Le origini ebraiche dei templari
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Le origini ebraiche dei templari
1 2 Manuela Girgenti - Salvatore Girgenti Le radici ebraiche dell’Ordine Templare: un’ipotesi di ricerca 3 Tutti i diritti sono riservati Copyright Pietro Vittorietti Edizioni Pietro Vittorietti Edizioni è un marchio Pietro Vittorietti soc. coop. Via GB. Palumbo 5 – 90136 Palermo www.vittorietti.it – [email protected] 4 Introduzione Parlare di Templari è impresa ardua. L’argomento è spigoloso (scandaloso, dunque) sul piano storico, per tutte le complicazioni e soprattutto co-implicazioni che esso genera sul piano delle fonti, del metodo d’indagine adottato e sull’attendibilità scientifica conseguente, spoglia se possibile da ogni preconcetto apologetico, in alcuni casi, o cinicamente demitizzante in altri, pur di farsi valere come imparziali de-costruttori. Nel primo caso non aggiungeremmo nulla al nostro sapere, anzi lo spingeremmo sempre di più verso una ineffabile impotenza quasi compiaciuta di essere tale, nel secondo caso, adottando il sum ius, summa iniura, ci priveremmo a principio di ogni eventuale sapere. La storia ha da essere imparziale e coevamente non essere nichilista. Anzi dovrebbe svolgere la funzione trasformativa di tradurre il non sapere non tanto in saputo, ma in sapere generatore di nuova conoscenza e consapevolezza. Capire le differenze dovrebbe, dunque, essere più importante che produrre sommatorie di simboli funzionali alla ricerca di un’unica forma di facile autocompiacimento. Detto in lingua volgare sarebbe il prevalere dell’analisi sulla sintesi. L’analisi è sforzo conoscitivo, la sintesi corre il rischio di divenire pensiero unico o, peggio, propaganda di un tipo o di un altro e non importa a favore di chi. Insomma “L’analisi difficile al posto dell’indignazione facile” (Roland Barthes – Lezione). Sui Templari si è detto e scritto moltissimo, se si tolgono le apologie, le narrazione fantastiche, le saghe leggendarie, le sceneggiature funzionali a certi generi sia letterari, sia filmici, sia 5 pseudo-storici da un lato, e se si tolgono gli scetticismi, altrettanto misterici del mistero, che intendono destrutturare una volta per tutte, come se i due atteggiamenti si nutrissero l’uno dell’altro, allora sui Cavalieri del Tempio è stato scritto pochissimo, e certamente c’è, viceversa, moltissimo da scrivere. Diciamo che per entrambi gli atteggiamenti il nocivo è ogni volta credere che si sia scritto o detto una volta per tutte. “L’ultimo romanzo, l’ultima verità” sembra essere un disturbo sia della personalità, sia della cultura in genere; entrambe le disfunzioni hanno attraversato il nostro novecento. Ciò non toglie che quando si citano i Cavalieri del Tempio, la nostra curiosità, la nostra fantasia si ecciti, se comuni e appassionati lettori come me, o parallelamente si mettano in moto processi d’indagine conoscitiva altrettanto appassionati, ma rigorosi se condotti da storici, come speriamo non ci vengano mai a mancare. Il saggio di Salvatore Girgenti si colloca proprio in questa direzione, traccia i percorsi storici, più o meno inequivocabili, ma lavora negli interstizi, nelle rughe, nelle pieghe che ogni ricostruzione si porta appresso, dunque sono più le domande che le risposte. È mio personale convincimento che farsi affascinare dal mistero, dall’oscuro, dall’inconoscibile, pur essendo sentimento legittimo, ci priva però e parimenti di un ordine di fascino superiore e più ricco che è quello della comprensione e conoscenza dei fenomeni. In quest’ultimo caso i mezzi per pervenirvi possono anche apparire più aridi, analitici, meno coloriti, certamente meno fantastici, ma il risultato, sempre 6 parziale, che si può sperare di raggiungere nasconda, - è il caso di dirlo – soddisfazioni maggiori. Sin dalla sua origine fino all’improvvisa decimazione dell’Ordine, ma improvvisa apparentemente, la storia dei Templari sembra costellata di un crescendo di fatti ignoti, o noti in forma conforme a seconda del tipo di Templari che ogni storico, o narratore o sedicente continuatore dei Principi dell’Ordine stesso, vuole configurarsi come immagine degli stessi. È indubbio che la loro fine fu tragica e spietatamente violenta, e questo ci induce a sentimenti di pietà e anche di rancore nei confronti di poteri sempre più potenti. Il rancore viene da qui, se i Templari fossero stati decimati – come ora diremmo - dai “parenti delle vittime” trucidate dai Templari stessi, avremmo poco di cosa avere pietà. Disturba la nostra coscienza che a sgominare i Cavalieri del Tempio, siano stati gli stessi ai quali essi avevano prestato utilissimi servigi: la Chiesa e, nella fattispecie, Filippo IV il Bello Re di Francia. Ma la storia è ciò che è successo, che significa parimenti ciò che ha avuto successo. Il perché e il come di questo successo è l’oggetto dell’analisi storica, senza pietà da un lato e senza rancori dall’altro. I servigi resi alla Chiesa furono incommensurabili, così come quelli resi alle varie monarchie cristiane (espressamente non diciamo europee, perché questo concetto verrà un po’ dopo). Nel frattempo l’Ordine Templare si struttura sempre di più, diventa sempre più ricco e potente, il suo potere contrattuale s’accresce, un potere tanto grande da essere sempre più difficile da gestire, soprattutto nei confronti di altri poteri in via di forte costituzione. Il Papato prima ispiratore, poi complice, infine avverso proprio in 7 funzione di un ordine, non più dalla Chiesa ordinabile e controllabile secondo un criterio centrale. Da qui una delle prime premesse del conflitto. Parimenti il Re di Francia, fortemente debitore soprattutto finanziariamente nei confronti dell’Ordine, contemporaneamente ostile a una Chiesa che vuole svuotare del suo potere temporale e della sua invadenza e influenza negli affari della monarchia e della Francia stessa, seconda ragione del conflitto. E qui, in forma molto semplificata abbiamo i tre soggetti in questione, nessuno dei quali è certamente amico dell’altro. Terza ragione del conflitto, a mio parere la più importante, perché non costituisce solo una delle premesse, ma la sua necessaria condizione: Filippo IV il Bello sta per fondare la monarchia come sovranità e non solo attinente aggettivo di un monarca. Una monarchia che deve diventare istituzione a prescindere dal monarca che in un dato momento ne è immagine rappresentativa fisicamente. Filippo vuole fondare lo stato come persona astratta non soggiacente a condizioni personali, dunque monarchia sovrana, stato sovrano, dove stavolta il vero sostantivo è l’aggettivo, è la sovranità dello stato, della monarchia, del monarca, che è più importante del monarca stesso. Il concetto di sovranità sconvolge tutto l’apparato giuridico, sociale, culturale e politico di quel tempo, è una delle prime forme di costituzione degli stati moderni se non della modernità tutta. Questo concetto ce lo portiamo appresso tanto che, tagliate le teste ai re durante la rivoluzione francese, la loro corona simbolo di sovranità, a prescindere dal nome, è passata al popolo; il popolo è diventato sovrano al posto del re, dunque quello che 8 assolutamente non doveva perdersi era la sovranità e lo stato, da allora è così. Il Re, a tal punto rappresenta (così come anche il popolo, diciamo noi) “l’uomo artificiale che chiamiamo Stato, esso viene chiamato sovrano, e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro è suo suddito” (Thomas Hobbes – Leviatano). Anche nel caso del popolo dunque assistiamo alla scissione fra figura fisica e figura artificiale: il popolo sovrano rappresenta il popolo, ma i due “popoli” non sono la stessa cosa o lo stesso popolo. Potremmo dire che il popolo reale è alienato rispetto al popolo rappresentato “sovrano”. In tal senso ogni ordine diverso dall’ordine dello stato non è più concepibile. Ancora e per molto si avrà che forme parcellizzate di ordini, anche corporativi potranno esistere ma avranno giurisdizione solamente interna ai propri aderenti e mai in difformità dall’ordine costituito che è quello dello Stato, che semmai ne concederà controllata licenza. Non potranno esistere stati nello stato. Questo concepisce e persegue Filippo, sì facendo ridimensiona il potere ecclesiastico e al contempo se ne serve per nientificare i Templari, titolari di un credito quasi impagabile nei confronti del monarca. Ma se il monarca non è solo il re, ma è rappresentante di uno stato, lo stato non può fallire, gli stati non possono andare in bancarotta, possono sì impoverirsi fino allo stremo, possono correre il rischio di essere invasi, ma in tal caso è guerra. Filippo ha fatto quello che doveva fare, annullare i suoi creditori; d’altronde se al posto dei Templari ci fosse stato un altro Stato, non gli sarebbe rimasto che fare la guerra. Tale esempio lo trovo drammaticamente attuale! 9 L’Ordine del Tempio si trovò così di fronte a un fiume della storia che non poteva più controllare dove, inevitabilmente ne sarebbe diventata la vittima sacrificale. Piaccia o non piaccia, noi siamo figli di ciò che è successo (e dunque di chi ha avuto successo). Ma siamo soprattutto figli di questa dialettica della storia che nei suoi continui superamenti, rappresentando il già successo, porta con sé sia i vincitori sia i vinti nel loro rapporto, al punto che è il rapporto stesso a fondarne le funzioni, per paradossale dialessi è il futuro attuale che fonda i termini del presunto passato. Ecco che adesso c’è da capire molto; come è successo ciò che ha avuto successo? Quali sono state le funzioni dei vari attori? Dei Templari oltre a indagare cosa loro sapessero e tenevano segreto, non sarebbe altrettanto interessante cercare di capire cosa non sapevano, cosa a loro sfuggiva, e se sapevano, perché in tempo non vi hanno posto rimedio? Quale era la consapevolezza storica di ciò che stava accadendo? Hanno avuto percezione della loro fine, ovviamente non solo di quella violenta? Queste e infinite altre domande sono possibili, e meriterebbero risposte argomentate. Protagonisti per quasi duecento anni di un periodo storico complesso e crogiuolo di svolte e invenzioni sociali inimmaginabili, si ritrovano ad essere in breve tempo anacronistici rispetto al loro stesso tempo. Non è una novità, è successo sempre, un ordine sociale matura un suo compimento e sembra che tutto a un tratto si trasformi completamente in altro. Fino a oggi abbiamo avuto l’illusione, certe volte fondata, che questo comporti ogni volta un passaggio ad un ordine superiore, più complesso che, anche se più articolato, comunque sempre più 10 unitario nei suoi fondamenti, una sorta di ordine maggiore che è lì ad aspettarci e che abbiamo anche chiamato, non a torto, progresso. Ma il termine progresso è un termine estremamente relativo non del tutto innocente, tanto da nascondere di fatto una fede acritica, recitando al contempo la fede nella critica di ogni fede. Ma erano così ingenui i Templari da non ravvisare nelle dinamiche di potere, le premesse della loro fine? Certamente no. Al contrario essi più di altri avevano maturato una visione geopolitica molto consapevole, quella che oggi chiameremmo una situation awarenes, una consapevolezza della situazione delle forze in campo e dei processi ad essi sottesi. Conoscitori di territori, di culture, imbevuti di confronti reali sia con le realtà islamiche (anch’esse plurali) mediando per questo reciproco rispetto, sia con quelle ebraiche, forti di un rigore e un impegno che ne facevano la compagine più colta e determinata al contempo, forti anche del loro essere veramente Cavalieri e non recitanti il mito che della cavalleria si è prodotto, come poterono non accorgersi di ciò che stava accadendo? Di ciò che a loro sarebbe accaduto? Potenti, monastici, militari, religiosi e laici al contempo rispondevano solo al Pontefice - uno di questi li avrebbe traditi ma questo era l’unico legame che in terra avevano; tutto il resto a loro derivava da Cristo. Guerrieri sì, ma per una pace in terra che forse nessuno voleva, di fatto multi-culturalizzati, la loro visione del mondo andava oltre i confini di ciò che materialisticamente si andava delineando, non per sapienze segrete o per scienze infuse, ma proprio perché uomini, guerrieri, cercatori di fede più che 11 portatori, conoscitori sul campo di nuove nature, si ritenevano in dovere di allargare confini umani, sociali, collettivi, altro che Stati. Iper-moderni si potrebbe definirli oggi se la stessa modernità non fosse già un termine desueto. Dunque anacronistici, ma non solo per quel tempo nel quale vissero, ma anacronistici come riserva inconscia che la storia si porta dentro pur ricacciandola nel limbo che poi finisce per alimentarla. Potremmo definire l’anacronismo come l’inconscio della storia. Dunque anacronistici autenticamente, e dunque portatori di un anacronismo attuale. Certo questo è un ossimoro, un’aporia, una antinomia, ma è di questo che la storia si nutre. La storia in opposizione dialettica e in sintesi conseguente fonda i suoi presupposti proprio sui suoi anacronismi. Mi piace dunque pensare, ma questa non è storia, ma non è al contempo romantica rimembranza, che in fin dei conti i Templari di tutto questo erano coscienti, dunque non vennero catturati e trucidati, ma - consapevolmente o meno non fa a tal punto differenza - essi si consegnarono, come estremo sacrificio, cercarono la morte, e la trovarono; questo è il loro segreto, o il loro mistero che non è un mistero da svelare, ma un mistero da assumere e custodire in quanto tale. Volendo fantasticare, vollero essere come Cristo, forse più di Cristo. Certo questa può apparire come una bestemmia, ma forse per loro era un modo per riscattarne, impertinentemente e arrogantemente, il Sacrificio, iper-sacrificandosi. Luciferini forse, angeli caduti, vollero essere come…Ma peccato veniale essendo solo uomini. Incapaci, come lo siamo tutti, di accorgerci radicalmente soli, incapaci della prima e più devastante bestemmia che solo Cristo poteva produrre “Elì, Elì, lemà sabactani” (Padre, padre mio, perché mi hai abban12 donato)? La bestemmia che per la cristianità autentica, a prescindere dalle Chiese che ne vogliono gestire il monopolio, comunque ci ha fondato, anche per chi come me non crede. Ciò che venne dopo non fu né più giusto, né più saggio, ma divenne il reale, quello che ancora ci accompagna e col quale e nel quale dobbiamo confrontarci. Dunque la storia dei Templari finisce con la morte del suo ultimo Gran Maestro Jaques De Molay, il dopo non sono “quei” Templari, senza nulla togliere, ma parimenti nulla aggiungere ai templarismi che si sono succeduti, sotto varie forme, molteplici insegne, variegate rivendicazioni di detenerne la continuità, tutte in conflitto con tutte. Così come Cristo non è morto solo per i cristiani, altrettanto ci piace pensare che i Templari non siano morti solo perché alcuni si possano intestare in esclusiva il loro testimone. Ciò che conta è la testimonianza che resta, il loro valore paradigmatico, la loro storia reale, ancora da discernere e comprendere che appartiene a tutti. La storia sempre vittoriosa si nutre quasi esclusivamente di sacrifici; vittorie e sconfitte appaiano sempre immeritate, ma il sacrificio che ne genera l’azione resta il fondamento di ogni futuro, di ogni speranza possibile, di ogni cammino e di ogni esodo, utopia di una terra promessa e mai - forse - mantenuta. C’è una origine ebraica nel costituirsi dell’Ordine del Tempio? Anni fa, Salvatore Girgenti propose nel corso di alcune conferenze, accennata anche in suoi successivi saggi, questa interessante ipotesi di ricerca. Oggi, largamente condivisa, è stata ripresa e ulteriormente e approfondita con suggestive riflessioni da Manuela Girgenti, appassionata studiosa del pensiero ebraico. 13 La domanda che entrambi gli autori si pongono non appare priva di fondamento, ma contiene in sé un'altra serie di contro domande. Certamente l’assorbimento di culture ebraiche da parte dei Templari dovette essere consistente, ma è anche possibile, viceversa, che l’ebraismo abbia trovato nei Templari la forza della sua diffusione, ricordiamoci d’altronde che sia ebrei che Templari vennero nello stesso tempo perseguitati e uccisi. Ma proprio la natura cultural globalizzante che i Templari andarono costruendo nel corso della loro storia, della loro esperienza sul campo, li portava - forse - a concepire una sorta di anacronistica modernità, ma della quale ci è rimasto tutto il sapore. Non è un caso che nel saggio venga citato il rosone della chiesa di Sant’Agostino a Trapani, dove sono presenti le effigi delle tre religioni monoteiste. Un disegno troppo ardito, tanto moderno da non trovare alcuna modernità, ancora oggi capace di farlo proprio. Certo almeno i templari si sono risparmiati, col loro sacrificio, le guerre di religioni, le guerre fra stati, mai cessate. Filippo IV il Bello re di Francia fu strumento della storia, e a questo compito non poteva sottrarsi, come forse ancor più colpevolmente il Papa. I Templari non furono strumento di nessuno, come a tutti ci piacerebbe essere, se non del loro destino, per loro in nome di Dio, per noi in nome di chi? Il cammino, l’eterno esodo continua. “Veggio il novo Pilato, sì crudele, che ciò nol sazia, ma sanza decreto portar nel Tempio le cupide vele”(.Dante Alighieri : la Divina Commedia: Purgatorio XX, 91.) Silvio Governali 14 Dedica? 15 16 Le origini Della storia dell’Ordine dei Templari conosciamo le probabili origini e motivazioni, l’eroico comportamento sui campi di battaglia, le competenze finanziarie, i campi di interesse, il prestigio che seppero guadagnarsi, l’organizzazione interna e anche la tragica fine. Ma con lo scioglimento dell’ordine, in seguito al processo per eresia, e la condanna al rogo di Giacomo di Molay, Gran Maestro dei Templari, e di Goffredo di Charnay, cessa la storia e inizia la leggenda. Sotto un profilo di rigoroso metodo storico non potremmo aggiungere altro, almeno sino al giorno in cui non sarà ritrovato l’archivio dell’Ordine, oggi dato per disperso. Ciononostante, attraverso lo studio di rari documenti e testimonianze dell’epoca, di fonti secondarie, del ripetersi di eccessive coincidenze e valutazioni critiche si aprono ampi spazi di ricerca, che, seppure non suffragate da una valida documentazione, consentono di avviare interessanti ipotesi di studio la cui valenza, naturalmente, ha solamente un valore indiziario. Storicismo da frontiera? Può darsi. Ma a questo proposito potremmo ricordare quanto Umberto Bartocci scrisse circa vent’anni fa sul metodo indiziario nella ricerca storiografica. “Il compito del vero storico, più che restare impigliato tra le piccolezze confuse della lettera che uccide, resta sempre quello di rintracciare l’esile filo della verità, vagliando tutto l’insieme dei segni che gli provengono da tempi lontani, avendo come unici strumenti a sua disposizione la propria 17 libera ed autonoma ragione ed il criterio di verosimiglianza; i soli che gli permettono di individuare i nessi significativi, sottolineare le coincidenze eccezionali, stabilire una trama convergente di dati sulla quale fondare delle ipotesi e, successivamente, confrontarle tra loro, cercando di determinare la maggiore o minore probabilità. Alla pazienza metodica ed all’accuratezza scrupolosa con le quali svolgere il lavoro di ricerca preliminare negli archivi e nelle biblioteche, o nelle interviste a persone, lo storico dovrà accompagnare pertanto intuizione creativa, immaginazione, capacità di inferenza abduttiva, talento nel sapersi calare nei panni di persone diverse in periodi diversi, allo scopo di riuscire a respingere i tentativi di dissimulazione coperti dalla polvere del tempo, saper leggere tra le righe per distinguere le, eventualmente poche, certezze della ragnatela di bugie, aggiungere, ricostruendole nella sua fantasia, alle tante storie scritte dai vincitori e dai persecutori quelle che sarebbero state scritte dai perseguitati e dai vinti, con il proposito ultimo di presentare al proprio e all’altrui intelletto una possibile soluzione di qualcuno dei tanti enigmi che ci offre la storia; soluzione che sarà però tanto più convincente quanto più affonderà le sue radici nella plausibilità, che non su una mitica irraggiungibile certezza scientifica. Il lavoro dello storico da assomigliare quindi più allo sforzo di un investigatore o di un magistrato, che indaga sull’individuale e su elementi malcerti, molto spesso artefatti a bella posta dal colpevole…Se si accetta questa teoria come pura ipotesi di lavoro, si può, è vero, correre il rischio di qualche avventura pericolosa, ma si può anche trovare un filo di Arianna, là dove prima esisteva la tenebra”. (Bartocci 1993:3-4-5) Louis Charpentier e Domenico Lancianese, per citare solo alcuni studiosi del fenomeno templare, concordano nel ritenere che all’origine dell’Ordine abbiano concorso molteplici e occulti obiettivi socio-politici, una vera e propria missione segreta, del tutto prevalente su quella che è apparsa come la sua unica motivazione ufficiale, vale a dire la crociata contro l’Islam. 