facciamoci avanti

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facciamoci avanti
Sheryl Sandberg
Facciamoci avanti
Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire
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Traduzione di Sara Crimi e Laura Tasso
Facciamoci avanti
di Sheryl Sandberg
Collezione Strade blu
ISBN 978-88-04-62914-6
Copyright © 2013 by Lean In Foundation
All rights reserved
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
Lean In
I edizione marzo 2013
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Indice
VII
Prefazione
di Daniela Riccardi
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Introduzione
Interiorizzare la rivoluzione
13IIl divario nelle ambizioni: che cosa fareste
se non aveste paura?
30II Sedersi al tavolo
43III Avere successo e piacere agli altri
58IV È un percorso avventura, non una scala
71
85
102
116
V
Sei tu il mio mentore?
VICerca
VIINon
VIIIFa’
la tua verità ed esprimila
porre limiti inutili alle tue scelte
del tuo partner un vero compagno
137IXIl mito del fare tutto
158
180
XCominciamo
XI
a parlarne
Lavoriamo insieme per la parità
197
199
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Continuiamo a parlarne…
Note
Ringraziamenti
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Indice analitico
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Ai miei genitori,
per avermi cresciuta
nella convinzione
che tutto fosse possibile
E a mio marito,
per aver reso tutto possibile
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Introduzione
Interiorizzare la rivoluzione
Nell’estate del 2004 sono rimasta incinta del mio primo figlio. Allora gestivo le vendite online e gli operations groups
di Google. Ero entrata in azienda tre anni e mezzo prima,
quando era ancora un’oscura start-up con poche centinaia
di impiegati e una sede in un malandato palazzo per uffici. Circa tre mesi dopo il mio arrivo, Google contava migliaia di dipendenti e si era trasferita in un complesso di
svariati edifici.
La gravidanza non è stata facile: per nove lunghi mesi ho
sofferto delle classiche nausee mattutine spesso caratteristiche del primo trimestre. Ero ingrassata più di trenta chili, e
i miei piedi – tanto gonfi da calzare scarpe di due numeri in
più – si erano trasformati in oggetti dalla forma indefinibile, che riuscivo a vedere soltanto quando li appoggiavo su
un tavolino. Un ingegnere di Google dall’animo particolarmente delicato annunciò che il «Project Whale», il progetto
balena, era stato chiamato così in mio onore.
Un giorno, dopo una mattinata particolarmente difficile trascorsa a fissare il fondo della tazza del water, dovetti correre per non tardare a una riunione con un cliente
importante. Google era cresciuto tanto in fretta che parcheggiare stava diventando un problema, cosicché l’unico
posto che riuscii a trovare era piuttosto lontano. Mi misi
a correre nel parcheggio, o meglio arrancai, con un pas-
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so appena un po’ più rapido di quello assurdamente lento da donna incinta. Questo non fece altro che peggiorare
la nausea e giunsi alla riunione pregando che mi uscisse
di bocca soltanto la presentazione di vendita. Quella sera,
quando raccontai i miei problemi a mio marito Dave, lui
mi fece notare che Yahoo, dove lavorava all’epoca, aveva destinato alle future mamme i parcheggi di fronte a
ciascun palazzo.
Il giorno successivo marciai, o meglio entrai dondolando come una papera, nell’ufficio dei fondatori di Google,
Larry Page e Sergey Brin: in realtà era uno stanzone pieno
di giochi, congegni e indumenti sparsi per tutto il pavimento. Trovai Sergey in un angolo in posizione yoga e dichiarai che servivano parcheggi per le donne incinte, preferibilmente al più presto. Lui mi guardò e accettò subito,
ammettendo di non averci mai pensato prima.
Ancora oggi mi imbarazza l’idea di non essermi resa conto che le donne incinte avevano bisogno di un parcheggio
riservato finché i miei piedi doloranti non ne avevano fatto esperienza diretta. Non era forse una mia particolare responsabilità pensarci in quanto donna, e fra quelle con maggiore anzianità in Google? Proprio come a Sergey, però, non
mi era mai venuto in mente. Le altre future mamme, probabilmente, avevano sofferto in silenzio pur di non chiedere
un trattamento speciale. O forse non avevano la sicurezza
di sé o l’anzianità aziendale necessaria per chiedere di risolvere il problema. Una donna incinta ai vertici, anche se
con l’aspetto di una balena, aveva fatto la differenza.
Oggi, negli Stati Uniti, in Europa e in gran parte del mondo, le donne hanno migliorato la loro condizione come mai
prima. Abbiamo largamente superato quelle che sono venute prima di noi, donne che hanno dovuto lottare per diritti
che noi diamo per scontati. Nel 1947 Anita Summers, madre di Larry Summers, il mio mentore da sempre, venne assunta come economista alla Standard Oil Company. Quando accettò il lavoro, il suo nuovo capo le disse: «Sono lieto
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di averla con noi. Immagino di poter disporre dello stesso
cervello [di un uomo] per uno stipendio inferiore». Lei ne
fu lusingata: era un complimento enorme sentirsi dire di
avere lo stesso cervello di un uomo, ma sarebbe stato impensabile chiedere lo stesso compenso.
Noi americane ci sentiamo ancora più grate quando paragoniamo la nostra vita a quella delle altre donne del mondo. Esistono tutt’oggi paesi che negano alle donne i diritti
civili basilari. In tutto il globo 4,4 milioni di donne e ragazze sono prigioniere del mercato del sesso.1 In paesi come
l’Afghanistan o il Sudan le ragazze ricevono un’istruzione
molto scarsa o nulla, le mogli sono trattate come proprietà
dei mariti e le donne stuprate, di norma, vengono buttate
fuori di casa per aver gettato la vergogna sulla famiglia. Alcune vittime di violenza sono persino incarcerate per aver
commesso un «crimine morale».2 Noi siamo avanti di secoli rispetto al trattamento inaccettabile riservato alle donne in quei paesi.
Sapere che le cose potrebbero andare peggio non dovrebbe però impedirci di provare a farle andare meglio. Quando
le suffragette marciavano per le strade, immaginavano un
mondo nel quale uomini e donne sarebbero stati realmente uguali. Un secolo dopo, stiamo ancora strizzando gli occhi per cercare di mettere a fuoco quella visione.
La verità, detta con franchezza, è che sono ancora gli
uomini a governare il mondo. Questo significa che, quando si devono prendere decisioni che riguardano tutti noi,
le voci delle donne non sono sentite come uguali. Dei centonovantacinque Stati indipendenti del mondo, soltanto
diciassette sono guidati da donne.3 Le donne, globalmente, detengono solo il 20 per cento dei seggi in Parlamento.4
Negli Stati Uniti, alle elezioni di novembre 2012, le donne
hanno conquistato un numero di seggi al Congresso più elevato di quanto fosse mai successo prima, che le ha portate
al 18 per cento.5 In Italia, il 21 per cento dei seggi in Parlamento è appannaggio delle donne.6 Al Parlamento euro-
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peo, un terzo dei seggi è al femminile.7 Nessuna di queste
cifre si avvicina, nemmeno lontanamente, al 50 per cento.
