prima bozza del contributo per il volume del prof. luigi guatri

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Prima bozza del contributo per il volume del prof. Luigi Guatri
“L’Italia che abbiamo trovato, quella che lasciamo”
Mi sono laureato a Genova in giurisprudenza il 22 luglio 1947 conseguendo
la dignità di stampa per una tesi di diritto civile, discussa con il prof. Ruggero
Luzzatto, sul contratto preliminare di compravendita.
I miei studi erano stati indirizzati prevalentemente sulle materie classiche
della facoltà di giurisprudenza: il diritto tributario era ignorato: docente di
scienza delle finanze e diritto finanziario era il prof. Jacopo Tivaroni,
economista, e così presso tutte le facoltà di giurisprudenza e di economia.
Il mio primo contatto con il diritto tributario avvenne allorquando mio
padre, lo stesso giorno della laurea, mi invitò a versare una quota per
concorrere alle spese di casa (vivevo, figlio unico, con i genitori): mi
domandavo di come mi sarei procurato i mezzi, ma mio padre mi offrì un
compenso per revisionare le bozze del commentario alle tre imposte
straordinarie sul patrimonio, introdotte nel 1947, nonchè della nuova edizione
de “La legge del registro” ed avviare un codice della stessa imposta in modo
innovativo. L’interessamento si sviluppò con il programma di mio padre di
riprendere la pubblicazione della rivista “Diritto e pratica tributaria” sospesa
durante la guerra: era stata fondata nel 1926 (e quindi mia coetanea, anzi più
giovane di un anno). La pubblicazione era perdurata anche quando mio padre si
occupava prevalentemente di diritto corporativo (anche come docente a
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Genova della materia) e questo altresì nell’esercizio dell’avvocatura,
soprattutto nelle controversie collettive di lavoro, quale consulente della
confederazione dei lavoratori dell’industria.
Ottenendo grandi risultati come la disciplina del “cottimo” e l’adozione
della indennità per la risoluzione dei rapporti di lavoro. Se ne distaccò
allorquando l’offerta, da parte dell’onorevole Di Vittorio di mantenere la
consulenza, era condizionata dalla iscrizione ad un partito della “triade”.
A poco a poco crebbe l’interesse per la materia, rilevandone gli aspetti
giuridici in corso di approfondimento da parte di alcuni, pochi, autori e
principalmente Oreste Ranelletti, Ezio Vanoni, Achille Donato Giannini, Luigi
Vittorio e Antonio Berliri e naturalmente mio padre, che erano i pochi che si
occupavano anche di esercizio della professione nella materia: gli avvocati,
anche perché non avevano ricevuto alcun insegnamento nella Università, la
disdegnavano. Le controversie in materia di imposte dirette generalmente erano
definite, al tavolo (e spesso sotto il tavolo) e i competenti (si contavano sulle
dita di una mano: Luigi Vittorio Berliri, Frè, condirettore dell’Assonime,
Bruno Visentini e mio padre, soprattutto per controversie in materia di imposta
di registro, definita la “regina” delle imposte giacchè l’applicazione
comportava una approfondita conoscenza di diritto civile, commerciale e
amministrativo. Si distingueva nell’Italia meridionale l’avv. Ettore Scandale, il
quale peraltro assumeva gli incarichi solo nella fase di esecuzione esattoriale.
