sogni spezzati - Giallo italiano

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sogni spezzati - Giallo italiano
SOGNI SPEZZATI
1
Quel piccolo uomo vestito di bianco col fare un po’ trasandato era venuto da un paese lontano,
oltre il mare, un paese che si dice molto ricco. Ma di questa ricchezza a questo piccolo uomo non
era rimasta che una camicia bianca e la cravatta annodata male che copriva il colletto sporco.
Era arrivato una mattina con la corriera, nascosto in mezzo ai vecchi che ritornavano dal mercato,
come un ladro, senza salutare, guardandosi in giro con aria sospettosa. Quelle facce come zolle
bruciate dal sole lo guardavano, lo scrutavano come fosse una bestia rara. Una bestia forse lo era, di
quelle che vivono in mezzo a un deserto e aspettano la preda.
Era andato subito all’unico albergo per cercare una camera, per sfuggire da quegli sguardi ostili
che lo avevano trafitto come lame ardenti. Aveva trovato la camera accogliente e fresca in quel
torrido sole estivo. Non era bella a confronto del suo comodo appartamento di un tempo, ma
quell’aria di tranquillità, di difesa dagli sguardi della gente seduta in piazza lo confortava e lo
rendeva felice.
Era la prima volta che si sentiva felice da quando aveva lasciato la famiglia, o meglio da quando
sua moglie era scappata.
La finestra dava su un cortile deserto animato solo da qualche bambino che giocava ruzzolandosi
nel fango della fontana. Era bello guardare la montagna attraverso la luce del sole, faceva male agli
occhi quell’intenso raggio di luce che costringeva a socchiudere le palpebre, ma quel leggero
fastidio gli era di immenso piacere.
Calmo, finalmente tranquillo, aprì le sue valigie, dispose con cura i vestiti nell’armadio. Si fece la
barba guardandosi nello specchio con fare un po’ sospettoso. Il suo viso era solcato da una ruga
profonda, uno scoglio che spaccava l’onda schiumosa del mare, ricordo delle battaglie perse. Non
era ancora così vecchio e nemmeno poi tanto brutto da non potersi trovare una donna e farsi una
famiglia.
Con quel pensiero fisso nella mente scese e si avviò per le stradine del paese guardandosi attorno
per poter capire cosa c’era dietro quei visi scuri che poco prima lo avevano così brutalmente ferito.
Si accorse per la prima volta delle case vecchie, fatte di pietra, troppo piccole per poterci abitare.
Quell’odore di fieno, di vino, di roba da mangiare, i bambini che giocavano a palla avvelenata
contro il muro odoroso di edera, davano la sensazione che questa gente fosse davvero felice.
La piccola chiesa in mezzo al paese sapeva di un buon odore di incenso e di vino che proveniva
dalla vicina osteria. Il paese che poco prima gli sembrava deserto, come una cattedrale dopo la
messa, era tutto lì in quell’osteria, dove quei vecchi sembravano fanciulli pieni di gioia. I loro pugni
alzati, battenti sopra le tavole esprimevano la loro rabbia, il loro odio di uomini calpestati, ma anche
la loro vitalità.
Entrare in quel buco voleva dire respirare odore di cicche e di vino, di bestemmie e di urli in un
piacevole marasma di vita. Il giovane cittadino non era abituato al frastuono di quegli sporchi
vecchi che con villaneria impressionante sputavano per terra e sboccavano il vino con un colpo
secco rivolto al pavimento.
No, non avevano di certo la sua educazione, ma stranamente qualcosa non andava, non riusciva a
distaccarsi da loro provando come sempre la sua superiorità. Sentiva dentro, non una repulsione, ma
contro ogni logica una rabbia per non sentirsi come loro. Gli era di nuovo successo di sentirsi
estraniato, colpevole di una colpa mai commessa. Lui professore di liceo discepolo di questa gente
ignorante. Ma ancora più sorprendentemente non si sentiva abbattuto, anzi era felice se non fosse
stato per quel fitto dolore di rabbia che dal suo arrivo non lo aveva più abbandonato.
Non si era ancora ripreso dai suoi pensieri quando gli si presentò una figura di donna,
meravigliosamente bella, che con un sorriso gli disse: “ Benvenuto professore, lo aspettavamo già,
sapevamo che non sarebbe potuto mancare, qui si passa la maggior parte della giornata, ma via avrà
visto tutto da sé. Cosa prende, va bene un mezzo?”
Quelle parole così marcate, ma soprattutto quella voce che si rivolgeva a lui senza paura, quasi
provocandolo, lo aveva colpito non poco. Il suo sorriso di donna non più bambina, segnata da rughe
la rendeva forse più vecchia.
Dalla sua finestra aveva visto poco prima le montagne brulle, martoriate dai raggi implacabili del
sole, era bastato un attimo per capire come dentro a quelle montagne, a quel corpo fin troppo simile,
dovesse battere il sangue gorgogliante della vita.
“ Si certo, va benissimo il mezzo” rispose senza guardarla, rosso in viso come un peperone
maturo. Lei ritornò poco dopo con la bottiglia e il bicchiere, lo appoggiò sgarbatamente sul tavolo e
se ne andò senza rivolgergli la parola.
Era rimasto disorientato dal suo fare burrascoso contrapposto ai suoi occhi dolci, dal suo viso
segnato, dalla sua bocca e dalle sue mani di fanciulla. Bevve in fretta e pagò.
Ritornò in albergo, si sdraiò sul letto stanco del lungo viaggio addormentandosi quasi subito. Si
svegliò con la luce del sole che filtrava dalle finestre che era già mattino. La gente era tutta in
piazza, era giorno di mercato. Voci, urla a testimonianza della propria esistenza.
Scese trasportato da un folle desiderio di urlare, di conoscere, di dire che anche lui esisteva. Era
felice dei suoni che colpivano violentemente i suoi timpani, era felice degli spintoni che lo facevano
traballare.
Stava ancora godendo della sua scoperta quando qualcuno gli si avvicinò. “ Professore anche lei a
fare la spesa”. Si voltò impaurito, nessuno lo conosceva, fu un attimo, subito riconobbe la donna
dell’osteria. La sua persona gli dava fastidio per il suo modo di intromettersi nei pensieri, per la sua
spavalderia, per il suo essere donna.
Senza rispondere si ritrovò a passeggiare con lei per una strada che portava in montagna. Lei
cominciò a parlare dei suoi studi interrotti in città, di suo padre che la picchiava ancora se ritornava
tardi a casa. Migliaia di parole gli colavano addosso prepotentemente, disarcionando qualsiasi tipo
di pensiero.
Quasi per non farla parlare la prese per i capelli e la sbatté per terra, come per vederla
disintegrarsi, diventare terra anch’essa.
Quante volte da ragazzo aveva corso nei campi per buttarsi nella terra appena arata. Nello sguardo
di lei pieno di odio rivide la bestemmia del contadino per il suo duro lavoro, lo sputo per terra per
sciacquarsi la gola, la gioia di un temporale settembrino che bagna il corpo, la corsa a casa a
scaldarsi accanto alla stufa.
Fu un attimo, il suo sperma scivolò nella pancia, si mise a ridere, quante volte da ragazzo era
andato a masturbarsi nei campi aspettando che dal ventre della terra germogliasse una piccola
pianta. Si riallacciò i pantaloni, lei si diede una toccatina ai capelli sfatti, si ripulì della terra, gli si
appiccicò al fianco e scesero in paese. Sembrava una ragazzina che aveva appena mangiato un
gelato, anche se stasera era diventata donna.
I giorni passarono in una monotonia incredibile, il libro che aveva iniziato non andava più avanti,
ma quel che era peggio era quel continuo mal di testa che da quello stupido giorno non lo aveva più
abbandonato.
Il paese, la gente gli era sempre più distante, il caldo opprimente che faceva deserta la piazza gli
dava un’angoscia tremenda, le frequenti gite in montagna lo infastidivano sempre più. Come si
poteva apprezzare il silenzio, la frescura, le ombre quando le parole ti colavano addosso senza
poterle fermare.
Quando si accendeva la pipa lei gli si buttava addosso strofinandogli le sue tette come una cagna
in calore, e la pipa inevitabilmente cadeva e si spegneva. Stava diventando davvero insopportabile.
Ma quando lo sperma si riversava su di lei ritornava il silenzio e la pace. Apprezzava quei momenti
come quando un contadino stanco del lavoro si refrigera con una bottiglia di vino tenuta in fresco
nella bialera. Si continuò in questo modo per almeno un mese, ma una sera lei arrivò più eccitata e
bambina del solito.
“ Devo darti un regalo” “ Vediamolo” le disse senza darle molto peso. “ Non adesso, andiamo in
montagna” rispose lei. Quell’ennesima novità lo turbò, la serata era iniziata male.
Appena lasciato il paese si sedettero al bordo del sentiero. “ Cos’è questa novità?” le disse
togliendosi subito il rospo che aveva in gola. “ Aspetto un bambino, il tuo bambino” gli rispose.
La guardò con la faccia scura e piena d’odio, era incastrato. “ Non se ne parla nemmeno, domani
parto per il mare e tu devi abortire”.
La sua faccia di bambina d’un colpo si trasformò in quella di donna, i suoi occhi luccicarono, si
alzò di scatto e corse via. Rimase sbigottito da quel comportamento, forse era andata meglio del
previsto. Ridiscese in albergo, preparò le sue cose, saldò il conto e come un ladro prese la prima
corriera.
Un mezzo sorriso si stampò sulla sua faccia, a mezzogiorno avrebbe fatto il bagno in mare e si
sarebbe scrollato di dosso la terra di questo insignificante paese.
2
Andrea era un ragazzotto robusto, ma non si poteva di certo definire un bel ragazzo,
sproporzionato com'era. L'altezza non gli mancava ma quel continuo portare avanti il corpo lo
rendeva parecchio instabile e persino ridicolo quando alla domenica si vestiva a festa, con la giacca
sempre troppo stretta e i calzoni corti che mettevano in mostra dei calzini mai intonati al resto del
vestito. Era uno spasso vederlo chino sulla terra intento a zappare con tutti quei muscoli in
esibizione, tanto che le donne smettevano di lavorare per guardarlo, immaginando chissà quali
scene d'amore.
Andrea passava le sue giornate ad aiutare i genitori in campagna, godendo dello sforzo fisico che
metteva a dura prova il suo corpo. Alla sera preferiva rintanarsi nel fresco della casa a leggere
qualsiasi libro che gli capitasse a tiro, soprattutto quelli di avventura che gli permettevano di
conoscere nuove terre che forse non avrebbe mai visitato. Qualche volta si ritirava in collina a
godere dei rumori del vento in mezzo alle foglie, dei versi degli animali più strani o dell'ansimare
delle giovani coppie che si nascondevano nell'oscurità, in quei momenti la terra sembrava gemere di
piacere.
Raramente Andrea usciva di casa per concedersi uno svago, solamente alla domenica pomeriggio
andava nella vicina osteria per sedersi da solo a sorseggiare un bicchiere di vino che nemmeno
finiva. Gli piaceva starsene in mezzo a quella gente chiassosa, allegra e carpire dalle loro voci le
storie più incredibili.
Ma la sua attenzione si rivolgeva spesso alla Luisa, la figlia del proprietario, una ragazza piccolina,
forse neanche bella, ma con un corpo che sprigionava un'incredibile gioia di vivere. I suoi vestiti
troppo stretti mettevano in risalto due grossi seni da latte, passava tra i tavoli sfiorando gli uomini
che andavano in visibilio. C'era per loro sempre una parola gentile, se qualcuno si spingeva oltre
toccandole il sedere lei lo lasciava fare offrendo il suo corpo come una sorgente offre la sua acqua
al contadino stanco dal lavoro.
Nessuno aveva mai osato insinuare una qualche cattiveria sul suo conto, da tutti era amata di un
amore profondo, persino dalle donne a cui aveva soffiato il marito per una sera e non di più, una
scappatella che sapeva di una bevuta di troppo. Soltanto quando diventava seria e incominciava a
parlare di andare in America, dove si faceva fortuna con poco, quando parlava del mare come un
sogno di libertà da quel piccolo paese così incastrato in quelle montagne che coprivano anche il
cielo, veniva considerata un poco pazza. Andrea aveva preso l'abitudine di passarle i suoi libri che
divorava immediatamente durante una notte.
Una domenica come tante Andrea si presentò all'osteria ma si accorse subito che non c'era la solita
aria, musi lunghi, poco vino nei bicchieri, il padrone che girava tra i tavoli in preda a uno stato di
agitazione che avrebbe sfogato volentieri con qualche cliente un po' più esigente del solito, di Luisa
nessuna traccia. Venne a sapere da un vecchio che parlava troppo che era scappata di casa, aveva
scritto un biglietto al padre: “Ringrazio tutti ma io devo andare in America”.
Da quel giorno la vita di Andrea cambiò improvvisamente, non andò più per i campi a lavorare,
diventò ozioso, passava le sue giornate seduto sotto il portico della casa con lo sguardo perso nel
vuoto. Diradò anche le visite in collina che era diventata improvvisamente muta, senza animali,
senza vento, solo gocce di rugiada che altro non erano che le lacrime degli uomini abbandonati.
Le sue visite all'osteria diventarono sempre più frequenti, non tanto per ricercare uno svago ma per
riuscire a carpire qualche notizia di Luisa. Aveva intanto preso l'abitudine di scolarsi quasi un litro
di vino, lui che era così morigerato, stava diventando un ubriacone. Finalmente dopo tanto aspettare
e tanto vino ascoltò una frase che lo fece trasalire: “Hanno visto la Luisa a Genova, fa la serva
quella matta altro che America!” Superando la sua ritrosia si avvicinò al tavolo riuscendo a sapere
persino l'indirizzo.
Aveva deciso, il giorno seguente sarebbe partito per Genova, ritrovò di colpo il buon umore e si
avviò fischiettando verso casa, mise al corrente dei suoi propositi i genitori ricevendone in cambio
una scrollata di capo.
Il mattino seguente si alzò di buon umore come se avesse dovuto andare nei campi, lo accolse
l'aria fresca del mattino che lo svegliò completamente, attraversò il paese ancora immerso nel
sonno, solo qua e là qualche trattore stava uscendo dalle stalle, delle donne riassettavano i cesti
della frutta e preparavano la colazione.
Arrivò in stazione con largo anticipo, c'era già gente che aspettava, infondendo in tutta la sala un
forte odore di tabacco. Quando arrivò il treno, riuscì a trovare un posto a sedere scaraventando per
terra un'oca che pacificamente si era seduta nell'unico posto libero. Andrea provò un senso di
amarezza nel lasciare quei posti che così tanto amava, ma il desiderio di incontrare Luisa lo rendeva
felice come mai lo era stato, scivolò rapidamente in un sonno profondo per combattere l'ansia
dell'incontro.
Si risvegliò quando ormai il treno stava percorrendo la periferia della città, si affacciò al finestrino,
un caldo vento che sapeva di sale e di muffa lo disgustò, intravvide cortiletti stracolmi di macchine
dove bambini che sembravano straccioni giocavano a chissà quale gioco. Che mondo era mai
questo, senza colore e senza gioia, ma lui non era venuto per guardare ma per trovare Luisa.
Scese alla stazione centrale con la bocca impastata e una gran voglia di sciacquarsi la gola, si
fermò a bere un bicchiere di vino caldo che per poco non lo fece vomitare, doveva ritornare a casa il
più presto possibile. Si tolse la giacca, si sbottonò la camicia zuppa di sudore e con la sua andatura
buffa s'incamminò verso la destinazione facendosi largo tra la folla a suon di gomitate. S'incuneò
nei vicoli male odoranti e troppo chiassosi e arrivò proprio sotto la pensione dove lavorava Luisa.
Suonò un campanello dal suono stridulo, dal piano superiore si affacciò una signora grassa che gli
fece cenno di entrare, salì le scale stando attento a non toccare il muro sgretolato dalla muffa. La
proprietaria l'accolse con la sua aria da sergente, le mani sporche e la fronte imperlata di sudore.
“Desidera una camera da letto per la notte?”, Andrea le rispose: “No signora, cerco una certa Luisa,
dovrebbe lavorare da voi”. “Quella puttana l'ho cacciata proprio stamattina” gli rispose e gli
raccontò tutta la storia.
Luisa aveva veramente cercato un imbarco, ma non aveva i soldi necessari e così aveva accettato
l'amicizia di un giovane, all'apparenza ricco, che le aveva promesso di imprestarle quello che
mancava. Ma quando l'aveva portata a casa aveva abusato del suo giovane corpo di contadina,
rubandole anche tutto il denaro. Così si era ritrovata sulla strada senza nemmeno un soldo per
mangiare, ma di ritornare a casa nemmeno se ne parlava, era troppo orgogliosa.
Aveva accettato quel posto nella pensione, faceva bene il suo lavoro, ma i clienti la guardavano in
un certo modo e quando la padrona si era accorta che da quella ragazza ci poteva uscire un bel
mucchio di soldi l'aveva indotta a prostituirsi. Ma le rare volte che costretta dal desiderio di
comprarsi un vestito nuovo aveva ceduto, l'aveva fatto per forza e il cliente era rimasto sempre
insoddisfatto e si era lamentato. Luisa quelle cose le faceva solo per amore, i soldi per lei non
avevano importanza.
Alla fine di quel racconto Andrea si trattenne dallo schiaffeggiare quella donna disgustosa,
ridiscese le scale e si mise alla ricerca di Luisa, chiedendosi dove potesse essere andata. Entrando in
un bar buio che non sapeva per niente di vino, intravvide losche figure che scherzavano
volgarmente attorno a un tavolino, e seduta in disparte una figura piangente, sporca in viso, il corpo
deformato da una maternità fatta di violenza e di sopraffazione.
Andrea la prese per il braccio e la trascinò fuori, fecero pochi passi e raggiunsero il mare. Luisa
smise di piangere, si lavò la faccia, Andrea le disse: “Tuo padre è stanco, ieri sera abbiamo parlato,
mi ha proposto di rilevare il negozio, cosa ne pensi?” “Sono contenta per te, finalmente ti toglierai
da quei campi” rispose lei guardandolo in viso. Andrea le ravviò i capelli bagnati e disse: “A casa
tutti ti aspettano, da quando non ci sei più tu è un mortorio”. “Va la” gli rispose. Prendendola per
mano replicò: “Se vuoi c'è di nuovo il tuo posto all'osteria e per il bambino vedrai che riusciremo a
tirarlo su”. Non gli rispose, ma gli si appiccicò al fianco, la sera stessa avrebbero già fatto ritorno al
paese.
La storia finisce qui ma giurerei che quel bambino quando sarà grande avrà un'andatura un po'
buffa e andrà nelle serate estive a godere dei gemiti della terra che da quando sua madre è ritornata
ha ricominciato a godere.
3
Aveva chiuso la sua partita in una fredda giornata, dove l'unico segno di vita era il fumo che
usciva dalle narici. Ora era disteso sulla neve, nemmeno una sciarpa al collo, lo sguardo teso oltre il
muro appena scrostato, sembrava un bambino che giocasse. Ci si sarebbe aspettati che da un
momento all'altro si alzasse a tirare le palle di neve ai curiosi che sfidando il freddo si erano
assiepati intorno al suo corpo, quasi volessero scaldarlo. Ma dalle sue narici non usciva fumo,
possibile che avesse deciso di dormire proprio in quella situazione e con quel freddo?
Qualcuno si avvicinò spostando leggermente il corpo che rotolò formando nella neve fresca una
sagoma un poco deformata, un rivolo di sangue scese dalla testa inzuppando il terreno a formare
una macchia rossa che sembrava vino versato da una mano un poco tremolante.
Un uomo vestito per benino e dall'aria saccente emise la sua sentenza: “E' una squallida storia di
matti” e la gente come d'incanto si ricordò del tempo perso a vegliare un morto e si disperse nei
negozi ad acquistare le ultime cose.
Il corpo fu fatto sparire in fretta e furia, intanto la neve aveva fatto il resto ricoprendo con il suo
candore verginale il segno lasciato dal corpo e la macchia rossa che faceva da contrasto al
paesaggio.
Un gruppo di ragazzini che abitualmente dopo la scuola si intrattenevano ad ascoltare le storie di
quel vecchio, fatte per lo più di fantasmi, ombre disegnate per terra con la voce di un vento filtrato
in qualche casa diroccata, incominciarono a modellare con la neve un grande pupazzo che pian
piano, sotto le loro mani inesperte, assomigliava in modo impressionante al vecchio matto. Quando
fu terminato qualcuno si tolse la sciarpa per ripararlo dal freddo, come stava bene quella statua
proprio sotto a quella di Garibaldi, non era forse così austera ma faceva la sua bella figura. Che
peccato che con la bella stagione si sarebbe sciolta e non sarebbe rimasto più niente lasciando la
piazza nuda, due statue avrebbero forse dato fastidio.
Il vecchio era nato in un paese dominato da un castello che ancora oggi incute timore e rispetto
con la sua ombra grigia che oscura il poco sole che riesce a filtrare attraverso la fitta nebbia; grosse
mura un poco sgretolate dal tempo sembrano racchiudere chissà quali segreti. I suoi abitanti erano
per lo più contadini che uscivano presto al mattino per andare nei campi a lavorare, ma quando
arrivava la sera erano pronti a rientrare dentro le loro calde mura, quasi avessero paura di rimanere
chiusi fuori per sempre.
Ma anche in quel paese dimenticato da Dio, prima dell'inverno si verificava un evento, era la visita
di un piccolo circo senza animali, né numeri spettacolari, le uniche bestie erano due cagnolini che si
guadagnavano la zuppa facendo un numero tra il divertente e il patetico. Al cospetto di quelli che
giravano le grandi città faceva ridere, niente luci, niente pennoni colorati, niente inservienti che
giravano tra le panche vendendo palloncini colorati e noccioline americane.
Ma quanto entusiasmo portavano. La vita del paese si interrompeva per un giorno, non solo i
bambini correvano incontro sbraitando e applaudendo, ma anche gli uomini ritornavano dai campi e
andavano a prendere le proprie mogli proprio come alla domenica quando si andava alla messa; si
capiva che non era domenica dal vestito un poco sgualcito.
Per un giorno quelle montagne si aprivano e diventavano pianure fertili dove anche senza la mano
dell'uomo veniva su tutto quello che volevi, il gatto di casa si trasformava in una tigre pronta ad
azzannarti, e si vivevano avventure d'ogni tipo prese in prestito da qualche giornale a fumetti o dalla
Domenica del Corriere. Ma tanto entusiasmo svaniva quasi subito nel vederli arrivare, sembravano
più che artisti dei terremotati in cerca di casa, i loro sogni di leoni, tigri, donne poco vestite si
scontravano violentemente con i loro cani spelacchiati e il loro aspetto per niente rassicurante.
Anche la proprietaria che un tempo doveva essere stata una bella donna non suscitava più nessun
entusiasmo, la fatica del duro lavoro, i figli fatti con troppa frequenza per procurarsi manodopera,
l'avevano avvicinata alle mogli di quel paese. Ma sulla scena aveva la proprietà di trasformarsi, si
metteva una tuta color carne che la stringeva talmente da eliminare tutte le sue imperfezioni e da
distante la si poteva immaginare come una Venere uscita dall'acqua e gli applausi non si facevano
aspettare, e poi c'erano anche gli animali feroci che altro non erano che i figli travestiti in modo
impeccabile.
Lo spettacolo riscuoteva un gran successo, e all'uscita c'era sempre qualcuno che infilava una
mano sotto la gonna della moglie, la strada per ritornare a casa si allungava per perdersi in mezzo
alle campagne, e non era raro sentire dei gemiti simili ai guaiti dei lupi delle praterie americane.
Ma le rappresentazioni erano poche, quando i primi fiocchi incominciavano a cadere dovevano
smontare tutto se non volevano rimanere intrappolati nella valle. E non c'era anno che qualcuno di
quei giovani non scappasse con loro e facesse perdere le sue tracce per sempre.
Da bambino, il vecchio matto si era appassionato ai libri tant'è che quando andò a scuola ne sapeva
più del maestro che si fermava spesso per sentirlo parlare, e alcune volte era proprio lui che teneva
la lezione, ma la scuola non gli piaceva un granché con quell'odore di chiuso e quei banchi troppo
stretti che sembravano tenerlo prigioniero. Le rare volte che accompagnava suo padre non era di
certo per aiutarlo, di sudare non ne aveva voglia, ma gli piaceva correre per i campi dietro al suo
cane e sentire il linguaggio della natura, il vento che soffiava tra le foglie di un vecchio albero che
chiedeva aiuto, il gemito della terra sotto i colpi della vanga assassina. Per quanto corresse veloce,
c'era sempre qualche ostacolo, un muro o qualsiasi altra cosa che lo fermavano, mentre il suo cane
lo superava brillantemente e lo guardava prendendolo in giro: oh come avrebbe voluto
assomigliargli un poco!
Più passavano gli anni più il paese gli diventava stretto proprio come il vestito della prima
comunione che si porta ancora quando già si guardano le prime ragazzine. Un giorno all'insaputa di
tutti varcò la soglia di quelle mura in cerca di un po' di luce, di sole ma non per scaldare le sue
giovani ossa e s'imbarcò su una grossa nave senza curarsi della destinazione.
Nei primi giorni lasciò correre la sua fantasia come quei gabbiani che seguivano la nave contenti
degli scarti che i marinai per combattere la noia gettavano in mare, ma la barca andava via senza
nemmeno un gemito, il sole sulla sua testa non disegnava un'ombra, pian piano la solitudine
l'attanagliò, e quella distesa d'acqua senza nemmeno un ostacolo gli venne a noia.
Ritornò in paese e passò la sua esistenza a sognare un mondo senza muri, e quando ormai s'era
messo a parlare con le ombre delle persone disegnate per terra, l'avevano rinchiuso in manicomio. E
oggi era corso contro al muro di recinzione della sua prigione. Chissà se finalmente era arrivato alla
meta.
4
Era un piccolo paese poco discosto dalla strada che portava al Santuario dell'Assunta, i pochi
abitanti si erano dedicati al turismo dei pellegrini che ogni domenica affollavano la chiesa, non si sa
bene se per devozione o per assaporare l'aria fresca e pura di quelle montagne. Di conseguenza
erano sorti dei piccoli laboratori artigiani che producevano oggetti sacri in legno, di rado si vedeva
ancora qualche vecchia scendere con la fascina in testa, ma anche questo faceva parte del
paesaggio.
Certamente giravano più soldi, nelle case non mancava la televisione a colori, ma la gente era più
triste quasi fosse consapevole di essere una stirpe in via d'estinzione; rare erano diventate le visite
all'osteria tanto che il proprietario aveva espresso il desiderio di vendere tutto.
Si parlava poco e ancora meno si cantava, lasciando spazio alla radio e ai mangianastri dei turisti. I
nativi del luogo disertavano la chiesa, e soltanto nel giorno dell'Assunta partecipavano numerosi
alle funzioni quasi volessero ringraziare la Madonna di essere ancora vivi.
Anche quest'anno per la festa i portici si erano riempiti di mercanzie di ogni genere, il prato di
fronte alla chiesa era stato occupato dalle giostre, era tutto un brulicare di gente, di suoni, di fritto
nauseante.
Era arrivato anche un carrozzone con una famiglia di zingari, il padre era un uomo magrolino con
una giacca di due taglie più grossa, si esibiva in numeri spettacolari di grande acrobazia,
privilegiando quelli che potevano mettere in risalto le sue qualità di uomo forte a dispetto della sua
corporatura. I figli facevano lavorare una scimmietta accompagnandola con i loro rozzi strumenti.
La gente passava guardandoli con disprezzo, soltanto Marco si fermò ad ascoltare la ragazza dai
capelli neri sciolti sulle spalle, attratto non tanto dalla musica, aveva sentito di meglio, ma dal suo
corpo che vibrava come le corde di un violino desideroso di essere domato.
Marco era un tipo che la gente definisce un matto, non aveva voglia di lavorare, e passava le sue
giornate a battere su qualsiasi cosa potesse emettere un suono; per lunghi periodi non si vedeva in
giro e le rare notizie che giungevano al paese lo davano in qualche città a fare il menestrello.
I due giovani fecero subito amicizia nonostante il padre non vedesse di buon occhio una perdita di
tempo che gli sarebbe costata parecchio denaro.
Una sera disertando la processione dei Cristi fuggirono in collina e prima che scoppiassero i fuochi
avevano già fatto l'amore. Sull'erba umida della notte, quando una stella cadde dal cielo si
scambiarono la promessa che non si sarebbero più lasciati. Trovarono ospitalità per la notte in un
vecchio casolare, addormentandosi quasi subito, si vedeva che erano abituati ai giacigli di fieno.
La mattina il padre cercò la figlia, sembrava diventato matto, se la prendeva con chiunque gli
capitasse a tiro, disse che si sarebbe rivolto ai carabinieri se sua figlia non fosse tornata prima della
sua partenza.
Tanto chiasso svanì in un attimo quando decise di caricare tutta la sua roba sul furgoncino e di
partire, bisbigliando fra se: “Una bocca in meno da sfamare”.
Intanto i due innamorati accertatisi della partenza del genitore e spinti dalla fame ritornarono in
paese tra lo stupore di tutti. Affittarono una vecchia casa abbandonata, era uno spettacolo vedere
Marco al lavoro, sudare sul tetto e mangiare un panino in piedi per non perdere tempo, la brutta
stagione era alle porte e la casa doveva essere finita prima che nevicasse. Alla sera quando il sole
calava e le tenebre non permettevano più di lavorare si fermavano e incominciavano a suonare e
cantare fino a tarda notte addormentandosi all'aperto come due bestie.
La casa fu finita, tra lo stupore di tutti, prima dell'inverno ed ospitò una miriade di gente che
veniva da ogni parte, la maggioranza erano amici di Marco, gente strana che proveniva dalla città,
ma anche dai paesi vicini, vi erano poi gli amici di lei, artisti senza patria che si esibivano nei teatri
delle piazze e all'angolo di qualche strada.
Il paese si popolò improvvisamente e fino a tarda notte non ritrovava la sua pace, il malcontento
aumentò quando quegli strani esseri presero l'abitudine di scendere in paese a insidiare le ragazze,
costringendo i genitori a tenere in casa quelle giovani donzelle troppo desiderose di qualche
avventura erotica. Le beghine del paese costrinsero il maresciallo a fare una visita in quella casa che
ben presto aveva preso il nome di “Casa del diavolo”.
Ma la visita non sortì alcun effetto, tutto era in regola, anzi i carabinieri accettarono di buon grado
un bicchiere di vino fresco.
Intanto il campo intorno alla casa cominciò a dare meravigliosi frutti che suscitavano l'invidia dei
vecchi contadini.
Il muro di diffidenza si ruppe definitivamente con la nascita della piccola Elisa, una bambina
bellissima e piena di vita che divenne ben presto l'amica di tutti.
La casa era sempre illuminata, e c'era sempre festa, rare erano le volte che il buio sconfiggeva le
luci dei falò e il silenzio della montagna quello della musica, le ragazze riuscivano sempre più
spesso ad eludere la sorveglianza dei vecchi che d'altronde diventava ogni giorno più blanda.
Pian piano le notti furono invase da giovani coppie che aspettavano il sorgere del sole coi corpi
bagnati dalla rugiada. L'osteria per fortuna dell'oste che aveva resistito ai tempi magri, si riempì di
gente chiassosa e allegra e quando il vino aveva fatto il suo effetto andavano tutti alla casa del
diavolo per ascoltare la musica.
Ma alla montagna tanto chiasso e tanta luce non fa piacere, il vento ben presto riprese il suo ruolo
di primo attore nell'orchestra della natura, nuvoloni si addensarono nel cielo, era in arrivo il
temporale che costringe i musici a sospendere l'esibizione.
Fu così che un giorno, sorpassando le competenze del maresciallo venne dalla città un manipolo di
soldati accompagnato dagli uomini di una immobiliare che aveva acquistato tutta la cascina per
farne un albergo. Il tenente esibì l'ordine di demolizione, Marco protestò, volarono parole grosse,
qualche spintone, la gente si chiuse in casa sperando che la bufera si risolvesse in un niente di fatto,
ma non fu così, le ruspe arrivarono di lì a poco e compirono l'ingrato compito.
A Marco e ai suoi compagni non rimase che andarsene, ma qualcosa finalmente successe, la gente
uscì di casa, le donne andarono a baciare i loro uomini alla luce del sole, in breve tempo si mise su
un gran banchetto e tra roba da mangiare e suoni si festeggiò la partenza di questi giovani eroi,
anche il parroco si sentì obbligato a festeggiare e suonò le campane proprio come nel giorno
dell'Assunta.
Se qualcuno vorrà risentire la loro musica non dovrà fare altro che passeggiare in qualche strada,
loro saranno lì a guadagnare qualche spicciolo per tirare avanti.
5
Marco era nato in un piccolo paese del Cuneese, suo padre non era certamente ricco, ma nella sua
casa grazie a qualche giornata di terra e alle quattro bestie che avevano nella stalla sulla sua tavola
la polenta e il latte non erano mai mancati.
Suo padre usciva presto per andare al lavoro sotto padrone, la terra da sola non bastava, lasciando
a Marco e a sua madre i compiti da svolgere per l'intera giornata. La madre povera donna si
ammazzava di lavoro cercando di coprire le sue scappatelle in collina a rincorrere fantomatici orsi.
Alla sera sulla sedia a dondolo ascoltava i rumori che provenivano dalla cucina e lo sbraitare dei
cani che stavano dietro al padre che rigovernava la stalla.
Quando si fece più grandino il maestro disse ai genitori che aveva la testa fine e sarebbe stato un
peccato l'avesse usata per coltivare grano, quello sarebbe venuto su da solo.
Una sera sentì attraverso l'uscio della camera da letto la voce del padre: “Non ha la stoffa per
diventare contadino, per maneggiare una zappa non bisogna pensare se no ti ritrovi che a fine
giornata non hai fatto niente, non lo voglio vedere morire di fame il mio figliolo”. E così qualche
giorno dopo partì per un collegio di suore senza entusiasmo e con un gruppo in gola.
Durante le vacanze Marco ritornava a casa e il padre lo portava all'osteria dove c'erano gli amici,
lo faceva parlare, e loro lì a bocca aperta ad ascoltare un ragazzino, era quasi diventato un
fenomeno da baraccone.
Quando abbandonò l'università di Giurisprudenza per quella di Lettere diede il primo dispiacere al
vecchio che, in una
lettera dal sapore triste gli spiegò che da avvocato un posto
nell'amministrazione dello Stato l'avrebbe trovato e invece così... Poveretto non avrebbe più potuto
vantarsi con gli amici, di professori se ne trovano a iosa, anche al paese ce n'era uno e per di più era
considerato matto.
Si applicò nello studio, almeno in questo era rimasto contadino, conseguì la laurea brillantemente e
altrettanto brillantemente si ritrovò senza lavoro adattandosi a scaricare frutta al mercato generale,
si lavorava da matti ma almeno il mangiare era assicurato e poi molta della frutta veniva dalla sua
regione, sembrava di essere un poco a casa. In quelle mattine di freddo quanti amici incontrò che
erano partiti dal paese con mille progetti e adesso si ritrovavano qui con una mano davanti e l'altra
di dietro.
Nel frattempo riuscì a collaborare con qualche giornale e questo gli portò una certa agiatezza, i
soldi per le sigarette e un cinema infrasettimanale ci uscivano.
Fu assunto a Tuttosport, aveva mandato centinaia di lettere, di sport non ne capiva niente, ma
quando lo chiamarono fu felice del nuovo lavoro che gli avrebbe permesso di girare molto, odiava
starsene seduto dietro una scrivania tra le scartoffie. Quando uscì il primo articolo fu tanto felice
che ne mandò una copia al padre che l'appese nell'osteria proprio accanto alla foto sbiadita di Coppi.
