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“Alla scoperta del sé e del senso del cammino. La relazione di accompagnamento”
SUOR BENEDETTA ROSSI:
Io ringrazio don Sergio, Roberto e voi tutti che siete qui questa sera, mi auguro
veramente che possa essere un tempo buono di condivisione, di alcune riflessioni molto
semplici come vogliono essere, attraverso la parola di Dio, sulla relazione di
accompagnamento.
Innanzitutto una domanda: perché interrogare il testo biblico su questo tema? In
teoria saremmo potuti partire da qualsiasi altro punto, però crediamo che la Scrittura abbia
una straordinaria forza rivelativa dell’umano, in tutte le sue sfumature. La Scrittura ci rivela
uno stile di comunicazione, uno stile di relazione. Lo stile di un Dio che si fa conoscere
dentro le parole degli uomini che attraversano la storia in tutte le sue difficoltà, in tutte le
sue contraddizioni. Il cammino, l’esperienza di uomini e donne e il loro vissuto, diventa lo
spazio per incontrare il volto di Dio, che è relazione. Uno spazio privilegiato dunque per
approfondire qualcosa sulle nostre relazioni.
Tenteremo di approfondire la relazione di accompagnamento a partire da un’icona
biblica di riferimento, il racconto di Luca 24,13-35: i due discepoli che se ne vanno verso
Emmaus. Sullo sfondo però vorremmo fare riferimento anche ad altri due brani della
scrittura: Tb 6,1-9, che racconta un tratto del cammino di questo giovane, accompagnato
da Raffaele e At 8,26-40. Li terremo come sfondo per fare alcuni approfondimenti.
Vorremmo percorrere la nostra riflessione in quattro tappe, che distinguono la
relazione di accompagnamento. La prima è quella della creazione di uno spazio
accogliente, necessario per poter accompagnare sorelle e fratelli. La seconda tappa sarà
esplorare la realtà e la percezione della realtà che l’altro ci consegna, nella relazione di
accompagnamento. La terza tappa che vorrei esplorare con voi è quella della scoperta di
sé e del senso del cammino. Infine la meta della relazione di accompagnamento, che,
come abbiamo appena ascoltato, è quella di mettere l’altro in grado di scegliere. La scelta
possibile.
Cominciamo il nostro percorso a partire da questa parola: accompagnare. Se noi
guardiamo un po’ l’etimologia della parola, scopriamo che ha origine in due parole, dal
latino cum-panio, cioè chi mangia lo stesso pane. Condividere lo stesso pane. Questa è
l’icona che ci presenta il brano di Luca 24, 13-35: conosciamo tutti il bel quadro di Gesù a
tavola che spezza il pane con i due, ma prima Gesù mangia un altro pane, insieme a
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“Alla scoperta del sé e del senso del cammino. La relazione di accompagnamento”
queste due persone ed è il pane della solitudine. Se noi guardiamo l’inizio del brano,
vediamo che i due che se ne vanno lungo la strada verso Emmaus, sono in una situazione
di solitudine. Innanzitutto sono lontani dalla comunità, da Gerusalemme, dalla città santa
che era il luogo che aveva costituito la meta del cammino di Gesù nel Vangelo di Luca. Il
luogo dove la storia di Gesù sarebbe arrivata a compimento. I due si allontanano dalla
comunità e da Gerusalemme.
“Due di loro”, ci dice Luca, evidenziando che fanno parte di quella comunità che ha
fatto esperienza del Risorto, quella comunità a cui le donne avevano testimoniato la
resurrezione. Loro si distaccano, sono soli, rispetto alla comunità: “E Gesù si accostò e
camminava con loro”. Ed è bellissimo, perché Gesù condivide il cammino di questi due,
anche se va nella direzione contraria rispetto al cammino che lui aveva percorso. Il
cammino di Gesù nel Vangelo di Luca è orientato verso Gerusalemme, adesso i due si
allontanano da Gerusalemme, ma: “Gesù si mette accanto e camminava con loro”.
