Manuale Pratico per operatori sanitari-italiano

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Manuale Pratico per operatori sanitari-italiano
Istituto Nazionale Salute,
Migrazioni e Povertà
MIGRAZIONI INTERNAZIONALI E SALUTE - MANUALE PRATICO PER OPERATORI SANITARI
Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni
Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà
via di San Gallicano 25a - Roma · www.inmp.it
MIGRAZIONI
INTERNAZIONALI
E SALUTE
Manuale pratico
per operatori sanitari
Unione
Europea
Ministero
dell’Interno
Istituto Nazionale Salute,
Migrazioni e Povertà
Unione
Europea
MIGRAZIONI
INTERNAZIONALI
E SALUTE
Manuale pratico
per operatori sanitari
Ministero
dell’Interno
IndIce
Prefazione
PARTE PRIMA
Cultura, salute, relazione interculturale
PARTE SECONDA
Patologie dermo-infettive di possibile riscontro in comunità
AUTORI
PARTE PRIMA: Emma Pizzini, Marta Mearini, Daniele Luccini (INMP)
PARTE SECONDA: Valeska Padovese, Ada Maristella Egidi, Emma Pizzini (INMP)
PARTE TERZA: Valeska Padovese, Emma Pizzini (INMP)
FOTO CLINICHE: INMP
EDITING: Cecilia Fazioli (INMP)
marenostrum
PROGETTO
FER/UE
Common approach to upgrade asylum facilities in Italy and Malta
Realizzato nell’ambito del Progetto “MARE NOSTRUM. Common approach to upgrade asylum facilities in
Italy and Malta” ( JLS/2008/ERFX/CA/1031), finanziato dal Fondo Europeo per i Rifugiati dell’Unione Europea.
I contenuti di questa pubblicazione sono responsabilità esclusiva degli autori dell’INMP, e non riflettono in
alcun modo le posizioni ufficiali dell’Unione Europea.
Scabbia
Pediculosi
Infezioni sessualmente trasmissibili
Epatiti virali
Infezioni da HIV/AIDS
Esantemi infettivi
Meningiti
Schistosomiasi
Malaria
Tubercolosi
Leishmaniasi
Quadri clinici gastrointestinali
Vaccinazioni consigliate
PARTE TERZA
Altri quadri clinici osservabili nelle popolazioni migranti
Ocronosi esogena
Acne cosmetica
Acne cheloidea della nuca
Pseudofollicolite della barba
Noduli da preghiera
Cupping
Scarificazioni e tatuaggi
Sindrome Dhat
Mutilazioni Genitali Femminili (MGF)
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PReFAZIOne
I
l presente Manuale costituisce lo strumento operativo risultante dal progetto “Mare Nostrum –
Common approach to upgrade asylum facilities in Italy and Malta”, progetto finanziato dal
Fondo Europeo per i Rifugiati dell’Unione Europea, che ha visto coinvolti vari partner istituzionali, quali il Ministero dell’Interno italiano, il Ministry for Justice and Home Affairs, il Ministry
for Health, the Elderly, and Community Care di Malta, l’Istituto Nazionale per la promozione della
salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà (INMP) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).
Il Manuale vuole contribuire, nella sua articolazione, a fornire un supporto operativo all’esigenza
di assicurare lo stato di salute dei rifugiati e dei richiedenti asilo temporaneamente ospitati nei Centri
di accoglienza in Italia e a Malta, nonché di garantire un’accoglienza nel rispetto delle identità culturali delle varie etnie presenti.
Il Manuale è indirizzato, principalmente, sia a quegli operatori sanitari che operano nei Centri
di accoglienza, sia a quelli che operano presso i servizi socio-sanitari territoriali, figure chiamate a
promuovere e tutelare lo stato di salute dei migranti, di recente arrivo o da tempo presenti sul territorio. L’utilizzo del Manuale contribuirà a quel processo di miglioramento della capacità di rispondere,
in modo appropriato, ai bisogni di salute espressi dalla popolazione richiedente asilo grazie ad una
migliore comprensione di aspetti particolari e peculiari della medicina delle migrazioni.
La prima parte del Manuale pone l’attenzione sugli aspetti culturali correlati alla sfera della
salute, che influenzano notevolmente la relazione operatore sanitario - paziente straniero, aspetti
che fanno emergere, per questa tipologia di persone, la centralità della comunicazione interculturale
e l’importanza del ruolo del mediatore linguistico-culturale, per la presa in carico dei bisogni di
salute espressi o, molto spesso, non manifestati dalla persona sofferente.
La seconda sezione presenta una descrizione sintetica e sistematica delle principali patologie dermatologiche e infettive di possibile riscontro in gruppi di popolazione, quali quelli ospitati nei Centri
di accoglienza, utilizzando un linguaggio chiaro e problem-solving. La terza e ultima parte è dedicata alla presentazione di una miscellanea di quadri clinici peculiari dei soggetti di pelle scura o
che hanno origine da pratiche culturali proprie dei contesti d’origine dei migranti. Particolare attenzione è stata curata per queste sezioni con il supporto iconografico, ad utile corredo dei vari
quadri presentati.
La scelta dei contenuti e le loro modalità espositive nascono, quindi, dall’intento di rafforzare
negli operatori sanitari la capacità e le competenze di presa in carico e gestione, in un’ottica multidisciplinare, delle manifestazioni cliniche di possibile riscontro nei soggetti ospiti dei Centri di accoglienza e, più in generale, nelle persone migranti.
Confido, quindi, che questo Manuale, anche grazie alla facilità di fruizione dei suoi contenuti,
possa avere un immediato impatto sull’attività degli operatori chiamati, ogni giorno, a prendersi
cura di persone che esprimono bisogni sanitari e vissuti culturali complessi, rendendo meno gravoso
il loro importante lavoro.
Dott.ssa Concetta Mirisola
Commissario Straordinario INMP
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PARTE PRIMA
Cultura, salute,
relazione interculturale
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I
l prendersi cura di persone provenienti da contesti culturali differenti rappresenta per gli operatori
sanitari una sfida sempre più attuale, che li pone di fronte alla difficoltà di superare le barriere
linguistiche che si frappongono nella comunicazione col soggetto migrante, e, in alcuni casi, di
colmare la mancanza di adeguate conoscenze e competenze sui temi culturali relativi alla sfera della
salute. Da parte loro, i migranti, fin dalle prime fasi del loro arrivo, si trovano a vivere un senso di
spaesamento dovuto all’estraneità e complessità del contesto di accoglienza e alle difficoltà che spesso
incontrano nel realizzare il proprio percorso di integrazione sociosanitaria.
Se, da un lato, l’assistenza sociosanitaria offerta si fonda su principi universalistici, a prescindere
dal contesto linguistico o culturale di appartenenza, dall’altro i sistemi di cura si modellano sulla
cultura e sul sistema medico di riferimento. Ognuno di noi, infatti, ragiona in base alla propria cultura
e tale influenza, in ambito medico, si riflette tanto nella pratica quanto nell’interazione col paziente.
Una buona comunicazione tra operatore sanitario e paziente straniero è la base per ottenere risultati positivi: è importante essere consapevoli dei valori, delle concezioni, delle aspettative e delle
pratiche culturali di cui siamo portatori e di quanto tali aspetti influiscano sulla qualità dell’assistenza
offerta a persone appartenenti a culture diverse. L’interazione e la comunicazione sono, infatti, influenzate da una serie di variabili che comprendono anche il bagaglio culturale del migrante e la
percezione che egli ha del suo vissuto di malattia e del nuovo sistema di cura al quale deve far riferimento.
Il modello iceberg della cultura
Uno dei più conosciuti modelli di rappresentazione
della cultura è quello cosiddetto dell’“iceberg”.
L’idea alla base di questo modello è che la cultura
può essere pensata, appunto, come un iceberg,
di cui solo una piccola parte emerge dall’acqua,
la punta, sostenuta da una parte molto più grande
e invisibile perché sommersa.
L’immagine dell’iceberg restituisce con immediatezza la concezione in base alla quale le parti visibili della cultura (la lingua, l’architettura, l’arte,
la musica, la cucina, ecc.) non sono altro che
un’espressione di ciò che resta invisibile (valori,
sentimenti, morale, concezione di salute, credenze religiose, regole sociali, ecc.).
Salute e malattia tra sistemi medici, concezioni e rappresentazioni
Ippocrate sosteneva: «Non mi importa che tipo di malattia ha quell’uomo, ma che tipo di uomo
ha quella malattia».
Le definizioni di salute e malattia spesso appaiono improntate su una dicotomia concettuale;
l’una si definisce per esclusione dell’altra:
malattia = assenza di salute
salute = assenza di malattia
La relazione salute/malattia va intesa invece come un processo dinamico, all’interno del quale i due
concetti non sono facilmente riducibili a una pura opposizione.
Per tutte le società, la malattia costituisce un evento da interpretare, giacché è necessario che
di essa si ricostruisca l’origine e il senso per poterla affrontare. La salute e la malattia non sono
esclusivamente eventi biologici oggettivi, ma ogni società definisce criteri per stabilire chi è sano
e chi è malato. In generale, conosciamo e accettiamo che esistano differenze culturali e personali
nelle concezioni della salute e della malattia, ma il fatto che esse siano socialmente e culturalmente
costruite non è accolto con la stessa facilità. In quest’ottica il lavoro di attribuzione di significato
che ogni cultura opera nei confronti della male-actio rivela come essa non rappresenti un evento
che riguarda il singolo individuo, ma un fatto sociale e collettivo che chiama in causa i significati
e le concezioni proprie della comunità della quale l’individuo è parte.
In altri termini, si può sostenere che l’appartenenza a una cultura fornisce all’individuo il
quadro di riferimento all’interno del quale si collocano tutti i fenomeni del corpo e in particolare
la malattia, i suoi sintomi e le sue cause. Ciò fa sì che, in culture diverse dalla nostra, l’insorgere
di determinate malattie possa non essere ricondotto a determinanti biomediche, e che la loro
causa (eziologia) venga individuata all’interno della sfera sociale e dell’universo culturale della
persona malata. La malattia rappresenta, così, l’effetto di comportamenti o eventi negativi, dell’azione di entità spirituali maligne (demoni, deità, ecc.) o, anche, di malefici indotti da persone
ostili. La malattia, infatti, presso gran parte dei popoli non occidentali non si presenta mai come
un evento fortuito; essa è il segno di un’incrinarsi di un più profondo equilibrio che trascende
l’individuo e che investe la società o il cosmo.
Queste considerazioni rimandano, più in generale, alla dicotomia esistente tra medicina occidentale e medicine tradizionali. La medicina occidentale, o biomedicina, ha parcellizzato le conoscenze e la pratica medica riguardo la malattia, affidandole a diversi specialisti della salute, il
cui compito consiste nell’isolare le cause, identificare la patologia - differenziandola dalle altre e somministrare specifiche terapie che andranno a eliminare la causa stessa della malattia, riconducendo il soggetto al suo precedente stato di salute.
Diversamente, le medicine tradizionali, ambito ampio nel quale ricondurre tanto le grandi
tradizioni mediche orientali quanto i sistemi tradizionali di cura africani e indigeni latino-americani, si basano sulla visione dell’individuo sano come colui che vive in armonia, in equilibrio
con l’ambiente socioculturale e l’universo che lo circonda. Anche la guarigione è concepita non
soltanto come la risoluzione dei sintomi della malattia, ma come ristabilimento di un ordine nel
rapporto tra l’individuo malato e il suo ambiente naturale, sociale e culturale. Infine, grande importanza viene attribuita alla relazione tra il guaritore/operatore e la persona malata, nella consapevolezza della forza curante della relazione e di quanto l’empatia che si stabilisce influenzi la
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compliance del paziente.
Le riflessioni dell’antropologia medica hanno contribuito a evidenziare i limiti del modello
biomedico, sottolineando come il concetto di “malattia” non sia univoco, ma assuma significati
differenti a seconda che a definirla sia il medico o il paziente.
In questo senso, la letteratura distingue tra i concetti di disease e di illness: disease è la malattia
dal punto di vista del medico, intesa come realtà oggettiva, misurabile secondo i metodi scientifico-sperimentali; illness esprime invece il concetto di malattia così com’è percepita e vissuta dal
paziente, con la sua cultura e i suoi codici di riferimento. Questa differenza nel “punto di vista”,
che emerge anche quando medico e paziente condividono la stessa cultura, diventa ancor più
marcata quando essi appartengono a contesti culturali diversi.
Esiste poi un terzo termine, sickness, che nella lingua inglese indica la differenza tra essere
“malato” ed essere “un malato”, e si riferisce a come la persona malata viene percepita dalle altre
persone che compongono i contesti relazionali (famiglia, rete amicale e sociale) a cui essa stessa
appartiene.
In altre parole, il medico è chiamato a curare la desease, la patologia, trattata con un linguaggio tecnico e impersonale, piuttosto che l’illness e la sickness, l’esperienza soggettiva della
malattia, che esprime il modo in cui il malato, la famiglia e la rete sociale definiscono e cercano
risposte alla domanda di cura. Il modello biomedico trascura la dimensione sociale della malattia.
Sono, infatti, anche la società e la cultura che suggeriscono quali sono gli elementi cui prestare
attenzione per determinare se un individuo è malato o meno e, quindi, se è necessario che si
rivolga a un medico, ma definiscono anche quando ci si può “sentire guariti”.
Questi brevi accenni ci suggeriscono quanto siano differenziati e complessi i quadri culturali e
sociali entro cui si costruiscono e si muovono i concetti di salute e malattia. Così complessi che ormai, da qualche decennio, la medicina occidentale, grazie anche all’incontro con sistemi medici e
pratiche terapeutiche ‘altre’, ha progressivamente sostituito il paradigma interpretativo biomedico
con quello “bio-psico-sociale”, che interpreta la salute come una condizione vitale complessiva.
Questo mutamento di prospettiva è stato sancito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
che, negli ultimi decenni, ha ridefinito il concetto di salute, intesa, ora, non solo come mera assenza
di malattia, ma come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. La salute, quindi,
acquisisce una prospettiva dinamica e multidimensionale e viene ad essere definita come “campo
di applicazione delle capacità individuali o di gruppo, intese a modificare o a convivere con
l’ambiente. La salute è quindi vista come una risorsa della nostra vita quotidiana, e non come
lo scopo della nostra esistenza; si tratta di un concetto positivo che pone l’accento sia sulle risorse
personali e sociali che sulle capacità fisiche” (OMS, 1984).
Parallelamente alla ridefinizione del concetto di salute e di malattia, anche la pratica medica
ha visto una riconsiderazione delle sue finalità ultime. Questo processo ha portato al progressivo
abbandono del paradigma legato alla medicina intesa essenzialmente come “cura” (to cure, in
inglese), vale a dire come mera prescrizione di esami diagnosti e di terapia, e all’adozione di una
nuova prospettiva, basata sul “prendersi cura” (to care) che valorizza la forza curante della relazione. Essa è finalizzata alla costruzione di una relazione curativa nella quale la persona malata
è anche “agente-in-relazione-con” e, conseguentemente, dà vita, insieme al medico e ai propri
familiari, ad una “comunità discorsiva” (Russo, M.T., 2004).
Un approccio di questo tipo, incentrato sulla conoscenza e sulla comprensione approfondita
del vissuto del paziente migrante nell’affrontare la malattia, può incrementare la domanda di
servizi di salute grazie all’avvicinamento dell’offerta terapeutica ai reali bisogni della persona
malata.
Il rapporto tra operatore sanitario e paziente migrante
Nel corso degli ultimi decenni, il rapporto tra operatori sanitari e pazienti migranti si è snodato essenzialmente attraverso tre fasi, note come quella dell’esotismo o “esotizzazione della sofferenza”,
dello scetticismo e del criticismo sanitario (Geraci S., 1995).
La prima fase fa riferimento soprattutto al rapporto con le persone provenienti dall’Africa subsahariana, che si era tradotto essenzialmente nella visione del paziente straniero come portatore di
malattie tropicali e di patologie trasmissibili, sebbene il quadro epidemiologico dimostrasse che, generalmente, gli immigrati si ammalavano in larga misura solo una volta giunti in Italia, e delle
stesse malattie degli autoctoni.
Più in generale, quest’approccio aveva la tendenza a considerare le condizioni di salute dei migranti
quasi esclusivamente in riferimento ai rischi che esse potevano rappresentare per la salute pubblica.
Nella fase dello “scetticismo sanitario”, in cui si sono ridimensionate tanto le visioni “esotiche” del
medico quanto le aspettative del migrante di veder accolti e soddisfatti i propri bisogni di salute, il
rapporto tra operatore e paziente straniero è andato mutando soprattutto grazie all’introduzione del
concetto di “effetto migrante sano”. Infatti, l’osservazione delle buone condizioni di salute dei migranti
al momento del loro arrivo, anche migliori in media di quelle della popolazione autoctona, ha consentito di mettere in luce il processo di selezione operante alle origini dei flussi migratori. Così, è
emerso che ad arrivare sono persone in uno stato di salute migliore, anche dei propri connazionali,
selezionate in qualche modo dalle proprie famiglie e comunità perché persone forti e sane sia dal
punto di vista fisico che psicologico.
La terza fase, del “criticismo sanitario”, è più che altro una necessità, un’urgenza (Geraci S.,
Maisano B., Mazzetti M., 2005). Si tratta del tentativo di superare la dicotomia tra esotizzazione e
scetticismo, e di evitare, da un lato, il rischio di un eccessivo relativismo culturale e, dall’altro, l’applicazione di un etnocentrismo biomedico ghettizzante, per favorire una relazione terapeutica paritaria, che rimetta al centro la persona, nella sua unicità; una relazione che compenetri e arricchisca
tutti gli attori coinvolti.
La relazione interculturale e la figura del mediatore culturale
È evidente quanto sia importante, in una società sempre più
caratterizzata dalla “multiculturalità”, dotarsi di strumenti che
facilitino i processi d’integrazione
delle persone straniere, nel riconoscimento delle reciproche differenze ma, al contempo, nel
mantenimento degli assunti di
base circa l'uguaglianza degli esseri umani in termini di diritti e
doveri. A questo scopo, da qualche decennio è stata introdotta in
Italia la figura del mediatore culturale, una persona chiamata a
svolgere la funzione di “ponte”
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tra istituzioni/servizi e utenza straniera.
I mediatori sono oggi presenti nei contesti in cui ha luogo l’accoglienza e, soprattutto, l’integrazione
dei migranti (come i centri di accoglienza, le strutture sanitarie, le scuole, gli uffici della questura,
ecc.), e nelle situazioni particolarmente delicate, laddove è forte il rischio di uno squilibrio comunicativo e relazionale tra le parti coinvolte. Si tratta di persone, i mediatori culturali, spesso esse stesse
immigrate, che quindi hanno vissuto sulla propria pelle l’esperienza della migrazione, ma che allo
stesso tempo conoscono nel dettaglio la cultura, la legislazione, la società nella quale vivono. Proprio
per questa loro duplicità, per questo stare nel mezzo, essi costituiscono oggi una figura di estrema
importanza. Il mediatore culturale è infatti colui che mette in atto un insieme di strategie d’intervento
volte a facilitare la comunicazione tra soggetti appartenenti a culture diverse ha l’obiettivo di ridurre
i rischi di conflitto, di emarginazione, d’incomunicabilità che possono scaturire dalla non conoscenza
dei rispettivi codici linguistici e culturali.
La mediazione, quindi, in questo processo bi-direzionale di decodifica dei contenuti della comunicazione, si esplica fondamentalmente su tre livelli, di ordine:
1) pratico - orientativo;
2) linguistico - comunicativo;
3) psico-sociale.
Possiamo ricondurre al primo livello le funzioni che il mediatore svolge nei confronti del gruppo
culturale di appartenenza e, in alcuni casi, anche nei confronti degli operatori dei servizi dove presta
la propria opera. Il mediatore, infatti, informa gli utenti circa l’organizzazione dei servizi e i loro diritti/doveri, e allo stesso tempo arricchisce le conoscenze che gli operatori hanno delle culture di appartenenza degli utenti.
Al secondo livello fanno riferimento le funzioni di traduzione, ma anche di “gestione dei fraintendimenti” che possono insorgere nel corso della relazione linguistica. È evidente come, in questi casi, la
figura del mediatore assuma una connotazione assai importante poiché deve assicurarsi che gli interlocutori comprendano non solo le parole ma anche i significati che vengono veicolati. Il mediatore è
chiamato a creare una situazione comunicativa che guidi le parti ad una reciproca comprensione e,
soprattutto, deve dimostrarsi imparziale, evitando giudizi di valore e forme di censura che possano generare incompatibilità.
Al terzo livello, forse il più complesso, afferiscono le funzioni grazie alle quali il mediatore
diventa agente di cambiamento dinamico, promuovendo il mutamento e lo scambio di valori
e significati. Questo livello di mediazione si
comprende se si pensa che il migrante, oltre a
dover affrontare la difficoltà d’integrazione e di
comunicazione, si trova nella necessità di ridefinire la propria identità personale, messa in
crisi dall’inserimento in un nuovo contesto culturale in cui i punti di riferimento sono profondamente mutati. Questa ridefinizione
dell’identità deve garantire, da un lato, l’adattamento dell’individuo alla nuova situazione e,
dall’altro, la continuità e l’aderenza all’identità
precedentemente costruita. In questo caso il mediatore culturale diviene agente di cambiamento e
rappresenta l’opportunità per il migrante di realizzare questo passaggio col minor rischio possibile
di sviluppare forme di malessere e disagio psicosociale.
Più in generale, possiamo dire che la mediazione assomma funzioni di advocacy e di empowerment. Il mediatore, infatti, informa l’utente sui propri diritti, lo aiuta a far sì che i suoi bisogni
siano presi in carico dall’operatore sanitario (advocacy), rendendolo, progressivamente, un soggetto
sociale più consapevole e quindi più forte (empowerment).
Il mediatore, in ambito socio-sanitario, assume una funzione cruciale nella presa in carico dei bisogni di salute, così come sono espressi dalle persone straniere. La letteratura scientifica sottolinea che
il ricorso alle prestazioni sanitarie e i comportamenti – protettivi o a rischio – non sono determinati
dalla semplice scelta individuale, ma sono condizionati da una serie di fattori che toccano in maniera
minore la popolazione autoctona rispetto a quella migrante: le difficoltà linguistiche, le esperienze discriminatorie, le differenti concezioni e percezioni inerenti la sfera della salute, la mancanza di adeguante conoscenze sul funzionamento del sistema sanitario sono tutti fattori negativi che generano
una situazione di ridotto o mancato accesso ai servizi da parte della popolazione migrante.
Il mediatore permette anche di avviare percorsi di cura che lascino spazio all’integrazione tra pratiche biomediche e tradizionali. Può succedere, infatti, che i pazienti, nel proprio percorso di ricerca
della cura, si rivolgano contemporaneamente al medico e al guaritore tradizionale (a lui culturalmente
più familiare), o che utilizzino rimedi tradizionali provenienti dal proprio paese d’origine, nella convinzione che il ricorso a diverse risorse terapeutiche aumenti le possibilità di guarigione. In queste situazioni, il mediatore è d’aiuto in quanto, muovendosi all’interno dei diversi codici culturali messi in
campo, può promuovere l’accettazione da parte del medico di un’integrazione tra pratiche mediche
diverse e, nel paziente, la consapevolezza dell’importanza di aderire alla terapia proposta (compliance).
La relazione medico-paziente è per definizione efficace se basata su un rapporto di fiducia e di empatia,
e il mediatore può facilitare l’instaurarsi dell’“alleanza terapeutica”.
Esistono, al contempo, delle difficoltà oggettive che rendono complesso e delicato il ruolo del mediatore all’interno della comunicazione e relazione “a tre” che si viene a creare. La centralità della sua
figura fa sì che si possa infatti incorrere in un duplice rischio. Da un lato, il mediatore può facilmente
identificarsi con il paziente, correndo il pericolo di sbilanciare il proprio intervento a favore di una sola
parte; dall’altro, può accadere che i pazienti percepiscano il mediatore come semplice portavoce dei servizi, e questo naturalmente ostacola una comunicazione aperta ed efficace rispetto ai bisogni espressi.
La chiave della mediazione invece sta proprio nel fatto che, nella relazione tra le due parti, non c'è ne
è una che esce vincitrice sull'altra: ciò che connota la mediazione come riuscita è proprio la win-win
situation, in cui appunto entrambe le parti possono considerarsi insieme vincitrici.
Consigli pratici relativi al setting medico-mediatore-paziente:
• dedica qualche minuto alla definizione delle modalità di lavoro con il mediatore culturale;
• disponetevi in modo da formare un triangolo;
• Mantieni il contatto visivo con il paziente piuttosto che con il mediatore;
• Rivolgiti direttamente al paziente, non al mediatore;
• Parla lentamente, in maniera chiara e fai delle pause frequenti per permettere al mediatore di tradurre;
• Usa un linguaggio lineare ed evita, se possibile, i termini specialistici;
• Fai in modo che tutto ciò che viene detto di fronte al paziente venga tradotto;
• Fai delle domande per assicurarti he il paziente abbia capito correttamente;
• dopo l’incontro, confrontati brevemente con il mediatore culturale.
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PARTE SECONDA
Patologie
dermo-infettive
di possibile riscontro
in comunità
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
L
ungo tutta la storia dell’umanità, migrazione e salute sono stati due temi intimamente collegati:
le esperienze e le esposizioni ad alcune malattie avvenute nel luogo di origine possono influenzare la salute del migrante durante tutto il suo percorso migratorio, dalla transizione, alla residenza temporanea, all’arrivo a destinazione. Il cosiddetto “effetto migrante sano” di cui si è parlato
altrove in questo testo, ovvero il fenomeno secondo il quale i migranti sono generalmente più sani
degli autoctoni, è una realtà ormai ampiamente accettata. Tuttavia, l’impatto dello stile di vita nel
paese ospite può avere importanti conseguenze sulla salute e causare un declino dell’“effetto migrante
sano” man mano che aumenta il tempo di residenza nel paese ospite.
Ad ogni modo, quando si parla di migrazione, si registra una certa tendenza a considerare solo
i rischi per la salute, concentrando l’attenzione sull’impatto che malattie infettive “rare” e “importate”
possono avere sulla popolazione ospitante. La sezione che segue offre una panoramica delle malattie
infettive che occasionalmente possono essere osservate nei migranti ospiti dei centri di accoglienza;
la descrizione delle diverse patologie si concentra su alcuni aspetti, quali epidemiologia, quadro
clinico e diagnosi, che possono supportare gli operatori sanitari al momento della diagnosi differenziale con malattie che raramente incontrano nella pratica quotidiana.
µ SCABBIA
SINONIMI: The itch, human scabies, escabiasis, la gale Norvégienne, Krätze.
DEFINIZIONE: La scabbia è una parassitosi cutanea provocata dall’acaro sarcoptes scabiei.
