asound express pci

Transcript

asound express pci
LA CODA CHE NON SERVE
Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music
Ottobre-Novembre 2007
PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSIC
Non è morto solo lui, il tenore, anche se è ciò che
vogliono far credere sotterrando quegli altri con una
pala bella grossa. Ci sono altri artisti a un palmo da
terra, freddi. Due a caso, Joe Zawinul e Maxwell
Lemuel Roach. Fresco fresco Luca Giacometti, chitarrista dei Modena City Ramblers, schiantatosi su
un guard rail la notte del 5 ottobre. Sul colpo, non
una morte elegante né annunciata quanto quella toccata a Luciano Pavarotti o al pianista austriaco
Zawinul, che hanno entrambi simpatizzato con il
cancro. Né quanto quella da idrocefalo di Max
Roach, uno che dormiva mentre moriva.
Nel silenzio e nel sonno come coloro che, dovendo
ricordarlo, lo hanno passato in cavalleria: e allora
grazie al monopolio, grazie a chi
decide chi deve morire e chi no.
Ma grazie, soprattutto, alla morte,
che ha coperto gli spazi vuoti
delle testate e ne ha lasciati altri,
quella stessa che consente di
ricordare la mortalità di un
immortale.
Sarà d’accordo per una volta con
me Benedetto XVI quando dico
che morto un papa se ne fa un
altro. Ci sono brani, però, che una
volta scritti restano come fossero Dna a dimostrare
la teoria darwiniana dell’evoluzione della specie,
quella selezione naturale che avviene sugli incapaci, sugli inadatti, sulle code che non servono e sui
denti del giudizio.
Restano note come Dna nei nostri geni, come quando Elvis Presley interpretò pezzi innovativi e ben
scritti o quattro ragazzotti schitarrarono a Liverpool.
Come quando un’Édith molto simile a un passerotto, piccola, sfortunata, si esibiva nei campi di concentramento per i prigionieri di guerra e, nonostante
questo, riusciva a scrivere che la vita era rosa.
Poi ci sono pezzi che fruttano milioni di dollari e,
contandoli, sembra quasi che la morte non li sfiori.
Ma che sono immortali al pari di una coda che proprio non serve. Sono immortali per quei trenta
minuti di una vita intera in cui la coda serve per scodinzolare, ossia trenta minuti di felicità fasulla.
Perché non è più lunga, non è di più, non è vera
comunque. Trenta minuti e poi la coda sparisce dalla
specie. Così il brano da milioni di dollari, il tempo
di ascoltarlo, canticchiarlo, scaricarlo, sparisce naturalmente. Diventa come un osso che di sacro non ha
niente. Siamo ciò che ci tramandano e stiamo tramandando male.
Nel Dna resta Bohemian Rapsody, resta New York
EDGE
AND BACK
New York, resta un duetto tra Louis Armstrong e
Aretha Franklin. Generazioni future, inconsapevoli,
avranno un pelo cresciuto direttamente dal genoma
di My Funny Valentine e un carattere forgiato
dall’Arte della Fuga di Johannes Sebastian Bach.
C’è qualcuno che una mattina si è alzato e ha scritto un molare come Take The A Train, un dente che
mastica, che nessuno consiglia di togliere anche se
fa male come una canzone d’amore.
C’è qualcuno che ha composto ossi sacri che, sacri,
per quanto inutili, restano nell’orecchio a ricordo di
un’era mentre l’era è crollata tutta con la coda, e
risbuca come un motivetto nella doccia proprio
come il dolore agli arti torna durante un cambio di
stagione. È in natura, è già dentro la specie.
C’è qualcuno che ha lavorato come Dio e ha creato
una coda utile, felicità che dura più di trenta minuti:
questi sono gli immortali, quelli che prima che arte
facevano scienza perché conoscevano il cuore,
prima che arte facevano psicologia perché curavano
l’anima, prima che arte facevano musica perché la
studiavano prima di essere musicisti.
C’è chi una mattina si è svegliato e ha composto
Imagine, e chi non si è svegliato proprio. E un po’ li
invidio entrambi.
Romina Ciuffa
CLAS&opera
SICA
Direttore Responsabile
SALVATORE MASTRUZZI
Direttore
STEFANO MASTRUZZI
Condirettore
ROMINA CIUFFA
Redazione
Romina CIUFFA [email protected]
Flavio FABBRI [email protected]
Rossella GAUDENZI [email protected]
Valentina GIOSA [email protected]
Roberta MASTRUZZI [email protected]
Corinna NICOLINI [email protected]
Progetto grafico e impaginazione
Romina CIUFFA
Logo Caterina MONTI
Redazione
Via Cimarra 19/b
00184 Roma
Tel 06.4870.017
Fax 06.4891.3051
Mail [email protected]
Marketing e Pubblicità
Mail [email protected]
Tipografia
Litografica Iride Srl
Via della Bufalotta 224, Roma
Anno I n. 2
Ottobre-Novembre 2007
Registrazione presso il Tribunale di Roma
n. 349 del 20 luglio 2007
STEFANO
MASTRUZZI
EDITORE
MUSICALL
SOtU
r a cN
k i nD
g
FENOMENI TUTTI ITALIANI MA SOLO ITALIANI
Sono quelli da salotti Ikea, cui è dedicata la musica dei tasti bianchi, dove maturano fenomeni senza spessore che
in Italia si impongono come suonerie da cellulare mentre squilla il telefono. Sono quelli che ci ricordano quanto
indietro sono l’educazione musicale italiana, gli investimenti nel settore e il mercato dei sottobicchieri da tavola
Fa piacere al nostro piglio patriottico
(perlomeno a chi ce l’ha) constatare che
alcuni artisti italiani abbiano imposto la
loro arte in tutto il mondo. Un esempio
su tutti è quello di Ennio Morricone, personaggio burbero ma geniale, schivo
quanto preparato e creativo al quale perdoniamo la scontrosità in cambio di
intramontabili melodie. Anche Pavarotti
ha portato nel mondo uno stile inconfondibile, pure se il fisco non perdonò i suoi
torti in cambio di note vibranti.
Tuttavia, Pavarotti rimane un cantante
straordinario in grado di fondere la propria voce con quella dell’orchestra, non
un artista - termine che etimologicamente ha un’accezione legata al momento
creativo, al «dar principio a qualcosa»,
riferibile quindi al compositore - ma sicuramente un grandissimo
interprete di cui andare fieri. Esistono però anche dei fenomeni che
solo in Italia trovano spazio, probabilmente dovuti alla scarsa cultura
musicale che contraddistingue la nostra gente e la porta ad apprezzare musica il cui collocamento più adatto sarebbe negli ascensori, possibilmente per pochi piani. Preso da una smaniosa volontà di appro-
fondire ho cominciato a scaricare musica dal web; è un utilizzo dei
mezzi informatici che ritengo giusto se il fine è quello di conoscere la
musica prima di comprarla. Ho trovato diversi brani ad esempio di
Ludovico Einaudi, un pianista italiano molto noto, sulla cui carriera
ha forse anche influito il cognome altisonante e i salotti che si porta
dietro.
Certo, spacciare queste note per «musica colta» è un’offesa a
Beethoven, Bach e Schoenberg, spacciarla per musica di qualità
dipende dalla norma ISO 9001 di riferimento, spacciarla per «musica
intellettuale» poi cosa significa? Che viene apprezzata nei salotti
bene? Allora definiamola musica da salotto. Ho ascoltato I Giorni, Le
Onde e altri brani, forse è proprio vero quello che malignamente si
sussurra nei salotti Ikea, quelli del popolo: «Questo musicista usa solo
i tasti bianchi».
Per i non musicisti garantisco che è un’espressione che non suona
come un complimento, tradisce una sciattezza creativa e una banalità
tematica che neanche uno studente di musica di 2° anno riuscirebbe a
giustificare in una propria composizione. Anche altri suoi pezzi
hanno suscitato la stessa sensazione, ricordandomi certa musica new
age degli anni Novanta, che però era volutamente concepita in maniera sempliciotta ed essenziale, ossessivamente ripetitiva e asettica in
quanto destinata a fare da sottofondo ad altre attività e non ad avere
una valenza artistica autonoma.
CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES
SOtU
r a cN
k i nD
g
a cura di ROBERTA MASTRUZZI
L’
LLUCA
UCA F
FLORES
LORES::
V
VITA
ITA B
BREVE
REVE DI
DI UN
UN
P
PIANO
IANO,, S
SOLO
OLO
infanzia trascorsa in Africa e il
ricordo della madre scomparsa, l’incontro con il jazz e la
scoperta dell’amore, e poi il pianoforte,
croce e delizia. La musica dove rinchiudersi per non affrontare il dolore, rifugio
troppo accogliente che lo porterà a
distaccarsi da tutto e da tutti. Questa è
la storia di Luca Flores, pianista jazz.
«Piano, solo» di Riccardo Milani è il film
ispirato alla sua vita, interpretato da
Kim Rossi Stuart con Paola Cortellesi,
Michele Placido e Jasmine Trinca. Il soggetto nasce da un libro di Walter
Veltroni, che ipnotizzato dalle note di
How Far Can You Fly?, il brano inciso da
Flores pochi giorni prima del suo sucidio,
decide di scrivere la biografia dell’artista
scomparso a soli 40 anni. Ripercorre la
sua vita attraverso i ricordi degli amici,
le interviste ai familiari, le lettere scritte
dallo stesso Luca e racchiude tutto nel
libro «Il disco del mondo. Vita breve di
Luca Flores, musicista». La storia del
grande pianista che ha suonato con
Chet Baker, Dave Holland e Massimo
Urbani rivive ora nelle sale cinematografiche. Più che la carriera, è la vita intima
dell’artista e la sua estenuante ricerca
di un attimo di felicità, ciò che interessa
Riccardo Milani, il regista che già nel
2003 si interrogava su dove fosse «Il
posto dell’anima», intenso film con Silvio
Orlando, operaio in fabbrica che rischia il
posto di lavoro e tra scioperi e lotte sindacali ci rimette speranza e salute. Ma
se nell’opera precedente il dramma si
alterna alla commedia, in «Piano, solo»
la leggerezza sembra quasi assente. La
I
PIANO, SOLO Luca Flores e
Kim Rossi Stuart come uno, solo.
storia si fa via via più drammatica, la
passione diventa frenesia, l’amore si
confonde con la pazzia, la musica diventa
l’unico linguaggio possibile. Molto più
delle parole, è la musica di Flores a raccontare la sua storia. Un film non può
restituire la complessità della vita di un
uomo. Tanto meno se si tratta di un
uomo con un talento fuori dal comune,
un mondo interiore complicato e ricco di
pensieri inespressi, un dolore costante
che lo accompagna per una vita intera.
L’intensa interpretazione di Kim Rossi
Stuart regala però immagini indelebili e
significative, frammenti di vita di un
uomo che vive il suo talento da testimone quasi inconsapevole e subisce la realtà di un mondo moderno che lascia poco
spazio agli animi più sensibili, a chi cerca
la verità prima dell’apparenza. Chi non si
rassegna alla solitudine e accusa il
mondo di essere troppo grande e dispersivo e di allontanare le persone dagli
affetti più cari. Chi pur avendo la fortuna
di suonare con i grandi nomi del jazz,
preferisce «una casetta di plastica,
come quelle dei bambini, per suonarci
dentro senza essere visto». Da vero artista, Flores non cercava la notorietà. Al
contrario, provava il desiderio di scomparire. Decise di farlo prima di diventare
qualcuno «da imboccare e portare al
sole». Scomparire, per mancanza di
coraggio, per la difficoltà di affrontare la
realtà, ma non solo. Scomparire, per
lasciar parlare solo la musica. Lasciarla
volare fino a dove troverà ascolto, fino a
dove ci sarà spazio, fino a chiedersi: How
Far Can You Fly? (Roberta Mastruzzi)
mmaginate. Un assolato paesaggio americano. Una lunga strada polverosa e una meta lontana da raggiungere. Una macchina anni 70 con
i sedili in pelle e una radio per tenervi compagnia. Come sottofondo
musicale la colonna sonora dell’intera filmografia di Quentin Tarantino.
Siete pronti? Che il viaggio abbia inizio.
La scelta del primo brano è fondamentale. È lo stesso regista a sottolinearlo: «Non riesco ad andare avanti nella scrittura di una sceneggiatura se
non so quale sarà la musica d’apertura. È la musica che mi fa entrare nell’atmosfera e nel ritmo di un film». E allora potete scegliere: la voce di
Nancy Sinatra che con sommessa malinconia canta Bang Bang e ci riporta alla mente la figura di Uma Thurman in abito da sposa e la strage iniziale di Kill Bill durante i preparativi delle nozze. Oppure, la chitarra di
The Last Race di Jack Nitzsche, il brano che dà inizio a Grindhouse - A
Prova Di Morte, immaginando di avere accanto una delle terribili protagoniste dell’ultimo lavoro di Tarantino, rigorosamente a piedi nudi. Per i
più ribelli, Misirlou, la canzone che accompagna i titoli di testa di “ulp
Fiction, preannuncia un film carico di pallottole, vendette, rapine.
Pensare che il brano lanciato negli anni 60 dai Dick Dale & The Del
Tones era originariamente un antico canto liturgico ebraico. Questo è proprio il punto di forza del regista americano.
Scegliere la musica che meglio si adatta alla scena e fonderla con essa
fino a creare un legame indissolubile. E chi ricorda più che You Never
Can Tell era cantata da Chuck Berry? Ora è per tutti il ballo più famoso
della storia del cinema: Uma Thurman e John Travolta che si esibiscono
in un twist spettacolare. Perché nei film di Tarantino la musica è il valore aggiunto. A volte basta poco, come il motivo fischiato da Daryl
Hannah in Kill Bill (Twisted Nerve di Bernard Hermann). Ed è così che
la donna dall’occhio bendato assume una sfumatura più inquietante.
Music In
DIETRO LE QUINTE Qualcuno ha
spiegato a Stuart come essere Flores.
Principalmente Principato.
Ottobre Novembre 2007
QUENTIN TARANTINO Il
mago del Nerve che fischietta
PIERPAOLO PRINCIPATO
HOO INSEGNATO
INSEGNATO A
A KIM
IM ROSSI
OSSI STUART
TUART
«F
A
A SUONARE
SUONARE IL
IL PIANO
PIANO
lores era un grande musicista. Uno di quelli che
suonava ogni nota come se fosse l’ultima, proprio
come egli stesso definiva i musicisti che amava ascoltare».
A parlare è Pierpaolo Principato, il maestro che ha avuto il
compito di preparare Kim Rossi Stuart ad interpretare il
ruolo di Luca Flores e di assisterlo durante le riprese per
curare i play-back delle esecuzioni pianistiche. Grande pianista jazz, racconta la sua esperienza come insegnante di
pianoforte sul set del film «Piano,solo».
Come è stato «vedere» un film da «dietro le quinte? Assistere
alle riprese è stata un’esperienza interessante perché ti permette di scoprire i segreti che stanno
dietro la costruzione di una storia. Dall’interno comprendi meglio la grande fatica fisica ed emotiva che accompagna la realizzazione di un film. La cosa più intensa è l’emozione che suscita il
«ciak» e la ripresa di una scena, quando tutti in pochi minuti devono dare il massimo.
Quali sono state le difficoltà maggiori? L’unica reale difficoltà era legata al poco tempo a disposizione per la preparazione. Questo ci ha costretto a trascurare un pò lo studio della tecnica e
l’impostazione e a lavorare direttamente sulle musiche del film cercando di raggiungere il massimo di credibilità possibile. In questo devo dire che Kim Rossi Stuart ha dimostrato di avere
un grande talento ed un grande spirito di osservazione ed emulazione. Ciò gli ha consentito di
interpretare al meglio un ruolo così difficile e in così poco tempo. Tra l’altro ha imparato a suonare l’intero brano dell’ultima esecuzione in studio, How Far Can You Fly.
C’è differenza nell’insegnamento quando si tratta di preparare un attore ad interpretare un personaggio realmente esistito? C’è una grande differenza. Abbiamo dovuto trascurare aspetti legati
allo studio dello strumento per favorire quelli che portassero alla maggiore aderenza possibile
al personaggio. Abbiamo concentrato l’attenzione sulle zone del pianoforte in cui la musica si
muoveva e cercato di adeguare gli atteggiamenti del corpo, ispirandoci allo stile di Flores. Kim
ha approfondito l’osservazione dei suoi modi di muoversi, sia come pianista che come uomo.
Hai mai incontrato Flores? Ho conosciuto Flores nel 1987, durante il Festival della Versiliana in
cui ho suonato con il Quartetto «Jazz Union». Luca suonava tutte le sere nello spazio «Jazz
Club». Andai a sentirlo il giorno prima del nostro concerto e ne rimasi affascinato: suonava
benissimo! Quella sera tra il pubblico c’era anche Herbie Hancock il quale, piacevolmente colpito dalla sua esecuzione, andò di persona a complimentarsi con lui. Questa cosa mi emozionò
molto. Posso dire di averlo conosciuto a distanza perché non ho poi avuto modo di parlarci, ma
ho ben scolpite nei miei ricordi le emozioni di quella sera.
Nel film emerge il legame di Flores con l’Africa dove ha trascorso l’infanzia e dove torna da adulto
dopo un momento di crisi, ci sono influenze di quella terra nella sua musica? Le influenze africane
si sentono già nel jazz in sè. In particolare, in alcune sue composizioni mi sembra si colgano gli
echi di quella terra, come ad esempio nei brani del disco Love For Sale. Luca Flores considerava la musica un linguaggio universale, forse per lui l’unico modo per esprimere le sue emozioni Ho apprezzato molto in lui la grande padronanza armonica e soprattutto quell’atteggiamento di chi non si accontenta ma cerca sempre il massimo della profondità nella musica: il gusto,
il tocco, il fraseggio ricercato, carico di intensità e sofferenza.
TARANTELLE
ALLA TARANTINO
E come per magia, mentre l’asfalto scorre sotto di noi e la radio continua ad accompagnarci, tutto si trasforma. La musica surf non ci fa più pensare ai falò e alle spiaggie della
California, ma agli spietati killer di Pulp Fiction. E con sorpresa scopriamo un pezzo del
nostro passato tra le note che accompagnano gli inseguimenti automobilistici di
Grindhouse. Franco Micalizzi (Italia A Mano Armata), i fratelli De Angelis (La Polizia
Incrimina, La Legge Assolve) ed Ennio Morricone (Il Gatto A Nove Code e L’Uccello
Dalle Piume Di Cristallo di Dario Argento). Musica per le orecchie dei nostalgici che rimpiangono i film polizieschi italiani degli anni 70.
La musica nel cinema di Tarantino torna anche nei dialoghi. Indimenticabile la discussione tra le Iene su quale sia il vero significato del testo di Like A Virgin di Madonna: ragazza romantica che scopre l’amore per la prima volta o ninfomane insoddisfatta?
Il segreto è cogliere il lato ironico della vita. Il cinema è per Tarantino prima di tutto puro
divertimento. E anche la violenza, portata al suo estremo, diventa surreale e a suo modo
divertente. E mentre il viaggio sta per terminare, torna in mente il sermone che Samuel
L. Jackson, killer pentito, recita alle sue vittime. Spari finali. Buio in sala. Silenzio. Giunti
a destinazione. (RM)
Music In
Fback
EED
Ottobre Novembre 2007
THE SILENCE BEFO- NORDGARTEN Un lumi- RAMIN BAHRAMI Che MARCELLO
ROSA
RE BACH A Venezia, il noso blu dove si trovano ha fatto della fuga (di Bach) L’incosciente. Il bambino. DAVID SYLVIAN Un unico
nuovo film di Portabella
un’arte
brano di 80 minuti. In Giappone
Un preludio a un bacio.
Buckley e De André
A BRIGHTER KIND OF BLUE
RICCDIAR
O FONSECA
ND
ORDGARTEN
l
a musica dello
scandinavo
Nordgarden,
contaminata
da
influenze inglesi e
americane (rock e
jazz), si sviluppa
soprattutto come
energia personale,
intima, sul solco
della tradizione dei
cantautori a cui
attinge (da Cohen a
Jeff Buckley, da Bruce Springsteen a Fabrizio De André).
Per il suo secondo disco, A Brighter Kind Of Blue, si è
avvalso della collaborazione di Peder Øiseth (tromba, violino, banjo, organo), di E. Hareide (basso) e C. Skaugen
(batteria); un cd acustico, quindi, che mette in risalto sua
voce potente e limpida. La title track, che è anche il brano
di apertura, risulta particolarmente efficace: ha una melodia ampia, illuminata da un arrangiamento arioso ed essenziale; il suo titolo può suggerire riferimenti alla celebre
Kind Of Blue di Miles Davis, ma questi sono presenti di
più in altri brani del disco (To The River, Good Things
Die). La leggerezza e la serenità che sembrano sostenere
tutto l’album sono venati dalla malinconia di Blessed,
quasi una ballata barocca, a cui Nordgarden aggiunge le
vibrazioni di una voce ben timbrata, e Metronome, brano
strumentale, in cui un violino classico, dolente scandisce il
fluire del tempo. Dieci tracce partorite da un'ispirazione
pura, rielaborate in maniera raffinata, in cui pop, jazz e
folk convivono in maniera armonica e convincente.
Crepuscolare.
NICOLA CIRILLO
t r a c k i n g SOUND
P
T
THE
HE S
SILENCE
ILENCE B
BEFORE
EFORE B
BACH
ACH
resentato alla 64^ Mostra del Cinema di Venezia
nella Sezione Orizzonti, Die stille vor Bach (The
Silence Before Bach), l’ultima opera del cineasta
spagnolo Pere Portabella è un intenso lavoro emotivo legato all’estetica pura delle melodie eterne del compositore tedesco.
Johann Sebastian Bach però non è il soggetto di questo
film, né il film è un suo biopic, ma ne è l’oggetto. La sua
musica attraversa la pellicola anche con l’esecuzione in
presa diretta eseguita dall’attore ed esecutore Christian
Brembeck. Portabella, da ‘regista Punk’ (da una nota definizione che ne diede un critico), ha cominciato a sforbiciare la storia del compositore, mantenendo ferma la sua
musica. Per poi ricomporla, a prima vista casualmente, in
un patchwork spazio-temporale, in cui si alternano personaggi e situazioni non collegate ma piene dell’universalità
derivante dalla musica stessa.
