gesu` nostra speranza

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gesu` nostra speranza
Io sono la Luce del Mondo (GV 8,12)
GESU' NOSTRA SPERANZA
C'era tra i farisei un uomo chiamato Nicodèmo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte
(Gv 3,1-2a) …. Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte(Gv 19,39).
Preso il boccone, egli (Giuda) subito uscì. Ed era notte (Gv 13,20).
Disse loro Simon Pietro: <<Io vado a pescare>>. Gli dissero: <<Veniamo anche noi con te>>.
Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla. (Gv 21,3).
Nelle narrazioni del vangelo di Giovanni troviamo tre notti che segnano la vita di altrettanti
personaggi: Nicodemo, capo dei Giudei, probabilmente esperto della Scrittura,
apparentemente alla ricerca della verità, va da Gesù di notte. Che questo incontro non sia
marginale ce lo rivela l’evangelista quando lo rievoca al momento della sepoltura di Gesù, a cui
anche l’ebreo partecipa.
È notte ancora quando Giuda, dopo aver ricevuto da Gesù un ulteriore segno di comunione,
esce per il tradimento.
Non è ancora sorto il sole neppure quando Pietro con alcuni apostoli dopo la morte di Gesù
(non sa o non crede che sia risorto) torna dal consueto mestiere di pescatore, ma senza
successo: in quella notte nel suo lago lui, pescatore esperto, non pesca niente.
Nicodemo vorrebbe conoscere Gesù, ma senza che vengano sconvolti i suoi criteri di giudizio,
senza fare un passo verso la straordinaria esigenza di conversione che gli viene proposta. Non
sa o non vuole rinascere di nuovo, perché le proprie certezze sono sostegni per la sua esistenza
e non accetta che un rabbì, sia pure un maestro venuto da Dio, indichi a lui l’esigenza di farsi
bambino e di lasciarsi di nuovo generare. È il simbolo dell’autosufficienza umana, che cerca in
sé la luce, pretende di essere orizzonte di senso allo proprie scelte: pur essendo un giudeo, è
ricco della sapienza umana, quella di cui Paolo dice ai Corinti: nel disegno sapiente di Dio il
mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio (1 Cor 1,21). E ancora: L'uomo naturale
però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di
intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito (2,14). Nicodemo non sa
scacciare le luci pallide della sua sapienza per far splendere in sé la rivelazione splendente di
Gesù. In lui è ancora notte.
Giuda, uno dei dodici, non solo un nome fra gli apostoli, ma soprattutto una relazione
privilegiata con Gesù, è uno che “vuole avere per sé”; l’evangelista lo qualifica in modo chiaro:
… era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. (Gv 12,6); non è
entrato nella sintonia del “dare se stessi” come il Maestro gli richiede: Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più
grande di questo: dare la vita per i propri amici. (Gv 15,12-13). Ha chiuso gli occhi per non
vedere, le orecchie per non udire e il cuore per non comprendere: la luce che ha brillato per tre
anni nella sua vita, viene messa sotto il secchio.Quando fa la sua definitiva scelta per sé (così
crede!) contro Gesù, esce ed è notte. Sarà notte fonda quando disperando del perdono, si
uccide.
Pietro ha affermato a Gesù, quando tutti sconcertati lo lasciano solo,
«Signore, da chi andremo?
Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv
6,68s) e in seguito «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!» (13,37). Ma
ha anche giurato di non conoscere il Signore. Ora è tornato sul suo lago a pescare, ma non
riesce a fare quello che è stato il suo mestiere per anni. Lui, che il Maestro aveva consacrato
pescatore di uomini, non ha potuto sigillare con la riconciliazione il suo pianto. Non sa se il
Signore ha ricostruito la loro relazione o non osa sperare di essere perdonato. Anche lui è nella
notte.
La notte è nel Vangelo la cifra delle tenebre in cui è immerso il mondo senza la misericordia di
Dio: tenebre che prendono la forma della durezza a comprendere il progetto di Dio e ad
accoglierlo nella propria vita, del rifiuto ostinato e senza speranza dell’amore, della sensazione
di aver fallito, non sapendo rispondere in modo adeguato alla proposta esigente del Signore.