E oggi lo avevano mandato in quel paesino della sua infanzia per scrivere un articolo sulla finale
del torneo di pallone elastico tra la squadra locale e quella di una piccola cittadina della Riviera
Ligure, una guerra di poveri insomma, la loro battaglia sarebbe finita sul giornale sotto forma di un
trafiletto nelle pagine interne degli sport minori. Non aveva dovuto far molto per ottenere quel
servizio visto che nessuno ne aveva fatto richiesta, tutti impegnati a seguire le ultime battute del
calcio o della corsa automobilistica che si sarebbe svolta proprio quella domenica.
Marco si servì del treno, era troppo emozionato per poter guidare e poi era lo stesso che avevano
preso quasi tutti gli uomini del paese per andare a lavorare in città o a cercarsi qualche donna
meridionale vista in fotografia perché quelle del paese non avrebbero mai sposato un contadino.
Per tutto il viaggio si lasciò trasportare dal rullio del treno con gli occhi fissi al finestrino nel
vedere scorrere paesaggi presi da qualche film in bianco e nero, con quei casermoni altissimi che
coprivano un cielo senza sole. Ma pian piano il paesaggio riprendeva colore e vita, stava arrivando a
destinazione. Riconobbe i campi di granoturco, si sentì la faccia tagliata dalle foglie, gli occhi
incrostati dalla polvere, quante volte si era inoltrato in quella giungla con una sensazione di paura,
mai sicuro di ritrovare la via d'uscita. Ma altre volte vi aveva trovato rifugio, gli piaceva udire la
voce del padre attutita dalle foglie che lo richiamava ai suoi doveri, e lui steso a contemplare un
formicaio appena svegliato, nessuno lo avrebbe trovato perché nessuno si sarebbe inoltrato in quel
castello custodito da ombre di ogni genere.
Arrivò che il sole era già alto ed il paese era già in festa. Notò subito che si era ingrandito, era tutto
un brulicare di villette e alberghi che avevano persino mangiato la montagna, oggetto delle sue
scappatelle notturne. Una grande strada come non se ne vedono in pianura tagliava la valle come
una ferita da coltello, girò lo sguardo e vide finalmente un'agglomerato di case fatte di pietra, si
inoltrò per i minuscoli viottoli che sapevano di terra e di letame, sbucando nella piccola piazza della
chiesa. C'era gente che usciva dalla messa, un forte odore di vino veniva dalla vicina osteria che era
stata trasferita, forse perché l'odore di vino e di tabacco da pipa dava fastidio.
Cercò invano il vecchio sentiero che portava in collina, durante la settimana per lavorare nei
campi, e nei giorni di festa vestito a nuovo, con i gerani appesi alla finestra, accoglieva le coppiette
in cerca di un po' d'intimità.
Il paese, come se avesse vergogna ,si era nascosto nel grembo della sua terra tant'è che dalla strada
quasi non si scorgeva, lasciando via libera ai bar stile americano con il loro inconfondibile odore di
whisky e il rumore di flipper sempre accesi. Una folla di sfaccendati, con la faccia annoiata,
passeggiava senza meta, cosa erano venuti a fare? Ma d'altronde il posto era bello e l'aria buona,
l'ideale per passarci una vacanza.
Entrò nell'unico negozio che ancora riconosceva a farsi un panino. L'accolse una voce stridula che
lo fece sobbalzare, lo avevano riconosciuto. “Ciao Marco, cosa ci fai da queste parti?” Era il Luigi
con il solito grembiule unto che metteva in evidenza il grosso pancione e una faccia rotonda come
una mela. Gli strinse la mano asciugandosi il sudore che scendeva copioso dalla fronte. La voglia di
mangiare gli passò di colpo.
“E' arrivata la stampa per immortalarvi” rispose sorridendo e spiegando quanta strada aveva fatto
dal giorno della sua partenza.
“Hai visto i forestieri hanno comprato tutto, in campagna nessuno voleva più andarci, troppa fatica
e nessun guadagno, i giovani di oggi non hanno tempo d'aspettare” disse il Luigi invitandolo a
sedere nel retro buio e forse troppo sporco per un alimentari.
“Con tutta sta gente chissà che incassi” replicò per risollevare il discorso e metterlo un po' di buon
umore.
“Lo sai mi hanno offerto un sacco di milioni per questi quattro muri” “E tu?” gli chiese. “Io niente
morirò commerciante”.
Questa gente aveva sempre saputo cavarsela, si ricordò che il padre gli raccontava di come i suoi
vecchi andassero in giro per l'Italia a tagliare le trecce delle donne pagandole quattro soldi per farne
delle parrucche.
“E la Ginetta?” replicò Marco, sorridendo nel vedere la montagna di toma bianca che vendevano
ad un prezzo esorbitante ai turisti spacciandola per produzione propria.
“Te la ricordi ancora?” “E come non potrei è stato il mio primo amore” rispose il Marco.
Luigi rattristandosi gli spiegò: “Aveva messo su una bella fattoria la Ginetta, incominciava a
guadagnare qualcosa ma una domenica scappò con un bell'uomo che era venuto fin quassù per la
campagna elettorale.” Parlava della Ginetta come fosse sua figlia, Marco si accorse delle lacrime
che stavano scendendo mescolandosi con il sudore e tagliò il discorso dicendo: “Lo sai Luigi le
donne quando vedono un paio di pantaloni gli si appiccicano dietro”.
Intanto il campanello della porta aveva suonato avvertendo Luigi che era entrata gente, Marco
approfittò dell'occasione per salutarlo e uscire in strada. Sulla porta gli disse: “Vieni a trovarmi
dopo la partita parleremo più comodamente”.
Le bancarelle avevano già esposto la loro mercanzia, era tutto un susseguirsi di giocattoli, di roba
da mangiare di palloncini scappati di mano a bambini distratti. Arrivò nella piazza, il rumore si era
un po' affievolito, la piccola folla uscita dalla messa non si era ancora dispersa. I giovani e i vecchi
parlavano animatamente della partita ormai prossima, un uomo più anziano si era preso la briga di
accettare scommesse, qualche ragazzino correva allo sferisterio provando le palle.
Marco passò le ore che rimanevano all'incontro bevendo vino e spendendo gli ultimi soldi nelle
scommesse.
Lo sferisterio era ricolmo di gente, qua e là persone raffinate assistevano allo spettacolo con aria
critica di antropologi. In campo c'erano atleti poco belli a vedersi, e poi un boato, una parte del
campo conquistata, qualche donna con la sigaretta americana sorrideva e prendeva in giro gli
uomini che ancora s'illudevano di conquistare una fetta di terra che non gli apparteneva più. Un
altro boato, la palla scaraventata fuori dello sferisterio, chissà se in città avranno sentito il colpo del
pallone sulla mano.
Marco si alzò per ritornare a casa, stasera avrebbe telefonato per sapere il risultato.
6
Olga viveva in una casa quasi diroccata in cima ad una collina, dove gli unici rumori erano quelli
del vento che si intrufolava nelle finestre senza più vetri o in qualche crepa dei muri rosicchiati da
erba selvatica, o i versi di qualche animale notturno, pochi per la verità e ill fischio del treno, degli
unici due treni locali che passavano nell'arco della giornata.
Ormai tutti i macchinisti la conoscevano e già in lontananza facevano sentire la loro presenza, lei
si catapultava giù dal sentiero e in quattro salti arrivava alla ferrovia.
Era un treno con due sole carrozze, ferraglie grigie, dall'aspetto decisamente triste, aveva qualche
difficoltà ad affrontare la curva, era venuta anche per lui l'ora della pensione. Quando arrivava alla
stazione di Acqui lo dirottavano su un binario tronco, un poco in disparte dagli altri forse per
evitargli un'ulteriore umiliazione.
I passeggeri, per lo più gente anziana che aveva difficoltà a muoversi, salutavano quella selvaggia
con un piccolo gesto della mano, perché non avevano la forza per tirare giù i finestrini incrostati
dalla ruggine.
Un tempo quando non c'era ancora la ferrovia la collina era tutta abitata, coltivata e si produceva
un buon bianco da far invidia a quello di Gavi.
Alla fine della vendemmia si faceva una gran festa, le note dei balli risuonavano per tutta la
collina, inframmezzati dai gemiti delle donne che si facevano montare anche solo per un bicchiere
di vino.
Olga dava il via alle danze, era la più bella con quella treccia nera che arrivava fin quasi al
sedere, ne aveva avuti di uomini, ma erano durati una sola notte, il tempo di una scopata quasi mai
soddisfacente, era sempre in attesa di un uomo che la facesse godere davvero.
Poi pian piano come in una malattia senza speranza i vigneti andarono in malora e i giovani
abbandonarono le case. Ci fu un periodo in cui non si contò nemmeno una nascita ma, in compenso,
il parroco era impegnato quasi tutti i giorni a celebrare un funerale e forse per il troppo lavoro un
giorno lo trovarono morto nel suo letto in canonica. La chiesa fu chiusa per sempre e servì da
dimora a qualche animale ferito dai bracconieri. Fu costruita la ferrovia.
La vigna di Olga resisteva, lei ogni mattina si alzava e andava a guardarla nella speranza di vederla
morire e poter così raggiungere i suoi amici in qualche bella città. Non sarebbe andata distante, le
piaceva Genova non perché l'avesse visitata, ma perché l'aveva vista in una vecchia cartolina in
bianco e nero che qualcuno le aveva regalato.
Ma la vigna veniva su a dispetto di tutto, il padre aveva preso il vizio di ubriacarsi e passava tutte
le sue giornate all'osteria o a letto o a picchiare lei e la madre.
Olga aveva sempre la speranza che tutto questo sarebbe finito e avrebbe potuto prendere quel treno
che tanto amava.
Nel giro di un anno la madre morì di crepacuore e il padre scomparve in un burrone poco distante
da casa: era giunto per Olga il tempo di partire, ma in quel momento si accorse che era diventata
troppo vecchia. Che lavoro sapeva fare? Quale uomo l'avrebbe mantenuta? Le sue galline e i suoi
conigli ormai erano diventati la sua famiglia e poi c'era quel treno che passava tutti i giorni a
scandirle il tempo. Cosa avrebbero pensato i macchinisti nel non vederla più? Sarebbe morta in quel
paese, popolato da fantasmi, anime morte.
Un maledetto giorno di settembre, proprio nei giorni della vendemmia che per lei ormai
significavano pigiare qualche grappolo d'uva per ricavarne non più di una decina di bottiglie, sentì
in lontananza un fischio di treno, forte, acuto, quasi imperioso; Olga non possedeva un orologio,
ma dalla posizione alta del sole sembrava troppo in anticipo per essere il suo locale. Era titubante,
doveva essere successo qualcosa di strano, poi udì altri fischi sempre più vicini, sembrava la
chiamassero con insistenza, si precipitò giù dal sentiero e si avvicinò alle rotaie, fu un attimo,
l'intercity per Genova dirottato su quella linea, non si sa per quale motivo, la risucchiò senza quasi
lasciare traccia di lei. Qualche giornale locale riportò la notizia in piccoli trafiletti senza nemmeno
indicare il suo nome e la sua età.
Ma il treno ogni volta che passa dalla sua casa fischia ancora e nei mesi di settembre e ottobre
qualcuno scende per raccogliere un grappolo d'uva dalla sua vigna che, nonostante tutto, darebbe
ancora un ottimo vino.
7
Il vecchio Johnny abitava nell'unica casa in mezzo all'aperta campagna, circondata da un alto filo
spinato e controllata da cani dall'aria per niente rassicurante.
Era un'impresa raggiungere quel posto quando la neve ricopriva per intero tutta la zona e il piccolo
sentiero non esisteva più, ma Jonny metteva una lanterna così grossa che la si vedeva dal paese e il
latrato dei cani conduceva alla sua casa. Gli abitanti del paese arrivavano bagnati fradici con il
freddo nelle ossa, ma il caminetto era sempre acceso e mettevano i loro piedi ad arrostire.
Una bottiglia di gin originale che aspettava di essere scolata, il tavolo coperto da un panno verde,
il fumo delle sigarette americane, che lui offriva generosamente, trasformavano la cucina in una
bisca clandestina da far invidia a quelle di Los Angeles. Non si vincevano soldi a quel tavolo, ma
tome di formaggio, salumi, galline, così voleva Jonny e tutti erano felici perché era sempre lui che
vinceva e almeno mangiava qualcosa di genuino e non le solite scatolette che riempivano la
dispensa.
La casa, non la solita che si vede da quelle parti, era ricolma di ninnoli provenienti da tutte le parti
del mondo e ognuno aveva una storia da raccontare. Poi c'erano i libri che loro toccavano con
invidia, ma di leggere nessuno aveva voglia e intanto c'era Johnny che raccontava quello che
volevano. Si faceva arrivare i giornali direttamente dall'America e non c'è mai stato paese così ben
informato su tutti i fatti d'oltreoceano.
Quando si smetteva di giocare Johnny incominciava a raccontare le sue storie e venivano
catapultati in mondi fantastici, proprio come nei fumetti quando l'eroe sale sull'astronave per fare un
viaggio nello spazio e nel tempo. Era bello poi ritornare sulla terra sani e salvi e ripercorrere la via
di casa in mezzo alla neve che nemmeno bagnava.
Johnny era un uomo senza età, chi gli dava settant'anni chi addirittura quaranta ma nessuno sapeva
la verità. Era di corporatura robusta, vestito quasi sempre con abiti di pregevole fattura, anche se un
po' vecchi e due grossi occhi segnati da un alone nero rendevano il suo viso un poco misterioso.
Era partito dal paese da ragazzo imbarcandosi su una nave di cui non conosceva nemmeno la
destinazione, le sole tracce che arrivarono furono le cartoline che spediva da tutte le parti della terra,
senza una firma né un saluto ma tutti sapevano che erano di Johnny. Non c'era ufficio postale al
mondo che fosse tappezzato da migliaia di cartoline come quello e la gente entrava spesso con una
scusa in quella misera stamberga per gettare uno sguardo a quelle vedute, per sentirsi cittadini di un
mondo che non conoscevano e non solo di quel piccolo paese senza storia e senza speranza.
Jonny tanto era cordiale quando stava in casa, quanto era scorbutico le rare volte che capitava in
paese per fare compere o per spedire una lettera a qualche donna sparsa per il mondo. Lo si vedeva
girare per le vie con un mantello nero e un cappellaccio che copriva tutta la sua figura, in quei
momenti quel punto nero in mezzo alla neve incuteva anche soggezione, sembrava un personaggio
d'altri tempi uscito fresco fresco da un romanzo di Tolstoj. Non salutava nessuno e se qualcuno
faceva per avvicinarsi brandiva il suo bastone dal pomo d'argento.
Diventava veramente cattivo quando a casa sua qualcuno spinto dalla curiosità cercava di entrare
nell'unica camera che rimaneva sempre chiusa. Ma queste cose si sapevano e nessuno ci faceva più
caso.
In una sera più fredda del solito gli ospiti di Johnny non avevano voglia di ritornare a casa e così lui
raccontò una strana storia di cui non aveva mai fatto parola con nessuno.
Era appena sbarcato a New York a aveva voluto subito mettere piede in uno di quei bar malfamati
dove si poteva rimorchiare una donna, forse non più giovanissima, per quattro soldi. Il bar era
sporco all'inverosimile, lo si capiva anche se la luce non era un gran che e tutto era offuscato dal
fumo delle sigarette, su un palco di legno un poco traballante una donna cercava di attirare
l'attenzione togliendosi i vestiti, lasciando scoperti due seni penzolanti e due chiappe a punta che
facevano sorridere, ma Johnny aveva voglia di bere e un bar valeva l'altro.
Si sistemò ad un tavolo stando attento a non sporcarsi, ordinò da bere e mentre stava sorseggiando
un gin che per la verità non era male, il suo sguardo scivolò al tavolino vicino, scorse subito una
figura di donna minuscola ma con una faccia perfetta e un poco impaurita, sembrava un coniglietto
appena nato, i capelli biondissimi che parevano di seta. I loro sguardi s'incrociarono ma lei non si
ritrasse, sembrava chiamasse aiuto, Johnny si avvicinò al tavolo e si mise a parlare, la pelle della
donna infondeva un leggero profumo. Lei non gli rispose e quando la prese per mano e
l'accompagnò fuori con la scusa di prendere una boccata d'aria, non protestò, si attaccò al suo fianco
e non lo mollò più. Girarono mezza città senza dire una parola, Johnny era stanco del viaggio ma
avrebbe camminato per un'altra giornata.
Si fermarono davanti a una bella casa, altissima come lui non ne aveva mai viste, sembrava
toccasse il cielo, finalmente lei ruppe il silenzio e con un italiano incerto lo invitò a seguirla in
casa. L'appartamento era stupendo con mobili moderni ma raffinati e disposti con buon gusto,
ampie vetrate facevano intravedere un paesaggio meraviglioso fatto di luci scintillanti, sembrava di
essere al Luna Park.
Johnny aveva smesso anche di parlare, le parole non servivano più, lei gli si avvicinò posando la
testa in attesa di una carezza proprio come un cucciolo. Lui non si limitò ai capelli e accarezzò tutto
il corpo che pian piano riprendeva vita e incominciava a scaldarsi.
Lei fece appena in tempo a togliersi una collana con una grossa pietra che gli mise in tasca per
riconoscenza, quando un suono cupo e dirompente si abbatté sulla casa, Johnny le toccò la nuca e
sentì qualcosa di bagnato, poi si guardò le mani erano sporche di sangue. Un altro colpo e Johnny
era già in strada che correva come un matto.
Al mattino dopo seppe che la moglie di un noto gangster era stata uccisa e tutti i suoi gioielli erano
stati rubati. Si toccò in tasca aveva una collana che valeva qualche migliaia di lire, era tutto quello
che gli restava della donna dai capelli biondi.
Il racconto era finito, nessuno osava parlare, chiedere spiegazioni, approfondire, volevano riempire
loro quella storia. Johnny aveva diviso con tutti la sua donna e tutti se ne portavano a casa un
pezzetto.
Quella sera lo salutarono riconoscenti, ma la notte dormirono poco e male, i loro sonni furono
invasi da sogni di ogni tipo: c'era chi diceva di aver fatto l'amore con una donna bionda, chi sentiva
il suo profumo anche nella propria moglie che da molto tempo non guardava più in faccia. Il paese
visse per molto tempo di questo sogno, non si parlava d'altro e il racconto si arricchì di nuovi
elementi dettati dalla fantasia della gente; chi sosteneva d'aver trovato nella casa del vecchio un
baule ricolmo di ogni ben di dio: gioielli, oro e tante banconote americane, chi aveva visto entrare
da Johnny per una notte d'amore donne meravigliose arrivate con delle macchine da far paura,
gran signore insomma.
Il piccolo paese di montagna di notte si riempiva di strane persone, stava diventando una
succursale di New York, ma al mattino come per incanto tutto tornava normale come se nulla fosse
successo.
Una mattina arrivò con la corriera un forestiero, un uomo piccolino, un poco grassottello con un
cappello largo che copriva quasi tutta la faccia, fumava un sigaro tanto grosso che sembrava non
potesse entrare in una bocca così minuscola. L'uomo si asciugava con frequenza il sudore che
scendeva copioso dalla fronte. Prese alloggio nel vecchio albergo fissando la camera per una sola
settimana e prese a girare per il paese chiedendo informazioni su un uomo che si faceva chiamare
Johnny.
La gente si spaventò, si diceva che doveva essere per forza il marito della donna bionda venuto fin
quassù per vendicarsi. C'era già chi si immaginava sparatorie, in mezzo alla strada tra bande rivali
per accaparrarsi il tesoro e chi pensava di mettere su un bar per sfruttare quella situazione.
Prima di tutto però bisognava salvare Johnny da quel pericolo e lì si teorizzarono le soluzioni più
fantasiose, fino alla proposta di uccidere quel piccolo uomo. Bisognava fare le cose nel miglior
modo possibile per non attirare la vendetta dei suoi amici mafiosi, e così tutti presero a leggere libri
gialli nella speranza di trovare il delitto perfetto.
Ma persero troppo tempo, una mattina furono svegliati bruscamente dal latrato dei cani di Johnny,
era una cosa insolita, si affacciarono alla finestra e in lontananza tra la nebbia che stava diradando
intravidero lanterna accesa. Era successo qualcosa a Johnny si vestirono in fretta e andarono a
vedere.
La scena che si presentò ai loro occhi non fu delle più piacevoli, trovarono il suo corpo
insanguinato accanto al grosso baule nell'atto di proteggerlo, in mano la fotografia di una donna
bellissima, una piccola catena d'oro stava in fondo al baule. Era stato ucciso con un colpo alla nuca,
il piccoletto aveva dunque compiuto la sua vendetta e loro avevano perso tempo in quello stupido
gioco.
Non passò molto tempo che la valle fu piena di poliziotti e in men che non si dica il corpo fu fatto
sparire e la casa sigillata con tutti i suoi segreti. Per qualche giorno si videro in giro dei poliziotti
che facevano strane domande ma nessuno sapeva niente e dopo poco ritornò il silenzio sul piccolo
paese.
Con la posta arrivò anche un giornale di città, parlava di un delitto commesso in un paese di cui
avevano persino sbagliato il nome, la vittima era un distinto signore che si chiamava Johnny, una
vita da impiegato all'estero poi il ritorno a casa per godersi il frutto del faticoso lavoro, assassinato
da un balordo che non aveva nemmeno gli occhi per piangere, il movente era a tutt'oggi
sconosciuto.
Era tutto falso dunque, era stato solo un sogno, lo stesso sogno aveva però distrutto la vita di
Johnny e la loro fantasia, ritornarono alle televisioni, ma c'era sempre qualcuno che dava una
sbirciatina alla casa di Johnny per vedere se per caso la lanterna era accesa o per sentire se il
silenzio della notte fosse squarciato dal latrato dei cani. Ma nelle notti d'inverno, successive al fatto,
nessuno più si mosse di casa.
8
In una città di mare, Beppi accanto a una bottiglia di vino che faticava a finire, aveva deciso di
ritornare a casa. Si alzò di scatto e chiamò la padrona della pensione: “Ernesta fammi il conto
domani vi lascio”.
La donna a quelle parole lasciò cadere un bicchiere e smise di servire gli altri clienti che
brontolarono e si avvicinò al tavolo: “Ho capito bene? Domani parti e dove vai se non sono
indiscreta?”
“Vado a morire nel mio letto” replicò con tono sgarbato. “Se avessi dato retta a me a quest'ora
saresti tu il proprietario qui dentro.” “Già ma avrei dovuto dividere il letto con te brutta strega”.
Si alzò e la baciò sulla guancia facendola arrossire, appoggiò un rotolo di monete un poco
spiegazzate: “Queste dovrebbero bastarti” e si ritirò nella sua stanza. Prima di addormentarsi
raccattò tutta la sua roba riempiendo due grossi valigioni, alla notte dormì poco e male e alle quattro
era già sveglio.
Il treno partiva alle sette, aveva ancora tre ore di buono, scese senza fare rumore per non svegliare
nessuno. Bighellonò un poco per le vie deserte, soltanto qualche donna che faceva la vita stava
rientrando, di operai nessuna traccia, soltanto qualche finestra si stava accendendo e si sentiva già
l'odore del caffè appena fatto, alcune macchine sfrecciavano agli incroci sfidando la sorte.
Arrivò senza accorgersene in riva al mare, la sabbia era ancora bagnata e si attaccava alle scarpe,
per non rovinarle, erano quasi nuove, se le tolse e l'umido gli penetrò nelle ossa togliendogli
l'ultimo tepore del letto; si bagnò la faccia e un odore di sale gli impregnò i vestiti. In lontananza
alcune barche stavano rientrando con il loro carico di pesce, di lì a poco la spiaggia si sarebbe
riempita di gente, ci sarebbe stato il mercato.
Intanto il sole aveva squarciato le tenebre e il paesaggio improvvisamente aveva cambiato aspetto,
proprio come a teatro quando si cambia scena. Era ora di andare in stazione, la città si era svegliata,
c'era traffico e non si poteva quasi camminare.
Prese il treno al volo, trovò posto in uno scompartimento occupato da giovani studenti che
discutevano animatamente fumando una sigaretta dietro l'altra per dimostrare che erano già uomini.
Era lontano dal finestrino, ma questo non lo seccò, così non si sarebbe distratto, aveva voglia di
riflettere un poco e quei giovani che non lo avevano nemmeno considerato, lo riportavano indietro
di anni.
Era partito quasi cinquant'anni fa ingaggiato come mozzo su una nave diretta in Argentina, si
ricordava ancora la busta gialla piena di timbri ministeriali che annunciava la sua assunzione. Era
partito una mattina presto come un ladro dopo una notte passata con gli amici tra fiumi di vino e
qualche donna invitata dalla città per quella occasione.
Ma intanto i suoi compagni di viaggio ad ogni stazione cambiavano, le facce diventavano sempre
più amichevoli e quando gli sembrò di conoscerne una guardò dal finestrino, era arrivato.
Il paese si inerpicava un poco in collina, aspettò invano la corriera, finché un contadino su un
trattore passandogli accanto gli disse: “Se aspetta la corriera è appena passata, la prossima è nel
pomeriggio, se vuole io vado in paese.”
Salì ringraziando e sistemandosi sopra la ruota, non lo aveva conosciuto ma lui subito disse: “Ma
tu sei il Beppi, ti ricordi di me, sono Toni.” Lo guardò in faccia, adesso lo riconosceva, era stato il
compagno di tante sbornie. Ricordarono i tempi passati, ridendo a squarciagola.
Arrivando in piazza gli disse: “In tutto questo tempo cosa avete fatto?” Toni rispose
evasivamente: “Lo sai la vita qua non è cambiata molto, piuttosto a te come è andata?” Il Beppi
rispose sogghignando: “Ce ne sarà del tempo per parlare.” Scesero e si salutarono con una pacca
sulla spalla.
Il paese per la verità non era cambiato molto se si eccettuano alcune migliorie che il regime
bonariamente aveva fatto. La piccola fontana che serviva da abbeveratoio ai cavalli e da
divertimento ai bambini che si rincorrevano in mezzo alla pozzanghera, era stata sostituita da una
statua con una scritta in latino, di un uomo sconosciuto a cavallo, ma gli animali si fermavano
ancora a cercare l'acqua. Alcune case erano state intonacate di fresco e subito sporcate con delle
scritte inneggianti al duce e all'impero, altre, residenze estive per le famiglie di federali di città,
erano sorte un poco in periferia, una nota stonata col loro aspetto di case coloniche da bassa padana.
La sua casa da quando i suoi erano morti era andata in decadenza, il piccolo giardino era pieno di
rovi, a stento si riusciva a raggiungere la soglia. L'interno era un vero disastro, uno strato di polvere
ricopriva i mobili e sul pavimento c'erano persino gli escrementi di qualche animale che aveva
trovato proprio lì la sua dimora; il tetto aveva degli squarci che facevano intravedere la luna.
Per quel giorno non avrebbe fatto niente, si aggirò per le stanze alla ricerca di qualche oggetto
familiare, nella credenza trovò il vecchio album di fotografie e come d'incanto gli passò davanti un
pezzo della sua vita.
Senza accorgersene era già arrivata la sera, aprì una valigia, ne trasse un pezzo di pane e una forma
di formaggio che bagnò con un buon bicchiere di vino. Si buttò sul letto vestito coprendosi con il
cappotto, dormì di un sonno profondo e tranquillo, fu svegliato dai trattori e dalle urla dei contadini
che andavano al lavoro.
Si affacciò alla finestra stando attento a non scardinare ulteriormente le persiane, dalla strada si
alzò un grido: “Beppi è ritornato, stasera si fa bisboccia”, lui salutò con la mano sporgendosi quasi a
cadere e urlò: “Non posso, prima devo sistemare casa, ci sarà tempo di bere insieme, buon lavoro
gente.”
I giorni passavano veloci, il vecchio si dava da fare e la casa stava cambiando aspetto, qualcuno
malvagiamente diceva: “Il Beppi si sta preparando la bara.”
Una sera si cambiò di tutto punto e si diresse verso l'osteria a bere un bicchiere di vino e a fare
quattro chiacchiere ma appena fu sulla strada lo accolse un gruppo di ragazzini che, vedendolo,
scoppiarono in una fragorosa risata: “E' scoppiata la guerra” gridarono e lo accompagnarono fino
all'osteria simulando una tremenda battaglia.
Ma Beppi rimase imperturbabile dicendo fra sé: “Ai miei tempi i ragazzini, a quest'ora, erano tutti
a letto.”
Entrò sbattendo la porta, tutti si voltarono rimanendo interdetti, un suo vecchio amico gli disse:
“Guarda che non è mica Carnevale.” Il Beppi era vestito con una divisa da capitano di lungo corso
con una fila di medaglie appuntate sul petto, in quell'uniforme azzurra che faceva da contrasto con
gli occhi neri e i capelli un poco brizzolati faceva la sua bella figura. Aveva comprato la divisa
parecchi anni fa insieme ad una bussola a delle carte marine e a tanti piccoli oggetti provenienti da
ogni parte del mondo, acquistati tutti nello stesso negozio vicino al porto.
Il Beppi cercando di prevenire qualsiasi domanda imbarazzante disse: “Questo è il vestito delle
grandi occasioni, sapete ho sempre viaggiato, non ho avuto molto tempo per andare per negozi e
comprare roba”.
“Allora è vero che sei stato in marina? Ne avrai visto dei posti vecchio mio” replicò il suo amico e
l'oste smettendo di servire domandò: “Che occasione è questa per portare l'alta uniforme?” Beppi
rispose: “Ho finito la casa, da oggi non farò più niente, mi voglio sedere sotto la grande quercia a
fumare la pipa, e poi ho in progetto di scrivere un libro sui miei viaggi.”
Qualcuno al fondo della sala sbraitò: “Siediti Beppi, vino a volontà, e incomincia a raccontare.”
Non si fece pregare, in poco tempo sciorinò storie di tempeste, di naufragi, di città asiatiche e
africane, di donne magnifiche che lo aspettavano in ogni posto e quando venne tardi si diedero
appuntamento per le sere seguenti.
Il paese sembrava rinato, l'osteria si riempì di gente, su tutto il locale regnava il silenzio e si udiva
soltanto la voce un poco rauca di Beppi che raccontava. Anche le donne che la sera non erano mai
uscite di casa, tanto meno per andare all'osteria, dopo una feroce discussione in famiglia , riuscirono
ad accompagnare i mariti che borbottavano: “Roba da matti le donne all'osteria.” L'oste che da
sempre aveva venduto solo vino, adesso si vide costretto a comprare anche latte e tè che serviva
con qualche crostino di pane secco, ma anche questo faceva incasso.
Al mattino con gli occhi rossi e poca voglia andavano al lavoro e passando sotto la casa del Beppi
dicevano: “A stasera vecchio, non dimenticarti” e lui sorrideva tirando lunghe boccate della sua
pipa e, senza nemmeno tirare su la testa continuava a scrivere su un quaderno un poco ingiallito.
Chissà cosa avrebbero pagato per poter leggere qualcuna di quelle pagine.
Qualche sfaccendato che passava con il fucile in spalla gli diceva: “Vieni con noi, abbiamo visto
dei fagiani”, “Andate – rispondeva lui – sono stufo di sangue, se aveste provato a cacciare la balena,
con quelle bestie si rischia la vita, la vostra è caccia da bambini”. Nessuno si offendeva e
proseguivano la loro marcia pensando alla balena del Beppi.
Un giorno arrivò in paese un federale, per sbrigare alcune pratiche in municipio, era un uomo non
più giovane dall'aria istruita, si venne a sapere che nelle ore perse era un farmacista, si fermò a
parlare con il sindaco e tra un discorso e l'altro parlarono anche del Beppi. Il federale troppo curioso
decise di andare quella sera all'osteria, arrivò per ultimo con tutto il codazzo delle persone che
contano, il sindaco, il parroco, il farmacista suo collega e il maresciallo dei carabinieri.
Il Beppi aveva già incominciato a raccontare ma quando il federale entrò smise di parlare, i due
sguardi s'incrociarono, il fascista lo riconobbe e disse: “Ma tu non sei il mantenuto dell'Ernesta?
Cosa ci fai con quella divisa, vecchio farabutto? Torna a casa, oggi mi sento clemente se no ti
dovrei sbattere in galera”.
Beppi bevve l'ultimo bicchiere e senza alzare lo sguardo s'incamminò verso casa tra il mormorio
del paese.
Il federale salì su una sedia, incominciò un lungo discorso, approfittandone per fare un comizio,
ma dal fondo della sala Toni gli lanciò una vecchia tabacchiera che lo colpì alla tempia facendolo
cadere a terra privo di vita.
L'osteria piombò nel silenzio. Adesso cosa si poteva fare? Nessuna idea sembrò buona e così
decisero di andare tutti a dormire, all'indomani qualcosa sarebbe successo.
Al mattino dopo nessuno andò a lavorare o a cacciare, presero i vecchi fucili e andarono in
montagna, così per quel paese la Resistenza era iniziata quasi due anni prima che in tutti gli altri
posti e a tarda notte qualcuno andava a trovare il Beppi per ascoltare le sue meravigliose storie e
raccontarle ai compagni.
Beppi cominciò a essere a corto di storie e dovette mettersi a leggere nuovi libri. Ma un giorno lo
riportarono in città chiudendolo in manicomio come sperassero con quella mossa di vincere la
guerra.
Si sa come finì, il fascismo fu spazzato via, il vecchio con la divisa ormai sgualcita ritornò al paese
e si sedette sotto la grande quercia aspettando la morte.
9
Martino si avviava verso la cinquantina, era un uomo magro, piccolino e tutto nervi. Quando
parlava il collo sembrava scoppiargli, nelle discussioni non usava mai toni pacati , sembrava sempre
scagliarsi contro l'avversario come un toro impazzito, e al malcapitato di turno non rimaneva che
farsi la doccia con le goccioline di sputo che uscivano dalla sua bocca.
Per lo più erano discussioni di politica, era un paese di contadini, tutti democristiani incalliti,
sicuramente ignoranti, ma non erano molto diversi da quelli che sedevano in Parlamento, caproni in
giacca e cravatta, ma pur sempre caproni.
Martino era una persona istruita, aveva fatto il classico dalle suore e parlava correttamente il latino
e il greco, i suoi discorsi erano spesso infarciti di citazioni di autori classici.
La sua casa era fuori dal paese, nascosta da una collinetta e per arrivarci bisognava percorrere una
piccola strada in salita che era difficile affrontare a piedi e in macchina ci si passava a stento. Alla
notte era la meta preferita dalle coppiette in cerca di un po' di intimità, a Martino piaceva quella
compagnia e nel silenzio poteva ascoltare i gemiti, poi al mattino si incaricava di raccogliere i
preservativi e i fazzolettini di carta; durante l'estate tagliava i rovi che quasi divoravano la strada.
Era un vecchio cascinale a due piani che lui con pazienza e fatica era riuscito a ristrutturare alla
meglio, anche se il tetto ogni tanto lasciava filtrare qualche goccia d'acqua piovana. Il suo orgoglio
erano il forno a legna dove faceva il pane e il pozzo dove amava abbeverarsi nelle giornate di
calura. Al pianterreno teneva un sacco di arnesi, che servivano per la campagna, ereditati con la
casa e in un angolo un grande macchinario, infernale e mastodontico nell'aspetto che ti chiedevi
come fosse finito fin lassù. Era una macchina da tipografo rilevata per poche lire e che lui con cura
stava rimettendo in sesto. Al piano superiore aveva ricavato una sola immensa stanza con un
angolo cottura, una stufa a legna che faceva funzionare anche d'estate, un piccolo tavolino, due
sedie e un letto che sembrava quello di un bambino. C'erano libri ovunque che rendevano l'ambiente
ancora più disordinato , ma lo riscaldavano più di quella piccola stufa.