18 Charpentier, addirittura, sostiene che la difesa della Terrasanta non fu che un mezzo, uno strumento per conquistare il potere, un risultato, quest’ultimo, preparato da tempo e che avrebbe dovuto contemporaneamente avviare un processo di trasformazione sotto un profilo economico, sociale e politico. La storia dei cavalieri templari, in realtà, è piena di lati oscuri. In maniera succinta, ma molto efficace, lo rileva Jean Markal: È stato creato per operare in Medio oriente, ma ha anche agito in Europa occidentale. È stato un ordine religioso, ma anche militare. È stato indispensabile alla politica del papato e dei sovrani europei, ma anche una milizia parallela dai fini oscuri. È stata un’associazione di monaci cavalieri pronti a morire per la fede cristiana, ma anche un gruppo di monaci che rinnegavano Gesù; che portavano con fierezza la croce rossa, ma anche che sputavano sulla croce. Il gonfalone del Tempio - il famoso baucent – era bianco e nero: non esiste un simbolo che esprima meglio la dualità o la realtà a due facce dell’Ordine”. (Markale 2000: 65) Per meglio comprendere le motivazioni per cui nacque l’Ordine del Tempio, almeno a livello ufficiale, occorre calarsi nel clima e nell’ambiente del tempo. Il 27 novembre del 1095, alla fine di un Concilio a Clermont, che aveva avuto inizio il 18 dello stesso mese, fu annunziato che il papa Urbano II avrebbe fatto un intervento tale da lasciare una traccia indelebile nella storia della chiesa. Per l’occasione si raccolse una folla, talmente numerosa, da non potere essere accolta all’interno della cattedrale e di conseguenza si decise di allestire un palco in un campo aperto dove collocare il trono papale. Urbano II, monaco circestense di Cluny, già vescovo di Ostia e 19 appartenente ad una famiglia aristocratica di Chatillon-surMarne nella regione della Champagne, giocava in casa e da consumato attore con doti non comuni di comunicazione, prima infiammò gli animi, descrivendo le tristi condizioni di vita, le sofferenze, le umiliazioni e le torture alle quali erano sottoposti i cristiani d’oriente da parte degli infedeli; poi con toni ancor più drammatici calcò l’accento sulle profanazioni a cui erano quotidianamente sottoposti i luoghi santi di Gerusalemme, dove alcuni di essi erano stati deturpati, trasformati in stalle o – quel che è peggio – in moschee. Ma non era ancora tutto. Urbano II con toni ancora più violenti rivolse i suoi strali contro i nobili che vivevano nella lussuria, infrangevano quotidianamente le leggi di Dio e si comportavano come briganti pronti anche ad assassinare i propri fratelli per futili motivi. A questi ultimi offre la possibilità di pentirsi e di riscattare i propri peccati: di andare in Terra Santa a liberare il Santo Sepolcro dalle mani degli infedeli. “La cristianità occidentale si metta in marcia per soccorrere l’Oriente; ricchi e poveri la smettano di trucidarsi a vicenda e combattano invece una guerra giusta, compiendo l’opera di Dio; e Dio li avrebbe guidati. Chi fosse morto in battaglia avrebbe ricevuto l’assoluzione e la remissione dei peccati. Qui la vita è miserabile e malvagia, con uomini che si logorano fino a rovinare i propri corpi e le proprie anime; qui essi sono poveri e infelici, là sarebbero stati felici e ricchi e veri amici di Dio. Non doveva esservi indugio: si preparassero a partire quando fosse giunta l’estate, con Dio per loro guida”. (Runciman 1993:94) L’appello di Urbano II riscosse un grande successo e venne subito accolto con entusiasmo, non solo per le immancabili 20 ricompense celesti o per i possibili vantaggi economici che sarebbero derivati da tale impresa, ma, da parte dei sovrani, anche per motivi di ordine sociale e, particolarmente in Francia, dove le file della piccola nobiltà e dei cavalieri erano affollate e inquiete. “Per i sovrani e per la chiesa – rileva Markale -, questi guerrieri turbolenti sono una vera e propria spina nel fianco. Ma ecco che viene loro offerta la possibilità di soddisfare appetiti e bellicosi entusiasmi: potranno acquisire ricchezze e nuove terre e stabilirsi in regioni che diverranno di loro proprietà. Non solo, ma anziché scontrarsi con la giustizia regale ed incorrere nella riprovazione della chiesa, sono assolti in anticipo e sono sicuri di ottenere il paradiso. Un sistema che sarà utilizzato più volte nel corso della storia: quando un insieme di individui diventa troppo ingombrante e minaccia una nazione dall’interno, lo si manda all’esterno. Il vantaggio è duplice: lo Stato può guadagnare nuovi territori e gli uomini mandati altrove, che sopravvivano o che muoiano, di solito non ritornano. Che liberazione!”(Markale: 67). Ma, quali che siano le motivazioni, l’appello di Clermont, rivolto in una atmosfera quasi soprannaturale e rivestito di sacralità, come abbiamo detto, suscita immediatamente reazioni entusiaste. Vi aderirono i più bei nomi dell’aristocrazia europea fra cui Raimondo di Tolosa, Goffredo di Buglione, Roberto II di Fiandra, il duca di Normandia, il conte di Boulogne, il conte di Blois e il normanno Boemondo, principe di Taranto. All’appello, oltre alla Spagna e all’Italia, che potrebbe sembrare anche normale, risposero anche paesi lontani come la Scozia e la Danimarca. Persino la Repubblica di Genova offrì il suo contributo mettendo a disposizione del Pontefice dodici galee e una nave da trasporto. Ma quel che fu più strano, e che meravigliò lo stesso Urbano II, fu la risposta 21 plebiscitaria da parte degli strati più poveri della società europea, grazie anche all’incessante opera di predicazione, svolta da monaci dotati di grande carisma, come, ad esempio, Pietro l’eremita, venerato come un santo, tanto che la gente al suo passaggio strappava i peli del suo mulo come se fossero una reliquia. Si calcola che circa quindicimila persone, sia uomini che donne, abbandonarono case e famiglie in un clima di esaltazione per adempiere un preciso dovere religioso: quello di restituire la Terra Santa alla cristianità prima dell’avvento del Messia. A piedi, questa folla invasata, male armata e indisciplinata, composta da cadetti senza speranze, contadini, cittadini di dubbia moralità e briganti, alcuni anche con moglie e figli, si mise in marcia e, attraversando le valli del Reno e del Danubio, giunse ancor prima del previsto alle porte di Costantinopoli. Lungo il tragitto questa armata di pezzenti non esitò a spargere il terrore nelle comunità ebraiche che incontrava lungo il suo cammino, trucidando, senza distinzione alcuna, uomini, donne, bambini e anziani. Gli ebrei, in quanto assassini di Gesù, vennero messi sullo stesso piani degli infedeli islamici. Ma, nello stesso tempo, malgrado l’afflato religioso di cui questi soldati di Cristo erano pervasi, non disdegnarono, quando se ne presentava l’occasione, di uccidere contadini cristiani e successivamente anche gli stessi cittadini di Bisanzio, loro naturali alleati. I sovrani di cui attraversano il territorio cercano di farli passare il più velocemente possibile e, a volte, non esitavano a schierare contro i loro eserciti per ridurli a più miti consigli. Finalmente, in maniera del tutto fortuita e in un clima di grande esaltazione e di delirio religioso, il 13 luglio del 1099 l’armata cristiana riuscì a 22 conquistare Gerusalemme. Jean Flori ricorda a questo proposito un curioso aneddoto: “Ed ecco che accadono cose soprannaturali: I crociati hanno le visioni, e viene loro promessa la liberazione, a patto di aver fede. Un povero che fa parte del seguito di Raimondo, Pietro Bartolomeo, afferma che prima che la città fosse presa, gli sono apparsi più volte sant’Andrea, san Pietro e il Cristo stesso. Un altro, di nome Stefano, racconta cose simili, con dovizia di particolari. Ademaro resta un po’ scettico, ma Bartolomeo insiste; afferma che i santi gli hanno promesso una prova che dimostrerà la veridicità delle sue parole: se si scaverà in un certo punto della cattedrale di san Pietro, si troverà la Santa Lancia, quella che aprì il costato del Cristo in croce. Il 14 giugno 1098 si va a scavare e, a una certa profondità, viene effettivamente trovata una lancia”. (.Flori 2003:43) Rinasce, quindi, la speranza e la convinzione che i “santi guerrieri” siano stati preceduti nell’estenuante battaglia per la conquista della città santa dalle armate celesti. Ma, in ogni caso, espugnata Gerusalemme, vengono fondati i regni latini del medio Oriente: il regno di Gerusalemme, il principato di Antiochia, la contea di Edessa e quella di Tripoli. La corona del regno di Gerusalemme fu offerta a Goffredo di Buglione, ma questi rifiutò, accettando solamente il titolo di Advocatus Sancti Sepulchri, poiché a suo dire nessun uomo avrebbe potuto accettare una corona nella stessa città nella quale Cristo ne aveva portato una di spine. Il titolo di re di Gerusalemme sarà invece accettato da Baldovino I, fratello di Goffredo, dopo la morte di quest’ultimo avvenuta il 18 luglio del 1101. Esaudita la volontà di Dio con la presa di Gerusalemme, molti crociati ritornarono in patria, delusi perché non si era verificato il secondo avvento di Cristo, ma soprattutto perché 23 tornavano a casa più poveri di prima con la sola consolazione di avere in tasca qualche reliquia e l’orgoglio di avere partecipato ad un evento epocale. A difendere i confini degli Stati latini restano ben pochi crociati. Nel solo regno di Gerusalemme, ad esempio, c’è una presenza di soli 300 cavalieri e 200 fanti. Un numero paurosamente esiguo, se si considera che alcuni leader musulmani, superata la iniziale disunione e le gelosie tra i vari califfi, cercano di ricompattare il mondo islamico, rilanciando a loro volta il concetto di jihad (guerra santa) contro gli invasori “franchi”, come comunemente gli arabi chiamavano tutti i crociati. Nelle moschee le prediche contro gi invasori europei, poiché Gerusalemme viene considerato un luogo sacro per l’Islam, sono all’ordine del giorno e nella martellante attività propagandistica gli arabi si servono persino della saggistica e della poesia. Intanto gli europei, dopo la liberazione dei luoghi santi, ignari delle difficoltà logistiche e materiali dei crociati, vengono presi da una nuova passione: recarsi a pregare sul sepolcro di Cristo. Il pellegrinaggio, però, non è scevro di rischi. Le strade di accesso a Gerusalemme sono continuamente esposte ad agguati da parte di bande musulmane, che non si limitano semplicemente a derubarli, ma anche a togliere loro la vita. Il territorio compreso dai porti di sbarco in Palestina a Gerusalemme si trasforma così in un campo di battaglia permanente. È un problema al quale Baldovino I, conte di Edessa e primo re di Gerusalemme, dopo la morte di Goffredo di Buglione, non potrà dare soluzione. Le zone 24 occupate dai cristiani sono costantemente minacciate dai musulmani e non ci sono truppe sufficienti per potere proteggere anche i pellegrini. Non solo Baldovino lamenta la carenza di uomini d’arme, ma deve anche preoccuparsi della nuova strategia messa in atto dagli infedeli, i quali, spesso, evitano il combattimento con i crociati per limitarsi ad abbattere loro le cavalcature e costringerli ad un uso massiccio, ma inefficace, delle loro frecce. I “franchi”, infatti, cominciano a registrare grosse carenze nell’approvvigionamento, non solo di viveri, ma anche di cavalli, senza i quali nelle desolate terre arabe ogni forma di strategia militare è già persa in partenza. Non solo, ma si avverte anche la necessità del rifornimento di grossi quantitativi di legname, sia per costruire nuovi marchingegni di guerra che delle semplice frecce. Fra l’altro potere reperire sul luogo del legname non è un’impresa facile, perché i musulmani, quando debbono abbandonare una città, si preoccupano di bruciare tutto per evitare di lasciare ai crociati legna da potere utilizzare. La stessa patata calda si ritroverà fra le mani Baldovino II, succeduto al cugino nel 1118, in un momento in cui sembra indebolirsi lo spirito della crociata, mentre viceversa va aumentando la voglia di rivincita islamica. È a questo punto che un piccolo nobile della Champagne, Ugo de Payns, assieme ad altri otto cavalieri, si presenta al patriarca di Gerusalemme, Garimond, e a Baldovino II, dichiarando di voler vivere come monaci e di mettere la loro spada al servizio della cristianità e, in particolare, almeno così sostengono molti storici, di volere proteggere i pellegrini dalle scorribande dei predoni islamici. 25 “Nello stesso anno 1118 alcuni nobili cavalieri, pieni di devozione, religiosi e timorosi di Dio, mettendosi a disposizione del signor patriarca per servire Cristo, professarono di voler vivere per sempre secondo le regole dei canonici, osservando la castità e l’obbedienza e rifiutando ogni proprietà”. (Barber 2004:15) Così scrive Guglielmo di Tiro, cancelliere e poi arcivescovo di Gerusalemme, nella sua Historia rerum in partibus transmarinis gestarum; tuttavia, poiché era nato nel 1130, non poteva conoscere la storia delle origini dell’Ordine del Tempio. Guglielmo di Tiro, fra l’altro, non nutriva eccessiva simpatia per i templari e se nella sua opera insiste sulla iniziale umiltà dell’Ordine lo fa esclusivamente lo fa solamente per meglio fare risaltare la superbia e l’orgoglio che i poveri soldati di Cristo mostravano ai suoi giorni. Un secolo dopo, Jacques de Vitry, vescovo di Acri, nella sua Historia orientalis torna sull’argomento: “Con voti solenni, pronunciati davanti al patriarca di Gerusalemme, si impegnarono a difendere i pellegrini contro i briganti e i rapinatori, a proteggere i cammini e servire come cavalieri il re sovrano. Fecero voto di povertà, castità e obbedienza, come i canonici regolari”. L’unica novità, rispetto alla testimonianza di Guglielmo di Tiro, è che per la prima volta, almeno a livello ufficiale, si parla dello scopo per cui si è istituito l’ordine monacoguerriero: quello di controllare le vie di pellegrinaggio in Terra Santa. Ma il testo, come ben sappiamo, è stato scritto più di un secolo dopo gli avvenimenti e, in realtà, non abbiamo alcuna prova che de Payns e i suoi primi compagni avessero effettivamente questo compito di sorveglianza. Fra l’altro, ed è 26 una considerazione che fa riflettere, i vari articoli dello Statuto dell’ordine non ne fanno alcun cenno ed è per lo meno strano che sia de Payens che Bernardo di Chiaravalle si siano dimenticati di chiarire quello che era lo scopo principale della loro istituzione. Ma, ed è un fatto innegabile, i buchi neri intorno all’Ordine Templare iniziano sin dalla sua nascita. Lo rileva Martin Bauer quando si chiede: “Perché non esistono scritti di cronisti contemporanei sulla fondazione dell’ordine? Come potevano proteggere “nove poveri cavalieri” il cammino dei pellegrini? Per quale motivo non compaiono per nulla i templari, anche negli anni dal 1119 al 1126, nonostante Ugo di Payens e tutti gli altri cavalieri fossero già presenti a Gerusalemme? Di che cosa si occupavano in quel periodo? Perché non ci è giunta alcuna cronaca?” (M.Bauer 2005: 20) Per la verità, esiste un altro testo che accenna alle origini dei Templari, redatto nei primi decenni del secolo XIII, Chronique d’Ernoul et de Bernard le Trésorier, che differisce nella forma e nei contenuti – sostiene Demurger – dal testo di Guglielmo di Tiro. Quando i cristiani ebbero conquistato Gerusalemme – scrive Ernoul – un numero significativo di cavalieri si consacrò al tempio del Sepolcro e molti vi si consacrarono in seguito, giunti da ogni parte. Ed essi obbedivano al priore del Sepolcro. Vi furono valorosi cavalieri tra i consacrati. Questi discussero tra loro e dissero: “abbiamo lasciato le nostre terre e i nostri amici e siamo venuti qui per innalzare e esaltare la legge di Dio. E ci siamo fermati qui a bere e a mangiare e a sperperare senza far nulla. Non agiamo, né compiamo gesta militari anche se ce n’è bisogno ovunque. E obbediamo a un prete e non compiamo gesta militari. Discutiamo e eleggiamo uno di noi Maestro, congedando il nostro priore, che ci condurrà in battaglia quando sarà necessario”(cfr. Demurger 2007:37) 27 Ernoul non fa i nomi dei cavalieri che, intorno al 1104, formavano la confraternita, sottoposta ai canonici del Santo Sepolcro; ma è fuor di dubbio che di essa dovevano farne parte Ugo de Payens, Goffredo di Saint-Omer e Andrea de Montbard. In base a tale cronaca questi uomini, al servizio dei canonici del Santo Sepolcro, (cfr. Cerrini 2008) vivevano vicino agli ospedalieri e da questi ricevevano gli avanzi dei loro pasti. In poche parole vivevano di elemosina. Non si sa come trascorrevano il tempo, ma certamente non in maniera esaltante, se dobbiamo dar credito ad una lettera scritta da Ugo de Payens nella quale si mette in evidenza, nella fase iniziale, lo stato di demotivazione e di pessimismo che albergava nel cuore dei cavalieri per il fatto di dover lavorare umilmente per gli altri, sconosciuti al resto del mondo cristiano e senza nemmeno il beneficio delle preghiere del popolo cristiano. Sta di fatto che, quando decisero di spezzare i vincoli che li legavano ai canonici del Santo Sepolcro e all’Ospedale, Baldovino II, i suoi dignitari e lo stesso patriarca mostrarono una grande ammirazione nei confronti di questi nove cavalieri che avevano rinunziato agli agi e ai privilegi del loro ceto di appartenenza per sottoporsi ad una vita di stenti, di privazioni e sofferenze per la gloria di Dio. Anzi la loro commozione arrivò a tal punto che Baldovino II mise a disposizione dell’Ordine, come alloggio, un’ala della sua reggia sul lato meridionale della “spianata del Tempio”, nello stesso luogo dove un tempo sorgeva il Tempio di Salomone. Fu per questo motivo che i Pauperes commilitones Christi vennero più comunemente chiamati milites Templi o Templarii Ma il palazzo regio per 28 loro era troppo. La devozione cristiana e l’originaria umiltà di cui erano inizialmente pervasi li spinse a occupare le stalle di Salomone. In questo modo erano più vicini alle loro cavalcature ed nello stesso tempo, dormendo sulla nuda terra, avevano modo di mortificare l’orgoglio e la carne. È strano, però, che Fulvio di Chartres, cronista di Baldovino, non scrisse nulla in merito all’ingresso dei Templari nel palazzo reale, nel quale sino a pochi giorni prima aveva abitato lui stesso. Ma non è l’unica stranezza. In realtà, non si è nemmeno certi dell’anno della loro istituzione. Guglielmo di Tiro parla del 1118, ma riferendoci al Concilio di Troyes del 13 gennaio del 1128, nel quale vennero codificate le regole dell’Ordine e ufficialmente riconosciuto dalla chiesa, i cronisti registrano l’evento nel nono anno dalla fondazione dell’ordine cavalleresco e, quindi, l’anno di nascita dovrebbe spostarsi al 1119. Come se ciò non bastasse, dovremmo anche ricordare che in quegli anni il calendario in vigore nella Francia del Nord contava gli anni a partire dal 25 marzo, per cui, secondo questo conteggio, nel gennaio del 1128 dovremmo già essere nel 1129 e, di conseguenza, la nascita ufficiale dei templari dovrebbe spostarsi nel 1120. C’è addirittura chi sostiene che l’Ordine sia stato fondato ancora prima del 1114, se bisogna dar credito ad una lettera, inviata dal vescovo di Chartre al conte Ugo di Champagne, che proprio in quell’anno si preparava a partire per la Terra Santa. In questa lettera, infatti, c’è un punto particolarmente interessante per l’argomento in oggetto, perché, oltre ai soliti convenevoli, il vescovo aggiungeva: 29 “Abbiamo appreso che prima di partire per Gerusalemme avete fatto voto di entrare nella “milice du Chist”, che desiderate arruolarvi in questo esercito evangelico”(Baigent 2008:78) La Milice du Christ” è il nome con il quale venivano indicati i Templari e, certamente, non si può fare confusione con i crociati, poiché – chiarisce opportunamente Baigen – il vescovo passa poi a parlare del voto di castità che la decisione comportava. E difficilmente un voto del genere poteva venire richiesto a un comune crociato. Ma il dubbio sull’anno di nascita dell’ordine è un problema di poco conto, perché ancora più strane appaiono, come vedremo, le modalità, le motivazioni della fondazione e i suoi reali obiettivi. Le perplessità Ufficialmente, come abbiamo visto, ad istituire l’ Ordine monastico-guerriero fu Ugo de Payens, nobilottto della vecchia contea di Champagne, assieme ad altri otto cavalieri, quasi tutti nativi, tranne alcuni provenienti dalla Borgogna, della stessa regione e feudatari del conte Ugo di Champagne. Ma c’è di più. Ugo de Payens è in stretti rapporti di parentela con i Montbard, famiglia alla quale apparteneva, per parte di madre, il potente monaco cistercense Bernardo di Chiaravalle. Come se ciò non bastasse, tra i membri dell’Ordine figura anche 30 Andrea di Montbard, zio dello stesso monaco. Una costatazione quest’ultima che fa riflettere, tanto che opportunamente Bauer scrive che: “L’Ordine dei templari appare, dunque, sin dall’inizio come un’impresa provinciale, quasi familiare. Si forma un circolo di cospiratori che rappresenta un’unione ideale per proteggere eventuali segreti”. (Bauer 2005: 40) Non meno emblematica appare la posizione di Bernardo di Chiaravalle, detto il Doctor mellifluus (l’uomo la cui parola scivola come il miele), uomo di grande magnetismo, il cui atteggiamento fa sorgere non poche perplessità. In un primo momento il monaco cistercense mostrava di disprezzare la cavalleria del suo tempo, considerandola frivola, rammollita, senza fede e priva di valori e di ideali. La definiva “malizia”, cioè vera e propria peste della società. Bernardo era contro la violenza e lo spargimento di sangue. Poi, come per illuminazione divina, si registra in lui una inversione di rotta a trecentosessanta gradi, trasformandosi nel teorico della guerra santa. Nel 1130 pubblica, addirittura, la Lode della nuova milizia, spianando ancora una volta la strada verso la legittimizzazione del nuovo ordine cavalleresco. Nel 1130 Bernardo, abilissimo oratore e di grande capacità di persuasione, godeva già di indiscusso prestigio nel mondo della chiesa. L’elezione a papa di Innocenzo II e , successivamente, di Eugenio III scaturì dalla sua volontà; di questi ultimi fu abile consigliere e ne influenzò le scelte. “Per quaranta anni, CiteauxChiaravalle fu il centro spirituale dell’Europa e San Bernardo annoverò, tra i suoi ex monaci, il papa, l’arcivescovo 31 di York e vescovi e cardinali in abbondanza”. (Read 2009: 98) Se non divenne papa, la causa è da ricercare, molto probabilmente, nel fatto che il trono di san Pietro non gli interessava. Evento più unico che raro, fu innalzato agli onori dell’altare ad appena 21 anni dopo la sua morte. Senza la benedizione e la protezione di Bernardo, quindi, l’Ordine dei Templari difficilmente sarebbe stato accolto nell’ambito della cristianità, poiché quanto egli scrisse e disse a loro favore non era per quei tempi impresa di poco conto. Un ordine monaco-guerriero costituiva, infatti, per la mentalità religiosa del tempo qualcosa di scandaloso. Chi faceva parte del clero non poteva macchiarsi le mani di sangue. Per i ministri di Dio la sola idea di uccidere, non solo ripugnava, ma veniva rigettata. Ad un uomo consacrato a Dio non era permesso di spargere sangue, né tantomeno di darsi al saccheggio. I Templari, quindi, al loro primo apparire crearono un certo imbarazzo per quanto concerne una delle distinzioni fondamentali della società medievale. “I riformatori della Chiesa avevano deciso di impedire agli uomini le cui mani si fossero macchiate di sangue di toccare gli oggetti sacri. Anche nel caso di nobili cavalieri che si pentissero e che in età matura si votassero alla vita monastica, quelli che erano vissuti nel monastero sin dall’infanzia erano spesso riluttanti a riservare loro una buona accoglienza. La nostra concezione moderna, influenzata dall’idealistico lustro conferito alla cavalleria dai romantici, vede un’armonia tra spada e altare: nulla potrebbe essere più lontano dalla realtà medievale. La Chiesa non voleva avere a che fare con degli indesiderabili di tal fatta, sempre pronti a infrangere ogni legge, in particolare quella sul matrimonio. Fino ad allora la cavalleria era per molti aspetti considerata un affare illecito in cui il clero non doveva immischiarsi”(Partner 1993: 7-10) 32 L’Ordine dei Templari nacque così, inizialmente, in un clima di diffidenza e di sospetto. Nel tentativo di legittimarne la nascita, dunque, in considerazione della mentalità del tempo, secondo la quale gli uomini votati allo spargimento di sangue non avrebbero potuto prendere gli ordini sacri, fu un compito arduo per san Bernardo legittimarne la nascita. Ma, come al solito, affrontò l’argomento con molta disinvoltura. “In verità – scrisse – i cavalieri di Cristo combattono le battaglie del loro Signore senza correre rischi, senza in alcun modo sentire di aver peccato nell’uccidere il nemico, non temendo il pericolo della loro stessa morte visto che sia dare la morte, sia il morire quando sono fatti in nome di Cristo non sono per nulla atti criminosi, ma addirittura meritano una gloriosa ricompensa… il soldato di Cristo uccide sentendosi sicuro: muore sentendosi ancora più sicuro. Non per nulla egli porta la spada! Egli è lo strumento di Dio per la punizione dei malfattori e per la difesa dei giusti Invero, quando egli uccide un malfattore non commette omicidio, ma malificio, e può essere considerato il carnefice autorizzato da Cristo contro i malvagi”. (Ivi: 10-11) Nel 1124 Bernardo si era addirittura opposto alla richiesta di Arnoldo, abate cistercense di Morimondo di fondare un monastero in Terra Santa. “Se, come ci è stato riferito – scrive al pontefice – egli dice di voler diffondere le osservanze del nostro ordine in quella terra, e per tale ragione intende condurre con sé una moltitudine di frati, come non comprendere che in realtà necessitano cavalieri in grado di combattere e non monaco salmodianti”. (.Barber 2004: 22) In maniera ancora più radicale, san Bernardo sosteneva che era meglio che i miscredenti venissero uccisi, piuttosto che potessero far deviare dalla retta via i veri credenti, inquinando così la loro fede. E all’obiezione che un cristiano non debba in 33 alcun modo uccidere, così rispondeva: “E allora? Se al cristiano non fosse consentito l’uso della spada in alcuna circostanza, perché mai, allora, Giovanni Battista raccomandò ai soldati di accontentarsi della propria paga? Perché, piuttosto,non proibì loro ogni forma di servizio militare?”