di Ematologia Oncologica - Società Italiana di Ematologia

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di Ematologia Oncologica - Società Italiana di Ematologia
Editor in chief
Giorgio Lambertenghi Deliliers
Anno 6
Numero 1
2009
Seminari
di Ematologia
Oncologica
NEL PROSSIMO NUMERO
SINDROMI MIELODISPLASTICHE
Il percorso diagnostico •
La sindrome 5q- •
Le terapie emergenti •
Il trapianto di cellule staminali •
emopoietiche
La qualità di vita •
Mieloma
multiplo
EDIZIONI
INTERNAZIONALI srl
Edizioni Medico Scientifiche - Pavia
Mieloma
multiplo
Biologia e genetica molecolare
5
Vol. 6 - n. 1 - 2009
Editor in Chief
Giorgio Lambertenghi Deliliers
ANTONINO NERI
Università degli Studi, Milano
Il paziente giovane
29
ELENA ZAMAGNI, PATRIZIA TOSI, MICHELE CAVO
Editorial Board
Sergio Amadori
Università degli Studi Tor Vergata, Roma
Mario Boccadoro
Università degli Studi, Torino
Alberto Bosi
Università degli Studi, Firenze
Federico Caligaris Cappio
Università Vita e Salute, Istituto San Raffaele, Milano
Il paziente anziano
47
Antonio Cuneo
Università degli Studi, Ferrara
Marco Gobbi
ALBERTO ROCCI, MARIO BOCCADORO,
ANTONIO PALUMBO
Università degli Studi, Genova
Mario Petrini
Università degli Studi, Pisa
Giovanni Pizzolo
Università degli Studi, Verona
Giorgina Specchia
Complicanze: aspetti clinici
e terapeutici
MARIA TERESA PETRUCCI, ANNA LEVI,
FABIANA GENTILINI
Università degli Studi, Bari
65
Direttore Responsabile
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Registrazione Trib. di Milano n. 532
del 6 settembre 2007
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Divisione EDIMES
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Seminari
2
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di Ematologia
Oncologica
Periodico di aggiornamento
sulla clinica e terapia
delle emopatie neoplastiche
Bibliografia
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il sito “International Committee of Medical Journal Editors Uniform
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Sample References”.
Es. 1 - Articolo standard
1. Bianchi AG, Rossi EV. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232:
284-7.
Es. 2 - Articolo con più di 6 autori (dopo il 6° autore et al.)
1. Bianchi AG, Rossi EV, Rose ME, Huerbin MB, Melick J, Marion
DW, et al. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.
Es. 3 - Letter
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes
[Letter]. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7.
Es. 4 - Capitoli di libri
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes. In: Caplan RS, Vigna AB, editors. Immunology. Milano:
MacGraw-Hill; 2002; p. 93-113.
Es. 5 - Abstract congressi (non più di 6 autori)
1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes
in bone marrow transplantation [Abstract]. Haematologica.
2002; 19: (Suppl. 1): S178.
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Editoriale
GIORGIO LAMBERTENGHI DELILIERS
Università degli Studi di Milano
U.O. Ematologia 1 - Centro Trapianti di Midollo
Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico,
Mangiagalli e Regina Elena
Il primo numero dell’annata 2009 di Seminari di
Ematologia Oncologica è dedicato al mieloma
multiplo, una malattia clonale delle plasmacellule, riconoscibile sul piano biologico anche nelle
fasi più iniziali, clinicamente silenti. Si tratta di
una neoplasia che in questi ultimi anni ha potuto beneficiare di tecnologie diagnostiche avanzate che hanno portato all’identificazione di citochine e fattori di crescita che regolano la crescita delle plasmacellule ed il loro rapporto con il
microambiente midollare. La combinazione di
diversi tipi di analisi citogenetica, oncogenomica e proteomica ha permesso di definire meglio
la complessa eterogeneità biologica del mieloma multiplo, e più recentemente ha contribuito
alla identificazione di nuovi fattori prognostici
nonché alla creazione di modelli predittivi di
rischio. Sulla base di questi sono stati formulati
protocolli terapeutici che prevedono l’uso combinato dei nuovi farmaci, molecolarmente mira-
ti sia verso la cellula mielomatosa sia verso le
cellule accessorie responsabili dei processi di
angiogenesi e di osteoclastogenesi midollare.
Talidomide, bortezomib e lenalidomide, variamente associati al desametasone, hanno cambiato in questi ultimi anni lo scenario terapeutico del mieloma multiplo, soprattutto nella fase
d’induzione dove il raggiungimento della remissione completa era fino a pochi anni prerogativa dei regimi ad alte dosi con trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche. L’impatto
prognostico delle nuove combinazioni risulta evidente anche nei pazienti anziani, dove le risposte ottimali sul piano citogenetico e molecolare
sono correlate ad un significativo prolungamento della sopravvivenza. La diagnosi precoce e il
trattamento delle complicanze, legate sia alla
malattia che alle terapie farmacologiche, hanno
contribuito notevolmente a migliorare la qualità
di vita dei pazienti con mieloma multiplo.
5
Biologia
e genetica molecolare
ANTONINO NERI
Centro di Ricerca per lo Studio delle Leucemie, Dipartimento di Scienze Mediche,
Università degli Studi di Milano; Unità Ematologia 1, CTMO, Fondazione IRCCS Policlinico,
Mangiagalli e Regina Elena, Milano
n INTRODUZIONE
Il mieloma multiplo (MM) è una neoplasia incurabile caratterizzata dall’accumulo di plasmacellule (PC) maligne nel midollo osseo. Le PC mielomatose oltre a produrre una elevata quantità di
immunoglobuline (Ig) monoclonali che rappresentano il marker di laboratorio più caratteristico della malattia, generano una notevole e variegata
quantità di citochine che stimolano le cellule stromali presenti nel microambiente midollare e che
a loro volta favoriscono la proliferazione e
sopravvivenza del clone mielomatoso. Inoltre,
come conseguenza di questa aberrante interazione si determina una attivazione degli osteoclasti che è responsabile delle tipiche lesioni
ossee che si associano frequentemente alla
malattia (1).
Il MM può essere preceduto da una manifestazione premaligna denominata gammopatia
Parole chiave: mieloma multiplo, aneuploidia, traslocazioni IGH, FISH, GEP.
Indirizzo per la corrispondenza
Prof. Antonino Neri
Centro di Ricerca per lo Studio delle Leucemie
Dipartimento di Scienze Mediche, Università di Milano
Unità Ematologia 1, CTMO
Fondazione IRCCs Policlinico
Mangiagalli e Regina Elena
Via F. Sforza, 35 - 20122 Milano
e-mail: [email protected]
Antonino Neri
monoclonale di incerto significato (MGUS), presente rispettivamente in circa l’1% ed il 3% della popolazione di età superiore ai 50 e 70 anni.
Le plasmacellule clonali nella MGUS costituiscono meno del 10% delle cellule del midollo osseo,
sono quiescenti e non producono danni d’organo. È stato dimostrato che la MGUS può progredire verso il mieloma con un rischio annuo di
circa l’1% e con una probabilità di progressione del 25% in un periodo di 20 anni (2-4). Una
fase intermedia tra MGUS e MM è rappresentata dal mieloma smouldering o asintomatico
(SMM), che è caratterizzato da una percentuale di plasmacellule midollari superiori al 10% e
dall’assenza di sintomi e danni d’organo e che
progredisce, dopo variabili periodi di tempo, in
mieloma conclamato. Il MM clinicamente attivo
è c aratterizzato da anemia, lesioni ossee, ipercalcemia e/o disfunzione renale, ed aumentato
rischio di infezioni.
Nelle fasi avanzate, il MM può progredire verso
una forma extramidollare di leucemia plasmacellulare (PCL) che talvolta può manifestarsi come
entità primaria senza un precedente riscontro di
MM intramidollare. In genere, le diverse fasi tumorali hanno una bassa capacità proliferativa che
può aumentare negli stadi avanzati della malattia: le linee cellulari di MM (HMCL) stabilizzate in
vitro derivano quasi esclusivamente da forme
extramidollari primarie o secondarie (Figura 1).
Al momento, l’impegno più rilevante dell’attività
di ricerca nel mieloma multiplo è diretto allo sviluppo di terapie molecolari mirate che possano
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Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 1 - Progressione clinica ed eventi genetici nel mieloma multiplo. Sebbene non presente in genere nello stesso paziente, l’evoluzione naturale del MM è caratterizzata da un progressione dalla plasmacellula normale; alla MGUS
dove il clone è immortalizzato, non completamente trasformato e non si accumula; a mieloma asintomatico (SMM)
dove il clone è chiaramente trasformato, si accumula ma non causa danni d’organo, in particolare riassorbimento osseo;
a mieloma conclamato intramidollare, ed infine a forma extra-midollare caratterizzata da elevata proliferazione.
contribuire ad una migliore durata della risposta
in molti dei pazienti affetti dalla malattia. Questo
è stato reso possibile dai notevoli recenti progressi ottenuti con gli studi di citogenetica molecolare ed oncogenomica condotti sulle plasmacellule maligne e la loro controparte normale.
Questi lavori sperimentali hanno aumentato le
nostre conoscenze sulla patogenesi della neoplasia, contribuendo ad una classificazione
molecolare con valenza prognostica ed alla identificazione di potenziali targets terapeutici. Inoltre
si è assistito ad un notevole aumento delle conoscenze per quanto riguarda i meccanismi che
favoriscono l’adesione delle cellule mielomatose al microambiente midollare e di conseguenza la loro sopravvivenza, proliferazione e resistenza ai farmaci.
n ORIGINE DELLA PLASMACELLULA
MIDOLLARE
La plasmacellula del mieloma multiplo deriva da
una cellula B del centro germinativo che è stata
esposta a tre specifici meccanismi di modificazione del DNA che interessano in modo particolare il gene delle catene pesanti delle Ig (IGH): la
ricombinazione delle regioni VDJ, la ricombinazione delle regioni switch e le mutazioni ipersomatiche delle regioni variabili (5, 6).
La ricombinazione VDJ avviene a livello dei precursori B nel midollo osseo e porta alla formazione del recettore specifico delle cellule B (BCR)
mentre il riconoscimento e selezione antigenica,
le mutazioni ipersomatiche e la ricombinazione del-
le regioni switch avvengono nel centro germinativo dei follicoli linfatici. In particolare, i linfociti B
con immunoglobuline funzionali di superficie IgM
(cellula B naïve) lasciano il midollo osseo ed entrano nei tessuti linfatici secondari dove successivamente all’incontro con l’antigene possono:
1) differenziare fuori dal centro germinativo in plasmacellule a breve vita (short-lived pre-germinal center plasma cells) che esprimono in massima parte IgM e non presentano ipermutazioni somatiche;
2) entrare nel centro germinativo dove vanno
incontro a ipermutazione somatica e selezione antigenica. Le cellule che non sviluppano
una elevata affinità per l’antigene vanno
incontro ad apoptosi mentre le rimanenti ritornano nel sangue periferico come cellule B della memoria oppure vanno incontro a ricombinazione somatica delle regioni switch con cambio di classe del locus IGH. Queste ultime
migrano nel midollo osseo dove interagiscono con le cellule del microambiente midollare e differenziano terminalmente in plasmacellule a lunga vita (long-lived post-germinal center plasma cells) che sopravvivono per 30 giorni o anche anni (7) (Figura 2).
La elevata incidenza di neoplasie a cellule B
mature che originano da elementi del centro germinativo o post-centro germinativo suggerisce
che alterazioni del normale re-modeling dei geni
delle Ig possa rappresentare un evento importante nello sviluppo delle sindromi linfoproliferative (8). Una delle conoscenze maturate in questi anni è che nell’ambito della profonda instabilità ed eterogeneità genomica del MM, le traslo-
Biologia e genetica molecolare
FIGURA 2 - Fisiologia della differenziazione plasmacellulare. Il riarrangiamento funzionale V(D)J dei geni della catena pesante (IGH) e leggera (IGL) delle Ig avviene in una cellula pre-B midollare. Questo elemento esprime quindi una immunoglobulina funzionale sulla sua superficie e lascia il midollo osseo come linfocita “vergine” maturo per localizzarsi a livello dei tessuti linfoidi secondari. Nelle fasi precoci della risposta immune, la interazione con l’antigene stimola la formazione di un linfoblasto che differenzia in una plasmacellula definita a breve vita (short lived) che muore entro 3 giorni
e che esprime più frequentemente IgM. Tardivamente nella risposta primaria o nella risposta secondaria, il linfoblasto
generato dalla interazione produttiva con l’antigene entra nel centro germinativo del follicolo linfatico, dove va incontro a mutazioni ipersomatiche delle sequenze variabili dei geni delle Ig, a selezione antigenica ed a ricombinazione delle regioni switch. Questo elemento si localizza successivamente nel midollo osseo dove differenzia in una plasmacellula definita a lunga vita (long lived) che può sopravvivere per circa 30 giorni o anche anni.
cazioni cromosomiche coinvolgenti i geni delle
Ig, in particolare quelli della catena pesante sulla regione cromosomica 14q32, rappresentano
lesioni frequentemente associate alle fasi iniziali della mielomagenesi (9, 10).
n RILEVANZA DELLE ALTERAZIONI
CROMOSOMICHE NELLA
PATOGENESI DEL MM
L’attività mitotica delle cellule tumorali del MM,
rispetto a quella di altre forme di neoplasie ematologiche, è generalmente bassa come indicato
dai valori (<1%) di labelling index (una misura delle cellule in fase S del ciclo cellulare) delle plasmacellule maligne (11). Pertanto, tramite la
citogenetica convenzionale, metafasi anomale
sono riscontrate solo in circa il 40% del totale dei
pazienti ed in circa il 20-35% dei pazienti alla diagnosi. La frequenza e l’estensione delle alterazioni cromosomiche correlano con lo stadio della
malattia. Nelle forme extramidollari, cariotipi anomali sono riscontrati in circa l’80% dei casi (12,
13); pertanto, molte delle alterazioni descritte dalla citogenetica convenzionale sono caratteristiche
della progressione della malattia e non delle fasi
iniziali. I cariotipi sono in genere molto comples-
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8
Seminari di Ematologia Oncologica
si con alterazioni sia strutturali che numeriche: essi
si presentano con più di 10 tipi di anomalie in circa la metà dei pazienti e più di 20 in circa il 10%
(14). Le alterazioni più frequenti riportate nel mieloma tramite citogenetica convenzionale sono
guadagni dei cromosomi 3, 5, 7, 9q, 11q, 12q,
17q, 18, 19, 21 e 22q (trisomia o tetrasomia), perdita dei cromosomi 6q, 8, 13q, 14, 16, X (femmine) e Y (monosomia o nullisomia), ed alterazioni
strutturali coinvolgenti i cromosomi 14q, 14p, 16q,
1q, 1p, 11q13, 19q13, 19p13, 6q, 17q, 2p12,
22q11 e 7q. L’introduzione della Fluorescence in
Situ Hybridization (FISH), ha permesso l’analisi delle alterazioni genetiche nel MM indipendentemente dalla presenza di cellule proliferanti, dimostrando come esse siano presenti nella quasi totalità
dei pazienti con MM (15,16).
Tecnologie più avanzate e derivate dalla FISH,
quali la Comparative Genomic Hybridization
(CGH) (17-19) e la Multicolor Spectral Karyotiping
(SKY) (20, 21) hanno permesso di esaminare il
genoma delle cellule tumorali in modo ancora più
globale e sensibile di quanto non ottenuto tramite FISH. Sebbene la SKY permetta di visualizzare in grande dettaglio alterazioni cromosomiche strutturali, quali inserzioni, traslocazioni o
markers cromosomici, un suo limite importante,
come anche per la CGH, è la necessità di analizzare cellule in metafase.
Aneuploidia
Come dimostrato da tecniche di analisi citofluorimetriche del DNA (22, 23) dalla citogenetica convenzionale (11-14) e più recentemente da tecniche di citogenetica molecolare (15-17, 19, 24-27),
la quasi totalità del pazienti con MM è caratterizzata da aneuploidia (13, 15).
Quattro categorie di aneuploidia possono essere definite sulla base del cariotipo: ipodiploidia
(fino a 44-45 cromosomi), pseudodiploidia (da
44/45 a 46/47 cromosomi), iperdiploidia (> di
46/47 cromosomi), e ipotetraploidia (near-tetraploid) (> di 75 cromosomi) (10, 28, 29). Sulla base
della frequente presenza di perdite cromosomiche nelle linee cellulari tetraploidi, la ipotetraploidia viene classificata insieme alla ipo- e pseudodiploidia come non-iperdiploidia, osservata globalmente in circa la metà dei tumori primari.
Quindi la rimanente metà dei casi di MM può
essere classificata come iperdiploide e si caratterizza per trisomie a carico di un gruppo ben
definito di cromosomi quali il 3, 5, 7, 9, 11, 15,
19 e 21 (10). I pazienti non-iperdiploidi sono caratterizzati da una elevata incidenza di traslocazioni IGH rispetto a quelli con iperdiploidia (>85%
vs <30%), come anche da una maggiore prevalenza di delezione del cromosoma 13, delle regioni 16q, 8p e 1p e guadagno del cromosoma 1q
(30,31). Evidenze recenti del nostro ed altri laboratori hanno dimostrato come i pazienti iperdiploidi possono essere stratificati molecolarmente e clinicamente in due gruppi sulla base della:
1) trisomia del cromosoma 11 o
2) delezione del cromosoma 13 e guadagno del
cromosoma 1q (32, 33).
La quasi totalità delle linee cellulari di mieloma
sono derivate da pazienti non iperdiploidi, un
aspetto da considerare quando esse vengono utilizzate come modello in vitro della neoplasia.
Traslocazioni cromosomiche coinvolgenti
i loci delle immunoglobuline
Le traslocazioni cromosomiche coinvolgenti il
locus IGH sono considerate il più importante
meccanismo di attivazione oncogenica delle neoplasie a cellule B mature e ne rappresentano un
marker distintivo. Negli ultimi anni, è emerso che
esse costituiscono anche un evento frequente
ed importante implicato nelle fasi iniziali della
mielomagenesi. Studi condotti con FISH hanno
permesso di predire la presenza di traslocazioni IGH in circa il 50% dei casi di MGUS o SMM,
in circa il 55-70% dei casi di MM, in circa l’80%
dei casi di PCL e nella quasi totalità delle linee
cellulari (24, 34, 35). I pochi studi relativi al coinvolgimento delle catene leggere delle Ig (prevalentemente IGL-λ) indicano che la frequenza di
questo tipo di traslocazioni è circa del 10% nelle MGUS e del 20% nelle forme di MM intramidollare o avanzato (26). Diversamente da altre
forme di neoplasie linfoidi, nel MM si ha una marcata promiscuità di loci cromosomici che possono essere coinvolti nelle traslocazioni IGH
(Figura 3). Quelli più frequentemente interessati sono 11q13 (ciclina D1), 4p16.3 (FGFR3 e
MMSET), 16q23 (MAF), 20q11 (MAFB) e 6p21
(ciclina D3) che coinvolgono circa il 45% dei
pazienti (10) (Figura 3).
Biologia e genetica molecolare
FIGURA 3 - Frequenza e tipo delle traslocazioni Ig nel MM. Come descritto
ampiamente nel testo, queste traslocazioni sono promiscue coinvolgendo differenti loci. Tramite FISH è possibile identificare i principali tipi di traslocazione in
circa il 40-45% dei pazienti con MM.
Traslocazione t(11;14)(q13;q32)
La presenza della traslocazione t(11;14)(q13;q32)
è identificata tramite FISH in circa il 15-20% dei
casi di MM (24,36-38). La traslocazione comporta l’attivazione costitutiva del gene della ciclina D1
e può essere facilmente diagnosticata in metafasi anomale con citogenetica convenzionale.
Diversamente dalla t(11;14) associata al linfoma
mantellare, i punti di rottura sul cromosoma 11q13
nella traslocazione associata al MM sono dispersi su una regione genomica di circa 700 kb che
non permettono quindi di identificare un cluster
(37). La traslocazione può essere riscontrata nelle MGUS (15-30%) (24, 26, 39) ed è ricorrente nella amiloidosi (40).
La presenza della t(11;14) è stata correlata con una
morfologia di tipo linfoplasmocitico, espressione
del CD20 e forme non secernenti (36, 41-44). Le
conseguenze biologiche della traslocazione rimangono ancora da chiarire ma è stato suggerito che
i casi con t(11;14) abbiano una minore capacità
proliferativa. È stato anche evidenziato che la
t(11;14) nel MM non è associata ad una prognosi negativa sia per i pazienti trattati con chemioterapia convenzionale che, in particolare, per quelli trattati con chemioterapia ad alte dosi (HD-CTX)
e trapianto autologo (ASCT) (36, 45).
In linea con questi dati è stato dimostrato che la
overespressione del gene della ciclina D1 valutata con RT-PCR quantitativa in pazienti con nuova diagnosi trattati con terapie ad alte dosi era
associata in modo significativo ad una più lunga
durata di remissione e di sopravvivenza libera da
eventi (EFS) (46).
Traslocazione t(4;14)(p16.3;q32)
La t(4;14)(p16.3;q32) è una traslocazione criptica,
ossia non rilevabile con citogenetica convenzionale a causa della posizione estremamente telomerica delle regioni coinvolte su entrambi i cromosomi.
Essa è specifica del MM ed è stata identificata
dal nostro ed altri laboratori tramite esperimenti
di clonaggio molecolare in linee e tumori primari di MM (47-49). La traslocazione è riscontrata
tramite FISH in circa il 15-20% dei pazienti con
MM e comporta la deregolazione di due geni localizzati nella regione 4p16.3: il gene Fibroblast
Growth Factor Receptor-3 (FGFR3) che codifica
per un recettore tirosino-chinasico, ed il gene
MMSET/WHSC1 che potrebbe essere coinvolto
in meccanismi trascrizionali. I punti di rottura coinvolgono una regione localizzata circa 50-100 kb
centromericamente al gene FGFR3 e che contiene gli esoni a 5’ e le sequenze regolatorie del gene
MMSET.
In modo specifico, i punti di rottura interessano
la regione a 5’ del terzo esone (inizio della proteina) ed il terzo e quarto introne del gene con conseguente formazione di trascritti ibridi tra esoni
del gene MMSET e sequenze delle IGH sul cromosoma 4p derivativo che possono essere rilevati tramite RT-PCR come dimostrato dal nostro
laboratorio (50).
9
10
Seminari di Ematologia Oncologica
Sulla base dell’attività funzionale di FGFR3 e dei
dati sperimentali in vitro e su modelli animali (5154), si è sempre considerato che la sua deregolazione nella t(4;14) potesse avere un importante ruolo oncogenico ed in tal senso diversi inibitori tirosino-chinasici sono al momento testati per
un loro uso in clinica. Circa il 10% dei pazienti con
t(4;14) mostrano delle mutazioni attivanti il gene
FGFR3 simili a quelle associate a sindromi scheletriche genetiche come il nanismo o la displasia
tanatoforica; tali mutazioni possono rappresentare eventi tardivi nella progressione tumorale (55).
Bisogna però tenere presente che in una frazione significativa di pazienti (20-30%) con t(4;14) non
si riscontra la overespressione di FGFR3 che nella maggior parte dei casi si associa alla perdita
del cromosoma 14 derivativo e quindi dell’allele
FGFR3 traslocato (56, 57).
Questa osservazione suggerisce che la deregolazione di MMSET possa rappresentare la conseguenza molecolare più importante della traslocazione anche se al momento la esatta funzione
del gene come anche il ruolo della sua deregolazione nella neoplasia non sono stati chiariti. Per
quanto riguarda le MGUS, la traslocazione è stata riportata da alcuni studi con una frequenza del
10% (26); questi dati non sono stati confermati
da altri autori (24, 56).
Quando riscontrata nelle MGUS, la lesione appare comunque essere insufficiente per la progressione in MM poichè i pazienti possono rimanere
stabili per anni (26). Nei pazienti con MM conclamato la traslocazione sembra essere prevalente
nei pazienti con isotipo IgA ed esprimenti catene leggere lamba (43, 58) e si associa a forme cliniche aggressive rappresentando un fattore prognostico sfavorevole nei pazienti trattati sia con
chemioterapia convenzionale che con terapia ad
alte dosi (43, 56, 58, 59). Infine, non è stata osservata una differenza in termini di sopravvivenza in
pazienti affetti dalla t(4;14) con o senza espressione di FGFR3 (56). Recenti studi indicano come
nuovi farmaci quali gli inibitori del proteosoma
(bortezomib), siano in grado di annullare la valenza prognostica sfavorevole della lesione (60).
Traslocazione t(14;16)(q32;q23)
La traslocazione t(14;16)(q32;q23) è riscontrata in
circa il 5% dei casi di MM (24,58,61) e compor-
ta l’attivazione costitutiva del gene MAF, un membro della famiglia dei fattori trascrizionali MAF (61).
Essa appare essere specifica delle discrasie plasmacellulari.
La lesione è identificabile tramite FISH e sembra
essere un evento precoce in una significativa parte dei casi, anche se, come per la t(4;14), esiste
una certa controversia circa la sua presenza nelle MGUS (26, 39). Oltre al gene MAF, un altro
membro della famiglia, MAFB, localizzato sul cromosoma 20 è coinvolto in traslocazioni in circa
il 2% dei casi anche se in genere con partner cromosomici diversi dalle Ig. Dati recenti indicano
che questi geni regolano in modo positivo la trascrizione dei geni della ciclina D2 ed integrina B7
che risultano essere fortemente espressi nei
pazienti con questo tipo di traslocazione (62). Dai
pochi dati disponibili in letteratura emerge chiaramente che le traslocazioni coinvolgenti i geni
MAF sono associate ad una prognosi sfavorevole (58).
Traslocazioni dei geni MYC
Traslocazioni coinvolgenti geni MYC, in massima
parte c-MYC, sono assenti o rari nelle MGUS, ma
sono riscontrate in circa il 15% dei MM, nel 40
% delle forme avanzate and in circa il 90% delle linee cellulari (10, 94, 95).
Queste traslocazioni sono molto eterogenee e
complesse interessando più cromosomi e spesso non coinvolgono i geni delle Ig (definite come
traslocazioni secondarie). Quindi si ritiene che queste lesioni rappresentino eventi tardivi, associati
alla progressione che avviene quando le cellule
mielomatose diventano indipendenti dal microambiente midollare. Al contrario la elevata espressione biallelica di c-MYC che è in genere presente anche nelle fasi precoci della neoplasia è il risultato della stimolazione da parte della IL6 o di altre
citochine importanti nella sopravvivenza e proliferazione plasmacellulare. In uno studio di FISH
del nostro laboratorio condotto su 14 linee e 70
pazienti di cui 7 affetti da PCL, sono state identificati riarrangiamenti di c-MYC in 11 linee e 3
pazienti (2MM ed una PCL) mentre extra-segnali o localizzazioni anomale del gene sono stati
identificati in 2 MM e 5 PCL (96). Le implicazioni cliniche e prognostiche delle alterazioni del gene
c-MYC, non sono ancora ben definite; uno stu-
Biologia e genetica molecolare
dio recente di Avet-Loiseau et al. non ha rilevato un effetto di questi riarrangiamenti sulla prognosi (59).
