relazione ai fenomeni ad esse pertinenti. Infatti
nell' era della globalizzazione, l'indispensabile educazione alla
mondialità non si acquisisce dando "il giusto spazio alle culture
europee ed extraeuropee" a partire da un' ottica "radicata nella storia
del proprio popolo", come recita il documento dei Saggi (nel punto
che mi appare il più debole e criticabile); bensì assumendo come
prospettiva iniziale di indagine la scala spazio-temporale più ampia
per poi "zoommare" su aspetti più circoscritti, sia temporalmente
che spazialmente, tra i quali valorizzare le specificità nazionali ed
anche locali (soprattutto nell'attività di laboratorio). È superfluo
aggiungere che questo "guardare in grande", in una logica di World
History e di longue durée può essere la vera risposta alI'esigenza
di "forte alleggerimento dei contenuti disciplinari", irrisolvibile se
si rimane in una semplice logica di "tagli" nella sequenza evene-
mentièlle della storia tradizionale.
b) con il termine "laboratorio" possiamo intendere, in senso lato,
una serie di moduli (cioè segmenti relativamente autosufficienti e
intercambiabili) dedicati all' approfondimento di determinati temi non
toccati o toccati sommariamente nella parte generale, da svolgere
con pratiche didattiche diversificate: uso delle fonti (scritte, orali,
multimediali), analisi di casi, giochi didattici, percorsi di ricerca e
di problematizzazione, storia locale, costruzione di ipertesti, ecc. La
diversificazione delle attività laboratoriali risponde in questo caso
a tre obiettivi fondamentali nei confronti degli studenti:
70
1) attivare in loro una pluralità di competenze diverse;
2) coinvolgerli maggiormente (la varietà attira più della monotonia ... come direbbe Lapalisse!);
3) rispettare le differenze di attitudini e di stili cognitivi presenti
in ogni gruppo-classe.
Il laboratorio di storia, quindi, può e deve essere anche uno spazio
fisico attrezzato, ma prima ancora deve essere soprattutto uno "spazio
mentale", ovvero una diversa pratica di insegnamento, complementare
a una nuova idea di storia generale.
Dalla teoria alla pratica
Come sezione didattica di Istoreco, ci muoviamo da anni in questa
direzione nel campo della ricerca didattica e della formazione in
servizio dei docenti. L'idea-forza di coniugare una nuova idea di
storia generale con la pratica del laboratorio è sottesa infatti alle
modalità di corsi, che da anni realizziamo, sulla progettazione del
curricolo. Si tratta di corsi specifici per i diversi gradi scolastici,
a causa degli specifici problemi che essi hanno, in relazione ai
diversi programmi e alle diverse fasce d'età degli studenti. Così sono
nati e si sono consolidati nel tempo gruppi relativamente stabili di
docenti che partecipano a questi corsi-laborario di progettazione
curricolare: da tre anni sulla scuola elementare, da due sul biennio
e da cinque sul triennio delle superiori, mentre sulle scuole medie
si è iniziato quest'anno. La prova migliore dell'efficacia di questa
formula, della sua alta spendibilità didattica, credo stia proprio nel
fatto che i partecipanti continuino l'esperienza per anni, alI'opposto
dell'atteggiamento "mordi e fuggi" che caratterizza gran parte dei
corsi di aggiornamento.
A queste esperienze si aggiunge un'attività di collaborazione-consulenza verso altri gruppi di insegnanti, in provincia e fuori, che si
muovono nella stessa direzione; e, soprattutto negli ultimi due anni,
una pioggia di interventi di trasmissione-disseminazione (se non delle
esperienze, quanto meno delle idee-forza ad esse sottese, e di materiali
didattici esemplificativi) per corsi di aggiornamento organizzati da
Provveditorati o da reti di scuole in varie parti d'Italia.
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Giannetta Magnanini,
/I 1948 a Reggio Emilia,
Edizioni Teorema, 1999
Sono ormai parecchi anni che Giannetto Magnanini mette la sua
esperienza e la sua passione di militante al servizio di una ricerca
storica condotta con grande scrupolo documentario ed efficace
capacità rievocativa. La sua ultima fatica si concentra su un momento
decisivo nella storia repubblicana, il 1948, ed il riferimento è a
Reggio Emilia. Ma giustamente l'orizzonte che viene percorso è più
ampio: nel senso dello spazio, per l'attenzione costante al panorama
nazionale; nel senso del tempo, per la ricognizione, in linee essenziali
ma esaustive, dei precedenti indispensabili per una corretta comprensione di quell' anno cruciale. Così la specificità delle vicende locali
assume una più chiara definizione, sia che corrisponda sia che diverga
dal quadro complessivo.
ETTORE BORGHI
A prima lettura, i nuclei fondamentali de1libro appartengono alla
sfera politica: la rottura dell'unità antifascista, la conclusione dei
lavori della Costituente, le elezioni del 18 aprile, la reazione provocata dall' attentato a Togliatti. Eppure questi aspetti, su cui indubbiamente è più tesa la corda partecipativa dell' Autore, avrebbero
rischiato di rimanere in una sia pur corretta dimensione aneddotica
senza il continuo confronto con fatti e strutture sociali ed istituzionali.
Volendo fare un esempio per tutti, è di grande interesse la ricostruzione compiuta da Magnanini (che pure, per quanto lo riguarda
personalmente e biograficamente, risulta prossimo piuttosto all' esperienza operaia e industriale) della complessa situazione agraria della
nostra provincia. Un' operazione senz' altro indispensabile per offrire,
73
soprattutto ai lettori più giovani, un quadro adeguato della situazione
sociale del dopoguerra nella provincia reggiana, lontana com'era
anni luce da quella odierna. Va anche notato che proprio un ambito
così (apparentemente) settoriale offre più di un'occasione per compiere illuminanti verifiche sul rapporto reale fra governanti e governati o sulla distanza fra le norme e la prassi (vedi, ad esempio,
le vicende legate all'applicazione del "lodo De Gasperi" e della
successiva legislazione). Resta il fatto, tuttavia, che Magnanini affida
l'esito della sua critica equilibrata, ma non reticente, al banco di
prova costituito dai due momenti di maggiore scontro: il 18 aprile
e l'attentato a Togliatti.