Per una volta quindi, non sarà la musica a commentare le immagini, ma viceversa. Ecco perché non importa
se queste ultime non seguono un piano temporale omogeneo. Perché non sono da seguire le immagini, ma la
musica. Quando Bach arriva con la sua famiglia a Lipsia
per lavorare era ancora un kantor senza un soldo. La
sua era una vita poco agevole ma dignitosa, grazie alla
sua musica e al suo amore per questa. Poi arrivano i
riconoscimenti e il benessere materiali, prima che la
storia decide di inghiottire nell’oblio tutto la sua sterminata produzione. Ma la musica non si ferma alla storia
e le immagini cominciano a seguire le note di un rondeau ubriaco passando per la bellissima scena dalle cromature eccitanti del macellaio che incarta la carne con
lo spartito insanguinato della Passione secondo Matteo
(la preferita dallo stesso Bach), finita fortunosamente
nelle mani di un giovane Felix Mendelssohn Bartholdy,
che ebbe il merito, eseguendola di nuovo nel 1829, di
riportare alla luce il genio di Bach.
Per poi passare nella camera scura dell’accordatore
cieco e ritrovarci con due camionisti che nei loro bisonti d’autostrada ascoltano le melodie di Bach, fino ad
arrivare sotto la metro e trovare violoncellisti che suonando sempre le sue melodie chiedono l’elemosina.
Infine, bellissimo, il parallelo tra i ragazzi del XXI secolo
che ascoltano le sue composizioni e il Johann
Sebastian padre che insegna a suonare questa musica
ai suoi ragazzi (da notare che i suoi figli furono tutti dei
talentuosi musicisti, tant’è che Bach divenne termine
per indicare chi suonava a corte).
Un gioioso ponte immaginario che solo la musica può
creare tra generazioni altrimenti perdute nella Storia,
cercando di unire tempi e vite diverse come fosse un inno
all’Europa di tutti i tempi, all’unione dei popoli (nel film si
parla italiano, tedesco e spagnolo), come volontà finale di
una composizione ipotetica, fatta finalmente di persone e
nello stesso tempo di note musicali. Anche la musica, non
solo la politica, è in grado di portare le idee lontano nel
tempo.
Flavio Fabbri
L’ARTE DELLA FUGA DI BACH INTERPRETATA DA RAMIN BAHRAMI
a
ffrontare un’opera come la BWV 1080,
meglio conosciuta come Die Kunst der
Fuge-L’Arte Della Fuga, composta da un
Johann Sebastian Bach malato e prossimo
alla morte, non è cosa da poco. Eppure il
giovane e talentuoso pianista iraniano
Rahmin Bahrami non ha esitato. Il suo Arte
della Fuga (Decca, 2007) presenta la caratteristica di un’interpretazione coraggiosa e
forte, piena di una malinconia avvolgente e
di una sicurezza nell’esecuzione che non
tradisce fino all’ultimo brano. Coraggio e
sicurezza, perché questa BWV 1080 è proprio l’ultima opera del grande Bach, portata avanti sotto dettatura dal maestro di
Lipsia, ormai cieco e malato, e nella quale
non ne erano neanche stati specificati gli
strumenti per l’esecuzione. La consuetudine prevalente nel tempo ha indicato nel pianoforte e nel cembalo quelli più idonei, ma
è fuori di dubbio che questa partitura
rimanga nei secoli un oggetto misterioso e
quindi di difficile esecuzione. Bach morì
senza terminare la Die Kunst der Fuge nel
1750, lasciandoci nel dubbio e nell’insicurezza espressiva, nonché tecnica. La Fuga
rimane ancora oggi una delle forme del pensiero musicale occidentale tra le più importanti e Bach ne fece nelle sue note una
summa di arte combinatoria senza precedenti ne seguiti. Ecco quindi le platee intuire
questo passo difficoltoso e rispondere con
entusiasmo. Rahmin Bahrami ha dato
all’opera immortale un’aura trascendentale e sognante, una chiave alternativa
all’universo bachiano basata sulle trascrizioni del nobile maestro del piano Carl
Czerny (1791-1857), allievo viennese di
Beethoven e a sua volta maestro di Liszt.
Secondo molti la stella iraniana ha dato a
questi brani il significato di un omaggio
personale al J. S. Bach suo idolo assoluto.
Probabilmente è vero perché questo è un
lavoro intenso, tecnicamente impeccabile,
con un’interpretazione estremamente emotiva che forse ha lasciato un fianco dell’autore scoperto alla critica più intransigente.
Una nota negativa, se c’è, è da evidenziare
nella scelta della Decca di presentare
un’opera di tale importanza con una lunghezza complessiva di 78 minuti, contro i
90 di media degli altri solisti. Una scelta di
mercato si dice, meglio un cd solo che uno
doppio, forse remunerativa economicamente, ma sconsigliabile in rapporto alla qualità
delle esecuzioni, in alcuni casi simili a una
galoppata sui tasti.
FLAVIO FABBRI
A CHILD IS BORN DI MARCELLO ROSA
g
iunto, come la chiama lui, all’età
dell’«incoscienza» il decano dei
trombonisti jazz italiani, Marcello
Rosa, ci sorprende con l’uscita del cd
nuovo di zecca A Child Is Born (Nelson
Records) che comprende, insieme a riletture di celebri standard, molte sue composizioni originali e ben quattro perle
«bonus» rimasterizzate e riportate in gran
spolvero per i veri appassionati di questa
musica, «brani vecchi ma non invecchiati», come tiene a sottolineare Rosa, infaticabile artigiano e divulgatore del jazz (ha
ideato e condotto per ben 30 anni trasmissioni radiofoniche musicali in Rai).
E il bambino che compare tanto nel titolo
quanto nella copertina è forse la cifra per
comprendere l’anima di questo piccolo gioiello, come da tempo agli appassionati di
jazz non capita di ascoltare. Un’energia,
una vitalità ed una spontaneità che, se non
si sapesse chi ne è responsabile e che fior
fiore di musicisti lo stanno accompagnando
(qualche nome? Andy Gravish, Fabrizio
Bosso, Paolo Tombolesi, Gianluca Renzi e
tanti altri ancora), sembrerebbe avere la
grinta di un’opera prima, solo perfezionata
da 55 anni di professionismo e da collaborazioni con veri monumenti del calibro di
Lionel Hampton, Earl Hines, Slide
Hamtpton, Kay Winding.
La voce del suo trombone è quella di sempre, quando ombrosa e malinconica, quando soprendentemente spumeggiante ed
ironica, con quel fraseggio fluido, perfetto
ritmicamente ed essenziale al tempo stesso, nessuna concessione a «note» fuori
posto e con un’idea melodica di cantabilità sempre scolpita in ogni battuta d’improvvisazione.
Due aspetti convincono maggiormente di
questo album: gli arrangiamenti articolati
ed intriganti che danno corpo e solidità ad
ogni brano (ascoltate bene Lover Man, sia
nella versione di oggi sia in quella del 1974
con Enrico Pieranunzi al piano e Gegè
Munari alla batteria, entrambe presenti nel
cd) e, finalmente, la sensazione di compattezza del «gruppo» musicale jazz, in cui al
protagonismo del solista è sostituito il meccanismo di insieme e dove ogni strumento
è al servizio dell’altro per la migliore riuscita dell’ensamble; il cuore prende il posto
del virtuosismo e ricama, traccia dopo traccia, il disegno unitario di una sensibilità
musicale fuori dal comune.
L’atmosfera in cui ci sembra muoversi
meglio Marcello Rosa è quella degli
umori della New Orleans perduta nel
primo decennio dello scorso secolo, simbolo e culla della musica jazz (The
Sinner), come anche nello swing più
autentico che in brani come Senorita, dopo
il tema spagnoleggiante, prende d’improvviso per mano ed invita a ballare, mentre
la versione della ballad The Very Tought
Of You arrangiata per quattro tromboni e
tromba (suona tutto su diverse piste lo
stesso Rosa) emoziona per l’intensità e la
forza interpretativa.
E quando si parla di swing, non può mancare un omaggio al suo nume tutelare,
Duke Ellington, in una splendida versione
della celebre Prelude To A Kiss, ingentilita dalla bella interpretazione della giovane
Angelica Caronia. PAOLO ROMANO
WHEN LOUD WEATHER BUFFETED NAOSHIMA DI DAVID SYLVIAN
i
n concomitanza con il tour che lo
vede impegnato in questo periodo
tra Europa e Giappone, David
Sylvian da alle stampe il suo nuovo
lavoro dal titolo When Loud Weather
Buffeted Naoshima, che–è bene che il
pubblico sia avvertito–non ha nulla a
che vedere con il raffinato e ricercato
pop d’autore che ci ha regalato con il
recente progetto firmato Nine Horses e
nelle ultimissime apparizioni live in
Italia. Siamo di fronte ad un unico
brano di 70 minuti commissionato
dalla Naoshima Fukutake Art Museum
Foundation in Giappone come parte
della mostra Naoshima-Standard 2 che
si è svolta nell’omonima isola giapponese da ottobre 2006 ad aprile 2007.
Il pensiero, al primo ascolto, corre subito a
quella produzione strumentale di Sylvian
che, partita con Alchemy–An Index Of
Possibilities (contenente l’inarrivabile suite
Words With The Shaman e la splendida
Steel Cathedrals) e la seconda parte del doppio Gone To Earth, si è sviluppata nelle collaborazioni con l’ex-Can Holger Czukay
(Plight&Premonition e Flux+Mutability) e
nelle istallazioni con Russell Mills (Ember
Glace–The Permanence Of Memory) e con
Robert Fripp (Redemption–Approaching
Silence).
Nella sua ultima produzione il nostro fa un
passo in avanti. Si sposta dall’ambient
«classico» alle sonorità più elitarie del field
recording con inserti e collage sonori.
Come al solito Sylvian si rivela sapiente
nella scelta dei collaboratori, questa volta
tutti o quasi paladini della più significativa
scena sperimentale ed elettronica del
momento. Bastano i nomi: il francese Akira
Rabelais, l’austriaco Christian Fennesz, il
trombettista norvegese Arve Henriksen e il
maestro di shakuhachi Clive Bell. La lunga
composizione si presenta come un assem-
blaggio di voci filtrate dal sapore
arcano, suoni di foreste, vento, strumenti a fiato, altre vocalità dal fascino angelico, qualche drone più
tagliente e qua e là rumori di passi,
porte che si aprono e cigolano. Tutto
apparentemente senza un filo conduttore. Poco importa. Qui Sylvian è più
vicino alle concezioni di John Cage e
alla musica concreta di Pierre Henry
che alla musica per aeroporti di Brian
Eno o i soundscapes di Robert Fripp.
Nata com’è per una istallazione artistica che deve essere fruita in presenza
dei forti rumori ambientali del luogo
per il quale è stata scritta, la composizione è stata volutamente mixata per la
produzione in cd con i suoni della città
di Honmura, in modo tale da avvicinare
l’ascoltatore all’esperienza reale dell’istallazione stessa. L’ultima particolarità di questo
disco–che si presenta in una raffinata e semplice confezione da dvd con la cover art di
Sachiyo Tsurumi–è data dal fatto che esso è
in edizione limitata e non sarà mai ristampato. Per volere dell’artista e della Fondazione
committente, infatti, la composizione entrerà a fare parte delle istallazioni permanenti
del museo e solo lì potrà essere ascoltata una
volta esaurita l’edizione originale.
GABRIELE BRUZZOLO
C&opera
LASSICA
a cura di FLAVIO FABBRI
Music In
Ottobre Novembre 2007
DANZA Cos’è diventata oggi,
TESI Quella sulla morte di Beethoven. TRIGESIMO Morto un Pavarotti, com’era prima. Secondo la Crazy
Veleno, altro che cirrosi epatica.
se ne fa un altro. O forse no
Gang School
LUCIANO PAVAROTTI:
UNA VOCE CHE
RISCHIA IL SILENZIO
Un uomo ingombrante, un’ingombrante eredità. Finiti i cd da
vendere in allegato alle riviste degli avvoltoi, ora l’industria
discografica cerca il nuovo lirico. Aspettando che muoia
BEETHOVEN AVVELENATO?
UNA «CLASSICA» MORTE
A
distanza di 150 anni qualcuno si
è preoccupato di raccontarci di
cosa è morto Ludwig Von
Beethoven, uno dei più grandi compositori di tutti i tempi. Fino a oggi tutti o quasi
hanno creduto alla tesi mai confutata del
decesso per cirrosi epatica avanzata.
Eppure, grazie alle analisi condotte sui
capelli dell'immortale, la verità sembra
stia per emergere dal buio della storia.
Christian
Reiter,
medico
legale
dell'Università di Vienna, dopo gli studi
condotti su alcuni dei capelli del musicista
tedesco, ha potuto evidenziare una possibile nuova verità: Beethoven fu avvelenato
dal piombo! La classica morte di un divo
dell'epoca insomma: omicidio. I livelli del
metallo, infatti, sembrano essere molto
alti nei capelli esaminati.
E i capelli d'altronde ci dicono tanto,
quasi tutto: mantengono traccia delle
sostanze ingerite e conservano cellule di
cuoio capelluto da cui ricostruire il Dna
del povero proprietario. Il piombo, ci ricorda Reiter, ad alti livelli diviene tossico e
mortale. Anche negli USA si è battuta la
pista dell'avvelenamento, da mercurio
però, portando avanti una ricerca molto
simile al Pfeiffer Research Center a
Napperville (Illinois).
Secondo alcuni studiosi del compositore di Bonn, però, non si deve parlare di
omicidio o morte sospetta, molto probabilmente, infatti, il corpo di Ludwig assorbì i letali livelli di piombo, o altra sostanza
utilizzata in cure mediche, dai Sali con cui
il suo medico personale cercava, invano,
di lenire i gonfiori e i dolori addominali
provocatigli dalla cirrosi.
Niente di sicuro ci affrettiamo a dire,
ma è una plausibile spiegazione per dar
ragione della repentina morte di un genio
assoluto, avvenuta il 26 marzo del 1827.
PEER GYNT
rande appuntamento al Teatro
dell’Opera di Roma con il Peer Gynt del
drammaturgo Henrik Ibsen e le musiche del
compositore Edvard Grieg. Dal 7 all’11
novembre l’imponente dramma norvegese
verrà messo in scena dall’Orchestra, il coro
e il corpo di ballo dell’Opera di Roma, diretti
da Peter Tiboris e dal Maestro del Coro
Andrea Giorni. Un balletto in due tempi per
la regia di Beppe Menegatti e la coreografia
di Renato Zanella. Danzatore ospite Adrian
Fadacev, per la partecipazione straordinaria
di Carla Fracci. Un’opera, questa di Ibsen,
scritta proprio a Roma nel 1867 e particolarmente difficile nella sua rappresentazione
scenica, sia per la lunghezza (5 atti) che per
l’ambientazione fantastica. Le stesse fortunate musiche di scena composte da Grieg,
per la difficoltà delle scene (il dramma era
scritto in versi) e la lunghezza dell’opera,
divennero il collante definitivo di Peer Gynt.
(Illustrazione ˙Peer Gynt¨ di Elena Prette)
g
6 settembre
2007 si
è spento uno dei
più grandi tenori al mondo,
L u c i a n o
Pavarotti.
Ai
funerali pubblici
di Modena decine di migliaia di
cittadini comuni
e decine e decine di ospiti della
politica e dello
spettacolo mondiali hanno voluto decretare il
loro personale
tributo ad una
delle voci più
belle della musica. Passate le commemorazioni, sepolto Big Luciano nel piccolo cimitero di
Montale Rangone, sembra proprio che debbano iniziare le tipiche polemiche da salottino
televisivo fatto da e per il nuovo vulgum
pecus, ben diverso da quello che un tempo
riempiva il loggione della Scala di Milano.
Già negli ultimi anni, mentre le condizioni
del Maestro peggioravano nel silenzio, nubi
minacciose si addensavano sul suo ingombrante cognome. Dicerie su una moglie,
Nicoletta Mantovani, che in tutti i modi ha
cercato di isolare il marito e che lo ha obbligato, sembra, ha cambiare il testamento due
settimane prima della morte.
Ritornano anche le ombre lunghe più vecchie, sui suoi concerti di beneficenza, su
scuole in Africa mai costruite e su evasioni
il
del fisco ripetute. Insomma, sembra proprio
che i solenni requiem verranno eseguiti da
lingue avvelenate e molto lunghe. Una voce
unica che rischia davvero il silenzio?
Cerchiamo di allontanarci da questa palude insidiosa per cominciare a ragionare su
che cosa Luciano Pavarotti ci abbia veramente lasciato. Torniamo allora al 1961, al Teatro
dell’Opera di Reggio Emilia, quando interpretando il Rodolfo ne La Bohéme di
Gioacchino Puccini, Pavarotti diede esempio
di una potenza vocale davvero fuori del
comune.
Molto presto anche dall’estero cominciarono a richiedere le sue performance. Sarà proprio interpretando Puccini, Donizetti e Verdi
che il mondo gli tributerà un successo che ha
avuto dell’incredibile. Alcuni suoi concerti
furono interrotti dalla forza degli applausi
interminabili. Cose mai successe nei teatri
della storia della Lirica.
La sua stessa immagine, enorme, da bohémien lirico, con cappello, barba e sciarpa
lunga, meglio se rossa come Aristide Bruant
nel dipinto di Henri Toulouse-Lautrec, ha
decisamente affascinato tutti. Probabilmente
è vero, quando si dice che Pavarotti è l’immagine dell’Italia nel mondo.
Un uomo fatto di passioni mediterranee,
amante delle grandi abbuffate e delle donne,
pieno d’amore per la musica. Negli anni
Novanta comincerà lentamente ad allontanarsi dai grandi palchi dell’Opera lirica, per
affrontare le sterminate platee di Hyde Park
a Londra o di Central Park a New York.
Forse è qui e dopo, con i vari Pavarotti &
Friends, che il grande artista ha lasciato il
posto ad un ingombrante vocione e certo a
una fama planetaria. Così, forse, è proprio
qui che Pavarotti
si è spento davvero prima del
tempo. E allora
bisogna chiedersi: qual’è la vera
eredità che ci ha
lasciato il più
grande tenore
italiano
dopo
Caruso? Chi in
Italia può essere
considerato il
suo successore?
O nel mondo?
Salvatore Licita,
R o l a n d o
Villazon, Andrea
Bocelli, Roberto
Alagna, Marco
Alvarez?
Tutti nomi che l’industria discografica cercherà di spingere e far conoscere, perché lo
spettacolo va avanti, mentre nel frattempo le
royalties sui diritti d’autore e sul merchandising dell’immagine del grande tenore porteranno nelle tasche degli eredi di Pavarotti
un’enorme fortuna.
Una fortuna piena di insidie, per i parenti e
per il ricordo del lirico che tutti noi abbiamo.
Forse la sua voce non rischierà il silenzio e
per il momento è solo questo che ci ha lasciato il Maestro del bel canto, insieme a tante
grandi emozioni e qualche smorfia, come
quando dal Loggione arrivavano i fiori più
belli tra le ovazioni e un attimo dopo i fischi
umilianti mischiati alle urla. Tante immagini,
centinaia di ore di filmati, e la sua voce puntata verso il futuro.
CRAZY GANG SCHOOL: L’ISTINTO RENDE DIVERSI
La danza
non è danza ginare che i presupposti ci siano. Music In ne
senza generosità. intervistato uno dei fondatori, Marco Stopponi,
La danza che è che si è fidato dell’idea «classica», quella di una
un linguaggio che trascende il corpo. Prima professione di danzatore fatta di studio costante
forma espressiva che l’uomo abbia sperimen- e serio, fatica, impegno e forza di volontà, ma
tato e conosciuto con il proprio corpo e parte che, assieme all’amore per il lavoro e alla pasdella sua storia fin dall’antichità, è strumento sione per quest’arte meravigliosa, dà grandi
soddisfazioni a chi lavora in questo campo e
di comunicazione; il gesto ne è il linguaggio.
La madre delle arti, boicottata: dopo la grande futuro ai tanti allievi che studiano con la sperantradizione che danza e balletto hanno avuto in za di realizzare i propri sogni.
Stopponi, coreografo e ballerino, è uno di
Italia nell’Ottocento e nel Novecento, ora non
quelli che ha il fuoco sacro della danza che gli
versa in una situazione eccellente.
Innanzitutto poca cultura del balletto classi- brucia l’animo. Ci dice: «La Crazy Gang è nata
co: anche se nell’ultimo periodo c’è stato un a Roma, inizialmente come Crazy Dance nel
ritorno dovuto a trasmissioni televisive come 1981. Il primo spettacolo che abbiamo fatto è
stato al Teatro Olimpico, quindi,
«Amici», ma un avvicinamento con
passati a Canale 5 con PoP Corn,
falsi presupposti, la voglia di sfonne abbiamo cambiato il nome con
dare e non di studiare.
Crazy Gang. La fortuna ha voluto
Luogo comune sì, ma all’estero la La televisione
che tanti ragazzi sopra i 18 anni
cultura della danza spopola, e in uccide la danza.
hanno iniziato insieme senza
Francia ogni settimana i balletti sono
voler perdere tempo. La grinta
in televisione, rete nazionale. In Parola di Marco
c’era, e così non hanno tardato ad
Italia, tante le scuole, molti gli allie- Stopponi,
arrivare Domenica In, con Pippo
vi e gli appassionati accolti da un
Baudo, Maurizio Costanzo, turnè
pubblico caloroso, eppure intorno fondatore della
al Teatro Sistina, e collaborazioni
quasi nulla. La danza fatta di tradi- Crazy Gang
con molti artisti ancora presenti in
zione, cultura, arte, non abita più qui.
televisione. Finché non è entrata
Poche scuole sono realmente ido- School
Antonella Steni, con la quale
nee a formare ballerini professionisti. E se la follia, per gli artisti, per la danza, per abbiamo fatto spettacoli dal 1985 al 1989, e con
la situazione itaiana che è quella che è, è richie- la quale collaboriamo tutt’ora. Nel 1985
sta per decidere di dedicarsi in tutto e per tutto Mustafà si ritirò dalle coreografia e io presi il
alla disciplina e all’insegnamento, non dell’arte suo posto. Subito dopo con i miei fratelli,
di sfondare ma di quella di ballare, allora il Stefano Stopponi, anche lui ballerino e coreonome della scuola «Crazy Gang» lascia imma- grafo, ed Enrico Stopponi, abbiamo aperto la
Crazy Gang School. La scuola realizza spettacoli, inclusi matinèes per le scuole al Sistina, cercando di creare un dialogo con i giovani, e collabora con diverse compagnie teatrali».