Sulla base delle conoscenze attuali, descritte precedentemente, è ipotesi comune che esistano due
modelli patogenetici nel MM che interessano
ognuno circa il 50% dei pazienti: uno caratterizzato dalla presenza della iperdiploidia e dallo scarso coinvolgimento delle traslocazioni cromosomiche IGH e l’altro definito come non-iperdiploide
ed associato ad una elevata frequenza di traslocazioni IGH. In ogni caso, sembrano esserci 3
eventi genetici particolarmente precoci nella mielomagenesi e che si presentano parzialmente coesistenti:
1) le traslocazioni IGH mediate da errori nella
ricombinazione switch e/o nelle ipermutazioni somatiche nel centro germinativo;
2) la iperdiploidia associata a trisomia di specifici cromosomi;
3) la delezione/monosomia del cromosoma 13.
Dati più recenti suggeriscono che anche il guadagno del cromosoma 1q possa costituire un
evento precoce anche se è maggiormente evidente il suo ruolo nella progressione tumorale. Altre
lesioni come le mutazioni dei geni RAS e del
pathway NFkB si associano frequentemente a forme di mieloma conclamato, mentre delezioni del
gene p53, del pathway RB1 e traslocazioni MYC
si riscontrano prevalentemente in forme avanzate ed aggressive (Figura 4). Infine, un evento
importante che si associa alla quasi totalità dei
MM è la deregolazione di uno dei geni della famiglia delle cicline D. Sebbene i dati disponibili sembrano indicare che la overespressione delle cicline non determini un aumento della proliferazione, si ritiene comunque che esse possono rendere le cellule mielomatose più suscettibili agli stimoli proliferativi quali quelli legati alla interazione
con le cellule stromali del microambiente midol-
FIGURA 4 - Eventi genetici nella progressione del mieloma multiplo. La progressione è associata ad una sempre maggiore instabilità cariotipica responsabile della elevata aneuploidia che caratterizza la neoplasia. Le traslocazioni che coinvolgono i geni delle Ig, la iperdiploidia, la delezione del cromosoma 13, il guadagno del cromosoma 1q sembrano essere eventi precoci. La linea tratteggiata indica che non si è certi della presenza della lesione (vedi testo per ulteriori dettagli).
11
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Seminari di Ematologia Oncologica
lare che esprimono IL6, IGF1 o altre citochine
(Figura 4).
mento con inibitori del proteosoma quali il bortezomib (60).
Delezione 13q
Come dimostrato da diversi studi di FISH, la delezione 13q è presente in circa il 40-50% dei casi
e rappresenta una delle più frequenti alterazioni nel MM (63-65). La perdita del cromosoma 13q
è riscontrata in circa il 10-20% dei casi tramite
citogenetica convenzionale.
La delezione è associata in modo positivo ad un
certo numero di alterazioni citogenetiche quali la
traslocazione t(4;14) o t(14;16) (in circa il 90% dei
casi), la presenza di extracopie del cromosoma
1q e di un condizione di non-iperdiploidia (10,
24). Per quanto riguarda le MGUS i dati sono
ancora controversi con studi di FISH che indicano una frequenza di circa il 20% suggerendo
che la lesione possa essere coinvolta nella evoluzione della neoplasia (24) ed altri che riportano frequenze comparabili a quelle del MM (26,
66). In questo contesto bisogna segnalare che
la delezione 13q è stata riscontrata in un range
tra il 75 e 90% del clone neoplastico con una
frazione di pazienti che può presentare delle percentuali inferiori al 65% (65, 67, 68).
Questi dati suggeriscono che la delezione 13q
è un evento secondario che può dare un vantaggio proliferativo alla plasmacellula maligna. I
dati a disposizione indicano inoltre che la delezione 13q è dovuta nel 90% dei casi ad una
monosomia del cromosoma 13 mentre la presenza di una minima regione di delezione nei rimanenti casi rimane ancora controversa (68, 69).
Sulla base dei diversi metodi di analisi (citogenetica convenzionale o FISH) la delezione 13q
è associata ad una prognosi sfavorevole sia in
termini di risposta alla terapia che di EFS e di
sopravvivenza totale (OS) nei pazienti trattati con
chemioterapia convenzionale, HD-CTX e ASCT
o trapianto allogenico (14, 45, 63, 65). Importante
notare che recenti dati indicano che la delezione 13q mantiene il suo significato prognostico
in pazienti trattati con HD-CTX ed ASCT solo se
associata alla traslocazione t(4,14) e/o delezione 17p (59).
Infine recenti dati ottenuti su pazienti refrattari o
in recidiva suggeriscono che la delezione 13q
perde il suo significato prognostico dopo tratta-
Delezione 17p13
La inattivazione tramite delezioni monoalleliche o
mutazioni del gene oncosoppressore p53 localizzato sulla regione 17p13 è associata con la progressione tumorale in un gran numero di tumori
umani. Anche nell’ambito del MM, la inattivazione del gene p53 appare essere un fenomeno più
frequente negli stadi avanzati della malattia. In
generale, delezioni 17p13 sono osservate in circa il 10% dei casi di MM mentre mutazioni inattivanti il gene p53 sono state osservate nel 5%
dei pazienti alla diagnosi, 20-40% dei pazienti in
fase avanzata/PCL e in più del 60% delle linee
cellulari (70-73). La delezione di p53 è associata
ad una prognosi sfavorevole sia dopo chemioterapia convenzionale o terapie ad alte dosi (38, 58,
59, 74, 75).
Alterazioni del cromosoma 1
Le anomalie del cromosoma 1 rappresentano una
delle più frequenti alterazioni citogenetiche nel MM
con un frequenza di circa il 45-50% dei casi (10,
76). È stato ampiamente dimostrato come il braccio corto del cromosoma 1 sia più frequentemente coinvolto in delezioni, mentre il braccio lungo,
1q, sia associato con guadagni ed amplificazioni. Il guadagno del cromosoma 1q può avvenire
tramite formazione di un isocromosoma, duplicazione o fenomeni di jumping translocation. È stato inoltre riportato che il guadagno del cromosoma 1q si associa a cariotipi complessi ed in particolare alla delezione 13q e traslocazione t(4;14),
ed in genere a forme aggressive della neoplasia
(10).
In uno studio recente del nostro laboratorio condotto su plasmacellule purificate di 77 pazienti alla
diagnosi, il guadagno del cromosoma 1q è stato riscontrato tramite FISH in 40 pazienti (52%),
la maggior parte dei quali (75%) mostrava un solo
extra-segnale. La lesione era presente nella totalità del clone neoplastico in quasi tutti i pazienti
(37/40) e correlava significativamente in modo
inverso alla presenza della iperdiploidia ed in
modo diretto con la delezione del cromosoma 13
(77). Diversi dati hanno dimostrano recentemente come il guadagno del cromosoma 1q sia una
Biologia e genetica molecolare
lesione che aumenta durante la progressione
tumorale del MM, dalla condizione di MGUS
(15%), a quella di SMM e MM conclamato (45%)
fino alle forme in recidiva (70%), quindi suggerendo che queste regioni contengano geni critici nella progressione della neoplasia (78, 79). Infine, è
stato dimostrato su un largo numero di pazienti
che il guadagno del cromosoma 1q rappresenta
un fattore di rischio negativo significativo ed indipendente associato ad una ridotta EFS e OS, ad
un più alto rischio di progressione da SMM a MM,
e ad una sopravvivenza inferiore dopo recidiva
(79).
Mutazioni attivanti dei geni RAS
Mutazioni attivanti i geni N- e K-RAS rappresentano una lesione ricorrente nel MM: infatti, esse
sono state riscontrate in circa il 30% dei tumori
alla diagnosi e in circa il 45% delle linee cellulari di MM (80-82). La prevalenza di questa alterazione è molto bassa nelle forme di MGUS (circa
il 5%) e per contro non si modifica significativamente durante la progressione della malattia: queste osservazioni supportano l’ipotesi secondo la
quale le mutazioni di RAS possano essere un marker della transizione MGUS-MM (80, 83). Recenti
studi indicano che la presenza di mutazioni di RAS
è sostanzialmente più elevata nei MM che esprimono alti livelli di ciclina D1 rispetto a quelli che
overesprimono ciclina D2 (83).
La presenza di mutazioni di RAS non è correlata con la delezione del cromosoma 13q, con la
trisomia del cromosoma 11, con l’amplificazione
del cromosoma 1q o con lo stato di iperdiploidia.
L’analisi d’espressione genica globale ha rivelato differenze nel profilo trascrizionale tra linee cellulari continue con e senza mutazioni di RAS, mentre non si sono osservate variazioni nell’analisi di
plasmacellule da pazienti (81).
Questa osservazione, unitamente al fatto che non
è stato riscontrato alcun significato prognostico
delle mutazioni di RAS, supporta l’ipotesi che questa alterazione nel MM debba essere considerata nel contesto di altre anomalie genetiche.
Alterazioni attivanti il pathway NF-kB
Nelle plasmacellule normali si evidenzia l’attivazione del pathway NFkB, a cui almeno in parte
contribuisce l’attivazione di TACI e BCMA attra-
verso i ligandi BAFF e APRIL prodotti dalle cellule midollari (84). Recentemente due lavori indipendenti hanno evidenziato come nelle plasmacellule mielomatose il pathway di NFkB risulti ulteriormente attivato come conseguenza di anomalie genetiche (85, 86).
Utilizzando le tecniche di gene expression profiling (GEP) ed arrayCGH si sono riscontrate tali
alterazioni in circa il 20% dei pazienti e nel 40%
delle linee cellulari di MM. Più in particolare si è
osservata overespressione di NIK, NFkB2, NFkB1,
CD40, LTBR e TACI, tutti geni che codificano per
proteine che attivano la via di NFkB. Inoltre si è
riscontrata l’attivazione di questo pathway dovuta all’attività alterata di inibitori quali TRAF3, clAP1,
clAP2, CYLD e TRAF2.
Da questi studi sembra che sia la via canonica
che quella non canonica di NFkB siano implicate in queste alterazioni, anche se l’importanza specifica delle due vie non è ancora stata chiarita. In
uno di questi studi è stato anche riportato che nei
pazienti che presentano alterazioni nello stato di
attivazione di NFkB, il desametasone è poco efficace rispetto al bortezomib, mentre i due farmaci hanno simile attività negli altri pazienti (86).
Inattivazione di geni oncosoppressori
Oltre alle cicline D, altri componenti del pathway
del gene oncosoppressore RB1 sono frequentemente deregolati nel MM. I geni p16/INK4a e
p15/INK4b sono ipermetilati in circa il 30% dei
casi di MGUS e MM, come anche nella maggior
parte delle linee di MM in coltura (10, 87, 88). Studi
recenti hanno dimostrato che i MM possono esprimere scarsi o assenti livelli di p16, indipendentemente dal fatto che il gene sia ipermetilato, suggerendo quindi che la metilazione possa rappresentare un epifenomeno (89, 90).
Comunque, sebbene una mutazione germ-line di
p16 in un allele e la delezione nel rimanente sia
stata riportata in un singolo paziente con MM (91),
resta ancora da chiarire se la inattivazione di p16
sia un evento importante e presumibilmente precoce nella patogenesi del MM.
Al contrario, appare evidente dai dati disponibili
che il gene p18/INK4c possa avere un ruolo cruciale nello sviluppo e proliferazione plasmacellulare. Infatti, una delezione biallelica di p18 è stata osservata in circa il 30% delle linee in coltura
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Seminari di Ematologia Oncologica
ed in una frazione significativa di tumori con più
alto indice proliferativo (92). Inoltre la overespressione costitutiva del gene in linee che mancano
delle sua espressione, inibisce in modo significativo l’attività proliferativa delle stesse. Infine, la inattivazione del gene RB1 localizzato sulla regione
q14 del cromosoma 13, si riscontra in circa il 10%
delle linee in coltura ma rappresenta un raro e tardivo evento nei pazienti con MM (93).
n MM E MICROAMBIENTE
MIDOLLARE
Il microambiente del midollo osseo è costituito
da una matrice extracellulare (ECM) formata da
diverse proteine tra cui osteopontina, fibronectina, collagene e laminina, da cellule ematopoietiche e da cellule accessorie che includono cellule stromali (BMSC), cellule endoteliali (BMEC),
osteoclasti ed osteoblasti (97).
Le cellule accessorie sono in gran parte responsabili della produzione e secrezione di citochine e fattori di crescita che supportano e modulano non solo la crescita, la sopravvivenza e la
differenziazione delle plasmacellule ma anche il
loro homing e adesione al midollo, i processi di
angiogenesi e di osteoclastogenesi (98, 99).
Numerosi studi in vitro ed in vivo hanno ormai
dimostrato la rilevanza del microambiente midollare nella patogenesi del MM.
Infatti nella malattia risulta profondamente alterata la situazione di omeostasi che regola l’interazione cellula-cellula e cellula-matrice attraverso la complessa modulazione svolta da citochine, chemochine e fattori di crescita. Gli effetti di tali alterazioni, che si ripercuotono anche sulle altre cellule del microambiente, hanno come
conseguenza non solo l’espansione del clone
plasmacellulare maligno ma anche un’aumentata capacità angiogenica e l’acquisizione di resistenza ai farmaci da parte delle cellule tumorali, nonchè la formazione di lesioni litiche dell’osso (100).
Localizzazione ed adesione delle cellule
di MM nel midollo osseo
La localizzazione homing delle cellule di MM nel
midollo è principalmente mediata dall’interazio-
ne della chemochina SDF1a con il suo recettore CXCR4 espresso dalle cellule di MM, che
induce la migrazione delle cellule di MM in vitro.
Inoltre numerose molecole d’adesione intervengono a favorire l’homing delle cellule di MM alla
matrice o alle cellule accessorie, quali CD44,
VLA4, VLA5, LFA1, NCAM, ICAM1, syndecan 1
e MPC1. VLA4 espresso dalle cellule di MM induce l’adesione al ECM attraverso la fibronectina
e conseguente up-regolazione di p27 ed attivazione di NFkB nelle cellule di MM; questo evento determina la resistenza ai farmaci adesionemediata (101, 102).
L’adesione al ECM mediata dal legame del syndecan 1, espresso in molte cellule di MM, con
il collagene determina l’espressione di MMP1
con conseguente aumento della massa tumorale e riassorbimento dell’osso (103). La molecola di syndecan 1 nella sua forma solubile supporta la crescita delle cellule mielomatose e un
suo livello sierico elevato correla con una prognosi sfavorevole (104).
Interazione tra cellule di MM, BMSC
e BMEC
L’adesione delle cellule di MM a BMSC innesca
una sequenza di eventi importanti che coinvolgono diverse citochine. L’attivazione di NFkB
determina la trascrizione e secrezione da parte
delle cellule stromali di IL-6 il più importante fattore di crescita per le plasmacellule, con conseguente stimolo per la crescita, la sopravvivenza, la resistenza ai farmaci e capacità di migrazione delle cellule tumorali (105). Inoltre le stesse cellule di MM localizzate nel microambiente
midollare producono a loro volta citochine
come TNFa, TGFb e VEGF che ulteriormente stimolano la produzione di IL6 (106-108).
L’attivazione di NFkB inoltre determina l’espressione di molecole di adesione e citochine che
favoriscono ulteriormente il legame tra cellule di
MM e BMSC.
Ad esempio, il legame tra CD40 espresso dalle
cellule di MM e il suo ligando sulle cellule midollari determina l’up-regolazione di LFA1 e VLA4
che favoriscono l’adesione alle cellule stromali
e stimolano la produzione e secrezione di IL6 e
VEGF. Anticorpi diretti contro CD40 inibiscono
questi processi ed al momento è in fase di valu-
Biologia e genetica molecolare
tazione un loro utilizzo nella terapia del MM, confermando una strategia terapeutica che ha
come target il microambiente midollare. Oltre a
NFkB sono attivati altri pathways quali le vie di
trasmissione dei segnali mediati da P13K/AKT,
MEK, ERK, JAK2 e STAT3. L’effetto complessivo di questi eventi è la up-regolazione di proteine che regolano il ciclo cellulare, quali le cicline
D, e di proteine antiapoptotiche, quali BCL-XL,
MCL1 ed inibitori delle caspasi (Figura 5).
Conseguentemente all’interazione tra le cellule
mielomatose e il compartimento delle cellule
stromali avviene l’adesione alle cellule endoteliali, che determina la produzione di citochine ad
attività angiogenica, quali VEGF, bFGF e metalloproteinasi (109).
La presenza di queste citochine insieme con
quelle prodotte da BMSC determina la formazione di nuovi microvasi sanguigni, che supportano ulteriormente la crescita delle cellule tumorali (110, 111). Nel microambiente midollare vengono quindi ad instaurarsi circuiti autocrini e/ o
paracrini mediati da fattori di crescita, citochine e fattori angiogenici che sono responsabili
della progressione della malattia. Infatti il livello
di angiogenesi midollare è aumentato nei pazienti con MM avanzato e costituisce un marker prognostico negativo (112). Per questo la neovasco-
FIGURA 5 - Interazione tra cellula di mieloma e microambiente midollare. Il legame delle plasmacellule alle cellule stromali del midollo osseo (BMSCs) attiva e favorisce l’adesione delle cellule di mieloma, la loro crescita e sopravvivenza.
In particolare, questo legame induce l’attivazione del pathway NF kB che upregola una serie di molecole di adesione
sia sulle cellule di MM che sulle stesse BMSCs; le citochine secrete dalle plasmacellule a loro volta attivano la secrezione di IL-6, tumor necrosis factor b (TNFa), vascular endothelial growth factor (VEGF). A loro volta, tutta una serie di
citochine secrete dalle BMSCs possono attivare diversi pathways molecolari (Jak/STAT3, PI3K/AKT, NFkB e/o MAPK)
nella plasmacellula.
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Seminari di Ematologia Oncologica
larizzazione del midollo costituisce un target terapeutico soprattutto nelle forme di MM più
avanzate: la talidomide per esempio inibisce la
secrezione da parte delle cellule endoteliali di
VEGF, bFGF e HGF, la proliferazione di queste
cellule ed il processo di capillarogenesi (113-115).
Interazione tra cellule di MM, osteoclasti
ed osteoblasti
Una ulteriore conseguenza dell’homing delle cellule di MM nel midollo è un’alterazione dell’attività osteoclastica che si manifesta con riassorbimento dell’osso e lesioni litiche dello stesso
(116). Il processo di osteoclastogenesi è principalmente regolato dall’equilibrio tra RANKL e
OPG prodotti dalle cellule stromali e dagli
osteoblasti (117).
RANKL si lega al suo recettore RANK espresso
dagli osteoclasti, stimolando la loro differenziazione ed attività, mentre OPG si lega a RANKL
e ne previene l’attività, inibendo quindi la maturazione degli osteoclasti (118, 119). L’interazione
tra cellule di MM e cellule stromali sposta que-
sto equilibrio a favore di RANKL, promuovendo
la formazione di lesioni litiche dell’osso (120,
121). Inoltre un altro meccanismo contribuisce
alla distruzione dell’osso nel MM: le cellule mielomatose secernono MIP1a che ulte riormente
induce la formazione di osteoclasti indipendentemente da RANKL. Livelli plasmatici aumentati di MIP1a si riscontrano nei pazienti di MM con
lesioni ossee (122, 123).
La presenza di lesioni ossee nel MM sono anche
dovute ad una diminuita attività degli osteoblasti. Infatti il legame di VLA4 espresso dalle cellule di MM con VCAM1 sui progenitori osteoblastici down-regola il fattore trascrizionale RUNX2
che modula la differenziazione degli osteoblasti
dalle cellule mesenchimali staminali (124, 125).
Questo processo è anche regolato da DKK1, un
inibitore del pathway canonico di Wnt che si ritrova upregolato nelle biopsie midollari di pazienti con MM. La via di Wnt è particolarmente
importante in quanto regola anche il rapporto
RANKL/OPG e pertanto costituisce un potenziale target terapeutico (126, 127) (Figura 6).
FIGURA 6 - Fisiopatologia del riassorbimento osseo nel MM. Le cellule di MM
secernono una serie di fattori, in particolare MIP1a e TNFa, che inducono la attivazione degli osteoclasti. Inoltre esse
inducono una elevata produzione di
ligando per il recettore RANK (RANKL)
che determina un’alterazione del normale rapporto funzionale con le molecole di
osteoprotegerina (OPG) che è un inibitore funzionale di RANKL. Inoltre, le cellule mielomatose contribuiscono alla
deregolazione di molecole (DDK1,
RUNX2) che alterano il normale processo di differenziazione e maturazione funzionale degli osteoblasti a partire dalla
cellula mesenchimale.
Biologia e genetica molecolare
La rilevanza delle interazioni tra microambiente
midollare e cellule di MM nella progressione della malattia e nella resistenza ai farmaci ha evidenziato la necessità di nuovi farmaci e/o associazione tra farmaci diversi che abbiano come
target molecole e pathways alterati in queste
specifiche funzioni. Questi farmaci interagiscono con molecole di superficie presenti sulla plasmacellula tumorale quali CD40 e CS1 oppure
sono diretti verso citochine e loro recettori come
FGFR3, IGF1, VEGF e BAFFR. Altri sono piccole molecole inibitrici di particolari vie di trasmissione dei segnali all’interno della cellula quali
MEK, NFkB, PKC, Cycline D, AKT e proteosoma. Attualmente tali farmaci sono in via di sperimentazione in trials clinici. Tuttavia la complessità delle alterazioni genetiche della cellula mielomatosa e le conseguenti alterazioni nell’ambito delle interazioni con il microambiente midollare suggeriscono la necessità di terapie combinate di più farmaci che permettano di aumentare la citotossicità e di superare il problema della resistenza ai farmaci.
n IL RUOLO DELL’ANALISI GENOMICA
NELLA CLASSIFICAZIONE
MOLECOLARE E PROGNOSTICA
DEL MM
Lo sviluppo e l’applicazione di tecnologie di DNA
microarray ha contribuito notevolmente in questi
ultimi anni allo studio della genomica della cellula tumorale sia in ambito pre-clinico che clinico.
A questo proposito uno strumento utile è la combinazione di diversi tipi di analisi molecolare, quali la FISH e i DNA microarrays, per la definizione
sia del profilo di espressione genica globale (GEP)
che del profilo DNA genomico (genotyping array).
Gli studi di GEP condotti in diversi laboratori, incluso il nostro (128-131), hanno rivelato che le cellule mielomatose sono contraddistinte da un pattern trascrizionale distinto da quello delle plasmacellule normali. Al contrario le plasmacellule di mieloma multiplo non sono distinguibili da quelle dei
pazienti con MGUS o PCL, mentre pattern di geni
differenzialmente espressi coinvolti nel controllo
del ciclo cellulare, nella modificazione del DNA,
nella proliferazione ed apoptosi, sono identifica-
bili confrontando plasmacellule di MGUS e quelle di PCL (Figura 7). Più recentemente Zhan et al.
utilizzando analisi di tipo non supervisionato su
geni differenzialmente espressi tra MGUS e MM,
hanno identificato un gruppo di MM con un profilo trascrizionale definito come “MGUS-like”
che presentavano dei parametri clinici favorevoli ed una più lunga sopravvivenza; questo profilo trascrizionale era associato alla maggior parte dei pazienti che mostravano una sopravvivenza superiore ai 10 anni dall’inizio della terapia (132).
L’analisi GEP ha contribuito alla definizione di nuove classificazioni molecolari del mieloma multiplo
con rilevanza sia biologica che clinica. In tal senso un aspetto importante è che molte delle alterazioni genetiche presenti nel mieloma multiplo,
quali quelle che portano alla attivazione dei geni
FGFR3, ciclina D1 o MAF possono essere identificate con GEP; inoltre studi di GEP hanno evidenziato come la deregolazione di almeno uno dei
3 geni delle cicline D 1-3 che controllano il passaggio dalla fase G1 alla fase S del ciclo cellulare, sia associata alla quasi totalità dei pazienti con
MM. Sulla base di questa evidenza, Bergsagel et
al hanno proposto una classificazione molecolare basata sulla presenza delle maggiori traslocazioni IGH e sull’espressione in GEP dei geni delle cicline (133).
Questa classificazione definita come TC (translocation cyclins) riconosce cinque gruppi, TC1-5.
In particolare, il gruppo TC1 è caratterizzato dalle traslocazioni t(11;14) o (6;14) ed overespressione rispettivamente della ciclina D1 o D3; i gruppi TC4 e TC5 dall’espressione della ciclina D2 e
rispettivamente dalla traslocazione t(4;14) o da
quelle coinvolgenti i geni MAF; il gruppo TC2 da
assenza di traslocazioni note e moderata espressione di ciclina D1; il gruppo TC3 da espressione della ciclina D2, ciclina D1+D2 o assenza di
espressione di entrambi. Studi condotti nel
nostro laboratorio indicano questi gruppi con la
sola eccezione del gruppo TC3, sono caratterizzati da specifici profili di espressione (134). In particolare il gruppo TC2, rappresentato nella maggioranza dei casi da pazienti iperdiploidi, è caratterizzato dall’overespressione di geni coinvolti nella biosintesi proteica.
Questa classificazione ha una sua potenziale
applicazione clinica in quanto si basa su markers
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Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 7 - A) Analisi non-supervisionata dei profili di espressione genica di plasmacellule purificate (CD138+) da 11
MGUS, 121 MM e 9 PCL e da 4 donatori sani (N). La matrice è stata generata usando un algoritmo di clustering gerarchico. I campioni sono raggruppati sulla base dei livelli di espressione dei trascritti (595 sonde) che variano maggiormente nell’intero dataset. Non si osserva un raggruppamento distinto delle tre forme di discrasia plasmacellulare, mentre i casi di MGUS sono parzialmente raggruppati con la componente normale.*= MGUS; += PCL. B) Rappresentazione
dei profili di espressione dei trascritti (283 sonde) identificati come differenzialmente espressi nell’analisi supervisionata multi-classe di 11 MGUS, 121 MM e 9 PCL, effettuata con il software Significant Analysis of Microarrays (SAM). Si
osservano geni positivamente/negativamente modulati in modo specifico nelle classi MGUS e PCL, mentre è evidente una marcata eterogeneità nel profilo di espressione della classe dei MM. In (A) e (B) ciascuna colonna rappresenta
un campione e ciascuna riga un gene. La barra colorimetrica indica le variazioni di espressione genica relative normalizzate rispetto alla deviazione standard. La classificazione TC è riportata per i 121 casi di MM. (Hideshima et al., 2004;
Agnelli et al., 2005).
Biologia e genetica molecolare
facilmente individuabili con l’analisi in FISH; al tempo stesso ha dei limiti in quanto la definizione dei
cut-off per l’espressione dei geni delle cicline non
è un criterio facile; non vengono identificati i
pazienti iperdiploidi; il significato clinico-biologico dei pazienti con espressione della ciclina D2
rimane ancora da chiarire. Successivamente, Zhan
et al. sulla base di uno studio di GEP su piattaforma Affymetrix in 414 MM alla diagnosi ed utilizzando un’analisi di tipo nonsupervisionato, hanno proposto una classificazione molecolare del
MM in sette gruppi (135) caratterizzati da: una overespressione di geni coinvolti nel controllo del ciclo
cellulare e della proliferazione (gruppo PR per proliferazione); una bassa espressione di geni coinvolti nelle lesioni ossee, quali gli antagonisti del
pathway wnt come dickkopf 1 (DDK1) and frizzeld B, ed un basso numero di alterazioni ossee
focali alla risonanza magnetica (gruppo LB = low
bone disease); una overespressione dei geni
MMSET/WHSC1 e FGFR3 (gruppo MS per
MMSET); una overespressione di geni ciclina D1
o D3 (gruppi CD-1 e CD-2); una overespressione dei geni MAF o MAFB (gruppo MF); presenza di iperdiploidia (gruppo HY).
