sogni spezzati - Giallo italiano
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sogni spezzati - Giallo italiano
SOGNI SPEZZATI 1 Quel piccolo uomo vestito di bianco col fare un po’ trasandato era venuto da un paese lontano, oltre il mare, un paese che si dice molto ricco. Ma di questa ricchezza a questo piccolo uomo non era rimasta che una camicia bianca e la cravatta annodata male che copriva il colletto sporco. Era arrivato una mattina con la corriera, nascosto in mezzo ai vecchi che ritornavano dal mercato, come un ladro, senza salutare, guardandosi in giro con aria sospettosa. Quelle facce come zolle bruciate dal sole lo guardavano, lo scrutavano come fosse una bestia rara. Una bestia forse lo era, di quelle che vivono in mezzo a un deserto e aspettano la preda. Era andato subito all’unico albergo per cercare una camera, per sfuggire da quegli sguardi ostili che lo avevano trafitto come lame ardenti. Aveva trovato la camera accogliente e fresca in quel torrido sole estivo. Non era bella a confronto del suo comodo appartamento di un tempo, ma quell’aria di tranquillità, di difesa dagli sguardi della gente seduta in piazza lo confortava e lo rendeva felice. Era la prima volta che si sentiva felice da quando aveva lasciato la famiglia, o meglio da quando sua moglie era scappata. La finestra dava su un cortile deserto animato solo da qualche bambino che giocava ruzzolandosi nel fango della fontana. Era bello guardare la montagna attraverso la luce del sole, faceva male agli occhi quell’intenso raggio di luce che costringeva a socchiudere le palpebre, ma quel leggero fastidio gli era di immenso piacere. Calmo, finalmente tranquillo, aprì le sue valigie, dispose con cura i vestiti nell’armadio. Si fece la barba guardandosi nello specchio con fare un po’ sospettoso. Il suo viso era solcato da una ruga profonda, uno scoglio che spaccava l’onda schiumosa del mare, ricordo delle battaglie perse. Non era ancora così vecchio e nemmeno poi tanto brutto da non potersi trovare una donna e farsi una famiglia. Con quel pensiero fisso nella mente scese e si avviò per le stradine del paese guardandosi attorno per poter capire cosa c’era dietro quei visi scuri che poco prima lo avevano così brutalmente ferito. Si accorse per la prima volta delle case vecchie, fatte di pietra, troppo piccole per poterci abitare. Quell’odore di fieno, di vino, di roba da mangiare, i bambini che giocavano a palla avvelenata contro il muro odoroso di edera, davano la sensazione che questa gente fosse davvero felice. La piccola chiesa in mezzo al paese sapeva di un buon odore di incenso e di vino che proveniva dalla vicina osteria. Il paese che poco prima gli sembrava deserto, come una cattedrale dopo la messa, era tutto lì in quell’osteria, dove quei vecchi sembravano fanciulli pieni di gioia. I loro pugni alzati, battenti sopra le tavole esprimevano la loro rabbia, il loro odio di uomini calpestati, ma anche la loro vitalità. Entrare in quel buco voleva dire respirare odore di cicche e di vino, di bestemmie e di urli in un piacevole marasma di vita. Il giovane cittadino non era abituato al frastuono di quegli sporchi vecchi che con villaneria impressionante sputavano per terra e sboccavano il vino con un colpo secco rivolto al pavimento. No, non avevano di certo la sua educazione, ma stranamente qualcosa non andava, non riusciva a distaccarsi da loro provando come sempre la sua superiorità. Sentiva dentro, non una repulsione, ma contro ogni logica una rabbia per non sentirsi come loro. Gli era di nuovo successo di sentirsi estraniato, colpevole di una colpa mai commessa. Lui professore di liceo discepolo di questa gente ignorante. Ma ancora più sorprendentemente non si sentiva abbattuto, anzi era felice se non fosse stato per quel fitto dolore di rabbia che dal suo arrivo non lo aveva più abbandonato. Non si era ancora ripreso dai suoi pensieri quando gli si presentò una figura di donna, meravigliosamente bella, che con un sorriso gli disse: “ Benvenuto professore, lo aspettavamo già, sapevamo che non sarebbe potuto mancare, qui si passa la maggior parte della giornata, ma via avrà visto tutto da sé. Cosa prende, va bene un mezzo?” Quelle parole così marcate, ma soprattutto quella voce che si rivolgeva a lui senza paura, quasi provocandolo, lo aveva colpito non poco. Il suo sorriso di donna non più bambina, segnata da rughe la rendeva forse più vecchia. Dalla sua finestra aveva visto poco prima le montagne brulle, martoriate dai raggi implacabili del sole, era bastato un attimo per capire come dentro a quelle montagne, a quel corpo fin troppo simile, dovesse battere il sangue gorgogliante della vita. “ Si certo, va benissimo il mezzo” rispose senza guardarla, rosso in viso come un peperone maturo. Lei ritornò poco dopo con la bottiglia e il bicchiere, lo appoggiò sgarbatamente sul tavolo e se ne andò senza rivolgergli la parola. Era rimasto disorientato dal suo fare burrascoso contrapposto ai suoi occhi dolci, dal suo viso segnato, dalla sua bocca e dalle sue mani di fanciulla. Bevve in fretta e pagò. Ritornò in albergo, si sdraiò sul letto stanco del lungo viaggio addormentandosi quasi subito. Si svegliò con la luce del sole che filtrava dalle finestre che era già mattino. La gente era tutta in piazza, era giorno di mercato. Voci, urla a testimonianza della propria esistenza. Scese trasportato da un folle desiderio di urlare, di conoscere, di dire che anche lui esisteva. Era felice dei suoni che colpivano violentemente i suoi timpani, era felice degli spintoni che lo facevano traballare. Stava ancora godendo della sua scoperta quando qualcuno gli si avvicinò. “ Professore anche lei a fare la spesa”. Si voltò impaurito, nessuno lo conosceva, fu un attimo, subito riconobbe la donna dell’osteria. La sua persona gli dava fastidio per il suo modo di intromettersi nei pensieri, per la sua spavalderia, per il suo essere donna. Senza rispondere si ritrovò a passeggiare con lei per una strada che portava in montagna. Lei cominciò a parlare dei suoi studi interrotti in città, di suo padre che la picchiava ancora se ritornava tardi a casa. Migliaia di parole gli colavano addosso prepotentemente, disarcionando qualsiasi tipo di pensiero. Quasi per non farla parlare la prese per i capelli e la sbatté per terra, come per vederla disintegrarsi, diventare terra anch’essa. Quante volte da ragazzo aveva corso nei campi per buttarsi nella terra appena arata. Nello sguardo di lei pieno di odio rivide la bestemmia del contadino per il suo duro lavoro, lo sputo per terra per sciacquarsi la gola, la gioia di un temporale settembrino che bagna il corpo, la corsa a casa a scaldarsi accanto alla stufa. Fu un attimo, il suo sperma scivolò nella pancia, si mise a ridere, quante volte da ragazzo era andato a masturbarsi nei campi aspettando che dal ventre della terra germogliasse una piccola pianta. Si riallacciò i pantaloni, lei si diede una toccatina ai capelli sfatti, si ripulì della terra, gli si appiccicò al fianco e scesero in paese. Sembrava una ragazzina che aveva appena mangiato un gelato, anche se stasera era diventata donna. I giorni passarono in una monotonia incredibile, il libro che aveva iniziato non andava più avanti, ma quel che era peggio era quel continuo mal di testa che da quello stupido giorno non lo aveva più abbandonato. Il paese, la gente gli era sempre più distante, il caldo opprimente che faceva deserta la piazza gli dava un’angoscia tremenda, le frequenti gite in montagna lo infastidivano sempre più. Come si poteva apprezzare il silenzio, la frescura, le ombre quando le parole ti colavano addosso senza poterle fermare. Quando si accendeva la pipa lei gli si buttava addosso strofinandogli le sue tette come una cagna in calore, e la pipa inevitabilmente cadeva e si spegneva. Stava diventando davvero insopportabile. Ma quando lo sperma si riversava su di lei ritornava il silenzio e la pace. Apprezzava quei momenti come quando un contadino stanco del lavoro si refrigera con una bottiglia di vino tenuta in fresco nella bialera. Si continuò in questo modo per almeno un mese, ma una sera lei arrivò più eccitata e bambina del solito. “ Devo darti un regalo” “ Vediamolo” le disse senza darle molto peso. “ Non adesso, andiamo in montagna” rispose lei. Quell’ennesima novità lo turbò, la serata era iniziata male. Appena lasciato il paese si sedettero al bordo del sentiero. “ Cos’è questa novità?” le disse togliendosi subito il rospo che aveva in gola. “ Aspetto un bambino, il tuo bambino” gli rispose. La guardò con la faccia scura e piena d’odio, era incastrato. “ Non se ne parla nemmeno, domani parto per il mare e tu devi abortire”. La sua faccia di bambina d’un colpo si trasformò in quella di donna, i suoi occhi luccicarono, si alzò di scatto e corse via. Rimase sbigottito da quel comportamento, forse era andata meglio del previsto. Ridiscese in albergo, preparò le sue cose, saldò il conto e come un ladro prese la prima corriera. Un mezzo sorriso si stampò sulla sua faccia, a mezzogiorno avrebbe fatto il bagno in mare e si sarebbe scrollato di dosso la terra di questo insignificante paese. 2 Andrea era un ragazzotto robusto, ma non si poteva di certo definire un bel ragazzo, sproporzionato com'era. L'altezza non gli mancava ma quel continuo portare avanti il corpo lo rendeva parecchio instabile e persino ridicolo quando alla domenica si vestiva a festa, con la giacca sempre troppo stretta e i calzoni corti che mettevano in mostra dei calzini mai intonati al resto del vestito. Era uno spasso vederlo chino sulla terra intento a zappare con tutti quei muscoli in esibizione, tanto che le donne smettevano di lavorare per guardarlo, immaginando chissà quali scene d'amore. Andrea passava le sue giornate ad aiutare i genitori in campagna, godendo dello sforzo fisico che metteva a dura prova il suo corpo. Alla sera preferiva rintanarsi nel fresco della casa a leggere qualsiasi libro che gli capitasse a tiro, soprattutto quelli di avventura che gli permettevano di conoscere nuove terre che forse non avrebbe mai visitato. Qualche volta si ritirava in collina a godere dei rumori del vento in mezzo alle foglie, dei versi degli animali più strani o dell'ansimare delle giovani coppie che si nascondevano nell'oscurità, in quei momenti la terra sembrava gemere di piacere. Raramente Andrea usciva di casa per concedersi uno svago, solamente alla domenica pomeriggio andava nella vicina osteria per sedersi da solo a sorseggiare un bicchiere di vino che nemmeno finiva. Gli piaceva starsene in mezzo a quella gente chiassosa, allegra e carpire dalle loro voci le storie più incredibili. Ma la sua attenzione si rivolgeva spesso alla Luisa, la figlia del proprietario, una ragazza piccolina, forse neanche bella, ma con un corpo che sprigionava un'incredibile gioia di vivere. I suoi vestiti troppo stretti mettevano in risalto due grossi seni da latte, passava tra i tavoli sfiorando gli uomini che andavano in visibilio. C'era per loro sempre una parola gentile, se qualcuno si spingeva oltre toccandole il sedere lei lo lasciava fare offrendo il suo corpo come una sorgente offre la sua acqua al contadino stanco dal lavoro. Nessuno aveva mai osato insinuare una qualche cattiveria sul suo conto, da tutti era amata di un amore profondo, persino dalle donne a cui aveva soffiato il marito per una sera e non di più, una scappatella che sapeva di una bevuta di troppo. Soltanto quando diventava seria e incominciava a parlare di andare in America, dove si faceva fortuna con poco, quando parlava del mare come un sogno di libertà da quel piccolo paese così incastrato in quelle montagne che coprivano anche il cielo, veniva considerata un poco pazza. Andrea aveva preso l'abitudine di passarle i suoi libri che divorava immediatamente durante una notte. Una domenica come tante Andrea si presentò all'osteria ma si accorse subito che non c'era la solita aria, musi lunghi, poco vino nei bicchieri, il padrone che girava tra i tavoli in preda a uno stato di agitazione che avrebbe sfogato volentieri con qualche cliente un po' più esigente del solito, di Luisa nessuna traccia. Venne a sapere da un vecchio che parlava troppo che era scappata di casa, aveva scritto un biglietto al padre: “Ringrazio tutti ma io devo andare in America”. Da quel giorno la vita di Andrea cambiò improvvisamente, non andò più per i campi a lavorare, diventò ozioso, passava le sue giornate seduto sotto il portico della casa con lo sguardo perso nel vuoto. Diradò anche le visite in collina che era diventata improvvisamente muta, senza animali, senza vento, solo gocce di rugiada che altro non erano che le lacrime degli uomini abbandonati. Le sue visite all'osteria diventarono sempre più frequenti, non tanto per ricercare uno svago ma per riuscire a carpire qualche notizia di Luisa. Aveva intanto preso l'abitudine di scolarsi quasi un litro di vino, lui che era così morigerato, stava diventando un ubriacone. Finalmente dopo tanto aspettare e tanto vino ascoltò una frase che lo fece trasalire: “Hanno visto la Luisa a Genova, fa la serva quella matta altro che America!” Superando la sua ritrosia si avvicinò al tavolo riuscendo a sapere persino l'indirizzo. Aveva deciso, il giorno seguente sarebbe partito per Genova, ritrovò di colpo il buon umore e si avviò fischiettando verso casa, mise al corrente dei suoi propositi i genitori ricevendone in cambio una scrollata di capo. Il mattino seguente si alzò di buon umore come se avesse dovuto andare nei campi, lo accolse l'aria fresca del mattino che lo svegliò completamente, attraversò il paese ancora immerso nel sonno, solo qua e là qualche trattore stava uscendo dalle stalle, delle donne riassettavano i cesti della frutta e preparavano la colazione. Arrivò in stazione con largo anticipo, c'era già gente che aspettava, infondendo in tutta la sala un forte odore di tabacco. Quando arrivò il treno, riuscì a trovare un posto a sedere scaraventando per terra un'oca che pacificamente si era seduta nell'unico posto libero. Andrea provò un senso di amarezza nel lasciare quei posti che così tanto amava, ma il desiderio di incontrare Luisa lo rendeva felice come mai lo era stato, scivolò rapidamente in un sonno profondo per combattere l'ansia dell'incontro. Si risvegliò quando ormai il treno stava percorrendo la periferia della città, si affacciò al finestrino, un caldo vento che sapeva di sale e di muffa lo disgustò, intravvide cortiletti stracolmi di macchine dove bambini che sembravano straccioni giocavano a chissà quale gioco. Che mondo era mai questo, senza colore e senza gioia, ma lui non era venuto per guardare ma per trovare Luisa. Scese alla stazione centrale con la bocca impastata e una gran voglia di sciacquarsi la gola, si fermò a bere un bicchiere di vino caldo che per poco non lo fece vomitare, doveva ritornare a casa il più presto possibile. Si tolse la giacca, si sbottonò la camicia zuppa di sudore e con la sua andatura buffa s'incamminò verso la destinazione facendosi largo tra la folla a suon di gomitate. S'incuneò nei vicoli male odoranti e troppo chiassosi e arrivò proprio sotto la pensione dove lavorava Luisa. Suonò un campanello dal suono stridulo, dal piano superiore si affacciò una signora grassa che gli fece cenno di entrare, salì le scale stando attento a non toccare il muro sgretolato dalla muffa. La proprietaria l'accolse con la sua aria da sergente, le mani sporche e la fronte imperlata di sudore. “Desidera una camera da letto per la notte?”, Andrea le rispose: “No signora, cerco una certa Luisa, dovrebbe lavorare da voi”. “Quella puttana l'ho cacciata proprio stamattina” gli rispose e gli raccontò tutta la storia. Luisa aveva veramente cercato un imbarco, ma non aveva i soldi necessari e così aveva accettato l'amicizia di un giovane, all'apparenza ricco, che le aveva promesso di imprestarle quello che mancava. Ma quando l'aveva portata a casa aveva abusato del suo giovane corpo di contadina, rubandole anche tutto il denaro. Così si era ritrovata sulla strada senza nemmeno un soldo per mangiare, ma di ritornare a casa nemmeno se ne parlava, era troppo orgogliosa. Aveva accettato quel posto nella pensione, faceva bene il suo lavoro, ma i clienti la guardavano in un certo modo e quando la padrona si era accorta che da quella ragazza ci poteva uscire un bel mucchio di soldi l'aveva indotta a prostituirsi. Ma le rare volte che costretta dal desiderio di comprarsi un vestito nuovo aveva ceduto, l'aveva fatto per forza e il cliente era rimasto sempre insoddisfatto e si era lamentato. Luisa quelle cose le faceva solo per amore, i soldi per lei non avevano importanza. Alla fine di quel racconto Andrea si trattenne dallo schiaffeggiare quella donna disgustosa, ridiscese le scale e si mise alla ricerca di Luisa, chiedendosi dove potesse essere andata. Entrando in un bar buio che non sapeva per niente di vino, intravvide losche figure che scherzavano volgarmente attorno a un tavolino, e seduta in disparte una figura piangente, sporca in viso, il corpo deformato da una maternità fatta di violenza e di sopraffazione. Andrea la prese per il braccio e la trascinò fuori, fecero pochi passi e raggiunsero il mare. Luisa smise di piangere, si lavò la faccia, Andrea le disse: “Tuo padre è stanco, ieri sera abbiamo parlato, mi ha proposto di rilevare il negozio, cosa ne pensi?” “Sono contenta per te, finalmente ti toglierai da quei campi” rispose lei guardandolo in viso. Andrea le ravviò i capelli bagnati e disse: “A casa tutti ti aspettano, da quando non ci sei più tu è un mortorio”. “Va la” gli rispose. Prendendola per mano replicò: “Se vuoi c'è di nuovo il tuo posto all'osteria e per il bambino vedrai che riusciremo a tirarlo su”. Non gli rispose, ma gli si appiccicò al fianco, la sera stessa avrebbero già fatto ritorno al paese. La storia finisce qui ma giurerei che quel bambino quando sarà grande avrà un'andatura un po' buffa e andrà nelle serate estive a godere dei gemiti della terra che da quando sua madre è ritornata ha ricominciato a godere. 3 Aveva chiuso la sua partita in una fredda giornata, dove l'unico segno di vita era il fumo che usciva dalle narici. Ora era disteso sulla neve, nemmeno una sciarpa al collo, lo sguardo teso oltre il muro appena scrostato, sembrava un bambino che giocasse. Ci si sarebbe aspettati che da un momento all'altro si alzasse a tirare le palle di neve ai curiosi che sfidando il freddo si erano assiepati intorno al suo corpo, quasi volessero scaldarlo. Ma dalle sue narici non usciva fumo, possibile che avesse deciso di dormire proprio in quella situazione e con quel freddo? Qualcuno si avvicinò spostando leggermente il corpo che rotolò formando nella neve fresca una sagoma un poco deformata, un rivolo di sangue scese dalla testa inzuppando il terreno a formare una macchia rossa che sembrava vino versato da una mano un poco tremolante. Un uomo vestito per benino e dall'aria saccente emise la sua sentenza: “E' una squallida storia di matti” e la gente come d'incanto si ricordò del tempo perso a vegliare un morto e si disperse nei negozi ad acquistare le ultime cose. Il corpo fu fatto sparire in fretta e furia, intanto la neve aveva fatto il resto ricoprendo con il suo candore verginale il segno lasciato dal corpo e la macchia rossa che faceva da contrasto al paesaggio. Un gruppo di ragazzini che abitualmente dopo la scuola si intrattenevano ad ascoltare le storie di quel vecchio, fatte per lo più di fantasmi, ombre disegnate per terra con la voce di un vento filtrato in qualche casa diroccata, incominciarono a modellare con la neve un grande pupazzo che pian piano, sotto le loro mani inesperte, assomigliava in modo impressionante al vecchio matto. Quando fu terminato qualcuno si tolse la sciarpa per ripararlo dal freddo, come stava bene quella statua proprio sotto a quella di Garibaldi, non era forse così austera ma faceva la sua bella figura. Che peccato che con la bella stagione si sarebbe sciolta e non sarebbe rimasto più niente lasciando la piazza nuda, due statue avrebbero forse dato fastidio. Il vecchio era nato in un paese dominato da un castello che ancora oggi incute timore e rispetto con la sua ombra grigia che oscura il poco sole che riesce a filtrare attraverso la fitta nebbia; grosse mura un poco sgretolate dal tempo sembrano racchiudere chissà quali segreti. I suoi abitanti erano per lo più contadini che uscivano presto al mattino per andare nei campi a lavorare, ma quando arrivava la sera erano pronti a rientrare dentro le loro calde mura, quasi avessero paura di rimanere chiusi fuori per sempre. Ma anche in quel paese dimenticato da Dio, prima dell'inverno si verificava un evento, era la visita di un piccolo circo senza animali, né numeri spettacolari, le uniche bestie erano due cagnolini che si guadagnavano la zuppa facendo un numero tra il divertente e il patetico. Al cospetto di quelli che giravano le grandi città faceva ridere, niente luci, niente pennoni colorati, niente inservienti che giravano tra le panche vendendo palloncini colorati e noccioline americane. Ma quanto entusiasmo portavano. La vita del paese si interrompeva per un giorno, non solo i bambini correvano incontro sbraitando e applaudendo, ma anche gli uomini ritornavano dai campi e andavano a prendere le proprie mogli proprio come alla domenica quando si andava alla messa; si capiva che non era domenica dal vestito un poco sgualcito. Per un giorno quelle montagne si aprivano e diventavano pianure fertili dove anche senza la mano dell'uomo veniva su tutto quello che volevi, il gatto di casa si trasformava in una tigre pronta ad azzannarti, e si vivevano avventure d'ogni tipo prese in prestito da qualche giornale a fumetti o dalla Domenica del Corriere. Ma tanto entusiasmo svaniva quasi subito nel vederli arrivare, sembravano più che artisti dei terremotati in cerca di casa, i loro sogni di leoni, tigri, donne poco vestite si scontravano violentemente con i loro cani spelacchiati e il loro aspetto per niente rassicurante. Anche la proprietaria che un tempo doveva essere stata una bella donna non suscitava più nessun entusiasmo, la fatica del duro lavoro, i figli fatti con troppa frequenza per procurarsi manodopera, l'avevano avvicinata alle mogli di quel paese. Ma sulla scena aveva la proprietà di trasformarsi, si metteva una tuta color carne che la stringeva talmente da eliminare tutte le sue imperfezioni e da distante la si poteva immaginare come una Venere uscita dall'acqua e gli applausi non si facevano aspettare, e poi c'erano anche gli animali feroci che altro non erano che i figli travestiti in modo impeccabile. Lo spettacolo riscuoteva un gran successo, e all'uscita c'era sempre qualcuno che infilava una mano sotto la gonna della moglie, la strada per ritornare a casa si allungava per perdersi in mezzo alle campagne, e non era raro sentire dei gemiti simili ai guaiti dei lupi delle praterie americane. Ma le rappresentazioni erano poche, quando i primi fiocchi incominciavano a cadere dovevano smontare tutto se non volevano rimanere intrappolati nella valle. E non c'era anno che qualcuno di quei giovani non scappasse con loro e facesse perdere le sue tracce per sempre. Da bambino, il vecchio matto si era appassionato ai libri tant'è che quando andò a scuola ne sapeva più del maestro che si fermava spesso per sentirlo parlare, e alcune volte era proprio lui che teneva la lezione, ma la scuola non gli piaceva un granché con quell'odore di chiuso e quei banchi troppo stretti che sembravano tenerlo prigioniero. Le rare volte che accompagnava suo padre non era di certo per aiutarlo, di sudare non ne aveva voglia, ma gli piaceva correre per i campi dietro al suo cane e sentire il linguaggio della natura, il vento che soffiava tra le foglie di un vecchio albero che chiedeva aiuto, il gemito della terra sotto i colpi della vanga assassina. Per quanto corresse veloce, c'era sempre qualche ostacolo, un muro o qualsiasi altra cosa che lo fermavano, mentre il suo cane lo superava brillantemente e lo guardava prendendolo in giro: oh come avrebbe voluto assomigliargli un poco! Più passavano gli anni più il paese gli diventava stretto proprio come il vestito della prima comunione che si porta ancora quando già si guardano le prime ragazzine. Un giorno all'insaputa di tutti varcò la soglia di quelle mura in cerca di un po' di luce, di sole ma non per scaldare le sue giovani ossa e s'imbarcò su una grossa nave senza curarsi della destinazione. Nei primi giorni lasciò correre la sua fantasia come quei gabbiani che seguivano la nave contenti degli scarti che i marinai per combattere la noia gettavano in mare, ma la barca andava via senza nemmeno un gemito, il sole sulla sua testa non disegnava un'ombra, pian piano la solitudine l'attanagliò, e quella distesa d'acqua senza nemmeno un ostacolo gli venne a noia. Ritornò in paese e passò la sua esistenza a sognare un mondo senza muri, e quando ormai s'era messo a parlare con le ombre delle persone disegnate per terra, l'avevano rinchiuso in manicomio. E oggi era corso contro al muro di recinzione della sua prigione. Chissà se finalmente era arrivato alla meta. 4 Era un piccolo paese poco discosto dalla strada che portava al Santuario dell'Assunta, i pochi abitanti si erano dedicati al turismo dei pellegrini che ogni domenica affollavano la chiesa, non si sa bene se per devozione o per assaporare l'aria fresca e pura di quelle montagne. Di conseguenza erano sorti dei piccoli laboratori artigiani che producevano oggetti sacri in legno, di rado si vedeva ancora qualche vecchia scendere con la fascina in testa, ma anche questo faceva parte del paesaggio. Certamente giravano più soldi, nelle case non mancava la televisione a colori, ma la gente era più triste quasi fosse consapevole di essere una stirpe in via d'estinzione; rare erano diventate le visite all'osteria tanto che il proprietario aveva espresso il desiderio di vendere tutto. Si parlava poco e ancora meno si cantava, lasciando spazio alla radio e ai mangianastri dei turisti. I nativi del luogo disertavano la chiesa, e soltanto nel giorno dell'Assunta partecipavano numerosi alle funzioni quasi volessero ringraziare la Madonna di essere ancora vivi. Anche quest'anno per la festa i portici si erano riempiti di mercanzie di ogni genere, il prato di fronte alla chiesa era stato occupato dalle giostre, era tutto un brulicare di gente, di suoni, di fritto nauseante. Era arrivato anche un carrozzone con una famiglia di zingari, il padre era un uomo magrolino con una giacca di due taglie più grossa, si esibiva in numeri spettacolari di grande acrobazia, privilegiando quelli che potevano mettere in risalto le sue qualità di uomo forte a dispetto della sua corporatura. I figli facevano lavorare una scimmietta accompagnandola con i loro rozzi strumenti. La gente passava guardandoli con disprezzo, soltanto Marco si fermò ad ascoltare la ragazza dai capelli neri sciolti sulle spalle, attratto non tanto dalla musica, aveva sentito di meglio, ma dal suo corpo che vibrava come le corde di un violino desideroso di essere domato. Marco era un tipo che la gente definisce un matto, non aveva voglia di lavorare, e passava le sue giornate a battere su qualsiasi cosa potesse emettere un suono; per lunghi periodi non si vedeva in giro e le rare notizie che giungevano al paese lo davano in qualche città a fare il menestrello. I due giovani fecero subito amicizia nonostante il padre non vedesse di buon occhio una perdita di tempo che gli sarebbe costata parecchio denaro. Una sera disertando la processione dei Cristi fuggirono in collina e prima che scoppiassero i fuochi avevano già fatto l'amore. Sull'erba umida della notte, quando una stella cadde dal cielo si scambiarono la promessa che non si sarebbero più lasciati. Trovarono ospitalità per la notte in un vecchio casolare, addormentandosi quasi subito, si vedeva che erano abituati ai giacigli di fieno. La mattina il padre cercò la figlia, sembrava diventato matto, se la prendeva con chiunque gli capitasse a tiro, disse che si sarebbe rivolto ai carabinieri se sua figlia non fosse tornata prima della sua partenza. Tanto chiasso svanì in un attimo quando decise di caricare tutta la sua roba sul furgoncino e di partire, bisbigliando fra se: “Una bocca in meno da sfamare”. Intanto i due innamorati accertatisi della partenza del genitore e spinti dalla fame ritornarono in paese tra lo stupore di tutti. Affittarono una vecchia casa abbandonata, era uno spettacolo vedere Marco al lavoro, sudare sul tetto e mangiare un panino in piedi per non perdere tempo, la brutta stagione era alle porte e la casa doveva essere finita prima che nevicasse. Alla sera quando il sole calava e le tenebre non permettevano più di lavorare si fermavano e incominciavano a suonare e cantare fino a tarda notte addormentandosi all'aperto come due bestie. La casa fu finita, tra lo stupore di tutti, prima dell'inverno ed ospitò una miriade di gente che veniva da ogni parte, la maggioranza erano amici di Marco, gente strana che proveniva dalla città, ma anche dai paesi vicini, vi erano poi gli amici di lei, artisti senza patria che si esibivano nei teatri delle piazze e all'angolo di qualche strada. Il paese si popolò improvvisamente e fino a tarda notte non ritrovava la sua pace, il malcontento aumentò quando quegli strani esseri presero l'abitudine di scendere in paese a insidiare le ragazze, costringendo i genitori a tenere in casa quelle giovani donzelle troppo desiderose di qualche avventura erotica. Le beghine del paese costrinsero il maresciallo a fare una visita in quella casa che ben presto aveva preso il nome di “Casa del diavolo”. Ma la visita non sortì alcun effetto, tutto era in regola, anzi i carabinieri accettarono di buon grado un bicchiere di vino fresco. Intanto il campo intorno alla casa cominciò a dare meravigliosi frutti che suscitavano l'invidia dei vecchi contadini. Il muro di diffidenza si ruppe definitivamente con la nascita della piccola Elisa, una bambina bellissima e piena di vita che divenne ben presto l'amica di tutti. La casa era sempre illuminata, e c'era sempre festa, rare erano le volte che il buio sconfiggeva le luci dei falò e il silenzio della montagna quello della musica, le ragazze riuscivano sempre più spesso ad eludere la sorveglianza dei vecchi che d'altronde diventava ogni giorno più blanda. Pian piano le notti furono invase da giovani coppie che aspettavano il sorgere del sole coi corpi bagnati dalla rugiada. L'osteria per fortuna dell'oste che aveva resistito ai tempi magri, si riempì di gente chiassosa e allegra e quando il vino aveva fatto il suo effetto andavano tutti alla casa del diavolo per ascoltare la musica. Ma alla montagna tanto chiasso e tanta luce non fa piacere, il vento ben presto riprese il suo ruolo di primo attore nell'orchestra della natura, nuvoloni si addensarono nel cielo, era in arrivo il temporale che costringe i musici a sospendere l'esibizione. Fu così che un giorno, sorpassando le competenze del maresciallo venne dalla città un manipolo di soldati accompagnato dagli uomini di una immobiliare che aveva acquistato tutta la cascina per farne un albergo. Il tenente esibì l'ordine di demolizione, Marco protestò, volarono parole grosse, qualche spintone, la gente si chiuse in casa sperando che la bufera si risolvesse in un niente di fatto, ma non fu così, le ruspe arrivarono di lì a poco e compirono l'ingrato compito. A Marco e ai suoi compagni non rimase che andarsene, ma qualcosa finalmente successe, la gente uscì di casa, le donne andarono a baciare i loro uomini alla luce del sole, in breve tempo si mise su un gran banchetto e tra roba da mangiare e suoni si festeggiò la partenza di questi giovani eroi, anche il parroco si sentì obbligato a festeggiare e suonò le campane proprio come nel giorno dell'Assunta. Se qualcuno vorrà risentire la loro musica non dovrà fare altro che passeggiare in qualche strada, loro saranno lì a guadagnare qualche spicciolo per tirare avanti. 