AGENTE CAUSALE: L’ectoparassitosi è causata da diverse specie di acari, ma l’acaro della scabbia, sarcoptes scabiei, è l’agente principalmente coinvolto.
EPIDEMIOLOGIA: Dal punto di vista epidemiologico la scabbia è ubiquitaria e la sua diffusione ha un andamento ciclico con epidemie
più o meno circoscritte.
TRASMISSIONE: L’infezione avviene quasi sempre per contatto interumano ed è tipico il contagio
tra persone che condividono lo stesso letto o gli
stessi indumenti. La scabbia viene oggi annoverata tra le infezioni a trasmissione sessuale (ITS),
poiché la trasmissione interumana necessita di
contatti intimi, prolungati, come può avvenire nei
rapporti sessuali.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Dura in media tre
settimane (in caso di primo contagio); è molto
più breve, 1-3 giorni, in caso di reinfestazione.
La parola scabbia ha origine dal latino “scabere”
= grattare. È una dermatosi parassitaria contagiosa, caratterizzata da intenso prurito e da una
lesione patognomonica: il cunicolo scabbioso.
È la femmina gravida del S. scabiei che determina la malattia. L’acaro scava il cunicolo nello
strato corneo dell’epidermide, lasciandosi dietro
le uova. Il ciclo evolutivo del parassita si compie
in 6 settimane; gli acari si fecondano al 28° giorno di vita e vivono circa 2 mesi il maschio e 3
mesi la femmina.
scicole perlacee) e altri esiti, più spesso da grattamento (papule, noduli, escoriazioni e croste). Il
cunicolo corrisponde al percorso scavato dall’acaro femmina attraverso lo strato corneo dell’epidermide, e lo si può osservare soprattutto a livello degli spazi interdigitali delle mani e in prossimità
della superficie flessoria dei polsi. Le lesioni papulo-vescicolose compaiono nelle sedi tipiche: interdigitali, polsi, cavi ascellari, interno coscia, glutei,
periombelicali, peniene e scrotali nel maschio e
areole mammarie nella femmina. La malattia non
comporta rischi per la vita, ma il prurito intenso,
ingravescente, persistente e le infezioni secondarie
possono essere invalidanti.
Lesioni vescicolose sovrainfette interdigitali
Sedi tipiche di scabbia
QUADRO CLINICO: La sintomatologia della scabbia
è rappresentata dal prurito e dalle manifestazioni
cutanee; il prurito è intenso e prevalentemente
notturno e non lascia dormire il soggetto. L’eruzione cutanea è costituita da lesioni patognomoniche (cunicoli scabbiosi e, in minor misura, ve-
DIAGNOSI: Si basa sull’anamnesi (contatto con
persone che lamentano prurito) e sull’esame
obiettivo (tipo e localizzazione delle lesioni).
Le caratteristiche del prurito, soprattutto notturno, sono patognomoniche.
L’esame microscopico diretto delle squame cutanee può evidenziare la presenza dell’acaro e/o
delle sue uova.
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sistemici (per os o IM), il prurito può persistere
anche per 2 settimane dopo la terapia locale;
• Al termine del trattamento è necessario cambiare gli abiti inclusa la biancheria intima; anche lenzuola e materassi se l’infestazione si verifica in
centri di accoglienza. È consigliabile il lavaggio
degli indumenti in acqua molto calda e l’esposizione del materasso al sole per almeno 48 ore;
• Al termine del trattamento è opportuna una visita medica di controllo.
IN CASO DI IMPETIGINIZZAZIONE: Terapia antibiotica sistemica con Amoxicillina 1 gr x 2/die per
5 giorni nell’adulto (Eritromicina in paziente allergico alla penicillina). In età pediatrica, Amoxicillina 50 mg/Kg die diviso in due somministrazioni giornaliere.
µ PEDICULOSI
Si parla di scabbia norvegese quando questa
assume l’aspetto di lesioni ipercheratosiche o
crostose, particolarmente sui palmi delle mani
e sulle piante dei piedi. È un quadro di frequente
riscontro negli immunocompromessi.
Le pediculosi sono un’infestazione relativamente
comune provocata da piccoli parassiti obbligati,
ospiti specifici dell’uomo.
Oggi le infestazioni sono frequenti sia nei Paesi
ricchi che in quelli in via di sviluppo e non c'è
una correlazione stretta tra l’igiene personale, lo
stato di pulizia degli ambienti e la diffusione dei
parassiti. Infatti, la trasmissione avviene per contatto diretto con persone già infestate oppure attraverso lo scambio di indumenti e/o effetti personali come cuscini, cappelli, sciarpe, pettini.
Tutti i tipi di pidocchi sono causa di morbosità,
ma una specie in particolare, quella del corpo,
può rappresentare un serio problema sanitario in
quanto vettore di malattie epidemiche gravi come
tifo esantematico, febbre ricorrente e febbre delle
trincee. L’uomo è l’unico serbatoio di queste malattie: l’importanza del pidocchio del corpo come
vettore dipende dall’esistenza di un focolaio di
malattia nell’area e nella comunità umana dove
il parassita è presente.
TERAPIA
Pediculosi del corpo
Scabbia norvegese
• Trattamento
con Benzoato di Benzile in
emulsione olio/acqua al 20% nell’adulto e
10% nel bambino da applicare su tutto il corpo
incluse le aree genitali;
• In età pediatrica (< 5 anni) è preferibile trattare
con Permetrina 5 % crema. Va applicata su tutto
il corpo e quindi lavata a distanza di 12 ore. Il trattamento va ripetuto dopo una settimana;
• Il trattamento deve essere effettuato per 3 giorni consecutivi. Dopo l’applicazione del farmaco
il paziente non deve lavarsi, ma può farlo immediatamente prima;
• Il trattamento va ripetuto a distanza di 7 giorni;
Terapia sintomatica del prurito con antistaminici
SINONIMI: Malattia dei vagabondi, pidocchi, boScabbia impetiginizzata. In età infantile è frequente la
sovrainfezione batterica delle lesioni che si distribuiscono spesso in regioni atipiche, come quelle palmoplantari
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI: Il soggetto
affetto da scabbia deve essere trattato con apposita
terapia, e possibilmente isolato, per almeno 24
ore dall'inizio del trattamento. Per l'ambiente in
generale non sono necessari interventi di disinfestazione, ma è indispensabile una accurata pulizia dei locali con i comuni detergenti.
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dy lice.
DEFINIZIONE: Parassitosi causata da Pediculus
humanus corporis o Pediculus humanus humanus, diffusa in tutto il mondo. È rara nei paesi sviluppati, ove si può osservare in persone che
vivono in condizioni igieniche scadenti, con un
mancato o ridotto accesso ai servizi preposti all’igiene personale, quali le popolazioni nomadi,
le street people, i richiedenti asilo ospitati in tendopoli o in centri in stato di sovraffollamento.
AGENTE CAUSALE: Pediculus humanus.
EPIDEMIOLOGIA: Parassitosi ubiquitaria.
TRASMISSIONE: L’infestazione avviene per contatto corporeo o per scambio di indumenti parassitati.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Il tempo necessario
per l’incubazione delle uova e la comparsa del pidocchio adulto è direttamente dipendente dalla
temperatura d’incubazione, che dipende, a sua
volta, dalla vicinanza delle uova al corpo. Nel ciclo
vitale dei pidocchi del corpo, quello di uova è lo
stadio più resistente alle variazioni di temperatura
ambientali. La vita di un pidocchio adulto è di 1728 giorni.
QUADRO CLINICO: Il sintomo principale è il prurito diffuso di entità assai variabile. Presenti numerosi segni da grattamento su tutto il corpo e,
se la parassitosi dura da molto tempo, anche
iperpigmentazione diffusa e linfoadenopatia generalizzata, conseguente a sovrainfezione batterica (malattia dei vagabondi). I parassiti e le loro
uova sono presenti sui vestiti. Possibile, anche se
rara, la trasmissione da parte del pidocchio di altre infezioni, quali tifo epidemico, febbre delle
trincee e febbre ricorrente.
DIAGNOSI: Le manifestazioni iniziali possono essere varie e rendere quindi difficile la diagnosi.
La comparsa sulla cute di lesioni maculo-papulose escoriate o di petecchie si associa alla puntura del pidocchio.
TERAPIA:
• Trattamento con Malathion. Il prodotto deve
essere applicato su tutto il corpo e tenuto almeno
10 minuti, quindi lavato via; è sufficiente un solo
giorno di trattamento;
• Eventuale ripetizione del trattamento dopo 7
giorni;
• Tutti gli indumenti, inclusa la biancheria intima, devono essere cambiati e lavati in acqua
bollente, o sterilizzati a secco esponendoli a una
temperatura di 70°C per un’ora;
• Anche i letti delle persone infestate vanno trattati, aspergendo con pochi grammi di polvere insetticida, materassi, cuscini e coperte.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
• Il lavaggio delle mani con la soluzione deter-
gente in uso è obbligatorio, anche se sono stati utilizzati i guanti;
• Al fine di evitare la reinfestazione del soggetto,
procedere al rifacimento completo del letto almeno due volte al giorno, sino a quando il trattamento non è risultato efficace;
• Immettere la biancheria sporca, senza scuoterla, direttamente prima in un sacco idrosolubile e successivamente in un sacco per bianche-
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ria infetta, se disponibile;
• Dopo le prime 24 ore di trattamento efficace sostituire il materasso e i cuscini, operazione da ripetere alla dimissione. Inserire il materasso e i cuscini in sacco per biancheria infetta;
• La biancheria personale deve essere lavata possibilmente in lavatrice, ad alta temperatura (superiore comunque ai 60°C e separata da altra
biancheria);
• Fornire al soggetto infestato indicazioni sul trattamento di pettini e spazzole (uso personale): eseguire detersione accurata e immersione in acqua
calda per 10 minuti e/o lavati con shampoo antiparassitario. Tali operazioni sono da effettuare durante tutto il periodo di contagiosità.
Pediculosi del capo
AGENTE CAUSALE: Pediculus capitis.
EPIDEMIOLOGIA: Ubiquitaria.
TRASMISSIONE: La via di trasmissione più comune è il contatto ravvicinato con la persona infestata. Meno comunemente si può essere infestati attraverso lo scambio di vestiti, cappelli,
sciarpe, giacche con una persona infetta, usando
pettini, spazzole o asciugamani infestati o usando letti, materassi e cuscini con i quali sia stata
a contatto una persona infestata.
QUADRO CLINICO: I principali sintomi sono prurito al collo, al cuoio capelluto e alle orecchie. Nei
casi più gravi, si può sviluppare una sovrainfezione batterica che può comportare episodi febbrili
e ingrossamento dei linfonodi cervicali e nucali.
DIAGNOSI: Si basa sul riscontro del parassita e/o
delle sue uova adese alla base del capello.
TERAPIA:
• Permetrina 1% è il farmaco di scelta, applicare
per 10 minuti e sciacquare;
• Malathion 0.5% per 12 ore;
• Shampoo a base di gamma benzene esacloruro 1%, risciacquare dopo 10 minuti;
• Crotamitone 10%, applicare per 10 minuti;
• Pettine a denti stretti per rimuovere le lendini;
• Antibiotici per le infezioni secondarie.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
• In caso di contagio non è necessario applicare
restrizioni alla vita in comunità, ma è importante
sottoporre quanto prima a trattamento di disinfestazione, controllare tutti i contatti e lavare in lavatrice a 60° federe, lenzuola, asciugamani e gli
indumenti a contatto con il capo e con il collo.
• Pettini e spazzole vanno immersi in acqua bollente per 10 minuti.
Pediculosi del pube
SINONIMI: Ftiriasi, pubic lice.
DEFINIZIONE: È un’infestazione delle zone corporee ricoperte da peli, frequentemente interessa
la regione genitale, ma possono essere colpiti anche il perineo, le cosce, l’addome, più raramente
il torace, le ascelle e le ciglia superiori.
AGENTE CAUSALE: Il parassita in causa è il Phthirus pubis, che si posiziona in aree ricoperte di
peli, prevalentemente umide. È poco mobile e diventa attivo soprattutto di notte.
EPIDEMIOLOGIA: L’incidenza non è molto conosciuta, ma pare sia più frequente in giovani adulti sessualmente attivi.
TRASMISSIONE: La pediculosi del pube si trasmette per stretto contatto fisico, quasi esclusivamente
per via sessuale, tanto da essere considerata una
IST altamente contagiosa. Dopo un solo rapporto
con un partner infestato, il rischio di contrarre
l’affezione è del 90%. Inoltre, nel 30-50% dei casi
è presente un’altra IST (gonorrea, tricomoniasi,
herpes genitalis, sifilide).
PERIODO DI INCUBAZIONE: La durata totale è di
12-20 giorni. Le uova sono presenti alla base dei peli e il loro periodo di incubazione è di 7-8 giorni.
QUADRO CLINICO: Il sintomo più caratteristico è
il prurito, anche se l’infestazione può restare a
lungo asintomatica. Il prurito è prevalentemente
notturno. Nelle sedi delle punture possono osservarsi piccole papule, che il grattamento può portare a escoriare, con il rischio di infezioni secondarie associate a tumefazione dei linfonodi regionali.
DIAGNOSI: L’esame obiettivo della zona genitale
esterna rivela in genere piccole uova di colore
grigio-bianco attaccate al fusto del pelo. Possono
evidenziarsi pidocchi adulti. Si possono osservare
lesioni da grattamento ed eventuale sovra infezione batterica.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
TERAPIA:
va, forme larvali o adulte sono presenti e vitali
sulle persone infestate o su indumenti e altri fomiti. I pidocchi generalmente non riescono a sopravvivere al di fuori dell’ospite per più di 1-2
giorni e, in assenza di una fonte di sangue, per
non più di 10 giorni; le uova non possono sopravvivere a temperature ambientali inferiori a
24°C e superiori a 38°C;
• La presenza di sole lendini non significa contagiosità del soggetto;
• Quando possibile, deve essere attuato l’isolamento del soggetto infestato fino ad avvio di idoneo trattamento disinfestante. Il soggetto può essere riammesso in collettività il giorno dopo il
trattamento.
• Trattamento con Malathion;
• Il prodotto deve essere applicato sulla zona infestata e tenuto almeno 10 minuti e poi lavato
via; è sufficiente un solo giorno di trattamento,
ma è consigliabile ripetere l’applicazione dopo
7 giorni;
• Cambiare la biancheria a contatto con la zona
infestata, lavaggio in acqua bollente;
• Si consiglia di trattare anche il partner;
• Dal momento che la malattia viene comunemente trasmessa per via sessuale il paziente deve
essere sottoposto a indagini cliniche e sierologiche per escludere altre IST.
• Il periodo di contagiosità dura fintanto che uo-
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µ INFEZIONI SESSUALMENTE
TRASMISSIBILI
che causano uretriti e cerviciti, distinte in gonococciche e non gonococciche.
componenti nel materiale patologico e/o alla dimostrazione di un movimento anticorpale specifico.
TERAPIA
DEFINIZIONE: Si definiscono infezioni sessualmente trasmissibili (IST) quelle infezioni che riconoscono come modalità preminente di contagio il trasferimento interpersonale degli agenti infettanti tramite rapporti sessuali. In base a questa
definizione, nello spettro eziologico possono essere incluse anche alcune infezioni che, solitamente acquisite secondo altre modalità (parenterale, oro-fecale), riconoscono occasionalmente
possibilità di trasmissione per via sessuale.
EPIDEMIOLOGIA: Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), le IST,
escludendo l’infezione da HIV, hanno un’incidenza annua di 333 milioni di casi nel mondo, in
continuo aumento, anche a causa della maggiore
mobilità delle persone e di una maggiore tendenza ad avere rapporti sessuali con più partner.
PREVENZIONE E TRATTAMENTO: Attraverso la
promozione di comportamenti sessuali responsabili
(informazione, attenzione nelle pratiche sessuali
saltuarie e con partner occasionali, uso del preservativo) si cerca di arginare la diffusione delle IST.
È importante anche identificare le persone infette
che non mostrano sintomi (ad esempio con lo
screening di alcune categorie, come le donne in
gravidanza) e i loro partner sessuali.
Il trattamento complessivo delle infezioni a trasmissione sessuale dovrebbe essere incluso nei
servizi sanitari di base offerti ai cittadini, con
la messa a disposizione di farmaci adeguati,
trattamento anche dei partner sessuali, educazione pubblica, distribuzione di preservativi,
promozione di un’adeguata prevenzione nelle
categorie a rischio.
Nella breve trattazione che segue, si è deciso di
adottare un approccio sindromico alla classificazione delle IST, tale da permettere una suddivisione in base ai quadri clinici di più frequente riscontro nella pratica quotidiana. Pertanto si classificano le IST in infezioni che
causano lesioni ulcerative dei genitali (herpes genitale, sifilide, cancroide, granuloma inguinale, linfogranuloma venereo) e in infezioni
• Acyclovir 400 mg PO TID per 7-10 giorni, oppure
• Acyclovir 200 mg x 5/die per 7-10 giorni, oppure
• Valaciclovir 1 gr BID per 7-10 giorni, oppure
• Famciclovir 250 mg TID PO per 7-10 giorni;
• Efficacia sovrapponibile tra i vari farmaci (va-
Lesioni ulcerative genitali
Herpes genitale
SINONIMI: Herpes genitalis, genital herpes.
DEFINIZIONE: L’herpes simplex genitale si manifesta con lesioni vescicolo-erosive transitorie,
generalmente disposte “a grappolo” e meno frequentemente con ulcerazioni.
AGENTE CAUSALE: Herpes simplex virus (HSV) 1
e 2, distinguibili dal punto di vista antigenico.
EPIDEMIOLOGIA: HSV è ubiquitario, endemico nell'ambito di ogni popolazione e non dispone di alcun
serbatoio animale. La sieroprevalenza per HSV tipo
2 è molto più bassa di quella relativa all'infezione
con il tipo 1. Nell’infezione genitale da HSV tipo 2, la
percentuale di individui che va incontro a episodi ricorrenti è valutata attorno al 60%; anche la frequenza di ricorrenza individuale è più alta di quella riportata per il tipo 1, con valori leggermente più elevati per l'uomo rispetto alla donna.
TRASMISSIONE: Avviene tramite contatto diretto
di cute o mucose con le secrezioni delle vescicole,
per cui potenzialmente ogni parte del corpo può
ospitare una lesione clinica. In una minoranza
di casi, la trasmissione è possibile anche in assenza di lesioni evidenti.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Alcuni giorni.
QUADRO CLINICO: Le lesioni erpetiche sono caratterizzate da vescicole distribuite a grappolo
nelle zone muco-cutanee (cavo orale, genitali
esterni e interni) dove è avvenuta l’inoculazione
virale a seguito del contatto diretto. L’infezione
può essere primaria (prima infezione) o secondaria a riattivazione; la prima è clinicamente più
grave della seconda. La severità dell’infezione
primaria è legata ad almeno tre fattori principali:
l’età del soggetto, il sito e l'immunocompetenza.
Da quanto è stato detto appare evidente che la localizzazione della latenza virale dipende dalla localizzazione dell'infezione primaria. Generalmente VHS tipo 1 si localizza nel ganglio del trigemino,
mentre quello di tipo 2 nei gangli sacrali.
Nell’infezione primaria, dopo l’inoculazione le
Infezione erpetica. Caratteristiche le vescicole disposte a grappolo, la cui rottura determina sulla mucosa
una erosione superficiale
Herpes genitale. A livello vulvare le lesioni erpetiche,
a causa della frizione, vanno incontro a rottura del tetto
della vescicola, confluendo in vaste zone erosive, di
colorito rosso accesso, ricoperte da essudato sieroso
particelle virali, che si sono minimamente replicate
anche nel derma e nell’epidermide, si diffondono
attraverso i rami sensitivi dei nervi, fino ai gangli
sensoriali del SNC e in queste sedi rimangono allo
stato di latenza.
In caso di riattivazione (stati febbrili, stress, fotoesposizione), le particelle virali, moltiplicatesi nelle
strutture gangliari, si diffondono da queste alla cute
ripercorrendo all’inverso i rami nervosi e determinano la lesione clinica.
DIAGNOSI: Gli accertamenti diagnostici possono essere rivolti alla dimostrazione del virus o di suoi
lutazione costo/beneficio).
Episodi ricorrenti
• Acyclovir 400 mg PO TID per 5 giorni;
• Acyclovir 200 mg x 5 PO per 5 giorni;
• Acyclovir 800 mg BID PO per 5 giorni;
• Valaciclovir 500 mg BID per os per 5 giorni;
• Famciclovir 125 mg BID PO per 5 giorni.
Il trattamento va iniziato precocemente (prodromi, prime ore) in quanto può ridurre la durata
della sintomatologia clinica. Il dolore e il bruciore
delle lesioni ulcerative è spesso alleviato dall’uso
di anestetici locali, quali la Xilocaina al 5%.
Molto importante è proteggere la lesione dal
passaggio dell’urina, per cui si possono usare
pomate alla vaselina o altre creme barriera, da
limitare solo alla fase acuta, per evitare l’effetto
occludente su lesioni essudanti.
Per ridurre la sensazione di bruciore e per portare
a un rapido essiccamento le ulcere, assai utili sono alcune sostanze che, applicate localmente, associano a un effetto astringente e riducente
un’azione antibatterica e antimicotica.
Le sostanze più usate, sia per impacco che per
pennellature, sono il permanganato di potassio
(1:20000), l’eosina (2%) e il nitrato d’argento
(1:1000).
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
È di fondamentale importanza ricordare che la
diffusione del virus può avvenire anche in assenza di segni o sintomi d’infezione, condizione che
favorisce il contagio.
Le persone che hanno l’herpes dovrebbero seguire pochi semplici passi per evitare la diffusione
dell’infezione in altre parti del loro corpo o quello di altri.
• Evitare di toccare la zona infetta durante la
manifestazione e lavare sempre le mani dopo il
contatto con quella parte;
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• Evitare rapporti sessuali (vaginali, orali, o ana-
DIAGNOSI: La diagnosi di sifilide richiede la con-
li) anche se protetti dal momento dei primi sintomi genitali fino a che i sintomi siano scomparsi
completamente.
Sifilide
SINONIMI: Lues venerea, great pox, morbus
gallicus, sifilis, syphilis, lustseuche.
DEFINIZIONE: Malattia infettiva trasmessa principalmente per via sessuale.
Il termine Lue deriva dal latino lues venereum,
ed era originariamente applicato ad ogni malattia venerea. La Lue era ed è (erroneamente)
spesso associata alla gonorrea.
Sifilide primaria. Sifiloma dell'asta, lesione esulcerativa a
margini netti secernente un essudato di tipo sieroso
Sifilide secondaria. Esantema roseolico da macule
eritemato-squamose a localizzazione palmare
Sifilomi multipli al pene
Sifilide secondaria. Particolare del paziente in figura
precedente, a livello delle macule è evidente collaretto
di Biett
AGENTE CAUSALE: Treponema pallidum, famiglia delle Spirochetacee.
EPIDEMIOLOGIA: Gli ultimi dati disponibili sui
nuovi casi di sifilide forniti dall’OMS stimano in
12 milioni di casi la presenza a livello mondiale
della malattia. Si riscontra più frequentemente
nel sesso maschile, in età giovane adulta.
TRASMISSIONE: Il contagio, oltre che per via sessuale, può avvenire per via transplacentare dalla
madre al feto (Sifilide congenita).
PERIODO DI INCUBAZIONE: Tre settimane circa.
QUADRO CLINICO: La sifilide è una malattia caratterizzata da tre stadi evolutivi.
La sifilide primaria è caratterizzata clinicamente
da una esulcerazione classicamente non dolente,
di colorito rosso rameico, localizzata soprattutto
a livello dei genitali esterni o comunque nel punto di inoculazione.
Nel maschio la localizzazione più frequente è al
solco balano-prepuziale.
Nella donna invece è al collo dell'utero, quindi
asintomatica e spesso ignorata. In genere, il sifiloma scompare spontaneamente nel giro di 720 giorni.
Dopo circa una settimana dalla sua comparsa si
sviluppa un’adenopatia satellite loco-regionale:
i linfonodi aumentano di volume e di consistenza e risultano in genere non dolenti.
SIFILIDE SECONDARIA: Il periodo secondario inizia circa sei settimane dopo la scomparsa della
lesione primaria.
È caratterizzata da varie lesioni dermatologiche
che possono simulare differenti patologie, va
quindi presa in considerazione nella diagnosi
differenziale di eruzioni cutanee o mucose di
natura non determinata, e in particolare se i pazienti presentano associati i seguenti sintomi:
• Linfadenopatia generalizzata;
• Lesioni palmo-plantari;
• Condylomata lata (o condyloma latum);
• Fattori di rischio quali infezione da HIV, partner sessuali multipli.
SIFILIDE TERZIARIA O TARDIVA: È sintomatica
ma non contagiosa (gomma sifilitica, sifilide cardiovascolare, neurosifilide).
Durante il periodo terziario, che inizia dopo la
regressione della fase secondaria, la sifilide entra
in una fase di latenza clinica.
ferma mediante indagini sierologiche.
La diagnosi sospettabile può essere confermata
dalla ricerca dei treponemi nell’essudato e dalla
positività della sierologia (FTA-ABS).
In genere la positività di un test treponemico e
di un test non treponemico permette di fare diagnosi di sifilide. Tuttavia, tali test hanno un valore orientativo e i risultati positivi devono essere
sempre confrontati con la clinica e gli antecedenti del paziente.
Tradizionalmente la sierodiagnosi della lue si sviluppa su due livelli: i sieri risultati positivi ai test
di screening devono essere sottoposti a un test di
conferma e a una valutazione quantitativa dei livelli anticorpali, con il triplice scopo di ottenere
la certezza diagnostica, di valutare il grado di attività della malattia e di porre le basi per il monitoraggio dell’efficacia della terapia.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE CON: ulcera molle,
herpes simplex e aftosi.
Si sottolinea l’importanza del follow-up specialistico di tutti i casi di sifilide:
• Visita clinica;
• VDRL e TPHA a distanza di 3, 6, 12 mesi, e quindi una volta all’anno fino a negativizzazione.
VALUTAZIONE A LUNGO TERMINE DELLA
LA SIFILIDE LATENTE è asintomatica (spesso di
diagnosi occasionale) e si distingue in:
• Sifilide latente precoce (infezione di durata
inferiore ai 2 anni);
• Sifilide latente tardiva (infezione di durata
superiore ai 2 anni).
Durante il periodo di latenza l’agente infettante si
“riattiva” e può causare danni al sistema nervoso
centrale, agli occhi, al sistema cardiocircolatorio,
al fegato, alle ossa e alle articolazioni, definendo
il quadro clinico della fase terziaria in cui si possono verificare paralisi, confusione mentale, cecità e demenza, fino alla morte.