Questi autori hanno evidenziato sulla base di un
follow-up medio di 36 mesi, che i pazienti inclusi nei gruppi PR, MS e MF avevano una prognosi in termini di OS e EFS significativamente peggiore dei pazienti nei gruppi HY, CD-1, CD-2 e LB.
Successivamente, utilizzando la stessa casistica,
questi autori hanno identificato un gruppo di 70
geni la cui bassa (19 geni) o alta espressione (51
geni) è in grado di classificare i pazienti ad alto
rischio dimostrando inoltre come 17 di questi geni
siano in grado da soli di predire la prognosi in questo gruppo di pazienti (136).
Questo classificatore si è mostrato essere un fattore indipendente nel predire l’outcome clinico in
una analisi multivariata che includeva la stadiazione ISS e le traslocazioni cromosomiche.
Interessante il fatto che circa il 30% di questi 70
geni sia localizzato sul cromosoma 1 con la maggior parte dei geni upregolati localizzati sul cromosoma 1q e quelli downregolati sul cromosoma 1p. Un gene fortemente upregolato è CKS1B,
un membro della famiglia di proteine CKs/Suc1
che modulano l’attività di proteine kinasi ciclinedipendenti. In particolare, CKS1B promuove la
degradazione ubiquitina-mediata del gene soppressore p27 facilitando la progressione del ciclo
cellulare. È stato dimostrato come il knockout di
CKS1B in cellule di mieloma porta ad un accumulo di p27 ed ad un aumento dell’apoptosi supportando quindi il ruolo putativo della deregolazione di CKS1B nella neoplasia (132).
Più recentemente, Decaux et al. hanno presentato uno studio dell’Intergruppo Francese del
Mieloma (IFM) derivato dall’analisi GEP di 182
pazienti trattati con terapie ad alte dosi e trapianto autologo (137). Questo studio ha permesso di
individuare, tramite analisi di tipo supervisionato,
un pattern trascrizionale caratterizzato da 15 geni
associato in modo significativo alla sopravvivenza ed in grado di identificare pazienti ad alto
rischio con maggiore accuratezza rispetto ai criteri di stadiazione quali ISS e la FISH. Questo
modello è stato validato su un test set di 82
pazienti ed in tre serie indipendenti di pazienti per
un numero complessivo di 853 casi. È importante considerare che questo studio è stato condotto su una piattaforma accademica e quindi non
disponibile commercialmente, e che nessuno dei
15 geni identificati da questi autori era incluso nella lista dei 70 geni descritti da Shaughnessy et
al. (136, 136).
La introduzione della tecnica di arrayCGH (aCGH)
e più recentemente, quella che si basa su arrays
con oligonucleotidi specifici per polimorfismi a singolo nucleotide (SNP-array) ha permesso di esaminare a livello globale ed in modo sensibile le
alterazioni genomiche nelle cellule tumorali in
generale, e di mieloma in particolare (33, 138, 139).
Entrambe le tecniche non richiedono la presenza di metafasi ma sono in grado di visualizzare
in particolare anomalie numeriche, quali delezioni o guadagni di regioni cromosomiche, ma non
alterazioni strutturali, quali le traslocazioni cromosomiche. In particolare, la tecnica di SNP-array
utilizzando sequenze polimorfiche presenti nel
nostro genoma con una frequenza di una ogni 300
basi, permette la identificazione di regioni di delezione o di guadagno con una alta risoluzione di
circa 2.5 kb (139).
Questa tecnica è stata sviluppata da Affymetrix
e si è evoluta rapidamente nel corso di pochi anni
dai primi arrays che contenevano circa 10.000
SNPs a quelli odierni specifici per circa 1.5x10 6
19
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Seminari di Ematologia Oncologica
SNP (139). È importante il fatto che le informazioni ottenute non solo ci permettono di individuare alterazioni nel numero di copie alleliche ma
anche di identificare l’allele presente.
Quest’ultimo dato consente di identificare delle
regioni caratterizzate da perdita di eterozigosità
(LOH), in particolare quelle che non si accompagnano a perdita allelica e che sono in genere il
risultato di fenomeni di disomia uniparentale (140).
Questo tipo di alterazione che può essere di notevole importanza nella biologia del tumore, non è
evidenziabile con citogenetica convenzionale o
FISH (138).
La condizione più comune di LOH identificata tramite SNP-arrays è la monosomia del cromosoma 13 come dimostrato in uno studio recente su
una serie limitata di pazienti con MM (138). Altre
regioni di LOH frequenti nella neoplasia includono il cromosoma 1p, 6q, 8p e 16q. È risultato evidente come in alcuni casi di monosomia 13, la
delezione interessava differenti alleli in sottopopolazioni diverse. Per quanto riguarda il cromosoma 16q è stata dimostrata la presenza di LOH
in tre regioni distinte che si associano alla significativa riduzione di alcuni geni quali CYLD (un
regolatore negativo di NFkB pathway) nella regione 16q12 e WWOX (un putativo gene oncosoppressore) nella regione 16q23 (141).
Nel nostro laboratorio, abbiamo analizzato un
pannello rappresentativo di 41 MM e 4 PCL,
mediante un approccio integrato di analisi di
FISH, genotipizzazione (SNP-arrays) ed espressione genica.
La prima parte dello studio ha riguardato la messa a punto di un sistema di normalizzazione dei
dati di genotipizzazione generati su SNP microarray che prevede la correlazione tra il numero
di copie (CN) identificate mediante analisi in FISH
ed il valore inferito mediante analisi in microarray per ciascuna delle regioni di cui il dato di FISH
risultava disponibile. L’algoritmo implementato
consente la redistribuzione dei valori generati
mediante microarray, utilizzando come valori di
riferimento i dati di FISH ed indicanti il corretto
CN. Questo ha consentito l’individuazione, normalmente mascherata nelle analisi convenzionali di genotipizzazione mediante SNP microarray,
di una consistente frazione di pazienti con MM
il cui genoma è affetto da ipotetraploidia. È sta-
ta quindi applicata un’analisi di clustering gerarchico, che ha consentito di evidenziare come il
guadagno del braccio lungo del cromosoma 1,
la condizione di iperdiploidia e le delezioni dei cromosomi 13 e 14 sono le principali aberrazioni
genetiche che guidano il raggruppamento dei
campioni; i casi caratterizzati da uno stato di ipotetraploidia sono distinguibili come gruppo ben
definito (Figura 8). In generale, oltre ai guadagni
a carico della regione 1q e dei cromosomi coinvolti nell’iperdiploidia, perdite di copie alleliche a
carico delle regioni 4p, 6q, 8p e 16q sono state
evidenziate con un’alta frequenza. È stata successivamente compiuta un’analisi della perdita
di eterozigosi (LOH) sulla base dei dati generati
su microarray. Il quadro delineato nel nostro pannello di MM prevede la presenza di almeno tre
scenari:
1) LOH in presenza di delezioni mono- o bialleliche (il più frequente);
2) LOH in assenza di perdita allelica (CN≥2), suggestivo di disomia uniparentale;
3) l’assenza di LOH anche quando il CN inferito
indica perdita allelica, suggestivo della presenza di subcloni contenenti due differenti alleli.
I profili genomici e la presenza di LOH sono stati quindi correlati con i dati di espressione genica. Un’analisi supervisionata multi-classe dei profili di espressione genica dei campioni, suddivisi
nei cluster precedentemente identificati, ha evidenziato il coinvolgimento per lo più di trascritti
caratteristici della signature del guadagno del
braccio cromosomico 1q e dell’iperdiploidia,
descritte in precedenti pubblicazioni (32, 77, 142).
Successivamente, un’analisi di correlazione fra i
livelli normalizzati di espressione genica e le variazioni locali di CN ha confermato il forte effetto di
dosaggio genico, in particolare associato a trascritti localizzati nella regione 1q. Questi risultati
suggeriscono come alterazioni nei profili di
espressione genica nel MM siano in parte riconducibili all’acquisizione di specifiche anomalie
genomiche strutturali. Un’ulteriore correlazione è
stata stabilita tra la presenza di LOH e la diminuzione dei livelli di espressione di specifici geni,
identificando una stretta correlazione per un
numero consistente di geni localizzati nella regione 16q22 e per il gene RB1 in 13q14. In generale la perdita di eterozigosi (dovuta sia a delezio-
Biologia e genetica molecolare
ne sia a disomia uniparentale) può rappresentare una spiegazione al silenziamento genico in alcune regioni cromosomiche nel MM, come conseguenza di meccanismi epigenetici (quali ad
esempio l’ipermetilazione a carico di regioni di promozione) regolanti la trascrizione.
Infine, la recente scoperta dei geni microRNA
(miRNA), una classe di piccoli RNA non codificanti coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare e nei programmi di sopravvivenza e differenziazione, ha aggiunto un ulteriore livello di complessità alla biologia della cellula normale e tumorale. Tramite la complementarietà a specifiche
sequenze di trascritti codificanti proteine, i
miRNA dirigono il silenziamento dell’mRNA per
mezzo della degradazione del messaggero o della repressione della traduzione (143). Un’alterata
espressione dei miRNA è già stata dimostrata in
numerosi tumori solidi e, più recentemente, in
alcuni disordini ematologici (144-146). Ad oggi,
sono state riportate solo poche evidenze di
espressione/deregolazione dei miRNA nel MM:
recentemente è stato dimostrato che miR-21 può
essere indotto da STAT3 e mediare la sopravvivenza IL6-indotta di HMCL (147).
Successivamente, Pichiorri et al. hanno riportato i risultati di un’analisi di miRNA microarray e
di PCR quantitativa real-time (Q-RT-PCR) condotta su HMCL, PC di pazienti con MM o MGUS e
di controlli normali, mostrando un gruppo di
FIGURA 8 - Istogramma delle frequenze alleliche in un pannelo di 41 MM and 4 PCL analizzate con SNP-array: GeneChip®
Human Mapping 50k Xba 240 (Affymetrix). Nell’asse verticale è indicato il numero dei campioni mentre nell’asse orizzontale sono indicati i diversi cromosomi. Sono mostrate le frequenze alleliche dei quattro maggiori gruppi che originano da un’analisi di cluster gerarchico sulla stessa casistica. Cluster 1: prevalenza di pazienti con delezione del cromosoma 13 e delezione dei cromosomi 1p, 4p, 14q e 16q; Cluster 2: prevalenza di pazienti ipotetraploidi/quasi-tetraploidi; Cluster 3: prevalenza di pazienti iperdiploidi; Cluster 4: prevalenza di pazienti con delezione del cromosoma 13
e guadagno del cromosoma 1q.
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Seminari di Ematologia Oncologica
miRNA differenzialmente espressi che possono
essere associati con la trasformazione e progressione della neoplasia (148). Dati recenti del nostro
laboratorio utilizzando un approccio genomico
integrato hanno rivelato l’espressione coordinata di alcuni miRNA intronici coi loro geni ospiti
deregolati nel MM. In particolare, abbiamo monitorato i valori di espressione dei trascritti dei geni
ospiti, generati su un microarray a oligonucleotidi Affymetrix, in un pannello di 20 HMCL, identificando i geni ospiti di miRNA la cui espressione variava in modo significativo nel dataset. È stato così possibile evidenziare una correlazione
significativa tra i livelli di espressione di tre geni,
MEST, EVL e GULP1, e quelli dei corrispondenti miRNA, rispettivamente miR-335, miR-342-3p
e miR-561 che è stata confermata anche in tumori primari. I target putativi predetti dei miRNA e i
profili trascrizionali associati coi tumori primari
hanno suggerito come MEST/miR-335 e
EVL/miR-342-3p possano avere un ruolo nell’homing delle PC e/o nelle interazioni col microambiente midollare (149).
Queste prime evidenze suggeriscono, come già
ampiamente osservato in altri tumori, che i miRNA
possono giocare un ruolo critico anche nel MM,
e il loro profilo di espressione potrebbe aggiungere un ulteriore livello alla comprensione della
sua patogenesi. L’integrazione dei dati ottenuti
con approcci multipli di tecnologie d’avanguardia contribuirà ad incrementare l’affidabilità e la
significatività delle nostre indagini, e a fornire una
sinergia di informazioni in grado di consentire l’individuazione di nuovi pathway patogenetici e nuovi trattamenti terapeutici nel MM.
n CONCLUSIONI
Gli studi sulla caratterizzazione molecolare del MM
hanno aumentato notevolmente le nostre conoscenze sulla complessa eterogeneità clinico/biologica della neoplasia contribuendo alla definizione di nuovi sottogruppi ed ad una loro migliore
stratificazione prognostica. In tal senso, gruppi
genetici ad alto rischio, come i pazienti con t(4;14),
sembrano poter beneficiare di nuove terapie, quali il bortezomib, per superare l’impatto prognostico sfavorevole anche dopo terapie ad alte dosi.
Pertanto, è sempre più attuale la necessità di
includere l’analisi genetica nella pratica clinica in
modo da guidare la prognosi ed il tipo di trattamento. Al tempo stesso, la disponibilità di tecnologie avanzate ad alta risoluzione per l’analisi di
espressione e del profilo genomico ha dato la possibilità di definire meglio l’eterogeneità della neoplasia. Nel prossimo futuro, sarà auspicabile che
queste conoscenze possano essere traslate nella pratica clinica in modo tale da rendere sempre
più mirata la scelta terapeutica.
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29
Il paziente
giovane
ELENA ZAMAGNI, PATRIZIA TOSI, MICHELE CAVO
Istituto di Ematologia e Oncologia Medica “L. e A. Seràgnoli”, Università di Bologna
Il mieloma multiplo (MM) è una malattia neoplastica dell’adulto anziano caratterizzata dalla proliferazione ed accumulo nel midollo osseo di linfociti B e di plasmacellule e dall’aumentata produzione di immunoglobuline monoclonali, complete o incomplete (componente M), rilevabili nel
siero e/o nelle urine.
Occasionalmente, in meno del 5% dei pazienti,
può non essere presente una componente M sierica o urinaria; in tal caso il MM viene definito non
secernente e per il monitoraggio della taglia neoplastica e delle sue variazioni in corso di terapia
è utile il dosaggio delle catene leggere libere sieriche (serum free light chain assay) (1).
All’aumentata produzione di immunoglobuline
monoclonali, alle loro peculiari caratteristiche chimico-fisiche, all’espansione della massa neoplastica e, soprattutto, alla produzione paracrina ed
autocrina di citochine sono associati i caratteristici quadri clinici di presentazione della malattia, tra cui si distinguono, per incidenza e severità, la patologia osteoporotica-osteolitica dell’apparato scheletrico, l’interessamento renale e l’aumentata morbilità infettiva (2).
Parole chiave: mieloma multiplo, chemioterapia ad alte
dosi, trapianto autologo, nuovi farmaci.
Indirizzo per la corrispondenza
Prof. Michele Cavo
Istituto di Ematologia
e Oncologia Medica “Seràgnoli”
Università degli Studi di Bologna
Policlinico S. Orsola-Malpighi
Via Massarenti, 9 - 40138 Bologna
e-mail: [email protected]
Michele Cavo
1
Plasmacellule midollari ≥10% e/o presenza di plasmocitoma confermato istologicamente
2
Presenza di componente monoclonale nel siero e/o
nelle urinea
3
Disfunzione d’organo correlata al MM (1 o più)b:
[C] Calcio elevato nel siero (calcemia >10.5 mg/L o
superiore ai valori normali)
[R] Insufficienza renale creatinina >2 mg/dL)
[A] Anemia (Hb <10 g/dL o 2 g <normale)
[B] Lesioni osteolitiche o osteoporosic
*Salmon. Lo stadio IA diventa MM indolente o smouldering.
Se non è rilevabile una componente monoclonale (MM non secernente), è richiesta una infiltrazione plasmacellulare midollare ≥30% e/o un
plasmocitoma dimostrato istologicamente.
b
Possono occasionalmente presentarsi altre disfunzioni d’organo: queste sono sufficienti a porre diagnosi di MM se dimostrate essere correlate al mieloma.
c
Se è presente solo osteoporosi o una singola lesione e/o plasmocitoma solitario dimostrato istologicamente è necessaria una infiltrazione
plasmacellulare midollare ≥0%.
a
TABELLA 1 - Criteri per la diagnosi di mieloma multiplo
(necessari tutti e tre)*.
La tabella 1 mostra i criteri per la diagnosi di MM,
recentemente revisionati nella stesura delle ultime linee guida internazionali (3).
La terapia del MM ha preso formalmente avvio a
partire dagli anni ’50-’60 con l’introduzione del
melfalan e prednisone, farmaci che sono rimasti
essenziali per decenni, e che rivestono ancora
oggi un ruolo di rilievo nell’armamentario terapeutico. L’incapacità di altri agenti chemioterapici, da
soli o in combinazione, di influire positivamente
sul prolungamento della sopravvivenza, mediamente pari a circa 3 anni, ha portato ad un periodo di sostanziale stagnazione terapeutica per oltre
20 anni.
30
Seminari di Ematologia Oncologica
Agli inizi degli anni ’80 l’introduzione della chemioterapia con melfalan ad alte dosi seguito dal
trapianto di progenitori emopoietici, autologhi e
allogenici, ha aperto una nuova era terapeutica
del MM.
In aggiunta, nuovi e ancora più promettenti scenari terapeutici sono andati delineandosi nell’arco degli ultimi 10 anni grazie alla disponibilità di
farmaci non antiblastici, in grado di esercitare la
propria attività, oltre che sulle cellule neoplastiche, anche sulle cellule del microambiente midollare, il cui ruolo è cruciale nel promuovere la crescita e la progressione del clone mielomatoso e
nell’indurne la resistenza alla terapia.
Esempi paradigmatici di questa nuova classe di
farmaci entrati nella pratica clinica quotidiana sono
la talidomide ed i suoi analoghi immunomodulatori, in particolare la lenalidomide, e l’inibitore del
proteasoma PS-341 (bortezomib).
La dimostrazione dell’elevata efficacia dei nuovi
farmaci nei pazienti con MM ricaduto/refrattario,
non più responsivi alla chemioterapia, e dei loro
peculiari meccanismi d’azione hanno fornito le
basi razionali per lo sviluppo di recenti protocolli basati sull’impiego di talidomide, bortezomib,
lenalidomide in combinazione con vecchie e consolidate terapie nelle fasi precoci di malattia, allo
scopo di aumentare la citotossicità e di superare la farmacoresistenza, incrementando così le
possibilità di prolungare la sopravvivenza globale (OS).
Una recente analisi ha dimostrato un significativo prolungamento della OS dalla diagnosi di MM
e dopo la ricaduta di malattia negli ultimi dieci anni,
dopo l’introduzione dei nuovi farmaci nella pratica clinica (4).
In questa rassegna, saranno presentate e discusse le principali opzioni terapeutiche del paziente con MM giovane (di età inferiore a 65 anni),
con particolare riferimento all’uso della chemioterapia ad alte dosi con supporto di cellule staminali ed alla recente introduzione delle nuove
molecole nel contesto di programmi di trapianto autologo.
Allo stato attuale, il generale consenso della
comunità scientifica è che un trattamento debba essere iniziato solo nei pazienti che abbiano
un MM sintomatico con danno d’organo, come
definito dalle recenti linee guida (Tabella 1) (3).
n CHEMIOTERAPIA AD ALTE DOSI
CON SUPPORTO DI CELLULE
STAMINALI EMATOPOIETICHE
AUTOLOGHE
Singolo trapianto autologo
Pionieristicamente impiegato agli inizi degli anni
’80 in un piccolo numero di pazienti con MM ad
alto rischio e refrattario, il melfalan ad alte dosi
con supporto di progenitori emopoietici, dapprima midollari, e più recentemente del sangue periferico, rappresenta uno dei capisaldi della terapia di prima linea per pazienti con MM ed età inferiore a 65 anni. Benché il trapianto autologo non
garantisca la guarigione del MM, esso aumenta
significativamente la percentuale di raggiungimento della remissione completa (RC) (di circa
il 20-30% in diversi studi di fase II) (5,6) e, seppure senza univoca dimostrazione, prolunga la
sopravvivenza libera da eventi (EFS) e la OS (con
raggiungimento di valori mediani pari a circa 45 anni), con una mortalità che attualmente è pari
a quella della chemioterapia convenzionale (12%) (7, 8). Dopo quasi 30 anni di pratica clinica,
infatti, questa procedura è ormai standardizzata
e diffusa a livello internazionale, tanto da rappresentare il 25% dei trapianti autologhi con supporto di cellule staminali eseguiti in Europa e negli
Stati Uniti (9).
Le basi razionali per l’applicazione del trapianto
autologo nel MM risiedono sulla esistenza in vitro
ed in vivo di un effetto dose-risposta per il melfalan, con conseguente superamento della chemio resistenza. La formale dimostrazione della
superiorità del singolo trapianto autologo nei confronti della chemioterapia convenzionale nella
terapia di prima linea del MM deriva da alcuni
trials randomizzati che saranno oggetto di analisi per quanto concerne le loro peculiarità e differenze.
Due ampi studi prospettici randomizzati condotti dall’ Intergroupe Francophone du Myélome
(IFM) (IFM-90) (10) e dal Medical Research
Council (MRC) (11), hanno mostrato un significativo incremento della percentuale di raggiungimento della RC, fino a valori pari a circa il 3040%, con la chemioterapia ad alte dosi ed un prolungamento della sopravvivenza libera da eventi (EFS) e della OS di circa 12 mesi e 15 mesi,
Il paziente giovane
rispettivamente (Tabella 2). Più recentemente,
sono state pubblicate le analisi finali di altri 3 studi randomizzati, che non hanno confermato in
modo univoco il vantaggio in OS del trapianto
autologo rispetto alla chemioterapia convenzionale. In particolare, uno studio francese del grup-
Studio/Trial
Comparazione
po MAG (Myèlome-autogreffe group), mirato a
pazienti con età compresa tra 55 e 65 anni, ha
riportato solo un trend per una prolungata EFS,
senza una significativa differenza in OS, ed una
significativa estensione del tempo senza sintomi e alla successiva terapia (TWISTT: time
Random
N. paz.
Follow-up
mediano (mesi)
RC (%) (p)
EFS (mediana,
mesi) (p)
OS (mediana,
mesi) (p)
Attal
(IFM 90)
®
Pre-terapia
200
108
5 vs 22
(≥nCR)
(.001)
18 vs 28
(.01)
44 vs57
(.03)
(a 7 aa 20%
vs 35%)
Child
(MRC VII)
®
Pre-terapia
401
42
8 vs 44
(.001)
20 vs 32
(.001)
42 vs 54
(.04)
(a 4 aa 46%
vs 55%)
Bladè
(PETHEMA)
®
CHT vs
autotx
PBSC
Paz.
responsivi
all’induzione
216
66
11 vs 30
(.002)
34 vs 43
(NS)
67 vs 65
(NS)
CHT
(controlli
storici) vs
TT1
(doppio autotx)
NA
304
114
n.r. vs 41
16 vs 37
(.0001)
43 vs 79
(.0001)
(a 10 aa 15%
vs 33%)
®
CHT vs
autotx PBSC
Pre-terapia
190
120
NR
19 vs 25
(.07)
47 vs 47
(NS)
Attal
(IFM 94)
®
singolo vs
doppio autotx
Pre-terapia
399
75
42 vs 50
(≥nCR)
(NS)
25 vs 30
(.03)
48 vs 58
(.01)
(a 7 aa 21%
vs 42%)
Cavo
(BO 96)
®
singolo vs
doppio autotx
Pre-terapia
321
55
33 vs 47
(≥nCR)
(.008)
23 vs 35
(.001)
65 vs 71
(NS)
Fermand
(MAG 95)
®
singolo vs
doppio autotx
Pre-terapia
193
53
39 vs 37
(≥VGPR)
(NS)
31 vs 33
(NS)
49 vs 73
(NS)
Pre-terapia
303
68
13 vs 28
(.002)
20 vs 22
(.01)
55 vs 60
(NS)
®
Goldshmidt
singolo vs
Pre-terapia
(GMMG-HD2) doppio autotx
210
NR
NR
23 vs 29
(.03)
NR
Barlogie
(TT1 e
SWOG)
Fermand
(MAG 91)
Segeren
(HOVON)
CHT vs
autotx
midollo
CHT vs
autotx
PBSC
®
singolo vs
doppio autotx
Note: RC remissione completa, EFS sopravvivenza libera da eventi, OS sopravvivenza globale, CHT chemioterapia convenzionale, PBSC cellule staminali del
sangue periferico, ®randomizzato, TT1 total therapy I, IFM Intergroupe francophone du myèlome, MRC medical research council, PETHEMA programma para
el estudio y tratamiento de las hemopatìas malignas, SWOG South west oncology group, HOVON Hemato-oncologie voor volwassen nederland, BO Bologna,
MAG Myèlome autogreffe, GMMG german speaking myeloma multicenter group, auto tx autotrapianto, n.r. non raggiunta, p significatività statistica, NS non
significativo, nCR remissione quasi completa, NA non applicabile, NR non riportato.
TABELLA 2 - Risultati dei principali studi di singolo e doppio trapianto autologo nel MM.
31
32
Seminari di Ematologia Oncologica
without symptoms, treatment and treatment
toxicity) (12). Un secondo studio dell’intergruppo americano SWOG (Southwest Oncology
Group) non ha riportato una significativa differenza in termini sia di raggiungimento della RC che
della EFS e OS tra la chemioterapia convenzionale e la chemioterapia ad alte dosi (13). Infine
il terzo studio del gruppo cooperatore spagnolo PETHEMA (Programma para el Estudio de la
Terapéutica en Hemopatia Maligna) prevedeva la
randomizzazione dei soli pazienti responsivi alla
chemioterapia di induzione, escludendo quindi i
pazienti a prognosi peggiore (chemio resistenti)
che potevano maggiormente beneficiare della
terapia ad alte dosi.
I risultati di questo protocollo dimostrano un significativo incremento delle percentuali di RC a favore dei pazienti randomizzati a ricevere il trapianto autologo (30% vs 10% nel gruppo di controllo), senza evidenziare alcun vantaggio in termini di EFS e OS (14).
La controversia tra questi cinque studi è in parte sicuramente imputabile alla eterogeneità nei
disegni dei protocolli e alla differente durata del
follow-up, che li rendono tra loro poco paragonabili. In particolare differivano significativamente i criteri di randomizzazione dei pazienti, la durata e l’intensità della dose della chemioterapia convenzionale, la dose di melfalan impiegata come
condizionamento al trapianto, la terapia di mantenimento post trapianto o post chemioterapia
ed infine la percentuale di pazienti che effettuavano il cross over tra il braccio di confronto e la
chemioterapia ad alte dosi (Tabella 2).
In considerazione degli elementi appena riportati e dei risultati degli studi IFM e MRC, nelle linee
guida stilate dal National Comprehensive Cancer
Network, versione 2.2009, il trapianto autologo è
raccomandato come terapia standard per pazienti ad esso candidati per età e/o assenza di comorbidità.
Pur in presenza dei vantaggi offerti dal singolo trapianto autologo rispetto alla chemioterapia a dosi
convenzionali in termini di incremento significativo della percentuale di ottenimento della RC e
prolungamento del tempo alla progressione
(TTP), in tutti gli studi pubblicati è rilevabile una
assoluta mancanza di plateau nelle curve di EFS
e OS, segno di incapacità di eradicazione del clo-
ne neoplastico da parte di una singola linea di chemioterapia sovramassimale con supporto di progenitori emopoietici autologhi.
