Chiusa l`era dei mass media, come sarà il giornalismo di domani?
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Chiusa l`era dei mass media, come sarà il giornalismo di domani?
Chiusa l’era dei mass media, come sarà il giornalismo di domani? di Jeff Jarvis (buzzmachine.com - @jeffjarvis) Anteprima di un saggio (in uscita a ottobre) curato dal noto giornalista statunitense – divenuto, fra l’altro, uno dei punti di riferimento del dibattito internazionale sull’evoluzione dell’ecosistema mediatico – per indagare e riflettere in profondità su “nuovi tipi di relazione, nuove forme e nuovi modelli imprenditoriali per il giornalismo di domani”. Come spiega egli stesso: «È la mia risposta al quesito: “Adesso che la tua Internet ha rovinato l’informazione, che si fa?”. Non ho la presunzione di fare predizioni, bensì solo di esplorare le opportunità possibili». Jarvis ha concesso a Lsdi di tradurre in italiano cinque articoli d’anteprima, apparsi nella primavera 2014 su Medium, che verranno poi inclusi nel libro. Eccoli raccolti in questo PDF gratuito (disponibili singolarmente anche su Lsdi.it). 1 Premessa Nel bel mezzo della disruption continua imposta dal digitale, è più vivo che mai il dibattito globale sullo stato del giornalismo. Anzi, sul suo futuro e sulla sua inevitabile e costante trasformazione, nell’ambito altrettanto liquido della società odierna. Un futuro che inevitabilmente prende mille forme, grazie ai tanti giornalismi possibili innescati dalla rivoluzione del web e dei social media, con un'ampia varietà di esperimenti in corso. Perché una delle lezioni centrali dell’avvento diffuso di internet (e grave sarebbe non tenerne conto, qui e ora) è l’assenza di un modello unico o di pochi casi di successo da imitare, imponendo piuttosto approcci differenziati ed esperimenti localizzati, viste altresì le differenze tra Paesi e contesti, amplificate ancor più dagli strumenti online. È all'interno di questo dibattito dinamico e partecipato che si pone l’ampia riflessione in cui Jeff Jarvis – noto studioso e giornalista USA, oltre che docente presso la City University of New York e autore di uno dei blog più seguiti da anni, non solo dagli addetti ai lavori, buzzmachine.com – indaga prospettive e percorsi (nuovi modelli imprenditoriali inclusi) per il giornalismo di domani. Esplorando le opportunità sul tappeto per reinventare la professione, da una parte, e, dall'altra, per sviscerarne al meglio le potenzialità. Ribadendone comunque l’impegno sociale verso un’informazione a difesa dei principi etici e a servizio dei bisogni del pubblico. Punto importante delle analisi di Jarvis (affiancato in questo da giornalisti anche di ambito tradizionale) è la centralità del coinvolgimento e della collaborazione dirette della gente comune, del cosiddetto “ex-lettore”, nel processo di produzione dell’informazione in senso lato. Non a caso, negli articoli che seguono non manca di segnalare strumenti e modalità alla portata delle redazioni online per creare legami più profondi e utili (anche rispetto ai nuovi business model possibili) tra le comunità di riferimento e i giornalisti stessi. Sottolineando che siamo davanti a un «sistema brulicante e disorganizzato che deve essere razionalizzato mettendo tutti gli attori in rete per potenziare la nuova offerta di informazione giornalistica», Jarvis non manca infatti di dettagliare alcune pratiche ed esperimenti locali, come quello del New Jersey News Commons in cui è direttamente coinvolto. La tesi che sembra emergere è quella dove la figura del giornalista, per avere un futuro nel magma digitale, deve liberarsi da vincoli e limiti del passato per esplorare senza preconcetti strade nuove. Si tratta cioè di collaborare trasversalmente alla creazione di nuovi ecosistemi d'informazione, con il progressivo e inevitabile indebolimento dei media tradizionali e dei loro monopoli/oligopoli in mercati dominati dalla scarsità e l’arrivo di numerosi nuovi protagonisti in uno scenario in cui domina l’abbondanza. Né va sottovalutata l’opportunità per i giornalisti di vedersi anche come “educatori”, capaci di «spingere lettori e comunità a sperimentare, condividere e costruire in autonomia, in base a proprie abilità, desideri e bisogni». Ricordando altresì, insiste Jarvis, che la natura di fondo del lavoro giornalistico «non riguarda – come si è sempre creduto – solo la produzione di contenuti, quanto piuttosto la realizzazione di un servizio ai cittadini: la costruzione di una comunità in cui ciascuno rende più informati gli altri». 2 Se per certi versi questo scenario appare un po’ alieno per l’Italia, dove vigono tuttora dinamiche parzialmente diverse da quello statunitense a cui si riferiscono in primis le riflessioni di Jarvis, dobbiamo ricordarci che internet non discrimina e che le potenzialità di cambiamento sono alla portata di tutto e di tutti. Certo, la discussione va localizzata e gli esperimenti tagliati su misura per i contesti nostrani. Favorendo la massima estensione di questo dibattito onde coinvolgere direttamente, non tanto o non solo gli addetti ai lavori, bensì anche i soggetti primi della questione: “ex-lettori”, cittadini, citizen-reporter, blogger, curiosi, ragazzi e cani sciolti – oltre naturalmente a chi opera in settori complementari, dal mondo dell’istruzione alla cultura ai new media e quant’altro. Sappiamo bene che anche nel mondo dell’informazione italiano, pur con tutti i suoi problemi, c’è una gran voglia di innovazione e sperimentazione, oltre che urgente necessità di differenziare i business model e investire nelle nuove leve. Soprattutto oggi che l’era dei media di massa, di un modello unificato da imporre a tutti su come e quando fare informazione, è decisamente obsoleta, anzi bell’e defunta, come sottolinea lo stesso giornalista statunitense. Se vogliamo anche in Italia un giornalismo che sia davvero capace di trarre vantaggio dalla costante disruption di internet, occorre aprire le porte al nuovo nelle sue mille forme, dando spazio e sostenendo i tanti giornalismi possibili. Oltre, appunto, a coinvolgere quanti più soggetti possibili nell’articolato dibattito in corso. Quadro in cui i suggerimenti di un veterano come Jeff Jarvis, pur con le dovute differenze tra i due contesti, possono senz’altro costituire un importante spunto di discussione e, perché no?, uno stimolo per adattare e applicare anche nel Bel Paese qualche buona pratica citata di seguito. – Bernardo Parrella, settembre 2014 3 Chiusa l’era dei mass media, come sarà il giornalismo di domani? di Jeff Jarvis (buzzmachine.com - @jeffjarvis) 1. Cala il sipario sui mass media (da Medium.com, 10/02/2014) «Di fatto, non ci sono masse», asserisce il sociologo Raymond Williams. «Esiste solo il vizio, la cattiva consuetudine di considerare la gente come massa. E senza masse cosa ne sarebbe dei mass-media? Questi sono costruiti per raggiungere ampi gruppi di persone, tutte in una volta, nello stesso modo. La nostra meraviglia industriale sta proprio nel fatto di riuscire a produrre e distribuire un prodotto stampato complesso e puntuale, oppure sfruttare la tecnologia per raggiungere un enorme quantità di gente tramite trasmissioni quotidiane. Le nostre infrastrutture e i business model sono fatti per la moltitudine. Diavolo…sono stati i mezzi di comunicazione a inventare la massa. Sento ancora gente della mia età lamentare la scomparsa della grande esperienza mediatica condivisa su cui girava l’era di Walter Cronkite, come se fossimo stati creati per sederci, tutti insieme e nello stesso momento, a guardare le stesse immagini delle medesime notizie. In realtà è stato un periodo circoscritto: dalla metà degli anni cinquanta – quando l’arrivo della televisione ha ucciso la seconda e la terza testata delle città americane, lasciandone solo la più grande a servire tutti allo stesso modo – alla metà degli anni novanta, con l’arrivo di Internet, che ha ferito a morte quelle testate monopolistiche e minacciato l’egemonia della televisione. Ma la vera vittima di Internet non è stato un qualche medium specifico. Quel che è stato fatto fuori è il concetto stesso di massa. Dovremmo forse continuare a fornire servizi alla gente intesa come massa, ora che possiamo servirli e connetterci con loro come individui? In questo saggio sostengo che le relazioni – conoscere la gente in quanto individui onde poterli servire meglio, con maggior pertinenza, creando così un valore aggiunto – costituirà una necessità per i business model dell’editoria giornalistica, sarà la chiave per la loro sopravvivenza e per il successo. Certo, ovviamente dovremo ancora creare dei contenuti, ma non sono questi il prodotto finale. Il contenuto sarà solo uno strumento usato per servire e informare la comunità e i loro membri. Il contenuto potrà ancora rivestire un valore intrinseco, inteso come qualcosa da vendere, ma d’ora in avanti avrà anche un valore in quanto strumento per conoscere una persona: ciò che le interessa, quel che sa e quel che vuole conoscere, dove vive e cosa fa. Tutti segnali che possono spingere una testata a offrire maggior rilevanza e valore aggiunto, e quindi, di rimando, a guadagnarne in termini di lealtà, fidelizzazione e ricavi – che è poi il modo di operare di Google, Facebook e Amazon. Sfortunatamente, noi del mondo dell’informazione non siamo organizzati per fare ciò. Offline possiamo ottenere i nomi degli abbonati, i loro indirizzi, i dati delle carte di credito per addebiti e consegne. Online, pur avendone raccolto indirizzi email e dati personali, non abbiamo ancora i mezzi adatti per raggruppare, analizzare e assecondare i bisogni e gli 4 interessi dei lettori. Non li conosciamo davvero, li contiamo soltanto, vogliamo solo questi anonimi ‘utenti unici’ da aggiungere alla massa critica, in modo da poter fornire loro pagine standard e venderli in massa agli inserzionisti. Sono ancora questi i parametri mediatici tramite cui ne misuriamo il successo. Conosco più di una testata online locale che ha lavorato duramente per l’ottimizzazione del proprio motore di ricerca e che ha finito per attrarre milioni di utenti, ottenendo milioni di visualizzazioni al di fuori del proprio mercato. Quegli utenti sono privi di valore per gli inserzionisti locali, che costituiscono la maggiore fonte di guadagno per quei siti: gli utenti al di fuori dal bacino naturale rovinano perfino i rendimenti dei pubblicitari locali. A chi interessa cliccare su