U cuntu. Un racconto dal Sud 2008-2011
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U cuntu. Un racconto dal Sud 2008-2011
Riccardo Orioles 'U cuntu un racconto dal Sud 2008-2011 mardiponente mardiponente Riccardo Orioles 'U CUNTU Un racconto dal Sud 2008-2011 www.ucuntu.org 10 aprile 2008 ELEZIONI/ CHI LE VINCE CHI LE PERDE CHI NON CI STA La mafia è unita, l'antimafia è divisa. Perché i nostri politici non riescono a capire che sull'antimafia qui in Sicilia (e forse ormai non solo) si decide tutto? Comunque vadano queste elezioni, cominciamo a preparare le prossime. A partire da Zen, San Cristoforo e Librino, UCuntu nasce per questo: antimafia + internet + politica dal basso.. Coraggio, in fondo si tratta solo di lavorarci per qualche anno... Chi vincerà le elezioni? Boh. Chi le perderà? Sicuramente noi, anzi le abbiamo già perse. Il partito dell'antimafia (che una volta in Sicilia si chiamava Pci, poi Siciliani, poi rete, poi società civile, ma in fondo era sempre la stessa cosa) in queste elezioni non c'è. Orlando, Lumia, Borsellino, Crocetta, Fava e tutti gli altri non sono riusciti a mettersi insieme seriamente e noi della base, dal canto nostro, non siamo riusciti a costringerli a farlo. Politica tradizionale, dunque, coi faccioni “Per Un Futuro Migliore" appesi ai muri, e la mafia tranquilla. Dal lato di Berlusconi la mafia è una cosa simpatica, o almeno non tanto cattiva (“Mangano è stato un eroe”). Dal lato di Veltroni bisogna stare attenti ai “professionisti dell'antimafia" (come dice Salvo Andò, che ha stilato il programma”). Lontanissimi i tempi del Rita Express, della mobilitazione giovanile per Rita Borsellino. Eppure, a Catania e a Palermo, di antimafia “politica” se ne poteva fare. A Palermo la fine di Cuffaro è stata accelerata da una bella mobilitazione popolare, coi giovani persino di destra schierati contro di lui. Ma nessuno dei nostri politici se n'è accorto. A Catania è ormai il secondo anno che a San Cristoforo e a Librino (il Gapa, la Periferica) ci sono interventi forti e radicati. Ma nessuno, anche in questo caso, ha voluto “far politica” a partire da questo. Si è scelto il terreno perdente (ma rimunerativo per i singoli) della politica tradizionale. Vincerà Berlusconi? Fascismo. Vincerà Veltroni? Industriali. Vinceranno tutt'e due? Certo, non è la stessa cosa avere un mafioso dichiarato e pimpante come dell'Utri o un semplice amico di mafiosi come Crisafulli. Però, ripetiamo, noi comunque perdiamo. Per questo stiamo cominciando a preparare le prossime elezioni, quelle di dopo il Duce, fin da ora. Non sappiamo se saranno elezioni tradizionali (può darsi che le aboliscano, sostituendole con liste uniche e plebisciti) oppure no, certo è che se qualcuno non comincia umilmente e da subito a preparare la nuova politica niente cambierà mai.La nuova politica? Sappiamo una sola cosa di essa, che non sta in via Ruggero Settimo o via Etnea ma a Librino, a San Cristoforo, allo Zen. Certo, non sarà facile tirarla fuori da lì. Ci vorranno degli anni. Noi cominciamo ora. E Ucuntu? Che vuol dire? Beh, potrebe essere un nuovo programma Linux, o un pastore sardo, o una parola swaili che significa “kwelli-chenonvogliono- darla-vinta-agli-stronzi-cheprendono- per-il-kulo-la-gente”). Oppure potrebbe significare “il racconto”, in siciliano. Racconto di che? Beh, ce ne sono di cose, dalle parti nostre, da raccontare. (Ah, e Casablanca? È ancora lì, momentaneamente ingrippata. La stiamo spingendo per farla rimettere in moto, come una vecchia cinquecento che alla fine riparte scoppiettando e ti porta dove vuoi. Certo che è un casino, fare informazione libera qui in Sicilia. Se gli antimafiosi fossero uniti e decisi come i mafiosi, a quest'ora Casablanca uscirebbe ogni giorno, su carta d'oro). 1 maggio 2008 APRILE IN UNA CITTÀ DEL SUD La maestrina, il comandante, il professore: lottarono contro i nazisti senza averne paura. I giudici, i giornalisti, gli antimafiosi: la mafia ha potuto ucciderli, ma non farli arretrare. Non sono in molti, in questa stagione, a ricordarsi di loro. Non molti: però abbastanza per continuare L'uomo che parlava, un partigiano, era molto vecchio e la voce usciva piano dal microfono. Raccontava. La guerra, l'otto settembre, il re che scappa, i tedeschi, la montagna. Parlava lentamente, ma senza esitazioni, e si sentiva abbastanza bene perché, nella grande piazza, c'era un silenzio teso. A un certo punto ha cominciato a dire i nomi dei siciliani, di quelli che in quel momento ci avevano reso onore. Uno era un ufficiale dell'esercito, aveva scatenato la guerriglia e alla fine era diventato – lui, siciliano – il comandante di tutti i partigiani del Piemonte. Una era una maestrina, una ragazza, presa mentre portava i messaggi dei partigiani. Torturata, ammazzata: ma non ha parlato. Un altro un professore di liceo, morto nel lager ma mai arreso agli aguzzini. Il vecchio raccontava questi nomi - comandante Barbato, Graziella Ligresti, professor Salanitro - e la voce del vecchio, senza che lui lo volesse, si faceva più alta e più allegra. Allegra, sì: questi – diceva senza dirlo, mentre raccontava i dolori – questi siamo noi siciliani. Noi siamo quel che siamo, ci conosciamo benissimo, voi ed io; ma siamo anche capaci di tirar fuori dal nostro interno, quando l'orrore sembra invincibile, della gente così: il comandante, la maestrina, il professore. Gente che sa resistere, che sa morire se occorre, che alla fine vince. E questa serenità si spargeva per la piazza: non più una giornata d'orgoglio, un tener duro, ma una giornata felice, di buon cammino, di inizio di qualcosa. La sera, dei giovani hanno parlato di libera informazione. Anche nel resto d'Italia se n'è parlato, ai meeting di Beppe Grillo; ma qui eravamo in Sicilia, nell'isola degli otto giornalisti ammazzati, e dunque qui si volava ben più in alto. Non c'era bisogno di urlare forte, di gridare “vaffanculo”. Bastavano i nomi e le storie – anche queste resistenziali – per dire tutto ciò che c'era da dire e, anche qui, per indicare una strada. Lavorare insieme, fare informazione moderna e onesta, non mescolarsi mai coi padroni, costruire. “Non ci sarà mai una notte così lunga che alla fine non si veda il giorno”. E tutti hanno annuito convinti. E in realtà non servivano altre parole. Questo è stato il nostro venticinque aprile, in una città del sud che è Catania e in cui per il momento comandano ancora i padroni. 23 maggio 2008 LA RETE E L'ANTIMAFIA DI OGNI GIORNO Un quarto sono soggetti alla mafia, un quarto la combattono attivamente, gli altri non hanno ancora capito di che si tratta. Il problema della mafia – del sistema mafioso – è sostanzialmente la disinformazione. Il lavoro nostro, fare informazione. L'informazione non si fa nel ghetto – non serve a niente. Si fa in rete, facendo insieme e puntando a raggiungere – ambiziosamente - tutti I siciliani antimafiosi, nel giorno di Falcone, fanno manifestazioni e ricordi, dispiaciuti perché Falcone non c'è più. Sono circa un quarto della popolazione. I siciliani mafiosi, che sono più o meno altrettanti, festeggiano fra di loro e ne hanno buoni motivi: è stato cancellato il principale apporto giuridico di Falcone (l'unitarietà di Cosa Nostra, con tutto ciò che ne consegue), è stato riportato in Cassazione il giudice che dava a Falcone del credino (il giudice Carnevale), è stato trionfalmente eletto un governo che considera eroe, invece di Falcone, un “uomo di panza” che ha eroicamente rispettato l'omertà, il grande Mangano. E i siciliani mezzi-mezzi, la maggioranza, quelli che non hanno il cinismo di appoggiare la mafia ma neanche il coraggio di combatterla? Per loro, il problema principale è l'ignoranza. “Mi faccio i fatti miei”. Non hanno la minima idea di quanto il sistema mafioso gli ruba individualmente ogni giorno, in termini di denaro. Non sospettano che potrebbero essere, se non ricchi, almeno benestanti, in una regione ricca come questa, se non ci fosse la mafia. Sono onestamente convinti che mafia e antimafia siano questioni ideali (e dunque, per la cultura paesana, irrilevanti) e non materiali. “Mi faccio i fatti miei”. L'informazione mafiosa, che un tempo serviva a dire “la mafia non esiste”, adesso serve a dire che la mafia esiste sì ma è una cosa che riguarda solo mafiosi e giudici e non la gente normale. Una cosa da diavoli o da eroi, insomma. Buona per i dibattiti e le fiction, ma non per la vita normale. Perciò il lavoro principale che c'è da fare oggi in Sicilia è principalmente d'informazione. Non solo sulle notizie delle singole malefatte (il che è già tanto, perché qui i malfattori comandano ai giornali), ma soprattutto sul quadro generale, sull' “atmosfera”, sui problemi concreti che vivere in un paese mafioso comporta anche per chi non pensa a ribellarsi. Non lo si può fare alla meno peggio (raccontare una società è un lavoro abbastanza complesso) e non lo si può fare a suon di slogan (non c'è un prodotto da vendere ma una mentalità da trasformare). Però, quando si riesce a farlo come Dio comanda, funziona. È stato così che a Palermo per alcuni anni ha avuto assai peso l'antimafia e a Catania si è riusciti a scacciare i cavalieri. Questo lavoro, i grossi giornali non lo faranno mai: non puoi fare un grosso giornale senza avere grosse imprese alle spalle; e nessuna grossa impresa, ormai,può sopravvivere senza far patti col diavolo (il caso Repubblica a Catania insegna). I giornali piccoli (come noi) possono tentare di farlo sì, ma, salvo eccezioni, possono concludere poco (e le eccezioni si pagano con vite umane). E allora chi? I giornali piccoli, magari piccolissimi (tipo quello che puoi fare anche tu, nella tua scuola o nel tuo paese) però in rete: scambiandosi le notizie, organizzandosi insieme, e usando per tutto questo l'internet, cioè la rete più rete di tutte. Questo richiede tempo, richiede pazienza a non finire (tenere insieme dei siciliani, con rete o senza, è un'impresa da Giobbe,e ne sappiamo qualcosa), però, tutto sommato, può funzionare. In una rete di questo tipo bisogna lavorare molto: certo, è più divertente che sotto padrone (non è mai divertente lavorare per qualcun altro) ma il problema è che l'obbiettivo è molto alto: non si tratta di fare una cosa simpatica per sentirsi appagati, ma di far concorrenza ai giornali dei padroni, con l'obiettivo finale di spazzarli via dal mercato e dare un'informazione libera alla maggior parte della gente. Non un'operazione di nicchia (o di ghetto), insomma, ma il tentativo consapevole di costruire un'egemonia. Fra vent'anni, Peppino Impastato dovrà pesare molto di più di Berlusconi, come comunicazione di massa. “Si, vabbè...” dici tu. Eppure, trent'anni fa,in Italia le radio di base sono arrivate molto prima di Mediaset; e non erano poche: duecentocinquanta, in tutta Italia, con una copertura globale non indifferente. E allora com'è che ha vinto Berlusconi? Per tre motivi precisi: 1) erano ognuna per conto suo, e Radio Firenze – ad esempio – non sapeva cosa faceva Radio Aut a Cinisi; 2) non parlavano in italiano (cioè la lingua che usano gli italiani) ma in politichese, perché i loro leader così si sentivano più importanti; 3) non capivano che stavano usando delle radio libere – cioè una cultura e una tecnica completamente nuove – e non dei ciclostili o dei bollettini di partito. Così Peppino è rimasto solo. *** Adesso la situazione è sostanzialmente la stessa. Tanti gruppi diversi (moltissimi che stanno internet) ma ognuno per conto suo. Tanti linguaggi “ideologici” (cioè del ceto medio acculturato) e pochissimo intervento nei quartieri. Tanti siti, blog, giornaletti e giornali, ma tutti rassegnati alla solitudine, ad essere voci locali e non anelli di rete. Bene, tutto ciò non vuol dire niente, non c'è nulla d'irreparabile. Dipende tutto da noi, esclusivamente da noi. Certo, a volte verrebbe voglia di sbattersi la testa al muro. Casablanca chiusa per mandanza di poche migliaia di euri, Graziella Proto lasciata sola – dalla sinistra illustre, ma anche da un po' di società civile isolana – a combattere la sua guerra, come se fosse stata una guerra sua personale. E anche ora, qui a Catania, almeno due (forse tre, non si sa ancora) liste distinte della società civile locale, ognuna per sé e Dio per tutti. Credo che pure Giobbe bestemmierebbe. Però, tutto sommato, avrebbe torto. In fondo, si tratta solo di problemi di crescita. C'è molta più unità che negli altri anni (le legnate quantomeno servono a questo); “Facciamo un giornalerete tutti insieme” ormai suscita solo dei “Sì però” perplessi e non dei “No!" secchi e brutali come qualche anno prima. Ci sono degli ottimi gruppi di quartiere, e l'ultima generazione di ragazzi – se non la rovinano i vecchi – sta crescendo bene. Persino qui alle elezioni, che sono la cosa più avida e avara che ci sia, è mancato solo un pelo a fare la lista unica di base, e non è detto che la prossima volta non ci si riesca. “Last but not least”, fra un paio di settimane Graziella raddoppia le forze, in quanto fra poco nasce la nipotina. Pensate: se è stata capace di far tanta battaglia da sola, con Casablanca e col resto, che diavolo riuscirà a combinare quando le donne Proto, alla faccia di tutto, saranno in due? State in campana, amici, mi sa che la vera partita comincia ora. Finora abbiamo solo scherzato... 6 giugno 2008 SI VOTA NELLA CITTÀ DELLA MEZZA DEMOCRAZIA Come si fa a votare in una città in cui di un affare in corso si dice tutto meno il nome dell proprietario e la stampa nasconde i candidati scomodi dicendo – come dice Ciancio per Cllaudio Fava – che li censura “per ragioni personali”? "Firmato a Palazzo degli Elefanti, l’accordo di transazione tra il Comune e i proprietari dell’area di corso Martiri della Libertà. Alla cerimonia erano presenti, oltre al commissario straordinario Vincenzo Emanuele, il presidente della Regione Raffaele Lombardo, il prefetto Giovanni Finazzo, il rappresentante della Questura prefetto Anzalone, l’ex sindaco Umberto Scapagnini, l’ex vicesindaco Giuseppe Arena, l’ex assessore all’Urbanistica Enzo Oliva, il senatore Raffaele Stancanelli, il comandante provinciale della Guardia di Finanza Agostino Sarrafiore, l’avvocato Silvestro Stazzone in rappresentanza della proprietà, l’avvocato Andrea Scuderi, advisor della proprietà, rappresentanti delle altre forze dell’ordine e del mondo imprenditoriale, economico e degli ordini professionali di Catania...". Il comunicato stampa del Comune di Catania dà notizia del "firmato accordo fra il Comune e i proprietari dell'area di corso Martiri della Libertà", con annessa pubblica cerimonia. L'area in questione è l'ultimo pezzo dello sventramento di Catania, rimasto incompleto per varie traversie e senz'altro il più grosso boccone ancora disponibile per i costruttori catanesi. Il comunicato elenca diligentemente tutti i partecipanti alla cerimonia. Il presidente, il prefetto, il senatore, il questore, il sindaco (ex), il "rappresentante della proprietà", l'"advisor" della proprietà e i rappresentanti "del mondo imprenditoriale, economico e degli ordini professionali di Catania". L'unica cosa che manca, e che non viene accennata mai neanche per sbaglio, è *chi è* la proprietà. Ciancio? Famiglia Rendo? Altri cavalieri? Vaticano (come in origine)? E chi lo sa. È come dare la locandina dell'Amleto con i nomi di tutti, meno che del regista e di Amleto. Amletico, veramente. Comunque, con evidenza, il Grande Affare comincia. Sarà - come abiamo visto - clandestino, come tutti gli affari di Catania, perché in città manca l'informazione. Adesso, per esempio, ci sono le elezioni ma "La Sicilia" ignora completamente alcuni e appoggia arbitrariamente altri. Sono elezioni vere, quelle in cui i mezzi d'informazione nascondono ai cittadini una parte dei candidati? E non succede solo stavolta, o solo per caso. Sentiamo cosa afferma pubblicamente Ciancio, il padrone de "La Sicilia", il 24 marzo 2007: "È vero. Il suo nome non lo pubblico [si parla di Claudio Fava, n.d.r.] perché mi insulta ogni minuto. Nessuno mi può obbligare a farlo. E se il giudice mi condanna, presento appello... Ma scriva che tutto ciò accade per ragioni personali dell'editore, no, anzi, del direttore". Ecco. La libertà d'informazione, a Catania, è solo una "questione personale". Votate, ma ricordatevi che non sono elezioni libere. Sono elezioni in una città di mezza democrazia. 18 giugno 2008 LA SINISTRA PESTATA E IL PARTITO DEI POVERI CHE NON C'È Crolla la sinistra in Sicilia e stravincono i peggiori. Tre quarti degli elettori votano per i successori ed emuli di Cuffaro. Moltissimi non votano per niente. È solo una faccenda “politica”? O il guasto è ancora più in fondo? Di chi è la colpa? E soprattutto: adesso, che cosa bisogna fare? Io non credo che Falcone sia un cretino come dice l'autorevole giudice Carnevale. Mi dispiace sinceramente che l'abbiano ammazzato, e così per Borsellino, Livatino e gli altri. Io penso che i giudici siano meglio dei mafiosi e per me l'eroe non è Mangano ma Borsellino. Mi dispiace che un sacco di esseri umani siano annegati in mare dalle parti nostre (quasi quattrocento, dicono i giornali) mentre io andavo a votare, e questo perché la legge dice che devono venire di nascosto. Mi dispiace che fra loro c'erano così tanti bambini. Mi fa schifo la gente come Bossi che ha detto tante cose schifose contro i meridionali, e preferirei crepare piuttosto che allearmi con lui. Rido in faccia a quelli del partito di Scapagnini, che prima si sono mangiati mezza Catania (manco pagavano le bollette per i lampioni) e poi sono venuti a cercaci il voto come se niente fosse. Non ce l'ho con gli zingari, coi negri, con gli ebrei e coi gay, ce l'ho solo coi delinquenti e chi gli tiene mano. Non credo che Roma sia come Kabul da mandarci i soldati. Non credo che bisogni cancellare tutti i reati fino al 2002. Credo che bisogna dare più mezzi a polizia e carabinieri (adesso, manco i soldi della benzina) per prendere i delinquenti davvero e non farci chiacchiere sopra. Credo che chi fa cose sporche debba finire in galera, piccoli e grossi, comprese le più alte autorità se fanno reati. Non ho paura degli scippatori, ce l'ho di quelli che danno fuoco agli operai o ammazzano la gente nelle cliniche private. Siamo in pochi in Sicilia a pensarla così, a quanto pare. E va bene. Ma io un domani non voglio essere confuso con tutti quegli altri siciliani che si vedono ora. Un popolo ignorante e poverissimo, com'eravamo in Sicilia fino all'altra generazione, giustificazioni ne aveva moltissime, finché la miseria è durata. Ma gente coi telefonini e le automobili, coi satellitari ai balconi e le magliette firmate, di giustificazioni non ne ha più. Perciò ora ciascuno individualmente si prenda le sue responsabilità - io mi prendo le mie - perché domani chi verrà dopo di noi ci giudicherà freddamente e con attenzione. *** In Sicilia, la sinistra non è mai stata pestata come ora. I giochi e le stupidaggini che erano consentiti prima ora non sono possibili più. Nessuno deve più venire a dire “io corro da solo”. Nessuno deve più dire “io sono democratico, io sono di sinistra” per far politica a vantaggio esclusivo della propria classe sociale, la media e a volte non tanto media borghesia. Sinistra, come in passato, dev'essere il partito dei poveri, prima di ogni altra cosa. Si può ripartire solo da qui. “Io l'avevo detto” non serve a niente, non è il momento. Si può ripartire dai quartieri, dall'impegno di base, dall'informazione. È una strada lunga e difficile, e non per tutti. Chi vorrà prenderla, si decida ora. 26 giugno 2008 VOTARE SEMPRE IN MASSA IL PEGGIO CHE SI PUÒ TROVARE In Italia senza i voti dei siciliani non solo non avrebbe vinto Berlusconi, ma neanche Andreotti sarebbe mai riuscito a diventare ciò che è diventato (in fondo la prima Repubblica l’ha ammazzata lui) Senza i dc siciliani (400mila negli anni ’60) la Dc sarebbe rimasta un pacifico partito perbene guidato da Fanfani e Moro, Andreotti sarebbe rimasto un notabile laziale e Berlusconi, più avanti, sarebbe finito in galera per reati minori o sarebbe rimasto al massimo una specie di Ricucci con più parlantina. E invece no. Nei momenti decisivi, i siciliani hanno votato in massa per il peggio che si trovava, inguaiando così non soltanto se stessi ma anche tutti gli altri italiani. Dunque Sicilia indipendente e libera, e magari - per qualche colpo di fortuna - via anche varesotti e veneti, i primi unitisi alla Svizzera e i secondi alla rinata Austria-Ungheria. E quindi elezioni fra gente seria, che non si vende il voto e non dà in escandescenze per gli immigrati. (E Roma? Boh, nel frattempo se la potrebbe essere ripresa il papa, così alle elezioni italiane non votano neanche loro). Milano, fra Albertini e Moratti, se la sarebbero da tempo comprata i giapponesi: voterebbe per la prefettura di Osaka, non certo per le elezioni italiane. Non credo che la camorra permetterebbe elezioni tranquille a Napoli, e questo potrebbe essere il pretesto per non far votare neanche i napoletani (e, a maggior ragione, calabresi e affini). Ecco, a questo punto potrebbero anche vincere le sinistre, alle elezioni italiane. Si richiamerebbe Prodi, si rimetterebbe a posto l’economia, si tornerebbe a rivincere i mondiali di calcio, si rimanderebbe al porcile Calderoli e si nominerebbe Zanotelli ministro degli esteri e Dario Fo dell’istruzione. E poi, con tutto comodo, si lascerebbero tornare a casa i secessionisti, che avrebbero avuto il tempo di girare un po' di mondo e dunque di ricordarsi come si stava bene in Italia. (E se, alle prime elezioni siffatte, dovesse vincere non diciamo Veltroni che fisiologicamente non può farlo - ma un altro destro di sinistra tipo Cofferati? Beh, in tal caso tutta la brillante analisi precedente non vale un soldo e bisognerà tristemente ritornare a Berlusconi, Andreotti e compagnia). 26 giugno 2008 ORIOLES: “VI RACCONTIAMO CHE COSA È UCUNTU” Cosa vuol dire fare informazione antimafia oggi? Non permettere alla gente di adagiarsi nella normalità della mafia. La mafia oggi è "normale". Non che tutto sia mafia (neanche ai tempi del fascismo tutto era fascismo). Ma la mafia fa ormai parte a pieno titolo delle basi culturali ed economiche del Paese. E politiche, ovviamente. - Per esempio? Per esempio, abbiamo al governo un partito che prima delle elezioni ha pubblicamente chiesto i voti della mafia (il "Mangano eroe" di Dell'Utri è stato trasparentemente questo). Si può far finta di non saperlo, certo, così si dorme meglio. Anche bravissima gente come Gronchi o Croce, all'inizio, non voleva capire che Mussolini non era la solita destra ma un'altra cosa. E questo cambiava tutto. Cambia tutto. - Perché è così difficile avere un giornale o una rivista che racconti la verità in Sicilia? Perché non la verità non è solo che si sono dei delinquenti, ma che questi delinquenti sono indispensabili al sistema. Perciò puoi denunciare il singolo episodio, ma non il contesto "normale" in cui si colloca. Puoi fare "fiction" (romantica, folkloristica, comunque "strana") ma non cronaca e analisi della normalità - Come si comporta la politica nei confronti dell'informazione verità? Come vuoi che si comporti. In certi casi ti sparano. In certi altri ti mettono il bavaglio (è di questi giorni la condanna di Carlo Ruta per il suo sito). Ti lasciano alla fame. Oppure ti comprano, se ce la fanno. Da un certo livello in poi, la "politica" - come la chiami tu - non è mai indifferente. O ti sostiene (ma è un caso rarissimo) o ti dà addosso. - Sinistra compresa? No, è una fesseria dire che sinistra e destra sono uguali. Storicamente, l'antimafia nasce di sinistra. Conquista uno schieramento più ampio solo negli anni Ottanta, con la Rete. È che la sinistra di ora, degli ultimi vent'anni, è una sinistra brodosa. Non è che Bertinotti o Veltroni non parlino bene dell'antimafia. Ma la lasciano sola. A noi, almeno, è capitato così. - Pensi a Casablanca, il giornale che avete fatto con Graziella Proto? Anche. Ma Casablanca è solo l'ultimo episodio. Coi Siciliani è stato così, con Avvenimenti... La sinistra ufficiale, quella che conta, con noi è sempre stata amichevole, a parole. Nei fatti ci ha abbandonato. Ma lasciamo perdere queste cose. Parliamo di ora. - Cos'è questo UCuntu? Ho visto il sito, pare strano... - UCuntu (www.ucuntu.org) è una sperimentazione, un progetto-pilota che se Dio vuole nei prossimi mesi potrebbe anche diventare importante. Ha una caratteristiche precise: comprende un giornale vero e proprio, un magazine neanche tanto male. - Beh, mica è l'unico, su internet... Certo. Però il nostro non è basato sul web (anche) ma sul pdf. Un magazine come tutti gli altri, solo che non è stampato. Lo leggi in internet e... - Leggo un sacco di cose, su internet... Ok, questo però: a) lo leggi in maniera particolare, molto più semplice, molto più naturale, grazie al formato issuu.com - guarda qua, come scorre e b) te lo puoi stampare tranquillamente a casa tua. - Stampare? Certo. È ottimizzato per la stampa su una laser di casa. Immagina che le laser vengano a costare un bel po' meno di ora (che già non costano poi tanto). Immagina che la carta da laser diventi più economica, diciamo a un paio di euri la risma. Immagina che... Beh, insomma immagina che a un certo punto il giornale, invece di uscire dalla redazione, andare in tipografia, uscire dalla tipografia, prendere un camion e correre fino all'edicola sotto casa tua, faccia il percorso più semplice redazione-casa tua - stampante: non sarebbe tutto più semplice? E meno costoso, anche. A questo punto persino noi poveracci ce la giocheremmo alla pari coi Grandi Imbonitori. - Si, ma quando? Presto. Già tutti i grossi giornali si attrezzano con le ultimore in pdf. La tecnologia è già abbastanza matura. Il NYTimes dice che fra cinque anni non sa se stampa ancora in tipografia. Si muove tutto abbastanza in fretta. Io azzarderei che la home-press (chiamiamola così, tanto per sentirci importante) sarà al 10-15 per cento fra due anni e al 40-50 per cento fra cinque. - A Catania? Dappertutto. D'altronde, il nostro progetto è nazionale; qui stiamo semplicemente sperimentando, con le forze che abbiamo. Ma se faccende com UCuntu cominciassero a uscire un po' dappertutto - quest'estate prevediamo di farne spuntare una a Napoli, una in Puglia e una a Roma - la partita comincerebbe a essere interessante. - E tu che ci guadagni. Niente. Un sacco. Niente soldi, un sacco di soddisfazione. È da diversi anni che lavoriamo (non da solo, con gente come Carlo Gubitosa o Rossomando & Feola, per esempio) a questo tipo di cose, a questo progetto. È un progetto bello, democratico. Permetterebbe di scrivere professionalmente a un sacco di ragazzi che ora sono costretti o a starsene zitti o ad andarsene a fare i precari dal ciancio della loro città. Io ho visto crescere un sacco di giovani giornalisti, a Catania, a Napoli, a Roma... Ne vedo crescere ancora, è il mio mestiere. Crescere e venire normalizzati o messi fuori, uno dopo l'altro, perché disturbano i padroni. Fra qualche anno potrebbe non succedere più. Fra qualche anno potrebbe esserci una rete di giovani giornalisti, in giro per questo paese. - Ma come si fa a fare un giornale come UCuntu da qualche altra parte? Semplice: basta scriverci. Noi mandiamo le gabbie-base da riempire, e uno ci mette quello che vuole. Il trucco è che le gabbie sono semplicissime da utilizzare, anche un ragazzo riesce a impaginare così. Non sono XPress, InDesign e roba del genere (che poi costano un pacco di soldi). Sono puramente e semplicemente dei files .odt creati con un semplice word processor, Open Office: uno dei nostri ragazzi è riuscito a trovare lo sgamo per utilizzarlo come dtp, e funziona bene. E Open Office lo scarichi liberamente dal suo sito, perché è free software. Fra 3-4 mesi mettiamo in giro (gratis) il dvd con le gabbie base, Open Office, una libreria di disegni, una di foto. A quel punto se non riesci a farti da te un buon giornale è perché proprio non hai un cazzo da dire, non perché non si può fare... - Bello. Ma con l'antimafia che c'entra? C'entra tutto, perché l'antimafia, l'antimafia seria, non quella di festa, è essenzialmente democrazia. E democrazia è essenzialmente diritto di parlare. Non blaterare e basta, gridare viva e abbasso da qualche parte. Parlare seriamente, autorevolmente, con cifre e dati. Professionali. Non sono solo i padroni a poterlo fare. Domani, fra tecnologia e creatività, potremo farlo anche noi. - Ma la gente, l'informazione, la vuole o non la vuole? A volte pare che invece voglia il grande fratello, le veline? A volte lo penso anch'io. Ma vedi, non c'è niente di male: basta che sia divertimento, e non rincoglionimento programmato. A Torino gli operai leggevano il giornale di Gramsci, e leggevano i feuilletton di Carolina Invernizio, per esempio. Gramsci doveva fare le corse per cercare di non esser meno palloso del romanzetto a puntate. Quando ci riusciva, allora gli operai mettevano in modo il cervello e nel giro di due mesi ti occupavano la Fiat. - Qual è il futuro dell'informazione antimafia? Mah. Qualcosa del genere che abbiamo detto, inutile girarci attorno. Sopravviveranno strumenti utili come Antimafia Duemila, come Narcomafie, forse qualcun altro. Ma il grosso del lavoro (l'antimafia sociale, dice qualcuno; e io aggiungerei: l'antimafia allegra) dovrà farlo qualcun altro, con strumenti veramente moderni, internet più stampante di casa. Più forse - free-press di tipo nuovo; ma questo è un discorso in più, e abbastanza complicato. - Ma perché non c'è unione, ma parecchie voci disperse e frammentate in Italia, che scrivono e lottano contro la criminalità organizzata? Beh, da un lato è fisiologico, e da un certo punto di vista (nell'antimafia gli stronzi sono pochi: quelli che non mancano magari sono quelli un po' vanitosi...) è anche positivo. Nella sinistra dell'avvenire bisognerà stare attentissimi ad avere tante teste diverse, tante critiche, tante idee: il monolitismo è esattamente ciò che ci ha fottuti, e non noi solamente, nel Novecento. Però c'è anche il fatto che non ci siamo ancora resi ben conto di cosa sta succedendo, di cosa ci tocca fare. Oggi non stiamo più a "far lotta" contro questo o quel singolo mafioso. Stiamo a far lotta contro tutto un Sistema (come giustamente lo chiama Saviano) e soprattutto stiamo a costruire un "per" qualcosa. Stavolta lo costruiremo democraticamente e tutti insieme, senza vangeli-guida, senza profeti. - Che ne pensi del decreto sulle intercettazioni, sugli atti giudiziari? Che vuoi che ne pensi. L'abbiamo detto all'inizio. È un regime. Non credere che Mussolini abbia fatto tutto così tutt'a un tratto. Era molto "ragionevole", all'inizio, molto "pacificatore". E il vecchio notabile ci cascava. I ragazzi - gente come Gobetti - no. Loro hanno capito subito di che si trattava si sono messi subito a lavorare per creare un'altra cosa. Cerchiamo di essere all'altezza anche noi. - Perché è così difficile avere denaro e appoggio politico per aprire un nuovo giornale a Catania? Devo ridere? Ma lo sai chi sono i politici, gli imprenditori, gli editori (plurale maiestatis, visto che ce n'è uno solo) a Catania? Quel che hanno fatto in questi vent'anni, quello che stanno facendo in questo momento, ora? - Cosa vuol dire quella frase di Fava che dice "Il giornalismo fatto di verità sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo"? Che il giornalismo è una forma forte di politica. Non di propaganda, non di ideologia. Di politica alta, da polis, quella vera. Il giornalismo non è lo scoop occasionale, non è l'esternazione eburnea del fighetto intellettuale. Il giornalismo parla per tutti, soffre con tutti, appartiene a tutti, dà la parola. Il giornalismo è il braccio armato della democrazia. - Che differenza c'è tra un buon giornalista e un giornalista antimafia? E quali sono le principali caratteristiche di un giornalista antimafia? Travaglio, che è un buon giornalista, non è un militante democratico - nel senso profondo e duro che dicevamo di sopra. Giuseppe Fava lo era. Lottava per qualcuno e per qualcosa. Una volta, molto prima che io lo conoscessi, fece un'inchiesta sui bambini di Palma di Montechiaro - i più abbandonati, allora, i più poveri di tutti. C'era il primato europeo della mortalità infantile, in questo paesino di allora. Lui fece dei buoni articoli, dei buoni pezzi. Scriveva bene. Denunciò la questione. Questo è il buon giornalista. Ma parlando con noi, molti anni dopo, lui ancora serrava le mascelle al ricordo, era ancora incazzato. Non era semplicemente l'oggetto di un'inchiesta, la miseria di quei bambini. Era un'ingiuria intollerabile, un'offesa personale. Questo è il giornalista antimafia, questo e niente di meno. - Perché dai tutto per il buon giornalismo?I tuoi colleghi lo fanno? Domanda uno, mi diverto. Domanda due, poveretti loro. Giuseppe Scatà [Narcomafie] 3 luglio 2008 FACCIAMO UN VIAGGIO AL TEMPO DEGLI ORCHI? Come verremo ricordati, quelli della nostra generazione? Non è una domanda tanto per aria: se fossimo stati invitati a casa del signor Muller a Berlino avremmo avuto il piacere di conoscere una persona educata e perbene, buon padre di famiglia, ottimo lavoratore, con la sua brava Volkswagen, i suoi marmocchi simpatici e la sua famigliola complessivamente felice. Faremmo un giro in centro (traffico ben regolato, molto verde, nessun mendicante) e in genere incontreremmo facce tranquille e soddisfatte di sé. Può darsi che parleremmo di politica: ma fra gente educata, su questo punto, non ci si accalora mai troppo. E poi, la politica, lasciamola a chi la fa di mestiere: noi abbiamo fin troppe cose a cui pensare. Il mutuo, il dentista, il meccanico, la pagella del bambino... Così, sorridendo svagati, si farebbe ora di pranzo: in un locale caratteristico, accogliente e pulito come tutto il resto. Più tardi, quando sei ritornato nel tempo tuo, ti accorgi che hai fatto visita alla famiglia degli orchi, nella città degli orchi, nel paese degli orchi. I Muller infatti sono una qualunque famiglia berlinese del 1936 e in quanto tale hanno dirette e personali responsabilità - come oggi sappiamo - nello sterminio di milioni e milioni di esseri umani. Personali? Beh, il figlio dei Muller è militare, ma presta servizio nella Wehrmacht, mica nelle Ss. Hans e Annaliste sono regolarmente iscritti, è vero, alla Hitlerjugend e alla Lega delle Ragazze: ma che fanno di male? Campeggio, raccolta di abiti vecchi e qualche chiacchiera ogni tanto. E tutto è così normale: lo sguardo dei bambini, la risata di Muller, le strade. Non ci sono mendicanti, non c’è gente strana. Noi tuttavia sappiamo - venendo da un’altra epoca ed essendo dunque osservatori disinteressati - che il mondo del ‘36 sarebbe stato impossibile senza il consenso dei Muller. E dunque non ci sentiamo autorizzati a stringere le mani che ci vengono porte (borghesemente: perché i Muller, l’abbiamo detto, non sono dei fanatici del Partito) per l’addio. Le mani restano là, protese senza risposta a cercare una comprensione, e i visi sfumano mentre noi torniamo nel nostro tempo. Nel “nostro” mondo, muoiono trentamila bambini al giorno per cause prevedibili e facilmente evitabili. Seicento milioni di bambini sopravvivono con meno di duemila lire al giorno. Ma questi sono numeri, non vogliono dire niente. Il fatto reale è che, se esci di casa e invece di svoltare da una parte svolti dall’altra, ogni due o tre bambini che incontri uno non ha mangiato. Ogni tanto - diciamo ogni tre o quattro minuti - uno di questi bambini che stai guardando attentamente per capirci qualcosa scivola improvvisamente per terra e non si muove più, perché è morto. E siamo in un sogno didascalico, ancora, dunque del tutto asettico e pulito. Il bambino per terra, nella realtà, evacuerebbe liquidi disgustosi prima e durante il morire. Da una parte, e tuttavia impossibilitato a intervenire, ci sarebbe un altro essere umano per il quale il bambino morente era il centro del mondo, e che in questi istanti sta vivendo l’orrore puro. Ci sarebbero puzza e grida, e rumori casuali. E tutto questo sta avvenendo davvero, in questo preciso istante, e riusciamo a tollerarlo soltanto facendo finta che non sia così. Ma inganniamo noi stessi. Il mondo vero è quello. Questo - quello di questo monitor - è meno vero di esso. Mi fermo qui, perché questo è un ragionamento impossibile da portare avanti oltre un certo grado. Ho bisogno - come te, e come tutti - di un certo livello di rimozione, perché altrimenti mi sarebbe difficilissimo vivere normalmente senza diventare asociale. Ma quelli che verranno dopo di noi - compagni posteri, diceva Majakowskij - non avranno di questi problemi. Loro vorranno semplicemente studiare scientificamente il nostro mondo, freddamente: perché ormai tanto tempo sarà passato. Studieranno di noi come noi studiamo gli assiro-babilonesi, apprezzando al loro giusto valore tanto gli inni cosmici ad Enkhidu quanto i prigionieri impalati. E, forse, decideranno che siamo stati più o meno la stessa roba che i tedeschi del trentasei. Parleranno di Olocausto, come noi ne parliamo. Si meraviglieranno grandemente, con aria di sufficienza, per la nostra acquiescenza. “Come hanno fatto a non ribellarsi?” diranno, senza voler sapere di noi altro che questo. 18 luglio 2008 A CATANIA D'ESTATE RUBANO LE SCUOLE A un mese dalle elezioni, non si capisce chi comanda a Catania: nel senso che non hanno ancora fatto il comune, non essendo riusciti a mettersi d'accordo. Intanto nessuno paga l'affitto delle scuole: e adesso arriva l'ufficiale giudiziario con l'ordine di chiusura... A Catania hanno fatto – magari alla disinvolta – le elezioni, hanno eletto un sindaco e adesso dovrebbe dunque esserci un comune. Il comune, l'amministrazione, però fino a questo momento non c'è perché tutti i principali interessati (sindaco, forze politiche, destra, bidestra, centrodestra e destra leghista) a un mese dalle elezioni non sono ancora riusciti a mettersi d'accordo. Affari loro? In un paese civile sarebbe affare anche dei cittadini, ma non è obbligatorio essere un paese civile e dunque tutto tira avanti alla meno peggio, giorno dopo giorno. Fra le cose che il comune - non essendoci – non ha fatto c'è anche il pagamento dell'affitto alle suore Orsoline, padrone dell'unica scuola di san Cristoforo, l'Andrea Doria (le scuole nei paesi civili non sono di proprietà dei Comune ma Catania, abbiamo detto, fa eccezine). Le suore, giustamente incazzate, hanno subito mandato l'ufficiale giudiziario: il quale arriverà venerdì, di prima mattina, per notificare l'atto e annunciare dunque la chiusura della scuola. L'Andrea Doria nell'ultimo anno scolastico è rimasta aperta solo grazie alla mobilitazione delle mamme del quartiere che, di fronte al menefreghismo del comune, hanno occupato l'edificio, hanno costretto i politici a venire lì e a fare un sacco di promesse: che l'affitto sarebbe stato pagato, che la scuola sarebbe rimasta aperta e balle del genere. Così le mamme hanno disoccupato la scuola, l'anno scolastico è finito in relativa tranquillità, e finalmente è arrivata l'estate. D'estate i politici non sono affatto andati in vacanza, ma sono rimasti “al lavoro” e cioè a dividersi fra di loro poltrone, seggiole e scrivanie. Senza molto successo, visto che le poltrone principali sono ancora oggetto di “trattativa”. Intanto le suore incalzano, gli speculatori allungano le zampe sul terreno della scuola, e “la politica” (come si dice oggigiorno) se ne frega completamente, non considerando importante la sopravvivenza di na povera scuola di quartiere. Va bene: al solito, saranno le mamme del quartiere a prendere in mano la situazione, organizzando il presidio davanti alla scuola. Con loro ci saranno quelli di Liberare Catania e anche tutte le associazioni, movimenti e partiti che hanno sostenuto Liberare Catania alle ultime elezioni. “Noi non spariremo il giorno dopo le elezioni – hanno proclamato allora – Noi siamo la forza unita della società civile, e per essa continueremo a lavorare anche dopo le elezioni, tutti i giorni!”. Vedremo se è vero. Per ora bisogna dire che la loro promessa la stanno mantenendo, visto che con le mamme del quartiere a difendere la scuola ci stanno andando solo loro. Con il caldo che fa, non è cosa da poco. E i politici? Beh, quelli a dividersi le poltrone. In nome della “vera politica”, si capisce. 8 agosto 2008 UNA SCUOLA-SIMBOLO AL CENTRO DELLA CITTÀ Come ogni estate, politici e speculatori cercano di chiudere l'unica scuola del povero quartiere di san Cristoforo. Come ognii estate, le mamme del quartiere si mobilitano per salvarla. Come finirà? Comunque vada, questa storia ormai rappresenta molto di più che se stessa Lasciamoci per ora qui, davanti a questa scuola di Catania, nel quartiere più antico e più “mafioso”. La scuola è l'Andrea Doria, l'unica della zona, il quartiere è san Cristoforo, militarmente occupato dagli uomini dei clan. È un quartiere poverissimo soprattutto per questo: povero economicamente – immaginate come può decollare l'economia di un posto come questo – e povero socialmente, con uno smog di paura che s'insinua dappertutto. In questo quartiere l'Italia, il mondo moderno, l'Europa (ne parliamo didascalicamente, deamicisiaamente, come se l'Italia esistesse ancora e la modernità fosse quella degli anni Settanta) possiedono due roccaforti, due sole. Uno è il centro popolare “Gapa”, il Gapannone (doposcuola, sostegno sociale, assembleee popolari, teatro, sport); e l'altro la scuola. Quest'ultima è Le Istituzioni, lo Stato; il Gapa la società civile. Ci sono poche storie più miserabili, nella miserabile vita politica catanese, della periodica chiusura dell'Andrea Doria. L'hanno già minacciata l'anno scorso, tornano a minacciarla anche ora. È l'unica scuola del quartiere, l'unico pezzo di Stato. Eppure, con ogni evidenza, alla Catania politica non ne importa niente. Il meccanismo della chiusura è il seguente: - la scuola è affittata dalle suore Orsoline (le padrone) al comune; - il comune non paga; - le suore da tempo sono ambite da un grosso imprenditore, che vorrebbe prendersi l'area per specularci; - le suore mandano l'ufficiale giudiziario per sfrattare la scuola; - le mamme del quartiere si mobilitano, insieme al Gapa, per salvare l'unico punto di speranza dei picciriddi; - e... È successo diverse volte, sta succedendo ancora ora. *** Questa è Catania, questa è la Sicilia di ora. Lottare contro la mafia, lottare contro i politici: per una scuola. 8 agosto 2008 COMPITI PER LE VACANZE Anche Ucuntu si riposa: ci rivediamo fra due settimane. Ma non è che nel frattempo i problemi si risolvono da soli: ce li ritroveremo davanti pari pari al ritorno, più agguerriti di prima. Che problemi? La mafia? Ciancio? Il fascismo? Berlusconi? Certo, sì: ma il problema dei problemi, senza cui non si risolveranno mai tutti gli altri, consiste in noi stessi. Cioè: siamo davvero un “noi” o siamo rimasti ancora tanti piccoli “io” impotenti? E come pensiamo di... Beh, buone vacanze Ehi, ci rivediamo dopo ferragosto. Mi sembra che abbiamo fatto un buon lavoro - dodici discreti numeri in tre mesi - e un po' d'onesto riposo ce lo siamo meritato. Che lavoro, esattamente? Non abbiamo fatto un giornale perché un giornale - nel senso professionale della parola - è cosa ben più ampia di questa. Non abbiamo fatto un sito perché su ucuntu.org la cosa principale è un "giornale" pdf, regolarmente impaginato, e stampabile quando si voglia un "cartaceo", potenzialmente. Pensiamo, in altre parole, di aver fatto più che altro un esperimento. Ma un esperimento molto avanzato, in linea con le tendenze "industriali" sia della carta stampata che dell'informazione in rete. La prima sa benissimo, ormai, di non essere più autosufficiente. Quotidiani e riviste sono ormai in una fase di transizione - gli ultimi anni esclusivamente tipografici, gli ultimi prima del nuovo modello di giornale. Come sarà quest'ultimo? Sicuramente misto, con la "serietà" dei giornali e la capillarità di internet. Avrà il suo punto di forza nella percentuale "colta" della gente, quella che passa almeno un'ora in internet ma, grazie al versante cartaceo (che sarà molto più leggero dell'attuale) potrebbe raggiungere anche tutto il resto della popolazione e inserirla in un circuito virtuoso che col tempo potrebbe anche contare più della televisione. Questa, tecnicamente, è una tendenza ormai del tutto delineata. Ma, e i contenuti? Saranno i padroni dei media attuali - e dell'attuale orrenda televisione - a gestirli? I contenuti dei giornali, a differenza di quelli delle tv (che erano stati disumanizzati molto prima), si stanno orwellizzando solo ora. Distrutta o ridotta all'angolo la classe dei giornalisti, precarizzate le redazioni, sostituiti i direttorigiornalisti con altrettanti politici, lo stile dei quotidiani italiani è ormai assolutamente normalizzato. Non credo che ci sia più da farsi illusioni: il giornalismo italiano ormai è questo, se cambierà sarà in peggio e ciò che una volta si vedeva nei giornali mafiosi di Palermo o Catania ormai è praticamente standard dappertutto. La campagna per la "paura percepita" è stata condotta dai quotidiani liberal non meno che dalle tv di Berlusconi; e ha funzionato. *** Ecco: tutto questo ci porta, da giornalisti, a guardare la realtà in faccia e a considerare che questo mestiere può vivere ormai solo fuori dai meccanismi ufficiali. E dunque a studiare con serietà le possibili - e sempre più indispensabili alternative. L'ottimismo ci viene dalla conoscenza della svolta di cui dicevamo sopra, dalla transizione. Il giornalismo del dopo-internet non sarà un giornalismo costoso. Avrà bisogno molto più di intelligenze e competenze che di denaro. Chiederà condizioni pesanti (chi lo eserciterà non potrà camparci su più di tanto) ma sarà perfettamente possibile. Fra dieci anni, la maggior parte della gente usufruirà un giornalismo di questo genere, e se ne saprà servire. Tecnicamente, la sperimentazione di Ucuntu si poggia su due punti precisi: il giornale sta bene in internet, è sfogliabile e (grazie a Issuu) si vede bene; in caso di necessità (e possibilità) si può anche stampare. Il giornale "tipograficamente" è facilissimo da produrre perché si basa su un software elementare (e libero) come Open Office e perciò qualunque gruppo di giovani, se ne ha testa e a voglia, se ne può fare uno. Culturalmente, le idee su cui ci basiamo sono due: la nostra insufficienza, e dunque l'obbligo della complementarietà, e la necessità della rete; e poi l'assoluta incompatibilità con l'establishment ("il giornalismo borghese", lo definì una volta Giuseppe Fava), che se prima era moderato o di parte adesso è decisamente fascistoide o almeno ostile ai valori di una qualunque democrazia. In Sicilia, entrambi questi dati si moltiplicano. Il Ministero dell'Informazione (che comprende quotidiani, tv, partiti politici, baronati universitari e quant'altro) da noi non serve soltanto le destre d'ogni genere, ma anche il potere mafioso. Che non è, come molti pensano, un'escrescenza criminale esorcizzabile con cerimonie e fiction, ma un sistema che comprende diversi bracci (militare, politico, imprenditoriale) perfettamente armonizzati fra di loro: un regime. "Alii sparant - dicevano i teologi del Medioevo - alii rubant, allii persuadent populum" ad accettare tutto questo. *** Com'è la nostra situazione adesso? Che cosa dobbiamo fare al ritorno dalle - chiamiamole così - vacanze? La nostra situazione per un verso è buona, perché siamo riusciti ad arrivare fin qui, a non perdere il filo, e coi tempi che corrono vanno ringraziati tutti gli dei per questo. Ma è meno buona dell'anno scorso, perché allora - almeno qui a Catania - le varie realtà nuove e giovani che via via nascevano riuscivano ancora a percepire, sia pure confusamente, il senso di una grande battaglia difficile e la necessità di mettersi prima o poi tutti insieme per condurla insieme. In poco meno di un anno, e soprattutto da quando è stata messa a tacere Casablanca, questa percezione si è di molto affievolita. I singoli gruppi crescono ma, con l'eccezione del Gapa, non riescono assolutamente a vedersi più come una parte di qualcosa. Questo genera debolezza comune, insufficienza pratica, tendenza alla ritualizzazione, e chi più ne ha più ne metta. Città Insieme, Grilli, Addiopizzo, Step1, Periferica (per citare i più attivi), che avevano avuto una grandissima (e spesso anche unitaria) stagione due anni fa, adesso sono arroccati ciascuno nel proprio spazio, a difendere chi ancora può la propria valle. Nel settore dell'informazione tendono ormai ad accettare l'esistente. (Personalmente, mi ha colpito moltissimo che sia stato possibile chiudere Casablanca in una città in cui folle di progressisti accorrevano a sentire devotamente Travaglio o Grillo. Dei partiti, dei Bertinotti che regalano un giornale al guru Fagioli e lasciano chiudere i giornali antimafiosi, dei piddì, dei buffi "comunisti" a corrente alternata non mi scandalizzo più. Della "società civile" invece sì). *** Va bene, buone vacanze a tutti. Brevi, ché c'è molto da fare, dappertutto. Buone vacanze a Pino, a Nadia, a Carlo, alla macchina bruciata, ai su e giù a organizzare, al sito chiuso perché parlava male dei banchieri. A Mirko, a Max e alla sua bambina, a Leandro, a Luca con lo zaino pesante, a Pippo con una fotocamera n Turchia, a Graziella e Rebecca, a Luciano e Fabio, a tutta l'altra Librino, a Gianfranco, a Livio, a quel ragazzo di Step1 che non conosco ma che però scrive bene, a me stesso, al buon Giovanni, al vecchio Titta-Qujiote, a Lucio, a Vanessa, a Toti... Dimentico qualcuno? Ma sì, dimentico un sacco di gente per fortuna, sennò altro che seimila battute, ci vorrebbero altre due pagine e Luca, che già aspetta impaziente, non riuscirebbe più a chiuderle bene stasera. Hasta presto, companeros. 15 settembre 2008 “C'È UN GIUDICE A BERLINO...". BONU, CUMPARI: MA A CATANIA? Il giornaletto mandato al macero d'autorità perché criticava un notabile cittadino. Il ragazzino tolto alla mamma e dato al padre lombardiano ortodosso perché “se la faciva ccu i communisti”. Dovrebbe difenderci la magistratura, come a Palermo. Ma invece... La catastrofica decadenza della città di Catania, ormai riconosciuta da tutti, deriva essenzialmente dal legame strettissimo, che ha più di trent'anni, fra le strutture mafiose e quelle (talora coincidenti) dell'imprenditoria. Subito dopo vi sono due concause che meriterebbero trattazione più approfondita ma che si possono riassumere nell' inadeguatezza dei due presidi fondamentali di ogni società occidentale, l'informazione giornalistica e la magistratura. Della prima, abbiamo scritto tante volte che sarebbe noioso ripetere. L'unica scuola giornalistica libera, quella di Pippo Fava, è stata consapevolmente distrutta prima con l'assassinio del fondatore e poi col sistematico silenziamento di tutti i suoi allievi della prima e della seconda generazione. Quanto alla magistratura, il suo ruolo nella storia della città – salvo benemerite, ma isolate, eccezioni – non è stato complessivamente positivo, e men che mai paragonabile, sul piano civile, a quello di Palermo. Non solo e non tanto per i casi di corruzione esplicita (che non sono mancati), nè di aperto connubio col sistema di potere (vedi Grassi, oggi presidente in Cassazione). No: quel che ha più pesato nell'infelice esito del notabilato giudiziario in questa città è probabilmente un fattore metatecnico, più propriamente culturale. Molti magistrati catanesi, che pure operano “in nome del popolo” e nel quadro di una Costituzione, non hanno mai realmente metabolizzato i principi fondanti dell'ordinamento, né sul piano della garanzia dei diritti né su quello della lotta alla mafia. Hanno spesso operato, e operano sovente tuttora, come se anziché Magistrati della Repubblica in un' importante città a forte presenza mafiosa fossero Regi Uditori borbonici in qualche borgo dell'Ottocento. Applicando le leggi a volte poco, a volte male, a volte svogliatamente, e spesso lasciandosi guidare dai propri personali (notabilari) pregiudizi. Due casi gravissimi, quest'estate. Il primo, l'inusuale invio al macero d'un giornaletto locale che relazionava sulle attività d'un tal notabile catanese, Fiumefreddo; la solidarietà di casta è scattata immediata col sequestro del foglio. Il secondo, ancora più deplorevole perché coinvolgente un minore, lo strappo di un adolescente alla madre e la sua consegna manu militari al padre separato (e cliente lombardiano): perché frequentava i comunisti. Scritto nero su bianco sul rapporto di una funzionaria dei servizi sociali (che continua a rubare la paga alla collettività per il servizio così infedelmente svolto), che il magistrato non ha saputo, per sua insufficienza culturale, trattare come avrebbe dovuto. Che Catania fosse città fascista (con strade intitolate a gerarchi mandanti di assassinio, e non a purissime eroine resistenziali) lo si sapeva, e il sindaco s'è compiaciuto di ricordarlo apertamente appena insediato. Che Catania fosse città mafiosa, in cui dei grandi affari non si può e non si deve parlare, si sapeva; come pure che qui nemico il comunista Pio La Torre, e amico invece il supportatore di mafia Cuffaro (commissario catanese dell'Udc). Ora si sa anche che non saranno i magistrati, a Catania, coloro cui ci si potrà affidare per contrastare tutto ciò. Se ancora esiste, dovrebbe intervenire il Csm. *** Sempre più si diffonde, “in tale e tanto corrotta città” l'idea di uscirne a musiche e balli, magari al seguito di qualche notabile riciclando. Fiumefreddo, ad esempio, ha affidato a un'agenzia di Pr l'incarico di “costruirgli” a freddo un'immagine kennediana, antimafiosa (qualcuno dell'antimafia-bene non manca di collaborarvi, in cambio di piccoli poteri). È un'idea divertente. Ma davvero sono convinti che funzionerà? 29 settembre 2008 NOTIZIE VERE, NOTIZIE FALSE LA CITTÀ DEL BUCO “Hanno cercato di rapire una bambina!”. Esce il titolone a nove colonne. Gli zingari vengono cacciati dal loro campo. Poco tempo dopo, grazie all'inchiesta dei giovni giornalisti di Step1, contrordine: gli zingari sono innocenti. Chi li risarcisce ora? E quel giornale che urlava “Rapitori!”, adeso pagherà qualcosa? Un avviso di garanzia ai sensi dell'articolo 656 del Codice Penale è stato inviato ieri dalla Procura di Catania al direttore del quotidiano locale La Sicilia, Mario Ciancio. La decisione dei magistrati catanesi sarebbe motivata dalla "notizia", pubblicata con grande evidenza dal quotidiano catanese nel maggio scorso, di un presunto tentativo di rapimento perpetrato da zingari all'uscita di un supermercato. Nel particolare clima di quel momento - si osserva negli ambienti della Procura etnea - una "notizia" del genere (per altro priva di ogni riscontro) avrebbe potuto facilmente dar luogo a incidenti anche molto gravi, particolarmente ai danni di elementi della comunità rom; è pertanto da ritenersi largamente violato il disposto dell'art.636 che vieta la "pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l`ordine pubblico". "La decisione della Procura di Catania - ha dichiarato poco più tardi il Presidente dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia, Franco Nicastro - è ineccepibile e abbiamo già provveduto a titolo cautelativo a sospendere dall'Ordine il nostro iscritto Mario Ciancio. Non si pubblicano con leggerezza notizie così gravi e completamente prive di ogni supporto giornalistico". "A questo proposito - ha aggiunto Nicastro - voglio congratularmi con i ragazzi del sito universitario Step1 che sono stati i soli a comportarsi da giornalisti in quest'occasione, andando immediatamente a cercare le fonti sul campo e denunciando quindi l'assoluta inconsistenza dell'accusa, formalizzata adesso anche dalla piena assoluzione dei due giovani zingari ingiustamente accusati. Bravi ragazzi, continuate così" Di parere diverso ("Inammissibile ingerenza di una magistratura politicizzata") il segretario dell'Associazione Siciliana della Stampa, che ha fatto pervenire un "rispettoso e solidale" messaggio al collega Ciancio. "Sono sempre stato il primo a difendere gli zingari e questa assoluzione è tutto merito mio" ha dichiarato infine, su consiglio dell'agenzia che cura la sua immagine, l'onnipresente teatrale Antonio Fiumefreddo. *** Perché il Cern ha improvvisamente sospeso l'esperimento? Lo so, al pubblico hanno detto che s'era guastato un magnete o roba del genere. Vabbè. Il pubblico va tranquillizzato. La verità è che dai primi buchi neri creati sono cominciati a emergere pezzi dell'altro universo, che nessuno riusciva più a distinguere da quello vero. In Sicilia, ad esempio, è sbucata una città fra Taormina e Augusta, alle falde dell'Etna, tutta nera e barocca e in riva al mare. Una città stranissima, in cui la giustizia regna e vengono acchiappati subito intrallazzisti e mafiosi. Assomiglia moltissimo, tranne qualche piccolo particolare, a una città esistente prima del buco nero. Ne siamo stati ingannati in molti, lo confesso, io compreso. Da ciò le notizie incredibili, di cui molti increduli ci hanno chiesto conferma. Ma è tutto vero: per le fregnacce sugli zingari, Ciancio è stato messo sotto inchiesta dalla magistratura, e radiato senz'altro dall'ordine dei giornalisti. Ma questo nel buco nero. Nella Catania antebuco tutto continua tranquillamente come prima. 15 ottobre 2008 “PARLA, SANTAPAOLA!" ZITTO TU, FAVA!" LA LIBERTÀ DI PAROLA SECONDO CIANCIO “Io, Vincenzo Santapaola, vi dico...”. Uno degli ultimi contenuti de La Sicilia di Catania, sotto forma di lettera, ma senza alcun intervento redazionale, è un vero e proprio editoriale di un boss mafioso. Contemporaneamente, e da oltre un anno, Ciancio vieta ai suoi cronisti di pubblicare dichiarazioni e notizie su Claudio Fava. Un episodio gravissimo, che segna un punto di non-ritorno. E la Magistratura? Ponzio. E l'Ordine dei Giornalisti? Pilato Il gravissimo episodio di Catania - un esponente mafioso che usa il giornale di Ciancio per mandare i suoi messaggi - non ha suscitato le risposte istituzionali che sarebbero state prontamente date in ogni altra città. 1) La Procura di Catania, che da poco ha sequestrato per inadempienze burocratiche un povero foglio locale (“Catania Possibile”) di denuncia, non ha ritenuto di intervenire sul ricco e potente quotidiano che ha favoreggiato di fatto il clan Santapaola. 2) L'Ordine dei Giornalisti non ha incredibilmente preso alcun provvedimento disciplinare - e quando , allora? - nei confronti del favoreggiatore. 3) L'Associazione siciliana Stampa, che non è mai intervenuta in difesa di nessuno degli otto giornalisti siciliani trucidati dai Santapaola e dagli altri mafiosi, non ha avuto il coraggio di prendere adeguatamente posizione. 4) Il CdR de La Sicilia non ha denunciato né ha contestato (com'era suo preciso dovere) l'operato del direttore. 4) Non se n'è dissociato, nemmeno con tempestive dimissioni, neanche il vicedirettore, che evidentemente giudica incidente veniale la presenza di un Santapaola nel suo giornale. 5) Le forze politiche locali hanno reagito con estrema fiacchezza all'episodio gravissimo, che ufficializza la contiguità fra poteri e mafia (già vista in numerosi episodi: caso Avola, censura dei necrologi Montana e Fava, scuse al boss Ercolano, ecc.) nel campo dell'informazione. Non è affatto una vicenda catanese. È nazionale. È l'esempio più estremo, ma che non resterà insuperato, della catastrofe etica dell'informazione italiana. Saviano, parlando di giornali collusi, ha avuto torto solo nel limitare i suoi esempi alla Campania. *** Facciamo appello ai siti liberi locali, ai giovani che li animano con tanta passione, a non lasciare impunita questa vergogna. A reagire apertamente e duramente, e soprattutto tutti insieme. Avremo nelle prossime settimane (l'inizio del laboratorio di giornalismo) e nel prossimo mese (“Sbavaglio” numero tre) tempo e luogo per esaminare partitamente lo stato dell'informazione a Catania e in Sicilia, e per proporre i rimedi. Ma adesso quello che è urgente è la ripulsa istintiva, etica, morale, nei confronti di quel “giornalismo” che insulta gli Alfano, le Cutuli, i Mario Francese, i Giuseppe Fava. Esprimiamo la nostra fraterna solidarietà a Claudio Fava, che i mafiosi intendevano uccidere, per la sua attività di giornalista libero, nello stesso luogo in cui avevano già ucciso suo padre; e nonostante questo, o forse proprio per questo, il suo nome oggi è tabù sullo stesso giornale che pubblica i comunicati dei Santapaola. Faccio appello infine, personalmente e da vecchio giornalista che mai avrebbe immaginato un tale degrado della professione, ai colleghi Lorenzo Del Boca e Roberto Natale, Presidenti Nazionali del nostro Ordine e del Sindacato: intervenite con tutti i vostri poteri su Catania! Difendete la nostra professione! Non lasciate soli i giovani che, con immensa generosità e a dispetto di tutto, qui impegnano le loro vite a fare un giornalismo di cui non vi dobbiate vergognare. 31 ottobre 2008 SAVIANI Anche oggi Marco ha preso il motorino, è uscito di casa e se n'è andato in cerca di notizie. Ha lavorato tutto il giorno e poi le ha mandate in internet a quelli che conosce. Fa anche un giornaletto (Catania Possibile) di cui finalmente anche i lettori hanno potuto vedere un numero (il primo solo i poliziotti incaricati di sequestrarlo in edicola) con relative inchieste. Non ci guadagna una lira e fa questo tipo di cose da una decina d'anni. Ha perso, per farle, la collaborazione all'Ansa, la possibilità di uno stipendio qualunque e persino di una paga precaria come scaricatore: anche qui, difatti, l'hanno licenziato in quanto "giornalista pacifista". Marco non ha paura (nè della fame sicura nè dei killer eventuali) ed è contento di quel che fa. Anche oggi Max è contento perché è riuscito a mandare in giro un altro numero della Periferica, il giornaletto che ha fondato con alcuni altri amici del quartiere. Il quartiere è Librino, il più disperato della Sicilia. Se ne parla in cronaca nera e nei pensosi dibattiti sulla miseria. Loro sono riusciti a mettere su una redazione, a organizzare non solo il giornale ma anche un buon doposcuola e dei gruppi locali. Non ci guadagnano niente e i mafiosi del quartiere hanno già fatto assalire una volta una sede. Max non ha paura, almeno non ufficialmente, ed è contento di quel che fa. Anche oggi Pino ha finito di mandare in onda il telegiornale. Lo prendono a qualche chilometro di distanza (la zona dello Jato, attorno a Partinico) e contiene tutti i nomi dei mafiosi, e amici dei mafiosi, del suo paese. Non ci guadagna niente (a parte la macchina bruciata o un carico di bastonate) ma lui continua lo stesso, ed è contento di quel che fa. Anche oggi Luca ha chiuso la porta della redazione, al vicolo Sanità. Il suo giornale, Napoli Monitor, esce da un po' più di due anni e dice le cose che i giornalisti grossi non hanno voglia di dire. È da quando è ragazzo (ha iniziato presto) che fa un lavoro così. Non ci guadagna nulla, manco il caso di dirlo, e non è un momento facile da attraversare. Ma lui continua lo stesso, ed è contento di quel che fa. Ho messo i primi che mi sono venuti in mente, così per far scena. Ma, e Antonella di Censurati.it? Sta passando guai seri, a Pescara, per quell'inchiesta sui padri-padroni. E Fabio, a Catania? Fa il cameriere, per vivere, ed è giornalista (serio) da circa quindici anni. E ti sei dimenticato di Antonio, a Bologna? Vent'anni sono passati, da quando gli puntarono la pistola in faccia per via di quell'inchiesta sui clan Vassallo e gli affitti delle scuole. Eppure non ha cambiato idea. E Graziella? E Carlo Ruta, a Ragusa? E Nadia? E... Vabbè, lasciamo andare. Mi sembra che un'idea ve la siate fatta. C'è tutta una serie, in Italia, di piccoli giornali e siti, coi loro - seri e professionali - redattori. Ogni tanto ne fanno fuori qualcuno, o lo minacciano platealmente; e allora se ne parla un po'. Tutti gli altri giorni fanno il loro lavoro così, serenamente e soli, senza che a nessuno importi affatto - fra giornalisti "alti" e politici – se sono vivi o no. Eppure, almeno nel settore dell'antimafia, il novanta per cento delle notizie reali viene da loro. Saviano è uno di loro. Quasi tutti i capitoli di Gomorra sono usciti prima su un sito (un buon sito, Nazione Indiana) e nessuno, salvo chi di mafia s'interessava davvero, se l'è cagati. Poi è successa una cosa ottima, cioè che l'industria culturale, il mercato, ci ha messo (o ha creduto di metterci) le mani sopra. Ne è derivato qualche privilegio, ma pagato carissimo, per lui. Ma ne è derivato soprattutto che - poiché l'industria culturale è stupida: vorrebbe creare personaggi mediatici, da digerire, e finisce per mettere in circolo contenuti "sovversivi" - un sacco di gente ha potuto farsi delle idee chiarissime sulla vera realtà della camorra, che è un'imprenditoria un po' più armata delle altre ma rispettatissima e tollerata e, in quanto anche armata, vincente. *** Ci sono tre cose precisissime che, in quanto antimafiosi militanti, dobbiamo a Saviano. Una, quella che abbiamo accennato sopra: la camorra non è la degenerazione di qualcosa ma la cosa in sè, il "sistema". Due, che il lato vulnerabile del sistema è la ribellione anche individuale, etica. Tre, che lo strumento giornalistico per combattere questo sistema non è solo la notizia classica, ma anche la sua narrazione "alta", "culturale"; non solo "giornalismo" ma anche, e contemporaneamente, "letteratura". (Quante virgolette bisogna usare in questa fase fondante, primordiale: fra una decina d'anni non occorreranno più). Dove "letteratura" non è l'abbellimento laterale e tutto sommato folklorico, alla Sciascia, ma il nucleo della stessa notizia che si fa militanza. Nessuna di queste cose è stata inventata da Saviano. Il concetto di "sistema", anziché di semplice (folkoristica) "camorra" è stato espresso contemporaneamente, e credo sempre su Nazione Indiana, da Sergio Nazzaro (non meno bravo di Saviano: e vive vendendo elettrodomestici); e forse prima ancora, sempre a Napoli, da Cirelli. L'aspetto fortemente etico-personale della lotta non alla "mafia" ma al complessivo sistema mafioso è egemone già nelle lotte degli studenti (siciliani ma non solo) dei tardi anni Ottanta. La simbiosi fra giornalismo e "letteratura", che è forse l'aspetto più "scandaloso" (e che più scandalizza; e non solo a destra) di Saviano è già forte e completa in Giuseppe Fava, e nella sua scuola. Le "scoperte" di Saviano sono dunque in realtà scoperte non di un singolo essere umano ma di una intera generazione, sedimentate a poco a poco, nell'estraneità e indifferenza dell'industria culturale, in tutta una filiera di giovani cervelli e cuori. Alla fine, maturando i tempi, è venuto uno che ha saputo (ed ha osato) sintetizzarle; e che ha avuto la "fortuna" di incontrare, esattamente nel momentochiave, anche l'industria culturale. Che tuttavia non l'ha, nelle grandi linee, strumentalizzato ed è stata anzi (grazie allo spessore culturale di Saviano, ma soprattutto dell'humus da cui vien fuori) in un certo qual senso strumentalizzata essa stessa. *** Questa è la nostra solidarietà con Saviano. Non siamo degli Umberto Eco o dei Veltroni, benevoli ma sostanzialmente estranei, che raccolgano firme e promuovano (in buona fede) questa o quella iniziativa. Siamo degli intellettuali organici, dei militanti ("siamo" qui ha un senso profondissimo, di collettivo) che hanno un lavoro da compiere, ed è lo stesso lavoro cui sta accudendo lui. Anche noi abbiamo avuto paura, spesso ne abbiamo, e sappiamo che in essa nessuno essere umano può attendersi altro conforto che da se stesso. Roberto, che è giovane, vedrà certo la fine di di questo orrendo "sistema" e avrà l'orgoglio di avervi contribuito: non - poveramente - da solo ma volando alto e insieme, con le più forti anime di tutta una generazione. 6 dicembre 2009 “QUEL GIORNALETTO DEVE CHIUDERE. SVEGLIA IL QUARTIERE” Della Periferica, a Librino, abbiamo già parlato. Funziona, smuove la gente. Perciò le daranno un premio... Momento: in Sicilia, alle cose così, non gli danno premi ma legnate. O perlomeno cercano d'imbavagliarle. Come? Facendogli il vuoto intorno, mandando una corazzata contro la barchetta... La Periferica è un piccolo giornale che esce in uno delle borgate più grosse e povere del Sud, Librino. È nato fra gli scout ed ha rapidamente aggregato la meglio gioventù del quartiere, quelli che “un giorno anche Librino sarà un posto normale, senza mafia, col lavoro!”. Bene. Questa storia dura oramai da più di un anno. I ragazzi della Periferica, che secondo le buone regole avrebbero dovuto sbandarsi dopo un paio di mesi, invece hanno tenuto duro. Il loro giornaletto, che secondo le regole sarebbe dovuto restare nel giro dei pochi studenti “colti” della città, invece s'è diffuso a sorpresa fra gli abitanti del quartiere. E questi, che secondo le regole avrebbero dovuto farsi i cazzi loro, invece l'hanno appoggiato: il giornale diffuso nei bar, un po' di pubblicità – addirittura – dai piccoli commercianti del quartiere. (In mezzo a questa storia c'è anche qualche intimidazione, per esempio al doposcuola aperto dai ragazzi nel quartiere. Ma non ce la metto perché altrimenti si va nelle emozioni da fiction, che agl'italiani piacciono tanto, e dunque nel folklore. Questa è una storia di mafia, naturalmente. Ma di mafia reale, mafia quotidiana, non da televisione). Dov'eravamo rimasti? Ah, già. Dunque, i ragazzi hanno “avuto successo”, per quel che si poteva, e a un certo punto hanno anche messo su un'associazione apartitica (“Oltre la Periferica”) per la informe ma ben promettente società civile del quartiere. E regolarmente ci si riunisce fra redatori, si fa il palinsesto, si distribuiscono i pezzi, si fa il giro dei negozi per la pubblicità... Insomma, una piccola ma efficiente routine. Finché un bel giorno un barista sorride impacciato. “Beh, stavolta il vostro giornale qui non ve lo posso esporre...”. E il negoziante: “Veramente la pubblicità me l'hanno già messa su quell'altro giornale...”. “Ehi – fa una ragazza – hai visto che oggi La Sicilia ha pubblicato una pagina straordinaria tutta su Librino?”. Cos'è successo? Come mai l'unico (e grosso) quotidiano della città ha improvvisamente scoperto il povero quartiere? Semplice: Librino è 40'mila voti. Li puoi comprare, vendere, mettere all'asta, contrattare. Se però questa gente comincia a pensare con la sua testa (a destra, a sinistra, al centro: ma con la testa sua) non lo puoi fare più. Diventano voti liberi, da convincere. E come cavolo li convinci, se da vent'anni li lasci nella miseria più nera, con fogne di fortuna e senza luce? Maledetto giornale libero, maledetti ragazzi. È quella fabbrica di uomini, quella Periferica di pensatori, la fonte della disgrazia. Facciamole il vuoto attorno. Così il barista smette di esporre, il negoziante di dare pubblicità e persino il parroco, nella sua chiesa, s'è messo a parlare male degli “aizzapopolo”. “Eh, bello quando stavano tutti zitti, che c'era la miseria ma si stava in pace!”. Quei tempi, purtroppo per chi ci marciava, non torneranno più. Periferica resta ad uscire regolarmente, il comitato continua, la società pulsa ancora. Ma quei ragazzi - chiedetevi – che vita fanno? Ecco, questa sarebbe una storia sull'informazione in Sicilia. Su Informazione E Mafia, addirittura. Emoziona nessuno? C'è qualche solidarietà? Qualche appello? Qualche intellettuale? 