5 Marco era nato in un piccolo paese del Cuneese, suo padre non era certamente ricco, ma nella sua casa grazie a qualche giornata di terra e alle quattro bestie che avevano nella stalla sulla sua tavola la polenta e il latte non erano mai mancati. Suo padre usciva presto per andare al lavoro sotto padrone, la terra da sola non bastava, lasciando a Marco e a sua madre i compiti da svolgere per l'intera giornata. La madre povera donna si ammazzava di lavoro cercando di coprire le sue scappatelle in collina a rincorrere fantomatici orsi. Alla sera sulla sedia a dondolo ascoltava i rumori che provenivano dalla cucina e lo sbraitare dei cani che stavano dietro al padre che rigovernava la stalla. Quando si fece più grandino il maestro disse ai genitori che aveva la testa fine e sarebbe stato un peccato l'avesse usata per coltivare grano, quello sarebbe venuto su da solo. Una sera sentì attraverso l'uscio della camera da letto la voce del padre: “Non ha la stoffa per diventare contadino, per maneggiare una zappa non bisogna pensare se no ti ritrovi che a fine giornata non hai fatto niente, non lo voglio vedere morire di fame il mio figliolo”. E così qualche giorno dopo partì per un collegio di suore senza entusiasmo e con un gruppo in gola. Durante le vacanze Marco ritornava a casa e il padre lo portava all'osteria dove c'erano gli amici, lo faceva parlare, e loro lì a bocca aperta ad ascoltare un ragazzino, era quasi diventato un fenomeno da baraccone. Quando abbandonò l'università di Giurisprudenza per quella di Lettere diede il primo dispiacere al vecchio che, in una lettera dal sapore triste gli spiegò che da avvocato un posto nell'amministrazione dello Stato l'avrebbe trovato e invece così... Poveretto non avrebbe più potuto vantarsi con gli amici, di professori se ne trovano a iosa, anche al paese ce n'era uno e per di più era considerato matto. Si applicò nello studio, almeno in questo era rimasto contadino, conseguì la laurea brillantemente e altrettanto brillantemente si ritrovò senza lavoro adattandosi a scaricare frutta al mercato generale, si lavorava da matti ma almeno il mangiare era assicurato e poi molta della frutta veniva dalla sua regione, sembrava di essere un poco a casa. In quelle mattine di freddo quanti amici incontrò che erano partiti dal paese con mille progetti e adesso si ritrovavano qui con una mano davanti e l'altra di dietro. Nel frattempo riuscì a collaborare con qualche giornale e questo gli portò una certa agiatezza, i soldi per le sigarette e un cinema infrasettimanale ci uscivano. Fu assunto a Tuttosport, aveva mandato centinaia di lettere, di sport non ne capiva niente, ma quando lo chiamarono fu felice del nuovo lavoro che gli avrebbe permesso di girare molto, odiava starsene seduto dietro una scrivania tra le scartoffie. Quando uscì il primo articolo fu tanto felice che ne mandò una copia al padre che l'appese nell'osteria proprio accanto alla foto sbiadita di Coppi. E oggi lo avevano mandato in quel paesino della sua infanzia per scrivere un articolo sulla finale del torneo di pallone elastico tra la squadra locale e quella di una piccola cittadina della Riviera Ligure, una guerra di poveri insomma, la loro battaglia sarebbe finita sul giornale sotto forma di un trafiletto nelle pagine interne degli sport minori. Non aveva dovuto far molto per ottenere quel servizio visto che nessuno ne aveva fatto richiesta, tutti impegnati a seguire le ultime battute del calcio o della corsa automobilistica che si sarebbe svolta proprio quella domenica. Marco si servì del treno, era troppo emozionato per poter guidare e poi era lo stesso che avevano preso quasi tutti gli uomini del paese per andare a lavorare in città o a cercarsi qualche donna meridionale vista in fotografia perché quelle del paese non avrebbero mai sposato un contadino. Per tutto il viaggio si lasciò trasportare dal rullio del treno con gli occhi fissi al finestrino nel vedere scorrere paesaggi presi da qualche film in bianco e nero, con quei casermoni altissimi che coprivano un cielo senza sole. Ma pian piano il paesaggio riprendeva colore e vita, stava arrivando a destinazione. Riconobbe i campi di granoturco, si sentì la faccia tagliata dalle foglie, gli occhi incrostati dalla polvere, quante volte si era inoltrato in quella giungla con una sensazione di paura, mai sicuro di ritrovare la via d'uscita. Ma altre volte vi aveva trovato rifugio, gli piaceva udire la voce del padre attutita dalle foglie che lo richiamava ai suoi doveri, e lui steso a contemplare un formicaio appena svegliato, nessuno lo avrebbe trovato perché nessuno si sarebbe inoltrato in quel castello custodito da ombre di ogni genere. Arrivò che il sole era già alto ed il paese era già in festa. Notò subito che si era ingrandito, era tutto un brulicare di villette e alberghi che avevano persino mangiato la montagna, oggetto delle sue scappatelle notturne. Una grande strada come non se ne vedono in pianura tagliava la valle come una ferita da coltello, girò lo sguardo e vide finalmente un'agglomerato di case fatte di pietra, si inoltrò per i minuscoli viottoli che sapevano di terra e di letame, sbucando nella piccola piazza della chiesa. C'era gente che usciva dalla messa, un forte odore di vino veniva dalla vicina osteria che era stata trasferita, forse perché l'odore di vino e di tabacco da pipa dava fastidio. Cercò invano il vecchio sentiero che portava in collina, durante la settimana per lavorare nei campi, e nei giorni di festa vestito a nuovo, con i gerani appesi alla finestra, accoglieva le coppiette in cerca di un po' d'intimità. Il paese, come se avesse vergogna ,si era nascosto nel grembo della sua terra tant'è che dalla strada quasi non si scorgeva, lasciando via libera ai bar stile americano con il loro inconfondibile odore di whisky e il rumore di flipper sempre accesi. Una folla di sfaccendati, con la faccia annoiata, passeggiava senza meta, cosa erano venuti a fare? Ma d'altronde il posto era bello e l'aria buona, l'ideale per passarci una vacanza. Entrò nell'unico negozio che ancora riconosceva a farsi un panino. L'accolse una voce stridula che lo fece sobbalzare, lo avevano riconosciuto. “Ciao Marco, cosa ci fai da queste parti?” Era il Luigi con il solito grembiule unto che metteva in evidenza il grosso pancione e una faccia rotonda come una mela. Gli strinse la mano asciugandosi il sudore che scendeva copioso dalla fronte. La voglia di mangiare gli passò di colpo. “E' arrivata la stampa per immortalarvi” rispose sorridendo e spiegando quanta strada aveva fatto dal giorno della sua partenza. “Hai visto i forestieri hanno comprato tutto, in campagna nessuno voleva più andarci, troppa fatica e nessun guadagno, i giovani di oggi non hanno tempo d'aspettare” disse il Luigi invitandolo a sedere nel retro buio e forse troppo sporco per un alimentari. “Con tutta sta gente chissà che incassi” replicò per risollevare il discorso e metterlo un po' di buon umore. “Lo sai mi hanno offerto un sacco di milioni per questi quattro muri” “E tu?” gli chiese. “Io niente morirò commerciante”. Questa gente aveva sempre saputo cavarsela, si ricordò che il padre gli raccontava di come i suoi vecchi andassero in giro per l'Italia a tagliare le trecce delle donne pagandole quattro soldi per farne delle parrucche. “E la Ginetta?” replicò Marco, sorridendo nel vedere la montagna di toma bianca che vendevano ad un prezzo esorbitante ai turisti spacciandola per produzione propria. “Te la ricordi ancora?” “E come non potrei è stato il mio primo amore” rispose il Marco. Luigi rattristandosi gli spiegò: “Aveva messo su una bella fattoria la Ginetta, incominciava a guadagnare qualcosa ma una domenica scappò con un bell'uomo che era venuto fin quassù per la campagna elettorale.” Parlava della Ginetta come fosse sua figlia, Marco si accorse delle lacrime che stavano scendendo mescolandosi con il sudore e tagliò il discorso dicendo: “Lo sai Luigi le donne quando vedono un paio di pantaloni gli si appiccicano dietro”. Intanto il campanello della porta aveva suonato avvertendo Luigi che era entrata gente, Marco approfittò dell'occasione per salutarlo e uscire in strada. Sulla porta gli disse: “Vieni a trovarmi dopo la partita parleremo più comodamente”. Le bancarelle avevano già esposto la loro mercanzia, era tutto un susseguirsi di giocattoli, di roba da mangiare di palloncini scappati di mano a bambini distratti. Arrivò nella piazza, il rumore si era un po' affievolito, la piccola folla uscita dalla messa non si era ancora dispersa. I giovani e i vecchi parlavano animatamente della partita ormai prossima, un uomo più anziano si era preso la briga di accettare scommesse, qualche ragazzino correva allo sferisterio provando le palle. Marco passò le ore che rimanevano all'incontro bevendo vino e spendendo gli ultimi soldi nelle scommesse. Lo sferisterio era ricolmo di gente, qua e là persone raffinate assistevano allo spettacolo con aria critica di antropologi. In campo c'erano atleti poco belli a vedersi, e poi un boato, una parte del campo conquistata, qualche donna con la sigaretta americana sorrideva e prendeva in giro gli uomini che ancora s'illudevano di conquistare una fetta di terra che non gli apparteneva più. Un altro boato, la palla scaraventata fuori dello sferisterio, chissà se in città avranno sentito il colpo del pallone sulla mano. Marco si alzò per ritornare a casa, stasera avrebbe telefonato per sapere il risultato. 6 Olga viveva in una casa quasi diroccata in cima ad una collina, dove gli unici rumori erano quelli del vento che si intrufolava nelle finestre senza più vetri o in qualche crepa dei muri rosicchiati da erba selvatica, o i versi di qualche animale notturno, pochi per la verità e ill fischio del treno, degli unici due treni locali che passavano nell'arco della giornata. Ormai tutti i macchinisti la conoscevano e già in lontananza facevano sentire la loro presenza, lei si catapultava giù dal sentiero e in quattro salti arrivava alla ferrovia. Era un treno con due sole carrozze, ferraglie grigie, dall'aspetto decisamente triste, aveva qualche difficoltà ad affrontare la curva, era venuta anche per lui l'ora della pensione. Quando arrivava alla stazione di Acqui lo dirottavano su un binario tronco, un poco in disparte dagli altri forse per evitargli un'ulteriore umiliazione. I passeggeri, per lo più gente anziana che aveva difficoltà a muoversi, salutavano quella selvaggia con un piccolo gesto della mano, perché non avevano la forza per tirare giù i finestrini incrostati dalla ruggine. Un tempo quando non c'era ancora la ferrovia la collina era tutta abitata, coltivata e si produceva un buon bianco da far invidia a quello di Gavi. Alla fine della vendemmia si faceva una gran festa, le note dei balli risuonavano per tutta la collina, inframmezzati dai gemiti delle donne che si facevano montare anche solo per un bicchiere di vino. Olga dava il via alle danze, era la più bella con quella treccia nera che arrivava fin quasi al sedere, ne aveva avuti di uomini, ma erano durati una sola notte, il tempo di una scopata quasi mai soddisfacente, era sempre in attesa di un uomo che la facesse godere davvero. Poi pian piano come in una malattia senza speranza i vigneti andarono in malora e i giovani abbandonarono le case. Ci fu un periodo in cui non si contò nemmeno una nascita ma, in compenso, il parroco era impegnato quasi tutti i giorni a celebrare un funerale e forse per il troppo lavoro un giorno lo trovarono morto nel suo letto in canonica. La chiesa fu chiusa per sempre e servì da dimora a qualche animale ferito dai bracconieri. Fu costruita la ferrovia. La vigna di Olga resisteva, lei ogni mattina si alzava e andava a guardarla nella speranza di vederla morire e poter così raggiungere i suoi amici in qualche bella città. Non sarebbe andata distante, le piaceva Genova non perché l'avesse visitata, ma perché l'aveva vista in una vecchia cartolina in bianco e nero che qualcuno le aveva regalato. Ma la vigna veniva su a dispetto di tutto, il padre aveva preso il vizio di ubriacarsi e passava tutte le sue giornate all'osteria o a letto o a picchiare lei e la madre. Olga aveva sempre la speranza che tutto questo sarebbe finito e avrebbe potuto prendere quel treno che tanto amava. Nel giro di un anno la madre morì di crepacuore e il padre scomparve in un burrone poco distante da casa: era giunto per Olga il tempo di partire, ma in quel momento si accorse che era diventata troppo vecchia. Che lavoro sapeva fare? Quale uomo l'avrebbe mantenuta? Le sue galline e i suoi conigli ormai erano diventati la sua famiglia e poi c'era quel treno che passava tutti i giorni a scandirle il tempo. Cosa avrebbero pensato i macchinisti nel non vederla più? Sarebbe morta in quel paese, popolato da fantasmi, anime morte. Un maledetto giorno di settembre, proprio nei giorni della vendemmia che per lei ormai significavano pigiare qualche grappolo d'uva per ricavarne non più di una decina di bottiglie, sentì in lontananza un fischio di treno, forte, acuto, quasi imperioso; Olga non possedeva un orologio, ma dalla posizione alta del sole sembrava troppo in anticipo per essere il suo locale. Era titubante, doveva essere successo qualcosa di strano, poi udì altri fischi sempre più vicini, sembrava la chiamassero con insistenza, si precipitò giù dal sentiero e si avvicinò alle rotaie, fu un attimo, l'intercity per Genova dirottato su quella linea, non si sa per quale motivo, la risucchiò senza quasi lasciare traccia di lei. Qualche giornale locale riportò la notizia in piccoli trafiletti senza nemmeno indicare il suo nome e la sua età. Ma il treno ogni volta che passa dalla sua casa fischia ancora e nei mesi di settembre e ottobre qualcuno scende per raccogliere un grappolo d'uva dalla sua vigna che, nonostante tutto, darebbe ancora un ottimo vino. 7 Il vecchio Johnny abitava nell'unica casa in mezzo all'aperta campagna, circondata da un alto filo spinato e controllata da cani dall'aria per niente rassicurante. Era un'impresa raggiungere quel posto quando la neve ricopriva per intero tutta la zona e il piccolo sentiero non esisteva più, ma Jonny metteva una lanterna così grossa che la si vedeva dal paese e il latrato dei cani conduceva alla sua casa. Gli abitanti del paese arrivavano bagnati fradici con il freddo nelle ossa, ma il caminetto era sempre acceso e mettevano i loro piedi ad arrostire. Una bottiglia di gin originale che aspettava di essere scolata, il tavolo coperto da un panno verde, il fumo delle sigarette americane, che lui offriva generosamente, trasformavano la cucina in una bisca clandestina da far invidia a quelle di Los Angeles. Non si vincevano soldi a quel tavolo, ma tome di formaggio, salumi, galline, così voleva Jonny e tutti erano felici perché era sempre lui che vinceva e almeno mangiava qualcosa di genuino e non le solite scatolette che riempivano la dispensa. La casa, non la solita che si vede da quelle parti, era ricolma di ninnoli provenienti da tutte le parti del mondo e ognuno aveva una storia da raccontare. Poi c'erano i libri che loro toccavano con invidia, ma di leggere nessuno aveva voglia e intanto c'era Johnny che raccontava quello che volevano. Si faceva arrivare i giornali direttamente dall'America e non c'è mai stato paese così ben informato su tutti i fatti d'oltreoceano. Quando si smetteva di giocare Johnny incominciava a raccontare le sue storie e venivano catapultati in mondi fantastici, proprio come nei fumetti quando l'eroe sale sull'astronave per fare un viaggio nello spazio e nel tempo. Era bello poi ritornare sulla terra sani e salvi e ripercorrere la via di casa in mezzo alla neve che nemmeno bagnava. Johnny era un uomo senza età, chi gli dava settant'anni chi addirittura quaranta ma nessuno sapeva la verità. Era di corporatura robusta, vestito quasi sempre con abiti di pregevole fattura, anche se un po' vecchi e due grossi occhi segnati da un alone nero rendevano il suo viso un poco misterioso. Era partito dal paese da ragazzo imbarcandosi su una nave di cui non conosceva nemmeno la destinazione, le sole tracce che arrivarono furono le cartoline che spediva da tutte le parti della terra, senza una firma né un saluto ma tutti sapevano che erano di Johnny. Non c'era ufficio postale al mondo che fosse tappezzato da migliaia di cartoline come quello e la gente entrava spesso con una scusa in quella misera stamberga per gettare uno sguardo a quelle vedute, per sentirsi cittadini di un mondo che non conoscevano e non solo di quel piccolo paese senza storia e senza speranza. Jonny tanto era cordiale quando stava in casa, quanto era scorbutico le rare volte che capitava in paese per fare compere o per spedire una lettera a qualche donna sparsa per il mondo. Lo si vedeva girare per le vie con un mantello nero e un cappellaccio che copriva tutta la sua figura, in quei momenti quel punto nero in mezzo alla neve incuteva anche soggezione, sembrava un personaggio d'altri tempi uscito fresco fresco da un romanzo di Tolstoj. Non salutava nessuno e se qualcuno faceva per avvicinarsi brandiva il suo bastone dal pomo d'argento. Diventava veramente cattivo quando a casa sua qualcuno spinto dalla curiosità cercava di entrare nell'unica camera che rimaneva sempre chiusa. Ma queste cose si sapevano e nessuno ci faceva più caso. In una sera più fredda del solito gli ospiti di Johnny non avevano voglia di ritornare a casa e così lui raccontò una strana storia di cui non aveva mai fatto parola con nessuno. Era appena sbarcato a New York a aveva voluto subito mettere piede in uno di quei bar malfamati dove si poteva rimorchiare una donna, forse non più giovanissima, per quattro soldi. Il bar era sporco all'inverosimile, lo si capiva anche se la luce non era un gran che e tutto era offuscato dal fumo delle sigarette, su un palco di legno un poco traballante una donna cercava di attirare l'attenzione togliendosi i vestiti, lasciando scoperti due seni penzolanti e due chiappe a punta che facevano sorridere, ma Johnny aveva voglia di bere e un bar valeva l'altro. Si sistemò ad un tavolo stando attento a non sporcarsi, ordinò da bere e mentre stava sorseggiando un gin che per la verità non era male, il suo sguardo scivolò al tavolino vicino, scorse subito una figura di donna minuscola ma con una faccia perfetta e un poco impaurita, sembrava un coniglietto appena nato, i capelli biondissimi che parevano di seta. I loro sguardi s'incrociarono ma lei non si ritrasse, sembrava chiamasse aiuto, Johnny si avvicinò al tavolo e si mise a parlare, la pelle della donna infondeva un leggero profumo. Lei non gli rispose e quando la prese per mano e l'accompagnò fuori con la scusa di prendere una boccata d'aria, non protestò, si attaccò al suo fianco e non lo mollò più. Girarono mezza città senza dire una parola, Johnny era stanco del viaggio ma avrebbe camminato per un'altra giornata. Si fermarono davanti a una bella casa, altissima come lui non ne aveva mai viste, sembrava toccasse il cielo, finalmente lei ruppe il silenzio e con un italiano incerto lo invitò a seguirla in casa. L'appartamento era stupendo con mobili moderni ma raffinati e disposti con buon gusto, ampie vetrate facevano intravedere un paesaggio meraviglioso fatto di luci scintillanti, sembrava di essere al Luna Park. Johnny aveva smesso anche di parlare, le parole non servivano più, lei gli si avvicinò posando la testa in attesa di una carezza proprio come un cucciolo. Lui non si limitò ai capelli e accarezzò tutto il corpo che pian piano riprendeva vita e incominciava a scaldarsi. Lei fece appena in tempo a togliersi una collana con una grossa pietra che gli mise in tasca per riconoscenza, quando un suono cupo e dirompente si abbatté sulla casa, Johnny le toccò la nuca e sentì qualcosa di bagnato, poi si guardò le mani erano sporche di sangue. Un altro colpo e Johnny era già in strada che correva come un matto. Al mattino dopo seppe che la moglie di un noto gangster era stata uccisa e tutti i suoi gioielli erano stati rubati. Si toccò in tasca aveva una collana che valeva qualche migliaia di lire, era tutto quello che gli restava della donna dai capelli biondi. Il racconto era finito, nessuno osava parlare, chiedere spiegazioni, approfondire, volevano riempire loro quella storia. Johnny aveva diviso con tutti la sua donna e tutti se ne portavano a casa un pezzetto. Quella sera lo salutarono riconoscenti, ma la notte dormirono poco e male, i loro sonni furono invasi da sogni di ogni tipo: c'era chi diceva di aver fatto l'amore con una donna bionda, chi sentiva il suo profumo anche nella propria moglie che da molto tempo non guardava più in faccia. Il paese visse per molto tempo di questo sogno, non si parlava d'altro e il racconto si arricchì di nuovi elementi dettati dalla fantasia della gente; chi sosteneva d'aver trovato nella casa del vecchio un baule ricolmo di ogni ben di dio: gioielli, oro e tante banconote americane, chi aveva visto entrare da Johnny per una notte d'amore donne meravigliose arrivate con delle macchine da far paura, gran signore insomma. Il piccolo paese di montagna di notte si riempiva di strane persone, stava diventando una succursale di New York, ma al mattino come per incanto tutto tornava normale come se nulla fosse successo. Una mattina arrivò con la corriera un forestiero, un uomo piccolino, un poco grassottello con un cappello largo che copriva quasi tutta la faccia, fumava un sigaro tanto grosso che sembrava non potesse entrare in una bocca così minuscola. L'uomo si asciugava con frequenza il sudore che scendeva copioso dalla fronte. Prese alloggio nel vecchio albergo fissando la camera per una sola settimana e prese a girare per il paese chiedendo informazioni su un uomo che si faceva chiamare Johnny. La gente si spaventò, si diceva che doveva essere per forza il marito della donna bionda venuto fin quassù per vendicarsi. C'era già chi si immaginava sparatorie, in mezzo alla strada tra bande rivali per accaparrarsi il tesoro e chi pensava di mettere su un bar per sfruttare quella situazione. Prima di tutto però bisognava salvare Johnny da quel pericolo e lì si teorizzarono le soluzioni più fantasiose, fino alla proposta di uccidere quel piccolo uomo. Bisognava fare le cose nel miglior modo possibile per non attirare la vendetta dei suoi amici mafiosi, e così tutti presero a leggere libri gialli nella speranza di trovare il delitto perfetto. Ma persero troppo tempo, una mattina furono svegliati bruscamente dal latrato dei cani di Johnny, era una cosa insolita, si affacciarono alla finestra e in lontananza tra la nebbia che stava diradando intravidero lanterna accesa. Era successo qualcosa a Johnny si vestirono in fretta e andarono a vedere. La scena che si presentò ai loro occhi non fu delle più piacevoli, trovarono il suo corpo insanguinato accanto al grosso baule nell'atto di proteggerlo, in mano la fotografia di una donna bellissima, una piccola catena d'oro stava in fondo al baule. Era stato ucciso con un colpo alla nuca, il piccoletto aveva dunque compiuto la sua vendetta e loro avevano perso tempo in quello stupido gioco. Non passò molto tempo che la valle fu piena di poliziotti e in men che non si dica il corpo fu fatto sparire e la casa sigillata con tutti i suoi segreti. Per qualche giorno si videro in giro dei poliziotti che facevano strane domande ma nessuno sapeva niente e dopo poco ritornò il silenzio sul piccolo paese. Con la posta arrivò anche un giornale di città, parlava di un delitto commesso in un paese di cui avevano persino sbagliato il nome, la vittima era un distinto signore che si chiamava Johnny, una vita da impiegato all'estero poi il ritorno a casa per godersi il frutto del faticoso lavoro, assassinato da un balordo che non aveva nemmeno gli occhi per piangere, il movente era a tutt'oggi sconosciuto. Era tutto falso dunque, era stato solo un sogno, lo stesso sogno aveva però distrutto la vita di Johnny e la loro fantasia, ritornarono alle televisioni, ma c'era sempre qualcuno che dava una sbirciatina alla casa di Johnny per vedere se per caso la lanterna era accesa o per sentire se il silenzio della notte fosse squarciato dal latrato dei cani. Ma nelle notti d'inverno, successive al fatto, nessuno più si mosse di casa. 8 In una città di mare, Beppi accanto a una bottiglia di vino che faticava a finire, aveva deciso di ritornare a casa. Si alzò di scatto e chiamò la padrona della pensione: “Ernesta fammi il conto domani vi lascio”. La donna a quelle parole lasciò cadere un bicchiere e smise di servire gli altri clienti che brontolarono e si avvicinò al tavolo: “Ho capito bene? Domani parti e dove vai se non sono indiscreta?” “Vado a morire nel mio letto” replicò con tono sgarbato. “Se avessi dato retta a me a quest'ora saresti tu il proprietario qui dentro.” “Già ma avrei dovuto dividere il letto con te brutta strega”. Si alzò e la baciò sulla guancia facendola arrossire, appoggiò un rotolo di monete un poco spiegazzate: “Queste dovrebbero bastarti” e si ritirò nella sua stanza. Prima di addormentarsi raccattò tutta la sua roba riempiendo due grossi valigioni, alla notte dormì poco e male e alle quattro era già sveglio. Il treno partiva alle sette, aveva ancora tre ore di buono, scese senza fare rumore per non svegliare nessuno. Bighellonò un poco per le vie deserte, soltanto qualche donna che faceva la vita stava rientrando, di operai nessuna traccia, soltanto qualche finestra si stava accendendo e si sentiva già l'odore del caffè appena fatto, alcune macchine sfrecciavano agli incroci sfidando la sorte. Arrivò senza accorgersene in riva al mare, la sabbia era ancora bagnata e si attaccava alle scarpe, per non rovinarle, erano quasi nuove, se le tolse e l'umido gli penetrò nelle ossa togliendogli l'ultimo tepore del letto; si bagnò la faccia e un odore di sale gli impregnò i vestiti. In lontananza alcune barche stavano rientrando con il loro carico di pesce, di lì a poco la spiaggia si sarebbe riempita di gente, ci sarebbe stato il mercato. Intanto il sole aveva squarciato le tenebre e il paesaggio improvvisamente aveva cambiato aspetto, proprio come a teatro quando si cambia scena. Era ora di andare in stazione, la città si era svegliata, c'era traffico e non si poteva quasi camminare. Prese il treno al volo, trovò posto in uno scompartimento occupato da giovani studenti che discutevano animatamente fumando una sigaretta dietro l'altra per dimostrare che erano già uomini. Era lontano dal finestrino, ma questo non lo seccò, così non si sarebbe distratto, aveva voglia di riflettere un poco e quei giovani che non lo avevano nemmeno considerato, lo riportavano indietro di anni. Era partito quasi cinquant'anni fa ingaggiato come mozzo su una nave diretta in Argentina, si ricordava ancora la busta gialla piena di timbri ministeriali che annunciava la sua assunzione. Era partito una mattina presto come un ladro dopo una notte passata con gli amici tra fiumi di vino e qualche donna invitata dalla città per quella occasione. Ma intanto i suoi compagni di viaggio ad ogni stazione cambiavano, le facce diventavano sempre più amichevoli e quando gli sembrò di conoscerne una guardò dal finestrino, era arrivato. Il paese si inerpicava un poco in collina, aspettò invano la corriera, finché un contadino su un trattore passandogli accanto gli disse: “Se aspetta la corriera è appena passata, la prossima è nel pomeriggio, se vuole io vado in paese.” Salì ringraziando e sistemandosi sopra la ruota, non lo aveva conosciuto ma lui subito disse: “Ma tu sei il Beppi, ti ricordi di me, sono Toni.” Lo guardò in faccia, adesso lo riconosceva, era stato il compagno di tante sbornie. Ricordarono i tempi passati, ridendo a squarciagola. Arrivando in piazza gli disse: “In tutto questo tempo cosa avete fatto?” Toni rispose evasivamente: “Lo sai la vita qua non è cambiata molto, piuttosto a te come è andata?” Il Beppi rispose sogghignando: “Ce ne sarà del tempo per parlare.” Scesero e si salutarono con una pacca sulla spalla. Il paese per la verità non era cambiato molto se si eccettuano alcune migliorie che il regime bonariamente aveva fatto. La piccola fontana che serviva da abbeveratoio ai cavalli e da divertimento ai bambini che si rincorrevano in mezzo alla pozzanghera, era stata sostituita da una statua con una scritta in latino, di un uomo sconosciuto a cavallo, ma gli animali si fermavano ancora a cercare l'acqua. Alcune case erano state intonacate di fresco e subito sporcate con delle scritte inneggianti al duce e all'impero, altre, residenze estive per le famiglie di federali di città, erano sorte un poco in periferia, una nota stonata col loro aspetto di case coloniche da bassa padana. La sua casa da quando i suoi erano morti era andata in decadenza, il piccolo giardino era pieno di rovi, a stento si riusciva a raggiungere la soglia. L'interno era un vero disastro, uno strato di polvere ricopriva i mobili e sul pavimento c'erano persino gli escrementi di qualche animale che aveva trovato proprio lì la sua dimora; il tetto aveva degli squarci che facevano intravedere la luna. Per quel giorno non avrebbe fatto niente, si aggirò per le stanze alla ricerca di qualche oggetto familiare, nella credenza trovò il vecchio album di fotografie e come d'incanto gli passò davanti un pezzo della sua vita. Senza accorgersene era già arrivata la sera, aprì una valigia, ne trasse un pezzo di pane e una forma di formaggio che bagnò con un buon bicchiere di vino. Si buttò sul letto vestito coprendosi con il cappotto, dormì di un sonno profondo e tranquillo, fu svegliato dai trattori e dalle urla dei contadini che andavano al lavoro. Si affacciò alla finestra stando attento a non scardinare ulteriormente le persiane, dalla strada si alzò un grido: “Beppi è ritornato, stasera si fa bisboccia”, lui salutò con la mano sporgendosi quasi a cadere e urlò: “Non posso, prima devo sistemare casa, ci sarà tempo di bere insieme, buon lavoro gente.” I giorni passavano veloci, il vecchio si dava da fare e la casa stava cambiando aspetto, qualcuno malvagiamente diceva: “Il Beppi si sta preparando la bara.” Una sera si cambiò di tutto punto e si diresse verso l'osteria a bere un bicchiere di vino e a fare quattro chiacchiere ma appena fu sulla strada lo accolse un gruppo di ragazzini che, vedendolo, scoppiarono in una fragorosa risata: “E' scoppiata la guerra” gridarono e lo accompagnarono fino all'osteria simulando una tremenda battaglia. Ma Beppi rimase imperturbabile dicendo fra sé: “Ai miei tempi i ragazzini, a quest'ora, erano tutti a letto.” Entrò sbattendo la porta, tutti si voltarono rimanendo interdetti, un suo vecchio amico gli disse: “Guarda che non è mica Carnevale.” Il Beppi era vestito con una divisa da capitano di lungo corso con una fila di medaglie appuntate sul petto, in quell'uniforme azzurra che faceva da contrasto con gli occhi neri e i capelli un poco brizzolati faceva la sua bella figura. Aveva comprato la divisa parecchi anni fa insieme ad una bussola a delle carte marine e a tanti piccoli oggetti provenienti da ogni parte del mondo, acquistati tutti nello stesso negozio vicino al porto. Il Beppi cercando di prevenire qualsiasi domanda imbarazzante disse: “Questo è il vestito delle grandi occasioni, sapete ho sempre viaggiato, non ho avuto molto tempo per andare per negozi e comprare roba”. “Allora è vero che sei stato in marina? Ne avrai visto dei posti vecchio mio” replicò il suo amico e l'oste smettendo di servire domandò: “Che occasione è questa per portare l'alta uniforme?” Beppi rispose: “Ho finito la casa, da oggi non farò più niente, mi voglio sedere sotto la grande quercia a fumare la pipa, e poi ho in progetto di scrivere un libro sui miei viaggi.” Qualcuno al fondo della sala sbraitò: “Siediti Beppi, vino a volontà, e incomincia a raccontare.” Non si fece pregare, in poco tempo sciorinò storie di tempeste, di naufragi, di città asiatiche e africane, di donne magnifiche che lo aspettavano in ogni posto e quando venne tardi si diedero appuntamento per le sere seguenti. Il paese sembrava rinato, l'osteria si riempì di gente, su tutto il locale regnava il silenzio e si udiva soltanto la voce un poco rauca di Beppi che raccontava. Anche le donne che la sera non erano mai uscite di casa, tanto meno per andare all'osteria, dopo una feroce discussione in famiglia , riuscirono ad accompagnare i mariti che borbottavano: “Roba da matti le donne all'osteria.” L'oste che da sempre aveva venduto solo vino, adesso si vide costretto a comprare anche latte e tè che serviva con qualche crostino di pane secco, ma anche questo faceva incasso. Al mattino con gli occhi rossi e poca voglia andavano al lavoro e passando sotto la casa del Beppi dicevano: “A stasera vecchio, non dimenticarti” e lui sorrideva tirando lunghe boccate della sua pipa e, senza nemmeno tirare su la testa continuava a scrivere su un quaderno un poco ingiallito. Chissà cosa avrebbero pagato per poter leggere qualcuna di quelle pagine. Qualche sfaccendato che passava con il fucile in spalla gli diceva: “Vieni con noi, abbiamo visto dei fagiani”, “Andate – rispondeva lui – sono stufo di sangue, se aveste provato a cacciare la balena, con quelle bestie si rischia la vita, la vostra è caccia da bambini”. Nessuno si offendeva e proseguivano la loro marcia pensando alla balena del Beppi. Un giorno arrivò in paese un federale, per sbrigare alcune pratiche in municipio, era un uomo non più giovane dall'aria istruita, si venne a sapere che nelle ore perse era un farmacista, si fermò a parlare con il sindaco e tra un discorso e l'altro parlarono anche del Beppi. Il federale troppo curioso decise di andare quella sera all'osteria, arrivò per ultimo con tutto il codazzo delle persone che contano, il sindaco, il parroco, il farmacista suo collega e il maresciallo dei carabinieri. Il Beppi aveva già incominciato a raccontare ma quando il federale entrò smise di parlare, i due sguardi s'incrociarono, il fascista lo riconobbe e disse: “Ma tu non sei il mantenuto dell'Ernesta? Cosa ci fai con quella divisa, vecchio farabutto? Torna a casa, oggi mi sento clemente se no ti dovrei sbattere in galera”. Beppi bevve l'ultimo bicchiere e senza alzare lo sguardo s'incamminò verso casa tra il mormorio del paese. Il federale salì su una sedia, incominciò un lungo discorso, approfittandone per fare un comizio, ma dal fondo della sala Toni gli lanciò una vecchia tabacchiera che lo colpì alla tempia facendolo cadere a terra privo di vita. L'osteria piombò nel silenzio. Adesso cosa si poteva fare? Nessuna idea sembrò buona e così decisero di andare tutti a dormire, all'indomani qualcosa sarebbe successo. Al mattino dopo nessuno andò a lavorare o a cacciare, presero i vecchi fucili e andarono in montagna, così per quel paese la Resistenza era iniziata quasi due anni prima che in tutti gli altri posti e a tarda notte qualcuno andava a trovare il Beppi per ascoltare le sue meravigliose storie e raccontarle ai compagni. Beppi cominciò a essere a corto di storie e dovette mettersi a leggere nuovi libri. Ma un giorno lo riportarono in città chiudendolo in manicomio come sperassero con quella mossa di vincere la guerra. Si sa come finì, il fascismo fu spazzato via, il vecchio con la divisa ormai sgualcita ritornò al paese e si sedette sotto la grande quercia aspettando la morte. 