La percentuale di donne in ruoli di potere è ancora inferiore nel mondo delle aziende: uno scarno 4 per cento dei
cinquecento amministratori delegati della classifica di «Fortune» è rappresentato da donne.8 Negli Stati Uniti le donne
detengono il 14 per cento delle posizioni dirigenziali e il 17
per cento dei posti nei consigli di amministrazione, percentuali che non sono praticamente mutate, o quasi, negli ultimi dieci anni.9 Il divario è ancora più marcato per le donne di colore, che hanno solo il 4 per cento di impieghi al
vertice delle aziende, il 3 per cento dei seggi nei consigli di
amministrazione e il 5 per cento di seggi al Congresso.10 In
tutta Europa le donne detengono il 14 per cento dei seggi
nei consigli di amministrazione,11 che scende al 6 per cento nel caso dell’Italia, dove le posizioni dirigenziali si attestano al 4,5 per cento.12
I progressi restano altrettanto fiacchi se parliamo di stipendi. Nel 1970 le donne americane erano pagate 59 centesimi rispetto al dollaro che guadagnavano i loro pari grado
uomini. Negli anni successivi le donne avevano protestato, lottato e si erano date un gran daffare così da arrivare,
nel 2010, ad aumentare il compenso a 77 centesimi per ogni
dollaro guadagnato dagli uomini.13 Come disse con amaro
umorismo l’attivista Marlo Thomas all’Equal Pay Day del
2011: «In quarant’anni diciotto centesimi. Una confezione
da dodici di uova è aumentata dieci volte tanto».14 In Europa le donne vengono mediamente pagate 84 centesimi contro ogni euro degli uomini,15 in Italia 89 centesimi.16
Ho personalmente toccato con mano queste statistiche
scoraggianti. Mi sono diplomata al college nel 1991 e alla
business school nel 1995. Dopo la laurea, in qualsiasi lavoro
ai livelli di base della professione, i colleghi erano un insieme bilanciato di uomini e donne. Vedevo che i dirigenti
anziani erano solo uomini, ma credevo si trattasse della storica discriminazione contro le donne. Il proverbiale «soffit-
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to di cristallo», l’invisibile barriera, era stato infranto quasi
in ogni settore e pensavo che fosse solo questione di tempo affinché la mia generazione occupasse la giusta quota
di ruoli dirigenziali. Ogni anno che passava, però, fra i colleghi vedevo un numero via via minore di donne. Sempre
più spesso, mi accadeva di essere l’unica donna nella stanza.
Essere la sola donna ha comportato che mi ritrovassi in
situazioni strane, ma rivelatrici. Due anni dopo essere entrata in Facebook come amministratore delegato, in seguito
alla morte improvvisa del nostro direttore amministrativo e
finanziario, fui costretta a subentrargli per concludere una
tranche di finanziamenti. Poiché tutta la mia carriera si era
svolta nel campo operativo, e non in quello finanziario, il
procedimento per raccogliere capitali mi era nuovo, di conseguenza ero abbastanza spaventata. Con i miei collaboratori, volai a New York per i colloqui iniziali con possibili investitori. Il primo incontro avvenne in quel genere di
ufficio che si vede nei film, con tanto di vista mozzafiato
su Manhattan. Io presentai una panoramica della nostra
azienda e risposi alle domande. Fin lì, tutto bene. Poi qualcuno suggerì di fare qualche minuto di pausa. Mi rivolsi a
uno dei miei interlocutori più anziani e chiesi dove fosse
la toilette delle donne. Mi fissò con sguardo vacuo: la mia
domanda lo aveva sconcertato. Gli chiesi: «Da quanto lavora in questi uffici?». Rispose: «Un anno». «E io sono l’unica
donna che nell’arco di un anno ha partecipato a una trattativa?» «Credo di sì», disse, e aggiunse: «O, forse, è la sola
donna che ha dovuto utilizzare la toilette».
Sono passati oltre vent’anni da quando ho cominciato a
lavorare e molte cose sono rimaste uguali. È giunto il momento di accettare il fatto che la nostra rivoluzione è in una
situazione di stallo.17 La promessa dell’uguaglianza non
equivale alla vera uguaglianza.
In un mondo realmente equo le donne governerebbero la metà delle nazioni e delle aziende, mentre gli uomini
gestirebbero la metà delle nostre case. Ritengo che sarebbe
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un mondo migliore. Le leggi economiche e molti studi sulla diversità ci dicono che, se utilizzassimo tutte le risorse
umane e i talenti disponibili, il nostro rendimento collettivo migliorerebbe. Il leggendario investitore Warren Buffett ha generosamente ammesso che uno dei motivi del suo
grande successo è stato dover competere solo con metà della popolazione. I Warren Buffett della mia generazione godono ancora ampiamente di questo vantaggio. Non appena un maggior numero di persone si unirà a questa corsa,
verranno infranti ancora più record e i successi si estenderanno al di là dei singoli per andare a beneficio di tutti.
La sera prima di vincere il premio Nobel per la pace per
il suo apporto alla protesta delle donne che aveva rovesciato il dittatore della Liberia, Leymah Gbowee si trovava
a casa mia per il lancio di un libro. Festeggiavamo la pubblicazione della sua autobiografia, Grande sia il nostro potere,18 ma era stata una serata triste. Un’ospite le chiese come
le americane potessero aiutare le donne che avevano vissuto gli orrori e gli stupri di massa della guerra in paesi come
la Liberia. Rispose con quattro semplici parole: «Più donne al potere». Leymah e io non potevamo avere origini più
diverse, eppure eravamo giunte alla stessa conclusione. La
condizione femminile migliorerà quando più donne deterranno ruoli di comando, garantendo una voce forte e potente alle loro esigenze e preoccupazioni.19
Tutto questo ci porta a una domanda ovvia: come ci arriveremo? Come abbatteremo le barriere che impediscono a un numero maggiore di donne di giungere ai vertici?
Nel mondo del lavoro le donne si trovano davanti dei veri
e propri ostacoli, fra i quali anche un manifesto e sottile sessismo, la discriminazione e le molestie sessuali. Sono ancora troppo pochi i luoghi di lavoro che offrono la flessibilità e l’accesso ai congedi per i genitori necessari per portare
avanti una carriera mentre si crescono i figli. Per gli uomini è più semplice trovare mentori e sponsor, inestimabili per un avanzamento di carriera. Inoltre le donne devo-
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no dar prova di sé molto più degli uomini. E questo non lo
pensiamo solo noi. Un rapporto McKinsey del 2011 rilevava come gli uomini vengano promossi in base al loro potenziale, mentre per le donne questo avviene in base ai risultati ottenuti.20
Oltre che dalle barriere esterne, erette dalla società, le
donne sono ostacolate da barriere interiori. Ci mettiamo in
secondo piano in tanti modi, con piccole e grandi cose, con
la mancanza di fiducia in noi stesse, non facendoci sentire
e tirandoci indietro quando dovremmo farci avanti. Interiorizziamo i messaggi negativi che riceviamo durante tutta la nostra vita, messaggi che suggeriscono che è sbagliato
dire ciò che si pensa, essere aggressive e più potenti degli
uomini. Abbassiamo le aspettative rispetto a dove possiamo
arrivare. Continuiamo a fare gran parte dei lavori di casa
e a occuparci dei figli. Compromettiamo gli obiettivi della nostra carriera per lasciare spazio al partner e ai bambini che potrebbero persino non essere ancora nati. Rispetto
ai colleghi uomini, un numero minore di noi aspira a posizioni superiori. Non sto stilando un elenco di cose fatte da
altre donne: io stessa ho compiuto tutti gli errori della lista
e, talvolta, mi succede ancora.