Perché però non temiamo del suo amore, un’altra notte viene squarciata dalla luce divina e da
una moltitudine di voci gioiose: è la notte dell’annuncio: C'erano in quella regione alcuni pastori
che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò
davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma
l'angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:
oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno:
troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia» (Lc 2,8-12).
In quella notte c’è luce perché veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo (Gv
1,9): l’incarnazione del Figlio di Dio ha fatto risplendere nella storia dell’umanità e nelle vicende
di ogni uomo e donna la forza di Dio, che è luce.
È lo stesso Gesù che più volte si appropria di questa immagine (Gv 8,12; 9,5; 12,35.46) per
dire chi è Lui; e ogni volta questa affermazione risulta insieme scandalosa per le orecchie di un
ebreo e meravigliosa per le attese del popolo.
Infatti da una parte non si può dimenticare che molte volte nell’AT si legge che la luce è una
caratteristica di Dio, è il suo chiarore che dà la direzione di marcia nell’esodo, che dà chiarezza
alle scelte e un orientamento alla vita; se Gesù si proclama “la luce”, allora la sua persona
entra in quella sfera del divino dove, nel rigido monoteismo giudaico, non c’è posto per altri
che per Jahvè.
D’altra parte l’annuncio dei profeti aveva abituato ad aspettare un messia-luce; è quello che
richiama Matteo (4,16) quando all’inizio della predicazione in Galilea ricorda Isaia 9,1: il popolo
immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di
morte una luce si è levata. Forse a questa stessa attesa si rifà il vecchio Simeone quando rende
gloria a Dio perché ha riconosciuto nel piccolo portato al tempio la luce per illuminare le genti e
gloria del … popolo Israele (Lc 2,32).
Gesù, quando si definisce luce, congiunge in sé le due linee destinate a rimanereparallele
nell’antica alleanza: Dio che illumina il suo popolo e l’atteso messia che viene a compierne le
attese. Con l’incarnazione, morte e resurrezione del Figlio Dio supera ogni possibile
aspettativa.
«Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita»
dice di sé Gesù (Gv 8,12). E torna altre volte in modo diretto o solo allusivo su questa
affermazione.
È questa una delle più alte proclamazioni cristologiche: mentre si rivela come "la luce del
mondo" promette la "luce della vita" a chi lo segue. Ritroviamo qui la dialettica che già era
comparsa nel Vangelo proprio nel dialogo (o è piuttosto un monologo?) con Nicodemo, in cui
Gesù aveva affermato: Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo
per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è
condannato; ma chi non crede è gia stato condannato, perché non ha creduto nel nome
dell'unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno
preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie (Gv 3,16-19).
Lo scopo della venuta del Figlio è di condurre alla Vita coloro che accettano di conformarsi alla
Luce, che accettano cioè di credere. Il giudizio si compie per il solo fatto che, dopo la venuta
del Figlio, la volontà umana deve necessariamente prendere una decisione in un senso o un
altro: chi non crede è già stato condannato, poiché in presenza della Luce il rifiuto a credere
assume un significato decisamente negativo. Esso dimostra che l’incredulo è ancora immerso
nelle tenebre.
Per questo, Nicodemo, che non si decide per Cristo, è connotato dalla notte.
I vocaboli “luce” e “vita” sono per Gv dinamicamente interscambiabili: la luce produce la vita e
la vita è luce, manifestazione divina.
Questa coppia era già comparsa nel prologo: In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini.
(Gv 1,4). Con queste parole il testo presenta, con uno squarcio d'immensità, la realtà di Dio in
sé ed in relazione all'uomo. Subito dopo si afferma il misterioso contrasto tra il dono senza
limiti di Dio e la creatura che si contrappone alla luce: “la luce splende nelle tenebre, ma le
tenebre non l'hanno accolta” (v. 5).
La luce, una volta accesa, continua a splendere, eppure il prologo contro ogni beato ottimismo
insiste sul rifiuto degli uomini alla luce; la condizione umana è profondamente segnata dal
rapporto luce-tenebra. L'uomo può rifiutare la luce, chiudersi a Dio che si rivela, anche se ogni
tentativo di sopraffazione delle tenebre cadrà nel nulla “ma le tenebre non l'hanno sopraffatta”.