Camminare sulle strade dei fratelli anche quando vanno in direzioni contrarie rispetto alle
nostre. Questo è il punto di partenza per accompagnare.
Ancora Luca ci racconta che: “I loro occhi erano impediti al punto che non lo
riconoscevano”. Gesù si accosta, erano stati con loro almeno tre anni, ma i loro occhi non
riescono a vederlo, c’è un impedimento quasi invincibile, che fa sì che il Risorto non venga
riconosciuto. Ecco un’altra distanza, non solo quella dalla comunità, ma anche la distanza
dal Maestro, da un Messia che non è più riconoscibile.
Bene, ma c’è qualcos’altro. Sono insieme, camminano insieme e Luca dice:
”Parlavano tra di loro”. La parola greca che qui Luca usa non fa riferimento ad una
conversazione, ad un essere insieme nella comunione, ma ad un conflitto; in realtà si
potrebbe tradurre dicendo che i due si stavano lanciando dei discorsi l’uno contro l’altro.
“Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi?”, dirà Gesù. I due non parlano,
ma discutono animatamente, quasi controbattendosi, lanciandosi contro le proprie
opinioni. Ecco che il cammino di questi due è un cammino in solitudine, ognuno è distante
dall’altro. Si può camminare insieme ma essere soli. Gesù fa suo questo cammino e
condivide il pane della separazione dalla comunità, il pane della solitudine, il pane di
quella resistenza che ostacola la comunione con lui, che impedisce di riconoscerlo.
Non soltanto, qui vorrei prendere spunto dal racconto di Atti 8,26-40: accompagnare
significa anche dividere il pane dell’emarginazione. La storia di Atti 8,26-40 parte con
questa scena: c’è un uomo a cui Filippo, missionario, è inviato. Il destinatario di questo
annuncio viene definito come un ufficiale della Regina di Etiopia, eunuco, che sta sul carro
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“Alla scoperta del sé e del senso del cammino. La relazione di accompagnamento”
e si allontana da Gerusalemme. È un uomo potente, ma, allo stesso tempo, è un uomo
emarginato. Gli eunuchi, secondo la legislazione dell’Antico testamento, erano esclusi
dall’Alleanza, dice il Deuteronomio: “Non entrerà, l’eunuco, nell’adunanza del Signore” (Dt
23,2). L’uomo non poteva far parte della comunità, però il Libro del Profeta Isaia fa di
questi uomini i destinatari della promessa di Dio: ”Non dica l’eunuco ‘Ecco, io sono un
albero secco’, poiché - così dice il Signore - agli eunuchi darò loro, nella mia casa e dentro
le mie mura, un posto e un nome migliore di quello dei figli e delle figlie. Un nome eterno
darò loro, che non sarà mai cancellato” (cf. Is 56,3-5). Quest’uomo, emarginato, è
destinatario della promessa del Signore, a quest’uomo è destinata la beatitudine.
Il Libro della sapienza dice: “Beato l’eunuco, riceverà una grazia speciale per la sua
fedeltà” (cf. Sap 3,13-14). Filippo è chiamato a vedere in quest’emarginato, nel diverso,
nello straniero – era etiope, non era di Israele – il destinatario della promessa. Colui a cui
Dio rivolge la sua beatitudine. Lo spirito dice a Filippo: “Accostati a quel carro”, questo
accostati in greco vuol dire proprio unisciti a lui, fatti uno con questo fratello, condividi la
strada di quest’uomo verso casa sua. Ecco allora l’inizio della relazione di
accompagnamento: condividere il pane della solitudine, il pane della distanza dalla
comunità. Condividere strade che non sono le nostre, condividere e camminare insieme a
chi è emarginato, nell’anonimato, cioè senza essere riconosciuti come i salvatori, i
risolutori della situazioni, ma come semplici compagni di viaggio anonimi, che né
rimproverano, né indicano la strada, ma si accostano, mettendo i propri piedi accanto a
quelli del fratello. Camminiamo insieme per un tratto di strada, con un gesto che superi
perfino i desideri dell’altro. Gesù ricorda: “Se qualcuno ti chiede di fare con lui un miglio, tu
fanne due” (cf. Mt 5,41).
