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FESTIVALI
di Rossella Gaudenzi
SOL7 SOL SOLE di Romina Ciuffa
IL DRAMMA
DEL TONNO
di Flavio Fabbri
Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music
jazz ce l’ha nelle corde da sempre. Susanna
Stivali, cantante, songwriter, compositrice,
ha deciso di perfezionarsi presso il Berklee
College of Music di Boston per respirare l’aria
di puro jazz ed entrare in contatto con le personalità complesse, articolate che per questa musica e con questa musica hanno deciso di vivere.
Tanto. Oltre a prender parte ai maggiori festival
del settore, nazionali e non, e ad imprimere la
propria personalità ai progetti che portano il suo
nome, A secret Place e Piani diversi, impreziositi dalla collaborazione di artisti quali Lee
Konitz e Ramberto Ciammarughi. (...)
al nome s’intuisce
che la natura degli
Atome Primitif è sincretica all’origine. Si ispirano ad un monaco francese, in inglese cantano i
testi, a Roma hanno iniziato a muovere i primi passi in musica ma
vogliono l’Europa. Azzurra Giorgi (voce),
Giacomo Ferrera (basso), Claudio Cicchetti
(batteria) e Clelia Patrono (chitarra) hanno pubblicato il loro primo album ufficiale per l’etichetta indipendente Urban49, Three years, three
days. Il titolo è un duplice riferimento alla fase
della gestazione e ai tempi record di registrazione in studio: tre anni trovano sintesi in tre giorni. Il dramma di un tonno è il primo estratto, con
un video che merita l’oceano. Mentre una grata
arrugginita lo divide dal mare. Gli Atome
Primitif hanno pinne per un’acqua europea, e
non per una zuppa di tonno nostrana. (...)
ro sul mio aereo ieri, sorvolavo la montagna.
La nevicata del 17 dicembre, volevo vedere
se è vero che i fiocchi hanno ali d’aliante e
che ci sono delle città, dopo la neve, che si
costruiscono sulle nuvole. C’è turbolenza, correnti ascensionali che mi sbattono su, giù, una
danza con questa montagna di stucco che mi
cuce addosso una samba. E mi prende, mi afferra con garbo, ha nelle mani i miei fianchi, nei
rami le ali. Mi avvolge questo Monte Formaggio
che ora sorvolo, e mi fa ballare. Un dono, la
samba, farmi credere che c’è amore mentre è solo
turbolenza, e più c’è samba più menzogna. (...)
¢ CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES
¢ CONTINUA NELLA PAGINA BEYOND
¢ CONTINUA NELLA PAGINA BEDTIME
D
Il
E
photocredit
Ignazio Raso
NUMERO 16 > Inverno 2011
PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE
BED
TIME
SPECIALE
FEED
back
DANILO REA
CLASSICA
MENTE
ELEONORA PATERNITI
Direttore
ROMINA CIUFFA
Direttore Responsabile
SALVATORE MASTRUZZI
Caporedattore
Rossella GAUDENZI
Redazione
Flavio FABBRI [email protected]
Rossella GAUDENZI [email protected]
Valentina GIOSA [email protected]
Roberta MASTRUZZI [email protected]
Contributi
Adriano Mazzoletti, Rita Barbaresi, Lorenzo Bertini
Nicola Cirillo, Lorenzo Fiorillo, Alessia Panunzi
Eugenio Vicedomini, Livia Zanichelli
Music In Video
Videointerviste
Reportages
Romina CIUFFA
www.youtube.com/musicinchannel
www.myspace.com/musicinmagazine
Redazione
Via Urbana, 49/a
00184 Roma
Tel. 06.4544.3086
Fax 06.4544.3184
[email protected]
Progetto grafico
e fotografia
Romina CIUFFA
Stampa
Ferpenta Editore srl
Roma
Anno IV n. 16
Inverno 2011
Reg. Tribunale di Roma
n. 349 del 20/7/2007
STEFANO
MASTRUZZI
EDITORE
ROCKOFF
REM
ALTNATIVE
ER
ZOLA JESUS
SPUTANDO IL ROSPO
bbiamo
assistito
impotenti
all’applauso
dirompente e
certamente
inconsapevole che
deputati e senatori
hanno riservato all’esibizione di Andrea Bocelli,
gesto che, purtroppo, a pieno titolo
rappresenta la capacità discernitiva
musicale dell’italiano. Una voce, quella
di Bocelli, che in un contesto operistico
possiede lo spessore e la possenza di un ottavino, senza microfoni facilmente sovrastato
da un tutti di flauti e clarinetti.
Nel magico mondo della musica popolare,
dove conta il contenitore più del contenuto
(allitterazione ricercata), la voce bocelliana è
un capolavoro del fuori contesto, ricordando
un dilettante che mostra gratuitamente i
muscoli in una competizione canora della periferia di Monopoli. Gratuitamente, perché non
c’è alcun motivo sano per cantare con un
approccio pseudo-lirico Tu scendi dalle stelle,
A
con un risultato tra il goffo e il grottesco che,
quindi, in Parlamento merita l’applauso. Ma,
in un contesto culturale come appunto quello
parlamentare, è d’obbligo spellarsi le mani, un
po’ perché lo fanno tutti, un po’ perché è politicamente corretto, molto perché «tanto non ci
capisco nulla».
Con tutti gli artisti che il mondo ci invidia,
Camera e Senato dovevano invitare, in una sala
che ci dovrebbe rappresentare tutti, proprio quei
personaggi che al resto del mondo cederemmo
volentieri? L’anno scorso la scelta di un pianista con i capelli dritti e la faccia disadattata ci
costò diverse sedute di analisi; per le prossime
edizioni sono in corso trattative riservate con i
Righeira. Senza facilmente citare musicisti di
grido sulla bocca di tutti, perché non pensare ai
pianisti Pietro De Maria, Roberto Carnevale,
Gianluca Cascioli, Roberto Prasseda?
Perché quello stesso deputato che si commuove per il fraseggio di un pianista di terzo anno
non li conosce affatto. Nessuno in aula ne
apprezzerebbe le qualità e non sarebbero nomi
spendibili nel telegiornale delle 20. Sputare il
rospo, ecco cosa serve. Da trent’anni, cavalcando l'esempio (dis)onorevole di chi governa,
il popolo, digerita la lezione sul fascino della
mediocrità purché di chiara fama, elegge ex
veline, ex calciatori, ex pornostar. Chissà che
la maledizione non venga da lontano, dagli
insegnamenti di nonni e genitori. Ci hanno
sempre raccontato favole, dove la giovane fanciulla di umili possibilità contingenti sognava
il principe azzurro. Perché no, sognare va
bene. Ma perché un principe danaroso e non un
operaio nero di pece o un metalmeccanico con
le unghie sporche di grasso? Perché non
sognare un minatore che tossisce respirando
polvere o un operatore ecologico che si spacca
per ripulire le strade?
E poi un principe che non sa cantare. Si sogni
il rospo, piuttosto. Ma la maledizione è un
boomerang. Il principe è destinato a svegliarsi rospo il giorno in cui la musica sarà cambiata. Sarà armonica. Sarà rispettata. E non si
potrà più bluffare con hit-parade, show televisivi o fenomeni da circo, un giorno tutti
sapranno nuovamente distinguere il concime
naturale dalla cioccolata. Perché ci vuole
orecchio.
Stefano Mastruzzi
JAZZ
& blues
a cura di ROSSELLA GAUDENZI
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
SUSANNA STIVALI Da donne a donna Emily Dickinson, Alda Merini, Patrizia Cavalli, Joni Mitchell, Billie
Holiday, Gabriella Ferri, Frida Kahlo e molte altre, in giro per Zagarolo, Palestrina, Frascati, Monterotondo,
Castelnuovo di Porto, Ariccia, Genazzano, fino a Roma. Le porta tutte con sé il canto di Susanna Stivali.
¢ CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA > FESTIVALI
a cura di ROSSELLA GAUDENZI
FESTIVALI
«P
oco tempo fa, forse solo qualche giorno fa, ero una ragazza che camminava in un mondo
di colori, di forme chiare e tangibili. Tutto era misterioso e qualcosa si nascondeva; immaginare la sua natura era per me un gioco. Se tu sapessi com'è terribile raggiungere tutta la
conoscenza all'improvviso – come se un lampo illuminasse la terra!» (Frida Kahlo)
Videoreportage
www.youtube.com/musicinchannel
usanna Stivali, cantante jazz, compositrice e socia dell’associazione culturale
«Muovileidee», così racconta la genesi e
la realizzazione di un ambizioso progetto. Un nome non
casuale né superficiale, muovere le idee: contiene il concetto dello spostamento, della fatica e non ancora il risultato, quindi l’incompiutezza. La Stivali e un festival, meglio,
una rassegna: Da donne a donna, alla sua prima edizione,
ha spostato i monti: da Roma a Frascati, da Zagarolo a
Castelnuovo di Porto, a Palestrina, a Monterotondo, ad
Ariccia per terminare a Genazzano: otto location, altrettanti pregevoli palazzi storici, per quattordici incontri «in bilico» tra musica, poesia, letteratura, giornalismo, fotografia.
Mia è la formula iniziale, sono da sempre un’appassionata di poesia e letteratura; la mia socia, Maria Luisa
Celani, si dedica a cinema e audiovisivo. Avevamo in
cantiere un progetto che fosse un mix di passioni e toccasse più campi dell’arte. Il soggetto è venuto quasi da
sé. Viviamo un momento socialmente opaco per l’inquadramento della donna. Cercavamo di dar voce a chi non
si rispecchia in ciò che accade e ciò che vede. Inoltre, ho
la fortuna di conoscere artiste che hanno molto da dire e
la voglia di omaggiare l’arte, in senso ampio.
Chi sono queste donne?
Inizialmente io e Maria Luisa. A seguire Angelica
Caronia ed altre che hanno, per l’appunto contribuito con
le proprie idee. In un paio di anni, il progetto ha preso
forma. Da donne a donna è un progetto svolto con la collaborazione della Provincia di Roma; l’idea iniziale coinvolgeva le Biblioteche di Roma, per aprire all’arte spazi
tradizionalmente votati ad altro. Abbiamo poi vinto un
bando della Provincia, che ha finanziato per intero il
nostro progetto e ciò è estremamente importante, perché
significa poter offrire eventi a ingresso gratuito.
Così l’arte e la cultura nella loro interezza, in maniera
tale da coinvolgere musica, letteratura, poesia e fotografia, si sono spostate di luogo e sono state inserite in luoghi
d’arte della provincia di Roma da riscoprire, una serie di
palazzi storici, per il Progetto ABC Arte Bellezza Cultura.
Tra queste strutture spiccano Palazzo Rospigliosi a
Zagarolo, il Teatro Comunale Gian Lorenzo Bernini di
Ariccia, le Scuderie Aldobrandini di Frascati, il Castello
Colonna di Genazzano, Palazzo Valentini a Roma ed altri.
Si può parlare di una riscoperta di luoghi meno frequentemente battuti dal turismo?
Indubbiamente. Il contatto con il territorio ha messo
sotto i nostri occhi una quantità di risorse maggiori
rispetto a quanto comunemente si creda. Quindi, fatta
eccezione per gli spazi specifici, il progetto è interamente
nostro, rimanendo in linea con l’idea di accogliere l’arte
in luoghi che di solito l’arte non l’accolgono. Stesso format ma spazi continuamente differenti, suggestioni del
tutto diverse di volta in volta. È molto peculiare assistere
alla reazione che suscita la lettura di un’attrice nella sala
di un palazzo storico anziché in un teatro.
A quali donne vi rivolgete?
Rendiamo omaggio a quattordici artiste dalla personalità spiccata. Si tratta di un festival incentrato sulla
comunicazione, innanzitutto, quindi commistione di
generi. Muse ispiratrici del presente, eccezion fatta per
(...) S
GOSPEL È la lieta
novella, quella che
rassicura su tutto.
Emily Dickinson, la scelta di quattordici artiste non è
stata semplice. Alcune figure erano ben delineate, due
intellettuali scomparse da poco ad esempio: Fernanda
Pivano, una figura che ha fatto da «filtro» nel contatto
con altre culture, apportatrice di pace e di speranz, e
Alda Merini. Sul versante musicale, la scelta è caduta su
rappresentanti di mondi distanti tra loro, personaggi che
hanno influenzato il modo di fare musica: Billie Holiday
e Joni Mitchell in primis, inoltre due figure da rivalutare, legate alla tradizione della musica popolare italiana,
Gabriella Ferri e Giovanna Marini.
Di estrema importanza è per noi il filone ecologistapacifista, quindi omaggi dovuti a donne come Vandana
Shiva e Wangari Maathai. Citerei anche Patrizia
Cavalli, poetessa molto amata, ironica, che alleggerisce
un po’ il tono degli incontri. Infine, esemplari della cultura internazionale e rivoluzionarie nel sociale, come
Anna Politkovskaja e Frida Kahlo. Tutto ciò per rendere omaggio alle donne non viste unicamente con uno
sguardo al femminile; volevamo raccontare qualcosa
delle donne dal valore artistico universale. La musica ha
un ruolo preponderante.
Quali musiciste hai deciso di portare con te?
In alcuni casi si può parlare di concerti veri e proprio e
la musica è l’indiscussa protagonista: talvolta si valorizza
l’improvvisazione, talvolta l’interazione tra parola, poesia
e note. Ho voluto innanzitutto la presenza di artiste che
volessero mettersi in gioco: musica sì protagonista ma che
deve mettersi in relazione con altre forme artistiche. In
secondo luogo era necessario trovare voci adatte alle protagoniste da omaggiare. La domanda può risultare singolare: perché hai scelto Billie Holiday? Perché non racconta soltanto uno stile, ma come molti musicisti della sua
epoca ha vissuto nel jazz un’esperienza di vita, legato alla
razza e al sociale, e ancor più, ciò che hanno dovuto pagare la le donne della sua razza. Eccelso il messaggio artistico e fortissimo il messaggio di esperienza di vita.
A chi va il tuo personale omaggio?
Quale amante della poesia, ad Emily Dickinson e
Patrizia Cavalli. La poesia fa lavorare sull’improvvisazione, quindi su un modo moderno di intendere il jazz.
Ritieni che ci sia un legame tra l’arte e il dolore?
Più che tra arte e dolore, scorgo un forte legame tra
arte e coraggio. Coraggio e apertura che molte volte,
poi, possono mettere in contatto con il dolore.
Come ha risposto il pubblico, sino ad oggi, alla
prima edizione della rassegna?
Risposta ottima, così come la critica. Molto buona la
considerazione da parte del presidente della Provincia
Nicola Zingaretti e sorprendente la risposta del pubblico:
abbiamo avuto il timore che il messaggio fosse troppo
alto. Così non è. La gente è curiosa, ha sete, vuole sapere e fa domande su artisti a cui si avvicina per la prima
volta. Noi abbiamo portato le donne tra le donne.
■
MUSE. Emily Dickinson, Billie Holiday,
Giovanna Marini, Gabriella Ferri, Fernanda
Pivano, Goliarda Sapienza, Oriana Fallaci, Alice
Walker, Fatema Mernissi, Nawal Al Sa’Dawi,
Simone De Beauvoir, Alda Merini, Anna
Politkovskaja, Patrizia Cavalli, Vandana Shiva,
Wangari Maathai, Joni Mitchell, Tina Modotti e
Frida Kahlo.
IN SCENA. Sandra Ceccarelli, Monica Cervini,
Susanna Stivali, Elisabetta Antonini, Orsetta De
Rossi, Angelica Ponti, Raffaella Misiti, Stefania
Tallini, Gabriella Aiello, Sabrina Ramacci.
MOSTRA FOTOGRAFICA. Maria Luisa Celani e
Loredana Vanini.
NOVELL A
GOSPEL
di Alessia Panunzi
G
rande classico: l’appuntamento
con l’Auditorium Parco della
Musica, che accoglie le calde e
avvolgenti note del gospel con il
festival più atteso dagli appassionati di questa particolare
forma di blues, il Roma Festival
Gospel. Giunta alla XV edizione,
la rassegna propone undici
appuntamenti, dal 19 al 30
dicembre 2010, con i migliori
interpreti mondiali di Gospel &
Spiritual provenienti dagli Stati
Uniti e dal continente africano.
Si apre quest’anno con la travolgente energia sprigionata dalla
musica e dai colori dell’ensemble più acclamata dal momento:
il Soweto Gospel Choir.
Dall’inglese arcaico, gospel
significa «buona novella» e le
performance di questa formazione non potrebbero tradurre
musicalmente in modo più
appropriato gli inni di gioia e di
fede che scaturiscono dai canti
popolari e meticci di un coro la
cui storia s’interseca inevitabilmente con quella travagliata e
sofferta del Sud Africa. Esso
infatti, sin dal 2002, anno della
fondazione sotto la direzione di
David Mulovhedzi (recentemente scomparso) e Beverly Bryer,
ha preso costantemente parte
a molteplici iniziative a sfondo
benefico e sociale, il cui eco non
ha fatto altro che incrementare
il successo ottenuto presso il
grande pubblico.
L’ensemble vanta infatti numerosi riconoscimenti a livello internazionale, quali due Grammy e
illustri collaborazioni con musicisti compositori come Peter
Gabriel e Thomas Neumann in
occasione della colonna sonora
della pellicola animata Wall-E
(Pixar, 2008). Il Soweto Gospel
Choir si esibisce in 8 lingue sudafricane, portando in scena i
migliori talenti vocali formatisi
nelle molte chiese di Soweto,
grande sobborgo sudafricano di
Johannesburg, in un vero e pro-
prio viaggio, appassionato e
festoso, ma pur sempre profondamente legato alla spiritualità
della loro terra e tradizione. Più
contaminate e innestate da
arrangiamenti contemporanei le
altre formazioni proposte quest’anno dal festival, come il South
Carolina Gospel Choir, Brent
Jones & T.P. Mobb e Bridgette
Campbell Gospel Singers, i quali,
seppure con repertorio più vicino
alle nuove generazioni, si propongono di portare avanti la tradizione afro-americana delle antiche
folk churches, sette religiose che
fecero proprie le note forme
musicali del call-and-response,
del clapping e del ring shout,
arricchite ora dalle pregevolissime voci a cappella che ben si fondono con le cadenze blues, il
ritmo del ragtime e le improvvisazioni jazz attualmente parte integranti della musica gospel.
Il gospel, un tempo relegato ai
margini della musica ecclesiastica, oggi è divenuto forza profonda della cultura popolare americana. Secondo la rivista statunitense Gospel Today, negli ultimi
dieci anni sette major hanno
creato al loro interno delle divisioni di gospel music; le etichette indipendenti sono aumentate
del 50 per cento e il reddito
totale della gospel music, relativo allo scorso decennio, è quasi
triplicato. Per alcuni la gospel
music è la musica nera. Per altri
è semplicemente un termine
che comprende vari tipi di musica religiosa-traditional, contemporary christian, urban contemporary southern, hip-hop, soul,
R&B o rap; tuttavia, al di là delle
facili categorizzazioni, è un genere che va ascoltato, vissuto e
sentito, corporalmente e spiritualmente perché, citando un
pensiero della stella del gospel,
Inez Andrew: «Se non hai mai
sentito la necessità di leggere la
Bibbia, forse una canzone ti aiuterà a farlo».
■
DA DICEMBRE 2010
www.musicajazz.it
il portale del jazz in Italia
Interviste, articoli, recensioni,
video, live e contenuti esclusivi.
JAZZ
& blues
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
MY FAVORITE THINGS È stato il sax soprano di John Coltrane a inchiodare questo UMBRIA JAZZ WINTER Avete presente
pezzo del 1961 all’immortalità: ripreso, stravolto e impreziosito per divenire pietra milia- quell’odore di caminetto e griglia, vino rosso e ODIO L’ESTATE Qualcuno
jazz?
finalmente ci spiega perché
re del jazz, abbandonando le vie dell’hard bop e imbollando la strada del free jazz.