Nei pazienti con comportamenti sessuali a rischio
la re-infezione è possibile, ma è difficilmente diagnosticabile se non è nota la storia clinica del paziente, i risultati e l’andamento dei test effettuati
in occasione della precedente infezione e il tipo di
trattamento effettuato.
RISPOSTA ALLA TERAPIA
• Lue precoce: VDRL eseguito a 3, 6 e 12 mesi
dopo il trattamento. Diminuzione del titolo fino
a diventare negativo.
• Lue sieropositiva primaria o secondaria:
Il titolo VDRL diminuisce progressivamente, negativizzandosi entro 12 mesi nel 40-75% dei casi
sieropositivi primari e nel 20-40% di quelli secondari.
• Lue latente tardiva (o latente di durata non
definita): VDRL positivo a basso titolo prima della
terapia. La risposta alla terapia con penicillina (vedi paragrafo successivo) è da considerarsi positiva
se il titolo si abbassa di almeno 4 volte. Circa la
metà di questi soggetti rimane positivo a basso titolo per anni dopo il completamento della terapia;
un nuovo ciclo terapeutico è giustificato solo se si
verifica un innalzamento del titolo o se si ripresentano i segni e i sintomi della sifilide.
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Test sierologici di laboratorio
TEST NON TREPONEMICI
VDRL (Venereal Disease Reference Laboratory)
RPR (Rapid Plasma Reagin)
• Poco costosi e di rapida esecuzione;
• Utilizzabili sia come screening che nel follow-up della terapia (entro sei mesi* si negativizzano
o si assiste a una diminuzione del titolo);
• I limiti dei test non treponemici sono: una sensibilità non elevata (70% circa) nella sifilide primaria
precoce, nella sifilide latente e nella sifilide congenita tardiva, e una mancanza di specificità in presenza di particolari condizioni quali: infezioni virali (epatiti, mononucleosi), patologie neoplastiche,
malattie autoimmuni (lupus eritematoso), gravidanza, età avanzata).
TEST TREPONEMICI
TPHA (Treponema Pallidum Hemagglutination Assay)
WB (Western Blot)
FTA-ABS (Fluorescence Treponemal Antibody Absorption Test)
ELISA (immunoenzimatico)
• Sensibili e specifici;
• Screening o conferma;
• La positività a questi test si mantiene per molti anni, anche per tutta la vita;
• Non sono in grado di indicare l'efficacia del trattamento terapeutico, né una possibile re-infezione.
* Questo intervallo di tempo è variabile anche a seconda dello stadio della lue e alla contemporanea presenza di infezione da virus HIV.
PARTNER SESSUALI: Il periodo di tempo per identificare partner a rischio è il seguente:
a. Tre mesi più la durata dei sintomi per la sifilide primaria;
b. Sei mesi più la durata dei sintomi per la sifilide secondaria;
c. Un anno per la sifilide latente.
È consigliabile raccogliere la storia clinica ed
esaminare anche il/la partner di pazienti con sifilide precoce (<1 anno di durata), quindi sottoporli ai test sierologici incluso il test HIV. Inoltre,
si consiglia di trattare tutti i partner sessuali che
hanno avuto contatti con la persona infetta nei
3 mesi antecedenti la diagnosi.
TERAPIA: Il trattamento di scelta della sifilide indipendentemente dallo stadio clinico è rappresentato dalla benzatina penicillina.
SCHEMI POSOLOGICI:
Sifilide primaria e secondaria
• Penicillina G benzatina 2,4 milioni di unità
internazionali in dose singola IM, 1,2 milioni di
unità in ogni gluteo;
Alternative in pazienti allergici alla Penicillina:
• Doxiciclina 100 mg BID PO per 14 giorni;
• Tetraciclina 500 mg QID PO per 14 giorni;
• Eritromicina 500 mg PO ogni 6 ore per 14 giorni.
Sifilide Latente tardiva
(o latente di durata non definita)
• Penicillina G Benzatina 2,4 milioni di unità IM
alla settimana per 3 settimane.
Trattare nuovamente i pazienti che hanno segni clinici di persistenza di malattia o con titolo (test non
treponemici, vedi oltre) in aumento dopo 6-12 mesi.
Reazione di Jarisch-Herxheimer (sindrome
dai sintomi simil influenzali) può seguire l’inizio
della terapia con penicillina, di solito entro le
prime 24h. È in genere benigna e autolimitante, non richiede particolari trattamenti a parte
l’uso di antipiretici.
Sifilide terziaria
È rara e il trattamento è complesso e richiede
l’ospedalizzazione del paziente.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
È fondamentale attuare adeguate misure preventive. Di fatto, la possibilità di contrarre la sifilide
diminuisce significativamente se si eliminano
comportamenti sessuali a rischio. È quindi bene:
•Utilizzare il profilattico durante i rapporti sessuali;
• Evitare rapporti sessuali con persone a rischio;
• Astenersi da rapporti sessuali in caso di contagio,
anche se sospetto e non ancora confermato;
• Effettuare regolarmente delle analisi del sangue
dopo rapporto sessuale non protetto con persona
“sospetta” (la sifilide può essere diagnosticata precocemente anche in assenza di sintomi);
• Informare il partner della propria malattia, in
questo modo anch’esso potrà ricevere le cure necessarie;
• Avvisare tute le persone con cui si sono avuti
rapporti sessuali: nei tre mesi precedenti in caso
di sifilide primaria; nei sei mesi precedenti in caso di sifilide secondaria; nell'anno precedente in
caso di sifilide latente;
• Sottoporsi a screening durante il primo trimestre di gravidanza.
Cancroide (Ulcera molle)
SINONIMI: Chancroid, soft chancre, ulcus molle, malattia di Ducrey, chancro blando, chancrelle, weicher schanker.
DEFINIZIONE: L’ulcera venerea è una malattia a
decorso protratto che si manifesta con lesioni ulcerative dell’area anogenitale, spesso seguite da
una linfoadenite satellite a tendenza suppurativa.
AGENTE CAUSALE: Haemophilus Ducrey.
EPIDEMIOLOGIA: L’incidenza globale annuale è
di circa 7 milioni di casi. La malattia è endemica
in Sud Africa e Africa Orientale, in particolare nei
Paesi con prevalenza di infezione da HIV>8%.
TRASMISSIONE: Il contagio avviene sempre per
via diretta attraverso i rapporti sessuali, anche se
il batterio può diffondersi per autoinoculazione.
Altra via di trasmissione è dalla madre al feto durante il parto.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Da 3 giorni a due
settimane dopo il contagio.
QUADRO CLINICO: L’ulcera molle si caratterizza
per la comparsa iniziale di una lesione papulare
o vescicolare che successivamente si erode a formare un’ulcera altamente dolorosa. Alla lesione
si accompagna spesso la comparsa di linfadenopatia inguinale con possibile suppurazione e fistolizzazione.
DIAGNOSI: Oltre che sulle caratteristiche cliniche
Ulcera venerea. Lesione ulcerativa, a fondo sanioso,
a livello della base dell’asta
la diagnosi di ulcera molle si basa sullo striscio e
sulla coltura. Gli strisci si ottengono strisciando la
parte superiore dell‘ulcera o aspirando il materiale
dalla lesione; lo striscio mostrerà le catene costituite dal piccolo bacillo gram-negativo.
TERAPIA:
Farmaci di prima scelta:
• Ciprofloxacina 500 mg BID per 3 giorni;
• Eritromicina 500 mg QID per 7 giorni;
• Azitromicina 1gr PO in singola dose.
Alternative:
Ceftriaxone
250 mg IM (dose singola).
•
Riportati isolamenti con resistenza intermedia a
Eritromicina e/o Ciprofloxacina.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Tutte le persone con cancroide andrebbero sottoposte al test per infezione da HIV, sifilide e Herpes. È bene che la persona affetta dall’infezione
sappia che:
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• Dopo una diagnosi di ulcera molle, è doveroso
avvisare tutti i partner sessuali recenti in modo
che possano rivolgersi al proprio medico e seguire la cura;
• È importante evitare rapporti sessuali durante il
trattamento per ridurre il rischio di una reinfezione;
• In caso di dubbio dopo un rapporto occasionale, o d’insorgenza di uno dei segni/sintomi elencati sopra, è utile evitare contatti e rapporti sessuali e rivolgersi tempestivamente a un medico
per una diagnosi certa;
• Il profilattico, se usato regolarmente e in modo
corretto, può ridurre notevolmente il rischio di
trasmissione dell’ulcera molle.
Tipiche sono le “kissing lesions”, lesioni prodotte
dall’autoinoculazione su cute adiacente.
Le lesioni orali rappresentano la più comune localizzazione extragenitale. La diagnosi differenziale va posta con i condylomata lata della sifilide secondaria, l’amebiasi, il carcinoma spinocellulare, la tubercolosi e l’ulcera molle.
Granuloma inguinale
SINONIMI: Donovanosi, granuloma venereo,
granuloma pudenda chronicum, granulome
vénerien, venerisches granulom, pseudo bubo,
granuloma tropicale, granuloma serpiginoso, ulcera serpiginosa e granuloma infettivo.
DEFINIZIONE: È una malattia ulcerativa granulomatosa e contagiosa che si trasmette attraverso
contatto sessuale.
AGENTE CAUSALE: Klebsiella granulomatis precedentemente conosciuto come Calymmatobacterium granulomatis.
EPIDEMIOLOGIA: La donovanosi presenta una
distribuzione geografica irregolare, prevalentemente tropicale, ma concentrata solo in alcune
regioni e apparentemente assente in altre: è endemica in alcune aree tropicali e subtropicali
dell’Africa (Zambia, Sud Africa), del Sud-Est
Asiatico (Vietnam, Indonesia e soprattutto India),
dell’Oceania (tra le comunità aborigene dell’Australia e Nuova Guinea), dell’America Centrale
(Brasile, Guyana) e dei Carabi.
TRASMISSIONE: Per via sessuale.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Da 8 giorni a 12 settimane.
QUADRO CLINICO: Si caratterizza per la comparsa di lesioni ulcerative progressive, non dolenti,
in assenza di linfoadenopatia regionale.
Le lesioni sono molto vascolarizzate (es. aspetto
rosso carne) e sanguinano facilmente al contatto.
Granuloma inguinale. Lesioni ulcerative multiple, a
margini netti e fondo granuleggiante, in corrispondenza della cute dell’asta
TERAPIA:
Regime raccomandato
• Azitromicina, 1 g PO il primo giorno, quindi 500
mg PO, una volta al giorno per 4 settimane, oppure
• Doxiciclina, 100 mg PO, due volte al giorno.
Regime alternativo
• Eritromicina, 500 mg PO, 4 volte al giorno, oppure
• Tetraciclina, 500 mg PO, 4 volte al giorno, oppure
• Trimethoprim 80 mg/sulfametossazolo 400 mg, 2
cp PO, due volte al giorno per un minimo di 14 giorni.
La risposta clinica si osserva generalmente entro
una settimana. Il trattamento va continuato fino
a completa risoluzione delle lesioni.
La recidiva può verificarsi dopo 6-18 mesi, anche
in presenza di una terapia iniziale efficace. I pazienti, per quanto riguarda il follow-up dovrebbero essere seguiti clinicamente finché i segni e
i sintomi siano scomparsi.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
È fondamentale attuare adeguate misure preventive. Di fatto, la possibilità di contrarre l’infezione,
come in tutte le IST, diminuisce significativamente se si eliminano comportamenti sessuali a rischio. I partner sessuali dei soggetti con granuloma inguinale che hanno avuto rapporti sessuali
con la persona affetta nei 60 giorni precedenti
l’inizio dei sintomi, devono essere visitati e trattati
anche in assenza di segni e sintomi clinici.
venereo si presenta con ulcere genitali e linfoadenopatia.
AGENTE CAUSALE: Chlamydia trachomatis (L1L2-L3).
EPIDEMIOLOGIA: Endemico in Africa Orientale
e Occidentale, India, Sud-Est Asiatico, America
del Sud e Caraibi. Recenti epidemie si sono verificate anche in Europa.
TRASMISSIONE: Il contagio avviene attraverso
piccole abrasioni o lesioni di continuo di cute e
mucose durante i rapporti anali, vaginali e orali.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Da 2 a circa 4 settimane.
QUADRO CLINICO: Il linfogranuloma venereo si
manifesta clinicamente con una lesione ulcerosa
iniziale, caratteristicamente fugace e autolimitantesi (lesioni primarie o primo stadio), cui fa seguito una successiva manifestazione linfoadenopatica monolaterale il cosiddetto bubbone, costituito da uno o più linfonodi inguinali notevolmente ingranditi e quindi palpabili (linfoadenopatia tipica del secondo stadio), con possibile
Linfogranuloma venereo
SINONIMI: Malattia di Nicolas-Favre, linfogranuGranuloma inguinale. Lesioni ulcerative multiple, a
margini netti e fondo granuleggiante, in corrispondenza della cute dell'asta (particolare del paziente in
figura precedente)
loma inguinale, linfopatia venerea, climatic bubo, enfermedad de Nicolas y Favre, maladie de
Nicolas-Favre, poradenitis, vierte geschlechtskrankheit.
DEFINIZIONE: È un’infezione a trasmissione
sessuale di natura batterica. Il linfogranuloma
Linfogranuloma venereo. Linfoadenomegalia inguinale bilaterale
DIAGNOSI: Può essere confermata dall’esame
microscopico che rileva la presenza di corpi di
Donovan (bacilli intracitoplasmatici nei macrofagi colorati con i preparati di Giemsa o di
Wright) negli strisci eseguiti su materiale prelevato per raschiamento dei margini delle lesioni.
I reperti bioptici delle lesioni contengono molte
plasmacellule ma poche cellule mononucleate.
Manifestazioni cliniche del linfogranuloma venereo
Fase della malattia
Tempo trascorso dall'infezione
Segni e sintomi
I stadio
1 - 4 settimane
Ulcere genitali non dolenti
II stadio
Da 1 ad alcune settimane
Bubbone (linfoadenopatia inguinale)
III stadio
Anni
Elefantiasi, proctite
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fistolizzazione. Spesso non è distinguibile clinicamente da altre forme di ulcerazione genitale
con presenza di tumefazioni linfonodali (ad
esempio ulcera venerea) ed è difficile porre diagnosi di certezza in laboratorio.
La malattia non trattata può condurre alla cosiddetta “sindrome genitorettale”, comune soprattutto nelle donne, caratterizzata da complicazioni quali fistolizzazione e ascessi perirettali;
può interessare i vasi linfatici distrettuali ed evolvere verso un possibile terzo stadio (elefantiasi
genitale) caratterizzato da notevole ingrossamento dei genitali.
L’elefantiasi del perineo e della regione perianale
prende il nome di sindrome di Jersild.
La presenza di altri sintomi (es. brividi, febbre,
cefalea, eritema polimorfo, ecc) può indicare un
interessamento sistemico della malattia.
DIAGNOSI: Il linfogranuloma venereo deve essere
differenziato da altre patologie che possono dare
linfoadenopatia (es. sifilide, ulcera molle, granuloma inguinale, linfoma, tubercolosi, ecc). La diagnosi clinica in fase è difficile, ma sospettabile in
presenza di linfadenopatia.
All’esame fisico il soggetto può presentare:
• Ulcera in zona genitale;
• Anomalie nella zona rettale;
• Linfoadenopatia inguinale;
•Drenaggio di pus a livello dei linfonodi inguinali.
La diagnosi microbiologica si effettua sul materiale
prelevato a livello uretrale, rettale e linfonodale. La
sierologia per Chlamydia trachomatis (L-type serovar) può indirizzare la diagnosi.
La ricerca colturale o mediante biologia molecolare
confermerà la diagnosi.
TERAPIA:
Farmaci di prima scelta
• Doxiciclina 100 mg BID PO, per 14 giorni, oppure
• Eritromicina 500 mg x 4 PO, per 14 giorni.
Regime alternativo
• Tetraciclina, 500 mg PO, 4 volte al giorno per
14 giorni.
Eventuale drenaggio della linfoadenopatia ascessualizzata.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Tutti i partner con cui si sono avuti rapporti nel
• Spectinomicina 2 gr IM (dose singola)
mese precedente andrebbero avviati a un controllo
medico e trattati anche se non hanno disturbi. È
necessario astenersi dai rapporti sessuali sino alla
fine della terapia per evitare una re-infezione.
DEFINIZIONE: L’uretrite gonococcica o blenorra-
+
• Azitromicina 1 gr PO (dose singola), oppure
• Doxiciclina 100 mg BID PO per 7 giorni.
L’associazione di azitromicina o doxiciclina è
consigliata considerando che il 50% circa dei pazienti con uretrite e cervicite hanno una concomitante infezione da Chlamydia: è quindi opportuno trattare entrambe le infezioni.
La spectinomicina poco efficace nel caso di faringite gonococcica.
gia è una delle più comuni infezioni batteriche a
trasmissione sessuale causata da Neisseria gonorrhoeae in grado di infettare le vie uretrali nell’uomo e le vie uro-genitali nella donna.
Non gonococciche
Uretriti da clamidia, micoplasma
e ureaplasma
Uretriti e cerviciti
Gonococciche
SINONIMI: Blenorragia, blennorrhoea, gonococcia, gonorrhoea, blennorrhagie, tripper.
I termini derivano dal greco, il primo da “gonos”
(seme) e “reo” (scorro), il secondo da “blenos”
(muco) e “ragoo” (erompo), e si riferiscono al
principale sintomo, ovvero le perdite uretrali.
AGENTE CAUSALE: Neisseria gonorrhoeae.
EPIDEMIOLOGIA: La gonorrea è una delle infezioni
sessualmente trasmissibili più diffuse al mondo.
Eppure, la scarsa disponibilità di dati rende difficile
la descrizione del fenomeno e quindi il controllo
dell’infezione. A livello globale, secondo stime
dell’OMS, ogni anno risultano infetti circa 22 milioni di individui.
TRASMISSIONE: Si trasmette con rapporti sessuali
non protetti, vaginali, orali o anali con un partner
infetto. L’infezione può anche essere trasmessa da
madre a figlio tramite il canale del parto.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Da 2 a 7 giorni.
QUADRO CLINICO: Negli uomini prevalgono scolo
uretrale purulento e bruciore alla minzione, pollachiuria, flogosi del meato urinario. Nelle donne la
sintomatologia è spesso modesta o addirittura assente, limitata per lo più all’arrossamento del meato urinario e a modeste perdite vaginali, eventualmente associate a fugaci disordini nella minzione.
Possibili complicanze
• Stenosi uretrali (si hanno soprattutto nell’uretrite blenorragica non trattata e predispongono a ulteriori uretriti e quindi a nuove stenosi);
• Ascesso periuretrale e possibile fistolizzazione;
Secrezione uretrale biancastra in presenza di infezione
cronica da N. gonorrehoeae. La secrezione purulenta,
frequentemente mattutina, è invece tipica dell’infezione acuta da gonococco
• L’infezione non trattata nell’uomo può compli-
care l’uretrite e diffondersi in altri settori dell’apparato uro-genitale (prostatite, epididimite, infezione
cronica delle vescicole seminali, ecc.) fino a causare sterilità;
• Nella donna l’infezione può propagarsi per via
ascendente al collo dell’utero e alle tube, causando
infiammazioni locali (salpingite) fino a determinare un quadro noto come malattia infiammatoria pelvica.
SINTOMI ORALI E RETTALI: In caso di trasmissione attraverso rapporti anali può causare proctiti,
mentre tramite rapporti orali può causare faringiti, anche se nella maggior parte dei casi entrambi i tipi di localizzazione decorrono in maniera asintomatica.
DIAGNOSI: Anamnestica, clinica e di laboratorio.
Una prima diagnosi può essere effettuata con l’osservazione del secreto essendo il colore e la consistenza molto specifici.
L’esame microscopico e colturale della secrezione
permette di identificare il gonococco, anche se
spesso è difficile in quanto il batterio è termosensibile, quindi prelevato dal sito dell’infezione tende
a morire rapidamente.
TERAPIA:
• Cefixime 400 mg PO (dose singola), oppure
• Ceftriaxone 125 mg IM (dose singola), oppure
SINONIMI: Uretrite non gonococcica (UNG), uretrite non specifica, cervicite mucopurulenta, infezioni genitali aspecifiche.
DEFINIZIONE: Le UNG sono quelle forme di uretrite per le quali è stata esclusa, sulla base di indagini di laboratorio, la gonorrea. Si ritiene che
2/3 delle uretriti siano di origine non gonococcica. Le uretriti non gonococciche presentano in
generale scarsa gravità e contagiosità; tendono
però facilmente a prolungarsi o a recidivare e sono spesso resistenti alle cure.
AGENTI CAUSALI DI PIÙ COMUNE RISCONTRO: Chlamydia (50% dei casi), Mycoplasma hominis, Ureaplasma, Trichomonas, Mycoplasma genitalium.
EPIDEMIOLOGIA: Frequente; elevato numero di
casi non dichiarati.
L'infezione da C. trachomatis è l'infezione a trasmissione sessuale batterica più diffusa al mondo.
Si stimano a livello mondiale circa 50 milioni di
casi di infezione all'anno.
TRASMISSIONE: Sessuale.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Tra le 2-3 settimane
dopo un rapporto sessuale non protetto con una
persona infetta.
QUADRO CLINICO: Negli uomini i sintomi di uretrite compaiono abitualmente tra 7 e 28 giorni dopo il
contagio sessuale, con lieve disuria e fastidio uretrale e secrezione chiara o mucopurulenta. Sebbene i
sintomi possano essere lievi e la secrezione moderata, essi si manifestano soprattutto al mattino. All'esame il meato può avere un aspetto arrossato e si
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possono rilevare i segni delle secrezioni sulla biancheria intima. Talvolta l'esordio è più acuto, con disuria, pollachiuria e secrezione purulenta abbondante che simula l'uretrite gonococcica.
Nella maggior parte delle donne le infezioni decorrono in forma asintomatica, ma si possono riscontrare secrezione vaginale, disuria, pollachiuria, dolore pelvico, dispareunia e sintomi di faringite e di proctite, quando il contagio avviene
a livello orale o rettale. Cerviciti con essudato
giallo, mucopurulento ed ectopia cervicale
(espansione dell'epitelio colonnare endocervicale rosso sulla superficie vaginale della cervice)
sono caratteristiche.
Complicanze
Negli uomini, possono verificarsi epididimiti (soprattutto in uomini < 35 aa), artrite reattiva e sindrome di Reiter (artrite con interessamento oculare
e dermico e uretriti non infettive ricorrenti).
Nelle donne, le complicanze includono l’artrite
reattiva e la sindrome di Fitz-Hugh-Curtis, in cui
l'infezione del peritoneo periepatico da Chlamydia o, meno comunemente, da gonococco può
mimare la colecistite. La salpingite da clamidia
di solito porta a dolore pelvico cronico, gravidanza ectopica e sterilità.
DIAGNOSI: Negli uomini gli strisci di secrezione
uretrale colorati al Gram mostrano molti leucociti
polimorfonucleati (PMN) e alcune cellule epiteliali, senza germi patogeni. Nei casi lievi in presenza di uretrite si procederà all'analisi delle urine,
con reperto di 5 PMN/per campo (1000×) con lente a immersione d'olio.
Nelle donne la colorazione di Gram su strisci di
secrezioni purulente del collo uterino dimostra la
presenza di molti leucociti, ma non di gonococchi.
TERAPIA:
Regime consigliato
• Azitromicina, 1 g PO in dose singola, oppure
• Doxiciclina, 100 mg PO, BID per 7 giorni.
Regime alternativo
• Amoxicillina, 500 mg PO, 3 volte al giorno per
7 giorni;
• Eritromicina, 500 mg PO, 4 volte al giorno per
7 giorni;
• Ofloxacina, 300 mg PO, due volte al giorno per
7 giorni;
• Tetraciclina, 500 mg PO, 4 volte al giorno per 7
giorni.
Durante la gravidanza
• Eritromicina, 500 mg PO, 4 volte al giorno per 7
giorni, oppure
• Amoxicillina, 500 mg PO, 3 volte al giorno per 7
giorni.
Uretrite ricorrente o persistente
(sintomi persistenti o recidive frequenti
dopo il trattamento)
• Metronidazolo 2 gr PO (dose singola)
+
• Eritromicina base 500 mg QID per 7 giorni, oppure
• Eritromicina etilsuccinata 800 mg QID PO per 7
giorni.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Ai pazienti va consigliato di astenersi dai rapporti
sessuali fino al completamento della terapia e fino
a che i loro partner siano stati visitati e trattati per
evitare re-infezioni.
I pazienti trattati vanno sottoposti a visita e test
diagnostici per la ricerca di infezioni persistenti o
ricorrenti dopo 8-12 settimane.
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µ EPATITI VIRALI
Virus epatitici maggiori
Virus
Famiglia
Acido
nucleico
Modalità
di trasmissione
Incubazione
Possibilità
di cronicizzazione
HAV
Picornaviridae
RNA
Oro-fecale
10-50 giorni
NO
HBV
Hepadnaviridae
DNA
Parenterale,
sessuale,
verticale
60-90 giorni
SI
HCV
Flaviviridae
RNA
Parenterale,
sessuale,
verticale
2-25
settimane
SI
HDV
Viroide
RNA
Parenterale,
sessuale,
verticale
HEV
Non classificato
RNA
Oro-fecale
Le epatiti virali sono un gruppo di malattie necrotico-infiammatorie del fegato, acute o croniche,
causate da virus epatotropi che differiscono tra loro
per caratteristiche biologiche, epidemiologiche,
modalità di trasmissione ma che hanno in comune uno spiccato tropismo per le cellule epatiche e
causano quadri clinici simili tra loro.
Sono noti 5 tipi di epatite causati dai virus epatitici
maggiori: epatite A, epatite B, epatite C, epatite D
(delta), epatite E. Esistono poi altri virus epatotropi
cosiddetti minori che possono causare un quadro
infiammatorio a carico del fegato ma che raramente provocano un danno epatico importante e
cronico. Le epatiti virali costituiscono attualmente
un problema di salute pubblica in quanto diffuse
in tutto il mondo e associate allo sviluppo di cirrosi
epatica e carcinoma del fegato. La distribuzione
geografica è diversa per le singole forme e varia
con un gradiente Nord-Sud e tassi di prevalenza
più elevati nei paesi in via di sviluppo.
Epatite A
DEFINIZIONE: È un’infezione acuta del fegato
causata dal virus HAV, generalmente benigna e
autolimitante. L’infezione è diffusa in tutto il
mondo; nei paesi in via di sviluppo si presenta in
forma epidemica a causa delle scadenti condizio
SI
4-6 settimane
ni igienico-sanitarie che ne facilitano la trasmissione; nei paesi ad alto tenore economico si verificano invece casi sporadici o piccole epidemie.
AGENTE CAUSALE: È responsabile un piccolo RNA
virus, chiamato Hepatitis A Virus (HAV o virus
dell’epatite A).
