di Ematologia Oncologica - Società Italiana di Ematologia
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Editor in chief Giorgio Lambertenghi Deliliers Anno 6 Numero 1 2009 Seminari di Ematologia Oncologica NEL PROSSIMO NUMERO SINDROMI MIELODISPLASTICHE Il percorso diagnostico • La sindrome 5q- • Le terapie emergenti • Il trapianto di cellule staminali • emopoietiche La qualità di vita • Mieloma multiplo EDIZIONI INTERNAZIONALI srl Edizioni Medico Scientifiche - Pavia Mieloma multiplo Biologia e genetica molecolare 5 Vol. 6 - n. 1 - 2009 Editor in Chief Giorgio Lambertenghi Deliliers ANTONINO NERI Università degli Studi, Milano Il paziente giovane 29 ELENA ZAMAGNI, PATRIZIA TOSI, MICHELE CAVO Editorial Board Sergio Amadori Università degli Studi Tor Vergata, Roma Mario Boccadoro Università degli Studi, Torino Alberto Bosi Università degli Studi, Firenze Federico Caligaris Cappio Università Vita e Salute, Istituto San Raffaele, Milano Il paziente anziano 47 Antonio Cuneo Università degli Studi, Ferrara Marco Gobbi ALBERTO ROCCI, MARIO BOCCADORO, ANTONIO PALUMBO Università degli Studi, Genova Mario Petrini Università degli Studi, Pisa Giovanni Pizzolo Università degli Studi, Verona Giorgina Specchia Complicanze: aspetti clinici e terapeutici MARIA TERESA PETRUCCI, ANNA LEVI, FABIANA GENTILINI Università degli Studi, Bari 65 Direttore Responsabile Paolo E. Zoncada Registrazione Trib. di Milano n. 532 del 6 settembre 2007 Edizioni Internazionali srl Divisione EDIMES Edizioni Medico-Scientifiche - Pavia Via Riviera, 39 - 27100 Pavia Tel. +39 0382 526253 r.a. - Fax +39 0382 423120 E-mail: [email protected] Seminari 2 Periodicità Quadrimestrale Scopi Seminari di Ematologia Oncologica è un periodico di aggiornamento che nasce come servizio per i medici con l’intenzione di rendere più facilmente e rapidamente disponibili informazioni su argomenti pertinenti l’ematologia oncologica. Lo scopo della rivista è quello di assistere il lettore fornendogli in maniera esaustiva: a) opinioni di esperti qualificati sui più recenti progressi in forma chiara, aggiornata e concisa; b) revisioni critiche di argomenti di grande rilevanza pertinenti gli interessi culturali degli specialisti interessati; NORME REDAZIONALI 1) Il testo dell’articolo deve essere editato utilizzando il programma Microsoft Word per Windows o Macintosh. Agli AA. è riservata la correzione ed il rinvio (entro e non oltre 5 gg. dal ricevimento) delle sole prime bozze del lavoro. 2) L’Autore è tenuto ad ottenere l’autorizzazione di «Copyright» qualora riproduca nel testo tabelle, figure, microfotografie od altro materiale iconografico già pubblicato altrove. Tale materiale illustrativo dovrà essere riprodotto con la dicitura «per concessione di …» seguito dalla citazione della fonte di provenienza. 3) Il manoscritto dovrebbe seguire nelle linee generali la seguente traccia: Titolo Conciso, ma informativo ed esauriente. Nome, Cognome degli AA., Istituzione di appartenenza senza abbreviazioni. Nome, Cognome, Foto a colori, Indirizzo, Telefono, Fax, E-mail del 1° Autore cui andrà indirizzata la corrispondenza. Introduzione Concisa ed essenziale, comunque tale da rendere in maniera chiara ed esaustiva lo scopo dell’articolo. Parole chiave Si richiedono 3/5 parole. Corpo dell’articolo Il contenuto non deve essere inferiore alle 30 cartelle dattiloscritte (2.000 battute cad.) compresa la bibliografia e dovrà rendere lo stato dell’arte aggiornato dell’argomento trattato. L’articolo deve essere corredato di illustrazioni/fotografie, possibilmente a colori, in file ad alta risoluzione (salvati in formato .tif, .eps, .jpg). Le citazioni bibliografiche nel testo devono essere essenziali, ma aggiornate (non con i nomi degli AA. ma con la numerazione corrispondente alle voci della bibliografia), dovranno essere numerate con il numero arabo (1) secondo l’ordine di comparsa nel testo e comunque in numero non superiore a 100÷120. di Ematologia Oncologica Periodico di aggiornamento sulla clinica e terapia delle emopatie neoplastiche Bibliografia Per lo stile nella stesura seguire le seguenti indicazioni o consultare il sito “International Committee of Medical Journal Editors Uniform Requirements for Manuscripts Submitted to Biomedical Journals: Sample References”. Es. 1 - Articolo standard 1. Bianchi AG, Rossi EV. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7. Es. 2 - Articolo con più di 6 autori (dopo il 6° autore et al.) 1. Bianchi AG, Rossi EV, Rose ME, Huerbin MB, Melick J, Marion DW, et al. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7. Es. 3 - Letter 1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes [Letter]. N Engl J Med. 2004; 232: 284-7. Es. 4 - Capitoli di libri 1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes. In: Caplan RS, Vigna AB, editors. Immunology. Milano: MacGraw-Hill; 2002; p. 93-113. Es. 5 - Abstract congressi (non più di 6 autori) 1. Bianchi AG, Rossi AV. Immunologic effect of donor lymphocytes in bone marrow transplantation [Abstract]. Haematologica. 2002; 19: (Suppl. 1): S178. Ringraziamenti Riguarda persone e/o gruppi che, pur non avendo dignità di AA., meritano comunque di essere citati per il loro apporto alla realizzazione dell’articolo. Edizioni Internazionali Srl Divisione EDIMES EDIZIONI MEDICO SCIENTIFICHE - PAVIA Via Riviera, 39 • 27100 Pavia Tel. 0382526253 r.a. • Fax 0382423120 E-mail: [email protected] 3 Editoriale GIORGIO LAMBERTENGHI DELILIERS Università degli Studi di Milano U.O. Ematologia 1 - Centro Trapianti di Midollo Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena Il primo numero dell’annata 2009 di Seminari di Ematologia Oncologica è dedicato al mieloma multiplo, una malattia clonale delle plasmacellule, riconoscibile sul piano biologico anche nelle fasi più iniziali, clinicamente silenti. Si tratta di una neoplasia che in questi ultimi anni ha potuto beneficiare di tecnologie diagnostiche avanzate che hanno portato all’identificazione di citochine e fattori di crescita che regolano la crescita delle plasmacellule ed il loro rapporto con il microambiente midollare. La combinazione di diversi tipi di analisi citogenetica, oncogenomica e proteomica ha permesso di definire meglio la complessa eterogeneità biologica del mieloma multiplo, e più recentemente ha contribuito alla identificazione di nuovi fattori prognostici nonché alla creazione di modelli predittivi di rischio. Sulla base di questi sono stati formulati protocolli terapeutici che prevedono l’uso combinato dei nuovi farmaci, molecolarmente mira- ti sia verso la cellula mielomatosa sia verso le cellule accessorie responsabili dei processi di angiogenesi e di osteoclastogenesi midollare. Talidomide, bortezomib e lenalidomide, variamente associati al desametasone, hanno cambiato in questi ultimi anni lo scenario terapeutico del mieloma multiplo, soprattutto nella fase d’induzione dove il raggiungimento della remissione completa era fino a pochi anni prerogativa dei regimi ad alte dosi con trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche. L’impatto prognostico delle nuove combinazioni risulta evidente anche nei pazienti anziani, dove le risposte ottimali sul piano citogenetico e molecolare sono correlate ad un significativo prolungamento della sopravvivenza. La diagnosi precoce e il trattamento delle complicanze, legate sia alla malattia che alle terapie farmacologiche, hanno contribuito notevolmente a migliorare la qualità di vita dei pazienti con mieloma multiplo. 5 Biologia e genetica molecolare ANTONINO NERI Centro di Ricerca per lo Studio delle Leucemie, Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi di Milano; Unità Ematologia 1, CTMO, Fondazione IRCCS Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena, Milano n INTRODUZIONE Il mieloma multiplo (MM) è una neoplasia incurabile caratterizzata dall’accumulo di plasmacellule (PC) maligne nel midollo osseo. Le PC mielomatose oltre a produrre una elevata quantità di immunoglobuline (Ig) monoclonali che rappresentano il marker di laboratorio più caratteristico della malattia, generano una notevole e variegata quantità di citochine che stimolano le cellule stromali presenti nel microambiente midollare e che a loro volta favoriscono la proliferazione e sopravvivenza del clone mielomatoso. Inoltre, come conseguenza di questa aberrante interazione si determina una attivazione degli osteoclasti che è responsabile delle tipiche lesioni ossee che si associano frequentemente alla malattia (1). Il MM può essere preceduto da una manifestazione premaligna denominata gammopatia Parole chiave: mieloma multiplo, aneuploidia, traslocazioni IGH, FISH, GEP. Indirizzo per la corrispondenza Prof. Antonino Neri Centro di Ricerca per lo Studio delle Leucemie Dipartimento di Scienze Mediche, Università di Milano Unità Ematologia 1, CTMO Fondazione IRCCs Policlinico Mangiagalli e Regina Elena Via F. Sforza, 35 - 20122 Milano e-mail: [email protected] Antonino Neri monoclonale di incerto significato (MGUS), presente rispettivamente in circa l’1% ed il 3% della popolazione di età superiore ai 50 e 70 anni. Le plasmacellule clonali nella MGUS costituiscono meno del 10% delle cellule del midollo osseo, sono quiescenti e non producono danni d’organo. È stato dimostrato che la MGUS può progredire verso il mieloma con un rischio annuo di circa l’1% e con una probabilità di progressione del 25% in un periodo di 20 anni (2-4). Una fase intermedia tra MGUS e MM è rappresentata dal mieloma smouldering o asintomatico (SMM), che è caratterizzato da una percentuale di plasmacellule midollari superiori al 10% e dall’assenza di sintomi e danni d’organo e che progredisce, dopo variabili periodi di tempo, in mieloma conclamato. Il MM clinicamente attivo è c aratterizzato da anemia, lesioni ossee, ipercalcemia e/o disfunzione renale, ed aumentato rischio di infezioni. Nelle fasi avanzate, il MM può progredire verso una forma extramidollare di leucemia plasmacellulare (PCL) che talvolta può manifestarsi come entità primaria senza un precedente riscontro di MM intramidollare. In genere, le diverse fasi tumorali hanno una bassa capacità proliferativa che può aumentare negli stadi avanzati della malattia: le linee cellulari di MM (HMCL) stabilizzate in vitro derivano quasi esclusivamente da forme extramidollari primarie o secondarie (Figura 1). Al momento, l’impegno più rilevante dell’attività di ricerca nel mieloma multiplo è diretto allo sviluppo di terapie molecolari mirate che possano 6 Seminari di Ematologia Oncologica FIGURA 1 - Progressione clinica ed eventi genetici nel mieloma multiplo. Sebbene non presente in genere nello stesso paziente, l’evoluzione naturale del MM è caratterizzata da un progressione dalla plasmacellula normale; alla MGUS dove il clone è immortalizzato, non completamente trasformato e non si accumula; a mieloma asintomatico (SMM) dove il clone è chiaramente trasformato, si accumula ma non causa danni d’organo, in particolare riassorbimento osseo; a mieloma conclamato intramidollare, ed infine a forma extra-midollare caratterizzata da elevata proliferazione. contribuire ad una migliore durata della risposta in molti dei pazienti affetti dalla malattia. Questo è stato reso possibile dai notevoli recenti progressi ottenuti con gli studi di citogenetica molecolare ed oncogenomica condotti sulle plasmacellule maligne e la loro controparte normale. Questi lavori sperimentali hanno aumentato le nostre conoscenze sulla patogenesi della neoplasia, contribuendo ad una classificazione molecolare con valenza prognostica ed alla identificazione di potenziali targets terapeutici. Inoltre si è assistito ad un notevole aumento delle conoscenze per quanto riguarda i meccanismi che favoriscono l’adesione delle cellule mielomatose al microambiente midollare e di conseguenza la loro sopravvivenza, proliferazione e resistenza ai farmaci. n ORIGINE DELLA PLASMACELLULA MIDOLLARE La plasmacellula del mieloma multiplo deriva da una cellula B del centro germinativo che è stata esposta a tre specifici meccanismi di modificazione del DNA che interessano in modo particolare il gene delle catene pesanti delle Ig (IGH): la ricombinazione delle regioni VDJ, la ricombinazione delle regioni switch e le mutazioni ipersomatiche delle regioni variabili (5, 6). La ricombinazione VDJ avviene a livello dei precursori B nel midollo osseo e porta alla formazione del recettore specifico delle cellule B (BCR) mentre il riconoscimento e selezione antigenica, le mutazioni ipersomatiche e la ricombinazione del- le regioni switch avvengono nel centro germinativo dei follicoli linfatici. In particolare, i linfociti B con immunoglobuline funzionali di superficie IgM (cellula B naïve) lasciano il midollo osseo ed entrano nei tessuti linfatici secondari dove successivamente all’incontro con l’antigene possono: 1) differenziare fuori dal centro germinativo in plasmacellule a breve vita (short-lived pre-germinal center plasma cells) che esprimono in massima parte IgM e non presentano ipermutazioni somatiche; 2) entrare nel centro germinativo dove vanno incontro a ipermutazione somatica e selezione antigenica. Le cellule che non sviluppano una elevata affinità per l’antigene vanno incontro ad apoptosi mentre le rimanenti ritornano nel sangue periferico come cellule B della memoria oppure vanno incontro a ricombinazione somatica delle regioni switch con cambio di classe del locus IGH. Queste ultime migrano nel midollo osseo dove interagiscono con le cellule del microambiente midollare e differenziano terminalmente in plasmacellule a lunga vita (long-lived post-germinal center plasma cells) che sopravvivono per 30 giorni o anche anni (7) (Figura 2). La elevata incidenza di neoplasie a cellule B mature che originano da elementi del centro germinativo o post-centro germinativo suggerisce che alterazioni del normale re-modeling dei geni delle Ig possa rappresentare un evento importante nello sviluppo delle sindromi linfoproliferative (8). Una delle conoscenze maturate in questi anni è che nell’ambito della profonda instabilità ed eterogeneità genomica del MM, le traslo- Biologia e genetica molecolare FIGURA 2 - Fisiologia della differenziazione plasmacellulare. Il riarrangiamento funzionale V(D)J dei geni della catena pesante (IGH) e leggera (IGL) delle Ig avviene in una cellula pre-B midollare. Questo elemento esprime quindi una immunoglobulina funzionale sulla sua superficie e lascia il midollo osseo come linfocita “vergine” maturo per localizzarsi a livello dei tessuti linfoidi secondari. Nelle fasi precoci della risposta immune, la interazione con l’antigene stimola la formazione di un linfoblasto che differenzia in una plasmacellula definita a breve vita (short lived) che muore entro 3 giorni e che esprime più frequentemente IgM. Tardivamente nella risposta primaria o nella risposta secondaria, il linfoblasto generato dalla interazione produttiva con l’antigene entra nel centro germinativo del follicolo linfatico, dove va incontro a mutazioni ipersomatiche delle sequenze variabili dei geni delle Ig, a selezione antigenica ed a ricombinazione delle regioni switch. Questo elemento si localizza successivamente nel midollo osseo dove differenzia in una plasmacellula definita a lunga vita (long lived) che può sopravvivere per circa 30 giorni o anche anni. cazioni cromosomiche coinvolgenti i geni delle Ig, in particolare quelli della catena pesante sulla regione cromosomica 14q32, rappresentano lesioni frequentemente associate alle fasi iniziali della mielomagenesi (9, 10). n RILEVANZA DELLE ALTERAZIONI CROMOSOMICHE NELLA PATOGENESI DEL MM L’attività mitotica delle cellule tumorali del MM, rispetto a quella di altre forme di neoplasie ematologiche, è generalmente bassa come indicato dai valori (<1%) di labelling index (una misura delle cellule in fase S del ciclo cellulare) delle plasmacellule maligne (11). Pertanto, tramite la citogenetica convenzionale, metafasi anomale sono riscontrate solo in circa il 40% del totale dei pazienti ed in circa il 20-35% dei pazienti alla diagnosi. La frequenza e l’estensione delle alterazioni cromosomiche correlano con lo stadio della malattia. Nelle forme extramidollari, cariotipi anomali sono riscontrati in circa l’80% dei casi (12, 13); pertanto, molte delle alterazioni descritte dalla citogenetica convenzionale sono caratteristiche della progressione della malattia e non delle fasi iniziali. I cariotipi sono in genere molto comples- 7 8 Seminari di Ematologia Oncologica si con alterazioni sia strutturali che numeriche: essi si presentano con più di 10 tipi di anomalie in circa la metà dei pazienti e più di 20 in circa il 10% (14). Le alterazioni più frequenti riportate nel mieloma tramite citogenetica convenzionale sono guadagni dei cromosomi 3, 5, 7, 9q, 11q, 12q, 17q, 18, 19, 21 e 22q (trisomia o tetrasomia), perdita dei cromosomi 6q, 8, 13q, 14, 16, X (femmine) e Y (monosomia o nullisomia), ed alterazioni strutturali coinvolgenti i cromosomi 14q, 14p, 16q, 1q, 1p, 11q13, 19q13, 19p13, 6q, 17q, 2p12, 22q11 e 7q. L’introduzione della Fluorescence in Situ Hybridization (FISH), ha permesso l’analisi delle alterazioni genetiche nel MM indipendentemente dalla presenza di cellule proliferanti, dimostrando come esse siano presenti nella quasi totalità dei pazienti con MM (15,16). Tecnologie più avanzate e derivate dalla FISH, quali la Comparative Genomic Hybridization (CGH) (17-19) e la Multicolor Spectral Karyotiping (SKY) (20, 21) hanno permesso di esaminare il genoma delle cellule tumorali in modo ancora più globale e sensibile di quanto non ottenuto tramite FISH. Sebbene la SKY permetta di visualizzare in grande dettaglio alterazioni cromosomiche strutturali, quali inserzioni, traslocazioni o markers cromosomici, un suo limite importante, come anche per la CGH, è la necessità di analizzare cellule in metafase. Aneuploidia Come dimostrato da tecniche di analisi citofluorimetriche del DNA (22, 23) dalla citogenetica convenzionale (11-14) e più recentemente da tecniche di citogenetica molecolare (15-17, 19, 24-27), la quasi totalità del pazienti con MM è caratterizzata da aneuploidia (13, 15). Quattro categorie di aneuploidia possono essere definite sulla base del cariotipo: ipodiploidia (fino a 44-45 cromosomi), pseudodiploidia (da 44/45 a 46/47 cromosomi), iperdiploidia (> di 46/47 cromosomi), e ipotetraploidia (near-tetraploid) (> di 75 cromosomi) (10, 28, 29). Sulla base della frequente presenza di perdite cromosomiche nelle linee cellulari tetraploidi, la ipotetraploidia viene classificata insieme alla ipo- e pseudodiploidia come non-iperdiploidia, osservata globalmente in circa la metà dei tumori primari. Quindi la rimanente metà dei casi di MM può essere classificata come iperdiploide e si caratterizza per trisomie a carico di un gruppo ben definito di cromosomi quali il 3, 5, 7, 9, 11, 15, 19 e 21 (10). I pazienti non-iperdiploidi sono caratterizzati da una elevata incidenza di traslocazioni IGH rispetto a quelli con iperdiploidia (>85% vs <30%), come anche da una maggiore prevalenza di delezione del cromosoma 13, delle regioni 16q, 8p e 1p e guadagno del cromosoma 1q (30,31). Evidenze recenti del nostro ed altri laboratori hanno dimostrato come i pazienti iperdiploidi possono essere stratificati molecolarmente e clinicamente in due gruppi sulla base della: 1) trisomia del cromosoma 11 o 2) delezione del cromosoma 13 e guadagno del cromosoma 1q (32, 33). La quasi totalità delle linee cellulari di mieloma sono derivate da pazienti non iperdiploidi, un aspetto da considerare quando esse vengono utilizzate come modello in vitro della neoplasia. Traslocazioni cromosomiche coinvolgenti i loci delle immunoglobuline Le traslocazioni cromosomiche coinvolgenti il locus IGH sono considerate il più importante meccanismo di attivazione oncogenica delle neoplasie a cellule B mature e ne rappresentano un marker distintivo. Negli ultimi anni, è emerso che esse costituiscono anche un evento frequente ed importante implicato nelle fasi iniziali della mielomagenesi. Studi condotti con FISH hanno permesso di predire la presenza di traslocazioni IGH in circa il 50% dei casi di MGUS o SMM, in circa il 55-70% dei casi di MM, in circa l’80% dei casi di PCL e nella quasi totalità delle linee cellulari (24, 34, 35). I pochi studi relativi al coinvolgimento delle catene leggere delle Ig (prevalentemente IGL-λ) indicano che la frequenza di questo tipo di traslocazioni è circa del 10% nelle MGUS e del 20% nelle forme di MM intramidollare o avanzato (26). Diversamente da altre forme di neoplasie linfoidi, nel MM si ha una marcata promiscuità di loci cromosomici che possono essere coinvolti nelle traslocazioni IGH (Figura 3). Quelli più frequentemente interessati sono 11q13 (ciclina D1), 4p16.3 (FGFR3 e MMSET), 16q23 (MAF), 20q11 (MAFB) e 6p21 (ciclina D3) che coinvolgono circa il 45% dei pazienti (10) (Figura 3). Biologia e genetica molecolare FIGURA 3 - Frequenza e tipo delle traslocazioni Ig nel MM. Come descritto ampiamente nel testo, queste traslocazioni sono promiscue coinvolgendo differenti loci. Tramite FISH è possibile identificare i principali tipi di traslocazione in circa il 40-45% dei pazienti con MM. Traslocazione t(11;14)(q13;q32) La presenza della traslocazione t(11;14)(q13;q32) è identificata tramite FISH in circa il 15-20% dei casi di MM (24,36-38). La traslocazione comporta l’attivazione costitutiva del gene della ciclina D1 e può essere facilmente diagnosticata in metafasi anomale con citogenetica convenzionale. Diversamente dalla t(11;14) associata al linfoma mantellare, i punti di rottura sul cromosoma 11q13 nella traslocazione associata al MM sono dispersi su una regione genomica di circa 700 kb che non permettono quindi di identificare un cluster (37). La traslocazione può essere riscontrata nelle MGUS (15-30%) (24, 26, 39) ed è ricorrente nella amiloidosi (40). La presenza della t(11;14) è stata correlata con una morfologia di tipo linfoplasmocitico, espressione del CD20 e forme non secernenti (36, 41-44). Le conseguenze biologiche della traslocazione rimangono ancora da chiarire ma è stato suggerito che i casi con t(11;14) abbiano una minore capacità proliferativa. È stato anche evidenziato che la t(11;14) nel MM non è associata ad una prognosi negativa sia per i pazienti trattati con chemioterapia convenzionale che, in particolare, per quelli trattati con chemioterapia ad alte dosi (HD-CTX) e trapianto autologo (ASCT) (36, 45). In linea con questi dati è stato dimostrato che la overespressione del gene della ciclina D1 valutata con RT-PCR quantitativa in pazienti con nuova diagnosi trattati con terapie ad alte dosi era associata in modo significativo ad una più lunga durata di remissione e di sopravvivenza libera da eventi (EFS) (46). Traslocazione t(4;14)(p16.3;q32) La t(4;14)(p16.3;q32) è una traslocazione criptica, ossia non rilevabile con citogenetica convenzionale a causa della posizione estremamente telomerica delle regioni coinvolte su entrambi i cromosomi. Essa è specifica del MM ed è stata identificata dal nostro ed altri laboratori tramite esperimenti di clonaggio molecolare in linee e tumori primari di MM (47-49). La traslocazione è riscontrata tramite FISH in circa il 15-20% dei pazienti con MM e comporta la deregolazione di due geni localizzati nella regione 4p16.3: il gene Fibroblast Growth Factor Receptor-3 (FGFR3) che codifica per un recettore tirosino-chinasico, ed il gene MMSET/WHSC1 che potrebbe essere coinvolto in meccanismi trascrizionali. I punti di rottura coinvolgono una regione localizzata circa 50-100 kb centromericamente al gene FGFR3 e che contiene gli esoni a 5’ e le sequenze regolatorie del gene MMSET. In modo specifico, i punti di rottura interessano la regione a 5’ del terzo esone (inizio della proteina) ed il terzo e quarto introne del gene con conseguente formazione di trascritti ibridi tra esoni del gene MMSET e sequenze delle IGH sul cromosoma 4p derivativo che possono essere rilevati tramite RT-PCR come dimostrato dal nostro laboratorio (50). 