Le origini ebraiche dei templari

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Le origini ebraiche dei templari
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Manuela Girgenti - Salvatore Girgenti
Le radici ebraiche dell’Ordine Templare:
un’ipotesi di ricerca
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Introduzione
Parlare di Templari è impresa ardua. L’argomento è spigoloso
(scandaloso, dunque) sul piano storico, per tutte le complicazioni
e soprattutto co-implicazioni che esso genera sul piano delle
fonti, del metodo d’indagine adottato e sull’attendibilità scientifica
conseguente, spoglia se possibile da ogni preconcetto
apologetico, in alcuni casi, o cinicamente demitizzante in altri, pur
di farsi valere come imparziali de-costruttori. Nel primo caso non
aggiungeremmo nulla al nostro sapere, anzi lo spingeremmo
sempre di più verso una ineffabile impotenza quasi compiaciuta
di essere tale, nel secondo caso, adottando il sum ius, summa iniura,
ci priveremmo a principio di ogni eventuale sapere. La storia ha
da essere imparziale e coevamente non essere nichilista. Anzi
dovrebbe svolgere la funzione trasformativa di tradurre il non
sapere non tanto in saputo, ma in sapere generatore di nuova
conoscenza e consapevolezza. Capire le differenze dovrebbe,
dunque, essere più importante che produrre sommatorie di
simboli funzionali alla ricerca di un’unica forma di facile
autocompiacimento. Detto in lingua volgare sarebbe il prevalere
dell’analisi sulla sintesi. L’analisi è sforzo conoscitivo, la sintesi
corre il rischio di divenire pensiero unico o, peggio, propaganda
di un tipo o di un altro e non importa a favore di chi. Insomma
“L’analisi difficile al posto dell’indignazione facile” (Roland
Barthes – Lezione).
Sui Templari si è detto e scritto moltissimo, se si tolgono le
apologie, le narrazione fantastiche, le saghe leggendarie, le
sceneggiature funzionali a certi generi sia letterari, sia filmici, sia
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pseudo-storici da un lato, e se si tolgono gli scetticismi, altrettanto
misterici del mistero, che intendono destrutturare una volta per
tutte, come se i due atteggiamenti si nutrissero l’uno dell’altro,
allora sui Cavalieri del Tempio è stato scritto pochissimo, e
certamente c’è, viceversa, moltissimo da scrivere. Diciamo che
per entrambi gli atteggiamenti il nocivo è ogni volta credere che si
sia scritto o detto una volta per tutte. “L’ultimo romanzo, l’ultima
verità” sembra essere un disturbo sia della personalità, sia della
cultura in genere; entrambe le disfunzioni hanno attraversato il
nostro novecento.
Ciò non toglie che quando si citano i Cavalieri del Tempio, la
nostra curiosità, la nostra fantasia si ecciti, se comuni e
appassionati lettori come me, o parallelamente si mettano in moto
processi d’indagine conoscitiva altrettanto appassionati, ma
rigorosi se condotti da storici, come speriamo non ci vengano mai
a mancare.
Il saggio di Salvatore Girgenti si colloca proprio in questa
direzione, traccia i percorsi storici, più o meno inequivocabili, ma
lavora negli interstizi, nelle rughe, nelle pieghe che ogni
ricostruzione si porta appresso, dunque sono più le domande che
le risposte.
È mio personale convincimento che farsi affascinare dal
mistero, dall’oscuro, dall’inconoscibile, pur essendo sentimento
legittimo, ci priva però e parimenti di un ordine di fascino
superiore e più ricco che è quello della comprensione e
conoscenza dei fenomeni. In quest’ultimo caso i mezzi per
pervenirvi possono anche apparire più aridi, analitici, meno
coloriti, certamente meno fantastici, ma il risultato, sempre
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parziale, che si può sperare di raggiungere nasconda, - è il caso di
dirlo – soddisfazioni maggiori.
Sin dalla sua origine fino all’improvvisa decimazione
dell’Ordine, ma improvvisa apparentemente, la storia dei
Templari sembra costellata di un crescendo di fatti ignoti, o noti
in forma conforme a seconda del tipo di Templari che ogni
storico, o narratore o sedicente continuatore dei Principi
dell’Ordine stesso, vuole configurarsi come immagine degli stessi.
È indubbio che la loro fine fu tragica e spietatamente violenta,
e questo ci induce a sentimenti di pietà e anche di rancore nei
confronti di poteri sempre più potenti. Il rancore viene da qui, se
i Templari fossero stati decimati – come ora diremmo - dai
“parenti delle vittime” trucidate dai Templari stessi, avremmo
poco di cosa avere pietà. Disturba la nostra coscienza che a
sgominare i Cavalieri del Tempio, siano stati gli stessi ai quali essi
avevano prestato utilissimi servigi: la Chiesa e, nella fattispecie,
Filippo IV il Bello Re di Francia. Ma la storia è ciò che è
successo, che significa parimenti ciò che ha avuto successo. Il
perché e il come di questo successo è l’oggetto dell’analisi storica,
senza pietà da un lato e senza rancori dall’altro.
I servigi resi alla Chiesa furono incommensurabili, così come
quelli resi alle varie monarchie cristiane (espressamente non
diciamo europee, perché questo concetto verrà un po’ dopo). Nel
frattempo l’Ordine Templare si struttura sempre di più, diventa
sempre più ricco e potente, il suo potere contrattuale s’accresce,
un potere tanto grande da essere sempre più difficile da gestire,
soprattutto nei confronti di altri poteri in via di forte costituzione.
Il Papato prima ispiratore, poi complice, infine avverso proprio in
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funzione di un ordine, non più dalla Chiesa ordinabile e
controllabile secondo un criterio centrale. Da qui una delle prime
premesse del conflitto. Parimenti il Re di Francia, fortemente
debitore soprattutto finanziariamente nei confronti dell’Ordine,
contemporaneamente ostile a una Chiesa che vuole svuotare del
suo potere temporale e della sua invadenza e influenza negli affari
della monarchia e della Francia stessa, seconda ragione del
conflitto. E qui, in forma molto semplificata abbiamo i tre
soggetti in questione, nessuno dei quali è certamente amico
dell’altro.
Terza ragione del conflitto, a mio parere la più importante,
perché non costituisce solo una delle premesse, ma la sua
necessaria condizione: Filippo IV il Bello sta per fondare la
monarchia come sovranità e non solo attinente aggettivo di un
monarca. Una monarchia che deve diventare istituzione a
prescindere dal monarca che in un dato momento ne è immagine
rappresentativa fisicamente. Filippo vuole fondare lo stato come
persona astratta non soggiacente a condizioni personali, dunque
monarchia sovrana, stato sovrano, dove stavolta il vero sostantivo
è l’aggettivo, è la sovranità dello stato, della monarchia, del
monarca, che è più importante del monarca stesso. Il concetto di
sovranità sconvolge tutto l’apparato giuridico, sociale, culturale e
politico di quel tempo, è una delle prime forme di costituzione
degli stati moderni se non della modernità tutta.
Questo concetto ce lo portiamo appresso tanto che, tagliate le
teste ai re durante la rivoluzione francese, la loro corona simbolo
di sovranità, a prescindere dal nome, è passata al popolo; il
popolo è diventato sovrano al posto del re, dunque quello che
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assolutamente non doveva perdersi era la sovranità e lo stato, da
allora è così. Il Re, a tal punto rappresenta (così come anche il
popolo, diciamo noi) “l’uomo artificiale che chiamiamo Stato,
esso viene chiamato sovrano, e si dice che ha il potere sovrano; ogni
altro è suo suddito” (Thomas Hobbes – Leviatano). Anche nel
caso del popolo dunque assistiamo alla scissione fra figura fisica e
figura artificiale: il popolo sovrano rappresenta il popolo, ma i
due “popoli” non sono la stessa cosa o lo stesso popolo.
Potremmo dire che il popolo reale è alienato rispetto al popolo
rappresentato “sovrano”.
In tal senso ogni ordine diverso dall’ordine dello stato non è
più concepibile. Ancora e per molto si avrà che forme
parcellizzate di ordini, anche corporativi potranno esistere ma
avranno giurisdizione solamente interna ai propri aderenti e mai
in difformità dall’ordine costituito che è quello dello Stato, che
semmai ne concederà controllata licenza. Non potranno esistere
stati nello stato. Questo concepisce e persegue Filippo, sì facendo
ridimensiona il potere ecclesiastico e al contempo se ne serve per
nientificare i Templari, titolari di un credito quasi impagabile nei
confronti del monarca. Ma se il monarca non è solo il re, ma è
rappresentante di uno stato, lo stato non può fallire, gli stati non
possono andare in bancarotta, possono sì impoverirsi fino allo
stremo, possono correre il rischio di essere invasi, ma in tal caso è
guerra. Filippo ha fatto quello che doveva fare, annullare i suoi
creditori; d’altronde se al posto dei Templari ci fosse stato un
altro Stato, non gli sarebbe rimasto che fare la guerra. Tale
esempio lo trovo drammaticamente attuale!
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L’Ordine del Tempio si trovò così di fronte a un fiume della
storia che non poteva più controllare dove, inevitabilmente ne
sarebbe diventata la vittima sacrificale.
Piaccia o non piaccia, noi siamo figli di ciò che è successo (e
dunque di chi ha avuto successo). Ma siamo soprattutto figli di
questa dialettica della storia che nei suoi continui superamenti,
rappresentando il già successo, porta con sé sia i vincitori sia i
vinti nel loro rapporto, al punto che è il rapporto stesso a
fondarne le funzioni, per paradossale dialessi è il futuro attuale
che fonda i termini del presunto passato.
Ecco che adesso c’è da capire molto; come è successo ciò che
ha avuto successo? Quali sono state le funzioni dei vari attori?
Dei Templari oltre a indagare cosa loro sapessero e tenevano
segreto, non sarebbe altrettanto interessante cercare di capire cosa
non sapevano, cosa a loro sfuggiva, e se sapevano, perché in
tempo non vi hanno posto rimedio? Quale era la consapevolezza
storica di ciò che stava accadendo? Hanno avuto percezione della
loro fine, ovviamente non solo di quella violenta? Queste e
infinite altre domande sono possibili, e meriterebbero risposte
argomentate. Protagonisti per quasi duecento anni di un periodo
storico complesso e crogiuolo di svolte e invenzioni sociali
inimmaginabili, si ritrovano ad essere in breve tempo
anacronistici rispetto al loro stesso tempo. Non è una novità, è
successo sempre, un ordine sociale matura un suo compimento e
sembra che tutto a un tratto si trasformi completamente in altro.
Fino a oggi abbiamo avuto l’illusione, certe volte fondata, che
questo comporti ogni volta un passaggio ad un ordine superiore,
più complesso che, anche se più articolato, comunque sempre più
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unitario nei suoi fondamenti, una sorta di ordine maggiore che è lì
ad aspettarci e che abbiamo anche chiamato, non a torto,
progresso. Ma il termine progresso è un termine estremamente
relativo non del tutto innocente, tanto da nascondere di fatto una
fede acritica, recitando al contempo la fede nella critica di ogni
fede.
Ma erano così ingenui i Templari da non ravvisare nelle
dinamiche di potere, le premesse della loro fine? Certamente no.
Al contrario essi più di altri avevano maturato una visione
geopolitica molto consapevole, quella che oggi chiameremmo una
situation awarenes, una consapevolezza della situazione delle forze
in campo e dei processi ad essi sottesi. Conoscitori di territori, di
culture, imbevuti di confronti reali sia con le realtà islamiche
(anch’esse plurali) mediando per questo reciproco rispetto, sia
con quelle ebraiche, forti di un rigore e un impegno che ne
facevano la compagine più colta e determinata al contempo, forti
anche del loro essere veramente Cavalieri e non recitanti il mito
che della cavalleria si è prodotto, come poterono non accorgersi
di ciò che stava accadendo? Di ciò che a loro sarebbe accaduto?
Potenti, monastici, militari, religiosi e laici al contempo
rispondevano solo al Pontefice - uno di questi li avrebbe traditi ma questo era l’unico legame che in terra avevano; tutto il resto a
loro derivava da Cristo.
Guerrieri sì, ma per una pace in terra che forse nessuno
voleva, di fatto multi-culturalizzati, la loro visione del mondo
andava oltre i confini di ciò che materialisticamente si andava
delineando, non per sapienze segrete o per scienze infuse, ma
proprio perché uomini, guerrieri, cercatori di fede più che
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portatori, conoscitori sul campo di nuove nature, si ritenevano in
dovere di allargare confini umani, sociali, collettivi, altro che Stati.
Iper-moderni si potrebbe definirli oggi se la stessa modernità non
fosse già un termine desueto. Dunque anacronistici, ma non solo
per quel tempo nel quale vissero, ma anacronistici come riserva
inconscia che la storia si porta dentro pur ricacciandola nel limbo
che poi finisce per alimentarla. Potremmo definire l’anacronismo
come l’inconscio della storia. Dunque anacronistici autenticamente, e dunque portatori di un anacronismo attuale. Certo
questo è un ossimoro, un’aporia, una antinomia, ma è di questo
che la storia si nutre. La storia in opposizione dialettica e in
sintesi conseguente fonda i suoi presupposti proprio sui suoi
anacronismi.
Mi piace dunque pensare, ma questa non è storia, ma non è al
contempo romantica rimembranza, che in fin dei conti i Templari
di tutto questo erano coscienti, dunque non vennero catturati e
trucidati, ma - consapevolmente o meno non fa a tal punto
differenza - essi si consegnarono, come estremo sacrificio, cercarono la morte, e la trovarono; questo è il loro segreto, o il loro
mistero che non è un mistero da svelare, ma un mistero da
assumere e custodire in quanto tale. Volendo fantasticare, vollero
essere come Cristo, forse più di Cristo. Certo questa può apparire
come una bestemmia, ma forse per loro era un modo per
riscattarne, impertinentemente e arrogantemente, il Sacrificio,
iper-sacrificandosi. Luciferini forse, angeli caduti, vollero essere
come…Ma peccato veniale essendo solo uomini. Incapaci, come
lo siamo tutti, di accorgerci radicalmente soli, incapaci della prima
e più devastante bestemmia che solo Cristo poteva produrre “Elì,
Elì, lemà sabactani” (Padre, padre mio, perché mi hai abban12
donato)? La bestemmia che per la cristianità autentica, a
prescindere dalle Chiese che ne vogliono gestire il monopolio,
comunque ci ha fondato, anche per chi come me non crede.
Ciò che venne dopo non fu né più giusto, né più saggio, ma
divenne il reale, quello che ancora ci accompagna e col quale e nel
quale dobbiamo confrontarci. Dunque la storia dei Templari
finisce con la morte del suo ultimo Gran Maestro Jaques De
Molay, il dopo non sono “quei” Templari, senza nulla togliere,
ma parimenti nulla aggiungere ai templarismi che si sono
succeduti, sotto varie forme, molteplici insegne, variegate
rivendicazioni di detenerne la continuità, tutte in conflitto con
tutte. Così come Cristo non è morto solo per i cristiani,
altrettanto ci piace pensare che i Templari non siano morti solo
perché alcuni si possano intestare in esclusiva il loro testimone.
Ciò che conta è la testimonianza che resta, il loro valore
paradigmatico, la loro storia reale, ancora da discernere e
comprendere che appartiene a tutti. La storia sempre vittoriosa si
nutre quasi esclusivamente di sacrifici; vittorie e sconfitte
appaiano sempre immeritate, ma il sacrificio che ne genera
l’azione resta il fondamento di ogni futuro, di ogni speranza
possibile, di ogni cammino e di ogni esodo, utopia di una terra
promessa e mai - forse - mantenuta.
C’è una origine ebraica nel costituirsi dell’Ordine del Tempio?
Anni fa, Salvatore Girgenti propose nel corso di alcune
conferenze, accennata anche in suoi successivi saggi, questa
interessante ipotesi di ricerca. Oggi, largamente condivisa, è stata
ripresa e ulteriormente e approfondita con suggestive riflessioni
da Manuela Girgenti, appassionata studiosa del pensiero ebraico.
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La domanda che entrambi gli autori si pongono non appare priva
di fondamento, ma contiene in sé un'altra serie di contro
domande. Certamente l’assorbimento di culture ebraiche da parte
dei Templari dovette essere consistente, ma è anche possibile,
viceversa, che l’ebraismo abbia trovato nei Templari la forza della
sua diffusione, ricordiamoci d’altronde che sia ebrei che Templari
vennero nello stesso tempo perseguitati e uccisi. Ma proprio la
natura cultural globalizzante che i Templari andarono costruendo
nel corso della loro storia, della loro esperienza sul campo, li
portava - forse - a concepire una sorta di anacronistica modernità,
ma della quale ci è rimasto tutto il sapore. Non è un caso che nel
saggio venga citato il rosone della chiesa di Sant’Agostino a
Trapani, dove sono presenti le effigi delle tre religioni monoteiste.
Un disegno troppo ardito, tanto moderno da non trovare alcuna
modernità, ancora oggi capace di farlo proprio.
Certo almeno i templari si sono risparmiati, col loro sacrificio,
le guerre di religioni, le guerre fra stati, mai cessate. Filippo IV il
Bello re di Francia fu strumento della storia, e a questo compito
non poteva sottrarsi, come forse ancor più colpevolmente il Papa.
I Templari non furono strumento di nessuno, come a tutti ci
piacerebbe essere, se non del loro destino, per loro in nome di
Dio, per noi in nome di chi? Il cammino, l’eterno esodo continua.
“Veggio il novo Pilato, sì crudele, che ciò nol sazia, ma sanza decreto portar nel Tempio le cupide
vele”(.Dante Alighieri : la Divina Commedia: Purgatorio XX, 91.)
Silvio Governali
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Dedica?
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Le origini
Della storia dell’Ordine dei Templari conosciamo le
probabili origini e motivazioni, l’eroico comportamento sui
campi di battaglia, le competenze finanziarie, i campi di
interesse, il prestigio che seppero guadagnarsi, l’organizzazione interna e anche la tragica fine. Ma con lo scioglimento
dell’ordine, in seguito al processo per eresia, e la condanna al
rogo di Giacomo di Molay, Gran Maestro dei Templari, e di
Goffredo di Charnay, cessa la storia e inizia la leggenda. Sotto
un profilo di rigoroso metodo storico non potremmo
aggiungere altro, almeno sino al giorno in cui non sarà
ritrovato l’archivio dell’Ordine, oggi dato per disperso.
Ciononostante, attraverso lo studio di rari documenti e
testimonianze dell’epoca, di fonti secondarie, del ripetersi di
eccessive coincidenze e valutazioni critiche si aprono ampi
spazi di ricerca, che, seppure non suffragate da una valida
documentazione, consentono di avviare interessanti ipotesi di
studio la cui valenza, naturalmente, ha solamente un valore
indiziario. Storicismo da frontiera? Può darsi. Ma a questo
proposito potremmo ricordare quanto Umberto Bartocci scrisse
circa vent’anni fa sul metodo indiziario nella ricerca
storiografica.
“Il compito del vero storico, più che restare impigliato tra le piccolezze
confuse della lettera che uccide, resta sempre quello di rintracciare l’esile
filo della verità, vagliando tutto l’insieme dei segni che gli provengono da
tempi lontani, avendo come unici strumenti a sua disposizione la propria
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libera ed autonoma ragione ed il criterio di verosimiglianza; i soli che gli
permettono di individuare i nessi significativi, sottolineare le coincidenze
eccezionali, stabilire una trama convergente di dati sulla quale fondare delle
ipotesi e, successivamente, confrontarle tra loro, cercando di determinare la
maggiore o minore probabilità. Alla pazienza metodica ed all’accuratezza
scrupolosa con le quali svolgere il lavoro di ricerca preliminare negli archivi
e nelle biblioteche, o nelle interviste a persone, lo storico dovrà
accompagnare pertanto intuizione creativa, immaginazione, capacità di
inferenza abduttiva, talento nel sapersi calare nei panni di persone diverse in
periodi diversi, allo scopo di riuscire a respingere i tentativi di
dissimulazione coperti dalla polvere del tempo, saper leggere tra le righe per
distinguere le, eventualmente poche, certezze della ragnatela di bugie,
aggiungere, ricostruendole nella sua fantasia, alle tante storie scritte dai
vincitori e dai persecutori quelle che sarebbero state scritte dai perseguitati e
dai vinti, con il proposito ultimo di presentare al proprio e all’altrui
intelletto una possibile soluzione di qualcuno dei tanti enigmi che ci offre la
storia; soluzione che sarà però tanto più convincente quanto più affonderà le
sue radici nella plausibilità, che non su una mitica irraggiungibile certezza
scientifica. Il lavoro dello storico da assomigliare quindi più allo sforzo di
un investigatore o di un magistrato, che indaga sull’individuale e su
elementi malcerti, molto spesso artefatti a bella posta dal colpevole…Se si
accetta questa teoria come pura ipotesi di lavoro, si può, è vero, correre il
rischio di qualche avventura pericolosa, ma si può anche trovare un filo di
Arianna, là dove prima esisteva la tenebra”. (Bartocci 1993:3-4-5)
Louis Charpentier e Domenico Lancianese, per citare solo
alcuni studiosi del fenomeno templare, concordano nel ritenere
che all’origine dell’Ordine abbiano concorso molteplici e
occulti obiettivi socio-politici, una vera e propria missione
segreta, del tutto prevalente su quella che è apparsa come la sua
unica motivazione ufficiale, vale a dire la crociata contro
l’Islam.
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Charpentier, addirittura, sostiene che la difesa della
Terrasanta non fu che un mezzo, uno strumento per conquistare
il potere, un risultato, quest’ultimo, preparato da tempo e che
avrebbe dovuto contemporaneamente avviare un processo di
trasformazione sotto un profilo economico, sociale e politico.
La storia dei cavalieri templari, in realtà, è piena di lati
oscuri. In maniera succinta, ma molto efficace, lo rileva Jean
Markal:
È stato creato per operare in Medio oriente, ma ha anche agito in Europa
occidentale. È stato un ordine religioso, ma anche militare. È stato
indispensabile alla politica del papato e dei sovrani europei, ma anche una
milizia parallela dai fini oscuri. È stata un’associazione di monaci cavalieri
pronti a morire per la fede cristiana, ma anche un gruppo di monaci che
rinnegavano Gesù; che portavano con fierezza la croce rossa, ma anche che
sputavano sulla croce. Il gonfalone del Tempio - il famoso baucent – era
bianco e nero: non esiste un simbolo che esprima meglio la dualità o la
realtà a due facce dell’Ordine”. (Markale 2000: 65)
Per meglio comprendere le motivazioni per cui nacque
l’Ordine del Tempio, almeno a livello ufficiale, occorre calarsi
nel clima e nell’ambiente del tempo. Il 27 novembre del 1095,
alla fine di un Concilio a Clermont, che aveva avuto inizio il 18
dello stesso mese, fu annunziato che il papa Urbano II avrebbe
fatto un intervento tale da lasciare una traccia indelebile nella
storia della chiesa. Per l’occasione si raccolse una folla,
talmente numerosa, da non potere essere accolta all’interno
della cattedrale e di conseguenza si decise di allestire un palco
in un campo aperto dove collocare il trono papale. Urbano II,
monaco circestense di Cluny, già vescovo di Ostia e
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appartenente ad una famiglia aristocratica di Chatillon-surMarne nella regione della Champagne, giocava in casa e da
consumato attore con doti non comuni di comunicazione,
prima infiammò gli animi, descrivendo le tristi condizioni di
vita, le sofferenze, le umiliazioni e le torture alle quali erano
sottoposti i cristiani d’oriente da parte degli infedeli; poi con
toni ancor più drammatici calcò l’accento sulle profanazioni a
cui erano quotidianamente sottoposti i luoghi santi di
Gerusalemme, dove alcuni di essi erano stati deturpati,
trasformati in stalle o – quel che è peggio – in moschee. Ma
non era ancora tutto. Urbano II con toni ancora più violenti
rivolse i suoi strali contro i nobili che vivevano nella lussuria,
infrangevano quotidianamente le leggi di Dio e si
comportavano come briganti pronti anche ad assassinare i
propri fratelli per futili motivi. A questi ultimi offre la
possibilità di pentirsi e di riscattare i propri peccati: di andare
in Terra Santa a liberare il Santo Sepolcro dalle mani degli
infedeli.
