LOGOS E STORIA sara - Progetto Fahrenheit

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LOGOS E STORIA sara - Progetto Fahrenheit
Sandro Ciurlia
L’ETERE DI ZEUS E I PASSI DI HERMES:
DALLA WELTGESCHICHTE ALLA STORIA COME RACCONTO
«Il cammino della storia non è
quello di una palla da biliardo, che
segue un’inflessibile legge causale; somiglia piuttosto a quello di
una nuvola, a quello di chi va
bighellonando per le strade, e qui
è sviato da un’ombra, là da un
gruppo di persone o dallo spettacolo di una piazza barocca, e infine giunge in un luogo che non
conosceva e dove non desiderava
andare».
R. Musil
I. Meditando sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, Alexandre
Kojéve giunge alla convinzione che il nostro tempo ha ormai maturato in
sé i requisiti necessari a decretare la fine della storia1. Hegel aveva offerto, a suo giudizio, un maestoso quadro speculativo dei fatti umani fatto di
precorrimenti, ma anche di contrasti e di sofferte sintesi dialettiche, indicando un lungo percorso di maturazione della Coscienza al termine del
quale quest’ultima avrebbe ritrovato, arricchita dalle prove della Storia, se
stessa. L’Autocoscienza hegeliana è, in tal senso, Soggetto diveniente e
Ragione. La Storia raffigura, a sua volta, la traiettoria tortuosa attraverso
cui una simile identificazione giunge a configurarsi. Essa sintetizza e
riproduce quell’eterno percorso umano di ricerca dei significati delle cose,
in un circolo necessario in cui domina la logica storico-speculativa dei
superamenti. Cosí, la successione degli eventi dell’umanità rappresenta il
trionfo del momento razionale. La Storia viene legata alla categoria del
Télos, dal momento che ogni accadimento assume valore solo nell’ottica
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della realizzazione dello scopo ultimo dell’umanità tutta: celebrare il
trionfo della Ragione sugli istinti, dello Spirito sulla materia, dell’interiorità del Sé sulla bruta datità delle cose. In tal ottica, le storie particolari
costituiscono solo specifici e parziali apporti di senso recati alla Storia
generale del Mondo.
Cosí, solo chi si pone dal punto di vista dell’Assoluto, il filosofo speculativo, può giungere ad interpretare l’importanza dei singoli eventi della
Storia, disvelando i capricci e le «astuzie» della Ragione che governa e
guida i suoi «eroi» terreni per realizzare il proprio dominio sul mondo.
Nella prospettiva hegeliana, l’individuo costituisce solo una delle indefinite parti dell’Universale: dal sistema di quest’ultimo egli si stacca, poi,
per portare il proprio contenuto di azione al progresso del Pensiero nella
Storia e con esso torna, quasi neoplatonicamente, a congiungersi quando
esaurisce la sua funzione storica.
Un circolo, questo, attivato dalla «passione» dell’individuo e governato
dalla razionalità della Storia, prima che gli stessi individui, simili ad
«involucri vuoti che cadono»2, si disintegrino. L’orizzonte dell’azione raggiunge un’estensione totalizzante, in un olismo in seno a cui l’azione del
singolo non può non coinvolgersi nel piú ampio circuito delle azioni dell’umanità.
Lo schema di una simile impostazione viene da lontano. Come ha dimostrato, a suo tempo, Karl Löwith, le idee di significato e di fine dell’intelaiatura concettuale delle varie filosofie della storia sono strettamente connesse3 e traggono le mosse da un’idea teologica di Civitas in peregrinatione di cui è necessario intendere la configurazione in chiave soteriologica. L’emblematico modello di ciò è la Civitas Dei di Agostino. È con Vico,
però, che il factum torna a riappropriarsi della sua identità: l’ingens sylva
di dati bruti ed impenetrabili si muta in una sequenza di eventi che la
mente umana può disporsi ad ordinare. La Storia diviene, cosí, un estuario entro cui convergono le storie dei popoli e delle nazioni e le singole
vicende individuali; costituisce un corpo unico, governato da una logica
interna che solo alla Ragione è dato intendere. Nonostante sia stato
Voltaire a coniare la locuzione ‘filosofia della storia’, è proprio con Vico
che la Storia diviene un tessuto organico di eventi ritenuto suscettibile di
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L’etere di Zeus e i passi di Hermes etc.
essere indagato. Quando la categoria del progresso, poi, tende a presentarsi come la categoria privilegiata di studio del succedersi degli accadimenti umani, allora la Ragione si «cala» nella Storia e l’idealismo classico tedesco se ne rende il piú complesso interprete.