Allora in questo camminare insieme, ad un certo punto il silenzio discreto
dell’accompagnatore prende la forma di una domanda. Gesù, in punta di piedi, entra nel
mondo dei due che vanno verso Emmaus e chiede loro: “Che cosa sono questi discorsi
che state facendo tra voi lungo il cammino?”. La domanda, lungo la strada di Emmaus,
nasce dall’ascolto che è potuto avvenire perché l’accompagnatore è stato in silenzio,
senza disturbare la conversazione, ascoltando con orecchio attento. Qual è il significato
della domanda? La domanda nasce da un interesse, la domanda di Gesù dice qualcosa di
fondamentale: i tuoi discorsi mi interessano. “Cosa sono questi discorsi?”. Ecco che l’altro,
che Gesù sta accompagnando, si scopre destinatario di un interesse, di una cura e di
un’attenzione particolare.
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“Alla scoperta del sé e del senso del cammino. La relazione di accompagnamento”
È la stessa cosa che fa Filippo, con quest’eunuco, a cui si mette a fianco. Filippo
non interviene in maniera violenta: se noi leggiamo At 8,4-8, vediamo che Filippo era
capace di operare grandi segni e di una predicazione forte. Qui egli si mette in silenzio, si
sintonizza sulla lunghezza d’onda del viaggiatore, si mette in ascolto e condivide il suo
mondo. Gli chiede: “Capisci quello che leggi?”. È bella la delicatezza di Filippo: mi
interessa sapere, tu stai capendo quello che leggi? Ecco l’ascolto silenzioso e le domande
discrete che consentono all’accompagnatore di bussare alla porta dell’altro. A quel punto
l’altro si sente improvvisamente oggetto di attenzione, si sente prezioso, sente che ciò che
pensa e ciò che legge interessa a qualcuno. Il suo mondo per qualcuno è importante.
Luca racconta che i due che vanno verso Emmaus: ”Si fermarono col volto triste”,
cioè scuri in volto. È bellissimo, perché è il primo dato che la domanda di Gesù ci
consente di vedere: i due si fermano e svelano che il loro volto è incupito.
L’accompagnatore crea uno spazio in cui il fratello che cammina nella solitudine può
fermarsi e rivelare il volto a qualcuno. È fondamentale avere uno spazio per mostrare il
proprio volto a qualcuno, uno spazio accogliente, creato da un silenzio che ascolta, da
questa domanda che dice all’altro: io mi prendo cura di te. È bello perché il volto, nella
Scrittura, non è solo la faccia, ma è l’essenza della persona. Il volto nella Scrittura dice la
storia della persona.
Possiamo vedere che questa espressione avere il volto scuro, ricorre più volte ed è
interessante capire perché, nella scrittura, si ha il volto scuro. Si può avere il volto scuro
perché si vive in una situazione di mancanza, in particolare una mancanza di ascolto. È
quanto ci rivela, ad esempio, il primo libro di Samuele, la figura di Anna: la mancanza di un
dialogo rende il volto scuro.