“La cristianità occidentale si metta in marcia per soccorrere l’Oriente;
ricchi e poveri la smettano di trucidarsi a vicenda e combattano invece una
guerra giusta, compiendo l’opera di Dio; e Dio li avrebbe guidati. Chi fosse
morto in battaglia avrebbe ricevuto l’assoluzione e la remissione dei
peccati. Qui la vita è miserabile e malvagia, con uomini che si logorano fino
a rovinare i propri corpi e le proprie anime; qui essi sono poveri e infelici, là
sarebbero stati felici e ricchi e veri amici di Dio. Non doveva esservi
indugio: si preparassero a partire quando fosse giunta l’estate, con Dio per
loro guida”. (Runciman 1993:94)
L’appello di Urbano II riscosse un grande successo e venne
subito accolto con entusiasmo, non solo per le immancabili
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ricompense celesti o per i possibili vantaggi economici che
sarebbero derivati da tale impresa, ma, da parte dei sovrani,
anche per motivi di ordine sociale e, particolarmente in
Francia, dove le file della piccola nobiltà e dei cavalieri erano
affollate e inquiete.
“Per i sovrani e per la chiesa – rileva Markale -, questi guerrieri
turbolenti sono una vera e propria spina nel fianco. Ma ecco che viene loro
offerta la possibilità di soddisfare appetiti e bellicosi entusiasmi: potranno
acquisire ricchezze e nuove terre e stabilirsi in regioni che diverranno di
loro proprietà. Non solo, ma anziché scontrarsi con la giustizia regale ed
incorrere nella riprovazione della chiesa, sono assolti in anticipo e sono
sicuri di ottenere il paradiso. Un sistema che sarà utilizzato più volte nel
corso della storia: quando un insieme di individui diventa troppo
ingombrante e minaccia una nazione dall’interno, lo si manda all’esterno. Il
vantaggio è duplice: lo Stato può guadagnare nuovi territori e gli uomini
mandati altrove, che sopravvivano o che muoiano, di solito non ritornano.
Che liberazione!”(Markale: 67).
Ma, quali che siano le motivazioni, l’appello di Clermont,
rivolto in una atmosfera quasi soprannaturale e rivestito di
sacralità, come abbiamo detto, suscita immediatamente
reazioni entusiaste. Vi aderirono i più bei nomi
dell’aristocrazia europea fra cui Raimondo di Tolosa, Goffredo
di Buglione, Roberto II di Fiandra, il duca di Normandia, il
conte di Boulogne, il conte di Blois e il normanno Boemondo,
principe di Taranto. All’appello, oltre alla Spagna e all’Italia,
che potrebbe sembrare anche normale, risposero anche paesi
lontani come la Scozia e la Danimarca. Persino la Repubblica
di Genova offrì il suo contributo mettendo a disposizione del
Pontefice dodici galee e una nave da trasporto. Ma quel che fu
più strano, e che meravigliò lo stesso Urbano II, fu la risposta
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plebiscitaria da parte degli strati più poveri della società
europea, grazie anche all’incessante opera di predicazione,
svolta da monaci dotati di grande carisma, come, ad esempio,
Pietro l’eremita, venerato come un santo, tanto che la gente al
suo passaggio strappava i peli del suo mulo come se fossero
una reliquia. Si calcola che circa quindicimila persone, sia
uomini che donne, abbandonarono case e famiglie in un clima
di esaltazione per adempiere un preciso dovere religioso:
quello di restituire la Terra Santa alla cristianità prima
dell’avvento del Messia. A piedi, questa folla invasata, male
armata e indisciplinata, composta da cadetti senza speranze,
contadini, cittadini di dubbia moralità e briganti, alcuni anche
con moglie e figli, si mise in marcia e, attraversando le valli del
Reno e del Danubio, giunse ancor prima del previsto alle porte
di Costantinopoli. Lungo il tragitto questa armata di pezzenti
non esitò a spargere il terrore nelle comunità ebraiche che
incontrava lungo il suo cammino, trucidando, senza distinzione
alcuna, uomini, donne, bambini e anziani. Gli ebrei, in quanto
assassini di Gesù, vennero messi sullo stesso piani degli
infedeli islamici. Ma, nello stesso tempo, malgrado l’afflato
religioso di cui questi soldati di Cristo erano pervasi, non
disdegnarono, quando se ne presentava l’occasione, di uccidere
contadini cristiani e successivamente anche gli stessi cittadini
di Bisanzio, loro naturali alleati. I sovrani di cui attraversano il
territorio cercano di farli passare il più velocemente possibile e,
a volte, non esitavano a schierare contro i loro eserciti per
ridurli a più miti consigli. Finalmente, in maniera del tutto
fortuita e in un clima di grande esaltazione e di delirio
religioso, il 13 luglio del 1099 l’armata cristiana riuscì a
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conquistare Gerusalemme. Jean Flori ricorda a questo
proposito un curioso aneddoto:
“Ed ecco che accadono cose soprannaturali: I crociati hanno le visioni, e
viene loro promessa la liberazione, a patto di aver fede. Un povero che fa
parte del seguito di Raimondo, Pietro Bartolomeo, afferma che prima che la
città fosse presa, gli sono apparsi più volte sant’Andrea, san Pietro e il
Cristo stesso. Un altro, di nome Stefano, racconta cose simili, con dovizia di
particolari. Ademaro resta un po’ scettico, ma Bartolomeo insiste; afferma
che i santi gli hanno promesso una prova che dimostrerà la veridicità delle
sue parole: se si scaverà in un certo punto della cattedrale di san Pietro, si
troverà la Santa Lancia, quella che aprì il costato del Cristo in croce. Il 14
giugno 1098 si va a scavare e, a una certa profondità, viene effettivamente
trovata una lancia”. (.Flori 2003:43)
Rinasce, quindi, la speranza e la convinzione che i “santi
guerrieri” siano stati preceduti nell’estenuante battaglia per la
conquista della città santa dalle armate celesti. Ma, in ogni
caso, espugnata Gerusalemme, vengono fondati i regni latini
del medio Oriente: il regno di Gerusalemme, il principato di
Antiochia, la contea di Edessa e quella di Tripoli. La corona
del regno di Gerusalemme fu offerta a Goffredo di Buglione,
ma questi rifiutò, accettando solamente il titolo di Advocatus
Sancti Sepulchri, poiché a suo dire nessun uomo avrebbe
potuto accettare una corona nella stessa città nella quale Cristo
ne aveva portato una di spine. Il titolo di re di Gerusalemme
sarà invece accettato da Baldovino I, fratello di Goffredo, dopo
la morte di quest’ultimo avvenuta il 18 luglio del 1101.
Esaudita la volontà di Dio con la presa di Gerusalemme,
molti crociati ritornarono in patria, delusi perché non si era
verificato il secondo avvento di Cristo, ma soprattutto perché
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tornavano a casa più poveri di prima con la sola consolazione
di avere in tasca qualche reliquia e l’orgoglio di avere
partecipato ad un evento epocale. A difendere i confini degli
Stati latini restano ben pochi crociati. Nel solo regno di
Gerusalemme, ad esempio, c’è una presenza di soli 300
cavalieri e 200 fanti. Un numero paurosamente esiguo, se si
considera che alcuni leader musulmani, superata la iniziale
disunione e le gelosie tra i vari califfi, cercano di ricompattare
il mondo islamico, rilanciando a loro volta il concetto di jihad
(guerra santa) contro gli invasori “franchi”, come
comunemente gli arabi chiamavano tutti i crociati. Nelle
moschee le prediche contro gi invasori europei, poiché
Gerusalemme viene considerato un luogo sacro per l’Islam,
sono all’ordine del giorno e nella martellante attività
propagandistica gli arabi si servono persino della saggistica e
della poesia.
Intanto gli europei, dopo la liberazione dei luoghi santi,
ignari delle difficoltà logistiche e materiali dei crociati,
vengono presi da una nuova passione: recarsi a pregare sul
sepolcro di Cristo. Il pellegrinaggio, però, non è scevro di
rischi. Le strade di accesso a Gerusalemme sono continuamente esposte ad agguati da parte di bande musulmane, che
non si limitano semplicemente a derubarli, ma anche a togliere
loro la vita. Il territorio compreso dai porti di sbarco in
Palestina a Gerusalemme si trasforma così in un campo di
battaglia permanente. È un problema al quale Baldovino I,
conte di Edessa e primo re di Gerusalemme, dopo la morte di
Goffredo di Buglione, non potrà dare soluzione. Le zone
24
occupate dai cristiani sono costantemente minacciate dai
musulmani e non ci sono truppe sufficienti per potere
proteggere anche i pellegrini. Non solo Baldovino lamenta la
carenza di uomini d’arme, ma deve anche preoccuparsi della
nuova strategia messa in atto dagli infedeli, i quali, spesso,
evitano il combattimento con i crociati per limitarsi ad
abbattere loro le cavalcature e costringerli ad un uso massiccio,
ma inefficace, delle loro frecce. I “franchi”, infatti, cominciano
a registrare grosse carenze nell’approvvigionamento, non solo
di viveri, ma anche di cavalli, senza i quali nelle desolate terre
arabe ogni forma di strategia militare è già persa in partenza.
Non solo, ma si avverte anche la necessità del rifornimento di
grossi quantitativi di legname, sia per costruire nuovi
marchingegni di guerra che delle semplice frecce. Fra l’altro
potere reperire sul luogo del legname non è un’impresa facile,
perché i musulmani, quando debbono abbandonare una città, si
preoccupano di bruciare tutto per evitare di lasciare ai crociati
legna da potere utilizzare. La stessa patata calda si ritroverà fra
le mani Baldovino II, succeduto al cugino nel 1118, in un
momento in cui sembra indebolirsi lo spirito della crociata,
mentre viceversa va aumentando la voglia di rivincita islamica.
È a questo punto che un piccolo nobile della Champagne,
Ugo de Payns, assieme ad altri otto cavalieri, si presenta al
patriarca di Gerusalemme, Garimond, e a Baldovino II,
dichiarando di voler vivere come monaci e di mettere la loro
spada al servizio della cristianità e, in particolare, almeno così
sostengono molti storici, di volere proteggere i pellegrini dalle
scorribande dei predoni islamici.
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“Nello stesso anno 1118 alcuni nobili cavalieri, pieni di devozione,
religiosi e timorosi di Dio, mettendosi a disposizione del signor patriarca
per servire Cristo, professarono di voler vivere per sempre secondo le regole
dei canonici, osservando la castità e l’obbedienza e rifiutando ogni
proprietà”. (Barber 2004:15)
Così scrive Guglielmo di Tiro, cancelliere e poi arcivescovo
di Gerusalemme, nella sua Historia rerum in partibus transmarinis gestarum; tuttavia, poiché era nato nel 1130, non poteva
conoscere la storia delle origini dell’Ordine del Tempio.
Guglielmo di Tiro, fra l’altro, non nutriva eccessiva simpatia
per i templari e se nella sua opera insiste sulla iniziale umiltà
dell’Ordine lo fa esclusivamente lo fa solamente per meglio
fare risaltare la superbia e l’orgoglio che i poveri soldati di
Cristo mostravano ai suoi giorni. Un secolo dopo, Jacques de
Vitry, vescovo di Acri, nella sua Historia orientalis torna
sull’argomento:
“Con voti solenni, pronunciati davanti al patriarca di Gerusalemme, si
impegnarono a difendere i pellegrini contro i briganti e i rapinatori, a
proteggere i cammini e servire come cavalieri il re sovrano. Fecero voto di
povertà, castità e obbedienza, come i canonici regolari”.
L’unica novità, rispetto alla testimonianza di Guglielmo di
Tiro, è che per la prima volta, almeno a livello ufficiale, si
parla dello scopo per cui si è istituito l’ordine monacoguerriero: quello di controllare le vie di pellegrinaggio in Terra
Santa. Ma il testo, come ben sappiamo, è stato scritto più di un
secolo dopo gli avvenimenti e, in realtà, non abbiamo alcuna
prova che de Payns e i suoi primi compagni avessero
effettivamente questo compito di sorveglianza. Fra l’altro, ed è
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una considerazione che fa riflettere, i vari articoli dello Statuto
dell’ordine non ne fanno alcun cenno ed è per lo meno strano
che sia de Payens che Bernardo di Chiaravalle si siano
dimenticati di chiarire quello che era lo scopo principale della
loro istituzione. Ma, ed è un fatto innegabile, i buchi neri
intorno all’Ordine Templare iniziano sin dalla sua nascita. Lo
rileva Martin Bauer quando si chiede:
“Perché non esistono scritti di cronisti contemporanei sulla fondazione
dell’ordine? Come potevano proteggere “nove poveri cavalieri” il cammino
dei pellegrini? Per quale motivo non compaiono per nulla i templari, anche
negli anni dal 1119 al 1126, nonostante Ugo di Payens e tutti gli altri
cavalieri fossero già presenti a Gerusalemme? Di che cosa si occupavano in
quel periodo? Perché non ci è giunta alcuna cronaca?” (M.Bauer 2005: 20)
Per la verità, esiste un altro testo che accenna alle origini dei
Templari, redatto nei primi decenni del secolo XIII, Chronique
d’Ernoul et de Bernard le Trésorier, che differisce nella forma
e nei contenuti – sostiene Demurger – dal testo di Guglielmo di
Tiro.
Quando i cristiani ebbero conquistato Gerusalemme – scrive Ernoul – un
numero significativo di cavalieri si consacrò al tempio del Sepolcro e molti
vi si consacrarono in seguito, giunti da ogni parte. Ed essi obbedivano al
priore del Sepolcro. Vi furono valorosi cavalieri tra i consacrati. Questi
discussero tra loro e dissero: “abbiamo lasciato le nostre terre e i nostri
amici e siamo venuti qui per innalzare e esaltare la legge di Dio. E ci siamo
fermati qui a bere e a mangiare e a sperperare senza far nulla. Non agiamo,
né compiamo gesta militari anche se ce n’è bisogno ovunque. E obbediamo
a un prete e non compiamo gesta militari. Discutiamo e eleggiamo uno di
noi Maestro, congedando il nostro priore, che ci condurrà in battaglia
quando sarà necessario”(cfr. Demurger 2007:37)
27
Ernoul non fa i nomi dei cavalieri che, intorno al 1104,
formavano la confraternita, sottoposta ai canonici del Santo
Sepolcro; ma è fuor di dubbio che di essa dovevano farne parte
Ugo de Payens, Goffredo di Saint-Omer e Andrea de
Montbard. In base a tale cronaca questi uomini, al servizio dei
canonici del Santo Sepolcro, (cfr. Cerrini 2008) vivevano
vicino agli ospedalieri e da questi ricevevano gli avanzi dei
loro pasti. In poche parole vivevano di elemosina. Non si sa
come trascorrevano il tempo, ma certamente non in maniera
esaltante, se dobbiamo dar credito ad una lettera scritta da Ugo
de Payens nella quale si mette in evidenza, nella fase iniziale,
lo stato di demotivazione e di pessimismo che albergava nel
cuore dei cavalieri per il fatto di dover lavorare umilmente per
gli altri, sconosciuti al resto del mondo cristiano e senza
nemmeno il beneficio delle preghiere del popolo cristiano.
Sta di fatto che, quando decisero di spezzare i vincoli che li
legavano ai canonici del Santo Sepolcro e all’Ospedale,
Baldovino II, i suoi dignitari e lo stesso patriarca mostrarono
una grande ammirazione nei confronti di questi nove cavalieri
che avevano rinunziato agli agi e ai privilegi del loro ceto di
appartenenza per sottoporsi ad una vita di stenti, di privazioni e
sofferenze per la gloria di Dio. Anzi la loro commozione arrivò
a tal punto che Baldovino II mise a disposizione dell’Ordine,
come alloggio, un’ala della sua reggia sul lato meridionale
della “spianata del Tempio”, nello stesso luogo dove un tempo
sorgeva il Tempio di Salomone. Fu per questo motivo che i
Pauperes commilitones Christi vennero più comunemente
chiamati milites Templi o Templarii Ma il palazzo regio per
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loro era troppo. La devozione cristiana e l’originaria umiltà di
cui erano inizialmente pervasi li spinse a occupare le stalle di
Salomone. In questo modo erano più vicini alle loro
cavalcature ed nello stesso tempo, dormendo sulla nuda terra,
avevano modo di mortificare l’orgoglio e la carne. È strano,
però, che Fulvio di Chartres, cronista di Baldovino, non scrisse
nulla in merito all’ingresso dei Templari nel palazzo reale, nel
quale sino a pochi giorni prima aveva abitato lui stesso. Ma
non è l’unica stranezza. In realtà, non si è nemmeno certi
dell’anno della loro istituzione. Guglielmo di Tiro parla del
1118, ma riferendoci al Concilio di Troyes del 13 gennaio del
1128, nel quale vennero codificate le regole dell’Ordine e
ufficialmente riconosciuto dalla chiesa, i cronisti registrano
l’evento nel nono anno dalla fondazione dell’ordine cavalleresco e, quindi, l’anno di nascita dovrebbe spostarsi al 1119.
Come se ciò non bastasse, dovremmo anche ricordare che in
quegli anni il calendario in vigore nella Francia del Nord
contava gli anni a partire dal 25 marzo, per cui, secondo questo
conteggio, nel gennaio del 1128 dovremmo già essere nel 1129
e, di conseguenza, la nascita ufficiale dei templari dovrebbe
spostarsi nel 1120. C’è addirittura chi sostiene che l’Ordine sia
stato fondato ancora prima del 1114, se bisogna dar credito ad
una lettera, inviata dal vescovo di Chartre al conte Ugo di
Champagne, che proprio in quell’anno si preparava a partire
per la Terra Santa. In questa lettera, infatti, c’è un punto
particolarmente interessante per l’argomento in oggetto,
perché, oltre ai soliti convenevoli, il vescovo aggiungeva:
29
“Abbiamo appreso che prima di partire per Gerusalemme avete fatto
voto di entrare nella “milice du Chist”, che desiderate arruolarvi in questo
esercito evangelico”(Baigent 2008:78)
La Milice du Christ” è il nome con il quale venivano
indicati i Templari e, certamente, non si può fare confusione
con i crociati, poiché – chiarisce opportunamente Baigen – il
vescovo passa poi a parlare del voto di castità che la decisione
comportava. E difficilmente un voto del genere poteva venire
richiesto a un comune crociato.
Ma il dubbio sull’anno di nascita dell’ordine è un problema
di poco conto, perché ancora più strane appaiono, come
vedremo, le modalità, le motivazioni della fondazione e i suoi
reali obiettivi.
Le perplessità
Ufficialmente, come abbiamo visto, ad istituire l’ Ordine
monastico-guerriero fu Ugo de Payens, nobilottto della vecchia
contea di Champagne, assieme ad altri otto cavalieri, quasi tutti
nativi, tranne alcuni provenienti dalla Borgogna, della stessa
regione e feudatari del conte Ugo di Champagne. Ma c’è di
più. Ugo de Payens è in stretti rapporti di parentela con i
Montbard, famiglia alla quale apparteneva, per parte di madre,
il potente monaco cistercense Bernardo di Chiaravalle. Come
se ciò non bastasse, tra i membri dell’Ordine figura anche
30
Andrea di Montbard, zio dello stesso monaco. Una
costatazione quest’ultima che fa riflettere, tanto che
opportunamente Bauer scrive che:
“L’Ordine dei templari appare, dunque, sin dall’inizio come un’impresa
provinciale, quasi familiare. Si forma un circolo di cospiratori che
rappresenta un’unione ideale per proteggere eventuali segreti”. (Bauer
2005: 40)
Non meno emblematica appare la posizione di Bernardo di
Chiaravalle, detto il Doctor mellifluus (l’uomo la cui parola
scivola come il miele), uomo di grande magnetismo, il cui
atteggiamento fa sorgere non poche perplessità. In un primo
momento il monaco cistercense mostrava di disprezzare la
cavalleria del suo tempo, considerandola frivola, rammollita,
senza fede e priva di valori e di ideali. La definiva “malizia”,
cioè vera e propria peste della società. Bernardo era contro la
violenza e lo spargimento di sangue. Poi, come per
illuminazione divina, si registra in lui una inversione di rotta a
trecentosessanta gradi, trasformandosi nel teorico della guerra
santa. Nel 1130 pubblica, addirittura, la Lode della nuova
milizia, spianando ancora una volta la strada verso la
legittimizzazione del nuovo ordine cavalleresco. Nel 1130
Bernardo, abilissimo oratore e di grande capacità di
persuasione, godeva già di indiscusso prestigio nel mondo della
chiesa. L’elezione a papa di Innocenzo II e , successivamente,
di Eugenio III scaturì dalla sua volontà; di questi ultimi fu abile
consigliere e ne influenzò le scelte. “Per quaranta anni, CiteauxChiaravalle fu il centro spirituale dell’Europa e San Bernardo annoverò, tra
i suoi ex monaci, il papa, l’arcivescovo
31
di York e vescovi e cardinali
in abbondanza”. (Read 2009: 98) Se non divenne papa, la causa è
da ricercare, molto probabilmente, nel fatto che il trono di san
Pietro non gli interessava. Evento più unico che raro, fu
innalzato agli onori dell’altare ad appena 21 anni dopo la sua
morte. Senza la benedizione e la protezione di Bernardo,
quindi, l’Ordine dei Templari difficilmente sarebbe stato
accolto nell’ambito della cristianità, poiché quanto egli scrisse
e disse a loro favore non era per quei tempi impresa di poco
conto. Un ordine monaco-guerriero costituiva, infatti, per la
mentalità religiosa del tempo qualcosa di scandaloso. Chi
faceva parte del clero non poteva macchiarsi le mani di sangue.
Per i ministri di Dio la sola idea di uccidere, non solo
ripugnava, ma veniva rigettata. Ad un uomo consacrato a Dio
non era permesso di spargere sangue, né tantomeno di darsi al
saccheggio. I Templari, quindi, al loro primo apparire crearono
un certo imbarazzo per quanto concerne una delle distinzioni
fondamentali della società medievale.
“I riformatori della Chiesa avevano deciso di impedire agli uomini le cui
mani si fossero macchiate di sangue di toccare gli oggetti sacri. Anche nel
caso di nobili cavalieri che si pentissero e che in età matura si votassero alla
vita monastica, quelli che erano vissuti nel monastero sin dall’infanzia
erano spesso riluttanti a riservare loro una buona accoglienza. La nostra
concezione moderna, influenzata dall’idealistico lustro conferito alla
cavalleria dai romantici, vede un’armonia tra spada e altare: nulla potrebbe
essere più lontano dalla realtà medievale. La Chiesa non voleva avere a che
fare con degli indesiderabili di tal fatta, sempre pronti a infrangere ogni
legge, in particolare quella sul matrimonio. Fino ad allora la cavalleria era
per molti aspetti considerata un affare illecito in cui il clero non doveva
immischiarsi”(Partner 1993: 7-10)
32
L’Ordine dei Templari nacque così, inizialmente, in un
clima di diffidenza e di sospetto. Nel tentativo di legittimarne
la nascita, dunque, in considerazione della mentalità del tempo,
secondo la quale gli uomini votati allo spargimento di sangue
non avrebbero potuto prendere gli ordini sacri, fu un compito
arduo per san Bernardo legittimarne la nascita. Ma, come al
solito, affrontò l’argomento con molta disinvoltura.