La mia tesi è che abbattere queste barriere interne è decisivo per raggiungere il potere. Altri hanno affermato che
le donne potranno arrivare ai vertici solo quando saranno
scomparse le barriere istituzionali. Questa è la massima
espressione del classico dilemma dell’uovo e della gallina.
La gallina: le donne si libereranno delle barriere esterne una
volta che conquisteranno ruoli di leadership. Marceremo
negli uffici dei nostri capi chiedendo quel che ci serve, compresi i parcheggi per le gestanti. O, ancora meglio, diventeremo i capi e faremo in modo che tutte le donne abbiano
quel che serve loro. L’uovo: per prima cosa dobbiamo eliminare le barriere esterne perché le donne possano ottenere quei ruoli. Entrambe le proposte sono corrette. Quindi,
anziché impegnarci in discussioni filosofiche su che cosa
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venga prima, accordiamoci per dare battaglia su entrambi i fronti, che rivestono uguale importanza. Incoraggio le
donne a favore della gallina, ma sostengo pienamente quelle che si concentrano sull’uovo.
Gli ostacoli interni vengono raramente discussi e sono
spesso sminuiti. Da sempre mi sento dire che l’ineguaglianza è tipica di tutti i posti di lavoro e che è difficile coniugare carriera e famiglia. Devo ammettere, però, che raramente ho sentito parlare dei modi in cui una donna può tirarsi
indietro. Questi ostacoli interiori meritano un’attenzione
molto maggiore, in parte perché siamo noi stesse a controllarli. Oggi possiamo smantellare le barriere dentro di noi,
ed è possibile cominciare da subito.
Non avrei mai pensato di scrivere un libro: non sono una
studiosa, una giornalista o una sociologa. Ho deciso di farmi sentire dopo aver parlato con centinaia di donne, aver
ascoltato le loro battaglie, condiviso le mie ed essermi resa
conto che i progressi compiuti non sono sufficienti e che
potremmo persino perdere le conquiste raggiunte. Il primo capitolo di questo libro illustra alcune delle complesse
sfide che le donne devono affrontare. I successivi sono dedicati ciascuno a una modifica o a una differenza che possiamo apportare in prima persona: migliorare la fiducia in
noi stesse («Sedersi al tavolo»), ottenere che i nostri compagni si diano più da fare in casa («Fa’ del tuo partner un
vero compagno»), non mirare a traguardi irraggiungibili
(«Il mito del fare tutto»). Non affermo di possedere le soluzioni perfette per questi problemi profondi e complessi. Mi baso su dati incontrovertibili, ricerche accademiche,
sulle mie osservazioni e sulle lezioni che ho imparato lungo il mio cammino.
Questo non è un libro di memorie, anche se ho inserito
episodi della mia vita. Non insegna a migliorare la propria
esistenza, anche se spero davvero che possa essere d’aiuto.
Non è un libro sulla gestione della carriera, anche se offro
dei consigli in questo campo. Non è un manifesto femmi-
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nista: va bene, è una specie di manifesto femminista, ma di
un genere che spero ispiri gli uomini tanto quanto le donne.
Qualsiasi cosa sia questo libro, l’ho scritto per tutte le
donne che desiderano accrescere le possibilità di arrivare
ai vertici nel loro campo o perseguire con determinazione i
più svariati obiettivi. Questo vale per le donne in ogni momento della vita e della carriera, da quelle che hanno appena cominciato a quelle che si sono prese una pausa e potrebbero desiderare di ributtarsi nella mischia. L’ho scritto
anche per qualsiasi uomo desideri comprendere quello che
deve affrontare una donna, che sia collega, moglie, madre
o figlia, affinché possa fare la sua parte per costruire un
mondo equo.
Questo libro sostiene la causa di chi vuole farsi avanti ed essere ambizioso nel perseguire qualsiasi obiettivo.
Sono convinta che un numero sempre maggiore di donne
in posizioni di potere sia un elemento necessario alla vera
uguaglianza, ma non credo che esista una sola definizione
di successo o di felicità. Non tutte le donne desiderano una
carriera, non tutte le donne vogliono avere figli, non tutte le donne aspirano a entrambe le cose. Non sosterrei mai
l’idea che tutte dovremmo avere gli stessi obiettivi. Molte
persone non sono interessate al potere, e non perché manchi loro l’ambizione, ma perché vivono la vita che desiderano. I contributi più importanti al nostro mondo provengono dall’occuparsi di una sola persona per volta. Ciascuno
di noi deve tracciare il proprio percorso e definire quali
sono gli obiettivi adeguati alla propria vita, ai propri valori e ai propri sogni.
Sono anche del tutto consapevole che la stragrande maggioranza delle donne lotta per arrivare alla fine del mese
e occuparsi della propria famiglia. Alcune parti di questo
libro riguardano soprattutto le donne abbastanza fortunate da poter scegliere quanto, quando e dove lavorare; altre
parti si riferiscono a situazioni che le donne affrontano in
ogni luogo di lavoro, in ogni comunità e in tutte le case. Se
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riusciremo ad aggiungere un maggior numero di voci femminili ai più alti livelli, allargheremo a tutte le donne le opportunità e un trattamento più corretto.
Alcune persone, in particolare altre donne nel mondo
degli affari, mi hanno messa in guardia dal parlare chiaramente e pubblicamente di questi problemi. Ogni volta che
comunque mi sono espressa, molti miei commenti hanno
scandalizzato persone di entrambi i sessi. So che alcuni ritengono che, concentrandomi su quello che le donne possono cambiare da sole – spingendole a farsi avanti – sembra
che io stia scaricando le istituzioni dalle loro responsabilità. O, peggio, mi accusano di prendermela con le vittime.
Ben lungi dal farlo, ritengo che la chiave per una soluzione
siano le donne leader. Alcuni critici faranno rilevare che per
me è più semplice farmi avanti, perché le mie risorse finanziarie mi permettono tutto l’aiuto che mi serve. La mia intenzione è offrire i consigli che mi sarebbero stati utili ben
prima che avessi sentito parlare di Google o di Facebook
e che avranno un forte impatto sulle donne in una vasta
gamma di circostanze.