15 dicembre 2008 CHE FINE HANNO FATTO QUI LA SCIENZA E L'INFORMAZIONE A Messina indagano il Rettore. A Catania non si sa ancora quanti giovani ricercatori sono stati uccisi dai veleni chimici a Farmacia. Sono ancora Università, o sono un'altra cosa? Chi provvederà a risanarle, le autorità o gli studenti? L'informazione ufficiale, intanto, continua a essere se stessa. Cioè omertosa A Messina, tanto per cambiare, hanno rinviato a giudizio il rettore. In margine all'inchiesta telefonate minatorie del tipo "Sono soltanto un messaggero del Magnifico e con questo concorso sta scoppiando una bomba. Questo concorso lo deve vincere Macrì". A Catania, una vittima, o forse due, o forse dieci, o forse anche di più, per le terrificanti condizioni di inquinamento dei laboratori di Farmacia. Ma stiamo parlando ancora di Università? È giusto dare ancora lo status di istituto scientifico a luoghi in cui si perpetrano delitti così gravi? Sui giornali ufficiali sia di Messina che di Catania è già uscita (sempre con grande evidenza) più d'una lettera di studenti e studentesse che dichiarano di sentirsi vittime della stampa del nord. “Ci criminalizzano perché siamo siciliani”, “Cercano lo scoop a tutti i costi”, “Perché non parlano delle cose buone che facciamo qui?”. Lettere vittimistiche, giustificazionistiche, omertose. Ecco: la lunga agonia delle università di Messina e Catania sta producendo effetti gravissimi non solo materialmente, ma anche in quello che dovrebbe essere il principale terreno dell'università, la formazione umana. Avremo laureati bestie (avendo studiato con professori raccomandati), irresponsabili, queruli, omertosi. Certamente non tutti (ci mancherebbe!) ma una parte sì, sul modello preciso della classe dirigente attuale. E allora? Forse sarebbe il caso di dare un segnale forte, di sospendere i corsi per un anno. Oppure di avere, per un intero anno accademico, una presenza fortissima della contestazione studentesca nelle facoltà. Nell'uno e nell'altro caso, non sarebbe – e non dovrebbe essere – un anno accademico normale. Perché “normale”, qua al sud, oramai vuol dire un'altra cosa. Ed è ipocrita entusiasmarsi sul libro di Saviano se poi si accetta, anche in minima parte, questa normalità. *** “Com'è finita con la Periferica?” ci chiedono, non solo dalla Sicilia, in tanti. Bene, direi. Continua a lavorare, il numero nuovo è in edicola, il 5 gennaio – probabilmente – sarà al centro di un evento che coinvolgerà non solo le testate di base siciliane (che stiamo invitando fin d'ora, sulla tradizione di “Sbavaglio”) ma anche organismi nazionali come Libera Informazione. È tutt'altro che isolata, insomma, e rischia anzi di diventare un modello esemplare per tutti gli altri ragazzi – che non son pochi – che vogliono far cose utili per il quartiere o la borgata in cui stanno. Attorno alla Periferica, però, continuano ad accadere cose strane. Per esempio, la Caritas di Catania ha appena annunciato l'apertura di un “giornale di strada” anche qui. Nel farlo, però: - ha ignorato completamente i redattori della Periferica, che sono tecnicamente i più preparati nel settore (non fosse che per l'esperienza fatta finora così bene e a lungo, e proprio a fianco della Caritas); - ha invece invitato in prima fila un grosso politico locale, Castiglione, la cui valutazione da parte dell'opinione pubblica (e siamo in Sicilia) non è precisamente entusiastica o cristallina. Sembra che Castiglione, che è presidente della Provincia, stanzierà una grossa somma a favore della Caritas catanese. Va bene: tutto ciò qui è normale. Mi chiedo però che cosa ne avrebbero detto, per esempio, padre Greco o don Milani. 30 dicembre 2008 TUTTI QUEI SITI E GIORNALI DIVISI NELLA CITTÀ DI GIUSEPPE FAVA Gli amici di Ciancio? Siamo noi. Facciamo ottimi siti, giornaletti e giornali, avremmo le forze per fare un'informazione non inferiore alla sua (specie ora che c'è internet), ma ci ostiniamo a restare ognuno per sé, senza osar fare il salto di qualità, il “tutti insieme” che ci consentirebbe di cambiare Catania da così a così Stiamo dando una mano a Ciancio. Chi? Noi qui, intanto: e poi tutti gli altri giornali giornaletti siti e contrositi “alternativi” di Catania. Che sono tanti, in realtà, e ancora ne vengono fuori. “C'è spazio per tutti”, dice qualcuno. Ecco, il problema forse è proprio questo. Di spazio ce n'é quanto ne vogliamo, se ci contentiamo – e ci contentiamo – di essere la nicchia “contro”, la “voce alternativa” e tutto il resto. Invece ce n'è di meno, o almeno bisogna conquistarselo a caro prezzo, se l'idea è di fare alternativa davvero, cioè di raggiungere e superare il peso di Ciancio nell'informazione catanese. Ma questo è un obiettivo che, giorno dopo giorno, ormai nessuno si pone più. Se l'era posto Giuseppe Fava, e poi i suoi continuatori fino al tentativo di quotidiano nel '93. Da allora, tanta generosità ma anche tanta implicita rassegnazione. Giornali – e siti sono venuti avanti più per testimonianza che sperando di farcela davvero. Coraggiosi tutti, e spesso anche di buon livello; a volte anche di prestigio nazionale, come Casablanca. Ma con un minoritarismo d fondo, ormai profondamente introiettato. E questo, naturalmente, a generato a sua volta tutta un'ideologia, e dei comportamenti conseguenti. Ciascuno ha fatto per sé, considerandosi di fatto autosufficiente. Casablanca è stata lasciata affogare – ed era costata sacrifici terribili, soprattutto a Graziella Proto – nella più scettica indifferenza. Non s'è mai stabilito un rapporto qualunque, e neanche in ggenerale ci si è provato, fra testate del web e testate stampate. Non c'è mai stato coordinamento, e quel poco s'è dissolto subito, coi videomakers che per un momento sono stati la cosa più interessante della Sicilia. Le inchieste sono state condotte quasi sempre separatamente e si potrebbe dire anche, a volte, con gelosia. Ci sono responsabilità precise, nomi e cognomi, in tutto questo. Ma non hanno importanza. Non è importante sapere se era Toro Seduto che non voleva mettersi d'accordo con Nuvola Rossa o viceversa. Importante, e catastrofica, era la cultura diffusa per cui ciascuna tribù si difende la sua valle, e al diavolo tutto il resto. Un solo errore, semplice e condiviso da tutti: ed è bastato. Basterà anche qui, se non ci diamo una mossa. Bisogna integrare subito le varie testate e i siti – oppure chiuderle tutte subito, ché non servono a niente. C'è stato un fattore importante, quest'anno, anch e se quasi nessuno se n'è accorto. Ed è che il baricentro dell'informazione “altra” s'è spostato, con la Periferica e i Cordai, nei quartieri. In entrambi i casi, supportato e accompagnato da una serie di attività concrete di base, di intervento sociale, da un un circuito virtuoso, di mutuo rafforzamento, che può diventare modello dappertutto. Ecco, di questo vorremmo parlare quando si parla di Giuseppe Fava. Non servono a molto le commemorazioni, e neanche le presenze occasionali, di nostalgia (il gruppo “storico” dei Siciliani, salvo poche eccezioni, manca ormai da Catania da molti anni: e non è solo un'assenza fisica). No, qui c'è proprio da mettersi a lavorare professionalmente, e tutti insieme. L'esperienza dei Siciliani, a partire da Giuseppe Fava ma anche dopo, ha mostrato che con organizzazione e volontà si possono ottenere dei risultati. Io penso che è il momento di riprovare. Catania, fra le sue tante disgrazie, ha sempre avuto – almeno – una buona minoranza di giovani non banali. Questo potrebbe riessere un momento loro. 30 dicembre 2008 1984/2009 - NON È FINITA LA LOTTA DI GIUSEPPE FAVA LAVORI IN CORSO Si può fare un giornale nella periferia più disgraziata di Catania, dando finalmente una voce a chi non ha parlato mai? Si può fare un quasiquotidiano in rete, con una redazione tutta di studenti? E una radio libera, in rete? E nel quartiere cosiddetto "mafioso", quello che la città perbene considera perduto, può esserci uno spazio anchéesso libero, e un giornale? E che cosa ci vuole per impaginarlo? Programmi costosissimi e complicati, oppure esistono anche modi facili ed economici? O ancora la free-press, quella distribuita gratis ogni settimana: non è possibile a Catania, davvero? E un magazine di qualità, a colori, con firme di tutt'Italia: è vero che qui non si può proprio fare? Tanti anni dopo la morte di Giuseppe Fava, è davvero finita la storia dei Siciliani? Del giornalismo che Fava ci ha insegnato, insieme coi ragazzi che hanno creduto in lui? Davvero non ci sarà mai altro che bavaglio, nella città dove Giuseppe Fava ha inventato il giornalismo di domani? Catania, sembrerebbe, è una città senza Giuseppe Fava. C'è un giornale soltanto, e non è amico suo (nè della verità, nè dei cittadini). Anche il giornale "del continente" qui viene censurato: non solo "La Sicilia" tace su tante cose, ma anche "Repubblica" esce senza cronaca siciliana, per non dare fastidio. Eppure... Eppure, alle domande di sopra, qualcuno ha già iniziato a rispondere. "La Periferica" esce da più di un anno, e trova persino pubblicità fra i negozianti di Librino (non a caso ora stanno tentando di strangolarla: ma ormai è troppo tardi). "Step1", il giornale degli studenti in rete, è una palestra di giornalismo innovativa nel panorama italiano. A San Cristoforo c'è un giornale libero, "I Cordai", e un grande spazio di ritrovo, il "Gapannone". Un giornale oggi si può impaginare in modo svelto e facile, e senza una lira: l'ha dimostrato il gruppo di "UCuntu", e come loro si può fare dappertutto. C'è un settimanale gratuito, si chiama "Catania Possibile" e pubblica inchieste che non ci sono altrove. Un rivista di qualità, di prestigio nazionale? Si può fare anche quella, e l'ha dimostrato "Casablanca". E "Girodivite", e "Isola Possibile"? E l'elenco potrebbe continuare ancora. Vogliamo che tutte queste risposte comincino a interagire fra loro. Abbiamo lavorato moltissimo, in questi due anni. Adesso, cominceremo a coordinarci. Chi ha fatto cose buone venga e le insegni agli altri, ed impari da loro. Scambiamoci le esperienze, questa è la strada. Chi ha detto che non si può fare informazione a Catania? Noi l'abbiamo fatta, la facciamo ogni giorno, ognuno nel settore suo. Quando saremo tutti insieme, saremo più forti di qualsiasi bavaglio. Il 5 è solo l'inizio della strada: c'incontreremo ancora diverse volte, in questo mese. Vogliamo ricordarlo così, Giuseppe Fava. Senza grandi parole, credendo in quel che ha detto, facendo il suo mestiere. La Periferica, I Cordai, Step1, UCuntu, Casablanca, Catania Possibile, Isola Possibile, Girodivite, Itacanews, Argo, Liberainformazione 9 gennaio 2009 E COME OGNI CINQUE GENNAIO CIANCIO DICE: “FAVA NON ESISTE” Da venticinque anni, il cinque gennaio è la datasimbolo degli antimafiosi catanesi. Per gli altri, è il giorno in cui lanciare messaggi. Una volta i mafiosi dissero: “Claudio Fava? Uccideremo anche lui”. Adesso Ciancio dice: “Claudio Fava? Non esiste, lo taglio via” Ciancio non è uno sciocco, ha hobby intelligenti (ad esempio numismatica antica) ed è molto meno grezzo del personale che usa. D'altronde essere diventato il primo imprenditore in Sicilia, aver comprato l'intera classe dirigente catanese, aver preso senza scossoni il posto che a suo tempo fu dei famosi Quattro Cavalieri non è impresa da poco. Perciò sorprendono a volte la puerilità, l'autolesionismo e il sicuro effetto boomerang di alcune delle sue uscite. L'altra volta era stato l'editoriale affidato, sotto forma di lettera, a un esponente del clan Santapaola. Adesso una storia ancor più grottesca, e cioè la maldestra censura della figura di Claudio Fava, tagliata via da una foto in maniera plateale e aperta, con un ginocchio lasciato lì a mezzo. Catania, come Ciancio sa, non è l'Italia intera e queste cose, ogni volta, lo rendono ridicolo e odioso. Persino la prudentissima Federazione della Stampa, che per venticinque anni - in Sicilia - è rimasta neutrale di fronte a tutto, ha dato segni di vita. Un autogol dopo l'altro. Eppure l'uomo è un politico, sa fare diplomazia quando occorre. Ma di fronte a Claudio Fava, e a Claudio Fava il 5 gennaio, perde sempicemente le staffe. Almeno, questa è la prima impressione. Il cinque gennaio, che è una scadenza popolare e non dipendente da nessuno (furono gli studenti di Catania, e non un'autorità qualunque, a istituirla), negli ambienti mafiosi - nel Sistema - fa ancora paura. È il simbolo di una lotta che non s'è mai fermata. Di questa giornata Claudio Fava fa parte non solo come figlio di Giuseppe Fava e come militante storico dei Siciliani, ma anche come vittima designata. È il 5 gennaio di vent'anni fa che il clan Santapaola voleva ucciderlo, e proprio davanti alla lapide, come un esempio. L'assassinio fallì per caso. Ma il messaggio era chiaro. È chiaro il messaggio anche oggi, e sempre il 5 gennaio: “Io, Claudio Fava lo cancello. Il tempo passa, tante cose sono cambiate. Ma di questo potete essere sicuri, che per me Claudio Fava, i Siciliani, il movimento antimafioso, sono e resteranno dei nemici”. Questo è il messaggio che ha mandato Mario Ciancio, e che manda ogni cinque gennaio: con queste censure esplicite, questi tagli di foto. Ma a chi lo manda? E perché lo manda? Lo manda spontaneamente, o perché costretto? Dopo quelli - visibili - degli anni '80 e '90, quali sono ora i rapporti fra Mario Ciancio primo imprenditore catanese e gli eredi dei gruppi che hanno dominato questa città? Questa curiosità per ora è nostra e la firmiamo - assumendocene la responsabilità – soltanto noi. Ma, storicamente, molte nostre curiosità e interrogativi hanno finito per diventare interrogativi di molti, e infine delle istituzioni preposte. Vedremo quanto tempo ci vorrà stavolta. *** Quanto al resto, del cinque gennaio catanese c'è ben poco da dire. È nata un'altra leva di giovani, che noi abbiamo visto crescere da due anni in qua e altri riescono a vedere solo ora. Tranquillamente e con forza, senza cerimonie inutili e senza grandi parole, essi attendono adesso all'obbiettivo fondamentale di Giuseppe Fava, di cui sono i continuatori e gli eredi: costruire l'informazione indipendente a Catania e con questo strumento liberare la città. Non sarà un lavoro facile, e lo sanno, ma è un lavoro possibile. A condizione di essere uniti, di non nutrire povere ambizioni individuali ma solo una altissima e collettiva, e di non mollare mai. Li aspettavamo, eravamo certi che sarebbero arrivati e non abbiamo alcun dubbio su di loro. Non c'è altro da dire. 7 febbraio 2009 UN RAGAZZO SICILIANO Nato ad Agrigento il 18 /10/1986, residente a Campobello di Licata (AG), cittadino libero. Ho voluto specificare il mio “status”, per combattere il servilismo che ogni giorno di più avvolge il nostro Paese. Ho scelto di rimanere in Sicilia, di non andare via anche se vivere qui è duro, durissimo...". Così si presentava sul suo blog Giuseppe Gatì, morto mentre lavorava in campagna aiutando suo padre. Un siciliano d'altri tempi: fiero, lavoratore, affezionato alla famiglia, coraggioso e buono. Sulla stampa perbene ha avuto quattro misere righe, da morto sul lavoro. Qualcuno, di sfuggita, ha ricordato che aveva contestato Sgarbi in Sicilia: ma questo certamente non basta a farne un personaggio mediatico, ci mancherebbe. Ha lavorato, ha studiato, ha fatto la sua breve utile vita: lontano dai palazzi, completamente estraneo al mondo artificiale e spregevole dei Vip. Un pezzo di questo mondo, con la consueta arroganza, a un certo punto è piombato in Sicilia, con le fattezze di Sgarbi, chissà perché. I "cappeddi", i notabili, i nobili culo-a-ponte di Agrigento e Salemi si sono affrettati a servirlo, a riverirlo abiettamente, a strisciargli ai piedi. Giuseppe, ragazzo siciliano, invece no: gli si è piantato davanti e "Viva l'antimafia! - gli ha urlato in faccia - Viva Caselli!". I servi guardaspalle siciliani, fra le urla degli altri servi e gli applausi del pubblico servo, l'hanno afferrato e portato via. Ma là, per un istante, s'è udita la voce vera della Sicilia, ed era una voce giovane, senza paura. Sbava, Sgarbi, strisciate, servi, ringhiate la vostra rabbia quanto volete: la voce vi azzera tutti, è più forte di voi. Viva Caselli, viva la nostra antimafia, viva sempre Giuseppe ragazzo siciliano. 27 febbraio 2009 “VOGLIO FARE IL GIORNALISTA". BELLO. PERÒ... Sandro fa il liceo e “da grande” vuol fare il giornalista. Però quello che sente in giro non lo rassicura molto: sempre più precariato e sempre meno certezze, in questo lavoro.Come si fa? Fare il giornalistaburocrate al Ministero dell'Informazione, o provare a cercare una strada nuova? Eh, alla fine, decidi tu... Ho 15 anni, frequento il primo anno di liceo classico e ho un sogno: “da grande” vorrei fare il giornalista. Il Barbiere [www.ilbarbieredellasera. com, un sito di giornalisti, ndr] in questo mi aiuta molto, perché mi permette di leggere opinioni di “gente del mestiere” e di avvicinarmi in qualche modo a questo “mondo”. Però ogni tanto vado un po' in depressione, pensando al mio futuro, che è il vostro presente. Qui sul Barbiere è sempre attivo il dibattito sui posti di lavoro. Tutti (o quasi) ce l’hanno un po' su con gli stagisti e i praticanti, che però sono anche loro sfruttati in quanto fanno mansioni che non gli competono. Ma non è colpa loro. Qualcuno propone di chiudere l’accesso ai registri di praticantato per due anni, perché il mercato è saturo. Poi c’è Sandra che ce l’ha su con le Scuole di Giornalismo, e vorrebbe chiuderle, sempre per il problema dei posti di lavoro. Luigi, invece propone di “dissuadere l’aspirante giornalista”. E poi ci sono le sostituzioni estive. Nessuno ne trova, perché gli editori “per questioni di budget” usano gli stagisti. Terronzio è andato in tutte le redazioni Rai a cercare una sostituzione estiva, ma gli è stato chiesto se conosceva qualcuno. Chen il Cinese, disoccupato da mesi, ha chiesto di fare lo scaffalista notturno in un grande magazzino. La situazione è così catastrofica? Io vorrei fare il giornalista, ma il mondo del giornalismo è ridotto poi così male? Devo aspettarmi di essere disoccupato a vita, di fare lo stagista e prendere due lire e poi non trovare più lavoro, di fare il cococo sottopagato o di diventare un “redattore da 5 euri al pezzo”? È sempre così? Io non lo so, mi piacerebbe che qualcuno mi dicesse se la situazione è veramente così tragica. Io so solo che, se nei prossimi anni vorrò ancora fare il giornalista, non mi lascerò spaventare da tutta questa serie di cose. Io ci proverò, ce la metterò tutta per darmi da fare e trovare lavoro, e se proprio “il giornalismo" non mi vorrà, beh, allora forse cambierò strada. Insomma, qualcosa farò. Però ci proverò. Sandro *** Bello. Però attento, il giornalista ormai non si fa più nei giornali e nelle Tv ma fuori. Devi diventare editore di te stesso, farti il tuo "giornale". Cosa sarà un "giornale" fra dieci anni (quando tu ne avrai 25)? Non lo so. Un blog con un aspetto web e uno su carta? Una serie di clip? Una specie di... Boh. Non lo so, ormai nessuno sa più cosa succederà nel nostro settore fra due anni. Comunque qualcosa di buono, perché la tecnologia è "democratica" e la gente può parlare sempre di più. Il tuo lavoro nei prossimi tre anni consiste dunque nel prepararti culturalmente e come mentalità a cavalcare qualunque mutamento. Comincia subito. Dovrai informare ed essere onesto coi lettori. Ma come farlo, devi prepararti a impararlo daccapo ogni due-tre anni. Questo sarà il tuo lavoro. Dovrai farlo da solo, come imprenditore di te stesso o con amici nelle tue stesse condizioni, perché le grandi testate ormai servono a creare consenso e non c'entrano affatto più col giornalismo. Evita i "corsi di giornalismo", dentro e fuori l'università, perché sono truffe. Evita le grandi testate, per il motivo che ti ho detto. Impara qualcosa dai giornalisti, ma sappi che i giornalisti con meno di quarant'anni in Italia ormai non sono giornalisti, ma un'altra cosa. Non per ragioni etiche, ma perché ogni centoduecento anni il giornalismo cambia completamente e la versione vecchia di solito si trasforma in propaganda del re. Insomma, fà il giornalista ma non l'impiegato. È bello. Può darsi che quando sarai grande tu ci si potrà anche campare. Segui fin d'ora blog (impara a scegliere accuratamente i blog; non farne tu ancora, per non essere banale) in almeno due-tre lingue. Leggi: "Uno yankee alla corte di re Artù"; "I Siciliani"; "La fattoria degli Animali"; "Siciliani/ Giovani"; qualunque cosa di Kapucinskij e quasi qualunque di Hemingway; Erodoto; "Avvenimenti" 1989-93; "L'Alba"; "La Catena di san Libero". Per leggerli devi trovarli, e questa è già una prima ricerca che puoi fare. Buon lavoro, fratellino. Riccardo 8 marzo 2009 BANALITÀ DEL MALE E CORAGGIO DI ESSERE CITTADINI Che cosa sta succedendo in Italia? La “politica”, lo sappiamo tutti, è andata a puttane. Ma solo di “politica” si tratta? E la “gente”? E perché in questo paese le donne sono tornate cittadini minori? Cosa vuol dire questo? Di che cosa è sintomo? Che “politica” (vera) ci può salvare? Se si avesse il coraggio, che non c'è, di chiedersi cosa veramente accade nel nostro Paese, non sarebbe difficile trovare le risposte vere. Rumeni violentano italiane. Italiani violentano rumene. Italiani violentano italiane, e rumeni rumene. Il popolo dei Bandar-Log ne fa dibattito, accusa gli altri, invoca nuove leggi. Tutti gridano forte, con la voce roca: tutto ciò che se ne ode dall'esterno è un confuso ringhiare, una cacofonia che difficilmente s'associerebbe alle voci di un qualunque aggregato umano. Le domande reali sono queste: - È vero o non è vero che, dalla provincia di Como a quella di Palermo, si è avuta una recrudescenza di violenze carnali anche fra adolescenti, a volte addirittura tredicenni? - È vero o non è vero che molti casi di violenza sono stati portati a termine grazie all'indifferenza dei passanti (“Nessuna macchina s'è fermata”, “L'hanno strappata via dall'autobus”, “Nessuno ha telefonato”)? - È vero o non è vero che tutta la pubblicità e buona parte della televisione presentano ormai le ragazze esclusivamente come merce scopabile e basta? Di recente c'è stata una campagna - legalissima - della Relish, con manifesti in tutte le principali città, che inneggiava direttamente allo stupro; l'anno scorso ce n'era stata una analoga di Dolce & Gabbana). C'è qualcosa di patologico, nella nostra società ormai post-capitalistica. Gli antichi romani sono potuti andare avanti per secoli con la spettacolarizzazione dell'omicidio (i ludi gladiatorii erano il principale entertainment di quella civiltà): c'è voluto un capovolgimento totale dell'etica per accorgersi di quanto questo spettacolo fosse patologia. E gli atzechi, e i nazisti, e le culture schiavistiche del Vecchio Sud: tutte società moderne, rispetto ai loro tempi, tutte senza eccezioni basate sul consenso. E tutte catastroficamente finite male, quando l'accumularsi degli elementi patogeni (e “normali”) è finalmente ed “improvvisamente” esploso. Non sono stati i barbari a portarci dal di fuori la violenza, nemmeno a noi. Essa cresce tranquillamente ogni giorno nelle nostre scuole, nelle nostre ovvietà, nella nostra cultura. Le donne,adesso, non sono affatto pari agli uomini, nel nostro mondo. Gli uomini, una forte minoranza degli uomini, confonde ancora moltissimo fra potere e sesso. Le ronde non sono che la rappresentazione ritualistica (interessante per l'antropologo, e per ogni altro verso infantile) di ciò a cui da tempo abbiamo rinunciato: il coraggio di difendere le donne quotidianamente e concretamente (la piccola offesa sull'autobus, il “complimento" insultante, la frase greve) che un tempo suscitavano la reazione degli uomini - da persone normalmente perbene, non certo da “rondisti” - e ora passano via nel silenzio e nel voltare gli occhi dall'altra parte. Questa, anche se non sembrerebbe, è la reale politica. Mentre la “politica” che si considera tale, ogni giorno che passa, è sempre più rumore di fondo. *** Oggi è passato un anno, se ben ricordo, da quando non esce più “Casablanca”. Un piccolo ma indispensabile giornale di società e di antimafia con al centro di tutto (ma guarda un po') il protagonismo civile delle donne: a partire dalla direttrice, Graziella Proto, una donna con venticinque anni di lotta antimafia alle spalle e capace ancora di impegnarsi fino all'ultimo respiro e fino all'ultimo soldo per portarloavanti. “Casablanca” è in silenzio nell'indifferenza di Veltroni, di Bertinotti, di Vendola, di Di Pietro. Per me è uno sforzo difficile, per questo preciso motivo, prenderli sul serio ancora. E anche questo è otto marzo. 18 aprile 2009 “LAVORI IN CORSO": OPERATIVA L'ASSOCIAZIONE. E ORA, ALLA FASE 2 Lamentarsi che Ciancio è Ciancio può essere gratificante, ma non è che poi serva a molto. Meglio provare a costruire qualcosa di alternativo a lui – ma con quali forze? Tutti insieme.È su questa base che un gruppo di giovani catanesi lavora da alcuni mesi (o da molti anni), raccogliendo a poco a poco esperienze e forze per fare, nei prossimi mesi, un salto di qualità. La prima tappa è terminata ora, con la costituzione formale di “Lavori in Corso” Dopo Report di Sigfrido Ranucci (2009) o dopo Il Caso Catania di Joe Marrazzo (1983) Catania improvvisamente si sveglia, scopre che c'è la mafia e che ci sono loschi affari (Catania “di sinistra”, naturalmente: alla Catania di destra non gliene importa un bel niente). L'indignazione dura per diverse settimane, si fanno dibattiti, si discute. I progressisti esprimono la più sentita solidarietà ai giornalisti scesi in Sicilia a fare - finalmente! - delle inchieste. Rettori e presidi osservano che sì, c'è qualcosa di vero ma non bisogna esagerare. Risorge il patriottismo catanese: i principali intellettuali s'indignano per le calunnie contro questa città che avrà tanti difetti ma ha il sole, il mare, l'Etna, il calore umano. Da Barcellona (filosofo ultramarxista, un po' a sinistra di Mao) a Buttafuoco (fascista “uomo-di-mondo”, elegantissimo, fra il repubblichino e il gagà) si fiondano le articolesse in difesa di Catania calunniata e, già che ci siamo, anche di Ciancio. E i giovani? Restano lì perplessi, percepiscono vagamente che forse Catania non è una città come le altre e che probabilmente bisognerebbe fare qualcosa. Vanno ai dibattiti e scrivono su qualche blog, fiduciosamente. I Siciliani, nel frattempo, non trovano una lira di pubblicità (nell'83) e tirano avanti per come possono, a forza di volontà. Pubblicità non ce n'è neppure per Casablanca (nel 2009), e quindi diandare in edicola non se ne parla. Le inchieste si continuano a fare, magari su web: ma non sembra che la città sia particolarmente interessata ad esse, tranne una minoranza “illuminista" fra i 15 e i 25enni. *** Ecco questa è l'informazione a Catania, senza farsi illusioni, trent'anni dopo le prime inchieste (le nostre e le “forestiere”) degli anni Ottanta. Non è una situazione cattiva - una minoranza civile c'è - a patto di guardarla in faccia e di non cadere nella trappola degli entusiasmi. Infatti gli entusiasmi non servono. Che cosa serve allora? Una cosa semplicissima: il lavoro. Lavoro costante, serio, senza illusioni inutili ma senza pessimismi. Perché si può arrivare alla fine, se si lavora - seriamente e insieme - abbastanza a lungo. Sulla parola “insieme” a Catania si potrebbe già scrivere un trattato. La sintesi sarebbe che lavorare insieme è meglio che lavorare ciascuno per conto suo. Un giorno anche questa scoperta arriverà fin quaggiù, e sarà la precondizione di tutto il resto. *** Va bene. Pensando più o meno a queste cose, il 15 abbiamo costituito formalmente l'Associazione “Lavori in Corso”: s'era cominciato a parlarne, ricorderete, nel giorno di Pippo Fava il 5 gennaio. Da allora siamo avanti tranquillamente, con i seminari e gli incontri ogni settimana, e con la produzione di Ucuntu, che è questa faccenda qui che vedete. “Lavori in Corso" sarà presentato l'otto e nove maggio, insieme a Libera Informazione, con Morrione. I “leader” (ma da noi sono semplicemente quelli che portano lo zaino più pesante) sono Luca Salici, Max Nicosia, Sonia Giardina e Claudia Campese. Lavorano a Ucuntu, Periferica, Cordai e Step1 e hanno poco più di cent'anni fra tutti quanti. Altre scadenze importanti: il primo maggio nelle terre confiscate ai mafiosi (un percorso che qui parte molti anni dopo che a Palermo, ma finalmente parte); il sedici alla manifestazione di Addiopizzo (finora è una manifestazione “contro la mafia” e “di Addiopizzo”: noi speriamo di farla diventare una manifestazione contro tutti i poteri mafiosi, informazione compresa, e di tutti i movimenti antimafiosi, tutti insieme). Che altro dire? Buon lavoro. Lavoro serio e unità, non ci vuol altro. E mai fermarsi, e mai accettare compromessi. 4 maggio 2009 “ORDINE, GIORNALISTI!". IL CASO MANIACI Bisogna mettere ordine nel giornalismo in Sicilia: a cominciare da gente come Pino Maniaci, che si permette di fare inchieste brillantissime, di farsi minacciare e di aggredire dai mafiosi senza neanche avere uno straccio di tesserino “professionale” in tasca. E quelli che si sono accordati coi mafiosi per pubblicargli i messaggi o intimidire i cronisti irrispettosi? Per loro non c'è Ordine? O l'ordine magari c'è, ma lo dà chi comanda? “Il direttore dell'emittente televisiva Telejato di Partinico (Palermo), Pino Maniaci, è stato rinviato a giudizio per esercizio abusivo della professione di giornalista. Il processo è stato fissato all'otto maggio prossimo. Secondo l'accusa, Maniaci, "con più condotte, poste in essere n esecuzione del medesimo disegno criminoso", avrebbe esercitato abusivamente l'attività di giornalista in assenza della speciale abilitazione dello Stato, conducendo ogni giorno il tg di Telejato...”. La tv più volte minacciata, querelata e contestata da boss e notabili della zona di Partinico. *** Otto giornalisti sono stati ammazzati in Sicilia per aver fatto onestamente il loro mestiere. Tre (Mauro De Mauro, Mario Francese, Giuseppe Fava) erano giornalisti professionisti, tre (Cosimo Cristina, Giuseppe Spampinato, Beppe Alfano) erano semplici corrispondenti locali, e due (Mauro Rostagno e Peppino Impastato) non erano in alcun modo iscritti all'Ordine, pur lavorando a una precisa attività d'informazione. Solo tre su otto, dunque, dall'Ordine erano riconosciuti giornalisti in senso pieno. Ma tutti si caratterizzavano per le inchieste, ben condotte, sui poteri mafiosi: che viceversa trovavano pochissimo spazio sull'informazione “ufficiale”. Questa si trovava, e si trova tuttora, in regime di monopolio (Ardizzone a Palermo, Ciancio nel rimanente): un monopolio talmente forte da riuscire a impedire la pluralità dell'informazione anche nei confronti di testate nazionali (Repubblica a Catania è costretta a uscire senza cronaca). L'informazione sui temi potenzialmente “pericolosi” - i poteri mafiosi anzitutto - restava quindi affidata o alle precarie testate d'opposizione (L'Ora, I Siciliani) o a piccoli gruppi locali (Radio Aut, ad esempio) o a singoli giornalisti isolati. Questo contesto, dagli anni '50 ad oggi, non è cambiato affatto. E infatti i giornalisti colpiti dalla mafia si ripartiscono quasi alla pari nei vari decenni. In questa situazione, assolutamente eccezionale in Europa, non sembra che l'Ordine dei giornalisti locale (e meno ancora la locale Associazione della stampa) si sia in qualche modo distinto per eccesso d'impegno. Nessuna delle otto vittime è stata in alcuna maniera sostenuta – e alcune erano in manifesto e immediato pericolo di vita – prima delle aggressioni, che dunque colpivano individui isolati. Quanto al dopo, non sono mai mancate le commemorazioni, le cerimonie, le commosse eulogie. Ma solo queste. *** L'Ordine siciliano non è intervenuto neanche in presenza di episodi gravissimi sul piano dell'etica professionale. La linea del quotidiano La Sicilia, ad esempio, fu direttamente influita da esponenti importanti di Cosa Nostra in almeno due precise occasioni, nel '93 (intimidazione di un cronista da parte di Giuseppe Ercolano) e nel 2008 (pubblicazione di messaggi di Vincenzo Santapaola). In nessuno dei due casi l'Ordine ritenne di adottare una qualsivoglia sanzione a carico dei giornalisti coinvolti, specialmente del direttore-editore Mario Ciancio. Non sarebbe stato senza costi, del resto, visto che per Ciancio lavora buona parte dei più cospicui colleghi siciliani, dentro e fuori Ordine e Associazione. Meno ancora s'intervenne su violazioni latu sensu “politiche”, come la vera e propria campagna del Giornale di Sicilia di Palero contro il pool antimafia, o il rifiuto a Catania di pubblicar necrologi di vittime della mafia, o le intimidazioni – su La Sicilia - contro i “pentiti” di mafia che minacciavano di tirar dentro imprenditori. improvvisamente l'Ordine dei giornalisti di Sicilia si scopra una vocazione ai regolamenti, e che debba scoprirla proprio nei confronti di Maniaci. Letta da fuori Sicilia, parrebbe un'iniziativa autolesionistica e perdente. E indubbiamente lo è, o perlomeno non è che porti qualche vantaggio al vecchio Circolo dei Civili che bene o male rappresenta il giornalismo siciliano. E allora perché si sono messi in questo pasticcio? Voi ed io ci spiegheremmo facilmente la cosa con le caratteristiche fisiologiche - età non verde, orecchio duro, sonnolenza - di questi rispettabili colleghi. Ma un osservatore più smaliziato, uno come Andreotti ad esempio (“a pensar male si fa peccato però a volte ci s'azzecca”), non mancherebbe di far notare che il trambusto su Maniaci copre molto opportunamente un'altra faccenda antipatica che s'annunciava, anch'essa – normalmente - di competenza dell'Ordine: i guai di Ciancio con Report, dopo quelli col Santapaola, dopo quelli con Repubblica E che c'entra Ciancio che è di Catania con l'Ordine che sta a Palermo?, direte voi. Io non saprei che dirvi. Ma il divo Giulio, che ne sa più di me, vi guarderebbe ironico e ghignerebbe: Eh...”. Non c'è molto altro da dire, su questa storia. Mi spiace per i colleghi che ci son rimasti coinvolti (non Maniaci, naturalmente: quelli che hanno votato per silenziarlo) perché per la maggior parte sono gente perbene, senza velleità eroiche ma anche senza voglia di far del male; non certamente mafiosi né complici della mafia e tuttavia capacissimi in questo caso - come don Abbondio con l'Innominato - di favorirla così per pigrizia, senza neanche rendersene conto. “E non avendo il tesserino, lo scaricaste? Così, davanti ai suoi nemici mafiosi?”. “Ma forse non mi sono spiegato abbastanza, monsignore... m'hanno intimato di non far quel matrimonio”. “E quando avete scelto questo mestiere, non sapevate che esso v'imponeva di sapere andare oltre le carte, di scegliere che la verità va difesa ad ogni costo?”. “Torno a dire, monsignore... avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare”. Va bene, finiamola qui. È una storia buffa, tutto sommato. Maniaci rischia la pelle, la rischia (ora che l'hanno isolato) anche un po' di più. Ma noi tutti speriamo che lui abbia fortuna. Speriamo che questa storia resti così. Una buffa storia divertente, siciliana. *** SCHEDA/ TUTTO IN ORDINE La Regione Siciliana possiede una struttura d'informazione superiore a quella di tutte le altre Regioni messe insieme: ben ventitré giornalisti, reclutati senza concorso con la qualifica di redattore capo (3.800 euro al mese). Venti di queste ventitré assunzioni sono state messe sotto inchiesta dalla Corte dei Conti, che addebita a Cuffaro e Lombardo (“assunzioni ingiustificate e il mantenimento in servizio senza motivo”) un danno erariale di quattro milioni di euri. La Corte si chiede fra l'altro chi mai possano capeggiare se sono tutti redattori capo. Fino al 2004 la Regione aveva solo quattro giornalisti per le varie mansioni. Nel 2006 ne vennero assunti altri quindici (fra cui tutti i portaborse degli assessori regionali). Altri ancora vennero assunti nel 2007. Attualmente la Regione Sicilia ha alle proprie dirette dipendenze un po' meno giornalisti del Corriere della Sera e un po' più di Telejato. Ma rutti rigorosamente 13 maggio 2009 SE NON CI FOSSE GOEBBELS QUA SCOPPIEREBBE UNA RIVOLUZIONE... Nessuno se ne vuol accorgere, ma nel giro di un anno se n'è già andato un quarto della produzione industriale. La crisi tocca già un italiano su due. Ma allora come mai niente barricate? Primo, perché sono obsolete. E secondo, perché il potere oggi sa come rispondere: distogliere l'attenzione mediante capri espiatori. Altrimenti a che servirebbero stampa e tv? Secondo l'Istat “la produzione industriale nel primo trimestre 2009 ha perso il 9,8% rispetto al trimestre precedente” ed “è calata del 23 per cento rispetto al marzo 2008”. In Italia, cioè, nel giro di un anno abbiamo prodotto un quarto di cose in meno. Meno prodotti, meno fabbriche, meno soldi che girano, meno tutto. Questo è quel che succede fuori dal mondo ovattato della tv. Un italiano su due sta già subendo personalmente la crisi, e la tendenza è a peggiorare. La soglia di povertà sfiora sempre più gente (in Sicilia almeno un terzo) e se fossimo nell'Ottocento le strade sarebbero già chiuse dalle barricate. E come mai non ci sono? Primo, perché tecnicamente obsolete:è molto più semplice, in una società post-novecento, fare le barricate politiche e non reali (in America, per esempio, eleggendo Obama). E secondo perché, come già fecero i nazisti con gli ebrei, i politici hanno provveduto per tempo a trovare un buon capro espiatorio su cui scaricare tutte le paure. Linciare uno zingaro (cosa che ormai accade abbastanza spesso) è più facile che prendersela coi manager. Picchiare a freddo una marocchina rimuove un attimo l'impotenza della disoccupazione. Annegare degli emigranti, o riconsegnarli al loro dittatore, dà un senso di potenza collettivo che a un popolo non più bonario né giovane fa più o meno l'effetto di un viagra. La responsabilità della stampa “mainstream" (per dirla in americano: noi paesanamente diremmo “padronale”) in tutto questo è tremenda, ancora più terribile che nell'edulcorare i politici e nel nascondere i fatti. La comunicazione, con poche eccezioni, oggi è di nuovo Goebbels. Se non si vede subito è perché la misuriamo col Goebbels di allora e non con quel che Goebbels sarebbe con le tecnologie di oggi. Ma la funzione è identica, e identico tende a esserne il costo in vite umane. Il mestiere di giornalista, che prima richiedeva serietà e coraggio, adesso – per chi non tradisce – richiede una tensione quasi religiosa. *** Di buoni giornalisti ce ne sono tuttavia ancora, e molti altri ne crescono dopo di loro. Dei giovani, penso a Claudia e agli altri ragazzi di Catania che, fregandosene di tutti quanti, hanno salvato due poveri zingari dal linciaggio. Dei vecchi, penso a gente come Pino di Telejato – ne abbiamo parlato l'altra volta – che a sessant'anni ancora riesce non solo a rischiare la pelle ma anche a sorriderci su ironicamente. Maniaci in particolare, a quanto pare, se l'è cavata ancora una volta. I giornalisti siciliani, o i loro legali tutori, che volevano fargli scontare la vita di collega libero, hanno dovuto (almeno per ora) far marcia indietro e contentarsi di guardarlo storto da lontano. La cosa bellissima (pure le cose belle accadono, nonostante tutto) è che stavolta a difendere Maniaci non siamo stati i soliti quattro disperati, ma il Sindacato e l'Ordine in persona, quelli veri. Si sono schierati, per una volta, senza se e senza ma con Maniaci. Hanno difeso il giornalista minacciato e onesto, senza mezze misure. Hanno detto quel che di loro pensavano ai colleghi siciliani (certo con diplomazia, ma non poi tanta) e li hanno obbligati a comportarsi, volenti o no, da persone per bene. Mi pare quindi giusto di segnalare dei nomi: Enzo Iacopino dell'Ordine, Roberto Natale della Federazione e in aggiunta, unico fra i “politici”, Beppe Giulietti. È la prima volta, in quasi trent'anni di mestiere, che faccio nomi della corporazione per lodare e non per rimproverare. Sarà una debolezza senile, ma ne sono contento. (E altri giornalisti, e giornali? No, nomi di altri colleghi non ne posso fare. Sul caso Maniaci tutta la stampa italiana, compresa quella progressista, ha osservato un silenzio bronzeo, senza sbavature. “Giornalista in Sicilia? hanno detto il Corriere e Repubblica – Nenti vitti. Nenti sacciu. Nenti vogghiu sapiri”). 13 maggio 2009 “C'È CHI PUÒ E CHI NON PUÒ. NOI PUÒ” Rispettosi del fondamentale impegno istituzionale e civile dell'Associazione della Stampa siciliana, sempre in prima linea nella lotta contro la mafia e nella difesa dei giornalisti minacciati, rispettosamente e doverosamente pubblichiamo il recente comunicato della medesima sulla drammatica storia di venti giornalisti siciliani “Sebbene si tratti di un atto dovuto, suscita comunque sconcerto la decisione della Procura di Palermo di iscrivere nel registro degli indagati i venti giornalisti dell’ufficio stampa della Presidenza della Regione siciliana". L’ipotesi di reato (concorso in abuso in atti di ufficio) lascia intendere che sulla vicenda delle nomine dei giornalisti aleggi un che di misterioso e inquietante, così come sulla qualifica di redattore capo prevista dal contratto di lavoro giornalistico. In realtà l’ufficio stampa e documentazione presso la Presidenza della Regione venne istituito oltre trenta anni addietro con un’apposita legge regionale, poi seguita da un accordo sindacale recepito dal governo regionale, che prevedeva per i giornalisti proprio il riconoscimento del trattamento giuridico ed economico di redattore capo. Per altro in Sicilia, nel pieno rispetto della legge 150, il contratto nazionale di lavoro e le relative qualifiche da applicare ai giornalisti che operano negli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni sono stati recepiti da un accordo sindacale. L’intesa, firmata da Fnsi e Associazione della Stampa con l’assessorato alla Presidenza, e ratificata da un decreto assessoriale pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, fissando i profili professionali e il relativo trattamento economico dei giornalisti, di fatto ha messo ordine in ragione delle osservazione della Corte Costituzionale. La Suprema Corte aveva cassato quelli parti delle leggi regionali riguardanti proprio le qualifiche contrattuali dei giornalisti degli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni sottoposte al controllo della Regione, stabilendo che le stesse qualifiche non possono essere attribuite per legge ma solo per contrattazione tra le parti. Contrattazione che è infatti avvenuta creando un collegamento organico tra le prime norme che riguardano la Regione e il sistema contrattuale che riguarda il territorio”. *** SCHEDA/ DI CHE SI TRATTA Palermo. L'ex presidente Cuffaro, il suo successore Lombardo e venti giornalisti dell'ufficio stampa della presidenza assunti con contratto di redattori capo nel 2004 per chiamata diretta sono stati iscritti nel registro degli indagati (per concorso in abuso d'ufficio) dalla Procura. Quattro sono già stati sentiti dal Pm Petrigni. Lo staff dei comunicatori della presidenza, composto da 4 giornalisti, fu portato a 8 nel 2004 e a 24 nel 2006, poco prima delle elezioni. Fra gli assunti, quasi tutti i portavoce degli assessori regionali uscenti (Giulio Ambrosetti, Laura Compagnino, Fabio De Pasquale, Maria Pia Ferlazzo, Enzo Fricano, Fabio Geraci, Stanislao Lauricina, Luisa Micciché, Wlady Pantaleone, Stefania Sgarlata e Manlio Viola) e altri giornalisti vicini a esponenti del centrodestra: Vito Orlando, portavoce di Guido Lo Porto, Ludovico Licciardello, addetto stampa di Salvo Fleres, Luigi Sarullo, figlio di un consulente di Schifani e Ivana Di Nuovo, figlia dell ´ex responsabile stampa Udc. Nell' ottobre 2007 entrarono anche Guido Monastrae Francesco Inguanti, un consulente di Cuffaro pubblicista da pochi mesi. 27 maggio 2009 E DOPO LOMBARDO? Rissa fra i padroni (politici) della Sicilia: Lombardo, dopo Bossi e dopo Starace, va cercando altri alleati. Non a sinistra, speriamo, e non fra le persone perbene. E allora? C'è aria d'inciucio – non per la prima volta – ai piani alti del centrosinistra: i vari Cracolici e Finocchiaro rilasciano dichiarazioni di disponibilità a “dialogare”. Sarebbe una catastrofe per la Sicilia, come tutti gli altri inciuci precedenti, dall'operazione Milazzo ai vari patti con la Dc di Salvo Lima. Invece sarebbe bello se – considerando i siciliani dei cittadini, almeno stavolta – si tornasse a votare. E se la sinistra avesse il buon senso di andare alle elezioni tutti uniti, con una sola lista, come tre anni fa. E se questa lista fosse non solo la lista della sinistra (anche), ma soprattutto quella dell'antimafia. E se il candidato presidente fosse uno come la Borsellino di allora (lei stessa, Fava, Orlando, Lumia... uno qualunque di questi, senza primedonne, magari tirando a sorte) e in giunta tutti gli esponenti dell'antimafia, tutti insieme: uno ai Lavori pubblici, uno ai Giovani, uno alla Cultura, uno alla trasparenza pubblica, uno ai Beni regionali, uno al Lavoro... Una giunta rivoluzionaria, non solo “politica”, ma di fondazione. Sull'unico terreno che veramente divide i siciliani, l'unico concreto e serio qui e ora. I padroni – mafiosi – della Sicilia da un lato, e dall'altro Garibaldi e Falcone, senza mezze misure. Molti siciliani risponderebbero, come dicono i risultati di tre anni fa. E forse... Sì, ma stiamo sognando. Figurarsi. Si rischierebbe di vincere, o di andarci vicini. E a questo, nel centrosinistra di oggi, oramai non ci crede nessuno. 27 maggio 2009 MORIRE D'INFORMAZIONE O PROVARE A FARLA NOI Continua il percorso delle testate libere catanesi per costruire insieme un giornale che veramente racconti la città. È stata messa in funzione l'Associazione Lavori in corso, è stata completata la prima inchiesta (vedi pagina 8). Ma perché l'informazione, qui e ora, è così importante? Pare che Mauro Rostagno sia stato ammazzato dai mafiosi. Dopo ventun anni è ufficiale, sembra che anche Peppino Impastato sia stato ucciso da loro e non (come dicevano Corriere, Repubblica, Giornale di Sicilia e televisione) da una bomba mentre faceva un attentato. Bene. La verità prima o poi viene a galla, qua in Sicilia. Magari - come nel caso di Peppino - dopo dieci anni. O come per Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia e non - come dicevano Toni Zermo, Tino Vittorio e gli altri pezzi grossi catanesi - per qualche storia di donne. E Borsellino, e Falcone? Professionisti dell'antimafia, secondo i giornali isolani ma anche secondo il nobile Corriere. E Francese, e De Mauro, e Alfano, e quelli di Portella? La mafia, secondo i giornalisti siciliani, non ha mai ucciso quasi nessuno. Qualcuno è morto sì, ma perché irrispettoso o caustico o, peggio di tutto, comunista. In quasi tutti i casi la verità vien fuori grazie a pochissime persone (Umberto Santino per Impastato, I Siciliani per Fava, ecc.), contro la stampa “perbene” e nell'indifferenza della maggior parte dei siciliani. L'omertà della stampa rincretinisce sempre più i lettori, che essendo rincretiniti vogliono una stampa sempre più omertosa. Questo circolo vizioso, che una volta era tipicamente siciliano, adesso è felicemente nazionale, e produce i governi. La rozza Sicilia, riducendola al proprio livello, s'è infine così vendicata della civile Lombardia. Sicilia capta probum victorem smerdavit. *** La questione dell'informazione (disinformazione scientifica, propaganda) qui e ora è la più importante di tutte, senza paragone. È lei che fa Cosa Nostra e Berlusconi. È lei ha creato i Bossi e i Ciancimino (ma qualcuno sa più chi era fra i politici Ciancimino? E qualcuno nota più cosa veramente dice Bossi?), lei che accoltella o affoga in mare gli emigranti, lei che un tempo sparava ai sindacalisti. I politici vengono dopo, si limitano a raccogliere i frutti di ciò che l'”informazione” ha seminato. Non è una situazione riformabile dall'interno. L'informazione ufficiale nel suo complesso, tecnologie o non tecnologie, può forse peggiorare (non ha ancora proposto, ad esempio, la sterilizzazione degli zingari o il lavoro forzato nei centri-lager) ma non può migliorare assolutamente, salvo che in individui singoli e pronti a finir male. Perciò siamo tanto fanatici dei nostri pochi giovani e della nostra poca e povera libera informazione. Son pochi, ma esistono. Potrebbero attraversare il ventennio – 1994-2014: vent'anni – come fu attraversato il primo. Debbono rafforzarsi, debbono collegarsi, debbono - Gobetti - cercare lo scontro senza illusioni, non l'ottimismo. *** Le cose, qui in Italia, vanno come in fondo sono sempre andate. C'è piazza Venezia piena, c'è il duce, c'è la difesa della razza, ora c'è anche Claretta. Che buon popolo buffo saremmo stati, se in mezzo ai gerarchi panzoni, ai professori con tessera e ai tengo-famiglia non ci fosse anche quel cinque-dieci per cento di nazisti fanatici, di incamiciati sbraitanti, di assassini. Avrebbe potuto essere una commedia italiana, una delle tante: così invece, se non succede qualcosa (ma cosa?), finirà prima o poi in dramma, alla croata. 27 maggio 2009 L'ITALIA ALL'EPOCA DEL BAVAGLIO Centinaia di notizie, grandi e piccole, danno l'idea di un paese che sta diventando davvero molto strano. Ma per la maggior parte non circolano, o circolano in maniera edulcorata e corretta, senza contesto. Forse il Grande Fratello (quello di Orwell) è tutto qui. Un paese di plastica, che in realtà esiste solo dentro il televisore. Mentre il paese vero, privo di idee e di governo, tira a campare giorno per giorno sprofondando sempre di più Palermo (Sicilia). Il giudice Roberto Scarpinato ha rivelato come il governo abbia recentemente tolto alle procure la password per accedere ai conti correnti, mpedendo così il sequestro di enormi capitali mafiosi. *** Milano (Lombardia). È stata revocata con 29 voti a favore, 24 contrari e un astenuto la Commissione antimafia recentemente istituita in seno al Consiglio comunale. *** Catania (Sicilia). A giudizio per bancarotta fraudolenta i padroni della ditta Elmec di Piano Tavola. Parte civile i lavoratori, che da due anni occupavano la fabbrica per difendere il posto di lavoro. *** Castelfranco (Veneto). Un referendum dei lavoratori bianchi della Global Garden ha approvato la proposta dell'azienda - che costruisce macchine da giardino e impiega circa mille operai fra bianchi e neri - di cacciare gli operai neri dalla fabbrica per meglio superare la crisi. *** Catania (Sicilia). Sei ragazzi del movimento studentesco hanno ricevuto dalla Procura una notifica, da parte "in ordine al delitto di deturpamento di immobili perché con numerosi altri soggetti non identificati nel corso di una manifestazione con corteo in via Etnea di Catania raggiungevano la piazza del Duomo, dove deturpavano ed imbrattavano il palazzo muncipale lanciando uova, pomodori e carta igienica contro il portone e la facciata". *** Palermo (Sicilia). È stata assegnata all'Ordine dei giornalisti di Sicilia la villa confiscata ai fratelli Sansone. La richiesta di assegnazione di un bene confiscato alla mafia era stata presentata da tempo dall'Ordine dei giornalisti di Sicilia, che ha espresso "viva soddisfazione per il riconoscimento della funzione sociale svolta dall'ordine dei giornalisti, a difesa della legalità". In Sicilia l'Ordine regionale (vivamente contestato dall'Ordine nazionale) ha recentemente difeso la legalità cercando di ridurre al silenzio la tv antimafiosa Telejato. *** Corleone (Sicilia). Per aver partecipato alla Giornata della Memoria di "Libera" Giovanni Labruzzo, Eugenio Provenzano ed Enrico Labruzzo, tre studenti corleonesi, sono stati cacciati via dagli scout dal parroco Giuseppe Gentile (lo stesso che aveva officiato le nozze della figlia di Totò Riina). *** Trieste (Venezia Giulia). Gira armato il presidente leghista del Consiglio regionale, Ballaman. L'arma, una 357 magnum, non viene tuttavia portata in aula durante le Edouard riunioni. *** Bassano del Grappa (Veneto). Diventa legale, grazie a un disegno di legge della Lega, la produzione casalinga di grappa. *** Catania (Sicilia). Al processo per le infiltrazioni mafiose nella festa della patrona cittadina Sant'Agata è emerso che processione, "candelore", fermate e festa venivano gestite, per ragioni di prestigio, dal clan cittadino dei Santapaola. *** Canicattì (Sicilia). Identificato dai carabinieri il responsabile della morte del cagnolino seviziato e ucciso il 10 maggio scorso nei pressi della villa comunale. Si tratta di un ragazzino di nove anni il quale dopo aver ucciso il cane impiccandolo si è fatto filmare con i cellulari da altri ragazzini di età compresa tra i tredici e i quindici anni. *** Scandiano (Emilia). Un quindicenne è morto per un malore mentre nuotava nella piscina "L'Azzurra" a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia. Il ragazzo, che frequentava la terza media, si era sentito male, forse per una congestione, poco dopo essersi tuffato. Inutile l'intervento del bagnino e dei medici subito accorsi. Alcuni degli altri bagnanti non hanno lasciato la vasca, continuando a restare immersi durante le operazioni di soccorso a bordo piscina e nonostante gli inviti dei responsabili della struttura. *** Urbino (Umbria). Un anziano turista è morto d'infarto mentre con altri faceva la fila per visitare la mostra di Raffaello a Palazzo Ducale. C'è stato appena il tempo di ricoprire il cadavere con un lenzuolo bianco che già gli altri turisti avevano cominciato a riprenderlo con videocamere e flash. *** Sanremo (Liguria). Un uomo di 47 anni, Bruno Fazzini, è morto per un ictus dopo essere rimasto in coma per circa dodici ore sul pianerottolo di casa. Nessuno dei vicini l'ha aiutato e diversi hanno scavalcato il corpo risalendo le scale. "Credevo fosse ubriaco" ha dichiarato uno". *** Napoli (Campania). Sedicenne minaccia di accoltellare il fratellino ricattando la mamma: "Cento euri o l'ammazzo". *** Sulmona (Abruzzo). Alla Magneti Marelli (Sistemi Sospensioni spa, Gruppo Fiat, 750 operai) occorre un permesso scritto per andare in bagno. È un piccolo tagliando su carta intestata dal titolo "permesso interno". *** Rosarno (Calabria). Tre imprenditori agricoli di Rosarno sono stati arrestati perché accusati di far parte di una associazione per delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù degli immigrati. Le indagini dei carabinieri hanno portato alla luce svariate storie di induzione alla prostituzione, estorsioni, maltrattamenti e violenze commesse approfittando dello stato di necessità e delle precarie condizioni di vita. *** Palermo (Sicilia). Assessore regionale indagato per rapporti con clan mafiosi e compravendita di voti e preferenze. Accusato dai pentiti del clan di Resuttana, l'assessore Antinoro nega le accuse. *** Bergamo (Lombardia). Applicando un vecchio regolamento di polizia urbana, l'amministrazione (di centrosinistra) ha comunicato che è permesso chiedere l'elemosina per le vie del comune, ma per la durata massima di un'ora. *** Padova (Veneto). Scritti sulle lavagne, per ordine della preside Anna Bottaro, i nomi dei diplomandi di origine straniera. Lo scopo,secondo la preside, è quello di invitare quelli di loro che fossero privi di permesso di soggiorno a "consegnarlo entro domani" prima di sostenere l'esame. *** Catania (Sicilia). Conferenza all'Università, insieme al rettore neo-eletto, del politico siciliano Marcello Dell'Utri, da poco assolto per prescrizione dal reato di "minaccia grave" ai danni di un imprenditore trapanese. Coimputato di Dell'Utri era nell'occasione il boss trapanese Vincenzo Virga, da poco accusato di essere il mandante dell’omicidio di Mauro Rostagno. Argomento della conferenza "Il buongoverno dei giovani" visto da Dell'Utri. La successiva conferenza sarà su "Il Futurismo: avanguardia dall'Italia al mondo", on.Gianfranco Fini, Facoltà di Lettere, Aula Magna. 4 giugno 2009 CASO MANIACI/ (QUASI) TUTTO È BENE QUEL CHE FINISCE BENE Grazie alle amichevoli pressioni dell'Ordine dei Giornalisti nazionale, della Federazione della Stampa e di un bel po' d'opinione pubblica in Sicilia e fuori, i dirigenti dell'ordine dei giornalisti siciliano hanno finalmente concesso il tesserino di giornalista al giornalista Pino Maniaci di Telejato. Tutto è bene quel che finisce bene. Adesso, però, si pongono delle questioni. Telejato è una tv d'inchiesta e Maniaci è un giornalista antimafioso, più volte minacciato. I giornalisti siciliani “ufficiali" invece sono in genere tutt'altro che antimafiosi, né scrivono per giornali d'inchiesta ma per i fogli - o gli uffici stampa - dei vari politici e imprenditori locali. I quali naturalmente l'inchiesta la vedono come il cane vede il bastone. E allora? È Maniaci che deve pazientemente imparare ad adulare i politici e a chiudere tutt'e due gli occhi sui mafiosi, o sono i giornalisti perbene che debbono diventare indipendenti e riscoprire (o scoprire da zero) il giornalismo vero? Perché di qua non si scappa: Maniaci - grazie a quel tesserino – ormai è un giornalista d'ordine siciliano, un collega perfetto, uno di loro. E mica si può tenere nello stesso cesto frutta e calzini sporchi, non va bene. O tutti in un modo, o tutti nell'altro. Personalmente, preferiremmo che fosse Maniaci a diventare orbo e muto. Intanto per farlo campare un po' meglio, coi soldi per pagarsi il telefono e senza rischio di revolverate. E poi perché sarebbe troppo crudele, per i colleghi dell'establishment, obbligarli a fare sul serio questo mestiere. Ci sarebbero ulcere, inappetenze, esaurimenti nervosi e crisi coniugali. No, no, non siamo così barbari. Continuino pure a lavorare così, come sanno e vogliono. In compenso, però, ci facciano una cortesia: chiudano benignamente un occhio, perlomeno ogni tanto, sulle attività del Maniaci. Quando attacca i notabili, quando accusa i mafiosi, quando fa fatti e nomi. È vero, non sarebbero cose che si fanno, fra professionisti tesserati e perbene. Ma che ci volete fare, non è colpa sua: è solo la sua malattia, il suo vizio, il giornalismo 4 giugno 2009 CHE COSA TIENE SU I SICILIANI Tutta l'Italia andava a fondo meno la Sicilia, all'avanguardia in tutti i campi - arte, cultura, economia, politica, società - grazie a Re Federico e al saggio popolo siciliano. Il re aveva una sola curiosità: “Vorrei sapere che cosa mai vi tiene a galla, voi siciliani!”. E fece tuffare il ragazzo "Tuffati" disse lu re. 'U caruso guizzò lestamente giù diritto come un pesce (da donde il nome) e per qualche picca di lui non rimase che il colliè di bollicine su dall'acqua profonda. Eppoi le bollicine si ruppero e ricciuta e ridente rivenne su la testa. "Rieccovi l'anello, maestà!". "Bene!" sorrise il re. "Bene!" ripetè la comarca. "Adesso finalmente potrò sapere...- il re era molto curioso: artravorta avia fatto allivari solinghi e soli dui picciriddi allo scopo di spiare che lingua cristiana o babelica ne sortissi adesso potrò sapere che cosa, contro ogni leggi di fisica, vi tiene a galla l'Isola". "Maestà - disse un barone - ma già è ben noto. Le tre colonne cristalline: a Passero, a Lilibeo e a Peloro, coi tre ciclopi che le fecero a quei tempi". "Sì ma allora non c'era la tecnologgia!". Lu re fece un cenno e uno dei cortigiani porse al ragazzo un attrezzo, un coso lucido piccolo e vetroso, con un occhiuzzo in mezzo. "Ora tu metti questa cosa appress'alla colonna. Quando l'hai messa, premi qua. Eppoi o resti lassotto o risali, come vuoi". Il ragazzo afferrò la webcam, sorrise a tutto il mondo e si cataminò di sotto: un attimo prima c'era, un attimo dopo non c'era più. Passarono alcuni momenti, e sul dispay del sovrano si accese - come da previsione - la lucina. Eppoi, sfocate ma riconoscibili (settantadue puntipollice bianconero) le Gif cominciarono a scorrrere su tutti i monitor della Rete. "What is it?". Una valigia di cartone: e, da fuori campo, la mano del ragazzo che la raddrizzava. "E questa?". Un'asta di bandiera, si direbbe: con pochi filamenti attaccati ma una faucimmatteddu rugginosa ancora fissa alla punta. Eppoi riloggi fermi, pacchi di lettere e vaglia, fiaschi, marranzani, nache di legno, bummuli, barde di carretto, stellette militari, coppole, e remi di barche, e foto dei Due Amici, e cuteddi... tutta 'na massa di paccottiglia miserabile e smancicata che invero - improvvisamente e con schifo si rese conto il re - non era ammucchiata attorno alla colonna né adiacente alla medesima, ma era semplicemente la colonna stessa. Altro che colonne ciclopiche... "Ecco che cosa li teneva a galla, i fetenti!". "Richiamo il ragazzo, maestà?". "Che richiami a fare? Lascialo nella loro spazzatura". Con uno sbuffo, re Federico s'alzò. "In Germania, in Germania! Ce ne torniamo in Europa. E io che credevo ai miti". E s'incamminò via dal salone, con tutta la comarca dei cortigiani dietro. Nessuno pensò a spegnere i monitor, e la webcam per quanto obsoleta era di tipo buono. Così se passi da Messina e hai tempo da perdere ancora puoi buttare un'occhiata sul fondamento della Sicilia in bianco e nero, sui pesci che se lo smusano curiosi e le alghe che lo carezzano indifferenti. Ogni tanto, entrando improvvisamente nella schermata come in un videogame postmoderno - da su, da giù, da mancina, da dritta - appare la figurina di un ragazzo che coglie amorosamente le vecchie cose e le rimette dentro alla colonna: non senza averci fischiato dentro se era un flauto, o averci mimato una mossa se un coltello. Non pare che abbia gran voglia di risalire: e menu mali, accussì almeno un altro poco restiamo a galla. (omaggio a A.C.) 11 giugno 2009 QUATTRO PROPOSTE PER RIPORTARE A COMBATTERE GRAZIELLA E GLI ALTRI La lotta alla mafia è soprattutto lotta d'informazione. Chi la fa, chi ha accumulato coraggio, serietà, professionalità ed esperienza per poterla fare, è un patrimonio di tutti. Nell'interesse di tutti, non va lasciato solo. Che cosa concretamente si può fare per aiutare (ad esempio) i giornalisti dei Siciliani a cui – vent'anni dopo vogliono confiscare le case? Ecco delle idee Berlusconi, il governo, Di Pietro, Franceschini, la sinistra... Ma si può, con tutte queste cose importanti in giro, dare la copertina a due persone “comuni”, simpatiche ma certo non potenti, come Graziella e Pino? Certo che si può. Al centro di tutta la lotta politica in Italia, prima e più seriamente di ogni altra cosa, c'è l'antimafia. Al Sud perché la mafia comanda e l'unica lotta reale è questa, e tutto il resto è poesia. In tutta Italia perché la mafia (o il sistema politico-imprenditoriale- mafioso, il Sistema come dice Saviano) oramai è un modello dappertutto. Ci sono i mafiosi dei clan anche a Milano, oramai. Ma soprattutto anch e là ci sono i Ciancimino, i Martellucci (“la mafia non esiste”), e probabilmente pure i Sindona e i Salvo Lima. Il personale politico, insomma, della contiguità. Che una volta stava a Catania e Palermo, ma ora è dilagata, sia come modo di fare che come relazioni d'affari. Non è solo la linea della palma ad aver risalito il nord. La lotta alla mafia – nel senso di lotta al potere mafioso, al Sistema – è soprattutto lotta d'informazione. Informazione di base, “povera”, libera, battagliera. Più Radio Aut che Santoro. Perché sociale, legata al territorio, giovane, aggressiva. Rendo e Badalamenti non li hanno sconfitti i giornalisti famosi, ma quelli – professionali ma militanti – come Peppino Impastato o Pippo Fava. *** Di giornalisti così ce ne sono ancora, in giro. Non moltissimi, ma qualche decina sì. E molti sono i ragazzi che imparano da loro. Ciascuno di questi giornalisti è un patrimonio sociale, una risorsa insostituibile per la democrazia. È interesse di tutti difenderli e metterli in grado di lavorare. Interesse delle sinistre, dei sindacati, delle cooperative, delle professioni democratiche, degli imprenditori (finalmente) antimafiosi. Sono loro la prima linea, quelli giù di guardia nel deserto. Se crollano loro, prima o poi crolla tutto il resto. È dovere di tutti difendere Graziella e Pino. (Certo, non loro soli: con Graziella, ad esempio, difendiamo Lillo Venezia, Rosario Lanza, Elena Brancati, Claudio Fava, Antonio Roccuzzo, Miki Gambino, tutti i “vecchi” dei Siciliani, tutti come lei chiamati a rispondere dei debiti fatti per difendere la trincea di tutti. Qui diciamo Graziella per semplificare). È dovere di Graziella e Pino (ma anche mio, di Fabio, di Luca, di Claudia, di Lillo, di Piero – anche qui, usiamo un paio di nomi per semplificare), stringere i denti, tener duro, “non mollare”, non scoraggiarsi mai e non mollare. E soprattutto essere uniti, coordinarsi il più possibile, fare rete. *** Ci chiedono che fare, per Graziella e per gli altri. Avrei quattro precise idee da proporre: 1) Organizzare un grande concerto nazionale, con artisti famosi (a cominciare dai Modena, ma non solo), e organizzarlo con la bandiera dell'Ordine dei Giornalisti e del sindacato dei giornalisti, la Fnsi, nazionale. Mi fido di loro, li abbiamo avuti accanto per difendere Pino. Mi piacerebbe se prendessero questa iniziativa, e se ci fosse anche Libera di mezzo. 2) Fare una trattenuta sullo stipendio di luglio, noi giornalisti professionisti: cinquedieci euri a testa non li sentiremo nemmeno, perché a luglio c'è la quattrordicesima e quest'anno ci sono anche i soldi del contratto nuovo; 3) I parlamentari europei dell'antimafia diano il loro primo stipendio per l'informazione antimafia, per Graziella e gli altri: 4) Voi dirigenti della Lega delle cooperative avete un debito con noi dei Siciliani. Noi eravamo una cooperativa della Lega, ma la Lega non ci ha salvati; ha preferito fare gli affari con i Cavalieri. Potete saldarlo ora, questo debito, compagni di Reggio Emilia e di Bologna. Certo, non c'è nessuno che vi obblighi; ma sarebbe un onore grandissimo, poter dire “I nostri predecessori sbagliarono, ma noi, noi che rispondiamo di noi stessi qui ed ora, noi siamo contro la mafia e con i Siciliani”. 11 giugno 2009 L'ITALIA CHE NON SI VEDE MA C'È Sono arrivate molte lettere, quando s'è saputa la storia, di gente che vuole bene a Graziella. “Vi mando i miei risparmi”. “Voglio fare qualcosa”. “Perché non dà una mano la Legacoop?”. Ingenue, appassionate, profondamente civili. L'Italia non è solo Noemi e Bruno Vespa. C'è tutto un mondo sommerso, dalle radici profonde, che vive in questo Paese. I Siciliani, Casablanca, Ucuntu ne portano a galla un po' Numerosi lettori hanno scritto per esprimere solidarietà a Graziella Proto e offrire il loro appoggio. Eccone alcuni. *** Associazione Antimafie "Rita Atria": < Dobbiamo ringraziare costantemente questo Stato per ricordare le vittime di mafia e presentare il conto ai vivi. Quindi la mafia ottiene un risultato pieno: uccide Pippo Fava e distrugge la vita di Graziella Proto e di altri. Si parla di pignoramento della casa di Graziella Proto al momento dell'omicidio Fava la presidente della cooperativa Radar proprietaria della testata I Siciliani di Pippo Fava (giornalista dalla mafia ucciso il 5 gennaio 1984). Facciamo un appello a tutti affinché dalle commemorazioni si passi ai fatti. Quel pignoramento è un insulto alla memoria di Pippo Fava e soprattutto è un atteggiamento inaccettabile da parte dello Stato nei confronti di chi nel tempo con atti concreti ha saputo resistere. Gli sconti li facciamo solo ai piloti, cantanti, etc... ma quel fallimento doveva essere condonato per dignità. Vi preghiamo di scriverci per essere informati sulle forme di protesta che attueremo, al momento ci stiamo organizzando *** mila spicola: < la notizia su graziella mi ha molto colpita, la diffondo e inoltro a chiunque per far sì che tutti sappiano > *** massimo mingrino: < Come possiamo aiutare Graziella concretamente, noi semplici cittadini? Attendo fiducioso un riscontro. A presto > *** Serena Malavasi: < Io vivo al nord ma conosco sommariamente la storia de I Siciliani e vorrei, per quanto nelle mie possibilità, contribuire a sostenere Graziella > *** Lia Didero: < Ciao. qualche info in più, che magari si cerca di organizzare qualcosa, quassù nelle marche, in sostegno di Graziella? > *** Pia Covre: < Sono davvero straziata nel cuore per il contesto in cui siamo immersi, e mi sento come una povera farfalla rinchiusa in un bicchiere. Quando riusciremo a venir fuori da questo incubo che è diventato il Sistema italiano ci vedremo attorniati da macerie proprio come i terremotati. Si può far girare un appello a favore di Graziella per pagare i vecchi debiti? Io sono candidata alle europee ma ho rinunciato a spendere per la campagna e ho destinato i soldi della stampa a due onlus per bambini, ma potrei girare qualcosa anche per quella rivista che ha avuto tanta importanza nel costruire una coscienza antimafiosa. Fammi sapere come posso fare > *** Ariel Paggi: < Tenendo conto degli affari che fa in tutto il paese, Sicilia compresa dovrebbe pagare la Uniccop > *** natya migliori: < Ho letto di Graziella sulla Catena di San Libero e ho proposto un pezzo a Women in the city: mi farebbe piacere contribuire nel mio piccolo a fare un poco di casino su questa cosa che mi pare l'ennesimo sfregio all'impegno e all'onestà intellettuale > *** [email protected]: < Si potrebbe istituire un CC per Graziella Proto, in modo che anche noi possiamo contribuire ed aiutarla? > *** Associazione Capitano Ultimo: < L'associazione dei Volontari Capitano Ultimo si stringe attorno a Graziella Proto, che si è vista arrivare il pignoramento della casa per il fallimento della rivista "I Siciliani", giornale fondato da Peppe Fava. Mentre nelle commemorazioni ufficiali si parla del coraggio di questo giornalista e della sua rivista, sottobanco viene punita Graziella Proto, perché ha osato tentare di continuare l'opera del suo direttore tenendone in vita la memoria tramite il suo giornale. Per noi è importante che i morti non vengano dimenticati, ma che si continui la loro lotta rimanendo al fianco di chi, in vita, porta avanti lo stesso ideale di giustizia, perché, come diceva Falcone, "Si muore quando si è lasciati soli", e noi non vogliamo essere complici di questo silenzio > *** arci arcobaleno: < Sono Mario del Circolo Arcobaleno di Roma; ci conosciamo per via di un abbonamento a Casablanca. La sua condotta è l’AZIONE, e l’azione è la cosa che manca oggi in Italia. Mentre “penso” cosa fare, se mi mandi il suo Iban le mando i miei risparmi > *** Giovanni Mannino: < Sono un educatore dell'Agesci Sicilia, incaricato al Settore Pace Nonviolenza e Solidarietà, referente per Libera. Sono tra i fondatori dei "I Briganti" rugby Librino e sono amico dei ragazzi della "Periferica" di Massimo Nicosia. Mi fa sempre rabbia quante cose che la gente non è a conoscenza e quanti "topi" che si sono mangiati tutto il formaggio amministrano Catania e le ns città siciliane da decenni... ormai! Mi sono permesso, dopo averlo letto l'articolo su Graziella su Peacelink, di pubblicarlo sulla pagina dell'Agesci Sicilia. Mi metto sin d'ora a disposizione per qualsiasi azione di "lotta" civile e nonviolenta, credendo che cose di questo genere succedono solo in Italia e doppiamente nella nostra Sicilia. Un forte abbraccio. I CARE ancora! > *** Fernando Benigno: < Caro Riccardo, a nome della Scuola di formazione politica Antonino Caponnetto, esprimo tutta la vicinanza e solidarietà umana e professionale a Graziella. Lor Signori presentano sempre il conto, come metodo, a chi ha scelto di parlare, o scrivere, anzicché tacere, a chi ha scelto la libertà piuttosto che il servilismo, a chi ha scelto di avere e difendere la dignità piuttosto che svenderla. Ci impegnamo ad essere al vostro fianco per le iniziative che intraprenderete. Un saldo abbraccio a tutti voi e a Graziella in particolare > *** [email protected]: < Vorrei essere informato di eventuali iniziative per aiutare Graziella Proto. Sia per promuovere la storia, sia per raccogliere fondi, sia per iniziare a contribuire con una piccola somma sperando che altri seguano > *** Lidia Menapace: < Davvero, aprite una sottoscrizione o indicate qualche altra cosa (una petizione, una raccolta di firme di protesta, un appello all'Ordine dei giornalisti, che so?) per aiutare Graziella, non si può stare a guardare > *** [email protected]: < Aiutare Graziella Proto non significa solo aiutare una giornalista coraggiosa, nemica della retorica e non riconducibile ad alcuna "parrocchia" politica. Significa difendere il diritto dei cittadini ad avere un'informazione libera e togliere dal cono d'ombra, antesignano della morte civile, chi per amore della giustizia e della lotta alla mafia militare e borghese, ha investito tutta la sua vita, i suoi averi, la sua faccia.Tutta questa passione civile era per noi, che ne abbiamo fruito, tratto informazioni, riflettuto e adesso siamo noi a dover ricambiare l'immenso debito di gratitudine nei suoi confronti. Un grazie a , Pino Masciari e Antimafia Duemila per aver rotto l'isolamento mediatico e pubblicato la vicenda. Forza Graziella!!! > 11 giugno 2009 GIORNALE RADIO "Elezioni. Il Polo della Libertà di Silvio Berlusconi batte di misura, con poco più di due punti di vantaggio, l'Ulivo di Romano Prodi. Il Presidente Giorgio Napolitano ha dunque incaricato oggi il dott. cav. Silvio Berlusconi di formare il Governo". Ma vediamo nel dettaglio i risultati delle elezioni. Forza Italia, al 35 per cento, perde due punti (a causa soprattutto dell' astensionismo in Sicilia) mentre la Lega (10,3 per cento) ne recupera uno grazie al successo della campagna d'ordine nei paesi più tradizionalisti della Baviera. "Basta con negri, ebrei, zingari, comunisti e omosessuali": uno slogan semplice ed efficace, i cui toni gli osservatori attribuiscono alla necessità di far presa su un target territoriale non certo composto da sofisticati intellettuali ma che ovviamente non comporta alcun pericolo reale per le categorie così indicate. Il risultato complessivo, 45,3 per cento, non è certo eclatante ma neanche da disprezzare. Difficilmente tuttavia consentirà l'attuazione del programma (Totalmaggioranzen, Fuhrerprinzip, Reich millenario) che il Capo aveva espresso alla vigilia delle elezioni. In fondo, in Italia - fanno notare alcuni il governo è appoggiato, tenendo conto delle astensioni, solo dal 26,2 per cento degli elettori: "Un italiano su quattro. E con uno su quattro si può a malapena governare, altro che fondare regimi". A livello di gossip c'è da notare che molti esponenti del Polo non nascondono in privato la soddisfazione per le dure parole pronunciate a caldo da don Angelo Bagnasco (il successore di Baget Bozzo alla guida spirituale del Polo): "Su l'ese tegnuo serrou u scagnu ("se avesse tenuto chiusa la bottega", ndr) gh'aviescimu faetu un cu cuscì ai cumunisti". Ma non è detto che il Polo sarebbe riuscito a conquistare la maggioranza assoluta anche se Noemi fosse rimasta a fare i compiti a casa sua. Molto più frastagliato, ma non meno compatto, lo schieramento dell'Ulivo, che ha mancato il sorpasso di soli due punti, attestandosi comunque su un onorevole 43,1 per cento. I Democratici (guidati stavolta da un dc combattivo e non da un "comunista" marpione) contribuiscono col 26,2 per cento. Segue Di Pietro (o meglio l'Italia dei Valori, visto che s'è finalmente deciso di abbandonare la personalizzazione) con un ottimo 8 per cento. Poi la Sinistra, (Prc, Sl, Pdci, Verdi) con un buon 6,1 per cento (un anno fa poco oltre il 4) e infine i radicali col loro 2,4 per cento. "Combatteremo uniti, governeremo uniti, difenderemo uniti i magistrati e la legge di tutti" ha dichiarato subito Di Pietro. "Certo. E uniti organizzeremo organizzeremo il primo sciopero generale unitario di tutti i lavoratori italiani e stranieri" ha aggiunto il leader della Sinistra, Zanotelli. "Giusto. Da oggi c'impegneremo in una opposizione dura e pura - ha concluso Prodi - contro questo governo piduista e razzista, per salvare l'Italia dalla crisi facendo appello alla sua più grande risorsa umana, non i banchieri e i manager ma il popolo dei precari e dei lavoratori. Viva l'Italia". 