Sul primo punto egli ci offre la rielaborazione, quasi la decantazione, di una vicenda avvertita dalla sinistra in forma traumatica,
anche in forza delle illusioni della vigilia. Ma nella sua ricostruzione
viene specialmente messa in luce la difficoltà, persino da parte di
dirigenti di grande statura, di misurarsi con le ancora incognite
reazioni di massa della "ordinaria" democrazia, e di prevenirne gli
effetti (gli affollati comizi che mascherano l'esistenza di una folta
"maggioranza silenziosa").
Per quanti, alla base almeno, l'attentato a Togliatti si presentò come
l'occasione della rivincita? La ricostruzione fatta da Magnanini tanto
del quadro complessivo (egli peraltro lamenta le carenze di studi sulle
varie situazioni locali) quanto di quello reggiano ci sembrano convincenti. Ci troviamo di fronte ad una sollevazione spontanea cui
i quadri dirigenti rispondono con realismo e capacità di mediazione
(significativo il giudizio sarcastico dello stesso Secchia su quelle che
gli apparivano mal riposte velleità rivoluzionarie).
Dal canto suo, la situazione reggiana, vista nel suo insieme e a
parte alcune eccezioni, manca delle punte di asprezza che pure si
ebbero altrove (Genova, Monte Amiata). La puntigliosa analisi
compiuta autorizza dunque la conclusione che l'Autore ricava nei
seguenti termini: "Nel complesso ... rispetto lo stato di tensione
generale e di quanto avvenne in altre zone di Italia, il movimento
di protesta nella provincia di Reggio fu controllato dalle forze
democratiche e vi fu una buona collaborazione fra gli organi dello
stato (prefettura, questura, comando dei carabinieri) con esponenti
del PCI, della Camera del lavoro e parlamentari" (p. 70).
74
Di pari interesse è la storia della repressione successiva al calmarsi
delle acque. Anche nelle pagine dedicate a questo fenomeno, così
come a quelle, problematiche e interrogative, rivolte a chiarire i
riflessi locali del clima della guerra fredda, si ripresenta con vivacità
un contesto dimenticato, in cui pure stanno non pochi semi del tempo
presente. Frammenti della storia di una Costituzione entrata con
grave ritardo nella mentalità corrente, dunque della riluttanza, da
molte parti, a farne il fondamento dello spirito pubblico e della prassi
di governo.
75
AA.VV., 1948-1998. /I
cinquantesimo della festa
dell'Unità a Bibbiano,
Tipografia La Grafica, 1998
Frutto del lavoro collettivo di un comitato di redazione, il volume,
ANTONIO ZAMBONELLI
con circa 260 fotografie distribuite lungo cento pagine, ci restituisce
in qualche misura mezzo secolo di vita politica e sociale bibbianese,
seguendo il filo monografico delle epifanie del popolo di sinistra
(feste dell'Unità, appunto, ma non solo).
Per chi non è reggiano, diremo che Bibbiano, comune pedecollinare della Val d'Enza, si fregia del titolo di "culla del grana" e,
negli ultimi anni, va anche fiera di far parte dei cosiddetti territori
matildici. È anche, come molti comuni reggiani del resto, un territorio
ininterrottamente governato da consistenti maggioranze di sinistra
(Pci-PdS-Ds in primis) dalla Liberazione.
Rispetto al sottotitolo, l'opera offre assai più immagini (di donne
e di uomini) che ricordi ed episodi. Anche se le immagini stesse
ci rimandano ad episodi e al ricordare, nonostante le scarne didascalie che le accompagnano. Oltre le quali - didascalie - il volume
è altresì corredato da notizie, redatte da Loris Bottazzi, tese a
contestualizzare mezzo secolo di microstoria bibbianese nelle vicende nazionali e mondiali.
1948-1998. Dalla sconfitta del Fronte popolare - che non impedì
l'attesa dei landemains qui chantent (o di qualche Sole dell'Avvenire,
per tradurre in italiano) - al disincanto del post-comunismo.
Riescono le fotografie reperite e pubblicate a render conto di tali
cambiamenti? In qualche misura sì. Vediamo come.
Intanto, dal confronto tra immagini di feste dell'Unità anni
Quaranta e Cinquanta a quelle ultime, balza agli occhi la forte
Nella pagina precedente:
Solagna anni '20
77
politicità delle prime rispetto al carattere prevalentemente gastrono-
mico-spettacolare delle seconde. Le foto anni Quaranta-Cinquanta
pullulano di parole d'ordine improntate a grandi certezze e ad
incrollabili attese: dal marxiano Proletari di tutto il mondo unitevi
ad un oggi inconcepibile Né colonia americana né feudo vaticano.
Ma, più in generale, proprio i volti e le cose che si vedono in
quella più vecchie foto, ci restituiscono un paesaggio antropologico
che ci appare assai lontano. E balzano agli occhi, dal confronto con
quelle più recenti, le grandi mutazioni intervenute.
Nelle foto di 50, 40 anni or sono cogliamo la intensa partecipazione
(di massa) alle manifestazioni politiche che precedevano l'inaugu-
razione delle feste dell'Unità. Lunghi, festosi e combattivi cortei
percorrevano le vie di Bibbiano. Ognuna delle circa 15 cellule (ora
non più esistenti da anni) col suo fantasioso carro allegorico nazionalpopolare. Gruppi di appartenenti a varie categorie (braccianti,
mattonai, ex partigiani, ragazze, ecc.) recanti cartelli rivendicativi
o affermativi e sventolanti bandiere rosse e tricolori. Documentate
anche le iniziative per la raccolta di fondi pro stampa comunista
(come la spigolatura del grano, la raccolta di balle di paglia).
Nelle foto più recenti ci appaiono affollati ristoranti, lucide
cucine "a norma", sovraffollati concerti rock, qualche scritta giustamente problematica.