9 10 Seminari di Ematologia Oncologica Sulla base dell’attività funzionale di FGFR3 e dei dati sperimentali in vitro e su modelli animali (5154), si è sempre considerato che la sua deregolazione nella t(4;14) potesse avere un importante ruolo oncogenico ed in tal senso diversi inibitori tirosino-chinasici sono al momento testati per un loro uso in clinica. Circa il 10% dei pazienti con t(4;14) mostrano delle mutazioni attivanti il gene FGFR3 simili a quelle associate a sindromi scheletriche genetiche come il nanismo o la displasia tanatoforica; tali mutazioni possono rappresentare eventi tardivi nella progressione tumorale (55). Bisogna però tenere presente che in una frazione significativa di pazienti (20-30%) con t(4;14) non si riscontra la overespressione di FGFR3 che nella maggior parte dei casi si associa alla perdita del cromosoma 14 derivativo e quindi dell’allele FGFR3 traslocato (56, 57). Questa osservazione suggerisce che la deregolazione di MMSET possa rappresentare la conseguenza molecolare più importante della traslocazione anche se al momento la esatta funzione del gene come anche il ruolo della sua deregolazione nella neoplasia non sono stati chiariti. Per quanto riguarda le MGUS, la traslocazione è stata riportata da alcuni studi con una frequenza del 10% (26); questi dati non sono stati confermati da altri autori (24, 56). Quando riscontrata nelle MGUS, la lesione appare comunque essere insufficiente per la progressione in MM poichè i pazienti possono rimanere stabili per anni (26). Nei pazienti con MM conclamato la traslocazione sembra essere prevalente nei pazienti con isotipo IgA ed esprimenti catene leggere lamba (43, 58) e si associa a forme cliniche aggressive rappresentando un fattore prognostico sfavorevole nei pazienti trattati sia con chemioterapia convenzionale che con terapia ad alte dosi (43, 56, 58, 59). Infine, non è stata osservata una differenza in termini di sopravvivenza in pazienti affetti dalla t(4;14) con o senza espressione di FGFR3 (56). Recenti studi indicano come nuovi farmaci quali gli inibitori del proteosoma (bortezomib), siano in grado di annullare la valenza prognostica sfavorevole della lesione (60). Traslocazione t(14;16)(q32;q23) La traslocazione t(14;16)(q32;q23) è riscontrata in circa il 5% dei casi di MM (24,58,61) e compor- ta l’attivazione costitutiva del gene MAF, un membro della famiglia dei fattori trascrizionali MAF (61). Essa appare essere specifica delle discrasie plasmacellulari. La lesione è identificabile tramite FISH e sembra essere un evento precoce in una significativa parte dei casi, anche se, come per la t(4;14), esiste una certa controversia circa la sua presenza nelle MGUS (26, 39). Oltre al gene MAF, un altro membro della famiglia, MAFB, localizzato sul cromosoma 20 è coinvolto in traslocazioni in circa il 2% dei casi anche se in genere con partner cromosomici diversi dalle Ig. Dati recenti indicano che questi geni regolano in modo positivo la trascrizione dei geni della ciclina D2 ed integrina B7 che risultano essere fortemente espressi nei pazienti con questo tipo di traslocazione (62). Dai pochi dati disponibili in letteratura emerge chiaramente che le traslocazioni coinvolgenti i geni MAF sono associate ad una prognosi sfavorevole (58). Traslocazioni dei geni MYC Traslocazioni coinvolgenti geni MYC, in massima parte c-MYC, sono assenti o rari nelle MGUS, ma sono riscontrate in circa il 15% dei MM, nel 40 % delle forme avanzate and in circa il 90% delle linee cellulari (10, 94, 95). Queste traslocazioni sono molto eterogenee e complesse interessando più cromosomi e spesso non coinvolgono i geni delle Ig (definite come traslocazioni secondarie). Quindi si ritiene che queste lesioni rappresentino eventi tardivi, associati alla progressione che avviene quando le cellule mielomatose diventano indipendenti dal microambiente midollare. Al contrario la elevata espressione biallelica di c-MYC che è in genere presente anche nelle fasi precoci della neoplasia è il risultato della stimolazione da parte della IL6 o di altre citochine importanti nella sopravvivenza e proliferazione plasmacellulare. In uno studio di FISH del nostro laboratorio condotto su 14 linee e 70 pazienti di cui 7 affetti da PCL, sono state identificati riarrangiamenti di c-MYC in 11 linee e 3 pazienti (2MM ed una PCL) mentre extra-segnali o localizzazioni anomale del gene sono stati identificati in 2 MM e 5 PCL (96). Le implicazioni cliniche e prognostiche delle alterazioni del gene c-MYC, non sono ancora ben definite; uno stu- Biologia e genetica molecolare dio recente di Avet-Loiseau et al. non ha rilevato un effetto di questi riarrangiamenti sulla prognosi (59). Sulla base delle conoscenze attuali, descritte precedentemente, è ipotesi comune che esistano due modelli patogenetici nel MM che interessano ognuno circa il 50% dei pazienti: uno caratterizzato dalla presenza della iperdiploidia e dallo scarso coinvolgimento delle traslocazioni cromosomiche IGH e l’altro definito come non-iperdiploide ed associato ad una elevata frequenza di traslocazioni IGH. In ogni caso, sembrano esserci 3 eventi genetici particolarmente precoci nella mielomagenesi e che si presentano parzialmente coesistenti: 1) le traslocazioni IGH mediate da errori nella ricombinazione switch e/o nelle ipermutazioni somatiche nel centro germinativo; 2) la iperdiploidia associata a trisomia di specifici cromosomi; 3) la delezione/monosomia del cromosoma 13. Dati più recenti suggeriscono che anche il guadagno del cromosoma 1q possa costituire un evento precoce anche se è maggiormente evidente il suo ruolo nella progressione tumorale. Altre lesioni come le mutazioni dei geni RAS e del pathway NFkB si associano frequentemente a forme di mieloma conclamato, mentre delezioni del gene p53, del pathway RB1 e traslocazioni MYC si riscontrano prevalentemente in forme avanzate ed aggressive (Figura 4). Infine, un evento importante che si associa alla quasi totalità dei MM è la deregolazione di uno dei geni della famiglia delle cicline D. Sebbene i dati disponibili sembrano indicare che la overespressione delle cicline non determini un aumento della proliferazione, si ritiene comunque che esse possono rendere le cellule mielomatose più suscettibili agli stimoli proliferativi quali quelli legati alla interazione con le cellule stromali del microambiente midol- FIGURA 4 - Eventi genetici nella progressione del mieloma multiplo. La progressione è associata ad una sempre maggiore instabilità cariotipica responsabile della elevata aneuploidia che caratterizza la neoplasia. Le traslocazioni che coinvolgono i geni delle Ig, la iperdiploidia, la delezione del cromosoma 13, il guadagno del cromosoma 1q sembrano essere eventi precoci. La linea tratteggiata indica che non si è certi della presenza della lesione (vedi testo per ulteriori dettagli). 11 12 Seminari di Ematologia Oncologica lare che esprimono IL6, IGF1 o altre citochine (Figura 4). mento con inibitori del proteosoma quali il bortezomib (60). Delezione 13q Come dimostrato da diversi studi di FISH, la delezione 13q è presente in circa il 40-50% dei casi e rappresenta una delle più frequenti alterazioni nel MM (63-65). La perdita del cromosoma 13q è riscontrata in circa il 10-20% dei casi tramite citogenetica convenzionale. La delezione è associata in modo positivo ad un certo numero di alterazioni citogenetiche quali la traslocazione t(4;14) o t(14;16) (in circa il 90% dei casi), la presenza di extracopie del cromosoma 1q e di un condizione di non-iperdiploidia (10, 24). Per quanto riguarda le MGUS i dati sono ancora controversi con studi di FISH che indicano una frequenza di circa il 20% suggerendo che la lesione possa essere coinvolta nella evoluzione della neoplasia (24) ed altri che riportano frequenze comparabili a quelle del MM (26, 66). In questo contesto bisogna segnalare che la delezione 13q è stata riscontrata in un range tra il 75 e 90% del clone neoplastico con una frazione di pazienti che può presentare delle percentuali inferiori al 65% (65, 67, 68). Questi dati suggeriscono che la delezione 13q è un evento secondario che può dare un vantaggio proliferativo alla plasmacellula maligna. I dati a disposizione indicano inoltre che la delezione 13q è dovuta nel 90% dei casi ad una monosomia del cromosoma 13 mentre la presenza di una minima regione di delezione nei rimanenti casi rimane ancora controversa (68, 69). Sulla base dei diversi metodi di analisi (citogenetica convenzionale o FISH) la delezione 13q è associata ad una prognosi sfavorevole sia in termini di risposta alla terapia che di EFS e di sopravvivenza totale (OS) nei pazienti trattati con chemioterapia convenzionale, HD-CTX e ASCT o trapianto allogenico (14, 45, 63, 65). Importante notare che recenti dati indicano che la delezione 13q mantiene il suo significato prognostico in pazienti trattati con HD-CTX ed ASCT solo se associata alla traslocazione t(4,14) e/o delezione 17p (59). Infine recenti dati ottenuti su pazienti refrattari o in recidiva suggeriscono che la delezione 13q perde il suo significato prognostico dopo tratta- Delezione 17p13 La inattivazione tramite delezioni monoalleliche o mutazioni del gene oncosoppressore p53 localizzato sulla regione 17p13 è associata con la progressione tumorale in un gran numero di tumori umani. Anche nell’ambito del MM, la inattivazione del gene p53 appare essere un fenomeno più frequente negli stadi avanzati della malattia. In generale, delezioni 17p13 sono osservate in circa il 10% dei casi di MM mentre mutazioni inattivanti il gene p53 sono state osservate nel 5% dei pazienti alla diagnosi, 20-40% dei pazienti in fase avanzata/PCL e in più del 60% delle linee cellulari (70-73). La delezione di p53 è associata ad una prognosi sfavorevole sia dopo chemioterapia convenzionale o terapie ad alte dosi (38, 58, 59, 74, 75). Alterazioni del cromosoma 1 Le anomalie del cromosoma 1 rappresentano una delle più frequenti alterazioni citogenetiche nel MM con un frequenza di circa il 45-50% dei casi (10, 76). È stato ampiamente dimostrato come il braccio corto del cromosoma 1 sia più frequentemente coinvolto in delezioni, mentre il braccio lungo, 1q, sia associato con guadagni ed amplificazioni. Il guadagno del cromosoma 1q può avvenire tramite formazione di un isocromosoma, duplicazione o fenomeni di jumping translocation. È stato inoltre riportato che il guadagno del cromosoma 1q si associa a cariotipi complessi ed in particolare alla delezione 13q e traslocazione t(4;14), ed in genere a forme aggressive della neoplasia (10). In uno studio recente del nostro laboratorio condotto su plasmacellule purificate di 77 pazienti alla diagnosi, il guadagno del cromosoma 1q è stato riscontrato tramite FISH in 40 pazienti (52%), la maggior parte dei quali (75%) mostrava un solo extra-segnale. La lesione era presente nella totalità del clone neoplastico in quasi tutti i pazienti (37/40) e correlava significativamente in modo inverso alla presenza della iperdiploidia ed in modo diretto con la delezione del cromosoma 13 (77). Diversi dati hanno dimostrano recentemente come il guadagno del cromosoma 1q sia una Biologia e genetica molecolare lesione che aumenta durante la progressione tumorale del MM, dalla condizione di MGUS (15%), a quella di SMM e MM conclamato (45%) fino alle forme in recidiva (70%), quindi suggerendo che queste regioni contengano geni critici nella progressione della neoplasia (78, 79). Infine, è stato dimostrato su un largo numero di pazienti che il guadagno del cromosoma 1q rappresenta un fattore di rischio negativo significativo ed indipendente associato ad una ridotta EFS e OS, ad un più alto rischio di progressione da SMM a MM, e ad una sopravvivenza inferiore dopo recidiva (79). Mutazioni attivanti dei geni RAS Mutazioni attivanti i geni N- e K-RAS rappresentano una lesione ricorrente nel MM: infatti, esse sono state riscontrate in circa il 30% dei tumori alla diagnosi e in circa il 45% delle linee cellulari di MM (80-82). La prevalenza di questa alterazione è molto bassa nelle forme di MGUS (circa il 5%) e per contro non si modifica significativamente durante la progressione della malattia: queste osservazioni supportano l’ipotesi secondo la quale le mutazioni di RAS possano essere un marker della transizione MGUS-MM (80, 83). Recenti studi indicano che la presenza di mutazioni di RAS è sostanzialmente più elevata nei MM che esprimono alti livelli di ciclina D1 rispetto a quelli che overesprimono ciclina D2 (83). La presenza di mutazioni di RAS non è correlata con la delezione del cromosoma 13q, con la trisomia del cromosoma 11, con l’amplificazione del cromosoma 1q o con lo stato di iperdiploidia. L’analisi d’espressione genica globale ha rivelato differenze nel profilo trascrizionale tra linee cellulari continue con e senza mutazioni di RAS, mentre non si sono osservate variazioni nell’analisi di plasmacellule da pazienti (81). Questa osservazione, unitamente al fatto che non è stato riscontrato alcun significato prognostico delle mutazioni di RAS, supporta l’ipotesi che questa alterazione nel MM debba essere considerata nel contesto di altre anomalie genetiche. Alterazioni attivanti il pathway NF-kB Nelle plasmacellule normali si evidenzia l’attivazione del pathway NFkB, a cui almeno in parte contribuisce l’attivazione di TACI e BCMA attra- verso i ligandi BAFF e APRIL prodotti dalle cellule midollari (84). Recentemente due lavori indipendenti hanno evidenziato come nelle plasmacellule mielomatose il pathway di NFkB risulti ulteriormente attivato come conseguenza di anomalie genetiche (85, 86). Utilizzando le tecniche di gene expression profiling (GEP) ed arrayCGH si sono riscontrate tali alterazioni in circa il 20% dei pazienti e nel 40% delle linee cellulari di MM. Più in particolare si è osservata overespressione di NIK, NFkB2, NFkB1, CD40, LTBR e TACI, tutti geni che codificano per proteine che attivano la via di NFkB. Inoltre si è riscontrata l’attivazione di questo pathway dovuta all’attività alterata di inibitori quali TRAF3, clAP1, clAP2, CYLD e TRAF2. Da questi studi sembra che sia la via canonica che quella non canonica di NFkB siano implicate in queste alterazioni, anche se l’importanza specifica delle due vie non è ancora stata chiarita. In uno di questi studi è stato anche riportato che nei pazienti che presentano alterazioni nello stato di attivazione di NFkB, il desametasone è poco efficace rispetto al bortezomib, mentre i due farmaci hanno simile attività negli altri pazienti (86). Inattivazione di geni oncosoppressori Oltre alle cicline D, altri componenti del pathway del gene oncosoppressore RB1 sono frequentemente deregolati nel MM. I geni p16/INK4a e p15/INK4b sono ipermetilati in circa il 30% dei casi di MGUS e MM, come anche nella maggior parte delle linee di MM in coltura (10, 87, 88). Studi recenti hanno dimostrato che i MM possono esprimere scarsi o assenti livelli di p16, indipendentemente dal fatto che il gene sia ipermetilato, suggerendo quindi che la metilazione possa rappresentare un epifenomeno (89, 90). Comunque, sebbene una mutazione germ-line di p16 in un allele e la delezione nel rimanente sia stata riportata in un singolo paziente con MM (91), resta ancora da chiarire se la inattivazione di p16 sia un evento importante e presumibilmente precoce nella patogenesi del MM. Al contrario, appare evidente dai dati disponibili che il gene p18/INK4c possa avere un ruolo cruciale nello sviluppo e proliferazione plasmacellulare. Infatti, una delezione biallelica di p18 è stata osservata in circa il 30% delle linee in coltura 13 14 Seminari di Ematologia Oncologica ed in una frazione significativa di tumori con più alto indice proliferativo (92). Inoltre la overespressione costitutiva del gene in linee che mancano delle sua espressione, inibisce in modo significativo l’attività proliferativa delle stesse. Infine, la inattivazione del gene RB1 localizzato sulla regione q14 del cromosoma 13, si riscontra in circa il 10% delle linee in coltura ma rappresenta un raro e tardivo evento nei pazienti con MM (93). n MM E MICROAMBIENTE MIDOLLARE Il microambiente del midollo osseo è costituito da una matrice extracellulare (ECM) formata da diverse proteine tra cui osteopontina, fibronectina, collagene e laminina, da cellule ematopoietiche e da cellule accessorie che includono cellule stromali (BMSC), cellule endoteliali (BMEC), osteoclasti ed osteoblasti (97). Le cellule accessorie sono in gran parte responsabili della produzione e secrezione di citochine e fattori di crescita che supportano e modulano non solo la crescita, la sopravvivenza e la differenziazione delle plasmacellule ma anche il loro homing e adesione al midollo, i processi di angiogenesi e di osteoclastogenesi (98, 99). Numerosi studi in vitro ed in vivo hanno ormai dimostrato la rilevanza del microambiente midollare nella patogenesi del MM. Infatti nella malattia risulta profondamente alterata la situazione di omeostasi che regola l’interazione cellula-cellula e cellula-matrice attraverso la complessa modulazione svolta da citochine, chemochine e fattori di crescita. Gli effetti di tali alterazioni, che si ripercuotono anche sulle altre cellule del microambiente, hanno come conseguenza non solo l’espansione del clone plasmacellulare maligno ma anche un’aumentata capacità angiogenica e l’acquisizione di resistenza ai farmaci da parte delle cellule tumorali, nonchè la formazione di lesioni litiche dell’osso (100). Localizzazione ed adesione delle cellule di MM nel midollo osseo La localizzazione homing delle cellule di MM nel midollo è principalmente mediata dall’interazio- ne della chemochina SDF1a con il suo recettore CXCR4 espresso dalle cellule di MM, che induce la migrazione delle cellule di MM in vitro. Inoltre numerose molecole d’adesione intervengono a favorire l’homing delle cellule di MM alla matrice o alle cellule accessorie, quali CD44, VLA4, VLA5, LFA1, NCAM, ICAM1, syndecan 1 e MPC1. VLA4 espresso dalle cellule di MM induce l’adesione al ECM attraverso la fibronectina e conseguente up-regolazione di p27 ed attivazione di NFkB nelle cellule di MM; questo evento determina la resistenza ai farmaci adesionemediata (101, 102). L’adesione al ECM mediata dal legame del syndecan 1, espresso in molte cellule di MM, con il collagene determina l’espressione di MMP1 con conseguente aumento della massa tumorale e riassorbimento dell’osso (103). La molecola di syndecan 1 nella sua forma solubile supporta la crescita delle cellule mielomatose e un suo livello sierico elevato correla con una prognosi sfavorevole (104). Interazione tra cellule di MM, BMSC e BMEC L’adesione delle cellule di MM a BMSC innesca una sequenza di eventi importanti che coinvolgono diverse citochine. L’attivazione di NFkB determina la trascrizione e secrezione da parte delle cellule stromali di IL-6 il più importante fattore di crescita per le plasmacellule, con conseguente stimolo per la crescita, la sopravvivenza, la resistenza ai farmaci e capacità di migrazione delle cellule tumorali (105). Inoltre le stesse cellule di MM localizzate nel microambiente midollare producono a loro volta citochine come TNFa, TGFb e VEGF che ulteriormente stimolano la produzione di IL6 (106-108). L’attivazione di NFkB inoltre determina l’espressione di molecole di adesione e citochine che favoriscono ulteriormente il legame tra cellule di MM e BMSC. Ad esempio, il legame tra CD40 espresso dalle cellule di MM e il suo ligando sulle cellule midollari determina l’up-regolazione di LFA1 e VLA4 che favoriscono l’adesione alle cellule stromali e stimolano la produzione e secrezione di IL6 e VEGF. Anticorpi diretti contro CD40 inibiscono questi processi ed al momento è in fase di valu- Biologia e genetica molecolare tazione un loro utilizzo nella terapia del MM, confermando una strategia terapeutica che ha come target il microambiente midollare. Oltre a NFkB sono attivati altri pathways quali le vie di trasmissione dei segnali mediati da P13K/AKT, MEK, ERK, JAK2 e STAT3. L’effetto complessivo di questi eventi è la up-regolazione di proteine che regolano il ciclo cellulare, quali le cicline D, e di proteine antiapoptotiche, quali BCL-XL, MCL1 ed inibitori delle caspasi (Figura 5). Conseguentemente all’interazione tra le cellule mielomatose e il compartimento delle cellule stromali avviene l’adesione alle cellule endoteliali, che determina la produzione di citochine ad attività angiogenica, quali VEGF, bFGF e metalloproteinasi (109). La presenza di queste citochine insieme con quelle prodotte da BMSC determina la formazione di nuovi microvasi sanguigni, che supportano ulteriormente la crescita delle cellule tumorali (110, 111). Nel microambiente midollare vengono quindi ad instaurarsi circuiti autocrini e/ o paracrini mediati da fattori di crescita, citochine e fattori angiogenici che sono responsabili della progressione della malattia. Infatti il livello di angiogenesi midollare è aumentato nei pazienti con MM avanzato e costituisce un marker prognostico negativo (112). Per questo la neovasco- FIGURA 5 - Interazione tra cellula di mieloma e microambiente midollare. Il legame delle plasmacellule alle cellule stromali del midollo osseo (BMSCs) attiva e favorisce l’adesione delle cellule di mieloma, la loro crescita e sopravvivenza. In particolare, questo legame induce l’attivazione del pathway NF kB che upregola una serie di molecole di adesione sia sulle cellule di MM che sulle stesse BMSCs; le citochine secrete dalle plasmacellule a loro volta attivano la secrezione di IL-6, tumor necrosis factor b (TNFa), vascular endothelial growth factor (VEGF). A loro volta, tutta una serie di citochine secrete dalle BMSCs possono attivare diversi pathways molecolari (Jak/STAT3, PI3K/AKT, NFkB e/o MAPK) nella plasmacellula. 15 16 Seminari di Ematologia Oncologica larizzazione del midollo costituisce un target terapeutico soprattutto nelle forme di MM più avanzate: la talidomide per esempio inibisce la secrezione da parte delle cellule endoteliali di VEGF, bFGF e HGF, la proliferazione di queste cellule ed il processo di capillarogenesi (113-115). Interazione tra cellule di MM, osteoclasti ed osteoblasti Una ulteriore conseguenza dell’homing delle cellule di MM nel midollo è un’alterazione dell’attività osteoclastica che si manifesta con riassorbimento dell’osso e lesioni litiche dello stesso (116). Il processo di osteoclastogenesi è principalmente regolato dall’equilibrio tra RANKL e OPG prodotti dalle cellule stromali e dagli osteoblasti (117). RANKL si lega al suo recettore RANK espresso dagli osteoclasti, stimolando la loro differenziazione ed attività, mentre OPG si lega a RANKL e ne previene l’attività, inibendo quindi la maturazione degli osteoclasti (118, 119). L’interazione tra cellule di MM e cellule stromali sposta que- sto equilibrio a favore di RANKL, promuovendo la formazione di lesioni litiche dell’osso (120, 121). Inoltre un altro meccanismo contribuisce alla distruzione dell’osso nel MM: le cellule mielomatose secernono MIP1a che ulte riormente induce la formazione di osteoclasti indipendentemente da RANKL. Livelli plasmatici aumentati di MIP1a si riscontrano nei pazienti di MM con lesioni ossee (122, 123). La presenza di lesioni ossee nel MM sono anche dovute ad una diminuita attività degli osteoblasti. Infatti il legame di VLA4 espresso dalle cellule di MM con VCAM1 sui progenitori osteoblastici down-regola il fattore trascrizionale RUNX2 che modula la differenziazione degli osteoblasti dalle cellule mesenchimali staminali (124, 125). Questo processo è anche regolato da DKK1, un inibitore del pathway canonico di Wnt che si ritrova upregolato nelle biopsie midollari di pazienti con MM. La via di Wnt è particolarmente importante in quanto regola anche il rapporto RANKL/OPG e pertanto costituisce un potenziale target terapeutico (126, 127) (Figura 6). FIGURA 6 - Fisiopatologia del riassorbimento osseo nel MM. Le cellule di MM secernono una serie di fattori, in particolare MIP1a e TNFa, che inducono la attivazione degli osteoclasti. Inoltre esse inducono una elevata produzione di ligando per il recettore RANK (RANKL) che determina un’alterazione del normale rapporto funzionale con le molecole di osteoprotegerina (OPG) che è un inibitore funzionale di RANKL. Inoltre, le cellule mielomatose contribuiscono alla deregolazione di molecole (DDK1, RUNX2) che alterano il normale processo di differenziazione e maturazione funzionale degli osteoblasti a partire dalla cellula mesenchimale. Biologia e genetica molecolare La rilevanza delle interazioni tra microambiente midollare e cellule di MM nella progressione della malattia e nella resistenza ai farmaci ha evidenziato la necessità di nuovi farmaci e/o associazione tra farmaci diversi che abbiano come target molecole e pathways alterati in queste specifiche funzioni. Questi farmaci interagiscono con molecole di superficie presenti sulla plasmacellula tumorale quali CD40 e CS1 oppure sono diretti verso citochine e loro recettori come FGFR3, IGF1, VEGF e BAFFR. Altri sono piccole molecole inibitrici di particolari vie di trasmissione dei segnali all’interno della cellula quali MEK, NFkB, PKC, Cycline D, AKT e proteosoma. Attualmente tali farmaci sono in via di sperimentazione in trials clinici. Tuttavia la complessità delle alterazioni genetiche della cellula mielomatosa e le conseguenti alterazioni nell’ambito delle interazioni con il microambiente midollare suggeriscono la necessità di terapie combinate di più farmaci che permettano di aumentare la citotossicità e di superare il problema della resistenza ai farmaci. n IL RUOLO DELL’ANALISI GENOMICA NELLA CLASSIFICAZIONE MOLECOLARE E PROGNOSTICA DEL MM Lo sviluppo e l’applicazione di tecnologie di DNA microarray ha contribuito notevolmente in questi ultimi anni allo studio della genomica della cellula tumorale sia in ambito pre-clinico che clinico. A questo proposito uno strumento utile è la combinazione di diversi tipi di analisi molecolare, quali la FISH e i DNA microarrays, per la definizione sia del profilo di espressione genica globale (GEP) che del profilo DNA genomico (genotyping array). Gli studi di GEP condotti in diversi laboratori, incluso il nostro (128-131), hanno rivelato che le cellule mielomatose sono contraddistinte da un pattern trascrizionale distinto da quello delle plasmacellule normali. Al contrario le plasmacellule di mieloma multiplo non sono distinguibili da quelle dei pazienti con MGUS o PCL, mentre pattern di geni differenzialmente espressi coinvolti nel controllo del ciclo cellulare, nella modificazione del DNA, nella proliferazione ed apoptosi, sono identifica- bili confrontando plasmacellule di MGUS e quelle di PCL (Figura 7). Più recentemente Zhan et al. utilizzando analisi di tipo non supervisionato su geni differenzialmente espressi tra MGUS e MM, hanno identificato un gruppo di MM con un profilo trascrizionale definito come “MGUS-like” che presentavano dei parametri clinici favorevoli ed una più lunga sopravvivenza; questo profilo trascrizionale era associato alla maggior parte dei pazienti che mostravano una sopravvivenza superiore ai 10 anni dall’inizio della terapia (132). L’analisi GEP ha contribuito alla definizione di nuove classificazioni molecolari del mieloma multiplo con rilevanza sia biologica che clinica. In tal senso un aspetto importante è che molte delle alterazioni genetiche presenti nel mieloma multiplo, quali quelle che portano alla attivazione dei geni FGFR3, ciclina D1 o MAF possono essere identificate con GEP; inoltre studi di GEP hanno evidenziato come la deregolazione di almeno uno dei 3 geni delle cicline D 1-3 che controllano il passaggio dalla fase G1 alla fase S del ciclo cellulare, sia associata alla quasi totalità dei pazienti con MM. Sulla base di questa evidenza, Bergsagel et al hanno proposto una classificazione molecolare basata sulla presenza delle maggiori traslocazioni IGH e sull’espressione in GEP dei geni delle cicline (133). Questa classificazione definita come TC (translocation cyclins) riconosce cinque gruppi, TC1-5. In particolare, il gruppo TC1 è caratterizzato dalle traslocazioni t(11;14) o (6;14) ed overespressione rispettivamente della ciclina D1 o D3; i gruppi TC4 e TC5 dall’espressione della ciclina D2 e rispettivamente dalla traslocazione t(4;14) o da quelle coinvolgenti i geni MAF; il gruppo TC2 da assenza di traslocazioni note e moderata espressione di ciclina D1; il gruppo TC3 da espressione della ciclina D2, ciclina D1+D2 o assenza di espressione di entrambi. Studi condotti nel nostro laboratorio indicano questi gruppi con la sola eccezione del gruppo TC3, sono caratterizzati da specifici profili di espressione (134). In particolare il gruppo TC2, rappresentato nella maggioranza dei casi da pazienti iperdiploidi, è caratterizzato dall’overespressione di geni coinvolti nella biosintesi proteica. Questa classificazione ha una sua potenziale applicazione clinica in quanto si basa su markers 17 18 Seminari di Ematologia Oncologica FIGURA 7 - A) Analisi non-supervisionata dei profili di espressione genica di plasmacellule purificate (CD138+) da 11 MGUS, 121 MM e 9 PCL e da 4 donatori sani (N). La matrice è stata generata usando un algoritmo di clustering gerarchico. I campioni sono raggruppati sulla base dei livelli di espressione dei trascritti (595 sonde) che variano maggiormente nell’intero dataset. Non si osserva un raggruppamento distinto delle tre forme di discrasia plasmacellulare, mentre i casi di MGUS sono parzialmente raggruppati con la componente normale.