Su quale principi si basa? «Creare persone,
gruppi, cercare dai giovani un modo di vivere,
dar loro un’educazione teatrale. Una scuola lontana dai valori trasmessi dai programmi in televisione, in cui sembra che per arrivare al successo basti poco: solo nello studio si possono raggiungere risultati».
Qual è il legame tra la musica e la danza?
«Non c’è legame perché è una cosa unica. Basta
guardare al modello primitivo africano in cui
ogni movimento era accompagnato da musica e
ogni nota era accompagnato da un movimento.
Le due cose non possono essere separate. Non
sono infrequenti scelte radicali e suggestive,
come la totale indipendenza dell’una dall’altra,
oppure la danza scolpita nel silenzio più assoluto, alla ricerca della purezza del movimento, del
suo diapason espressivo. Al contrario, qualche
volta coreografo e compositore si sono inseguiti nel reciproco territorio creativo, alla ricerca di
echi e risonanze espressive, di corrispondenze
nella scrittura, di sintonie nel colore emotivo di
un pezzo».
Quali sono i vostri punti di forza? «I punti di
forza sono la passione, l’educazione, la qualità
degli insegnanti. Ma soprattutto, i ragazzi».
Un consiglio ai giovani? «Non farsi prendere
in giro dai programmi televisivi, e sapere che ci
vuole una vita di studio. La danza deve essere
affrontata come un divertimento, all’inizio,
senza prendersi troppo sul serio; quindi, diviene
sacrificio, serio e costante».
Da quando hai iniziato la tua vita da ballerino,
come è cambiata la danza nel tempo? «La danza
è cambiata come è cambiata la società: mentre
prima i ragazzi erano colpiti dalla musica, ora
quando vengono qui già conoscono tutto e non
gli basta. Dobbiamo far loro capire l’umiltà.
Cos’è la danza? «Seduzione, Passionalità,
Intimità e Poesia». E conclude: «La prima cosa
è l’istinto, che deve essere lasciato libero. È questo che mi fa scegliere la musica. È l’istinto che
fa la differenza, perché se basi tutto sulla tecnica diventi come gli altri». (AliceS)
Music In
SCIENZA I notturni di Chopin?
Sono un plagio di milioni
e milioni di anni.
G
li esseri umani, ormai è dimostrato, sono programmati, dal
punto di vista uditivo, neurologico e finanche emotivo verso la musica. Nella nostra vita la musica sembra
avere un valore probabilmente pari a
quello del linguaggio, solo che ancora
non si riesce a capire a che cosa ci
serva tanta dote cerebrale.
Solo gli uomini e nessun altro nel
mondo animale reagiscono con tale
potenza alle note musicali e tali meccanismi sono lungi dall’essere svelati.
Queste sono le posizioni di molti neurologi di fama mondiale come Oliver
Wolf Sacks (a molti noto per il romanzo Risvegli da cui fu tratto nel 1990
l’omonimo film di successo con Robin
Williams e Robert de Niro) o Robert
Zavorre ricercatore scientifico per la
Fondazione Mariani. La stessa prestigiosa rivista di neurologia a Oxford,
‘Brain’, non ha dubbi a riguardo.
Le neuroscienze ci aiuteranno a capire le ragioni fisiche e biologiche alla
base del potere della musica di toccare,
calmare o eccitare il cervello umano,
perché comprenderle significa in ultima analisi, non solo trovare uno strumento capace di ottenere un effetto
terapeutico in molte patologie neuropsichiatriche, ma anche gettare una
luce attraverso la quale esplorare a
ASSOLUTAMENTE Callas, ma anche lo
Chopin di Ciccolini, la Tosca del Flaiano e lo
Strauss dell’Orchestre des Champs-Élysées
PODCASTING Scaricare Mozart e
Morricone come fossero entrambi in chat
LA MUSICA
È SCRITTA
NEL DNA
fondo l’evoluzione e la psiche dell’uomo.
Negli ultimi anni la biologia molecolare sembra aver trovato un insospettabile rapporto tra il nostro Dna e
la musica. La nostra più piccola parte
di organismo è fatta di figure meravigliose, eleganti cristalli, perfette spirali, mirabili geometrie. Il materiale ereditario, il famoso Dna (Acido
Desossiribo Nucleico) è un nastro
avvolto in una regolare e lunghissima
elica di misure costanti e perfette. È
da qui che parte l’armonia perfetta
della natura e da questo stesso punto
POD
CAS
TING
&
CLA
SSIC
A
TUTTI DENTRO LA RETE
he la tecnologia, da sempre, metta paura non c’è dubbio. In ogni settore lavorativo, o creativo, l’impatto
delle nuove tecnologie ed eventualmente delle nuove
tecniche derivate sembra essere stato nella storia sempre
un evento inizialmente drammatico, per poi generare
benessere e ricchezza, sia materiale che spirituale.
Anche nella musica classica grandi cambiamenti sono
all’orizzonte, se non fosse altro che l’intero universo musicale ne è coinvolto, per la gran parte già da molti anni.
Soprattutto Internet, la rete delle reti, sembra esser riuscita a contaminare anche l’ultimo spazio di questo universo,
il più tradizionale e ‘antico’: il mondo della classica. Ne è
nato un nuovo modo di fare musica e di diffonderla.
Parliamo del fenomeno Pod-Casting, ovvero della possibilità di fare musica e diffonderla direttamente in rete, attraverso siti personali e personalizzati.
Il termine americano nasce come neologismo dalla fusione di due termini: iPod, conosciutissimo riproduttore di file
audio Mp3, e broadcasting, le tradizionali trasmissioni di
contenuti audio e video come radio e televisione. Ciò di cui
si ha bisogno per fare podcasting è un pc connesso ad
internet, un apposito programma (detto client) e un abbonamento presso un fornitore di podcast (i file audio-video).
Spesso sia il programma che la fornitura di contenuti è
gratuita. In questo modo abbonandosi ad un sito fornitore
di file audio e video, si possono scaricare o fruire in tempo
reale composizioni da studio o live, interviste, articoli, comprare cd o scambiare idee e impressioni magari direttamente con l’artista. Ogni autore può in questo modo riversare il suo mondo creativo in un sito che ne fa da vetrina,
in cui ognuno può affacciarsi.
Piano, piano, in questa vetrina altre persone cominceranno ad entrare, ad interagire, a scambiare, cosicché la vetrina diverrà sempre più ricca e attrarrà nuove persone. Da
qui chiunque può entrare in rapporto con la musica, con la
musica classica, conoscerla attraverso interviste direttamente ascoltabili in rete o scaricabili con il download dal
sito di riferimento; ascoltando un concerto on-line eseguito
a Berlino direttamente dallo studio di casa a Roma, o scaricando brani di Mozart e di Morricone in una raccolta personale da ascoltare quando si vuole e dove si vuole.
E qui sta un’altra grande risorsa di questa tecnologia: la
libertà di poter fruire di Musica ovunque e in qualsiasi
tempo. Insomma una nuova forma di libertà a portata di
mouse. (Flavio Fabbri)
C
C&opera
LASSICA
Ottobre Novembre 2007
un ricercatore giapponese operante in
California, Susumu Ohno (Beckman
Research Institute of the City of Hope,
Duarte), ha fatto una scoperta incredibile: Ohno è riuscito a produrre melodie musicali dalla struttura del Dna.
Il principio da cui è partito è che la
vita è caratterizzata da una moltitudine
di ricorrenze, da ripetizioni di moduli.
In natura il messaggio genetico genera
dunque catene di amminoacidi (proteine) attraverso un codice. Lo stesso
messaggio, processato con un codice
musicale, genera catene di note che si
sistemano nel pentagramma a produrre
suoni, musica.
Che genere di musica? Una musica
tonale, semplice, caratterizzata dalla
ricorrenza di un tema musicale dominante e dalle sue variazioni. Qui ricorda Bach, là è limpidamente Chopin. Il
ritorno del motivo esprime quella
ricorrenza ripetitiva che il Dna dei geni
serba nel suo messaggio. Una sequenza
genica ad esempio rassomiglia straordinariamente alla versione chimica del
‘Notturno’ op. 55 n°1 di Chopin: la
chiave musicale consente di rendere la
ripetizione di un modulo chimico in un
motivo musicale ritornante, in un ritornello.
Possibile che la natura ci rivela una
melodia chopiniana che da milioni e
milioni di anni teneva serbata nel suo
cifrario chimico? Probabilmente sì e
quella melodia, discesa dal mondo
degli archetipi, ha ispirato il moto delle
dita del grande pianista polacco su una
tastiera incantata del secolo scorso. La
musica, sempre più chiaramente, trascende la nostra dimensione particolare per metterci in contatto con gli elementi originari della vita. E quest’ultima sembra davvero essere nata circondata di note.
ENNIO
MORR
ICONE
LA
MAGIA
DEL
CINE
MA
+
di 500 le composizioni scritte da
Ennio
Morricone
come colonne sonore
per il cinema. Un Maestro indiscusso, conosciuto e
stimato in tutto il mondo, premiato quest’anno con
l’Oscar alla carriera a Hollywood, massimo riconoscimento dell’industria del cinema ad un artista. I
prossimi 27, 29 e 30 ottobre presso la Sala Santa
Cecilia dell’Auditorium di Roma, Morricone eseguirà con l’Orchestra e il Coro dell’Accademia di
Santa Cecilia (di cui è Accademico effettivo) le
colonne sonore più belle e celebri della storia del
cinema con due opere: Voci dal silenzio, contro tutte
le guerre, e Musica per il cinema, ovvero i motivi
musicali dei film più belli di tutti i tempi. Dal sodalizio artistico con Sergio Leone, agli altri grandi
registi, è facile sentire un brivido per l’emozione:
Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Marco
Bellocchio, Roland Joffé, Brian de Palma,
Tornatore, Polanski e tanti, tanti altri. La storia di
Ennio Morricone, che è storia di tutti noi, passa
attraverso le sue melodie e queste sono divenute
coscienza collettiva di una magia: il cinema.
LUSSURIOSO NYMAN
è
passato per Roma il grande compositore inglese
Michael Nyman per presentare i suoi Sonetti
lussuriosi. Un’opera nata per commissione della
Biennale di Venezia 2007 dove, accompagnato
dalla blasonata Orchestra di Santa Cecilia, Nyman
presenta e musica uno dei primi esempi in assoluto
di pornografia nella storia della letteratura mondiale,
i Sonetti Lussuriosi di Pietro Aretino (1492-1556).
Figlio del minimalismo musicale di maestri come
Steve Reich e Philip Glass (melodie brevi e semplici, ripetitive o ossessive, con sonorità inusuali di
elettronica o musica popolare), il genio anglosassone è divenuto nel tempo uno dei massimi compositori viventi. Sue alcune delle colonne sonore più
memorabili del Novecento cinematografico, da quella per L’ultima tempesta di Peter Greenaway, a
Lezioni di piano di Jane Campion, a Wonderland di
Michael Winterbottom. Un artista completo, incuriosito dallo sperimentalismo e dall’innovazione.
C
Il poeta del pianoforte
hiamato così dagli amici artisti e
dagli ammiratori degli ambienti
intellettuali ‘romantici’ europei,
Frédéric François Chopin, è oggi considerato il più grande compositore
polacco e uno dei più grandi pianisti di
tutti i tempi. Eseguire Chopin, compositore inquieto e pessimista, significa
leggere con attenzione una scrittura
musicale tra le più precise e interpretare alcuni dei Lieder del repertorio pianistico mondiale dallo stile perfetto e
inimitabile. All’Accademia Filarmonica Romana, il 29 novembre,
sarà il grande maestro di pianoforte Aldo Ciccolini (francese di
origini italiane) che ci farà rivivere le melodie sognanti dei
Notturni, le intime e calde Mazurche, o le Polacche, espressioni
queste del più tipico folclore nazionale; come pure le più complesse Sonate, qui presentata quella in Si minore n. 3. Un appuntamento da non perdere per gli amanti delle musiche da pianoforte e di uno dei suoi maggiori esecutori.
M
E lucevan le stelle…
oltissime le repliche della Tosca,
opera lirica in tre atti di Giacomo
Puccini del 1899, al Teatro
Flaiano di Roma a partire dal 1 novembre prossimo e fino a maggio 2008. Per
la regia di Rossana Siclari e l’accompagnamento dell’Orchestra della Piccola
Lirica, il capolavoro pucciniano è in
scena in uno dei teatri storici della
Capitale che, sia pure di prestigio, è considerato per le dimensioni ridotte un
luogo più intimo e introspettivo, di grande resa musicale soprattutto grazie al
nuovo impianto tecnologico e alla cura del disegno audio. Di grande importanza invece l’esecuzione affidata a giovani cantanti selezionati da concorsi, conservatori e scuole di canto, che esprimono
nella loro presenza scenica il pieno rispetto della musica e del racconto drammaturgico. Originale anche la compressione temporale
in 90 minuti di incantesimi lirici e suggestioni ambientali strettamente legati a riferimenti storici sia tradizionali che inediti rispetto ai
libretti. Di nota anche l’impianto scenografico che, partendo dalla
tradizione squisitamente teatrale nella tecnica costruttiva, nelle
manualità e nei trucchi, vede una ricerca volta espressamente
verso una nuova dimensione dello spazio e della sua percezione da
parte del pubblico.
S
Dagli Champs-Élysées arrivano
Strauss e Mahler
arà l’Aula Magna del Rettorato ad ospitare la prestigiosa Orchestre des Champs- Élysées in arrivo a Roma il 13 e 14 ottobre. Con l’occasione, il
direttore e fondatore dell’Orchestre, Philippe
Herreweghe e il soprano Carolyn Sampson interpreteranno la sinfonia n. 4 dell’ironico e provocatorio Gustav Mahler e i Lieder Orchestrali del «Re dei
walzer» Richard Strauss. Nata dal Théâtre des
Champs-Elysées (lo storico teatro parigino su Avenue
Montaigne), l’Orchestre si è esibita nei più celebri teatri
europei, da Londra a Francoforte, passando per Berlino
e Vienna, divenendo nel tempo garanzia di qualità nel
rispetto di un vastissimo repertorio classico e romantico della migliore tradizione francese e
europea. L’interpretazione dei brani
viene eseguita con l’utilizzo di precisi e
preziosi strumenti d’epoca.
CALLAS ASSOLUTA. DIVINA, ECCESSIVA, MORTALE.
M
aria Callas è stata la voce femminile più bella e affascinante dei nostri tempi. Divinità musicale ‘assoluta’ e frivola, fragile ragazza mondana. Una donna che divenne presto leggenda e che in occasione del trentennale della sua morte
(16 settembre 1977) torna a rivivere più che mai grazie al documentario di Philippe Kohly, Callas Assoluta, presto disponibile
in dvd per la Bim con il Corriere della Sera. Un documentario
emozionante e commovente, presentato in anteprima mondiale alla 64a Mostra del Cinema di Venezia, in cui il regista francese ripercorre le tappe fondamentali della vita della Callas,
dalla natia New York degli anni 30 alla Grecia sotto l’occupazione fascista, passando per l’Italia anni 50 della Dolce Vita fino ai
giorni parigini degli anni 70. Immagini profonde, regalate, rubate, testimonianze di una vita sempre divisa a metà tra successi mondiali e amori
drammatici. Dal matrimonio col facoltoso industriale veronese Giovan Battista
Meneghini all’amore infinito e tragico
durato tutta la sua vita per l’armatore
greco Aristotele Onassis. La Signora
dell’Opera e del Canto rivive così nelle
immagini eterne di un film, sconsolata
hybris moderna e immensa voce
che attraversa luminosa ogni
tempo.
BMusicAll
EYOND
a cura di ROMINA CIUFFA
BENYC
YOND
Music In
NEW YORK Legendary musicians mix CALIFORNIA Sixemix CANADA Bernadette and The North From
Digitalizing three friends
with new generations. Worth it?
Ireland to Canada, love for her dad
MUSICAL INSPIRATION,
BOTH OLD AND NEW
by DAVE ALLEN
ast week I went to hear The Lee Konitz
Nonet perform at the Iridium Room in New
York. Lee Konitz (in the drawing above) is
eighty years old. He has known and worked with
many of the legendary figures of jazz starting back
in the 1940’s. His sound is still as pure and his lines
as clear as they were 50 years ago.
Longevity like his would seem rare, except that
this week we also happen to have Sonny Rollins
performing at Carnegie Hall with Roy Haynes.
Sonny Rollins is 77, Roy Haynes is 81. Both artists
had a tremendous impact on the development of
jazz in the 50’s and 60’s and continue to be energetic performers today. We are fortunate that this concert will be released next year, along with a recently
discovered recording of Mr Rollins at Carnegie Hall
from 50 years ago. Both concerts feature the trio
format of saxophone, bass and drums. This concept
was unheard of when Mr Rollins first began experimenting with it in the late 1950’s. The absence of a
chordal instrument allowed for more harmonic freedom and a more austere sound, where each note
becomes more important than it might have been if
interwoven within the fuller sound of a quartet.
As if that weren’t enough, we also have the great
drummer Paul Motian (in the photo on the left) performing at The Village Vanguard with his trio featuring
Bill Frisell and Joe Lovano. Mr Motian is 75, and
although he has retired from touring, he plays regular
weeklong engagements in New York at The
Vanguard, Birdland, and other venues. Mr Motion has
several bands, many of them featuring some of the
brightest younger talents in New York such as Ben
Street, Chris Cheek, Mark Turner, Ben Monder, Steve
Cardenas, and Tony
Malaby. This is also true
of Lee Konitz, whose
Nonet features musicians
who are all at least 35
years younger then
him.
This kind of collaboration is beneficial to the music in
two directions at
once: these younger,
upcoming musicians
have the experience
of working with, and
learning from, a
legend, and the veteran artist is infused
with the energy and
ideas of a new generation of players.
There are many
new
recordings
worth listening to
from these younger musicians. «The Slightest
Shift», by the brilliant young pianist and composer
Kris Davis, features a modern aesthetic blended
with influences from 20th century classical music.
The gifted alto saxophonist and composer John
O’Gallagher has a new CD called «Abacus» which
offers challenging, improvisation-based pieces.
Julie Hardy is a singer and composer to watch.
Her new CD «The Wish» features a great band and
strong compositions that avoid cliche. The recent
recording by guitarist Brad Sheoik, «Places You
Go», features an inspired use of the trio format of
guitar, organ and drums. Any CD which features the
magnificent drummer, Tom Rainey, is worth repeated listenings.
Between recently discovered recordings of the
legendary greats like Sonny Rollins, John Coltrane,
and Thelonius Monk, to the many new recording from
the prolific young voices on the New York jazz scene,
it seems that we have plenty of listening to do.
Dave Allen is a jazz guitarist and composer from New York. His new CD «Real and
Imagined» is now available from Fresh Sound Records. About his debut album,
«Untold Stories», it has been said: «Untold Stories, the debut CD from New York
Jazz Guitarist Dave Allen, showcases an exciting and unique player in the mold of
Pat Metheny, Ben Monder, Jonathan Kreisberg and Adam Rogers. Monster chops,
harmonic resourcefulness, strong melodic sense, seamless group interaction, considerable compositional talent and a kick-ass group of talented players make this CD
an electrifying piece of work» (JazzGuitarLife).
www.myspace.com/daveallenquartet
BEYOND
Canada
by KARLA COURTNEY
as
www.daveallenjazz.com
Venice Beach, California
BEYOND
Lee Konitz, 80. Sonny Rollins, 77. Roy Haines, 81. Paul Motian, 75.
Jazz as a potion of eternal youth and a mix with the new generation
L
Ottobre Novembre 2007
S
by CINDY MESLEM
SIZEMIX LIKE SEISMIC
izemix equal to Mike Nissen, Ivan
Piesh (DJ Eye) and Jason Hoopes.
They met in the Fall of 2000 in
Ashland, Oregon, attending Southern
Oregon University, Ivan and Mike as Art
majors, Jason as a Music major and were
brought together by a mutual friend to
form a 5 piece band (Varius Ardis). For a
year and a half they played in and around
the Southern Oregon area. After some
trials and errors, Various Ardis disbanded,
but the three of them decided to continue
playing.
They approached their first few sessions
together as a chance to «exercise» some
of the creative demons that had manifested over the previous year beginning with
a clean slate. The momentum of this young
collaborative telepathy allowed them to
achieve an immediate coherence, even
though their early material was purely
improvisational.
Each of them had begun to explore the
possibilities in using digital effects, and
each of them was beginning to blur the
lines between abstract sound and the
«traditional» roles of their chosen instruments. Mike and Jason had digitally expanded their harmonic ranges, Mike’s one
well into the bass frequencies and Jason’s
one well into the guitar's highest registers. Suddenly, listeners weren't sure
which of them was responsible for which
sound.
Without abandoning the abstractness of
their improvised soundscapes, they began
to develop their groove-oriented material
into more concise statements with written motives, melodies, progressions and
samples. They moved comfortably from
hip-hop to rock to pure noise and back.
They chose the name Sizemix (a play on
the word «seismics») being on to something that, at the time, was not being done
in our area. with tracks long 20+ minutes.
They wanted to pursue their direction of
refined groove based music yet retain
thier experimental nature and tendencies.
Some tracks contain purely improvised
sections in the middle of highly composed
material.After recording and releasing
Found Sound, Sizemix relocated to the Bay
Area roughly a year apart from each
other, for different reasons.
Sizemix is currently in hiatus. Mike is an
Art Director at Live Nation and is pursuing
music. Ivan has since graduated from
X’Pression as Valedictorian and now teaches there. Jason is currently in his
second year of study at Mills and perform
regularly with a wide variety of projects.
The future is open.
Cindy Meslem, born and raised in Paris, France, traveled a lot with her mother, so
passionated by music that
had her daughter listen to
all styles of music. After a
master in Journalism and
working for the French television, she now writes
about music.