L'immagine che chiude la raccolta, una fotocolor scattata dall'aereo, è una veduta panoramica del vasto verde terreno agricolo (sullo
sfondo l'azzurro dei colli reggiano-parmigiani) destinato ad ospitare
l'area attrezzata permanente su cui si svolgeranno in futuro le feste
dell'Unità delle sezioni Ds riunite di Bibbiano e Barco. Un'area "che
possa servire, con spazi ed iniziative varie - recita la didascalia a tutta la collettività bibbianese, ed in particolare ai giovani, durante
tutto l'anno".
Colpisce peraltro la continuità, lungo mezzo secolo, di alcune
presenze umane. Alcuni dei "pionieri" del 1950 (ragazzini sui 1012 anni), li ritroviamo uomini maturi nelle foto di 30 - 40 anni
dopo, ancora protagonisti delle "feste" e di altre manifestazioni
politiche documentate per immagini. Una continuità che è anche
di trasmissione da una generazione all'altra all'interno delle famiglie di un popolo di sinistra. Sulla piazza di Bibbiano tenne il suo
78
primo discorso da Sindaco della Liberazione, il 25 aprile 1945, il
vecchio antifascista comunista Prospero Vergalli. Esattamente 50
anni dopo, sulla stessa piazza, tenne l'orazione commemorativa del
25 aprile il neoeletto Sindaco pidiessino di Bibbiano Orio Vergalli,
figlio di Prospero.
Con questa iniziativa editoriale, i dies sini di Bibbiano ci hanno
offerto una sorta di autobiografia collettiva per immagini e
sembra ci vogliano dire di aver saputo accogliere i profondi
mutamenti intervenuti lungo mezzo secolo senza peraltro rinnegare
le proprie radici.
79
La società emiliana
improntata dalle
passate emigrazioni
Gli storici hanno a lungo considerato la società emiliana pressoché
esente da significativi processi migratori nell' epoca dell' industrializzazione, e in particolare nel secolo scorso. Solo qualche eccezione
veniva fatta per l'emigrazione dall'area appenninica, ma relativamente al XX secolo; e poi per la grande spinta all'inurbamento che negli
anni cinquanta e sessanta ha coinvolto anche la pianura. Ciò avrebbe
contribuito a caratterizzare un quadro abbastanza statico della regione, con un basso livello di mobilità della popolazione, con limitati
squilibri territoriali e con dinamiche culturali facilmente controllabili.
Da un decennio, invece, tale prospettiva degli storici va mutando,
man mano che emergono dati conoscitivi consistenti sulla realtà
migratoria regionale, e che le metodologie d'analisi si raffinano.
Innanzitutto, viene riservata una crescente attenzione alle migrazioni
temporanee rispetto a quelle definitive. Le prime sono meno documentabili; ma in diverse epoche - con tempi o modi diversi da una
zona all' altra - hanno fortemente caratterizzato le culture sociali di
questa regione. Le consistenti migrazioni permanenti di interi nuclei
familiari colonici risultano infatti abbastanza delimitabili al periodo
della grande depressione agraria di fine XIX secolo (ma solo per
alcune zone) e alle radicali trasformazioni del sistema produttivo
dopo l'ultimo dopoguerra e negli anni del "boom". Invece, le
migrazioni temporanee - stagionali, o ripetibili a intermittenza nelle
periodiche stagnazioni del locale mercato del lavoro - hanno interessato consistenti settori della società rurale e inciso profondamente
sulle sue trasformazioni. Hanno condizionato con forza le culture
MARCO FINCARDI
Nella pagina precedente:
Solagna anni '20
81
sociali e politiche, e trasmesso valori e mentalità delle aree urbane
e industriali nelle campagne. Hanno dato, a una parte consistente
dei ceti popolari, una visione del mondo meno angusta di quella delle
tradizionali classi dirigenti municipali. Inoltre, con le loro rimesse,
hanno fatto affluire verso paesi, famiglie, casse di risparmio, associazioni di queste province rurali, dei rilevanti flussi finanziari che
sono serviti a modificare concretamente le relazioni sociali e produttive. Talvolta, questo denaro ha incentivato capillarmente le
modemizzazioni; altre volte è servito da estremo puntello al mantenimento di culture e modi di vita tradizionali; sempre ha funzionato
da ammortizzatore sociale agli sconvolgimenti dovuti al superamento
dell'economia di sussistenza e alle brusche trasformazioni del
mercato del lavoro.
Dopo numerosi studi che hanno preso in considerazione la cultura
politica e le reti solidaristiche dell'influente e folta comunità degli
antifascisti reggiani esiliati a Parigi, nel 1987 la Consulta regionale
per l'emigrazione e immigrazione ha pubblicato un primo studio
storico-antropologico sulle colonie di emigrati emiliani nella regione
parigina (L'emigrazione emiliano-romagnola in Francia. Gli scaldini, i reggiani, i rocchesi, a cura di Giovanna Campani, Bologna,
Regione Emilia-Romagna, 1987); e diverse altre ricerche sono
seguite a queste (per una loro parziale sintesi e per l'indicazione
di ulteriori sviluppi degli studi sul tema: Antonio Canovi, Paris,
Banlieues. Genesi e rappresentazione di un territorio metropolitano,
"Memoria e ricerca" 1996, n. 7).
Uno spaccato estremamente interessante della società emiliana, e
del suo aprirsi a relazioni con tutti i continenti del mondo, dagli
ultimi decenni del secolo scorso, l'ha data uno studio sulle migrazioni
di salariati - maschi essenzialmente - dall' Appennino modenese:
Maurizio Mariani, Giovanna Martelli, Giuliano Muzzioli, Cent'anni
di emigrazione da Pavullo e dal Frignano (1860-1960), Pavullo,
Amministrazione comunale, 1993. Un recentissimo volume di Cesare
Bermani (Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie
dell'emigrazione italiana. 1937-1945, Torino, Bollati Boringhieri,
1998) sui Fremdarbeiter inviati in Germania dal fascismo come
braccianti, muratori e operai, utilizza tra l'altro una decina di interviste a protagonisti di quelle migrazioni, raccolte tra Cavriago e
Luzzara, dopo che propria la nostra rivista "Ricerche storiche" aveva
82
studiato per prima tale fenomeno (con un articolo di Silvia Pastorini,
nel 1985, poi con ricostruzioni - fatte da Egidio Baraldi - dei gruppi
migranti, e successivamente di deportati).