*= MGUS; += PCL. B) Rappresentazione dei profili di espressione dei trascritti (283 sonde) identificati come differenzialmente espressi nell’analisi supervisionata multi-classe di 11 MGUS, 121 MM e 9 PCL, effettuata con il software Significant Analysis of Microarrays (SAM). Si osservano geni positivamente/negativamente modulati in modo specifico nelle classi MGUS e PCL, mentre è evidente una marcata eterogeneità nel profilo di espressione della classe dei MM. In (A) e (B) ciascuna colonna rappresenta un campione e ciascuna riga un gene. La barra colorimetrica indica le variazioni di espressione genica relative normalizzate rispetto alla deviazione standard. La classificazione TC è riportata per i 121 casi di MM. (Hideshima et al., 2004; Agnelli et al., 2005). Biologia e genetica molecolare facilmente individuabili con l’analisi in FISH; al tempo stesso ha dei limiti in quanto la definizione dei cut-off per l’espressione dei geni delle cicline non è un criterio facile; non vengono identificati i pazienti iperdiploidi; il significato clinico-biologico dei pazienti con espressione della ciclina D2 rimane ancora da chiarire. Successivamente, Zhan et al. sulla base di uno studio di GEP su piattaforma Affymetrix in 414 MM alla diagnosi ed utilizzando un’analisi di tipo nonsupervisionato, hanno proposto una classificazione molecolare del MM in sette gruppi (135) caratterizzati da: una overespressione di geni coinvolti nel controllo del ciclo cellulare e della proliferazione (gruppo PR per proliferazione); una bassa espressione di geni coinvolti nelle lesioni ossee, quali gli antagonisti del pathway wnt come dickkopf 1 (DDK1) and frizzeld B, ed un basso numero di alterazioni ossee focali alla risonanza magnetica (gruppo LB = low bone disease); una overespressione dei geni MMSET/WHSC1 e FGFR3 (gruppo MS per MMSET); una overespressione di geni ciclina D1 o D3 (gruppi CD-1 e CD-2); una overespressione dei geni MAF o MAFB (gruppo MF); presenza di iperdiploidia (gruppo HY). Questi autori hanno evidenziato sulla base di un follow-up medio di 36 mesi, che i pazienti inclusi nei gruppi PR, MS e MF avevano una prognosi in termini di OS e EFS significativamente peggiore dei pazienti nei gruppi HY, CD-1, CD-2 e LB. Successivamente, utilizzando la stessa casistica, questi autori hanno identificato un gruppo di 70 geni la cui bassa (19 geni) o alta espressione (51 geni) è in grado di classificare i pazienti ad alto rischio dimostrando inoltre come 17 di questi geni siano in grado da soli di predire la prognosi in questo gruppo di pazienti (136). Questo classificatore si è mostrato essere un fattore indipendente nel predire l’outcome clinico in una analisi multivariata che includeva la stadiazione ISS e le traslocazioni cromosomiche. Interessante il fatto che circa il 30% di questi 70 geni sia localizzato sul cromosoma 1 con la maggior parte dei geni upregolati localizzati sul cromosoma 1q e quelli downregolati sul cromosoma 1p. Un gene fortemente upregolato è CKS1B, un membro della famiglia di proteine CKs/Suc1 che modulano l’attività di proteine kinasi ciclinedipendenti. In particolare, CKS1B promuove la degradazione ubiquitina-mediata del gene soppressore p27 facilitando la progressione del ciclo cellulare. È stato dimostrato come il knockout di CKS1B in cellule di mieloma porta ad un accumulo di p27 ed ad un aumento dell’apoptosi supportando quindi il ruolo putativo della deregolazione di CKS1B nella neoplasia (132). Più recentemente, Decaux et al. hanno presentato uno studio dell’Intergruppo Francese del Mieloma (IFM) derivato dall’analisi GEP di 182 pazienti trattati con terapie ad alte dosi e trapianto autologo (137). Questo studio ha permesso di individuare, tramite analisi di tipo supervisionato, un pattern trascrizionale caratterizzato da 15 geni associato in modo significativo alla sopravvivenza ed in grado di identificare pazienti ad alto rischio con maggiore accuratezza rispetto ai criteri di stadiazione quali ISS e la FISH. Questo modello è stato validato su un test set di 82 pazienti ed in tre serie indipendenti di pazienti per un numero complessivo di 853 casi. È importante considerare che questo studio è stato condotto su una piattaforma accademica e quindi non disponibile commercialmente, e che nessuno dei 15 geni identificati da questi autori era incluso nella lista dei 70 geni descritti da Shaughnessy et al. (136, 136). La introduzione della tecnica di arrayCGH (aCGH) e più recentemente, quella che si basa su arrays con oligonucleotidi specifici per polimorfismi a singolo nucleotide (SNP-array) ha permesso di esaminare a livello globale ed in modo sensibile le alterazioni genomiche nelle cellule tumorali in generale, e di mieloma in particolare (33, 138, 139). Entrambe le tecniche non richiedono la presenza di metafasi ma sono in grado di visualizzare in particolare anomalie numeriche, quali delezioni o guadagni di regioni cromosomiche, ma non alterazioni strutturali, quali le traslocazioni cromosomiche. In particolare, la tecnica di SNP-array utilizzando sequenze polimorfiche presenti nel nostro genoma con una frequenza di una ogni 300 basi, permette la identificazione di regioni di delezione o di guadagno con una alta risoluzione di circa 2.5 kb (139). Questa tecnica è stata sviluppata da Affymetrix e si è evoluta rapidamente nel corso di pochi anni dai primi arrays che contenevano circa 10.000 SNPs a quelli odierni specifici per circa 1.5x10 6 19 20 Seminari di Ematologia Oncologica SNP (139). È importante il fatto che le informazioni ottenute non solo ci permettono di individuare alterazioni nel numero di copie alleliche ma anche di identificare l’allele presente. Quest’ultimo dato consente di identificare delle regioni caratterizzate da perdita di eterozigosità (LOH), in particolare quelle che non si accompagnano a perdita allelica e che sono in genere il risultato di fenomeni di disomia uniparentale (140). Questo tipo di alterazione che può essere di notevole importanza nella biologia del tumore, non è evidenziabile con citogenetica convenzionale o FISH (138). La condizione più comune di LOH identificata tramite SNP-arrays è la monosomia del cromosoma 13 come dimostrato in uno studio recente su una serie limitata di pazienti con MM (138). Altre regioni di LOH frequenti nella neoplasia includono il cromosoma 1p, 6q, 8p e 16q. È risultato evidente come in alcuni casi di monosomia 13, la delezione interessava differenti alleli in sottopopolazioni diverse. Per quanto riguarda il cromosoma 16q è stata dimostrata la presenza di LOH in tre regioni distinte che si associano alla significativa riduzione di alcuni geni quali CYLD (un regolatore negativo di NFkB pathway) nella regione 16q12 e WWOX (un putativo gene oncosoppressore) nella regione 16q23 (141). Nel nostro laboratorio, abbiamo analizzato un pannello rappresentativo di 41 MM e 4 PCL, mediante un approccio integrato di analisi di FISH, genotipizzazione (SNP-arrays) ed espressione genica. La prima parte dello studio ha riguardato la messa a punto di un sistema di normalizzazione dei dati di genotipizzazione generati su SNP microarray che prevede la correlazione tra il numero di copie (CN) identificate mediante analisi in FISH ed il valore inferito mediante analisi in microarray per ciascuna delle regioni di cui il dato di FISH risultava disponibile. L’algoritmo implementato consente la redistribuzione dei valori generati mediante microarray, utilizzando come valori di riferimento i dati di FISH ed indicanti il corretto CN. Questo ha consentito l’individuazione, normalmente mascherata nelle analisi convenzionali di genotipizzazione mediante SNP microarray, di una consistente frazione di pazienti con MM il cui genoma è affetto da ipotetraploidia. È sta- ta quindi applicata un’analisi di clustering gerarchico, che ha consentito di evidenziare come il guadagno del braccio lungo del cromosoma 1, la condizione di iperdiploidia e le delezioni dei cromosomi 13 e 14 sono le principali aberrazioni genetiche che guidano il raggruppamento dei campioni; i casi caratterizzati da uno stato di ipotetraploidia sono distinguibili come gruppo ben definito (Figura 8). In generale, oltre ai guadagni a carico della regione 1q e dei cromosomi coinvolti nell’iperdiploidia, perdite di copie alleliche a carico delle regioni 4p, 6q, 8p e 16q sono state evidenziate con un’alta frequenza. È stata successivamente compiuta un’analisi della perdita di eterozigosi (LOH) sulla base dei dati generati su microarray. Il quadro delineato nel nostro pannello di MM prevede la presenza di almeno tre scenari: 1) LOH in presenza di delezioni mono- o bialleliche (il più frequente); 2) LOH in assenza di perdita allelica (CN≥2), suggestivo di disomia uniparentale; 3) l’assenza di LOH anche quando il CN inferito indica perdita allelica, suggestivo della presenza di subcloni contenenti due differenti alleli. I profili genomici e la presenza di LOH sono stati quindi correlati con i dati di espressione genica. Un’analisi supervisionata multi-classe dei profili di espressione genica dei campioni, suddivisi nei cluster precedentemente identificati, ha evidenziato il coinvolgimento per lo più di trascritti caratteristici della signature del guadagno del braccio cromosomico 1q e dell’iperdiploidia, descritte in precedenti pubblicazioni (32, 77, 142). Successivamente, un’analisi di correlazione fra i livelli normalizzati di espressione genica e le variazioni locali di CN ha confermato il forte effetto di dosaggio genico, in particolare associato a trascritti localizzati nella regione 1q. Questi risultati suggeriscono come alterazioni nei profili di espressione genica nel MM siano in parte riconducibili all’acquisizione di specifiche anomalie genomiche strutturali. Un’ulteriore correlazione è stata stabilita tra la presenza di LOH e la diminuzione dei livelli di espressione di specifici geni, identificando una stretta correlazione per un numero consistente di geni localizzati nella regione 16q22 e per il gene RB1 in 13q14. In generale la perdita di eterozigosi (dovuta sia a delezio- Biologia e genetica molecolare ne sia a disomia uniparentale) può rappresentare una spiegazione al silenziamento genico in alcune regioni cromosomiche nel MM, come conseguenza di meccanismi epigenetici (quali ad esempio l’ipermetilazione a carico di regioni di promozione) regolanti la trascrizione. Infine, la recente scoperta dei geni microRNA (miRNA), una classe di piccoli RNA non codificanti coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare e nei programmi di sopravvivenza e differenziazione, ha aggiunto un ulteriore livello di complessità alla biologia della cellula normale e tumorale. Tramite la complementarietà a specifiche sequenze di trascritti codificanti proteine, i miRNA dirigono il silenziamento dell’mRNA per mezzo della degradazione del messaggero o della repressione della traduzione (143). Un’alterata espressione dei miRNA è già stata dimostrata in numerosi tumori solidi e, più recentemente, in alcuni disordini ematologici (144-146). Ad oggi, sono state riportate solo poche evidenze di espressione/deregolazione dei miRNA nel MM: recentemente è stato dimostrato che miR-21 può essere indotto da STAT3 e mediare la sopravvivenza IL6-indotta di HMCL (147). Successivamente, Pichiorri et al. hanno riportato i risultati di un’analisi di miRNA microarray e di PCR quantitativa real-time (Q-RT-PCR) condotta su HMCL, PC di pazienti con MM o MGUS e di controlli normali, mostrando un gruppo di FIGURA 8 - Istogramma delle frequenze alleliche in un pannelo di 41 MM and 4 PCL analizzate con SNP-array: GeneChip® Human Mapping 50k Xba 240 (Affymetrix). Nell’asse verticale è indicato il numero dei campioni mentre nell’asse orizzontale sono indicati i diversi cromosomi. Sono mostrate le frequenze alleliche dei quattro maggiori gruppi che originano da un’analisi di cluster gerarchico sulla stessa casistica. Cluster 1: prevalenza di pazienti con delezione del cromosoma 13 e delezione dei cromosomi 1p, 4p, 14q e 16q; Cluster 2: prevalenza di pazienti ipotetraploidi/quasi-tetraploidi; Cluster 3: prevalenza di pazienti iperdiploidi; Cluster 4: prevalenza di pazienti con delezione del cromosoma 13 e guadagno del cromosoma 1q. 21 22 Seminari di Ematologia Oncologica miRNA differenzialmente espressi che possono essere associati con la trasformazione e progressione della neoplasia (148). Dati recenti del nostro laboratorio utilizzando un approccio genomico integrato hanno rivelato l’espressione coordinata di alcuni miRNA intronici coi loro geni ospiti deregolati nel MM. In particolare, abbiamo monitorato i valori di espressione dei trascritti dei geni ospiti, generati su un microarray a oligonucleotidi Affymetrix, in un pannello di 20 HMCL, identificando i geni ospiti di miRNA la cui espressione variava in modo significativo nel dataset. È stato così possibile evidenziare una correlazione significativa tra i livelli di espressione di tre geni, MEST, EVL e GULP1, e quelli dei corrispondenti miRNA, rispettivamente miR-335, miR-342-3p e miR-561 che è stata confermata anche in tumori primari. I target putativi predetti dei miRNA e i profili trascrizionali associati coi tumori primari hanno suggerito come MEST/miR-335 e EVL/miR-342-3p possano avere un ruolo nell’homing delle PC e/o nelle interazioni col microambiente midollare (149). Queste prime evidenze suggeriscono, come già ampiamente osservato in altri tumori, che i miRNA possono giocare un ruolo critico anche nel MM, e il loro profilo di espressione potrebbe aggiungere un ulteriore livello alla comprensione della sua patogenesi. L’integrazione dei dati ottenuti con approcci multipli di tecnologie d’avanguardia contribuirà ad incrementare l’affidabilità e la significatività delle nostre indagini, e a fornire una sinergia di informazioni in grado di consentire l’individuazione di nuovi pathway patogenetici e nuovi trattamenti terapeutici nel MM. n CONCLUSIONI Gli studi sulla caratterizzazione molecolare del MM hanno aumentato notevolmente le nostre conoscenze sulla complessa eterogeneità clinico/biologica della neoplasia contribuendo alla definizione di nuovi sottogruppi ed ad una loro migliore stratificazione prognostica. In tal senso, gruppi genetici ad alto rischio, come i pazienti con t(4;14), sembrano poter beneficiare di nuove terapie, quali il bortezomib, per superare l’impatto prognostico sfavorevole anche dopo terapie ad alte dosi. Pertanto, è sempre più attuale la necessità di includere l’analisi genetica nella pratica clinica in modo da guidare la prognosi ed il tipo di trattamento. Al tempo stesso, la disponibilità di tecnologie avanzate ad alta risoluzione per l’analisi di espressione e del profilo genomico ha dato la possibilità di definire meglio l’eterogeneità della neoplasia. Nel prossimo futuro, sarà auspicabile che queste conoscenze possano essere traslate nella pratica clinica in modo tale da rendere sempre più mirata la scelta terapeutica. n BIBLIOGRAFIA 1. Kyle RA, Rajkumar SV Multiple myeloma. N Engl J Med. 2004; 351: 1860-73. 2. Kyle RA, Therneau TM, Rajkumar SV, et al. A longterm study of prognosis in monoclonal gammopathy of undetermined significance. 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Occasionalmente, in meno del 5% dei pazienti, può non essere presente una componente M sierica o urinaria; in tal caso il MM viene definito non secernente e per il monitoraggio della taglia neoplastica e delle sue variazioni in corso di terapia è utile il dosaggio delle catene leggere libere sieriche (serum free light chain assay) (1). All’aumentata produzione di immunoglobuline monoclonali, alle loro peculiari caratteristiche chimico-fisiche, all’espansione della massa neoplastica e, soprattutto, alla produzione paracrina ed autocrina di citochine sono associati i caratteristici quadri clinici di presentazione della malattia, tra cui si distinguono, per incidenza e severità, la patologia osteoporotica-osteolitica dell’apparato scheletrico, l’interessamento renale e l’aumentata morbilità infettiva (2). Parole chiave: mieloma multiplo, chemioterapia ad alte dosi, trapianto autologo, nuovi farmaci. Indirizzo per la corrispondenza Prof. Michele Cavo Istituto di Ematologia e Oncologia Medica “Seràgnoli” Università degli Studi di Bologna Policlinico S. Orsola-Malpighi Via Massarenti, 9 - 40138 Bologna e-mail: [email protected] Michele Cavo 1 Plasmacellule midollari ≥10% e/o presenza di plasmocitoma confermato istologicamente 2 Presenza di componente monoclonale nel siero e/o nelle urinea 3 Disfunzione d’organo correlata al MM (1 o più)b: [C] Calcio elevato nel siero (calcemia >10.5 mg/L o superiore ai valori normali) [R] Insufficienza renale creatinina >2 mg/dL) [A] Anemia (Hb <10 g/dL o 2 g <normale) [B] Lesioni osteolitiche o osteoporosic *Salmon. Lo stadio IA diventa MM indolente o smouldering. Se non è rilevabile una componente monoclonale (MM non secernente), è richiesta una infiltrazione plasmacellulare midollare ≥30% e/o un plasmocitoma dimostrato istologicamente. b Possono occasionalmente presentarsi altre disfunzioni d’organo: queste sono sufficienti a porre diagnosi di MM se dimostrate essere correlate al mieloma. c Se è presente solo osteoporosi o una singola lesione e/o plasmocitoma solitario dimostrato istologicamente è necessaria una infiltrazione plasmacellulare midollare ≥0%. a TABELLA 1 - Criteri per la diagnosi di mieloma multiplo (necessari tutti e tre)*. La tabella 1 mostra i criteri per la diagnosi di MM, recentemente revisionati nella stesura delle ultime linee guida internazionali (3). La terapia del MM ha preso formalmente avvio a partire dagli anni ’50-’60 con l’introduzione del melfalan e prednisone, farmaci che sono rimasti essenziali per decenni, e che rivestono ancora oggi un ruolo di rilievo nell’armamentario terapeutico. L’incapacità di altri agenti chemioterapici, da soli o in combinazione, di influire positivamente sul prolungamento della sopravvivenza, mediamente pari a circa 3 anni, ha portato ad un periodo di sostanziale stagnazione terapeutica per oltre 20 anni. 30 Seminari di Ematologia Oncologica Agli inizi degli anni ’80 l’introduzione della chemioterapia con melfalan ad alte dosi seguito dal trapianto di progenitori emopoietici, autologhi e allogenici, ha aperto una nuova era terapeutica del MM. In aggiunta, nuovi e ancora più promettenti scenari terapeutici sono andati delineandosi nell’arco degli ultimi 10 anni grazie alla disponibilità di farmaci non antiblastici, in grado di esercitare la propria attività, oltre che sulle cellule neoplastiche, anche sulle cellule del microambiente midollare, il cui ruolo è cruciale nel promuovere la crescita e la progressione del clone mielomatoso e nell’indurne la resistenza alla terapia. Esempi paradigmatici di questa nuova classe di farmaci entrati nella pratica clinica quotidiana sono la talidomide ed i suoi analoghi immunomodulatori, in particolare la lenalidomide, e l’inibitore del proteasoma PS-341 (bortezomib). La dimostrazione dell’elevata efficacia dei nuovi farmaci nei pazienti con MM ricaduto/refrattario, non più responsivi alla chemioterapia, e dei loro peculiari meccanismi d’azione hanno fornito le basi razionali per lo sviluppo di recenti protocolli basati sull’impiego di talidomide, bortezomib, lenalidomide in combinazione con vecchie e consolidate terapie nelle fasi precoci di malattia, allo scopo di aumentare la citotossicità e di superare la farmacoresistenza, incrementando così le possibilità di prolungare la sopravvivenza globale (OS). Una recente analisi ha dimostrato un significativo prolungamento della OS dalla diagnosi di MM e dopo la ricaduta di malattia negli ultimi dieci anni, dopo l’introduzione dei nuovi farmaci nella pratica clinica (4). In questa rassegna, saranno presentate e discusse le principali opzioni terapeutiche del paziente con MM giovane (di età inferiore a 65 anni), con particolare riferimento all’uso della chemioterapia ad alte dosi con supporto di cellule staminali ed alla recente introduzione delle nuove molecole nel contesto di programmi di trapianto autologo. Allo stato attuale, il generale consenso della comunità scientifica è che un trattamento debba essere iniziato solo nei pazienti che abbiano un MM sintomatico con danno d’organo, come definito dalle recenti linee guida (Tabella 1) (3). n CHEMIOTERAPIA AD ALTE DOSI CON SUPPORTO DI CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE AUTOLOGHE Singolo trapianto autologo Pionieristicamente impiegato agli inizi degli anni ’80 in un piccolo numero di pazienti con MM ad alto rischio e refrattario, il melfalan ad alte dosi con supporto di progenitori emopoietici, dapprima midollari, e più recentemente del sangue periferico, rappresenta uno dei capisaldi della terapia di prima linea per pazienti con MM ed età inferiore a 65 anni. Benché il trapianto autologo non garantisca la guarigione del MM, esso aumenta significativamente la percentuale di raggiungimento della remissione completa (RC) (di circa il 20-30% in diversi studi di fase II) (5,6) e, seppure senza univoca dimostrazione, prolunga la sopravvivenza libera da eventi (EFS) e la OS (con raggiungimento di valori mediani pari a circa 45 anni), con una mortalità che attualmente è pari a quella della chemioterapia convenzionale (12%) (7, 8). Dopo quasi 30 anni di pratica clinica, infatti, questa procedura è ormai standardizzata e diffusa a livello internazionale, tanto da rappresentare il 25% dei trapianti autologhi con supporto di cellule staminali eseguiti in Europa e negli Stati Uniti (9). Le basi razionali per l’applicazione del trapianto autologo nel MM risiedono sulla esistenza in vitro ed in vivo di un effetto dose-risposta per il melfalan, con conseguente superamento della chemio resistenza. La formale dimostrazione della superiorità del singolo trapianto autologo nei confronti della chemioterapia convenzionale nella terapia di prima linea del MM deriva da alcuni trials randomizzati che saranno oggetto di analisi per quanto concerne le loro peculiarità e differenze. Due ampi studi prospettici randomizzati condotti dall’ Intergroupe Francophone du Myélome (IFM) (IFM-90) (10) e dal Medical Research Council (MRC) (11), hanno mostrato un significativo incremento della percentuale di raggiungimento della RC, fino a valori pari a circa il 3040%, con la chemioterapia ad alte dosi ed un prolungamento della sopravvivenza libera da eventi (EFS) e della OS di circa 12 mesi e 15 mesi, Il paziente giovane rispettivamente (Tabella 2). Più recentemente, sono state pubblicate le analisi finali di altri 3 studi randomizzati, che non hanno confermato in modo univoco il vantaggio in OS del trapianto autologo rispetto alla chemioterapia convenzionale. In particolare, uno studio francese del grup- Studio/Trial Comparazione po MAG (Myèlome-autogreffe group), mirato a pazienti con età compresa tra 55 e 65 anni, ha riportato solo un trend per una prolungata EFS, senza una significativa differenza in OS, ed una significativa estensione del tempo senza sintomi e alla successiva terapia (TWISTT: time Random N. paz. Follow-up mediano (mesi) RC (%) (p) EFS (mediana, mesi) (p) OS (mediana, mesi) (p) Attal (IFM 90) ® Pre-terapia 200 108 5 vs 22 (≥nCR) (.001) 18 vs 28 (.01) 44 vs57 (.03) (a 7 aa 20% vs 35%) Child (MRC VII) ® Pre-terapia 401 42 8 vs 44 (.001) 20 vs 32 (.001) 42 vs 54 (.04) (a 4 aa 46% vs 55%) Bladè (PETHEMA) ® CHT vs autotx PBSC Paz. responsivi all’induzione 216 66 11 vs 30 (.002) 34 vs 43 (NS) 67 vs 65 (NS) CHT (controlli storici) vs TT1 (doppio autotx) NA 304 114 n.r. vs 41 16 vs 37 (.0001) 43 vs 79 (.0001) (a 10 aa 15% vs 33%) ® CHT vs autotx PBSC Pre-terapia 190 120 NR 19 vs 25 (.07) 47 vs 47 (NS) Attal (IFM 94) ® singolo vs doppio autotx Pre-terapia 399 75 42 vs 50 (≥nCR) (NS) 25 vs 30 (.03) 48 vs 58 (.01) (a 7 aa 21% vs 42%) Cavo (BO 96) ® singolo vs doppio autotx Pre-terapia 321 55 33 vs 47 (≥nCR) (.008) 23 vs 35 (.001) 65 vs 71 (NS) Fermand (MAG 95) ® singolo vs doppio autotx Pre-terapia 193 53 39 vs 37 (≥VGPR) (NS) 31 vs 33 (NS) 49 vs 73 (NS) Pre-terapia 303 68 13 vs 28 (.002) 20 vs 22 (.01) 55 vs 60 (NS) ® Goldshmidt singolo vs Pre-terapia (GMMG-HD2) doppio autotx 210 NR NR 23 vs 29 (.03) NR Barlogie (TT1 e SWOG) Fermand (MAG 91) Segeren (HOVON) CHT vs autotx midollo CHT vs autotx PBSC ® singolo vs doppio autotx Note: RC remissione completa, EFS sopravvivenza libera da eventi, OS sopravvivenza globale, CHT chemioterapia convenzionale, PBSC cellule staminali del sangue periferico, ®randomizzato, TT1 total therapy I, IFM Intergroupe francophone du myèlome, MRC medical research council, PETHEMA programma para el estudio y tratamiento de las hemopatìas malignas, SWOG South west oncology group, HOVON Hemato-oncologie voor volwassen nederland, BO Bologna, MAG Myèlome autogreffe, GMMG german speaking myeloma multicenter group, auto tx autotrapianto, n.r. non raggiunta, p significatività statistica, NS non significativo, nCR remissione quasi completa, NA non applicabile, NR non riportato. TABELLA 2 - Risultati dei principali studi di singolo e doppio trapianto autologo nel MM. 31 32 Seminari di Ematologia Oncologica without symptoms, treatment and treatment toxicity) (12). Un secondo studio dell’intergruppo americano SWOG (Southwest Oncology Group) non ha riportato una significativa differenza in termini sia di raggiungimento della RC che della EFS e OS tra la chemioterapia convenzionale e la chemioterapia ad alte dosi (13). Infine il terzo studio del gruppo cooperatore