Dalla finestra si poteva ammirare uno stupendo paesaggio, colline come mura di un castello e prati
meravigliosi che cambiavano colore al passare delle stagioni.
La sua casa era diventata meta di animali che cercavano un po' di tranquillità e qualcosa da
mangiare al riparo dalle doppiette dei cacciatori che Martino metteva costantemente in fuga usando
un vecchio fucile che faceva solo un gran rumore.
Martino faceva il tipografo giù a Savona, si spostava con un grosso Guzzi dalla marmitta bucata e
amava nelle serate d'inverno fare scorribande per il paese. Verso la mezzanotte per svegliare la
gente gridava: “E' scoppiata la rivoluzione, calabraghe di pretoidi”, e se ne ritornava a casa ridendo
a squarciagola.
Era forse uno dei pochi anarchici veri rimasti in Italia, quando rapirono Aldo Moro offrì da bere a
tutto il paese, che per un bicchiere di vino gratis era pronto a buttare via la fede politica. Ma
quando si seppe dell'uccisione non si fece vedere per una settimana e qualcuno giurava di averlo
visto a Savona, in una vecchia osteria ad ubriacarsi, con gli occhi lucidi.
Ce l'aveva coi preti e con tutte le beghine che scaldavano i banchi della chiesa e questo gli era
costato parecchie denunce che poi erano cadute nel vuoto, il maresciallo si era fatto l'idea di avere a
che fare con un matto.
Fu così che mise dell'inchiostro nell'acquasantiera, trasformando delle pie persone in guerrieri
indiani pitturati prima di una feroce battaglia, o interruppe la funzione religiosa cantando
l'internazionale, o una volta si fece accompagnare alla Messa da due puttane che definirle vestite era
un eufemismo, si sedettero in prima fila vicino alla famiglia del sindaco e del farmacista e lui
cominciò a palpare le cosce e a stringere le tette, sotto gli occhi di donne disgustate e invidiose;
mentre gli uomini facevano finta di niente.
Quando riuscì a mettere in funzione la stamperia incominciò a distribuire volantini che nessuno
riusciva a capire, le poesie di Campana, di Marinetti erano davvero fuori luogo, se ne accorse quasi
subito e così decise di cambiare argomento e fare commenti sui suoi compaesani.
Iniziò con il prete che descrisse come un vecchio puttaniere che attualmente intratteneva una tresca
con la maestra delle elementari sposata al farmacista, tutto documentato, luoghi, date e prestazioni
non proprio brillanti del religioso, che usava farsi legare alle sbarre del letto per farselo venire duro.
Quel foglietto andò a ruba e chi rimase senza se lo fece imprestare dagli amici. L'attesa dei nuovi
numeri si fece spasmodica, per parecchi mesi i panni sporchi vennero messi in piazza, a tutti venne
riservato lo stesso trattamento e al bar non si parlava che di corna.
Il numero che fece più scalpore fu quello sulle figlie del sindaco, due vecchie zitelle che
tuonavano in consiglio comunale contro una giovane donna che faceva la vita e che Martino, dalle
sue pagine, parecchie volte aveva difesa. Le due identiche come due gocce d'acqua avevano facce
dal colorito verdastro, capelli come spaghetti scotti. Passavano per il paese, sempre insieme, a passo
svelto, senza salutare nessuno. Furono sorprese dal maresciallo in macchina completamente nude
che si baciavano.
Il tutto fu messo tutto a tacere ma non avevano fatto i conti con i volantini di Martino. Fu uno
scandalo talmente grosso che il sindaco si dovette dimettere e anche Martino ebbe i suoi guai. Gli fu
sequestrata la macchina e passò qualche giorno in ospedale, nel reparto psichiatrico, dove fu
ritenuto sano di mente con qualche comportamento stravagante.
Ritornato a casa decise che il suo compito in paese era finito, doveva fare un salto di qualità. Si
chiuse in casa, incominciò a studiare chimica, a trafficare nel laboratorio e a immergersi in piantine
di Roma. Un sordo boato mise fine alla sua vita, doveva aver sbagliato qualcosa. Fu ritrovato tra le
macerie con in mano un biglietto, di sola andata per Roma, un poco bruciacchiato.
10
Aldo era un uomo piccolo, riusciva a stento ad arrivare al metro e sessanta, grasso come un
porcellino, senza collo e con un testone appoggiato in un equilibrio precario. Aveva sempre caldo,
d'estate lo si vedeva in giro a torso nudo, d'inverno si infilava un maglione scolorito e con una serie
di medaglie violacee conquistate in qualche osteria. Al mattino sapeva di un buon odore di stalla
che pian piano lasciava il posto a quello forte del trinciato e a quello nauseabondo del vino.
Faceva il giro di tutte le case del paese per sbrigare qualche lavoro, era buono a spaccare legna per
una intera mattinata senza fermarsi, lasciandosi spegnere la sigaretta tra le labbra , terminato il
lavoro si scolava una mezza bottiglia di vino fresco ed era pronto a ricominciare.
Amava gli animali, forse perché si sentiva uno di loro, la sua casa era diventata un ospizio per
cani e gatti randagi, che lui accudiva con spirito quasi materno. Altrettanto non poteva dirsi per i
suoi simili che difficilmente salutava farfugliando qualcosa molto simile ad una bestemmia. Ce
l'aveva soprattutto con le donne, quando ne incontrava una faceva l'atto di tirarsi giù i calzoni e si
compiaceva nel vedere il loro viso atterrito dalla paura.
Alla domenica si recava di buon ora fuori dalla chiesa e quando uscivano quelle donnette tutte
infagottate come musulmane, si nascondeva dietro a un cespuglio e timidamente come fosse un
bambino si calava i pantaloni e incominciava a menarselo. Nessuno seppe mai che era Aldo e tutti
davano la colpa a qualche gatta in calore. Però quelle donne sembravano compiaciute e quando quei
gemiti cessarono andarono in chiesa più malvolentieri e qualcuna smise di andarci.
I bambini si divertivano a prenderlo in giro, lui faceva finta di arrabbiarsi e li rincorreva
saltellando e brandendo un bastone; quando qualcuno cadeva nelle sue grinfie faceva l'atto di
tirargli uno schiaffo ma lo accarezzava e tirava fuori una caramella al miele che comprava solo per
loro.
Per un certo periodo di tempo era stato sposato con una giovane donna che raggiungeva il quintale
ed era un poco ritardata, al posto di parlare abbaiava come un cane e se non ci fosse stato Aldo
avrebbe mangiato nella ciotola. Durante quel periodo Aldo aveva smesso di bere e se ne stava tutto
il giorno a casa ad accudire le sue bestie, moglie compresa.
Ma come era arrivata, quasi dal nulla, un giorno scomparve. Tutti dicevano che era corsa dietro ad
un cane zoppo che si era visto qualche volta in paese e che poi aveva fatto perdere le sue tracce
dopo aver razziato qualche pollaio.
Aldo la sostituì con un bel pastore maremmano e riprese la vita di sempre ma non mise più piede
in casa. Si coricava nella stalla sopra una balla di fieno con i suoi animali che gli facevano da stufa.
Da qualche tempo aveva preso l'abitudine di andare in città e per questo si era comprato una
vecchia ape che con fatica aveva rimesso a posto senza avere la minima nozione di meccanica.
Partiva quasi sempre all'imbrunire, si sentiva il rumore per centinaia di metri e ritornava a notte
inoltrata accolto con gioia dalle sue bestie che si mettevano a mangiare con allegria. Fortuna che la
sua casa era un poco isolata perché quel baccano avrebbe svegliato un sordo.
In città si recava in una osteria, una misera stamberga, dove nessuno lo conosceva e ciascuno
faceva i fatti suoi, dove poteva parlare con una bottiglia di vino senza essere preso per matto, ma
senza far casino, quasi sussurrando.
Alla terza bottiglia Aldo si sentiva pieno e un leggero velo davanti agli occhi gli indicava che era
l'ora di rientrare a casa. Appena fuori dall'osteria pisciava contro una colonna, era ormai diventato
un rito che durava una decina di minuti, lo svuotarsi la vescica e l'aria fresca lo rimettevano in sesto.
Per arrivare all'ape percorrereva un breve budello dal forte odore di mangiare, a quell'ora i
ristoranti buttavano via la roba rimasta e per Aldo incominciava la dura lotta contro i gatti e i topi
per procurare qualcosa da mangiare per sé e per i suoi animali che a casa l'attendevano pazienti.
Fu così che una sera finì in un cassonetto delle immondizie, non riuscì più ad uscirne, forse si era
dimenticato di pisciare, e fu ritrovato molto tempo dopo in una discarica, mezzo mangiato dai topi.
I suoi animali lo aspettano ancora e ad ogni rumore di un'ape si mettono a piangere. Non seppero
mai del tradimento, Aldo era stato il mangiare di altre bestie.
11
Luigi, quel giorno, appena rientrato dal lavoro, si accorse che Giulia non c'era, questo lo allarmò,
era troppo abituato al suo chiasso, al rumore delle pentole che veniva dalla cucina ma si trattenne
dal chiamarla, forse si era assentata per fare qualche compera.
Si diresse verso il bagno, non si sentiva molto bene, era come stordito e aveva voglia di farsi una
doccia e di lavarsi i denti, non sopportava la bocca impastata. Prendendo il dentifricio si accorse che
sopra la mensola non c'era nessuna traccia delle cose di Giulia, non un rossetto, un profumo, aprì
l'armadietto era completamente vuoto.
Corse per la casa alla ricerca di qualche segnale che indicasse la sua presenza, niente. Soltanto un
letto disfatto , non un reggiseno o un collant. Giulia se ne era andata per sempre.
Si ricordò improvvisamente dell'ultimo week-end, Luigi si era ostinato a voler ritornare al paese
della sua infanzia e per Giulia era stato un vero tormento.
Il paese era rimasto pressoché uguale, anche se le case stavano andando in rovina, con le tegole
rotte e le facciate tutte scrostate, poi il caldo opprimente non mitigato dall'ombra dii nessuna pianta
l'aveva reso deserto.
Giulia sudava copiosamente e dava segni d'impazienza e quando erano entrati nella vecchia casa di
Luigi che si trovava nella piazza principale proprio di fronte alla chiesa, il suono delle campane era
penetrato nella casa facendola sobbalzare di paura. Luigi si era messo a ridere, quel suono lo aveva
riportato ai giorni di festa della sua giovinezza, quando la domenica poltriva a letto perché non si
andava a lavorare. La polvere in casa era davvero insopportabile, nessuno era più venuto a fare un
pulizia e Giulia aveva cominciato a tossire e aveva raggiunto il culmine, urlando e imprecando,
quando, distrutta dalla fatica si era seduta sopra una cassapanca e si era accorta che la sua gonna
bianca si era sporcata in modo vergognoso.
Luigi aveva abbandonato i suoi ricordi, frustrati dalla presenza di quella persona nervosa e
insofferente e visto l'ora tarda aveva deciso di andare a mangiare in una trattoria su in collina, dove
da giovane, alla domenica, andava a ballare e a volte ad ubriacarsi.
Si erano avviati per un sentiero piccolo e tortuoso fatto di mattonelle rosse e delimitato da una
parte da piccole case e dall'altra da un muro di pietra coperto da un'edera che pizzicava il naso. Il
posto contrastava con lo stato di abbandono che regnava nel resto del paese, lo aveva fatto notare a
Giulia, ma lei era troppo intenta a cercare di non inciampare per dargli ascolto. Avevano proseguito
la loro scalata immergendosi nel fresco della collina, e a un tratto una voce roca lo aveva chiamato,
Luigi si era voltato e aveva riconosciuto subito il Gino che seduto su una sedia aspettava il pranzo.
Era stato l'amico di suo padre, lui era rimasto al paese ed era ancora lì con qualche ruga in più e il
bastone come amico inseparabile. Si erano abbracciati fraternamente e il Gino li aveva invitati a
sorseggiare un bicchiere di vino fresco e spumeggiante: “Questo qui vi mette il fuoco nelle vene”
aveva detto spiegando loro che aveva preso l'abitudine di aprire la porta alle giovani coppie e aveva
aggiunto: “ Anche al grano si deve dare il veleno se si vuole un bel raccolto”.
Aveva riempito loro ancora il bicchiere, strizzando l'occhio a Luigi in segno di complicità ma
Giulia aveva rifiutato sgarbatamente.
Poi il vecchio aveva preso Luigi in disparte e gli aveva detto: “Tua moglie mi sembra un po' di
bacino stretto, sarà capace di darti un figlio?” Senza parlare gli aveva appoggiato la mano sulla
spalla. Nel frattempo era comparsa nella sala da pranzo la moglie, una donnetta dalle spalle simili a
quelle di un uomo e un poco appesantita dall'età e dai figli. Luigi aveva declinato il suo invito a
fermarsi a mangiare e il vecchio aveva detto: “Hanno altre cose a cui pensare”.
Avevano salutato e avevano raggiunto la trattoria. La pista da ballo non c'era più, al suo posto un
largo spiazzo ricoperto da erbacce e rovi, a suggellare un ricordo da non violare. Il pergolato con i
tavolini un poco sporchi di acini di uva, caduti per una grandinata, mettevano il buon umore e
facevano venire appetito.
Un uomo si era avvicinato e aveva chiesto: “Signori volete mangiare fuori?” Luigi aveva fatto un
cenno di assenso, ma Giulia lo aveva prevenuto: “In questo schifo non mangio, chissà quante bestie
ci sono”. Si erano avviati all'interno, la trattoria non era certo al suo massimo splendore con la poca
luce che filtrava dalle finestre accostate, ma il mangiare era stato all'altezza della signora, che si era
abbuffata di tutto quel ben di Dio, senza più parlare.
A Luigi invece la fame era passata di colpo ripensando alle parole del vecchio saggio. Era uscito
col pretesto di fare un po' d'acqua e quando aveva raggiunto un campo appena arato, si era buttato
per terra cercando le formiche della sua infanzia.
Ritornando all'osteria si era pulito alla meglio i pantaloni, ma Giulia gli aveva detto: “Sei rimasto
contadino, non c'è niente da fare”. Avevano pagato ed erano ritornati indietro per lo stesso sentiero,
li stava aspettando il vecchio Gino che li aveva invitati a mangiare qualche pasticcino e una
focaccia appena sfornata: “Ne avete bisogno, dopo tutto quello che avete fatto” aveva detto
guardando i pantaloni di Luigi sporchi di terra e Giulia rispettando il copione non aveva assaggiato
niente, limitandosi a fumare una sigaretta dopo l'altra.
Il vecchio aveva preso Luigi sotto il braccio e nuovamente gli aveva detto: “ Questa donna non mi
piace, non gli viene fame nemmeno dopo aver fatto l'amore, valle a capire le donne di città”. Luigi
si era messo a ridere e gli aveva detto: “Vedrai che il prossimo anno ti porteremo un marmocchietto
con il faccione rosso dei nostri contadini”; ma il vecchio aveva capito che non era sincero.
Si erano salutati consapevoli che non si sarebbero più visti poi la macchina aveva riportati in città
lui e Giulia e lei da quel giorno non gli aveva più rivolto la parola.
Lo accusava sempre più spesso di non essere diventato un uomo adulto e di essere rimasto un
inguaribile sognatore, additando come esempio da seguire i suoi amici che da un bel po' si erano
sistemati con posti favolosi.
Mentalmente cercò, quasi facesse un gioco masochista, i segnali premonitori della futura
decisione di Giulia e come in una sequenza di film ricordò le scene più diverse e banali a cui prima
non aveva dato alcun peso: una ricorrenza non celebrata o il suo risveglio al mattino come una fuga
dal letto per chiudersi nel bagno e uscirne poco dopo completamente vestita e truccata. A Luigi
piaceva invece starsene a poltrire a letto, aspettando che fosse lei la prima a scendere, per
ammirare il suo corpo nudo un poco stropicciato dalla notte. Poi la raggiungeva nel bagno,
facevano la doccia insieme e rare erano le volte che non facessero l'amore. Ecco spiegato anche il
puzzo che emanavano le sue ascelle, era da un mese che non faceva una doccia.
Strano ma non riusciva nemmeno a ricordare, in modo preciso, la sua faccia. Cercò le sue foto
ma lei le aveva portate via tutte. Gli sembrò di ricordarla grassotella con due occhi luminosi e una
bocca sempre pronta al riso. Ma era veramente così, oppure era il frutto della sua fantasia? .
Se gli avessero chiesto un segno distintivo di lei non avrebbe saputo rispondere, non ricordava
niente, nemmeno se avesse un piccolo neo. Eppure conosceva quel corpo nei minimi particolari,
non c'era un pezzetto di carne che non avesse baciato o accarezzato. Forse un giorno gli sarebbe
passata davanti e lui non l'avrebbe conosciuta.
Intanto un suono stridulo invase la casa, alzò la cornetta del telefono ma nessuna voce mentre il
suono si faceva più insistente, finalmente capì: era il campanello della porta. Giulia era dunque lì
fuori, il suo era stato tutto un sogno dettato dalla stanchezza o da qualche bicchiere di troppo.
Aprì la porta ma non c'era nessuno, Giulia si era nascosta. Questo gioco incominciava ad
innervosirlo. Un poco in penombra Luigi intravvide una sagoma femminile che non conosceva e
veniva avanti con fare minaccioso. Non gli sembrava Giulia, oppure si era già dimenticato della sua
figura.
Era la padrona di casa ed era venuta parecchie volte in casa, Luigi ricordò che si era divertito un
mondo a far credere a Giulia che quella donna venisse per vedere lui. Le diceva: “Sta attenta
quella è capace di ucciderti”. Luigi non seppe mai se la moglie avesse creduto un poco a quella
storia, o se in cuor suo lo compatisse..
Questo piccolo ricordo svanì subito, la signora si era avvicinata alla porta intrufolandosi in casa
come usano fare i rappresentanti e sedendosi sull'unica porzione del divano non occupata da roba
da vestirsi. Luigi fu assalito da una strana agitazione, cosa avrebbe dovuto fare in quella situazione?
Nessun film che aveva visto gli venne in aiuto e riuscì a spiccicare soltanto due parole: “Mi scusi
per il disordine.”
Lei non rispose, accavallò le gambe e la gonna di per sé corta arrivò proprio al limite delle
mutandine, sarebbe bastato un piccolo movimento per scoprire di che colore fossero, ma ciò non
avvenne, Luigi fu profondamente deluso, ma quando lei si tolse il maglione riuscì a vedere sotto la
camicetta due capezzoli grossi come bottoni.
Stava raggiungendo il culmine dell'eccitazione e per rispetto di Giulia si alzò e andò a preparare un
caffè, dal salotto giungevano dei piccoli rumori che subito interpretò in chiava erotica, quali il
riassettarsi una calza che non voleva stare a posto o l'apertura di una cerniera lampo.
Aspettando che il caffè bollisse diede una sbirciatina alla sua visitatrice e la delusione fu grande
nel vederla soffiarsi il naso con violenza e accarezzare un piede troppo gonfio per delle scarpette
così minuscole.
Rientrando in salotto la signora lo guardò con un sorriso complice, accendendosi l'ennesima
sigaretta. Lui si sedette sul divano quasi a sfiorarla e sentì il suo corpo fremere di piacere, sentiva
che stava per tradire Giulia.
Mentre stava sorseggiando il caffè la donna ruppe definitivamente il silenzio: “Mio caro Alvisi la
mia visita come immaginerà non è di cortesia. Lo sa che è in ritardo di tre mesi sull'affitto? Mia
madre non è per niente contenta di come tenete la casa, me ne vorrà dare atto.” Luigi le rispose
senza guardarla in faccia e allontanandosi un poco da lei: “Sarà stata una svista, mia moglie non è
stata molto bene, vorrà capire, lo dica a sua madre”.
Il gioco era ormai scoperto e la voce di lei si fece dura: “ Comunque sia abbiamo deciso così, il
prossimo mese ci lasci libero l'appartamento”. Si alzò di scatto avviandosi verso la porta per
prevenire qualsiasi obiezione e sul pianerottolo gli disse: “D'accordo?”
Non ebbe la forza di rispondere, chiuse la porta e si buttò su una poltrona completamente
svuotato. Aprì la finestra per fare entrare un po' d'aria ma la luce che filtrava in casa metteva in
evidenza il disordine e la polvere. Si guardò allo specchio, era indecente.
Chiuse la finestra e si buttò sulla poltrona, istintivamente accarezzò qualcosa di duro e freddo che
emetteva strani gemiti “Tu – Tu – Tu” era il telefono, l'unico strumento che gli restava per
comunicare con il mondo, Giulia avrebbe telefonato. Prese una decisione: avrebbe aspettato seduto
su quella poltrona un suo squillo fin tanto che la forza non lo avesse abbandonato. Accarezzò il
telefono, voleva ancora udire il tu-tu che gli aveva per un poco riportato il sorriso e cullato da quel
rumore cadde in un sonno profondo.
Si svegliò poco dopo sudato e stravolto con la voglia di telefonare alla prima persona che avesse
trovato sull'elenco. Alzò la cornetta, era muta, gli avevano staccato il telefono, non aveva pagato le
ultime bollette.
Da quel momento la sua storia è senza importanza, solo una serie di espedienti per tirare avanti,
poi il ritorno al paese e l'idea di raccontare tante piccole storie.
LA STREGA RITROVATA
1
La storia incomincia molti anni fa, all’incirca alla fine del Medio Evo; è stata tramandata dai
vecchi e ha affascinato le loro serate invernali, senza televisione o fumetti.
È la storia di una donna di nome Ernestina di cui non si conoscono le origini, ma dal colore della
pelle rossiccio come la terra delle vigne nel periodo della vendemmia e dai tratti del volto non
molto regolari, a guardarla negli occhi si provava un senso di inquietudine, si può immaginare che
provenisse da un’altra parte del mondo. Non si seppe mai come fosse capitata da queste parti, ma
questo non fece altro che aumentare la curiosità dei nativi del luogo.
In quel tempo il paese era dominato da un ricco signore e i contadini lavoravano giorno e notte;
metà del loro ricavato andava al feudatario e il rimanente veniva preso in balzelli vari. Al popolo
non rimaneva quasi niente, soltanto andare a cacciare di frodo sperando di non venire scoperti
perché si rischiava la vita. Tutto infatti era di proprietà esclusiva del Signore.
L' Ernestina, non si sa come, si unì a un giovane dal nome Michin, uomo forte, dalla faccia
intelligente, conteso da quasi tutte le fanciulle in odor di marito.
Si mormorava in paese che la Signora, così veniva chiamata la moglie del feudatario, aveva messo
gli occhi su di lui o meglio si potrebbe dire sui suoi attributi maschili molto chiacchierati e, forse
grazie all’interessamento di costei, alla giovane coppia fu assegnata, in modo insperato e inatteso,
una cascina.
Lavoravano come dei matti, ma la terra per una ragione o per l’altra non li ripagava dei duri sforzi,
anche se facevano bastare quel poco che dava e poi alla sera era un divertimento unico danzare
attorno al fuoco fintanto che le forze lo permettevano.
Poi si sdraiavano nel letto e si mettevano a giocare, i gemiti si sentivano fin dal paese e i bambini
senza saperne il motivo andavano a dormire con dei tappi nelle orecchie per non sentire la voce del
Diavolo, anche se non si può immaginare che nessun bambino abbia mai trasgredito quell’ordine.
Durante il giorno e quando il tempo lo permetteva, Ernestina andava in giro per la campagna
vestita di un solo paio di mutandine. Non era raro vederla correre dietro a qualche animale cercando
di imitarlo e quando, stanca, si sdraiava sembrava scomparire nel nulla come fosse inghiottita dalla
terra. D’inverno amava invece coprirsi con pelli d’animale che conciava personalmente
aggiungendo colori vivacissimi che tanto le piacevano.
Non era avvezza alla religione cristiana e mai si era fatta vedere in chiesa; amava invece dire in
giro che Dio era solo una forza della natura, che aveva creato la terra. La terra era la donna e il cielo
non era altro che l’uomo che con le sue piogge, fecondava la terra. Per lei tutto aveva un’anima,
persino le pietre e non era raro vederla parlare con qualche masso o con qualche pianta.
Grazie a queste stravaganze si era creata una certa fama di guaritrice e quando qualcuno si
presentava alla sua casa per essere curato lei diceva: “Andate a dormire, qualcosa vi giungerà nel
sonno e vi aiuterà. Qualunque cosa gli animali vi diranno di fare, dovete obbedire, fatevi guidare da
loro, vedrete che vi sentirete meglio”.
Alla sera si trovavano con pochi amici a danzare intorno a un fuoco ed era uno spettacolo
inquietante vedere quelle ombre ora di color giallo ora scure, ma la cosa più bella era quando
cavalcavano in groppa allo stesso cavallo, lei vestita da uomo e lui da donna. Michin per segnare il
tempo del loro canto reggeva un cordoncino di campanelli dandogli un ritmo molto pronunciato,
che si accordava perfettamente al trotto lento del cavallo. Il loro sorprendente duetto continuava, ad
intervalli, per tutta la notte e smettevano al sopraggiungere del giorno.
L’unico neo di quella allegra famiglia era che non potevano avere un figlio e non si può dire che
non gli mancassero le occasioni, in paese si diceva che era quella la maledizione di Dio. La donna si
disperava nei pochi momenti che era da sola, ma bastava una carezza di Michin perché tutto
andasse a posto.
Un giorno adottarono due orsi, che spinti dalla fame, si erano avvicinati alla loro casa. Erano due
cuccioli, li curarono come figli, togliendosi addirittura quel poco di latte che riuscivano ad avere.
Ma le notti erano sempre uguali, in più ci si mettevano anche gli orsi che sembravano dei veri e
propri ballerini magari con qualche chilo di troppo.
In breve tempo riuscirono a mettere su un allevamento di orsi ammaestrati. La notizia si sparse
nella valle e raggiunse i posti più lontani, e nel paese fu una processione di gente strana: giocolieri,
domatori, imbonitori, tutta la feccia dell’umanità a congresso.
Non si distaccavano volentieri dalle loro bestie, ma dietro assicurazioni dei nuovi proprietari li
prestavano e in poco tempo acquistarono una posizione economica da far invidia.
Intanto si mormorava che quella era la casa del Diavolo, che Ernestina era una strega, che faceva
l’amore con gli orsi e che il pover’uomo altro non era che la sua vittima preferita. In men che non si
dica, il giovanotto fu fatto sparire, mandato in guerra in Oriente e fu intentato il processo a
Ernestina dichiarandola strega.
La storia finì come tutte del resto in quel periodo, ma Ernestina, anziché essere bruciata, sotto sua
richiesta fu decapitata e la sua testa sepolta sotto terra; del corpo non si ricorda più niente.
Nel giorno fissato per l’esecuzione arrivarono da ogni parte i circhi con le loro bestie, di
preferenza orsi, e fu grazie alla prontezza delle guardie che ne accopparono qualcuno se la storia
non finì in altro modo.
Da quel giorno quel posto si chiama la Valle degli Orsi. Alcuni studiosi, per caso, scoprirono che
in molte tradizioni indiane, la testa tagliata e sepolta mette radici nella terra e genera fertilità, chissà
se Ernestina non fosse stata figlia di qualche capo indiano?
2
E rientriamo nel nostro secolo, in pieno fascismo, sorto per mettere un poco di ordine alla
confusione mentale. Le strade e le piazze si riempirono di gente anonima, dagli altoparlanti voci di
uomini rozzi declamavano discorsi senza capo né coda, tacevano i bambini e i loro giochi infantili
nelle parate militari, svanivano i loro sogni fatti di streghe, principi e fate per lasciare il posto a
sogni di sangue di una guerra che li avrebbe portati ad essere finalmente degli uomini. La vita
trascorreva come sempre, come l’acqua passa sotto i ponti, senza una scossa, nell’attesa di diventare
dei protagonisti nel bene o nel male.
Le donne, con il loro corpo che poteva distogliere gli uomini da desideri di grandezza, facevano
paura, e pian piano diventavano corpi inanimati atti soltanto alla procreazione, preferibilmente, di
buoni soldati.
Anche il piccolo paese diventò piatto, senza vita, persino i colori della terra, il rosso dei vigneti, il
marrone, il giallo e il verde delle piante, perdevano la loro lucentezza, tutto era grigio come il colore
delle case fatte di pietra. Si continuava a lavorare questo sì, ma senza metterci troppo impegno e il
raccolto veniva su male quasi controvoglia. Finito il lavoro si ritornava a casa e poi subito a letto,
niente osteria, niente balere e forse neanche sesso, ci si sentiva stanchi di un qualcosa a cui non si
sapeva dare un nome.
In questa atmosfera viveva la “piccola Lina”, chiamata così per il suo corpo minuto. Era figlia del
maestro, un uomo arrogante che teneva la scolaresca in soggezione, da sempre fascista anche
quando questo non era ancora nato, aveva sognato di entrare nel Regio Esercito, ma per colpa di un
leggero difetto fisico, era leggermente claudicante, fu riformato. Adesso che poteva infilarsi la
camicia nera non l’abbandonava mai e forse non la toglieva nemmeno per andare a dormire.
Uomo di poca cultura, era riuscito ad ottenere il diploma grazie alle raccomandazioni di un alto
prelato, sosteneva che il leggere dei libri era cose da donna, il fisico ne pativa, l’uomo era nato per
l’azione e quasi tutto il suo insegnamento era basato sull’educazione fisica. Era stato proprio
fortunato a vivere in quell’epoca e di ciò ringraziava il Signore; la religione a cui si accostava nei
momenti di bisogno era la sua unica debolezza.
Aveva sposato una donna qualsiasi, la prima che gli si era offerta, per regolarizzare la sua
posizione e perché gli desse il figlio maschio che tanto desiderava. La povera donna svanì nel
grigiore della casa, era un fantasma che si aggirava nelle stanze sempre intenta alle pulizie, perché il
signore odiava il disordine: aveva paura delle sue mani che non l’avevano mai accarezzata e della
sua voce sempre pronta all’urlo e alla bestemmia.
Poche volte si concedeva a sua moglie, ma lo faceva senza desiderio e con violenza, tanto che le
lasciava dei lividi che la poveretta cercava di nascondere con trucchi anche vistosi; queste erano le
uniche volte che si concedeva qualche stravaganza e assomigliava a una donna normale. Per il resto
lui dormiva quasi sempre sul divano del salotto, duro come una pietra, ma era questo che formava il
corpo; detestava i materassi soffici che incurvavano la schiena, roba da donne o da checche.
Gli unici svaghi erano quelli che si concedeva ogni sabato sera; scompariva senza lasciar tracce
per ritornare quasi al mattino, non si coricava nemmeno, si vestiva di tutto punto e andava alla
Messa. In seguito si scoprì che andava in città, in una di quelle case dove si vende l’amore,
portando anche un mazzo di rose rosse che donava alla Signora: in quei momenti diventava un altro,
gentile, premuroso quasi timido.
Quando la moglie rimase incinta cambiò di umore, rimaneva sempre a casa e si fermava spesso a
conversare con lei, parlando dei progetti per il futuro bambino: una carriera rapida nell’esercito e
poi, se avessero avuto fortuna e ci fosse stata una guerra il piccolo avrebbe potuto anche
conquistarsi qualche medaglia sul campo.
Triste per lui, invece, fu il giorno che venne alla luce la piccola Lina: scoppiò in un moto d’ira,
rovesciando alcune sedie e se ne andò via per parecchi giorni; fece ritorno a casa che la bambina
aveva già qualche mese, non la guardò nemmeno e riprese la sua vita di sempre.
Anche la Lina, seppure molto diversa dalla madre sembrava un fantasma, un essere senza
consistenza, aveva persino imparato a non piangere in presenza del padre e se ne stava
rincantucciata in un angolo a giocare con un pezzo di stoffa. Diventando più grandina amava
vestirsi con i pantaloni e un giaccone di una taglia superiore per nascondere i seni che si facevano
largo fra la camicetta e si era tagliata i capelli per assomigliare a un maschietto
Ma il padre, che ormai cominciava ad invecchiare, le diceva sempre: “E’ inutile che ti travesti,
intanto un uomo non lo potrai mai diventare” e diceva quelle parole con le lacrime agli occhi.
Col tempo coltivò il desiderio di maritare la figlia con qualche bel giovane fascista e mettere così
in casa un uomo che un giorno avrebbe preso il suo posto. Incominciò a curarle l’aspetto facendole
fare lunghe passeggiate e acquistandole in città abiti costosi ma anche un po’ volgari. Le faceva
frequentare le feste che contavano, in casa del podestà e del farmacista, ma fino allora i risultati
sperati non arrivavano.
Morì all’inizio della primavera nel letto di una prostituta: il cuore lo aveva abbandonato nella sua
ultima impresa senza che lui potesse rivolgere una preghiera al Dio che tanto amava. Il corpo fu
portato a casa in gran segreto; dopotutto si trattava di una persona rispettabile: fu composto nel suo
letto e vegliato per una notte intera dalla moglie e da Lina.
Le povere donne passarono una nottata d’inferno, ad ogni colpo di vento sembrava che il corpo si
muovesse, ogni guaito di qualche animale ricordava loro la sua voce e quando all’improvviso
spalancò la bocca non riuscirono a trattenere la pipì.
Al mattino quando un raggio di luce invase la camera spazzando via ogni fantasma, gli occhi del
morto si illuminarono e loro temettero si stesse svegliando. Forse il loro era stato un meraviglioso
sogno? Temevano che da un momento all’altro si alzasse dal letto e incominciasse a menare le
mani.
Fu sepolto senza tante cerimonie; vi fu soltanto un mazzo di rose rosse che una signora di Torino
depose sulla sua bara. Gli allievi che si erano liberati da un incubo, quel giorno fecero festa e
andarono in collina a giocare a pallone; della moglie non si seppe più niente, scomparve senza
lasciare traccia, se mai ne aveva lasciata, e Lina si ritrovò ad affrontare la vita da sola.
3
Ma anche per lei era arrivata la primavera: subì una profonda trasformazione e diventò un
uccellino libero dalla sua gabbia. Il suo corpo fiorì, e come la terra si spacca per far nascere il
germoglio, da un fantasma nacque una meravigliosa ragazza.
Per molto tempo fu costretta a vivere di espedienti. Col fornaio per farsi regalare una pagnotta,
appena sfornata, usava la tecnica della seduzione: gli si avvicinava dimenando il sedere già ben
modellato, si accovacciava per prendere qualcosa, mostrando le mutandine candite da verginella. E
quando il pover’uomo faceva per allungare le mani lei scappava via ridendo con la pagnotta tra le
mani. Non c’era volta che non riuscisse nel gioco e, anche se ormai sapeva come andava a finire,
per il fornaio la tentazione era troppa.
In paese si diceva: “Quella fa la fine dell’Ernestina” e intendevano dire che era sulla cattiva strada,
che per una donna significa diventare una puttana. Ma lei quelle cose nemmeno le conosceva, aveva
voglia di ridere e di prendere in giro gli ingenui e si sa, chi meglio degli uomini sta a quel gioco?
In quel periodo tutto era triste e nemmeno i giochi di letto erano tanto praticati, soprattutto a causa
delle donne che non se la sentivano di mettere al mondo dei figli, per poi vederli venire su scontenti
e infelici; fu così che la Lina con la stessa tecnica usata col fornaio, si procurò delle pastigliette da
un farmacista compiacente.
Poi grazie a un tipografo a cui dovette però concedere una mano sporca di inchiostro sul sedere,
stampò un giornaletto dall’aria scientifica che dipingeva quelle pillole come veri portenti: con una
sola di quelle pastiglie si risvegliavano i sentimenti e le passioni della donna più pigra e nello
stesso tempo si diceva fossero un anticoncezionale garantito al cento per cento; in America lo
usavano già prima della guerra.