La Storia del Mondo, per Hegel, è dominata dallo Spirito che assume
una dimensione d’immanenza, scandendo il proprio incedere secondo un
ritmo dialettico, ma è anche governata da tanti momenti di particolarità
per quanto sempre tesi ad armonizzarsi con l’Universale speculativo. La
Storia costituisce, cosí, non la condizione d’esistenza dell’evento immerso nel tempo, quanto la raffigurazione dell’avventura critica dell’umanità
tutta, legata alle sue violenze ed ai suoi trionfi. Un’umanità, inoltre, i cui
destini risultano legati ai ritmi dell’ingresso della Ragione nella Storia, in
una situazione in cui si smorza ogni deontologismo intellettualistico, se
quanto si dice reale è anche razionale.
L’azione dell’individuo e la singolarità dell’evento si inverano
nell’Universale speculativo dell’Idea resasi Storia ed intenta a ritornare a
pensare se stessa come fondamento primo ed assoluto dell’essere. In tal
modo, il soggetto della Storia è soltanto un portatore mediato di senso e le
cartine geopolitiche costituiscono le mappe dell’incedere dello Spirito nel
mondo. Un simile universalismo ottimistico di certo non aduggia l’irruenza del particolare o del negativo, ma li legge come momenti di una scansione dialettica speculativamente garantita e volta a raggiungere il duplice scopo di piegarsi su di sé e di allargare, di passaggio in passaggio, il
raggio d’estensione del suo corso.
Tutt’altra questione, questa, rispetto alla meditazione kantiana sulla
«Storia universale», da cogliersi, nella sua unità, come «ideale regolativo»
finalizzato a contemperare le differenze tra gli individui, in grado di fungere da «filo conduttore» nella comprensione di eventi altrimenti sconnessi4; ma altra cosa anche rispetto al pensiero di Herder, volto a descrivere il valore sostanziale della Humanität al di là dei transeunti accidenti
disciolti nel cronologico trascorrere delle epoche5. Si lambisce, cosí, nel
modello hegeliano di Storia universale, l’«etere di Zeus» di cui parlava
Erodoto criticando la hybris
´ di Serse6, nel senso che il confine dell’azione
umana diviene solo la sfera celeste posta a custodire il sacro fuoco della
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Ragione. Anzi, la Ragione stessa s’identifica con l’Assoluto sullo sfondo
dell’eterno.
Lo storicismo idealistico subisce, com’è noto, una profonda trasformazione, passando attraverso le filosofie della vita ed i successivi rivolgimenti contro il finalismo della ragione assoluta. Ma rimangono in piedi le
stesse domande: chi è il vero soggetto della storia? Cosa spinge ad agire?
Com’è da intendersi la storia stessa? Mutati gli orizzonti e variate le prospettive, oggi continuiamo ad interrogarci sul nostro passato con maggiore disincanto, con piú attenzione nei riguardi di quel singolo che, nel raccontare di sé, esprime tutto un mondo, tutto un circuito integrato di vissuti. Reinhart Koselleck ha parlato, nel descrivere le condizioni in cui la
Neuzeit percepisce il senso della storia, di una ridefinizione dell’«area dell’esperienza» e di un restringimento dell’«orizzonte delle attese»7. Ciò per
sottolineare, ancora una volta, il radicale passaggio di paradigma nel frattempo sopravvenuto rispetto al romanticismo della Ragione assoluta e tale
da considerare illegittima ogni prospettiva storica garantite a priori da
disegni sovraindividuali.
Non si tratta di affidarsi all’avventura di schemi interpretativi costitutivamente ipotetici o di preferire il guizzo frizzante del caso in luogo di una
storia dal tono solenne ed apodittico. Il problema è, piuttosto, riportare alla
ribalta il movente effettivo dell’azione individuale e collettiva, di comprendere quanto e come i tizzoni delle passioni guidino il singolo a perseguire i propri obiettivi, generando ora circoscritti effetti, ora esiti di lunga
durata per sé e per un altro dato numero di individualità con le quali, in un
certo crocicchio del mondo, egli può aver avuto modo di condividere gli
stessi propositi o le medesime ambizioni.
È possibile leggere una simile catena, con Kojéve, all’insegna della
categoria del «desiderio». Non solo. Siccome quest’ultima possiede una
struttura riflessiva e ricorsiva, il desiderio desidera il desiderio e quanto è
desiderato: «È umano desiderare ciò che gli altri desiderano, perché lo
desiderano»8. Kojéve, non a caso provenendo proprio dallo studio di
Hegel, declina la dialettica socio-storica del riconoscimento delle istanze
degli individui sul registro del tema del desiderio, categoria, questa, carica di un deciso intento liquidatorio nei riguardi di qualsivoglia storia teleo-
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logica, destinale, garantita a priori.
