Chiusa l`era dei mass media, come sarà il giornalismo di domani?

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Chiusa l`era dei mass media, come sarà il giornalismo di domani?
Chiusa l’era dei mass media, come sarà il giornalismo di domani?
di Jeff Jarvis (buzzmachine.com - @jeffjarvis)
Anteprima di un saggio (in uscita a ottobre) curato dal noto giornalista statunitense –
divenuto, fra l’altro, uno dei punti di riferimento del dibattito internazionale sull’evoluzione
dell’ecosistema mediatico – per indagare e riflettere in profondità su “nuovi tipi di relazione,
nuove forme e nuovi modelli imprenditoriali per il giornalismo di domani”. Come spiega egli
stesso: «È la mia risposta al quesito: “Adesso che la tua Internet ha rovinato l’informazione,
che si fa?”. Non ho la presunzione di fare predizioni, bensì solo di esplorare le opportunità
possibili».
Jarvis ha concesso a Lsdi di tradurre in italiano cinque articoli d’anteprima, apparsi nella primavera 2014
su Medium, che verranno poi inclusi nel libro. Eccoli raccolti in questo PDF gratuito
(disponibili singolarmente anche su Lsdi.it).
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Premessa
Nel bel mezzo della disruption continua imposta dal digitale, è più vivo che mai il dibattito
globale sullo stato del giornalismo. Anzi, sul suo futuro e sulla sua inevitabile e costante
trasformazione, nell’ambito altrettanto liquido della società odierna. Un futuro che
inevitabilmente prende mille forme, grazie ai tanti giornalismi possibili innescati dalla
rivoluzione del web e dei social media, con un'ampia varietà di esperimenti in corso. Perché
una delle lezioni centrali dell’avvento diffuso di internet (e grave sarebbe non tenerne conto,
qui e ora) è l’assenza di un modello unico o di pochi casi di successo da imitare, imponendo
piuttosto approcci differenziati ed esperimenti localizzati, viste altresì le differenze tra Paesi e
contesti, amplificate ancor più dagli strumenti online.
È all'interno di questo dibattito dinamico e partecipato che si pone l’ampia riflessione in
cui Jeff Jarvis – noto studioso e giornalista USA, oltre che docente presso la City University of
New York e autore di uno dei blog più seguiti da anni, non solo dagli addetti ai lavori,
buzzmachine.com – indaga prospettive e percorsi (nuovi modelli imprenditoriali inclusi) per
il giornalismo di domani. Esplorando le opportunità sul tappeto per reinventare la
professione, da una parte, e, dall'altra, per sviscerarne al meglio le potenzialità. Ribadendone
comunque l’impegno sociale verso un’informazione a difesa dei principi etici e a servizio dei
bisogni del pubblico.
Punto importante delle analisi di Jarvis (affiancato in questo da giornalisti anche di
ambito tradizionale) è la centralità del coinvolgimento e della collaborazione dirette della
gente comune, del cosiddetto “ex-lettore”, nel processo di produzione dell’informazione in
senso lato. Non a caso, negli articoli che seguono non manca di segnalare strumenti e
modalità alla portata delle redazioni online per creare legami più profondi e utili (anche
rispetto ai nuovi business model possibili) tra le comunità di riferimento e i giornalisti stessi.
Sottolineando che siamo davanti a un «sistema brulicante e disorganizzato che deve
essere razionalizzato mettendo tutti gli attori in rete per potenziare la nuova offerta di
informazione giornalistica», Jarvis non manca infatti di dettagliare alcune pratiche ed
esperimenti locali, come quello del New Jersey News Commons in cui è direttamente
coinvolto.
La tesi che sembra emergere è quella dove la figura del giornalista, per avere un futuro nel
magma digitale, deve liberarsi da vincoli e limiti del passato per esplorare senza preconcetti
strade nuove. Si tratta cioè di collaborare trasversalmente alla creazione di nuovi ecosistemi
d'informazione, con il progressivo e inevitabile indebolimento dei media tradizionali e dei loro
monopoli/oligopoli in mercati dominati dalla scarsità e l’arrivo di numerosi nuovi
protagonisti in uno scenario in cui domina l’abbondanza.
Né va sottovalutata l’opportunità per i giornalisti di vedersi anche come “educatori”,
capaci di «spingere lettori e comunità a sperimentare, condividere e costruire in autonomia,
in base a proprie abilità, desideri e bisogni». Ricordando altresì, insiste Jarvis, che la natura
di fondo del lavoro giornalistico «non riguarda – come si è sempre creduto – solo la
produzione di contenuti, quanto piuttosto la realizzazione di un servizio ai cittadini: la
costruzione di una comunità in cui ciascuno rende più informati gli altri».
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Se per certi versi questo scenario appare un po’ alieno per l’Italia, dove vigono tuttora
dinamiche parzialmente diverse da quello statunitense a cui si riferiscono in primis le
riflessioni di Jarvis, dobbiamo ricordarci che internet non discrimina e che le potenzialità di
cambiamento sono alla portata di tutto e di tutti. Certo, la discussione va localizzata e gli
esperimenti tagliati su misura per i contesti nostrani. Favorendo la massima estensione di
questo dibattito onde coinvolgere direttamente, non tanto o non solo gli addetti ai lavori,
bensì anche i soggetti primi della questione: “ex-lettori”, cittadini, citizen-reporter, blogger,
curiosi, ragazzi e cani sciolti – oltre naturalmente a chi opera in settori complementari, dal
mondo dell’istruzione alla cultura ai new media e quant’altro.
Sappiamo bene che anche nel mondo dell’informazione italiano, pur con tutti i suoi
problemi, c’è una gran voglia di innovazione e sperimentazione, oltre che urgente necessità di
differenziare i business model e investire nelle nuove leve. Soprattutto oggi che l’era dei media
di massa, di un modello unificato da imporre a tutti su come e quando fare informazione, è
decisamente obsoleta, anzi bell’e defunta, come sottolinea lo stesso giornalista statunitense.
Se vogliamo anche in Italia un giornalismo che sia davvero capace di trarre vantaggio
dalla costante disruption di internet, occorre aprire le porte al nuovo nelle sue mille forme,
dando spazio e sostenendo i tanti giornalismi possibili. Oltre, appunto, a coinvolgere quanti
più soggetti possibili nell’articolato dibattito in corso.
Quadro in cui i suggerimenti di un veterano come Jeff Jarvis, pur con le dovute differenze
tra i due contesti, possono senz’altro costituire un importante spunto di discussione e, perché
no?, uno stimolo per adattare e applicare anche nel Bel Paese qualche buona pratica citata di
seguito.
– Bernardo Parrella, settembre 2014
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Chiusa l’era dei mass media, come sarà il giornalismo di domani?
di Jeff Jarvis (buzzmachine.com - @jeffjarvis)
1. Cala il sipario sui mass media
(da Medium.com, 10/02/2014)
«Di fatto, non ci sono masse», asserisce il sociologo Raymond Williams. «Esiste solo il vizio,
la cattiva consuetudine di considerare la gente come massa. E senza masse cosa ne sarebbe dei
mass-media? Questi sono costruiti per raggiungere ampi gruppi di persone, tutte in una volta,
nello stesso modo. La nostra meraviglia industriale sta proprio nel fatto di riuscire a produrre
e distribuire un prodotto stampato complesso e puntuale, oppure sfruttare la tecnologia per
raggiungere un enorme quantità di gente tramite trasmissioni quotidiane. Le nostre
infrastrutture e i business model sono fatti per la moltitudine. Diavolo…sono stati i mezzi di
comunicazione a inventare la massa.
Sento ancora gente della mia età lamentare la scomparsa della grande esperienza
mediatica condivisa su cui girava l’era di Walter Cronkite, come se fossimo stati creati per
sederci, tutti insieme e nello stesso momento, a guardare le stesse immagini delle medesime
notizie. In realtà è stato un periodo circoscritto: dalla metà degli anni cinquanta – quando
l’arrivo della televisione ha ucciso la seconda e la terza testata delle città americane,
lasciandone solo la più grande a servire tutti allo stesso modo – alla metà degli anni novanta,
con l’arrivo di Internet, che ha ferito a morte quelle testate monopolistiche e minacciato
l’egemonia della televisione. Ma la vera vittima di Internet non è stato un qualche medium
specifico. Quel che è stato fatto fuori è il concetto stesso di massa.
Dovremmo forse continuare a fornire servizi alla gente intesa come massa, ora che
possiamo servirli e connetterci con loro come individui? In questo saggio sostengo che le
relazioni – conoscere la gente in quanto individui onde poterli servire meglio, con maggior
pertinenza, creando così un valore aggiunto – costituirà una necessità per i business model
dell’editoria giornalistica, sarà la chiave per la loro sopravvivenza e per il successo. Certo,
ovviamente dovremo ancora creare dei contenuti, ma non sono questi il prodotto finale. Il
contenuto sarà solo uno strumento usato per servire e informare la comunità e i loro membri.
Il contenuto potrà ancora rivestire un valore intrinseco, inteso come qualcosa da vendere, ma
d’ora in avanti avrà anche un valore in quanto strumento per conoscere una persona: ciò che
le interessa, quel che sa e quel che vuole conoscere, dove vive e cosa fa. Tutti segnali che
possono spingere una testata a offrire maggior rilevanza e valore aggiunto, e quindi, di
rimando, a guadagnarne in termini di lealtà, fidelizzazione e ricavi – che è poi il modo di
operare di Google, Facebook e Amazon.
Sfortunatamente, noi del mondo dell’informazione non siamo organizzati per fare ciò.
Offline possiamo ottenere i nomi degli abbonati, i loro indirizzi, i dati delle carte di credito per
addebiti e consegne. Online, pur avendone raccolto indirizzi email e dati personali, non
abbiamo ancora i mezzi adatti per raggruppare, analizzare e assecondare i bisogni e gli
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interessi dei lettori. Non li conosciamo davvero, li contiamo soltanto, vogliamo solo questi
anonimi ‘utenti unici’ da aggiungere alla massa critica, in modo da poter fornire loro pagine
standard e venderli in massa agli inserzionisti. Sono ancora questi i parametri mediatici
tramite cui ne misuriamo il successo.
Conosco più di una testata online locale che ha lavorato duramente per l’ottimizzazione
del proprio motore di ricerca e che ha finito per attrarre milioni di utenti, ottenendo milioni di
visualizzazioni al di fuori del proprio mercato. Quegli utenti sono privi di valore per gli
inserzionisti locali, che costituiscono la maggiore fonte di guadagno per quei siti: gli utenti al
di fuori dal bacino naturale rovinano perfino i rendimenti dei pubblicitari locali. A chi
interessa cliccare su un prodotto venduto a migliaia di chilometri di distanza? Finiscono così
per essere serviti da canali di basso valore e con pubblicità spazzatura.