CANADA’S BERNADETTE.
AND THE NORTH GOES EAST
Good genes, a great voice and a gritty rock band:
Bernadette Gernon talks about her life, music
and exciting future with band «The North»
the daughter of Status Quo front man
Francis Rossi (aka the Grand Old Man of
Rock and Roll) it would seem that
Bernadette has some big shoes to fill. I am
happy to report that even at just 157 cm
she is doing a damn good job of it.
When I first saw Bernadette and The
North play at a little deli on the outskirts
of Toronto, I really didn’t know what to
expect. Her small stature, innocent big
blue eyes and flowing blond hair screamed
tinkerbell. I questioned whether or not her
sound would even reach the end of the
stage. But like her excentric father,
Bernadette is full of surprises.
Citing big names such as Dylan and the
Beatles as her influences, Bernadette’s
music exudes the raw spirit of these classics but is layered with a characterful and
pristine voice – think Cheryl Crow meets
Christina Aguilera.
Of course, no woman is an
island, and her
soulful
and equally
talented band (Neal Lyons, guitar/vocals;
the Hodge, bass; Tommy K, guitar/keys;
and Greg Lyons, drums) give the show a
rich, rock and roll sound that invites comparison to Canadian rock legends such as
Neil Young, The Band or Blue Rodeo.
Though her crisp voice and strong stage
presence seem to be inherited from her
father, she spent very little time with him
growing up. Born in Ireland, Bernadette
moved to Canada at a very young age, only
reconnecting with him a few years ago.
Her musical passion, however, started
much earlier, learning to play guitar at 10
and singing at every opportunity she could.
Bernadette and Francis’ relationship
has certainly helped her be more focused
on her career, with her dad’s experiences
in the business providing her with both
inspiration and guidance. Francis also helped out by showcasing his stellar guitar
skills on her debut, self-titled album,
Bernadette.
The story behind the formation of the
North is equally as whimsical.
Bernadette caught Neal Lyons’ eye at
a local pub outside of Toronto, and
despite their very different musical
styles they began to talk business.
Neal, with a background in extreme
sports and hard rock (he was an exgames gold medalist and guitartist/vocalist in Canada’s Kover), began
working with Bernadette occasionally until
he and his
brother Greg
(also
from
Kover) joined
on full-time to
form
«the
North». With the Hodge and Tommy K to
follow, the band adopted a fuller, rock
sound and began some serious gigging.
Now poised to open for Status Quo on
their 32-show UK tour beginning
November 8, little Bernadette has big
plans: «We are really excited to see how
this will be. I know Status Quo fans are
really loyal and passionate, so I hope to
blow them away. (But) I know that it won t
be an easy task...».
B - with your stunning stage presence,
stellar band, solid soloalbum and healthy
Canadian touring career, I am sure it will
be easier than you think.
For more information, including tour
dates and how to get her album, check out
www.myspace.com/bernadettegernon.
Karla Courtney, born and raised in Canada, writes from
Melbourne, Australia, where
the alternative music on offer
rivals the likes of Toronto's
Broken Social Scene and Feist.
Trained pianist with a passion
for music of all kinds, she’s the
editor of 3 magazines.
SYMBOLIC JEWELRY
ARGENTO 925 PODIATO
OLLETTINI
OLLETTINI
WWW .COLLETTINI .NET
Music In
BEYMusicAll
OND
Ottobre Novembre 2007
FRANCE Winter Family A church in the
centre of Paris, not a group but an expe- SPAIN Euro Trash Girl AUSTRALIA 67 Special Interviewing
Indie Rock in Valencia
the drummer of the Australian band
rience of childhood bedtime stories
BEYONDParis
WINTER FAMILY
BEYOND
Australia
by SCOTT DRUMMOND
67 SPECIAL
It’s a chilly Tuesday night as I settle into my
chair in the empty Public Bar on the northern
fringes of Melbourne’s CBD. There’s a regular game of poker going on in the back room,
and among the punters is Bryan Dochstader,
bassist with the 67 Special...
A crypt in Paris for Ruth and
Xavier, in a journey to the very
depths of the self
JEN CARSWELL
a
soft hum echoes against the vaulted ceilings and chipping frescos in the
crypt of St Suplice, a church in the centre of Paris. A piano, organ, harmonium,
and arm chair patiently await, like the rest of us, the arrival of Winter Family.
This duet comprised of Israeli Ruth Rosenthal and French Xavier Klaine was
formed in Jaffa in 2004 and since then has been performing in similar such
venues in New York, Europe, and the Middle East.
Winter Family is not simply a group, but an experience, at once
reassuring and terrifying. The sound is a combination of melodic spoken-word
texts in English and Hebrew against sparse hypnotic music. A deep feminine
voice recites words and creates images reminiscent of childhood bedtime stories. With a haunting melody continually playing like a broken gramophone, it
quickly becomes evident that what we are entering
is not a dream but a nightmare.
«I was born in the spring, that’s why it took
me so long to find my real family, my true family, my
winter family» is both the first line from the title
track and an example of Ruth’s beautifully intricate
and elegantly perplexing poetry. Her texts explore the
worst of what human beings are capable of doing to
one another: violence, pride, suffering, uncertainty,
death. The message is at times clear and direct while
others ambiguous and abstract. One song fills the
room with gunfire as a mother waits for a son who
will never return, while another paints the world from
the point of view a slug. The political and the philosophical are interwoven, often accentuated by the ironic
and the absurd. This melancholy music constructs a universe steeped in darkness. Light exists only blindingly and in bursts.
The journey is not however to the outreaches of the galaxy but to the very
depths of the self. It is an introspective look and according to Ruth ‘a gift’ to be
interpreted differently and independently by each individual.
Winter Family’s debut album was released in September with their
second album well under way. The follow up to I Was Born In Spring
is apparently fuller-sounding, more accessible, and darker. The group will be performing at the Horse Hospital in London on November 10th and are constantly
adding dates and locations. With few influences and fewer contemporaries,
this unique duet promises nothing but facilitates a musical sojourn that goes
beneath and beyond the majority of indie bands.
Left with goosebumps and shivers,
they should not be missed.
BEYONDSpain
Vicente Martinez is the managing director of
Zebra Records & Tabalet Editorial Publishing,
a Spanish label with artists and bands as
Nice Man & The Bad Boys (UK), The Mockers
(US), Euro-Trash Girl (ES) or Siwel (ES).
A
EURO
EUROTRASH
TRASHGIRL
GIRL
KISS
KISSAWAY
AWAY
THE
THERAIN
RAIN
ning of a new listening.
surprising new album by EuroTrash Girl, which confirms them
definitely as one of best indie rock
bands in the country. Passionate
about the most genuine American
sounds, Kiss Away The Rain is the
logical result of an excellent songwriting skill (songs like So What
About You?, Beauty (dis)connection, No Time To Stall become pieces for compulsive listening) and a
superb sound, both accurate and
rich (the album has been recorded
and produced by Luis Martínez).
Simple and sincere, the songs
have been created from feeling.
They are aimed at showing life and
making you an accomplice to their
plots, like in Radar Love, a precious
surprise in an album whose allenveloping last piece, Stay
Overnight claims to be the begin-
The Valencian quintet are at their
best moment, confident and capable
of creating hypnotic atmospheres of
elegant rock and of injecting magic
into the songs that Judit Casado
sings in an incomprehensibly unique way.
It’s difficult to explain how her
voice conveys such intimate emotions, with an adhesive groove that
boosts the melody from the centre
of the Earth to infinity with the
euphoria of rock and the temperance of country–punk. But the response to this fact can be found in a band
which is well-oiled and perfectly
solid, and also able to embody and
express with energy any sound
atmosphere. The time has come to
say goodbye to the rain and to welcome a new sun.
by VICENTE MARTINEZ MARCO
it’s
a chilly Tuesday
night as I settle
into my chair in
the empty Public
Bar on the northern fringes of
Melbourne’s CBD. There’s a
regular game of poker going
on in the back room, and
among the punters is Bryan
Dochstader, bassist with
Melbourne five piece the 67
Special. He’s agreed to take
time out of his game of Texas
hold’em to chat about the band’s new album, The Devil May
Care, and as events on the
table take a turn for the worse,
he seems grateful for the interruption.
Fresh off the back of gigs in
New South Wales, the 67
Special have been touring
their new 12-track LP up and
down the East coast. The
band has played a range of
venues, from Melbourne’s
Corner Hotel to Bendigo’s
Golden Vine, and they’re
equally at home bringing
their music to the fans in rural
areas as those in the city.
«That’s kinda why you do it.
You can make money at the
big shows in the metropolitans and then you go out to
the smaller regional areas,
which are usually less populated. They’re less attended but
it’s more for the fans that are
out there that can’t get into the
city, you know, to play for
them.»
We’d initially agreed to
meet soon after the album
launch at the Corner Hotel on
August 10th, but a combination of the packed touring
schedule and other decidedly
un-Rock ‘n’ Roll reasons had
delayed our interview. It’d
been a couple of weeks since
the Corner gig, but Bryan was
quick to recall the band’s feelings that night.
«Yeah, it was a good show.
Although there was a really
good vibe it was just one of
those things where we really
got nervous. I usually never
get nervous, apart from once
before playing Rove and that
sort of thing, but that show
just felt like a really important
one and we
Scott Drummond wanted it to
is a freelance wri- go well so
ter from the UK, badly.»
living and working
Nerves?
in
Melbourne, Casting my
Australia. There
memory
he writes regular
reviews and fea- back to that
tures for a num- night at the
ber of print publi- Corner, nercations and edits vous woulthe music blog dn’t be the
‘For People Who word I’d use
Can’t Read’.
to describe
the
band’s
polished performance.
Ash Santilla
(lead vocals)
delivered his
trademark
combination
of
in-yourface
rock
vocals
and
Jagger-esque
strut faultlessly as he swigged his way
through a bottle of red. Either
side of Santilla, Gavin
Campbell (lead guitarist) tore
through intricate solos and
Dochstader pumped out propulsive bass lines effortlessly,
covering the flanks from foldbacks to amps. Louis Macklin
(keyboards) and Ben Dexter
(drums) drove the rest of the
bluesy rock rhythm, a sound
the 67 Special have made
their own.
«Nerves?»
«Not the debilitating kind.
Three beers and a couple of
cigarettes, then you’re fine.
Those kind of nerves.»
Dochstader’s nonchalant,
laid
back
explanation
belies
the
difficulties
the band has
faced in the
last
few
years, but
also hints at
their resilience and
determination to succeed. Soon
after
the
release
of
their debut
album, The
World Can
Wait, their
record label,
Festival
Mushroom,
was bought
out by the
l a r g e r
Wa r n e r
Music Australia, throwing a
spanner in the album’s promotional works.
«That had a horrible effect
on us. We were getting ready
to go overseas where we’d
gotten a lot of attention. It
coincided with about a month
after we’d released the album
so we’d put in all this promotion and got the ball rolling.
Then the wind just came out
of our sails and we were left
drifting with no help from the
media. We were so close to
breaking into something great
and the timing was really
good too because Rock ‘n’ Roll
was hitting a decent stride.»
The band were suddenly
faced with the collapse of the
momentum they had worked
so hard to build up behind
their debut release, but characteristically could only see one
way to go - forward.
«As soon as that started
happening we just began writing the next album. We decided it wasn’t going to phase
us. We just kept going, and
after 6 months we thought we
had the second album. We had
12-14 songs that were really
good but we just decided they
weren’t good enough. We
worked another three months
and wrote another six songs,
so by then we had 20 songs.
OK, so break that down to ten
and you’ve got a good album,
right? Nah, not nearly good
enough. So we just kept on
writing.»
And so it is that The Devil
May Care finally came to be.
12 triple-distilled cuts that
showcase not only the band’s
straight-up Rock ‘n’ Roll roots
(singles Sold Your Little Sister
for a Red Motor Car, Killer
Bees, and Shot at the Sun) but
also their willingness to mix
other musical flavours in service of the perfect blend. The
haunting Running from the
Man is reminiscent of the
Doors’ Riders on the Storm,
whilst the slow tempo and
jazzy It’s Not Like You blends
roots-reggae with one of
Macklin’s soulful keyboard
solos. «At the end of the day
if
we
look at a
song and
its value,
that’s got
absolutel
y
nothing
to
do
with the
genre. If
it’s
a
g o o d
s o n g
then you
can take
it and get
a polka
band to
do it and
it’ll still
be a good
song. You
give it to
a reggae
band and
if it’s a
good song, you’ll still hear
that.»
As Bryan excuses himself to
return to his poker game and
our interview comes to an
end, one thing seems clear:
whatever the new album’s
title suggests, the 67 Special’s
approach to their music is
anything but cheerfully reckless. This is a band that
understands the deceptively
simple recipe for success in
this business: write a bunch of
great songs, deliver a killer
live show every time, add just
a pinch of good old fashioned
luck,
stir
and serve.
And judging
by the way
the crowd at
the Corner
ate up the
live show,
the
67
Special seem
to be getting
the balance
just right.
Ppop&rock
OPCK
a cura di VALENTINA GIOSA
Music In
TUXEDOMOON Suonano la musica del A TOYS ORCHESTRA I campani FIERA C’è
diavolo, quella che fa paura alla Chiesa. dell’indie-rock si addormentato col
Perché è un intervallo di quarta aumentata. carillon e sognano in technicolor
campani A Toys Orchestra nascono
nel 1998 dalle ceneri della band
Mesuild, dopo la partecipazione alla
compilation Soniche Avventure e la
vincita del concorso Gruppo Soniche del
2000 indetto da Sony/Fridge, nel giugno
2001 pubblicano il primo album dal titolo
Job (Fridge). Nel 2003 partecipano e vincono il concorso nazionale per le etichette
indipendenti MusicalBox di Urbino.
Nell’autunno dello stesso anno la band
lascia la Fridge per passare alla Urtovox
Records e comincia a lavorare a Cuckoo
Boohoo, album pubblicato nell’ottobre
2004, considerato una delle rivelazioni
della stagione 2005-2006. L’ultimo lavoro
della band (marzo 2007) si intitola
Technicolor Dreams, album maturo e raffinato che dimostra uno stile personalissimo oramai consolidato dove ballate, carrillon di pianoforte, sognanti arrangiamenti
orchestrali, suoni morbidi e chitarre tipicamente «indie-rock» disegnano uno scenario fantastico di intimismo, romanticismo e
magia. 13/10 Circolo degli Artisti Info 06
Terrorizzano col tritono, scappano dall’America
e, metà muti (metà no), conquistano l’Europa
Q
I
uando ci si
trova davanti
a
gruppi
come i Tuxedomoon è
difficile limitarsi a
parlare semplicemente di musica. La band
formata da Blaine L.
Reininger,
Steven
Brown
e
Peter
Principle a San
Francisco, con il supporto tecnico dell’artista video Tommy
Tadlock, è riuscita con
un’eccellente visionarietà ad abbracciare
teatro, cinema, danza,
letteratura, dando vita
a una vera e propria
multiarte.
Probabilmente
la
«multimedialità» dei
nostri giorni è proprio
il momento migliore
per apprezzare pienamente il ritorno dei
Tuxedomoon che con
l’uscita del nuovo
album Vapour Trails
festeggiano ben 30
anni di carriera.
La band californiana è
stata senza dubbio una
delle realtà più originali e innovative della
stagione new-wave
ma, a differenza dei
gruppi dell’epoca è
riuscita ad andare ben
5
Musical Box
N
ati nel 1993 con l’intento di riproporre
le straordinarie atmosfere dei concerti
dei Genesis nel loro periodo d’oro degli
anni 70, i Musical Box sono l’unica cover
band ad aver ottenuto la licenza di riprodurre The Lamb Lies Down On Brodway da
Peter Gabriel in persona. Uno studio attento
di coreografie, trucco, maschere, effetti speciali, luci e a una grande padronanza tecnica.
Tutto esaurito per i Musical Box, che si
cimenteranno con Foxtrot il 9 novembre e
con Selling England By The Pound il 10. 9-
10/11 Gran Teatro Info 06 37353588 H 21
oltre un’estetica puramente musicale. I
Tuxedomoon
cominciano a
farsi strada
durante
la
fine
degli
anni 70 suonando
in
diverse esposizioni accompagnando le performances degli Angels of Light e divengono presto
celebri per i loro spettacoli sperimentali e avanguardistici in cui mescolano sapientemente musica avantgarde-rock, classica e sintetica, melodie
tipiche del dark, voci spettrali e sussurrate, atmosfere decadenti, coinvolgenti shows che tanto
ricordano gli psicodrammi del vecchio teatro
espressionista (basti pensare che la band, venne
inizialmente coadiuvata da alcuni esponenti della
scena teatrale locale fra cui in particolare il mimocantante Winston Tong).
In un’intervista Reinenger ha addirittura affermato di aver conosciuto gente che era completamente «terrorizzata» dai loro show, ovvia conseguenza del fatto che gran parte dei brani del
trio californiano erano costruiti con il «tritono»,
intervallo di quarta aumentata bandito dalla
Chiesa ai tempi del Medioevo perché considerato «la musica del Diavolo».
Cresciuti in piena epoca post-punk ma, decisamente lontani da ogni forma di «americanismo», i Tuxedomoon sono costretti a partire per
l’Europa stabilendosi prima ad Amsterdam e poi
a Bruxelles. Ed è proprio in Europa a metà degli
anni 80 che la loro popolarità cresce a dismisura,
in particolare con l’uscita di Half-Mute, probabilmente il disco che meglio fotografa l’unicità della
band. Il nuovo tour dei Tuxedoomon, che per
l’occasione hanno scelto di eseguire oltre ai nuovi
Quando pubblicammo il nostro primo
album, una buona fetta della critica ufficiale trovò scandaloso che la chitarra uscisse da un sampler!», afferma il cantante-compositore Franz Treichler, chitarrista fondatore del trio svizzero, Al Comet (campionatori) e Bernard Trontin (batteria). Rock, elettronica e sperimentazione sono gli ingredienti di questa band, una delle più influenti
sulla scena musicale europea (basti pensare
a Chemical Brothers, Nine Inch Nails,
Prodigy) che festeggia con l’uscita del nuovo
album ben vent’ anni di carriera. Gli Young
Gods tornano con Super Ready/Fragmenté,
summa dei lavori dell’ultima decade della
band, segnata dallo straordinario Tv Sky
(1992), Only Heaven (1998) e Music for
Artificial Clouds (2004). Giunta al tredicesimo capitolo, la band ha proseguito la strada
della ricerca e della sperimentazione dando
nuova veste alle sonorità elettroniche che in
Super Ready/Fragmenté si uniscono alla
new-wave e all’hard rock, aprendo le porte a
un’atmosfera tipicamente industrial che non
dispiacerebbe agli appassionati di Ministry o
Killing Joke. 18/10 Circolo degli Artisti Info 06
70305684 H 21
20.70
uscito ad agosto, pubblicato dalla
Young God Records, il nuovo album dell’americano Michael Gira We are Him.
Da tutti conosciuto come fondatore e coleader degli Swans, straordinaria band di
avant-garde rock attiva fino ad alcuni anni
fa, Gira è stato impegnato negli ultimi tempi
per lo più come produttore di altri musicisti
o come co-autore di diversi progetti sperimentali fra cui The Body Lovers e Angels of
Light. We are Him vanta la collaborazione di
prestigiosi musicisti fra cui Christoph Hahn
(Swans, Angels Of Light), Bill Riefli (REM,
Ministry, Robert Fripp, Robyn Hitchcock),
Julia Kent (Antony and The Johnsons),
Steve Moses (Alice Donut). Amore, desiderio, perdita, sesso, tradimento, amarezza
sono i temi che accompagnano da sempre
un artista «completo» e sui generis, capace
di coinvolgere l’ascoltatore senza aver bisogno di abbellimenti e inutili orpelli. Come ha
affermato Seth Olinsky (Akron/Family):
questo non è «indie rock», questa è «autentica musica americana», o come dice Gram
Parsons «American Cosmic Music». 17/10
è
Circolo degli Artisti Info 06 70305684 H 21
brani anche una rielaborazione in chiave «cameristica» dei loro due capolavori (il già citato HalfMute e Desire, nato da ua colonna sonora composta per un balletto di Maurice Bejart), partirà proprio dall’Italia.
Sarà una buona occasione per apprezzare ancora
una volta una band che risulta ad oggi profondamente attuale, classica e sperimentale, minimale e
multimediale, in bilico fra la «ricchezza dell’esperienza» e «l’incoscienza del nuovo».
PERCHÉ VI SI RIUNISCONO
TUTTI. QUELLI CHE SONO
EMERGENTI E QUELLI
CHE LI FARANNO EMERGERE
40
è
«
MICHAEL GIRA
FAENZA. CHE FA RIMA CON EMERGENZA
GIOSA
YOUNG GODS
quella di Faenza
TUXEDOMOON
IN INTERVALLO
TRITONO
A TOYS ORCHESTRA
70305684 H 21
Ottobre Novembre 007
giunta all’undicesima
edizione la più grande
rassegna discografica e di
musica indipendente italiana,
ospitata dalla Fiera di Faenza
(24-25 novembre, anteprima il
23). Il Meeting Etichette
Indipendenti e delle autoproduzioni 2007 si conferma nuovamente come un momento fondamentale per la scena musicale
indipendente, con live di qualità,
dibattiti, convegni e premiazioni.
Ben 250 gli artisti previsti per
live e show, 300 stand presenti
con oltre 200 realtà indipendenti,
50 media partner del settore ed oltre 60 festival
per emergenti.
La manifestazione è un vero e proprio tesoro per tutti i talenti emergenti del panorama
musicale italiano che possono qui trovare
l’occasione di incontrare discografici italiani
e stranieri, conoscere e farsi conoscere, trovare contatti per accedere ad un mercato
discografico minore ma sempre in fermento e
lontana dalle frequenti manipolazioni delle
majors ma anche un modo per addentrarsi
nella nuova scena indipendente ed emergente
italiana e capire quale direzione sta prendendo il districato panorama musicale.