(Ivi:.10) Secondo la tradizione, nel corso del Concilio di Troyes il compito di stendere le regole dell’Ordine dei Templari fu affidato a san Bernardo. Altri,viceversa, sostengono che l’autore fu Ugo di Payens e che, tutt’al più, Bernardo di Clairvaux si sarebbe limitato a curarne i dettagli. È vero che durante il processo molti cavalieri sostennero che le Regole erano frutto della penna del monaco cistercense, ma è pur vero che in quel momento particolarmente delicato, attribuirgliele significa rivestire l’Ordine di una aureola di santità e di autorevolezza, che il processo stesso minacciava di distruggere. Che cosa, dunque, spinse Bernardo a gettare alle ortiche le sue convinzioni e a proteggere in maniera sfacciatamente di parte il neo ordine monastico-guerriero? Fra le tanti ipotesi, ma anche qui è difficile dare una risposta. pensare, come qualcuno sostiene, che con tale atteggiamento abbia voluto manifestare la propria riconoscenza a Ugo di Champagne, che pochi anni prima aveva donato ai cistercensi un vasto appezzamento di terreno a Clairvaux per la costruzione di un monastero, imponendo di dare la nomina ad abate allo stesso Bernardo, appare poco convincente. In realtà, Bernardo appare sin dall’inizio troppo compromesso con l’Ordine Templare, a tal punto da non potere escludere che facesse parte integrante del progetto socio-politico-religioso dei poveri cavalieri di Cristo. Sarà una ulteriore coincidenza, ma nel 1113 il monastero di Citeaux rischiava di chiudere i battenti sia per mancanza di 34 introiti che di monaci. Proprio in quell’anno si presentò all’abate Stefano Harding il giovane Bernardo, assieme a una trentina di parenti, chiedendo l’ammissione al monastero come novizi per lui e i suoi compagni. È da quel momento che l’ordine cistercense, in maniera miracolosa, rinasce a nuova vita, tanto che “alla fine del secolo ci sarebbero state dodicimila comunità affiliate a Citeaux in tutta Europa”. (Read 2009: 96) Il secondo personaggio enigmatico nella storia dei Templari è proprio il conte Ugo di Champagne, da molti considerato il vero capo dell’Ordine. Secondo alcuni storici della regione francese, nel 1104 partì per la Terra Santa, dove rimase per ben quattro anni. Non si sa che cosa fece, ne il motivo per cui rimase così a lungo in Outremer. Al suo ritorno si incontrò più volte e a lungo con Stefano Harding, l’abate di Citeaux, che assieme all’abate di Fontigny, Ugo di Macon, partecipò al concilio di Troyes, attestando così l’alleanza di ferro fra l’ordine cistercense e quello templare. Contemporaneamente, sempre alla sua corte, ebbero inizio sempre più assiduamente lunghe riunioni con i rappresentanti di alcune delle più prestigiose famiglie della contea, fra cui Ugo de Payens e André de Montbard, zio, come abbiamo già visto, di Bernardo di Chiaravalle. Nel 1114, il conte Ugo fece ritorno in Terra Santa, dove stavolta non si trattenne più di un anno. Al suo rientro ripresero gli incontri con l’abate di Citeaux e con i suoi vassalli più fedeli. Sarà una coincidenza, ma proprio in questo periodo l’ordine dei cistercensi, “prima del 1112 paurosamente vicino alla bancarotta”, (Baigent 2008: 82) conobbe un periodo di grande 35 splendore e di espansione. Nel 1153, nel giro, quindi, di una quarantina di anni, furono, infatti, istituite poco più di 300 abbazie e, di queste, 69 dal solo san Bernardo. Sarà sempre una coincidenza (il ripetersi di più coincidenze trasformano spesso i sospetti in certezze), ma nello stesso periodo in cui il conte di Champagne e l’abate Harding (proclamato santo pochi anni dopo la sua morte), cominciarono a frequentarsi assiduamente, i monaci cistercensi iniziarono a specializzarsi nello studio di antichi testi sacri ebraici, così come non è da sottovalutare il fatto che già dal 1070 alla corte dello stesso conte era fiorita una rinomata scuola di studi cabalistici ed esoterici. È in questo clima che nasce l’Ordine dei Templari, che, a sua volta, nel giro di pochi anni, acquistò un immenso potere e grandi ricchezze. È fuor di dubbio, infatti, che il conte di Champagne abbia giuocato in tutta questa vicenda un ruolo di primo piano, tanto che oggi si ha la certezza, più che il sospetto, che egli sia stato l’ideatore, il principale finanziatore e il primo vero capo dell’Ordine Templare. Per inciso, va ricordato che nel 1126 il conte Ugo di Champagne, accusando la moglie di adulterio e non riconoscendo il figlio avuto da quest’ultima, lasciò il titolo e i suoi beni al nipote Teobaldo ed entrò ufficialmente nelle file dei Templari. “Con questo gesto eclatante , il conte, divenuto impaziente, dichiarò di sua iniziativa, terminata la fase di esperimento da parte dei cavalieri, e impose una decisa accelerazione agli avvenimenti. È probabile che dopo l’arrivo del conte iniziò un’opera di reclutamento e altri cavalieri si aggiunsero al nucleo dei nove fondatori, ma certamente ai nuovi adepti niente fu rivelato sulle vere finalità della confraternita. Si generò così il dualismo fra un ristretto gruppo di membri consapevole di una segreta 36 missione da compiere e la gran parte dei cavalieri, del tutto ignara di essere partecipi di un ampio progetto di cui la guerra all’infedele rappresentava soltanto una parte”. (Lancianese 2006:71) Fra l’altro questa scelta non manca di far nascere nuove perplessità. È mai concepibile, infatti, che Ugo di Champagne, uno dei primi signori del regno, abbia deciso di entrare in un ordine militare, sottoponendosi gerarchicamente a un suo vassallo? Certamente no e, opportunamente, Lancianese ipotizza che “la mossa del conte di associarsi al Tempio tendeva a porre fine al lungo esperimento per passare alla fase operativa del progetto e raggiunse pienamente il suo scopo…Anche l’analisi delle date induce a questa considerazione dal momento che Ugo di Payns rientrò in Europa nel 1127, poco dopo l’arrivo del conte in Oriente che, al momento della sua partenza, probabilmente era ancora vivo. Ugo era latore di lettere per l’abate Bernardo, oltre a essere incaricato della delicata ambasceria di proporre a Folco d’Angiò la mano di Melisenda, figlia maggiore di re Baldovino, mentre Andrea de Monbart doveva recarsi a consegnare altre missive indirizzate al papa”. (Ibidem) In poche parole, molti indizi portano a ritenere che Ugo di Champagne fosse“il grande vecchio”, la mente di un progetto politico-sociale, di cui i Templari costituivano semplicemente il braccio armato. Molti storici sono dell’idea che il conte Ugo fosse entrato casualmente in possesso, nel corso della sua permanenza in Terra Santa, di documenti riservati, che indubbiamente richiedevano riscontri più concreti. Ma appare molto più convincente la tesi che lo stesso conte fosse già in 37 possesso di informazioni riservate, tali da, se confortate da un concreto riscontro, provocare un sisma di vasta portata all’interno del cristianesimo. I suoi viaggi a Gerusalemme avrebbero avuto, dunque, un carattere più esplorativo che altro. Ma come ne era entrato in possesso il conte Ugo? Probabilmente, la risposta che mi sembra più plausibile, è nel clima che si venne a determinare a Gerusalemme nel 135, dopo la seconda guerra giudaica, che culminò con la distruzione della stessa città. da parte dei romani. L’odio accumulato da questi ultimi contro gli ebrei fu tale che alcuni storici non hanno esitato a parlare di una vera e propria guerra di sterminio, nel corso della quale l’unica logica condivisa era quella di annientare, sterminare e sradicare i ribelli. “Agli ebrei, che alla fine della sommossa contarono ben 585.000 vittime – scrive Calimani -, fu persino proibito di mettere piede a Gerusalemme o di guardare con nostalgia da lontano le sue rovine” (Calimani, 2001: 105) L’anno 135 e.v. segnò, dunque, un punto di non ritorno ed è da questa data che ebbe inizio la vera, grande diaspora del popolo ebraico. Molti ricchi mercanti giudei, che già possedevano depositi e case in Provenza, preferirono abbandonare la loro terra d’origine e trasferirsi in una regione meno sottoposta all’asfissiante controllo delle legioni romane. In maniera similare, a Trapani nel 1492, dopo l’editto di espulsione, molti ebrei per evitare ulteriori persecuzioni si convertirono fittiziamente al cristianesimo e, assumendo nel battesimo il nome del padrino cristiano e a cambiare nome per nascondere le proprie origini, riuscirono a confondersi, così, fra le pieghe del tessuto sociale e a occultare la loro provenienza 38 giudaica. Nell’intimità delle loro case continuarono a coltivare i loro rituali ebraici e, sicuramente, da padre in figlio si trasmisero conoscenze e segreti con l’indicazione dei luoghi dove tale documentazione si presumeva fosse stata nascosta. All’inizio dell’anno 1000, non si sa per quale motivo, si ritenne che i tempi fossero maturi per potere portare alla luce quello che era stato seppellito e nascosto nei tunnel delle stalle di Salomone. Alla realizzazione di questo progetto si opponeva il controllo musulmano di Gerusalemme, Bisognava, quindi, liberare la città dagli infedeli per potere avere la libertà di scavare senza dover rendere conto ad alcuno. L’idea, fra l’altro, non era del tutto ignota al Vaticano se già nell’anno 1000 “papa Silvestro II (il famoso monaco Gerberto d’Aurillac) avrebbe lasciato intendere, in una lettera, di sperare che la Francia riconquistasse i Luoghi Santi perché vi si potrebbero cercare le chiavi della Conoscenza Universale, che lì si trovavano. L’autenticità della missiva non è mai stata provata, ma l’idea non era nuova: da molto tempo in alcuni ambienti dell’Occidente si riteneva che il Tempio di Salomone, costruito secondo formule ben precise che obbedivano a leggi occulte, nascondesse segreti terribili e straordinari”. (Markale 2003:83) È, evidentemente, una ipotesi che aprirebbe nuovi scenari e che ci porterebbe a rinterrogarci sulle vere motivazioni delle crociate, che, facendo leva sul sentimento religioso dei principi e del popolo, cementò in maniera alquanto nebulosa un rapporto di alleanza fra un’associazione segreta e un gruppo di potere all’interno della chiesa; così, mentre la gerarchia vaticana si illuse di potersene servire per rafforzare il suo 39 progetto di dominio teocratico; la seconda seppe abilmente mascherare nella fase iniziale i suoi veri obiettivi, pienamente consapevole di dovere ricorrere alla benedizione della chiesa per potere essere accettata dalla cristianità, ma pronta a prendere le distanze da questa stessa, nella sostanza ma non formalmente, nel momento in cui a Gerusalemme fosse venuta in possesso di reperti o documenti, tali da ricattare il Vaticano. Ritornando alle notizie ufficiali che si hanno sui templari, sembra che questi ultimi nei primi nove anni della loro esistenza, anziché proteggere i pellegrini lungo le vie che conducevano a Gerusalemme – e d’altra parte come potevano svolgere questo compito essendo appena in nove – abbiano passato la maggior parte delle loro giornate a scavare gallerie in quelle che un tempo furono le stalle di Salomone. Quest’ultimo, infatti, non si limitò a costruire il suo tempio in superficie, ma parallelamente anche sottoterra si realizzarono opere imponenti. Questi scavi nel secondo secolo a.C. sembra che avessero raggiunto una considerevole ampiezza. Aristeas, un viaggiatore egiziano sostiene d’avere visto meravigliose e indescrivibili cisterne sotterranee intorno alla zona del Tempio con numerose condutture. (cfr. Lettera di Aristea,83, in The Apocrypha and Pseudepigrapha of the old Testament, 1913 ) Queste enormi opere idrauliche – scrive Keith Laider – erano necessarie per rifornire d’acqua la città di Gerusalemme. Ma una perizia negli scavi sotterranei si sarebbe dimostrata utile anche per risorse diverse dall’acqua. Gallerie e cripte sotterranee avrebbero offerto un rifugio sicuro ai tesori più importanti del Tempio durante gli assedi: e se gli accessi erano ben nascosti, il loro contenuto poteva rimanere al sicuro anche se il Tempio fosse stato invaso e occupato. Come abbiamo visto, questo accadde più volte ai diversi 40 templi. Quasi sempre gli ebrei riuscirono a riconquistare Gerusalemme e rioccupare il Tempio in un tempo relativamente breve, ma questo non fu possibile durante la distruzione finale del Tempio di Erode. In quella occasione gli ebrei vennero dispersi dalle legioni romane in tutto il mondo conosciuto”(Laider 2005: 90) I Templari, dunque, cercavano qualcosa e, evidentemente, sapevano che cosa cercare e dove cercare. Sta di fatto che nel 1127, Ugo de Payns, assieme ad alcuni cavalieri, ritorna in Europa per un giro, diremmo oggi, promozionale. Anche se , ufficialmente il suo ritorno in Francia ha un carattere prettamente diplomatico: quello di convincere Folco d’Angiò, su incarico di Baldovino II. a sposare la figlia di quest’ultimo, Melisensa, con il vantaggio di potere un giorno ereditare il trono di Gerusalemme. Compito che de Payens svolgerà egregiamente, ma quello che gli preme di più è chiedere udienza, in Vaticano. Nessun documento attesta lo scambio di vedute con i vertici della chiesa, ma sta di fatto che da quel momento le sorti dell’Ordine cambiano di 360 gradi. Più che scambio di vedute, si ha la netta sensazione che il Sommo Pontefice sia stato sottoposto ad un vero e proprio ricatto. Dopo anni di ricerche, di scavi e di reticoli di gallerie aperte nelle stalle di Salomone, i Templari devono avere trovato documenti o prove tali da consentire loro di ricattare la chiesa. Non può esserci un’altra spiegazione, poiché i privilegi accordati a questi ultimi dai papi non trovano altri riscontri o precedenti nella millenaria storia pontificia. In primo luogo la convocazione di un Concilio per il 13 gennaio 1128 (o 1129) a Troyes, a pochi chilometri di distanza da Payns, per ufficializzare la nascita dell’Ordine Templare. E questo già di 41 per sé è un avvenimento più unico che raro nella storia della Chiesa. Ma, fa notare Lancianese, che indirettamente si affermava che il Concilio “costituiva non già il momento istitutivo, ma quello del riconoscimento ufficiale. Può sembrare un dettaglio insignificante, ma fu invece un modo assai abile per affermare l’estraneità della Chiesa all’iniziativa circoscrivendone il ruolo alla semplice presa d’atto di una realtà verso la quale, dopo nove anni, non esistevano motivi per negare la paterna benedizione e l’approvazione della Santa Sede”(Lancianese 2006: 72-73). Al Concilio di Troyes, dove guarda caso tutto ebbe inizio, vi parteciparono il cardinale Mattia di Albano, come legato del Papa, due arcivescovi, numerosi abati, in maggior parte cistercensi, e nobili laici della regione. Naturalmente non mancarono Stefano Harding e Bernardo di Chiaravalle; quest’ultimo, anzi, da molti definito un vero e proprio dittatore spirituale,diede la netta sensazione di avere lavorato a lungo perché tutto filasse liscio e non si frapponessero ostacoli all’approvazione del nascente ordine monaco-guerriero. Insomma, si può dire senza troppo esagerare che Bernardo organizzò a Troyes quasi una rete di consensi perché quel progetto che ormai condivideva del tutto potesse andare a buon fine. Il fatto strano è che neppure a Troyes vennero fuori notizie più dettagliate e precise sulle origini, sulle motivazioni e sulle circostanze che portarono nove cavalieri a dare vita a un ordine militare che per duecento anni, sotto tutti gli aspetti, svolse un ruolo di primo piano nel campo politico, finanziario, sociale e militare. 42 “Solo una volontà e una strategia precise – aggiunge Lancianese – possono giustificare la riservatezza sempre tenuta dai Templari, su questo periodo iniziale dell’ordine. Gli unici riferimenti a nostra disposizione sono quelli che non è stato proprio impossibile evitare. In un atto notarile stilato nel 1129 troviamo l’indicazione dei nove anni della fondazione dell’ordine come indicato anche nella regola ed è quindi evidente che sono gli stessi templari a fornire questa datazione. Lasciare nell’ombra i tempi, i modi, le ragioni e i personaggi della propria costituzione, evitando pure, nonostante fosse abitudine diffusa, di nobilitare le proprie origini richiamandosi a illustri predecessori che in qualche modo accreditassero l’idea di più antiche radici, non può essere una circostanza casuale. I templari non manifestarono alcun desiderio di nobilitarsi con riferimenti al passato, intesero farlo solo con il loro comportamento futuro e si rifugiarono sin dall’inizio, in una stretta segretezza. Solo la necessità di coprire personaggi di grande rilevanza, che avrebbero avuto gravi danni dal palesare la loro partecipazione al progetto, giustifica questo comportamento”. (Ivi: 73-74) Un’ulteriore prova che i nove cavalieri, fondatori dell’ordine del Tempio, fossero guidati da una gerarchia superiore potrebbe essere costituita dalla considerazione che, subito dopo il concilio di Troyes, Ugo de Payns, ritornando in Terrasanta, lascia una embrionale gerarchia di dignitari nelle province di diverse aree occidentali e, in particolare, in Francia e Inghilterra. Come faceva Ugo de Payns a sapere che all’appello del papa sovrani e principi occidentali avrebbero risposto con tanta generosità di donazioni e concessioni? L’avere costituito, quindi, un valido sistema di supporto logistico sul piano organizzativo, lascia evidentemente presupporre che tutto fosse stato pianificato anzitempo da una direzione superiore ai Templari stessi. 