Ciò significa guardare, senza preconcetti o presunzioni romantiche, al
«legno storto dell’umanità» ed a descrivere i termini, talvolta persino bassi
e brutali, in cui la «socievole insocievolezza degli uomini»9 tende a manifestarsi creando le società e le storie. Uno stato hobbesiano di tale violenta competitività - presente, in altri modi, anche ai piú alti livelli di civiltà - non pensa piú al Lógos come al fondamento della sequenza delle varie
fasi storiche. In ragione di ciò, Kojéve pensa, piuttosto, al concreto ed
acciottolato divenire degli eventi, nel senso di un finalismo miopico e
spesso a cortissimo raggio. Cosí, la solenne, quasi ieratica, esposizione
della Weltgeschichte si tramuta nel racconto di esili, scollegate, disordinate ed irripetibili filature di senso, nelle mani di un telaio programmaticamente incapace di fissare orditi e di stendere trame definitive.
Dalla descrizione del destino del mondo alla narrazione di fatti chiusi in
un orizzonte individuale, dunque. Si passa, cosí, dallo studio del Tempo
del Mondo alla piú modesta registrazione della cronologia degli eventi. Da
qui l’idea, propria dello stesso Kojéve, di sancire la «fine» della Storia o
il passaggio ad una post-histoire per decretare il radicale cambiamento di
registro interpretativo nell’approccio al passato; da qui anche l’esigenza di
declinare quanto una volta si chiamava tempo storico nel segno della
dimensione del racconto. È, questa, la tesi di Paul Ricoeur. Per il filosofo
francese, l’universo della narrazione storica indica, nel contempo, un
insieme di tecniche retorico-letterarie di combinazione dei dati ed esprime
un modo per calare nell’orizzonte dell’umano la descrizione degli eventi,
riconoscendone la fallibilità e, con ciò, riconoscendosi fallibile. Il racconto, pertanto, costituisce una forma raffinata di riparo dai clamori della
solennità. Esso preserva in sé una logica delle combinazioni necessaria ad
intendere sia la linea di analogia che lega taluni dati ad altri in un dato
«intreccio-intrigo» di vicende, sia lo schema interpretativo che, nel frattempo, si mette a punto per ricostruirli.
«Con il racconto – scrive Ricoeur – l’innovazione semantica consiste
nell’invenzione di un intrigo che è, a sua volta, lavoro di sintesi: grazie
all’intrigo, fini, cause e casualità vengono raccolti entro l’unità temporale
di una azione totale e completa. È questa sintesi dell’eterogeneo […] una
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nuova congruenza nella connessione degli accadimenti»10. Una certa unità
temporale, in questo modo, assume una connotazione diegetica, si trasforma nello spazio logico entro il quale far convergere un certo numero di
elementi in relazione tra loro e tale da designare l’unità collettiva di una
data azione storica. La storia-racconto diventa una sintesi di una determinata varietà di accadimenti, entro un dato arco temporale caratterizzato
dagli stessi equilibri e condizioni storiche, da un medesimo impianto.
L’«intrigo» designa l’intreccio storico (e interpretativo) degli eventi che
si racconta nell’affidarsi all’unità del torno temporale di cui è espressione.
In tanto è possibile, però, individuare i caratteri di un processo storico in
quanto si finisce col far leva su un concetto di tempo ontologicamente
determinato. È il tempo, infatti, a designare in maniera definita l’intrigo:
quest’ultimo possiede, conclude Ricoeur, «caratteri temporali propri. Tali
caratteri ci autorizzano a chiamare l’intrigo, in forza di una generalizzazione, una sintesi dell’eterogeneo»11. Una simile concezione in fondo realistica dell’intreccio induce, poi, Ricoeur a distinguere tra le dimensioni
del «quasi-intrigo» e dell’«intrigo virtuale» e lo porta ad innescare un confronto a distanza con le proposte metodologiche di Paul Veyne12.
In definitiva, la sintassi del racconto semantizza «temporalità eterogenee», ma, essendo sintesi narrativa di eventi immersi nel tempo di un dato
processo storico, discende da una filosofia a priori della temporalità e ne
suggella il primato. Quanto qui interessa sottolineare è che, pur proponendosi di rintracciare un senso della storia a muovere da criteri differenti rispetto a quelli della tradizione storicistica, Ricoeur rimane ancora
ingabbiato in una concezione del tempo come condizione trascendentale
della storia. Ricercare il senso della storia significa continuare a muoversi entro un’ontologia dei principî, nonostante si dimostri di aver superato
la retorica romantica dello Spirito o le innodie pronunciate all’indirizzo
dell’Assoluto. Storia e Tempo: un altro modo per dire Essere e Tempo.