Tra gli appuntamenti fissi del M.E.I., il PIMI
(Premio Italiano per la Musica Indipendente),
che premierà gli album preferiti da una giuria
di critici musicali garantita dai giornalisti
Federico Guglielmi, Daniel Marcoccia, Enrico
Deregibus, Valerio Corzani, John Vignola e
Fabrizio Galassi. Il miglior disco indipendente
(che negli anni precedenti è stato vinto da
Assalti Frontali, Afterhours, Nada e Yuppi)
sarà uno tra i migliori 20 album indipendenti
dell’ultima stagione, selezionato fra Nada,
Avion Travel, Tetes de Bois, Virginiana Miller,
Tre Allegri Ragazzi Morti, Ginevra Di Marco,
Teatro degli Orrori, Jennifer Gentle, Ivana
Gatti e Gianni Marroccolo, Etherea+Uochi
Toki, Moltheni, Rudy Marra, Port Royal,
Melody Fall, A Toys Orchestra, Giardini di
Miro’, Dente, Atletico Defina, Ardecore e
Piccola Bottega Baltazar.
«Questi venti album–dice Giordano
Sangiorgi, organizzatore del M.E.I.–sono il
meglio di quanto espresso dalla nuova scena
indipendente nel nostro Paese, alcuni dei qualisono stati ai primi posti delle classifiche di
vendita ufficiali. Mi auguro che questi e tutte
le altre produzioni indipendenti italiane possano ispirare gli organizzatori dei grandi festival
musicali, con la possibilità di ospitare queste
bands e dar loro la visibilità che meritano».
Già noti i primi vincitori del Pimi 2007: ai
Diaframma andrà il premio per la miglior autoproduzione, i Giardini di Mirò sono il miglior
gruppo indipendente dell’anno, Moltheni il
miglior solista, i Tetes de Bois hanno realizzato il miglior tour, la Radiofandango è l’etichetta dell’anno, Giulio Favero (Teatro degli
Orrori, Super Elastic Buble Plastic, One
Dimensional Man) e Giovanni Gandolfi (
Disco Drive), i migliori produttori artistici e
discografici dell’anno. Tra le rivelazioni indie
rock i Canadians, il Teatro degli
Orrori, gli LnRipley. Nell’indiepop, invece, The Second Grace,
Vanilla Sky e Khorakhanè.
Fondamentale lo spazio dedicato alla musica internazionale, il
M.E.I. International, che, a partire dalla scorsa edizione, ha portato alla fiera più di cinquanta
operatori stranieri e sta proseguendo per allargare i contatti e
consolidare gli scambi con realtà musicali a livello mondiale
attraverso un accordo con il
Ministero del Commercio con
l’Estero.
Oltre alle produzioni musicali indipendenti
italiane, che spazieranno dall’indie-rock alla
nuova musica d’autore, dal nuovo pop al neofolk, dal reggae all’hip-hop, dall’elettronica la
punk, dal jazz al blues, dallo ska al metal, il
M.E.I. accoglierà band da oltre 17 Paesi:
Inghilterra, Francia, Germania, Svizzera,
Irlanda , Spagna, Svezia, Olanda, Portogallo,
Russia, Grecia, Lettonia, Slovenia, Danimarca
e Lussemburgo.
Tra le novità di quest’anno, oltre alla presenza di tutte le produzioni indies nei tre padiglioni della fiera - insieme ai tre tendoni per i live
- spicca sicuramente la presenza di Suono
Italia, con il meglio della produzione artigianale nazionale di strumenti musicali in un padiglione del Palazzo delle Esposizioni, in centro
a Faenza, che porterà una grande attenzione da
parte del mondo della musica colta (jazz e contemporanea) cui si aggiunge il progetto della
valorizzazione delle musiche regionali con la
presenza di festival e operatori del settore.
Presente anche una sezione World, dove
saranno realizzati showcases, dibattiti e tavole
rotonde legate al genere: un passo importante
che copre un vuoto di attenzione nei confronti
di questo settore così dinamico e ricco.
Music In
Ottobre Novembre 007
LISA GERRARD Incanta, ammalia, seduce. Incarna. TONY LEVIN Il pionere della Chapman
Stick, l’inventore della «funk fingers».
Decisamente, un Sick Man.
TONY LEVIN
ato a Boston nel giugno del ‘46, Tony
Levin è sicuramente uno dei più grandi
bassisti degli ultimi tempi grazie al sempre
più raro connubio di tecnica e passione. Il
suo groove inconfondibile ha accompagnato
diversi artisti mondiali come Peter Gabriel,
King Crimson, Yes, Liquid Tension
Experiment, Pink Floyd, John Lennon, Dire
Straits, Joan Armatrading, Alice Cooper,
Seal, David Bowie, Carly Simon, California
Guitar Trio, Sarah McLachlan, Kevin Max,
Paul Simon, Michael Schenker Group ed ha
collaborato con numerosi artisti italiani
come Vasco Rossi, Alice, Claudio Baglioni,
Raf, Eros Ramazzotti, Ron e Fossati (per cui
firma il brano L’Abito Della Sposa contenuto
in Macramè). Levin è stato pioniere dell’uso
della Chapman Stick e del contrabbasso
elettrico, e inventore di una nota tecnica
chiamata «funk fingers». Il musicista americano ha da poco annunciato il suo nuovo
album da solista che prende il nome proprio
dalla sua tecnica Sick Man, registrato in collaborazione con Scott Schorr (batteria, percussioni e tastiere), Chris Albers (chitarra
acustica) e Tim Dowe (batteria). 23/10
n
LISA
GERRARD
TUTTA
DI
U N FIATO
DREAM THEATER
Stazione Birra Info 06 79845959 H 21.30
opo la memorabile
esibizione del Gods
of Metal dove la
band statunitense ha
regalato al pubblico
dell’Idroscalo di Milano
uno dei loro capolavori
assoluti, nonché un caposaldo del progressivemetal, Image and Words, i
Dream Theater tornano in
Italia con il Chaos in
Motion World Tour
2007/2008, che paritirà
da Bologna per proseguire per Roma, Andria,
Milano
e
Padova.
Protagonista della nuova
tournée è l’ultimo lavoro della band,
Systematic Chaos, ennesima dimostrazione
che sicuramente i Dream Theater ci sanno
fare ma forse l’ispirazione di dischi, come il
già citato Image and Words e Metropolis
Part II, è un po’ lontana. Il Chaos in Motion
World Tour 2007/2008 che vedrà la band
accompagnata da un altro dei gruppi più
influenti della scena metal degli ultimi tempi,
i Symphony X, sarà un appuntamento da
non perdere sia per i numerosi affezionati
che per chi vuole godersi un bel concerto
all’insegna dell’hard rock. Palalottomatica - Ex
d
Palaeur Info 199128800 H 20
15+dp
G
APOCALYPTICA
li Apocalyptica (attualmente: Eicca
Toppinen, Paavo Lötjönen e Perttu
Kivilaakso) nascono nel 1990 a Helsinki
dopo essersi laureati all’Accademia
Sibelius, il più prestigioso conservatorio
finlandese. Appassionati e ispirati dalla
musica heavy metal, quattro violoncellisti
si dedicano al riarrangiamento dei brani
più celebri dei Metallica donando loro una
veste del tutto nuova, sognante e a tratti
magica. Debuttano nel 1996 con Plays
Metallica By Four Cellos, disco composto
da otto brani che furono quasi uno shock
per molti amanti del genere metal. Dopo
l’album Cult e l’uscita di uno dei componenti dal gruppo gli Apocalyptica decidono di
inserire un batterista, Mikko Siren che
indubbiamente, sia sul disco che dal vivo ha
conferito più potenza alla loro musica. Si
intitola World Collipse l’ultimo lavoro della
band finlandese, album dove compaiono
illustri ospiti come Till Lindemann dei
Rammstein (che interpreta la versione
tedesca della celebre Heroes di David
Bowie), Cristina Scabbia dei Lacuna Coil, il
cantante degli Slipknot Corey Taylor e
Dave Lombardo degli Slayer. 11/11 Circolo
degli Artisti Info 06 70305684 H 20
23
Zucchero d
opo 71 concerti in Italia e in Europa, le tre repliche in Arena (tutte esaurite) e dopo aver attraversato Sudamerica, Canada, Stati Uniti per oltre 50
concerti, fra cui anche una data nella prestigiosa
Carnagie Hall il 28 settembre, dove ha festeggiato i suoi
52 anni, ed una in occasione del Columbus Day l’8 ottobre a New York, il Fly Tour di Zucchero torna nei palasport in Italia cominciando da Roma. Adelmo Fornaciari,
in arte Zucchero, bluesman italiano per eccellenza, ha
portato per il mondo la sua ultima fatica intitolata Fly
che ha visto la collaborazione di Ivano Fossati e
Jovanotti, album di undici tracce, fra cui spicca il tormentone radiofonico Il Kilo, ormai canticchiato da tutti.
È prevista per novembre l’uscita del doppio cd The Best
Of che conterrà 35 brani, con quattro inediti e varie
cover prese degli anni 80. Intanto il musicista emiliano
ha rivelato che gli piacerebbe molto poter fare un duetto virtuale con Pavarotti, sulle note del Miserere, ma ha
paura della reazione del pubblico «perché non so come
la prenderebbe». 13-14/11 Palalottomatica - Ex Palaeur Info
c
Info 06 79845959 H 21.30
EDITORS Si chiama Smith, come Robert. Per
lui The End Has A Start. Vero, se Start vuol dire
primo posto nelle classifiche UK.
Dopo aver incantato e sedotto l’intera platea milanese ad
aprile, Lisa Gerrard, cantante
musicista e compositrice
australiana, ex Dead Can
Dance, voce unica e inconfondibile,
ultraterrena
e
senza tempo, torna a Roma il
6 novembre a seguito della
pubblicazione di The Best of
Lisa Gerrard, che ripercorre
gran parte della sua carriera.
Difficile non restare completamente ammaliati dal fascino della Gerrard: volto d’angelo, voce carezzevole che
sfiora l’infinito e tanta musicalità nell’anima. Dopo i lunghi studi di canto classico iniziati da bambina, l’ex Dead Can Dance ha proseguito con passione e dedizione la sua ricerca musicale attingendo con il tempo ad influenze tra loro
lontanissime che l’hanno portata ad esprimersi in un linguaggio talvolta
inventato o ad utilizzare lingue antiche come il latino, il gaelico e l’aramaico. Questa apertura all’universalità le ha permesso di spaziare dal gotico
degli esordi alla world music, dalla new age alla musica sacra fino a dedicarsi magistralmente alla composizione di colonne sonore per cui ha ottenuto diversi importanti riconoscimenti. Dopo la lunga ed intensa parentesi cominciata nel 1981 con i Dead Can Dance (una delle band più influenti della corrente gotica degli anni 80 insieme a Bauhaus, The Cure, Joy
Division, Siouxie and the Banshees, Sisters of Mercy), la Gerrard intraprende la carriera solistica nel 1995 guadagnandosi l’attenzione di un pubblico certamente meno di nicchia. L’estetica prettamente dark degli esordi
viene infatti con il tempo contaminata dalle diverse culture con cui la musicista australiana entra in contatto ma la forte attitudine mistica di Lisa
rimarrà senza dubbio una costante. Dopo Mirror Pool, il suo primo album
da solista, la Gerrard pubblica Duality nel 1988, lavoro che sancisce l’inizio di un’importante collaborazione con Peter Bourke, uno fra i maggiori
compositori attuali di colonne sonore. Insieme a Bourke firma infatti le
musiche di Insider - Dietro la verità e Alì (premiati per due Golden Globe)
e insieme a Hans Zimmer quelle de Il Gladiatore (2000), con cui vince un
Golden Globe e riceve una nomination per il premio Oscar. Questi riconoscimenti faranno si che Ennio Morricone la voglia con sé per realizzare le
musiche di Fateless (2006). Lisa Gerrard incarna alla perfezione l’attitudine del musicista contemporaneo autentico che, nello scenario multimediale e frenetico dei nostri giorni, dove il concetto di «nuovo» è in perenne
transizione e riscrittura, non può più essere legato all’idea di «genere»
musicale ma può soltanto reinventarsi e sperimentare. Ha senso ancora
oggi parlare di rock, jazz o blues? O forse si può solo imitarli, guardare
indietro, al vecchio e rielaborarli? Bisognerebbe allora usare un’altra prospettiva, quello della colonna sonora, divenuta oramai elemento imprescindibile che accompagna ogni piccolo istante della vita, sempre e ovunque. Questo articolo è stato scritto tutto di un fiato da Valentina Giosa.
36 a 4O
apitanati da Ed Wynne, chitarrista e
mente del gruppo, gli Ozric Tentacles
(denominazione che viene fuori da una rosa
di fantasiosi nomi per un’ipotetica marca di
cereali psichedelici per la prima colazione),
nascono nel 1983 e si ritagliano una sempre più numerosa fetta di pubblico grazie a
uno stile accattivante che fonde psichedelia,
elettronica, riff di chitarra hard rock, un
basso prettamente funky e sonorità spesso
etniche, arabeggianti o ambient. Gli Ozric
Tentacles hanno affrontato negli anni molteplici cambi di formazione, in cui l’unica
costante è rappresentata proprio da Ed
Wynne. Pungent Effulgent è stata la loro
prima registrazione ufficialmente distribuita
da un’etichetta discografica nel 1989. Fino
ad allora infatti, nessuno dei loro lavori aveva
ancora visto la distribuzione ufficiale e il
gruppo disponeva solo di nastri autoprodotti durante le numerosissime esibizioni live.
Divenuti oramai leggenda dell’underground
inglese, ad oggi gli Ozric hanno inciso ben 20
album. Attualmente sono in studio per registrare il loro nuovo album. 2 /11 Stazione Birra
Ppop&rock
OPCK
199128800 H 21
30-55
Porcupine Tree
a prog-rock band inglese Porcupine Tree torna in Italia per promuovere con un nuovo
tour l’ultimo album, Fear Of A Blank Planet. Primo appuntamento al Teatro Tendastrisce
di Roma, mentre il bis sarà concesso a Milano. È una storia curiosa quella della formazione britannica che, partendo dalla passione comune per le sonorità psichedeliche dei
primi Pink Floyd e il progressive di Yes, King Crimson, Genesis, e passando per il grunge
che tanto ispirerà Steven Wilson, (autore di tutti i brani perlomeno fino all’ uscita di Stupid
Dream - 1999), è riuscita a creare una sorta «space-progressive». Semi-sconosciuti in
patria, dove si trovano a «subire» il primato di gruppi assai meno originali, come Oasis,
Prodigy e compagnia, i Porcupine Tree trovano successo in Italia, in in particolare a Roma,
dove anche grazie alla promozione dell’emittente Radio Rock, sono riusciti a creare una
nutrita colonia di fan. I Porcupine Tree avranno uno special guest d’eccezione: gli Anathema,
deliziosa band di Liverpool che riesce a fondere melodie eleganti e sonorità piu’ aggressive.
L
17/11 Teatro Tendastrisce Info 06 45496305 349 6692455 H 20
31.05
EDITORS
Italia per due imperdibili date gli
Editors, considerati tra i migliori gruppi
della scena neo-wave britannica. Il
quartetto di Birmingham sarà a Roma e a
Bologna per presentare il nuovo e già acclamato An End Has A Start. Tom Smith (chitarra e voce), Chris Urbanowicz (chitarra),
Ed Lay (batteria) e Russell Leetch (basso) si
conoscono all’Università di Stafford, vicino
Birmingham. Nel 2003 danno vita agli
Editors, nel 2004 firmano il loro primo contratto discografico con l’etichetta indipendente Kitchenware e l’anno successivo dopo
un intenso tour in madrepatria, pubblicano
in tiratura limitata il singolo di debutto
Bullett, esaurito in un solo giorno che anticiperà l’uscita di dell’album di debutto The
Back Room, disco di platino in UK. An End
Has A Start affonda le radici nel post-punk e
nella new-wave inglese più oscura ed emotiva, ma non si tratta di un lavoro completamente dark, come sottolinea il leader Tom
Smith, perché esso è anche il frutto di due
anni di tour, due anni frenetici e eccitanti
spesi in mille posti diversi tra persone di ogni
tipo. E l’energia di quel periodo si riversa inevitabilmente sui brani che compongono questo secondo album. An End Has A Start ha
scalato le classifiche inglesi e ha raggiunto il
primo posto subito dopo l’uscita. 21/11 Piper
in
Info 06 8555398 — 347 0928416
18 euro+d.p.
EAND
DGBACK
E
a cura di CORINNA NICOLINI
Music In
Ottobre Novembre 007
NERVOSO CABARET Urlacci KONONO N. 1 Non un nuovo BLUEBEATERS Sono quelli di Palma,
punk, chitarre metal, groove no- profumo, ma il ritmo selvaggio quelli che portano a spasso un cane e i ritmi
wave e fiati jazzistici
della gente povera del Congo
dei negri portoricani di New York
KONONO N. 1, LA SAVANA
RODRIGO & GABRIELA
odrigo e Gabriela, ovvero Messico e
Irlanda andata e ritorno. Questo duo di
chitarristi inizia a collaborare in molti
progetti di natura Metal tra cui i Tierra
Acida. Spinto dall’esigenza di nuove sonorità
parte per l’Irlanda e approda a Dublino dove
ha l’onore di aprire i concerti di Damien Rice.
Lì parte la carriera musicale vera e propria
che li fa registrare l’album d’esordio Re-Foc
e soprattutto il secondo, Tamacun. Sotto la
supervisione prestigiosa e sapiente del produttore John Leckie (Stone Roses, Verve,
Radiohead, Kula Shaker), Rodrigo e Gabriela
tirano fuori un disco unico. Nasce un suono
in cui si mischia la tradizione messicana,
simbolo di melodia e calma, con la frenesia
del mondo moderno. Le chitarre di Rodrigo
sono la parte virtuosa del lavoro e sono valorizzate dal tappeto ritmico di Gabriela, che
prende in prestito l’ossatura del flamenco
ma la attualizza in un approccio più rock. La
parte live di questo strano duo è la più forte
e sembra che l’apice di questo viaggio tra
Messico e Irlanda sia la rivisitazione di
“Starway to Heaven”, a dimostrazione che i
due non hanno dimenticato il loro passato
metal. Chiunque sia interessato alla fusione
degli estremi non può perdersi Rodrigo y
Gabriela. 22/11 Stazione della Birra
R
D
rista prendendo le sembianze del rock.
Sul palco è tutta una festa. Si suona, si balla, si
canta, si crea, ci si reinventa con un entusiasmo
quasi adolescenziale. Si assiste rapiti alla stralunata Kule Kule. Ci si diverte con Masikuku e ci si
lascia travolgere da Ungundi Wele Wele mentre i
percussionisti eccitati si uniscono alle voci del
gruppo.
Quando un progetto vale davvero può partire
anche dalle terre più antiche e lontane ma riesce
ad arrivare. La stampa di tutto il mondo ha subìto il fascino di Konono n.1 e ha tessuto le sue
lodi. Il BB3 World Music Award 2007 li ha eletti
vincitori. Persino un’artista del calibro di Bjork li
ha voluti ospitare nel brano Hope, dell’album
Volta. E l’Orchestra di Piazza Vittorio ha dato
loro appuntamento in alcune date del suo tour.
Portano in giro la musica della gente più povera della terra. E anche se sotto le loro scarpe non
c’è più la sabbia fangosa del Terzo Mondo assistendo ai loro live si riesce quasi a sentirla
addosso.
CORINNA NICOLINI
Dalla savana alla metropoli,
portano in giro la musica della gente più povera della terra
alla savana alla metropoli congolese
Kinshasa fino ai palchi prestigiosi di
tutto il mondo. Questo il viaggio di
Konono n. 1, il gruppo di apertura di Meet in
Town, la rassegna che tutti gli anni porta nelle
sale prestigiose dell’Auditorium i nomi più
importanti della scena elettronica mondiale.
Una musica dai sapori rurali e urbani. Una
contaminazione che sa di storia, la storia
dell’Africa. Quella terra che oggi ricorda un po’
le descrizioni della Londra di Charles Dickens o
le città francesi di Emile Zola e nella quale il
ritmo della musica non ha mai smesso di battere. Ma neanche le forme più pure dell’arte possono sfuggire all’evoluzione e all’industrializzazione. Sarà un male? Forse no. E un live di
Konono n.1 ce lo sa dimostrare.
Il progetto nasce da Mingiedi, un virtuoso del
likembé, strumento tradizionale africano, composto da lamelle metalliche fissate ad una cassa
risonante. Si sa, la musica ha per natura una fun-
zione sociale e per perseguirla deve parlare il
linguaggio del suo popolo. Per questa ragione
quella che può definirsi un’orchestra di ispirazione tradizionale ha dovuto elettrificare i propri strumenti e adeguarsi ad una comunità ormai
fortemente urbanizzata. E lo ha fatto mischiando sapientemente alla fantasia e alla cultura
ogni tipo di materiale di recupero.
È così che i tre likembè che compongono il
gruppo si elettrificano e il loro suono si propaga
grazie all’aiuto di microfoni costruiti con vecchi
magneti di automobili. Tre voci calde si appoggiano su percussioni tradizionali che tengono il
tempo intrecciandosi a casse fatte di scarti industriali e meccanici. Tre ballerini si muovono in
una danza primordiale e coinvolgente sulle note
diffuse da un sound system dotato di grandi
megafoni risalenti all’epoca coloniale.
Un’atmosfera ipnotica fa da sfondo così ad un
groove che scuote. I ritmi africani si lasciano
attraversare dall’elettronica più estrema e rumo-
BLUEBEATERS E IL BOOGALOO DEI NUYORICANS
INTERVISTA A FERDI
IL BATTERISTA
STEFANO CUZZOCREA
T
NERVOUS CABARET
sound per una band è tutto. È la propria
anima, il proprio segno distintivo. Lo
sanno bene i Nervous Cabaret che trasferiscono nel loro suono il Melting Pot tipico di Brooklyn. Elys Khan, frontman e leader
del progetto, butta nel calderone della sua
musica melodie tradizionali pakistane, urlacci punk, chitarre metal, groove no-wave e
fiati jazzistici come se fosse il più normale
dei procedimenti artistici. Il risultato è stupefacente. I Nervous sono fondamentalmente
un collettivo aperto in cui entrano ed escono
liberamente musicisti che spesso hanno già
progetti propri in parallelo ma sentono l'esigenza di apportare qualcosa. Citare la lineup attuale è simbolico della loro filosofia e
del viaggio musicale che si affronta ad un
loro concerto. Non uno ma due batteristi
(Brian Geltner e Greg Wiz), un basso elettrico (Matt Moranti), un coronet (Fred
Wright), un sax baritono (Don Undeen) e
ovviamente voce e chitarra acustica (Elys
Khan). Aggiungiamo che ognuno di loro utilizza nel live svariati oggetti che producono differenti e inconsueti suoni. Si prevede mare
mosso al Circolo degli Artisti. 15/11 Circolo
il
Degli Artisti
ornano i BlueBeaters.