“In verità – scrisse – i cavalieri di Cristo combattono le battaglie del loro
Signore senza correre rischi, senza in alcun modo sentire di aver peccato
nell’uccidere il nemico, non temendo il pericolo della loro stessa morte
visto che sia dare la morte, sia il morire quando sono fatti in nome di Cristo
non sono per nulla atti criminosi, ma addirittura meritano una gloriosa
ricompensa… il soldato di Cristo uccide sentendosi sicuro: muore
sentendosi ancora più sicuro. Non per nulla egli porta la spada! Egli è lo
strumento di Dio per la punizione dei malfattori e per la difesa dei giusti
Invero, quando egli uccide un malfattore non commette omicidio, ma
malificio, e può essere considerato il carnefice autorizzato da Cristo contro i
malvagi”. (Ivi: 10-11)
Nel 1124 Bernardo si era addirittura opposto alla richiesta di
Arnoldo, abate cistercense di Morimondo di fondare un monastero in
Terra Santa. “Se, come ci è stato riferito – scrive al pontefice – egli
dice di voler diffondere le osservanze del nostro ordine in quella
terra, e per tale ragione intende condurre con sé una moltitudine di
frati, come non comprendere che in realtà necessitano cavalieri in
grado di combattere e non monaco salmodianti”. (.Barber 2004: 22)
In maniera ancora più radicale, san Bernardo sosteneva che
era meglio che i miscredenti venissero uccisi, piuttosto che
potessero far deviare dalla retta via i veri credenti, inquinando
così la loro fede. E all’obiezione che un cristiano non debba in
33
alcun modo uccidere, così rispondeva: “E allora? Se al cristiano non
fosse consentito l’uso della spada in alcuna circostanza, perché mai, allora,
Giovanni Battista raccomandò ai soldati di accontentarsi della propria paga?
Perché, piuttosto,non proibì loro ogni forma di servizio militare?”(Ivi:.10)
Secondo la tradizione, nel corso del Concilio di Troyes il
compito di stendere le regole dell’Ordine dei Templari fu
affidato a san Bernardo. Altri,viceversa, sostengono che
l’autore fu Ugo di Payens e che, tutt’al più, Bernardo di
Clairvaux si sarebbe limitato a curarne i dettagli. È vero che
durante il processo molti cavalieri sostennero che le Regole
erano frutto della penna del monaco cistercense, ma è pur vero
che in quel momento particolarmente delicato, attribuirgliele
significa rivestire l’Ordine di una aureola di santità e di
autorevolezza, che il processo stesso minacciava di distruggere.
Che cosa, dunque, spinse Bernardo a gettare alle ortiche le sue
convinzioni e a proteggere in maniera sfacciatamente di parte il
neo ordine monastico-guerriero? Fra le tanti ipotesi, ma anche
qui è difficile dare una risposta. pensare, come qualcuno
sostiene, che con tale atteggiamento abbia voluto manifestare
la propria riconoscenza a Ugo di Champagne, che pochi anni
prima aveva donato ai cistercensi un vasto appezzamento di
terreno a Clairvaux per la costruzione di un monastero,
imponendo di dare la nomina ad abate allo stesso Bernardo,
appare poco convincente. In realtà, Bernardo appare sin
dall’inizio troppo compromesso con l’Ordine Templare, a tal
punto da non potere escludere che facesse parte integrante del
progetto socio-politico-religioso dei poveri cavalieri di Cristo.
Sarà una ulteriore coincidenza, ma nel 1113 il monastero di
Citeaux rischiava di chiudere i battenti sia per mancanza di
34
introiti che di monaci. Proprio in quell’anno si presentò
all’abate Stefano Harding il giovane Bernardo, assieme a una
trentina di parenti, chiedendo l’ammissione al monastero come
novizi per lui e i suoi compagni. È da quel momento che
l’ordine cistercense, in maniera miracolosa, rinasce a nuova
vita, tanto che “alla fine del secolo ci sarebbero state dodicimila
comunità affiliate a Citeaux in tutta Europa”. (Read 2009: 96)
Il secondo personaggio enigmatico nella storia dei Templari
è proprio il conte Ugo di Champagne, da molti considerato il
vero capo dell’Ordine. Secondo alcuni storici della regione
francese, nel 1104 partì per la Terra Santa, dove rimase per ben
quattro anni. Non si sa che cosa fece, ne il motivo per cui
rimase così a lungo in Outremer. Al suo ritorno si incontrò più
volte e a lungo con Stefano Harding, l’abate di Citeaux, che
assieme all’abate di Fontigny, Ugo di Macon, partecipò al
concilio di Troyes, attestando così l’alleanza di ferro fra
l’ordine cistercense e quello templare. Contemporaneamente,
sempre alla sua corte, ebbero inizio sempre più assiduamente
lunghe riunioni con i rappresentanti di alcune delle più
prestigiose famiglie della contea, fra cui Ugo de Payens e
André de Montbard, zio, come abbiamo già visto, di Bernardo
di Chiaravalle. Nel 1114, il conte Ugo fece ritorno in Terra
Santa, dove stavolta non si trattenne più di un anno. Al suo
rientro ripresero gli incontri con l’abate di Citeaux e con i suoi
vassalli più fedeli.
Sarà una coincidenza, ma proprio in questo periodo l’ordine
dei cistercensi, “prima del 1112 paurosamente vicino alla
bancarotta”, (Baigent 2008: 82) conobbe un periodo di grande
35
splendore e di espansione. Nel 1153, nel giro, quindi, di una
quarantina di anni, furono, infatti, istituite poco più di 300
abbazie e, di queste, 69 dal solo san Bernardo. Sarà sempre una
coincidenza (il ripetersi di più coincidenze trasformano spesso i
sospetti in certezze), ma nello stesso periodo in cui il conte di
Champagne e l’abate Harding (proclamato santo pochi anni
dopo la sua morte), cominciarono a frequentarsi assiduamente,
i monaci cistercensi iniziarono a specializzarsi nello studio di
antichi testi sacri ebraici, così come non è da sottovalutare il
fatto che già dal 1070 alla corte dello stesso conte era fiorita
una rinomata scuola di studi cabalistici ed esoterici. È in questo
clima che nasce l’Ordine dei Templari, che, a sua volta, nel
giro di pochi anni, acquistò un immenso potere e grandi
ricchezze. È fuor di dubbio, infatti, che il conte di Champagne
abbia giuocato in tutta questa vicenda un ruolo di primo piano,
tanto che oggi si ha la certezza, più che il sospetto, che egli sia
stato l’ideatore, il principale finanziatore e il primo vero capo
dell’Ordine Templare. Per inciso, va ricordato che nel 1126 il
conte Ugo di Champagne, accusando la moglie di adulterio e
non riconoscendo il figlio avuto da quest’ultima, lasciò il titolo
e i suoi beni al nipote Teobaldo ed entrò ufficialmente nelle file
dei Templari.
“Con questo gesto eclatante , il conte, divenuto impaziente, dichiarò di
sua iniziativa, terminata la fase di esperimento da parte dei cavalieri, e
impose una decisa accelerazione agli avvenimenti. È probabile che dopo
l’arrivo del conte iniziò un’opera di reclutamento e altri cavalieri si
aggiunsero al nucleo dei nove fondatori, ma certamente ai nuovi adepti
niente fu rivelato sulle vere finalità della confraternita. Si generò così il
dualismo fra un ristretto gruppo di membri consapevole di una segreta
36
missione da compiere e la gran parte dei cavalieri, del tutto ignara di essere
partecipi di un ampio progetto di cui la guerra all’infedele rappresentava
soltanto una parte”. (Lancianese 2006:71)
Fra l’altro questa scelta non manca di far nascere nuove
perplessità. È mai concepibile, infatti, che Ugo di Champagne,
uno dei primi signori del regno, abbia deciso di entrare in un
ordine militare, sottoponendosi gerarchicamente a un suo
vassallo? Certamente no e, opportunamente, Lancianese
ipotizza che “la mossa del conte di associarsi al Tempio
tendeva a porre fine al lungo esperimento per passare alla fase
operativa del progetto e raggiunse pienamente il suo
scopo…Anche l’analisi delle date induce a questa
considerazione dal momento che Ugo di Payns rientrò in
Europa nel 1127, poco dopo l’arrivo del conte in Oriente che,
al momento della sua partenza, probabilmente era ancora vivo.
Ugo era latore di lettere per l’abate Bernardo, oltre a essere
incaricato della delicata ambasceria di proporre a Folco
d’Angiò la mano di Melisenda, figlia maggiore di re
Baldovino, mentre Andrea de Monbart doveva recarsi a
consegnare altre missive indirizzate al papa”. (Ibidem)
In poche parole, molti indizi portano a ritenere che Ugo di
Champagne fosse“il grande vecchio”, la mente di un progetto
politico-sociale, di cui i Templari costituivano semplicemente
il braccio armato. Molti storici sono dell’idea che il conte Ugo
fosse entrato casualmente in possesso, nel corso della sua
permanenza in Terra Santa, di documenti riservati, che
indubbiamente richiedevano riscontri più concreti. Ma appare
molto più convincente la tesi che lo stesso conte fosse già in
37
possesso di informazioni riservate, tali da, se confortate da un
concreto riscontro, provocare un sisma di vasta portata
all’interno del cristianesimo. I suoi viaggi a Gerusalemme
avrebbero avuto, dunque, un carattere più esplorativo che altro.
Ma come ne era entrato in possesso il conte Ugo?
Probabilmente, la risposta che mi sembra più plausibile, è nel
clima che si venne a determinare a Gerusalemme nel 135, dopo
la seconda guerra giudaica, che culminò con la distruzione
della stessa città. da parte dei romani. L’odio accumulato da
questi ultimi contro gli ebrei fu tale che alcuni storici non
hanno esitato a parlare di una vera e propria guerra di
sterminio, nel corso della quale l’unica logica condivisa era
quella di annientare, sterminare e sradicare i ribelli.
“Agli ebrei, che alla fine della sommossa contarono ben 585.000 vittime
– scrive Calimani -, fu persino proibito di mettere piede a Gerusalemme o di
guardare con nostalgia da lontano le sue rovine” (Calimani, 2001: 105)
L’anno 135 e.v. segnò, dunque, un punto di non ritorno ed è
da questa data che ebbe inizio la vera, grande diaspora del
popolo ebraico. Molti ricchi mercanti giudei, che già
possedevano depositi e case in Provenza, preferirono
abbandonare la loro terra d’origine e trasferirsi in una regione
meno sottoposta all’asfissiante controllo delle legioni romane.
In maniera similare, a Trapani nel 1492, dopo l’editto di
espulsione, molti ebrei per evitare ulteriori persecuzioni si
convertirono fittiziamente al cristianesimo e, assumendo nel
battesimo il nome del padrino cristiano e a cambiare nome per
nascondere le proprie origini, riuscirono a confondersi, così, fra
le pieghe del tessuto sociale e a occultare la loro provenienza
38
giudaica. Nell’intimità delle loro case continuarono a coltivare
i loro rituali ebraici e, sicuramente, da padre in figlio si
trasmisero conoscenze e segreti con l’indicazione dei luoghi
dove tale documentazione si presumeva fosse stata nascosta.
All’inizio dell’anno 1000, non si sa per quale motivo, si ritenne
che i tempi fossero maturi per potere portare alla luce quello
che era stato seppellito e nascosto nei tunnel delle stalle di
Salomone. Alla realizzazione di questo progetto si opponeva il
controllo musulmano di Gerusalemme, Bisognava, quindi,
liberare la città dagli infedeli per potere avere la libertà di
scavare senza dover rendere conto ad alcuno. L’idea, fra l’altro,
non era del tutto ignota al Vaticano se già nell’anno 1000
“papa Silvestro II (il famoso monaco Gerberto d’Aurillac)
avrebbe lasciato intendere, in una lettera, di sperare che la
Francia riconquistasse i Luoghi Santi perché vi si potrebbero
cercare le chiavi della Conoscenza Universale, che lì si
trovavano. L’autenticità della missiva non è mai stata provata,
ma l’idea non era nuova: da molto tempo in alcuni ambienti
dell’Occidente si riteneva che il Tempio di Salomone, costruito
secondo formule ben precise che obbedivano a leggi occulte,
nascondesse segreti terribili e straordinari”. (Markale 2003:83)
È, evidentemente, una ipotesi che aprirebbe nuovi scenari e
che ci porterebbe a rinterrogarci sulle vere motivazioni delle
crociate, che, facendo leva sul sentimento religioso dei principi
e del popolo, cementò in maniera alquanto nebulosa un
rapporto di alleanza fra un’associazione segreta e un gruppo di
potere all’interno della chiesa; così, mentre la gerarchia
vaticana si illuse di potersene servire per rafforzare il suo
39
progetto di dominio teocratico; la seconda seppe abilmente
mascherare nella fase iniziale i suoi veri obiettivi, pienamente
consapevole di dovere ricorrere alla benedizione della chiesa
per potere essere accettata dalla cristianità, ma pronta a
prendere le distanze da questa stessa, nella sostanza ma non
formalmente, nel momento in cui a Gerusalemme fosse venuta
in possesso di reperti o documenti, tali da ricattare il Vaticano.
Ritornando alle notizie ufficiali che si hanno sui templari,
sembra che questi ultimi nei primi nove anni della loro
esistenza, anziché proteggere i pellegrini lungo le vie che
conducevano a Gerusalemme – e d’altra parte come potevano
svolgere questo compito essendo appena in nove – abbiano
passato la maggior parte delle loro giornate a scavare gallerie
in quelle che un tempo furono le stalle di Salomone.
Quest’ultimo, infatti, non si limitò a costruire il suo tempio in
superficie, ma parallelamente anche sottoterra si realizzarono
opere imponenti. Questi scavi nel secondo secolo a.C. sembra
che avessero raggiunto una considerevole ampiezza. Aristeas,
un viaggiatore egiziano sostiene d’avere visto meravigliose e
indescrivibili cisterne sotterranee intorno alla zona del Tempio
con numerose condutture. (cfr. Lettera di Aristea,83, in The
Apocrypha and Pseudepigrapha of the old Testament, 1913 )
Queste enormi opere idrauliche – scrive Keith Laider – erano necessarie
per rifornire d’acqua la città di Gerusalemme. Ma una perizia negli scavi
sotterranei si sarebbe dimostrata utile anche per risorse diverse dall’acqua.
Gallerie e cripte sotterranee avrebbero offerto un rifugio sicuro ai tesori più
importanti del Tempio durante gli assedi: e se gli accessi erano ben nascosti,
il loro contenuto poteva rimanere al sicuro anche se il Tempio fosse stato
invaso e occupato. Come abbiamo visto, questo accadde più volte ai diversi
40
templi. Quasi sempre gli ebrei riuscirono a riconquistare Gerusalemme e
rioccupare il Tempio in un tempo relativamente breve, ma questo non fu
possibile durante la distruzione finale del Tempio di Erode. In quella
occasione gli ebrei vennero dispersi dalle legioni romane in tutto il mondo
conosciuto”(Laider 2005: 90)
I Templari, dunque, cercavano qualcosa e, evidentemente,
sapevano che cosa cercare e dove cercare. Sta di fatto che nel
1127, Ugo de Payns, assieme ad alcuni cavalieri, ritorna in
Europa per un giro, diremmo oggi, promozionale. Anche se ,
ufficialmente il suo ritorno in Francia ha un carattere
prettamente diplomatico: quello di convincere Folco d’Angiò,
su incarico di Baldovino II. a sposare la figlia di quest’ultimo,
Melisensa, con il vantaggio di potere un giorno ereditare il
trono di Gerusalemme. Compito che de Payens svolgerà
egregiamente, ma quello che gli preme di più è chiedere
udienza, in Vaticano. Nessun documento attesta lo scambio di
vedute con i vertici della chiesa, ma sta di fatto che da quel
momento le sorti dell’Ordine cambiano di 360 gradi. Più che
scambio di vedute, si ha la netta sensazione che il Sommo
Pontefice sia stato sottoposto ad un vero e proprio ricatto.
Dopo anni di ricerche, di scavi e di reticoli di gallerie aperte
nelle stalle di Salomone, i Templari devono avere trovato
documenti o prove tali da consentire loro di ricattare la chiesa.
Non può esserci un’altra spiegazione, poiché i privilegi
accordati a questi ultimi dai papi non trovano altri riscontri o
precedenti nella millenaria storia pontificia. In primo luogo la
convocazione di un Concilio per il 13 gennaio 1128 (o 1129) a
Troyes, a pochi chilometri di distanza da Payns, per
ufficializzare la nascita dell’Ordine Templare. E questo già di
41
per sé è un avvenimento più unico che raro nella storia della
Chiesa. Ma, fa notare Lancianese, che indirettamente si
affermava che il Concilio “costituiva non già il momento
istitutivo, ma quello del riconoscimento ufficiale. Può sembrare
un dettaglio insignificante, ma fu invece un modo assai abile
per affermare l’estraneità della Chiesa all’iniziativa
circoscrivendone il ruolo alla semplice presa d’atto di una
realtà verso la quale, dopo nove anni, non esistevano motivi per
negare la paterna benedizione e l’approvazione della Santa
Sede”(Lancianese 2006: 72-73). Al Concilio di Troyes, dove guarda
caso tutto ebbe inizio, vi parteciparono il cardinale Mattia di
Albano, come legato del Papa, due arcivescovi, numerosi abati,
in maggior parte cistercensi, e nobili laici della regione.
Naturalmente non mancarono Stefano Harding e Bernardo di
Chiaravalle; quest’ultimo, anzi, da molti definito un vero e
proprio dittatore spirituale,diede la netta sensazione di avere
lavorato a lungo perché tutto filasse liscio e non si
frapponessero ostacoli all’approvazione del nascente ordine
monaco-guerriero. Insomma, si può dire senza troppo esagerare
che Bernardo organizzò a Troyes quasi una rete di consensi
perché quel progetto che ormai condivideva del tutto potesse
andare a buon fine. Il fatto strano è che neppure a Troyes
vennero fuori notizie più dettagliate e precise sulle origini,
sulle motivazioni e sulle circostanze che portarono nove
cavalieri a dare vita a un ordine militare che per duecento anni,
sotto tutti gli aspetti, svolse un ruolo di primo piano nel campo
politico, finanziario, sociale e militare.
42
“Solo una volontà e una strategia precise – aggiunge Lancianese –
possono giustificare la riservatezza sempre tenuta dai Templari, su questo
periodo iniziale dell’ordine. Gli unici riferimenti a nostra disposizione sono
quelli che non è stato proprio impossibile evitare. In un atto notarile stilato
nel 1129 troviamo l’indicazione dei nove anni della fondazione dell’ordine
come indicato anche nella regola ed è quindi evidente che sono gli stessi
templari a fornire questa datazione. Lasciare nell’ombra i tempi, i modi, le
ragioni e i personaggi della propria costituzione, evitando pure, nonostante
fosse abitudine diffusa, di nobilitare le proprie origini richiamandosi a
illustri predecessori che in qualche modo accreditassero l’idea di più antiche
radici, non può essere una circostanza casuale. I templari non manifestarono
alcun desiderio di nobilitarsi con riferimenti al passato, intesero farlo solo
con il loro comportamento futuro e si rifugiarono sin dall’inizio, in una
stretta segretezza. Solo la necessità di coprire personaggi di grande
rilevanza, che avrebbero avuto gravi danni dal palesare la loro
partecipazione al progetto, giustifica questo comportamento”. (Ivi: 73-74)
Un’ulteriore prova che i nove cavalieri, fondatori dell’ordine
del Tempio, fossero guidati da una gerarchia superiore
potrebbe essere costituita dalla considerazione che, subito dopo
il concilio di Troyes, Ugo de Payns, ritornando in Terrasanta,
lascia una embrionale gerarchia di dignitari nelle province di
diverse aree occidentali e, in particolare, in Francia e
Inghilterra. Come faceva Ugo de Payns a sapere che all’appello
del papa sovrani e principi occidentali avrebbero risposto con
tanta generosità di donazioni e concessioni? L’avere costituito,
quindi, un valido sistema di supporto logistico sul piano
organizzativo, lascia evidentemente presupporre che tutto fosse
stato pianificato anzitempo da una direzione superiore ai
Templari stessi.
43
Le stesse regole dei Templari, formate in tutto da 72
paragrafi, non chiariscono, al di là del mero impegno in
Terrasanta, gli scopi e le finalità future dell’Ordine. In questo
silenzio, Bauer (2005:31) ha voluto scorgere le prove che
l’istituzione dell’ordine non era altro che una facciata per
potere liberamente e segretamente perseguire i propri obiettivi.
Ma, sotto questo punto di vista, il silenzio delle Regole non ci
sono di alcun conforto. I 72 precetti danno solamente
normative di comportamento religioso e disciplinare e, tutt’al
più, ma sempre da un punto di vista religioso, danno un’idea
della capacità dialettica di Bernardo di Chiaravalle nel tentativo
di dovere giustificare la figura del monaco associata a quella
del guerriero e, quindi, giustificato, in nome di Dio, a spargere
sangue e ad uccidere. Lancianese ha opportunamente
evidenziato questo punto, rilevando che quando Bernardo nella
parte introduttiva della Regola ha scritto che “Dio ha operato il
bene tramite noi”, oppure che “Bene ha operato Dio con noi”,
il significato cambia a seconda dell’interpretazione che gli
viene data.
“Nella prima interpretazione può intendersi che i cavalieri, o i presenti
al concilio, sono strumenti della volontà di Dio, che per loro tramite sta
approntando il mezzo per il trionfo del bene sul male. Nel secondo caso,
Dio viene completamente associato all’operato dei cavalieri e dei convenuti
al concilio e quindi coinvolto nell’iniziativa come diretto protagonista. Sia
pure in modo diverso, sia l’una che l’altra interpretazione ci fanno capire
quale autorità morale venisse conferita a questo sconosciuto gruppo di
cavalieri e quanto la Chiesa confidasse nella loro capacità operativa”
(Lancianese 2006:76)
44
La regola, altresì, dovendosi adeguare ai tempi e alle
esigenze dell’evoluzione dell’Ordine fu notevolmente ampliata,
tanto che nel 1260 comprendeva già ben 686 paragrafi,
comprendenti anche disposizioni ed istruzioni di tipo militare.
L’assoluto divieto, dunque, ai confratelli di conservarne
personalmente una copia o di parlare all’esterno dei contenuti
di essa o, peggio ancora, di farne circolare una copia nel
mondo profano, più che una prova di chissà quali occulti
segreti contenesse, può benissimo stare a significare la volontà
di non consentire a potenziali nemici abitudini e strategie
comportamentali dei Templari e, in special modo, quelle
militari. Della Regola, infine, si hanno due versioni: quella
latina e, poi, molto probabilmente verso la fine del secolo XII,
quella francese. Ufficialmente la traduzione fu resa necessaria
perché la maggior parte dei cavalieri, per lo più ignoranti , non
conosceva il latino. Ma nel confronto fra le due versioni, al di
là delle opinabili congetture sulla segretezza dei Templari
anche in riferimento alla Regola, l’aspetto più interessante è
costituito proprio dalla possibilità di cogliere, attraverso gli
anni, lo sviluppo e il consolidamento del processo di
laicizzazione avvenuto all’interno dell’Ordine e della perdita
dello slancio religioso e di quei valori cristiani, ispirati al sano
principio della giusta misura.