Fa bene, in tal ottica, Remo Bodei a richiamare l’attenzione sull’attualità delle filosofie della storia delle quali si riteneva d’essersi liberati:
«Riusciamo a darci una storia della nostra vita senza inserirla in una qualche “storia del mondo”? Dubito che si possa completamente isolare la
sfera dell’esperienza individuale. […] Ecco perché sostengo che […] di
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una certa idea di senso globale non possiamo fare a meno»13; l’idea di un
«senso globale della storia […] contiene anche delle concrete possibilità
di senso»14. Una «disincantata teleologia senza télos»15, dunque, «che non
intende smarrire i fatti (e le loro verità) nel tutto (e nella sua verità) e, al
tempo stesso, non intende annegarli nel mare caotico di impazzite particolarità incomunicanti»16. Un’esigenza di universalità, questa, che vale
ancora, forse, come ideale regolativo, come una sorta di fonte collettiva di
sostentamento morale, di uscita dalla frequente angustezza dell’esistere,
come strumento di autocoinvolgimento in un circuito piú ampio di relazioni all’insegna di una sorta di compensazione della limitatezza del proprio orizzonte.
Ciononostante, il rinvio ricoeuriano alla dimensione del racconto assume una decisiva rilevanza. In tal modo, si minimalizza la pretesa dello storico di rendersi interprete del solenne cammino del Lógos e si offre al suo
sforzo euristico un carattere di fallibilità tale da renderlo un’operazione
umana e finita, soggetta al rischio dell’errore e, per ciò, perfettibile. Il concetto di storia, d’altronde, ab imis, è nato proprio come il racconto di ciò
che si è visto (historía), di cui si è stati testimoni in modo diretto o indiretto mediante la consultazione del documento che certifica l’esistenza
dell’evento testimoniato. L’idea del racconto assume anche una funzione
di utilità pratica, essendo la narrazione – lo ricorda Ricoeur - una tecnica
di composizione sintetica di dati di diversa natura.
V’è di piú. Il riferimento alla categoria letteraria del racconto indebolisce le strutture speculative, ma non si libera dai principî, ancorché minuscoli, e, solcando tale via, introduce nella questione la cogenza della
dimensione interpretativa. Se la storia è narrazione di accadimenti e se si
narra vedendo e riferendo quanto accade da un certo punto di vista che
rende orizzonte una certa porzione dello spazio anziché un’altra, allora
essa è racconto finalizzato ad interpretare particolari accadimenti del
nostro passato. Ciò non spiana certo la via ad un instabile e vezzoso relativismo storiografico, rimettendo, magari, la legittimità di un documento
alle precomprensioni dello storico ed all’indefinita varietà dei modi di
vedere le cose. È solo un modo, invece, di riflettere su come la storia
ricondotta al racconto intenda essere non solo una reazione alle grandi
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Storie a disegno, ma un legittimo invito a riappropriarsi di una piú vigile
attenzione verso le differenze ed i contesti storicamente determinati, senza
disperdere tali patrimoni di irripetibili particolarità nell’unità dell’atto
dello Spirito che conferisce dignità speculativa alle epoche. Senza dimenticarsi, però, del soggetto che narra le storie.
Riferirsi alla dimensione ermeneutica dell’indagine storica è anche un
modo, infatti, di reagire alle presunzioni egualmente altezzose (ed ingenue) di quell’oggettivismo di matrice positivistica che pretendeva di affidare allo storico il compito di riferire l’accadimento was ist eigentlich
gewesen, per dirla con Ranke. Se la storia, sorretta dallo strumentario filologico, diviene «scienza oggettiva» del dato assume un’eguale impenetrabile assolutezza che ne fa un’attività vincolata ad un approccio unico e, in
una certa misura, assoluto nei riguardi del suo oggetto: finge di dimenticare, cosí, proprio la dimensione semantizzante del soggetto.