spagnolo PETHEMA (Programma para el Estudio de la Terapéutica en Hemopatia Maligna) prevedeva la randomizzazione dei soli pazienti responsivi alla chemioterapia di induzione, escludendo quindi i pazienti a prognosi peggiore (chemio resistenti) che potevano maggiormente beneficiare della terapia ad alte dosi. I risultati di questo protocollo dimostrano un significativo incremento delle percentuali di RC a favore dei pazienti randomizzati a ricevere il trapianto autologo (30% vs 10% nel gruppo di controllo), senza evidenziare alcun vantaggio in termini di EFS e OS (14). La controversia tra questi cinque studi è in parte sicuramente imputabile alla eterogeneità nei disegni dei protocolli e alla differente durata del follow-up, che li rendono tra loro poco paragonabili. In particolare differivano significativamente i criteri di randomizzazione dei pazienti, la durata e l’intensità della dose della chemioterapia convenzionale, la dose di melfalan impiegata come condizionamento al trapianto, la terapia di mantenimento post trapianto o post chemioterapia ed infine la percentuale di pazienti che effettuavano il cross over tra il braccio di confronto e la chemioterapia ad alte dosi (Tabella 2). In considerazione degli elementi appena riportati e dei risultati degli studi IFM e MRC, nelle linee guida stilate dal National Comprehensive Cancer Network, versione 2.2009, il trapianto autologo è raccomandato come terapia standard per pazienti ad esso candidati per età e/o assenza di comorbidità. Pur in presenza dei vantaggi offerti dal singolo trapianto autologo rispetto alla chemioterapia a dosi convenzionali in termini di incremento significativo della percentuale di ottenimento della RC e prolungamento del tempo alla progressione (TTP), in tutti gli studi pubblicati è rilevabile una assoluta mancanza di plateau nelle curve di EFS e OS, segno di incapacità di eradicazione del clo- ne neoplastico da parte di una singola linea di chemioterapia sovramassimale con supporto di progenitori emopoietici autologhi. Nel tentativo di migliorare i risultati terapeutici attraverso una riduzione del rischio di ricaduta o progressione della malattia, in alcuni studi sono state investigate procedure di purging (depurazione) delle cellule tumorali contaminanti la sorgente di progenitori emopoietici (15, 16). Nonostante sia stata dimostrata la possibilità di ridurre significativamente la quota di cellule mielomatose midollari o presenti nel sangue periferico, l’unico studio controllato sino a questo momento pubblicato non ha evidenziato alcun beneficio clinico dei pazienti così trattati, in termini di OS e EFS (17). Come già accennato, uno degli elementi di discordanza tra gli studi riportati era rappresentato dai diversi regimi di condizionamento al trapianto, comprensivi o meno della irradiazione corporea totale (TBI). Il confronto tra queste differenti procedure è stato oggetto di uno studio randomizzato condotto dall’IFM che ha consentito di dimostrare la minore tossicità ematologica ed extraematologica di melfalan alla dose di 200 mg/mq nei confronti della combinazione melfalan alla dose di 140 mg/mq + TBI (18). Sulla base dei risultati di questo studio, il solo melfalan ad alte dosi è attualmente ritenuto essere la migliore terapia pre-trapianto autologo. Non sono disponibili studi prospettici randomizzati relativi all’efficacia e tossicità del trapianto autologo in pazienti di età inferiore a 65 anni e con insufficienza renale cronica. Ciononostante, da evidenze derivate da studi non controllati appare chiaro come la procedura sia fattibile, e ad un rischio contenuto, soprattutto utilizzando dosi di melfalan opportunamente ridotte (sino a 140-100 mg/mq) (19, 20). Doppio trapianto autologo La correlazione in vivo tra la dose di melfalan e la risposta alla terapia, da un lato, e la rapida ricostituzione emopoietica assicurata dall’impiego del sangue periferico come fonte di cellule staminali, dall’altro lato, hanno portato all’esplorazione, alla fine degli anni ’90, del ruolo del doppio trapianto autologo a supporto di due linee sequenziali di chemioterapia ad alte dosi, con l’obietti- Il paziente giovane vo di aumentare la probabilità di ottenimento della RC e di prolungare la durata di controllo della malattia e l’OS. Il primo studio prospettico di doppio trapianto autologo, noto con il nome di Total Therapy I (TT1), e sviluppato dal gruppo di Little Rock (US), mostrava una percentuale di RC al termine del programma terapeutico pari al 40%, con una mortalità complessiva non superiore al 3% (21). Con un follow-up mediano di 12 anni, il 30% dei pazienti arruolati nel protocollo era vivo a 10 anni, il 15% era libero da eventi ed il 18% manteneva una condizione di RC. Successivamente, sono stati eseguiti alcuni studi prospettici randomizzati volti a paragonare il doppio con il singolo autotrapianto, i cui principali risultati sono riassunti nella Tabella 2. Lo studio randomizzato francese IFM 94, volto a paragonare il singolo verso il doppio autotrapianto, non ha evidenziato una differenza statisticamente significativa nella percentuale di raggiungimento della RC, mentre è risultato significativo l’incremento della EFS e OS a favore del gruppo randomizzato a ricevere due autotrapianti di PBSC (42% a 7 anni vs 21% e 20% vs 10% a 7 anni rispettivamente) (22). Un secondo ampio studio randomizzato condotto dal gruppo italiano di Bologna ha mostrato l’ottenimento di una maggior percentuale di RC (con negatività o positività dell’immunofissazione sierica) nei pazienti randomizzati a ricevere due trapianti, un prolungamento significativo (pari a circa 12 mesi) dell’EFS a favore del doppio autotrapianto mentre non ha mostrato una differenza significativa in termini di OS tra i due gruppi analizzati (23). Nella tabella 2 sono riportati gli altri studi randomizzati di singolo vs doppio autotrapianto, i cui risultati sono stati contrastanti, soprattutto per quanto concerne l’OS (24-26). A ciò hanno contribuito la differente durata del follow-up, l’elevato drop-out rate dei pazienti randomizzati al doppio trapianto ma che non l’hanno mai ricevuto, l’applicazione del secondo autotrapianto come terapia della ricaduta dei pazienti randomizzati ad un singolo trapianto autologo e l’impatto dei nuovi farmaci come terapia di salvataggio. Tanto nello studio italiano che in quello francese i maggiori benefici clinici del doppio autotrapianto sono stati conseguiti in quei pazienti che non avevano ottenuto una risposta maggiore (RC o almeno una VGPR) dopo il primo trapianto autologo (22, 23). Sulla base di questi risultati, nelle linee guida stilate dal National Comprehensive Cancer Network, versione 2.2009, il secondo trapianto autologo è ritenuto essere una possibile opzione terapeutica da offrire ai pazienti con risposta non ottimale dopo il primo autotrapianto. Nel tentativo di migliorare ulteriormente i risultati terapeutici, più recentemente sono stati disegnati nuovi protocolli, come la total therapy 2 (TT2), nei quali il doppio trapianto autologo era preceduto da una chemioterapia di induzione intensificata e seguito da una terapia di consolidamento, con o senza l’aggiunta di talidomide (27). In questi studi è stato inoltre evidenziato l’impatto prognostico sfavorevole sull’outcome del doppio trapianto di almeno due fattori: le alterazioni cromosomiche (delezione/monosomia del cromosoma 13, delezione di p53, traslocazioni coinvolgenti il cromosoma 14 sul locus IgH) (28-32) e elevati livelli di b2-m alla diagnosi (33). Viceversa, per una piccola percentuale di pazienti, considerati a basso rischio per l’assenza di anomalie cariotipiche e per bassi livelli di b2 microglobulina, esiste un plateau nelle curve di sopravvivenza post trapianto (34). n INTEGRAZIONE DEI NUOVI FARMACI CON IL TRAPIANTO AUTOLOGO La dimostrata efficacia dei nuovi farmaci nel trattamento del MM in fase avanzata e refrattaria ha rappresentato il presupposto del loro successivo impiego in pazienti con malattia di nuova diagnosi, portando a numerosi studi clinici in pazienti giovani, candidati a programmi di terapia ad alte dosi con trapianto autologo. In questo contesto, i nuovi farmaci sono stati impiegati nell’intento di raggiungere i seguenti obiettivi: a) massimizzare la riduzione della taglia neoplastica prima della chemioterapia ad alte dosi (nuovi farmaci nel regime di induzione pre-trapianto); b) consolidare e migliorare la RC ottenuta dopo il trapianto autologo e, conseguentemente prolungare la PFS e OS (nuovi farmaci nel consolidamento e mantenimento post-trapianto). 33 34 Seminari di Ematologia Oncologica L’introduzione dei nuovi farmaci nei regimi di induzione pre-trapianto ha drasticamente modificato il ruolo della chemioterapia convenzionale, in particolare della combinazione vincristina, adriamicina e desametasone ciclico (VAD), che ha rappresentato, per oltre 20 anni (35), la terapia di elezione in preparazione al trapianto autologo (36). Di seguito verranno discussi i principali protocolli comprensivi di nuovi farmaci integrati nel contesto della chemioterapia ad alte dosi con supporto di progenitori emopoietici autologhi, di cui siano ad oggi disponibili le analisi definitive o i risultati ad interim. Talidomide in preparazione al trapianto autologo (Tabella 3) La talidomide ha riscattato un passato nefasto e tristemente famoso grazie alla sua efficacia, dimostrata dapprima in pazienti con MM refrattario/ricaduto e, successivamente, come terapia di prima linea. Con quest’ultima indicazione il farmaco è stato recentemente registrato negli Stati Uniti, dove attualmente costituisce la terapia più frequentemente utilizzata nel MM di nuova diagnosi. Hanno contribuito a questo successo dapprima i risultati di tre studi pilota di fase II nei quali veniva riportata una risposta alla combinazione talidomide-desametasone (TD) in un range compreso tra il 62% ed il 72% (comprensivo di una percentuale di CR pari all’8-12%) (37-39) e, più recentemente, di uno studio randomizzato di fase III dimostrante la superiorità di TD nei confronti della terapia con solo desametasone in termini di probabilità di risposta (63% vs 41%, rispettivamente; P=.001) (40) e TTP (22.6 mesi vs 6.5, p<0.001). In uno studio retrospettivo case-matched in pazienti candidati a ricevere un doppio trapianto autologo, l’impiego della combinazione TD come terapia di prima linea si è dimostrata offrire un significativo vantaggio rispetto al classico regime VAD in termini di una più elevata probabilità di ottenimento della risposta ≥PR (76% vs 52%, rispettivamente; P=.0004), senza interferire negativamente con la capacità di raccogliere un adeguato numero di PBSC (41). La superiorità di TD rispetto a VAD prima del trapianto autologo è stata recentemente confermata da uno studio prospettico randomizzato fran- cese, il cui obiettivo primario era la valutazione dell’ottenimento di una riduzione della componente M di almeno il 90% (VGPR). In questo studio, il significativo incremento del rate di VGPR a favore di TD nei confronti del VAD prima della raccolta di cellule staminali (24.7% vs 7.3%, rispettivamente; P=.002) non si è però poi tradotto in un incremento altrettanto significativo della VGPR a favore di TD dopo il trapianto autologo (42). In aggiunta al desametasone, la talidomide è stata anche studiata in associazione ad uno o più farmaci chemioterapici convenzionali come terapia di induzione prima del trapianto autologo. In questo contesto, tre studi prospettici randomizzati hanno dimostrato la più elevata percentuale di risposta ottenuta con l’associazione talidomide-doxorubicina-desametasone (TAD) nei confronti del classico VAD (risposta ≥ VGPR: 33% vs 15%, rispettivamente; P=.001 dopo la terapia di induzione e 49% vs 32%, rispettivamente; P=.001 dopo il trapianto) (43,44) oppure con talidomide associata ad un regime VAD-simile nei confronti del medesimo regime privo di talidomide (risposta ≥ PR: 81% con 15% CR vs 63% con 12% CR, rispettivamente; P=.048) (45). Molto promettente, soprattutto per quanto concerne l’elevata probabilità di ottenimento della RC, è anche la combinazione ciclofosfamide,talidomide, desametasone (CTD) testata prospetticamente nell’ambito di un protocollo randomizzato condotto dall’MRC. Infine, l’inserimento di talidomide nel contesto di una chemioterapia intensificata di induzione e di consolidamento somministrate, rispettivamente, prima e dopo il doppio trapianto autologo (total therapy 2) (TT2) è stata riportata una probabilità di CR pari al 62% vs 43% per il medesimo regime privo di talidomide; P<.001) (46). In due di questi studi l’inserimento di talidomide ha comportato anche un prolungamento significativo della sopravvivenza libera da progressione di malattia (PFS) e della sopravvivenza libera da eventi (EFS). Nonostante una prima analisi dello studio TT2 non mostrasse un vantaggio di sopravvivenza nei pazienti che ricevevano talidomide, un recente aggiornamento dell’analisi con un follow-up più prolungato ha mostrato invece un significativo prolungamento della OS nei pazienti a prognosi sfavorevole per la presenza Il paziente giovane Talidomide + Desametasone nell’induzione pre-trapianto Studio/Trial N. pazienti CR/nCR (%) ≥VGPR (%) ≥RP (%) EFS/PFS (mediana) OS (%) TVP (%) Rajkumar 2006 (ECOG E1A00, TD vs D fase III) 103 CR 4 NR 63 PFS 22 mesi 72 a 2 anni 17 Rajkumar 2008 (MM03, TD vs D fase III) 235 CR 8 44 63 PFS 15 mesi NR 11.5 Cavo 2005 (TD vs VAD case match) 100 CR 13 19 76 NR NR 15 Macro 2006 (TD vs VAD, fase III) 100 NR 35 66 NR NR 23 Talidomide + altri farmaci chemioterapici nell’induzione pre-trapianto Goldschmidt 2005/ Lokhorst 2008 (GMMG-HD3HOVON 50 TAD vs VAD, fase III) 201 4 33 72 NR NR 8 (no profilassi) Zervas 2007 (T-VAD-doxil vs VAD-doxil fase III) 117 15 63 81 PFS 59% a 2 anni 77% a 2 anni 8 Barlogie 2006 (TT2, fase II) 323 19 62 post tx NR NR 60 86 post tx EFS 56% a 5 anni 65% a 5 anni 24 Morgan 2007 (MRC Myeloma XI CTD vs C-VAD, fase III) 124 CR 19 51 post tx 38 87 NR NR NR Talidomide in mantenimento Autore Stewart 2004 Terapia PFS N. pazienti Prec terapia TAL 200/TAL 400 81% a 1 aa 45/22 Tx auto TAL vs osserv 56% a 3 aa vs 34% a 3 aa 197 vs 197 Tx auto TAL per 6 mesi vs doppio auto tx 85% a 3 aa vs 57% a 3 aa 98 vs 97 Tx auto 55% a 5 aa vs 40% a 5 aa NR Tx auto ® Attal 2006 Abdelkefi 2008 Barlogie 2008 ® ® TAL vs no TAL Note: NR non riportato RP risposta parziale, EFS event free survival PFS progression free survival , N° paz numero pazienti, T talidomide D desametasone VAD vincristina adriblastina desametasone TAD talidomide adriamicina desametasone TT2 total therapy 2 MRC medical research council CTD ciclofosfamide talidomide desametasone C ciclofosfamide CR remissione completa nCR remissione quasi completa VGPR remissione parziale di ottima qualità PR risposta parziale TVP trombosi venosa profonda, ®randomizzazione, osserv osservazione, aa anni, tx auto trapianto autologo, Prec terapia precedente terapia. TABELLA 3 - Risultati dei principali studi con talidomide in preparazione al, o nel contesto del, trapianto autologo. 35 36 Seminari di Ematologia Oncologica di alterazioni citogenetiche in cui talidomide era aggiunta alla chemioterapia (47). In conclusione, esiste ampia convergenza di dati circa la superiorità di risposta offerta da TD o dalla combinazione talidomide- chemioterapia rispetto ai classici regimi VAD o VAD-simili nel trattamento del MM di nuova diagnosi. Sulla base di questi risultati, e dell’assenza di una negativa interferenza di talidomide con la mobilizzazione di progenitori emopoietici autologhi, la combinazione TD o talidomide-chemioterapia rappresenta attualmente una delle terapie di elezione per pazienti candidati ad un successivo trapianto autologo. La scelta di un programma terapeutico di prima linea comprensivo di talidomide necessita, tuttavia, di essere soppesata con il rischio di tossicità ad esso connesso, in particolare di complicanze tromboemboliche, più frequentemente venose. Questo rischio, la cui patogenesi è ancora sostanzialmente poco conosciuta, è compreso tra il 15% ed il 20% circa per TD e può anche superare il 30% per l’associazione talidomidechemioterapia, in particolare nel contesto di regimi comprensivi della doxorubicina. È stato riportato come un’adeguata profilassi con eparina a basso peso molecolare oppure con warfarin o, in alternativa, con acido acetilsalicilico consenta di ridurre significativamente questa importante complicanza, anche se è a tutt’oggi ignoto quale, tra questi, sia il regime profilattico dotato di maggiore efficacia. Talidomide nel consolidamento/ mantenimento dopo il trapianto autologo (Tabella 3) In uno studio randomizzato di fase III la tollerabilità di due differenti posologie di talidomide (200 vs 400 mg al giorno) associata a prednisolone (50 mg a giorni alterni) è stata valutata in una serie di 61 pazienti che avevano ricevuto un trapianto autologo nei 60-100 giorni precedenti l’inizio della terapia di mantenimento (48). Nel gruppo di pazienti assegnati a ricevere la dose maggiore di talidomide, il 68% ha richiesto una riduzione posologica entro 6 mesi e solo il 41% è rimasto in terapia a 18 mesi dal suo inizio. Per contro, le rispettive percentuali tra i pazienti assegnati alla dose minore di talidomide sono state il 31% ed il 76%, rispettivamente. Come atteso, la neurotossicità periferica ha costituito la causa più frequente di riduzioni posologiche o di interruzioni del trattamento ed è stata, inoltre, la più frequente tossicità di grado 3-4 riscontrata nello studio. Analogamente, in uno studio prospettico randomizzato di fase III l’incidenza di neuropatia di grado 3-4 osservata durante la terapia di mantenimento con talidomide dopo doppio trapianto autologo è stata pari al 7% vs 5% nel gruppo di controllo (P<.001) (49). Per quanto concerne, invece, l’efficacia di talidomide, il medesimo studio ha dimostrato il vantaggio offerto da questo agente rispetto alla sola osservazione o ad una terapia con pamidronato in termini di ottenimento della migliore risposta dopo il doppio trapianto autologo (almeno una VGPR: 67% vs 55% vs 57%, rispettivamente; P<.001) e di un significativo prolungamento della sopravvivenza, sia globale (87% vs 77% vs 74% a 4 anni, rispettivamente; P<.04) che libera da eventi (52% vs 36% vs 37% a 3 anni, rispettivamente; P<.009) (49). In particolare, un’analisi multivariata ha evidenziato come il prolungamento della sopravvivenza libera da eventi fosse statisticamente significativo nei pazienti che avevano fallito l’ottenimento di almeno una VGPR dopo il doppio trapianto autologo (P<.004) e che non presentavano alla diagnosi alterazioni del cromosoma 13 (P<.006). Analogamente a precedenti studi, il 39% dei pazienti aveva dovuto interrompere la terapia di mantenimento dopo un tempo mediano di 8 mesi dal suo inizio, più frequentemente a causa di una neuropatia periferica (49). Infine uno studio randomizzato ha mostrato la superiorità di un singolo trapianto autologo seguito da sei mesi di terapia di mantenimento con talidomide rispetto al doppio trapianto autologo (50) (Tabella 3). Bortezomib in preparazione al trapianto autologo (Tabella 4) La dimostrata attività di bortezomib, il primo inibitore del proteasoma ad essere testato nella pratica clinica ed a ricevere l’approvazione negli US ed in Europa per il trattamento dei pazienti con MM refrattario o ricaduto (51), ha rappresentato il razionale di recenti studi investigazionali volti ad esplorare il ruolo di questo agente, in associazio- Il paziente giovane ne con il desametasone o con altri farmaci, nel contesto di programmi comprensivi del trapianto autologo. Con questo obiettivo, la combinazione bortezomib ± desametasone (bort ± dex) è stata inizialmente indagata in 32 pazienti; di questi, 10 hanno ricevuto soltanto terapia con bortezomib, mentre nei restanti 22 pazienti al bortezomib è stato successivamente associato il desametasone (bort-dex) a causa del mancato ottenimento di una PR dopo i primi 2 cicli o di una CR dopo 4 cicli (52). Complessivamente, la percentuale di almeno una PR è stata pari all’88%, includendo un 25% di CR o di remissione quasi completa (nCR, definita dalla negatività dell’elettroforesi con positività dell’immunofissazione); l’aggiunta del desa- metasone al bortezomib ha migliorato la qualità di risposta nel 68% dei casi, ma soltanto nel 4.5% ha consentito di ottenere una CR. Successivamente, il gruppo francese IFM ha eseguito uno studio prospettico, randomizzato di fase III volto a comparare bort-dex vs VAD prima del trapianto autologo (IFM 2005-01 trial) (53). I risultati dell’analisi ad interim presentati allo scorso ASCO meeting hanno dimostrato la superiorità del nuovo regime nei confronti del gruppo di controllo in termini di probabilità di ottenimento di una CR + nCR (obiettivo primario dello studio: 19% vs 9%, rispettivamente) e di almeno una PR (82% vs 67%, rispettivamente). Il vantaggio offerto da bort-dex in termini di raggiungimento di almeno una VGPR (43% vs 26% Bortezomib + Desametasone nell’induzione pre-trapianto Studio/Trial N° pazienti CR/nCR (%) ≥VGPR (%) ≥RP (%) EFS/PFS OS (%) Jagannath 2005 (B ± D fase II) 32 25 38 88 Mediana EFS 15 mesi 85% a 2 anni Harousseau 2008 (IFM 2005-01 VD vs VAD fase III) 240 19 19 post tx 47 63 post tx 83 84 post tx PFS 91% a 1 aa 95% a 1 anno Bortezomib + altri farmaci nell’induzione pre-trapianto Oakervee 2005 (PAD fase I/II) 21 CR 24 Post tx 43 62 post tx 81 95 post tx 95 Mediana PFS 29 mesi 95% a 2 anni Orlowski 2006 (V Doxil fase II) 57 28 NR 79 NR NR Reeder 2007 (Cybor-D fase II) 23 64 86 100 NR NR Wang 2007 (VTD retrospett) 38 CR 16 44 post tx NR NR 87 NR NR NR Cavo 2008 (GIMEMA VTD vs TD fase III) 129 nCR 33 54 post tx 61 75 post tx 92 NR NR NR Jagannath 2007 (Cybor-D + VTD fase II) 30 42 61 92 NR NR Barlogie 2007 TT3 (TT3-VTD-PACE fase II) 303 60 a 2 anni post tx NR NR EFS 84% a 2 anni 87% a 2 anni Note: RC remissione completa nCR remissione quasi completa VGPR remissione parziale di ottima qualità RP remissione parziale, EFS sopravvivenza libera da eventi, PFS sopravvivenza libera da progressione, OS sopravvivenza globale, tx trapianto autologo NR non riportato, B bortezomib, D desametasone, VD velcade-desametasone, VAD vincristina, doxorubicina, desametasone, PAD: velcade, doxorubicina, desametasone, V velcade, Cybor bortezomib, ciclofosfamide, desametasone, VTD velcade,talidomide,desametasone, TD talidomide, desametasone, VTD-PACE: VTD + ciclofosfamide, VP-16, cisplatino, adriblastina. TABELLA 4 - Risultati dei principali studi con bortezomib nell’ambito del trapianto autologo. 