22 giugno 2009 GLI STUDENTI DI TEHERAN E QUELLI DEL G8 “A un certo punto decine di poliziotti ar mati sono penetrati nella scuola dove noi manifestanti avevano messo su il centro-stampa. Hanno sprangato a sangue tutti quelli che hanno trovato e li hanno portato via sanguinanti. Poi si sono accaniti sui computer e li hanno fatto a pezzi”. Siamo nella lontana Teheran, capitale del regime integralista dell'Iran. Niente di occi dentale, naturalmente. Da noi ci sono parti ti democratici, da loro gli ayatollah. Da noi la Chiesa non interviene delle faccende del lo Stato, da loro c'è una Suprema Guida che parla in nome di Allah. Da noi libere e de mocratiche “ronde”, da loro squadre fanati che di pasdaran. Da noi soprattutto non può succedere che decine e decine di oppositori vengano selvaggiamente picchiati, portati via e torturati in carcere subito dopo. Qual è il problema principale del governo iraniano, in questo momento? Far finta che tutto ciò non sia mai successo. Im porre il silenzio, censurare (o com prare) i media, schernire la stampa straniera che non si può controllare: “Nemici del l'Iran - dicono – Sovversivi, teppisti, pagati dal ne mico”. Un bel giorno, essi sperano, tutto questo sarà dimenticato; anzi, praticamente non sarà mai avvenuto. I satrapi potranno torna re tranquillamente a governare autoritaria mente, a rubare e a far festa fra cortigiani e veline nei palazzi. O forse no. Distruggere il centro-stampa di Teheran adesso non è servito a niente. C'è Twit ter, c'è YouTube, c'è l'internet. Come si fa a sprangare anche questi? Mai la verità è stata così impopolare presso i satrapi – occidentali e orientali – come adesso. Mai è stata così palesemente (le leggi anti-cronisti qui in Italia) persegui tata in tempi moderni. Ma non è stata mai così forte, grazie all'internet: che non si può imbavagliare. Avremo, noi giovani, il coraggio (e la professionalità, la serietà, il fare rete) di servircene fino in fondo? Poveri satrapi, in questo caso, poveri papi e poveri ayatollah. 22 giugno 2009 PERCHÉ BISOGNA APPOGGIARE I SICILIANI Chiediamo a Libera, all'Ordine dei Giornalisti, al sindacato, alla Lega delle Cooperative di prendere pubblicamente posizione a favore dei Siciliani e di organizzare in prima persona la solidarietà con essi. Non è solo “aiutare i Siciliani”. E' fare tutti un passo avanti, difendere una libertà sotto attacco per difenderle tutte “Il clima morale della società è questo. Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende, né accuse, né denunce, dolori, disperazioni, rivolte. Egli sta là, giornali, spettacoli, cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori, giudici applaudono. I giusti e gli iniqui. Tutto sommato questi ultimi sono probabilmente convinti d'essere oramai invulnerabili”. *** E' una città del sud - anni '80 - quella di cui ci parla Giuseppe Fava. Con la sua mafia, la sua violenza, e soprattutto il suo stretto rapporto con poteri politici, imperi economici e monopolio dell'informazione. Quest'ultimo è l'anello essenziale, quello che dei vari elementi fa un Sistema. Lo sappiamo tutti. Sappiamo come funziona Catania, come funziona il sud. La novità è che oggi Giuseppe Fava non parla più di Catania. Parla di tutta Italia, parla di Milano, parla di Roma. La mafia - com'era facilmente prevedibile – ha risalito il nord. La volgarità d'un Graci o d'un Rendo riempie oggi, con altri nomi, le chronicles from Italy della stampa internazionale. Tutto ormai è dilagato dappertutto. Ancora una volta, il centro è il monopolio dell'informazione. Non solo per la rimozione delle notizie (che è ormai abituale), ma soprattutto per la decostruzione sistematica dei pensieri comuni e la loro sostituzione con altri congrui al sistema, non civili. *** Come ci vorrebbe adesso un Giuseppe Fava, un Siciliani! Allora, la lotta sua e dei suoi ragazzi fu durissima, e non priva - per quella fase - anche di successi. Lui la pagò come sappiamo. I suoi redattori con vite durissime, ai limiti del tollerabile, fra miseria e minacce. Eppure, nessuno tradì. Molti continuarono. I Siciliani, in realtà, non sono finiti mai. Hanno strade diverse, diversi nomi. Ma ci sono. *** L'Ordine dei giornalisti, il sindacato (la corporazione insomma: nel senso antico e tecnico, di mestiere) negli anni di Giuseppe Fava sono stati lontanissimi da lui. Sembrava un mestiere tranquillo, una “professione”; qualcosa che garantisse insieme uno status sociale e una funzione. Che non ci sono più. “Giornalista”, in questi anni, è tornata ad essere una parola ambigua, su cui fare scelte: o Ministero dell'Informazione, o militanza civile. La nostra “corporazione”, spalle al muro, sta scegliendo ora. Alcuni pochi tradiscono; per molti invece è l'ora della dignità. La Lega delle Cooperative (di cui I Siciliani facevano parte) tradì Giuseppe Fava e i suoi redattori. Preferì fare affari con gli imprenditori collusi. Questo l'abbiamo pagato con infiniti dolori. Cosa intendono fare, dopo un quarto di secolo, coloro che la reggono ora? Possono rimuovere, certo, queste righe. Ma sappiamo che in questo momento le leggono. E aspettiamo la loro risposta. Al tempo di Giuseppe Fava, il nuovo movimento antimafia era agli albori. Noi abbiamo contribuito a fondarlo (l'Associazione I Siciliani, Siciliani Giovani, l'idea di distribuire i beni confiscati) ma da allora se n'è fatti di passi su questa strada. C'è Libera di don Ciotti e dalla Chiesa, ci sono le associazioni locali, c'è Addiopizzo. Ci sono addirittura dei politici che sono saliti a Roma o Bruxelles grazie principalmente alle tematiche antimafiose; ed interi partiti che si appoggiano ad esse. *** Dall'Ordine e dal Sindacato dei giornalisti, dai dirigenti di Legacoop, dagli esponenti dell'antimafia civile, ci aspettiamo una pubblica e combattiva presa di posizione sul caso dei Siciliani. La sottoscrizione è già partita (l'appello è a pagina otto) e hanno già cominciato a rispondere i cittadini. Ma è evidente che non avrà successo senza l'appoggio aperto e organizzato di forze ben più grandi di noi. Servono soldi e serve appoggio politico, (forse ancora di più). La lotta dei Siciliani è stata, e in un certo senso è ancora, una delle lotta più dense del dopoguerra: contro il sistema mafioso, per l'informazione. E' un caso esemplare, un modello; e come tale va usato. Schierarsi pubblicamente coi Siciliani, qui ed ora, è la cosa più “politica" che ci sia. 3 luglio 2009 I GIORNALISTI DI PRIMA LINEA E L'ANTIFASCISMO DI OGGI Neanche il secondo fascismo ama i giornalisti. Fra scandali e disastro economico, come si salverebbe il regime, se la gente fosse informata? Perciò propaganda e bavaglio a tutta forza. E noi? Noi giornalisti liberi abbiamo il dovere di tener duro finché non arriveranno gli altri. L'antimafia è l'antifascismo dei nostri giorni Il Pil, secondo la Corte dei Conti, "è sceso ancora dell'uno per cento e il debito pubblico ha raggiunto la cifra di 1663,65 miliardi, pari al 105,8% del Pil". Il rapporto deficit/pil è salito al 9,3 per cento. Lo Stato è sotto di almeno 34 miliardi di euri. Il governo, se ancora esiste, non ha idea di come affrontare questa catastrofe. Tira avanti giorno per giorno, fra uno scandalo e l'altro. Ha solo due idee chiare: trovare un capro espiatorio - immigrati, stranieri – su cui scatenare gli odii, esattamente il fascismo con gli ebrei; e impedire a ogni costo che la gente sappia qualcosa. Propaganda, bavaglio, e ora anche leggi apposta antigiornalisti, servono a questo. Da questi due punti di vista è esattamente come ai tempi del fascismo. Le leggi razziali ci isolano dall'Europa e portano a galla gli elementi più feroci del regime (ieri i Farinacci, oggi i Bossi). Il blocco dell'informazione (non a caso il governo esalta Putin e Gheddafi) produce una “democrazia" annacquata, non abolita formalmente ma resa inutile di fatto. *** In questo quadro, il ruolo del giornalista libero è vitale. È un'area che si estende sempre più: non solo i resistenti singoli di un tempo, ma aree sempre più ampie del giornalismo “ufficiale” (non ci stancheremo di sottolineare l'importanza dello spostamento “a sinistra”, in questi mesi, di soggetti come l'Ordine dei Giornalisti e la Federazione): anche ai tempi di Mussolini i giornalisti “perbene” divennero in gran parte antifascisti. Restano tuttavia decisivi i “fanti” in prima linea, quelli di guardia nel deserto. Lasciarli soli ora è pericolosissimo, perché dietro di loro non c'è ancora una linea di resistenza organizzata e dunque non possono cedere a nessun costo. Uno, come i lettori sanno, è Pino Maniaci. “C'è un piano della mafia per eliminarmi”. “Le famiglie di Borgetto, Montelepre, Partinico, Cinisi e Terrasini”. “Hanno dato il via libera in queste settimane”. Non sono affermazioni da poco, dette da Pino. Ci impongono solidarietà e attenzione - solo pochi politici ne hanno avuta: Lumia, la Borsellino, il solito Giulietti - ma ci chiedono anche una strategia generale, di contrattacco. *** Poche parole ancora servono per delineare, nel fascismo-antifascismo in cui ormai viviamo, l'obbligo della solidarietà con I Siciliani. Sono stati un modello di lotta, di tener duro, di coerenza. E anche, nei momenti più alti, un modello organizzativo, da imitare. Non solo giornalisticamente (inchieste e cultura civile), ma anche politicamente, se riusciamo a dare a dare a questa parola un senso alto, da comitato di liberazione, e non da semplice affare di partiti. A metà degli anni Ottanta, e poi nel '92-93, e ancora – con altri nomi – negli anni dopo, la storia dei Siciliani (Siciliani, SicilianiGiovani, l'Associazione I Siciliani, la prima società civile militante insomma) ha costituito per l'antifascismo-antimafia di oggi ciò che i vari Gobetti e Salvemini, il Partito d'Azione, il Non mollare, furono per l'antifascismo antico. Una radice e un nucleo, provvisorio e immaturo, da migliorare; ma solido e nettissimo, e in grado si tradursi prima o poi in resistenza generale. Per questo bisogna studiare la storia dei Siciliani, con tutti i loro limiti ma con le loro intuizioni; e solidarizzare col vecchio gruppo, che forse non fu sempre all'altezza (ma neanche i primi antifascisti lo furono) ma si batté sempre con coraggio incredibile e dedizione, spendendosi “ingenuamente" per il bene comune. Questo, nell'Italia di oggi, è un patrimonio prezioso, che non va sprecato. I Siciliani appartengono a tutti, non possono essere rimossi da nessuno. Cambiano a ogni generazione i volti e i nomi; non è neanche indispensabile che si chiamino sempre I Siciliani, né che siano sempre incarnati dalle stesse persone. La loro esistenza è tuttavia incontestabile, dopo un quarto di secolo di lotte e di dolori. E questo è davvero un miracolo, una felicità da continuare. 13 luglio 2009 DIGERIRE TUTTO In Italia e in Zimbabwe il debito pubblico ha ormai largamente superato il Pil e ogni giorno che passa lo Stato è sempre più vicino, finanziariamente parlando, a eventi alquanto infelici. Nello Zimbabwe, il Presidente del Consiglio Mugabe ha sguinzagliato le ronde con l'ordine di arrestare e tradurre al suo cospetto il maledetto Pil, servo dell'Occidente e nemico della rivoluzione. In Italia, dove abbiamo un Presidente un po' più acculturato, l'ordine è stato invece di non parlar più di Pil e di tappare la bocca a chi ci prova. Esageriamo? Niente affatto. Gli economisti dell'Istat hanno lanciato, nell'indifferenza generale, un appello per difendere “la statistica ufficiale, che è un bene pubblico del Paese”. L'Istat rischia infatti di dover sospendere per mancanza di fondi i prossimi rilevamenti. Che erano, per Scajola e Tremonti, troppo frequenti e tali da dare un quadro pessimistico dello stato dell'economia. Dove tutto va invece benissimo e non c'è proprio nulla da temere. E se, come dichiara la Consob, la piccola e media industria “è a rischio di asfissia” perché “nei confronti delle grandi banche si riscontra lentezza nel mettere al centro delle strategie il servizio al cliente”, ossia - per dirla in italiano - perché le banche strozzano i piccoli imprenditori? Niente paura, basterà non parlare più neanche di Consob. E lo struzzo-italiano restarà tranquillo, col sedere per aria e la testa ficcata sotto un metro di sabbia. E allegre musichette e spot rassicuranti che lo raggiungono fin sottoterra. *** L'italiano, come lo struzzo, ormai digerisce tutto. Patti fra mafia e Stato, trattative, per salvaguardare le quali fu assassinato – come ogni giorno che passa emerge sempre più chiaramente – il giudice Paolo Borsellino? E chi se ne frega. Puttane, redattori, protettori e politici a libro-paga - paritariamente - degli Affari Del Re, con solo qualcuna delle prime a dimostrare occasionalente (“io certe cose non le faccio”) qualche barlume di dignità? E chi se ne frega. Squadristi, mostri, lager, emigranti annegati, italians-musolini, italians duce-duce, il mondo che ci ride dietro? E chi se ne frega. “Noi tireremo diritto”. “Alalà”. “Duce a noi”. “Me ne frego”. *** E' in queste circostanze, di questi tempi e in questo Paese che alcuni di noi decisero di esercitare ancora, nonostante tutto, l'antico mestiere del giornalista. Gli storici troveranno ciò molto interessante, e ancora più interessante troveranno il fatto che non siano neanche mancati giovani pronti a unirsi a questa avventura. Ma forse non saranno gli storici ad occuparsi di noi in futuro ma, più sovieticamente, i manuali di psichiatria. 25 luglio 2009 MISS MAFIA E MR STATO: MATRIMONIO DIFFICILE, FIDANZAMENTO LUNGO L'accordo era che ciascuno si facesse i fatti suoi, senza pretendere troppo: controllare il territorio, raccogliere un po' di voti, e soprattutto tener buoni i contadini, cioè i “comunisti”. Poi la mafia, coi soldi dell'eroina, è diventata troppo potente. Allora Andreotti ha cercato di tirarsi indietro. Ma... Lo stato, in Italia, ha sempre trattato con la mafia. Ha trattato ai tempi di Giolitti ("camorrista" per Salvemini), di Mussolini (la fine del povero Mori), del'Amgot (Calò Vizzini, Lucky Luciano), di Scelba (Giuliano e Pisciotta) e, naturalmente, di Andreotti.Quest'ultimo, come si sa, si incontrava con boss come Spatola che, con Badalamenti e Inzerillo, formava il triumvirato della mafia di allora. Sia Spatola che Inzerillo furono uccisi dai "Nuovi", i corleonesi. Badalamenti scappò in Brasile, e l'uomo di cui si fidava era Tommaso Buscetta. Falcone, mediante Buscetta, aveva l'obiettivo preciso di far parlare Badalamenti. Non ci riuscì. Che cosa avrebbe potuto dire – e provare - Badalamenti, se Falcone fosse vissuto abbastanza da convincerlo? Che l'onorevole Giulio Andreotti, capo del governo italiano, aveva come interlocutori industriali, prelati, politici, e anche i boss di Cosa Nostra. Adesso la cosa non farebbe granché scalpore, perché è una storia vecchia, e perché l'opinione pubblica non è più quella di prima. Ma nel '93, o anche qualche anno prima, sapere ufficialmente che un politico aveva commesso il "reato di partecipazione all'associazione per delinquere" Cosa Nostra, "concretamente", "fino alla primavera 1980" avrebbe fatto saltare per aria l'Italia. Altro che Mani Pulite. *** Per questo Falcone è morto e per questo è morto Borsellino. Ovvio che ci siano entrati (come rozzamente si dice) "i servizi", pezzi di stato. Deviati, ma fino a un certo punto. In certi anni, erano quasi ufficiali. I rapporti fra Andreotti e Spatola – ossia, fuor di metafora, fra mafia e stato – non erano finalizzati a assassinii (tranne che di comunisti, che allora giuridicamente non erano esseri umani) , né ponevano a rischio l'autonomia dello stato. Erano rapporti periferici, asimmetrici, localizzati. Il mafioso, ai tempi di Spatola, al politico chiedeva cose circoscritte e locali, e il politico gli rispondeva su questo terreno. Al massimo poteva chiedergli una strage di contadini, seppellibili in fretta e senza troppo casino. E' il tipo di rapporto che un ufficiale americano può avere oggi con questo o quel warlord afgano, di cui si conoscono benissimo le atrocità, ma che tutto sommato torna utile per tenere il territorio. "Datemi i voti – diceva alla mafia lo stato - ammazzatemi un po' di comunisti e fate quel che cazzo volete nella vostra isola di merda". Poi, verso la fine degli anni '70, i signori della guerra si sono impadroniti di testate nucleari. Cioè, oltre metafora, i mafiosi hanno messo le mani sulla totalità del traffico mandiale di eroina e sono diventati dei grossissimi imprenditori. *** A questo punto i rapporti di forza si sono squilibrati. "Col cazzo che restiamo a fare qualche affare di merda quaggiù in Sicilia! Vogliamo contare dappertutto, vogliamo avere la nostra fetta d'Italia esattamente come tutti i vostri imprenditori". Si aggiunge, proprio in quegli anni, una diciamo così infiltrazione. Ad esempio, gli ultimi 150 inscritti alla P2 stanno in Sicilia o sono siciliani. All'estero (“golpe” Sindona) Cosa Nostra comincia a essere un interlocutore a livello alto. Quindi la partita cambia completamente. Quelli come Andreotti si spaventano, cercano di tirarsi fuori. Però è un po' tardi, anche perchè se hai aiutato il talebano a rubare una vacca e ammazzare un paio di comunisti, quello ti ricatta per il resto della tua vita e pretende, pretende, pretende... Mr Stato dice: va bene, adesso ti aiuto a rubare anche un paio di capre. Miss Mafia dice: Col cazzo. Voglio il culo della regina Vittoria, se no dò al Times le foto di te che rubi le vacche e ammazzi i comunisti insieme a me. E il ciclo ricomincia e continua, sempre più incontrollabile e sempre più in alto a ogni giro. Sta continuando tuttora. 10 agosto 2009 L'OTTO AGOSTO Cronaca. “Roma, 7 agosto. Il corpo senza vita di Fatima Aitcardi, 27 anni, marocchina, ripescato ieri sera dal fiume Brembo a Ponte San Pietro, è stato identificato dal fratello Mohamed che staamattina si è presentato ai carabinieri per denunciare la scomparsa della sorella, uscita di casa ieri alle 14. L'uomo, che invece è regolare e vive proprio a Ponte San Pietro, ha raccontato che Fatima era disperata: era irregolare in Italia, aveva tentato in tutti i modi di regolarizzare la sua posizione ed era terrorizzata dalla scadenza di domani, giorno in cui la clandestinità sarebbe diventata reato. Questo l'avrebbe portata a togliersi la vita”. Storia. Il giorno 8 agosto 2009 in Italia è cominciato ufficialmente il fascismo per una parte della popolazione. La legge è stata regolarmente emanata dal regolare governo (anche il fascismo di allora cominciò come governo “legale”) ed è stata regolarmente firmata da Sua Maestà il Re. Non vale per ariani e padani, non ancora. Ma la storia su questo punto è molto chiara: nessuna dittatura è mai rimasta a lungo parziale. Se questa sia davvero una legge, se questo sia ancora un governo legale, saranno gli italiani a deciderlo, ognuno nella cascienza sua. 10 agosto 2009 LE VACANZE INTELLIGENTI "Viva l'Italia, l'Italia che è in mezzo al mare, l'Italia dimenticata e l'Italia da dimenticare, l'Italia metà giardino e metà galera, viva l'Italia, l'Italia tutta intera"..." Dipende. Le puoi passare su un ponte-gru a dieci metri d'altezza nel tentativo di difendere, in un Milano oramai pre-industriale, il tuo e dei tuoi compagni posto di lavoro. Oppure a veder cagare dei cavalli, di cui sei appassionato collezionista, con in tasca il milione di euri che ti hanno dato per prossenare il giornale che fu di Montanelli. Nel primo caso sei un operaio, e di te non vale la pena di ricordare nemmeno il nome. Nel secondo sei il giornalista più venduto d'Italia, e hai appena finito di sputare per soldi su Enzo Baldoni (“amico dei terroristi”) o sulla moglie obsoleta del tuo signore e padrone. Dipende. Puoi essere – tutto dipende – a leggere, qui o su qualche altro povero sito, come sta andando la storia di qualche vecchio giornale, un giornale antimafia per esempio. Una storia bellissima, per tutti gli altri: per te è la differenza fra restare ancora a casa tua oppure, ai primi freschi d'autunno, finire in mezzo una strada. In tal caso sei un redattore, o redattrice, dei vecchi Siciliani. Brutto mestiere. Oppure puoi essere in qualche posto simpatico - Hammamet per esempio - dove la vita non è poi così cara, molto meno comunque del quartiere di New York in cui hai appena comprato casa e al limite puoi usare anche quella di Craxi, che hai appena finito di pubblicamente elogiare. In questo caso. Naturalmente, se. Veltroni. Non il communista impresentabile degli anni 'Anta ma un managger moderno e cinico, possibilmente – speri te - di successo. Puoi essere – te lo auguro vivamente – un figlio di qualcuno, un hijo d'algo. Del terribile Bossi, per esempio, e in questo caso questa è la tua prima estate tranquilla negli ultimi tre anni, la prima in cui non ti hanno selvahhiamente bocciato all'esame di maturità. Il babbo politico, per premiarti, ti ha promesso un Ente, alla Fiera o all'Expò, vedremo: come i vecchi babbi diccì d'un tempo, che finite le scuole piazzavano i voraci figliuoli da qualche parte (suscitando la giusta indignazione del bue lombardo contro Roma Ladrona). Va bene, questo è uno stanco articolo di mezz'agosto. Che altro volete che vi dica? Che c'è da dire, del resto, in quest'Italia ormai anziana che di estati ne ha viste tante (quella di Tambroni, quella di Kappler, quelle delle bombe) sopravvivendo fortunosamente - Pertini, lo Stellone, er Poppolo 'taliano – a tutto quanto? E' troppo appiccicaticcia, quest'estate, troppo d'aria pesante, troppo noiosa. Estate di vecchi film color seppia, di vacanze in colonia, di gerarchi a Forte dei Marmi o a Fregene, di “bambini salutate tutti insieme il re e il duce”. Che palle. Fino a qualche anno fa l'ideale – un ideale burino, da bauscia; ma meglio che niente – era la Milano Da Bere, il Trend, il Managment, l'Entertainment, l'America; o una Svizzera mal riuscita, di quella che s'incontrava già, da Bologna in su, in tutti quei posti già bellissimi, dai nomi antichi, che erano una volta il mio Paese. No, non è andata così. L'ideale in realtà è la sfilata, l'orbace, il capocondominio, l'ipocrisia cattolica, il portiere spia, l'odore di camerata, il “lo sapesse il duce”. Questa è l'Italia profonda, altro che cazzi. Puoi fargli tutte le democrazie e tutte le resistenze che vuoi, ma alla fine la faccdenda è così: un terzo degli italiani non sono europei, non lo sono mai stati. E ora sono quelli che ti spintonano e gridano più forte. Ok, buone vacanze. Se venite per le vacanze quaggiù in Sicilia attenti a non urtare un cadavere, quando fate il bagno. Ne sono annegati circa millecinquecento, fra l'anno scorso e quest'anno, in questo nostro bel mare di Sicilia. Africani, immigrati, negri, gente così, naturalmente: chi se ne fotte? Viva l'Italia. 10 agosto 2009 RADICI DI UNA LUNGA STORIA. IL CORAGGIO DI LOTTARE Perché tanti giovani, ancor oggi, dedicano tesi di laurea, studi, solidarietà, “simpatia” ai Siciliani? Non è una storia passata, di certo rispettabile, ma che con le cose di oggi non c'entra più? No, che non lo è. L'”ideologia” dei Siciliani non è solo giornalismo, ma qualcosa in più: professionalità e militanza, e “non mollare” Sono passati molti anni da quando Giuseppe Fava fece il primo numero dei "Siciliani" eppure decine di giovani, in tutta Italia, ancora gli dedicano tesi di laurea, studi, "simpatia". Il fatto è che in tutti questi anni la storia dei Siciliani (con svariati strumenti, e attraverso diverse generazioni) non s'è mai interrotta. Noi qui a Ucuntu, ad esempio, pensiamo di muoverci proprio sulla strada dei Siciliani. Ma anche gente più "strana" (il piccolo giornale di quartiere in Sicilia, il centro sociale di Napoli, l'esperto di economia di Milano) si sente più o meno legata, e spesso effettivamente lo è, alla storia dei Siciliani. Eppure i Siciliani erano un piccolo giornale e anche i soggetti civili che da essi derivarono (Siciliani Giovani, l'Associazione i Siciliani, L'Alba, ecc.), per quanto in alcuni momenti influenti, non erano dei grandi movimenti di massa. E allora? Forse un parallelo si potrebbe cercare nel filo che lega, ad esempio, la storia di Piero Gobetti al Non Mollare, al primo antifascismo torinese e fiorentino; e poi all'antinazismo militante, ormai europeo, dell'emigrazione; e al partito d'azione, ai Rosselli; e al primo partigianato, a GL, alla resistenza popolare e infine, in una larga misura, alla Repubblica. Certo, fu un'esperienza "minoritaria" anche quella; eppure si rivelò utile, per il Dna civile nel Paese, ben più di altre storie molto più "grosse". Professionalità e militanza, estremo rigore tecnico e massima apertura ai giovani e alle idee nuove; spirito di sacrificio ma non fanatismo; creatività e artigianato; diffidenza (a volte snobismo) verso i partiti classici ma elogio della politica come partecipazione civile; spirito fortemente unitario, da Cln, ma coerenza e rigore, e mai un minimo cedimento al potere. Sarebbe stata molto diversa, la storia d'Italia, senza il sale di quei piccoli gruppi di cittadini. *** Lo spirito dei Siciliani, in questo momento della storia, è più necessario che mai. Tribalismo, mafia, prodromi di fascismo, crisi: ciascuna di queste cose di per sé potrebbe ammazzare un Paese, e qui ci si presentano tutteinsieme. Chi non è nel Sistema (nel senso di Saviano) ha ormai introiettato da tempo una mentalità di sconfitta che lo rende incapace anche solo di pensare a una reale opposizione. Gli scandali, le barzellette sui gerarchi, le nostalgie sembrano l'unico modo di opporsi, qui ed ora. Chi si oppone davvero – piccoli gruppi – tende a ghettizzarsi da solo La sinistra di ora assomiglia moltissimo a quella degli anni Venti. In piccola parte connivente o corrotta, in parte molto maggiore frastornata. Non mancano gli urlatori, i ribelli a parole, i dannunziani. Dirigenti sempre più incomprensibili, chiusi in se stessi, isolati; base non rassegnata ma impotente e confusa. E però - come allora – il regime è lungi dall'avere i plebisciti che propaganda. Lo appoggia solo un quarto della popolazione, e non sempre; una massa circa equivalente gli è ostile. La differenza è solo di volontà e di organizzazione. *** Parlavamo di un giornale, e siamo finiti a parlare di queste cose. Ma che c'entra un giornale con la politica? E' che un giornale, un giornale vero, non può mai essere solo un giornale. La stessa ideologia “tecnica” (il buon mestiere, la precisione, la puntualità) di un giornale è di per sé immediatamente politica, molto più profondamente – spesso - della “politica” ufficiale. Lavorare, stare uniti, passar sopra alle piccole divergenze, sorridere, essere sempre efficienti o almeno cercare di esserlo, sentirsi profondamente parte di uno schieramento ampio e durevole e non di una semplice avventura, non essere osservatori ma militanti. Non rassegnarsi mai a nulla, e non illudersi mai. Governare le proprie azioni e speranze, in gruppo e singolarmente, come se vi fosse affidata la sorte di tutto. Questa era la cultura dei Siciliani. E questa serve ora. 10 agosto 2009 PECORELLA & C. “Ma poi siamo sicuri che l'hanno veramente ucciso perché era contro la camorra? E chi lo dice? E se invece...”. Questo sarebbe l'avvocato-politico Pecorella, ex di sinistra e ora di Berlusconi, che parla di don Peppe Diana, il povero prete ammazzato dalla camorra nel '94. Avvocato, fra le altre cose, di camorristi: per cui non capisce se l'attacco a don Diana sia stata un'idea sua oppure no. Comunque, scoppiato il casino, Pecorella ha glissato un po', poi ha fatto le sue “scuse" ed eccolo ancora là, presidente della Commissione Parlamentare sul ciclo dei rifiuti, cioè sulla materia su cui la camorra fa i migliori affari. Il caso è chiuso, torneremo a indignarci un'altra volta. Come è chiuso il caso di Toni Zermo, che dopo la morte di Fava scriveva un giorno sì e l'altro pure che la mafia (ma c'è mafia a Catania?) non c'entrava, o di Tino Vittorio, che sulla non-mafiosità del delitto scrisse addirittura un libro (“La mafia di carta”: la vera mafia? Gli antimafiosi), o di Mario Ciancio, contro il cui monopolio Giuseppe Fava fece prima il Giornale del Sud e poi i Siciliani. Tanti anni dopo, Zermo fa ancora l'editorialista, Vittorio l'intellettuale nobile da convegno, e Ciancio fa ancora Ciancio. Facile prevedere che anche Pecorella, passato il breve infortunio, continuerà tranquillamente a fare il suo mestiere. È bella la solidarietà per i Siciliani, specialmente quando viene da giornalisti, politici, pensatori e in genere da “persone importanti”. Da loro però io preferirei avere un pensiero commosso in meno per “i ragazzi di Fava”, e una citazione in più per coloro che, senza sparare, tentarono in tutti i modi di eliminare Giuseppe Fava anche da morto, e sono ancora qui. Meno lacrime per i don Diana, e più galera per i Pecorella. 19 agosto 2009 E SE DOPO L'ESTATE, COSÌ ALL'IMPROVVISO, ARRIVASSE L'AUTUNNO? C'è chi l'ha fatto occupando una fabbrica (addirittura in cima alla gru), il ferragosto. Che pazzi, che disperati. Eppure, fra la sorpresa generale, hanno vinto. Hanno salvato la loro fabbrica, alla faccia di padroni e politici, e hanno dimostrato qualcosa che tutti si sforzano di far dimenticare: che gli operai esistono, che sono indispensabili e tanti, e che quando alla fine si muovono qualcosa di molto “strano” può ancora accadere Questi che vedete qua sopra sono esemplari rari, almeno ufficialmente, per due motivi. Uno: prima di tutto, sono operai. Una categoria che, stando alla tv e ai giornali, non c'è più. Esistono i bianchi, i neri, gli immigrati, i padani, i rumeni, i laziali e tutto il resto ma quelli che fanno le cose, che materialmente lavorano, in quanto comunità percepibile non esistono più. Il concetto di “operai”, da un certo momento, in poi, è stato abolito dai media e sostituito con altri più malleabili (i “popolani” di Bossi,per esempio). Due: questi sono operai vincenti. La loro fabbrica, la Innse, nella Milano “finanziaria” (= biscazziera) e non più industriale di questi anni, doveva chiudere per una speculazione edilizia. La “politica” non è intervenuta, per la buona ragione che non esiste più (la Moratti e Formigoni non sono più politici come Aniasi o Bassetti ma semplici mediatori d'affari). E allora? Far ronde, trovare un capo espiatorio, prendersela con qualche zingaro o lavavetri? No. Seguendo l'antica ricetta del nonno, gli operai dell'Innse si sono organizzati fra di loro, non hanno accettato i patti. Hanno occupato un pezzo di fabbrica – cinque di loro si sono addirittura piazzati in cima alla gru – e hanno passato l'estate così, lottando. Non per qualche idea straordinaria (anche per quella, a pensarci bene) ma semplicemente per difendere se stessi, il loro lavoro. Sapendo che se non ci pensavano loro, e quelli come loro, non ci avrebbe pensato nessun altro. Questo è l'evento politico dell'estate. I politicanti più abili, cioè la Lega, hanno capito subito la pericolosità mortale, per loro, dell'evento. E hanno subito gridato alla coartata libertà del padrone, all'indisciplina operaia, all'orribile - all'orizzonte - lotta di classe. E' giusto: il loro mestiere di crumiri (altro che “popolani”: loro sono quelli che hanno lasciato smantellare le fabbriche della Lombardia distraendo la gente con gli “al negro al negro”) li porta a capire prima degli altri queste cose. Non a caso sono stati loro, cinque anni fa, a denunciare: “Alla Zanussi, oltre metà sono stranieri!”. Questo è lo scontro vero. I potenti hanno paura degli operai, come sempre ne hanno avuta. Altro che veline e ronde: chi vive di lavoro, prima o poi, vuole più libertà e più benessere, e - unito con gli altri – in realtà li può ottenere. Ed ecco perché le parole “fabbrica”, “lavoro”, “operai” sono state proibite da lor signori: difficile che le troviate sui loro giornali e sulle loro tv. Ma sono le nostre parole. Più soldi a chi lavora, più società nelle fabbriche, più Marx (bestemmio?) e anzi, subito, più Keynes nel Paese. E, qui al sud, più Italia, cioè più Stato del popolo, cioè lotta finale al Sistema mafioso. Utopie? Va bene. Fra poco verrà l'autunno: dici che rinfresca un po'? Anche l' “autunno caldo”, quando io ero giovane - qualche anno fa - non se lo aspettava nessuno. Eppure. 31 agosto 2009 L'ITALIA DI ENZO BALDONI Ma sì, per una volta lasciamoli perdere i mafiosi, i “papi" rimbambiti e i Calderoli. Pensiamo a persone serie, invece. Incomincia l'autunno, incomincia bene – coi lavoratori che iniziano a difendersi dalla crisi e votano a sinistra in Germania e in Giappone – e anche noi, qui, cominciamolo con fiducia e allegramente. Alla maniera di Enzo. E vai! Quanto tempo è passato dai tempi di Baldoni? Sembrano cinque anni, ma sono molti di più. Un secolo, è passato, fra l'Italia civile e pacifica che trottava sugli scarponi di Enzo e l'agglomerato impaurito e feroce che vediamo ora. Di Enzo, rimane la buona e incuriosita scrittura da "dilettante" da "viaggiatore" (parole profondissime, antiche nella cultura italiana: ora spazzate via, coi corrispondenti concetti, dall'assoluta non-traducibilità in italish); il sorriso mite e serio, da italiano che ha viaggiato; e quel coraggio autoironico, da Don Camillo o Peppone, alla "io-ci-provo" (non fu mica facile ammazzarlo: ci si dovettero mettere in più d'uno, contro l'omone bonario che si difendeva la vita). *** Baldoni, da questa Italia di ora, ha avuto il miglior premio che ci si potesse aspettare: la dimenticanza. In questo paese da barzelletta, con Milano capitale della prostituzione minorile e della coca, con Napoli della caccia ai gay, con Roma e il suo buffo sindaco fascista, con i nazisti al governo e il governo mezzo casino e mezzo governo, che cosa c'entra gente come Baldoni? Ovvio che lo cancellino, che non ne parlino più, che cerchino di farlo dimenticare. Per noi ricordare Baldoni vuol dire due cose precise, una “cattiva” e una buona. Quella “cattiva”: il Feltri che ora ricatta i preti (per un milione di paga) per conto di Berlusconi è lo stesso Feltri che allora calunniò in tutti i modi possibili il “terrorista" Baldoni. "Vacanze intelligenti", "Il pacifista col Kalashnikov" e infine "Colpo in testa a Baldoni" furono allora i titoli di Feltri su Baldoni. Non credo che allora gli dessero già un milione per fare queste cose e sarei curioso di conoscere la cifra esatta. *** Ma queste sono miserie. Il motivo vero per cui ricordiamo Baldoni è che egli è uno di noi, un essere umano libero, e un giornalista. Uno che faceva le cose, mica se ne stava a casa a piagnucolare “non si può fare”. Se avessimo ancora spazio, diremmo che cose alla Baldoni nel mondo, in questo momento, per chi sa vederle ci sono. Gli operai tedeschi che votano per la sinistra combattiva. Il Giappone dove la borsa sale, sale la disuccupazione – e la gente massicciamente vota a sinistra. L'Italia... Ma ne riparleremo in autunno. 12 settembre 2009 GIORNALISTI IN PIAZZA PER LA LIBERTÀ Anche noi di Ucuntu saremo alla manifestazione indetta per il 19 dalla Federazione della stampa (il sindacato unitario dei giornalisti). È una di quelle manifestazioni che non si dovrebbero mai fare se non in paesi come la Russia o la Colombia, dove la libertà non esiste e il giornalismo è vietato. Eppure ci tocca farla in Italia, paese occidentale e “democratico”, dove però la libertà di stampa è in pericolo ed ha bisogno urgente dell'intervento attivo dei cittadini. Per noi dell'antimafia, tuttavia, non è poi così importante l'appello dei giuristi e nemmeno la cacciata di Boffo e le minacce a Repubblica. Sono tutti episodi gravissimi ma che però, nell'Italia normale, sarebbero appunto rimasti episodi, non paragonabili con gli assassini dei giornalisti in Sicilia o coi trent'anni di monopolio di Ciancio o col sistematico strangolamento di tutti i giornali siciliani d'opposizione; né con la cancellazione di intere generazioni di giovani giornalisti, da quelli degli anni '80 a quelli delle due ultime generazioni. Tragedie imparagonabili, fino a poco tempo fa, alle traversie della stampa nazionale; e che pure abbiamo dovuto affrontare da soli. Ma quello che era il dramma privato della Sicilia - il giornalismo vietato, l'uso della minaccia e violenza, il monopolio brutale – adesso è diventato lo stigma dell'Italia intera. Il fascismo mafioso, caratteristica nostra che si poteva credere locale, adesso è nel Paese intero. Perché di fascismo si tratta – già diretto e squadristico per le minoranze “inferiori”, ottuso e prepotente per tutti gli altri - e non d'altra cosa. Le cosiddette “leggi” razziali sono illegali, esattamente come lo erano nel 1938. Gli ordini impartiti a militari, di agire contro le convenzioni internazionali e le leggi del mare, sono illegali tanto quanto quelli cui disubbidivano, sfidando il duce, i migliori ufficiali della Regia Marina e del Regio Esercito. La pestilenza morale – prostituzione di massa fra i giovani, corruzione di massa fra i vecchi, vigliaccheria di massa fra i cittadini – che sempre più segna le cronache cittadine, è quella del vecchio paese dei re e dei duci. Perciò scendiamo in piazza , in questo momento tragico della Nazione, non per difendere corporazioni o vecchi senatori, ma per pietà della patria che sta marcendo viva. È una battaglia durissima, che non ha bisogno di Vip ma di giovani cittadini. Non ha importanza se aderiscono o non aderiscono il famoso personaggio mediatico o il grande scrittore. Saranno ben altri a decidere, quelli che umilmente tengono, nel nord e nel sud del Paese, contro i delinquenti mafiosi e contro i criminali razzisti, la prima linea dell'Italia libera, dell'Italia civile, dell'Italia buona. 23 settembre 2009 NUESTRA REPUBLICA Il 3 manifesteremo con tutti gli altri giornalisti per – come si dice “difendere la libertà” -. È una parola grossa. Ma a volte le parole grosse sono adeguate. Lavoro, scuola, libertà di stampa – pilastri dell'Italia moderna – sono minacciati La nostra Repubblica era basata tradizionalmente su tre cose: il lavoro, la scuola e la libertà. Lavoro diritto-dovere di tutti, cittadinanza reale, dignità. Scuola gratis per tutti, perché nessun cucciolo, per qualunque motivo, cadesse fuori dal branco: trasmettere le conoscenze – antichissimi istinti - e proteggere i bambini. La libertà finalmente, la libertà spesso citata in toni buffi o reboanti (come ad Atene, del resto) ma che tuttavia viveva nelle vie e nei mercati. Per tre generazioni, in questa Repubblica, ognuno ha potuto dire ciò che voleva. I vecchi ricordavano benissimo di quando questa libertà non c'era. Si poteva sorridere del gerarca, passarsi – con poco rischio - le barzellette sul duce, far finta di salutare romanamente con un pigro e disimpegnato cenno della mano. Si potevano fare tutte queste cose, ed altre ancora. Ma ciascuno sapeva benissimo di non potere spingersi oltre, e soprattutto sapeva di non contare un cazzo. Tre soli esseri umani contavano qualcosa in Italia: il Papa, il Duce e il Re. Tutti gli altri, sudditi. Sudditi malcontenti, sudditi puttanieri, sudditi tutto sommato contenti, sudditi (persino) eroici, sudditi - i più affogati nell'epica casalinga della sopravvivenza quotidiana. Ma sudditi tutti quanti senza eccezione, minorenni tutta la vita. Noi non vogliamo tornare a quel tempo, abbiamo lucidità sufficiente per individuare i sintomi di quel male. Repubblica di Ezio Mauro è il Corriere di Albertini. I giovani antimafiosi calabresi sono i socialisti di allora, perseguitati dagli scherani del regime. I Dell'Utri e i Feltri sono i Farinacci e i Dumini. Non sapete questi nomi? E studiateli, per Dio! Siete dei cittadini. Scendiamo in piazza il 3 ottobre, noi di Ucuntu, per riaffermare questi principi. Ma scendere in piazza è il meno. Per noi, che non abbiamo scoperto la libertà oggi, quel che conta di più è il minuto e costante impegno quotidiano. È bello annunciare che è pronta finalmente la grande inchiesta sui giovani musicisti di una città siciliana, e che siamo in grado di dargli un punto concreto d'incontro. C'è voluto un agosto intero di lavoro, per ottenere questo, ma noi l'abbiamo fatto. La civiltà del fare, del lavorare, del guadagnarsi la libertà, è quella a cui noi orgogliosamente apparteniamo. Come i nostri amici di Modica, col loro piccolo e agguerrito giornale “Il Clandestino”. Come i ragazzi di Locri, ormai molto lontani dai giornali, ma che ancora sono lì. Come le decine e centinaia di compagni che in questo stesso momento non solo sperano, non solo pensano, ma concretamente lavorano per questa o quella piccola o grande cosa utile a tutti. Questa è la nostra Repubblica, questa è la nostra Costituzione viva. Questa difenderemo da chiunque con qualunque mezzo. 8 ottobre 2009 DISPERATO QUEL POPOLO CHE NON HA CITTADINI E POLITICI MA SOLTANTO EROI Una tragedia da terzo mondo in Sicilia. Non è la prima. E ci sono tutte le condizioni (per esempio a Letojanni) perché non sia l'ultima. Eppure nessuno interviene. E se qualcuno denuncia non viene ascoltato. Perché in Sicilia i politici sono così irresponsabili, e il popolo così disattento? E' Bangladesh o è Italia? E di chi è la colpa? Non c'è molto da dire. Ha piovuto, tutto qua. Nel Bangladesh quando piove più di tanto è una tragedia. Anche qui, in Europa. Almeno nel nostro pezzo d'Europa. “La colpa è dei politici”: certamente. A Messina c'è stato un centrosinistra e un centrodestra, entrambi (per ragioni locali) padronali. Non sembra che nessuno dei due abbia pensato – prima – a Giampilieri o in generale a cosa può succedere alle borgate. Adesso pateticamente si discolpano; alcuni, forse parecchi, in buona fede. Chiedono, in buona fede, funerali di Stato. Saranno eletti di nuovo, alle prossime elezioni. E questo, qui in Bangladesh, è abbastanza normale. I politici sono notabili che rappresentano semplicemente i più ricchi del paese, imprenditori e costruttori. L'elettorato, del resto, non ha le risorse culturali necessarie a controllarli. Non perché sia analfabeta; al contrario: perché è fin troppo acculturato. “Politici? Tutti uguali”. “Io? E io che c'entro, che ci posso fare?”. “A mia m'interessa 'u travagghiu ppi mme figghiu e basta”. Il Bangladesh dei politici alimenta il Bangladesh culturale. Entrambi, prima o poi, producono il Bangladesh fisico, quello che i popoli fortunati guardano alla tivvù. Noi siciliani di solito siamo dal lato sbagliato del televisore, quello delle vittime da intervistare in tono commosso. In gran parte, per libera scelta nostra. Non abbiamo politici in Sicilia, e forse non abbiamo neanche elettori. Invero abbiamo eroi, questo sì: i Falcone, i Borsellino, i Pio La Torre; e oggi i Simone Neri, il giovane che spontaneamente s'è gettato a salvare sei, sette vittime – e all'ottava non è riuscito più a tornare indietro ed è morto. Non è mai mancato il coraggio, in Sicilia. Ma sarebbe meglio se Simone fosse ancora vivo, se non avesse mai avuto occasione di misurarsi con una tragedia così disperata, da tempo di guerra. Sarebbe bastato poco. Ma quel poco, qui in Sicilia, non è stato fatto. Così tocca a Simone, e agli altri come lui. *** Sarà la magistratura, speriamo, a dire le responsabilità dei politici, che sono individuali, anche se infine riflettono l'intero sistema; e degli amministratori, dei funzionari, delle varie categorie della società che avrebbero dovuto intervenire e non l'hanno fatto. Ma una categoria ci sentiamo, moralmente, di condannare anche subito senza aspettare nessuno: quella dei nostri colleghi giornalisti dell'unico e ricco quotidiano locale, la Gazzetta del Sud. Perché non hanno scritto? Non dopo, con la commozione; ma prima, freddamente, da giornalisti. Dare l'allarme in tempo, era loro dovere; giornalisti minuscoli (quelli di Tempostretto, di Terrelibere, della rete No Ponte) l'hanno pur fatto. Eppure, se a Messina incontraste un giornalista di Tempostretto o un “politico” dei No Ponte, lo guardereste dall'alto in basso, con degnazione. Davanti a un caposervizio della Gazzetta o a un segretario di Forza Italia o dei Ds o di An, invece, v'inchinereste umilmente e con gran rispetto, pronti a applaudire e a votare senza esitare un momento. Ci sono, a Messina e altrove, giornalisti e “politici” che sono degni di stima, di essere ascoltati. Il loro dovere, di fronte a Simone e a tutti gli altri morti di Giampilieri, è di non scoraggiarsi mai, di essere coerenti, di stare il più possibile uniti; e di non disprezzare mai neanche per un istante il popolo che hanno scelto di servire. Quel popolo un giorno, forse, si sveglierà. Ma fino a quel momento tocca a loro e soltanto a loro tenere botta, ai pochi, ai consapevoli, ai liberi cittadini. 8 ottobre 2009 LAVORATORI... PRECARIII... PRRRRR!... Berlusconi e Tremonti sono pentiti: non è più vero che bisogna “mobilizzare” tutto e che il sistema “moderno” è quello senza posti di lavoro fissi. Addirittura dicono che il sistema dei precari non funziona. “Meglio tardi che mai”. “Oh com'è buono lei”. “Bontà sua, signor conte”. Sì, ma allora? Mica i precari stanno meglio di prima. Mica è cambiato qualcosa. E la sinistra? Se finalmente si svegliasse e aprisse una battaglia seria sul precariato e sul lavoro? "Non credo che la mobilità sia un valore. Per una struttura sociale come la nostra, il posto fisso è la base su cui costruire una famiglia. La stabilità del lavoro è alla base della stabilità sociale". Non lo dice uno della Fiom o dei Cobas, ma il principale ministro (e aspirante successore) di Berlusconi. Il quale si affretta a raddoppiare: “Precari io? Nooo... Sono perfettamente d'accordo con Tremonti”. I precari, in questi ultimi mesi, hanno preso pernacchie, calci nel sedere e – spesso e volentieri – colpi di manganello in testa. E non è che nei quindici o vent'anni precedenti le cose gli siano andate meglio. Questa, dagli anni Novanta in poi, è stata una repubblica fondata sugli imprenditori, gli unici autorizzati a prendere decisioni, gli unici ad avere dei diritti. Sindacato, collocamento, salario, statuto dei lavoratori, contrattazione collettiva, posto di lavoro: tutte cose terribili, da fannulloni, forse anche da comunisti. Così è nato il paradiso degli imprenditori, il “libero mercato”. Che da noi prima è stato tradotto in lavoro nero (o elegantemente “sommerso”) e poi in “mobilità” e “modernizzazione”, ossia precariato. In questo paradiso hanno beatamente arpeggiato tanto gli imprenditori di destra che hanno privatizzato tutto alla maniera della scuola di Chicago (non quella di Friedman, ma quella di Alfonso Capone) quanto quelli “liberali” il cui liberalismo si estrinsecava soprattutto nel mandare liberamente miliardi di euri in nero nei vari paradisi fiscali. I bei risultati si sono visti: l'Italia, che era diventata una potenza industriale a forza di lavoro serio, qualificato, di massa e sindacalizzato, è scesa sotto la Spagna e scende ancora.Le industrie sono finite in Cina, gli operai a spasso e gli industriali ai tavoli di poker o della Borsa, che è lo stesso. L'Italia privatizzata degli anni Duemila ha molto meno benessere, in proporzione, dell'Italia “cattocomunista” anni Sessanta. A tutto ciò la sinistra (ma vuole ancora essere chiamata così? Bersani dice che ogni tanto si può anche dire, e perciò mi permetto) ha contribuito adottando sostanzialmente la mitologia del “privato è bello” e della precarizzazione. Tocca a lei disgraziatamente, rimettere in piedi il Paese tornando prima o poi alle ricette antiche. Per farlo dovrà tornare ad avere dai ceti produttivi (compresi i disprezzati operai) la fiducia che aveva una volta. Difficilmente ci riuscirà cambiando calzini o disquisendo amabilmente sull'eventualità di tenere o meno dentro il partito una franchista fanatica (da Francisco Franco, capo del fascismo spagnolo e propugnatore, fra l'altro, dell'Opus Dei) come la Binetti. Due notizie veloci, per finire: il giorno in cui la Binetti contribuiva a bocciare la legge per difendere i gay, nella classica Canicattì i due classici sedicenni gay sono stati mandati all'ospedale dai classici compagni di scuola educati - anche dalla Binetti - a pane e dagli-ai-froci. In provincia di Parma, alla Spx di Sala Baganza, di fronte a un normalissimo sciopero delle operaie, il padrone non solo ha confermato tutti i licenziamenti, ma ha mandato delle guardie armate (armate di armi da fuoco) per intimidirle. Se l'avessero fatto gli operai si sarebbe parlato, giustamente, di terrorismo. Invece gli imprenditori possono permettersi questo ed altro. 31 ottobre 20009 NOTIZIE DA CATANIA Catania uno Data: 30 ottobre 2009 07.08 Oggetto: Catania/ Ultimora Poco fa la polizia ha sgomberato il centro popolare "Experia", un vecchio cinema (di proprietà della Regione) che da diciassette anni costituiva uno dei pochi posti di aggregazione dei quartieri popolari catanesi. I ragazzi lo avevano ristrutturato completamente, trasformando il locale fatiscente nel centro propulsore di attività civili - doposcuola, giocoleria, sport, ecc. - che contrastavano efficacemente la presenza mafiosa nei quartieri, dove l'Experia costituiva una delle pochissime zone libere da boss e droga. Le forze dell'ordine sono arrivate all'alba, caricando con violenza e senza preavviso. Mi segnalano diversi ragazzi feriti. Lo sgombero è stato deciso dal dottor Serpotta, magistrato catanese non particolarmente distintosi nell'attività antimafia, e preceduto da una campagna di stampa di Alleanza Nazionale, che a Catania governa da anni coi risultati che conosciamo. È una giornata difficile per l'esile democrazia catanese e i giovani dell'Experia fanno appello alla solidarietà di tutti i democratici e gli antimafiosi. Riccardo Orioles *** Catania due Siamo a Catania, si elegge il nuovo presidente della FAI, la Federazione degli Autotrasportatori, e la scelta cade su Angelo Ercolano: l’ultimo rampollo (incensurato) della principale famiglia mafiosa della città. Lo zio Pippo è il reggente della cosca Santapaola (Nitto è suo cognato); il cugino Angelo invece sta all’ergastolo per aver ammazzato Giuseppe Fava. Per decenni la famiglia Ercolano ha investito i propri denari nella ditta di trasporti, l’Avimec, poi confiscata per mafia. E non c’è subappalto per movimento terra, da queste parti della Sicilia, che sia sfuggito alla premiata ditta Ercolano. Il vecchio boss Pippo, buon amico dell’editore Mario Ciancio, fu arrestato proprio in un sottoscala ricavato negli uffici della sua azienda, ha già scritto Walter Rizzo su l’Unità. E anche Nitto Santapaola da latitante si spostava nascosto dentro i camion dell’Avimec. Adesso il nipote Angelo (fedina penale immacolata), titolare della «Sud Trasporti s.r.l» (azienda pulita), rappresenterà 1.500 trasportatori catanesi. Non so come la prenderemmo se al nipote (incensurato) di Cutolo avessero appaltato la ricostruzione de L’Aquila, o se al cugino (incensurato) di Francis Turatello avessero affidato il Casinò di Sanremo. Stupisce che nessuno si stupisca. E che il Giornale di Feltri distribuisca invece un opuscoletto dal titolo “Dossier Sicilia" sull’isola operosa e spregiudicata che tanto piace al padrone di quel quotidiano. In copertina c’è proprio la foto di Angelo Ercolano. La Sicilia che piace. Claudio Fava 31 ottobre 2009 CATANIA CAPITALE! A NOI NERONE E ADOLF CI FANNO UN BAFFO Nel giro di ventiquattr'ore a Catania succede che: uno dei più stimati professori dell'università viene sorpreso a ricattare una studentessa; il giornale che proteggeva i cavalieri mafiosi si mobilita per discolparlo; la polizia massacra a manganellate i ragazzi dell'unico luogo d'incontro dei quartieri popolari, rei di fare antimafia e antidroga in mezzo al regno dei boss. Altro che Norimberga del Terzo Reich: le régime, c'est nous! Sarà violenta Napoli, sarà craavattara Milano, sarà marpiona Roma, ma quello che trovi qui a Catania non lo trovi in nessun'altra città d'Italia.. Altro che Marrazzo e altro che Berlusconi: qua i vecchi bavosi li mettono direttamente a far scuola di vita all'università. “O me la dai o l'esame te lo scordi!”. E se quella reagisce, subito arriva l'altro vecchio bavoso (questo non professore ma pennaiuolo) e ti scatena una campagna che in confronto Feltri è un chierichetto. “Bottana! A quel povero professore! Proposte oscene e ribottanti, gli facesti!”. E se invece di essere un vecchio bavoso sei una ragazza o un ragazzo normale, amante della vita, con voglia di fare sport, di cantare, ballare, stare allegro alla faccia dei boss? Prima o poi arriveranno le guardie a riempirti di legnate in testa e a chiuderti a suon di botte lo spazio sociale che hai faticosamente costruito in più dei quindici anni e che è l'unico spazio libero del tuo quartiere, l'unico in cui boss e spacciatori non possono mettere piede. Il che, nella città dei vecchi immafiositi e bavosi, è un gran reato. E pertanto, giù botte. Come sono allegri e simpatici, i giovani di Catania. Potrebbero avere il paradiso in terra, e certe volte lo sanno. Potrebbero, se a comandare la loro città non fossero questi vecchi incartapecoriti e feroci, gocciolanti di bile, istintivamente nemici di tutto ciò che sia gioventù e divertimento. “Si deve soffrire, a Catania!”, sussurrano feroci. E giù bastonate, intrallazzi, a volte anche colpi di pistola. *** Un “professore” come Elio Rossitto insegna regolarmente in questa università e ne è anzi una colonna. Un “giornalista” come Toni Zermo, che quindici anni fa aiutava i mafiosi a nascondere il delitto Fava, è ancora la principale firma dell'unico giornale della città. Bische, bordelli, spacci di cocaina, salotti-bene e benissimo, camere di compensazione degli appalti, mercati di carni umane d'ogni genere prosperano tranquillamente in questa città. I doposcuola dell'Experia, le giocolerie, le “officine popolari” di biciclette, quelle no, non possono essere tollerate, e vengono senz'altro distrutte d'autorità, chiuse con la fiamma ossidrica, murate col cemento. “Anche voi poliziotti avete figli e fratelli qui nel quartiere...”. “Io, che ho imparato lo sport al Gapa e adesso l'insegnavo ai ragazzini qui all'Experia...”. “Non avete nemmeno portato un'ordinanza, non è legale...”. “I quartieri hanno bisogno di sport e di giochi, non di violenza”. Seri e civili, i poveri di Catania, gli “estremisti arrabbiati” espongono le ragioni della civiltà contro i padroni della città. Non lasciateli soli. 27 novembre 2009 FABBRICHE CHIUSE, MAFIA NEL SISTEMA L'ANNO DELLA RESA DEI CONTI La crisi, da finanziaria, è diventata industriale; e tocca il massimo adesso. Gli elementi mafiosi, da truppa di complemento, diventano componente essenziale del sistema. Nell'economia, tornare a prima di Keynes; nella società, tornare a prima di Falcone. Questi sarebbero gli obiettivi di lor signori. Ma la partita, a dispetto di tutto, è ancora aperta Le cose quando precipitano succedono tutte in una volta. Che, in bene o male, il sistema stia andando a una decisione è evidente. Dal nostro punto di vista – dell'antimafia sociale – gli eventi più importanti sono due: la crisi industriale e l'integrazione ufficiale di pezzi di mafia nel sistema. La crisi industriale (la produzione dei beni, l'occupazione, ecc.) è ormai al suo culmine, e comincia a prendere connotati diversi dalla crisi finanziaria. Quest'ultima, dal punto di vista delle banche, è data oramai per “superata”; ma non lo è affatto, e tende anzi a diventare stabile, per i consumatori e i produttori. Il sistema industriale che ne risulta, innestandosi sugli outsourcing degli ultimi dieci anni e sulle delocalizzazioni degli ultimi cinque, è completamente diverso da quello di prima della crisi: adesso è puro Ottocento. Le fabbriche occupate (con i padroni che cominciano ad attaccare le occupazioni con squadre armate) diventano sempre più un elemento “normale”, ancorché censurato, del panorama (qui in Sicilia, a Termini, gli operai hanno occupato il comune e eletto un loro “sindaco”). Rompere il silenzio dei media sulla crisi industriale è ora un obiettivo essenziale dell'informazione dal basso. In questo senso vanno appoggiate iniziative come quelle di CrisiTv. L'altro elemento catastrofico, l'integrazione ormai aperta di pezzi di mafia nel sistema, è ormai evidentissimo in una serie di fatti: la candidatura alla regione Campania, e la difesa a oltranza su tutti i fronti, di un camorrista accertato; la restituzione alla mafia, mediante un giro di compravendite, dei beni sequestrati; il tentativo di abolire il concetto stesso di concorso esterno in associazione mafiosa (fondamentale per colpire imprenditori e politici del Sistema); il tentativo insomma aperto e dichiarato di tornare a prima di Falcone. *** Non è un'offensiva qualunque di una qualunque destra più o meno rinnovata; è la resa dei conti, l'uscita programmata e cosciente dalla democrazia. Non si può dire che l'opposizione, nelle sue varie incarnazioni moderate o radicali, se ne renda conto. Significativo il fatto che l'unica iniziativa politica di massa di questi giorni (il NoB-day del 5) è nata al di fuori di esse, direttamente da internet: questo apre una grande speranza, conferma le previsioni dei pochi che avevamo intuito il significato politico della rete, e assegna un significato di prefigurazione a episodi (regolarmente ignorati) di mobilitazione dal basso via internet come il Rita Express di tre anni fa, il cui abbandono è una delle colpe storiche della sinistra siciliana. *** A Catania, microcosmo in cui si anticipano le tendenza del più grande Paese, l'offensiva dei poteri contro la città è stata violenta sì ma nel complesso bene affrontata. L'Experia, lungi dall'essere rasa al suolo senza problemi, è diventata il caso sui cui si è aggregata un'opposizione forte e dal basso, che minaccia di voler espandersi molto oltre l'occasione che l'ha provocata. A Librino, le iniziative delle associazioni sociali (e anche di qualche partito, come Rifondazione), hanno portato a una prima acquisizione, la revoca della concessione a privati di Villa Fazio e la possibilità di utilizzarla come centro vitale del quartiere. *** Piccole vittorie, certo; ma che lasciano un segno. E s'inseriscono bene nella fase immediatamente successiva, quella della Catania senza Ciancio – la cui uscita dal mondo dell'editoria viene da sempre più fonti prevista per la fine dell'anno venturo – in cui tutto il sistema dell'informazione subirà una profonda trasformazione. L'esito più probabile di quest'ultima, allo stato dei fatti, è quello di un ciancismo senza Ciancio, coi grandi gruppi editoriali che colonizzano senza problemi l'informazione in città, la “civilizzano” formalmente e la dislocano, come sempre, a difesa dei grandi interessi edilizi e imprenditoriali. “Cambiare tutto perché non cambi niente”. Ma qui, per fortuna, anche noi giornalisti – e movimento – democratici avremo forse qualcosa da dire. Ne parleremo fra un mese, il cinque gennaio. Cerchiamo intanto di essere sempre di più all'altezza dei nostri compiti, che ora possono essere decisivi. 9 dicembre 2009 DEMOCRAZIA 2.0/ DAL RITA EXPRESS AL COLORE VIOLA IL FUTURO ABITA QUI Internet permette di parlare (e rispondere) a tutti, e dunque permette a tutti di organizzarsi. Non richiede Vip e non ha bisogno di ideologhi. Non è contro i partiti, ma è molto più democratico e efficiente. Questo, mentre non è escluso che la mafia possa trovarsi ufficialmente nel governo. Se così fosse (saranno i giudici a dirlo) scatterebbe la disobbedienza civile e, per i pubblici ufficiali, il rifiuto d'obbedienza 30 settembre 2007. Lorenzo wrote: < Ciao R. Sono uno studente universitario di 24 anni, vivo tra Castelfranco Veneto e Padova. Ho letto il commento in cui parli di sciopero dei precari organizzato su Internet. Vorrei saperne un po' di più, la cosa mi interessa e sono prontissimo a dare una mano > < Guarda che sei tu che lo devi organizzare. Non hai bisogno di me, e nemmeno di Beppe Grillo. Basta che trovi un paio di centinaia di precari come te (nell'internet li trovi facilmente) e cominciate ad allargarvi (con l'internet è facile) su un obiettivo preciso (sull'internet è facile fare brain storming per individuare obiettivi) > *** Beh, se avete passato gli ultimi anni a prevedere le ricadute politiche di internet è probabile che dal cinque dicembre in qua vi sentiate un po' meno utopisti e molto meno isolati. E' stata la prima manifestazione grossa interamente organizzata su internet, senza Vip - gli organizzatori si sono dimessi tutti appena fatto il loro lavoro) e senza politici di mestiere. La prima, veramente, no: un paio d'anni fa, col Rita Express, molti studenti s'erano organizzati su internet per organizzare manifestazioni per la Borsellino; funzionò benissimo, ma nessuno (nè Rita) ci fece caso. Adesso siamo molto più avanti, le dimensioni sono ben altre e siamo abbastanza vicini alla massa critica. E' una svolta nella politica, una svolta vera. Non è “contro i partiti” (goffi i tentativi di usarla in tal senso, tutto sommato dentro il Palazzo) ma, più drammaticamente, “dopo i partiti”. I quali infatti, se vogliamo guardarci negli occhi, da tempo brutalmente non esistono più. Ce ne sono residui e surrogati, e caricature. Ma come l'Ottocento (l'industria, il socialismo) rese obsolete le logge e i club e “inventò” i partiti, così questi nostri anni (la comunicazione globale, l'interattività) rendono obsoleti i partiti verticistici e inventano, sotto i nostri occhi, qualche altra cosa. Io credo che questo “qualcosa”, di cui non conosciamo ancora esattamente i confini, ma che già cominciamo a odorare e tastare, sia qualcosa di bello e (parlando da liceale) di ateniese. E' questa la nostra frontiera. Ed è significativo che il prodromo, la versione 1.0, il Rita Express insomma, si sia verificato all'interno del movimento giovanile antimafioso. *** Il processo Dell'Utri, con la manifestazione targata internet, apparentemente non c'entra niente. In realtà ne è l'esatto complemento, l'altro polo. Dal processo Dell'Utri sapremo se è vero che Cosa Nostra (dire Dell'Utri è dire tout-court Berlusconi) è andata anche ufficialmente al governo. Se la presenza di Cosa Nostra in questo nostro regime – o, per usare Saviano: questo Sistema – fosse ufficiale, allora non sarebbe più questione di opposizione e men che mai di “regole del gioco” ma solo di disobbedienza civile, di rifiuto d'obbedienza – per tutti i pubblici ufficiali patrioti – e infine di restaurazione della Repubblica, nei modi che i tempi di internet possono suggerire. Essi comprendono sia Obama che gli studenti di Teheran,. Non toccherà a noi decidere quale di queste due strade ci toccherà seguire. UN EROE DEL NOSTRO TEMPO Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla presidenza: «Non mi sento di escludere che Spatuzza voglia rifarsi un'immagine. E non escludo che sia pagato, magari da magistrati, o da terzi». Va bene. Proviamo a “non escludere” pure noi. Micciché comincia negli anni '70, con Lotta Continua. A differenza di Rostagno o Impastato, cambia idea ben presto. Nel 1984, con Dell'Utri, diventa capo di Publitalia a Palermo; nel '93 coordinatore di Forza Italia in Sicilia. Nel gennaio '88, sospettato di spaccio, "Non sono uno spacciatore - risponde - ma solo un assuntore di cocaina". L'8 agosto 2002 un'informativa dei Carabinieri ipotizza che si faccia recapitare cocaina al ministero delle Finanze, dov'è viceministro. Ciò dopo indagini sulle visite che il presunto corriere Alessandro Martello faceva presso il ministero pur non essendovi accreditato. Lui smentisce. 27 dicembre 2009 I NOSTRI PROGETTI PER L'ANNO NUOVO Beh, questo sarebbe il numero 60. Festeggiare? Mah: coi bicchieri di plastica, magari. Ma poi considerarlo solo una fase riuscita di un esperimento, che ci autorizza (prudente mente) a passare alla fase successiva. Al solito, non da soli A Catania qualcosa si muove. Tante persone sentono sempre viva l'esperienza di Pippo Fava, credono nell'informazione come forza indispensabile di una società democratica. Raccontano i misfatti della mafia, le vite di quartiere, il sottobosco di interessi economici che definiscono gli scenari politici. Non sono tutti “giornalisti professionisti” ma dimostrano ogni giorno, al di là dei tesserini, che cos'è il giornalismo fatto di verità. I Cordai a San Cristoforo, La Periferica a Librino, Catania Possibile e testate online, come Ucuntu, Girodivite, Argo, Step1, sono le principali esperienze nate a Catania negli ultimi anni. Il 5 gennaio 2009 abbiamo lanciato il progetto di lavorare assieme, di aggregare le forze positive del giornalismo castanese (e non solo) per combattere il monopolio della disinformazione e di quella pseudoinformazione che devia l'attenzione dai problemi reali. È nata così l'Associazione “Lavori in corso”. Da gennaio a oggi abbiamo lavorato assieme, ci siamo mossi in sinergia mettendo in campo e valorizzando le risorse di ogni realtà e le competenze di ciascuno. Abbiamo creato una rete tra le testate di base coinvolgendo chiunque fosse interessato alla costruzione di un'informazione libera. Assieme abbiamo condotto tre inchieste sfociate in tre dossier: “Munnizzopoli” sulla gestione dei rifiuti, “Toccata e fuga” sulle band emergenti e adesso “Case” sul disagio abitativo. L'informazione non può continuare ad essere controllata da pochi che la manipolano in tutti i modi pur di realizzare i propri interessi. Questi meccanismi appartengono ai regimi autoritari e uccidono lo sviluppo democratico della società. *** Continueremo quindi a lavorare assieme, a raccogliere nuove forze, ad allargare la nostra rete a Catania e non solo. Continueremo a raccontare ciò che la stampa ufficiale omette, a fare inchieste e denunce, e soprattutto lavoreremo alla creazione di un quotidiano indipendente fatto da chi vuole portare avanti quell'etica di giornalismo definita così da Pippo Fava quasi trent'anni fa: “Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Un giornalista incapace - per vigliaccheria o calcolo - della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! La verità! Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà!” Sonia Giardina *** L'ANNO DEL DOPO-CIANCIO L'esperimento di Ucuntu è andato avanti finora in modo soddisfacente: sessanta numeri, diversi dossier, una visibilità nazionale e così via. Tutto questo lavoro vien fatto su base volontaria, comporta fatica e stanchezza e dunque fisiologicamente l'istinto sarebbe di contentarsi di ciò che si fa, e magari gloriarsene, non certo di accelerare; visto che già è difficile tenere il ritmo di ora. Ma ci sono tre dati precisi che ci spingono invece ad accelerare la corsa: 1) il concept del prodotto (Pdf da Open Office, pensato sia per web che per carta) è stato testato per quasi due anni e funziona; 2) gli interlocutori nazionali ci sono: nell'area del giornalismo libero e altrove c'è interesse e persino voglia di coordinarsi; 3) sono sempre più frequenti le voci di cambiamenti radicali nel monopolio in Sicilia; l'anno che viene potrebbe anche essere il primo a terminare senza Ciancio. Perciò dobbiamo muoverci. Fermi restando i concetti “politici” di base (centrare sulle periferie e sui quartieri; nessun compromesso coi poteri attuali; promozione dell'unità fra tutti i soggetti virtuosi, sia “moderati” che “radicali”), adesso cercheremo di fare un salto di qualità: essenzialmente una specie di “Ucuntu” quotidiano (ristilato in tal senso), lavorato ogni giorno con diversi altri siti e soggetti nazionali. Questo lavoro è già in corso e attualmente la scadenza operativa per il numero zero è il 21 marzo. Ciò potrebbe avere anche ricadute specificatamente catanesi: un web/paper legato al concept di cui sopra potebbe anche trovare un suo spazio di mercato. Al solito, non vogliamo lavorarci da soli. Elogio dell'insufficienza, 'assemblamento delle risorse, impegno “politico” e tecnico per la progettazione comune, unità. R.O. 3 gennaio 2010 LA MEMORIA DIFFICILE E LE COSE DA FARE Un altro anno è finito, un altro anno da fare. E così da tanti anni, da quanti ce ne possiamo ricordare. E' lunga, questa strada. Difficile capire quanto, se non ci cammini su Ventisei anni fa. come questi giorni, in cui le persone normalmente sono impegnate a guardare dentro le proprie cose, come nei giorni di fine anno. Riccardo, nella vecchia redazione de I Siciliani, sta scrivendo un volantino per organizzare la prima manifestazione del cinque gennaio. E' rimasto solo l'intera giornata per finire il lavoro. Le mani sporche di inchiostro, la scrivania piena di tabacco, il telefono con cui di tanto in tanto telefona, altre volte squilla: è Claudio da rassicurare, è il professore D'Urso con cui prendere accordi per l'associazione, è il prete palermitano che fa proposte d'intervento. Lui, ascolta e ritorna sul volantino. Guarda di tanto in tanto, dalla porta a vetrate, alla stanza d'ingresso, la stanza dove si fanno anche le riunioni dei “Siciliani giovani”. Ventisei anni e adesso che la lotta alla mafia ci ha messo nelle vite di ora. Riccardo è nella sua casa a Milazzo e sta lavorando alle pagine settimanali di Ucuntu, regolarmente mi telefona per sapere a che punto siamo con i pezzi e con il lavoro a Catania. Mentre pensiamo a come preparare gli interventi per il cinque gennaio, ci sono altre dieci cose da fare, in cui spesso l'azione preminente non è scrivere ma stare semplicemente dentro il lavoro di aggregazione sociale, a Catania come in altre parti della Sicilia. E' lavorare con il gruppo dei "Clandestini" di Modica; è "Librino" interpretata da Luciano, ma è anche guardare il lavoro della "Periferica", e prestare attenzione al "Centro Iqbal Mash" e al loro lavoro ; è fare il giornale daegli insegnanti precari a Catania, è telefonare a quei due o tre preti dell'Isola che educano la gente alla antimafia, è chiudere il dossier sulla "Emergenza case”, senza dimenticarsi dell'Experia; è organizzare la festa di fine anno nel quartiere a San Cristoforo; è sentirci tra di noi, e portare avanti questa "memoria difficile"di Pippo Fava nelle nostre vite. Con questa memoria portiamo avanti il “lavoro in corso” e tutto il resto, il pallone tirato ai ragazzini dei quartieri e l'informazione da passare in rete. La nostra memoria difficile fa il suo “lavoro in corso” nella stanza di Città Insieme a Catania in Via Siena 1 . La nostra memoria difficile si rinnova ogni mercoledì sera alle venti e trenta quando Piero, Sonia, Luca, Giuseppe, Luciano, Massimiliano, Sebastiano Enrico, Giorgio, Chiara lavorano insieme. Tutto quest'oggi e tutta questa memoria così importante e densa, ma anche così relativa e fragile, mentre pensiamo agli sguardi e ai dubbi, e al lavoro e alla fiducia di ognuno che porta con sè questa responsabilità di ricordare Pippo Fava. Come un girotondo incompleto in cui stiamo aspettando di toccare le mani degli altri compagni. Con questa “pazzia” che ci portiamo con fierezza siamo ancora lì, in quella stanza, a trovare le parole e ad aspettare. Fabio D'Urso *** IL KITSCH E LA SPERANZA Catania è una città abbastanza kitsch, con professori settantenni che cercano di farsi le allieve promettendo bei voti, giudici che chiamano il comune per raccomandare le mogli e roba del genere. Parliamo della Catania “alta”, in realtà, quella che comanda: che è esattamente quella dei Vicerè di De Roberto o - più modestamente – dei film con Turi Ferro. Ogni tanto, anche, ammazza; ma più spesso è grottesca; questo mix di ridicolo e di feroce è il proprium di Catania e la differenzia - ad esempio - dalla solennità macabra di Palermo. Entrambe le classi dirigenti delle due città (e di altre che loro assomigliano, come Milano o Napoli o Verona) ambiscono a farsi modello nazionale. E in buona parte ci riescono: un Feltri, un Berlusconi, un Prosperini, non sarebbero mai potuti esistere se non si fossero incarnati prima, con anni e anni di anticipo, in Sicilia. Poi c'è l'altra Sicilia, dei siciliani che stanno in basso, la gente che s'accapiglia e che lavora. Questa ha i suoi alti e bassi, come ne hanno il Veneto o l'Irlanda, ma nel complesso (ci vuol coraggio a dirlo in questo momento) è un paese civile, un po' cialtrone ma umano, rozzo - specie in politica - ma dignitoso, vittimista oltre il lecito (il suo maggior difetto) ma buono, nelle emergenze, a sostenere i Garibaldi e i Falcone. Così, tutto sommato, non fu sbagliata l'idea, di tanti anni fa, di chiamarci semplicemente “I Siciliani”. Ma sì: diamo fiducia ancora, senza troppe illusioni ma con affetto, a questo nostro popolo, alla nostra gente. Lotteremmo lo stesso, anche se questa fiducia non l'avessimo. Ma l'abbiamo. R.O. 10 gennaio 2010 E IL PRIMO MARZO SCIOPERO GENERALE “Vediamo cosa succede se per un giorno noi non lavoriamo”. Sono le antiche parole del movimento operaio, quelle che prima o poi vengono in mente ai poveri stanchi di prendere bastonate. Adesso, sono gli immigrati a dirlo. I primi di loro cominciano a organizzarsi. Diamogli una mano Sarà il primo marzo il primo sciopero organizzato in internet in Italia. Sarà uno sciopero importante, uno sciopero che non s'era visto prima e che però era nell'aria da diversi anni: lo sciopero dei lavoratori immigrati. “Ventiquattr'ore senza di noi”, l'hanno chiamato le promotrici. Di cui bisogna subito dare i nomi, che probabilmente resteranno nella storia: Stefania Ragusa, Daimarely Quintero, Nelly Diop e Cristina Seynabou Sebastiani: secondo le mummie una “italiana” e tre “straniere”, in realtà quattro italiane nuove, di cui non conta più tanto la razza e il nome: come in America, per capirci. “La società vive col lavoro di migliaia di stranieri. L'Italia collasserebbe subito senza di loro. E'venuto il momento di farlo capire a tutti. Vediamo che cosa succede se per un giorno noi non lavoriamo”. Non è n'idea originale, d'accordo. E' semplicemente l'idea del vecchio socialismo, del movimento operaio. Allora ha funzionato. Migliaia e migliaia di iscritti su Facebook (“Primo marzo 2010”), comitati locali dappertutto, un primo coordinamento nazionale. Come i Viola (e prima ancora il Rita Express), ma più preciso e più mirato. Tre anni dal Rita Express, un paio di mesi dai Viola. Le cose vanno in fretta, di questi tempi. “Certo, non molti lavoratori immigrati hanno internete; ma li contatteremo lo stesso; e molti ufficialmente non lavorano, o sono in nero, o non possono permettersi di alzare la voce; ma penseremo anche a loro. Anche uno sciopero degli acquisti può servire. Che altro? Aiutiamoli - ma c'è bisogno di dirlo? - con tutte le nostre forze e con tutto il cuore. Info: [email protected] *** Già, e poi dovremmo parlare degli altri, dei poveri “italiani” selvaggi (a Rosarno come a Verona), di quelli che ormai non sono più italiani da un pezzo ma semplice white trash, come in Alabama. Non abbiamo molto da dirgli, salvo che ci dispiace per loro, e che ci vergognamo per loro, ma che non intendiamo assolutamente pagare per loro, sprofondare nella cloaca insieme a loro. Non sono più calabresi, non siciliani, non sono padani, non sono niente. Sono solo una povera morchia umana, la vittima più vittima del razzismo (gli schiavi si liberano, ma chi si crede padrone non si libera mai), che ormai costituisce una zavorra per il Paese. Questa zavorra, questo dieci per cento del paese, ha un suo governo ufficiale e un suo governo di fatto. Quest'ultimo, è evidentissimo, si chiama mafia, 'ndrangheta e camorra. Non può essere più combattuto con mezzi normali. Il governo ufficiale vorrebbe rozzamente servirsene, ma ne viene usato. La 'ndrangheta che prende in mano il potere, che esercita funzioni di polizia, che indice i pogrom (l'aveva già fatto la camorra a Napoli, contro i rom: e col plauso di Bossi) non può essere combattuta con mezzi democratici. Finché si scherza si scherza, ma ora si è davvero andati troppo oltre. E' bene che il governo vi rifletta, perché la corda è stata tirata abbastanza. O si ricostituisce un governo, o si fa appello ai paesi civili (Rosarno povrebbe essere presidiata dalle forze dell'Onu, come l'Uganda), o gli italiani prenderanno in mano la situazione. *** Le parole “italiani” e “patria”, che noi usiamo raramente e con pudore, cominciano a chiedere prepotentemente d'essere pronunciate e messe in pratica, come nel '43. Beppe Sini, in queste ultime pagine, parla di insurrezione e, da buon pacifista, aggiunge “nonviolenta”: ma non tutti possono essere sempre pacifisti. Per intanto chiediamo a quanti hanno funzioni di responsabilità civile e militare – funzioni che hanno assunto con giuramento – di riflettere profondamente su quel che è oggi, e quel che potrebbe essere domani, il loro dovere di cittadini fedeli all'Italia e al giuramento prestato. 18 gennaio 2010 NON CONSIDERIAMOLO NORMALE La pulizia etnica di Rosarno, cioè l'allontanamento forzato, con la minaccia delle armi e per opera della 'ndrangheta, di tutti gli individui di pelle scura da un dato territorio della Repubblica Italiana, è stata una notizia per due giorni. Al terzo giorno dei fatti di Rosarno si parlava: - al quinto posto, nella gerarchia degli argomenti, su www.repubblica.it; - al sesto posto sul www.corriere.it; - in modo analogo su tutti gli altri siti giornalistici “ufficiali”. Una settimana dopo le prime fucilate e sprangate contro i neri, cioè, gli italiani erano già ridiventati “brava gente” e, la situazione era, come si dice, tornata “sotto controllo”. A Rosarno c'è stata addirittura una manifestazione ufficiale, gestita dalla 'ndrangheta, per dire che i rosarnesi non sono razzisti. Uno striscione contro la mafia, portato dalle ragazze del liceo, è stato fatto chiudere dagli organizzatori. Nessuno degli organizzatori o partecipanti alla manifestazione eversiva, per quanto ci risulta, è stato arrestato. Né lo è stato alcuno degli organizzatori e esecutori del pogrom, che è stato una vera e propria ribellione, penalmente perseguibile, contro i poteri dello Stato. Nei primi anni Settanta, sempre in Calabria, la molle prima Repubblica mandò poliziotti e soldati a stroncare, volente o nolente, il “boia chi molla”. Ma erano altri tempi e c'era ancora uno Stato. Tutto ciò è vergognosissimo per i funzionari di polizia, per gli ufficiali dei carabinieri e per tutti coloro che, avendo giurato fedeltà allo Stato, in effetti l'hanno tradito lasciando che il potere statale venisse violentemente usurpato, in quei giorni e in quei luoghi, dai boss mafiosi. A loro parziale discolpa sta il fatto che gli ordini erano quelli: il governo non era interessato a esercitare la sua potestà, delegandola di fatto - per clientelismo politico e solidarietà ideologica - ai mafiosi. Un piccolo otto settembre, con tutto il suo corredo di piccole vigliaccherie, di prepotenze senza sanzione, di “tutti a casa”. Ma anche di isolati atti di coraggio: gli abitanti di Riace hanno invitato i perseguitati a rifugiarsi nel loro comune, salvando col loro gesto la malridotta dignità calabrese. Anche su Rosarno, come su tutto il resto, il popolo italiano ha iniziato il rassicurante dibattito di rimozione. Calabresi e siciliani hanno dimenticato gli orrori da loro portati in altri paesi (altro che qualche disordine dei neri di Rosarno): decine di migliaia di ragazzi assassinati in tutto il mondo dalla loro eroina; la mafia sanguinosamente introdotta in paesi, come l'Australia o il Canadà, che mai ne avevano sentito parlare; eppure né gli australiani né i canadesi - popoli civili - hanno cacciato siciliani e calabresi. Su questo dovremmo meditare profondamente, e provare anche vergogna. E' difficile in questo momento gravissimo proporsi altri obbiettivi che non siano il ripristino dei poteri legittimi su tutto il territorio della Repubblica e la liberazione dall'occupazione militare delle mafie: perché di questo si tratta e non di altra cosa. In essa, il governo è collaborazionista col nemico. E buona parte della classe politica, o per azione o per inazione, gli tiene mano. Non c'interessano le loro opinioni su ogni altra cosa, finché questa situazione dura. Siamo in un'emergenza non inferiore a quella del dopoguerra, paghiamo prezzi altissimi e più alti ancora ne pagheremo (basti pensare al ruolo dell'Italia nella comunità delle nazioni, a quell'essere ributtati nel ruolo dell'Italian Fascist ridicolo e feroce). Davvero quel che chiamate politica è politica? Che problemi concreti si stanno risolvendo, o perlomeno affrontando, uno solo? Ci sono altre forme di politica reale, qui e ora, che non siano in un modo o nell'altro riconducibili a una ribellione? C'è una guerra civile a bassa intensità, dei ricchi contro i poveri e dei poveri fra di loro. Assume nomi e colori differenti, fra nord e sud, fra “italiani” e “stranieri”, ma è sempre sostanzialmente la stessa. Nasce dall'abbandono della politica (sostituita da simil-politiche fittizie e da “partiti” e “istituzioni” d'accatto) e finirà con il ritorno della politica, cioè di noi stessi. Accadono alcune cose politiche (lo sciopero del primo marzo è una, l'antimafia sociale è un'altra) e cresce l'intuizione fra i giovani che bisogna organizzarsi, fare qualcosa. Ma non abbastanza in fretta. Razzisti, leghisti, mafiosi, piduisti, ladroni d'ogni risma e vecchi puttanieri lavorano alacremente a divorare la Repubblica, a distruggerne l'anima, a renderci come loro. Non consideriamolo normale. Organizziamoci di conseguenza. 27 gennaio 2010 BUONE NOTIZIE (CON MOLTE PARENTESI) DALLA POLITICA "ALTA". E NOI FIGLI DI NESSUNO? Vendola vince, i “viola” continuano, il primo marzo c'è lo sciopero degli immigrati e il 12 quello della Cgil. Bersani e Di Pietro s'incontrano (miracolo!) per dire che sono contenti di lavorare insieme. Dov'è il trucco? Non riesco a vederlo: perciò non dico che mi fido, ma cerco almeno di seguirli con attenzione. Fermo restando che il lavoro duro, com'è sempre stato, toccherà farlo a noi poveri figli di nessuno... Riepilogo delle cose belle: continua il movimento dei viola, organizzano qualcosa il sei marzo (ma non hanno pensato a unificare la data con quella degli immigrati); continua l'organizzazione dello sciopero dei lavoratori immigrati, il primo marzo (ma sono due gruppi distinti che se ne occupano, e lavorano separati); la Cgil ha indetto uno sciopero generale antitasse per il 12 marzo (vedi parentesi precedenti); Vendola ha vinto le primarie in Puglia (ma resta vanitosissimo); Bersani e Di Pietro, per una volta, non si sono insultati a vicenda ma si sono incontrati per elogiare la vittoria di Vendola e dire che sono contenti di essere d'accordo nella maggior parte delle regioni. Queste sono alcune delle buone notizie che ci vengono dalla “politica”, quella perbene. Non sono granché, d'accordo, ma sempre megliodi prima. La malattia della sinistra è la divisione; pochissimi ne vanno esenti e negli ultimi tempi le maggiori cazzate in tal senso le hanno fatte esattamente gli amici politici miei (Fava e Vendola più di Ferrero, Ferrero più di Epifani, Di Pietro più di... beh, lasciamo andare. La verità è che si vince solo se si va tutti insieme, da Di Pietro al Pd passando per la sinistra dispersa (grazie a Ferrero e Vendola) che però conta il suo bravo milione (buttato al cesso) di voti. Su quale politica andare insieme? Beh, di sinistra; o se proprio di sinistra vi sembra assai, allora almeno di centro-sinistra. Ma del centro-sinistra doc, quello dei socialisti (prima di Craxi) e delle riforme, che allora erano proprio riforme e non imbrogli. Come il divorzio (radicali e socialisti), lo Statuto dei lavoratori (socialisti), il voto a diciott'anni (Pci e Dc), la scuola fino a sedici anni (sinistra Dc), l'equo canone (socialisti e Dc), gli uffici di collocamento (socialisti e Pci), il Concilio (lo metto come Riforma perché, tre secoli dopo Trento, questo è stato). Senza dimenticare la madre di tutte le riforme (Dc, Pci, Psi), la Costituzione, non a caso ancora odiatissima da fascisti, vecchi puttanieri e ladroni. Mi sono avventurato a parlare di politica perché, dalla politica loro, qualcosa per una volta mi ha fatto annuire. Per un tempo brevissimo perché poi, passato l'entusiasmo per la novità e tornato a ragionare posatamente, il Riccardo normale mi ha detto: non lasciarti gabbare, questi ora sono con le spalle al muro e fanno le persone serie, ma appena possono muoversi tornano come prima: guarda in Sicilia, che cosa stanno combinando proprio in questo momento. Fidati dei ragazzi vostri e di quelli che gli assomigliano, e di nessun altro al mondo; la vera politica è questa. E' vero, ho risposto io ancora in pennichella, certo che hai ragione. Ma perché, poveracci, se quelli vogliono fare le persone perbene, o addirittura i compagni, glielo dovremmo impedire? In fondo, è anche nel loro interesse. Perciò stiamo a guardare non dico con fiducia, ma con attenzione. Fermo restando che il lavoro più grosso, quello di pala e pico, quello che cambia le cose davvero (1860, '1943, '68...) al solito tocca farlo a noi poveri figli di nessuno. 3 febbraio 2010 SANT'AGATA E I GIORNI DI RACITI A Catania Sant'Agata è una festa importante. E' una santa storica (è esistita davvero, fra i primi cristiani), una santa sovversiva (ce l'aveva col prefetto e centurioni) e dunque una santa popolare. E' una santa tradita. Non solo – com esempre a Catania – dai mafiosi, che ci hanno messo sopra le zampe impossessandosi della gestione della festa, dei soldi che ci girano e di tutti gli aspetti materiali (c'è un processo in corso: www.cataniapossibile.it). Ma anche dalle persone perbene, dalle autorità e dai politici arcivescovo in testa. Tutti costoro, cioè la grande maggioranza della Catania garantita, non solo hanno lasciato ridurre in schiavitù dai mafiosi quella che nominalmente sarebbe la loro icona; ma tre anni fa, nel febbraio 2007, l'hanno usata cinicamente (“la festa deve nontinuare!”) per normalizzare la piazza nei giorni dell'assassinio dell'ispettore Raciti. Filippo Raciti, ucciso da fascisti e mafiosi (che lì sono alleati) il 2 febbraio 2007 perché si ribellava al patto di buon vicinato con fascisti e mafiosi, non ha avuto giustizia e forse, nella città di Catania, ufficialmente non l'avrà mai (a gente perbene, in questa città, anche senza giustizia dorme bene). Ha avuto invece – ma forse è ancora di più – solidarietà e amicizia vera. I giovani della città, la minoranza dei buoni (ma a volte non solo minoranza), nei giorni di Raciti si sono ribellati. Sono scesi in piazza, hanno fatto assemblee, hanno detto alto e forte che loro con la Catania ipocrita non ci stanno. Non è stata una protesta effimera, un fuoco di paglia. Da quei giorni di lotta sono nate crescita umana e organizzazione; e molti di quei giovani hanno continuato a lottare anche dopo (noialtri di Ucuntu, per esempio, in un certo senso siamovenuti fuori proprio da lì). Un ruolo forte l'ha avuto, in quei giorni di costruzione e nei mesi dopo, la sede di Casablanca (di Graziella Proto) che in quell'occasione è stata non solo la redazione di un giornale ma anche un centro di organizzazione, secondo la buona tradizione dei Siciliani; di lì la fase nuova, profondamente centrata sui quartieri, e i soggetti nuovi: Cordai, Periferica, Addiopizzo, Ucuntu, e altri ancora. La trasmissione della fiaccola, il passaggio di generazione e la continuazione di tutto. Adesso ci sarebbe da parlare di cose molto più moderne e tecnologiche (le fabbriche, internet che si organizza, le cose nuove), ma non è male, una volta ogni tanto, ricordare da dove siamo partiti. I giorni di Raciti non sono ancora finiti. Sant'aAata, festa “folkloristica” e arcaizzante, in realtà è un momento di “scandalo”, nel senso forte (e evangelico) della parola. E queste cose ci chiamano, ci indicano a modo loro dove andare. 10 febbraio 2010 IN NOME DELLA LEGGE: DIFENDI GLI IMMIGRATI? ARRESTATO! E' il caso di Padre Carlo, di Siracusa: da anni “tenuto d'occhio” perché prendeva le parti dei “clandestini”: finché l'hanno arrestato. Nessuno di quanti lo conoscono crede alle accuse contro di lui. Una sola - che non hanno osato esprimere - è vera: quella di essere un cristiano. Aiutare i poveri, ospitare gli stranieri, difendere i perseguitati Non è una chiesa come le altre. Nella Chiesa di Bosco Minniti a Siracusa, da molti anni, tutti possono trovare rifugio; gli extracomunitari, scappati per mille ragioni diverse dai loro paesi, ci abitano, la vivono, la animano condividendo le difficoltà quotidiane. Entrateci all’ora dei pasti: è la mensa di tutti i popoli. Al posto dell’altare una tavolata immensa dove almeno cento immigrati di ogni nazionalità si trovano riuniti a mangiare. Alle pareti, simboli di diverse religioni. Qui sono stati accolti anche molti di immigrati scappati da Rosarno e presto ci saranno, come ogni anno, quelli che arrivano per la raccolta stagionale nei campi tra Cassibile e Pachino. Tutto questo dà fastidio ai potenti. In un momento in cui si tenta in tutti i modi di rendere la vita sempre più impossibile agli immigrati, si compie l’ennesimo attacco politico, l’ennesimo tentativo di stroncare l'accoglienza e l'integrazione. Padre Carlo D’Antoni è ora agli arresti domiciliari insieme ad altri otto indagati (Antonino De Carlo, un collaboratore del sacerdote, l’avvocato Aldo Valtimora e sei immigrati), accusati di gestire il rilascio di permessi di soggiorno falsi. Il reato ipotizzato dal Gip di Catania è associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'illecita permanenza di stranieri nel territorio dello stato italiano. E poi accuse di riduzione in schiavitù e di falso ideologico in atto pubblico e false dichiarazioni a Pubblico Ufficiale per aver “inventato storie travagliate e commoventi” al fine di ottenere titoli di soggiorno per motivi umanitari o di protezione temporanea. Inventato!. Ma se è vero che molti extracomunitari finiscono nelle maglie del mercato illegale delle regolarizzazioni e se è vero che un traffico di clandestini tra Siracusa e la Campania esiste, gli immigrati di Bosco Minniti dicono che l’attacco a padre Carlo è infondato, che lui non ha nulla a che vedere col racket dei documenti, che non ha mai commesso quei reati. Dicono che l’esperienza di Bosco Minniti deve continuare, in una chiesa senza frontiere, aperta a tutti, un luogo in cui si lotta per il diritto a una vita dignitosa. Sonia Giardina *** Padre Carlo Dantoni è stato fra i primi a seguire il processo per il naufragio del Natale ’96 al largo di Portopalo e l'inchiesta di Dino Frisullo sulla holding degli schiavisti. Dopo 13 anni si è arrivati alla condanna a 30 anni dei 2 imputati, anche se in seguito alle leggi razziali e ai respingimenti in Libia le mafie mediterranee continuano sempre più ad ingrassarsi . Come allora esigiamo verità e giustizia nel colpire i carnefici dei migranti , ma ci opponiamo a qualsiasi campagna di criminalizzazione di chi si spenda nell’accoglienza, anche disobbedendo a leggi ingiuste . Un motivo di più perché la giornata di mobilitazione antirazzista del 1° marzo a Siracusa e in Sicilia veda scendere in piazza i migranti e chiunque si batta contro le nuove politiche d’apartheid. Rete Antirazzista Catanese *** ALLE LEGGI RAZZIALI BISOGNA DISUBBIDIRE I “reati” di padre Carlo, se anche fossero veri, non sarebbero affatto reati nuovi: c'erano già prima. “Aiuto a schiavi evasi”, come nell'Alabama dello Zio Tom. “Aiuto a ebrei fuggitivi”, come nell'Italia del duce. Non sono affato reati, in verità. Sono doveri per chi è cristiano - sono obbligo per chi è civile - sono vergogna incancellabile per chi ne ha fatto “legge” e angheria. Alle leggi ingiuste bisogna disobbedire. Bisogna far fuggire gli schiavi, nascondere gli ebrei, aiutare i “clandestini”. Per noi cittadini italiani (non padani, non mafiosi: italiani) è un dovere precisissimo che ci ordina la nostra sovrana, la Costituzione. E' infedele quel funzionario che, nascondendosi dietro “leggi” antiitaliane, tradisce la Repubblica e viola il giuramento alla Costituzione. “Io eseguivo gli ordini” non è, e non è mai stata, una giustificazione. La Fiat ora proclama apertamente: “Al diavolo voi siciliani! Io vi licenzio tutti quanti e porto le mie fabbriche in Cina”. Ai vecchi operai settentrionali: “E' vero, mi avete servito per quarant'anni - dice - Mi avete permesso di nascondere miliardi e miliardi all'estero e di governare di fatto il vostro paese. Che importa! Al diavolo anche voi tutti. Le prossime Cinquecento le farò in Messico o in Brasile”. E il popolo, instupidito, tace. Fino a quando? R.O. 19 febbraio 2010 CHE COSA CI INSEGNA QUEL RAGAZZO QUALUNQUE "Sono nato ad Agrigento il 18/10/1986, residente a Campobello di Licata (AG), cittadino libero. Ho voluto specificare il mio status per combattere il servilismo che ogni giorno di più avvolge il nostro Paese. Ho scelto di rimanere in Sicilia, di non andare via anche se vivere qui è duro...". E' l'incipit del blog di Giuseppe Gati, morto un anno fa d'incidente mentre aiutava suo padre al lavoro, in campagna. Della sua breve vita, qualcuno ricorda ancora le fiere parole - “Viva l'antimafia! Viva Caselli!” - con cui interruppe gli insulti di un servo del potere mafioso venuto a fare il suo sporco lavoro. Lo afferrarono le guardie e se lo portarono via. Lui ricominciò la sua esistenza normale: organizzare l'antimafia, aiutare la famiglia, portare avanti il blog. Il filo era diventato assai breve, tutto ciò che Giuseppe avrebbe mai potuto dare al mondo era ormai concentrato in quei diciannove anni. Ma abbastanza per ricordarlo, per essere orgogliosi di lui, e profondamente grati. Servono le persone così, molto più che i grandi eroi. La storia di Giuseppe ci è venuta provvidenzialmente davanti mentre ci arrabbattavamo per esprimere l'indignazione per le ruberie, per le prostituzioni, per le insolenze di piccoli e grandi mascalzoni che sono ormai la fauna abituale di questa decadenza in cui viviamo. Difficile trovare le parole, e trovarne soprattutto di non volgari; perché la volgarità è contagiosa. A furia di scrivere e raccontare di anime basse qualcosa di quel grigiore s'insinua dentro di noi; e la mediocrità, la povertà umana, la svendita di se stessi a un certo punto appaiono, senza accorgersene, qualcosa di riposante e di normale. Non puoi scrivere di Bertolaso senza diventare almeno per un milionesimo di te stesso arrogante e servile. Non puoi attraversare le elucubrazioni dei Di Pietro, dei Bersani o dei D'Alema senza vergognarti impercettibilmente dei compromessi compiuti dal te stesso politico (certamente minori e, anche qui, “a fin di bene”). E Bossi, e Berlusconi, le due violenze, non hanno davvero nulla, per un maschio adulto italiano, di machiavellicamente affascinante? Ecco: a tutte queste putredini, a queste debolezze, risponde come un soffio d'aria un essere come il nostro Giuseppe. Non ha vissuto niente di tutto questo, Giuseppe. Non si è mai rapportato coi Vip, non ha mai voluto esserlo e nemmeno, per un istante fugace, gli è apparso il fascino del rifiutare (che è quasi esercitare) un potere; queste cose nel suo mondo non sono mai esistite, semplicemente. Così, questo ragazzo come tanti altri, semplice e buono, assolutamente non-eroe, è quello che ci insegna di più; almeno a me. Dobbiamo sconfiggere Berlusconi ma così, distrattamente, senza troppo appassionarcene nè dargli maggior peso del dovuto. Combattemo il razzismo e le altre cose disumane per quello che sono, cioè estranee alla vita, indialogabili. Cammineremo nella storia, faremo la nostra parte, ma senza mai prenderla sul serio più di tanto. Sapendo che la storia profonda, quella che gl'intellettuali non vedono e che non è potere, è la più importante di tutte. E neanche sapremo esprimere queste cose in parole lucide, da poveri intellettuali del Novecento; ma ci arrenderemo a questo limite, umilmente. Infatti, basta il viso di un ragazzo buono qualunque - il viso di Giuseppe, per esempio - per raccontare con chiarezza ciò che serve. Che altro? 27 febbraio 2010 CHE TI DICE LA PATRIA? “E' il rapporto mafia-politica che paralizza il Sud”: lo dice la conferenza episcopale, e certo è una bella scoperta che prima o poi doveva arrivare. Cinquant'anni fa, per l'arcivescovo di Palermo Ruffini, si trattava invece di “una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia”. *** Fra i ladroni ci sono parecchi fascisti: Mokbel, Andrini (manager di Alemanno) e altri ancora. Storicamente, i fascisti rubavano parecchio (Muti, Monti, Petacci fratello ecc.). Adesso, l'estrema destra razzista - la Lega - si distingue per le mani lunghe in Lombardia: vedi, fra i tanti, il crociato antiimmigrati Prosperini. “Ma fare politica costa”, si giustifica lui. *** E il monumento a Craxi, che fine ha fatto? Ora è il momento di alzarlo. Grande, monumentale, a coprire (come suggerisce Mauro Biani) il vecchio e ormai vagamente sovversivo Duomo. *** «Sono solo secchiate di fango. Nessun reato emerge con certezza». Ci sono già stati altri capi di Governo che hanno difeso i delinquenti. Almeno due (Fujimori del Perù e Bordaberry dell'Uruguay) lo stanno scontando nelle carceri dei rispettivi paesi, tornati democratici alla fine. *** Satrapi. Tutti maschi. Qualche donna isolata a fare da escort, e poi basta. Questo regime è vecchio, sclerotico e, seconddo lui, maschile. *** Nell'album di famiglia, Bertolaso è Graziani. *** Trattative. Nè Ciancimino, ai suoi bei tempi, era “mafioso”, nè lo è adesso Dell'Utri. Ufficialmente e per tutti i media (rileggere il giornale di Sicilia o il Corrierone di allora, e quelli di ora), erano semplicemente degni uomini politici di governo che gli infami comunisti calunniavano come mafiosi. Certo, un sindaco di Palermo o un fondatore di Forza Italia in Sicilia mafioso dev'esserlo per forza, per esigenza di mestiere; così fu per il quondam Ciancimino, così è ora per il povero Dell'Utri. Ma questa è una ragione per additarli al ludibrio e al linciaggio morale? Dunque un politico italiano, secondo voi, non può più nemmeno fare il mafioso? *** Ma Berlusconi, poi, è davvero presidente? Davvero il cavalier Mussolini nel pieno rispetto della legge e delle modalità formali dello Statuto - era Primo ministro, nel '36? 8 marzo 2010 LIBERTA' DI STAMPA IN SICILIA Libertà di stampa? Certo che in Sicilia esiste, tant'è vero che state leggendo questa cosa. Ma non è benvoluta, nè dal governo nè dalla società (per governo in Sicilia s'intende sia quello che si vede sia quello che no). L'indifferenza della società alla libera informazione si vede, di solito, il giorno dopo che ammazzano qualche giornalista. Da noi ne ammazzano molti, meno che in Colombia o in Russia ma più che in ogni altro paese. Gli unici casi in cui la gente si sia ribellata sono stati quelli di De Mauro (grazie ai comunisti, che allora c'erano ancora) e Fava (i ragazzi di Catania). Alfano, Cristina, Francese, Rostagno, Spampinato e Impastato morirono nell'indifferenza generale. A Cinisi, il paese di Impastato, la popolazione a trent'anni di distanza è ancora dalla parte dei mafiosi (imitata, negli ultimi tempi, dai più recenti mafiosi delle valli bergamasche). Esiste la libertà, ma non il mercato. L'unico siciliano autorizzato (dalle Competenti Autorità) a fare tivvù e giornali si chiama Mario Ciancio, vive a Catania ed ha nell'harem tutti gli intellettuali cittadini, dall'elegante fascista Buttafuoco al feroce maoista Barcellona. Non vende molti giornali (molto meno, in proporzione, che a Istanbul) ma la cosa non ha importanza, perché tutti gli imprenditori siciliani (compresi quelli che ultimamente hanno smesso di essere mafiosi) fanno pubblicità solo da lui. Mai, mai, mai leggerete un rigo di pubblicità siciliana su un giornale siciliano antimafioso. Libertà di stampa vuol dire dunque che tu, se sei disposto a fare la fame per i prossimi venti o trent'anni ed eventualmente prima o poi ad essere ammazzato, puoi scrivere quello che vuoi e pubblicarlo qui, su Girodivite, su Ucuntu.org, su Catania Possibile, su Terrelibere, sulla Periferica, sui Cordai o su qualche altro giornale di analoghe dimensioni. Per informare la gente, in realtà, questo potrebbe anche essere sufficiente (specialmente se tutti questi organi prima o poi si decidessero a unirsi fra loro). A Messina, ad esempio, l'allarme su Giampilieri era stato dato ben prima dai giornalisti liberi, in tempo per prendere i provvedimenti opportuni e salvare - alla faccia degli speculatori edilizi e della loro Gazzetta - coloro che erano già in lista d'attesa per essere annegati alle prime piogge. Ma nessuno ha preso sul serio i loro articoli. Se fossero stati giornalisti bravi ragionava il lettore messinese - avrebbero fatto i milioni al servizio dei politici, mica avrebbero perso tempo e soldi per informare me. Al messinese, al palermitano, al catanese, sapere la verità in realtà non interessa. La verità è fastidiosa, la verità desta. Ed è così bello dormire! La realtà è quel che è, cambiarla è faticosissimo, meglio sognare. Forza Catania, evviva il Ponte, viva Palermo e Santa Rosalia. [www.girodivite.it] 8 marzo 2010 STANNO GIÀ COMINCIANDO AD ABOLIRE LE ELEZIONI In pratica le hanno già abolite in Lazio e in Lombardia. Addio regole uguali per tutti, ora per forza deve vincere il partito al governo. Anche il primo fascismo cominciò così. Difendiamo la costituzione, difendiamo la nostra Repubblica, e creiamoci dei dirigenti nuovi e giovani, capaci non solo di gridare forte o di fare le primedonne ma di vincere concretamente e realmente questa lotta Formalmente, anche sotto il fascismo si votava. Si votava ma a modo loro, con elezioni fasulle da cui il governo usciva automaticamente vincitore. Le elezioni, di fatto, erano state abolite, ma senza dirlo. Oggi il governo italiano ha abolito le elezioni regionali in Lazio e in Lombardia. Formalmente si vota ancora, ma non sono più vere elezioni, con regole uguali per tutti. Sono “elezioni” alla Duce, alla Putin o alla Gheddafi, di cui non a caso questo governo è l'unico amico. Esse non hanno dunque alcun valore legale e gli “eletti” che ne risulteranno faranno bene a evitare di arrogarsi poteri dello Stato. In questa situazione, delicatissima e pericolosa, i cittadini debbono restare saldi attorno alla loro Costituzione e prepararsi a difenderla in ogni caso. Le forze politiche democratiche debbono prendere in ipotesi l'eventualità di un “impeachment” - cioè di una messa in stato d'accusa - del capo del governo, che ha travalicato i suoi poteri. E' sbagliato e puerile, e certamente utile al duce, prendersela in questo momento col re, che pure certamente ha sbagliato. L'obbiettivo di tutti dev'essere la messa sotto accusa del responsabile formale dell'attacco allo Statuto, ieri Mussolini e oggi Berlusconi. *** E' difficile che la sinistra attuale, con tutte le sue buone volontà e le sue piccinerie, sia in grado di portare avanti con successo una simile lotta, a cui non è preparata. Qua non si tratta di gridare più forte, di sopraffarsi a vicenda - ognuno per conto suo, e con vanità da prime donne - per poi lasciare tutto come si trova. Si tratta di affrontare problemi come il rifiuto d'obbedienza, la resistenza collettiva e civile agli ordini illegali e il dialogo operativo coi funzionari lealisti, civili e militari. Non credo che un Di Pietro, un Veltroni, un D'Alema, un Bersani, o anche un Vemdola o un Ferrero (che hanno ancora sulla coscienza quasi un milione di voti dispersi per puntigli infantili) possano essere i nostri leader in questa lotta. Dobbiamo tollerarli sì, non affrontare il problema che essi costituiscono proprio ora. Ma è chiaro che con loro non si può vincere, ma al massimo sperare di resistere un altro poco. *** Per fortuna, la sinistra comincia ad avere un altro filone di dirigenti, provenienti - come dice don Ciotti - “da un'altra falda”. E sono quelli del movimento viola (se staranno attentissimi a non produrre leaderini, e a tener fuori i leaderoni esterni), quelli dell'antimafia (il più duraturo e il più avanzato in termini sociali fra i movimenti degli ultimi vent'anni) e soprattutto quelli, parte italiani vecchi e parte nuovi, che hanno organizzato il Primo marzo. Se tutti costoro diventeranno coscientemente e compiutamente “politici”, se non rifuggiranno dall'assumersi le loro responsabilità (che sono sempre più proprio “di partito”), se sapranno ispirare alle persone comuni fiducia e ammmirazione e non paura,se sapranno dialogare coi pezzi di sinistra basati ancora sulla lotta sociale (praticamente quasi solo il sindacato), se non saranno né prime donne né vanitosi, se sapranno coordinarsi efficacemente al loro interno e fra di loro, se sapranno imparare, se... - allora, amici miei, potremo dire che un'altra sinistra, vera e vincente, è davvero nata, e che lo sfacelo della vecchia non sia che un episodio dovuto. *** Io sono convinto che tutto questo stia accadendo davvero, e che tutte le caratteristiche di questi compagni nuovi (comprese quelle negative) ricordino moltissimo quelle dei fondatori della prima sinistra, quella dei socialisti dell'Ottocento. E come i compagni di allora non lottavano semplicemente per i diritti ma anche contro regimi autoritari e feroci (lo zar, il kaiser, levarie monarchie assolute), così oggi ci troviamo davanti, fra i vari problemi, anche quello di un assolutismo in forma nuova, di un repubblica attaccata dai nobili, di un egoismo sociale sempre più feroce. Eppure - poveri individualmente ma immensamente forti se ci uniamo siamo certi di farcela, assorbendo persino le debolezze e le periodiche rese dei nostri “centrosinistri” compagni di cammino. 16 marzo 2010 CHE COSA L'ANTIMAFIA PUÒ INSEGNARE ORA Fare un partito grosso, più moderato ma unico, per meglio contrastare una destra aggressiva? O fare un partito di sinistra vera, responsabile ma senza equivoci, per mettere insieme tutti coloro che vogliono cambiare le cose? Non si può dire che le cose in Italia non si muovano. Vanno anzi a razionalizzarsi, attorno a queste due nuove proposte che vanno rapidamente trasformandosi in organizzazione. Quale delle due sarà giusta, l'avvenire ce lo dirà. Per intanto hanno in comune due cose: che da un lato dichiarano entrambe di non voler più fare vecchia politica, e di volerne anzi una nuova, più democratica, meno elitaria e con più partecipazione dei cittadini; e che dall'altro non riescono esattamente a definire quale essa sia, con che prassi concreta, con che cultura. "No all'oligarchia, sì alla partecipazione": la domanda ormai è facile, ma siamo appena all'inizio della lunga strada che ci porterà alla risposta. Per il movimento antimafia ("anti" mafia, ma "per" un sacco di cose accumulate lungo la via) questa domanda si è posta fin dalle origini, e le risposte a poco a poco le hanno date i fatti. Nei momenti oligarchici, verticali, ha funzionato male e prima o poi s'è arenato; nei momenti collettivi, corali, ha funzionato bene e ha cambiato le cose. Ha funzionato bene quando è stato articolato e reciproco, con un'ala "moderata" e una "estremista" che si riconoscevano e si collaboravano, pur nelle reciproche critiche, a vicenda. Ha funzionato male quando questo autoriconoscimento s'è inceppato e ha dato luogo alle emarginazioni e ai settarismi reciproci. Noi dell'antimafia siamo stati costretti a imparare in fretta queste lezioni (almeno i più maturi di noi) perché quando si combatte non c'è molto spazio per errori. Si pagano immediatamente, e a volte molto cari. Possono litigare Togliatti e De Gasperi, a Roma. Non possono litigare il comandante garibaldino e quello badogliano, in montagna, perché hanno i tedeschi davanti, e debbono per forza trovare una via di accordo. E questo, nella prassi concreta, educa a molte cose. Alla fine l'ufficialetto sabaudo riconoscerà senza problemi che il re ha fatto molto male a scappare, e il communista feroce non farà fatica ad ammettere che forse la dittatura del proletariato magari si può rimandare a un'altra volta. L'Italia è stata fatta così, fra partigiani. La sua coesione politica, durata oltre cinquant'anni, e della sua sinistra in particolare, non nasce dalle varie ideologie ma dall'esperienza concreta del lottare insieme. Quando la spinta propulsiva di quest'ultima si è esaurita, allora è arrivato lo sbandamento e il "tutti a casa". Che dura tuttora, anche se mascherato dai più bei discorsi e dalle più nobili ragioni. L'antimafia è stata ed è, nei suoi momenti più alti, l'antifascismo e la resistenza delle nostre generazioni. Non una somma di idee astratte ma l'esperienza concreta, e umanamente profonda e spesso rischiosa, del fare qualcosa insieme contro un potere inumano e diffuso. Ecco: se la politica deve rinnovarsi, si rinnovi con questo. Coi ragazzi di Locri, con quelli del liceo Meli ai tempi di Falcone, coi napoletani di Monitor, coi SicilianiGiovani che lottarono i Cavalieri. Con tutti quegli esseri umani, umili e non famosi, che nelle varie situazioni fecero inconsapevolmente politica perché erano ben decisi a fare Resistenza. Ecco: nelle nostre radici c'è esattamente questo. Noi non siamo nati per "politica", siamo nati perché c'era da lottare, e in questa lotta condotta insieme ci sono state insegnate - di fatto e senza che noi lo volessimo molte cose. Adesso dobbiamo cercare di trasmetterle, in situazioni nuove ma non sostanzialmente diverse, e di continuare a impararne sempre di nuove. In questo circolo di imparare/raccogliere, di forma tecnica "dura" e montanara, libera invece e anarchica quanto a organizzazione, c'è tutto quel che possiamo dare alla sinistra e al progresso, a qualsiasi sinistra che voglia veramente dirsi tale. [Casablanca”, maggio 2007] 6 aprile 2010 LE TRE ITALIE DEL DOPO-VOTO La cosa più inportante in queste elezioni è che per la prima volta la gente ha votato secondo criteri “etnici” e non politici: prima c'erano soprattutto una destra e una sinistra, ora c'è soprattutto un nord e un sud. Qualcosa del genere si era già verificato negli ultimi tempi della Jugoslavia. La seconda cosa importante è che queste elezioni, che nessuno formalmente ha contestato, sono elezioni fino a un certo punto, falsate sia da irregolarità amministrative (la faccenda delle liste, ecc.) che dalla disparità, ormai ridicola, di propaganda. Entrambe queste caratteristiche sono ormai praticamente accettate. E' dubbio, da questo punto di vista, che l'Italia sia ancora un paese democratico nel senso occidentale. Dal voto sono usciti tre Paesi distinti – il Nord, il Centro con la Puglia, il Sud – dei quali almeno due, come statuto di fatto, sono completamente fuori dalla vecchia Costituzione. Al nord è ormai riconosciuta quasi dappertutto l'apartheid, che nell'Italia classica non è mai esistita nè a destra nè a sinistra nè in alcun'altra formazione; al Sud, dopo i fatti di Rosarno (ma prima ancora di Napoli), è ormai indubbio che il reale governo del territorio è gestito spessissimo da mafia, 'ndrangheta e camorra (il Sistema). Neanche questo era previsto dalla precedente Costituzione. *** La responsabilità delle varie sinistre, in tutto ciò, non è da poco. Il partito maggiore ha quella di aver lasciato crescere Berlusconi, con una tendenza all'inciucio (come ora in Sicilia) che sembra fare ormai parte del suo Dna. I minori quello di essersi colpevolmente divisi (Ferrero e Vendola), di aver navigato fra piazza e notabilato (Di Pietro), di aver trasformato giuste istanze in pasticci utili a nessuno (Grillo). Se si dovesse sintetizzare, il vilain più emblematico risulterebbe Bassolino: accolto con entusiasmo da una popolazione ansiosa di cambiare, sostenuto con lealtà e coraggio dalla massa infelice ma fiera dei napoletani – e scivolato nel giro di pochi anni nell'arroganza, nel notabilato, nella corruzione e infine nel tradimento politico e sociale. Nessun segretario della sinistra sarà credibile se non farà piazza pulita, e pubblicamente, di tale gente. Abbiamo perso il Lazio per pochi voti e il Piemonte per la coglionaggine (peraltro giustificata) dei grillini; ma la Campania e la Calabria li abbiamo persi perché abbiamo malgovernato, perché non siamo stati, come la gente ci aveva chiesto, antimafiosi. *** Non è elevatissimo, il dibattito post-elezioni della sinistra: panico, accuse reciproche e ambizioni si sfogano liberamente e senza alcun senso di responsabilità. Tornano a farsi sentire i Veltroni, i D'Alema e gli altri affossatori del vecchio modello Pci, che pure organizzativamente (e purtroppo l'ha dimostrato Bossi) era quanto di più efficiente la sinistra italiana avesse mai prodotto. Negli apparati, i giovani non sembrano molto meglio dei vecchi, quanto a proclami apodittici gonfi di Io. Alla base, per fortuna, il clima è differente. Rabbia (si è perso per pochissimo), volontà di lottare, patriottismo. Fra i giovani soprattutto c'è confusione, sconcerto, paura per l'avvenire ma non, o assai raramente, rassegnazione. E questo trasversalmente, senza gran distinzioni di partito. Chi spera in Vendola, chi in Bersani, ma in un Bersani o un Vendola visti non come grandi leader blairiani ma come servitori seri e modesti di noi tutti. Il modello politico – lo ripetiamo ancora – per noi è quello dell'antimafia, libera, responsabile, combattiva e unita. Il progetto potrebbe ripartire dell'intervista estiva di Romano Prodi (qui a suo temo ripresa), autocritico, anti-blairiano, irriducibilmente anti-destra, e ottimista. 6 aprile 2010 C'ERA UNA VOLTA l'ITALIA L'Italia, che per la maggior parte della sua storia è stata un'“espressione geografica” politicamente disgregata, è stata tuttavia sempre unitissima sul piano della cultura e, diciamo così, sentimentale. Lo è ancora L'Italia comincia a Formia e finisce a Sassuolo. Prima di Formia, sei in terra di camorra (o di 'ndrangheta o mafia, secondo i casi). Dopo Sassuolo, Parma ormai americana (coi sikh col turbante che lavorano il parmigiano) e poi Piacenza, il Po, la Padania. Padania parta est in partes tres, di cui la prima l'abitano i Padani (anticamente Lombardi), l'altra è il Nordest (un tempo Veneto) e la terza il Piemonte, unico ad aver conservato il vecchio nome. L'Italia, in queste terre, conserva Genova, Susa, Spezia, Mantova e Aosta. Un tempo questa regione era costellata di fabbriche (a ovest) e chiese (a est). Queste ultime esistono ancora, per quanto vi sia cambiata la religione; ma le fabbriche sono state quasi tutte trasferite in Cina, lasciando al loro posto vasti buchi neri. Le autorità periodicamente li riempiono di veline, stilisti, finanzieri d'assalto e faccendieri per evitare che gl'indigeni si accorgano che lì manca qualcosa. Per la stessa ragione aizzano, quando lo ritengono il caso, pogrom contro gli zingari, i miscredenti, i mori o anche i semplici stranieri. A sud di Roma (di cui estremo avamposto è Formia) si stendono gli Stati Criminali, cosìddetti non perché la criminalità vi sia particolarmente elevata (lo è) ma perché vi governa. Da secoli colà pacificamente conviveva con re, duchi, repubbliche e chiese locali. Negli ultimi vent'anni, tuttavia, ha ritenuto di non aver più bisogno di loro e di poter prendere direttamente nelle proprie mani le cure dello Stato; ciò che è avvenuto rapidamente e con uno spargimento di sangue relativamente contenuto. E' stato tuttavia mantenuta, nella maggioranza dei casi, un'apparenza di continuità (in molte cittadine della Calabria esistono ancora le caserme dei Carabinieri), soprattutto per riguardo ai cittadini più anziani. Ciascuna di queste organizzazioni ha un nome pubblico (Camorra, Cosa Nostra, 'Ndrina) che si richiama agli antichi tempi; con esso è conosciuta all'esterno del paese; fra loro, tuttavia, si chiamano semplicemente "il Sistema", termine più moderno e molto più adeguato alla situazione. Da tutte queste terre l'Italia fu espulsa fra il 1982 e il 1993; nessuno dei tentativi di riconquista attuati (ma sempre con forze insufficienti e per così dire all'avventura) da questo o quel funzionario italiano ha avuto successo; pertanto i maggiorenti italiani decisero, dopo matura meditazione, di riconoscere il fatto compiuto e di concedere a quei baroni, se non il nome, almeno la sostanza della libertà. Quelli tuttavia non se ne contentano ma muovono arditamente, e non senza successi, alla conquista del rimanente d'Italia. Il che se otterranno, lo vedranno i nostri nipoti. Si eccettuano, a questo regime, alcune terre che, con gran difficoltà ma tenendo fede, mantengono per via di mare i legami con Roma. Ed esse sono Stromboli, Filicudi, Alicudi, le Puglie, Siracusa in Sicilia e la Basilicata. Quanto a lungo potranno resistere, Dio lo sa. Si aggiungano, molto più lungi, i Sardi, divisi tuttavia dall'Italia da lingua, mare e costumi. Va tuttavia ricordato, a loro onore, che il Sistema da loro non attecchisce. Fieri e gelosi della loro isola, ne hanno respinto mafia, camorra, 'ndrangheta e americani. Tale lo stato della penisola italica ai nostri tempi. Dalla mia giovinezza, come tutto è cambiato! Allora - e parlo della tarda metà dell'altro secolo, quando le lucciole e i filobus c'erano ancora - l'Italia era un luogo incantevole, unito dal nord al sud, diviso in tantissimi popoli che però, per alchimia dello spirito, si completavano fra loro. Così al napoletano cialtrone ma intelligentissimo faceva contrappunto il buon torinese serio e quadrato; il corridore veneto ("Mama son contènto di esser arivado uno!") era congenere del picciotto palermitano ("Bedda matri e che ffu?"); volti e dialetti si mescolavano nel crogiolo della Fabbrica, koiné non essendo il pidgin italish di ora ma un veneto-turìn-sicilianu comprensibile a tutti, da tutti amato. Cessava dopo un millennio il latinorum dei preti; l'italoromanesco della Rai, ben più popolare, ne prendeva il posto ed alfabetizzava tutta quanta l'Italia - da Nicolò Carosio al maestro Manzi - per la prima volta nella sua lunga storia. *** Adesso, cammini ingrugnato per piazza Maggiore. Le foto dei duemila partigiani (modeste fototessere in bianco/nero) nella bacheca di vetro, sopra i gradini; e frotte di ragazze e ragazzi che chiacchierano allegramente sotto di esse. E il sindaco - il nostro sindaco - che ha appena fatto l'accordo col fascio, per "mantenere l'ordine" e tenere lontani i lavavetri. E sei ancora a Bologna, città civile; non sei a Verona dove il sindaco appena insediato ha dichiarato guerra, in un'unica dichiarazione, agli zingari e alla Sovrintendenza alle Belle Arti o a Catania dove ammazzano i poliziotti allo stadio e ridono il giorno dopo. Non sei a Milano né a Napoli - capitali antichissime, testa e cuore - dove scacciano i mendicanti e fanno spacciar droga ai bambini. L'Italia è sempre stata le Italie. Italian macaroni, mandolino. Abbiamo sempre avuto un Nord e un Sud, e ciò ci faceva più belli. Anche Milano, per Stendhal, era una città meridionale. Anche Napoli - Cuoco, Amendola - era illuminismo. C'era un grandissimo poeta cattolico, Pasolini, c'era un immenso rivoluzionario comunista, don Milani. C'era papa Giovanni e Peppone. C'era Gassmann, Mina, le Kessler, Alberto Sordi: chi di questi era nord e chi era sud, chi non era semplicemente italiano? C'era la grande Inter. State a sentire: Sarti, Burgnich, Facchetti, Guarneri, Picchi... cioè Giuliano, Tarcisio, Giacinto, Aristide, Armando... Avete visto che nomi? Nobili, densi di storia, popolari. Nomi italiani. Di che paese sarà la mia nipotina? Certo, sarà europea. Ma poi? Sarà semplicemente siciliana - o nordestina, o bolognese - o sarà italiana? Ha ancora un senso pensarlo? Altre nazioni sono sparite, o per trauma o per noia. Non si è più austroungarici, non si è più jugoslavi. O ateniesi, o cheyenne o polinesiani. Così sta sparendo l'Italia, o e già sparita; non già politicamente ma proprio nel profondo, come nazione. Di solito, quando parliamo di nazioni, pensiamo ai bei discorsi, alla patria immortale. Roba di destra, insomma. Invece, la nazione è una cosa di sinistra. E' ciò che sopravvive. E' popolare. *** La nazione è il porto di Messina, con la nave che va in Australia pronta a partire, i contadini di Caltanissetta e Favara sul ponte e i parenti sulla banchina, tutti ridanciani e chiassosi, per dare coraggio a chi parte. Sciolgono gli ormeggi, e la nave si stacca. E in quel preciso momento, cogli emigranti tutti aggrumati a poppa e i parenti sulla punta del molo, che ormai piangono liberamente perchè tanto da lontano non si vede, la banda, che fino allora aveva suonato canzonette allegre, comincia a suonare l'inno: il primo e l'ultimo, per la maggior parte di loro, della loro vita. Questo non succedeva nell'Ottocento: succedeva vent'anni fa. Ci sono duemila emigranti, nella città di Sidney, di Santa Marina Salina; a Santa Marina, ne saranno rimasti forse mille. C'era il consolato australiano a Messina, fatto apposta per loro. E prima quello del Belgio, per le miniere. E prima quello argentino, quello americano... C'è un poeta veronese, Barbarani, di cui i veneti si sono ormai dimenticati da un pezzo; e io non ne ricordo che un verso, ma che è tutto un mondo; siamo fra gli emigranti veneti, "seradi" all'osteria, la sera prima della partenza: "Porca Italia!, i biastema, andemo via". Ci sono i genovesi, in Argentina, e i lombardi, e un intero quartiere che si chiana Palermo. Ci sono gli italiani d'America, fisici nucleari e mafiosi. Ci sono i bergamaschi, che andavano a lavorare in Francia; e una volta la popolazione di un'intera provincia scatenò il pogrom contro di loro e ne fece strage. C'è Bologna (il sogno di noi siciliani di sinistra, un tempo, era che Palermo diventasse un'altra Bologna) dove se vai a fare due passi alla Montagnola ti trovi esattamente nel posto dove una volta c'era la fortezza papalina che controllava la città. Quattro volte la distrussero, i bolognesi, e quattro volte il papa la ricostruì; la quinta, restarono a vincere loro e ne fecero terra e ci fecero su i giardinetti. Tutti insieme, questi erano gli italiani. Ci sono pochi paesi al mondo che abbiano avuto tanto kitsch di generali e politici come l'Italia; ma pochi che abbiano avuto, nella grandissima parte dei cittadini, tanta storia di vita e tanta umanità. Il nostro, molto più che uno stato, è - o era - una cultura, un modo d'esserci; un software. Facile da sfasciare pestando a casaccio sul computer; difficilissimo, e probabilmente impossibile, da rimettere insieme. *** Non so se ci sarà ancora un'Italia fra dieci anni, o solo una specie di Belgio o un'Alabama. In quest'ultimo caso, sarà un peccato per tutti: perchè non sono molti i posti del mondo dove si sia riusciti, per tanti secoli, ad essere poveri e tuttavia signori, e dove si sarebbe potuto essere finalmente ricchi restando umani. Avrmmo potuto insegnare ai poveri del mondo come si fa ad uscire dalla miseria e ai ricchi come si possono usare dignitosamente i denari. Invece stiamo preferendo imitare pacchianamente e maldestramente i ricchi di più antica data, e scalciare ferocemente contro i poveri che ancora si dibattono indietro. I tempi delle nazioni non sono quelli della cronaca, e dunque quello attuale, chissà, potrebbe essere solo un involgarimento passeggero. Ma potrebbe anche essere la fine definitiva di una storia che dura da più di duemila anni. Noi non abbiamo una hispanidad sparsa nel mondo né un commonwealth né una cultura illuministica che comunque coinvolga altri paesi. Siamo solo noi italiani d'Italia, con la nostra lingua parlata solo da noi stessi, con la nostra identità sofisticatissima ma delicata, con i nostri meccanismi etologici quasi impossibili da analizzare - e tutto questo può sparire, per incultura, demagogia e rozzezza, nel giro di una generazione. 15 aprile 2010 IL NUOVO TERRORISMO Rachel Odiase, tredici mesi, nigeriana, figlia dell'operaio Tommy Odiase, morta per mancanza di cure poco dopo essere stata respinta dall'ospedale di Cernusco, Italia, è a tutti gli effetti una vittima del terrorismo. La vita non le è stata tolta per ignoranza, o per superficialità colpevole, o per "incidente": è stata respinta perchè non in regola coi documenti. Suo padre da tredici anni lavorava in Italia con tutti i permessi possibili: il Pil di noi italiani bianchi è fatto dagli anni di lavoro di operai come questo. Un mese e mezzo fa, per la "crisi", il padrone l'aveva licenziato: il permesso di soggiorno, che va rinnovato (e pagato) ogni sei mesi, in questi casi richiede tutta una serie complessa di documenti, che certo a un operaio come Odiase nessuno si cura molto di consegnare in tempo. Senza documenti del Reich, senza accettazione, senza permesso, la piccola Rachel è stata praticamente condannata a morte. Questo, che noi sappiamo, è il primo caso eclatante di eliminazione legale di un piccolo immigrato. Ma c'erano già le storie dei piccoli buttati fuori dalle mense scolastiche, lasciati col piatto vuoto davanti ai compagnucci dell'asilo, semplicemente perché erano poveri e non avevano pagato in tempo la retta. E i piccolissimi zingari bruciati - anche questo è successo nelle loro tende a Opera, Lombardia; e vivi per miracolo, non certo per pietà dei razzisti; e quelli cacciati via dalle squadracce mafiose a Rosarno, a Poggioreale, a Milano dalla guardia civica cittadina. Nessuno di questi episodi è casuale. Così come i piccoli ebrei, germe del male e seme di Ubermensch, dovevano essere sradicati dalla terra per il bene della razza ariana, così gli immigrati più piccoli vanno cacciati - o uccisi - per primi e in fretta: prima che diventino uomini, uomini di razza nemica. Il terrorismo nei confronti dell'immigrazione (le "cannonate in pancia" di Bossi, il gioco "affonda un immigrato" di suo figlio) è stato apertamente, nel nostro silenzio colpevole, teorizzato. La strategia è di fare paura, l'Italia deve apparire un paese terribile, da cui tenersi lontano. Non è vero, onorevole Bossi? Non è vero, onorevole Borghezio, sindaco Tosi, sindaco Gentilini? In nulla si differisce il terrorismo, che ormai crea le sue vittime, di costoro da quello dei Nar o dalle Brigate Rosse. Va contrastato a ogni costo, con mezzi moderati se possibile, con ogni altro mezzo se occorre. Quanto a parlare coi terroristi, a "dialogare" coi loro alleati, a cercare non dico collaborazioni ma trattative con essi, è un'idea che dovrebbe far vergognare chi anche lontanamente ce l'abbia in mente. 15 aprile 2010 L'INFORMAZIONE E LA SPERANZA/ UN DIBATTITO Un giovane giornalista siciliano emigrato a Milano nterviene sul sito di Step 1 (il sito universitario catanese) con un post molto interessante intitolato “L'informazione e la speranza”. Ma non è giunto il momento – si chiede il ventitreenne Salvo Catalano – di creare uno spazio d'informazione nuovo? Ne viene fuori, con un suo collega più anziano, un dibattito che forse potrebbe interessare anche altri Salvo Catalano wrote: ...Potrei non voltarmi più indietro se non fossi caduto dentro a un sogno collettivo: fare il mio mestiere nella mia città. Un redattore di Step1, da quest'autunno a Milano per frequentare una scuola di giornalismo crede che sia venuto il momento di credere nel "senso della possibilità" . Ma la possibilità di che cosa? Di creare uno spazio dell’informazione nuovo. Non controinformazione, che rischia di rimanere sempre chiusa in ambiti ristretti. Ma semplicemente informazione libera, in grado di abituare i cittadini alla libertà, di formarli con l’idea che i diritti non si elemosinano ma si pretendono. Che non serve e non conviene essere clienti a vita. Penso che questo sia uno dei compiti del giornalismo, il più urgente per chi fa informazione ai piedi dell’Etna. Resta un dato: nessuna città italiana, grande e importante come Catania, ha un solo giornale. Non esiste una free press che copra in modo capillare la nostra città. E chi sostiene di tutti, ma anche privata perché appartiene ad ognuno di loro. Questo significa creare reti tra i cittadini, e tra i cittadini e il territorio. Significa responsabilizzare una generazione, cominciare ad instillare il principio che la città è ‘cosa proprià. *** riccardo orioles wrote: Noi lavoriamo da anni alla speranza che tu scopri ora. Perché non lavorare insieme? Voi catanesi siete tribali, in questo. Ognuno di voi all'alba guarda il sole sinceramente ammirato e pensa: "minchia, ch'è beddu! guarda che bedda scoperta fici!"- Senza minimamente sospettare che altri nello stesso omento possano guardare la stessa aurora. Sentiamoci, se vuoi. Mi piacerebbe se voi di Step, una volta o l'altra, riusciste a credere veramente all'idea di un progetto comune. (Nè i vostri vari articoli di questi giorni nè l'ultimo vangelo di Lo Vecchio contengono - se non sbaglio - la parola "Ciancio". Tecnicamente, è una parola necessaria per cominciare anche solo a discutere di informazione seriamente, qui e ora) (Io non ho aerei da prendere, nè per Milano nè per altrove. Io sono qui in Sicilia, per mia scelta. Un po' perché conto - nei momenti d'ottimismo - nei giovani come te. Un po' - nei momenti di ragionevolezza - perché voglio salvare la mia dignità anche da solo. Ma se fossimo tutti uniti potremmo persino vincere. Ed è sapere questo che mi danna). *** L.G. wrote: PS per Riccardo. Vecchio e non Lo Vecchio. Un giornalista deve stare molto attento a non storpiare i nomi di persona! Se lavorate da anni a un qualcosa senza esserci riusciti, non potrebbe darsi che quel progetto debba essere in parte modificato? *** riccardo orioles wrote: intanto hai ragione per Vecchio. Il fatto è che scrivo quasi senza vederci (glicemia, vista bassissima) e quindi vado spesso a memoria. Me ne scuso. Ma scrivo per rispondere alla tua (sensata) osservazione: "Se lavorate da anni a un qualcosa senza esserci riusciti, non potrebbe darsi che quel progetto debba essere in parte modificato?". Naturalmente, nessun progetto è eterno, ogni progetto va sempre continuamente aggiornato, ed è quello che cerco di fare. Però non è esatto che non siamo riusciti a niente. Elenco alcuni punti: - I Siciliani sono stati, dopo l'Ora, la principale esperienza giornalistica della Sicilia. Sono durati molto a lungo e in un certo senso durano tuttora. - Nel '93, i Siciliani quotidiano è stato a un pelo dall'uscire (solo la vittoria di Berlusconi, che non dipendeva da noi, ha indotto i finanziatori a ritirarsi). - Avvenimenti è stata la principale, e senz'altro la più popolare (e libera) rivista della sinistra (quando c'ero io superava le 60mila copie e non dipendeva da nessun partito). - I Cavalieri a Catania non ci sono più, in parte grazie ai giudici ma soprattutto grazie ai movimenti (Siciliani, SicilianiGiovani, Associazione Siciliani, Città Insieme, ecc.). - Ancora negli ultimi anni, abbiamo sviluppato, e più ancora creato le condizioni per farli crescere, tutta una serie di soggetti giovani e combattivi. Casablanca, Ucuntu, i Cordai e il Gapa, la Periferica, lo stesso Addiopizzo Catania, e soprattutto Lavori in Corso, sono tutte realtà, coi loro limiti, vive e combattive e potrebbero essere il nucleo di qualcosa di veramente nuovo. - In tutti questi anni abbiamo sempre e coerentemente individuato il vero punto debole dell'informazione a Catania, che è il monopolio di Ciancio. Rimuoverlo - come fanno, certo involontariamente, Vecchio e il giovane Catalano - è pericolosissimo, perché significa trasportare tutto il dibattito da Catania a Stoccolma, dalla realtà dei fatti concreti a quella dei buoni sentimenti e delle poesie. Ecco: a me pare bello che vengano avanti idee nuove, ma non credo che ogni volta bisogni ricominciare proprio da zero. C'è un patrimonio ricchissimo di esperienze forti, che hanno dimostrato la loro validità e che in parte sono ancora in corso. Uniti si vince, si diceva una volta, e io credo fermamente che vincere sia possibile - tutti uniti - anche a Catania e anche sul terreno dell'informazione. Infine, un invito per Salvo: la mia mail è [email protected] e il mio numero è 333.7295392. Puoi contattarmi quando vuoi - se ti va e se sei pronto a metterti in discussione. Io lo sono, è il mio lavoro discutere continuamente cose nuove. Ma sono un interlocutore abbastanza importante per te? :-) Non sono un industriale, non sono un professore universitario... Sono semplicemente un giornalista, uno che di giornali se ne intende e non ha oltre a questo, alcun potere politico o economico da far valere. Questo vale alcuni minuti (o ore, o giorni, o mesi), del tuo tempo? Giro questa domanda, provocatoriamente, agli amici di Step1 - qua stiamo lavorando anche e forse soprattutto per loro. "Lavori in corso", come si dice. 18 maggio 2010 COME RUBANO ORA NON HANNO RUBATO MAI Quelli di Mani Pulite, al confronto, erano boy-scout. Questi sopravvivono solo perché non c'è più l'informazione (e vogliono imbavagliare quella poca che resiste, in internet). Così gli italiani li tollerano, o per ignoranza o perché gli piace... Se l'informazione fosse ancora quella dei tempi normali (non chiedo molto: quella di vent'anni fa) l'Italia oggi sarebbe percorsa da cortei di gente incazzata che chiederebbe conto al governo della catastrofe imminente e in parte già in corso. Invece “tutto ok”, “tutto sotto controllo”. Se esistesse una tv in Italia la gente assedierebbe i palazzi tempestando di monetine le auto blu. Altro che Mani Pulite: qua rubano infinitamente di più di tutti i ladroni di allora messi insieme. Mario Chiesa è un boy-scout rispetto a un Bertolaso o a un Scajola. Mariuoli? Qua si parla di gente che si compra i Feltri come noccioline, altro che prime pagine coi cinghialoni. “Saviano - disse il procuratore del Re Emilio Fede (nel senso che al suo re gli procurava le tipe) - Saviano mi fa ridere, qua sono io, l'eroe!”. Una così non s'era mai sentita, sotto Craxi. “Craxi? Uno statista, un grand'uomo!” proclamò Sandra Milo, fedele nella catastrofe, ai reporter che la inseguivano nei giorni della disfatta. Ma quante resteranno fedeli, in circostanze analoghe, a Berlusconi? Diaco? Carfagna? La Noemi? E' in momenti del genere che si vede chi fu Napoleone e chi Cagliostro. Di ciò si potrebbe anche ridere, se alla fine non fossero soldi nostri. Soldi, vite, dolori: il fascismo c'è già, per un quarto abbondante degli italiani (poveri, neri, gay, disoccupati). I giovani, qua al sud, non lavorano più, tranne gli spacciatori. La macchina maciulla-ragazzi funziona selvaggiamente (qua comandano i vecchi, gli ultra-settantenni) e tutto l'avanspettacolo, tutte le facce da fratelli De Rege (ma guardali una buona volta i Bossi, i La Russa, i Bondi, i Calderoli) splende a corte. I democristiani rubavano, ma nessuno per figli così scemi come il figlio di Bossi. I socialisti a Milano avranno grattato un poco, ma il duomo almeno l'hanno lasciato lì (c'è ancora? Non ci credo. Sarà un fotomontaggio). Un ministro, Tanassi, finì ai domiciliari e poi in galera per un intrallazzo da duecento milioni, nella vecchia Italia ladrona; un presidente, Leone, si dovette dimettere perché forse intrallazzavanno i suoi figli. Qua circola Bertolaso e circola Scajola. E sono ancora fra i migliori perchè nessuno (a differenza di altri colleghi, legati a mafia camorra e 'ndrangheta) li accusa di avere ammazzato nessuno. Questa è l'Italia che avete, miei nobili concittadini. Non ho ancora capito se l'accettiate per ignoranza, o perché proprio vi piace così. Nel primo caso (io debbo credere al primo caso, perché sono italiano), il nostro mestiere è di informarvi e qui, come in altri luoghi – per lo più eterei – facciamo il nostro lavoro. I vostri ladri ci cercano fin qui nell'internet, per metterci il bavaglio addosso e mantenervi ignoranti (o felici). “A signora donna Lionora/ che cantava 'ncoppa o teatro/ mo' abballa in mezzo o' mercato” dissero di una nostra collega che alla fine riuscirono a imbavagliare (e a impiccare in piazza mercato), molti anni fa. I Borboni, la plebe, l'Europa lontanissima, i Bossi e i La Russa di allora. Quanto tempo è passato, amici miei. E' passato? 2 giugno 2010 IL PARTITO DEI NOTABILI. DI NUOVO? “Destra, sinistra? Che ce ne frega! Mettiamoci d'accordo fra di noi” E' sempre stata questa la tentazione dei proprietari meridionali, dal “trasformismo” di Depretis al “milazzismo” di metà Novecento. In italiano, si chiama inciucio. E non muore mai A volte gli inciuci servono (l'ha detto anche il grande D'Alema) e a me questo qua, per esempio, ha fatto guadagnare cinquemila lire. Quale? Ma questo alla regione siciliana, naturalmente, fra il capo dei leghisti siculi Lombardo (uno che si fa le campagne elettorali coi pacchi di pasta) e il partito democratico siciliano. Alla giunta Lombardo, fumante di coltellate fra peones dei vari boss, è arrivato l'appoggio esterno, sotto forma di astensione, del Pd. Questo significa che il Pd prende un suo uomo, lo mette - proclamando di non conoscerlo: "E' solo un tecnico" - nella giunta e va avanti tranquillamente verso il suo destino. Va bene, non è un argomento molto interessante, e non è d'altra parte che io ne sia particolarmente esperto. Ma chi è il nostro uomo presso Lombardo? Il professor Mario Centorrino. E chi è Centorrino? Ecco, adesso vengo alla storia - per me importante - delle cinquemila lire. Una ventina d'anni fa Centorrino - come d'altronde adesso - insegnava all'Univrsità di Messina. Fra i suoi laureandi c'era un ragazzo un po' anomalo, che si chiamava Antonello Mangano. L'anomalia consisteva nel fatto che Antonello (allora a Messina c'erano studenti che facevano l'esame con la pistola sul tavolo) non aveva nessuna voglia di chiudere occhi e orecchi sul mondo (accademico) circostante ma voleva renderne conto, scriverne, e addirittura dedicargli la sua tesi di laurea: "Il grado di coesione/ Borghesi e mafiosi nell'ateneo messinese". La cosa destò scalpore. Quando Centorrino ne venne a conoscenza, ritirò senz'altro la firma dalla tesi di Antonello, che da un momento all'altro si trovò esposto e senza copertura in un momento in cui i guai piovevano da tutte le parti e l'Università di Messina era un posto un po' meno sicuro di Abilene. Basta, la cosa finì bene perché: 1) Antonello rimase vivo; 2) Gli Editori Riuniti gli pubblicarono la tesi in un libro, che ebbe persino un discreto successo. Nel frattempo la situazione a Messina si aggravò ulteriormente, con professori sparati per le strade e mafiosi che imperversavano dentro e fuori l'università, e questo era tutta pubblicità per il libro di Antonello. Che poi diventò giornalista, fece un ottimo sito (terrelibere.org) pieno di inchieste, restò disoccupato quanto a stipendio ma non come lavoro utile per la città... Ma questo è un altro discorso. E le cinquemila lire? Ecco, quando ho saputo di questa faccenda della firma ritirata, tanto m'imbestialii (volevo bene a Antonello) che cominciai a blaterare frasi prive di senso: "Ma è modo di fare questo! Ma così ci si comporta con gli studenti! Ma dov'è il senso di responsabilità? Ma questo prima o poi finisce a fare il fascista!". E qui qalcuno m'interruppe: "Fascista, dai! Centorrino è un democratico, un compagno... Come vuoi che finisca nei fasci uno così!". "Vedrai che ci finisce, vedrai! Non ci credi! E scommettiamo! Scommettiamo... scommetto cinquemila lire! Che questo prima o poi me lo vedo in stivali e camicia nera!". La scommessa fu accettata e passarono gli anni e Centorrino,lungi dall'adempiere alla mia lugubre profezia, continuò la tranquilla routine dell'intellettuale progressista. Che in Sicilia comprende editoriali per i giornali forcaioli e di destra (la Gazzetta di Messina), articolesse sui giornali degli imprenditori collusi (La Sicilia di Catania), ecc. ecc. E scusa, per chi bisogna scrivere? Mica per quei pazzi dell'antimafia, che fra l'altro nemmeno pagano i pezzi. E poi le consulenze (per Cuffaro e per gli altri), che fanno pure brodo per il lesso. Ma adesso, finalmente, posso dire - magari forzando un po' - di avere vinto la scommessa. Che Lombardo sia di destra non c'è il minimo dubbio. Una destra particolarmente odiosa, fra Achille Lauro (i pacchi di pasta) e Calderoli (l'alleanza di ferro con la Lega). Mettigli una camicia nera qualunque - che poi il nero è di moda - e che ottieni? Un fascista. Pino, voglio i miei soldi. Cinquemila lire. Che fa due euri e cinquanta anzi (se dal cambio per ricchi passiamo al cambio vero, quello per pensionati e operai) fa cinque begli euri tondi tondi. "Va bene, ma a me lettore che cavolo me ne frega delle scommesse tue?". Eh, bello mio. Qua si parla d'inciucio, di un solo inciucio, inciucio siciliano. Ma che dici, altri inciuci non ne faranno? E quanti Centorrini si stanno preparando, in questo momento, a sacrificarsi nobilmente per la governabilità e tutto il resto? (P.S.: Nel frattempo, a Messina, Centorrino presenta il suo “Il partito del Sud”. Relatori? Francantonio Genovese e Domenico Nania, due pezzi della storia politica recente: che adesso, a quanto pare, si ricompongono a unità). 