LE MIE
COSE
FAVORITE
ARMATA JAZZ
di Rossella Gaudenzi
14
C
minuti di jazz puro, la prima registrazione di John Coltrane con la Atlantic Records,
reinterpretazione modale di un pezzo di Richard Rodgers e lunghi assoli sulla ripetizione di due accordi, mi maggiore e mi minore. E un grande classico, il film Tutti
insieme appassionatamente, per ricordare cosa vuol dire famiglia e storia del jazz.
oncentriamoci per un attimo cercando di ricordare la rassicurante voce spiegata di Julie
Andrews nella commedia musicale The sound of
music, diretta da Robert Wise, in Italia nota come Tutti
insieme appassionatamente. Film datato - correva l’anno 1965 - che evoca famiglia, calore, buoni sentimenti,
ma anche etichetta e bon ton. Film datato che resta a
conti fatti uno dei film più visti di tutti i tempi. Merito
della colonna sonora, musica di Richard Rodgers e testi
di Oscar Hammerstein II: i motivetti cantati dalla famigliola dai tanti fratelli, orfani di madre, sono rimasti
impressi ad almeno tre generazioni di pubblico, e proprio tra questi ci ritroviamo a fischiettare My favorite
things - con buona probabilità ricordiamo la versione in
italiano cantata da Tina Centi, Le cose che piacciono a
me, ancor meglio di quella della brava Julie Andrews forse ancora inconsapevoli del fatto che stiamo fischiettando uno dei brani più famosi della storia del jazz.
Dal movie al Natale, poiché questo è stato il passaggio successivo, rendere il brano una popolare canzone
natalizia; e poi, ancora, dal Natale al jazz. È stato il sax
soprano di John Coltrane a inchiodare My favorite
things all’immortalità. Coltrane ha ripreso, stravolto e
impreziosito, in un album omonimo del 1961, il brano
in una versione in 6/8 della durata di quasi quattordici
minuti, innegabilmente una pietra miliare del jazz, disco
peraltro che sembra abbandonare le vie dell’hard bop
per prendere la strada del free jazz. Formazione d’eccellenza che diverrà poi uno storico quartetto: John
Coltrane al sax soprano e tenore, McCoy Tyner al piano,
Steve Davis al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria
a dar vita a ipnotici e memorabili lunghi assoli di pianoforte e sax, in linea con quella visione «policentrista»
di Coltrane che offre ampia libertà espressiva ai suoi
«compagni di viaggio».
My favorite things continua ad incantare nei decenni
e continua ad essere interpretata: dalla celeberrima versione cantata di Al Jarreau a John Zorne a Sarah
Vaughan; da Barbra Streisand a Dave Brubeck, Wes
Montgomery, Diana Ross, fino al piano solo di Brad
Mehldau, in ordine sparso, per citarne solo alcuni.
Anche il mondo della cultura più sofisticato non si è
lasciato sfuggire questo unicum musicale: la redazione
di Fahrenheit, trasmissione di Radio Rai3 ormai più che
decennale ideata da Marino Sinibaldi, ne ha fatto il proprio biglietto da visita. My favorite things ne è la sigla e
l’anima, proposta in centinaia di differenti versioni e
arrangiamenti.
Il palinsesto natalizio non ci priva del film Tutti insieme appassionatamente neppure quest’anno, in guardia
perché alle prime note di My favorite things si vada
istintivamente a cercare il disco di John Coltrane.
Poiché, alle nostre orecchie, My favorite things fa ormai
rima con jazz.
■
Q
uando Paola De Simone si è messa a scrivere un libro dedicato a «Odio l’estate», il celebre brano italiano degli anni 60, non esisteva neanche un testo
su Bruno Martino, che ne fu autore e interprete. Eppure il crooner italiano
nella sua carriera ha collezionato tanti successi: non è un caso che proprio questo
sia diventato il più famoso standard jazz italiano. Non c’è jazzista al mondo che non
l’abbia suonato: da Joao Gilberto a Chet Baker, da Michel Petrucciani a Mina. Paola
De Simone ha ricostruito la storia del brano attraverso un racconto corale. La vita
e la carriera di Bruno Martino rivivono tra le parole della moglie Fiorelisa, di Jimmi
Fontana, Renato Sellani, Sergio Cammariere e Fabrizio Bosso, ma soprattutto di
Bruno Brighetti, autore del testo (rintracciato nel cuore dell’Africa nel pieno dei suoi
85 anni) e Vinicio Capossela, autore della prefazione. È l’Italia di quegli anni, i night
alla moda e le strade polverose di tournée di provincia, un tassello di storia. È l’entusiasmo di una amante del bello e lo stile sobrio di una cronista d’altri tempi. ■
ODIO
L’ESTATE
di Nicola Cirillo
di Rossella Gaudenzi
O
rvieto, una rupe di tufo assediata dal jazz, i Podestà, i Capitani
del Popolo, i Signori Sette, l’opulenza dell’improvvisazione.
XVIII
edizione, dal 29
dicembre 2010 al
2 gennaio 2011. A
partire dal 1993 Umbria Jazz raddoppia, fa spazio alla versione invernale e
nasce Umbria Jazz Winter. La città
della verde Umbria eletta ad accogliere
cinque giorni di concerti - quelli più
sacri ma anche quelli più festaioli - è
l’elegante e fascinosa Orvieto, con la
sua ricchezza storica e artistica.
A far da cornice ai concerti le strutture più belle e preziose della città. Prima
tappa, il Teatro Mancinelli. Edificio
neoclassico, tra i migliori esempi architettonici di teatri ottocenteschi italiani,
riaperto al pubblico nel ‘93, ospiterà il
concerto di apertura nonché uno dei
pezzi forti del festival, Chick Corea &
Stefano Bollani duet; Roberto Gatto
Quintet, Ray Anderson’s Pocket
Brass Band, Brass Bang!.
Seconda tappa, nell’opulento e lineare Palazzo del Capitano del Popolo,
che si erge nell’omonima piazza, risalente alla seconda metà del XIII sec.
Qui risiedettero i vari Capitani del
Popolo, i Podestà e la magistratura dei
Signori Sette, da qui, in tempo di guerra, uscivano gli armati in difesa della
città. Oggi escono, dalla Sala dei 400 e
dalla Sala Expo, Danilo Rea, Joe
Locke con Dado Moroni e Rosario
Giuliani, Quintorigo con Maria Pia
De Vito. Armati.
Tappa numero tre, Palazzo dei Sette,
sede di un centro culturale, eretto alla
fine del Duecento e sede dei Sette, i
rappresentanti delle Arti, da cui si acce-
de alla torre civica, nota come torre del
Moro. Sarà il meeting-point ufficiale e
sede dei concerti di Renato Sellani e
Nick the Nightfly.
Quarta tappa: la Sala del Carmine, ex
chiesa del 1300 comprendente un convento, accoglie il concerto multimediale One hand Jack, una musica da Dio.
La tappa numero cinque si fa a Palazzo
Soliano, costituito da due grandi saloni
sovrapposti; la sala inferiore è sede del
Museo Emilio Greco, che ospita una
collezione di sculture e creazioni grafiche e riceve la cantante americana Dee
Alexander.
La Messa della Pace del pomeriggio
di Capodanno riempirà l’edificio più
famoso e rappresentativo della località
umbra, il Duomo, ideato da Arnolfo di
Cambio in stile romanico, ma innovato
e reso dal Maitani un esemplare di arte
gotica, realizzato fra ‘300 e ‘500.
Numerosi gli appuntamenti distribuiti tra il Palazzo del Gusto (orario aperitivo) e il ristorante Al San Francesco
(per il cenone del 31 dicembre e gli
eventi del Jazz Lunch & Dinner).
Ecco tornati al punto di partenza:
Umbria Jazz Winter 2010 chiude con il
Top Jazz 2010 nel Teatro Mancinelli.
Che non si dimentichi l’atmosfera di
festa invernale: l’andremo a cercare nei
vicoli orvietani più nascosti e magari
innevati. Per incappare, forse, in una
delle parate che rallegreranno le vie. In
Umbria senza musica non c’è vera
festa. > nella foto, i Guappecarto in un
ristorante umbro nel corso di
UmbriaJazz Estate 2010.
■
Stefano Mastruzzi
CHITARRA,
INFORMAZIONE
E FORUM SU
www.axemagazine.it
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
a cura di FLAVIO FABBRI
WAYWARDBREED L’intervista Sdoppiamento
della personalità, racconti di metamorfosi, disperati afflati dell’anima, ossessioni per gli animali.
DAVID BOWIE «Il mio cantante
preferito è di gran lunga Lucio
Battisti». Però.
ROCK’N ROLL OF FAME Unica condizione: devono aver effettuato la loro prima
incisione 25 anni prima della candidatura
DI VALENTINA GIOSA
LA PECORA NERA
DI ROSSELLA GAUDENZI
S
ei miti antichi gli dei erano soliti trasformare gli uomini in cani, cavalli o anche
alberi e costellazioni. Probabilmente Waywardbreed è la mia parte animale,
quella che non ha paura. A differenza di Justin, che invece ne ha spesso.
N
U
n chiaro esempio di sdoppiamento
della personalità in un artista, ma in
questo caso piacevolmente conturbante, arricchita da racconti di metamorfosi, disperati afflati dell’anima, passioni
non corrisposte e singolari ossessioni per gli
animali. Originario di Melbourne, Australia,
Justin Avery aka Waywardbreed ha da poco
pubblicato il disco Rising Vicious, album di
debutto del suo primo progetto solista dopo
anni di esperienze come bassista nelle band
australiane The Dumb Earth, The Mime Set e
The Spoils. La sua musica potrebbe essere
definita uno sweet-gothic-folk proveniente da
una stanza oscura e simile ad un irresistibile
richiamo di un volatile nero dalle sinistre intenzioni. I suoi testi sono perle letterarie e tra gli
autori a cui si ispira ci mette anche Italo
Calvino e Primo Levi. Nel tour europeo, che lo
ha portato ad esibirsi in Germania, Francia,
Norvegia, Repubblica Ceca, Spagna e
Svizzera, Waywardbreed non poteva saltare
l’Italia di cui ama il caffè e il vino rosso.
Quando è nato «Waywardbreed»?
È nato un paio di anni fa, conseguenza di un
periodo molto difficile. Mi sentivo incompleto,
ciò che facevo con le altre band non riusciva a
soddisfarmi, sia a livello musicale che personale. Perciò, un bel giorno, ho deciso di dare vita
a Waywardbreed. Una voce interiore inascoltata per anni, ‘un altro me’ che non aveva alcun
timore di esprimere finalmente desideri, paure,
rabbia, odio e tutti i sentimenti più nascosti.
Perché hai scelto questo nome?
È un’espressione che mi capitò di leggere in
un racconto di cowboys circa 10 anni fa. Mi
colpì immediatamente. Quando la gente mi
chiede cosa significa Waywardbreed non so mai
che rispondere. È solo un nome di fantasia.
Scrivere canzoni autobiografiche è poco interessante. Va a finire che tutti i personaggi
hanno sempre a che fare con Justin e non si riesce mai a mantenere la giusta distanza.
Waywardbreed invece sta ad indicare molte
cose. Potrebbe significare, ad esempio, la pecora nera della famiglia. D’altronde a me piacciono molto le associazioni con gli animali. Nei
miti antichi gli dei erano soliti trasformare gli
uomini in cani, cavalli o anche alberi e costellazioni. Probabilmente Waywardbreed è la mia
parte animale, quella che non ha paura. A differenza di Justin, che invece ha ne ha spesso.
Quali sono state le tue esperienze musicali
prima di Waywardbreed?
Ho cominciato a suonare abbastanza tardi.
Sono stato per oltre 7 anni un artista diviso tra
fotografia e installazioni. Ho anche scritto dei
racconti. Poi un giorno, alcuni amici che avevano una band, i The Dumb Earth, mi hanno
proposto di suonare il basso. Loro erano sulla
scena già da 10 anni e sono stati fondamentali
per la mia formazione di musicista. Il leader
della band, David Creese, credo sia uno dei
migliori cantautori australiani in circolazione.
Ho poi suonato con The Mime Set e infine The
Spoils, con i quali ancora lavoro e che saranno
di nuovo in tour in Europa nel 2011.
Definirei la tua musica uno sweet-gothicfolk, cosa ne pensi?
Direi che suona bene. In Europa si usa spesso nei miei confronti l’espressione singersongwriter, ma non mi piace molto devo dire. È
un termine generico, un vestito troppo largo.
Sweet-gothic-folk mi piace invece, almeno è
fantasioso. Penso comunque che la mia musica
sia in continua evoluzione e le etichette lasciano sempre il tempo che trovano.
I testi qui giocano un ruolo molto importante. Come riesci a combinare liriche e
musica, come nascono le tue canzoni?
Sì, i testi sono sicuramente la cosa più importante. Sono uno che scrive molto, anche se non
c’è una regola fissa. Diciamo che parole e
musica escono fuori in momenti e in luoghi differenti. Raramente mi è successo di comporre
tutto insieme. Musicalmente mi ispiro Leonard
Cohen, David Bowie, Will Oldham, Tom Waits,
Townes van Zandt, Patti Smith. Ma ci sono
anche film e romanzi. C’è un libro in particolare, «Fugitive Pieces» dell’autrice canadese
Anne Michaels, a cui penso sempre quando ho
bisogno di trovare le parole giuste. Mi piacciono molto anche Raymond Carver, Primo Levi,
Italo Calvino e W.G. Sebald. In quanto ai film,
la lista sarebbe troppo lunga.
Col tuo tour hai attraversato mezza
Europa, che cosa pensi dell’Italia? Apprezzi
qualche musicista italiano in particolare?
Ci sono stato per pochi giorni soltanto e ogni
volta non so proprio che aspettarmi. È un Paese
che spiazza. Di sicuro si incontra gente diversa,
si beve dell’ottimo caffè e del buon vino rosso.
Un amico mi ha presentato Tiziano Sgarbi,
conosciuto come Bob Corn, non più di un anno
fa. Adoro le sue canzoni, degli autentici gioielli.
Ho avuto modo di suonare con lui in un concerto a Berlino. È un uomo straordinario, con un
grande cuore e un sorriso ineguagliabile.
■
MA
GIA
NE
RA
ono veramente sorpreso che le persone ballino sui miei dischi. Ma
siamo onesti: il mio rhythm’n’blues è totalmente di plastica. Young
Americans, l’album che comprende Fame, è un disco di soul di plastica. Sono i resti schiacciati della musica etnica come sopravvive nell’età del rock da sottofondo, scritta e cantata da un inglese bianco
I
ngannevoli suggestioni. Accade esattamente questo: basta una ristampa in doppia versione, speciale e deluxe, di un
influente album di 34 anni fa e il carisma di un
artista che risponde al nome di David Bowie, a
riaccendere la speranza -speranza cieca, speranza disperata, speranza ultima a morire- di sentir
parlare di un nuovo tour mondiale.
21 settembre 2010: per la EMI esce la ristampa del successo del 1976 del Duca Bianco
Station to Station. Sei le tracce che compongono l’inconfutabile capolavoro del cantante britannico (Station to Station, Golden Years, Word
of a Wing, TVC15, Stay, Wild is the Wind), registrate negli studi Cherokee di Los Angeles grazie all’apporto dei chitarristi Carlos Alomar ed
Earl Slick, del tastierista Roy Bittan, del batterista Dennis Davis, del bassista George Murray
e del vocalist Warren Peace. Nonostante l’album sia stato composto in un momento di crisi
esistenziale per l’artista, il risultato è un’opera
di successo in cui è forte l’influenza dalle band
elettroniche tedesche dell’epoca e dall’R&B.
Successo indiscutibile sia negli States che nel
Regno Unito, nonché lavoro che ha fatto da
anticamera allo storico «periodo berlinese».
Station to Station come disco magico. Così
definito dalla critica e dallo stesso Bowie: più di
ogni altra sua opera contiene rimandi alla magia
nera, cabala e cabala ebraica (citate le due sephirot Kether e Malkuth). Station to Station come
disco cult. Alcuni brani del disco, oltre a
Helden, versione tedesca del celebre Heroes,
sono nella colonna sonora del film culto Noi, i
ragazzi dello zoo di Berlino (1981), nel quale
Bowie appare nell’interpretazione di se stesso.
Veniamo infine alle due versioni di questa
ristampa. L’operazione è astuta e non poco, da
perdercisi. La Collector’s Edition comprende
triplo cd: album originale dal master analogico e
concerto del ‘76 dal Coliseum di Nassau
(Bahamas), più booklet con note a cura di
Cameron Crowe e 3 cartoline dell’artista.
La Deluxe Edition si compone di ben 5 cd e
dvd, tre LP in vinile, più poster, spillette, riproduzioni di biglietti, stampe fotografiche, foto e
molto altro, troppo altro forse, proprio da perdercisi. Ogni volta che esce un disco del Duca
Bianco è davvero un evento e ora i suoi fan non
devono fare altro che sperare in un suo ritorno
anche dal vivo. «Il mio cantante preferito è di
gran lunga Lucio Battisti»: però.
■
ROCK’N HALL OF FAME
N
on c’è più il vero rock nella
Hall of Fame, ma a noi piacerebbe trovarci metallo, batteria, ritmi inascoltabili la mattina per poter dire che sì, è lei,
la piramide della ribellione.
DI ROBERTA MASTRUZZI
G
li ultimi ad entrare nella Rock’n’roll
Hall of Fame sono stati i Genesis, gli The
Stooges, Jimmy Cliff e The Hollies.
Quest’anno potrebbe essere la volta di Tom
Waits e Bon Jovi, ma la rosa è ampia e ci sono
altri 15 artisti in lizza, tra cui Dr John, i Beastie
Boys, Donovan e Neil Diamond. Stiamo parlando della Sala della Gloria e Museo del Rock
and Roll di Cleveland, tempio americano della
musica rock. Un luogo sacro troppo spesso profanato, verrebbe da pensare, visto alcune nomination che con la musica ribelle poco c’entrano.
Ad un esame più attento notiamo, infatti, che
tra i nomi di quanti hanno apposto la propria
firma sul muro della hall, figurano personaggi
più inclini al pop e alla musica commerciale,
che non al rock duro e puro. Inserire, com’è
successo lo scorso anno con gli ABBA, gruppi
o cantanti universalmente riconosciuti come
popular è da molti considerata una mossa orientata a favorire un maggiore afflusso di visitatori nella Hall of Fame. Tutti vorrebbero vedere il
proprio artista preferito entrare di diritto nell’edificio di culto per rockettari, ma è il mercato
ad avere sempre l’ultima parola.
Viene infatti da chiedersi cosa c’entri
Madonna con il rock e che fine abbiano fatto
gruppi storici come i Deep purple e i Kiss, grandi assenti ingiustificati. Forse si tratta solo di
aspettare altro tempo, ma è più probabilmente
un difetto del sistema di selezione. Anno per
anno viene presentata dai direttori del museo,
tra cui Jann Wenner, fondatore della rivista
Rolling Stones, una rosa di stelle del rock,
viventi e non, che hanno lasciato un segno evidente nella storia della musica. Unica condizione: devono aver effettuato la loro prima incisione almeno 25 anni prima della candidatura. Per
il resto, la scelta dei nomi viene a dipendere da
una giuria di 1.000 critici ed esperti del settore
che sceglie ogni volta i 5 prescelti.
I nuovi ammessi alla Rock And Roll Hall Of
Fame per il 2011 saranno annunciati durante la
cerimonia ufficiale in programma al Waldorf
Astoria di New York, il prossimo 14 marzo. Tra
le nomination di quest’anno ci sono, oltre i
nomi sopra elencati: Alice Cooper, LL Cool J,
Donna Summer, Laura Nyro, Chuck Willis e
molti altri.
Noi abbiamo già scelto per chi votare. Ci pare
che Bon Jovi e Tom Waits siano due voci che
mancano nella hall. Si può non essere d’accordo e possono non piacere, ma certo nessuno può
dire che non siano abbastanza rock.
■
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
THE WHO Tornai da mia madre, dissi: «Mamma R.E.M. Il bagno di mezzanotte, ricordo quella notte mentre arrivava settembre | mi sto struggendo per
sono pazzo aiutami!». Lei disse: «So come ci si sente la luna | e cosa succedeva se ce n’erano due | fianco a fianco in orbita | attorno al più onesto sole | quella luminosità, che si diffonde nella notte | non può descrivere il bagno di mezzanotte. (Nightswimming)
figliolo, è nella nostra famiglia.» (The Real Me)
THEWHOCHI?