9 Martino si avviava verso la cinquantina, era un uomo magro, piccolino e tutto nervi. Quando parlava il collo sembrava scoppiargli, nelle discussioni non usava mai toni pacati , sembrava sempre scagliarsi contro l'avversario come un toro impazzito, e al malcapitato di turno non rimaneva che farsi la doccia con le goccioline di sputo che uscivano dalla sua bocca. Per lo più erano discussioni di politica, era un paese di contadini, tutti democristiani incalliti, sicuramente ignoranti, ma non erano molto diversi da quelli che sedevano in Parlamento, caproni in giacca e cravatta, ma pur sempre caproni. Martino era una persona istruita, aveva fatto il classico dalle suore e parlava correttamente il latino e il greco, i suoi discorsi erano spesso infarciti di citazioni di autori classici. La sua casa era fuori dal paese, nascosta da una collinetta e per arrivarci bisognava percorrere una piccola strada in salita che era difficile affrontare a piedi e in macchina ci si passava a stento. Alla notte era la meta preferita dalle coppiette in cerca di un po' di intimità, a Martino piaceva quella compagnia e nel silenzio poteva ascoltare i gemiti, poi al mattino si incaricava di raccogliere i preservativi e i fazzolettini di carta; durante l'estate tagliava i rovi che quasi divoravano la strada. Era un vecchio cascinale a due piani che lui con pazienza e fatica era riuscito a ristrutturare alla meglio, anche se il tetto ogni tanto lasciava filtrare qualche goccia d'acqua piovana. Il suo orgoglio erano il forno a legna dove faceva il pane e il pozzo dove amava abbeverarsi nelle giornate di calura. Al pianterreno teneva un sacco di arnesi, che servivano per la campagna, ereditati con la casa e in un angolo un grande macchinario, infernale e mastodontico nell'aspetto che ti chiedevi come fosse finito fin lassù. Era una macchina da tipografo rilevata per poche lire e che lui con cura stava rimettendo in sesto. Al piano superiore aveva ricavato una sola immensa stanza con un angolo cottura, una stufa a legna che faceva funzionare anche d'estate, un piccolo tavolino, due sedie e un letto che sembrava quello di un bambino. C'erano libri ovunque che rendevano l'ambiente ancora più disordinato , ma lo riscaldavano più di quella piccola stufa. Dalla finestra si poteva ammirare uno stupendo paesaggio, colline come mura di un castello e prati meravigliosi che cambiavano colore al passare delle stagioni. La sua casa era diventata meta di animali che cercavano un po' di tranquillità e qualcosa da mangiare al riparo dalle doppiette dei cacciatori che Martino metteva costantemente in fuga usando un vecchio fucile che faceva solo un gran rumore. Martino faceva il tipografo giù a Savona, si spostava con un grosso Guzzi dalla marmitta bucata e amava nelle serate d'inverno fare scorribande per il paese. Verso la mezzanotte per svegliare la gente gridava: “E' scoppiata la rivoluzione, calabraghe di pretoidi”, e se ne ritornava a casa ridendo a squarciagola. Era forse uno dei pochi anarchici veri rimasti in Italia, quando rapirono Aldo Moro offrì da bere a tutto il paese, che per un bicchiere di vino gratis era pronto a buttare via la fede politica. Ma quando si seppe dell'uccisione non si fece vedere per una settimana e qualcuno giurava di averlo visto a Savona, in una vecchia osteria ad ubriacarsi, con gli occhi lucidi. Ce l'aveva coi preti e con tutte le beghine che scaldavano i banchi della chiesa e questo gli era costato parecchie denunce che poi erano cadute nel vuoto, il maresciallo si era fatto l'idea di avere a che fare con un matto. Fu così che mise dell'inchiostro nell'acquasantiera, trasformando delle pie persone in guerrieri indiani pitturati prima di una feroce battaglia, o interruppe la funzione religiosa cantando l'internazionale, o una volta si fece accompagnare alla Messa da due puttane che definirle vestite era un eufemismo, si sedettero in prima fila vicino alla famiglia del sindaco e del farmacista e lui cominciò a palpare le cosce e a stringere le tette, sotto gli occhi di donne disgustate e invidiose; mentre gli uomini facevano finta di niente. Quando riuscì a mettere in funzione la stamperia incominciò a distribuire volantini che nessuno riusciva a capire, le poesie di Campana, di Marinetti erano davvero fuori luogo, se ne accorse quasi subito e così decise di cambiare argomento e fare commenti sui suoi compaesani. Iniziò con il prete che descrisse come un vecchio puttaniere che attualmente intratteneva una tresca con la maestra delle elementari sposata al farmacista, tutto documentato, luoghi, date e prestazioni non proprio brillanti del religioso, che usava farsi legare alle sbarre del letto per farselo venire duro. Quel foglietto andò a ruba e chi rimase senza se lo fece imprestare dagli amici. L'attesa dei nuovi numeri si fece spasmodica, per parecchi mesi i panni sporchi vennero messi in piazza, a tutti venne riservato lo stesso trattamento e al bar non si parlava che di corna. Il numero che fece più scalpore fu quello sulle figlie del sindaco, due vecchie zitelle che tuonavano in consiglio comunale contro una giovane donna che faceva la vita e che Martino, dalle sue pagine, parecchie volte aveva difesa. Le due identiche come due gocce d'acqua avevano facce dal colorito verdastro, capelli come spaghetti scotti. Passavano per il paese, sempre insieme, a passo svelto, senza salutare nessuno. Furono sorprese dal maresciallo in macchina completamente nude che si baciavano. Il tutto fu messo tutto a tacere ma non avevano fatto i conti con i volantini di Martino. Fu uno scandalo talmente grosso che il sindaco si dovette dimettere e anche Martino ebbe i suoi guai. Gli fu sequestrata la macchina e passò qualche giorno in ospedale, nel reparto psichiatrico, dove fu ritenuto sano di mente con qualche comportamento stravagante. Ritornato a casa decise che il suo compito in paese era finito, doveva fare un salto di qualità. Si chiuse in casa, incominciò a studiare chimica, a trafficare nel laboratorio e a immergersi in piantine di Roma. Un sordo boato mise fine alla sua vita, doveva aver sbagliato qualcosa. Fu ritrovato tra le macerie con in mano un biglietto, di sola andata per Roma, un poco bruciacchiato. 10 Aldo era un uomo piccolo, riusciva a stento ad arrivare al metro e sessanta, grasso come un porcellino, senza collo e con un testone appoggiato in un equilibrio precario. Aveva sempre caldo, d'estate lo si vedeva in giro a torso nudo, d'inverno si infilava un maglione scolorito e con una serie di medaglie violacee conquistate in qualche osteria. Al mattino sapeva di un buon odore di stalla che pian piano lasciava il posto a quello forte del trinciato e a quello nauseabondo del vino. Faceva il giro di tutte le case del paese per sbrigare qualche lavoro, era buono a spaccare legna per una intera mattinata senza fermarsi, lasciandosi spegnere la sigaretta tra le labbra , terminato il lavoro si scolava una mezza bottiglia di vino fresco ed era pronto a ricominciare. Amava gli animali, forse perché si sentiva uno di loro, la sua casa era diventata un ospizio per cani e gatti randagi, che lui accudiva con spirito quasi materno. Altrettanto non poteva dirsi per i suoi simili che difficilmente salutava farfugliando qualcosa molto simile ad una bestemmia. Ce l'aveva soprattutto con le donne, quando ne incontrava una faceva l'atto di tirarsi giù i calzoni e si compiaceva nel vedere il loro viso atterrito dalla paura. Alla domenica si recava di buon ora fuori dalla chiesa e quando uscivano quelle donnette tutte infagottate come musulmane, si nascondeva dietro a un cespuglio e timidamente come fosse un bambino si calava i pantaloni e incominciava a menarselo. Nessuno seppe mai che era Aldo e tutti davano la colpa a qualche gatta in calore. Però quelle donne sembravano compiaciute e quando quei gemiti cessarono andarono in chiesa più malvolentieri e qualcuna smise di andarci. I bambini si divertivano a prenderlo in giro, lui faceva finta di arrabbiarsi e li rincorreva saltellando e brandendo un bastone; quando qualcuno cadeva nelle sue grinfie faceva l'atto di tirargli uno schiaffo ma lo accarezzava e tirava fuori una caramella al miele che comprava solo per loro. Per un certo periodo di tempo era stato sposato con una giovane donna che raggiungeva il quintale ed era un poco ritardata, al posto di parlare abbaiava come un cane e se non ci fosse stato Aldo avrebbe mangiato nella ciotola. Durante quel periodo Aldo aveva smesso di bere e se ne stava tutto il giorno a casa ad accudire le sue bestie, moglie compresa. Ma come era arrivata, quasi dal nulla, un giorno scomparve. Tutti dicevano che era corsa dietro ad un cane zoppo che si era visto qualche volta in paese e che poi aveva fatto perdere le sue tracce dopo aver razziato qualche pollaio. Aldo la sostituì con un bel pastore maremmano e riprese la vita di sempre ma non mise più piede in casa. Si coricava nella stalla sopra una balla di fieno con i suoi animali che gli facevano da stufa. Da qualche tempo aveva preso l'abitudine di andare in città e per questo si era comprato una vecchia ape che con fatica aveva rimesso a posto senza avere la minima nozione di meccanica. Partiva quasi sempre all'imbrunire, si sentiva il rumore per centinaia di metri e ritornava a notte inoltrata accolto con gioia dalle sue bestie che si mettevano a mangiare con allegria. Fortuna che la sua casa era un poco isolata perché quel baccano avrebbe svegliato un sordo. In città si recava in una osteria, una misera stamberga, dove nessuno lo conosceva e ciascuno faceva i fatti suoi, dove poteva parlare con una bottiglia di vino senza essere preso per matto, ma senza far casino, quasi sussurrando. Alla terza bottiglia Aldo si sentiva pieno e un leggero velo davanti agli occhi gli indicava che era l'ora di rientrare a casa. Appena fuori dall'osteria pisciava contro una colonna, era ormai diventato un rito che durava una decina di minuti, lo svuotarsi la vescica e l'aria fresca lo rimettevano in sesto. Per arrivare all'ape percorrereva un breve budello dal forte odore di mangiare, a quell'ora i ristoranti buttavano via la roba rimasta e per Aldo incominciava la dura lotta contro i gatti e i topi per procurare qualcosa da mangiare per sé e per i suoi animali che a casa l'attendevano pazienti. Fu così che una sera finì in un cassonetto delle immondizie, non riuscì più ad uscirne, forse si era dimenticato di pisciare, e fu ritrovato molto tempo dopo in una discarica, mezzo mangiato dai topi. I suoi animali lo aspettano ancora e ad ogni rumore di un'ape si mettono a piangere. Non seppero mai del tradimento, Aldo era stato il mangiare di altre bestie. 11 Luigi, quel giorno, appena rientrato dal lavoro, si accorse che Giulia non c'era, questo lo allarmò, era troppo abituato al suo chiasso, al rumore delle pentole che veniva dalla cucina ma si trattenne dal chiamarla, forse si era assentata per fare qualche compera. Si diresse verso il bagno, non si sentiva molto bene, era come stordito e aveva voglia di farsi una doccia e di lavarsi i denti, non sopportava la bocca impastata. Prendendo il dentifricio si accorse che sopra la mensola non c'era nessuna traccia delle cose di Giulia, non un rossetto, un profumo, aprì l'armadietto era completamente vuoto. Corse per la casa alla ricerca di qualche segnale che indicasse la sua presenza, niente. Soltanto un letto disfatto , non un reggiseno o un collant. Giulia se ne era andata per sempre. Si ricordò improvvisamente dell'ultimo week-end, Luigi si era ostinato a voler ritornare al paese della sua infanzia e per Giulia era stato un vero tormento. Il paese era rimasto pressoché uguale, anche se le case stavano andando in rovina, con le tegole rotte e le facciate tutte scrostate, poi il caldo opprimente non mitigato dall'ombra dii nessuna pianta l'aveva reso deserto. Giulia sudava copiosamente e dava segni d'impazienza e quando erano entrati nella vecchia casa di Luigi che si trovava nella piazza principale proprio di fronte alla chiesa, il suono delle campane era penetrato nella casa facendola sobbalzare di paura. Luigi si era messo a ridere, quel suono lo aveva riportato ai giorni di festa della sua giovinezza, quando la domenica poltriva a letto perché non si andava a lavorare. La polvere in casa era davvero insopportabile, nessuno era più venuto a fare un pulizia e Giulia aveva cominciato a tossire e aveva raggiunto il culmine, urlando e imprecando, quando, distrutta dalla fatica si era seduta sopra una cassapanca e si era accorta che la sua gonna bianca si era sporcata in modo vergognoso. Luigi aveva abbandonato i suoi ricordi, frustrati dalla presenza di quella persona nervosa e insofferente e visto l'ora tarda aveva deciso di andare a mangiare in una trattoria su in collina, dove da giovane, alla domenica, andava a ballare e a volte ad ubriacarsi. Si erano avviati per un sentiero piccolo e tortuoso fatto di mattonelle rosse e delimitato da una parte da piccole case e dall'altra da un muro di pietra coperto da un'edera che pizzicava il naso. Il posto contrastava con lo stato di abbandono che regnava nel resto del paese, lo aveva fatto notare a Giulia, ma lei era troppo intenta a cercare di non inciampare per dargli ascolto. Avevano proseguito la loro scalata immergendosi nel fresco della collina, e a un tratto una voce roca lo aveva chiamato, Luigi si era voltato e aveva riconosciuto subito il Gino che seduto su una sedia aspettava il pranzo. Era stato l'amico di suo padre, lui era rimasto al paese ed era ancora lì con qualche ruga in più e il bastone come amico inseparabile. Si erano abbracciati fraternamente e il Gino li aveva invitati a sorseggiare un bicchiere di vino fresco e spumeggiante: “Questo qui vi mette il fuoco nelle vene” aveva detto spiegando loro che aveva preso l'abitudine di aprire la porta alle giovani coppie e aveva aggiunto: “ Anche al grano si deve dare il veleno se si vuole un bel raccolto”. Aveva riempito loro ancora il bicchiere, strizzando l'occhio a Luigi in segno di complicità ma Giulia aveva rifiutato sgarbatamente. Poi il vecchio aveva preso Luigi in disparte e gli aveva detto: “Tua moglie mi sembra un po' di bacino stretto, sarà capace di darti un figlio?” Senza parlare gli aveva appoggiato la mano sulla spalla. Nel frattempo era comparsa nella sala da pranzo la moglie, una donnetta dalle spalle simili a quelle di un uomo e un poco appesantita dall'età e dai figli. Luigi aveva declinato il suo invito a fermarsi a mangiare e il vecchio aveva detto: “Hanno altre cose a cui pensare”. Avevano salutato e avevano raggiunto la trattoria. La pista da ballo non c'era più, al suo posto un largo spiazzo ricoperto da erbacce e rovi, a suggellare un ricordo da non violare. Il pergolato con i tavolini un poco sporchi di acini di uva, caduti per una grandinata, mettevano il buon umore e facevano venire appetito. Un uomo si era avvicinato e aveva chiesto: “Signori volete mangiare fuori?” Luigi aveva fatto un cenno di assenso, ma Giulia lo aveva prevenuto: “In questo schifo non mangio, chissà quante bestie ci sono”. Si erano avviati all'interno, la trattoria non era certo al suo massimo splendore con la poca luce che filtrava dalle finestre accostate, ma il mangiare era stato all'altezza della signora, che si era abbuffata di tutto quel ben di Dio, senza più parlare. A Luigi invece la fame era passata di colpo ripensando alle parole del vecchio saggio. Era uscito col pretesto di fare un po' d'acqua e quando aveva raggiunto un campo appena arato, si era buttato per terra cercando le formiche della sua infanzia. Ritornando all'osteria si era pulito alla meglio i pantaloni, ma Giulia gli aveva detto: “Sei rimasto contadino, non c'è niente da fare”. Avevano pagato ed erano ritornati indietro per lo stesso sentiero, li stava aspettando il vecchio Gino che li aveva invitati a mangiare qualche pasticcino e una focaccia appena sfornata: “Ne avete bisogno, dopo tutto quello che avete fatto” aveva detto guardando i pantaloni di Luigi sporchi di terra e Giulia rispettando il copione non aveva assaggiato niente, limitandosi a fumare una sigaretta dopo l'altra. Il vecchio aveva preso Luigi sotto il braccio e nuovamente gli aveva detto: “ Questa donna non mi piace, non gli viene fame nemmeno dopo aver fatto l'amore, valle a capire le donne di città”. Luigi si era messo a ridere e gli aveva detto: “Vedrai che il prossimo anno ti porteremo un marmocchietto con il faccione rosso dei nostri contadini”; ma il vecchio aveva capito che non era sincero. Si erano salutati consapevoli che non si sarebbero più visti poi la macchina aveva riportati in città lui e Giulia e lei da quel giorno non gli aveva più rivolto la parola. Lo accusava sempre più spesso di non essere diventato un uomo adulto e di essere rimasto un inguaribile sognatore, additando come esempio da seguire i suoi amici che da un bel po' si erano sistemati con posti favolosi. Mentalmente cercò, quasi facesse un gioco masochista, i segnali premonitori della futura decisione di Giulia e come in una sequenza di film ricordò le scene più diverse e banali a cui prima non aveva dato alcun peso: una ricorrenza non celebrata o il suo risveglio al mattino come una fuga dal letto per chiudersi nel bagno e uscirne poco dopo completamente vestita e truccata. A Luigi piaceva invece starsene a poltrire a letto, aspettando che fosse lei la prima a scendere, per ammirare il suo corpo nudo un poco stropicciato dalla notte. Poi la raggiungeva nel bagno, facevano la doccia insieme e rare erano le volte che non facessero l'amore. Ecco spiegato anche il puzzo che emanavano le sue ascelle, era da un mese che non faceva una doccia. Strano ma non riusciva nemmeno a ricordare, in modo preciso, la sua faccia. Cercò le sue foto ma lei le aveva portate via tutte. Gli sembrò di ricordarla grassotella con due occhi luminosi e una bocca sempre pronta al riso. Ma era veramente così, oppure era il frutto della sua fantasia? . Se gli avessero chiesto un segno distintivo di lei non avrebbe saputo rispondere, non ricordava niente, nemmeno se avesse un piccolo neo. Eppure conosceva quel corpo nei minimi particolari, non c'era un pezzetto di carne che non avesse baciato o accarezzato. Forse un giorno gli sarebbe passata davanti e lui non l'avrebbe conosciuta. Intanto un suono stridulo invase la casa, alzò la cornetta del telefono ma nessuna voce mentre il suono si faceva più insistente, finalmente capì: era il campanello della porta. Giulia era dunque lì fuori, il suo era stato tutto un sogno dettato dalla stanchezza o da qualche bicchiere di troppo. Aprì la porta ma non c'era nessuno, Giulia si era nascosta. Questo gioco incominciava ad innervosirlo. Un poco in penombra Luigi intravvide una sagoma femminile che non conosceva e veniva avanti con fare minaccioso. Non gli sembrava Giulia, oppure si era già dimenticato della sua figura. Era la padrona di casa ed era venuta parecchie volte in casa, Luigi ricordò che si era divertito un mondo a far credere a Giulia che quella donna venisse per vedere lui. Le diceva: “Sta attenta quella è capace di ucciderti”. Luigi non seppe mai se la moglie avesse creduto un poco a quella storia, o se in cuor suo lo compatisse.. Questo piccolo ricordo svanì subito, la signora si era avvicinata alla porta intrufolandosi in casa come usano fare i rappresentanti e sedendosi sull'unica porzione del divano non occupata da roba da vestirsi. Luigi fu assalito da una strana agitazione, cosa avrebbe dovuto fare in quella situazione? Nessun film che aveva visto gli venne in aiuto e riuscì a spiccicare soltanto due parole: “Mi scusi per il disordine.” Lei non rispose, accavallò le gambe e la gonna di per sé corta arrivò proprio al limite delle mutandine, sarebbe bastato un piccolo movimento per scoprire di che colore fossero, ma ciò non avvenne, Luigi fu profondamente deluso, ma quando lei si tolse il maglione riuscì a vedere sotto la camicetta due capezzoli grossi come bottoni. Stava raggiungendo il culmine dell'eccitazione e per rispetto di Giulia si alzò e andò a preparare un caffè, dal salotto giungevano dei piccoli rumori che subito interpretò in chiava erotica, quali il riassettarsi una calza che non voleva stare a posto o l'apertura di una cerniera lampo. Aspettando che il caffè bollisse diede una sbirciatina alla sua visitatrice e la delusione fu grande nel vederla soffiarsi il naso con violenza e accarezzare un piede troppo gonfio per delle scarpette così minuscole. Rientrando in salotto la signora lo guardò con un sorriso complice, accendendosi l'ennesima sigaretta. Lui si sedette sul divano quasi a sfiorarla e sentì il suo corpo fremere di piacere, sentiva che stava per tradire Giulia. Mentre stava sorseggiando il caffè la donna ruppe definitivamente il silenzio: “Mio caro Alvisi la mia visita come immaginerà non è di cortesia. Lo sa che è in ritardo di tre mesi sull'affitto? Mia madre non è per niente contenta di come tenete la casa, me ne vorrà dare atto.” Luigi le rispose senza guardarla in faccia e allontanandosi un poco da lei: “Sarà stata una svista, mia moglie non è stata molto bene, vorrà capire, lo dica a sua madre”. Il gioco era ormai scoperto e la voce di lei si fece dura: “ Comunque sia abbiamo deciso così, il prossimo mese ci lasci libero l'appartamento”. Si alzò di scatto avviandosi verso la porta per prevenire qualsiasi obiezione e sul pianerottolo gli disse: “D'accordo?” Non ebbe la forza di rispondere, chiuse la porta e si buttò su una poltrona completamente svuotato. Aprì la finestra per fare entrare un po' d'aria ma la luce che filtrava in casa metteva in evidenza il disordine e la polvere. Si guardò allo specchio, era indecente. Chiuse la finestra e si buttò sulla poltrona, istintivamente accarezzò qualcosa di duro e freddo che emetteva strani gemiti “Tu – Tu – Tu” era il telefono, l'unico strumento che gli restava per comunicare con il mondo, Giulia avrebbe telefonato. Prese una decisione: avrebbe aspettato seduto su quella poltrona un suo squillo fin tanto che la forza non lo avesse abbandonato. Accarezzò il telefono, voleva ancora udire il tu-tu che gli aveva per un poco riportato il sorriso e cullato da quel rumore cadde in un sonno profondo. Si svegliò poco dopo sudato e stravolto con la voglia di telefonare alla prima persona che avesse trovato sull'elenco. Alzò la cornetta, era muta, gli avevano staccato il telefono, non aveva pagato le ultime bollette. Da quel momento la sua storia è senza importanza, solo una serie di espedienti per tirare avanti, poi il ritorno al paese e l'idea di raccontare tante piccole storie. LA STREGA RITROVATA 1 La storia incomincia molti anni fa, all’incirca alla fine del Medio Evo; è stata tramandata dai vecchi e ha affascinato le loro serate invernali, senza televisione o fumetti. È la storia di una donna di nome Ernestina di cui non si conoscono le origini, ma dal colore della pelle rossiccio come la terra delle vigne nel periodo della vendemmia e dai tratti del volto non molto regolari, a guardarla negli occhi si provava un senso di inquietudine, si può immaginare che provenisse da un’altra parte del mondo. Non si seppe mai come fosse capitata da queste parti, ma questo non fece altro che aumentare la curiosità dei nativi del luogo. In quel tempo il paese era dominato da un ricco signore e i contadini lavoravano giorno e notte; metà del loro ricavato andava al feudatario e il rimanente veniva preso in balzelli vari. Al popolo non rimaneva quasi niente, soltanto andare a cacciare di frodo sperando di non venire scoperti perché si rischiava la vita. Tutto infatti era di proprietà esclusiva del Signore. L' Ernestina, non si sa come, si unì a un giovane dal nome Michin, uomo forte, dalla faccia intelligente, conteso da quasi tutte le fanciulle in odor di marito. Si mormorava in paese che la Signora, così veniva chiamata la moglie del feudatario, aveva messo gli occhi su di lui o meglio si potrebbe dire sui suoi attributi maschili molto chiacchierati e, forse grazie all’interessamento di costei, alla giovane coppia fu assegnata, in modo insperato e inatteso, una cascina. Lavoravano come dei matti, ma la terra per una ragione o per l’altra non li ripagava dei duri sforzi, anche se facevano bastare quel poco che dava e poi alla sera era un divertimento unico danzare attorno al fuoco fintanto che le forze lo permettevano. Poi si sdraiavano nel letto e si mettevano a giocare, i gemiti si sentivano fin dal paese e i bambini senza saperne il motivo andavano a dormire con dei tappi nelle orecchie per non sentire la voce del Diavolo, anche se non si può immaginare che nessun bambino abbia mai trasgredito quell’ordine. Durante il giorno e quando il tempo lo permetteva, Ernestina andava in giro per la campagna vestita di un solo paio di mutandine. Non era raro vederla correre dietro a qualche animale cercando di imitarlo e quando, stanca, si sdraiava sembrava scomparire nel nulla come fosse inghiottita dalla terra. D’inverno amava invece coprirsi con pelli d’animale che conciava personalmente aggiungendo colori vivacissimi che tanto le piacevano. Non era avvezza alla religione cristiana e mai si era fatta vedere in chiesa; amava invece dire in giro che Dio era solo una forza della natura, che aveva creato la terra. La terra era la donna e il cielo non era altro che l’uomo che con le sue piogge, fecondava la terra. Per lei tutto aveva un’anima, persino le pietre e non era raro vederla parlare con qualche masso o con qualche pianta. Grazie a queste stravaganze si era creata una certa fama di guaritrice e quando qualcuno si presentava alla sua casa per essere curato lei diceva: “Andate a dormire, qualcosa vi giungerà nel sonno e vi aiuterà. Qualunque cosa gli animali vi diranno di fare, dovete obbedire, fatevi guidare da loro, vedrete che vi sentirete meglio”. Alla sera si trovavano con pochi amici a danzare intorno a un fuoco ed era uno spettacolo inquietante vedere quelle ombre ora di color giallo ora scure, ma la cosa più bella era quando cavalcavano in groppa allo stesso cavallo, lei vestita da uomo e lui da donna. Michin per segnare il tempo del loro canto reggeva un cordoncino di campanelli dandogli un ritmo molto pronunciato, che si accordava perfettamente al trotto lento del cavallo. Il loro sorprendente duetto continuava, ad intervalli, per tutta la notte e smettevano al sopraggiungere del giorno. L’unico neo di quella allegra famiglia era che non potevano avere un figlio e non si può dire che non gli mancassero le occasioni, in paese si diceva che era quella la maledizione di Dio. La donna si disperava nei pochi momenti che era da sola, ma bastava una carezza di Michin perché tutto andasse a posto. Un giorno adottarono due orsi, che spinti dalla fame, si erano avvicinati alla loro casa. Erano due cuccioli, li curarono come figli, togliendosi addirittura quel poco di latte che riuscivano ad avere. Ma le notti erano sempre uguali, in più ci si mettevano anche gli orsi che sembravano dei veri e propri ballerini magari con qualche chilo di troppo. In breve tempo riuscirono a mettere su un allevamento di orsi ammaestrati. La notizia si sparse nella valle e raggiunse i posti più lontani, e nel paese fu una processione di gente strana: giocolieri, domatori, imbonitori, tutta la feccia dell’umanità a congresso. Non si distaccavano volentieri dalle loro bestie, ma dietro assicurazioni dei nuovi proprietari li prestavano e in poco tempo acquistarono una posizione economica da far invidia. Intanto si mormorava che quella era la casa del Diavolo, che Ernestina era una strega, che faceva l’amore con gli orsi e che il pover’uomo altro non era che la sua vittima preferita. In men che non si dica, il giovanotto fu fatto sparire, mandato in guerra in Oriente e fu intentato il processo a Ernestina dichiarandola strega. La storia finì come tutte del resto in quel periodo, ma Ernestina, anziché essere bruciata, sotto sua richiesta fu decapitata e la sua testa sepolta sotto terra; del corpo non si ricorda più niente. Nel giorno fissato per l’esecuzione arrivarono da ogni parte i circhi con le loro bestie, di preferenza orsi, e fu grazie alla prontezza delle guardie che ne accopparono qualcuno se la storia non finì in altro modo. Da quel giorno quel posto si chiama la Valle degli Orsi. Alcuni studiosi, per caso, scoprirono che in molte tradizioni indiane, la testa tagliata e sepolta mette radici nella terra e genera fertilità, chissà se Ernestina non fosse stata figlia di qualche capo indiano? 2 E rientriamo nel nostro secolo, in pieno fascismo, sorto per mettere un poco di ordine alla confusione mentale. Le strade e le piazze si riempirono di gente anonima, dagli altoparlanti voci di uomini rozzi declamavano discorsi senza capo né coda, tacevano i bambini e i loro giochi infantili nelle parate militari, svanivano i loro sogni fatti di streghe, principi e fate per lasciare il posto a sogni di sangue di una guerra che li avrebbe portati ad essere finalmente degli uomini. La vita trascorreva come sempre, come l’acqua passa sotto i ponti, senza una scossa, nell’attesa di diventare dei protagonisti nel bene o nel male. Le donne, con il loro corpo che poteva distogliere gli uomini da desideri di grandezza, facevano paura, e pian piano diventavano corpi inanimati atti soltanto alla procreazione, preferibilmente, di buoni soldati. Anche il piccolo paese diventò piatto, senza vita, persino i colori della terra, il rosso dei vigneti, il marrone, il giallo e il verde delle piante, perdevano la loro lucentezza, tutto era grigio come il colore delle case fatte di pietra. Si continuava a lavorare questo sì, ma senza metterci troppo impegno e il raccolto veniva su male quasi controvoglia. Finito il lavoro si ritornava a casa e poi subito a letto, niente osteria, niente balere e forse neanche sesso, ci si sentiva stanchi di un qualcosa a cui non si sapeva dare un nome. In questa atmosfera viveva la “piccola Lina”, chiamata così per il suo corpo minuto. Era figlia del maestro, un uomo arrogante che teneva la scolaresca in soggezione, da sempre fascista anche quando questo non era ancora nato, aveva sognato di entrare nel Regio Esercito, ma per colpa di un leggero difetto fisico, era leggermente claudicante, fu riformato. Adesso che poteva infilarsi la camicia nera non l’abbandonava mai e forse non la toglieva nemmeno per andare a dormire. Uomo di poca cultura, era riuscito ad ottenere il diploma grazie alle raccomandazioni di un alto prelato, sosteneva che il leggere dei libri era cose da donna, il fisico ne pativa, l’uomo era nato per l’azione e quasi tutto il suo insegnamento era basato sull’educazione fisica. Era stato proprio fortunato a vivere in quell’epoca e di ciò ringraziava il Signore; la religione a cui si accostava nei momenti di bisogno era la sua unica debolezza. Aveva sposato una donna qualsiasi, la prima che gli si era offerta, per regolarizzare la sua posizione e perché gli desse il figlio maschio che tanto desiderava. La povera donna svanì nel grigiore della casa, era un fantasma che si aggirava nelle stanze sempre intenta alle pulizie, perché il signore odiava il disordine: aveva paura delle sue mani che non l’avevano mai accarezzata e della sua voce sempre pronta all’urlo e alla bestemmia. Poche volte si concedeva a sua moglie, ma lo faceva senza desiderio e con violenza, tanto che le lasciava dei lividi che la poveretta cercava di nascondere con trucchi anche vistosi; queste erano le uniche volte che si concedeva qualche stravaganza e assomigliava a una donna normale. Per il resto lui dormiva quasi sempre sul divano del salotto, duro come una pietra, ma era questo che formava il corpo; detestava i materassi soffici che incurvavano la schiena, roba da donne o da checche. Gli unici svaghi erano quelli che si concedeva ogni sabato sera; scompariva senza lasciar tracce per ritornare quasi al mattino, non si coricava nemmeno, si vestiva di tutto punto e andava alla Messa. In seguito si scoprì che andava in città, in una di quelle case dove si vende l’amore, portando anche un mazzo di rose rosse che donava alla Signora: in quei momenti diventava un altro, gentile, premuroso quasi timido. Quando la moglie rimase incinta cambiò di umore, rimaneva sempre a casa e si fermava spesso a conversare con lei, parlando dei progetti per il futuro bambino: una carriera rapida nell’esercito e poi, se avessero avuto fortuna e ci fosse stata una guerra il piccolo avrebbe potuto anche conquistarsi qualche medaglia sul campo. Triste per lui, invece, fu il giorno che venne alla luce la piccola Lina: scoppiò in un moto d’ira, rovesciando alcune sedie e se ne andò via per parecchi giorni; fece ritorno a casa che la bambina aveva già qualche mese, non la guardò nemmeno e riprese la sua vita di sempre. Anche la Lina, seppure molto diversa dalla madre sembrava un fantasma, un essere senza consistenza, aveva persino imparato a non piangere in presenza del padre e se ne stava rincantucciata in un angolo a giocare con un pezzo di stoffa. Diventando più grandina amava vestirsi con i pantaloni e un giaccone di una taglia superiore per nascondere i seni che si facevano largo fra la camicetta e si era tagliata i capelli per assomigliare a un maschietto Ma il padre, che ormai cominciava ad invecchiare, le diceva sempre: “E’ inutile che ti travesti, intanto un uomo non lo potrai mai diventare” e diceva quelle parole con le lacrime agli occhi. Col tempo coltivò il desiderio di maritare la figlia con qualche bel giovane fascista e mettere così in casa un uomo che un giorno avrebbe preso il suo posto. Incominciò a curarle l’aspetto facendole fare lunghe passeggiate e acquistandole in città abiti costosi ma anche un po’ volgari. Le faceva frequentare le feste che contavano, in casa del podestà e del farmacista, ma fino allora i risultati sperati non arrivavano. Morì all’inizio della primavera nel letto di una prostituta: il cuore lo aveva abbandonato nella sua ultima impresa senza che lui potesse rivolgere una preghiera al Dio che tanto amava. Il corpo fu portato a casa in gran segreto; dopotutto si trattava di una persona rispettabile: fu composto nel suo letto e vegliato per una notte intera dalla moglie e da Lina. Le povere donne passarono una nottata d’inferno, ad ogni colpo di vento sembrava che il corpo si muovesse, ogni guaito di qualche animale ricordava loro la sua voce e quando all’improvviso spalancò la bocca non riuscirono a trattenere la pipì. Al mattino quando un raggio di luce invase la camera spazzando via ogni fantasma, gli occhi del morto si illuminarono e loro temettero si stesse svegliando. Forse il loro era stato un meraviglioso sogno? Temevano che da un momento all’altro si alzasse dal letto e incominciasse a menare le mani. Fu sepolto senza tante cerimonie; vi fu soltanto un mazzo di rose rosse che una signora di Torino depose sulla sua bara. Gli allievi che si erano liberati da un incubo, quel giorno fecero festa e andarono in collina a giocare a pallone; della moglie non si seppe più niente, scomparve senza lasciare traccia, se mai ne aveva lasciata, e Lina si ritrovò ad affrontare la vita da sola. 3 Ma anche per lei era arrivata la primavera: subì una profonda trasformazione e diventò un uccellino libero dalla sua gabbia. Il suo corpo fiorì, e come la terra si spacca per far nascere il germoglio, da un fantasma nacque una meravigliosa ragazza. Per molto tempo fu costretta a vivere di espedienti. Col fornaio per farsi regalare una pagnotta, appena sfornata, usava la tecnica della seduzione: gli si avvicinava dimenando il sedere già ben modellato, si accovacciava per prendere qualcosa, mostrando le mutandine candite da verginella. E quando il pover’uomo faceva per allungare le mani lei scappava via ridendo con la pagnotta tra le mani. Non c’era volta che non riuscisse nel gioco e, anche se ormai sapeva come andava a finire, per il fornaio la tentazione era troppa. In paese si diceva: “Quella fa la fine dell’Ernestina” e