Ora, un'accurata ricerca d'archivio, condotta con un uso molto
attento delle fonti, mette in luce il fenomeno per la montagna
reggiana. La cosa importante e originale di questo volume (DalmazIa
Notari, Donne da bosco e da riviera. un secolo di emigrazione
femminile dall'alto Appennino reggiano (1860-1960), s.l.e., Parco
del Gigante, 1998) è però che illumina ampi scorci dell'emigrazione
femminile, attraverso un fenomeno finora pochissimo noto nella
storiografia italiana: il lavoro in città di serve e balie. I flussi migratori
maschili vengono pure presi in considerazione, ma essenzialmente
per le interessanti sincronie e per le ricorrenti coincidenze di destinazioni, rispetto a quelli femminili. Il fatto che finora anche
studiose dell'emigrazione particolarmente attente alle presenze femminili - come Paola Corti e Patrizia Audenino - non abbiano rilevato
simili fenomeni nell'area alpina piemontese, fa supporre che solo
limitate aree si siano andate specializzando nel fornire abbondantemente questo genere di ausiliarie domestiche per le famiglie
borghesi. Da diversi comuni dell' Appennino emiliano, infatti, per
almeno settant' anni il fenomeno si è fatto eccezionalmente rilevante,
da occasionale che poteva essere in precedenza. Le ricostruzioni fatte
da Dalmazia Notari mostrano la probabile genesi di questo genere
di migrazione dalla metà del XIX secolo; anche se le prime documentazioni dettagliate risalgono a un ventennio dopo, quando ormai
lo stato nazionale ha reso superati antichi confini che limitavano
contatti e mobilità delle popolazioni del crinale appenninico. In poco
tempo, questo flusso migratorio ha potuto affermarsi con proprie
specifiche reti di solidarietà, o propri modi di comunicare informazioni, utili sia a quelle che erano a servizio in città lontane, sia a
quelle che erano in attesa di partire dai paesi d'origine. Anche i
circuiti associativi politici - confessionali o di classe - hanno presto
preso in considerazione un proprio patrocinio della tutela sindacale
o morale di queste lavoratrici, che restavano comunque più inclini
ad affidarsi a supporti di aiuto o controllo fomiti da reti parentali
o dalle colonie dei compaesani pure essi migrati. Di estremo interesse
sono le considerazioni che vengono fatte sull'integrazione tra questa
emergente cultura professionale delle giovani e le trasformazioni
83
della società agricola e della famiglia contadina montanare. Di
estremo interesse anche le riflessioni sulle complesse casistiche in
cui - nel celibato come nelle scelte matrimoniali - queste ragazze
e donne condizionino le trasformazioni del costume montanaro; o
quando invece recidano i legami con l'ambiente di origine, se le
loro scelte di vita sono divenute incompatibili coi ritmi, la mentalità
e la morale dei compaesani. La Notari inquadra la posizione di queste
migranti sempre all'interno di più complesse strategie familiari,
oppure come un momento di traumatica rottura con queste.
Se le ricerche su tale soggetto avessero ulteriori sviluppi, sarebbe
interessante indagare le modalità di passaggio - maschili e femminili - dalle forme tradizionali di mobilità legate alI'allevamento
del bestiame, a quelle proprie delle migrazioni moderne, occasione
di scambi costanti tra i casolari del crinale appenninico e le aree
urbane, o industriali, o dove si praticano colture cerealicole estensive, nella pianura. Inoltre, risulterebbe utile una comparazione con
aree dell'Europa centro-settentrionale in cui la consuetudine di
inviare la maggior parte dei giovanissimi a servizio presso altre
famiglie rurali (Michael Mitterauer, I giovani in Europa dal
medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1991), come forma di
apprendistato all'età adulta, sarebbe invalsa per secoli, non solo
nell' età industriale.
84
L'Emilia tra caso,
modello e stereotipo
La nascita del "modello emiliano", o meglio la consapevolezza più
precisa di una via originale e positiva allo sviluppo all'interno della
regione, avviene nella seconda metà degli anni Settanta con la convergenza di tre "letture" della congiuntura italiana. La prima - di
matrice sociologica - inaugurata dagli studi di Arnaldo Bagnasco e
Carlo Trigilia individua accanto al tradizionale modello di sviluppo
Nord-Sud, la presenza di una "terza Italia" fondata su elevati standard
socio-economici, piccole imprese, radicamento di grandi partiti di
massa. La seconda, economica, ma aperta ai contributi di altre discipline, fondata sui lavori di Giacomo Becattini, Giorgio Fuà, Sebastiano Brusco, punta alla scoperta e alla valorizzazione dei distretti
industriali ossia ai sistemi industriali locali di piccola impresa, sottraendoli alla dimensione marginale e residuale in cui l'analisi economica predominante li aveva relegati. La terza, di natura politica,
sottolinea i successi economici e sociali raggiunti da un sistema di
enti locali in gran parte governato da una forza politica - il Partito
comunista italiano - tradizionalmente all'opposizione a livello nazionale. Un'anomalia - o "diversità positiva" come allora si diceva negli
ambienti della sinistra - che gli amministratori e il Partito Comunista
utilizzano con vigore a testimoniare l'efficacia della loro azione e la
legittimità a porsi come forza di governo nazionale.
AZIO SEZZI
I caratteri peculiari del "modello emiliano" - peraltro in gran parte
condivisi con altre aree della terza Italia - sono da allora noti e
ampiamente indagati: la diffusione della piccola e media impresa,
la sua organizzazione in distretti industriali, la stratificazione sociale
poco polarizzata, la presenza socio-economica femminile, la forte
85
partecipazione politica, le solide reti parentali, la vocazione all'associazionismo, il basso tasso di criminalità, l'elevato rendimento
istituzionale, l'alto spirito civico.
A ormai venticinque anni dall'avvio di questa riflessione, sullo
stato di salute dell'esperienza emiliana, con un occhio alle sue radici
e l'altro alle sue prospettive, si interrogano tre volumi - assai diversi
per natura e impostazione - pubblicati tra 1997 e 1998.