Quando, nella Scrittura, io mostro il mio volto ad un fratello, significa che accetto
che l’altro entri nella mia vita. Ecco che quando il viandante si ferma e fa vedere la sua
storia, la sua vita a Gesù, mostrandogli il volto, dice a Gesù: io ti accolgo nella mia vita, io
ti accolgo alla mia presenza. La stessa dinamica si ritrova sempre con Filippo e l’eunuco,
in At 8,31, dove l’eunuco invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Colui che è
accompagnato sceglie l’accompagnatore come compagno di viaggio. Questo è
fondamentale, in questo modo si crea lo spazio accogliente, nella reciprocità della
relazione. Accompagnare non può essere una relazione a senso unico: io agisco e tu sei
oggetto della mia azione. Chi accompagna si pone sui sentieri dell’altro e l’altro, quel
fratello che fino a questo momento era solo, accoglie l’accompagnatore nel suo mondo,
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“Alla scoperta del sé e del senso del cammino. La relazione di accompagnamento”
sulla sua strada, mostrandogli la sua storia, la sua identità, facendo sì che egli possa
sedere accanto a lui, dicendogli: io ti accolgo come compagno di viaggio.
Questa è la prima parte della relazione di accompagnamento, cioè creare lo spazio
accogliente ed ecco che in questo spazio accogliente colui che è accompagnato può
portare alla luce la sua esperienza, può raccontare la sua percezione della realtà. La
domanda di Gesù, lungo la strada verso Emmaus, è letteralmente qualcosa che butta giù
una diga e apre la porta a un fiume di parole di questi discepoli. Di fatto questi due
viandanti cominciano a raccontare la loro esperienza: “Tu solo abiti da straniero in
Gerusalemme”. Questo è l’esordio ed è importante, non ci soffermiamo tanto su questo,
però volevo sottolinearlo, perché ci svela un dato: l’accompagnatore deve essere straniero
accanto al fratello che accompagna. Chi è lo straniero nella Scrittura? È colui che non può
accampare diritti, colui che, in punta di piedi, chiede di essere accolto. L’accompagnatore
è straniero di fronte al fratello, uno straniero che non sa, che domanda, che si consegna
alla libertà dell’altro.
Qual è la storia che i due raccontano? È una storia di delusioni, la storia di un
profeta potente in parole e in opere. Questa è la definizione di Mosè che viene data nella
Scrittura. I due si aspettavano un nuovo Mosè, un nuovo liberatore di Israele, come Mosè
aveva liberato il suo popolo dell’Egitto, così questo doveva essere un nuovo Mosè. “Noi
speravamo che fosse lui a liberare Israele”. L’attesa non era insensata, ma legittima,
questi uomini hanno conosciuto un liberatore che non ha liberato, con il risultato che
Israele è ancora nella schiavitù. Di fronte a questo esprimono la loro delusione profonda,
che non annulla il mistero di Gesù, ma rende incapaci questi uomini di vedere il Risorto in
questo uomo profeta. La delusione non ti consente più di percepire la vita, questo è il
problema.
Non c’è soltanto la delusione, a volte la realtà può mordere la persona, questa è
l’immagine che ci consegna Tb 6,1-9. Nel capitolo 6°, primi nove versetti, viene raccontato
il cammino che Tobia compie in compagnia di Raffaele, per andare a recuperare l’eredità.
I due si mettono in cammino e si accampano, la sera, su un fiume. Ad un certo punto
questo giovane scende al fiume, se immerge nell’acqua e un pesce morde il piede del
ragazzo: “Un grosso pesce tentò di divorare il piede del ragazzo”. Sembra una minaccia
banale, rispetto a quelle che potevano avere davanti i viaggiatori nell’antichità, però è una
minaccia insidiosa, perché il piede è ciò che ti fa camminare. Se il pesce ti divora il piede,
il cammino che hai appena iniziato viene stroncato sul nascere. Il fatto è significativo:
spesso tanti fratelli e sorelle intraprendono un cammino, ma c’è una realtà che li morde e
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“Alla scoperta del sé e del senso del cammino. La relazione di accompagnamento”
sembra stroncare su nascere questo cammino. Il ragazzo, di fronte a questa realtà, gridò
per la paura. Il ragazzo percepisce con chiarezza la sua impotenza, da qui l’esperienza
della paura e del grido, che l’accompagnatore raccoglie.