intendevano dire che era sulla cattiva strada, che per una donna significa diventare una puttana. Ma lei quelle cose nemmeno le conosceva, aveva voglia di ridere e di prendere in giro gli ingenui e si sa, chi meglio degli uomini sta a quel gioco? In quel periodo tutto era triste e nemmeno i giochi di letto erano tanto praticati, soprattutto a causa delle donne che non se la sentivano di mettere al mondo dei figli, per poi vederli venire su scontenti e infelici; fu così che la Lina con la stessa tecnica usata col fornaio, si procurò delle pastigliette da un farmacista compiacente. Poi grazie a un tipografo a cui dovette però concedere una mano sporca di inchiostro sul sedere, stampò un giornaletto dall’aria scientifica che dipingeva quelle pillole come veri portenti: con una sola di quelle pastiglie si risvegliavano i sentimenti e le passioni della donna più pigra e nello stesso tempo si diceva fossero un anticoncezionale garantito al cento per cento; in America lo usavano già prima della guerra. Non si può dire quanto abbia venduto quella volta, ma si sa di per certo che tutte le donne del paese al mattino dopo si recarono in gran segreto, dal dottore dopo una nottata passata nel cesso e grazie a quelle pillole la popolazione subì un’impennata. Nel paese si faceva un gran parlare di lei, soprattutto gli uomini le facevano una corte assidua e di questo lei ne aveva approfittato per mettere a bersaglio alcuni colpi davvero sensazionali. Un giorno capitò all’osteria un vecchio commerciante proveniente dalle vallate del Cuneese; commerciava in burro e da una settimana il pover’uomo non riusciva a venderne nemmeno un panino e tutta quella partita gli stava andando alla malora. Lina in quel periodo raccoglieva castagne che andava a vendere in Riviera con un viaggio di tre giorni non privo di qualche rischio, e ora aveva trovato un pollo che le avrebbe fatto risparmiare una lunga camminata. Gli propose uno scambio alla pari: le sue castagne per quel burro andato a male; il poveretto accettò con entusiasmo felice di disfarsi di quella merce senza più valore. Qualche mese dopo si incontrarono per caso alla stessa osteria, l’uomo fece finta di non conoscerla ma lei gli si avvicinò e gli disse: “Senti ce ne hai ancora di quel burro? E’ un vero portento”. Per poco non si misero le mani addosso e dovette ringraziare di essere una ragazza se per lei non finì male. Infatti allo sfortunato straniero le castagne erano andate tutte alla malora, in quanto avevano preso il marino e facevano le farfallette, invece la Lina da quel burro aveva ricavato un mucchio di soldi e una gran popolarità di guaritrice. Era riuscita a vendere quel burro dal cattivo odore spacciandolo per un unguento miracoloso che spalmato a dovere sugli attributi maschili donava forza e vigore persino a quelli vecchi di settant’ anni. E non era una bugia, infatti quando lei compiva personalmente quell’operazione non c’era morto che non resuscitasse; ma con le mogli non sortiva lo stesso effetto. Di questo e di altri fatti s’interessò personalmente il maresciallo dei carabinieri che sentenziò che così non si poteva andare avanti, e da buon padre di famiglia cercò una sistemazione ideale per redimerla: quale soluzione migliore per tenere a bada quella selvaggia se non affidarla alle cure della Chiesa? In quel tempo la parrocchia aveva bisogno di qualcuno che svolgesse i lavori di pulizia; la perpetua era ormai troppo vecchia e se si fosse inginocchiata per pulire un pavimento non si sarebbe più alzata. Il maresciallo accompagnò Lina personalmente dal parroco, un giovane prete che spesso dimenticava di mettersi la tonaca per un più comodo paio di pantaloni e camicia e qualche volta sfoggiava dei capi dal colore sgargiante. Era decisamente un bell’uomo e quando alla domenica parlava dal pulpito con la sua voce pastosa e calda che faceva sognare, tutte le dicerie venivano dimenticate e soprattutto le donne ringraziavano Dio di appartenere a quella parrocchia. Tanto era bello il prete tanto era brutta la perpetua e non soltanto per l’età; infatti si diceva che nella sua gioventù non fosse stata molto meglio, forse un po’ meno gobba e con qualche ruga in meno ma per il resto, uguale. Nel vedere arrivare la Lina, la vecchia stando attenta a non farsi sentire borbottò: “Va a finire che questa diventa la casa del diavolo”, intanto il parroco si era fatto incontro ad abbracciare la pecorella smarrita. La povera Lina era terrorizzata e al solo pensiero di essere ritornata indietro di anni, alla casa paterna, meditava già il momento della fuga. Ma si accorse ben presto, non solo per l’aspetto fisico, che il prete non assomigliava per niente al padre: era infatti un uomo di cultura, gli insegnò ad amare i libri e non c’era giorno che la Lina non li accarezzasse come toccasse un uomo. Si esercitò a leggere e a scrivere e siccome la fantasia non le mancava cominciò a riempire pagine di scritti e se solo si fosse applicata un poco di più sarebbe potuta diventare una brava scrittrice. L’unica cosa che odiava era l’odore di incenso, di chiuso, di ordinato, di troppo serio e spesse volte si vedeva correre per i prati dietro a sogni impossibili come un cavallo impazzito. Quando stava in canonica combinava certi scherzi che facevano scandalizzare la perpetua, quali disseminare per tutta la chiesa i suoi indumenti intimi e aveva toccato il culmine appendendo le sue mutandine sul crocifisso per farle asciugare. La perpetua pretendeva a gran voce la sua testa, doveva essere cacciata, ritornare dal fango da dove era venuta; il prete che non era insensibile alle grazie della giovinetta si era opposto, in virtù di una teoria cristiana del perdono. La vita continuò così e la chiesa subì una trasformazione: si vedeva che doveva esserci la mano di una donna. L’odore dell’incenso fu coperto dal profumo di una colonia francese al mughetto, l’altare si arricchì di pizzi di ogni genere e alcune statue di santi dalla faccia triste e quadri raffiguranti la morte finirono nel solaio sostituiti da altri più allegri raffiguranti scene di natura e persino un nudo. Stava lentamente trasformando la chiesa e in paese ci si sarebbe aspettati una festa danzante e un suntuoso banchetto al posto della messa. Nel frattempo la Lina aveva scoperto la vecchia cascina dell’Ernestina che, ormai attaccata dalle erbacce che l’avevano quasi ricoperta rendendola invisibile dalla strada, stava andando in rovina. Era situata in mezzo a un boschetto anch’esso poco accessibile e sembrava di entrare nella fiaba di Cappuccetto Rosso; da un momento all’altro ci si aspettava che comparisse il lupo cattivo. Come nelle fiabe Lina la risistemò, la ripulì per bene, mise persino delle tende alla finestra passando la maggior parte della giornata a fantasticare sul giorno che quella casa sarebbe stata sua. Nel fare pulizia, nell’intercapedine di un muro, trovò delle armi, all’apparenza un poco vecchiotte ma perfettamente funzionanti; subito si spaventò e pensò che quella casa fosse davvero un covo di banditi. Comunque lei non aveva visto niente e poi potevano convivere tranquillamente: non era forse vero che la sua esistenza era stata sempre ai margini della legalità Intanto il prete aveva abbassato notevolmente la guardia e i segnali che la Lina continuamente gli lanciava non cadevano più nel vuoto. Il pover’uomo non era stato con una donna da molto tempo, sempre fedele al giuramento fatto a Dio, e le sue notti furono invase da incubi di ogni tipo; si alzava al mattino più stanco della sera prima. Spesso si soffermava a parlare con la Lina cercando di accarezzarle i capelli e qualche volte si spingeva oltre toccandole una coscia o stringendole forte un seno quasi volesse staccarlo. Lina aveva capito che cosa voleva quell’uomo ma non sentiva il bisogno di concedersi, sicura come era che quel gioco le procurasse più piacere; non erano rare le volte che anche lei si concedeva dei sogni erotici, ma grazie alla sua inesperienza ne venivano fuori delle cose assurde. Una sera nuda come sua madre l’aveva fatta entrò nel letto del prete, il poveretto incominciò a sudare cercando di nascondere il suo attributo che si era eretto in modo spropositato: al diavolo il giuramento, quei seni sodi che toccavano la sua schiena furono la classica goccia che fece traboccare il vaso. Rosso in viso e con la bava alla bocca si riversò su di lei cercando di possederla, ma per quella sera si dovette accontentare di una doccia ghiacciata, perché Lina, come un gatto, era scivolata via dal letto e ridendo a squarciagola si era rinchiusa nella sua stanza. Da quel giorno nella parrocchia non ci fu più pace, il prete si consumò a vista d’occhio e la perpetua mise in giro la voce che era ammalato di una strana malattia causata dalla giovane strega. Per la prima volta veniva indicata con quel nome funesto che l’avvicinava ancora di più all’Ernestina. 4 Decise quindi di lasciare la chiesa e il paese: come una ladra partì una mattina presto con la corriera per una destinazione sconosciuta e per molto tempo non si sentì più parlare della Lina nel paese. Dopo tanto peregrinare facendo qualsiasi lavoro che gli capitasse a tiro, vivendo quasi sempre di espedienti, capitò per caso in un paese senza nome. Si legò ad amicizia sincera con un uomo di nome Musolin senza la i finale e pronunciato alla francese Musolen anche se proveniva da una famiglia piemontese di antica tradizione socialista. Non era quello il suo vero nome, suo padre non avrebbe mai commesso una scempiaggine simile, ma gli era stato dato come soprannome dagli amici per la sua somiglianza perfetta con il duce; infatti non c’era volta che entrasse in un bar che tutti non ammutolissero e lo guardassero in faccia un poco spaventati. Quando era nato aveva la stessa faccia e per poco suo padre non lo aveva preso subito a schiaffi: cosa aveva fatto quel pover’uomo per meritarsi un simile castigo? Venuto grande la faccia rimase quella del grande condottiero, ma il corpo non voleva proprio svilupparsi ed era rimasto un nanetto, alto non più di ottanta centimetri. Persino il padre si metteva a ridere vedendo quello scherzo della natura, nessun caricaturista avrebbe fatto di meglio. Il pover’uomo aveva anche una camminata ondulante, un poco da checca, il suo parlare si era affievolito, era uno spettacolo vederlo e ogni sua mossa avrebbe potuto cadere nella censura del regime. Comunque sia quella faccia diede da mangiare a lui e alla Lina grazie ad alcune truffe che le loro menti diaboliche avevano ideato. Un giorno vennero a sapere che la settimana seguente sarebbe transitato da quel paese il Duce in persona; non li avrebbe onorati della sua visita, ma tutti avrebbero potuto vederlo dal vivo perché in quel tratto i treni andavano a passo d’uomo a causa di lavori che si protraevano da anni. Il paese era in fermento, il sindaco stava preparando la festa nei minimi particolari, quel giorno nessuno avrebbe dovuto andare a lavorare e tutti per amore o per forza avrebbero presenziato a quel meraviglioso evento. Così si disegnarono cartelli, inneggianti al duce, le donne si vestirono a festa e i pochi uomini tirarono fuori la camicia nera un poco spiegazzata: il duce avrebbe dovuto sapere che anche in quell’angolo sperduto del mondo lo amavano. Il grande giorno arrivò, il treno era in ritardo spaventoso; qualcuno già sospettava che non si sarebbe fatto vedere, ma l’attesa venne premiata. In lontananza si udì un sibilo: era il diretto per Torino, un treno lunghissimo che sembrava non finire passò sotto i loro occhi. Si intravedevano dai finestrini uomini in camicia nera che scherzavano e parlavano, ma del grande uomo nessuna traccia. Avevano perso una giornata per niente, ma finalmente nell’ultima carrozza intravidero la sua figura, subito ci fu un applauso grande e liberatorio e quando l’uomo accennò al saluto romano qualcuno si mise a piangere. La Lina aveva un mazzo di rose rosse, si avvicinò al treno, l’uomo si sporse per raccogliere quel dono e comparve in tutta la sua grandezza che non era più di ottanta centimetri. La folla rimase ammutolita, qualcuno svenne e gli altri ritornavano a casa inorriditi. Anche quel paese era ormai terra bruciata, anche se d’altronde non aveva commesso nessun reato: aveva donato un mazzo di rose a Musolen, e che colpa aveva lei se quell’uomo assomigliava tanto al duce? Le loro vite si separarono, di Musolen, per molto tempo, non si seppe più niente. La Lina invece capitò nel suo vagabondare nella città di Torino, in una casa che lei non sapeva essere quella dove era morto suo padre. La signora, come se lo sentisse, prese sotto la sua protezione quella ragazza dall’aria impaurita, vestita da fare paura, i capelli sporchi che coprivano la faccia e nascondevano una bellezza ancora in erba, anche se le sue mani sporche e le unghie non curate la facevano assomigliare a un camionista. Per prima cosa gli fece fare un bel bagno caldo, poi la vestì con degli abitini alla moda anche se un poco volgari; quando fu pronta ad uscire era un’altra ragazza e la signora pensò che sarebbe ben presto diventata la migliore delle sue ragazze; lei gli avrebbe insegnato i modi gentili e avrebbe limitato un poco quel carattere ribelle. Lina passò delle giornate indimenticabili, sempre in giro con la signora a fare compere, a bighellonare senza costrutto per le vie del centro e per la prima volta assistette alla proiezione di un film, cosa che la lasciò di stucco. Spesso però aveva nostalgia dei suoi posti, dei suoi prati dove poteva rotolarsi, del suo cielo dove poteva seguire il volo degli uccelli, ma per il resto non ci stava per niente male. Dopo qualche mese la signora decise di farle fare il battesimo del letto e a questo scopo scelse un giovane dall’aria impaurita che doveva essere alle prime armi; Lina così non si sarebbe sentita troppo imbarazzata. Entrarono entrambi nella stanza non guardandosi nemmeno in faccia e nessuno dei due prese l’iniziativa. Lei doveva spogliarsi, così gli aveva insegnato la signora, ma quell’aria pesante, quell’odore d’incenso la rendevano un poco triste. Il giovane incominciò a parlare della sua vita, era un partigiano e doveva avere sui vent’anni, ma dalle sue parole sembrava che ne avesse cinquanta. I discorsi di politica a lei non interessavano ma quella parola libertà la affascinò non poco; stettero per quasi due ore chiusi nella stanza e ogni tanto si sentiva ridere a squarciagola, così che la signora soddisfatta pensò: “Impara presto la Lina”. Quando uscirono, abbracciati e guardandosi in faccia, salutarono la donna che li stava aspettando all’entrata; avevano deciso di partire insieme, sarebbero ritornati in montagna. Il desiderio di rivedere i suoi posti incise profondamente sulla sua decisione, più che il desiderio di mettersi insieme a quel ragazzo per la verità poco attraente. La povera donna che si era dedicata a Lina come fosse sua figlia, si mise a piangere e la insultò: “Avresti potuto essere una gran signora, ritorna pure nel fango, intanto ci sei abituata”. Così la Lina senza molta convinzione diventò partigiana. 5 Per qualche mese non si ebbero più notizie di lei ma si può presumere che quella vita non fosse adatta a Lina, non amante della disciplina e della guerra. Ma una mattina come tutte le altre, un’afosa mattina di agosto, al campo tutti si alzarono sudati con una gran sete che divorava le gole per colpa del salame piccante che avevano mangiato la sera prima o forse perché in realtà non era una solita mattina. Da molto tempo quel campo non era impegnato in un’azione di guerra e tutti passavano le giornate nella noia più assoluta e in improvvise discussioni politiche che non sortivano altro effetto che far aumentare la sete. E quel vino caldo che buttavano giù come fosse acqua non gli portava alcun sollievo e non era difficile vedere qualcuno che si allontanava in tutta fretta per liberarsi lo stomaco. Ma alcuni giorni prima avevano avuto l’ordine di entrare in azione. La notizia era passata sopra le loro teste senza procurargli il minimo di eccitazione, quasi fossero abituati a quella vita, ma salvo poche persone erano tutti studentelli freschi di scuola e imbottiti di ideologia. La vita del campo non aveva subito alcuna variazione se si eccettuano qualche discussione in più e qualche scazzottata di troppo. Ma il fatidico giorno era arrivato e per quell’azione furono tirati a sorte due nomi: Fausto e Lina. Fausto per sembrare uomo si era fatto crescere una barba bionda a chiazze, ma sembrava un pulcino appena uscito dall’uovo; Lina a quel tempo portava dei pantaloni attillati da uomo e una giacca di taglia superiore, ma si vedeva che stava a disagio in quei vestiti. Partirono, ancora prima che spuntasse il sole, con indifferenza come andassero a prendere un caffè; il posto dell’agguato non era lontano: si sistemarono dietro una curva, nascosti da un grosso macigno. L’attesa fu lunga: non si guardarono neppure in faccia; chissà quali pensieri avevano invaso le loro menti, il posto era stupendo, l’ideale per farci l’amore, ma erano venuti per uccidere e forse era quello che li rendeva così tristi. Quando già stavano per ritornare al campo un po’ delusi, sentirono dalla strada un rumore di ferraglia che ad ogni curva diventava più distinto: si trattava di una motocicletta. E quando sbucò dalla curva e la videro chiaramente, balzarono in piedi e incominciarono a sparare. Il conflitto fu breve: i due uomini non ebbero nemmeno il tempo di estrarre la pistola; Lina si avvicinò ai due cadaveri, erano due ragazzini dalla faccia color del latte e dal fisico asciutto e ben proporzionato. “Chissà a quante ragazze avranno fatto girare la testa” pensò fra sé Lina. Ma d’improvviso si girò di scatto verso Fausto, lo vide fermo in mezzo alla strada con il fucile a tracolla, le mani nei capelli e subito capì: non aveva trovato il coraggio di sparare. Gli si avvicinò asciugandogli le lacrime e gli disse: “Non preoccuparti, è andata bene lo stesso”. Fausto però non si dava pace per la vergogna. Cosa avrebbe raccontato ai suoi amici? Che aveva avuto paura di uccidere? Che non era un uomo? Che aveva meno coraggio di Lina? Avrebbe preferito morire colpito da una pallottola fascista ed essere ricordato come un eroe: invece era un vigliacco. Ma almeno era vivo pensò, e poi ci sarebbe stata un’altra occasione per dimostrare il suo coraggio. Non doveva permettere a Lina di parlare, quindi le si avvicinò con aria minacciosa e lei vedendolo in quello stato, forse per paura, o perché un poco innamorata di lui gli disse: “Che bisogno c’è di dire chi ha sparato? Sarà il nostro segreto”. Si abbracciarono e per poco non si sdraiarono nell’erba calda come un letto in inverno. Quando rientrarono al campo, Fausto, inventando dei particolari dettati dalla sua fantasia, incominciò a descrivere l’azione agli amici che rimanevano estasiati dal racconto. Se erano alla ricerca di un eroe lo avevano trovato senza fatica; c’era qualcosa che valeva la pena raccontare ai futuri figli e nipoti, la guerra non li stava deludendo più di tanto. Mentre Fausto si atteggiava pian piano a capo, Lina invece aveva subito una profonda trasformazione: non si faceva più vedere in giro e passava le sue giornate distesa sul letto fumando una sigaretta dietro l’altra. In giro si diceva: “Le donne dovrebbero starsene a casa a scaldare il letto per il proprio compagno, la vista del sangue non fa per loro”. Durante la notte aveva parecchi incubi, sognava quei due visi color del latte e non c’era una volta che non facessero l’amore; si alzava al mattino distrutta e con l’odore di maschio che non riusciva a sopportare e non c’era bagno che tenesse. Pensava sempre più spesso a quelle vite recise nel fiore degli anni e alle parole della madre quando andavano per funghi e lei si divertiva a calpestare quelli velenosi: “Che male ti hanno fatto, non vedi come sono belli? Più belli ancora dei porcini”. Lei aveva ucciso dei funghi velenosi, ma con che diritto. Era dalla parte della ragione, questo non si discuteva, ma era sicura che quei ragazzi fossero colpevoli? Non erano per caso uguali a tutti gli altri ragazzi che per sentirsi degli uomini devono imbracciare un fucile? Era sicura che Fausto fosse migliore di quegli stupidi fascisti? Forse loro si trovavano soltanto dalla parte sbagliata? Il tempo passava lentamente, altre azioni si susseguirono tutte portate a termine brillantemente; la figura di Fausto aveva varcato la valle, era arrivata fino in città; ma era diventato un eroe grazie alla sua fantasia più che alla canna del suo fucile. Ben presto la sua fama gli aveva permesso di diventare comandante della brigata che operava nel territorio, ma da questo momento le cose non erano andate molto bene e parecchi campi erano stati scoperti e sterminati. Lina scoprì che il sangue partigiano su quella terra arsa dal sole, aveva lo stesso colore di quello dei fascisti. Stufa di morte, decise di dimostrare a tutti la sua vigliaccheria con un gesto che l’avrebbe trascinata nel fango: aveva paura e se ne sarebbe tornata a casa a raccogliere funghi stando attenta a dove metteva i piedi. Intanto al campo circolava sempre più insistentemente la voce che qualcuno avesse fatto la spia e bisognava trovarlo assolutamente. Chi meglio di una donna poteva essere destinata a questa missione speciale? Fu scelta Lina, per azioni di guerra non valeva un gran che ma per una missione di letto andava benissimo. Doveva riuscire ad andare a letto con un pezzo grosso del fascismo e carpirgli qualche segreto, soprattutto il nome della spia. Non era impresa facile, ma tutti speravano nelle sue grazie; e poi non veniva da una casa di tolleranza? Ma bisognava escogitare un piano: Lina non poteva comparire all’improvviso dal nulla, come un fantasma. La fantasia non le mancava e così ideò una bella sceneggiata: sarebbero entrati in paese spacciandosi per una compagnia teatrale. Ma ahimè l’unica donna era lei e non si poteva allestire un corpo di ballo senza l’elemento fondamentale. Lina si guardò in giro, non c’era da stare per niente allegri: barbe ispide, gente stravaccata che divorava il pollo con le mani e sputava per terra cicche di tabacco. C’era da lavorare parecchio, ma lei ci sarebbe riuscita; fece scaldare delle tinozze d’acqua calda, li ripulì per bene, tagliò parecchie barbe e quindi scelse quelli dal viso più femmineo e dalle gambe lunghe e poco muscolose. Era uno spettacolo vedere quegli uomini dall’aria rude lasciare da parte le armi e dedicarsi al ballo truccati da baldracche; ma dopo qualche tempo erano veramente pronti. Aveva fatto un buon lavoro e quasi non si notava la differenza tra lei e i suoi compagni. Arrivarono in paese preceduti da una pubblicità a tappeto: non c’era angolo, portone, vetrina su cui non fosse appesa una locandina annunciante il favoloso evento. Avevano scelto una vecchia fotografia del Mulin Rouge con tante belle donnine che eseguivano il famoso Can Can; in quel paese senza cinema e senza televisione non avevano mai visto niente di simile. I più intraprendenti andavano in giro a dire che quelle donne dovevano essere anche delle gran battone che la davano via per poco o niente. I biglietti furono esauriti in breve tempo alcuni sfortunati si dovettero accontentare della loro fantasia o della bontà di qualche amico che gli avrebbe raccontato lo spettacolo. Lo spettacolo riscosse un successo senza precedenti, non paragonabile nemmeno alla visita del duce; anche il federale aveva perso la testa per la prima ballerina che incredibilmente non era la Lina ma un bel giovanotto dal nome Marco, il suo capolavoro. Il vecchio fascista, che aveva portato tutta la famiglia, mise da parte tutto il suo amor patrio e familiare sbottonandosi la camicia nera ormai tutta stropicciata e sudata; dopo poco mandò via anche la moglie dicendo che non erano cose da far vedere a dei bambini. Era rimasto impressionato dalla bellezza di quella donna, da quel corpo dalla fattezza lontanamente maschile, ma proprio quella ambiguità lo attraeva in modo particolare. Alla fine dello spettacolo si recò nel camerino per congratularsi con gli artisti, ma con la precisa idea di portarsi a letto la prima ballerina usando la sua autorità. Questo non era stato previsto e tutto sembrava compromesso, ma la fantasia della Lina non aveva limiti; avvicinandosi all’uomo gli sussurrò nell’orecchio: “ Mi dispiace camerata ma quella, col dovuto rispetto, è proprietà di gente che sta molto in alto”, dicendo questo volse lo sguardo al ritratto del duce che campeggiava sopra le loro teste con stampigliato in faccia un sorriso che sembrava prenderli in giro. La delusione del federale fu grande, ma di fronte a quel fatto non gli rimaneva che salutare militarmente il ritratto e ritornare dalla propria moglie; ma loro avevano imbastito tutta quella messa in scena per sapere il nome della spia e quindi la Lina doveva inventare ancora qualcosa. Si tolse i vestiti da scena e si infilò un paio di pantaloni e un berretto che aveva trovato per caso e lo seguì. Aveva rovesciato le parti: adesso c’era veramente un corpo di donna dentro quell’aspetto maschile; per quella volta il federale si sarebbe dovuto accontentare. Nessuno seppe che cosa successe in quella stanza d’albergo, ma al mattino dopo scesero uno dopo l’altro ricominciando la loro solita vita. L’uomo era felice, ringiovanito di vent’anni, se ne andò fischiettando un’aria leggera, non la solita marcetta fascista; la Lina invece era scura in viso, come avesse visto un fantasma. Non gli aveva concesso niente di speciale, quelle cose lei le avrebbe fatte soltanto con l’uomo di cui si fosse realmente innamorata, quella notte avevano soltanto giocato, si erano divertiti questo sì ma niente di più. La compagnia ripartì in tutta fretta, avevano paura di essere scoperti e inoltre la missione era fallita. La Lina aveva detto di non essere riuscita a sapere niente, il vecchio camerata era stato troppo furbo. 6 Ma se prima di quel fatto Lina aveva deciso di ritornare a casa, ora ritardò in modo inspiegato la sua partenza e si mise sulle tracce di Fausto, doveva incontrarlo per l’ultima volta. Ma lui sembrava sparito nel nulla, in parecchi campi che aveva visitato, non ne sapevano niente, arrivavano solo ordini firmati da lui. Alla fine però tanta costanza venne premiata, incontrò Fausto in visita a un campo e quasi non lo riconobbe tanto era cambiato: una lunga barba bionda ben curata faceva risaltare due occhi azzurri come il mare, a cui non aveva mai fatto caso e si era molto irrobustito. Adesso si poteva a ragione dire che fosse un bell’uomo. Portava inoltre un bel vestito grigio che sembrava fatto su misura e solo un piccolo rigonfiamento sotto le ascelle faceva intravedere una pistola grossa da far paura. Lina pensò fra sé: “Cosa se ne fa di quella cosa?” A cosa può servire una pistola ad un uomo così forte che incute rispetto con la sua sola presenza, e che se volesse potrebbe uccidere un uomo con un solo pugno? Si aggirava per il campo come un dio, attorniato da due guardie del corpo splendenti anche loro di luce riflessa e Lina a stento facendosi largo arrivò a toccarlo. Lui si girò di scatto e i loro sguardi s’incrociarono, Fausto abbassò subito gli occhi e tutta la sua sicurezza sembrò improvvisamente scomparire. La fronte gli s’imperlò di sudore, incominciò a balbettare, mentre le mani non erano più ferme, ma di questo nessuno si accorse, tranne la Lina. All’improvviso il silenzio venne interrotto dalle parole di Fausto: “Oh Lina quale buon vento ti porta?” ma in realtà pensava: “Cosa vuole questa qui? Non vorrà mica svergognarmi davanti a tutti?” ma subito si riprese: chi avrebbe creduto a quell’essere insignificante? Per giunta era anche una donna, non c’era da preoccuparsi. La Lina gli fece capire che era venuta fino lì proprio per lui e che se avesse ritardato la partenza non si sarebbe pentito. Fausto che aveva un debole per la Lina fin dalla prima volta che si erano visti rimase e quella notte dormirono assieme. Nella penombra della tenda, nudo, appariva ancora più bello. Il suo corpo sembrava una statua di marmo, l’unico neo era quel coso per niente estetico che gli pendeva tra le gambe che a Lina faceva un poco paura. Comunque aveva deciso di passare la sponda, questa volta non poteva permettersi di sottilizzare. All’inizio fu veramente bello, il giovane eroe era un amante perfetto, mai più avrebbe trovato di meglio, ma all’improvviso sentì un profondo bruciore e una lacrima le solcò il viso. Era diventata una donna, ma non aveva provato piacere; la prima volta era stata una delusione e quando guardò il lenzuolo macchiato di sangue ripensò ai due ragazzi uccisi l’anno prima: era già passato un anno. Fausto invece era orgoglioso come avesse sparato a dei fascisti e senza rivolgersi la parola ma con mille pensieri nella testa si addormentarono di un sonno profondo. Al mattino Lina si svegliò un poco in ritardo, lui si era già messo la camicia e stava lavando i suoi gloriosi attributi, Lina senza pensarci estrasse dalla borsetta una pistola e sparò una serie di colpi alla schiena di Fausto. Lina aveva di nuovo sparato e questa volta per difendere i suoi compagni da una spia; ma aveva fatto una cosa giusta? Il sangue di Fausto era rosso come quello dei fascisti e dei suoi compagni; si buttò sul suo corpo accarezzandogli i capelli, coprendolo con qualcosa di caldo come avesse freddo; ora in quello stato aveva perso tutta la sua virilità. Lo aveva ucciso perché aveva saputo da quel vecchio fascista che era una spia o forse perché non era rimasto turbato dal suo sangue di giovane vergine, comunque aveva di nuovo ucciso un uomo; questa stava diventando la sua professione, ma era giunto il momento di smettere. Gli spari attirarono gente e in un attimo la tenda si riempì; gli occhi di tutti si puntarono su di lei, aveva ucciso il loro capo e doveva essere punita con la fucilazione. Fu interrogata a suon di calci e pedate ma lei non aprì bocca, non poteva dire che Fausto era la spia, avrebbe distrutto un mito e inciso sui loro animi. Qualcuno si azzardò a dire che era lei la spia che cercavano, ma questa teoria non trovò molti consensi e alla fine tutti si convinsero che la donna aveva agito così perché Fausto non ne voleva più sapere di una ragazzina insulsa, non aveva nemmeno l’onore di morire da spia. La sentenza era stata fissata per il giorno seguente e Lina passò una lunga notte insonne, ma non aveva paura di morire, voleva sapere di che colore fosse il suo sangue. L’unico rammarico, passando in rivista tutta la sua vita era di non poterne essere orgogliosa. Ma al mattino quando tutto era pronto arrivò una carovana di ballerine venuta lì apposta per intrattenere quei poveri soldati rammentandogli come erano fatte due paia di gambe e un seno bello sodo. Nel campo si fece gran baldoria e ci si dimenticò del compito da eseguire. La Lina dalla sua cella scorgendo qualcuna delle ballerine, scoprì che altro non erano che le sue creature e affacciandosi chiamò la prima ballerina per farsi un’ultima risata. Lui si avvicinò un poco sorpreso, e quando riconobbe la Lina volle farsi spiegare tutto, non era possibile che la Lina fosse un’assassina. Parlarono per quasi mezzora e quando si lasciarono la cella era aperta. Non le restava altro che fuggire, evidentemente non era ancora arrivata la sua ora. 7 Lina riprese il suo vagabondare ma questa volta aveva una meta: ritornare per sempre a casa a sistemarsi, magari mettendo su famiglia, con tanti marmocchi che la chiamavano mamma. All’inizio era fuggita senza destinazione con la paura di essere braccata dai partigiani: aveva ucciso il loro capo, e loro non conoscevano la verità. Però nessuno si curò di lei , erano troppo euforici per lo spettacolo che di lì a poco sarebbe iniziato. Per giorni attraversò boschi, guadò torrenti fermandosi soltanto per mangiare qualche castagna e riposarsi un poco all’ombra di un albero. Non riusciva a dormire, infatti non appena chiudeva gli occhi la sua mente si popolava di strani personaggi insanguinati che la rincorrevano per sbatterla da qualche parte abusando di lei. Intanto cominciava a farsi evidente lo sfacelo della guerra. Alcuni paesi che aveva conosciuto durante i suoi loschi traffici erano irriconoscibili e anche se lei si sforzava di riconoscere qualche particolare familiare, niente: che avesse sbagliato strada? Si ricordava che sulla via di casa c’era una vecchia e piccola balera con l’osteria che dall’inizio del fascismo aveva chiuso i battenti perché gli affari non andavano molto bene; ora il vecchio casottino era diventato la meta preferita dei gatti che avevano stabilito lì la loro dimora per ripararsi dalle intemperie dell’inverno. La porta era stata scardinata e i vecchi mobili rubati con le poche bottiglie di vino che il proprietario si era dimenticato di portare via. Prima della partenza di Lina serviva come ritrovo per qualche sporadica coppietta in cerca di un poco di intimità, e il materasso steso per terra ne era una prova inconfutabile. Lei aveva sognato che un giorno avrebbe portato lì il suo uomo, avrebbero ballato sulla pista, fintanto che le forze glel’avessero permesso e poi avrebbero consumato un lauto pranzo che avrebbe preparato con le sue mani, aggiungendo qualche tocco afrodisiaco. Poi si sarebbe concessa al suo uomo e avrebbero aspettato l’alba abbracciati. Le piaceva quel posto soprattutto perché era così simile alla casa di Ernestina. Da quando aveva lasciato il paese quell’osteria era servita da campo operativo per i partigiani, come rifugio dei feriti e aveva preso l’aspetto di un vecchio ospedale un po’ decadente, anche se quegli uomini avevano lavorato sodo per rimetterlo un poco assieme. Ma come Lina seppe in giro fu ben presto scoperto e una mattina, all’alba, circondato e dato alle fiamme; non ci fu resistenza, infatti era difeso da quattro ragazzini dal fucile più grosso di loro e per il resto c’erano soltanto degli uomini che non riuscivano nemmeno a reggersi in piedi. Fu un massacro spietato, nessuno rimase in vita per raccontare l’atrocità, anche i corpi furono fatti sparire. Lina si avvicinò a quelle macerie cercando un qualcosa che non sapeva nemmeno lei; finalmente tra divise bruciacchiate trovò indenni un paio di mutandine da donna candide come non fossero mai state portate, se le mise in tasca e proseguì verso il suo paese, ormai era quasi arrivata. Da quello che aveva visto in giro aveva paura di non riconoscerlo