Il testo non esprime solo una indifferenza nell'accogliere la luce (e le tenebre non l'hanno
accolta), c'è qualcosa di più: è l'arroganza titanica delle tenebre di poter vincere la luce stessa.
I parenti di Gesù volevano che egli salisse a Gerusalemme per “manifestarsi al mondo”, ora
Gesù dice che la sua manifestazione consiste nell'“essere luce del mondo”. Nell'affermazione “io
sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita ”, il
verbo camminare rilegge la vita del credente in chiave di esodo: come nel deserto era la nube
luminosa o la colonna di fuoco a orientare il cammino del popolo, così il ruolo di guida certa
verso la meta è ora attribuito a Cristo, il quale è appunto vita in quanto rivela il cammino da
seguire: l'etica è presentata nella dimensione di incontro personale e di appropriazione della
luce di Cristo.
Nicodemo non ha saputo subito vedere la luce, Giuda l’ha nascosta a se stesso, Pietro, invece,
dopo la notte del rinnegamento, del ripiegamento sul proprio passato, apre il cuore alla
rivelazione: è il Signore. Non cerca prove, né conferme. Quell’alba che tante volte ha visto
sorgere sul lago, ora sorge per lui e il sole sale all’orizzonte e splende ormai chiaro, quando il
Signore gli chiede. Mi ami tu? Scopertosi fragile, incapace di darsi da sé la luce, Pietro ha ormai
aperto gli occhi alla luce vera: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene. La Luce ha arricchito
la sua esistenza contraddittoria della certezza dell’amore e del perdono perché per Gesù essere
luce significa essere la Parola che il Padre rivolge all’umanità smarrita per dare il lieto annuncio
del suo amore. Egli è la via che conduce al Padre, suo è lo Spirito che condurrà i discepoli alla
verità tutta intera, l’unica che illumina ogni uomo.
Dire che Gesù è luce significa proclamare che lui è la nostra speranza, infatti è orientamento
visibile di gioia e di vita: il Risorto ha distrutto la morte, la Luce ha trionfato sulle tenebre.
Spesso l'uomo chiuso nella pesantezza del quotidiano, vive l'amarezza, la lamentela il
rammaricarsi di tutto. La Luce che promana da Cristo è invece speranza, una speranza che è
luminosità, tensione spirituale, splendore, gioia interiore, equilibrio, limpidità. La Luce di Cristo
ci mostra la fondazione della speranza nella sua persona (1Tim 1,1) che manifesta la bontà
misericordiosa del Padre, la certezza della sua accoglienza, del perdono rigenerante, della forza
divina trasformante.
Per questo l'atteggiamento della speranza nelle cose ultime e nella manifestazione gloriosa del
regno di Dio, nella venuta di Cristo, è una delle più grandi e urgenti sfide del nostro tempo,
soprattutto nel nostro mondo occidentale, così curvo su se stesso, sui propri idoli e la propria
potenza, e quindi così privo di speranza teologale, chiuso nella ricerca dei beni terreni, cieco di
fronte ai destini eterni dell'uomo, e questo sentire è diffuso anche tra i cristiani. Quando si
parla di segni di speranza nel nostro mondo si intendono spesso piccole realizzazioni positive
tangibili da cui trarre occasione, come si usa dire, "per ben sperare" ("io spero che me la
cavo"), per illudersi che tutto non vada proprio così male. Ma si tratta di caricature della
speranza cristiana la quale non è fondata su piccole luci vaganti nella notte, ma sulla promessa
di Dio a cui non si chiedono prove, ma a cui ci si affida incondizionatamente, certi, come dice
s. Paolo: "che quanto Dio aveva promesso era capace anche di portarlo a compimento" (Rm
4,21).
La speranza è un dono che passa attraversomolti strumenti umani e molti sono i mediatori di
questa grazia. Pensiamo ai nostri genitori, a coloro che ci hanno insegnato a mantenere la
parola data, che ci hanno insegnato come ogni promessa è sacra. Penso a quanti, nell'Unitalsi,
sostengono fraternamente il comune cammino di fede e sono vicini ai bisognosi, sapendo voler
bene, aiutare con l'esempio, la preghiera e la perseveranza, consapevoli che questa è la sorella
gemella della speranza.