La storia ridotta a racconto, viceversa, si realizza in un intreccio-intrigo
che costituisce la sintesi delle due componenti tese a comporlo: la serie di
eventi relati ed il soggetto che li interseca dando voce e forma ad una
materia altrimenti muta, preda solo del grigio e corrosivo pulviscolo del
tempo. Si può concordare, al proposito, con Gadamer quando invita lo storico a cogliere la processualità dello sviluppo storico e a considerare «che
il relativismo non domina all’infinito, ma ha suoi chiari limiti. Esso non
mette in pericolo l’immanente “oggettività” della ricerca»17. Ciò non
significa certo ridimensionare il ruolo della verifica filologica e trasformare la storia in una selvaggia prateria lungo cui scorre tutto. Il riferimento all’ermeneutica non avalla caotiche e burbanzose pretese di condurre la complessità degli eventi storici alla deriva incontrollata dei punti
di vista. La fusione degli orizzonti, privata dell’ontologismo che pur la
pervade e di un certo confuso e malinteso utilizzo delle «precompresioni»,
può costituire, invece, un utile strumento di utilizzo della componente
interpretativa che alimenta la ricerca storica e che continua ad intersecare,
anche se in altro modo, lógos e storia: nel caso in cui si parla di ermeneutica del dato storico, il minuscolo è d’obbligo.
Ne è una testimonianza ed una conferma la riflessione dello stesso
Koselleck. Quando lo storico tedesco parla di Istorica, richiamandosi a
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Droysen, intende riferirsi alla «teoria delle condizioni di ogni possibile
storia»18: egli allude, tuttavia, non tanto ad una teoria critica delle ricerche
sul passato tese a disvelare l’unità di quell’universo di significati che chiamiamo storia, si riferisce, piuttosto, alla necessità di combinare istorica ed
ermeneutica all’insegna della categoria della comprensione. Koselleck
insiste molto sulla tematica della linguisticità dell’indagine storica,
responsabile della realizzazione del «circolo» ermeneutico ed in grado di
far superare allo storico lo stato di separazione tra l’interesse per il passato e la partecipazione all’orizzonte del proprio presente. In questo modo il
racconto storico non perde di rigorosità; senza dimenticare la verità della
storia legata gadamerianamente al suo metodo, considera, invece, la molteplicità dei punti di vista uno straordinario acquisto ed un’occasione preziosa per fare luce sul passato, fruendo dei riverberi luminosi che si riflettono sulla superficie del presente.
«In ogni conoscenza storica è insito un comprendere»19, ha ribadito
Gadamer, perché compito dello storico è «“capire ricercando”», all’insegna di quell’ideale di saggezza a cui già Jakob Burckhardt rimandava. La
storia ridotta all’investigazione dell’irripetibile singolarità dell’evento,
cioè orientata ad analizzare il particolare ed a servirsi di logiche di combinazione secondo il criterio dell’analogia e di tecniche retorico-stilistiche
di raffigurazione degli accadimenti e dei protagonisti delle varie epoche
storiche, senza piú presunzioni storicistiche. Ritornare al finito, riappropriarsi del culto delle differenze, evitare pratiche metonimiche della storia, non indulgere in offuscanti letture ideologiche degli eventi: tali aspetti sgorgano tutti da una concezione della storia per cosí dire paratattica,
senza centro ed ordine stabiliti, in un confronto impari, ma carico di fascino, con l’oscurità del passato.
La consunzione del paradigma dello storicismo idealistico insegna ad
intendere che l’Angelo benjaminiano della Storia può anche affidare alla
propria azione il compito di considerarsi fallibile, senza piú rendersi uno
strumento di riconoscimento ed elaborazione di identità socio-culturali. Il
Venerdi santo speculativo della Storia come sistema dell’Assoluto non
lascia presagire una Pasqua di resurrezione, perché è lo speculativo ad
essersi infranto sullo scoglio acuminato del particolare. Si è consumata,
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forse per sempre, l’idea di poter leggere gli accadimenti all’insegna di
un’unica logica, come se vincoli razionali di natura causale abbiano potuto mai concretarsi nel legare le passioni degli uomini, deducendo
Napoleone dal giacobinismo tardo illuministico, il primo conflitto mondiale da Guglielmo II di Hohenzollern, la brutalità antisemita del nazismo
dai Quaderni di “Ostara” diretti da von Liebenfels.
Il racconto storico provvede a proporre una delle possibili linee di legame tra gli eventi, in nome di una coerenza congetturata e presentata solo
come plausibile, giammai come vera. Ciò sino al punto d’interrogarsi sulla
natura di una simile narrazione, in vista di una sua collocazione entro
un’area letteraria, nello sforzo di differenziare l’intreccio storico «dalla
narrazione immaginaria, quella che si può trovare nell’epopea, nel romanzo, nel dramma»20. Una storia privata da nuclei logico-speculativi, allontanata dai «méta-récits» (Lyotard), consegnata al dominio dell’«immaginazione poietica»21, con tutti i pericoli di disperdersi in essa22.