più, ma quando entrò per la via centrale constatò che nulla era cambiato, la chiesa era sempre lì ad accogliere qualche vecchietta che andava al vespro, s’intrufolò anche lei e subito fu invasa da un forte odore di incenso. Le statue erano state rimesse al loro posto e dal pulpito un vecchio prete stava incominciando la messa, si avvicinò ad una vecchia che non aveva ancora preso posto e le domandò di Don Aldo. La donna sembrò spaventata da quel nome e fece finta di non aver sentito, ma quando la Lina quasi gridando le rifece la domanda la donna rispose un poco seccata: “Si è ucciso quel satana, si era innamorato di una puttana”. Quelle parole le arrivarono diritte al cuore come una pugnalata, anche quella morte era da addebitare a lei, la sua vita era disseminata di vittime più o meno innocenti. Stava per mettersi a piangere, quando dalla sagrestia comparve la vecchia perpetua: per paura di essere riconosciuta si alzò di scatto e uscì. Piombò nella strada deserta e accaldata, e solo dopo venne a sapere che il paese era abitato soltanto da donne, bambini, vecchi che attendevano la morte e da qualche vigliacco che non si faceva mai vedere in giro se non quando calava la sera. La sua prima visita fu per la casa dell’Ernestina, aveva paura di non ritrovarla più e si sorprese parecchio nel ritrovarla come l’aveva lasciata, solo con qualche rovo in più. Si stese sotto un albero, la giornata era calda, e provò a chiudere gli occhi, si addormentò di colpo e per la prima volta dopo tanto tempo nessun incubo la venne a visitare. Si svegliò all’imbrunire riposata e contenta, si era lasciata alle spalle tutta una vita. Fece per andarsene, ma si accorse che il terreno dove aveva dormito era troppo soffice come se qualcuno l’avesse appena rimosso. Lina era troppo curiosa per lasciar perdere, si mise a scavare con le mani, quasi a farle sanguinare e trovò un baule pieno di gioielli, collane, anelli, doveva valere una fortuna, se ne fece un campionario, ripose il baule al suo posto e se ne andò. Doveva cercare un compratore, ma di chi poteva fidarsi? Così decise di andare a trovare la signora a Torino. Quando s’incontrarono, lasciando da parte ogni rancore, si abbracciarono come due amiche, stando un poco in silenzio quasi non volessero guastare quel momento. Lina la guardò in faccia, non era cambiata per niente. Infine la signora le disse: “ Guarda come sei conciata: “Te l’avevo detto che saresti ritornata nel fango, comunque sia la mia porta è sempre aperta”. Pregustava già la sua compagnia e il risollevarsi della situazione economica che con gli ultimi eventi era colata a picco. La risposta della Lina non si fece attendere: “Mi dispiace deluderti, ma questa volta hai torto marcio, guarda questa roba e dimmi cosa ne pensi, ne ho un baule pieno, sono i regali degli uomini a cui ho tenuto compagnia”. La signora la guardò interdetta, si accostò alla merce, era roba di prima qualità, quella ragazza ne aveva fatta della strada, aveva in mano un intero tesoro. Si accordarono sul prezzo, non ci fu molta discussione; alla Lina servivano soltanto i soldi per comprarsi la casa dell’Ernestina e addobbarla nel migliore dei modi; per il resto non sapeva che farsene dei soldi, cosa troppo impegnativa. Ritornò in paese con l’uomo della signora, gli consegnò il baule e se ne andò a comprarsi la casa. 8 Lavorò alacremente per quasi sei mesi e alla fine quella cascina che andava alla malora venne trasformata in un accogliente albergo. Non c’era volta che il caminetto non fosse acceso e le tovaglie candide e ben stirate, e tanti commercianti allungavano la strada del ritorno per farsi un bicchiere di trippa calda e ballare un valzer o qualche motivetto proveniente dalla lontana America. Ma soprattutto si poteva godere della compagnia allegra della Lina, del suo contatto e del suo seno che faceva intravedere di sfuggita quando serviva personalmente qualche piatto. Mai negava una pacca sul sedere, se era dolce e piena di premura e tutti avrebbero desiderato dividere il suo letto, ma lei era come l’aria che ti accarezza e ti scompiglia i capelli, ti fa fremere ma passa e va, quasi ti prendesse in giro. Per quelle cose lì aveva fatto arrivare una decina di mulatte che erano la fine del mondo: un tocco di esotismo in una valle ormai grigia e senza contrasti. Era andata a prenderle personalmente fino a Genova, ripercorrendo le strade di quando più giovane andava a vendere le castagne in Riviera. A Genova non c’era mai stata e la città non le piacque per niente con quella sua confusione, l’odore di marcio e di muffa che le impregnava i vestiti; una gran sete poi le seccò la gola e non vedeva l’ora di ritornare a casa. Le ragazze erano già sbarcate e non fece fatica ad individuarle e non tanto per il colore della pelle quanto per il nugolo di ragozzotti che giravano attorno incuriositi ed eccitati. Le aveva scelte con il criterio di soddisfare ogni esigenza, su un giornaletto di un commerciante che aveva pernottato nella sua osteria. Così ce n’era una colle tette grosse, una con gambe lunghe da mozzare il fiato, una con la faccia da porcella che eccitava anche la fantasia più debole, una dalle fattezze da maschio che pareva la copia esatta della sua prima ballerina, una minuta che poteva assomigliarle. Certo ne doveva fare del lavoro con quelle ragazze, ma la materia era buona e grazie agli insegnamenti della signora ne avrebbe tirato fuori delle professioniste. Il viaggio di ritorno non fu privo di qualche pericolo, era difficile per quei tempi andare in giro con undici ragazze sole, ma grazie alla furbizia della Lina se la cavarono bene. Col tempo divenne amica di un vecchio cantastorie che la veniva a trovare regolarmente con la sua moto-carrozzella in quanto diceva di aver perso le gambe nella grande guerra. Era la prima televisione che fosse arrivata da quelle parti, tutti lo stavano ad ascoltare in religioso silenzio fino a tarda notte e poi andavano a letto, qualche volta anche senza mulatte. L'umo abitava nella vecchia casa paterna, un vecchio castello che stava andando in rovina ed era stato trasformato in parco giochi dai ragazzi che si davano appuntamento quando lui non c’era, per provare qualche brivido di avventura. Le mamme che sapevano del fatto cercavano di sconsigliare quelle visite e parlavano spesso di bambini scomparsi e persino mangiati, ma questo non faceva che aumentare il loro desiderio. Un giorno, rincasando prima del previsto, aveva sorpreso due ragazzetti che stavano portandosi via due fucili da caccia del nonno di valore inestimabile: ne uscì fuori un gran baccano che fu udito persino dal paese. Lo trovarono riverso per terra con la faccia insanguinata, i bambini che ridacchiavano divertiti e se non fu linciato dovette ringraziare la sua menomazione. Era ritornato dalla guerra con un forte esaurimento e si era lasciato andare vivendo di quello che gli aveva lasciato la famiglia, e quando il piccolo patrimonio era finito aveva preso a girare i paesi chiedendo l’elemosina e qualcosa raccoglieva sempre. Non era riuscito a sposarsi, non tanto per la menomazione fisica, ma per la sua aria di menagramo e quando aveva messo gli occhi sulla figlia del fornaio, aveva ricevuto la visita del padre che brandiva un fucile: da quel momento non aveva guardato più nessuna donna. Era diventato sempre più acido, quando passava con la sua motocicletta menava delle randellate da far paura e gridava degli insulti accompagnandoli a degli sputi. Soltanto nell’osteria della Lina si trasformava, e diventava gentile come pochi e non c’era una volta che non regalasse un fiore, raccolto in campagna, alla proprietaria. Quando divennero un po’ più intimi le rivelò il suo segreto, si sciolse i laccioli e fece comparire come per magia due gambe un poco striminzite dal poco uso. Risero per un’intera serata tra lo stupore dei viandanti che non si capacitavano del perché. Un altro cliente abituale dell’osteria era Emile, anche lui di origine benestante; suo padre infatti era un famoso pianista e la madre una soprano molto ricercata. Di spirito ribelle, non aveva mai voluto intraprendere la carriera artistica, diceva spesso che non gli interessava far divertire persone dall’animo arido e un poco ignoranti. La sua vita era la strada, amava conoscere gente e da tutti imparava qualcosa, anche dal più umile accattone, che non dimenticava mai di ringraziare. Ma la musica l’aveva nel sangue, non ne poteva fare a meno e quando incontrò un vecchio contadino che armeggiava uno strano strumento a corde dal suono melodioso si innamorò di quell’oggetto e non lo lasciò mai più. Divenne in poco tempo il più grande suonatore di ghironde che ci sia mai stato: al suo passaggio la gente smetteva di lavorare e accorreva per sentirlo suonare e non c’era volta che qualcuno non gli chiedesse il bis. Aveva ricevuto parecchie offerte per un lavoro sicuro ma lui non amava rimanere per troppo tempo nello stesso posto, era uno spirito libero e quando sentiva che un legame stava diventando troppo stretto era pronto a reciderlo e scappare via. Persino quando il direttore del conservatorio, seguendo la sua fama che era arrivata fino a Parigi, gli aveva proposto una cattedra, lui si era fatto una risata e gli aveva dato l’indirizzo di suo padre che non era mai riuscito nel suo sogno di diventare professore e con il suo unico allievo, cioè lui, aveva fallito in pieno. Ragazzo di bell’aspetto, dall’aria un poco misteriosa con degli occhi verdi che facevano sognare, oltre alla musica amava le donne e il loro corpo, fosse vecchio o giovane non aveva importanza. Anche in quel campo era un maestro e non c’era posto dove lui fosse capitato che non avesse lasciato un segno; chissà quanti giovani musicisti sono nati in quegli anni? Amava spesso dire che l’unica cosa che non era ancora riuscito a mettere in musica erano i gemiti e i sussurri delle donne quando facevano l’amore: si limitava a sentirli da spettatore. Quell’uomo libero come il vento si fermò per molto tempo dalla Lina accettando di suonare per lei, per un piatto di trippa e per una piacevole conversazione. Intanto la Lina diventava ogni giorno più bella ed era un vero peccato che nessuno raccogliesse quel fiore. Una sera comparve nella sua locanda un giovane straniero, alto muscoloso dalla carnagione chiara e dai capelli biondi, sembrava un dio. Si misero a parlare e tra una moina e l’altra si ritrovarono a letto a consumare il loro amore. Nel corpo assomigliava a Fausto, soltanto che il suo attributo era molto più piccolo, faceva quasi tenerezza. Lei si divertiva a stuzzicarlo quasi fosse un giocattolo e lui sempre rispondeva alla chiamata. Il corpo un poco femmineo, le sue maniere gentili, eccitavano la Lina come non mai: quando accarezzò il suo sesso, si sentì pronta ad essere penetrata e scongiurò il suo uomo di volerla accontentare. Per parecchi giorni Lina non si fece vedere se non per recarsi in cucina a preparare un uovo sbattuto al suo amante. Che fosse il dio del vento quell’uomo che aveva imbrigliato Lina? Quando ritornò alla vita era come una candela consumata, il suo sorriso era svanito, l’occhio spento e fisso in direzione del suo giovane amante. Incominciò a sbattere via qualche mulatta rea di essersi avvicinata troppo al suo uomo, la vita divenne un’inferno, il grigiore prese il sopravvento e il focolare si spense per sempre. Un giorno confidò al suo uomo di aver ucciso due tedeschi, quasi per liberarsi di quel peso che ancora aveva sullo stomaco. L’uomo impallidì improvvisamente, si scostò dalla Lina e in un attimo impugnò una pistola accanendosi contro di lei, Era un tedesco che stava scappando dall’invasione alleata e aveva trovato rifugio nel letto di Lina. Si era riscattato da una vita da vigliacco, e ora poteva ritornare a casa soddisfatto. Non contento, prese il corpo e lo scaraventò nel fiume. Chissà se qualcuno ha mai trovato quel corpo dandogli degna sepoltura? Chissà se dalla sua testa non potranno nascere delle radici e un grande fiore e spezzare quel cielo grigio e monotono e questa terra da troppo tempo stanca e immobile senza desiderio di germoglio? Chissà se il vento avrà portato i semi di questo fiore in qualche altro posto per generare ancora una volta un’altra Ernestina o un’altra Lina? 9 Oggi molte cose sono cambiate: la casa dell’Ernestina è stata rasa al suolo, al suo posto è sorto un motel Agip; qualche coppia affitta una camera per un’ora; il piccolo sentiero che porta in Riviera ha ceduto il posto a una bella autostrada grigia; al casello qualche prostituta vende il suo amore. Il paese non esiste più: una grande fabbrica con le sue sirene che squarciano il silenzio della valle è sorta con il solo scopo di rovinare il paesaggio. Il fascismo non c’è più da un pezzo, ma i colori sono ancora grigi e la primavera tarda ad arrivare. Musolen ha fatto una brutta fine, proprio il giorno della liberazione, mentre stava festeggiando in un bar venne falciato da un giovane idiota che credeva di aver sorpreso il grande dittatore, proprio quando aveva incontrato il suo grande amore, un operaio della Fiat con la faccia che assomigliava vagamente a quella di Hitler: avrebbero potuto fare una bella coppia. La signora di Torino invece ha smesso di lavorare e con i gioielli comprati dalla Lina è diventata davvero una signora. Frequentava i grandi alberghi e si fa vedere spesso sulla costa azzurra, passando da un casinò all’altro, e non si può dire che non abbia fortuna. Chi direbbe mai che avesse gestito una casa di tolleranza? Di Emile, invece, si sapeva del suo amore per le donne, e per colpa di quel vizio ha trovato la morte per mano di un marito geloso: il suo corpo è stato riportato in Francia, sepolto senza nemmeno una nota di musica, accanto a dei genitori che non aveva amato e nemmeno aveva conosciuto. Il vecchio cantastorie è finito sotto una macchina impazzita proprio il giorno in cui aveva deciso di mettersi a camminare come un uomo normale: ci ha rimesso le gambe, ha smesso di mangiare e pian piano è morto alla ricerca dei suoi arti. La prima ballerina ha avuto un discreto successo in teatro anche dopo la liberazione, è divenuto attore di televisione facendo la macchietta del travestito, ma una sola cosa aveva in testa: come fare per diventare una donna; detestava quel corpo maschile che lo imprigionava.. A Torino inoltre c’è una strada che porta il nome di Fausto, indicato come comandante partigiano, e tutti i 25 Aprile c’è sempre un mazzo di rose rosse portato da chissà chi; di Lina nessuna traccia. IL DIRETTO DELLE SETTE E TRENTA 1 E’ una fredda giornata di dicembre, mi sento stanco, qualche giorno fa ho compiuto settanta anni e li dimostro tutti, un poco malfermo sulle gambe, la testa quasi pelata, un colorito verdastro, la mano tremolante, tanto che non riesco più a pisciare senza bagnarmi. Nonostante tutto non mi dispiace fare delle passeggiate, e non ho mai mancato al mio appuntamento delle sette e trenta. Il rumore della strada copre la voce di Monica, mia moglie, che mi invita a chiudere la finestra. E’ una donna di circa dieci anni più giovane di me, ancora piacente e giurerei che ha degli spasimanti, non riesco a capire come abbia fatto a mettersi con uno come me, che bello non è mai stato, e nemmeno interessante. Mi sovrasta di una spanna, gambe lunghe, si potrebbe permettere ancora una minigonna, invece di quei pantaloni che la mortificano, il seno e il sedere sembrano non aver subito l’azione del tempo. Qualche piccola ruga sotto gli occhi e il collo leggermente raggrinzito, la riportano sulla terra. La città ancora dorme, soltanto l’edicola della piazzetta sta aprendo, il vecchio proprietario fa fatica a tirare su la saracinesca che stride in modo pauroso. Chissà cosa spetta a metterci un poco di olio? Un camioncino si è appena fermato, l’autista è sceso, ha scaricato un pacco di giornali, salutando appena e quindi è scomparso inghiottito dalla strada. Il bar centrale, invece, è ancora chiuso, le seggiole sono accatastate l’una sopra l’altra, il signor Antonio ieri sera avrà fatto bisboccia e questa mattina fatica a scendere. Qualcuno guarda sconsolato l’insegna spenta, per oggi dovrà rinunciare al caffè. Mi affaccio alla finestra proprio sotto di me si è fermato un ragazzo che aspetta la morosa, mi viene voglia di sputargli sulla testa per vedere la sua reazione, per fortuna Monica è arrivata nella stanza e senza dirmi niente ha chiuso la finestra, quasi ad evitarmi quell’insano gesto. Da qualche giorno la città si è vestita a festa, i negozi si sono riempiti di roba, per le strade è tutto uno scintillio di luci e la gente rimane in giro fino all’ora di chiusura dei negozi. Oggi il ragazzino del semaforo non c’è, passa lì le sue giornate parlando alle auto che si fermano per il rosso. Deve avere dieci anni, capelli ricci, un colorito scuro, due grossi occhi verdi, un giubbotto nero, calzoni di velluto, di due taglie più grossi, forse del fratello maggiore. Ha l’aria di uno spaventapasseri, ma quello spaventato è solo lui, la vergogna negli occhi, la mano tremolante che quasi dimentica di tendere. Nella nostra via è arrivato Babbo Natale, ha un vestito scolorito, la barba bianca sporca e lo sguardo spento sempre abbassato, ha preso il posto di un giovane marocchino che non vendeva niente. E’ un Babbo Natale che non porta regali, si limita a dispensare larghi sorrisi e ad accarezzare i bambini, poi allunga la mano aspettando l’elemosina. Quando la mattina presto, mi alzo è già sul posto di lavoro e fino all’imbrunire non se ne va, all’ora di pranzo tira fuori da un piccolo cartoccio un panino, ci dà alcune morsicate e poi lo ripone nel sacchetto, in compenso si scola quasi un litro di vino. A dormire non va molto distante, ha trovato un portico buio, lì ha sistemato con cura dei cartoni e ha nascosto il suo guardaroba, due grossi sacchetti di plastica. Da quando è arrivato dei ragazzini che avranno all’incirca tredici anni, lo prendono in giro, se non fossi così vecchio andrei giù con un bastone. Mi affaccio alla finestra, fa veramente freddo, potrebbe anche nevicare, mosso da pietà gli faccio cenno di salire. Da principio sembra non intendermi, o forse non ha voglia della mia compagnia, ma non sono passati nemmeno cinque minuti che sento bussare alla porta. Chiede timidamente se può mettersi in libertà, non ho nulla in contrario, e allora lui si toglie barba e cappello, avrà circa la mia età. Soltanto adesso mi sento trafiggere il cuore. Non avevo nemmeno dieci anni, credevo ancora che i bambini li portasse la cicogna. Quell’anno mio padre aveva deciso di passare il Natale sulla neve a Limone, invitato da un suo collega. L’avevo visto qualche volta e non mi era rimasto simpatico. Mio padre ci aveva detto che la nostra vita dipendeva da lui, da quell’omettino insignificante e che bisognava essere gentili ed educati. Nessuno di noi sapeva sciare, avrei passato le giornate di festa in una casa che non conoscevo, a mangiare e a giocare a tombola. Mi ero opposto a quella decisione con tutte le mie forze, avevo paura che Babbo Natale, non trovandomi a casa, si sarebbe arrabbiato e non mi avrebbe più portato regali. Mio padre decise che ero diventato troppo grande per credere a quelle storie, comparve improvvisamente nella mia stanza, tutto vestito di rosso, si tolse la barba bianca e mi disse: “Lo vedi chi è Babbo Natale?” Quel giorno avrei voluto prenderlo a pugni e invece mi limitai a dire: “Perché papà? Sono forse stato cattivo?”. Lui aveva sorriso scrollando la testa, ero ormai diventato grande. Chiedo al mio ospite se vuole qualcosa da mangiare, mi fa cenno di no con la testa, comunque gli faccio un te, e gli offro dei pasticcini, ma forse avrei fatto meglio a servirgli un buon bicchiere di vino. Si accende la pipa, procurandomi un poco di fastidio per l’odore di tabacco e a un tratto comincia a raccontarmi la storia della sua vita. Si chiama Egidio e insieme al padre era stato proprietario di un negozio di tessuti, aveva passato tutta la sua vita tra stoffe e donne noiose e forse questo l’aveva reso un poco effeminato o forse aveva solo ingentilito le sue movenze. Fin da piccolo aveva aiutato suo padre, gli era costato fatica staccarsi dai suoi compagni e dai loro giochi, ma il vecchio su questo era stato irremovibile: il loro lavoro era difficile da imparare e se si voleva farlo bene, bisognava iniziare ancora bambini. Quelle quattro mura e quella vetrina da dove poteva vedere gli altri bambini divertirsi correndo dentro una pozzanghera divennero il suo mondo e le sue favole non furono Pinocchio o Biancaneve ma le tasse da pagare, le tratte in scadenza e le commesse da guardare con occhio vigile. Si sposò che aveva quasi quarant’anni lei faceva la commessa nel suo negozio, non fu amore, Egidio non ci aveva mai pensato, troppo occupato con le sue stoffe. E poi quella donna, dal carattere autoritario, troppo alta e magra, vestita sempre con una cappa azzurra, senza un filo di trucco su una faccia mascolina, non poteva attirare un uomo. Fu il padre che volle quel matrimonio, per salvaguardare la bottega: “Io non sono di ferro, e tu da solo non ce la puoi fare, ci vuole una donna con l’occhio del padrone” gli disse un giorno. Ora il silenzio regna nella stanza, mi alzo di scatto per cercare del vino, lo trovo, gliene verso un bicchiere, lui sembra apprezzarlo molto e lo trangugia tutto d’un fiato. Mi faccio coraggio e gli domando; “Come mai siete finito in questo modo? E la vostra bottega?” Finalmente alzando lo sguardo mi fa un sorriso, così riesco a vedergli gli occhi, sono di un colore stupendo, poi si schiarisce la voce e mi dice: “Avevo bisogno di un po’ d’aria fresca”. Senza accorgercene ci siamo scolati una bottiglia di vino, le mie domande si fanno incalzanti: “Non siete più andato in bottega? Non avete più visto vostro padre?” Non appare per niente imbarazzato e mi risponde: “Ci sono passato una sola volta, quasi per caso, si sono ingranditi, gli affari vanno bene. Non ero così necessario come fingevo di credere. Mia moglie, che con l’età non è peggiorata, i brutti diventando vecchi, recuperano posizioni, si è risposata con uno più giovane, un tipo sportivo sempre abbronzato in maniera innaturale, che sta seduto dietro alla cassa in giacca e cravatta, a contare i soldi. Hanno liquidato mio padre e cambiato il nome dell’insegna. Che brutta fine deve aver fatto povera donna, quello non sembra proprio il tipo di accontentarsi di una come lei!” Mi piacerebbe invitarlo per il giorno di Natale, avremmo tante cose da raccontarci, ma lui dice che ha un impegno. Ci salutiamo come vecchi amici, dalla finestra vedo che attraversa la strada e poi si sistema al solito posto. Mia moglie sta rientrando, è andata dal parrucchiere e vorrebbe che le facessi dei complimenti ma rimango zitto, sto ancora pensando ad Egidio. Lei allora interrompe il silenzio: “Ho visto quell’uomo vestito da Babbo Natale che usciva dal nostro portone, cosa sarà venuto a fare?” Sono contento che abbia iniziato a parlare e le rispondo: “Non lo sai che fra poco è Natale? Sarà venuto a portare i regali”. Mi guarda stupita e mi dice: “Possibile che tu abbia sempre voglia di scherzare?” Ribatto seccato: “E allora guarda nell’armadio ha lasciato qualcosa anche per te”. Si avvicina al mobile e trova un pacchetto colorato, lo scarta trepidante, e subito getta un urlo: “Ma caro non dovevi! Con tutti i soldi che dobbiamo pagare al signor Antonio per la casa”, ma già si è messa il collier e si guarda allo specchio. Finalmente mi avvicino: “sei meravigliosa, e poi a me non è costato niente, è stato Babbo Natale”, lei si mette a ridere: “Quando ti deciderai a crescere?”. Improvvisamente mi è venuta voglia di fare una passeggiata, per dirla come Egidio, di prendere una boccata d’aria fresca: Monica è un poco preoccupata per la mia salute, ma la rassicuro dicendo che fra mezz’ora sarò di ritorno. 2 Sono sceso nella strada piena di macchine in colonna, che sembrano aspettare un qualcosa: chissà cosa ci sarà in fondo a quella striscia nera? Alla fermata dell’autobus decine di persone aspettano quello che tarda ad arrivare. Il grigio predomina appena ferito da qualche timido raggio di luce che filtra dai negozi, le insegne natalizie spente rendono ancora più lugubre l’atmosfera. Questa è la Genova di periferia, l’unico buon odore è quello della tripperia, dove gli operai si fermano a bere una tazza di brodo, e non si conosce l’odore del cappuccino e delle brioches appena sfornate. Gli unici rumori vengono dalla strada, quei immensi casermoni piene di gente sembrano vuoti, quasi timidi a far sentire la loro presenza: I bambini non piangono in questo angolo di mondo? Le mamme sono così pazienti? Mi sembra tutto molto strano. L’unica cosa viva è quel piccolo giardino proprio sotto casa, fatto a triangolo con quattro alberi dal colore indefinito, che troppo poco si avvicina al verde. Delle panchine fin troppo colorate, che gli operai si ostinano a pitturare cancellando le scritte di qualche innamorato annoiato fanno da contraltare. La terra, all’interno delle aiuole, prende anch’essa un colore grigiastro e per quanti sforzi facciano gli operai del Comune non cresce un filo d’erba, questo giardinetto è il pisciatoio di tutti i cani del quartiere, il mio cane non l’ho mai portato, nell’attesa di un ciuffo d’erba. Ha preso il nome di “ Belini molli”, perché è occupato da gente che non scende sotto i settant’anni; un po’ irriverente come nome, ma mi basta poco per capire che è azzeccato, infilandomi una mano nei calzoni. Qualche volta si veste a festa, è il periodo delle elezioni, viene letteralmente coperto da cartelloni di vari colori, e dalle facce inquietanti, di forestieri, che pian piano diventano familiari, e quando forse ti ci sei affezionato ecco che arriva qualcuno e sbaracca tutto. Le elezioni sono finite e gli alberi riappaiono come per miracolo e mettono un poco di tristezza. La piazzetta si riempie di colore, quando il partito comunista fa qualche comizio. Le parole dell’oratore mi interessano poco, mi pace lo sventolio delle bandiere rosse, il traffico deviato e l’ammassamento delle persone con le facce contente sempre pronte ad applaudire e ad intonare canzoni. Questo periodo coincide con la primavera, ed è un presagio della vicina estate, gli alberi si vestono di foglie che serviranno da riparo nei giorni di calura e si incomincia ad aspettare il banchetto delle angurie. L’estate è l’occasione per stare fuori la sera, non è molto divertente, ma la “pateca” mi piace parecchio. Si parla fitto di tutto, ma principalmente di pensioni e di malattie, sembra un convegno di medici. I bambini giocano a nascondino e cercano sempre di interrompere i discorsi dei grandi. Manca l’età di mezzo e questo mi ha sempre incuriosito. Vorrei prendere quella stradina che porta ai forti, è fatta di gradini di mattoni e diventa pian piano più stretta e tortuosa. È strano trovarsi, dopo qualche rampa, in un altro mondo, fatto di colori diversi, dal rosso sangue del sentiero, appena macchiato da qualche ciuffo d’erba, ai piccoli fiori, giallo intensi, che alzano la testa presuntuosi. Le case pian piano incominciano a diradarsi, qualche ramo di vite si attacca alla ringhiera e nell’aria aleggiano odori difficili da identificare, ma familiari. Il sentiero a gradini rossi, lascia il posto a un viottolo dall’erba un poco rovinata, le case non si vedono più soltanto il latrato dei cani indica la presenza di qualche essere animato. Più avanti il sentiero sembra scomparire, lasciando il posto ai rovi e a quelle pianta che mio padre chiamava “grattacui”, quella parola mi ha sempre fatto sorridere. Ai forti ci sono andato poche volte, era il luogo delle coppiette e a me non piaceva fare la figura del guardone. Il mio cane invece giocava in mezzo alle rovine, infastidiva le coppiette e si divertiva a strappare i preservativi che infestavano il luogo. C’erano travestiti che aspettavano i clienti, era l’unico posto dove battevano anche di giorno. Mi stavano simpatici, anche se la mia frequentazione si limitava alla Murena, che gestiva, in via del Campo, una trattoria per dire la verità un buco scrostato e umido, dove tutti potevano avere un piatto caldo a poco prezzo o anche a credito. Al mattino, prima di andare a scuola, i bambini passavano dalla Murena per un pezzo di cioccolata, non so se fosse buona, ma non costava niente. Amava i bambini e un giorno organizzò una gita al Luna Park ma per poco non fu arrestata per adescamento. Tutte le volte che venivo ai forti mi fermavo per qualche momento proprio al bivio, scartavo una caramella alle erbe alpine, assaporandone il gusto amaro e sbirciando la città fin troppo distante. Chiamavo il cane con un fischio e prendevo la strada in discesa, completamente immersa nell’erba troppo alta, alla scoperta di una piccola fontana, dall’acqua fresca, ogni volta era un piacere ritrovarla, come era un piacere dimenticarne l’esatta ubicazione. Negli ultimi anni non mi sono più spinto fin lassù, un po’ per timidezza, un po’ per invidia delle giovani coppie e soprattutto perché mi mancano le forze. Mi fermo subito dopo la prima rampa, in una piccola osteria per passare qualche ora con qualcuno della mia età a giocare a carte, o soltanto a sfogliare il giornale. Nella bella stagione mi limito a guardare i più giovani che giocano a bocce, godendo della frescura del pergolato e di un buon bicchiere di vino fresco. Il mio cane invece ha fatto delle amicizie e per qualche ora non lo vedo più, si intrattiene con delle cagnette, anche se certe volte ritorna ingrugnito e con la coda tra le gambe e mi fa capire che bisogna ritornare a casa. Oggi però non ho voglia di prendere la stradina rossa e mi ritrovo improvvisamente senza sapere come, su un autobus diretto al centro. E’ facile rimanere in piedi, sorretto da quelle persone che mi stanno attorno e di trovare un posto a sedere non se ne parla, anche se alla mia età ne avrei il diritto. Il conduttore deve essere un sadico, ad ogni fermata frena in maniera troppo brusca e come bestie avanziamo di qualche metro, dicono lo faccia per far spazio alle persone che devono salire. Ho raggiunto la porta senza nemmeno accorgermene, sono notevolmente infastidito da quelle mani che mi toccano da per tutto e dall’odore di sudore che mi impregna i vestiti. Non so dove sono diretto, è difficile intravedere dal finestrino un posto conosciuto, decido quindi di lasciarmi trasportare fino al capolinea, che mi libera da quelle persone che mi hanno intrappolato per troppo tempo. Scendono tutti, ognuno ha una destinazione che si affretta a raggiungere, soltanto io non so dove andare, mi guardo intorno per scoprire dove sono, mi ci vuole un poco per raccapezzarmi: sono in piazza Caricamento, il cuore di Genova. I portici di Sottoripa mi accolgono con il loro calore, fatto di roba da mangiare e di merci ammassate di ogni genere. Grida, strepiti, fumo, odore acre, misto di spezie e di salsedine, si percepisce la stessa atmosfera di un gran bazar mediorientale. Su questo set sono in azione, mercanti, ladri, sfaccendati, ed io che non sono né un attore né un regista, mi sento un pesce fuor d’acqua. Prendo una stradina buia come a voler uscire di scena, ma eccomi in una piazzetta dove gli attori sono verdurai e pescivendoli che allestiscono i loro banchi, sono indaffarati, gridano, sembrano avercela con qualcuno e i dialetti si mescolano in una sola lingua; sono in ritardo, e i compratori aspettano impazienti. I negozi sono troppo piccoli e la merce viene esposta sulla strada, ad altezza di cane ed è difficile camminare senza inciampare. Imbocco un vicolo, una donna grassa, quasi senza gambe, è seduta dietro un banchetto a vendere sigarette e poco più in là, uomini dall’aria distinta giocano alle tre carte, aspettando lo scemo di turno. Le finestre danno proprio sulla strada e si può vedere all’interno, un letto e una donna in attesa. Prendo un vicolo ancora più buio, finalmente un poco di silenzio, qui le persone si aggirano con fare circospetto, sembrano aver paura dei loro passi, mi avvicino per guardare meglio, sono sospettosi, girano alla larga, o si mettono a parlare sottovoce, è difficile capire cosa dicano, hanno una lingua incomprensibile ed il colore della loro pelle non è uguale al mio, basta una macchina della polizia, capitata per caso, per fare il deserto. Arrivo in una piazzetta occupata da una fontana senza acqua e incrostata delle cacche dei piccioni, la chiesa di fronte ha le porte sempre chiuse, quasi avesse vergogna: ci sono soltanto alcune donne vestite in modo approssimativo, tutte giovani e belle, mi si avvicinano facendomi i complimenti, sono lusingato e vorrei accettare l’invito, ma ho paura di fare una brutta figura, e poi ho la netta impressione che mi prendano in giro. Molto educatamente declino l’invito, sembrano deluse e mi imprecano dietro. Mi metto quasi a correre imbattendomi in una signora che quasi mi abbraccia, mi sento braccato e non mi resta che arrendermi. E’ una donna di circa cinquant’anni, il corpo sfatto, due grosse tette che gli arrivano alla pancia, il viso pitturato come una indiana. Anche lei mi lusinga e decido di seguirla, siamo in Vico della Castagna, a due passi c’è la salita Tre Re Magi e Vico dei Biscotti, nomi sicuramente appropriati, infatti, sembra di entrare in un atmosfera da fiaba: una pasticceria spande il suo profumo per tutti i carruggi. I genovesi hanno una vera e propria passione per il cacao e un tempo da questo porto passava la nobile polvere da distribuire in tutta Italia. La pasticceria fino a quarant’anni fa non era l’unica azienda frequentata nel vicolo, si trovava qui, infatti una delle più note e bazzicate case chiuse della città. La testimonianza di questa presenza peccaminosa è rimasta ancor oggi: un cartello stradale dell’epoca indica il divieto di transito ai bambini. Siamo arrivati in Vico delle Calabraghe, un segno premonitore, entriamo in un portone buio, saliamo una rampa di scale, l’odore è quello di muffa e di piscio. La casa è piccola, un’entrata con un attaccapanni porta alla cucina, la tavola è coperta da una tovaglia di pizzo, da un posacenere e da un bel vassoio di ceramica ricolmo di caramelle, quattro seggiole, sistemate con cura, la circondano. La cucina a gas è troppo pulita, segno che non viene usata da molto tempo, due pensili bianchi si confondono con il muro, dentro solo due bicchieri e una bottiglia di whisky, non una scatola di pasta, né piatti, né posate. Una porta apre alla camera da letto, qui un grosso armadio marrone in stile antico opprime l’ambiente, quasi in disparte il letto, una rete sfondata e un materasso coperto da un lenzuolo a fiori. Accanto si trova un comodino, in stile con l’armadio con sopra una scatola di preservativi aperta. L’unica cosa stonata è una sedia dove sono state buttate un paio di calze e delle mutande nere di pizzo. Un’altra porta da sul gabinetto, l’unica stanza in disordine, dappertutto sono sparsi prodotti di bellezza, vicino al bidè stagna una pozza d’acqua, da un cestino maleodorante fuoriescono carte e preservativi usati, nel lavandino sono in ammollo mutande e reggiseno e lo specchio talmente sporco da non distinguere la propria faccia. La mia signora si è già spogliata e mi aspetta con le gambe divaricate, è veramente brutta e grassa ed è difficile contare le pieghe della sua pancia. Sono veramente preoccupato, come potrei soddisfarla? Non mi va di essere maleducato, ma sono sicuro che il mio cazzo non si rizzerebbe nemmeno per un miracolo. Ma proprio lei mi toglie dall’imbarazzo chiedendomi la marchetta, un lampo: sono alla presenza di una puttana. Sono salvo, le do i vestiti per coprirsi e lascio i soldi sul comodino. Lei sembra stupita, poi comincia a parlare del suo lavoro, di quando poteva uscire soltanto al sabato vestita in modo che tutti la potessero facilmente riconoscere. Un fiume di parole violentano le mie orecchie, ho voglia soltanto di uscire. Sono ormai sulla soglia, una rampa di scale, e sarò fuori, la signora mi trattiene ancora un attimo, ha qualcosa da dire e quando giunto al portone la saluto con un cenno della mano aggiunge: “Nonostante tutto, meglio oggi”. 