Nel tentativo di migliorare i risultati terapeutici
attraverso una riduzione del rischio di ricaduta o
progressione della malattia, in alcuni studi sono
state investigate procedure di purging (depurazione) delle cellule tumorali contaminanti la sorgente di progenitori emopoietici (15, 16). Nonostante
sia stata dimostrata la possibilità di ridurre significativamente la quota di cellule mielomatose
midollari o presenti nel sangue periferico, l’unico
studio controllato sino a questo momento pubblicato non ha evidenziato alcun beneficio clinico dei pazienti così trattati, in termini di OS e EFS
(17).
Come già accennato, uno degli elementi di discordanza tra gli studi riportati era rappresentato dai
diversi regimi di condizionamento al trapianto,
comprensivi o meno della irradiazione corporea
totale (TBI). Il confronto tra queste differenti procedure è stato oggetto di uno studio randomizzato condotto dall’IFM che ha consentito di dimostrare la minore tossicità ematologica ed extraematologica di melfalan alla dose di 200 mg/mq
nei confronti della combinazione melfalan alla
dose di 140 mg/mq + TBI (18). Sulla base dei risultati di questo studio, il solo melfalan ad alte dosi
è attualmente ritenuto essere la migliore terapia
pre-trapianto autologo.
Non sono disponibili studi prospettici randomizzati relativi all’efficacia e tossicità del trapianto
autologo in pazienti di età inferiore a 65 anni e con
insufficienza renale cronica. Ciononostante, da evidenze derivate da studi non controllati appare
chiaro come la procedura sia fattibile, e ad un
rischio contenuto, soprattutto utilizzando dosi di
melfalan opportunamente ridotte (sino a 140-100
mg/mq) (19, 20).
Doppio trapianto autologo
La correlazione in vivo tra la dose di melfalan e
la risposta alla terapia, da un lato, e la rapida ricostituzione emopoietica assicurata dall’impiego del
sangue periferico come fonte di cellule staminali, dall’altro lato, hanno portato all’esplorazione,
alla fine degli anni ’90, del ruolo del doppio trapianto autologo a supporto di due linee sequenziali di chemioterapia ad alte dosi, con l’obietti-
Il paziente giovane
vo di aumentare la probabilità di ottenimento della RC e di prolungare la durata di controllo della
malattia e l’OS. Il primo studio prospettico di doppio trapianto autologo, noto con il nome di Total
Therapy I (TT1), e sviluppato dal gruppo di Little
Rock (US), mostrava una percentuale di RC al termine del programma terapeutico pari al 40%, con
una mortalità complessiva non superiore al 3%
(21).
Con un follow-up mediano di 12 anni, il 30% dei
pazienti arruolati nel protocollo era vivo a 10 anni,
il 15% era libero da eventi ed il 18% manteneva
una condizione di RC. Successivamente, sono
stati eseguiti alcuni studi prospettici randomizzati volti a paragonare il doppio con il singolo autotrapianto, i cui principali risultati sono riassunti nella Tabella 2.
Lo studio randomizzato francese IFM 94, volto a
paragonare il singolo verso il doppio autotrapianto, non ha evidenziato una differenza statisticamente significativa nella percentuale di raggiungimento della RC, mentre è risultato significativo
l’incremento della EFS e OS a favore del gruppo
randomizzato a ricevere due autotrapianti di PBSC
(42% a 7 anni vs 21% e 20% vs 10% a 7 anni
rispettivamente) (22). Un secondo ampio studio
randomizzato condotto dal gruppo italiano di
Bologna ha mostrato l’ottenimento di una maggior percentuale di RC (con negatività o positività dell’immunofissazione sierica) nei pazienti randomizzati a ricevere due trapianti, un prolungamento significativo (pari a circa 12 mesi) dell’EFS
a favore del doppio autotrapianto mentre non ha
mostrato una differenza significativa in termini di
OS tra i due gruppi analizzati (23).
Nella tabella 2 sono riportati gli altri studi randomizzati di singolo vs doppio autotrapianto, i cui
risultati sono stati contrastanti, soprattutto per
quanto concerne l’OS (24-26).
A ciò hanno contribuito la differente durata del follow-up, l’elevato drop-out rate dei pazienti randomizzati al doppio trapianto ma che non l’hanno mai
ricevuto, l’applicazione del secondo autotrapianto come terapia della ricaduta dei pazienti randomizzati ad un singolo trapianto autologo e l’impatto dei nuovi farmaci come terapia di salvataggio.
Tanto nello studio italiano che in quello francese
i maggiori benefici clinici del doppio autotrapianto sono stati conseguiti in quei pazienti che non
avevano ottenuto una risposta maggiore (RC o
almeno una VGPR) dopo il primo trapianto autologo (22, 23). Sulla base di questi risultati, nelle linee
guida stilate dal National Comprehensive Cancer
Network, versione 2.2009, il secondo trapianto
autologo è ritenuto essere una possibile opzione
terapeutica da offrire ai pazienti con risposta non
ottimale dopo il primo autotrapianto. Nel tentativo di migliorare ulteriormente i risultati terapeutici, più recentemente sono stati disegnati nuovi protocolli, come la total therapy 2 (TT2), nei quali il
doppio trapianto autologo era preceduto da una
chemioterapia di induzione intensificata e seguito da una terapia di consolidamento, con o senza l’aggiunta di talidomide (27).
In questi studi è stato inoltre evidenziato l’impatto prognostico sfavorevole sull’outcome del doppio trapianto di almeno due fattori: le alterazioni
cromosomiche (delezione/monosomia del cromosoma 13, delezione di p53, traslocazioni coinvolgenti il cromosoma 14 sul locus IgH) (28-32) e elevati livelli di b2-m alla diagnosi (33). Viceversa, per
una piccola percentuale di pazienti, considerati a
basso rischio per l’assenza di anomalie cariotipiche e per bassi livelli di b2 microglobulina, esiste
un plateau nelle curve di sopravvivenza post trapianto (34).
n INTEGRAZIONE DEI NUOVI FARMACI
CON IL TRAPIANTO AUTOLOGO
La dimostrata efficacia dei nuovi farmaci nel trattamento del MM in fase avanzata e refrattaria ha
rappresentato il presupposto del loro successivo impiego in pazienti con malattia di nuova diagnosi, portando a numerosi studi clinici in pazienti giovani, candidati a programmi di terapia ad alte
dosi con trapianto autologo. In questo contesto,
i nuovi farmaci sono stati impiegati nell’intento di
raggiungere i seguenti obiettivi:
a) massimizzare la riduzione della taglia neoplastica prima della chemioterapia ad alte dosi
(nuovi farmaci nel regime di induzione pre-trapianto);
b) consolidare e migliorare la RC ottenuta dopo
il trapianto autologo e, conseguentemente prolungare la PFS e OS (nuovi farmaci nel consolidamento e mantenimento post-trapianto).
33
34
Seminari di Ematologia Oncologica
L’introduzione dei nuovi farmaci nei regimi di induzione pre-trapianto ha drasticamente modificato
il ruolo della chemioterapia convenzionale, in particolare della combinazione vincristina, adriamicina e desametasone ciclico (VAD), che ha rappresentato, per oltre 20 anni (35), la terapia di elezione in preparazione al trapianto autologo (36).
Di seguito verranno discussi i principali protocolli comprensivi di nuovi farmaci integrati nel contesto della chemioterapia ad alte dosi con supporto di progenitori emopoietici autologhi, di cui
siano ad oggi disponibili le analisi definitive o i
risultati ad interim.
Talidomide in preparazione al trapianto
autologo (Tabella 3)
La talidomide ha riscattato un passato nefasto
e tristemente famoso grazie alla sua efficacia,
dimostrata dapprima in pazienti con MM refrattario/ricaduto e, successivamente, come terapia
di prima linea. Con quest’ultima indicazione il farmaco è stato recentemente registrato negli Stati
Uniti, dove attualmente costituisce la terapia più
frequentemente utilizzata nel MM di nuova diagnosi.
Hanno contribuito a questo successo dapprima
i risultati di tre studi pilota di fase II nei quali veniva riportata una risposta alla combinazione talidomide-desametasone (TD) in un range compreso tra il 62% ed il 72% (comprensivo di una percentuale di CR pari all’8-12%) (37-39) e, più recentemente, di uno studio randomizzato di fase III
dimostrante la superiorità di TD nei confronti della terapia con solo desametasone in termini di probabilità di risposta (63% vs 41%, rispettivamente; P=.001) (40) e TTP (22.6 mesi vs 6.5, p<0.001).
In uno studio retrospettivo case-matched in
pazienti candidati a ricevere un doppio trapianto
autologo, l’impiego della combinazione TD come
terapia di prima linea si è dimostrata offrire un
significativo vantaggio rispetto al classico regime
VAD in termini di una più elevata probabilità di
ottenimento della risposta ≥PR (76% vs 52%,
rispettivamente; P=.0004), senza interferire negativamente con la capacità di raccogliere un adeguato numero di PBSC (41).
La superiorità di TD rispetto a VAD prima del trapianto autologo è stata recentemente confermata da uno studio prospettico randomizzato fran-
cese, il cui obiettivo primario era la valutazione
dell’ottenimento di una riduzione della componente M di almeno il 90% (VGPR). In questo studio,
il significativo incremento del rate di VGPR a favore di TD nei confronti del VAD prima della raccolta di cellule staminali (24.7% vs 7.3%, rispettivamente; P=.002) non si è però poi tradotto in un
incremento altrettanto significativo della VGPR a
favore di TD dopo il trapianto autologo (42).
In aggiunta al desametasone, la talidomide è stata anche studiata in associazione ad uno o più
farmaci chemioterapici convenzionali come terapia di induzione prima del trapianto autologo. In
questo contesto, tre studi prospettici randomizzati hanno dimostrato la più elevata percentuale
di risposta ottenuta con l’associazione talidomide-doxorubicina-desametasone (TAD) nei confronti del classico VAD (risposta ≥ VGPR: 33% vs
15%, rispettivamente; P=.001 dopo la terapia di
induzione e 49% vs 32%, rispettivamente;
P=.001 dopo il trapianto) (43,44) oppure con talidomide associata ad un regime VAD-simile nei
confronti del medesimo regime privo di talidomide (risposta ≥ PR: 81% con 15% CR vs 63% con
12% CR, rispettivamente; P=.048) (45).
Molto promettente, soprattutto per quanto concerne l’elevata probabilità di ottenimento della
RC, è anche la combinazione ciclofosfamide,talidomide, desametasone (CTD) testata prospetticamente nell’ambito di un protocollo randomizzato condotto dall’MRC. Infine, l’inserimento di
talidomide nel contesto di una chemioterapia
intensificata di induzione e di consolidamento
somministrate, rispettivamente, prima e dopo il
doppio trapianto autologo (total therapy 2) (TT2)
è stata riportata una probabilità di CR pari al 62%
vs 43% per il medesimo regime privo di talidomide; P<.001) (46).
In due di questi studi l’inserimento di talidomide
ha comportato anche un prolungamento significativo della sopravvivenza libera da progressione di malattia (PFS) e della sopravvivenza libera
da eventi (EFS). Nonostante una prima analisi dello studio TT2 non mostrasse un vantaggio di
sopravvivenza nei pazienti che ricevevano talidomide, un recente aggiornamento dell’analisi con
un follow-up più prolungato ha mostrato invece
un significativo prolungamento della OS nei
pazienti a prognosi sfavorevole per la presenza
Il paziente giovane
Talidomide + Desametasone nell’induzione pre-trapianto
Studio/Trial
N. pazienti
CR/nCR
(%)
≥VGPR
(%)
≥RP
(%)
EFS/PFS
(mediana)
OS
(%)
TVP
(%)
Rajkumar 2006
(ECOG E1A00,
TD vs D fase III)
103
CR 4
NR
63
PFS 22 mesi
72 a 2 anni
17
Rajkumar 2008
(MM03, TD vs
D fase III)
235
CR 8
44
63
PFS 15 mesi
NR
11.5
Cavo 2005
(TD vs VAD
case match)
100
CR 13
19
76
NR
NR
15
Macro 2006
(TD vs VAD,
fase III)
100
NR
35
66
NR
NR
23
Talidomide + altri farmaci chemioterapici nell’induzione pre-trapianto
Goldschmidt 2005/
Lokhorst 2008
(GMMG-HD3HOVON 50 TAD
vs VAD, fase III)
201
4
33
72
NR
NR
8
(no profilassi)
Zervas 2007
(T-VAD-doxil vs
VAD-doxil fase III)
117
15
63
81
PFS 59%
a 2 anni
77% a
2 anni
8
Barlogie 2006
(TT2, fase II)
323
19
62 post tx
NR
NR
60
86 post tx
EFS
56% a
5 anni
65%
a 5 anni
24
Morgan 2007
(MRC Myeloma
XI CTD vs C-VAD,
fase III)
124
CR 19
51 post tx
38
87
NR
NR
NR
Talidomide in mantenimento
Autore
Stewart 2004
Terapia
PFS
N. pazienti
Prec terapia
TAL 200/TAL 400
81% a 1 aa
45/22
Tx auto
TAL vs osserv
56% a 3 aa vs
34% a 3 aa
197 vs 197
Tx auto
TAL per 6 mesi vs
doppio auto tx
85% a 3 aa vs
57% a 3 aa
98 vs 97
Tx auto
55% a 5 aa vs
40% a 5 aa
NR
Tx auto
®
Attal 2006
Abdelkefi 2008
Barlogie 2008
®
®
TAL vs no TAL
Note: NR non riportato RP risposta parziale, EFS event free survival PFS progression free survival , N° paz numero pazienti, T talidomide D desametasone
VAD vincristina adriblastina desametasone TAD talidomide adriamicina desametasone TT2 total therapy 2 MRC medical research council CTD ciclofosfamide talidomide desametasone C ciclofosfamide CR remissione completa nCR remissione quasi completa VGPR remissione parziale di ottima qualità PR risposta parziale TVP trombosi venosa profonda, ®randomizzazione, osserv osservazione, aa anni, tx auto trapianto autologo, Prec terapia precedente terapia.
TABELLA 3 - Risultati dei principali studi con talidomide in preparazione al, o nel contesto del, trapianto autologo.
35
36
Seminari di Ematologia Oncologica
di alterazioni citogenetiche in cui talidomide era
aggiunta alla chemioterapia (47).
In conclusione, esiste ampia convergenza di dati
circa la superiorità di risposta offerta da TD o dalla combinazione talidomide- chemioterapia
rispetto ai classici regimi VAD o VAD-simili nel
trattamento del MM di nuova diagnosi. Sulla base
di questi risultati, e dell’assenza di una negativa
interferenza di talidomide con la mobilizzazione
di progenitori emopoietici autologhi, la combinazione TD o talidomide-chemioterapia rappresenta attualmente una delle terapie di elezione per
pazienti candidati ad un successivo trapianto
autologo.
La scelta di un programma terapeutico di prima
linea comprensivo di talidomide necessita, tuttavia, di essere soppesata con il rischio di tossicità ad esso connesso, in particolare di complicanze tromboemboliche, più frequentemente
venose. Questo rischio, la cui patogenesi è ancora sostanzialmente poco conosciuta, è compreso tra il 15% ed il 20% circa per TD e può anche
superare il 30% per l’associazione talidomidechemioterapia, in particolare nel contesto di regimi comprensivi della doxorubicina. È stato riportato come un’adeguata profilassi con eparina a
basso peso molecolare oppure con warfarin o,
in alternativa, con acido acetilsalicilico consenta di ridurre significativamente questa importante complicanza, anche se è a tutt’oggi ignoto quale, tra questi, sia il regime profilattico dotato di
maggiore efficacia.
Talidomide nel consolidamento/
mantenimento dopo il trapianto autologo
(Tabella 3)
In uno studio randomizzato di fase III la tollerabilità di due differenti posologie di talidomide (200
vs 400 mg al giorno) associata a prednisolone (50
mg a giorni alterni) è stata valutata in una serie
di 61 pazienti che avevano ricevuto un trapianto
autologo nei 60-100 giorni precedenti l’inizio della terapia di mantenimento (48).
Nel gruppo di pazienti assegnati a ricevere la dose
maggiore di talidomide, il 68% ha richiesto una
riduzione posologica entro 6 mesi e solo il 41%
è rimasto in terapia a 18 mesi dal suo inizio. Per
contro, le rispettive percentuali tra i pazienti assegnati alla dose minore di talidomide sono state il
31% ed il 76%, rispettivamente. Come atteso, la
neurotossicità periferica ha costituito la causa più
frequente di riduzioni posologiche o di interruzioni del trattamento ed è stata, inoltre, la più frequente tossicità di grado 3-4 riscontrata nello studio. Analogamente, in uno studio prospettico randomizzato di fase III l’incidenza di neuropatia di
grado 3-4 osservata durante la terapia di mantenimento con talidomide dopo doppio trapianto
autologo è stata pari al 7% vs 5% nel gruppo di
controllo (P<.001) (49). Per quanto concerne, invece, l’efficacia di talidomide, il medesimo studio ha
dimostrato il vantaggio offerto da questo agente
rispetto alla sola osservazione o ad una terapia
con pamidronato in termini di ottenimento della
migliore risposta dopo il doppio trapianto autologo (almeno una VGPR: 67% vs 55% vs 57%,
rispettivamente; P<.001) e di un significativo prolungamento della sopravvivenza, sia globale
(87% vs 77% vs 74% a 4 anni, rispettivamente;
P<.04) che libera da eventi (52% vs 36% vs 37%
a 3 anni, rispettivamente; P<.009) (49). In particolare, un’analisi multivariata ha evidenziato
come il prolungamento della sopravvivenza libera da eventi fosse statisticamente significativo nei
pazienti che avevano fallito l’ottenimento di
almeno una VGPR dopo il doppio trapianto autologo (P<.004) e che non presentavano alla diagnosi alterazioni del cromosoma 13 (P<.006).
Analogamente a precedenti studi, il 39% dei
pazienti aveva dovuto interrompere la terapia di
mantenimento dopo un tempo mediano di 8 mesi
dal suo inizio, più frequentemente a causa di una
neuropatia periferica (49).
Infine uno studio randomizzato ha mostrato la
superiorità di un singolo trapianto autologo
seguito da sei mesi di terapia di mantenimento
con talidomide rispetto al doppio trapianto autologo (50) (Tabella 3).
Bortezomib in preparazione al trapianto
autologo (Tabella 4)
La dimostrata attività di bortezomib, il primo inibitore del proteasoma ad essere testato nella pratica clinica ed a ricevere l’approvazione negli US
ed in Europa per il trattamento dei pazienti con
MM refrattario o ricaduto (51), ha rappresentato
il razionale di recenti studi investigazionali volti ad
esplorare il ruolo di questo agente, in associazio-
Il paziente giovane
ne con il desametasone o con altri farmaci, nel
contesto di programmi comprensivi del trapianto autologo.
Con questo obiettivo, la combinazione bortezomib ± desametasone (bort ± dex) è stata inizialmente indagata in 32 pazienti; di questi, 10 hanno ricevuto soltanto terapia con bortezomib, mentre nei restanti 22 pazienti al bortezomib è stato
successivamente associato il desametasone
(bort-dex) a causa del mancato ottenimento di una
PR dopo i primi 2 cicli o di una CR dopo 4 cicli
(52). Complessivamente, la percentuale di almeno una PR è stata pari all’88%, includendo un
25% di CR o di remissione quasi completa (nCR,
definita dalla negatività dell’elettroforesi con positività dell’immunofissazione); l’aggiunta del desa-
metasone al bortezomib ha migliorato la qualità
di risposta nel 68% dei casi, ma soltanto nel 4.5%
ha consentito di ottenere una CR.
Successivamente, il gruppo francese IFM ha eseguito uno studio prospettico, randomizzato di fase
III volto a comparare bort-dex vs VAD prima del
trapianto autologo (IFM 2005-01 trial) (53). I risultati dell’analisi ad interim presentati allo scorso
ASCO meeting hanno dimostrato la superiorità del
nuovo regime nei confronti del gruppo di controllo in termini di probabilità di ottenimento di una
CR + nCR (obiettivo primario dello studio: 19%
vs 9%, rispettivamente) e di almeno una PR (82%
vs 67%, rispettivamente).
Il vantaggio offerto da bort-dex in termini di raggiungimento di almeno una VGPR (43% vs 26%
Bortezomib + Desametasone nell’induzione pre-trapianto
Studio/Trial
N° pazienti
CR/nCR (%)
≥VGPR (%)
≥RP (%)
EFS/PFS
OS (%)
Jagannath 2005
(B ± D fase II)
32
25
38
88
Mediana EFS
15 mesi
85% a 2 anni
Harousseau 2008
(IFM 2005-01 VD
vs VAD fase III)
240
19
19 post tx
47
63 post tx
83
84 post tx
PFS 91%
a 1 aa
95% a
1 anno
Bortezomib + altri farmaci nell’induzione pre-trapianto
Oakervee 2005
(PAD fase I/II)
21
CR 24
Post tx 43
62
post tx 81
95
post tx 95
Mediana PFS
29 mesi
95% a
2 anni
Orlowski 2006
(V Doxil fase II)
57
28
NR
79
NR
NR
Reeder 2007
(Cybor-D fase II)
23
64
86
100
NR
NR
Wang 2007
(VTD retrospett)
38
CR 16
44 post tx
NR
NR
87
NR
NR
NR
Cavo 2008 (GIMEMA
VTD vs TD fase III)
129
nCR 33
54 post tx
61
75 post tx
92
NR
NR
NR
Jagannath 2007
(Cybor-D + VTD fase II)
30
42
61
92
NR
NR
Barlogie 2007 TT3
(TT3-VTD-PACE fase II)
303
60 a 2 anni
post tx
NR
NR
EFS 84%
a 2 anni
87% a
2 anni
Note: RC remissione completa nCR remissione quasi completa VGPR remissione parziale di ottima qualità RP remissione parziale, EFS sopravvivenza libera da eventi, PFS sopravvivenza libera da progressione, OS sopravvivenza globale, tx trapianto autologo NR non riportato, B bortezomib, D desametasone,
VD velcade-desametasone, VAD vincristina, doxorubicina, desametasone, PAD: velcade, doxorubicina, desametasone, V velcade, Cybor bortezomib, ciclofosfamide, desametasone, VTD velcade,talidomide,desametasone, TD talidomide, desametasone, VTD-PACE: VTD + ciclofosfamide, VP-16, cisplatino, adriblastina.
TABELLA 4 - Risultati dei principali studi con bortezomib nell’ambito del trapianto autologo.
37
38
Seminari di Ematologia Oncologica
per il gruppo di controllo) è stato mantenuto anche
dopo il primo trapianto autologo, con conseguente minore necessità di ricevere il secondo trapianto per i pazienti assegnati alla terapia comprensiva di bortezomib rispetto al gruppo trattato inizialmente con VAD (22% vs 45%, rispettivamente) (53).
In aggiunta, la maggiore efficacia terapeutica di
bort-dex rispetto a VAD è stata anche confermata in pazienti ad alto rischio per presenza di delezione/monosomia del cromosoma 13 (CR + nCR:
25% vs 11%, rispettivamente) o di elevati livelli
di beta2-microglobulina sierica (CR + nCR: 20%
vs 9%, rispettivamente).
Sulla base del dimostrato sinergismo esistente
in vitro tra bortezomib e doxorubicina, l’impiego
di questi due farmaci in associazione al desametasone (PAD) è stato esplorato come terapia primaria di induzione in una serie di 21 pazienti (54).
Di questi, il 95% ha ottenuto almeno una PR ed
il 29% una CR o nCR, che è stata successivamente incrementata sino ad un valore del 59%
dopo la somministrazione del primo trapianto
autologo.
In un altro studio di fase II, la combinazione bortezomib-doxorubicina peghilata liposomiale
(recentemente approvata negli US per il trattamento del MM refrattario) è stata somministrata
per un totale di 8 cicli a 63 pazienti con malattia di nuova diagnosi, dei quali 57 sono risultati
valutabili dopo i primi 2 cicli di terapia e soltanto 29 al termine dell’intero programma terapeutico (55).
La percentuale di ottenimento di almeno una PR
è stata pari al 58% e 79%, rispettivamente, mentre la CR + nCR è stata registrata nel 16% e 28%
dei pazienti dopo, rispettivamente, 2 ed 8 cicli di
terapia. Il regime PAD è attualmente confrontato in un protocollo prospettico randomizzato di
fase III al VAD come terapia di induzione pre trapianto autologo dal gruppo olandese HOVON.
Bortezomib è poi stato associato alla ciclofosfamide e desametasone in numerosi studi clinici di
fase II, mostrando una elevata efficacia ed un
buon profilo di tossicità (56, 57).
Un altro promettente regime di prima linea utilizzato in preparazione al trapianto autologo,
dopo essere stato applicato con successo nel
trattamento del MM avanzato e refrattario, com-
prende l’associazione bortezomib-talidomidedesametasone (VTD).
I risultati riportati in una serie di 38 pazienti, 26
dei quali successivamente avviati al trapianto
autologo, sono stati i seguenti: probabilità di
risposta pari al 87%, comprensiva di un 16% di
CR, e tempo mediano all’ottenimento di una
risposta pari a 1.5 mesi o meno, con conseguente necessità di somministrazione di non più di
due cicli per ottenere un efficace debulking della malattia prima del trapianto autologo (58,59).
Un ampio studio multicentrico di fase III è stato
condotto nell’ambito del Working Party GIMEMA
Mieloma Multiplo, volto a confrontare VTD vs TD
come terapia di induzione e di consolidamento
somministrate, rispettivamente, prima e dopo il
doppio trapianto autologo (60).
L’analisi ad interim recentemente presentata ha
dimostrato un significativo incremento della
percentuale di ottenimento di una CR +nCR
(obiettivo primario dello studio) a favore dei
pazienti che ricevevano VTD sia dopo la terapia
di induzione (VTD vs TD 33% vs 12%, rispettivamente, p=0.001) che dopo il primo trapianto
autologo (VTD vs TD 54% vs 29%, rispettivamente, p=0.001). La miglior qualità della risposta per il gruppo randomizzato a ricevere VTD
si è poi tradotto in un significativo prolungamento della EFS (p=0.047). In aggiunta, il vantaggio
di VTD su TD è stato confermato anche nei
pazienti ad alto rischio per la presenza di monosomia/delezione del cromosoma 13 o 17 e di traslocazione t(4;14) (60).
In un trial multicentrico statunitense la terapia di
induzione in preparazione all’ASCT in pazienti con
MM di nuova diagnosi è consistito nella somministrazione sequenziale di 3 cicli di bortezomib
(V)/ciclofosfamide (C)/desametasone (D) seguiti
da altri 3 cicli di bortezomib (V), talidomide (T),
desametasone (D) (61). Obiettivo primario dello
studio era di incrementare la percentuale di
CR/nCR dal valore di circa il 20%, quale era stato ottenuto in trials precedenti con VD ad un valore di circa il 40% con la somministrazione
sequenziale dei regimi VCD/VTD.
I risultati riportati ad una analisi preliminare relativamente a 26 pazienti valutabili su un totale
di 30 pazienti arruolati hanno mostrato come la
somministrazione di 3 cicli VTD sequenzialmente
Il paziente giovane
a 3 cicli VCD abbia consentito di incrementare
la percentuale di CR/nCR dal 19% (dopo VCD)
ad un valore finale pari al 41% e della percentuale
di ≥VGPR dal 54% al 61%, con una percentuale
complessiva di risposte pari al 92%.