Tutto ciò proprio in un’epoca in cui «a causa del vasto processo di globalizzazione […] siamo virtualmente in condizione di cogliere la storia
come un tutto»23 ed il sistema-mondo come un complesso governato da
precise categorie. Ha scritto con fine istinto psicologico Charles Taylor:
«Soltanto se esisto in un mondo in cui la storia […] ha un’importanza
essenziale, posso definire un’identità per me che non sia banale»24. La storia si riduce, in questo modo, ad un illusorio surrogato della religione,
colma il nostro bisogno di certezze, combina la voglia di «eroismo […]
colla ragione»25.
Rimangono, cosí, in piedi tutti i pregi di fluidificazione ed i limiti metodologici di una concezione della storia come mise in intrigue di contenuti
di senso eterogenei alla maniera di Ricoeur, la quale problematizza ulteriormente la categoria del racconto a cui, con speranza ed affanni, ora ci si
affida per trasmettere la memoria del passato. Ed in una tale concezione
della narrazione trova compimento e suggello la stessa idea di fine della
storia di Kojéve. Ma il sopraggiungere della crisi delle filosofie della storia e l’incrinarsi della fiducia nei riguardi del naturalismo storicisticopositivistico non rende di certo neutra la domanda sul suo senso; ne fluidifica, piuttosto, i percorsi e si lega, in tal modo, a tante minuscole filoso-
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fie della storia implicite, di cui offrire anche soltanto una rapida mappatura rappresenta un’impresa ardua. È, pertanto, l’idea di comprensione a
rendere il dire la storia, per il semplice fatto di farlo, un’impresa interpretativa.
Si passa, in questa maniera, dall’evemeristica sicurezza di chi era persuaso di dominare i percorsi del mondo per aver oltrepassato, espugnandolo, l’etere di Zeus, alla piú composta sobrietà di colui il quale si approccia alla storia attendendo il cadenzato passo di Hermes, divinità potente
ancorché capricciosa e «caprina», secondo l’affascinante modo in cui la
descrive Platone nel Cratilo (408 a - c). Ciò costituisce un invito a non
«smettere mai di inserire le dure realtà della storia sempre e di nuovo nelle
nostre possibilità umane»26, senza dimenticare, però, che «anche il concetto di storia potrebbe essere un concetto che si consuma nella realtà»27.
Allora ritornano le eterne domande: ha ancora un senso interrogarsi sul
significato della storia? È possibile rintracciare una linea di legame tra le
sue significazioni possibili? Si può mai rintracciarne un criterio di legittimazione? In definitiva, esiste ancora un concetto che possa definirsi storia ed una domanda che si ponga il problema del suo quid est? O è solo
con uno spinoso guscio secco e senza contenuto che si è condannati a
misurarsi?
II. I contributi che, qui di seguito, alimentano le pagine di ’Αρχη´ sono
tutti, in qualche misura, legati a questi interrogativi e rispetto ad essi
vogliono essere una risposta indiretta. Convinti, infatti, che il mestiere
dello storico si costituisca di un faticoso lavoro di ricerca e persuasi che il
modo migliore per porsi il problema del senso della storia sia contribuire
a gettare un minuscolo granulo di luce sulle tante aree del passato ancora
coperte da una silenziosa oscurità, si è ritenuto opportuno affrontare la
questione in modo per cosí dire trasversale. In altri termini, senza combinazioni precostituite o riflessioni ulcerate dalle voragini di un bilancio,
quanto, piuttosto, affrontando la domanda nel concreto esercizio storiografico – e critico – su varie questioni di ricerca, nel tentativo, ciascuno
dal suo punto di vista ed in ordine alla propria area di competenza, di fare
il punto intorno ai risultati conseguiti in merito ad un dato problema e di
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focalizzare l’attenzione sui nodi aporetici con i quali resta ancora da confrontarsi. Ora e dopo. Nell’eternità della ricerca critica.
Interrogarsi sul senso della storia equivale, infatti, a verificarne i molteplici sensi, a mettere alla prova i propri racconti, a verificare la legittimità delle ipotesi di lavoro, ad osservare in actu il modo in cui lógos e storia si coordinano nel concreto volgersi a fare chiarezza su un certo accadimento del passato. Ne sono conseguiti singoli percorsi d’indagine, programmaticamente slegati, dai quali discendono, in modo magari implicito, altrettante forme possibili d’intendere l’analisi storiografica in quanto
unico strumento in grado di catapultare in un altro presente.