Quelli del 1965, quelli dei 100 milioni di dischi venduti, quelli di un nuovo album
DI FLAVIO FABBRI
arlare di un gruppo
come The Who significa
fare un tuffo nella storia
della musica rock britannica e mondiale. Il loro
primo album è infatti del 1965
e porta il nome immortale di
My Generation. Un’ode alla
gioventù londinese, al movimento Mod, al rock&roll, che
la rivista americana Rolling
Stone decise nel 2004 si inserire all’11esimo posto delle 500
canzoni più importanti della
storia della musica. Un riconoscimento tra i tanti ricevuti da Pete Townshend
(chitarrista e autore della maggior parte delle
canzoni), Roger Daltrey (voce), John Entwistle
(basso elettrico) e Keith Moon (batteria), durante una lunga carriera da vere stelle del rock
internazionale.
Ora, superati i 100 milioni di dischi venduti
ed entrati di diritto nella Rock&Roll Hall of
Fame, The Who sono tornati in studio sembra
per un nuovo eccitante album, il secondo negli
ultimi 23 anni. Nel 2006 era infatti uscito
Endless Wire (disco d’oro in Gran Bretagna e
negli Usa), con le new entry di Zak Starkey e
Pino Palladino a dar manforte agli unici superstiti della line up originaria: Townshend e
Daltrey. Un nuovo viaggio, quindi, di cui ancora si sa poco e che nasce da un post pubblicato
sul sito ufficiale del gruppo a firma di Daltrey.
Nella nota si leggeva: «Non posso dire niente di
più specifico, ma sappiate che ci sarà un tour in
cui abbiamo programmato molto materiale del
passato». Poi ha aggiunto: «Pete (Townshend)
P
a c c e l e ra t e e y e m o v e m e n t
DI FLAVIO FABBRI
C
in questo momento sta scrivendo nuovi pezzi.
Nessuno può dire quando avrà finito, ma sono
sicuro che prima del tour avremo un nuovo
album da pubblicare».
Un 2011 che si preannuncia quindi davvero
ricco di sorprese, per gli amanti del rock&roll
d’autore, con i Rolling Stones che hanno già
annunciato un poderoso tour mondiale per
festeggiare i loro primi 50 anni di attività. The
Who, inoltre, hanno ufficializzato per il prossimo anno anche la ristampa del celebre Live at
Leeds del 1970, considerato da certa stampa
come l’esibizione dal vivo più entusiasmante
della storia del rock, che per l’occasione si chiamerà Live at Leeds: 40th anniversary superdeluxe collector’s edition.
Al suo interno, oltre al cd dei brani della leggendaria serata inglese e alcune bonus track, tra
cui il singolo inedito Summertime blues’/Heaven
& Hell, anche un secondo cd che porta il nome
di Live at Hull, ovvero l’esibizione della serata
■
successiva a Leeds.
ollassa nell’Adesso. C’è qualcosa che dal sogno, la fase R.E.M., ti riporterà al
più profondo te stesso, ora, accelerato, dolorante, e senza più punteggiatura.
D
opo trent’anni di attività i REM non
hanno minimamente voglia di appendere gli strumenti al chiodo e il nuovo
album Collapse into Now è previsto in uscita ad
aprile del 2011. Si tratta del loro 15esimo disco
in studio, senza contare i live e le raccolte, registrato negli studi di New Orleans, Nashville e
Berlino. Proprio la città tedesca, una delle più
cool d’Europa, sembra aver dato nuova verve
alla banda di Athens (Georgia).
Altra importante novità, pubblicata direttamente nel sito ufficiale di Michael Stipe, Peter
Buck e Mike Mills, è il cambio del nome, dal
tradizionale R.E.M, al più fluido e colloquiale
REM. Praticamente sono stati eliminati i puntini, che da sempre stavano a ricordare il celebre
acronimo che li contraddistingue fin dall’inizio
delle loro carriera: Rapid Eye Movement.
Una carriera di alti e bassi, coronata però da
costanti successi di vendite e di pubblico ai loro
tanti concerti che li hanno portati in giro per il
mondo. Uno di questi, ad Austin nel 2008, è da
poco diventato un dvd, Live From Austin, costola multimediale del tuor mondiale di Accellerate
(2008). Un momento intenso per il trio americano che, oltre al nuovo lavoro in studio, sono atti-
vissimi anche con altri progetti. Michael Stipe,
ad esempio, da sempre sensibile alle tematiche
sociali e civili, in casa e fuori, ha supportato in
prima persona l’organizzazione «Free The
Slaves», per combattere la condizione di schiavitù in cui decine di milioni di persone versano
in tutto il pianeta.
Dopo aver occupato i primi posti nelle classifiche Usa e del Regno Unito con Accellerate, i
REM tentano ora di bissare il successo con questo nuovo disco che, da indiscrezioni del produttore Jacknife Lee (The Hives, U2, Snow Patrol,
Weezer, Kasabian), sembra essere orientato su
sonorità decisamente rock e su atmosfere tipiche
della mitteleuropa. Quel crogiolo multiculturale
e multietnico che, dopo il crollo del muro di
Berlino, ha ritrovato forza e capacità di attrarre
artisti da tutto il mondo.
Un set di tracce molto meno sperimentali
quindi e caratterizzate da un ritorno agli anni 90
del secolo scorso, quelli di Out of Time,
Automatic for the People e Monster, tempi in
cui c’era ancora Bill Berry (che poi ha lasciato
l’attività nel 1995) e in cui i REM, in pochi
anni, vendettero oltre 40 milioni di dischi in
■
tutto il mondo.
ALNATIVE
TER
a cura di VALENTINA GIOSA
&
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
PORCELAIN RAFT Mario Remiddi Una tazza
di porcellana perché non galleggia nell’acqua, ma
in qualsiasi altro luogo si pensi
ZOLA JESUS Potenti melodie romantic-dark,
colonne portanti di un paesaggio sonoro algido e
gotico ornato di synths glaciali e batterie riverberate
BANG GOES
PORCELAIN
RAFT
O
DIVINECOMEDY
a cura di Valentina Giosa
riginario di Roma, Mauro Remiddi si trasferisce a Londra 10 anni
fa. Dopo l’esperienza con la indie band Sunny Day Sets Fire,
decide di dedicarsi a tempo pieno al suo progetto solista che
aveva tenuto nascosto nel cassetto sin da bambino. Nasce così Porcelain
Raft, una giostra colorata dove musica, parole ed immagini sembrano parlare la stessa lingua della purezza e del sogno. Music In ha incontrto
Mauro durante il recente tour con i Blonde Red Head.
Come sta andando il tour con i Blonde Red Head?
Devo dire che mi sembra un pò un viaggio sulla luna. È tutto così intenso che è impossibile fotografarlo. Tantissime emozioni, colori, momenti
bellissimi, ma anche assurdi, inaspettati, come alcune chiacchierate fatte
con persone sconosciute sul treno. Sto inoltre imparando molto dai BRH,
che sono delle persone stupende con una grande purezza di fondo. E ho
visto come loro vivono davvero quello che stanno facendo. È come entrare in un vortice dove tu diventi quello che fai e questa cosa ti stanca molto
ma più sei stanco e più sei te stesso, perché non hai neanche la forza di
pensare o creare delle barriere. Credo ci vorranno un paio di mesi prima
di digerire tutte le cose che sto vedendo e imparando in queste settimane.
In fondo, mi sembrano un anno.
Come è nata l’idea del tour?
È stata una coincidenza perché alcuni dell’etichetta 4AD erano venuti
a sentirmi suonare in un concerto a Londra (il mio sesto concerto; in
realtà ho cominciato a suonare live con questo progetto da neanche tre
mesi) e io non lo ignoravo. Quindi ho ricevuto una loro chiamata nella
quale mi comunicavano che i BRH avevano scelto me fra una rosa di artisti proposti dalla 4AD come opening act per il nuovo tour.
Quando è iniziato il progetto Porcelain Raft?
Quando avevo 10 anni. I miei un giorno portarono un pianoforte a casa
e così cominciai a suonarlo. Avevo un piccolo registratore a cassette dove
incdevo dei piccoli show. Per esempio vedevo un cartone animato e tentavo di rifarne la musica recitandoci su. Con il tempo non ho più smesso.
A1 6 anni ho cominciato a suonare nelle prime band, ma quando tornavo a casa continuavo a fare le mie cose come fossero due universi separati, da una parte la mia stanza e dall’altra il mondo reale, quello nel
quale dovevo confrontarti con le persone. Fino a quando un giorno non
mi sono arreso e mi sono detto: «E se facessi ascoltare quello che faccio
invece di creare un alter ego? Perché non uscire nel mondo?». Con il mio
Porcelain Raft faccio esattamente quello che facevo a 10 anni, ma con più
strumenti, più esperienza. Ho solo deciso di farlo ascoltare. È la prima
volta che espongo quello che faccio nella mia stanza.
Perché hai scelto il nome «Porcelain Raft»?
È semplicemente un’associazione di parole. Mi piaceva «porcelain»
(porcellana) e «raft» (zattera). Ho cominciato ad unirle come facevano i
Surrealisti che componevano frasi a caso. E questa combinazione era l’unica che mi suonava bene. Mi hanno fatto notare che una zattera di porcellana non potrebbe galleggiare sull’acqua ed ho pensato: «È il nome
perfetto». Perché significa che non sta galleggiando sull’acqua, ma altrove.
Oltre PR quali, sono state le altre esperienze musicali?
Ho inziato a Roma a scrivere dei brani strumentali per cortometraggi.
Poi ho cominciato ad avere delle band dove cantavo. Quando mi sono
trasferito a Londra ho voluto espolorare la mia parte più divertente, ironica, cosa che non stavo facendo in Italia, dove era tutto un pò più
«dark». Quindi ho creato con la mia amica Onyee i Sunny Day Sets Fire,
dove suonavo anche la chitarra. Mi sono reso conto dopo allora che quello che stavo facendo in quella stanza stava diventando sempre più importante. Ho deciso così di abbandonare la band e seguire a tempo pieno
questo progetto.
Trovo ci sia una componente molto visiva nella tua musica, come se
il suono disegnasse paesaggi sognanti animati di giostre e carrilion...
Sì, decisamente sono una persona visuale. Anche quello che facevo da
bambino con i cartoni era già strettamente legato alle immagini. Devo
dire comunque che questo riferimento che fai alla giostra è pazzesco: mi
C
apaci di riprodurre un raffinato
pop degno di artisti del calibro di
Elvis Costello e costruirci un carosello di ritratti in stile vittoriano dalle
atmosfere demodé con rimandi al genere musical, i Divine Comedy tornano sulla
scena con Bang Goes the Knighthood. Il
progetto nasceva nel 1989 per volontà
di un introverso sognatore innamorato
dell’Italia e del film Camera con vista, Neil
Hannon, che aveva scelto il nome della
band quasi per caso, pizzicando nella
libreria dei genitori il titolo dell’epico
poema di Dante La Divina Commedia.
hai fatto venire in mente una foto di quando ero ragazzino, l’unica cosa
che ho portato via dall’Italia. L’immagine ritrae me proprio su una giostra tutta colorata e attorno un paesaggio desolato di una zona periferica con palazzi grigi in costruzione. Ricordo che quando ho ritrovato la
foto ho pensato che mi rappresentasse perfettamente. Per cui è assurdo
che ora tu dica questo.
È per questo, quindi, che anche i video svolgono un ruolo molto
importante nella tua musica. È come se ci fosse un filo conduttore,
come se video e musica fossero un linguaggio unico dove l’uno non
esiste senza l’altro.
Certo, alcune canzoni non potrei immaginarle senza video, è come se
creassero una sorta di mappa e la canzone diventasse un luogo ben preciso; il video ti dà la foto dell’intero labirinto e ti fa capire il percorso,
come si è arrivati fin a quel punto e da dove si è partiti.
Sei tu stesso che li realizzi?
Sì, tranne quelli per Dragon Fly e Talk to Me. Non ho una grande tecninca, quindi prendo delle immagini che mi piacciono, per esempio su
YouTube, e non sapendo come importarle le riprendo con la telecamera
sullo schermo e le edito successivamente.
Nascono prima le canzoni o i video?
Le canzoni. Anche se ultimamente sto cercando di realizzare video e
canzone nello stesso giorno come fosse un corpo unico.
Che tipo di strumentazione usi?
Drum machines, keyboards, chitarra, effetti. Uso il computer solo come
macchina per registrare e non a livello compositivo. Tutto il resto sono
cose esterne. È tutto suonato. Vorrei portare dal vivo esattamente quello
che faccio in quella stanza e non il computer perché non è uno strumento musicale. Quando porti il laptop sul palco è tutto troppo perfetto,
suona come un cd, sei sicuro che tutto andrà bene ma questo è proprio
quello che non voglio. Ciò che cerco è invece una sorta di pericolo nel
suono. Qualcosa che suoni troppo alto o troppo basso per esempio.
Ci sono degli artisti a cui ti senti vicino?
Sicuramente, come attitudine, artisti come Atlas Sound o Beach House.
È come se avvertissi un’emotività comune, la stessa energia silenziosa
che non ti viene sbattuta in faccia.
Cosa influenza la tua musica?
Principalmente i film. Prima del tour ho riguardato molte cose di
Tarkowski fra cui Lo Specchio e Stalker, non tanto per la poetica delle
immagini ma per il modo in cui il regista racconta la storia, ciò che è esattamente quello che vorrei realizzare nei miei live. Nei suoi film c’è una
netta diversità tra la realtàà e le memorie. E questo accade tutti i giorni.
Noi stiamo facendo questa intervista ad esempio, ma tu vedi passare una
persona con una giacca verde che ti ricorda magari una persona. Perciò
tu mi ascolti ma la tua testa può allo stesso tempo viaggiare in una frazione di secondo nelle tue memorie. La storyline non è mai dettata dalla
realtà, è come fosse un labirinto di cose che avvengono nello stesso tempo.
Nei film di Tarkowski c’è una connessione fortissima fra il sogno e quello
che accade veramente, e le due cose spesso non sono connesse. Vorrei
arrivare ad avere questo nel mio set live. È ancora un work in progress.
Sto tentando di capire come fare.
■
SIRENA JESUS
R
egina gotica, solitaria sirena dal look chicdark, conturbante incantatrice notturna e
invocatrice di affascinanti e pericolose melodie apocalittiche, Zola Jesus non può certo lasciare
indifferenti. La giovanissima cantautrice americana,
cresciuta nel selvaggio Wisconsin, è certamente un’artista sui generis in bilico fra musica avantgarde, industrial, new wave, musica classica. A colpire al primo
ascolto è innanzitutto la sua voce, intensa, glaciale e
sensuale, antidoto perfetto per sedare tutte le anime
inquiete allo scoccare della mezzanotte. Nika Roza
Danilova (il suo nome all’anagrafe) ha ultimato da
poco il tour europeo facendo tappa in Italia per una
sola data a Milano in occasione dell’uscita del suo
ultimo EP Stridulum pubblicato per la newyorkese
Sacred Bones, disco sicuramente più «pulito» rispetto
ai precedenti The Spoils e New Amsterdam.
Qualificata come cantante di opera e ispirata dalla
scena musicale sperimentale e underground (Diamanda
Galas, Siouxsie Sioux, Cocteau Twins) e i filosofi esistenzialisti (è laureata in Francese e in Filosofia) si è
fatta avanti velocemente arrivando a conquistare i riflet-
DIVINE COMEDY Il
terzo cerchio dantesco, l’avidità della finanza inglese
tori grazie a potenti melodie romantic-dark, colonne
portanti di un paesaggio sonoro algido e gotico ornato
di synths glaciali e batterie riverberate.
Le liriche cupe di I can’t stand (uno dei migliori
brani di Stridulum, vera e propria «gemma nera» dell’intero lavoro di Zola Jesus), che recita sulle note
cavernose del synth «It’s not easy to fall in love / But
if you’re lucky / you just might find someone / So don’t
let it get you down / Cause in the end, you’re only one»
o di Lightsick («Do you wonder / what will we become
/ when our eyes close / on the starry ends / when we
finish our rows / and the folds are dead /when the
lights go out on us») rappresentano perfettamente
l’approccio provocatorio e anticonformista di un artista che non ha nessuna paura di gridare al mondo la
verità. «Per me è importante fare musica che in qualche modo inquieti», dice in un’intervista. «Molti decidono di mettere su un band solo perché adorano i
party, la vita mondana e diventare famosi. Io non sono
per niente interessata a questo. Non prendo droghe,
non bevo. Tutto ciò che voglio è portare qualcosa di
nuovo ed emozionante al mondo».
■
di Valentina Giosa
NEIL HANNON
Con Bang Goes the Knighthood l’irlandese ha voluto osservare con acuto cinismo lo scandalo finanziario e la decadenza sociale che ha travolto l’Inghilterra in
questi ultimi anni; i ricchi borghesi e i falsi
potenti descritti nel brano The Complete
Banker ne sono un esempio lampante. Il
disco non è forse il miglior lavoro se pensiamo ai precedenti Absent Friends e
Casanova, ma la bravura e l’unicità dell’artista non sono in discussione.
DI
EUGENIO VICEDOMINI
FEED
BOOK
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
CORRI AMORE CORRI (chiave di DIALOGHI INCIVILI Perché UNA GOCCIA PURA...
basso) e il dolore, lì, vicino al cuore, si dis- la società si interroghi: chi è L’immersione di Jeff Buckley
solve come (chiave di violino, 6/8, sol alto) Cristicchi?, e non: Cristicchi chi? nel Mississipi. La nostra in lui
CORRI AMORE CORRI - RACCONTI CON MUSICA
FEED
BOOK
Sono racconti (di Maria Inversi) musicati su partitura (di Massimo De
Lorenzi). «Non è ampio il fazzoletto di cielo... non può più di tanto e impietrita (ah! sospiro)» è tra le pause. Poi riprende Vivaldi. Chiave di violino.
Voce. «Corre e non sente il vento (pausa) corre il cuore batte forte (sono crome) Elena
è il suo cuore (pausa) corre deve salvarla (terzine) il grido di Elena risuona ancora ah!
ancora (terzina)». Ah! Ancora ah! (ossia croma, terzina, croma, tutti
sol). In alto vola un elicottero. I filari di iris tremano, ondeggiano, si placano. Troppa rugiada fa male ai fiori.
Chiave di basso, è Brahms a musicare Non voglio più ricordare. Primo
ritornello solo violoncello pizzicato: «Mammina cara, è passato tanto
tempo lo so... Non voglio più ricordare mamma, non voglio più». Poi
Ravel, moderato, violoncello con arco: semibrevi di la, do, si, sol, la, do,
si, introducono questo: «...scandiva il tempo, in ore precise del giorno
(chiude la musica sfumando)... una piccola chiave lei l’aveva vista in un
cassetto del comò», e pizzicato, crome di mi-la (quatta) ripete (il cuore
furioso) ripete. Domani forse, violoncello, 4/4, chiave di basso. Lì
accartocciato, le membra inarticolate... cosa gli è accaduto? (la musica rimane sotto il monologo, pianissimo sul ponticello). E le nostre canzoni... dimmi una parola, regalami un suono. (crome sol-re, semiminima
si). Ti bacio qui e qui... Ti racconto la favola della fiammella. Sì, ti piaceva. Ecco. (semicrome sol-re, semiminima si). Un uomo è un lento da
Monument de Saint-Jean. «Ma nessuno si accorse di nulla» (stop musica).
La violinista. Veronica, adottata. «Voglio un violino». «No». Per anni. Voglio un violino, un
violino, un violino! «La madre abbandonò le cipolle e il coltello che, con rumore sordo, s’adagiò nella zuppiera. Le bambine piccole non suonano il violino». «Io sì». Corpo e volto
contro il vetro e lo sguardo dentro il giardino, oltre il giardino. Lontano, lontano da quella casa. «Ma ecco che tra un ramo e l’altro del pioppo intravide e poi vide il violino che,
per liberarsi dai rami, scivolava danzando al ritmo di lunghe note affinché nessuna corda
si rompesse né graffio si ferisse. Volteggiò alto e lesto nell’aria e poi giù piano piano a
posarsi contro il vetro, contro il suo corpo. Allargò le braccia balzò sulla sedia aprì la
finestra. Fu sulla spalla, l’archetto tra le dita si dischiuse, l’orecchio sulla mentoniera.
