per raffaello baldini

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per raffaello baldini
PER RAFFAELLO BALDINI
DI
G IOVANNA I OLI
Raffaello Baldini è nato nel 1924 a Santarcangelo
di Romagna, il paese di Tonino Guerra e di Nino
Pedretti, dei quali è stato buon amico, senza però
implicazioni particolari sul piano della poesia.
Dopo la laurea in filosofia a Bologna nel 1949
e qualche anno d’insegnamento, nel 1955 si è
trasferito a Milano, dove ha lavorato nel campo
della pubblicità e del giornalismo. Schivo e
discreto, impermeabile a mode e correnti, Baldini
è uomo di letture curiose, con una predilezione
particolare per la poesia americana, specialmente
per la grazia e l’ironia di Marianne Moore,
per la sua capacità di trovare le fonti dell’invenzione nel descrivere e nell’osservare, e William
Carlos Williams, il cantore di Paterson, la città
del New Jersey scelta come proprio concreto
territorio poetico. Dopo le prose di Autotem
del 1967, una raccolta di lettere, di immaginari
lettori a immaginari giornali, sull’automobile
come feticcio, ha pubblicato la prima raccolta
in dialetto, È solitèri, nel 1976, che costituisce,
con qualche esclusione e qualche inclusione, la
prima sezione de La nàiva, pubblicato da Einaudi
nel 1982. Fin qui la poesia di Baldini era caratterizzata dal procedimento dell’elencazione, con
un personaggio che siglava una sorta di comico
e vistoso comportamento paranoico.
Con Furistìr del 1988 e Ad nòta del 1955, invece,
fa capolino la nevrosi della quotidianità, simulata
grazie ai ritmi del parlato, impronta stilistica
che si rispecchia mirabilmente in tre soliloqui,
scritti e pensati per le scene, Carta canta, Zitti
tutti! In fondo a destra del 1998, dove il dialetto
fa parte di un realismo tragicomico di esemplare
essenzialità e nobiltà formale, in cui si specchiano
i protagonisti di un reale paesano.
Il linguaggio di Baldini intende ricostruire ogni
minimo brusio di un grande teatro umano,
rappresentato in tutta la sua opera, in versi o in
prosa, con la forza dei suoni: una musicalità
lessicale e sintattica, unica nel suo genere, che
trasforma le limitazioni di un idioma in una
lingua di ben più ampio respiro. È un dialetto
colloquiale, modulato sulla fisiologia del personaggio, che racconta il continuo allontanamento
dei nostri giorni dalle radici e dalle identità
geografiche. Per questo particolare modo di
definire una realtà, un’individualità e di dare
loro una forma che vagheggia l’universalità, il 26
novembre, al Teatro Nuovo di Milano, Raffaello
Baldini ha ricevuto il Premio Librex-Montale, per
la raccolta La nàiva, Furistrír, Ciacri, edito da
Einaudi. La commissione giudicatrice ha ravvisato
nella sua opera un’armonia unica nel panorama
letterario del nostro tempo, perché ha saputo
fondere la più remota marginalità del dialetto
con l’universale totalità della grande poesia.
“Una lingua è un mondo”, dice Raffaello Baldini,
e anche i dialetti sono piccole lingue, capaci di
rappresentare uno spazio preciso, circoscritto,
intriso di memorie. Il suo idioma, infatti, non è
semplicemente quello di una regione, la Romagna,
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ma di un paese minuscolo di quella terra,
Sant’Arcangelo, come se volesse esplorare al
microscopio i pensieri dei suoi abitanti e le potenzialità di un linguaggio che risponde solo alle
regole dell’oralità: una parlata che sgorga spontanea, senza gli artifici codificati dalle grammatiche.
Lontani dal centro linguistico della convenzione,
i suoi personaggi possono così esprimere i loro
pensieri con la libertà della chiacchiera, riflettendo continuamente il proprio microcosmo ricco
di espressioni verbali di straordinaria efficacia.
Sono parole sapide di significati e carezzevoli di
pronuncia, che evocano vicende, impulsi morali,
circostanze, sogni, incatenando però il lettore
a qualcosa di più profondo ed essenziale:
la solitudine, la morte, la pietà della mente
davanti a un mondo che scompare.
Quel parlato fitto e veloce, che solo lui riesce a
indossare come un abito, è tenuto costantemente
sotto registro, assumendo una consistenza musicale ricca di fascino, misteriosamente incomprensibile eppure così ricca di significati da rendersi
trasparente anche prima della sua traduzione
nella lingua ufficiale. Il monologo del poeta,
infatti, sempre pronunciato senza intermediari,
riporta il fiume di parole senza storia di gente
normale, di cui riproduce le pause, le esitazioni,
le frasi sospese, gli incisi, con un ritmo che
sembra sommergere concetti e riflessioni,
in una perpetua agitazione verbale.