In quest’ottica, il primo obiettivo perseguito è il rispetto della molteplicità dei punti di vista, pur nel comune richiamo al rigore analitico dell’approccio alle questioni; una molteplicità non piú intesa come una minaccia
di dispersione, ma valutata al modo di una risultanza preliminare e necessaria (trascendentale si starebbe per dire) alla costituzione di una pratica
storiografica autenticamente plurale, capace di comprendere la varietà sia
dei concetti di cultura legati a tempi o epoche, sia dei linguaggi attraverso
cui le idee e le culture hanno avuto modo di esprimersi. Anche questo può
essere un tentativo, poco eroico ma assai umano, di pensare la Storia riflettendo sulle storie, per assaporare il gusto di intendere da quante direzioni
- spesso in contrasto tra loro - un singolare collettivo come il termine stesso ‘cultura’ provenga. Questo il tratto d’unione che lega i singoli contributi confluiti in questo volume dal titolo monografico ambizioso per quanto persuaso della limitata (e necessaria) finitezza di quanto propone. In
tale prospettiva, ciascuna delle proposte di ricerca qui raccolte costituisce
proprio un’icona in movimento di un certo passato.
Sandro Ciurlia (La modernità e i suoi linguaggi. Oltre l’apofantico),
dottorando di ricerca in ‘Discipline storico-filosofiche’ (Università di
Lecce), si è occupato della complessa questione delle varie aree semantiche del concetto di modernità, in un tempo in cui s’inneggia, da piú direzioni ed a piú voci, al superamento del moderno, ritenuto un evo che ha
ormai esaurito la sua funzione storica. Attraverso una puntigliosa disamina delle componenti critiche poste ad alimentare tale torno temporale,
l’autore ha tentato di dimostrare quante linee di continuità persistano tra
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modernisti e postmodernisti e quanto, di conseguenza, la polemica accesasi tra le due sfere a confronto sia minata da un’incomprensione anzitutto linguistica e poi critica su cosa debba intendersi per modernità: un concetto, quest’ultimo, che rimane, in fondo, solo un nomen caricato di contenuti molto spesso variabili ed a malapena riconoscibili.
Paolo Pastori (Su alcuni aspetti del nesso tra filosofia ed esperienza storica. La persistenza dell’archetipo Socrate nel XIX secolo), docente di
Storia delle dottrine politiche (Università di Camerino), ha riflettuto sul
ruolo assunto dalla figura di Socrate negli sviluppi della filosofia europea
dell’Ottocento. Insistendo sulla categoria storiografico-critica dell’«archetipo» e dimostrandone l’estensione degli assi semantici anche rispetto al
concetto di «modello», Pastori ha tentato di tracciare costanti e variabili
dell’immagine filosofica di Socrate che la cultura europea ottocentesca ha
conosciuto. In tal modo, si è potuto rintracciare un filo di continuità tra il
grande paradigma dell’idealismo classico tedesco (Hegel) e gli sviluppi
del marxismo tardo positivistico (Labriola, Sorel), proprio all’insegna
dell’«emblema-Socrate».
Antonio Quarta (L’essenziale umanità del filosofare. Nicola Abbagnano
storico della filosofia), docente di Storia della filosofia contemporanea
(Università di Lecce), si è soffermato ad analizzare l’itinerario criticometodologico di Abbagnano, massimo esponente dell’esistenzialismo italiano novecentesco. Con ciò ha tentato di dimostrare in primo luogo di
quante suggestioni e di quanti volti si componga la sua proposta speculativa e, in seconda istanza, come l’esercizio storiografico di Abbagnano,
ancorché esempio di sobrietà e di rigore, sia una forma di storiografia
militante, fortemente impegnata sul piano critico.
Sandro Ciurlia (La storia: un altro presente o il nostro passato?), prendendo spunto da un recente contributo di Paolo Rossi, ha avuto modo di
focalizzare l’attenzione sullo statuto metodologico dell’indagine storiografica, allo scopo di valorizzare quella componente ermeneutica che la
rende, a suo modo, un’impresa critica, plasmata dal rigore della fedeltà ai
testi e dall’ostinata determinazione critica a violare i sigilli d’impenetrabilità del passato.
Come di consueto, ai Saggi segue lo spazio di discussione del Forum, in
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questa circostanza dedicato a Le stagioni del soggetto, un soggetto alle
prese con una crisi di senso che non lo rende piú il principesco interprete
dell’universo, ma, spesso, solo un brandello epifenomenico della realtà.
Stimolato da ciò, Sandro Ciurlia (Le ragioni forti del pensiero debole)
ha raccolto alcune osservazioni a margine di un recente studio di Gianni
Vattimo, nel quale la prospettiva del pensiero debole è giunta a combinarsi con i fondamenti forti della vocazione e della responsabilità.
Il saggio di Ciurlia mira a dimostrare, attraverso un’attenta analisi testuale, come tale corrente filosofica sia in buona parte riconducibile al paradigma di quel pensiero con forte vocazione fondazionale che ha dominato la modernità.