Non si può dire quanto abbia venduto quella volta, ma si sa di per certo che tutte le donne del
paese al mattino dopo si recarono in gran segreto, dal dottore dopo una nottata passata nel cesso e
grazie a quelle pillole la popolazione subì un’impennata.
Nel paese si faceva un gran parlare di lei, soprattutto gli uomini le facevano una corte assidua e di
questo lei ne aveva approfittato per mettere a bersaglio alcuni colpi davvero sensazionali.
Un giorno capitò all’osteria un vecchio commerciante proveniente dalle vallate del Cuneese;
commerciava in burro e da una settimana il pover’uomo non riusciva a venderne nemmeno un
panino e tutta quella partita gli stava andando alla malora.
Lina in quel periodo raccoglieva castagne che andava a vendere in Riviera con un viaggio di tre
giorni non privo di qualche rischio, e ora aveva trovato un pollo che le avrebbe fatto risparmiare una
lunga camminata. Gli propose uno scambio alla pari: le sue castagne per quel burro andato a male;
il poveretto accettò con entusiasmo felice di disfarsi di quella merce senza più valore.
Qualche mese dopo si incontrarono per caso alla stessa osteria, l’uomo fece finta di non conoscerla
ma lei gli si avvicinò e gli disse: “Senti ce ne hai ancora di quel burro? E’ un vero portento”. Per
poco non si misero le mani addosso e dovette ringraziare di essere una ragazza se per lei non finì
male.
Infatti allo sfortunato straniero le castagne erano andate tutte alla malora, in quanto avevano preso
il marino e facevano le farfallette, invece la Lina da quel burro aveva ricavato un mucchio di soldi e
una gran popolarità di guaritrice. Era riuscita a vendere quel burro dal cattivo odore spacciandolo
per un unguento miracoloso che spalmato a dovere sugli attributi maschili donava forza e vigore
persino a quelli vecchi di settant’ anni. E non era una bugia, infatti quando lei compiva
personalmente quell’operazione non c’era morto che non resuscitasse; ma con le mogli non sortiva
lo stesso effetto.
Di questo e di altri fatti s’interessò personalmente il maresciallo dei carabinieri che sentenziò che
così non si poteva andare avanti, e da buon padre di famiglia cercò una sistemazione ideale per
redimerla: quale soluzione migliore per tenere a bada quella selvaggia se non affidarla alle cure
della Chiesa?
In quel tempo la parrocchia aveva bisogno di qualcuno che svolgesse i lavori di pulizia; la
perpetua era ormai troppo vecchia e se si fosse inginocchiata per pulire un pavimento non si sarebbe
più alzata. Il maresciallo accompagnò Lina personalmente dal parroco, un giovane prete che spesso
dimenticava di mettersi la tonaca per un più comodo paio di pantaloni e camicia e qualche volta
sfoggiava dei capi dal colore sgargiante. Era decisamente un bell’uomo e quando alla domenica
parlava dal pulpito con la sua voce pastosa e calda che faceva sognare, tutte le dicerie venivano
dimenticate e soprattutto le donne ringraziavano Dio di appartenere a quella parrocchia.
Tanto era bello il prete tanto era brutta la perpetua e non soltanto per l’età; infatti si diceva che
nella sua gioventù non fosse stata molto meglio, forse un po’ meno gobba e con qualche ruga in
meno ma per il resto, uguale.
Nel vedere arrivare la Lina, la vecchia stando attenta a non farsi sentire borbottò: “Va a finire che
questa diventa la casa del diavolo”, intanto il parroco si era fatto incontro ad abbracciare la
pecorella smarrita. La povera Lina era terrorizzata e al solo pensiero di essere ritornata indietro di
anni, alla casa paterna, meditava già il momento della fuga.
Ma si accorse ben presto, non solo per l’aspetto fisico, che il prete non assomigliava per niente al
padre: era infatti un uomo di cultura, gli insegnò ad amare i libri e non c’era giorno che la Lina non
li accarezzasse come toccasse un uomo. Si esercitò a leggere e a scrivere e siccome la fantasia non
le mancava cominciò a riempire pagine di scritti e se solo si fosse applicata un poco di più sarebbe
potuta diventare una brava scrittrice.
L’unica cosa che odiava era l’odore di incenso, di chiuso, di ordinato, di troppo serio e spesse
volte si vedeva correre per i prati dietro a sogni impossibili come un cavallo impazzito. Quando
stava in canonica combinava certi scherzi che facevano scandalizzare la perpetua, quali disseminare
per tutta la chiesa i suoi indumenti intimi e aveva toccato il culmine appendendo le sue mutandine
sul crocifisso per farle asciugare.
La perpetua pretendeva a gran voce la sua testa, doveva essere cacciata, ritornare dal fango da
dove era venuta; il prete che non era insensibile alle grazie della giovinetta si era opposto, in virtù di
una teoria cristiana del perdono.
La vita continuò così e la chiesa subì una trasformazione: si vedeva che doveva esserci la mano di
una donna. L’odore dell’incenso fu coperto dal profumo di una colonia francese al mughetto,
l’altare si arricchì di pizzi di ogni genere e alcune statue di santi dalla faccia triste e quadri
raffiguranti la morte finirono nel solaio sostituiti da altri più allegri raffiguranti scene di natura e
persino un nudo. Stava lentamente trasformando la chiesa e in paese ci si sarebbe aspettati una festa
danzante e un suntuoso banchetto al posto della messa.
Nel frattempo la Lina aveva scoperto la vecchia cascina dell’Ernestina che, ormai attaccata dalle
erbacce che l’avevano quasi ricoperta rendendola invisibile dalla strada, stava andando in rovina.
Era situata in mezzo a un boschetto anch’esso poco accessibile e sembrava di entrare nella fiaba di
Cappuccetto Rosso; da un momento all’altro ci si aspettava che comparisse il lupo cattivo. Come
nelle fiabe Lina la risistemò, la ripulì per bene, mise persino delle tende alla finestra passando la
maggior parte della giornata a fantasticare sul giorno che quella casa sarebbe stata sua.
Nel fare pulizia, nell’intercapedine di un muro, trovò delle armi, all’apparenza un poco vecchiotte
ma perfettamente funzionanti; subito si spaventò e pensò che quella casa fosse davvero un covo di
banditi. Comunque lei non aveva visto niente e poi potevano convivere tranquillamente: non era
forse vero che la sua esistenza era stata sempre ai margini della legalità
Intanto il prete aveva abbassato notevolmente la guardia e i segnali che la Lina continuamente gli
lanciava non cadevano più nel vuoto. Il pover’uomo non era stato con una donna da molto tempo,
sempre fedele al giuramento fatto a Dio, e le sue notti furono invase da incubi di ogni tipo; si alzava
al mattino più stanco della sera prima. Spesso si soffermava a parlare con la Lina cercando di
accarezzarle i capelli e qualche volte si spingeva oltre toccandole una coscia o stringendole forte un
seno quasi volesse staccarlo.
Lina aveva capito che cosa voleva quell’uomo ma non sentiva il bisogno di concedersi, sicura
come era che quel gioco le procurasse più piacere; non erano rare le volte che anche lei si
concedeva dei sogni erotici, ma grazie alla sua inesperienza ne venivano fuori delle cose assurde.
Una sera nuda come sua madre l’aveva fatta entrò nel letto del prete, il poveretto incominciò a
sudare cercando di nascondere il suo attributo che si era eretto in modo spropositato: al diavolo il
giuramento, quei seni sodi che toccavano la sua schiena furono la classica goccia che fece
traboccare il vaso. Rosso in viso e con la bava alla bocca si riversò su di lei cercando di possederla,
ma per quella sera si dovette accontentare di una doccia ghiacciata, perché Lina, come un gatto, era
scivolata via dal letto e ridendo a squarciagola si era rinchiusa nella sua stanza.
Da quel giorno nella parrocchia non ci fu più pace, il prete si consumò a vista d’occhio e la
perpetua mise in giro la voce che era ammalato di una strana malattia causata dalla giovane strega.
Per la prima volta veniva indicata con quel nome funesto che l’avvicinava ancora di più
all’Ernestina.
4
Decise quindi di lasciare la chiesa e il paese: come una ladra partì una mattina presto con la
corriera per una destinazione sconosciuta e per molto tempo non si sentì più parlare della Lina nel
paese.
Dopo tanto peregrinare facendo qualsiasi lavoro che gli capitasse a tiro, vivendo quasi sempre di
espedienti, capitò per caso in un paese senza nome. Si legò ad amicizia sincera con un uomo di
nome Musolin senza la i finale e pronunciato alla francese Musolen anche se proveniva da una
famiglia piemontese di antica tradizione socialista. Non era quello il suo vero nome, suo padre non
avrebbe mai commesso una scempiaggine simile, ma gli era stato dato come soprannome dagli
amici per la sua somiglianza perfetta con il duce; infatti non c’era volta che entrasse in un bar che
tutti non ammutolissero e lo guardassero in faccia un poco spaventati. Quando era nato aveva la
stessa faccia e per poco suo padre non lo aveva preso subito a schiaffi: cosa aveva fatto quel
pover’uomo per meritarsi un simile castigo?
Venuto grande la faccia rimase quella del grande condottiero, ma il corpo non voleva proprio
svilupparsi ed era rimasto un nanetto, alto non più di ottanta centimetri. Persino il padre si metteva a
ridere vedendo quello scherzo della natura, nessun caricaturista avrebbe fatto di meglio. Il
pover’uomo aveva anche una camminata ondulante, un poco da checca, il suo parlare si era
affievolito, era uno spettacolo vederlo e ogni sua mossa avrebbe potuto cadere nella censura del
regime.
Comunque sia quella faccia diede da mangiare a lui e alla Lina grazie ad alcune truffe che le loro
menti diaboliche avevano ideato.
Un giorno vennero a sapere che la settimana seguente sarebbe transitato da quel paese il Duce in
persona; non li avrebbe onorati della sua visita, ma tutti avrebbero potuto vederlo dal vivo perché in
quel tratto i treni andavano a passo d’uomo a causa di lavori che si protraevano da anni.
Il paese era in fermento, il sindaco stava preparando la festa nei minimi particolari, quel giorno
nessuno avrebbe dovuto andare a lavorare e tutti per amore o per forza avrebbero presenziato a
quel meraviglioso evento. Così si disegnarono cartelli, inneggianti al duce, le donne si vestirono a
festa e i pochi uomini tirarono fuori la camicia nera un poco spiegazzata: il duce avrebbe dovuto
sapere che anche in quell’angolo sperduto del mondo lo amavano.
Il grande giorno arrivò, il treno era in ritardo spaventoso; qualcuno già sospettava che non si
sarebbe fatto vedere, ma l’attesa venne premiata. In lontananza si udì un sibilo: era il diretto per
Torino, un treno lunghissimo che sembrava non finire passò sotto i loro occhi. Si intravedevano dai
finestrini uomini in camicia nera che scherzavano e parlavano, ma del grande uomo nessuna traccia.
Avevano perso una giornata per niente, ma finalmente nell’ultima carrozza intravidero la sua
figura, subito ci fu un applauso grande e liberatorio e quando l’uomo accennò al saluto romano
qualcuno si mise a piangere.
La Lina aveva un mazzo di rose rosse, si avvicinò al treno, l’uomo si sporse per raccogliere quel
dono e comparve in tutta la sua grandezza che non era più di ottanta centimetri. La folla rimase
ammutolita, qualcuno svenne e gli altri ritornavano a casa inorriditi.
Anche quel paese era ormai terra bruciata, anche se d’altronde non aveva commesso nessun reato:
aveva donato un mazzo di rose a Musolen, e che colpa aveva lei se quell’uomo assomigliava tanto
al duce? Le loro vite si separarono, di Musolen, per molto tempo, non si seppe più niente.
La Lina invece capitò nel suo vagabondare nella città di Torino, in una casa che lei non sapeva
essere quella dove era morto suo padre.
La signora, come se lo sentisse, prese sotto la sua protezione quella ragazza dall’aria impaurita,
vestita da fare paura, i capelli sporchi che coprivano la faccia e nascondevano una bellezza ancora
in erba, anche se le sue mani sporche e le unghie non curate la facevano assomigliare a un
camionista.
Per prima cosa gli fece fare un bel bagno caldo, poi la vestì con degli abitini alla moda anche se un
poco volgari; quando fu pronta ad uscire era un’altra ragazza e la signora pensò che sarebbe ben
presto diventata la migliore delle sue ragazze; lei gli avrebbe insegnato i modi gentili e avrebbe
limitato un poco quel carattere ribelle.
Lina passò delle giornate indimenticabili, sempre in giro con la signora a fare compere, a
bighellonare senza costrutto per le vie del centro e per la prima volta assistette alla proiezione di un
film, cosa che la lasciò di stucco. Spesso però aveva nostalgia dei suoi posti, dei suoi prati dove
poteva rotolarsi, del suo cielo dove poteva seguire il volo degli uccelli, ma per il resto non ci stava
per niente male.
Dopo qualche mese la signora decise di farle fare il battesimo del letto e a questo scopo scelse un
giovane dall’aria impaurita che doveva essere alle prime armi; Lina così non si sarebbe sentita
troppo imbarazzata.
Entrarono entrambi nella stanza non guardandosi nemmeno in faccia e nessuno dei due prese
l’iniziativa. Lei doveva spogliarsi, così gli aveva insegnato la signora, ma quell’aria pesante,
quell’odore d’incenso la rendevano un poco triste. Il giovane incominciò a parlare della sua vita, era
un partigiano e doveva avere sui vent’anni, ma dalle sue parole sembrava che ne avesse cinquanta.
I discorsi di politica a lei non interessavano ma quella parola libertà la affascinò non poco; stettero
per quasi due ore chiusi nella stanza e ogni tanto si sentiva ridere a squarciagola, così che la signora
soddisfatta pensò: “Impara presto la Lina”.
Quando uscirono, abbracciati e guardandosi in faccia, salutarono la donna che li stava aspettando
all’entrata; avevano deciso di partire insieme, sarebbero ritornati in montagna. Il desiderio di
rivedere i suoi posti incise profondamente sulla sua decisione, più che il desiderio di mettersi
insieme a quel ragazzo per la verità poco attraente.
La povera donna che si era dedicata a Lina come fosse sua figlia, si mise a piangere e la insultò:
“Avresti potuto essere una gran signora, ritorna pure nel fango, intanto ci sei abituata”. Così la Lina
senza molta convinzione diventò partigiana.
5
Per qualche mese non si ebbero più notizie di lei ma si può presumere che quella vita non fosse
adatta a Lina, non amante della disciplina e della guerra.
Ma una mattina come tutte le altre, un’afosa mattina di agosto, al campo tutti si alzarono sudati
con una gran sete che divorava le gole per colpa del salame piccante che avevano mangiato la sera
prima o forse perché in realtà non era una solita mattina. Da molto tempo quel campo non era
impegnato in un’azione di guerra e tutti passavano le giornate nella noia più assoluta e in
improvvise discussioni politiche che non sortivano altro effetto che far aumentare la sete. E quel
vino caldo che buttavano giù come fosse acqua non gli portava alcun sollievo e non era difficile
vedere qualcuno che si allontanava in tutta fretta per liberarsi lo stomaco.
Ma alcuni giorni prima avevano avuto l’ordine di entrare in azione. La notizia era passata sopra le
loro teste senza procurargli il minimo di eccitazione, quasi fossero abituati a quella vita, ma salvo
poche persone erano tutti studentelli freschi di scuola e imbottiti di ideologia. La vita del campo non
aveva subito alcuna variazione se si eccettuano qualche discussione in più e qualche scazzottata di
troppo.
Ma il fatidico giorno era arrivato e per quell’azione furono tirati a sorte due nomi: Fausto e Lina.
Fausto per sembrare uomo si era fatto crescere una barba bionda a chiazze, ma sembrava un pulcino
appena uscito dall’uovo; Lina a quel tempo portava dei pantaloni attillati da uomo e una giacca di
taglia superiore, ma si vedeva che stava a disagio in quei vestiti.
Partirono, ancora prima che spuntasse il sole, con indifferenza come andassero a prendere un
caffè; il posto dell’agguato non era lontano: si sistemarono dietro una curva, nascosti da un grosso
macigno.
L’attesa fu lunga: non si guardarono neppure in faccia; chissà quali pensieri avevano invaso le loro
menti, il posto era stupendo, l’ideale per farci l’amore, ma erano venuti per uccidere e forse era
quello che li rendeva così tristi.
Quando già stavano per ritornare al campo un po’ delusi, sentirono dalla strada un rumore di
ferraglia che ad ogni curva diventava più distinto: si trattava di una motocicletta. E quando sbucò
dalla curva e la videro chiaramente, balzarono in piedi e incominciarono a sparare. Il conflitto fu
breve: i due uomini non ebbero nemmeno il tempo di estrarre la pistola; Lina si avvicinò ai due
cadaveri, erano due ragazzini dalla faccia color del latte e dal fisico asciutto e ben proporzionato.
“Chissà a quante ragazze avranno fatto girare la testa” pensò fra sé Lina.
Ma d’improvviso si girò di scatto verso Fausto, lo vide fermo in mezzo alla strada con il fucile a
tracolla, le mani nei capelli e subito capì: non aveva trovato il coraggio di sparare. Gli si avvicinò
asciugandogli le lacrime e gli disse: “Non preoccuparti, è andata bene lo stesso”. Fausto però non si
dava pace per la vergogna. Cosa avrebbe raccontato ai suoi amici? Che aveva avuto paura di
uccidere? Che non era un uomo? Che aveva meno coraggio di Lina?
Avrebbe preferito morire colpito da una pallottola fascista ed essere ricordato come un eroe:
invece era un vigliacco. Ma almeno era vivo pensò, e poi ci sarebbe stata un’altra occasione per
dimostrare il suo coraggio. Non doveva permettere a Lina di parlare, quindi le si avvicinò con aria
minacciosa e lei vedendolo in quello stato, forse per paura, o perché un poco innamorata di lui gli
disse: “Che bisogno c’è di dire chi ha sparato? Sarà il nostro segreto”. Si abbracciarono e per poco
non si sdraiarono nell’erba calda come un letto in inverno.
Quando rientrarono al campo, Fausto, inventando dei particolari dettati dalla sua fantasia,
incominciò a descrivere l’azione agli amici che rimanevano estasiati dal racconto. Se erano alla
ricerca di un eroe lo avevano trovato senza fatica; c’era qualcosa che valeva la pena raccontare ai
futuri figli e nipoti, la guerra non li stava deludendo più di tanto.
Mentre Fausto si atteggiava pian piano a capo, Lina invece aveva subito una profonda
trasformazione: non si faceva più vedere in giro e passava le sue giornate distesa sul letto fumando
una sigaretta dietro l’altra. In giro si diceva: “Le donne dovrebbero starsene a casa a scaldare il letto
per il proprio compagno, la vista del sangue non fa per loro”.
Durante la notte aveva parecchi incubi, sognava quei due visi color del latte e non c’era una volta
che non facessero l’amore; si alzava al mattino distrutta e con l’odore di maschio che non riusciva a
sopportare e non c’era bagno che tenesse. Pensava sempre più spesso a quelle vite recise nel fiore
degli anni e alle parole della madre quando andavano per funghi e lei si divertiva a calpestare quelli
velenosi: “Che male ti hanno fatto, non vedi come sono belli? Più belli ancora dei porcini”. Lei
aveva ucciso dei funghi velenosi, ma con che diritto. Era dalla parte della ragione, questo non si
discuteva, ma era sicura che quei ragazzi fossero colpevoli?
Non erano per caso uguali a tutti gli altri ragazzi che per sentirsi degli uomini devono imbracciare
un fucile? Era sicura che Fausto fosse migliore di quegli stupidi fascisti? Forse loro si trovavano
soltanto dalla parte sbagliata?
Il tempo passava lentamente, altre azioni si susseguirono tutte portate a termine brillantemente; la
figura di Fausto aveva varcato la valle, era arrivata fino in città; ma era diventato un eroe grazie alla
sua fantasia più che alla canna del suo fucile. Ben presto la sua fama gli aveva permesso di
diventare comandante della brigata che operava nel territorio, ma da questo momento le cose non
erano andate molto bene e parecchi campi erano stati scoperti e sterminati.
Lina scoprì che il sangue partigiano su quella terra arsa dal sole, aveva lo stesso colore di quello
dei fascisti. Stufa di morte, decise di dimostrare a tutti la sua vigliaccheria con un gesto che
l’avrebbe trascinata nel fango: aveva paura e se ne sarebbe tornata a casa a raccogliere funghi
stando attenta a dove metteva i piedi.
Intanto al campo circolava sempre più insistentemente la voce che qualcuno avesse fatto la spia e
bisognava trovarlo assolutamente. Chi meglio di una donna poteva essere destinata a questa
missione speciale? Fu scelta Lina, per azioni di guerra non valeva un gran che ma per una missione
di letto andava benissimo. Doveva riuscire ad andare a letto con un pezzo grosso del fascismo e
carpirgli qualche segreto, soprattutto il nome della spia.
Non era impresa facile, ma tutti speravano nelle sue grazie; e poi non veniva da una casa di
tolleranza? Ma bisognava escogitare un piano: Lina non poteva comparire all’improvviso dal nulla,
come un fantasma.
La fantasia non le mancava e così ideò una bella sceneggiata: sarebbero entrati in paese
spacciandosi per una compagnia teatrale. Ma ahimè l’unica donna era lei e non si poteva allestire un
corpo di ballo senza l’elemento fondamentale. Lina si guardò in giro, non c’era da stare per niente
allegri: barbe ispide, gente stravaccata che divorava il pollo con le mani e sputava per terra cicche di
tabacco.
C’era da lavorare parecchio, ma lei ci sarebbe riuscita; fece scaldare delle tinozze d’acqua calda, li
ripulì per bene, tagliò parecchie barbe e quindi scelse quelli dal viso più femmineo e dalle gambe
lunghe e poco muscolose.
Era uno spettacolo vedere quegli uomini dall’aria rude lasciare da parte le armi e dedicarsi al ballo
truccati da baldracche; ma dopo qualche tempo erano veramente pronti. Aveva fatto un buon lavoro
e quasi non si notava la differenza tra lei e i suoi compagni.
Arrivarono in paese preceduti da una pubblicità a tappeto: non c’era angolo, portone, vetrina su cui
non fosse appesa una locandina annunciante il favoloso evento. Avevano scelto una vecchia
fotografia del Mulin Rouge con tante belle donnine che eseguivano il famoso Can Can; in quel
paese senza cinema e senza televisione non avevano mai visto niente di simile.
I più intraprendenti andavano in giro a dire che quelle donne dovevano essere anche delle gran
battone che la davano via per poco o niente.
I biglietti furono esauriti in breve tempo alcuni sfortunati si dovettero accontentare della loro
fantasia o della bontà di qualche amico che gli avrebbe raccontato lo spettacolo.
Lo spettacolo riscosse un successo senza precedenti, non paragonabile nemmeno alla visita del
duce; anche il federale aveva perso la testa per la prima ballerina che incredibilmente non era la
Lina ma un bel giovanotto dal nome Marco, il suo capolavoro.
Il vecchio fascista, che aveva portato tutta la famiglia, mise da parte tutto il suo amor patrio e
familiare sbottonandosi la camicia nera ormai tutta stropicciata e sudata; dopo poco mandò via
anche la moglie dicendo che non erano cose da far vedere a dei bambini.
Era rimasto impressionato dalla bellezza di quella donna, da quel corpo dalla fattezza
lontanamente maschile, ma proprio quella ambiguità lo attraeva in modo particolare.
Alla fine dello spettacolo si recò nel camerino per congratularsi con gli artisti, ma con la precisa
idea di portarsi a letto la prima ballerina usando la sua autorità.
Questo non era stato previsto e tutto sembrava compromesso, ma la fantasia della Lina non aveva
limiti; avvicinandosi all’uomo gli sussurrò nell’orecchio: “ Mi dispiace camerata ma quella, col
dovuto rispetto, è proprietà di gente che sta molto in alto”, dicendo questo volse lo sguardo al
ritratto del duce che campeggiava sopra le loro teste con stampigliato in faccia un sorriso che
sembrava prenderli in giro.
La delusione del federale fu grande, ma di fronte a quel fatto non gli rimaneva che salutare
militarmente il ritratto e ritornare dalla propria moglie; ma loro avevano imbastito tutta quella
messa in scena per sapere il nome della spia e quindi la Lina doveva inventare ancora qualcosa.
Si tolse i vestiti da scena e si infilò un paio di pantaloni e un berretto che aveva trovato per caso e
lo seguì. Aveva rovesciato le parti: adesso c’era veramente un corpo di donna dentro quell’aspetto
maschile; per quella volta il federale si sarebbe dovuto accontentare. Nessuno seppe che cosa
successe in quella stanza d’albergo, ma al mattino dopo scesero uno dopo l’altro ricominciando la
loro solita vita.
L’uomo era felice, ringiovanito di vent’anni, se ne andò fischiettando un’aria leggera, non la solita
marcetta fascista; la Lina invece era scura in viso, come avesse visto un fantasma. Non gli aveva
concesso niente di speciale, quelle cose lei le avrebbe fatte soltanto con l’uomo di cui si fosse
realmente innamorata, quella notte avevano soltanto giocato, si erano divertiti questo sì ma niente di
più.
La compagnia ripartì in tutta fretta, avevano paura di essere scoperti e inoltre la missione era
fallita. La Lina aveva detto di non essere riuscita a sapere niente, il vecchio camerata era stato
troppo furbo.
6
Ma se prima di quel fatto Lina aveva deciso di ritornare a casa, ora ritardò in modo inspiegato la
sua partenza e si mise sulle tracce di Fausto, doveva incontrarlo per l’ultima volta.
Ma lui sembrava sparito nel nulla, in parecchi campi che aveva visitato, non ne sapevano niente,
arrivavano solo ordini firmati da lui.
Alla fine però tanta costanza venne premiata, incontrò Fausto in visita a un campo e quasi non lo
riconobbe tanto era cambiato: una lunga barba bionda ben curata faceva risaltare due occhi azzurri
come il mare, a cui non aveva mai fatto caso e si era molto irrobustito. Adesso si poteva a ragione
dire che fosse un bell’uomo.
Portava inoltre un bel vestito grigio che sembrava fatto su misura e solo un piccolo rigonfiamento
sotto le ascelle faceva intravedere una pistola grossa da far paura.
Lina pensò fra sé: “Cosa se ne fa di quella cosa?” A cosa può servire una pistola ad un uomo così
forte che incute rispetto con la sua sola presenza, e che se volesse potrebbe uccidere un uomo con
un solo pugno?
Si aggirava per il campo come un dio, attorniato da due guardie del corpo splendenti anche loro di
luce riflessa e Lina a stento facendosi largo arrivò a toccarlo.
Lui si girò di scatto e i loro sguardi s’incrociarono, Fausto abbassò subito gli occhi e tutta la sua
sicurezza sembrò improvvisamente scomparire.
La fronte gli s’imperlò di sudore, incominciò a balbettare, mentre le mani non erano più ferme, ma
di questo nessuno si accorse, tranne la Lina.
All’improvviso il silenzio venne interrotto dalle parole di Fausto: “Oh Lina quale buon vento ti
porta?” ma in realtà pensava: “Cosa vuole questa qui? Non vorrà mica svergognarmi davanti a
tutti?” ma subito si riprese: chi avrebbe creduto a quell’essere insignificante? Per giunta era anche
una donna, non c’era da preoccuparsi.
La Lina gli fece capire che era venuta fino lì proprio per lui e che se avesse ritardato la partenza
non si sarebbe pentito.
Fausto che aveva un debole per la Lina fin dalla prima volta che si erano visti rimase e quella notte
dormirono assieme. Nella penombra della tenda, nudo, appariva ancora più bello.
Il suo corpo sembrava una statua di marmo, l’unico neo era quel coso per niente estetico che gli
pendeva tra le gambe che a Lina faceva un poco paura. Comunque aveva deciso di passare la
sponda, questa volta non poteva permettersi di sottilizzare.
All’inizio fu veramente bello, il giovane eroe era un amante perfetto, mai più avrebbe trovato di
meglio, ma all’improvviso sentì un profondo bruciore e una lacrima le solcò il viso.
Era diventata una donna, ma non aveva provato piacere; la prima volta era stata una delusione e
quando guardò il lenzuolo macchiato di sangue ripensò ai due ragazzi uccisi l’anno prima: era già
passato un anno.
Fausto invece era orgoglioso come avesse sparato a dei fascisti e senza rivolgersi la parola ma con
mille pensieri nella testa si addormentarono di un sonno profondo.
Al mattino Lina si svegliò un poco in ritardo, lui si era già messo la camicia e stava lavando i suoi
gloriosi attributi, Lina senza pensarci estrasse dalla borsetta una pistola e sparò una serie di colpi
alla schiena di Fausto.
Lina aveva di nuovo sparato e questa volta per difendere i suoi compagni da una spia; ma aveva
fatto una cosa giusta?
Il sangue di Fausto era rosso come quello dei fascisti e dei suoi compagni; si buttò sul suo corpo
accarezzandogli i capelli, coprendolo con qualcosa di caldo come avesse freddo; ora in quello stato
aveva perso tutta la sua virilità.
Lo aveva ucciso perché aveva saputo da quel vecchio fascista che era una spia o forse perché non
era rimasto turbato dal suo sangue di giovane vergine, comunque aveva di nuovo ucciso un uomo;
questa stava diventando la sua professione, ma era giunto il momento di smettere.
Gli spari attirarono gente e in un attimo la tenda si riempì; gli occhi di tutti si puntarono su di lei,
aveva ucciso il loro capo e doveva essere punita con la fucilazione.
Fu interrogata a suon di calci e pedate ma lei non aprì bocca, non poteva dire che Fausto era la
spia, avrebbe distrutto un mito e inciso sui loro animi.
Qualcuno si azzardò a dire che era lei la spia che cercavano, ma questa teoria non trovò molti
consensi e alla fine tutti si convinsero che la donna aveva agito così perché Fausto non ne voleva
più sapere di una ragazzina insulsa, non aveva nemmeno l’onore di morire da spia.
La sentenza era stata fissata per il giorno seguente e Lina passò una lunga notte insonne, ma non
aveva paura di morire, voleva sapere di che colore fosse il suo sangue. L’unico rammarico,
passando in rivista tutta la sua vita era di non poterne essere orgogliosa.
Ma al mattino quando tutto era pronto arrivò una carovana di ballerine venuta lì apposta per
intrattenere quei poveri soldati rammentandogli come erano fatte due paia di gambe e un seno bello
sodo. Nel campo si fece gran baldoria e ci si dimenticò del compito da eseguire.
La Lina dalla sua cella scorgendo qualcuna delle ballerine, scoprì che altro non erano che le sue
creature e affacciandosi chiamò la prima ballerina per farsi un’ultima risata.
Lui si avvicinò un poco sorpreso, e quando riconobbe la Lina volle farsi spiegare tutto, non era
possibile che la Lina fosse un’assassina. Parlarono per quasi mezzora e quando si lasciarono la cella
era aperta.
Non le restava altro che fuggire, evidentemente non era ancora arrivata la sua ora.
7
Lina riprese il suo vagabondare ma questa volta aveva una meta: ritornare per sempre a casa a
sistemarsi, magari mettendo su famiglia, con tanti marmocchi che la chiamavano mamma.
All’inizio era fuggita senza destinazione con la paura di essere braccata dai partigiani: aveva ucciso
il loro capo, e loro non conoscevano la verità. Però nessuno si curò di lei , erano troppo euforici per
lo spettacolo che di lì a poco sarebbe iniziato.
Per giorni attraversò boschi, guadò torrenti fermandosi soltanto per mangiare qualche castagna e
riposarsi un poco all’ombra di un albero. Non riusciva a dormire, infatti non appena chiudeva gli
occhi la sua mente si popolava di strani personaggi insanguinati che la rincorrevano per sbatterla da
qualche parte abusando di lei.
Intanto cominciava a farsi evidente lo sfacelo della guerra. Alcuni paesi che aveva conosciuto
durante i suoi loschi traffici erano irriconoscibili e anche se lei si sforzava di riconoscere qualche
particolare familiare, niente: che avesse sbagliato strada?
Si ricordava che sulla via di casa c’era una vecchia e piccola balera con l’osteria che dall’inizio del
fascismo aveva chiuso i battenti perché gli affari non andavano molto bene; ora il vecchio casottino
era diventato la meta preferita dei gatti che avevano stabilito lì la loro dimora per ripararsi dalle
intemperie dell’inverno. La porta era stata scardinata e i vecchi mobili rubati con le poche bottiglie
di vino che il proprietario si era dimenticato di portare via.
Prima della partenza di Lina serviva come ritrovo per qualche sporadica coppietta in cerca di un
poco di intimità, e il materasso steso per terra ne era una prova inconfutabile. Lei aveva sognato che
un giorno avrebbe portato lì il suo uomo, avrebbero ballato sulla pista, fintanto che le forze
glel’avessero permesso e poi avrebbero consumato un lauto pranzo che avrebbe preparato con le sue
mani, aggiungendo qualche tocco afrodisiaco. Poi si sarebbe concessa al suo uomo e avrebbero
aspettato l’alba abbracciati. Le piaceva quel posto soprattutto perché era così simile alla casa di
Ernestina.
Da quando aveva lasciato il paese quell’osteria era servita da campo operativo per i partigiani,
come rifugio dei feriti e aveva preso l’aspetto di un vecchio ospedale un po’ decadente, anche se
quegli uomini avevano lavorato sodo per rimetterlo un poco assieme.
Ma come Lina seppe in giro fu ben presto scoperto e una mattina, all’alba, circondato e dato alle
fiamme; non ci fu resistenza, infatti era difeso da quattro ragazzini dal fucile più grosso di loro e per
il resto c’erano soltanto degli uomini che non riuscivano nemmeno a reggersi in piedi. Fu un
massacro spietato, nessuno rimase in vita per raccontare l’atrocità, anche i corpi furono fatti sparire.
Lina si avvicinò a quelle macerie cercando un qualcosa che non sapeva nemmeno lei; finalmente
tra divise bruciacchiate trovò indenni un paio di mutandine da donna candide come non fossero mai
state portate, se le mise in tasca e proseguì verso il suo paese, ormai era quasi arrivata.
Da quello che aveva visto in giro aveva paura di non riconoscerlo più, ma quando entrò per la via
centrale constatò che nulla era cambiato, la chiesa era sempre lì ad accogliere qualche vecchietta
che andava al vespro, s’intrufolò anche lei e subito fu invasa da un forte odore di incenso. Le statue
erano state rimesse al loro posto e dal pulpito un vecchio prete stava incominciando la messa, si
avvicinò ad una vecchia che non aveva ancora preso posto e le domandò di Don Aldo.
La donna sembrò spaventata da quel nome e fece finta di non aver sentito, ma quando la Lina
quasi gridando le rifece la domanda la donna rispose un poco seccata: “Si è ucciso quel satana, si
era innamorato di una puttana”.
Quelle parole le arrivarono diritte al cuore come una pugnalata, anche quella morte era da
addebitare a lei, la sua vita era disseminata di vittime più o meno innocenti. Stava per mettersi a
piangere, quando dalla sagrestia comparve la vecchia perpetua: per paura di essere riconosciuta si
alzò di scatto e uscì.
Piombò nella strada deserta e accaldata, e solo dopo venne a sapere che il paese era abitato
soltanto da donne, bambini, vecchi che attendevano la morte e da qualche vigliacco che non si
faceva mai vedere in giro se non quando calava la sera.