Oltre al riconoscimento, l’Ordine ottenne l’esenzione dal
controllo giurisdizionale e finanziario dei sovrani e dei vescovi.
Questi privilegi vennero rafforzati nel 1139 con la bolla papale
Omne datum optimum, in riconoscimento del sangue offerto
per la difesa della fede cristiana.. In poche parole, oltre alla
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totale autonomia dell’Ordine, che il papa poneva sotto il suo
totale controllo, ma in realtà solo sulla carta, “i poveri cavalieri
di Cristo” erano autorizzati a costruire proprie chiese e ad avere
propri sacerdoti non sottoposti all’autorità del vescovo, ma
solamente al Gran Maestro dell’Ordine. Naturalmente tali
privilegi suscitarono la protesta di sovrani, principi e vescovi, il
cui prestigio e gli introiti venivano così indeboliti. I Templari
agivano in maniera talmente autonoma, da ignorare persino
l’interdetto di alcuni vescovi nelle zone dove erano presenti.
Infatti, malgrado la sospensione di tutti i servizi religiosi, i preti
dell’Ordine amministravano regolarmente i sacramenti, dando
vita ad un vero e proprio crumiraggio ecclesiastico. Ma anche
in questo caso le lamentele servirono a ben poco, poiché i
pontefici che si succedettero nel tempo continuarono a
ratificare e a potenziare, a volte anche in maniera
incomprensibile, i privilegi accordati ai templari.
L’attività finanziaria
Dal Concilio di Troyes in poi, sovrani, feudatari, baroni e
anche gente comune fecero a gara con cospicue o minori
donazioni per sostenere il neo ordine monaco-guerriero.
Dapprima in forma minore, e per lo più castelli, ma con uno
scopo ben preciso ed egoistico: quello di coinvolgere i
Templari nella difesa dei propri territori, come accadde in
Spagna nella lotta contro i musulmani o in Terrasanta nelle
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frontiere della contea di Odessa, dove fu loro donato il castello
di Baghras ai confini con l’Armenia. Probabilmente per lo
stesso motivo Alfonso I di Aragona e Navarra lasciò in eredità
il suo regno ai cavalieri templari, agli Ospitalieri e ai canonici
del S. Sepolcro. Nessuno dei tre accettò l’eredità, ma i
Templari, per questa rinunzia, furono ricompensati dai legittimi
eredi “con la signoria su una mezza dozzina di fortezze, un
decimo delle entrate reali, l’esenzione da un buon numero di
tasse e la proprietà di un quinto di tutte le terre conquistate ai
Mori”. (Forey 1973: 10) Sin dall’inizio si creò attorno all’ordine
un alone di leggenda, dovuto alle notizie che cominciavano a
giungere dall’Oriente in merito al coraggio, sprezzo del
pericolo e imbattibilità nei campi di battaglia dei cavalieri del
Tempio. In verità la cavalleria templare costituiva sempre
l’avanguardia dell’esercito cristiano e ai suoi cavalieri era
proibito, pena l’espulsione, arrendersi di fronte al nemico
finché la battaglia era in corso. Nessuno poteva allontanarsi
dalla sua posizione senza il permesso del superiore nemmeno
se ferito e, anche in caso di evidente sconfitta, nessun cavaliere
doveva allontanarsi dal campo di battaglia fino a che era
esposto al nemico il gonfalone del Tempio.
“L’eccellenza militare dei cavalieri templari doveva essere evidente al
momento dello scontro: il prestigioso gonfalone bipartito di bianco e di
nero, sul significato del quale gli storici sono ancora incerti, era l’immagine
visibile dell’orgoglio religioso e militare dell’ordine. Non erano ammesse
deroghe a questo principio di eroismo spinto fino al sacrificio in nome di
una immagine morale del tempio che andava difesa a tutti costi; unico
rifugio, la solidarietà degli altri confratelli pronti a esporsi personalmente
per salvare un compagno…Le fonti mostrano che il Tempio durante il XII
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secolo era un corpo compatto e molto coeso, caratterizzato da una disciplina
ferrea, grazie alla quale si verificavano effettivamente episodi che
inducevano gli osservatori alla meraviglia, come nel 1188, quando Saladino
si preparava ad entrare nella città di Darbsàk presso Antiochia: un testimone
oculare vide i Templari della guarnigione tenere chiusa una breccia nelle
mura facendo scudo con il proprio corpo, immobili come una muraglia. Non
appena un cavaliere cadeva, subito un compagno prendeva il suo posto”
(Frale 2004: 61-62).
Il Tempio, è incontestabilmente quanto di meglio il medio
evo classico abbia prodotto in fatto di disciplina militare. Una
abilità, dunque, nel combattimento che non dovrebbe
eccessivamente meravigliarci. La classe aristocratica del tempo
dedicava la maggior parte del suo tempo alla caccia, alle
libagioni, ai banchetti e ai piaceri di Venere, dedicando di tanto
in tanto alcune ore all’esercizio della scherma. Se chiamati alla
guerra dai loro rispettivi sovrani, si limitavano a combattere
solamente in primavera e in estate, mentre nei restanti mesi si
acquartieravano, dedicandosi a tutt’altre incombenze. Tutt’altro
stile di vita per i Templari, i quali, tranne alcune ore dedicate
alla preghiera, si dedicavano all’esercizio delle armi, senza
soluzione di continuità, giorno dopo giorno per tutti i dodici
mesi dell’anno. Non appena la fama sulle gloriose azioni del
Templari, come dicevamo, cominciò a diffondersi in Europa,
sovrani e feudatari, sollecitati anche dai continui appelli dei
successori dell’apostolo Pietro sul soglio pontificio, fecero a
gara nel donare proprietà, feudi, castelli. Appezzamenti di
terreno di piccola e media estensione, donazioni in danaro o
lasciti testamentari per sostenere l’Ordine nella difesa della
Terrasanta. Non solo, ma molti cadetti tra le più illustri casate
d’Europa (in una prima fase solamente gli aristocratici
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potevano diventare cavalieri, dopo aver sostenuto un breve
periodo di noviziato) presero i voti del prestigioso ordine. Ma,
assieme alla richiesta di venire accolti nel tra i cavalieri del
Tempio, i giovani novizi dovevano anche portare una cospicua
dote in beni mobili o immobili, contribuendo così ad accrescere
la ricchezza dell’Ordine. Tra questi ultimi, naturalmente, non
c’era una motivazione solo religiosa, ma anche utilitaristica,
poiché,
“quando l’Ordine crebbe in potere e ricchezza, offrì una forma di
carriera simile a quella ecclesiastica. I maestri degli ordini militari
divennero quasi subito figure significative non solo in Siria o in Palestina,
ma in tutta l’Europa occidentale. I maestri provinciali e altri funzionari, con
enormi risorse a loro disposizione, divennero l’equivalente dei più alti Pari
del regno. La loro reputazione di onestà e buon giudizio li rese affidabili
consiglieri di papi e re”. (Read 2009: 110-111)
L’Italia, a differenza di altre nazioni europee, fu inizialmente tiepida nelle donazioni. Solo nel 1134 i templari
poterono istituire le loro prime commende a Milano e a
Ivrea.Poi seguirono a ruota donazioni a Treviso, Vercelli
Albenga, Reggio Emilia, Siena, nella Marca Anconitana, a
Spoleto, nelle Puglie e in Sardegna, sino a coprire l’intero
territorio italiano. “A partire dal 1140 i Templari si diffusero
anche in Sicilia, preoccupandosi di costituire basi logistiche nei
più importanti centri della costa jonica, dove sembra che
abbiano incontrato l’ostilità del clero locale: In aiuto dei
Templari intervenne Lucio II il quale indirizzò il 15 maggio del
1144 un appello agli arcivescovi, ai vescovi. Agli abati ed a
tutto il clero siciliano affinché si proteggessero con sussidi di
ogni specie i Templari ed esortassero con la parola e l’esempio
49
anche i ricchi laici a concorrere all’opera. Per meglio
raggiungere il suo scopo il papa assicurò speciali favori a
coloro che avessero beneficiato i Templari, minacciando nel
contempo pene a coloro che per gelosia o altro si fossero
mostrati ostili verso l’istituzione crociata”. (Bramato 1993: 52).
Anche in Sicilia l’appello fu accolto con entusiasmo e nel giro
di pochi anni tutta la costa siciliana era costellata di case
templari. Ma non mancarono ingenti donazioni di terre anche
all’interno dell’Isola. Nacquero così numerose commende e
precettorie a Messina, Palermo, Catania, Siracusa, Paternò,
Termini Imerese, Lentini, Modica,Piazza Armerina,
Caltanissetta, Trapani, Marsala, Mazara etc. In genere i
Templari preferivano istituire le loro precettorie nella zona del
porto e sulle strade d’accesso alla città per potere meglio
controllare merci e persone che uscivano dalle mura cittadine.
Oltre alla tecnica bancaria, gettarono le basi per l’istituzione di
un servizio d’informazioni di alto livello. Nelle fiere e nei
mercati cittadini erano soliti piazzare, travestito da
commerciante, un cavaliere con il compito di ascoltare con
finta indifferenza ciò che gli altri venditori o acquirenti
borbottavano tra loro. In un mercato, generalmente frequentato
da una folla variopinta, non era raro il caso di ascoltare uno
sfogo, una lamentela, una notizia riservata o una indiscrezione.
Le notizie più rilevanti e interessanti venivano presentate,
come in un normale rapporto di polizia, al capo della locale
precettoria o commenda.
Ma oggi non è impresa facile in Sicilia potere rintracciare
con certezza tutti i siti templari. Ciò è dovuto al fatto che dopo
50
la soppressione dell’ordine e l’affidamento in buona parte dei
suoi beni all’Ordine degli Ospedalieri, si è cercato nel tempo di
eliminare ogni testimonianza della loro presenza, cancellando
simboli e croci templari, presenti nelle mura delle chiese e in
ogni loro possedimento. Una forma di damnatio memoriae per
gli atroci crimini di cui vennero accusati? Sotto certi aspetti
potrebbe essere una valida motivazione, ma nella realtà fu
semplicemente un tentativo, da parte degli avvoltoi che si
gettarono sui beni templari, ottenendone la proprietà, per
cancellare ogni testimonianza dei legittimi proprietari, onde
evitare sgradevoli sorprese per il futuro, qualora,
disgraziatamente per loro, l’Ordine fosse stato riabilitato e
avesse preteso la restituzione di ciò che illegittimamente gli era
stato sequestrato. A Trapani, per esempio, l’unico sito templare
ufficialmente riconosciuto è quello dell’odierna chiesa di S.
Agostino. Anche qui, come altrove, ogni simbolo dell’Ordine è
scomparso. Ne siamo conoscenza, perché ne parla il Pugnatore
a cui nel 1590 i giurati della città affidarono l’incarico di
scrivere una “Historia di Trapani”; diversamente oggi senza la
sua testimonianza potremmo anche non esserne a conoscenza,
poiché, fra l’altro, l’Archivio di Stato di Trapani non possiede,
tranne pochi frammenti, alcuna documentazione completa, né
registri notarili prima del XV secolo. In realtà, potrebbe esserci
stata una seconda precettoria o un distaccamento nella odierna
chiesa della Madonna, mèta ancor oggi di pellegrinaggi e di
profonda venerazione da parte dei fedeli, che considerano,
malgrado il patrono della città sia S. Alberto, proprio la
Madonna la vera patrona della città. Numerosi elementi
contribuiscono a confortare questa ipotesi. Ma andiamoci per
51
ordine. Il fabbricato più antico della chiesa presenta una forma
circolare, sormontata da una cupola, con una serie di piccole
torri disposte simmetricamente ai lati, che ricorda in piccolo la
prima chiesa del Tempio di Parigi. All’esterno, porte e finestre
sono incorniciate dalla classica forma ad ostrica e le finte
colonne che circondano il fabbricato sono decorate con trecce o
da altri elementi decorativi dall’indiscutibile valore simbolico,
che, pur in un anelito di slancio verso l’alto, vedono fermata la
loro ascesa da una testa, oramai corrosa dal tempo, che li
sovrasta. All’interno, come se tutto ciò non bastasse, la chiesa,
oggi chiamata del “Pescatore”, è in stile gotico ed è questa
l’unica testimonianza gotica della città. Un altro elemento che
rafforzerebbe la tesi che la Chiesa della Madonna sia stata
originariamente una sede templare è proprio la sua ubicazione.
Nel Medioevo, infatti, tutti coloro che entravano ed uscivano
dalla città dovevano percorrere un sentiero, di circa tre
chilometri, che si snodava lungo la cosiddetta palude Cepea. Il
sentiero terminava proprio davanti alla Chiesa della Madonna
e, quindi, la postazione templare, come era suo costume, si
trovava in una posizione strategica ottimale per controllare
volti e mercanzie che entravano o uscivano dalla città. La
stessa leggenda intorno all’arrivo a Trapani della statua della
Madonna, a leggere bene fra le righe,costituirebbe un’ulteriore
conferma di questa tesi. Dopo la cacciata dei cristiani dalla
Terra Santa, un certo Guerreggio, cavaliere templare, per
evitare che il sacro simulacro potesse cadere nelle mani degli
infedeli, lo fece imbarcare su una nave dalla Siria per
trasportarlo a Pisa. Nel corso della navigazione una violenta
tempesta costrinse la nave a trovare rifugio nel porto di
52
Trapani. Per motivazioni che ci sfuggono e che sembrano fuori
da ogni logica, la statua venne sbarcata dalla nave e posta su di
un carro, trainato da buoi, per essere momentaneamente
deposita in una chiesa della città in attesa di riprendere il mare
per Pisa. Ma, inspiegabilmente, i buoi uscirono dalle mura
cittadine e, una volta giunti dinnanzi al santuario mariano, si
bloccarono e come muli testardi non ci fu potenza umana che li
potesse smuovere. Tale fatto, sempre secondo la leggenda,
venne inteso dal popolo e dallo stesso cavaliere templare,
Guerreggio, come espresso desiderio della Madonna di essere
collocata in quella piccola chiesa. (cfr. Spoto 2005: 144-145) Ma, al
di là della leggenda, è lecito chiederci: che senso aveva far
scendere la statua dalla nave se la sua destinazione era Pisa? Di
certo la nave templare, una volta al sicuro nel porto di Trapani,
non avrebbe dovuto far altro che aspettare che ritornasse la
bonaccia per riprendere il largo. Ma anche ammesso che per
motivi di sicurezza si fosse deciso di lasciare per un breve
periodo la statua in una chiesa di Trapani, non ha alcun senso
che i buoi, giunti dinnanzi all’attuale Santuario, abbiano deciso
di non andare più avanti, perché già siamo molto lontani dalle
mura della città e, oltre la piccola chiesa non c’è che l’aperta
campagna, fiancheggiata per lunghi tratti dall’ora estesissimo
bosco di “Arcudaci”. Là, dunque, doveva trovarsi una
precettoria templare e in questa precettoria, evidentemente,
doveva essere lasciata la statua.
53
La fabbrica più antica del Santuario della Madonna di
Trapani, probabile commenda templare
54
Cappella del Pescatore in stile gotico
(Santuario Madonna di Trapani)
55
Particolare della Cappella del Pescatore
56
Portale con simbologia templare
(Santuario della Madonna di Trapani)
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In ogni caso, di fronte all’improvvisa e, probabilmente,
inaspettata ricchezza che si offrì all’Ordine Templare (alla fine
del secolo XIII cifre approssimative danno per scontato che i
poveri cavalieri di Cristo possedessero circa novemila proprietà
per un valore di quattromila miliardi delle vecchie lire), i
vertici dell’ordine mostrarono di possedere una conoscenza
finanziaria di grande respiro, poiché seppero amministrare,
investire e capitalizzare in un modo, per i tempi, in cui tali fatti
si svolsero, certamente sorprendente. Vendettero terreni poco
produttivi e ne acquistarono altri per unificare proprietà
spezzettate. Coltivarono a livello estensivo frumento, segale,
orzo e avena, non trascurando la vitivinicoltura e l’allevamento
dei bovini, degli ovini e dei cavalli. Le casse dell’Ordine
venivano, poi, lautamente impinguate dalla riscossione di
pedaggi, uso dei forni e di mulini e dalle decime, fatto,
quest’ultimo, che causò spesso aspri conflitti con i vescovi del
luogo. Dalla proprietà e gestione di saline alla concia delle pelli
di montone, la loro attività imprenditoriale non sembrava
conoscere limiti. Si dotarono anche di una propria flotta di
diciassette navi per evitare di dovere sottomettersi ai pesanti
noli delle repubbliche marinare o dei mercantili privati, ma,
probabilmente, anche per evitare che all’esterno, gelosi custodi
della segretezza, qualcuno potesse venire a conoscenza dei loro
affari interni. È probabile che per questo motivo scelsero, come
loro principale base navale, il porto sull’Atlantico di La
Rochelle, a quel tempo poco conosciuto e utilizzato se non
dagli abitanti del villaggio, in buona parte pescatori. Infatti, a
tal proposito, rileva De Mahieu, “quello che ci sfugge è l’utilità
che può avere un porto che non conduce apparentemente da
58
nessuna parte, perché è troppo a sud della Gran Bretagna e
troppo a nord del Portogallo, con il quale, comunque, sono più
facili i collegamenti passando dai colli Pirenei, sorvegliati dalle
commende, che non attraverso il pericoloso Golfo di
Guascogna”. (De Mahieu 2005: 27) La scelta, malgrado le
apparenze, non avvenne a caso, perché dal porto di La Rochelle
partivano sette strade che coprivano tutta la Francia. Strade, in
buona parte, pattugliate dai Templari e che si rivelarono
particolarmente utili, quando, informati delle intenzioni di
Filippo il Bello, fecero confluire dal tempio di Parigi e dalle
altre commende di Francia, su dei carri ricoperti di fieno e
adeguatamente scortati, tesori e documenti da imbarcare sulla
loro flotta. In realtà, il porto di La Rochelle, era un controsenso
per le rotte commerciali del tempo, concentrate nell’area
mediterranea e verso i paesi medio-orientali. Ma non era un
controsenso per chi voleva mantenere una assoluta segretezza
sui propri movimenti e, soprattutto, su quello che si caricava e
scaricava. Indubbiamente, da un punto di vista pratico e per i
fini ufficiali dei Templari, sarebbe stato di gran lunga
conveniente scegliere come base della propria flotta un porto
qualsiasi della costa provenzale e Marsiglia in particolare, ma
in tal caso i loro movimenti sarebbero stati sotto gli occhi di
tutti. A questo punto dobbiamo abbandonare la storia ufficiale
per valutare la tesi, sostenuta da molti studiosi, che i Templari
avrebbero scoperto l’America alcuni secoli prima di Cristoforo
Colombo. Se ciò fosse vero, scegliere La Rochelle come base
navale della flotta templare avrebbe avuto di certo un senso.
Probabilmente i Templari approdarono lungo le coste
americane per un puro caso. In quel periodo, le navi non erano
59
fornite di strumentazioni scientifiche e, nel corso di una
tempesta, non era infrequente che i velieri venissero trasportati
fuori rotta per miglia e miglia. In una eventualità del genere
finire a ridosso delle coste americane, specialmente salpando
da un porto inglese o scozzese, non era un evento che dovrebbe
meravigliarci più di tanto. Fra l’altro, e questa non è fantasia,
ma storia, nel 1860 prima e nel 1929 poi, negli archivi del
museo Topkapi di Istanbul, furono trovate due mappe,
rispettivamente di Hadji Ahmed e di Piri RÈis. La prima, datata
1559, tratteggia le coste del Nord e del Sud America in maniera
quasi perfetta e, poiché a quel tempo non giravano cartine
geografiche dell’America, la sola spiegazione possibile è che
Hadji Ahmed abbia copiato la sua mappa da una più antica
carta nautica o da un mappamondo.
“Le sezioni più inquietanti – scrive Childress - sono però quelle dedicate
alla raffigurazione dell’Alaska e dell’Asia. Le curve delle isole Aleutine
sono tratteggiata bene, ma non c’è traccia dello Stretto di Bering, perché la
zona è terraferma. In altre parole, questa parte ci mostra la Terra così come
doveva essere 10.000 anni fa! Il ponte di Bering fra l’Asia e il Nord
America è disegnato in modo perfetto. Ancora a tutto il 1958, nel corso
dell’Anno Geofisico Internazionale, gli studi dei geologi e degli scienziati
avevano ampiamente dimostrato che fra i due continenti esisteva un saldo
collegamento costituito da una stretta striscia di terra ferma. Le
approfondite ricerche condotte in quello stesso anno non solo hanno
confermato tutto questo, ma hanno stabilito che non si trattava
semplicemente di una lingua di terra, bensì di una vasta zona di proporzioni
sub continentali, che comprendeva tutta la parte a settentrione della
curvilinea catena delle Aleutine e la singolare forma a manico di padella
dell’Alaska. Per farla breve, proprio quello che era tratteggiato nella mappa
di Hadji Ahmed”. (Childress 2004: 89-90)
60
La seconda mappa, datata 1519, di Piri RÈis, un pirata
islamico successivamente diventato ammiraglio della flotta
turca e di origini ebree, riporta la costa del Nuovo Mondo con
una cura a dir poco strabiliante, dove i continenti americani
sono raffigurati con incredibile accuratezza. “Niente di strano –
continua Childress – se non fosse stato che nel 1519 le
Americhe non erano ancora state esplorate, né, tantomeno,
costeggiate con una simile precisione. Gli europei stavano
appena aprendo la via dei Caraibi e Cortez, proprio in quello
stesso anno, sbarcava in Messico, mentre Pizarro non aveva
ancora devastato l’impero degli Incas. Quale avrebbe potuto,
dunque, essere la fonte primaria della mappa?”(Ivi,92)
Ovviamente tutto fa pensare che Piri RÈis ne sia entrato in
possesso grazie ai suoi contatti con le comunità ebraiche, che
lo hanno messo in condizione di studiare e copiare questa
preziosa mappa. C’è, infine, la “mappa del nord di Zeno”,
seguendo la quale Henry Sinclair, salpando nel 1398 dalla
Scozia, sarebbe arrivato in Groenlandia e successivamente
nella Nuova Scozia. Di questi viaggi pre-colombiani in
America, secondo alcuni studiosi, si potrebbero trovare
conferme su due testimonianze. La prima a Westford nel
Massachusetts, dove è stata trovata l’effige di un cavaliere
templare scolpita in una lapide di pietra; la seconda, invece,
proviene dalla Francia, dove è stata casualmente scoperto un
sigillo dell’Ordine del Tempio, raffigurante chiaramente un
amerindio.
“Questa volta, la prova – sostiene De Mahieu – che i Templari
conoscessero il continente che noi oggi chiamiamo America è definitiva.