un prodotto venduto a migliaia di chilometri di distanza? Finiscono così per essere serviti da canali di basso valore e con pubblicità spazzatura. Più d’uno di questi siti locali ha calcolato il valore degli utenti locali rispetto a quelli lontani con un rapporto di 25 a 1. E così abbiamo il primo, solido mattone nella costruzione di una relazione vera con l’utente; vive forse all’interno del nostro mercato locale? Non è un dato cruciale, bensì d’importanza relativa. Come passo successivo, la testata dovrebbe conoscere la città e il quartiere dove vive e lavora l’utente, in modo da potergli offrire notizie relative alla sua zona o valutazioni sui ristoranti vicini all’ufficio. Altri di ridotta importanza. Un passo ulteriore dovrebbe essere saperne età, genere, stato civile, condizione familiare e interessi. L’utente non ce li rivelerà per il solo fatto che glieli chiediamo – quante volte abbiamo mentito in qualche fastidiosa pagina di registrazione sul web? La sola ragione per cui ci racconterà di lui sarà se potrà trarne beneficio, lasciandosi coinvolgere in una relazione volontaria basata sulla mutua utilità. Se, per esempio, vogliamo sapere dove vive o lavora l’utente, perché non realizzare un servizio sul traffico, gli orari, ecc., che lo aiuti nel suo tragitto da pendolare? Ciò non andrebbe basato sui formati tradizionali, lo schema classico della piramide rovesciata, per puntare piuttosto su funzionalità utili, come le mappe di Google o di Waze, percorsi di viaggio che i pendolari possano verificare, o una piattaforma che consenta loro di condividere, in una comunità omogenea, suggerimenti, frustrazioni e avvertenze sui tragitti per andare al lavoro. Una volta saputo di più sull’utente, protremo fornirgli servizi personalizzati più rilevanti, così come messaggi pubblicitari o commerciali più affini, facendogli sprecare meno tempo con contenuti a lui non congeniali (né buttare al vento i soldi degli inserzionisti) ed evitando, per esempio, l’inserzione di un ristorante a due ore di strada o per la vendita di una carrozzina a dei nonni. I contenuti e i servizi che proporremo a quest’utente ideale continueranno a includere notizie che si ritiene chiunque debba e voglia conoscere – dalla campagna elettorale del governatore all’uragano in arrivo – ma dovrebbero, progressivamente e senza sforzo, diventare più attente alla personalità dell’utente specifico: cuciti su di lui e con priorità alla sua città, alle scuole dei suoi figli oppure ai suoi interessi più svariati, dal tennis all’azienda dove lavora. Le capacità relazionali chiave che gli addetti ai lavori debbono acquisire sono: come fornire servizi che diano alla gente una ragione per svelare sé stessi; come costruire fiducia reciproca in modo che lo facciano; come acquisire questi dati, analizzarli e maneggiarli a beneficio dell’utente; e come sfruttarli per trarne un vantaggio economico. È fondamentale offrire qualcosa di valido prima di poterne estrarre altro valore. È quanto fa Google fornendo servizi utili gratuiti, dalla email al calendario, da G+ alle mappe a YouTube. Ed è per questo che Google è entrato in questi nuovi settori oltre alla ricerca, soprattutto per il mobile. Ognuno di questi servizi genera dati personali che Google può usare per creare rilevanza e 5 valore per gli utenti e che, di ritorno, genera utili enormi per Google stesso. Quando uso Google Maps sul mio cellulare Android, senza rendermene conto dico a Google dove sono e dove sto andando, in modo che possa aiutarmi a raggiungere quel posto. Dico a Google cosa sto cercando, in modo che possa aiutarmi a trovarlo. Dico a Google chi sono i miei amici, nel caso possano raccomandarmi qualcosa. Non c’è violazione della privacy da parte mia o di Google: sono io a scegliere di fare così, traggo beneficio da questa relazione costruita su informazione, servizio e fiducia (e non è forse questa la nuova mission d ei mezzi d’informazione?) La prossima frontiera per Google, così come per Amazon e innumerevoli altre aziende, dai fornitori di carte di credito ai produttori di buoni-sconto, è quella di seguire quanto più da vicino possibile le nostre transazioni: saranno questi i dati di maggior valore in assoluto. Che è poi una delle ragioni per cui Google e Amazon stanno sperimentando la spedizione “nello stesso giorno” di merci acquistate online, scontrandosi così con i rivenditori locali, che poi spesso sono gli inserzionisti dei quotidiani locali (ed ecco un altro mattoncino tirato via dalla nostra torre). Sono tutti in lotta per sapere chi siamo, dove siamo, cosa vogliamo – provando altresì a trovare il modo per aiutarci a capirlo. Saranno queste competenze la chiave di svolta per il risorgere quantomeno di giornali (meglio, le testate locali), riviste (cioè pubblicazioni basati su interessi specifici) e forse perfino delle radio (il più di massa tra i mass-media). Una testata locale dovrebbe sapere dove vivi e cosa t’interessa di più; e dovrebbe avere maggiori opportunità di imparare tutto di te rispetto a una multinazionale come Google, in ragione del fatto che è in grado di darti informazioni sulla tua città (e imparare dove vivi e quali problemi ti stanno a cuore). Può aiutarti a trovare ottimi posti dove mangiare grazie a raccomandazioni in loco (e magari scoprire che sei vegetariano). Può aiutarti a trovare il divertimento più adatto (e scoprire quali sport segui, il tipo di musica o il genere di film che ti piace). Può metterti in contatto con persone della comunità (e sapere, per esempio, se sei un genitore o fai parte di un certo gruppo etnico). Le testate giornalistiche potrebbero usare questi dati per personalizzare quanto già producono – e questa è la parte più semplice – oltre che per rifinire le loro priorità e impiegare meglio le risorse per la creazione di servizi. Quando ho lavorato come consulente presso About.com, dopo essere stata acquisita dal New York Times, i redattori studiavano le domande immesse nei motori di ricerca per capire quali di queste avevano portato i lettori al loro sito: se la gente poneva domande per le quali non c’era ancora una risposta, toccava a loro fornirla. È stata una grande scoperta per me. Le testate giornalistiche non dovrebbero forse avere robusti mezzi per ascoltare i bisogni e raccogliere le curiosità del pubblico? Ora, i giornalisti diranno che il loro lavoro non dovrebbe essere dettato o condizionato dai desideri del pubblico, altrimenti non dovremmo fornire loro nient’altro che…be’, gossip e violenza, con cui li abbiamo già ingozzati a sufficienza. Ma non c’è nulla di male nel prestare ascolto a coloro per cui lavoriamo: se scopri che ci sono migliaia di pazienti affetti da cancro nel tuo bacino d’utenza, perché allora non aggiungere un blog condotto da un oncologo e una comunità web sul cancro? Se vieni a conoscenza del fatto che la gente è infuriata per il malfunzionamento del servizio ferroviario, be’, questa è una buona ragione per incaricare un giornalista di indagare al riguardo. Queste capacità relazionali potrebbero essere perfino più importanti nelle riviste; alcuni anni or sono, mi fu chiesto di far parte di un gruppo di lavoro, come relatore, a un convegno del settore; qualche giorno prima dell’evento, l’organizzatore dell’evento mi chiese: «Jeff, dirai mica che le riviste sono condannate al tramonto?». E prima che riuscissi a rispondere, 6 aggiunse: «Se sì, per favore, potresti evitare di partecipare?». Allora chiesi a me stesso se le riviste avessero qualche motivo di speranza. Decisi che il punto era riuscire a superare la transizione dal cartaceo al web, perché i periodici sono sempre state circondate da comunità omogenee che ne condividono interessi e informazioni, e grazie a Internet c’era il boom delle comunità. Ma oggi sembra che le mie analisi fosserro errate: Gourmet, Newsweek, Mademoiselle, Parenting sono scomparse, e tante testate sono allo stremo. La decantata Time Inc., forte oggetto di desiderio prima per Warner Brothers e poi per AOL, sta per essere esiliata da Time Warner, in modo da tenere i suoi pidocchi lontani dall’impero dell’intrattenimento. Ho sempre amato le riviste, ne ho comprate a quintali. Ho lavorato per loro, ne ho avviata una, Entertainment Weekly. Ma adesso non le compro più né in cartaceo né per il mio tablet. Come la regina delle riviste, Tina Brown, a malapena ne leggo qualcuna. Ma ciò non significa che abbia perso ogni speranza sui periodici, così come non mi sto arrendendo sui giornali. Hanno ancora così tanto potenziale nel raggruppare la gente intorno a un interesse, un’idea, nel creare valore aggiunto per le comunità e i loro aderenti. Per costruire nuove competenze nell’ambito mediatico, dobbiamo smettere di considerare le persone come massa. Abbiamo necessità di conoscerle, per poi servirle in quanto individui. E perciò dobbiamo spostare i nostri parametri del successo da anonime misurazioni di massa – circolazione, utenti unici, pagine visualizzate, indirizzi email – alle relazioni tra singoli individui, chiedendoci: – Quante persone conosciamo (anche se non per nome, quantomeno rispetto ai loro ambienti, bisogni, interessi o comportamenti)? – Quanti stimoli diamo a costoro per convincerle a farci sapere di più su loro stesse (cosa offriamo tra i servizi che li interessano)? – Quanto sappiamo di ogni singolo individuo, quanti dati minori abbiamo raccolto su di loro? – Come poter usare questi dati a loro beneficio? – Come poter sfruttare queste informazioni a nostro vantaggio, tramite inserzioni, accesso a pagamento, rivendita dei dati, organizzazione di eventi o altri modelli (di cui parlerò nel prossimo articolo)? - E il criterio di misura più importante di tutto il giornalismo: quanto sono informati i membri della comunità di riferimento? Tanto quanto vorrebbero? Ciò impone come prima cosa che lo si chieda loro e gli si dia ascolto rispetto a bisogni e risultati a cui punta, e poi che si trovino i mezzi migliori per accontentarli, grazie a piattaforme di condivisione, all’informazione, ai dati aperti, al giornalismo e alla cronaca. Se i media riconoscessero tutti costoro come individui e comunità, e se fossero capaci di guadagnarne la fiducia per poterli servire in maniera unica e positiva, questa potrebbe essere la base per imprese di tipo nuovo e rinnovato. Ma questo è un enorme “se”. 