Ho ricevuto queste critiche in passato e so che le riceverò, insieme ad altre, in futuro. Spero che il mio messaggio
venga giudicato per i suoi meriti. Non è possibile evitare
questo dialogo perché il problema trascende tutti noi. Da
troppo tempo si attende il momento di incoraggiare più
donne a sognare un sogno possibile e più uomini a sostenere le donne sul posto di lavoro e in casa.
Possiamo riaccendere la rivoluzione interiorizzandola. Il
passaggio a un mondo più equo avverrà persona per persona. Per ogni donna che si fa avanti, ci avviciniamo sempre
più all’obiettivo più vasto della vera uguaglianza.
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Il divario nelle ambizioni:
che cosa fareste se non aveste paura?
Mia nonna Rosalind Einhorn nacque esattamente cinquantadue anni prima di me, il 28 agosto 1917. Come molte famiglie ebree povere di New York, la sua viveva in un piccolo appartamento affollato non lontano dai parenti. I suoi
genitori, gli zii e le zie si rivolgevano ai cugini maschi con
il nome di battesimo, ma lei e la sorella erano chiamate soltanto «Girlie», ragazzina.
Durante la Depressione mia nonna dovette lasciare la
Morris High School per contribuire al bilancio familiare
cucendo fiori di tessuto sulla biancheria che sua madre rivendeva poi con magro profitto. Nessuno nella comunità
avrebbe neppure preso in considerazione l’idea di ritirare
un ragazzo da scuola. L’istruzione di un maschio equivaleva per la famiglia alla speranza di salire la scala economica
e sociale. L’istruzione delle femmine, invece, era meno importante sia dal punto di vista economico, perché era improbabile che avrebbero contribuito alle entrate di casa, sia
dal punto di vista culturale: i ragazzi, infatti, dovevano studiare la Torah, mentre le ragazze si riteneva dovessero gestire una «casa decorosa». Fortunatamente per mia nonna,
un insegnante del luogo insistette con i suoi genitori perché riprendesse la scuola. Lei proseguì, non solo terminando il liceo, ma laureandosi a Berkeley.
Dopo il college la «ragazzina» andò a lavorare venden-
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do libri tascabili e accessori da David’s Fifth Avenue. Quando lasciò il lavoro per sposare mio nonno, la leggenda familiare narra che David’s abbia dovuto assumere quattro
persone per sostituirla. Anni dopo, quando il colorificio di
mio nonno era in difficoltà, intervenne lei prendendo i duri
provvedimenti davanti ai quali il marito si dimostrava restio e salvò la famiglia dalla rovina economica. Superata la
quarantina, dimostrò ancora una volta il suo acume per gli
affari. Le venne diagnosticato un tumore al seno e, dopo
averlo sconfitto, si dedicò a raccogliere fondi per la clinica
che l’aveva curata vendendo per strada imitazioni di orologi. La «ragazzina» ottenne un margine di profitto da far
invidia alla Apple. Non ho mai incontrato un’altra persona con maggiore energia e determinazione di mia nonna.
Quando Warren Buffett parla di competere soltanto contro metà della popolazione, penso a lei e mi chiedo quanto
avrebbe potuto essere diversa la sua vita se solo fosse nata
mezzo secolo dopo.
Quando mia nonna ebbe dei figli, mia madre e i suoi
due fratelli, diede grande importanza all’istruzione di tutti
loro. Mia madre frequentò l’università della Pennsylvania,
che aveva classi miste. Quando, nel 1965, si laureò con una
tesi in letteratura francese, prese in considerazione quelle
che, a suo parere, erano le uniche due possibilità di carriera
per le donne: l’insegnante o l’infermiera. Scelse l’insegnamento. Iniziò un dottorato in lettere, ma abbandonò quando rimase incinta di me: l’idea che un marito avesse bisogno dell’aiuto della moglie per mantenere la famiglia era
ritenuta indice di debolezza. Mia madre si dedicò quindi
a tempo pieno alla famiglia e si impegnò attivamente nel
volontariato. Resisteva ancora una suddivisione del lavoro ormai vecchia di secoli.
Anche se sono cresciuta in una famiglia tradizionale, i miei
genitori avevano le stesse aspettative nei confronti miei, di
mia sorella e di mio fratello. Tutti e tre siamo stati incoraggiati a eccellere negli studi, a occuparci delle faccende do-
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mestiche e a impegnarci in attività extrascolastiche. Eravamo anche tenuti a essere atletici. Mio fratello e mia sorella
si dedicarono agli sport di squadra, mentre io ero l’ultima
della classe in educazione fisica. Malgrado i miei limiti atletici, sono stata cresciuta nella convinzione che le ragazze
potessero fare tutto quello che facevano i ragazzi e che tutte le possibilità di carriera mi fossero aperte.
Quando arrivai al college nell’autunno del 1987, i miei
compagni di classe, maschi o femmine che fossero, sembravano dare identica importanza agli studi. Non ricordo
di aver pensato alla mia futura carriera in modo diverso
dai ragazzi, né rammento alcun accenno al dover coniugare, un giorno, lavoro e figli. Io e le mie amiche pensavamo
che avremmo avuto entrambi. Ragazzi e ragazze erano in
aperta competizione durante le lezioni, nelle attività e nei
colloqui di lavoro. A due generazioni di distanza da mia
nonna i giochi sembravano alla pari.
Sono trascorsi più di vent’anni dalla mia laurea, ma il
mondo non si è affatto evoluto quanto avrei pensato. Quasi
tutti i miei compagni di classe svolgono professioni specializzate. Alcune mie compagne sono occupate a tempo
pieno o parziale fuori di casa, mentre altre fanno soltanto
le mamme e le volontarie come mia madre. Questo rispecchia la tendenza nazionale. Nel confronto con i loro omologhi uomini, il numero di donne molto preparate si è ridotto a poco a poco, e molte si sono ritirate dalla forza lavoro.1
Dal canto loro, queste percentuali inducono le istituzioni
e i datori di lavoro a investire maggiormente sugli uomini
che, statisticamente, è più probabile restino lavoratori attivi.
Judith Rodin, presidentessa dalla Rockefeller Foundation e prima donna presidente di un’università della Ivy
League, ha dichiarato di fronte a un pubblico di donne della mia età: «La mia generazione ha lottato duramente per
offrire una possibilità di scelta a tutte voi. Crediamo nelle
scelte. Ma non immaginavamo che molte di voi avrebbero
scelto di abbandonare il lavoro».2
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Che cosa è accaduto? La mia generazione è diventata
adulta in un’epoca di crescente uguaglianza, una tendenza che pensavamo proseguisse. Uno sguardo retrospettivo
rivela che eravamo ingenue e idealiste. Coniugare aspirazioni professionali e ambizioni personali si è rivelata una
sfida superiore a quanto potessimo immaginare. Negli stessi anni in cui le nostre carriere richiedevano il massimo investimento di tempo, il nostro orologio biologico reclamava dei figli. I nostri compagni non partecipavano ai lavori
di casa e all’accudimento dei figli, cosicché ci siamo ritrovate con due occupazioni a tempo pieno. I luoghi di lavoro
non si erano evoluti a sufficienza per consentirci la flessibilità necessaria a far fronte alle nostre responsabilità familiari. Non avevamo previsto nulla di tutto questo e siamo
state colte di sorpresa.