L’arruolamento nello studio di un più ampio
numero di pazienti ed un più lungo follow-up
potranno confermare le potenzialità dello schema sequenziale già dimostrate in via preliminare e meglio chiarire l’impatto di questo nuovo regime di induzione sull’andamento del trapianto (61).
Il regime VTD è stato inoltre associato ad una
polichemioterapia con cisplatino, doxorubicina,
ciclofosfamide ed etoposide (PACE) nel contesto di un programma terapeutico comprensivo
del doppio trapianto autologo (Total Therapy 3)
(TT3) (62). Questo regime ha dimostrato una elevata efficacia, con percentuali di nCR e CR stabili a 2 anni assolutamente di rilievo (80% e
60%, rispettivamente) e una OS a due anni
dell’87% (62). In una recente analisi sono stati
confrontati i risultati della TT3 con la TT2,
mostrando come l’aggiunta di bortezomib nella TT3 abbia comportato un significativo incremento sia della probabilità di ottenimento della CR (p=0.003), che della sua durata (p=0.008)
e della EFS (p=0.0003) (63).
Analogamente all’associazione TD, anche per la
terapia di prima linea con bort-dex o bortezomibchemioterapia non è stata evidenziata alcuna
interferenza negativa con la successiva mobilizzazione di progenitori emopoietici autologhi.
Differentemente da quanto osservato nelle fasi
avanzate della malattia, la piastrinopenia è stata
riportata molto raramente.
L’incidenza di neurotossicità di grado 3-4 è risultata compresa tra il 4% ed il 12%, e le complicanze tromboemboliche sono state non superiori al 2-3%.
Lenalidomide in preparazione o meno
al trapianto autologo (Tabella 5)
La lenalidomide (CC-5013) è un analogo immunomodulatore di talidomide che in studi preclinici ha dimostrato possedere una maggiore attività rispetto al farmaco capostipite, nei confronti del quale ha un differente profilo di tossicità,
sopratutto per la sostanziale assenza di neurotossicità. A seguito di due studi di fase III nei quali veniva dimostrato il significativo vantaggio offerto dall’associazione lenalidomide-desametasone
(len-dex) rispetto al solo desametasone nel trattamento dei pazienti con MM ricaduto dopo una
singola linea di terapia, la lenalidomide è stata
Lenalidomide + Desametasone
Studio/Trial
N° pazienti
CR/nCR (%)
≥VGPR (%)
≥RP (%)
EFS/PFS
OS (%)
Rajkumar 2005
(LDfase II)
34
13 con tx
CR 18
CR 8
56
39
91
100
PFS 83%
a 2 anni
92% a
2 anni
Rajkumar 2007
(Ld, fase III)
222
CR 1
42
71
Mediana
22 mesi
87% a
2 anni
Kumar 2007
(CRd, fase II)
33
NR
19
84
NR
NR
Richardson 2008
(RVD fase I/II)
53
36
71
98
NR
NR
Wang 2007
(RVD, retrosp)
23
13
46 post tx
NR
NR
83
100 post tx
NR
NR
Lenalidomide + altri farmaci
Note: N° paz numero pazienti RP remissione parziale RC remissione completa nCR remissione quasi completa VGPR remissione parziale di ottima qualità
OS sopravvivenza globale EFS sopravvivenza libera da eventi PFS sopravvivenza libera da progressione NR non riportato LD lenalidomide, desametasone
Ld lenalidomide, desametasone basse dosi CRd ciclofosfamide, lenalidomide, desametasone a basse dosi RVD lenalidomide, bortezomib, desametasone
retrosp retrospettivo
TABELLA 5 - Risultati dei principali studi con Lenalidomide nei pazienti giovani con MM di nuova diagnosi.
39
40
Seminari di Ematologia Oncologica
recentemente approvata con questa indicazione
negli US ed in Europa.
Così come per la talidomide ed il bortezomib,
anche per la lenalidomide la dimostrata efficacia
nelle fasi avanzate del MM ha rappresentato il
razionale di studi volti ad esplorare il ruolo di questo agente nella terapia di prima linea. In uno studio di fase II, la combinazione len-dex in preparazione al trapianto autologo è stata esplorata in
una serie di 34 pazienti, 31 dei quali (91%) hanno ottenuto almeno una risposta parziale, comprensiva di 6% di risposte complete e 32% di
VGPR (64). Nonostante in questo studio la lenalidomide fosse associata ad alte dosi di desametasone (640 mg/mese), il rischio di complicanze
tromboemboliche è stato pari al 3%.
Questo dato non ha, tuttavia, ricevuto conferma
in uno successivo studio di fase III, nell’ambito
del quale la combinazione len-dex ad alte dosi
veniva comparata con la medesima combinazione includente una dose totale mensile di desametasone pari a 160 mg.
I risultati di un’analisi ad interim hanno riportato
un rischio di complicanze tromboemboliche pari
al 18.4% vs 5.4%, rispettivamente; la mortalità
registrata entro i primi 4 mesi è stata pari al 5%
vs 0.5%, e ciò si è tradotto in un vantaggio del
10% nella sopravvivenza globale a favore del regime len-dex a basse dosi (96.5% vs 86% per lendex ad alte dosi; P<.001) (65). I risultati preliminari di un piccolo studio di fase II su 33 pazienti hanno mostrato l’efficacia della combinazione
lenalidomide-ciclofosfamide e desametasone a
basse dosi come terapia di induzione pre-trapianto, con una risposta complessiva dell’84% (66).
Inoltre è in corso uno studio di fase I/II volto a
testare la combinazione di lenalidomide-bortezomib e desametasone, i cui risultati preliminari
dimostrano una elevata efficacia (71% ≥ VGPR)
(67). È necessario un follow-up più prolungato per
poter effettivamente verificare l’impatto di queste combinazioni sull’outcome del trapianto
autologo e dei pazienti.
La mobilizzazione di progenitori emopoietici
autologhi può essere negativamente influenzata
da una terapia prolungata con lenalidomide e la
raccomandazione è dunque di limitarne la durata come terapia di induzione pre-trapianto (68). Il
rischio di complicanze tromboemboliche non è,
invece, significativamente differente da quanto
riscontrato con il farmaco capostipite e richiede,
pertanto, un’adeguata profilassi.
Bortezomib e lenalidomide nel
mantenimento dopo il trapianto autologo
Entrambi questi agenti sono attualmente inclusi
in studi clinici volti a testarne l’efficacia ed il profilo di tossicità nella terapia di mantenimento dopo
il trapianto autologo. Per la sostanziale assenza
di tossicità neurologica, la lenalidomide rappresenta un candidato ideale in questo contesto,
anche se la mielotossicità correlata all’impiego di
questo agente impone cautela nel suo utilizzo
dopo la somministrazione di una chemioterapia
ad alte dosi. I risultati di questi studi non sono
attualmente disponibili, neppure in forma estremamente preliminare.
n CHEMIOTERAPIA AD ALTE DOSI
CON SUPPORTO DI CELLULE
STAMINALI EMATOPOIETICHE
ALLOGENICHE
Le basi teoriche dell’applicazione del trapianto
allogenico (da donatore consanguineo o da donatore non correlato, HLA identico) risiedono nell’azione immunologica che il sistema immunitario trapiantato esercita nei confronti della taglia
neoplastica residuante nel paziente (GVM=graft
versus myeloma) dopo la terapia citoriduttiva.
Prendendo in considerazione l’età, la disponibilità di un donatore e le adeguate funzionalità d’organo, questa opzione è applicabile solo nel 510% dei pazienti con MM. Nonostante i significativi miglioramenti registrati negli ultimi 15
anni, la mortalità legata al trapianto (TRM) rimane elevata (30-50% nelle diverse casistiche nel
primo anno), come risultato della malattia da trapianto verso l’ospite (graft versus host disease)
(GVHD) e delle infezioni opportunistiche; la procedura va pertanto riservata solamente a pazienti selezionati con caratteristiche di alto rischio di
malattia (69, 70).
Di contro, i pazienti che sopravvivono alla procedura, ottengono una remissione completa clinica e molecolare più frequente e duratura rispetto ai pazienti sottoposti al trapianto autologo (71,
Il paziente giovane
72). L’OS a 3 anni è di circa il 56% e esistono
dubbi circa la possibilità che la curva presenti un
plateau (73). Il recente avvento del trapianto ad
intensità ridotta (RIC) o non mieloablativo, con
una riduzione della tossicità immediata post-trapianto, ha permesso di ampliare il numero dei
pazienti a cui applicare la procedura (74).
Ciononostante, gli unici soggetti che sembrano
beneficiare in maniera significativa di questo trapianto sono i pazienti con MM di nuova diagnosi in cui il trapianto allogenico RIC fa seguito ad
un trapianto autologo, eseguito alcuni mesi prima nell’intento di citoridurre la taglia neoplastica ed immunosopprimere il ricevente (75). Anche
in questi pazienti la TRM rimane comunque relativamente elevata (15%), così come la tossicità
legata alla GVHD acuta e cronica.
Uno studio prospettico randomizzato francese,
in cui pazienti con MM ad alto rischio per presenza alla diagnosi di elevati livelli di b2 microglobulina e di delezione del cromosoma 13 venivano assegnati all’esecuzione di doppio autotrapianto o di un trapianto autologo seguito da un
trapianto allogenico RIC, non ha mostrato differenze nella sopravvivenza globale nei due bracci di randomizzazione (76).
Viceversa, uno studio prospettico italiano in cui i
pazienti venivano randomizzati a ricevere, sulla
base della presenza o meno di un donatore familiare HLA identico, un doppio trapianto autologo
oppure un trapianto autologo seguito da un trapianto allogenico RIC, ha mostrato un significativo vantaggio in termini sia di EFS che di OS a
favore dei pazienti che eseguivano il tandem autoallotrapianto (80 mesi vs 54 mesi, p=0.01 e 35 vs
29 mesi, p=0.02, rispettivamente) (77). Anche in
questo caso le discrepanze tra i due studi sono
in parte spiegabili con differenze nei criteri di arruolamento dei pazienti e nei disegni dei protocolli.
Infine uno studio retrospettivo dell’EBMT
(European Bone Marrow Transplantation) su 320
pazienti sottoposti a RIC ha confermato la bassa TRM nei confronti dell’allotrapianto standard
(24% vs 37% a 2 anni, rispettivamente), ma ha
mostrato che questa viene ottenuta a scapito di
una minore efficacia della GVM, che sfocia in una
riduzione della EFS e OS nei confronti dell’allotrapianto a dosi piene (OS 38% vs 52% a 3 anni,
EFS 19% vs 34.5%, rispettivamente) (78).
Per molti studi di trapianto allogenico RIC è
comunque opportuno un follow-up più lungo per
trarre considerazioni conclusive. Attualmente,
quindi, l’impiego del trapianto allogenico non mieloablativo nella terapia del MM rimane investigazionale e consigliabile solo nel contesto di studi
clinici prospettici. Nulla è ancora noto circa il confronto della procedura trapiantologica auto + allotrapianto RIC con i nuovi protocolli di trapianto
autologo che prevedono l’impiego combinato dei
nuovi farmaci non chemioterapici.
Sono inoltre in corso alcuni studi che prevedono l’integrazione di questi stessi nuovi farmaci nel
contesto del trapianto allogenico-RIC.
n CONCLUSIONI
Nel corso degli ultimi anni il panorama terapeutico del MM è stato radicalmente modificato grazie all’introduzione nella pratica clinica di nuovi farmaci dotati di maggiore attività rispetto alla chemioterapia convenzionale ed in grado di potenziarne l’efficacia, quando ad essa associati. Attraverso
l’impiego di questi agenti nella terapia di induzione pre trapianto autologo è stato possibile incrementare la probabilità di ottenimento della CR/nCR
sino a valori precedentemente ottenuti soltanto con
l’applicazione della chemioterapia ad alte dosi (79).
I dati qui revisionati, in particolare quelli derivanti
da studi clinici randomizzati di fase III, offrono un
buon livello di evidenza sul fatto che questi regimi comprensivi di nuovi farmaci costituiscano la
strategia terapeutica più promettente al momento disponibile per i pazienti con MM di nuova diagnosi. In particolare sembra evidenziarsi come
attraverso questo approccio sia possibile incrementare significativamente la percentuale di CR
dopo il trapianto autologo (54, 61), ridurre la necessità di un secondo autotrapianto in una certa percentuale di pazienti (54) e prolungare significativamente la durata di sopravvivenza libera da eventi (47, 48).
Ci sono inoltre alcune evidenze che queste terapie combinate con nuovi farmaci possano superare l’impatto prognostico sfavorevole di alcune
alterazioni genetico-molecolari, in particolare la
delezione del cromosoma 13 e la traslocazione
t(4;14) (54, 61). Al contempo, sono disponibili dati
41
42
Seminari di Ematologia Oncologica
circa il ruolo favorevole di questi nuovi agenti nella terapia di consolidamento/mantenimento dopo
il trapianto autologo (50). Tuttavia, il beneficio clinico derivante da questo nuovo paradigma terapeutico in termini di durata della risposta e di vantaggio di sopravvivenza potrà emergere solo dalle analisi conclusive di studi clinici ancora in corso e con un adeguato follow-up. Il ruolo del trapianto allogenico ad intensità ridotta deve essere ancora precisamente stabilito nell’ambito di
trials clinici. È altresì auspicabile che la scoperta
di nuove classi di agenti possano consentire l’applicazione di terapie mirate sul singolo paziente.
Ringraziamenti
Lavoro finanziato in parte da BolognAIL.
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Il paziente
anziano
ALBERTO ROCCI, MARIO BOCCADORO, ANTONIO PALUMBO
Dipartimento di Ematologia, Ospedale Molinette, Torino
n INTRODUZIONE
Il mieloma multiplo (MM) è una patologia incurabile che rappresenta circa il 10% di tutte le neoplasie ematologiche e la cui frequenza è in costante incremento (1, 2).
Nel mondo l’incidenza varia da 0,4 a 5 casi per
100.000 abitanti, con una maggiore frequenza nei
soggetti maschi residenti in paesi sviluppati e nei
neri americani. Attualmente circa il 35% dei
pazienti con MM ha meno di 65 anni, il 28% è
fra 65 e 74 anni e il 37% dei pazienti ha più di 75
anni (3).
Questa divisione per età è in continua evoluzione e i cambiamenti in corso nella curva demografica della popolazione generale causeranno nel
prossimo futuro un verosimile aumento dell’incidenza di tale patologia nei soggetti anziani.
L’eziologia è sconosciuta e non sono stati finora
individuati fattori di rischio legati allo stile di vita,
al tipo di lavoro o ai rischi ambientali.
Come possibili fattori predisponenti sono stati ipotizzati: una predisposizione genetica, l’esposizioParole chiave: mieloma multiplo, talidomide, bortezomib, lenalidomide, paziente anziano.
Indirizzo per la corrispondenza
Antonio Palumbo
Dipartimento di Ematologia
Ospedale Molinette
Via Genova, 3
10126 Torino
E-mail [email protected]
Antonio Palumbo
ne a radiazioni ionizzanti o a sostanze chimiche,
il fumo di tabacco, l’obesità e l’assunzione di alcol.
Nessuna di queste situazioni è stata però finora
correlata in maniera significativa alla patogenesi
del MM (4).
In alcuni pazienti il mieloma sintomatico evolve da
una condizione benigna e del tutto asintomatica
chiamata MGUS (gammopatia monoclonale di
significato incerto).
La MGUS è presente in circa il 3% della popolazione generale al di sopra dei 50 anni di età e
il rischio di progredire in MM è stimato essere di
circa l’1% annuo. In altri casi, invece di evolvere
immediatamente in MM, la MGUS evolve in una
fase intermedia nota come smoldering mieloma
(SMM). Il rischio che un SMM progredisca in MM
è di circa il 10% all’anno per i primi 5 anni, di circa il 3% per i successivi 5 anni e poi dell’1%
annuo.
Si è cercato di identificare alcuni marcatori che
potessero predire la progressione a MM ed è stato riscontrato come la quantità di proteine monoclonali e l’estensione dell’interessamento midollare possano essere associati a un aumentato
rischio di trasformazione in MM (5). Nessuna differenza in termini di overall survival (OS) è stata
però notata in pazienti con MM de novo o in quelli che avevano precedentemente una discrasia
plasmacellulare asintomatica come la MGUS o il
mieloma smoldering (SMM) (6).
Negli ultimi anni farmaci con un meccanismo
d’azione innovativo come la talidomide, il bortezomib o la lenalidomide, si sono dimostrati efficaci nel trattamento del MM agendo sia sulle pla-
48
Seminari di Ematologia Oncologica
smacellule (PCs) monoclonali che sulle cellule del
microambiente midollare. La combinazione di questi nuovi farmaci con la terapia steroidea e gli
agenti alchilanti ha permesso di incrementare le
percentuali di risposta alla terapia e la progression free survival (PFS) (7).
Nei pazienti di nuova diagnosi di età inferiore ai
65 anni, l’utilizzo di un regime di induzione contenente desametasone più farmaci di nuova generazione seguito da melphalan ad alte dosi e successivo autotrapianto di cellule staminali (ASCT)
ha permesso di aumentare significativamente la
percentuale di risposta.
Nei pazienti anziani, di età maggiore di 65 anni,
la terapia che per anni è stata considerata standard ovvero melphalan + prednisone (MP) è attualmente stata sostituita dalla terapia di associazione con nuovi farmaci che ha permesso di ottenere risultati significativamente migliori nella terapia del MM nel paziente anziano o in chi non è
eleggibile per un approccio trapiantologico.
n MGUS E SMM
La MGUS è la più comune discrasia plasmacellulare, interessa il 3% circa della popolazione con
più di 50 anni e la sua incidenza aumenta con l’aumentare dell’età.
È caratterizzata dalla proliferazione di un singolo
clone di plasmacellule secernenti una proteina
monoclonale (M). Ciascuna proteina M è costituita da una catena polipeptidica pesante (γ per le
IgG, α per le IgA, µ per le IgM, δ per le IgD e ε per
le IgE) e da una singola catena leggera (κ o λ). È
una condizione asintomatica caratterizzata da:
- Proteina monoclonale <3 g/dl.
- Plasmacellule monoclonali nel Midollo Osseo
<10%.
- Assenza di danno d’organo attribuibile alla azione delle plasmacellule (8).
La MGUS è associata ad un rischio di progressione in MM di circa l’1% annuo. Il riscontro di
MGUS è per lo più accidentale, quando un soggetto esegue l’elettroforesi delle proteine sieriche
(SPEP) o urinarie (UPEP) per un controllo di routine. In seguito al riscontro di MGUS vi è un unanime consenso ad astenersi da alcuna terapia
mantenendo solo una attenta osservazione. I sog-
getti con MGUS possono essere stratificati in base
al rischio di progressione a mieloma multiplo
(basandosi sulla quantità o sul tipo di picco monoclonale e di catene leggere nel siero) per decidere la frequenza dei controlli di follow-up: i pazienti con basso rischio possono essere controllati 6
mesi dopo la diagnosi e poi ogni 2 anni fino alla
eventuale progressione; gli altri soggetti vanno
ricontrollati dopo 6 mesi dalla diagnosi e poi ogni
anno (9).
Il SMM rappresenta circa il 15% dei nuovi MM
diagnosticati. È una condizione asintomatica che
può essere diagnosticata accidentalmente ed è
caratterizzata da:
- proteina monoclonale >3 g/dl;
- infiltrato plasmacellulare monoclonale a livello
midollare >10%;
- assenza di danno d’organo attribuibile alla proliferazione delle PC.
Il SMM è associato ad un maggior rischio di trasformazione in MM o in patologie correlate rispetto alla MGUS (dal 10 al 20% per anno) pertanto
i pazienti devono essere monitorati più strettamente (ogni 3 mesi circa) nonostante non vengano
trattati finché non vi sia una franca progressione
in MM sintomatico. Come per la MGUS, l’entità
e il tipo di proteina monoclonale sono correlati con
la progressione (10).
n DIAGNOSI
Negli stadi iniziali difficilmente si riscontrano sintomi di rilievo e molto spesso il MM viene diagnosticato in maniera casuale, durante un esame del
sangue di routine nel quale si riscontrano alterazioni del quadro proteico. Man mano che la malattia progredisce compaiono disturbi sistemici
come: dolore, astenia, infezioni ricorrenti, insufficienza renale e disfunzioni del sistema nervoso
periferico.
Esami da eseguire alla diagnosi
In tutti i pazienti con diagnosi di MM dovrebbero essere eseguiti alcuni esami per permettere
una corretta ed uniforme stadiazione e per seguire l’andamento della malattia. Fra questi vi sono
l’elettroforesi delle proteine sieriche (SPEP) e urinarie (UPEP) sul campione di urine delle 24 ore
Il paziente anziano
Esami da eseguire alla diagnosi nel Mieloma Multiplo
Esame Emocromocitometrico
Elettroforesi delle Proteine Sieriche
Elettroforesi delle Proteine Urinarie
Immunofissazione Sierica / Urinaria
Proteinuria Totale sulle Urine delle 24 ore
Clearance della Creatinina
Calcio
Albumina
b2-microglobulina
LDH (Lattico Deidrogenasi)
Aspirato Midollare
Biopsia Osteomidollare
RX sistematica scheletrica
TABELLA 1 - Elenco degli esami da eseguire al momento della
diagnosi di MM.
e l’immunofissazione che permette di determinare la classe della proteina monoclonale e di
individuare minime quantità di proteine monoclonali non rilevabili con l’elettroforesi. Per completare il quadro è necessario quantificare la proteina monoclonale utilizzando l’analisi al nefelometro.
La misurazione delle catene leggere sieriche è
stata introdotta nella pratica clinica per quantificare le catene κ e λ non costituenti una immunoglobulina intatta e permettere di monitorare i
pazienti affetti da MM oligo/non secretore, MM
a catene leggere e l’amiloidosi primaria. Inoltre
il dosaggio delle catene leggere al momento della diagnosi rappresenta un fattore prognostico
nel MM.
La diagnosi di MM si basa anche sulla dimostrazione di un infiltrato di PCs monoclonali a livello del midollo osseo, pertanto è necessario eseguire aspirato midollare e biopsia ossea. Per
ricercare la presenza di un danno d’organo
occorre eseguire un emocromo completo, alcuni esami ematochimici come la creatinina e il calcio e la RX sistematica ossea. La risonanza
magnetica nucleare (RMN) è più sensibile dell’Rx
nell’evidenziare lesioni ossee, tuttavia al momento attuale la RMN viene considerata un esame
di secondo livello, da eseguire solo se il paziente ha dolore osseo senza segni di alterato segnale all’RX oppure nel sospetto di compressione
delle radici nervose. La tomografia computeriz-
zata (TC) e la RMN sono indicate nel sospetto
di plasmocitoma. Gli ulteriori esami da eseguire al momento della diagnosi sono riconducibili ai marcatori prognostici: b2-microglobulina,
albumina, LDH e le analisi di citogenetica e FISH
sull’aspirato midollare. Un elenco completo
degli esami da eseguire alla diagnosi è presente nella Tabella 1.
Criteri necessari per la diagnosi di MM
A differenza di altre patologie neoplastiche, la terapia del MM va iniziata solo quando la malattia
diventa attiva o vi è evidenza di danno d’organo.
I pazienti con un MM sintomatico devono iniziare tempestivamente un trattamento chemioterapico. Il MM sintomatico è definito dalla presenza di:
- Componente monoclonale nel siero o nelle urine (nei pazienti con componente monoclonale
non riscontrabile si considera un rapporto delle catene leggere anormale).
- Infiltrazione di PCs a livello midollare maggiore del 10% e/o diagnosi istologica di plasmocitoma.
- Evidenza di danno d’organo attribuibile alla proliferazione plasmacellulare (criteri CRAB).
C: ipercalcemia (calcio >10.5 mg/L)
R: insufficienza renale (creatinina >2 mg/dL)
A: anemia (emoglobina <10 g/dl)
B: malattia ossea (lesioni litiche o osteopenia)
(11).
I sintomi più frequenti alla diagnosi sono l’astenia dovuta alla anemia e il dolore osseo dovuto
alle localizzazioni di malattia a livello dello scheletro. In misura nettamente minore sono presenti epatomegalia o amiloidosi.
Nei pazienti con MGUS o SMM l’identificazione
del danno d’organo rappresenta una progressione chiara a MM e determina un rapido inizio della terapia.
n FATTORI PROGNOSTICI
Sebbene dal punto di vista istologico vi sia una
certa omogeneità, l’andamento clinico del MM
è abbastanza eterogeneo: alcuni pazienti hanno
una malattia che si presenta da subito estremamente aggressiva, con una sopravvivenza di
49
50
Seminari di Ematologia Oncologica
pochi mesi nonostante le terapie mentre altri
pazienti possono vivere per più di 10 anni riuscendo a controllare la malattia per lunghi periodi.
Questo aspetto ha spinto i ricercatori a valutare
marcatori prognostici che potessero predire la
sopravvivenza e di conseguenza stratificare i
pazienti al momento della diagnosi in gruppi con
differente prognosi. Sono stati quindi identificati alcuni fattori prognostici che possono risultare utili al clinico per stimare la prognosi del singolo paziente.
Prima di affrontare i diversi fattori prognostici
occorre ricordare che tali fattori sono stati individuati prima dell’avvento dei nuovi farmaci e gli
studi che hanno validato l’efficacia di questi marcatori predittivi si basano su pazienti trattati con
chemioterapia ad alte dosi e autotrapianto o con
chemioterapia standard.
Con l’introduzione dei nuovi farmaci nella terapia del MM appare quindi chiaro come siano
necessari nuovi studi per confermarne la validità o identificare altri fattori prognostici più adatti alle nuove terapie. I fattori prognostici universalmente accettati sono:
- l’International Staging System (ISS): è un modello di stratificazione molto semplice, potente e
riproducibile che permette di classificare i
pazienti in tre classi in base ai valori di b2-microglobulina e albumina alla diagnosi. Come rappresentato in Tabella 2, a seconda dei valori di
questi due parametri ciascun paziente viene
classificato in uno dei seguenti stadi: Stadio I
con una sopravvivenza media di 62 mesi, Stadio
II con una sopravvivenza media di 44 mesi e
Stadio III con una sopravvivenza media di 29
mesi (12).
Oltre ad essere di facile esecuzione, questa classificazione tiene in considerazione 2 diverse
caratteristiche del tumore: la b2-microglobulina sierica riflette la massa tumorale e la funzio-
nalità renale mentre i valori di albumina sono
correlati agli effetti dell’interleuchina-6 prodotta dal microambiente midollare osseo a livello
del fegato.
- Le anomalie cromosomiche hanno dimostrato
di avere un impatto sulla sopravvivenza dei
pazienti con MM. Una prognosi peggiore è stata riscontrata nei pazienti con presenza di una
traslocazione coinvolgente i geni della catena
pesante delle immunoglobuline t(4,14), t(14,16),
t(14,20), delezione del 17p13 o alla delezione
del cromosoma 13. Al contrario, una prognosi
migliore è stata osservata in presenza di
t(11,14), t(6,14) o di iperdiploidia (13-15).
Risultati preliminari sembrano mostrare come sia
il bortezomib che la lenalidomide possano
superare la cattiva prognosi legata alla delezione del 13 e alla traslocazione t(4;14). Il bortezomib sembra essere più attivo della lenalidomide in presenza della delezione del cromosoma
17p13 mentre l’impatto negativo di queste alterazioni cromosomiche sull’andamento clinico non
sembra essere modificato dalla chemioterapia
intensiva con autotrapianto (16).