2 giugno 2020 MARE MOSTRUM Non è ancora come il Golfo Persico, ma è già uno dei mari più a rischio del pianeta. In Grecia, nel giro di poche settimane, un tranquillo Paese semi-agricolo è finito dentro alla macchina di triturazione. In Medio Oriente, il vecchio Stato (laburista) di Israele non esiste più e il suo posto è stato preso, per l'appunto, da un regime mediorientale che massacra e fa stragi come tutti gli altri. In Italia sono stati persi trecentosettemila posti di lavoro e un giovane ogni tre è disoccupato… Insomma, il mondo dei sogni sta andando a pezzi. Non che prima le cose fossero molto migliori (non si è atteso Netanyahu per fare Sabra e Chatila né Berlusconi per far macelleria sociale), ma prima almeno erano presentate come eccezioni. Adesso, invece, le si proclama come normalità. Certo, non è stato facile arrivarci: c' è voluta una lunga e paziente opera di propaganda, di fronte alla quale Goebbels e Beria erano dei dilettanti; ma alla fine ci si è arrivati. L'uomo non è più un uomo, puoi massacrarlo alla generale Sherman (“L'unico indiano buono...”), apertamente. L'operaio, altro che diritti!, è una macchina punto e basta (“Prendiamo la via della Cina!”, incita Romiti). Il gay, la donna, il bimbo del turismo sessuale, chiunque non sia maschio adulto “regolare”, può essere violentato, o quantomeno aggredirlo, impunemente. Quest'opera di mutazione culturale, di riformazione freddamente studiata del senso comune umano (è di questo che parlano quando parlano di “riforme”) può essere e dev'essere contrastata da noi tutti. Tutti? Certo, una mano possono darla anche i Vip, ma con riserve e limiti che prima o poi ne offuscano – vedi il recente caso Santoro – la credibilità di fondo. Meglio contare sulle nostre forze, sui militanti antimafia (e dunque antifascisti, antirazzisti ecc.) vecchi e nuovi. Facciamo due esempi specifici, tanto per non chiacchierare a vuoto. Il primo è quello di Chiara, una giovane collega di ventitrè anni che sta arrivando al massimo premio giornalistico coi suoi “sconosciuti” video sulle lotte sociali catanesi (sconosciuti per Minzolini, non certo per noi di Ucuntu o quelli dell'Experia). Il secondo è quello di Roberto, che ha più di sessant'anni e una carriera brillantissima alle spalle ma la vecchiaia la sta passando a formare giornalisti antimafiosi e a scrivere su mafia e governo cose tali che ogni paio di settimane mandano un paio di pirati ad hackerargli il sito. Non cerchiamo altri alleati, non ce ne sono. Stiamo uniti, lavoriamo, facciamo rete. Su questo numero di Ucuntu trovate annunci di rete per le settimane prossime, a Catania e a Ragusa. Non siategli indifferenti, non guardateli con estraneità: anche se voi non ci siete, sono momenti vostri. Dovunque siate, comunque la pensiate, qualunque sia l'ingiustizia contro la quale siete (o credete di essere) soli. Perché la rete è l'unica che può aiutare tutti, in Sicilia, nelle fabbriche, in tutto il nostro mondo, nel paese. La rete, l'intelligenza collettiva degli esseri umani. 11 giugno 2010 VENDERE SOGNI O RACCONTARE REALTA' Perché nessuno parla mai dei giornalisti calabresi? Sono i migliori d'Italia, ma raccontano – semplicemente – la verità. L'industria del consenso non sa proprio che farsene di loro. Sono i nostri naturali modelli, e interlocutori. “Nostri”, di chi? Eh... Vespa, Lerner, Santoro, Feltri, Mauro, Belpietro... Li riconoscete? “Certo che li conosciamo! Sono i massimi giornalisti italiani, quelli che fanno le notizie, i maestri”. Benissimo. E ora vediamo questi: Inserra, Baldessarro, Cutrupi, Monteleone, Mobilio, Bozzo, Pistoia, Pantano, Agostino, Rizzo, Baglivo, Anastasi, D'Urso, Fresca. Chi sono? “Mah... una squadra di serie C? I prossimi candidati al Grande Fratello?”. Sono alcuni dei giornalisti calabresi minacciati dalla 'ndrangheta solo negli ultimi tre-quattro anni. L'informazione, per quanto riguarda la 'ndrangheta, la fanno loro. E dunque la politica, i rapporti sociali e tutto il resto. Eppure non li conosce nessuno. Né sono in molti a conoscere (emarginati come sono) ciò che vanno scrivendo. Ecco: il problema dell'Italia è tutto qui. Esiste un'Italia fasulla ed una vera. Una serve ai sogni e ai consensi, e alle paure. L'altra non serve a niente, cioè ai poveracci qualunque e alle loro banali vite. Le due Italie si scontrano, ogni tanto: lo scontro non è però principalmente, come rappresentazione di queste Italie, fra i Grandi Guru di destra e quelli di sinistra (che pure non sono uguali: ci mancherebbbe) ma fra plasmatori di sogni e cronisti di realtà. Questi ultimi, come abbiamo visto, son pochi, son marginali e rischiano spesso la pelle, nella generale abulìa, perché la realtà che narrano spesso è criminale. A volte, quando li ammazzano, se ne parla. *** Diversi dei nostri amici “realisti” (e dunque, in quanto tali, sconosciuti) in questi giorni sono impegnati in scadenze importanti (che dunque non interessano nessuno) del loro lavoro. Vediamo un po'. A Catania, Lavori in Corso – sarebbe l'”editore” di questo “giornale” - sta come al solito agucchiando faticosamente alla rete: un'assemblea di giornalisti fra una settimana, un seminario operativo (in realtà un raduno tipo scout in una bicocca di montagna) due giorni. A Modica e Ragusa i ragazzi del Clandestino stanno organizzando quello che pomposamente chiamano un Festival di Giornalismo per fine estate (eppure, guarda un po': il Clandestino miliardario, quello di Roma, con famosi giornalisti e grandi editori, ha chiuso baracca inseguito dalla Finanza, mentre il Clandestino straccione, quello dei nostri ragazzi, è ancora qua più presuntuoso che mai). A Roma invece stasera c'è l'assemblea degli amici di Italiani.it, che dovrebbero per l'occasione presentare le loro (apprezzabili) iniziative in rete e il loro mensile cartaceo, bello e obsoleto come un brigantino. Fra Roma e Bologna, i redattori di Mamma (la rivista di satira, online e anche purtroppo – poiché costa - su carta) continuano a migliorare il loro giornale, che già ora raggruppa disordinatamente i migliori disegnatori e satiri d'Italia. Dimentichiamo qualcuno? Sì, per fortuna: quelli di AmmazzateciTutti in Calabria, quelli di DaSud fra Calabria e Roma (in Calabria, come vedete, ci sono i ragazzi più intestarditi d'Italia), quelli di Dialogos, AdEst e Zetalab in Sicilia; e l'inaffondabile Telejato, e Step1, e Antimafia Duemila, e Liberainformazione... *** E cosa mandiamo a dire a questi – e ai molti altri – valenti commilitoni di questa strana guerra? Niente, hanno tanto da fare che difficilmente avrebbero tempo di stare a sentire chiunque altro. Le cose importanti, comunque, sarebbero queste: 1) ogni tanto fermatevi per stare a sentire gli altri come voi, soprattutto quelli che non conoscete ; 2) non perdete tempo a fabbricare bei brigantini e non invidiate gli armatori dei clipper: avete già provveduto, invece, a fare un pdf veloce? L'avete standardizzato, e con chi? Che politica degli standard avete? E, soprattutto, quanti lettori pensate di avere l'anno prossimo con questo pdf (opportunamente parametrato) su ebook e/o i Pad? 3) non illludetevi neanche per un attimo che i signori dell'Elenco A (vedi inizio articolo) possano o vogliano minimamente risolvere i vostri problemi; non considerateli dei modelli. I vostri interlocutori, e modelli, invece, sono quelli dell'Elenco B (vedi sopra) e i loro simili. Fate rete! 24 giugno 2010 «¡QUE VIVAN LAS COMPANERAS!» OGGI SI FESTEGGIA Le Siciliane vincono il Premio Alpi. E non dovremmo festeggiare? Mafia, camorra, Fiat: è tutto alla faccia vostra! A Napoli, come sapete, si paga il pizzo. Il camorrista va dal commerciante e gli fa: “O paghi o ti faccio saltare in aria”. Il commerciante liberamente decide che pagare è molto meglio di saltare per aria. “Bravo – gli fa la camorra – tu sì che sei un uomo saggio e perspicace”. I napoletani che hanno la disgrazia di essere anche operai di fabbrica, tuttavia, il pizzo lo pagano due volte. La prima volta alla camorra, secondo le democratiche modalità sopra indicate. E la seconda alla Fiat, sempre in maniera libera e nel pieno rispetto della democrazia. “O paghi – gli fa la Fiat – e cioè mi vendi il tuo lavoro per un pezzo di pane, o ti levo la fabbrica e ti riduco alla fame. E l'operaio – non tutti – liberamente e democraticamente paga. Tutto questo per dire che è anche per questo che Saviano e alcuni altri, invece di parlare semplicemente di camorra, parlano di Sistema. Il Sistema comprende la camorra, e comprende la Fiat. La Fiat, man mano che ammazza Keynes, si fa camorra; e la camorra, man mano che reinveste i soldi, si fa Fiat. Sempre più evanescenti le differenze fra l'una e l'altra, e tendenti a sparire. Onde è saggio e scientifico considerarle come un tutto unico, il vecchio Establishment, modernamente 'O Sistema. 'O Sistema ha un governo che caccia i giudici (vedi Caselli) minaccia d'ammazzamento i pentiti (vedi Spatuzza), ruba ai produttori le fabbriche (vedi Pomigliano). Tutto ciò è tuttavia secondario, non essendo ormai più da tempo – come lucidamente previsto dal Vecchio Maggiore della Fattoria – il governo che una specie di stanza in cui i rappresentanti della Fiat, della camorra e degli altri poteri ogni tanto si siedono per dirimere fra amici i loro affari. *** E' un tempo malinconico - o forse no: di ricordi - questa fine di giugno, per il vostro corrispondente. Trent'anni esatti - ahimè, quantum mutatus – da quando la musa del giornalismo ci arruolò, freschi e ingenui, al suo servizio. Venti da quando, un po' meno freschi ma non domi, si navigava con Fracassi e la sua redazione (valorosissima) di ragazzi su Avvenimenti. E quindici da quando è morto il nostro maestro Giuseppe D'Urso, quello che c'insegnò le forme del potere moderno, la massomafia. E il mio amico Fratangelo, procuratore di Avvenimenti e poi del Siciliani quotidiano, grasso, compagno, sfottente, coraggioso? Anche lui via con l'estate, cinque anni fa. E così pure Maoloni, il grande grafico (le pagine su cui ci state leggendo discendono da un suo capolavoro) che accompagnò per tanti anni, lui, grande artista, noi giornalisti pirati. E Turone, e il buon Gnasso, e padre Balducci, e Pratesi? Tutte penne grandissime, appuntite, ma al servizio dei poveri e non dei padroni. A tutti è toccato dunque il premio massimo – la dimenticanza ufficiale, la damnatio memoriae - con cui i potenti segnano chi ha fatto loro veramente paura. *** Non volevamo scrivere di questo, ma del lavoro di ora. Pochi giorni fa i redattori di Ucuntu si sono rinchiusi per un paio di giorni a studiare, a fare il punto del cammino percorso e a cercar di capire quel che resta da fare. Ne parteremo ancora, sia qui su Ucuntu che in redazione fra di noi. Operativamente, hanno deciso di fare uno sforzo per estendere la rete, sempre con poche chiacchiere e molti fatti: una nuova inchiesta collettiva sui poteri mafiosi, una mappa aggiornata (sempre collettiva) delle lotte sociali, un'inchiesta (collettiva anch'essa) sull'emigrazione africana. Collettiva per noi vuol dire, come sempre, che non siamo autosufficienti, che lavoriamo con altri, che insegniamo/ impariamo continuamente, che facciamo rete. Sono sempre le stesse due cose che s'intrecciano, da noi: da un lato una storia fortissima, veramente alternativa (I Siciliani, Siciliani/Giovani, Avvenimenti, l'Alba, Casablanca, poi Ucuntu, poi la rete di Lavori in corso, poi chissà cosa, sempre nell'antimafia e nel collettivo), dall'altro una serietà “professionale” e tecnica che ci fa scoprire prima degli altri le ricadute pratiche (e “politiche”) di ogni tecnologia. Se guardate l'ultimo menù di Repubblica.it, per esempio, trovate un “giornale elettronico” (pdf, tecnica Issuu, web sfogliabile, ecc.) che è esattamente un Ucuntu molto più in grande: ma due anni dopo... Rete e tecnologie invadono sempre più il giornalismo, e noi non ne abbiamo paura; anzi. Un internet di esseri umani – non di semplici macchine, e men che mai di mercato – è quello dentro cui navighiamo. E tanto si estenderà, grazie a noi e a tutti gli altri, che alla fine – alla faccia di 'O Sistema – cambierà il Paese. *** Le righe che restano, le dedichiamo a festeggiare. Due nostre brave compagne, Chiara Zappalà e Sonia Giardina (per un disguido i due nomi, ufficialmente, son diventati uno) hanno vinto il Premio Alpi per miglior reportage locale con “Una rovina di città”, video-inchiesta sulle periferie catanesi. Tutto il giornalismo ufficiale d'Italia è dunque lì a bocca aperta ad ammirare il capolavoro di queste due ragazze siciliane. Per me, veramente, è un guaio perché i numerosi bicchieri che sto bevendo alla loro salute (più quelli di poco fa, “di malinconia”) non mi hanno certo fatto bene alla glicemia. Ma chi se ne frega! Viva Chiara, viva Sonia, ¡viva las compañeras! e viva la vita che va avanti e non si ferma. 5 luglio 2010 CI VUOLE UN ALTRO PERTINI. E FORSE C'E' Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare... Cinquant'anni fa di questi tempi avevamo il governo più fascista che ci sia stato fra Mussolini e Berlusconi, un centrodestra Dc-Msi che per prima cosa provvide a “revisionare” - come si dice ora – la storia italiana facendo occupare Genova dagli ex repubblichini di Salò. Genova insorse e anche nel resto d'Italia ci furono manifestazioni contro il governo. Nel sud si mescolarono con quelle per l'acqua e per l'occupazione. La polizia, in perfetto stile sovietico (ma i “comunisti” qui erano gli sparati) , sparò sulla folla in diverse città: a Reggio Emilia uccise cinque operai, a Licata (Agrigento) restarono per terra venticinque manifestanti (uno morto), a Palermo furono uccisi un anziano sindacalista, un precario diciottenne e una donna che stava alla finestra. A Catania massacrarono un ragazzo a manganellate (Salvatore Novembre, 19 anni) e lo lasciarono a morire in piazza Stesicoro, dove ora la gente passeggia senza sapere. Nei giorni successivi il governo crollò, travolto dalle proteste (allora la gente si ribellava). Ma al sud e specialmente in Sicilia la vita rimase quelle di prima, cioè disoccupazione e miseria e mafia per i contadini: mancava ancora un sacco di tempo per il Sessantotto. *** Da allora molte cose sono cambiat e alcune sono rimaste le stesse. La polizia, dopo Falcone e gli altri, non sparerebbe più sulla folla. Ci sono più telefonini, ma meno allegria. Lavoro continua a non essercene, e ora non solo al sud. Invece c'è sempre la mafia, che ha ancora più amici nei partiti di governo. E proprio a questo proposito, c'è una differenza importantissima: adesso,della mafia, nessuno fra i politici si accorge più. Allora i partiti di sinistra (i “socialcomunisti” che poi si scissero, uno al governo l'altro all'opposizione: ma sempre restando di sinistra fino a tutti gli anni'70), se una cosa sapevano, è che con la mafia non si discute e che la mafia sempre si combatte. Persero pià di cento compagni (un'altra cosa che ora non vi raccontano) combattendo i mafiosi, fra il '43 e gli anni Sessanta). Avevano mille difetti, ma non di fare compromessi coi mafiosi. E ora? Adesso lo vedete: condannano un politico fondamentale (un fondatore di Forza Italia, un braccio destro di Berlusconi) per mafia, e una settimana dopo tutti se lo sono già dimenticato. Non è che non protestino, non facciano begli articoli, non siano – per alcuni giorni – virtuosamente indignati: ma tutto si ferma lì. Poi arriva la “politica” dei politici, e tutto ritorna normale. Per ora, nella sinistra “normale”, fervono le trattative e le avances (allearsi con Fini? con Micciché in Sicilia? con Calderoli e Bossi?), con strategie complessissime, degne di Sun Tzu o Napoleone. Peccato che falliscano sempre. E quanto agli assetti interni: chi sarà il candidato finale, alle elezioni? Bersani, Vendola? Di Pietro? Oppure - tocchiamo ferro – un D'Alema o un Veltroni? O l'abilissimo Letta? E chi appoggiato da chi, che schieramenti interni, che alleati? Manovre complicatissime, degne di Giulio Cesare o Machiavelli. E anche queste regolarmente finiscono col pugno di mosche in mano. Finirà che dalla crisi verrà fuori un governo Tremonti (che in effetti c'è già) o un Tremonti-Fini, o un Fini-Calderoli-allargato (tutto è possibile) o... E tutto, in nome dell'emergenza, con l'appoggio pià o meno esplicito della sinistra. Da un canto è divertentissimo vedere gli schieramenti che si compongono, le congiure reciproche, i tradimenti dei ras (non a caso fra poco è venticinque luglio...), dall'altro noi popolo di ogni giorno in tutto ciò ci guadagniamo proprio niente. Rischiamo un governo Berlusconi senza di lui, che duri altri vent'anni e che sia sempre e altrettanto padronale. Un otto settembre che non finisce mai. *** Quanto a noi, che di “politica” non ne mastichiamo, abbiamo poche idee e tutte fuori moda. Primo, coi mafiosi non si tratta, neanche per un istante. Secondo, se governo di emergenza ha da esserci, che sia di emergenza vera, e cioè in primissimo luogo antimafioso. Abbiamo un candidato, persino, - a sua insaputa, ovviamente... - ed è un giudice antimafioso. Volete un governo unitario, che gestisca il dopo-Berlusconi e prepari (diciamo, nel giro di un anno) le elezioni? Benissimo. Eccolo qua. Caselli. A Berlusconi (e a Dell'Utri) non va bene, ovviamente. Ma a tutti gli altri? E' democratico. E' settentrionale. E' anche siciliano, in un certo senso. Non è di destra. Non è di sinistra. E' più istituzionale della carta bollata. Non si è mai immischiato di politica (a volte la politica se l'è presa con lui) e sempre fatto seriamente ed efficacemente quel che l'Italia gli chiedeva, combattere i terroristi o stangare i mafiosi. E' giovane e pimpante, soprattutto, almeno quanto Pertini. E infatti rischierebbe d'essere proprio un altro Pertini. Chi ha paura di un altro Pertini? Chi ce lo farebbe, un pensierino? 18 luglio 2010 I PRIMI NOMI DEL NUOVO GOVERNO... Non si può dire che abbia avuto molto successo la nostra proposta di un governo di unità nazionale guidato da un magistrato sicuramente al disopra delle parti e volto al superamento dell'attuale gravissima crisi, causata principalmente dalla presenza di Mafia, Camorra e Ndrangheta in tutti i principali centri di potere nazionali. Contrariamente a quanto ci aspettavamo né il Presidente Napolitano né i segretari delle varie forze politiche hanno ritenuto di convocarci per chiederci ulteriori delucidazioni. Neanche il Presidente del Consiglio deludendoci profondamente - ha voluto trarre le conseguenze del nuovo clima politico costituendosi alla più vicina caserma dei Carabinieri, continuando ad alloggiare tranquillamente nei suoi vari palazzi come se non fosse successo niente. Sta bene. Incuranti del caldo e dell'indifferenza noi andiamo avanti indefessamente, producendo altresì i primi nomi – visto che uno solo non è bastato – del costituendo Governo. Il cui scopo è, lo ripetiamo per chiarezza e perché nessuno poi dica di non essere stato avvertito, di risolvere il principale e anzi in fondo l'unico problema del Paese, il predominio mafioso. Dunque: agli Affari Esteri abbiamo deciso di mettere, dopo ponderata riflessione, l'esperto e autorevole Romano Prodi. E' l'unico che per ”estero” intenda la Francia, la Svizzera, la Russia, l'Inghilterra e altri tradizionali paesi. Tutti gli altri politici, chi più chi meno, considerano stranieri chi la Padanìa, chi il Meridione, chi sta un po' più in su o un po' più in giù di loro. E non va bene. Da Prodi (che è federalista serio, e cioè europeo) ci aspettiamo dunque un buon lavoro, e lo preghiamo di comunicarci al più presto la sua accettazione. Agli Interni – sempre che voglia accettare – andrà per la prima volta una donna, Angela Napoli. “Ma è di destra” obietteranno i miei amici, storcendo il muso. Ebbene sì: ma vi sembra il momento di far gli schizzinosi? “Che il gatto sia rosso o nero non importa, basta che prenda i mafiosi” disse una volta il Presidente Mao. E dunque buona fortuna alla camerata Angela, vediamo come se la caveranno i mafiosi contro una buona testa di ferro di calabrese. Alla Difesa, padre Zanotelli. Ci difenderà dai banditi, dai ladri d'acqua, da tutti i talebani in giacca e cravatta che ammazzano più gente in un anno che i talebani selvaggi in cento. L'esercito, naturalmente, sarà stanziato in Italia dov'è il posto suo. Tuttavia, per rispettare i sentimenti patriottici dei patrioti, sarà concessodi stanziarsi liberamente a Kabul (e in Mongolia, su Klingoon, dove cazzo vorranno) alle unità di volontari che vorranno farlo: “Padania Warriors” “Militiae Lepanti”, “Magnafoco del Labbaro” e quant'altro. Così finalmente potranno combattere i nemici dell'Occidente e della Religione in prima persona e non per interposti sldati. Grazie, padre Zanotelli, buon lavoro anche a lei. Al Lavoro ci va, naturalmente, un sindacalista. Personalmente, preferirei il mio amico Gigi Malabarba, operaio di Arese; ma mi dicono che è troppo estremista per un ruolo così istituzionale, e allora mettiamoci Guglielmo Epifani. (Notate che il ministero torna del Lavoro e non del welfare, del producing e di altre americanate. Qua siamo in Italia, grazie a Dio, e si parla italiano). Fine parentesi e buon lavoro anche a lei, compagno Epifani. All'Industria invece ci va un industriale, categoria rarissima oramai, sostituita da giocatori di poker, venditori di chiacchiere e ogni tipologia di lestofanti. Un industriale vero l'ho trovato però ed è Renato Soru, che Tiscali se l'è fatta da solo senza farsela regalare né da Berlusconi né da D'Alema. Mi mandi una mail, dottor Soru, ché qua il tempo passa e c'è da fare in fretta. Commissari alle Regioni Mafiose, con poteri adeguati, saranno i tre generali Aurigo, Bozzo e Gualdi, coadiuvati rispettivamente dai Prefetti Serra (già a Roma), Frattasi (Fondi) e Linares (Trapani). Prenderanno ordini direttamente dal Presidente e mi auguro che siano già al loro posto. Va bene. Il resto al prossimo numero, per oggi mi sembra che basti. Con questo caldo, e con tutte le altre cose da fare, vi pare un lavoro da niente mettere su un governo? Eppure a poco a poco ci stiamo arrivando: basta un po' di buona volontà e si riesce a far tutto. Eppoi dicono che noi meridionali non abbiamo voglia di lavorare. 18 luglio 2010 MISS MAFIA E MR STATO MATRIMONIO DIFFICILE, FIDANZAMENTO LUNGO L'accordo era che ciascuno si facesse i fatti suoi, senza pretendere troppo: controllare il territorio, raccogliere un po' di voti, e soprattutto tener buoni i contadini, cioè i “comunisti”. Poi la mafia, coi soldi dell'eroina, è diventata troppo potente. Allora Andreotti ha cercato di tirarsi indietro. Ma... Lo stato, in Italia, ha sempre trattato con la mafia. Ha trattato ai tempi di Giolitti ("camorrista" per Salvemini), di Mussolini (la fine del povero Mori), del'Amgot (Calò Vizzini, Lucky Luciano), di Scelba (Giuliano e Pisciotta) e, naturalmente, di Andreotti. Quest'ultimo, come si sa, si incontrava con boss come Bontate che, con Badalamenti e Inzerillo, formava il triumvirato della mafia di allora. Sia Bontate che Inzerillo furono uccisi dai "Nuovi", i corleonesi. Badalamenti scappò in Brasile, e l'uomo di cui si fidava era Tommaso Buscetta. Falcone, mediante Buscetta, aveva l'obiettivo preciso di far parlare Badalamenti. Non ci riuscì. Che cosa avrebbe potuto dire – e provare - Badalamenti, se Falcone fosse vissuto abbastanza da convincerlo? Che l'onorevole Giulio Andreotti, capo del governo italiano, aveva come interlocutori industriali, prelati, politici, e anche i boss di Cosa Nostra. Adesso la cosa non farebbe granché scalpore, perché è una storia vecchia, e perché l'opinione pubblica non è più quella di prima. Ma nel '93, o anche qualche anno prima, sapere ufficialmente che un politico aveva commesso il "reato di partecipazione all'associazione per delinquere" Cosa Nostra, "concretamente", "fino alla primavera 1980" avrebbe fatto saltare per aria l'Italia. Altro che Mani Pulite. *** Per questo Falcone è morto e per questo è morto Borsellino. Ovvio che ci siano entrati (come rozzamente si dice) "i servizi", pezzi di stato. Deviati, ma fino a un certo punto. In certi anni, erano quasi ufficiali. I rapporti fra Andreotti e Bontate – ossia, fuor di metafora, fra mafia e stato – non erano finalizzati a assassinii (tranne che di comunisti, che allora giuridicamente non erano esseri umani) , né ponevano a rischio l'autonomia dello stato. Erano rapporti periferici, asimmetrici, localizzati. Il mafioso, a quei tempi, al politico chiedeva cose circoscritte e locali, e il politico gli rispondeva su questo terreno. Al massimo poteva chiedergli una strage di contadini, seppellibili in fretta e senza troppo casino. E' il tipo di rapporto che un ufficiale americano può avere oggi con questo o quel warlord afgano, di cui si conoscono benissimo le atrocità, ma che tutto sommato torna utile per tenere il territorio. "Datemi i voti – diceva alla mafia lo stato - ammazzatemi un po' di comunisti e fate quel che cazzo volete nella vostra isola di merda". Poi, verso la fine degli anni '70, i signori della guerra si sono impadroniti di testate nucleari. Cioè, oltre metafora, i mafiosi hanno messo le mani sulla totalità del traffico mandiale di eroina e sono diventati dei grossissimi imprenditori. *** A questo punto i rapporti di forza si sono squilibrati. "Col cazzo che restiamo a fare qualche affare di merda quaggiù in Sicilia! Vogliamo contare dappertutto, vogliamo avere la nostra fetta d'Italia esattamente come tutti i vostri imprenditori". Si aggiunge, proprio in quegli anni, una diciamo così infiltrazione. Ad esempio, gli ultimi 150 inscritti alla P2 stanno in Sicilia o sono siciliani. All'estero (“golpe” Sindona) Cosa Nostra comincia a essere un interlocutore a livello alto. Quindi la partita cambia completamente. Quelli come Andreotti si spaventano, cercano di tirarsi fuori. Però è un po' tardi, anche perchè se hai aiutato il talebano a rubare una vacca e ammazzare un paio di comunisti, quello ti ricatta per il resto della tua vita e pretende, pretende, pretende... Mr Stato dice: va bene, adesso ti aiuto a rubare anche un paio di capre. Miss Mafia dice: Col cazzo. Voglio il culo della regina Vittoria, se no dò al Times le foto di te che rubi le vacche e ammazzi i comunisti insieme a me. E il ciclo ricomincia e continua, sempre più incontrollabile e sempre più in alto a ogni giro. Sta continuando tuttora. 28 luglio 2010 GANO JAGO E SANSONETTI L'incredibile storia di un giornalista "di sinistra" in Calabria Gano di Maganza, politico di qualche rilievo tempo addietro, aveva le sue ragioni per odiare Orlando, Rinaldo e gli altri paladini, che pare che l'abbiano ingiustamente scavalcato in non so che intrallazzo governativo. Perciò, pur deprecando il tradimento con cui, alla fine, abbandonò Re Carlo per passare all'infedele, non possiamo fare a meno di riconoscergli qualche attenuante. Forse è stato eccessivo bollarlo come “Ganu 'u traituri”. E Jago? Povero Jago, innamorato cotto di Desdemona e inoltre giustamente incazzato con quel negraccio di Otello: altro che ammiraglio! a coltivare i campi lo dovevano mettere, quei maledetti senatori veneziani Questo nobile sentimento (che in fondo è lo stesso che il Corriere e quasi tutti i giornali “bianchi” nutrono per Obama) sarebbe stato più che compreso dai governanti veneti di ora. Ma allora purtroppo c'erano i dogi e il povero Jago è stato lasciato là a macerarsi con tutta la sua invidia e gelosia. Traditore anche lui alla fine, d'accordo: ma davvero, onestamente, lo potete condannare? Tutto questo per dire che siamo uomini di mondo, capiamo le umane debolezze e siamo ben lontani da quei furori ideologici che tanto hanno devastato il Novecento. Ma, e Sansonetti? Piero Sansonetti, giornalista rivoluzionario, guida del proletariato ribelle e nemico fierissimo di ogni padronato, è stato tempo fa, come sapete, al centro di una cause célebre nel suo tremendo partito, che era Rifondazione (ne dirigeva il giornale). I dirigenti a un certo punto, ritenendolo non del tutto in linea col partito, ne decisero la rimozione. Scoppiò un putiferio terribile (causa non ultima della scissione, o meglio dell'esplosione, di quel partito) al quale in qualche modo partecipai anch'io, indignandomi per la libertà violata di Sansonetti, per l'autoritarismo dei suoi capi e per un sacco di altre belle cose. Sansonetti a questo punto fondò un suo quotidiano, che ebbe vita brevissima trasformandosi prima in un settimanale e poi in un sito, e destò qualche interesse solo per il fatto di essere distribuito in edicola da Mondadori, teoricamente “nemica”. Il gossip si occupò di Sansonetti anche per un paio di partecipazioni a Porta a Porta che dai malevoli vennero ritenute eccessivamente benevole verso Berlusconi. Ma tutto qui. Adesso invece la notizia è tragica, e riguarda non più i salotti romani, ma l'insanguinata Calabria, terra dove non si fa gossip ma si ammazza. Riguarda il “dimissionamento” in tronco del direttore e di nove giornalisti del quotidiano Calabria Ora, segnalatosi negli ultimi tempi (v. Roberto Rossi più avanti) per varie inchieste su politici e mafiosi. Cosa non tollerata dai proprietari, Fausto Aquino e Piero Citrigno, il secondo da pochi mesi condannato (il 9 febbraio a Cosenza) per reati legati all'usura. E chi chiamano, Citrigno e Aquino, a sostituire il direttore antimafia alla testa del giornale? Chiamano Sansonetti. E cosa fa Sansonetti? Si rifiuta indignato, s'incazza, li sfida a duello alla sciabola per la tremenda offesa? No, accetta docile, con un sorriso. Piero Sansonetti è il nuovo direttore di Calabria Ora, al posto di un direttore antimafioso. Un quarto di secolo fa, il 18 giugno 1984 Piero Ostellino si installò al Corriere (allora molto vicino alla P2) al posto di un direttore antipiduista, Cavallari. Lo sfascio del giornalismo italiano secondo molti incominciò da lì, da quell'obbedienza cieca e prona ai voleri di una proprietà quanto meno oscura, che aveva appena cacciato un giornalista perbene. Ovviamente, Sansonetti proclama ora (come allora Ostellino) la propria indipendenza, la professionalità, la più assoluta autonomia. Va bene. Di fatto è là, a fare – lautamente pagato – quella parte infelice. *** Non stiamo parlando di giornalismo, ma di politica. Piero Ostellino, a quei tempi, era un giornalista liberale e “borghese” che, con la sua pessima azione, mise plasticamente in luce i limiti morali ed etici di quel giornalismo “liberal”, di quella borghesia. Ma Sansonetti è un “compagno”, a lungo riconosciuto come tale. Quella che lui mette in luce è la crisi morale ed etica di una sinistra sempre più molle e sbiadita, sempre più lontana. Che oggi, drammaticamente, nella sua persona scavalca l'antimafia e il Sud, si schiera con i padroni peggiori, tradisce. Ciascuno deve esprimersi, su questo. Prima di tutto debbono esprimersi i referenti politici – fra cui Vendola – di Sansonetti. Esprimersi in maniera netta e limpida, per esempio così: “Noi del nostro partito non abbiamo più nulla a che fare con quel mascalzone di Sansonetti”. E poi tutti gli altri. *** E basta così, come temi politici, per oggi. Ce ne sarebbero di drammatici, la Fiat prima di tutto, col suo attacco allo Stato – agli operai, all'Italia, alla Costituzione vigente, alle migliaia di vite bruciate a Mirafiori – non di molto inferiore, per gravità e insolenza, a quello dei brigatisti. Meriterebbe una risposta non inferiore, in termini di unità e determinazione, a quella data a costoro. Nazionalizzare d'autorità, ai sensi dell'articolo 41 della Costituzione: non c'è altra risposta possibile – seria – a questo attacco. Ci sono forze politiche disposte a tanto? O tutto dev'essere sempre e solo polvere di discorsi, “por ablandarlos”, demagogia? 8 agosto 2010 UN PARTITO Di Tremonti ha parlato per primo, senza nominarlo, Veltroni (“governo tecnico”) seguito subito dopo da Bersani. Il Fatto, i primi giorni, sembrava incerto fra lui e Draghi. In realtà è una soluzione probabile, e non a caso è quella esorcizzsata subito da Bossi e Berlusconi. Qualche rivoluzionario, come Beppe Grillo, preferirebbe direttamente un uomo Fiat, Montezemolo. Ma insomma si va in direzione Tremonti, non per governi “tecnici”, ma proprio per l'assetto finale dopo le elezioni. Se ce la fanno – se cioè Berlusconi non si ripiglia, se il centrosinistra ci casca, se non scoppia la Grecia nel frattempo – sarà il terzo ventennio, dopo quello di Mussolini e quello di Berlusconi. Ben diversi fra loro, i tre regimi, ma con una cosa in comune: la Fiat. Di Fiat, praticamente, non si parla più. *** La crisi non è politica, è industriale. Comanda Berlusconi? Comandano Tremonti e Marchionne; che tendono a liberarsi, nello sfascio, dall'ingombrante duce e andare avanti da sé. Giovanni Agnelli fu il kingmaker di Mussolini. E Agnelli Gianni, quando ci fu da scegliere, fra Prodi e Berlusconi scelse il secondo. Così nessuno, nè fra i moderati nè fra i radicali ha minimamente citato i centrosinistri "liberal" (giolittiani...) come Ciampi e Prodi. Sarebbe stato naturale. Ma ora implicherebbe una rottura totale con la Fiat, che nella crisi si collloca (come nel '22) all'estrema destra. Questa è la situazione. E' catastrofica non tanto in sé (Berlusconi ha molto meno consenso di quel che dice) quanto perché, essendo la sinistra (tutta) assolutamente priva di qualsiasi strategia, verrà facilmente egemonizzata dal centro e persino dalla destra, buon pretesto fra l'altro per le componenti peggiori del Pd per calar braghe e mutande in nome della solidarietà nazionale. La solidarietà è necessaria, ed è necessaria non solo l'unità di tutta sinistra, ma addirittura un'apertura a componenti di destra. Non Fini e Lombardo, appendice di altri poteri; bensì la destra “minore”, antipadrini (un nome per tutti: Angela Napoli; oppure l'Azione Giovani di Palermo che tre anni fa, non sostenuta da Fini, si ribellò a Cuffaro). Bisognerà pazientemente disaggregarla e tenerla insieme, come coi “badogliani” monarchici nel '43. *** Questo non può avvenire nella “politica”, ovviamente. Ma può bene avvenire in una Resistenza. Ecco, il centro di tutto è proprio questo. L'unica carta possibile è volare alto, essere e mostrarsi molto radicali, battersi apertamente per cambiamenti di fondo. C'è un terreno su cui ciò è possibile e naturale, ed è la lotta antimafia. I boss mafiosi, oramai, in mezza Italia coincidono coi padroni; e sono sulla via di diventarlo nell'altra mezza. Ieri l'affare-simbolo era Gioia Tauro, oggi è l'Expo di Milano. Questo è ormai sotto gli occhi di tutti, e il tradimento della Lega non riuscirà molto a lungo a nasconderlo anche al nord. L'antimafia deve diventare il baricentro politico della sinistra, esattamente come la lotta antifascista lo diventò, a un certo punto, per la sinistra di allora. E' facile per dei giovani, ma non lo è affatto per i vecchi politici, anche in buona fede. Ma anche per l'antifascismo fu così. Ci volle un salto in avanti radicale, un modo di pensare più giovane, quello dei giovani Gramsci e Gobetti; i vecchi della vecchia sinistra, anche buoni – i Nitti, i Turati, i Treves – rimasero irrimediabilmente indietro e non ebbero altro ruolo, anche se nobile, che di testimoniare una indifesa fedeltà. *** Torniamo da un giro all'interno del nostro partito, stavolta in provincia di Ragusa. Il "partito" a Pozzallo era costituito da ragazzi di SL, a Vittoria da quelli del "Circolo Impastato" di Rifonda; a Ragusa invece il caporione è uno della gioventù francescana e a Modica ci sono i ragazzi del Clandestino, nati da non più di tre anni e su una cosa "piccola" e immediata come la lotta locale (ma poi nazionale, e vincente) per l'acqua. Nè Bersani né Vendola nè Di Pietro o Ferrero, che pure sono delle ottime persone, hanno più di una vaga e lontana percezione di questi giovani, che per noi invece sono il centro (politico, non genericamente simpatico) di tutto, e non da oggi ma da molti anni. Chi ci sta a fare questo partito insieme a loro? Non è uno scherzo. Oggi come ai primordi, un “partito” non deve necessariamente avere tessere e capi. Gli bastano un rudimentale programma (governo antimafia, nel nostro caso) delle idee chiare sulla gravità della situazione, un quadro di poche “semplici” cose da fare e una “ingenua” fiducia nelle vecchie virtù del Paese. 23 agosto 2010 LA SA PIÙ LUNGA WIRED OPPURE UCUNTU E IL CLANDESTINO? Noi siamo quelli dei volantini, e dei giornali di quartiere per chi non ha internet. Proprio per questo sappiamo meglio di altri a che serve, e a che può servire, l'internet “Internet è morto”, dicono in questi giorni in America e l'idea, coi suoi tempi, comincia a venire fuori anche in Italia. Chi è Internet? E' quel tizio strano – libero, senza padroni e, come le vecchie fontanelle pubbliche, aperto a tutti – che ha tolto il monopolio dei geroglifici ai vecchi scribi e faraoni e ha inventato di nuovo il vecchio democratico alfabeto. E perché è morto? Perché ora, con tutti gli apparecchietti nuovi dell'ultimo anno (iPhone, Android e compagnia bella) la gente le cose che prima trovava solo sull'internet le trova, ma più svelte e tascabili, su questi supertelefonini. Però se le deve pagare, poiché questi cosi viaggiano a colpi di proprietà, con dei programmini speciali (le “apps”) senza cui non funziona quasi niente. Così finalmente è morto il signor Gratis – ragionano i padroni – ed è finita la storia che chi vuole va e naviga di testa sua, su chissà che siti e con chissà che idee. Purtroppo per i padroni, le cose non stanno proprio così. Intanto non è vero che il “vecchio” web è stato scavalcato da questo nuovo sistema. La rivista che lo sostiene, Wired, su questo punto “bara “, nel senso che paragona arbitrariamente i contenuti dei due sistemi. Su uno viaggiano prevalentemente notizie e opinioni, sull'altro video e intrattenimenti, che “pesano” (come bytes) molto di più: come dire che siccome i libri viaggiano in furgoncino e i mattoni in grossi camion, la gente legge meno libri e più mattoni. In secondo luogo – che è quello che ci interessa – il successo di ogni nuova tecnologia di solito è determinato non tanto dalla tecnologia in sé, quanto dall'uso che ne fa la gente. L'alfabeto ha fregato i geroglifici perché con esso potevi scrivere delle bellissime (e utili, se avevi una ragazza da corteggiare) poesie d'amore. Gutemberg ce l'ha fatta perché poteva diffondere non solo cento bibbie (protestanti) in più in più del papa, ma anche e soprattutto un milione di volantini (che prima di lui non esistevano). La vecchia Cinquecento, dal secondo modello in poi, aveva i sedili reclinabili (e vi debbo spiegare che vuol dire questo?); l'sms originariamente era usato dai tecnici Telecom per scambiarsi i dati. Quanto all'iPad... beh, amici miei, c'è già chi legge il povero Ucuntu anche su questo coso. Perciò stiamo in campana: a nuove tecnologie, contenuti migliori. Negli ultimi trent'anni abbiamo fatto incazzare i padroni con scritte sui muri, ciclostili, megafoni, radio, rotative, tv, fax, web, video, mail, blog, youtube e pdf... non sarà qualche pidocchiosa multinazionale a metterci i bastoni fra le ruote proprio ora. 'Sta storia dei libri elettronici (e giornali!) anzi sembra fatta apposta per chi non ha tanti soldi per carta e per tipografi, ma è ricco di idee. E' un mondo nostro. *** Ecco, questa pagina in teoria doveva servire a fare gli auguri ai ragazzi di Modica che stanno facendo il loro secondo jamboree, o assemblea o come si chiama (odio la parola festival). Probabilmente sarebbe stato qualcosa di paternalistico e un poo' solenne, del tipo della fiaccola che passa dalle vecchie alle nuove generazioni e così via. Invece usiamola come un solito strumento di lavoro, un promemoria per ricordarci che quando facciamo a lungo una cosa nella stessa maniera probabilmente stiamo diventando pigri, e che delle tecniche nuove non solo non ci dobbiamo spaventare ma dobbiamo anche essere fra i primi (come ai Siciliani, come ad Avvenimenti) a metterle in campo. Perché a noi le tecniche servono per far sapere le cose, per svegliare la gente e per dare voce. Lavoro che in questo momento è importantissimo guardate che cosa sta facendo la Fiat approfittando che la gente dorme ed è senza voce. Operativamente, questo significa che tutti noi dobbiamo: - preparare prodotti per l'iPad, per Android, per gli e-book e per tutti i diavoli che li portino; e prepararli già ora, come priorità, pensando un po' meno di prima al ciclostile (e anche alla rotativa...); - organizzarci meglio su ciò che facciamo già, oleare i meccanismi di rete (proprio tecnicamente, facendo viaggiare più svelti i pezzi) e... insomma, ci siamo capiti. Dimenticato niente? Ah, sì, gli auguri per i ragazzi del Clandestino. Va bene, auguri. Ma mica ne avete bisogno :-) 5 settembre 2010 L'ORSACCHIOTTO IL TRIANGOLO E L'EUROPA C'erano tre triangoli, in Europa. Uno marrone per gli zingari. Uno rosa per gli omosessuali. E uno giallo per gli ebrei. L'Europa è cambiata da allora, ma non completamente. E meno di tutti l'Italia. In questo paese e in questa Europa noi lottiamo L'orsacchiotto - quello del bel disegno di Mauro Biani - è un orsacchiotto qualunque, potrebbe essere del tuo fratellino o tuo di quand'eri piccolo o di qualsiasi altro bambino. Niente di complicato. Il triangolo su quel pezzo di stoffa, travolto come il giocattolo nel vento che ora soffia in Europa, invece ha una storia più complessa. E' – come vedi – di colore marrone. Non è un colore qualunque ma scelto scientificamente, con tutta la scienza della civile Europa. In Europa, a un certo punto, si decise che alcuni tipi di esseri umani non erano esseri umani veri e propri ma una specie di insetti, e andavano sterminati. Non fu un'idea di pochi fanatici (certo ci vollero anche questi, ma solo per cominciare) ma di milioni e milioni di persone perbene, ognuna colla sua brava Volkswagen e, se li avessero già inventati, col suo bravo bancomat e telefonino. Questi uomini-insetti appartenevano a tre tipologie principali: gli ebrei; gli zingari; e gli omosessuali. E il triangolo? Ecco, il triangolo serviva a distinguerli fra di loro per stabilire ordinatamente quale doveva essere “normalizzato” prima e quale dopo. Così, un triangolo giallo caratterizzava gli ebrei (precedenza assoluto); uno rosa gli omosessuali; e uno marrone infine gli zingari, anch'essi da sottoporre appena possibile al trattamento finale. *** Queste cose in Europa non succedono più, o almeno non più quanto prima. E' quasi cessata la persecuzione contro gli ebrei (che hanno imparato a difendersi); è molto diminuita quella contro gli omosessuali (qua ormai se ne ammezzano non più di una dozzina all'anno); è rimasta abbastanza pesante quella contro gli zingari, che sono i più antipatici e comunque non vengono (in massa) uccisi più ma semplicemente rinchiusi. Insomma, anche l'Europa perbene in tutti questi anni è migliorata. Ma la cultura di fondo è rimasta la stessa, e potrebbe risaltar fuori a ogni momento. Gli Heider, i Le Pen, i Bossi, non sono tanto più “strani” dei vecchi Hitler e Farinacci. Sono semplicemente una normale componente dell'Europa che può tornare a galla, e periodicamente torna, in qualsiasi momento. *** Scriviamo questo per due precisi motivi. Primo - da osservatori politici quali siamo – per segnalare il più importante avvenimento politico di questo momento, e cioè la grande manifestazione pro-zingari di pochi giorni fa. Era stata indetta contro i provvedimenti gemelli di Sarkozy e Maroni, eppure a Parigi hanno partecipato centinaia di migliaia di cittadini e a Roma solo quattro o cinquecento. Secondo – e soprattutto - per ricordarci che tutte queste belle storie “politiche” che stiamo vivendo (la vecchiaia di Berlusconi, i fronti “democratici”, le alleanze) si collocano in uno scenario ben preciso, quello di un paese in cui il dieci percento della popolazione è tranquillamente deciso a sterminare prima o poi quelli che esso considera non-umani e il cinquanta per cento è abbastanza disposto, in questa o quella circostanza, a lasciarglielo fare. Esageriamo? No, non dopo gli anni Trenta. Questo è già successo una volta, e può succedere ancora. Non è detto che la nostra crisi politica – poiché non siamop un paese del tutto civile - finisca tranquillamente come nei paesi civili. Potrebbe anche finire nella violenza e nel sangue, come in Jugoslavia o a Weimar; e dobbiamo essere preparati anche a questo. La patologia fascistoide, che da noi è molto più presente che altrove, adesso s'intreccia sinistramente con l'ormai dilagante potere mafioso, col golpe Fiat, e con la presenza di un partito secessionista che ormai comanda diverse banche e regioni. Ognuna di queste componenti è in sé violenta, e completamente esterna a qualsiasi forma di democrazia. Difficile che l'incontro fra esse avvenga su un terreno democratico. Ciascuna di loro, e tutte insieme, vuole semplicemente prendere il potere. *** Questo è un promemoria per tutti noi, e soprattutto per gli amici nuovi che abbiamo conosciuto quest'estate. E' bello vedere i ragazzi che crescono, che pian piano – m a volte con accelerazioni inspiegabili per chi non è del mestiere - scoprono le cose e che allegramente si organizzano, fervidi, invincibili, immortali. Bello ma al fondo non privo di uno stringimento di cuore. Dove saranno questi ragazzi fra cinque anni? Li lasceranno vivere, li lasceranno volare? Che prove riserva loro questo paese? Avranno nemici terribili, questi ragazzi. Saranno abbastanza forti, abbastanza uniti? Ecco, delle tecnologie parleremo un'altra volta; e così del percorso dei prossimi mesi, per Ucuntu, Lavori in corso e gli amici nuovi. Dovremo cambiare molto, per essere all'altezza. Ma prima la cosa importante è sapere con precisione dove siamo, in che terreno. E poi, solamente allora, fare le scelte. 19 settembre 2010 REGIA MARINA Carlo Fecia di Cossato, comandante di sommergibile, operava in Atlantico, e dunque sotto il comando dei tedeschi. I tedeschi a un certo punto misero fuori un ordine: per nessun motivo perdere tempo a salvare i naufraghi delle navi silurate, la guerra è una cosa seria, non una roba sentimentale all’italiana. Cossato, come tutti gli altri comandanti italiani, prese il cablogramma di Doenitz e ne fece carta da cesso. Pochi giorni dopo gli capitò di silurare un cargo inglese: nessuna vittima fra i due equipaggi, i marinai del cargo raccolti alla meno peggio su tre scialuppe, il sommergibile pronto all’immersione. Però l’Atlantico cresceva, mare lungo di poppa, e difficilmente – pensò Cossato – ce l’avrebbero fatta a raggiungere una qualunque terraferma. Allora: stop immersione, aprire i boccaporti, gettare una cima. E un’ora dopo eccoti un sommergibile italiano, in pieno Atlantico centrale e in tempo di guerra, che se ne va lentamente a otto nodi trascinandosi dietro la cordata delle scialuppe gremite di “nemici”. Questa faccenda durò tre giorni. Ogni tanto si sentiva il ronzio di un ricognitore: allora Cossato mollava la cima e s’immergeva; passato il pericolo, riveniva su e si rimetteva a trainare. All’alba del quarto giorno, un’alba livida di brutto mare, Cossato si affiancò alle scialuppe e afferrò il portavoce: «Le Azzorre a venti miglia sulla vostra destra. Vi lascio qui. Venti miglia a ovest e buona fortuna!». Un «God bless you» arrivò dall’altra parte. Poi gli inglesi si misero a remare verso la foschia grigio-viola a ovest, e l’italiano s’immerse alla svelta perché i bombardieri non scherzavano e il sommergibile era particolarmente vulnerabile a causa della torretta di comando molto alta (nei sottomarini italiani c’era un cesso degli ufficiali distinto da quello della truppa, e questo secondo cesso faceva un paio di metri di sagoma emersa in più). Passano gli anni, e arriva l’otto settembre. Il re scappa, i generali scappano, Cossato – che non ha fatto carriera – è di guarnigione su un'isola con un paio di motovedette. I tedeschi mandano un paio di trasporti, scortati da mezza dozzina di siluranti, per occupare l’isola. Cossato esce colle sue due bagnarole, si fa sotto ai tedeschi e a uno a uno li manda giù tutti. Passano ancora un paio di mesi e stavolta il capitano di corvetta Carlo Fecia di Cossato, R.M., S.P.E., è in una camera d’albergo, a Napoli. Il re è scappato, la Marina non c’è più, le strade di Napoli sono un brulichio di puttane, borsaneristi e marinai. Cossato è un tizio semplice, non ce la fa a fare ragionamenti complicati. Scrive un paio di lettere, una alla sua Regia Marina e una alla moglie. E poi si spara. Questa storia, che qui evidentemente non c’entra un cazzo, me l’ha raccontata un casino d’anni fa un marinaio che si chiamava Walter Ghetti e che era stato pure lui nei sommergibili a quei tempi. Io ce la metto perché ho letto sul giornale che adesso la marina italiana, per ordine di uno che si chiama Bossi, serve a combattere i poveracci che vanno per mare sulle carrette alla ricerca di una terra dove campare. Così, se qualche marinaio o ufficiale della marina di ora mi legge, saprà come regolarsi quando dall’ Oberkommando arrivano ordini stronzi: carta da cesso. 19 settembre 2010 PARLARE DI "POLITICA"? BRAVO CHI CI RIESCE Da Catania una buona notizia: qualche imprenditore si tira su i pantaloni. E' una svolta E' diventato impossibile parlare di “politica” perché ormai la divaricazione fra il mondo Vip e quello nostro è tale, che pare di ragionare con gente di pianeti diversi. I nostri problemi (di noi di questo pianeta) sono i seguenti: 1) E' morto il sistema industriale con cui l'Italia era uscita dal Terzo Mondo. Morto ammazzato, con l'eliminazione di Keynes, la fine (teorizzata) del sindacato, la riduzione (proclamata) del rapporto di lavoro a mero fatto occupazionale, “militare”. Tutto ciò, naturalmente, ricaccerebbe in dieci anni l'Italia fuori dell'Occidente (l'Argentina “prima” era un paese prospero e avanzato) ma ai grandi manager non gliene frega niente perché loro – individualmente e come ceto - non sono italiani, sono multinazionali. La Fiat, che comanda in Italia, non è italiana affatto. 2) Il potere politico (anzitutto la finanza, e poi anche la “politica” e le regioni) in metà del Paese è tout-court mafioso e nell'altra metà assedia le poche roccaforti ancora indipendenti. A questi due problemi, ciascuno dei quali basterebbe a a distruggerci come Nazione, si aggiunge quello della Lega, cioè di un potere dichiaratamente eversivo che siede alla pari con gli altri poteri. Le interviste di Bossi qui non ci fanno ridere affatto; ci fanno pensare invece a titoli del tipo “Il Presidente della Repubblica (o il sindaco di Peretola, o l'ambasciatore del Belgio, o chi volete voi) si è incontrato ieri col capo delle Brigate Rosse Renato Curcio” ecc. I danni della Lega risultano per fortuna limitati dalla sua povertà culturale. Riesce semplicemente ad assorbire e “politicizzare” inciviltà preesistenti. In più, tradisce il nord - senza neanche accorgersene - aprendo le porte alla mafia, che per lei è semplicemente uno dei tanti poteri con cui far “politica” furbesca all'italiana. (Senza accorgersene, certamente. Ma si è accorta benissimo, e l'ha portato a fine cinicamente, del primo tradimento, quello fondativo, con cui ha permesso la deindustrializzazione del nord svendendo cent'anni e passa di civiltà – operaia e industriale – questa sì “padana”). Di questi due problemi (due e mezzo) nella “politica” italiana non si ritrova traccia, se non formale. La Fiat non ha avuto oppositori. L'Espresso dedica una copertina molto benevola a Marchionne (e questi sono i liberal, figuriamoci gli altri). Il resto degl'industriali s'è già accodato. Quanto alla mafia...beh, lasciamo andare. Soltanto nelle assemblee dei ragazzi, oramai, si trova la politica reale. Nel paesino sperduto, alla prima assemblea antimafiosa, vengono rudimentalmente dibattuti i problemi reali del Paese. A Roma no. Nei convegni, nelle redazioni, nei precongressi, nei partiti si parla sempre e disperatamente – weimarianamente – d'altro. E uno dovrebbe mettersi seriamente a commentare il nuovo partito, o non-partito, di Veltroni, o la precisazione di Chiamparino, o l'ultima intervista di Renzi,? *** A Catania, una buona notizia (una notizia improvvisa, eppure attesa): è nato un giornale nuovo, al di fuori di Ciancio, e per la prima volta non è uno di quelli fatti da noi ma ha degli imprenditori che lo finanziano. La notizia non è il giornale (si chiama “Sud”; il direttore, non nostro, è un bravo ragazzo; esce ogni due settimane), la notizia sono gli imprenditori. Per la prima volta dopo secoli degli imprenditori catanesi si son tirati su mutande e brache e hanno timidamente iniziato a fare il loro mestiere. Questa è una svolta. Comincia, con questa piccola storia, il dopo-Ciancio. Ci coglie con sentimenti diversi: simpatia, diffidenza, sorrisi, scuotimenti di testa... Adesso, il cammino sarà in discesa. Non sarà breve o facile, ma sarà la seconda parte della strada. La prima è durata venticinque anni. Io spero che i colleghi di “Sud”, e persino i loro imprenditori, abbiano un buon successo in questa impresa, che certo non sopravvaluto ma nemmeno voglio sottovalutare. Il suo valore di segnale è indiscutibile, conferma le nostre analisi, c'incoraggia nel lavoro; ma potrà avere anche – lo vedremo nei prossimi mesi – un buon peso anche di per sé, giornalisticamente; ed è ciò che auguriamo. Quanto a noi, abbiamo avuto una fortuna grandissima in tutti questi anni ed è stata quella di avere accanto – dopo il gruppo iniziale dei Siciliani – dei colleghi e compagni molto superiori a quel che meritavamo. Coraggiosi, costanti, solidali, amici: nello sfacelo generale, essi pochi hanno tenuto duro. E sono ancora qui al loro posto, all'inizio – speriamo – di una stagione meno dura, nata soprattutto grazie a loro Non mi ricordo più, alle volte, qual era l'obbiettivo finale dei Siciliani. Forse semplicemente questo: essere degni del nome, essere i Siciliani. Non c'è dubbio che Fabio, Graziella, Piero, Giovanni, Toti, Maurizio, Luca, Sonia, Massimiliano, Lillo, Sebastiano e tutti gli altri l'abbiano conseguito. 25 settembre 2010 PARLANDO DI NOI Caro Gianluca e cari tutti, mi dispiace molto di non poterci essere ora, vi seguo con attenzione e vi auguro buon lavoro. Buon *lavoro*, non buona commemorazione o buona autoconsolazione o buona ripetizione delle cose che già tutti sappiamo. E nemmeno - ma questo a voi non c'è proprio bisogno di dirlo - buona autoglorificazione, una categoria che un tempo era quasi assente e ora ahimè è fin troppo presente nelle occasioni pubbliche dell'antimafia. Lavorare vuol dire non essere nè geni nè eroi, e anzi guardarsi accuratamente dall'esserlo e considerare con diffidenza un uso troppo frequente di queste parole. Le guerre le vincono i comuni soldati - e la vostra è una guerra - e non i generali e neppure i cavalieri a cavallo. Bisogna che vi abituiate subito a pensare così, per quanto fuori moda sia; a lavorare pazientemente e modestamente, ma con serietà e con costanza, senza grandi parole ma senza mollare mai nemmeno per un istante. Ma questa nel caso vostro è una predica superflua, visto che vi conosco e so che persone siete. Diciamo che è una cosa in più, un pericolo che vi segnalo. Certo, potrà capitarvi (è capitato ad alcuni dei presenti) di dovere affrontare situazioni durissime, momenti in cui - come si dice - non è neanche sicuro di riportare a casa la pelle. Ma se vi toccheranno affrontatele senza tante parole, come un muratore su un'impalcatura difficile o un ferroviere su una linea rischiosa. Noi siamo stati così, Pippo Fava è stato così. Se volete imitarlo - ed è bello imitare uno come Pippo Fava cominciate da questo: niente grandi parole! E un'altra cosa vorrei dirvi, un'altra cosa un po' anomala, del Direttore: non era un giornalista d'inchiesta. Lo era stato a suo tempo (con Liggio, con Genco Russo, coi mafiosi di allora) ma non quando ha diretto i Siciliani. E allora perché l'hanno ammazzato? Perchè non Claudio o me o Miki, che invece le inchieste le facevamo proprio allora? Perché il giornalismo d'inchiesta non è che una parte del giornalismo, e nemmeno la parte principale. La parte principale è quella (fra virgolette) "politica" ed è come leader politico che Pippo Fava è stato ucciso. Ma come, i leader politici vanno in giro così, senza potere nè cravatta, senza nemmeno un partito cui appartenere? Proprio così. La politica veraè raccontare i dolori della gente, e le loro speranze, e i volti dei potenti che l'opprimono, con arte, mettendoci tutti se stessi, cervello e cuore. Allora, e soltanto allora, la verità colpisce davvero. Tra voi in questo momento ci sono tre ottimi giornalisti - Carlo, Graziella e Pino - che hanno pagato moltissimo per quello che hanno fatto. Hanno fatto inchieste bellissime ma ciò che non gli è stato perdonato è stato prima di tutto il loro ruolo "politico" e civile. Quando Graziella non solo indaga su un episodio ma anche organizza i Siciliani, quando Carlo si fa esempio vivente di rottura dell'omertà del notabilato locale, quando Pino non solo denuncia i Fardazza ma li schernisce e porta la gente a ridere di loro, ebbene, questa è politica e questi sono i nostri militanti politici, non solo e non principalmente i nostri giornalisti. Bravi, concreti, complessivi e quindi non digeribili in alcun modo. "Pericolosi". E così spero si possa dire di voi, in tutti i campi. Un saluto affettuoso e ancora buon lavoro. 3 ottobre 2010 QUA COMANDANO QUELLI DELLA TRABANT Fare macchine che non si vendono, coi soldi dello Stato, e alla fine accusare gli operai La Trabant non si vende e il Partito accusa gli operai. “Dovete lavorare di più - dice il Partito - E' che siete abituati troppo bene. Ma d'ora in poi vi faremo vedere....”. Tutti gli apparatnik, tutti i politici, tutti i giornali annuiscono gravemente. Nessuno propone la soluzione più logica (nazionalizzare la Trabant e metterla in mano agli ingegneri) anche perché, in teoria, la fabbrica è già nazionalizzata: vive dei soldi pubblici, produce pessime macchine ed è gestita da gente che di partito s'intende forse, ma di automobili assai meno. Gli unici rimedi che conoscono sono: uno, più sacrifici; due, più polizia. Esattamente la situazione della Fiat. Cacciati gl'ingegneri dai vertici (qualcuno si ricorda ancora di Ghidella?), sostituiti dagente fida del Partito (Romiti nell'88, adesso l'ineffabile Marchionne), le macchine vengono male e nessuno ne vuole. Fra tutte le consolidate auto europee, la Fiat è quella (- 26 per cento) che va peggio. Non per colpa dei coreani o dei cinesi: soffre Psa, Volkswagen, le europee. Buttare fuori a calci il compagno Marchionnov? Non se ne parla nemmeno. Sacrifici, licenziamenti e, se qualcuno protesta, polizia. E siccome qui in Unione Sovietica c'è un partito solo, nessuno seriamente protesta (seriamente vuol dire vendita forzata o nazionalizzazione). *** Che fa un capo dello Stato riformista anzi semplicemente democratico anzi, mi voglio rovinare, addirittura conservatore e di destra se il sindaco di un paese propugna la superiorità della razza bianca locale e vuole insegnarla per forza ai bambini innocenti delle scuole? Manda messaggi? Si appella alla buona volontà di un minisstro? Lascia intendere che forse non va bene?.Manda direttamenter la truppa, reparti delle Forze armate, che disperde la folla razzista a calcio di fucile e fa ala ai bambini neri. Non l'ha fatto Di Pietro o Vendola e nemmeno Bersani. L'ha fatto un presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Eisenhower,, a Little Rock nell'Arkansas nell'autunno del '57. Pochi anni dopo, nel '62, fu Kennedy a mandare quattrocento federali nel Mississippi, dove i razzisti locali governatore in testa – pretendevano di fare i razzisti nell'università. Anche qui, le baionette spianate e qualche buon spintone fecero un buon lavoro. Ad Adro, nel Quarto Reich di Brighella, il sindaco ribelle e razzista invece è ancora lì. *** «La vera notizia a me l'ha detta Eva, una ragazza del Centro per disabili con cui lavoro» racconta Mauro Biani. «”Hai sentito? - mi ha detto Sakineh non l'ammazzano più, la impiccano”. Unafrase che vale più di cento editoriali» *** Qua in Sicilia, a Catania i giudici non hanno la tradizione di Palermo. Un modo eufemistico per dire che negli anni 70 mettevano in galera l'ingegnere Mignemi che denunciava scandali edilizi, negli anni '80 indagavano sui conti di Giuseppe Fava, negli anni '90 coprivano i Cavalieri e un paio di anni fa non si accorgevano che i Santapaola scrivevano editoriali sui giornali di Ciancio. Qualche giorno fa, fra la sorpresa generale, sono piombati sull'unico giornale non di Ciancio della Città, Sud, che - a quanto avevano sentito dire - aveva intenzione di parlar male del presidente Lombardo. Sarebbe bellissimo se Catania prima o poi diventasse una città normale, a cominciare dal Palazzo di Giustizia e da coloro che l'abitano. Non sembra un momento vicino. Ci sono magistrati borbonici (quelli cresciuti col vecchio Di Natale: il persecutore di Fava, per intenderci), ci sono magistrati liberal (quelli del caso Catania di qualche anno fa: i persecutori di Scidà, per intenderci). Tutt'e due, fra di loro, si fanno a quanto pare una gran guerra, dando notizie, negandole, incriminandosi – per interposta persona – a vicenda, ciascuno coi suoi notabili, i suoi amici, le sue bestie nere. Noi (salva la solidarietà coi colleghi di Sud - solo i colleghi) noi non c'entriamo, siamo di un altro mondo, forse – ci pare a volte - di un altro pianeta. 3 ottobre 2010 SEI AMICI Il dottore Nastasi, veterinario, s'era fatto tutta la ritirata di Russia a piedi, con gli alpini. Mio padre aveva la rotula sinistra di metallo, completamente ricostruita, e varie schegge non estraibili in corpo. L'altro Nastasi, quello che insegnava ginnastica, s'era fatto Grecia, Libia e Albania. Idem Alfano e Ruvolo, tutti in fanteria. Ghetti, un anno e mezzo nei sommergibili: ne tornarono una decina, dei sottomarini atlantici, e "alla parata di Napoli eravamo ottantuno". Di questi sei amici non ce n'era uno che non bestemmiasse quando sentiva "gerarchi" e "mussolini". Nessuno di questi sei era pacifista, nel senso che intendete voi adesso. Ma odiavano la guerra e chiunque ne parlasse bene. "La guerra, la guerra...". "Eh. Non potete capire, voi giovani, quant'è bella la pace". Uno sospirava, l'altro tirava un colpo di toscano. Non si sono mai fatti guardare, da me bambino, come eroi. Stavano anzi molto attenti a non farlo. Di tutta la guerra, l'unica racconto che ho di mio padre è delle sigarette che s'erano scambiati, sotto la tenda dell'ospedale da campo, con il maggiore inglese che forse l'aveva ferito. E un'altra volta in cui, con tutti noi bambini a naso in su davanti ai premi del tiro a segno, dopo lunga esitazione e vergognandosi prese la carabina ad ariacompressa e a uno a uno li buttò giu tutti. "Ero tiratore scelto" mormorò come scusandosi, distribuendo le bambole e gli orsacchiotti di pezza. Non so quante ferite e medaglie avessero quei sei amici, tutti insieme. Ma mi hanno insegnato la pace, poiché erano dei soldati. Oggigiorno un politico - culomolle, gerarca, mai stato al fuoco, mai rischiata la pelle per il suo paese - vorrebbe invece insegnare la guerra (peggio: giocare alla guerra) ai ragazzini. Ma mio padre e i suoi amici, nelle loro varie e diverse idee politiche, concordemente avrebbero avuto orrore di lui. 10 ottobre 2010 VIETATO SCRIVERE "SFRUTTATORE"? Scandalo per una scritta contro Marchionne. E allora? C'è molta differenza fra la protesta (in questo caso, assai giusta) e il terrorismo o la violenza. Anche la Marcegaglia, adesso, è contro Berlu sconi. Ma questo non vuol dire... A Milano è successa una cosa tremenda: alcuni feroci estremisti, o brigatisti o di Bin Laden o di chissà che banda, sono andati in via Unbria, hanno scelto accuratamente un muro e – a caratteri enormi e, badate bene, in rosso - vi hanno scritto d'un getto: “Marchionne sfruttatore”. Poi “Servi dei padroni” (per Angeletti e Bonanni). Infine hanno vergato: una falce; un martello; e una stella rossa. Quest'ultima, a dire il vero, non era proprio quella dei brigatisti (che è piuttosto, tecnicamente, un pentacolo) ma - piccola, fra l'estremità della falce e quella del martello – aveva un'aria più che altro berlingueriana (“Emblema del Partito sono la falce e il martello, simboli del Lavoro, e la Stella d'Italia che li affianca...”). Ma non importa: l'allarme – allarme sociale – resta; e se n'è fatta portavoce Repubblica, con titoli convenevolmente allarmati, simili – per dare un'idea – a quelli che userebbe se un giorno o l'altro, per assurda ipotesi, Marchione dichiarasse che la Costituzione della Repubblica non vale più e lo Statuto dei lavoratori è carta straccia. Ma, filologicamente, si può dire (e scrivere) che un personaggio così illustre come Marchionne sia con rispetto parlando uno sfruttatore? A me, e al mio illustre collega prof Marchetti (prima delle leggi razziali si chiamava Marx) parrebbe ovvio. Potremmo sbagliarci, s'intende: ma si va già in galera, o si passa per brigatisti, a dirlo? (Non sono invece d'accordo con quel “servi dei padroni” ai poveri Angeletti e Bonanni, che sono semplicemente dei sindacalisti alquanto incapaci: ma, anche qui, potrei sbagliarmi). *** Siamo impegnati in una lotta ferocissima con un potere non-democratico e corrotto, quello di Berlusconi. Contro di esso lottano anche, e con determinazione non inferiore, anche i colleghi di Repubblica e gli imprenditori che ne possiedono il giornale. Si tratta, com'è evidente, di gente civile e democratica, del tutto imparagonabile con gli avversari comuni. Sarebbe dunque sbagliato fare troppe polemiche con loro. Ogni tanto, però, non fa male ricordarsi un attimo che sempre di interessi si tratta, civili e democratici ma interessi; e che la Fiat in particolare, per loro e per tutta la democrazia moderata – è stata per sessant'anni ed è tuttora un tabù. Possiamo pretendere, questo sì, che non confondano cazzi e lanterne (come si dice a Parigi) e non aiutino involontariamente i brigatisti veri attribuendo loro sentimenti che invece sono, da molte generazioni a questa parte, delal gran maggioranza degli operai. E poi via tutti avanti a lottare contro Caligola e Nerone, loro (senatori) da un lato e noi (schiavi e liberti) dall'altro. Soltanto, facciano attenzione a non regalare a Nerone liberti e schiavi, come spesso sono tentati di fare. *** Saviano – passando ad altro – da quando ha lasciato il suo vecchio sito Nazione Indiana non è migliorato. Ultimamente ha piantato là una gran bischerata, occupandosi con leggerezza di Peppino Impastato e dando della sua lotta una versione da fiction, ignorando ad esempio il ruolo decisivo che ebbero, con gran rischio e coraggio, compagni come Umberto Santino e il suo Centro Impastato. Umberto (che non per la prima volta viene ingiustamente cancellato dalla storia “ufficiale”) giustamente se n'è doluto e ha protestato. Bene. Poi, però, ha preso carta e penna e ha fatto causa a Saviano. Male. Io spero, e anzi mi permetto umilmente di chiedere, che questa faccenda finisca con un sorriso reciproco e una stretta di mano. Due antimafiosi, il più grande dei vecchi e il più famoso dei nuovi! Eppure non andrà così, lo sento. E anche questo è un segnale. Io ho sempre sostenuto che l'antimafia dovrebbe insegnare alla politica, fare (vera) politica essa stessa. Ma occorre un colpo d'ali. 18 ottobre 2010 "HA DA VENI' ER TICKET" - Eh, va là! Sessantotto!”. - Che ti devo dire. Anche allora mica la tv se l'aspettava. Intanto... - E chi sarebbe il capo di 'sto sessantotto? Vendola? Beppe Grillo? Di Pietro? - Beh, mica facile fare il sessantottino se perdi tempo con un partitino intestato al tuo nome. E allora son stati proprio i capi, come li chiami tu, a sfasciare tutto. Stavolta magari se ne fa a meno. - Vabbe', le solite fantasie. E intanto Berlusconi... - Ma intanto ridendo e scherzando ci abbiamo guadagnato un'opposizione. Prima non c'era e ora da sabato c'è. - Ma dai! - Mica lo dico io. Il Corriere lo dice. Leggi qua: “La Fiom si fa partito”., E il Corriere, quando sente guai, se ne intende... - E il piddì? E Bersani? Che fine fanno? - Bersani è uno serio, e a quest'ora s'è già accordato con Vendola per fare il ticket. - Il ticket? - Te lo ricordi quando c'era Prodi e Veltroni? Il vecchio e il giovane, l'Emilia solida e la città futura, i conti in ordine e la poesia... - E dai, Veltroni... Tocco palle a solo pensarci. - Anch'io, e difatti Veltroni ha fatto la fine che ha fatto. Ha accoltellato il povero Prodi fra l'altro. Ma Vendola è un'altra cosa. Vendola non tradisce. Bersani tiene su la baracca, e lui la spinge avanti. *** Anche per noi dell'antimafia sabato è stato un bel giorno. Noi non abbiamo amici, in realtà. Non fino in fondo. Gli unici di cui ci fidiamo, sono gli operai. Sono nella stessa barca con noi. Noi abbiamo addosso la mafia, loro la Fiat. Non so qual'è peggio delle due. Ma sono nella stessa barca anche loro, l'Italia se la dividono fra loro due, nord e sud, destra e “moderati”. Noi, ai Siciliani, l'abbiamo sempre saputo. Non abbiamo mai fatto antimafia senza pensare ai poveracci. Nè abbiamo mai appoggiato uno sciopero senza dire: “Sì, ma i veri padroni sono i Cavalieri”. Questa è la dote che noi portiamo oggi al “movimento”, qualunque cosa sia oggi questa parola, vecchia come tutte quelle dell'altro secolo ma come molte altre della nostra storia (operai e padroni, destra e sinistra, “coppole” e “cappeddi”) nella sostanza tremendamente attuale. Per questo dobbiamo sbrigarci a fare rete. I tanti nostri piccoli (e meno piccoli) siti e giornali non ci bastano più. Nè possiamo affidarci ai “cappeddi” liberali, neanche quando lottano contro Re Bomba o Berlusconi. E tanto per capirci, ecco due esempi. *** In Calabria un giornalista antimafioso, un certo (ché tanto non lo conoscete) Musolino. è stato trasferito d'autorità dalla direzione del suo giornale dopo aver fatto dichiarazioni “avventate” ad Anno Zero. A fargli questo scherzetto sono stati due padroni molto discussi, Citrigno e Aquino (occhio, si preparano a fare un giornale “democratico” a Roma) e un direttore “liberal”, Sansonetti. Di costui io aspetto ancora di sapere che cosa ne pensano i miei amici liberali, compresi i più avanzati. In Sicilia, il giornalista più in pericolo è probabilmente Pino Maniaci, quello di Telejato, delle aggressioni in piazza e della lotta antimafia a Partinico. Quest'estate un “collega”, tale Molino, l'ha violentemente attaccato, usando anche calunnie (per le quali il suo avvocato ha offerto ora una transazione amichevole, cioè soldi, a Maniaci). Bene, vengo sapere che questo Molino, grazie a spinte molto autorevoli di una parte (non la migliore) del Pd siciliano, è stato assunto ad Anno Zero. Santoro non conosce il background, naturalmente. Ma Maniaci, così, è un po' più isolato (e in pericolo) di prima. *** Beh, parliamo un po' di cose di famiglia, ora. Oggi si laurea in giornalismo Giorgio Ruta (22 anni; lo conoscete dal “Clandestino”) e domani fa l'esame dell'Ordine Chiara Zappalà, un'altra dei nostri, 24 anni, ha vinto l'Ilaria Alpi per un video con Sonia Giardina. Credo che Pippo Fava, da qualche parte, tutto sommato stia sorridendo. 