Più d’uno di questi siti locali ha calcolato il valore degli utenti locali rispetto a quelli
lontani con un rapporto di 25 a 1. E così abbiamo il primo, solido mattone nella costruzione di
una relazione vera con l’utente; vive forse all’interno del nostro mercato locale? Non è un dato
cruciale, bensì d’importanza relativa. Come passo successivo, la testata dovrebbe conoscere la
città e il quartiere dove vive e lavora l’utente, in modo da potergli offrire notizie relative alla
sua zona o valutazioni sui ristoranti vicini all’ufficio. Altri di ridotta importanza. Un passo
ulteriore dovrebbe essere saperne età, genere, stato civile, condizione familiare e interessi.
L’utente non ce li rivelerà per il solo fatto che glieli chiediamo – quante volte abbiamo mentito
in qualche fastidiosa pagina di registrazione sul web? La sola ragione per cui ci racconterà di
lui sarà se potrà trarne beneficio, lasciandosi coinvolgere in una relazione volontaria basata
sulla mutua utilità. Se, per esempio, vogliamo sapere dove vive o lavora l’utente, perché non
realizzare un servizio sul traffico, gli orari, ecc., che lo aiuti nel suo tragitto da pendolare? Ciò
non andrebbe basato sui formati tradizionali, lo schema classico della piramide rovesciata, per
puntare piuttosto su funzionalità utili, come le mappe di Google o di Waze, percorsi di viaggio
che i pendolari possano verificare, o una piattaforma che consenta loro di condividere, in una
comunità omogenea, suggerimenti, frustrazioni e avvertenze sui tragitti per andare al lavoro.
Una volta saputo di più sull’utente, protremo fornirgli servizi personalizzati più rilevanti,
così come messaggi pubblicitari o commerciali più affini, facendogli sprecare meno tempo con
contenuti a lui non congeniali (né buttare al vento i soldi degli inserzionisti) ed evitando, per
esempio, l’inserzione di un ristorante a due ore di strada o per la vendita di una carrozzina a
dei nonni. I contenuti e i servizi che proporremo a quest’utente ideale continueranno a
includere notizie che si ritiene chiunque debba e voglia conoscere – dalla campagna elettorale
del governatore all’uragano in arrivo – ma dovrebbero, progressivamente e senza sforzo,
diventare più attente alla personalità dell’utente specifico: cuciti su di lui e con priorità alla
sua città, alle scuole dei suoi figli oppure ai suoi interessi più svariati, dal tennis all’azienda
dove lavora.
Le capacità relazionali chiave che gli addetti ai lavori debbono acquisire sono: come
fornire servizi che diano alla gente una ragione per svelare sé stessi; come costruire fiducia
reciproca in modo che lo facciano; come acquisire questi dati, analizzarli e maneggiarli a
beneficio dell’utente; e come sfruttarli per trarne un vantaggio economico. È fondamentale
offrire qualcosa di valido prima di poterne estrarre altro valore. È quanto fa Google fornendo
servizi utili gratuiti, dalla email al calendario, da G+ alle mappe a YouTube. Ed è per questo
che Google è entrato in questi nuovi settori oltre alla ricerca, soprattutto per il mobile.
Ognuno di questi servizi genera dati personali che Google può usare per creare rilevanza e
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valore per gli utenti e che, di ritorno, genera utili enormi per Google stesso. Quando uso
Google Maps sul mio cellulare Android, senza rendermene conto dico a Google dove sono e
dove sto andando, in modo che possa aiutarmi a raggiungere quel posto. Dico a Google cosa
sto cercando, in modo che possa aiutarmi a trovarlo. Dico a Google chi sono i miei amici, nel
caso possano raccomandarmi qualcosa. Non c’è violazione della privacy da parte mia o di
Google: sono io a scegliere di fare così, traggo beneficio da questa relazione costruita su
informazione, servizio e fiducia (e non è forse questa la nuova mission d ei
mezzi d’informazione?)
La prossima frontiera per Google, così come per Amazon e innumerevoli altre aziende, dai
fornitori di carte di credito ai produttori di buoni-sconto, è quella di seguire quanto più da
vicino possibile le nostre transazioni: saranno questi i dati di maggior valore in assoluto. Che è
poi una delle ragioni per cui Google e Amazon stanno sperimentando la spedizione “nello
stesso giorno” di merci acquistate online, scontrandosi così con i rivenditori locali, che poi
spesso sono gli inserzionisti dei quotidiani locali (ed ecco un altro mattoncino tirato via dalla
nostra torre). Sono tutti in lotta per sapere chi siamo, dove siamo, cosa vogliamo – provando
altresì a trovare il modo per aiutarci a capirlo. Saranno queste competenze la chiave di svolta
per il risorgere quantomeno di giornali (meglio, le testate locali), riviste (cioè pubblicazioni
basati su interessi specifici) e forse perfino delle radio (il più di massa tra i mass-media).
Una testata locale dovrebbe sapere dove vivi e cosa t’interessa di più; e dovrebbe avere
maggiori opportunità di imparare tutto di te rispetto a una multinazionale come Google, in
ragione del fatto che è in grado di darti informazioni sulla tua città (e imparare dove vivi e
quali problemi ti stanno a cuore). Può aiutarti a trovare ottimi posti dove mangiare grazie a
raccomandazioni in loco (e magari scoprire che sei vegetariano). Può aiutarti a trovare il
divertimento più adatto (e scoprire quali sport segui, il tipo di musica o il genere di film che ti
piace). Può metterti in contatto con persone della comunità (e sapere, per esempio, se sei un
genitore o fai parte di un certo gruppo etnico). Le testate giornalistiche potrebbero usare
questi dati per personalizzare quanto già producono – e questa è la parte più semplice – oltre
che per rifinire le loro priorità e impiegare meglio le risorse per la creazione di servizi.
Quando ho lavorato come consulente presso About.com, dopo essere stata acquisita dal
New York Times, i redattori studiavano le domande immesse nei motori di ricerca per capire
quali di queste avevano portato i lettori al loro sito: se la gente poneva domande per le quali
non c’era ancora una risposta, toccava a loro fornirla. È stata una grande scoperta per me. Le
testate giornalistiche non dovrebbero forse avere robusti mezzi per ascoltare i bisogni e
raccogliere le curiosità del pubblico? Ora, i giornalisti diranno che il loro lavoro non dovrebbe
essere dettato o condizionato dai desideri del pubblico, altrimenti non dovremmo fornire loro
nient’altro che…be’, gossip e violenza, con cui li abbiamo già ingozzati a sufficienza. Ma non
c’è nulla di male nel prestare ascolto a coloro per cui lavoriamo: se scopri che ci sono migliaia
di pazienti affetti da cancro nel tuo bacino d’utenza, perché allora non aggiungere un blog
condotto da un oncologo e una comunità web sul cancro? Se vieni a conoscenza del fatto che
la gente è infuriata per il malfunzionamento del servizio ferroviario, be’, questa è una buona
ragione per incaricare un giornalista di indagare al riguardo.
Queste capacità relazionali potrebbero essere perfino più importanti nelle riviste; alcuni
anni or sono, mi fu chiesto di far parte di un gruppo di lavoro, come relatore, a un convegno
del settore; qualche giorno prima dell’evento, l’organizzatore dell’evento mi chiese: «Jeff, dirai
mica che le riviste sono condannate al tramonto?». E prima che riuscissi a rispondere,
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aggiunse: «Se sì, per favore, potresti evitare di partecipare?». Allora chiesi a me stesso se le
riviste avessero qualche motivo di speranza. Decisi che il punto era riuscire a superare la
transizione dal cartaceo al web, perché i periodici sono sempre state circondate da comunità
omogenee che ne condividono interessi e informazioni, e grazie a Internet c’era il boom delle
comunità.
Ma oggi sembra che le mie analisi fosserro errate: Gourmet, Newsweek, Mademoiselle,
Parenting sono scomparse, e tante testate sono allo stremo. La decantata Time Inc., forte
oggetto di desiderio prima per Warner Brothers e poi per AOL, sta per essere esiliata da Time
Warner, in modo da tenere i suoi pidocchi lontani dall’impero dell’intrattenimento. Ho
sempre amato le riviste, ne ho comprate a quintali. Ho lavorato per loro, ne ho avviata una,
Entertainment Weekly. Ma adesso non le compro più né in cartaceo né per il mio tablet.
Come la regina delle riviste, Tina Brown, a malapena ne leggo qualcuna. Ma ciò non significa
che abbia perso ogni speranza sui periodici, così come non mi sto arrendendo sui giornali.
Hanno ancora così tanto potenziale nel raggruppare la gente intorno a un interesse, un’idea,
nel creare valore aggiunto per le comunità e i loro aderenti.
Per costruire nuove competenze nell’ambito mediatico, dobbiamo smettere di considerare
le persone come massa. Abbiamo necessità di conoscerle, per poi servirle in quanto individui.
E perciò dobbiamo spostare i nostri parametri del successo da anonime misurazioni di massa
– circolazione, utenti unici, pagine visualizzate, indirizzi email – alle relazioni tra singoli
individui, chiedendoci:
– Quante persone conosciamo (anche se non per nome, quantomeno rispetto ai loro
ambienti, bisogni, interessi o comportamenti)?
– Quanti stimoli diamo a costoro per convincerle a farci sapere di più su loro stesse (cosa
offriamo tra i servizi che li interessano)?
– Quanto sappiamo di ogni singolo individuo, quanti dati minori abbiamo raccolto su di
loro?
– Come poter usare questi dati a loro beneficio?
– Come poter sfruttare queste informazioni a nostro vantaggio, tramite inserzioni, accesso
a pagamento, rivendita dei dati, organizzazione di eventi o altri modelli (di cui parlerò nel
prossimo articolo)?
- E il criterio di misura più importante di tutto il giornalismo: quanto sono informati i
membri della comunità di riferimento? Tanto quanto vorrebbero? Ciò impone come prima
cosa che lo si chieda loro e gli si dia ascolto rispetto a bisogni e risultati a cui punta, e poi che
si trovino i mezzi migliori per accontentarli, grazie a piattaforme di condivisione,
all’informazione, ai dati aperti, al giornalismo e alla cronaca.
Se i media riconoscessero tutti costoro come individui e comunità, e se fossero capaci di
guadagnarne la fiducia per poterli servire in maniera unica e positiva, questa potrebbe essere
la base per imprese di tipo nuovo e rinnovato. Ma questo è un enorme “se”.
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2. Fornire contenuti oppure servizi?