37 38 Seminari di Ematologia Oncologica per il gruppo di controllo) è stato mantenuto anche dopo il primo trapianto autologo, con conseguente minore necessità di ricevere il secondo trapianto per i pazienti assegnati alla terapia comprensiva di bortezomib rispetto al gruppo trattato inizialmente con VAD (22% vs 45%, rispettivamente) (53). In aggiunta, la maggiore efficacia terapeutica di bort-dex rispetto a VAD è stata anche confermata in pazienti ad alto rischio per presenza di delezione/monosomia del cromosoma 13 (CR + nCR: 25% vs 11%, rispettivamente) o di elevati livelli di beta2-microglobulina sierica (CR + nCR: 20% vs 9%, rispettivamente). Sulla base del dimostrato sinergismo esistente in vitro tra bortezomib e doxorubicina, l’impiego di questi due farmaci in associazione al desametasone (PAD) è stato esplorato come terapia primaria di induzione in una serie di 21 pazienti (54). Di questi, il 95% ha ottenuto almeno una PR ed il 29% una CR o nCR, che è stata successivamente incrementata sino ad un valore del 59% dopo la somministrazione del primo trapianto autologo. In un altro studio di fase II, la combinazione bortezomib-doxorubicina peghilata liposomiale (recentemente approvata negli US per il trattamento del MM refrattario) è stata somministrata per un totale di 8 cicli a 63 pazienti con malattia di nuova diagnosi, dei quali 57 sono risultati valutabili dopo i primi 2 cicli di terapia e soltanto 29 al termine dell’intero programma terapeutico (55). La percentuale di ottenimento di almeno una PR è stata pari al 58% e 79%, rispettivamente, mentre la CR + nCR è stata registrata nel 16% e 28% dei pazienti dopo, rispettivamente, 2 ed 8 cicli di terapia. Il regime PAD è attualmente confrontato in un protocollo prospettico randomizzato di fase III al VAD come terapia di induzione pre trapianto autologo dal gruppo olandese HOVON. Bortezomib è poi stato associato alla ciclofosfamide e desametasone in numerosi studi clinici di fase II, mostrando una elevata efficacia ed un buon profilo di tossicità (56, 57). Un altro promettente regime di prima linea utilizzato in preparazione al trapianto autologo, dopo essere stato applicato con successo nel trattamento del MM avanzato e refrattario, com- prende l’associazione bortezomib-talidomidedesametasone (VTD). I risultati riportati in una serie di 38 pazienti, 26 dei quali successivamente avviati al trapianto autologo, sono stati i seguenti: probabilità di risposta pari al 87%, comprensiva di un 16% di CR, e tempo mediano all’ottenimento di una risposta pari a 1.5 mesi o meno, con conseguente necessità di somministrazione di non più di due cicli per ottenere un efficace debulking della malattia prima del trapianto autologo (58,59). Un ampio studio multicentrico di fase III è stato condotto nell’ambito del Working Party GIMEMA Mieloma Multiplo, volto a confrontare VTD vs TD come terapia di induzione e di consolidamento somministrate, rispettivamente, prima e dopo il doppio trapianto autologo (60). L’analisi ad interim recentemente presentata ha dimostrato un significativo incremento della percentuale di ottenimento di una CR +nCR (obiettivo primario dello studio) a favore dei pazienti che ricevevano VTD sia dopo la terapia di induzione (VTD vs TD 33% vs 12%, rispettivamente, p=0.001) che dopo il primo trapianto autologo (VTD vs TD 54% vs 29%, rispettivamente, p=0.001). La miglior qualità della risposta per il gruppo randomizzato a ricevere VTD si è poi tradotto in un significativo prolungamento della EFS (p=0.047). In aggiunta, il vantaggio di VTD su TD è stato confermato anche nei pazienti ad alto rischio per la presenza di monosomia/delezione del cromosoma 13 o 17 e di traslocazione t(4;14) (60). In un trial multicentrico statunitense la terapia di induzione in preparazione all’ASCT in pazienti con MM di nuova diagnosi è consistito nella somministrazione sequenziale di 3 cicli di bortezomib (V)/ciclofosfamide (C)/desametasone (D) seguiti da altri 3 cicli di bortezomib (V), talidomide (T), desametasone (D) (61). Obiettivo primario dello studio era di incrementare la percentuale di CR/nCR dal valore di circa il 20%, quale era stato ottenuto in trials precedenti con VD ad un valore di circa il 40% con la somministrazione sequenziale dei regimi VCD/VTD. I risultati riportati ad una analisi preliminare relativamente a 26 pazienti valutabili su un totale di 30 pazienti arruolati hanno mostrato come la somministrazione di 3 cicli VTD sequenzialmente Il paziente giovane a 3 cicli VCD abbia consentito di incrementare la percentuale di CR/nCR dal 19% (dopo VCD) ad un valore finale pari al 41% e della percentuale di ≥VGPR dal 54% al 61%, con una percentuale complessiva di risposte pari al 92%. L’arruolamento nello studio di un più ampio numero di pazienti ed un più lungo follow-up potranno confermare le potenzialità dello schema sequenziale già dimostrate in via preliminare e meglio chiarire l’impatto di questo nuovo regime di induzione sull’andamento del trapianto (61). Il regime VTD è stato inoltre associato ad una polichemioterapia con cisplatino, doxorubicina, ciclofosfamide ed etoposide (PACE) nel contesto di un programma terapeutico comprensivo del doppio trapianto autologo (Total Therapy 3) (TT3) (62). Questo regime ha dimostrato una elevata efficacia, con percentuali di nCR e CR stabili a 2 anni assolutamente di rilievo (80% e 60%, rispettivamente) e una OS a due anni dell’87% (62). In una recente analisi sono stati confrontati i risultati della TT3 con la TT2, mostrando come l’aggiunta di bortezomib nella TT3 abbia comportato un significativo incremento sia della probabilità di ottenimento della CR (p=0.003), che della sua durata (p=0.008) e della EFS (p=0.0003) (63). Analogamente all’associazione TD, anche per la terapia di prima linea con bort-dex o bortezomibchemioterapia non è stata evidenziata alcuna interferenza negativa con la successiva mobilizzazione di progenitori emopoietici autologhi. Differentemente da quanto osservato nelle fasi avanzate della malattia, la piastrinopenia è stata riportata molto raramente. L’incidenza di neurotossicità di grado 3-4 è risultata compresa tra il 4% ed il 12%, e le complicanze tromboemboliche sono state non superiori al 2-3%. Lenalidomide in preparazione o meno al trapianto autologo (Tabella 5) La lenalidomide (CC-5013) è un analogo immunomodulatore di talidomide che in studi preclinici ha dimostrato possedere una maggiore attività rispetto al farmaco capostipite, nei confronti del quale ha un differente profilo di tossicità, sopratutto per la sostanziale assenza di neurotossicità. A seguito di due studi di fase III nei quali veniva dimostrato il significativo vantaggio offerto dall’associazione lenalidomide-desametasone (len-dex) rispetto al solo desametasone nel trattamento dei pazienti con MM ricaduto dopo una singola linea di terapia, la lenalidomide è stata Lenalidomide + Desametasone Studio/Trial N° pazienti CR/nCR (%) ≥VGPR (%) ≥RP (%) EFS/PFS OS (%) Rajkumar 2005 (LDfase II) 34 13 con tx CR 18 CR 8 56 39 91 100 PFS 83% a 2 anni 92% a 2 anni Rajkumar 2007 (Ld, fase III) 222 CR 1 42 71 Mediana 22 mesi 87% a 2 anni Kumar 2007 (CRd, fase II) 33 NR 19 84 NR NR Richardson 2008 (RVD fase I/II) 53 36 71 98 NR NR Wang 2007 (RVD, retrosp) 23 13 46 post tx NR NR 83 100 post tx NR NR Lenalidomide + altri farmaci Note: N° paz numero pazienti RP remissione parziale RC remissione completa nCR remissione quasi completa VGPR remissione parziale di ottima qualità OS sopravvivenza globale EFS sopravvivenza libera da eventi PFS sopravvivenza libera da progressione NR non riportato LD lenalidomide, desametasone Ld lenalidomide, desametasone basse dosi CRd ciclofosfamide, lenalidomide, desametasone a basse dosi RVD lenalidomide, bortezomib, desametasone retrosp retrospettivo TABELLA 5 - Risultati dei principali studi con Lenalidomide nei pazienti giovani con MM di nuova diagnosi. 39 40 Seminari di Ematologia Oncologica recentemente approvata con questa indicazione negli US ed in Europa. Così come per la talidomide ed il bortezomib, anche per la lenalidomide la dimostrata efficacia nelle fasi avanzate del MM ha rappresentato il razionale di studi volti ad esplorare il ruolo di questo agente nella terapia di prima linea. In uno studio di fase II, la combinazione len-dex in preparazione al trapianto autologo è stata esplorata in una serie di 34 pazienti, 31 dei quali (91%) hanno ottenuto almeno una risposta parziale, comprensiva di 6% di risposte complete e 32% di VGPR (64). Nonostante in questo studio la lenalidomide fosse associata ad alte dosi di desametasone (640 mg/mese), il rischio di complicanze tromboemboliche è stato pari al 3%. Questo dato non ha, tuttavia, ricevuto conferma in uno successivo studio di fase III, nell’ambito del quale la combinazione len-dex ad alte dosi veniva comparata con la medesima combinazione includente una dose totale mensile di desametasone pari a 160 mg. I risultati di un’analisi ad interim hanno riportato un rischio di complicanze tromboemboliche pari al 18.4% vs 5.4%, rispettivamente; la mortalità registrata entro i primi 4 mesi è stata pari al 5% vs 0.5%, e ciò si è tradotto in un vantaggio del 10% nella sopravvivenza globale a favore del regime len-dex a basse dosi (96.5% vs 86% per lendex ad alte dosi; P<.001) (65). I risultati preliminari di un piccolo studio di fase II su 33 pazienti hanno mostrato l’efficacia della combinazione lenalidomide-ciclofosfamide e desametasone a basse dosi come terapia di induzione pre-trapianto, con una risposta complessiva dell’84% (66). Inoltre è in corso uno studio di fase I/II volto a testare la combinazione di lenalidomide-bortezomib e desametasone, i cui risultati preliminari dimostrano una elevata efficacia (71% ≥ VGPR) (67). È necessario un follow-up più prolungato per poter effettivamente verificare l’impatto di queste combinazioni sull’outcome del trapianto autologo e dei pazienti. La mobilizzazione di progenitori emopoietici autologhi può essere negativamente influenzata da una terapia prolungata con lenalidomide e la raccomandazione è dunque di limitarne la durata come terapia di induzione pre-trapianto (68). Il rischio di complicanze tromboemboliche non è, invece, significativamente differente da quanto riscontrato con il farmaco capostipite e richiede, pertanto, un’adeguata profilassi. Bortezomib e lenalidomide nel mantenimento dopo il trapianto autologo Entrambi questi agenti sono attualmente inclusi in studi clinici volti a testarne l’efficacia ed il profilo di tossicità nella terapia di mantenimento dopo il trapianto autologo. Per la sostanziale assenza di tossicità neurologica, la lenalidomide rappresenta un candidato ideale in questo contesto, anche se la mielotossicità correlata all’impiego di questo agente impone cautela nel suo utilizzo dopo la somministrazione di una chemioterapia ad alte dosi. I risultati di questi studi non sono attualmente disponibili, neppure in forma estremamente preliminare. n CHEMIOTERAPIA AD ALTE DOSI CON SUPPORTO DI CELLULE STAMINALI EMATOPOIETICHE ALLOGENICHE Le basi teoriche dell’applicazione del trapianto allogenico (da donatore consanguineo o da donatore non correlato, HLA identico) risiedono nell’azione immunologica che il sistema immunitario trapiantato esercita nei confronti della taglia neoplastica residuante nel paziente (GVM=graft versus myeloma) dopo la terapia citoriduttiva. Prendendo in considerazione l’età, la disponibilità di un donatore e le adeguate funzionalità d’organo, questa opzione è applicabile solo nel 510% dei pazienti con MM. Nonostante i significativi miglioramenti registrati negli ultimi 15 anni, la mortalità legata al trapianto (TRM) rimane elevata (30-50% nelle diverse casistiche nel primo anno), come risultato della malattia da trapianto verso l’ospite (graft versus host disease) (GVHD) e delle infezioni opportunistiche; la procedura va pertanto riservata solamente a pazienti selezionati con caratteristiche di alto rischio di malattia (69, 70). Di contro, i pazienti che sopravvivono alla procedura, ottengono una remissione completa clinica e molecolare più frequente e duratura rispetto ai pazienti sottoposti al trapianto autologo (71, Il paziente giovane 72). L’OS a 3 anni è di circa il 56% e esistono dubbi circa la possibilità che la curva presenti un plateau (73). Il recente avvento del trapianto ad intensità ridotta (RIC) o non mieloablativo, con una riduzione della tossicità immediata post-trapianto, ha permesso di ampliare il numero dei pazienti a cui applicare la procedura (74). Ciononostante, gli unici soggetti che sembrano beneficiare in maniera significativa di questo trapianto sono i pazienti con MM di nuova diagnosi in cui il trapianto allogenico RIC fa seguito ad un trapianto autologo, eseguito alcuni mesi prima nell’intento di citoridurre la taglia neoplastica ed immunosopprimere il ricevente (75). Anche in questi pazienti la TRM rimane comunque relativamente elevata (15%), così come la tossicità legata alla GVHD acuta e cronica. Uno studio prospettico randomizzato francese, in cui pazienti con MM ad alto rischio per presenza alla diagnosi di elevati livelli di b2 microglobulina e di delezione del cromosoma 13 venivano assegnati all’esecuzione di doppio autotrapianto o di un trapianto autologo seguito da un trapianto allogenico RIC, non ha mostrato differenze nella sopravvivenza globale nei due bracci di randomizzazione (76). Viceversa, uno studio prospettico italiano in cui i pazienti venivano randomizzati a ricevere, sulla base della presenza o meno di un donatore familiare HLA identico, un doppio trapianto autologo oppure un trapianto autologo seguito da un trapianto allogenico RIC, ha mostrato un significativo vantaggio in termini sia di EFS che di OS a favore dei pazienti che eseguivano il tandem autoallotrapianto (80 mesi vs 54 mesi, p=0.01 e 35 vs 29 mesi, p=0.02, rispettivamente) (77). Anche in questo caso le discrepanze tra i due studi sono in parte spiegabili con differenze nei criteri di arruolamento dei pazienti e nei disegni dei protocolli. Infine uno studio retrospettivo dell’EBMT (European Bone Marrow Transplantation) su 320 pazienti sottoposti a RIC ha confermato la bassa TRM nei confronti dell’allotrapianto standard (24% vs 37% a 2 anni, rispettivamente), ma ha mostrato che questa viene ottenuta a scapito di una minore efficacia della GVM, che sfocia in una riduzione della EFS e OS nei confronti dell’allotrapianto a dosi piene (OS 38% vs 52% a 3 anni, EFS 19% vs 34.5%, rispettivamente) (78). Per molti studi di trapianto allogenico RIC è comunque opportuno un follow-up più lungo per trarre considerazioni conclusive. Attualmente, quindi, l’impiego del trapianto allogenico non mieloablativo nella terapia del MM rimane investigazionale e consigliabile solo nel contesto di studi clinici prospettici. Nulla è ancora noto circa il confronto della procedura trapiantologica auto + allotrapianto RIC con i nuovi protocolli di trapianto autologo che prevedono l’impiego combinato dei nuovi farmaci non chemioterapici. Sono inoltre in corso alcuni studi che prevedono l’integrazione di questi stessi nuovi farmaci nel contesto del trapianto allogenico-RIC. n CONCLUSIONI Nel corso degli ultimi anni il panorama terapeutico del MM è stato radicalmente modificato grazie all’introduzione nella pratica clinica di nuovi farmaci dotati di maggiore attività rispetto alla chemioterapia convenzionale ed in grado di potenziarne l’efficacia, quando ad essa associati. Attraverso l’impiego di questi agenti nella terapia di induzione pre trapianto autologo è stato possibile incrementare la probabilità di ottenimento della CR/nCR sino a valori precedentemente ottenuti soltanto con l’applicazione della chemioterapia ad alte dosi (79). I dati qui revisionati, in particolare quelli derivanti da studi clinici randomizzati di fase III, offrono un buon livello di evidenza sul fatto che questi regimi comprensivi di nuovi farmaci costituiscano la strategia terapeutica più promettente al momento disponibile per i pazienti con MM di nuova diagnosi. In particolare sembra evidenziarsi come attraverso questo approccio sia possibile incrementare significativamente la percentuale di CR dopo il trapianto autologo (54, 61), ridurre la necessità di un secondo autotrapianto in una certa percentuale di pazienti (54) e prolungare significativamente la durata di sopravvivenza libera da eventi (47, 48). Ci sono inoltre alcune evidenze che queste terapie combinate con nuovi farmaci possano superare l’impatto prognostico sfavorevole di alcune alterazioni genetico-molecolari, in particolare la delezione del cromosoma 13 e la traslocazione t(4;14) (54, 61). Al contempo, sono disponibili dati 41 42 Seminari di Ematologia Oncologica circa il ruolo favorevole di questi nuovi agenti nella terapia di consolidamento/mantenimento dopo il trapianto autologo (50). Tuttavia, il beneficio clinico derivante da questo nuovo paradigma terapeutico in termini di durata della risposta e di vantaggio di sopravvivenza potrà emergere solo dalle analisi conclusive di studi clinici ancora in corso e con un adeguato follow-up. Il ruolo del trapianto allogenico ad intensità ridotta deve essere ancora precisamente stabilito nell’ambito di trials clinici. È altresì auspicabile che la scoperta di nuove classi di agenti possano consentire l’applicazione di terapie mirate sul singolo paziente. Ringraziamenti Lavoro finanziato in parte da BolognAIL. n BIBLIOGRAFIA 1. Bradwell AR, Mead GP, Carr-Smith HD. Serum free light chain analysis-third edition, The binding Site Inc Ltd 2005. 2. Tura S, Cavo M. Il Mieloma Multiplo, in Ematologia, UTET. 1988; 453. 3. 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New Engl J Med. 2006; 354: 1076-8. 45 47 Il paziente anziano ALBERTO ROCCI, MARIO BOCCADORO, ANTONIO PALUMBO Dipartimento di Ematologia, Ospedale Molinette, Torino n INTRODUZIONE Il mieloma multiplo (MM) è una patologia incurabile che rappresenta circa il 10% di tutte le neoplasie ematologiche e la cui frequenza è in costante incremento (1, 2). Nel mondo l’incidenza varia da 0,4 a 5 casi per 100.000 abitanti, con una maggiore frequenza nei soggetti maschi residenti in paesi sviluppati e nei neri americani. Attualmente circa il 35% dei pazienti con MM ha meno di 65 anni, il 28% è fra 65 e 74 anni e il 37% dei pazienti ha più di 75 anni (3). Questa divisione per età è in continua evoluzione e i cambiamenti in corso nella curva demografica della popolazione generale causeranno nel prossimo futuro un verosimile aumento dell’incidenza di tale patologia nei soggetti anziani. L’eziologia è sconosciuta e non sono stati finora individuati fattori di rischio legati allo stile di vita, al tipo di lavoro o ai rischi ambientali. Come possibili fattori predisponenti sono stati ipotizzati: una predisposizione genetica, l’esposizioParole chiave: mieloma multiplo, talidomide, bortezomib, lenalidomide, paziente anziano. Indirizzo per la corrispondenza Antonio Palumbo Dipartimento di Ematologia Ospedale Molinette Via Genova, 3 10126 Torino E-mail [email protected] Antonio Palumbo ne a radiazioni ionizzanti o a sostanze chimiche, il fumo di tabacco, l’obesità e l’assunzione di alcol. Nessuna di queste situazioni è stata però finora correlata in maniera significativa alla patogenesi del MM (4). In alcuni pazienti il mieloma sintomatico evolve da una condizione benigna e del tutto asintomatica chiamata MGUS (gammopatia monoclonale di significato incerto). La MGUS è presente in circa il 3% della popolazione generale al di sopra dei 50 anni di età e il rischio di progredire in MM è stimato essere di circa l’1% annuo. In altri casi, invece di evolvere immediatamente in MM, la MGUS evolve in una fase intermedia nota come smoldering mieloma (SMM). Il rischio che un SMM progredisca in MM è di circa il 10% all’anno per i primi 5 anni, di circa il 3% per i successivi 5 anni e poi dell’1% annuo. Si è cercato di identificare alcuni marcatori che potessero predire la progressione a MM ed è stato riscontrato come la quantità di proteine monoclonali e l’estensione dell’interessamento midollare possano essere associati a un aumentato rischio di trasformazione in MM (5). Nessuna differenza in termini di overall survival (OS) è stata però notata in pazienti con MM de novo o in quelli che avevano precedentemente una discrasia plasmacellulare asintomatica come la MGUS o il mieloma smoldering (SMM) (6). Negli ultimi anni farmaci con un meccanismo d’azione innovativo come la talidomide, il bortezomib o la lenalidomide, si sono dimostrati efficaci nel trattamento del MM agendo sia sulle pla- 48 Seminari di Ematologia Oncologica smacellule (PCs) monoclonali che sulle cellule del microambiente midollare. La combinazione di questi nuovi farmaci con la terapia steroidea e gli agenti alchilanti ha permesso di incrementare le percentuali di risposta alla terapia e la progression free survival (PFS) (7). Nei pazienti di nuova diagnosi di età inferiore ai 65 anni, l’utilizzo di un regime di induzione contenente desametasone più farmaci di nuova generazione seguito da melphalan ad alte dosi e successivo autotrapianto di cellule staminali (ASCT) ha permesso di aumentare significativamente la percentuale di risposta. Nei pazienti anziani, di età maggiore di 65 anni, la terapia che per anni è stata considerata standard ovvero melphalan + prednisone (MP) è attualmente stata sostituita dalla terapia di associazione con nuovi farmaci che ha permesso di ottenere risultati significativamente migliori nella terapia del MM nel paziente anziano o in chi non è eleggibile per un approccio trapiantologico. n MGUS E SMM La MGUS è la più comune discrasia plasmacellulare, interessa il 3% circa della popolazione con più di 50 anni e la sua incidenza aumenta con l’aumentare dell’età. È caratterizzata dalla proliferazione di un singolo clone di plasmacellule secernenti una proteina monoclonale (M). Ciascuna proteina M è costituita da una catena polipeptidica pesante (γ per le IgG, α per le IgA, µ per le IgM, δ per le IgD e ε per le IgE) e da una singola catena leggera (κ o λ). È una condizione asintomatica caratterizzata da: - Proteina monoclonale <3 g/dl. - Plasmacellule monoclonali nel Midollo Osseo <10%. - Assenza di danno d’organo attribuibile alla azione delle plasmacellule (8). La MGUS è associata ad un rischio di progressione in MM di circa l’1% annuo. Il riscontro di MGUS è per lo più accidentale, quando un soggetto esegue l’elettroforesi delle proteine sieriche (SPEP) o urinarie (UPEP) per un controllo di routine. In seguito al riscontro di MGUS vi è un unanime consenso ad astenersi da alcuna terapia mantenendo solo una attenta osservazione. I sog- getti con MGUS possono essere stratificati in base al rischio di progressione a mieloma multiplo (basandosi sulla quantità o sul tipo di picco monoclonale e di catene leggere nel siero) per decidere la frequenza dei controlli di follow-up: i pazienti con basso rischio possono essere controllati 6 mesi dopo la diagnosi e poi ogni 2 anni fino alla eventuale progressione; gli altri soggetti vanno ricontrollati dopo 6 mesi dalla diagnosi e poi ogni anno (9). Il SMM rappresenta circa il 15% dei nuovi MM diagnosticati. È una condizione asintomatica che può essere diagnosticata accidentalmente ed è caratterizzata da: - proteina monoclonale >3 g/dl; - infiltrato plasmacellulare monoclonale a livello midollare >10%; - assenza di danno d’organo attribuibile alla proliferazione delle PC. Il SMM è associato ad un maggior rischio di trasformazione in MM o in patologie correlate rispetto alla MGUS (dal 10 al 20% per anno) pertanto i pazienti devono essere monitorati più strettamente (ogni 3 mesi circa) nonostante non vengano trattati finché non vi sia una franca progressione in MM sintomatico. Come per la MGUS, l’entità e il tipo di proteina monoclonale sono correlati con la progressione (10). n DIAGNOSI Negli stadi iniziali difficilmente si riscontrano sintomi di rilievo e molto spesso il MM viene diagnosticato in maniera casuale, durante un esame del sangue di routine nel quale si riscontrano alterazioni del quadro proteico. Man mano che la malattia progredisce compaiono disturbi sistemici come: dolore, astenia, infezioni ricorrenti, insufficienza renale e disfunzioni del sistema nervoso periferico. Esami da eseguire alla diagnosi In tutti i pazienti con diagnosi di MM dovrebbero essere eseguiti alcuni esami per permettere una corretta ed uniforme stadiazione e per seguire l’andamento della malattia. Fra questi vi sono l’elettroforesi delle proteine sieriche (SPEP) e urinarie (UPEP) sul campione di urine delle 24 ore Il paziente anziano Esami da eseguire alla diagnosi nel Mieloma Multiplo Esame Emocromocitometrico Elettroforesi delle Proteine Sieriche Elettroforesi delle Proteine Urinarie Immunofissazione Sierica / Urinaria Proteinuria Totale sulle Urine delle 24 ore Clearance della Creatinina Calcio Albumina b2-microglobulina LDH (Lattico Deidrogenasi) Aspirato Midollare Biopsia Osteomidollare RX sistematica scheletrica TABELLA 1 - Elenco degli esami da eseguire al momento della diagnosi di MM. e l’immunofissazione che permette di determinare la classe della proteina monoclonale e di individuare minime quantità di proteine monoclonali non rilevabili con l’elettroforesi. Per completare il quadro è necessario quantificare la proteina monoclonale utilizzando l’analisi al nefelometro. La misurazione delle catene leggere sieriche è stata introdotta nella pratica clinica per quantificare le catene κ e λ non costituenti una immunoglobulina intatta e permettere di monitorare i pazienti affetti da MM oligo/non secretore, MM a catene leggere e l’amiloidosi primaria. Inoltre il dosaggio delle catene leggere al momento della diagnosi rappresenta un fattore prognostico nel MM. La diagnosi di MM si basa anche sulla dimostrazione di un infiltrato di PCs monoclonali a livello del midollo osseo, pertanto è necessario eseguire aspirato midollare e biopsia ossea. Per ricercare la presenza di un danno d’organo occorre eseguire un emocromo completo, alcuni esami ematochimici come la creatinina e il calcio e la RX sistematica ossea. La risonanza magnetica nucleare (RMN) è più sensibile dell’Rx nell’evidenziare lesioni ossee, tuttavia al momento attuale la RMN viene considerata un esame di secondo livello, da eseguire solo se il paziente ha dolore osseo senza segni di alterato segnale all’RX oppure nel sospetto di compressione delle radici nervose. La tomografia computeriz- zata (TC) e la RMN sono indicate nel sospetto di plasmocitoma. Gli ulteriori esami da eseguire al momento della diagnosi sono riconducibili ai marcatori prognostici: b2-microglobulina, albumina, LDH e le analisi di citogenetica e FISH sull’aspirato midollare. Un elenco completo degli esami da eseguire alla diagnosi è presente nella Tabella 1. Criteri necessari per la diagnosi di MM A differenza di altre patologie neoplastiche, la terapia del MM va iniziata solo quando la malattia diventa attiva o vi è evidenza di danno d’organo. I pazienti con un MM sintomatico devono iniziare tempestivamente un trattamento chemioterapico. Il MM sintomatico è definito dalla presenza di: - Componente monoclonale nel siero o nelle urine (nei pazienti con componente monoclonale non riscontrabile si considera un rapporto delle catene leggere anormale). - Infiltrazione di PCs a livello midollare maggiore del 10% e/o diagnosi istologica di plasmocitoma. - Evidenza di danno d’organo attribuibile alla proliferazione plasmacellulare (criteri CRAB). C: ipercalcemia (calcio >10.5 mg/L) R: insufficienza renale (creatinina >2 mg/dL) A: anemia (emoglobina <10 g/dl) B: malattia ossea (lesioni litiche o osteopenia) (11). I sintomi più frequenti alla diagnosi sono l’astenia dovuta alla anemia e il dolore osseo dovuto alle localizzazioni di malattia a livello dello scheletro. In misura nettamente minore sono presenti epatomegalia o amiloidosi. Nei pazienti con MGUS o SMM l’identificazione del danno d’organo rappresenta una progressione chiara a MM e determina un rapido inizio della terapia. n FATTORI PROGNOSTICI Sebbene dal punto di vista istologico vi sia una certa omogeneità, l’andamento clinico del MM è abbastanza eterogeneo: alcuni pazienti hanno una malattia che si presenta da subito estremamente aggressiva, con una sopravvivenza di 49 50 Seminari di Ematologia Oncologica pochi mesi nonostante le terapie mentre altri pazienti possono vivere per più di 10 anni riuscendo a controllare la malattia per lunghi periodi. Questo aspetto ha spinto i ricercatori a valutare marcatori prognostici che potessero predire la sopravvivenza e di conseguenza stratificare i pazienti al momento della diagnosi in gruppi con differente prognosi. Sono stati quindi identificati alcuni fattori prognostici che possono risultare utili al clinico per stimare la prognosi del singolo paziente. Prima di affrontare i diversi fattori prognostici occorre ricordare che tali fattori sono stati individuati prima dell’avvento dei nuovi farmaci e gli studi che hanno validato l’efficacia di questi marcatori predittivi si basano su pazienti trattati con chemioterapia ad alte dosi e autotrapianto o con chemioterapia standard. Con l’introduzione dei nuovi farmaci nella terapia del MM appare quindi chiaro come siano necessari nuovi studi per confermarne la validità o identificare altri fattori prognostici più adatti alle nuove terapie. I fattori prognostici universalmente accettati sono: - l’International Staging System (ISS): è un modello di stratificazione molto semplice, potente e riproducibile che permette di classificare i pazienti in tre classi in base ai valori di b2-microglobulina e albumina alla diagnosi. Come rappresentato in Tabella 2, a seconda dei valori di questi due parametri ciascun paziente viene classificato in uno dei seguenti stadi: Stadio I con una sopravvivenza media di 62 mesi, Stadio II con una sopravvivenza media di 44 mesi e Stadio III con una sopravvivenza media di 29 mesi (12). Oltre ad essere di facile esecuzione, questa classificazione tiene in considerazione 2 diverse caratteristiche del tumore: la b2-microglobulina sierica riflette la massa tumorale e la