EPIDEMIOLOGIA: L’HAV è diffuso a livello globale. Il rischio di contrarre l’infezione è inversamente proporzionale alle condizioni igieniche
sanitarie degli ambienti e degli individui.
TRASMISSIONE: L’infezione si trasmette per via
oro-fecale tramite l’ingestione di acqua o alimenti
Storia naturale
Infezione
Infezione
asintomatica
20-90%
Epatite acuta
10-80%
Guarigione
~100%
Prevalenza dell’anticorpo per il virus dell’epatite A, 2006 (Fonte: CDC. Travellers’ Health; Yellow Book. http://wwwnc.cdc.gov/travel/yellowbook/2010/table-of-contents.htm)
NO
Epatite
fulminante
<0,1%
Endemicità dell’infezione da HAV nel mondo
Endemicità
da HAV
Regioni
per epidemiologia
Età media
dei pazienti (anni)
Molto alta
Africa, alcune aree
del Sud America,
Medio Oriente e Sud-Est Asiatico
Meno di 5
Alta
Bacino dell’Amazzonia
brasiliano, Cina e America Latina
5-14
Media
Europa meridionale
e Orientale,
alcune regioni del Medio Oriente
5-24
Contatto diretto
Epidemie / Acqua
e cibi contaminati
Bassa
Australia, USA,
Europa Occidentale
5-40
Epidemie
Molto bassa
Europa settentrionale
e Giappone
Oltre 20
Esposizione durante
viaggi in aree
altamente endemiche,
origine non comune
contaminati. Il virus è presente nelle feci 7-10 giorni prima dell’esordio dei sintomi e fino a una settimana dopo, mentre è presente nel sangue solo
per pochi giorni. Il contagio può avvenire per contatto diretto da persona a persona ed è possibile an-
Vie di trasmissione
più probabili
Contatto diretto
Acqua o cibi
contaminati
Contatto diretto
Epidemie / Acqua
e cibi contaminati
che la trasmissione attraverso rapporti oro-anali.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Approssimativamente di 28 giorni (range15-50 giorni).
QUADRO CLINICO: In una parte dei casi l’infezione decorre in maniera del tutto asintomatica,
35
36
PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
in particolare durante le epidemie e nei bambini.
Dopo un periodo di incubazione che varia dai 15
ai 50 giorni si osserva la comparsa di una sintomatologia aspecifica caratterizzata da malessere
generale, astenia, nausea, vomito, febbre; successivamente compare l’ittero; si accompagna generalmente eliminazione di feci ipocoliche e urine ipercromiche. La malattia si risolve spontaneamente nell’arco di 2-3 settimane con progressiva risoluzione della sintomatologia e scomparsa dell’ittero. Per quanto riguarda i parametri
ematologici si osserva innalzamento dei valori
di bilirubina e degli indici di citolisi epatica; meno frequentemente aumento degli indici di colestasi (ALP e γGT). Nelle forme più gravi si può
avere un allungamento del tempo di protrombina. Obiettivamente si apprezza epatosplenomegalia di grado variabile.
DIAGNOSI: Il riscontro di ittero o subittero, accompagnato da emissione di feci ipocoliche e
urine ipercromiche deve far sospettare una epatite acuta. La diagnosi di certezza può essere effettuata unicamente con i test sierologici che
mettono in evidenza gli anticorpi anti HAV di
classe IgM. Nel sospetto clinico di una epatite
acuta è opportuno eseguire tutti i marcatori epatitici dal momento che il quadro clinico è comune a tutte le epatiti virali (B, C).
Utile eseguire ecografia dell’addome superiore
HAV
• Anti-HAV IgM+: acuta iniziale, incubazione
• Anti-HAV IgM+ e IgG+: convalescenza
• Anti-HAV IgG+: vaccino, pregressa infezione
per valutare l’epatosplenomegalia.
TERAPIA: È per lo più sintomatica e prevede riposo, supporto di liquidi e glucosio per via parenterale nelle forme gravi, dieta leggera.
In presenza di un paziente con epatite acuta bisogna valutare la funzionalità epatica mediante
gli indici di citolisi epatica (GOT e GPT), la bilirubina, il tempo di protrombina e l’albumina. Se
l’alterazione di tali valori risulta moderata il pa-
ziente può essere trattato a domicilio controllando periodicamente tali indici. Quando tali valori
risultano notevolmente alterati è opportuno il ricovero ospedaliero.
Storia naturale
Infezione
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Si ricorda che il periodo di eliminazione del virus
con le feci inizia fin dal periodo di incubazione.
Il paziente dovrebbe pertanto utilizzare servizi
igienici riservati.
Per l’epatite A è disponibile un vaccino cui è però
utile ricorrere solo in caso di rischio effettivo (es.
turisti in zone tropicali a rischio).
Epatite B
Infezione
asintomatica
50-90%
Cronicizzazione
10%
Epatite acuta
10-50%
Guarigione
~89%
adulto
Epatite
fulminante
1%
DEFINIZIONE: È una delle infezioni più comuni al
mondo. L’infezione può essere acuta o cronica.
L’epatite B acuta può durare da poche settimane a
qualche mese. La maggior parte delle persone colpite
guarirà perfettamente senza alcuna conseguenza.
La forma cronica è una malattia più grave. La persona con epatite B cronica può dover convivere per
sempre con la malattia.
AGENTE CAUSALE: È l’Hepatitis B Virus (HBV), un
virus a DNA appartenente alla famiglia degli Hepadnaviridae. Se ne conoscono attualmente 6 genotipi (A-F) aventi una diversa distribuzione geografica.
EPIDEMIOLOGIA: È ubiquitaria e si stima che al
mondo ci siano 400 milioni di portatori di epatite
B cronica e il 15-25% è a rischio di morire per
una malattia epatica.
TRASMISSIONE: L’epatite B viene trasmessa attraverso la via parenterale classica, attraverso la via
parenterale inapparente, tramite rapporti sessuali
non protetti; è inoltre possibile la trasmissione
verticale. L’infezione può essere trasmessa dai
malati in fase acuta o cronica ma anche dai cosiddetti portatori cronici con epatite silente (tradizionalmente chiamati “portatori sani”).
PERIODO DI INCUBAZIONE: Da 30 a 180 gg.
QUADRO CLINICO: L’andamento dell’infezione
varia a seconda dell’età in cui viene contratta: nell’età infantile infatti decorre nella gran parte dei
casi in maniera asintomatica ma ha una elevata
percentuale di cronicizzazione (circa il 90%).
Portatori
“sani” 40%
Epatite
cronica 60%
Cirrosi 50%
(2-10%/anno)
Epatocarcinoma
10%
Quando contratta in età adulta
invece si osserva frequentemente
la comparsa della sintomatologia che definisce un quadro di
epatite acuta ma si osserva la
guarigione spontanea, con la
comparsa di anticorpi protettivi,
in un arco di tempo variabile, in
circa il 90% dei casi.
Dopo un periodo di incubazione
variabile da 30 a 180 giorni, si
ha la comparsa di subittero o ittero franco che si accompagna a
emissione di feci ipocoliche e
urine ipercromiche. Compare
quindi una sintomatologia caratterizzata da malessere generale, astenia, nausea, dolori addominali, talvolta vomito e diarrea. Qualora i valori di bilirubina sierica siano molto elevati il
paziente può lamentare un intenso prurito. Obiettivamente si
rilevano epatomegalia, talvolta
dolente, e frequentemente splenomegalia. Gli esami ematici
mostrano un innalzamento, tal-
Diffusione dell’epatite B cronica nel mondo, 2006 (Fonte: CDC. Travellers’ Health; Yellow Book.
http://wwwnc.cdc.gov/travel/yellowbook/2010/table-of-contents.htm)
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38
PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
volta fino a 100 volte il valore normale, degli indi- è quindi opportuno riferire il paziente a uno speci di citolisi epatica (GOT e GPT), si associa spesso cialista per il corretto inquadramento dell’infezioincremento degli indici di colestasi, (ALP, Gam- ne.
maGT) e della latticodeidrogenasi. Frequente an- TERAPIA: Il trattamento dell’epatite acuta, come
che un allungamento del tempo di Protrombina menzionato in precedenza, prevede unicamente
(PT) e del Tempo di Tromboplastina parziale atti- riposo a letto, dieta leggera e una terapia di supvata (PTT), l’iperbilirubinemia è in genere di tipo misto e può raggiungere anInterpretazione dei risultati
che i 30 mg/dl.
dei test sierologici per Epatite B
La risoluzione spontanea ma graduale è
Test
Risultati
Interpretazione
l’evenienza più frequente: i sintomi reHBsAg
negativo
grediscono nell’arco di qualche settimaanti-HBc
negativo
Soggetto a rischio
na e si ha la progressiva normalizzazione
anti-HBs
negativo
degli esami di laboratorio.
In una minima percentuali di casi, circa
HBsAg
negativo
Immune per infeanti-HBc
positivo
l’1% si realizza un quadro di epatite fulzione naturale
anti-HBs
positivo
minate con necrosi massiva del fegato e
insufficienza epatica che può condurre il
HBsAg
negativo
Immune
paziente all’exitus nel giro di poche setanti-HBc
negativo
per vaccinazione
anti-HBs
positivo
contro epatite B
timane e che richiede il trapianto di fegato.
HBsAg
positivo
DIAGNOSI: La diagnosi di epatite acuta
anti-HBc
positivo
Infezione acuta
può essere effettuata clinicamente traIgM anti-HBc
positivo
mite il riscontro dei segni e dei sintomi
anti-HBs
negativo
sopracitati ma, dal momento che il quaHBsAg
positivo
dro clinico è sostanzialmente sovrappoanti-HBc
positivo
Infezione cronica
nibile a quello causato dagli altri tipi di
IgM anti-HBc
negativo
epatiti virali acute, la diagnosi di certezanti-HBs
negativo
za può essere posta unicamente effetInterpretazione
tuando gli esami sierologici che docunon chiara;
mentano un quadro di epatite acuta. Il
quattro possibilità:
riscontro di positività per HBsAg e
1. Infezione risolta
HBcAb IgM permette di porre diagnosi
(comune)
di epatite acuta da HBV.
HBsAg
negativo
2. Falso positivo
Nel sospetto di epatite acuta, oltre all’esaanti-HBc
positivo
per anti-HBc,
quindi a rischio
anti-HBs
negativo
me obiettivo, sarebbe opportuno effettua3. Infezione cronica
re gli esami di laboratorio per valutare il
di “basso livello”
grado di necrosi epatica e una ecografia
4. Infezione acuta
dell’addome superiore per valutare l’epain fase
tosplenomegalia.
di risoluzione
L’interpretazione dei markers biologici
per HBV (antigeni e anticorpi) è piuttosto Adattato da: A Comprehensive Immunization Strategy to Eliminate
complessa e richiede una conoscenza Transmission of Hepatitis B Virus Infection in the United States: Respecifica dell’evoluzione naturale della commendations of the Advisory Committee on Immunization Pracpatologia. Nel caso di riscontro occasio- tices. Part I: Immunization of Infants, Children, and Adolescents.
nale di HBsAg (paziente asintomatico), MMWR 2005; 54 (No. RR-16).
porto con liquidi e glucosio per via parenterale
nei casi che lo necessitano. In casi gravi con necrosi epatica importante è indicata una dieta ipoproteica, sono opportuni il controllo e l’eventuale
correzione di ipoglicemia e alterazioni dell’equilibrio idroelettrolitico e della coagulazione.
In genere si raccomanda l’ospedalizzazione del
paziente almeno fino all’inizio del decremento
degli indici di citolisi epatica.
Nel caso di riscontro di epatite cronica è opportuno inviare il paziente presso una struttura specializzata per la valutazione dell’epatopatia e
l’eventuale trattamento della forma cronica.
riconoscendo un valore più elevato in alcuni paesi
dell’Africa, del Sud-Est Asiatico e del Sud America.
TRASMISSIONE: L’epatite C viene contratta prevalentemente per via parenterale e per via parenterale inapparente. È possibile anche la trasmissione per via sessuale, anche se con una frequenza inferiore rispetto all’epatite B. La trasmissione
verticale è possibile ma il rischio è basso. Il serbatoio è rappresentato principalmente dai soggetti affetti da epatite cronica.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Da 15 a 90 giorni.
QUADRO CLINICO: Con una frequenza nettamente inferiore rispetto agli altri virus epatitici, l’HCV
determina un quadro di epatite acuta, la cui sintomatologia è comune alle altre epatiti. Nella
gran parte dei casi, l’epatite decorre in maniera
asintomatica e la positività viene riscontrata casualmente in occasione di esami generali che
mostrano un aumento degli indici di citolisi epa-
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Nessun tipo di isolamento è necessario. Di contro,
andrà evitato ogni contatto con il sangue e con le
secrezioni genitali del paziente, come per ogni altra malattia a trasmissione parenterale e sessuale,
tramite l’utilizzo degli opportuni dispositivi
(guanti, preservativi, ecc). Per
l’epatite B è disponibile un vaccino, obbligatorio per il personale sanitario e oggi inserito
nella schedula vaccinale infantile nella maggioranza dei paesi
occidentali (vedi capitolo “Vaccinazioni”). Si ricorda che è
buona regola vaccinare il partner sessuale e i conviventi di un
soggetto HBsAg positivo.
Epatite C
DEFINIZIONE: È una forma di
epatite causata da dell’Hepatitis C
virus. Prima della sua individuazione, nel 1989, veniva definita
“epatite non A non B”.
AGENTE CAUSALE: Hepatitis C
virus (HCV).
EPIDEMIOLOGIA: Secondo le stime dell’OMS, sono circa 170 milioni i portatori di HCV, circa il
3% della popolazione mondiale.
La prevalenza dell’infezione varia in base alle aree geografiche
Storia naturale
Infezione
Infezione
asintomatica
90-95%
Cronicizzazione
80%
Portatori
“sani” 40%
Epatite acuta
10-50%
Guarigione
~20%
adulto
Epatite
fulminante
0,1%
Epatite cronica
stabile 80%
Cirrosi 20%
(mortalità: 1-5%/anno)
Epatocarcinoma
1-5%/anno
39
40
PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
Epatite D
Epatite E
Il virus dell’epatite D (o epatite delta) è un virus
difettivo: è in grado di infettare e riprodursi nell’organismo solo in presenza di un’infezione
contemporanea da HBV, per cui si manifesta come coinfezione o soprainfezione di una epatite
B acuta o cronica.
Il quadro clinico e la gestione terapeutica sono sovrapponibili a quelli delle altre epatiti acute.
Non esiste un vaccino specifico, ma la vaccinazione
contro l’epatite B è in grado, per le ragioni sopracitate, di proteggere anche contro l’epatite delta.
Di recente identificazione, questa variante di epatite è diffusa nelle aree tropicali e ha una trasmissione oro-fecale. Può provocare epidemie ed è
causa di un quadro acuto sovrapponibile a quello delle altre epatiti, particolarmente severo nelle
donne in gravidanza.
HEV
Anti-HCV:
• Anti-HEV IgM+ e IgG+: acuta
• Anti-HEV IgG+: pregressa infezione
Non esiste terapia specifica né vaccino.
Prevalenza dell’infezione da HCV nel mondo (Fonte: CDC. Travellers’ Health; Yellow Book. 2010.
http://wwwnc.cdc.gov/travel/yellowbook/2010/table-of-contents.htm, Adattata da Perz JF, Farrington LA, Pecoraro C, et al. Estimated global prevalence of hepatitis C virus infection. 42nd Annual
Meeting of the Infectious Diseases Society of America; Boston, MA, USA; Sept 30–Oct 3, 2004)
tica o in occasione di screening. Molto più fre- tia e l’eventuale trattamento della forma cronica.
quente risulta invece la cronicizzazione (80% dei MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
casi). Le complicanze a lungo termine sono rap- Non esistono al momento interventi di prevenpresentate dalla cirrosi epatica (20%) e dall’epa- zione specifica nei confronti dell’infezione da
HCV. Data la mancanza di misure profilattiche
tocarcinoma (2%).
DIAGNOSI: Come per l’epatite B, il quadro clinico specifiche, la prevenzione dell’epatite C poggia
difficilmente orienta verso l’eziologia essendo so- essenzialmente sull’interruzione della catena
stanzialmente aspecifico. La diagnosi richiede la del contagio. Le strategie preventive aspecifiche
ricerca degli opportuni markers di infezione (an- sono volte a eliminare o ridurre la trasmissione
ticorpi anti-HCV); anche in quedell’infezione e sono indisto caso, gli approfondimenti
rizzate in particolare agli
HCV
diagnostici andranno completati
individui a rischio. E’ posAnti-HCV:
da uno specialista per il corretto
sibile, anche se di raro riAnticorpi non neutralizzanti
inquadramento della fase evolu- •
scontro, la trasmissione per
della classe IgG
tiva dell’infezione.
via sessuale, pertanto si
TERAPIA: Il trattamento delle • Si positivizzano entro 2-3 mesi raccomandano rapporti
dall’infezione
forme acute consiste, come per
sessuali protetti, in particogli altri quadri di epatite acuta, HCV-RNA:
lare per evitare di contrarre
nella somministrazione di liqui- • PCR qualitativa
malattie sessuali che po(si positivizza in 1-2 settimane)
di e glucosio per via endovenosa
trebbero aumentare la renei casi più gravi, nel riposo a • PCR quantitativa (carica virale)
plicazione virale. È opporletto e dieta leggera. Nel caso di RIBA (immunoblotting):
tuno non condividere ogriscontro di epatite cronica è op- • c-22-3 e c-33-c
getti taglienti o appuntiti
portuno inviare il paziente pres(rasoi, lamette, forbici, sisi positivizzano in 2-3 mesi
so una struttura specializzata • c-100-3 in 4-5 mesi
ringhe) e spazzolini per la
per la valutazione dell’epatopapulizia dei denti.
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41
42
PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
µ INFEZIONE DA HIV/AIDS
SINONIMI: L'acronimo SIDA - Syndrome d'ImmunoDéficience Acquise, Síndrome de Inmunodeficiencia Adquirida, Sindrome da ImmunoDeficienza Acquisita - utilizzato in francese, in
spagnolo e italiano, rispettivamente; l’acronimo
AIDS, Acquired ImmunoDeficiency Syndrome,
utilizzato nel mondo anglosassone e a livello
mondiale.
DEFINIZIONE: Inizialmente considerata una malattia limitata a determinati gruppi a rischio
(omosessuali, tossicodipendenti), l’infezione da
HIV/AIDS è oggi ubiquitaria e diffusa a tutte le
categorie sociali. Com’è noto, l’AIDS, che rappresenta la fase conclamata dell’infezione da HIV, è
una malattia multisistemica inevitabilmente
mortale se non trattata.
AGENTE CAUSALE: Human Immunodeficiency
Virus (HIV). Sono due le specie di HIV che infettano gli esseri umani: l’HIV-1 e l’HIV-2. L’HIV-1
è più virulento e si trasmette più facilmente.
L’HIV-1 è la fonte della maggioranza delle infezioni da HIV nel mondo; l’HIV-2 si trasmette meno facilmente ed è per lo più diffuso nell’Africa
occidentale. Entrambi i virus derivano da analoghi che infettano i primati.
EPIDEMIOLOGIA: Si stima che nel 2009 le persone affette da HIV nel mondo erano 33,3 milioni,
di cui oltre 30 milioni residenti nei Paesi in via di
sviluppo, 2,6 milioni quelle che hanno contratto
il virus di recente e 1,8 milioni quelle decedute
per malattie correlate all’Aids.
Rispetto al 2001 il tasso di prevalenza globale del
virus dell’HIV nelle persone di 15-49 anni è rimasto stabile (0,8%), ma guardando alle specifiche
situazioni geografiche si registrano aumenti in
Medio Oriente e Nord Africa, Africa orientale,
Oceania, Europa orientale e Asia centrale e Nord
America. Nonostante il calo della prevalenza
dell’HIV negli adulti in tutto il mondo e l’aumento dell’accesso alle cure, il numero totale di bambini di 0-17 anni che ha perso i propri genitori a
causa dell'HIV non è ancora diminuito. Infatti, è
ulteriormente aumentato da 14,6 milioni nel
2005 a 16,6 milioni nel 2009. Quasi il 90% vive in
Africa sub-sahariana. La conoscenza di tale patologia è quindi essenziale per chi si trovi a fornire
assistenza medica ai migranti ospiti di centri di
accoglienza, la maggior parte dei quali provenienti da paesi africani.
TRASMISSIONE: La trasmissione avviene nelle
classiche tre modalità: parenterale, sessuale, verticale (o materno-infantile).
La via parenterale, sebbene più efficace per la trasmissione, è in realtà responsabile di un numero limitato di casi. La maggior parte delle infezioni nel
mondo avviene infatti per via sessuale o verticale.
La modalità di infezione parenterale rimane di
triste attualità soprattutto per gli operatori sani-
Prevalenza mondiale dell’infezione da HIV, 2009 (Fonte: UNAIDS Report on the global AIDS epidemic 2010)
tari esposti a incidenti professionali (puntura accidentale in corso di prelievo ematico, incidenti
di sala operatoria, ecc).
L’infezione tramite la trasfusione di sacche di sangue contaminate è ormai obsoleta grazie agli
screening virali sistematici effettuati sui donatori.
quadri clinici o anche solo elementi anamnestici sospetti (storia di tossicodipendenza endovenosa, prostituzione, rapporti sessuali non protetti con partner
occasionali, ecc). Il progressivo peggioramento dell’immunodepressione causata dall’HIV (evidenziata
dalla riduzione del tasso ematico di linfociti CD4+)
La classificazione CDC viene usata dagli specialisti per definire lo stadio evolutivo dell’infezione.
Essa tiene conto della gravità dell’immunodepressione (volere dei linfociti CD4+) e delle manifestazioni cliniche.
Categorie
suddivise per
numero di linfociti
CD4+
(A)
Infezione acuta da HIV,
Infezione asintomatica,
Linfadenopatia persistente
generalizzata
(B)
Infezione sintomatica,
condizioni
non (A) - non (C)*
(C)
Condizioni
indicative
di AIDS**
> 500 mmc
A1
B1
C1
200 - 499/mmc
A2
B2
C2
< 200/mmc
A3
B3
C3
* condizioni cliniche inserite
nella categoria B:
• Candidosi orofaringea
• Sintomi costituzionali
(febbre superiore a 38,5°C
e/o diarrea persistenti
per più di un mese)
• Leucoplachia orale villosa
• Herpes zoster multimetamerico
o ricorrente
o carcinoma in situ della cervice
• Porpora troimbocitopenica
idiopatica
• Angiomatosi bacillare
• Neuropatia periferica
QUADRO CLINICO: L’andamento clinico-patologico della sindrome è estremamente variabile tra
gli individui per il fatto che la progressione dell’infezione dipende da fattori genetici sia del virus che dell’ospite, dalle condizioni igieniche e
dall’insorgenza delle coinfezioni.
L’infezione acuta da HIV nella gran parte dei casi
decorre in maniera del tutto asintomatica. In una
piccola percentuale di casi può dar luogo a una
sindrome similmononucleosica con comparsa di
febbre, astenia, aumento di volume dei linfonodi,
faringodinia, cefalee. La sintomatologia si risolve
spontaneamente nell’arco di 1-3 settimane.
Solo molto raramente la diagnosi avviene in fase
acuta, data l’aspecificità del quadro clinico. Più spesso il riscontro è casuale, in corso di screening volontario. A questo proposito va ricordato che il medico
è tenuto a proporre il test ogniqualvolta sussistano
• Candidosi vaginale ricorrente
• Displasia cervicale
• Malattia infiammatoria pelvica
** condizioni morbose indicate nella
lista sopra riportata
comporta la comparsa di infezioni opportunistiche
e tumori. Alcune di queste patologie sanciscono
l’evoluzione dell’infezione verso l’AIDS.
La lista che segue elenca le infezioni opportunistiche e le neoplasie AIDS-correlate, così come sono state definite dal Center for Diseases Control
and Prevention di Atlanta nel 1993.
Alcune infezioni opportunistiche, notoriamente
la tubercolosi, possono verificarsi in qualunque
stadio dell'infezione da HIV. Negli stadi iniziali
di malattia, sono più frequenti le infezioni batteriche cutanee e l'herpes zoster. Con l’aggravamento dell’immunodepressione, è probabile la
comparsa di candidosi orofaringea e di leucoplachia orale villosa. Nei pazienti con immunodepressione grave, aumenta il rischio di pneumocistosi polmonare (PCP), dell'encefalite toxoplasmica, delle infezioni micotiche ed erpetiche dis-
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seminate, di malattie gravi da citomegalovirus
(corio retinite e infezioni disseminate).
DIAGNOSI: Viene fatta eseguendo il test HIV che rileva nel sangue gli anticorpi anti HIV; il test è gratuito per tutti è può essere eseguito in forma anonima. Si tratta in genere di un test Elisa, anche se vari
fociti CD4+ (per seguire il progressivo decadimento della risposta immunitaria) e della carica virale
(HIV-RNA).
Questi test consentono allo specialista di stabilire
quando è necessario iniziare un trattamento antiretrovirale (vedi oltre) e di seguirne l’efficacia.
Criteri per la classificazione e notifica di AIDS
• Candidosi bronchiale, tracheale, polmonare
• Candidosi esofagea
• Carcinoma invasivo della cervice dell'utero
• Cocciddiomicosi, disseminata
Sarcoma di Kaposi in HIV. Si ossrevano le
caratteristiche lesioni nodulari sulla lingua
Tinea corporis al dorso in HIV. L’infezione micotica è particolarmente estesa nei pazienti immunodeficienti
o extra polmonare
• Criptococcosi extrapolmonare
• Criptosporidiosi intestinale cronica (>1mese)
• Malattie da Citomegalovirus (CMV)
eccetto localizzazione epatica,
splenica e linfonodale
• Retinite da CMV
• Encefalopatia HIV correlata
(AIDS dementia complex ADC)
• Herpes simplex: ulcere croniche
della durata > di 1 mese o bronchite,
polmonite o esofagite
• Istoplasmosi, disseminata o extrapolmonare
Candidasi del cavo orale in un paziente HIV-positivo
Candidiasi genitale in HIV. Lesioni biancastre adese
ai genitali esterni e alle pieghe inguinali dove è presente macerazione
Molluschi contagiosi del viso in un paziente
HIV-positivo. Visibile la classica ombelicatura
centrale
Leucoplachia villosa orale. Placche biancastre ai
margini laterali della lingua, filiformi e ben aderenti
tipi di test rapidi sono oggi in commercio. Tutti i risultati positivi devono essere confermati con un secondo test (si tratta di solito di un test Western Blot)
prima di poter far diagnosi certa di infezione da
HIV. Per l’interpretazione di un risultato negativo,
inoltre, è necessario tenere conto del periodo finestra, il periodo di tempo cioè che intercorre tra il
momento del contagio e la possibilità di rilevare gli
anticorpi nel sangue. La durata di questo periodo è,
tenendo conto dell’attuale sensibilità dei test in
commercio, di circa 3 mesi. Il risultato del test può
essere comunicato solo alla persona interessata o
al suo tutore legale. Una persona risultata positiva
al test HIV va riferita a un centro specialistico per il
corretto inquadramento e la presa in carico dell’infezione. Trattandosi di un’infezione cronica, infatti,
il paziente dovrà essere seguito per tutta la durata
della vita, con periodici controlli della conta dei lin-
• Isosporiasi intestinale cronica (>1 mese)
• Sarcoma di Kaposi
• Linfoma di Burkitt
• Linfoma immunoblastico
• Linfoma primitivo del cervello
• Micobacterium avium complex
o M. kansasi, disseminati o extrapolmonari
• Micobacterium tuberculosis,
qualsiasi localizzazione
(polmonare o extrapolmonare)
• Polmonite da Pneumocystis carinii
• Polmoniti batteriche ricorrenti
(2 o più episodi in un anno)
• Leucoencefalite multifocale progressiva
• Setticemia ricorrente da Salmonella
• Toxoplasmosi cerebrale
• Wasting syndrome dovuta da HIV
TERAPIA: La terapia antiretrovirale viene somministrata unicamente dalle strutture ospedaliere
e la scelta del regime terapeutico deve essere effettuata da un medico esperto in materia.