25 ottobre 2010 RICOMINCIARE DA TELEJATO Due storie di cronisti minacciati (uno in Sicilia l'altro in Calabria) che non riguardano solo il giornalismo ma proprio la politica: la nostra Non è una storia importante, quella di Pino Maniaci e di TeleJato. Si svolge in un pezzo d'Italia (Partinico e dintorni) in cui la mafia comanda da quasi cent'anni, tollerata da Crispi, Giolitti, Mussolini, Fanfani, Andreotti e infine Berlusconi. Non è un'Italia importante, infatti, Partinico; si può ben delegarne il controllo, in cambio di qualche voto, a Cosa Nostra. E tutto va avanti così, banalmente, una generazione dopo l'altra. L'Italia civile, ogni tanto, manda giù una telecamera: un servizio, una fiction, un'ora di folklore. Finché, improvvisamente, ti spunta una telecamera indigena, che senza sapere un cazzo d'informazione comincia fare informazione davvero. Cioè ventiquattr'ore su ventiquattro, dal basso, in mezzo alla gente del luogo e con parole locali. Ridendo e sputtanando i boss locali: “Tano Seduto!”. “Fardazza!”. Si chiami Peppino Impastato o Pino Maniaci, il giornalista indigeno non è mai presi sul serio (da vivo) dai giornalisti ufficiali. Ci volle del bello e del buono, l'anno scorso, per fare ottenere un tesserino a Pino. Dovette fiondarsi a Palermo il presidente dell'Ordine in persona, Iacopino, e imporlo ai riluttanti colleghi locali alcuni dei quali (Lazzaro Dantuso e Mannisi) minacciarono di uscire dall'Ordine se vi fosse stato accolto Maniaci. Seguono alcuni mesi “normali” (la solita pastasciutta, le solite minacce, i soliti tg sui Fardazza, le solite aggressioni in piazza) in cui Pino, senza far troppo caso dei “colleghi”, continua a tirare la carretta di TeleJato paziente e imperturbabile come un somaro. Poi, con l'estate, arriva un bel regalo: un lbro di un collega “antimafioso” (vedi pag.4) che dedica a TeleJato un capitolo intero: per dire che è tutta una buffonata e che Pino è un ciarlatano. Caselli, don Ciotti, i “vecchi” di Radio Aut e dei Siciliani, l'antimafia insomma, si mettono pubblicamente accanto a Pino. I più intimi lo consigliano: “Eddài, non te la prendere, sono cose che passano, continua a fare il tuo dovere”. E lui pazientemente riafferra le stanghe e si rimette a tirare, povero e indifferente come prima. Il collega calunniatore intanto fa carriera e finisce in Rai: e non da Bruno Vespa ma da Santoro. Così va il mondo. Maniaci perde la pazienza, ma brevemente, soltanto quando l'ennesima minaccia (che Procura e Scientifica valutano fra le più dure in assoluto) colpisce non più solo lui, ma anche la sua famiglia. Dice alcune parole, ad alta voce. Eppoi si rimette a lavorare. “Noi non ci fermeremo”. *** Parlo di Pino perché sono siciliano, e mi è quindi più facile scrivere di lui. Ma un caso abbastanza simile, quasi contemporaneamente, si è verificato in Calabria (vedi Ucuntu 18 ottobre) dove il cronista Luigi Musolino, più volte minacciato dalla 'ndrangheta, viene trasferito d'autorità dopo aver fatto dichiarazioni su politici non propriamente antimafiosi. Il suo direttore è uno “di sinistra”, Sansonetti, il cui riferimento politico, se non ho perso qualche puntata, è addirittura Vendola. Che certo, come Santoro, non è tenuto a occuparsi di tutti i particolari, e in particolare della sorte di un misero cronista calabrese o siciliano. *** Torniamo su questi due nomi, che i nostri lettori (e di non molti altri giornali) già conoscono, perché li riteniamo importantissimi per il nostro mestiere, per il nostro Paese, e per lo schieramento politico cui apparteniamo, la sinistra. Maniaci e Musolino non sono dei semplici giornalisti. Giù da noi, sono il giornalismo. Maniaci e Musolino non sono dei semplici giornalisti. Giù da noi sono le sentinelle della Nazione, sono l'Italia. Maniaci e Musolino non sono un problema della sinistra. Giù da noi sono il problema. Nel momento in cui (forse) riusciamo a cacciar via Berlusconi, a ridarci un governo, saremo noi di sinistra in grado di governare meglio di prima, di affrontare con la durezza e serietà che in passato è mancata i problemi vitali: la mafia, l'informazione libera, la non-dignità sul lavoro? Nei casi di Musolino e Maniaci compaiono esattamente questi temi. Con nemici e responsabili di destra ma con un'immensa miopia - colpevole - da sinistra. Perciò io qui chiedo formalmente a Santoro di esprimere pubblicamente solidarietà a Maniaci (finora non l'ha fatto) e a Vendola di prendere pubblicamente le distanze da Sanonetti (non l'ha fatto). Insomma di sostenere per quanto possibile la nostra antimafia povera e paesana, scegliendo i militanti sul campo e non i cortigiani. Mica siete obbligati, caro Michele e caro Nichi, a comportarvi così impoliticamente. Se non lo farete continuerò e sostenervi per disciplina e dovere, bugia nen, come un sergente sabaudo. Se lo farete, sarete molto più che dei re (o dei politici) per me e per quelli come me: sarete dei compagni. 1 novembre 2010 IL MURO DI SICILIA E QUELLO DI BERLINO Qual è peggio dei due? Mah. Intanto la gente crepa su tutt'e due Ci sono poche cose più inutili di questo numero di Ucuntu, in questo buffo paese in cui il principale argomento di politica è il numero e l'età delle ragazzine comprate dal rimbambito monarca. Leggetelo, se proprio volete, come una semplice testimonianza: fra gli italiani, e siciliani, del duemila e rotti non tutti erano del tutto privi di vergogna, non tutti prendevano atto. Leggete questo, ora o fra vent'anni, e non confondeteci con gli altri. Perché quel che è successo a Catania in questi giorni è, nella sua ordinarietà, assolutamente nitido come segnale; equivalente a quello dei buoni cittadini di Berlino o Vienna che, sorridendo distrattamente, guardavano gli ebrei afferrati e portati via. Succede, e anche questo è significativo, a Catania, cioè in una delle due o tre città d'Italia in cui il potere mafioso è totalmente integrato, da tre decenni ormai, in quello dello Stato. Succede anche in citttà, d'accordo, d'inciviltà più recente. Ma parlino gli altri, se vogliono, delle loro vergogne; noi, delle nostre. *** La storia è molto semplice: più di cento profughi, di cui metà bambini, arrivano dopo pene indicibili da noi in Sicilia, sbarcano sulla nostra terra. Un tempo, le donne si sarebbero affrettate a portare coperte e viveri, e gli uomini vino. Adesso, l'affare è di competenza della forza pubblica. Rastrellano i disgraziati, li chiudono in uno stadio, inventano qualche chiacchiera per tenere a bada i pochi cittadini accorsi, e rimandano le pecore al lupo. Che è uno dei tanti tiranni africani, odiati dal popolo ma con una buona polizia: tutti, da qualche anno in qua, fraterni amici dell'Italia o almeno dei suoi governanti. Il rapporto fra noi e l'egiziano Mubarak, o il librico Gheddafi, è infatti chiarissimo su questo punto: l'Italia paga; essi impediscono con ogni mezzo, comprese tortura e morte, ai loro infelici sudditi di venire e infastidire noi ricchi. Cento o duecento vittime, uccise mentre fuggivano dal Muro di Berlino, disonorarono - e giustamente - i regimi orientali, concorsero al loro crollo e furono e sono invocate come prova della disumanità e tirannia di quei regimi. Oggi le vittime si contano a migliaia e decine di migliaia, e noi tutti italiani – meno chi vi si oppone – ne siamo conniventi. Vergogna, vergogna, vergogna. E vergogna maggiore su chi, come noi sicilaini, ha conosciuto la fame, come i poveretti di ora, e ha dovuto emigrare. Ma le angherie degli svizzeri - e dei tedeschi, e dei francesi, e dei belgi, e di tutti quei popoli presso cui la necessità ci costringeva a emigrare – non furono mai paragonabili a quelle che gli emigranti di ora subiscono da noi italiani degenerati. Peggio delle violenze (che non mancano) è odiosa l'indifferenza, e la Sicilia e l'Italia ne danno adesso - diversamente da ancora pochi anni fa - triste prova. *** Non saprei che altro aggiungere. E' futile, di fronte a questo, dilungarsi sulle politiche nazionali e locali che al confronto appaiono sempre più esercitazioni di notabili più o meno incartapecoriti; l'unico partito che fa politica, a quanto pare, è la Fiom e tutti gli altri sono struzzi che differiscono per il diverso livello di profondità a cui seppelliscono la testa. Due osservazioni soltanto. La prima riguarda la quasi totale indifferenza con cui la stampa nazionale ha accolto questa tragica vicenda, con l'unica benemerita eccezione del (fuori moda) Manifesto. A Catania, quasi contemporaneamente ai fatti, si svolgeva uno dei tanti periodici dibattiti sull'informazione. Nessuno degli intervenuti ha ritenuto opportuno mentovare i poveri emigranti che proprio in quelle ore andavano incontro al loro tragico destino. Né alcuno dei valorosi politici piombati giù da Roma ad aprire nell'occasione la campagna elettorale ha perso tempo a recarsi immediatamente allo stadio o all'aeroporto, a difendere i poveretti, che se ne sarebbero giovati. Liberali sì ma “galantuomini”, nell'accezione veghiana. *** L'altra considerazione riguarda invece i nostri ragazzi, i miei colleghi di Ucuntu. Che dalle primissime ore, senza porsi il problema di cosa sia o non sia l'informazione, si sono fiondati sul posto, a dare “copertura giornalistica” - come si dice - all'evento, che subito avevano percepito come importantissimo, e per solidarizzare con gli emigranti. Fatiche e coraggio sprecati, perché dal punto di vista dei media il loro piccolo giornale, non ripreso dai grossi, non basterà certo a mutare l'opinione pubblica; e dal punto di vista civile le poche decine di cittadini presenti, fra cui essi stessi, non hanno potuto fare molto di più che richiamare i diritti e prendersi qualche spintone.in mezzo agli altri. Non sono stati furbi per niente, i miei colleghi e amici: potevano andare ai dibattiti, o in qualche carriera politica, invece di perdere tempo così per niente. Salvo che per una cosa che un tempo era importante, fra di noi siciliani: la dignità. 8 novembre 2010 LOMBARDO, FIUMEFREDDO... MA CHE C'ENTRIAMO NOI? “Cambiare tutto perché non cambi niente...”. Quante volte, in Sicilia. Ma una volta, almeno, c'era chi resisteva duramente, egualmente nemico di gattopardi e borboni Uno dei più seri presidenti della Sicilia è stato certamente Mario D'Acquisto, capocolonna andreottiano negli anni Ottanta. A differenza di Cuffaro o Lombardo, infatti, non si faceva ufficialmente indagare come mafioso, non si faceva fotografare coi cannoli, e soprattutto - cupo e letale non rideva mai, nemmeno quando piazzava i suoi uomini nella colonna siciliana della P2. Che cosa combinò la P2, e soprattutto in Sicilia, e soprattutto in quegli anni, sarebbe bello sapere. D'Aquisto inoltre (e questa è la seconda differenza dai tempi nostri) non fu mai sostenuto dalla sinistra, che allora era Berlinguer e Pio La Torre. Il “nuovo” della politica siciliana, esteticamente parlando, è tutto qui. Prima c'erano i tragici Lima e Ciancimino, e gl'incorruttibili nemici del Pci. Ora ci sono macchiette (fors'anche sanguinose: ma macchiette), e ciascuna di loro ha i propri amici e alleati nel Pd: di cui alcuni sono corrotti ma altri persone perbene. Fra queste ultime sicuramente c'è Beppe Lumia, che è un antimafioso esemplare da molti anni. Perché un Lumia viene a trovarsi con un Lombardo? O, a un livello meno drammatico, una Borsellino con un Fiumefreddo, un Crocetta con un Toni Zermo? Sono persone coraggiose e buone, non le si può certo accusare di tradimento. E sono, per quel che sappiamo, sane di mente. Eppure sono riuscite a infilarsi in un groviglio inestricabile di accordi, di controaccordi, di equilibrismi e alleanze in confronto a cui gli inciuci di Veltroni e D'Alema appaiono rozzi e primitivi. Il fatto è che nè Lumia nè Crocetta nè la Borsellino, nè Orlando nè l'Alfano nè Fava nè, a quanto pare, alcun altro come loro si sente parte di un tutto, di un collettivo. Sono cavalieri isolati, alla Lancillotto (“Non posso battere la mafia da solo” dichiarò tempo fa uno di loro). Mettersi insieme, fare squadra, non gli passa neppure per la mente. Ovvio che quindi risultino, individualmente presi, pessimisti e sfiduciati. Il loro pessimismo nasce anche dal fatto che, salvo eccezioni momentanee ma rimosse, non hanno mai avuto una fiducia reale nei movimenti (il cooordinamento antimafia, i Siciliani Giovani, il Rita Express) che via via incontravano. “Bravi ragazzi sì, ma la politica è un'altra cosa”. E hanno puntato tutte le carte sulla politica tradizionale. Che non ha funzionato. Da ciò, isolamento e sfiducia. Alcuni hanno reagito raddopiando gli sforzi, persuasi che bisognasse solo insistere. Altri cercando di galleggiare alla meno peggio. Altri ancora hanno deciso che, perso per perso, tanto valeva - nell'interesse geneale – contrattare almeno il meno peggio, accordarsi coi meno stronzi fra i nemici. Ora, con Lombardo indagato e tutto il resto, cercano disperatamente una soluzione. Ma soluzioni non ce n'è. E finiscono per trovarsi involontariamente arruolati con questo o quel signore della guerra - i vari Lombardo, Micciché Fiumefreddo, Castiglione e chi più ne ha più ne metta – che, su oppeste fazioni, cercano classicamete di farsi le scarpe a vicenda nel momento del patatrac generale. Ce ne dispiace per Lumia, e anche per diversi nostri amici, giovani e meno giovani, che nella fretta di colpire questo o quel singolo barone non riescono più a percepire che la guerra in realtà è contro tutta (indivisibile) la baronìa. E va bene. Sono cose banali, lo sappiamo, ma ripetiamole ancora: l'antimafia, che è politica, può farla solo l'insieme di tutti gli antimafiosi. Se vi si intrufolano altri, non funziona. Se ci si allea con gente strana, non funziona. Se si comincia a distinguere, non funziona. Se ci sente “isolati”, non funziona. Adesso funzionerebbe come noi mai, perché il nemico è confuso, perché re e duci litigano, perché i sacrifici che esigono son diventati davvero troppo grossi. Sarebbe automatico, e semplice, vincere in un momento come questo. Ma forse è troppo semplice, per i complicati politici che ormai siamo diventati. E non parliamo più della Fiat. E ci illudiamo che il regime caschi – forse – per una mera storia di puttane. E ci prepariamo ad accogliere tutti contenti Fini, Draghi, Montezemolo, Lapo Elkann, Dino Grandi, Casini, chiunque i poteri forti vogliano imporci al posto dell'ormai inusabile duce. Facciamo motti di spirito, belle frasi, e battute indignate e ipotesi da farmacia. E non parliamomo più di Fiat. E di mafia pochissimo. E non parliamo mai affatto, imperdonabilmente, di sciopero antimafia e antifiat, sciopero generale. 16 novembre 2010 LA LUNGA E PROGRAMMATA AGONIA DEL CAUDILLO Quando Francisco Franco venne finalmente chiamato a render conto al tribunale del Signore, fra i cortigiani si levò un'onda di paura: che sarebbe accaduto ora? Chi avrebbe protetto più il loro regno, quell'eden di banchieri “cattolici” e di puttane devote pazientemente costruito anno dopo anno? Mentre il vecchio caudillo agonizzava, cortigiani e banchieri trovarono la soluzione: “Lasciamolo agonizzare”, disse qualcuno. “Facciamolo agonizzare più a lungo che si può. E così avremo il tempo di organizzare la transizione”. E così fu. L'agonia del tiranno fu spaventosa: tubi e tubicini lo tennero in un'improbabile “vita” per mesi e mesi mentre finanzieri e vescovi organizzavano freneticamente la successione. Le cose poi non andarono per il giusto verso, fra il re improvvisamente democratico e gli operai fin troppo prevedibilmente incazzati (oggi si chiamano Fiom, allora Comisiones Obreras). L'idea della lunga agonia però non era male, pensano – oggi, in Italia – finanzieri e cortigiani. “Tiriamo in lungo le cose - pensano lor signori avremo tempo di trovare se non un altro Berlusconi (di quelli la Provvidenza ne manda solo uno per secolo) almeno uno che in qualche modo faccia il suo lavoro essenziale: far pagare la crisi ai maledetti poveri e non ai miliardari innocenti, che saremmo noi”. Ed ecco perché, se l'economia corre, la politica va a rilento. L'economia va – letteralmente – a rotta di collo, alla marchionesca: produrre male, perdere i mercati uno dopo l'altro (si stanno vendendo la Ferrari, non si sa se ai tedeschi o ai coreani) ma intanto ristrutturare le fabbriche senza contratti fissi e senza sindacato. Pomigliano, Torino, poi altre decine di fabbriche, poi l'Italia intera: e senza opposizione concreta di nessuno, nè a “sinistra” nè a destra, salvo quella – ma forte e dura, e ovviamente ignorata – degli operai. La politica segue piano piano, con moltissimo fumo e poco arrosto. Chi sarà il successore di Temonti (il vero primo ministro, se non ve ne siete accorti, al capezzale del Papi lo sta facendo lui)? Il banchiere Draghi, ufficialmente proposto da Scalfari con parole forbite? Tremonti stesso, se Bossi finalmente si decide? Casini, Fini, Montezemolo, Carrero Blanco? E chi lo sa. Non abbiamo la più pallida idea di quello che si discute in quelle stanze, nè averla ci servirebbe, tanto decidono tutto loro. C'interessa invece moltissimo che cosa si va preparando dalle parti nostre, l'opposizione politica, la sinistra. Qui le cose, se si considera bene, non vanno male. La sinistra, per cominciare, ha sempre più voglia di essere di sinistra (e capirai, con 'sta crisi) e non di centrosinistra, di centro o di qualche altra cosa. Un segnale? Le primarie Pd di Milano, dove ha vinto non Vendola ma Berlinguer: vale a dire il realismo, la nostalgia, il “basta con queste chiacchiere”, il “lavoratori!”, il buon vecchio Pci dei tempi andati. Nella base Pd questa è una minoranza (e infatti la partecipazione alle primarie è stata abbastanza minore del previsto), ma è la minoranza politica, l'unica che crede ancora nel partito e nella politica in generale (le “opposizioni” dentro il Pd, Chiamparino, Veltroni o il terrificante Renzi, contestano Bersani qualunquisticamente e da destra). Farà in tempo questa minoranza, avrà la forza di costruire un blocco politico (quello sociale c'è già, ed è la manifestazione Fiom del 16 ottobre) veramente democratico, berlingueriano? E Vendola, ce la farà Vendola - dacchè il dio dei bambini, come diceva Luca Orlando, l'ha scelto - a essere più di Vendola, a diventare se stesso? Non ci servono i leader, proprio per niente. Servono compagni seri e “quadrati”, collettivi. Vendola, non per sua colpa, non lo è (io sono ancora impaurito dall'orrenda maniera con cui lui, Fava, Bertinotti e Ferrero riuscirono, fra tutti, a balcanizzare Rifondazione) ma, se dà retta a se stesso, al Vendola reale e non dei media, può diventarlo. Non l'improbabile leader di un centrosinistra confuso ma il capo di una sinistra organizzata e compatta che ora non c'è e che, col 10-15 per cento di elettorato su cui può contare, diventerebbe l'arbitra della Terza Repubblica, sia al governo che all'opposizione. Personalmente, per fidarmi di Vendola, ho bisogno di due segnali precisi. Primo, tolga dal suo simbolo quell'orribile “con Vendola” (“con Di Pietro”, “con Beppe Grillo” ecc.) che è leaderistico e perciò di berlusconiano. Secondo, scarichi pubblicamente il traditore Sansonetti che in Calabria, dopo aver fatto il crumiro e aver licenziato i giornalisti antimafiosi, ora esalta i fascisti e i mafiosi del Boia Chi Molla. *** Infine. Ho molta simpatia per Saviano e quindi lo prego di smetterla di dire cose che dette da un altro sarebbero sciocchezze e dette da lui sono sciocchezze lo stesso. Mi riferisco a quelle su Peppino Impastato (che non a caso hanno suscitato la reazione, eccessiva, di Umberto Santino) e soprattutto ora su Alfredo Galasso. Gli addetti ai lavori sanno che le mie relazioni con lui adesso non sono purtroppo delle migliori, ma ciò non toglie che Alfredo Galasso sia stato uno degli eroi dell'antimafia, in momenti in cui c'erano pochi applausi e molta solitudine, e che presentarlo (come in sostanza ha fatto Saviano) come uno della “fabbrica del fango” sia irresponsabile, ingiusto e profondamente sbagliato. Io, fossi in Saviano, presenterei le mie scuse. Ma anche Saviano, forse, deve ancora imparare a diventare completamente Saviano. 21 novembre 2010 IL PATTO Brescia: espulsi i capi operai, liberi e trionfanti gli stragisti. Viviamo in un Paese così. La piccola politica non basta “Andreotti Giulio, anni dieci. Berlusconi Silvio, anni otto. Cuffaro Salvatore detto Totò, anni sette. Lombardo Raffaele, anni due e mesi sei...”. No, non è quello che stavate pensando. E' semplicemente il numero degli anni in cui la Repubblica Italiana e la Regione Siciliana sono state governate da politici ufficialmente e giudiziariamente in contatto con mafiosi. Per un terzo della nostra storia civile, quindi, siamo stati comandati da gente che s'intendeva coi mafiosi. Questo è il Patto. Il Patto non esclude patti minori - anzi, li esalta - ma non coincide con essi. Questi ultimi possono essere considerati delle patologie del sistema, ma il Patto è una fisiologia. Uccidere Falcone, ad esempio, può essere stata una scelta eccezionale, una patologia. Ma se ciò è stato fatto per impedirgli di portare Badalamenti (tramite Buscetta) a rivelare gli incontri Cosa Nostra-Governo - rivelazioni che ora sono agli atti della Storia ma vent'anni fa avrebbero rivoluzionato il Paese – uccidere Falcone allora non sarebbe più una decisione occasionale, un caso estremo, ma una componente fisiologica, necessitata, del Patto. Lo stesso per Borsellino, ucciso dalla mafia ma non per essa. Il Patto, agli albori della Repubblica, consiste in questo: l'Italia è un paese civile, con libere elezioni, ma fino a un certo punto. Mezza Italia resta prerepubblicana, feudo senza diritti del grande latifondo. L'altra metà è repubblica, ma con un confine preciso: in nessun caso può andare al governo il partito dei lavoratori dipendenti, che per ragioni storiche si chiamava comunista. Entro questi binari, la vita della repubblica andava avanti tranquilla. Un nord corporativo e democratico, e tutto sommato europeo, in cui lo Stato finanziava gli imprenditori e questi garantivano la piena occupazione. Un sud largamente autonomo ma non ribelle, in cui i grandi proprietari terrieri si evolvevano in “imprenditori” e i loro armati in moderni mafiosi. Due insiemi collegati dalla Dc e dall'emigrazione. Nei momenti di crisi (l'occupazione delle terre, l'autunno caldo) s'interveniva con mezzi forti: Portella delle Ginestre, Piazza Fontana. Ma erano casi estremi. A poco a poco la crisi rientrava (i contadini emigravano, gli operai accettavano la ristrutturazione industriale) e tutto tornava nella normalità. Che era una normalità italiana, legata al Patto. *** Il nostro - sto parlando del Sud: ma ormai arriva a Milano - è un Paese antichissimo, molto più antico della politica. Da noi la destra non è quella parte del parlamento che siede alla destra dell'onorevole speaker, è proprio il padrone feroce, nato sulla zolla; e la sinistra non è un club di gentlemen riformisti, è generazioni infinite di contadini. La paura, la fame, muovevano reciprocamente i due mondi. Certo: poi venne De Gasperi, venne Togliatti; ci siamo inciviliti parecchio, nei nostri anni belli, prima di diventare quel che siamo. Ma l'imprinting è quello: una lotta di classe a volte umanamente “politica”, altre volte feroce. In altri Paesi simili (la Grecia del dopo-guerra, la Spagna di Franco) questa lotta di classe fu risolta con stragi di centinaia di migliaia di cittadini. In Italia col Patto. *** A Brescia, in questi giorni, sono accadute - per singolare coincidenza, quasi insieme - due cose che ci ricordano cos'è stato in pratica, e cosa ancora è ogni volta che gli si lascia via libera - la gestione del potere in questo paese. Sono stati esiliati d'autorità, con un ottocentesco foglio di polizia, i capi di una pacifica manifestazione di operai; ché tali erano i senegalesi della gru, prima ancora che forestieri o immigrati: operai. Ed è stata definitivamente dichiarata impunita la strage del maggio '74 di Brescia, di trentasei anni fa. Otto italiani ammazzati, feriti più di cento: la giustizia, impotente, alza le braccia. Perseguitati gli operai, liberi e trionfanti gli stragisti: questo è lo stato del mio Paese nell'anno di grazia 2010. Non sarà la politica piccola a sollevarlo. Maroni, spingendo Tremonti, tradisce Berlusconi in proprio o per conto di Bossi? Chi ha spinto la Carfagna a quest'ultima storia di Bocchino? Lombardo è più o meno mafioso di Cuffaro? E che ce ne frega. Pensiamo alla politica seria, almeno noi. Cacciare Berlusconi, deridere i suoi cortigiani, sberlursconizzare la sinistra: vi pare un programma da niente? 1 dicembre 2010 DOPO PIÙ DI VENT'ANNI FINALMENTE INDAGATO MARIO CIANCIO "Concorso esterno in associazione mafiosa” è l'intestatazione del fascicolo intestato dalla Procura di Catania all'imprenditore Mario Ciancio. Da decenni al centro delle inchieste dei pochi giornalisti liberi della città, l'editore catanese - a lungo presidente degli editori italiani - era diventato uno degli uomini più potenti non solo della Sicilia ma di tutto un sottobosco italiano politico-imprenditoriale. Ai suoi piedi intellettuali e politici, mafiosi e principi del foro: vent'anni di servilismo, connivenza e omertà Dopo più di vent'anni, finalmente alla Procura di Catania si accorgono che esiste un Mario Ciancio. Lo indagano, a quanto pare, per uno dei tanti centri commerciali; si parla di concorso per associazione mafiosa, ma alcuni sembrano anche orientati (se non cambieranno idea) a indagare sul terrificante episodio dell'editoriale di Vincenzo Santapaola, pubblicato su La Sicilia sotto forma di lettera al giornale. Vent'anni di articoli sui Siciliani, sui Siciliani nuovi, su Avvenimenti, sull'Isola Possibile, su Ucuntu e infine da qualche mese anche su altri giornali son dunque infine serviti a qualcosa? Riusciremo a vedere, nei prossimi vent'anni, non solo le prime indagini ma anche un po' di giustizia? Forse il clima politico, di si-salvi-chi-può e di sfacelo generale, potrebbe aiutare a vincere tante annose timidezze. Forse - poiché nulla è impossibile una genuina volontà di giustizia s'intrufola persino nei palazzi tradizionalmente più lontani da essa, come - a Catania - quello di Giustizia. Chi lo sa. In ogni caso, a caval donato non si guarda in bocca. Descrivere tutte le imprese - in senso imprenditoriale e no - di Ciancio, i sui incontri e rapporti con mafiosi di vario genere, i suoi intrecci politici, i suoi interessati sostegni, di volta in volta, a tutti i politici catanesi - da Andò a Drago, da Bianco a Scapagnini - sarebbe troppo lungo per queste pagine; del resto l'abbiamo già scritto in tante pagine che chi ne ha voglia può rileggersele in santa pace. Per ora, vogliamo solo sottolineare l'estremo servilismo con cui il ceto intellettuale e politico di questa città si è prestato a fargli da corte e a difenderlo in ogni occasione, dall'elegante “fascista” Buttafuoco al feroce “compagno” Barcellona. Una vergogna che sarà difficile cancellare. Riccardo Orioles *** “IL TERMINALE E IL GARANTE DI UN SISTEMA DI POTERE” Per vent'anni abbiamo indicato, fatti alla mano, Mario Ciancio come il terminale e il garante di un sistema di potere. Per vent'anni abbiamo denunziato le menzogne dei suoi giornali, le contiguità alla mafia, l'omissione quotidiana della verità. Ci rincuora apprendere che esiste un giudice anche a Catania. Claudio Fava 10 dicembre 2010 WIKILEAKS E IL PANICO DEL SISTEMA La vera notizia è la reazione alle "rivelazioni" Non è che poi Wikileaks abbia fatto 'ste gran rivelazioni. Le cose che sono uscite più o meno si sapevano già prima: certo, a vederle tutte insieme il panorama è molto più desolante che a leggerle una per una: politici bestie, bombardamenti casuali, governi semimafiosi, guerre fatte per soldi e compìti diplomatici che ruttano fragorosamente ai pranzi ufficiali. E allora? Perché s'incazzano tanto? Perché il senso di panico, a sentirsi sbattere le cose in faccia senza poterci far niente, ha fatto letteralmente impazzire tutti quanti. “L'ha detto la televisione”, diceva una volta la gente, e quella la puoi controllare. Ma ora: “L'ha detto internet!”. E qua, con tutto il potere, non ci puoi far niente. La vera notizia allora è questa: il panico da ancient régime che ha travolto selvaggiamente tutti, dal non-occidentale Putin all'occidentalissima Clinton. “Arrestatelo!”, “Minaccia il mondo!”, “Pena di morte!”, “Fatelo fuori alla svelta!”. Non sono i talebani a gridarlo o i mandarini cinesi, ma proprio i nostri civilissimi e acculturati parlamentari e ministri. La Svizzera, a un certo punto, ha addirittura sospeso i conti del povero Asange: non l'aveva fatto con Hitler, non lo fa coi mafiosi - lo fa con Wikileaks, cioè con internet, che evidentemente gli fa molta più paura. Con il che, è detto tutto: se i banchieri svizzeri, cioè il cuore del cuore del - chiamiamolo così - Sistema hanno rinnegato se stessi, figuriamoci gli altri. Il diritto di cronaca ufficialmente non esiste più e il giornalismo è fuorilegge. Non solo in Iran o in Cina ma proprio qui da noi, in America e Europa. E la libertà? E il liberismo? E chi se ne fotte. Zoom sulla Sicilia, a Catania e Palermo, dove era già così da trent'anni (le inchieste su Ciancio indicano solo la cattiva coscienza in tempi complicati del Palazzo, non certo una qualunque voglia di cambiare): c'è democrazia in Sicilia? si può fare cronaca? si può parlare liberamente? Va bene, non si può, rispondevamo fino a poco tempo fa: ma a Milano, ma a Roma, ma a Washington... Ecco: la novità è che si vanno catanesizzando Roma Milano e Washington, vanno abolendo l'informazione. O almeno, questa sarebbe l'intenzione. Ma in realtà la gente è molto meno malleabile di prima, non perché più colta o più civile (anzi) ma perché ha a disposizione tecnologie che prima non aveva. Puoi impiccare Asange, ma internet chi lo impicca? Tanti piccoli Asange (ma no, non personalizziamo: nell'internet non si usa) spunteranno, e in effetti già spuntano, dappertutto. E' la stessa tecnologia che li produce: dopo Gutenberg era solo questione di tempo perché venissero fuori tanti Luteri. Va bene, lavoriamo per questo. Tranquillamente perché tanto il trend è questo e non c'è nessuna ragione di eccitarsi. Stampa batte amanuense, borghese batte vescono, Rete batte Sistema: prima o poi. Pensare globalmente, agire localmente: è tornata ad uscire la Periferica e questa, nel nostro piccolo, è una delle tipiche buone notizie. Sta funzionando male la connessione Sicilia-Bologna e la Catania-Ragusa: questi, nel nostro piccolo, sono i nostri guai. E lavoriamo da gnomi, da formichine, senza una lira ma cantando allegramente come i Sette Nani, perché sappiamo benissimo che sono guai risolvibili mentre le buone notizie sono semi di alberi grandi, il cui frusciare, se tendete le orecchie, lo sentite già. *** E' buffa la politica, sempre la stessa: liberali e borboni si contrastano, dentro e fuori il Circolo dei Civili, mentre in campagna e sui lontani monti i contadini... Due mondi lontanissimi, qualche volta s'incrociano, ma sfuggenti. E come si chiamano i contadini oggigiorno? Ricercatori disoccupati? Precari? Ragazze che in mancanza di meglio fanno il concorso per velina? Metalmeccanici? Tutti questi, e altri ancora. Nell'ottocento, del resto, non c'era solo l'Operaio Sfruttato: c'era anche il Coolie, il Professore, il Marinaio, l'Impiegatuccio, la Fioraia... E' complicato il mondo, ma lo era già prima. (A proposito di politica: una volta, in tempo d'elezioni, il privilegio di rovinare la sinistra spettava ai pezzi grossi, tipo Veltroni-D'Alema. Adesso, a quanto pare, se lo possono permettere anche i poveri Renzi da tre soldi. Sarà democrazia...). 22 dicembre 2010 IL POLITICO E IL RAGAZZO RUMENO Uno vende i voti. L'altro piglia le luparate Da Barcellona Pozzo di Gotto - ridente cittadina tirrenica, ad alto tasso mafioso - sono giunti alle cronache due nomi. Uno, a modo suo famosissimo, è Domenico Scilipoti, l'ultimo Giuda di quel povero cristo di Di Pietro e anche, indirettamente, di noi tutti. Pagine e pagine ha avuto, dai giornalisti di palazzo: ha esternato in tv le sue ragioni, ostentando disprezzo per quei trenta denari. L'altro nome è quello di un ragazzo rumeno di vent'anni, tale Petre Ciurar. Stava in una baracca lungo la ferrovia, con la moglie e un bambino di nove mesi, una di quelle baracche che periodicamente i barcellonesi più attenti alla politica nazionale vanno a incendiare con la benzina. Stavolta niente fiaccole, ma colpi di pistola e lupara: Petre è morto così (era in Italia da un mese: che “sgarro” aveva potuto commettere nel frattempo?), la donna è rimasta lievemente ferita e il piccolo, chissà come, del tutto illeso. I carabinieri indagano, non escludono mafia, ma più che altro pensano a un atto di “semplice” razzismo. La notizia è stata data dal corrispondente del giornale locale - non l'ha ripresa nessuno -, il giorno dopo è arrivata la notiziola (più breve) dell'autopsia, e poi non se n'è parlato più. Tutto questo è successo più o meno negli stessi giorni, e forse a pochi chilometri di distanza, in cui il buon Scilipoti faceva alta politica col governo. *** Ecco, di questo parliamo quando parliamo di questi giorni. Puoi morire così, a luparate e in silenzio, come un sindacalista anni Cinquanta, se sei un rumeno. Certo, c'è stata violenza quel giorno a Roma. Vetrine rotte, sassi gettati e altri atti sciocchi. Ma molta di più ce n'è stata, in quei giorni, a Barcellona. Quella contro Ciurar, sottouomo rumeno, senza diritti. E quella contro di me, cittadino italiano, con diritti, la cui volontà elettorale è stata venduta e comprata da Scilipoti e Berlusconi. Di questo stiamo parlando quando parliamo di cosa fare. La violenza è pesante, la violenza dilaga, non son tempi normali. Chi ammazzeranno, il prossimo? Sarà un altro zingaro, o un negro? Che cosa mi ruberanno, la prossima volta? Già comprano e vendono i voti, già non mi fanno votare. Io i sassi miei a suo tempo li ho gettati (ma ero in compagnia ottima: Peppino Impastato, Rostagno) e ho le idee chiarissime su quando servire possono e quando sono solo uno sfogo. Adesso, con tutto il rispetto, non servivano. Non credo che ci vogliano gran prediche, neanche fatte da me che pure sono fra i più credibili perché non ho una lira in tasca. Credo che dobbiamo invece ragionare seriamente su come si sta in piazza nel 2010 - in questa che, per noi bianchi, non è una società repressiva ma una società dell'imbroglio - non per “moderarsi”, per fare i bravi ragazzi, ma proprio per fare danno, per togliere consenso e forza al Berlusconi di adesso e ai berluschini che seguiranno subito dopo. Hutter, sul blog del Fatto, ha detto delle cose serie. Serie perché dette da Hutter, che non è un fighetto da dibattito ma uno che, ai tempi suoi e miei, ha affrontato i poliziotti cileni di Pinochet. *** Partiamo da un dato semplice: il governo è illegale. Perché? Perché compra i voti in parlamento. Non è una battaglia politica, quella di questi giorni – e già sarebbe nobilissima, coi ragazzini in piazza a difendere il maestro Manzi, il mio professore di greco, le tabelline insegnate al popolo, l'aritmetica e la grammatica, la Scuola. E' la disperata difesa del mio Paese, l'Italia, diverso dalla Libia di Gheddafi e dalla Russia di Putin. Per questo, non possiamo commettere errori. Fra loro, fra i politici, non è successo niente. “Il governo può continuare”, “ha ragione Marchionne”, “mica vogliamo le elezioni”. Si accorderanno. Ma noi no, per noi non continua così. Rassegnati, routinati, di nuovo a mordicchiarsi a vicenda: così, per loro politici, è il giorno dopo. Bersani sotto assedio, i “rottamatori” che rottamano, Veltroni che aleggia e Fini e Montezemolo e Casini: di questo stanno parlando, questo è importante per loro. Ma per noi no, noi non possiamo affrontare un altr'anno così. *** “O le sassate o Casini”: questo, in estrema sintesi, ciò che ci sbattono in faccia i gattopardi. Ma noi non vogliamo né sfogarci coi sassi né regalarci a Marchionne sotto le vesti di Fini o Casini. Vogliamo un governo diverso, con una maggioranza reale. Perché non siamo affatto minoranza, noi, nel paese vero: siamo soltanto divisi. Vogliamo un governo serio, civile, democratico, più forte della Fiat e dei veri padroni. Non ce lo può dare il centrosinistra, non ne ha la forza da solo. Non ce lo può dare se si allarga a destra – dovrebbe tradirci, prima. Ce la può fare solo se si allarga sì, ma trasversalmente, saltando sopra gli apparati, unendosi alla società civile. Per questo ci serve una candidatura forte, una candidatura non “politica” ma sociale. Non l'uomo forte”, il salvapopolo (ce n'è già tanti) ma un Pertini. Non c'è lotta sociale più acuta di quella che conduciamo ogni giorno, noi antimafiosi, contro i poteri mafiosi. Poliziotti e compagni, operai e insegnanti, “moderati” e ribelli, qui e solo qui siamo nello stesso fronte, siamo uniti. Rostagno e Borsellino, La Torre e dalla Chiesa: ma non lo sentite cosa vi dicono, insieme, questi nomi? Perché non partire da qui? Di che avete paura? E' una cosa reale, questa, non un'utopia. 30 dicembre 2010 SCIOPERO GENERALE? SI', MA ANTIMAFIOSO L'impresa-mafia sempre più potente Cos'è cambiato da allora? Allora la mafia comandava a Catania, ora in tutta Italia. Ha i suoi sottosegretari, i suoi governatori, i suoi opinion maker riconosciuti. Questo per limitarci a quelli ufficialmente riconosciuti, se no dovremmo aggiungere “i suoi ministri e i suoi presidenti”. E i suoi imprenditori, naturalmente, che non è una novità. La cosa più importante, tuttavia, non è che la mafia è forte, è che viene imitata. Il suo modello, cioè, più o meno consciamente è diventato il modello vincente di quasi tutta la politica e di buona parte dell'impresa. Non più solo a Catania, ma anzi soprattutto a Roma e Milano. Queste ultime, nei confronti di Catania, sono quel che Catania era una volta nei confronti di Palermo: il posto dove la mafia “non esiste”, il posto dove “non ammazzano nessuno”, il posto dove “non facciamo l'esame del sangue agli imprenditori” e dove il boss Santapaola giocava a bridge nei migliori circoli della città. Una mafia moderna, insomma, digeribile e perbene. I catanesi credevano di essere ancora a Catania e invece erano già a Corleone, a Medellin, nel terzo Mondo. *** E noi, dove siamo adesso? Qualche esempio veloce, per capirci in fretta. Buona parte degli affari per l'Expo di Milano (il business del decennio), e comunque quasi tutto il movimento terra, ruotano attorno a capitali calabresi. L'altro giorno a Vibo Valentia un tale, che aveva ruggini con una famiglia vicina, l'ha sterminata freddamente - otto morti - in un vero e proprio scontro fra clan tribali. L'esercito italiano, tuttavia, non pattuglia Vibo Valentia (o Rosarno) ma Kabul. Cacciata (grazie ai Siciliani) da Catania la Famiglia Rendo, quella di cui parlavano Fava e dalla Chiesa, si è riciclata in America e in Est Europa. Negli Stati Uniti una società da lei acquisita del '96, la Invision, ha ottenuto anni fa l'appalto della security dei venti principali aeroporti nazionali. In Ungheria, la Famiglia ha acquisito diversi quotidiani a Budapest, ristrutturandoli a modo suo. In quel Paese, due settimane fa, hanno approvato una legislazione sui media estremamente repressiva. Nel Sinai, a poche ore di volo da qui, alcune centinaia di emigranti sono stati catturati da una banda di beduini, che li ha tenuti in ostaggio per settimane, violentando donne, uccidendo uomini e rivendendone gli organi a cliniche clandestine. Tutto ciò nell'indifferenza del governo locale e della comunità internazionale, che proprio in questo caso, quando avrebbe fatto benissimo a mandar truppe, non è intervenuta. Alcuni degli emigranti, dopo, sono stati arrestati dalla polizia egiziana per immigrazione clandestina. I governi egiziano e, libico, infatti, sono lautamente finanziati dai peggiori governi europei - fra cui il nostro - per stroncare l'emigrazione in Europa con qualunque mezzo, compresi terrorismo e tortura. *** "Accordo storico e positivo" ha detto Berlusconi del minestra-finestra di Marchionne. Ci mancherebbe altro. Per non lasciare equivoci, subito dopo ha detto che ce l'ha con i “magistrati eversivi” e con gli studenti (escluse, probabilmente, le veline). Stupisce che di fronte a un nemico così determinato (un sindacalista ha ricordato che l'ultimo episodio del genere risale al 1925, quando Mussolini abolì nelle fabbri che le commissioni interne, a manganellate) la si nistra sia così farfugliante e incerta, com preso il buon Bersani, che pure ultimamente aveva fatto sperare bene. Qualcuno, come Fassino (che a suo tempo elogiò Craxi e lo mise anzi fra i padri fondatori) si schiera direttamente con Marchionne: ”Fossi un operaio voterei per lui”. “Prova a fare l'operaio per davvero”. *** Se tutto ciò porterà, come ci sembra logico, a uno sciopero generale, a noi piacerebbe moltissimo che fosse anche uno sciopero generale antimafia. Uno sciopero del genere, in realtà, di fatto non potrebbe che essere antimafia, visto chi sono buona parte dei peggiori imprenditori: ma sarebbe bene che lo fosse anche esplicitamente. Lo sciopero antimafia sarebbe non un momento, ma il momento decisivo dello scontro italiano, e bene fa la segretaria della Cgil (a proposito, avete notato che l'unica donna importante, nella politica italiana, sta proprio alla Cgil?) a non volerlo scagliare senza una perfetta preparazione. Lo scontro, e questo è sempre più chiaro, molto più che politico è sociale. Difficilmente sarà deciso dalla “politica” (con questo termine in Italia si indica un ceto di circa duecentomila persone, che si chiamava la noblesse in Francia nel 1788). Eppure di una politica c'è bisogno, e non improvvvisata nè casuale. *** “... L'incarico di formare un governo ad un uomo al di fuori dei partiti, con una forte caratura economica e/o costituzionale. Personaggi adeguati da un tale incarico ce ne sono in abbondanza, a cominciare dal governatore della Banca d'Italia... (...). Per salvare la continuità politica, il Capo dello Stato avrebbe potuto perfino affidare l'incarico ad un eminente della maggioranza berlusconiana, del tipo di Gianni Letta, di Pisanu, di Tremonti...”. L'idea di una soluzione di “salute pubblica” ormai come vedete si affaccia - questo era Scalfari - anche nella classe dirigente: che però pensa a banchieri o a notabili illustri, magari ex (o moderatamente) berlusconiani. Congelare tutto, e poi si vedrà Ma la crisi è tanto urgente e tragica, soprattutto per la presenza dei poteri mafiosi, che prendere tempo non servirebbe a niente, e men che mai affidarsi (ancora) a banchieri e imprenditori. Se “salute pubblica” dev'essere, lo sia davvero, non dando il potere ai notabili ma ai resistenti con le carte in regola, sul precedente del Cln. Governo di Resistenza, unitario ma ostile ai padronati, e con alla testa non un imprenditore o un banchiere ma un uomo dell'antimafia, un servitore di Stato. Buon anno. 5 gennaio 2010 E COMINCIA UN ALTR'ANNO DEI SICILIANI Rete, giornale di internet, ebook: gli obbiettivi Questo numero di Ucuntu, il giornale che raggruppa i fogli e l'internet dell'antimafia sociale, è un strumento di lavoro. Abbiamo creduto utile infatti fornire ai nostri lettori e a tutti i simpatizzanti e militanti antimafiosi un breve riepilogo della densissima storia dei Siciliani, non solo come giornale ma anche (e in questo caso soprattutto) come movimento di liberazione. Abbiamo dunque dato particolare risalto ai momenti più “politici” (non mai, ovviamente, di partito) di essa: fra cui SicilianiGiovani, la singolare esperienza fra scuola di giornalismo e movimento giovanile che formò tutta una generazione di giornalisti e militanti civili sulla via di Giuseppe Fava. Esperienza tuttora validissima e quindi da riproporre e studiare non solo sotto il profilo storico ma anche dell'utilità immediata. *** A tanti anni di distanza, la storia di Giuseppe Fava è una delle pochissime che ancora continuano ad affascinare i giovani e a dar loro un modello di giornalismo, di politica e di vita. Fu lui a smascherare i legami fra mafia e poteri economici e sociali; fu lui a considerare la lotta non come un semplice “lottare contro” ma anche e soprattutto come un “lottare per”. Non casualmente, nel primo numero dei Siciliani si parla dei cavalieri mafiosi (era già una rivoluzione, questo associare mafia e imprenditoria) ma anche, con pari importanza, di “donne siciliane” e di “amore”. Amava profondamente la vita; la lotta contro i poteri disumani era per lui solo un mezzo per liberare profondamente quello che abbiamo dentro, per conquistare quella felicità e quella gioia che, pur contrastate e difficili, sono il lato più nobile della condizione umana. Su questa via ebbe intuizioni fortissime, ben più avanzate dell'intellettualità ufficiale che lo circondava e che lui abbandonò coscientemente per affidare tutte le sue chances a noi ragazzi. Non c'è che Pasolini, nella cultura italiana, ad essergli paragonabile per radicalità e umanità di pensiero; ma, molto più di Pasolini, egli fu un militante. Moltissimo resta ancora da scoprire, della sua profondità e poesia, ai futuri studiosi; a noi che l'abbiamo conosciuto resta la felicità dei ricordi e il dovere di trasmetterne il più possibile - come facciamo da sempre, e non senza risultato - ai giovani che via via si affacciano. Spessissimo il “suo” giornale cambia di nome; eppure, in un quarto di secolo, ritorna ancora. Siamo già alla quinta generazione (la mia, quella dei SicilianiGiovani, quella di Avvenimenti, l'Alba e dei Siciliani Nuovi del '93), quella dei primi anni del nuovo secolo; e questa) di ragazze e ragazzi che incontrano, immediatamente comprendono e, ognuno alla sua maniera, ricostruiscono il mondo di Giuseppe Fava. Pochissimi intellettuali hanno avuto tanta ventura: di fronte alla quale decisamente sbiadiscono la mediocrità e l'assenza della cultura e della politica “ufficiali” *** Questi, per noi di Lavori in corso e di Ucuntu (dei Cordai, della Periferica, della Fandazione, di Telejato, di Libera, di AdEst, del Clandestino...) sono giorni di lavoro duro, coi seminari e gli incontri, fra Palazzolo e Catania, di riepilogo, di progetto, di studio operativo. Tre cose sono mportanti quest'anno, e sono le nostre sfide. 1) continuare e concretizzare il lavoro di quest'estate a Modica: abbiamo individuato l'obiettivo giusto - l'integrazione fra le testate, la rete - ma poi ci siamo arenati; 2) aprire con professionalità e determinazione tutto un settore nuovissimo (gli ebook mobi epub e pdf, il settore video, la produzione di “giornali” e libri in questi nuovi formati) che stanno lì ad aspettare esattamente gente come noi; 3) partire col settimanale di internet, un'evoluzione di Ucuntu ma nazionale; se ne discute da molto, con il meglio di internet (Gliitaliani.it, Antimafia2000, Agoravox, Liberainformazione); siamo indietro solo per mia mancanza personale, non avendo portato a termine (per malattie, problemi e altre cose noiose) la quota di lavoro che dovevo fare. Me ne scuso umilmente e mi impegno a presentare il progetto entro la fine del mese; questo ovviamente significa aprire tutta una nuova impresa collettiva. Il momento è ottimo: più si sviluppano le tecnologie e meno abbiamo bisogno di imprenditori (che in trent'anni se ne sono sempre fregati sia di Giuseppe Fava che di noi). Ma ci vuole aggressività, rete fra noi liberi, voglia di concludere, e competenza. *** Non so come avete passato il capodanno. Di noi, meglio di tutti uno dei nostri redattori migliori, uno dei più giovani “allora” ma oramai uno dei veterani: ha trovato un posto di cameriere precario per capodanno e l'ha passato così, servendo a tavola, con pochi auguri di fretta via sms - c'era da lavorare. Nè il giornalismo nè l'antimafia ti aiutano a sistemarti, a vivere come quelli perbene. E anche questa è la strada di Pippo Fava, che si vendette la casa per i Siciliani. Ne valeva la pena? Io ritengo di si. E' bella la nostra vita, con tutti i suoi dolori e le pene, quando la stai vivendo per qualcosa. E quale premio e che gloria, per Giuseppe Fava, aver saputo suscitare, in così tanti anni, tanta fedeltà! Nessun altro, o pochissimi, ha mai avuto altrettanto. Così, buon anno a tutti, amici miei. Vogliamoci bene a vicenda, lavoriamo insieme, guardiamo avanti, aiutiamoci. E comincia un altr'anno dei Siciliani. 13 gennaio 2011 "UN SALUTO E BUON LAVORO" LE IDEE NUOVE DI UCUNTU 2011 Si allarga il circuito delle testate in rete. E allora... Forum 4 gennaio a Palazzolo. Report: 1. 1. Creazione mailing list: [email protected], 2.2. Ciclo di 4 workshop di giornalismo destinati a noi e a tutti coloro che vogliono accostarsi al giornalismo e all'uso degli strumenti di comunicazione multimediali. Ecco alcune proposte dei possibili temi dei workshop: video inchiesta, tecniche dell’intervista, cronaca giudiziaria, quadro legale dell’informazione, free software per l’impaginazione e per il web. I laboratori si terranno a: Modica, Catania, Raffadari e Corleone. Ogni testata si occuperà dell’ organizzazione del workshop che si terrà nella propria città. I workshop saranno di uno o più giorni in base al periodo, alla disponibilità dei partecipanti e del coordinatore, al programma e alla struttura dell’incontro. Bozza di calendario: a. marzo a Corleone (Corleone Dialogos) b. 25 aprile-1 mag. a Raffadali (Ad Est) c. giugno a Catania (Lavori in corso) d. agosto a Modica (Il Clandestino) Periodo, tema, programma e coordinatori dei workshop devono essere definiti e comunicati entro e non oltre il 15 febbraio. Tutte le testate devono occuparsi della pubblicizzazione nel proprio territorio. 3.3. Raccolte di articoli-dossier. Ogni numero comprenderà due pezzi di approfondimento scritti da ciascuna testata. Argomenti proposti: a. sanità b. immigrazione c. rifiuti Il primo numero sarà sulla sanità e sarà coordinato dal Clandestino che si occuperà di definire il palinsesto e raccoglierà gli articoli che verranno impaginati con Open Office. Deadline per l’invio dei pezzi al Clandestino: 5 febbraio. Il secondo dossier sarà sui rifiuti (coordinato da Corleone Dialogos) e il terzo sull’immigrazione (coordinato da Lavori in corso). 4. Presto Luca manderà le istruzioni per la creazione della finestracontenitore di notizie che verrà ospitata in tutti i nostri siti e che raccoglierà le principali notizie postate da ogni testata. Il sistema dei feed rss proposto a Modica in estate presenta forti limiti dovuti all'automatismo del meccanismo che crea una moltitudine di notizie indiscriminate e senza criterio. Luca vi fornirà una spiegazione attenta e dettagliata delle possibili soluzioni agli inconvenienti sinosra riscontrati. Un saluto e buon lavoro, Sonia *** Beh, io se fossi un imprenditore mafioso mi preoccuperei. “Guarda un po'! - penserei - Son passati trent'anni da quando Giuseppe Fava cominciò ad attaccarci a Catania e ancora ne saltano fuori. E questi debbono essere giovani, fra l'altro. E almeno fossero tipi entusiasti, di quelli che gridano e poi non fanno niente. Questi sono freddi e cattivi, tipo bolscevichi. Prenderli per le buone? Una carriera politica, magari nei progressisti? Mi sa che neanche ci pensano. Ma qual è il punto debole, quale?”. *** Eh, caro mio. Di buchi ne abbiamo tanti, ma almeno non siamo superbi e quindi sappiamo accorgercene e rimediarli. Contiamo l'uno sull'altro, abbiamo pazienza (“dammi tempu e ti perciu”, disse alla pietra l'acqua, in siciliano) e sappiamo fare il nostro mestiere, sia di giornalisti che di rivoluzionari. Che più? Ma mi scusi, lei mi sta facendo perdere tempo. Se ne tornasse a mafiare, voscenza, se crede che serva a qualcosa, ché noi qua c'è da lavorare *** Dunque: buone le idee di Sonia (specialmente le inchieste insieme), ma proviamo ad aggiungerne altre per andare anche più in fretta. Una, i libri elettronici (mobi, epub, pdf e quant'altro) che dovrebbero diventare una routine; tutti i nostri lavori, dossier compresi, dovrebbero uscire in versione elettronica oltre a quella “normale”. Due: stiamo usando pochissimo Ucuntu che ormai, ridendo e scherzando, è abbastanza diffuso e ha superato il numero cento. Dal prossimo mese, svoltiamo: due pagine di Ucuntu le fa, colla propria testata, il Clandestino, altre due Corleone Dialogos (sempre con la propria testata e senza smettere ovviamente quel che già sta facendo), e così via. E' facile, basta usare le pagine-base. Il punto di forza di Ucuntu è che, grazie a Luca e alla sua idea di usare Open Office per impaginare, si produce velocemente e senza problemi. Questo finora l'abbiamo sfruttato poco. Ucuntu rinnovato non interferisce, ovviamente, col progetto “grosso” (il giornale nazionale di internet con Agoravox GliItaliani, Liberainfo, Antimafia2000 ecc.) che va avanti proprio in queste settimane. Non interferisce nemmeno col tentativo di giornale citttadino unitario, sempre con tecnologia OpenOffice, fra i siti d'informazione messinesi (c'incontreremo a febbraio) che, se funziona, può diventare un modello anche per altre città. Ucuntu però può diventare il giornale unitario dei “rivoluzionari” siciliani - è la seconda volta oggi che trovo 'sta parola e mi sta piacendo moltissimo, dopo quarant'anni che non l'usavo :-) - e se funziona può portare a degli sviluppi inaspettati. Non dimentichiamo che siamo in tempo di crisi e di scombussolamento generale, e che se si è forti e chiari si può essere ascoltati anche da molti che in tempi normali resterebbero muti. *** Resta pochissimo spazio per parlare del resto. Che dire? Io sono “un cattivo maestro”, Scidà si dedica al “dossieraggio” e il povero Pino Finocchiaro ha commesso delitti orrendi trent'anni fa. E tutto perché abbiamo pubblicato una certa foto, su un certo giudice e un tal certo mafioso, della quale: o è truccata, e allora querelateci; o è vera, e allora spiegateci che cosa siete. Tutto il resto è "dibbattito" e vale zero. Tre righe ancora: benvenuti nei Siciliani , caro scrittore Massimo Gamba e cari (ignorati dai nobili, ma efficientissimi e combattivi) ragazzi barcellonesi di “Gramigna”. Insieme, faremo grandi cose. No? 11 gennaio 2011 GLI AMICI DI BABA CONTRO I RAZZISTI VENERDÌ CORTEO NEL QUARTIERE A Roma, al Casilino, mobilitazione popolare Apu, quello dei “Simpsons”, lo conoscete? Bene, esiste davvero, è davvero indiano e ha davvero un locale cui dedica la vita; l'unca differenza è' che non si chiama Apu ma Baba e non un locale a Springfield ma qua da noantri, a Roma, in via Casilina. Allora, è un po' di tempo che nel locale di Apu, pardon di Baba, arrivano dei tipi strani, coatti o peggio. Siedono, magnano, bevono, e al momento di pagare non cacciano una lira. Anzi, con le cattive, si fanno dare soldi lor da Baba: oggi cinquanta euri, domani cento e così via. Un giorno Baba risponde: “Non ce ne ho”. I tizi, incazzati, escono. La sera, sulla serranda, quattro colpi di pistola. Baba, buon cittadino, avverte la polizia. Ma non si fa vivo nessuno, dal commissariato. Tornano invece i coatti, più inferociti di prima. Il sette gennaio portano una tanica di benzina, in pieno giorno, con sette clienti dentro, e danno fuoco al locale. Ancora polizia assente, ancora silenzio dei giornali. Ci vuole l'intervento di un avvocato (Simonetta Cresci) per mettere in moto un giudice, che per prima cosa chiede al commissariato come mai non l'ha ancora informato. La gente però comincia a essere stufa al Casilino, specie (ma non soltanto) i lavoratori immigrati. 'Sti razzisti hanno proprio rotto, non se ne può più. Così si organizza un corteo, pacifico ma deciso, per venerdì. Appuntamento alle cinque, al locale di Baba. E poi via per la strada, tutti assieme. *** Prima di passarvi il testo del volantino (un (un momento, arriva) voglio dirvi però qual è stata la scalogna di quei coatti (uno è già dentro), come state leggendo questa pagina (mica le notizie arrivano da sole) e come là al Casilino s'è messa in moto la gente. C''è un amico mio, da quelle parti. un Siciliano ad honorem di Addis Abeba. E' etiope e italiano: a vent'anni ha servito la patria in prima fila, rischiando ogni giorno la pelle con serietà e disciplina: Palermo, servizio scorte, scorta armata - negli anni di Falcone - dei magistrati. Si chiama Rudi Colongo. E' uno che fa di più per l'Italia in un mese che dieci italiani “perbene” in un anno (e cento leghisti in tutta la vita). Vive, aiuta la gente, dirige un'associazione di immigrati (“I Blu”: che nome), è coraggioso. E, nel caso di Baba, è intervenuto. Se lo incontri e sei un compagno, salutalo con simpatia. Se sei poliziotto, fagli - ché se lo merita - un bel saluto alla visiera. Se sei un italiano vecchio e nuovo, carte in regola o senza, con la faccia di qualsiasi colore ma col cuore rosso e l'anima sveglia - un italiano - allora stringigli la mano, amico mio. Mani così, da stringere, ne troverai ben poche. Bene, e ora ecco qua il volantino. *** NO RAZZISMO! Qui da noi l'immigrato è il capro espiatorio su cui riversare tutta l'ipocrisia di un ingranaggio assassino: sui giornali e nelle parole dei politici lo straniero è pericoloso, delinquente, clandestino, terrorista. Ma se c'è da spaccarsi la schiena a costo zero, lo straniero fa comodo. Fa comodo al padrone e al politico. Sempre più numerosi, gli immigrati abbandonano il sud del mondo, depredato e sfruttato dai governi e dalle multinazionali, per cercare una possibilità. Per noi non ci sono stranieri! L'unica cosa straniera è la logica dell'esclusione, dello sfruttamento e della discriminazione. Tra il '98 e il 2001 Centrosinistra e Centrodestra hanno messo a punto una legislazione che annienta la vita di ogni immigrato. Così gli immigrati sono schiavi per legge. Vengono internati nei Centri di Permanenza Temporanea, i lager del nuovo millennio. Umiliati, picchiati, deportati. Alle frontiere le polizie sparano, li fanno affondare a bordo delle loro precarie imbarcazioni, oppure chiudono un occhio sui traffici dei mafiosi che gestiscono i viaggi: stati e mafie, due facce dello stesso potere. A Roma c'è una campagna continua contro gli immigrati: aggressioni, sfruttamento, canoni in nero, negazioni di diritti. Non ultima la devastazione del negozio di Babain via Casilina, a cui nè il municipio, nè il comune hanno dato pronta risposta Noi vogliamo libertà e uguaglianza, ora. Per tutte e tutti, ovunque. Vogliamo un mondo in cui non conta il luogo in cui nasci per avere una vita autonoma e consapevole. Vogliamo costruire una società in cui ciascuno è libero di progettare la propria vita con gli altri e non contro gli altri. Essere contro ogni razzismo, significa sbarazzarsi di tutte le barriere fisiche e culturali perché è proprio su queste barriere che gli stati e i governi fondano la loro pretesa di dominio. Contro il razzismo per esprimere solidarietà a Baba e per la chiusura dei Cpt. Venerdi’ 14 ore 17 in via Casilina (fermata tram Walter Tobagi) manifestazione antirazzista a cui sono invitate tutte le associazioni,le forze politiche e sociali, le comunità degli immigrati dell'VIII Municipio e della citta di Roma. Associazione Diritti in Movimento e Comitato Contro la Precarietà, Roma 13 gennaio 2011 APPELLO AL CSM PER LA GIUSTIZIA A CATANIA La società civile catanese chiede al Cms e al suo Presidente di intervenire per garantire la trasparenza dell'amministrazione della giustizia nella drammatica situazione di Catania L'appello che riportiamo di seguito circola in queste ore fra gli esponenti della società civile catanese, uniti – nelle loro varie associazioni e correnti culturali – da una legittima inquietudine circa il destino della loro città, tormentata da un sistema politico-mafioso fra i più potenti d'Italia ma non adeguatamente contrastato, in tutti questi anni, da un impegno giudiziario anche lontanamente paragonabile a quello del pool palermitano. Questa inquietudine si accresce, e trova forse un' “ultima gocccia” decisiva, nella pubblicazione di un documento (v.pagina accanto) che ritrae insieme un boss mafioso e il principale candidato alla Procura di Catania, Giuseppe Gennaro. Una simile compresenza, peraltro lungamente e formalmente negata dall'interessato, può benissimo non avere (ed è auspicabile che non abbia) significati penalmente rilevabili ed essere spiegata in termini accettabili e privi di qualunque ombra. Ma essa è, qui e ora, lesiva della totale e incondizionata fiducia che una città come Catania deve poter riporre nei suoi Magistrati. Il nostro mestiere di giornalisti ci impone (come già al collega Pino Finocchiaro, il primo ad ospitarla sul suo blog) di accertare e diffondere una notizia che non può essere negata all'opinione pubblica. Non certo per nostra scelta, per avversioni o simpatie personali o per volere schierarsi nelle faide che, disgraziatamente, consumano in questi tempi non solo la classe politica, ma parte della giustizia siciliana. Ma perché non è in nostro potere di privare i lettori del loro diritto alla verità. Il nostro non è prevalentemente, come si dice oggigiorno, “giornalismo investigativo” (non lo fu quello di Giuseppe Fava), né corre dietro agli scoop; per noi l'investigazione è solo una parte di un processo complesso di ricostruzione e racconto della realtà che al centro ha la cultura e la società. La nostra verità, insomma, non si estriunseca mai in un “viva questo e abbasso quello”, non grida, non cerca facili notorietà; ma cerca di rappresentare al lettore un quadro il più possibile fedele e veritiero di un mondo che, come i veri giornalisti sanno, è articolato e difficile e non si lascia rinchiudere in facili ovvietà. *** L'appello Recenti e qualificate ricerche hanno delineato una Sicilia marchiata dall'economia sommersa, "della complicità o dell'alleanza con le organizzazioni criminali". Al declino della violenza esplicita mafiosa fa da contraltare l'estensione delle mafie nell'economia formalmente legale, dove l'accumilazione della ricchezza avviene attraverso relazioni sociali e attività economiche costruite sulla base del coinvolgimento diretto e dei favori scambiati con i potentati economici,politici,professionali, fino a godere della complicità di specifici e decisivi ambiti istituzionali. Si è creato uno spazio dove lecito e illecito finiscono per entrare in commistione, una commistione ove le classi dirigenti sono tali in quanto espressione degli interessi della borghesia mafiosa dominante. Le scelte di poltica economica e finanziaria più rilevanti, dall'urbanistica agli interventi nel settore energetico, dai servizi alla gestione dei beni pubblici, alle grandi opere, sono ispirate da questo contesto e dal dominio della borghesia mafiosa. Scelte che comportano gravi danni ai bisogni sociali, alla salvaguardia dell'ambiente e del patrimonio collettivo. In questo quadro la città di Catania viene considerata, oggi anche dal presidente di Confindustria Sicilia, l'epicentro dell'"area grigia", dove massimamente si compenetrano mafia ed economia legale. Una città dove, diversamente che a Palermo o Caltanissetta o Agrigento,l'azione di contrasto delle istituzioni delegate risulta o inefficace o largamente insufficiente. Aggiungiamo, incapace o deliberatamente inerte nel colpire i ceti politici ed economici dominanti della città. Emblematica ed evidente, da questo punto di vista, è apparsa la gestione delle indagini relative al governatore Lombardo, al fratello Angelo, a rilevanti ambienti imprenditoriali. L'intervento del Procuratore D'Agata è apparso ai più quello del difensore dei potentati piuttosto che quello del difensore della legalità repubblicana e costituzionale. Ne è conferma il contenuto dell'intervista rilasciata a Toni Zermo sul quotidiano di Mario Ciancio, anch'esso indagato, rivolto contro le considerazioni espresse da Ivan Lo Bello. Alla vigilia della nomina del nuovo Procuratore della Republica di Catania,facciamo appello al Presidente della Repubblica, acchè non si ripeta quando avvenne tre anni nel 2008 quando il Csm,allora presieduto da Mancino,con una decisione ispirata dai Palazzi romani e dai potentati politici ed economici catanesi, nominò D'Agata,sovvertendo l'indicazione largamente maggioritaria della Prima Commissione favorevole ad una figura esterna avente le caratteristiche della impermeabilità e dell'internità al sistema di potere catanese. La società civile catanese Ucuntu, 28 gennaio 2011 GLI OPERAI L'ANTIMAFIA E LA NOSTRA DIGNITÀ Dopo Cuffaro, dopo Berlusconi... Non è una vittoria di tutti, l'arresto di Cuffaro. E' una vittoria per coloro che, seguendo Falcone e Borsellino, hanno lottato anno dopo anno per la dignità e per il bene di tutti. Ma questa è stata una minoranza, anche se in certi momenti molto forte,. Per la maggioranza del popolo siciliano, invece, l'arresto di Cuffaro è un giorno di vergogna e - auspicabilmente - di riflessione. Per anni e anni, tradendo il ricordo dei morti e i valori della vecchia Sicilia contadina, abbiamo liberamente votato per un mafioso. Fra tutte le regioni italiane, siamo quella che ha peggio usato la propria libertà e democrazia, appoggiando gli assassini e i trafficanti di droga e chiamando “politica” ciò che era semplicemente vigliaccheria e servilismo. Da qui bisogna partire, senza mezze parole, se vogliamo tornare - tutti, non solo alcuni - un popolo civile. Abbiamo una storia altissima alle spalle il movimento contadino, le rivolte, le centinaia di sindacalisti, giudici e giornalisti ammazzati - e una gioventù che, a differenza della classe dirigente, si è dimostrata spessissimo degna di stima. Ripartiamo da queste. Non perdiamo un istante a guardarci indietro, non regaliamo un attimo alla vecchia “politica” cuffariana e lombardiana, di chiunque ci abbia a che fare. “Voi avete svergognato e distrutto la Sicilia. Noi giovani la ricostruiremo”. *** Questo impegno a Palermo può contare, oltre che sui militanti civili, su una scuola di giudici al servizio di verità e giustizia da generazioni, presidio vitalissimo di democrazia e libertà. Non a Catania. Qui, nello strapotere di un Sistema contrastato solo dai ragazzi dei movimenti, il Palazzo di giustizia per decenni si è erto solitario e inutile a tutti se non ai potenti. E tuttora è così. Travagliato da scontri interni, riconducibili più che ad ansie di giustizie alle contrastanti ambizioni di poteri superiori, conteso fra screditati esponenti fra cui è impossibile la scelta, esso urgentemente richiede un intervento preciso e duro dell'organo di autogoverno della Magistratura, fin qui efficiente e attento altrove ma non sulle faccende catanesi. Venga un buon giudice, venga finalmente un giudice a Catania; deciso d'autorità dal Csm, dato che i concorrenti attuali danno scandalo o sono inadeguati. Catania, coi suoi dolori e i suoi travagli, e i suoi movimenti civili che durano da trent'anni, non merita un po' di giustizia, non merita almeno questo? Si legga, alla fine di questo numero, il drammatico e purtroppo attuale rapporto del più autorevole testimone catanese, e lo si prenda finalmente a pietra di paragone. *** Che differenza c'è fra obbligare un commerciante a “fare un regalo” minacciandogli il negozio che è il suo posto di lavoro e obbligare un operaio a “fare un regalo” (il lavoro, i diritti, la rinuncia al sindacato) minacciandogli la fabbrica in cui lavora?Ricatti del genere, del resto, nel mondo industriale sono sempre esistiti: ma mai con una tale chiarezza, diciamo così, didascalica e insistita: “Devi pagare il pizzo, e si deve sapere in paese”. “Devi rinunciare al sindacato e lo devono sapere tutti”. Il pizzo, o il ricatto del lavoro, come gesto esemplare, come manifesto. I brigatisti, più colti dei mafiosi ma meno sofisticati di Marchionne, riepilogavano rozzamente: “Colpisci uno per educarne cento”. Così, due mesi dopo Pomigliano, non c'è fabbrica italiana in cui i lavoratori siano ancora sicuri dei loro diritti: che anzi, dopo le cortesie di rito, sono praticamente spariti dall'agenda politica. Il proprietario industriale di Repubblica “Ha proprio ragione Marchionne!” ha detto. E subito il giornale liberal s'è adeguato. Così, adesso gli operai sono soli, soli in mezzo alle chiacchiere come i ragazzi antimafiosi del sud. Che però, in fondo in fondo, soli non sono mai stati del tutto. Hanno avuto, in taluni momenti, la capacità e la fortuna di muoversi insieme con altri, di “fare rete”: la prepotenza e le minacce insegnano a molti la vigliaccheria, questo è vero, ma a molti insegnano anche la buona organizzazione e il coraggio. Così, dallo sciopero operaio di oggi, può benissimo nascere tutta una serie concreta di momenti unitari e civili - fino allo sciopero generale, sindacale e antimafioso - da cui unicamente può sorgere la salvezza della Repubblica e la sconfitta profonda, non gattopardesca, dell'attuale regime. Non è affatto casuale - scrivevamo pochi giorni fa su Casablanca - che questo giornale, nato come giornale antimafioso (e con radici non superficiali nè casuali) in questo numero sia dedicato prevalentemente ai problemi degli operai, ai diritti degli operai. E' lo stesso discorso. E quando riusciremo a profondamente comprendere, e non solo nei dibattiti ma nelle strade, il legame che esiste fa ingiustizia sociale e potere mafioso, allora avremo già quasi vinto la nostra battaglia. *** Dunque, il lavoro è questo. Difendere i diritti, la Costituzione, la legge e quelli che ora l'incarnano, i nostri Magistrati. Difendere la vita quotidiana delle persone “comuni”, di quelli che non vanno nei giornali ma che, nel loro complesso, costituiscono la Nazione. Sfrondare d'ogni sovrastruttura ideologica (ma non politica) questa lotta. “L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”: questo è il nostro programma, e non ci serve altro. Ma per queste poche parole siamo pronti a combattere, senza compromessi. Vedremo chi è disposto a difenderle, e chi vorrà invece confonderle in un abile e vano fumo di parole. Facciamo rete, tutti insieme. Da soli (giornali e gruppi) siamo deboli. Insieme - ma insieme davvero, senza egoismi e ritrosie - ce la possiamo fare. 12 febbraio 2011 IL GOLPE DI BERLUSCONI E QUELLO DI MARCHIONNE E l'uomo di Obama in Calabria ha detto... Stanno salvando l'Italia, ora mentre scriviamo, e stanno preparando il dopoberlusconi. Dove? A Milano. Chi? i congressisti del nuovo partito di Fini, i “futuristi”. A loro l'Italia perbene, giornalisti e politici, si affida. Il capo, proprio a Milano, o almeno il portavoce, era quella Tiziana Maiolo che, dopo brillanti e varie carriere “di sinistra”, alla fine è approdata ai berlusconiani; e da questi ai finiani, sempre rispettatissima e riverita. E' quella che l'altro giorno, di fronte alla morte atroce di quattro zingarelli: “Più facile educare dei cani - ha commentato - che degli zingari bambini”. *** Si chiamavano Raul, Fernando, Patrizia e Sebastian. Erano nella loro baracca, morti bruciati mentre si riparavano dal freddo. Quattro bare a via Appia Nuova. Quattro rom bambini. Attorno alle bare le famiglie. Soli da sempre. Campi zeppi di topi. Oggi come dieci anni fa a Casilino 700, nell'anno del Giubileo, quando era vietato raccontare le stragi dei ragazzini nei ghetti, e quell'anno là ne morirono almeno dieci. A Roma ci sono più case sfitte che in ogni altra città d'Europa: centomila alloggi, dieci milioni di metri cubi di case vuote, come mille stadi di serie A. Ma per i poveri, per i Rom non c'è posto. Ghetti, tendopoli, miseria e spesso morte. Ma quale giornale, quale politico lo dice? Stiamo perseguitando gli zingari esattamente come ieri perseguitavamo gli ebrei. Ma la “politica”, a quanto sembra, è un'altra cosa. La “politica” si affida alle Maiolo e ai Renzi, alle soluzioni indolori. ai dopoberlusconi tranquilli, con tutto che resta com'è salvo (forse) Berlusconi. Chi parla più della Fiat? Chi pensa più agli operai? Eppure è stato appena deciso (anche qui, esattamente come sotto il fascismo) che di diritti non ne hanno più, neanche uno. Ma la “politica”, a quanto pare, è un'altra cosa. Il golpe è questo qua, ed è bilaterale. C'è il golpe di Berlusconi, vecchio imbecille vizioso, che minaccia e ricatta e mobilita i suoi puttani. Ma c'è anche quello di Marchionne e soci, che vogliono fare miliardi sulla pelle dei ragazzi. Nessuno, sotto i trent'anni, sa più come sarà il suo avvenire. *** Ma c'è un'altra politica, quella vera. La politica che ha appena mandato via Mubarak, senza violenza. La politica che non è affatto isolata (che dite, ora, di Obama?) e che sa cogliere le occasioni. “Qua bisogna puntare sui ragazzi di Ammazzateci Tutti” ha detto - secondo Wikileaks - l'uomo di Obama in Calabria. Chi se ne è accorto? Vorrà dire qualcosa, politicamente? Sono momenti incredibili, in cui davvero è possibile il cambiamento. Purché sia cambiamento vero – a cominciare dallo spazzare via i mafiosi, che sono il cuore del Sistema – e purché si sia disposti a far sul serio e non solo balletti “politici”. Perché il mondo è cambiato. I vecchi non se ne accorgono, ma i giovani sì. L'Egitto è un paese giovane. E ha vinto, alla faccia di tutti. *** Sicilia: qua tutto è lento. Ma si muove. Catania: sono bastati pochi giornalisti e cittadini coraggiosi - ma al culmine di una catena lunghissima, lunga trent'anni – per mettere in crisi la camera di compensazione del Sistema locale, a Palazzo di giustizia. Vorrà dire qualcosa, politicamente? Informazione libera e movimenti, lavorando insieme, possono sperare di vincere, in questa città. E' già quasi successo una vita, coi Siciliani. Perché non riprovare? Per l'informazione, in particolare, è arrivato il momento della verità. Il caso Procura di Catania ha fatto da cartina di tornasole: chi si è schierato e chi si è messo da parte, chi ha detto la verità e chi l'ha nascosta. Chi se l'è presa coi funzionari infedeli e chi coi “dossieraggi” che li smascheravano. Adessso, bisogna scegliere. O da una parte o dall'altra. E', finito, fra l'altro, l'equivoco di Sudpress, diviso fra l'onesta ingenuità dei giornalisti e le grevi ambizioni dei proprietari. Ora è il momento di riprendere la strada dei Siciliani, tutti insieme. A questo sta servendo, da tre anni in qua, questo nostro giornale, con tutto ciò – e non è poco – che gli vive attorno. Non siamo, e non vorremmo essere, autosufficienti. Ma abbiamo una storia e delle idee chiarissime e decise, le uniche che nessuno qui potrà mai equivocare. E' un patrimonio per tutti, per tutta la comunità che ci appartiene: cerchiamo di usarlo bene, con decisione e tutti insieme ed essendone sempre degni. 