(da Medium, 10/02/2014)
Fare informazione equivale a produrre contenuti? Dovrebbe essere così? Forse è una trappola
per noi giornalisti definirci creatori di contenuti. Questa visione del mondo ci convince che il
nostro valore sia insito interamente in quel che produciamo, anziché nel positivo che se ne
trae. La convinzione che il nostro lavoro è produrre contenuti ci porta ad attivare i paywall per
proteggerli, nella convinzione che la gente debba pagare per i nostri contenuti, perché ci costa
danaro produrli e perché li ha sempre pagati. Ciò ci spinge a combattere strenuamente per
difendere i nostri prodotti da quello che percepiamo come un furto – in base alle vigenti
norme sul diritto d’autore – anziché riconoscere che i contenuti validi e l’informazione così
veicolata possano far forma a relazioni di tipo nuovo. In quanto produttori di contenuti, ci
separiamo dal pubblico mentre creiamo i nostri prodotti finché non è finito e lo rendiamo
pubblico. In fondo è quanto ci viene continuamente richiesto dai mezzi di produzione e
distribuzione, e solo ora stiamo imparando a collaborare durante questo processo. Il nostro
monopolio su quei mezzi di produzione ci ha altresì convinti di poter possedere, controllare e
stabilire il prezzo di quella scarsità chiamata contenuti.
Queste circostanze ci hanno resi impreparati per l’era tecnologica in cui le copie costano
poco o nulla, dove abbondano i contenuti (e quindi la concorrenza), dove l’informazione
diviene una bene di consumo nell’istante in cui basta un link e un clic per essere rilanciata.
Un’epoca in cui il valore dell’informazione – ancor prima che venga diffusa e conosciuta – ha
una vita oggi misurabile in millisecondi. Il contenuto, com’è evidente, non è poi questo grande
affare.
Suggerire che il nostro lavoro non riguarda la produzione di contenuti vuol dire
considerare i giornalisti incapaci di raccontare qualcosa: un’eresia davvero enorme.
Quest’idea distrugge ogni nostro assunto e quel che ci è caro del nostro mestiere: il modo
stesso di lavorare, i processi di produzione, lo status giuridico, la misura del successo e
sicuramente il nostro business model. Ma non abbiate paura: continuerò a sostenere la
validità dei contenuti. Chiarendo però che il valore dei contenuti potrebbe essere più uno
strumento che un fine in quanto tale – e meno che mai l’unico nostro prodotto.
E allora, se il nostro mestiere non riguarda i contenuti, di cosa si tratta? Proviamo a
considerare il giornalismo come un servizio. Il contenuto va a riempire qualcosa, mentre il
servizio punta a raggiungere un obiettivo. Per essere un servizio, il giornalismo dovrebbe
mirare ai risultati piuttosto che ai prodotti. Quale dovrebbe essere questo risultato? Sembra
ovvio: individui meglio informati e una società meglio informata. Ma come definire il concetto
di “informato” e chi ne sancisce il successo? I giornalisti ritengono che il loro mestiere sia
quello d’informare il pubblico, mentre spetta agli editori stabilire cosa debba sapere la gente.
Dobbiamo mettere da parte quest’atteggiamento piuttosto paternalistico rispetto a chi ci
rivolgiamo, perché se non crediamo alla volontà del pubblico di essere informato, allora
dovremmo arrenderci e rinunciare alla democrazia, al libero mercato, all’ideale
dell’istruzione, per non parlare del giornalismo. Ho fiducia che continuerà a esistere mercato
e domanda per quell’informazione di cui la società ha bisogno per funzionare. Questo deve
essere un atto di fede, se vogliamo avere la speranza di sostenere il giornalismo.
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Occorre altresì prendere nota di quanto afferma Dan Gillmor, a volte citato
opportunamente e altre meno: il nostro pubblico ne sa più di noi. E così non è
necessariamente nostro compito informare, quanto piuttosto rendere ciascuno di noi in grado
di informare gli altri. Vale a dire: sappiamo cosa hanno bisogno di sapere gli altri, ma in
passato avevamo strumenti spuntati per diffondere questa conoscenza: il reporter trovava
l’esperto, il testimone o il funzionario adatto per rispondere ad una domanda e la testata
giornalistica diffondeva quanto aveva scoperto. Adesso abbiamo maggiori strumenti a
disposizione per comunicare in maniera diretta. Quindi, forse, il nostro primo compito
nell’espansione del giornalismo di servizio dovrebbe esser quello di offrire piattaforme che
mettano in grado individui e comunità di cercare, portare alla luce, raccogliere, condividere,
organizzare, analizzare, comprendere e usare le proprie informazioni (oppure di ricorrere a
piattaforme già esistenti per tutto ciò). Internet ha dimostrato di essere un ottimo strumento
per permettere alle comunità di informare in modo indipendente, condividendo gli eventi via
Twitter, lo scibile via Wikipedia e le questioni importanti tramite strumenti di conversazione:
messaggistica istantanea, blog, post e tweet. Strumenti che, pur se banali, ripetitivi e usati
talvolta in maniera incivile, sono comunque parte del contesto culturale.
Ovviamente ogni comunità dovrà sapere molte più cose di quelle fornite da un veloce
scambio d’informazione. Ed è lì che i giornalisti debbono e possono aggiungere valore,
facendo domande alle quali non si sia già risposto – tramite segnalazioni e inchieste,
aggiungendo contesto e spiegazioni, trovando e includendo competenze specialistiche,
soppesando fiducia e influenza, controllando fatti e dissacrando ipotesi e dicerie, rendendo
accessibile l’informazione attraverso il racconto o la visualizzazione, confezionando e
presentando adeguatamente i contenuti con le opportune modifiche, cure e annessi. Certe
competenze sono di vecchio stampo: cose che i giornalisti hanno sempre fatto, oggi
velocizzate. Altre sono nuove, rese possibili dalla tecnologia: la presentazione di dati per i
sondaggi pubblici; la creazione di strumenti nuovi; l’avvio di discussioni; l’organizzazione di
attività correlate. E allora, sì, c’è bisogno dei giornalisti: Ma la mera distribuzione di notizie
non è più un nostro monopolio e non è l’uso più appropriato delle nostre scarse risorse. Senza
questo monopolio nell’informazione, non possiamo più vantarci di decidere quel che il
pubblico deve sapere. Spesso quest’ultimo s’informa a nostra insaputa. Anzi, più lo aiutiamo a
informarsi in proprio, più la gente è informata e maggiori sono le nostre opportunità di
fornire valore aggiunto, e meno ci costerà tutta questa valanga di notizie.
Quest’idea di giornalismo finalizzato richiede da noi giornalisti il rispetto del pubblico, di
ciò che conosce e di cui ha bisogno, e di quanto vuole sapere. Questo ci spinge a smettere di
ritenere di saperne più di loro, per creare piuttosto sistemi per raccogliere la conoscenza degli
utenti. Ricordiamoci che è stata questa l’intuizione fondamentale che ha portato Larry Page e
Sergey Brin a inventare il motore di ricerca (e di grandi affari) Google. Si sono fidati dei clic
degli utenti, creando un sistema per osservare e imparare da quei clic, in modo da poter
organizzare la conoscenza del mondo e renderla accessibile e utile a ogni singolo utente in
quanto individui. Non è anche questa un’ulteriore conferma della vera mission del
giornalismo?
Permettetemi di applicare quest’idea a un esempio pratico: quando nel 2012 l’uragano
Sandy ha colpito il New Jersey, dove vivo, e New York, dove lavoro, le mie esigenze
d’informazione erano chiare: volevo sapere quali le strade chiuse, dove mancava la corrente,
dove operavano le squadre di soccorso, quali le stazioni di rifornimento attive, quali i negozi e
i ristoranti aperti – e con il wi-fi – e quali le linee di trasporto operative. La maggior parte di
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questi dati è efficace se rappresentati in elenchi costantemente aggiornati. Ma per la gran
parte le testate online offrivano articoli che sintetizzavano sommariamente simili dati ed
evidenziavano incompletezza e ritardi, risultando quindi del tutto inaccurati. La narrativa dei
media mi diceva che moltissimi alberi erano caduti, che tantissime case erano senza energia
elettrica, e riproponevano le testimonianze dei residenti. Ma non mi dicevano nulla che io già
non sapessi e, soprattutto, nulla di ciò che volevo sapere. La carenza di dati in quegli articoli
era determinata dal modo classico di fare giornalismo con mezzi di produzione invecchiati e
del relativo business model. C’era bisogno di confezionare l’informazione nei confini delle
pagine o di un programma TV. Potevamo permetterci un numero limitato e prefissato di
giornalisti, i quali avevano solo dei modi predeterminati di procurarsi le notizie e così la
nostra conoscenza era obbligatoriamente limitata. Quelle condizioni oggi non si applicano più.
Ora abbiamo modalità nuove per raccogliere notizie da svariate fonti e per renderle
disponibili alla gente come meglio credono. E abbiamo i mezzi per scoprire di cosa ha bisogno
il pubblico.
Immaginiamo se una testata locale avesse messo su un servizio con una mappa, semplice,
per consentire ai cittadini di pubblicare foto delle loro strade e quartieri con delle didascalie –
i metadata – che indicavano le strade chiuse e dove si trovano le squadre di soccorso, con
l’orario come fattore rilevante e ben indicato in ogni visualizzazione. Ebbene, non è che
toccasse alla testata online realizzare la mappa: bastava riprendere quella funzionalità da
Google Maps, SeeClickFix (servizio che consente di segnalare problemi relativi al proprio
quartiere), oppure Ushahidi (piattaforma open source tramite cui raccogliere e mostrare dati
su una mappa). La testata locale potrebbe poi usare la sua forza comunicativa per attrarre
l’attenzione della comunità nell’intento di spingere i residenti a condividere ulteriori dati.
Lavorando in rete con i blogger, avrebbero poi potuto condividere le conoscenze di più utenti
e di varie comunità. Il sito avrebbe potuto fornire ulteriori dati utili, chiedendoli alle aziende
di fornitura di energia elettrica o altri servizi pubblici, per indicare dove si trovavano le
squadre operative e chiedendo riscontri ai cittadini sulle asserzioni delle autorità (quello
scetticismo giornalistico e controllo in itinere che sono venuti tristemente a mancare nella
copertura degli eventi catastrofici nella mia città). Fornendo a residenti e autorità gli
strumenti per condividere i dati, le testate locali avrebbero potuto soddisfare in modo efficace
le esigenze specifiche di cui sopra.