Attualmente sono disponibili numerosi farmaci
ad azione antiretrovirale i quali vengono combinati nella cosiddetta HAART, Highly Active Antiretroviral Therapy, terapia antiretrovirale altamente attiva, che viene assunta quotidianamente
allo scopo di bloccare in modo efficace la replicazione del virus e consentire il recupero delle
difese immunitarie. Una dettagliata trattazione
della terapia antiretrovirale esula dallo scopo di
questo testo.
Tuttavia, è opportuno sapere che:
• La HAART richiede l’associazione di almeno tre
farmaci efficaci: un numero inferiore di farmaci
attivi comporta un alto rischio di sviluppare resi-
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stenze farmacologiche, con successiva inefficacia
della terapia stessa. Va da sé che un paziente che
riferisca di assumere solo uno o due farmaci deve
essere urgentemente inviato a un centro specialistico per una revisione della terapia;
• Trattandosi di una terapia soppressiva (e non
curativa) la terapia antiretrovirale è una terapia
a vita, che non va interrotta se non per indicazione medica. L’interruzione comporta infatti una
ripresa della replicazione virale e un conseguente
aggravamento dell’infezione;
• I farmaci antiretrovirali presentano uno spettro
molto ampio e vario di effetti collaterali. Il più noto
di questi, la lipodistrofia, comporta una redistribuzione del grasso sottocutaneo e viscerale con accumulo a livello addominale, mammario e retronucale e riassorbimento a livello degli arti e del viso.
Si tratta di un effetto oggi sempre meno comune
grazie ai più recenti farmaci antiretrovirali in uso;
• Le interazioni medicamentose dei farmaci antiretrovirali in atto andrebbero attentamente
esplorate prima di prescrivere un qualsiasi altro
trattamento di lunga o breve durata.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
È ridondante ricordare che il paziente con infezione
da HIV non necessita di isolamento. Le misure igie-
niche da mettere in atto sono unicamente quelle dettate dal buon senso per tutte le patologie a trasmissione parenterale e sessuale: oggetti di igiene personale individuali, uso del preservativo durante i rapporti sessuali, uso di guanti nel caso di medicazioni
o procedimenti di piccola chirurgia, ecc. Nel caso di
un’infezione opportunistica, le misure da adottare
saranno quelle del caso specifico. Poiché a tutt'oggi
non è ancora stato sviluppato un vaccino per il virus
HIV né una cura per combattere l'infezione, la sola
misura preventiva consiste nell'evitare i comportamenti a rischio di contagio.
PROFILASSI POST-ESPOSIZIONE (HIV-PEP):
In caso di possibile esposizione al virus, subito
dopo un evento a rischio in base alle vie di trasmissione sopra descritte, è possibile sottoporsi a
un particolare trattamento farmacologico noto
come profilassi post-esposizione, in grado di ridurre notevolmente le probabilità di contagio, se
applicato correttamente e nei tempi appropriati.
L’utilità dell’HIV-PEP dipende in modo determinante dal lasso di tempo trascorso dal momento
dell’esposizione al rischio all’inizio della terapia.
Dopo 72 ore dall’esposizione al virus la HIV-PEP
non è più considerata utile.
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µ ESANTEMI INFETTIVI
AGENTE CAUSALE: Virus Varicella zoster (VZV),
Tra gli esantemi infettivi, tipici dell’età pediatrica,
morbillo e varicella rivestono un certo interesse
nell’ambito della medicina delle migrazioni per
la loro relativa frequenza nelle comunità chiuse,
dove possono essere causa di piccole epidemie, e
per la severità con cui possono manifestarsi nella
popolazione adulta.
EPIDEMIOLOGIA: Nei Paesi a clima temperato la
della famiglia degli Herpes virus.
Varicella-Zoster
SINONIMI: Chickenpox, petit verole volante,
windpocken.
DEFINIZIONE: La varicella è un’infezione virale
acuta, generalizzata, a insorgenza improvvisa,
causata dal virus varicella-zoster, accompagnata
da sintomatologia generale lieve e da un’eruzione generalizzata di lesioni cutanee in diverse fasi
evolutive: vescicole, papule, croste e cicatrici.
L’infezione produce immunità permanente in
quasi tutte le persone immunocompetenti. Tuttavia, il virus non viene eliminato dall’organismo,
ma rimane latente (in genere per tutta la vita) nei
gangli delle radici nervose spinali.
L’herpes zoster è dovuto a una virulentazione del
virus silente localizzato nei gangli (radice posteriore) dopo la varicella. Si tratta di una malattia
neuro-cutanea, a decorso infiammatorio acuto,
caratterizzata da una ganglioneurite, da manifestazioni vescicolari cutanee a distribuzione metamerica, da adenopatia regionale e dolori nevritici.
H. Zoster toraco-lombare. Classica eruzione vescicolosa
maggior parte dei casi si verifica prima dei dieci
anni di età. L’epidemiologia della varicella è meno conosciuta nelle regioni tropicali, dove alcuni
studi hanno riscontrato una proporzione abbastanza ampia di adulti sieronegativi.
TRASMISSIONE: La varicella è una malattia infettiva altamente contagiosa e la trasmissione da
persona a persona avviene per via aerea mediante
le goccioline respiratorie diffuse nell’aria quando
una persona affetta tossisce o starnutisce, o tramite contatto diretto con lesione da varicella o zoster in fase vescicolare. La contagiosità inizia da
1 o 2 giorni prima della comparsa dell’eruzione
e può durare fino alla comparsa delle croste.
Durante la gravidanza, il virus può essere trasmesso all’embrione o al feto attraverso la placenta.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Varia da 14 a 18 giorni, sino a un massimo di 3-4 settimane per la varicella. Per lo zoster, ovviamente, non si può parlare di periodo di incubazione trattandosi semplicemente della riattivazione di un’infezione silente. Questa può verificarsi in ogni momento, da
poche settimane a molti anni dopo l’infezione
acuta, e verificarsi più volte nello stesso soggetto.
QUADRO CLINICO: La varicella esordisce con un
esantema cutaneo, febbre non elevata e lievi sintomi generali come malessere e mal di testa. Per
3-4 giorni, piccole papule rosa pruriginose compaiono su testa, tronco, viso e arti, a ondate successive. Le papule evolvono in vescicole, poi in pustole e infine in croste, destinate a cadere. Caratteristica è la presenza contemporanea delle diverse
fasi della lesione (si parla di “esantema a cielo
stellato”). La varicella è in genere una malattia
benigna che guarisce nel giro di 7-10 giorni. La
malattia tende ad avere un decorso più aggressivo
nell’adolescente e nell’adulto. Tra le complicanze
si possono verificare superinfezione batterica delle
lesioni cutanee, trombocitopenia, artrite, epatite,
atassia cerebellare, encefalite, polmonite e glomerulonefrite. Negli adulti la complicanza più comune è la polmonite, che può avere un’eziologia
virale (polmonite interstiziale) o essere dovuta a
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una sovrainfezione batterica.
Nel 10-20% dei casi il virus si risveglia a distanza
di tempo dando luogo all’herpes zoster. Lesioni
a grappolo di tipo vescicolare si presentano al torace o in altre sedi prevalentemente del tronco,
a volte accompagnate da dolore localizzato. Il
dolore che persiste oltre un mese viene chiamato
nevralgia posterpetica.
Se la varicella viene contratta da una donna all’inizio di una gravidanza (nei primi due trimestri di gestazione) può trasmettersi al feto, causando una embriopatia (sindrome della varicella
congenita). Il virus della varicella è particolarmente grave negli immunodepressi, nei quali
può causare quadri disseminati e a volte fatali.
DIAGNOSI: Clinica. Caratteristica per la varicella
la comparsa di lesioni in differenti stadi evolutivi
e l’ombelicatura centrale delle lesioni vescicolose. Lo zoster invece per la distribuzione dermatomerica delle lesioni e per l’importante sintomatologia dolorosa di tipo urente.
Varicella in un migrante. Lesioni vescico-bollose diffuse
caratterizzate dalla tipica ombelicatura centrale
TERAPIA: Generalmente, la terapia è solo sintomatica. Per il prurito possono essere utilizzati antistaminici, mentre per la febbre il paracetamolo.
Nell’adulto si può ricorrere alla somministrazione di farmaci antivirali come l’Acyclovir per via
orale, al dosaggio di 800 mg in 5 somministrazioni al giorno (una compressa ogni 4 ore esclu-
se le ore notturne), per 7 giorni. La terapia antivirale deve essere iniziata entro 48 ore dall’inizio
dell’esantema.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
In generale, si consiglia di isolare i pazienti per
evitare la diffusione del contagio. L’Acyclovir per
via orale non è raccomandato come profilassi.
L’esantema in fase crostosa non è più infettivo
e il medico competente può sciogliere la prognosi.
Morbillo
SINONIMI: Piccolo morbo.
DEFINIZIONE: Il morbillo è una malattia infettiva
causata da un virus del genere morbillivirus. È
una malattia benigna ma molto contagiosa che
necessita di isolamento.
AGENTE CAUSALE: Virus del genere morbillivirus
(famiglia dei Paramixovidae).
EPIDEMIOLOGIA: Il morbillo è diffuso in tutto il
mondo. È una delle più frequenti febbri eruttive,
sebbene sia molto meno comune da quando è
in uso la vaccinazione con richiamo. Nel corso
del 2009 sono stati riportati 222,408 nuovi casi
di morbillo.
TRASMISSIONE: Il contagio avviene tramite le secrezioni nasali e faringee, probabilmente per via aerea.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Circa 10 giorni. La
contagiosità si protrae fino a 5 giorni dopo la
comparsa dell’eruzione cutanea, ed è massima
tre giorni prima, quando si ha la febbre.
QUADRO CLINICO: Il morbillo provoca principalmente un esantema cutaneo che dura tra i 10 e
i 20 giorni. Una volta contratto, il morbillo dà
un’immunizzazione definitiva.
I primi sintomi sono simili a quelli di un raffreddore (tosse secca, naso che cola, congiuntivite)
accompagnato da febbre alta. Successivamente
appaiono delle macule biancastre sulla mucosa
orale (macchie di Koplik, di non costante osservazione) e dopo 3-4 giorni il caratteristico esantema maculare, prima dietro le orecchie e sul viso, quindi, con diffusione in senso cranio-caudale, su tutto il resto del corpo. L’eruzione dura
da 4 a 7 giorni.
Fonte: WHO/IVB database, 2010
Le complicazioni sono relativamente rare, dovute
principalmente a superinfezioni batteriche: otite
media, laringite, diarrea, polmonite o encefaliti.
Nonostante il carattere benigno, il morbillo è ancora una delle principali cause di morte infantile
nei paesi in via di sviluppo. Può infatti assumere
una forma grave e causare complicazioni particolarmente negli immunodepressi e nei soggetti
malnutriti.
DIAGNOSI: Sebbene esista la possibilità di una
diagnosi sierologica, il quadro clinico è in genere
molto suggestivo e sufficiente per porre diagnosi.
Va tuttavia ricordato come le manifestazioni cutanee possano essere confondenti nei soggetti di
pelle scura, dove l’esantema tende a essere più
sfumato e la fase desquamativa finale molto accentuata.
TERAPIA: Sarà essenzialmente sintomatica (paracetamolo, antitussigeni). Il ricorso a un trattamento antibiotico sarà necessario solo in caso di
complicanze batteriche.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Il vaccino del morbillo appartiene ai vaccini vivi
attenuati. Come per tutti i vaccini vivi attenuati,
la vaccinazione non viene effettuata negli individui con deficit immunitario o sotto terapia immunosoppressiva (corticoidi, antineoplastici, antirigetto), né, per precauzione, nelle donne gravide o che desiderano esserlo nel mese successivo. Invece, è consigliato alle persone infette da
HIV che non hanno ancora sviluppato l’AIDS.
In caso di epidemie in comunità, l’opportunità
di estendere il vaccino anche agli adulti dovrà
essere considerata.
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µ MENINGITI
DEFINIZIONE: La meningite è una malattia infiammatoria delle membrane che rivestono l’encefalo (della pia madre e dell’aracnoide) e del liquido cefalorachidiano, generalmente di origine
infettiva, causata da virus, batteri o miceti (rara).
Le forme virali sono generalmente lievi e si risolvono spontaneamente; le forme batteriche sono
più gravi e necessitano di terapia specifica.
AGENTE CAUSALE: La malattia è generalmente di
origine infettiva e può essere virale, batterica o
causata da funghi.
EPIDEMIOLOGIA: L’incidenza della meningite nel
mondo è di 0,5-5 casi per 100.000 persone. La
mortalità della malattia è significativa (14% dei
casi), soprattutto nella forma fulminante, e tra i
pazienti che guariscono un altro 10-15% subisce
danni permanenti.
TRASMISSIONE: Nella maggior parte dei casi l’infezione si diffonde tra persone che vivono a stretto contatto.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Varia a seconda del
microrganismo, nelle forme virali va da 3 a 6
giorni, nelle forme batteriche da 2 a 10 giorni.
QUADRO CLINICO: I sintomi includono cefalea,
febbre più o meno elevata, vomito a getto, rigidità nucale, alterazioni del livello di coscienza di
grado variabile. La gravità del quadro clinico è
correlata all’eziologia.
DIAGNOSI: La diagnosi di certezza viene effettuata
tramite l’esame fisico-chimico e microbiologico del
liquido cefalorachidiano prelevato mediante puntura lombare. In presenza di sospetto clinico è necessario trasferire il paziente presso una struttura ospedaliera per opportuni accertamenti e trattamento.
Meningiti batteriche
I batteri maggiormente responsabili di meningite
sono: Neisseria meningitidis, Streptococcus
pneumoniae, Haemophilus influenzae tipo B.
Meningite da Neisseria
meningitidis (Nm) (meningococco)
AGENTE CAUSALE: Neisseria meningitidis. Il bat-
terio risiede frequentemente nelle vie aeree superiori, si ritrova nel nasofaringe del 5% circa della popolazione. Solo una piccola parte dei portatori sviluppa però la malattia.
EPIDEMIOLOGIA: La malattia è ubiquitaria ma
sono presenti focolai epidemici estesi in America
Latina e in Africa soprattutto nella cosiddetta “fascia della meningite” che va dal Senegal-Gambia
all’Etiopia-Kenia. Cinque sierotipi di Nm – A, B,
C, W135 and X – sono responsabili dei focolai
epidemici diagnosticabili nella summenzionata
area. Circa il 5-15% della popolazione umana è
portatrice sana di questo batterio nella sua forma
non patogena.
TRASMISSIONE: La trasmissione avviene per contatto diretto attraverso le goccioline di saliva ed
è favorita negli ambienti chiusi e poco ventilati.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Da 2 a 3 giorni.
QUADRO CLINICO: Si caratterizza per l’insorgenza di cefalea intensa, faringodinia, febbre elevata
con brivido, vomito a getto non correlato con
l’alimentazione; coesistono segni di irritazione
meningea: rigidità nucale, segno di Lasegue positivo, fotofobia, iperestesia cutanea, dermografismo. Nelle forme più gravi si può osservare
l’opistotono, cioè l'iperestensione del capo e talora del dorso con decubito laterale obbligato e
arti inferiori flessi (posizione "a cane di fucile"),
soprattutto nei bambini. Si possono associare disturbi psichici, quali agitazione psicomotoria,
stato confusionale, torpore fino al coma. La malattia può avere un’evoluzione fulminante, con
la comparsa di petecchie, emorragie ed evoluzione verso coma e morte nel giro di poche ore. In
corso di infezioni da meningococco ci può essere
un interessamento delle articolazioni, dei polmoni e dei seni paranasali.
DIAGNOSI: Può essere posta clinicamente attraverso l’esame obiettivo; per la conferma e l’identificazione del microrganismo causale è necessaria l’esecuzione di puntura lombare ed esame
fisico-chimico e microbiologico del liquor.
TERAPIA: Il paziente va trasferito il più rapidamente possibile presso una struttura idonea; il trasferimento deve avvenire, quando possibile, in presenza
di un medico. Nel caso fosse possibile l’esecuzione
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della puntura lombare la terapia antibiotica va intrapresa immediatamente dopo la manovra.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
In caso di sospetto di meningite da meningococco il paziente va posto in stretto isolamento per
le prime 24 ore di trattamento antibiotico. La
chemioprofilassi va effettuata, entro 48 ore, alle
persone che sono state a contatto stretto con il
malato nei 7 giorni precedenti l'insorgenza della
malattia (familiari, conviventi, personale sanitario che ha assistito il malato).
Può essere effettuata con:
• Rifampicina 600 mg x 2 per 2 giorni negli adulti, 10 mg/kg x 2 per due giorni nei bambini;
• Ciprofloxacina 500 mg unica dose solo negli
adulti;
• Ceftriaxone in caso di donne in gravidanza 250
mg IM unica dose.
Meningite
da Streptococcus pneumoniae
Dopo il meningococco è il batterio più frequentemente implicato; molti pazienti affetti da meningite pneumococcica presentano anche otite, polmonite o sinusite. Si trasmette per via aerea e interessa prevalentemente i soggetti anziani, nei quali
il quadro clinico assume particolare gravità.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Non è necessaria la profilassi in caso di esposizione,
in quanto non si tratta di una forma contagiosa.
Meningite
da Haemophilus influenzae
tipo B (Hib)
Interessa prevalentemente l’età pediatrica. Con
l’introduzione della vaccinazione si è ridotto notevolmente il numero di casi.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
È indicata la profilassi per i contatti stretti.
Meningiti virali
I virus più frequentemente responsabili di meningite sono Herpes virus ed Enterovirus. Interessa maggiormente i giovani adulti. La sintomatologia è generalmente più sfumata, caratterizzata da lieve rialzo febbrile, cefalea, talvolta
nausea, rigidità nucale ed è sufficiente il riposo
a letto e un trattamento con analgesici ed antipiretici. Solitamente si osserva la guarigione
spontanea nell’arco di 7-10 giorni.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
una volta esclusa l’eziologia meningococcica tramite puntura lombare non è necessario l’isolamento.
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
µ SCHISTOSOMIASI
SINONIMI: Bilarziosi.
AGENTE CAUSALE: I 5 agenti infettivi, Schistosoma mansoni, Schistosoma japonicum, Schistosoma mekongi, Schistosoma haematobium, e
Schistosoma intercalatum, possono causare un
quadro sindromico molto poliedrico. Lo Schistosoma è distinto in due sessi (maschio e femmina). La forma adulta riconosce come ospite naturale l’uomo, nel quale l’elminta parassita i vasi
mesenterici (S. japonicum, S. mekongi, S.
mansoni, e S. intercalatum) o quelli del plesso
vescicale (S. haematobium).
EPIDEMIOLOGIA: Le maggiori aree di diffusione
della malattia sono le zone rurali di Africa, Sud
America e Asia. Oltre 207 milioni di persone al
mondo risultano infette, l’85% delle quali vive in
Africa, 700 milioni di individui sono a rischio
d’infezione. La parassitosi risulta prevalente nelle
aree tropicali e sub-tropicali del pianeta dove interessa la popolazione più povera con uno scarso
o negato accesso all’acqua potabile.
TRASMISSIONE: L'infestazione si acquisisce attraverso il contatto con acque dolci contaminate
dalle feci o, per S. haematobium, dalle urine degli individui parassitati.
Data l’assenza dell’ospite intermedio nelle nostre
latitudini, la trasmissione da una persona infetta
a un’altra non è possibile.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Dal momento della
penetrazione delle cercarie alla comparsa dei primi sintomi della forma acuta, solitamente, non
passa meno di un mese, ma l'infestazione può
anche mantenersi asintomatica per molti anni o
non manifestarsi per nulla.
QUADRO CLINICO: L’infezione da Schistosoma
può provocare dei quadri sindromici acuti (dermatite immediatamente dopo la penetrazione
della cercaria nella cute e febbre di Katayama, in
seguito alla produzione e liberazione di uova)
che sono di rarissimo riscontro nelle persone immigrate. I quadri cronici, dovuti all’evoluzione
steno-fibrotica dei plessi ematici parassitati, possono occasionalmente presentarsi all’attenzione
del medico e devono comunque essere conosciuti
per porre una diagnosi differenziale corretta.
La schistosomiasi urinaria cronica, provocata da
Schistosoma Hematobium, si manifesta con progressiva reazione granulomatosa a carico delle
pareti vescicali e uretrali, con possibile evoluzione
verso la stenosi e l’idronefrosi. È stata anche dimostrata un’associazione con il cancro della vescica.
Il paziente si presenterà all’attenzione del medico
lamentando ematuria, a volte conclamata, più
spesso microscopica, infezioni urinarie ricorrenti,
disuria e stranguria. L’anemia potrà essere sintomatica o di occasionale riscontro.
Nel caso di infestazione dei plessi mesenterici e
portali (S. mansoni, S. japonicum, o S. mekongi) il paziente lamenterà inizialmente disturbi
addominali vaghi, diarrea o costipazione, a volte
Tipi di parassiti e distribuzione geografica della schistosomiasi
Schistosomiasi
intestinale
Schistosomiasi
urogenitale
Parassita
Distribuzione geografica
Schistosoma mansoni
Africa, Medio Oriente, Caraibi, Brasile,
Venezuela, Suriname
Schistosoma japonicum
Cina, Indonesia, Filippine
Schistosoma mekongi
Diverse aree della Cambogia e del Laos
Schistosoma intercalatum
e S. guineansis
Foresta pluviale
dell’Africa centrale
Schistosoma haematobium
Africa, Medio Oriente
Ciclo vitale dello Schistosoma (Fonte: CDC)
Le uova sono eliminate con le feci ma soprattutto con le urine.
¿ queste rilasciano i miracidi tramite effetti osmotici sull'uovo stesso. ¡ I miracidi penetrano nel tessuto di
alcuni molluschi. ¬ nel mollusco le miracidi si trasformano dapprima in sporocisti e √ successivamente in
cercarie ƒ che in condizioni di caldo umido e luminosità si liberano dal mollusco e si diffondono nell’acqua
superficiale da qui penetrano attraverso la cute dell’uomo ≈ dove nel liquido extracellulare si trasformano
in schistoso muli ∆ che entrano in circolo « dove migrano nel fegato attraverso il sistema portale e diventano
adulti e » successivamente migrano nelle venule mesenteriche in diverse posizioni (A-B) oppure nel plesso
venoso della vescica (C) nel caso dello S. haematobium. Infine la femmina depone numerose uova … che
dalle venule migrano nel lume intestinale e vescicale per essere riverse all’esterno ¿.
vera e propria dissenteria con conseguente anemizzazione. Nelle forme croniche datate, la sintomatologia sarà conseguente alla progressiva
ostruzione dei vasi portali, con conseguente sviluppo di cirrosi epatica. Si avranno quindi tutti i
sintomi/segni dell’insufficienza epatica, con epatomegalia, versamento ascitico, ittero, ematemesi, difetti della coagulazione.
DIAGNOSI: Per la diagnosi di certezza è necessario il riscontro delle uova del parassita nelle feci o
nelle urine. È quindi richiesto un esame specialistico delle feci o delle urine (dopo concentrazione
e filtrazione) o su biopsie rettali, disponibile solo
in laboratori specialistici.
Il sospetto clinico di schistosomiasi urinaria do-
vrà sorgere in presenza di ematuria e/o anemia
in un paziente proveniente da aree geografiche a
rischio. La schistosomiasi mesenterica/portale
dovrà invece essere messa in diagnosi differenziale nel caso di diarree, anche ematiche, e quadri di
insufficienza epatica più o meno avanzati. Le indagini strumentali (ecografia vescicale o addominale/epatica, rettosigmoidoscopia, esofagogastroduodenoscopia) sono spesso di utilità irrinunciabile per rafforzare il sospetto clinico che
andrà comunque confermato con gli esami microbiologici.
Per tale ragione, è indispensabile, in caso di sospetto clinico, riferire il paziente a un centro specializzato per la diagnosi e il trattamento.
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
TERAPIA: Richiede un approccio specialistico. Il
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
farmaco di scelta è il Praziquantel, normalmente
disponibile solo in centri ospedalieri specialistici,
attivo su tutte le forme di Schistosoma. Il farmaco
è molto efficace nell’eliminare l’agente infestante, ma non può ovviamente correggere gli esiti
già instauratisi (steno-fibrosi vascolare, danno
epatico, ecc).
La disinfestazione sistematica con praziquantel
è praticata in alcuni paesi ad alta endemia nel
corso di campagne nazionali, ma non sembra essere proponibile né di interesse nella popolazione
immigrata nei paesi occidentali.
Come già detto, non potendo il paziente trasmettere l’infezione, nessun tipo di isolamento è necessario.
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µ MALARIA
DEFINIZIONE: La malaria è una malattia protozoaria causata da un parassita del genere Plasmodium. I casi di malaria vengono classificati secondo la terminologia adottata dall’OMS come segue:
un caso di malaria viene considerato “importato”
quando l’infezione è stata contratta in un Paese
diverso da quello in cui viene diagnosticata; “autoctono” quando è contratta localmente.
Tra i casi autoctoni vengono definiti “indotti”,
quelli causati da trasfusioni o altra forma di inoculazione parenterale (trapianti, infezioni nosocomiali, ecc.); “introdotti” i casi secondari contratti localmente in seguito alla puntura di una
zanzara indigena infettatasi su un caso d’importazione (portatore di gametociti) oppure contratti con la puntura di una zanzara infetta importata accidentalmente (malaria da bagaglio, da
aeroporto).