Suonò. Non abitava più lì».
Chiave di basso, una sola pagina di par«Corri amore corri»
titura. Tutte minime, semiminime,
di Maria Inversi
semibrevi: non c’è fretta per delle
Iacobelli Editore
crome. «Sempre a quella finestra, non
sognare, fa’ qualcosa». Violoncello con
12,00 euro
arco. Chiude sfumando.
ROMINA CIUFFA
PO
PCK
pop&rock
«Un musicista, se la propria
musica comunica ed emoziona realmente, non ha nulla da
spiegare e null’altro da aggiungere a quello
che si ascolta nei suoi lp», diceva Lucio Battisti,
motivando la propria ritrosia nei confronti
delle interviste e dei giornalisti. Non aveva
alcun torto. Sebbene, va ammesso, lui non
fosse un paroliere: e così, raccontava le storie
degli altri. Con fare (e malessere) universale.
Resta ragionevole, tuttavia, la sua idea. Il musicista fa musica, e non è tenuto a spiegare
nulla, né della propria vita né, tantomeno, di
cosa i suoi pezzi vogliano dire oltre ciò che non
arrivi a ciascuno, secondo interpretazioni
assolutamente soggettive.
Ciononostante uno ruppe l’embargo forzato
con la stampa ed entrò nella sua anima latina,
è il caso di dire, trascorrendo 5 giorni al
Mulino, dove Battisti stava registrando Anima
Latina, appunto. «Lui capì subito che io non ero
un fan né un aspirante cortigiano. (...) Lucio
sembrava quasi fare a gara, anche se inconsapevolmente, a scavalcarmi... a sinistra»,
scrive. L’intervista uscì su Ciao 2001; quel
numero vendette più di 400.000 copie.
«Nessuno poteva avvicinari a Lucio», specifica
Alberto Radius. E andò così: a Battisti, con la
forchettata di bucatini a mezz’aria tra il piatto e
la bocca, Mogol chiese: «Ti farebbe piacere se
Renato scrivesse un articolo su di te, sul nuovo
lp?». «E di che cosa scriveresti?», si rivolse a
Marengo. «Di musica, naturalmente!». «Se
scrivi veramente solo di musica... perché no?
Sento di potermi fidare di te». Mogol non si
trattenne e urlò: «Bene! Bravo Lucio! Renato è
riuscito a farti uscire dall’isolamento. Bisogna
subito brindare».
E questa è la storia vera
di quell’intervista, non solo
la storia di Lucio Battisti,
ma anche quella di un
grande peone della musica, come si è sempre definito Renato Marengo.
Romina Ciuffa
DELITTI ROCK
ROCKO F F
«I hope I die before I get old»,
cantavano gli Who nel 1965,
a nome della loro generazione. Il rock ha sempre bruciato le stelle più luminose del proprio firmamento, coltivando una
insana predilezione per il numero 27 (l’età) e la
lettera J. Il famigerato club j27 (la trinità Jimi
Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison) è una
delle tante mitologie, forse la più duratura, a
ispirare Delitti Rock, una lunga carrellata suddivisa in sequenza cronologica sulle morti più o
meno celebri e più o meno
controverse del rock.
Membro fondatore del
club fu Robert Johnson:
se il rock è la musica del
diavolo, è giusto partire da
quel suo patto inaugurale
con Satana siglato al crocicchio tra le Highway 61
e 49. La sua oscura vicenda fu la prima di una lunga
«Delitti Rock»
di Ezio Guaitamacchi
Arcana Editore
16,65 euro
serie: disfacimenti da popstar (Elvis, Jackson),
sciagure aeree (Buddy Holly, Lynryd Skynyrd),
annegamenti (Brian Jones), una lunga lista di
overdose, colpi d’arma da fuoco (John Lennon,
Curt Cobain), oscure trame paragovernative
per eliminare le menti migliori di una generazione incendiaria. Il tutto raccontato col piglio
asciutto di un’autopsia a freddo.
Con un avviso ai naviganti: se il diavolo dà in
cambio fama e denaro, «la miglior mossa di
marketing per una rockstar», come recita il
paradosso in quarta, «è morire giovani».
Lorenzo Bertini
ILLUSTRAZIONE:
QUINT BUCHOLZ
UNA GOCCIA PURA IN UN OCEANO DI RUMORE
ROCKO F F
Nella notte del 29 maggio 1997, Jeff Buckley si
immerge nel Mississippi.
Non è mai stato chiaro se
il suo intento fosse quello
di bagnarsi per l’ultima
volta o se quanto gli
accadde fu solo uno sfortunato evento. Era vestito, non era drogato, ne
ubriaco. Un’onda anomala lo fece affogare e il suo
corpo venne ritrovato in
un canale 5 giorni dopo. Quella notte morì un
giovane artista appena trentenne e vide la
luce l’inizio di un mito.
Gli venne cucita addosso la scomoda figura di
«bello e dannato», come fu fatto con il padre,
Tim, che il cupo Jeff quasi non conobbe, ma al
quale assomigliava terribilmente. Ma forse Jeff
era comunque destinato ad essere icona. Lo
era fin da vivo. E lo si poteva intuire già assaporando il suo album Grace: alla pubblicazione, fan
ed esperti del settore gridarono al miracolo.
Era nata una stella, un’artista vero, completo.
Con questo libro il giornalista musicale Jeff
Apter, redattore di Rolling Stone, dipinge un
ritratto del mito, che non si limita ad essere
esaltazione e glorificazione, ma che descrive
l’uomo in modo genuino e rispettoso e non
solo il figlio d’arte. Non si limita a dissertazioni sull’animo inquieto del giovane e sul suo
charme cupo, più il frutto di un’operazione
«La vita di Jeff Buckely (...)»
di Jeff Apter
Arcana Edizioni
euro 18,50
commerciale. Nella biografia, il giornalista
chiama al banco dei testimoni i collaboratori
di Buckley, i musicisti che condivisero con l’artista quegli anni energici e creativi, fatti di
studi di registrazione e concerti live. E lo fa
allo scopo di evidenziare il Buckley musicista.
Confrontando il lato umano dell’arte, con tutti
i suoi conflitti, ed il lato tecnico della medesima, fatto di note, spartiti e rime. Di tempi da
rispettare e brani da comporre.
Poi indaga. Non mancano interviste a chi lo
ha conosciuto negli anni dell’esordio. Quando
lavorava come lavapiatti nel Sin-é club di New
York e si esibiva, nello stesso locale, subito
dopo aver finito il turno. Nel libro non si eclissa neanche sui vizi dell’artista, che era incline
a rifugiarsi nell’alcol. O sulle fobie e sui tormenti che una vita fatta di concerti ebbe su
Jeff Buckley. Si descrive un uomo, un ragazzo. Uno zingaro. Una persona normale dalla
personalità eccezionale. Un talento tormentato e quieto nello stesso tempo.
Lorenzo Fiorillo
DIALOGHI INCIVILI
«Dialoghi incivili»
di Simone Cristicchi
Elèuthera Edizioni
16,00 euro
PO
PCK
pop&rock
LUCIO BATTISTI: LA VERA STORIA...
«Lucio Battisti: La vera
storia dell’intervista esclusiva»
di Renato Marengo
Coniglo Editore - 14,50 euro
a cura di ROMINA CIUFFA
È progresso se un cannibale
usa la forchetta? Se lo chiedeva il poeta polacco Stanislaw
Jerzy Lec. Quale valore e senso ha esprimere
pensieri non omologati, critici, a volte scomodi,
non funzionali alle logiche della società (in)civile? Questa la premessa.
Simone Cristicchi e l’amico Massimo Bocchia
(«psicopompo», ossia accompagnatore di
anime morte nell’oltretomba) partono da qui
in questo volume che, oltre al cd Monologhi
incivili (racconti di matti e minatori, soldati e
migranti), contiene la storia del poliedrico cantautore. Alla fine, un libro di Cristicchi su
Cristicchi, cui si aggiunge - come non bastasse - l’alter ego Rufus; a dire il vero uno stile
poco comprensibile e la difficoltà di entrare
nella lettura tra corsivi e nessuna indicizzazione (ma lo si dice dal principio: persino l’indice
è provvisorio).
È troppo presto per questo ex tombarolo (non
scrittore): far scrivere di sé viene dopo, scrivere di sé ancora più tardi. Prima eventualmente scrivere degli altri, una classica strategia attraverso gli altri parlare di se stessi -. Ma un
cantautore canta, si impegna nel sociale,
sogna. Troppo pochi per lui i successi e molta
la capacità mediatica che lo rende dimentico.
Dalla sua ha la facilità della
polemica, che lo conduce
alla fama. Non basta.
Non ha ancora incuriosito
quella società incivile che
critica perché lei spontaneamente si interroghi: «ma
Cristicchi, chi è Cristicchi?».
E non «Cristicchi chi?», che
è tutt’altra cosa.
Romina Ciuffa
BRIGANTE SE MORE
PO
PCK
pop&rock
«Erano gli anni in cui ci toccava
dare una mano per sottrarre
all’anonimato quei perdenti che
avevano perso due volte, una prima volta per la
ragione delle armi e una seconda per le ragioni
della politica, anzi, ancor di più, della Storia; e
questa seconda sconfitta era l’antefatto dell’umiliante Questione meridionale e riguardava
direttamente tutti noi ragazzi del Sud.»
Il brigante parla un linguaggio incomprensibile
e suscita rifiuto e diffidenza; è relegato al silenzio, mancano le voci dei combattenti meridionali sulla guerra del Risorgimento, la sua è la
voce del perdente: «Dall’altra parte della barricata i briganti tacciono: dal fronte dei perdenti non ci giungono voci».
Il brigante sta all’uomo come la strega sta alla
donna, aleggia intorno ad ambedue luce di leggenda e di maledizione. La ribellione della popolazione meridionale all’invasione piemontese del 1860 è vicenda storica
rimasta pressoché sconosciuta fino
al sopraggiungere della ballata
Brigante se more di Eugenio
Bennato e Carlo D’Angiò. Il sodalizio
artistico tra i due ha origini lontane.
Lontani sono i primi anni Settanta,
tempo dei successi dell’anticonvenzionale e felice Nuova Compagnia di
Canto Popolare e lontano il giorno in
cui, scioltosi il gruppo, nasceva
Musicanova, nel 1976.
Si ritrovano insieme in entrambe le formazioni
ed esperienze, Eugenio e Carlo, e restano forti
sostenitori della tradizione folk, alla ricerca
delle forme e dei suoni significativi della musica del Sud Italia.
«Brigante se more»
di Eugenio Bennato
Coniglio Editore
14 euro
La ballata Brigante se more nasce nel marzo
del 1979: è uno dei canti più popolari degli ultimi decenni della musica italiana. Il libro Brigante
se more esce nell’autunno 2010 e ci racconta
l’intera vicenda di un canto talmente efficace da
scatenare nella memoria collettiva la convinzione di essere stato composto più di un secolo
prima da un autore anonimo. Narra di come
nella realtà la ballata sia stata commissionata
nel 1978 da Anton Giulio Majano per lo sceneggiato L’eredità della Priora e di come gli
autori siano riusciti a restituire un
«canto di guerra»; narra di due versi
maldestramente contraffatti con
grave danno all’essenza del brano e
della profonda ricerca svolta sulla
canzone popolare e sul brigantaggio
meridionale; narra di come la scelta
della canzone popolare contenga in
sé anche connotazioni ideologiche di
costume e cultura.
Rilevante, nell’opera di Bennato,
l’attenzione rivolta alle foto e alle
vite di briganti quali Ninco Nanco e
Michelina De Cesare: uomini contro, come
egli stesso li definisce, fatti fuori dal potere, al
pari di Pancho Villa, Emiliano Zapata, Ernesto
Che Guevara.
Rossella Gaudenzi
BEYOND
&further
a cura di ROMINA CIUFFA
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
ATOME PRIMITIF Three years, three days Galileo Galilei aveva puntato il cannoc- EX CENTRALE TERMOEchiale verso i cieli immensi e aveva spiegato limportanza di guardare ciò che è piccolo, LETTRICA MONTEMARcostruendo l’occhialino. Questo gruppo, al microscopio, è più grande di quanto sembri. TINI Delirio onirico?
¢ CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA > IL DRAMMA DEL TONNO
a cura di FLAVIO FABBRI
IL DRAMMA
DEL TONNO
Per un monaco francese, Georges Lemaître, l’universo
ha avuto inizio da un atomo primitivo: lo spazio-tempo
inizierebbe ad esistere solo dopo la sua disintegrazione.
Il dramma di un tonno: una grata arrugginita lo divide
dal mare. Così gli Atome Primitif, che meritano l’acqua
europea, non di essere mischiati tra gli spaghetti italiani.
Videoreportage
w w w. y o u t u b e . c o m / m u s i c i n c h a n n e l
(...) H
anno certamente sofferto la gavetta dei live club
della Capitale, dove nessuno paga e poco è anche
il rispetto per chi suona, e conosciuto l’anticamera dei grandi circuiti internazionali, partecipando a Operazione
Soundwave, il talent-show di MTV dedicato agli artisti e alle
band emergenti. Il direttore del Saint Louis, Stefano Mastruzzi,
e il produttore artistico Josè Fiorilli (tastierista per Ligabue,
Irene Grandi e Velvet) ne hanno voluto premiare la dedizione,
dando alle stampe il cd del debutto. La presentazione ufficiale,
quindi l’invito del MEI 2010 ad esibirsi.
I pezzi sono ora più rock (e la voce si sporca più volentieri con
gli strumenti, come nell’iniziale Indu e in Machine) ora più
impalpabili (Jan 7th, Concert in my head), poi una consapevolezza musicale più alta (Silver House). Ma il primo chiaro indizio di quanto può essere luminosa una stella generata dall’atomo primitivo è Tuna drama, singolo dell’album, tragicomica
storia di un tonno che finisce condimento per spaghetti. Piccoli
atomi crescono, eppure l’album d’esordio è già grande oggi,
contiene sonorità mature che riportano ad autori (uno fra tutti, i
Portishead) senza nulla copiare, e non si tratta di autodecantazione dell’editore per il suo stesso prodotto: la forza sta nel
poter decantare senza «auto», per la sicurezza di aver, con questo gruppo, oggettivamente superato lo standard. Gli Atome
Primitif sono una realtà a parte, che merita l’Europa. Il vero e
proprio dramma di un tonno che non riesce a raggiungere il
mare, causa una grata arrugginita. E il video di Tuna Drama è,
indiscutibilmente, poesia di impatto emotivo praticamente intollerabile, come una forchetta a tre denti.
Come nascono gli Atome Primitif?
Clelia. L’intesa sui generi e il modo di suonare ha convinto me
e Claudio a scrivere e fare musica assieme. La prima cosa che ci
è venuta in mente è stata di creare un gruppo, e questo è stato
possibile con l’arrivo di Azzurra e Giacomo. Abbiamo iniziato
con le cover, orientandoci tra Massive Attack e Portishead, poi
si è deciso di fare musica per conto nostro. Io iniziavo a realizzare programmazioni, Giacomo passava a casa mia e ci metteva
sopra delle linee di basso, la voce di Azzurra si plasmava benissimo sul tutto e il resto è venuto da solo.
Quando avete cominciato a scrivere musica?
Clelia. All’inizio siamo stati obbligati a suonare come cover
band. A Roma, più in generale in Italia, è difficile fare altro se
vuoi tentare la strada del musicista. La nostra musica, quella
scritta da noi, c’è sempre stata fin dall’inizio, ma per sopravvivere e guadagnare qualcosa abbiamo dovuto riproporre i classici per un po’ di tempo. Almeno fino a quando la qualità delle
cose che componevamo in studio non ha cominciato ad emergere con forza e allora si è deciso, assieme, di passare ad altro e di
investire il tempo esclusivamente nel suonare pezzi nostri.
Quanto paga l’originalità nel mondo della musica?
Giacomo. Speriamo che la qualità della nostra musica porti
dei risultati anche economic e ci auguriamo che il disco vada
bene, ma puntiamo molto all’estero perché cantiamo in inglese e
siamo consapevoli del fatto che il genere che proponiamo non
trova un gran terreno fertile in Italia. Contiamo di riuscire ad
organizzare un tour all’estero nel più breve tempo possibile.
Clelia. Certo, i riscontri della critica e del pubblico ci sono
necessari. Personalmente però, credo che la conferma più bella
è sempre nel renderci conto che stiamo crescendo professionalmente. I compromessi non ci piacciono e la produzione Urban49
ci ha lascito molto spazio sin dall’inizio. Di solito è il contrario,
la prima cosa che ti chiedono è di sacrificare spinta emotiva e
spontaneità, per far posto al prodotto. Con il Saint Louise e
Urban49, invece, è stato diverso. Abbiamo la possibilità di esprimerci liberamente e questo è straordinario.
Qual’è la natura degli Atome Primitif?
Giacomo. Musicalmente parlando, molte persone ci associano
ad una scena nordeuropea, per sonorità tipicamente islandesi o
tedesche. Il disco in realtà suona molto più rock, con chitarroni e
bassi distorti. C’è anche l’elettronica però e la psichedelica. In
noi passa la musica degli ultimi venti anni, ma non è semplice trovare una collocazione precisa. Diciamo che sono più le contaminazioni a cifrare i nostri lavori che una categoria in particolare.
Da dove nasce il nome della band?
Giacomo. Con Clelia cercavamo un nome per il gruppo.
Eravamo indecisi e alla fine, dopo aver letto un articolo su una
rivista scientifica, sono stato attratto dalle teorie di un monaco
francese relative alla nascita dell’universo, Georges Lemaître. Il
fisico sosteneva che l’evoluzione dell’universo avesse avuto inizio da un atomo primitivo, Atome Primitif, da cui poi, attraverso
quello che successivamente venne definito big bang, è iniziato un
processo di espansione tutt’ora in atto dello spazio.
Cosa pensate del vostro primo disco?
Clelia. Una grande emozione. Una parte rilevante della mia
vita è racchiusa in questo album. Spero solo che gli ascoltatori ne percepiscano energia e forza emotiva. A loro spetta l’ultima parola. Penso che dobbiamo molto a Josè, sia musicalmente, sia umanamente. Ma molto di più a Stefano Mastruzzi, che
è stato il mio maestro di chitarra per sei anni. È stato lui che ci
ha dato questa incredibile possibilità e che ha fatto in modo
che Fiorilli ci aiutasse a crescere come persone e come musicisti. Senza di loro, in definitiva, non avremmo mai raggiunto
Three years, three days.
■
POTHOS
E LA
CALDAIA
di Livia Zanichelli
A
L’
chille sostiene Pentesilea morente davanti ad un motore diesel; il dio Pothos si erge in tutta la sua grazia di fronte alla
parete di una caldaia; un alternatore fa da sfondo agli sguardi fieri di Eracle e Diomede. Delirio onirico? Assolutamente
no. È Sala Macchine della Centrale Montemartini, perfetta fusione tra archeologia classica e archeologia industriale.
ex Centrale Termoelettrica Giovanni Montemartini di Roma
riapre le porte alla musica: le due rassegne Musica e Cinema e
Unplugged ne animeranno, fino all’8 gennaio 2011, la Sala
Macchine, recentemente allestita per ospitare spettacoli dal vivo. Il piacere della buona musica si unisce così alle suggestioni dell’insolito intreccio tra antico e moderno. Achille sostiene Pentesilea morente davanti ad
un motore diesel; il dio Pothos si erge in tutta la sua grazia di fronte alla
parete di una caldaia; un alternatore fa da sfondo agli sguardi fieri di
Eracle e Diomede.
Delirio onirico? Assolutamente no. Si tratta dello scenario offerto dalla
Sala Macchine della Centrale Montemartini, perfetta fusione tra archeologia classica e archeologia industriale, che fa da sfondo agli eventi musicali in programma fino all’8 gennaio 2011 nella suggestiva location,
situata in zona Ostiense. Prima tappa di questo pittoresco percorso trimestrale l’evento Musica e Cinema, un viaggio tra le indimenticabili melodie del cinema italiano. Dopo le note del Tema d’amore composto da
Morricone per il film Nuovo cinema Paradiso, eseguite da Paolo Zampini
e Primo Oliva, dopo l’omaggio a Nino Rota, dopo il cinema del premio
Oscar Nicola Piovani interpretato dal Quintetto Cirano, l’horror di
Claudio Simonetti, autore delle oscure e conturbanti colonne sonore dei
film di Dario Argento.