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Anche per emulazione di un validissimo compagno al liceo Andrea Doria di
Novi Ligure (dove ero sfollato con mia madre, papà anche durante i
bombardamenti continuò l’impegno di lavoro a Genova) Carlo Maria De
Marini, nipote dell’avv. Di Stefano, assistente del prof. Filippo Vassalli, il
famoso civilista, ma soprattutto per la passione che mio padre dedicava
all’insegnamento, fui sospinto ad avvicinarmi alla carriera universitaria e fui
accolto come assistente volontario dal prof. Mauro Fasiani, titolare della
cattedra di Scienza delle finanze e diritto finanziario nella Facoltà di economia
di Genova, economista purissimo che non dava spazio al diritto
(marginalmente il dott. Eugenio Zunarelli descriveva i tributi vigenti). Con
molto zelo seguivo le lezioni di Fasiani, preparandomi sul testo di De Viti De
Marco da lui adottato, con ampi riferimenti alle teorie paretiane. E questo mi
giovò: Fasiani, purtroppo malfermo in salute, era solito lavorare di notte (dopo
una partita a bridge) e si alzava sul mezzogiorno. Ero all’inizio della mia
esperienza e frequentavo con un certo imbarazzo gli studenti, molti dei quali,
ormai trentenni, reduci dalla guerra e dalla prigionia :avevo evitato il servizio
militare imposto dai Repubblichini e dai tedeschi avendo aderito al movimento
partigiani Volontari Armati Italiani .Eravamo nel gennaio 1948. Una telefonata
alle 14 del Maestro che mi comunicava il suo impedimento per lo stato febbrile
e mi chiedeva di svolgere la lezione che iniziava alle 16 e continuare sul tema
delle “curve” di Pareto. Con una certa timidezza entrai in classe, era a ferro di
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cavallo, come quelle di medicina, salii sulla cattedra e nel sedermi la seggiola
da verticale divenne orizzontale! Che imbarazzo!
Le lezioni di Fasiani erano di pura economia, collegate alla finanza pubblica
teorica, senza alcun riferimento alle attualità nazionali : ne sentivo parlare
quando assistevo ai colloqui del Maestro con il prof. Ernesto D’Albergo che
veniva a visitarlo. Fu D’Albergo a rendersi conto del mio interesse ad inserirmi
nella vita universitaria ed a lui debbo l’incarico, nel 1954, alla Facoltà di
Economia dell’Università di Pisa: la materia era etichettata “Scienza delle
finanze e diritto finanziario”, ma due terzi del mio insegnamento erano dedicati
al diritto tributario, a questo sollecitato dal preside prof. Giannessi e dal prof.
Ricci.
E l’appoggio del prof. D’Albergo fu fondamentale: nel concorso per libera
docenza (sempre in scienza delle finanze e diritto finanziario) fu assegnato un
tema double face le doppie imposizioni, così che ebbi modo di sviluppare la
mia preparazione giuridica.
Nel contempo mi tenevo collegato con la Facoltà di Giurisprudenza, ricca di
insegnanti di alto livello e così Salvatore Satta (di cui divenni assistente nel
periodo in cui il titolare Carlo Maria de Marini compiva il servizio militare),
Mario Casanova, Orestano, Pugliese, Giuliano Vassalli, Roberto Lucifredi, ma
anche con i contatti che nel contempo avevo intrapreso a Milano dove ero
“espatriato” sperando di acquisire qualche cliente (la piazza di Genova era
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monopolio di mio padre!): con un amico, l’avv. Pier Lorenzo Clivio, ci
alternavamo in una stanza con un divano riservato ai clienti, che non
arrivavano, e spesso utilizzato per risparmiare l’albergo.
Un giorno ricevo una telefonata: “sono l’avvocato Sindona, ho sentito
parlare di lei, desidererei incontrarla. Bene per lunedì”.
Alla sera, tornato a Genova (vivevo ancora con i miei genitori) riferii, quasi
gloriandomene, della telefonata. Sindona era allora molto noto nell’ambiente
fiscale, ma non ne conoscevo le ragioni (i rapporti particolari con alcuni
funzionari): mio padre immediatamente mi invitò, quasi mi impose, di
cancellare l’incontro.
Era consapevole di come operava Sindona e quindi dovevo evitarlo.