Allora cosa fare, di fronte ad una realtà che ti morde, che ti ha deluso e che non
comprendi più? Qui arriviamo alla terza parte. Accompagnare non significa proporre vie di
fuga, né soluzioni rapide “Hai bisogno di questo, io ti do questo”, né cambiare la realtà con
la bacchetta magica, né banalizzare l’accaduto facendo finta che non sia successo niente,
sminuendo la percezione che l’altro ha della realtà. Questo è un passaggio delicatissimo
nelle nostre relazioni di accompagnamento, in cui, a volte anche in buona fede, rischiamo
veramente di mancare. A volte per incoraggiare rischiamo di banalizzare la percezione
della realtà che l’altro ha.
Cosa fa Gesù? In Lc 24,25 Gesù prende la parola: “Stolti e lenti di cuore”. Gesù non
usa mezzi termini e mostra a questi due discepoli che la delusione ha appannato
l’intelligenza e ha appesantito il cuore. Il cuore lento è un cuore che non è più capace di
desiderare niente, perché la velocità nella scrittura non indica la fretta, ma è espressione
del desiderio. Il cuore lento è un cuore talmente deluso da non desiderare più. Lenti di
cuore a credere: questi uomini non sono più capaci di credere, cioè di uscire dalla loro
visione della realtà, di aprire lo sguardo e il cuore all’altro. Gesù accompagna verso questa
uscita da sé offrendo un orizzonte di senso: “Non bisognava che il Cristo patisse tutto ciò
ed entrasse nella sua gloria?”. Noi abbiamo sentito tante volte queste parole, forse ci sono
fin troppo familiari, ma Gesù cosa fa? Svela il senso della realtà, della sua sofferenza,
svela il significato e il fine di una storia che era apparsa, agli occhi di questi due,
assolutamente fallimentare. La sofferenza era un passaggio per entrare nella gloria.
L’accompagnatore non dice: “Non preoccuparti, non è successo niente”. Svela il
senso profondo di quello che è successo, aprendo un orizzonte di speranza. La parola
greca che qui l’evangelista usa è interpretare, non semplicemente spiegare il senso di ciò
che è successo. Questo è importante, perché le storie di fallimento di tante sorelle e di
tanti fratelli hanno bisogno di essere interpretate, perché possano essere viste nella sua
luce. L’accompagnatore è colui che insegna ad interpretare, quindi a leggere dentro la
storia, senza dare risposte preconfezionate, offrendo delle chiavi di interpretazione di
quella storia che è così. Per interpretare una storia è necessario stare dentro questa storia
ed è quanto ci restituisce il Libro di Tobia.
È bellissimo ciò che Raffaele fa con Tobia, vi invito a leggerlo, sono i primi 9 versetti
del capitolo 6° del Libro di Tobia. Questo ragazzo, con il pesce che gli azzanna il piede,
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“Alla scoperta del sé e del senso del cammino. La relazione di accompagnamento”
urla. Il suo accompagnatore disse al ragazzo: “Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire”. Il
primo invito dell’accompagnatore non è “Scappa e scrollati di dosso ciò che ti fa male”, ma
quel pesce che sembrava – ci dice il testo – così grande da divorare il piede, lo invita ad
afferrarlo. Questo significa: forse non è poi così grande, se lo puoi trattenere con le tue
mani. L’accompagnatore invita a stare dentro quella realtà, cercando di vederla in maniera
diversa e di prendere le dimensioni di questa realtà in maniera diversa. “Trattieni il pesce,
tieni questo pesce sotto controllo”, ci dice alla lettera il testo greco. Allora, se la paura, a
livello proprio di esperienza antropologica, è segno dell’incapacità di gestire una
situazione, l’accompagnatore dice al ragazzo di prendere il controllo di questa situazione.
Quello che ti fa male lo puoi afferrare con le mani, puoi percepirne le dimensioni e puoi, in
qualche modo, trattenerlo, tenerlo sotto controllo.