Giuliano Palma e la
sua band pubblicheranno il loro nuovo disco a
metà ottobre, terzo album
ufficiale del gruppo se si
esclude quello realizzato dal
vivo, e uscirà ancora una
volta per l’etichetta V2. Il
sound è sempre caratterizzato da una rilettura in chiave
bluebeat di canzoni già
edite. La curiosità è troppa.
Abbiamo incontrato Ferdi, il
batterista dei B.B., per capire
meglio come sarà Boogaloo.
Il boogaloo è un genere fatto
di soul e r&b impregnati di
ritmi latini, il vostro suono ha preso un’altra
direzione?
In realtà il genere è sempre quello. Solo
che il boogaloo, ovvero un misto di generi portato dai neri portoricani a New York,
mischia anche il rythm&blues e il
rock&roll al mambo e al calipso, inventandosi una soluzione ritmica meticcia, come
quella dello ska, ma ancora più colorita.
Noi abbiamo un approccio che resta legato alla musica giamaicana, ma adesso ci
abbiamo aggiunto anche un’altra prospettiva, mischiandoci ancora
qualcos’altro. I pezzi
sono comunque arrangiati alla nostra maniera,
la base è sempre ska e
rocksteady, anzi il loro
lato più nostalgico: il
bluebeat.
Come nasce il nuovo
album?
Abbiamo iniziato a
pensare al disco subito
dopo il tour. A gennaio ci siamo presi una
pausa dai palchi, quindi abbiamo deciso
di chiuderci in studio per preparare i
nuovi brani. Siamo partiti con dei provini,
con calma, con un po’più di tempo rispetto al solito; in genere i nostri pezzi nascevano direttamente sul palco, per The
Album e Long Playing è stato così. Questa
volta la preparazione è stata più lunga.
Abbiamo avuto un bel po’ di tempo in più
per pensare a come rapportarci ai brani
che sono entrati a far parte del nostro
repertorio. In realtà, poi, sia le cose fatte di
fretta che quelle registrate con più preparazione, come è successo per il nuovo
disco, si assomigliano, nel senso che la
nostra attitudine musicale è sempre quella. Naturalmente questa volta il fonico ha
potuto lavorarci meglio, ha avuto un
ruolo meno marginale, come la produzione del resto, a cui si sono dedicati
Giuliano Palma e Fabio Merigo. Il nostro
suono adesso è ancora meno grezzo, più
pop. Possiamo definire Boogaloo un disco
più radiofonico dei precedenti.
Nel disco, insolitamente, c’è
anche un brano scritto da voi...
C’è un pezzo strumentale.
È il pezzo più boogaloo del
disco, si ispira a quell’atmosfera portoricana di New
York in atto nei tardi anni
Sessanta. Il cantato resta un
elemento marginale del
brano, c’è solo qualche linea
di voce. The Marvin
Boogaloo è una traccia originale, registrata in una sola
mattinata, abbiamo deciso
di tenerla perché ci è piaciuta da subito. Del resto, va a
coprire anche un vuoto, nel
senso che nei dischi precedenti avevamo incluso più pezzi strumentali, questa volta avevamo già troppo materiale per farlo, quindi una composizione di questo tipo, addirittura
nostra, era in linea con le prerogative
degli album precedenti ed è risultata
azzeccata.
Music In
EAND
DGBACK
E
Ottobre Novembre 007
ONE LOVE HI PAWA L’intervista a DIDATTICA Il Saint Louis apre il MYSPACE GENERATION Sono quelli che DJ Miss Kittin,
Duccio, uno dei Dj che animano la scena 32esimo anno accademico a più di 1400 conquistano le dita oltre che il cuore. Anche in soft-fetish electroclash
reggae italo-romana
allievi e li avvia alla professione artistica Albania. Quelli tipo Luca Bussoletti
SAINT LOUIS TRENTADUESIMO ATTO
R
s
arà un inverno caldo. Meteorologi a parte,
ci penserà il reggae ad alzare la temperature. Un’altra stagione infuocata della rassegna intitolata Top A Top ha già aperto i battenti,
ancora una volta al Brancaleone. Il giovedì romano continua a suonare in levare, affidando la consolle a One Love Hi Pawa.
«Eravamo un gruppo di persone che amavano la
musica reggae e, nei primi anni Novanta, ci trovavamo nel circuito dei centri sociali ed è qui che
abbiamo organizzato le prime feste. Con il quartiere San Lorenzo di contorno, il 32 come punto di
ritrovo, Radio Onda Rossa per colonna sonora e le
serate chiamate Tortuga al Forte Prenestino quale
nostro punto di partenza. Era il periodo delle Posse
e usciva una cassetta autoprodotta, in cui alcuni di
noi cantavano in italiano sulle strumentali giamaicane. Avevamo un sogno: costruire un impianto
come nella tradizione della musica giamaicana»,
ci racconta Duccio, uno dei dj di O.L.H.P.
Ne è passato di tempo da allora, oggi la loro prospettiva ha già fatto tanta strada, come ci spiegano
loro stessi: «Abbiamo costruito quell’impianto,
già da un po’, e continuiamo ad occuparci di musica reggae, la diffondiamo in vari modi, e abbiamo
diverse attività legate a questo ambito: c’è il nostro
negozio, aperto qui a Roma nel novantasei, in cui
vendiamo dischi. Ci occupiamo di distribuzione di
vinili e cd tramite una nostra apposita società in
Giamaica, creata lì tre anni dopo il negozio.
Abbiamo una piccola etichetta discografica con
cui produciamo reggae italiano e internazionale.
Poi, c’è la nostra attività di sound system che ci
porta a suonare in giro per il mondo».
Tra Asia, America e Europa, isole comprese, One
Love Hi Pawa riesce ancora fare una tappa settimanale a Monte Sacro ogni giovedì. La rassegna
intitolata Top A Top è un nodo tra Italia e
Giamaica, in cui suonano ospiti provenienti da
ogni parte del mondo, ma legati ad un minimo
comune denominatore: il reggae.
Brancaleone significherà Rufino e Bonifax,
Black Scorpio, i giapponesi Mighty Grownd, gli
africani Sciasciamani, Alborosie, Perfect. Un
programma rovente. Un sound che brucia di passione per il reggae. Sarà un inverno molto caldo.
Non c’è dubbio. (Stefano Cuzzocrea)
iapre il sipario del Saint Louis
College Of Music, che dal 1976
offre a più di 1400 allievi corsi di
diploma per tutti gli strumenti, con possibilità di specializzazione jazz, rock e blues.
Una vera e propria fucina di giovani talenti
e nuove proposte che si realizzano professionalmente negli anni anche attraverso la
partecipazione a Festival come Umbria
Jazz o Villa Celimontana, o rassegne di
musica leggera come il Festival di Sanremo
o il premio Tenco.
Un dipartimento del Saint Louis è interamente dedicato alla promozione di giovani
artisti sul territorio nazionale: formazione
musicale professionale, produzione e pubblicazione di Cd originali e agenzia artistica
per i nuovi talenti costituiscono un collaudato iter di avviamento alla professione, aldilà
di falsi miti e pseudoscuole televisive che
declassano una seria professione (quella
didattica) a un mero e superficiale spettacolo circense. Meritano menzione alcuni corsi
particolari come il diploma di Composizione
e Musica da Film, con il M° Gianluca Podio e
il M° Ferdinando Nazzaro, un quinquennio di
studi di armonia, contrappunto, composizione su computer e orchestrazione con un
taglio moderno e finalizzato all’inserimento
in un contesto lavorativo.
Notevoli sbocchi professionali offre il
corso biennale di Tecnico del Suono, un
mestiere indispensabile in un mondo sempre più multimediale, oltr il 60 per cento dei
diplomati trova lavoro nei due anni successivi presso studi di registrazione, auditorium,
studi televisivi o radiofonici.
Fra i nuovi insegnanti che arricchiranno
da questo anno accademico il già nutrito
corpo docenti formato da 74 professionisti
troviamo il trombettista Andy Gravish, il
percussionista Giovanni Imparato, il batterista Agostino Marangolo che si occuperà
del ruolo del batterista in studio di registrazione, il chitarrista gipsy-jazz Salvatore
Russo e un rientro importante, Amedeo
Tommasi, pianista e compositore che torna
ora con un moderno corso di Analisi e riar-
monizzazione degli standard Jazz. È stato
appena avviato per la prima volta in Italia il
corso di diploma in vibrafono jazz, con il M°
Andrea Biondi, da diversi anni vibrafonista
dell’orchestra di Ennio Morricone.
Per chiudere le ultime due novità riguardano l’introduzione di una specializzazione di
diploma in Arrangiamento e Song-writing,
un campo prezioso mai esplorato che apre
nuove strade professionali nel mondo della
musica leggera d’autore e il corso di musical con M° Maria Grazia Fontana.
Il Saint Louis conferma la propria identità,
ormai punto di riferimento per la didattica in
Italia, una struttura che ogni anno si rinnova, si aggiorna in base alle esigenze del mercato professionale proiettandosi con fermezza in un contesto europeo senza però
perdere la propria caratteristica fondamentale, il rapporto umano, professionale e
didattico che si crea con e fra gli allievi. Non
a caso è la prima ed unica in Italia ad aver
conseguito la presa d’atto del Ministero
dell’Istruzione, Università e Ricerca e ad
essere accreditata e autorizzata per i corsi
di formazione professionale riconosciuti
nella Comunità Europea.
ITALIANI A TIRANA
R
itorna Salento Musica E Parole, l’evento che offrirà il palcoscenico a cinque cantautori della cosidetta My-Space Generation: Luca Bussoletti (nella
foto), Roberto Casalino ed i salentini NicCo Verrienti, Ka
Bizzarro e Giulia Led. Un cast importante ed una novità.
Oltre alla serata del 14 ottobre nel centro storico di
Lecce presso il Road 66, Notas Music Factory esporta il
talento italiano nella vicina Albania. Questi giovani artisti,
veri e propri fenomeni in internet, registrano migliaia di
contatti nei loro «space» e girano in lungo ed in largo la
nazione. Notas Music Factory, con il supporto dell’Imaie
che ha creduto fortemente nell’iniziativa, ha portato questo collettivo di cantautori a Tirana per un concerto-evento il 12 ottobre in un Palazzetto dei Congressi che si preannuncia già tutto esaurito.
Ubix Rock il
BONDE DO ROLE
l mondo dell'elettronica fa dell'innovazione e della ricerca il proprio fine
supremo. A volte, però, la ricerca si
spinge così in avanti da tornare
indietro fino alle nostre origini. È il caso
curioso e riuscitissimo dei brasiliani Bonde
Do Role, che mischiano la loro musica tradizionale con la dance e l'elettronica più
accattivante. Il terzetto proviene dal sud
del loro paese, Curtiba, e il loro nome, che
dal portoghese si traduce in “crew del
Role”, cita il bar in cui si sono formati sia
come band che come ragazzi di strada. Ma
di strada ne hanno fatta tanta: possono
vantare, infatti, di essere stati scoperti da
Diplo, uno tra i nomi più potenti della musica elettronica a stelle e strisce. Proprio
per la sua etichetta, la Mad Decent, è uscito il loro primo album ufficiale intitolato
“Bonde Do Role With Laser”. La serata al
Circolo degli Artisti si prevede calda e
movimentata. Non a caso i Bonde Do Role
sono definiti dalla critica i re del Baile-Funk
e chiunque sia stato ad un loro live giura
che si tratta di un'esperienza quasi tattile.
I
29/10 Circolo Degli Artisti
freepress Ubix organizza una festa Rock in cui si
esibiranno quattro tra le band più importanti del
settore. Domenica 11 novembre al Jailbreak ci
saranno gli Endorphyn, i This Void Inside, i Glassmode e
soprattutto i Belladonna. Questi ultimi sono la band italiana numero uno su Myspace dove stanno collezionando numeri impressionanti: 300 mila visite alla loro pagina e oltre 53 mila fan registrati. I ragazzi sono di Roma
ma la loro musica li ha portati ad oltrepassare spesso i
confini italiani. Il 23, 24 e 25 novembre per esempio
saranno a Londra per suonare al prestigiosissimo festival Erotika in apertura allo show della controversa spogliarellista Dita Von Teese di fama mondiale. Il loro ultimo video, Mystical Elisian Love, è stato girato interamente a Berlino ed è soprattutto negli Stati Uniti che si
trovano i loro fan. Il concerto avrà un ingresso di 5 euro
e si prospetta come una lunga marcia di due ore di puro
rock energico a spasso tra la sensualità del genere e
l’atmosfera gotica che aleggerà in tutta la sala.
MISS KITTIN
dj donna vanno molto di moda, sono
cool. Questo però non significa che
siano tutte uguali e con lo stesso spessore artistico. C'è chi si è buttata nel trend
improvvisandosi e chi è una vera e propria
stella. La francese Miss Kittin appartiene
alla seconda categoria, forse anche perché
ha iniziato la sua attività a metà degli anni
Novanta quando, a fare le dj, di donne non
c'erano. Al secolo Caroline Hervè, oggi trentunenne, svolta la sua carriera incontrando
Michel Amato, alias The Hacker, che la porta
al successo e a grandi collaborazioni con
nomi del calibro di Felix Da Housecat, Detroit
Grand Pubhas, Sven Vath e Golden Boy.
Miss Kittin è una delle regine incontrastate
del club-culture internazionale. Il suo è un
genere che è stato definito electro-clash,
cioè la rivisitazione degli anni Ottanta in chiave techno-d'n'b, e parte del successo è dovuto proprio ai live in cui spicca, sotto ai ritmi
incalzanti, la sua immagine soft-fetish che la
rende inconfondibile. 27/10 Brancaleone
le
J A&ZbluZes
a cura di ROSSELLA GAUDENZI
Music In
Ottobre Novembre 2007
BACALOV: DEL CINEMA,
DEL CASO E DELLA NOIA
LUIS BACALOV L’intervista al mostro
sacro argentino. Ma anche un po’ romano.
MAX ROACH Il re delle bacchette passa in cavalleria. Muore e i media italiani se lo scordano.
Luis Enriques Bacalov, quello del Postino, che ha consegnato al
mondo colonne sonore, jazz e tango, è diventato quello che è oggi per
puro caso, dice, senza fatica. Ma col grande istinto di un innamorato
L
uis Enriquez Bacalov: inseriamo su un
qualsiasi motore di ricerca queste due
parole chiave e si apriranno migliaia di pagine a
soddisfare le nostre curiosità sulla biografia di
uno dei maggiori pianisti, compositori, direttori
dorchestra, maestri del tango contemporaneo di
tutti i tempi. Che immediatamente la nostra
memoria collega alla celeberrima vittoria
dell’Oscar come miglior colonna sonora del ‘94
del film Il Postino.
Questo mostro sacro della musica non nasce esattamente a Buenos Aires, bensì in una sorta di
periferia che lui stesso paragona alla banlieu parigina, quartieri al di fuori del raccordo della magalopoli argentina, il 30 agosto del 1933. A casa si
vuole che studi il pianoforte, e Luis lo fa talmente bene da far poi ricadere su di sé la pretesa di
diventare un pianista classico di professione.
A questo punto non ci sta. E dato che il suo animo
argentino fa sì che abbia una propensione connaturata per la musica a trecentosessanta gradi, e
non solo per un determinato modo di far musica
che lo inchiodi allo studio accademico fino allo
sfinimento e all’alienazione - questo avrebbe
significato per lui diventare un pianista classico si è fatto guidare da un istinto che lo ha portato
nella nostra Europa.
Anni Cinquanta: trascorre tre o quattro anni a
Parigi. Dopodiché approda nella Città Eterna
nella quale vive ormai da oltre quarantanni.
Perché Roma? Non ci sono sentimentalismi alla
base di questa scelta. Ma il caso, elemento talmente ricorrente nella vita di Luis Bacalov da
poterlo considerare un suo tratto distintivo. Si trovava allora a Parigi, studiava composizione e suonava musica leggera per vivere; un amico, can-
tante venezuelano, gli parla di un contratto trimestrale molto ben pagato per andare a suonare a
Roma. È estate, l’idea può essere allettante quando puoi lavorare e contemporaneamente far trascorrere delle vacanze fuori dall’usuale a tua
moglie e ai tuoi due bambini, quindi si accetta
con entusiasmo, e la villeggiatura si prospetta
suddivisa tra Capri, Rimini e Roma.
A fine settembre si sta per chiudere la parentesi
dell’esperienza musicale italiana. Quando, il
giorno prima di rientrare in Francia, un musicista conosciuto a Roma chiede a Luis di fare un
provino per un artista già noto all’epoca:
Claudio Villa.
Quel giorno non avevo realmente nulla da fare.
Le valige erano pronte. Attendevo la partenza,
dovevo in qualche modo ammazzare la noia.
Inutile dire che il provino sia andato straordinariamente bene, e che per la famiglia Bacalov si
prospetta la possibilità di una vita maggiormente
agiata, perché il compenso di 30 mila lire al giorno, a fine anni Cinquanta, è realmente un compenso da capogiro.
C’è un clima perfetto in Italia, in quegli anni.
Dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione per
ricrearla, l’Italia del boom economico e della
ricrescita degli anni tra la fine dei Cinquanta e i
primi dei Sessanta; eppure la scelta di rimanere
viene fatta anche in base ad un confronto con una
Francia impegnata nella guerra in Algeria che sta
divenendo sempre più xenofoba. Roma ha
l’aspetto di una piccola città di provincia, se confrontata con la cosmopolita, imperialistica ed
arrogante Parigi. E quale spazio dedica alla musica la Roma di quegli anni?
Sebbene attiva in misura inferiore rispetto ad una
città come Milano, e sebbene nei quartieri centrali dopo le ore 23 ci fosse il nulla, quasi un vero
e proprio coprifuoco, la realtà musicale romana
era in fermento e soprattutto si capiva che era in
crescita. Il jazz negli anni Sessanta era vitale, me
lo testimoniava Gato Barbieri, del quale ero
molto amico.
Ma per Luis Bacalov è ormai giunto il tempo dellincontro con il cinema. Egli ha avuto la fortuna
di scrivere musica da film quando il cinema italiano era il cinema, avendo il privilegio di conoscere e lavorare con i migliori registi di tutti i
tempi: Pierpaolo Pasolini, Federico Fellini, Elio
Petri, Ettore Scola, Francesco Rosi, Damiano
Damiani. Egli stesso lo definisce un momento
artisticamente non più ripetibile.
Un elemento di grande dinamismo, a quei tempi,
era rappresentato dalla forza del Pci: l’80 per
cento dei cineasti era di sinistra, di cui il 50 per
cento comunisti; la fine del grande sogno e la
caduta del muro di Berlino ha causato la fine della
spinta creativa ed ha portato un profondo senso di
smarrimento nella vita di molti. Tutto da allora è
un po più tiepido, edulcorato.
Tra le ultime fatiche, in qualità di compositore di
musiche da film, Luis Bacalov può vantare il contributo ad un film solido, sostanzioso: Hotel
Meina di Carlo Lizzani, che narra la prima strage
di ebrei in Italia presso Baveno da parte delle SS.
Film fuori concorso a Venezia, che ha ricevuto
una ovazione in piena regola, dieci minuti ininterrotti di applausi.
Parallelamente il lavoro per la televisione: uscirà
a breve per la Rai un film in due puntate sulla vita
di Caravaggio. Forse il miglior lavoro televisivo
che abbia fatto in vita mia.
Tra i musicisti grandi autori di colonne sonore, ha
parole di forte stima e ammirazione per Ennio
Morricone, che conosce da quando ha iniziato a
lavorare per la Rca. Nonostante si frequentino
poco, è un amico ed un maestro, avendogli fatto
capire come funzionino i meccanismi della creazione musicale per il cinema. Tra i giovani, è probabilmente Piovani il compositore che più degli
altri ha arricchito validamente il panorama delle
colonne sonore.
Due parole sul tango, altra grande passione. Si
potrebbe dire che l’amore per il tango gli argentini ce l’hanno nel sangue, eppure per Bacalov è
sopraggiunto in età adulta, verso i quarantacinque anni; ha scritto due opere di tango e al
momento lavora ad un quartetto insieme a
Giovanni Tommaso. Preferisce ribadire che gli
argentini sono musicalmente onnivori. Hanno la
capacità di spaziare senza rimanere ancorati a
binari fissi; chissà che proprio grazie a questa
visione della vita, la sorte non abbia voluto tendergli la mano. Nella mia vita professionale,
tutto, ma proprio tutto, è avvenuto per caso. È
stato il destino a venirmi a bussare. Non cè stata
fatica, mi sono sempre trovato al posto giusto nel
momento giusto.
ROSSELLA GAUDENZI
I BRADIPI SIAMESI E ALTRE STORIE
M
Max Roach muore e i media lo ammazzano
ax Roach è morto a New York il 16
agosto a 83 anni. Mi scuseranno i
lettori il fatto personale: l’ho appreso mentre ero in Francia, la radio nazionale ha
dato l’informazione in apertura del notiziario, la tv idem. La famiglia della quale ero
ospite, non straordinariamente edotta in
fatto di cultura musicale, lo conosceva
bene, almeno di nome.
Da noi, le agenzie di stampa hanno battuto la notizia di rimbalzo in modo piuttosto
sciatto. I guru del giornalismo musicale italiota, i soliti noti, forse fiaccati dal sole agostano e vacanziero si sono limitati a tradurre e a far collage dei pezzi dei loro ben più
bravi e informati colleghi stranieri (leggi
l’Independent, come il New York Times,
come El Paìs, e potremmo continuare).