3 E’ una fredda giornata genovese, la pioggia non da tregua, accompagnata da un vento gelido, decido di rifugiarmi in un cinema ed escludendo di andare in centro, scelgo lo Splendor, un cinema a luci rosse che è proprio sulla mia strada; intanto il film non mi interessa. La sala è vuota, se si eccettuano dei vecchietti in prima fila che scompaiono tra le poltrone, mi sistemo anch’io comodamente, rimpiangendo le vecchie seggiole di legno, che se non stavi attento ci cadevi dentro e facevano un rumore assordante. C’è uno strano movimento tra la sala e i gabinetti, il film sembra non interessare nessuno. Anche se sul telone compaiono delle donne nude e scene davvero piccanti, lo spettacolo sembra svolgersi nel cesso. Tutto sa di pulito ma mi piacerebbe sentire l’odore delle sigarette e vedere la nuvola di fumo interrotta dal fascio di luce. Un uomo mi siede accanto e mi guarda in modo imbarazzante, non riesco a capire le sue intenzioni, la cosa mi eccita e aspetto, qualcosa deve succedere, dopo dieci minuti si alza e si dirige al bagno. Sul telone si susseguono le immagini, ma io sono distratto, mi aspetto il ragazzo con i pop-corn, ma non succede niente e sono deluso. Hanno tolto la pedana, chissà dove si esibiranno le ballerini e il comico che raccontava barzellette che non facevano ridere? I nostri occhi di giovani universitari erano incollati alle gambe di quelle giovani bellissime e irreali. Si usciva qualche minuto prima per occupare i posti migliori, nella speranza di poter passare un bigliettino; c’erano però dei figli di papà che potevano permettersi un mazzo di fiori ed erano loro i prescelti, il giorno dopo raccontavano di notti infuocate con dovizia di particolari, ma i ben informati riferivano di sbornie pagate a caro prezzo, senza aver ottenuto niente in cambio. Da giovane, al paese, ogni tanto andavo al cinema con gli amici, entravamo alle due e uscivamo che era già buio, sorbendoci due volte lo stesso film e scappavamo soltanto sentendo il fischio del treno, voleva dire che era l’ora di cena. Il cinema era proprio dietro la stazione e tutta la sala, quando passava un treno, sembrava in preda a un terremoto. Il film è quasi alla fine, deve essere molto tardi, ma non si sente nessun fischio, mi è difficile alzarmi. L’uomo che poco prima mi aveva messo in imbarazzo è ritornato e si risiede, sembra molto coinvolto dal film. Il mio sguardo approfittando di un forte raggio di luce che illumina per un attimo la sala incontra la patta dei suoi pantaloni. Sono interessato e sorpreso dal rigonfiamento e approfittando del buio appoggio la mano, non trovo nessun ostacolo e quindi gli tiro fuori l’arnese, duro come l’acciaio e mi metto a menarglielo, i nostri sguardi si incontrano, il suo è di gratitudine, il mio deve apparire di supplica, tanto che improvvisamente una mano ha preso il mio cazzo un poco molle e lo accarezza come mai mia moglie ha fatto. Non ci vuole molto perché si indurisca anche se non c’è paragone con quello del mio vicino. Sono soddisfatto lo stesso, è da tanto tempo che non l’ ho più così duro. Passano dieci minuti, non vorrei che terminassero mai, la fine è data dalla mano bagnata e dalle macchie nei calzoni. La pioggia è cessata, sono nuovamente in strada, in Via Macelli di Sozziglia dove c’è la bottega dello stoccafisso. Una volta si mangiava soprattutto al venerdì, mentre oggi la giornata dello stoccafisso è la domenica. La Chiesa già nel 500 richiamava i fedeli ad abitudini alimentari più sobrie e morigerate: abbandonare la cucina grassa e succulenta, mangiare di magro al venerdì diventò un imperativo categorico per chi voleva seguire i dettami della religione. gli uomini e soprattutto le donne seppero fare miracoli: insaporirono lo stoccafisso con le erbette mediterranee, lo annegarono in olio e pomodoro e lo annaffiarono con vini corposi. Alla fine solamente i pescatori continuavano a mangiarlo lessato o imburrato. Sto per ritornare a casa, quando m’imbatto in un uomo che quasi mi fa cadere, lo guardo in faccia carico di rabbia, poi lo riconosco: è Sergio un famoso cantante. L’ho visto parecchie volte in televisione, ha la faccia d’artista con quei capelli lunghi, bianchi e disordinati sulle spalle. Ha un vestito di pelle nera, con un gilet sgargiante sotto la giacca, è ridicolo, a stento riesco a trattenermi dal ridere, ci salutiamo come se ci incontrassimo tutti i giorni, ma è da trent’anni che non ci vediamo. Lo invito a prender un caffè in uno di quei bar da signore, dove ti siedi su poltrone di velluto e sei in imbarazzo per paura di sporcare qualcosa. Qui si serve soltanto tè e pasticcini e la tua figura è riflessa su decine di specchi impietosi. Non c’è odore di vino, si parla quasi sussurrando e i camerieri con la giacca rossa sono troppo servizievoli e puzzano di dolce dando quasi la nausea. Lui mi racconta dei suoi concerti e dei suoi progetti futuri, io vorrei parlargli della mia vita, ma è troppo occupato con la musica per ascoltarmi. Con la sua solita delicatezza mi parla di Eleonora, una ragazza che piaceva ad entrambi, forse lo fa per procurarmi un dolore. Lei come era facile immaginare scelse lui, si sposarono ed ebbero una bambina, Margot, divorziarono quasi subito, Eleonora scomparve e ora lui mi chiede se ho sue notizie. Ma non gli basta e continua ad infierire, parlandomi delle sue donne come fosse un pavone. Quando eravamo piccoli andavo spesso a casa sua, viveva in una villa stupenda, con un magnifico prato, si diceva in giro che l’avessero ereditata da un lontano parente americano. Giocavamo tutto il giorno in giardino con la bicicletta fantasticando di correre il Giro d’Italia e per tanto tempo mi è stato difficile distinguere l’Italia da quel meraviglioso giardino. Quando poi eravamo stanchi, ci ritiravamo in casa, Sergio aveva una mansarda tutta per lui, ricolma di giocattoli che non si trovavano nei negozi italiani. Ci mettevamo a giocare, ma lui teneva per se i pezzi migliori, lasciandomi le macchinine più brutte o i soldatini rotti, e così vinceva sempre. Alle cinque, come un orologio arrivava sua madre con il tè e i pasticcini che divoravamo in un attimo. Era una donna fragile, vestita modestamente, ma emanava un buon profumo di rosa, di gelsomino; mi faceva sorridere perché quando parlava storpiava un poco le parole, non avendo imparato ancora bene l’italiano. Il padre non si faceva mai vedere, era sempre in giro a cercare di dilapidare la sua fortuna, anche se lui sosteneva di uscire per lavoro e per curare i propri interessi. Quando Sergio scoprì la vocazione per la musica, incominciai ad odiarlo, la sua voce pastosa e forte, il suo tocco di mano sulle corde di una chitarra facevano andare in visibilio le ragazze e a me non restava che fare da spettatore. Io intanto avevo incominciato a scrivere poesie, ma non era la stessa cosa. Il caffè è finito, ci stringiamo la mano, lui ha molta fretta, domani terrà un concerto in Francia. Chissà se ci rivedremo ancora? Sono di nuovo solo in mezzo a una folla che mi appare sempre più ostile, ma di ritornare a casa non ne ho assolutamente voglia. Vorrei comprare un giocattolo, mi succede spesso quando sono angosciato di desiderare un oggetto qualsiasi, all’apparenza inutile. Un negozio attira la mia attenzione, è tutto illuminato e ha un’insegna intermittente che da fastidio agli occhi, bambini appiccicati alla vetrina appannano il vetro con il loro fiato, mi faccio largo tra loro a suon di spintoni, guardato dalle mamme come fossi matto. Sono fortunati i bambini di oggi, ai miei tempi c’era poco o nulla. Mi piacerebbe quel trenino Lima che hanno esposto in prima fila con tutto il suo plastico. Qualche bambino viene trascinato via a forza e devo assistere a scene di vera disperazione, finalmente ritorno in me: è inutile sprecare dei soldi e poi cosa direbbe Monica? Devo aver camminato parecchio, ho passato tutta la giornata fuori, c’è ancora gente in giro, ma non c’è confusione, il freddo è diminuito ed è un piacere camminare, sono arrivato nei pressi di casa senza accorgermene. Sento nell’aria odore di mangiare, mi guardo attorno, il profumo viene dalla rosticceria ancora aperta. Nella vetrina si possono ammirare un tacchino grosso come un vitello e piatti di antipasti di ogni genere: boragine fritte con il loro sapore stuzzicante, morbido e pungente al tatto, barbabietole con le acciughe dove il sapore dell’acciuga mitiga quello dolciastro e stucchevole della barbabietola, melanzane marinate con gli zucchini, un piatto un tempo indicato come portatore di pazzia. Sarà forse per l’ora ma mi è venuta una gran fame. Salgo le scale alla mia maniera, tenendomi al passamano per non cadere, Monica mi accoglie con un sorriso e capisce che non deve chiedermi niente. La casa sa di pulito e di fresco,deve avere appena finito di fare le pulizie ma non c’è odore di mangiare, è da tanto che alla sera ci beviamo soltanto una tazza di latte con qualche biscotto del lagaccio. Mi metto in libertà, Monica sta apparecchiando, improvvisamente mi viene da dire: “Per domani cosa hai preparato?” Lei mi risponde quasi senza guardami in faccia: “Cosa vuoi che abbia preparato? Siamo soltanto noi due”. Intanto vedendo la mia faccia triste, mi accarezza i capelli e dice: “Cosa ne pensi se domani andiamo a mangiare fuori? E’ da tanto che non usciamo più di casa insieme”. Sono contento dell’idea e le dico: “Cosa ne diresti se andassimo in quel ristorantino sopra il mare?” Mi fa cenno di sì con la testa, sembra anche lei felice, nel frattempo abbiamo finito di mangiare, è l’ora di andare a dormire. Ma questa sera faccio fatica ad addormentarmi, la pancia vuota mi disturba il sonno. 4 Dell’infanzia al paese mi ricordo nitidamente i pranzi di Natale, la tavola imbandita di ogni ben di Dio, la cagnara che facevamo tutti insieme, bambini e vecchi, tranne mio padre che parlava solo con il professor Levratto. Levratto era un terribile professore di filosofia che sembrava appena uscito da un dipinto dell’ottocento, vestiva sempre di nero, con un cappello che gli copriva gli occhi. Li ricordo benissimo, il papà dichiaratamente cattolico e antifascista, il professore dichiaratamente fascista, che si affrontavano con asprezza e lealtà come se fosse normale, in quei tempi, discutere di politica a quel modo Non era normale, il fascio era dominato da un certo Brunetti che si circondava di uomini violenti, che lo stesso capo militare tedesco, definiva assassini da strada. Levratto, invece, voleva prendere le distanze, tentò addirittura di disarmare la milizia, si accorse ben presto di non contare nulla. Ma restò fascista, fedele al suo ideale di fascismo rivoluzionario. Epiche furono le discussioni sulla morale, la borghesia, il capitalismo, sembrava si dovessero accapigliare da un momento all’altro, ma finiva sempre con una buona bevuta e una stretta di mano. Il fascismo e l’antifascismo per molto tempo per me furono rappresentati dal Principe Gandolfi, poeta sconosciuto, e dal capostazione Franco. I versi del Principe si rivolgevano sempre alla figura del Duce, lui era una macchietta di uomo, dai vestiti colorati e stravaganti. Il capostazione Franco, uomo prestante, dalla faccia avvinazzata, si portava dietro il Capitale di Marx, amava leggerne qualche frase e ripeterla ad alta voce. Quando si incontravano abbassavano lo sguardo e ognuno tirava per la sua strada. Avevano una cosa in comune, una casa in centro del paese, dove viveva una giovane donna, dalle forme arrotondate. Al Principe erano toccati i giorni pari, al capostazione quelli dispari. Non si seppe mai chi non rispettò quel patto non scritto ma un giorno in piazza si presero a pugni e non fu certo per questioni politiche come scrisse il giornale. Ai pranzi di Natale c’erano poi le sorelle di mia madre trasferitesi in Liguria, dove si erano sistemate trovando marito. Zia Matilde era una donna piccola e tendenzialmente grassa, passava il suo tempo a ridere e a raccontare barzellette che nessuno capiva. Non so dove trovasse tutto quell’umorismo visto che suo marito dilapidava tutto il suo guadagno nei vari casinò della Riviera, e per tirare avanti era costretta a fare i gnocchetti, un pasta molto adatta ai brodi. Venendoci a trovare si portava dietro il lavoro, metteva uno straccio sulle gambe, affondava le mani in un grilletto sporco, strappava un pezzo di pasta minuscolo e con un gesto velocissimo, lo attorcigliava, fino a farlo diventare come un vermettino, non dimenticandosi mai di inumidire le dita con uno sputo. L’altra zia si chiamava Clotilde, era talmente grassa che non stava sulla sedia e diceva sempre: “Se non ne comprate delle più comode, io non posso più venire in casa vostra”. Era proprietaria di una salumeria a Savona e si sentiva dall’odore che emanava, suo marito invece era un distinto signore che dava poca confidenza, girava sempre con il sigaro in bocca e faceva puzzare tutta la casa. Quella che assomigliava di più a mia madre era Lucia, una faccia da attrice. Era la più giovane delle quattro ma era già vedova, faceva vita ritirata e quando usciva si vestiva di nero, quasi volesse mortificare il suo corpo. Arrivata a quarant’anni uscì di senno e fu rinchiusa in manicomio. Aveva avuto una figlia che come lei si vestiva di nero, stavano sempre assieme, per lo più in casa, accanto a una fotografia del pover’uomo, con un candela sempre accesa, a ricordare quando lui era con loro. Mai si dimenticavano di apparecchiare per tre, quanto ben di Dio fu buttato nella spazzatura. Le rare volte che si vedevano in giro era al crepuscolo, quasi di corsa per non essere notate, si recavano in chiesa per un rosario o per il vespro e amavano intrattenersi con il parroco. Quando sua madre fu rinchiusa nel manicomio lei scomparve del tutto. Le malelingue la notarono nei posti più belli d’Italia, sgargiante come una diva, sempre accompagnata da qualche uomo di bell’aspetto e dal portafoglio ricolmo. Molti anni dopo, vidi il suo nome sul giornale in un piccolo trafiletto, l’avevano ammazzata come un cane, era stata trovata in una discarica insieme all’immondizia e non si faceva mistero della sua professione. Fui l’unico parente che si presentò ai funerali, fu seppellita in una città sconosciuta e la sua tomba rimase sempre spoglia. I nonni non li ho mai conosciuti, ma ne sentivo parlare spesso, soprattutto nel giorno di Natale; erano originari di un piccolo paese sotto gli argini del Po, della provincia di Ferrara. Vivevano in una bella cascina bianca che si riusciva a intravedere anche nelle giornate di nebbia. Una casa isolata in mezzo a campi di granoturco, nascosta dal resto del mondo, dove gli unici rumori erano la voce del nonno, forte e autoritaria e il muggito di qualche vacca che aspettava il mangiare. La voce delle donne non si sentiva quasi mai, al nonno non piaceva che le figlie giocassero, se non al martedì, quando lui andava al mercato. La nonna morì troppo presto, era sempre stata una donna fragile, un tronco troppo secco, lasciando quelle ragazze in mano ad un uomo simile a una bestia, e fu così che ognuna seguì il primo uomo che incontrò. Un poco in disparte nella tavolata, c’era il colonnello Tullio, mai una battaglia persa, solo vittorie tutte conseguite sul campo per meriti e coraggio. Aveva prestato servizio di leva come soldato semplice, diventò più tardi ufficiale. Nel ’17 a Caporetto a seguito di un’azione ardimentosa gli fu concesso l’encomio solenne. In seguito seppi che nel 1940 dopo tre giorni di combattimenti entrò con il suo reggimento a Mentone. A sua insaputa però alcuni soldati si lasciarono andare ad azioni di saccheggio. Per uno come lui fu un durissimo colpo, il suo ultimo atto fu difendere i suoi soldati, poi una mattina d’inverno in un giardino, un po’ defilato, trovò pace con un colpo di rivoltella alla tempia. Alcuni giorni dopo sarebbe stato nominato generale. Seduto accanto a me c’era sempre il fratello mio padre, lo zio Teu, diminutivo di Stefano, era un uomo piccolino e magro, somigliante in modo impressionante a Govi. Era l’esatto opposto di mio padre, sempre allegro, amava scherzare con le donne e i bambini, ballare e giocare a bocce. Sua moglie Marianin invece era grassa come una matrona romana e passava il suo tempo a torturare quel pover’uomo, per limitarne l’esuberanza, ma era un piacere guardarli, sembrava di assistere a una rappresentazione teatrale. L’altro invitato era Pinin, un amico di mio padre che non so come avesse conosciuto. Era un uomo grande e grosso, sembrava quei giganti che si vedono soltanto al circo, con un vocione da tenore che ti faceva sobbalzare. Parlava volentieri, ma non stava mai al centro dell’attenzione, individuava la sua vittima e incominciava a raccontarle la solita storia che tutti conoscevano. Era di Voltri, proprio all’inizio di Genova, dove si dice che nasce il vento, come mestiere faceva il maestro d’ascia, una tecnica raffinata per la costruzione di una barca; a differenza del falegname il maestro d’ascia la squadra neppure la conosce. Questo perché la barca non ha angoli e l’ascia serve soltanto per modellare e arrotondare il legno. Ma per arrivare fino a lì ce n’era voluta di strada: a diciotto anni era diventato operaio, dopo una prova d’arte carpentiere e poi col tempo, dato che era bravo e il suo lavoro gli piaceva, calafatato. I calafatati riempivano gli spazi fra un fasciame e l’altro con stoppa incatramata e altri materiali non sintetici, per formare una sorta di cuscinetto ammortizzatore ed impermeabile. Pinin era sordo come una campana, tutta colpa del rumore che fa il maglio nel legno: un colpo secco e penetrante, migliaia di colpi al giorno, e a lungo andare il timpano si lesiona. Mi ricordo ancora nitidamente le sue parole che concludevano il discorso: “Con la tramontana che va a tutta forza e noi sotto il piano della barca, tra lo scafo e il fondo, a lavorare a zero gradi, prendere quei pezzi di legno pieni di brina …col ghiaccio, le mani congelate, quando trovavamo un paio di guanti vecchi, riciclati, per riparaci un po’ dal freddo, ci dicevano se avevamo paura di perdere gli anelli”. Il menù del giorno di Natale era sempre lo stesso, sulla stufa a legna, già dal mattino presto, c’erano degli immensi pentoloni dove erano messi a bollire trippa, carne magra, zampini e testina di maiale. L’odore della trippa sovrasta quello della carne, e il tutto rendeva l’aria nauseabonda, ci voleva qualche giorno prima che l’odore abbandonasse la casa. Come primo c’erano i maccaroni con le trippe, l’odore delle trippe era mitigato dal soffritto di cipolle, dai funghi secchi fatti rinvenire nell’acqua, dalle carote, dall’aglio, dal sedano e dal prezzemolo. Aspettando il secondo si assaggiava una fetta di sanguinaccio che ci veniva offerto dal salumiere perché eravamo clienti affezionati. Era accompagnato da purè fatto con latte, burro e noce moscata. Il piatto forte era la carne di maiale e vitello trattati con alloro e zafferano. Si finiva col budino di latte insieme al pandolce e alla frutta candita. Quando con somma gioia di mio padre andammo a Genova, non ci riunimmo più, e il Natale lo passavamo in tre o qualche volta in due, io con mia madre, perché lui faceva i turni. 5 Da bambino avevo un fisico smunto, quattro ossa che sembrava mi bucassero la pelle da un momento all’altro, e una testa grossa, tutta ricci che facevo fatica a portarmi dietro. Nella camera dei miei genitori c’era una fotografia nel giorno della comunione, ero veramente ridicolo con quel vestito scuro, la camicia bianca e la cravatta da impiegato, sopra un paio di calzoni corti che scoprivano gambe magre da far paura. Poiché ero di salute cagionevole, una fastidiosa asma non mi permetteva di andare in spiaggia con gli altri ragazzi, mi recavo spesso a trovare gli zii che abitavano in un paesino dell’entroterra savonese, proprio sopra il nostro. Prendevo la scorciatoia, un piccolo sentiero fatto di pietre, troppo ripido per i miei polmoni, dovevo fermarmi spesso per prendere fiato, ci impiegavo più di un’ora, al ritorno mi facevo dare uno strappo dallo zio, sulla canna della bicicletta. Il paese, fatto di poche case, quasi tutte in condizioni pietose, dai muri scrostati dalla muffa e dalle persiane abbassate che lasciavano filtrare la luce, dava sulla strada per Torino che lo divideva come una lama di coltello. I gerani facevano bella mostra sui davanzali, o sui rari poggioli, come drappi nel giorno dell’Assunzione. Non c’era una piazza e tutta la vita si svolgeva in strada, nelle sere estive i pochi abitanti si sedevano sul marciapiede a godersi il fresco, qualcuno più previdente si portava da casa la seggiola e tutti guardavano i forestieri con aria cattiva. L’unico spazio dove i bambini potessero andare a giocare, era il campo di granoturco, ma bisognava stare attenti, perché il padrone era un uomo violento. La casa degli zii era un poco all’interno, quasi in campagna, e per quel tempo si poteva considerare una villetta, anche se oggi chiamarla così farebbe sorridere. Era piccolina, quasi da fiaba, di un colore candido come la neve, su cui spiccavano puntini verdi, che altro non erano che le persiane. La cosa più bella era il giardino, curato meravigliosamente, dove risaltavano per bellezza rose di tutti i colori e per il loro profumo lauri ed oleandri. Mio zio Teu faceva lo spazzino e passava tutta la giornata sopra una bicicletta arrugginita a spingere un bidone, in compenso aveva una bella divisa sul marrone-verde e lo si poteva confondere con un soldato, tutti lo chiamavano Teu ramassa, ma davano a quella parola una valenza positiva, come fosse una carica importante. Quando andò in pensione, non trovarono nessuno per sostituirlo, veniva su un camioncino una volta la settimana, e la rumenta rimaneva ai bordi della strada, vicino a cassonetti ricolmi e maleodoranti. Lo zio da sempre di idee socialiste, non aveva mai voluto prendere la tessera fascista, raramente lo si sentiva discutere di politica, amava soltanto dire che Gesù Cristo, era stato il primo socialista. Contrario a qualsiasi forma di violenza, riuscì a scansarsi la prima guerra mondiale, a scapito dei suoi denti che cavò tutti da solo in un pomeriggio. Durante il fascismo, si adoperò in ogni modo nell’aiutare i giovani partigiani, non era raro incontrare nel suo fienile, qualche sovversivo, cui dava volentieri ospitalità, mettendo a repentaglio la sua vita e quella della famiglia. Marianin a modo suo protestava, ma era sempre pronta a preparare un piatto caldo dove la carne era difficile a scoprirsi. Era un uomo che non riusciva a stare fermo e finito il suo lavoro di spazzino andava in giro per la Riviera a curare i giardini dei ricchi signori di Torino, alcune volte andavo ad aiutarlo e rimanevo ammirato dalla sua competenza, anche se mi stufavo quasi subito e mi perdevo nei parchi alla ricerca di qualche biscia o nido di uccello. Qualche volta incontravamo i padroni che si dimostravano sempre oltremodo gentili e parlavano volentieri con Teu. Lui mi presentava con un certo orgoglio: “Questo è mio nipote, futuro dottore”. Io arrossivo e scappavo via. Certe volte, poi Teu finito il lavoro, mi diceva: “Giochiamo a fare i signori”. Si metteva un mantello nero, un cappellaccio e si faceva chiamare Conte Stefano, per me, invece, con grande abilità, intrecciava una corona fatta di foglie di quercia che mi poneva sul capo chiamandomi altezza, e io ne ero molto lusingato. Ci mettevamo alla ricerca di qualche principessa da salvare o di nemici da sconfiggere. Per armi usavamo dei rami che accuratamente pelavamo con il nostro coltello. Non trovando nessuno che volesse ingaggiare un duello, ci sfidavamo a vicenda, e finiva sempre con la mia vittoria e col Conte Stefano steso a terra che chiedeva di essere risparmiato. Qualche volta ero magnanimo e lo lasciavo in vita, altre volte affondavo il bastone, stando attento a non fargli male: era un gran divertimento! Una volta al mese andavamo alla villa del Conte Tiraboschi, persona ricchissima, sua era stata la prima macchina che, procurando non poco panico, si era vista in Riviera. Il Conte era un tipo strano, da giovane aveva dilapidato tutto il patrimonio familiare nei vari casinò , poi rimasto al verde aveva cambiato vita, dedicandosi agli studi scientifici e pagandosi la laurea con la vendita di un castello in Piemonte. Aveva progettato centinaia di strani brevetti e uno era riuscito a venderlo a peso d’oro a una grande azienda svizzera, di lì era cominciata la sua fortuna. Abitava un poco fuori del paese, in una vecchia villa rimessa a nuovo, a strapiombo sul mare, dove ogni tanto la sera dava delle meravigliose feste, con le torce accese illuminavano la casa e, incendiavano il mare come fuochi d’artificio. La casa, oltre al Conte era abitata a due strani individui: il maggiordomo e la cuoca. Il maggiordomo era un uomo alto e magro, che portava una divisa macchiata di grasso di motore, con la giacca un po’ aperta per mancanza di bottoni e le scarpe sporche di fango anche nella bella stagione. Il viso invece era in ordine, i capelli impomatati, come leccati da una mucca e la barba e i baffi curati. In carcere, dove era stato prima di andare a servizio, aveva imparato di tutto e tutto quel sapere l’aveva messo a disposizione del Conte. La cuoca, la si vedeva poco, stava sempre rintanata in cucina e amava origliare dietro le porte. Quando c’erano le feste si ritiravano nei loro appartamenti, perché il Conte si serviva di professionisti che venivano da fuori. In casa oltre alla servitù c’era un bambino più o meno della mia età, con cui giocavo invariabilmente a nascondino, ci perdevamo tra le innumerevoli stanze del palazzo, era difficile conoscerle tutte e ciascuna riservava una sorpresa. Di giocare nel parco, a noi bambini non era consentito nemmeno d’estate, perché il Conte diceva che gli rovinavamo i fiori e forse non aveva tutti i torti. Il bambino era il nipote del Conte, veniva da Milano per passare lì i suoi week-end e mi trattava come un essere inferiore. Era sempre vestito come un grande con giacca e cravatta e aveva un leggero difetto di pronuncia, che lui diceva fosse il segno distintivo dei nobili. A causa della sua antipatia non passava volta che non ci azzuffassimo e quasi sempre le prendevo, perché il maledetto sapeva tirare di box e nonostante il fisico magrolino era tremendamente forte. Il Conte, accanito assertore della tecnologia, aveva un’immensa biblioteca, un reparto era interamente dedicato alla filosofia, con libri di Galileo, Copernico, Newton, Leonardo, Giordano Bruno, Pico della Mirandola, l’altro alla matematica e fisica, qua e là c’erano anche libri d’avventura. Sulla scrivania si trovavano, in disordine, disegni tecnici che raffiguravano macchine apparentemente mostruose. Quando Teu aveva finito di lavorare, il Conte lo invitava a prendere un te e lui accettava volentieri, anche se è difficile capire come potesse apprezzare quel poco di acqua calda, lui così amante di un buon bicchiere di vino. Lo zio rimaneva estasiato da quei libri, perché il suo unico cruccio era quello di essere ignorante, ne prendeva in mano qualcuno per riposarlo quasi subito, quelle formule per lui erano peggio dell’arabo. Il Conte allora gli si avvicinava, battendogli la mano sulla spalla e per metterlo a suo agio gli diceva: “Mi racconti un po’ delle mie rose”, e la conversazione a questo punto poteva durare anche un’ora intera. Nel nostro peregrinare per la Riviera, un giorno ci presentammo per un lavoro in una vecchia casa, che sicuramente aveva conosciuto tempi migliori. Ci venne incontro un vecchietto dall’aria lugubre, che sembrava appena uscito da un film dell’orrore. Capimmo che si trattava del maggiordomo, lui ci illustrò il lavoro da svolgere: dovevamo pulire i vetri. Teu che era un giardiniere si indignò e presa una pietra incominciò a colpire i pochi vetri ancora intatti, invitandomi a fare altrettanto: “Così non c’è bisogno di pulirli” disse poi e scappammo via inseguiti da un latrato di cani. Nelle mie visite alla casa degli zii, trovavo sempre mio cugino, un ragazzino di qualche anno più giovane di me che non sembrava mai divertirsi. I suoi erano gente ricca, anche se non si capiva bene che lavoro facessero, parlavano sempre di feste e a me sembravano venuti da un altro pianeta. Ai miei genitori non piacevano e di loro dicevano sempre: “Hanno soltanto della boria”, ma quando gli si trovavano di fronte erano in soggezione. Mio cugino era decisamente un bel bambino, più alto di me con i capelli biondi a caschetto e due occhioni azzurri; forse sarebbe diventato come suo padre, che era considerato un gran amatore. Quando era dai nonni passava le sue giornate a mangiare prugne acerbe e a cagarsi addosso, facendo, per la verità, un po’ schifo. Ora che è diventato adulto, non mangia più prugne ma in compenso entra e esce di galera. Un bambino con cui giocavo volentieri, era il figlio del proprietario del negozio di alimentari, eravamo inseparabili, tanto che tutti ci prendevano per fratelli. Ero affascinato dalla sua casa, costituita dalle poche stanze di un retrobottega, per il suo buon odore di roba da mangiare. Vendevano di tutto: prosciutto, salame, formaggetta e focaccia normale,col formaggio alla salvia, alle olive. Quegli odori così forti a volte mi davano la nausea e allora mi mettevo sotto il naso un mazzetto di menta. Da tutte le parti si vedevano dei soldi e pensavo fossero molto ricchi: “Da grande voglio aprire una bottega come questa” dicevo tra me. Oggi quel ragazzo è diventato avvocato e si pavoneggia come fosse un Dio, è entrato in politica, e da buon commerciante si è venduto bene a vari partiti, riuscendo sempre a mantenere la sua poltrona. Il mio maggiore divertimento era quello di andare nel piccolo campo dove lo zio, non essendoci la discarica, portava tutta la rumenta. Mi sembrava di entrare in un mondo incantato, fatto di continue sorprese. Lì trovavo gli oggetti più strani e fantasiosi, ritornavo a casa carico di roba, e non giocavo più con i miei giocattoli, finché mio padre preso dal nervoso, non me li buttava via urlandomi: “Mettiti a studiare, non vorrai mica diventare uno spazzino?” Diceva quella parola con tutto il suo disprezzo. Quando lo zio decideva di ripulire il campo, accendeva dei falò che bruciavano fino a tarda sera e io passavo delle ore a guardare i fuochi, immaginandomi di essere in un accampamento indiano. Al mattino svegliandomi andavo subito a vedere se i fuochi fossero ancora accesi e provavo una gran delusione. Nel vedere le macerie fumanti, mi veniva quasi da piangere: “Maledetti visi pallidi” pensavo tra me. 6 Stasera non riesco proprio a dormire, sento il rintocco dell’orologio del vicino campanile, sono già le tre e non ho ancora chiuso occhio. Mi fa rabbia il russare di mia moglie, mi piacerebbe svegliarla e raccontarle i miei pensieri, ma sarebbe una cattiveria. Di alzarmi non me la sento, abbiamo spento il riscaldamento e la casa deve essere in una morsa di freddo, è molto meglio che me ne stia al caldo sotto le coperte, vorrei trovare una posizione che mi conciliasse il sonno, per non pensare più a niente, ma un altro ricordo improvviso mi affiora alla mente. In una calda giornata estiva, era arrivato carico di bagagli alla stazione di C…, un famoso scrittore, non aveva proprio l’aria del professore, troppo curato nell’aspetto e con i vestiti firmati, sembrava spaesato, capitato nel nostro paese per caso. Si diceva fosse anche un gran giocatore di carte: aveva messo a punto un sistema infallibile per vincere e fino ad allora era ancora imbattuto. Vestito di bianco, dal cappello alle scarpe, era accompagnato da due donne più giovani di lui di almeno vent’anni, una doveva essere la moglie e l’altra la segretaria, ma da come si comportavano sembravano tutti e tre molto intimi. Erano arrivati carichi di valige troppe per un breve soggiorno, si erano guardati attorno cercando un facchino, che nella nostra stazione non esisteva ma non si erano persi d’animo trascinando i bagagli avevano raggiunto la fermata della corriera. Stranamente invece di alloggiare all’Hotel Sereno, avevano preferito la Pensione Fiorita, unico albergo nel piccolo paese dell’entroterra. La Pensione Fiorita era la casa più grande del paese tre piani completamente disabitati, al mattino si animava, le persiane venivano aperte e dalle camere giungevano voci di donne che cantavano. Erano le figlie del proprietario che facevano le pulizie, nel pomeriggio tutto ritornava tranquillo. La mattina i tre nuovi arrivati facevano delle passeggiate in campagna, vestiti come se dovessero affrontare chissà quali difficoltà, assomigliavano a degli esploratori, o si limitavano a bighellonare per il paese, nel pomeriggio invece scomparivano, si diceva andassero giù in Riviera, in qualche spiaggetta isolata a prendere il sole completamente nudi. Nel paese abitava un certo signor Felice, un contadino, aveva imparato a giocare a carte da un uomo di passaggio e si era talmente appassionato al poker che aveva trascurato i campi e la moglie. Godeva fama di grande giocatore, e così organizzare una partita fu cosa facile, anche se sulle prime il professore aveva detto di voler trascorrere le ferie in santa pace. Luogo scelto per la sfida fu la trattoria di Pietro, una misera stamberga che serviva da ristoro ai viandanti di passaggio e di sera funzionava come bar, vi si serviva soltanto per poche lire, vino fatto col bastone ma era il posto ideale per non dare nell’occhio. C’erano parecchi tavoli ricoperti da tovaglie a quadrettini rossi, con macchie dalle forme e dai colori più strani, tutto rimaneva in penombra e la poca luce giallastra non riusciva a illuminare la stanza. Il bancone era enorme, di marmo grigio, sempre bagnato, sugli scaffali impolverati qualche bottiglia di amaro e una di marsala all’uovo. L’odore del minestrone fatto di fagioli borlotti, patate, melanzane, fagiolini, zucca, cavolo e pesto, si mescolava a quello dello stoccafisso insaporito dai funghi, dalle acciughe salate e dai pinoli. Pietro era un essere insignificante, completamente in balia della moglie, parecchio più giovane di lui che aspettava solo la morte del pover’uomo per diventare l’unica proprietaria. L’aveva relegato in cucina, mentre lei faceva la civetta con i clienti; non era raro vederla appartata con qualcuno, e quando veniva chiamata, arrivava di corsa, un poco spettinata, aggiustandosi il vestito arrotolato sopra il ginocchio e suscitando le risa di tutti, diceva: “Non si può mai fare un poco di pipì in pace”. Il tavolo da gioco fu ricavato nella cucina e ci vollero ore e la buona volontà di qualche ragazzino per rendere il locale un poco accogliente. Per non fare brutta figura con l’ospite si comprò del whisky all’emporio di C…, e si fecero scomparire quel vino schifoso, i pentoloni sporchi e tutta la roba da mangiare. Finalmente la sera della grande sfida arrivò. Il signor Felice si presentò con quasi un’ora di ritardo, impacciato, era la prima volta che si metteva un vestito con la cravatta, il professore non si era ancora visto. La cucina era stata trasformata, sembrava di essere in una bisca clandestina, se non fosse stato per quell’odore nauseabondo di mangiare. Vi era un solo tavolo con sopra una coperta verde rimediata non si sa dove e quattro seggiole scelte con cura a scanso che qualcuno finisse con il culo per terra. Una fioca luce illuminava il tavolo e tutto il resto dell’ambiente rimaneva quasi al buio. La moglie del Pietro, cercava qualcuno per strofinarsi, ma nessuno sembrava accorgersi del suo abito lungo e scollato, tanto era l’emozione per l’imminente partita. Le poche persone che avevano ottenuto l’invito, si voleva evitare la confusione perché la sala era veramente piccola, fumarono molto nell’attesa del professore e qualcuno già diceva che non si sarebbe presentato. Quando allo scoccare della mezzanotte lui arrivò, nella sua tenuta bianca, accompagnato dalle due donne vestite da sera per l’occasione, ci fu il panico per trovare altre due seggiole decenti. Non chiese nemmeno scusa e con destrezza incominciò a dare le carte e a vincere una partita dietro l’altra. All’alba, il signor Felice stava perdendo una fortuna, aveva ipotecato tutti i campi e aveva smarrito tutta la sua sicurezza. Nell’ultima partita il piatto era salito alle stelle, erano rimasti solo loro due, il signor Felice aveva un colore, fece il suo rilancio sbattendo sul tavolo le sue chiavi di casa, andarono a vedere le carte, ma il colore contro una scala reale, non bastò. Il professore era veramente soddisfatto, abbracciò le due donne e fece per alzarsi dal tavolo, quando all’improvviso entrò Pietro sventolando un giornale e gridando a squarciagola: “Altro che professore, quello è un furfante ricercato in mezza Italia, guardate qui!”