AGENTE CAUSALE: Gli uomini vengono infettati
quasi esclusivamente da quattro specie del genere
La malaria in Italia:
A conclusione della campagna di lotta antimalarica (1947-51), l’Italia era considerata un
Paese libero da malaria, ma poiché alcuni sporadici casi dovuti a Plasmodium vivax continuarono fino al 1962, l’OMS ha ufficializzato
questo risultato solo nel 1970. Attualmente, i
casi di malaria registrati in Italia, come anche
in altri Paesi europei, sono d’importazione.
Plasmodium: P. vivax, P. ovale, P. malariae e
P. falciparum. Tutte le infezioni malariche mortali sono causate da P. falciparum.
TRASMISSIONE: La malaria viene trasmessa tramite la puntura di una zanzara appartenente al
genere Anopheles. È la più importante delle malattie parassitarie degli esseri umani, con diffusione in oltre 100 paesi, e interessa oltre un miliardo di persone, con un tasso di mortalità che
varia da 1,5 a 2 milioni circa di morti ogni anno.
EPIDEMIOLOGIA:
• In Africa settentrionale la malaria è poco pre-
La Zanzara Anopheles
sente e predomina P. vivax;
• In Africa centrale e orientale predomina P. falciparum, ma sono presenti anche P. vivax e P.
malariae;
• In Africa occidentale predomina P. falciparum, ma è molto diffuso anche P. ovale; presente
ma raro P. vivax;
La malaria d’importazione si
conferma come un problema sanitario riguardante prevalentemente gli immigrati, in particolare africani che, regolarmente residenti in Italia, tornano nel Paese nativo in visita a familiari e
parenti. Questo gruppo, che nel
decennio precedente rappresentava solo il 15% dei casi, è salito
a circa il 75% nel 2002-2006.
Diffusione della malaria nel mondo (Elaborato da: www.unicef.org/publications)
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
• Nelle isole dell'Oceano Indiano e nel Sudest
Asiatico predomina P. falciparum, ma sono presenti anche P. vivax e P. malariae;
• Nel subcontinente indiano predomina P. vivax, ma è presente anche P. falciparum;
• Nelle isole dell’Oceano Pacifico e in America
centrale sono presenti sia P. vivax, sia P. falciparum, molto più diffusi in Amazzonia.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Il periodo di incubazione, ossia il tempo trascorso tra la puntura
infettante e la comparsa dei sintomi clinici, è di
circa 7-14 giorni per l’infezione da P. Falciparum, di 8-14 giorni per P. vivax e P. ovale, e di
7-30 giorni per P. malariae. Per alcuni ceppi di
P. vivax si può protrarre fino a 10 mesi; tale periodo può essere ancora più lungo per P. ovale.
QUADRO CLINICO: Si caratterizza per la comparsa di febbre elevata, cefalea, astenia, malessere
generale, artralgie, talvolta diarrea, epatosplenomegalia. L’accesso malarico ha un andamento
tipico, della durata di 12-16 ore caratterizzato
dalla comparsa di brividi che precedono il picco
febbrile; coesiste cefalea intensa. Si ha quindi la
fase della sudorazione con rapido abbassamento
della temperatura corporea che lascia il paziente
in uno stato di profonda astenia.
Laboratoristicamente si osservano anemia, piastrinopenia, aumento dei valori di bilirubina e
degli indici di citolisi epatica; nei casi più gravi
allungamento del tempo di protrombina (PT) e
di tromboplastina parziale attivata (PTT).
La periodicità degli accesi febbrili dipende dal
plasmodio responsabile e coincide con la rottura
dei globuli rossi determinata dalla fuoriuscita dei
plasmodi. Le infezioni da P. falciparum non trattate possono portare ad alterazioni degli organi
vitali con elevata letalità; possibile infatti la comparsa di insufficienza renale, ipoglicemia, edema
polmonare encefalopatia fino al coma.
La gravità delle manifestazioni cliniche può essere molto ampia e dipende da molti fattori: età
del paziente, assunzione della profilassi antimalarica (che, quando non evita l’episodio malarico, ne attenua le manifestazioni cliniche), presenza o meno di una immunità parziale. L’elemento clinico più costante è la febbre, che dovrà
suscitare il sospetto clinico in presenza degli adeguati dati anamnestici (soggetto con recente - fino a 6 mesi prima - provenienza da zone geografiche a rischio).
Si ricorda a questo proposito che il sospetto deve
porsi non solo per gli immigrati di recente arrivo,
ma anche per coloro che, residenti da anni in Italia, visitino il paese di origine per brevi periodi.
DIAGNOSI: Importante il dato anamnestico di
provenienza da un’area malarica. I test diagnostici per la malaria sono disponibili solo in laboratori specializzati. È quindi opportuno riferire il
paziente per l’esecuzione dell’esame microscopico di goccia spessa e striscio sottile che permettono di identificare il plasmodio ed effettuare il
calcolo della parassitemia. Alcuni ospedali dispongono di test rapidi in grado di identificare
nel sangue del paziente un antigene di superficie
del plasmodio e di porre diagnosi con una elevata accuratezza.
TERAPIA: Il trattamento per malaria non dovrebbe essere iniziato fino a quando gli esami di laboratorio non abbiano confermato il sospetto
diagnostico. Si inizia il trattamento in assenza di
una conferma della diagnosi solo in casi eccezionali, quali forte sospetto clinico, malattia severa, provenienza da paesi ad alta endemia, impossibilità a ottenere in tempi brevi i risultati degli esami di laboratorio. In presenza di diagnosi
clinica certa il trattamento deve essere iniziato
nell’immediato.
Tre principi devono essere rispettati: il tipo di Plasmodium infettante, le condizioni cliniche del
paziente e la suscettibilità dei parassiti agli antimalarici determinata dall’area geografica di provenienza del soggetto stesso.
La determinazione del tipo di Plasmodium infettante è importante per tre ordini di fattori:
• L’infezione da P. falciparum può determinare
una malattia severa rapidamente progressiva con
exitus. I parassiti non-falciparum (P. vivax, P.
ovale, o P. malariae) raramente causano manifestazioni severe;
• P. vivax e P. ovale necessitano di trattamenti
anche per le forme ipnozoite che rimangono
inattive nel fegato e possono causare recidive;
• P. falciparum e P. vivax presentano una certa
complessità terapeutica a causa della farmacoresistenza sviluppatasi in diverse aree geografiche. Riguardo all’infezione da P. falciparum,
l’inizio tempestivo della terapia assume carattere
prioritario.
PROFILASSI:
La profilassi farmacologica andrebbe effettuata
da chiunque, residente in zone non malariche
per almeno 6 mesi, visiti un’area geografica a rischio. L’essere originario di un paese a forte endemia malarica e l’aver già avuto episodi malarici in passato non esime, come già detto, dall’acquisire nuovamente l’infezione.
Il paziente andrà in questo caso orientato verso
un centro specialistico.
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59
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
µ TUBERCOLOSI
DEFINIZIONE: La tubercolosi è oggi considerata
una delle malattie “riemergenti”. In realtà, essa
non è mai scomparsa, essendo ancora oggi causa
di circa 2 milioni di morti l’anno nel mondo.
I recenti flussi migratori da paesi ad alta prevalenza, tuttavia, hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica e del medico occidentale una
patologia che era a torto considerata obsoleta alle
nostre latitudini. La localizzazione più frequente
è quella polmonare (circa 70% dei casi) ma la tubercolosi può interessare diversi organi e apparati:
sistema nervoso (meningite tubercolare), reni,
segmenti ossei (morbo di Pott), intestino, linfonodi (linfadenite tubercolare), cute.
In passato veniva chiamata Mal sottile o Consunzione, in quanto sembrava che consumasse le persone “da dentro”. Chiamata anche
Peste bianca, per il caratteristico aspetto pallido dei malati.
AGENTE CAUSALE: Mycobacterium tuberculosis,
chiamato anche Bacillo di Koch.
TRASMISSIONE: Avviene per via aerea tramite
contatti prolungati, frequenti o intensi con persone che presentano una tubercolosi polmonare
attiva non trattata, cioè con lesioni polmonari
aperte e comunicanti con i bronchi. La possibilità
di contrarre l’infezione dipende da vari fattori,
essenzialmente legati alla carica micobatterica
del soggetto malato, dal tempo di esposizione e
dalla ventilazione dell’ambiente.
L’aver contratto l’infezione non significa tuttavia
necessariamente sviluppare la malattia. Dopo
l’avvenuta infezione, infatti, il sistema immunitario dei soggetti immunocompetenti riesce a
“confinare” l’infezione nel cosiddetto “complesso
primario”. Si parla in questo caso di infezione latente (presenza del micobatterio ma assenza di
sintomi e segni clinici). Un’infezione latente può
rimanere tale per tutta la vita del soggetto (90%
dei casi), o può dare luogo a un’infezione attiva,
con diffusione polmonare, formazione di caverne, ecc. in un arco di tempo variabile.
Fattori predisponenti allo sviluppo di una tubercolosi attiva sono rappresentati da immunodepressione per malattie quali l’AIDS o per assunzione di farmaci immunosoppressivi, età estreme, alcolismo cronico, tabagismo importante,
tossicomania, diabete e altre patologie croniche.
I soggetti immunodepressi, in particolare, vanno
incontro a una evoluzione più rapida della malattia con passaggio dalla forma latente all’infezione attiva in tempi rapidi e sviluppano spesso
una forma cosiddetta “miliare”, in assenza di caverne polmonari (questo fatto rende particolarmente difficile la diagnosi in questi soggetti in
quanto l’espettorato risulta negativo nella maggior parte dei casi).
Negli immigrati, la tubercolosi va considerata per
una serie di ragioni:
• Provenienza da aree geografiche ad alta prevalenza;
• Diffusione nei paesi di origine di forme multiresistenti (si veda di seguito);
• Permanenza, all’arrivo nel paese di accoglienza, in centri spesso sovraffollati, quindi ad alto
rischio di trasmissione dell’infezione;
• Condizioni di vita (alimentazione non adeguata, quindi indebolimento del sistema immune, possibile abuso di sostanze, ecc.) che favoriscono il passaggio dalla forma latente alla forma attiva.
È provato che il rischio di “slatentizzazione”
dell’infezione è più alto nei primi 2-5 anni di
permanenza nel paese di asilo. È quindi lecito
e raccomandabile proporre uno screening attivo ai migranti recentemente arrivati.
EPIDEMIOLOGIA: Nel 2009 è stata stimata, a livello mondiale, un’incidenza pari a 9.4 milioni
(range, 8.9 – 9.9 milioni) di casi di TB corrispondente a 137 casi su 100.000 abitanti. Il numero
assoluto di casi continua, seppur lentamente, a
crescere di anno in anno, i casi riscontrati nella
popolazione femminile rappresentano il 35% del
totale. Le aree del pianeta maggiormente interessate sono l’Asia dove sono stati registrati il 55%
dei casi e l’Africa col suo 30% di casi sul totale.
L’area dell’Unione Europea ha registrato il 4%
dei casi di TB.
Incidenza della TB nel mondo, 2009 (Fonte: WHO, Global tuberculosis control 2010)
QUADRO CLINICO: La tubercolosi polmonare
può rimanere asintomatica per lungo tempo.
Quando si manifesta clinicamente i sintomi includono tosse di durata superiore alle tre settimane, inizialmente poco produttiva, emottisi
(emissione di sangue con la tosse), febbricola o,
nelle fasi avanzate, febbre elevata, sudorazioni
notturne, calo ponderale, astenia e tendenza
all’affaticamento.
DIAGNOSI: La diagnosi di tubercolosi presenta
una certa difficoltà, in quanto i sintomi sono
spesso vaghi e comuni a molte altre malattie.
Mantenere un elevato sospetto clinico, soprattutto in soggetti “a rischio” (detenuti, immigrati,
ospiti di istituti, persone senza fissa dimora, ecc.)
è quindi essenziale.
Un’accurata anamnesi, la raccolta della storia
clinica e l’esame obiettivo permettono unicamente di porre il sospetto diagnostico di tubercolosi polmonare.
La diagnosi di certezza viene fatta tramite il riscontro nell’espettorato di bacilli Alcol-Acido resistenti e l’identificazione del M. tuberculosis
dopo coltura. In alcuni casi, soprattutto in pre-
senza di immunodepressione, l’esame microscopico può risultare negativo e l’identificazione
può avvenire solo dopo la coltura che necessita
di circa 30-40 giorni di tempo. La ricerca dell’acido nucleico del micobatterio tramite PCR o
altre metodiche di amplificazione possono accelerare i tempi di diagnosi, che però è soggetta
a molti falsi positivi.
Di recente introduzione, il dosaggio dell’INF gamma linfocitario prodotto in risposta all’infezione
tubercolare (noto come Quantiferon), è una tecnica diagnostica promettente, di ausilio soprattutto nelle forme a espettorato negativo e con quadri clinici non manifesti. La malattia è soggetta a
notifica alle autorità sanitarie (va effettuata la notifica anche in caso di sospetto).
TEST DI SCREENING-INTRADERMOREAZIONE DI
MANTOUX: Consente solo di identificare i pazienti con risposta anticorpale al bacillo o con infezione primaria o latente, ma non ha valore diagnostico. Viene eseguita inoculando a livello intradermico 5 U (o 2 U, a seconda dei preparati
disponibili) di derivato proteico purificato (PPD)
di M. tuberculosis sulla faccia volare dell’avam-
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
braccio. La lettura viene eseguita a 24, 48 e 72
ore dall’inoculazione e registrata in mm riportando il diametro maggiore dell’infiltrato/indurimento (e non dell’arrossamento). È da considerarsi positiva in soggetti mai sottoposti al test
e con anamnesi negativa per TB se il diametro
dell’infiltrato è uguale o superiore a:
• 5 mm: in soggetti HIV+, sottoposti a trapianto
d’organo o immunodepressi, contatti stretti recenti di TB attiva, soggetti con esiti fibrotici all’RX torace compatibili con pregressa TB;
• 10 mm: soggetti provenienti da paesi a elevata
endemia nei primi 5 aa di soggiorno in Italia, tossicodipendenti E.V., residenti in comunità ad alto
rischio, soggetti con patologie o condizioni favorenti la TB, soggetti esposti a rischio professionale;
• 15 mm: soggetti senza fattori di rischio per infezione tubercolare.
Il test risulta generalmente positivo anche nei
soggetti immunizzati (es. vaccinati) e in coloro
che hanno presentato un’infezione attiva.
TERAPIA: Il trattamento della tubercolosi attiva
prevede l’uso combinato di diversi antibiotici ad
azione antitubercolare per un minimo di 6 mesi.
L’utilizzo di una combinazione terapeutica ha lo
scopo di evitare la comparsa di ceppi resistenti.
Il regime terapeutico standard per i casi mai trattati precedentemente prevede la combinazione
di 4 farmaci efficaci nei primi due mesi di trattamento (generalmente: Rifampicina, Isoniazide,
Pyrazinamide ed Etambutolo) e la semplificazione del trattamento nei successivi 4. Regimi più
complessi/prolungati sono previsti in caso di ritrattamento (paziente già trattato, quindi a rischio di multi resistenza farmacologica).
Il trattamento andrebbe iniziato in regime ospedaliero, per consentire l’iniziale corretto isolamento del paziente e per sorvegliare l’eventuale
comparsa di effetti collaterali del trattamento,
purtroppo abbastanza comuni. La forma latente,
quando diagnosticata, andrà trattata per evitare
la trasformazione in una forma attiva. I regimi
terapeutici prevedono l’uso dell’associazione Rifampicina-Isoniazide per 3 mesi o della sola Isoniazide per 6 mesi. Anche in questo caso, il trattamento richiederà il controllo medico regolare
visto l’elevato rischio di effetti collaterali.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Per tutti i pazienti per i quali viene posto il sospetto di tubercolosi polmonare dovrebbe essere
messo in atto l’isolamento respiratorio, almeno
per i primi 15 giorni di trattamento e comunque
fino a negativizzazione dell’espettorato se precedentemente positivo. Gli operatori sanitari e non
che vengono in contatto con il paziente nell’ambiente in cui soggiorna dovrebbero indossare una
mascherina con filtro FP2-FP3 e non la mascherina chirurgica, che non protegge dall’inspirazione del germe in sospensione nell’aria.
Tubercolosi extrapolmonare
Include tutte le forme nelle quali il micobatterio
si localizza in sedi diverse da quelle polmonari.
Tratteremo qui le forme extrapolmonari di più
frequente riscontro: cutanea/linfonodale e ossea.
Tubercolosi cutanea
Il quadro clinico varia a seconda di diversi fattori
quali la carica infettante, la patogenicità del microrganismo, le condizioni immunitarie dell’ospite.
Le presentazioni più frequenti sono le seguenti:
• Scrofuloderma: chiamata anche tubercolosi
colliquativa della cute. Si verifica per estensione
Tubercolosi linfoghiandolare o scrofula. Tumefazione
dei linfonodi retroauricolari a cui farà seguito il drenaggio spontaneo della lesione
Esiti cicatriziali di tubercolosi linfoghiandolare del
cavo ascellare
alla cute di un focolaio profondo, generalmente
linfonodale. Un nodulo localizzato in profondità
ricoperto da cute arrossata successivamente va
incontro a un processo suppurativo con formazione di ulcera necrotica. Più frequente nelle regioni laterocervicali e sovraclaveari.
• Lupus volgare: placca giallastra nel cui contesto sono presenti piccoli noduli, localizzata prevalentemente al naso, al mento, ai padiglioni auricolari, al collo. Causa progressiva distruzione
dei tessuti.
• Tubercolosi verrucosa: nodulo rosso-violaceo con alone periferico che evolve in una placca
a superficie verrucosa irregolare indolente.
DIAGNOSI: È di tipo clinico e anamnestico; biopsia cutanea per esame istologico. Se è presente
secrezione può essere utile lo striscio del materiale su vetrino per osservazione diretta dei micobatteri.
TERAPIA: Il trattamento della TB cutanea segue
le stesse linee guida della TB polmonare.
calizzazione a livello di uno o più corpi vertebrali,
il cosiddetto Morbo di Pott, nel quale generalmente sono interessate due vertebre contigue con
compressione del disco intervertebrale interposto.
Il processo osteolitico può condurre al crollo vertebrale e alla deformazione della colonna.
Talvolta il processo può diffondersi alle articolazioni generando un quadro di osteoartrite infettiva.
QUADRO CLINICO: Il sintomo principale è rappresentato dal dolore al livello del segmento osseo interessato. Possono coesistere sintomi aspecifici quali sudorazione, febbricola o febbre elevata e sintomi polmonari. Nella fase avanzata del
Morbo di Pott il crollo vertebrale può provocare
plegia di vario grado fino alla paraplegia.
Osteomielite tubercolare, si osservano tre aree di
drenaggio. L’affezione ha determinato impotenza funzionale dell’arto
Tubercolosi ossea
DIAGNOSI: I dati clinici e anamnestici devono es-
Il bacillo di Koch può localizzarsi anche a livello
di segmenti ossei dando luogo a quadri ascessuali
seguiti da necrosi colliquativa e osteolisi. La diffusione avviene generalmente per via ematogena
dall’apparato respiratorio e i segmenti ossei maggiormente interessati sono rappresentati dalle ossa corte e dalle epifisi delle ossa lunghe.
La forma più frequente è rappresentata dalla lo-
sere completati da esami strumentali d’imaging
e da esami microbiologici eseguiti su materiale
aspirato dalla lesione o da campioni bioptici.
TERAPIA: Si avvale dei classici farmaci antitubercolari ma il trattamento deve essere prolungato per
almeno 12 mesi. Il paziente va ospedalizzato, almeno durante il primo mese del trattamento. Il riposo a letto è di solito necessario soprattutto nelle
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
forme vertebrali, per evitare fratture patologiche.
Deve essere esclusa la contagiosità del paziente
tramite l’esecuzione dell’esame microscopico
dell’espettorato.
Tubercolosi
multiresistente (MDR)
Venuta alla ribalta delle cronache per il recente
aumento di casi segnalati nei paesi occidentali,
la tubercolosi è definita multi resistente (MDR
TB) quando il ceppo infettante è resistente ai due
farmaci principali del regime terapeutico: Rifampicina e Isoniazide.
Particolarmente frequente nella popolazione immigrata di provenienza dai paesi dell’ex Unione
Sovietica e del blocco sovietico (Romania, Lettonia ed Estonia in particolare), questa forma è il
risultato della selezione di ceppi resistenti a se-
guito di regimi terapeutici inadeguati, incompleti, di breve durata.
La XDR TB (Extensively Drug Resistant TB) è
invece definita dalla resistenza farmacologica
non solo ai farmaci di prima linea, ma anche a
quelli di seconda linea (chinolonici e farmaci di
seconda linea iniettabili).
Si tratta di forme di tubercolosi che non differiscono clinicamente da quella classica ma che sono
di estrema difficoltà terapeutica, visto il limitato
numero di farmaci antitubercolari a disposizione.
Ovviamente, la presa in carico sarà specialistica.
Per prevenire la comparsa di queste forme è importante assicurarsi che ogni trattamento antitubercolare venga eseguito nei modi e per i tempi
opportuni, anche tramite l’effettuazione della
DOT (Directly Observed Therapy: terapia assunta quotidianamente in presenza di personale sanitario) quando possibile.
µ LEISHMANIASI
SINONIMI: Bottone d’oriente, bottone d’Aleppo,
chiodo di Biskra, Aleppo o Delhi boil, Siskra button, Baghdad sore.
DEFINIZIONE: Il termine leishmaniasi indica un
gruppo eterogeneo di malattie ad ampia distribuzione, tropicale, subtropicale e mediterranea,
causate dall’infezione da parte di un protozoo
appartenente al genere Leishmania. A seconda
della specie di parassita coinvolto e della risposta
immunitaria dell’ospite si possono osservare diversi quadri clinici.
Esistono tre principali sindromi cliniche: la leishmaniasi cutanea, la leishmaniasi muco-cutanea e la leishmaniasi viscerale (Kala-azar).
AGENTE CAUSALE: L’infezione nell’uomo è cau-
sata da 21 delle 30 specie che infettano i mammiferi, organizzate in “complessi” sulla base del
quadro clinico associato alla patologia indotta:
• Complesso L. donovani (L. donovani, L. infantum, L. chagasi), responsabile della leishmaniosi viscerale o kala-azar;
• Complesso L. tropica (L. major, L. minor, L.
aethiopica), responsabile della leishmaniosi cutanea del Vecchio Mondo;
• Complessi L. mexicana (L. mexicana, L.
amazonensis, L. pifanoi) e L. braziliensis (L.
guyanensis, L. panamensis, L. peruviana), responsabili della leishmaniosi mucocutanea e cutanea del Nuovo Mondo.
TRASMISSIONE: Questi parassiti vengono solitamente trasmessi all’ospite umano da serbatoi
animali attraverso la puntura da un dittero della
Riferimenti bibliografici:
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Ciclo vitale del Phlebotomus
La Leishmania viene trasmessa dalla femmina del pappatacio, durante il pasto ematico.
¿ Il pappatacio infetto attraverso la puntura inietta i promastigoti nel circolo sanguigno dell'ospite. ¡ I promastigoti
vengono fagocitati dai macrofagi e ¬ trasformati in amastigoti. √ A differenza della specie della Leishmania con la
quale l’ospite viene infettato, gli amastigoti si moltiplicano e infettano tessuti differenti. È a questo punto che si osservano
le manifestazioni cliniche della Leishmaniasi. ƒ ≈ Il pappatacio s’infetta durante il pasto ingerendo macrofagi infettati
dagli amastigoti. ∆ Negli organi interni del vettore il parassita si differenzia in promastigote, « che si moltiplica e
migra fino alla proboscide del dittero vettore. In questo modo, il flebotomo, pungendo un individuo, lo infetta.
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famiglia dei pappataci: il Phlebotomus. Raramente la leishmaniosi viene trasmessa dalla madre al feto.
EPIDEMIOLOGIA: Nel mondo, gli individui considerati a rischio di sviluppare l’infezione sono
350 milioni. Si stima una prevalenza di 12 milioni di casi, con incidenza globale di 2 milioni
Distribuzione geografica dei casi
di leishmaniasi mucocutanea e
cutanea nel Nuovo Mondo
di nuovi casi all’anno (1,5 milioni le forme cutanee e 500 mila le forme viscerali). Prevalenza
(indipendente dall’età) generalmente maggiore
nelle aree rurali (e periferiche) che in quelle urbane. In particolare il 90% dei casi di leishmaniasi cutanea si registrano in Iran, Afghanistan,
Siria, Arabia Saudita, Brasile e Perù; dei casi di
Distribuzione geografica dei casi di leishmaniasi cutanea da
L. major
leishmaniasi mucocutanea in Bolivia, Brasile e
Perù; il 90% dei casi di leishmaniasi viscerale in
Bangladesh, Brasile, India e Sudan.
Il rischio di veder emergere o riemergere la malattia in Europa è legato principalmente a tre fattori:
1. L’introduzione di specie di Leishmania esotiche attraverso i viaggi internazionali o le migrazioni di popoli;
2. La diffusione naturale della Leishmaniasi cutanea e viscerale causata da L. infantum e L. tropica dal bacino del Mediterraneo, dove queste
specie sono endemiche, alle aree temperate vicine, dove sono presenti i vettori ma non la malattia;
3. Il riemergere della malattia nelle regioni mediterranee causata da un aumento delle persone
immunodepresse a seguito dell’infezione da HIV.
Inoltre, i cambiamenti climatici possono agire
sul cambiamento della distribuzione della leishmaniasi in maniera diretta, ossia per effetto
della temperatura sullo sviluppo del parassita
femmina, o in maniera indiretta sull’abbondanza stagionale della specie vettore.
dariamente, ciò che rappresenta un evento comune. Le ulcere cutanee generalmente guariscono spontaneamente dopo diversi mesi e lasciano
una cicatrice infossata. Il decorso successivo dipende dal ceppo di appartenenza del microrganismo infettante e dallo stato immunitario dell'ospite infettato.
La leishmaniasi cutanea diffusa si caratterizza per
la comparsa di lesioni nodulari diffuse agli arti e
al volto e di macule ipopigmentate. Il quadro clinico per certi aspetti ricorda molto quello della
lebbra lepromatosa con cui entra in diagnosi differenziale. In questa forma, non c’è possibilità di
guarigione delle lesioni senza trattamento e in
PERIODO DI INCUBAZIONE:
• Leishmaniosi cutanea: 1-2 mesi;
• Leishmaniosi muco-cutanea: deriva talvolta
Distribuzione geografica della leishmaniasi viscerale nel Vecchio e Nuovo Mondo (Fonte:
WHO/NTD/IDM HIV/AIDS)
dall’estensione delle lesioni cutanee alle membrane mucose, o può essere primariamente localizzata alle mucose. L’incubazione varia quindi
da alcuni mesi ad anni;
• Leishmaniosi viscerale: 2-4 mesi.