7 2. Fornire contenuti oppure servizi? (da Medium, 10/02/2014) Fare informazione equivale a produrre contenuti? Dovrebbe essere così? Forse è una trappola per noi giornalisti definirci creatori di contenuti. Questa visione del mondo ci convince che il nostro valore sia insito interamente in quel che produciamo, anziché nel positivo che se ne trae. La convinzione che il nostro lavoro è produrre contenuti ci porta ad attivare i paywall per proteggerli, nella convinzione che la gente debba pagare per i nostri contenuti, perché ci costa danaro produrli e perché li ha sempre pagati. Ciò ci spinge a combattere strenuamente per difendere i nostri prodotti da quello che percepiamo come un furto – in base alle vigenti norme sul diritto d’autore – anziché riconoscere che i contenuti validi e l’informazione così veicolata possano far forma a relazioni di tipo nuovo. In quanto produttori di contenuti, ci separiamo dal pubblico mentre creiamo i nostri prodotti finché non è finito e lo rendiamo pubblico. In fondo è quanto ci viene continuamente richiesto dai mezzi di produzione e distribuzione, e solo ora stiamo imparando a collaborare durante questo processo. Il nostro monopolio su quei mezzi di produzione ci ha altresì convinti di poter possedere, controllare e stabilire il prezzo di quella scarsità chiamata contenuti. Queste circostanze ci hanno resi impreparati per l’era tecnologica in cui le copie costano poco o nulla, dove abbondano i contenuti (e quindi la concorrenza), dove l’informazione diviene una bene di consumo nell’istante in cui basta un link e un clic per essere rilanciata. Un’epoca in cui il valore dell’informazione – ancor prima che venga diffusa e conosciuta – ha una vita oggi misurabile in millisecondi. Il contenuto, com’è evidente, non è poi questo grande affare. Suggerire che il nostro lavoro non riguarda la produzione di contenuti vuol dire considerare i giornalisti incapaci di raccontare qualcosa: un’eresia davvero enorme. Quest’idea distrugge ogni nostro assunto e quel che ci è caro del nostro mestiere: il modo stesso di lavorare, i processi di produzione, lo status giuridico, la misura del successo e sicuramente il nostro business model. Ma non abbiate paura: continuerò a sostenere la validità dei contenuti. Chiarendo però che il valore dei contenuti potrebbe essere più uno strumento che un fine in quanto tale – e meno che mai l’unico nostro prodotto. E allora, se il nostro mestiere non riguarda i contenuti, di cosa si tratta? Proviamo a considerare il giornalismo come un servizio. Il contenuto va a riempire qualcosa, mentre il servizio punta a raggiungere un obiettivo. Per essere un servizio, il giornalismo dovrebbe mirare ai risultati piuttosto che ai prodotti. Quale dovrebbe essere questo risultato? Sembra ovvio: individui meglio informati e una società meglio informata. Ma come definire il concetto di “informato” e chi ne sancisce il successo? I giornalisti ritengono che il loro mestiere sia quello d’informare il pubblico, mentre spetta agli editori stabilire cosa debba sapere la gente. Dobbiamo mettere da parte quest’atteggiamento piuttosto paternalistico rispetto a chi ci rivolgiamo, perché se non crediamo alla volontà del pubblico di essere informato, allora dovremmo arrenderci e rinunciare alla democrazia, al libero mercato, all’ideale dell’istruzione, per non parlare del giornalismo. Ho fiducia che continuerà a esistere mercato e domanda per quell’informazione di cui la società ha bisogno per funzionare. Questo deve essere un atto di fede, se vogliamo avere la speranza di sostenere il giornalismo. 8 Occorre altresì prendere nota di quanto afferma Dan Gillmor, a volte citato opportunamente e altre meno: il nostro pubblico ne sa più di noi. E così non è necessariamente nostro compito informare, quanto piuttosto rendere ciascuno di noi in grado di informare gli altri. Vale a dire: sappiamo cosa hanno bisogno di sapere gli altri, ma in passato avevamo strumenti spuntati per diffondere questa conoscenza: il reporter trovava l’esperto, il testimone o il funzionario adatto per rispondere ad una domanda e la testata giornalistica diffondeva quanto aveva scoperto. Adesso abbiamo maggiori strumenti a disposizione per comunicare in maniera diretta. Quindi, forse, il nostro primo compito nell’espansione del giornalismo di servizio dovrebbe esser quello di offrire piattaforme che mettano in grado individui e comunità di cercare, portare alla luce, raccogliere, condividere, organizzare, analizzare, comprendere e usare le proprie informazioni (oppure di ricorrere a piattaforme già esistenti per tutto ciò). Internet ha dimostrato di essere un ottimo strumento per permettere alle comunità di informare in modo indipendente, condividendo gli eventi via Twitter, lo scibile via Wikipedia e le questioni importanti tramite strumenti di conversazione: messaggistica istantanea, blog, post e tweet. Strumenti che, pur se banali, ripetitivi e usati talvolta in maniera incivile, sono comunque parte del contesto culturale. Ovviamente ogni comunità dovrà sapere molte più cose di quelle fornite da un veloce scambio d’informazione. Ed è lì che i giornalisti debbono e possono aggiungere valore, facendo domande alle quali non si sia già risposto – tramite segnalazioni e inchieste, aggiungendo contesto e spiegazioni, trovando e includendo competenze specialistiche, soppesando fiducia e influenza, controllando fatti e dissacrando ipotesi e dicerie, rendendo accessibile l’informazione attraverso il racconto o la visualizzazione, confezionando e presentando adeguatamente i contenuti con le opportune modifiche, cure e annessi. Certe competenze sono di vecchio stampo: cose che i giornalisti hanno sempre fatto, oggi velocizzate. Altre sono nuove, rese possibili dalla tecnologia: la presentazione di dati per i sondaggi pubblici; la creazione di strumenti nuovi; l’avvio di discussioni; l’organizzazione di attività correlate. E allora, sì, c’è bisogno dei giornalisti: Ma la mera distribuzione di notizie non è più un nostro monopolio e non è l’uso più appropriato delle nostre scarse risorse. Senza questo monopolio nell’informazione, non possiamo più vantarci di decidere quel che il pubblico deve sapere. Spesso quest’ultimo s’informa a nostra insaputa. Anzi, più lo aiutiamo a informarsi in proprio, più la gente è informata e maggiori sono le nostre opportunità di fornire valore aggiunto, e meno ci costerà tutta questa valanga di notizie. Quest’idea di giornalismo finalizzato richiede da noi giornalisti il rispetto del pubblico, di ciò che conosce e di cui ha bisogno, e di quanto vuole sapere. Questo ci spinge a smettere di ritenere di saperne più di loro, per creare piuttosto sistemi per raccogliere la conoscenza degli utenti. Ricordiamoci che è stata questa l’intuizione fondamentale che ha portato Larry Page e Sergey Brin a inventare il motore di ricerca (e di grandi affari) Google. Si sono fidati dei clic degli utenti, creando un sistema per osservare e imparare da quei clic, in modo da poter organizzare la conoscenza del mondo e renderla accessibile e utile a ogni singolo utente in quanto individui. Non è anche questa un’ulteriore conferma della vera mission del giornalismo? Permettetemi di applicare quest’idea a un esempio pratico: quando nel 2012 l’uragano Sandy ha colpito il New Jersey, dove vivo, e New York, dove lavoro, le mie esigenze d’informazione erano chiare: volevo sapere quali le strade chiuse, dove mancava la corrente, dove operavano le squadre di soccorso, quali le stazioni di rifornimento attive, quali i negozi e i ristoranti aperti – e con il wi-fi – e quali le linee di trasporto operative. La maggior parte di 9 questi dati è efficace se rappresentati in elenchi costantemente aggiornati. Ma per la gran parte le testate online offrivano articoli che sintetizzavano sommariamente simili dati ed evidenziavano incompletezza e ritardi, risultando quindi del tutto inaccurati. La narrativa dei media mi diceva che moltissimi alberi erano caduti, che tantissime case erano senza energia elettrica, e riproponevano le testimonianze dei residenti. Ma non mi dicevano nulla che io già non sapessi e, soprattutto, nulla di ciò che volevo sapere. La carenza di dati in quegli articoli era determinata dal modo classico di fare giornalismo con mezzi di produzione invecchiati e del relativo business model. C’era bisogno di confezionare l’informazione nei confini delle pagine o di un programma TV. Potevamo permetterci un numero limitato e prefissato di giornalisti, i quali avevano solo dei modi predeterminati di procurarsi le notizie e così la nostra conoscenza era obbligatoriamente limitata. Quelle condizioni oggi non si applicano più. Ora abbiamo modalità nuove per raccogliere notizie da svariate fonti e per renderle disponibili alla gente come meglio credono. E abbiamo i mezzi per scoprire di cosa ha bisogno il pubblico. Immaginiamo se una testata locale avesse messo su un servizio con una mappa, semplice, per consentire ai cittadini di pubblicare foto delle loro strade e quartieri con delle didascalie – i metadata – che indicavano le strade chiuse e dove si trovano le squadre di soccorso, con l’orario come fattore rilevante e ben indicato in ogni visualizzazione. Ebbene, non è che toccasse alla testata online realizzare la mappa: bastava riprendere quella funzionalità da Google Maps, SeeClickFix (servizio che consente di segnalare problemi relativi al proprio quartiere), oppure Ushahidi (piattaforma open source tramite cui raccogliere e mostrare dati su una mappa). La testata locale potrebbe poi usare la sua forza comunicativa per attrarre l’attenzione della comunità nell’intento di spingere i residenti a condividere ulteriori dati. Lavorando in rete con i blogger, avrebbero poi potuto condividere le conoscenze di più utenti e di varie comunità. Il sito avrebbe potuto fornire ulteriori dati utili, chiedendoli alle aziende di fornitura di energia elettrica o altri servizi pubblici, per indicare dove si trovavano le squadre operative e chiedendo riscontri ai cittadini sulle asserzioni delle autorità (quello scetticismo giornalistico e controllo in itinere che sono venuti tristemente a mancare nella copertura degli eventi catastrofici nella mia città). Fornendo a residenti e autorità gli strumenti per condividere i dati, le testate locali avrebbero potuto soddisfare in modo efficace le esigenze specifiche di cui sopra. Dove c’è qualcosa che non torna, è là che interviene il giornalista, verificando l’accuratezza dei dispacci delle aziende pubbliche o chiamando il sovrintendente