Dove c’è qualcosa che non torna, è là che interviene il giornalista, verificando l’accuratezza
dei dispacci delle aziende pubbliche o chiamando il sovrintendente scolastico per sapere quali
saranno i requisiti per la riapertura della scuola. Il giornalista può anche chiedere ai cittadini
cos’altro abbiano necessità di sapere: se la piattaforma fornita dal sito è sufficientemente
flessibile, i residenti potranno operare in autonomia per soddisfare i propri bisogni, anche
quelli ancora imprevedibili (la flessibilità è il criterio imprescindibile di una vera piattaforma).
Se all’epoca dell’uragano Sandy fosse già stato così, i miei vicini dotati di generatori di
corrente avrebbero potuto annunciarne la disponibilità per gli altri per ricaricare i cellulari, e
chi ne era privo avrebbe potuto organizzarsi per acquisti collettivi prima dell’uragano
successivo (consentendo a elettricisti esperti di fare offerte per la vendita).
Tutto ciò riazzera il classico rapporto giornalista/pubblico. Oggi il pubblico ne sa più del
giornalista e questo può prestare ascolto alla gente e alle sue esigenze. Non si tratta soltanto di
creare una relazione di collaborazione tra il giornalista e il suo pubblico, ma anche di porre il
giornalista nell’appropriato ruolo di professionista di pubblica utilità, con il pubblico che ne
segue la guida. Tutto questo è più che fare crowdsourcing, significa condividere il lavoro con il
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pubblico, chiedendo ai lettori di completare e rifinire il prodotto già preparato dal giornalista.
Questo punto di vista permette al pubblico di usare gli strumenti come meglio ritiene per
condividere le informazioni che ritiene importanti. È questo il modo di considerare il
giornalismo come servizio, non come contenuto.
Se consideriamo i contenuti in quanto strumento al servizio del giornalismo e delle
comunità di riferimento – piuttosto che come fine ed essenza della nostra professione – allora
riusciamo a cambiare qualcosa di più che il nostro rapporto con il pubblico. Cambiamo i
processi operativi dando così vita a canali nuovi. Costruiamo sistemi che consentono alla
comunità di condividere quanto già conosce –più è, meglio è – e lo analizziamo per vedere
dove ci sia bisogno di lubrificare la macchina pubblica, eliminare doppioni, correggere errori,
migliorare presentazioni, riempire spazi vuoti. Cambiamo le nostre procedure lavorative. Non
sto certo dicendo che tutti i giornalisti debbano divenire programmatori per costruire
piattaforme online migliori. Dovremmo però cominciare a considerarci come formatori,
allenatori, educatori e (talvolta) perfino organizzatori e sì, anche come attivisti. Cambiamo il
modo di misurare il successo! Non tramite gli utenti unici e il numero di pagine visualizzate,
bensì con la quantità, la profondità, la qualità e il valore delle relazioni che costruiamo e il
livello d’informazione raggiunta dalla gente come risultato del nostro lavoro.
Forse dovremmo addirittura riconsiderare il nostro atteggiamento difensivo nei riguardi
del diritto d’autore, dato che non saremo più creatori esclusivi dei contenuti per diventare
anche re-distributori di notizie altrui. E ovviamente ciò dipende dalla volontà di cambiare il
nostro business model (tema che affronterò in un successivo articolo), costruendo relazioni di
valore anziché limitarci a produrre un bene di consumo, i contenuti. Ancora una volta,
facciamo riferimento scommessa di Google, Facebook, Amazon ed eBay: conoscere e
anticipare i bisogni individuali genera valore aggiunto, tramite abbonamenti, pubblicità o
attività commerciali.
Tempo fa ho pranzato con un ex dirigente TV, il quale lamentava che Facebook e Google
usavano “l’acciaio dei media per costruirsi l’auto propria”, ovvero che rendevano i contenuti
un bene di consumo, usandolo per ricavare maggiori profitti dalla parte finale della filiera.
“Zuckerberg – aggiunse – non ha rispetto per contenuti”. Ci ho pensato un po’ su, poi mi sono
dichiarato in disaccordo: “No. Credo che Zuckerberg rispetti i contenuti più di quanto non
facciamo noi: noi rispettiamo solo quelli creati da noi. Se è la gente a creare i contenuti, per
noi non è altro che spazzatura”. Invece Mark Zuckerberg trova valore in quella spazzatura,
così come fa Larry Page: riconoscono che i contenuti creati dalla gente comune, grazie a
condivisioni e conversazioni online, invia dei segnali sia riguardo alle informazioni che agli
stessi autori. Ti dicono chi sono, dove vivono, dove stanno andando o sono stati, chi
conoscono, cosa sanno o vogliono sapere, cosa piace loro e cosa acquistano. Questi segnali
consentono alle aziende di affinare la mira per il bersaglio-cliente sotto forma di contenuti,
servizi, vendite, e pubblicità mirata, dando rilevanza ai clienti e trattandoli come individui,
non come meri dati demografici. Ho raccontato all’ex dirigente una storia inclusa nel mio
libro What Would Google Do?. Nel corso del World Economic Forum di Davos, Mark
Zuckerberg veniva interpellato così da un potente dirigente mediatico: “Mark, spiegami come
creare una comunità. Dobbiamo farlo: dimmi come si fa!”. Zuckerberg, un geek di poche
parole, lo fulminò con: “Impossibile”. Punto. Dopo una pausa imbarazzata, Marc spiegò al
folto gruppo di dirigenti di aziende della comunicazione che avevano posto la domanda
sbagliata: “Non si possono ‘creare’ delle comunità, queste esistono già, stanno facendo quello
che credono giusto. La domanda giusta da porre, è: come poter aiutare le comunità a far
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meglio quello che già fanno”. Il consiglio che diede loro fu di dare a queste comunità una
“organizzazione elegante”. Che è poi ciò che il giovane Mark fece per Harvard e in seguito per
tutti noi. È quello che il giornalismo ha tentato di fare da tanto tempo ed è il modo in cui io
sono arrivato alla definizione del giornalismo enunciata nell’introduzione: aiutare le comunità
a organizzare la propria conoscenza in modo da potersi auto-organizzare sempre meglio. Oggi
esistono strumenti assai migliori per farlo.
Se il nostro ruolo in quanto giornalisti è quello di dare una mano alle comunità a
organizzare le loro conoscenze e quindi se stesse, allora è chiaro che siamo nel business dei
servizi e che dobbiamo attingere a vari strumenti, contenuti inclusi, e porre valore nelle
relazioni che costruiamo con i membri della comunità e che potranno assumere molte forme.
E quindi siamo nel business delle relazioni. Cominciamo perciò a catalogare le forme che
queste relazioni possono assumere nei confronti delle persone a cui ci rivolgiamo,
dell’ecosistema in cui si opera e dei nostri soci in affari.
Notizie come piattaforma
Torniamo all’uragano Sandy. Quando i siti generalisti non riuscirono a darmi le notizie di cui
avevo bisogno e neppure il modo di procuramele, mi rivolsi direttamente ai miei vicini usando
altri mezzi. Usai Patch, servizio di notizie iperlocali allora di proprietà di AOL. Era soltanto
uno dei vari servizi d’informazione che fornivano articoli con resoconti tardivi di poco o nullo
valore informativo, ma offriva anche una piattaforma blog che mi permise di pubblicare brevi
tirate in cui mi lamentavo di come la nostra città avesse diffuso un elenco delle strade dove
presumibilmente erano impegnate le squadre di ripristino dell’energia elettrica, incluse quelle
della mia zona, e dove invece non si era vista nemmeno l’ombra di un camion.
Criticai il Comune per essere intervenuto nel peggiore dei modi. Nei commenti in calce al
post, si unirono altri i residenti, controllando gli elenchi per ciò che riguardava le loro strade e
aggiungendo osservazioni personali alla mia frustrazione. Fu attraverso la collaborazione con i
miei vicini e concittadini – non con la segnalazione di un giornalista – che riuscimmo a
controllare come si stavano muovendo le aziende pubbliche. Se solo una testata locale avesse
svolto quella funzione, fornendo una piattaforma più organizzata, sarebbe stato possibile
condividere meglio quello che già sapevamo. Per esempio, si sarebbe potuto pubblicare
l’elenco in un wiki, e quindi aggiungere immagini e riscontri sui punti dove i mezzi delle
aziende pubbliche stavano effettivamente lavorando.
Io e i miei vicini usammo le motoseghe per rimuovere una trentina di alberi dalle strade e
dai passi carrai, e solo così siamo riusciti a spostare le macchine per consentire l’ ingresso alle
squadre di soccorso nella nostra zona. Eravamo tutti senza corrente elettrica. Una volta usciti,
alcuni miei vicini si sono trasferiti altrove, la mia famiglia, fortunatamente, in un albergo e
altri ancora da qualche parente. Tutti costoro costretti fuggire da Sandy volevano rimanere in
contatto tra loro per essere informati. Ricorremmo dapprima alla email, ma ben presto la
catena divenne troppo complicata. Così aprii un account su un nuovo servizio, Nextdoor, che
garantiva una rete privata per i miei vicini, con indirizzi verificati: una piattaforma! Anche qui
però sorsero dei problemi: nel database di NextDoor mancavano gli indirizzi di alcuni vicini e
la piattaforma non mi consentiva di inserirli. Il servizio mi chiedeva di aggiungere almeno
altri 75 indirizzi, ma in una zona semirurale come la mia questo significava includere persone
che non avevo mai incontrato e che vivevano a più di due miglia da me. E imponeva degli
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argomenti di conversazione, soprattutto reati e sicurezza, senza consentirci di discutere delle
cose che ci stavano davvero a cuore – come, per esempio, riavere la corrente elettrica e, più in
là, come acquistare dei generatori. Una piattaforma vera e propria avrebbe consentito agli
utenti di definire come meglio usarla. E così tornammo all’inefficiente posta elettronica.
In quello stesso momento, c’era una forte carenza di carburante, dato che la caduta degli
alberi e le inondazioni avevano bloccato la distribuzione delle merci e le stazioni di servizio ne
avevano risentito. Quando queste riaprirono, le code per il rifornimento erano lunghe varie
miglia, e così arrivò la polizia a dirigere il traffico. Quindi era chiaro che la polizia sapeva
quando i distributori avrebbero ricevuto il carburante e quando avrebbero riaperto. Avrebbero
potuto condividere quei dati con il pubblico e i media avrebbero potuto aiutarli a farlo. Ma
non fu così. Di conseguenza, gli automobilisti cercarono ogni strumento che potesse tornare
utile, sprecando benzina preziosa alla ricerca di…carburante! Molti ricorsero a un’altra
piattaforma alquanto inadatta: Twitter. Condividemmo lì le informazioni mediante l’hashtag
#njgas. Era un sistema imperfetto, perché significava leggere avvisi che riguardavano
distributori aperti a molte miglia di distanza e le notizie avevano vita breve. Ma per quanto
imperfetta, era la piattaforma migliore disponibile e si rivelò abbastanza utile da dirmi di
puntare verso ovest, fino in Pennsylvania, dove avrei trovato rifornimento. Riconoscente,
anch’io ho poi aggiornato i dati sulle stazioni di servizio della mia zona.