QUADRO CLINICO: La leishmaniasi cutanea si caratterizza per la comparsa, dopo 1-4 settimane,
della classica lesione cutanea nel sito della puntura del flebotomo.
In genere compare sulle parti esposte del corpo,
come le braccia, le gambe e il viso. Si possono
anche osservare lesioni multiple a seguito di
punture infettive multiple, autoinoculazione accidentale o diffusione metastatica.
La lesione iniziale è una papula che si estende,
con ulcerazione centrale e che spesso sviluppa
un'iperpigmentazione rialzata ai bordi dove sono
concentrati i parassiti intracellulari.
Le ulcere sono indolenti e non causano sintomi
sistemici a meno che non siano infettate secon-
Leishmaniasi cutanea. Placca eritematosa e lesioni
ipercheratosiche alla guancia
Leishmaniasi cutanea. Tipica lesione eritemato-nodulare al volto, zona esposta alla puntura del flebotomo
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ogni caso c’è una tendenza alla recidività.
La forma mucocutanea si manifesta sotto forma
di lesioni distruttive, anche molto estese, delle
mucose del naso, della bocca e del cavo orale.
La leishmaniasi viscerale è la forma più grave,
conosciuta anche come Kala-azar. Se non trattata, può raggiungere una mortalità praticamente
del 100 per cento. Si manifesta con febbri irregolari e improvvise, perdita di peso, epatosplenomegalia e anemia.
In alcuni pazienti, a distanza di tempo variabile
(da 6 mesi a 1-2 anni) dalla terapia per leishmaniasi viscerale si può osservare la cosiddetta leishmaniasi dermica post kala-azar (PKDL) che si
caratterizza clinicamente per la comparsa di macule, papule o noduli sugli arti e sul volto.
Lesihmaniasi mucosa. Lesioni multiple infiltranti il labbro superiore. La localizzazione mucosa è primitiva
Nel bacino del Mediterraneo la PKDL sta diventando una manifestazione clinica emergente.
DIAGNOSI: La diagnosi, oltre che sul quadro clinico, viene posta dimostrando la presenza del microrganismo su campione citologico colorato con
Giemsa o su coltura. Il materiale può essere prelevato raschiando il bordo di lesioni cutanea ulcerate o tramite agoaspirato in caso di lesioni nodulari; per la forma viscerale tramite agoaspirato
o biopsia splenica.
La tipizzazione della specie di Leishmania può essere ottenuta tramite PCR.
TERAPIA: Allo stato attuale non esistono farmaci
efficaci contro tutte le forme di leishmaniasi, e
non è disponibile un vaccino.
Gli antimoniali pentavalenti sono i farmaci di
prima scelta sia per uso locale (intralesionale)
che per via sistemica, ma non privi d’importanti
effetti collaterali. Non esistono dei protocolli universalmente accettati.
In genere, il trattamento locale con iniezioni intralesionali (1-2 ml) di antimoniali pentavalenti
viene fatto quando il nodulo è di modeste dimensioni e si ripete settimanalmente fino a completa
guarigione.
L’uso intramuscolare di sali di antimonio alla dose di 20 mg/kg/die deve essere riservato alle forme
molto estese e continuato fino alla guarigione
delle lesioni (in genere 20 giorni), monitorando
la funzionalità epatica, renale e il ritmo cardiaco.
L’unguento di Paromomicina al 20% oppure
l’unguento di Paromomicina al 15% più Metilbenzetonio cloridrato al 12% in formulazione galenica costituisce un’alternativa terapeutica. Viene applicato una o due volte al giorno sulla lesione per quattro settimane.
L’efficacia di queste terapie varia a seconda della
specie di Leishmania coinvolta.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Leishmaniosi dermica post kala-azar. Noduli dermici
multipli agli arti superiori in paziente sieropositivo precedentemente trattato per leishmaniasi viscerale
Non essendo ancora stato prodotto un vaccino,
la profilassi si attua attraverso la prevenzione della puntura del flebotomo vettore, attraverso l’uso
di repellenti cutanei, insetticidi, zanzariere, e attraverso operazioni di bonifica ambientale atta
ad eliminare le cause favorenti lo sviluppo delle
larve specie in aree urbane e peri-urbane.
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
µ QUADRI CLINICI
Per una trattazione completa, si rimanda alle
fonti citate nella bibliografia.
GASTROINTESTINALI
Nei migranti ospiti di centri di accoglienza, quadri sindromici gastroenterici sono di particolare
frequente riscontro. Bisogna tuttavia considerare
che soltanto in una minoranza di casi essi sono
di origine infettiva.
Il cambiamento delle abitudini alimentari e dello
stile di vita, le dure condizioni di vita spesso fonte
di stress, lo scarso apporto in verdure e frutta fresca, la dieta spesso molto diversa da quella della
cultura di origine e quindi scarsamente appetibile per gli stranieri fanno sì che disturbi blandi,
quali disturbi dispeptici, bruciore intestinale, disturbi dell’alvo (in particolare costipazione) siano riferiti molto frequentemente.
Nella maggioranza dei casi essi possono essere
risolti con consigli dietetici e comportamentali,
o con trattamenti sintomatici (lassativi blandi,
ricorso occasionale ad antiacidi).
Nei casi cronici o protratti e nelle forme severe il
paziente andrà investigato più approfonditamente alla ricerca di eziologie microbiche e di diversa
origine. Di seguito si riportano brevemente solo
le eziologie di più frequente riscontro nei centri
di accoglienza.
Infezione da
Helicobacter pylori
EPIDEMIOLOGIA: Pur essendo presente in tutto
il mondo, l’Helicobacter pylori (Hp) è particolarmente diffuso nelle aree geografiche economicamente svantaggiate. Il 70% della popolazione nei paesi in via di sviluppo acquisisce la colonizzazione entro i 10 anni di età.
La permanenza in strutture di accoglienza e le
scarse condizioni igienico-sanitarie rappresentano ulteriori fattori di rischio per l’infezione. Si
tratta quindi di una diagnosi da tenere presente
nei migranti con disturbi gastrici persistenti.
QUADRO CLINICO: L’infezione da Hp è associata
in un numero consistente di quadri dispeptici e
nel circa 90% dei casi di ulcera peptica. Il germe
è stato anche chiamato in causa nell’eziologia
del carcinoma gastrico.
Sebbene il ruolo scatenante dell’Helicobacter pylori in queste patologie non sia confermato, l’eradicazione dell’infezione sembra accompagnarsi
a una riduzione delle ricorrenze di ulcera e a un
miglioramento dei quadri infiammatori gastrici.
Schemi terapeutici per eradicare l’ Helicobacter pylori
Regime
Durata
Percentuale di
eradicazione
Commenti
70-85%
Da considerare in pazienti
non allergici alla penicillina
che non hanno ricevuto
un macrolide in precedenza
Dose standard di IPP BID +
Claritromicina 500 mg BID +
Amoxicillina 1 gr BID
10-14
giorni
Dose standard di IPP +
Claritromicina 500 mg BID +
Metronitazolo 500 mg BID
10-14
giorni
70-85%
Da considerare in pazienti
allergici alla penicillina
che non hanno ricevuto
un macrolide in precedenza
Bismuto sub salicilato 520 mg QID,
Metronitazolo 250 mg QID,
Tetracicline 500 mg QID, ranitidine
150 mg BID o IPP dose standard QID o BID
10-14
giorni
75-90%
Da considerare nei pazienti
allergici alla penicillina
Fonte: American College of Gastroenterology Guideline on the Management of Helycobacter pylori infection, 2007
DIAGNOSI: L’infezione andrà sospettata in presenza di quadri gastritici e dispeptici e di reflusso
gastroesofageo persistenti.
La diagnosi di certezza richiede l’esecuzione
dell’esofagogastroduodenoscopia con prelievi
bioptici, oppure l’esecuzione di esami sierologici
o dell’Ureasi breath test, che consente di misurare la presenza nell’aria espirata di ureasi, prodotto del metabolismo dell’Helicobacter. Tutti
questi test hanno un’accuratezza diagnostica
molto alta.
Il test dell’ureasi andrà praticato a distanza da
un eventuale ciclo di terapia antibiotica per evitare i falsi negativi.
TERAPIA: Diversi schemi di terapia sono possibili. Tutti si basano sul ricorso a un “triplice” trattamento, consistente nell’associazione di due antibiotici efficaci contro l’Helicobacter e di un inibitore di pompa protonica per un periodo di tempo di almeno 10-15 giorni.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Gli attuali regimi terapeutici rappresentano un
buon rimedio all'infezione da Hp: ad ogni modo,
sono stati fatti dei tentativi di somministrazione
dei vaccini con buoni risultati sia per la prevenzione di una reinfezione che per la terapia. Inoltre, questi nuovi presidi sono ben tollerati ed evocano una risposta immune sia nei pazienti infettati sia nei non infettati e possono essere adoperati per la prevenzione dell’ulcera gastrica.
Gastroenteriti infettive
AGENTE CAUSALE: Nella maggioranza dei casi riconoscono un’eziologia virale: Rotavirus con andamento stagionale, più frequente nei neonati e
nei lattanti o Norovirus, responsabili di epidemie
in particolare nell’ambito di comunità chiuse.
QUADRO CLINICO: In questi casi i sintomi sono
di breve durata, lievi o blandi e non si accompagnano di solito a sintomi sistemici.
TERAPIA: È generalmente sintomatica con una
corretta reidratazione ed eventualmente farmaci
antiemetici e antidiarroici. Solo in alcuni casi di
gastroenteriti causate da parassiti o infezioni batteriche è necessaria una terapia specifica.
Intossicazioni alimentari
AGENTE CAUSALE: Gli agenti infettivi sono dei
batteri (Staphilococcus aureus, Bacillus cereus,
Clostridium perfrigens) in grado di produrre
esotossine (prodotte nel cibo contaminato prima
del consumo) che, una volta ingerite, causano
un quadro di gastroenterite. Possono essere causa
di piccole epidemie.
Gli alimenti maggiormente incriminati sono le
carni cotte, macinate o insaccate, le creme e i
prodotti a base di uova, prodotti di pasticceria,
gelati. Si tratta spesso di cibi parzialmente cotti
e poi conservati in frigo per un successivo consumo. L’apparenza, il colore e l’odore sono sempre normali.
QUADRO CLINICO: Caratteristicamente, la sintomatologia inizia bruscamente dopo poche ore
dal consumo del cibo, e riguarda spesso più persone aventi consumato lo stesso pasto. Si caratterizza per presenza di nausea, vomito, diarrea
anche ematica, disidratazione in assenza di febbre. L’evoluzione clinica è di solito benigna.
DIAGNOSI: È possibile solo tramite isolamento
del germe o della tossina nel cibo contaminato.
TERAPIA: Non richiede utilizzo di antibiotici ma
solo terapia di supporto.
MISURE IGIENICHE:
Devono essere messe in atto all’atto della preparazione dei cibi per prevenire l’infezione:
• Lavaggio delle mani prima della preparazione;
• Corretta cottura e rapido consumo dei cibi;
• Evitare la conservazione per lungo tempo.
Infezioni batteriche
Le gastroenteriti batteriche non tossinfettive riconoscono un’eziologia estremamente varia e
presentano quadri clinici difficilmente distinguibili tra loro. Possono (raramente) essere causa
di epidemie all’interno delle comunità chiuse
(come i centri di accoglienza), date le condizioni
di sovraffollamento e di scarsa igiene.
Le manifestazioni cliniche andranno da quadri
lievi/moderati (diarrea, nausea e vomito, risolventesi in pochi giorni) a quadri di estrema gravità
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
(disidratazione fino allo shock, diarrea ematica
con anemizzazione, coinvolgimento multi sistemico). La presenza di febbre è un segno caratteristico e piuttosto costante delle forme batteriche invasive. In tutti questi casi, il paziente andrà rapidamente riferito a una struttura specialistica.
Infestazioni parassitarie
DIAGNOSI: L’esame microscopico delle feci a fresco esaminate a breve distanza dalla deposizione
consente di osservare la presenza delle forme
amebiche mobili. Il riscontro di sole forme cistiche non è di per sé diagnostico, in quanto esse
potrebbero appartenere alla specie dispar, non
patogena. Possibile eseguire sierologie per E. histolytica. In caso di localizzazioni extraintestinali
utili gli esami strumentali.
Amebiasi
TERAPIA
DEFINIZIONE: L’amebiasi è un’infezione del colon diffusa in tutto il mondo; è dovuta all’ingestione di cisti di un protozoo.
AGENTE CAUSALE: Entamoeba histolytica, può
essere presente in natura sotto forma di cisti (infettanti) e di trofozoiti (forme vitali potenzialmente patogene).
TRASMISSIONE: Oro-fecale. L’uomo, malato o
asintomatico, è l’unica sorgente d’infezione. Il
soggetto infettato è contagioso fintanto che continua l'escrezione delle cisti (anche alcuni anni).
I ‘portatori sani cronici’ sono comunque rari e le
cisti da loro escrete sono solitamente prive di potere patogeno.
EPIDEMIOLOGIA: È particolarmente frequente
nelle aree a basso sviluppo e in condizioni igenico-sanitarie precarie.
PERIODO DI INCUBAZIONE: Può variare da pochi
giorni ad alcuni mesi o anni, è solitamente di 24 settimane.
QUADRO CLINICO: Le manifestazioni cliniche
dell’infezione possono essere di varia entità, da
un quadro asintomatico a un quadro conclamato con sintomi quali dolori addominali crampiformi, diarrea alternata a stipsi, flatulenza, raramente nausea e vomito, nelle feci possono essere
presenti sangue e muco. Un’infezione acuta paucisintomatica non trattata può evolvere in un
quadro cronico con sintomatologia caratterizzata
da decorso subdolo, diarrea ricorrente, febbricola,
astenia e dimagrimento. In casi cronici si può
anche osservare la formazione di un ameboma,
lesione granulomatosa del cieco o del colon contenente trofozoiti. Possibili anche localizzazioni
extraintestinali (ascesso epatico amebico, amebiasi polmonare).
• Metronidazolo 500-750 mg x 3/die per 10 giorni;
• Tinidazolo 600 mg x 2/die per 5 giorni;
Nelle forme intestinali invasive far seguire
• Paromomicina alla dose di 25-35 mg/kg/die
diviso in 3 dosi per 7 giorni.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Dal momento che l’eliminazione dei trofozoiti e
delle cisti avviene con le feci, il paziente dovrebbe
utilizzare servizi igienici riservati fino al completamento del trattamento.
Nell’assistenza a pazienti affetti da amebiasi debbono essere adottate precauzioni enteriche; lavaggio in acqua a temperature superiori a 60°C
e disinfezione della biancheria contaminata. Come per tutte le malattie a trasmissione fecale, lo
scrupoloso rispetto di elementari norme igieniche è fondamentale, a livello individuale, per la
prevenzione dell’amebiasi. A livello collettivo la
prevenzione delle malattie a trasmissione oro-fecale si realizza attraverso il corretto smaltimento
e allontanamento dei rifiuti solidi e liquidi, una
buona igiene alimentare.
Giardiasi
DEFINIZIONE: Infezione dell'intestino tenue da
parte di un protozoo flagellato, la Giardia Lamblia, che può essere asintomatica o causare manifestazioni cliniche che vanno dalla flatulenza
intermittente al malassorbimento cronico.
AGENTE CAUSALE: Protozoo flagellato Giardia
Lamblia.
TRASMISSIONE: Avviene tramite l’ingestione di acque e alimenti contaminati, essa può anche verificarsi per contatto diretto interpersonale, in particolare in comunità infantili o tra gli omosessuali. L’acqua contaminata è la principale fonte di infezione.
EPIDEMIOLOGIA: Infezione ubiquitaria
PERIODO DI INCUBAZIONE: 1-3 settimane.
QUADRO CLINICO: Frequentemente non provoca
alcun sintomo. Quando compaiono i sintomi,
sono solitamente di entità moderata e comprendono dolori addominali, diarrea saltuaria, flatulenza, nausea e talvolta sindrome da malassorbimento. Nelle feci generalmente non si riscontrano sangue e muco. Quadri più gravi possono presentarsi nei soggetti affetti da immunodepressione.
DIAGNOSI: Esame microscopico delle feci a fresco per evidenziare le cisti o le forme attive del
protozoo.
TERAPIA:
• Metronidazolo 250 mg x 3/die per 7 giorni;
• Tinidazolo 2g in singola dose. Bambini: 30-35
mg/kg in singola dose;
• Nei pazienti con infezione cronica utile far seguire un trattamento con Paromomicina.
MISURE IGIENICHE E DI PROFILASSI:
Poiché l’eliminazione dei trofozoiti e delle cisti
avviene con le feci, il paziente dovrebbe utilizzare
servizi igienici riservati fino al completamento
del trattamento.
Gastroenteriti
nei pazienti immunodepressi
Oltre a quelli già citati, alcuni agenti “atipici”,
quali Criptosporidium, Balantidium, non patogeni in soggetti immunocompetenti, possono
provocare nei soggetti immunodepressi quadri
anche molto gravi e di difficile trattamento.
Gastroenteriti resistenti al trattamento o recidivanti dovrebbero sempre far sospettare un sottostante deficit della risposta immunitaria. È opportuno, in questi casi, avviare i necessari approfondimenti diagnostici (esame parassitologico
delle feci, coprocoltura, esame emocromocitometrico, test HIV) e riferire il paziente alle cure
di uno specialista.
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PAtOLOGIe deRMO-InFettIVe dI POssIBILe RIscOntRO In cOMUnItà
µ VACCINAZIONI
CONSIGLIATE
Le vaccinazioni possono rappresentare un efficace metodo preventivo di gran parte delle malattie che si possono contrarre durante i periodi
di permanenza in luoghi chiusi e sovraffollati,
quali i centri di accoglienza per migranti, dove
il contatto ravvicinato e continuo tra le persone
e le condizioni igienico-sanitarie scadenti rappresentano senza alcun dubbio un aumentato rischio di trasmissione.
È consigliabile quindi predisporre e adottare protocolli vaccinali ad hoc per coloro che accedono
all’interno dei centri di accoglienza al fine di proteggere la popolazione immigrata dalle principali malattie prevenibili da vaccino sia nel bambino che nell’adulto, riducendo così sia il rischio
individuale che della popolazione generale (immunità di gregge “herd immunity”). Tutti coloro
che arrivano nei centri di accoglienza andrebbero vaccinati in accordo con i Piano Nazionale
Vaccini a seconda delle diverse età e di specifici
fattori di rischio che possono rappresentare, in
ambienti chiusi e sovraffollati, una ulteriore minaccia per la salute del migrante come di quella
dell’intera comunità.
Il soggiorno in un centro di accoglienza rappresenta di per sé un fattore di rischio (sovraffollamento, contatto stretto tra residenti, ecc) pertanto
anche il personale che opera nei centri dovrebbe
essere sottoposto a vaccinazione, secondo il calendario vaccinale nazionale.
in queste circostanze, la schedula vaccinale deve
essere iniziata nuovamente. Oltre alla schedula
vaccinale classicamente consigliata, andrebbe
valutata l’opportunità di sottoporre questi bambini a vaccinazione anche contro epatite A, pneumococco, varicella, rosolia e parotite, visto il rischio più elevato di contrarre queste visto il rischio più elevato di contrarre queste infezioni in
comunità.
Il calendario vaccinale italiano per tutti i nuovi
nati prevede la vaccinazione nei confronti delle
seguenti malattie: Difterite, Tetano, Pertosse,
Epatite B, Poliomelite, Haemophilus influenzae,
con il cosiddetto vaccino combinato esavalente
al 3°, 5° e 13°-15° mese. In alternativa al vaccino esavalente, esistono anche dei vaccini singoli
praticabili nei bambini che possono essere somministrati alternativamente in bambini più grandi o che possano essere stati vaccinati parzialmente in precedenza.
Al 13°-15° mese è prevista anche la vaccinazione
contro il Morbillo, la Parotite e la Rosolia, anche
quest’ultima disponibile in un vaccino combinato, vivo attenuato, che contiene i tre antigeni. Ulteriori richiami contro Difterite/Tetano/Pertosse
e Poliomielite sono previste al 5° o 6° anno e tra
gli 11 e i 15 anni esclusa la vaccinazione antipolio, di cui occorrono solo 4 dosi. Recentemente
sono stati inoltre introdotti sul mercato tre vaccini, quello per il Meningococco C che dà un’ottima
immunità con una dose, quello per lo Pneumococco che a seconda dell‘età viene somministrato
in una, due o tre dosi e quello per la Varicella, con
una/due dosi a seconda dei singoli casi.
Età evolutiva
La prevenzione delle malattie infettive nei bambini immigrati presenta particolari problemi, in
quanto le malattie infettive alle quali questi bambini sono stati esposti e i vaccini ricevuti possono
variare a seconda del paese d’origine, o non essere stati mai vaccinati. I bambini che risiedono
in campi o in centri di accoglienza, quindi, potrebbero avere il calendario vaccinale non completo, e devono quindi essere sottoposti a tutte le
vaccinazioni prescritte per l’età. Se manca qualsiasi documentazione, come accade di frequente
Adulti
In Italia non esiste ancora un vero e proprio calendario vaccinale per gli adulti, ma solo delle
indicazioni sia per la popolazione generale che
per determinate categorie a rischio.
Nei centri di accoglienza per migranti occorrerebbe immunizzare tutti coloro che vi fanno ingresso con le vaccinazioni cosiddette di routine
e con le vaccinazioni contro le principali patologie di cui in questi luoghi esiste un aumentato
rischio di trasmissione.
Le vaccinazioni di routine:
difterite, tetano e polio
Gli adulti con anamnesi incerta per una serie
completa di vaccinazione primaria con vaccini
contenenti tetano e tossoide difterico, dovrebbero
iniziare o completare una serie di vaccinazione
primaria.
Un richiamo alla vaccinazione, o l’avvio del ciclo
vaccinale (0,1,6 mesi) per i soggetti non immunizzati, potrebbe rientrare in un protocollo vaccinale da effettuare all’interno dei centri di accoglienza che potrebbe rappresentare l’unica occasione di vaccinazione di questi soggetti; considerando la riemergenza della difterite, è particolarmente appropriata la raccomandazione di
eseguire la profilassi antitetanica con il vaccino
combinato antidifterico-tetanico ed eventualmente anche con la polio. Aree endemiche di polio sono infatti ancora presenti in Africa e in gran
parte dell’Asia.
Vaccinazioni
anti-epatite A e B
Né per l’uno né per l’altro esistono indicazioni
univoche. Il vaccino per l’epatite A è consigliato
a tutte le persone suscettibili che vivono in paesi
a media/alta endemia. Va inoltre effettuato a tutti
i portatori di epatite cronica, visto il rischio di aggravamento del quadro clinico in caso di nuova
infezione acuta. Il vaccino contro l’epatite A è un
virus inattivato; quello contro l’epatite B è costituito dall’antigene di superficie del virus B ottenuto mediante tecniche di ingegneria genetica.
Le indicazioni per quest’ultimo sono rappresentate dalla suscettibilità all’infezione in soggetti
con epatite cronica di altra natura e il rischio
professionale (personale sanitario). Esiste un
vaccino per l’epatite A, uno per la B oppure un
combinato A+B in un ciclo di base (0,1,6 mesi)
o uno rapido di vaccinazione (0-7-21 e quarta
dose dopo 12 mesi). Questi vaccini sono capaci
di dare una risposta immunitaria efficace e duratura nel tempo. Per la vaccinazione antiepatite
A è raccomandata una dose di richiamo dopo 612 mesi dalla prima dose. La risposta immunitaria ha una durata di circa 10 anni.
Il vaccino contro il tifo: la febbre tifoide è iperendemica in America Latina, nell’intero continente
africano e in Oriente. Le stesse aree di alta endemia per febbre tifoide sono di solito caratterizzate
anche da una elevata morbosità per epatite virale. La vaccinazione contro la febbre tifoide si avvale correntemente del vaccino orale attenuato:
si tratta del ceppo di salmonella typhi ty 21 orale
liofilizzato che induce un’ottima risposta locale
(IgA secretorie) e una modesta immunità umorale; in alternativa, esiste anche un vaccino a uso
parenterale che suscita livelli protettivi di anticorpi con una sola iniezione. Entrambi i vaccini
hanno una durata di circa 3 anni. L’interesse di
effettuare questa vaccinazione nei migranti è tuttavia molto dibattuto, e non se ne consiglia l’uso
sistematico.
Il vaccino contro la meningite meningococcica
è costituito dagli antigeni polisaccaridici della
parete del meningococco. Attualmente sono disponibili due tipologie di vaccino. Uno è quadrivalente, contro i ceppi A-C-Y-W 135, costituto dal
polisaccaride di superficie, con una durata che
va dai 3 ai 5 anni. Questo vaccino è consigliato
soprattutto ai viaggiatori in zone a rischio. L’altro
è monovalente per il sierogruppo C coniugato
con una proteina carrier che migliora decisamente la qualità della risposta anticorpale, per il
quale non occorre nessuna dose di richiamo.
Le indicazioni sono anche in questo caso molto
limitate. La vaccinazione andrà consigliata in
soggetti a rischio di sviluppare forme gravi (soggetti asplenici, immunodepressione congenita o
acquisita, ecc). Il ricorso al vaccino meningococco per gli adulti sarà necessario solo in corso di
epidemie all’interno della comunità quando
espressamente indicato dalle autorità sanitarie
competenti. È invece consigliato in età pediatrica
a partire dal primo anno di età.
La vaccinazione contro l’influenza stagionale
andrebbe proposta al migrante appartenente alle
categorie a rischio per cui il vaccino è consigliato, ossia se portatore di patologie croniche respiratorie (asma, BPCO, ecc.), e cardiovascolari
(congenite o acquisite), diabete mellito, insufficienza renale, emoglobinopatie, malattie degli
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76
organi emopoietici, immunodepressioni congenite o acquisite, malattie infiammatorie croniche
e malassorbimento intestinale, o in attesa di intervento chirurgico. Anche le donne in gravidanza al secondo o terzo trimestre andrebbero sottoposte a vaccinazione.
In aggiunta a quanto sopra riportato, bisogna ricordare che nelle donne in età fertile senza im-
munità specifica andrebbe effettuata la vaccinazione anti-rosolia, per prevenire l’infezione gravidica e le successive complicanze fetali. Il vaccino, disponibile in Italia solo nella forma trivalente MPR (morbillo, rosolia e parotite), richiede
due somministrazioni per indurre una risposta
duratura e ha un’efficacia molto elevata (99%).
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PARTE TERZA
Altri quadri clinici
osservabili
nelle popolazioni migranti
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ALtRI QUAdRI cLInIcI OsseRVABILI neLLe POPOLAZIOnI MIGRAntI
I
l personale sanitario, a partire da quello presente all’interno di un Centro di accoglienza, è chiamato spesso a confrontarsi con problematiche cliniche di cui sono portatrici le persone provenienti
da contesti culturali diversi.