L’accompagnatore non cambia la realtà, ma cambia la persona nei confronti della
realtà, o meglio, offre alla persona la possibilità di cambiare, nella sua percezione della
realtà. Ciò che ti fa male, ciò che ti fa paura, può essere percepito diversamente e può
essere gestito. Ecco che, attraverso questo suggerimento dell’accompagnatore: “Tobia
riuscì ad afferrare il pesce e a tirarlo a riva”. Non soltanto, il discorso va avanti. Di fronte
ad una situazione di crisi, in qualche modo - mi vorrei soffermare su questo dato –
l’accompagnatore non si sostituisce alla persona in difficoltà. Non lo soccorre, non si
precipita, ma lo invita a stare, aprendo gli occhi per cogliere nuove possibilità del reale.
Una volta che il pesce è stato tirato a riva, Raffaele dice: “Apri il pesce”. Allora,
questo problema, che poteva per sempre stroncare il cammino di Tobia, perché poteva
mangiargli il piede, deve essere aperto ed esplorato all’interno. L’accompagnatore non
invita solo a una diversa percezione della realtà, ma chiede di guardare dentro quella
realtà dolorosa. Una realtà che può rischiare di azzopparti la vita. “Togline il fiele, il cuore e
il fegato, mettili in disparte ma getta via gli intestini”. Bene, potremmo pensare che la
Scrittura viene a dirci persino queste cose! È interessante il procedimento, perché una
volta che il pesce viene aperto, cioè una volta che si guarda dentro al problema,
l’accompagnatore ti indica ciò che può essere preso e conservato e ciò che è necessario
gettare via. “Ciò che puoi conservare – dice Raffaele – possono essere utili medicamenti”.
Dopo aver invitato al discernimento, perché discernere significa precisamente
distinguere, Raffaele rivela a Tobia che c’è qualcosa dentro quel pesce che può essere
una medicina. Allora, di fronte ad una realtà ostile ed aggressiva, dolorosa,
potenzialmente pericolosa, accompagnare significa stare insieme all’altro, condurlo ad
un’osservazione ravvicinata di questa realtà, a discernere sapientemente dentro questa
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realtà, per scoprire che dentro questa realtà difficoltosa, c’è un dono, c’è qualcosa che ti
può guarire.
Il pesce aperto può essere medicina se Tobia accetta di conservarne alcune parti
con sé. Questo è fondamentale. Le realtà dolorose, che colpiscono la nostra vita, non
possono essere semplicemente rimosse, l’accompagnatore non deve funzionare
semplicemente come uno spazzaneve, che aiuta a scansare le difficoltà. Alcune cose
devono essere trattenute, solo così potranno guarire.
Tobia, invece di gettare via e allontanare ciò che gli aveva fatto male, lo prende:
“Ne raccolse il fiele, il cuore e il fegato” e decide di mangiare solo una parte di questo
pesce. È bellissimo, perché questa cosa, che era un pericolo, diventa il cibo possibile.
Vedete, c’è proprio, attraverso una lettura diversa della realtà, ecco che la realtà,
lentamente, si trasforma e la difficoltà diventa cibo che ti consente di proseguire il
cammino, quella stessa realtà che rischiava di impedirti per sempre di camminare. Allora,
accompagnare significa condurre ad un’intelligenza della realtà, nel senso proprio di un
intus legere, cioè di un leggere dentro, affinché la realtà venga vista al suo interno. I fratelli
e le sorelle feriti non possono fare da soli, per questo l’accompagnatore deve stare loro
accanto, indicando ciò che può essere tenuto e ciò che può essere buttato.
Questo è un passaggio decisivo, che il testo biblico ci illustra: l’accompagnatore
aiuta il fratello a stare in una realtà, non fuggendola rapidamente, non offrendo soluzioni
facili, ma prendendola in mano, esplorandola, non da solo ma nella comunione. È l’essere
insieme che ti fa vedere il senso di una storia di delusione, il senso di una storia di
fallimento. È l’essere insieme che ti fa vedere che lì c’è qualcosa che puoi comprendere,
che dentro il pesce che ti ha morso c’è qualcosa che ti può guarire.