61
Recentemente, negli Archivi nazionali, sono stati ritrovati dei sigilli
dell’Ordine, di cui si sono impadroniti gli uomini di Filippo il Bello nel
1307. Su uno di questi, apposto su un documento in cui un dignitario
sconosciuto dà ordini al Gran Maestro, si legge l’iscrizione SEGRETUM
TEMPLI. Al centro si vede un personaggio che può essere solo un
amerindio. Vestito con un semplice perizoma, porta un copricapo di piume,
come quelli che usano gli indigeni dell’America del Nord, del Messico e del
Brasile, o almeno di alcuni di loro, e tiene nella mano destra un arco”. (De
Mahieu 2005: 38-39)
Il sigillo - secondo Mahieu – non solo attesterebbe che i
templari conoscevano l’esistenza del “nuovo mondo”, ma
attraverso la lettura del documento su cui esso è apposto si ha
prova certa di una gerarchia superiore all’ordine Templare, che
agirebbe nella segretezza più assoluta. Questa tesi, condivisa da
molti studiosi, spiegherebbe in maniera ancora più chiara
l’enorme ricchezza accumulata dai Templari con lo
sfruttamento delle miniere d’oro e d’argento del Sud-America.
Nel Medioevo non c’era grande quantità di oro e argento in
circolazione, trovarne improvvisamente una grande quantità in
possesso dei Templari è certamente un argomento su cui vale la
pena riflettere. Su questa traccia, infine, non è da trascurare la
Cappella di Rosslyn, realizzata per volontà del conte William
St. Clair, a 16 chilometri circa di distanza da Edimburgo. Il
cantiere fu aperto nel 1446 e i lavori ultimati pochi anni prima
della scoperta dell’America. Quello che rende interessante
questa cappella non è tanto il trionfo e la ricchezza del
simbolismo templare e massonico, quanto la raffigurazione in
un bassorilievo di una pianta di granturco. Nessuno
evidentemente potrà dare una risposta a questa domanda, ma
porsela è legittimo: come mai poteva essere raffigurata una
62
pianta di granturco se l’America non era stata ancora scoperta?
Se dovessimo ritenere valide queste tre considerazioni per
potere anche presumere che i Templari scoprirono l’America
prima di Cristoforo Colombo si comprenderebbe meglio il
motivo per cui questi ultimi scelsero La Rochelle come base
navale della loro flotta. Da questo porto, infatti, poco
frequentato, i Templari potevano scaricare oro e argento senza
dare nell’occhio; soprattutto, distribuirlo nelle varie commende
e precettorie di tutto il territorio francese attraverso le famose
sette strade che a raggiera si partivano da La Rochelle e
attraversavano tutte le regioni della Francia nel più assoluto
riserbo. Ai Templari, inoltre si attribuisce la costruzione in stile
gotico di più di cento chiese, distribuite in tutto il territorio
francese. Lo stile gotico era praticamente sconosciuto nel
Medioevo, né si registra alcuna testimonianza architettonica
che ne avrebbe potuto in qualche modo preannunziare l’arrivo.
Come i templari siano entrati in possesso di questa nuova e
rivoluzionaria tecnica di costruzione rimane ancor oggi un
mistero. L’avvio contemporaneo di tanti cantieri sa
giustamente del miracoloso, poiché – rileva Charpentier – “è
certamente straordinario che sia stato possibile trovare tra la popolazione
francese, allora assai ridotta, un numero di maestri muratori, di muratori, di
scalpellini, di falegnami, di vetrai, sufficiente a intraprendere la costruzione
di quell’enorme numero di chiese laiche, per tali intendo le chiese destinate
al pubblico, che fu costruito in quel periodo”(2004: 148)
Ma questi
uomini, continua a chiedersi Charpentier, ai quali dobbiamo
pur aggiungere cavatori di pietre, manovali, addetti ai trasporti,
terrazzieri, acquaioli, scultori, vetrai e carbonai, bisognava pur
pagarli. Il popolo versava nell’indigenza più assoluta e re,
63
vescovi e feudatari al massimo si limitavano a donare qualche
altare o vetrata. “Doveva esserci un finanziatore. Tra i finanziatori,
l’unico così ricco da potere anticipare tanto denaro era il Tempio”. (Ivi:149)
Ma, ritornando sull’argomento della loro grande capacità
finanziaria, va anche precisato che le ricchezze accumulate non
servirono solamente a trasformare l’Ordine in una impresa
multinazionale, ma buona parte di esse furono spese per il
mantenimento degli stati latini d’oltremare. Il senso di
abnegazione, di sacrificio e la coscienza di rappresentare il
baluardo della cristianità nella lotta contro gli infedeli
rappresentavano i motivi principali nell’immaginazione
collettiva per cui nei confronti dei cavalieri del Tempio
piovvero tante donazioni. Sin dai primi anni della loro
istituzione divennero un mito e i Templari sapevano benissimo
che questo mito andava mantenuto, se non addirittura
accresciuto giorno dopo giorno. È un argomento che
opportunamente il Cardini tende a sottolineare:
“La ricchezza dell’Ordine, sulla quale si è poi favoleggiato, era
comunque rigorosamente finalizzata a uno scopo che il Tempio – troppo
spesso oggetto di calunnie – non dimenticò mai: la difesa della Terrasanta.
Dall’Europa partivano regolarmente verso il Levante guerrieri equipaggiati,
cavalli, armi, materiale bellico; fortezze guarnigioni si mantenevano con
una quota fissa, la responsio, pari a un terzo della produzione dei beni
dell’Ordine. (Cardini 2011: 62)
Ma ancora più strabiliante fu la loro attività bancaria. Ed
anche questo è un dato su cui occorrerebbe particolarmente
riflettere. Se consideriamo che nel Medioevo la classe
aristocratica considerava disdicevole dedicarsi, tranne l’uso
delle armi, ad ogni attività pratica e, in particolare, al maneggio
64
del denaro, l’inclusione dell’attività bancaria tra i molteplici
interessi dei Templari ha del sorprendente. Non solo si
rivelarono ottimi amministratori, ma gettarono le basi per
quella disciplina che tra qualche secolo prenderà il nome di
scienza e tecnica bancaria.
“Con le loro lettere di credito rivoluzionarono il trasferimento
internazionale di denaro, poiché ognuno poteva acquistare nella sede
dell’Ordine prescelta una lettera di credito e incassarla poi in un’altra filiale,
anche lontanissima. Per i viaggiatori ciò rappresentava l’inestimabile
vantaggio di non essere costretti a trascinare con sé il loro denaro, con il
pericolo costante di essere derubati. Poiché il flusso dei pagamenti spesso si
bilanciava (un viaggiatore paga in A e preleva in B, un altro versa in B e
preleva in A, l’Ordine doveva trasportare solo i soldi al netto delle
differenze tra i depositi nelle varie sedi”. (Bauer 2005: 81-82)
Oltre alla lettera di cambio, ogni cliente o risparmiatore
possedeva un codice cifrato che gli consentiva di potere
riscuotere il suo danaro in una qualsiasi commenda della
gigantesca rete di filiali dei Templari. Per questo servizio,
naturalmente, l’Ordine riscuoteva un tasso, (Baigent 1999: 110)
che variava in base all’ammontare dell’operazione effettuata.
“Ogni risparmiatore sapeva, con il cento per cento di sicurezza, che
avrebbe ricevuto il proprio denaro indietro qualora lo avesse richiesto. I
Templari coltivavano tale fama di irreprensibilità con un fervore simile a
quello delle banche odierne e davvero nel corso di tutta la storia dell’Ordine
non vi fu mai alcuna lamentela o accusa di aver imbrogliato anche uno solo
dei loro investitori”. (Bauer 2005: 81)
I bottini di guerra erano un’altra fonte di reddito. Una bolla
papale del 1139 li autorizzava al saccheggio e lo stesso Ugo de
Payns, ribadiva spesso ai Templari che
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“quando si impadronivano del bottino dei miscredenti compivano un
atto di giustizia, per via dei peccati dei miscredenti e anche perché si erano
meritati il bottino con la loro fatica: chi lavora si è guadagnato il proprio
salario.. Anche se quest’ultima può sembrare una ingenua scusa, riflette
comunque il fatto che i Templari dedicassero molto tempo ed energia al
saccheggio”(Partner 1993 : pag.10)
Dei beni trafugati nel corso del saccheggio ai cavalieri che
lo avevano effettuato non restava nulla. Tutto doveva essere
versato nella casse dell’Ordine. Ogni Templare non doveva
aver in tasca più di quattro denari. Se gli si fosse trovato anche
un solo denaro in più, avrebbe ricevuto dure ed esemplari
punizioni. A tutto questo bisogna aggiungere il commercio
delle reliquie, che nei bilanci dell’Ordine non costituì una voce
irrilevante. Anzi si buttarono in questo nuovo ramo con tanta
determinazione che nel giro di pochi anni arrivarono a gestire il
settore in regime di monopolio e divennero, almeno
apparentemente, talmente esperti da essere spesso chiamati, sia
da privati che dalla stessa Chiesa, per valutarne l’autenticità e il
valore. Non era un affare da poco, poiché non era raro il caso
che monasteri e conventi, afflitti da problemi di sopravvivenza
e sull’orlo del fallimento, una volta acquistata una rara e
preziosa reliquia, ritornassero agli antichi splendori per
l’afflusso di pellegrini e per le conseguenti offerte che
lasciavano. Naturalmente il più delle volte erano false e carpire
la buona fede dei fedeli, in un clima di esaltazione religiosa,
era la cosa più facile di questo mondo. A volte si raggiunse
persino l’assurdo, arrivando a vendere come preziosa reliquia
una ampolla con dentro il latte con cui la Madonna allattava
Gesù. Oppure, poiché Gesù era risorto e di lui non potevano
66
esserci resti mortali, il cordone ombelicale o i dentini da latte.
“Sappiamo bene – scrive Markale – che con i resti della Vera
Croce sparsi in tutto il mondo e spacciati per autentici si
potrebbe costruire una casa a due piani. I Templari, come gli
altri, non hanno mancato di sfruttare a oltranza la buona fede
dei pellegrini”. (Markale 2003: 100).
Per meglio comprendere il motivo di questa spasmodica
adorazione e ricerca delle reliquie, principalmente dovuta a
ignoranza e superstizione, bisogna anche qui calarsi nel clima
culturale e religioso del tempo. Per combattere il paganesimo,
la credenza nelle divinità dei boschi, il culto della Dea della
natura, delle fate, che avevano trasmesso a donne prive di
qualsiasi cultura l’arte di potere guarire le malattie attraverso
un sapiente miscuglio di erbe, la Chiesa Cattolica si inventò i
santi, i quali con i loro miracoli divennero gli specialisti per la
guarigione di determinate malattie, i protettori contro le
avversità e la speranza per i diseredati. In poche parole se
bisognava distruggere l’eresia della religione celtica e
contemporaneamente la credenza nella capacità taumaturgiche
nelle divinità di questa religione, occorreva sostituirli con
personaggi meritevoli agli occhi della Chiesa, capaci di operare
miracoli e di essere autorevoli intermediari fra Dio e l’uomo. E,
in realtà, l’operazione riscosse un grande successo, sia
spirituale che materiale, tanto che “sul palcoscenico dei culti
della Cristianità, i santi erano intanto avanzati in schiera
compatta, lasciando troppo spesso dietro le quinte Dio, la
Trinità, e anche la Vergine Maria”. (De Angeli 2005:145) Ma
bisognava stare attenti a non contraddire le leggi divine, perché
67
si correva il rischio di incorrere nella loro collera, che poteva
placarsi con le preghiere, la penitenza o l’intercessione di
un’altro santo. A Parigi, per esempio, intorno al 1130, infuriò
per ben quattro anni l’epidemia del fuoco di Sant’Antonio. I
predicatori sostenevano che la collera del santo era dovuta alla
vita immorale condotta dai suoi abitanti. “Per fermare
l’epidemia si poteva tentare di rivolgersi a santa Genoveffa –
ipotizzarono i predicatori – la patrona di Parigi, che ancora una
volta, come già tante altre, sarebbe riuscita a mettere la parola
fine alla calamità. Un’imponente processione dalla chiesa sulla
collina, dove si trovavano, portò nella cattedrale di NotreDame le reliquie della santa, unica in grado di placare l’ira di
sant’Antonio. Genoveffa riuscì nell’impresa: sant’Antonio
venne rabbonito, Parigi si risanò”(Ivi:147-148). È un esempio, ne
potremmo citare migliaia, ma questo da solo serve a darci
un’idea della diffusione del culto delle reliquie.
68
Le radici ebraiche della religiosità templare
Non minori perplessità suscita il vero credo religioso dei
Templari. Anche qui, come tanti altri aspetti della loro storia, è
difficile potere dare una risposta. Alcuni studiosi del fenomeno
templare sostengono che avessero molti punti di contatto con il
sufismo. Ora, pur non potendo non rilevare che tra le religioni
orientali il sufismo è il movimento religioso che ha più punti di
contatto con il cristianesimo, il raffronto non regge. È vero che
il sufismo punta a soffocare e annullare nell’uomo ogni forma
di individualismo e di egoismo – così come si proponevano i
templari -, ma è pur vero che il forte misticismo, di cui il
sufismo è caratterizzato, appare lontano mille miglia dal modus
vivendi del templare. A mio avviso – ma è solo un’ipotesi di
ricerca e di approfondimento – le radici religiose dei templari
potrebbero trovare il loro nucleo teoretico nell’ebraismo.
Guardiamo, per esempio, alla diversità tra ebraismo e filosofia
greca e occidentale. “La prima è incentrata sulle categorie
dell’esodo, dell’esilio e del rispetto dell’altro. Quella greca e
occidentale trova, viceversa, i suoi pilastri teoretici
nell’ontocentrismo e nell’assorbimento dell’altro nel
medesimo. Lévinas contrappone all’itinerario di Ulisse, le cui
avventure si concludono nel ritorno a Itaca, la storia di
Abramo, che abbandona la sua terra per andare alla ricerca di
una terra sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre
persino suo figlio a quel punto di partenza: alla filosofia-logos
69
di Ulisse, che rappresenta un ritorno su sé stesso, chiudendosi a
ciò che è diverso, si contrappone così la filosofia nomade di
Abramo”. (Bellino 1988:32; cfr. Ricci Sindoni 1988: 157-158),
All’uomo dei nostri tempi un tale atteggiamento di vita può
apparire una scelta molto lontana dai nostri modelli educativi,
Ma provate a calarvi nel clima sociale del XII secolo.
All’Ordine Templare aderiscono cavalieri che, pur cresciuti
nella ricchezza e negli agi e a godere di tutti i vantaggi che la
loro appartenenza di classe riserva, decidono di rinunziare a
tutto pur di adempiere ad una missione sociale, politica e
religiosa, ma soprattutto, di portarla a termine. I primi cavalieri
templari, quasi tutti del Sud della Francia, si sottoporranno a
una vita di stenti, di rinunzie, di sacrifici in nome di un ideale
noto solo a loro. Il nomadismo in un certo qual modo diventa
una loro costante peculiarità. Molti di loro – come in realtà
accadrà – sanno che difficilmente torneranno vivi in patria.
Molti di loro verranno uccisi in battaglia e, se presi prigionieri,
decapitati dai musulmani, poiché nessuno pagherà il riscatto
per la loro liberazione, né accetteranno mai di abiurare la loro
religione per convertirsi all’islamismo. Eppure, al di fuori dei
campi di battaglia, il loro atteggiamento nei confronti di questi
ultimi sarà improntato al più rigoroso rispetto dei codici
cavallereschi del tempo. Come nell’ebraismo, nei templari è
alto il senso dell’onore, della giustizia e del dovere. Persino gli
storici musulmani del tempo, pur odiando i Franchi, come
comunemente venivano chiamati tutti i crociati, apprezzavano
il loro senso di giustizia e di rispetto per l’altro, senza
distinzione di ceto, colore o religione. Il cavalleresco e colto
70
emiro di Shaizar, Usama ibn Munqidh, era entrato nella
moschea di Al-Aqsa, dove i suoi amici templari gli
consentivano di pregare. In una di queste occasioni, mentre
stava per iniziare le sue preghiere col viso rivolto verso la
Mecca, fu interrotto dall’arrivo di alcuni crociati che in
maniera rozza e poco gentile gli presero il viso fra le mani e
glielo rivolsero verso oriente. L’aggressione fu bloccata dal
tempestivo intervento di alcuni templari, che con risoluta
fermezza allontanarono quegli scalmanati e, nello stesso
tempo, chiesero scusa all’emiro per quel comportamento poco
signorile.(Gabrieli 1987: 79-80)
Quella dei templari era una politica di massima tolleranza,
aperta al dialogo e al confronto fra culture orientali e
occidentali. Lo attesta anche il rosone da loro fatto costruire a
Trapani nella sede della loro commenda, oggi chiesa di
Sant’Agostino. In esso sono ben visibili i simboli delle tre
religioni monoteistiche: ebraismo, cristianesimo e islamismo.
Non c’è migliore testimonianza dello spirito di massima
tolleranza che albergava nel credo religioso dei templari,
convinti che attraverso la libertà di pensiero, il libero
confronto, la speculazione e la parola si potessero raggiungere
risultati molto più concreti delle dispendiose e sanguinose
guerre. Ma è proprio della tradizione ebraica, del giudaismo
rabbinico attribuire alla parola un alto significato, sia sul piano
simbolico che su quello del lungo cammino verso la
conoscenza, poiché “la parola” rappresenta lo spazio in cui
abita la divina presenza. La stessa diversità di opinioni, spesso
riscontrabile nel giudaismo rabbinico, più che un aspetto
71
negativo, viene avvertito positivamente, in quanto la diversità
di opinioni viene interpretata come la conseguenza necessaria
alla ricchezza della parola di Dio. L’insistere sul concetto del
confronto, sul rispetto dell’altro, amico o nemico che fosse,
rafforza, come è stato più volte detto, l’essenza di una teologia
e di una ermeneutica ricca di valori etici. L’uomo,
proponendosi di allontanare e di resistere a tutti quegli impulsi
che fanno dell’egoismo l’essenza della natura umana,
obbedisce in pratica a un’etica incentrata sul servizio del
prossimo. Questi stessi concetti, in larga misura, li ritroviamo
nelle Regole dei “poveri cavalieri di Cristo”, dove i precetti, le
prescrizioni, come anche nei testi sacri giudaici, non servono
solamente a coltivare e sviluppare le più levate qualità umane,
ma contengono una carica di dinamismo morale, capace di
trasformare l’individuo e, per suo tramite, la società di cui egli
fa parte.
Ma non sono i soli punti in comune con l’ebraismo. Nella
teologia ebraica, infatti, a fondamento della morale troviamo
l’equità e la giustizia, che deve estrinsecarsi particolarmente
nella accettazione dei doveri, specialmente nei riguardi del
povero, del debole, del derelitto, amico o nemico che fosse.
Nell’ebraismo la giustizia è fondamentale nel cammino verso
Dio, ma anche nei templari, contrariamente alla mentalità
feudale del tempo, il concetto di giustizia è talmente radicato
da spingerli a fronteggiare anche i poteri forti (sovrani e
Pontefice), quando questi ultimi vanno in senso opposto. Già
abbiamo ricordato che anche gli storici islamici, pur odiando i
Franchi (che Allàh li confonda, che Allàh li mandi in malora,
72
sono soliti scrivere subito dopo il loro nome)) non mancarono
di sottolineare e di elogiare il senso di giustizia dei cavalieri
templari. Nel 1252 un gran dignitario dell’Ordine, rivolgendosi
a Enrico III d’Inghilterra, disse: “O re, finché userai giustizia,
tu regnerai. Ma se la violerai, cesserai di essere re”. (BaigentLeigh- Lincoln 2008: 61)
In poche parole, pur di ripristinare la giustizia, quel
dignitario dell’Ordine non esitò a minacciare uno scontro
frontale con il sovrano, affermando, nel contempo, un potere
che neppure il papato osava reclamare tanto apertamente e
sfacciatamente: il potere di creare e deporre i monarchi. Lo
stesso Ugo de Payns, primo Gran Maestro dei cavalieri del
Tempio, ribadì più volte che i soldati di Cristo “non dovevano
cedere alla tentazione di pensare di avere ucciso in preda a
odio o a furore, né di essersi impadroniti del bottino in preda a
cupidigia, siccome i templari non odiano gli uomini, ma
l’ingiustizia umana; e quando si impadronivano del bottino dei
miscredenti compivano un atto di giustizia, per via dei peccati
dei miscredenti e anche perché si erano meritati il bottino con
le loro fatiche:: chi lavora si è guadagnato il proprio salario”.
(Partner 1993: 10)
Nell’ingiusta crociata contro gli Albigesi, in Provenza, che
si protrasse per circa quarant’anni, i templari rifiutarono di
prenderne parte. Si erano resi conto che i motivi religiosi
c’entravano ben poco. Si trattava, in realtà, di una guerra di
cristiani contro cristiani, dettata più da una logica di potere che
dall’affermazione di un principio religioso. In poche parole di
riaffermare l’incontrastato dominio della chiesa di Roma. In
73
Provenza furono inviati dal Papa Bernardo di Chiaravalle e,
successivamente, Domenico di Guzmàn, il fondatore dei
domenicani, detti anche “i cani del Signore”, affinché con la
forza della predicazione, facessero propaganda anticatara. I
loro sforzi risultarono vani. Ma, ad onor del vero, va anche
precisato che lo stesso Doctor Mellifluus nella relazione
presentata al Pontefice, confessò sì la sua sconfitta, ma non
mancò di aggiungere che se tutti i cristiani si fossero
comportati come i catari avremmo sicuramente avuto maggiori
possibilità di realizzare in terra la “Gerusalemme celeste “.E
più avanti, scandalizzato dalla corruzione della chiesa in
Provenza, aggiunse anche che “nessun sermone è più cristiano
dei loro” e che “la loro morale è pura”. In realtà, i catari erano
anche chiamati bons hommes, bons chretiens, ma anche
parfait. Vivevano una vita molto semplice, di grande levatura
morale, aborrivano la violenza e l’ipocrisia, predicavano la
castità e l’amore verso il prossimo. I Catari avevano una
teologia dualistica. Credevano nell’esistenza di due Divinità:
una era il dio d’amore, puro spirito non contaminato dalla
materia; l’altra, il Rex Mundi, era l’incarnazione del male e il
suo dominio era il mondo materiale; da qui il loro rifiuto per la
procreazione, poiché mettere figli al mondo rafforzare e
perpetuare il potere sul mondo del dio del male. I Catari,
inoltre, rifiutavano il significato della crocifissione e della
resurrezione. Credevano in Gesù come messia, come un
messaggero del dio dell’amore, condannato alla crocifissione
dalle forze malefiche che dominano il mondo e, di
conseguenza, essendo mortale, era morto sulla croce senza che
ci fosse stata, né poteva esserci, una resurrezione. Come se non
74
bastasse, i catari avevano una particolare venerazione per
Maria Maddalena, che consideravano come la moglie o la
concubina di Gesù. Probabilmente possedevano alcune prove
che legittimavano questa loro credenza, ma in ogni caso questa
particolare venerazione per Maria Maddalena tra i catari ha
qualcosa di sorprendente. I Catari, infine, e probabilmente è
stato questo il vero motivo della loro persecuzione, negavano
l’autorità spirituale del Sommo Pontefice e della casta
sacerdotale come unica intermediaria fra Dio e l’uomo,
ritenendo che il rapporto con Dio fosse un fatto personale e che
nella guida del cammino verso la conoscenza non ci dovesse
essere alcuna pregiudiziale nei confronti della donna. La
reazione della Chiesa, dura e spietata, non si fece attendere.
Nella primavera del 1209 un esercito di 50 mila uomini, con la
leaderschip militare affidata a Simon de Monfort e quella
religiosa all’abate Arnaud Amaury, scese da Lione verso il
territorio della Linguadoca e assediò la roccaforte catara di
Bèziers. Espugnata la città il 22 luglio 1209, per una strana
coincidenza proprio nel giorno di santa Maria Maddalena,
ventimila tra uomini, donne, vecchi e bambini vennero
massacrati. Alla popolazione non catara era stata offerto un
salvacondotto, ma preferirono schierarsi con gli eretici,
condividendone la triste sorte. È famoso l’aneddoto sulle cause
di tanta crudeltà nell’uccisione indiscriminata di tanti abitanti.