Se la mia generazione è stata troppo ingenua, quelle successive sono forse troppo pragmatiche. Noi sapevamo ben
poco, le ragazze di oggi sanno troppo. Loro non appartengono alla prima generazione che ha avuto pari opportunità, ma sono le prime a capire che tutte quelle opportunità
non necessariamente si traducono nel successo professionale. Molte di quelle ragazze hanno osservato le loro madri
cercare di «fare tutto», per poi decidere di dover mollare
qualcosa. Quel «qualcosa», di solito, era la carriera.
È indubbio che le donne possiedano le doti necessarie
per essere dei capi sul posto di lavoro. A scuola, un numero sempre maggiore di ragazze consegue risultati migliori dei ragazzi e, negli Stati Uniti, il sesso femminile ottiene il 57 per cento delle lauree di primo grado e il 60 per
cento dei master.3 Questa tendenza è evidente anche in Italia, dove le donne conseguono il 59 per cento delle lauree
di primo grado.4 In Europa l’82 per cento delle donne fra i
venti e i ventiquattro anni ha portato a termine almeno le
scuole medie superiori rispetto al 77 per cento degli uomini.5 Questo risultato accademico ha scatenato in alcuni il
timore di una possibile «fine degli uomini».6 Se tuttavia
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un comportamento remissivo, del genere alza-la-mano-eparla-solo-quando-ti-do-il-permesso, può premiare in ambito scolastico, esso ha un valore molto inferiore nel mondo del lavoro.7 Spesso un avanzamento di carriera dipende
dai rischi che si accettano e dall’autopromozione, due atteggiamenti che le donne vengono scoraggiate dal mostrare. Questo potrebbe spiegare come mai i successi accademici delle ragazze non si siano ancora tradotti in un numero
assai più elevato di donne in mansioni al vertice. Al livello
base, la percentuale di lavoratori che hanno compiuto studi superiori è in gran parte composta da donne, ma, salendo i gradini della scala gerarchica, la proporzione è nettamente in favore degli uomini.
Questo genere di vaglio ha svariate motivazioni, ma vi
contribuisce in misura notevole un divario nelle ambizioni.
Certo, esistono molte donne che, sul piano professionale,
sono ambiziose quanto gli uomini, eppure, se andiamo a
scavare, i dati indicano chiaramente che, in tutti i campi,
gli uomini che aspirano alle posizioni più elevate sono in
numero maggiore delle donne. Un rapporto McKinsey del
2012 relativo a una ricerca condotta su oltre quattromila dipendenti di grandi aziende ha rivelato che il 36 per cento
degli uomini voleva diventare amministratore delegato, a
fronte del solo 18 per cento delle donne.8 Una posizione lavorativa di potere, stimolante e che comporta elevati livelli
di responsabilità, interessa più agli uomini che alle donne.9
Inoltre, se il divario nelle ambizioni è più pronunciato ai livelli più alti, la dinamica sottesa è palese a ogni gradino nella scala della carriera. Un’indagine condotta sugli studenti
universitari ha rilevato che «raggiungere un livello manageriale» nei primi tre anni dopo la laurea è una priorità di
carriera più maschile che femminile.10 Questa distinzione
si applica anche tra i professionisti: solitamente sono più
gli uomini che le donne a descriversi come «ambiziosi».11
La speranza è che la generazione successiva alla nostra
abbia già avviato il cambiamento. Uno studio Pew del 2012
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ha scoperto che, per la prima volta, fra i giovani dai diciotto ai trentacinque anni, più donne (66 per cento) che uomini (59 per cento) considerano importante per la loro vita il
«successo in una carriera o una professione altamente remunerativa».12 Una recente inchiesta sulla Generazione Y13
ha rilevato la probabilità che le donne si descrivano ambiziose quanto gli uomini. Pur trattandosi di un miglioramento, anche in questi dati demografici persiste comunque un
divario nelle ambizioni: rispetto ai loro coetanei maschi,
meno donne della Generazione Y si sentono ben rappresentate dall’affermazione «Aspiro a un ruolo di leadership
in qualsiasi campo dovessi lavorare» o descrivono se stesse come «leader», «visionarie», «sicure di sé» e «disposte
a correre rischi».14
Poiché gli uomini che aspirano ai ruoli di leadership sono
in numero maggiore, non deve sorprendere che li ottengano, in particolare se consideriamo tutti gli altri ostacoli
che le donne devono superare. Questa tendenza comincia
molto prima che entrino nel mondo del lavoro. La scrittrice Samantha Ettus e suo marito hanno letto l’annuario
dell’asilo della figlia, dove ogni bambino rispondeva alla
domanda «Che cosa vorrai fare da grande?» e hanno notato
come molti maschietti volessero fare il presidente, ma nessuna delle bambine lo desiderasse.15 (I dati attuali suggeriscono che, quando queste bambine diventeranno donne,
continueranno ad avere le stesse idee.)16 Anche alla scuola
media, sono più maschi che femmine ad aspirare a ruoli
di leadership.17 Nei cinquanta migliori college americani,
meno di un terzo dei presidenti delle organizzazioni studentesche sono ragazze.18
Ci si aspetta che gli uomini abbiano ambizioni professionali, ma nelle donne queste sono un optional o, peggio,
talvolta averle è persino considerato negativo. Nella nostra cultura non è un complimento affermare che una donna è molto ambiziosa. Le donne aggressive e determinate
violano le regole non scritte della condotta sociale ritenu-
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ta accettabile. Mentre gli uomini vengono continuamente
applauditi perché sono ambiziosi, potenti e di successo, le
donne che presentano queste stesse caratteristiche spesso
pagano una penalità a livello sociale. I successi delle donne hanno un costo.19
D’altro lato, nonostante il progresso, la pressione sociale spinge le donne, fin da giovani, a non perdere di vista
il matrimonio. Quando sono andata al college, per quanto i miei genitori insistessero sui risultati accademici, insistevano ancor di più sul matrimonio. Mi dicevano che le
ragazze più appetibili si sposano giovani per accaparrarsi l’«uomo giusto» prima che siano tutti impegnati. Seguii
il loro consiglio e, in tutto il tempo che trascorsi al college,
valutavo ogni ragazzo con cui uscivo come potenziale marito (e questo, credetemi, a diciannove anni è un sistema sicuro per rovinare una relazione).