Le indagini di gene expression profiling, hanno
migliorato la stratificazione dei pazienti e la stadiazione prognostica ma non sono ancora da
considerare esami di routine (17, 18). Altri parametri che si associano ad una prognosi peggiore sono costituiti da un indice di proliferazione
delle plasmacellule maggiore del 3%, il riscontro di cellule con morfologia plasmoblastica, gli
alti livelli di LDH e un alterato rapporto delle catene leggere (19).
Alla luce di quanto esposto, è fortemente raccomandato che in tutti i pazienti con una nuova diagnosi di MM siano ricercate le traslocazioni t(4;14)
e t(14-16), la delezione del 17p13, e che sia effettuata la misurazione del valore di b2-microglobulina e dell’albumina (20).
Stadio
Criteri
I
II
III
b2-microglobulina <3.5 mg/L albumina >3.5 mg/L
Pazienti in stadio non I e non III (*)
b2-microglobulina >5.5 mg/L
Sopravivenza mediana (mesi)
62
44
29
(*) Due categorie: b2-microglobulina <3.5 mg/L ma albumina <3.5 mg/L; b2-microglobulina 3,5-5,5 mg/L indipendentemente dal valore di albumina.
TABELLA 2 - Criteri di stadiazione dell’International Staging System (ISS).
Il paziente anziano
n CONSIDERAZIONI
SULLA TERAPIA
Non vi è evidenza che iniziare un trattamento chemioterapico precoce in pazienti con MM asintomatico determini un aumento della sopravvivenza rispetto ad iniziare un trattamento al momento della comparsa dei sintomi o del danno d’organo.
Questo concetto è stato ampiamente dimostrato per il trattamento con farmaci anti-MM standard. Sono tuttora in corso studi clinici per determinare se l’utilizzo dei nuovi farmaci in fase precoce possa ritardare la progressione da SMM a
MM. I pazienti con MM sintomatico devono essere trattati immediatamente e la scelta dello schema terapeutico deve essere presa tenendo conto delle caratteristiche del paziente (es. età e presenza di comorbilità) e basandosi sulle evidenze
scientifiche.
I pazienti con meno di 65 anni e senza comorbilità rilevanti in anamnesi sono candidati ad una
chemioterapia intensiva con supporto di cellule
staminali autologhe. Studi randomizzati hanno
mostrato come vi sia una maggior percentuale
di risposte e una maggior sopravvivenza nei
pazienti trattati con chemioterapia ad alte dosi
rispetto ai pazienti trattati con chemioterapia convenzionale (21). L’approccio trapiantologico in
pazienti con più di 65 anni è una opzione tera-
peutica che può essere proposta qualora vi siano pazienti in buone condizioni generali, senza
comorbilità di rilievo e con una età non superiore ai 70 anni. In questi pazienti la dose di melphalan dovrà però essere dimezzata a 100
mg/m2.
Gli altri pazienti dovrebbero essere trattati con
chemioterapia standard in associazione ai nuovi farmaci (talidomide, bortezomib, lenalidomide)
che hanno permesso di aumentare significativamente il PFS, l’OS e la qualità di vita dei pazienti. In caso di pazienti con età superiore ai 75 anni
o con comorbilità di rilievo, la dose della terapia
verrà progressivamente ridotta in modo da ridurre la tossicità.
Numerosi studi sono stati eseguiti negli ultimi anni
o sono tuttora in corso per valutare l’efficacia di
nuove associazioni chemioterapiche che comprendono uno o più nuovi farmaci.
Occorre ricordare che i trattamenti chemioterapici considerati standard of care devono essere
supportati da una evidenza scientifica che dimostri un aumento della PFS in almeno un trial randomizzato.
Studi non controllati di fase II sono importanti in
quanto dimostrano l’efficacia di nuove molecole,
ma prima di poter essere considerati terapie standard occorre che vi sia un trial clinico randomizzato che ne confermi i risultati su una ampia casistica.
Criteri di valutazione
sCR
Ai criteri della CR vanno aggiunti: rapporto catene leggere nella norma, assenza di plasmacellule clonali a livello
midollare (in immunoistochimica e immunofluorescenza).
CR
Immunofissazione negativa, scomparsa dell’eventuale plasmocitoma, <5% di plasmacellule a livello midollare.
VGPR Proteina monoclonale riscontrabile all’immunofissazione ma non all’elettroforesi oppure riduzione della proteina monoclonale sierica >90% e livelli di proteina monoclonale urinari inferiori a 100 mg/24 ore.
PR
>50% di riduzione della proteina monoclonale sierica e riduzione delle proteine monoclonali urinarie >90% o <200
mg/24 ore oppure se i livelli di proteina monoclonale nel siero e nelle urine non sono misurabili, riduzione >50%
nella differenza tra i livelli di catene leggere coinvolte e non coinvolte oppure se non sono misurabili né la proteina monoclonale né le catene leggere libere nel siero, è richiesta una riduzione >50% dell’infiltrato plasmacellulare. In presenza di plasmocitoma è necessaria una riduzione >50% del tessuto del plasmocitoma.
SD
Non soddisfa i criteri per CR, VGPR, PR e PD.
PD
Aumento di >25% dei seguenti parametri: componente monoclonale sierica o urinaria, differenza tra i livelli di catene leggere coinvolte e non coinvolte, percentuale delle plasmacellule midollari. Sviluppo di nuove lesioni ossee o
peggioramento di quelle presenti oppure plasmocitoma, ipercalcemia.
CR: complete response; sCR: stringent CR; VGPR: Very Good Partial Remission; PR: Partial Response; SD: Stable Disease; PD: Progressive Disease
TABELLA 3 - Criteri di risposta alla terapia elaborati dall’International Myeloma Working Group (IMWG).
51
52
Seminari di Ematologia Oncologica
La risposta alla terapia deve essere espressa utilizzando i criteri di risposta elaborati dall’International
Myeloma Working Group e indicati nella tabella 3.
La tabella 4 riassume i regimi di chemioterapia
attualmente utilizzati nei pazienti anziani e le risposte ottenute nei diversi studi clinici.
Come si evince da quanto sopra riportato, la
maggior parte dei pazienti con MM non è candidabile ad un approccio trapiantologico; circa i
2/3 dei pazienti con mieloma ha più di 65 anni e
circa la metà dei pazienti con età inferiore a 65
anni non verrà sottoposto a trapianto autologo
di cellule staminali. Quindi circa l’80% di tutti i
pazienti con MM alla diagnosi non è candidabile alla chemioterapia ad alte dosi, pertanto è
importante migliorare i risultati ottenuti con la chemioterapia standard associando ad essa i nuovi farmaci.
Schema Terapeutico
Risposta
Sopravvivenza
Referenze
MP
Mel: 0.25 mg/kg i giorni 1-4;
Pdn: 2 mg/kg i giorni 1-4
per 12 cicli da 6 settimane
Oppure
Mel: 4 mg/m2 i giorni 1-7;
Pdn: 40 mg/m2 i giorni 1-7
per 6 cicli da 4 settimane
Oppure
Mel: 9 mg/m2 i giorni 1-4;
Pdn: 60 mg/m2 i giorni 1-4
per 9 cicli da 6 settimane
CR: 1-5%
>VGPR: 7-25%
>PR: 31-50%
PFS/TTP: 50%
a 14-21 mesi
EFS: 27% a 24 mesi
OS: 50% a 28-34 mesi
e 64% a 36 mesi
27, 40, 29,
30, 31
MPT
Mel: 0,25 mg/kg i giorni 1-4;
Pdn: 2 mg/kg i giorni 1-4;
Tal: 100-400 mg al dì
per 12 cicli da 6 settimane
(± Tal di mantenimento)
Oppure
Mel: 4 mg/m2 i giorni 1-7;
Pdn: 40 mg/m2 i giorni 1-7
per 6 cicli da 4 settimane.
Tal 100 mg/die fino alla recidiva
o alla progressione di malattia
CR: 7-16%
>VGPR: 22-43%
>PR: 57-76%
PFS: 50% a 15-28 mesi
EFS: 54% a 24 mesi
OS: 50% at 28-52 mesi
e 80% a 36 mesi
40, 29, 30, 31
VMP
Mel: 9 mg/m2 i giorni 1-4
CR: 35%
Pdn: 60 mg/m2 i giorni 1-4
>VGPR: 45%
Bor: 1,3 mg/m2 i giorni 1, 4, 8,
>PR: 82%
11, 22, 25, 29, 32 per i primi 4 cicli
da 6 settimane; i giorni 1, 8, 22, 29
per i restanti cicli da 5 a 9 da 6 settimane
TTP: 50% a 24 mesi
16
MPR
Mel: 0,18-0,25 mg/kg i giorni 1-4
Pdn: 2 mg/kg i giorni 1-4
Per 9 cicli da 4 settimane
Len: 5-10 mg i giorni 1-21 fino
alla recidiva o alla progressione
di malattia.
EFS: 95% a 12 mesi
OS: 100% a 12 mesi
33
CR: 24%
>VGPR: 48%
>PR: 81%
MP: Melphalan-Prednisone; Mel: Melphalan; Pdn: Prednisone CR: complete response; VGPR: very good partial response; PR: partial response; PFS: progression free survival; OS: overall survival; EFS: event free survival; TTP: time to progression; MPT: Melphalan-Prednisone-Talidomide; Tal: Talidomide; VMP:
Bortezomib-Melphalan-Prednisone; Bor: Bortezomib; MPR: Melphalan-Prednisone-Lenalidomide; Len: Lenalidomide.
TABELLA 4 - Schemi terapeutici e risultati attesi per pazienti con più di 65 anni oppure non eleggibili alla terapia ad alte dosi.
Il paziente anziano
n TERAPIA ALLA DIAGNOSI
NEL PAZIENTE ANZIANO
Melphalan + Prednisone
La combinazione orale di Melphalan, Prednisone
(MP) è stata per anni considerata il trattamento
standard per i pazienti non eleggibili alla chemioterapia ad alte dosi con autotrapianto. Il tasso di
risposte a tale terapia è di circa il 50% e la
sopravvivenza mediana è di 2-3 anni (22).
Numerose combinazioni di farmaci contenenti
agenti alchilanti sono state utilizzate senza che
si sia evidenziato un miglioramento della sopravvivenza globale. Uno studio su 6.633 pazienti ha
mostrato una percentuale di risposta del 60% nel
caso di chemioterapie combinate contro un
53,2% nei pazienti trattati con la più semplice e
meno tossica associazione di MP (p <0.001), tuttavia nessun beneficio è stato osservato sulla
sopravvivenza nel gruppo che ha ricevuto chemioterapie combinate (23). Le alte dosi di desametasone sono una delle terapie più attive sia se
somministrate da sole che in associazione a un
chemioterapico (24, 25).
Uno studio randomizzato ha confrontato l’efficacia della combinazione di melphalan e desametasone (MD) rispetto allo standard MP: è emerso come lo schema MD permetta di ottenere un
maggior numero di risposte complete (CR) ma
non vi siano differenze in termini di sopravvivenza (26).
Recentemente il gruppo di Facon ha confermato questi risultati con uno studio randomizzato
che ha arruolato pazienti con MM di età compresa fra 65 e 75 anni (27). I pazienti sono stati randomizzati in 4 differenti bracci di trattamento: MP,
MD, alte dosi di desametasone e alte dosi di
Desametasone + interferon α. Lo schema di trattamento con MD ha mostrato il tasso di risposta più elevato. Il tempo medio alla progressione è risultato essere raddoppiato dopo trattamento con MP o MD, mentre le alte dosi di desametasone (con o senza interferone α) non hanno
influenzato la durata di remissione.
La sopravvivenza globale è risultata essere la
stessa per i 4 gruppi di trattamento, tuttavia gli
schemi che prevedevano desametasone hanno
mostrato una aumentata incidenza di grave tossicità, in particolare un aumento delle infezioni
polmonari e della setticemia. Questi risultati hanno evidenziato come, prima dell’introduzione dei
nuovi farmaci, la terapia orale con melphalan fosse da considerarsi lo standard of care e dovesse essere inserita in tutte le terapie di induzione
per pazienti non candidabili alla chemioterapia ad
alte dosi con autotrapianto.
Negli ultimi 5 anni sono stati introdotti nuovi farmaci anti-MM (talidomide, bortezomib e lenalidomide) i quali, utilizzati da soli o in associazione con
i chemioterapici standard, hanno permesso di
aumentare le opzioni terapeutiche nei pazienti non
eleggibili a schemi di chemioterapia ad alte dosi
e autotrapianto.
Talidomide
La talidomide, usata negli anni ’60 come sedativo ipnotico, negli ultimi anni è stata impiegata nella terapia di alcune patologie neoplastiche, in particolare nel campo del MM.
Melphalan, Prednisone, Talidomide (MPT): quattro studi randomizzati hanno dimostrato come lo
schema MPT aumenti il tasso di risposta e la
sopravvivenza libera da eventi (EFS) rispetto allo
schema MP; in due di questi studi è stato riportato anche un vantaggio nella sopravvivenza (2831).
Nel trial randomizzato italiano, la terapia orale MPT
è stata confrontata con MP in pazienti con più di
65 anni oppure di età più giovane ma non eleggibili al trapianto (29). Lo schema di trattamento
è mostrato nella tabella 4. Le risposte parziali +
complete (PR + CR) sono state il 76% nel braccio MPT e il 47.6% nel braccio MP mentre le nearCR (nCR) + le CR sono state il 27.9% contro il
7.2% rispettivamente. La EFS a 2 anni è risultata essere del 54% per MPT e 27% per MP
(p=0.0006).
La sopravvivenza a 3 anni era dell’80% e del 64%
rispettivamente (p=0.19).
Nello studio di fase III francese, la terapia con MPT
(uno schema leggermente diverso rispetto a quello applicato nello studio Italiano e una dose di partenza di talidomide pari a 200 mg/die) è stato confrontato con MP e con dosi intermedie di melphalan (100 mg/m2) seguite da ASCT.
Una maggior percentuale di PR è stata osservata nel gruppo trattato con MPT o melphalan 100
mg/m2 rispetto al gruppo MP (81% vs 73% vs
53
54
Seminari di Ematologia Oncologica
40% rispettivamente) (28). Allo stesso modo la
percentuale di CR è risultata significativamente
maggiore nei gruppi trattati con MPT o dosi intermedie di melphalan rispetto al gruppo MP. La PFS
era maggiore nei pazienti che avevano ricevuto
MPT rispetto sia ai pazienti trattati con MP
(p<0.001) ma anche ai pazienti trattati con dosi
intermedie di melphalan e ASCT (p=0.001).
Inoltre la OS è risultata essere significativamente aumentata nel gruppo MPT sia rispetto al gruppo MP (p=0.001) che al gruppo sottoposto a trapianto autologo (p=0.004).
In entrambi gli studi l’MPT è risultato essere associato ad una maggior tossicità severa: almeno un
evento avverso di grado 3-4 è stato osservato nel
40% dei pazienti trattati con MPT. Gli effetti avversi più comuni sono stati le infezioni, le complicanze trombotiche, la neuropatia periferica, la stipsi
e la tossicità cardiaca. Nel trial italiano, l’introduzione di enoxaparina come profilassi ha permesso di ridurre gli eventi trombotici dal 20 al 3%
(p=0.0005). Il rischio di trombosi venosa è particolarmente alto nel primi 4-6 mesi di terapia mentre le infezioni e la tossicità cardiaca sono risultate essere più frequenti in pazienti con più di 70 anni.
È raccomandata una profilassi antitrombotica
anche se al momento non vi sono chiare evidenze su quale sia la miglior scelta: eparine a basso
peso molecolare, dosi terapeutiche di warfarin o
aspirina giornaliera sono le opzioni preferite (32).
I dati ottenuti da questi quattro trial clinici randomizzati hanno dimostrato come l’MPT sia superiore allo schema MP e quindi sia da considerarsi lo standard of care nei pazienti con più di 65
anni o in chi non può essere sottoposto ad autotrapianto.
Come osservazioni secondarie, è stato visto come
l’aggiunta della talidomide sembri ridurre l’impatto negativo della b2-microglobulina. Nello studio
Italiano non è stata osservata alcuna differenza
nell’OS in base al valore di b2-microglobulina nei
pazienti trattati con MPT; tale differenza si è invece evidenziata nel gruppo trattato con MP dove
il valore di b2-microglobulina rimane un fattore
prognostico. In un recente lavoro questa osservazione è stata confermata ed è stato dimostrato come il valore della b2-microglobulina non predica l’outcome anche in pazienti trattati con talidomide e desametasone (33).
Bortezomib
Il bortezomib è un nuovo farmaco anti tumorale
che agisce inibendo un complesso multi-catalitico intracellulare chiamato proteosoma responsabile della degradazione dei prodotti cellulari.
Melphalan, Prednisone, Bortezomib (VMP): la
combinazione di bortezomib + MP è stata valutata in uno studio di fase I/II su 60 pazienti con
MM alla diagnosi e con età superiore ai 65 anni
(metà di essi con più di 75 anni) (34).
Il ciclo di terapia VMP è schematizzato nella tabella 4. La dose massima tollerata di bortezomib è
risultata essere 1.3 mg/m2. Sette pazienti non
hanno terminato il primo ciclo e quindi non sono
risultati valutabili successivamente. Dopo una
mediana di 7 cicli, le risposte parziali sono state l’89%, comprensive del 32% di CR (metà delle quali con remissione immunofenotipica). A 16
mesi l’EFS è risultato essere dell’83% e l’OS del
90%. I risultati di pazienti trattati in studi precedenti con MP erano, a 16 mesi, un EFS del 51%
e un OS del 60%. Visti i promettenti risultati in
fase I/II, è stato disegnato uno studio clinico di
fase III per dimostrare la superiorità dello schema VMP rispetto allo schema MP. Lo studio
Velcade as Initial Standard Therapy Assessment
(VISTA) ha confermato la superiorità del VMP
rispetto all’MP in termini di percentuale di risposte (le risposte parziali o superiori sono state il
71% e il 35% rispettivamente e le CR sono state il 30% e il 4% rispettivamente, p<0.001).
L’endpoint primario dello studio era il tempo alla
progressione (TTP) che è risultato essere 24.0
mesi nel gruppo VMP e 16.6 mesi nel gruppo MP
(p<0.001). Anche l’OS e il tempo alla successiva terapia sono risultati essere migliori nel gruppo VMP. Gli eventi avversi di grado 3 sono stati
più frequenti nel gruppo di pazienti che ha ricevuto il bortezomib (53% vs. 44%, P=0.02), anche
se non sono state osservate differenze nell’incidenza della tossicità di grado 4 nei due gruppi
(28% and 27%, rispettivamente) (35).
Gli eventi avversi di grado 3-4 sono stati registrati in particolare nei primi cicli di terapia e nei
pazienti con più di 75 anni e sono consistiti in
trombocitopenia, neutropenia, neuropatia periferica e infezioni (in particolare la riattivazione del
virus dell’herpes zoster per cui si raccomanda una
adeguata profilassi). Dati preliminari sembrano
Il paziente anziano
dimostrare che l’infusione di bortezomib settimanale, invece della classica bisettimanale, permetta di ridurre in maniera consistente la percentuale di neuropatia di grado 3-4 senza ridurre l’efficacia sulla PFS. I dati presentati all’ASH 2008 relativi allo studio italiano di fase III che confronta
VMPT vs VMP hanno infatti dimostrato come la
PFS a 2 anni dei pazienti trattati con il protocollo VMP che prevedeva infusioni di bortezomib settimanali sia del 78% contro il 76% di chi ha ricevuto bortezomib due volte a settimana. La neuropatia periferica di grado 3-4 si è ridotta al 3%
rispetto al 12% osservato con l’infusione bisettimanale (35). Da segnalare come non siano state
rilevate differenze di percentuale di risposta, PFS
e OS a seconda della presenza/assenza di delezione del cromosoma 13 o in base al valore di b2microglobulina (36, 37). Basandoci su questi dati
sembra che il bortezomib annulli l’effetto prognostico negativo conferito dalla delezione del cromosoma 13 e dai livelli di b2-microglobulina, tuttavia sono necessari ulteriori studi su un maggior
numero di pazienti per individuare fattori prognostici affidabili nei pazienti trattati con bortezomib.
Lenalidomide
La lenalidomide è un farmaco analogo della
talidomide ma i risultati iniziali sembrano indicare che sia più efficace e meno tossico della talidomide. L’associazione Lenalidomide, Melphalan,
Prednisone (MPR) è stata valutata in uno studio
di fase I/II condotto presso il nostro Istituto. Sono
stati arruolati 53 pazienti con nuova diagnosi di
mieloma e con una età mediana di 71 anni. Tutti
i pazienti hanno ricevuto aspirina e ciprofloxacina in profilassi. Per valutare sia la sicurezza che
l’efficacia di differenti dosaggi di lenalidomide in
associazione a MP, sono state usate 4 dosi differenti di lenalidomide. È stato osservato come
la massima dose tollerata sia stata 0.18 mg/kg
di melphalan + 10 mg/die di lenalidomide. Il prednisone (2 mg/kg) e il melphalan sono stati somministrati per 4 giorni mentre la lenalidomide per
21 giorni.
La durata del ciclo è stata di 4 settimane. A questo dosaggio, la percentuale di PR è stata del
81% comprensiva di un 48% di VGPR e un 24%
di CR. L’EFS e l’OS a 1 anno sono stati del 92%
e del 100% rispettivamente (38). Questi dati sono
risultati essere migliori dei dati ottenuti in precedenza con il ciclo MPT. Le tossicità di grado 34 hanno riguardato soprattutto tossicità ematologica (in particolare neutropenia e piastrinopenia), rash cutanei, infezioni ed eventi trombotici.
Questi dati hanno permesso di porre la base per
uno studio internazionale randomizzato tuttora in
corso che sta confrontando MP vs MPR come
terapia di induzione seguita da lenalidomide in
mantenimento. Per ora sono disponibili pochi dati
sull’influenza dei fattori prognostici in pazienti che
ricevono lenalidomide. I dati che sono emersi dallo studio Italiano sembrano dimostrare come la
delezione del 13q e la traslocazione t(4;14) non
rappresentino un marcatore prognostico per
pazienti a maggior rischio. Sembra invece che i
pazienti con valori di b2-microglobulina elevati
rimangano una categoria a rischio aumentato
anche se trattati con lenalidomide.
Ruolo del melphalan a dose intermedia
(100 mg/m2)
I pazienti che non sono candidabili al trapianto
sono stati trattati per anni con chemioterapia standard contenente agenti alchilanti. Tuttavia nei
pazienti anziani l’età biologica può in alcuni casi
essere diversa dall’età anagrafica, pertanto può
risultare non semplice definire chi è candidato e
chi no ad un approccio trapiantologico. La partecipazione ad un programma terapeutico che
preveda una fase finale di autotrapianto dovrebbe sempre essere presa in considerazione in
pazienti che non abbiano in anamnesi patologie
gravi a carico di cuore, polmoni, reni o fegato e
l’età anagrafica andrebbe riconsiderata alla luce
dell’età biologica.
Con queste considerazioni, va comunque detto
che un paziente con più di 65 anni dovrebbe essere escluso da un trapianto autologo condizionato con melphalan 200 mg/m2. Tuttavia nella fascia
di età fra 65 e 70 anni, potrebbe essere indicata
una dose intermedia di melphalan. I risultati di uno
studio randomizzato italiano su 194 pazienti con
nuova diagnosi di MM di età fra 50 e 70 anni hanno dimostrato come la chemioterapia con melphalan 100 mg/m2 e l’autotrapianto sia superiore rispetto a 6 cicli di MP (39). I pazienti trattati
con 100 mg/m2 hanno mostrato a 3 anni un
miglior EFS (37% vs 16%, p<0.0001) e OS (77%
55
56
Seminari di Ematologia Oncologica
vs 62%, p=0.0003). Risultati simili si sono avuti
nel sottogruppo di pazienti con età compresa fra
65 e 70 anni.
Altri studi tuttavia non hanno confermato questi
risultati, come ad esempio lo studio francese IFM
99-06 (40). La differenza in tossicità, decessi precoci e uscite dallo studio fra questi due trial supporta l’ipotesi che il melphalan 100 sia tollerato
meglio in pazienti fino a 70 anni, mentre la tossicità diventa inaccettabile al di sopra di tale soglia.
n ALTRE OPZIONI TERAPEUTICHE
Nuovi farmaci associati al Desametasone
1. Talidomide, Desametasone (TD): questa combinazione si è dimostrata efficace in un trial randomizzato che ha confrontato TD vs Dex in 470
pazienti con nuova diagnosi di MM.(41)
L’aggiunta della talidomide al desametasone ha
permesso di aumentare la percentuale di PR
(63% vs 46%, p<0.001) e il tempo medio alla
progressione (22,6 vs 6,5 mesi), ma non di
migliorare la sopravvivenza.
L’aggiunta di talidomide ha determinato anche
una maggiore tossicità di grado 3-4 (79.5% vs
64.2%, p<0.001). Il confronto di TD vs MP su
274 pazienti anziani con nuova diagnosi di MM
ha mostrato una maggior percentuale di PR nel
braccio TD (68% vs 51%, p=0.0044), una PFS
simile ma un’OS significativamente più corta nel
gruppo trattato con TD. Inoltre il gruppo con TD
ha avuto maggior tossicità neuropatica mentre
il gruppo MP ha avuto maggiore neutropenia di
grado 3-4 (42).
2. Bortezomib, Desametasone (VD): in uno studio non randomizzato, 32 pazienti alla diagnosi
sono stati trattati con solo bortezomib e a chi non
ha raggiunto almeno la PR dopo 2 cicli o la CR
dopo 4 cicli è stato aggiunto in terapia il desametasone (43). Le risposte superiori alla PR sono
state 88%, con 6% di RC e 19% di nCR. Dieci
pazienti hanno ricevuto solo bortezomib mentre
in 22 è stato aggiunto desametasone con un
miglioramento della risposta in 15 di essi. Con
una mediana di 5.5 mesi, la OS stimata a 1 anno
è del 87% (43). L’attività del bortezomib in induzione è stata anche dimostrata in altri 2 studi di
fase II con una CR+nCR del 21-59% (44, 45).
3. Lenalidomide, Desametasone (RD): Il Southwest Oncology Group (SWOG) ha condotto uno
studio randomizzato in doppio cieco (studio
S0232) che ha arruolato 198 nuove diagnosi di
MM randomizzandole in due bracci: alte dosi di
RD (PFS stimata a 1 anno del 77%) vs solo Dex
(PFS stimata a 1 anno 55%, p=0.002).
L’aggiunta di lenalidomide ha aumentato anche
le CR (dal 4% al 22%, p=0.001) ma a 1 anno
l’OS è risultata essere paragonabile (93% vs
91%).
Il gruppo trattato con Len+Dex ha avuto una
maggior frequenza di tossicità di grado 3-4, in
particolare neutropenia e infezioni (46). Per ridurre la tossicità dell’associazione RD, uno studio
dell’Eastern Cooperative Oncology Group
(ECOG) ha confrontato Len+alte dosi di Dex (480
mg/mese, considerato lo standard) con
Len+basse dosi di Dex (160 mg/mese) in 445
pazienti con nuova diagnosi di MM (47). Lo studio è stato preventivamente interrotto poiché
l’OS a 1 anno dei pazienti trattati con Len+basse dosi di Dex è risultata più elevata (96% vs
88%, p<0.001) rispetto al gruppo trattato con
Len+alte dosi di Dex.