Il primo, L'Emilia-Romagna, Einaudi 1997, curato da Roberto
Finzi per la "collezione Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi",
riprende e sviluppa da un lato molti degli spunti presenti nel fondamentale Distretti, imprese, classe operaia. l'industrializzazione
dell'Emilia-Romagna, curato da Pier Paolo D'Attorre e Vera Zamagni nel 1992 per gli "Annali" dell'Istituto regionale per la storia
della resistenza e della guerra di liberazione in Emilia-Romagna e
dall'altro tiene costantemente sullo sfondo - anche criticamente le tesi sostenute da Putnam in La tradizione civica nelle regioni
italiane, Mondadori, 1993. Ad evidente impostazione accademica,
il volume segue una "classica" quadripartizione - L'economia, la
società, La politica, La cultura - con i contributi, tra gli altri, di
Vera Zamagni, Pier Luigi Cervellati, Patrizio Bianchi, Giuseppe
Alberigo, Luciano Casali, Eugenio Riccomini, ai quali si aggiungono
due interessanti saggi - di David Bidussa e di Donald Sassoon sull'Emilia e gli emiliani visti dagli italiani e dagli anglosassoni.
Il secondo lavoro, Società, economia e lavoro in Emilia-Romagna.
Rapporto 1997, promosso dall'Osservatorio del mercato del lavoro
della Regione Emilia-Romagna e curato da un pool di esperti tra
i quali Marzio Barbagli, Sebastiano Brusco, Gilberto Seravalli. La
ricerca si pone l'obiettivo di fornire un'immagine articolata di quella
che gli autori chiamano la "situazione sociale" nell'Emilia-Romagna
degli anni Novanta, con particolare riferimento a quattro aspetti tipici
del "modello": performance istituzionale, consumi culturali, famiglia
e parentela, lavoro. Da sottolineare il massiccio ricorso - attraverso
in particolare le Indagini multiscopo ISTAT - a dati empirici e
rilevazioni sul campo.
Infine, Margini regionali: la Regione che vogliamo. Note metodologiche e riflessioni sulla revisione del Piano Territoriale Regionale dell'Emilia Romagna (FrancoAngeli, 1998), curato da William
Brunelli, responsabile dell'ufficio urbanistica dell' Associazione pic86
cole e medie industrie di Bologna, affronta, con un respiro teorico
e culturale che spesso oltrepassa i confini dell'oggetto specifico, il
tema delle politiche del governo del territorio, con particolare riferimento al Piano territoriale regionale (PTR) , il più originale
strumento di programmazione e di pianificazione utilizzato dall'Ente
Regione. Di rilievo i saggi della seconda parte del volume, che ospita,
in un'ottica di apertura interdisciplinare, i contributi di geografi,
sociologi, urbanisti, economisti
A questi lavori possono aggiungersi, con riferimento alla provincia
di Reggio Emilia e con un taglio più marcatamente storico-economico, gli studi commissionati tra il 1995 e il 1996 dalle principali
associazioni imprenditoriali locali in occasione degli anniversari di
fondazione. Ricordo in questo senso G. L. Basini, L'industrializzazione di una provincia contadina. Reggio Emilia, 1861-1940, Bari,
Laterza, 1995; M. Bianchini, 1mprese e imprenditori a Reggio Emilia
1861-1940, Laterza, Bari, 1995; G.Sapelli-S. Bertini-A. Canovi-A.
Sezzi, Terra di imprese. Lo sviluppo industriale di Reggio Emilia
dal dopoguerra a oggi, Parma, Pratiche, 1995; A. Canovi-A. Sezzi,
Artigiani associati. 50 anni di CNA a Reggio Emilia, Reggio Emilia,
Tecnograf, 1996.
Un pacchetto di studi, in particolare gli ultimi due, utile per
collocare la vocazione imprenditoriale - e il ruolo fondamentale delle
associazioni di rappresentanza - nel contesto sociale e culturale più
ampio. Sulla esemplarità del caso reggiano si vedano anche i riferimenti contenuti in Florence Vidal, Histoire industrielle de l'ltalie.
De 1860 à nos jours, Seli Aslan 1998.
Qual è il quadro che viene delineato da questi contributi? Su quali
risorse sociali, politiche, culturali può disporre l'Emilia a pochi anni
dalla fine del secolo e del millennio? Che tipo di prospettive cela
il futuro della nostra regione?
Intanto, certamente, c'è il comune riconoscimento della peculiarità
e della originalità dell' esperienza emiliana, caratterizzata da una
integrazione tra le componenti sociali, economiche e istituzionali che
trova pochi riscontri nella storia del nostro Paese. A questo si
aggiunge una serie di punti di forza "antropologici" - la capacità
di innovare nella tradizione, una forte etica del lavoro, la propensione
al cooperare, l'apertura e la vivacità culturale e imprenditoriale.
87
Vi è dunque un patrimonio importante, un capitale soprattutto
sociale su cui l'Emilia è in grado di contare e che costituisce un
elemento solido per il suo futuro. In questo senso, l'avvio seppure
incerto di una riforma dello Stato in senso federalista - con i relativi
processi di delega e di trasferimento di competenze e di risorse rappresenta un'occasione importante per un sistema di gestione della
cosa pubblica e un welfare locale che nel panorama nazionale si sono
storicamente dimostrati tra i più affidabili.
Ma accanto a ciò, sono diversi i rischi che si profilano. Primo
di tutti, quello di autocelebrazione e di sopravvalutazione della
capacità di tenuta e di autoregolazione del sistema. A questo si
aggiungono una serie di criticità rispetto alla competitività sociale
ed economica della regione e che riguardano le infrastrutture, i
bassissimi tassi di natalità, la crescita della frammentazione, un
incremento dei fenomeni di illegalità, una fatica istituzionale ad
adeguarsi ai mutamenti in corso.
Negli ultimi tempi alcuni autorevoli sociologi hanno decretato
una sorta di de profundis del modello emiliano. Al di là della
perplessità che suscitano approcci così liquidatori - tanto nel bene
che nel male - di fenomeni articolati e profondi, è senz'altro vero
invece che il sistema affronta oggi un passaggio assai difficile, che
prefigura scenari non scontati e che richiede di conseguenza strumenti teorici e pratici altrettanto non scontati.