scolastico per sapere quali saranno i requisiti per la riapertura della scuola. Il giornalista può anche chiedere ai cittadini cos’altro abbiano necessità di sapere: se la piattaforma fornita dal sito è sufficientemente flessibile, i residenti potranno operare in autonomia per soddisfare i propri bisogni, anche quelli ancora imprevedibili (la flessibilità è il criterio imprescindibile di una vera piattaforma). Se all’epoca dell’uragano Sandy fosse già stato così, i miei vicini dotati di generatori di corrente avrebbero potuto annunciarne la disponibilità per gli altri per ricaricare i cellulari, e chi ne era privo avrebbe potuto organizzarsi per acquisti collettivi prima dell’uragano successivo (consentendo a elettricisti esperti di fare offerte per la vendita). Tutto ciò riazzera il classico rapporto giornalista/pubblico. Oggi il pubblico ne sa più del giornalista e questo può prestare ascolto alla gente e alle sue esigenze. Non si tratta soltanto di creare una relazione di collaborazione tra il giornalista e il suo pubblico, ma anche di porre il giornalista nell’appropriato ruolo di professionista di pubblica utilità, con il pubblico che ne segue la guida. Tutto questo è più che fare crowdsourcing, significa condividere il lavoro con il 10 pubblico, chiedendo ai lettori di completare e rifinire il prodotto già preparato dal giornalista. Questo punto di vista permette al pubblico di usare gli strumenti come meglio ritiene per condividere le informazioni che ritiene importanti. È questo il modo di considerare il giornalismo come servizio, non come contenuto. Se consideriamo i contenuti in quanto strumento al servizio del giornalismo e delle comunità di riferimento – piuttosto che come fine ed essenza della nostra professione – allora riusciamo a cambiare qualcosa di più che il nostro rapporto con il pubblico. Cambiamo i processi operativi dando così vita a canali nuovi. Costruiamo sistemi che consentono alla comunità di condividere quanto già conosce –più è, meglio è – e lo analizziamo per vedere dove ci sia bisogno di lubrificare la macchina pubblica, eliminare doppioni, correggere errori, migliorare presentazioni, riempire spazi vuoti. Cambiamo le nostre procedure lavorative. Non sto certo dicendo che tutti i giornalisti debbano divenire programmatori per costruire piattaforme online migliori. Dovremmo però cominciare a considerarci come formatori, allenatori, educatori e (talvolta) perfino organizzatori e sì, anche come attivisti. Cambiamo il modo di misurare il successo! Non tramite gli utenti unici e il numero di pagine visualizzate, bensì con la quantità, la profondità, la qualità e il valore delle relazioni che costruiamo e il livello d’informazione raggiunta dalla gente come risultato del nostro lavoro. Forse dovremmo addirittura riconsiderare il nostro atteggiamento difensivo nei riguardi del diritto d’autore, dato che non saremo più creatori esclusivi dei contenuti per diventare anche re-distributori di notizie altrui. E ovviamente ciò dipende dalla volontà di cambiare il nostro business model (tema che affronterò in un successivo articolo), costruendo relazioni di valore anziché limitarci a produrre un bene di consumo, i contenuti. Ancora una volta, facciamo riferimento scommessa di Google, Facebook, Amazon ed eBay: conoscere e anticipare i bisogni individuali genera valore aggiunto, tramite abbonamenti, pubblicità o attività commerciali. Tempo fa ho pranzato con un ex dirigente TV, il quale lamentava che Facebook e Google usavano “l’acciaio dei media per costruirsi l’auto propria”, ovvero che rendevano i contenuti un bene di consumo, usandolo per ricavare maggiori profitti dalla parte finale della filiera. “Zuckerberg – aggiunse – non ha rispetto per contenuti”. Ci ho pensato un po’ su, poi mi sono dichiarato in disaccordo: “No. Credo che Zuckerberg rispetti i contenuti più di quanto non facciamo noi: noi rispettiamo solo quelli creati da noi. Se è la gente a creare i contenuti, per noi non è altro che spazzatura”. Invece Mark Zuckerberg trova valore in quella spazzatura, così come fa Larry Page: riconoscono che i contenuti creati dalla gente comune, grazie a condivisioni e conversazioni online, invia dei segnali sia riguardo alle informazioni che agli stessi autori. Ti dicono chi sono, dove vivono, dove stanno andando o sono stati, chi conoscono, cosa sanno o vogliono sapere, cosa piace loro e cosa acquistano. Questi segnali consentono alle aziende di affinare la mira per il bersaglio-cliente sotto forma di contenuti, servizi, vendite, e pubblicità mirata, dando rilevanza ai clienti e trattandoli come individui, non come meri dati demografici. Ho raccontato all’ex dirigente una storia inclusa nel mio libro What Would Google Do?. Nel corso del World Economic Forum di Davos, Mark Zuckerberg veniva interpellato così da un potente dirigente mediatico: “Mark, spiegami come creare una comunità. Dobbiamo farlo: dimmi come si fa!”. Zuckerberg, un geek di poche parole, lo fulminò con: “Impossibile”. Punto. Dopo una pausa imbarazzata, Marc spiegò al folto gruppo di dirigenti di aziende della comunicazione che avevano posto la domanda sbagliata: “Non si possono ‘creare’ delle comunità, queste esistono già, stanno facendo quello che credono giusto. La domanda giusta da porre, è: come poter aiutare le comunità a far 11 meglio quello che già fanno”. Il consiglio che diede loro fu di dare a queste comunità una “organizzazione elegante”. Che è poi ciò che il giovane Mark fece per Harvard e in seguito per tutti noi. È quello che il giornalismo ha tentato di fare da tanto tempo ed è il modo in cui io sono arrivato alla definizione del giornalismo enunciata nell’introduzione: aiutare le comunità a organizzare la propria conoscenza in modo da potersi auto-organizzare sempre meglio. Oggi esistono strumenti assai migliori per farlo. Se il nostro ruolo in quanto giornalisti è quello di dare una mano alle comunità a organizzare le loro conoscenze e quindi se stesse, allora è chiaro che siamo nel business dei servizi e che dobbiamo attingere a vari strumenti, contenuti inclusi, e porre valore nelle relazioni che costruiamo con i membri della comunità e che potranno assumere molte forme. E quindi siamo nel business delle relazioni. Cominciamo perciò a catalogare le forme che queste relazioni possono assumere nei confronti delle persone a cui ci rivolgiamo, dell’ecosistema in cui si opera e dei nostri soci in affari. Notizie come piattaforma Torniamo all’uragano Sandy. Quando i siti generalisti non riuscirono a darmi le notizie di cui avevo bisogno e neppure il modo di procuramele, mi rivolsi direttamente ai miei vicini usando altri mezzi. Usai Patch, servizio di notizie iperlocali allora di proprietà di AOL. Era soltanto uno dei vari servizi d’informazione che fornivano articoli con resoconti tardivi di poco o nullo valore informativo, ma offriva anche una piattaforma blog che mi permise di pubblicare brevi tirate in cui mi lamentavo di come la nostra città avesse diffuso un elenco delle strade dove presumibilmente erano impegnate le squadre di ripristino dell’energia elettrica, incluse quelle della mia zona, e dove invece non si era vista nemmeno l’ombra di un camion. Criticai il Comune per essere intervenuto nel peggiore dei modi. Nei commenti in calce al post, si unirono altri i residenti, controllando gli elenchi per ciò che riguardava le loro strade e aggiungendo osservazioni personali alla mia frustrazione. Fu attraverso la collaborazione con i miei vicini e concittadini – non con la segnalazione di un giornalista – che riuscimmo a controllare come si stavano muovendo le aziende pubbliche. Se solo una testata locale avesse svolto quella funzione, fornendo una piattaforma più organizzata, sarebbe stato possibile condividere meglio quello che già sapevamo. Per esempio, si sarebbe potuto pubblicare l’elenco in un wiki, e quindi aggiungere immagini e riscontri sui punti dove i mezzi delle aziende pubbliche stavano effettivamente lavorando. Io e i miei vicini usammo le motoseghe per rimuovere una trentina di alberi dalle strade e dai passi carrai, e solo così siamo riusciti a spostare le macchine per consentire l’ ingresso alle squadre di soccorso nella nostra zona. Eravamo tutti senza corrente elettrica. Una volta usciti, alcuni miei vicini si sono trasferiti altrove, la mia famiglia, fortunatamente, in un albergo e altri ancora da qualche parente. Tutti costoro costretti fuggire da Sandy volevano rimanere in contatto tra loro per essere informati. Ricorremmo dapprima alla email, ma ben presto la catena divenne troppo complicata. Così aprii un account su un nuovo servizio, Nextdoor, che garantiva una rete privata per i miei vicini, con indirizzi verificati: una piattaforma! Anche qui però sorsero dei problemi: nel database di NextDoor mancavano gli indirizzi di alcuni vicini e la piattaforma non mi consentiva di inserirli. Il servizio mi chiedeva di aggiungere almeno altri 75 indirizzi, ma in una zona semirurale come la mia questo significava includere persone che non avevo mai incontrato e che vivevano a più di due miglia da me. E imponeva degli 12 argomenti di conversazione, soprattutto reati e sicurezza, senza consentirci di discutere delle cose che ci stavano davvero a cuore – come, per esempio, riavere la corrente elettrica e, più in là, come acquistare dei generatori. Una piattaforma vera e propria avrebbe consentito agli utenti di definire come meglio usarla. E così tornammo all’inefficiente posta elettronica. In quello stesso momento, c’era una forte carenza di carburante, dato che la caduta degli alberi e le inondazioni avevano bloccato la distribuzione delle merci e le stazioni di servizio ne avevano risentito. Quando queste riaprirono, le code per il rifornimento erano lunghe varie miglia, e così arrivò la polizia a dirigere il traffico. Quindi era chiaro che la polizia sapeva quando i distributori avrebbero ricevuto il carburante e quando avrebbero riaperto. Avrebbero potuto condividere quei dati con il pubblico e i media avrebbero potuto aiutarli a farlo. Ma non fu così. Di conseguenza, gli automobilisti cercarono ogni strumento che potesse tornare utile, sprecando benzina preziosa alla ricerca di…carburante! Molti ricorsero a un’altra piattaforma alquanto inadatta: Twitter. Condividemmo lì le informazioni mediante l’hashtag #njgas. Era un sistema imperfetto, perché significava leggere avvisi che riguardavano distributori aperti a molte