A dicembre al via la seconda parte del suggestivo itinerario musicale
della Centrale Montemartini: la rassegna Unplugged ha come protagonisti importanti artisti indipendenti in acustico. Prima la voce graffiante e il
pianoforte di Paul Millns, cantautore inglese che ha preso parte alle più
importanti band blues statunitensi; al suo fianco il canadese Butch
Coulter, straordinario specialista dell’armonica blues. Ci sono l’americana Elisabeth Cutler, di formazione rock, che si cimenta anche nella
musica fusion e nel blues «bianco» accompagnata dal polistrumentista
Filippo De Laura; Little Princess, voce solista in numerose colonne
sonore prodotte da Mike Moran. Il gruppo italiano Silenzio Assenzio ha
proposto ricercate sonorità in cui si intrecciano chill out, acid jazz, new
soul, black-music, con impronte jazz-funk.
Il gran finale è tutto di Tony Esposito e La banda del Sole, cantautore e percussionista partenopeo alle prese con polistrumentisti internazionali e su strumenti inconsueti come tamburi d’acqua, hang, osi drum
e kalimba, per una selezione dei brani che lo hanno reso famoso in tutto
il mondo, e le sue composizioni più recenti, caratterizzate da una minuziosa e fine ricerca in ambito percussionistico. Sui ritmi e sulle note di
Tony Esposito si chiude questa breve stagione musicale: un percorso dai
toni e dai tratti magici e onirici, che accoglie e avvolge il pubblico in
una candida nuvola di irrealtà, allietandone i sensi attraverso il poetico
contrasto tra antico e moderno, l’alternanza tra melodie a noi care e
sonorità sconosciute.
■
BEYOND
&further
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
KIDDYCAR Can I have your desert, please? Ma certo, prendilo tutto, e portamelo via di qui. Distruggi le strutture che ho,
rendimi del tutto libera di guidare una macchinina da ragazzina
3CHEVEDONOILRE Essere qui / nella baracca di latta / c’è
un aereo in pista per me / e decollando il tempo che passa / se
mi vuoi insegnare a atterrare voglio scappare da te
KIDDYCAR
I3CHEVEDONOILRE
CHI HA PAURA DEL GATTO NERO?
a cura di
Romina
Ciuffa
a cura di
Eugenio
Vicedomini
K
la
malinconia di Nick Drake, la sensualità di Serge Gainsbourg
e le ipnosi elettroniche figlie della migliore tradizione teutonica degli anni Settanta. E un deserto altrui da desiderare.
iddycar, Arezzo. Ossia una band
indie-rock con una proposta musicale
colta e sognante ricca di atmosfere
sospese tra la malinconia di Nick Drake, la sensualità di Serge Gainsbourg e le ipnosi elettroniche figlie della migliore tradizione teutonica
degli anni Settanta. Due dischi all’attivo
(Forget About del 2007 e Sunlit Silente del
2009). Tantissimi riconoscimenti di stima, in
Italia come all’estero, tanto che i KiddyCar
sono stati presentati dalla BBC inglese come
una delle band più interessanti di quest’ultimo
periodo. Music In ha avuto il piacere di incontrare Valentina Cidda, voce del gruppo.
Come e quando sono nati i Kiddycar?
Dichiariamo il 2005, anche se il seme del
progetto risale agli anni 90 da un trio composto da Stefano Santoni, Paolo Ferri e Roberto
Bianchi, all’epoca Kriminal Bit. Il progetto fu
poi abbandonato fino a quando, durante una
tranquilla serata tra amici, mi fecero ascoltare
alcuni brani, come Human Logic e The Dawn
and the Fly. Me ne innamorai immediatamente.
Scrissi testi e melodie e dissi: proviamo.
Qual è il tuo background musicale?
Vengo dal mondo della musica classica, ho
studiato pianoforte al conservatorio fino all’ottavo anno e canto lirico. Che dire? Tutte le
strutture che gli anni di studio avevano radicato in me mi sono state utilissime per imparare a
lottare contro le strutture stesse. Ci ho messo
molto a distruggerle ed essere libera. Il rischio
di ogni percorso accademico è che esso inchiodi in qualche misura il cuore, lo spirito, il cervello, in direzioni obbligate incompatibili con
l’arte. La creatività non si insegna ed ogni tecnica è utile solamente se sei tu a dominarla
non, invece, se è lei a dominare te.
Sono passati tre anni dal vostro primo
disco Forget About. Cos’è cambiato?
Siamo cresciuti, professionalmente ed umanamente. Di cose ne sono accadute tante:
siamo più seri, organizzati ed uniti, e questo è
anche dovuto al fatto che siamo seguiti e guidati da un grande manager, Alessandro Favilli.
Siamo soddisfatti del nostro lavoro ma mai
abbastanza: la regola d’oro è non assuefarsi
mai a se stessi.
La vostra musica ha un fortissima legame
con l’indie-rock d’oltremanica unito a suggestioni retrò della Parigi Anni 60. Non a caso
i testi sono principalmente in inglese. È una
scelta dura da fare in Italia?
Il problema è che spesso i musicisti italiani si
muovono in base a due schemi: importano un
certo modello internazionale, confezionandolo
in italiano, e si ostinano nel tentativo di esportare un discorso cantautorale prettamente italiano, senza la minima preoccupazione di utilizzare un linguaggio universalmente comprensibile. Entrambe queste vie non portano lontano e si
risolvono, nel primo caso, in una copia sbiadita
dell’originale, nel secondo, in un prodotto di
nicchia. Dovremmo smettere di lamentarci delle
difficoltà ed incentivarci. Ed ogni volta che si
scrive un brano occorre giudicarlo in modo
distaccato ed autocritico per capire se può reggere un confronto a livello internazionale.
Quante opportunità per gli artisti e gruppi
alternativi vedi derivare dalla rete?
La Xtal, etichetta che ha prodotto e stampato
il nostro primo album in Giappone, ci ha scoperto e contattato proprio grazie a MySpace.
Realtà come questa possono essere veicoli di
straordinaria crescita e diffusione di progetti e
di idee all’interno della rete. Ma alla fine è
sempre la qualità che paga, che fa «accadere»,
e non sono i «50.000 friends». Per noi Internet
è stato, ed è, un mezzo miracoloso.
Quali voci femminili ti emozionano?
In primis, la sacerdotessa delle tenebre,
profonda e inquietante, con le sue atmosfere
sepolcrali sospese nel tempo: parlo di Nico. Poi
Janis Joplin, Siouxsie, alcune voci del postpunk come le Raincoats. Anche Beth Gibbons.
Quale artista contemporaneo ascolti?
Sufjan Stevens è stato per me una vera e propria folgorazione Ha creato il sound del 2000.
Ho adorato DM Stith, il primo disco di Joanna
Newsom e mi è piaciuto molto Heartland di
Owen Pallett, disco assolutamente folle.
Il consiglio per quelli come te?
Nervi saldi, cuore aperto, consapevolezza,
grande autocritica, umiltà, umiltà, umiltà e
allenamento a sopportare la fame per periodi
anche piuttosto lunghi.
Hai già delle idee per il nuovo disco?
Ovviamente, essendo il prossimo il terzo
disco ufficiale (se escludiamo lo split con
Christian Rainer) sentiamo un forte desiderio
di innovazione e di rottura con quanto abbiamo
fatto fino ad oggi. Ascoltiamo, fagocitiamo
decine di dischi a settimana, vecchi e nuovissimi, e le contaminazioni sono molte. Il difficile,
è riuscire a trovare un orientamento forte, il più
possibile personale e nello stesso tempo coerente con ciò che i Kiddycar sono stati fino ad
ora. Ce la faremo?
■
«s
e fino ad ora ho perso tempo / e avre
fatto meglio a fare presto / se ho visto
gente crescermi addosso / c’è solo un
modo per saperlo: essere qui adesso». Oggi ci
sono. Il loro unico obiettivo è quello di scrivere
500 canzoni. Zappis, Carlo Fadini Hyper,
MrFalda e Andrea Martellasno, «nati dalle ceneri di un radioso passato metamorfico alla fine del
2003», sono 3chevedonoilrE, romani vintage
rock-punk che trasformano la musica popolare di
protesta e i Beatles in un concetto fermo, l’estro
comunicativo. Non c’è nulla da dire: i loro testi
parlano da sé.
Potrebbero, ciascuno di essi, costituire un racconto, qualcuno che in una tavolata attira l’attenzione su di sé facendo con la forchetta vibrare il
bicchiere, e inizia: «Preso contatti con Heidi e
Ramon, mi ospiteranno a Bonn, già un po’ mi
sento uno di lì, piazza museo e brasserie». O a casa
rompe il silenzio così: «Quel film è stato bello, sì
ma troppo lento. E tu che mi evitavi e ci morivo
dentro. I boxer che mi hai regalato hanno l’elastico lento. Potremo rifondare ogni tuo atteggiamento, potremo dare vita a un protomovimento». Le
parole parlano da sole, dovrebbe essere normale
ma non lo è. E qui di questi 3chevedonoilrE (che
poi son quattro), il Re sono loro.
I musicisti hanno un modo di pensarsi artisti
simile a quello dei fotografi dell’era digitale. Ci
piace quando ci chiamano «artisti»: fa venire
voglia di metterti a fare il minatore. Solo che poi
i piedi nudi te li sporchi di fuliggine e sembrano
scarpe di gomma. 3chevedonoilrE nasce anche
da questo distacco: si tenta di dissociare a favore della sorpresa, piuttosto che associarsi ai sorrisi (vuoti) dei musicisti professionisti.
Comunicare in musica ci piaceva di più: cantare ti fa credere di passare delle informazioni.
Non «pezzi» di informazione, ma l’integrità di
notizie: emotive, ideali, giornalistiche o sussidiarie. Quando componi in questo modo, lo fai con
un calcolo che è una cifra poetica, ma in fondo è
solo leggera devozione alla parola e al suono.
3chevedonoilrE nasce da quattro storie e
non da quelle di un leader, di un dittatore, di
un deus ex machina, di un Re.
Quattro storie separate e differenti, eroi musicali e letterari separati e differenti, modi di intendere la vita e la socialità separati e differenti.
Rimaniamo legati l’un l’altro da un filo robusto,
che ci permette di sorridere di tutto ciò che è
serio e guardare oltre il profilo delle convenzioni, sghignazzare sulle classiche sonorità rock a
favore della sorpresa e proporre una non consueta struttura di un brano apparentemente leggero.
Musicalmente il progetto avrebbe dovuto
essere differente. Nasceva un gruppo alla fine
del 2003 che si prefissava di combinare insieme il gesto estemporaneo primitivo della crea-
www.lifegateradio.it
zione emotiva (di ispirazione informale) e la
razionalità che ne costruiva i contorni.
Le canzoni si costruivano sulla base di un’esigenza immediata, poi si lavoravano fino a renderle soddisfacenti. La musica era in parte elettronica e non era mai soddisfacentemente finita.
Abbiamo passato mesi su svariati divani a parlare di cosa stessimo facendo, a stilare un nostro
statuto. Abbiamo scritto moltissimi libretti ognuno per l’altro per far conoscere il nostro pensiero personale e farlo passare più velocemente che
con il passaggio orale. Ci regalavamo libri e
dischi da ascoltare per poter arrivare ad una
consapevolezza maggiore reciproca.
Poi abbiamo capito che, se concettualmente la
musica partiva da un gesto primitivo prima di
arrivare a forme contemporanee, di cui non avevamo ancora pienamente controllo (come la
musica elettronica), era necessario tornare a fare
ciò che veniva fatto negli anni 60 e 70, cioè scrivere canzoni (già lo facevamo) e suonarle con ciò
che di più «primitivo» avevamo in mano e sapevamo domare: batteria, basso, chitarra e voce.
Ma c’era ancora qualcosa che mancava.
Qualcosa che all’inizio avevamo individuato
nella ballabilità. I Beatles, i Beach Boys, le eccellenze di quel periodo ci hanno dimostrato che
l’unico modo per arrivare alle persone che
avrebbero ascoltato i nostri pezzi era il coinvolgimento, concetto semplice e vincente. Bisognava
solo dire cose maledettamente serie, profondamente tatuate nelle nostre menti, e farle passare
come canzonette divertenti. Prima o poi qualcuno si sarebbe soffermato su cosa dicevamo.
Qualcosa come ciò che Calvino vedeva in
Queneau, quel concetto di POP che Andy Warhol
aveva sviluppato in un altro mondo. L’intento è
questo: ridare al POP il suo vero valore aggiunto, non arroccandolo su quelle montagne di
incomprensibili concetti arginati da idee vetuste
e consumismo. L’amore per la forma canzone ha
sempre caratterizzato tutto il nostro bisogno di
trasmissibilità: i concetti più difficili possono
passare in menti che ne sembrano immuni.
L’album d’esordio, Nella Baracca Di Latta,
è il frutto di tutti questi anni di lavoro e
meditazione. Terminato nel 2010, si compone
di 12 canzoni più una cover di Giorgio
Gaber, L’Illogica Allegria.
Abbiamo scelto di attingere indistintamente
dalla scena vintage rock-punk, dalla musica
popolare di protesta, dalle atmosfere beatlesiane. Ci siamo interessati più alla dissacrazione
di certi cliché sonori della scena underground e
pop, rinunciando ad apparire falsi eroi musicali. Scoprire e meravigliarci è quello che vogliamo fare di tutto ciò che gira attorno a noi,
cogliere la realtà da un punto di vista diverso
da quello che ci raccontano.
■
CLASSICA
MENTE
MENTE
aa cura
CIUFFA
cura di
di ROMINA
FLAVIO FABBRI
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
ELEONORA PATERNITI Skeggia Davanti a sé due percorsi apparentemente ossimorici: le
percussioni e la lirica. I libretti operistici sono state le sue favole, la batteria il ritmo. Oggi è una
delle più giovani registe operistiche in Europa, è autrice di «Mettiamoci all’Opera» e non la fermi.
AMUSIA Per Che Guevara
un tango e una samba erano
esattamente la stessa cosa.
di ADRI
ELEONORA PATERNITI AKA SKEGGIA
DI
ata il giorno della nascita di Mozart, il 27 gennaio,
Eleonora Paterniti soffre di un grave sdoppiamento
di personalità. Davanti a sé due percorsi apparentemente ossimorici: le percussioni e la lirica. I libretti
operistici sono state le sue favole, la batteria il ritmo.
Nasco a Palermo al pianoforte, mi immaginavano avvocato.
Sin dall’inizio con un grandissimo sdoppiamento della personalità artistica, metà legata alle percussioni e alla fusion, l’altra
metà all’Opera lirica. Eravamo a Milano; i miei genitori avevano la preoccupazione che io non socializzassi e scelsero il pianoforte, ma crescevo percussionista. La prima ravvisaglia la ebbi
verso i 4 anni, a casa di una zia, lirica al Massimo di Palermo:
mise un disco al grammofono, nella sua villa al mare a Mondello,
e si allontanò. Mi trovò riversa su me stessa, ed ebbi difficoltà a
quell’età a spiegare che non riuscivo a contenere l’emozione di
sentire la compagine strumentale, soprattutto i timpani.
Quando sua madre la porta a vedere la Butterfly, lei indica
il palco e dice: «Vedi mamma, la mia vita sarà quella». Per
me i libretti operistici erano favole e ricordo la visione che di
essi avevo da bambina, non del tutto smaliziata ma con la giusta
dose di cattiveria e di bontà: oggi, come regista, le ripropongo
esattamente con quella visione, che ho perfettamente presente.
Dopo 8 anni dice no alla lezione di piano ed esclama: io
sono una percussionista. Volevo gli strumenti a casa, mi ero
documentata su tutto e iniziai un’opera di persuasione da terrorista. Non nego che i miei studi pianistici mi hanno aiutato: oggi
gli allievi pianisti sono meri esecutori, e se ne demolisce l’istintività, la passione, in favore della dipendenza alla lettura e
all’insegnante. Nessuno sa suonare se non ha uno spartito.
Il metal. Avevo 10 anni quando, a Caserta, mi recai di testa
mia da un metallaro, l’unico che conoscevo che in quel momento poteva mettermi a disposizione una batteria. Cominciammo
con Led Zeppelin e Green Day, e quando mi mise davanti la grafia per la batteria, io che arrivavo da una lettura pianistica
cominciai immediatamente a suonare da esperta. Più avanti mi
accorsi di molti limiti in quel percorso, anche gli ascolti più elevati che facevo, le electric band, John Patitucci, Dave Weckl,
Vinnie Colaiuta: non ero una metallara.
Il Conservatorio. Facevo il liceo scientifico intanto, e decisi
per il Conservatorio. Era l’anno del diploma ed ero al limite dell’età per accedere; entrai alla svelta, un solo posto disponibile
ed unica donna percussionista, al San Pietro a Majella di Napoli
durante la direzione di Alberto di Simone, quindi quella di
Vincenzo De Gregorio. Ho condotto un percorso meraviglioso
con i miei compagni: eravamo i Percussion Time, gruppo storico nato prima da grandi percussionisti della tradizione italiana,
che poi è passato a noi giovani.
L’immobilità. Ebbi un grave problema al ginocchio e dovetti
interrompere per anni il mio lavoro da percussionista, così perfezionando solo ciò che mi era permesso di fare: lavorando con le
mani, avvicinandomi alle percussioni afro-cubane e allo studio
dell’Opera e della Lirica, salendo sul palcoscenico di prosa. Ho
chiesto di poter entrare nei teatri e guardare, imparando i mestieri del tecnico, del macchinista, della figurante e qualunque cosa
che mi avrebbe avvicinato al teatro lirico un domani. All’interno
del Conservatorio studiavo Drammaturgia lirica. L’immobilità
ROMINA CIUFFA
N
Videoreportage
w w w. y o u t u b e . c o m / m u s i c i n c h a n n e l
photocredit
Ignazio Raso
mi ha portato a legarmi di più alla scrittura e alla lettura.
Il ritorno. Ero terrorizzata dal rientrare in Conservatorio o in
un teatro; mi sono ritrovata un giorno a suonare di nuovo la batteria senza rendermene conto, davanti a Gennaro Barba e a suo
figlio Mariano, presso i quali ho vissuto per più di un anno.
Intanto, in una tournée di Jovanotti, «L’albero», ne conobbi i percussionisti e strinsi amicizia con Pier Foschi ed il genio poliedrico Daniele Di Gregorio, che mi diede la forza di proseguire nella
musica. Il mio maestro di Conservatorio, Vittorio Buonomo, mi
chiese di assisterlo in alcune lezioni in Accademia per bambini
dai 3 ai 7 anni, poi mi lasciò la gestione del corso. Li ho seguiti
per moltissimi anni, oggi son tutti percussionisti della prima
Orchestra giovanile del Teatro dell’Opera di Roma e stanno ultimando il Conservatorio. Con loro ho imparato il mestiere.
L’Opera. La mia tesi fu, non a caso, sul Don Giovanni nella
storia. Poi varie coincidenze. Intanto andai a vedere una
Butterfly e capii di non poterne fare a meno. Poi vidi un manifesto a Caserta, dove ero andata a trovare i miei, su un congresso
di Lanza Tommasi, allora sovraintendente del Teatro San Carlo.
Quando lo vidi gli misi in mano una busta con poche notizie su
di me, avevo solo 20 anni. Lui mi disse subito: «Non posso farla
entrare nel coro». Lo tranquillizzai, non era mio interesse. Ma
Alexis Bulgari, allora suo braccio destro, mi chiamò a un’audizione per figurante per l’Opera e passai come riserva, utilissimo
per me perché avrei potuto guardare tutti gli spettacoli dalla platea senza esser protagonista sulla scena. Così rifeci amicizia con
R
CHEESECAKE
di Romina Ciuffa
Re Alfonso XIII di Spagna, Che Guevara, Maurice
Ravel: tutti affetti da amusia. E troppo spesso li invidio.