Antonio Quarta (Contro il soggetto ‘cannibale’. Rileggendo LéviStrauss), a muovere dall’antropologia strutturale di Lévi-Strauss, ha sottolineato la componente antiumanistica presente nel processo antropologico di studio dell’unità del genere umano perseguito attraverso la disamina
delle differenze tra le culture.
Con Giuseppe De Lorenzis (Fonocamptica), docente di materie letterarie nei licei, i problemi dell’interpretazione del mondo e della posizione
del suo interprete vengono, invece, suggestivamente letti da una prospettiva etno-antropologica, rispetto alla quale musica, rito e consuetudine
popolare svolgono funzioni essenziali.
L’ultima sezione della rivista – Effemeridi filosofiche -, per sua natura
intesa a soddisfare un’esigenza informativa, si costituisce di una serie di
recensioni di testi le cui tematiche risultano variamente legate ai temi trattati nel volume.
Desidero dedicare questo volume di ’Αρχη´ che ho l’onore e la responsabilità di curare alla memoria del compianto prof. Gigi Giannotti, alla sua
lezione di dignità umana e intellettuale che mi ha insegnato a cogliere le
nascoste vocalità del silenzio.
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L’etere di Zeus e i passi di Hermes etc.
NOTE
1
Cfr. soprattutto il saggio di A. KOJÉVE, L’idea della morte nella filosofia di
Hegel, in La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Torino, Einaudi, 1991, pp.
143-204: 182-204.
2
G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, voll. 4, Firenze, La Nuova
Italia, 1966-1967, v. I, p. 91.
3
Cfr. K. LÖWITH, Meaning in History, Chicago, Chicago University Press,
1947.
4
Cfr. I. KANT, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico,
in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, UTET, 1965, pp.
123-139: 136-7.
5
Cfr. J.G. HERDER, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, Torino, Einaudi, 1971, pp. 64-5; Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Roma-Bari, Laterza, 1992.
6
Cfr. ERODOTO, Le Storie, VII, 8, 1, Firenze, Sansoni, 1951, p. 625.
7
Cfr. R. KOSELLECK, Vergangene Zukunft, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1979.
8
A. KOJÉVE, In guisa d’introduzione, in La dialettica etc., cit., pp. 1-33: 6.
9
I. KANT, Idea di una storia universale etc., cit., p. 127.
10 P. RICOEUR, Tempo e racconto, voll. 3, Milano, Jaka Book, 1986-1988,
v. I, p. 7.
11 Id., v. I, p. 110.
12 Cfr. P. VEYNE, Comment on écrit l’histoire, Paris, Éditions du Seuil, 1971.
13 R. BODEI, La storia senza senso, in AA.VV., Filosofia al presente, a c. di G.
Vattimo, pp. 9-24: 14.
14 Ib.
15 F. TESSITORE, Il senso della storia universale, Milano, Garzanti, 1987, p.
297.
16 Id., p. 50.
17 H.G. GADAMER, Ermeneutica e storicismo, in Verità e metodo 2, Milano,
Bompiani, 1995, pp. 373-409: 385.
18 R. KOSELLECK, Istorica ed ermeneutica, in R. KOSELLECK – H.G.
GADAMER, Ermeneutica e istorica, Genova, Il Melangolo, 1990, pp. 11-37: 17.
19 H.G. GADAMER, Istorica e linguaggio. Una risposta, in R. KOSELLECK –
H.G. GADAMER, Ermeneutica etc., cit., pp. 39-49: 46.
20 R. BARTHES, Le discours de l’histoire, in “Informations sur le sciences sociales”, VI (1967), pp. 65-75: 65.
21 Cfr. H. WHITE, Metahistory, Baltimore, Johns Hopkins University Press,
1973; Tropics of Discourse. Essays in Cultural Criticism, Baltimore, Johns
Hopkins University Press, 1978.
22 Per questo l’analisi storiografica è rischiosa come ogni altro gesto di pensiero. Si veda, al riguardo, P. ROSSI, Introduzione, in AA.VV., Cinquant’anni di sto-
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Sandro Ciurlia
riografia filosofica. Omaggio a Carlo Augusto Viano, a c. di E. Donaggio ed E.
Pasini, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 15-39: 39.
23 R. BODEI, Se la storia ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, 1997, p. 76.
24 C. TAYLOR, Il disagio della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 48.
25 Cfr. G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, 45, voll. 2, Firenze, Sansoni,
19893, v. I, p. 31.
26 H.G. GADAMER, Istorica etc., cit., p. 49.
27 R. KOSELLECK, Istorica e ermeneutica, cit., p. 37.
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