miglia di distanza e le notizie avevano vita breve. Ma per quanto imperfetta, era la piattaforma migliore disponibile e si rivelò abbastanza utile da dirmi di puntare verso ovest, fino in Pennsylvania, dove avrei trovato rifornimento. Riconoscente, anch’io ho poi aggiornato i dati sulle stazioni di servizio della mia zona. Cosa sarebbe successo se una testata locale fosse riuscita a creare una piattaforma capace di soddisfare i nostri bisogni dopo Sandy, o in qualsiasi altra occasione? A cosa potrebbe somigliare? Non dico che dovrebbero mettere su un nuovo Twitter o NextDoor. Notate bene che, nel caso di Twitter, la vera piattaforma non era tanto a livello tecnologico quanto la convenzione sociale degli hashtag. L’idea stessa degli hashtag inizialmente venne proposta da Chris Messina, che non era impiegato di Twitter, il quale nel 2007 suggerì che sarebbe stato un modo intelligente per trovare tutti i tweet relativi a eventi o temi specifico. Il NJ.com reclamò la paternità del lancio e della promozione dell’hashtag #njgas dopo Sandy. Le piattaforme non hanno bisogno di programmazione, ma spesso nascono grazie a delle convenzioni e le testate locali posseggono il megafono per aiutarle ad affermarsi. Sono tanti i modi tramite cui una testata locale può trasformarsi in piattaforma. Può fornire tecnologia già nota (wiki, forum, mappe, archivi dati, sondaggi e altro; ne parlerò in un successivo articolo) e operare attraverso servizi già conosciuti e usati dalla comunità stessa. (selezionando informazioni e segnalazioni rilevanti da YouTube, Twitter, Facebook, Tumblr, Google Plus, Pinterest, Vine, Tout, etc.). Oppure può esplorare nuove tecnologie (per esempio, sensori che segnalino cosa c’è nell’ambiente intorno, telecamere indossabili, video streaming da cellulare, analisi dei dati tramite la conversazione sociale) al fine di permettere una maggiore condivisione di informazioni. La testata online potrebbe perfino aiutare i blogger indipendenti e le relative comunità a informare sulle rispettive città, offrendo loro contenuti, promozione, tecnologia, reti pubblicitarie, formazione, mezzi collaborativi. Ai siti d’informazioni non serve più operare da sole, in regime di monopolio o nelle torri d’avorio: oggi sono circondati da tanti concorrenti (o collaboratori, dipende dal punto di vista) in un ecosistema informativo disorganizzato ma in forte crescita. 13 3. Il nuovo ecosistema dell’informazione e la costruzione di reti (da Medium, 10/02/2014) Sin dall’invenzione della rotativa, il giornalismo è stato sempre un’industria a organizzazione verticale. Singole imprese ne controllavano ogni singola fase: l’intero processo di individuazione, ricostruzione e produzione delle notizie; la loro stesura, distribuzione, vendita e promozione tramite gli spazi pubblicitari. Operavano in regime di monopolio o di oligopolio: tenevano ben saldo il potere di fissare il prezzo, con costi contenuti per i consumatori e gli inserzionisti, esercitando al contempo un forte potere di acquisto nei confronti dei fornitori. Stuazione ottima, almeno per gli editori, fino a che è durata e non c’è da stupirsi che oggi costoro si lamentino molto del suo tramonto. La forza principale che consentiva loro di creare grossi imperi era la scarsità, che rendeva possibile il controllo sulle riserve più preziose, la produzione e la distribuzione delle notizie. Oggi ovviamente tutti noi possediamo i mezzi per produrre e distribuire notizie, informazioni e contenuti, grazie a tastiere e smartphone (presto, forse addirittura direttamente col pensiero, con i Google Glass, o con dispositivi ancora da inventare). Ognuno di noi può raccogliere e diffondere informazioni, come anche raggiungere il pubblico che ritiene appropriato; chiunque può connettersi a chiunque altro, senza necessità di guardiani o mediatori, ovvero dei media. Nel digitale domina l’abbondanza: mentre si riduce la presenza dei grossi editori, questi sostengono la pari riduzione del flusso di notizie. La verità è però che tale flusso è in crescita, sebbene non in modo uniforme e spesso in maniera inaffidabile, tramite infinite nuove fonti che contribuiscono ad accrescere l’ecosistema dell’informazione. Prendiamo la zona dove vivo, lo Stato del New Jersey (USA), come esempio di ecosistema dell’informazione: qui non c’è mai stata un’emittente TV d apoter definire “nostra”: c son invece quelle che da trasmettono da New York e Philadelphia arrivando qui. LaTV locale, piccola e poco seguita , è stata venduta dallo Stato alla rete pubblica PBS di New York. Analogamente, le radio locali, dal bacino assai ridotto, sono state rilevate da grosse emittenti di New York e Philadelphia. La radio radio statale, NJ101.5 è – come dirlo in maniera corretta e cortese? – penosa. Abbiamo un giornale una volta dominante, lo Star Ledger (di proprietà della Advance Publications, per cui ho lavorato, in passato), qualche altro quotidiano del gruppo Gannett o di famiglie locali, e alcuni settimanali. Tutto in netta riduzione. Prima il New York Times copriva il New Jersey, ma ormai ha completamente rinunciato a ogni ambizioni internazionale. Questa è la situazione dei media tradizionali nel New Jersey. Però abbiamo un gran numero di blog, come Baristanet a Montclair, Red Bank Green, Morristown Green, My Verona NJ, Elizabeth Inside Out (curato da un mio ex studente, copre la città di Elizabeth), Rahway Rising (che si occupa solo lo sviluppo edilizio urbano) e The Alternative Press, che copre solo una manciata di cittadine. E io spero che diventino molti di più. Abbiamo comunità locali come la Jersey Shore Hurricane News, basato su Facebook, ove migliaia di persone si sono ritrovate per condividere informazioni durante due uragani e che 14 continua a operare. Abbiamo Patch di Aol. Ex giornalisti provano a guadagnarsi il pane e di mantenere il ritmo scrivendo sul NJ Spotlight e New Jersey Newsroom. Il New York Observer gestisce il sito web PolitickerNJ , un mini Politico per Trenton: le maggiori entrate vengono da un eccellente newsletter sull’amministrazione cittadina chiamato State Street Wire. Ci sono poi vari siti che soddisfano interessi specific: Glocally Newark si occupa di cultura a Newark; Barista Kids si rivolge alle mamme di Montclair; Pharmalot segue l’ industria farmaceutica della zona; Jersey Bites giudica i ristoranti, come fanno alcuni altri blog. Clever Commute offre servizi ai pendolari con un’app dal costo di 35 dollari l’anno. La testata investigativa senza scopo di lucro Pro Publica fa davvero parecchio ello Stato. La radio pubblica e indipendente WBGO segue il jazz di notorietà internazionale e WFMU è così indipendente che è impossibile descriverla. Questi siti attirano perfino il pubblico internazionale. C’è anche WeirdNJ, nome azzeccato, perché si occupa delle nostre stranezze. Infine, non dimentichiamo le migliaia e migliaia di persone del New Jersey che si scambiano informazioni su Twitter, Facebook, Pinterest, Tumblr, nei forum di NJ.com, altri siti di informazione e sui blog personali. Quando uso la definizione ‘struttura giornalistica’, includo anche tutte queste, e non più solo le grandi, vecchie testate cartacee. Abbiamo poi tante entità che contribuiscono all’ecosistema dell’informazione pur non essendo mezzi di comunicazione: enti statali e amministrazioni locali stanno lentamente migliorando nella diffusione dei dati e delle informazioni in loro possesso, che fanno confluire nell’ecosistema. Il Town Stats Project è un esperimento per iniziare a mettere insieme dati su scala locale. Aziende private, così come quelle dei servizi pubblici, condividono sempre più i loro dati. Ovviamente Google offre informazioni più ampie e variate: dal traffico alle previsioni meteo, dai ristoranti alle aggregatori di notizie. Facebook, Twitter, Tumblr, WordPress, Google Plus e altre piattaforme online consentono ai residenti locali di pubblicare e distribuire quanto sanno. Esiste una varietà di attori nella “periferia” dell’ecosistema, ben più che non al centro, impegnati a servire i suoi membri: Google fornisce pubblico e, a volte, entrate (sebbene non cospicue) ai siti locali. Facebook procura pubblico e, nel caso del Jersey Shore Hurricane News, una piattaforma per la pubblicazione e la ricerca di collaboratori per gli articoli. Twitter fornisce promozione, così come contenuti e suggerimenti. Lo stesso dicasi per Instagram e You Tube. WordPress è invece la piattaforma più nota e diffusa modo per curare un proprio blog. Apple e Android offrono servizi per creazione e vendere app. E mi auguro che qualcuno (già dell’ambiente o anche qualche nuovo soggetto) crei una rete pubblicitaria capace di agglomerare e raggiungere la massa critica dei clienti di tutti i siti citati, massa necessaria alla vendita su larga scala, a livello statale: qualcosa su cui sto lavorando anch’io. Questo il quadro generale. Il New Jersey, come quasi tutti i mercati, adesso come adesso presenta un crescente, disorganizzato coacervo di siti, servizi, comunità e individui i quali operano su varie piattaforme, con differenti motivazioni, con tante o poche risorse e con business model che vanno da “nessuno” a “non-profit”, da “spero-di-trarci-profitto” a “redditizio”: contribuiscono tutti al vasto ecosistema dell’informazione che copre lo Stato e le sue comunità. Questo concetto di ecosistema può essere poco chiaro da afferrare, visto che ci stiamo lasciando dietro le spalle l’era dei media monolitici, in cui grandi imprese, organizzate e 15 integrate verticalmente, con prodotti tangibili, avevano un netto controllo sulle scarse risorse ed erano pochi grandi marchi noti a controllare lo scenario. Oggi abbiamo questo magma indistinto che chiamiamo ecosistema: nessuno ne è a capo, ed esistono enormi spazi vuoti. Il New Jersey conta 565 cittadine, in ognuna delle quali alligna il seme della corruzione e ognuna delle quali ha bisogno di un cane da guardia. Ebbene, solo una ventina di esse è “coperta”. Non esiste un singolo, semplice business model valido per tutte, come successo finora – diffusione e pubblicità – e talvolta qualità e credibilità restano dei punti interrogativi. Certo, direte voi, non è poi un miglioramento. Be’, forse non ancora, ma potrebbe esserlo. Il New Jersey è una tabula rasa, l’ideale per il fiorire di innovazione e collaborazione, dove nuove voci possono essere udite come non mai, dove i cittadini possono finire per essere più informati che