RIONE MONTI - Via Madonna dei Monti, 28
06 6990968 - [email protected]
e Afonso XIII di Spagna era incapace di riconoscere una canzone da
un’altra: per lui una marcia funebre
equivaleva a qualunque altro pezzo.
A dire il vero accade anche a me, che
non riesco a distinguere uno degli ultimi
motivi pop da un pianto. Ma non sono affetta, come lui, da amusia. Non so se considerarlo un fortunato: probabilmente oggi lo
sarebbe più di ieri. Uno dei primi casi
descritti, nel 1878, fu quello di un uomo che
parlava del suono di un pianoforte come di
«una nota musicale, più un tonfo sordo e
rumore di fili metallici». Descriverei in questo modo molti dei pezzi che ascolto.
L’amusia è l’incapacità biologica, in
assenza di alterazioni della percezione uditiva elementare o di turbe intellettive e linguistiche, di comprendere, eseguire ed
apprezzare la musica, patologia neurobiologica acquisibile (per danni cerebrali ad
esempio, tanto che i primi studi furono condotti sui cerebrolesi nel 1962) ovvero congenita per l’irregolarità nel funzionamento
dell’emisfero destro del cervello, prima
invece imputata solo al nervo acustico e
alla corteccia uditiva sita nei lobi temporali
sopra le orecchie. Le cause non sono psicologiche, ma anatomiche.
Un amusico non è uno stonato né riesce
ad avvertire le stonature proprie o altrui.
Nei casi più gravi è del tutto incapace di
sentire la musica, o la avverte come un orribile frastuono. Ne è affetto circa il 4 per
cento della popolazione. Tra i quali Che
Guevara, che non sapeva distinguere alcun
genere musicale tanto che, in un’occasione
speciale, ballò un tango appassionato mentre tutti danzavano a ritmo di samba. Il
compositore Vissarion Shebalin fu vittima
il teatro. Mi portai a casa un tesoro: superai la barriera, imparai moltissimo, strinsi ottimi rapporti con Lina Polito, che mi
fece chiamare per lavorare a una commedia insieme in qualità di
attrice. Di fatto non ebbe mai una messa in scena, ma ebbi la
possibilità di lavorare con una regista operistica, quindi mi spinsi a fare la stagista pur di lavorare a Roma con il maestro
Gianluigi Gelmetti per il suo Barbiere di Siviglia e con lui è nata
una fortissima collaborazione artistica: ho lavorato, tra l’altro,
al suo Tristano e Isotta messo in atto al Teatro Carlo Felice di
Genova; abbiamo riaperto, dopo l’incendio, il Teatro dei
Rinnovati di Siena con la Traviata; mi occupo del coordinamento artistico dei corsi di Direzione d’Orchestra da lui diretti nell’ambito dell’Accademia Chigiana di Siena.
Progetti e TV. Intanto scrivo per il teatro musicale.
Ultimamente ho firmato la regia per Anna Bolena al National
Theatre di Tirana, quella del Barbiere di Siviglia a Coliseu du
Porto, in Portogallo. Sono autrice del programma in prima serata Rai1 «Mettiamoci all’Opera», il primo talent show per giovani promesse della lirica della televisione italiana. Sono consulente della direzione del Tg2 e ho realizzato, nell’ambito dell’edizione Tg2punto.it, lo spazio settimanale dedicato al mondo
della lirica, curando la scelta dei brani e la selezione dei musicisti e dei cantanti che si esibiscono in diretta. Così ho conosciuto il paroliere Pasquale Panella e la lirica Daniela Dessì, la
stessa che mi fece innamorare dell’Opera da bambina. Per il
teatro produrrò verso marzo lo spettacolo «Tommy» al Belli di
Roma e al Libero di Milano. Sto lavorando e collaborando con
Ivana Noto dell’I.P.C., Iniziative promozioni cinematografiche
di Roma, alla diffusione di un paio di progetti che riguardano
Anna Bolena e il Barbiere di Siviglia, che si presentano assolutamente innovativi e rivoluzionari; prossimamente sarò anche
impegnata in Francia nell’ambito del Festival «Liricamente
vôtre» con la Traviata.
Perché la Paterniti. Odio la sciatteria, ma so che le opportunità non vengono date facilmente, so di non essere unica. Credo
invece di esser stata fortunata, ma anche di aver ragionato e compiuto i miei passi sempre sentendoli dentro, avvicinandomi a persone da cui ho imparato tutto. Ora che faccio regia operistica uso
tutto il bagaglio che ho: non riesco a fare una regia se non in partitura, e non amo dare segni innovativi. Riverso nei miei prodotti
la visione di quella stessa bambina che per la prima volta leggeva i libretti come favole. E continuo a riversarmi su me stessa
quando sono «all’opera», e a vivere la musica con quello stesso
sdoppiamento della personalità che mi ha fatto divenire una
«Skeggia». Che è il soprannome che mi hanno dato.
■
di un ictus che gli tolse quasi del tutto la
capacità di parlare e di capire il linguaggio.
Nonostante ciò, continuò a comporre almeno 11 opere maggiori tra sonate, quartetti e
arie, e a insegnare ai propri allievi, ascoltandoli e correggendone le composizioni; e
Maurice Ravel, via via che la sua malattia
al cervello avanzava, si diceva in grado di
comporre la musica nella testa ma incapace
di fissarla sulla carta.
Per il neuroscienziato Steven Pinker la
musica, per il cervello, è «poca cosa», è un
«auditory cheesecake», solo una ghiottoneria: i soggetti perfettamente stonati vivono
una vita normale. Mentre le scimmie non
hanno avversione per gli accordi dissonanti o per suoni sgradevoli - le unghie su una
lavagna o il metallo sopra un vetro - e preferiscono i ritmi lenti, di più il silenzio.
Ghiottoneria, fronzolo, dolcetto per l’orecchio, ma da Darwin a John Blacking
(1973, Com’è musicale l’uomo?, per cui la
musica è «qualcosa che risiede nel corpo e
attende di essere espresso e sviluppato»)
c’è questo: sono rare (o nessuna) le cose del
nostro cervello che appaiono superflue o di
mero divertimento, incluso il divertimento
stesso. Il cervello risponde alla musica sin
dal feto (riposa al ritmo materno), i bambini nascono in qualche modo musicisti
(sanno riconoscere note, accordi, scale
diverse suonate a distanza di giorni), ed è
indiscutibile che un tamburo, la tromba di
guerra, il corno o danze tribali abbiano un
ruolo comunicativo antico, pre-verbale.
Lo stesso messaggio di richiamo, sfida o
corteggiamento di molte specie animali
(quello luminoso delle lucciole o sonoro del
cervo e del lupo) è costruito sul ritmo, sul
timbro e sulle note. Negli essere umani il
centro di Wernicke, specializzato nella
parola, decodifica il segnale musicale in
entrambi gli emisferi e lo trasmette senza
mediazione al corpo (danza) e al sistema
neurovegetativo (ritmo cardiaco, conduttanza cutanea, pressione arteriosa, richiamo
sessuale) ed endocrino (ACTH, ossitocina,
vasopressina).
Per verificare il livello di amusia, si può
fare il test elaborato da Isabelle Peretz,
dell’Università di Montreal, qui:
www.delosis.com/listening. Esso presenta
30 coppie di motivi musicali, esattamente
uguali, diverse o leggermente diverse. Otto
minuti per capire se le lezioni di canto sono
soldi buttati. A meno di non voler emulare
Lorence Foster Jenkins, la soprano di
Philadelphia che, amusica, divenne celebre
in un modo anticonvenzionale: nonostante
la sua palese mancanza di abilità, era fermamente convinta della propria grandezza
e distribuiva personalmente gli ambiti
biglietti; accontentò il folto pubblico (che
deridendola l’ammirava) solo quando
accettò di esibirsi alla Carnegie Hall il 25
ottobre 1944 (sold out con settimane di
anticipo) per morire un mese dopo. Era a
malapena in grado di sostenere una nota, e
i suoi accompagnatori facevano continui
aggiustamenti per compensare le sue variazioni di tempo e i suoi errori ritmici; lei non
lo ammise mai e trascorse la vita ad accusare la critica e le colleghe di invidia.
«La gente può anche dire che non so
cantare, ma nessuno potrà mai dire che
non ho cantato». Questa la metterei in
bocca al 70 per cento dei cantanti. E il test
della Peretz dovrebbero fare: gradiremmo
ricevere da ciascuno di essi, in redazione,
il punteggio ottenuto, oltre ai loro cd. ■
BALLET
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
CREATTIVA Intervista a Chiara
Sergio Il tarantismo ai tempi della
spersonalizzazione delle tradizioni
UN AMERICANO A PARIGI «Ho sempre avuto una specie di sensibilità istintiva per le combinazioni di suoni, e diversi accordi che suonano così moderni furono buttati giù senza che rivolgessi un’attenzione particolare alle giustificazioni teoriche della loro struttura», George Gershwin
a cura di ROSSELLA GAUDENZI
A CURA DI
ROSSELLA GAUDENZI
PIZZICA A MEMORIA D’UOMO
LA
pizzica e la taranta sono cosa seria. Il
tarantismo è un fenomeno che coinvolge
discipline di differenti ambiti: dall’antropologia all’etnomusicologia, dalla psichiatria alla religione e alle tradizioni
popolari fortemente pagane. È il caso di dire, però, che
pizzica e taranta vadano di moda, da un po’ di tempo a
questa parte, ben inserendosi in quella trasmissione di
conoscenza mordi e fuggi che tanto rispecchia il nostro
Paese. Se ne fa un gran parlare, un eccessivo parlare.
In ogniddove sorgono scuolette, insegnanti, corsi,
prontuari e ci si può sentire ballerini di pizzica dopo
due giorni, per l’aver memorizzato due passi. Finché
dura. Poi la collettività si volgerà altrove, qualcuno ci
avrà guadagnato sopra ben bene e per le strade rimarranno cartacce e spazzatura sollevate dal vento.
C’è in giro davvero tanta spazzatura, situazione
avvilente per gli esperti di questa danza. Si è scritto e
detto tanto, c’è un pullulare di siti e blog, ma è attraverso la storicità che occorre passare per poter parlare con coscienza di pizzica e taranta, attraverso antropologi ed etnomusicologi. La conoscenza deve esser tale.
Chiara Sergio, ideatrice e direttrice artistica della brindisina
Creattiva-Officina di danza, vive di danza. O meglio, di danze.
Parte da una formazione classica ma una buona base tecnica non
basta a soddisfarla, è quindi ben presto solleticata dalle danze
etniche. Durante gli anni degli studi liceali la sete di conoscenza
si alimenta ogni qualvolta legga di danza o assista a una coreografia. Le suggestioni si alimentano. Il giro di boa avviene durante gli anni universitari, lo studio del flamenco, di danze afro,
danza del ventre, teatro-danza classico indiano, che rafforza la
consapevolezza, la arricchisce, e rimane nel background.
L’incontro fortunato risale al 1998. Ho avuto la fortuna di
conoscere Giorgio Di Lecce, fondatore dell’associazione Arakne
Mediterranea, incontrato per caso.
La compagnia ha sede a Martignano, in provincia di Lecce, ed
opera da oltre 15 anni sul territorio del Salento, in collaborazione con l’Università leccese. Si compone di artisti, studiosi e
ricercatori che si propongono di diffondere, far conoscere e
sopravvivere le tradizioni, le danze, gli usi e i costumi delle
espressioni popolari salentine e della Puglia. Propone nei suoi
spettacoli dal vivo, conferenze e stage, i canti, le danze e i ritmi
direttamente attinti alla tradizione orale, da nonne tamburelliste,
cantanti, danzatrici e danzatori popolari che ci hanno trasmesso
la loro passione per la pizzica e il canto popolare, autentica
espressione di una cultura altra.
Mi ero recata presso la sede della compagnia per un incontro
sul Tarantismo e mi ha vista danzare, ha colto la mia predisposizione e mi ha voluta con sé. O meglio, avrebbe voluto portarmi con sé. All’ epoca dovevo ancora discutere la tesi e la prospettiva di una tournée che arrivasse a toccare il Giappone era al di
fuori della mia portata. La mia tournée con gli Arakne
Mediterranea è così consistita in una sola tappa, a Genova, per
L’arte paga, la musica paga,
la danza paga. Prendi gli
anni Venti, Parigi, un americano e sfumature impressioniste con echi esistenzialisti.
Poi prendi George Gershwin
e Raffaele Paganini. E balla.
di Valentina Giosa
a magia musicale di George Gershwin
e il tocco cinematografico di Vincente
Minnelli si fondono nella prima versione per balletto in Italia di quella che può
esser certamente definita una delle opere
musicali più famose al mondo. Dal 25 gennaio al 6 febbraio al Teatro Italia di Roma,
Raffaele Paganini sarà in scena con Un
Americano a Parigi, rielaborazione dell’opera scritta da Gershwin nel 1928 (divenuta poi
uno standard nonostante lo scarso successo
iniziale della Carnegie Hall) e ripresa nel
1951 sul grande schermo dal regista Vincente
Minnelli, aggiudicandosi ben 6 premi Oscar
fra cui quello per il miglior film al Festival di
Cannes dello stesso anno.
L’elaborazione drammaturgica per balletto,
curata da Riccardo Reim, con la coreografia
di Luigi Martelletta e l’interpretazione di
Raffaele Paganini, non solo attinge in parte
all’opera originale, in parte alla sua più celebre rielaborazione cinematografica, ma
L
ingono questi esser stati morsi da alcuni animali che nascono nel territorio di Taranto (da
cui son nominati) ed esser caduti in quell
infirmit‡, che li rende come pazzi. Vibrano e sbattono la testa,tremano con le ginocchia, spesso al
suono cantano e ballano, agitano le labbra, stridono
co denti e fanno azioni da matti. Niente chiedono,
ma il compagno guidone notificando per tutto ch
egli Ë attarantato, chiede e raccoglie elemosina per
loro: oh ingegno, oh arte inaudita per li passati secoli!» R. Frianoro, Il Vagabondo, Viterbo, 1621
«F
In Italia e sulle coste del
Mediterraneo già intorno al X
secolo era conosciuta la
tarantola, ragno in grado di
creare disturbi all’uomo.
Dopo alcuni episodi di cura
del morso velenoso con la
musica e la danza, la pratica
si diffuse in tutto il Meridione
d’Italia, come attesta il documento del 1362 «Sertum
Papale de venenis». Dal 300
in poi questa danza fu considerata curativa, capace di
curare dal veleno, ipotetico o
reale, della tarantola: i tarantati erano sollecitati da particolari ritmi di tamburo, suoni
Paga
e colori. Intorno al 600, queste danze e musiche, originarie della regione di Taranto,
presero il nome di «tarantelle» e si manifestarono sotto
forma di feste popolari, in cui
musicisti e partecipanti provenivano da differenti villaggi
e di cui erano principali protagoniste le donne. La Chiesa
nei secoli condannò e proibì le
manifestazioni con danze
sfrenate, ma questi riti,
profondamente radicati nella
popolazione, continuarono ad
essere praticati fino a divenire delle danze popolari durante le feste locali.
poi darci appuntamento dopo la fine dei miei studi. Il
seguito è una triste storia, poiché il fondatore ci ha
lasciati in giovane età; la direzione artistica dell’associazione è oggi in mano alla compagna di vita e d’arte
Imma Giannuzzi.
Dopo la tesi di laurea in Beni Culturali dal titolo
«Rapporti fra arte e danza nel 900», Chiara Sergio soggiorna a Bologna dove inizia il vero percorso di conoscenza della danza e di consapevolezza che la danza
possa curare. Si avvicina alla danzaterapia, sperimenta,
va a ballare con gli anziani, approfondisce grazie
all’apporto di un’amica antropologa, scrive e legge
molto. Fino a che non trova una raccolta di articoli sulla
danzaterapia della danzaterapeuta, coreografa e counselling Nicoletta S., che le accende il desiderio di conoscerla. Nicoletta insegna a Bologna, ironia della sorte
dietro casa di Chiara, ed ironia della sorte si scopre
essere lei stessa una cara amica di Giorgio di Lecce.
«Giorgio ti ha mandata qui». Due anni di studio e crescita, dopodiché il ritorno in Puglia.
Non mi è piaciuto né mi piace quel che vedo qui,
nella mia terra. Assistiamo ad un fenomeno folk inteso come
commercializzazione della cultura, che riassumo nel concetto di
«pizzica da supermercato». Ciò a cui aspiro sarebbe, invece, il
riscatto della danza nella sua essenza. La pizzica è una danza
dalla storia lunga e articolata, ha schemi aperti in cui è possibile indirizzare la persona che vuole apprendere, ma è altrettanto
importante trovare in essa una forte propensione, che è intrinseca nel nostro sangue pugliese. Se si elimina questo, si attua un
meccanismo inutile, non si arriva alla conoscenza né all essenza
di quest’arte, la pizzica, che è gioia, dolore, catarsi.
Quale attenzione è stata rivolta alle danze popolari da
parte di altri Paesi?
È stupefacente in parte e in parte avvilente rendersi conto del
rispetto e dell’attenzione che altre nazioni dimostrano per pizzica
e taranta. L’esperienza illuminante in tal senso è stata per me la
partecipazione al progetto «La vita è Belga - Associazione di
pugliesi in Belgio-Bruxelles», seminario teorico-pratico intensivo
sui temi del tarantismo e della danza popolare pugliese. Ebbene,
vengo puntualmente richiamata e mi reco a Bruxelles per questi
seminari accolti con grande interesse e considerazione.
Come si articola il tuo lavoro?
Su un doppio binario. Innanzitutto la didattica: le attività
laboratoriali tra cui i laboratori didattici di Danza popolare,
Creativo-espressivi («Arte in Gioco» e «Il cerchio delle
Donne»), di Espressione corporea e Teatrabilità della danza;
seminari a tema, seminari intensivi, workshop. L’altro aspetto è
rappresentato dagli spettacoli, dalle performance ideate da me:
«Tamburo Tao» pone il tamburo al centro di un lavoro che lo
intende come cuore pulsante di tutti gli uomini, è dunque uno
spettacolo di contaminazione tra danza, musica popolare e musiche etniche, provenienti da Africa, Balcani, India. «Di Me» è un
progetto sulla donna.
■
nini ripete
aggiunge una sorta di chiave di lettura, il
dato biografico rappresentato da elementi
della vita stessa di Gershwin.
Proprio nel 1928 l’autore, appena trentenne, si era infatti stabilito a Parigi attratto
dalla cultura europea, dalla tradizione classica e della musica di Maurice Ravel. Nella
capitale francese, Gershwin si era dedicato
principalmente agli studi di composizione
nonostante numerosi maestri, tra i quali lo
stesso Ravel, si fossero rifiutati di offrir lui
delle lezioni, temendo che il rigore della
classicità potesse reprimere le sue sfumature jazz.
Un americano a Parigi diventa così una
vera e propria indagine, sul lungo e affascinante processo creativo del compositore statunitense dove convivono armoniosamente
musiche di estrazione popolare e quelle di
tradizione più nobile. In questa superba versione per balletto, Gershwin sarà pertanto sia
autore che protagonista, e da qui la scelta di
utilizzare brani non strettamente connessi
all’opera stessa: Want’ Em You Can’t
Get’Em, Rialto Ripples, Rhapsody in Blue,
The Man I Love e Summertime sono alcuni
dei titoli a fare da colonna sonora all’interpretazione di Paganini.
Notevole anche il lavoro scenografico,
denso di citazioni pittoriche che perfettamente ricreano l’atmosfera unica della Parigi di
fine anni Venti, una città romantica e vibrante in bilico fra sfumature impressioniste ed
echi esistenzialisti.
■
SOUND
tracking
a cura di ROBERTA MASTRUZZI
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
NOWHERE BOY John Lennon prima di John Lennon Non
ci vuole Freud per capire che chi aspira alla pace universale è
probabilmente qualcuno che è passato attraverso una guerra
NOWHERE
BOY
D
di Roberta Mastruzzi
ietro John
Lennon la
severa zia,
una madre gioviale, un paio di
amici e la sorella
che ne scrive l’intima biografia.
Immaginatelo
così, senza pace.