43 Le stesse regole dei Templari, formate in tutto da 72 paragrafi, non chiariscono, al di là del mero impegno in Terrasanta, gli scopi e le finalità future dell’Ordine. In questo silenzio, Bauer (2005:31) ha voluto scorgere le prove che l’istituzione dell’ordine non era altro che una facciata per potere liberamente e segretamente perseguire i propri obiettivi. Ma, sotto questo punto di vista, il silenzio delle Regole non ci sono di alcun conforto. I 72 precetti danno solamente normative di comportamento religioso e disciplinare e, tutt’al più, ma sempre da un punto di vista religioso, danno un’idea della capacità dialettica di Bernardo di Chiaravalle nel tentativo di dovere giustificare la figura del monaco associata a quella del guerriero e, quindi, giustificato, in nome di Dio, a spargere sangue e ad uccidere. Lancianese ha opportunamente evidenziato questo punto, rilevando che quando Bernardo nella parte introduttiva della Regola ha scritto che “Dio ha operato il bene tramite noi”, oppure che “Bene ha operato Dio con noi”, il significato cambia a seconda dell’interpretazione che gli viene data. “Nella prima interpretazione può intendersi che i cavalieri, o i presenti al concilio, sono strumenti della volontà di Dio, che per loro tramite sta approntando il mezzo per il trionfo del bene sul male. Nel secondo caso, Dio viene completamente associato all’operato dei cavalieri e dei convenuti al concilio e quindi coinvolto nell’iniziativa come diretto protagonista. Sia pure in modo diverso, sia l’una che l’altra interpretazione ci fanno capire quale autorità morale venisse conferita a questo sconosciuto gruppo di cavalieri e quanto la Chiesa confidasse nella loro capacità operativa” (Lancianese 2006:76) 44 La regola, altresì, dovendosi adeguare ai tempi e alle esigenze dell’evoluzione dell’Ordine fu notevolmente ampliata, tanto che nel 1260 comprendeva già ben 686 paragrafi, comprendenti anche disposizioni ed istruzioni di tipo militare. L’assoluto divieto, dunque, ai confratelli di conservarne personalmente una copia o di parlare all’esterno dei contenuti di essa o, peggio ancora, di farne circolare una copia nel mondo profano, più che una prova di chissà quali occulti segreti contenesse, può benissimo stare a significare la volontà di non consentire a potenziali nemici abitudini e strategie comportamentali dei Templari e, in special modo, quelle militari. Della Regola, infine, si hanno due versioni: quella latina e, poi, molto probabilmente verso la fine del secolo XII, quella francese. Ufficialmente la traduzione fu resa necessaria perché la maggior parte dei cavalieri, per lo più ignoranti , non conosceva il latino. Ma nel confronto fra le due versioni, al di là delle opinabili congetture sulla segretezza dei Templari anche in riferimento alla Regola, l’aspetto più interessante è costituito proprio dalla possibilità di cogliere, attraverso gli anni, lo sviluppo e il consolidamento del processo di laicizzazione avvenuto all’interno dell’Ordine e della perdita dello slancio religioso e di quei valori cristiani, ispirati al sano principio della giusta misura. Oltre al riconoscimento, l’Ordine ottenne l’esenzione dal controllo giurisdizionale e finanziario dei sovrani e dei vescovi. Questi privilegi vennero rafforzati nel 1139 con la bolla papale Omne datum optimum, in riconoscimento del sangue offerto per la difesa della fede cristiana.. In poche parole, oltre alla 45 totale autonomia dell’Ordine, che il papa poneva sotto il suo totale controllo, ma in realtà solo sulla carta, “i poveri cavalieri di Cristo” erano autorizzati a costruire proprie chiese e ad avere propri sacerdoti non sottoposti all’autorità del vescovo, ma solamente al Gran Maestro dell’Ordine. Naturalmente tali privilegi suscitarono la protesta di sovrani, principi e vescovi, il cui prestigio e gli introiti venivano così indeboliti. I Templari agivano in maniera talmente autonoma, da ignorare persino l’interdetto di alcuni vescovi nelle zone dove erano presenti. Infatti, malgrado la sospensione di tutti i servizi religiosi, i preti dell’Ordine amministravano regolarmente i sacramenti, dando vita ad un vero e proprio crumiraggio ecclesiastico. Ma anche in questo caso le lamentele servirono a ben poco, poiché i pontefici che si succedettero nel tempo continuarono a ratificare e a potenziare, a volte anche in maniera incomprensibile, i privilegi accordati ai templari. L’attività finanziaria Dal Concilio di Troyes in poi, sovrani, feudatari, baroni e anche gente comune fecero a gara con cospicue o minori donazioni per sostenere il neo ordine monaco-guerriero. Dapprima in forma minore, e per lo più castelli, ma con uno scopo ben preciso ed egoistico: quello di coinvolgere i Templari nella difesa dei propri territori, come accadde in Spagna nella lotta contro i musulmani o in Terrasanta nelle 46 frontiere della contea di Odessa, dove fu loro donato il castello di Baghras ai confini con l’Armenia. Probabilmente per lo stesso motivo Alfonso I di Aragona e Navarra lasciò in eredità il suo regno ai cavalieri templari, agli Ospitalieri e ai canonici del S. Sepolcro. Nessuno dei tre accettò l’eredità, ma i Templari, per questa rinunzia, furono ricompensati dai legittimi eredi “con la signoria su una mezza dozzina di fortezze, un decimo delle entrate reali, l’esenzione da un buon numero di tasse e la proprietà di un quinto di tutte le terre conquistate ai Mori”. (Forey 1973: 10) Sin dall’inizio si creò attorno all’ordine un alone di leggenda, dovuto alle notizie che cominciavano a giungere dall’Oriente in merito al coraggio, sprezzo del pericolo e imbattibilità nei campi di battaglia dei cavalieri del Tempio. In verità la cavalleria templare costituiva sempre l’avanguardia dell’esercito cristiano e ai suoi cavalieri era proibito, pena l’espulsione, arrendersi di fronte al nemico finché la battaglia era in corso. Nessuno poteva allontanarsi dalla sua posizione senza il permesso del superiore nemmeno se ferito e, anche in caso di evidente sconfitta, nessun cavaliere doveva allontanarsi dal campo di battaglia fino a che era esposto al nemico il gonfalone del Tempio. “L’eccellenza militare dei cavalieri templari doveva essere evidente al momento dello scontro: il prestigioso gonfalone bipartito di bianco e di nero, sul significato del quale gli storici sono ancora incerti, era l’immagine visibile dell’orgoglio religioso e militare dell’ordine. Non erano ammesse deroghe a questo principio di eroismo spinto fino al sacrificio in nome di una immagine morale del tempio che andava difesa a tutti costi; unico rifugio, la solidarietà degli altri confratelli pronti a esporsi personalmente per salvare un compagno…Le fonti mostrano che il Tempio durante il XII 47 secolo era un corpo compatto e molto coeso, caratterizzato da una disciplina ferrea, grazie alla quale si verificavano effettivamente episodi che inducevano gli osservatori alla meraviglia, come nel 1188, quando Saladino si preparava ad entrare nella città di Darbsàk presso Antiochia: un testimone oculare vide i Templari della guarnigione tenere chiusa una breccia nelle mura facendo scudo con il proprio corpo, immobili come una muraglia. Non appena un cavaliere cadeva, subito un compagno prendeva il suo posto” (Frale 2004: 61-62). Il Tempio, è incontestabilmente quanto di meglio il medio evo classico abbia prodotto in fatto di disciplina militare. Una abilità, dunque, nel combattimento che non dovrebbe eccessivamente meravigliarci. La classe aristocratica del tempo dedicava la maggior parte del suo tempo alla caccia, alle libagioni, ai banchetti e ai piaceri di Venere, dedicando di tanto in tanto alcune ore all’esercizio della scherma. Se chiamati alla guerra dai loro rispettivi sovrani, si limitavano a combattere solamente in primavera e in estate, mentre nei restanti mesi si acquartieravano, dedicandosi a tutt’altre incombenze. Tutt’altro stile di vita per i Templari, i quali, tranne alcune ore dedicate alla preghiera, si dedicavano all’esercizio delle armi, senza soluzione di continuità, giorno dopo giorno per tutti i dodici mesi dell’anno. Non appena la fama sulle gloriose azioni del Templari, come dicevamo, cominciò a diffondersi in Europa, sovrani e feudatari, sollecitati anche dai continui appelli dei successori dell’apostolo Pietro sul soglio pontificio, fecero a gara nel donare proprietà, feudi, castelli. Appezzamenti di terreno di piccola e media estensione, donazioni in danaro o lasciti testamentari per sostenere l’Ordine nella difesa della Terrasanta. Non solo, ma molti cadetti tra le più illustri casate d’Europa (in una prima fase solamente gli aristocratici 48 potevano diventare cavalieri, dopo aver sostenuto un breve periodo di noviziato) presero i voti del prestigioso ordine. Ma, assieme alla richiesta di venire accolti nel tra i cavalieri del Tempio, i giovani novizi dovevano anche portare una cospicua dote in beni mobili o immobili, contribuendo così ad accrescere la ricchezza dell’Ordine. Tra questi ultimi, naturalmente, non c’era una motivazione solo religiosa, ma anche utilitaristica, poiché, “quando l’Ordine crebbe in potere e ricchezza, offrì una forma di carriera simile a quella ecclesiastica. I maestri degli ordini militari divennero quasi subito figure significative non solo in Siria o in Palestina, ma in tutta l’Europa occidentale. I maestri provinciali e altri funzionari, con enormi risorse a loro disposizione, divennero l’equivalente dei più alti Pari del regno. La loro reputazione di onestà e buon giudizio li rese affidabili consiglieri di papi e re”. (Read 2009: 110-111) L’Italia, a differenza di altre nazioni europee, fu inizialmente tiepida nelle donazioni. Solo nel 1134 i templari poterono istituire le loro prime commende a Milano e a Ivrea.Poi seguirono a ruota donazioni a Treviso, Vercelli Albenga, Reggio Emilia, Siena, nella Marca Anconitana, a Spoleto, nelle Puglie e in Sardegna, sino a coprire l’intero territorio italiano. “A partire dal 1140 i Templari si diffusero anche in Sicilia, preoccupandosi di costituire basi logistiche nei più importanti centri della costa jonica, dove sembra che abbiano incontrato l’ostilità del clero locale: In aiuto dei Templari intervenne Lucio II il quale indirizzò il 15 maggio del 1144 un appello agli arcivescovi, ai vescovi. Agli abati ed a tutto il clero siciliano affinché si proteggessero con sussidi di ogni specie i Templari ed esortassero con la parola e l’esempio 49 anche i ricchi laici a concorrere all’opera. Per meglio raggiungere il suo scopo il papa assicurò speciali favori a coloro che avessero beneficiato i Templari, minacciando nel contempo pene a coloro che per gelosia o altro si fossero mostrati ostili verso l’istituzione crociata”. (Bramato 1993: 52). Anche in Sicilia l’appello fu accolto con entusiasmo e nel giro di pochi anni tutta la costa siciliana era costellata di case templari. Ma non mancarono ingenti donazioni di terre anche all’interno dell’Isola. Nacquero così numerose commende e precettorie a Messina, Palermo, Catania, Siracusa, Paternò, Termini Imerese, Lentini, Modica,Piazza Armerina, Caltanissetta, Trapani, Marsala, Mazara etc. In genere i Templari preferivano istituire le loro precettorie nella zona del porto e sulle strade d’accesso alla città per potere meglio controllare merci e persone che uscivano dalle mura cittadine. Oltre alla tecnica bancaria, gettarono le basi per l’istituzione di un servizio d’informazioni di alto livello. Nelle fiere e nei mercati cittadini erano soliti piazzare, travestito da commerciante, un cavaliere con il compito di ascoltare con finta indifferenza ciò che gli altri venditori o acquirenti borbottavano tra loro. In un mercato, generalmente frequentato da una folla variopinta, non era raro il caso di ascoltare uno sfogo, una lamentela, una notizia riservata o una indiscrezione. Le notizie più rilevanti e interessanti venivano presentate, come in un normale rapporto di polizia, al capo della locale precettoria o commenda. Ma oggi non è impresa facile in Sicilia potere rintracciare con certezza tutti i siti templari. Ciò è dovuto al fatto che dopo 50 la soppressione dell’ordine e l’affidamento in buona parte dei suoi beni all’Ordine degli Ospedalieri, si è cercato nel tempo di eliminare ogni testimonianza della loro presenza, cancellando simboli e croci templari, presenti nelle mura delle chiese e in ogni loro possedimento. Una forma di damnatio memoriae per gli atroci crimini di cui vennero accusati? Sotto certi aspetti potrebbe essere una valida motivazione, ma nella realtà fu semplicemente un tentativo, da parte degli avvoltoi che si gettarono sui beni templari, ottenendone la proprietà, per cancellare ogni testimonianza dei legittimi proprietari, onde evitare sgradevoli sorprese per il futuro, qualora, disgraziatamente per loro, l’Ordine fosse stato riabilitato e avesse preteso la restituzione di ciò che illegittimamente gli era stato sequestrato. A Trapani, per esempio, l’unico sito templare ufficialmente riconosciuto è quello dell’odierna chiesa di S. Agostino. Anche qui, come altrove, ogni simbolo dell’Ordine è scomparso. Ne siamo conoscenza, perché ne parla il Pugnatore a cui nel 1590 i giurati della città affidarono l’incarico di scrivere una “Historia di Trapani”; diversamente oggi senza la sua testimonianza potremmo anche non esserne a conoscenza, poiché, fra l’altro, l’Archivio di Stato di Trapani non possiede, tranne pochi frammenti, alcuna documentazione completa, né registri notarili prima del XV secolo. In realtà, potrebbe esserci stata una seconda precettoria o un distaccamento nella odierna chiesa della Madonna, mèta ancor oggi di pellegrinaggi e di profonda venerazione da parte dei fedeli, che considerano, malgrado il patrono della città sia S. Alberto, proprio la Madonna la vera patrona della città. Numerosi elementi contribuiscono a confortare questa ipotesi. Ma andiamoci per 51 ordine. Il fabbricato più antico della chiesa presenta una forma circolare, sormontata da una cupola, con una serie di piccole torri disposte simmetricamente ai lati, che ricorda in piccolo la prima chiesa del Tempio di Parigi. All’esterno, porte e finestre sono incorniciate dalla classica forma ad ostrica e le finte colonne che circondano il fabbricato sono decorate con trecce o da altri elementi decorativi dall’indiscutibile valore simbolico, che, pur in un anelito di slancio verso l’alto, vedono fermata la loro ascesa da una testa, oramai corrosa dal tempo, che li sovrasta. All’interno, come se tutto ciò non bastasse, la chiesa, oggi chiamata del “Pescatore”, è in stile gotico ed è questa l’unica testimonianza gotica della città. Un altro elemento che rafforzerebbe la tesi che la Chiesa della Madonna sia stata originariamente una sede templare è proprio la sua ubicazione. Nel Medioevo, infatti, tutti coloro che entravano ed uscivano dalla città dovevano percorrere un sentiero, di circa tre chilometri, che si snodava lungo la cosiddetta palude Cepea. Il sentiero terminava proprio davanti alla Chiesa della Madonna e, quindi, la postazione templare, come era suo costume, si trovava in una posizione strategica ottimale per controllare volti e mercanzie che entravano o uscivano dalla città. La stessa leggenda intorno all’arrivo a Trapani della statua della Madonna, a leggere bene fra le righe,costituirebbe un’ulteriore conferma di questa tesi. Dopo la cacciata dei cristiani dalla Terra Santa, un certo Guerreggio, cavaliere templare, per evitare che il sacro simulacro potesse cadere nelle mani degli infedeli, lo fece imbarcare su una nave dalla Siria per trasportarlo a Pisa. Nel corso della navigazione una violenta tempesta costrinse la nave a trovare rifugio nel porto di 52 Trapani. Per motivazioni che ci sfuggono e che sembrano fuori da ogni logica, la statua venne sbarcata dalla nave e posta su di un carro, trainato da buoi, per essere momentaneamente deposita in una chiesa della città in attesa di riprendere il mare per Pisa. Ma, inspiegabilmente, i buoi uscirono dalle mura cittadine e, una volta giunti dinnanzi al santuario mariano, si bloccarono e come muli testardi non ci fu potenza umana che li potesse smuovere. Tale fatto, sempre secondo la leggenda, venne inteso dal popolo e dallo stesso cavaliere templare, Guerreggio, come espresso desiderio della Madonna di essere collocata in quella piccola chiesa. (cfr. Spoto 2005: 144-145) Ma, al di là della leggenda, è lecito chiederci: che senso aveva far scendere la statua dalla nave se la sua destinazione era Pisa? Di certo la nave templare, una volta al sicuro nel porto di Trapani, non avrebbe dovuto far altro che aspettare che ritornasse la bonaccia per riprendere il largo. Ma anche ammesso che per motivi di sicurezza si fosse deciso di lasciare per un breve periodo la statua in una chiesa di Trapani, non ha alcun senso che i buoi, giunti dinnanzi all’attuale Santuario, abbiano deciso di non andare più avanti, perché già siamo molto lontani dalle mura della città e, oltre la piccola chiesa non c’è che l’aperta campagna, fiancheggiata per lunghi tratti dall’ora estesissimo bosco di “Arcudaci”. Là, dunque, doveva trovarsi una precettoria templare e in questa precettoria, evidentemente, doveva essere lasciata la statua. 53 La fabbrica più antica del Santuario della Madonna di Trapani, probabile commenda templare 54 Cappella del Pescatore in stile gotico (Santuario Madonna di Trapani) 55 Particolare della Cappella del Pescatore 56 Portale con simbologia templare (Santuario della Madonna di Trapani) 57 In ogni caso, di fronte all’improvvisa e, probabilmente, inaspettata ricchezza che si offrì all’Ordine Templare (alla fine del secolo XIII cifre approssimative danno per scontato che i poveri cavalieri di Cristo possedessero circa novemila proprietà per un valore di quattromila miliardi delle vecchie lire), i vertici dell’ordine mostrarono di possedere una conoscenza finanziaria di grande respiro, poiché seppero amministrare, investire e capitalizzare in un modo, per i tempi, in cui tali fatti si svolsero, certamente sorprendente. Vendettero terreni poco produttivi e ne acquistarono altri per unificare proprietà spezzettate. Coltivarono a livello estensivo frumento, segale, orzo e avena, non trascurando la vitivinicoltura e l’allevamento dei bovini, degli ovini e dei cavalli. Le casse dell’Ordine venivano, poi, lautamente impinguate dalla riscossione di pedaggi, uso dei forni e di mulini e dalle decime, fatto, quest’ultimo, che causò spesso aspri conflitti con i vescovi del luogo. Dalla proprietà e gestione di saline alla concia delle pelli di montone, la loro attività imprenditoriale non sembrava conoscere limiti. Si dotarono anche di una propria flotta di diciassette navi per evitare di dovere sottomettersi ai pesanti noli delle repubbliche marinare o dei mercantili privati, ma, probabilmente, anche per evitare che all’esterno, gelosi custodi della segretezza, qualcuno potesse venire a conoscenza dei loro affari interni. È probabile che per questo motivo scelsero, come loro principale base navale, il porto sull’Atlantico di La Rochelle, a quel tempo poco conosciuto e utilizzato se non dagli abitanti del villaggio, in buona parte pescatori. Infatti, a tal proposito, rileva De Mahieu, “quello che ci sfugge è l’utilità che può avere un porto che non conduce apparentemente da 58 nessuna parte, perché è troppo a sud della Gran Bretagna e troppo a nord del Portogallo, con il quale, comunque, sono più facili i collegamenti passando dai colli Pirenei, sorvegliati dalle commende, che non attraverso il pericoloso Golfo di Guascogna”. (De Mahieu 2005: 27) La scelta, malgrado le apparenze, non avvenne a caso, perché dal porto di La Rochelle partivano sette strade che coprivano tutta la Francia. Strade, in buona parte, pattugliate dai Templari e che si rivelarono particolarmente utili, quando, informati delle intenzioni di Filippo il Bello, fecero confluire dal tempio di Parigi e dalle altre commende di Francia, su dei carri ricoperti di fieno e adeguatamente scortati, tesori e documenti da imbarcare sulla loro flotta. In realtà, il porto di La Rochelle, era un controsenso per le rotte commerciali del tempo, concentrate nell’area mediterranea e verso i paesi medio-orientali. Ma non era un controsenso per chi voleva mantenere una assoluta segretezza sui propri movimenti e, soprattutto, su quello che si caricava e scaricava. Indubbiamente, da un punto di vista pratico e per i fini ufficiali dei Templari, sarebbe stato di gran lunga conveniente scegliere come base della propria flotta un porto qualsiasi della costa provenzale e Marsiglia in particolare, ma in tal caso i loro movimenti sarebbero stati sotto gli occhi di tutti. A questo punto dobbiamo abbandonare la storia ufficiale per valutare la tesi, sostenuta da molti studiosi, che i Templari avrebbero scoperto l’America alcuni secoli prima di Cristoforo Colombo. Se ciò fosse vero, scegliere La Rochelle come base navale della flotta templare avrebbe avuto di certo un senso. Probabilmente i Templari approdarono lungo le coste americane per un puro caso. In quel periodo, le navi non erano 59 fornite di strumentazioni scientifiche e, nel corso di una tempesta, non era infrequente che i velieri venissero trasportati fuori rotta per miglia e miglia. In una eventualità del genere finire a ridosso delle coste americane, specialmente salpando da un porto inglese o scozzese, non era un evento che dovrebbe meravigliarci più di tanto. Fra l’altro, e questa non è fantasia, ma storia, nel 1860 prima e nel 1929 poi, negli archivi del museo Topkapi di Istanbul, furono trovate due mappe, rispettivamente di Hadji Ahmed e di Piri RÈis. La prima, datata 1559, tratteggia le coste del Nord e del Sud America in maniera quasi perfetta e, poiché a quel tempo non giravano cartine geografiche dell’America, la sola spiegazione possibile è che Hadji Ahmed abbia copiato la sua mappa da una più antica carta nautica o da un mappamondo. “Le sezioni più inquietanti – scrive Childress - sono però quelle dedicate alla raffigurazione dell’Alaska e dell’Asia. Le curve delle isole Aleutine sono tratteggiata bene, ma non c’è traccia dello Stretto di Bering, perché la zona è terraferma. In altre parole, questa parte ci mostra la Terra così come doveva essere 10.000 anni fa! Il ponte di Bering fra l’Asia e il Nord America è disegnato in modo perfetto. Ancora a tutto il 1958, nel corso dell’Anno Geofisico Internazionale, gli studi dei geologi e degli scienziati avevano ampiamente dimostrato che fra i due continenti esisteva un saldo collegamento costituito da una stretta striscia di terra ferma. Le approfondite ricerche condotte in quello stesso anno non solo hanno confermato tutto questo, ma hanno stabilito che non si trattava semplicemente di una lingua di terra, bensì di una vasta zona di proporzioni sub continentali, che comprendeva tutta la parte a settentrione della curvilinea catena delle Aleutine e la singolare forma a manico di padella dell’Alaska. Per farla breve, proprio quello che era tratteggiato nella mappa di Hadji Ahmed”. (Childress 2004: 89-90) 60 La seconda mappa, datata 1519, di Piri RÈis, un pirata islamico successivamente diventato ammiraglio della flotta turca e di origini ebree, riporta la costa del Nuovo Mondo con una cura a dir poco strabiliante, dove i continenti americani sono raffigurati con incredibile accuratezza. “Niente di strano – continua Childress – se non fosse stato che nel 1519 le Americhe non erano ancora state esplorate, né, tantomeno, costeggiate con una simile precisione. Gli europei stavano appena aprendo la via dei Caraibi e Cortez, proprio in quello stesso anno, sbarcava in Messico, mentre Pizarro non aveva ancora devastato l’impero degli Incas. Quale avrebbe potuto, dunque, essere la fonte primaria della mappa?”(Ivi,92) Ovviamente tutto fa pensare che Piri RÈis ne sia entrato in possesso grazie ai suoi contatti con le comunità ebraiche, che lo hanno messo in condizione di studiare e copiare questa preziosa mappa. C’è, infine, la “mappa del nord di Zeno”, seguendo la quale Henry Sinclair, salpando nel 1398 dalla Scozia, sarebbe arrivato in Groenlandia e successivamente nella Nuova Scozia. Di questi viaggi pre-colombiani in America, secondo alcuni studiosi, si potrebbero trovare conferme su due testimonianze. La prima a Westford nel Massachusetts, dove è stata trovata l’effige di un cavaliere templare scolpita in una lapide di pietra; la seconda, invece, proviene dalla Francia, dove è stata casualmente scoperto un sigillo dell’Ordine del Tempio, raffigurante chiaramente un amerindio. “Questa volta, la prova – sostiene De Mahieu – che i Templari conoscessero il continente che noi oggi chiamiamo America è definitiva. 