Ad arginare il flusso di parole di queste lunghe
forme aperte, che riproducono con puntiglio
mimetico le cadenze del parlato, egli erige
endecasillabi e settenari, costruiti con grazia e
discrezione per restituire con estrema naturalezza
la dignità di un’impalcatura classica anche a una
lingua periferica come quella di Sant’Arcangelo,
capace di diventare, appunto, la lingua per la
poesia. Perciò, definire Raffaello Baldini un
poeta dialettale significherebbe cadere in un
equivoco, dissipato dai maggiori critici del nostro
tempo: Luigi Baldacci, Dante Isella, Pier Vincenzo
Mengaldo, soprattutto, che lo hanno giustamente
considerato uno dei tre o quattro poeti più
importanti d’Italia del nostro tempo.
PREMIO LIBREX-MONTALE
LE MOTIVAZIONI DEI PREMI
RAFFAELLO BALDINI
La Giuria all’unanimità ha assegnato il Premio Librex-Montale
XIV edizione a Raffaello Baldini per la raccolta di poesie
La natività Furistir Ciacri, edita da Einaudi, con la seguente
motivazione. Definire Raffello Baldini un poeta dialettale significherebbe cadere in un equivoco, dissipato dai maggiori critici,
che lo hanno giustamente considerato “uno dei tre o quattro
poeti del nostro tempo più importanti d’Italia”. Dopo le prose
di Autotem (1967), ha pubblicato È soliteri [Il solitario] (1976),
che costituisce, con qualche inclusione e qualche esclusione,
la prima sezione de La nàiva, pubblicato nel 1982, con la
prefazione di Dante Isella. Fin qui la poesia di Baldini, tutta
in dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna, era caratterizzata dal
procedimento dell’elencazione, con un personaggio che siglava
una sorta di comico e vistoso comportamento paranoico.
Con Furistìr, uscito nel 1988 introdotto da Franco Brevini e
Ad nòta del 1995, presentato da Pier Vincenzo Mengaldo, si
annuncia, invece, la nevrosi della quotidianità, simulata grazie
ai ritmi del parlato, impronta stilistica che si rispecchia mirabilmente anche in tre soliloqui, scritti e pensati per le scene,
Carta canta, Zitti tutti!. In fondo a destra (1998), dove il dialetto fa parte di un realismo tragicomico di esemplare essenzialità e nobiltà formale, rivendicando la propria dignità di storia
e di memoria proprio attraverso la lingua. È una lingua al
microscopio, straordinariamente precisa, tanto da fondersi con
la fisiologia di chi la pronuncia, con in un susseguirsi di
fotogrammi della vita e del suo svolgersi. Questo linguaggio
intende ricostruire ogni minimo brusio di un grande teatro
umano, riportando al grado zero la distanza che separa la
scrittura dalla voce, la realtà dall’uomo. Nell’ultimo libro di
Baldini, che riunisce le precedenti raccolte al singolare inedito
Ciacri (2000), appare evidente la continuità del suo affresco
compositivo: un iperrealismo, che si coniuga con la perfezione
di una lingua antica e così stratificata da potere essere
considerata la vera e propria “lingua per la poesia”.
BOB DYLAN
La Giuria ha deliberato di assegnare il Premio internazionale
“Poetry for Music” a Bob Dylan, indicando nella sua straordinaria vicenda di poeta e di musicista uno dei capitali punti di
snodo della cultura del secondo Novecento: l’altezza della sua
testimonianza privata e pubblica, esistenziale e politica conferisce a Bob Dylan i tratti irripetibili di un testimone tra i più
grandi e acuti della storia non solo musicale dell’ultimo secolo.
FABRIZIO DE ANDRÉ
La Giuria ha deliberato di assegnare il Premio Speciale
“Versi per musica” a Fabrizio De André nel ricordo commosso
della inconfondibile voce di un autore e interprete che nella
sua lunga e originalissima attività poetica e musicale ha saputo
restituire il senso profondo della vita di una città e, insieme,
il turbamento e il disagio di un tempo difficile e talora tragico
attraversato con una dolente e fraterna capacità di condivisione
dei diversi, dei marginali, dei reietti.
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LA RISPOSTA SOFFIA NEL VENTO...