Dunque il dono della speranza deve essere ragione di lode, perché mediante essa siamo
inoltrati con fedeltà e fiducia all'incontro con Dio che non delude. Questa speranza non delude,
dà senso alla vita, riempie ogni istante dell'esistenza, fa sì che non ci sia nulla di banale, di
perduto, di grigio o di oscuro, in quanto tutto è sostenuto dal servizio che ci spoglia di noi
stessi e ci rende disponibili alla volontà di Dio e della Chiesa.
La grande responsabilità dei credenti è di essere sale e luce nell'ambiente in cui vivono: la
visibilità della speranza orienterà gli sfiduciati e consolerà gli afflitti. E noi dell'Unitalsi in
particolare siamo chiamati a manifestare la visibilità della luce come speranza e pazienza;
siamo chiamati a una missione leggibile e riconoscibile come una lucerna sul lucerniere e una
città sul monte, e questo vuol dire vivere in comunione con Cristo e quindi tendere alla santità.
Il vocabolo «santità» non deve intimidirci, quasi volesse dire arrampicarsi sul vetri o vivere un
eroismo impossibile, proprio solo di pochi. La santità non è opera nostra, ma è partecipazione
gratuita della santità di Dio, quindi è una grazia, un dono prima di essere frutto del nostro
sforzo. Indica che tutta la persona (mente, cuore, mani, piedi) viene inserita nella sfera
misteriosa della purezza, della bontà, della gratuità, della misericordia, dell'amore di Gesù. È
una consegna totale di noi nella fede, nella speranza e nell'amore a Gesù, al Dio della vita: una
consegna che si attua nella vita quotidiana vissuta con amore, serenità, pazienza, gratuità,
accettando le prove e le gioie di ogni giorno con la certezza che tutto ha senso davanti a dio,
tutto è valido e importante.
Sia la speranza umana che quella più ricca e vera della fede sembrano mancare molto nella
nostra società, perché la fine dei sogni ideologici ha mostrato quanto poca e quanto vana fosse
la speranza riposta negli idoli storici.
Soprattutto nel nostro mondo occidentale sono tanti i segni di mancanza di speranza: la
denatalità, che dice la paura di generare vita per il futuro; la fatica di molti giovani nello
scegliere un cammino; il ritardo di scelte definitive dell'esistenza, quasi non si fosse mai sicuri.
E poi altre paure, altri timori dovuti alle nuove civiltà e alle nuove culture che si impongono. Ci
chiediamo: che cosa sarà di noi? Pensiamo ai problemi economico-sociali: la globalizzazione,
l'incertezza del lavoro, i cambi nell'economia mondiale; la povertà sempre più reale che colloca
molte famiglie sotto il livello della dignità umana.
Quante ragioni per tarpare le ali alla nostra speranza! E questo avviene se ci limitiamo a
guardare noi stessi e la storia col solo metro umano.
In realtà, la Luce di Dio che illumina la nostra vita di fede mostra che il suo disegno dà ragione
alla nostra speranza, perché essa non si fonda su realtà deboli e fragili, che si spezzano
facilmente. La nostra speranza si fonda sulla parola di Dio ed è la certezza che Dio prepara per
noi la vita eterna, anzi che questa vita ci è già donata in Cristo-nostra speranza (1Tim 1,1) a
partire dal battesimo. La nostra speranza è la certezza che il Signore non ci inganna, ci tiene
tra le sue mani, ci vuole bene e guida ogni attimo della nostra esistenza, per appoggiarla su di
lui e sulla fiducia nella sua Parola, essa è illuminazione interiore, è tensione e trasformazione
nel bene sperato, pertanto non è negata a nessuno e, quando la accogliamo, ne diventiamo
testimoni credibili.
Infatti la nostra speranza si contrappone all'indifferenza, alla frustrazione, alla concentrazione
sul puro godimento dell'attimo presente, perché ci fa intravedere la vita piena che Dio ci
promette e ci anticipa fin da ora; essa non è fondata su calcoli e statistiche, non è un
atteggiamento ottimista che si contrappone al pessimismo; è piuttosto una roccia
dell'esistenza, è il luogo su cui costruire la nostra casa e il nostro futuro. È quella forza che ci
permette di sacrificarci per il grande ideale della vita, inteso come sequela e vocazione
all'amore. Amore che non delude, come ci conferma la nostra continua esperienza personale e
a contatto con i malati, i quali, a loro volta, nella loro difficoltà vissuta in Dio mostrano la verità
della stessa speranza e della promessa fedele di Dio.