funzio- nalità renale mentre i valori di albumina sono correlati agli effetti dell’interleuchina-6 prodotta dal microambiente midollare osseo a livello del fegato. - Le anomalie cromosomiche hanno dimostrato di avere un impatto sulla sopravvivenza dei pazienti con MM. Una prognosi peggiore è stata riscontrata nei pazienti con presenza di una traslocazione coinvolgente i geni della catena pesante delle immunoglobuline t(4,14), t(14,16), t(14,20), delezione del 17p13 o alla delezione del cromosoma 13. Al contrario, una prognosi migliore è stata osservata in presenza di t(11,14), t(6,14) o di iperdiploidia (13-15). Risultati preliminari sembrano mostrare come sia il bortezomib che la lenalidomide possano superare la cattiva prognosi legata alla delezione del 13 e alla traslocazione t(4;14). Il bortezomib sembra essere più attivo della lenalidomide in presenza della delezione del cromosoma 17p13 mentre l’impatto negativo di queste alterazioni cromosomiche sull’andamento clinico non sembra essere modificato dalla chemioterapia intensiva con autotrapianto (16). Le indagini di gene expression profiling, hanno migliorato la stratificazione dei pazienti e la stadiazione prognostica ma non sono ancora da considerare esami di routine (17, 18). Altri parametri che si associano ad una prognosi peggiore sono costituiti da un indice di proliferazione delle plasmacellule maggiore del 3%, il riscontro di cellule con morfologia plasmoblastica, gli alti livelli di LDH e un alterato rapporto delle catene leggere (19). Alla luce di quanto esposto, è fortemente raccomandato che in tutti i pazienti con una nuova diagnosi di MM siano ricercate le traslocazioni t(4;14) e t(14-16), la delezione del 17p13, e che sia effettuata la misurazione del valore di b2-microglobulina e dell’albumina (20). Stadio Criteri I II III b2-microglobulina <3.5 mg/L albumina >3.5 mg/L Pazienti in stadio non I e non III (*) b2-microglobulina >5.5 mg/L Sopravivenza mediana (mesi) 62 44 29 (*) Due categorie: b2-microglobulina <3.5 mg/L ma albumina <3.5 mg/L; b2-microglobulina 3,5-5,5 mg/L indipendentemente dal valore di albumina. TABELLA 2 - Criteri di stadiazione dell’International Staging System (ISS). Il paziente anziano n CONSIDERAZIONI SULLA TERAPIA Non vi è evidenza che iniziare un trattamento chemioterapico precoce in pazienti con MM asintomatico determini un aumento della sopravvivenza rispetto ad iniziare un trattamento al momento della comparsa dei sintomi o del danno d’organo. Questo concetto è stato ampiamente dimostrato per il trattamento con farmaci anti-MM standard. Sono tuttora in corso studi clinici per determinare se l’utilizzo dei nuovi farmaci in fase precoce possa ritardare la progressione da SMM a MM. I pazienti con MM sintomatico devono essere trattati immediatamente e la scelta dello schema terapeutico deve essere presa tenendo conto delle caratteristiche del paziente (es. età e presenza di comorbilità) e basandosi sulle evidenze scientifiche. I pazienti con meno di 65 anni e senza comorbilità rilevanti in anamnesi sono candidati ad una chemioterapia intensiva con supporto di cellule staminali autologhe. Studi randomizzati hanno mostrato come vi sia una maggior percentuale di risposte e una maggior sopravvivenza nei pazienti trattati con chemioterapia ad alte dosi rispetto ai pazienti trattati con chemioterapia convenzionale (21). L’approccio trapiantologico in pazienti con più di 65 anni è una opzione tera- peutica che può essere proposta qualora vi siano pazienti in buone condizioni generali, senza comorbilità di rilievo e con una età non superiore ai 70 anni. In questi pazienti la dose di melphalan dovrà però essere dimezzata a 100 mg/m2. Gli altri pazienti dovrebbero essere trattati con chemioterapia standard in associazione ai nuovi farmaci (talidomide, bortezomib, lenalidomide) che hanno permesso di aumentare significativamente il PFS, l’OS e la qualità di vita dei pazienti. In caso di pazienti con età superiore ai 75 anni o con comorbilità di rilievo, la dose della terapia verrà progressivamente ridotta in modo da ridurre la tossicità. Numerosi studi sono stati eseguiti negli ultimi anni o sono tuttora in corso per valutare l’efficacia di nuove associazioni chemioterapiche che comprendono uno o più nuovi farmaci. Occorre ricordare che i trattamenti chemioterapici considerati standard of care devono essere supportati da una evidenza scientifica che dimostri un aumento della PFS in almeno un trial randomizzato. Studi non controllati di fase II sono importanti in quanto dimostrano l’efficacia di nuove molecole, ma prima di poter essere considerati terapie standard occorre che vi sia un trial clinico randomizzato che ne confermi i risultati su una ampia casistica. Criteri di valutazione sCR Ai criteri della CR vanno aggiunti: rapporto catene leggere nella norma, assenza di plasmacellule clonali a livello midollare (in immunoistochimica e immunofluorescenza). CR Immunofissazione negativa, scomparsa dell’eventuale plasmocitoma, <5% di plasmacellule a livello midollare. VGPR Proteina monoclonale riscontrabile all’immunofissazione ma non all’elettroforesi oppure riduzione della proteina monoclonale sierica >90% e livelli di proteina monoclonale urinari inferiori a 100 mg/24 ore. PR >50% di riduzione della proteina monoclonale sierica e riduzione delle proteine monoclonali urinarie >90% o <200 mg/24 ore oppure se i livelli di proteina monoclonale nel siero e nelle urine non sono misurabili, riduzione >50% nella differenza tra i livelli di catene leggere coinvolte e non coinvolte oppure se non sono misurabili né la proteina monoclonale né le catene leggere libere nel siero, è richiesta una riduzione >50% dell’infiltrato plasmacellulare. In presenza di plasmocitoma è necessaria una riduzione >50% del tessuto del plasmocitoma. SD Non soddisfa i criteri per CR, VGPR, PR e PD. PD Aumento di >25% dei seguenti parametri: componente monoclonale sierica o urinaria, differenza tra i livelli di catene leggere coinvolte e non coinvolte, percentuale delle plasmacellule midollari. Sviluppo di nuove lesioni ossee o peggioramento di quelle presenti oppure plasmocitoma, ipercalcemia. CR: complete response; sCR: stringent CR; VGPR: Very Good Partial Remission; PR: Partial Response; SD: Stable Disease; PD: Progressive Disease TABELLA 3 - Criteri di risposta alla terapia elaborati dall’International Myeloma Working Group (IMWG). 51 52 Seminari di Ematologia Oncologica La risposta alla terapia deve essere espressa utilizzando i criteri di risposta elaborati dall’International Myeloma Working Group e indicati nella tabella 3. La tabella 4 riassume i regimi di chemioterapia attualmente utilizzati nei pazienti anziani e le risposte ottenute nei diversi studi clinici. Come si evince da quanto sopra riportato, la maggior parte dei pazienti con MM non è candidabile ad un approccio trapiantologico; circa i 2/3 dei pazienti con mieloma ha più di 65 anni e circa la metà dei pazienti con età inferiore a 65 anni non verrà sottoposto a trapianto autologo di cellule staminali. Quindi circa l’80% di tutti i pazienti con MM alla diagnosi non è candidabile alla chemioterapia ad alte dosi, pertanto è importante migliorare i risultati ottenuti con la chemioterapia standard associando ad essa i nuovi farmaci. Schema Terapeutico Risposta Sopravvivenza Referenze MP Mel: 0.25 mg/kg i giorni 1-4; Pdn: 2 mg/kg i giorni 1-4 per 12 cicli da 6 settimane Oppure Mel: 4 mg/m2 i giorni 1-7; Pdn: 40 mg/m2 i giorni 1-7 per 6 cicli da 4 settimane Oppure Mel: 9 mg/m2 i giorni 1-4; Pdn: 60 mg/m2 i giorni 1-4 per 9 cicli da 6 settimane CR: 1-5% >VGPR: 7-25% >PR: 31-50% PFS/TTP: 50% a 14-21 mesi EFS: 27% a 24 mesi OS: 50% a 28-34 mesi e 64% a 36 mesi 27, 40, 29, 30, 31 MPT Mel: 0,25 mg/kg i giorni 1-4; Pdn: 2 mg/kg i giorni 1-4; Tal: 100-400 mg al dì per 12 cicli da 6 settimane (± Tal di mantenimento) Oppure Mel: 4 mg/m2 i giorni 1-7; Pdn: 40 mg/m2 i giorni 1-7 per 6 cicli da 4 settimane. Tal 100 mg/die fino alla recidiva o alla progressione di malattia CR: 7-16% >VGPR: 22-43% >PR: 57-76% PFS: 50% a 15-28 mesi EFS: 54% a 24 mesi OS: 50% at 28-52 mesi e 80% a 36 mesi 40, 29, 30, 31 VMP Mel: 9 mg/m2 i giorni 1-4 CR: 35% Pdn: 60 mg/m2 i giorni 1-4 >VGPR: 45% Bor: 1,3 mg/m2 i giorni 1, 4, 8, >PR: 82% 11, 22, 25, 29, 32 per i primi 4 cicli da 6 settimane; i giorni 1, 8, 22, 29 per i restanti cicli da 5 a 9 da 6 settimane TTP: 50% a 24 mesi 16 MPR Mel: 0,18-0,25 mg/kg i giorni 1-4 Pdn: 2 mg/kg i giorni 1-4 Per 9 cicli da 4 settimane Len: 5-10 mg i giorni 1-21 fino alla recidiva o alla progressione di malattia. EFS: 95% a 12 mesi OS: 100% a 12 mesi 33 CR: 24% >VGPR: 48% >PR: 81% MP: Melphalan-Prednisone; Mel: Melphalan; Pdn: Prednisone CR: complete response; VGPR: very good partial response; PR: partial response; PFS: progression free survival; OS: overall survival; EFS: event free survival; TTP: time to progression; MPT: Melphalan-Prednisone-Talidomide; Tal: Talidomide; VMP: Bortezomib-Melphalan-Prednisone; Bor: Bortezomib; MPR: Melphalan-Prednisone-Lenalidomide; Len: Lenalidomide. TABELLA 4 - Schemi terapeutici e risultati attesi per pazienti con più di 65 anni oppure non eleggibili alla terapia ad alte dosi. Il paziente anziano n TERAPIA ALLA DIAGNOSI NEL PAZIENTE ANZIANO Melphalan + Prednisone La combinazione orale di Melphalan, Prednisone (MP) è stata per anni considerata il trattamento standard per i pazienti non eleggibili alla chemioterapia ad alte dosi con autotrapianto. Il tasso di risposte a tale terapia è di circa il 50% e la sopravvivenza mediana è di 2-3 anni (22). Numerose combinazioni di farmaci contenenti agenti alchilanti sono state utilizzate senza che si sia evidenziato un miglioramento della sopravvivenza globale. Uno studio su 6.633 pazienti ha mostrato una percentuale di risposta del 60% nel caso di chemioterapie combinate contro un 53,2% nei pazienti trattati con la più semplice e meno tossica associazione di MP (p <0.001), tuttavia nessun beneficio è stato osservato sulla sopravvivenza nel gruppo che ha ricevuto chemioterapie combinate (23). Le alte dosi di desametasone sono una delle terapie più attive sia se somministrate da sole che in associazione a un chemioterapico (24, 25). Uno studio randomizzato ha confrontato l’efficacia della combinazione di melphalan e desametasone (MD) rispetto allo standard MP: è emerso come lo schema MD permetta di ottenere un maggior numero di risposte complete (CR) ma non vi siano differenze in termini di sopravvivenza (26). Recentemente il gruppo di Facon ha confermato questi risultati con uno studio randomizzato che ha arruolato pazienti con MM di età compresa fra 65 e 75 anni (27). I pazienti sono stati randomizzati in 4 differenti bracci di trattamento: MP, MD, alte dosi di desametasone e alte dosi di Desametasone + interferon α. Lo schema di trattamento con MD ha mostrato il tasso di risposta più elevato. Il tempo medio alla progressione è risultato essere raddoppiato dopo trattamento con MP o MD, mentre le alte dosi di desametasone (con o senza interferone α) non hanno influenzato la durata di remissione. La sopravvivenza globale è risultata essere la stessa per i 4 gruppi di trattamento, tuttavia gli schemi che prevedevano desametasone hanno mostrato una aumentata incidenza di grave tossicità, in particolare un aumento delle infezioni polmonari e della setticemia. Questi risultati hanno evidenziato come, prima dell’introduzione dei nuovi farmaci, la terapia orale con melphalan fosse da considerarsi lo standard of care e dovesse essere inserita in tutte le terapie di induzione per pazienti non candidabili alla chemioterapia ad alte dosi con autotrapianto. Negli ultimi 5 anni sono stati introdotti nuovi farmaci anti-MM (talidomide, bortezomib e lenalidomide) i quali, utilizzati da soli o in associazione con i chemioterapici standard, hanno permesso di aumentare le opzioni terapeutiche nei pazienti non eleggibili a schemi di chemioterapia ad alte dosi e autotrapianto. Talidomide La talidomide, usata negli anni ’60 come sedativo ipnotico, negli ultimi anni è stata impiegata nella terapia di alcune patologie neoplastiche, in particolare nel campo del MM. Melphalan, Prednisone, Talidomide (MPT): quattro studi randomizzati hanno dimostrato come lo schema MPT aumenti il tasso di risposta e la sopravvivenza libera da eventi (EFS) rispetto allo schema MP; in due di questi studi è stato riportato anche un vantaggio nella sopravvivenza (2831). Nel trial randomizzato italiano, la terapia orale MPT è stata confrontata con MP in pazienti con più di 65 anni oppure di età più giovane ma non eleggibili al trapianto (29). Lo schema di trattamento è mostrato nella tabella 4. Le risposte parziali + complete (PR + CR) sono state il 76% nel braccio MPT e il 47.6% nel braccio MP mentre le nearCR (nCR) + le CR sono state il 27.9% contro il 7.2% rispettivamente. La EFS a 2 anni è risultata essere del 54% per MPT e 27% per MP (p=0.0006). La sopravvivenza a 3 anni era dell’80% e del 64% rispettivamente (p=0.19). Nello studio di fase III francese, la terapia con MPT (uno schema leggermente diverso rispetto a quello applicato nello studio Italiano e una dose di partenza di talidomide pari a 200 mg/die) è stato confrontato con MP e con dosi intermedie di melphalan (100 mg/m2) seguite da ASCT. Una maggior percentuale di PR è stata osservata nel gruppo trattato con MPT o melphalan 100 mg/m2 rispetto al gruppo MP (81% vs 73% vs 53 54 Seminari di Ematologia Oncologica 40% rispettivamente) (28). Allo stesso modo la percentuale di CR è risultata significativamente maggiore nei gruppi trattati con MPT o dosi intermedie di melphalan rispetto al gruppo MP. La PFS era maggiore nei pazienti che avevano ricevuto MPT rispetto sia ai pazienti trattati con MP (p<0.001) ma anche ai pazienti trattati con dosi intermedie di melphalan e ASCT (p=0.001). Inoltre la OS è risultata essere significativamente aumentata nel gruppo MPT sia rispetto al gruppo MP (p=0.001) che al gruppo sottoposto a trapianto autologo (p=0.004). In entrambi gli studi l’MPT è risultato essere associato ad una maggior tossicità severa: almeno un evento avverso di grado 3-4 è stato osservato nel 40% dei pazienti trattati con MPT. Gli effetti avversi più comuni sono stati le infezioni, le complicanze trombotiche, la neuropatia periferica, la stipsi e la tossicità cardiaca. Nel trial italiano, l’introduzione di enoxaparina come profilassi ha permesso di ridurre gli eventi trombotici dal 20 al 3% (p=0.0005). Il rischio di trombosi venosa è particolarmente alto nel primi 4-6 mesi di terapia mentre le infezioni e la tossicità cardiaca sono risultate essere più frequenti in pazienti con più di 70 anni. È raccomandata una profilassi antitrombotica anche se al momento non vi sono chiare evidenze su quale sia la miglior scelta: eparine a basso peso molecolare, dosi terapeutiche di warfarin o aspirina giornaliera sono le opzioni preferite (32). I dati ottenuti da questi quattro trial clinici randomizzati hanno dimostrato come l’MPT sia superiore allo schema MP e quindi sia da considerarsi lo standard of care nei pazienti con più di 65 anni o in chi non può essere sottoposto ad autotrapianto. Come osservazioni secondarie, è stato visto come l’aggiunta della talidomide sembri ridurre l’impatto negativo della b2-microglobulina. Nello studio Italiano non è stata osservata alcuna differenza nell’OS in base al valore di b2-microglobulina nei pazienti trattati con MPT; tale differenza si è invece evidenziata nel gruppo trattato con MP dove il valore di b2-microglobulina rimane un fattore prognostico. In un recente lavoro questa osservazione è stata confermata ed è stato dimostrato come il valore della b2-microglobulina non predica l’outcome anche in pazienti trattati con talidomide e desametasone (33). Bortezomib Il bortezomib è un nuovo farmaco anti tumorale che agisce inibendo un complesso multi-catalitico intracellulare chiamato proteosoma responsabile della degradazione dei prodotti cellulari. Melphalan, Prednisone, Bortezomib (VMP): la combinazione di bortezomib + MP è stata valutata in uno studio di fase I/II su 60 pazienti con MM alla diagnosi e con età superiore ai 65 anni (metà di essi con più di 75 anni) (34). Il ciclo di terapia VMP è schematizzato nella tabella 4. La dose massima tollerata di bortezomib è risultata essere 1.3 mg/m2. Sette pazienti non hanno terminato il primo ciclo e quindi non sono risultati valutabili successivamente. Dopo una mediana di 7 cicli, le risposte parziali sono state l’89%, comprensive del 32% di CR (metà delle quali con remissione immunofenotipica). A 16 mesi l’EFS è risultato essere dell’83% e l’OS del 90%. I risultati di pazienti trattati in studi precedenti con MP erano, a 16 mesi, un EFS del 51% e un OS del 60%. Visti i promettenti risultati in fase I/II, è stato disegnato uno studio clinico di fase III per dimostrare la superiorità dello schema VMP rispetto allo schema MP. Lo studio Velcade as Initial Standard Therapy Assessment (VISTA) ha confermato la superiorità del VMP rispetto all’MP in termini di percentuale di risposte (le risposte parziali o superiori sono state il 71% e il 35% rispettivamente e le CR sono state il 30% e il 4% rispettivamente, p<0.001). L’endpoint primario dello studio era il tempo alla progressione (TTP) che è risultato essere 24.0 mesi nel gruppo VMP e 16.6 mesi nel gruppo MP (p<0.001). Anche l’OS e il tempo alla successiva terapia sono risultati essere migliori nel gruppo VMP. Gli eventi avversi di grado 3 sono stati più frequenti nel gruppo di pazienti che ha ricevuto il bortezomib (53% vs. 44%, P=0.02), anche se non sono state osservate differenze nell’incidenza della tossicità di grado 4 nei due gruppi (28% and 27%, rispettivamente) (35). Gli eventi avversi di grado 3-4 sono stati registrati in particolare nei primi cicli di terapia e nei pazienti con più di 75 anni e sono consistiti in trombocitopenia, neutropenia, neuropatia periferica e infezioni (in particolare la riattivazione del virus dell’herpes zoster per cui si raccomanda una adeguata profilassi). Dati preliminari sembrano Il paziente anziano dimostrare che l’infusione di bortezomib settimanale, invece della classica bisettimanale, permetta di ridurre in maniera consistente la percentuale di neuropatia di grado 3-4 senza ridurre l’efficacia sulla PFS. I dati presentati all’ASH 2008 relativi allo studio italiano di fase III che confronta VMPT vs VMP hanno infatti dimostrato come la PFS a 2 anni dei pazienti trattati con il protocollo VMP che prevedeva infusioni di bortezomib settimanali sia del 78% contro il 76% di chi ha ricevuto bortezomib due volte a settimana. La neuropatia periferica di grado 3-4 si è ridotta al 3% rispetto al 12% osservato con l’infusione bisettimanale (35). Da segnalare come non siano state rilevate differenze di percentuale di risposta, PFS e OS a seconda della presenza/assenza di delezione del cromosoma 13 o in base al valore di b2microglobulina (36, 37). Basandoci su questi dati sembra che il bortezomib annulli l’effetto prognostico negativo conferito dalla delezione del cromosoma 13 e dai livelli di b2-microglobulina, tuttavia sono necessari ulteriori studi su un maggior numero di pazienti per individuare fattori prognostici affidabili nei pazienti trattati con bortezomib. Lenalidomide La lenalidomide è un farmaco analogo della talidomide ma i risultati iniziali sembrano indicare che sia più efficace e meno tossico della talidomide. L’associazione Lenalidomide, Melphalan, Prednisone (MPR) è stata valutata in uno studio di fase I/II condotto presso il nostro Istituto. Sono stati arruolati 53 pazienti con nuova diagnosi di mieloma e con una età mediana di 71 anni. Tutti i pazienti hanno ricevuto aspirina e ciprofloxacina in profilassi. Per valutare sia la sicurezza che l’efficacia di differenti dosaggi di lenalidomide in associazione a MP, sono state usate 4 dosi differenti di lenalidomide. È stato osservato come la massima dose tollerata sia stata 0.18 mg/kg di melphalan + 10 mg/die di lenalidomide. Il prednisone (2 mg/kg) e il melphalan sono stati somministrati per 4 giorni mentre la lenalidomide per 21 giorni. La durata del ciclo è stata di 4 settimane. A questo dosaggio, la percentuale di PR è stata del 81% comprensiva di un 48% di VGPR e un 24% di CR. L’EFS e l’OS a 1 anno sono stati del 92% e del 100% rispettivamente (38). Questi dati sono risultati essere migliori dei dati ottenuti in precedenza con il ciclo MPT. Le tossicità di grado 34 hanno riguardato soprattutto tossicità ematologica (in particolare neutropenia e piastrinopenia), rash cutanei, infezioni ed eventi trombotici. Questi dati hanno permesso di porre la base per uno studio internazionale randomizzato tuttora in corso che sta confrontando MP vs MPR come terapia di induzione seguita da lenalidomide in mantenimento. Per ora sono disponibili pochi dati sull’influenza dei fattori prognostici in pazienti che ricevono lenalidomide. I dati che sono emersi dallo studio Italiano sembrano dimostrare come la delezione del 13q e la traslocazione t(4;14) non rappresentino un marcatore prognostico per pazienti a maggior rischio. Sembra invece che i pazienti con valori di b2-microglobulina elevati rimangano una categoria a rischio aumentato anche se trattati con lenalidomide. Ruolo del melphalan a dose intermedia (100 mg/m2) I pazienti che non sono candidabili al trapianto sono stati trattati per anni con chemioterapia standard contenente agenti alchilanti. Tuttavia nei pazienti anziani l’età biologica può in alcuni casi essere diversa dall’età anagrafica, pertanto può risultare non semplice definire chi è candidato e chi no ad un approccio trapiantologico. La partecipazione ad un programma terapeutico che preveda una fase finale di autotrapianto dovrebbe sempre essere presa in considerazione in pazienti che non abbiano in anamnesi patologie gravi a carico di cuore, polmoni, reni o fegato e l’età anagrafica andrebbe riconsiderata alla luce dell’età biologica. Con queste considerazioni, va comunque detto che un paziente con più di 65 anni dovrebbe essere escluso da un trapianto autologo condizionato con melphalan 200 mg/m2. Tuttavia nella fascia di età fra 65 e 70 anni, potrebbe essere indicata una dose intermedia di melphalan. I risultati di uno studio randomizzato italiano su 194 pazienti con nuova diagnosi di MM di età fra 50 e 70 anni hanno dimostrato come la chemioterapia con melphalan 100 mg/m2 e l’autotrapianto sia superiore rispetto a 6 cicli di MP (39). I pazienti trattati con 100 mg/m2 hanno mostrato a 3 anni un miglior EFS (37% vs 16%, p<0.0001) e OS (77% 55 56 Seminari di Ematologia Oncologica vs 62%, p=0.0003). Risultati simili si sono avuti nel sottogruppo di pazienti con età compresa fra 65 e 70 anni. Altri studi tuttavia non hanno confermato questi risultati, come ad esempio lo studio francese IFM 99-06 (40). La differenza in tossicità, decessi precoci e uscite dallo studio fra questi due trial supporta l’ipotesi che il melphalan 100 sia tollerato meglio in pazienti fino a 70 anni, mentre la tossicità diventa inaccettabile al di sopra di tale soglia. n ALTRE OPZIONI TERAPEUTICHE Nuovi farmaci associati al Desametasone 1. Talidomide, Desametasone (TD): questa combinazione si è dimostrata efficace in un trial randomizzato che ha confrontato TD vs Dex in 470 pazienti con nuova diagnosi di MM.(41) L’aggiunta della talidomide al desametasone ha permesso di aumentare la percentuale di PR (63% vs 46%, p<0.001) e il tempo medio alla progressione (22,6 vs 6,5 mesi), ma non di migliorare la sopravvivenza. L’aggiunta di talidomide ha determinato anche una maggiore tossicità di grado 3-4 (79.5% vs 64.2%, p<0.001). Il confronto di TD vs MP su 274 pazienti anziani con nuova diagnosi di MM ha mostrato una maggior percentuale di PR nel braccio TD (68% vs 51%, p=0.0044), una PFS simile ma un’OS significativamente più corta nel gruppo trattato con TD. Inoltre il gruppo con TD ha avuto maggior tossicità neuropatica mentre il gruppo MP ha avuto maggiore neutropenia di grado 3-4 (42). 2. Bortezomib, Desametasone (VD): in uno studio non randomizzato, 32 pazienti alla diagnosi sono stati trattati con solo bortezomib e a chi non ha raggiunto almeno la PR dopo 2 cicli o la CR dopo 4 cicli è stato aggiunto in terapia il desametasone (43). Le risposte superiori alla PR sono state 88%, con 6% di RC e 19% di nCR. Dieci pazienti hanno ricevuto solo bortezomib mentre in 22 è stato aggiunto desametasone con un miglioramento della risposta in 15 di essi. Con una mediana di 5.5 mesi, la OS stimata a 1 anno è del 87% (43). L’attività del bortezomib in induzione è stata anche dimostrata in altri 2 studi di fase II con una CR+nCR del 21-59% (44, 45). 