mai e più coinvolti di quanto non siano mai stati. Per arrivare a questo, però, l’ ecosistema ha bisogno di aiuto, così come chiunque vi operi. I suoi membri devono innanzitutto darsi una mano a vicenda, collaborando per fare più di quanto ognuno potrebbe fare da solo, arrivando così all’efficienza; devono concentrarsi su quel che ciascuno sa fare meglio, migliorando quindi la qualità del lavoro e condividendo al meglio. Anche queste sono nuove specifiche competenze per i giornalisti, abituati al lavorare in trincea, operando in maniera competitiva e segreta. La prima e più elementare forma di collaborazione è il link. “Fa’ quel che ti riesce meglio e linka il resto!”, è il mio motto di presentazione su Twitter. Da una testata locale non ci si aspetta più che ti porti l’intero mondo sullo zerbino di casa. Non farebbe un buon lavoro coprendo tutto il mondo e ospitando servizi che comunque sono a portata di clic: New York Times, Guardian, BBC… Le testate locali non possono più sostenere quest’approccio generalista. Il link consente loro di rimandare ad altri articoli o alla fonte originale. Ciò porta altresì i membri dell’ecosistema a specializzarsi, a utilizzare le risorse in maniera efficace per offrire servizi della più alta qualità possibile e link che portano maggior pubblico e valore. I membri di un ecosistema imparano presto la Regola D’Oro del link verso altre testate, è un servizio per i lettori e un cortesia verso il sito che lo riceve. È anche il modo tramite cui due siti si collegano tra loro, rendendo la cortesia del rimando. Linkarsi a vicenda può e deve divenire un circolo virtuoso. Naturalmente i membri di un ecosistema possono lavorare insieme in modo più stretto e diretto: condividendo e scambiando contenuti, pubblico e le migliori pratiche; lavorare fianco a fianco su progetti comuni, ottimizzando le risorse e ottenendo più di quanto non avrebbero potuto da soli; dividere le entrate tramite campagne pubblicitarie congiunte (modello che approfondirò in successivi articoli) e altre attività quali l’organizzazione di eventi. E possono anche risparmiare sulle spese unendo il loro potere di acquisto per comprare spazio, tecnologia o servizi. Nulla di tutto ciò può concretizzarsi da solo. I giornalisti indipendenti e gli editori monopolisti sono tra i professionisti meno disponibili a pensare in termini di collaborazione. Agli albori dell’era commerciale sul web, oltre una decina di grandi editori di testate Usa crearono il New Century Network, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, aiutarli a condividere pubblico, contenuti e vendite pubblicitarie. La Kleiner Perkins, mega-impresa di venture capital di Silicon Valley, ritenne che fosse un ottimo investimento puntare su quella nuova rete di aziende: ma i giornali non riuscirono neppure a mettersi d’accorso su come prendere i soldi! E invece sprecarono i loro! Alla fine, che comunque arrivò presto, questo consorzio risultò un orrendo disastro, perché gli editori non riuscirono a mettersi d’accordo su nulla, né 16 sulla tattica né sulla strategia. Le redazioni devoono capire come sia nel loro stesso interesse avviare un’ intesa, un dialogo e collaborare all’ interno di questo. La collaborazione è un imperativo per la sopravvivenza. Per ottenere un simile risultato in New Jersey e creare una struttura per promuovere e sostenere la collaborazione nel sistema giornalistico locale, ho lavorato con la Fondazione Geraldine R. Dodge e altri enti filantropici locali tra cui la John S. and James L. Knight Foundation, al fine di aiutare la nascita del New Jersey News Commons, all’Università di Monclair: la struttura è diretta dalla fondatrice di Baristanet, che ho incoronato come regina dell’iperlocale, Debbie Galant. Il Commons ha quattro obiettivi primari: – istruire i membri dell’ecosistema nelle competenze e capacità specifiche del giornalista, dei media e, aspetto assai importante, del business. – curare, distribuire, e quindi incoraggiare il miglioramento del funzionamento dell’ ecosistema attraverso i suoi membri. Il Commons usa un servizio chiamato Repost.US, che descriverò in seguito. – favorire la collaborazione tra i membri dell’ecosistema stesso; – fornire servizi utili ai membri: ci auguriamo che essi includano anche la protezione legale in caso di diffamazione e l’assicurazione sanitaria, anche se sono punti difficili da realizzare. Questi siti hanno anche bisogno di un’azione di sostegno alle imprese, principalmente nella raccolta pubblicitaria, e ne discuterò altrove. In aggiunta, Montclair State ha fornito spazio in modo che i vari membri dell’ecosistema – TV e radio pubbliche, NJSpotlight, NJ.com, blogger e fornitori di tecnologia – possano lavorare l’uno a fianco dell’altro nella speranza che l’unità degli forzi dia buoni risultati. Così i membri dell’ecosistema si sono riuniti in un network che condivide contenuti e pubblico, imparando a scambiarsi informazioni nelle tornate elettorali e lavorando su progetti collaborativi riguardanti le operazioni di salvataggio e ripristino in seguito all’uragano Sandy e il fenomeno dell’ immigrazione. Al contempo i colleghi della City University di New York, Sarah Bartlett e Garry Pierre Pierre, hanno creato un centro per media di comunità e gruppi etnici dove si forniscono anche formazione e servizi di traduzione di testi da altre lingue all’inglese, di modo che possano essere condivise e raggiungere così un pubblico più vasto. Glistessi stanno aiutando il New Jersey News Common ad aprire la strada alle pubblicazioni etniche a livello statale. Al Center for Entrepreneurial Journalism abbiamo poi avviato delle ricerche sul business giornalistico per aiutare tutte le entità interessate (a cui accennerò più avanti). Nella ricerca sull’ ecosistema del New Jersey curata da Chris Anderson, questi ha concluso che le reti sono necessarie per la sopravvivenza e il successo dei membri dell’ecosistema, ma che questi stessi network hanno bisogno di un leader. Guide che possono essere competenti membri dell’ecosistema, o anche università e fondazioni, come in New Jersey. Questi leader dovrebbero anche includere le grandi testate tradizionali, che possono trovare nuova vita, crescita, pubblico ed efficienza da questo coinvolgimento, riunendo tutti i partecipanti di questi nuovi ecosistemi dell’informazione all’interno di network formali. Esiste un grosso problema nel tentare di creare una rete fuori dall’ecosistema che sta emergendo in un mercato come quello del New Jersey: non ci sono sufficienti nodi per formare un a rete simile; in altre parole, l’ ecosistema non è grande abbastanza, bisogno di un 17 maggior numero di aderenti. E ciò porta a un ruolo nuovo e importante per i titolari dell’ecosistema: gli incubatori. È interesse di queste stesse entità, i membri attuali, incoraggiare, reclutare, formare e sostenere nuovi membri dell’ecosistema. Ovvero: più nodi vi sono nella rete, più l’ecosistema diventa valido per tutti. Più blog iperlocali ci sono, per riportare dati sulle varie città riversandoli nel mercato, più cresce l’interesse anche di testate minori, più queste possono focalizzarsi e occuparsi di ricostruire e indagare sulle grosse questioni, quelle di ampia scala, che è il loro mestiere. Più membri ci sono, più grande sarà il bacino da offrire agli inserzionisti. E via via la lista dei relativi benefici tenderà a crescere. Credo perciò che i membri degli ecosistemi dell’informazione dovrebbero attivamente reclutare, formare, fare da mentori e sostenere i nuovi aderenti. Quando una testata licenzia i propri giornalisti, come successo troppo spesso e come troppo spesso continua a accadere sino a che le testate non raggiungeranno dimensioni sostenibili, perché non offrire loro aiuto creando nuovi tipi di impresa? Dando loro una piattaforma tecnologica e assicurandone la diffusione, come pure una base di entrate pubblicitarie sino al raggiungimento della massa critica? Le fondazioni possono guardare alle aree critiche non coperte dal mercato ed emettere bandi per trovare giornalisti con piglio imprenditoriale inclini a riempire quei bisogni, aiutandoli con sostegni finanziari e formazione. Le reti possono anche reclutare e formare persone per riempire spazi zone vuote nella copertura di mercato. Il New Jersey News Commons lo ha appena fatto, reclutando blogger che si occupano d’informazione nello zone devastate dall’uragano Sandy e dando loro fondi, borse di studio e formazione, elargite dalla Dodge e dalla Knight. Le università possono formare giornalisti con competenze che mancano, come quelle imprenditoriali, e anche imprenditori nel settore del giornalismo locale. La meta: costruire un ecosistema dell’ informazione che sia più grande, migliore, più efficace e sostenibile, in grado cioè di servire l’intera comunità. 18 4. Stimolare coinvolgimento e partecipazione dei lettori (da Medium, 14/04/2014) Una delle maggiori crisi che si trovano ad affrontare oggi le redazioni — beh, oltrebusiness a model bloccati, estrema competizione e fiducia in calo — è il coinvolgimento dei lettori. I dati sono drammatici: secondo l’associazione di categoria WAN/IFRA, nella navigazione online solo il 6,7% riguarda visite a siti d’informazione, coprendo appena il 1,3% del tempo impiegato sul web e solo lo 0.9% delle pagine visitate. Nel 2012, prosegue l’associazione, il coinvolgimento dei lettori digitali era il 5% rispetto a quelli della carta stampata (è quindi una coincidenza il fatto che i ricavi del mondo digitale siano il 5% di quelli del cartaceo?). Durante un’indagine sui nuovi business model per il giornalismo in corso alla CUNY, abbiamo scoperto che in genere i siti di notizie ricevevano una dozzina di visite per pagina al mese per utente. Facebook raggiunge lo stesso livello ogni giorno. Consideriamo inoltre che, con l’introduzione dei contenuti a pagamento, il New York Times consentiva la consultazione gratuita di 20 pagine per mese, soglia poi ridotta a 10 per aumentare il numero di utenti che arrivavano quantomeno a visualizzare la richiesta di pagamento. Questi lettori – circa il 5% del totale – sono considerati “fedeli”. Per cui oltre il 95% degli utenti del Times visitavano meno di 10 pagine al mese – e questo rispetto al meglio di quanto può offrire il giornalismo. Meglio perciò non farsi illusioni sul reale coinvolgimento del pubblico con l’informazione. Badate bene, queste non sono altro che le unità di misura più superficiali, relative alla semplice visualizzazione e al tempo trascorso su una pagina con contenuti creati da noi giornalisti. Andrew Kohut del Pew Research Center si è detto dispiaciuto (lo sono anch’io) per il tempo minimo che soprattutto i giovani dedicano alle news. Ma per come la vedo io, non sono affatto sicuro che sia poi così negativo che i giovani dedicano poco tempo all’attualità. Potrebbe semplicemente voler dire che sono più abili a trovare le notizie che cercano. In ogni caso, le vecchie definizioni di coinvolgimento sono ormai insufficienti. Oggi esistono tanti strumenti migliori e più completi per coinvolgere coloro a cui forniamo dei servizi. Vediamo alcune delle possibilità a disposizione: Conoscenza: proviamo semplicemente a sapere qualcosa di più sul lettore. È questo il dato di partenza per ogni relazione umana: il riconoscimento. Torniamo alla raccolta dei piccoli dati menzionati nel secondo articolo: c’è forse un sufficiente livello di fiducia?, ci sono abbastanza buone ragioni perché il lettore si identifichi con i contenuti proposti (chi è, dove vive e lavora, cosa ama fare, i suoi interessi, se ha figli, e così via..)