61 Recentemente, negli Archivi nazionali, sono stati ritrovati dei sigilli dell’Ordine, di cui si sono impadroniti gli uomini di Filippo il Bello nel 1307. Su uno di questi, apposto su un documento in cui un dignitario sconosciuto dà ordini al Gran Maestro, si legge l’iscrizione SEGRETUM TEMPLI. Al centro si vede un personaggio che può essere solo un amerindio. Vestito con un semplice perizoma, porta un copricapo di piume, come quelli che usano gli indigeni dell’America del Nord, del Messico e del Brasile, o almeno di alcuni di loro, e tiene nella mano destra un arco”. (De Mahieu 2005: 38-39) Il sigillo - secondo Mahieu – non solo attesterebbe che i templari conoscevano l’esistenza del “nuovo mondo”, ma attraverso la lettura del documento su cui esso è apposto si ha prova certa di una gerarchia superiore all’ordine Templare, che agirebbe nella segretezza più assoluta. Questa tesi, condivisa da molti studiosi, spiegherebbe in maniera ancora più chiara l’enorme ricchezza accumulata dai Templari con lo sfruttamento delle miniere d’oro e d’argento del Sud-America. Nel Medioevo non c’era grande quantità di oro e argento in circolazione, trovarne improvvisamente una grande quantità in possesso dei Templari è certamente un argomento su cui vale la pena riflettere. Su questa traccia, infine, non è da trascurare la Cappella di Rosslyn, realizzata per volontà del conte William St. Clair, a 16 chilometri circa di distanza da Edimburgo. Il cantiere fu aperto nel 1446 e i lavori ultimati pochi anni prima della scoperta dell’America. Quello che rende interessante questa cappella non è tanto il trionfo e la ricchezza del simbolismo templare e massonico, quanto la raffigurazione in un bassorilievo di una pianta di granturco. Nessuno evidentemente potrà dare una risposta a questa domanda, ma porsela è legittimo: come mai poteva essere raffigurata una 62 pianta di granturco se l’America non era stata ancora scoperta? Se dovessimo ritenere valide queste tre considerazioni per potere anche presumere che i Templari scoprirono l’America prima di Cristoforo Colombo si comprenderebbe meglio il motivo per cui questi ultimi scelsero La Rochelle come base navale della loro flotta. Da questo porto, infatti, poco frequentato, i Templari potevano scaricare oro e argento senza dare nell’occhio; soprattutto, distribuirlo nelle varie commende e precettorie di tutto il territorio francese attraverso le famose sette strade che a raggiera si partivano da La Rochelle e attraversavano tutte le regioni della Francia nel più assoluto riserbo. Ai Templari, inoltre si attribuisce la costruzione in stile gotico di più di cento chiese, distribuite in tutto il territorio francese. Lo stile gotico era praticamente sconosciuto nel Medioevo, né si registra alcuna testimonianza architettonica che ne avrebbe potuto in qualche modo preannunziare l’arrivo. Come i templari siano entrati in possesso di questa nuova e rivoluzionaria tecnica di costruzione rimane ancor oggi un mistero. L’avvio contemporaneo di tanti cantieri sa giustamente del miracoloso, poiché – rileva Charpentier – “è certamente straordinario che sia stato possibile trovare tra la popolazione francese, allora assai ridotta, un numero di maestri muratori, di muratori, di scalpellini, di falegnami, di vetrai, sufficiente a intraprendere la costruzione di quell’enorme numero di chiese laiche, per tali intendo le chiese destinate al pubblico, che fu costruito in quel periodo”(2004: 148) Ma questi uomini, continua a chiedersi Charpentier, ai quali dobbiamo pur aggiungere cavatori di pietre, manovali, addetti ai trasporti, terrazzieri, acquaioli, scultori, vetrai e carbonai, bisognava pur pagarli. Il popolo versava nell’indigenza più assoluta e re, 63 vescovi e feudatari al massimo si limitavano a donare qualche altare o vetrata. “Doveva esserci un finanziatore. Tra i finanziatori, l’unico così ricco da potere anticipare tanto denaro era il Tempio”. (Ivi:149) Ma, ritornando sull’argomento della loro grande capacità finanziaria, va anche precisato che le ricchezze accumulate non servirono solamente a trasformare l’Ordine in una impresa multinazionale, ma buona parte di esse furono spese per il mantenimento degli stati latini d’oltremare. Il senso di abnegazione, di sacrificio e la coscienza di rappresentare il baluardo della cristianità nella lotta contro gli infedeli rappresentavano i motivi principali nell’immaginazione collettiva per cui nei confronti dei cavalieri del Tempio piovvero tante donazioni. Sin dai primi anni della loro istituzione divennero un mito e i Templari sapevano benissimo che questo mito andava mantenuto, se non addirittura accresciuto giorno dopo giorno. È un argomento che opportunamente il Cardini tende a sottolineare: “La ricchezza dell’Ordine, sulla quale si è poi favoleggiato, era comunque rigorosamente finalizzata a uno scopo che il Tempio – troppo spesso oggetto di calunnie – non dimenticò mai: la difesa della Terrasanta. Dall’Europa partivano regolarmente verso il Levante guerrieri equipaggiati, cavalli, armi, materiale bellico; fortezze guarnigioni si mantenevano con una quota fissa, la responsio, pari a un terzo della produzione dei beni dell’Ordine. (Cardini 2011: 62) Ma ancora più strabiliante fu la loro attività bancaria. Ed anche questo è un dato su cui occorrerebbe particolarmente riflettere. Se consideriamo che nel Medioevo la classe aristocratica considerava disdicevole dedicarsi, tranne l’uso delle armi, ad ogni attività pratica e, in particolare, al maneggio 64 del denaro, l’inclusione dell’attività bancaria tra i molteplici interessi dei Templari ha del sorprendente. Non solo si rivelarono ottimi amministratori, ma gettarono le basi per quella disciplina che tra qualche secolo prenderà il nome di scienza e tecnica bancaria. “Con le loro lettere di credito rivoluzionarono il trasferimento internazionale di denaro, poiché ognuno poteva acquistare nella sede dell’Ordine prescelta una lettera di credito e incassarla poi in un’altra filiale, anche lontanissima. Per i viaggiatori ciò rappresentava l’inestimabile vantaggio di non essere costretti a trascinare con sé il loro denaro, con il pericolo costante di essere derubati. Poiché il flusso dei pagamenti spesso si bilanciava (un viaggiatore paga in A e preleva in B, un altro versa in B e preleva in A, l’Ordine doveva trasportare solo i soldi al netto delle differenze tra i depositi nelle varie sedi”. (Bauer 2005: 81-82) Oltre alla lettera di cambio, ogni cliente o risparmiatore possedeva un codice cifrato che gli consentiva di potere riscuotere il suo danaro in una qualsiasi commenda della gigantesca rete di filiali dei Templari. Per questo servizio, naturalmente, l’Ordine riscuoteva un tasso, (Baigent 1999: 110) che variava in base all’ammontare dell’operazione effettuata. “Ogni risparmiatore sapeva, con il cento per cento di sicurezza, che avrebbe ricevuto il proprio denaro indietro qualora lo avesse richiesto. I Templari coltivavano tale fama di irreprensibilità con un fervore simile a quello delle banche odierne e davvero nel corso di tutta la storia dell’Ordine non vi fu mai alcuna lamentela o accusa di aver imbrogliato anche uno solo dei loro investitori”. (Bauer 2005: 81) I bottini di guerra erano un’altra fonte di reddito. Una bolla papale del 1139 li autorizzava al saccheggio e lo stesso Ugo de Payns, ribadiva spesso ai Templari che 65 “quando si impadronivano del bottino dei miscredenti compivano un atto di giustizia, per via dei peccati dei miscredenti e anche perché si erano meritati il bottino con la loro fatica: chi lavora si è guadagnato il proprio salario.. Anche se quest’ultima può sembrare una ingenua scusa, riflette comunque il fatto che i Templari dedicassero molto tempo ed energia al saccheggio”(Partner 1993 : pag.10) Dei beni trafugati nel corso del saccheggio ai cavalieri che lo avevano effettuato non restava nulla. Tutto doveva essere versato nella casse dell’Ordine. Ogni Templare non doveva aver in tasca più di quattro denari. Se gli si fosse trovato anche un solo denaro in più, avrebbe ricevuto dure ed esemplari punizioni. A tutto questo bisogna aggiungere il commercio delle reliquie, che nei bilanci dell’Ordine non costituì una voce irrilevante. Anzi si buttarono in questo nuovo ramo con tanta determinazione che nel giro di pochi anni arrivarono a gestire il settore in regime di monopolio e divennero, almeno apparentemente, talmente esperti da essere spesso chiamati, sia da privati che dalla stessa Chiesa, per valutarne l’autenticità e il valore. Non era un affare da poco, poiché non era raro il caso che monasteri e conventi, afflitti da problemi di sopravvivenza e sull’orlo del fallimento, una volta acquistata una rara e preziosa reliquia, ritornassero agli antichi splendori per l’afflusso di pellegrini e per le conseguenti offerte che lasciavano. Naturalmente il più delle volte erano false e carpire la buona fede dei fedeli, in un clima di esaltazione religiosa, era la cosa più facile di questo mondo. A volte si raggiunse persino l’assurdo, arrivando a vendere come preziosa reliquia una ampolla con dentro il latte con cui la Madonna allattava Gesù. Oppure, poiché Gesù era risorto e di lui non potevano 66 esserci resti mortali, il cordone ombelicale o i dentini da latte. “Sappiamo bene – scrive Markale – che con i resti della Vera Croce sparsi in tutto il mondo e spacciati per autentici si potrebbe costruire una casa a due piani. I Templari, come gli altri, non hanno mancato di sfruttare a oltranza la buona fede dei pellegrini”. (Markale 2003: 100). Per meglio comprendere il motivo di questa spasmodica adorazione e ricerca delle reliquie, principalmente dovuta a ignoranza e superstizione, bisogna anche qui calarsi nel clima culturale e religioso del tempo. Per combattere il paganesimo, la credenza nelle divinità dei boschi, il culto della Dea della natura, delle fate, che avevano trasmesso a donne prive di qualsiasi cultura l’arte di potere guarire le malattie attraverso un sapiente miscuglio di erbe, la Chiesa Cattolica si inventò i santi, i quali con i loro miracoli divennero gli specialisti per la guarigione di determinate malattie, i protettori contro le avversità e la speranza per i diseredati. In poche parole se bisognava distruggere l’eresia della religione celtica e contemporaneamente la credenza nella capacità taumaturgiche nelle divinità di questa religione, occorreva sostituirli con personaggi meritevoli agli occhi della Chiesa, capaci di operare miracoli e di essere autorevoli intermediari fra Dio e l’uomo. E, in realtà, l’operazione riscosse un grande successo, sia spirituale che materiale, tanto che “sul palcoscenico dei culti della Cristianità, i santi erano intanto avanzati in schiera compatta, lasciando troppo spesso dietro le quinte Dio, la Trinità, e anche la Vergine Maria”. (De Angeli 2005:145) Ma bisognava stare attenti a non contraddire le leggi divine, perché 67 si correva il rischio di incorrere nella loro collera, che poteva placarsi con le preghiere, la penitenza o l’intercessione di un’altro santo. A Parigi, per esempio, intorno al 1130, infuriò per ben quattro anni l’epidemia del fuoco di Sant’Antonio. I predicatori sostenevano che la collera del santo era dovuta alla vita immorale condotta dai suoi abitanti. “Per fermare l’epidemia si poteva tentare di rivolgersi a santa Genoveffa – ipotizzarono i predicatori – la patrona di Parigi, che ancora una volta, come già tante altre, sarebbe riuscita a mettere la parola fine alla calamità. Un’imponente processione dalla chiesa sulla collina, dove si trovavano, portò nella cattedrale di NotreDame le reliquie della santa, unica in grado di placare l’ira di sant’Antonio. Genoveffa riuscì nell’impresa: sant’Antonio venne rabbonito, Parigi si risanò”(Ivi:147-148). È un esempio, ne potremmo citare migliaia, ma questo da solo serve a darci un’idea della diffusione del culto delle reliquie. 68 Le radici ebraiche della religiosità templare Non minori perplessità suscita il vero credo religioso dei Templari. Anche qui, come tanti altri aspetti della loro storia, è difficile potere dare una risposta. Alcuni studiosi del fenomeno templare sostengono che avessero molti punti di contatto con il sufismo. Ora, pur non potendo non rilevare che tra le religioni orientali il sufismo è il movimento religioso che ha più punti di contatto con il cristianesimo, il raffronto non regge. È vero che il sufismo punta a soffocare e annullare nell’uomo ogni forma di individualismo e di egoismo – così come si proponevano i templari -, ma è pur vero che il forte misticismo, di cui il sufismo è caratterizzato, appare lontano mille miglia dal modus vivendi del templare. A mio avviso – ma è solo un’ipotesi di ricerca e di approfondimento – le radici religiose dei templari potrebbero trovare il loro nucleo teoretico nell’ebraismo. Guardiamo, per esempio, alla diversità tra ebraismo e filosofia greca e occidentale. “La prima è incentrata sulle categorie dell’esodo, dell’esilio e del rispetto dell’altro. Quella greca e occidentale trova, viceversa, i suoi pilastri teoretici nell’ontocentrismo e nell’assorbimento dell’altro nel medesimo. Lévinas contrappone all’itinerario di Ulisse, le cui avventure si concludono nel ritorno a Itaca, la storia di Abramo, che abbandona la sua terra per andare alla ricerca di una terra sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre persino suo figlio a quel punto di partenza: alla filosofia-logos 69 di Ulisse, che rappresenta un ritorno su sé stesso, chiudendosi a ciò che è diverso, si contrappone così la filosofia nomade di Abramo”. (Bellino 1988:32; cfr. Ricci Sindoni 1988: 157-158), All’uomo dei nostri tempi un tale atteggiamento di vita può apparire una scelta molto lontana dai nostri modelli educativi, Ma provate a calarvi nel clima sociale del XII secolo. All’Ordine Templare aderiscono cavalieri che, pur cresciuti nella ricchezza e negli agi e a godere di tutti i vantaggi che la loro appartenenza di classe riserva, decidono di rinunziare a tutto pur di adempiere ad una missione sociale, politica e religiosa, ma soprattutto, di portarla a termine. I primi cavalieri templari, quasi tutti del Sud della Francia, si sottoporranno a una vita di stenti, di rinunzie, di sacrifici in nome di un ideale noto solo a loro. Il nomadismo in un certo qual modo diventa una loro costante peculiarità. Molti di loro – come in realtà accadrà – sanno che difficilmente torneranno vivi in patria. Molti di loro verranno uccisi in battaglia e, se presi prigionieri, decapitati dai musulmani, poiché nessuno pagherà il riscatto per la loro liberazione, né accetteranno mai di abiurare la loro religione per convertirsi all’islamismo. Eppure, al di fuori dei campi di battaglia, il loro atteggiamento nei confronti di questi ultimi sarà improntato al più rigoroso rispetto dei codici cavallereschi del tempo. Come nell’ebraismo, nei templari è alto il senso dell’onore, della giustizia e del dovere. Persino gli storici musulmani del tempo, pur odiando i Franchi, come comunemente venivano chiamati tutti i crociati, apprezzavano il loro senso di giustizia e di rispetto per l’altro, senza distinzione di ceto, colore o religione. Il cavalleresco e colto 70 emiro di Shaizar, Usama ibn Munqidh, era entrato nella moschea di Al-Aqsa, dove i suoi amici templari gli consentivano di pregare. In una di queste occasioni, mentre stava per iniziare le sue preghiere col viso rivolto verso la Mecca, fu interrotto dall’arrivo di alcuni crociati che in maniera rozza e poco gentile gli presero il viso fra le mani e glielo rivolsero verso oriente. L’aggressione fu bloccata dal tempestivo intervento di alcuni templari, che con risoluta fermezza allontanarono quegli scalmanati e, nello stesso tempo, chiesero scusa all’emiro per quel comportamento poco signorile.(Gabrieli 1987: 79-80) Quella dei templari era una politica di massima tolleranza, aperta al dialogo e al confronto fra culture orientali e occidentali. Lo attesta anche il rosone da loro fatto costruire a Trapani nella sede della loro commenda, oggi chiesa di Sant’Agostino. In esso sono ben visibili i simboli delle tre religioni monoteistiche: ebraismo, cristianesimo e islamismo. Non c’è migliore testimonianza dello spirito di massima tolleranza che albergava nel credo religioso dei templari, convinti che attraverso la libertà di pensiero, il libero confronto, la speculazione e la parola si potessero raggiungere risultati molto più concreti delle dispendiose e sanguinose guerre. Ma è proprio della tradizione ebraica, del giudaismo rabbinico attribuire alla parola un alto significato, sia sul piano simbolico che su quello del lungo cammino verso la conoscenza, poiché “la parola” rappresenta lo spazio in cui abita la divina presenza. La stessa diversità di opinioni, spesso riscontrabile nel giudaismo rabbinico, più che un aspetto 71 negativo, viene avvertito positivamente, in quanto la diversità di opinioni viene interpretata come la conseguenza necessaria alla ricchezza della parola di Dio. L’insistere sul concetto del confronto, sul rispetto dell’altro, amico o nemico che fosse, rafforza, come è stato più volte detto, l’essenza di una teologia e di una ermeneutica ricca di valori etici. L’uomo, proponendosi di allontanare e di resistere a tutti quegli impulsi che fanno dell’egoismo l’essenza della natura umana, obbedisce in pratica a un’etica incentrata sul servizio del prossimo. Questi stessi concetti, in larga misura, li ritroviamo nelle Regole dei “poveri cavalieri di Cristo”, dove i precetti, le prescrizioni, come anche nei testi sacri giudaici, non servono solamente a coltivare e sviluppare le più levate qualità umane, ma contengono una carica di dinamismo morale, capace di trasformare l’individuo e, per suo tramite, la società di cui egli fa parte. Ma non sono i soli punti in comune con l’ebraismo. Nella teologia ebraica, infatti, a fondamento della morale troviamo l’equità e la giustizia, che deve estrinsecarsi particolarmente nella accettazione dei doveri, specialmente nei riguardi del povero, del debole, del derelitto, amico o nemico che fosse. Nell’ebraismo la giustizia è fondamentale nel cammino verso Dio, ma anche nei templari, contrariamente alla mentalità feudale del tempo, il concetto di giustizia è talmente radicato da spingerli a fronteggiare anche i poteri forti (sovrani e Pontefice), quando questi ultimi vanno in senso opposto. Già abbiamo ricordato che anche gli storici islamici, pur odiando i Franchi (che Allàh li confonda, che Allàh li mandi in malora, 72 sono soliti scrivere subito dopo il loro nome)) non mancarono di sottolineare e di elogiare il senso di giustizia dei cavalieri templari. Nel 1252 un gran dignitario dell’Ordine, rivolgendosi a Enrico III d’Inghilterra, disse: “O re, finché userai giustizia, tu regnerai. Ma se la violerai, cesserai di essere re”. (BaigentLeigh- Lincoln 2008: 61) In poche parole, pur di ripristinare la giustizia, quel dignitario dell’Ordine non esitò a minacciare uno scontro frontale con il sovrano, affermando, nel contempo, un potere che neppure il papato osava reclamare tanto apertamente e sfacciatamente: il potere di creare e deporre i monarchi. Lo stesso Ugo de Payns, primo Gran Maestro dei cavalieri del Tempio, ribadì più volte che i soldati di Cristo “non dovevano cedere alla tentazione di pensare di avere ucciso in preda a odio o a furore, né di essersi impadroniti del bottino in preda a cupidigia, siccome i templari non odiano gli uomini, ma l’ingiustizia umana; e quando si impadronivano del bottino dei miscredenti compivano un atto di giustizia, per via dei peccati dei miscredenti e anche perché si erano meritati il bottino con le loro fatiche:: chi lavora si è guadagnato il proprio salario”. (Partner 1993: 10) Nell’ingiusta crociata contro gli Albigesi, in Provenza, che si protrasse per circa quarant’anni, i templari rifiutarono di prenderne parte. Si erano resi conto che i motivi religiosi c’entravano ben poco. Si trattava, in realtà, di una guerra di cristiani contro cristiani, dettata più da una logica di potere che dall’affermazione di un principio religioso. In poche parole di riaffermare l’incontrastato dominio della chiesa di Roma. In 73 Provenza furono inviati dal Papa Bernardo di Chiaravalle e, successivamente, Domenico di Guzmàn, il fondatore dei domenicani, detti anche “i cani del Signore”, affinché con la forza della predicazione, facessero propaganda anticatara. I loro sforzi risultarono vani. Ma, ad onor del vero, va anche precisato che lo stesso Doctor Mellifluus nella relazione presentata al Pontefice, confessò sì la sua sconfitta, ma non mancò di aggiungere che se tutti i cristiani si fossero comportati come i catari avremmo sicuramente avuto maggiori possibilità di realizzare in terra la “Gerusalemme celeste “.E più avanti, scandalizzato dalla corruzione della chiesa in Provenza, aggiunse anche che “nessun sermone è più cristiano dei loro” e che “la loro morale è pura”. In realtà, i catari erano anche chiamati bons hommes, bons chretiens, ma anche parfait. Vivevano una vita molto semplice, di grande levatura morale, aborrivano la violenza e l’ipocrisia, predicavano la castità e l’amore verso il prossimo. I Catari avevano una teologia dualistica. Credevano nell’esistenza di due Divinità: una era il dio d’amore, puro spirito non contaminato dalla materia; l’altra, il Rex Mundi, era l’incarnazione del male e il suo dominio era il mondo materiale; da qui il loro rifiuto per la procreazione, poiché mettere figli al mondo rafforzare e perpetuare il potere sul mondo del dio del male. I Catari, inoltre, rifiutavano il significato della crocifissione e della resurrezione. Credevano in Gesù come messia, come un messaggero del dio dell’amore, condannato alla crocifissione dalle forze malefiche che dominano il mondo e, di conseguenza, essendo mortale, era morto sulla croce senza che ci fosse stata, né poteva esserci, una resurrezione. Come se non 74 bastasse, i catari avevano una particolare venerazione per Maria Maddalena, che consideravano come la moglie o la concubina di Gesù. Probabilmente possedevano alcune prove che legittimavano questa loro credenza, ma in ogni caso questa particolare venerazione per Maria Maddalena tra i catari ha qualcosa di sorprendente. I Catari, infine, e probabilmente è stato questo il vero motivo della loro persecuzione, negavano l’autorità spirituale del Sommo Pontefice e della casta sacerdotale come unica intermediaria fra Dio e l’uomo, ritenendo che il rapporto con Dio fosse un fatto personale e che nella guida del cammino verso la conoscenza non ci dovesse essere alcuna pregiudiziale nei confronti della donna. La reazione della Chiesa, dura e spietata, non si fece attendere. Nella primavera del 1209 un esercito di 50 mila uomini, con la leaderschip militare affidata a Simon de Monfort e quella religiosa all’abate Arnaud Amaury, scese da Lione verso il territorio della Linguadoca e assediò la roccaforte catara di Bèziers. Espugnata la città il 22 luglio 1209, per una strana coincidenza proprio nel giorno di santa Maria Maddalena, ventimila tra uomini, donne, vecchi e bambini vennero massacrati. Alla popolazione non catara era stata offerto un salvacondotto, ma preferirono schierarsi con gli eretici, condividendone la triste sorte. È famoso l’aneddoto sulle cause di tanta crudeltà