Papà era molto rigido, ricordo un episodio: era il settembre 1947 e mi
consentì di accompagnarlo ad una riunione all’Ispettorato delle imposte di
Genova, dove era in discussione il tema della facoltà o meno degli armatori di
ammortizzare il cespite “nave” che avevano ottenuto in risarcimento per il loro
bene confiscato od affondato durante la guerra. La riunione si protrasse dalla 9
alle 14 e tutti fumavano, meno mio padre, accanito fumatore. Il fumo era
considerato nocivo non tanto per il cancro o per la pressione sanguigna, ma per
la gola: se papà non fumava era sintomo che sentiva la gola irritata. All’uscita
chiesi: “Non stai bene? Hai forse mal di gola?” – “No, sto perfettamente, ma il
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fatto è che se accendi una sigaretta, devi offrirla agli astanti e con quelli non
voglio avere neppure il rapporto di un sigaretta!!”.
Nelle puntate milanesi ebbi l’occasione di frequentare lo studio del prof.
Tullio Ascarelli (grande amico di papà, morirono nella stessa clinica di Roma il
21 papà ed il 22 novembre 1959 Ascarelli) e quindi entrare in amicizia
particolarmente con Ariberto Mignoli, Uberti Bona, Raffaele Nobili e
Valsecchi e fui incaricato di redigere per la “Rivista delle società”, appena
fondata, una rassegna di giurisprudenza per le imposte gravanti sulle imprese e
quindi di un tema sostanziale per il diritto tributario. Con il prof. Ascarelli mi
trovai – era inevitabile – a mio agio anche per gli studi comparatistici. E fui
molto orgoglioso dell’invito rivoltomi dal prof. Enrico Allorio nel corso di un
convegno, di contattarlo: ne derivò un rapporto molto intenso anche per
l’incarico di curare la nuova edizione di “Diritto processuale tributario”, opera
fondamentale ma non di facile lettura.
Allorio era molto esigente, anche nel soddisfare le sue curiosità sulle
dinastie genovesi. Drammatici per me erano i colloqui telefonici, sempre nel
timore di non capire le sue domande, spesso sommerse dalle sinfonie
wagneriane.
La mia prima monografia (1955) ebbe per oggetto “La tassazione degli
stranieri in Italia”. Mi era costato molto impegno giacchè in Italia gli studi
comparatistici erano pressochè ignorati dalla dottrina e dovetti trascorrere un
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certo tempo all’Accademia dell’Aja per reperire materiale utile per la mia
ricerca.
Esperienza che mi fu poi utile anche per la monografia sui “Principi
comunitari di diritto costituzionale tributario” (successivamente pubblicata in
Brasile ed in Argentina) e per l’ offerta di partecipare all’International Tax
Program, nell’Università di Harvard, con il volume sull’Italia (ma, impedito
per gli impegni in Italia, a me subentrò Francesco Forte).
Ascarelli e Mignoli determinarono i primi contatti con Bruno Visentini, e
quindi con Antonio Berliri e Cesare Cosciani e cioè il mondo dell’Assonime; e
così incominciai ad interessarmi della finanza pubblica e dell’assetto
dell’ordinamento tributario in termini concreti anche per l’impegno di mio
Padre, presidente dell’Associazione Nazionale Tributaristi Italiani. Erano per
me particolarmente istruttive le riunioni bimensili presso l’Associazione degli
armatori e la Camera di Commercio di Genova.
Il primo incarico professionale di rilievo mi derivò dalla casualità che
nell’estate del 1959 mi trovassi a Madras per verificare, su suggerimento del
prof. Valentino Dominedò (di cui fui assistente, sempre “volontario”, nella
cattedra di Economia politica), l’applicazione in concreto della Expenditure
Tax, di cui era propugnatore il prof. Nicholas Kaldor.
Mentre svolgevo tale compito, mi sopravvenne l’invito da parte
dell’Amministratore della Finmeccanica, dott. Giannini, di assistere l’Ansaldo
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nelle trattative che si stavano per aprire proprio a Madras per la stipulazione di
un appalto relativo alla costruzione di un impianto di fertilizzanti (su licenza
Montecatini) nella zona di Neyveli.