Quando stavo per laurearmi, il mio relatore, Larry Summers, mi consigliò di fare richiesta per una borsa di studio
internazionale. Respinsi l’idea in quanto un paese straniero
non è la sede adatta per trasformare in marito il tizio con
cui esci. Mi trasferii invece a Washington, che era zeppa di
potenziali mariti. Funzionò. Nel primo anno dopo aver finito il college incontrai un uomo che non solo era adatto,
ma anche meraviglioso, e lo sposai. Avevo ventiquattro anni
ed ero convinta che il matrimonio fosse il primo, necessario passo verso una vita felice e produttiva.
Non andò così. Semplicemente, non ero abbastanza matura per prendere una decisione per la vita, e il rapporto
ben presto andò in pezzi. A venticinque anni ero riuscita a
sposarmi… e a divorziare. Allora vissi la situazione come
un enorme fallimento personale e pubblico. Per molti anni
ebbi la sensazione che anche i miei successi professionali
fossero irrilevanti se paragonati alla D scarlatta che portavo cucita sul petto. (Quasi dieci anni dopo ho scoperto che
gli «uomini giusti» non erano tutti impegnati, e ho preso la
saggia e felice decisione di sposare Dave Goldberg.)
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Come me, anche Gayle Tzemach Lemmon, vicedirettore
dell’organismo Le donne e il programma di politica estera
presso il Consiglio per le relazioni estere, venne incoraggiata a dare la priorità al matrimonio rispetto alla carriera.
Ecco come lo racconta sull’«Atlantic»: «A ventisette anni ho
ottenuto una ricca borsa di studio per andare in Germania,
imparare il tedesco e lavorare al “Wall Street Journal” […].
Era un’opportunità incredibile per una ragazza non ancora trentenne e sapevo che mi avrebbe aiutata a prepararmi
al master e per il futuro. Le mie amiche, però, furono scioccate e inorridirono all’idea che avrei lasciato il mio ragazzo di allora per andare a vivere un anno all’estero. I miei
parenti mi chiesero se non fossi preoccupata al pensiero di
non sposarmi mai. Quando poi andai a un barbecue con il
mio lui del momento, il suo capo mi prese da parte per ricordarmi che non ce n’erano in giro molti come quello».
A parere di Gayle, il risultato di quelle reazioni negative è
che molte donne «continuano a considerare “ambizione”
una parolaccia».20
Molti ribattono che il problema non è l’ambizione. Le
donne non sono meno ambiziose degli uomini, insistono,
ma sono più motivate da obiettivi diversi e più significativi.
Non voglio dichiarare infondata o contestare questa argomentazione. La vita è ben più che dare la scalata al successo professionale: è crescere dei figli, cercare l’appagamento
personale, dare il proprio contributo alla società e migliorare la vita degli altri. Molte persone si impegnano a fondo
nel lavoro, ma non aspirano – giustamente – a prendere il
comando dell’azienda. I ruoli di leadership non sono l’unico sistema per lasciare il segno.
Riconosco inoltre che esistono differenze biologiche fra
uomini e donne. Io ho allattato al seno due figli e ho notato, a volte con grande disappunto, che mio marito non era
attrezzato per fare altrettanto. Esistono forse caratteristiche
relative alle differenze di genere che rendono le donne più
affettuose e gli uomini più assertivi? È possibile. Comun-
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que, nel mondo odierno, dove non dobbiamo più cacciare
per sfamarci, il nostro desiderio di leadership è indotto e
rafforzato soprattutto dalla cultura. La considerazione degli
individui riguardo a ciò che possono e dovrebbero realizzare deriva in gran parte dalle aspettative della società.
Fin dalla nascita, maschi e femmine sono trattati in modo
diverso:21 i genitori tendono a parlare più con le bambine
che con i bambini;22 le madri sopravvalutano la capacità di
gattonare dei figli e sottostimano quella delle figlie;23 l’idea
che le femmine siano da aiutare più dei maschi spesso induce le madri a confortare e coccolare di più le bambine
e a restare a osservare i bambini mentre giocano da soli.24
Altri messaggi culturali sono più evidenti. Tempo fa la
Gymboree, ditta di articoli per l’infanzia, vendeva delle tutine che proclamavano «Intelligente come papà» per i maschietti e «Carina come la mamma» per le femminucce.25
Lo stesso anno i grandi magazzini J.C. Penney mettevano in
vendita una maglietta per ragazzine che millantava «Sono
troppo carina per fare i lavori di casa, quindi mio fratello
deve farli al posto mio».26 Cose simili non accadevano nel
1951, ma nel 2011.
Ancora peggio, i messaggi rivolti alle ragazze possono andare al di là di un superficiale incoraggiamento alla
leadership e virare verso un’esplicita dissuasione. Quando
una ragazza cerca di prendere il comando viene spesso definita «autoritaria», mentre è raro che capiti a un ragazzo,
proprio perché non sorprende né offende che un maschio
assuma il ruolo del capo. Da persona che è stata definita
in questo modo per gran parte dell’infanzia, so che non si
tratta di un complimento.
La mia precoce attitudine al comando fa ormai parte
dell’epica familiare e gli episodi di cui sono stata protagonista vengono narrati da sempre con gran divertimento di
tutti. Quando ero alle elementari pare che abbia insegnato ai miei fratelli più piccoli, David e Michelle, a venirmi
dietro, ascoltare i miei monologhi e urlare «Giusto!» quan-
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do concludevo. Ero la più grande dei bambini del vicinato e sembra che passassi il tempo organizzando spettacoli che potevo dirigere e club che potevo gestire. La gente
ride sentendo questi racconti, ma io ancora oggi mi vergogno un po’ del mio comportamento (il che è curioso, visto
che ho appena scritto un intero libro sul perché non si dovrebbero far sentire così le ragazze, oppure spiega in parte la mie motivazioni).
Anche da adulti, quando ormai eravamo sulla trentina,
il modo più efficace che avevano i miei fratelli per prendermi in giro era farmi notare questo comportamento. Quando
io e Dave ci sposammo, David e Michelle fecero un buffo
brindisi esordendo così: «Salve! Alcuni di voi ci credono i
fratelli minori di Sheryl, ma in realtà siamo stati i suoi primi dipendenti: il dipendente numero uno e il dipendente numero due. All’inizio avevamo rispettivamente uno e
tre anni, non valevamo niente ed eravamo deboli, disorganizzati, pigri. Sbrodolarci o leggere il giornale del mattino per noi era la stessa cosa. Ma Sheryl aveva compreso
il nostro potenziale. Per oltre dieci anni ci ha presi sotto la
sua ala e ci ha messi in riga». Tutti risero. Loro proseguirono: «A quanto ne sappiamo, Sheryl, da piccola, non ha mai
giocato davvero, si limitava a organizzare i giochi degli altri bambini. Sheryl dirigeva anche gli adulti. Quando i nostri genitori andavano in vacanza, di solito i nonni badavano a noi. Prima che mamma e papà andassero via, Sheryl
protestava: “Adesso devo occuparmi di David e Michelle
e anche del nonno e della nonna. Non è giusto!”». Tutti risero ancora più forte.
Risi anch’io, ma una parte di me sente ancora che è ingiusto pensare di una ragazzina che sia… dispotica. Avvilente.