nell’uccisione indiscriminata di tanti abitanti. Subito dopo la resa, alcuni ufficiali dell’esercito crociato chiesero all’abate Arnaud Amaury su come dovessero comportarsi nel distinguere i cristiani dai catari. A Gerusalemme era facile distinguere gli infedeli dai cristiani, ma a Bèzier certamente no. Laconica e semplice la risposta 75 dell’abate: “Massacrateli tutti. Dio saprà riconoscere i suoi!” Probabilmente in questa decisione l’abate Amaury sarà stato confortato dal passo del vangelo di Luca, nel quale Gesù alla fine della parabola delle mine disse: “Adesso basta, portate dinnanzi a me coloro che non mi hanno voluto riconoscere come loro re e massacrateli tutti” (Luca,19,28). Naturalmente la motivazione di tanti orrori, brutalità e devastazioni non è da ricercare solo in ambito religioso e, in tal senso, Baigent, Leigh e Lincoln nel loro saggio Il Santo Graal ne danno una interpretazione interessante. “All’inizio del XXIII secolo, la zona oggi conosciuta come Linguadoca non faceva parte ufficialmente della Francia. Era un principato indipendente, e la lingua, la culturae le istituzioni politiche,più che con quelle del nord, avevano affinità con quelle della Spagna, con i regni di Leon, Aragona e Castiglia, Il principato era governato da alcune famiglie nobili, e tra queste spiccavano i conti di Tolosa e il potente casato dei Trencavel. Entro i confini del principato fioriva una cultura che a quei tempi era la più avanzata e raffinata dell’intera cristianità, con l’unica eccezione dell’impero bizantino. La Linguadoca aveva molte cose in comune con Bisanzio. L’erudizione, ad esempio, era tenuta in grande onore, diversamente da quanto avveniva nell’Europa settentrionale. Fiorivano la filosofia e altre attività intellettuali: la poesia e l’amor cortese godevano di grande fervore; il greco, l’arabo e l’ebraico venivano studiati con entusiasmo; e a Lunel e a Narbona prosperavano scuole votate allo studio della Cabala, l’antica tradizione filosofica-esoterica del giudaismo: Anche i nobili erano colti e spesso si dedicavano alla letteratura, in un periodo in cui gli aristocratici del Nord, in maggioranza, non sapevano neppure scrivere il loro nome Sempre come Bisanzio, la Linguadoca praticava una civilissima tolleranza religiosa, in contrasto con il fanatismo che caratterizzava altre parti dell’Europa. Il pensiero islamico e giudaico, ad esempio,penetrava tramite i centri commerciali marittimi come Marsiglia, oppure perveniva 76 dalla Spagna attraverso i Pirenei. Nel contempo, la chiesa di Roma non godeva di una grande stima; i religiosi romani, soprattutto a causa della loro ben nota corruzione, erano riusciti ad alienarsi la popolazione della Linguadoca. C’erano addirittura chiese nelle quali non veniva celebrata messa da trent’anni. Molti preti si disinteressavano dei parrocchiani per dedicarsi ad attività commerciali o amministrare grandi proprietà terriere. Un arcivescovo di Narbona non si degnò mai di visitare la sua diocesi”. (2008:37) Il clima era giunto a un punto di saturazione tale che da parte dei vertici della chiesa si comprese, a meno di non volere fare scomparire definitivamente il cristianesimo dalla Provenza, che un intervento drastico e violento non poteva essere più ulteriormente rinviato. La Chiesa sapeva benissimo che non avrebbe avuto alcun problema nel costituire in brevissimo tempo una temibile armata. Le bastava semplicemente sfruttare la cupidigia e l’invidia che i feudatari delle regioni del nord della Francia covavano contro i loro colleghi della Linguadoca per la ricchezza che derivava loro dai fiorenti mercati e dalla fertilità della terra. E così, sfruttando l’esaltazione religiosa e cupidigia dei baroni, le città della Provenza caddero una dopo l’altra. Dopo Béziers, analoga sorte toccò a Perpignano, Narbona e Carcassone. Nel 1244, dopo un assedio di dieci mesi, fu espugnata la fortezza di Montségur, ma non per merito dei crociati, bensì per volontà dei catari, che chiesero, ottenendolo, di potere rimanere nella fortezza altri quindici giorni di tempo prima di arrendersi. È anche questo, un po’ come tutto in questa storia, un grande mistero. Cosa fecero i catari in questi quindici giorni? Si dice che in una di queste quindici notti, 77 prima di arrendersi, quattro catari furono calati dalle alte torri per fuggire con il tesoro della comunità; ma nella realtà fuggire con quattro pesanti sacchi per i ripidi versanti dei Pirenei appare una motivazione poco credibile. In ogni caso, qualunque cosa fosse dovevano ritenerla, certamente, di grande importanza, tanto che molti studiosi sono dell’idea che “in quanto perfetti, difficilmente avrebbero mostrato tanto interesse per il destino di un semplice gingillo o un oggetto strettamente materiale. E allora perché ci sarebbero volute quattro persone per portare qualunque cosa fosse al sicuro, lontano dalle attenzioni dei crociati? Forse coloro che credono nella teoria del “Sangue Reale” hanno ragione, e si trattava dei “purissimi discendenti della stirpe. O forse avevano quattro fasci di documenti o libri, o un libro diviso in quattro- con la saggia intenzione di mandarli in diverse direzioni verso dimore sicure”. (Picknett 2005: 74) Nel 1255 cadde anche il castello di Quéribus e, infine, nel 1271 la Corona di Francia occupò anche la contea di Tolosa, annettendosi tutti i territori. Con la presa di Tolosa ebbe così inizio per la Provenza una crisi economica e culturale dalla quale non si sarebbe più ripresa. Non a caso ci siamo largamente soffermati sulla crociata contro gli albigesi e, questo, per due motivi. Il primo per meglio mettere in evidenza i vantaggiosi effetti economici e culturali che caratterizzarono la regione per la pacifica convivenza tra elementi islamici, ebraici e, in minor misura, cristiani. È nella Provenza, infatti, che dal XII secolo in poi riprendono slancio gli studi giudaici e le più famose scuole cabalistiche. Un dato, quest’ultimo, che potrebbe dare forza alla teoria che, dopo la distruzione di Gerusalemme, buona parte delle famiglie facoltose della Palestina si siano trasferite in Provenza; non solo, ma rafforza 78 anche la teoria delle radici ebraiche della religiosità templare, poiché, proprio nella regione della Provenza, le commende e le precettorie dell’Ordine furono presenti in maniera talmente capillare, che ancora oggi molti storici si chiedono il motivo che abbia trattenuto i cavalieri del Tempio dall’ acquisirne la piena potestà. Ma, ritornando all’atteggiamento apparentemente neutrale, assunto dai cavalieri del Tempio nei riguardi della crociata, pur non ignorando i rischi a cui andavano incontro, il loro senso di giustizia li spinse, non solo a non prenderne parte, ma ad offrire ai catari protezione e rifugio nelle loro commende. La chiesa ai sopravvissuti, dopo la resa delle città, senza nemmeno un sommario processo li mandava al rogo, perché venissero purificati dal rogo. I frati domenicani giunsero a un punto tale di fanatismo da fare disseppellire i corpi di alcuni eretici, morti da diversi anni, per consegnare anche le loro spoglie alle fiamme purificatrici. I Templari, invece, per salvare il maggior numero possibile di eretici catari dalle maglie dell’inquisizione, decisero anche di investirli del cavalierato, in modo che, protetti dal loro mantello bianco, diventassero intoccabili. Numerosi storici hanno più volte parlato, come abbiamo già visto, di un progetto segreto all’interno dell’Ordine Templare, che includeva anche un programma di modifica profonda della struttura della società feudale e dei suoi meccanismi. Ma per la realizzazione di questo programma i cavalieri di Cristo avrebbero dovuto prima farsi accettare e stimare come forza militare e, successivamente, distinguersi con la loro condotta e con le loro azioni, in modo da rappresentare un modello etico 79 per la società del tempo. In poche parole, di realizzare, come auspicava Bernardo di Chiaravalle, la Gerusalemme celeste sulla terra. I Templari, in sintesi, oltre a difendere la cristianità dai nemici di Dio, dovevano, con il fascino che attorno a loro andava sempre più crescendo, grazie alle notizie che provenivano dall’oriente in merito alle loro imprese eroiche, mostrarsi come un ordine monaco- guerriero, il cui unico vero proponimento nella vita quotidiana era quello di conoscere Dio, comprendere la sua azione morale e di assumerla come modello della nostra condotta, capace, non solo di trasformare l’individuo, ma per la carica di dinamismo morale che contiene, ma anche la società di cui fa parte. È questo uno dei punti di maggiore convergenza tra templari ed ebraismo, poiché l’azione per il popolo ebraico è fondamentale. “La religione ebraica – scrive Lattes – è la religione dell’atto, dell’azione, non la religione del dogma, della teoria”. (Lattes 1999:72) Il perché ce lo spiega Mosè Maimonide, uno dei più famosi filosofi dell’ebraismo medievale. Secondo Maimonide all’uomo è preclusa ogni conoscenza di Dio. Rifacendosi al libro dell’Esodo, il filosofo di Cordova ricorda le richieste che Mosè fece a Dio sul monte Sinai: “Fammi conoscere le Tue vie…Fammi conoscere la Tua Gloria”. (Esodo:33,13 -18) “La risposta di Dio alle due questioni consistette – scrive Maimonide – nella promessa di fargli conoscere tutti i Suoi attributi, di fargli sapere che tali attributi erano le Sue azioni, e di fargli sapere che la Sua essenza non può essere percepita per quello che è”. (Maimonide 2003: 197) La vera conoscenza di Dio è per l’ebraismo, dunque, la conoscenza non del suo essere, ma della sua attività: l’uomo 80 può conoscere di Dio, in senso positivo, soltanto quegli attributi che sono definibili come attributi d’azione, cioè il fatto che egli ama gli uomini ed esercita giustizia verso di loro. La ragione, in breve, pur se rivolta al sovrasensibile, diviene veramente operante solo attraverso la prassi. L’anelito alla conoscenza di Dio non isola, dunque, soltanto l’uomo nella contemplazione, ma lo spinge anche a tornare tra gli uomini per vivere con loro e per insegnare loro la verità, ovvero che vi è un Dio amante e che compie il giusto. Dio rappresenta il modello delle azioni umane: l’uomo assume Dio come suo modello quando, amandolo più di ogni altra cosa, agisce nel mondo amando le sue creature e praticando la giustizia verso di esse. Come vediamo, così come nella religione ebraica, anche nei Templari l’agire morale rappresenta un elemento fondamentale e insostituibile. Per entrambi, l’elemento fondamentale del loro pensiero non è la coscienza o la confessione teorica del , ma l’opera del bene; non è eticità in principio, ma eticità in atto.(Lattes 1999: 96). Un ulteriore elemento di riflessione, che può rafforzare un tentativo di approfondimento di ricerca sull’ipotesi che le radici religiose dei templari possano trovare il loro nucleo teoretico nell’ebraismo, ci viene proposto da alcune considerazioni sul concetto di tempo. Che cosa è il tempo? Agostino di Ippona, a tal proposito, rispose: “Se penso al tempo, so cosa è. Ma se mi chiedete di rispondere a questa domanda, non so cosa rispondere”. (Agostino1951:443) Nella cultura antica e in quella occidentale sembra prevalere una forma di disprezzo nei confronti del tempo. Non sappiamo se ha mai avuto un inizio e 81 se avrà mai una fine. Di certo non si esaurisce nella successione dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri, poiché senza discontinuità, necessariamente, anche senza di noi, avanza verso un avvenire indecifrabile e inafferrabile, così come inafferrabile è il suo punto di arrivo, poiché la nostra capacità di conoscenza non riesce a penetrare i suoi aspetti irrazionali, tanto che adattato all’essere il pensiero si dimostra incapace di accostarsi al divenire. Il tempo non sembra avere alcuna relazione con i postulati del nostro pensiero. Anzi, i nostri sistemi di logica prendono atto e arrivano “a dimostrare con una facilità sorprendente che il tempo è contraddittorio in se stesso. Ecco uno degli schemi: il passato è passato, dunque non c’è più; l’avvenire non c’è ancora; il presente si trova così tra due nulla; ma il presente, l’adesso, è un punto senza estensione; dal momento che il presente è qui, già non c’è più; l’adesso è dunque contraddittorio e pertanto esso pure è un nulla. È così che la realtà si riduce per il tempo a un nulla situato tra due nulla”(Minkowski 2011:20-21) Ma tutto ciò da un punto di vista religioso ha ben poca importanza, poiché il tempo paragonato all’eternità appare irrilevante, vuoto e, come abbiamo visto prima, del tutto irreale. Soltanto ciò che è eterno è veramente importante. D’altra parte è quotidianamente sotto i nostri occhi che tutte le cose nel tempo sono soggette al cambiamento, a passare dall’essere al non essere, e dal momento che il non essere non è non vi può essere alcuna consistenza ontologica del tempo. Il tempo, dunque, appare come ciò che dissolve l’essere, che priva le cose dell’essere. Viceversa per l’ebraismo il tempo è 82 estremamente importante e, di conseguenza, la natura, lo spazio in cui egli agisce e opera non può essere considerato come ciò che inquina e rischia di condurre alla perdizione la scheggia di spiritualità divina che alberga nell’animo di ogni uomo, il quale deve sempre ricordarsi che la vita deriva da Dio e che il corpo, in quanto tale, possiede una sacralità intrinseca. Per gli ebrei il mondo fu creato da Dio per un atto d’amore, tanto che egli stesso, quando vide ciò che aveva creato, disse che “era cosa molto buona” (Genesi, 1,31). Essere ebreo significa dunque vivere in pace e serenità col mondo, senza lasciarsi dominare dai piaceri del mondo. Abbiamo già visto che la morale ebraica è una morale finalizzata all’azione, una morale il cui fine è da rintracciare nell’agire etico. “La dottrina mosaica è una propaganda dell’azione: essa esige dovunque una morale attiva e non soltanto una morale passiva”(Lattes 1999:86), una morale, in sintesi, che non deve restare sul piano delle pure intenzioni o confinata nei libri sacri, ma trovare una effettiva concretizzazione nella vita di ogni giorno. Nel sistema religioso ebraico i dogmi di fede non possono rimanere solo su un piano conoscitivo di Dio, ma devono concretarsi, attuarsi, farsi azione, perché possano essere vissuti veramente dal popolo d’Israele. La religione non deve restare confinata ai luoghi di culto, ma deve essere il fulcro centrale della vita quotidiana, con la precisa volontà di rendere vivo il ricordo del proprio Dio. La vita dell’ebreo, infatti, è scandita da una serie infinita di momenti il cui scopo è quello di portare alla memoria l’esistenza di Dio, tanto che “nel cosiddetto 83 mosaismo, il sistema etico religioso si innesta intimamente con quello sociale-politico. I dogmi fondamentali della fede sono presentati come principi direttivi della vita pratica”. (Ibidem) È nel tempo che può realizzarsi il percorso dell’uomo verso Dio attraverso un quotidiano concretizzarsi di azioni che abbiano come modello l’eticità divina. “La storia, quindi è il trionfo del tempo sullo spazio…essa è la suprema testimone di Dio”(Heschel 2006:228). L’immortalità, secondo alcuni filosofi ebrei del medioevo, non era prerogativa di tutti gli uomini, ma un dono di Dio per coloro i quali con lo studio, con la mente e con le loro azioni maggiormente si erano avvicinati a lui. Se, dunque, l’immortalità va intesa anche in senso allegorico essa è riservata solamente a coloro che nel corso della loro vita, nel tempo limitato della loro esistenza, si sono resi con le loro azioni testimoni di Dio, santificandone così il nome. Per l’uomo, dunque, partecipare alla civiltà e andare al di là di essa è un dovere categorico, poiché l’ebraismo è proprio “l’arte di superare i limiti della civiltà; è la santificazione del tempo e della storia”(Ivi:450). Più avanti Heschel aggiunge che “le cose svaniscono, ma il loro valore per Dio è sempre rapportato a Lui e da Lui ricordato. Le cose muoiono, ma in Dio il tempo non muore mai. Ciò che è duraturo risiede nel tempo di Dio, non nello spazio. È impossibile sentire la realtà del tempo senza essere consapevoli dell’unità che esiste tra il passato, il presente e il futuro nell’eterna consapevolezza di un Creatore. Noi tutti viviamo in due tempi: nella temporalità e nell’eternità, nel tempo dell’uomo e in quello di Dio. Se viviamo soltanto 84 nella temporalità, la nostra vita è breve e frammentaria; se realizziamo la volontà di Dio, rimaniamo duraturi nella sua memoria”. (Heschel 2001:152) Ne consegue, quindi, per Heschel che ogni essere, ogni oggetto, calato nella temporalità, può o sprofondare nel nulla o vivere nella pienezza del tempo. Chi decide di santificare il tempo, partecipando alla civiltà e andando al di là di essa, non solo rende le sue azioni gradite a Dio, ma si incammina per un sentiero nel quale le sue conquiste nel tempo nessuno potrà mai negare o ignorare. E proprio in questo codice etico che cogliamo il maggior punto di contatto tra l’ebraismo e i templari. Molti studiosi del fenomeno templare – lo abbiamo già accennato – sostengono che alla base dell’istituzione dell’Ordine templare ci siano occulti motivi socio-politici o, se vogliamo, una vera e propria missione segreta. La volontà, di conseguenza, di abbattere le strutture feudali e i vincoli con i quali queste ultime soffocavano ogni rinnovamento sociale ed economico, creando un nuovo sistema più aperto, dinamico con una visione economica, diremmo oggi, globalizzante, non è forse il proponimento di superare i limiti della civiltà e di realizzare una conquista nel tempo che nessuno potrà togliere? C’è, inoltre, un altro argomento sul quale è necessario riflettere: il culto dei Templari per le madonne nere. Il monaco Bernardo, protettore e capo spirituale dell’Ordine, nutriva a Clerveaux un culto particolare per una madonna nera. In uno dei tanti aneddoti sulla sua vita si racconta che quotidianamente vi si recava in preghiera e che era solito chiudere le sue orazioni, chiedendo alla madonna di 85 mostrarglisi. Fu accontentato. Dal seno della madonna, che teneva in braccio un bambino, sgorgò un zampillo di latte che finì dritto sulla bocca del monaco cistercense. Ma, al di là del racconto fantastico, il vero problema è cercare di capire che cosa potesse unire Bernardo di Chiaravalle e i Templari con il culto delle Madonne nere. È un altro elemento che ci porta ad inquadrare in una matrice ebraica le origini della cupola dell’Ordine Templare. Chiariamo i vari passaggi. Gesù non era un cristiano, ma un ebreo. Fu circonciso, osservava la Pasqua ebraica, leggeva la Bibbia in ebraico e rispettava il giorno del Sabbath (Tabor 2006: 118). Per fugare ogni dubbio, in maniera abbastanza chiara dichiarò: “io non sono venuto ad abrogare la legge, ma a rafforzarla”. Gli stessi apostoli non pensavano di essere stati i fondatori di una nuova religione, non lo sospettavano neppure. Essi continuavano a vivre come ebrei di stretta osservanza e come tali ogni giorno si recavano al tempio per una preghiera”. (Armstrong 1996: 145) E, di conseguenza, “ciò che Gesù insegnava non era immaginato dagli apostoli e dai discepoli che lo seguivano come le fondamenta di una nuova religione o una deviazione del giudaismo canonico; tanto è vero che, in pratica, la sola differenza che esisteva fra loro e la corrente principale del pensiero religioso ebraico, che si manifestava nelle tante sette dominanti, consisteva nel fatto che essi accettavano l’interpretazione che Gesù dava della Legge, convinti in questo dalla certezza che si trattasse di un autentico Messia”. (WallasMurphy 2006:73) 86 Gesù, quindi, erede della stirpe reale del re Davide e pienamente cosciente delle implicazioni messianiche che questa eredità comportava, diede vita a un movimento, certamente rivoluzionario sotto un profilo religioso, politico e sociale, che rappresentò una seria minaccia per la classe dirigente del tempo, sia politica che religiosa. “C’erano ebrei che si trovavano pienamente a loro agio nella società e nella politica del loro tempo e che cercavano di trarre il massimo vantaggio dallo status quo, anche se imposto da Roma. Ma ce n’erano altri, fossero Farisei, o Sadducei o Esseni, o anche senza appartenenza, che non se la sentivano più di vivere in quel mondo ed erano in attesa di un cambiamento radicale fondato sulle predizioni messianiche dei profeti ebrei”(Tabor 2006:131). Già in Palestina si erano registrati numerosi tumulti, che le legioni romane avevano soffocato nel sangue e Ponzio Pilato, dal 26 d.C. nuovo procuratore e comandante militare della provincia, mostrava di avere solamente a cuore il mantenimento di una certa stabilità sociale e sia lui che l’imperatore Tiberio “l’ultima cosa che volevano era un visionario profeta di stirpe davidica che trascinasse le masse infiammandole coi testi della Bibbia e parlando loro della venuta di un incomprensibile, ai loro occhi, regno di Dio”. (Ivi: 167) Fu condannato a morte più per ragioni politiche che non religiose. Non a caso sulla sua croce i romani affissero la frase, anche se dal loro punto di vista per dileggio, “Gesù il Nazareno, Re dei Giudei. I vangelo gnostici sostengono che Gesù fosse sposato con Maria Maddalena con la quale ebbe una figlia o più figli. Di conseguenza, se questa fosse la verità, anche la sua discendenza era in pericolo di vita. Questo 87 spiegherebbe il motivo per cui Maria Maddalena e i suoi probabili figli, consigliati e guidati da alcuni suoi fedeli discepoli, primo fra tutti il ricco Giuseppe d’Arimatea, fuggirono dalla Palestina e si rifugiarono in Francia. Secondo la leggenda, ma ogni leggenda ha un fondo di verità, i fuggiaschi approdarono a Saintes Maries- de la Mer in Provenza, guarda caso una regione, come abbiamo visto, dove le comunità ebraiche erano numerosamente presenti e dove la pacifica convivenza con altre etnie aveva favorito una crescita economica e culturale di gran lunga più ricca rispetto alle altre regioni della Francia. La Provenza, inoltre, per inciso, nella storia dei Templari occupa un posto privilegiato, a tal punto che molti storici si sono spesso chiesti il motivo per cui non ne hanno fatto un proprio Stato autonomo e indipendente, come molti anni dopo faranno gli Ospitalieri a Malta. Seguendo sempre la leggenda, sappiamo che ogni anno a Saintes Maries de la Mer dal 23 al 25 maggio le reliquie di santa Sara l’Egiziana, detta anche “la Regina Nera” vengono portate in processione, un rito religioso che risale al Medioevo e che celebra l’arrivo di una ragazza egiziana che approdò nell’anno 42 d.C., in compagnia di Maria Maddalena, Giuseppe d’Arimatea, Marta e Lazzaro, sulle coste francesi. Il nome Sara in lingua aramaica significa “principessa” e, seguendo i vari passaggi di questa leggenda, tenendo conto che questa ragazza aveva circa dodici anni al tempo del suo arrivo in Provenza, non è utopistico supporre che fosse proprio la figlia di Gesù e che Maria Maddalena rappresentasse il Sangraal, il calice che portò nel suo grembo il sangue reale. Ma perché nera? Probabilmente perché “il suo essere nera” è pure un riferimento 88 diretto ai re deposti di Gerusalemme della stirpe di Davide: “più splendenti della neve, più candidi del latte…ora il loro aspetto si è fatto più scuro della fuliggine, non si riconoscono più per le strade”. (Lm 4,7-8) È probabile che coloro che vennero a conoscenza della reale identità di Maria Maddalena e di sua figlia Sara vollero venerarle come Madonne Nere, nel senso che il loro essere neri, “stava a significare allegoricamente la loro condizione di segretezza; lei era la regina sconosciuta – non riconosciuta, ripudiata e vilipesa dalla Chiesa che, nel corso dei secoli, cercò di negare la legittimità della discendenza reale e di riaffermare le proprie dottrine sulla divinità e sul celibato di Gesù”. (Starbird, 2005:67) Ora, sorvolando sui numerosi quadri di famosi pittori medievali, che mostrano Maria maddalena in evidente stato di gravidanza, non si riesce a capire l’accanimento della chiesa contro questa donna, che se fosse stata realmente una prostituta, era pur sempre una prostituta pentita e, quindi, degna di ogni rispetto, poiché, fra l’altro, mentre tutti gli altri apostoli mostrarono una fede vacillante e timorosa nel momento del pericolo, Maria Maddalena fu l’unica a non rinnegare Gesù e a stargli vicino per tutto il tempo della drammatica esecuzione. L’unica spiegazione possibile è che i vertici della chiesa romana tentarono di depistare ogni possibile indagine in tal senso, perché se la verità fosse venuta fuori sarebbe crollato l’intero impianto teologico della chiesa paolina. In tal senso può essere utile rileggere alcune riflessioni di Margaret Starbird sull’argomento. 