La sua prima visita fu per la casa dell’Ernestina, aveva paura di non ritrovarla più e si sorprese
parecchio nel ritrovarla come l’aveva lasciata, solo con qualche rovo in più. Si stese sotto un albero,
la giornata era calda, e provò a chiudere gli occhi, si addormentò di colpo e per la prima volta dopo
tanto tempo nessun incubo la venne a visitare. Si svegliò all’imbrunire riposata e contenta, si era
lasciata alle spalle tutta una vita.
Fece per andarsene, ma si accorse che il terreno dove aveva dormito era troppo soffice come se
qualcuno l’avesse appena rimosso. Lina era troppo curiosa per lasciar perdere, si mise a scavare con
le mani, quasi a farle sanguinare e trovò un baule pieno di gioielli, collane, anelli, doveva valere una
fortuna, se ne fece un campionario, ripose il baule al suo posto e se ne andò. Doveva cercare un
compratore, ma di chi poteva fidarsi? Così decise di andare a trovare la signora a Torino.
Quando s’incontrarono, lasciando da parte ogni rancore, si abbracciarono come due amiche,
stando un poco in silenzio quasi non volessero guastare quel momento. Lina la guardò in faccia,
non era cambiata per niente.
Infine la signora le disse: “ Guarda come sei conciata: “Te l’avevo detto che saresti ritornata nel
fango, comunque sia la mia porta è sempre aperta”. Pregustava già la sua compagnia e il risollevarsi
della situazione economica che con gli ultimi eventi era colata a picco.
La risposta della Lina non si fece attendere: “Mi dispiace deluderti, ma questa volta hai torto
marcio, guarda questa roba e dimmi cosa ne pensi, ne ho un baule pieno, sono i regali degli uomini
a cui ho tenuto compagnia”.
La signora la guardò interdetta, si accostò alla merce, era roba di prima qualità, quella ragazza ne
aveva fatta della strada, aveva in mano un intero tesoro.
Si accordarono sul prezzo, non ci fu molta discussione; alla Lina servivano soltanto i soldi per
comprarsi la casa dell’Ernestina e addobbarla nel migliore dei modi; per il resto non sapeva che
farsene dei soldi, cosa troppo impegnativa. Ritornò in paese con l’uomo della signora, gli consegnò
il baule e se ne andò a comprarsi la casa.
8
Lavorò alacremente per quasi sei mesi e alla fine quella cascina che andava alla malora venne
trasformata in un accogliente albergo.
Non c’era volta che il caminetto non fosse acceso e le tovaglie candide e ben stirate, e tanti
commercianti allungavano la strada del ritorno per farsi un bicchiere di trippa calda e ballare un
valzer o qualche motivetto proveniente dalla lontana America. Ma soprattutto si poteva godere
della compagnia allegra della Lina, del suo contatto e del suo seno che faceva intravedere di
sfuggita quando serviva personalmente qualche piatto. Mai negava una pacca sul sedere, se era
dolce e piena di premura e tutti avrebbero desiderato dividere il suo letto, ma lei era come l’aria che
ti accarezza e ti scompiglia i capelli, ti fa fremere ma passa e va, quasi ti prendesse in giro.
Per quelle cose lì aveva fatto arrivare una decina di mulatte che erano la fine del mondo: un tocco
di esotismo in una valle ormai grigia e senza contrasti. Era andata a prenderle personalmente fino a
Genova, ripercorrendo le strade di quando più giovane andava a vendere le castagne in Riviera.
A Genova non c’era mai stata e la città non le piacque per niente con quella sua confusione, l’odore
di marcio e di muffa che le impregnava i vestiti; una gran sete poi le seccò la gola e non vedeva
l’ora di ritornare a casa.
Le ragazze erano già sbarcate e non fece fatica ad individuarle e non tanto per il colore della pelle
quanto per il nugolo di ragozzotti che giravano attorno incuriositi ed eccitati. Le aveva scelte con il
criterio di soddisfare ogni esigenza, su un giornaletto di un commerciante che aveva pernottato nella
sua osteria.
Così ce n’era una colle tette grosse, una con gambe lunghe da mozzare il fiato, una con la faccia da
porcella che eccitava anche la fantasia più debole, una dalle fattezze da maschio che pareva la copia
esatta della sua prima ballerina, una minuta che poteva assomigliarle. Certo ne doveva fare del
lavoro con quelle ragazze, ma la materia era buona e grazie agli insegnamenti della signora ne
avrebbe tirato fuori delle professioniste. Il viaggio di ritorno non fu privo di qualche pericolo, era
difficile per quei tempi andare in giro con undici ragazze sole, ma grazie alla furbizia della Lina se
la cavarono bene.
Col tempo divenne amica di un vecchio cantastorie che la veniva a trovare regolarmente con la sua
moto-carrozzella in quanto diceva di aver perso le gambe nella grande guerra. Era la prima
televisione che fosse arrivata da quelle parti, tutti lo stavano ad ascoltare in religioso silenzio fino a
tarda notte e poi andavano a letto, qualche volta anche senza mulatte.
L'umo abitava nella vecchia casa paterna, un vecchio castello che stava andando in rovina ed era
stato trasformato in parco giochi dai ragazzi che si davano appuntamento quando lui non c’era, per
provare qualche brivido di avventura. Le mamme che sapevano del fatto cercavano di sconsigliare
quelle visite e parlavano spesso di bambini scomparsi e persino mangiati, ma questo non faceva che
aumentare il loro desiderio.
Un giorno, rincasando prima del previsto, aveva sorpreso due ragazzetti che stavano portandosi via
due fucili da caccia del nonno di valore inestimabile: ne uscì fuori un gran baccano che fu udito
persino dal paese. Lo trovarono riverso per terra con la faccia insanguinata, i bambini che
ridacchiavano divertiti e se non fu linciato dovette ringraziare la sua menomazione.
Era ritornato dalla guerra con un forte esaurimento e si era lasciato andare vivendo di quello che
gli aveva lasciato la famiglia, e quando il piccolo patrimonio era finito aveva preso a girare i paesi
chiedendo l’elemosina e qualcosa raccoglieva sempre.
Non era riuscito a sposarsi, non tanto per la menomazione fisica, ma per la sua aria di menagramo
e quando aveva messo gli occhi sulla figlia del fornaio, aveva ricevuto la visita del padre che
brandiva un fucile: da quel momento non aveva guardato più nessuna donna.
Era diventato sempre più acido, quando passava con la sua motocicletta menava delle randellate da
far paura e gridava degli insulti accompagnandoli a degli sputi.
Soltanto nell’osteria della Lina si trasformava, e diventava gentile come pochi e non c’era una
volta che non regalasse un fiore, raccolto in campagna, alla proprietaria.
Quando divennero un po’ più intimi le rivelò il suo segreto, si sciolse i laccioli e fece comparire
come per magia due gambe un poco striminzite dal poco uso. Risero per un’intera serata tra lo
stupore dei viandanti che non si capacitavano del perché.
Un altro cliente abituale dell’osteria era Emile, anche lui di origine benestante; suo padre infatti
era un famoso pianista e la madre una soprano molto ricercata. Di spirito ribelle, non aveva mai
voluto intraprendere la carriera artistica, diceva spesso che non gli interessava far divertire persone
dall’animo arido e un poco ignoranti.
La sua vita era la strada, amava conoscere gente e da tutti imparava qualcosa, anche dal più umile
accattone, che non dimenticava mai di ringraziare. Ma la musica l’aveva nel sangue, non ne poteva
fare a meno e quando incontrò un vecchio contadino che armeggiava uno strano strumento a corde
dal suono melodioso si innamorò di quell’oggetto e non lo lasciò mai più. Divenne in poco tempo il
più grande suonatore di ghironde che ci sia mai stato: al suo passaggio la gente smetteva di lavorare
e accorreva per sentirlo suonare e non c’era volta che qualcuno non gli chiedesse il bis.
Aveva ricevuto parecchie offerte per un lavoro sicuro ma lui non amava rimanere per troppo
tempo nello stesso posto, era uno spirito libero e quando sentiva che un legame stava diventando
troppo stretto era pronto a reciderlo e scappare via. Persino quando il direttore del conservatorio,
seguendo la sua fama che era arrivata fino a Parigi, gli aveva proposto una cattedra, lui si era fatto
una risata e gli aveva dato l’indirizzo di suo padre che non era mai riuscito nel suo sogno di
diventare professore e con il suo unico allievo, cioè lui, aveva fallito in pieno.
Ragazzo di bell’aspetto, dall’aria un poco misteriosa con degli occhi verdi che facevano sognare,
oltre alla musica amava le donne e il loro corpo, fosse vecchio o giovane non aveva importanza.
Anche in quel campo era un maestro e non c’era posto dove lui fosse capitato che non avesse
lasciato un segno; chissà quanti giovani musicisti sono nati in quegli anni?
Amava spesso dire che l’unica cosa che non era ancora riuscito a mettere in musica erano i gemiti
e i sussurri delle donne quando facevano l’amore: si limitava a sentirli da spettatore.
Quell’uomo libero come il vento si fermò per molto tempo dalla Lina accettando di suonare per
lei, per un piatto di trippa e per una piacevole conversazione. Intanto la Lina diventava ogni giorno
più bella ed era un vero peccato che nessuno raccogliesse quel fiore.
Una sera comparve nella sua locanda un giovane straniero, alto muscoloso dalla carnagione chiara
e dai capelli biondi, sembrava un dio. Si misero a parlare e tra una moina e l’altra si ritrovarono a
letto a consumare il loro amore.
Nel corpo assomigliava a Fausto, soltanto che il suo attributo era molto più piccolo, faceva quasi
tenerezza. Lei si divertiva a stuzzicarlo quasi fosse un giocattolo e lui sempre rispondeva alla
chiamata. Il corpo un poco femmineo, le sue maniere gentili, eccitavano la Lina come non mai:
quando accarezzò il suo sesso, si sentì pronta ad essere penetrata e scongiurò il suo uomo di volerla
accontentare.
Per parecchi giorni Lina non si fece vedere se non per recarsi in cucina a preparare un uovo
sbattuto al suo amante. Che fosse il dio del vento quell’uomo che aveva imbrigliato Lina?
Quando ritornò alla vita era come una candela consumata, il suo sorriso era svanito, l’occhio
spento e fisso in direzione del suo giovane amante. Incominciò a sbattere via qualche mulatta rea di
essersi avvicinata troppo al suo uomo, la vita divenne un’inferno, il grigiore prese il sopravvento e
il focolare si spense per sempre.
Un giorno confidò al suo uomo di aver ucciso due tedeschi, quasi per liberarsi di quel peso che
ancora aveva sullo stomaco. L’uomo impallidì improvvisamente, si scostò dalla Lina e in un attimo
impugnò una pistola accanendosi contro di lei,
Era un tedesco che stava scappando dall’invasione alleata e aveva trovato rifugio nel letto di Lina.
Si era riscattato da una vita da vigliacco, e ora poteva ritornare a casa soddisfatto. Non contento,
prese il corpo e lo scaraventò nel fiume.
Chissà se qualcuno ha mai trovato quel corpo dandogli degna sepoltura? Chissà se dalla sua testa
non potranno nascere delle radici e un grande fiore e spezzare quel cielo grigio e monotono e questa
terra da troppo tempo stanca e immobile senza desiderio di germoglio? Chissà se il vento avrà
portato i semi di questo fiore in qualche altro posto per generare ancora una volta un’altra Ernestina
o un’altra Lina?
9
Oggi molte cose sono cambiate: la casa dell’Ernestina è stata rasa al suolo, al suo posto è sorto un
motel Agip; qualche coppia affitta una camera per un’ora; il piccolo sentiero che porta in Riviera ha
ceduto il posto a una bella autostrada grigia; al casello qualche prostituta vende il suo amore. Il
paese non esiste più: una grande fabbrica con le sue sirene che squarciano il silenzio della valle è
sorta con il solo scopo di rovinare il paesaggio. Il fascismo non c’è più da un pezzo, ma i colori
sono ancora grigi e la primavera tarda ad arrivare.
Musolen ha fatto una brutta fine, proprio il giorno della liberazione, mentre stava festeggiando in
un bar venne falciato da un giovane idiota che credeva di aver sorpreso il grande dittatore, proprio
quando aveva incontrato il suo grande amore, un operaio della Fiat con la faccia che assomigliava
vagamente a quella di Hitler: avrebbero potuto fare una bella coppia.
La signora di Torino invece ha smesso di lavorare e con i gioielli comprati dalla Lina è diventata
davvero una signora. Frequentava i grandi alberghi e si fa vedere spesso sulla costa azzurra,
passando da un casinò all’altro, e non si può dire che non abbia fortuna. Chi direbbe mai che
avesse gestito una casa di tolleranza?
Di Emile, invece, si sapeva del suo amore per le donne, e per colpa di quel vizio ha trovato la
morte per mano di un marito geloso: il suo corpo è stato riportato in Francia, sepolto senza
nemmeno una nota di musica, accanto a dei genitori che non aveva amato e nemmeno aveva
conosciuto.
Il vecchio cantastorie è finito sotto una macchina impazzita proprio il giorno in cui aveva deciso di
mettersi a camminare come un uomo normale: ci ha rimesso le gambe, ha smesso di mangiare e
pian piano è morto alla ricerca dei suoi arti.
La prima ballerina ha avuto un discreto successo in teatro anche dopo la liberazione, è divenuto
attore di televisione facendo la macchietta del travestito, ma una sola cosa aveva in testa: come fare
per diventare una donna; detestava quel corpo maschile che lo imprigionava..
A Torino inoltre c’è una strada che porta il nome di Fausto, indicato come comandante partigiano,
e tutti i 25 Aprile c’è sempre un mazzo di rose rosse portato da chissà chi; di Lina nessuna traccia.
IL DIRETTO DELLE SETTE E TRENTA
1
E’ una fredda giornata di dicembre, mi sento stanco, qualche giorno fa ho compiuto settanta anni e
li dimostro tutti, un poco malfermo sulle gambe, la testa quasi pelata, un colorito verdastro, la mano
tremolante, tanto che non riesco più a pisciare senza bagnarmi.
Nonostante tutto non mi dispiace fare delle passeggiate, e non ho mai mancato al mio
appuntamento delle sette e trenta. Il rumore della strada copre la voce di Monica, mia moglie, che
mi invita a chiudere la finestra.
E’ una donna di circa dieci anni più giovane di me, ancora piacente e giurerei che ha degli
spasimanti, non riesco a capire come abbia fatto a mettersi con uno come me, che bello non è mai
stato, e nemmeno interessante. Mi sovrasta di una spanna, gambe lunghe, si potrebbe permettere
ancora una minigonna, invece di quei pantaloni che la mortificano, il seno e il sedere sembrano non
aver subito l’azione del tempo. Qualche piccola ruga sotto gli occhi e il collo leggermente
raggrinzito, la riportano sulla terra.
La città ancora dorme, soltanto l’edicola della piazzetta sta aprendo, il vecchio proprietario fa
fatica a tirare su la saracinesca che stride in modo pauroso. Chissà cosa spetta a metterci un poco di
olio? Un camioncino si è appena fermato, l’autista è sceso, ha scaricato un pacco di giornali,
salutando appena e quindi è scomparso inghiottito dalla strada. Il bar centrale, invece, è ancora
chiuso, le seggiole sono accatastate l’una sopra l’altra, il signor Antonio ieri sera avrà fatto
bisboccia e questa mattina fatica a scendere.
Qualcuno guarda sconsolato l’insegna spenta, per oggi dovrà rinunciare al caffè.
Mi affaccio alla finestra proprio sotto di me si è fermato un ragazzo che aspetta la morosa, mi
viene voglia di sputargli sulla testa per vedere la sua reazione, per fortuna Monica è arrivata nella
stanza e senza dirmi niente ha chiuso la finestra, quasi ad evitarmi quell’insano gesto.
Da qualche giorno la città si è vestita a festa, i negozi si sono riempiti di roba, per le strade è tutto
uno scintillio di luci e la gente rimane in giro fino all’ora di chiusura dei negozi.
Oggi il ragazzino del semaforo non c’è, passa lì le sue giornate parlando alle auto che si fermano
per il rosso. Deve avere dieci anni, capelli ricci, un colorito scuro, due grossi occhi verdi, un
giubbotto nero, calzoni di velluto, di due taglie più grossi, forse del fratello maggiore.
Ha l’aria di uno spaventapasseri, ma quello spaventato è solo lui, la vergogna negli occhi, la mano
tremolante che quasi dimentica di tendere.
Nella nostra via è arrivato Babbo Natale, ha un vestito scolorito, la barba bianca sporca e lo
sguardo spento sempre abbassato, ha preso il posto di un giovane marocchino che non vendeva
niente.
E’ un Babbo Natale che non porta regali, si limita a dispensare larghi sorrisi e ad accarezzare i
bambini, poi allunga la mano aspettando l’elemosina.
Quando la mattina presto, mi alzo è già sul posto di lavoro e fino all’imbrunire non se ne va,
all’ora di pranzo tira fuori da un piccolo cartoccio un panino, ci dà alcune morsicate e poi lo ripone
nel sacchetto, in compenso si scola quasi un litro di vino. A dormire non va molto distante, ha
trovato un portico buio, lì ha sistemato con cura dei cartoni e ha nascosto il suo guardaroba, due
grossi sacchetti di plastica.
Da quando è arrivato dei ragazzini che avranno all’incirca tredici anni, lo prendono in giro, se non
fossi così vecchio andrei giù con un bastone.
Mi affaccio alla finestra, fa veramente freddo, potrebbe anche nevicare, mosso da pietà gli faccio
cenno di salire.
Da principio sembra non intendermi, o forse non ha voglia della mia compagnia, ma non sono
passati nemmeno cinque minuti che sento bussare alla porta. Chiede timidamente se può mettersi in
libertà, non ho nulla in contrario, e allora lui si toglie barba e cappello, avrà circa la mia età.
Soltanto adesso mi sento trafiggere il cuore.
Non avevo nemmeno dieci anni, credevo ancora che i bambini li portasse la cicogna. Quell’anno
mio padre aveva deciso di passare il Natale sulla neve a Limone, invitato da un suo collega.
L’avevo visto qualche volta e non mi era rimasto simpatico. Mio padre ci aveva detto che la nostra
vita dipendeva da lui, da quell’omettino insignificante e che bisognava essere gentili ed educati.
Nessuno di noi sapeva sciare, avrei passato le giornate di festa in una casa che non conoscevo, a
mangiare e a giocare a tombola.
Mi ero opposto a quella decisione con tutte le mie forze, avevo paura che Babbo Natale, non
trovandomi a casa, si sarebbe arrabbiato e non mi avrebbe più portato regali.
Mio padre decise che ero diventato troppo grande per credere a quelle storie, comparve
improvvisamente nella mia stanza, tutto vestito di rosso, si tolse la barba bianca e mi disse: “Lo
vedi chi è Babbo Natale?”
Quel giorno avrei voluto prenderlo a pugni e invece mi limitai a dire: “Perché papà? Sono forse
stato cattivo?”. Lui aveva sorriso scrollando la testa, ero ormai diventato grande.
Chiedo al mio ospite se vuole qualcosa da mangiare, mi fa cenno di no con la testa, comunque gli
faccio un te, e gli offro dei pasticcini, ma forse avrei fatto meglio a servirgli un buon bicchiere di
vino. Si accende la pipa, procurandomi un poco di fastidio per l’odore di tabacco e a un tratto
comincia a raccontarmi la storia della sua vita.
Si chiama Egidio e insieme al padre era stato proprietario di un negozio di tessuti, aveva passato
tutta la sua vita tra stoffe e donne noiose e forse questo l’aveva reso un poco effeminato o forse
aveva solo ingentilito le sue movenze.
Fin da piccolo aveva aiutato suo padre, gli era costato fatica staccarsi dai suoi compagni e dai loro
giochi, ma il vecchio su questo era stato irremovibile: il loro lavoro era difficile da imparare e se si
voleva farlo bene, bisognava iniziare ancora bambini.
Quelle quattro mura e quella vetrina da dove poteva vedere gli altri bambini divertirsi correndo
dentro una pozzanghera divennero il suo mondo e le sue favole non furono Pinocchio o Biancaneve
ma le tasse da pagare, le tratte in scadenza e le commesse da guardare con occhio vigile.
Si sposò che aveva quasi quarant’anni lei faceva la commessa nel suo negozio, non fu amore,
Egidio non ci aveva mai pensato, troppo occupato con le sue stoffe. E poi quella donna, dal
carattere autoritario, troppo alta e magra, vestita sempre con una cappa azzurra, senza un filo di
trucco su una faccia mascolina, non poteva attirare un uomo. Fu il padre che volle quel matrimonio,
per salvaguardare la bottega: “Io non sono di ferro, e tu da solo non ce la puoi fare, ci vuole una
donna con l’occhio del padrone” gli disse un giorno.
Ora il silenzio regna nella stanza, mi alzo di scatto per cercare del vino, lo trovo, gliene verso un
bicchiere, lui sembra apprezzarlo molto e lo trangugia tutto d’un fiato.
Mi faccio coraggio e gli domando; “Come mai siete finito in questo modo? E la vostra bottega?”
Finalmente alzando lo sguardo mi fa un sorriso, così riesco a vedergli gli occhi, sono di un colore
stupendo, poi si schiarisce la voce e mi dice: “Avevo bisogno di un po’ d’aria fresca”.
Senza accorgercene ci siamo scolati una bottiglia di vino, le mie domande si fanno incalzanti:
“Non siete più andato in bottega? Non avete più visto vostro padre?” Non appare per niente
imbarazzato e mi risponde: “Ci sono passato una sola volta, quasi per caso, si sono ingranditi, gli
affari vanno bene. Non ero così necessario come fingevo di credere. Mia moglie, che con l’età non è
peggiorata, i brutti diventando vecchi, recuperano posizioni, si è risposata con uno più giovane, un
tipo sportivo sempre abbronzato in maniera innaturale, che sta seduto dietro alla cassa in giacca e
cravatta, a contare i soldi.
Hanno liquidato mio padre e cambiato il nome dell’insegna. Che brutta fine deve aver fatto povera
donna, quello non sembra proprio il tipo di accontentarsi di una come lei!”
Mi piacerebbe invitarlo per il giorno di Natale, avremmo tante cose da raccontarci, ma lui dice che
ha un impegno.
Ci salutiamo come vecchi amici, dalla finestra vedo che attraversa la strada e poi si sistema al
solito posto.
Mia moglie sta rientrando, è andata dal parrucchiere e vorrebbe che le facessi dei complimenti ma
rimango zitto, sto ancora pensando ad Egidio.
Lei allora interrompe il silenzio: “Ho visto quell’uomo vestito da Babbo Natale che usciva dal
nostro portone, cosa sarà venuto a fare?” Sono contento che abbia iniziato a parlare e le rispondo:
“Non lo sai che fra poco è Natale? Sarà venuto a portare i regali”.
Mi guarda stupita e mi dice: “Possibile che tu abbia sempre voglia di scherzare?” Ribatto seccato:
“E allora guarda nell’armadio ha lasciato qualcosa anche per te”.
Si avvicina al mobile e trova un pacchetto colorato, lo scarta trepidante, e subito getta un urlo:
“Ma caro non dovevi! Con tutti i soldi che dobbiamo pagare al signor Antonio per la casa”, ma già
si è messa il collier e si guarda allo specchio. Finalmente mi avvicino: “sei meravigliosa, e poi a me
non è costato niente, è stato Babbo Natale”, lei si mette a ridere: “Quando ti deciderai a crescere?”.
Improvvisamente mi è venuta voglia di fare una passeggiata, per dirla come Egidio, di prendere
una boccata d’aria fresca: Monica è un poco preoccupata per la mia salute, ma la rassicuro dicendo
che fra mezz’ora sarò di ritorno.
2
Sono sceso nella strada piena di macchine in colonna, che sembrano aspettare un qualcosa: chissà
cosa ci sarà in fondo a quella striscia nera? Alla fermata dell’autobus decine di persone aspettano
quello che tarda ad arrivare.
Il grigio predomina appena ferito da qualche timido raggio di luce che filtra dai negozi, le insegne
natalizie spente rendono ancora più lugubre l’atmosfera.
Questa è la Genova di periferia, l’unico buon odore è quello della tripperia, dove gli operai si
fermano a bere una tazza di brodo, e non si conosce l’odore del cappuccino e delle brioches appena
sfornate.
Gli unici rumori vengono dalla strada, quei immensi casermoni piene di gente sembrano vuoti,
quasi timidi a far sentire la loro presenza: I bambini non piangono in questo angolo di mondo? Le
mamme sono così pazienti? Mi sembra tutto molto strano.
L’unica cosa viva è quel piccolo giardino proprio sotto casa, fatto a triangolo con quattro alberi dal
colore indefinito, che troppo poco si avvicina al verde.
Delle panchine fin troppo colorate, che gli operai si ostinano a pitturare cancellando le scritte di
qualche innamorato annoiato fanno da contraltare. La terra, all’interno delle aiuole, prende
anch’essa un colore grigiastro e per quanti sforzi facciano gli operai del Comune non cresce un filo
d’erba, questo giardinetto è il pisciatoio di tutti i cani del quartiere, il mio cane non l’ho mai portato,
nell’attesa di un ciuffo d’erba.
Ha preso il nome di “ Belini molli”, perché è occupato da gente che non scende sotto i
settant’anni; un po’ irriverente come nome, ma mi basta poco per capire che è azzeccato,
infilandomi una mano nei calzoni.
Qualche volta si veste a festa, è il periodo delle elezioni, viene letteralmente coperto da cartelloni
di vari colori, e dalle facce inquietanti, di forestieri, che pian piano diventano familiari, e quando
forse ti ci sei affezionato ecco che arriva qualcuno e sbaracca tutto. Le elezioni sono finite e gli
alberi riappaiono come per miracolo e mettono un poco di tristezza.
La piazzetta si riempie di colore, quando il partito comunista fa qualche comizio.
Le parole dell’oratore mi interessano poco, mi pace lo sventolio delle bandiere rosse, il traffico
deviato e l’ammassamento delle persone con le facce contente sempre pronte ad applaudire e ad
intonare canzoni.
Questo periodo coincide con la primavera, ed è un presagio della vicina estate, gli alberi si
vestono di foglie che serviranno da riparo nei giorni di calura e si incomincia ad aspettare il
banchetto delle angurie.
L’estate è l’occasione per stare fuori la sera, non è molto divertente, ma la “pateca” mi piace
parecchio. Si parla fitto di tutto, ma principalmente di pensioni e di malattie, sembra un convegno di
medici.
I bambini giocano a nascondino e cercano sempre di interrompere i discorsi dei grandi. Manca
l’età di mezzo e questo mi ha sempre incuriosito.
Vorrei prendere quella stradina che porta ai forti, è fatta di gradini di mattoni e diventa pian piano
più stretta e tortuosa. È strano trovarsi, dopo qualche rampa, in un altro mondo, fatto di colori
diversi, dal rosso sangue del sentiero, appena macchiato da qualche ciuffo d’erba, ai piccoli fiori,
giallo intensi, che alzano la testa presuntuosi.
Le case pian piano incominciano a diradarsi, qualche ramo di vite si attacca alla ringhiera e
nell’aria aleggiano odori difficili da identificare, ma familiari.
Il sentiero a gradini rossi, lascia il posto a un viottolo dall’erba un poco rovinata, le case non si
vedono più soltanto il latrato dei cani indica la presenza di qualche essere animato.
Più avanti il sentiero sembra scomparire, lasciando il posto ai rovi e a quelle pianta che mio padre
chiamava “grattacui”, quella parola mi ha sempre fatto sorridere.
Ai forti ci sono andato poche volte, era il luogo delle coppiette e a me non piaceva fare la figura del
guardone. Il mio cane invece giocava in mezzo alle rovine, infastidiva le coppiette e si divertiva a
strappare i preservativi che infestavano il luogo.
C’erano travestiti che aspettavano i clienti, era l’unico posto dove battevano anche di giorno. Mi
stavano simpatici, anche se la mia frequentazione si limitava alla Murena, che gestiva, in via del
Campo, una trattoria per dire la verità un buco scrostato e umido, dove tutti potevano avere un
piatto caldo a poco prezzo o anche a credito.
Al mattino, prima di andare a scuola, i bambini passavano dalla Murena per un pezzo di
cioccolata, non so se fosse buona, ma non costava niente. Amava i bambini e un giorno organizzò
una gita al Luna Park ma per poco non fu arrestata per adescamento.
Tutte le volte che venivo ai forti mi fermavo per qualche momento proprio al bivio, scartavo una
caramella alle erbe alpine, assaporandone il gusto amaro e sbirciando la città fin troppo distante.
Chiamavo il cane con un fischio e prendevo la strada in discesa, completamente immersa nell’erba
troppo alta, alla scoperta di una piccola fontana, dall’acqua fresca, ogni volta era un piacere
ritrovarla, come era un piacere dimenticarne l’esatta ubicazione.
Negli ultimi anni non mi sono più spinto fin lassù, un po’ per timidezza, un po’ per invidia delle
giovani coppie e soprattutto perché mi mancano le forze.
Mi fermo subito dopo la prima rampa, in una piccola osteria per passare qualche ora con qualcuno
della mia età a giocare a carte, o soltanto a sfogliare il giornale. Nella bella stagione mi limito a
guardare i più giovani che giocano a bocce, godendo della frescura del pergolato e di un buon
bicchiere di vino fresco.
Il mio cane invece ha fatto delle amicizie e per qualche ora non lo vedo più, si intrattiene con delle
cagnette, anche se certe volte ritorna ingrugnito e con la coda tra le gambe e mi fa capire che
bisogna ritornare a casa.
Oggi però non ho voglia di prendere la stradina rossa e mi ritrovo improvvisamente senza sapere
come, su un autobus diretto al centro.
E’ facile rimanere in piedi, sorretto da quelle persone che mi stanno attorno e di trovare un posto a
sedere non se ne parla, anche se alla mia età ne avrei il diritto. Il conduttore deve essere un sadico,
ad ogni fermata frena in maniera troppo brusca e come bestie avanziamo di qualche metro, dicono
lo faccia per far spazio alle persone che devono salire.
Ho raggiunto la porta senza nemmeno accorgermene, sono notevolmente infastidito da quelle mani
che mi toccano da per tutto e dall’odore di sudore che mi impregna i vestiti. Non so dove sono
diretto, è difficile intravedere dal finestrino un posto conosciuto, decido quindi di lasciarmi
trasportare fino al capolinea, che mi libera da quelle persone che mi hanno intrappolato per troppo
tempo. Scendono tutti, ognuno ha una destinazione che si affretta a raggiungere, soltanto io non so
dove andare, mi guardo intorno per scoprire dove sono, mi ci vuole un poco per raccapezzarmi:
sono in piazza Caricamento, il cuore di Genova. I portici di Sottoripa mi accolgono con il loro
calore, fatto di roba da mangiare e di merci ammassate di ogni genere. Grida, strepiti, fumo, odore
acre, misto di spezie e di salsedine, si percepisce la stessa atmosfera di un gran bazar mediorientale.
Su questo set sono in azione, mercanti, ladri, sfaccendati, ed io che non sono né un attore né un
regista, mi sento un pesce fuor d’acqua.
Prendo una stradina buia come a voler uscire di scena, ma eccomi in una piazzetta dove gli attori
sono verdurai e pescivendoli che allestiscono i loro banchi, sono indaffarati, gridano, sembrano
avercela con qualcuno e i dialetti si mescolano in una sola lingua; sono in ritardo, e i compratori
aspettano impazienti. I negozi sono troppo piccoli e la merce viene esposta sulla strada, ad altezza
di cane ed è difficile camminare senza inciampare.
Imbocco un vicolo, una donna grassa, quasi senza gambe, è seduta dietro un banchetto a vendere
sigarette e poco più in là, uomini dall’aria distinta giocano alle tre carte, aspettando lo scemo di
turno. Le finestre danno proprio sulla strada e si può vedere all’interno, un letto e una donna in
attesa.
Prendo un vicolo ancora più buio, finalmente un poco di silenzio, qui le persone si aggirano con
fare circospetto, sembrano aver paura dei loro passi, mi avvicino per guardare meglio, sono
sospettosi, girano alla larga, o si mettono a parlare sottovoce, è difficile capire cosa dicano, hanno
una lingua incomprensibile ed il colore della loro pelle non è uguale al mio, basta una macchina
della polizia, capitata per caso, per fare il deserto.
Arrivo in una piazzetta occupata da una fontana senza acqua e incrostata delle cacche dei piccioni,
la chiesa di fronte ha le porte sempre chiuse, quasi avesse vergogna: ci sono soltanto alcune donne
vestite in modo approssimativo, tutte giovani e belle, mi si avvicinano facendomi i complimenti,
sono lusingato e vorrei accettare l’invito, ma ho paura di fare una brutta figura, e poi ho la netta
impressione che mi prendano in giro.
Molto educatamente declino l’invito, sembrano deluse e mi imprecano dietro. Mi metto quasi a
correre imbattendomi in una signora che quasi mi abbraccia, mi sento braccato e non mi resta che
arrendermi.
E’ una donna di circa cinquant’anni, il corpo sfatto, due grosse tette che gli arrivano alla pancia, il
viso pitturato come una indiana.
Anche lei mi lusinga e decido di seguirla, siamo in Vico della Castagna, a due passi c’è la salita
Tre Re Magi e Vico dei Biscotti, nomi sicuramente appropriati, infatti, sembra di entrare in un
atmosfera da fiaba: una pasticceria spande il suo profumo per tutti i carruggi. I genovesi hanno una
vera e propria passione per il cacao e un tempo da questo porto passava la nobile polvere da
distribuire in tutta Italia. La pasticceria fino a quarant’anni fa non era l’unica azienda frequentata
nel vicolo, si trovava qui, infatti una delle più note e bazzicate case chiuse della città. La
testimonianza di questa presenza peccaminosa è rimasta ancor oggi: un cartello stradale dell’epoca
indica il divieto di transito ai bambini.
Siamo arrivati in Vico delle Calabraghe, un segno premonitore, entriamo in un portone buio,
saliamo una rampa di scale, l’odore è quello di muffa e di piscio.
La casa è piccola, un’entrata con un attaccapanni porta alla cucina, la tavola è coperta da una
tovaglia di pizzo, da un posacenere e da un bel vassoio di ceramica ricolmo di caramelle, quattro
seggiole, sistemate con cura, la circondano. La cucina a gas è troppo pulita, segno che non viene
usata da molto tempo, due pensili bianchi si confondono con il muro, dentro solo due bicchieri e
una bottiglia di whisky, non una scatola di pasta, né piatti, né posate. Una porta apre alla camera da
letto, qui un grosso armadio marrone in stile antico opprime l’ambiente, quasi in disparte il letto,
una rete sfondata e un materasso coperto da un lenzuolo a fiori. Accanto si trova un comodino, in
stile con l’armadio con sopra una scatola di preservativi aperta. L’unica cosa stonata è una sedia
dove sono state buttate un paio di calze e delle mutande nere di pizzo.
Un’altra porta da sul gabinetto, l’unica stanza in disordine, dappertutto sono sparsi prodotti di
bellezza, vicino al bidè stagna una pozza d’acqua, da un cestino maleodorante fuoriescono carte e
preservativi usati, nel lavandino sono in ammollo mutande e reggiseno e lo specchio talmente
sporco da non distinguere la propria faccia.
La mia signora si è già spogliata e mi aspetta con le gambe divaricate, è veramente brutta e grassa
ed è difficile contare le pieghe della sua pancia. Sono veramente preoccupato, come potrei
soddisfarla?
Non mi va di essere maleducato, ma sono sicuro che il mio cazzo non si rizzerebbe nemmeno per
un miracolo.