I quadri riportati in questa sezione costituiscono un insieme eterogeneo di alcuni casi clinici riscontrabili nelle popolazioni migranti, nello specifico manifestazioni dermatologiche in soggetti con
cute scura, esiti cutanei e conseguenze ginecologiche di pratiche socio-culturali e un esempio di sindrome culturalmente caratterizzata.
La trattazione che segue può rappresentare un utile strumento per orientare il personale sanitario
nella pratica clinica, affinando il suo sguardo nel riconoscimento di quanto l’attenzione alle differenze
culturali possa essere rilevante all’interno del processo diagnostico.nella pratica quotidiana.
µ OCRONOSI ESOGENA
DEFINIZIONE: Nelle persone di cute scura è molto frequente il ricorso all’utilizzo di prodotti depigmentanti, nel tentativo di schiarire il colorito
della cute, a scopi cosmetici. Abbastanza spesso,
però, l'utilizzo di queste sostanze conduce a una
condizione opposta, con l’insorgenza di pigmentazione brunastra nella sede di applicazione.
Questa condizione, riportata inizialmente nel
1906 da L. Pick, è clinicamente e istologicamente
simile a quella endogena; non mostra anomalie
sistemiche e non è una malattia ereditaria. È caratterizzata da un’iperpigmentazione asintomatica del viso, regioni laterali e posteriori del collo,
dorso e superficie estensoria delle estremità.
AGENTE CAUSALE: Il frequente utilizzo di creme
schiarenti, soprattutto a base di idrochinone e di
corticosteroidi, espone a notevoli complicanze dermatologiche, soprattutto se tali prodotti vengono
usati quotidianamente e per lunghi periodi.
Attraverso canali impropri, possono essere reperite sul mercato numerose formulazioni di questi
prodotti, provenienti soprattutto da alcuni paesi
africani (Nigeria, Costa d'Avorio, Sud-Africa) o
dalla stessa Europa e il cui commercio si effettua
al di fuori di ogni controllo sanitario.
EPIDEMIOLOGIA: Questa condizione è molto frequente nei soggetti provenienti dal continente
africano, particolarmente dal Senegal e dalle regioni dell'Africa del Sud, dove l’iperpigmentazione ocronotica è stata ritrovata nel 28-35% della
popolazione.
QUADRO CLINICO: M. Dogliotte e M. Liebowitz,
nel 1979, ne hanno descritto tre stadi:
1. Eritema con pigmentazione lieve;
2. Iperpigmentazione con milia colloidi e scarsa
atrofia;
3. Lesioni papulonodulari con o senza infiammazione circostante.
Le complicanze osservate vanno dalla comparsa
dell'acne, alle dermatosi infettive modificate dall'applicazione locale di corticosteroidi, alle discromie, agli eczemi da contatto, alle striae cutis distensae. A volte occasionali granulomi e più raramente eliminazione trans-epidermica del materiale di deposito dal derma. Una complicanza
abbastanza frequente, soprattutto nei soggetti con
cute nera, è rappresentata dall'iperpigmentazione
locale nelle sedi di applicazione del prodotto.
Iperpigmentazione cutanea al volto a seguito dell’utilizzo di prodotti schiarenti a base di idrochinone
TERAPIA: Si può ottenere qualche miglioramento
con Q-switched ruby laser o con il Q-switched
alexandrite laser. Il laser frazionato Fraxel (fractionated photothermolysis: 1550-nm erbium
glass fiber laser) che produce numerose perforazioni minuscole della pelle, in teoria potrebbe offrire una possibile soluzione a questo problema.
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ALtRI QUAdRI cLInIcI OsseRVABILI neLLe POPOLAZIOnI MIGRAntI
µ ACNE COSMETICA
µ ACNE CHELOIDEA
SINONIMI: Pomade acne.
DEFINIZIONE: Viene fatta risalire agli inizi degli
SINONIMI: Dermatite papillare del capillizio, ac-
anni ‘70 per descrivere un peculiare quadro clinico riscontrato in giovani donne che facevano
uso abituale di cosmetici contenenti sostanze
“grasse” e senza precedente storia di acne.
CAUSA: La xerosi costituzionale dei soggetti di
cute scura induce a ungersi continuamente di
sostanze grasse, con conseguente sviluppo di fenomeni follicolo-occlusivi.
QUADRO CLINICO: La forma clinica, è caratterizzata da numerosi microcomedoni chiusi, localizzati per lo più al mento e alle guance, con rare
e occasionali lesioni infiammatorie.
TERAPIA: Normalmente non è necessario nessun
trattamento specifico, poiché anche solo la sospensione dell’utilizzo del cosmetico incriminato dovrebbe far risolvere il problema. I cosmetici
idonei per la cute acneica dovrebbero essere non
DELLA NUCA
L’appicazione di steroidi topici e pomate occlusive determina l’insorgenza di un’acne comedo-cistica e talvolta infiammatoria sul volto. A differenza dell’acne
volgare questa interessa anche le regioni temporali
comedogenici, non acnegenici, non allergenici e
in grado di eliminare l’eccesso di sebo, non risultando, però, né eccessivamente astringenti né
aggressivi.
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ne cheloide, cheloide nucale, acne keloidalis
nuchae, folliculitis nuchae.
DEFINIZIONE: È un tipo di follicolite cronica molto grave che colpisce prevalentemente gli uomini
dell’area africana, nel suo sviluppo diventa una
forma di alopecia cicatriziale di forma acquisita.
CAUSA: Anche se non sembra ci siano correlazioni tra l’acne cheloide e le altre forme di acne,
generalmente nelle fasi iniziali si osservano piccoli follicoli piliferi infiammati nella zona occipitale del cuoio capelluto e nella parte posteriore
del collo. Il persistere del processo infiammatorio
in assenza di terapia determina la formazione di
placche estese fino alla regione del collo.
Alla base dell’insorgenza di tale patologia si pensa
vi fosse l’irritazione dei follicoli piliferi dovuta al taglio dei capelli con rasoio nella parte posteriore della nuca, pratica comune nelle popolazioni africane.
QUADRO CLINICO: Inizialmente lesioni infiammatorie papulo-pustolose appaiono sull’area nucale, seguite dalla formazione di placche senza
capelli e dure al tatto. Queste possono andare incontro a sovrainfezione batterica che causa irri-
Placca ipercheratosica e in fase
infiammatoria della regione nucale
tazione e dolore. a distanza di qualche mese si
osserva la comparsa di cicatrici ipertrofiche (cheloide). Questa evoluzione comporta la caduta dei
capelli e dei peli. Talvolta si può avere la formazione di ascessi purulenti e fistole.
DIAGNOSI: Clinica.
TERAPIA: Patologia molto difficile da trattare,
specie in fase cicatriziale. I medicamenti più utilizzati sono i seguenti:
• Preparazioni topiche a base di steroidi e antibiotici;
• Retinoidi topici.
I farmaci a uso orale consigliati per il trattamento delle forme in fase acuta sono:
• Antibiotici a uso orale come la tetraciclina;
• Steroidi per via orale per le forme più gravi di acne.
Alcuni trattamenti invasivi, come l’iniezione intralesionale di steroidi, l’asportazione chirurgica,
la laser terapia, vengono spesso utilizzati per eliminare, rimuovere o riparare i tessuti cicatriziali.
MISURE PRECAUZIONALI DA CONSIGLIARE
AL PAZIENTE:
• Cercare di non provocare nessuna irritazione
nella zona colpita, in modo da evitare la formazione di nuove lesioni;
• Evitare cappelli e colletti per non irritare ulteriormente la zona colpita.
Placca cicatriziale con atrofia dei follicoli piliferi, nella regione nucale e particolare ravvicinato della stessa
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µ PSEUDOFOLLICOLITE
DELLA BARBA
SINONIMI: Pseudofolliculitis barbae.
DEFINIZIONE: È una condizione che sta a indicare una persistente infiammazione causata dalla
rasatura. È più comune negli uomini, nei soggetti
con peli molto crespi, sul viso. Le lesioni possono
evolvere verso la formazione di cheloidi.
CAUSA: Il disturbo deriva dalla penetrazione sia
extrafollicolare che transfollicolare del derma da
parte dei peli. Nel primo, i peli da poco rasati,
con gli apici acuti ricurvi indietro verso la cute,
penetrano l'epidermide, entrano nel derma, dove
stimolano una reazione infiammatoria da corpo
estraneo. La penetrazione transfollicolare accade
quando la rasatura è effettuata tirando la cute,
così il pelo tagliato si ritrae nel follicolo quando
viene rilasciata e i peli penetrano attraverso il follicolo nel derma.
QUADRO CLINICO: Clinicamente, si presenta con
papule infiammatorie e pustole. La maggior parte delle lesioni contiene un pelo incorporato; le
lesioni si localizzano prevalentemente a livello
della superficie anteriore del collo, nell’area sottomandibolare, al mento. L’area dei baffi e delle
basette è solitamente risparmiata. Le lesioni appaino eritematose o iperpigmentate. Il trauma
continuo della rasatura e le conseguenti escoriazioni possono favorire la sovrainfezione batterica
e la formazione di ascessi. Complicazioni secondarie possono essere la comparsa di cicatrici e
più raramente di cheloidi. Le lesioni croniche
possono apparire ipo o iperpigmentate.
Lesioni follicolari infiammatorie, spesso sovrainfette,
portano nel tempo a esiti cicatriziali
TERAPIA: Antibiotici e antisettici topici (es. la Clorexidina) possono risultare utili sussidi alla terapia sistemica, ma non vanno usati senza di essa.
Tra l'altro, una terapia tempestiva con antibiotici
sistemici può prevenire un'infezione cronica.
MISURE PRECAUZIONALI:
L’unico trattamento realmente efficace è quello di
lasciar crescere la barba. È proposto anche l’uso
di rasoi particolari, che danno risultati variabili.
Inoltre, si possono usare creme depilatorie a base
di tioglicato ogni 2 o 3 giorni, ma spesso con risultati irritanti. L’applicazione locale di tretinoina
(acido retinoico) allo 0,05% come crema o lozione
oppure una crema di benzoilperossido al 10%, risulta efficace nei casi lievi e moderati; il trattamento può risultare irritante e viene usato a giorni alterni per poi passare all'applicazione giornaliera.
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ALtRI QUAdRI cLInIcI OsseRVABILI neLLe POPOLAZIOnI MIGRAntI
µ NODULI DA PREGHIERA
µ CUPPING
SINONIMI: Prayers nodules.
DEFINIZIONE: I noduli da preghiera appaiono in
Il cupping, antica pratica medica tradizionale, è
praticato da diverse comunità etniche. La metodica può essere eseguita secondo modalità tecniche differenti a seconda del Paese. Comunemente possono essere identificati due tipi: il cupping secco e il cupping umido. Nel cupping secco, l’interno di una coppetta rotonda di vetro
spesso viene cosparso di alcol. L’alcol viene quindi fatto bruciare, e la coppetta viene applicata
sulla pelle, mentre nel cupping umido viene praticata una incisione sulla pelle e la coppetta viene
applicata in modo da favorire il sanguinamento.
I materiali di costruzione delle coppette si sono
evoluti dagli originali corni di animali fino alle
moderne coppe di vetro o plastica.
Le lesioni cutanee più frequentemente osservabili in seguito al cupping sono di tipo eritemato-edematoso o atrofico-cicatriziale, caratteristicamente riproducenti la forma circolare della
coppetta applicata. Sono possibili però anche lesioni ecchimotiche, purpuriche, bollose o cicatrici cheloidee a seguito di complicanze quali
ustioni cutanee.
Le lesioni possono essere presenti sul dorso, sulla
conseguenza di un trauma prolungato e ripetuto
alla pelle. Si localizzano tradizionalmente su
fronte, ginocchia, caviglie e dorso del piede.
Sebbene non siano di frequente riscontro, i noduli da preghiera sono relativamente comuni tra
coloro che pregano regolarmente e che ripetono
più volte al giorno gli stessi movimenti.
EPIDEMIOLOGIA: Tra i musulmani che pregano
cinque volte al giorno (toccando o sfregando il
pavimento con il dorso del piede sotto il peso del
corpo), i segni da preghiera sono stati riportati
con una frequenza del 75% tra gli uomini e del
25% tra le donne.
QUADRO CLINICO: Si osserva una maggiore incidenza di lichenificazione e iperpigmentizzazione tra le persone con più di 50 anni. Il rischio di
infezione secondaria, ulcerazione e sanguinamento delle callosità è generalmente minimo e
dipendente dall’estensione e dell’età della lesione. Lesioni più ampie e datate sono più frequentemente soggette a complicazioni.
L’analisi di campioni istologici prelevati dai noduli da preghiera denota la presenza di iperche-
Lesione nodulare ipercheratosica in regione frontale
dovuta al meccanico sfregamento a terra durante il
rito musulmano della preghiera
ratosi, ipergranulosi, acantosi e lieve infiltrato infiammatorio nel derma superficiale.
DIAGNOSI: I noduli da preghiera sono benigni e
non necessitano di ulteriori analisi, ma possono
spesso offrire agli operatori sanitari utili informazioni sul contesto culturale di provenienza del
paziente.
TERAPIA: Rimozione chirurgica può essere effettuata a scopo estetico.
Applicazione di potenti cheratolitici in occlusione
(urea 40% in paraffina) seguita da curettage può
essere utile. Un abbigliamento protettivo (es. capelli, calzini) e l’uso di tappeti da preghiera morbidi
possono diminuire l’insorgenza di tali lesioni.
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Cicatrici tondeggianti atrofiche e ipopigmentate a seguito di cupping
regione presternale o anche sulla cute dell’addome per trattare patologie che comportano “gonfiore addominale” (parassitosi intestinali).
DIAGNOSI DIFFERENZIALE: Il cupping può essere
talora scambiato per una dermatofitosi o addirittura per lesioni di natura traumatica o violenta.
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µ SCARIFICAZIONI E TATUAGGI
In Anthropologie structural Claude Lévi-Strauss
descrive come l’uomo fin dall’antichità abbia
sentito l’impulso di abbellire non solo gli oggetti
intorno a sé, ma soprattutto il proprio corpo. La
scarificazione e il tatuaggio, sono da considerarsi
arti antichissime, nate allo scopo non solo di soddisfare un impulso individuale, ma bensì un impulso con connotazioni e risvolti sociali, tanto da
poter parlare di atto sociale primitivo.
Nell’entrare in relazione con un essere umano,
la struttura che si nota primariamente è la superficie del corpo che risulta essere, nello stesso
tempo, il suo legame con ciò che lo circonda.
Un medico, Mantegazza, ha definito la pelle come “il telegrafo per il mondo esterno e specchio
per il mondo interno” (R. Bassi, 1977; 3), poiché
permette di inviare al mondo esterno dei messaggi molto efficaci, senza la necessità di utilizzare vane parole e contemporaneamente su di
essa trovano espressione privilegiata le manifestazioni del disagio psicosomatico.
Scarificazione (o branding)
Il branding è un tipo di scarificazione ottenuto
bruciando la pelle per mezzo di barrette di metallo incandescenti. Ha origine dall’abitudine di
marchiare gli animali per dimostrarne la proprietà e dai marchi praticati sugli schiavi nell’antico Egitto, tra i Romani e altrove. Negli anni re-
Scarificazioni cutanee a scopo ornamentale. In figura
è associata la tecnica del tatuaggio
centi, tuttavia, si è cominciato a concepirlo come
mezzo ornamentale, scegliendolo da solo o in
concomitanza con il tatuaggio. Inizialmente veniva costruito uno "stampo" con l’immagine desiderata, attualmente, le immagini vengono disegnate come normali tatuaggi. Si ottengono così
sulla pelle disegni, simboli o lettere di colore rosso vivo, in rilievo.
nuti nel tatuaggio, che si manifesta sotto forma
di lesioni eritematose o eritematovescicolose che
configurano una dermatite allergica o fotoallergica. Tali lesioni si possono manifestare a distanza di poche settimane o di anni dalla inoculazione del pigmento. L’allergene maggiormente
responsabile di queste reazioni è il solfuro di
Tatuaggi
SINONIMI: Traditional tattoos, tribal tattoos, social tattoos.
L’etimologia del vocabolo rimanda a ta-tau, che
in lingua polinesiana significa “segno sulla pelle”. Per ogni cultura i tatuaggi svolgevano una
precisa funzione: riti di passaggio tradizionali,
simbolo di regalità, del rango, di innalzamento
spirituale e religioso, ma anche strumento di seduzione. In diverse culture i tatuaggi sono legati
alla magia, ai totem.
Ci sono popoli in cui il tatuaggio indica un vero
e proprio rito di iniziazione per i giovani, per poter approdare nel mondo degli adulti.
Nel tatuaggio religioso come in quello terapeutico tribale, la devozione, la superstizione e la
magia convivono e si sovrappongono in modo
tale che è spesso difficile stabilire dove cominci
una e finisca l’altra.
Tatuaggi terapeutici sono stati ritrovati sulla Mummia del Similaun (ca. 3300 a.C.) ritrovata nel 1991
sulle Alpi italiane, altro ritrovamento con tatuaggi
anche piuttosto complessi è quello dell'“uomo di
Pazyryk” nell’Asia centrale con complicati tatuaggi rappresentanti animali. Tra le civiltà antiche in
cui si è sviluppato il tatuaggio ci sono l’Egitto e
l’antica Roma, dove è stato vietato dall’imperatore
Costantino, a seguito della sua conversione al Cristianesimo. È peraltro da rilevare che, prima che
il Cristianesimo divenisse religione lecita e, successivamente religione di Stato, molti cristiani si
tatuavano sulla pelle simboli religiosi per marcare
la propria identità spirituale.
La complicanza più frequente osservabile nel tatuaggio dal punto di vista dermatologico è costituita dalla sensibilizzazione ai pigmenti conte-
mercurio, il maggiore costituente dei pigmenti
di colore rosso. Nonostante sia stato sostituito con
pigmenti alternativi, si continuano a osservare
reazioni allergiche al colore rosso, anche nel caso
di pigmenti di origine vegetale.
Viceversa anche se rare, esclusivamente legate al
colore rosso, sono le reazioni di tipo lichenoide
caratterizzate dalla comparsa di placche verrucose (tipiche del lichen ipercheratosico) nella sede di iniezione del pigmento.
I pigmenti di colore giallo (a base di solfuro di
cadmio) sono responsabili di reazioni fotoindotte. Tuttavia anche i pigmenti di colore rosso possono dare questo tipo di reazione, in quanto possono contenere cadmio per effetto schiarente.
Meno frequente l’allergia ai colori verde, blu e il
Tatuaggio plantare in paziente affetto da lebbra lepromatosa
Tatuaggio tradizionale. Croci ortodosse tatuate agli arti
inferiori
Tatuaggio tradizionale come rimedio terapeutico a tubercolosi linfoghiandolare del collo di cui si apprezzano
gli esiti cicatriziali
nero. Il verde è associato a reazioni eczematose
locali poiché può contenere tracce di cromo;tali
reazioni avvengono preferibilmente in soggetti
già sensibilizzati al bicromato di potassio. I pigmenti blu possono invece contenere cobalto.
Molto rare le reazioni allergiche al nero; in letteratura sono riportati casi di pazienti allergici
alle particelle di carbone.
In letteratura sono descritte anche reazioni granulomatose provocate dal tatuaggio sia con aggregati di cellule giganti che di cellule epiteliodi.
Tali reazioni sono in genere dovute al pigmento
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di colore rosso (mercurio) tuttavia sono riportate
anche reazioni al cromo (verde) e al cobalto
(blu). Generalmente tutte queste reazioni sono
associate a negatività ai test epicutanei.
Infine, tra le reazioni da tatuaggio non vanno dimenticate quelle pseudolinfomatose, consistenti
in noduli duri di colore rosso violaceo o placche
simili ai linfomi cutanei B; esse si localizzano in
genere nelle porzioni rosse del tatuaggio.
Un altro aspetto particolare è costituito dalla possibilità che determinate dermatosi (psoriasi,lichen, ecc.) si localizzino nella sede del tatuaggio,
senza alcuna predisposizione di colore.
Riferimenti bibliografici:
Scarificazioni
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µ SINDROME DHAT
DEFINIZIONE: Il termine Dhat, dal sanscrito
“DHATU”, che significa “fluido vitale”, “ciò che
sostiene il corpo”, coniato da Wig nel 1960, descrive una sindrome culture-bound diffusa nel
subcontinente indiano, caratterizzata da paura
intensa o senso di ansietà riguardo alla perdita
di liquido seminale con eiaculazioni o polluzioni
notturne.
La sindrome Dhat è correlata alla teoria induista
secondo la quale il liquido seminale rappresenterebbe un fluido ricco di forza vitale, la cui perdita condurrebbe a un depauperamento delle
energie fisiche e psichiche dell’individuo. Anche
le donne possono perdere la loro essenza vitale
con le secrezioni vaginali e ricavarne un indebolimento fisico e psichico.
Per sindrome culture-bound o culturalmente
caratterizzate, s’intende un’entità psicopatologica che ha una prevalenza geograficamente definita e che è determinata dalle credenze e dai paradigmi di un’area culturale specifica.
EPIDEMIOLOGIA: Colpisce giovani maschi tra i 15 e
i 30 anni, celibi o sposati da poco, ed è un fenomeno
culturale non legato a una particolare religione. Si
distribuisce, oltre che nel subcontinente indiano, anche in Cina, Thailandia e Sri Lanka.
QUADRO CLINICO: Nell’uomo si caratterizza per
la comparsa di secrezioni uretrali, polluzioni notturne, impotenza psicogena, eiaculazione precoce e sintomi generali come astenia, insonnia,
inappetenza, dolori vaghi e senso di ansia.
Nella donna si descrive secrezione vaginale biancastra, bruciore alle mani e ai piedi, vertigini e
dolori articolari.
Non vi sono stati identificati disturbi organici nei
pazienti affetti da questa sindrome che pertanto
è stata classificata tra le sindromi culturalmente
caratterizzate.
TERAPIA: Sono possibili differenti approcci terapeutici come quello proposto dalla medicina
ayurvedica, dai guaritori tradizionali, la terapia
psicofarmacologica e l’approccio etnopsichiatrico, ma sicuramente l’approccio integrato è in
grado di fornire i migliori risultati.
Riferimenti bibliografici:
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µ MUTILAZIONI GENITALI
FEMMINILI (MGF)
DEFINIZIONE: Il termine “Infibulazione” deriva
dal latino fibula che era la spilla utilizzata dagli
antichi Romani per agganciare la toga ed è usato
per indicare una forma di mutilazione genitale
in quanto la stessa spilla veniva utilizzata per evitare che gli schiavi avessero rapporti sessuali.
Le origini delle mutilazioni sessuali femminili
sono legate a tradizioni dell’antico Egitto (da qui
il nome di infibulazione faraonica). Si calcola
che in Egitto, nonostante la pratica sia vietata,
ancora oggi tra l'85% e il 95% delle donne abbia
subito l'infibulazione.
Lo scopo di tale pratica è quello di evitare i rapporti sessuali fino alla defibulazione (cioè alla
scucitura della vulva) che, in queste culture, viene
effettuata direttamente dallo sposo prima della
consumazione del matrimonio.
Spesso dopo ogni parto viene effettuata una nuova infibulazione per ripristinare la situazione prematrimoniale.
Le MGF non sono condizionate dall’appartenenza a gruppi linguistico-etnici né correlate a particolari credo religiosi. Le ragioni culturali che
sottendono alla loro realizzazione sono svariate
– identificazione con il genere sessuale, adozione
del modello culturale di femminilità, adesione a
criteri estetici e codici comportamentali, ecc. –
ma possono essere ricondotte alla necessità socio-culturale dei gruppi sociali di costruire il genere sessuale femminile, affinché le sue peculiari
potenzialità non incidano negativamente sul
mantenimento dell’ordine sociale stabilito.
Le agenzie internazionali hanno indicato quattro
tipi di MGF di riferimento, all’interno delle quali
sono stati inseriti dei sottogruppi.
CLASSIFICAZIONE DELLE MGF SECONDO L’OMS:
Tipo I: Escissione del prepuzio con o senza escissione di parte o tutto il clitoride;
Tipo II: Escissione del clitoride con parte delle o
tutte le piccole labbra;
Tipo III: Escissione di parte o tutti i genitali esterni con
chiusura dell’apertura vaginale (infibulazione):
Tipo IV (non classificati):
• Perforazione, penetrazione,
incisione del clitoride;
Stiramento
di clitoride e/o piccole labbra;
•
Scorticamento
del tessuto circostante
•
l’orifizio vaginale;
• Introduzione di sostanze corrosive o erbe;
• Angurya cuts e gishiri cuts;
• Qualsiasi altra procedura di MGF
(introcisione, trachelotomia rituale,
infibulazione inversa,ecc.).
EPIDEMIOLOGIA: Si tratta di pratiche tradizionali
che vengono eseguite in 28 paesi dell'Africa e si stima che tra 130 e 140 milioni di donne presentino
una qualche forma di MGF nel mondo e che oltre 3
milioni di bambine sono a rischio ogni anno di subire una MGF. Le MGF possono venire realizzate entro i primi giorni di vita o fino ai 30 anni di età.
QUADRO CLINICO:
MGF di Tipo I OMS
(Sunna) si caratterizza
per l’asportazione del
prepuzio o dell’intero
clitoride
MGF di Tipo II OMS
(Khefad o tahara) si
caratterizza per l’asportazione di clitoride e
piccole labbra
MGF di Tipo III OMS
(Circoncisione faraonica
o sudanese) si caratterizza per l’asportazione quasi completa di clitoride,
grandi e piccole labbra
MGF di Tipo IV OMS
(Infibulazione) sutura
Inoltre, in merito alle conseguenze psico-fisiche
derivanti dalle MGF si distinguono due categorie
di complicanze, alcune immediate, altre a lungo
termine.
COMPLICANZE IMMEDIATE:
• Morte;
• Emorragia;
• Shock;
• Ritenzione urinaria;
• Infezioni;
• Lesioni muscolari, ossee, tendinee;
• Danni ai tessuti adiacenti (vescica, uretra, pareti
vaginali, sfintere anale, ghiandole del Bartolini).
COMPLICANZE TARDIVE:
Tipi I e II
• Impossibilità di guarigione;
• Ascessi;
• Cisti epidermoidi;
• Cheloidi;
• Infezioni urinarie;
• Malattie infettive.
Tipo III
• Infezioni genitali;
• Dismenorrea;
• Stenosi dell’orifizio vaginale;
• Complicanze del parto;
• Danni agli organi vicini;
• Effetti di tipo psicologico;
• Effetti di tipo sessuale.
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ANNO DI PUBBLICAZIONE: 2011
PROGETTO GRAFICO: Progetti Mediali Srl
STAMPA: Eurolit Srl