89 “Con la conquista di Gerusalemme avvenuta nel 1099, i capi dei crociati insediarono un patriarca nella chiesa del Santo Sepolcro. A tal proposito abbiamo scoperto un fatto alquanto bizzarro, e cioè che nelle loro formule liturgiche durante tutte le festività della Vergine Maria si utilizzavano paramenti di colore nero. Alcuni studiosi suggeriscono che l’uso di questi paramenti di colore nero fosse in qualche modo riconducibile al Cantico dei cantici; ciò nonostante si presentava come un notevole distacco dalle consuetudini della Chiesa che soleva ricorrere ai paramenti di colore bianco per tutte le festività mariane. Probabilmente questi paramenti scuri sono ancora un rimando simbolico all’altra Maria, a quella nascosta, alla Sposa Perduta del Cantico, derisa e ripudiata dalla Chiesa ortodossa – la regina esiliata e la cui identità è stata tenuta a lungo nascosta, inizialmente dalle autorità romane e dagli eredi di Erode e successivamente dalla gerarchia della Chiesa Cattolica Romana. Questa Maria “nera” riecheggerebbe poeticamente la Sposa bruna del Cantico dei Cantici, la Sposa del Pastore/re sacrificato, dello Sposo messianico di Israele. Riassumendo, le due rifugiate reali di israele, madre e figlia, potrebbero logicamente essere state rappresentate nella primitiva arte europea come madre e figlia nere, come quelle nascoste. Le Madonne Nere delle reliquie presenti in Europa (dal V al XII secolo) potrebbero essere state allora venerate come i simboli di questa Maria e della sua bambina. Il Sangraal che Giuseppe di Arimatea portò al sicuro sulle coste della Francia. Il simbolo di una discendenza maschile della stirpe di Davide doveva essere un bastone fiorito o germogliato, ma mil simbolo di una discendenza femminile doveva essere un calice, una coppa contenente il sangue reale di Gesù. Ed è esattamente quello che si racconta sia stato il Santo Graal”(Ivi: 70-71) Sulle stesse posizioni della Starbird è anche Gardner, che sull’argomento ha scritto numerosi e pregevoli saggi. “In effetti, la lealtà di Maria verso Gesù e la sua famiglia superò di gran lunga quella dell’imprevedibile Pietro e di altri apostoli titubanti. Ella era una donna, naturalmente, ma questo non basta da solo a giustificare gli attacchi postumi della Chiesa contro di lei. Anche la madre di Gesù lo era, eppure è stata sempre oggetto di venerazione. Evidentemente nei confronti 90 di Maria Maddalena vi era più di quanto possa apparire a prima vista, qualcosa che lasciava i vescovi timorosi e trepidanti per il retaggio da lei lasciato…Se i vescovi non avessero saputo del rapporto matrimoniale di Maria Maddalena con Gesù e della sua conseguente maternità, non avrebbero avuto alcun motivo di vilipendere la sua memoria. Come tanti altri, ella sarebbe rimasta una figura importante, ma comunque secondaria, della storia cristiana. Certo, storicamente vi furono gruppi che sostennero la causa dell’eredità della Maddalena, ma non vi è nulla di segreto in ciò. Maria Maddalena rappresentava una considerevole minaccia per la Chiesa. I vescovi ne erano consapevoli, e altrettanto bene lo sapevano i monaci, organizzazioni come i Templari e molti altri”. (Gardner 2005:22-23) Ed è sempre Gardner a ricordare che l’Inghilterra, oltre a numerose chiese dedicate a Maria Maddalena, vanta anche istituti di studi a lei intitolati presso le Università di Oxford e Chambridge. Il che dimostra che “mentre la Chiesa di Roma cercava in tutti i modi di metterla da parte, se non addirittura di cancellarne completamente il nome, ella era assai venerata negli ambienti monastici inglesi, dai benedettini di Oxford ai loro confratelli di Saint Albans”. Dovremmo, infine, soffermare la nostra attenzione sulla considerazione che Bernardo di Chiaravalle nel formalizzare l’istituzione dell’Ordine dei Cavalieri Templari al concilio di Troyes pretese da parte degli stessi cavalieri un loro giuramento di fedeltà in nome di Maria Maddalena. “Forse, un’altra indicazione in merito al disagio mostrato dalla Chiesa verso questo argomento potrebbe derivare proprio dalle parole pronunziate da Bernardo. Quando aveva stilato la Regola dell’Ordine dei Templari, aveva stabilito un preciso e specifico requisito cui i cavalieri non avrebbero 91 dovuto sottrarsi: “Obbedienza a Betania e alla casa di Maria e di Marta”. Per dirla in parole semplici, rendere e riconoscere obbedienza alla dinastia fondata da Maria Maddalena e Gesù. Basandosi su queste osservazioni, non pochi studiosi hanno azzardato l’ipotesi che tutte le grandi cattedrali di Notre-Dame, finanziate o costruite dai Templari, non fossero dedicate a Maria, la madre di Gesù, bensì a Maria Maddalena e al figlio da lei avuto da Gesù, un’idea che, vista dal punto di vista della Chiesa cattolica, è un’eresia insopportabile”. (Wallace-Murphy 2006:198). Le numerose chiese gotiche, fatte costruire dai Templari e tutte dedicate a una generica Notre Dame, potrebbero, in realtà, riferirsi proprio a Maria Maddalena, sia per occultare la loro venerazione per l’apostola prediletta da Gesù, sia per evitare di entrare in aperto contrasto con le autorità religiose. Ma perché allora i Templari, stando alle numerose ammissioni che fecero nel corso del loro processo, nel corso della cerimonia d’investitura, sputavano sul crocifisso? Sembrerebbe una palese contraddizione, perché se sputavano sul crocifisso non avrebbero dovuto mai venerare Maria Maddalena, che di Gesù era la moglie o la compagna prediletta. La contraddizione potrebbe essere solamente apparente, poiché, ed è proprio a questo punto che le posizioni ideologiche e religiose dei Templari potrebbero coincidere con quelle ebraiche, in Gesù loro veneravano il profeta, l’uomo che avrebbe voluto risollevare le sorti del popolo ebraico, ridandogli dignità e liberandolo dal giuoco della dominazione romana. Nel Medioevo, infatti, numerosi filosofi ebrei ritenevano che tra situazione politica e avanzamento culturale ci fosse una stretta relazione, associando di conseguenza la cessazione della 92 profezia con il fenomeno dell’esilio. Ora, mentre “alcuni mettevano l’accento sulla preminenza esclusiva della Terra d’Israele (teoria geografico- climatica) e asserivano che la profezia era impossibile fuori da essa”, Maimonide, viceversa, sosteneva “che non tanto il mutamento territoriale quanto le sue conseguenze di dolore, malattia, guerra e fame erano le vere cause della contrazione della Profezia dal momento che impedivano la perfezione intellettuale”. (Somekh 2005:45) Gesù per molte correnti ebraiche rappresentava proprio l’uomo che avrebbe liberato la terra di Palestina dal giuoco romano, ridando così nuovo impulso alla profezia. Era questo il Gesù che i Templari adoravano e non quello crocifisso, sulla cui croce, a loro modo di vedere, la Chiesa di Roma aveva speculato, trasformandosi in un centro di potere, che dal Concilio di Nicea in poi, giorno dopo giorno, scelse di adottare la politica del terrore contro chi le si opponeva. Non solo, ma persino il messaggio originario di Gesù era stata ignorato, calpestato e stravolto. I vangeli gnostici, ritrovati di recente, hanno offerto numerosi argomenti di riflessione su questi delicati argomenti. La Chiesa di Roma, dopo Nicea, aveva deciso di distruggerli tutti, riconoscendo come ispirati da Dio solamente i quattro vangeli canonici, gli Atti degli apostoli, l’Apocalisse, le lettere dell’apostolo Paolo e circa sette lettere, tra cui, anche se ci fu qualche proposta di eliminarla, quella di Giacomo, da molti studiosi indicato come il fratello di Gesù. Eppure, prima del Concilio di Nicea, per ben tre secoli, molte comunità cristiane si erano formate e mantenute nella fede con la lettura e il commento di uno di questi vangeli gnostici, 93 successivamente condannati alla Chiesa e distrutti. Tra i tanti vangeli apocrifi, oggi venuti alla luce, fra cui quello di Tommaso, Filippo, della Verità, Nicodemo, Pietro, Bartolomeo, degli Ebrei, Ebioniti etc., stranizza che non sia venuto fuori un vangelo di Maria Maddalena, di Giacomo o addirittura di Gesù stesso. Eppure, questi ultimi, sarebbero stati i più titolati a lasciare una testimonianza del loro credo religioso e degli avvenimenti di cui erano stati i protagonisti. Abbiamo già detto che i Templari passarono i primi nove anni della loro esistenza a scavare tunnel e gallerie nelle stalle di Salomone alla ricerca non certamente di un tesoro o dell’Arca dell’alleanza. Potrebbe, viceversa, essere legittimo il sospetto che i Templari fossero alla ricerca di testi e documenti, occultati e seppelliti prima della distruzione di Gerusalemme, e che tra questi testi ci fosse proprio un vangelo di Maria Maddalena o di Gesù stesso, un vangelo che avrebbe sbriciolato dalle fondamenta l’impero che la Chiesa di Roma aveva costruito. Non si può spiegare diversamente l’atteggiamento di sottomissione dei Papi nei confronti dei poveri cavalieri di Cristo, tenendo anche conto del fatto che questo ultimi, nei quasi duecento anni della loro esistenza, mostrarono di non tenere in alcuna considerazione l’autorità del Sommo Pontefice e che addirittura, in anni in cui quest’ultimo non poteva mettere piede a Roma per il clima ostile scatenatogli contro dalla famiglie aristocratiche romane che si contendevano la tiara, non vide mai al suo fianco un drappello di Templari per ripristinarne l’autorità. 94 Anche se marginali, non mancano altri spunti di riflessione che accumunano i Templari all’ebraismo. In primo luogo, il loro non superficiale interesse per lo studio della Qabbalah, il cui principale obiettivo è quello di penetrare la struttura dell’Essere divino e i processi che si verificano all’interno di questo. In secondo luogo, la sobrietà delle loro chiese, dove non figurano statue di santi o altre immagini sacre del Nuovo testamento. Gli stessi templari, diversamente dagli altri ordini militari, non hanno un santo protettore. Per loro Dio, riecheggiando le Sacre Scritture, è il numero perfetto, il governatore e l’architetto del mondo. D’altra parte lo stesso, Bernardo di Chiaravalle, in maniera alquanto insolita, era solito definire Dio come altezza, profondità e larghezza. Va sottolineato ancora la cura che, stando alle regole del Tempio, i cavalieri templari dovevano avere per il proprio corpo. Per la mentalità cristiana del Medioevo è qualcosa di insolito. Il corpo è la prigione dell’anima e con le sue passioni e desideri è causa, spesso, della perdizione dell’uomo. Il corpo va mortificato, frustato e spesso anche piegato alle sofferenze di un cilicio. Questa pratica religiosa era largamente praticata nei conventi e nei monasteri. Un comportamento diverso, quindi quello dei Templari che trova un riscontro proprio nel pensiero ebraico, dove è chiaramente detto nella Torah che “l’intenzione di tutta la legge consta di due cose: il benessere dell’anima e il benessere del corpo(Ivi:614) Ed è ancora Maimonide a chiarire che la perfezione dell’anima non può essere raggiunta se non dopo avere raggiunto quella del corpo, poiché solamente “dopo aver 95 raggiunto la prima perfezione si può raggiungere la perfezione ultima che è indubbiamente più nobile ed è essa sola causa della sopravvivenza eterna”. (Ivi:615) Ai Templari, poi, era formalmente proibito partecipare ai tornei, sport molto in voga tra la cavalleria laica, e alle battute di caccia. La caccia per Bernardo di Chiaravalle era un divertimento profano del tutto sconveniente per la condizione monastica. Era loro proibito persino accompagnare i laici che si recavano a caccia, a meno che la loro presenza non era dettata dall’esigenza di proteggerli dall’attacco di bande saracene. L’unica eccezione era rappresentata dalla caccia ai leoni. Su questo fronte i cavalieri del tempio avevano libertà assoluta. Ma perché era consentita solo ed esclusivamente la caccia ai leoni? Forse, perche simbolicamente il leone nelle Sacre Scritture era spesso identificato con le forze del male. “Siate sobri e state in guardia! Il diavolo, vostro avversario, si aggira come leone ruggente, in cerca di chi divorare”(Lettera di Pietro, 5,8.) La storia personale di Cristoforo Colombo, inoltre, malgrado l’agiografia che è stata fatta intorno al suo nome, non manca di numerosi punti oscuri, ma innegabilmente si svolge fra ambienti ebraici e templari. La madre, Susanna, è di origini ebraiche e, probabilmente, questa appartenenza religiosa gli aprì le porte della società bene portoghese. A Lisbona sposa una donna imparentata per parte di madre con la famiglia reale e attraverso il suocero, Bartolomeo Perestrello, uomo di fiducia del principe Enrico il navigatore e membro dell’Ordine Templare, entra a far parte del prestigioso Centro di Sagres, un 96 accademia di cultura nautica specializzata nella programmazione di viaggi di esplorazione e di nuove rotte. All’interno del Centro lavoravano studiosi arabi ed ebrei, particolarmente esperti nel campo delle conoscenze astronomiche, matematiche, geografiche e cartografiche. Il Centro era stato fondato da Enrico il Navigatore e ne facevano parte come membri operativi sia Vasco de Gama che Bartolomeo Diaz, entrambi cavalieri templari. Lo stesso Colombo ne divenne, quasi sicuramente, un ufficiale operativo, poiché tra il 1477 e il 1483, sempre conto del Centro di Sagres, lo troviamo in viaggio verso l’ Islanda, le Canarie, Guinea sempre. Sappiamo che in seguito a un comportamento poco corretto del re del Portogallo, Giovanni II, Colombo si trasferì in Spagna dove presentò ai sovrani cattolicissimi il suo progetto di raggiungere l’Oriente, navigando sempre verso l’Occidente. La teoria di Colombo rasentava l’eresia e per queste sue stesse idee alcuni anni prima Pietro d’Abano e Cecco d’Ascoli erano stati condannati al rogo dall’inquisizione. Naturale, quindi, che la commissione a cui fu sottoposto il progetto di Colombo per studiarne la fattibilità desse parere negativo. Nonostante ciò, Ferdinando il Cattolico approvò e finanziò il progetto di Colombo. A questo punto è lecito sospettare che Cristoforo Colombo, al di là di una costruzione artificiosa e leggendaria del personaggio, sia stato materialmente protetto e sostenuto da personaggi influenti sia della comunità templare che da quella ebraica, poiché, secondo Wiesenthal, “Non furono tanto motivazioni scientifiche o smanie di avventura a spingere lui e i suoi protettori alla scoperta di nuove terre, bensì credenze ed 97 aspettative di carattere religioso. Wiesenthal tratteggia assai efficacemente la fede degli Ebrei del tempo nella profezia di Isaia che indicava la possibilità per loro “di cieli nuovi e terra nuova”, la nostalgia per le tribù di Israele andate perdute, e sulla cui esistenza nell’estremo oriente si favoleggiava, e sottolinea inoltre come le conoscenze tecniche e scientifiche necessarie per l’impresa della traversata oceanica fossero soprattutto in mano agli ebrei spagnoli, tra le cui schiere si trovano persone in possesso di un patrimonio culturale matematico, astronomico, geografico, ma soprattutto cartografico, che poche altre comunità dell’epoca potevano vantare. In particolare, l’autore ricorda come proprio la cartografia fosse una specialità degli ebrei e che un fiorente centro di studi in proposito era l’isola di Maiorca”. (Bartocci 1993:6; cfr. Wiesenthal 1991) Ma, su questa linea, ci sono altri indizi che ci portano a scorgere una trama convergente. In primo luogo, la protezione che Colombo godette sempre da parte di Giovanni Battista Cybo, genovese di nascita, appartenente ad una famiglia di origini ebraiche e meglio conosciuto col nome di Papa Innocenzo VIII. Colombo che nei confronti della propria famiglia sarà sempre prodigo e affettuoso non accenna mai ai suoi genitori anagrafici. Questo ha fatto sì da indurre a sospettare che, sia per le protezioni accordategli sia per la fama di seduttore (a Innocenzo VIII si attribuiscono due figli legalmente riconosciuti e un numero non precisato di bastardi e di “nipoti”, come comunemente in Vaticano si indicavano i figli dei Sommi Pontefici) , Cristoforo Colombo fosse figlio di Innocenzo VIII. “Ancora oggi, se ci si reca in San Pietro, è possibile acquistare un poster, che ha il placet del Vaticano, contenente i cammei e il compendio, in poche righe, della vita de “I sommi pontefici romani. Sotto il volto di Innocenzo VIII è scritto: “portò a termine la immane opera di pacificazione 98 degli stati cattolici. Colpì inesorabilmente il mercato degli schiavi e aiutò Cristoforo Colombo nella sua impresa alla scoperta dell’America”. (Marino 2005:59-60) Ma l’aiuto di Innocenzo VIII non si limitò solamente a questo. Un banchiere della famiglia dei Medici di Firenze, Giannotto Berardi, “risulterà fra i maggiori finanziatori del primo così come degli altri viaggi di Colombo”(Ivi:64). In tale operazione è evidente l’influsso del Sommo Pontefice. Innocenzo VIII, infatti, non solo aveva stretto una forte alleanza con Lorenzo il Magnifico, facendo sposare il figlio Franceschetto Cybo con Maddalena dÈ Medici ed elevando alla porpora cardinalizia il giovane Giovanni dÈ Medici, che diverrà Papa col nome di Leone X, ma aveva anche stretti rapporti di affari nel commercio dell’allume. È probabile, dunque, che Lorenzo il Magnifico abbia influito sulle scelte del suo banchiere di fiducia per sdebitarsi con Innocenzo VIII per i favori ricevuti e per mostrare la sua totale disponibilità ai progetti di quest’ultimo, anche se, in verità, non va trascurata l’ipotesi che l’appoggio dei banchieri toscani all’impresa di Colombo possa trovare una valida interpretazione nello stesso ambiente ebraico e templare, poiché le prime testimonianze di istituti bancari all’inizio del secolo XIV si trovano proprio in Toscana e, guarda caso, nascono subito dopo lo scioglimento dell’Ordine Templare e in un territorio culturalmente e politicamente non troppo favorevole al retrogrado ambiente ecclesiastico e ai vertici di Santa Romana Chiesa. Spesso nelle lettere scritte da Colombo “si notano un simbolismo e una terminologia, come il riferimento al Tempio, che ne fanno 99 assomigliare le parole più a quelle di un ebreo nostalgico della Terra promessa e della Città Santa, che non a quelle di un cattolico ortodosso”(Bartocci 1993:8); allo stesso modo non può non far riflettere la sua abitudine di far precedere la sua firma da un criptogramma e precisamente dalle tre lettere X M Y, abitudine, secondo alcuni studiosi, che ha un sapore prettamente iniziatico e che molto probabilmente dovrebbe intendersi nelle parole di cristiani, mori e giudei. (cfr. Pistarino 1990) Tutto ciò può avere il sapore della pura congettura, ma in una lettera di Colombo, citata da Bartocci, questa ipotesi appare particolarmente sensata e non campata in aria, poiché in essa “si trova l’affermazione indubbiamente ereticale – per la sostanziale uguaglianza di tutte le religioni a cui allude e, quindi, la negazione della specificità del Cristo – anche dal punto di vista dell’ortodossia cattolica radicale a noi contemporanea: “Affermo che lo Spirito Santo opera in cristiani, giudei, mori e in altro d’ogni possibile setta”. (Bartocci 1993:15). Naturalmente come non sottolineare che questo grande progetto di esplorazione del mondo e di auspicato rinnovamento scientifico rientrava a pieno titolo nel programma operativo dei templari il cui obiettivo ero quello di superare i limiti della civiltà, poiché le conquiste nel tempo nessuno le potrà mai togliere. Quanto ha scritto Heschel per l’ebraismo può a buon diritto applicarsi benissimo anche ai templari. “Azione e pensiero sono collegati fra loro in un tutto unico. Tutto ciò che un individuo pensa e sente penetra in tutto ciò che fa, e tutto ciò che egli fa è coinvolto in ciò che egli pensa e sente. Le aspirazioni spirituali sono destinate a fallire quando cerchiamo di promuovere delle azioni a scapito 100 dei pensieri o dei pensieri a scapito delle azioni…Vivere nella maniera giusta è come un’opera d’arte, è il prodotto di una visione e di una lotta legata a situazioni concrete”(Heschel 2006: .320) Per gli ebrei, così come per i Templari, il culto per la responsabilità collettiva ha un ruolo fondamentale. “Non ci sono per Israele due zone distinte: quella della religione che guarda soltanto la cielo ed è cosa riservata al mistero della coscienza individuale, col suo premio e la sua pena nell’al di là, e l’altra zona, quella della collettività, colle sue leggi utilitarie, relative, sottratte alla sfera etica ed assoluta del divino”. (Lattes 1999: 59). Non deve, quindi, esserci frattura fra sfera individuale e sfera collettiva. “Conoscere veramente Dio significa dunque concretare quest’armonia. Quando gli uomini avranno restaurato fra loro, nella loro società e nella loro vita quotidiana, questa concordia spirituale, Dio allora sarà veramente Uno”. (Ivi:209). Per gli ebrei non è l’eremitaggio o la vita contemplativa che ci porta sulla giusta via per conoscere e imitare Dio, ma l’aprirsi al mondo ed essere testimoni della parola di Dio, non solo nel rapporto fra gli uomini , ma anche nella vita sociale e in quella politica. Chiarisce ancora meglio Lattes che “non salva l’atto di fede o un evento meraviglioso, o la mano di Dio che scende dai cieli sugli uomini solitari; ciò che salva è la santità conquistata non solo nella comunione con Dio indulgente o per il sacrificio d’altri, ma quella più difficile che si raggiunge coll’azione fra gli uomini, col superamento del male, colla virtù quotidiana della vita nella società, nella famiglia, nel popolo, nel genere umano”. (Lattes 1999: 85) 101 E più avanti, offrendoci una scelta di vita che in larga parte richiama quella dei Templari, conclude asserendo che “questa è la concezione ebraica che si potrebbe chiamare della responsabilità collettiva e che non permette all’uomo la sterile contemplazione né gli consente di ritirarsi nella torre d’avorio del suo io, ma gli chiede di espandersi nell’Umanità senza porre confini alla sua azione”. (Ivi:93) In una vita, infine, dedicata al servizio di Dio, I Templari non potevano permettersi di abbandonarsi a schiamazzi, risate sfrenate, risse o atteggiamenti poco consoni al loro ruolo. Oltre alla serietà e a un tenore di vita irreprensibile, si auspicava anche che il Templare, oltre al soddisfacimento dei suoi impegni quotidiani, praticasse quanto più possibile il silenzio, poiché nei riguardi Dio (anche in questo aspetto si colgono punti di contatto con l’ebraismo) “la vera preghiera, la sola che gli si addica, è il silenzio, che ogni lode positiva costituisce, di fatto, l’attribuzione di ciò che, per noi, è perfezione e, per lui, difetto”(Sirat 1990:234 ). La preghiera, quindi, da questo punto di vista si traduce in una concessione alla debolezza e alla fede ingenua dei credenti, per cui “L’espressione più eloquente a questo fine è il detto dei Salmi: Il silenzio, per Te, è lode” – la cui interpretazione è: il silenzio intorno a Te è una lode. Questa è un’espressione molto intensa di questo concetto, perché noi, in qualunque cosa noi diciamo con l’intenzione di magnificarLo e lodarLo, troveremmo qualcosa che si applica a lui, ma vedremmo anche qualcosa di manchevole. Dunque è meglio mantenere il silenzio e limitarsi a percepire gli intelletti separati, come ordinano i perfetti, dicendo: Parlate in cuor vostro sui vostri giacigli, e tacete”. (Maimonide 2003: 213-214). 