Nuovi farmaci + Ciclofosfamide
Nel trial Myeloma IX coordinato dal Medical
Research Council, l’associazione di Ciclofosfamide, Talidomide, Desametasone (CTD) è stata
confrontata con lo schema MP in 900 pazienti.
Nel gruppo trattato con CTD si è osservata una
maggior percentuale di PR (82% vs 49%) e di CR
(23% vs 6%) (48). Non sono ancora disponibili i
dati sulla durata di remissione ma se risultassero essere superiori a quelli di MP, il CTD potrebbe essere considerata una alternativa alla terapia
di prima linea nel paziente anziano.
L’associazione Bortezomib, Desametasone,
Ciclofosfamide (BDC) è stata utilizzata in induzione in uno studio di dose finding in pazienti con
nuova diagnosi di MM e i risultati preliminari hanno mostrato una risposta maggiore o uguale alla
PR nell’87% dei pazienti (49).
L’associazione Ciclofosfamide, Desametasone,
Lenalidomide (CRD) è stata valutata su 21
pazienti refrattari/recidivati con età mediana di 59
anni. Si è osservata una risposta (CR+PR) nel 65%
dei pazienti (50).
Il paziente anziano
Nuovi farmaci + Antracicline
Offidani e al. hanno trattato 50 pazienti di età
superiore a 65 anni con uno schema che prevedeva l’associazione di Talidomide, Desametasone,
Doxorubicina liposomiale peghilata (TAD) ottenendo un 88% di risposte superiori o uguali alla PR
(34% CR e 24% VGPR) (51). Con una mediana
di osservazione di 18 mesi, è stata riportata una
EFS del 57% e una OS del 74% a 3 anni. La tossicità è risultata essere soprattutto legata alle infezioni correlate alla neutropenia. Inoltre occorre
porre l’attenzione sulla tossicità cardiaca legata
all’utilizzo della doxorubicina.
Basandosi sui risultati di uno studio di fase III che
ha confrontato Bortezomib vs Bortezomib e
Doxorubicina liposomiale peghilata (PAD) in
pazienti refrattari o in recidiva che ha dimostrato come l’aggiunta della Doxorubicina migliori sia
il TTP che l’OS, la FDA ha recentemente approvato il PAD come trattamento nel paziente recidivato dopo 1 linea di trattamento non comprendente bortezomib (52).
Lo schema Bortezomib, Doxorubicina Peghilata,
Desametasone a basse dosi (PAd) è stato testato su 64 pazienti con MM refrattario o recidivato. Quarantatre pazienti (67%) hanno avuto
almeno una risposta parziale e il 25% di questi
almeno una VGPR. La tossicità di grado 3-4 è
consistita in piastrinopenia (48%), neutropenia
(36%), infezioni (15%) e neuropatia periferica
(10%). Lo studio ha dimostrato come il ciclo PAd
possa essere efficace e avere una tossicità accettabile anche in pazienti con MM refrattario o recidivato (53).
Anche la lenalidomide è stata testata in associazione ad una antraciclina nello schema che prevedeva Lenalidomide, Adriamicina, Desametasone (RAD) e che è stato somministrato a 69
pazienti (età 46-77 anni, mediana 65 anni) con
MM refrattario o recidivato.
L’overall response rate (ORR) è stato del 77% con
74% di CR+VGPR e, come già evidenziato in altri
studi, la presenza della delezione del cromosoma 17 o elevati livelli di b2-microglobulina sono
stati associati ad una percentuale di risposta inferiore. La neutropenia e la piastrinopenia di grado 3-4 sono state osservate nel 48% e nel 38%
per pazienti rispettivamente. Un evento trombotico si è osservato nel 4.5% dei pazienti (54).
Altre combinazioni
Sono stati pubblicati i risultati di uno studio di fase
II con Lenalidomide, Claritromicina, Desametasone (BiRD) come schema di induzione in
pazienti con nuova diagnosi di MM (55). La claritromicina ha delle proprietà immunomodulatorie e sembra incrementare l’efficacia farmacologica dei glucocorticoidi (56, 57). Lo studio ha
arruolato 72 pazienti che hanno ricevuto la combinazione orale di BiRD in cicli da 28 giorni. Su
72 pazienti arruolati, il 90.3% ha avuto una risposta, il 38,9% dei pazienti ha ottenuto una RC e
nel 73.6% dei pazienti si è osservata una riduzione di almeno il 90% del picco monoclonale.
La tossicità maggiore è stata data dal numero di
eventi trombotici, dalla morbilità legata al cortisone e dalla citopenia. Lo schema BiRD si è quindi dimostrato un trattamento con effetti collaterali accettabili per i pazienti con nuova diagnosi
di MM anche se sono necessari ulteriori studi per
valutare l’efficacia del BiRD come terapia di induzione.
Sulla base dei buoni risultati ottenuti dai singoli
nuovi farmaci in associazione allo schema MP,
sono stati messi a punto schemi di chemioterapia che associassero due nuovi farmaci e lo steroide. Un esempio è lo schema Bortezomib,
Talidomide, Desametasone (VTD) che è stato
testato in uno studio di fase I/II su 85 pazienti con
MM in stadio avanzato. Il 79% dei pazienti ha
avuto una risposta, 63 di essi una PR fra i quali un 22% una nCR. Dopo 4 anni dalla terapia il
6% dei pazienti erano event-free e il 23% erano
vivi (58). Anche per l’associazione Bortezomib,
Lenalidomide, Desametasone (VRD) è in corso
uno studio multicentrico di fase II che arruola
pazienti con MM recidivato o refrattario. Sono stati finora arruolati 64 pazienti e l’ORR è dell’86%
comprendente 24% di CR/nCR e 67% di risposte superiori alla PR. Lo studio è tuttora in corso ma ha già permesso di dimostrare come questo schema di terapia sia ben tollerato e possa
essere applicato a pazienti recidivati anche se nelle linee precedenti erano già stati sottoposti a uno
dei farmaci dello schema (59).
Ovviamente i pazienti sono in numero limitato e
occorrerà avere un follow-up maggiore prima di
poter trarre conclusioni definitive sulle associazioni sopra riportate.
57
58
Seminari di Ematologia Oncologica
n RUOLO DELLA TERAPIA
DI MANTENIMENTO
La terapia di mantenimento sembrerebbe aumentare la percentuale di risposta e la EFS in pazienti che hanno ricevuto una terapia di induzione, tuttavia il ruolo della terapia di mantenimento nel MM
è controversa, in particolare nel gruppo di pazienti con più di 65 anni.
In un ampio studio condotto dal gruppo IFM,
pazienti di età inferiore ai 65 anni, dopo essere
stati sottoposti a chemioterapia ad alte dosi e
autotrapianto, sono stati randomizzati in tre bracci di studio: nessun mantenimento, pamidronato oppure pamidronato e talidomide. La EFS a
3 anni dopo la randomizzazione e la OS a 4 anni
sono risultate essere significativamente migliori
nel gruppo che ha ricevuto talidomide.
L’incidenza di eventi trombotici non è risultata
essere differente nei 3 gruppi (60). In un altro studio l’associazione talidomide + prednisone è stata confrontata con il solo prednisone come terapia di mantenimento dopo ASCT: la PFS a 1 anno
è risultata essere 91% vs 69% e la OS a 2 anni
è stata del 90% vs 81% rispettivamente (61). In
entrambi gli studi la neuropatia periferica di grado 3-4 è stata significativamente maggiore nei
pazienti che hanno ricevuto talidomide rispetto
al gruppo di controllo.
Recentemente, pazienti alla diagnosi trattati con
talidomide + desametasone sono poi stati randomizzati ad un doppio ASCT o ad un singolo ASCT
seguito da mantenimento per 6 mesi con talidomide (62). La PFS a 3 anni è stata del 57% nel
braccio con doppio ASCT e del 85% in chi ha fatto un ASCT e mantenimento con talidomide
(p=0.02).
È tuttora in corso uno studio che prevede di confrontare il mantenimento con talidomide 100
mg/die + interferone α 3 MU TIW rispetto al solo
interferone α senza talidomide. Lo studio è
ancora in corso, ma i risultati ottenuti permetteranno di meglio comprendere il ruolo della terapia di mantenimento nel MM (63).
Ulteriori studi sono comunque necessari per
determinare il corretto ruolo della terapia di mantenimento nel MM, in particolare per determinare quale potrà essere il ruolo dei nuovi farmaci, il
dosaggio e la durata del mantenimento (64).
n TERAPIA ALLA RECIDIVA
Nella recidiva di MM le risposte alla terapia sono
decisamente poco durature nel tempo e non vi
sono dati definitivi su quale sia il regime terapeutico migliore (65). La terapia va ripresa quando
ricompaiono i segni e i sintomi del danno d’organo e i criteri CRAB, così come alla diagnosi,
definiscono quando trattare un paziente. Il solo
aumento della percentuale di plasmacellule a livello midollare non giustifica l’inizio della terapia, così
come un lento incremento della componente
monoclonale.
Se la risposta alla terapia precedente è stata
superiore ai 18 mesi e l’ultimo ciclo è stato ben
tollerato, è considerato opportuno sottoporre il
paziente al medesimo trattamento. In alternativa, nel paziente anziano si procede all’uso dei farmaci di nuova generazione che permettono di
ottenere buoni risultati sia in termini di risposta
sia di intervallo libero da malattia. I regimi terapeutici più utilizzati prevedono l’uso dei corticosteroidi in associazione a talidomide, lenalidomide o bortezomib. Eventualmente, al fine di incrementare il tasso di risposta pur tenendo in considerazione la maggior tossicità, è possibile
aggiungere una antraciclina alle combinazioni
suddette.
n TRATTAMENTO DEGLI EFFETTI
COLLATERALI INDOTTI DAI NUOVI
FARMACI
Effetti collaterali correlati alla terapia
con talidomide
Come noto la talidomide ha uno spiccato effetto teratogeno, in particolare se somministrata tra
il 27° e il 40° giorno di gestazione, pertanto è del
tutto controindicato assumerla in gravidanza (66).
Gli effetti collaterali più comunemente riscontrati in pazienti che assumono la talidomide sono
la trombosi, la neuropatia periferica, la stipsi e la
sonnolenza. Il rischio di trombosi è basso se si
somministra la talidomide come singolo agente,
ma aumenta al 12-26% se associata al desametasone e raggiunge il 28% se associata ad un
chemioterapico come ad esempio la doxorubicina.
Il paziente anziano
Il rischio di trombosi risulta particolarmente elevato nei primi 4-6 mesi di terapia. Al momento
si raccomanda di utilizzare una profilassi antitrombotica anche se non vi sono dati che dimostrino la superiorità di un trattamento rispetto ad un
altro quindi è possibile somministrare eparina a
basso peso molecolare, warfarin o aspirina (67).
L’incidenza della neuropatia periferica dopo
terapia prolungata (più di 6 mesi) con talidomide è di circa il 70% e sono da considerarsi fattori di rischio la dose di farmaco, la durata del
trattamento, una pre-esistente neuropatia e
l’età. Per ridurre il rischio di neuropatia, occorrerebbe eseguire una valutazione neurologica prima di iniziare il farmaco. Inoltre in presenza di una
tossicità neurologica di grado 2 o superiore si
deve ridurre la dose del farmaco e la durata totale della terapia non dovrebbe in ogni caso superare i 6 mesi (68).
Effetti collaterali correlati alla terapia
con bortezomib
Gli eventi collaterali più comuni della terapia con
bortezomib sono la piastrinopenia, le infezioni e
la neuropatia periferica. La piastrinopenia è transitoria ed è più frequente nei pazienti già piastrinopenici prima di iniziare il trattamento (69). È inoltre stata osservata una maggior incidenza di infezioni, in particolare di riattivazioni del virus herpes zoster, in pazienti trattati con bortezomib
associato a chemioterapia ed è quindi altamente raccomandata una profilassi antivirale in
pazienti con anamnesi positiva per infezioni
erpetiche (70).
La neuropatia periferica colpisce circa il 35% dei
pazienti e il rischio aumenta durante i primi cicli
di bortezomib per poi stabilizzarsi. La neuropatia è più frequente nei pazienti che hanno in precedenza ricevuto terapie neurotossiche (71). Le
indicazioni attuali nella gestione della neuropatia
suggeriscono una riduzione della dose commisurata alla severità dei sintomi, fino alla sospensione del bortezomib che di solito risolve la neuropatia.
Effetti collaterali correlati alla terapia
con lenalidomide
La tossicità più importante legata all’uso della
lenalidomide è costituita dalla mielosoppressio-
ne (in particolare neutropenia e piastrinopenia) e
dal rischio trombotico.
L’incidenza delle trombosi in pazienti recidivati
che vengono trattati con lenalidomide e desametasone varia dall’8 al 18% (67). In assenza di studi clinici randomizzati controllati non è possibile suggerire una raccomandazione definitiva.
Tuttavia basandosi su trials di piccole dimensioni non controllati si potrebbe considerare l’aspirina un’opzione adeguata nei pazienti a basso
rischio di TVP (trombosi venosa profonda) e una
dose preventiva di eparina nei pazienti con alto
rischio di TVP (72).
n CONCLUSIONI
Circa l’80% dei pazienti con MM non sono candidabili ad una chemioterapia ad alte dosi e autotrapianto a causa dell’età avanzata o delle
comorbilità. L’outcome di questi pazienti è rimasto pressoché invariato dal 1960, quando è stata introdotta la terapia con MP, fino a pochi anni
fa quando sono stati introdotti in terapia nuovi farmaci.
Studi recenti hanno dimostrato come la combinazione dei nuovi farmaci con la chemioterapia
convenzionale migliori l’outcome dei pazienti che
non sono eleggibili ad un trattamento con autotrapianto. Da questi studi appare evidente che il
ciclo MPT è da considerarsi oggi lo standard of
care nella terapia del paziente anziano visti i risultati ottenuti da quattro studi randomizzati controllati che hanno mostrato una migliore e più rapida risposta alla terapia e un aumentato PFS rispetto al ciclo MP.
Anche lo schema VMP ha dimostrato di essere
superiore all’MP in uno studio randomizzato e nei
prossimi mesi diventerà una alternativa al MPT.
Sono ancora in corso studi per valutare l’efficacia e la tossicità del ciclo MPR che al momento
rimane una opzione proponibile solo all’interno di
uno studio clinico.
I dati fino ad ora ottenuti sembrerebbero mostrare che il ciclo MPR ha una minor tossicità pur
mantenendo i risultati ottenuti con MPT. Al contrario VMP sembrerebbe essere più efficace permettendo di ottenere una maggior percentuale di
CR, ma al tempo stesso potrebbe essere grava-
59
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Seminari di Ematologia Oncologica
to da maggior tossicità. La terapia con melphalan 100 mg/m2 e autotrapianto rimane una possibilità terapeutica anche nel paziente sopra i 65
anni anche se con le limitazioni riportate in precedenza. In ogni caso appare chiaro come
quando il melphalan è escluso dallo schema terapeutico come nei cicli TD o RD, si osserva una
ridotta PFS. Le complicanze più frequenti legate
all’introduzione della talidomide in terapia sono
costituite dalle trombosi venose profonde, dalla
neuropatia periferica e dalla tossicità cardiaca.
La neutropenia e la trombosi sono effetti collaterali tipici della terapia con lenalidomide, mentre
la piastrinopenia e la neuropatia periferica sono
di comune riscontro in chi è sottoposto a chemioterapia con bortezomib. Gli effetti collaterali
osservati con l’introduzione dei nuovi farmaci possono essere in parte superati con la riduzione della dose del farmaco.
Anche il ruolo dei fattori prognostici è stato in parte rivoluzionato. I fattori prognostici universalmente accettati sono la classificazione ISS e le alterazioni citogenetiche. La delezione del cromosoma 13 e 17, le traslocazioni t(4:14) e t(4:16) sono
considerate fattori prognostici negativi. Tuttavia in
pazienti trattati con MPT non sono state osservate differenze in OS in base al valore di b2-microglobulina.
Nei pazienti trattati con VMP ed in un gruppo
meno numeroso di pazienti trattati con MPR, la
presenza o l’assenza della delezione del cromosoma 13 o della traslocazione t(4:14) non modifica l’EFS. I differenti effetti collaterali e il ruolo dei
fattori prognostici nei diversi protocolli di trattamento potranno suggerire la scelta della terapia
più adatta al singolo paziente. Ad esempio la presenza di una neuropatia periferica pre-esistente
o una anamnesi positiva per patologie cardiologiche può indirizzare la scelta verso una terapia
con lenalidomide, mentre un pregresso episodio
di trombosi può far propendere maggiormente per
una terapia con bortezomib.
La presenza di alterazioni citogenetiche suggerirà una terapia con lenalidomide o bortezomib
mentre in presenza di alti livelli di b2-microglobulina si preferirà un trattamento che preveda la talidomide. Il ruolo della terapia di mantenimento
dopo la fase di induzione risulta tuttora in corso
di discussione, in particolare per i pazienti che non
sono sottoposti a chemioterapia ad alte dosi e
autotrapianto.
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63
65
Complicanze: aspetti
clinici e terapeutici
MARIA TERESA PETRUCCI, ANNA LEVI, FABIANA GENTILINI
Divisione Universitaria di Ematologia,
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia,
“La Sapienza” Università di Roma
n INTRODUZIONE
Il mieloma multiplo (MM) è una malattia eterogenea che può essere caratterizzata fin dal
momento della diagnosi dalla compromissione
di diversi organi (Tabella 1) come riportato in un
lavoro del gruppo della Mayo Clinic (1) in cui viene analizzata una vasta casistica. Pazienti affetti da MM presentano nel 97% dei casi una componente monoclonale (CM) nel siero e/o nelle urine che è prodotta da plasmacellule le quali in
circa il 96% dei casi sono presenti a livello del
midollo osseo. A questo livello, le stesse plasmacellule possono contribuire a determinare una
alterata attività degli osteoblasti ed osteoclasti
tanto da essere causa di compromissione ossea
che può variare da osteoporosi a lesioni osteolitiche fino a fratture patologiche, con conseguenti dolori ossei riferiti dal 66% dei pazienti e che
nei casi di malattia più avanzata può essere causa di ipercalcemia.
La infiltrazione midollare può essere motivo
anche di anemia, con il 73% dei pazienti che presenta una Hb <12 g/dl, e di neutropenia e/o piastrinopenia nel 15% dei casi. Abbastanza frequente può essere il riscontro di una compromissione renale mentre sintomi neurologici, perdita di
Maria Teresa Petrucci
Componente monoclonale (CM) nel siero e/o urine (97%)
Infiltrazione plasmacellulare (96%)
Lesioni osteolitiche, fratture, osteoporosi (79%)
Anemia (Hb <12 g/dl) (73%)
Dolori ossei (66%)
Affaticamento (32%)
Insufficienza renale, creatinina sierica ≥2.0 mg/dl (19%)
Infezioni/sanguinamenti (<15%)
Ipercalcemia >11 mg/dl (13%)
Perdita di peso (12%)
Sintomi neurologici (5%)
“Febbre da tumore” (<1%)
TABELLA 1 - Sintomi alla diagnosi.
peso e febbre da malattia viene riportata in una
più bassa percentuale di pazienti. Molto importante nella pratica clinica è la conoscenza delle
possibili complicanze della malattia in modo da
poterle affrontare dal punto di vista terapeutico,
complicanze che oltre ad essere dovute alla malattia possono insorgere anche come conseguenza dei trattamenti specifici eseguiti nei pazienti.
Sarà necessario tener ben presente la possibile
insorgenza di alterazioni metaboliche, tra queste
la più comune è l’ipercalcemia, di alterazioni neurologiche, come le compressioni midollari, di insufficienza renale, di infezioni e di iperviscosità.
Parole chiave: lesioni ossee, insufficienza renale, ipercalcemia, trombosi, iperviscosità.
Indirizzo per la corrispondenza
n COMPLICANZE DOVUTE ALLA
COMPONENTE MONOCLONALE
Dott.ssa Maria Teresa Petrucci
Via Benevento, 6
00161 Roma
e-mail: [email protected]
La sindrome da iperviscosità comprende un gruppo di disordini nei quali il flusso ematico è ridotto per le alterate caratteristiche delle componen-
66
Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 1 - Sintomi legati
alla componente
monoclonale.
ti ematiche sia cellulari che proteiche (2). Nel caso
del MM è proprio la presenza della CM a livello
del siero che può essere causa di diverse problematiche (Figura 1) come appunto l’aumento
della viscosità ematica.
L’aumentata viscosità ematica induce una riduzione della velocità del flusso sanguigno a livello tissutale dove è possibile avere una diminuzione dell’apporto dell’ossigeno e del nutrimento con conseguenti segni e sintomi quali astenia, anoressia, mal di testa, vertigini, prurito,
emorragie microvascolari soprattutto del tubo
gastroenterico, alterazioni del visus, sintomi
neurologici ed insufficienza cardiaca acuta (3). Le
emorragie che interessano soprattutto il microcircolo sono dovute alla più alta viscosità del sangue soprattutto nei vasi di diametro più piccolo
nei distretti in cui la rete vascolare è più sviluppata.
Generalmente la CM riduce anche la plasticità delle emazie che si impilano formando dei
“rouleaux” cosa che contribuisce all’aumento
della viscosità. I sintomi da iperviscosità vengono riportati nel 2-3% dei pazienti con MM
e nel 10-20% dei casi con Macroglobulinemia
di Waldenstrom (4).
FIGURA 2 - Fondo oculare.
Complicanze: aspetti clinici e terapeutici
I sintomi da iperviscosità, però, risultano essere
più comuni nel MM considerando la sua più alta
incidenza. L’iperviscosità può essere facilmente
diagnosticata con l’esame del fondo oculare
(Figura 2) mentre la sua misurazione non è indicativa della gravità della malattia non correlando necessariamente con il quantitativo della CM
(2), ma dipendendo anche dalla sua struttura.
Infatti nei casi di iperviscosità, il quantitativo della IgM (pentamero) può essere inferiore rispetto
a quello necessario per le IgA (dimero) e per le
IgG (monomero).
Molto discutibile è l’opportunità di eseguire la plasmaferesi nell’ottica di rimuovere la CM sierica,
procedura che viene indicata, anche se sempre
più raramente, soltanto nei pazienti in anuria con
importante sintomatologia (5, 6) e che deve essere comunque seguita immediatamente dalla
terapia citoriduttiva nell’ottica di contenere l’ulteriore produzione della CM. In questi casi, considerando che l’anemia può ridurre la viscosità
ematica, le emotrasfusioni devono essere evitate quando possibile. La CM è in grado di precipitare a livello degli organi e di dare così origine
a depositi di fibrille di amiloide (7) e quindi all’amiloidosi primaria o secondaria.
Quando il deposito avviene a livello renale il danno può essere glomerulare e/o tubulare con conseguente insufficienza renale cronica, quando a
livello cardiaco si assiste ad un ispessimento delle pareti cardiache soprattutto del setto interventricolare con grave scompenso.
La deposizione dell’amiloide a livello vascolare
è causa di fragilità dei vasi e di emorragie cutanee soprattutto nelle regioni periorbitali ed intestinali (8). Le fibrille di amiloide, oltre ad avere una
azione diretta sui vasi contribuiscono alle manifestazioni emorragiche di alcuni pazienti, grazie
ad una loro capacità di assorbire i fattori della
coagulazione causandone un deficit, soprattutto del fattore X (9).
Raramente la CM precipita a temperature basse soprattutto nel microcircolo, in questo caso
si parlerà di crioglobulinemia che può determinare ischemie o infarti delle estremità. Inoltre,
anche se ancor più raramente, è possibile avere la sindrome di Henoch-Schönlein (HSP) la cui
eziopatogenesi è dovuta alla deposizione tissutale di immunocomplessi contenenti IgA che atti-
vano il complemento con conseguente danno
vascolare. I sintomi (porpora delle estremità, artrite, dolori addominali, nefrite con proteinuria), che
sono molto simili alla più frequente HPS dei bambini, possono risolversi con la terapia specifica
per il MM (10, 11).
n COMPLICANZE DOVUTE
ALL’INFILTRAZIONE DELLE
PLASMACELLULARE A LIVELLO
MIDOLLARE
L’infiltrazione midollare da parte delle plasmacellule può essere causa di riduzione dei precursori delle cellule normali e quindi a livello del sangue periferico è possibile avere anemia, neutropenia e piastrinopenia con i conseguenti sintomi
(Figura 3). Tuttavia, queste pancitopenie possono essere dovute o aggravate anche da altri fattori come le stesse chemioterapie.
Anemia: La eziopatogenesi dell’anemia, come per
le altre neoplasie, anche nel MM è considerata
multifattoriale (Figura 4) essendo dovuta infatti oltre
che alla infiltrazione midollare anche alla possibile emodiluizione, alla insufficienza renale, alla
carenza di fattori quali vitamina B12, acido folico e ferro. Può dipendere dall’alterato metabolismo del ferro, dai possibili sanguinamenti e più
raramente dall’emolisi.
Nella pratica clinica questo segno diventa ancora più importante per i pazienti con MM essendo l’anemia uno degli elementi del CRAB (Figura
5) che impongono l’inizio del trattamento specifico. Molto importante, quindi, sarà la valutazione della possibile causa dell’anemia proprio per
intervenire nel modo più appropriato possibile evitando di iniziare terapie specifiche a causa dell’anemia che può, al contrario, dipendere da tutti questi altri fattori.
Si valuterà quindi l’opportunità di eseguire emotrasfusioni, da evitare in caso di emodiluizioni in
presenza cioè di una “falsa” anemia, di somministrare ferro e/o vitamine in caso di anemia carenziale, di eseguire eritropoietina soprattutto nei casi
con insufficienza renale, di intervenire sulle possibili perdite ematiche (12). Tutto questo viene eseguito indipendentemente dalla scelta terapeutica
specifica per la neoplasia ematologica su cui non
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68
Seminari di Ematologia Oncologica
FIGURA 3 - Sintomi legati
alla infiltrazione midollare.
incide la possibile presenza di anemia che tuttavia quando legata alla malattia si risolve nella maggior parte dei pazienti rispondenti alle terapie specifiche. Con uno studio randomizzato è stato
dimostrato che l’uso di eritropoietina migliora
l’anemia nel 65% dei pazienti anche in assenza
di insufficienza renale (13). Il miglioramento dell’anemia risulta anche in un significativo miglioramento della qualità di vita (14). Inoltre, vengo-
no riportati dei dati preliminari riguardo il miglioramento della sopravvivenza dei pazienti con
malattia avanzata attribuita alla capacità dell’eritropoietina di migliorare i meccanismi immuni antimieloma (15, 16). Quando l’emoglobina raggiunge i 12 g/dl, l’eritropoietina deve essere sospesa
o ridotta ad una dose di mantenimento in considerazione dei possibili eventi avversi (trombosi) per
valore superiori a 13 g/dl. Tali eventi sono riporFIGURA 4 - Eziologia
multifattoriale dell’anemia
nel paziente con MM.
Complicanze: aspetti clinici e terapeutici
FIGURA 5 - Definizione
di MM.
tati nel 15-20% dei casi in cui l’eritropoietina viene associata a farmaci quali lenalidomide o alte
dosi di cortisone (17).