I tiggì nazionali, che pure beneficiano in
agosto della pausa della politica per
dispensarci trite notizie su come idratarci
dopo il mare, sulle dosi di frutta e verdura
da ingurgitare, sulla curiosa storia dei cuccioli di bradipo siamesi nati in Indonesia,
hanno ignorato del tutto la notizia della
scomparsa di un gigante della musica,
prima ancora che del jazz. Perché?
Ma Max Roach non ha sempre riempito
i teatri di tutta Europa, Italia compresa,
ogni volta che si è affacciato per regalarci
la sua musica? È o non è unanimemente
riconosciuto dalla sedicente critica come
una pietra miliare del jazz (cioè della più
vitale e innovativa musica del Novecento),
cofondatore dell’hard bop, rivoluzionario
per eccellenza nel drumming e innovatore
dell’impianto ritmico jazzistico?
Quindi, più che da un necrologio - e quando si parla di arte non ci piace parlare di
morte - è per una volta forse il caso di iniziare a parlare di un grande che scompare
a partire dal silenzio delle idee, dalla desertificazione culturale che sempre più dilaga
nei media nostrani che pretendono di
informarci, dalla dolosa ignoranza editoriale che si abbatte su tutto ciò cui non è
ricondotta una funzione economicamente
produttiva immediatamente evidente
(pensare costa fatica).
La carriera lunghissima di Maxwell
Roach inizia al fianco di Bird nei locali della
52a strada a NYC ed ha attraversato da
protagonista cinquant’anni di musica
afroamericana; una carriera che non ha
snobbato incursioni nelle nuove tendenze
hip hop e in avanguardistici progetti multimediali nel corso degli anni Ottanta.
Sarebbe, peraltro, ingrato voler identificare una tappa piuttosto che un’altra
come più significativa di un artista che
ebbe modo di dichiarare, a proposito della
propria visione musicale: «Non si può scrivere lo stesso libro due volte. Nonostante
io abbia partecipato a situazioni musicali
storiche, non potrei tornare indietro e farlo
di nuovo. Penso di andare da una crisi artistica ad un’altra e questo mantiene la mia
vita interessante».
Ciò che non si può però ignorare è la
nuova concezione con la quale egli intese,
nel contesto di un ensamble musicale, la
batteria, la cui funzione trasformò da
subordinata a melodico solista, a funzione
organica e lirica sempre al servizio della
musica prodotta. Attentissimo all’armonia
e allo sviluppo del linguaggio musicale,
Roach diede uno statuto autonomo alla
batteria in grado di dialogare con gli altri
strumenti conferendo loro una forza e una
«spinta» nella fase improvvisativa straordinariamente rilevante.
Da allora il bop, meglio il be bop suonato
da Gillespie e Parker, non fu più lo stesso.
Si riempì di uno swing nuovo ed aggressivo
(che un’etichetta contestata battezzò hard
bop) in cui confluirono gli elementi ritmici
più propri del funk, del rhythm and blues e
del soul, unitamente al ricorso ai tempi
dispari e al largo uso di poliritmie in grado
di muovere le intere fondamenta armoniche dell’esecuzione.
Ma la musica si ascolta e sa comunicare
emozionando, per cui il consiglio non può
essere se non quello di prendere qualcuna
delle registrazioni storiche di Roach (Birth
Of The Cool di Davis, tutte le registrazioni
con lo storico quintetto con Clifford Brown,
We insist! Freedom Now Suite, Drums
Unlimited, ad esempio), e capire perché
con l’hard bop il jazz tornò a essere musica
da ballo, sempre presente nei juke box di
Harlem e nelle radio popolari.
Quelle i cui editori capivano davvero cosa
la musica popolare, meglio la musica tout
court, fosse.
di PAOLO ROMANO
Music In
J A&ZbluZes
Ottobre Novembre 2007
L’EDITORIALE DI STEFANO MASTRUZZI
I sottobicchieri italiani firmati da Giovanni Allevi e «DIRITMI» Movimenti che si battono per far EUROPA Cè qualcosa di più fuori l’Italia.
Luigi Einaudi e il miracolo del peer-to-peer
Investimenti e jazz accessibile
ascoltare la musica anche al Legislatore
«TOSTO» UNA LEGGE
PER I MUSICISTI
SOTTOBICCHIERI (SOLO) ITALIANI
segue dalla prima pagina
(...) D
evo dire che la colonna
sonora da lui composta
per il film Luce Dei Miei
Occhi era di per sé un discreto commento
all’azione anche se basato su un unico spunto tematico per l’intero film; un po’ ripetitivo, ma almeno in quel caso c’era una storia
da seguire che distraeva dalla musica.
Ma la moda del momento è Giovanni
Allevi che blasonate firme giornalistiche, e
questo è grave, continuano a definire un
grande jazzista. Questo signore non improvvisa una nota - meno male - e certamente non
può essere definito un jazzista; con questo, a
parte sottolineare un’erronea collocazione
stilistica, non voglio certo declassare il suo
lavoro solo perché non va considerato un jazzista, anzi.
Molti musicisti, con la scusa di fare jazz, ci
ammorbano con infinite improvvisazioni
sensa senso, un fluire continuo di note che
denota l’incapacità di «fermare» una melodia, di «scriverla» nel senso più creativo del
termine.
Da un punto di vista compositivo nei
dischi di Allevi troviamo, a differenza di
quello di prima, alcuni spunti originali che
potrebbero e dovrebbero essere sviluppati,
ma si tratta sempre di ben poche note in un
mare di fragranze stucchevoli già sentite.
Però ci sa fare con la gente, la affascina con i
suoi monologhi e con l’aneddotica della
genesi mistica dei suoi brani.
E si sa che quando un pubblico non riesce
a distinguere una rapsodia di Brahms dalla
suoneria di un cellulare, sarà proprio quello
stesso pubblico ad andare in visibilio e in
lacrime quando l’artista racconterà di come
una melodia sia giunta dal cielo alla sua
mente attraverso l’autobus che lo portava a
casa in una malinconica giornata di pioggia.
E se riuscirà anche a piangere mentre esegue
quella melodia dal vivo, e vi assicuro che ci
riesce, sarà l’apoteosi consacrante. C’è proprio da piangere.
Aldilà dei casi specifici, è sintomatico che
in Italia certi fenomeni privi di spessore alcuno si impongano senza motivo; sembra di
assistere all’entusiasmo di genitori e parenti
che applaudono la poesia recitata dal nipotino di quattro anni, che ha da poco imparato
a parlare. Ma se la musica non ce la insegnano nelle scuole, perché la scuola ne è priva
dalle elementari alle superiori, se escludiamo
quelli che la amano, se la studiano e se la
conquistano per conto proprio, agli altri,
diguni, sembrerà sempre geniale il primo
cretino che suona dieci note in fila; se poi
questo musico si atteggerà ad artista maledetto si griderà al miracolo e allora Pippo
Baudo lo inviterà in televisione e il personaggio assurgerà immeritatamente a successi
immediati.
Ma provate a esportare questi fenomeni
tutti italiani all’estero, perlomeno in certi
paesi dove la musica la si conosce davvero e
dove non è possibile bluffare troppo a lungo.
«Popolo italiano, apri le orecchie e ascolta la
musica, non solo quella che propone il palinsesto televisivo di prima serata o che trionfa
a piene pagine sui giornali; anche i giornalisti possono sbagliare… le sale da concerto e i
live club sono il posto ideale per coltivare
una coscienza autonoma dell’emozione
musicale». È vero che il gusto e l’esperienza
personale sono il primo filtro con cui ciascuno approccia l’arte, ma c’è una sostanziale
differenza fra apprezzare qualcosa che altri
non gradiscono (de gustibus) e prendere un
abbaglio per scarsa conoscenza in materia.
Esistono tanti bluff nel campo artistico, ma
è anche giusto che ci siano e che trovino spazio in un mondo intellettualmente libero;
possiamo solo augurarci che un giorno
abbiano esattamente la collocazione e la considerazione che meritano.
Non finirò mai di ringraziare la tecnologia
e l’mp3 in particolare - stasera ho potuto
valutare la musica prima di comperarla -,
fortunatamente in Italia la Cassazione non lo
considera reato in assenza di un fine di lucro;
ciò mi ha evitato un incauto acquisto di alcuni compact disc che comunque avrei potuto
sempre usare come sottobicchieri.
Stefano Mastruzzi
La
Creato un Comitato e un Manifesto per colmare il vuoto legislativo:
la legge 1967 è tutta inadeguata a gestire la promozione della musica
THE WILLIE DIXON
SONGBOOK
a non perdere questo tributo
a Willie Dixon, il «gigante
buono del blues» nato nel
Mississippi nel lontano 1915 e
scomparso nel 92. Prolifico e corpulento songwriter, oltre ad essere
stato contrabbassista, poeta di
strada, produttore, arrangiatore,
talent scout con il quale, consapevoli o no, quando si parla di blues ci
si va ad imbattere. Autore di circa
250 pezzi, tra cui Hoochie Coochie
Man, My Babe, Whola Lotta Love
ed altri celebri brani. Ma non è
tutto: ha ispirato gruppi rock della
levatura dei Cream (Spoonful),
Doors (Back Door Man), Led
Zeppelin (I Cant Quit You Babe).
Verrà questa sera interpretato da
un quartetto di casa al Big Mama:
Lello Panico, Luca Trolli, Mick Brill,
Franco Vinci. Lello Panico (chitarra),
D
Mick Brill (basso), Luca Trolli (batteria),
Franco Vinci (chitarra) 10/10 Big Mama
INFO 06 5812551 H 22.30
musica, pur essendo parte integrante
della nostra storia e della nostra identità nazionale, è poco conosciuta e per
niente praticata. Due esempi chiariscono bene
questa contraddizione. La forte tradizione culturale della musica italiana, dicevamo: ho un amico
tedesco che ha imparato litaliano attraverso
l’Opera e per telefono mi dice: «Spero che verrai
tosto a Berlino» oppure «Stasera avevo un grande
desio di pizza»; d’altra parte, l’analfabetismo
musicale di ritorno per noi italiani: le nostre scuole di perfezionamento musicale sembrano riservate a giapponesi e americani (scuole utili e attraenti
evidentemente, ma non abbastanza per gli italiani).
Da tempo alcuni professionisti del settore si sono
posti questo problema: «La musica è benessere, è
qualità della vita, è socializzazione, è arte, è piacere». Ed è un argomento che in Italia ha un grosso
vuoto legislativo se si pensa che la legge che disciplina la materia ormai ha 40 anni. Per questo, riunitisi in un comitato, si sono fatti promotori di un
Manifesto nel quale ripercorrono le aspettative del
settore in materia di promozione, formazione, diffusione della musica in tutti i suoi aspetti, nonché
delle condizioni di quanti vi operano.
Trovato un primo riferimento politico nella
Commissione politiche giovanili del Comune di
Roma, il comitato sta cercando di mantenere viva
una pressione democratica, sia attraverso un dibattito serrato sulle proposte di legge depositate in
Parlamento, sia attraverso la mobilitazione di
coloro che sono interessati, con concerti ed eventi.
All’Auditorium Teresa De Sio, Avion Travel,
Grazia Di Michele, Mimmo Locasciulli,
l’Orchestra di Roma e del Lazio, Simone
Cristicchi, Giovanna Marini hanno chiuso la Festa
del Diritto alla Musica.
«Le aspettative sono reali»,
ci dice Tonino Tosto, uno dei
membri del comitato, che
presto incontrerà Pietro
Folena (nella foto), presidente della commissione Cultura
della Camera, «perché la legge del 1967 è del tutto
inadeguata a gestire la promozione della musica.
Pensiamo ai fenomeni che scaturiscono dall’uso
delle nuove tecnologie: da un recente sondaggio
commissionato presso le biblioteche romane si è
evidenziato che i giovani scaricano da Internet una
quantità di musica enorme, fino a costruire archivi
di files che in cd riempirebbero intere stanze. Se
c’è gente che scarica musica, vuol dire che la
musica è un bisogno individuale e ne va garantita
l’accessibilità; bisogna considerare, però, che è
anche professione per autori ed esecutori».
Educazione, nuove forme di reclutamento degli
insegnanti, agevolazioni fiscali, riforma della Siae
e del diritto d’autore, costituzione di spazi idonei,
perché, continua Tosto, «la musica non è una
modalità espressiva solitaria, ma collettiva, e
necessita di luoghi di condivisione»: sono queste
le richieste del Comitato, che va allargando i consensi e il raggio d’azione: partito da Roma, infatti,
sta preparando iniziative analoghe a Milano e
Napoli, fino a coinvolgere i vari Festival musicali
sparsi per la penisola.
Forse si potrebbe pensare anche a un livello sovranazionale: in fondo la musica è il linguaggio più
«contaminato» e un confronto con la legislazione
degli altri Paesi europei a riguardo non potrebbe
che rafforzarne il suo carattere universale.
di NICOLA CIRILLO
Brussels,
la musica che
smuove i fedeli
GEGÉTELESFORO&
GROOVINATORS
ossiamo liberamente definirlo
il jazz vocalist italiano più quotato ed apprezzato a livello
internazionale, appassionato cultore della black music con grande
capacità di spaziare tra blues, jazz,
funk. Alla quale può aggiungere
l’esperienza di chi con il pubblico ci
sa fare, collaudata da anni ed anni
divisi tra televisione, radio, palcoscenici sparsi per il mondo. Doppio
concerto a Roma per presentare
l’ultima fatica, l’album Love And
Other Contradictions, ricco della
voce dell’ottima Mia Cooper, vocalist di New Orleans e testimone di
una svolta decisa, in questo disco,
verso la musica nera. Una band
talentuosa, i Groovinators (Bottini,
Deidda, Zeppetella, Surace) scelti
con cura per un repertorio di brani
nuovi di forte impronta funk (da
essere paragonati all’opera migliore degli Earth, Wind & Fire) e tre
nuovi arrangiamenti: una splendida
versione bossa nova di Rule Of
Thumb di John Scofield, Here But
I’m Gone di Mayfield e un’avvincente Air Mail Special di Benny
Goodman. GeGè Telesforo (vocals, per-
P
cussioni), Mia Coopers (vocals), Max
Bottini, (basso), Fabio Zeppetella (chitarra), Marcello Surace (batteria), Alfonso
Deidda (pianoforte, tastiere, sax alto &
soprano, vocals) 10-11/10 Casa del
Jazz INFO 06 704731 15
Mentre in Italia sembra impensabile rendere
accessibile il jazz al popular, nel nord Europa
crescono festival competitivi che investono
nella musica, destinati ad essere temibili rivali
dei classici luoghi del jazz senza una lira
di ROSSELLA GAUDENZI
il
cuore dell’Europa ama fortemente il jazz.
L’ho toccato con mano quest’anno, a fine maggio, quando ho avuto la fortuna di visitare
Bruxelles, assistere al concerto della Dave Matthews Band e godermi qualche appuntamento
della Dodicesima Edizione della Brussels Jazz Marathon. E non è mai troppo tardi per discuterne, perché ci sono numeri che parlano ancora e inequivocabilmente chiaro: una piovosa tre
giorni di concerti tra le quattro grandi piazze della città (Grand-Place, Sablon, SainteCatherine, Place Fernand Cocqplein) e una cinquantina di locali tra bar, caffè, club, alberghi.
Un totale di 125 concerti, oltre 450 musicisti e più di 250 mila spettatori. Non paganti.
Perché la nordica Bruxelles mostra una forte apertura nei confronti della musica e la capacità coraggiosa di sapervi investire. Il ritorno c’è: dal debutto ad oggi il pubblico è in crescita e
si può ormai parlare di un evento che attira spettatori internazionali, non più soltanto europei. La scelta musicale di questa manifestazione - a ragione definita densa - è assai ampia,
spaziando dal Traditional al Modern Jazz, dal Blues al Rock ai ritmi latini.
Non solo: ci si muove agilmente per la città grazie agli speciali autobus che intensificano le
corse; quindi si può saltellare da un capo all’altro di Bruxelles, passando da un palco all’aperto che ospita una Big Band ad un interno dove ci attende un piccolo gruppo d’avanguardia,
nei tempi ragionevoli di una maratona vera e propria.
L’inaugurazione dell’ultima edizione è stata affidata al vernissage della mostra Jazz Is Female
di Cédric de Lièvre; a seguire tre grandi concerti sulle grandi piazze, per terminare nelle
medesime piazze tre notti dopo.
Questi sono dati. Ma si può, e a mio avviso si dovrebbe, parlare della bellezza della capitale
belga durante la Brussels Jazz Marathon. Delle piazze strabordanti di persone che si muovono tra bianchi tavolini di plastica e gente, gente ovunque: viuzze affollate; ristoranti, bistrot,
caffè zeppi; ombrelli aperti e richiusi decine di volte al giorno ad aumentare il colore di una
città che non faccio fatica ad immaginare grigia e mesta per la maggior parte dell’anno.
Una rassegna musicale di grande qualità può significare molto per una capitale europea che
non si chiama Roma, Parigi o Londra. Se un evento nato per il pubblico di un genere musicale
specifico è realmente ben confezionato, vince la sfida e diviene, con il passare degli anni, un
importante appuntamento fisso, di sempre più ampio respiro.
Che la musica muova masse insospettabili di fedeli è ormai fatto assodato.
Che una determinata musica muova masse insospettabili di fedeli è stata una piacevolissima
sorpresa. Il concerto più avvincente a cui abbia assistito è stato quello festoso della Daniel
Romeos Band con Rosario Giuliani quale special guest.
A Roma, il nostro artista verrà ospitato allAlexanderplatz, alla Casa del Jazz, all’Auditorium.
Perché qui la musica jazz è musica jazz e sembra impensabile renderla più accessibile, da
farla diventare popular.
Peccato.
J A&ZbluZes
Music In
JOE ZAWINUL Sono uno
zingaro ma muoio a casa mia
FUGA A TRE In tempi come questi la
fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi
JOE ZAWINUL:
LO CHAGALL
DELLA MUSICA
Ottobre Novembre 2007
CONCERTI Arrivano anche Ribot
dal New Jersey e Fonseca da Cuba
BISEO-SANTJUST QUARTET
l punto di forza del quartetto è rappresentato dalla presenza
del clarinetto solista di Gianni Sanjust, elemento sfruttato
all’insegna della raffinatezza e del pianoforte sognante di
Riccardo Biseo. Il repertorio vuole proporre i classici del jazz, affidati a musicisti di fama internazionale e grande esperienza. Si può
definire un concerto per tutti, con brani scelti in un ventaglio che
va dagli anni Venti ad oggi, arrangiati con gusto e con quella linearità che li rende comunque riconoscibili. Gianni Sanjust (clarinetto),
I
Riccardo Biseo (pianoforte), Giorgio Rosciglione (contrabbasso), Lucio Turco
(batteria) 20/10 Charity Caf INFO 06 47825881 H 22
TOLLAK&LELLOPANICOBLUESBAND
J
randi nomi. Tollak Ollestad, eccellente armonicista e pianista,
è dotato di una vocalità strepitosa che ne fa un importante
interprete delle sonorità blues, soul e funk, già al fianco di artisti come Al Jarreau, Billy Idol e Natalie Cole. Di casa al Big Mama,
il chitarrista Lello Panico può vantare un tocco invidiabile, un’ottima tecnica ed una resa dal vivo sempre gioiosa, valorizzata da un
forte feeling che lo lega al batterista Luca Trolli. Ormai collaudato,
il quartetto (Tollak, Panico, Trolli e Puglisi) è garante di un concerto carico e coinvolgente. Tollak (voce, armonica, tastiere), Lello Panico
g
di PAOLO ROMANO
oe Zawinul è morto nella sua Vienna proprio dove era nato settantacinque anni fa, il
7 luglio del 1932, dopo aver fatto del viaggio, della conoscenza delle culture etnomusicali
sparse nel mondo, senza confini e pregiudizi, il
proprio segno distintivo: «Sono uno zingaro da
sempre - ha detto una volta -, ho avuto una vita
fortunata e sono felice». Merito, forse, delle sue
origini meticce che facevano confluire in lui sangue ungherese, ceco e rom, merito anche di quella
Vienna così ancora fortemente mitteleuropea;
fatto sta che Zawinul ha saputo, con le sue immancabili coppole coloratissime e i suoi occhi curiosi
ed ironici, deviare un affluente di quel grande
fiume carsico che è il jazz per dare vita al primo e
più convincente esempio di musica fusion.
Un’infanzia quella di Joe (all’anagrafe, Josef
Erich) all’insegna di spostamenti coatti determinati dai bombardamenti della guerra, per poi finire giovanissimo talento, polistrumentista, affascinato
dalla musica classica, popolare, folk e dai nuovi
suoni doltreoceano - ad esibirsi nelle basi americane sparse qua e là per l’Europa (e qui, gli storici
sapranno collocare l’importanza di quella presenza militare e la diffusione dei cosiddetti V-disc per
l’affermazione e la diffusione del jazz nel vecchio
continente).
Joe non si è mai accontentato di un linguaggio
convenzionale, fosse esso classico o jazzistico,
sempre alla ricerca piuttosto di un canone diverso
di espressività. E la storia ha riservato a questo
grande il talento e la fortunata congiuntura di trovarsi al fianco di Davis al momento della lavorazione di quella pietra miliare che sarebbe diventato In A Silent Way, brano scritto dallo stesso
Zawinul. Sedotto dalle potenzialità dell’elettronica applicate alla musica (e non viceversa), seppe
da subito trovare una nuova coniugazione alla
fusione tra rock e musica afroamericana, che consolidò nel 1971 con i suoi Weather Report fondati
insieme a Wayne Shorter. Il suono delle sue tastiere diventava spesso etereo, visionario e quasi
metafisico in contrasto con una ritmica potentissima ed esplosiva. Una sorta di Chagall della musica, come ha sottolineato molto acutamente il
Downbeat non molto tempo fa. Mercy Mercy
Mercy, Birdland, Black Market sono solo alcune
tra le sue più note composizioni.
La sua intuizione più importante fu probabilmente
quella che per trovare nuovi suoni, nuove energie
interne alla musica, non era più sufficiente ascoltare con curiosità tutta la world music, ma occorreva viaggiare e nel viaggio trovare giovani - spesso giovanissimi - musicisti che lo potessero affiancare nella scrittura, nell’arrangiamento e nell’esecuzione dei nuovi album.