I primi quindici giorni di trattative furono estenuanti. Il mio dirimpettaio era
un “bramino” ma in contemporanea c’erano altre due delegazioni: una inglese
e l’altra olandese. Sembrava il gioco del “tira-mulino”: era un rincorrersi per
cercare di concludere alle migliori condizioni e sentivo la responsabilità del
ruolo, anche se capo delegazione era un dirigente di grande esperienza, l’ing.
D’Onofrio.
Di notte facevamo giorno, e di giorno la notte, con caduta talvolta sul letto
della tarantola che lo steward poneva in camera per sopprimere le zanzare.
Trascorsi quindici giorni il capo della delegazione indiana comunicò che i
lavori dovevano proseguire nella zona dell’impianto, a trecento chilometri a
nord di Madras, dove non c’era alcun conforto tranne il tetto di paglia di
qualche capanna, ma, appreso che la delegazione inglese ed olandese si erano
rifiutate di trasferirsi, noi accettammo.
La situazione poi non era troppo malvagia; alla sera ci trasferivamo a
Pondicherry, già protettorato francese, distante una cinquantina di chilometri di
boscaglia (ricordo la preoccupazione perché nel primo trasferimento
travolgemmo un bramino: per fortuna alla guida del nostro mezzo era un
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autista locale ed evitammo la furia della popolazione improvvisamente
spuntata dalla boscaglia).
Isolati dal mondo, dopo due settimane, chiudemmo l’accordo e ritornammo
a Madras dove trovai decine di telegrammi con i quali mamma mi informava
che a papà era stato diagnosticato un tumore e aveva deciso il ricovero a Roma
a Villa Sanatrix, ove operava Valdoni. E così la soddisfazione per il lavoro
svolto con successo si mutò in preoccupazione per la sorte di papà.
L’impegno divenne ancor più intenso a seguito della scomparsa di mio
padre (21 novembre 1959) e ciò anche nella professione, che fino allora mi
aveva poco assorbito. Con la morte di mio padre mi trovai nella necessità di
salvaguardare lo studio professionale (oggetto di invidia e di tentativi di
“preda” da parte di molti avvocati, specialmente professori universitari).
Ricordo che al termine delle esequie nella chiesa di Albaro il generale
Ruffini presidente del Consorzio del Porto di Genova, mi avvicinò e
nell’esprimere le condoglianze mi ricordò che il giovedì della settimana
successiva era in discussione al Consiglio di Stato una vertenza assai
importante, concernente la concessione del servizio di rimorchio e mi chiese di
suggerirgli chi designare per la difesa del Consorzio.
Con notevole spudoratezza gli riferii che ben conoscevo la pratica e che
quindi avrei provveduto alla difesa. Il giorno successivo, il capo dell’ufficio
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legale del Consorzio, mi informò che il Presidente l’aveva designato per
accompagnarmi all’udienza.
Per me non è molto gradita la presenza del cliente e tantomeno in tale
circostanza.
Ci imbarcammo sul rapido delle 18.30 e alle 23.30 si era a Roma (tempo di
percorrenza inferiore all’attuale); si consumavano decenti pasti nella carrozza
ristorante e c‘era anche il vagone pullman con poltrone e fiori. Scendemmo
all’Hotel Argentina.
Dopo un quarto d’ora prendo un taxi e mi faccio condurre in Via
Capodiferro, sede del Consiglio di Stato nel timore che se l’avvocato
Podenzana si fosse reso conto che non conoscevo neppure la sede dove si
teneva l’udienza gli sarebbe preso un colpo apoplettico.
L’audacia mi ha aiutato a conservare l’intera clientela acquisita da mio
padre ed in ufficio ero solo: c’era l’avvocato Giuseppe Antoldi, “giovane” di
studio, ma quasi un coetaneo di mio padre, che si occupava solo di controversie
di lavoro, ed era appena entrato
Corrado Magnani, ancora dottore, laureatosi con mio Padre.