Cosa sarebbe successo se una testata locale fosse riuscita a creare una piattaforma capace
di soddisfare i nostri bisogni dopo Sandy, o in qualsiasi altra occasione? A cosa potrebbe
somigliare? Non dico che dovrebbero mettere su un nuovo Twitter o NextDoor. Notate bene
che, nel caso di Twitter, la vera piattaforma non era tanto a livello tecnologico quanto la
convenzione sociale degli hashtag. L’idea stessa degli hashtag inizialmente venne proposta da
Chris Messina, che non era impiegato di Twitter, il quale nel 2007 suggerì che sarebbe stato
un modo intelligente per trovare tutti i tweet relativi a eventi o temi specifico. Il NJ.com
reclamò la paternità del lancio e della promozione dell’hashtag #njgas dopo Sandy. Le
piattaforme non hanno bisogno di programmazione, ma spesso nascono grazie a delle
convenzioni e le testate locali posseggono il megafono per aiutarle ad affermarsi.
Sono tanti i modi tramite cui una testata locale può trasformarsi in piattaforma. Può
fornire tecnologia già nota (wiki, forum, mappe, archivi dati, sondaggi e altro; ne parlerò in un
successivo articolo) e operare attraverso servizi già conosciuti e usati dalla comunità stessa.
(selezionando informazioni e segnalazioni rilevanti da YouTube, Twitter, Facebook, Tumblr,
Google Plus, Pinterest, Vine, Tout, etc.). Oppure può esplorare nuove tecnologie (per esempio,
sensori che segnalino cosa c’è nell’ambiente intorno, telecamere indossabili, video streaming
da cellulare, analisi dei dati tramite la conversazione sociale) al fine di permettere una
maggiore condivisione di informazioni. La testata online potrebbe perfino aiutare i blogger
indipendenti e le relative comunità a informare sulle rispettive città, offrendo loro contenuti,
promozione, tecnologia, reti pubblicitarie, formazione, mezzi collaborativi. Ai siti
d’informazioni non serve più operare da sole, in regime di monopolio o nelle torri d’avorio:
oggi sono circondati da tanti concorrenti (o collaboratori, dipende dal punto di vista) in un
ecosistema informativo disorganizzato ma in forte crescita.
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3. Il nuovo ecosistema dell’informazione e la costruzione di reti
(da
Medium, 10/02/2014)
Sin dall’invenzione della rotativa, il giornalismo è stato sempre un’industria a organizzazione
verticale. Singole imprese ne controllavano ogni singola fase: l’intero processo di
individuazione, ricostruzione e produzione delle notizie; la loro stesura, distribuzione, vendita
e promozione tramite gli spazi pubblicitari. Operavano in regime di monopolio o di
oligopolio: tenevano ben saldo il potere di fissare il prezzo, con costi contenuti per i
consumatori e gli inserzionisti, esercitando al contempo un forte potere di acquisto nei
confronti dei fornitori. Stuazione ottima, almeno per gli editori, fino a che è durata e non c’è
da stupirsi che oggi costoro si lamentino molto del suo tramonto. La forza principale che
consentiva loro di creare grossi imperi era la scarsità, che rendeva possibile il controllo sulle
riserve più preziose, la produzione e la distribuzione delle notizie.
Oggi ovviamente tutti noi possediamo i mezzi per produrre e distribuire notizie,
informazioni e contenuti, grazie a tastiere e smartphone (presto, forse addirittura
direttamente col pensiero, con i Google Glass, o con dispositivi ancora da inventare). Ognuno
di noi può raccogliere e diffondere informazioni, come anche raggiungere il pubblico che
ritiene appropriato; chiunque può connettersi a chiunque altro, senza necessità di guardiani o
mediatori, ovvero dei media. Nel digitale domina l’abbondanza: mentre si riduce la presenza
dei grossi editori, questi sostengono la pari riduzione del flusso di notizie. La verità è però che
tale flusso è in crescita, sebbene non in modo uniforme e spesso in maniera inaffidabile,
tramite infinite nuove fonti che contribuiscono ad accrescere l’ecosistema dell’informazione.
Prendiamo la zona dove vivo, lo Stato del New Jersey (USA), come esempio di ecosistema
dell’informazione: qui non c’è mai stata un’emittente TV d apoter definire “nostra”: c son
invece quelle che da trasmettono da New York e Philadelphia arrivando qui. LaTV locale,
piccola e poco seguita , è stata venduta dallo Stato alla rete pubblica PBS di New York.
Analogamente, le radio locali, dal bacino assai ridotto, sono state rilevate da grosse emittenti
di New York e Philadelphia. La radio radio statale, NJ101.5 è – come dirlo in maniera corretta
e cortese? – penosa. Abbiamo un giornale una volta dominante, lo Star Ledger (di proprietà
della Advance Publications, per cui ho lavorato, in passato), qualche altro quotidiano del
gruppo Gannett o di famiglie locali, e alcuni settimanali. Tutto in netta riduzione. Prima il
New York Times copriva il New Jersey, ma ormai ha completamente rinunciato a ogni
ambizioni internazionale. Questa è la situazione dei media tradizionali nel New Jersey.
Però abbiamo un gran numero di blog, come Baristanet a Montclair, Red Bank Green,
Morristown Green, My Verona NJ, Elizabeth Inside Out (curato da un mio ex studente, copre
la città di Elizabeth), Rahway Rising (che si occupa solo lo sviluppo edilizio urbano) e The
Alternative Press, che copre solo una manciata di cittadine. E io spero che diventino molti di
più. Abbiamo comunità locali come la Jersey Shore Hurricane News, basato su Facebook, ove
migliaia di persone si sono ritrovate per condividere informazioni durante due uragani e che
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continua a operare. Abbiamo Patch di Aol. Ex giornalisti provano a guadagnarsi il pane e di
mantenere il ritmo scrivendo sul NJ Spotlight e New Jersey Newsroom. Il New York
Observer gestisce il sito web PolitickerNJ , un mini Politico per Trenton: le maggiori entrate
vengono da un eccellente newsletter sull’amministrazione cittadina chiamato State Street
Wire.
Ci sono poi vari siti che soddisfano interessi specific: Glocally Newark si occupa di cultura
a Newark; Barista Kids si rivolge alle mamme di Montclair; Pharmalot segue l’ industria
farmaceutica della zona; Jersey Bites giudica i ristoranti, come fanno alcuni altri blog. Clever
Commute offre servizi ai pendolari con un’app dal costo di 35 dollari l’anno. La testata
investigativa senza scopo di lucro Pro Publica fa davvero parecchio ello Stato. La radio
pubblica e indipendente WBGO segue il jazz di notorietà internazionale e WFMU è così
indipendente che è impossibile descriverla. Questi siti attirano perfino il pubblico
internazionale. C’è anche WeirdNJ, nome azzeccato, perché si occupa delle nostre stranezze.
Infine, non dimentichiamo le migliaia e migliaia di persone del New Jersey che si scambiano
informazioni su Twitter, Facebook, Pinterest, Tumblr, nei forum di NJ.com, altri siti di
informazione e sui blog personali. Quando uso la definizione ‘struttura giornalistica’, includo
anche tutte queste, e non più solo le grandi, vecchie testate cartacee.
Abbiamo poi tante entità che contribuiscono all’ecosistema dell’informazione pur non
essendo mezzi di comunicazione: enti statali e amministrazioni locali stanno lentamente
migliorando nella diffusione dei dati e delle informazioni in loro possesso, che fanno confluire
nell’ecosistema. Il Town Stats Project è un esperimento per iniziare a mettere insieme dati su
scala locale. Aziende private, così come quelle dei servizi pubblici, condividono sempre più i
loro dati. Ovviamente Google offre informazioni più ampie e variate: dal traffico alle
previsioni meteo, dai ristoranti alle aggregatori di notizie. Facebook, Twitter, Tumblr,
WordPress, Google Plus e altre piattaforme online consentono ai residenti locali di pubblicare
e distribuire quanto sanno.
Esiste una varietà di attori nella “periferia” dell’ecosistema, ben più che non al centro,
impegnati a servire i suoi membri: Google fornisce pubblico e, a volte, entrate (sebbene non
cospicue) ai siti locali. Facebook procura pubblico e, nel caso del Jersey Shore Hurricane
News, una piattaforma per la pubblicazione e la ricerca di collaboratori per gli articoli. Twitter
fornisce promozione, così come contenuti e suggerimenti. Lo stesso dicasi per Instagram e
You Tube. WordPress è invece la piattaforma più nota e diffusa modo per curare un proprio
blog. Apple e Android offrono servizi per creazione e vendere app. E mi auguro che qualcuno
(già dell’ambiente o anche qualche nuovo soggetto) crei una rete pubblicitaria capace di
agglomerare e raggiungere la massa critica dei clienti di tutti i siti citati, massa necessaria alla
vendita su larga scala, a livello statale: qualcosa su cui sto lavorando anch’io.
Questo il quadro generale. Il New Jersey, come quasi tutti i mercati, adesso come adesso
presenta un crescente, disorganizzato coacervo di siti, servizi, comunità e individui i quali
operano su varie piattaforme, con differenti motivazioni, con tante o poche risorse e con
business model che vanno da “nessuno” a “non-profit”, da “spero-di-trarci-profitto” a
“redditizio”: contribuiscono tutti al vasto ecosistema dell’informazione che copre lo Stato e le
sue comunità.
Questo concetto di ecosistema può essere poco chiaro da afferrare, visto che ci stiamo
lasciando dietro le spalle l’era dei media monolitici, in cui grandi imprese, organizzate e
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integrate verticalmente, con prodotti tangibili, avevano un netto controllo sulle scarse risorse
ed erano pochi grandi marchi noti a controllare lo scenario. Oggi abbiamo questo magma
indistinto che chiamiamo ecosistema: nessuno ne è a capo, ed esistono enormi spazi vuoti. Il
New Jersey conta 565 cittadine, in ognuna delle quali alligna il seme della corruzione e
ognuna delle quali ha bisogno di un cane da guardia. Ebbene, solo una ventina di esse è
“coperta”. Non esiste un singolo, semplice business model valido per tutte, come successo
finora – diffusione e pubblicità – e talvolta qualità e credibilità restano dei punti interrogativi.