DYLAN E DE ANDRÈ, POETI CHE SONO ESISTITI DA SEMPRE
ED ESISTONO PER SEMPRE
DI
Rassegna
riprende il testo
dell’intervento
pronunciato
da Fernanda
Pivano in
occasione del
conferimento
del Premio
Montale “Versi
per la Musica”
a Bob Dylan e,
alla memoria,
a Fabrizio De
Andrè.
F ERNANDA P IVANO
Che cosa posso dire di Bob Dylan e Fabrizio De
Andrè che non abbia già detto in questi anni,
tanti ormai, in cui hanno occupato la mia passione, i miei sogni, la mia speranza in un mondo
limpido come la passione, i suoni e la speranza
che loro hanno regalato al Pianeta. Con poeti così
non può neanche fare delle date, perché sono esistiti da sempre ed esistono per sempre. Non ha
date la proposta di gente libera, fuori dai sepolcri
imbiancanti, incapace di discriminazioni con gli
occhi spalancati sulle ingiustizie del mondo, con
ironia bruciante per i falsi poteri e tenerezza
senza confini per le debolezze degli uomini, con
inorriditi pernsieri per la guerra e ostinate speranze di pace. Sembra retorica, eppure non lo è.
Il mondo di questi due poeti è fatto anche di queste cose: denso di un’umanità infinita quello di
Fabrizio, sofferto di disperata fiducia quello di
Dylan; appoggiato su una speranza continuamente
tradita quello di Fabrizio, affondato nella frustrazione di conversioni anche contradditorie quello
di Dylan. Una cosa sicuramente hanno in
comune: una specie di spavento o forse di
pudore, per cerimonie come questa, una specie
d’incredulità per lodi alle quali non hanno creduto, un’infinita umiltà, comune ai grandissimi
artisti di fronte a quella che hanno creduto la loro
impossibilità a trasmettere messaggi; in comune
hanno anche l’ironia, a volte beffarda a volte pietosa, con cui mascherano la loro umiltà. Mi vergo-
gno un pò di questo tentativo di fissarli con questo spillo di povero diavolo nel loro splendore di
farfalle inafferrabili. Mi vergogno perché l’unico
modo di riuscire a definirli è di leggere uno qualsiasi dei loro versi, di fermare il tempo intorno
alle idee come loro hanno saputo fare. Si sono
conosciuti bene, hanno ascoltato le loro canzoni,
hanno letto i loro versi. Sarebbe bello credere che
s’incontrino un giorno negli enormi spazi profumati dell’eternità e conoscano finalmente la realtà
inafferabile che hanno inseguito. La loro è una
realta fatta di cose semplici, di rispetto per l’amore e per la morte, di orrore per l’ipocrisia e la
violenza. Per Dylan la realtà soffia nel vento, si
perde nell’alba jingle jangle, si smarrisce negli
occhi azzurri d’un figlio andato lontano; per De
Andrè quella stessa realtà si nasconde nel mare
dove si cerca di fuggire seguendo i pirati, nei veicoli della città vecchia, nel fiume con i lucci
argentati ma senza i cadaveri dei soldati portati in
braccio dalla corrente, nel tentativo ininterrotto
del poeta di consegnare alla morte una goccia di
splendore, di umanità, di verità. Ricorre in Dylan
come in Fabrizio l’orrore della violenza e ho
scelto per esemplificarlo Blowing in the wind
(1963) e La guerra di Piero (1964). Blowing in
the wind, si sa, è stato composto in dieci minuti
in un caffé di New York ed è divenuto l’inno dei
diritti civili del Sud a un’adunata nel Mississipi
alla quale Dylan è stato portato senza conoscere
ancora di persona il problema del Sud. È tuttora
considerato un canto di protesta ed è tuttora la
sua canzone più famosa. Le parole originali dicevano, ad esempio: “Quante volte devono volare le
palle dei cannoni prima che siano proibite per
sempre?”. E poi “Si, e quante volte può un uomo
girare la testa e far finta di non vedere”. “Sì, e
quante morti ci vorranno prima che sappia che
troppa gente è morta”. Domande terribili seguite
da una risposta almeno altrettanto terribile: “La
risposta soffia nel vento”. La guerra di Piero non
è meno terribile, ma ancora una volta è intrisa
dell’umanità che non ha mai lasciato Fabrizio De
Andrè. Il giovanissimo Piero, ucciso da un uomo
che aveva “la divisa di un altro colore”, va “triste
verso l’inferno”, “in un bel giorno di primavera”.
Viene ucciso “senza un lamento” e s’accorge che
“il tempo non sarebbe bastato a chiedere perdono
per ogni peccato”. Così dorme “sepolto in un
campo di grano”, vegliato da “mille papaveri
rossi”, in un trionfo della natura, che forse
Fabrizio amava sopra ogni cosa.
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