. Fu un attimo e tutti si misero all’inseguimento del farabutto, che nel frattempo, come un gatto se l’era svignata, ma del professore nessuna traccia. Forse si erano rifugiati alla Rosa Fiorita, senza un mandato fecero irruzione nella stanza ma era vuota, soltanto dei vestiti e una borsa piena di soldi. Fu un attimo e si prese la decisione: i vestiti sarebbero andati alla moglie di Pietro, per quanto riguardava i soldi, dopo aver risarcito il povero Felice ne rimanevano ancora, se li sarebbero divisi tra i pochi invitati alla grande partita. Tra donne e vari casinò sarebbero presto finiti e la vita del piccolo paese sarebbe ritornata alla normalità. I vestiti della moglie del Pietro stavano lì a perenne ricordo di quella bellissima serata. Intanto il campanile ha battuto le quattro, gli occhi si stanno per chiudere, questa volta riuscirò a dormire. 7 Mi sembra di aver dormito parecchie ore e invece quando mi sveglio non sono nemmeno le sei, ho tutto il tempo di prepararmi per il mio solito appuntamento, mia moglie intanto continua a dormire come un orso. Timidamente come un diciottenne alle prime armi allungo una mano e le accarezzo il corpo, dapprima con distacco, poi prendendoci gusto. Mi avventuro tra la piega del sedere e mi metto a giocherellare con dei pelucchi un poco capricciosi, lei sembra infastidita e si agita nel sonno, forse le è venuto anche freddo, perché inavvertitamente l’ho scoperta quasi completamente poi si volta su un fianco in una posizione di difesa. Qualcosa si agita tra i miei pantaloni, delle strane idee mi vengono in testa, ma subito ritorno alla realtà, mi capita spesso di avere un’erezione al mattino, ma il medico dice che è tutta colpa della prostata. Potrei rimanere ancora un poco sotto le coperte, ma ho voglia di farmi un buon caffè, mi sento stordito ed è quello l’unico rimedio per rimettermi in sesto. Non mi sembra proprio Natale, quest’anno non abbiamo fatto nemmeno l’albero, Monica non ha avuto voglia di tirare giù gli scatoloni dalla soffitta. È inutile quindi che vada in sala a vedere se è arrivato Babbo Natale, e poi in questa casa non abbiamo nemmeno il camino, da dove sarebbe potuto entrare? Il vecchio giornalaio mi ha già portato il giornale, di solito sfoglio le pagine saltando quelle di politica e a dire il vero non riesco mai a trovare un articolo che mi interessi, in cinque minuti sono già arrivato alla fine, è una spesa che potremmo eliminare. Oggi invece un articolo attira la mia attenzione, è un fatto di cronaca nera accaduto in un piccolo paese del meridione: un operaio di trentacinque anni trovato morto in aperta campagna, due colpi, uno alla tempia e l’altro conficcato nel cruscotto dell’auto. Il fatto è di per sé insignificante visto la zona, uno sgarro, un regolamento di conti. Il colpo di scena però avviene qualche riga più sotto ed è la confessione di una giovane donna che la notte del fatto di sangue si trovava con l’operaio in macchina. Lui avrebbe estratto la pistola per costringerla ad avere un rapporto sessuale, ma dopo la sua reazione di sfottò, lui aveva desistito e dopo pochi minuti si era puntato la pistola alla tempia e aveva premuto il grilletto. Che bella storia per un mio racconto. Devo aver fatto rumore perché Monica si è svegliata e mi raggiunge in cucina, è da tanto che non facciamo colazione assieme. È tutta assonnata, ha ancora la faccia stropicciata dalla notte. Le verso una tazzina di caffè, e già si è accesa una sigaretta. Sembra nascondermi qualcosa, ha in mano un pacchetto, sono curioso, lei se ne accorge e vuole tenermi sulle spine, poi finalmente si decide e me lo porge dicendomi: “Auguri caro e buon Natale”. È un maglione di cachemire, me lo infilo subito, è molto caldo e deve starmi anche bene. Abbiamo finito di fare colazione e ci mettiamo d’accordo sulla nostra gita, apriamo le finestre per vedere com’è il tempo; è una giornata serena e sicuramente quando il sole spunterà sarà anche calda. In strada c’è poca gente, qualche vecchietta infreddolita ha deciso di andare alla prima Messa, si vede che non ha nessun bambino a cui dare i regali. In lontana le campane suonano a festa, ma il rumore mi arriva deformato. I negozi sono chiusi, per tutta la giornata non apriranno, le vetrine sembrano aver subito un saccheggio, le insegne sono spente, fra qualche giorno toglieranno anche le luminarie e la via ritornerà a essere immersa nel buio. Pur non essendo una giornata lavorativa, vedo del movimento in parecchi appartamenti, per lo più sono bambini che cercano i regali e donne che incominciano a preparare il pranzo di Natale, sbattendo le pentole per farsi sentire. Il vecchio Babbo Natale è già in piedi e sta disfacendo la sua casa, ha deciso di cambiare aria. Mi accingo ad andare nel bagno per farmi la barba, è una settimana che non mi rado, sono quasi le sette, devo affrettarmi se non voglio arrivare in ritardo. La mia immagine riflessa nello specchio mi mette a disagio, a stento riesco a riconoscermi, mi volto di scatto per vedere se per caso qualcun altro è entrato. Il repentino movimento mi procura una ferita alla faccia, mi sono tagliato con il rasoio, il sangue incomincia a sgorgare copioso e a macchiare il lavandino, ma sono contento, è questa l’unica certezza di essere vivo. Arrivo in stazione per il solito appuntamento, incomincio a bighellonare, a seguire due binari morti, alcuni metri e passo accanto ad una costruzione abbandonata, una volta era un deposito per il materiale della manutenzione dei binari, ora è diventato il rifugio di un gruppetto di barboni fortunati perché hanno una porta di legno, finestre, e un pavimento. Al fondo della costruzione c’è una tettoia arrugginita, e sotto la carcassa di una vecchia Fiat 131. Pezzi di cartone al posto di vetri e parabrezza, sui sedili mucchi di immondizia su cui, non c’è dubbio qualcuno dorme. Più avanti trovo carrozze-bestiame, a quell’ora sono case vuote, il popolo dei vagoni si è già disseminato per la città. Quasi tutti i portelloni sono chiusi, in modo che da fuori sembri tutto normale, a parte quintali di rifiuti sotto le carrozze. Odori di fritto e cibi avariati si mescolano agli insopportabili fetori di chi, per orinare, non fa neppure la fatica di scendere dalla carrozza. Sono le nove quando faccio ritorno, mia moglie si sta ancora preparando, si sta facendo bella, mi vuole mettere in imbarazzo, mi siedo in poltrona e per ingannare l’attesa mi metto a leggere un libro. Il suono delle campane si fa insistente, per la strada si sente del movimento e gli odori del mangiare si diffondono nell’aria. La signora Pinuccia che sta sopra di noi deve aver fatto l’arrosto al latte e si prepara ad impastare, si respira odore di festa, nella nostra casa odore di pulito. Mia madre nei giorni di festa, aveva l’abitudine di alzarsi presto per preparare il pranzo. Non era una brava cuoca e più che cotolette alla milanese non faceva, ci si alzava al mattino con l’odore di fritto mescolato al profumo delle erbette che usava per arricchire l’impanatura, crescevano proprio dietro casa, dove picchiava di più il sole. Quell’odore l’ho incontrato nelle mie gite in collina al paese dello zio, mi piaceva passare delle ore con la faccia affondata nella terra a sentire il profumo dolciastro della menta o quello più amarognolo di erbe di cui non conoscevo il nome, il tutto mischiato all’odore di terra e di salmastro che arrivava dal mare. La domenica si andava tutti e tre alla Messa delle undici e mio padre quando era pronto incominciava ad urlare perché non voleva arrivare a Messa iniziata. La mamma si chiudeva in bagno fintanto che mio padre, andando su tutte le furie picchiava un pugno sulla porta, allora usciva imbronciata e ancora spettinata. Non mi piaceva andare in chiesa perché non sopportavo l’odore di incenso e di candela e appena arrivavo a casa mi cambiavo di abito, mi rotolavo per terra e strappavo una foglia di menta mettendomela sotto il naso. 8 Monica finalmente esce dal bagno, la mia attesa è stata premiata, se ne vedono raramente di sessantenni così belle. Ha un vestito scuro, un pelo sopra il ginocchio, scollato sul davanti a far vedere l’attaccatura del seno, due gambe magnifiche intrappolate da un paio di calze nere e le scarpe col tacco alto, sembrano messe apposta per umiliare la mia statura. Se non fosse per la mia età la sbatterei sul letto e al diavolo la gita. Lei deve aver intuito cosa mi passa per la testa, fa la civetta, mi prega di chiuderle la cerniera e mi viene incontro mostrandomi un pezzo di schiena nuda, che aspetta di essere accarezzata. Ha la pelle di seta, la mano affonda verso il sedere ma lei non sembra gradire l’avance, mi metto a trafficare con la cerniera che mi fa dannare, lei mi dice: “Non ti cambi? Il taxi sarà qui a momenti, almeno il giorno di Natale”. Ha ragione sono sempre vestito un po’ come mi capita, non mi piacciono la camicia e la cravatta, mi sembra di essere legato, le rispondo impacciato: “Ma cara, sarebbe un peccato non mettere il maglione che mi hai regalato”, lei sorride e subito aggiunge: “Va là, sei il solito pelandrone”. Dalla strada già si sente il clacson del taxi che ci invita a fare presto, chiudiamo il gas, spegniamo la luce e ci infiliamo i cappotti, anche se a dire il vero non dovrebbero servirci. Il tassista ci ha visti e sembra rinfrancato, butta via la sigaretta e ci apre la portiera, non ci ha quasi salutato, ci domanda solo la destinazione. Mi sono già pentito di aver accettato l’invito ad uscire, la guardo negli occhi, lei sembra felice, potrei stare zitto e invece le dico: “Non sarebbe stato meglio farlo a casa? Benedetti figlioli dovevano andare a sciare proprio il giorno di Natale?”. Monica la prende bene: “Già Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi, e poi lo sai che non sono una gran cuoca, tua madre invece…”, e si ferma scoppiando in una sonora risata. La macchina corre via veloce, non c’è traffico e le poche auto che incrociamo sembrano darci la precedenza, ma non riesco a rilassarmi, ho troppa paura della velocità, sarà anche per questo che non ho mai voluto prendere la patente. Mia moglie mi ha preso la mano, sembriamo due sposini in luna di miele, il tassista ci guarda attraverso lo specchietto e scrolla la testa. È soltanto qualche minuto che siamo in macchina e già non mi orizzonto più, Genova per me è soltanto quel quartiere, un poco caotico dove abito e pochi altri luoghi che quotidianamente frequento. Dal finestrino un paesaggio spettrale fatto di un solo colore, il marrone, sangue rappreso di fabbriche quasi abbandonate, imponenti e minacciose, ormai draghi senza fuoco. Ancora enormi edifici grigi, dalle piccole finestre rotte e dalle scritte colorate che quasi non si leggono più. Qua e là intravedo qualche chiazza di colore, un deposito di autobus arancione, uno spicchio bluastro del mare. Il porto è arrivato dovunque con la sua diga ad ammazzare il mare, le piccole baracche dei pescatori fatte di lamiere e compensato sono andate in malora, qualcuno un tempo lì aveva osato coltivare dei fiori. Sarebbe l’occasione per fare il turista, ma la mia attenzione è riservata tutta alla radio del taxi, che con voce monotona continua a sbraitare parole senza senso: “Alfa 36, Beta 45”. Guardo il tassista e mi chiedo perché non risponda, cerco l’appoggio di mia moglie, sta guardando fuori, le stringo la mano, lei si volta e mi guarda con un mezzo sorriso, soltanto adesso mi accorgo che non si è messa il collier che le ho regalato. Vorrei domandarle il perché, ma non faccio in tempo, siamo arrivati. È ancora presto per andare a mangiare, decidiamo di fare una passeggiata, il sole è ormai alto, incomincia a scaldare, così ci togliamo il cappotto. C’è molta gente, per lo più bambini che provano i loro giocattoli: la macchinina telecomandata, la bicicletta nuova fiammante, più indietro stanno i papà, un poco annoiati, leggono il giornale e di tanto in tanto alzano gli occhi per controllarli invitandoli a non scalmanarsi e a non sudare. Sullo sfondo il mare sembra in imbarazzo, le barche sulla spiaggia paiono disegnate, in giro non ci sono pescatori, deve essere tutta una finzione, nell’aria non c’è neppure odore di pesce o di refrescume. C’è venuta sete, ci fermiamo in un bar e ordiniamo un aperitivo sedendoci fuori come due turisti. Monica mi prende la mano e mi dice: “ Te lo ricordi il viaggio di nozze? Dovremmo rifarlo, mi piacerebbe tanto”. Io avevo trent’anni ed ero ancora scapolo, alcune storie l’avevo avute ma mi erano scivolate addosso senza coinvolgermi più di tanto. Ero in un periodo di crisi profonda, il mio lavoro non mi dava nessuna soddisfazione, mi ero messo a scrivere libri e volevo diventare un apprendista stregone, come nella storia che mio zio un giorno mi aveva raccontato. “In un paese c’era una casa da dove veniva sempre della musica, e questo disturbava gli abitanti che non riuscivano a dormire. Il proprietario era un uomo strano, un uomo di lettere che stava tutto il giorno sui libri, e mai si faceva vedere in giro. Qualcuno diceva che si portasse dietro una gobba da far paura, e che la sua faccia fosse piena di cicatrici, segni di combattimenti non si sa se vinti o persi. Ai bambini non era permesso passare davanti alla casa, per paura che a qualcuno di loro potesse capitare qualcosa di male. Dopo mesi di notti insonni, lo chiamarono in strada e con una zappa lo colpirono alla testa. Fatto questo, andarono in casa, presero tutti i suoi libri, li portarono in piazza e fecero un gran falò. Le fiamme scaturite dai libri, erano di tutti i colori, verdi, gialle, blu, rosse e il fuoco scoppiettava paurosamente formando nell’aria dei piccoli mostri che avevano preso a bastonate la gente che era accorsa numerosa”. Fu così che influenzato da quella storia cominciai a scrivere libri, forse per sentirmi onnipotente; mi piaceva congegnare un racconto con un bel personaggio, potevo dire a me stesso di aver creato un uomo ed essere soltanto io padrone del suo destino. A me soltanto sarebbe spettata l’ultima parola, l’avrei potuto uccidere, anche solo per un capriccio. Mi misi a frequentare gli ambienti letterari genovesi, che altro non erano che comunissimi bar malfamati, dove accanto agli artisti sedevano delle puttane. Fu proprio in uno di questo posti che conobbi Monica, era una cantante jazz, si dava arie da grande artista e forse lo era, ma quello che mi colpì maggiormente furono le sue chiappe dure e sporgenti che facevano da contrappeso a due tette che faticavano a stare dentro una maglietta troppo attillata. Non so come riuscii ad agganciarla, ma dopo nemmeno un mese eravamo sposati, il viaggio di nozze lo facemmo in un posto di mare, che vedemmo soltanto dalla finestra della stanza d’albergo, o in qualche rara passeggiata. Intanto parlavamo volentieri dei nostri progetti: avevamo in mente di mettere su una commedia musicale impegnata. Tutto finì, nove mesi dopo, alla nascita del nostro primo figlio, Monica cambiò radicalmente si scoprì mamma a tutti gli effetti. Mi costrinse a proseguire il mio lavoro di medico e ad abbandonare la letteratura in quanto non dava da mangiare e con un bambino piccolo bisognava essere responsabili, era cresciuta di colpo. 9 Il sole si fa sentire, dovunque mi giri me lo trovo davanti, chiamo il cameriere per il conto, bevo l’ultimo sorso rimasto nel bicchiere, sono quasi le tredici, è ora di andare a mangiare. Il ristorante è davvero lussuoso e i camerieri ossequiosi, ci sistemiamo in un tavolo vicino alla veranda, da quel punto si gode una vista stupenda, il mare è ritornato a fare il suo mestiere è davvero una magnifica giornata. La sala è deserta, ci sono soltanto due vecchiette dall’aria signorile che dividono il pranzo con un animaletto che a occhio e croce dovrebbe essere un cane, gli parlano in continuazione come potessero ottenere una risposta. Nell’aria nessun odore di mangiare, tutto sa di pulito come a casa nostra, ho nostalgia della trattoria di Pietro coi suoi odori e la sua puzza di sporco. Potevi vedere la cucina e il Pietro che bestemmiava e si asciugava il sudore con uno strofinaccio unto. Natale è usanza passarlo in casa, qui abbiamo due camerieri tutti per noi, che quasi ci infastidiscono con la loro continua presenza. Uno è alto e magro, fatica a stare diritto con le spalle, l’altro è grasso e piccolo con la stessa faccia del cagnetto delle vecchiette, l’unica cosa che i due hanno in comune sono dei minuscoli baffetti che sporcano il viso. Mia moglie mi sussurra all’orecchio: “Mi sembra troppo lussuoso”, è veramente preoccupata, le sorrido e le faccio vedere i soldi, ma lei ribatte: “ E poi al signor Antonio che cosa gli diamo?”. È stata lei che ha insistito per comprare la casa e adesso ha paura di non farcela, alla nostra età avremmo potuto evitarci questa preoccupazione, certe cose bisogna farle da giovani. “Domani è un altro giorno”, rispondo e mi avvento su un piatto di risotto ai frutti di mare, è da tanto tempo che non mangio così di appetito e mia moglie sembra imitarmi. Per la verità non è che sia un gran che, un poco slavato, è difficile sentire il gusto dei muscoli, delle arselle, dei datteri, dei tartufi di mare, l’odore del mare è sopraffatto dall’aglio, dalla cipolla e dall’amaro del prezzemolo. Continuo a guardare il mare come per non lasciarmelo scappare, ma una cosa mi colpisce, sulla spiaggia proprio in fondo al lungo mare, c’è una casetta costruita per metà di legno e metà di fango, che un tempo doveva essere servita ai pescatori come magazzino e qualche volta per scappare alle grinfie di una moglie petulante o per bersi un bicchiere di vino in compagnia. Ora da come si presenta deve essere andata in rovina e serve come riparo alle bestie randagie, è molto simile, direi identica a quella che c’era al mio paese. Spesso a differenza dei miei amici, che andavano a caccia di ragazze, mi facevo una lunga scarpinata fino alla casa, mi stendevo sulla arena umida e aspettavo l’arrivo dei pescatori e non c’era volta che non gli preparassi un caffè caldo che mostravano di apprezzare. A volte mi mettevo a parlare con dei vecchi che non andavano più per mare e si limitavano ad aggiustare le reti. Fu così che venni a sapere che molti anni prima, quando non ero ancora nato, viveva con loro una vecchia che amava raccontare strane storie, prima di mezzanotte si addormentava sulla sedia e appena addormentata si trasformava in qualche uccello, un’aquila e anche in un moscone. La gente del paese raccontava di una gazza che faceva dispetti e combinava guai in tutte le famiglie. I vecchi dicevano che la madre della vecchia era emersa un giorno dal mare completamente nuda e subito aveva intrecciato una danza con le onde. Un forte vento si era alzato alle sue spalle, si era voltata di scatto e aveva incominciato a danzare con lui a ritmo sempre più selvaggio, la danza si era trasformata quasi subito in un amplesso con grida e sussurri intervallati. Era rimasta incinta e aveva partorito un uovo che schiudendosi aveva portato alla luce un meraviglioso uccello esotico, dalle piume colorate. Fu subito dopo quel racconto che intravidi vicino alla casa una ragazzetta che quando facevo per avvicinarmi sembrava scomparire nel nulla. Non ero mai riuscito a guardarla in viso, ma chiedendo un po’ in giro, venni a sapere che era la figlia di Tommaso, il proprietario di un piccolo negozio dove si vendeva di tutto, dal pane alle sigarette. Si diceva fosse un poco matta, dopo giorni di appostamenti, una sera all’imbrunire la sorpresi proprio dietro una barca, cercò di scappare ma io le piombai addosso, aveva la forza di una tigre e per poco non dovetti soccombere. “Questo è il mio posto sei tu l’intruso”, mi rispose riponendo gli artigli che mi avevano rovinato la faccia. Era una ragazza piccola, dall’aria mascolina anche grazie a dei pantaloni che doveva aver ereditato dal fratello maggiore, con i capelli a spazzola, sempre spettinati che veniva voglia di accarezzare e la facevano assomigliare a un pulcino appena uscito dall’uovo. Aveva due grandi occhi senza luce che mettevano a disagio e rendevano difficile sostenere il suo sguardo. Il nostro primo incontro si risolse in quelle brevi battute e in quegli sguardi difficili da interpretare, ma da quella sera ci vedemmo tutti i giorni, correvamo per la spiaggia, inseguendo qualche fantomatico animale, ci sdraiavamo su uno scoglio a vedere morire il sole, con le lacrime agli occhi, preoccupati di non vederlo più sorgere. Ma la cosa che più mi attraeva erano i suoi racconti di posti meravigliosi che aveva visitato, io non riuscivo a capire come avesse fatto, ma lei sosteneva che aveva la proprietà di trasformarsi in un uccello. Per un lungo anno cercai di sorprenderla, ma il mio sforzo non fu mai coronato da successo. Se per una ragione o per l’altra lei non si faceva vedere ero io che andavo a cercarla in negozio, mi accoglieva suo padre che si dimostrava gentile, quasi ossequioso, tanto era il desiderio di togliersi quella figlia che nessuno in paese voleva e mi diceva sempre: “Benedetti figlioli dove volete arrivare? L’hai già detto a tuo padre?” Il signor Tommaso non assomigliava per niente alla figlia, era persino sproporzionato, tanto era grasso e sembrava a disagio in quel negozio troppo piccolo, non c’era volta che al suo passaggio non facesse cadere qualcosa e allora se ne usciva con una bestemmia. Il mio rapporto con lei durò un anno intero, amava giocare con me come fa il gatto con il topo, qualche volta ci appartavamo dietro ad uno scoglio che ci faceva da scudo e dove solo il mare ci poteva vedere. Lei passava tutto il tempo a stuzzicare il cosino che avevo in mezzo alle gambe e a ridere divertita, ma quando ero io che allungavo una mano, cambiava di umore e la serata finiva in fretta. Un giorno all’improvviso come era comparsa svanì e a nulla valsero le mie ricerche. Siamo arrivati al caffè e quasi non mene sono accorto, ma dalla pesantezza allo stomaco, devo aver mangiato parecchio. Mi ricordo una meravigliosa aragosta all’origano, un saporito coniglio alla carlona, dal gusto di olive, pinoli, aglio e rosmarino. Monica ha invece una faccia rossiccia, quasi violacea, deve aver bevuto molto, speriamo che non si senta male, non è abituata. All’improvviso sono attratto da un ronzio, che sulle prime risulta fastidioso, si tratta di un moscone, sembra curioso di conoscere il posto e dopo qualche giro maldestro vorrebbe uscire ma sbatte contro la finestra, mezza chiusa. Finalmente dopo tanti tentativi riesce a volar via, ma non va molto distante, sembra volermi salutare, fa tenerezza, faccio un cenno e gli auguro buon viaggio. Monica mi guarda stupita, forse adesso ha la certezza di vivere con un matto, sono in imbarazzo, mi alzo di scatto e mi dirigo verso il bagno, ho bisogno di fare un po’ d’acqua. Quando ritorno il caffè è ormai freddo, faccio per metterci lo zucchero, quando mi accorgo che nella tazzina c’è un moscone morto, un forte vento di tramontana spalanca improvvisamente le finestre. Sono fuori di me, chiamo il cameriere per delle spiegazioni, non sa cosa dirmi, anche il padrone sentendo tutto quel frastuono, si è avvicinato, mi porge le sue scuse, che quasi non sento e riacquisto la ragione soltanto dopo aver inteso che non avremmo pagato il conto. Poco dopo siamo sulla passeggiata, l’aria si è fatta fresca non ci resta che tornarcene a casa. Monica ancora ride per la scena del ristorante e mi dice: “ E’ stata una magnifica giornata”. Le rispondo soprappensiero: “ Certo se non fosse stato per quel moscone nel caffè”, una lacrima solca il mio viso. 10 E’ da qualche anno che non faccio altro che andare in stazione, è l’unico svago che mi prendo. Con il caldo o con il freddo mi siedo sulla solita panchina e aspetto il diretto delle sette e trenta. I vagabondi della notte disfano i loro letti, ripiegando i giornali che qualcuno più istruito legge per passare il tempo. Li conosco tutti e quando non ne vedo qualcuno mi preoccupo subito. Il treno ha una motrice aggressiva, anche se si porta dietro quattro carrozze disastrate. Spio attraverso i finestrini, mi sembra di riconoscere qualcuno, grido un nome, nessuno si volta, il capostazione lo sa già e mi guarda con commiserazione, ma è sempre gentile. Stamattina, invece senza sapere come mi ritrovo sul treno, ne ho la certezza soltanto quando sento un forte odore di tabacco francese, lo stesso che fumava mia madre, e facendo uno sforzo riesco persino a sentire l’odore del mare e del pesce appena pescato. Cullato da quel torpore, tiro le tendine che sanno di vecchio e muffa, intanto per almeno mezz’ora non c’è niente da vedere, se non fabbriche in disuso, palazzoni senza vita e mi domando come abbia fatto a vivere per cinquant’anni in questa città. I miei compagni di viaggio sono rumorosi, i più piccoli non riescono proprio a stare fermi e mi trascinano nei loro giochi chiamandomi nonno. Il più piccolo si chiama Andrea, è una vera peste, avrà circa tre anni, ha una faccia sveglia, mi sta tremendamente simpatico, anche se continua a tirarmi negli stinchi dei calcioni che fanno davvero male. I genitori hanno smesso di rimproverarli, sembrano disinteressarsi, parlano fitto, fitto io intanto mi sono tolto le scarpe, a dispetto dell’odore di gorgonzola dei miei piedi, e mi metto a ballare sui sedili, tenendo per mano i bambini. Due vecchi signori dall’aspetto distinto scrollano la testa, continuando a ingurgitare cioccolatini alla menta senza offrirne a nessuno. Le fermate si susseguono l’una all’altra, le stazioni sono tutte uguali con quel colore di ferro arrugginito, senza una panchina, una sala d’attesa decente, con gli orologi che scandiscono ore strampalate. I compagni di viaggio cambiano in continuazione e quasi non me ne accorgo tanto sono preso dal gioco, sono ritornato bambino anch’io, anche se a dire il vero non sono mai stato un giocherellone. All’improvviso Andrea mi scivola dalle mani e va a sbattere contro qualcosa di duro, si mette a urlare fino a trattenere il respiro, dal labbro gli esce un rivolo di sangue, corre da sua madre e si rifugia tra le sue sottane, la donna finalmente smette di parlare e cerca di consolarlo, mi sembra che mi guardi male, forse mi ritiene responsabile dell’incidente, il sangue ha smesso di uscire, lo scompartimento ritorna silenzioso, i bambini si sono messi quieti e leggono dei giornalini, la donna ha ripreso a parlare con il marito che non si è nemmeno scomposto. Mi piace intrufolarmi nei discorsi della gente e così tendo l’orecchio, devono avere qualche problema economico, ma non riesco a capire di cosa si tratti e maledico la mia sordità. Il tempo passa in fretta, le stazioni prendono colore, i nomi dei paesi sono disegnati con fiori colorati, qualche vecchio porta il nipotino a vedere i treni che passano. I bambini sono attratti dai treni che non si fermano e passano talmente veloci che, lo spostamento d’aria, quasi li butta per terra, gli orologi hanno smesso di fare i capricci. Il treno ora costeggia il mare, la famiglia di Andrea è arrivata a destinazione e incomincia a vestirsi, riprende la cagnara, questa volta mi da fastidio, finalmente scendono senza salutarmi. Faccio per accarezzare la testa di Andrea e per tutta risposta ricevo un calcione che mi toglie il respiro, a fatica mi trattengo dal dargli un ceffone. Lo scompartimento rimane vuoto, potrò godermi la vista del mare, il treno riprende lentamente la sua marcia, sembra stanco, quasi faccia fatica a portarsi dietro quelle carrozze. Intanto un altro passeggero si è seduto proprio di fronte a me e mi guarda intensamente. È un vecchio dall’aria dimessa coi vestiti consumati, dai colori troppo sgargianti che mal si accordano tra loro, forse un barbone. Due grossi baffi alla Stalin, me lo rendono familiare, si tratta di Giuseppe Tarlini, primo sindaco del paese di Teu, appena finita la guerra. Il corpo è deformato dal peso, occupa due posti, deve aver difficoltà a muoversi, i capelli neri e ricciuti sono caduti come foglie in autunno, lasciando la testa nuda come una palla da biliardo. Era una fredda mattina d’inverno del’44, me lo ricordo perché era nevicato anche in Riviera, quando abbandonai la casa dei miei genitori per unirmi a una banda partigiana. La guerra l’avevo scansata grazie al mio fisico e a una conoscenza di famiglia, ma ora volevo anch’io schierarmi da una parte. Il fascismo non mi piaceva, non chiedetemi il perché, di politica ne sapevo poco, era più che altro un fatto epidermico. Girovagai per una intera notte, bagnato fradicio, ricordandomi di non aver scritto nemmeno una lettera ai miei, ma ormai non potevo più tornare indietro. Affittai una bicicletta e inizia la salita che portava alla casa dello zio, ma la dovetti abbandonare quasi subito e proseguire a piedi. La neve mi ricopriva le scarpe poco adatte a quel paesaggio montano, le dita dei piedi non me le sentivo più, ma andavo avanti con lena, guardandomi attorno e godendo di quel silenzio interrotto soltanto dalle mie scivolate e dal mio battere i denti. In poco tempo riuscii a raggiungere la fontana della mia infanzia, dove spesso andavo con lo zio, divertendomi a tirare le pietre nell’acqua, mentre lui continuava a bere e io mi aspettavo, da un momento all’altro, di vederlo scoppiare. Si faceva fatica a riconoscerla, la neve aveva completamente cambiato il paesaggio, mi fermai un attimo dovevo decidere dove sarei andato, non potevo girare per giorni alla ricerca di qualche partigiano, forse l’oste avrebbe potuto aiutarmi. Mi accesi una sigaretta, era la prima volta che fumavo, avevo fregato un pacchetto a mia madre prima di partire, le prime boccate furono alquanto schifose e mi fecero tossire ma mi ci abituai quasi subito e presi a giocherellare con le nuvolette di fumo che si mischiavano a quelle del mio fiato. Stavo per riprendere il cammino quando mi accorsi che non ero solo, qualcuno faticosamente stava salendo per la stessa strada, mi sdrai sulla neve quasi a scomparire. All’ultima curva mi comparvero davanti quattro ragazzi che dovevano avere all’incirca la mia età, capii che erano partigiani dal fazzoletto rosso che portavano al collo e che contrastava con la neve bianca come il latte. Erano ben equipaggiati con giubbotti di pelle e con stivaloni militari, ognuno portava con sé un fucile più grosso di lui e una barba di alcuni mesi gli conferiva un’aria più adulta. Avevano incominciato ad intonare le note di bandiera rossa, forse solo per spezzare il silenzio