Da un lato vi è una rapidità nelle trasformazioni e una complessità
generale che a Reggio-Modena-Bologna - così come in Baviera o
in Catalogna - impone di mettere in discussione e ridefinire assetti,
equilibri, risposte. In questo senso la condizione della nostra regione
non è diversa da quella delle aree più sviluppate dell'Europa: il
problema è l'efficacia e la velocità con cui l'Emilia si attrezzerà e
saprà rispondere alle sfide contemporanee. Ed anche il grado di
consapevolezza di quanto pervasive esse siano, e di come nessuna
articolazione del privato e del pubblico potrà sottrarsi al mutamento.
Dall'altro - e qui forse sta il punto - la crisi più profonda colpisce
la politica e in particolare i partiti che in Emilia - così come in altre
regioni - hanno svolto un ruolo di mediazione e integrazione decisivo.
È il caso specifico, per la realtà emiliana, del PCI, la cui natura
interclassista - e "riformi sta" - ha consentito di comprendere e dare
88
voce al proprio interno a istanze, posizioni, interessi a volte differenti
e di ricomporli in una sorta di sintesi che le istituzioni avevano poi
il compito di rendere pratica sociale. Oggi a una maggiore frammentazione della rappresentanza corrisponde anche una minore
capacità di consenso delle istituzioni, così che il processo di progressivo sganciamento tra istituzioni e politica riserva sempre di più
alle prime un ruolo di governo e di gestione della cosa pubblica
fondato però su una legittimazione e, ripeto, un consenso di natura
assai differente, per quantità e per qualità. Non è - ovviamente un giudizio di valore, è un fatto: gli interessi si moltiplicano, la
rappresentanza si complica e le sedi di composizione diminuiscono
e arrancano, la progettualità si riduce per respiro e orizzonte temporale, le risposte "pubbliche" inseguono - e non più anticipano i bisogni sociali della comunità.
A fronte di queste difficoltà gli altri due soggetti fondamentali
sembrano dimostrare una superiore capacità di adeguamento: da un
lato, le imprese, anche per mezzo di profondi processi di riorganizzazione, alla competizione internazionale; dall'altro, la cosiddetta
società civile - attraverso nuove forme di volontariato e di associazionismo - alla crisi della politica e ai rischi di disimpegno.
Si pone dunque oggi la necessità di innescare nuovamente il circolo
economia-società-istituzioni, la cui virtuosità - e fluidità - si è
incrinata. Il terreno della concertazione, naturalmente nel rispetto e
nell'autonomia di ruoli e di responsabilità, sembra di particolare
rilevanza per incrementare i processi di partecipazione e di legittimazione sociale delle grandi decisioni ed elevare il livello di
coesione generale.
Una linea di azione che il sistema regionale dovrà saper sviluppare
tenendo conto delle strette relazioni che corrono tra i processi di
globalizzazione e le economie e le politiche locali e che caratterizzano oggi la concorrenza tra aree. Ciò richiama in causa una caratteristica tipica dell' esperienza emiliana: il mantenimento del
profondo radicamento nel territorio e al tempo stesso tassi di apertura
e di innovazione competitivi. Rispetto al primo aspetto, l'identità,
il senso di appartenenza e dunque il ruolo della memoria (storica)
diventano fattori competitivi importanti, quasi quanto la qualificazione, la formazione, il proficuo scambio tra sedi del sapere e della
ricerca e sistema produttivo e sociale per il secondo.
89
Il passaggio che deve attraversare l'Emilia per mantenere nel terzo
millennio un ruolo di primo piano è certamente stretto ma non
insuperabile. Di sicuro non contribuiranno a un positivo risultato
finale atteggiamenti nostalgici che rimpiangano situazioni e protagonisti non più riproponibili o ipotesi fondate su un radicale azzeramento di un'esperienza che invece conserva nel proprio patrimonio genetico risorse e conoscenze che si potranno rivelare ancora
molto utili e opportune.
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Antonio Canovi,
Roteglia, Paris. L'esperienza
migrante di Gina Pifferi,
RS Europa Libri, 1999
La straordinaria avventura esistenziale e politica di Gina Pifferi
(1907 -1994), indomita ed inquieta figura di combattente antifascista
in Italia ed in Francia, testimone attiva in veste di "migrante" delle
correnti più vive e più profonde della fragile democrazia europea,
in un secolo drammatico quanti altri mai, può oggi essere meglio
conosciuta e meditata grazie ad un prezioso e puntuale lavoro critico
di Antonio Canovi, appena pubblicato. (L'esperienza migrante di
Gina Pifferi, R.S. Europa - Libri)
LORENZO CAPITANI
Si tratta di una ricostruzione affettuosa ed emozionante di una
vicenda personale che, dalle prime giovanili simpatie socialiste in
una Emilia "percorsa da una feroce lotta di classe" alle più meditate
scelte nella pratica clandestina tra gli anni venti e trenta, dal rinnovato
impegno nella lotta partigiana dopo il forzato esilio in Francia
all'azione costante e intelligente nel variegato mondo dell'emigrazione italiana in tutto il dopoguerra, si presenta con i connotati
specifici del grande affresco storico.
Non sembri una esagerazione.
Del resto chi ha avuto il piacere e l'onore di parlare con la Gina
nella casa di Roteglia o sui tetti di Parigi, in me St. Laurent, anche
negli ultimi anni, quando la sua curiosità intellettuale si arricchiva
di nuovi e continui stimoli, non poteva sfuggire ad una strana
sensazione, insinuante e confortante, quella cioè di entrare in contatto
diretto con la storia, quella vera, che ci attraversa nel profondo.
Testimonianze mai scontate, documenti che parlano da soli, immagini di un mondo che dobbiamo imparare a riconoscere e compren91
dere senza pregiudizi o veline interessate, contribuiscono a creare
un quadro vivo, che va ben al di là di un semplice lavoro biografico,
marcando una metodologia di ricerca peraltro non consueta nel
nostro Paese.
Del resto così Antonio Canovi si esprime, presentando la propria
opera.