«I
magine all the people living life in
peace». Non ci vuole Freud per capire
che chi aspira alla pace universale è
molto probabilmente qualcuno che è passato
attraverso una guerra. E non necessariamente
militare: esistono guerre altrettanto terribili, che
si introducono nel nostro spirito e rimangono lì
incastrate per anni, a volte una vita intera. Chi
ha cantato queste parole immaginando un
mondo senza guerre, religioni, divisioni, proprietà era qualcuno che per tutta la vita ha dovuto combattere contro una grande lacerazione
interna. Capire l’opera di un artista è anche
comprendere il suo lato più vulnerabile e le
motivazioni profonde che l’hanno spinto al successo. Dietro l’urgenza di dare voce al proprio
inconscio e di metterlo sotto i riflettori del
mondo c’è spesso la necessità di recuperare
qualcosa che si è rotto.
Nowhere boy è il film di Sam Taylor-Wood,
artista contemporanea alla sua prima opera cinematografica, che racconta John Lennon prima
che diventasse un’icona della musica. Un biopic
sui generis, nel quale non troverete il racconto
cronologico dell’ascesa e del successo mondiale
del quartetto di Liverpool - a dire la verità i
Beatles non vengono nominati neanche una
volta - ma conoscerete la storia di un ragazzo
ribelle, che cresce ascoltando il blues e il rock
MUSICINVIDEO(CLIP) > Fonderia feat. Barbara Eramo
E basta ch’io sorrida, quale vigorosa luce Sulla Valle avvampa È come se un volto di Vulcano - Avesse liberato la sua gioia
degli anni 50 e che sfoga la rabbia giovanile cercando conforto nella musica, fino al giorno in
cui insieme a due amici, un tale Paul McCartney
e un certo George Harrison, parte per Amburgo
in cerca di fortuna.
La sceneggiatura scritta da Matt Greenhalg
(l’autore di Control, film dedicato al leader dei
Joy Division, Ian Curtis), basata sulla biografia
della sorella di Lennon (Immagine this. Io e mio
fratello John), preferisce infatti scavare nel particolare rapporto tra il futuro artista e le donne
che hanno segnato la sua adolescenza: la zia
Mimi (Kristin Scott Thomas), austera donna che
lo ha cresciuto dall’età di 5 anni e la vera madre
Julia (Anne-Marie Duff), che vive a pochi metri
di distanza e che John conoscerà solo a quindici
anni. Una sorta di triangolo amoroso in cui il
giovane John, interpretato da un intenso Aaron
Johnson, è in un certo senso vittima, stretto tra
la severa disciplina della zia e la giovialità della
madre dalla quale scappa di nascosto tutti i
pomeriggi per ascoltare rock’n roll e imparare a
suonare il banjo.
Come spesso accade, sarà la musica l’unica
via d’uscita. Il ritmo di Elvis Presley, Jerry Lee
Lewis e Eddie Cochran, la voce di Wanda
Jackson (Hard Headed woman), le spettacolari
esibizioni di Screamin’ Jay Hawkins (I put a
spell on you), la carica esplosiva di Big Mama
Thornton in Hound Dog, sono il tappeto musicale su cui Lennon muove i primi passi. L’incontro
con un ragazzino che suona la chitarra al contrario (il mancino Paul) e la formazione del primo
gruppo musicale, The Quarrymen, con il quale
comincia ad esibirsi nelle feste locali, saranno
poi la decisiva spinta verso quella che si rivelerà
un’inarrestabile corsa al successo. Il seguito
■
della storia la conosciamo bene.
LIFEINADAY
D
ove eravate sabato 24 luglio
2010? Perché al Sundance Film
Festival, la manifestazione cinematografica che premia le pellicole d’autore
e le produzioni indipendenti, sta per essere
mostrato Life in a day, documentario prodotto da Ridley Scott in cui ogni fotogramma è catturato dal materiale che su Youtube
anonimi utenti di tutto il mondo hanno
inviato, risponendo all’appello lanciato dal
regista de Il gladiatore e caricando sul sito
il filmato della loro giornata.
Negli spezzoni, rigorosamente girati nelle
24 ore indicate, i partecipanti hanno dovuto
rispondere alle domande «che cosa ami?»,
«di cosa hai paura», «che cosa ti fa ridere?»
e «che cosa hai in tasca?». A Kevin
Macdonald, il regista scozzese di State of
play e L’ultimo Re di Scozia, il compito di
prendere le 5.000 ore di girato e trasformar-
lo in un film dal filo logico e coerente della
durata di circa 2 ore.
La colonna sonora invece: affidata a un
grande sperimentatore, Matthew Herbert,
abituato a campionare suoni reali (nel suo
The Pig ha registrato i rumori dell’intera vita
di un maiale, ricomponendoli in musica; la
sua prima vera performance nel 1995 lo
vedeva alle prese con un pacchetto di patatine; una denuncia della globalizzazione ha
preso vita a partire dai suoni registrati con
prodotti MacDonald e GAP).
Per questa soundtrack Herbert ha chiesto
di inviare ogni tipo di suono, seguendo le
indicazioni contenute in un demo reperibile
su Youtube. In esso si trova anche spiegato
l’applauso. Fatto divieto di inviare file contenenti musica. Diverranno musica solamente i comunissimi suoni della vita di tutti
i giorni. Sic.
■
DI
A
DI ROMINA CIUFFA
a mia vita era stata un fucile carico negli angoli, finché un giorno il
proprietario passò, mi identificò e
mi portò via. E ora vaghiamo in boschi
regali, e ora cacciamo la cerva. È tutto.
C’è «scappare» in questo video, c’è
«possedere» nel testo, i versi di Emily
Dickinson rubati dalla voce cervina di
Barbara Eramo per parafrasare l’elettronico romanzo post-rock della
Fonderia. La registrazione del cd d’origine (My Grandmother’s Space Suite)
nei Real World Studios inglesi di Peter
Gabriel; il video di Loaded Gun girato in
Valtellina (So). Con cui meritatamente il
regista Antonello Schioppa vince vari
premi, fotografia compresa.
Legata a un filo rosso la salvezza di un
animale già morto. Si vedono bambini e
cappucci, ma le fate predominano: fate
non dette, fate non riprese, fate l’amore. L’evocazione è più forte della presenza. C’è un Occhio giallo, c’è un Pollice.
L’ambientazione mi riporta a giardini
segreti con personaggi chiave di storie
che non leggo più, e a un prodromo, il
Wuthering Heights di Kate Bush, che
non regalava questo viaggio nel tempo
né il profondo dolersi di possesso.
La rottura di un filo, alla fine, è pur sempre l’uscita di scena. Essere posseduti
garantisce l’unica immortalità. «Niente
si muove per la seconda volta - su cui io
abbia posato un Occhio giallo - o un
energico Pollice, sebbene di Lui - possa
vivere più a lungo - Egli più a lungo deve
- di me perché io ho solo il potere di uccidere, Senza - il potere di morire».
L
WWW.YOUTUBE.COM/MUSICINCHANNEL
di Flavio Fabbri
sono notevoli. Tanta azione quindi, ma anche
tanta buona musica. A curare le 24 tracce di cui
è composta la colonna sonora del film (tranne
un brano dei Journey e la celebre Sweet
Dreams degli Eurythmics) sono stati i Daft
Punk (al secolo Guy-Manuel de HomemChristo e Thomas Bangalter), i folletti francesi
dell’elettronica. Con la loro estetica cyborg,
l’utilizzo di laser e di atmosfere tipiche del
ciber-spazio, sono sicuramente i più adatti ad
un film come questo, in cui peraltro sembra
facciano una piccolissima apparizione.
Nel 1982, a curare le musiche del primo Tron
fu chiamata Wendy Carlos, artista ricordata
oggi sia per le leggendarie colonne sonore di
Arancia Meccanica e Shining del maestro
Stanley Kubrick, sia per la prima utilizzazione
LOADED GUN
R OMINA C IUFFA +R OBERTA M ASTRUZZI
TRON: LEGACY
quasi trent’anni dall’uscita di Tron
(1982), la Walt Disney ha deciso di produrre un ambizioso sequel, Tron:
Legacy. Del primo episodio rimangono nel
cast Jeff Bridges e Bruce Boxleitner, che la
magia del digitale rende quasi senza tempo. Lo
stesso regista si ripropone, in questa nuova
avventura, ma in veste di co-produttore,
lasciando la macchina da presa nelle mani del
debuttante Joseph Kosinski.
Tron: Legacy, la cui prima breve première di
23 minuti si è avuta alla quinta edizione del
Festival Internazionale del Film di Roma, è un
film in cui a dominare è l’animazione in digitale e soprattutto in 3D, con un ottimo montaggio
e uno script che non lascia, come al solito,
campo libero ai soli effetti speciali, che pure
Videoclip
del sintetizzatore Moog nella composizione di
musica elettronica, ma anche per il suo cambio
di sesso avvenuto nel 1972 (nome all’anagrafe
Walter Carlos).
Mentre per Tron la Disney chiese una scrittura per orchestra, coro e organo, nel sequel i
Daft Punk hanno praticamente immerso il film
in un dance floor senza soluzione di continuità, per tutta la durata del lungometraggio.
Alcuni temi musicali hanno comunque avuto il
supporto di un’orchestra di oltre 100 elementi
e sono stati registrati agli AIR Lyndhurst
Studios di Londra. Il primo estratto della
soundtrack è stato Derezzed, composto e suonato come gli altri dai Daft Punk, mentre il cd
della colonna sonora è in vendita dal 7 dicembre 2010.
■
SOUND
tracking
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
ROMANZO CRIMINALE Credevo fosse finita, ho creduto ad un’altra vita ma il destino
sbatte forte le porte. Dover tornare indietro, un ultimo inchino, non c’è più tempo né più destino. Il passo ad un tratto si fece leggero. Quanto è lontana da Roma la felicità?
DAVID LINCH Minimalista, elettronico. Ma lui lo sa che è solo un regista.
OODDAY
G
C
L I N C H
sangue
Freddo
DI ROBERTA MASTRUZZI
M
a ora è una lunga storia di rabbia che sanguina potere senza limiti, il mondo tra
le tue mani e poi non resta più niente, fuori muore la speranza che tu tornerai
iciamoci la verità: per qualche misteriosa ragione la Strega di Biancaneve
ci è stata sempre più simpatica di
quella sdolcinata principessa destinata a diventare la più bella del reame. Il fascino dei cattivi
è duro a morire, anche quando questi sono veri
e propri criminali che hanno compiuto efferati
omicidi e seminato terrore, decidendo del destino del nostro Paese per almeno un decennio.
Non si spiega altrimenti il successo di
Romanzo criminale, la storia della sanguinaria
Banda della Magliana che continua ad affascinarci con una storia di violenza, sangue, lotta
per il potere e tradimenti, che si tratti del libro
di Giancarlo De Cataldo, del film di Michele
Placido del 2005 o della recente serie Tv diretta da Stefano Sollima, uno dei migliori prodotti televisivi italiani degli ultimi anni. Forte del
successo della prima serie trasmessa da Sky lo
scorso inverno, il Freddo, Dandi e compagni
tornano a raccontare la loro storia nei 12 episodi della seconda serie. L’ambientazione passa
dagli anni Settanta agli anni Ottanta, il gruppo
di ragazzi di periferia si è trasformato in una
banda criminale perfettamente organizzata:
conquistato il controllo della Capitale, ora sembra iniziare una parabola discendente.
Trascinata dalle musiche di Pasquale
Catalano, che in questa seconda parte acquista-
D
no una venatura ancora più dark, la storia di
Romanzo Criminale e dei suoi anti-eroi è ora
raccontata in un cd. Costruito come un concept
album - non si tratta di una semplice compilation di brani, ma di ritratti musicali che completano e aiutano a capire la psicologia dei personaggi - la colonna sonora della seconda serie
ospita diversi artisti italiani, da The Niro (Nero
il sole) ai Rezophonic (Vita da Dandi) a Marta
sui Tubi (Il commissario).
Ognuno di loro ha dedicato un brano ad uno
dei personaggi. È Francesco Sarcina (nella
foto), leader de Le Vibrazioni, a rompere il
silenzio con Libanese, il Re, brano che scava
nell’intimo dell’indiscusso capo della banda,
spietato e maniacale nel perseguire il proprio
sogno di conquistare tutta Roma con il suo folle
piano criminale. Il testimone poi passa a
Pierluigi Ferrantini dei Velvet (Il sangue è
Freddo), Aimeé Portioli (Call me Patrizia) e
Roberto Angelini (Spara, Bufalo!).
Sono i Calibro 35 a chiudere con un brano
strumentale, Come un romanzo..., un’elettrizzante colonna sonora che riesce a riunire in un
unico sound gli anni 80 con i più interessanti
musicisti emergenti degli ultimi anni, la violenza con l’introspezione psicologica, dando voce e
musica ai pensieri e alla rabbia dei protagonisti
■
della serie più criminale vista in Tv.
hi è David Lynch lo sappiamo
bene, che cosa sia è più difficile da
stabilire. Regista (per cinema, tv,
pubblicità e videoclip musicali), pittore,
compositore, performer, produttore, sceneggiatore, musicista, il 64enne americano del Montana ama cimentarsi con tutto
ciò che abbia a che fare con l’espressione
e la comunicazione di idee, attraverso
parole, note e immagini. E il 30 novembre
2010 è uscito per la Sunday Best
Recordings un inedito brano di musica
elettronica suonato e composto da Lynch,
Good Day Today, il cui b-side è I Know.
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Un pezzo dallo start minimalista, ingenuo se confrontato con le evoluzioni più
recenti della galassia electronica, non per
questo meno interessante. Piace il ritmo
brillante, il beat dell’elettro-pop e la voce
filtrata che canta «Send me an Angel/
Save me/I’m so tired». Eppure il regista si
guarda bene dal definirsi musicista.
Per lui, nelle colonne sonore dei suoi
film, due sono i compositori necessari:
Alan R. Splet per il visionario e sublime
Eraserhead, e Angelo Badalamenti per
tutta o quasi la filmografia lynchiana. Ed
entro i primi mesi del 2011, assicura la
label inglese Sunday Best, sarà dato alle
stampe un album di remix tutto dedicato
alla musica elettronica firmata Lynch.
DI
FLAVIO FABBRI
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BED
TIME
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
SPECIALE
a cura di ROMINA CIUFFA
SOL7 SOL DIM SOLE Once I’ll get you up there I’ll be hol- LO SPECCHIO ANIMATO PANNOLINO VIOLINO La
ding you so near, mi sussurra in un jazz perfetto come un tonneau Penso al soffio rivelatore di un studentessa di violino. Possibile
che non si chiude, l’improvvisazione più sacra. Più mortale.
sassofonista. E mi piace il sax. che io non ricordi altro?
¢ CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA > SOL7 SOL SOLE
di ROMINA CIUFFA
SOL SETTIMA, SOL DIMINUITO, SOLE
5.000 giri il motore, assetto di salita ripida e una
velocità di 70 nodi per raggiungere la mia città,
dove albergo sola. Il Gran Sasso che mi fissa,
non ci sono città, e sottointende: per quelle come
te, se continui a guardare in basso. L’ho fatto nell’ultimo anno, guardare sotto anziché mirare alto. Ed ora che c’è
neve me ne accorgo: i miei pensieri hanno lasciato le impronte.
Posso vedere sino al fondo delle mie ossessioni, che hanno scavato abili e lasciato un solco visibile da quassù. Mentre continuo
a guardare verso il basso. La schiena è attirata dalla gravità in
questo assetto a 70 gradi ed io ancora ho a terra l’occhio per
adocchiare i pozzi delle mie paure.
E poi la vedo. La mia ombra. È a terra anche lei. È da questa prospettiva che me ne accorgo: il mio aereo è a forma di sax. Un
aerofono, appunto. Sarà la miopia, o lo scherzo del sole. Sarà che
un volo è come jazz, si improvvisa: una piantata motore o un
luogo da inseguire, un arcobaleno da attraversare, una virata
sfuocata, il cielo che si chiude. Puro, standard jazz. In questo
assetto riesco anche a vedere i piattelli del mio sassofono, e un
bocchino - lo stabilatore - dentro cui soffia vento da est, dal mare.
Ascolto. Le note di Come fly with me, un Do9 che spinge il mio
aereo con maggiore trazione soffiando nell’imboccatura. (Non
troverai mai la tua città se continui a guardare in basso).
Let’s take off in the blue. La neve qui è più densa e segna il passaggio da un’ossessione a un dolore profondo perché, per l’esser
soffice, non mantiene un’impronta ma la sprofonda. Allora si
vede solo un’interruzione nel bianco, sacrilega.
Let’s float down to Peru, in Llama land there’s a one man band,
Do dim, Re min, mentre anche in cuffia, ora, non arrivano più le
voci dei paracadutisti. L’altezza, forse - già 8.000 piedi - non
consente alla radio di ricevere, ed io mi sto isolando. Ma più
salgo (4.600 i giri, 50 nodi, mi segnala un livello troppo freddo
dell’acqua e non posso intervenire, eppure il mio distacco deve
avere luogo) più lo sento, up there where the air is rarified we’ll
just glide, starry-eyed.
photocredit
ROMINA CIUFFA
(...)
di Flavio Fabbri
da questa prospettiva che me ne accorgo: il mio
aereo è a forma di sax. Un aerofono, appunto.
Sarà la miopia, o lo scherzo del sole. Sarà che un
volo è come jazz, si improvvisa: una piantata motore
o un luogo da inseguire, un arcobaleno da attraversare, una virata sfuocata, il cielo che si chiude. Puro,
standard jazz. In questo assetto riesco anche a vedere
i piattelli del mio sassofono, e un bocchino - lo stabilatore - dentro cui soffia vento da est, dal mare.
È
LO SPECCHIO ANIMATO PANNOLINO VIOLINO
Forse l’amore è una grande assenza. Qui però si tratta solo di un uomo di fronte alla
propria emozione disturbata. Una rapsodia d’autunno che provoca brividi illeciti.
E
Col sole, un sol diminuito, sfondo le nuvole. La velocità è in arco
bianco, un prestallo a 70 km/h (it’s perfect for a flying honeymoon, they say) per trovarmi quassù. Fra un momento solo, altri
500 piedi più su, non sarò più in grado di vedere terra, le nubi
sono un prato di ovatta e, dopo averle bucate, si chiuderanno sotto
di me lasciando le ossessioni 10.000 piedi sotto i piedi.
L’ultimo sguardo giù, c’è la punta del Gran Sasso (la chiave, la
chiave della tua città. Lascia le nevi ai gatti, tu hai ali) e sbuca tra
due strati fitti di nubi. Poi cielo sotto, oceano sopra, inversione
della percezione. 50 km/h, uno stallo per livellare l’aereo, l’acqua troppo fredda, siamo io e il mio sax.
I’ll get you up there, I’ll be holding you so near mi diceva.
Salivamo fino a che il mondo non fosse a tal punto lontano da
doverlo ricordare; da lì ne parlavamo per capire dove avevamo
sbagliato. Dappertutto. Come adesso che l’aria calda è tutta inserita ma la temperatura segna meno 10 gradi. Livello l’aereo. Ho
vento in coda, nel bocchino del mio sax vibrante, e faccio in cielo
200 km orari, a terra almeno 270.
Mi diceva: Just say the words and we’ll beat the birds, poi inseguivamo le curve degli arcobaleni. Era una scusa per darsi un
obiettivo improbabile e non sentirci frustrati nel non conseguirlo, ma folli nel perseguirlo e belli nel colorarci. Chiudo uno dei
due rubinetti carburante, è quasi vuoto mentre sono in condizioni rischiose di volo.
Ma Si bemolle 9 e sono nella bambagia. You may hear angels
cheer, e c’è un pianoforte quassù. Accompagna questo sax che
ho in bocca, cloche che ho nelle mani. Once I’ll get you up there
I’ll be holding you so near, mi sussurra in un jazz perfetto come
un tonneau che non si chiude, l’improvvisazione più sacra. Più
mortale. Let’s fly, let’s fly away. Il secondo serbatoio carburante
è a metà: o rientro subito, o jazz.
C’era qualcuno che mi aspettava laggiù, non ricordo neanche che
faccia avesse. Ma no, non c’era più, era solo samba con un gran
sasso e la ballavo sola. Sorride ‘cause we’re together, weatherwise, it’s such a lovely day. Sol7, sol, sola. Sole.