? Non conta quanti “visitatori unici” ci sono, ma piuttosto quante persone conosciamo? Quanti motivi abbiamo offerto loro per manifestarsi? È possibile migliorare i nostri servizi a seguito di questo conoscenza? È sicuramente questa la base di partenza per stimolare il coinvolgimento. Discussione: dopo gli utenti unici e le visualizzazioni, sono i commenti l’unità di misura più imperfetta per il coinvolgimento. Il problema del vantarsi di quanti commenti ha un forum o un articolo è che troppo sono poche persone a firmare la grande maggioranza dei 19 commenti, togliendo spazio degli altri e determinano il clima della discussione (spesso tra l’incivile e lo spaventoso). Damo un’occhiata a un articolo dell’Huffington Post su un tema particolarmente caldo o alla sezione del sito del Guardian chiamata Comment is Free: centinaia, se non migliaia di commenti, che impossibili da leggere, e quindi cosa se ne ricava? Qualcuno potrebbe dire che se non altro centinaia di persone si sono interessate a un argomento al punto da avere un’opinione al riguardo e che la redazione ha dato loro quest’opportunità. Ma chi commenta può essere poco indicativo del pubblico più generale. E inoltre, nel misurare il merito sia del dialogo che del coinvolgimento reale, dobbiamo cercarne il valore – l’intelligenza, il dibattito ragionato, il contributo in termini d’informazione e competenza – e non il mero volume, nelle varie accezioni del termine. Quando il Guardian ha creato la pagina di opinioni Comment is Free, è stato sconvolto (come molte altre redazioni) dalla cattiveria di buona parte del confronto. I redattori hanno imparato in fretta che bisognava dedicare più risorse a controllare i troll, a stroncare commenti fuori tema o rudi e a disattivarli per alcuni argomenti inevitabilmente infuocati (come la questione mediorientale), per fare piazza pulita nel vicinato. Ho notato anche un’aspettativa sbagliata rispetto al senso dei commenti. Per i giornalisti un articolo online aveva gli stessi standard di uno cartaceo, rispetto al valore delle parole, alla verifica dei fatti, all’inaccettabilità della maleducazione (senza neppure la foglia di fico dello humour britannico). Ma il nostro primo errore è stato quello di considerare Internet come uno strumento e quanto veicolava come il suo contenuto. No, la Rete è l’angolo di strada o il bar in cui la gente si ritrova a chiacchierare. Cosa che ha un suo valore: ascoltare le opinioni del pubblico, capire cosa pensa la gente, essere aperti, creare dei legami. E quindi i commenti sono utili, pur se il coinvolgimento non si limita certo a quelli. A dirla tutta, i commenti sono imperfetti come concetto, implicando che non vogliamo sentire la tua opinione fin quando noi non abbiamo finito il nostro lavoro e poi noi ci degneremo di permetterti di dire qualcosa – ma solo quando avremo lasciato la redazione e probabilmente non staremo ascoltando. I commenti sono una forma più bassa di coinvolgimento. Esiste una forma più alta, ovvero: Collaborazione: lavorare insieme ai lettori per raggiungere un obiettivo importante ha ovviamente maggior valore rispetto alla mera chiacchierata e incrementa la stima della comunità a livello di partecipazione. Una forma di solito assunta dalla collaborazione è il crowdsourcing, che può portare a buoni risultati ma rivelarsi altresì una forma intrinsecamente condiscendente, che coinvolge solo tardivamente il pubblico nella filiera per affermare qualcosa già decisa dai giornalisti, negando l’opportunità di ascoltare bisogni, desideri e idee dei nostri collaboratori. L’obiettivo – per una redazione giornalistica o il produttore di una merce – dovrebbe essere quello di spostare il pubblico dall’acquisto e dal consumo verso l’ideazione e la concettualizzazione. È quanto fanno le aziende hi-tech quando rilasciano un prodotto “beta”, confessandone le imperfezioni e chiedendo l’aiuto degli utenti. Il sito Quirky.com, che produce e vende gadget stupendi, non solo chiede le invenzioni del pubblico ma conta sul fatto che questo lo aiuti a decidere quali prodotti creare e anche come migliorarne non solo il design ma anche il branding e marketing. La casa automobilistica Local Motors progetta veicoli in modo collaborativo, coinvolgendo i clienti in ogni passaggio, usando un sistema astuto per ricompensare quelli più attivi, pur se spetta comunque al CEO assicurarsi che il 20 prodotto finale sia sicuro ed economico. Collaborare con un’azienda delle dimensioni di Google o nella produzione di prodotti tangibili è più complesso che ritrovarsi per esaminare documenti o condividere i risultati di una scuola media – non vi sembra? Partecipazione diretta: redazioni, blog e aziende hi-tech fanno parte dell’ecosistema dell’informazione ma lo sono anche i membri delle rispettive comunità. Questi soggetti hanno specifici interessi nella comunità e vogliono essere al corrente di quanto vi accade. Non dovrebbero quindi partecipare alle decisioni su come utilizzare le risorse a disposizione e discutere le priorità che regolano il lavoro delle redazioni giornalistiche? In USA di solito questo tipo di partecipazione diretta (o appartenenza) riguarda l’obolo che si versa alla radio o alla TV pubblica. Si tratta di un concetto accattivante perché consente ai singoli di prendere posizione e sostenere un mezzo di comunicazione senza scopo di lucro – una mission sostenuta anche dagli sponsor che comprano spazi pubblicitari. Ma in questo caso cosa ne ricavano questi spettatori e lettori fedeli, oltre a una borsa per fare la spesa? Alan Rusbridger, redattore capo del Guardian, è affascinato dall’idea di appartenenza applicata al mondo delle notizie e aspira al modello della squadra di calcio del Barcellona, i cui fan sono membri dell’azienda quindi co-proprietari che hanno voce in capitolo nelle decisioni chiave della squadra. Siamo forse disposti noi giornalisti a rinunciare a parte del potere e delle controllo sulle nostre scarse risorse: «Ciao, sono Sally e sono la vostra giornalista, di cosa volete che mi occupi oggi?». In tal senso sono stati fatti dei passi da formica: un giornale manda in streaming la riunione della redazione, elenca tre articoli e chiede quale dovrebbe apparire in prima pagina. Un piccolo sito di news permette al pubblico di modificare il titolo dell’articolo in una delle tre versioni approvate dal redattore-capo. Il fondatore di Gawker Media, Nick Denton, è quello che va più lontano (come da sua abitudine), sfumando i confini tra chi scrive e chi legge e consentendo agli ex-lettori di riscrivere i titoli e paragrafi introduttivi sulla piattaforma di dibattito Kinja. C’è però ancora molto che puzza di collaborazione per com’è definita da un museo della scienza per bambini: «Venite qui, ragazzi, potete premere questi pulsanti che sembrano farvi fare qualcosa, ma non è niente di pericoloso e niente che abbia un impatto duraturo». Come fare per attivare davvero la partecipazione diretta dei membri di una comunità nella produzione delle notizie? Al livello più alto di collaborazione, la redazione potrebbe essere pronta a eseguire i compiti suggeriti dalla comunità: «Abbiamo bisogno di sapere questo», dice la comunità, «e vogliamo che usiate la vostra forza d’aggregazione per mettere insieme queste informazioni». È in parte vero che la comunità potrebbe arrivarci grazie strumenti come Facebook o Twitter. Ma la redazione può creare valore aggiunto nel processo di raccolta del materiale, istruendo le persone su come raggiungere certi obiettivi, verificando i fatti, aggiungendo contesto e spiegazioni, offrendo capacità organizzative. Come fa una persona a coinvolgersi in maniera attiva? Cinicamente, per qualcuno ciò equivale soltanto al contributo economico: dacci i soldi e ti daremo accesso alle nostre cose. È 21 facile che un cittadino versi l’obolo per sostenere l’impegno giornalistico ma chi vorrà coinvolgermi attivamente è probabile che in cambio vorrà avere voce in capitolo – e i giornalisti vorranno assicurarsi che questa voce non sia cooptata dagli sponsor (argomenti che approfondirò in un altro articolo sui nuovi business model). Qualcuno potrebbe portare valore aggiunto in vari modi, cioè proponendo idee, suggerimenti, contenuti, promozione, impegno. Questo tipo di partecipazione diretta richiede uno scambio di valore, dove entrambi i soggetti della transazione danno qualcosa per ricevere in cambio qualcos’altro. C’è un altro modo per considerare il punto, che non pone la redazione in un’egocentrica posizione centrale del diagramma di Venn bensì alla sua estremità: la comunità esiste già e la redazione ne è semplicemente un altro membro, che offre valore per ricevere valore. Quando bazzicavo redattori e dirigenti del Telegraph di Londra, notai che costoro capivano chiaramente di essere al servizio di diverse tribù (parole testuali) di persone con interessi condivisi: conservatori, sì, ma anche viaggiatori e giardinieri e gente interessata all’arte o all’istruzione o alla storia. Giustamente si chiedevano come avrebbero potuto aiutare queste comunità pre-esistenti a sviluppare i loro interessi (vedasi Mark Zuckerberg), fornendo loro non solo notizie e contenuti ma anche delle piattaforme per condividere le proprie conoscenze, per incontrarsi o fare acquisti. La partecipazione diretta non è un mero casello autostradale, bensì una strada a due direzioni. 