della vallata, e quando mi presentai loro, tacquero improvvisamente, dovevo sembrare un morto resuscitato, e un poco in ritardo imbracciarono il fucile. Io mi misi a urlare: “Non sparate sono un partigiano anch’io”. Ci sedemmo sulla neve fresca, venni a sapere che facevano parte di una squadra di circa trenta uomini, che aveva operato nella zona, erano rimasti soltanto loro, e ora cercavano di raggiungere il comando militare. Due erano studenti liceali di Torino esili come spighe di grano battute dal vento, l’altro era un operaio genovese, tozzo come un paracarro e il quarto, quello che parlava sempre, il teorico della brigata, l’unico ad essere comunista. Accettai di buon grado di unirmi a loro, ero finalmente diventato partigiano a tutti gli effetti, ricevetti persino una pistola, una berretta, chiesi il fazzoletto rosso ma mi dissero: “A suo tempo”. Riprendemmo il cammino, le note di bandiera rossa si alzavano alte nell’aria. A mezzogiorno eravamo nei pressi di S…,avremmo pranzato in un’osteria che conoscevo, ma alle prime case il silenzio fu interrotto dal fuoco di una mitragliatrice e la neve si riempì di sangue, come migliaia di fazzoletti rossi. Incominciai a correre, sbattendo contro gli alberi, incespicando nei sassi che fuoriuscivano dalla neve, finché il buio della sera non mi salvò, mi fermai un attimo e caddi a terra svenuto. Mi svegliai al mattino, ero in un letto pulito e caldo, accanto avevo una donna, sui quarant’anni che mi accarezzava la fronte. Era stupenda, dall’aria autoritaria e severa, ma con gli occhi dolci, le sue forme erano arrotondate, il suo corpo soffice, ma non grasso, mi venne voglia di giocare con il suo ombelico coperto da una lieve pancetta. A mezzogiorno conobbi il marito, si chiamava Giuseppe Tarlini, faceva il contadino e dagli amici si faceva chiamare Togliatti, dal colorito rossiccio della faccia si capiva che amava più il vino che un buon libro di Gramsci o di Lenin. Quella casa mi stregò, era fatta di pietra, immersa in un boschetto di castagni giovani che lasciavano vedere il cielo, nella parte in ombra c’era odore di muffa, il pavimento era di terra battuta e quando lo si scopava si alzava un gran polverone. La cucina era dominata da un caminetto in pietra e c’era sempre qualche pentola sul fuoco. Il soffitto era tappezzato di aringhe, aglio e salumi che spandevano il loro profumo. Quella casa mi aveva accolto come un ventre molle da cui non ero capace di uscire, passavo le giornate in compagnia di quella donna, che poteva essermi madre, mi prendeva la mano appoggiandosela sul seno, ci guardavamo in faccia e qualche volta ci scappava un bacio. Avevamo iniziato quasi per gioco, lei si occupava delle mie ferite, le lavava con acqua tiepida stando attenta a non farmi male, credo che non ci sia stata infermiera più brava. Quando le ferite furono guarite, prese a farmi il bagno, mi insaponava con cura, i suoi occhi si posavano sul mio corpo nudo in ammirazione, come fossi un quadro famoso, raramente ci concedevamo un bagno insieme, il suo corpo nudo e soffice sembrava sciogliersi nell’acqua. Alla sera dopo mangiato, mi intrattenevo con Togliatti, parlavamo per lo più di politica, lui sosteneva che bisognava fare come in Russia ed io gli davo ragione, non ero imbarazzato con lui per via della moglie, i nostri erano giochi innocenti. Lui continuava a bere vino, a me era permesso soltanto un bicchierino di sidro, gli parlavo di riprendere la via della montagna, lui sorrideva e mi diceva che non ero portato per la guerra. Gli piaceva che parlassi dei miei studi e rimaneva a bocca aperta dicendo: “Ci vogliono degli uomini così al governo”, e ciò mi inorgogliva. Nel ’45 i miei genitori vennero a prendermi, fu come se mi avessero strappato qualcosa, dovetti ritornare alla realtà, il sogno era finito. Alzo lo sguardo, vorrei chiedergli tante cose, ma già se ne è andato e al suo posto si è seduta una magnifica ragazza che non mi toglie gli occhi di dosso. Deve avere all’incirca diciotto anni e dai libri che si porta dietro si direbbe una studentessa. Indossa una gonna corta, di quelle elasticizzate, e quando accavalla le gambe scopre le cosce, forse un poco grosse. Il suo sguardo penetrante non mi lascia un momento, possibile che con tanti giovani abbia messo gli occhi proprio su di me? Ma sono un illuso, è solo una bambina che vuole giocare, ma quando si alza per prendere la valigia, scoprendo l’ombelico, mi è difficile trattenermi e decido di andare a prendere una boccata d’aria nel corridoio. Lei sembra soddisfatta, mi guarda con un mezzo sorriso di compatimento, e quando rientro si è infilata il cappotto, ha acceso una sigaretta e non alza nemmeno la testa dal libro. Non mi resta che guardare dal finestrino paesaggi che pian piano diventano sempre più familiari, il paese ormai è vicino. Non è difficile riconoscere la stazione, è l’unica senza un fiore, mi vesto precipitosamente, il treno non aspetta di certo i miei comodi. C…,mi appare con la faccia stanca di Pierre, che seduto su una panchina sembra aspettarmi. È un vecchio poeta matto con tante storie da raccontare, da giovane aveva girato il mondo, come mozzo su una nave mercantile, poi arrivato nel nostro paese si era messo a fare il pescatore, ma spirito inquieto era sempre alla ricerca di qualche cosa. Un giorno mi raccontò che a causa di un incidente, aveva perso la memoria e andava cercando il suo paese e i suoi genitori, se ancora erano al mondo. Un giorno vendette la barca e si mise a fare il pendolare sulla linea Genova-Ventimiglia, lì trovò da mangiare, da dormire e compose le sue poesie migliori, ma almeno fino alla mia partenza, non aveva ancora trovato quello che cercava. Ora doveva essere stanco di viaggiare, forse non riusciva più a prendere un treno, faccio per chiamarlo, ma è già scomparso nella folla. 11 Sono arrivate le bancarelle per la festa di Santo Stefano. Appena fuori dalla stazione sono accolto da una folla rumorosa, a stento si riesce a camminare e il mare sembra scomparso, si sente la sua presenza, solo per l’odore di sale che impasta la bocca. È tutto uno scintillare di luci, di colori, un paesaggio irreale, guardo l’orologio, sono di poco passate le otto, sto forse sognando? In giro bambini urlano sulle giostre, altri scompaiono dietro a un bastoncino di zucchero filato, sembra di entrare in una fiaba. Si incontrano i personaggi più strani, che solo la fantasia di un bambino potrebbe immaginare: la donna cannone che assomiglia a mia zia Clotilde, l’uomo sui trampoli, il mangiatore di fuoco. All’improvviso sono attratto dal vecchio carrozzone del tiro a segno più lucente e rumoroso di un tempo. Vicino, un capannello di persone discute animatamente, ci sono anche due uomini in divisa, deve essere successo qualcosa. Chiedo in giro e vengo a sapere che la ragazzina del tiro a segno è accusata di non aver dato il resto a un signore e da questo è nata una rissa. Mi faccio largo tra la folla con l’autorità di un generale e finalmente riesco a raggiungere la ragazza, sembra un coniglietto appena nato, ma mi è familiare, è la stessa che da ragazzo cercavo di conquistare con gli amici. Non era italiana, aveva la faccia da zingara col colorito scuro, i capelli nero corvino, due occhi che ti ci perdevi e un corpo come se ne vedono soltanto al cinema. I suoi vestiti erano appariscenti, di un colore tanto vivo da sembrare irreali, un arcobaleno estivo. Si aspettava Santo Stefano soltanto per vederla, ma lei non dava confidenza a nessuno. Era accompagnata da un ragazzone che riusciva a piegare le corna del toro senza sforzo. Ho un po’ di soldi in tasca, li metto in mano al signore, abbozzando una timida scusa e riesco a trascinarla via. Per puro caso raggiungiamo il mare, la ragazza non finisce più di ringraziarmi, le accarezzo i capelli, faccio per chiederle il nome, mi piacerebbe chiacchierare, ma è già scomparsa nel nulla, ho la certezza che non la vedrò più. I pescatori sfidando il freddo con urli, cantilene in dialetto simili a riti propiziatori, hanno messo in mare le barche, l’acqua è talmente piatta che sembra invitarti a una passeggiata. È una giornata magnifica con un po’ di fortuna si potrebbe scorgere la Corsica, ma anche sforzandomi, non riesco a vedere nemmeno cosa c’è a pochi metri, dietro a quel promontorio che si sporge minaccioso sul mare, formando una figura mostruosa che con un poco di fantasia, potrebbe assomigliare ad un enorme drago. Mio padre, quando ero piccolo, mi raccontava che quel posto era infestato da mostri, pronti ad azzannare chiunque tentasse di oltrepassare il promontorio. Difendevano un castello dov’erano tenute prigioniere meravigliose principesse, che amavano, nelle poche ore di libertà, sciogliere sulle rocce i capelli dorati per farli asciugare e cantavano felici. Sfidando il mare e i terribili mostri, mio padre aveva liberato e portato a casa quella che sarebbe diventata sua moglie. Quella fu l’unica fiaba che mio padre mi raccontava, con questa mi addormentavo, ascoltando senza fiatare, quasi avessi paura di chiedere qualche spiegazione. Non capivo il rossore di mia madre, il suo disagio di far parte di una fiaba. Io ero orgoglioso di aver per madre una principessa, detestavo mio padre che l’aveva liberata, io ne sarei stato capace? Una barca incustodita, aspetta soltanto di essere presa, il mare è talmente piatto che sembra di essere a terra, ma mi tengo pronto, da un momento all’altro compariranno i draghi e le onde si alzeranno, ho bisogno di tutta la forza che ancora mi resta e anche un po’ di fortuna, la barca vola via veloce sotto i colpi possenti delle remate, qualche pescatore, incontrandomi, mi augura buona fortuna. Possibile che loro non abbiano un po’ di paura? In una decina di minuti oltrepasso il promontorio e sbarco indenne sulla spiaggia proibita, non mi è successo niente, è un luogo come un altro, poca gente, per lo più uomini e di principesse nessuna traccia. La sabbia fine dal colore bianchiccio di borotalco, mi sollecita i piedi come un delicato massaggio. Tutto è avvolto in una oscurità minacciosa, soltanto il castello è illuminato e si sente un gran vociare che spezza il silenzio della notte. Guardo l’orologio, sono da poco passate le nove, devo essere diventato matto, o forse senza volere sono entrato nella fiaba del vecchio. Le facce mi sono familiari, c’è il signor Tommaso con un vestito a righe che lo rende più snello, ma anche più malandrino, più avanti incontro il sindaco accompagnato dai suoi consiglieri, quasi non lo riconosco, stenta a reggersi in piedi, deve essere ubriaco fradicio, mi resta difficile immaginarmelo tutto impettito con la fascia tricolore ad inaugurare una scuola, un ospedale, usando quelle parole che toccano il cuore agli ingenui. Da quello che credo un castello,esce una massa di ragazzini, non avranno nemmeno quattordici anni, sembra abbiano visto il diavolo, fanno un chiasso furibondo e non smettono di parlare di donne, si atteggiano da adulti, mostrando la sigaretta, ma nel frattempo stanno attenti a non farsi riconoscere da qualche familiare. Alcune persone riconoscendomi mi salutano con ironia, qualcuno va oltre posando le sue manacce sporche sulla spalla, mi dice: “Vecchio ce ne hai ancora di cartucce, il fucile ti funziona ancora?” Tutti si mettono a ridere come idioti, io non so cosa fare, se associarmi al coro, oppure prenderli a calci, altri che conosco benissimo cercano di nascondersi, ma lo fanno in maniera talmente maldestra che è uno spasso guardarli. Alzo lo sguardo verso il castello, mi appare immenso e dal rumore che sento penso si stia svolgendo una festa: “ Ma le principesse non sono tenute prigioniere?” penso tra me. Un atroce sospetto mi assale all’improvviso, sono ormai giunto nei pressi della costruzione e mi accorgo che sono davanti ad un albergo, mio padre mi ha dunque ingannato. Il mio primo impulso è quello di tornare indietro, ma ormai che sono qua, tanto vale dare un’occhiata. Entro un poco timoroso, non so ancora bene che cosa mi aspetta, vengo assalito da una nuvola di fumo, come in un qualsiasi bar, ma questo è molto più bello: arazzi ricoprono le pareti, le poltroncine sono in vera pelle e, ovunque cristalli riflettono figure di uomini che seduti ai tavoli, sembrano in attesa di un evento straordinario. L’ampia scalinata, rivestita di rosso che da accesso alle camere superiori, è parecchio frequentata, là sopra deve succedere qualcosa di singolare e mi farebbe piacere dare un’occhiata, ma di principesse nessuna traccia. Le uniche donne presenti sono una vecchia signora alla cassa che dal tono che si dà deve essere la padrona, e una più giovane che si aggira per i tavoli quasi nuda, qualcuno allunga le mani, ma lei non sembra arrabbiarsi, anzi dispensa larghi sorrisi. Non ho più niente da vedere, non mi resta che andarmene, quando all’improvviso mi si avvicina una donna, un poco svestita, che prendendomi per un braccio mi dice: “ Vogliamo andare bel morettino?”, possibile che non si sia accorta della mia età, non so più cosa pensare, cerco di guardare altrove, fintanto che sono attratto da un quadro che campeggia sopra il bancone, non riesco a trattenere un urlo e dico: “ Ma quella è mia madre”. Tutti si voltano e si mettono a ridere. In quello stesso istante, un vecchio che non si era ancora mosso dal suo tavolo, mi si fa incontro e mi abbraccia: “ Sono amico di tua madre, una gran donna”. Senza nemmeno riflettere gli rispondo: “ Certo l’avrà conosciuta in qualche letto”, mi guarda contrariato, vorrebbe sputarmi addosso, ma fortunatamente non lo fa e mi invita al suo tavolo. Ci sediamo e ordiniamo da bere, è un vecchio piccolino, molto simile a mio zio Teu, il suo dialetto mi mette allegria, si è messo a parlare e dal tono della voce ha l’aria di essere un discorso serio. Apprendo che lui e mia madre venivano da un paesino della Sicilia, ne avevano fatta di strada e di fame lungo l’Italia. Avevano messo su uno spettacolo di cabaret, mia madre ballava e lui tentava di far ridere , ma i risultati erano scarsi, a nessuno interessavano le barzellette e la danza e gli spettacoli si chiudevano con la solita frase: “ Faccela vedere”. Quando arrivarono in questo posto erano allo stremo e così lei accettò la proposta della signora. “Lo fece per poco ti assicuro, poi tuo padre se la portò via, fu una bellissima storia d’amore”. Forse è una favola ancora più bella di quella raccontatami da mio padre, lo ringrazio e riprendo la via del paese. 12 La spiaggia si è riempita di gente, per lo più sono milanesi in cerca di un poco di sole, i bar hanno sistemato fuori i tavoli e qualcuno già prende posto, la musica dei juke-box scandisce le sue note. Mi accorgo di essere in compagnia del mio vecchio maestro che è un poco in disparte. Dorme dentro una barca e un po’ più scostato il suo amico Bull, un cane tutto spelacchiato, che ha salvato dalla morte, gli annuncia la presenza di un estraneo. È un vecchio magrolino, alto quasi due metri, la testa pelata, come ai tempi della scuola e due grosse borse sotto due occhietti piccoli e furbi. Dall’aspetto assomiglia più a un pescatore che a un maestro, con quelle manone, il colorito scuro della pelle, tagliata da rughe che sembrano solchi. Il suo modo gentile di rivolgersi alle persone, e il suo gesticolare di mani lo rendono un poco effeminato. Mi ricordo ancora le sue lezioni che consistevano in lunghe passeggiate ad osservare animali, piante, fiori, persino una zolla di terra, in inverno stavamo tutta la mattinata appiccicati alla finestra, ed era una gioia quando qualcuno dei ragazzi, riusciva a scorgere qualcosa di vivo, ma in questo lui era imbattibile e perdevamo quasi sempre la gara. Non avevamo mai niente da studiare, né compiti a casa, lui ci raccomandava soltanto di fare continue passeggiate e stare attenti a quello che ci capitava attorno. Ci guardiamo in faccia, senza dirci una parola, poi il maestro interrompe il silenzio e mi invita in quel gioco infantile dello scoprire un qualcosa di vivo. Da principio sono riluttante, conosco troppo bene la sua abilità ma, per educazione, accetto l’invito, passiamo delle ore a scrutare il mare senza che nulla accada, le onde si susseguono in maniera monotona l’una all’altra, nel cielo non un uccello fa sentire la sua presenza e le poche barche di pescatori sembrano punti inanimati. Avrei voglia di smettere, ma mai ammetterei la mia sconfitta, soltanto un lieve prurito alla gamba, mi riporta alla realtà, faccio per alzarmi e sgranchirmi un poco, quando il maestro mi urla: “Avevi una formica addosso e nemmeno te ne sei accorto”, e poi quasi sussurrando aggiunge: “Sei diventato grande per queste cose”. Ci salutiamo come se niente fosse successo, è ora di entrare in paese. C…è rimasto un piccolo agglomerato di case stanche che sembrano sorreggersi a vicenda, come ubriachi che cercano di raggiungere un bar. Nella parte vecchia, il sole non si vede e quel piccolo pezzo di cielo riflette la sua luce come su un telone di cinema. Tutto sa di muffa e di piscio che si mescolano a un freddo vento di tramontana. Passo davanti alla mia casa, ci deve abitare un bambino, se ne sente la presenza, mi piacerebbe conoscerlo, ma non ho il coraggio di presentarmi e così tiro avanti. A pochi metri c’è ancora la scuola una vecchia palazzina ad un piano, immersa nel verde, per la verità ci sono soltanto due piante, ma bastano per creare un po’ d’ombra; è l’unico posto fresco di tutto il paese e dove c’è qualche panchina. Il lungomare è flagellato dal sole, a niente servono quelle poche palme spelacchiate. Nelle ore calde del pomeriggio quella piccola zona d’ombra è la meta preferita dai vecchi che passano la giornata a raccontarsi la loro vita e ad aspettare terrorizzati l’evento che nessuno riesce a pronunciare. Ora il maestro è un uomo robusto, porta il cappello anche d’estate e veste in maniera elegante, e un poco eccentrica. Viene dalla città e non gli piace il posto e forse nemmeno i bambini, passa gran parte della giornata al bar a guardare le ragazze, ma nessuno l’ha mai visto accompagnato, e va in giro a dire che le donne di città sono migliori. Mi fa piacere sentire l’odore delle matite, dei quaderni e dei libri appena comprati. Oggi la scuola per mancanza di bambini si è ridotta a due sole aule, il rimanente è stato occupato da un’associazione di ex combattenti e da una società di pescatori. Hanno abbattuto qualche muro e ne hanno ricavato due saloni immensi. L’associazione di ex combattenti, ha un nome difficile: è dedicata a un giovane ufficiale trentino morto facendo l’eroe nella prima guerra mondiale. Per lo più rimane deserta e si anima soltanto in qualche occasione, come il quattro Novembre, il venticinque Aprile, la festa della Repubblica. È un ambiente squallido, l’unico arredamento è una catasta di seggiole di paglia sfondate e un tavolaccio di legno tutto tarlato, ereditato dalle Ferrovie dello Stato, quando rifecero la stazione. Sulle pareti fotografie di militari, accompagnati da vessilli di ogni colore, rendono l’ambiente ancora più tetro e quasi si ha paura di entrare. La Società dei pescatori, invece è sempre affollata, funziona da bar e si dice facciano dei panini da favola e servano un ottimo vino bianco frizzante. C’è una saletta per i videogiochi e all’interno sono riusciti a ricavare una sala da ballo con luci psichedeliche, anche se si continua a ballare soltanto il liscio e i giovani preferiscono le discoteche genovesi o quelle piemontesi. La gestisce una ragazza, dalle forme sinuose, ma dal fare autoritario, che ascolta tutto il giorno la radio ad alto volume, facendo andare in bestia i vecchietti che giocano a carte. Proseguo il mio cammino, attraverso i ricordi e incontro la vecchia farmacia del Dottor Alessandro. Più che una farmacia assomiglia a un retrobottega, con tutti i prodotti raffazzonati sul banco e con quell’odore di muffa che si mescola a quello delle medicine. Il Dottore era talmente brutto che non sembrava nemmeno vero, faceva senso a guardarlo, ma godeva fama di Don Giovanni. Fama conquistata sul campo, non c’era infatti donna giovane o d’età che non fosse passata dal suo letto, e nessuna ne era mai uscita delusa. Il luogo d’incontro era la stessa farmacia e non c’era bisogno di convenevoli, il farmacista aveva sparso la voce che bastava portare un fiore rosso per sperimentare le sue prestazioni. Non era raro passeggiando per via Garibaldi vedere il cartello “chiuso”, anche più volte al giorno. Mi piacerebbe dare un’occhiata, attraverso la strada, quando vedo un vecchietto uscire dalla farmacia, mi sembra di non conoscerlo, con un gesto improvviso cambia il cartello e compare la scritta “aperto”, un attimo dopo una giovane donna esce un poco spettinata, guardandosi in giro con fare guardingo. In fondo alla strada c’è la piazza della chiesa, forse troppo grande per le esigenze del paese. Sulla soglia c’è Don Pietro, il parroco, un bell’uomo, con la chioma grigia che svolazza al vento e con un tocco della mano ritorna subito a posto, come se fosse appena uscito dal salone del barbiere. La tonaca lucida e perfettamente stirata gli dona parecchio, tanto che può sembrare benissimo un vescovo. Alto un metro e ottanta, ma sembra anche di più, grazie al suo portamento eretto, non disdegnava mai di passeggiare fino alla nostra casa, per fare quattro chiacchiere con mia madre, sempre assorto in un libro, si fermava di scatto per prendere degli appunti su un block-note sgualcito, non dimenticava mai di rispondere a un saluto o di accarezzare i capelli a un bambino che gli capitava tra le gambe. Mi farebbe piacere parlargli, ma è già entrato in chiesa, tra poco ci sarà la messa. Nel frattempo alzo gli occhi, alla finestra come sempre c’è la Signora, da giovane era stata molto bella, tutti gli uomini le correvano dietro e lei ne aveva approfittato concedendo le sue grazie in cambio di regali, che potevano essere un bel vestito, un gioiello e forse anche dei soldi, ma nonostante le apparenze non veniva ritenuta una puttana e tutti continuavano a chiamarla Signora. Quando il suo corpo sfiorì, si chiuse nella sua bella casa, dono di qualche ammiratore, passando tutto il giorno a guardare dalla finestra e diventando l’archivio storico del paese. Non era raro che qualcuno andasse a trovarla per godere della sua compagnia e riascoltare qualche storia ormai dimenticata. Potrei passare qualche ora con lei, ma sembra non accorgersi della mia presenza, tira le tendine e anche lei scompare. Senza accorgermene sono arrivato davanti all’Hotel Sereno, un albergo immenso con più di cento stanze, immerso in uno stupendo parco, nel suo massimo splendore, aveva ospitato i più bei nomi della musica e della politica. Da ragazzi era una delle nostre mete preferite, rimanevamo colpiti dagli abiti delle signore e da favolose macchine che, raramente riuscivamo a vedere in giro. Ma era un attimo, perché scomparivano dietro a un cancello di ferro battuto, la nostra curiosità era accresciuta da un grande muro che non permetteva di vedere niente. Un giorno ci munimmo di una lunga scala, così passammo un intero pomeriggio a guardare le donne in costume che prendevano il sole e che ci parevano più belle di quelle che potevamo guardare in spiaggia senza tanto sforzo. Alzo gli occhi per guardarlo meglio, conserva ancora tutto il suo fascino, ma il muro è sgretolato, il portone sempre aperto, e i suoi ospiti sono piccoli commercianti lombardi, con donne grasse e bambini maleducati. Finalmente dopo tanto bighellonare, sono arrivato al negozio del signor Tommaso, sono curioso di sapere che fine ha fatto la bambina uccello. La bottega non è cambiata, un signore grasso esce dal banco bestemmiando perché ha fatto cadere qualcosa, sono un poco impacciato e gli dico: “Signor Tommaso”, lui mi guarda un po’ perplesso e mi risponde seccato. “Tommaso è morto dieci anni fa, io sono suo genero, cosa desidera?” Non so più cosa dire, una lacrima mi solca il viso: “Un pacchetto di sigarette francesi, di quelle forti”. 13 Ho finalmente deciso di lasciare il paese e di far visita allo zio. La corriera parte fra mezz’ora e c’è tutto il tempo di prendere un caffè corretto in una di quelle osterie, vicino al mercato del pesce, dove qualsiasi odore si mischia con quello di refrescume. Il tempo passa sempre troppo in fretta, è l’ora di prendere la corriera, alla fermata c’è parecchia gente, accenno a un saluto, sperando che la corriera arrivi presto. Vorrei chiedere informazioni su qualcuno, ma ho paura delle brutte notizie e così faccio finta di niente, a costo di apparire maleducato. Mi sistemo sul davanti, nell’unico sedile di fianco all’autista, così posso rimanere solo per tutto il viaggio e poi è il solo posto dove non patisco. La corriera si inerpica per una piccola strada, piena di curve, ci passa a stento e sembra debba precipitare nel vallone. È una vecchia corriera, la stessa forse che prendevo molti anni fa e mi chiedo se riuscirà ad arrivare a destinazione. Inutilmente cerco il mio nome su qualche sedile, nomi ce ne sono, ma il mio non riesco a trovarlo, e me ne dispiace. Questa corriera assomiglia sempre più a uno di quei carrozzoni da circo, che tutti si chiedono come facciano a funzionare, in effetti, quello che desta meraviglia, non sono tanto i numeri più o meno spettacolari, ma proprio l’arrivo rumoroso e fumoso. Il circo ci faceva visita due volte all’anno: al sabato e alla domenica era a C…, durante la settimana si spostava in collina. Non aveva molto successo e il tendone rimaneva quasi sempre deserto, noi ragazzi ci limitavamo a guardare i segni che aveva lasciato per terra, come fosse un accampamento indiano. Il divertimento maggiore era quello di imitare ciò che intravedevamo da un pezzo di telone, squarciato, e che bei travestimenti riuscivamo a inventare con le poche cose che avevamo a disposizione. Mi volto di scatto, c’è baccano sulla corriera, rumore di trombe, pernacchi è gente mascherata, forse vanno a una festa, aguzzo un poco lo sguardo e rivedo i miei amici del tempo del circo, vorrei unirmi a loro, ma la corriera è arrivata al paese, devo scendere, sarà per un’altra volta, sono solo dispiaciuto di non aver visto la fontana. Sono contento di sgranchirmi le gambe, e prendere una boccata d’aria fresca. Il paese non è più lo stesso, anche qui è arrivato il turismo, la Pensione Rosa Fiorita è stata soppiantata da un grande albergo chissà che fine ha fatto il proprietario? I piccoli negozi di un tempo non ci sono più, e i vecchi proprietari si mettono davanti al loro negozio rimodernato, ci passano delle ore, e poi se ne vanno scrollando la testa. È giorno di festa, ma c’è poca gente all’uscita dalla messa, mi avvicino a qualche vecchio e chiedo dello zio Teu, nessuno sembra conoscerlo, e non riescono nemmeno a capire il dialetto che mi sforzo di parlare. Mi accendo una sigaretta, ha un gusto forte e amaro e mi incammino verso la casa dello zio, subito comincio ad ansimare, un tempo non faticavo in questo modo. Sono quasi arrivato, ma mi accorgo che qualcosa è cambiato, al posto del campo hanno costruito una villa da favola, e per quanti sforzi faccia la casa dello zio non riesco a scorgerla. Faccio ancora pochi metri e cado riverso a terra senza più vita. Sono morto, ma stranamente riesco a sentire il dottore che con una faccia arrabbiata, come gli avessi fatto un dispetto, dice: “Glielo avevo detto di non fumare e di non mettersi in un viaggio così lungo, alla sua età”. Lo squillo del telefono mi sveglia di soprassalto, ho dunque sognato, mi accendo una sigaretta francese dal forte odore, è la prima dopo vent’anni, guardo la sveglia sono già le otto. Il diretto delle sette e trenta è già passato. 14 Anche oggi è una giornata stupenda, il sole filtra dalle tapparelle ancora chiuse, mi sento tremendamente stanco come avessi fatto per davvero quel viaggio, un odore nauseabondo esce dalle ascelle, devo aver sudato, forse sarà stato il mangiare del giorno prima. Devo essermi addormentato nello studio, la mia mente è confusa, sul tavolo è aperto un quaderno pieno di parole, ieri era appena iniziato, devo aver lavorato tutta la notte. La scrittura è caotica tanto che non riesco quasi a decifrarla, le parole non seguono le righe, sembrano voler scappare, delle macchie d’inchiostro coprono chissà quali misteri e il tutto è arricchito da disegni infantili: una casetta in collina, una spiaggia con delle barche a riposo, un sole troppo rotondo perché fatto con un bicchiere. Mi viene alla mente la storia di mio zio, chissà se da queste pagine non possa comparire un folletto, ne cerco la prova, proprio sotto casa c’è un albero, senza pensare, dico forte: “Voglio che quell’albero secchi”. Passano alcuni minuti ma niente succede. Il sole ha inondato tutta la casa e la luce mi colpisce gli occhi, è l’ora di andarsi a fare un caffè. Chissà che non mi rimetta a posto lo stomaco? Mi sento svuotato, come se qualcosa di me fosse davvero morto questa notte; chi mi dice che il sogno che ho fatto non sia la realtà e quello che invece sto vivendo soltanto una finzione? È forse questa la morte, un’eterna finzione o soltanto questo senso di vuoto? Ho voglia di parlare con qualcuno, Monica sta ancora dormendo nonostante il sole le colpisca la faccia. Non è più la bella donna di ieri, senza la cipria complice le si vedono tutte le rughe e i capelli non hanno più forma ed escono in mille ciuffi. Senza rendermene conto divento nervoso e quell’essere rannicchiato sotto le lenzuola mi da fastidio, è la prima volta che sento di odiare Monica e non ne capisco la ragione. Mi metto a parlare senza nessun freno, devo aver alzato la voce, lei sembra non ascoltarmi, e questo mi fa andare in bestia, incomincio a prendere a calci un tavolino che cade rovinosamente portandosi dietro un intero servizio di tè cinese. Una lunga pausa echeggia nell’aria, mi avvicino al letto, la scopro violentemente ma Monica non da segni di vita. Mi butto su una poltrona senza toglierle gli occhi da dosso, forse mi sta facendo uno scherzo, fra qualche minuto si alzerà e mi prenderà in giro, ma niente di tutto questo succede ed è già passata mezz’ora. Forse sto sognando, chi infatti non ha mai desiderato una volta nella sua vita di ammazzare la moglie? Non c’è da preoccuparsi, qualcuno mi sveglierà e tutto ritornerà come prima. Come se niente fosse, vado in cucina, ho voglia di un buon caffè, nessuno ha ancora alzato le tapparelle e quindi, nonostante il sole devo accendere la luce, in strada non si sentono movimenti, ma adesso ricordo: è ancora festa. Per caso mi capita tra le mani un vecchio album con la copertina in pelle, ne sfoglio le pagine piene di foto in bianco e nero che il tempo ha notevolmente sbiadito, le figure si distinguono a malapena. Vi è raffigurata la storia della mia vita: il primo bagnetto, i compleanni, le figure austere dei nonni, una caduta dalla bicicletta, la prima comunione, qualche parente ormai dimenticato. Sorseggio il caffè è forte e amaro, proprio come mi piace, intanto le foto sono finite, ci sono rimaste soltanto delle pagine bianche, proprio come succede al cinema, quando si rompe la pellicola. Un rumore che assomiglia a un fischio del treno, mi sveglia da quel torpore, lo riconosco è il diretto delle sette e trenta, non vedendomi mi ha aspettato, sono felice, forse se mi affretto riuscirò a prenderlo. Il rumore si fa più forte devo essermi sbagliato, una voce urla al di là della porta d’ingresso: “Aprite polizia”. Cerco di mettermi un poco a posto, passo attraverso la camera da letto, Monica non si è ancora mossa e vado ad aprire. Sono tre uomini in divisa hanno l’aria cattiva e tutti e tre portano i baffi, il più vecchio mi dice: “Hanno sentito gridare e siamo venuti a vedere che cosa è successo”. Li faccio entrare e subito si intrufolano nelle stanze, vorrei protestare, ma nel frattempo qualcuno si mette a gridare: “ Maresciallo venga qui a vedere”. Devo essere entrato in uno di quei film polizieschi che ogni sera guardo prima di addormentarmi. Ci avviamo tutti nella camera da letto, e da lì che proviene la voce, Monica finalmente la smetterà di fingere, si alzerà dal letto e farà a tutti una sonora pernacchia. Quello che tutti chiamano maresciallo mi si avvicina, si è tolto di tasca le manette e mi dice con aria solenne: “La dichiaro in arresto per l’omicidio di sua moglie”. Quelle parole mi arrivano come una mazzata, vorrei piangere, ma all’improvviso mi viene in mente un qualcosa di diabolico: “ A che ora è morta?” dal fondo della stanza l’appuntato si mette ad urlare: “Da poco, è ancora calda”. “Perfetto” penso fra me, “Lo vedete che avete preso un granchio, non è forse vero che la morte può risalire all’incirca alle sette e trenta o alle otto? Allora signori mi dispiace ma per quell’ora io ho un alibi di ferro, ero in stazione e il capostazione lo potrà confermare”, mi accorgo di essere entrato nel ruolo, parlo come un attore consumato. Mi è venuta una gran nausea e devo assolutamente liberarmi lo stomaco, chiedo il permesso di raggiungere il bagno e mi viene concesso, non senza qualche raccomandazione. Passo un attimo nello studio, il quaderno aperto è ancora lì che aspetta soltanto di essere letto. È proprio quello che faccio, e con mia grande sorpresa ritrovo passo per passo la sconvolgente esperienza che sto vivendo. È dunque la mia fantasia che ha creato la morte di mia moglie e quei mostri che vorrebbero chiudermi in prigione, basta quindi riscrivere l finale per rimettere le cose al loro posto, ma per quanti sforzi faccia non riesco a buttar giù nemmeno una parola. Non sono passati nemmeno dieci minuti che l’appuntato ritorna, un poco accaldato, si è fatto le scale a piedi: “ Abbiamo controllato, nessuno l’ha visto questa mattina”. Il mio alibi è crollato, mi faccio mettere le manette senza opporre resistenza e piano dico al maresciallo: “Lei sa se dal carcere si può sentire il rumore del treno?” Mi guarda, ha capito che sono matto e scrolla la testa. Siamo in strada, è una giornata magnifica, ad attendermi c’è una macchina, persone si accalcano curiose: “Una così gran brava persona, chissà che avrà fatto?”. Qualcuno ben informato dice: “Ha ucciso la moglie”. Ma è un attimo perché l’attenzione subito si rivolge a una squadra di operai che stanno segando l’albero che sta sotto casa mia, qualcuno dice: “ Fino a ieri era così bello, sembra che ci sia caduto un fulmine”. Io lo guardo per l’ultima volta e mi viene da sorridere, ma intanto la macchina è già partita.