Ma proprio lei mi toglie dall’imbarazzo chiedendomi la marchetta, un lampo: sono alla presenza di
una puttana. Sono salvo, le do i vestiti per coprirsi e lascio i soldi sul comodino. Lei sembra stupita,
poi comincia a parlare del suo lavoro, di quando poteva uscire soltanto al sabato vestita in modo che
tutti la potessero facilmente riconoscere. Un fiume di parole violentano le mie orecchie, ho voglia
soltanto di uscire.
Sono ormai sulla soglia, una rampa di scale, e sarò fuori, la signora mi trattiene ancora un attimo,
ha qualcosa da dire e quando giunto al portone la saluto con un cenno della mano aggiunge:
“Nonostante tutto, meglio oggi”.
3
E’ una fredda giornata genovese, la pioggia non da tregua, accompagnata da un vento gelido,
decido di rifugiarmi in un cinema ed escludendo di andare in centro, scelgo lo Splendor, un cinema
a luci rosse che è proprio sulla mia strada; intanto il film non mi interessa.
La sala è vuota, se si eccettuano dei vecchietti in prima fila che scompaiono tra le poltrone, mi
sistemo anch’io comodamente, rimpiangendo le vecchie seggiole di legno, che se non stavi attento
ci cadevi dentro e facevano un rumore assordante.
C’è uno strano movimento tra la sala e i gabinetti, il film sembra non interessare nessuno.
Anche se sul telone compaiono delle donne nude e scene davvero piccanti, lo spettacolo sembra
svolgersi nel cesso. Tutto sa di pulito ma mi piacerebbe sentire l’odore delle sigarette e vedere la
nuvola di fumo interrotta dal fascio di luce.
Un uomo mi siede accanto e mi guarda in modo imbarazzante, non riesco a capire le sue
intenzioni, la cosa mi eccita e aspetto, qualcosa deve succedere, dopo dieci minuti si alza e si dirige
al bagno.
Sul telone si susseguono le immagini, ma io sono distratto, mi aspetto il ragazzo con i pop-corn,
ma non succede niente e sono deluso.
Hanno tolto la pedana, chissà dove si esibiranno le ballerini e il comico che raccontava barzellette
che non facevano ridere? I nostri occhi di giovani universitari erano incollati alle gambe di quelle
giovani bellissime e irreali.
Si usciva qualche minuto prima per occupare i posti migliori, nella speranza di poter passare un
bigliettino; c’erano però dei figli di papà che potevano permettersi un mazzo di fiori ed erano loro i
prescelti, il giorno dopo raccontavano di notti infuocate con dovizia di particolari, ma i ben
informati riferivano di sbornie pagate a caro prezzo, senza aver ottenuto niente in cambio.
Da giovane, al paese, ogni tanto andavo al cinema con gli amici, entravamo alle due e uscivamo che
era già buio, sorbendoci due volte lo stesso film e scappavamo soltanto sentendo il fischio del treno,
voleva dire che era l’ora di cena.
Il cinema era proprio dietro la stazione e tutta la sala, quando passava un treno, sembrava in preda
a un terremoto.
Il film è quasi alla fine, deve essere molto tardi, ma non si sente nessun fischio, mi è difficile
alzarmi. L’uomo che poco prima mi aveva messo in imbarazzo è ritornato e si risiede, sembra molto
coinvolto dal film.
Il mio sguardo approfittando di un forte raggio di luce che illumina per un attimo la sala incontra
la patta dei suoi pantaloni. Sono interessato e sorpreso dal rigonfiamento e approfittando del buio
appoggio la mano, non trovo nessun ostacolo e quindi gli tiro fuori l’arnese, duro come l’acciaio e
mi metto a menarglielo, i nostri sguardi si incontrano, il suo è di gratitudine, il mio deve apparire
di supplica, tanto che improvvisamente una mano ha preso il mio cazzo un poco molle e lo
accarezza come mai mia moglie ha fatto.
Non ci vuole molto perché si indurisca anche se non c’è paragone con quello del mio vicino. Sono
soddisfatto lo stesso, è da tanto tempo che non l’ ho più così duro. Passano dieci minuti, non vorrei
che terminassero mai, la fine è data dalla mano bagnata e dalle macchie nei calzoni. La pioggia è
cessata, sono nuovamente in strada, in Via Macelli di Sozziglia dove c’è la bottega dello
stoccafisso. Una volta si mangiava soprattutto al venerdì, mentre oggi la giornata dello stoccafisso è
la domenica.
La Chiesa già nel 500 richiamava i fedeli ad abitudini alimentari più sobrie e morigerate:
abbandonare la cucina grassa e succulenta, mangiare di magro al venerdì diventò un imperativo
categorico per chi voleva seguire i dettami della religione. gli uomini e soprattutto le donne seppero
fare miracoli: insaporirono lo stoccafisso con le erbette mediterranee, lo annegarono in olio e
pomodoro e lo annaffiarono con vini corposi. Alla fine solamente i pescatori continuavano a
mangiarlo lessato o imburrato.
Sto per ritornare a casa, quando m’imbatto in un uomo che quasi mi fa cadere, lo guardo in faccia
carico di rabbia, poi lo riconosco: è Sergio un famoso cantante. L’ho visto parecchie volte in
televisione, ha la faccia d’artista con quei capelli lunghi, bianchi e disordinati sulle spalle. Ha un
vestito di pelle nera, con un gilet sgargiante sotto la giacca, è ridicolo, a stento riesco a trattenermi
dal ridere, ci salutiamo come se ci incontrassimo tutti i giorni, ma è da trent’anni che non ci
vediamo.
Lo invito a prender un caffè in uno di quei bar da signore, dove ti siedi su poltrone di velluto e sei
in imbarazzo per paura di sporcare qualcosa. Qui si serve soltanto tè e pasticcini e la tua figura è
riflessa su decine di specchi impietosi. Non c’è odore di vino, si parla quasi sussurrando e i
camerieri con la giacca rossa sono troppo servizievoli e puzzano di dolce dando quasi la nausea.
Lui mi racconta dei suoi concerti e dei suoi progetti futuri, io vorrei parlargli della mia vita, ma è
troppo occupato con la musica per ascoltarmi. Con la sua solita delicatezza mi parla di Eleonora,
una ragazza che piaceva ad entrambi, forse lo fa per procurarmi un dolore. Lei come era facile
immaginare scelse lui, si sposarono ed ebbero una bambina, Margot, divorziarono quasi subito,
Eleonora scomparve e ora lui mi chiede se ho sue notizie. Ma non gli basta e continua ad infierire,
parlandomi delle sue donne come fosse un pavone.
Quando eravamo piccoli andavo spesso a casa sua, viveva in una villa stupenda, con un magnifico
prato, si diceva in giro che l’avessero ereditata da un lontano parente americano. Giocavamo tutto il
giorno in giardino con la bicicletta fantasticando di correre il Giro d’Italia e per tanto tempo mi è
stato difficile distinguere l’Italia da quel meraviglioso giardino.
Quando poi eravamo stanchi, ci ritiravamo in casa, Sergio aveva una mansarda tutta per lui,
ricolma di giocattoli che non si trovavano nei negozi italiani. Ci mettevamo a giocare, ma lui teneva
per se i pezzi migliori, lasciandomi le macchinine più brutte o i soldatini rotti, e così vinceva
sempre.
Alle cinque, come un orologio arrivava sua madre con il tè e i pasticcini che divoravamo in un
attimo. Era una donna fragile, vestita modestamente, ma emanava un buon profumo di rosa, di
gelsomino; mi faceva sorridere perché quando parlava storpiava un poco le parole, non avendo
imparato ancora bene l’italiano. Il padre non si faceva mai vedere, era sempre in giro a cercare di
dilapidare la sua fortuna, anche se lui sosteneva di uscire per lavoro e per curare i propri interessi.
Quando Sergio scoprì la vocazione per la musica, incominciai ad odiarlo, la sua voce pastosa e
forte, il suo tocco di mano sulle corde di una chitarra facevano andare in visibilio le ragazze e a me
non restava che fare da spettatore. Io intanto avevo incominciato a scrivere poesie, ma non era la
stessa cosa.
Il caffè è finito, ci stringiamo la mano, lui ha molta fretta, domani terrà un concerto in Francia.
Chissà se ci rivedremo ancora? Sono di nuovo solo in mezzo a una folla che mi appare sempre più
ostile, ma di ritornare a casa non ne ho assolutamente voglia.
Vorrei comprare un giocattolo, mi succede spesso quando sono angosciato di desiderare un
oggetto qualsiasi, all’apparenza inutile. Un negozio attira la mia attenzione, è tutto illuminato e ha
un’insegna intermittente che da fastidio agli occhi, bambini appiccicati alla vetrina appannano il
vetro con il loro fiato, mi faccio largo tra loro a suon di spintoni, guardato dalle mamme come fossi
matto.
Sono fortunati i bambini di oggi, ai miei tempi c’era poco o nulla. Mi piacerebbe quel trenino
Lima che hanno esposto in prima fila con tutto il suo plastico. Qualche bambino viene trascinato via
a forza e devo assistere a scene di vera disperazione, finalmente ritorno in me: è inutile sprecare dei
soldi e poi cosa direbbe Monica?
Devo aver camminato parecchio, ho passato tutta la giornata fuori, c’è ancora gente in giro, ma
non c’è confusione, il freddo è diminuito ed è un piacere camminare, sono arrivato nei pressi di casa
senza accorgermene.
Sento nell’aria odore di mangiare, mi guardo attorno, il profumo viene dalla rosticceria ancora
aperta. Nella vetrina si possono ammirare un tacchino grosso come un vitello e piatti di antipasti di
ogni genere: boragine fritte con il loro sapore stuzzicante, morbido e pungente al tatto, barbabietole
con le acciughe dove il sapore dell’acciuga mitiga quello dolciastro e stucchevole della
barbabietola, melanzane marinate con gli zucchini, un piatto un tempo indicato come portatore di
pazzia. Sarà forse per l’ora ma mi è venuta una gran fame.
Salgo le scale alla mia maniera, tenendomi al passamano per non cadere, Monica mi accoglie con
un sorriso e capisce che non deve chiedermi niente. La casa sa di pulito e di fresco,deve avere
appena finito di fare le pulizie ma non c’è odore di mangiare, è da tanto che alla sera ci beviamo
soltanto una tazza di latte con qualche biscotto del lagaccio.
Mi metto in libertà, Monica sta apparecchiando, improvvisamente mi viene da dire: “Per domani
cosa hai preparato?” Lei mi risponde quasi senza guardami in faccia: “Cosa vuoi che abbia
preparato? Siamo soltanto noi due”. Intanto vedendo la mia faccia triste, mi accarezza i capelli e
dice: “Cosa ne pensi se domani andiamo a mangiare fuori? E’ da tanto che non usciamo più di casa
insieme”. Sono contento dell’idea e le dico: “Cosa ne diresti se andassimo in quel ristorantino
sopra il mare?” Mi fa cenno di sì con la testa, sembra anche lei felice, nel frattempo abbiamo finito
di mangiare, è l’ora di andare a dormire.
Ma questa sera faccio fatica ad addormentarmi, la pancia vuota mi disturba il sonno.
4
Dell’infanzia al paese mi ricordo nitidamente i pranzi di Natale, la tavola imbandita di ogni ben di
Dio, la cagnara che facevamo tutti insieme, bambini e vecchi, tranne mio padre che parlava solo con
il professor Levratto.
Levratto era un terribile professore di filosofia che sembrava appena uscito da un dipinto
dell’ottocento, vestiva sempre di nero, con un cappello che gli copriva gli occhi. Li ricordo
benissimo, il papà dichiaratamente cattolico e antifascista, il professore dichiaratamente fascista,
che si affrontavano con asprezza e lealtà come se fosse normale, in quei tempi, discutere di politica
a quel modo
Non era normale, il fascio era dominato da un certo Brunetti che si circondava di uomini violenti,
che lo stesso capo militare tedesco, definiva assassini da strada.
Levratto, invece, voleva prendere le distanze, tentò addirittura di disarmare la milizia, si accorse
ben presto di non contare nulla. Ma restò fascista, fedele al suo ideale di fascismo rivoluzionario.
Epiche furono le discussioni sulla morale, la borghesia, il capitalismo, sembrava si dovessero
accapigliare da un momento all’altro, ma finiva sempre con una buona bevuta e una stretta di mano.
Il fascismo e l’antifascismo per molto tempo per me furono rappresentati dal Principe Gandolfi,
poeta sconosciuto, e dal capostazione Franco. I versi del Principe si rivolgevano sempre alla figura
del Duce, lui era una macchietta di uomo, dai vestiti colorati e stravaganti. Il capostazione Franco,
uomo prestante, dalla faccia avvinazzata, si portava dietro il Capitale di Marx, amava leggerne
qualche frase e ripeterla ad alta voce.
Quando si incontravano abbassavano lo sguardo e ognuno tirava per la sua strada. Avevano una
cosa in comune, una casa in centro del paese, dove viveva una giovane donna, dalle forme
arrotondate. Al Principe erano toccati i giorni pari, al capostazione quelli dispari. Non si seppe mai
chi non rispettò quel patto non scritto ma un giorno in piazza si presero a pugni e non fu certo per
questioni politiche come scrisse il giornale.
Ai pranzi di Natale c’erano poi le sorelle di mia madre trasferitesi in Liguria, dove si erano
sistemate trovando marito.
Zia Matilde era una donna piccola e tendenzialmente grassa, passava il suo tempo a ridere e a
raccontare barzellette che nessuno capiva. Non so dove trovasse tutto quell’umorismo visto che suo
marito dilapidava tutto il suo guadagno nei vari casinò della Riviera, e per tirare avanti era costretta
a fare i gnocchetti, un pasta molto adatta ai brodi.
Venendoci a trovare si portava dietro il lavoro, metteva uno straccio sulle gambe, affondava le
mani in un grilletto sporco, strappava un pezzo di pasta minuscolo e con un gesto velocissimo, lo
attorcigliava, fino a farlo diventare come un vermettino, non dimenticandosi mai di inumidire le dita
con uno sputo.
L’altra zia si chiamava Clotilde, era talmente grassa che non stava sulla sedia e diceva sempre: “Se
non ne comprate delle più comode, io non posso più venire in casa vostra”. Era proprietaria di una
salumeria a Savona e si sentiva dall’odore che emanava, suo marito invece era un distinto signore
che dava poca confidenza, girava sempre con il sigaro in bocca e faceva puzzare tutta la casa.
Quella che assomigliava di più a mia madre era Lucia, una faccia da attrice. Era la più giovane
delle quattro ma era già vedova, faceva vita ritirata e quando usciva si vestiva di nero, quasi volesse
mortificare il suo corpo. Arrivata a quarant’anni uscì di senno e fu rinchiusa in manicomio.
Aveva avuto una figlia che come lei si vestiva di nero, stavano sempre assieme, per lo più in casa,
accanto a una fotografia del pover’uomo, con un candela sempre accesa, a ricordare quando lui era
con loro. Mai si dimenticavano di apparecchiare per tre, quanto ben di Dio fu buttato nella
spazzatura. Le rare volte che si vedevano in giro era al crepuscolo, quasi di corsa per non essere
notate, si recavano in chiesa per un rosario o per il vespro e amavano intrattenersi con il parroco.
Quando sua madre fu rinchiusa nel manicomio lei scomparve del tutto.
Le malelingue la notarono nei posti più belli d’Italia, sgargiante come una diva, sempre
accompagnata da qualche uomo di bell’aspetto e dal portafoglio ricolmo.
Molti anni dopo, vidi il suo nome sul giornale in un piccolo trafiletto, l’avevano ammazzata come
un cane, era stata trovata in una discarica insieme all’immondizia e non si faceva mistero della sua
professione. Fui l’unico parente che si presentò ai funerali, fu seppellita in una città sconosciuta e la
sua tomba rimase sempre spoglia.
I nonni non li ho mai conosciuti, ma ne sentivo parlare spesso, soprattutto nel giorno di Natale;
erano originari di un piccolo paese sotto gli argini del Po, della provincia di Ferrara. Vivevano in
una bella cascina bianca che si riusciva a intravedere anche nelle giornate di nebbia. Una casa
isolata in mezzo a campi di granoturco, nascosta dal resto del mondo, dove gli unici rumori erano la
voce del nonno, forte e autoritaria e il muggito di qualche vacca che aspettava il mangiare.
La voce delle donne non si sentiva quasi mai, al nonno non piaceva che le figlie giocassero, se non
al martedì, quando lui andava al mercato. La nonna morì troppo presto, era sempre stata una donna
fragile, un tronco troppo secco, lasciando quelle ragazze in mano ad un uomo simile a una bestia, e
fu così che ognuna seguì il primo uomo che incontrò.
Un poco in disparte nella tavolata, c’era il colonnello Tullio, mai una battaglia persa, solo vittorie
tutte conseguite sul campo per meriti e coraggio. Aveva prestato servizio di leva come soldato
semplice, diventò più tardi ufficiale. Nel ’17 a Caporetto a seguito di un’azione ardimentosa gli fu
concesso l’encomio solenne. In seguito seppi che nel 1940 dopo tre giorni di combattimenti entrò
con il suo reggimento a Mentone. A sua insaputa però alcuni soldati si lasciarono andare ad azioni
di saccheggio. Per uno come lui fu un durissimo colpo, il suo ultimo atto fu difendere i suoi soldati,
poi una mattina d’inverno in un giardino, un po’ defilato, trovò pace con un colpo di rivoltella alla
tempia. Alcuni giorni dopo sarebbe stato nominato generale.
Seduto accanto a me c’era sempre il fratello mio padre, lo zio Teu, diminutivo di Stefano, era un
uomo piccolino e magro, somigliante in modo impressionante a Govi. Era l’esatto opposto di mio
padre, sempre allegro, amava scherzare con le donne e i bambini, ballare e giocare a bocce.
Sua moglie Marianin invece era grassa come una matrona romana e passava il suo tempo a
torturare quel pover’uomo, per limitarne l’esuberanza, ma era un piacere guardarli, sembrava di
assistere a una rappresentazione teatrale.
L’altro invitato era Pinin, un amico di mio padre che non so come avesse conosciuto. Era un uomo
grande e grosso, sembrava quei giganti che si vedono soltanto al circo, con un vocione da tenore
che ti faceva sobbalzare.
Parlava volentieri, ma non stava mai al centro dell’attenzione, individuava la sua vittima e
incominciava a raccontarle la solita storia che tutti conoscevano.
Era di Voltri, proprio all’inizio di Genova, dove si dice che nasce il vento, come mestiere faceva il
maestro d’ascia, una tecnica raffinata per la costruzione di una barca; a differenza del falegname il
maestro d’ascia la squadra neppure la conosce. Questo perché la barca non ha angoli e l’ascia serve
soltanto per modellare e arrotondare il legno. Ma per arrivare fino a lì ce n’era voluta di strada: a
diciotto anni era diventato operaio, dopo una prova d’arte carpentiere e poi col tempo, dato che era
bravo e il suo lavoro gli piaceva, calafatato. I calafatati riempivano gli spazi fra un fasciame e
l’altro con stoppa incatramata e altri materiali non sintetici, per formare una sorta di cuscinetto
ammortizzatore ed impermeabile.
Pinin era sordo come una campana, tutta colpa del rumore che fa il maglio nel legno: un colpo
secco e penetrante, migliaia di colpi al giorno, e a lungo andare il timpano si lesiona.
Mi ricordo ancora nitidamente le sue parole che concludevano il discorso: “Con la tramontana che
va a tutta forza e noi sotto il piano della barca, tra lo scafo e il fondo, a lavorare a zero gradi,
prendere quei pezzi di legno pieni di brina …col ghiaccio, le mani congelate, quando trovavamo un
paio di guanti vecchi, riciclati, per riparaci un po’ dal freddo, ci dicevano se avevamo paura di
perdere gli anelli”.
Il menù del giorno di Natale era sempre lo stesso, sulla stufa a legna, già dal mattino presto, c’erano
degli immensi pentoloni dove erano messi a bollire trippa, carne magra, zampini e testina di maiale.
L’odore della trippa sovrasta quello della carne, e il tutto rendeva l’aria nauseabonda, ci voleva
qualche giorno prima che l’odore abbandonasse la casa.
Come primo c’erano i maccaroni con le trippe, l’odore delle trippe era mitigato dal soffritto di
cipolle, dai funghi secchi fatti rinvenire nell’acqua, dalle carote, dall’aglio, dal sedano e dal
prezzemolo.
Aspettando il secondo si assaggiava una fetta di sanguinaccio che ci veniva offerto dal salumiere
perché eravamo clienti affezionati. Era accompagnato da purè fatto con latte, burro e noce moscata.
Il piatto forte era la carne di maiale e vitello trattati con alloro e zafferano. Si finiva col budino di
latte insieme al pandolce e alla frutta candita.
Quando con somma gioia di mio padre andammo a Genova, non ci riunimmo più, e il Natale lo
passavamo in tre o qualche volta in due, io con mia madre, perché lui faceva i turni.
5
Da bambino avevo un fisico smunto, quattro ossa che sembrava mi bucassero la pelle da un
momento all’altro, e una testa grossa, tutta ricci che facevo fatica a portarmi dietro.
Nella camera dei miei genitori c’era una fotografia nel giorno della comunione, ero veramente
ridicolo con quel vestito scuro, la camicia bianca e la cravatta da impiegato, sopra un paio di calzoni
corti che scoprivano gambe magre da far paura.
Poiché ero di salute cagionevole, una fastidiosa asma non mi permetteva di andare in spiaggia con
gli altri ragazzi, mi recavo spesso a trovare gli zii che abitavano in un paesino dell’entroterra
savonese, proprio sopra il nostro.
Prendevo la scorciatoia, un piccolo sentiero fatto di pietre, troppo ripido per i miei polmoni,
dovevo fermarmi spesso per prendere fiato, ci impiegavo più di un’ora, al ritorno mi facevo dare
uno strappo dallo zio, sulla canna della bicicletta.
Il paese, fatto di poche case, quasi tutte in condizioni pietose, dai muri scrostati dalla muffa e dalle
persiane abbassate che lasciavano filtrare la luce, dava sulla strada per Torino che lo divideva come
una lama di coltello.
I gerani facevano bella mostra sui davanzali, o sui rari poggioli, come drappi nel giorno
dell’Assunzione. Non c’era una piazza e tutta la vita si svolgeva in strada, nelle sere estive i pochi
abitanti si sedevano sul marciapiede a godersi il fresco, qualcuno più previdente si portava da casa
la seggiola e tutti guardavano i forestieri con aria cattiva.
L’unico spazio dove i bambini potessero andare a giocare, era il campo di granoturco, ma
bisognava stare attenti, perché il padrone era un uomo violento.
La casa degli zii era un poco all’interno, quasi in campagna, e per quel tempo si poteva
considerare una villetta, anche se oggi chiamarla così farebbe sorridere. Era piccolina, quasi da
fiaba, di un colore candido come la neve, su cui spiccavano puntini verdi, che altro non erano che le
persiane. La cosa più bella era il giardino, curato meravigliosamente, dove risaltavano per bellezza
rose di tutti i colori e per il loro profumo lauri ed oleandri.
Mio zio Teu faceva lo spazzino e passava tutta la giornata sopra una bicicletta arrugginita a
spingere un bidone, in compenso aveva una bella divisa sul marrone-verde e lo si poteva confondere
con un soldato, tutti lo chiamavano Teu ramassa, ma davano a quella parola una valenza positiva,
come fosse una carica importante.
Quando andò in pensione, non trovarono nessuno per sostituirlo, veniva su un camioncino una
volta la settimana, e la rumenta rimaneva ai bordi della strada, vicino a cassonetti ricolmi e
maleodoranti.
Lo zio da sempre di idee socialiste, non aveva mai voluto prendere la tessera fascista, raramente lo
si sentiva discutere di politica, amava soltanto dire che Gesù Cristo, era stato il primo socialista.
Contrario a qualsiasi forma di violenza, riuscì a scansarsi la prima guerra mondiale, a scapito dei
suoi denti che cavò tutti da solo in un pomeriggio.
Durante il fascismo, si adoperò in ogni modo nell’aiutare i giovani partigiani, non era raro
incontrare nel suo fienile, qualche sovversivo, cui dava volentieri ospitalità, mettendo a repentaglio
la sua vita e quella della famiglia. Marianin a modo suo protestava, ma era sempre pronta a
preparare un piatto caldo dove la carne era difficile a scoprirsi.
Era un uomo che non riusciva a stare fermo e finito il suo lavoro di spazzino andava in giro per la
Riviera a curare i giardini dei ricchi signori di Torino, alcune volte andavo ad aiutarlo e rimanevo
ammirato dalla sua competenza, anche se mi stufavo quasi subito e mi perdevo nei parchi alla
ricerca di qualche biscia o nido di uccello.
Qualche volta incontravamo i padroni che si dimostravano sempre oltremodo gentili e parlavano
volentieri con Teu. Lui mi presentava con un certo orgoglio: “Questo è mio nipote, futuro dottore”.
Io arrossivo e scappavo via.
Certe volte, poi Teu finito il lavoro, mi diceva: “Giochiamo a fare i signori”. Si metteva un
mantello nero, un cappellaccio e si faceva chiamare Conte Stefano, per me, invece, con grande
abilità, intrecciava una corona fatta di foglie di quercia che mi poneva sul capo chiamandomi
altezza, e io ne ero molto lusingato.
Ci mettevamo alla ricerca di qualche principessa da salvare o di nemici da sconfiggere. Per armi
usavamo dei rami che accuratamente pelavamo con il nostro coltello. Non trovando nessuno che
volesse ingaggiare un duello, ci sfidavamo a vicenda, e finiva sempre con la mia vittoria e col Conte
Stefano steso a terra che chiedeva di essere risparmiato. Qualche volta ero magnanimo e lo lasciavo
in vita, altre volte affondavo il bastone, stando attento a non fargli male: era un gran divertimento!
Una volta al mese andavamo alla villa del Conte Tiraboschi, persona ricchissima, sua era stata la
prima macchina che, procurando non poco panico, si era vista in Riviera. Il Conte era un tipo
strano, da giovane aveva dilapidato tutto il patrimonio familiare nei vari casinò , poi rimasto al
verde aveva cambiato vita, dedicandosi agli studi scientifici e pagandosi la laurea con la vendita di
un castello in Piemonte.
Aveva progettato centinaia di strani brevetti e uno era riuscito a venderlo a peso d’oro a una
grande azienda svizzera, di lì era cominciata la sua fortuna. Abitava un poco fuori del paese, in una
vecchia villa rimessa a nuovo, a strapiombo sul mare, dove ogni tanto la sera dava delle
meravigliose feste, con le torce accese illuminavano la casa e, incendiavano il mare come fuochi
d’artificio.
La casa, oltre al Conte era abitata a due strani individui: il maggiordomo e la cuoca. Il
maggiordomo era un uomo alto e magro, che portava una divisa macchiata di grasso di motore, con
la giacca un po’ aperta per mancanza di bottoni e le scarpe sporche di fango anche nella bella
stagione. Il viso invece era in ordine, i capelli impomatati, come leccati da una mucca e la barba e i
baffi curati. In carcere, dove era stato prima di andare a servizio, aveva imparato di tutto e tutto quel
sapere l’aveva messo a disposizione del Conte.
La cuoca, la si vedeva poco, stava sempre rintanata in cucina e amava origliare dietro le porte.
Quando c’erano le feste si ritiravano nei loro appartamenti, perché il Conte si serviva di
professionisti che venivano da fuori.
In casa oltre alla servitù c’era un bambino più o meno della mia età, con cui giocavo
invariabilmente a nascondino, ci perdevamo tra le innumerevoli stanze del palazzo, era difficile
conoscerle tutte e ciascuna riservava una sorpresa.
Di giocare nel parco, a noi bambini non era consentito nemmeno d’estate, perché il Conte diceva
che gli rovinavamo i fiori e forse non aveva tutti i torti. Il bambino era il nipote del Conte, veniva
da Milano per passare lì i suoi week-end e mi trattava come un essere inferiore. Era sempre vestito
come un grande con giacca e cravatta e aveva un leggero difetto di pronuncia, che lui diceva fosse il
segno distintivo dei nobili. A causa della sua antipatia non passava volta che non ci azzuffassimo e
quasi sempre le prendevo, perché il maledetto sapeva tirare di box e nonostante il fisico magrolino
era tremendamente forte.
Il Conte, accanito assertore della tecnologia, aveva un’immensa biblioteca, un reparto era
interamente dedicato alla filosofia, con libri di Galileo, Copernico, Newton, Leonardo, Giordano
Bruno, Pico della Mirandola, l’altro alla matematica e fisica, qua e là c’erano anche libri
d’avventura. Sulla scrivania si trovavano, in disordine, disegni tecnici che raffiguravano macchine
apparentemente mostruose. Quando Teu aveva finito di lavorare, il Conte lo invitava a prendere un
te e lui accettava volentieri, anche se è difficile capire come potesse apprezzare quel poco di acqua
calda, lui così amante di un buon bicchiere di vino. Lo zio rimaneva estasiato da quei libri, perché il
suo unico cruccio era quello di essere ignorante, ne prendeva in mano qualcuno per riposarlo quasi
subito, quelle formule per lui erano peggio dell’arabo.
Il Conte allora gli si avvicinava, battendogli la mano sulla spalla e per metterlo a suo agio gli
diceva: “Mi racconti un po’ delle mie rose”, e la conversazione a questo punto poteva durare anche
un’ora intera.
Nel nostro peregrinare per la Riviera, un giorno ci presentammo per un lavoro in una vecchia
casa, che sicuramente aveva conosciuto tempi migliori. Ci venne incontro un vecchietto dall’aria
lugubre, che sembrava appena uscito da un film dell’orrore. Capimmo che si trattava del
maggiordomo, lui ci illustrò il lavoro da svolgere: dovevamo pulire i vetri. Teu che era un
giardiniere si indignò e presa una pietra incominciò a colpire i pochi vetri ancora intatti,
invitandomi a fare altrettanto: “Così non c’è bisogno di pulirli” disse poi e scappammo via inseguiti
da un latrato di cani.
Nelle mie visite alla casa degli zii, trovavo sempre mio cugino, un ragazzino di qualche anno più
giovane di me che non sembrava mai divertirsi. I suoi erano gente ricca, anche se non si capiva bene
che lavoro facessero, parlavano sempre di feste e a me sembravano venuti da un altro pianeta.
Ai miei genitori non piacevano e di loro dicevano sempre: “Hanno soltanto della boria”, ma
quando gli si trovavano di fronte erano in soggezione.
Mio cugino era decisamente un bel bambino, più alto di me con i capelli biondi a caschetto e due
occhioni azzurri; forse sarebbe diventato come suo padre, che era considerato un gran amatore.
Quando era dai nonni passava le sue giornate a mangiare prugne acerbe e a cagarsi addosso,
facendo, per la verità, un po’ schifo. Ora che è diventato adulto, non mangia più prugne ma in
compenso entra e esce di galera.
Un bambino con cui giocavo volentieri, era il figlio del proprietario del negozio di alimentari,
eravamo inseparabili, tanto che tutti ci prendevano per fratelli. Ero affascinato dalla sua casa,
costituita dalle poche stanze di un retrobottega, per il suo buon odore di roba da mangiare.
Vendevano di tutto: prosciutto, salame, formaggetta e focaccia normale,col formaggio alla salvia,
alle olive. Quegli odori così forti a volte mi davano la nausea e allora mi mettevo sotto il naso un
mazzetto di menta.
Da tutte le parti si vedevano dei soldi e pensavo fossero molto ricchi: “Da grande voglio aprire una
bottega come questa” dicevo tra me. Oggi quel ragazzo è diventato avvocato e si pavoneggia come
fosse un Dio, è entrato in politica, e da buon commerciante si è venduto bene a vari partiti,
riuscendo sempre a mantenere la sua poltrona.
Il mio maggiore divertimento era quello di andare nel piccolo campo dove lo zio, non essendoci la
discarica, portava tutta la rumenta. Mi sembrava di entrare in un mondo incantato, fatto di continue
sorprese. Lì trovavo gli oggetti più strani e fantasiosi, ritornavo a casa carico di roba, e non giocavo
più con i miei giocattoli, finché mio padre preso dal nervoso, non me li buttava via urlandomi:
“Mettiti a studiare, non vorrai mica diventare uno spazzino?” Diceva quella parola con tutto il suo
disprezzo.
Quando lo zio decideva di ripulire il campo, accendeva dei falò che bruciavano fino a tarda sera e
io passavo delle ore a guardare i fuochi, immaginandomi di essere in un accampamento indiano.
Al mattino svegliandomi andavo subito a vedere se i fuochi fossero ancora accesi e provavo una
gran delusione. Nel vedere le macerie fumanti, mi veniva quasi da piangere: “Maledetti visi pallidi”
pensavo tra me.
6
Stasera non riesco proprio a dormire, sento il rintocco dell’orologio del vicino campanile, sono già
le tre e non ho ancora chiuso occhio. Mi fa rabbia il russare di mia moglie, mi piacerebbe svegliarla
e raccontarle i miei pensieri, ma sarebbe una cattiveria. Di alzarmi non me la sento, abbiamo spento
il riscaldamento e la casa deve essere in una morsa di freddo, è molto meglio che me ne stia al caldo
sotto le coperte, vorrei trovare una posizione che mi conciliasse il sonno, per non pensare più a
niente, ma un altro ricordo improvviso mi affiora alla mente.
In una calda giornata estiva, era arrivato carico di bagagli alla stazione di C…, un famoso scrittore,
non aveva proprio l’aria del professore, troppo curato nell’aspetto e con i vestiti firmati, sembrava
spaesato, capitato nel nostro paese per caso. Si diceva fosse anche un gran giocatore di carte: aveva
messo a punto un sistema infallibile per vincere e fino ad allora era ancora imbattuto.
Vestito di bianco, dal cappello alle scarpe, era accompagnato da due donne più giovani di lui di
almeno vent’anni, una doveva essere la moglie e l’altra la segretaria, ma da come si comportavano
sembravano tutti e tre molto intimi. Erano arrivati carichi di valige troppe per un breve soggiorno, si
erano guardati attorno cercando un facchino, che nella nostra stazione non esisteva ma non si erano
persi d’animo trascinando i bagagli avevano raggiunto la fermata della corriera.
Stranamente invece di alloggiare all’Hotel Sereno, avevano preferito la Pensione Fiorita, unico
albergo nel piccolo paese dell’entroterra. La Pensione Fiorita era la casa più grande del paese tre
piani completamente disabitati, al mattino si animava, le persiane venivano aperte e dalle camere
giungevano voci di donne che cantavano. Erano le figlie del proprietario che facevano le pulizie, nel
pomeriggio tutto ritornava tranquillo.
La mattina i tre nuovi arrivati facevano delle passeggiate in campagna, vestiti come se dovessero
affrontare chissà quali difficoltà, assomigliavano a degli esploratori, o si limitavano a bighellonare
per il paese, nel pomeriggio invece scomparivano, si diceva andassero giù in Riviera, in qualche
spiaggetta isolata a prendere il sole completamente nudi.
Nel paese abitava un certo signor Felice, un contadino, aveva imparato a giocare a carte da un
uomo di passaggio e si era talmente appassionato al poker che aveva trascurato i campi e la moglie.
Godeva fama di grande giocatore, e così organizzare una partita fu cosa facile, anche se sulle prime
il professore aveva detto di voler trascorrere le ferie in santa pace.
Luogo scelto per la sfida fu la trattoria di Pietro, una misera stamberga che serviva da ristoro ai
viandanti di passaggio e di sera funzionava come bar, vi si serviva soltanto per poche lire, vino fatto
col bastone ma era il posto ideale per non dare nell’occhio. C’erano parecchi tavoli ricoperti da
tovaglie a quadrettini rossi, con macchie dalle forme e dai colori più strani, tutto rimaneva in
penombra e la poca luce giallastra non riusciva a illuminare la stanza. Il bancone era enorme, di
marmo grigio, sempre bagnato, sugli scaffali impolverati qualche bottiglia di amaro e una di
marsala all’uovo.