19 febbraio 2011 NOTA EDITORIALE Questo documento – il promemoria del Giudice Giambattista Scidà, Presidente Emerito del Tribunale dei Minori e protagonista prestigiosissimo, da oltre un quarto di secolo, dell'antimafia a Catania – è uno strumento indispensabile per la comprensione di almeno una delle possibili interpretazioni del “caso Catania”, di cui la stampa ufficiale non ritiene di dovere dar conto al lettore. Di che si tratta? La città di Catania, tormentata da un sistema politico-mafioso fra i più potenti d'Italia, non ha mai potuto contare, in tutti questi anni, su un impegno giudiziario anche lontanamente paragonabile a quello del pool palermitano. Non è storia di oggi ma degli anni Ottanta (mancate indagini sull'omicidio Fava), Novanta (enucleazione delle responsabilità imprenditoriali), Duemila (privatizzazione della città da parte dei monopoli). L'inquietudine della società civile si accresce ora, e trova forse un' “ultima goccia” decisiva, nella pubblicazione di un documento che ritrae insieme un boss mafioso e il principale candidato a una carica importantissima nel Palazzo: compresenza, per quanto auspicabilmente priva di significati penali, che non aumenta certo la fiducia dei cittadini nel Palazzo. Il nostro mestiere di giornalisti ci impone di accertare e diffondere una notizia che non può essere negata all'opinione pubblica. Non certo per avversioni o simpatie personali o per volere schierarsi nelle faide che, disgraziatamente, consumano in questi tempi non solo la classe politica, ma parte della giustizia siciliana. Ma perché non è in nostro potere di privare i lettori del loro diritto alla verità. Il nostro non è prevalentemente, come si dice oggigiorno, “giornalismo investigativo” (non lo fu quello di Giuseppe Fava), né corre dietro agli scoop; per noi l'investigazione è solo una parte di un processo complesso di ricostruzione e racconto della realtà che al centro ha la cultura e la società. La nostra verità, insomma, non si estrinseca mai in un “viva questo e abbasso quello”, non grida, non cerca facili notorietà; ma cerca di rappresentare al lettore un quadro il più possibile fedele e veritiero di un mondo che, come i veri giornalisti sanno, è articolato e difficile e non si lascia rinchiudere in facili ovvietà. *** Questo modo di pensare, in questo momento , non è molto popolare. Le idee del giudice Scidà non sono state contestate, sulla stampa ufficiale, ma aggredite. Ultimamente l'attacco ha raggiunto (sempre attentamente guardandosi dall'affrontare in qualsiasi modo la descrizione dei fatti) forme odiose e personali e se n'è resa responsabile, nell'edizione locale, “Repubblica”. Il che apparrebbe incongruo, pensando all'impegno civile di cui questa testata ha sempre dato prova a Palermo e sul piano nazionale. Ma non lo è, purtroppo, se si considera il ruolo che questo giornale (o meglio, il suo editore) ha sempre avuto a Catania. Aperta alleanza con Ciancio, silenzio sugli affari, autocensura dei contenuti (fino a poco tempo fa si evitava di distribuire la cronaca) in ossequio all'alleato. E questo non per scelte “ideologiche” o culturali, ma banalmente per la comunanza d'affari col piccolo Berlusconi catanese. Hanno questi interessi un ruolo nell'attacco personale e violento a Scidà, nella difesa dunque del Sistema catanese qui ed ora? Non lo sappiamo. Ma, non essendo affatto arbitrario né privo di connessioni con schieramente vecchi e nuovi, è un dubbio che dobbiamo consegnare – con tutto il resto – al lettore. Al quale, per l'ennesima volta, forniamo dunque non la Verità rivelata o lo scoop maiuscolo ma, più semplicemente, un utile strumento di lavoro. Questo è sempre stato il nostro principio e il nostro stile e questo, sommessamente, intendiamo mantenere. 23 febbraio 2011 UNA DITTATURA DI MINORANZA E intanto a Catania, capitale di una certa Italia... “Buffone! Farai la fine di Ceaucescu!”. Bah. Intanto, Gheddafi rischia di farla davvero, la fine di Ceaucescu. Chi gliel' avrebbe detto quest'estate, ai tempi delle tende beduine (a Roma) e del bungabunga? Io, che sono un uomo prudente, al posto di Berlusconi mi fionderei nella più vicina caserma dei carabinieri, mi chiuderei in cella da me e come favore personale chiederei di essere messo nella camera di sicurezza più interna: non si sa mai. Ma lui è un tipo avventuroso, come Ceaucescu e come Gheddafi. Speriamo che, a differenza di Gheddafi, non sia anche – quando verrà il momento suo – un pazzo sanguinario, di quelli che buttano bombe sulla folla. Di noi tutto sommato si usa poco: Brescia, piazza Fontana, Italicus, Bologna... ma erano altri tempi, si dice, è cambiato tutto; persino al G8 di Genova, dove pure c'era da stangare un bel po' di sovversivi, un po' di torture magari, ma di bombe niente. In compenso siamo azionisti di un bel po' delle bombe di Gheddafi: Fiat, Berlusconi, Unicredit, Eni, Ansaldo, Impregilo, hanno tiranneggiato la Libia (e i poveri emigranti che ci passavano) con Gheddafi. Non a caso in queste ore a Milano la borsa trema. Ma che importa: domani è un altro giorno. Obama ricostruisce l'America, cerca di riportarla, di riffe e di raffe, dalla parte dei popoli, dov'era un tempo. Perché Obama è un patriota, al suo paese ci tiene. Qua, per salvare l'Italia – di cui onestamente non ce ne frega niente - ci affidiamo non dico a Fini ma a Luca Barbareschi. Va bene. Gli operai non esistevano, e invece ci sono eccome, e nelle piazze s'è visto. Non c'erano le donne, buonine fra tv e chiesa, e invece sono state proprio loro a dare il primo scossone decisivo. Nemmeno il popolo c'è più, contanò solo i mille Vip che “Io so' io e voi nun siete un cazzo”. Vedremo. Lo vedremo il giorno dello sciopero generale. Ché ormai la strada chiarissimamente è questa: bloccare ogni trattativa (bene Flores e Camilleri: fermare il Parlamento) e fare, come la Cgil farà, lo sciopero generale. Contro Mubarak (cioè Berlusconi), contro i suoi finanzieri (cioè Marchionne), contro i suoi sgherri e mercenari, cioè i mafiosi. Questo non è più regime di massa, nessuno dei suoi gerarchi è più un interlocutore. E' una dittatura di minoranza, sempre più impaurita: trattiamola come tale. *** Torniamo a Catania, che io la naja la faccio qui e guai se mi beccano a non fare bene la sentinella. Nel caso Catania – di cui sapete ormai tutto – c'è una novità importante e forse decisiva. Mentre dieci giorni fa eravamo ancora alle polemiche, alle denunce e alle giustificazioni, adesso siamo alla fase degli attacchi personali e violenti, senza mediazioni. In soldoni: il giudice A accusa il giudice B di essersi soverchiamente intrattenuto con mafiosi. Porta prove e argomenti, e infine saltano fuori pure le foto. Ma perchè A ce l'ha tanto con B? Per fatto personale, ovviamente. E donde viene questo fatto personale? Perché lui, giudice A, in realtà è un immorale, un vizioso, un mostro; l'ha detto un conoscente di un tale che l'ha sentito dire da un talaltro; ed ecco perché attacca B inventandosi Catanie, casi Catania, giudici e mafiosi. Bene. E chi lo dice (in linguaggio forbito, convenevole e professionale, poche bellissime righe da scuola di giornalismo)? Il giornale di Feltri o quello di Belpietro? No: direttamente Repubblica. Che ha una tradizione bellissima, di lotta per la libertà e la democrazia, in Italia, e anche contro la mafia a Palermo; ma a Catania ha una tradizione precisa di accordi - di contenuti e d'affari - con padron Ciancio. Queste sono notizie, amici miei, e come tali le diamo. Immaginate che a Milano nel 1946 il Corriere avesse attaccato - non politicamente, ma insinuandogli qualche delitto comune - Ferruccio Parri, e avrete un'idea di cosa stiamo vivento, in questi giorni, noi dell'antimafia a Catania e quanto siamo incazzati e quanto determinati a fare i conti. *** Perché a Catania, e in Sicilia, e in Italia, e dappertutto, l'antimafia esiste, non è una barzelletta. Non “una certa antimafia”, non l'”antimafia di carriera”, ma l'antimafia mia, di Scidà o dei militanti del Gapa - vent'anni di dedizione totale e di battaglie, dando tutto se stessi. E anche, porco diavolo, l'antimafia “autoreferenziale e inutile” dei ragazzi di Palazzolo, di Modica, di Ucuntu, ai quali è stato autorevolmente e recentemente spiegato, da qualche genio, che in realtà non servono a un cazzo. Va bene, impariamo anche questo, ragazzi. Nel mondo c'è anche 'sta gente ciarliera: a volte fa qualcosa di buono, ma raramente, e te lo fa pagare con una tonnellata di cazzate per ogni grammo di cose buone. Voi non v'impressionate, tenetevi stretto quel grammo (se riuscite a trovarlo) e per il resto fregatevene e andate avanti. *** Le righe che restano le dedichiamo volentieri (ma senza gridare al lupo) alla solidarietà, in questo caso a Condorelli. Buon giornalista, perbene, alle volte un po' ingenuo (come quando s'è lasciato usare contro l'antimafia cioè, qui e ora, contro Scidà), ma bravo certamente, uno che prima o poi avremo accanto; è stato licenziato ingiustamente e noi, non per la prima volta nè perchè qualcuno ce lo chieda, stiamo con lui. Ma senza confonderci con le “solidarietà” d'occasione di chi, in passato, s'è rifiutato per esempio di solidarizzare con un Marco Benanti. Noi, giornalisti sempre e non solo quando ci conviene, questa solidarietà l'abbiamo data in passato a Benanti, a Finocchiaro, a Giustolisi, a Mirone, a Savoca, a Rizzo, a Lavenia, a Scapellato – e chiediamo perdono a quelli che stiamo dimenticando ora, ma che certo non abbiamo dimenticato quando ce n'era bisogno. Raramente ne abbiamo ricevuta noi, e mai nessuno dei nostri ragazzi. Ma questo, per noi “professionisti dell'antimafia, fa parte del nostro mestiere. 7 marzo 2011 L'UNICO INTERLOCUTORE POSSIBILE, QUI E ORA In poche regioni d'Italia la “politica” è complicata e machiavellica come in Sicilia. In nessuna città siciliana come a Catania. Alleanze, cordate, patti e accordi s'intrecciano e si disfano in maniera così elaborata che ogni volta ci vuole uno studio indefesso solo per arrivare a capire chi sta con chi e chi contro. Lavoro inutile, del resto, perché il giorno dopo le alleanze del giorno prima si sono già disfatte, i Borgia dai Colonnesi sono tornati ai Visconti e Al Capone, che ieri faceva affari con Marranzano, improvvisamente s'è unito a Frank Costello. Intanto la città affonda. C'è un'unica cosa seria, nella politica di Catania, ed è la (vera) politica dei quartieri. Non mercato di voti, non potere, non disperato arraffaggio di consulenze e poltrone. Ma serivizio civile, antimafia e formazione di massa, coi pochissimi mezzi di cui può disporre qui la gente perbene. Abbandonate dallo stato, snobbate dai partiti locali, assolutamente ignorate dai grandi agglomerati “politici” di Roma, volontari, insegnanti, lavoratori studenti combattono qui nei quartieri poveri (cioè l'ottanta per cento della città) la vera battaglia politica per Catania, quella senza bandiere, con più idee (e “filosofia”) di chiunque altro ma senza bardature inutili di bei discorsi e sonanti parole. Il partito della Resistenza e dei poveri, senza saperlo, esiste già ed è qui. In forma rudimentale e confusa, chiamandosi qua parrocchia e là centro popolare, combatte faticosamente ogni giorno e fa democrazia. È l'unico interlocutore possibile per le persone serie, qui e ora. 7 marzo 2011 IL NORD, IL SUD E QUESTO NOSTRO MESTIERE Ma l'informazione è ancora “Quarto Potere” o è diventata ormai semplicemente un potere? Cosa c'entrano gli editori? Ce ne sono ancora? E come si fa, senza editori? Sembra che i tunisini, gli egiziani, i libici, gli arabi insomma, siano gente come noi. Noi eravamo convinti che fossero chissà che tipi strani e fanatici, e quindi li bombardavamo e spremevamo senza troppi rimorsi. E' chiaro adesso che sono gente comune, come noi: moderatamente religiosi, tendenti a un modesto benessere, scontenti del governo, inclini alla democrazia. L'informazione ufficiale per anni e anni ce l'ha negato. Non solo distorcendo o nascondendo (vedi Wikileaks) le vere e proprie notizie; ma soprattutto barando sul piano culturale, costruendo a poco a poco un'immagine di quei popoli assolutamente non veritiera. E questo in molti altri casi. L'informazione “borghese” (per usare un termine caro a Giuseppe Fava), che una volta era il Quarto potere, adesso è semplicemente un potere come gli altri, che lascia la sua missione originaria per fare un “lavoro politico” (o finanziario) programmato. *** Di ciò, Berlusconi è solo il modello estremo; non è che tutti gli altri siano molto indietro. Poche settimane fa è bastato un intervento di De Benedetti per invertire Repubblica sulla cruciale questione della Fiat. In sostanza, il giudice onesto può contare su Repubblica; ma l'operaio onesto, nello stesso momento, non può. Vi sembra strano? No, non lo è, anzi è “normale”. Garibaldi libera i contadini fra gli applausi di Scalfari (ci si passi l'anacronismo) e contemporaneamente Bixio li fucila: liberì sì, ma senza esagerare. La storia dell'Italia in fondo è questa, e hanno egualmente ragione tanto i “liberal” che inneggiano a Garibaldi quanto i neoborbonici che maledicono Bixio. Ma un altro tipo d'Italia ci fu pure, tanto quaggiù in Sicilia quanto su a Torino: quello dei contadini ribelli e degli operai scioperanti, dei Fasci Siciliani e della Fiom. Entrambi schioppettati egualmente dai Savoia, al nord e al sud. E poi dai fascisti, i mafiosi, i piduisti, da tutti i potenti padroni (sempre alleati fra loro) dei due paesi. A Reggio Emilia e a Portella, il sangue dei poveri bagnò la terra italiana allo stesso modo; da Piazza Fontana a Capaci, il Sistema non ha mai avuto in realtà nè un nord nè un sud. Se li inventano i suoi politici e i suoi giornali, quelli borboni e quelli liberali, per imbrogliare i poveri e tenerli divisi. *** Pensa nel mondo, agisci al tuo paese: questo discorso sull'informazione ci porta giù giù e poi ancora più giù per l'Italia, fino addirittura a Catania. Dove c'è un caso da studio (che i nostri lettori, a differenza di altri, conoscono bene). Il caso, in essenza, è questo: concorrono a un posto di giudice due funzionari; discussi entrambi, com'è normale; ma in più con dei fattori specifici che ne rendono sconsigliabile, o perlomeno rischiosa, l'assunzione. Uno, per sottrarsi a un caso scomodo, s'era autoaccusato di “stancabilità, non brillante memoria e reazioni emozionali spropositate”. L'altro era andato a cena con dei mafiosi, negando poi (fino a smentita fotografica) il fatto. Trattandosi di Procura antimafia, e non della pretura di Sant'Ilario, prudenza consiglierebbe di ringraziare e respingere, con pari cortesia, l'uno e l'altro; e di cercare altrove un terzo candidato, magari non un Solone ma che almeno non si sia dichiarato inabile e sia stato più attento nella scelta dei commensali. I catanesi, la società catanese, pendono per questa ovvia soluzione; deciderà il Csm, o attenendosi al precedente di Messina e Reggio Calabria di tre anni fa (dove alla fine si scelsero candidati esterni, Pignatone e lo Forte, entrambi prestigiosi) o a quello palermitano dell'88 dove burocraticamente si scelse l'anziano Meli anziché l'“irregolare” Falcone. Deciderà il Csm. Noi come giornalisti dobbiamo solo segnalare i fatti (compresi le sfumature e il contesto) nella loro interezza, senza insultare nessuno (segno di scarso mestiere, di debolezza), senza cercare scoop (molte delle cose “scoopate” ora le avevamo già scritte tre, cinque, a volte vent'anni prima) e soprattutto senza risponderne assolutamente ad altri che ai lettori. Non abbiamo padroni né occulti né regolari, come sanno tutti, e siamo forse gli unici in quella città a non averne. Quest'ultima affermazione non riguarda l'etica ma proprio la struttura tecnica del nostro mestiere, almeno come si sta configurando oggigiorno. *** Dei miei primi rapporti con Giuseppe Fava un episodio mi ha sempre colpito, che via via che passa il tempo mi sembra sempre più degno di riflessione. E' quando, appena arrivati, ci chiese (o meglio ci ordinò) di imparare a usare le tastiere, i rudimentali “computer” di quei tempi. “Ma perché? Ma non è compito dei tecnici? Non basta scrivere i pezzi a macchina, li dobbiamo anche montare? Ma se neanche il sindacato dai giornalisti dice che lo dobbiamo fare!”. E lui, sorridendo: “Lo so che ci sono già i tecnici, pagati dall'editore. Ma casomai un giorno voleste farvi un giornale da soli, un giornale vostro...”. E andò proprio così. Né i Siciliani, né I Siciliani Nuovi, né Avvenimenti, né SicilianiGiovani, né Casablanca, né lo stesso Ucuntu né tutte le cose che ci son state in mezzo (e che, auspicabilmente, ci saranno domani) avrebbero potuto esistere senza un minimo di autosufficienza tecnologica; nessuno di essi ha mai avuto un imprenditore “regolare” (a Catania di onesti e liberi non ce n'erano, e al di là delle chiacchiere non ce ne sono tuttora). I Siciliani erano una cooperativa. Avvenimenti una società ad azionariato popolare. Idem i Siciliani Nuovi. Casablanca, unica, ha avuto un “editore” che era poi una valorosa e disinteressata militante nostra, Graziella Proto; i Cordai, il Clandestino e la Periferica sono di libere associazioni come lo stesso Ucuntu, che sta soprattutto in internet e non ha costi di stampa. Il giornalismo antimafia, che pure ha sconfitto i Cavalieri e tuttora tien duro, tecnicamente è un'impresa senza padroni, in mano ai suoi giornalisti e ai suoi simpatizzanti e lettori. Pochissimo o nullo aiuto dalle centrali civili (e miopi) di Roma. Ma indipendenza totale, mestiere, e ogni tanto anche risultati incisivi. *** Il costo però è altissimo sul piano umano. A volte s'è rinunciato a uno “scoop” (per dirla alla moda) perché non c'erano i pochi soldi per stargli dietro. Spessissimo si esita a accogliere un ragazzo nuovo, sapendo i sacrifici durissimi che qui dove vuol mettersi lo attenderanno. Sopravviviamo nelle maniere più impensate, e mai con questo lavoro. Tranne che “andando al nord”, dove ci si aprono subito belle carriere – ma non qui in prima linea, qui nel deserto. Tutto questo sta bene, e non ne parliamo per sentimentalismo ma solo per chiarire i termini tecnici della questione. Niente (e non per nostra scelta) editori; esercito di volontari; alta qualità giornalistica per restare credibili nonostante questo; larghe conoscenze tecnologiche per approfittare di ogni possibile occasione; unire tutte le forze disponibili, “fare rete”. *** Nessuno si può illudere di salvarsi da solo trovando un suo deus ex machina, un suo “editore”. Le poche volte che c'è, è per far danno: Catania, in questi mesi, dovrebbe avere insegnato anche questo. Ucuntu e Lavori in Corso puntano tutto sulle tecnologie e sulla rete. Non c'è nessun altro in Sicilia che cerchi così insistentemente di coordinarsi con gli altri, di organizzarsi, di lavorare insieme. Nessuno così avanzato nelle tecnologie (in alcune due anni prima di Repubblica) eppure così consapevole della propria insufficienza. La nostra missione non è di dare una nobile testimonianza da una nicchia, ma di costruire insieme agli altri qualcosa che superi fra il grande pubblico l'informazione del Sistema. Ecco perché insistiamo tanto nei contatti operativi fra gruppi grandi e piccoli, senza trascurarne nessuno. Ed ecco perché, per esempio, in questi giorni organizziamo un convegno “tecnico” non su contenuti etici ma su Linux e dintorni. Un umile strumento di lavoro, certamente. Ma senza strumenti adatti non si riesce a comunicare un bel niente e le migliori intenzioni restano chiuse dentro. Il tempo gioca per noi. Le “nuove tecnologie” non sono più l'internet, su cui già ci muoviamo. Sono i giornali elettronici, gli e-magazine, gli e-book, l'info elettronica di seconda generazione. E' il nostro terreno, per capacità e competenza; ha costi alti per un piccolo gruppo come il nostro ma non per tanti gruppi messi insieme; ha un personale già attivo, operante e - per quanto diviso - ben sperimentato. La strada è questa, e fra due o tre anni al massimo si incontrerà (ora sì) col mercato. *** Il “quadro politico”, come si dice, non è bello. Le opposizioni hanno salvato Berlusconi, puntando su Fini e Barbareschi invece, come sarebbe stato logico, che sugli operai della Fiat. Tanti anni fa il Manifesto scriveva “Praga è sola”. Oggi è sola la Libia. Non solo per le complicità del governo ma per lo strano torpore dei giovani italiani. Massacrano folle intere a pochi chilometri da noi, un Pol Pot qui davanti: e non reagisce nessuno, non dico nei palazzi ma nelle piazze e nelle università. La prossima scadenza politica, l'unica vera, è lo sciopero generale indetto dalla Cgil. Arriviamoci pronti, senza creare disordini ma sapendo che è l'ultima occasione. La tappa dopo potrebbe essere già la disobbedienza civile. 17 marzo 2011 L'UTOPIA DELLO STRUZZO E CHI CI BAGNA IL PANE Il “mercato”, il consumo e il “progresso” illimitati vanno benissimo per i Grandi Animali, ma sono la morte per noi comuni esseri umani. “E' sempre stato così”. Sì, ma qua finisce male “No all'emotività! Forza, nucleare!”. Sarebbe facile polemizzare col nostro signor governo e la nostra confindustria che, mentre i tedeschi chiudono le centrali e i giapponesi cercano disperatamente di salvarsi la pelle, non sanno dire altro che “E' successo qualcosa?”. Facile, ma in fondo ingiusto. Perché la bestialità della nostra orribile classe dirigente, la più disumana e la più ignorante che questo disgraziato Paese abbia mai avuto, fa leva sul nostro sogno, sulla nostra inespressa ma convintissima utopia: che possiamo andare avanti tranquillamente così, sfruttando sempre più la natura, picchiando chi riceve di meno e ruttando felici in un dopo-pranzo sempre più inacidito. Non è così. Il Giappone, molto più civile e tecnologico di noi, era sopravvissuto a duemila anni di terremoti e tsunami: e adesso sta crepando semplicemente perché (a dispetto di una sua cultura antichissima, bollata come “”vecchia” e “superata”) s'è messo a costruire centrali nucleari in mezzo alle faglie sismiche. Modernissime, “sicure”, dotate (tranne quella mantenuta in servizio per le pressioni dei politici) della migliore tecnologia. E sono saltate per aria. Perché? Per lo stesso motivo per cui si rompe un vaso in una stanza in cui si gioca a pallone, per semplice statistica: prima o poi. E perché, se lo sapevano, non si sono organizzati? Per semplice rimozione mentale, come lo struzzo: per eliminare il pericolo non bastava “rendere più sicure” le centrali (o mettere il vaso un po' più in alto), bisognava abolirle del tutto (“Bambini, in questa stanza non si gioca a pallone”). Ma questo avrebbe significato treni un po' meno veloci, automobili un po' meno grosse, e così via (“Ahhh... cattiva mamma! Non ci vuoi fare giocare!”). La gente, non solo i politici, non l'avrebbe accettato. La stessa gente che adesso è intenta a razionarsi l'acqua e a seppellire i morti. “Il Giappone è lontano”. No, il Giappone è qua. Intanto, perché fra un anno probabilmente dovremo stare più attenti all'acqua che beviamo, all'insalata che mangiamo e così via (e già c'era da stare attenti prima). Poi perché la crisi economica (l'economia è mondiale) sarà tremenda e la pagheremo, anche qua, noi semplici cittadini. E poi perché il modello Giappone (con molta più rozzezza e intrallazzo, all'italiana) è esattemente il nostro, quello in cui viviamo: comprarsi più giocattoli, fregarsene della natura, manganellare i poveri, sedare con chiacchiere e botte le spaventate proteste (“Che avvenire ho?”) dei nostri figli. Illudendoci che funzioni, che vada avanti. L'utopia dello struzzo: testa sotto la sabbia, chiappe all'aria, convinto che il pericolo è lontano e che tutto va bene. Non serve una “svolta politica” (certo che serve, e subito: ma non basta). Ci vuole proprio una svolta di sistema. Socialismo, buddismo, impero Ming? E che ne so: io voglio semplicemente salvarmi la pelle, e voglio non essere pisciato addosso nella mia tomba da mio nipote - se sopravviverà e se ci saranno ancora delle tombe. Voglio che cambi parecchio, e non solo alla superficie, e anche alla svelta. La mia vita, e quella del mio nipotino, non può restare in balia di pazzi politici, terremoti, multinazionali ciniche ed economie senza controllo. Per i terremoti non ci possiamo far niente. Ma per il resto sì, e dobbiamo sbrigarci perché c'è poco tempo. *** Che notizie stranissime (lette vent'anni fa) eppure normalissime (adesso) sui giornali. “Tragedia in mare, 40 emigranti annegati”. Ma perché non avevano una nave più sicura? Perché non prendevano il traghetto? Ah: ora è vietato. “Sta vincendo Gheddafi. Il re saudita manda i soldati contro la folla”. Ma non stava arrivando la democrazia, anche lì? Ma non eravamo tutti contenti per questo? Ah: però il petrolio a noi ce lo dava il re saudita e Gheddafi, e quindi tutto sommato stiamo appoggiando loro. “Operai Fiat. Non se ne parla più”. Ma non era la più grande industria italiana? Ma davvero la lasciate finire all'estero così? E tutti 'sti lavoratori, e i vostri figli, davvero debbono spaccarsi l'anima tutta la vita così, a lavorare in caserma, senza diritti? Ah: è il management moderno, è il mondo nuovo. *** Buone notizie? Vi do anche quelle, ma a patto che non vi servano (sotto la sabbia) a tranquillizzarvi ma a svegliarvi un po'. Libera ora fa il suo convegno, il 19 a Potenza, convegno nazionale da tutto il Paese. Chi ci può andare ci vada: è un po' moscia Libera da un po' in qua, ma è pur sempre la più grande organizzazione antimafia, il nostro - di noi antimafiosi “sindacato”: criticatela, dunque, ma fatela diventare sempre più forte e portatela avanti, ché là dentro c'è iun pezzetto di tutti noi. L'altro sindacato, la Cgil, ci chiama invece a raccolta per il sei maggio, lo Sciopero Generale. Sarà una giornata importantissima; probabilmente, in bene o in male, il giorno della svolta. Anche questa è antimafia, e speriamo che la Cgil lo capisca. Comprendiamolo noi per intanto, con l'esperienza che abbiamo, profondamente. Dai giochi dei politici – per lo più in buona fede - non aspettiamoci niente. Non è che non vogliano, è che semplicemente sono su un altro pianeta. Dal pazzo Berlusconi all'astuto Fassino, dal generoso Vendola al machiavellico Fini, nessuno ha mai dormito alla stazione né sa quanto costa una scatoletta di tonno. Noi sì. Noi non siamo col popolo. Siamo nel popolo, una parte minimissima di esso. Con tutte le sofferenze, ma senza illusioni, dell'umanità quotidiana del paese. Per questo “facciamo politica”, a modo nostro e con serietà, e la facciamo bene. Bisogna abolire la mafia. Bisogna cambiare il sistema. Bisogna pensare a vivere diversamente, con meno giocattoli ma più felici. Bisogna pensare al mio nipotino e a tutti gli altri Lorenzi, ché già la vita umana è difficile e non occorre aggiungerle altri dolori. E tu forza, sorridi, amica mia: adispetto di tutto, una volta ancora, come la natura o il dio hanno costruito, fra poco è primavera. Aggrappiamoci a questo, lottiamo per difenderlo e farlo continuare. 30 marzo 2011 BANALITÀ DEL BENE E VECCHIA EUROPA Adesso dobbiamo scegliere, un'altra volta Scoppia la guerra, salgono le Borse. Dimenticato il Giappone. La guerra fa volare i listini. Cernobyl è in pieno svolgimento. Ma sta nelle ultime notizie. “Terremoti punizione di Dio, come a Sodoma e Gomorra”. Di tutte queste notizie (moderno, postmoderno, medioevo) non è che il Sistema non vi informa: il Sistema non occulta più quasi niente. Ma ne nasconde il contesto, le affoga nel flusso indistinto del villaggio globale. Perciò, concretamente, ve le sta nascondendo. Al tuo bambino, non a un bambino qualunque dall'altro lato dello schermo, cominciano ad avvelenare il latte, nella “normalità”. La guerra è soldi, non nei regimi imperiali dell'Ottocento ma ora, nel soffice lieve mondo dei Nintendo e degli i-Pad. E Galileo Galilei (di “punizione di Dio” parla il vicecapo degli scienziati italiani, De Mattei del Cnr) se tornasse passerebbe i suoi guai anche oggi. E tutte queste cose succedono, ma ormai quasi nessuno ci fa caso. *** E' urgentissimo, è anzi la cosa più urgente e più vitale di tutte, ripristinare almeno un minimo di informazione. L'informazione non esiste più, è quasi tutta infotaiment o rumore di fondo. Oscura senza mentire apertamente, mescolando accortamente le priorità e i contesti, agendo cioè non più (come una volta) con la censura ma con una compatta egemonia culturale. (Certo, la censura c'è ancora: internet alla cinese è il sogno di tutti i governi, nostro compreso. Ma non è più essenziale). Il Grande Fratello ora è una cosa “simpatica”, da “consenso”; quello vecchio di Orwell, in confronto, era primitivo. Ma questo funziona assai meglio, ci separa ancor più dal mondo vero, illudendoci di starci dentro. I contenuti, in altri termini, sono sempre più “loro”. In questa situazione non è più la singola notizia strappata, lo scoop, che fa la differenza; né il giornalista singolo può illudersi di servire a qualcosa. Se scopre una verità, lo applaudono e gliela usano (Saviano è un esempio) nel contesto loro. Controllando il contesto, tutto il resto – al massimo – diventa fiore all'occhiello. Vi mostrerei – se fossi Philip Dick - il guerriero apache che corre disperatamente contro il fortino, brandendo il suo arco e le frecce, con sovrumano coraggio; e a sua insaputa lo riprende una webcam, lo mette in rete, e un regista lo monta – a sua insaputa – nella fiction del Wild West che va in onda ogni sera su Fox: “che romantici gli indiani!”. E cade anelante ai piedi del fortino, felice di aver scagliato un'ultima freccia piumata, mentre negli schermi tv la sua figura ansante già sfuma nello spot del McDonald che chiude la puntata. *** Non basta essere giornalisti, bisogna fare i giornali. “Giornale” oggi è una parola larghissima, che va dall'Asahi Shinbun (il più grande quotidiano del mondo, che decontestualizza dodici milioni di giapponesi al giorno) all'ultimo filmato di Youtube, passando per tutti i modelli di media vecchi e nuovi (compreso il nostro), senza che ci sia più una tecnologia egemone a dargli un senso. “Giornale”, oggigiorno, è essenzialmente un contesto. Che per noi è umanistico, per gli altri è commerciale. “Ucuntu” (o un raduno di Libera, o un coro alpino) è un esempio di contesto. “Repubblica” (o una pubblicità di McDonald, o un master in economia aziendale) un altro. I primi son molto piccoli, “ininfluenti”; ma hanno radici umane. I secondi sono (qui ed era) egemoni; ma sono dei prodotti industriali. Ma nella storia è successo molte volte che dei contesti piccoli, “isolati”, siano alla fine confluiti in un contesto nuovo, generale. Questo è il nostro lavoro. Non diamo (solo) informazioni; apriamo soprattutto spiragli su qualcosa che intuiamo oscuramente, di cui sappiamo solo che è molto grande - e che è già in noi. Per questo crediamo tanto nella rete - tanti contesti piccoli che confluiscono in un fiume solo - e nelle tecnologie, che ci danno la possibilità concreta ed economica di diffondere dappertutto questa idea. Non si è mai data, nel corso della storia, una tale occasione. Non la possiamo sprecare. *** Così, nelle modeste cose che ci tocca ogni giorno di fare, non deve mai smarrirsi questa prospettiva. A Catania - ad esempio - noi lottiamo in questo momento sia per salvare le povere scuole dei bambini di quartiere (il Gapa, l'Experia, gli scout di Librino) che per imporre ai potenti di ritirare le mani dal Palazzo di giustizia, che di giustizia dev'essere e non di potenti. Abbiamo storie lunghissime, su entrambi i fronti; il Gapa di San Cristoforo lavora lì da oltre vent'anni; di una Procura estranea alla città dei poteri un uomo come Scidà parlava già – perseguitato già allora – da metà anni Novanta. Due lotte diversissime, di persone diverse, tipicamente “locali”. Eppure, vivendole insieme e collegandole alle decine di analoghe, alle centinaia e alle migliaia di persone che in qualche parte d'Italia si battono per esse, otterremo alla fine (e questa è l'unica via realistica, non certo quella giocata nei palazzi) qualcosa di largo e generale; intravediamo un'Italia ben diversa; un contesto. *** Esseri umani disperati, a migliaia; la fame, la paura. La soluzione? "La soluzione? Föra di ball!" sghignazza, con un gesto osceno, il politico numero uno. “Vengano nella mia terra: noi li accoglieremo” azzarda timidamente il politico numero due. Chi ha ragione dei due, e in che contesto? In uno, ma a forza di bombe, si può “mandar via”, e vivere tutti quanti nella paura. Nell'altro, con il lavoro e la carità, si può vivere stretti all'inizio, ma in modo sempre più accettabile e più umano. Possono crescere, i bambini, bianchi e neri; oppure tirare a sorte (“tu sì tu no tu no tu forse”) il loro eventuale avvenire. Fra i due contesti diversi, l'Europa ha già dovuto scegliere altre volte. Scelga di nuovo, adesso; sperando che stavolta possa vincere la banalità del bene. Riccardo Orioles e Fabio D'Urso 11 aprile 2011 DOPO DACHAU PRIMA DI AUSCHWITZ Il regime è illegale. Traiamone le conseguenze I tedeschi non cominciarono subito ad ammazzare gl ebrei. Prima dichiararono che non erano cittadini come gli altri, e anzi probabilmente neanche esseri umani. Poi cominciarono a vessarli in tutti i modo, cogliendo qua e là le occasioni per estorcergli del denaro. Nel 1933, “per ragioni di ordine pubblico”, istituirono dei “campi di raccolta” (Konzentration Lager) che presto, per brevità, cominciaronmo a essere chiamati semplicemente “campi” (Lager). Infine, sette anni dopo, esaurito tutto il dibattito e stabilita la piena incompatibilità fra una “razza” e l'altra, fu aperto Auschwitz (1940). Qua l'obiettivo era la “soluzione finale” del problema, visto che tutte le altre soluzioni si erano rivelate insufficienti e, come si direbbe oggi, “buoniste”: I campi di concentramento in Italia esistono già, e si chiamano campi temporanei di raccolta. Le persecuzioni sono già in atto da molti anni, e così pure la teorizzazione scientifica dell'incompatibilità di fondo fra una razza e l'altra. L'estorsione dei soldi, fra una cosa e l'altra, non è stata assente: il disavanzo Inps è pagato dagli immigrati, e in più di un'occasione (per i rinnovi, per le “regolarizzazioni” e chi più che ha più ne metta) la razza inferiore ha dovuto pagare in moneta la tolleranza della razza eletta. Manca, finora, la “soluzione finale”. Ma già diciassettemila Untermensch sono stati annegati (per scelta politica: in mare i bianchi viaggiano su regolari traghetti) nel nostro bel mare. Ma, quanto a teorizzazioni, non siamo molto lontani. Sia Bossi che Goebbels, sia Calderoli che Herr Streicher, hanno fatto capire in più occasioni che la cosa importante, per gli uomini-non-umani, non è di sopravvivere, ma di togliersi di mezzo. “Foera di ball”, si dice in tedesco. Che il resto debba seguire non è una mera ipotesi, ma ragionevolmente - una probabilità molto forte. Il regime italiano, come quello tedesco del '36, avrà forse consenso (e nel nostro caso è molto dubbio, visto che lo vota meno d'un quarto dei cittadini). Ma non è sicuramente legale. Qualunque cittadino tedesco, nel regime di Goebbels, aveva il diritto - e spesso il dovere - di non tener conto alcuno delle ingiunzioni delle autorità, trattandosi di disposizioni illegittime, in violazione delle costituzioni e delle leggi, e soprattutto dei comuni principi della morale umana. Maroni, Calderoli, Bossi, Streicher e tutti gli altri razzisti non godono di autorità maggiore. I loro ordini non hanno peso, nessun pubblico ufficiale o cittadino è tenuto a obbedire, ed è anzi dovere civico, e doveroso tributo all'onor militare, boicottare apertamente gli ordini disumani. Lo fecero carabinieri, Regia Marina, ufficiali del Re, sotto il fascismo. La loro pietà umana, e il rispetto delle stellette, indicò loro la via del dovere, contro ogni burocratica – ma vile e illecita “obbedienza”. Son questi i termini della questione. Il regime è illegale, bisogna disobbedirgli apertamente. Non per le Rudy e le Noemi, storie tristi e grottesco che rendono ridicolo ogni italiano nei paesi normali. Ma per la strage voluta, per la criminale teorizzazione e messa in pratica della persecuzione sistematica di una “razza”. In Libia, in Egitto, in Italia stessa i dittatori e i subalterni responsabili dovranno pagare, quando la legalità sarà ristabilita. Nei Paesi feroci, come nella Germania d'anteguerra, nulla dovrà restare impunito. A questo nuovo nazismo dovrà corrispondere una nuova Norimberga. Una Corte internazionale che giudichi gli stragisti e i i loro seguaci, non a Ginevra o all'Aja ma in un paese-vittima, a Nuova Delhi, a Brasilia, in una delle potenze democratiche dell'avvenire. Si ebbe anni addietro un Tribunale internazionale, presieduto da Lord Russell, per i crimini contro l'umanità in Vietnam. Bisogna che personaggi autorevoli, gli scienziati, i Nobel, i sapienti del mondo, assumano un'iniziativa del genere, in attesa di una vera e propria Corte Penale delle nazioni. Nulla deve restare impunito e nulla, fin d'ora, deve restare non denunciato. Perché la politica è finita e quella di oggi - decine di bambini annegati, per volontà di un regime, e forse di una nazione, è un'altra cosa. E questo è quanto. Avremmo dovuto scrivere delle ultime risultanze giudiziarie, da cui emerge che per la seconda volta consecutiva il Governo della Sicilia è ufficialmente colluso con la mafia. Avremmo voluto scrivere della disperata resistenza dei quartieri poveri catanesi, della rinascita dell'Experia (unico presidio civile, in alcuni di essi, oltre al Gapa). Ma anche questi argomenti, per quanto importantissimi, passano in secondo piano dinanzi alla drammaticità di questa semplice cosa: viviamo in un regime illegale. Non è questa o quella legge ad essere violata, lo sono tutte. Non è questo o quel crimine di cui accusiamo il governo, il crimine è lui stesso. Certo: è “estremistico” dirlo, è impopolare, è rozzo. Ma era impopolare anche a Weimar, era “estremista”. Noi siamo a Weimar, fuor d'ogni dubbio. L'eccessiva prudenza, in quegli anni, creò milioni di morti. 1 maggio 2011 PRIMO MAGGIO 2011 Di nuovo una giornata seria, uno sciopero Grazie Renzi, grazie Moratti, grazie tutti voialtri tromboni: grazie a voi il primo maggio, nonostante il concerto, è tornato una giornata seria, un quarantotto, uno sciopero, un niente-di-regalato. Ai bempensanti e ai monarchici fa di nuovo paura. “Sciopero, sempre sciopero! Approfittano che il governo è troppo buono…”. “Glielo darei io, il primo maggio! Tutti in Russia da Putin, li manderei!”. “Eppoi, dove sono tutti ‘sti operai, oggigiorno? Tutti signori sono diventati, stanno meglio di noi, stanno!”. “La verità è che non c’è più voglia di lavorare, signora mia”. Ma sì. Aggiungi guerre di Libia, nozze di principi, contrasti diplomatici con la vicina Francia, miliardari bavosi, corazzate, papi, pellegrinaggi: ma siamo nell’Ottocento! Un bellissimo Primo Maggio fin-de-siècle, in cui la Fiat non è ancora (o non è più) una Fabbrica ma una marca di cioccolatini o un club di finanza allegra: Ottocento! Il Corriere, nell’ultimo elzeviro, richiama pensosamente all’ordine, ché il momento è complesso; replicano i giolittiani che bisogna pur pensare anche al progresso; Sua Maestà ammonisce questi e quelli e in talune città, fra mille difficoltà ma tutto sommato con sicurezza, nasce una cosa strana, il sindacato. “Ma davvero potremmo chiedere… venti lire?”. “Ma certo! Tutti insieme, che ci possono fare?”. “Compagni! In questa giornata noi lavoratori…”. “Tenente! Favorisca schierare la prima fila!”. “Dammi un bacio, dai!”. “Perché in tutta la civile Europa le otto ore…”. “Per la seconda volta, sciogliere l’assembramento!”. “No, no… Leva le mani…”. “Francesi come prussiani nostri fratelli…”. “In nome della legge, scioglietevi!”. “Disordini fomentati da agitatori socialisti…”. “Gli storici interessi dell’Italia nel Mediterraneo…”. “Ohhh….”. “E dai tanto poi ci sposiamo…”. “Tienila su! Tieni su quella bandiera!”. “Com’è verde l’erba”. “Me la consegni!”. “No, è nostro diritto!”. Buio. Colori dietro le palpebre. Corpi in terra. Tempo che passa. Treni, trincee, rumori. Tempo che passa ancora. Tempo… *** Bene, nell’Ottocento – per amore o per forza – ci si organizzava. Lo sciopero. Il sindacato. Il partito. I discorsi insieme. La rivoluzione. Non si può fare più? Chiedilo alla Tunisia. E’ solo che è una cosa diversa, un’altra cosa. Non c’è più zar nel Palazzo, è nello specchio. E’ in quel mondo fasullo in cui ti fanno vivere fra tv e droga. Non usano più baionette ma favole, non sono più forti di te fisicamente, sei tu che tieni fermo te stesso con un sorriso felice sul viso assente. Se batti le mani abbastanza forte – così, un bel “ciaff!” da bambino – magari il rumore ti sveglia. Quello, o qualche cosa di simile: non una rivelazione o un’idea (che altro avresti bisogno di sapere?) ma semplicemente uno svegliarti. Un momento simbolico, basterà questo. *** Lo sciopero generale, contro la mafia e Marchionne. Il nostro “partito”, che è la Fiom e Libera e tutto ciò che vive intorno ad essi. Il nostro governo, i nomi dei nostri ministri e presidenti – gente come Pertini o Caselli, non gente elucubrata nei palazzi -, la nostra unità nazionale che è quella di Parri e De Gasperi, del comandante Longo e del Cln. La nostra rivoluzione, coi lavoratori e le donne in prima fila (disarmati e tranquilli, perché è una rivoluzione e non un gioco) e le file dei carabinieri che si aprono lentamente per lasciarli passare. Con una fucilazione di pernacchie, una grande e liberatoria sghignazzata collettiva. Coi vecchi che si guardano allo specchio, le puttane che arrossiscono, i procacciatori e i magnaccia che corrono a nascondersi per un sentimento mai percepito. Non è possibile, dici? Chiedilo ad Ahmed, a Ridah, ai nostri concittadini tunisini. O anche a me se ti va, a me che ho visto quei venti mesi del Sessantotto. Ci uccisero con Piazza Fontana, quella volta. Ma forse quest’altra volta non ci riusciranno (ora, fra le altre cose, c’è Obama). Riccardo Orioles www.ucuntu.org www.gliitaliani.it 18 maggio 2011 IL "PARTITO" CHE CRESCE Lo stanno costruendo i giovani. Senza saperlo… Forse i “moderati” sono una cosa del genere dei fondamentalisti islamici: fanno, dichiarano, dicono, sono al centro del mondo (sui giornali) ma poi, al momento del dunque, sono una minoranza non rilevante. L'Italia no si divide infatti, a quanto risulta, semplicemente fra santanchisti e gente normale: questi ultimi, a quanto pare, sono la maggioranza. E finalmente. La gente normale, in Italia, ha sempre avuto etichette un po' stralunate: comunisti, radicali, estremisti e chi più che ha più ne metta (io personalmente a sedici anni ero comunista perchè mi sembrava strano che i braccianti, giù da noi, dovessero dormire sui cannicci per terra). Ma era solo un modo di chiamare (un po' perché les bourgeois si spaventavano, un po' perché noi ci divertivamo molto a spaventarli) le cose che nel resto d'Europa erano normali. La tv serve principalmente a far sì che la gente normale e le cose normali appaiano strane, e normale invece il pazzo che si crede Napoleone. L'Italia è l'unico paese al mondo dove la tivvù sia andata al governo, e ci sia rimasta per vent'anni.Questo spiega perché, ai congressi internazionali di psichiatria, ci sia sempre qualcuno che, con gravità professorale, dice cose spiacevoli su noi italiani. Al prossimo congresso, speriamo adesso, il suo intervento sarà più breve, anche se ci vorrà molto tempo prima che venga abolito del tutto. *** La sinistra che vince – perché è la sinistra che ha vinto, non c'è il minimo dubbio: il terzo polo è trascurabile e Fini un bluff – è una cosa stranissima, a osservarla da fuori. Vendola, De Magistris, i grillini, la parte “buona” (Bersani) del Pd vengono da storie diversissime, e si stupirebbero molto se qualcuno gli dicesse che in fondo sono facce diverse della stessa cosa. La “cosa” è la crisi della vecchia sinistra e la travagliatissima formazione di quella nuova. Il qualunquismo rivoltoso dei grillini, il culto della personalità dei vendoliani, la rudimentalità dei dipietristi, la goffaggine dei “sinistri federati”, l'ambiguità programmatica di Bersani, non sono dati politici, sono semplicemente gli annaspamenti di gente che vorrebbe nuotare, ma non si decide a staccare i piedi dal fondo. La storia vecchia è finita, la nuova ognuno s'illude di trovarla da solo. Non c'è ancora esperienza di storie collettive; l'unica cognizione comune (ma è già moltissimo, qui e ora) è che bisogna muoversi, che il tempo dell'impotenza è finito. In questo c'è molto Ottocento, prima dei socialisti. Sette, partiti, gruppi, ribellioni con troppe “linee politiche” o nessuna. L'unica cosa comune (ma non percepita) era – banalmente – l'età. “Non prenderemo nessuno – disse uno di loro – che abbia più di quarant'anni”. A partire da questo, si potè andare avanti. *** E anche adesso è così. Non per la sciocchezza del sindaco giovane o del candidato ventenne (Renzi, politicamente, è tanto anziano quanto Emilio Fede o la Santanché) ma perché è il collante di tutto, ed è profondo. Il grillino di Bologna, il giovane Pd di Trento o Genova, il rifondarolo di Catania, l'attivista elettorale di Pisapia e quello di De Magistris hanno in comune questo, al di là delle (poche) cose mature che dicono e delle (molte) cazzate che li impacciano: essi sono una generazione. Se riusciranno a riconoscersi, a esprimere un “partito” nei prossimi due o tre anni, l'Italia sarà salva. Altrimenti resterà il rimpianto. *** L'Italia, in questi vent'anni, è stata attraversata da due cose. La prima, la ristrutturazione del sistema economico da industriale a finanziario. La seconda, il passaggio da patologia a fisiologia delle sue componenti mafiose. Le due cose hanno relazione fra loro. Hanno prodotto, fra l'altro, la “seconda repubblica” (in mano non ai politici, ma agli imprenditori), la fine del lavoro (sostituito dal precariato), l'eliminazione della proprietà pubblica (privatizzato tutto, fino alla scuola), l'uscita dall'Occidente (Libia, Russia) e ovviamente da Keynes. Il punto in tutte queste cose s'intersecano, quello su cui bisogna avere le idee chiare e chieder conto, è la Fiat. Che cosa ne pensa Beppe Grillo (e il suo – non innocente – cervello politico, Casaleggio Associati) dell'abolizione del sindacato? E Bersani (e i giovani di Bersani) da che parte starà, prima o poi, con la Cgil o con Fassino? Nella città precaria che è Napoli, De Magistris cercherà alleati a Torino o si barricherà là dentro? Vendola impernierà la sua strategia sugli operai o continuerà a farne solo un caso umano? I “comunisti” riusciranno a ripercepire la lotta di classe, a capire che la falcemartello, per gli edili di Roma (che sono quasi tutti rumeni) era il simbolo sul berretto dei poliziotti rumeni? Da queste domande dipende tutto. Non dalle risposte che verranno date (saranno, di necessità, ambigue e lente) ma da chi le farà. Se le faranno i giovani, e in concordanza fra loro, trasversalmente, allora il “partito” loro nascerà bene. Tutti i “partiti” storici – che solo raramente hanno un nome – nascono infatti molto più dalle buone domande che dalle risposte. *** Cos'abbiamo in comune, oltre a Berlusconi? Che cosa tutti noi abbiamo fatto, nei momenti migliori, senza sostanziali differenze? Che cosa potrebbe unirci, noi della nuova repubblica, come nella prima ci unì la Resistenza antifascista e il suo ricordo? Risposta: l'antimafia. E' il movimento antimafia il filo rosso, comune a tutti noi, di questi due decenni. Fra ingenuità, goffaggini, e anche qualche salotto e qualche arroganza (ma anche l'antifascismo repubblicano ne ebbe) esso è nel suo complesso una storia giovane, sana nei suoi fondamenti e persino nei suoi errori. Bisogna votare subito. La Santanchè e la Lega sono minoritari nel Paese. Vincere i referendum, e poi da Napolitano a chiedere elezioni. Bisogna votare uniti. Al referendum è facile. Anche le elezioni politiche, dobbiamo trasformarle in referendum. Una lista unitaria, antimafia e antiprecariato, con un candidato unico di immenso prestigio e chiarezza, un Pertini. (Ucuntu sta uscendo in ritardo per mia colpa. Ma utilizzatelo tutti, è la vostra voce) 20 maggio 2011 Roberto Morrione UNO DI NOI Giornalista e compagno. Giornalista perché serviva onestamente il suo pubblico, dandogli le notizie. "Compagno" perché era della vecchia Italia povera e popolare. In Rai (aveva cominciato con Enzo Biagi) fu l'unico a dare l'intervista di Borsellino su Berlusconi, e a darla subito, mentre gli altri ancora si chiedevano se fosse compatibile, dare una tale intervista, con la carriera. Professionista fino alla fine, soprattutto alla fine. Quando finì con la Rai non perse tempo con salotti tv e nostalgie ma si buttò a fondare un nuovo giornale: Libera informazione, il giornale di Libera, non su carta naturalmente ma sulla Rete. Lo riempì di ragazzi, alla Giuseppe Fava. Molti venivano dal Rita Express, il movimento nord-sud che rinnovò l'antimafia (e la politica) a metà del decennio; nessuno ebbe la lucidità di prenderlo sul serio, oltre lui. Ne fu maestro fedele e rigoroso, senza demagogie. Ne fece una redazione agguerrita e aggressiva, pronta a fiondarsi appertutto, su ogni verità da raccontare. Tutti gli uomini muoiono, prima o poi, è la nostra vita. Alcuni, vip e notabili, lasciano poco e niente: cerimonie e rumori. Altri, che credevano in altro, lasciano cose fatte, affetti, esseri umani, e buon lavoro da continuare. Roberto continua così, nei giovani che lo seguirono, e che sono nostri colleghi. Hai fatto bene ad aver fiducia in loro. Il lavoro sarà continuato. Riccardo Orioles, I Siciliani 7 giugno 2011 QUESTO REFERENDUM E' UN'ELEZIONE Napoli, Milano, referendum: tre fasi della stessa tornata elettorale Le maggiori società industriali quotate in Borsa a Milano hanno chiuso il 2010 (analisi R&S-Sole24Ore) con un aumento medio del margine operativo netto del 19 per cento, e dei profitti del 29 per cento. Il margine della Fiat sale del 108 per cento ma la sua quota di mercato è scesa, in Italia, del 30 per cento. Marchionne, in altre parole, ha perso un terzo delle vendite, ma ha raddoppiato i profitti. Ecco: il dato della politica italiana è tutto qua. Questi diciassette anni non sono stati gli anni di Berlusconi (anche), sono stati principalmente gli anni degli imprenditori. Elegantemente col centrosinistra, rozzamente con le varie destre, la Confindustria ha gestito il Paese ininterrottamente e a modo suo. L'industria (che rende meno della finanza) se n'è andata; il precariato ha sostituito il lavoro; è stato privatizzato, cioè regalato a privati, tutto il privatizzabile tranne (finora) i carabinieri. Le principali catastrofi sono state portate a compimento dalla destra ma cominciate, con le migliori intenzioni, da noialtri: la “riforma” dell'università comincia negli anni '90, e allora non c'era ancora la Gelmini. *** Gli italiani, a Milano e a Napoli, hanno votato (o non sono andati a votare, come hanno fatto molti elettori di destra) soprattutto su questo. Hanno votato bene, perché i partiti e i politici non sono tutti uguali; c'è una gran differenza fra un teppista alla Bossi e un brav'uomo come Bersani. Ma di Fiat, nel complesso, non s'è parlato. C'è nostalgia per la Repubblica, per tempi di minore ferocia e più civili; gli operai vanno trattati meglio, la mafia è una cosa brutta, l'Italia deve restare unita, non bisogna portarsi a letto le ragazzine. Ma di precarietà e di fabbrica s'è parlato – concretamente – molto poco. A tutt'oggi nessuno ha preso concretamente posizione contro Marchionne e se qualcuno parlasse di nazionalizzare la Fiat (cosa che in Germania sarebbe stata probabilmente presa in seria considerazione) verrebbe preso per matto o peggio per comunista. Eppure, quello è il cuore di tutto. La Fiat, nel giro di pochi mesi, ha completamente distrutto il sistema industriale italiano, sia nei diritti che nella produzione, e il suo esempio è stato entusiasticamente seguito da quasi tutti. La Bialetti, poche settimane fa, ha delocalizzato non più in Cina (cosa ormai ”normale”) ma in India: un'altra ferita che si apre, e che verrà allargata. Secondo una della principali società di consulenza finanziaria,l'Italia sarà superata economicamente dall'India prima del 2030; e poco dopo dal Brasile, e molto prima dalla Cina. Con le nostre industrie, col nostro knowhow, con i nostri capitali. Noi ci accaniamo contro gli immigrati – falso problema – e mostriamo molta e nuova ferocia in questo; ma fra una generazione o meno, continuando così, sui gommoni rischiamo di finirci noi. *** Questo referendum è una elezione politica, come le amministrative di Napoli e Milano; è inutile nascondere la realtà con un dito. Si vota pro o contro il governo, in primo luogo; si vota - ma solo indirettamente, per ora – pro o contro il mantenimento del catastrofico sistema attuale, che non è più capitalismo ma qualche altra cosa. Sarà una decisione difficile, e per prenderla ci vorranno degli anni; ma il processo, a mio parere, è già cominciato e la gente, anche se non ha le parole, comincia ad averne la percezione e il sentimento. La sinistra, per caso (per amore o per forza, a Napoli e a Milano) ha raggiunto un assetto che a me sembra vincente, pur nella sua ambiguità sostanziale. Il Pd fa da bastoncino dello zucchero filato, e attorno gli si attorciglia la società: quella di Vendola, quella di Di Pietro, quella di Beppe Grillo (sì, anche quella, alla base). Tutti questi pezzi sono vari e rozzamente rappresentati (il personalismo dei tre suddetti, da solo, meriterebbe lunghe meditazioni) ma nel complesso funzionano. Bersani, persona seria e non gonfia di sé come Veltroni, ha capito il gioco e si lascia portare. Questo significa la fine di Berlusconi, lo sfascio del suo asse sociale (nessun candidato leghista, a Milano, ha preso più di qualche decine di preferenze, tranne un paio di caporioni) e l'individuazione plateale, non nascondibile, di una maggioranza nuova. Quest'altra maggioranza in parte è di sinistra, in parte ha semplicemente paura. Su questo giocherà la Confindustria per fare il suo governo (probabilmente Tremonti), che sarà “d'unità nazionale”. Ma anche Badoglio lo era. Non durò a lungo perché la sinistra d'allora seppe mettere insieme la massima unità e “moderazione” ideologica con la massima radicalità nella lotta (“non aspettiamo più, diamo addosso ai tedeschi”). Allora la sinistra era semplice, concentrata quasi tutta in un solo (rudimentale) partito. La sinistra di ora (oh, se volete chiamarla in qualche altro modo fate pure, è lo stesso) è complicata, è profonda, è difficile, e soprattutto non avrà mai più un unico partito – per fortuna. In compenso, ha l'internet. E questo dovrebbe bastare. *** Fiat o non-Fiat, mafia o non-mafia, non sono le fantasie di qualcuno, sono le domande profonde a cui ciascuno di noi gente comune deve ormai rispondere, nel corso della sua vita quotidiana. La politica è sempre nata da queste domande, in realtà. E così alla fine succederà anche ora. 22 giugno 2011 RIVOLUSSIONE… Cos'è una rivoluzione, oggigiorno? Perché è nonviolenta, perché si può fare Giusto, ha vinto internet. Ormai è banale dirlo ma queste tre elezioni (Milano, Napoli e i referendum) sono la data di nascita del “partito” nuovo, della nuova organizzazione di massa. Il “L'avevo detto” è irrefrenabile (penso al San Libero di dieci anni fa), ma in fondo è sciocco: non ci voleva granché per capire che cosa si stava preparando, bastava tenersi fuori dal ceto politico riconosciuto e, pagandone i prezzi, ragionare. Hanno perso gli imprenditori. E' dalla “Milano da bere”, dunque dagli anni Ottanta, che la politica si ufficializza sempre più in un pensiero: il Paese è un'azienda, le aziende lo compongono, e tutto il resto è contorno. Neanche il pensiero di Mao era stato così categorico e indiscusso. I nuovi imprenditori italiani, in buona parte, sono stati – parlano i conti – la zavorra dell'economia italiana. Hanno rosicchiato un'industria faticosamente costruita negli anni duri, hanno mandato all'estero macchine e mercati, ci hanno trasformato - per pura avidità, senza accorgersene – un dignitoso paese industriale in un pastrocchio indefinibile fra postsovietico e terzo mondo. Le magnifiche sorti e progressive. Abbiamo sfiorato il nazismo, in questi anni, e se ne leggeranno le cronache, anni dopo di noi, con un senso d'orrore. *** In questo disastro, creato dai possidentes, imposto a colpi di tv e mafia dalla destra e vaselinato dai leghisti, le colpe della sinistra sono tremende. Il medioevo sociale di Berlusconi - precariato, privatizzazioni selvagge, università, scuola – è cominciato col centrosinistra, che di queste “riforme” andava fiero e orgoglioso. Solo quando la gestione è passata alla destra, e le poche carote sono state sostituite dai bastoni, il centrosinistra (non tutto) ha cominciato ad accorgersi del danno fatto. La privatizzazione dell'acqua, ad esempio, nacque anche in Sicilia, con Bianco il “riformista”, e venne portata avanti da una lobby precisa dentro il Pds. Adesso questo è finito, almeno ora. Bersani si è impegnato onestamente sui referendum, ha sostenuto a spada tratta posizioni che due anni fa avrebbero spaccato il partito, si è dimostrato coi suoi paciosi “ohè ragassi” un leader molto più serio e affidabile dei magniloquenti e catastrofici Veltroni e D'Alema. Ma anche lui non osa prendere posizione sulla Fiat (qui ci si spaccherebbe davvero, con un Fassino che sta a Marchionne come una volta Cossutta a Breznev), persino dire “stiamo con gli operai” è troppo pericoloso, in un partito nato esattamente dagli operai della Fiat, cent'anni fa. E va bene. Inutile piangere sul latte versato: meglio pensare che la sinistra ufficiale in questo momento è la meno peggio che si vede da molti anni, con ali ben distinte fra loro ma non nemiche, con personalismi assai forti (Vendola, Di Pietro, Grillo) ma tutto sommato controllabili, con una dura opposizione al governo attuale - non al sistema che l'ha prodotto - e con la vaga sensazione che forse privatizzazioni e precariato hanno qualche piccolo difetto. Va bene, non si può chiedere troppo dalla vita: questo può darci oggi la “politica”, ed è già tanto. *** Al resto, dobbiamo pensarci noi, con altri mezzi. Quali? Ohè ragassi, ma la rivolussione naturalmente! Aaaargh! Nel duemila e passa! Queste parole orribili! Queste... queste cose selvagge e sanguinolente! Queste cose impossibili, fuori dal tempo! Momento. Le rivoluzioni nel duemila si possono fare, e si fanno benissimo difatti. Vedi Egitto, vedi Tunisia e un pochino forse anche Milano. Le rivoluzioni oggi possono essere nonviolente (debbono esserlo, perché lo zar non ha più i cosacchi ma le televisioni) e non sono meno rivoluzionarie per questo (chiedetelo a Obama). Rivoluzione vuol dire uscire coscientemente dal vecchio sistema e organizzarsi direttamente alla base, con sistemi nuovi. Discutere ma fare anche eventi di massa. Quali sono le bastiglie oggi? I palazzi d'inverno? Non hanno mura e cannoni, ma ci sono lo stesso; non più in una singola piazza, ma diffusi. Quella dozzina di liceali che organizza la lotta per l'acqua, in un paesino della Sicilia, e solo dopo si rivolge (se si rivolge) ai partiti, è rivoluzionaria; e alla fine vince. Quel gruppo di studenti a Milano, che parla di informazione e, saltando i decenni, riparte da Giuseppe Fava, è rivoluzionario; altro che Vespa e Santoro.Quella ragazza sveglia, frequentatrice dei Siciliani anni '90, che dopo anni organizza il primo sciopero degli immigrati, è rivoluzionaria. Si unissero tutte queste forze fra loro, facessero corpo insieme, sprizzassero scintille: che cosa sarebbe questo, se non una rivoluzione? *** Cìè un unico ostacolo serio, ed è la nostra insufficienza. Insufficienza culturale, non di forze. Stiamo perdendo tempo, stiamo perdendo occasioni. Ricordate com'è cresciuto Berlusconi? Con un progresso tecnico, l'emittenza locale. E' là che - per colpa nostra - ci ha battuto. Eravamo molto più forti di lui, negli anni Settanta, in questo campo. Duecentocinquantatrè radio libere di sinistra (una era quella di Peppino) e mezza dozzina di tv. Queste sono state date via perché tanto c'era già il nostro spazio Rai. Quelle non riuscivano mai a coordinarsi fra loro, neanche per un momento, e passavano il tempo a giocare a “rradio-rrossa-alternativa”. Intanto Berlusconi macinava. E' quel che sta succedendo oggigiorno. Abbiamo scoperto l'internet, ci abbiamo galoppato come i Sioux delle praterie. Ma gli altri lo colonizzano, in compagnie e reggimenti e con l'artiglieria. E noi continuiamo a galoppare, ognuno nella sua valle, allegramente. *** Su che cosa sarà il prossimo referendum (è ovvio che bisogna farlo)? Sul precariato, per caso? Ci saranno elezioni? Quando ci faranno votare? L'accordo Confindustria-Tremonti sostituirà Berlusconi, o ci sarà spazio per una soluzione “milanese”? La Lega sparerà, o si limiterà alle parole? Noi saremo un “partito”, o solo un'occasionale massa elettorale? Quante domande, che un mese fa non esistevano... Il mondo va assai di fretta di questi tempi. Non restiamo a guardare. 6 luglio 2011 BUONE VACANZE, ANZI NO C'è tanto da fare, proprio ora… Spero che siate in vacanza, tutti meno quelli che portano avanti siti, blog, movimenti e roba varia. Siete infatti l'unica forza concreta di questo paese. I politici, per quanto benintenzionati, sono dilettanti: Di Pietro che fa i capricci, Vendola sì-e-no, Veltroni che vuole i referendum ma nel Pd, Grillo che oggi è Mao e domani Fantozzi... I cattivi, purtroppo, in vacanza non ci vanno mai. Noi abbiamo dimenticato il G8, ma loro no, e infatti ci riprovano a ogni occasione. Noi non riusciamo a fare una rete unita, e loro appena possono ce la strozzano coi bavagli. Noi ci accapigliamo sul sesso dei diavoli e loro, ridendo e scherzando, preparano golpe alla vaselina. Gli operai, in vacanza ci vanno poco e male. Quelli più fortunati (i polentoni, i terroni al nord e tutti gli altri “perbene”) ci vanno col cuore in gola, non sapendo se ritroveranno la fabbrica (svanita in Cina, in India, o semplicemente in cocaina) e se dovranno lavorare il doppio o solo qualche ora in più. Per tutti gli altri – callcenterine romane, neri, terroni al sud, muratori rumeni – la parola “vacanza” è una di quelle a cui anche solo pensare è pericoloso, come “pensione”, “contratto”, “orario” o “avvenire”. *** Ecco, è un'estate così. Ma non stava vincendo il centro sinistra? Ma Berlusconi non stava andando a ramengo? Sì, nei giornali è così. Ma nella realtà non ci sono solo la destra e la (centro)sinistra, c'è anche chi sta sopra e chi sta sotto. Lo scontro vero è quello, anche se è maleducato parlarne. Ma tutto ciò che succede, Berlusconi o Bersani, lega o tricolore, ha un senso solo se chi sta sotto comincia a salire un poco, e questo non lo decide la “politica” ma altre cose. I guai in famiglia non mancano, siamo sinceri. C'è lite fra Cgil e Fiom, cioè fra il sindacato “politico” e quello degli operai organizzati. Noi – fra amici si parla chiaro – diciamo che ha ragione la Fiom, pane al pane. Fa male la Camusso a trattare su cose senza le quali né gli operai né il Paese possono campare. Ma non di tradimento si tratta, bensì di errore: uno dei tanti sbagli in buonafede di cui è costellato il cammino (né sarà l'ultimo) dei lavoratori. Non è un pranzo di gala, diceva il tale. L'importante è che almeno qualcuno abbia le idee chiare e non si lasci scoraggiare e abbia pazienza, e poi la dura realtà – l'unica maestra seria – farà il suo lavoro. Ricordo quell'operaio cinquantenne, si chiamava Bastiano, il più diffidente della fabbrica. “Sciupirari? e picchì? cca concludemu? 'A fuorza, simpri iddi ci l'hannu!”. Eppure, quando occupammo la fabbrica, era davanti al cancello, in prima fila: “Non si campa cchiù! Che vita è? Pissu ppi pissu, facemu a luttacontinua tutt'insemi e quannu finisci si cunta!”. *** Nella crisi Marchionne (su cui insistiamo moltissimo perché è il centro di tutto, sia della “politica” che della realtà vera) c'è stato un episodio trascurato dai media, ed anche dalla maggior parte dei blog indipendenti. E' stato quando gli operai della Fiat serba, quella che doveva far da crumira a Mirafiori, a un certo punto propongono ai torinesi: “Bene, allora incontriamoci e mettiamoci d'accordo. Magari organizziamo qualcosa insieme. Visto che il padrone è lo stesso...” Non è che siano stati presi molto sul serio. Normale, nell'ottocento (siamo nell'ottocento, lo sapete). Normale ma non scoraggiante – all'inizio le cose vanno piano. Fatto sta che per la prima volta è stata messa sul tavolo, elementare ingenuo e tutto quel che volete, l'idea di uno sciopero multinazionale. E' un'idea pericolosa, specie se messa insieme (e qualche operaio ci penserà, ci puoi giurare) con l'altra di organizzarsi in rete (Tunisia, Milano) per fare cose “politiche”, più o meno moderate. Io dico che andrà così, prima o poi. “Uno inventa la tipografia e quegli zozzoni di operai dopo un po' ne approfittano per farsi i volantini. Si figuri con internet, signora mia”. *** Succedono tante cose, nel mio paese. Al Nord i volontari cattolici spazzano via la Lega. A Parma i cittadini che due anni fa lodavano i vigili che picchiavano i negri ora linciano il sindaco di cui hanno scoperto, poveri innocenti, che è un po' ladrone. A Napoli, la città più “qualunquista” d'Italia (giusto, signora mia?), dànno a De Magistris esattamente gli stessi voli di trent'anni fa a Bassolino: traditi ma non arresi, non rassegnati affatto al “non c'è nulla da fare”. A Roma “consulitur”, ma Sagunto non si lascia espugnare affatto. Questo è il clima. *** Tutto questo si unisce in un concetto semplice: facciamo rete. Dappertutto, e senza etichette. Abbiamo un modello vincente, è l'antimafia. Senza etichette e chiacchiere (e quando ne ha di solito sono dannose), è il movimento-locomotiva di tutti gli altri. Vi serve un programma politico? Tre parole: Dalla Chiesa e Impastato. E poi non mollate i siti, continuate a remare. Certo, ciascuno di noi è moralmente giustificato quando non ce la fa più e molla il remo. Tutto così pesante, nessuno a dirti bravo. Eppure dobbiamo continuare. Non siamo più stretti in difesa ma stiamo costruendo - ora - l'alternativa. *** Io dico “siti” perché sono vecchio e mi pare di dire chissà che modernità. Ma in realtà le cose sono molto più avanti, e a portata di mano. Per esempio: c'è la tv guarda-e-dormi che sta morendo, per colpa non di Santoro ma di i programmi divertenti su YouTube (“Freaks” ha preso milioni di accessi, e con quattro soldi). C'è la destra che è morta, e sono i gruppi FB che l'hanno seppellita. C'è il centrosinistra che non osa essere troppo di destra (e Dio sa se vorrebbe) per paura di restar solo. C'è Repubblica che migra sempre più da carta a rete (sempre restando saldamente in mano a un padrone) applicando i suoi soldi alle nostre idee. Ma soldi non ce ne vogliono poi tanti. E noi stiamo qui a fare (solo) il nostro sito? (PS: A Catania Tony Zermo ha appena benedetto il nuovo sindaco, un giovane “di sinistra” assai ragionevole. Il suo rivale – o alleato, non s'è capito bene – è un giovane “di destra” altrettanto ragionevole. Danno interviste insieme, fraternamente. Entrambi sono amici delle costruzioni ragionevoli (corso Martiri, ad esempio), entrambi ragionevolmente ben trattati da Ciancio. Auguri...) 