Subito dopo la resa, alcuni ufficiali dell’esercito crociato
chiesero all’abate Arnaud Amaury su come dovessero
comportarsi nel distinguere i cristiani dai catari. A
Gerusalemme era facile distinguere gli infedeli dai cristiani, ma
a Bèzier certamente no. Laconica e semplice la risposta
75
dell’abate: “Massacrateli tutti. Dio saprà riconoscere i suoi!”
Probabilmente in questa decisione l’abate Amaury sarà stato
confortato dal passo del vangelo di Luca, nel quale Gesù alla
fine della parabola delle mine disse: “Adesso basta, portate dinnanzi
a me coloro che non mi hanno voluto riconoscere come loro re e
massacrateli tutti” (Luca,19,28).
Naturalmente la motivazione di tanti orrori, brutalità e
devastazioni non è da ricercare solo in ambito religioso e, in tal
senso, Baigent, Leigh e Lincoln nel loro saggio Il Santo Graal
ne danno una interpretazione interessante.
“All’inizio del XXIII secolo, la zona oggi conosciuta come Linguadoca
non faceva parte ufficialmente della Francia. Era un principato
indipendente, e la lingua, la culturae le istituzioni politiche,più che con
quelle del nord, avevano affinità con quelle della Spagna, con i regni di
Leon, Aragona e Castiglia, Il principato era governato da alcune famiglie
nobili, e tra queste spiccavano i conti di Tolosa e il potente casato dei
Trencavel. Entro i confini del principato fioriva una cultura che a quei tempi
era la più avanzata e raffinata dell’intera cristianità, con l’unica eccezione
dell’impero bizantino. La Linguadoca aveva molte cose in comune con
Bisanzio. L’erudizione, ad esempio, era tenuta in grande onore,
diversamente da quanto avveniva nell’Europa settentrionale. Fiorivano la
filosofia e altre attività intellettuali: la poesia e l’amor cortese godevano di
grande fervore; il greco, l’arabo e l’ebraico venivano studiati con
entusiasmo; e a Lunel e a Narbona prosperavano scuole votate allo studio
della Cabala, l’antica tradizione filosofica-esoterica del giudaismo: Anche i
nobili erano colti e spesso si dedicavano alla letteratura, in un periodo in cui
gli aristocratici del Nord, in maggioranza, non sapevano neppure scrivere il
loro nome Sempre come Bisanzio, la Linguadoca praticava una civilissima
tolleranza religiosa, in contrasto con il fanatismo che caratterizzava altre
parti dell’Europa. Il pensiero islamico e giudaico, ad esempio,penetrava
tramite i centri commerciali marittimi come Marsiglia, oppure perveniva
76
dalla Spagna attraverso i Pirenei. Nel contempo, la chiesa di Roma non
godeva di una grande stima; i religiosi romani, soprattutto a causa della loro
ben nota corruzione, erano riusciti ad alienarsi la popolazione della
Linguadoca. C’erano addirittura chiese nelle quali non veniva celebrata
messa da trent’anni. Molti preti si disinteressavano dei parrocchiani per
dedicarsi ad attività commerciali o amministrare grandi proprietà terriere.
Un arcivescovo di Narbona non si degnò mai di visitare la sua diocesi”.
(2008:37)
Il clima era giunto a un punto di saturazione tale che da
parte dei vertici della chiesa si comprese, a meno di non volere
fare scomparire definitivamente il cristianesimo dalla
Provenza, che un intervento drastico e violento non poteva
essere più ulteriormente rinviato.
La Chiesa sapeva benissimo che non avrebbe avuto alcun
problema nel costituire in brevissimo tempo una temibile
armata. Le bastava semplicemente sfruttare la cupidigia e
l’invidia che i feudatari delle regioni del nord della Francia
covavano contro i loro colleghi della Linguadoca per la
ricchezza che derivava loro dai fiorenti mercati e dalla fertilità
della terra. E così, sfruttando l’esaltazione religiosa e cupidigia
dei baroni, le città della Provenza caddero una dopo l’altra.
Dopo Béziers, analoga sorte toccò a Perpignano, Narbona e
Carcassone. Nel 1244, dopo un assedio di dieci mesi, fu
espugnata la fortezza di Montségur, ma non per merito dei
crociati, bensì per volontà dei catari, che chiesero, ottenendolo,
di potere rimanere nella fortezza altri quindici giorni di tempo
prima di arrendersi. È anche questo, un po’ come tutto in
questa storia, un grande mistero. Cosa fecero i catari in questi
quindici giorni? Si dice che in una di queste quindici notti,
77
prima di arrendersi, quattro catari furono calati dalle alte torri
per fuggire con il tesoro della comunità; ma nella realtà fuggire
con quattro pesanti sacchi per i ripidi versanti dei Pirenei
appare una motivazione poco credibile. In ogni caso,
qualunque cosa fosse dovevano ritenerla, certamente, di grande
importanza, tanto che molti studiosi sono dell’idea che
“in quanto perfetti, difficilmente avrebbero mostrato tanto interesse per
il destino di un semplice gingillo o un oggetto strettamente materiale. E
allora perché ci sarebbero volute quattro persone per portare qualunque cosa
fosse al sicuro, lontano dalle attenzioni dei crociati? Forse coloro che
credono nella teoria del “Sangue Reale” hanno ragione, e si trattava dei
“purissimi discendenti della stirpe. O forse avevano quattro fasci di
documenti o libri, o un libro diviso in quattro- con la saggia intenzione di
mandarli in diverse direzioni verso dimore sicure”. (Picknett 2005: 74)
Nel 1255 cadde anche il castello di Quéribus e, infine, nel
1271 la Corona di Francia occupò anche la contea di Tolosa,
annettendosi tutti i territori. Con la presa di Tolosa ebbe così
inizio per la Provenza una crisi economica e culturale dalla
quale non si sarebbe più ripresa. Non a caso ci siamo
largamente soffermati sulla crociata contro gli albigesi e,
questo, per due motivi. Il primo per meglio mettere in evidenza
i vantaggiosi effetti economici e culturali che caratterizzarono
la regione per la pacifica convivenza tra elementi islamici,
ebraici e, in minor misura, cristiani. È nella Provenza, infatti,
che dal XII secolo in poi riprendono slancio gli studi giudaici e
le più famose scuole cabalistiche. Un dato, quest’ultimo, che
potrebbe dare forza alla teoria che, dopo la distruzione di
Gerusalemme, buona parte delle famiglie facoltose della
Palestina si siano trasferite in Provenza; non solo, ma rafforza
78
anche la teoria delle radici ebraiche della religiosità templare,
poiché, proprio nella regione della Provenza, le commende e le
precettorie dell’Ordine furono presenti in maniera talmente
capillare, che ancora oggi molti storici si chiedono il motivo
che abbia trattenuto i cavalieri del Tempio dall’ acquisirne la
piena potestà.
Ma, ritornando all’atteggiamento apparentemente neutrale,
assunto dai cavalieri del Tempio nei riguardi della crociata, pur
non ignorando i rischi a cui andavano incontro, il loro senso di
giustizia li spinse, non solo a non prenderne parte, ma ad
offrire ai catari protezione e rifugio nelle loro commende. La
chiesa ai sopravvissuti, dopo la resa delle città, senza nemmeno
un sommario processo li mandava al rogo, perché venissero
purificati dal rogo. I frati domenicani giunsero a un punto tale
di fanatismo da fare disseppellire i corpi di alcuni eretici, morti
da diversi anni, per consegnare anche le loro spoglie alle
fiamme purificatrici. I Templari, invece, per salvare il maggior
numero possibile di eretici catari dalle maglie dell’inquisizione,
decisero anche di investirli del cavalierato, in modo che,
protetti dal loro mantello bianco, diventassero intoccabili.
Numerosi storici hanno più volte parlato, come abbiamo già
visto, di un progetto segreto all’interno dell’Ordine Templare,
che includeva anche un programma di modifica profonda della
struttura della società feudale e dei suoi meccanismi. Ma per la
realizzazione di questo programma i cavalieri di Cristo
avrebbero dovuto prima farsi accettare e stimare come forza
militare e, successivamente, distinguersi con la loro condotta e
con le loro azioni, in modo da rappresentare un modello etico
79
per la società del tempo. In poche parole, di realizzare, come
auspicava Bernardo di Chiaravalle, la Gerusalemme celeste
sulla terra. I Templari, in sintesi, oltre a difendere la cristianità
dai nemici di Dio, dovevano, con il fascino che attorno a loro
andava sempre più crescendo, grazie alle notizie che
provenivano dall’oriente in merito alle loro imprese eroiche,
mostrarsi come un ordine monaco- guerriero, il cui unico vero
proponimento nella vita quotidiana era quello di conoscere
Dio, comprendere la sua azione morale e di assumerla come
modello della nostra condotta, capace, non solo di trasformare
l’individuo, ma per la carica di dinamismo morale che
contiene, ma anche la società di cui fa parte. È questo uno dei
punti di maggiore convergenza tra templari ed ebraismo,
poiché l’azione per il popolo ebraico è fondamentale. “La
religione ebraica – scrive Lattes – è la religione dell’atto,
dell’azione, non la religione del dogma, della teoria”. (Lattes
1999:72) Il perché ce lo spiega Mosè Maimonide, uno dei più
famosi filosofi dell’ebraismo medievale. Secondo Maimonide
all’uomo è preclusa ogni conoscenza di Dio. Rifacendosi al
libro dell’Esodo, il filosofo di Cordova ricorda le richieste che
Mosè fece a Dio sul monte Sinai: “Fammi conoscere le Tue
vie…Fammi conoscere la Tua Gloria”. (Esodo:33,13 -18)
“La risposta di Dio alle due questioni consistette – scrive Maimonide –
nella promessa di fargli conoscere tutti i Suoi attributi, di fargli sapere che
tali attributi erano le Sue azioni, e di fargli sapere che la Sua essenza non
può essere percepita per quello che è”. (Maimonide 2003: 197)
La vera conoscenza di Dio è per l’ebraismo, dunque, la
conoscenza non del suo essere, ma della sua attività: l’uomo
80
può conoscere di Dio, in senso positivo, soltanto quegli
attributi che sono definibili come attributi d’azione, cioè il fatto
che egli ama gli uomini ed esercita giustizia verso di loro. La
ragione, in breve, pur se rivolta al sovrasensibile, diviene
veramente operante solo attraverso la prassi. L’anelito alla
conoscenza di Dio non isola, dunque, soltanto l’uomo nella
contemplazione, ma lo spinge anche a tornare tra gli uomini
per vivere con loro e per insegnare loro la verità, ovvero che vi
è un Dio amante e che compie il giusto. Dio rappresenta il
modello delle azioni umane: l’uomo assume Dio come suo
modello quando, amandolo più di ogni altra cosa, agisce nel
mondo amando le sue creature e praticando la giustizia verso di
esse. Come vediamo, così come nella religione ebraica, anche
nei Templari l’agire morale rappresenta un elemento
fondamentale e insostituibile. Per entrambi, l’elemento
fondamentale del loro pensiero non è la coscienza o la
confessione teorica del , ma l’opera del bene; non è eticità in
principio, ma eticità in atto.(Lattes 1999: 96).
Un ulteriore elemento di riflessione, che può rafforzare un
tentativo di approfondimento di ricerca sull’ipotesi che le radici
religiose dei templari possano trovare il loro nucleo teoretico
nell’ebraismo, ci viene proposto da alcune considerazioni sul
concetto di tempo. Che cosa è il tempo? Agostino di Ippona, a
tal proposito, rispose: “Se penso al tempo, so cosa è. Ma se mi
chiedete di rispondere a questa domanda, non so cosa
rispondere”. (Agostino1951:443) Nella cultura antica e in quella
occidentale sembra prevalere una forma di disprezzo nei
confronti del tempo. Non sappiamo se ha mai avuto un inizio e
81
se avrà mai una fine. Di certo non si esaurisce nella
successione dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri, poiché
senza discontinuità, necessariamente, anche senza di noi,
avanza verso un avvenire indecifrabile e inafferrabile, così
come inafferrabile è il suo punto di arrivo, poiché la nostra
capacità di conoscenza non riesce a penetrare i suoi aspetti
irrazionali, tanto che adattato all’essere il pensiero si dimostra
incapace di accostarsi al divenire. Il tempo non sembra avere
alcuna relazione con i postulati del nostro pensiero. Anzi, i
nostri sistemi di logica prendono atto e arrivano “a dimostrare
con una facilità sorprendente che il tempo è contraddittorio in
se stesso. Ecco uno degli schemi: il passato è passato, dunque
non c’è più; l’avvenire non c’è ancora; il presente si trova così
tra due nulla; ma il presente, l’adesso, è un punto senza
estensione; dal momento che il presente è qui, già non c’è più;
l’adesso è dunque contraddittorio e pertanto esso pure è un
nulla. È così che la realtà si riduce per il tempo a un nulla
situato tra due nulla”(Minkowski 2011:20-21)
Ma tutto ciò da un punto di vista religioso ha ben poca
importanza, poiché il tempo paragonato all’eternità appare
irrilevante, vuoto e, come abbiamo visto prima, del tutto
irreale. Soltanto ciò che è eterno è veramente importante.
D’altra parte è quotidianamente sotto i nostri occhi che tutte le
cose nel tempo sono soggette al cambiamento, a passare
dall’essere al non essere, e dal momento che il non essere non è
non vi può essere alcuna consistenza ontologica del tempo. Il
tempo, dunque, appare come ciò che dissolve l’essere, che
priva le cose dell’essere. Viceversa per l’ebraismo il tempo è
82
estremamente importante e, di conseguenza, la natura, lo
spazio in cui egli agisce e opera non può essere considerato
come ciò che inquina e rischia di condurre alla perdizione la
scheggia di spiritualità divina che alberga nell’animo di ogni
uomo, il quale deve sempre ricordarsi che la vita deriva da Dio
e che il corpo, in quanto tale, possiede una sacralità intrinseca.
Per gli ebrei il mondo fu creato da Dio per un atto d’amore,
tanto che egli stesso, quando vide ciò che aveva creato, disse
che “era cosa molto buona” (Genesi, 1,31).
Essere ebreo significa dunque vivere in pace e serenità col
mondo, senza lasciarsi dominare dai piaceri del mondo.
Abbiamo già visto che la morale ebraica è una morale
finalizzata all’azione, una morale il cui fine è da rintracciare
nell’agire etico. “La dottrina mosaica è una propaganda
dell’azione: essa esige dovunque una morale attiva e non
soltanto una morale passiva”(Lattes 1999:86), una morale, in
sintesi, che non deve restare sul piano delle pure intenzioni o
confinata nei libri sacri, ma trovare una effettiva
concretizzazione nella vita di ogni giorno. Nel sistema
religioso ebraico i dogmi di fede non possono rimanere solo su
un piano conoscitivo di Dio, ma devono concretarsi, attuarsi,
farsi azione, perché possano essere vissuti veramente dal
popolo d’Israele. La religione non deve restare confinata ai
luoghi di culto, ma deve essere il fulcro centrale della vita
quotidiana, con la precisa volontà di rendere vivo il ricordo del
proprio Dio. La vita dell’ebreo, infatti, è scandita da una serie
infinita di momenti il cui scopo è quello di portare alla
memoria l’esistenza di Dio, tanto che “nel cosiddetto
83
mosaismo, il sistema etico religioso si innesta intimamente con
quello sociale-politico. I dogmi fondamentali della fede sono
presentati come principi direttivi della vita pratica”. (Ibidem)
È nel tempo che può realizzarsi il percorso dell’uomo verso
Dio attraverso un quotidiano concretizzarsi di azioni che
abbiano come modello l’eticità divina. “La storia, quindi è il
trionfo del tempo sullo spazio…essa è la suprema testimone di
Dio”(Heschel 2006:228).
L’immortalità, secondo alcuni filosofi ebrei del medioevo,
non era prerogativa di tutti gli uomini, ma un dono di Dio per
coloro i quali con lo studio, con la mente e con le loro azioni
maggiormente si erano avvicinati a lui. Se, dunque,
l’immortalità va intesa anche in senso allegorico essa è
riservata solamente a coloro che nel corso della loro vita, nel
tempo limitato della loro esistenza, si sono resi con le loro
azioni testimoni di Dio, santificandone così il nome. Per
l’uomo, dunque, partecipare alla civiltà e andare al di là di essa
è un dovere categorico, poiché l’ebraismo è proprio “l’arte di
superare i limiti della civiltà; è la santificazione del tempo e
della storia”(Ivi:450). Più avanti Heschel aggiunge che “le cose
svaniscono, ma il loro valore per Dio è sempre rapportato a Lui
e da Lui ricordato. Le cose muoiono, ma in Dio il tempo non
muore mai. Ciò che è duraturo risiede nel tempo di Dio, non
nello spazio. È impossibile sentire la realtà del tempo senza
essere consapevoli dell’unità che esiste tra il passato, il
presente e il futuro nell’eterna consapevolezza di un Creatore.
Noi tutti viviamo in due tempi: nella temporalità e nell’eternità,
nel tempo dell’uomo e in quello di Dio. Se viviamo soltanto
84
nella temporalità, la nostra vita è breve e frammentaria; se
realizziamo la volontà di Dio, rimaniamo duraturi nella sua
memoria”. (Heschel 2001:152) Ne consegue, quindi, per Heschel
che ogni essere, ogni oggetto, calato nella temporalità, può o
sprofondare nel nulla o vivere nella pienezza del tempo. Chi
decide di santificare il tempo, partecipando alla civiltà e
andando al di là di essa, non solo rende le sue azioni gradite a
Dio, ma si incammina per un sentiero nel quale le sue
conquiste nel tempo nessuno potrà mai negare o ignorare. E
proprio in questo codice etico che cogliamo il maggior punto di
contatto tra l’ebraismo e i templari. Molti studiosi del
fenomeno templare – lo abbiamo già accennato – sostengono
che alla base dell’istituzione dell’Ordine templare ci siano
occulti motivi socio-politici o, se vogliamo, una vera e propria
missione segreta. La volontà, di conseguenza, di abbattere le
strutture feudali e i vincoli con i quali queste ultime
soffocavano ogni rinnovamento sociale ed economico, creando
un nuovo sistema più aperto, dinamico con una visione
economica, diremmo oggi, globalizzante, non è forse il
proponimento di superare i limiti della civiltà e di realizzare
una conquista nel tempo che nessuno potrà togliere?
C’è, inoltre, un altro argomento sul quale è necessario
riflettere: il culto dei Templari per le madonne nere. Il monaco
Bernardo, protettore e capo spirituale dell’Ordine, nutriva a
Clerveaux un culto particolare per una madonna nera. In uno
dei tanti aneddoti sulla sua vita si racconta che
quotidianamente vi si recava in preghiera e che era solito
chiudere le sue orazioni, chiedendo alla madonna di
85
mostrarglisi. Fu accontentato. Dal seno della madonna, che
teneva in braccio un bambino, sgorgò un zampillo di latte che
finì dritto sulla bocca del monaco cistercense. Ma, al di là del
racconto fantastico, il vero problema è cercare di capire che
cosa potesse unire Bernardo di Chiaravalle e i Templari con il
culto delle Madonne nere. È un altro elemento che ci porta ad
inquadrare in una matrice ebraica le origini della cupola
dell’Ordine Templare. Chiariamo i vari passaggi. Gesù non era
un cristiano, ma un ebreo. Fu circonciso, osservava la Pasqua
ebraica, leggeva la Bibbia in ebraico e rispettava il giorno del
Sabbath (Tabor 2006: 118). Per fugare ogni dubbio, in maniera
abbastanza chiara dichiarò: “io non sono venuto ad abrogare la
legge, ma a rafforzarla”. Gli stessi apostoli non pensavano di
essere stati i fondatori di una nuova religione, non lo
sospettavano neppure. Essi continuavano a vivre come ebrei di
stretta osservanza e come tali ogni giorno si recavano al tempio
per una preghiera”. (Armstrong 1996: 145)
E, di conseguenza, “ciò che Gesù insegnava non era
immaginato dagli apostoli e dai discepoli che lo seguivano
come le fondamenta di una nuova religione o una deviazione
del giudaismo canonico; tanto è vero che, in pratica, la sola
differenza che esisteva fra loro e la corrente principale del
pensiero religioso ebraico, che si manifestava nelle tante sette
dominanti, consisteva nel fatto che essi accettavano
l’interpretazione che Gesù dava della Legge, convinti in questo
dalla certezza che si trattasse di un autentico Messia”. (WallasMurphy 2006:73)
86
Gesù, quindi, erede della stirpe reale del re Davide e
pienamente cosciente delle implicazioni messianiche che
questa eredità comportava, diede vita a un movimento,
certamente rivoluzionario sotto un profilo religioso, politico e
sociale, che rappresentò una seria minaccia per la classe
dirigente del tempo, sia politica che religiosa.
“C’erano ebrei che si trovavano pienamente a loro agio nella società e
nella politica del loro tempo e che cercavano di trarre il massimo vantaggio
dallo status quo, anche se imposto da Roma. Ma ce n’erano altri, fossero
Farisei, o Sadducei o Esseni, o anche senza appartenenza, che non se la
sentivano più di vivere in quel mondo ed erano in attesa di un cambiamento
radicale fondato sulle predizioni messianiche dei profeti ebrei”(Tabor
2006:131).
Già in Palestina si erano registrati numerosi tumulti, che le
legioni romane avevano soffocato nel sangue e Ponzio Pilato,
dal 26 d.C. nuovo procuratore e comandante militare della
provincia, mostrava di avere solamente a cuore il
mantenimento di una certa stabilità sociale e sia lui che
l’imperatore Tiberio “l’ultima cosa che volevano era un
visionario profeta di stirpe davidica che trascinasse le masse
infiammandole coi testi della Bibbia e parlando loro della
venuta di un incomprensibile, ai loro occhi, regno di Dio”. (Ivi:
167) Fu condannato a morte più per ragioni politiche che non
religiose. Non a caso sulla sua croce i romani affissero la frase,
anche se dal loro punto di vista per dileggio, “Gesù il
Nazareno, Re dei Giudei. I vangelo gnostici sostengono che
Gesù fosse sposato con Maria Maddalena con la quale ebbe
una figlia o più figli. Di conseguenza, se questa fosse la verità,
anche la sua discendenza era in pericolo di vita. Questo
87
spiegherebbe il motivo per cui Maria Maddalena e i suoi
probabili figli, consigliati e guidati da alcuni suoi fedeli
discepoli, primo fra tutti il ricco Giuseppe d’Arimatea,
fuggirono dalla Palestina e si rifugiarono in Francia. Secondo
la leggenda, ma ogni leggenda ha un fondo di verità, i
fuggiaschi approdarono a Saintes Maries- de la Mer in
Provenza, guarda caso una regione, come abbiamo visto, dove
le comunità ebraiche erano numerosamente presenti e dove la
pacifica convivenza con altre etnie aveva favorito una crescita
economica e culturale di gran lunga più ricca rispetto alle altre
regioni della Francia. La Provenza, inoltre, per inciso, nella
storia dei Templari occupa un posto privilegiato, a tal punto
che molti storici si sono spesso chiesti il motivo per cui non ne
hanno fatto un proprio Stato autonomo e indipendente, come
molti anni dopo faranno gli Ospitalieri a Malta. Seguendo
sempre la leggenda, sappiamo che ogni anno a Saintes Maries
de la Mer dal 23 al 25 maggio le reliquie di santa Sara
l’Egiziana, detta anche “la Regina Nera” vengono portate in
processione, un rito religioso che risale al Medioevo e che
celebra l’arrivo di una ragazza egiziana che approdò nell’anno
42 d.C., in compagnia di Maria Maddalena, Giuseppe
d’Arimatea, Marta e Lazzaro, sulle coste francesi. Il nome Sara
in lingua aramaica significa “principessa” e, seguendo i vari
passaggi di questa leggenda, tenendo conto che questa ragazza
aveva circa dodici anni al tempo del suo arrivo in Provenza,
non è utopistico supporre che fosse proprio la figlia di Gesù e
che Maria Maddalena rappresentasse il Sangraal, il calice che
portò nel suo grembo il sangue reale. Ma perché nera?