Certo, direte voi, non è poi un miglioramento. Be’, forse non ancora, ma potrebbe esserlo. Il
New Jersey è una tabula rasa, l’ideale per il fiorire di innovazione e collaborazione, dove
nuove voci possono essere udite come non mai, dove i cittadini possono finire per essere più
informati che mai e più coinvolti di quanto non siano mai stati.
Per arrivare a questo, però, l’ ecosistema ha bisogno di aiuto, così come chiunque vi operi.
I suoi membri devono innanzitutto darsi una mano a vicenda, collaborando per fare più di
quanto ognuno potrebbe fare da solo, arrivando così all’efficienza; devono concentrarsi su
quel che ciascuno sa fare meglio, migliorando quindi la qualità del lavoro e condividendo al
meglio. Anche queste sono nuove specifiche competenze per i giornalisti, abituati al lavorare
in trincea, operando in maniera competitiva e segreta.
La prima e più elementare forma di collaborazione è il link. “Fa’ quel che ti riesce meglio
e linka il resto!”, è il mio motto di presentazione su Twitter. Da una testata locale non ci si
aspetta più che ti porti l’intero mondo sullo zerbino di casa. Non farebbe un buon lavoro
coprendo tutto il mondo e ospitando servizi che comunque sono a portata di clic: New York
Times, Guardian, BBC… Le testate locali non possono più sostenere quest’approccio
generalista. Il link consente loro di rimandare ad altri articoli o alla fonte originale. Ciò porta
altresì i membri dell’ecosistema a specializzarsi, a utilizzare le risorse in maniera efficace per
offrire servizi della più alta qualità possibile e link che portano maggior pubblico e valore. I
membri di un ecosistema imparano presto la Regola D’Oro del link verso altre testate, è un
servizio per i lettori e un cortesia verso il sito che lo riceve. È anche il modo tramite cui due siti
si collegano tra loro, rendendo la cortesia del rimando. Linkarsi a vicenda può e deve divenire
un circolo virtuoso.
Naturalmente i membri di un ecosistema possono lavorare insieme in modo più stretto e
diretto: condividendo e scambiando contenuti, pubblico e le migliori pratiche; lavorare fianco
a fianco su progetti comuni, ottimizzando le risorse e ottenendo più di quanto non avrebbero
potuto da soli; dividere le entrate tramite campagne pubblicitarie congiunte (modello che
approfondirò in successivi articoli) e altre attività quali l’organizzazione di eventi. E possono
anche risparmiare sulle spese unendo il loro potere di acquisto per comprare spazio,
tecnologia o servizi.
Nulla di tutto ciò può concretizzarsi da solo. I giornalisti indipendenti e gli editori
monopolisti sono tra i professionisti meno disponibili a pensare in termini di collaborazione.
Agli albori dell’era commerciale sul web, oltre una decina di grandi editori di testate Usa
crearono il New Century Network, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, aiutarli a condividere
pubblico, contenuti e vendite pubblicitarie. La Kleiner Perkins, mega-impresa di venture
capital di Silicon Valley, ritenne che fosse un ottimo investimento puntare su quella nuova
rete di aziende: ma i giornali non riuscirono neppure a mettersi d’accorso su come prendere i
soldi! E invece sprecarono i loro! Alla fine, che comunque arrivò presto, questo consorzio
risultò un orrendo disastro, perché gli editori non riuscirono a mettersi d’accordo su nulla, né
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sulla tattica né sulla strategia. Le redazioni devoono capire come sia nel loro stesso interesse
avviare un’ intesa, un dialogo e collaborare all’ interno di questo. La collaborazione è un
imperativo per la sopravvivenza.
Per ottenere un simile risultato in New Jersey e creare una struttura per promuovere e
sostenere la collaborazione nel sistema giornalistico locale, ho lavorato con la Fondazione
Geraldine R. Dodge e altri enti filantropici locali tra cui la John S. and James L. Knight
Foundation, al fine di aiutare la nascita del New Jersey News Commons, all’Università di
Monclair: la struttura è diretta dalla fondatrice di Baristanet, che ho incoronato come regina
dell’iperlocale, Debbie Galant. Il Commons ha quattro obiettivi primari:
– istruire i membri dell’ecosistema nelle competenze e capacità specifiche del giornalista,
dei media e, aspetto assai importante, del business.
– curare, distribuire, e quindi incoraggiare il miglioramento del funzionamento dell’
ecosistema attraverso i suoi membri. Il Commons usa un servizio chiamato Repost.US, che
descriverò in seguito.
– favorire la collaborazione tra i membri dell’ecosistema stesso;
– fornire servizi utili ai membri: ci auguriamo che essi includano anche la protezione
legale in caso di diffamazione e l’assicurazione sanitaria, anche se sono punti difficili da
realizzare.
Questi siti hanno anche bisogno di un’azione di sostegno alle imprese, principalmente nella
raccolta pubblicitaria, e ne discuterò altrove. In aggiunta, Montclair State ha fornito spazio in
modo che i vari membri dell’ecosistema – TV e radio pubbliche, NJSpotlight, NJ.com, blogger
e fornitori di tecnologia – possano lavorare l’uno a fianco dell’altro nella speranza che l’unità
degli forzi dia buoni risultati. Così i membri dell’ecosistema si sono riuniti in un network che
condivide contenuti e pubblico, imparando a scambiarsi informazioni nelle tornate elettorali e
lavorando su progetti collaborativi riguardanti le operazioni di salvataggio e ripristino in
seguito all’uragano Sandy e il fenomeno dell’ immigrazione.
Al contempo i colleghi della City University di New York, Sarah Bartlett e Garry Pierre
Pierre, hanno creato un centro per media di comunità e gruppi etnici dove si forniscono anche
formazione e servizi di traduzione di testi da altre lingue all’inglese, di modo che possano
essere condivise e raggiungere così un pubblico più vasto. Glistessi stanno aiutando il New
Jersey News Common ad aprire la strada alle pubblicazioni etniche a livello statale. Al Center
for Entrepreneurial Journalism abbiamo poi avviato delle ricerche sul business giornalistico
per aiutare tutte le entità interessate (a cui accennerò più avanti).
Nella ricerca sull’ ecosistema del New Jersey curata da Chris Anderson, questi ha concluso
che le reti sono necessarie per la sopravvivenza e il successo dei membri dell’ecosistema, ma
che questi stessi network hanno bisogno di un leader. Guide che possono essere competenti
membri dell’ecosistema, o anche università e fondazioni, come in New Jersey. Questi leader
dovrebbero anche includere le grandi testate tradizionali, che possono trovare nuova vita,
crescita, pubblico ed efficienza da questo coinvolgimento, riunendo tutti i partecipanti di
questi nuovi ecosistemi dell’informazione all’interno di network formali.
Esiste un grosso problema nel tentare di creare una rete fuori dall’ecosistema che sta
emergendo in un mercato come quello del New Jersey: non ci sono sufficienti nodi per
formare un a rete simile; in altre parole, l’ ecosistema non è grande abbastanza, bisogno di un
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maggior numero di aderenti. E ciò porta a un ruolo nuovo e importante per i titolari
dell’ecosistema: gli incubatori.
È interesse di queste stesse entità, i membri attuali, incoraggiare, reclutare, formare e
sostenere nuovi membri dell’ecosistema. Ovvero: più nodi vi sono nella rete, più l’ecosistema
diventa valido per tutti. Più blog iperlocali ci sono, per riportare dati sulle varie città
riversandoli nel mercato, più cresce l’interesse anche di testate minori, più queste possono
focalizzarsi e occuparsi di ricostruire e indagare sulle grosse questioni, quelle di ampia scala,
che è il loro mestiere. Più membri ci sono, più grande sarà il bacino da offrire agli
inserzionisti. E via via la lista dei relativi benefici tenderà a crescere.
Credo perciò che i membri degli ecosistemi dell’informazione dovrebbero attivamente
reclutare, formare, fare da mentori e sostenere i nuovi aderenti. Quando una testata licenzia i
propri giornalisti, come successo troppo spesso e come troppo spesso continua a accadere sino
a che le testate non raggiungeranno dimensioni sostenibili, perché non offrire loro aiuto
creando nuovi tipi di impresa? Dando loro una piattaforma tecnologica e assicurandone la
diffusione, come pure una base di entrate pubblicitarie sino al raggiungimento della massa
critica? Le fondazioni possono guardare alle aree critiche non coperte dal mercato ed emettere
bandi per trovare giornalisti con piglio imprenditoriale inclini a riempire quei bisogni,
aiutandoli con sostegni finanziari e formazione. Le reti possono anche reclutare e formare
persone per riempire spazi zone vuote nella copertura di mercato. Il New Jersey News
Commons lo ha appena fatto, reclutando blogger che si occupano d’informazione nello zone
devastate dall’uragano Sandy e dando loro fondi, borse di studio e formazione, elargite dalla
Dodge e dalla Knight. Le università possono formare giornalisti con competenze che
mancano, come quelle imprenditoriali, e anche imprenditori nel settore del giornalismo
locale.
La meta: costruire un ecosistema dell’ informazione che sia più grande, migliore, più
efficace e sostenibile, in grado cioè di servire l’intera comunità.
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4. Stimolare coinvolgimento e partecipazione dei lettori
(da Medium,
14/04/2014)
Una delle maggiori crisi che si trovano ad affrontare oggi le redazioni — beh, oltrebusiness
a
model bloccati, estrema competizione e fiducia in calo — è il coinvolgimento dei lettori. I dati
sono drammatici: secondo l’associazione di categoria WAN/IFRA, nella navigazione online
solo il 6,7% riguarda visite a siti d’informazione, coprendo appena il 1,3% del tempo impiegato
sul web e solo lo 0.9% delle pagine visitate. Nel 2012, prosegue l’associazione, il
coinvolgimento dei lettori digitali era il 5% rispetto a quelli della carta stampata (è quindi una
coincidenza il fatto che i ricavi del mondo digitale siano il 5% di quelli del cartaceo?). Durante
un’indagine sui nuovi business model per il giornalismo in corso alla CUNY, abbiamo scoperto
che in genere i siti di notizie ricevevano una dozzina di visite per pagina al mese per utente.
Facebook raggiunge lo stesso livello ogni giorno. Consideriamo inoltre che, con l’introduzione
dei contenuti a pagamento, il New York Times consentiva la consultazione gratuita di 20
pagine per mese, soglia poi ridotta a 10 per aumentare il numero di utenti che arrivavano
quantomeno a visualizzare la richiesta di pagamento. Questi lettori – circa il 5% del totale –
sono considerati “fedeli”. Per cui oltre il 95% degli utenti del Times visitavano meno di 10
pagine al mese – e questo rispetto al meglio di quanto può offrire il giornalismo. Meglio perciò
non farsi illusioni sul reale coinvolgimento del pubblico con l’informazione.