L’odore del minestrone fatto di fagioli borlotti, patate, melanzane, fagiolini, zucca, cavolo e pesto,
si mescolava a quello dello stoccafisso insaporito dai funghi, dalle acciughe salate e dai pinoli.
Pietro era un essere insignificante, completamente in balia della moglie, parecchio più giovane di
lui che aspettava solo la morte del pover’uomo per diventare l’unica proprietaria. L’aveva relegato
in cucina, mentre lei faceva la civetta con i clienti; non era raro vederla appartata con qualcuno, e
quando veniva chiamata, arrivava di corsa, un poco spettinata, aggiustandosi il vestito arrotolato
sopra il ginocchio e suscitando le risa di tutti, diceva: “Non si può mai fare un poco di pipì in pace”.
Il tavolo da gioco fu ricavato nella cucina e ci vollero ore e la buona volontà di qualche ragazzino
per rendere il locale un poco accogliente.
Per non fare brutta figura con l’ospite si comprò del whisky all’emporio di C…, e si fecero
scomparire quel vino schifoso, i pentoloni sporchi e tutta la roba da mangiare. Finalmente la sera
della grande sfida arrivò. Il signor Felice si presentò con quasi un’ora di ritardo, impacciato, era la
prima volta che si metteva un vestito con la cravatta, il professore non si era ancora visto. La cucina
era stata trasformata, sembrava di essere in una bisca clandestina, se non fosse stato per quell’odore
nauseabondo di mangiare. Vi era un solo tavolo con sopra una coperta verde rimediata non si sa
dove e quattro seggiole scelte con cura a scanso che qualcuno finisse con il culo per terra. Una fioca
luce illuminava il tavolo e tutto il resto dell’ambiente rimaneva quasi al buio.
La moglie del Pietro, cercava qualcuno per strofinarsi, ma nessuno sembrava accorgersi del suo
abito lungo e scollato, tanto era l’emozione per l’imminente partita. Le poche persone che avevano
ottenuto l’invito, si voleva evitare la confusione perché la sala era veramente piccola, fumarono
molto nell’attesa del professore e qualcuno già diceva che non si sarebbe presentato.
Quando allo scoccare della mezzanotte lui arrivò, nella sua tenuta bianca, accompagnato dalle due
donne vestite da sera per l’occasione, ci fu il panico per trovare altre due seggiole decenti. Non
chiese nemmeno scusa e con destrezza incominciò a dare le carte e a vincere una partita dietro
l’altra.
All’alba, il signor Felice stava perdendo una fortuna, aveva ipotecato tutti i campi e aveva smarrito
tutta la sua sicurezza. Nell’ultima partita il piatto era salito alle stelle, erano rimasti solo loro due, il
signor Felice aveva un colore, fece il suo rilancio sbattendo sul tavolo le sue chiavi di casa,
andarono a vedere le carte, ma il colore contro una scala reale, non bastò.
Il professore era veramente soddisfatto, abbracciò le due donne e fece per alzarsi dal tavolo,
quando all’improvviso entrò Pietro sventolando un giornale e gridando a squarciagola: “Altro che
professore, quello è un furfante ricercato in mezza Italia, guardate qui!”.
Fu un attimo e tutti si misero all’inseguimento del farabutto, che nel frattempo, come un gatto se
l’era svignata, ma del professore nessuna traccia.
Forse si erano rifugiati alla Rosa Fiorita, senza un mandato fecero irruzione nella stanza ma era
vuota, soltanto dei vestiti e una borsa piena di soldi. Fu un attimo e si prese la decisione: i vestiti
sarebbero andati alla moglie di Pietro, per quanto riguardava i soldi, dopo aver risarcito il povero
Felice ne rimanevano ancora, se li sarebbero divisi tra i pochi invitati alla grande partita.
Tra donne e vari casinò sarebbero presto finiti e la vita del piccolo paese sarebbe ritornata alla
normalità. I vestiti della moglie del Pietro stavano lì a perenne ricordo di quella bellissima serata.
Intanto il campanile ha battuto le quattro, gli occhi si stanno per chiudere, questa volta riuscirò a
dormire.
7
Mi sembra di aver dormito parecchie ore e invece quando mi sveglio non sono nemmeno le sei, ho
tutto il tempo di prepararmi per il mio solito appuntamento, mia moglie intanto continua a dormire
come un orso. Timidamente come un diciottenne alle prime armi allungo una mano e le accarezzo il
corpo, dapprima con distacco, poi prendendoci gusto. Mi avventuro tra la piega del sedere e mi
metto a giocherellare con dei pelucchi un poco capricciosi, lei sembra infastidita e si agita nel
sonno, forse le è venuto anche freddo, perché inavvertitamente l’ho scoperta quasi completamente
poi si volta su un fianco in una posizione di difesa.
Qualcosa si agita tra i miei pantaloni, delle strane idee mi vengono in testa, ma subito ritorno alla
realtà, mi capita spesso di avere un’erezione al mattino, ma il medico dice che è tutta colpa della
prostata. Potrei rimanere ancora un poco sotto le coperte, ma ho voglia di farmi un buon caffè, mi
sento stordito ed è quello l’unico rimedio per rimettermi in sesto.
Non mi sembra proprio Natale, quest’anno non abbiamo fatto nemmeno l’albero, Monica non ha
avuto voglia di tirare giù gli scatoloni dalla soffitta. È inutile quindi che vada in sala a vedere se è
arrivato Babbo Natale, e poi in questa casa non abbiamo nemmeno il camino, da dove sarebbe
potuto entrare?
Il vecchio giornalaio mi ha già portato il giornale, di solito sfoglio le pagine saltando quelle di
politica e a dire il vero non riesco mai a trovare un articolo che mi interessi, in cinque minuti sono
già arrivato alla fine, è una spesa che potremmo eliminare. Oggi invece un articolo attira la mia
attenzione, è un fatto di cronaca nera accaduto in un piccolo paese del meridione: un operaio di
trentacinque anni trovato morto in aperta campagna, due colpi, uno alla tempia e l’altro conficcato
nel cruscotto dell’auto. Il fatto è di per sé insignificante visto la zona, uno sgarro, un regolamento di
conti. Il colpo di scena però avviene qualche riga più sotto ed è la confessione di una giovane donna
che la notte del fatto di sangue si trovava con l’operaio in macchina. Lui avrebbe estratto la pistola
per costringerla ad avere un rapporto sessuale, ma dopo la sua reazione di sfottò, lui aveva desistito
e dopo pochi minuti si era puntato la pistola alla tempia e aveva premuto il grilletto. Che bella storia
per un mio racconto.
Devo aver fatto rumore perché Monica si è svegliata e mi raggiunge in cucina, è da tanto che non
facciamo colazione assieme. È tutta assonnata, ha ancora la faccia stropicciata dalla notte. Le verso
una tazzina di caffè, e già si è accesa una sigaretta.
Sembra nascondermi qualcosa, ha in mano un pacchetto, sono curioso, lei se ne accorge e vuole
tenermi sulle spine, poi finalmente si decide e me lo porge dicendomi: “Auguri caro e buon Natale”.
È un maglione di cachemire, me lo infilo subito, è molto caldo e deve starmi anche bene. Abbiamo
finito di fare colazione e ci mettiamo d’accordo sulla nostra gita, apriamo le finestre per vedere
com’è il tempo; è una giornata serena e sicuramente quando il sole spunterà sarà anche calda.
In strada c’è poca gente, qualche vecchietta infreddolita ha deciso di andare alla prima Messa, si
vede che non ha nessun bambino a cui dare i regali. In lontana le campane suonano a festa, ma il
rumore mi arriva deformato. I negozi sono chiusi, per tutta la giornata non apriranno, le vetrine
sembrano aver subito un saccheggio, le insegne sono spente, fra qualche giorno toglieranno anche le
luminarie e la via ritornerà a essere immersa nel buio. Pur non essendo una giornata lavorativa,
vedo del movimento in parecchi appartamenti, per lo più sono bambini che cercano i regali e donne
che incominciano a preparare il pranzo di Natale, sbattendo le pentole per farsi sentire. Il vecchio
Babbo Natale è già in piedi e sta disfacendo la sua casa, ha deciso di cambiare aria.
Mi accingo ad andare nel bagno per farmi la barba, è una settimana che non mi rado, sono quasi le
sette, devo affrettarmi se non voglio arrivare in ritardo. La mia immagine riflessa nello specchio mi
mette a disagio, a stento riesco a riconoscermi, mi volto di scatto per vedere se per caso qualcun
altro è entrato. Il repentino movimento mi procura una ferita alla faccia, mi sono tagliato con il
rasoio, il sangue incomincia a sgorgare copioso e a macchiare il lavandino, ma sono contento, è
questa l’unica certezza di essere vivo.
Arrivo in stazione per il solito appuntamento, incomincio a bighellonare, a seguire due binari morti,
alcuni metri e passo accanto ad una costruzione abbandonata, una volta era un deposito per il
materiale della manutenzione dei binari, ora è diventato il rifugio di un gruppetto di barboni
fortunati perché hanno una porta di legno, finestre, e un pavimento. Al fondo della costruzione c’è
una tettoia arrugginita, e sotto la carcassa di una vecchia Fiat 131. Pezzi di cartone al posto di vetri
e parabrezza, sui sedili mucchi di immondizia su cui, non c’è dubbio qualcuno dorme. Più avanti
trovo carrozze-bestiame, a quell’ora sono case vuote, il popolo dei vagoni si è già disseminato per la
città. Quasi tutti i portelloni sono chiusi, in modo che da fuori sembri tutto normale, a parte quintali
di rifiuti sotto le carrozze. Odori di fritto e cibi avariati si mescolano agli insopportabili fetori di chi,
per orinare, non fa neppure la fatica di scendere dalla carrozza.
Sono le nove quando faccio ritorno, mia moglie si sta ancora preparando, si sta facendo bella, mi
vuole mettere in imbarazzo, mi siedo in poltrona e per ingannare l’attesa mi metto a leggere un
libro. Il suono delle campane si fa insistente, per la strada si sente del movimento e gli odori del
mangiare si diffondono nell’aria. La signora Pinuccia che sta sopra di noi deve aver fatto l’arrosto al
latte e si prepara ad impastare, si respira odore di festa, nella nostra casa odore di pulito.
Mia madre nei giorni di festa, aveva l’abitudine di alzarsi presto per preparare il pranzo. Non era
una brava cuoca e più che cotolette alla milanese non faceva, ci si alzava al mattino con l’odore di
fritto mescolato al profumo delle erbette che usava per arricchire l’impanatura, crescevano proprio
dietro casa, dove picchiava di più il sole. Quell’odore l’ho incontrato nelle mie gite in collina al
paese dello zio, mi piaceva passare delle ore con la faccia affondata nella terra a sentire il profumo
dolciastro della menta o quello più amarognolo di erbe di cui non conoscevo il nome, il tutto
mischiato all’odore di terra e di salmastro che arrivava dal mare.
La domenica si andava tutti e tre alla Messa delle undici e mio padre quando era pronto
incominciava ad urlare perché non voleva arrivare a Messa iniziata. La mamma si chiudeva in
bagno fintanto che mio padre, andando su tutte le furie picchiava un pugno sulla porta, allora usciva
imbronciata e ancora spettinata. Non mi piaceva andare in chiesa perché non sopportavo l’odore di
incenso e di candela e appena arrivavo a casa mi cambiavo di abito, mi rotolavo per terra e
strappavo una foglia di menta mettendomela sotto il naso.
8
Monica finalmente esce dal bagno, la mia attesa è stata premiata, se ne vedono raramente di
sessantenni così belle. Ha un vestito scuro, un pelo sopra il ginocchio, scollato sul davanti a far
vedere l’attaccatura del seno, due gambe magnifiche intrappolate da un paio di calze nere e le
scarpe col tacco alto, sembrano messe apposta per umiliare la mia statura.
Se non fosse per la mia età la sbatterei sul letto e al diavolo la gita. Lei deve aver intuito cosa mi
passa per la testa, fa la civetta, mi prega di chiuderle la cerniera e mi viene incontro mostrandomi un
pezzo di schiena nuda, che aspetta di essere accarezzata. Ha la pelle di seta, la mano affonda verso
il sedere ma lei non sembra gradire l’avance, mi metto a trafficare con la cerniera che mi fa dannare,
lei mi dice: “Non ti cambi? Il taxi sarà qui a momenti, almeno il giorno di Natale”.
Ha ragione sono sempre vestito un po’ come mi capita, non mi piacciono la camicia e la cravatta,
mi sembra di essere legato, le rispondo impacciato: “Ma cara, sarebbe un peccato non mettere il
maglione che mi hai regalato”, lei sorride e subito aggiunge: “Va là, sei il solito pelandrone”.
Dalla strada già si sente il clacson del taxi che ci invita a fare presto, chiudiamo il gas, spegniamo
la luce e ci infiliamo i cappotti, anche se a dire il vero non dovrebbero servirci. Il tassista ci ha visti
e sembra rinfrancato, butta via la sigaretta e ci apre la portiera, non ci ha quasi salutato, ci domanda
solo la destinazione. Mi sono già pentito di aver accettato l’invito ad uscire, la guardo negli occhi,
lei sembra felice, potrei stare zitto e invece le dico: “Non sarebbe stato meglio farlo a casa?
Benedetti figlioli dovevano andare a sciare proprio il giorno di Natale?”. Monica la prende bene:
“Già Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi, e poi lo sai che non sono una gran cuoca, tua madre
invece…”, e si ferma scoppiando in una sonora risata.
La macchina corre via veloce, non c’è traffico e le poche auto che incrociamo sembrano darci la
precedenza, ma non riesco a rilassarmi, ho troppa paura della velocità, sarà anche per questo che
non ho mai voluto prendere la patente. Mia moglie mi ha preso la mano, sembriamo due sposini in
luna di miele, il tassista ci guarda attraverso lo specchietto e scrolla la testa. È soltanto qualche
minuto che siamo in macchina e già non mi orizzonto più, Genova per me è soltanto quel quartiere,
un poco caotico dove abito e pochi altri luoghi che quotidianamente frequento. Dal finestrino un
paesaggio spettrale fatto di un solo colore, il marrone, sangue rappreso di fabbriche quasi
abbandonate, imponenti e minacciose, ormai draghi senza fuoco.
Ancora enormi edifici grigi, dalle piccole finestre rotte e dalle scritte colorate che quasi non si
leggono più. Qua e là intravedo qualche chiazza di colore, un deposito di autobus arancione, uno
spicchio bluastro del mare. Il porto è arrivato dovunque con la sua diga ad ammazzare il mare, le
piccole baracche dei pescatori fatte di lamiere e compensato sono andate in malora, qualcuno un
tempo lì aveva osato coltivare dei fiori.
Sarebbe l’occasione per fare il turista, ma la mia attenzione è riservata tutta alla radio del taxi, che
con voce monotona continua a sbraitare parole senza senso: “Alfa 36, Beta 45”. Guardo il tassista e
mi chiedo perché non risponda, cerco l’appoggio di mia moglie, sta guardando fuori, le stringo la
mano, lei si volta e mi guarda con un mezzo sorriso, soltanto adesso mi accorgo che non si è messa
il collier che le ho regalato. Vorrei domandarle il perché, ma non faccio in tempo, siamo arrivati.
È ancora presto per andare a mangiare, decidiamo di fare una passeggiata, il sole è ormai alto,
incomincia a scaldare, così ci togliamo il cappotto. C’è molta gente, per lo più bambini che provano
i loro giocattoli: la macchinina telecomandata, la bicicletta nuova fiammante, più indietro stanno i
papà, un poco annoiati, leggono il giornale e di tanto in tanto alzano gli occhi per controllarli
invitandoli a non scalmanarsi e a non sudare. Sullo sfondo il mare sembra in imbarazzo, le barche
sulla spiaggia paiono disegnate, in giro non ci sono pescatori, deve essere tutta una finzione,
nell’aria non c’è neppure odore di pesce o di refrescume. C’è venuta sete, ci fermiamo in un bar e
ordiniamo un aperitivo sedendoci fuori come due turisti. Monica mi prende la mano e mi dice: “ Te
lo ricordi il viaggio di nozze? Dovremmo rifarlo, mi piacerebbe tanto”.
Io avevo trent’anni ed ero ancora scapolo, alcune storie l’avevo avute ma mi erano scivolate
addosso senza coinvolgermi più di tanto. Ero in un periodo di crisi profonda, il mio lavoro non mi
dava nessuna soddisfazione, mi ero messo a scrivere libri e volevo diventare un apprendista
stregone, come nella storia che mio zio un giorno mi aveva raccontato.
“In un paese c’era una casa da dove veniva sempre della musica, e questo disturbava gli abitanti
che non riuscivano a dormire. Il proprietario era un uomo strano, un uomo di lettere che stava tutto
il giorno sui libri, e mai si faceva vedere in giro. Qualcuno diceva che si portasse dietro una gobba
da far paura, e che la sua faccia fosse piena di cicatrici, segni di combattimenti non si sa se vinti o
persi. Ai bambini non era permesso passare davanti alla casa, per paura che a qualcuno di loro
potesse capitare qualcosa di male. Dopo mesi di notti insonni, lo chiamarono in strada e con una
zappa lo colpirono alla testa. Fatto questo, andarono in casa, presero tutti i suoi libri, li portarono in
piazza e fecero un gran falò. Le fiamme scaturite dai libri, erano di tutti i colori, verdi, gialle, blu,
rosse e il fuoco scoppiettava paurosamente formando nell’aria dei piccoli mostri che avevano preso
a bastonate la gente che era accorsa numerosa”.
Fu così che influenzato da quella storia cominciai a scrivere libri, forse per sentirmi onnipotente;
mi piaceva congegnare un racconto con un bel personaggio, potevo dire a me stesso di aver creato
un uomo ed essere soltanto io padrone del suo destino. A me soltanto sarebbe spettata l’ultima
parola, l’avrei potuto uccidere, anche solo per un capriccio. Mi misi a frequentare gli ambienti
letterari genovesi, che altro non erano che comunissimi bar malfamati, dove accanto agli artisti
sedevano delle puttane. Fu proprio in uno di questo posti che conobbi Monica, era una cantante
jazz, si dava arie da grande artista e forse lo era, ma quello che mi colpì maggiormente furono le sue
chiappe dure e sporgenti che facevano da contrappeso a due tette che faticavano a stare dentro una
maglietta troppo attillata. Non so come riuscii ad agganciarla, ma dopo nemmeno un mese eravamo
sposati, il viaggio di nozze lo facemmo in un posto di mare, che vedemmo soltanto dalla finestra
della stanza d’albergo, o in qualche rara passeggiata. Intanto parlavamo volentieri dei nostri
progetti: avevamo in mente di mettere su una commedia musicale impegnata. Tutto finì, nove mesi
dopo, alla nascita del nostro primo figlio, Monica cambiò radicalmente si scoprì mamma a tutti gli
effetti. Mi costrinse a proseguire il mio lavoro di medico e ad abbandonare la letteratura in quanto
non dava da mangiare e con un bambino piccolo bisognava essere responsabili, era cresciuta di
colpo.
9
Il sole si fa sentire, dovunque mi giri me lo trovo davanti, chiamo il cameriere per il conto, bevo
l’ultimo sorso rimasto nel bicchiere, sono quasi le tredici, è ora di andare a mangiare.
Il ristorante è davvero lussuoso e i camerieri ossequiosi, ci sistemiamo in un tavolo vicino alla
veranda, da quel punto si gode una vista stupenda, il mare è ritornato a fare il suo mestiere è
davvero una magnifica giornata. La sala è deserta, ci sono soltanto due vecchiette dall’aria signorile
che dividono il pranzo con un animaletto che a occhio e croce dovrebbe essere un cane, gli parlano
in continuazione come potessero ottenere una risposta. Nell’aria nessun odore di mangiare, tutto sa
di pulito come a casa nostra, ho nostalgia della trattoria di Pietro coi suoi odori e la sua puzza di
sporco. Potevi vedere la cucina e il Pietro che bestemmiava e si asciugava il sudore con uno
strofinaccio unto.
Natale è usanza passarlo in casa, qui abbiamo due camerieri tutti per noi, che quasi ci
infastidiscono con la loro continua presenza. Uno è alto e magro, fatica a stare diritto con le spalle,
l’altro è grasso e piccolo con la stessa faccia del cagnetto delle vecchiette, l’unica cosa che i due
hanno in comune sono dei minuscoli baffetti che sporcano il viso. Mia moglie mi sussurra
all’orecchio: “Mi sembra troppo lussuoso”, è veramente preoccupata, le sorrido e le faccio vedere i
soldi, ma lei ribatte: “ E poi al signor Antonio che cosa gli diamo?”. È stata lei che ha insistito per
comprare la casa e adesso ha paura di non farcela, alla nostra età avremmo potuto evitarci questa
preoccupazione, certe cose bisogna farle da giovani.
“Domani è un altro giorno”, rispondo e mi avvento su un piatto di risotto ai frutti di mare, è da
tanto tempo che non mangio così di appetito e mia moglie sembra imitarmi. Per la verità non è che
sia un gran che, un poco slavato, è difficile sentire il gusto dei muscoli, delle arselle, dei datteri, dei
tartufi di mare, l’odore del mare è sopraffatto dall’aglio, dalla cipolla e dall’amaro del prezzemolo.
Continuo a guardare il mare come per non lasciarmelo scappare, ma una cosa mi colpisce, sulla
spiaggia proprio in fondo al lungo mare, c’è una casetta costruita per metà di legno e metà di fango,
che un tempo doveva essere servita ai pescatori come magazzino e qualche volta per scappare alle
grinfie di una moglie petulante o per bersi un bicchiere di vino in compagnia. Ora da come si
presenta deve essere andata in rovina e serve come riparo alle bestie randagie, è molto simile, direi
identica a quella che c’era al mio paese.
Spesso a differenza dei miei amici, che andavano a caccia di ragazze, mi facevo una lunga
scarpinata fino alla casa, mi stendevo sulla arena umida e aspettavo l’arrivo dei pescatori e non
c’era volta che non gli preparassi un caffè caldo che mostravano di apprezzare. A volte mi mettevo
a parlare con dei vecchi che non andavano più per mare e si limitavano ad aggiustare le reti.
Fu così che venni a sapere che molti anni prima, quando non ero ancora nato, viveva con loro una
vecchia che amava raccontare strane storie, prima di mezzanotte si addormentava sulla sedia e
appena addormentata si trasformava in qualche uccello, un’aquila e anche in un moscone. La gente
del paese raccontava di una gazza che faceva dispetti e combinava guai in tutte le famiglie. I vecchi
dicevano che la madre della vecchia era emersa un giorno dal mare completamente nuda e subito
aveva intrecciato una danza con le onde. Un forte vento si era alzato alle sue spalle, si era voltata di
scatto e aveva incominciato a danzare con lui a ritmo sempre più selvaggio, la danza si era
trasformata quasi subito in un amplesso con grida e sussurri intervallati. Era rimasta incinta e aveva
partorito un uovo che schiudendosi aveva portato alla luce un meraviglioso uccello esotico, dalle
piume colorate.
Fu subito dopo quel racconto che intravidi vicino alla casa una ragazzetta che quando facevo per
avvicinarmi sembrava scomparire nel nulla. Non ero mai riuscito a guardarla in viso, ma chiedendo
un po’ in giro, venni a sapere che era la figlia di Tommaso, il proprietario di un piccolo negozio
dove si vendeva di tutto, dal pane alle sigarette. Si diceva fosse un poco matta, dopo giorni di
appostamenti, una sera all’imbrunire la sorpresi proprio dietro una barca, cercò di scappare ma io le
piombai addosso, aveva la forza di una tigre e per poco non dovetti soccombere. “Questo è il mio
posto sei tu l’intruso”, mi rispose riponendo gli artigli che mi avevano rovinato la faccia.
Era una ragazza piccola, dall’aria mascolina anche grazie a dei pantaloni che doveva aver ereditato
dal fratello maggiore, con i capelli a spazzola, sempre spettinati che veniva voglia di accarezzare e
la facevano assomigliare a un pulcino appena uscito dall’uovo. Aveva due grandi occhi senza luce
che mettevano a disagio e rendevano difficile sostenere il suo sguardo. Il nostro primo incontro si
risolse in quelle brevi battute e in quegli sguardi difficili da interpretare, ma da quella sera ci
vedemmo tutti i giorni, correvamo per la spiaggia, inseguendo qualche fantomatico animale, ci
sdraiavamo su uno scoglio a vedere morire il sole, con le lacrime agli occhi, preoccupati di non
vederlo più sorgere. Ma la cosa che più mi attraeva erano i suoi racconti di posti meravigliosi che
aveva visitato, io non riuscivo a capire come avesse fatto, ma lei sosteneva che aveva la proprietà di
trasformarsi in un uccello. Per un lungo anno cercai di sorprenderla, ma il mio sforzo non fu mai
coronato da successo. Se per una ragione o per l’altra lei non si faceva vedere ero io che andavo a
cercarla in negozio, mi accoglieva suo padre che si dimostrava gentile, quasi ossequioso, tanto era il
desiderio di togliersi quella figlia che nessuno in paese voleva e mi diceva sempre: “Benedetti
figlioli dove volete arrivare? L’hai già detto a tuo padre?”
Il signor Tommaso non assomigliava per niente alla figlia, era persino sproporzionato, tanto era
grasso e sembrava a disagio in quel negozio troppo piccolo, non c’era volta che al suo passaggio
non facesse cadere qualcosa e allora se ne usciva con una bestemmia.
Il mio rapporto con lei durò un anno intero, amava giocare con me come fa il gatto con il topo,
qualche volta ci appartavamo dietro ad uno scoglio che ci faceva da scudo e dove solo il mare ci
poteva vedere. Lei passava tutto il tempo a stuzzicare il cosino che avevo in mezzo alle gambe e a
ridere divertita, ma quando ero io che allungavo una mano, cambiava di umore e la serata finiva in
fretta. Un giorno all’improvviso come era comparsa svanì e a nulla valsero le mie ricerche.
Siamo arrivati al caffè e quasi non mene sono accorto, ma dalla pesantezza allo stomaco, devo
aver mangiato parecchio. Mi ricordo una meravigliosa aragosta all’origano, un saporito coniglio alla
carlona, dal gusto di olive, pinoli, aglio e rosmarino. Monica ha invece una faccia rossiccia, quasi
violacea, deve aver bevuto molto, speriamo che non si senta male, non è abituata.
All’improvviso sono attratto da un ronzio, che sulle prime risulta fastidioso, si tratta di un
moscone, sembra curioso di conoscere il posto e dopo qualche giro maldestro vorrebbe uscire ma
sbatte contro la finestra, mezza chiusa. Finalmente dopo tanti tentativi riesce a volar via, ma non va
molto distante, sembra volermi salutare, fa tenerezza, faccio un cenno e gli auguro buon viaggio.
Monica mi guarda stupita, forse adesso ha la certezza di vivere con un matto, sono in imbarazzo, mi
alzo di scatto e mi dirigo verso il bagno, ho bisogno di fare un po’ d’acqua.
Quando ritorno il caffè è ormai freddo, faccio per metterci lo zucchero, quando mi accorgo che
nella tazzina c’è un moscone morto, un forte vento di tramontana spalanca improvvisamente le
finestre. Sono fuori di me, chiamo il cameriere per delle spiegazioni, non sa cosa dirmi, anche il
padrone sentendo tutto quel frastuono, si è avvicinato, mi porge le sue scuse, che quasi non sento e
riacquisto la ragione soltanto dopo aver inteso che non avremmo pagato il conto.
Poco dopo siamo sulla passeggiata, l’aria si è fatta fresca non ci resta che tornarcene a casa.
Monica ancora ride per la scena del ristorante e mi dice: “ E’ stata una magnifica giornata”. Le
rispondo soprappensiero: “ Certo se non fosse stato per quel moscone nel caffè”, una lacrima solca
il mio viso.
10
E’ da qualche anno che non faccio altro che andare in stazione, è l’unico svago che mi prendo.
Con il caldo o con il freddo mi siedo sulla solita panchina e aspetto il diretto delle sette e trenta. I
vagabondi della notte disfano i loro letti, ripiegando i giornali che qualcuno più istruito legge per
passare il tempo. Li conosco tutti e quando non ne vedo qualcuno mi preoccupo subito.
Il treno ha una motrice aggressiva, anche se si porta dietro quattro carrozze disastrate. Spio
attraverso i finestrini, mi sembra di riconoscere qualcuno, grido un nome, nessuno si volta, il
capostazione lo sa già e mi guarda con commiserazione, ma è sempre gentile.
Stamattina, invece senza sapere come mi ritrovo sul treno, ne ho la certezza soltanto quando sento
un forte odore di tabacco francese, lo stesso che fumava mia madre, e facendo uno sforzo riesco
persino a sentire l’odore del mare e del pesce appena pescato. Cullato da quel torpore, tiro le
tendine che sanno di vecchio e muffa, intanto per almeno mezz’ora non c’è niente da vedere, se non
fabbriche in disuso, palazzoni senza vita e mi domando come abbia fatto a vivere per cinquant’anni
in questa città.
I miei compagni di viaggio sono rumorosi, i più piccoli non riescono proprio a stare fermi e mi
trascinano nei loro giochi chiamandomi nonno. Il più piccolo si chiama Andrea, è una vera peste,
avrà circa tre anni, ha una faccia sveglia, mi sta tremendamente simpatico, anche se continua a
tirarmi negli stinchi dei calcioni che fanno davvero male.
I genitori hanno smesso di rimproverarli, sembrano disinteressarsi, parlano fitto, fitto io intanto mi
sono tolto le scarpe, a dispetto dell’odore di gorgonzola dei miei piedi, e mi metto a ballare sui
sedili, tenendo per mano i bambini. Due vecchi signori dall’aspetto distinto scrollano la testa,
continuando a ingurgitare cioccolatini alla menta senza offrirne a nessuno.
Le fermate si susseguono l’una all’altra, le stazioni sono tutte uguali con quel colore di ferro
arrugginito, senza una panchina, una sala d’attesa decente, con gli orologi che scandiscono ore
strampalate. I compagni di viaggio cambiano in continuazione e quasi non me ne accorgo tanto
sono preso dal gioco, sono ritornato bambino anch’io, anche se a dire il vero non sono mai stato un
giocherellone.
All’improvviso Andrea mi scivola dalle mani e va a sbattere contro qualcosa di duro, si mette a
urlare fino a trattenere il respiro, dal labbro gli esce un rivolo di sangue, corre da sua madre e si
rifugia tra le sue sottane, la donna finalmente smette di parlare e cerca di consolarlo, mi sembra che
mi guardi male, forse mi ritiene responsabile dell’incidente, il sangue ha smesso di uscire, lo
scompartimento ritorna silenzioso, i bambini si sono messi quieti e leggono dei giornalini, la donna
ha ripreso a parlare con il marito che non si è nemmeno scomposto. Mi piace intrufolarmi nei
discorsi della gente e così tendo l’orecchio, devono avere qualche problema economico, ma non
riesco a capire di cosa si tratti e maledico la mia sordità.
Il tempo passa in fretta, le stazioni prendono colore, i nomi dei paesi sono disegnati con fiori
colorati, qualche vecchio porta il nipotino a vedere i treni che passano. I bambini sono attratti dai
treni che non si fermano e passano talmente veloci che, lo spostamento d’aria, quasi li butta per
terra, gli orologi hanno smesso di fare i capricci.
Il treno ora costeggia il mare, la famiglia di Andrea è arrivata a destinazione e incomincia a
vestirsi, riprende la cagnara, questa volta mi da fastidio, finalmente scendono senza salutarmi.
Faccio per accarezzare la testa di Andrea e per tutta risposta ricevo un calcione che mi toglie il
respiro, a fatica mi trattengo dal dargli un ceffone.
Lo scompartimento rimane vuoto, potrò godermi la vista del mare, il treno riprende lentamente la
sua marcia, sembra stanco, quasi faccia fatica a portarsi dietro quelle carrozze. Intanto un altro
passeggero si è seduto proprio di fronte a me e mi guarda intensamente. È un vecchio dall’aria
dimessa coi vestiti consumati, dai colori troppo sgargianti che mal si accordano tra loro, forse un
barbone.
Due grossi baffi alla Stalin, me lo rendono familiare, si tratta di Giuseppe Tarlini, primo sindaco
del paese di Teu, appena finita la guerra. Il corpo è deformato dal peso, occupa due posti, deve aver
difficoltà a muoversi, i capelli neri e ricciuti sono caduti come foglie in autunno, lasciando la testa
nuda come una palla da biliardo.
Era una fredda mattina d’inverno del’44, me lo ricordo perché era nevicato anche in Riviera,
quando abbandonai la casa dei miei genitori per unirmi a una banda partigiana. La guerra l’avevo
scansata grazie al mio fisico e a una conoscenza di famiglia, ma ora volevo anch’io schierarmi da
una parte. Il fascismo non mi piaceva, non chiedetemi il perché, di politica ne sapevo poco, era più
che altro un fatto epidermico.
Girovagai per una intera notte, bagnato fradicio, ricordandomi di non aver scritto nemmeno una
lettera ai miei, ma ormai non potevo più tornare indietro. Affittai una bicicletta e inizia la salita che
portava alla casa dello zio, ma la dovetti abbandonare quasi subito e proseguire a piedi. La neve mi
ricopriva le scarpe poco adatte a quel paesaggio montano, le dita dei piedi non me le sentivo più, ma
andavo avanti con lena, guardandomi attorno e godendo di quel silenzio interrotto soltanto dalle mie
scivolate e dal mio battere i denti.
In poco tempo riuscii a raggiungere la fontana della mia infanzia, dove spesso andavo con lo zio,
divertendomi a tirare le pietre nell’acqua, mentre lui continuava a bere e io mi aspettavo, da un
momento all’altro, di vederlo scoppiare. Si faceva fatica a riconoscerla, la neve aveva
completamente cambiato il paesaggio, mi fermai un attimo dovevo decidere dove sarei andato, non
potevo girare per giorni alla ricerca di qualche partigiano, forse l’oste avrebbe potuto aiutarmi.
Mi accesi una sigaretta, era la prima volta che fumavo, avevo fregato un pacchetto a mia madre
prima di partire, le prime boccate furono alquanto schifose e mi fecero tossire ma mi ci abituai
quasi subito e presi a giocherellare con le nuvolette di fumo che si mischiavano a quelle del mio
fiato. Stavo per riprendere il cammino quando mi accorsi che non ero solo, qualcuno faticosamente
stava salendo per la stessa strada, mi sdrai sulla neve quasi a scomparire. All’ultima curva mi
comparvero davanti quattro ragazzi che dovevano avere all’incirca la mia età, capii che erano
partigiani dal fazzoletto rosso che portavano al collo e che contrastava con la neve bianca come il
latte.
Erano ben equipaggiati con giubbotti di pelle e con stivaloni militari, ognuno portava con sé un
fucile più grosso di lui e una barba di alcuni mesi gli conferiva un’aria più adulta. Avevano
incominciato ad intonare le note di bandiera rossa, forse solo per spezzare il silenzio della vallata, e
quando mi presentai loro, tacquero improvvisamente, dovevo sembrare un morto resuscitato, e un
poco in ritardo imbracciarono il fucile.
Io mi misi a urlare: “Non sparate sono un partigiano anch’io”. Ci sedemmo sulla neve fresca,
venni a sapere che facevano parte di una squadra di circa trenta uomini, che aveva operato nella
zona, erano rimasti soltanto loro, e ora cercavano di raggiungere il comando militare.
Due erano studenti liceali di Torino esili come spighe di grano battute dal vento, l’altro era un
operaio genovese, tozzo come un paracarro e il quarto, quello che parlava sempre, il teorico della
brigata, l’unico ad essere comunista.