22 5. Giornalismo come impegno sociale, etico ed educativo (d a Medium, 14/04/2014) “Organizzatore di comunità” suona come la battuta cruciale di una barzelletta su Barack Obama fatta a Fox News. Eppure, se le redazioni devono porsi a servizio delle comunità, non di rado sono chiamate a contribuire all’organizzazione di queste comunità in maniera alquanto pratica: ascoltandone le necessità, attirandone l’attenzione su certi temi, portandole a incontrarsi e confrontarsi, spingendole ad agire e aiutandole a raggiungere i propri obiettivi. Questo sembrerebbe violare il nostro mito professionale dell’oggettività e della distanza, mito per cui (come l’equipaggio di Star Trek) sottostiamo alla Prima Direttiva di non interferire con altre forme di vita, limitandoci a osservarle. Ma la verità è che da tempo le testate d’informazione spingono la gente a prendere l’iniziativa – non è forse questo l’esito auspicato del giornalismo investigativo (le cosiddette crociate), cioè stimolare i lettori a far pressione sulle autorità per specifici interventi, ad avere un impatto sociale, a spingere per il cambiare le cose? Eviterò lo stantio dibattito sull’oggettività del giornalismo e confesso che sul tema ho una ferma convinzione: noi non siamo oggettivi. Se i tradizionalisti del settore non hanno già appallottolato e gettato via quest’articolo (o qualsiasi altra cosa si possa fare, nell’era del post-cartaceo, a un testo elettronico che ci disgusta) di fronte alla mia precedente affermazione che non dovremmo occuparci dei contenuti bensì soprattutto di creare delle narrative, quest’ultima battuta può portarli ad accendere un fiammifero o staccare la spina. Eppure andrò ancora oltre, sostenendo che se non propugna l’impegno sociale allora non è giornalismo. Non è forse la difesa dei princìpi e del bene pubblico il vero banco di prova del giornalismo? Le scelte che noi giornalisti facciamo su quali notizie riportare e come le raccontiamo, rispetto a quel che i lettori devono sapere, sono atti di impegno sociale per conto della gente. Non pensiamo forse di agire nel loro interesse? Per citare James Carey, docente di giornalismo alla Columbia University: «Il bene indiscusso del giornalismo, la sua quintessenza, il termine senza cui quest’impresa non ha senso, è il pubblico”. Quando il Washington Post – il cui ex direttore decise di non votare più alle elezioni per mantenere quel tipo di oggettività professionale – sceglie di fare un’inchiesta sui segreti di Stato o sugli abusi amministrativi ai danni dei reduci di guerra oppure sugli illeciti del presidente e relativi insabbiamenti, allora sta agendo in difesa del pubblico. Quando un direttore incarica i reporter di lavorare sulle truffe ai danni dei consumatori o sulle frodi di Wall Street oppure sull’appropriazione indebita di fondi statali, opera a tutela del pubblico. Quando un giornale si accolla la causa dei poveri, degli emarginati, dei maltrattati o semplicemente quella del cittadino qualunque contro i potenti, sta agendo in loro difesa. Quando i giornalisti che si occupano di medicina ti dicono come evitare il cancro o anche come perdere peso, agiscono in tua difesa. Quando un redattore decide di raccontare un certo reato in un quartiere ma non quelli accaduti in un altro, sta sostenendo gli interessi del primo. Quando il telegiornale parla continuamente delle vincite alla lotteria senza citarne i costi sociali, sta sostenendo la ridistribuzione regressiva della ricchezza collettiva. Potrei affermare che l’impegno sociale riguarda perfino una recensione cinematografica che ti permette di non buttare soldi per un fiasco clamoroso, (anche se oggi non c’è più bisogno delle recensioni per questo – e anch’io le facevo). 23 Come la mettiamo però con un canale TV che invia una troupe o un elicottero per trasmettere il video dell’incendio del giorno senza chiarirne l’impatto complessivo oppure per dettagliare un tragico incidente senza offrirne alcuna lezione utile? È forse a difesa di qualcosa? No. Quando una rete TV – senza con questo voler puntare l’indice contro la TV – dedica ore e ore ai dettagli osceni di un delitto passionale che non tocca certo la nostra vita, possiamo forse considerarlo a difesa di qualcosa? No. Quando un sito online mostra immagini di gattini, è un impegno sociale? Non proprio. Quando un quotidiano spreca risorse per seguire le partite di calcio, sta difendendo qualcosa? Scusate, ma la risposta è no. Quando una testata “racconta” le sciocchezze dei nomi celebri, si tratta qualcosa a favore del pubblico? No. Questi esempi sono forse giornalismo? Nel contesto delineato fin qui, no. Ovviamente ci sono delle limitazioni a questa spinta sociale, altrimenti torneremmo al tempo in cui i giornali erano gli organi dei partiti politici e ne veicolavano gli interessi. Quel che ci distingue dal passato – oltre al sostegno economico garantito dagli inserzionisti – è l’onestà intellettuale e l’indipendenza, l’affermazione dei princìpi etici, la nostra credibilità. È questo che distingue il giornalismo dal semplice impegno sociale. Citando Michael Oreskes, redattore prima del New York Times e poi dell’Associated Press: «Il fulcro sono le pratiche corrette ed etiche; in loro assenza, non è giornalismo». Come esempio di onestà intellettuale citerei il Guardian e la sua cronaca delle rivelazioni di Edward Snowden sulla National Security Agency (NSA). La missione dichiarata testata è quella di essere prima voce liberal al mondo; non c’è impegno sociale più evidente di questo. Eppure la copertura del caso NSA ha messo in seria difficoltà proprio un governo liberal. Quindi il Guardian sostiene la libertà e i diritti individuali e la democrazia di fatto, non certo una parte politica. In quanto entità giornalistica, il Guardian ha dovuto chiedersi se il pubblico avesse il diritto di conoscere le rivelazioni di Snowden, a prescindere da chi potesse avvantaggiarsene (nella misura in cui non ledevano gli interessi del pubblico in termini di sicurezza). Il punto successivo per il Guardian era capire se ciò era un valore aggiunto a livello d’informazione e perché. Ovviamente questo è un altro banco di prova per il giornalismo. Edward Snowden, come Wikileaks, ha fornito una gran quantità di documenti grezzi e segreti. In entrambi i casi, il Guardian vi ha aggiunto valore evitando di pubblicare quel che poteva essere pericoloso, guidando il pubblico nelle rivelazioni e soprattutto aggiungendo la cronaca ai dati grezzi, verificando e spiegando ove necessario. Cos’è quindi quella cosa che chiamiamo giornalismo ma che non propugna impegno sociale o difende i princìpi, che non è a servizio dei bisogni del pubblico? Nel peggiore dei casi è sfruttamento (esca per lettori, vendite o clic). Nel migliore dei casi è intrattenimento. Il primo è peggiorativo, il secondo può non esserlo, perché l’intrattenimento – che sia narrativa giornalistica o un libro, uno spettacolo, un film – può sempre informare e spiegare. Ma se non offre informazioni che la gente possa usare per gestire meglio la propria vita o società, direi che non può considerarsi giornalismo rispetto ai risultati e all’impatto sociale. Il giornalismo come impegno sociale è stato messo insieme al giornalismo come intrattenimento per motivi economici: l’intrattenimento può attirare la gente verso un certo medium e contribuire a sostenerne le spese. È stato forse un errore metterli in un’unica categoria? Se un quotidiano fa informazione, va considerato giornalismo tutto ciò che producono suoi redattori? No. Corollario: chi non è giornalista può comunque fare giornalismo. Ciò riguarda il valore distribuito, non una qualifica professionale. Perché non sposare quindi la causa dell’impegno sociale e assicurarci di farne buon uso? 24 Perché non misurare i risultati e l’impatto di tutto il nostro lavoro in base a quanto si riesce a ottenere? Perché non fare partnership con le comunità e usare le nostre competenze per aiutarle a raggiungere loro obiettivi (e impegnarsi a tutelarli)? Se facciamo così, poi il nostro successo sarà misurato dall’apporto concreto offerto alla comunità per raggiungere i suoi obiettivi, ripensando adeguatamente la definizione del nostro lavoro e i requisiti necessari. Dobbiamo usare o creare piattaforme che permettano alle comunità di esplicitare e identificare i propri obiettivi. A un livello elementare, l’hashtag #occupywallstreet era solo una piattaforma senza grande significato fino a quando sono stati gli stessi membri della comunità nata attorno a quell’hashtag a riempirlo di significato. Grazie a piattaforme più complesse, i vari gruppi potrebbero raggiungere obiettivi di maggior portata. C’è un altro ruolo da mettere in elenco: forse i giornalisti dovrebbero vedersi come degli educatori. Ovviamente questo non vuol dire che siano dei relatori intenti a trasmettere dal placo un flusso unidirezionale verso un pubblico passivo. Un vero educatore spinge gli studenti a sperimentare, a condividere e costruire in autonomia, in base a proprie abilità, desideri e bisogni. Dopo aver individuato le necessità individuali o collettive, i giornalisti e le annesse testate potrebbero così insegnare loro come soddisfarle. Concetto che, come per buona parte di quanto esposto finora, non è affatto nuovo. Da tempo il giornalismo come servizio va suggerendo ai lettori come raggiungere i loro obiettivi: trovare un nuovo lavoro o ottenere il mutuo sulla casa, usare una nuova tecnologia, capire meglio un problema. La novità è che oggi Internet offre chiari riscontri per vedere se siamo riusciti a far progredire la conoscenza e la comprensione. Come un buon insegnante, dobbiamo chiederci se il nostro lavoro fa sì che gli utenti e le comunità siano meglio informate, più sagge e capaci di raggiungere i loro obiettivi, di sviluppare il proprio potenziale. Dopo aver ristretto la mia definizione di giornalismo, consentitemi di ampliarla nuovamente prima di delineare le nuove forme di giornalismo. Come detto sopra, il giornalismo aiuta le comunità a organizzare le loro conoscenze per potersi auto-gestire meglio. Scenario sempre valido. Se poi la cronaca di una partita di calcio possa considerarsi giornalismo, forse è meglio discuterne al bar. Traduzioni di Maria Daniela Barbieri e Valentina Barbieri. Revisione e PDF a cura di Bernardo Parrella per Lsdi.it, settembre 2014. 25