■
ccoci qui. Davanti ad uno specchio. Da
soli. Dovrei parlare, dirti quello che ho
pensato in questi anni. Ti avevo promesso
che avrei raccontato qualcosa di me che
non sapevi. Però non è semplice. Come si
fa? Le parole non sono come le note. Do, re, mi,
fa, sol, la, si. Il difficile sta solo nel metterle in
fila nel modo giusto.
Penso al soffio rivelatore di un sassofonista.
Il suono del sax mi piace. È caldo, gentile, sensuale e ed elegante. Se ti sbagli al massimo provochi rumore. A qualcuno piace anche quello.
Ma parlare è diverso. Le parole, come le metti
le metti, generano sempre emozioni dubbie,
sollevano sentimenti che bruciano presto e,
soprattutto, non bastano mai. Non bastano ad
evitare che nascano equivoci e delusioni. Sono
sempre poche le certezze che regalano.
Quando posi le tue labbra sul bocchino di un
sax e ci soffi dentro l’intera tua anima, invece,
è tutto più semplice. Sarà la musica a lavorare
per te. Chi ti ascolta è vittima di una felice
intuizione o di una più serena menzogna. Si raccontano le verità dell’anima, dentro il discorso
di uno strumento santificato da salive mistiche.
Quelle che lo specchio mi ferma sempre come
un dispetto. Quelle che Gato Barbieri sputa in
una meravigliosa pioggia di luce che poi si spegne negli occhi di lei. Quelle che Charlie Parker
sollevava in aria e invitava a volteggiare per
eccitare la poesia di Jack Kerouac e Allen
Ginsberg.
Noi siamo sensibili alla musica come lo è la
fotografia alla luce. Ne siamo pervasi, svuotati,
plasmati, deformati, ammalati, curati, eccitati,
sedati, riempiti, svuotati, affamati, saziati.
Neanche fosse amore. Si dice che per innamorarsi bastino pochi minuti, pochi secondi.
Anche la musica si misura nell’istante in cui
arriva alle nostre orecchie. Quando poi rimaniamo soli, possiamo risentire le note di un brano
anche senza strumenti.
Succede la stessa cosa con l’immagine di una
donna, che ci torna agli occhi anche in sua
assenza. Forse l’amore è una grande assenza.
Qui però si tratta solo di un uomo di fronte alla
propria emozione disturbata. Una rapsodia d’autunno che provoca brividi illeciti. Un po’ come
la sensazione che sto provando davanti a questo
specchio che lentamente si appanna del mio
respiro. Una superficie insicura che non sa trattenere l’immagine di me che rido mentre è chiaro che ho paura. I piedi nudi sul pavimento non
fanno altro che gelare un insano istinto di ordine e di fame.
Non c’è razionalità che tenga al desiderio. Il
momento in cui Rollins gonfiava le sue guance,
quell’atto drammatico che è la creazione di
musica, non è altro che un ironico e umiliante
gesto di disordine gioioso. È il sistematico sregolamento dei sensi che ci anima, di tanto in
tanto. È il tentativo di comunicare una sensazione che ora, qui, non riesco a provarti.
Servirebbe un assolo. Servirebbe il coraggio
di salire su un palco e far incazzare o godere
qualche decina o centinaia di persone.
Servirebbe questo per tenerti inchiodata a me.
Oh amore, quale animato suono di donna sei?
Pensandoci bene, non ho mai imparato a suonare nessuno strumento. Io non sono pronto.
Non è colpa mia se abbiamo scelto uno specchio per dirci ti amo.
■
di Rita Barbaresi
Forse suonavo il pianoforte o forse pulivo le scale. Devo chiamarmi Roberto della
251, fare la pipì nel letto, non va bene e sono ricco. Certezze. Pannolino. Violino.
R
oberto della 251. Deve essere questo il
mio nome. Tutte le mattine entrano nella
mia stanza due signore vestite di bianco;
toccano le coperte del mio letto, si guardano e mi gridano in viso: «Anche stanotte ti sei tolto il PAN-NO-LI-NO. Non si fa,
capito? Franca, chiama l’inserviente e digli le
solite lenzuola per Roberto della 251».
Ho delle certezze.
Ci sono parole che vanno gridate e sillabate,
sono vecchio e sono Roberto della 251. Sono
ricco. Lo dicono sempre le due signore vestite
di bianco. Pensavo di essere molto povero perché quando non hai altro che il tuo nome vicino
a un numero devi per forza essere nullatenente.
Stavolta penso di aver ragionato bene, anche
se sto dicendo una bugia. Qual’è la bugia?
Non è vero che non ho più nulla che mi
appartenga. In questa stanza non ci sono cose
della mia vita; la bella famigliola che una volta
alla settimana mi viene a trovare, mi porta una
scatola di gelatine alla frutta e mi bacia sulle
guance non la ricordo. Dentro di me, però, c’è
l’immagine della vita ed è sempre viva.
Per cinque anni, tutti i martedì, andavo alla
scuola di musica del mio quartiere e aspettavo.
Forse suonavo il pianoforte o forse pulivo le
scale. Ma fu là che la conobbi. Capelli biondi,
due occhi marroni e un volto d’incanto appoggiati alla curva del suo violino. Non so se fosse
brava. Cinque anni. Alle 19 finiva la lezione.
Alle 19 ero in strada, davanti al portone della
scuola. Lei si fermava sull’ultimo gradino,
allungava il collo per cercare la macchina della
mamma, salutava i suoi amici, mi passava
davanti e scompariva dentro la macchina, dove
le rubavo l’ultimo sguardo mentre posava il suo
violino sul sedile posteriore. Tutti i martedì provavo la medesima gioia nel vederla e nasceva in
me la voglia di parlarle, di chiederle perché
suonasse il violino, cosa provasse nel momento
in cui l’archetto iniziava a pizzicare le corde, e
di domandarle: «Posso accompagnarti io a casa,
martedì prossimo?»
Non l’ho mai fatto. Ho avuto il terrore di un
«no». Quanto sono felice ora di non averla mai
fatta quella domanda. Se Veronica avesse risposto «no», ora sarei davvero un nullatenente.
Quanto è stata lunga questa mia vita non lo so
più, ma certamente più breve del mio amore per
Veronica, la studentessa di violino.
Come trascorrono gli anni? Possibile che io
non ricordi altro? Mi impegno a mettere a fuoco
la mia vita quando le signore vestite di bianco
mi portano nel parco di questa villa a fare una
passeggiata.
Forse suonavo il pianoforte o forse pulivo le
scale. Devo chiamarmi Roberto della 251, fare
la pipì nel letto, non va bene e sono ricco.
Certezze.
Il volto d’incanto di Veronica, il suo sorriso,
la sua musica.
La mia vita.
Domani mattina, tutto sporco di pipì, dirò
alle due signore cos’è l’amore: userò le parole
più belle per spiegare loro cosa possono significare, per me, due occhi marroni, un sorriso e
un violino.
Sono sicuro che non capiranno e come ogni
mattino si guarderanno e chiameranno l’inserviente che porterà le lenzuola pulite per
Roberto della 251.
■
Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011
AA.VV. Burlesque
Temptations. Music
for Streaptease Nude.
ELISA Evy È pur sempre bellissima
un’emozione con le cadute e tutto il
male, come una musica, come un dolore
MARLENE KUNTZ Ricoveri virtuali e sexy solitudini
Chi tutto crede di sapere di quel grande nulla poi s’intristisce,
pieno di dubbi poi si incupisce vedendosi di spalle e partire
FEED
back
a cura di ROMINA CIUFFA
DANILO REA - A TRIBUTE TO FABRIZIO DE ANDRÉ
AA.VV. - BURLESQUE TEMPTATIONS
Sei qui a guardarle ballare perché, in tutta la tua vita, la soddisfazione
BEYOND
&further che hai cercato nell’amare non è mai stata pari al dolore che ti ha dato
il capire. Capire che conoscere fino in fondo una persona non fa che
peggiorare lo stato in cui ti trovi (quella bionda si struscia su un palo di metallo) e ti
accompagna sempre più in fondo, un pozzo privo di femmine in cui si sta meglio, ma davvero meglio. Miss Dirty Martini guarda Trixie che si agita. (Slaccia il reggiseno, prima
spallina, seconda spallina). Un burlesque, quello che serviva stanotte per disconoscere
la femminilità mentre la tocchi. (Ti guarda negli occhi come fossero i
suoi). Non ti devi illudere che lo spettacolo sia fatto per te, queste
signorine non sono tue, sono solo di un palco, per giunta femminista.
Allontanarle fischiando al loro ancheggiare te le avvicina. Tutte. (Mi
hai rubato gli occhi, ti dice con gli occhi). Tu ti fissi sul seno destro,
che è più grosso del sinistro. La tua mano arranca, vorrebbe essere
lì ma non si può. Puoi fischiare, urlare, questo sì, e volteggiano i fianchi, le rotondità a volte esagerate delle donne in questa sala. Trixie
Malicious si sdraia. L’orchestra raccolta dal direttore artistico del
Micca Club, Alessandro Casella, suona per le «follie dei poveri», questo il burlesque, tutta una parodia vittoriana di te che non ami, la confusione eccentrica tra sesso, amore e avanspettacolo. Trixie.
La danza del ventre la viene a fare addosso a te, improvvisamente sei nell’occhio di bue,
sei l’occhio di un bue, sei il bue. (Occhiolino). Trixie è seminuda e sceglie le tue mani per
aiutarla a slacciare gli slips. Chi l’avrebbe detto, un burlesque a Roma. Fischi, schiamazzi, la tua mano in panne, in panni: cerchi di sbottonare la giarrettiera, come lei ti
chiede di fare, su, non fare la solita figuraccia con le tue dita di pastafrolla, sei al centro dello show, Trixie deve essere spogliata ora, stanno aspettando.
È il punk che arriva ad aiutarti, la rivoluzione che nasce dal basso, improvvisamente
accomodi questo New Burlesque tra le gambe e te lo ricordi, ricordi il motivo per cui sei
qui: non volevi sapere nulla di lei, non vuoi più saper nulla di femmine, e queste qui ci ridono sopra, un cabaret non ipocrita in cui tutti vogliono solo una cosa. Esser leggeri.
Così gli slips vanno via, e in mano non ti resta che lei. Che prende, si volta, e danzando
si allontana. Più leggera di così. Osservi. C’è la parete della tua stanza davanti a te. La
solitudine. Questo cd. I vinili originali dell’epoca tutti in play. La ferita di lei. Il cabaret che
ha fatto mentre se ne andava. La burla più grande.
ROMINA CIUFFA
atome
atom
me primitif
threeyearsthreedays
h re e y ea rsth re e days
DA
D
A NOVEMBRE
N VEMBR E
NO
NEII MIGLIORI
MIGLIIORI NEGOZ
NEGOZII D
DII D
DISCHI
ISCHI
W W W. U R BA N 4 9 . C O M
w w w . mys
my s p
pac
ac e . c o m / a
ato
to m e p r i m I t i f
PO
PCK
pop&rock
Ci sono versi di
Fabrizio
De
André pubblicati in manuali di letteratura;
diventano citazioni colte, titoli di
libri, nomi di band; imperversano su facebook. E le melodie?
Be’, anche quelle sono patrimonio universale. Eppure finora
non avevamo mai scisso la
musica dalle parole.
Il lavoro di Danilo Rea, A tribute
to Fabrizio De André, dunque, presenta un
primo elemento di novità: le storie di De
André perdono voce e parole, ma non significato. Il misto di emozioni che vive Maria,
nell’Ave Maria, ad esempio, è un inseguimento tra ottave contrapposte che si avvicinano e
si riallontanano, perché «gioia e dolore hanno
il confine incerto, nella stagione
che illumina il viso».
Così Bocca di Rosa, grande
esercizio di fraseggio e respiro
per ogni cantante, rivive nei tasti
di Rea come un vociare distinto
e corale: la maldicenza che insiste, batte al lingua sulle corde
del pianoforte (anziché sul tamburo, come in Un giudice), ma
l’effetto è quello.
Le interpretazioni di Rea trasformano semplici ballate in piccoli moderni lieder, vivacizzati da improvvisazioni jazz (come
in Girotondo). Le canzoni provengono principalmente dai primi lavori di De André. Forse
presentimento di un sequel.
Nicola Cirillo
MARLENE KUNTZ - RICOVERI VIRTUALI E SEXY SOLITUDINI
ALT
ER
NATIVE
Oltre vent’anni di carriera, sette
album pubblicati e un livello di
sperimentazione che pochi
gruppi del panorama musicale italiano possono vantare di avere. Questi sono i Marlene
Kuntz, il gruppo, che ha fatto dell’alternatività
e della ricerca sonora il manifesto del proprio
successo. Da sempre catalogati come formazione experimental rock, i Marlene Kuntz fondano le radici della loro arte nella ricerca della
deframmentazione dell’armonia. Utilizzando il
rumore delle distorsioni come un’attitudine
stilistica, come un canale di interpretazione
fra pensiero e musica.
La band capitanata da Cristiano Godano ha
pubblicato il nuovo album Ricoveri virtuali e
sexy solitudini. Un’opera che dimostra l’attitudine della band alla scrittura di testi che debbano, in maniera necessaria, raccontare la
realtà, la quotidianità. Una poetica, quella di
Godano, che esige di parlare del mondo che
circonda tutti noi. L’ottavo album dei Marlene
Kuntz è un lavoro di concetto, che ha la peculiarità di essere raro nel mondo della musica
italiana. Le sonorità sono rock, del genere più
grezzo e crudo, scelta questa che è stata
fatta per creare un collegamento temporale
con i primi lavori della band. Si abbandonano
quindi gli stili cantautorali del precedente
album Uno, uscito nel 2007. Il nuovo CD è
composto da 11 brani, tra i quali è compreso
il singolo Paolo
Anima
Salva,
precedentemente uscito e che
ha fatto da apripista all’opera
completa fin dai
primi giorni di
novembre.
L’album si pone
e si impone in
un ambito qualitativo superiore
alla produzione rock nazionale più diffusa oggi.
Anche se la scelta di tornare alle sonorità di
un tempo getta su questa nuova opera un
velo di nostalgia ed uno scomodo, ma inevitabile, paragone con le prime e migliori opere
della band.
Lorenzo Fiorillo
SWANS - MY FATHER WILL GUIDE ME UP A ROPE TO THE SKY
ALT
ER
NATIVE
Uscito il 23 settembre 2010, My Father
Will Guide Me Up a
Rope to the Sky è l’ultimo lavoro in
studio degli Swans a seguito di
una pausa durata ben 14 anni.
Dopo anni di militanza nel progetto «Angel of Light» e l’esperienza
come produttore per la propria
etichetta Young God Label, Mr
Gira aveva annunciato ai media di volersi dedicare nuovamente al progetto Swans.
Non tanto per pura nostalgia. «Questa non è
una reunion», aveva detto il leader della post
punk-no wave band newyorkese, «stavo solo
cercando un modo per andare avanti e muovermi in una nuova direzione, perciò rivisitare
il concetto degli Swans mi è sembrata l’unica
maniera possibile per riuscirci».
Anche se diverso e innovativo rispetto a tutti gli
altri album, My Father Will Guide
Me Up a Rope to the Sky, che
vanta inoltre la collaborazione di
Devandra Banhart (voce su You
Fucking People Make Me Sick),
Grasshopper (Mercury Rev), Bill
Rieflin ( Ministry, Lard, The
Revolting Cocks, Pigface, Nine
Inch Nails, Chris Connelly), non
manca certo di quel turbine di
emozioni tipicamente oscure che ha fatto
degli Swans una band ormai di culto.
Cupo, elettrico, nichilista, epico, il nuovo album
si apre con il suono di campane e il turbine di
chitarre di No Words/No Thoughts, incipit
perfetto per un disco che porta dritto negli
angoli più nascosti, lasciando dimenticare il
resto, che è ciò che poi ci circonda.
Valentina Giosa
ELISA - IVY
POPCK
Elisa Toffoli, in
pop&rock arte solo Elisa,
la si riconosce
subito. Minuta, dal volto aggraziato, con un timbro vocale
unico nel panorama musicale
italiano. Una delle migliori cantanti che il Bel Paese, e non
solo, abbia ascoltato. Un’artista
completa. Non solo una interprete, ma soprattutto un’autrice dal talento innato. Originale negli arrangiamenti ed innovativa nelle scelte stilistiche,
unica nel suo genere per la particolarità di
voler comporre la maggior parte dei suoi testi
in lingua inglese.
Maturata negli anni e cresciuta insieme alle
sue opere, Elisa giunge quest’anno al concepimento del suo settimo lavoro, dopo il successo di Heart, pubblicato lo scorso anno e arrivato insieme ad una figlia e ad un amore, Andrea
Rigonat, con il quale condivide la carriera artistica. Il nuovo album, uscito il 30 novembre, è
battezzato Ivy e non è un inedito, bensì di un
concept album in cui sono racchiusi 17 pezzi
tra vecchi successi, nuove canzoni e diverse
cover dal timbro rock, che l’artista dichiara di
«aver scelto con il cuore».
NERI PER CASO - DONNE
L’opera è interamente riarrangiata su un tappeto musicale
completamente nuovo, che ha
la particolarità di sintonizzare
anche i pezzi cover, sulla lunghezza d’onda della cantante
di Monfalcone. Dandole la possibilità, non solo di reinterpretarli, ma anche di renderli un
po’ suoi.
Gli inediti del cd sono Fresh Air
e Sometimes Ago, mentre tra i suoi vecchi
successi rivisitati troviamo brani come
Rainbow, It is what it is, Lullaby, ed i più recenti Forgiveness e Ti vorrei sollevare. Nell’album
non mancano le collaborazioni con altri artisti.
È presente un duetto d’eccezione: Anche tu,
anche se (non trovi le parole), con il rapper
Fabri Fibra. E insieme a Giorgia si può ascoltare Pour Que L’Amour Me Quitte di Camille.
Ivy è decisamente un progetto commerciale,
ma ben realizzato, dove sono perfettamente
amalgamate ballate e canzoni dall’anima
rock, con orchestrazioni non banali e mai
scontate su cui la voce di Elisa si stende ed
estende alla perfezione.
Lorenzo Fiorillo
PO
PCK
pop&rock
Le ragazze che «decidono il
destino dei loro amori» e «volteggiano sulle ali degli aquiloni»
sono diventate Donne. I Neri per caso pubblicano il loro dodicesimo lavoro discografico e lo dedicano all’altra
metà del cielo. Dieci brani famosissimi completamente riarrangiati e portati nell’inconfondibile
stile a cappella che i «neri» hanno
avuto il merito di far conoscere al
grande pubblico.
Come al solito, bando agli strumenti: solo voci e mani per
accompagnare una voce femminile diversa a canzone. Donne
riunisce infatti in un unico CD le voci di Ornella
Vanoni (Io che amo solo te), Loredana Berté (E
la luna bussò), Wendy Lewis (Ain’t no Mountain
high enough) e Mietta (Baciami adesso) accanto a quelle emergenti di Alessandra Amoroso
(Maniac), Noemi (Come si cambia), Karima
(Street Life) e Giusy Ferreri (Aria di vita), fino
all’indimenticabile voce di Mia Martini.
Sì, avete capito bene. I Neri per caso non si
fanno mancare proprio niente e si cimentano
nel Minuetto di Califano: la voce di Mia Martini
si sovrappone alle loro armonizzazioni, mentre
i cori sanno farsi da parte al momento giusto
per dare spazio alla voce della cantante scomparsa, inimitabile nella sua capacità di strappare un brivido quando canta la sua disperazione
(«avrei dovuto perderti e invece
ti ho cercato»).
I fratelli Ciro e Diego Caravano
che hanno curato gli arrangiamenti si divertono a stravolgere i
brani, prendendo la canzone di
Flashdance e facendola diventare
uno swing o creando un’atmosfera reggae per E La luna bussò.
Ma le vere protagoniste sono le donne che
hanno ispirato il disco. Il loro canto è dolcemente accolto dalle voci dei «neri» che preparano per loro un tappeto rosso di suoni e
armonie e cori per valorizzarle al meglio. Una
dichiarazione d’amore universale per tutte le
donne. Anche se, come ribadisce il duetto con
Dolcenera, il cuore è uno zingaro e va.
Roberta Mastruzzi