19 luglio 2011 PERCHÉ NON TUTTI INSIEME? RETE, TECNOLOGIE E UNITÀ “Aiutati che Dio t'aiuta”. E certo non ci aiuteranno, in Sicilia, gli imprenditori o i rettori... Omen nomen: si chiamava Recca l'editore che licenziò Giuseppe Fava (e poi me) dal Giornale del Sud, giusto trent'anni fa, in una bella estate catanese come questa. Era un brav'uomo, tutto sommato; ma aveva a che fare con gli uomini di Graci. Anche il Recca di adesso, quello che come magnifico rettore ha imbavagliato d'autorità i suoi studenti sarà una brava persona, sicuramente; ma “il coraggio, monsignore, uno non se lo può dare”; e nel caso del Recca contemporaneo non ce ne vorrebbe di meno, perché in mancanza d'un Graci qua c'è da fare i conti con Ciancio; che è sempre un bell'affare. Ma lasciamo andare. Annotiamo rapidamente che l'imbavagliata di Recca è deplorevole non solo per il pessimo esempio ai discenti in tema di democrazia, ma anche per la caduta d'immagine dell'università a lui affidata. Che già prima non mancava di suscitare pettegolezzi sull'illustre cattedratico famoso per aver pubblicato un libro di assoluzione della mafia subito dopo l'assassinio di Fava, o su quello - non meno illustre - sputtanato in tv mentre cercava di “esaminare” a modo suo una studentessa. Adesso l'università di Catania non ha bisogno d'altro: dopo don Corleone e don Giovanni, può mettere don Basilio fra i suoi luminari. In questo declassamento dell'Ateneo Recca peraltro non è solo, facendogli buona compagnia i colleghi donabbondi (la quasi totalità del corpo accademico) che non hanno ritenuto di esprimersi pubblicamente e personalmente su un episodio che sarebbe stato assolutamente normale all'università dell'Uzbekistan o del Kalahari. Catania, come sapete, ha avuto un giornalista (che era poi siracusano e non catanese) assassinato dai padroni della città. Ne ha avuto alcuni altri minacciati, più o meno pubblicamente. Ne ha avuti non uno o due, ma decine e decine emarginati, ridotti al lastrico, privati dei loro giornali, strozzati in tutti i modi; costretti a lasciar la Sicilia o diversamente a accettare - prezzo di libertà - una vita di durissimi sacrifici. Non parlo per sentito dire. Per quasi trent'anni ho dovuto reclutare e gettare nella fornace giovani coraggiosissimi e bravi, ai quali sapevo benissimo di non poter promettere altro - finché fossero rimasti a Catania che onore e stenti. Un vero genocidio professionale, di cui non si ama parlare: logica conseguenza del monopolio, spietatamente esercitato, che nessuno seriamente contrasta se non qualche veterano superstite e spesso, grazie a Dio, una generazione di ragazzi. La forza dell'antimafia catanese, quanto all'informazione, è insomma tutta di volontari e poveri, e lo è sempre stata. Né sulle istituzioni “colte” qui si può contare (il caso Step1 ne è la prova), né su imprenditori privati, ora come ora; anche quelli che hanno deciso di non star più con la mafia, quando si tratta d'informazione preferiscono quella tranquilla e complice, quella ufficiale. Giornali al di fuori di Ciancio, editori illuminati? Chiacchiere, e fin troppo interessate. S'è visto nel caso Sudpress, con l'editore “illuminato” risultato alla fine un politicante qualsiasi, con interessi concretissimi e grevi. *** Ma allora non c'è niente da fare? Ce n'è moltissimo invece, e da fare in fretta. Abbiamo un'occasione irripetibile, la seconda generazione delle nuove tecnologie (ebook, Pdf, iPad, kindle) che acquistano sempre più terreno, e sono relativamente economiche, o almeno non comportano la maggior parte dei costi vivi, tipografici. Sostituiranno la carta stampata? No: ne sostituiranno solo una parte. Ma s'integreranno perfettamente, in un sistema misto e articolato, con la restante parte di essa. Staranno sul mercato? Ancora no (in Italia: ma nei paesi anglosassoni cominciano già a superare la carta stampata), ma ci staranno benissimo fra due o tre anni, man mano che si allargheranno i target e si svilupperanno i sistemi (vedi Ucuntu 113) sistemi di pagamento elettronici. Siamo in grado di farli? Da soli, noi di Ucuntu, no; ma tutti insieme sì, benissimo e ad alto livello. Non sono le competenze che ci mancano - ci mancano l'organizzazione e i quattrini. Di questi, nel settore elettronico, non ce ne vogliono ora poi tanti; e possiamo tener duro da volontari ancora un anno. E un'organizzazione seria e professionale si può fare benissimo (non sono le esperienze che ci mancano) se ci decidiamo a lavorare tutti insieme, senza mezze misure e senza riserve. Siamo ripetitivi, d'accordo. Ma il progetto, l'unico che può salvarci come giornalisti liberi, è questo. Tecnologie e unità. Rete e giornali elettronici. Un giro di prodotti modernissimi ma anche (dove servono), di “vecchi” giornali di quartiere. E poi tutti insieme, a maturità conseguita, sul mercato. Non è una faccenda semplice, non lo è professionalmente ma non lo è soprattutto sul piano diciamo così “politico”. In altre parti d'Italia si può giocare con le parole, essere educati e gentili. Qui, per essere appena appena dei conservatori perbene, bisogna essere subito dei “pazzi scatenati” e degli “estremisti”, o almeno acconciarsi a venir trattati come tali. Qui non ci sono spazi di mediazione con il potere, ché qui il potere è Sistema. E qui il nostro mestiere diventa una cosa maledettamente complicata. Ma facciamo un esempio, tanto per capirci. Ci sono due giudici in lizza per un posto in Procura. Dei due, uno è platealmente governativo, e non può ispirare fiducia a chiunque non sia del suo partito. L'altro, meno estremista, ha tuttavia la disgrazia di essersi fatto beccare a cena con un mafioso. Senza grida, senza urla, senza pretese di scoop e senza mai ingiuriare nessuno, noi e pochi altri (all'inizio, fra i colleghi, solo Pino Finocchiaro e Giuseppe Giustolisi) abbiamo portato avanti l'idea che ci sembrava più logica: scegliere un terzo giudice, fuori dalla città. Apriti cielo! Siamo “cattivi maestri”, siamo “amici di Ciancio”, siamo “intellettuali fuori dalla realtà”. Quel che è peggio, sono stati violentemente aggrediti i ragazzi del Coordinamento Fava che ci avevano ospitati (“antimafiosi da strapazzo”) e il vecchio giudice Scidà, che questa tesi portava avanti in solitudine da molti anni. Su di lui si sono accaniti in modo particolare. Alla fine, com'era ovvio, la logica ha avuto ragione. Un giudice “continentale”, non chiacchierato da nessuno, verrà molto probabilmente nominato. Gli stessi che prima difendevano (secondo le rispettive ideologie) questo o quel candidato, adesso si dichiarano d'accordissimo sul giudice “di fuori”. Tutti aderiscono a gara alla buona battaglia, ora che è quasi vinta. Va bene. Le novantanove pecorelle, il vitello grasso e così via. L'importante è che ora siamo tutti d'accordo, chi ci credeva da subito (e ne ha pagato i prezzi) e chi si è convinto dopo. *** Dopo queste esperienze (e tenendo conto che non solo di Procura si tratta, e che è già in agenda la madre di tutte le speculazioni edilizie catanesi, corso Martiri), a un poveraccio vien voglia di mandare tutti quanti a quel paese, e di fidarsi d'ora in poi solo ed esclusivamente dei ragazzi. Da quelli di Step1 a quelli (che ora stanno organizzando il loro jamboree a Modica) del Clandestino, ai nostri di Lavori in corso, passando per Periferica e Cordai. Saremo insufficienti allo scopo, saremo “troppo giovani”, saremo anche buffi se volete , ma almeno abbiamo le idee chiare su chi comanda in Sicilia e sul perché deve smettere di comandare. “Quando i giochi si fanno duri - ricordate il collega Belushi? Gran bravo ragazzo, il Belushi - i duri cominciano a giocare”. Bene, noi ora cominciamo a giocare sul serio. Prima che finisca l'estate: lavori in corso. Alla prossima puntata. 2 agosto 2011 I PATRIZI, I PLEBEI E L'IMPERATORE PAZZO “Tremonti o Amato”, dicono i senatori... 1.647 emigranti sono morti nel Canale di Sicilia nei primi sette mesi del 2011. 5.962 dal 1994. Gli ultimi venticinque l'altro ieri, vicino a Lampedusa. Gli emigranti superstiti, dai campi di concentramento, protestano disperatamente da Ponte Galeria a Mineo, ma se ne sa quasi niente perché il governo ha vietato ai giornalisti di avvicinarsi ai campi. *** Una delle principali multinazionali del pianeta, la Foxcom (fabbrica gli Apple, i Dell, i Sony e gran parte degli altri giocattoli di massa) prevede di utilizzare nelle sue fabbriche novecentomila robot nei prossimi tre anni, facendo a meno di altrettanti operai. *** Continua la catastrofe della Fiat sotto Marchionne. 7,8 per cento di vendite in meno nell'ultimo mese. *** Colloqui banche-industrie-sindacati per un “governo tecnico” e un patto sociale. Repubblica azzarda i nomi dei “tecnici”: Mario Monti, Giuliano Amato o - il più probabile di tutti - Giulio Tremonti. Dopo l'imprenditore Berlusconi, avremo, a quanto pare, un altro governo degli imprenditori. *** Queste sarebbero le notizie. Il commento è scontato. La crisi italiana si risolverà (o cercheranno di risolverla) tutta dentro al Palazzo. Dunque, non sarà risolta. I quaranta milioni di italiani (di più, considerando anche gl'italiani senza identità di cui nessuno sa esattamente il numero, come per gli schiavi dell'antica Roma) che hanno pagato questi vent'anni di Berlusconi dell'imprenditore Berlusconi, e di tutti gli altri imprenditori che l'hanno appoggiato - non hanno voce in capitolo, non la debbono avere. Il prossimo Berlusconi starà un po' più attento con le donne, non racconterà barzellette idiote, sarà un po' meno ridicolo quando avrà a che fare con presidenti e regine e questo, nelle intenzioni del Palazzo, è più che sufficiente per noi poveracci. Contentiamoci. Giusto? *** Parlavamo di Roma, quella senza Cristi e senza illusioni: l'impero. Approfondiamo il paragone. Anche allora ogni tanto un imperatore impazziva, e i proprietari del mondo - i senatori, i patrizi, coloro che secondo se stessi erano Roma - ne avevano paura. A volte, di malavoglia, si ribellavano. “Forza, plebe! Seguiteci! Viva la libertà! Morte al tiranno!”. E i plebei, che da generazioni lottavano sordamente per le loro vite, li guardavano diffidenti: “Ma voi non eravate a corte con l'imperatore?”. “Tempi passati! Adesso pensiamo a Roma!”. E i plebei, non del tutto persuasi, li applaudivano. “Quale artista muore con me!” sospirava Nerone. E già i senatori litigavano sul prossimo imperatore e su quanti pretoriani e quanti gladiatori sarebbero stati necessari per tener buona la plebe in avvenire. *** L'impero alla fine cadde, perché non può durare un impero con troppo poca tecnologia e troppi schiavi. Ma questo i senatori non lo sapevano, e non gl'interessava saperlo. (Intanto, fra gli schiavi, si macinava qualcosa. Tutto un mondo diverso, né senatorio né imperiale. Un'altra cosa.) 16 agosto 2011 IL PROSSIMO PASSO, UN PO' PIÙ IN SU Ne parleremo a Modica, al “Clandestino” Stavolta non c'è nulla di complicato. Infuria la lotta di classe, col Capitale (direbbe quel tale) che picchia senza scrupoli i Lavoratori. In realtà le cose non stanno esattamente così: il “capitalismo” come l'abbiamo conosciuto non esiste praticamente più da una ventina d'anni (è diventato automatico, e incontrollabilmente non-umano), e sarebbe anche ora di trovargli un altro nome. Quanto ai lavoratori (di qualunque lavoro si tratti, alcuni assai strani), si sfruttano in buona parte da sé medesimi, anch'essi in automatico, senza saperlo. Marchionne non è un “padrone” (né lo è il compagno Chin-chi-lao della Commissione Industria del Partito comunista cinese, che sempre più gli somiglia), ed entrambi non comandano in quanto proprietari di qualcosa. Il computer su cui scrivo, infine, in parte è ancora una “merce” e in parte no; è merce l'hard-disk faticosamente e marxisticamente costruito dai bambini cinesi, ma non lo è affatto il bel design, che invece è un prodotto culturale, che però pesa - nel mercato moderno - per più della metà. Siamo insomma contemporaneamente nel 1810 e nel Tremila, e questo crea qualche problema nel capire le cose, abituati come siamo a ragionare seriamente solo ogni cent'anni (Marx, Keynes, Gandhi...) e per il resto a fare o resistenza o nostalgia. Sarebbe ora di rimetterci a lavorare di buzzo buono su queste cose, perciò se fra i nostri l'ettori c'è qualche piccolo Marx o Keynes potenziale (cosa niente affatto improbabile, con la cultura di massa e dell'internet che la spamma in giro dappertutto) lo prego di mettersi subito all'opera senza perder più tempo con la “politica” corrente, il Nintendo e gli altri giochi. *** Fine della parentesi. In Italia, distrutte le garenzie democratiche (e keynesiane, che erano inseparabili da esse) si va al muro contro muro, e prima ce ne rendiamo conto meglio è. Il fulcro non è Berlusconi ma Fiat. Quest'ultima è il prodotto più apertamente esplicito di un sistema che ormai comprende tranquillamente anche la mafia, in senso lato, ed ecco perché è così importante (a parte legalità ed etica, che pure sono i nostro software di fondo) la lotta antimafia, su cui si decide quasi tutto. Siamo all'altezza? No. Non parlo dell'antimafia mediatica (che pure qualche rara volta ha una sua funzione) ma proprio di noi, l'antimafia di base, quella che lavora ogni giorno, quella reale. Non riusciamo a “far politica” e a fare rete, non quanto occorre, e anzi in questi mesi, nel nostro piccolo mondo (che poi tanto piccino non è) i passi indietro sono stati più dei passi avanti. Non solo sul piano concreto, delle cose prodotte, dei “risultati”, ma proprio nello stato d'animo, nel nostro modo di essere, sempre più individualista e tribale e sempre meno modernamente e coscientemente coordinato. Non faccio esempi (per ora) per carità di tribù, ma credo che ci capiamo. Nella rete informale di Ucuntu, che è un buon esempio per capire tutto il resto, non c'è un solo nodo che funzioni veramente in rete; ciascuno fa quel che deve fare per sé, e rimanda al domani (o rimuove) le cose altrettanto importanti che dovremmo e potremmo fare insieme. Così non ce la facciamo, o meglio ci illuderemo di farcela ma resteremo in sostanza – per difetto di massa critica – sempre subalterni. Quando non avremo più un Berlusconi a tenerci insieme e dovremo affrontare, al posto suo, i gattopardi, verremo assorbiti da questi ultimi senza nemmeno accorgercene. Perché nel mondo moderno o si è rete o si è spettatori. Non c'è via di mezzo. *** Un'eccezione, nella geremiade di cui sopra, è rappresentata dai ragazzi di Liberainformazione, che affrontano con serietà e coraggio, e spirito unitario, la solitudine in cui li ha precipitati la scomparsa del loro maestro, Morrione. “Non siete soli in realtà, coordinate le forze” è stato l'insegnamento di Roberto, e avendolo compreso vanno avanti. Un'altra eccezione è quella dei ragazzi di Modica, del “Clandestino”. Non solo hanno continuato a sviluppare lo specifico lavoro della loro zona (questo lo fanno anche gli altri), ma hanno sempre cercato di tenersi in rete, di sapere quel che si faceva altrove, di non considerarsi autosufficienti e soli. Per questo il loro incontro è importante: è un modello per tutti, e va sottolineato. *** Modica, all'estremo Sud dimenticato, è il posto migliore - a questo punto per fare un annuncio importante, il salto di qualità a cui tendevamo in tutti questi anni. Da settembre si apre un capitolo nuovo. Ucuntu, Lavori in Corso, Casablanca e tutto il resto sono tappe utilissime di un viaggio che non è finito, che non si esaurisce in nessuna di esse e che anzi deve ancora toccare i suoi obiettivi più importanti. Insieme, in rete, come nei momenti più alti, più avanti ancora e più in rete ancora: a Modica, e dopo Modica, comincia un altro pezzo di strada. UN NUOVO GIORNALE, I SICILIANI Da Liberainformazione, il sito dei giovani giornalisti di Libera, fondato da Roberto Morrione: « Festival del giornalismo di Modica/ Tornano i Siciliani/ Due giudici, un sociologo e dei giornalisti per il giornale di Giuseppe Fava » «Trent’ anni fa venivo licenziato dal giornale per cui lavoravo e salutavo Pippo Fava ad un bar. Oggi sono qui con voi giovani. Abbiamo vinto noi, i mafiosi sono morti e sepolti. Ma c’è ancora molto da fare». Così il giornalista catanese Riccardo Orioles anticipava la notizia che è stata diffusa ieri a Modica, durante la terza edizione del "Festival del giornalismo": ritorna la storica rivista "I Siciliani". In queste ore Orioles ha sintetizzato in poche parole lo spirito di questo giornale: «I Siciliani hanno un solo direttore, Pippo Fava». La notizia era nell'aria da qualche mese. Adesso, con il sostegno del sociologo Nando Dalla Chiesa, il procuratore di Torino Giancarlo Caselli e il magistrato catanese Giambattista Scidà, questo progetto di vita è diventato realtà. D'altronde "I Siciliani" diretti da Pippo Fava, ucciso dalla mafia a Catania nel 1984, non hanno mai chiuso (davvero) i battenti. Da quell'esperienza è nato anche un laboratorio permanente di giornalismo, una scuola, coordinata da Orioles e animata da tantissimi giovani, tante donne (Graziella Proto, su tutte) che in questi anni ha continuato a editare, sotto diverse forme da "Casablanca" a "Ucuntu", ai tanti giornali di quartiere, quell'esperienza. Soprattutto sul web, prima di altri e più di altri. Raccontando Catania e le battaglie per i diritti nel resto del mondo. Adesso il ritorno de "I Siciliani" è una vittoria per tutti. Ma anche una sfida complessa. La notizia di questo ritorno editoriale è stata data a Modica dove è in corso la terza edizione del "Festival del Giornalismo" organizzata dalla redazione de "Il Clandestino", giornale di giovani siciliani che tanto ha in comune con quell'esperienza siciliana degli anni '80. Liberainformazione 30 agosto 2011 E' DI NUOVO IL MOMENTO DEI SICILIANI Disoccupati, imbavagliati, schiacciati da una ragnatela di interressi terrificanti. E nessuno ci aiuta, e non c'è niente da fare? Ma noi stessi dobbiamo aiutarci, volando alto. “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare...” Un ragazzo su tre, giù da noi, non ha lavoro. Sarebbe un primato europeo, se fossimoEuropa ancora. L'economia della mafia, almeno al Sud, è metà del totale. Il governo è fallito, ma non se ne vede a Palazzo uno nuovo. A Palazzo si pondera: Tremonti, Montezemolo, Badoglio, Solaro della Margherita? E intanto lo sfascio va avanti. I sindaci democratici – che pure il popolo ha imposto, senza problemi – non hanno, intorno al Palazzo, molti amici. Lo sciopero generale, extrema ratio, che i capi dei lavoratori hanno infine proclamato, dopo molte esitazioni, per dare l'allarme al Paese, non sembra, in tv e sui giornali, un argomento centrale. Contano di più le veline. *** Tv e giornali: quggiù in Sicilia, esemplarmente, son tutti di una stessa persona. Da quasi quarant'anni, ben prima di Berlusconi. Quaggiù, la tirannia è senza sfumature. Nel quartiere il mafioso, a Palazzo il politico “amico”, e nell'informazioneil bavaglio. Noi non ci rassegnamo, noi siciliani. Otto giornalisti uccisi. E tre generazioni di ragazzi, una di seguito all'altra, a fare informazione povera e antimafiosa. Cos'altro dobbiamo fare, noi siciliani? Che cosa ha il dovere di dire, in questa disperazione e in questo dramma, un antimafioso superstite, un “carusu di Fava” di sessant'anni? Può restarsene zitto? Oppure, standosi zitto, vi tradirebbe? *** Ah, non è che non si muovano, nell'Isola Felice, politici e baroni. Degl'intrighi di corte, delle alleanze, dei tradimenti, delle alleanze rovesciate, s'è perso il conto. Ogni tanto uno di loro s'affaccia al balcone e “Cittadini! - proclama – Ecco la politica nuova! La vera strada! La geniale politica che salverà il Regno!”. Noi villici, col naso all'aria, lo ascoltiamo pazienti. Ma tutte le geniali idee dei baroni, a quanto pare, hanno come preliminare condizione (non per avidità ci mancherebbe, ma solo nell'interesse del regno) la distribuzione fra loro baroni - siano essi borbonici o liberali - di seggiole, consulenze, assessorati e poltrone. *** “Va bene, giù da voi in Sicilia...”. Altro che Sicilia, amici miei. E' di New York che parliamo, quando parliamo di Catania o Palermo. Di New York, di Budapest, per non dire Milano o Ravenna. Esagero? Niente affatto. A New York già nel '96 c'era l'Invision della catanesissima Famiglia Rendo. Che a Budapest, un paio d'anni fa, possedeva ben due quotidiani. Di questo si parla quando si parla di Catania, non solo degli intrallazzi locali. *** E le tv, i giornali, l'informazione? Dopo trent'anni, mi sembra ancora di essere al punto di partenza, noi per la strada (e ora in internet) a fare i nostri fogli poveri e loro barricati là dentro a fare il notiziario di corte. Le ultime notizie sono le trattative fra De Benedetti e Ardizzone (cioè Ciancio) per acquisire progressivamente al gruppo De Benedetti il Giornale di Sicilia (cioè La Sicilia); e che in ogni caso Ciancio entro la fine dell'anno entrerebbe nella sua orbita abbandonando la vecchia agenzia di pubblicità Etas Kompass (Fiat) per abbracciare la Manzoni & C. (gruppo Repubblica). Sarà un bene, sarà un male, ma di certo noi villici non c'entriamo. E sappiamo dove va a finire ogni volta il cetriolo nella storia dell'ortolano *** Va bene. E ora? Ci lasciamo così,dopo aver chiacchierato? E no, santiddìo, stavolta no. Stavolta giochiamo grosso, puntiamo tutto quello che abbiamo. Il nome, la storia, la forza dei Siciliani. Amici, rimettiamo in campo i Siciliani. Loro hanno i killer, loro hanno i miliardi – ma noi, noi uomini di questa terra abbiamo i Siciliani. Scusate, fratelli miei, se tutto è stato così improvviso. Non vi offendete, ve ne prego, non voglio imporvi (io?) essere presuntuoso. Io sono semplicemente il compagno che s'è svegliato più presto degli altri stamattina, che ha visto l'orizzonte in fiamme e le anime che gridano dolore, e senza pensarci un momento (pensare, in questi casi, a che serve?) s'è messo a urlare “Allarme! Svegliamoci! Ci vogliono i Siciliani!”. Non è merito mio, e neanche mia colpa. Prendetevela con coloro (il vecchio pazzo Scidà, il sovversivo Caselli, quel giacobino ostinato di dalla Chiesa) che hanno svegliato me, per svegliare noi tutti. E neanche vi dico “Rifacciamo i Siciliani”. No. “Facciamo i Siciliani”. Facciamoli ora, come se uscissimo ora insieme dalla vecchia birreria. E non per nostalgia, ma per rabbia di oggi e per amore. E sarà dura, per noi vecchi, accettare che questo non sarà il nostro giornale. Sarà il giornale di Norma, di Agata, di Sonia, di Giorgio, di Morgana... Loro i ragazzi di oggi, loro i Siciliani. SCHEDA/ ALCUNE IDEE PER I SICILIANI 1) Un magazine di 120-180 pagine, mensile di fascia alta (come I Siciliani di Fava), che ne riprenda il ritmo e l'impostazione ma legandoli alle ultime tecnologie (oggetti interattivi in pagina, approfondimenti multimediali). 2) Un giornale cartaceo “da raccogliere e conservare”, ma parallelemente un e.-book di ultima generazione, mirato a tablet, Kindle e smartphone. 3) Struttura: tre format: - il servizio-inchiesta (non necessariamente “pesante” di 4-10 pagine; - l'intervento di una pagina; - l'inserto (fotografico, satirico o altro) di 8-12 pagine con grafica propria. 4): Contenuti: due segmenti distinti nel giornale: - il primo, servizi estesi e opinioni, affidato innanzitutto ai “vecchi” :-), i “regolari” dei Siciliani; - il secondo, inchieste e cronache dai territori (da Modica a Milano, passando per tutto il Paese) di giovanie gruppi di giovani locali. 5) Redazione. Nessuna per il primo anno. Quella che sarà emersa dalla pratica a partire dal secondo o terzo anno. All'inizio si tratta “solo” di produrre duecento ottime pagine al mese e basta un buon segretario di redazione. I suoi compiti? Ricevere e montare i pezzi dei “vecchi”; garantire il controllo di qualita sui pezzi dei “giovani” secondo il buon vecchio metodo delle tre riscritture; non intervenire, in entrambi i casi, sui contenuti. 6) Organizzazione. Un palinsesto coordinato in rete, con una o due riunioni fisiche ogni mese. Pagine montate con tecnologia Ucuntu (odt invece di programmi dedicati) quindi spesso gestibili direttamente dall'autore, con riduzione drastica di tempi e carichi di lavorazione. 7) Prodotti: - entro sei mesi: il mensile (cartaceo) “I Siciliani”, l'e-book parallelo “I Siciliani”; il sito dei Siciliani; - dall'autunno 2012: e-book e altri elettronici di seconda generazione su vari temi e con diversi format (libreria elettronica); - quando e se Dio vorrà: cartacei d'altro genere; - sempre: sponsorizzazione col marchio Siciliani delle migliori testate “giovani”, su carta o web (esempi: Stampoantimafioso.it, Il Clandestino), una piccola rete informale che continuamente produca materiali, idee e persone; - unità coi giovani di Liberainformazione ; 8) Nessuna redazione centrale. Sedi locali, col tempo, in diverse città (Milano, Bologna, Roma, Palermo e Catania) appoggiandoci a realtà amiche esistenti e puntando sullo spirito d'iniziativa di ogni singolo gruppo. 8) Soldi. Ne servono pochi per la fase ebook. Ne serviranno almeno 60mila per il cartaceo . 9) Stipendi. Il lavoro sarà volontario, nel primo anno e fino alla fase del mensile inclusa. Piccoli rimborsi quando possibile, in particolare agli specialisti tecnici (il nucleo informatico sta già lavorando al suo settore). Punteremo moltissimo, dal secondo anno, sul mercato elettronico con tutte le sue peculiarità. 10) Nucleo affidato a pochi personaggi, esterni al vecchio gruppo ma che godano la fiducia di tutti, di altissimo prestigio e al di sopra di ogni anche vago sospetto di parte. Scidà, Caselli, dalla Chiesa possiedono questi requisiti. Ad essi aggiungeremmo due antimafiosi - un “nordico” e un siciliano :-) - non personaggi mediatici e non primedonne ma seri e costanti militanti della società civile. Il professor Franco Cazzola di Firenze e Giovanni Caruso di Catania. 11) Scadenze: l'ebook potrebbe essere in rete il 22 novembre; il cartaceo in edicola il 5 febbraio. 12) L'anima. I Siciliani di Giuseppe Fava. “I cavalieri dell'apocalisse mafiosa” e “Le donne siciliane e l'amore”, alla pari. Non un semplice giornale “antimafia” o “d'inchiesta” o d'investigazione, ma un condensato felice di impegno civile, di società viva e di cultura. La vera sfida è questa e non è detto che ce la faremo. Ma ci proveremo, umilmente e con determinazione. 4 settembre 2011 PENATI FACCI SOGNARE Gli interventi di Nando sul caso Penati - sul fatto Quotidiano del 2 settembre - sono "esemplari" (e vedremo avanti il senso di questa parola") per due motivi: 1 Si spingono lucidamente al fondo della questione. Penati non è una patologia, è una fisiologia. Non richiede indignazione ma politica. Non genericamente da parte dei "politici" ma dalle struttura di base. 2 Non cede, neanche per un attimo, all''"indignazione". Ragiona pacatamente, a voce piana. Quanto di più lontano possibile dalla terza disgrazia d'Italia, il beppegrillismo. Dico "esemplari" non per lodarlo (non ci si loda fra gente seria) ma proprio perché è un esempio. Noi, qui nel blog e poi nell'antimafia e poi nella sinistra e infine nella società civile, noi siamo lontanissimi da questo esempio. Gridiamo, ci appassioniamo, applaudiamo commossi, campiamo sopra slogan e emozioni - ma non facciamo politica, non al giusto livello. Ho qui "L'antimafia difficile" una dozzina di interventi (stampati dal centro Impastato) di militanti antimafiosi del 1989. Che serietà, che freddezza, che assenza totale e volontaria di appelli al sentimento e di grandi parole. Illuminismo militante, non emozioni. Questo s'è perso quasi completamente, magari per motivi "buoni", ma era importante. Era una cosa utile, e ora ci manca. Infine. E' stato con meraviglia (my fault) che ho constatato quest'altissimo livello "professionale" di Nando "politicien", dopo vent'anni. Possibile che debba restare qui al chiuso, nella nostra scuola? E' come se a un certo punto Moro si fosse limitato alla formazione della Fuci o Berlinguer a tenere i corsi alle Frattocchie. Noi abbiamo bisogno di politici, e ne abbiamo bisogno ora. Aggiungerei (ma non lo faccio per non spaventarvi) che abbiamo anche bisogno di un "partito". Da costruire, certo, e non un partito. Potrei darvi un modello preciso, ma qui non solo vi spaventereste ma mi caccereste a sassate :-). Perciò me ne sto zitto e ve lo trasmetto solo per telepatia. Ma c'intendiamo. *** Quanti voti ci costò il "Consorte facci sognare", alle elezioni del 2006? Centomila, duecentomila, un milione? Fatto sta che col caso Consorte quelle elezioni, che stavamo vincendo, non le vincemmo più; o meglio, le "vincemmo" con ventimila voti di scarto, con una maggioranza risicatissima, che ci mise nelle mani di Mastella. Il quale, appena volle, fece cascare il governo, nel gennaio 2008. Ma il governo Prodi, tecnicamente, in realtà era già caduto prima di nascere, un momento dopo quella telefonata. E ora? Quanti voti ci costa il caso Penati? Come li si recupera? Subito, prima delle elezioni? "Ma non si vota". E allora? Anche senza votare, nell'equilibrio pesano gli X voti potenzialmente perduti; le trattative hanno più probabilità di trasformarsi in inciuci, e Tremonti (o Montezemolo, o quell'altro banchiere) hanno più probabilità di succedere pacificamente (e omogeneamente) a Berlusconi. E non abbiamo un Prodi. Tocca a noi, non a D'Alema o Veltroni o agli altri corresponsabili, tappare questo buco. 20 settembre 2011 RAPPORTO 1/ IDEE PER UN NUOVO GIORNALE Cominciamo a tracciare il progetto del nuovo “Siciliani”. Anzi, “Siciliani Giovani”, tanto per capirci 1) “I Siciliani Giovani” è un giornale, su carta e in rete, che si propone di continuare aggiornandola l'esperienza de “I Siciliani” di Giuseppe Fava e delle varie testate che vi hanno dato seguito nel corso degli anni. Siciliani vuol dire che nasce dal luogo dove lo scontro fra mafia e antimafia è nato prima, dove tanti giornalisti hanno onorato in questo scontro, a prezzo della vita, questo nostro mestiere. Non è un'indicazione geografica ma un simbolo di lotta, da Modica a Milano, per l'intera Nazione. Giovani vuol dire che solo da una nuova e rinnovata generazione, questa generazione, può venire in tanta tragedia la rinascita del nostro Paese. Non è un giovanilismo d'accatto, un parlar d'altro: usiamo la parola giovani nell'identico senso, e per gli stessi motivi, e con la medesima urgenza, con cui a loro tempo la usarono Mazzini o Gobetti. Sappiamo che il cammino è lungo e non ci facciamo illusioni; né vogliamo crearne a chi ci verrà dietro. Ma è un cammino ragionevole, duro ma alla fine vincente. Fidando nell'aiuto dei giovani, memori di esempi altissimi che abbiamo avuto la fortuna d'incontrare, percorreremo questo cammino con tutte le nostre forze e fino in fondo, da giornalisti seri e da buoni cittadini. *** 2) “I Siciliani Giovani”, nella sua versione cartacea, è un magazine di 120-150 pagine, mensile di fascia alta come “I Siciliani” di Fava; ne riprenda il ritmo e l'impostazione ma legandoli alle ultime tecnologie (oggetti interattivi in pagina, approfondimenti multimediali). Un giornale “da raccogliere e conservare”, ma parallelemente un e-book di ultima generazione, mirato a tablet, Kindle e smartphone. 3) Il giornale è diviso in tre settori: - un blocco di 5-6 servizi-inchieste (6-8 pagine) per circa 48 pagine complessive, impaginato come il classico “Siciliani”; - uninserto centrale a colori (fotografico, satirico e altro) di 24 pagine, con grafica propria (e più “creativa”); - un blocco di pezzi di cronaca (3-4 pagine ciascuno, per altre 48 pagine complessive) forniti, sui rispettivi territori, da giovani testate e gruppi (Clandestino, Periferica, Napoli Monitor, Stampo, ecc.) aderenti al progetto, e sottoposti a un ulteriore controllo di qualità. *** 4) Al cartaceo si affianca un prodotto elettronico in formato e-book (pdf adesso, l'anno prossimo probabilmente html5 o analoghi) che ne riprende i contenuti, e che tecnicamente si differisce da Ucuntu e dai prodotti successivi per una molto maggiore interattività. Ogni singolo contenuto, infatti, sarà corredato in linea di massima a contenuti multimediali, usufruibili su varie piattaforme, soprattutto su quelle (tablet, smartphone) di seconda generazione. 5) Il prodotto elettronico non ha per il momento un'importanza commerciale e servirà ora soprattutto al lancio e alla diffusione del prodotto di carta. E' tuttavia ragionevole pensare che il mercato editoriale elettronico, che già nei paesi anglofoni è maturo e in piena espansione, non tarderà molto (fine 2012-inizio 2013) a presentarsi in forma matura anche in Italia. E' probabile che a quel punto il nostro prodotto elettronico assuma un'importanza molto maggiore, e probabilmente determinante, specie se sostenuto da altri prodotti elettronici in formato e-book. A tale proposito, stiamo studiando attentamente – per esempio - le esperienze (entrambe vincenti) dei “Libri di Avvenimenti” e dei “Millelire” che a suo tempo s'inserirono bene, con pochi mezzi, nel nascente segmento dell'editoria a basso prezzo. *** 6) Il sito dei Siciliani (per il quale dobbiamo ringraziare la generosità di un cittadino che, avendolo in suo possesso, ce l'ha donato) riprende in buona parte la meccanica (non la “carrozzeria”) di Ucuntu. E' cioè un portale di rete, in cui al prodotto principale (potenziato con le tecnulogie Issuu, che siamo stato fra i primi a usare in Italia) si affianca tutta una serie di testate collegate, che sono il nostro retroterra e il nostro serbatoio di giovani giornalisti, di notizie e di idee. Il mensile si pone così, fin dalla sua struttura allargata, come prodotto di prestigio di un circuito di testate piccole, radicate, professionali e combattive. 7) A quelle di queste giovani testate che mostreranno un adeguato livello professionale – e civile – concederemo il diritto di fregiarsi del nostro logo, come un segno comune; aiutandole così a progredire e a restare visibili, e rafforzando insieme l'impresa comune. *** 8) Redazione. Non prevediamo una redazione centrale, che in questa fase rappresenterebbe più un peso che un reale vantaggio; il lavoro iniziale di un mensile può essere svolto in gran parte in rete, a condizione di avere nei vari nodi personale competente e determinato. Anche successivamente, l'idea di una redazione centrale è probabilmente tecnicamente obsoleta; più conveniente puntare su una struttura “stellare”, con cinque-sei punti forti sul territorio nazionale (orientativamente: Catania, Palermo, Napoli, Roma, Bologna e Milano) dove siamo già presenti già ora o direttamente o con efficienti gruppi amici. In ogni città dovrebbe esserci cioè non una sede, ma una “stanza” dei Siciliani, appoggiata su una struttura amica già esistente e attivamente coordinata con essa. Questo assicurerebbe una maggiore produzione di idee, una maggiore aderenza a tutti i territori, una maggiore efficienza e una più veloce circolazione di iniziative e idee locali. 9) Il lavoro per “Siciliani Giovani” è volontario, almeno per il primo anno. Non deve tuttavia esserci, e non sarà tollerato, alcuno scadimento nel dilettantismo, sotto nessuna forma. Il nostro “volontariato è quello dei “Siciliani” storici, di Emergency, dell'antimafia organizzata, legato all'efficienza e ai buoni risultati. *** 10) L'uscita del primo numero elettronico (non semplicemente del sito) è previsto per la seconda metà di novembre. L'uscita in edicola del cartaceo per i primi giorni di febbraio. 11) Sono già in lavorazione avanzata (Luca Salici, Carlo Gubitosa, Max Guglielmino, tutti professionisti di notevole esperienza nei rispettivi settori) il prodotto elettronico e il portale. E' in corso la progettazione grafica e industriale del cartaceo. Il redazionamento del numero uno (elettronico) avrà inizio il 15 ottobre, anche se già diversi contatti sono in corso sia con “firme” affermate che con gruppi di giovani colleghi. 12) L'assetto sociale e giuridico è in corso d'allestimento e verrà completato nelle prossime settimane, coordinato e diretto dall'avvocato antimafioso Enza Rando. 20 settembre 2011 COME VANNO LE COSE (STORIE COSI') Un siciliano che scappa, uno che viene a dare una mano... Allora, il giorno dopo l'annuncio (a Modica, dai ragazzi del “Clandestino”) nel giro di quarantott'ore sono successe due cose. Uno, la tipografia ci ha improvvisamente aumentato il preventivo e quindi abbiamo dovuto sbrigarci a cercarcene un'altra. Due, ci ha scritto un tale, che non conosciamo e non sappiamo nemmeno chi sia, e qui vale la pena di fermarci e fare una lunga disgressione, così capite subito come vanno le cose. Allora: quello che ci ha scritto è un certo signor Scivoletto, che di mestiere fa il titolare di siti web (roba commerciale: turismo, case, vacanze: cose così) e che negli anni scorsi aveva registrato i siti “isiciliani”, proprio quelli che servivano a noi. Noi, ovviamente, l'avevamo sgamato e pensavamo di andare a trovarlo con una scusa qualunque per provare a vedere, fra una chiacchiera e l'altra, a quanto casomai ce li vendeva: trecento euri? Cinquecento? MILLE? Sarebbe già al di là del nostro mondo. Insomma, francamente era un bel problema. Bene. Poco dopo l'annuncio, a mezzanotte, ci arriva una mail che vi riporto appresso: < Giambattista Scivoletto a [email protected] data 01 settembre 2011 23:26 oggetto domini isiciliani Gentile Riccardo, ho letto con piacere che "I Siciliani" risorgerà. Posseggo i domini: isiciliani.it isiciliani.com Sono vostri, se volete. Un mio piccolissimo contributo offerto con il cuore. Saluti Giambattista Scivoletto > Reply: < [email protected] a Giambattista Scivoletto Caro Scivoletto, non ho parole. La ringrazio, E' bello essere siciliani. Suo Riccardo Orioles > Reply: < Giambattista Scivoletto a me Carissimo, quando sarà il momento mi faccia contattare da chi vi curerà il sito, li metterò in condizione di trasferirli sui vostri server in 5 minuti. E' bello essere uomini. Voi de "I Siciliani" avete dimostrato di esserlo sempre. Saluti > *** Insomma, io qui vi dovevo fare un lungo articolo per spiegare che succede a fare i Siciliani e che problemi s'incontano e che bisogna fare. Non serve più. L'ha scritto già Scivoletto. Un siciliano qualunque, uno come voi e me. Che senza chiedere niente, così tranquillo, ha preso quello che aveva e l'ha portato dove serviva. Non ho una parola da aggiungere e non c'è altro. Chi vuole, dia una mano. Noi siamo qua. E l'altro siciliano, quello della tipografia? Eh. Pazienza. In trent'anni, quanti ne abbiamo incontrati... Ma ne abbiamo incontrati molti di più, di Scivoletti. E basteranno. Va bene, chiuso il discorso, e andiamo avanti. (E i mafiosi? Ah, quelli non importano. Sappiamo come trattarli). *** Credo che sia anche superfluo parlare qui di politica. E che ci sarebbe da dire? I giudici che lo inseguono, le puttane che lo ricattano, i bauscia che minacciano di fargli la secessione: ma davvero dovremmo occuparci sul serio di uno così? E qua in Sicilia, dopo tutte le rodomontate per e contro Lombardo (con annesso bailamme di giudici severissimi e giornalisti scooppettanti), com'è finita? Assolto e non assolto, vince lui e vince l'altro, muori Orlando muori Sacripante, e alla fine il puparo rimette i pupi nella scatola e tutti si sono divertiti moltissimo e tutto è di nuovo esattamente come prima. Perché? Perché non c'è Falcone. E' inutile girarci attorno, Falcone dal lato Catania non ce n'è. “Pigliatene uno di fuori - direbbe qui la voce del buon senso - se non sarà Falcone almeno non sarà uno di quelli”. Ma il buon senso lo lapidano, dalle mie parti: il buon senso – dicono loro - è communista. Salvo poi tutti a dire “io l'avevo detto”. Ma anche questo (qui in Sicilia siamo esperti) fa parte dell'Opra dei Pupi, o nei casi più nobili del Gattopardo. E “i Siciliani” che c'entra? Non c'entra niente, assolutamente niente, è roba di un altro pianeta. O almeno di un'altra isola: perché “i Siciliani” stanno in Sicilia, dentro le scuole e lungo le trazzere, fra gli operai che faticano e i ragazzi che imparano la vita; ma quei signori lì non stanno in Sicilia, stanno negli ultimi piani dei loro palazzi, col loro piccolo mondo di nobili, nobilucci, cortigiani e (dicono loro) giornalisti. In realtà non esistono. Noi invece siamo vivi. *** Bene. La notizia è che, dopo lunghe e ponderose consultazioni, abbiamo deciso di non chiamarci più semplicemente “i Siciliani”, ma “i Siciliani giovani”: per dire che siamo nel duemila e undici, che non facciamo reprint e non abbiamo nostalgie. Non ce n'era bisogno, in realtà, secondo me si capiva. Ma s'è deciso così, per più chiarezza. Per il resto è lo stesso. *** Ci scusino tutti coloro a cui non abbiamo risposto subito – sono davvero tanti. Non è per superbia, ovviamente, è che il lavoro è bestiale. Lavoro proprio, non grandi elucubrazioni intellettuali. Fare un giornale è difficile, in ogni tempo, ma ora con tutta questa roba elettronica è difficile per tre volte, perché in pratica di giornali (fra rete e carta) ne devi fare due o tre. Fortuna che non siamo soli: ci sono tutti gli scovoletti e scovolettini, da Modica a Milano, che hanno le idee chiarissime e che, ciascuno dove si trova, lavorano bene e svelti più di di noi. Allora avanti così, restiamo sempre in vista, non ci perdiamo; ma sempre lavorando nei luoghi, andando avanti. (“Ero ragazzino, avevo 17 anni e mi ricordo che a Pisa mio padre comprava e leggeva la rivista. C’era un articolo, in un numero, dedicato ai dieci Siciliani allora più potenti, tra cui figuravano anche il cardinale di Palermo e Pippo Baudo. Buon lavoro”) 23 settembre 2011 TELEJATO, I SICILIANI E UN APPELLO AL PRESIDENTE Che cosa dobbiamo aspettare ancora? L'attacco a Telejato (il doppio attacco, quello della mafia mafiosa e quello del governo) non è certo il primo, né tocca solo Telejato. E' trent'anni – per quanto mi riguarda – che facciamo giornali. Ed è trent'anni che ce li strozzano, in un modo o nell'altro, e ci lasciano in mezzo alla strada. Questa di Telejato è solo l'ultima volta. Può darsi che stavolta ci sia più fortuna. Può darsi che il governo che ora strozzando le piccole tv - sta chiudendo Telejato l'anno prossimo non ci sia più, e che quello che verrà dopo di lui sia un po' più civile. Va bene: intanto, dai candidati a questo futuro governo vorremmo sapere che cosa faranno, allora, per Telejato, e lo vorremmo sapere ora. Ma non è questo il punto. Il punto è che non passiamo più andare avanti così, con loro che ogni tanto ci danno una sberla, noi che protestiamo indignati, e a volte riusciamo a rialzarci e a volte restiamo lì per terra. Il punto è che siamo troppo piccoli per questo mondo. E invece dovremmo essere grandi e grossi, e restituirgli ogni volta la sberla con gli interessi. La cosa buffa è che in realtà, tutti insieme, grandi e grossi lo saremmo. Abbiamo i migliori giornalisti della Sicilia, i migliori autori video, i migliori fotografi, i migliori disegnatori e anche, non sempre ma abbastanza spesso, i migliori attivisti. Eppure restiamo qua a prender le botte. Il problema è in quella parola “insieme”. Noi non l'abbiamo ancora capita, quella parola. Una volta c'era l'”insieme” dei cosiddetti communisti, quaggiù in Sicilia, del partito dei contadini che insieme dovevano stare per forza. Ma non c'è più da secoli. E da allora l'”insieme” si è perduto. Io sono vecchio oramai, non ce la faccio più a aspettare. L'articolo che sto scrivendo, è un articolo sbagliato. Perché è su un giornale piccolo, che leggeranno in pochi. Invece potrebbe essere su un giornale grossissimo (non quelli dei padroni: a me di Repubblica e Corriere non me ne frega niente) e allora sì che farebbe veramente danno. Oggigiorno, con internet, non ci vogliono miliardi per fare un giornale così. Basta mettersi “insieme”. Ai tempi di Peppino noi compagni eravamo arrivati prima di tutti a fare le radio private e altre cose moderne. Ma non eravamo “insieme”. Così Peppino (che era solo) l'hanno ammazzato e poi le emittenti private se le sono fatte loro a modo loro e per i loro interessi, e così alla fine è arrivato Berlusconi. Ma anche stavolta deve finire così? Io dico di no. Per questo, con altri amici, stiamo rifacendo qualcosa come i Siciliani. Un “insieme” visibile da lontano, buono per tutti noi antimafiosi, in cui ci possono star dentro tutti. A cominciare da Telejato. Allora, solidarietà per Telejato, difendiamola. Ma anche, costruiamo “insieme” una cosa più grossa. Senza la quale, anche Telejato, Ucuntu e tutto il resto non possono resistere a lungo, è solo questione di tempo. Ecco, la storia è questa. La stanno capendo i giovani, i vecchi – come al solito – no. *** Poscritto (E Lei, signor Presidente? Caro Napolitano, Maniaci e i suoi lavorano per il Suo Paese e rischiano ogni giorno la pelle. La meritano una medaglia? O almeno un piccolo aiuto, tanto per continuare ad aiutarLa? O medaglie e belle parole arrivano solo dopo il funerale, come per Falcone, Fava e tutti gli altri? Io ci farei un pensierino, sarei anche disposto a firmarLe - se ne ha bisogno – un appello, e credo che come me lo farebbero molti altri intellettuali, siciliani e non, e giornalisti) 13 ottobre 2011 TELEJATO E SANTORO Una bella notizia dal nuovo sito di Santoro, www. serviziopubblico.it: in tre giorni hano raccolto circa 400mila euri di donazioni! Un attestato di stima, affetto e anche di voglia di non avere bavagli, di informazione libera. Ma l'informazione libera (e strangolata) c'è anche altrove: per esempio nel cuore della mafia, a Partinico. La fa Pino Maniaci, con Telejato. Picchiato dai mafiosi, minacciato sui muri ("W la mafia - sei lo schifo della terra" - e bara accanto) e alla fine ora pure imbavagliato, colla nuova leggina antipiccole tv. E allora? Sentiamo un lettore del Fatto, "Mario 75": < Il Fatto parteciperà alla realizzazione del nuovo programma di Santoro. Non sarebbe una buona idea quella di creare nell’ambito del programma una rubrica, un qualsiasi tipo di collegamento con Telejato? > "Mario 75" non è una persona importante, e non lo è neanche Pino Maniaci: però l'idea non è male. Ehi, Santoro, ce lo facciamo un pensierino? Se lo merita, il collega Maniaci, uno piccolo spazio nel servizio pubblico oppure no? (Ma prima che lo faccianmo fuori, per favore. Non aspettiamo ogni volta i funerali, come per Mauro, come per Peppino…). Mauro Biani e Riccardo Orioles 14 ottobre 2011 QUESTI MESI Si preparano i gattopardi. Ma... A Barletta le operaie muoiono per 4 euri l'ora. A Torino, per decisione di un tale, se ne va la Fiat. A Roma si discute di molte cose, ma non – soprattutto – di questa. E' la classica uscita all'italiana. Dopo i Borboni, Crispi. Dopo Mussolini, Badoglio. E dopo Berlusconi Montezemolo, Letta, un qualunque banchiere o un qualunque imprenditore. Vent'anni di governo-imprenditore di destra, e poi altri venti - secondo loro - di governo-imprenditore di... di che cosa? Esiste una maggioranza in Italia, che vince nei referendum, vince nei sindaci e vincerebbe alla grande, se la lasciassero votare, in qualunque altra elezione.E' una maggioranza sociale, molto prima che politica. Se la politica si adeguerà (Pd, Idv, Sel e compagnia) bene. Se no, questa maggioranza farà la sua politica lo stesso. La farà più lentamente, magari con più inciampi, ma che la farà – al tempo di internet – ormai è fuori discussione. *** Parlare dei Siciliani, in un momento come questo, ha un significato preciso. I Siciliani sono stati una delle primissime voci, e dei primi soggetti militanti, della società civile. Non si parlava delle troie di Berlusconi, a quel tempo, si parlava degli imprenditori mafiosi – e cioé del potere. Se ne parlava direttamente e senza mediazioni, muro contor muro. Se ne parlava all'interno di un blocco sociale preciso, i giovani delle facoltà e delle scuole, il ceto medio più civile, e – per brevi momenti – nel corpo della plebe siciliana. Pochi operai, poche fabbriche, ma emarginazione e miseria e un'atavica storia, non dimenticata, di ribellioni. Non era ovvio il legame, a quel tempo, fra le fabbriche del nord e i nostri quartieri. Gli operai siciliani in Fiat lottavano come tutti gli altri. Ma tornando in Sicilia trovavano un altro mondo. Da allora sono passati trent'anni. La mafia, il potere mafioso, non è più siciliano. Sta dilagando a Milano, a Roma è nel partito di governo. La fabbrica - Marchionne insegna - non è più la patria intangibile, ma il luogo dell'insicurezza e del non-diritto. “Lavoratore” vuol dire, a nord e a sud, tante cose, ma principalmente non avere un posto fisso e dei diritti legali. Sempre più spesso, “precario” sostituisce “impiegato” e “operaio”. *** La lotta radicalissima di trent'anni fa, contro la mafia imprenditrice e tutto il suo potere è quindi più attuale ancora di prima. Ci manca, quella lotta. Ci manca un'antimafia complessiva, terreno per l'unità delle forze - dei giovani, dei precari, di tutti i non-cannibali del Paese - e per un nuovo patto di generazione. Per un nuovo rapporto col nostro Stato, che dobbiamo difendere ma che dev'essere nostro, com'era stato fondato. L'antimafia, la militanza antimafia, la cultura antimafia, il governo antimafia, in questo preciso senso sono il possibile inizio di qualcosa. *** I Siciliani era un giornale, e anche Siciliani Giovani vuol esser tale. Ma i Siciliani erano molto più di un giornale, erano un punto di partenza ed un motore. E anche noi, ora, vorremmo essere tali. In Sicilia? No. Nel Paese. Da soli? No. In rete con altri, con serietà e modestia, tutti insieme. “Siciliani” per noi non indica un pezzo di terra, una regione, ma il simbolo di una lotta di tutti, il luogo dove la lotta è iniziata – ma non dove sarà decisa. A Milano come a Catania, a Modica come a Ovada, in questo siamo tutti Siciliani. *** E' terminata la prima fase di progettazione, e da domani cominciamo a lavorare al numero uno di questo nuovo/antico giornale. Rinasce con la rinascita del Paese, nelle stesse settimane e negli stessi mesi. Guarda davanti a sé, senza voltarsi indietro. Con una parola di lotta – la Marsigliese, i Siciliani – ed una di speranza. Quel giovani è la storia d'Italia, quante volte tradita dai patriarchi, quante volte salvata dai giovani senza-potere. 25 ottobre 2011 “UN GIORNALISMO FATTO DI VERITÀ” Caso Catania: cosa ci insegna oggi “Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”. Questa è la nostra idea di giornalismo, non quella degli effetti facili e del clamore. Un giornalismo neutrale, non dipendente – neanche come favori leciti – da alcuno, ma apertamente schierato per gli interessi essenziali dei cittadini (fra cui una giustizia indiscussa, assolutamente al di là di ogni sospetto) e pronto, ogni volta che occorre, a prendere posizione. Perché al lettore va data la “notizia”, ovviamente; ma questo ancora non basta: accanto alla notizia bisogna dare il contesto, senza di cui la notizia resta monca e incompleta e, in taluni casi, ambigua per difetto di completezza. A questo ci siamo attenuti, nel “Caso Catania”, in questi anni e mesi. Insieme con pochi colleghi (Finocchiaro, Giustolisi, Travaglio e non molti altri) abbiamo cercato di fornire al lettore i dati essenziali della malattia della giustizia a Catania, dove - diversamente che a Palermo – la parola “Palazzo” ha sempre evocato complicatissime e non sempre innocenti manovre e non una semplice e secca applicazione della legge. E' una malattia che viene da lontano, e che non può essere curata dal suo interno. Perciò sempre più numerosi cittadini e soggetti della società civile si sono via via accodati alla soluzione proposta, ormai da anni, dal vecchio e integerrimo magistrato Scidà: chiamare un giudice terzo, uno non intromesso; dare a un “uomo di fuori” la cura del bene essenziale, la giustizia, che i vari locali notabili tirano ognuno a sé, privandone i cittadini; e poi andare avanti. Questa opinione, isolata dapprima e poi sempre più popolare, è stata da noi sostenuta apertamente e ora, in questi giorni, verrà approvata o respinta da chi ne ha il potere. Il Csm, fra pochi giorni, nominerà finalmente, dopo ogni rinvio possibile, il nuovo magistrato a Catania; e qui comincerà una stagione nuova. O migliore dell'altra, essendovi finalmente un Palazzo efficiente; o sprofondata nel peggio, ribadendo la prassi della giustizia come potere dei potenti, o per atto o per omissione. In entrambi i casi, noi avremo fatto il nostro dovere. *** Questa storia, che non è affatto locale, serve anche per illustrare, senza troppe parole, come intendiamo fare (rifare) i Siciliani. I Siciliani Giovani proseguirà, semplicemente, sulla stessa strada. Informazione e servizio pubblico, lotta ai poteri asociali e ricostruzione della società. Non inventiamo niente, di nuovo c'è solo l'internet, col suo concetto di rete che va ben al di là delle tecnologie e che profondamente s'inserisce (forse più che in ogni altro caso in Italia) nella nostra storia. Attenzione: siamo già in fase operativa, nel senso che da alcuni giorni è già aperto il palinsesto del numero uno, quello che uscirà il primo dicembre. Pertanto è necessaria un'accelerazione di tutto. Finora è stato sostanzialmente il gruppo di progettazione (Salici, Gubitosa, Guglielmino e Nicosia) a fare il lavoro di fondazione, e l'ha fatto nei tempi previsti e bene. Ora bisogna completare il lavoro di base (siti, ezine, link, struttura aziendale, tipografia) e farlo mentre già si comincia a lavorare sui contenuti. Nei prossimi giorni e settimane contatteremo quindi, nelle varie città, i colleghi, gli amici, le testate e i gruppi che sono interlocutori e coprotagonisti di questa impresa. Ma vorremmo che già prima, spontaneamente, essi stessi cominciassero a fare proposte, a buttar giù idee, a mettere in cantiere servizi e iniziative. Senza bisogno di chiedere permesso a nessuno, e meno che mai a noi stessi, perché questa non è un'impresa nostra, ma di tutti. Tutti coloro che lottano per una società più civile, da oggi o da trent'anni, a Palermo o a Milano, giovani d'età o di testa, hanno il diritto di starci dentro. Con l'obbligo di starci dentro degnamente, ché non è un gioco. E' un momento magnifico, per mettersi in cammino. La notte sta terminando, amici che non conosciamo ci aspettano; lo zaino è quasi pronto. Nel buio che a poco a poco s'illumina, la strada ancora una volta ci chiama. 4 novembre 2011 VALE LA PENA, SI PUÒ FARE Sembrava impossibile risanare il Palazzo di Giustizia. Eppure... La statua della Giustizia a Catania fronteggia quella dei poveri pescatori, i Malavoglia, che sono un po' il cuore nascosto della città. Loro a guadagnarsi il pane su una barchetta, cercando di sopravvivere a mare e mafiosi – i quali da molto tempo non hanno più la coppola ma il cappello elegante dell'uomo d'affari o del politico in carriera. E lei a guardarli severamente, con uno sguardo che si fa sempre più assente man mano che dalla piazza di fronte s'inoltra nei palazzi del centro direzionale. Ed è così da sempre, senza speranza. Mentre a Palermo il Palazzo di giustizia si rinnovava, esprimeva i Falcone, i Chinnici, i Caponnetto, i Borsellino, a Catania era sempre lo stesso, di trenta, di cinquanta o di cent'anni fa. Ogni tanto polemiche, guerre ad armi cortesi, con gran cannonate a polvere che non fanno male a nessuno. E intanto la città moriva. Catania è la città d'Europa con più alta criminalità minorile. Al centunesimo posto nelle classifiche di vivibilità dei centotrè capoluoghi italiani. La mafia più potente, i quartieri più abbandonati. La disoccupazione più alta, le ricchezze più dilaganti. Bottegai che falliscono, e il record nazionale dei centri comerciali. Una delle più alte storie del giornalismo italiano (Giuseppe Fava) ma un solo giornale ammesso. Una città che si aggrega intorno a periodici grandi affari - ieri lo sventramento e Viale Africa, oggi Corso dei Martiri – che sono gli unici scopi d'esistere della sua classe dirigente. Una città assassinata, una città senza giustizia. Eppure, in questa città, s'è combattuto e si lotta per la giustizia. La giustizia nella società (i poveri centri sociali, l'Experia, il Gapa, i poveri preti di quartiere, i padre Greco) la giustizia dell'istruzione (ogni decina d'anni sorge un nuovo movimento di ragazzi), la giustizia dell'informazione libera (I Siciliani e tutti quelli che li hanno continuati). Ma il potere rimane duro, inossidabile, divoratore di tutto. Perché non ha mai avuto, ed è sicuro che non avrà mai, sanzioni. Vediamo se questo adesso cambierà. Intanto, il segnale è forte. Nel più importante palazzo, adeso, c'è uno che non ha amici o nemici fra i baroni. Uno che conosce Catania solo ed esclusivamente attraverso la legge. Se il gioco – adesso – avrà delle regole, nessuno può prevedere chi vincerà. Persino i poveri e le persone perbene potrebbero arrivare a vincere, in una partita non truccata. *** Ecco, si comincia ora. Ce n'è voluto, per arrivarci. La storia del giudice esterno non era affatto scontata, si sono mobilitate le forze – per impedirla – di tutti i poteri forti della città. Eppure, non gli è riuscita. Il merito va a gente come il vecchio giudice Scidà, testardissimo, che da più di dieci anni va chiedendo un procuratore estraneo ai poteri catanesi; va ai giornalisti disinteressati che hanno avuto il coraggio di denunciare il Palazzo (e qui è giusto far dei nomi: Finocchiaro, Giustolisi e pochissimi altri); va alle associazioni della società civile che hanno preso posizione (chi prima, chi dopo, ma non importa...). Va a ragazzi come quelli della Fondazione Fava di Palazzolo, il paese di Giuseppe Fava, che nel loro convegno a gennaio hanno avuto il coraggio di lasciar presentare le prove fotografiche che inchiodavano il malcostume del Palazzo. Per questo sono stati accusati di essre degli “antimafiosi da salotto”; altri, fra cui il sottoscritto, dei “cattivi maestri”; al più pericoloso di tutti, Scidà, sono toccate le calunnie peggiori, mobilitando giornali grossi e giornalisti importanti. E tutto è scivolato via come doveva, senza lasciare traccia, impotentemente. La verità è contagiosa, ed è un duro compito (anche se ben retribuito) cercare di nasconderla perché non conviene. La verità, il buon senso, l'ostinazione dei pochi, a lungo andare vincono, e non potevano non vincere anche in questo battaglia. L'informazione povera, e libera, l'ha affrontato da sola, senza contare su nessun potere; e alla fine è riuscita a vincere, a fare un bel regalo alla città. Ecco, l'insegnamento è questo: vale la pena, si può fare. Persino cose “impossibili” – tipo i Siciliani – possono funzionare, con questo metodo. Verità, buon senso, e forza di volontà. E fra un mese cominceremo a vedere se è vero. 13 novembre 2011 UN MODELLO VINCENTE Zitta zitta, la società civile segna punti a Catania… Mi sarebbe piaciuto scrivere un bell'articolo di politica, sul governo di prima e su quello che verrà. Ma non posso farlo perché non sono più autorizzato. Sono infatti un cittadino, o meglio un consumatore, italiano ed è stato appena deciso che di faccende del genere non debbono occuparsi più i cittadini (troppo ignoranti e emotivi per occuparsene) ma degli esperti bravissimi, molto molto più bravi di me e di voi. Saranno loro a decidere per tutti. Questo è già successo diverse volte nella storia. In Grecia, quando è finita la polis, a Roma, quando è arrivato Cesare, nel medioevo in Italia, quando dopo i Comuni sono arrivate le Signorie. Non è che la gente fosse contraria, in questi casi. Troppa chiacchiera, troppi disordini, troppo poca abitudine - poco a poco – a uscir di casa. Meglio un governo tranquillo, un sovrano benevolo, che pensa per tutti. Sta succedendo in Italia, e non so se è bene o male. Certo, dopo tutto quel Berlusconi qualcosa bisognava fare. E chi dice che gli abitanti italiani, dopo aver creato un Berlusconi, non ne creino prima o poi qualche altro? Europa e Germania non si sono fidate. E noi, lavorando poco (precario non è lavorare) dipendiamo da loro. *** Può darsi che vada bene così. Certo, non è democrazia. Ma chi la vuole davvero? I veneti? I commercialisti? I banchieri? I boss mafiosi? I calabresi, Catania? Gl'imprenditori del Ponte, quelli dell'Expo, la Borsa? Nessuno di questi soggetti, che ormai sono il baricentro della Nazione, ha mai avuto molto a che fare con la democrazia. Ovvio che si sia sfaldata così, nell'indifferenza generale, senza problemi. E nemmeno l'Europa, così com'è, ha molto a che fare con la democrazia. E' sorta attorno all'euro, e come primo passo andava bene. Ma è stato pure l'ultimo, purtroppo. L'Europa, la nostra Europa, si suicidò traumaticamente nel '14, cent'anni fa. Stavolta si sta suicidando piano, per avarizia e noia. Senza popolo, senza stato, con tante banche ma neanche una su maestra di scuola o un giardiniere. *** La crisi, come tutte le crisi, si può risolvere. Ma c'è bisogno della politica per farlo, per fare le svolte drastiche (in termini di sistema) che ogni crisi richiede. Ma qui di politica non ce n'è più. Non c'è una politica di destra contrapposta a una di sinistra, o più moderata. C'è semplicemente il rifiuto della politica, la sua abolizione in quanto pericolosa per le idee che, en passant, potrebbe mettere in testa ai consumatori. Niente referendum in Grecia, niente elezioni qui da noi. Le elezioni, in Italia, sarebbero state vinte con largo margine non dal “centrosinistra” ma (di fatto) da una vera e propria sinistra, ancorché moderata, quella di Bersani e soci. Avrebbe un tale governo trovato il coraggio di resistere ai precari, di imporre ai sacrificati altri sacrifici, di lasciar mano libera per altri diciassette anni agli imprenditori? Nel dubbio, meglio non correre il rischio e non far votare. *** E noi? In che cosa si traduce, qui e ora, il “pensa globalmente, agisci localmente”? Abbiamo due esempi interessanti, qua a Catania. Il primo, quello della mobilitazione della società civile sul tema importantissimo, e prettamente istituzionale, di una credibile Procura; e abbiamo vinto. Il secondo, quello della campagna – sempre delle associazioni della società civile - per l'istituzione dei referendum comunali; e anche qui abbiamo vinto. In entrambi i casi, senza spaccare vetrine, senza alzare la voce, con una larga componente “moderata” (specie nel secondo caso) ma con una carica alternativa e democratica assolutamente evidenti. E - lo ripetiamo per la terza volta - vincenti. E' un modello. E' il nostro modello politico, non di partito o ideologico ma civile. E' quello cui noi ci affidiamo perché sia salvato - ma veramente - il Paese. Esso ha una ricaduta giornalistica, di giornalismo rigorosissimo ma impegnato. Anche qui il caso Catania fa da testo: da una parte polemica serrata ma civile, senza urlare; dall'altra mobilitazione dei media di destra, e anche di sedicente “sinistra” , senza remore né di verità né di stile: qualcuno è arrivato a nascondere ai lettori l'esistenza stessa della sconfitta di Gennaro, abolendone semplicemente il nome. E hanno vinto i civili. Andiamo avanti così, con le forze di base, senza aspettarci regali (qualcuno a Catania si è lamentato che il grande Santoro qui si sia appoggiato, per la sua tv, al losco Ciancio...) perché chi può fare regali di solito ha anche i suoi interessi. Con calma, con convinzione, senza mai entusiasmarci ma senza mai rallentare. Il lavoro ben fatto alla fine vince. Specie quando ha alle spalle un nome come i Siciliani. *** Sarebbe bello pensare che - nel 2014, per esempio: cent'anni dopo – i popoli potrebbero risvegliarsi, abbattere il muro di Bruxelles come già quello di Berlino. Un'Europa democratica! Un'Italia europea! Una Sicilia italiana! Una Catania senza cavalieri! Ci pensate? Sembra impossibile, certo. Ma anche l'Urss di Breznev pareva eterna. La nostra nomenklatura farà la stessa fine entro pochi anni. 22 novembre 2011 IL NOSTRO SCIDA' Aiutò i ragazzi poveri. Difese la Città. Sembra che stia dormendo, e che sorrida Ha un lieve sorriso ironico, da ragazzo intelligente. L'aria, dalla finestra, gli passa leggermente fra i capelli. Ne muove a volte alcuni, arruffati e bianchi. Ed egli dorme. Dorme, nel buio della notte, la sua città. Dorme lo scippatorello, sognando un'infanzia normale. E' in una delle statistiche più feroci d'Europa, quella della criminalità minorile catanese; ma i sogni sono liberi, ed egli sogna. Dorme il politico, sognando gli appalti dell'anno prossimo, Corso Martiri, miliardi. Dorme il padrone-editore, inquietamente. Dorme il suo giornalista, dorme (ma più innocente) la ragazza di vita. Dormono i magistrati collusi, digrignando i denti. Dorme il bottegaio minacciato, dormono i ragazzini di Addiopizzo che lo difendono da soli. Passa la rara guardia notturna, passano le ronde dei mafiosi. Questa è la sua città. *** “Venni a Catania, giudice del Tribunale, da Palazzolo...”. La città di Catania, a quei tempi, aveva al suo centro una grande piazza. Su un lato il palazzo di giustizia, cieco, sull'altro i carabinieri muti. Su un altro il grand hotel dove, settimanalmente, s'incontravano i padroni della droga. Su un altro ancora le bische della Famiglia Santapaola-Ferrera. Al centro, un gran monumento ai cui piedi si prostituivano i ragazzi che non avevano il coraggio di fare, per la dose quotidiana, una rapina. Nella città si parlava, prudentemente. Ma non si scriveva. Si amministrava giustizia severa, contro i piccoli scippatori e ladruncoli che la miseria generava. Ma si chiudevano entrambi gli occhi di fronte ai ricchi mafiosi e ai loro imprenditori. “Rendo, Graci, Costanzo, Finocchiaro!”. Furono gli studenti della città, in quegli anni, quelli che fecero i nomi. Non certo i magistrati. Con una sola eccezione. “Mi concedano lor signori di esporre alcune considerazioni sullo stato della giustizia in questa città...”. Questo era lui, Giambattista Scidà, quello che ora dorme nella stanza accanto. Non gli potevano dire di no: non puoi levare la parola a un magistrato, all'inaugurazione giudiziaria, una volta all'anno. E lui era un magistrato. “In nome del Popolo Italiano” c'è scritto sulle carte dei giudici. Lui ci credeva. Così, garbatamente, prendeva la parola e cominciava a elencare cifre e dati. Le cifre dei ragazzini ammazzati, divorati vivi dalla “città matrigna”. I dati degli intrallazzi dei benestanti, magistrati compresi, comprese le mura e i tetti delle preture. Le cifre della città indifesa, abbandonata alla mafia e ai Cavalieri. E passavano gli anni. Io lo conobbi per caso, da povero cronista, facendo il mio mestiere come lui faceva il suo. Presiedeva il tribunale dei minori, cioè il posto dove andava a finire la produzione del sistema. Ti distruggo il quartiere, ti nego la scuola, ti butto sulla strada, non ti do' lavoro, ti lascio la delinquenza come unica prospettiva. E poi ti ammazzo, o ti faccio ammazzare dei mafiosi, o nel migliore dei casi ti trascino qui, nel tribunale e in galera. Giustizia e carceri minorili, prima di lui, erano gironi danteschi. Lì si veniva “giudicati” in serie come numeri; qui messi coi delinquenti grandi e spesso seviziati. Con lui, tutto cambiò. Il tribunale diventò luogo di giustizia, dove ogni singolo caso veniva studiato e trattato con estrema attenzione. Nessun ragazzo fu mai abbandonato dopo. Famiglie, case-famiglia, comunità, assistenza individuale: spessissimo a spese del giudice, sempre per sua cura. Il giudice dei minori a Catania – l'uomo che borghesemente avrebbe dovuto essere il principale nemico dei ragazzi di strada – veniva accolto come un padre nelle periferie e nei mercati. La giurisprudenza minorile di Catania divenne, e come tale fu vista, un modello per l'intera nazione. *** Ma questa era solo una parte. Poi c'era quella “politica”; cioè di servizio alla polis, della Città. Per vent'anni Scidà fu fra i pochissimi che combatterono, non una volta ogni tanto ma ogni giorno, e non con mezze parole ma a pertamente, il sistema di potere catanese. Dai Cavalieri a Ciancio, dall'impresa e politica collusa alle infiltrazioni d'affari in tutti i palazzi: compreso quello di Giustizia. Lui, Fava e D'Urso furono gli eroi incorruttibili di questa guerra. Giuseppe Fava lo ammazzarono nell'84. Scidà e D'Urso ne ripresero, coi suoi ragazzi, la lotta. Giuseppe D'Urso morì, di malattia misteriosa, nel '96. Scidà dispersi i ragazzi di Fava, chiusi per la seconda volta i Siciliani - rimase solo. Dunque, dovette fare per tre. “Bisogna difendere le leggi come le mura della città”, scrive Eraclito. Egli si piantò dinanzi a quelle mura con lancia e scudo come un guerriero antico. Nessuno gli fece paura, non pensò mai di arretrare. Facessero carriera gli altri, lo minacciassero pure. Non tradì la città nè i suoi ragazzi. Dall'una lo richiamava il dovere, dagli altri una sconfinata pietà. *** Il giornale, una volta, era sul percorso del tribunale minorile, fra gli alberi del viale. Io uscivo prestissimo dalla stanza dove dormivo, per andare a prendere il primo caffè; e lui, alla stessa ora, andava da casa, a piedi, al tribunale. Mi si affiancava in silenzio, o io a lui, a mezza strada. Camminavamo muti, ognuno nei suoi pensieri, fino al piccolo chiosco del caffè. Da poco aveva perso una figlia, gli parevano futili le parole. Il barista, che ci conosceva, scaldava la macchinettà del caffè. Poi: “Buona giornata!”. “Buona giornata a lei!”. E ognuno al suo lavoro. A volte andavo a trovarlo, nella casa ormai vuota, fra pile disordinate di carte e di libri antichi. Era un cultore di storia; il grande Le Goff, quando veniva in Italia, spesso passava da lui. Così, la conversazione spesso inavvertitamente si spostava da Catania al Siglo de oro, a Cervantes, al lugar de la Mancha. A volte, ma più di rado, capitava che pranzassimo assieme; di solito era quando andavo a trovarlo al tribunale. “Pranza con me?”. “Andiamo”. E qui c'era un intoppo. La macchina di servizio che lo attendeva fuori (col fedelissimo autista di cui non ricordo il nome) era un bene dello Stato; poteva imbarcare il suo servitore Scidà dal tribunale a casa, visto che a ciò era destinata, ma tale privilegio non poteva assolutamente estendersi agli amici personali e privati. Non potendo far salire me (che sarebbe stato abusare), né lasciarmi a piedi (che sarebbe stato scortese), finivamo per andarcene a piedi tutt'e due, con l'autista che, solo in auto, ci veniva dietro. Per fortuna il clima catanese è mite e quelle mattinate erano – almeno nel ricordo – luminose e ridenti. *** Cos'altro? So che dovrei parlare del caso Catania – l'ultimo – della Procura, delle cose importanti insomma. Va bene. Catania non ha mai avuto un Palazzo di giustizia lontanamente paragonabile a quello palermitano. Giudici antimafia ce ne sono stati pochi, tre dei quali (Lima, Marino e Ardita) costretti, in un modo o l'altro, a farsi da parte. Liti fra diverse cordate, ultimamente Gennaro vs Tinebra, a parole opposte ma di fatto equivalenti. Polveroni ogni tanto. Impunità. E dunque proposta di Scidà: prendiamo un giudice terzo, uno di fuori. Campagna contro Scidà dei poteri forti, cui una Procura funzionante non fa affatto piacere. Spreco di polemiche (Ziniti, Rizzo, Condorelli, Sicilia, Sudpress, Repubblica) contro Scidà e in sostegno di uno dei due contendenti indigeni, per lo più Gennaro, a volte in buona fede a volte meno. Sullo sfondo, grandi attese nel settore appalti: avremo una Procura che li controlli oppure no? Scidà (e con lui Giustolisi, Finocchiaro, Travaglio e Orioles) spera di sì. Altri parlano d'altro, o alzano polverone. Alla fine, ovviamente, vince il buon senso: il Csm nomina un procuratore esterno, che s'insedia e comincia a esaminare le carte. Tutti applaudono, compresi coloro che l'avevano osteggiato fino all'ultimo, o per interessi politici (vedi sopra) o per semplice stupidità, e che a tal nobile scopo avevano fatto il possibile per linciare Scidà. Ma invece la giustizia ha trionfato e Scidà, oplita dei poveri, ha vinto. *** E adesso è disteso qui, nella stanza vicina a quella in cui scrivo ed è piena notte. Nella sua casa, come sempre, non ci sono che persone buone: il fedelissimo Ferrera, la brava Abeba, Titta, Giuseppe, Luca... Una donna ha portato dei fiori gialli, un'altra delle spighe di grano. Ci sono due computer e una stampante, ma centinaia e centinaia di libri. Braudel, Lefebvre, Verga, Guicciardini, i Canti, Mallarmé, Cervantes... vecchi amici. C'è il suo giornale di otto anni fa, Controvento, quello che il distributore non volle mettere in edicola perché “sennò Ciancio ci leva il pane”. Ci sono carte e fascicoli dappertutto. Ci sono, chi addormentato in poltrona chi su un divano, amici che gli vogliono bene. Lui, nella stanza accanto, dorme sorridendo. Avremmo dovuto parlare dei Siciliani, fra pochi giorni. Era fra i promotori, proprio in questa casa ci siamo riuniti un mese fa. “Mannaggia – penso – dovremo fare i Siciliani senza di lui”Fra poco è l'alba. Lontano, la notte s'è fatto impercettibilmente meno scura. “Senza di lui? - pensiamo - Chissà se davvero siamo senza”. mardiponente mardiponente