Probabilmente perché “il suo essere nera” è pure un riferimento
88
diretto ai re deposti di Gerusalemme della stirpe di Davide:
“più splendenti della neve, più candidi del latte…ora il loro
aspetto si è fatto più scuro della fuliggine, non si riconoscono
più per le strade”. (Lm 4,7-8) È probabile che coloro che vennero
a conoscenza della reale identità di Maria Maddalena e di sua
figlia Sara vollero venerarle come Madonne Nere, nel senso
che il loro essere neri, “stava a significare allegoricamente la
loro condizione di segretezza; lei era la regina sconosciuta –
non riconosciuta, ripudiata e vilipesa dalla Chiesa che, nel
corso dei secoli, cercò di negare la legittimità della discendenza
reale e di riaffermare le proprie dottrine sulla divinità e sul
celibato di Gesù”. (Starbird, 2005:67) Ora, sorvolando sui
numerosi quadri di famosi pittori medievali, che mostrano
Maria maddalena in evidente stato di gravidanza, non si riesce
a capire l’accanimento della chiesa contro questa donna, che se
fosse stata realmente una prostituta, era pur sempre una
prostituta pentita e, quindi, degna di ogni rispetto, poiché, fra
l’altro, mentre tutti gli altri apostoli mostrarono una fede
vacillante e timorosa nel momento del pericolo, Maria
Maddalena fu l’unica a non rinnegare Gesù e a stargli vicino
per tutto il tempo della drammatica esecuzione. L’unica
spiegazione possibile è che i vertici della chiesa romana
tentarono di depistare ogni possibile indagine in tal senso,
perché se la verità fosse venuta fuori sarebbe crollato l’intero
impianto teologico della chiesa paolina. In tal senso può essere
utile rileggere alcune riflessioni di Margaret Starbird
sull’argomento.
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“Con la conquista di Gerusalemme avvenuta nel 1099, i capi dei crociati
insediarono un patriarca nella chiesa del Santo Sepolcro. A tal proposito
abbiamo scoperto un fatto alquanto bizzarro, e cioè che nelle loro formule
liturgiche durante tutte le festività della Vergine Maria si utilizzavano
paramenti di colore nero. Alcuni studiosi suggeriscono che l’uso di questi
paramenti di colore nero fosse in qualche modo riconducibile al Cantico dei
cantici; ciò nonostante si presentava come un notevole distacco dalle
consuetudini della Chiesa che soleva ricorrere ai paramenti di colore bianco
per tutte le festività mariane. Probabilmente questi paramenti scuri sono
ancora un rimando simbolico all’altra Maria, a quella nascosta, alla Sposa
Perduta del Cantico, derisa e ripudiata dalla Chiesa ortodossa – la regina
esiliata e la cui identità è stata tenuta a lungo nascosta, inizialmente dalle
autorità romane e dagli eredi di Erode e successivamente dalla gerarchia
della Chiesa Cattolica Romana. Questa Maria “nera” riecheggerebbe
poeticamente la Sposa bruna del Cantico dei Cantici, la Sposa del Pastore/re
sacrificato, dello Sposo messianico di Israele. Riassumendo, le due rifugiate
reali di israele, madre e figlia, potrebbero logicamente essere state
rappresentate nella primitiva arte europea come madre e figlia nere, come
quelle nascoste. Le Madonne Nere delle reliquie presenti in Europa (dal V
al XII secolo) potrebbero essere state allora venerate come i simboli di
questa Maria e della sua bambina. Il Sangraal che Giuseppe di Arimatea
portò al sicuro sulle coste della Francia. Il simbolo di una discendenza
maschile della stirpe di Davide doveva essere un bastone fiorito o
germogliato, ma mil simbolo di una discendenza femminile doveva essere
un calice, una coppa contenente il sangue reale di Gesù. Ed è esattamente
quello che si racconta sia stato il Santo Graal”(Ivi: 70-71)
Sulle stesse posizioni della Starbird è anche Gardner, che
sull’argomento ha scritto numerosi e pregevoli saggi.
“In effetti, la lealtà di Maria verso Gesù e la sua famiglia superò di gran
lunga quella dell’imprevedibile Pietro e di altri apostoli titubanti. Ella era
una donna, naturalmente, ma questo non basta da solo a giustificare gli
attacchi postumi della Chiesa contro di lei. Anche la madre di Gesù lo era,
eppure è stata sempre oggetto di venerazione. Evidentemente nei confronti
90
di Maria Maddalena vi era più di quanto possa apparire a prima vista,
qualcosa che lasciava i vescovi timorosi e trepidanti per il retaggio da lei
lasciato…Se i vescovi non avessero saputo del rapporto matrimoniale di
Maria Maddalena con Gesù e della sua conseguente maternità, non
avrebbero avuto alcun motivo di vilipendere la sua memoria. Come tanti
altri, ella sarebbe rimasta una figura importante, ma comunque secondaria,
della storia cristiana. Certo, storicamente vi furono gruppi che sostennero la
causa dell’eredità della Maddalena, ma non vi è nulla di segreto in ciò.
Maria Maddalena rappresentava una considerevole minaccia per la Chiesa. I
vescovi ne erano consapevoli, e altrettanto bene lo sapevano i monaci,
organizzazioni come i Templari e molti altri”. (Gardner 2005:22-23)
Ed è sempre Gardner a ricordare che l’Inghilterra, oltre a
numerose chiese dedicate a Maria Maddalena, vanta anche
istituti di studi a lei intitolati presso le Università di Oxford e
Chambridge. Il che dimostra che “mentre la Chiesa di Roma
cercava in tutti i modi di metterla da parte, se non addirittura di
cancellarne completamente il nome, ella era assai venerata
negli ambienti monastici inglesi, dai benedettini di Oxford ai
loro confratelli di Saint Albans”.
Dovremmo, infine, soffermare la nostra attenzione sulla
considerazione che Bernardo di Chiaravalle nel formalizzare
l’istituzione dell’Ordine dei Cavalieri Templari al concilio di
Troyes pretese da parte degli stessi cavalieri un loro
giuramento di fedeltà in nome di Maria Maddalena.
“Forse, un’altra indicazione in merito al disagio mostrato dalla Chiesa
verso questo argomento potrebbe derivare proprio dalle parole pronunziate
da Bernardo. Quando aveva stilato la Regola dell’Ordine dei Templari,
aveva stabilito un preciso e specifico requisito cui i cavalieri non avrebbero
91
dovuto sottrarsi: “Obbedienza a Betania e alla casa di Maria e di Marta”.
Per dirla in parole semplici, rendere e riconoscere obbedienza alla dinastia
fondata da Maria Maddalena e Gesù. Basandosi su queste osservazioni, non
pochi studiosi hanno azzardato l’ipotesi che tutte le grandi cattedrali di
Notre-Dame, finanziate o costruite dai Templari, non fossero dedicate a
Maria, la madre di Gesù, bensì a Maria Maddalena e al figlio da lei avuto da
Gesù, un’idea che, vista dal punto di vista della Chiesa cattolica, è un’eresia
insopportabile”. (Wallace-Murphy 2006:198).
Le numerose chiese gotiche, fatte costruire dai Templari e
tutte dedicate a una generica Notre Dame, potrebbero, in realtà,
riferirsi proprio a Maria Maddalena, sia per occultare la loro
venerazione per l’apostola prediletta da Gesù, sia per evitare di
entrare in aperto contrasto con le autorità religiose. Ma perché
allora i Templari, stando alle numerose ammissioni che fecero
nel corso del loro processo, nel corso della cerimonia
d’investitura, sputavano sul crocifisso? Sembrerebbe una
palese contraddizione, perché se sputavano sul crocifisso non
avrebbero dovuto mai venerare Maria Maddalena, che di Gesù
era la moglie o la compagna prediletta. La contraddizione
potrebbe essere solamente apparente, poiché, ed è proprio a
questo punto che le posizioni ideologiche e religiose dei
Templari potrebbero coincidere con quelle ebraiche, in Gesù
loro veneravano il profeta, l’uomo che avrebbe voluto
risollevare le sorti del popolo ebraico, ridandogli dignità e
liberandolo dal giuoco della dominazione romana. Nel
Medioevo, infatti, numerosi filosofi ebrei ritenevano che tra
situazione politica e avanzamento culturale ci fosse una stretta
relazione, associando di conseguenza la cessazione della
92
profezia con il fenomeno dell’esilio. Ora, mentre “alcuni
mettevano l’accento sulla preminenza esclusiva della Terra
d’Israele (teoria geografico- climatica) e asserivano che la
profezia era impossibile fuori da essa”, Maimonide, viceversa,
sosteneva “che non tanto il mutamento territoriale quanto le
sue conseguenze di dolore, malattia, guerra e fame erano le
vere cause della contrazione della Profezia dal momento che
impedivano la perfezione intellettuale”. (Somekh 2005:45)
Gesù per molte correnti ebraiche rappresentava proprio
l’uomo che avrebbe liberato la terra di Palestina dal giuoco
romano, ridando così nuovo impulso alla profezia. Era questo il
Gesù che i Templari adoravano e non quello crocifisso, sulla
cui croce, a loro modo di vedere, la Chiesa di Roma aveva
speculato, trasformandosi in un centro di potere, che dal
Concilio di Nicea in poi, giorno dopo giorno, scelse di adottare
la politica del terrore contro chi le si opponeva. Non solo, ma
persino il messaggio originario di Gesù era stata ignorato,
calpestato e stravolto. I vangeli gnostici, ritrovati di recente,
hanno offerto numerosi argomenti di riflessione su questi
delicati argomenti. La Chiesa di Roma, dopo Nicea, aveva
deciso di distruggerli tutti, riconoscendo come ispirati da Dio
solamente i quattro vangeli canonici, gli Atti degli apostoli,
l’Apocalisse, le lettere dell’apostolo Paolo e circa sette lettere,
tra cui, anche se ci fu qualche proposta di eliminarla, quella di
Giacomo, da molti studiosi indicato come il fratello di Gesù.
Eppure, prima del Concilio di Nicea, per ben tre secoli, molte
comunità cristiane si erano formate e mantenute nella fede con
la lettura e il commento di uno di questi vangeli gnostici,
93
successivamente condannati alla Chiesa e distrutti. Tra i tanti
vangeli apocrifi, oggi venuti alla luce, fra cui quello di
Tommaso, Filippo, della Verità, Nicodemo, Pietro,
Bartolomeo, degli Ebrei, Ebioniti etc., stranizza che non sia
venuto fuori un vangelo di Maria Maddalena, di Giacomo o
addirittura di Gesù stesso. Eppure, questi ultimi, sarebbero stati
i più titolati a lasciare una testimonianza del loro credo
religioso e degli avvenimenti di cui erano stati i protagonisti.
Abbiamo già detto che i Templari passarono i primi nove anni
della loro esistenza a scavare tunnel e gallerie nelle stalle di
Salomone alla ricerca non certamente di un tesoro o dell’Arca
dell’alleanza. Potrebbe, viceversa, essere legittimo il sospetto
che i Templari fossero alla ricerca di testi e documenti,
occultati e seppelliti prima della distruzione di Gerusalemme, e
che tra questi testi ci fosse proprio un vangelo di Maria
Maddalena o di Gesù stesso, un vangelo che avrebbe
sbriciolato dalle fondamenta l’impero che la Chiesa di Roma
aveva costruito. Non si può spiegare diversamente
l’atteggiamento di sottomissione dei Papi nei confronti dei
poveri cavalieri di Cristo, tenendo anche conto del fatto che
questo ultimi, nei quasi duecento anni della loro esistenza,
mostrarono di non tenere in alcuna considerazione l’autorità
del Sommo Pontefice e che addirittura, in anni in cui
quest’ultimo non poteva mettere piede a Roma per il clima
ostile scatenatogli contro dalla famiglie aristocratiche romane
che si contendevano la tiara, non vide mai al suo fianco un
drappello di Templari per ripristinarne l’autorità.
94
Anche se marginali, non mancano altri spunti di riflessione
che accumunano i Templari all’ebraismo. In primo luogo, il
loro non superficiale interesse per lo studio della Qabbalah, il
cui principale obiettivo è quello di penetrare la struttura
dell’Essere divino e i processi che si verificano all’interno di
questo. In secondo luogo, la sobrietà delle loro chiese, dove
non figurano statue di santi o altre immagini sacre del Nuovo
testamento. Gli stessi templari, diversamente dagli altri ordini
militari, non hanno un santo protettore. Per loro Dio,
riecheggiando le Sacre Scritture, è il numero perfetto, il
governatore e l’architetto del mondo. D’altra parte lo stesso,
Bernardo di Chiaravalle, in maniera alquanto insolita, era solito
definire Dio come altezza, profondità e larghezza. Va
sottolineato ancora la cura che, stando alle regole del Tempio, i
cavalieri templari dovevano avere per il proprio corpo. Per la
mentalità cristiana del Medioevo è qualcosa di insolito. Il corpo
è la prigione dell’anima e con le sue passioni e desideri è
causa, spesso, della perdizione dell’uomo. Il corpo va
mortificato, frustato e spesso anche piegato alle sofferenze di
un cilicio. Questa pratica religiosa era largamente praticata nei
conventi e nei monasteri. Un comportamento diverso, quindi
quello dei Templari che trova un riscontro proprio nel pensiero
ebraico, dove è chiaramente detto nella Torah che “l’intenzione
di tutta la legge consta di due cose: il benessere dell’anima e il
benessere del corpo(Ivi:614)
Ed è ancora Maimonide a chiarire che la perfezione
dell’anima non può essere raggiunta se non dopo avere
raggiunto quella del corpo, poiché solamente “dopo aver
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raggiunto la prima perfezione si può raggiungere la perfezione
ultima che è indubbiamente più nobile ed è essa sola causa
della sopravvivenza eterna”. (Ivi:615)
Ai Templari, poi, era formalmente proibito partecipare ai
tornei, sport molto in voga tra la cavalleria laica, e alle battute
di caccia. La caccia per Bernardo di Chiaravalle era un
divertimento profano del tutto sconveniente per la condizione
monastica. Era loro proibito persino accompagnare i laici che si
recavano a caccia, a meno che la loro presenza non era dettata
dall’esigenza di proteggerli dall’attacco di bande saracene.
L’unica eccezione era rappresentata dalla caccia ai leoni. Su
questo fronte i cavalieri del tempio avevano libertà assoluta.
Ma perché era consentita solo ed esclusivamente la caccia ai
leoni? Forse, perche simbolicamente il leone nelle Sacre
Scritture era spesso identificato con le forze del male. “Siate
sobri e state in guardia! Il diavolo, vostro avversario, si aggira
come leone ruggente, in cerca di chi divorare”(Lettera di Pietro,
5,8.)
La storia personale di Cristoforo Colombo, inoltre,
malgrado l’agiografia che è stata fatta intorno al suo nome, non
manca di numerosi punti oscuri, ma innegabilmente si svolge
fra ambienti ebraici e templari. La madre, Susanna, è di origini
ebraiche e, probabilmente, questa appartenenza religiosa gli
aprì le porte della società bene portoghese. A Lisbona sposa
una donna imparentata per parte di madre con la famiglia reale
e attraverso il suocero, Bartolomeo Perestrello, uomo di fiducia
del principe Enrico il navigatore e membro dell’Ordine
Templare, entra a far parte del prestigioso Centro di Sagres, un
96
accademia di cultura nautica specializzata nella programmazione di viaggi di esplorazione e di nuove rotte. All’interno
del Centro lavoravano studiosi arabi ed ebrei, particolarmente
esperti nel campo delle conoscenze astronomiche, matematiche, geografiche e cartografiche. Il Centro era stato
fondato da Enrico il Navigatore e ne facevano parte come
membri operativi sia Vasco de Gama che Bartolomeo Diaz,
entrambi cavalieri templari. Lo stesso Colombo ne divenne,
quasi sicuramente, un ufficiale operativo, poiché tra il 1477 e il
1483, sempre conto del Centro di Sagres, lo troviamo in
viaggio verso l’ Islanda, le Canarie, Guinea sempre. Sappiamo
che in seguito a un comportamento poco corretto del re del
Portogallo, Giovanni II, Colombo si trasferì in Spagna dove
presentò ai sovrani cattolicissimi il suo progetto di raggiungere
l’Oriente, navigando sempre verso l’Occidente. La teoria di
Colombo rasentava l’eresia e per queste sue stesse idee alcuni
anni prima Pietro d’Abano e Cecco d’Ascoli erano stati
condannati al rogo dall’inquisizione. Naturale, quindi, che la
commissione a cui fu sottoposto il progetto di Colombo per
studiarne la fattibilità desse parere negativo. Nonostante ciò,
Ferdinando il Cattolico approvò e finanziò il progetto di
Colombo. A questo punto è lecito sospettare che Cristoforo
Colombo, al di là di una costruzione artificiosa e leggendaria
del personaggio, sia stato materialmente protetto e sostenuto da
personaggi influenti sia della comunità templare che da quella
ebraica, poiché, secondo Wiesenthal,
“Non furono tanto motivazioni scientifiche o smanie di avventura a
spingere lui e i suoi protettori alla scoperta di nuove terre, bensì credenze ed
97
aspettative di carattere religioso. Wiesenthal tratteggia assai efficacemente
la fede degli Ebrei del tempo nella profezia di Isaia che indicava la
possibilità per loro “di cieli nuovi e terra nuova”, la nostalgia per le tribù di
Israele andate perdute, e sulla cui esistenza nell’estremo oriente si
favoleggiava, e sottolinea inoltre come le conoscenze tecniche e scientifiche
necessarie per l’impresa della traversata oceanica fossero soprattutto in
mano agli ebrei spagnoli, tra le cui schiere si trovano persone in possesso di
un patrimonio culturale matematico, astronomico, geografico, ma
soprattutto cartografico, che poche altre comunità dell’epoca potevano
vantare. In particolare, l’autore ricorda come proprio la cartografia fosse
una specialità degli ebrei e che un fiorente centro di studi in proposito era
l’isola di Maiorca”. (Bartocci 1993:6; cfr. Wiesenthal 1991)
Ma, su questa linea, ci sono altri indizi che ci portano a
scorgere una trama convergente. In primo luogo, la protezione
che Colombo godette sempre da parte di Giovanni Battista
Cybo, genovese di nascita, appartenente ad una famiglia di
origini ebraiche e meglio conosciuto col nome di Papa
Innocenzo VIII. Colombo che nei confronti della propria
famiglia sarà sempre prodigo e affettuoso non accenna mai ai
suoi genitori anagrafici. Questo ha fatto sì da indurre a
sospettare che, sia per le protezioni accordategli sia per la fama
di seduttore (a Innocenzo VIII si attribuiscono due figli
legalmente riconosciuti e un numero non precisato di bastardi e
di “nipoti”, come comunemente in Vaticano si indicavano i
figli dei Sommi Pontefici) , Cristoforo Colombo fosse figlio di
Innocenzo VIII. “Ancora oggi, se ci si reca in San Pietro, è
possibile acquistare un poster, che ha il placet del Vaticano,
contenente i cammei e il compendio, in poche righe, della vita
de “I sommi pontefici romani. Sotto il volto di Innocenzo VIII
è scritto: “portò a termine la immane opera di pacificazione
98
degli stati cattolici. Colpì inesorabilmente il mercato degli
schiavi e aiutò Cristoforo Colombo nella sua impresa alla
scoperta dell’America”. (Marino 2005:59-60)
Ma l’aiuto di Innocenzo VIII non si limitò solamente a
questo. Un banchiere della famiglia dei Medici di Firenze,
Giannotto Berardi, “risulterà fra i maggiori finanziatori del
primo così come degli altri viaggi di Colombo”(Ivi:64). In tale
operazione è evidente l’influsso del Sommo Pontefice.
Innocenzo VIII, infatti, non solo aveva stretto una forte
alleanza con Lorenzo il Magnifico, facendo sposare il figlio
Franceschetto Cybo con Maddalena dÈ Medici ed elevando
alla porpora cardinalizia il giovane Giovanni dÈ Medici, che
diverrà Papa col nome di Leone X, ma aveva anche stretti
rapporti di affari nel commercio dell’allume. È probabile,
dunque, che Lorenzo il Magnifico abbia influito sulle scelte del
suo banchiere di fiducia per sdebitarsi con Innocenzo VIII per i
favori ricevuti e per mostrare la sua totale disponibilità ai
progetti di quest’ultimo, anche se, in verità, non va trascurata
l’ipotesi che l’appoggio dei banchieri toscani all’impresa di
Colombo possa trovare una valida interpretazione nello stesso
ambiente ebraico e templare, poiché le prime testimonianze di
istituti bancari all’inizio del secolo XIV si trovano proprio in
Toscana e, guarda caso, nascono subito dopo lo scioglimento
dell’Ordine Templare e in un territorio culturalmente e
politicamente non troppo favorevole al retrogrado ambiente
ecclesiastico e ai vertici di Santa Romana Chiesa. Spesso nelle
lettere scritte da Colombo “si notano un simbolismo e una
terminologia, come il riferimento al Tempio, che ne fanno
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assomigliare le parole più a quelle di un ebreo nostalgico della
Terra promessa e della Città Santa, che non a quelle di un
cattolico ortodosso”(Bartocci 1993:8); allo stesso modo non può
non far riflettere la sua abitudine di far precedere la sua firma
da un criptogramma e precisamente dalle tre lettere X M Y,
abitudine, secondo alcuni studiosi, che ha un sapore
prettamente iniziatico e che molto probabilmente dovrebbe
intendersi nelle parole di cristiani, mori e giudei. (cfr. Pistarino
1990) Tutto ciò può avere il sapore della pura congettura, ma in
una lettera di Colombo, citata da Bartocci, questa ipotesi
appare particolarmente sensata e non campata in aria, poiché in
essa
“si trova l’affermazione indubbiamente ereticale – per la sostanziale
uguaglianza di tutte le religioni a cui allude e, quindi, la negazione della
specificità del Cristo – anche dal punto di vista dell’ortodossia cattolica
radicale a noi contemporanea: “Affermo che lo Spirito Santo opera in
cristiani, giudei, mori e in altro d’ogni possibile setta”. (Bartocci 1993:15).
Naturalmente come non sottolineare che questo grande
progetto di esplorazione del mondo e di auspicato rinnovamento scientifico rientrava a pieno titolo nel programma
operativo dei templari il cui obiettivo ero quello di superare i
limiti della civiltà, poiché le conquiste nel tempo nessuno le
potrà mai togliere. Quanto ha scritto Heschel per l’ebraismo
può a buon diritto applicarsi benissimo anche ai templari.