Badate bene, queste non sono altro che le unità di misura più superficiali, relative alla
semplice visualizzazione e al tempo trascorso su una pagina con contenuti creati da noi
giornalisti. Andrew Kohut del Pew Research Center si è detto dispiaciuto (lo sono anch’io) per
il tempo minimo che soprattutto i giovani dedicano alle news. Ma per come la vedo io, non
sono affatto sicuro che sia poi così negativo che i giovani dedicano poco tempo all’attualità.
Potrebbe semplicemente voler dire che sono più abili a trovare le notizie che cercano.
In ogni caso, le vecchie definizioni di coinvolgimento sono ormai insufficienti. Oggi
esistono tanti strumenti migliori e più completi per coinvolgere coloro a cui forniamo dei
servizi. Vediamo alcune delle possibilità a disposizione:
Conoscenza: proviamo semplicemente a sapere qualcosa di più sul lettore. È questo il
dato di partenza per ogni relazione umana: il riconoscimento. Torniamo alla raccolta dei
piccoli dati menzionati nel secondo articolo: c’è forse un sufficiente livello di fiducia?, ci sono
abbastanza buone ragioni perché il lettore si identifichi con i contenuti proposti (chi è, dove
vive e lavora, cosa ama fare, i suoi interessi, se ha figli, e così via..)?
Non conta quanti “visitatori unici” ci sono, ma piuttosto quante persone conosciamo?
Quanti motivi abbiamo offerto loro per manifestarsi? È possibile migliorare i nostri servizi a
seguito di questo conoscenza? È sicuramente questa la base di partenza per stimolare il
coinvolgimento.
Discussione: dopo gli utenti unici e le visualizzazioni, sono i commenti l’unità di misura
più imperfetta per il coinvolgimento. Il problema del vantarsi di quanti commenti ha un
forum o un articolo è che troppo sono poche persone a firmare la grande maggioranza dei
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commenti, togliendo spazio degli altri e determinano il clima della discussione (spesso tra
l’incivile e lo spaventoso). Damo un’occhiata a un articolo dell’Huffington Post su un tema
particolarmente caldo o alla sezione del sito del Guardian chiamata Comment is Free:
centinaia, se non migliaia di commenti, che impossibili da leggere, e quindi cosa se ne ricava?
Qualcuno potrebbe dire che se non altro centinaia di persone si sono interessate a un
argomento al punto da avere un’opinione al riguardo e che la redazione ha dato loro
quest’opportunità. Ma chi commenta può essere poco indicativo del pubblico più generale. E
inoltre, nel misurare il merito sia del dialogo che del coinvolgimento reale, dobbiamo cercarne
il valore – l’intelligenza, il dibattito ragionato, il contributo in termini d’informazione e
competenza – e non il mero volume, nelle varie accezioni del termine.
Quando il Guardian ha creato la pagina di opinioni Comment is Free, è stato sconvolto
(come molte altre redazioni) dalla cattiveria di buona parte del confronto. I redattori hanno
imparato in fretta che bisognava dedicare più risorse a controllare i troll, a stroncare
commenti fuori tema o rudi e a disattivarli per alcuni argomenti inevitabilmente infuocati
(come la questione mediorientale), per fare piazza pulita nel vicinato. Ho notato anche
un’aspettativa sbagliata rispetto al senso dei commenti. Per i giornalisti un articolo online
aveva gli stessi standard di uno cartaceo, rispetto al valore delle parole, alla verifica dei fatti,
all’inaccettabilità della maleducazione (senza neppure la foglia di fico dello humour
britannico). Ma il nostro primo errore è stato quello di considerare Internet come uno
strumento e quanto veicolava come il suo contenuto. No, la Rete è l’angolo di strada o il bar in
cui la gente si ritrova a chiacchierare. Cosa che ha un suo valore: ascoltare le opinioni del
pubblico, capire cosa pensa la gente, essere aperti, creare dei legami. E quindi i commenti
sono utili, pur se il coinvolgimento non si limita certo a quelli. A dirla tutta, i commenti sono
imperfetti come concetto, implicando che non vogliamo sentire la tua opinione fin quando noi
non abbiamo finito il nostro lavoro e poi noi ci degneremo di permetterti di dire qualcosa –
ma solo quando avremo lasciato la redazione e probabilmente non staremo ascoltando. I
commenti sono una forma più bassa di coinvolgimento. Esiste una forma più alta, ovvero:
Collaborazione: lavorare insieme ai lettori per raggiungere un obiettivo importante ha
ovviamente maggior valore rispetto alla mera chiacchierata e incrementa la stima della
comunità a livello di partecipazione.
Una forma di solito assunta dalla collaborazione è il crowdsourcing, che può portare a
buoni risultati ma rivelarsi altresì una forma intrinsecamente condiscendente, che coinvolge
solo tardivamente il pubblico nella filiera per affermare qualcosa già decisa dai giornalisti,
negando l’opportunità di ascoltare bisogni, desideri e idee dei nostri collaboratori.
L’obiettivo – per una redazione giornalistica o il produttore di una merce – dovrebbe
essere quello di spostare il pubblico dall’acquisto e dal consumo verso l’ideazione e la
concettualizzazione. È quanto fanno le aziende hi-tech quando rilasciano un prodotto “beta”,
confessandone le imperfezioni e chiedendo l’aiuto degli utenti. Il sito Quirky.com, che
produce e vende gadget stupendi, non solo chiede le invenzioni del pubblico ma conta sul fatto
che questo lo aiuti a decidere quali prodotti creare e anche come migliorarne non solo il
design ma anche il branding e marketing. La casa automobilistica Local Motors progetta
veicoli in modo collaborativo, coinvolgendo i clienti in ogni passaggio, usando un sistema
astuto per ricompensare quelli più attivi, pur se spetta comunque al CEO assicurarsi che il
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prodotto finale sia sicuro ed economico.
Collaborare con un’azienda delle dimensioni di Google o nella produzione di prodotti
tangibili è più complesso che ritrovarsi per esaminare documenti o condividere i risultati di
una scuola media – non vi sembra?
Partecipazione diretta: redazioni, blog e aziende hi-tech fanno parte dell’ecosistema
dell’informazione ma lo sono anche i membri delle rispettive comunità. Questi soggetti hanno
specifici interessi nella comunità e vogliono essere al corrente di quanto vi accade. Non
dovrebbero quindi partecipare alle decisioni su come utilizzare le risorse a disposizione e
discutere le priorità che regolano il lavoro delle redazioni giornalistiche?
In USA di solito questo tipo di partecipazione diretta (o appartenenza) riguarda l’obolo
che si versa alla radio o alla TV pubblica. Si tratta di un concetto accattivante perché consente
ai singoli di prendere posizione e sostenere un mezzo di comunicazione senza scopo di lucro –
una mission sostenuta anche dagli sponsor che comprano spazi pubblicitari. Ma in questo
caso cosa ne ricavano questi spettatori e lettori fedeli, oltre a una borsa per fare la spesa?
Alan Rusbridger, redattore capo del Guardian, è affascinato dall’idea di appartenenza
applicata al mondo delle notizie e aspira al modello della squadra di calcio del Barcellona, i cui
fan sono membri dell’azienda quindi co-proprietari che hanno voce in capitolo nelle decisioni
chiave della squadra. Siamo forse disposti noi giornalisti a rinunciare a parte del potere e delle
controllo sulle nostre scarse risorse: «Ciao, sono Sally e sono la vostra giornalista, di cosa
volete che mi occupi oggi?».
In tal senso sono stati fatti dei passi da formica: un giornale manda in streaming la
riunione della redazione, elenca tre articoli e chiede quale dovrebbe apparire in prima pagina.
Un piccolo sito di news permette al pubblico di modificare il titolo dell’articolo in una delle tre
versioni approvate dal redattore-capo. Il fondatore di Gawker Media, Nick Denton, è quello
che va più lontano (come da sua abitudine), sfumando i confini tra chi scrive e chi legge e
consentendo agli ex-lettori di riscrivere i titoli e paragrafi introduttivi sulla piattaforma di
dibattito Kinja. C’è però ancora molto che puzza di collaborazione per com’è definita da un
museo della scienza per bambini: «Venite qui, ragazzi, potete premere questi pulsanti che
sembrano farvi fare qualcosa, ma non è niente di pericoloso e niente che abbia un impatto
duraturo».
Come fare per attivare davvero la partecipazione diretta dei membri di una comunità nella
produzione delle notizie? Al livello più alto di collaborazione, la redazione potrebbe essere
pronta a eseguire i compiti suggeriti dalla comunità: «Abbiamo bisogno di sapere questo»,
dice la comunità, «e vogliamo che usiate la vostra forza d’aggregazione per mettere insieme
queste informazioni». È in parte vero che la comunità potrebbe arrivarci grazie strumenti
come Facebook o Twitter. Ma la redazione può creare valore aggiunto nel processo di raccolta
del materiale, istruendo le persone su come raggiungere certi obiettivi, verificando i fatti,
aggiungendo contesto e spiegazioni, offrendo capacità organizzative.
Come fa una persona a coinvolgersi in maniera attiva? Cinicamente, per qualcuno ciò
equivale soltanto al contributo economico: dacci i soldi e ti daremo accesso alle nostre cose. È
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facile che un cittadino versi l’obolo per sostenere l’impegno giornalistico ma chi vorrà
coinvolgermi attivamente è probabile che in cambio vorrà avere voce in capitolo – e i
giornalisti vorranno assicurarsi che questa voce non sia cooptata dagli sponsor (argomenti che
approfondirò in un altro articolo sui nuovi business model). Qualcuno potrebbe portare valore
aggiunto in vari modi, cioè proponendo idee, suggerimenti, contenuti, promozione, impegno.
Questo tipo di partecipazione diretta richiede uno scambio di valore, dove entrambi i soggetti
della transazione danno qualcosa per ricevere in cambio qualcos’altro.
C’è un altro modo per considerare il punto, che non pone la redazione in un’egocentrica
posizione centrale del diagramma di Venn bensì alla sua estremità: la comunità esiste già e la
redazione ne è semplicemente un altro membro, che offre valore per ricevere valore. Quando
bazzicavo redattori e dirigenti del Telegraph di Londra, notai che costoro capivano
chiaramente di essere al servizio di diverse tribù (parole testuali) di persone con interessi
condivisi: conservatori, sì, ma anche viaggiatori e giardinieri e gente interessata all’arte o
all’istruzione o alla storia. Giustamente si chiedevano come avrebbero potuto aiutare queste
comunità pre-esistenti a sviluppare i loro interessi (vedasi Mark Zuckerberg), fornendo loro
non solo notizie e contenuti ma anche delle piattaforme per condividere le proprie
conoscenze, per incontrarsi o fare acquisti. La partecipazione diretta non è un mero casello
autostradale, bensì una strada a due direzioni.