"Abbiamo qui la fortuna di incontrare la soggettività comunista,
e il primo obiettivo storiografico sarà di renderla a noi prossima per comprendere e non giudicare, nonostante e oltre la desolazione
burocratica e concentrazionaria cresciuta all' ombra del blocco sovietico - ragioni e sentimenti di quella storia antifascista che ha impregnato l'aria dell'Europa quale noi, oggi, la respiriamo."
In un percorso esistenziale, così lungo e travagliato, come quello
di Gina Pifferi, nei suoi momenti di slancio etico e politico, come
in quelli del ripiegamento e dello sconforto, molto si può leggere
e molto si può scoprire.
Ancora oggi, anche se il suo malinconico sorriso di appassionata
ottantenne non conforta più i nostri ripensamenti e le nostre scorrerie
nei mali di un secolo che non vuole finire.
92
ANTONIO CANOVI,
Cavriago ad Argenteuil.
Migrazioni Comunità Memorie,
Comune di Cavriago,
RS Europa-Libri, 1999
Quando quelli della mia età erano ancora piuttosto giovani - anni
Cinquanta spiranti - si andava a fare il bagno, d'estate, nell'Enza
a Montecchio. Tra luglio e agosto diverse auto arrivavano fin sul
greto. Erano Citroén, o Renault, e avevano nella targa il numero 75.
Il soixantequinze che ci parlava di Parigi. Una Parigi ancora capitale
mondiale della cultura, ancora fucina dei Landemains qui chantent.
Erano quasi sempre auto di cavriaghini emigrati nella capitale di una
Francia per molti di noi mitica. Magari cavriaghini di seconda o terza
generazione, talvolta con moglie francese. Accostavamo così il mito
parigino di Cavriago. Brandelli di storie di migrazioni spesso a
carattere politico. Storie di muratori, braccianti, falegnami che erano
dovuti espatriare per sottrarsi alla violenza squadrista del fascismo
nascente. Gente che aveva continuato in Francia la propria militanza
rossa, talvolta con passaggi in Spagna per combattere nelle file delle
Brigate internazionali. Come Fortunato Belloni, caduto a Huesca nel
1937. Gente anche intraprendente, che nella grande Parigi aveva
realizzato un soddisfacente inserimento come ménusier (falegname
genercio), ébéniste (costruttore di mobili), conduttore di un esercizio
commerciale, ecc.
ANTONIO ZAMBONELLI
Si dava quasi per scontato che ogni cavriaghino fosse mezzo parigino,
o avesse comunque forti legami parentali con qualcuno che viveva in
Francia. E che a Cavriago, oltre allo svelto dialetto locale, fosse di
casa anche l'idioma di Montaigne, magari declinato con la pronuncia
e la splendente retorica degli oratori del Front popu del 1936 ...
In quel mito ha messo le mani Antonio Canovi con questo suo
lavoro, frugando archivi in Francia e in Italia, facendo parlare
93
cavriaghini di qua e di Argenteuil e dintorni. Quella Argenteuil che
nelle narrazioni di tanti emigrati pare avesse avuto il nuovo nome
di Cveriègh. Cavriago appunto, in forza della folta comunità cavriaghina che in quel comune banlieusard si è insediata da inizio secolo
e che è stata arricchita da nuove ondate migratorie negli anni Venti
e Trenta e nell'immeidtao secondo dopoguerra.
Ora Canovi, dopo essersi anche ripetutamente aggirato per i luoghi
di arrivo e di partenza di quelle migrazioni, (anche i toponimi ne
risultano caricati di un particolare alone: Les peupliers, Mazagran,
Les Coteaux... ) scovandone o carpendone atmosfere ed immagini, ci
offre un lavoro invero assai originale per impianto metodo logico e
per criteri espositivi.
Prendendo le distanze sia dal folclore che dall'oleografia antifascista, Canovi affronta la corposa e complessa materia con una robusta
attrezzatura critica di cui rende conto in appositi capitoli, fitti di
citazioni e caratterizzati da un intenso dialogare con decine di Autori
(molti quelli francesi) che hanno affrontato sul piano teorico il tema
migrazioni / luoghi / identità.
Vi alterna altri capitoli dedicati a brani di storie di vita (interviste
fatte sia a Cavriago che ad Argenteuil) e a reperti documentari (da
archivi sia francesi che italiani).
Ci viene così vivamente rappresentata, con un libro che è praticamente fatto di tre libri fra loro intersecati, una tradizione migratoria che già a fine Ottocento si dirigeva verso vari paesi del
mondo e che si concentra poi su Argenteuil. La filiera Cavriago
- Argenteuil verrà percorsa, sia in andata che in ritorno, da centinaia
di cavriaghesi, a ondate successive (anni Venti, anni Trenta, immediato secondo dopoguerra) fino a consolidare in quel comune della
banlieue parigina un "fuoco comunitario" dai marcati caratteri
originari antifascisti e "rossi".
L'ottimo risultato del lavoro di Canovi gode peraltro della prestigiosa certificazione di Maurice Aymard, Directeur d'Etudes presso
la E.H.E.S.S. di Parigi, il quale scrive nella prefazione che "il libro
di Antonio Canovi non avrà soltanto un significato locale - ciò che
è già molto - ma anche un significato generale. Cavriago ad Argenteuil
aiuta a capirci meglio, e a capire meglio chi e dove siamo".
94
Alfredo -Gianolio, Sant'Ilario
d'Enza dall'Unità d'Italia alla
liberazione, Comune di
Sanf Ilario d'Enza, 1999 ..
La storiografia locale reggiana nel secondo dopoguerra ha con-
GIANNETTO MAGNANINI
sentito alla grande maggioranza dei 45 Comuni della Provincia di
avere il proprio libro di storia. Molti di questi libri si limitano al
periodo che va tra la fine della prima guerra mondiale e la fine della
RS ringrazia l'ANPI per la gentile autorizzazione a pubblicare questo saggio, apparso sul
"Notiziario ANPI", n. 4 aprile-maggio 1999.
seconda guerra mondiale, cioè tra il 1918 e il 1946. Altri abbracciano
il periodo dall'unità d'Italia al secondo dopoguerra. Solo alcuni
comuni come Albinea, Bibbiano, Brescello, Gualtieri, Correggio,
Novellara, hanno pubblicazioni che racchiudono in un unico volume
cenni di storia dalle origini sino ai primi decenni del novecento.