Gesù-Luce rivela che non esistono situazioni inguaribili, né nel corpo né nell'anima. Noi
dobbiamo annunciare questa verità di salvezza e di conforto perché la nostra società ritiene
che alcune situazioni sono inguaribili e le emargina. Pensiamo ai carcerati, ai drogati, ai
delinquenti: la gente è convinta che ci sono persone talmente inaffidabili da doverle tenere
rinchiuse il più possibile, pensiamo ai malati e ai disabili che sono relegati nell'invisibile come
se la loro presenza togliesse il senso della vita e colpevolizzasse i sani. Gesù ci apre alla
speranza e sembra dirci che non ci sono condizioni veramente irreversibili, c'è invece la nostra
poca fede, c'è forse anche la nostra incapacità a cogliere il mistero della presenza di Dio in
queste situazioni della nostra vita.
Stando a S. Paolo la discriminante tra l'essere credenti o pagani è avere o no la speranza, cioè
conoscere o no Gesù (cfrITs 4,13), per questo i primi devono «essere pronti a rispondere a
chiunque domandi ragione della speranza che è in loro», aggiunge san Pietro (IPt 3,14). Va da
sé che l'occhio della speranza cristiana non si ferma alle realtà visibili e ai segnali positivi che
vengono dai laboratori o dai luoghi della ricerca scientifica. Pur apprezzando molto questi
segnali, la speranza cristiana guarda tutto con l'occhio di Cristo e quindi della fede. Paolo, anzi,
nella Lettera al Romani. mette in guardia dall'affidarsi esclusivamente a prospettive terrene:
«Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe
ancora sperarlo'? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza»
(Rm 8,24-25).
La speranza cristiana è quindi quella forza di vita che si appoggia alla risurrezione di Cristo e
alle sue promesse. È indefettibile come lo è la parola di Dio e può entrare persino negli abissi
dello smarrimento o della disperazione trasformando situazioni umanamente disperate in
occasioni di profonda crescita interiore e di maturazione personale.
E questa speranza è la condizione in cui vive attualmente il cristiano: condizione di
pellegrinaggio verso la patria, condizione di itineranza e di provvisorietà. Essa investe tutti i
momenti della vita e penetra quale fermento in tutte le realtà della storia. Aiuta a passare
attraverso le oscillazioni emotive, da euforia a depressione, che segnano l'esistenza di ogni
persona e, in particolare, dei malati divenendo una grande forza, un grande sostegno e
stimolo, ma sostiene pure coloro che li affiancano con il loro amore e le loro attenzioni.
Si comprende allora che la speranza cristiana non può essere una conquista umana, un atto di
volontà, bensì un dono dello Spirito, da chiedere con insistenza e fiducia. Esso viene elargito in
particolare nei momenti di intensa preghiera e di meditazione silenziosa, quando ci si mette in
ascolto della parola di Dio, viviamo l'eucaristia e ci doniamo ai fratelli.
Infine parlando di speranza, noi dell'Unitalsi dobbiamo rifarsi alla figura così importante per la
nostra spiritualità, Maria SS., Lei ne è madre e testimone. La speranza non è infatti una idea,
ma la persona del suo Figlio e in quanto presenza interiore è germe di promessa e tensione di
realizzazione che guida a pienezza della dignità dei figli.
La speranza di cui è mediatrice Maria non è quindi una speranza facile, a buon mercato,
fondata su alcune previsioni, non è un generico pensare che domani forse le cose andranno un
po' meglio; è invece la certezza che Dio non ci abbandona mai, che ha un avvenire per noi e ci
garantisce momento per momento la grazia e la forza di fare di ogni istante della nostra vita
un capolavoro di bellezza e di bontà.
Maria SS., nostra madre e guida luminosa della fede, è l'incarnazione della speranza, la quale
mostra che Dio non delude mai e chi si fida della luce della sua Parola nell'eccomi obedienziale,
vede dischiudersi le meraviglie divine e può cantare l'inno della misericordia del Padre
constatabile nella vita di ciascuno.