102 Può sembrare una coincidenza, ma Maria Grazia Lopardi, in un colloquio tra un Templare e Pietro del Morrone, futuro Papa col nome di Celestino V, accennando al silenzio, ne dà una descrizione che richiama molto da vicino Maimonide. “Dei piani di Dio – scrive Lopardi – l’uomo conosce solo piccoli aspetti e si affanna tanto per compiere la sua parte, ma dovrebbe avere più fede invece che preoccupazione: se il Signore incontra cuori aperti, disposti a far silenzio per ascoltare la sua voce, i suoi piani non possono fallire. Non saremo forse noi a compierli, ma possiamo offrirci come strumenti e restare in attesa fiduciosi, perché ci verrà detta la mossa da compiere al momento giusto. Cerchiamo il silenzio e la pace dove si ascolta chiara la voce del Signore. Il silenzio non si impone, è l’effetto del porsi in ascolto…Non pensare però che il nostro compito sia solo quello di aspettare: poi occorre attivarsi e dare interamente se stessi per realizzare ciò che Dio suggerisce. La Volontà è la sua, ma le braccia, le gambe, i doni di cui la natura ci ha dotati vanno poi messi a servizio”(Lopardi 2010: 2) Naturalmente, le vere origini dei Templari, gli obiettivi i programmi e le strategie per tradurli in atti concreti, erano a conoscenza solo dei vertici dell’Ordine e dell’anonimo gruppo di potere, di cui i poveri cavalieri di Cristo costituirono il braccio armato. La base, indubbiamente, era all’oscuro di tutto e credeva fermamente, oltre al prestigio che derivava loro dal bianco mantello che indossavano, alle ufficiali motivazioni religiose per cui l’Ordine era stato costituito. È fuor di dubbio che col passare del tempo e, in particolare, dopo la morte di Bernardo di Chiaravalle, avvenuta nel mese di agosto del 1153, e di quella della maggior parte dei fratelli fondatori, l’afflato religioso delle origini si sia ampiamente affievolito, travolgendo in questo cambiamento lo stesso comportamento dei Templari. Necessitando di uomini sia per la guerra contro 103 gli infedeli in Terra Santa, sia per l’amministrazione delle sue ingenti proprietà, sparse in tutta Europa, L’Ordine non poteva andare per il sottile. Ne è una prova il reclutamento degli scomunicati e di quanti avevano problemi con la giustizia. L’Ordine, in poche parole, si era trasformato in una vera e propria legione straniera, ufficializzando così la sua laicizzazione. Lo stesso voto di castità, che imponeva ai fratelli di non baciare mai nessuna donna, comprese madre e sorelle, dal XIII secolo in poi esisteva, forse, solo sulla carta. Se un cavaliere veniva sorpreso a dare scandalo in un bordello perdeva il suo stato di Templare, ma non era tanto la frequentazione del bordello che preoccupava i vertici dell’ordine, quanto lo scandalo. Sempre seguendo questa logica, si era disposti a soprassedere da ogni punizione nei riguardi di un cavaliere che si fosse lasciato tentare da una meretrice; l’unica cosa che gli si chiedeva era di non parlarne assolutamente con nessuno e, in modo particolare, con i propri confratelli per evitare tentazioni o peccati di pensiero. “Ancora agli inizi del Trecento qualche precettore durante la cerimonia d’ingresso osservava questa norma molto realistica riguardo le debolezze umane: imponeva al nuovo membro di astenersi dal frequentare le donne, e se proprio non ci riusciva doveva almeno aver cura che nessuno lo venisse a sapere”. (Frale 2004:55) È sintomatico che, sempre a partire dal XIII secolo, tutti i casi esaminati dal consiglio per giudicare della colpa o meno dei confratelli accusati di essere venuti meno alle norme dell’Ordine, “si riferivano, teoricamente, solo a violazioni del 104 regolamento dei Templari e non ai Dieci Comandamenti. Il Consiglio prendeva provvedimenti, quindi, solo per colpe contro la comunità e non contro Dio”(Bauer 2005: 65). Conclusioni La condanna per eresia, come è naturale, portò anche allo scioglimento dell’Ordine dei Templari per espressa volontà di papa Clemente V. Quale che sia la posizione di ciascuno di noi, se, cioè, convinti o meno della loro colpevolezza, nessuno potrà mai negare l’abnegazione, il senso del dovere e l’eroismo di questo corpo scelto, un eroismo, a volte talmente incosciente da rasentare una volontà suicida. In ogni caso, quella dei Templari, è una storia inquietante e lo è a tal punto che, inquietandoci, ci spinge caparbiamente a ripercorrere il grande fiume della loro storia, senza trascurare i numerosi affluenti, ruscelli e rivoli che da questo fiume si diramano. Un cammino reso inquietante, non tanto perché di esso non si intravede mai la fine, ma per i numerosi e lunghi tunnel oscuri nei quali siamo costretti a inoltrarci. È un po’ come il fascino dell’ignoto. Un cammino che, seppure difficoltoso, ci premia alla fine con l’acquisto di segmenti di verità o, se vogliamo, con squarci di luce che ci consentono di potere seriamente riflettere su nuove ipotesi di ricerca. D’altra parte un fatto è certo: chi all’inizio di una ricerca parte con tante certezze, alla fine arriva con mille dubbi e mille perplessità; viceversa chi 105 inizia un percorso di ricerca con mille dubbi, spesso alla fine arriva ad acquistare qualche certezza. Da qualsiasi angolazione possano essere guardati i Templari, un fatto è certo: pur nella solitudine e povertà di vita, questi cavalieri si nutrivano di un grande sogno: quello di difendere la cristianità e di guadagnarsi l’immortalità col proprio sangue. Nello stesso giorno in cui pronunziavano i voti per ottenere l’investitura di cavalieri sapevano benissimo, nello stesso tempo, di stare pronunziando la loro condanna a morte. Un ruolo tragico che li collocava al confine tra la dimensione umana e quella divina e questa coscienza del loro stato e della loro missione li portava spesso ad assumere un atteggiamento di distacco dalle banalità quotidiane, che per molti si traduceva in superbia, boria e atteggiamento sprezzante. Sembra quasi che Michele Federico Sciacca in un suo saggio su Unamuno, parlando di don Chisciotte, abbia avuto presente i Templari. “Ma c’è chi, pur convinto che un destino dell’uomo solo storico è una banalità imbottita di mille retoriche e che solo una destinazione superstorica dà senso e valore alla storia dell’uomo e del creato, non ce la fa ad aderire a questa soluzione che, pur bisognosa di essere riproposta e approfondita in un discorso infinito, presenta principi e ragioni immanenti allo stesso essere dell’uomo, gli stessi che la speculazione fa emergere dal più profondo e sofferto pensare”(Sciacca 1989:16). I Templari, dunque, in quanto protagonisti di un progetto superstorico e testimoni di un pensiero che va oltre i limiti della civiltà “sono incomodi e scomodi: minacciano ogni forma di quiescenza richiamando l’esistenza dell’essere che la costituisce e incardinandovela spronano a scegliere tra la 106 sicurezza vitale e la libertà pronta ai mille pericoli cui la prova della vita la espone; ad ascoltare tutte le voci da qualsiasi parte provengano e a tutte e a ciascuna, anche quando siano conoscenze consolidate, domandano: questa o altra è parola valida ai fini del destino dell’uomo?”(Ibidem) Questo sogno rischiava di infrangersi con la definitiva perdita della Terrasanta nel 1291, quando buona parte dei Templari fece ritorno in Francia. Crollato il motivo principale della loro esistenza, si resero perfettamente conto che la conseguenza più immediata sarebbe potuta essere rappresentata dal rischio di pregiudicare il progetto più importante che era quello di distruggere la struttura feudale del tempo. Fra mille rischi decisero di andare avanti lo stesso, non rendendosi conto dei mutamenti politici e sociali che erano avvenuti nel corso degli ultimi due secoli. Fu il loro limite, perché peccarono di ingenuità o fecero troppo affidamento in un potere che ritenevano consolidato. Non avendo più un nemico contro cui combattere, si limitarono a curare gli altri settori in cui nel corso dei secoli si erano specializzati: quello bancario e diplomatico. Le donazioni come è naturale erano enormemente diminuite, ma i Templari erano orami talmente ricchi da non preoccuparsene. Naturalmente continuavano a svolgere i loro affari e commerci godendo sempre di tutte le esenzioni fiscali, da cui erano stati esonerati dalle varie bolle pontificie. Sovrani, vescovi, feudatari, e ora anche il popolo, mettevano in discussione i numerosi privilegi di cui godevano e, persino, il motivo della loro sopravvivenza una volta terminata l’epopea delle crociate. Operavano, quindi, in un clima che nei loro 107 confronti diventava sempre più ostile. I templari, fra l’altro, non andavano tanto per il sottile, quando dovevano difendere i propri interessi e non esitavano a ricorrere alla forza e all’uso delle armi contro chi si opponeva o pretendeva di usurpare i loro diritti. Quando erano in giuoco i suoi interessi, “l’Ordine dava prova di una spietata durezza che poco si addice alla carità cristiana. Intimamente persuasi della loro superiorità, abituati a considerarsi l’élite guerriera della cristianità, i Templari non provavano alcuna compassione per le sofferenze dei loro simili, né alcun rispetto per le idee o i sentimenti altrui. L’ordine si era trasformato in una macchina gigantesca che funzionava bene ma che, come tutte le macchine, aveva un difetto: non era più umana. Quando nasceva una controversia tra una casa templare e qualche vicino, i fratelli non esitavano a uccidere, depredare o incendiare, come avrebbe fatto qualsiasi signore feudale. I templari, però, rischiavano di meno, grazie agli enormi privilegi di cui godevano e all’omertà che circondava alcuni episodi”. (Markale 2003: 101) Ma è pur vero che non esitavano, dove erano presenti con le loro commende, a mettere a disposizione della popolazione i loro beni, in caso di calamità naturali o di particolari necessità. “Una tradizione, raccolta in quel di Imperia,narra che nel 1150 un sisma particolarmente violento distrusse quasi completamente Porto Maurizio e i suoi dintorni. In tanta desolazione gli abitanti sopravvissuti sarebbero stati aiutati dai Templari, i quali, con il loro contributo finanziario e morale, avrebbero collaborato alla ricostruzione della città”. (Capone 1977:81) Questo episodio, però, si riferisce ad una calamità naturale, avvenuta pochi anni prima della morte di San Bernardo e, come abbiamo già evidenziato, è proprio la morte del monaco di Chiaravalle che segna una netta linea di 108 demarcazione tra il templarismo delle origini e il successivo processo di laicizzazione. È in questo clima che va maturando il tramonto e la morte dell’Ordine dei Templari. Molti storici attribuiscono la loro fine alla cupidigia e alla fame di oro di Filippo il Bello, ma pur non disdegnando quest’ultimo i loro beni mobili e immobili, non fu certamente questa la motivazione della sua persecuzione contro i Templari. Agli inizi del XIV secolo inizia a prendere corpo il concetto di sovranità nazionale e Filippo il Bello che in tal senso si sentiva investito da una missione divina, non poteva certamente tollerare che all’interno della Francia i Templari si comportassero come uno Stato nello Stato senza alcuna sottomissione nei confronti del sovrano e, per giunta, con una disponibilità economica che la corona nemmeno si sognava di potere mai possedere. Filippo il Bello, da molti considerato come il precursore delle grandi monarchie assolutiste, si rese conto che la presenza dei templari in Francia costituiva un ostacolo al suo progetto politico e, in realtà, aveva paura “della massa di uomini combattenti che il tempio poteva mobilitare all’istante; paura del potere che avevano in mano data la vastità dei loro possedimenti, superiori ai suoi; paura della ricchezza, che li metteva in grado di gestire qualsiasi trattativa e trovare ogni alleanza; paura della stima e dell’affetto che il popolo nutriva per loro”. (Imperio 1996: 24) Filippo il Bello temeva a tal punto l’Ordine dei Templari che dichiarò di essere pronto ad abdicare dal trono di Francia per assumere la carica di Gran Maestro qualora fosse andato in porto il progetto di unificare in un solo ordine quello dei 109 templari e degli ospedalieri. Il progetto di fusione non solo fu rifiutato dai Templari, ma sembra che questi ultimi abbiano posto il veto persino al suo accesso all’Ordine. “Per giunta i Templari, a quel che sembra, avevano lasciato trasparire un’arrogante superiorità nell’ospitarlo presso il Tempio di Parigi, quando gli offrirono riparo dalla folla inferocita che si era ribellata all’opprimente pressione fiscale”. (Lancianese 2006:160) Il Tempio di Parigi, che si trovava di fronte all’odierna rue des Fontaines-du- Temple, si presentava ai passanti come una imponente fortezza in buona parte simile ai possenti castelli edificati dai templari in Palestina. Ma perché - si chiede Markale – hanno costruito un’opera tanto possente nel centro di Parigi se il tempio aveva sempre goduto della protezione del sovrano e non aveva nulla da temere all’interno della città? Probabilmente perché “la fortezza è stata costruita per mostrare la grandezza del Tempio e anche per lanciare un monito al re”. (Markale 2003: 55) Parigi per circa un terzo era proprietà dei Templari e, nella realtà, costituiva uno stato nello stato. Tutta la loro filosofia di vita sembrava orientata non solo a superare le barriere della struttura feudale, ma a gettare le basi per un governo mondiale unitario, capace di dare ai propri sudditi giustizia, prosperità, pace, ordine sociale, non trascurando il progresso delle scienze e della cultura in genere. I Templari, inoltre, nel corso della loro lunga permanenza in Terrasanta si resero conto delle vaste conoscenze di cui l’ Oriente era depositario e non nascosero le loro intenzioni di avviare un dialogo costruttivo. È in nome di questa tolleranza 110 che sul rosone della loro commenda a Trapani fecero collocare i simboli delle tre religioni monoteistiche. “Su questi presupposti, pur nella feroce contrapposizione delle battaglie, i Templari gettarono un ponte verso l’Oriente e sempre di più affidarono ai trattati, alla diplomazia e alla politica i loro rapporti con l’Islam”. (Lancianese 2006: 194) Filippo il Bello fu indubbiamente l’unico sovrano europeo ad avere intuito la segreta strategia dei Templari e a temere la loro presenza in Francia, che con circa 20.000 effettivi tra cavalieri, sergenti e truppe ausiliarie, costituiva per lui, comprensibilmente, una seria minaccia. In base a questi presupposti, con i sospetti e i pregiudizi che l’apertura verso il mondo islamico aveva ingenerato, decise che non si poteva più restare inermi di fronte alla minaccia che incombeva sulla corona di Francia. Fu così che all’alba del 13 ottobre 1307, in ottemperanza ad un ordine di Filippo il Bello, le commende templari della Francia vennero circondate dalla gendarmeria locale e tutti i confratelli arrestati e trasportati a Parigi, chiamati a rispondere del reato di eresia, sodomia e blasfemia. I funzionari regi che aprirono il plico, quasi non cedettero ai propri occhi, non tanto perché i templari avevano fama di essere ottimi combattenti, quanto per il prestigio di cui godevano in tutta la cristianità. Clemente V eletto papa con l’appoggio determinante del sovrano francese, trovò molto conveniente appoggiarne l’iniziativa per liberarsi una volta per tutte dall’ingombrante ordine. Abbiamo già detto che tra i programmi dei templari e dell’organismo a loro superiore, oltre a favorire lo sviluppo 111 delle scienze e della cultura in genere, ci fosse anche la volontà di operare una profonda trasformazione dell’assetto sociale del Medioevo, determinando le condizioni per il superamento dello stato feudale. Un progetto, quest’ultimo, che il Vaticano non poteva assolutamente condividere. Per la politica della Chiesa il problema non era smantellare il sistema feudale, ma mantenerlo con il predominio del potere teocratico su quello imperiale. Questa interpretazione spiegherebbe, sottolinea Partner, i legami di fratellanza, allacciati dai Templari attraverso le confraternite e vasti settori della popolazione dell’epoca. (Partner 1993:72) Ma è ancora più chiaro Lancianese: “Il vero attacco al potere andava portato sul piano della società civile, determinando le condizioni necessarie e sufficienti al superamento dello stato feudale, infiltrandosi lentamente in esso fino a modificarlo radicalmente dall’interno, impadronendosi dei centri nevralgici della sua struttura politica ed economica. Bisognava sorreggere i commerci e le corporazioni, impadronendosi dei flussi monetari, controllare le vie di comunicazione, la cultura, la tecnologia e la scienza, in breve tutto ciò che consideriamo fondamentale nella società moderna e che veniva invece completamente ignorato dal potere feudale, assorbito da ben altre preoccupazioni. A ben vedere questo è esattamente ciò che fecero i Templari al di fuori della loro operatività militare, perché questo era il vero compito a cui essi dovevano assolvere. Questa attività sociale, economica e politica non aveva assolutamente niente a che vedere con un impegno bellico, anzi era del tutto avulsa, contrastante e stridente con la concezione cavalleresca in epoca medievale”. (Lancianese 2006:88-89) Sotto questo profilo, l’ordine dei Templari non fu altro che la prima multinazionale della storia economica dell’occidente o, se vogliamo, il pioniere dell’economia globalizzata. Ai Templari, in realtà, non interessava abbattere i confini 112 nazionali degli stati sovrani o di ritagliarsi lo spazio per un proprio regno, come avvenne per gli Ospedalieri. Nulla di tutto questo. Premeva loro il controllo economico dell’occidente, poiché sapevano che tramite questo avrebbero avuto il potere di interferire nella politica interna degli stati. Un progetto ambizioso la cui pericolosità non sfuggì né a Filippo il Bello, né al Vaticano. E gli effetti non tardarono a farsi sentire. Resta solo una domanda. Perché i Templari non reagirono, considerata la loro potenza economica e militare? Se avessero voluto avrebbero senza dubbio avuto la forza necessaria per detronizzare Filippo il Bello,ma, contrariamente a tutte le aspettative si fecero arrestare e non opposero la benché minima resistenza. Certamente furono informati delle intenzioni del sovrano francese, tanto è vero che i cavalieri arrestati in Francia rappresentavano la minoranza dei reali effettivi presenti sul territorio e che del tesoro del Tempio e della flotta se ne ebbe più notizia. Probabilmente la mente direttiva dell’Ordine comprese che l’Ordine dei Templari avesse fatto il suo tempo e che di conseguenza, fosse giunta l’ora di sacrificarlo per riciclarsi in un’altra organizzazione che non desse adito a sospetti o, ancora meglio, non attirasse la curiosità dei poteri forti. Come anche, probabilmente, si rese conto, qualora effettivamente l’Ordine due secoli prima avesse trovato documenti da ricattare il Vaticano, che quest’ultimo avesse talmente consolidato il suo potere in occidente, a tal punto che la fede dei credenti non sarebbe stata minimamente scalfita, un potere, fra l’altro, rafforzato e imposto con la sanguinaria macchina dell’Inquisizione. 113 114 115 116 BIBLIOGRAFIA Anatoli J., Il pungolo dei discepoli, a cura di L.Pepi, Palermo 2004. Agostino, Le confessioni, a cura di Capodicasa M., Roma 1951. Armstrong K.,A History of Jerusalem, London 1996. Baigent M.-Leigh R.- Lincoln H, Il Santo Graal, Milano 2008. Badellino E., I Templari, Milano 1996. Barber M., La storia dei Templari, Casale Monferrato 2004. Barber M., Processo ai Templari, Genova 1998. Bartocci U., Una rotta templare, Milano 1995. Bartocci U., Sul metodo indiziario nella ricerca storiografica, Perugia 1993. Bauer M., Il mistero dei Templari, Roma 2005. 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