Neutropenia: Può dipendere dalla sostituzione
midollare o dalla tossicità dei trattamenti chemioterapici, e quando associata ai deficit immunologici, dovuti alla presenza della immunoglobulina patologica a discapito delle immunoglobuline
normali, può essere causa di infezioni che in genere colpiscono l’apparato respiratorio e/o quello urinario. Le infezioni nei pazienti con MM sono la
principale causa di morbilità, nel 15% dei casi
sono il primo segno di malattia e sono maggiormente a rischio i pazienti durante i primi due mesi
di trattamento, quelli con insufficienza renale e
quelli con malattia attiva rispetto alla malattia stabile (18). Disfunzione leucocitaria (opsonizzazione, adesione e migrazione) e disfunzione linfocitaria (19) (alterato rapporto CD4/CD8, gamma/delta, NK/citotossicità) sono da tenere presenti come
ulteriore causa di insorgenza di infezioni.
Quindi pazienti febbrili devono essere attentamente valutati con emocolture, appropriate indagini
radiologiche e trattati con terapia antibiotica. La
febbre è un segno raro di malattia nel MM, e quindi quando presente bisogna subito pensare ad
una eziologia infettiva. Importante soprattutto nei
pazienti a rischio provvedere ad una profilassi che
in genere consiste in una terapia antibiotica per
via orale (20). Tale indicazione è il risultato di quan-
to ottenuto prima con un limitato studio randomizzato (21), eseguito in 57 pazienti con MM alla
diagnosi, in cui è stato dimostrato che l’uso in profilassi del sulfametoxazolo+trimetoprim verso il
placebo dà beneficio quando utilizzato nei primi
2 cicli di terapia, e successivamente con un più
largo studio di fase III in cui i pazienti venivano
osservati o trattati con sulfametoxazolo+trimetoprim o con chinolone (22).
La polmonite da Pneumocystis carini è al contrario una infezione che si manifesta raramente anche
nei pazienti con MM trattati con alte dosi di cortisone. In caso di documentate ricorrenti infezioni batteriche e ipogammaglobulinemia è necessario considerare anche l’opportunità di somministrare immunoglobuline (23) per via endovenosa, mentre la terapia antifungina in genere non viene eseguita se non per i pazienti sottoposti a procedure trapiantologiche.
Come detto i pazienti con MM presentano una
alterata immunità cellulo-mediata che, senza profilassi, nel 20% dei casi può risultare in una infezione da herpes zoster. Questo è particolarmente vero per i pazienti trattati con bortezomib, dove
l’incidenza riportata è del 30% dei casi (24), e per
i quali deve essere considerata la profilassi antivirale con aciclovir o analoghi. Per quanto riguarda le vaccinazioni, discutibile è la loro efficacia
considerando la variabilità delle risposte per cui
questo rimane un campo tutto da esplorare. Non
69
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Seminari di Ematologia Oncologica
esistono, tuttavia, controindicazioni mediche e
quindi numerosi pazienti nella pratica clinica ricevono annualmente i vaccini antinfluenzali e generalmente una singola dose di vaccino antipneumococco (25, 26), mentre il vaccino antivaricella
non viene raccomandato trattandosi di un vaccino con virus attenuato.
Piastrinopenia: La riduzione del numero delle piastrine dovuta ad infiltrazione midollare e ad uso
di chemioterapia, di bortezomib o di lenalidomide, assieme ad alterazioni della coagulazione,
possono essere causa di sanguinamenti sia della cute che delle mucose.
Si possono avere manifestazioni emorragiche
anche per interferenza della CM con i fattori della coagulazione (9) e delle membrane piastriniche
(27). Possibili sanguinamenti spontanei o dopo
procedure invasive a livello delle mucose possono essere attribuiti anche ad un deficit acquisito
del fattore di von Willebrand (VWF) probabilmente dovuto a:
1. formazione di complessi immuni formati da
VWF-autoanticorpi capaci di neutralizzare l’attività del VWF o favorirne l’eliminazione attraverso il reticolo endoteliale;
2. assorbimento del VWF direttamente da parte
delle cellule maligne su cui sarebbero presenti i suoi recettori;
3. aumento della proteolisi del VWF;
4. riduzione della sintesi VWF (28-30).
Per quanto riguarda questa particolare situazio-
ne, al momento non c’è ancora consenso su quello che potrebbe essere il trattamento specifico.
La terapia quindi sarà sicuramente sintomatica;
si interverrà con trasfusioni piastriniche in caso
di gravi piastrinopenia in presenza di sanguinamenti, con terapia specifica per il mieloma nell’ottica di ridurre la CM e l’infiltrazione midollare,
e con terapia cortisonica che in genere fa parte
della terapia specifica per la malattia ematologica. Anche la scelta della terapia per il mieloma
potrà dipendere dalla presenza o meno della pancitopenia e dalla sua causa. In caso di pancitopenie da chemioterapici sicuramente sarà indicata una riduzione della posologia dei farmaci somministrati, mentre in caso di sostituzione midollare si prenderà in considerazione l’opportunità di
eseguire dosaggi pieni proprio nell’ottica di agire sulle cellule patologiche, in questo caso le plasmacellule, e fare spazio ai precursori delle cellule normali.
La presenza della neutropenia e piastrinopenia al
contrario di quanto succede in presenza di anemia potrebbe influenzare la scelta della terapia
specifica soprattutto nell’era dei nuovi farmaci
quali la talidomide, il suo derivato, la lenalidomide, e il bortezomib. Questi farmaci hanno infatti
una diversa modalità di azione sul midollo (Tabella
2). La lenalidomide risulta tossica sul midollo, causando soprattutto neutropenia, al contrario della
talidomide e del bortezomib (31-35). Quest’ultimo
è causa soprattutto di piastrinopenia dovuta ad
Talidomide
Bortezomib
Lenalidomide
No tossicità midollare
No tossicità midollare
Tossicità midollare
Anemia
- Rara
Anemia
- Grado 3/4 - 10%
Anemia
- Grado 3/4 - 13%
Trombocitopenia
- Non comune
Trombocitopenia2
- Non comune 35%
- Grado 3/4 - 29%
- Recupero del numero di piastrine
nei 10 giorni di riposo
Trombocitopenia
- Grado 3/4 - 14.7%
Neutropenia
- Grado 1/2 - 15-25%
Neutropenia
- Tutti i gradi 19%
- Grado ¾ - 14%
- Riduzione transitoria dei neutrofili
con rapido recupero
Neutropenia
- Grado 3/4 - 41%
- Necessità del fattore di crescita
nel 33.9%
TABELLA 2 - Tossicità ematologica.
Complicanze: aspetti clinici e terapeutici
un alterato rilascio dei trombociti da parte dei
megacariociti più che ad una tossicità midollare,
cosa che spiega il rapido recupero con la
sospensione del trattamento.
n COMPLICANZE DOVUTE
ALLA INSUFFICIENZA RENALE
L’insufficienza renale può dipendere da vari fattori e generalmente si manifesta con valori della creatinina <4 mg/dl. Il 2-15% dei pazienti può
richiedere un trattamento dialitico; nel 40-60% dei
casi si ottiene una buona risposta al trattamento chemioterapico. Nel caso di nefropatia tubulare (rene da mieloma) il danno è causato dalla
escrezione/filtrazione delle catene leggere che a
livello del tubulo distale possono precipitare e formare dei veri e propri corpi eosinofili costituiti dalle catene leggere circondate da cellule giganti
multinucleate. Il grado di severità della insufficienza renale dipenderà soprattutto dalle caratteristiche biochimiche dei precipitati piuttosto che dal
loro numero. Il deposito delle immunoglobuline
a livello glomerulare può essere causa di depositi di amiloide cioè di fibrille costituite da catene leggere che si depositano a livello delle membrane basali. In questo caso sono per lo più catene leggere di tipo λ, risultano positive alla colorazione con il rosso Congo, causano sindrome
nefrosica e il valore della creatinina può essere
anche normale. Nella malattia da deposito della
catena leggera o della CM generalmente la catena interessata è la k, la colorazione con il rosso
Congo risulta negativa, quindi non si tratta di fibrille, la possibile sindrome nefrosica è dovuta al
coinvolgimento glomerulare, i livelli di creatinina
generalmente sono aumentati ed è possibile il
coinvolgimento di altri organi quali il cuore e il
fegato. Altra causa di danno renale è la sindrome acquisita di Fanconi, caratterizzata dalla presenza di inclusioni cristalline dovute a incomplete catene leggere k a livello del tubulo prossimale, con una incapacità di riassorbimento da parte dello stesso e conseguente glicosuria, aminoaciduria, ipouricemia, ipofosfatemia, osteoporosi,
dolori ossei e insufficienza renale moderata. La
disidratazione, le infezioni, l’uso di farmaci nefrotossici quali antibiotici, gli antinfiammatori non
steroidei (FANS) usati per i dolori, l’ipercalcemia,
la stessa chemioterapia possono essere causa
di alterata funzione renale.
L’approccio al paziente con MM a rischio di sviluppare una insufficienza renale sarà di evitare le
cause scatenanti e quindi si dovrà consigliare di
bere almeno 2 litri di acqua al giorno, evitando
l’uso dei FANS e la disidratazione, l’ipercalcemia
e l’iperuricemia (36). Nel 20-60% dei casi è possibile parlare di reversibilità della insufficienza renale, che sicuramente è più probabile (50% dei casi)
se il valore della creatinina è <4 mg/dl, la proteinuria delle 24 ore è <1 g e i livelli di calcio sono
<11.5 mg/dl, mentre più difficile (meno del 10%
dei casi) sarà il recupero della funzionalità renale nei pazienti in dialisi, recupero che sarà rarissimo nel caso di pazienti dializzati da più di 4 mesi.
Di fronte ad un paziente che è in insufficienza
renale la prima cosa da fare sarà forzare la diuresi, idratarlo con soluzioni che permetteranno di
alcalinizzare le urine, nell’ottica di evitare la formazione di ulteriori precipitati, ed intervenire con
la terapia cortisonica, unico approccio terapeu-
Funzionalità renale (CLcr)
Aggiustamenti della dose
Lieve insufficienza renale (CLcr>50 ml/min)
25 mg una volta al giorno (dose completa)
Moderata insufficienza renale (30<CLcr>50 ml/min)
10 mg una volta al giorno*
Grave insufficienza renale (CLcr<30 ml/min senza
necessità di dialisi)
15 mg a giorni alterni**
Malattia renale allo stadio finale (ESRD)
(CLcr<30 ml/min con necessità di dialisi)
5 mg una volta al giorno. Nei giorni di dialisi la dose
deve essere somministrata dopo la dialisi
*La dose può essere aumentata a 15 mg una volta al giorno dopo 2 cicli qualora il paziente non risponda al trattamento ma tolleri il medicinale.
**La dose può essere aumentata a 10 mg una volta al giorno se il paziente tollera il medicinale.
TABELLA 3 - Aggiustamenti della dose di lenalidomide nei pazienti con funzionalità renale alterata.
71
72
Seminari di Ematologia Oncologica
tico che si utilizza inizialmente rinviando l’inserimento della chemioterapia ad una fase successiva. In caso di persistenza dell’insufficienza renale, sarà necessario valutare l’opportunità di iniziare i trattamenti specifici per la malattia ematologica, con l’attenzione di ridurre i dosaggi di farmaci quali gli alchilanti che vengono escreti dal
rene e la cui concentrazione può aumentare a livello ematico causando di per sè tossicità midollari con conseguenti pancitopenie. La scelta del trattamento specifico si farà tenendo presente il metabolismo dei farmaci utilizzati (37, 38).
Nessun problema per farmaci quali antracicline,
bortezomib, talidomide e le stesse procedure utilizzate per il trapianto delle cellule staminali, mentre sarà necessario ridurre (Tabella 3) il dosaggio
della lenalidomide (39). Come già ripetutamente
detto, la conoscenza delle complicanze dovute alla
malattia o come conseguenza delle terapie utilizzate è necessaria proprio per evitare l’insorgenza
di problematiche che è possibile prevenire.
n COMPLICANZE DOVUTE
ALLA COMPROMISSIONE
DELL’APPARATO SCHELETRICO
Il 35% dei pazienti affetti da MM al momento della diagnosi presenta una compromissione ossea
che può variare da osteoporosi, a lesioni osteo-
litiche fino a fratture patologiche con compromissione anche neurologiche e metaboliche (Figura
6). Tale complicanza può insorgere anche durante le fasi successive della malattia per interessare una percentuale maggiore di pazienti, ad esempio nella fase di recidiva di malattia.
Generalmente, comunque, la compromissione
ossea è presente nel 75% dei casi se si considera l’osteopenia, l’osteolisi e le fratture patologiche con il 58% di fratture vertebrali (40). Lo sviluppo delle lesioni osteolitiche nel MM è secondario al riassorbimento osseo dovuto all’aumentata attività degli osteoclasti accompagnata da
una ridotta funzione degli osteoblasti. Al momento uno dei campi di ricerca per il MM è proprio
lo studio dei meccanismi che regolano l’attività
degli osteoclasti e degli osteoblasti così come la
identificazione di target terapeutici per prevenire e trattare le lesioni osteolitiche (41).
Nell’eziopatogenesi del rimaneggiamento osseo
un ruolo molto importante è riconosciuto a citochine ed ormoni che regolano il rapporto tra il
ligando di RANK e la osteoprotogerina (OPG).
L’alterazione del rapporto RANK ligando/OPG
causa l’aumento del riassorbimento osseo (4244). Tale meccanismo deve essere tenuto ben
presente considerando la possibilità di affiancare alle terapie tradizionali (chemioterapia, radioterapia, chirurgia e terapia del dolore) anche nuovi farmaci quali inibitori degli osteoclasti (bisfo-
FIGURA 6 - Sintomi legati al
riassorbimento osseo.
Complicanze: aspetti clinici e terapeutici
sfonati, inibitori di RANKL, inibitori della prenilazione e inibitori del proteasoma) e stimolatori degli
osteoblasti (osteoproteine morfogeniche, statine,
anticorpi monoclonali anti-PTHrP, antagonisti della V3 integrine). Tra questi i bisfosfonati sono sicuramente farmaci entrati nell’armamentario terapeutico dei pazienti affetti da MM (45). È stato
dimostrato che questi farmaci sono in grado di
ridurre le complicazioni scheletriche e migliorare la qualità di vita (46).
Ne esistono di varie generazioni, l’ultimo dei quali l’acido zoledronico, di gran lunga più attivo degli
altri, e ad esso vengono riconosciuti numerosi
meccanismi d’azione quali azione, anti-proliferativa, induzione dell’apoptosi, sinergia di apoptosi con trattamenti anti-neoplastici, inibizione
dell’angiogenesi, inibizione del rilascio di citochine e fattori di crescita dal microambiente osseo,
inibizione dell’adesività all’osso e inibizione del
potenziale di invasività ossea. In considerazione
di questi meccanismi di azione, questo farmaco
è stato utilizzato anche nei casi di mieloma smoldering, quindi in pazienti che non necessitano di
trattamenti chemioterapici, nell’ottica di valutare una loro efficacia in termine di evoluzione di
malattia (47). I bisfosfonati sono farmaci somministrati per via endovenosa una volta al mese, ma
il cui uso prolungato può essere causa di sindrome nefrosica, insufficienza renale, ipocalcemia e
osteonecrosi della mandibola (ONJ) (48, 49).
Recentemente è stato riportato che l’incidenza
della ONJ è associata all’uso prolungato dei bifosfonati (>1 anno) e soprattutto si sviluppa utilizzando l’acido zoledronico, più che il pamidronato (50, 51).
Tali possibili complicanze richiedono sicuramente una particolare attenzione nella somministrazione dei bisfosfonati proprio nell’ottica di evitare inappropriate riduzioni o interruzioni di un farmaco di indubbia efficacia per i pazienti con MM
soprattutto con compromissione ossea. Come
detto, l’insufficienza renale interessa già i pazienti con MM e quindi è fondamentale tenere presente questa problematica prima di inserire i
bisfosfonati in terapia; sarà necessario valutare
il valore della clearance della creatinina e provvedere alle appropriate riduzioni di dosi e al prolungamento del tempo di infusione del farmaco
per evitare ulteriori peggioramenti della funziona-
lità renale. Per quanto riguarda l’osteonecrosi della mandibola è questa una problematica insorta
nei pazienti in trattamento con bisfosfonati che
necessitavano di cure del cavo orale eseguite
senza le appropriate precauzioni come uso di
antibiotici fino alla completa risoluzione delle
lesioni delle gengive, o limitazione delle procedure chirurgiche odontoiatriche. Al momento,
sicuramente grazie alla maggiore conoscenza e
alla profilassi che viene eseguita, è possibile continuare ad utilizzare questi farmaci senza indurre una complicanza quale ONJ (52). Alla luce di
queste problematiche, sia la Mayo Clinic (53) che
la Società Americana di Oncologia Clinica (54)
hanno presentato delle linee guida dando indicazioni precise riguardo l’uso dei bisfosfonati.
- La terapia con bisfosfonati al di fuori degli studi clinici non è indicata per pazienti con mieloma smoldering/inattivo.
- Se le radiografie sono negative o mostrano soltanto osteoporosi, non vi è accordo per l’utilizzo dei bisfosfonati.
- La densitometria ossea non è molto utilizzata,
ma potrebbe aiutare nel documentare e quantizzare la osteoporosi diffusa.
- La durata della terapia non dovrebbe superare
i 2 anni.
- Nei pazienti che, con i trattamenti, hanno ottenuto una risposta completa o una risposta quasi completa senza evidenza di attività di malattia a livello osseo, 1 anno di trattamento è considerato ragionevole.
n COMPLICANZE NEUROLOGICHE
Causate generalmente da compressioni dei nervi dovuti a compromissione ossea o formazione
di tessuto molle (plasmocitomi). L’interessamento
può riguardare le radici dei nervi per cui si parlerà di radicolopatie caratterizzate da dolori, riduzione di forza fino alla paralisi. Quando la compressione riguarda la corda midollare, generalmente a
causa di crolli vertebrali, la sintomatologia può
variare da dolore, a paraplegie con possibile perdita della funzione degli sfinteri. Possibili sono
anche le neuropatie periferiche, diagnosticate clinicamente nell’1-13% dei casi, percentuale che
sale al 39% quando viene eseguita la elettromio-
73
74
Seminari di Ematologia Oncologica
Grado I Riduzione del 50% della dose di Talidomide
Grado II Sospensione del trattamento fino a
risoluzione o riduzione della tossicità
al grado I, quindi ripresa della somministrazione
con dosaggio ridotto del 50%
ed intervenire immediatamente con alte dosi di cortisone e radioterapia locale. Più raramente è richiesto un intervento chirurgico.
n COMPLICANZE METABOLICHE
Grado III Interruzione permanente del trattamento
TABELLA 4 - Gestione della neuropatia periferica conseguente
al trattamento con talidomide.
grafia e che possono essere dovute ad una azione demielinizzante da parte della CM, alla iperviscosità o all’azione dei farmaci quali la vincristina, la talidomide e il bortezomib. In caso di neurotossicità iatrogena (55), fondamentale sarà
intervenire tempestivamente con la riduzione dei
dosaggi prima di arrivare ad avere dei danni irreversibili e quindi essere costretti poi alla sospensione inappropriata di farmaci molto attivi (Tabella
4). Nei pazienti in cui le chemioterapia e/o gli analgesici non sono sufficienti per controllare il dolore, sarà necessario prendere in considerazione
l’opportunità di eseguire un trattamento radioterapico localizzato alla zona maggiormente interessata dalla problematica ossea. Molte volte, in caso
di fratture patologiche, è necessario eseguire interventi chirurgici di stabilizzazione delle ossa lunghe
o vertebrali. Per i pazienti con fratture dei corpi vertebrali esistono 2 tecniche utilizzate per stabilizzare la vertebra compromessa e alleviare il dolore: la vertebroplastica (iniezione di cemento nel corpo della vertebra collassata) e la cifoplastica (introduzione di un palloncino nel corpo vertebrale che
una volta gonfiato viene riempito di cemento).
Ambedue le tecniche si sono dimostrate efficaci
nell’85% dei pazienti soprattutto in quelli con frattura vertebrale da <1 anno. La risoluzione del dolore è pressoché immediata, mentre i rischi legati
alla procedura sono minimi e includono raramente infezioni, sanguinamenti o fuoriuscita del
cemento nel canale vertebrale (56). Una vera emergenza è, per i pazienti con MM, la compressione
del midollo spinale da parte di un plasmocitoma,
causa di dolori vertebrali e possibili segni neurologici come formicolii delle estremità, disfunzione
degli sfinteri, riduzione di forza degli arti. Se si
sospetta un tale quadro, sarà necessario eseguire una risonanza magnetica nucleare in urgenza
L’ipercalcemia può essere un segno della malattia, meno frequente della malattia ossea, che
generalmente interessa il 30% dei casi nel corso
della storia della malattia. Negli anni, infatti, grazie alle diagnosi di MM eseguite sempre più precocemente, difficilmente l’ipercalcemia è presente al momento della diagnosi di malattia, mentre
è possibile doverla affrontare nei casi di malattia
più avanzata. La sua patogenesi è dovuta all’accumulo di calcio extracellulare per aumentato riassorbimento osseo e ridotta clearance a causa dell’alterata filtrazione glomerulare. In rapporto al
quantitativo di calcio si parlerà di ipercalcemia lieve (<12 mg/dl) moderata (≥12 <15 mg/dl) e grave (>15 mg/dl) situazioni che varieranno anche dal
punto di vista sintomatologico. Nel primo caso è
possibile non avere sintomatologia, in caso di ipercalcemia moderata è possibile avere astenia,
poliuria e nefrocalcinosi mentre nei casi più gravi è possibile avere sintomi neurologici, gastrointestinali e complicanze cardiovascolari (Figura 7).
La terapia da considerare di emergenza consiste
nel forzare la diuresi con idratazione per via endovenosa, diuretici, terapia cortisonica ad alto
dosaggio e bisfosfonati.
La sindrome della lisi tumorale (TLS) è una problematica che raramente riguarda i pazienti affetti da MM trattati con chemioterapia convenzionale comprendente anche gli alchilanti, ma che
deve essere tenuta presente con l’uso delle nuove molecole in considerazione di quanto riportato in pazienti trattati con bortezomib (57, 58).
Questa differenza può essere spiegata dal fatto
che la chemioterapia agisce soltanto sulle cellule proliferanti, che nel MM sono in percentuale
molto bassa, mentre il bortezomib su tutte le cellule neoplastiche in cui è stato attivato l’NF-kB
(59). Quindi in caso di pazienti, soprattutto con
masse tumorali importanti, sottoposti a terapie che
prevedono l’uso dei nuovi farmaci viene indicata
l’opportunità di idratare il paziente, alcalinizzare
le urine ed inserire farmaci ipouricemizzanti.
Complicanze: aspetti clinici e terapeutici
FIGURA 7 - Ipercalcemia.
n COMPLICANZE TROMBOTICHE
I pazienti con neoplasia hanno un alto rischio di
sviluppare trombosi (60) dovute anche ad immobilizzazione, uso di cateteri venosi centrali, chemioterapia. Nel caso del MM gli eventi tromboembolici hanno cause multifattoriali quali caratteristica trombogenica della patologia in sè probabilmente dovuta alle caratteristiche fisico-chimiche delle CM, uso di alcune terapie, quali talidomide (61), lenalidomide (62), uso di eritropoietina soprattutto in associazione a lenalidomide (63)
o alte dosi di desametasone rispetto alle basse
dosi (64) e possibili altre concause come l’età più
avanzata dei pazienti. In uno studio retrospettivo
condotto negli USA, in cui sono state analizzate
le cartelle di pazienti ricoverati tra il 1980 e 1996,
su 1.000 pazienti è stata riportata una incidenza
di trombosi dello 0.9, 3.1 e 8.7 rispettivamente per
i pazienti anziani senza discrasia plasmacellulare, con MGUS e MM (65). L’osservazione della più
alta incidenza di trombosi anche nelle MGUS sottolinea la possibile caratteristica intrinseca dei
pazienti affetti da queste alterazioni a sviluppare
trombosi (66, 67). Comunemente la più alta incidenza di trombosi si ha nei pazienti con MM alla
diagnosi e durante i primi 4-6 mesi di trattamento. Numerose sono state le strategie di profilassi segnalate per i pazienti con MM che ricevono
farmaci quali talidomide o lenalidomide in combinazione con desametasone e/o chemioterapia
nei quali è riscontrata una più alta incidenza di
trombosi, come ad esempio riportato da Baz et
al. (68), che segnalano una incidenza del 58% di
trombosi nei pazienti trattati alla diagnosi con talidomide, desametasone, doxorubicina liposomiale e vincristina. L’uso di dosi fisse di anticoagulante orale non hanno dato risultati incoraggianti, al contrario delle dosi terapeutiche risultate efficaci, nei pazienti trattati con talidomide, ma che
non sono state testate per i pazienti in terapia con
la lenalidomide.
L’eparina a basso peso molecolare sembra essere efficace come profilassi delle trombosi in associazione a terapie combinate di talidomide, melfalan o ciclofosfamide ma non quando la talidomide è combinata con ciclofosfamide, vincristina, etoposide, doxorubicina, cisplatino e desametasone (69). In attesa, quindi, dei risultati di studi controllati che si prefiggono di valutare quale
profilassi utilizzare, al momento viene consigliato l’uso dell’aspirina per i pazienti con nessuno
o un fattore di rischio per trombosi, e l’eparina a
basso peso molecolare per quelli con più di un
fattore di rischio. Quando necessario l’eparina può
essere sostituita dagli anticoagulanti somministrati a dosaggi terapeutici (70). Nonostante siano
necessari più dati prima di giungere a conclusioni definitive, l’uso del bortezomib in associazione anche con talidomide e lenalidomide non sembrerebbe aumentare l’incidenza di trombosi nei
pazienti in terapia (71, 72), ma addirittura la ridurrebbe, (73) cosa che permetterebbe di non utilizzare la profilassi antitrombotica.
75
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Seminari di Ematologia Oncologica
n CONCLUSIONE
Il MM è una malattia molto complessa che può
essere caratterizzata da numerose complicanze
dovute sia alla patologia stessa che alle terapie
utilizzate. Nel corso degli anni, grazie anche alla
possibilità di eseguire con più facilità lo studio proteico del siero e delle urine, la diagnosi viene eseguita sempre più precocemente cosa che ha portato ad una riduzione del numero dei pazienti che
al momento dell’esordio di malattia si presentano con insufficienza renale o sintomatologie gravi come ipercalcemia o complicanze neurologiche su cui intervenire in emergenza.
Queste problematiche, comunque, devono essere tenute ben presenti perché possono interessare i pazienti nelle fasi più avanzate della malattia e, quando non si prendono le dovute precauzioni, possono aversi come complicazione dei farmaci utilizzati, siano essi chemioterapici standard
o mieloablativi con trapianto di cellule staminali,
o le stesse nuove molecole che sempre più vengono utilizzate per tutte le categorie dei pazienti
con MM. La prognosi di questi pazienti è decisamente migliorata nel corso degli anni, anche se
al momento non è ancora possibile parlare di guarigione. Numerosi sono i progressi che si sono
avuti anche in termine di terapia di supporto, che
permettono di utilizzare al meglio le stesse chemioterapie, anche in pazienti più fragili, contribuendo all’aumento della percentuale di risposte ottenute, all’allungamento della durata di queste risposte e quindi della durata di sopravvivenza.
Miglioramenti, questi, che incidono positivamente
sulla qualità di vita dei pazienti, problematica che
sempre più deve essere presa in considerazione
e tenuta ben presente quando è necessario decidere il trattamento da effettuare. La conoscenza
quindi delle possibili complicanze è fondamentale nella pratica clinica perché, come già ripetutamente detto, permette di prevenirle, o quanto meno
di affrontarle, per evitare ulteriori complicazioni che
possono risultare essere anche fatali.
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