Fin dalla più tenera età i maschi vengono incoraggiati a
prendere il comando e a esprimere le loro opinioni. Gli insegnanti interagiscono maggiormente con i ragazzi, si rivolgono a loro più di frequente e fanno loro più domande.
È anche più probabile che i ragazzi forniscano più spesso le
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risposte e, quando lo fanno, di solito gli insegnanti li ascoltano. Quando sono le ragazze a intervenire, gli insegnanti
spesso le rimproverano per aver infranto le regole e ricordano loro che devono alzare la mano prima di parlare.27
Di recente ho constatato che questi modelli persistono
anche in età adulta. Non molto tempo fa, nel corso di una
cena per poche persone con altri dirigenti, l’ospite d’onore
parlò per tutto il tempo senza neppure tirare il fiato, quindi chi voleva porre una domanda o fare un’osservazione
era costretto a interromperlo. Tre o quattro uomini riuscirono a inserirsi nel monologo e l’ospite rispose educatamente alle loro domande prima di riprendere la sua conferenza. Quando a un certo punto cercai di aggiungere qualcosa
alla conversazione, lui sbottò irato: «Mi lasci finire! Voi non
siete capaci di ascoltare!». Poi altri uomini interloquirono:
lui non ebbe nulla da ridire. Allora la sola altra donna dirigente presente alla cena decise di parlare – e la scena si
ripeté! La criticò per averlo interrotto. Dopo cena, uno degli amministratori delegati, un uomo, mi prese da parte
per dirmi come avesse notato che solo le donne erano state tacitate. Aggiunse che si immedesimava con noi perché,
da ispanico, era stato trattato molte volte allo stesso modo.
Il pericolo, tuttavia, va ben oltre i personaggi autoritari che zittiscono le voci femminili. Le giovani donne interiorizzano i segnali della società su quello che viene definito
un comportamento «appropriato» e, a loro volta, rimangono in silenzio. Vengono premiate per essere «carine come la
mamma» e incoraggiate a essere anche amorevoli come la
mamma. L’album Free to Be… You and Me, uscito nel 1972,
è divenuto un pilastro della mia infanzia. La mia canzone
preferita, William’s Doll, parla di un bambino di cinque anni
che prega il padre riluttante di acquistargli una bambola, un
tradizionale giocattolo da femmina. A quasi quarant’anni
di distanza, l’industria del giocattolo resta costellata di stereotipi. Nel 2011, subito prima di Natale, si è diffuso rapidamente in Rete un video in cui Riley, una bimba di quattro
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anni, cammina avanti e indietro in un negozio di giocattoli,
arrabbiata perché le aziende stanno cercando «con l’imbroglio di spingere le bambine ad acquistare cose rosa invece di
quelle che vogliono acquistare i maschi, vero?». Vero. Riley
riflette: «Ad alcune bambine piacciono i supereroi, ad altre
le principesse. Ad alcuni bambini piacciono i supereroi, ad
altri le principesse. Allora perché le bambine devono comprare le cose rosa e i bambini devono comprarle di altri colori?».28 Anche per una bimba di quattro anni ci vuole quasi
un atto di ribellione per discostarsi dalle aspettative della
società. William non ha ancora una bambola, mentre Riley
affoga in un mare di rosa. Adesso faccio sentire ai miei figli
Free to Be… You and Me e spero che, se mai faranno lo stesso con i loro, il suo messaggio risulterà bizzarro.
Gli stereotipi di genere assorbiti durante l’infanzia si rafforzano per tutta la vita e diventano profezie che si autorealizzano. Molte delle posizioni di potere sono appannaggio degli uomini, quindi le donne non prevedono di ottenerle,
e questo, a sua volta, diviene uno dei motivi per cui non
le ottengono. La stessa cosa si può affermare riguardo allo
stipendio. In genere gli uomini guadagnano più delle donne, quindi la gente prevede che una donna guadagni meno.
E così è.
Ad aggravare il problema va un fenomeno socio-psicologico detto «minaccia dello stereotipo». Gli scienziati sociali hanno osservato che, quando i membri di un gruppo
sono sensibilizzati su uno stereotipo negativo, è più probabile che si comportino seguendo quello stereotipo. Prendiamo per esempio lo stereotipo secondo cui i ragazzi sono
più bravi delle ragazze in matematica e scienze. Quando,
prima di una verifica di matematica o di scienze, si ricorda alle ragazze il loro sesso, anche solo chiedendo di barrare una casella con M o F in cima al foglio, il loro risultato
peggiora.29 La minaccia dello stereotipo scoraggia donne
e ragazze dall’avventurarsi in campo tecnico ed è uno dei
motivi principali per cui così poche studiano informatica.30
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Come mi disse una volta uno stagista estivo di Facebook:
«Nel dipartimento di informatica della mia scuola ci sono
più Dave che ragazze».
Difficilmente lo stereotipo della donna che lavora è attraente. Da tempo la cultura popolare presenta le donne
di successo come talmente assorbite dalla carriera da non
avere una vita privata (si pensi a Sigourney Weaver in Una
donna in carriera e a Sandra Bullock in Ricatto d’amore). Se
un personaggio femminile divide il suo tempo fra lavoro e
famiglia, quasi sempre è tormentato e in preda ai sensi di
colpa (come Sarah Jessica Parker in Ma come fa a far tutto?).
E queste caratterizzazioni sono uscite dal mondo della celluloide. Uno studio condotto su un campione di uomini e
donne della Generazione Y che lavorano in un’organizzazione con una donna in un ruolo dirigenziale ha rilevato
che solo il 20 per cento circa vorrebbe emularne la carriera.31
Questo stereotipo poco allettante è particolarmente infelice, dato che la prevalenza delle donne non ha altra scelta se non continuare a lavorare. Negli Stati Uniti il 41 per
cento delle madri porta a casa la maggior parte del reddito familiare. Un altro 23 per cento contribuisce per almeno un quarto al bilancio familiare.32 È in rapido aumento
il numero di donne che sostentano la famiglia da sole; fra
il 1973 e il 2006, la proporzione delle famiglie con a capo
una madre single è aumentata da una su dieci a una su cinque.33 Queste cifre sono notevolmente superiori nelle famiglie ispaniche e afroamericane, con rispettivamente un 27 e
un 52 per cento di bambini cresciuti da una madre single.34
Anche in Europa le donne contribuiscono in maniera sempre maggiore al sostegno della famiglia.35
Rispetto ad altri paesi, gli Stati Uniti sono notevolmente
indietro quanto agli aiuti per i genitori che vogliono occuparsi dei figli pur restando nella forza lavoro. Fra tutte le
nazioni industrializzate, gli Stati Uniti sono l’unica priva
di una politica sul congedo di maternità retribuito.36 Come
ha osservato Ellen Bravo, direttore del consorzio Family
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Values @ Work, gran parte delle «donne non pensano ad
“avere tutto”, ma sono preoccupate di perdere tutto – lavoro, salute dei figli, stabilità economica della famiglia – a
causa dei conflitti che regolarmente insorgono fra l’essere
una brava impiegata e un genitore responsabile».37
Per molti uomini l’assunto fondamentale è poter avere una vita professionale di successo e una vita privata appagante. Per molte donne, invece, è che provare ad avere
entrambi è difficile nel migliore dei casi, e impossibile nel
peggiore. Le donne sono circondate da titoli in prima pagina e storie che le mettono in guardia dall’impegnarsi sia
nella famiglia che nella carriera. Continuano a sentirsi dire
che devono scegliere perché, se provano a fare troppo, saranno tormentate e infelici. Inquadrare il problema come
un «equilibrio fra lavoro e vita», come se si trattasse di fattori diametralmente opposti, è in pratica la garanzia che il
lavoro avrà la peggio. Chi mai sceglierebbe il lavoro al posto della vita?