3. Lenalidomide, Desametasone (RD): Il Southwest Oncology Group (SWOG) ha condotto uno studio randomizzato in doppio cieco (studio S0232) che ha arruolato 198 nuove diagnosi di MM randomizzandole in due bracci: alte dosi di RD (PFS stimata a 1 anno del 77%) vs solo Dex (PFS stimata a 1 anno 55%, p=0.002). L’aggiunta di lenalidomide ha aumentato anche le CR (dal 4% al 22%, p=0.001) ma a 1 anno l’OS è risultata essere paragonabile (93% vs 91%). Il gruppo trattato con Len+Dex ha avuto una maggior frequenza di tossicità di grado 3-4, in particolare neutropenia e infezioni (46). Per ridurre la tossicità dell’associazione RD, uno studio dell’Eastern Cooperative Oncology Group (ECOG) ha confrontato Len+alte dosi di Dex (480 mg/mese, considerato lo standard) con Len+basse dosi di Dex (160 mg/mese) in 445 pazienti con nuova diagnosi di MM (47). Lo studio è stato preventivamente interrotto poiché l’OS a 1 anno dei pazienti trattati con Len+basse dosi di Dex è risultata più elevata (96% vs 88%, p<0.001) rispetto al gruppo trattato con Len+alte dosi di Dex. Nuovi farmaci + Ciclofosfamide Nel trial Myeloma IX coordinato dal Medical Research Council, l’associazione di Ciclofosfamide, Talidomide, Desametasone (CTD) è stata confrontata con lo schema MP in 900 pazienti. Nel gruppo trattato con CTD si è osservata una maggior percentuale di PR (82% vs 49%) e di CR (23% vs 6%) (48). Non sono ancora disponibili i dati sulla durata di remissione ma se risultassero essere superiori a quelli di MP, il CTD potrebbe essere considerata una alternativa alla terapia di prima linea nel paziente anziano. L’associazione Bortezomib, Desametasone, Ciclofosfamide (BDC) è stata utilizzata in induzione in uno studio di dose finding in pazienti con nuova diagnosi di MM e i risultati preliminari hanno mostrato una risposta maggiore o uguale alla PR nell’87% dei pazienti (49). L’associazione Ciclofosfamide, Desametasone, Lenalidomide (CRD) è stata valutata su 21 pazienti refrattari/recidivati con età mediana di 59 anni. Si è osservata una risposta (CR+PR) nel 65% dei pazienti (50). Il paziente anziano Nuovi farmaci + Antracicline Offidani e al. hanno trattato 50 pazienti di età superiore a 65 anni con uno schema che prevedeva l’associazione di Talidomide, Desametasone, Doxorubicina liposomiale peghilata (TAD) ottenendo un 88% di risposte superiori o uguali alla PR (34% CR e 24% VGPR) (51). Con una mediana di osservazione di 18 mesi, è stata riportata una EFS del 57% e una OS del 74% a 3 anni. La tossicità è risultata essere soprattutto legata alle infezioni correlate alla neutropenia. Inoltre occorre porre l’attenzione sulla tossicità cardiaca legata all’utilizzo della doxorubicina. Basandosi sui risultati di uno studio di fase III che ha confrontato Bortezomib vs Bortezomib e Doxorubicina liposomiale peghilata (PAD) in pazienti refrattari o in recidiva che ha dimostrato come l’aggiunta della Doxorubicina migliori sia il TTP che l’OS, la FDA ha recentemente approvato il PAD come trattamento nel paziente recidivato dopo 1 linea di trattamento non comprendente bortezomib (52). Lo schema Bortezomib, Doxorubicina Peghilata, Desametasone a basse dosi (PAd) è stato testato su 64 pazienti con MM refrattario o recidivato. Quarantatre pazienti (67%) hanno avuto almeno una risposta parziale e il 25% di questi almeno una VGPR. La tossicità di grado 3-4 è consistita in piastrinopenia (48%), neutropenia (36%), infezioni (15%) e neuropatia periferica (10%). Lo studio ha dimostrato come il ciclo PAd possa essere efficace e avere una tossicità accettabile anche in pazienti con MM refrattario o recidivato (53). Anche la lenalidomide è stata testata in associazione ad una antraciclina nello schema che prevedeva Lenalidomide, Adriamicina, Desametasone (RAD) e che è stato somministrato a 69 pazienti (età 46-77 anni, mediana 65 anni) con MM refrattario o recidivato. L’overall response rate (ORR) è stato del 77% con 74% di CR+VGPR e, come già evidenziato in altri studi, la presenza della delezione del cromosoma 17 o elevati livelli di b2-microglobulina sono stati associati ad una percentuale di risposta inferiore. La neutropenia e la piastrinopenia di grado 3-4 sono state osservate nel 48% e nel 38% per pazienti rispettivamente. Un evento trombotico si è osservato nel 4.5% dei pazienti (54). Altre combinazioni Sono stati pubblicati i risultati di uno studio di fase II con Lenalidomide, Claritromicina, Desametasone (BiRD) come schema di induzione in pazienti con nuova diagnosi di MM (55). La claritromicina ha delle proprietà immunomodulatorie e sembra incrementare l’efficacia farmacologica dei glucocorticoidi (56, 57). Lo studio ha arruolato 72 pazienti che hanno ricevuto la combinazione orale di BiRD in cicli da 28 giorni. Su 72 pazienti arruolati, il 90.3% ha avuto una risposta, il 38,9% dei pazienti ha ottenuto una RC e nel 73.6% dei pazienti si è osservata una riduzione di almeno il 90% del picco monoclonale. La tossicità maggiore è stata data dal numero di eventi trombotici, dalla morbilità legata al cortisone e dalla citopenia. Lo schema BiRD si è quindi dimostrato un trattamento con effetti collaterali accettabili per i pazienti con nuova diagnosi di MM anche se sono necessari ulteriori studi per valutare l’efficacia del BiRD come terapia di induzione. Sulla base dei buoni risultati ottenuti dai singoli nuovi farmaci in associazione allo schema MP, sono stati messi a punto schemi di chemioterapia che associassero due nuovi farmaci e lo steroide. Un esempio è lo schema Bortezomib, Talidomide, Desametasone (VTD) che è stato testato in uno studio di fase I/II su 85 pazienti con MM in stadio avanzato. Il 79% dei pazienti ha avuto una risposta, 63 di essi una PR fra i quali un 22% una nCR. Dopo 4 anni dalla terapia il 6% dei pazienti erano event-free e il 23% erano vivi (58). Anche per l’associazione Bortezomib, Lenalidomide, Desametasone (VRD) è in corso uno studio multicentrico di fase II che arruola pazienti con MM recidivato o refrattario. Sono stati finora arruolati 64 pazienti e l’ORR è dell’86% comprendente 24% di CR/nCR e 67% di risposte superiori alla PR. Lo studio è tuttora in corso ma ha già permesso di dimostrare come questo schema di terapia sia ben tollerato e possa essere applicato a pazienti recidivati anche se nelle linee precedenti erano già stati sottoposti a uno dei farmaci dello schema (59). Ovviamente i pazienti sono in numero limitato e occorrerà avere un follow-up maggiore prima di poter trarre conclusioni definitive sulle associazioni sopra riportate. 57 58 Seminari di Ematologia Oncologica n RUOLO DELLA TERAPIA DI MANTENIMENTO La terapia di mantenimento sembrerebbe aumentare la percentuale di risposta e la EFS in pazienti che hanno ricevuto una terapia di induzione, tuttavia il ruolo della terapia di mantenimento nel MM è controversa, in particolare nel gruppo di pazienti con più di 65 anni. In un ampio studio condotto dal gruppo IFM, pazienti di età inferiore ai 65 anni, dopo essere stati sottoposti a chemioterapia ad alte dosi e autotrapianto, sono stati randomizzati in tre bracci di studio: nessun mantenimento, pamidronato oppure pamidronato e talidomide. La EFS a 3 anni dopo la randomizzazione e la OS a 4 anni sono risultate essere significativamente migliori nel gruppo che ha ricevuto talidomide. L’incidenza di eventi trombotici non è risultata essere differente nei 3 gruppi (60). In un altro studio l’associazione talidomide + prednisone è stata confrontata con il solo prednisone come terapia di mantenimento dopo ASCT: la PFS a 1 anno è risultata essere 91% vs 69% e la OS a 2 anni è stata del 90% vs 81% rispettivamente (61). In entrambi gli studi la neuropatia periferica di grado 3-4 è stata significativamente maggiore nei pazienti che hanno ricevuto talidomide rispetto al gruppo di controllo. Recentemente, pazienti alla diagnosi trattati con talidomide + desametasone sono poi stati randomizzati ad un doppio ASCT o ad un singolo ASCT seguito da mantenimento per 6 mesi con talidomide (62). La PFS a 3 anni è stata del 57% nel braccio con doppio ASCT e del 85% in chi ha fatto un ASCT e mantenimento con talidomide (p=0.02). È tuttora in corso uno studio che prevede di confrontare il mantenimento con talidomide 100 mg/die + interferone α 3 MU TIW rispetto al solo interferone α senza talidomide. Lo studio è ancora in corso, ma i risultati ottenuti permetteranno di meglio comprendere il ruolo della terapia di mantenimento nel MM (63). Ulteriori studi sono comunque necessari per determinare il corretto ruolo della terapia di mantenimento nel MM, in particolare per determinare quale potrà essere il ruolo dei nuovi farmaci, il dosaggio e la durata del mantenimento (64). n TERAPIA ALLA RECIDIVA Nella recidiva di MM le risposte alla terapia sono decisamente poco durature nel tempo e non vi sono dati definitivi su quale sia il regime terapeutico migliore (65). La terapia va ripresa quando ricompaiono i segni e i sintomi del danno d’organo e i criteri CRAB, così come alla diagnosi, definiscono quando trattare un paziente. Il solo aumento della percentuale di plasmacellule a livello midollare non giustifica l’inizio della terapia, così come un lento incremento della componente monoclonale. Se la risposta alla terapia precedente è stata superiore ai 18 mesi e l’ultimo ciclo è stato ben tollerato, è considerato opportuno sottoporre il paziente al medesimo trattamento. In alternativa, nel paziente anziano si procede all’uso dei farmaci di nuova generazione che permettono di ottenere buoni risultati sia in termini di risposta sia di intervallo libero da malattia. I regimi terapeutici più utilizzati prevedono l’uso dei corticosteroidi in associazione a talidomide, lenalidomide o bortezomib. Eventualmente, al fine di incrementare il tasso di risposta pur tenendo in considerazione la maggior tossicità, è possibile aggiungere una antraciclina alle combinazioni suddette. n TRATTAMENTO DEGLI EFFETTI COLLATERALI INDOTTI DAI NUOVI FARMACI Effetti collaterali correlati alla terapia con talidomide Come noto la talidomide ha uno spiccato effetto teratogeno, in particolare se somministrata tra il 27° e il 40° giorno di gestazione, pertanto è del tutto controindicato assumerla in gravidanza (66). Gli effetti collaterali più comunemente riscontrati in pazienti che assumono la talidomide sono la trombosi, la neuropatia periferica, la stipsi e la sonnolenza. Il rischio di trombosi è basso se si somministra la talidomide come singolo agente, ma aumenta al 12-26% se associata al desametasone e raggiunge il 28% se associata ad un chemioterapico come ad esempio la doxorubicina. Il paziente anziano Il rischio di trombosi risulta particolarmente elevato nei primi 4-6 mesi di terapia. Al momento si raccomanda di utilizzare una profilassi antitrombotica anche se non vi sono dati che dimostrino la superiorità di un trattamento rispetto ad un altro quindi è possibile somministrare eparina a basso peso molecolare, warfarin o aspirina (67). L’incidenza della neuropatia periferica dopo terapia prolungata (più di 6 mesi) con talidomide è di circa il 70% e sono da considerarsi fattori di rischio la dose di farmaco, la durata del trattamento, una pre-esistente neuropatia e l’età. Per ridurre il rischio di neuropatia, occorrerebbe eseguire una valutazione neurologica prima di iniziare il farmaco. Inoltre in presenza di una tossicità neurologica di grado 2 o superiore si deve ridurre la dose del farmaco e la durata totale della terapia non dovrebbe in ogni caso superare i 6 mesi (68). Effetti collaterali correlati alla terapia con bortezomib Gli eventi collaterali più comuni della terapia con bortezomib sono la piastrinopenia, le infezioni e la neuropatia periferica. La piastrinopenia è transitoria ed è più frequente nei pazienti già piastrinopenici prima di iniziare il trattamento (69). È inoltre stata osservata una maggior incidenza di infezioni, in particolare di riattivazioni del virus herpes zoster, in pazienti trattati con bortezomib associato a chemioterapia ed è quindi altamente raccomandata una profilassi antivirale in pazienti con anamnesi positiva per infezioni erpetiche (70). La neuropatia periferica colpisce circa il 35% dei pazienti e il rischio aumenta durante i primi cicli di bortezomib per poi stabilizzarsi. La neuropatia è più frequente nei pazienti che hanno in precedenza ricevuto terapie neurotossiche (71). Le indicazioni attuali nella gestione della neuropatia suggeriscono una riduzione della dose commisurata alla severità dei sintomi, fino alla sospensione del bortezomib che di solito risolve la neuropatia. Effetti collaterali correlati alla terapia con lenalidomide La tossicità più importante legata all’uso della lenalidomide è costituita dalla mielosoppressio- ne (in particolare neutropenia e piastrinopenia) e dal rischio trombotico. L’incidenza delle trombosi in pazienti recidivati che vengono trattati con lenalidomide e desametasone varia dall’8 al 18% (67). In assenza di studi clinici randomizzati controllati non è possibile suggerire una raccomandazione definitiva. Tuttavia basandosi su trials di piccole dimensioni non controllati si potrebbe considerare l’aspirina un’opzione adeguata nei pazienti a basso rischio di TVP (trombosi venosa profonda) e una dose preventiva di eparina nei pazienti con alto rischio di TVP (72). n CONCLUSIONI Circa l’80% dei pazienti con MM non sono candidabili ad una chemioterapia ad alte dosi e autotrapianto a causa dell’età avanzata o delle comorbilità. L’outcome di questi pazienti è rimasto pressoché invariato dal 1960, quando è stata introdotta la terapia con MP, fino a pochi anni fa quando sono stati introdotti in terapia nuovi farmaci. Studi recenti hanno dimostrato come la combinazione dei nuovi farmaci con la chemioterapia convenzionale migliori l’outcome dei pazienti che non sono eleggibili ad un trattamento con autotrapianto. Da questi studi appare evidente che il ciclo MPT è da considerarsi oggi lo standard of care nella terapia del paziente anziano visti i risultati ottenuti da quattro studi randomizzati controllati che hanno mostrato una migliore e più rapida risposta alla terapia e un aumentato PFS rispetto al ciclo MP. Anche lo schema VMP ha dimostrato di essere superiore all’MP in uno studio randomizzato e nei prossimi mesi diventerà una alternativa al MPT. Sono ancora in corso studi per valutare l’efficacia e la tossicità del ciclo MPR che al momento rimane una opzione proponibile solo all’interno di uno studio clinico. I dati fino ad ora ottenuti sembrerebbero mostrare che il ciclo MPR ha una minor tossicità pur mantenendo i risultati ottenuti con MPT. Al contrario VMP sembrerebbe essere più efficace permettendo di ottenere una maggior percentuale di CR, ma al tempo stesso potrebbe essere grava- 59 60 Seminari di Ematologia Oncologica to da maggior tossicità. La terapia con melphalan 100 mg/m2 e autotrapianto rimane una possibilità terapeutica anche nel paziente sopra i 65 anni anche se con le limitazioni riportate in precedenza. In ogni caso appare chiaro come quando il melphalan è escluso dallo schema terapeutico come nei cicli TD o RD, si osserva una ridotta PFS. Le complicanze più frequenti legate all’introduzione della talidomide in terapia sono costituite dalle trombosi venose profonde, dalla neuropatia periferica e dalla tossicità cardiaca. La neutropenia e la trombosi sono effetti collaterali tipici della terapia con lenalidomide, mentre la piastrinopenia e la neuropatia periferica sono di comune riscontro in chi è sottoposto a chemioterapia con bortezomib. Gli effetti collaterali osservati con l’introduzione dei nuovi farmaci possono essere in parte superati con la riduzione della dose del farmaco. Anche il ruolo dei fattori prognostici è stato in parte rivoluzionato. I fattori prognostici universalmente accettati sono la classificazione ISS e le alterazioni citogenetiche. La delezione del cromosoma 13 e 17, le traslocazioni t(4:14) e t(4:16) sono considerate fattori prognostici negativi. Tuttavia in pazienti trattati con MPT non sono state osservate differenze in OS in base al valore di b2-microglobulina. Nei pazienti trattati con VMP ed in un gruppo meno numeroso di pazienti trattati con MPR, la presenza o l’assenza della delezione del cromosoma 13 o della traslocazione t(4:14) non modifica l’EFS. I differenti effetti collaterali e il ruolo dei fattori prognostici nei diversi protocolli di trattamento potranno suggerire la scelta della terapia più adatta al singolo paziente. Ad esempio la presenza di una neuropatia periferica pre-esistente o una anamnesi positiva per patologie cardiologiche può indirizzare la scelta verso una terapia con lenalidomide, mentre un pregresso episodio di trombosi può far propendere maggiormente per una terapia con bortezomib. La presenza di alterazioni citogenetiche suggerirà una terapia con lenalidomide o bortezomib mentre in presenza di alti livelli di b2-microglobulina si preferirà un trattamento che preveda la talidomide. Il ruolo della terapia di mantenimento dopo la fase di induzione risulta tuttora in corso di discussione, in particolare per i pazienti che non sono sottoposti a chemioterapia ad alte dosi e autotrapianto. n BIBLIOGRAFIA 1. Kyle RA, Rajkumar SV. Multiple Myeloma. N Engl J Med. 2004; 351: 1860-73. 2. Rajkumar SV, Kyle RA. Multiple Myeloma: Diagnosis and Treatment. Mayo Clin Proc. 2005; 80: 1371-82. 3. 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Pazienti affetti da MM presentano nel 97% dei casi una componente monoclonale (CM) nel siero e/o nelle urine che è prodotta da plasmacellule le quali in circa il 96% dei casi sono presenti a livello del midollo osseo. A questo livello, le stesse plasmacellule possono contribuire a determinare una alterata attività degli osteoblasti ed osteoclasti tanto da essere causa di compromissione ossea che può variare da osteoporosi a lesioni osteolitiche fino a fratture patologiche, con conseguenti dolori ossei riferiti dal 66% dei pazienti e che nei casi di malattia più avanzata può essere causa di ipercalcemia. La infiltrazione midollare può essere motivo anche di anemia, con il 73% dei pazienti che presenta una Hb <12 g/dl, e di neutropenia e/o piastrinopenia nel 15% dei casi. Abbastanza frequente può essere il riscontro di una compromissione renale mentre sintomi neurologici, perdita di Maria Teresa Petrucci Componente monoclonale (CM) nel siero e/o urine (97%) Infiltrazione plasmacellulare (96%) Lesioni osteolitiche, fratture, osteoporosi (79%) Anemia (Hb <12 g/dl) (73%) Dolori ossei (66%) Affaticamento (32%) Insufficienza renale, creatinina sierica ≥2.0 mg/dl (19%) Infezioni/sanguinamenti (<15%) Ipercalcemia >11 mg/dl (13%) Perdita di peso (12%) Sintomi neurologici (5%) “Febbre da tumore” (<1%) TABELLA 1 - Sintomi alla diagnosi. peso e febbre da malattia viene riportata in una più bassa percentuale di pazienti. Molto importante nella pratica clinica è la conoscenza delle possibili complicanze della malattia in modo da poterle affrontare dal punto di vista terapeutico, complicanze che oltre ad essere dovute alla malattia possono insorgere anche come conseguenza dei trattamenti specifici eseguiti nei pazienti. Sarà necessario tener ben presente la possibile insorgenza di alterazioni metaboliche, tra queste la più comune è l’ipercalcemia, di alterazioni neurologiche, come le compressioni midollari, di insufficienza renale, di infezioni e di iperviscosità. Parole chiave: lesioni ossee, insufficienza renale, ipercalcemia, trombosi, iperviscosità. Indirizzo per la corrispondenza n COMPLICANZE DOVUTE ALLA COMPONENTE MONOCLONALE Dott.ssa Maria Teresa Petrucci Via Benevento, 6 00161 Roma e-mail: [email protected] La sindrome da iperviscosità comprende un gruppo di disordini nei quali il flusso ematico è ridotto per le alterate caratteristiche delle componen- 66 Seminari di Ematologia Oncologica FIGURA 1 - Sintomi legati alla componente monoclonale. ti ematiche sia cellulari che proteiche (2). Nel caso del MM è proprio la presenza della CM a livello del siero che può essere causa di diverse problematiche (Figura 1) come appunto l’aumento della viscosità ematica. L’aumentata viscosità ematica induce una riduzione della velocità del flusso sanguigno a livello tissutale dove è possibile avere una diminuzione dell’apporto dell’ossigeno e del nutrimento con conseguenti segni e sintomi quali astenia, anoressia, mal di testa, vertigini, prurito, emorragie microvascolari soprattutto del tubo gastroenterico, alterazioni del visus, sintomi neurologici ed insufficienza cardiaca acuta (3). Le emorragie che interessano soprattutto il microcircolo sono dovute alla più alta viscosità del sangue soprattutto nei vasi di diametro più piccolo nei distretti in cui la rete vascolare è più sviluppata. Generalmente la CM riduce anche la plasticità delle emazie che si impilano formando dei “rouleaux” cosa che contribuisce all’aumento della viscosità. I sintomi da iperviscosità vengono riportati nel 2-3% dei pazienti con MM e nel 10-20% dei casi con Macroglobulinemia di Waldenstrom (4). FIGURA 2 - Fondo oculare. Complicanze: aspetti clinici e terapeutici I sintomi da iperviscosità, però, risultano essere più comuni nel MM considerando la sua più alta incidenza. L’iperviscosità può essere facilmente diagnosticata con l’esame del fondo oculare (Figura 2) mentre la sua misurazione non è indicativa della gravità della malattia non correlando necessariamente con il quantitativo della CM (2), ma dipendendo anche dalla sua struttura. Infatti nei casi di iperviscosità, il quantitativo della IgM (pentamero) può essere inferiore rispetto a quello necessario per le IgA (dimero) e per le IgG (monomero). Molto discutibile è l’opportunità di eseguire la plasmaferesi nell’ottica di rimuovere la CM sierica, procedura che viene indicata, anche se sempre più raramente, soltanto nei pazienti in anuria con importante sintomatologia (5, 6) e che deve essere comunque seguita immediatamente dalla terapia citoriduttiva nell’ottica di contenere l’ulteriore produzione della CM. In questi casi, considerando che l’anemia può ridurre la viscosità ematica, le emotrasfusioni devono essere evitate quando possibile. La CM è in grado di precipitare a livello degli organi e di dare così origine a depositi di fibrille di amiloide (7) e quindi all’amiloidosi primaria o secondaria. Quando il deposito avviene a livello renale il danno può essere glomerulare e/o tubulare con conseguente insufficienza renale cronica, quando a livello cardiaco si assiste ad un ispessimento delle pareti cardiache soprattutto del setto interventricolare con grave scompenso. La deposizione dell’amiloide a livello vascolare è causa di fragilità dei vasi e di emorragie cutanee soprattutto nelle regioni periorbitali ed intestinali (8). Le fibrille di amiloide, oltre ad avere una azione diretta sui vasi contribuiscono alle manifestazioni emorragiche di alcuni pazienti, grazie ad una loro capacità di assorbire i fattori della coagulazione causandone un deficit, soprattutto del fattore X (9). Raramente la CM precipita a temperature basse soprattutto nel microcircolo, in questo caso si parlerà di crioglobulinemia che può determinare ischemie o infarti delle estremità. Inoltre, anche se ancor più raramente, è possibile avere la sindrome di Henoch-Schönlein (HSP) la cui eziopatogenesi è dovuta alla deposizione tissutale di immunocomplessi contenenti IgA che atti- vano il complemento con conseguente danno vascolare. I sintomi (porpora delle estremità, artrite, dolori addominali, nefrite con proteinuria), che sono molto simili alla più frequente HPS dei bambini, possono risolversi con la terapia specifica per il MM (10, 11). n COMPLICANZE DOVUTE ALL’INFILTRAZIONE DELLE PLASMACELLULARE A LIVELLO MIDOLLARE L’infiltrazione midollare da parte delle plasmacellule può essere causa di riduzione dei precursori delle cellule normali e quindi a livello del sangue periferico è possibile avere anemia, neutropenia e piastrinopenia con i conseguenti sintomi (Figura 3). Tuttavia, queste pancitopenie possono essere dovute o aggravate anche da altri fattori come le stesse chemioterapie. Anemia: La eziopatogenesi dell’anemia, come per le altre neoplasie, anche nel MM è considerata multifattoriale (Figura 4) essendo dovuta infatti oltre che alla infiltrazione midollare anche alla possibile emodiluizione, alla insufficienza renale, alla carenza di fattori quali vitamina B12, acido folico e ferro. Può dipendere dall’alterato metabolismo del ferro, dai possibili sanguinamenti e più raramente dall’emolisi. Nella pratica clinica questo segno diventa ancora più importante per i pazienti con MM essendo l’anemia uno degli elementi del CRAB (Figura 5) che impongono l’inizio del trattamento specifico. Molto importante, quindi, sarà la valutazione della possibile causa dell’anemia proprio per intervenire nel modo più appropriato possibile evitando di iniziare terapie specifiche a causa dell’anemia che può, al contrario, dipendere da tutti questi altri fattori. Si valuterà quindi l’opportunità di eseguire emotrasfusioni, da evitare in caso di emodiluizioni in presenza cioè di una “falsa” anemia, di somministrare ferro e/o vitamine in caso di anemia carenziale, di eseguire eritropoietina soprattutto nei casi con insufficienza renale, di intervenire sulle possibili perdite ematiche (12). Tutto questo viene eseguito indipendentemente dalla scelta terapeutica specifica per la neoplasia ematologica su cui non 67 68 Seminari di Ematologia Oncologica FIGURA 3 - Sintomi legati alla infiltrazione midollare. incide la possibile presenza di anemia che tuttavia quando legata alla malattia si risolve nella maggior parte dei pazienti rispondenti alle terapie specifiche. Con uno studio randomizzato è stato dimostrato che l’uso di eritropoietina migliora l’anemia nel 65% dei pazienti anche in assenza di insufficienza renale (13). Il miglioramento dell’anemia risulta anche in un significativo miglioramento della qualità di vita (14). Inoltre, vengo- no riportati dei dati preliminari riguardo il miglioramento della sopravvivenza dei pazienti con malattia avanzata attribuita alla capacità dell’eritropoietina di migliorare i meccanismi immuni antimieloma (15, 16). Quando l’emoglobina raggiunge i 12 g/dl, l’eritropoietina deve essere sospesa o ridotta ad una dose di mantenimento in considerazione dei possibili eventi avversi (trombosi) per valore superiori a 13 g/dl. Tali eventi sono riporFIGURA 4 - Eziologia multifattoriale dell’anemia nel paziente con MM. Complicanze: aspetti clinici e terapeutici FIGURA 5 - Definizione di MM. tati nel 15-20% dei casi in cui l’eritropoietina viene associata a farmaci quali lenalidomide o alte dosi di cortisone (17). Neutropenia: Può dipendere dalla sostituzione midollare o dalla tossicità dei trattamenti chemioterapici, e quando associata ai deficit immunologici, dovuti alla presenza della immunoglobulina patologica a discapito delle immunoglobuline normali, può essere causa di infezioni che in genere colpiscono l’apparato respiratorio e/o quello urinario. Le infezioni nei pazienti con MM sono la principale causa di morbilità, nel 15% dei casi sono il primo segno di malattia e sono maggiormente a rischio i pazienti durante i primi due mesi di trattamento, quelli con insufficienza renale e quelli con malattia attiva rispetto alla malattia stabile (18). Disfunzione leucocitaria (opsonizzazione, adesione e migrazione) e disfunzione linfocitaria (19) (alterato rapporto CD4/CD8, gamma/delta, NK/citotossicità) sono da tenere presenti come ulteriore causa di insorgenza di infezioni. Quindi pazienti febbrili devono essere attentamente valutati con emocolture, appropriate indagini radiologiche e trattati con terapia antibiotica. La febbre è un segno raro di malattia nel MM, e quindi quando presente bisogna subito pensare ad una eziologia infettiva. Importante soprattutto nei pazienti a rischio provvedere ad una profilassi che in genere consiste in una terapia antibiotica per via orale (20). Tale indicazione è il risultato di quan- to ottenuto prima con un limitato studio