Dal Comune sulla via Emilia che è a metà strada tra Reggio e
Parma, Lina Violi ci ha offerto nel 1996 un bel libro sulla storia
e la cronaca di Sant'Ilario d'Enza dal Medio Evo all'unità d'Italia.
Ora, con l'ultima fatica di Alfredo Gianolio è uscito un nuovo libro:
Sant'Ilario d'Enza dall'unità d'Italia alla liberazione.
Il libro di Gianolio, edito dall' Amministrazione Comunale e con
il contributo della Cooperbanca, è di stimolante lettura perché
unisce notizie e analisi rigorose con pezzi e brani di cronaca minuta
spesso divertente e che favoriscono la comprensione dei vari
passaggi storici. Il libro descrive il periodo della Costituzione del
nuovo Comune, del primo Novecento con programmi delle idee
socialiste e la conquista del Comune da parte dei socialisti stessi,
gli anni della prima guerra mondiale, i difficili momenti del biennio
rosso, la scalata al potere del fascismo e il ventennio della sua
dittatura, per concludersi con la larga partecipazione popolare alla
resistenza e alla liberazione.
95
La parte più avvincente ci sembra quella dedicata al sorgere e
all'imporsi del movimento socialista. Si rappresentano le immagini
della società nelle campagne quando ben 32 processi giudicarono
520 braccianti analfabeti e nullatenenti. Esce uno spaccato chiaro
dei rapporti sociali e di classe: da un lato "turbe di braccianti e
straccioni affamati vocianti e minacciosi per le vie dei paese che
chiedono e impongono lavori utili come la costruzione di una strada"
dall'altro lato il potere degli Spalletti "che passano ricchi e ammirati
su vetture a cavallo".
Dalle vicende di allora con gli integralismi ideologici, come la
lotta per l'asilo, la scuola materna, l'insegnamento pubblico che
diventa il fiore all'occhiello per i socialisti, ma anche con gli eccessi
anticlericali al punto che vi è chi prenota lo spazio dei propri resti
con la scritta "ateo qui volle". Da tante noterelle di colore ai fatti
documentati esce la storia di un paese, il trasformarsi di una popolazione contadina e arretrata allo sviluppo di idee di emancipazione che riserveranno a Sant'Ilario un posto di primo piano per
lo sviluppo economico, con forze giovanili che supereranno l'estremismo radicale del vecchio socialismo e le chiusure di un clericalismo bacchettone, come pure gli impeti internazionalisti dei socialisti di Calerno che inneggiano al moto rivoluzionario di Bèla Kun,
in Ungheria, per giungere ad una concezione e dimensione moderna
e riformatrice della società.
Circa gli aspetti dedicati alla resistenza e alla guerra di liberazione
esce una considerazione che richiede ulteriore approfondimenti.
Nella storiografia del movimento partigiano della provincia di
Reggio mi pare resti in ombra il ruolo che ha avuto Sant'Ilario. Il
movimento comunista e partigiano che si è sviluppato a Sant'Ilario
ha avuto profondi collegamenti con Parma, forse ancor più rispetto
i legami .avuti con Reggio. Le diverse pubblicazioni che riguardano
Sant'Ilario (Le memorie di Mauthausen di Piero lotti, Sono dov'è
il mio corpo, a cura di Tullio Masoni, con il largo successo avuto
sul piano Nazionale, le pubblicazioni curate dal Comune di Sant'Ilario in occasione del 30° e del 50° della liberazione e la pubblicistica nel resto della provincia) richiedono una riflessione anche
comparata per avere una visione più organica di tutto il movimento
partigiano nella provincia reggiana e i suoi collegamenti con la
provincia di Parma e del ruolo di Sant'Ilario in questo contesto.
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Al punto in cui è giunta la pubblicistica nella maggioranza dei
comuni esce 1'esigenza di approfondimenti più specifici. Se un
comune come Sant'Ilario nato solo nel 1860 con il distacco da
Montecchio può offrire una conoscenza storica locale dal Medio Evo
all'unità d'Italia, sino al sorgere della Repubblica, ora si richiedono
studi più particolari quali gli aspetti economici e sociali, il formarsi
e trasformarsi delle classi sociali (dalla nobiltà alla borghesia alla
prima accumulazione capitalistica, ai passaggi della proprietà terriera, alle varie categorie sociali che si modificano nei centri urbani
e nelle campagne) per spingerci alle rapide modificazioni che lo
sviluppo produttivo di mercato e le scoperte scientifiche e tecnologiche portano a rapidi mutamenti. Tutto ciò può aiutare a capire
i problemi di oggi. Anche quest'ultimo libro di Alfredo Gianolio è
di stimolo a studi più penetranti e che affrontino anche il periodo
dei primi anni della repubblica, e degli anni del miracolo economico
e di attuazione della Costituzione.
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a cura
della redazione
Pubblicazioni di storia
contemporanea relative alla
provincia di Reggio Emilia
ISTORECO, Sentieri partigiani, Reggio Emilia, Isloreco, 1998.
Una guida di dodici itinerari attraverso l'area del medio e alto Appennino reggiano nei luoghi
che seppero accogliere i "Volontari della libertà" dall'autunno 1943 alla primavera 1945.
Il lavoro, rientrante nell'ambito di un programma di promozione turistica finanziato dalla
Provincia, consente di rivisitare con il costante supporto di riferimenti bibliografici della
letteratura partigiana vicende e protagonisti della guerra di Liberazione.
Comune di Poviglio, L'invenzione della nazione. I monumenti civili nel territorio di
Poviglio, Reggio Emilia, 1998.
Una carta topografica che, attraverso i monumenti, i cippi, le lapidi e la topo no mastica
del territorio di Poviglio, raccoglie le fila della costruzione dell'identità pubblica nell'Italia
unita. Riconoscendo nel monumento e nella toponomastica una fonte preziosa per cogliere
lo "spirito del tempo", la mappa rappresenta uno strumento originale per la conoscenza
del processo storico di "nazionalizzazione" della società italiana, e povigliese in particolare.
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