Eccoci arrivati all’ultimo passo, che ci dice qual è la meta di una relazione di
accompagnamento. Ritorniamo per un attimo lungo la strada verso Emmaus. Ad un certo
punto Gesù spiega, interpreta questa storia, i due arrivano, perché il cammino prosegue.
“Quando si furono avvicinati al villaggio dove andavano, ecco che Gesù fece come se
dovesse andare più lontano”. Gesù ha interpretato la loro storia, dando un orizzonte di
senso, ma c’è un di più, che può essere raggiunto solo se i due lo vogliono, lo scelgono
liberamente. Il gesto di Gesù è geniale, perché è una provocazione alla libertà dei due in
cammino. Sono loro che possono decidere se lasciarlo andare o se trattenerlo. I due
avevano detto: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”. Loro avevano detto che
desideravano la libertà, una libertà che non avevano trovato e adesso Gesù dona loro la
libertà che passa attraverso l’apertura di un orizzonte di senso dentro una storia di
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fallimento e di delusione. Questo è fondamentale, perché l’accompagnatore provoca la
libertà dell’altro, la mette in azione, costringendola a venire fuori. Ecco che, attraverso
questa finta, questa provocazione, i due trattengono Gesù e liberamente chiedono:
“Rimani con noi”. La libertà provocata risponde con il desiderio di comunione. Un desiderio
forte, perché Luca ci dice che non lo trattennero semplicemente, ma in greco dice: “Gli
fecero forza, lo costrinsero”. Questo vuol dire che essi desiderano la comunione con chi
ha portato il significato in una storia dove senso non ce n’era. Ed ecco allora la richiesta:
“Rimani con noi”. Scrive Luca: “Ed egli entrò per rimanere con loro”. Queste parole hanno
una forza straordinaria, è la stessa dinamica che ci mette il libro dell’Apocalisse, al capitolo
3°: “Ecco io sto alla porta e busso, se qualcuno ascolta e mi apre la porta, io entrerò,
cenerò con lui ed egli con me”. Entrare nella dimora dell’altro, essere accolti nella sua
casa, è possibile solo se esso è una risposta, in qualche modo, alla libertà dell’altro, che
decide per la comunione e la chiede. L’accompagnatore, che aveva fatto la strada come
straniero, si lascia accogliere, accompagnare quindi significa lasciarsi accogliere nella
dimora dell’altro. Un lasciarsi accogliere che non è scontato o banale: io vengo a casa tua
perché ti devo fare un bel discorso e ti devo risolvere i problemi. Significa lasciarsi
accogliere dalla libertà dell’altro, dalla sua iniziativa, significa entrare da straniero nella
casa dell’altro. In questo modo ci si può sedere a tavola insieme, condividere quel cibo
che è segno di una vita condivisa. Questa volta, ci racconta Luca, a donare il cibo non
sono i padroni di casa, ma il viandante. “Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo
diede loro”. È un gesto che fa chiaro riferimento all’Eucarestia, ma il testo greco ci parla di
un dono continuo, perché non ci dice: “Lo diede loro”, ma “Lo dava loro”. È un dono che
non cessa, rivelandoci che la relazione di accompagnamento dura nel tempo, non si
esaurisce in un attimo.