“Azione e pensiero sono collegati fra loro in un tutto unico. Tutto ciò
che un individuo pensa e sente penetra in tutto ciò che fa, e tutto ciò che egli
fa è coinvolto in ciò che egli pensa e sente. Le aspirazioni spirituali sono
destinate a fallire quando cerchiamo di promuovere delle azioni a scapito
100
dei pensieri o dei pensieri a scapito delle azioni…Vivere nella maniera
giusta è come un’opera d’arte, è il prodotto di una visione e di una lotta
legata a situazioni concrete”(Heschel 2006: .320)
Per gli ebrei, così come per i Templari, il culto per la
responsabilità collettiva ha un ruolo fondamentale.
“Non ci sono per Israele due zone distinte: quella della religione che
guarda soltanto la cielo ed è cosa riservata al mistero della coscienza
individuale, col suo premio e la sua pena nell’al di là, e l’altra zona, quella
della collettività, colle sue leggi utilitarie, relative, sottratte alla sfera etica
ed assoluta del divino”. (Lattes 1999: 59).
Non deve, quindi, esserci frattura fra sfera individuale e
sfera collettiva. “Conoscere veramente Dio significa dunque
concretare quest’armonia. Quando gli uomini avranno
restaurato fra loro, nella loro società e nella loro vita
quotidiana, questa concordia spirituale, Dio allora sarà
veramente Uno”. (Ivi:209). Per gli ebrei non è l’eremitaggio o la
vita contemplativa che ci porta sulla giusta via per conoscere e
imitare Dio, ma l’aprirsi al mondo ed essere testimoni della
parola di Dio, non solo nel rapporto fra gli uomini , ma anche
nella vita sociale e in quella politica. Chiarisce ancora meglio
Lattes che
“non salva l’atto di fede o un evento meraviglioso, o la mano di Dio che
scende dai cieli sugli uomini solitari; ciò che salva è la santità conquistata
non solo nella comunione con Dio indulgente o per il sacrificio d’altri, ma
quella più difficile che si raggiunge coll’azione fra gli uomini, col
superamento del male, colla virtù quotidiana della vita nella società, nella
famiglia, nel popolo, nel genere umano”. (Lattes 1999: 85)
101
E più avanti, offrendoci una scelta di vita che in larga parte
richiama quella dei Templari, conclude asserendo che
“questa è la concezione ebraica che si potrebbe chiamare della
responsabilità collettiva e che non permette all’uomo la sterile
contemplazione né gli consente di ritirarsi nella torre d’avorio del suo io,
ma gli chiede di espandersi nell’Umanità senza porre confini alla sua
azione”. (Ivi:93)
In una vita, infine, dedicata al servizio di Dio, I Templari
non potevano permettersi di abbandonarsi a schiamazzi, risate
sfrenate, risse o atteggiamenti poco consoni al loro ruolo. Oltre
alla serietà e a un tenore di vita irreprensibile, si auspicava
anche che il Templare, oltre al soddisfacimento dei suoi
impegni quotidiani, praticasse quanto più possibile il silenzio,
poiché nei riguardi Dio (anche in questo aspetto si colgono
punti di contatto con l’ebraismo) “la vera preghiera, la sola che
gli si addica, è il silenzio, che ogni lode positiva costituisce, di
fatto, l’attribuzione di ciò che, per noi, è perfezione e, per lui,
difetto”(Sirat 1990:234 ). La preghiera, quindi, da questo punto di
vista si traduce in una concessione alla debolezza e alla fede
ingenua dei credenti, per cui
“L’espressione più eloquente a questo fine è il detto dei Salmi: Il
silenzio, per Te, è lode” – la cui interpretazione è: il silenzio intorno a Te è
una lode. Questa è un’espressione molto intensa di questo concetto, perché
noi, in qualunque cosa noi diciamo con l’intenzione di magnificarLo e
lodarLo, troveremmo qualcosa che si applica a lui, ma vedremmo anche
qualcosa di manchevole. Dunque è meglio mantenere il silenzio e limitarsi a
percepire gli intelletti separati, come ordinano i perfetti, dicendo: Parlate in
cuor vostro sui vostri giacigli, e tacete”. (Maimonide 2003: 213-214).
102
Può sembrare una coincidenza, ma Maria Grazia Lopardi, in
un colloquio tra un Templare e Pietro del Morrone, futuro Papa
col nome di Celestino V, accennando al silenzio, ne dà una
descrizione che richiama molto da vicino Maimonide.
“Dei piani di Dio – scrive Lopardi – l’uomo conosce solo piccoli aspetti
e si affanna tanto per compiere la sua parte, ma dovrebbe avere più fede
invece che preoccupazione: se il Signore incontra cuori aperti, disposti a far
silenzio per ascoltare la sua voce, i suoi piani non possono fallire. Non
saremo forse noi a compierli, ma possiamo offrirci come strumenti e restare
in attesa fiduciosi, perché ci verrà detta la mossa da compiere al momento
giusto. Cerchiamo il silenzio e la pace dove si ascolta chiara la voce del
Signore. Il silenzio non si impone, è l’effetto del porsi in ascolto…Non
pensare però che il nostro compito sia solo quello di aspettare: poi occorre
attivarsi e dare interamente se stessi per realizzare ciò che Dio suggerisce.
La Volontà è la sua, ma le braccia, le gambe, i doni di cui la natura ci ha
dotati vanno poi messi a servizio”(Lopardi 2010: 2)
Naturalmente, le vere origini dei Templari, gli obiettivi i
programmi e le strategie per tradurli in atti concreti, erano a
conoscenza solo dei vertici dell’Ordine e dell’anonimo gruppo
di potere, di cui i poveri cavalieri di Cristo costituirono il
braccio armato. La base, indubbiamente, era all’oscuro di tutto
e credeva fermamente, oltre al prestigio che derivava loro dal
bianco mantello che indossavano, alle ufficiali motivazioni
religiose per cui l’Ordine era stato costituito. È fuor di dubbio
che col passare del tempo e, in particolare, dopo la morte di
Bernardo di Chiaravalle, avvenuta nel mese di agosto del 1153,
e di quella della maggior parte dei fratelli fondatori, l’afflato
religioso delle origini si sia ampiamente affievolito,
travolgendo in questo cambiamento lo stesso comportamento
dei Templari. Necessitando di uomini sia per la guerra contro
103
gli infedeli in Terra Santa, sia per l’amministrazione delle sue
ingenti proprietà, sparse in tutta Europa, L’Ordine non poteva
andare per il sottile. Ne è una prova il reclutamento degli
scomunicati e di quanti avevano problemi con la giustizia.
L’Ordine, in poche parole, si era trasformato in una vera e
propria legione straniera, ufficializzando così la sua
laicizzazione. Lo stesso voto di castità, che imponeva ai fratelli
di non baciare mai nessuna donna, comprese madre e sorelle,
dal XIII secolo in poi esisteva, forse, solo sulla carta. Se un
cavaliere veniva sorpreso a dare scandalo in un bordello
perdeva il suo stato di Templare, ma non era tanto la
frequentazione del bordello che preoccupava i vertici
dell’ordine, quanto lo scandalo. Sempre seguendo questa
logica, si era disposti a soprassedere da ogni punizione nei
riguardi di un cavaliere che si fosse lasciato tentare da una
meretrice; l’unica cosa che gli si chiedeva era di non parlarne
assolutamente con nessuno e, in modo particolare, con i propri
confratelli per evitare tentazioni o peccati di pensiero. “Ancora
agli inizi del Trecento qualche precettore durante la cerimonia
d’ingresso osservava questa norma molto realistica riguardo le
debolezze umane: imponeva al nuovo membro di astenersi dal
frequentare le donne, e se proprio non ci riusciva doveva
almeno aver cura che nessuno lo venisse a sapere”. (Frale
2004:55)
È sintomatico che, sempre a partire dal XIII secolo, tutti i
casi esaminati dal consiglio per giudicare della colpa o meno
dei confratelli accusati di essere venuti meno alle norme
dell’Ordine, “si riferivano, teoricamente, solo a violazioni del
104
regolamento dei Templari e non ai Dieci Comandamenti. Il
Consiglio prendeva provvedimenti, quindi, solo per colpe
contro la comunità e non contro Dio”(Bauer 2005: 65).
Conclusioni
La condanna per eresia, come è naturale, portò anche allo
scioglimento dell’Ordine dei Templari per espressa volontà di
papa Clemente V. Quale che sia la posizione di ciascuno di noi,
se, cioè, convinti o meno della loro colpevolezza, nessuno
potrà mai negare l’abnegazione, il senso del dovere e l’eroismo
di questo corpo scelto, un eroismo, a volte talmente incosciente
da rasentare una volontà suicida. In ogni caso, quella dei
Templari, è una storia inquietante e lo è a tal punto che,
inquietandoci, ci spinge caparbiamente a ripercorrere il grande
fiume della loro storia, senza trascurare i numerosi affluenti,
ruscelli e rivoli che da questo fiume si diramano. Un cammino
reso inquietante, non tanto perché di esso non si intravede mai
la fine, ma per i numerosi e lunghi tunnel oscuri nei quali
siamo costretti a inoltrarci. È un po’ come il fascino
dell’ignoto. Un cammino che, seppure difficoltoso, ci premia
alla fine con l’acquisto di segmenti di verità o, se vogliamo,
con squarci di luce che ci consentono di potere seriamente
riflettere su nuove ipotesi di ricerca. D’altra parte un fatto è
certo: chi all’inizio di una ricerca parte con tante certezze, alla
fine arriva con mille dubbi e mille perplessità; viceversa chi
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inizia un percorso di ricerca con mille dubbi, spesso alla fine
arriva ad acquistare qualche certezza.
Da qualsiasi angolazione possano essere guardati i
Templari, un fatto è certo: pur nella solitudine e povertà di vita,
questi cavalieri si nutrivano di un grande sogno: quello di
difendere la cristianità e di guadagnarsi l’immortalità col
proprio sangue. Nello stesso giorno in cui pronunziavano i voti
per ottenere l’investitura di cavalieri sapevano benissimo, nello
stesso tempo, di stare pronunziando la loro condanna a morte.
Un ruolo tragico che li collocava al confine tra la dimensione
umana e quella divina e questa coscienza del loro stato e della
loro missione li portava spesso ad assumere un atteggiamento
di distacco dalle banalità quotidiane, che per molti si traduceva
in superbia, boria e atteggiamento sprezzante. Sembra quasi
che Michele Federico Sciacca in un suo saggio su Unamuno,
parlando di don Chisciotte, abbia avuto presente i Templari.
“Ma c’è chi, pur convinto che un destino dell’uomo solo storico è una
banalità imbottita di mille retoriche e che solo una destinazione superstorica
dà senso e valore alla storia dell’uomo e del creato, non ce la fa ad aderire a
questa soluzione che, pur bisognosa di essere riproposta e approfondita in
un discorso infinito, presenta principi e ragioni immanenti allo stesso essere
dell’uomo, gli stessi che la speculazione fa emergere dal più profondo e
sofferto pensare”(Sciacca 1989:16).
I Templari, dunque, in quanto protagonisti di un progetto
superstorico e testimoni di un pensiero che va oltre i limiti
della civiltà “sono incomodi e scomodi: minacciano ogni forma
di quiescenza richiamando l’esistenza dell’essere che la
costituisce e incardinandovela spronano a scegliere tra la
106
sicurezza vitale e la libertà pronta ai mille pericoli cui la prova
della vita la espone; ad ascoltare tutte le voci da qualsiasi parte
provengano e a tutte e a ciascuna, anche quando siano
conoscenze consolidate, domandano: questa o altra è parola
valida ai fini del destino dell’uomo?”(Ibidem)
Questo sogno rischiava di infrangersi con la definitiva
perdita della Terrasanta nel 1291, quando buona parte dei
Templari fece ritorno in Francia. Crollato il motivo principale
della loro esistenza, si resero perfettamente conto che la
conseguenza più immediata sarebbe potuta essere rappresentata
dal rischio di pregiudicare il progetto più importante che era
quello di distruggere la struttura feudale del tempo. Fra mille
rischi decisero di andare avanti lo stesso, non rendendosi conto
dei mutamenti politici e sociali che erano avvenuti nel corso
degli ultimi due secoli. Fu il loro limite, perché peccarono di
ingenuità o fecero troppo affidamento in un potere che
ritenevano consolidato. Non avendo più un nemico contro cui
combattere, si limitarono a curare gli altri settori in cui nel
corso dei secoli si erano specializzati: quello bancario e
diplomatico. Le donazioni come è naturale erano enormemente
diminuite, ma i Templari erano orami talmente ricchi da non
preoccuparsene. Naturalmente continuavano a svolgere i loro
affari e commerci godendo sempre di tutte le esenzioni fiscali,
da cui erano stati esonerati dalle varie bolle pontificie. Sovrani,
vescovi, feudatari, e ora anche il popolo, mettevano in
discussione i numerosi privilegi di cui godevano e, persino, il
motivo della loro sopravvivenza una volta terminata l’epopea
delle crociate. Operavano, quindi, in un clima che nei loro
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confronti diventava sempre più ostile. I templari, fra l’altro,
non andavano tanto per il sottile, quando dovevano difendere i
propri interessi e non esitavano a ricorrere alla forza e all’uso
delle armi contro chi si opponeva o pretendeva di usurpare i
loro diritti. Quando erano in giuoco i suoi interessi,
“l’Ordine dava prova di una spietata durezza che poco si addice alla
carità cristiana. Intimamente persuasi della loro superiorità, abituati a
considerarsi l’élite guerriera della cristianità, i Templari non provavano
alcuna compassione per le sofferenze dei loro simili, né alcun rispetto per le
idee o i sentimenti altrui. L’ordine si era trasformato in una macchina
gigantesca che funzionava bene ma che, come tutte le macchine, aveva un
difetto: non era più umana. Quando nasceva una controversia tra una casa
templare e qualche vicino, i fratelli non esitavano a uccidere, depredare o
incendiare, come avrebbe fatto qualsiasi signore feudale. I templari, però,
rischiavano di meno, grazie agli enormi privilegi di cui godevano e
all’omertà che circondava alcuni episodi”. (Markale 2003: 101)
Ma è pur vero che non esitavano, dove erano presenti con le
loro commende, a mettere a disposizione della popolazione i
loro beni, in caso di calamità naturali o di particolari necessità.
“Una tradizione, raccolta in quel di Imperia,narra che nel
1150 un sisma particolarmente violento distrusse quasi
completamente Porto Maurizio e i suoi dintorni. In tanta
desolazione gli abitanti sopravvissuti sarebbero stati aiutati dai
Templari, i quali, con il loro contributo finanziario e morale,
avrebbero collaborato alla ricostruzione della città”. (Capone
1977:81) Questo episodio, però, si riferisce ad una calamità
naturale, avvenuta pochi anni prima della morte di San
Bernardo e, come abbiamo già evidenziato, è proprio la morte
del monaco di Chiaravalle che segna una netta linea di
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demarcazione tra il templarismo delle origini e il successivo
processo di laicizzazione. È in questo clima che va maturando
il tramonto e la morte dell’Ordine dei Templari.
Molti storici attribuiscono la loro fine alla cupidigia e alla
fame di oro di Filippo il Bello, ma pur non disdegnando
quest’ultimo i loro beni mobili e immobili, non fu certamente
questa la motivazione della sua persecuzione contro i Templari.
Agli inizi del XIV secolo inizia a prendere corpo il concetto di
sovranità nazionale e Filippo il Bello che in tal senso si sentiva
investito da una missione divina, non poteva certamente
tollerare che all’interno della Francia i Templari si
comportassero come uno Stato nello Stato senza alcuna
sottomissione nei confronti del sovrano e, per giunta, con una
disponibilità economica che la corona nemmeno si sognava di
potere mai possedere. Filippo il Bello, da molti considerato
come il precursore delle grandi monarchie assolutiste, si rese
conto che la presenza dei templari in Francia costituiva un
ostacolo al suo progetto politico e, in realtà, aveva paura “della
massa di uomini combattenti che il tempio poteva mobilitare
all’istante; paura del potere che avevano in mano data la vastità
dei loro possedimenti, superiori ai suoi; paura della ricchezza,
che li metteva in grado di gestire qualsiasi trattativa e trovare
ogni alleanza; paura della stima e dell’affetto che il popolo
nutriva per loro”. (Imperio 1996: 24)
Filippo il Bello temeva a tal punto l’Ordine dei Templari
che dichiarò di essere pronto ad abdicare dal trono di Francia
per assumere la carica di Gran Maestro qualora fosse andato in
porto il progetto di unificare in un solo ordine quello dei
109
templari e degli ospedalieri. Il progetto di fusione non solo fu
rifiutato dai Templari, ma sembra che questi ultimi abbiano
posto il veto persino al suo accesso all’Ordine. “Per giunta i
Templari, a quel che sembra, avevano lasciato trasparire
un’arrogante superiorità nell’ospitarlo presso il Tempio di
Parigi, quando gli offrirono riparo dalla folla inferocita che si
era ribellata all’opprimente pressione fiscale”. (Lancianese
2006:160)
Il Tempio di Parigi, che si trovava di fronte all’odierna rue
des Fontaines-du- Temple, si presentava ai passanti come una
imponente fortezza in buona parte simile ai possenti castelli
edificati dai templari in Palestina. Ma perché - si chiede
Markale – hanno costruito un’opera tanto possente nel centro
di Parigi se il tempio aveva sempre goduto della protezione del
sovrano e non aveva nulla da temere all’interno della città?
Probabilmente perché “la fortezza è stata costruita per mostrare
la grandezza del Tempio e anche per lanciare un monito al re”.
(Markale 2003: 55) Parigi per circa un terzo era proprietà dei
Templari e, nella realtà, costituiva uno stato nello stato. Tutta
la loro filosofia di vita sembrava orientata non solo a superare
le barriere della struttura feudale, ma a gettare le basi per un
governo mondiale unitario, capace di dare ai propri sudditi
giustizia, prosperità, pace, ordine sociale, non trascurando il
progresso delle scienze e della cultura in genere.
I Templari, inoltre, nel corso della loro lunga permanenza in
Terrasanta si resero conto delle vaste conoscenze di cui l’
Oriente era depositario e non nascosero le loro intenzioni di
avviare un dialogo costruttivo. È in nome di questa tolleranza
110
che sul rosone della loro commenda a Trapani fecero collocare
i simboli delle tre religioni monoteistiche. “Su questi
presupposti, pur nella feroce contrapposizione delle battaglie, i
Templari gettarono un ponte verso l’Oriente e sempre di più
affidarono ai trattati, alla diplomazia e alla politica i loro
rapporti con l’Islam”. (Lancianese 2006: 194)
Filippo il Bello fu indubbiamente l’unico sovrano europeo
ad avere intuito la segreta strategia dei Templari e a temere la
loro presenza in Francia, che con circa 20.000 effettivi tra
cavalieri, sergenti e truppe ausiliarie, costituiva per lui,
comprensibilmente, una seria minaccia. In base a questi
presupposti, con i sospetti e i pregiudizi che l’apertura verso il
mondo islamico aveva ingenerato, decise che non si poteva più
restare inermi di fronte alla minaccia che incombeva sulla
corona di Francia.
Fu così che all’alba del 13 ottobre 1307, in ottemperanza ad
un ordine di Filippo il Bello, le commende templari della
Francia vennero circondate dalla gendarmeria locale e tutti i
confratelli arrestati e trasportati a Parigi, chiamati a rispondere
del reato di eresia, sodomia e blasfemia. I funzionari regi che
aprirono il plico, quasi non cedettero ai propri occhi, non tanto
perché i templari avevano fama di essere ottimi combattenti,
quanto per il prestigio di cui godevano in tutta la cristianità.
Clemente V eletto papa con l’appoggio determinante del
sovrano francese, trovò molto conveniente appoggiarne
l’iniziativa per liberarsi una volta per tutte dall’ingombrante
ordine. Abbiamo già detto che tra i programmi dei templari e
dell’organismo a loro superiore, oltre a favorire lo sviluppo
111
delle scienze e della cultura in genere, ci fosse anche la volontà
di operare una profonda trasformazione dell’assetto sociale del
Medioevo, determinando le condizioni per il superamento dello
stato feudale. Un progetto, quest’ultimo, che il Vaticano non
poteva assolutamente condividere. Per la politica della Chiesa
il problema non era smantellare il sistema feudale, ma
mantenerlo con il predominio del potere teocratico su quello
imperiale. Questa interpretazione spiegherebbe, sottolinea
Partner, i legami di fratellanza, allacciati dai Templari
attraverso le confraternite e vasti settori della popolazione
dell’epoca. (Partner 1993:72) Ma è ancora più chiaro Lancianese:
“Il vero attacco al potere andava portato sul piano della società civile,
determinando le condizioni necessarie e sufficienti al superamento dello
stato feudale, infiltrandosi lentamente in esso fino a modificarlo
radicalmente dall’interno, impadronendosi dei centri nevralgici della sua
struttura politica ed economica. Bisognava sorreggere i commerci e le
corporazioni, impadronendosi dei flussi monetari, controllare le vie di
comunicazione, la cultura, la tecnologia e la scienza, in breve tutto ciò che
consideriamo fondamentale nella società moderna e che veniva invece
completamente ignorato dal potere feudale, assorbito da ben altre
preoccupazioni. A ben vedere questo è esattamente ciò che fecero i
Templari al di fuori della loro operatività militare, perché questo era il vero
compito a cui essi dovevano assolvere. Questa attività sociale, economica e
politica non aveva assolutamente niente a che vedere con un impegno
bellico, anzi era del tutto avulsa, contrastante e stridente con la concezione
cavalleresca in epoca medievale”. (Lancianese 2006:88-89)
Sotto questo profilo, l’ordine dei Templari non fu altro che
la prima multinazionale della storia economica dell’occidente
o, se vogliamo, il pioniere dell’economia globalizzata. Ai
Templari, in realtà, non interessava abbattere i confini
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nazionali degli stati sovrani o di ritagliarsi lo spazio per un
proprio regno, come avvenne per gli Ospedalieri. Nulla di tutto
questo. Premeva loro il controllo economico dell’occidente,
poiché sapevano che tramite questo avrebbero avuto il potere
di interferire nella politica interna degli stati. Un progetto
ambizioso la cui pericolosità non sfuggì né a Filippo il Bello,
né al Vaticano. E gli effetti non tardarono a farsi sentire. Resta
solo una domanda. Perché i Templari non reagirono,
considerata la loro potenza economica e militare? Se avessero
voluto avrebbero senza dubbio avuto la forza necessaria per
detronizzare Filippo il Bello,ma, contrariamente a tutte le
aspettative si fecero arrestare e non opposero la benché minima
resistenza. Certamente furono informati delle intenzioni del
sovrano francese, tanto è vero che i cavalieri arrestati in
Francia rappresentavano la minoranza dei reali effettivi
presenti sul territorio e che del tesoro del Tempio e della flotta
se ne ebbe più notizia. Probabilmente la mente direttiva
dell’Ordine comprese che l’Ordine dei Templari avesse fatto il
suo tempo e che di conseguenza, fosse giunta l’ora di
sacrificarlo per riciclarsi in un’altra organizzazione che non
desse adito a sospetti o, ancora meglio, non attirasse la
curiosità dei poteri forti. Come anche, probabilmente, si rese
conto, qualora effettivamente l’Ordine due secoli prima avesse
trovato documenti da ricattare il Vaticano, che quest’ultimo
avesse talmente consolidato il suo potere in occidente, a tal
punto che la fede dei credenti non sarebbe stata minimamente
scalfita, un potere, fra l’altro, rafforzato e imposto con la
sanguinaria macchina dell’Inquisizione.
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Indice
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Finito di stampare
nel mese di dicembre 2011
da Seristampa – Palermo
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