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5. Giornalismo come impegno sociale, etico ed educativo
(d a Medium,
14/04/2014)
“Organizzatore di comunità” suona come la battuta cruciale di una barzelletta su Barack
Obama fatta a Fox News. Eppure, se le redazioni devono porsi a servizio delle comunità, non
di rado sono chiamate a contribuire all’organizzazione di queste comunità in maniera
alquanto pratica: ascoltandone le necessità, attirandone l’attenzione su certi temi, portandole
a incontrarsi e confrontarsi, spingendole ad agire e aiutandole a raggiungere i propri obiettivi.
Questo sembrerebbe violare il nostro mito professionale dell’oggettività e della distanza, mito
per cui (come l’equipaggio di Star Trek) sottostiamo alla Prima Direttiva di non interferire con
altre forme di vita, limitandoci a osservarle. Ma la verità è che da tempo le testate
d’informazione spingono la gente a prendere l’iniziativa – non è forse questo l’esito auspicato
del giornalismo investigativo (le cosiddette crociate), cioè stimolare i lettori a far pressione
sulle autorità per specifici interventi, ad avere un impatto sociale, a spingere per il cambiare le
cose? Eviterò lo stantio dibattito sull’oggettività del giornalismo e confesso che sul tema ho
una ferma convinzione: noi non siamo oggettivi.
Se i tradizionalisti del settore non hanno già appallottolato e gettato via quest’articolo (o
qualsiasi altra cosa si possa fare, nell’era del post-cartaceo, a un testo elettronico che ci
disgusta) di fronte alla mia precedente affermazione che non dovremmo occuparci dei
contenuti bensì soprattutto di creare delle narrative, quest’ultima battuta può portarli ad
accendere un fiammifero o staccare la spina. Eppure andrò ancora oltre, sostenendo che se
non propugna l’impegno sociale allora non è giornalismo. Non è forse la difesa dei princìpi e
del bene pubblico il vero banco di prova del giornalismo? Le scelte che noi giornalisti facciamo
su quali notizie riportare e come le raccontiamo, rispetto a quel che i lettori devono sapere,
sono atti di impegno sociale per conto della gente. Non pensiamo forse di agire nel loro
interesse? Per citare James Carey, docente di giornalismo alla Columbia University: «Il bene
indiscusso del giornalismo, la sua quintessenza, il termine senza cui quest’impresa non ha
senso, è il pubblico”. Quando il Washington Post – il cui ex direttore decise di non votare più
alle elezioni per mantenere quel tipo di oggettività professionale – sceglie di fare un’inchiesta
sui segreti di Stato o sugli abusi amministrativi ai danni dei reduci di guerra oppure sugli
illeciti del presidente e relativi insabbiamenti, allora sta agendo in difesa del pubblico.
Quando un direttore incarica i reporter di lavorare sulle truffe ai danni dei consumatori o
sulle frodi di Wall Street oppure sull’appropriazione indebita di fondi statali, opera a tutela del
pubblico. Quando un giornale si accolla la causa dei poveri, degli emarginati, dei maltrattati o
semplicemente quella del cittadino qualunque contro i potenti, sta agendo in loro difesa.
Quando i giornalisti che si occupano di medicina ti dicono come evitare il cancro o anche
come perdere peso, agiscono in tua difesa. Quando un redattore decide di raccontare un certo
reato in un quartiere ma non quelli accaduti in un altro, sta sostenendo gli interessi del primo.
Quando il telegiornale parla continuamente delle vincite alla lotteria senza citarne i costi
sociali, sta sostenendo la ridistribuzione regressiva della ricchezza collettiva. Potrei affermare
che l’impegno sociale riguarda perfino una recensione cinematografica che ti permette di non
buttare soldi per un fiasco clamoroso, (anche se oggi non c’è più bisogno delle recensioni per
questo – e anch’io le facevo).
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Come la mettiamo però con un canale TV che invia una troupe o un elicottero per
trasmettere il video dell’incendio del giorno senza chiarirne l’impatto complessivo oppure per
dettagliare un tragico incidente senza offrirne alcuna lezione utile? È forse a difesa di
qualcosa? No. Quando una rete TV – senza con questo voler puntare l’indice contro la TV –
dedica ore e ore ai dettagli osceni di un delitto passionale che non tocca certo la nostra vita,
possiamo forse considerarlo a difesa di qualcosa? No. Quando un sito online mostra immagini
di gattini, è un impegno sociale? Non proprio. Quando un quotidiano spreca risorse per
seguire le partite di calcio, sta difendendo qualcosa? Scusate, ma la risposta è no. Quando una
testata “racconta” le sciocchezze dei nomi celebri, si tratta qualcosa a favore del pubblico? No.
Questi esempi sono forse giornalismo? Nel contesto delineato fin qui, no.
Ovviamente ci sono delle limitazioni a questa spinta sociale, altrimenti torneremmo al
tempo in cui i giornali erano gli organi dei partiti politici e ne veicolavano gli interessi. Quel
che ci distingue dal passato – oltre al sostegno economico garantito dagli inserzionisti – è
l’onestà intellettuale e l’indipendenza, l’affermazione dei princìpi etici, la nostra credibilità. È
questo che distingue il giornalismo dal semplice impegno sociale. Citando Michael Oreskes,
redattore prima del New York Times e poi dell’Associated Press: «Il fulcro sono le pratiche
corrette ed etiche; in loro assenza, non è giornalismo». Come esempio di onestà intellettuale
citerei il Guardian e la sua cronaca delle rivelazioni di Edward Snowden sulla National
Security Agency (NSA). La missione dichiarata testata è quella di essere prima voce liberal al
mondo; non c’è impegno sociale più evidente di questo. Eppure la copertura del caso NSA ha
messo in seria difficoltà proprio un governo liberal. Quindi il Guardian sostiene la libertà e i
diritti individuali e la democrazia di fatto, non certo una parte politica. In quanto entità
giornalistica, il Guardian ha dovuto chiedersi se il pubblico avesse il diritto di conoscere le
rivelazioni di Snowden, a prescindere da chi potesse avvantaggiarsene (nella misura in cui
non ledevano gli interessi del pubblico in termini di sicurezza). Il punto successivo per il
Guardian era capire se ciò era un valore aggiunto a livello d’informazione e perché.
Ovviamente questo è un altro banco di prova per il giornalismo. Edward Snowden, come
Wikileaks, ha fornito una gran quantità di documenti grezzi e segreti. In entrambi i casi, il
Guardian vi ha aggiunto valore evitando di pubblicare quel che poteva essere pericoloso,
guidando il pubblico nelle rivelazioni e soprattutto aggiungendo la cronaca ai dati grezzi,
verificando e spiegando ove necessario.
Cos’è quindi quella cosa che chiamiamo giornalismo ma che non propugna impegno
sociale o difende i princìpi, che non è a servizio dei bisogni del pubblico? Nel peggiore dei casi
è sfruttamento (esca per lettori, vendite o clic). Nel migliore dei casi è intrattenimento. Il
primo è peggiorativo, il secondo può non esserlo, perché l’intrattenimento – che sia narrativa
giornalistica o un libro, uno spettacolo, un film – può sempre informare e spiegare. Ma se non
offre informazioni che la gente possa usare per gestire meglio la propria vita o società, direi
che non può considerarsi giornalismo rispetto ai risultati e all’impatto sociale.
Il giornalismo come impegno sociale è stato messo insieme al giornalismo come
intrattenimento per motivi economici: l’intrattenimento può attirare la gente verso un certo
medium e contribuire a sostenerne le spese. È stato forse un errore metterli in un’unica
categoria? Se un quotidiano fa informazione, va considerato giornalismo tutto ciò che
producono suoi redattori? No. Corollario: chi non è giornalista può comunque fare
giornalismo. Ciò riguarda il valore distribuito, non una qualifica professionale.
Perché non sposare quindi la causa dell’impegno sociale e assicurarci di farne buon uso?
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Perché non misurare i risultati e l’impatto di tutto il nostro lavoro in base a quanto si riesce a
ottenere? Perché non fare partnership con le comunità e usare le nostre competenze per
aiutarle a raggiungere loro obiettivi (e impegnarsi a tutelarli)? Se facciamo così, poi il nostro
successo sarà misurato dall’apporto concreto offerto alla comunità per raggiungere i suoi
obiettivi, ripensando adeguatamente la definizione del nostro lavoro e i requisiti necessari.
Dobbiamo usare o creare piattaforme che permettano alle comunità di esplicitare e
identificare i propri obiettivi. A un livello elementare, l’hashtag #occupywallstreet era solo
una piattaforma senza grande significato fino a quando sono stati gli stessi membri della
comunità nata attorno a quell’hashtag a riempirlo di significato. Grazie a piattaforme più
complesse, i vari gruppi potrebbero raggiungere obiettivi di maggior portata.
C’è un altro ruolo da mettere in elenco: forse i giornalisti dovrebbero vedersi come degli
educatori. Ovviamente questo non vuol dire che siano dei relatori intenti a trasmettere dal
placo un flusso unidirezionale verso un pubblico passivo. Un vero educatore spinge gli
studenti a sperimentare, a condividere e costruire in autonomia, in base a proprie abilità,
desideri e bisogni. Dopo aver individuato le necessità individuali o collettive, i giornalisti e le
annesse testate potrebbero così insegnare loro come soddisfarle. Concetto che, come per
buona parte di quanto esposto finora, non è affatto nuovo. Da tempo il giornalismo come
servizio va suggerendo ai lettori come raggiungere i loro obiettivi: trovare un nuovo lavoro o
ottenere il mutuo sulla casa, usare una nuova tecnologia, capire meglio un problema. La
novità è che oggi Internet offre chiari riscontri per vedere se siamo riusciti a far progredire la
conoscenza e la comprensione. Come un buon insegnante, dobbiamo chiederci se il nostro
lavoro fa sì che gli utenti e le comunità siano meglio informate, più sagge e capaci di
raggiungere i loro obiettivi, di sviluppare il proprio potenziale.
Dopo aver ristretto la mia definizione di giornalismo, consentitemi di ampliarla
nuovamente prima di delineare le nuove forme di giornalismo. Come detto sopra, il
giornalismo aiuta le comunità a organizzare le loro conoscenze per potersi auto-gestire
meglio. Scenario sempre valido. Se poi la cronaca di una partita di calcio possa considerarsi
giornalismo, forse è meglio discuterne al bar.
Traduzioni di Maria Daniela Barbieri e Valentina Barbieri. Revisione e PDF a cura di
Bernardo Parrella per Lsdi.it, settembre 2014.
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