randomizzato (21), eseguito in 57 pazienti con MM alla diagnosi, in cui è stato dimostrato che l’uso in profilassi del sulfametoxazolo+trimetoprim verso il placebo dà beneficio quando utilizzato nei primi 2 cicli di terapia, e successivamente con un più largo studio di fase III in cui i pazienti venivano osservati o trattati con sulfametoxazolo+trimetoprim o con chinolone (22). La polmonite da Pneumocystis carini è al contrario una infezione che si manifesta raramente anche nei pazienti con MM trattati con alte dosi di cortisone. In caso di documentate ricorrenti infezioni batteriche e ipogammaglobulinemia è necessario considerare anche l’opportunità di somministrare immunoglobuline (23) per via endovenosa, mentre la terapia antifungina in genere non viene eseguita se non per i pazienti sottoposti a procedure trapiantologiche. Come detto i pazienti con MM presentano una alterata immunità cellulo-mediata che, senza profilassi, nel 20% dei casi può risultare in una infezione da herpes zoster. Questo è particolarmente vero per i pazienti trattati con bortezomib, dove l’incidenza riportata è del 30% dei casi (24), e per i quali deve essere considerata la profilassi antivirale con aciclovir o analoghi. Per quanto riguarda le vaccinazioni, discutibile è la loro efficacia considerando la variabilità delle risposte per cui questo rimane un campo tutto da esplorare. Non 69 70 Seminari di Ematologia Oncologica esistono, tuttavia, controindicazioni mediche e quindi numerosi pazienti nella pratica clinica ricevono annualmente i vaccini antinfluenzali e generalmente una singola dose di vaccino antipneumococco (25, 26), mentre il vaccino antivaricella non viene raccomandato trattandosi di un vaccino con virus attenuato. Piastrinopenia: La riduzione del numero delle piastrine dovuta ad infiltrazione midollare e ad uso di chemioterapia, di bortezomib o di lenalidomide, assieme ad alterazioni della coagulazione, possono essere causa di sanguinamenti sia della cute che delle mucose. Si possono avere manifestazioni emorragiche anche per interferenza della CM con i fattori della coagulazione (9) e delle membrane piastriniche (27). Possibili sanguinamenti spontanei o dopo procedure invasive a livello delle mucose possono essere attribuiti anche ad un deficit acquisito del fattore di von Willebrand (VWF) probabilmente dovuto a: 1. formazione di complessi immuni formati da VWF-autoanticorpi capaci di neutralizzare l’attività del VWF o favorirne l’eliminazione attraverso il reticolo endoteliale; 2. assorbimento del VWF direttamente da parte delle cellule maligne su cui sarebbero presenti i suoi recettori; 3. aumento della proteolisi del VWF; 4. riduzione della sintesi VWF (28-30). Per quanto riguarda questa particolare situazio- ne, al momento non c’è ancora consenso su quello che potrebbe essere il trattamento specifico. La terapia quindi sarà sicuramente sintomatica; si interverrà con trasfusioni piastriniche in caso di gravi piastrinopenia in presenza di sanguinamenti, con terapia specifica per il mieloma nell’ottica di ridurre la CM e l’infiltrazione midollare, e con terapia cortisonica che in genere fa parte della terapia specifica per la malattia ematologica. Anche la scelta della terapia per il mieloma potrà dipendere dalla presenza o meno della pancitopenia e dalla sua causa. In caso di pancitopenie da chemioterapici sicuramente sarà indicata una riduzione della posologia dei farmaci somministrati, mentre in caso di sostituzione midollare si prenderà in considerazione l’opportunità di eseguire dosaggi pieni proprio nell’ottica di agire sulle cellule patologiche, in questo caso le plasmacellule, e fare spazio ai precursori delle cellule normali. La presenza della neutropenia e piastrinopenia al contrario di quanto succede in presenza di anemia potrebbe influenzare la scelta della terapia specifica soprattutto nell’era dei nuovi farmaci quali la talidomide, il suo derivato, la lenalidomide, e il bortezomib. Questi farmaci hanno infatti una diversa modalità di azione sul midollo (Tabella 2). La lenalidomide risulta tossica sul midollo, causando soprattutto neutropenia, al contrario della talidomide e del bortezomib (31-35). Quest’ultimo è causa soprattutto di piastrinopenia dovuta ad Talidomide Bortezomib Lenalidomide No tossicità midollare No tossicità midollare Tossicità midollare Anemia - Rara Anemia - Grado 3/4 - 10% Anemia - Grado 3/4 - 13% Trombocitopenia - Non comune Trombocitopenia2 - Non comune 35% - Grado 3/4 - 29% - Recupero del numero di piastrine nei 10 giorni di riposo Trombocitopenia - Grado 3/4 - 14.7% Neutropenia - Grado 1/2 - 15-25% Neutropenia - Tutti i gradi 19% - Grado ¾ - 14% - Riduzione transitoria dei neutrofili con rapido recupero Neutropenia - Grado 3/4 - 41% - Necessità del fattore di crescita nel 33.9% TABELLA 2 - Tossicità ematologica. Complicanze: aspetti clinici e terapeutici un alterato rilascio dei trombociti da parte dei megacariociti più che ad una tossicità midollare, cosa che spiega il rapido recupero con la sospensione del trattamento. n COMPLICANZE DOVUTE ALLA INSUFFICIENZA RENALE L’insufficienza renale può dipendere da vari fattori e generalmente si manifesta con valori della creatinina <4 mg/dl. Il 2-15% dei pazienti può richiedere un trattamento dialitico; nel 40-60% dei casi si ottiene una buona risposta al trattamento chemioterapico. Nel caso di nefropatia tubulare (rene da mieloma) il danno è causato dalla escrezione/filtrazione delle catene leggere che a livello del tubulo distale possono precipitare e formare dei veri e propri corpi eosinofili costituiti dalle catene leggere circondate da cellule giganti multinucleate. Il grado di severità della insufficienza renale dipenderà soprattutto dalle caratteristiche biochimiche dei precipitati piuttosto che dal loro numero. Il deposito delle immunoglobuline a livello glomerulare può essere causa di depositi di amiloide cioè di fibrille costituite da catene leggere che si depositano a livello delle membrane basali. In questo caso sono per lo più catene leggere di tipo λ, risultano positive alla colorazione con il rosso Congo, causano sindrome nefrosica e il valore della creatinina può essere anche normale. Nella malattia da deposito della catena leggera o della CM generalmente la catena interessata è la k, la colorazione con il rosso Congo risulta negativa, quindi non si tratta di fibrille, la possibile sindrome nefrosica è dovuta al coinvolgimento glomerulare, i livelli di creatinina generalmente sono aumentati ed è possibile il coinvolgimento di altri organi quali il cuore e il fegato. Altra causa di danno renale è la sindrome acquisita di Fanconi, caratterizzata dalla presenza di inclusioni cristalline dovute a incomplete catene leggere k a livello del tubulo prossimale, con una incapacità di riassorbimento da parte dello stesso e conseguente glicosuria, aminoaciduria, ipouricemia, ipofosfatemia, osteoporosi, dolori ossei e insufficienza renale moderata. La disidratazione, le infezioni, l’uso di farmaci nefrotossici quali antibiotici, gli antinfiammatori non steroidei (FANS) usati per i dolori, l’ipercalcemia, la stessa chemioterapia possono essere causa di alterata funzione renale. L’approccio al paziente con MM a rischio di sviluppare una insufficienza renale sarà di evitare le cause scatenanti e quindi si dovrà consigliare di bere almeno 2 litri di acqua al giorno, evitando l’uso dei FANS e la disidratazione, l’ipercalcemia e l’iperuricemia (36). Nel 20-60% dei casi è possibile parlare di reversibilità della insufficienza renale, che sicuramente è più probabile (50% dei casi) se il valore della creatinina è <4 mg/dl, la proteinuria delle 24 ore è <1 g e i livelli di calcio sono <11.5 mg/dl, mentre più difficile (meno del 10% dei casi) sarà il recupero della funzionalità renale nei pazienti in dialisi, recupero che sarà rarissimo nel caso di pazienti dializzati da più di 4 mesi. Di fronte ad un paziente che è in insufficienza renale la prima cosa da fare sarà forzare la diuresi, idratarlo con soluzioni che permetteranno di alcalinizzare le urine, nell’ottica di evitare la formazione di ulteriori precipitati, ed intervenire con la terapia cortisonica, unico approccio terapeu- Funzionalità renale (CLcr) Aggiustamenti della dose Lieve insufficienza renale (CLcr>50 ml/min) 25 mg una volta al giorno (dose completa) Moderata insufficienza renale (30<CLcr>50 ml/min) 10 mg una volta al giorno* Grave insufficienza renale (CLcr<30 ml/min senza necessità di dialisi) 15 mg a giorni alterni** Malattia renale allo stadio finale (ESRD) (CLcr<30 ml/min con necessità di dialisi) 5 mg una volta al giorno. Nei giorni di dialisi la dose deve essere somministrata dopo la dialisi *La dose può essere aumentata a 15 mg una volta al giorno dopo 2 cicli qualora il paziente non risponda al trattamento ma tolleri il medicinale. **La dose può essere aumentata a 10 mg una volta al giorno se il paziente tollera il medicinale. TABELLA 3 - Aggiustamenti della dose di lenalidomide nei pazienti con funzionalità renale alterata. 71 72 Seminari di Ematologia Oncologica tico che si utilizza inizialmente rinviando l’inserimento della chemioterapia ad una fase successiva. In caso di persistenza dell’insufficienza renale, sarà necessario valutare l’opportunità di iniziare i trattamenti specifici per la malattia ematologica, con l’attenzione di ridurre i dosaggi di farmaci quali gli alchilanti che vengono escreti dal rene e la cui concentrazione può aumentare a livello ematico causando di per sè tossicità midollari con conseguenti pancitopenie. La scelta del trattamento specifico si farà tenendo presente il metabolismo dei farmaci utilizzati (37, 38). Nessun problema per farmaci quali antracicline, bortezomib, talidomide e le stesse procedure utilizzate per il trapianto delle cellule staminali, mentre sarà necessario ridurre (Tabella 3) il dosaggio della lenalidomide (39). Come già ripetutamente detto, la conoscenza delle complicanze dovute alla malattia o come conseguenza delle terapie utilizzate è necessaria proprio per evitare l’insorgenza di problematiche che è possibile prevenire. n COMPLICANZE DOVUTE ALLA COMPROMISSIONE DELL’APPARATO SCHELETRICO Il 35% dei pazienti affetti da MM al momento della diagnosi presenta una compromissione ossea che può variare da osteoporosi, a lesioni osteo- litiche fino a fratture patologiche con compromissione anche neurologiche e metaboliche (Figura 6). Tale complicanza può insorgere anche durante le fasi successive della malattia per interessare una percentuale maggiore di pazienti, ad esempio nella fase di recidiva di malattia. Generalmente, comunque, la compromissione ossea è presente nel 75% dei casi se si considera l’osteopenia, l’osteolisi e le fratture patologiche con il 58% di fratture vertebrali (40). Lo sviluppo delle lesioni osteolitiche nel MM è secondario al riassorbimento osseo dovuto all’aumentata attività degli osteoclasti accompagnata da una ridotta funzione degli osteoblasti. Al momento uno dei campi di ricerca per il MM è proprio lo studio dei meccanismi che regolano l’attività degli osteoclasti e degli osteoblasti così come la identificazione di target terapeutici per prevenire e trattare le lesioni osteolitiche (41). Nell’eziopatogenesi del rimaneggiamento osseo un ruolo molto importante è riconosciuto a citochine ed ormoni che regolano il rapporto tra il ligando di RANK e la osteoprotogerina (OPG). L’alterazione del rapporto RANK ligando/OPG causa l’aumento del riassorbimento osseo (4244). Tale meccanismo deve essere tenuto ben presente considerando la possibilità di affiancare alle terapie tradizionali (chemioterapia, radioterapia, chirurgia e terapia del dolore) anche nuovi farmaci quali inibitori degli osteoclasti (bisfo- FIGURA 6 - Sintomi legati al riassorbimento osseo. Complicanze: aspetti clinici e terapeutici sfonati, inibitori di RANKL, inibitori della prenilazione e inibitori del proteasoma) e stimolatori degli osteoblasti (osteoproteine morfogeniche, statine, anticorpi monoclonali anti-PTHrP, antagonisti della V3 integrine). Tra questi i bisfosfonati sono sicuramente farmaci entrati nell’armamentario terapeutico dei pazienti affetti da MM (45). È stato dimostrato che questi farmaci sono in grado di ridurre le complicazioni scheletriche e migliorare la qualità di vita (46). Ne esistono di varie generazioni, l’ultimo dei quali l’acido zoledronico, di gran lunga più attivo degli altri, e ad esso vengono riconosciuti numerosi meccanismi d’azione quali azione, anti-proliferativa, induzione dell’apoptosi, sinergia di apoptosi con trattamenti anti-neoplastici, inibizione dell’angiogenesi, inibizione del rilascio di citochine e fattori di crescita dal microambiente osseo, inibizione dell’adesività all’osso e inibizione del potenziale di invasività ossea. In considerazione di questi meccanismi di azione, questo farmaco è stato utilizzato anche nei casi di mieloma smoldering, quindi in pazienti che non necessitano di trattamenti chemioterapici, nell’ottica di valutare una loro efficacia in termine di evoluzione di malattia (47). I bisfosfonati sono farmaci somministrati per via endovenosa una volta al mese, ma il cui uso prolungato può essere causa di sindrome nefrosica, insufficienza renale, ipocalcemia e osteonecrosi della mandibola (ONJ) (48, 49). Recentemente è stato riportato che l’incidenza della ONJ è associata all’uso prolungato dei bifosfonati (>1 anno) e soprattutto si sviluppa utilizzando l’acido zoledronico, più che il pamidronato (50, 51). Tali possibili complicanze richiedono sicuramente una particolare attenzione nella somministrazione dei bisfosfonati proprio nell’ottica di evitare inappropriate riduzioni o interruzioni di un farmaco di indubbia efficacia per i pazienti con MM soprattutto con compromissione ossea. Come detto, l’insufficienza renale interessa già i pazienti con MM e quindi è fondamentale tenere presente questa problematica prima di inserire i bisfosfonati in terapia; sarà necessario valutare il valore della clearance della creatinina e provvedere alle appropriate riduzioni di dosi e al prolungamento del tempo di infusione del farmaco per evitare ulteriori peggioramenti della funziona- lità renale. Per quanto riguarda l’osteonecrosi della mandibola è questa una problematica insorta nei pazienti in trattamento con bisfosfonati che necessitavano di cure del cavo orale eseguite senza le appropriate precauzioni come uso di antibiotici fino alla completa risoluzione delle lesioni delle gengive, o limitazione delle procedure chirurgiche odontoiatriche. Al momento, sicuramente grazie alla maggiore conoscenza e alla profilassi che viene eseguita, è possibile continuare ad utilizzare questi farmaci senza indurre una complicanza quale ONJ (52). Alla luce di queste problematiche, sia la Mayo Clinic (53) che la Società Americana di Oncologia Clinica (54) hanno presentato delle linee guida dando indicazioni precise riguardo l’uso dei bisfosfonati. - La terapia con bisfosfonati al di fuori degli studi clinici non è indicata per pazienti con mieloma smoldering/inattivo. - Se le radiografie sono negative o mostrano soltanto osteoporosi, non vi è accordo per l’utilizzo dei bisfosfonati. - La densitometria ossea non è molto utilizzata, ma potrebbe aiutare nel documentare e quantizzare la osteoporosi diffusa. - La durata della terapia non dovrebbe superare i 2 anni. - Nei pazienti che, con i trattamenti, hanno ottenuto una risposta completa o una risposta quasi completa senza evidenza di attività di malattia a livello osseo, 1 anno di trattamento è considerato ragionevole. n COMPLICANZE NEUROLOGICHE Causate generalmente da compressioni dei nervi dovuti a compromissione ossea o formazione di tessuto molle (plasmocitomi). L’interessamento può riguardare le radici dei nervi per cui si parlerà di radicolopatie caratterizzate da dolori, riduzione di forza fino alla paralisi. Quando la compressione riguarda la corda midollare, generalmente a causa di crolli vertebrali, la sintomatologia può variare da dolore, a paraplegie con possibile perdita della funzione degli sfinteri. Possibili sono anche le neuropatie periferiche, diagnosticate clinicamente nell’1-13% dei casi, percentuale che sale al 39% quando viene eseguita la elettromio- 73 74 Seminari di Ematologia Oncologica Grado I Riduzione del 50% della dose di Talidomide Grado II Sospensione del trattamento fino a risoluzione o riduzione della tossicità al grado I, quindi ripresa della somministrazione con dosaggio ridotto del 50% ed intervenire immediatamente con alte dosi di cortisone e radioterapia locale. Più raramente è richiesto un intervento chirurgico. n COMPLICANZE METABOLICHE Grado III Interruzione permanente del trattamento TABELLA 4 - Gestione della neuropatia periferica conseguente al trattamento con talidomide. grafia e che possono essere dovute ad una azione demielinizzante da parte della CM, alla iperviscosità o all’azione dei farmaci quali la vincristina, la talidomide e il bortezomib. In caso di neurotossicità iatrogena (55), fondamentale sarà intervenire tempestivamente con la riduzione dei dosaggi prima di arrivare ad avere dei danni irreversibili e quindi essere costretti poi alla sospensione inappropriata di farmaci molto attivi (Tabella 4). Nei pazienti in cui le chemioterapia e/o gli analgesici non sono sufficienti per controllare il dolore, sarà necessario prendere in considerazione l’opportunità di eseguire un trattamento radioterapico localizzato alla zona maggiormente interessata dalla problematica ossea. Molte volte, in caso di fratture patologiche, è necessario eseguire interventi chirurgici di stabilizzazione delle ossa lunghe o vertebrali. Per i pazienti con fratture dei corpi vertebrali esistono 2 tecniche utilizzate per stabilizzare la vertebra compromessa e alleviare il dolore: la vertebroplastica (iniezione di cemento nel corpo della vertebra collassata) e la cifoplastica (introduzione di un palloncino nel corpo vertebrale che una volta gonfiato viene riempito di cemento). Ambedue le tecniche si sono dimostrate efficaci nell’85% dei pazienti soprattutto in quelli con frattura vertebrale da <1 anno. La risoluzione del dolore è pressoché immediata, mentre i rischi legati alla procedura sono minimi e includono raramente infezioni, sanguinamenti o fuoriuscita del cemento nel canale vertebrale (56). Una vera emergenza è, per i pazienti con MM, la compressione del midollo spinale da parte di un plasmocitoma, causa di dolori vertebrali e possibili segni neurologici come formicolii delle estremità, disfunzione degli sfinteri, riduzione di forza degli arti. Se si sospetta un tale quadro, sarà necessario eseguire una risonanza magnetica nucleare in urgenza L’ipercalcemia può essere un segno della malattia, meno frequente della malattia ossea, che generalmente interessa il 30% dei casi nel corso della storia della malattia. Negli anni, infatti, grazie alle diagnosi di MM eseguite sempre più precocemente, difficilmente l’ipercalcemia è presente al momento della diagnosi di malattia, mentre è possibile doverla affrontare nei casi di malattia più avanzata. La sua patogenesi è dovuta all’accumulo di calcio extracellulare per aumentato riassorbimento osseo e ridotta clearance a causa dell’alterata filtrazione glomerulare. In rapporto al quantitativo di calcio si parlerà di ipercalcemia lieve (<12 mg/dl) moderata (≥12 <15 mg/dl) e grave (>15 mg/dl) situazioni che varieranno anche dal punto di vista sintomatologico. Nel primo caso è possibile non avere sintomatologia, in caso di ipercalcemia moderata è possibile avere astenia, poliuria e nefrocalcinosi mentre nei casi più gravi è possibile avere sintomi neurologici, gastrointestinali e complicanze cardiovascolari (Figura 7). La terapia da considerare di emergenza consiste nel forzare la diuresi con idratazione per via endovenosa, diuretici, terapia cortisonica ad alto dosaggio e bisfosfonati. La sindrome della lisi tumorale (TLS) è una problematica che raramente riguarda i pazienti affetti da MM trattati con chemioterapia convenzionale comprendente anche gli alchilanti, ma che deve essere tenuta presente con l’uso delle nuove molecole in considerazione di quanto riportato in pazienti trattati con bortezomib (57, 58). Questa differenza può essere spiegata dal fatto che la chemioterapia agisce soltanto sulle cellule proliferanti, che nel MM sono in percentuale molto bassa, mentre il bortezomib su tutte le cellule neoplastiche in cui è stato attivato l’NF-kB (59). Quindi in caso di pazienti, soprattutto con masse tumorali importanti, sottoposti a terapie che prevedono l’uso dei nuovi farmaci viene indicata l’opportunità di idratare il paziente, alcalinizzare le urine ed inserire farmaci ipouricemizzanti. Complicanze: aspetti clinici e terapeutici FIGURA 7 - Ipercalcemia. n COMPLICANZE TROMBOTICHE I pazienti con neoplasia hanno un alto rischio di sviluppare trombosi (60) dovute anche ad immobilizzazione, uso di cateteri venosi centrali, chemioterapia. Nel caso del MM gli eventi tromboembolici hanno cause multifattoriali quali caratteristica trombogenica della patologia in sè probabilmente dovuta alle caratteristiche fisico-chimiche delle CM, uso di alcune terapie, quali talidomide (61), lenalidomide (62), uso di eritropoietina soprattutto in associazione a lenalidomide (63) o alte dosi di desametasone rispetto alle basse dosi (64) e possibili altre concause come l’età più avanzata dei pazienti. In uno studio retrospettivo condotto negli USA, in cui sono state analizzate le cartelle di pazienti ricoverati tra il 1980 e 1996, su 1.000 pazienti è stata riportata una incidenza di trombosi dello 0.9, 3.1 e 8.7 rispettivamente per i pazienti anziani senza discrasia plasmacellulare, con MGUS e MM (65). L’osservazione della più alta incidenza di trombosi anche nelle MGUS sottolinea la possibile caratteristica intrinseca dei pazienti affetti da queste alterazioni a sviluppare trombosi (66, 67). Comunemente la più alta incidenza di trombosi si ha nei pazienti con MM alla diagnosi e durante i primi 4-6 mesi di trattamento. Numerose sono state le strategie di profilassi segnalate per i pazienti con MM che ricevono farmaci quali talidomide o lenalidomide in combinazione con desametasone e/o chemioterapia nei quali è riscontrata una più alta incidenza di trombosi, come ad esempio riportato da Baz et al. (68), che segnalano una incidenza del 58% di trombosi nei pazienti trattati alla diagnosi con talidomide, desametasone, doxorubicina liposomiale e vincristina. L’uso di dosi fisse di anticoagulante orale non hanno dato risultati incoraggianti, al contrario delle dosi terapeutiche risultate efficaci, nei pazienti trattati con talidomide, ma che non sono state testate per i pazienti in terapia con la lenalidomide. L’eparina a basso peso molecolare sembra essere efficace come profilassi delle trombosi in associazione a terapie combinate di talidomide, melfalan o ciclofosfamide ma non quando la talidomide è combinata con ciclofosfamide, vincristina, etoposide, doxorubicina, cisplatino e desametasone (69). In attesa, quindi, dei risultati di studi controllati che si prefiggono di valutare quale profilassi utilizzare, al momento viene consigliato l’uso dell’aspirina per i pazienti con nessuno o un fattore di rischio per trombosi, e l’eparina a basso peso molecolare per quelli con più di un fattore di rischio. Quando necessario l’eparina può essere sostituita dagli anticoagulanti somministrati a dosaggi terapeutici (70). Nonostante siano necessari più dati prima di giungere a conclusioni definitive, l’uso del bortezomib in associazione anche con talidomide e lenalidomide non sembrerebbe aumentare l’incidenza di trombosi nei pazienti in terapia (71, 72), ma addirittura la ridurrebbe, (73) cosa che permetterebbe di non utilizzare la profilassi antitrombotica. 75 76 Seminari di Ematologia Oncologica n CONCLUSIONE Il MM è una malattia molto complessa che può essere caratterizzata da numerose complicanze dovute sia alla patologia stessa che alle terapie utilizzate. Nel corso degli anni, grazie anche alla possibilità di eseguire con più facilità lo studio proteico del siero e delle urine, la diagnosi viene eseguita sempre più precocemente cosa che ha portato ad una riduzione del numero dei pazienti che al momento dell’esordio di malattia si presentano con insufficienza renale o sintomatologie gravi come ipercalcemia o complicanze neurologiche su cui intervenire in emergenza. Queste problematiche, comunque, devono essere tenute ben presenti perché possono interessare i pazienti nelle fasi più avanzate della malattia e, quando non si prendono le dovute precauzioni, possono aversi come complicazione dei farmaci utilizzati, siano essi chemioterapici standard o mieloablativi con trapianto di cellule staminali, o le stesse nuove molecole che sempre più vengono utilizzate per tutte le categorie dei pazienti con MM. La prognosi di questi pazienti è decisamente migliorata nel corso degli anni, anche se al momento non è ancora possibile parlare di guarigione. Numerosi sono i progressi che si sono avuti anche in termine di terapia di supporto, che permettono di utilizzare al meglio le stesse chemioterapie, anche in pazienti più fragili, contribuendo all’aumento della percentuale di risposte ottenute, all’allungamento della durata di queste risposte e quindi della durata di sopravvivenza. Miglioramenti, questi, che incidono positivamente sulla qualità di vita dei pazienti, problematica che sempre più deve essere presa in considerazione e tenuta ben presente quando è necessario decidere il trattamento da effettuare. La conoscenza quindi delle possibili complicanze è fondamentale nella pratica clinica perché, come già ripetutamente detto, permette di prevenirle, o quanto meno di affrontarle, per evitare ulteriori complicazioni che possono risultare essere anche fatali. n BIBLIOGRAFIA 1. Kyle RA, Gertz MA, Witzig TE, Lust JA, Lacy MQ, Dispenzieri A, et al. Review of 1027 patients with new- ly diagnosed multiple myeloma. Mayo Clin Proc. 2003; 78: 21. 2. Kwaan H., Bongu A. The hyperviscosity syndromes. Seminars in Thrombosis and Hemostasis. 1999; 25: 199-208. 3. Menke M, Feke G, McMeel J, Branagan A, Hunter B, Treon SP. Hyperviscosity-related retinopathy in Waldenstrom macroglobulinemia. Archives of Ophthalmology. 2006; 124: 1601-6. 4. Mehta J, Singhal S. 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