Donare il cibo è un gesto di grande portata simbolica, è un gesto che dice all’altro:
io voglio che tu viva. Questo è ancora più significativo dato lo sfondo eucaristico del testo
e il dono del cibo è il desiderio che l’accompagnatore ha che l’altro viva. Allora non solo:
“Le tue parole mi interessano, la tua esperienza mi interessa”, ma “La tua vita mi
interessa”. “Io dono me stesso - appunto per lo sfondo eucaristico del testo - perché tu
viva, perché la tua vita per me è importante”. Questo fa accadere la svolta: “Allora i loro
occhi furono aperti”. Quando l’accompagnatore mostra, mettendo in gioco la sua vita, il
suo desiderio che l’altro viva, quegli occhi che prima erano chiusi si aprono e riconoscono
il Risorto lì davanti a loro. “Ed ecco che – scrive Luca – egli scomparve alla loro vista”. O
meglio, traducendo proprio alla lettera il testo greco: “Divenne invisibile a loro”. La
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“Alla scoperta del sé e del senso del cammino. La relazione di accompagnamento”
specificazione è importante, perché non è che Gesù si allontani dicendo “Arrivederci e
grazie”, c’è, ma diventa impercettibile. Penso che sia un punto su cui riflettere,
accompagnare come provocare la libertà dell’altro. Spesso le nostre relazioni di
accompagnamento, assolutamente in buona fede, soffocano la libertà dell’altro, non
promuovendola, offrendo già ciò di cui l’altro ha bisogno.
Accompagnare significa infine fare un passo indietro quando gli occhi dell’altro si
aprono, essere invisibili, che non significa sparire, ma esserci senza farsi vedere. Questi
uomini, a occhi aperti, scoprono finalmente se stessi e il loro posto nella comunità e
decidono di tornare là da dove erano venuti. Si alzano e in questo loro alzarsi c’è
un’esperienza di resurrezione, ci dice il testo greco. È l’esperienza quasi di un infermo che
si alza, è la stessa parola utilizzata in Lc 4,39 per la suocera di Pietro che era malata, poi
in Lc 5,25 per il paralitico eccetera. Accompagnare allora significa mettere l’altro in
condizione di alzarsi, di stare sulle proprie gambe, di camminare nella notte, in quella
stessa ora, mentre prima i due avevano detto: “A quest’ora è meglio non proseguire il
cammino, fermiamoci”.
“Nella notte i due tornarono verso Gerusalemme”, con un gesto che evoca questo
volgersi su se stesso, nella Scrittura un vero e proprio processo di conversione. È
fondamentale, perché si torna nella comunione con la comunità, da cui ci si era distanziati
e si scopre il proprio ruolo nella comunità. I fratelli emarginati, dei quali abbiamo condiviso
il cammino, hanno un posto nella comunità che devono scoprire ed è qui che ritorneranno
portando la loro testimonianza, mettendosi in comunione con la comunità e diventando
testimoni del Risorto. “Proprio mentre essi parlavano di queste cose - proprio nel momento
in cui questi due fratelli soli tornano nella comunità e testimoniano - Gesù in persona stette
in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi’. La pace, nella scrittura, non è vogliamoci bene, ma è
lo shalom, il compimento della vita, il compimento dell’essere. Senza questi due la
comunità non era compiuta, senza un accompagnatore anonimo, che si accostava loro in
questo percorso, la comunità sarebbe rimasta priva dei due fratelli.
In conclusione possiamo vedere la relazione di accompagnamento come una
relazione intensa, che ci costringe a metterci in cammino sulle strade dei fratelli, strade di
solitudine, di emarginazione; strade in cui ci facciamo accanto a esperienze di
desolazione, di delusione, in cui non si capisce più il senso di quello che sta succedendo.
Accompagnare diventa allora provocazione alla libertà dell’altro, provocazione alla
comunione; l’accompagnamento non è finalizzato a creare persone isolate: “Sì, bravo, stai
bene in piedi da solo, ciao”. È finalizzato alla comunione e quando la libertà dell’altro si
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“Alla scoperta del sé e del senso del cammino. La relazione di accompagnamento”
decide per la comunione allora può camminare, può tornare indietro e può dare senso, da
solo, al proprio cammino, alla propria storia. Ricordandosi che, mentre percorreva la
strada, assieme a questo accompagnatore anonimo e sconosciuto, si sentiva bruciare il
cuore (cf. Lc 24,32).
Grazie.
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