La buona notizia è che non solo le donne possono avere famiglia e carriera, ma che possono cavarsela benissimo
avendo entrambe. Nel 2009 Sharon Meers e Joanna Strober hanno pubblicato Getting to 50/50 (Arrivare al 50 e 50),
una panoramica delle ricerche condotte dal governo, dagli scienziati sociali e dalle autrici stesse che le hanno portate alla conclusione che bambini, coniugi e matrimoni si
avvantaggiano quando entrambi i genitori hanno una carriera appagante. I dati rivelano chiaramente che la condivisione delle responsabilità economiche e parentali fa sentire
meno in colpa le mamme, più coinvolti i padri e ha conseguenze positive sui bambini.38 La professoressa Rosalind
Chait Barnett della Brandeis University ha esaminato un
gran numero di studi sull’equilibrio fra lavoro e vita, scoprendo che, nelle donne che svolgono ruoli multipli, i livelli di ansia sono inferiori e quelli di benessere mentale
superiori.39 Le donne che lavorano fuori casa mietono ricompense, fra cui una maggiore sicurezza economica, un
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matrimonio più stabile, una salute migliore e, in genere,
una vita più soddisfacente.40
Forse girare un film su una donna che ama il suo lavoro
quanto la sua famiglia potrà non essere altrettanto drammatico o spiritoso, ma rifletterebbe in modo più corretto la
realtà. Abbiamo bisogno di un maggior numero di ritratti
di donne che siano professioniste competenti e mamme felici, o anche professioniste felici e mamme competenti. Le
attuali immagini negative ci fanno (sor)ridere, ma incutono timori inutili nelle donne, presentando loro le sfide della vita come fossero insormontabili. La nostra cultura resta
perplessa: ma come fa a far tutto?
La paura è alla base di molte barriere che le donne devono affrontare: la paura di non piacere, di fare la scelta sbagliata, di attirare un’attenzione negativa, di mirare troppo
in alto, di essere giudicate, di fallire. E la santa trinità della
paura: la paura di essere una cattiva madre/moglie/figlia.
Senza la paura, le donne possono perseguire il successo
professionale e la realizzazione personale e scegliere liberamente l’una, l’altra o entrambe. A Facebook lavoriamo sodo
per creare una cultura che incoraggi le persone ad assumere dei rischi. In tutti gli uffici sono appesi manifesti che stimolano questo atteggiamento. Uno dichiara, in lettere di
un rosso vivace: «La fortuna aiuta gli audaci»; un altro insiste: «Va’ avanti e sii audace»; ma quello che preferisco è:
«Che cosa faresti se non avessi paura?».41
Nel 2011 Debora Spar, presidentessa del Barnard College, una scuola femminile di arti liberali a New York, mi ha
invitata a tenere il discorso alla cerimonia per le lauree. È
stato in quella occasione che ho discusso per la prima volta del divario nelle ambizioni. Sul podio, ero nervosa. Ho
detto alle neolaureate che dovevano essere ambiziose non
soltanto nel perseguire i loro sogni, ma nell’aspirare a diventare leader nel loro campo. Sapevo che il mio messaggio poteva essere frainteso, come fosse un giudizio sulle
donne che non avevano fatto le stesse mie scelte. Non po-
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teva esserci nulla di più lontano dal vero. Ritengo che, se
parliamo di scelta, tale debba essere per tutte noi, ma penso anche che si debba fare di più per incoraggiare le donne a desiderare ruoli di leadership. Se non possiamo dire
alle donne che si laureano a un college di puntare in alto,
quando lo faremo?
Mentre mi rivolgevo alle donne entusiaste mi ritrovai a
cacciare indietro le lacrime. Riuscii a terminare il discorso,
e conclusi con questo:
Voi siete la promessa per un mondo più equo. La mia
speranza, per tutte voi che siete qui, è che dopo aver superato questa fase, dopo aver ottenuto il diploma, dopo essere uscite stasera per darvi alla pazza gioia, voi vi facciate
avanti con decisione. Troverete qualcosa che amerete fare,
e lo farete con gusto. Trovate la carriera giusta per voi e arriverete ai vertici.
Stasera, scendendo da questo palco, inizierà la vostra vita
da persone adulte. Cominciate puntando in alto. Provate, e
provateci con decisione.
Come tutti qui, ho grandi speranze per le allieve di questa
classe di laurea. Spero che troverete il vero significato, l’appagamento e la passione nella vita. Spero che supererete i
momenti difficili uscendone con maggiore forza e risolutezza. Spero che troverete l’equilibrio che cercate, qualsiasi
esso sia, a occhi spalancati. E spero che voi – sì, voi – abbiate
l’ambizione di farvi avanti nella vostra carriera e di governare il mondo. Perché il mondo ha bisogno di essere cambiato da voi. Le donne di tutto il mondo contano su di voi.
Allora, per favore, chiedetevi: che cosa farei se non avessi paura? Poi andate a farlo.
Quando le laureate venivano chiamate sul palco per ritirare il diploma, ho stretto la mano a ciascuna di loro. Molte
si sono fermate ad abbracciarmi. Una ragazza mi ha detto
persino che ero «una con le palle e le contropalle» (in seguito, dopo aver verificato con qualcuno, si è rivelato un
complimento).
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So che il mio discorso aveva l’intento di motivarle, ma a
dire il vero sono state loro a motivare me. Nei mesi successivi ho cominciato a pensare che avrei dovuto parlare più
spesso di questi problemi con franchezza e a un pubblico
più vasto. Dovrei sollecitare un maggior numero di donne a credere in se stesse e ad aspirare a ruoli di comando,
un maggior numero di uomini a divenire parte della soluzione sostenendo le donne sul posto di lavoro e a casa. E
non dovrei parlare soltanto di fronte al pubblico benevolo della Barnard, ma cercare un uditorio più vasto, possibilmente meno solidale. Dovrei seguire il mio stesso consiglio ed essere ambiziosa.
Scrivendo questo libro non sono solo io che incoraggio
le altre a farsi avanti: sono io che mi faccio avanti. Scrivere
questo libro è quello che farei se non avessi paura.
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