È in questo fermento sperimentale che nacque nel
1988 un album splendido e complesso come The
Immigrants, con la formazione in continuo cambiamento dei Syndacate. Il primo tour fu un successo superiore alle aspettative e gli consentì di
continuare a portare avanti il proprio laboratorio
musicale. Il lavoro con lo Zawinul Syndacate si
ascolta in album dai titoli più che significativi:
Brown Street, Dialects, My People, fino all’ultimo
Faces And Places.
Quest’ultima fatica con i Syndacate, pubblicata da
pochi mesi e che - per chi ha avuto la fortuna di
esserci - ha presentato in uno degli ultimi concerti
a Villa Celimontana a Roma lo scorso luglio, s’inserisce proprio nel solco di quest’ininterrotta ansia
di ricerca. Faces And Places è il frutto - come ha
raccontato lo stesso Zawinul in una lunga intervista al NYT - di un viaggio lunghissimo attraverso
la Tunisia, la Nuova Caledonia, l’India e la Russia,
e che riassume, in splendidi brani come Tower Of
Silence o Rooftops Of Vienna, lo spirito malinconico e fresco insieme con il quale questo eterno
ragazzo si è sempre rivolto con divertimento,
curiosità ed umiltà alla musica e al suo mondo.
c
lasse 75, cubano dalla
rapida ascesa, il pianista
Roberto
Fonseca
(Robertico per i suoi conterranei) deve la sua notorietà
al fortunato incontro con la
band del Buena Vista Social
Club e poco meno di dieci
anni fa già affiancava nomi
del calibro di Herbie
Hancock, Wayne Shorter e
Michael Brecker. All’interno
del ciclo di concerti Solo
dell’Auditorium, presenta
Zamazu, il quarto album solista con il quale si consacra
finalmente come tale. Il titolo del disco nasce da un
gioco di parole della nipotina
e dà efficacemente l’impronta all’opera, fondendo funky,
soul e jazz. La tradizione
cubana che incontra il jazz in
un gioco di contrasti: calore
ed improvvisazione, spiritualità e ritmi ballabili. Il tutto
impreziosito dal contributo
di Carlinhos Brown, Toninho
Ferragutti, Vicente Amigo,
Orlando Chachaíto Lopez,
Manuel Guajiro Mirabal.
Questa sera, a tu per tu con
il pubblico dell’Auditorium.
Roberto Fonseca pianoforte. 21/11 Auditorium Parco
della Musica Teatro Studio INFO
199.109.783 H 21 15
RIICCCCAARRDDOO F
FOONNSSEECCAA
R
(chitarra e cori), Francesco Puglisi (basso), Luca Trolli (batteria e cori) 3/11
Big Mama INFO 06 5812551 H 22.30
MARC RIBOT
esibizione in Solo dell’eclettico chitarrista del New
Jersey è un’occasione da non lasciarsi scappare qualora se ne vogliano assaporare l’inimitabile tocco e le
caratteristiche stilistiche. Noto ai più per la lunghissima
collaborazione con John Zorn con il quale ha fondato il movimento della Radical Jewish Culture, ha suonato accanto ai
più interessanti musicisti americani: Arto Lindsay, Don
Byron, Evan Lurie, Sun Ra Arkestra, Bill Frisell. Oltre ai quindici anni di sodalizio con Tom Waits. Ha manifestato interessi musicali disparati e esplicitato numerosi lavori da solista avvicinandosi alla musica cubana, al free jazz e alle
colonne sonore. 6/11 Auditorium Parco della Musica Biglietteria
l’
199.109.783 Sala Petrassi
LA
LA FUGA
FUGA PERFETTA
PERFETTA
R
igorosamente, quella che si fa in
trio. «Viaggio nell’arte dell’improvvisazione», che vuole ritrovarne le origini risalendo al remoto
canto gregoriano per giungere al
Free Jazz, a noi storicamente più
vicino ma non per questo più facilmente decodificabile.
Fuga A Tre, per l’appunto: è la
prima edizione di una rassegna che
prevede otto eventi musicali ospitati
presso la Sala Trevi di Vicolo del
Puttarello, in collaborazione con il
Gruppo Cremonini, con il patrocinio
della provincia di Roma ed il sostegno Imaie la Scaramuccia Srl.
Si inizia il 5 novembre e si chiudono i battenti il 12 per alternare
appuntamenti di musica world, elettronica, etno-jazz, classica, folk-jazz
e popolare; presenze iraniane, romane, campane, svedesi, lombarde,
lucane e pugliesi. Filo conduttore
della manifestazione sarà il linguaggio dell’improvvisazione, altalenando tra scrittura ed «imprevedibilità»,
con il fine ultimo di solleticare
curiosità e creatività in chi ascolta.
La prima serata ci cala nelle terre
iraniane, con il concerto Sarawantamburi d’Iran di un trio di musicisti
dalle diverse origini culturali magicamente comunicanti tra loro:
Mohssen Kasirossafar, Simonetta
Imperiali, Luigi Marino.
Il mondo che contamina il jazz
con la musica elettronica ci presenta
il progetto di prossima pubblicazione Slow Food Music 3: piano
(Francesco D’Errico), contrabbasso
(Daniele Esposito) e batteria
(Salvatore Tranchini) in linea con
l’idea di una musica da masticare e
gustare con la dovuta lentezza.
Apre il terzo appuntamento il
blues dei Serpente Nero, per lasciare
poi spazio al trio Berg-GwissPirozzi con il Lutte Berg Ensemble
che darà vita ad una felice commistione musicale Svezia-Italia densa
di chiaroscuro, di fredde atmosfere
nordiche, di calore nostrano.
Nel concerto Goldberg InJazz
Suite si viaggia nel tempo: progetto,
arrangiamenti e pianoforte di
Francesco Venerucci, Alessandra
D’Andrea al flauto e ottavino,
Daniele Basirico al basso elettrico e
contrabbasso. Partiamo da Bach e
Mozart per tornarvi, dopo esserci
persi fino a raggiungere il tango
15
argentino. In apertura di serata, il
trio Free Jazz del pianista Lorenzo
Di Lorenzo.
Ambientazioni lucane di folk-jazz
per il concerto del trio di Rocco De
Rosa: piano, fiati (Pasquale Laino) e
percussioni (Antonio Franciosa).
La rassegna si conclude con
l’esplorazione delle tradizioni balcaniche nel concerto Balkan Free
del trio che fa capo al pugliese
Carlo Cossu affiancato da Angelo
Olivieri (tromba) e Antonio
Iasevoli (chitarra).
Settimana ghiotta dunque, quella
di Fuga A Tre: al bando gli accostamenti scontati ed ovvi, per far posto
a eventi di qualità per tutti i gusti.
Si vuole mantenere alto il livello
di concentrazione del pubblico,
affinché venga rapito dal valore culturale della contaminazione musicale e sospeso, trasportato, dall’arte
dell’improvvisazione che da sempre
fugge ogni sorta di conformismo.
Viene in mente una frase celebre:
«In tempi come questi la fuga è
l’unico mezzo per mantenersi vivi e
continuare a sognare» (Henri
Laborit).
Music In
Ottobre Novembre 2007
PETER PAN IL MUSICAL Quello che vola. Quello che preferisce un’isola che non c’è alla nostra. Le interviste a Peter Pan,
Capitan Uncino e Spugna, tutti malati della stessa sindrome.
PETER PAN DA PINOCCHIO A
PETER PAN AL PASSO
MANUEL FRATTINI
DI FRED ASTAIRE
lo spettacolo più
visto nella stagione
teatrale invernale
2006-2007, con più di
135 mila spettatori e
con un tour estivo su
piazze e grandi spazi
aperti di tutta Italia.
Ritorna, per la stagione
2007-2008, Peter Pan
il Musical, capolavoro
nato dalla penna di
James
Matthew
Barrie: una produzione
totalmente italiana di
ATI Il Sistina in collaborazione con Teatro
Delle
Erbe-Officine
Smeraldo, che vede sul
palco un cast d’eccezione di 25 artisti, per l’innovativa regia di Maurizio Colombi.
Manuel Frattini è Peter Pan che, insieme a Claudio
Castrogiovanni (Capitan Uncino), Alice Mistroni (Wendy),
Riccardo Peroni (Spugna), una Trilly laser e un numeroso
corpo di ballo, canta lo storico concept-album Sono Solo
Canzonette di Edoardo Bennato, ri-arrangiato in versione
musical, insieme al nuovo singolo Che Paura Che Fa
Capitan Uncino, composto ad hoc dall’artista per l’occasione. Il tutto coordinato dal direttore artistico Arturo
Brachetti. Per il regista Maurizio Colombi «Peter Pan Il
Musical è uno spettacolo di ispirazione volutamente cartoonistica», un musical in cui gli attori volano attaccati a fili
(purtroppo visibili: volutamente?).
Manuel Frattini, artista completo, danzatore, cantante e
attore, ha trovato nel Musical il canale d’espressione a lui
più congeniale. È già stato Pinocchio, è già stato un fratello dei sette per le sette spose, un ballerino di Chorus Line
e ha cantato sotto la pioggia; ha aperto una piccola bottega degli orrori, tributato a George Gerwshin come farebbe
un americano a Parigi e ha debuttato come protagonista
assoluto in un musical da lui stesso ideato, Musical,
Maestro!.
Chi Peter Pan e chi Manuel Frattini? «Chi è Peter Pan
e chi sono io, dura da dire. Io sono molto Peter Pan, da sempre soggetto alla sindrome. In questo caso gioca a mio
favore e il ruolo riesce alla perfezione (modestamente)
anche un po’ per questa grazia: il bimbo che è in me verrà
sempre fuori nel bene e nel male perché obblighi e responsabilità sono un casino. Insomma, mi scordo di pagare le
bollette e faccio tutti questi macelli qui».
Cos il Musical per te? ˙Dico sempre di essere cresciuto al tempo di Fred Astaire, con la grande passione per il
Musical e tutti i film che c’erano all’epoca, negli anni
Cinquanta, l’Hollywood dei tempi: cose che da piccolo m’incantavano forse ancora di più dei cartoni animati, quando
di solito a quell’età gli altri guardavano programmi da
è
UNCINO
CLAUDIO
CLAUDIO CASTROGIOVANNI
CASTROGIOVANNI
è
passato
pure per
Gerusalemme
cantando e ballando, quando
ha
fatto
il
Musical Jesus Christ Super Star, e ha
conosciuto la first lady argentina Evita
Peròn. Nella finzione, ovviamente, ma
le ha ballate tutte, anche Grease mentre
si laureava in Legge e girava film come
Malena o Terra Rossa. Sarà che la vita
lo ha incattivito, ma ora Claudio
Castrogiovanni ha un uncino conficcato al posto della mano.
Tu che sei il suo nemico numero uno,
hai la sindrome di Peter Pan? «Sono
bimbo da tanti anni e resto tale. È
un’era in cui tutti ad avanzare verso la
vecchiaia non ci si abitua, e allora rifacimenti e cure estetiche: non siamo
disposti ad abbracciare l’avanzare del
tempo inesorabile. Il personaggio di
Uncino in realtà non vuole diventare
grande, ma è già grande e, nonostante
intorno il tempo sia immobile, solo lui
invecchia nell’Isola che non c’è.
Uncino è vecchio anche come spirito,
l’unico che avverte veramente inesora-
MUSICALL
TIC TAC Come batte l’orologio dentro un coccodrillo
bimbo. Sono cresciuto con questa grande passione non
invano perché ho potuto incontrare la compagnia della
Lancia, che è una pioniera nel genere Musical in Italia. Da lì
ho promesso che non si libereranno più di me».
Cosa ne pensi di programmi come Amici? «Dovendo
essere onesto, avrei partecipato volentieri a un programma di questo tipo se fosse esistito negli anni della mia formazione artistica. So che si tratta di una scelta molto personale, ma è comunque un’esperienza importante che
garantisce una vetrina e delle possibilità di un certo tipo.
Solo bisogna fare attenzione quando si esce da lì, perché
‘oltre’ c’è la giungla: oggi la tendenza è faticare poco per
avere un grande successo e credere che nel momento in
cui la gente ti riconosce per strada coincida con quello in
cui si è arrivati. Non è così che vanno le cose: devi essere
riconosciuto per quello che sei e quello che sai fare, la
popolarità è solo una conseguenza. Rischio così di gettare
un po’ di fumo negli occhi a chi vuole fare questo mestiere,
ma è chiaro che un programma televisivo non può essere
un’accademia che prepara a questo mondo, anche per il sol
fatto che nove mesi non sono sufficienti per prepararsi».
Insegneresti in trasmissione? «Sono già stato giurato in
tre puntate, Garrison ed io abbiamo una conoscenza di
tanti anni e sì, insegnerei ad Amici, perché credo sia l’unico programma in questo momento che dia un po’ di danza,
altrimenti molto penalizzata in televisione. Queste trasmissioni almeno stanno avvicinando i giovani ad appassionarsi
anche alla danza.
Canti Edoardo Bennato. Chi pi Peter Pan fra di voi?
«Tra me e lui c’è una bella lotta. Lui è laureato in ‘peterpanologia’, io ho la sindrome di Peter Pan. È stato una grande
esperienza per me passare da un gruppo storico come
quello dei Pooh, di cui ho interpretato le musiche nel
Musical Pinocchio, a un grande cantautore che ha segnato
la storia della canzone italiana. Questo Peter Pan, poi, non
ha avuto vincoli: di solito i Musical arrivano in Italia preconfezionati con un bel pacchetto all’interno del quale hai musica, coreografie ed altro, mentre questo ci ha lasciato la
possibilità di inserire la colonna sonora di Bennato all’interno della storia. Che chiaramente calza a pennello».
Musical nel cassetto di Frattini? «Cresciuto al passo di
Fred Astaire amo il Tip Tap, lo Swing, tutto un genere che
un po’ manca in Italia. Vorrei ballare Astaire, che nei suoi
film è stato legato a grandiosi musicisti: sarebbe questa
anche l’occasione per riascoltare bellissimi motivi».
Pinocchio o Peter Pan? «Sempre un bambino sono.
Comunque scenicamente potrebbero avere la stessa età
con delle differenze fondamentali: Pinocchio bambino ingenuo, curioso, un po’ sprovveduto, bugiardo, che vuole crescere; Peter Pan leader, capetto, che di crescere non ci
pensa minimamente. Durante Pinocchio ho sempre detto
che il Peter Pan che era in me aiutava Pinocchio ad uscire,
quest’anima bambina che ho tirava fuori il mio burattino di
legno. Ora invece sono più Peter Pan, io e lui siamo faccia
a faccia. Ma se mi rifiuto di crescere, come di fatto faccio,
allora sì, mi sento più Peter Pan».
ROMINA CIUFFA
TIC TAC
P
a cura di ROMINA CIUFFA
Our Guest: Silvia Pietropaoli
DI
ROMINA CIUFFA
robabilmente James Matthew Barrie nei
giardini di Kensington, quando giocava
con Peter, il più piccolo dei cinque figli
della vedova Llewellyn-Davies per cui venne
anche accusato di pederastia, non aveva in
mente una Wendy con spiccato accento ferrarese (quello di Alice Mistroni), o una madre
che scivola nel romano; né tantomeno che
Spugna dovessere perdere colpi (e riprendersi
da grande attore quale è Riccardo Peroni) a
causa del pessimo audio al Teatro Sistina di
Roma. Fortuna che il Peter napoletano Bennato urla «ciurma»
e non fa solo canzonette, che l’interpretazione artistica multidimensionale di Manuel Frattini rende questo folletto degno
della nomea di Musical dell’anno, e che la calda voce modulata di Claudio Castrogiovanni permette di credere a Capitan
Uncino almeno quanto ci crede un vecchio, di quelli che
sanno cosa vuol dire invecchiare così come lo sa lui, che ha
paura del tempo. E allora il coccodrillo ha ingoiato una sveglia
solo per riportare il vecchio alla realtà, dire che sì, s’invecchia,
sì, si muore, sì, ti uccido quando voglio, sì, tic tac tic tac.
Bambini che non crescono mai, sono questi gli italiani mammoni e tic tac, sono gli irresponsabili e tic tac, sono i figli di
papà, e tic tac, sono i papà, tic tac, sono quelli che si suicidano volando dalla finestra della stanza da letto perché non c’è
stato tempo per starli a sentire, troppe cose da fare e tic e tac,
e tic tac, coloro che non vengono ascoltati dalla famiglia quando hanno da dire qualcosa, tic tac, ma io, tic tac, eppure, tic
tac, secondo me, tic tac, volevo dire che, tic tac, sì però, tic
tac, ma-però, tic tac, quelli che hanno dentro un nodo troppo
grosso da sciogliere, quelli che scappano, quelli che non riescono più a sfidare, e tic tac, il tempo passa e l’uncino arruginisce, tic tac, l’ombra di Peter Pan si fa più grossa, e tic tac,
più grossa, e tic tac, più grossa che quasi fa paura, a quei
bambini che non sanno più a chi confidarsi, tic tac, a chi raccontare una storia, tic tac, da chi farsela raccontare, tic tac, le
loro paure, tic tac, disegnare senza essere malinterpretati, tic
tac, usati, tic tac, violati, tic tac, confusi, tic tac tanto quanto
un coccodrillo, tic tac tanto quanto l’insensibilità degli adulti,
tic tac tanto quanto chi si vanta di non essere mai cresciuto
ma è fin troppo grande, tic tac quanto chi si vanta di essere
cresciuto ma poi ruba, copia, incolpa, marina. E tic tac, tic tac
a Rignano e Brooklyn, tic tac in Africa, tic tac dallo psicologo,
e tic tac, l’ombra è grossa, tic tac, più grossa, tic tac, un gioco
di luci puntate addosso e più grossa, tic tac, e Peter Pan è
una favola, una sindrome, tic tac, e Uncino è la verità, un ferro
appuntito, e tic tac, è la notte che sta fuori dal letto, e tic tac.
E drin.
P
PE
ER
RO
ON
NII U
UG
GU
UA
AL
LE
E
S
SP
PU
UG
GN
NA
A
SPUGNA
S
O
N
O
O
N
O
N
S
O
N
O
SONO O NON SONO
RICCARDO PERONI
IIL
LC
CA
AP
PIIT
TA
AN
NU
UN
NC
CIIN
NO
O
bile lo scorrere del tempo raccontato
dalla metafora del coccodrillo, che è il
tempo che passa».
Il Musical in Italia: non suona strano? «C’è stata indubbiamente un’evoluzione del pubblico, che ora è più
disposto ad accettarlo come genere
musicale. Peter Pan è uno spettacolo
che riesce a non far pesare troppo gli
stacchi tra il cantato e il recitato. Qui
però non c’è la stessa educazione del
pubblico anglosassone, poché non
abbiamo ancora ricevuto spazio reale
rispetto alla produzione: non possiamo
competere con gli investimenti che si
fanno in America o in Inghilterra».
Sei d’accordo con la televisione? «I
programmi di oggi hanno l’unico merito di avvicinare il pubblico a questo
tipo di spettacolo, ma la scuola non si fa
in televisione, si fa in una scuola con un
corpo insegnante bravo e non con gente
improvvisata che arriva e dice due cose,
non con maestri che si esibiscono come
gli alunni».
Accetteresti una «docenza televisiva»? «Mai».
Ci sono soldi in Italia per il Musical?
«Iniziano ad esserci ma è zona riservata ancora ai cosiddetti ruoli: purtroppo,
mentre in America anche il secondario
ha uno stipendio settimanale che è
dignitosissimo, qui in Italia i ballerini
non percepiscano grosse cifre nonostante gli incassi elevati. Nel nostro
Peter Pan i soldi ci sono, perché ha
incassato moltissimo essendo stato il
più visto d’Italia.
Cosa condividi con Uncino? «Il fatto
che sia un bastardo. È talmente divertente fare Capitan Uncino che non potevo desiderare di meglio».
Cosa faresti se avessi un uncino al
posto della mano? «Starei molto attento nei movimenti».
E se non avessi una mano? «Troverei
un modo: ci sono persone molto forti
che cercano di affrontare la vita con
degli handicap e lo fanno in maniera
abituale. È il nostro cervello che ci
porta a razionalizzare e la voglia di
vivere che comunque fa andare avanti.
Con essa puoi continuare anche se hai
una molecola in meno. Ci vuole molto
amore per la vita, ed averne può aiutare
- anche senza avere nessun handicap - a
trovare un motivo».
L
ui è stato
Mammolo (in
Biancaneve)
e Joker (in Batman), o meglio, le loro voci
e quelle di moltissimi altri. Ma oltre al doppiaggio Riccardo
Peroni ha un curriculum che non finisce più, e che non finisce né
con Annie and I di Woody Allen, né tantomeno con Spugna. E,
nemmeno a farlo apposta, si chiama di cognome come una birra.
Conosci Spugna? «Mi diverte moltissimo e si può dire che
sono cinquant’anni che lo studio, perché la sera a cena si brinda...
Mi piace questo modo fuori le righe, più fantastico di fare teatro
su un personaggio come Spugna. Va bene così, per il bambino
che è in me che è sempre in agguato. Spugna in realtà è più un
bambinone, un bambino in un adulto nell’Isola dei bambini».
Hai fatto di tutto nella tua vita artistica. Ora ci sono programmi che insegnano ad essere multidimensionali proprio come te.
«Mi fanno orrore. Non si impara assolutamente nulla, ho visto i
loro spettacoli e ‘ballicchiano’, ‘canticchiano’ e ‘reciticchiano’
male. Quella non è una scuola vera, i giovani dimenticano che il
pubblico italiano era abituato alla commedia musicale, all’operetta, e che i teatri si riempivano. Il nostro Peter Pan sta riempiendo tutti i teatri e il nostro pubblico non è inferiore agli altri,
nemmeno al pubblico di Brodway o di Londra, che ne sa molto
di teatro. In Italia non c’è ancora un’alta scuola del Musical ma
si sta formando. A prescindere dal fatto che qualitativamente i
prodotti siano buoni o cattivi, è grave quando le scuole non legittimano lo sbaglio, ed esser guardati da mille telecamere che giudicano continuamente non lascia la libertà di sbagliare. Questo è
l’errore principale: non insegnare a mettersi in gioco».