Accettai di buon grado di unirmi a loro, ero finalmente diventato partigiano a tutti gli effetti,
ricevetti persino una pistola, una berretta, chiesi il fazzoletto rosso ma mi dissero: “A suo tempo”.
Riprendemmo il cammino, le note di bandiera rossa si alzavano alte nell’aria.
A mezzogiorno eravamo nei pressi di S…,avremmo pranzato in un’osteria che conoscevo, ma alle
prime case il silenzio fu interrotto dal fuoco di una mitragliatrice e la neve si riempì di sangue,
come migliaia di fazzoletti rossi. Incominciai a correre, sbattendo contro gli alberi, incespicando nei
sassi che fuoriuscivano dalla neve, finché il buio della sera non mi salvò, mi fermai un attimo e
caddi a terra svenuto.
Mi svegliai al mattino, ero in un letto pulito e caldo, accanto avevo una donna, sui quarant’anni
che mi accarezzava la fronte. Era stupenda, dall’aria autoritaria e severa, ma con gli occhi dolci, le
sue forme erano arrotondate, il suo corpo soffice, ma non grasso, mi venne voglia di giocare con il
suo ombelico coperto da una lieve pancetta. A mezzogiorno conobbi il marito, si chiamava
Giuseppe Tarlini, faceva il contadino e dagli amici si faceva chiamare Togliatti, dal colorito
rossiccio della faccia si capiva che amava più il vino che un buon libro di Gramsci o di Lenin.
Quella casa mi stregò, era fatta di pietra, immersa in un boschetto di castagni giovani che
lasciavano vedere il cielo, nella parte in ombra c’era odore di muffa, il pavimento era di terra
battuta e quando lo si scopava si alzava un gran polverone. La cucina era dominata da un caminetto
in pietra e c’era sempre qualche pentola sul fuoco. Il soffitto era tappezzato di aringhe, aglio e
salumi che spandevano il loro profumo.
Quella casa mi aveva accolto come un ventre molle da cui non ero capace di uscire, passavo le
giornate in compagnia di quella donna, che poteva essermi madre, mi prendeva la mano
appoggiandosela sul seno, ci guardavamo in faccia e qualche volta ci scappava un bacio.
Avevamo iniziato quasi per gioco, lei si occupava delle mie ferite, le lavava con acqua tiepida
stando attenta a non farmi male, credo che non ci sia stata infermiera più brava. Quando le ferite
furono guarite, prese a farmi il bagno, mi insaponava con cura, i suoi occhi si posavano sul mio
corpo nudo in ammirazione, come fossi un quadro famoso, raramente ci concedevamo un bagno
insieme, il suo corpo nudo e soffice sembrava sciogliersi nell’acqua.
Alla sera dopo mangiato, mi intrattenevo con Togliatti, parlavamo per lo più di politica, lui
sosteneva che bisognava fare come in Russia ed io gli davo ragione, non ero imbarazzato con lui
per via della moglie, i nostri erano giochi innocenti. Lui continuava a bere vino, a me era permesso
soltanto un bicchierino di sidro, gli parlavo di riprendere la via della montagna, lui sorrideva e mi
diceva che non ero portato per la guerra. Gli piaceva che parlassi dei miei studi e rimaneva a bocca
aperta dicendo: “Ci vogliono degli uomini così al governo”, e ciò mi inorgogliva.
Nel ’45 i miei genitori vennero a prendermi, fu come se mi avessero strappato qualcosa, dovetti
ritornare alla realtà, il sogno era finito.
Alzo lo sguardo, vorrei chiedergli tante cose, ma già se ne è andato e al suo posto si è seduta una
magnifica ragazza che non mi toglie gli occhi di dosso. Deve avere all’incirca diciotto anni e dai
libri che si porta dietro si direbbe una studentessa. Indossa una gonna corta, di quelle elasticizzate, e
quando accavalla le gambe scopre le cosce, forse un poco grosse. Il suo sguardo penetrante non mi
lascia un momento, possibile che con tanti giovani abbia messo gli occhi proprio su di me?
Ma sono un illuso, è solo una bambina che vuole giocare, ma quando si alza per prendere la
valigia, scoprendo l’ombelico, mi è difficile trattenermi e decido di andare a prendere una boccata
d’aria nel corridoio. Lei sembra soddisfatta, mi guarda con un mezzo sorriso di compatimento, e
quando rientro si è infilata il cappotto, ha acceso una sigaretta e non alza nemmeno la testa dal libro.
Non mi resta che guardare dal finestrino paesaggi che pian piano diventano sempre più familiari, il
paese ormai è vicino. Non è difficile riconoscere la stazione, è l’unica senza un fiore, mi vesto
precipitosamente, il treno non aspetta di certo i miei comodi.
C…,mi appare con la faccia stanca di Pierre, che seduto su una panchina sembra aspettarmi. È un
vecchio poeta matto con tante storie da raccontare, da giovane aveva girato il mondo, come mozzo
su una nave mercantile, poi arrivato nel nostro paese si era messo a fare il pescatore, ma spirito
inquieto era sempre alla ricerca di qualche cosa.
Un giorno mi raccontò che a causa di un incidente, aveva perso la memoria e andava cercando il
suo paese e i suoi genitori, se ancora erano al mondo. Un giorno vendette la barca e si mise a fare il
pendolare sulla linea Genova-Ventimiglia, lì trovò da mangiare, da dormire e compose le sue poesie
migliori, ma almeno fino alla mia partenza, non aveva ancora trovato quello che cercava.
Ora doveva essere stanco di viaggiare, forse non riusciva più a prendere un treno, faccio per
chiamarlo, ma è già scomparso nella folla.
11
Sono arrivate le bancarelle per la festa di Santo Stefano. Appena fuori dalla stazione sono accolto
da una folla rumorosa, a stento si riesce a camminare e il mare sembra scomparso, si sente la sua
presenza, solo per l’odore di sale che impasta la bocca. È tutto uno scintillare di luci, di colori, un
paesaggio irreale, guardo l’orologio, sono di poco passate le otto, sto forse sognando?
In giro bambini urlano sulle giostre, altri scompaiono dietro a un bastoncino di zucchero filato,
sembra di entrare in una fiaba. Si incontrano i personaggi più strani, che solo la fantasia di un
bambino potrebbe immaginare: la donna cannone che assomiglia a mia zia Clotilde, l’uomo sui
trampoli, il mangiatore di fuoco.
All’improvviso sono attratto dal vecchio carrozzone del tiro a segno più lucente e rumoroso di un
tempo. Vicino, un capannello di persone discute animatamente, ci sono anche due uomini in divisa,
deve essere successo qualcosa. Chiedo in giro e vengo a sapere che la ragazzina del tiro a segno è
accusata di non aver dato il resto a un signore e da questo è nata una rissa.
Mi faccio largo tra la folla con l’autorità di un generale e finalmente riesco a raggiungere la
ragazza, sembra un coniglietto appena nato, ma mi è familiare, è la stessa che da ragazzo cercavo di
conquistare con gli amici. Non era italiana, aveva la faccia da zingara col colorito scuro, i capelli
nero corvino, due occhi che ti ci perdevi e un corpo come se ne vedono soltanto al cinema. I suoi
vestiti erano appariscenti, di un colore tanto vivo da sembrare irreali, un arcobaleno estivo. Si
aspettava Santo Stefano soltanto per vederla, ma lei non dava confidenza a nessuno. Era
accompagnata da un ragazzone che riusciva a piegare le corna del toro senza sforzo.
Ho un po’ di soldi in tasca, li metto in mano al signore, abbozzando una timida scusa e riesco a
trascinarla via. Per puro caso raggiungiamo il mare, la ragazza non finisce più di ringraziarmi, le
accarezzo i capelli, faccio per chiederle il nome, mi piacerebbe chiacchierare, ma è già scomparsa
nel nulla, ho la certezza che non la vedrò più.
I pescatori sfidando il freddo con urli, cantilene in dialetto simili a riti propiziatori, hanno messo in
mare le barche, l’acqua è talmente piatta che sembra invitarti a una passeggiata.
È una giornata magnifica con un po’ di fortuna si potrebbe scorgere la Corsica, ma anche
sforzandomi, non riesco a vedere nemmeno cosa c’è a pochi metri, dietro a quel promontorio che si
sporge minaccioso sul mare, formando una figura mostruosa che con un poco di fantasia, potrebbe
assomigliare ad un enorme drago.
Mio padre, quando ero piccolo, mi raccontava che quel posto era infestato da mostri, pronti ad
azzannare chiunque tentasse di oltrepassare il promontorio. Difendevano un castello dov’erano
tenute prigioniere meravigliose principesse, che amavano, nelle poche ore di libertà, sciogliere sulle
rocce i capelli dorati per farli asciugare e cantavano felici.
Sfidando il mare e i terribili mostri, mio padre aveva liberato e portato a casa quella che sarebbe
diventata sua moglie. Quella fu l’unica fiaba che mio padre mi raccontava, con questa mi
addormentavo, ascoltando senza fiatare, quasi avessi paura di chiedere qualche spiegazione. Non
capivo il rossore di mia madre, il suo disagio di far parte di una fiaba. Io ero orgoglioso di aver per
madre una principessa, detestavo mio padre che l’aveva liberata, io ne sarei stato capace?
Una barca incustodita, aspetta soltanto di essere presa, il mare è talmente piatto che sembra di
essere a terra, ma mi tengo pronto, da un momento all’altro compariranno i draghi e le onde si
alzeranno, ho bisogno di tutta la forza che ancora mi resta e anche un po’ di fortuna, la barca vola
via veloce sotto i colpi possenti delle remate, qualche pescatore, incontrandomi, mi augura buona
fortuna. Possibile che loro non abbiano un po’ di paura? In una decina di minuti oltrepasso il
promontorio e sbarco indenne sulla spiaggia proibita, non mi è successo niente, è un luogo come un
altro, poca gente, per lo più uomini e di principesse nessuna traccia. La sabbia fine dal colore
bianchiccio di borotalco, mi sollecita i piedi come un delicato massaggio.
Tutto è avvolto in una oscurità minacciosa, soltanto il castello è illuminato e si sente un gran
vociare che spezza il silenzio della notte. Guardo l’orologio, sono da poco passate le nove, devo
essere diventato matto, o forse senza volere sono entrato nella fiaba del vecchio.
Le facce mi sono familiari, c’è il signor Tommaso con un vestito a righe che lo rende più snello,
ma anche più malandrino, più avanti incontro il sindaco accompagnato dai suoi consiglieri, quasi
non lo riconosco, stenta a reggersi in piedi, deve essere ubriaco fradicio, mi resta difficile
immaginarmelo tutto impettito con la fascia tricolore ad inaugurare una scuola, un ospedale, usando
quelle parole che toccano il cuore agli ingenui. Da quello che credo un castello,esce una massa di
ragazzini, non avranno nemmeno quattordici anni, sembra abbiano visto il diavolo, fanno un chiasso
furibondo e non smettono di parlare di donne, si atteggiano da adulti, mostrando la sigaretta, ma nel
frattempo stanno attenti a non farsi riconoscere da qualche familiare. Alcune persone
riconoscendomi mi salutano con ironia, qualcuno va oltre posando le sue manacce sporche sulla
spalla, mi dice: “Vecchio ce ne hai ancora di cartucce, il fucile ti funziona ancora?” Tutti si mettono
a ridere come idioti, io non so cosa fare, se associarmi al coro, oppure prenderli a calci, altri che
conosco benissimo cercano di nascondersi, ma lo fanno in maniera talmente maldestra che è uno
spasso guardarli.
Alzo lo sguardo verso il castello, mi appare immenso e dal rumore che sento penso si stia
svolgendo una festa: “ Ma le principesse non sono tenute prigioniere?” penso tra me.
Un atroce sospetto mi assale all’improvviso, sono ormai giunto nei pressi della costruzione e mi
accorgo che sono davanti ad un albergo, mio padre mi ha dunque ingannato. Il mio primo impulso è
quello di tornare indietro, ma ormai che sono qua, tanto vale dare un’occhiata.
Entro un poco timoroso, non so ancora bene che cosa mi aspetta, vengo assalito da una nuvola di
fumo, come in un qualsiasi bar, ma questo è molto più bello: arazzi ricoprono le pareti, le
poltroncine sono in vera pelle e, ovunque cristalli riflettono figure di uomini che seduti ai tavoli,
sembrano in attesa di un evento straordinario.
L’ampia scalinata, rivestita di rosso che da accesso alle camere superiori, è parecchio frequentata,
là sopra deve succedere qualcosa di singolare e mi farebbe piacere dare un’occhiata, ma di
principesse nessuna traccia. Le uniche donne presenti sono una vecchia signora alla cassa che dal
tono che si dà deve essere la padrona, e una più giovane che si aggira per i tavoli quasi nuda,
qualcuno allunga le mani, ma lei non sembra arrabbiarsi, anzi dispensa larghi sorrisi.
Non ho più niente da vedere, non mi resta che andarmene, quando all’improvviso mi si avvicina
una donna, un poco svestita, che prendendomi per un braccio mi dice: “ Vogliamo andare bel
morettino?”, possibile che non si sia accorta della mia età, non so più cosa pensare, cerco di
guardare altrove, fintanto che sono attratto da un quadro che campeggia sopra il bancone, non riesco
a trattenere un urlo e dico: “ Ma quella è mia madre”. Tutti si voltano e si mettono a ridere.
In quello stesso istante, un vecchio che non si era ancora mosso dal suo tavolo, mi si fa incontro e
mi abbraccia: “ Sono amico di tua madre, una gran donna”.
Senza nemmeno riflettere gli rispondo: “ Certo l’avrà conosciuta in qualche letto”, mi guarda
contrariato, vorrebbe sputarmi addosso, ma fortunatamente non lo fa e mi invita al suo tavolo. Ci
sediamo e ordiniamo da bere, è un vecchio piccolino, molto simile a mio zio Teu, il suo dialetto mi
mette allegria, si è messo a parlare e dal tono della voce ha l’aria di essere un discorso serio.
Apprendo che lui e mia madre venivano da un paesino della Sicilia, ne avevano fatta di strada e di
fame lungo l’Italia. Avevano messo su uno spettacolo di cabaret, mia madre ballava e lui tentava di
far ridere , ma i risultati erano scarsi, a nessuno interessavano le barzellette e la danza e gli
spettacoli si chiudevano con la solita frase: “ Faccela vedere”. Quando arrivarono in questo posto
erano allo stremo e così lei accettò la proposta della signora. “Lo fece per poco ti assicuro, poi tuo
padre se la portò via, fu una bellissima storia d’amore”. Forse è una favola ancora più bella di quella
raccontatami da mio padre, lo ringrazio e riprendo la via del paese.
12
La spiaggia si è riempita di gente, per lo più sono milanesi in cerca di un poco di sole, i bar hanno
sistemato fuori i tavoli e qualcuno già prende posto, la musica dei juke-box scandisce le sue note.
Mi accorgo di essere in compagnia del mio vecchio maestro che è un poco in disparte. Dorme
dentro una barca e un po’ più scostato il suo amico Bull, un cane tutto spelacchiato, che ha salvato
dalla morte, gli annuncia la presenza di un estraneo. È un vecchio magrolino, alto quasi due metri,
la testa pelata, come ai tempi della scuola e due grosse borse sotto due occhietti piccoli e furbi.
Dall’aspetto assomiglia più a un pescatore che a un maestro, con quelle manone, il colorito scuro
della pelle, tagliata da rughe che sembrano solchi. Il suo modo gentile di rivolgersi alle persone, e il
suo gesticolare di mani lo rendono un poco effeminato.
Mi ricordo ancora le sue lezioni che consistevano in lunghe passeggiate ad osservare animali,
piante, fiori, persino una zolla di terra, in inverno stavamo tutta la mattinata appiccicati alla finestra,
ed era una gioia quando qualcuno dei ragazzi, riusciva a scorgere qualcosa di vivo, ma in questo lui
era imbattibile e perdevamo quasi sempre la gara.
Non avevamo mai niente da studiare, né compiti a casa, lui ci raccomandava soltanto di fare
continue passeggiate e stare attenti a quello che ci capitava attorno.
Ci guardiamo in faccia, senza dirci una parola, poi il maestro interrompe il silenzio e mi invita in
quel gioco infantile dello scoprire un qualcosa di vivo. Da principio sono riluttante, conosco troppo
bene la sua abilità ma, per educazione, accetto l’invito, passiamo delle ore a scrutare il mare senza
che nulla accada, le onde si susseguono in maniera monotona l’una all’altra, nel cielo non un
uccello fa sentire la sua presenza e le poche barche di pescatori sembrano punti inanimati.
Avrei voglia di smettere, ma mai ammetterei la mia sconfitta, soltanto un lieve prurito alla gamba,
mi riporta alla realtà, faccio per alzarmi e sgranchirmi un poco, quando il maestro mi urla: “Avevi
una formica addosso e nemmeno te ne sei accorto”, e poi quasi sussurrando aggiunge: “Sei
diventato grande per queste cose”. Ci salutiamo come se niente fosse successo, è ora di entrare in
paese.
C…è rimasto un piccolo agglomerato di case stanche che sembrano sorreggersi a vicenda, come
ubriachi che cercano di raggiungere un bar. Nella parte vecchia, il sole non si vede e quel piccolo
pezzo di cielo riflette la sua luce come su un telone di cinema. Tutto sa di muffa e di piscio che si
mescolano a un freddo vento di tramontana.
Passo davanti alla mia casa, ci deve abitare un bambino, se ne sente la presenza, mi piacerebbe
conoscerlo, ma non ho il coraggio di presentarmi e così tiro avanti.
A pochi metri c’è ancora la scuola una vecchia palazzina ad un piano, immersa nel verde, per la
verità ci sono soltanto due piante, ma bastano per creare un po’ d’ombra; è l’unico posto fresco di
tutto il paese e dove c’è qualche panchina. Il lungomare è flagellato dal sole, a niente servono quelle
poche palme spelacchiate. Nelle ore calde del pomeriggio quella piccola zona d’ombra è la meta
preferita dai vecchi che passano la giornata a raccontarsi la loro vita e ad aspettare terrorizzati
l’evento che nessuno riesce a pronunciare.
Ora il maestro è un uomo robusto, porta il cappello anche d’estate e veste in maniera elegante, e un
poco eccentrica. Viene dalla città e non gli piace il posto e forse nemmeno i bambini, passa gran
parte della giornata al bar a guardare le ragazze, ma nessuno l’ha mai visto accompagnato, e va in
giro a dire che le donne di città sono migliori. Mi fa piacere sentire l’odore delle matite, dei
quaderni e dei libri appena comprati.
Oggi la scuola per mancanza di bambini si è ridotta a due sole aule, il rimanente è stato occupato
da un’associazione di ex combattenti e da una società di pescatori. Hanno abbattuto qualche muro e
ne hanno ricavato due saloni immensi.
L’associazione di ex combattenti, ha un nome difficile: è dedicata a un giovane ufficiale trentino
morto facendo l’eroe nella prima guerra mondiale. Per lo più rimane deserta e si anima soltanto in
qualche occasione, come il quattro Novembre, il venticinque Aprile, la festa della Repubblica. È un
ambiente squallido, l’unico arredamento è una catasta di seggiole di paglia sfondate e un tavolaccio
di legno tutto tarlato, ereditato dalle Ferrovie dello Stato, quando rifecero la stazione. Sulle pareti
fotografie di militari, accompagnati da vessilli di ogni colore, rendono l’ambiente ancora più tetro e
quasi si ha paura di entrare.
La Società dei pescatori, invece è sempre affollata, funziona da bar e si dice facciano dei panini da
favola e servano un ottimo vino bianco frizzante. C’è una saletta per i videogiochi e all’interno sono
riusciti a ricavare una sala da ballo con luci psichedeliche, anche se si continua a ballare soltanto il
liscio e i giovani preferiscono le discoteche genovesi o quelle piemontesi.
La gestisce una ragazza, dalle forme sinuose, ma dal fare autoritario, che ascolta tutto il giorno la
radio ad alto volume, facendo andare in bestia i vecchietti che giocano a carte.
Proseguo il mio cammino, attraverso i ricordi e incontro la vecchia farmacia del Dottor
Alessandro. Più che una farmacia assomiglia a un retrobottega, con tutti i prodotti raffazzonati sul
banco e con quell’odore di muffa che si mescola a quello delle medicine.
Il Dottore era talmente brutto che non sembrava nemmeno vero, faceva senso a guardarlo, ma
godeva fama di Don Giovanni. Fama conquistata sul campo, non c’era infatti donna giovane o d’età
che non fosse passata dal suo letto, e nessuna ne era mai uscita delusa. Il luogo d’incontro era la
stessa farmacia e non c’era bisogno di convenevoli, il farmacista aveva sparso la voce che bastava
portare un fiore rosso per sperimentare le sue prestazioni. Non era raro passeggiando per via
Garibaldi vedere il cartello “chiuso”, anche più volte al giorno.
Mi piacerebbe dare un’occhiata, attraverso la strada, quando vedo un vecchietto uscire dalla
farmacia, mi sembra di non conoscerlo, con un gesto improvviso cambia il cartello e compare la
scritta “aperto”, un attimo dopo una giovane donna esce un poco spettinata, guardandosi in giro con
fare guardingo.
In fondo alla strada c’è la piazza della chiesa, forse troppo grande per le esigenze del paese. Sulla
soglia c’è Don Pietro, il parroco, un bell’uomo, con la chioma grigia che svolazza al vento e con un
tocco della mano ritorna subito a posto, come se fosse appena uscito dal salone del barbiere. La
tonaca lucida e perfettamente stirata gli dona parecchio, tanto che può sembrare benissimo un
vescovo. Alto un metro e ottanta, ma sembra anche di più, grazie al suo portamento eretto, non
disdegnava mai di passeggiare fino alla nostra casa, per fare quattro chiacchiere con mia madre,
sempre assorto in un libro, si fermava di scatto per prendere degli appunti su un block-note
sgualcito, non dimenticava mai di rispondere a un saluto o di accarezzare i capelli a un bambino che
gli capitava tra le gambe. Mi farebbe piacere parlargli, ma è già entrato in chiesa, tra poco ci sarà la
messa.
Nel frattempo alzo gli occhi, alla finestra come sempre c’è la Signora, da giovane era stata molto
bella, tutti gli uomini le correvano dietro e lei ne aveva approfittato concedendo le sue grazie in
cambio di regali, che potevano essere un bel vestito, un gioiello e forse anche dei soldi, ma
nonostante le apparenze non veniva ritenuta una puttana e tutti continuavano a chiamarla Signora.
Quando il suo corpo sfiorì, si chiuse nella sua bella casa, dono di qualche ammiratore, passando
tutto il giorno a guardare dalla finestra e diventando l’archivio storico del paese. Non era raro che
qualcuno andasse a trovarla per godere della sua compagnia e riascoltare qualche storia ormai
dimenticata. Potrei passare qualche ora con lei, ma sembra non accorgersi della mia presenza, tira le
tendine e anche lei scompare.
Senza accorgermene sono arrivato davanti all’Hotel Sereno, un albergo immenso con più di cento
stanze, immerso in uno stupendo parco, nel suo massimo splendore, aveva ospitato i più bei nomi
della musica e della politica.
Da ragazzi era una delle nostre mete preferite, rimanevamo colpiti dagli abiti delle signore e da
favolose macchine che, raramente riuscivamo a vedere in giro. Ma era un attimo, perché
scomparivano dietro a un cancello di ferro battuto, la nostra curiosità era accresciuta da un grande
muro che non permetteva di vedere niente.
Un giorno ci munimmo di una lunga scala, così passammo un intero pomeriggio a guardare le
donne in costume che prendevano il sole e che ci parevano più belle di quelle che potevamo
guardare in spiaggia senza tanto sforzo.
Alzo gli occhi per guardarlo meglio, conserva ancora tutto il suo fascino, ma il muro è sgretolato,
il portone sempre aperto, e i suoi ospiti sono piccoli commercianti lombardi, con donne grasse e
bambini maleducati.
Finalmente dopo tanto bighellonare, sono arrivato al negozio del signor Tommaso, sono curioso di
sapere che fine ha fatto la bambina uccello.
La bottega non è cambiata, un signore grasso esce dal banco bestemmiando perché ha fatto cadere
qualcosa, sono un poco impacciato e gli dico: “Signor Tommaso”, lui mi guarda un po’ perplesso e
mi risponde seccato. “Tommaso è morto dieci anni fa, io sono suo genero, cosa desidera?”
Non so più cosa dire, una lacrima mi solca il viso: “Un pacchetto di sigarette francesi, di quelle
forti”.
13
Ho finalmente deciso di lasciare il paese e di far visita allo zio. La corriera parte fra mezz’ora e c’è
tutto il tempo di prendere un caffè corretto in una di quelle osterie, vicino al mercato del pesce,
dove qualsiasi odore si mischia con quello di refrescume.
Il tempo passa sempre troppo in fretta, è l’ora di prendere la corriera, alla fermata c’è parecchia
gente, accenno a un saluto, sperando che la corriera arrivi presto. Vorrei chiedere informazioni su
qualcuno, ma ho paura delle brutte notizie e così faccio finta di niente, a costo di apparire
maleducato.
Mi sistemo sul davanti, nell’unico sedile di fianco all’autista, così posso rimanere solo per tutto il
viaggio e poi è il solo posto dove non patisco. La corriera si inerpica per una piccola strada, piena di
curve, ci passa a stento e sembra debba precipitare nel vallone. È una vecchia corriera, la stessa
forse che prendevo molti anni fa e mi chiedo se riuscirà ad arrivare a destinazione.
Inutilmente cerco il mio nome su qualche sedile, nomi ce ne sono, ma il mio non riesco a trovarlo,
e me ne dispiace.
Questa corriera assomiglia sempre più a uno di quei carrozzoni da circo, che tutti si chiedono
come facciano a funzionare, in effetti, quello che desta meraviglia, non sono tanto i numeri più o
meno spettacolari, ma proprio l’arrivo rumoroso e fumoso.
Il circo ci faceva visita due volte all’anno: al sabato e alla domenica era a C…, durante la
settimana si spostava in collina. Non aveva molto successo e il tendone rimaneva quasi sempre
deserto, noi ragazzi ci limitavamo a guardare i segni che aveva lasciato per terra, come fosse un
accampamento indiano.
Il divertimento maggiore era quello di imitare ciò che intravedevamo da un pezzo di telone,
squarciato, e che bei travestimenti riuscivamo a inventare con le poche cose che avevamo a
disposizione.
Mi volto di scatto, c’è baccano sulla corriera, rumore di trombe, pernacchi è gente mascherata,
forse vanno a una festa, aguzzo un poco lo sguardo e rivedo i miei amici del tempo del circo, vorrei
unirmi a loro, ma la corriera è arrivata al paese, devo scendere, sarà per un’altra volta, sono solo
dispiaciuto di non aver visto la fontana. Sono contento di sgranchirmi le gambe, e prendere una
boccata d’aria fresca.
Il paese non è più lo stesso, anche qui è arrivato il turismo, la Pensione Rosa Fiorita è stata
soppiantata da un grande albergo chissà che fine ha fatto il proprietario?
I piccoli negozi di un tempo non ci sono più, e i vecchi proprietari si mettono davanti al loro
negozio rimodernato, ci passano delle ore, e poi se ne vanno scrollando la testa.
È giorno di festa, ma c’è poca gente all’uscita dalla messa, mi avvicino a qualche vecchio e chiedo
dello zio Teu, nessuno sembra conoscerlo, e non riescono nemmeno a capire il dialetto che mi
sforzo di parlare.
Mi accendo una sigaretta, ha un gusto forte e amaro e mi incammino verso la casa dello zio, subito
comincio ad ansimare, un tempo non faticavo in questo modo. Sono quasi arrivato, ma mi accorgo
che qualcosa è cambiato, al posto del campo hanno costruito una villa da favola, e per quanti sforzi
faccia la casa dello zio non riesco a scorgerla.
Faccio ancora pochi metri e cado riverso a terra senza più vita. Sono morto, ma stranamente riesco
a sentire il dottore che con una faccia arrabbiata, come gli avessi fatto un dispetto, dice: “Glielo
avevo detto di non fumare e di non mettersi in un viaggio così lungo, alla sua età”.
Lo squillo del telefono mi sveglia di soprassalto, ho dunque sognato, mi accendo una sigaretta
francese dal forte odore, è la prima dopo vent’anni, guardo la sveglia sono già le otto.
Il diretto delle sette e trenta è già passato.
14
Anche oggi è una giornata stupenda, il sole filtra dalle tapparelle ancora chiuse, mi sento
tremendamente stanco come avessi fatto per davvero quel viaggio, un odore nauseabondo esce dalle
ascelle, devo aver sudato, forse sarà stato il mangiare del giorno prima. Devo essermi addormentato
nello studio, la mia mente è confusa, sul tavolo è aperto un quaderno pieno di parole, ieri era appena
iniziato, devo aver lavorato tutta la notte.
La scrittura è caotica tanto che non riesco quasi a decifrarla, le parole non seguono le righe,
sembrano voler scappare, delle macchie d’inchiostro coprono chissà quali misteri e il tutto è
arricchito da disegni infantili: una casetta in collina, una spiaggia con delle barche a riposo, un sole
troppo rotondo perché fatto con un bicchiere.
Mi viene alla mente la storia di mio zio, chissà se da queste pagine non possa comparire un
folletto, ne cerco la prova, proprio sotto casa c’è un albero, senza pensare, dico forte: “Voglio che
quell’albero secchi”. Passano alcuni minuti ma niente succede.
Il sole ha inondato tutta la casa e la luce mi colpisce gli occhi, è l’ora di andarsi a fare un caffè.
Chissà che non mi rimetta a posto lo stomaco?
Mi sento svuotato, come se qualcosa di me fosse davvero morto questa notte; chi mi dice che il
sogno che ho fatto non sia la realtà e quello che invece sto vivendo soltanto una finzione? È forse
questa la morte, un’eterna finzione o soltanto questo senso di vuoto?
Ho voglia di parlare con qualcuno, Monica sta ancora dormendo nonostante il sole le colpisca la
faccia. Non è più la bella donna di ieri, senza la cipria complice le si vedono tutte le rughe e i
capelli non hanno più forma ed escono in mille ciuffi.
Senza rendermene conto divento nervoso e quell’essere rannicchiato sotto le lenzuola mi da
fastidio, è la prima volta che sento di odiare Monica e non ne capisco la ragione. Mi metto a parlare
senza nessun freno, devo aver alzato la voce, lei sembra non ascoltarmi, e questo mi fa andare in
bestia, incomincio a prendere a calci un tavolino che cade rovinosamente portandosi dietro un intero
servizio di tè cinese.
Una lunga pausa echeggia nell’aria, mi avvicino al letto, la scopro violentemente ma Monica non
da segni di vita. Mi butto su una poltrona senza toglierle gli occhi da dosso, forse mi sta facendo
uno scherzo, fra qualche minuto si alzerà e mi prenderà in giro, ma niente di tutto questo succede ed
è già passata mezz’ora.
Forse sto sognando, chi infatti non ha mai desiderato una volta nella sua vita di ammazzare la
moglie? Non c’è da preoccuparsi, qualcuno mi sveglierà e tutto ritornerà come prima.
Come se niente fosse, vado in cucina, ho voglia di un buon caffè, nessuno ha ancora alzato le
tapparelle e quindi, nonostante il sole devo accendere la luce, in strada non si sentono movimenti,
ma adesso ricordo: è ancora festa.
Per caso mi capita tra le mani un vecchio album con la copertina in pelle, ne sfoglio le pagine
piene di foto in bianco e nero che il tempo ha notevolmente sbiadito, le figure si distinguono a
malapena. Vi è raffigurata la storia della mia vita: il primo bagnetto, i compleanni, le figure austere
dei nonni, una caduta dalla bicicletta, la prima comunione, qualche parente ormai dimenticato.
Sorseggio il caffè è forte e amaro, proprio come mi piace, intanto le foto sono finite, ci sono
rimaste soltanto delle pagine bianche, proprio come succede al cinema, quando si rompe la
pellicola.
Un rumore che assomiglia a un fischio del treno, mi sveglia da quel torpore, lo riconosco è il
diretto delle sette e trenta, non vedendomi mi ha aspettato, sono felice, forse se mi affretto riuscirò a
prenderlo.
Il rumore si fa più forte devo essermi sbagliato, una voce urla al di là della porta d’ingresso:
“Aprite polizia”. Cerco di mettermi un poco a posto, passo attraverso la camera da letto, Monica
non si è ancora mossa e vado ad aprire.
Sono tre uomini in divisa hanno l’aria cattiva e tutti e tre portano i baffi, il più vecchio mi dice:
“Hanno sentito gridare e siamo venuti a vedere che cosa è successo”.
Li faccio entrare e subito si intrufolano nelle stanze, vorrei protestare, ma nel frattempo qualcuno
si mette a gridare: “ Maresciallo venga qui a vedere”.
Devo essere entrato in uno di quei film polizieschi che ogni sera guardo prima di addormentarmi.
Ci avviamo tutti nella camera da letto, e da lì che proviene la voce, Monica finalmente la smetterà
di fingere, si alzerà dal letto e farà a tutti una sonora pernacchia. Quello che tutti chiamano
maresciallo mi si avvicina, si è tolto di tasca le manette e mi dice con aria solenne: “La dichiaro in
arresto per l’omicidio di sua moglie”.
Quelle parole mi arrivano come una mazzata, vorrei piangere, ma all’improvviso mi viene in
mente un qualcosa di diabolico: “ A che ora è morta?” dal fondo della stanza l’appuntato si mette ad
urlare: “Da poco, è ancora calda”.
“Perfetto” penso fra me, “Lo vedete che avete preso un granchio, non è forse vero che la morte
può risalire all’incirca alle sette e trenta o alle otto? Allora signori mi dispiace ma per quell’ora io
ho un alibi di ferro, ero in stazione e il capostazione lo potrà confermare”, mi accorgo di essere
entrato nel ruolo, parlo come un attore consumato.
Mi è venuta una gran nausea e devo assolutamente liberarmi lo stomaco, chiedo il permesso di
raggiungere il bagno e mi viene concesso, non senza qualche raccomandazione.
Passo un attimo nello studio, il quaderno aperto è ancora lì che aspetta soltanto di essere letto.
È proprio quello che faccio, e con mia grande sorpresa ritrovo passo per passo la sconvolgente
esperienza che sto vivendo. È dunque la mia fantasia che ha creato la morte di mia moglie e quei
mostri che vorrebbero chiudermi in prigione, basta quindi riscrivere l finale per rimettere le cose al
loro posto, ma per quanti sforzi faccia non riesco a buttar giù nemmeno una parola.
Non sono passati nemmeno dieci minuti che l’appuntato ritorna, un poco accaldato, si è fatto le
scale a piedi: “ Abbiamo controllato, nessuno l’ha visto questa mattina”.
Il mio alibi è crollato, mi faccio mettere le manette senza opporre resistenza e piano dico al
maresciallo: “Lei sa se dal carcere si può sentire il rumore del treno?” Mi guarda, ha capito che
sono matto e scrolla la testa.
Siamo in strada, è una giornata magnifica, ad attendermi c’è una macchina, persone si accalcano
curiose: “Una così gran brava persona, chissà che avrà fatto?”.
Qualcuno ben informato dice: “Ha ucciso la moglie”.
Ma è un attimo perché l’attenzione subito si rivolge a una squadra di operai che stanno segando
l’albero che sta sotto casa mia, qualcuno dice: “ Fino a ieri era così bello, sembra che ci sia caduto
un fulmine”.
Io lo guardo per l’ultima volta e mi viene da sorridere, ma intanto la macchina è già partita.