Ma fin da allora il mio indirizzo era di non perdere le occasioni e spesso da
quelle che presentavano minori prospettive ne nacquero importanti incarichi.
E così ricordo che all’inizio dell’agosto 1962, l’avv. Domenico Borasio,
presidente dell’Eridania, molto legato a papà, mi chiamò per riferirmi che era
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stato incaricato dal CNEL di svolgere una relazione sul contenzioso tributario,
stato e prospettive: non era materia di suo interesse e conoscenza e quindi mi
invitava a redigere una relazione che doveva essere pronta per la fine del mese.
Informai mia moglie, già in macchina con Alessandra in partenza per un
periodo di vacanza a Champoluc, e quindi rientrammo in Via Galimberti.
Soddisfatto per il lavoro che prontamente gli consegnai, l’avv. Borasio –
affiancato dal prof. Giuseppe De Andrè – mi affidò la consulenza del gruppo e
per primo la redazione di una memoria conclusionale per la Commissione
centrale in merito ad una vertenza di interesse della collegata “Cavallino rosso”
S.n.c.
Ultimata la memoria, ebbi la infelice idea di chiedere all’amministratore,
dott. Pazzi un appuntamento per sottoporgli il mio elaborato di una ventina di
pagine, che gli lessi parola per parola: alla fine, ricordo ancora il gesto, il dott.
Pazzi si distaccò dallo scrittoio, aprì il cassetto e mi consegnò un blocchetto di
inviti per l’ingresso in cinema romani (era il presidente dell’associazione),
aggiungendo che…talvolta i biglietti sono più produttivi degli argomenti
giuridici.
Come ci rimasi male! Ebbi più volte a rammentare l’episodio allo stesso
Pazzi con il quale avevo stretto buoni rapporti (divenne presidente della
CONSOB), mettendomi al corrente di episodi della vita romana, e specie dei
suoi stretti rapporti con l’onorevole Giulio Andreotti. Si frequentavano alla
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corsa dei cavalli ed alla sera giocavano a scopa: nel mentre per parte mia
esaltavo i meriti e le capacità di Andreotti, una volta Pazzi obiettò: in tutto
eccelle, meno che nei numeri: quando giochiamo a scopa, spesso sbaglia, ma…
a suo favore.
Alla fiducia da parte dell’Eridania, ne conseguì quella dell’Agricola
finanziaria, di Monti e poi Ferruzzi, Gardini, Schimberni e quindi Montedison,
di cui fui consigliere di amministrazione, come prima dell’Agricola finanziaria,
della SOPAF, del Credito italiano (anche UK) e di Class Editori (e
successivamente anche presidente) di cui era amministratore delegato il mio
ottimo studente a Genova Paolo Panerai.
La corrente favorevole fu alimentata da una mia “invenzione”: era un
periodo di acquisti da parte di armatori italiani di navi straniere, la cui
importazione doveva essere soggetta all’IGE; prospettai, con successo anche in
Cassazione che il tributo non era applicabile in quanto il trasferimento di navi è
in sostanza parificabile alla cessione di azienda, operazioni non soggette al
tributo.
La mia notorietà si accrebbe nel 1980 quando sostenni, con successo,
dinanzi alla Corte Costituzionale, la tesi (artt. 3 e 53 Cost.) secondo la quale i
lavoratori autonomi, al pari dei dipendenti, non dovevano essere assoggettati
all’ILOR. La notizia mi portò all’effige su “Capital”, distribuita nelle edicole di
tutta Italia, il che creò anche…qualche invidia da parte di colleghi.
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Il lavoro fu molto intenso dovendo svolgere l’attività professionale e
ultimare una monografia da presentare per il concorso (a questo lavoravo notte
tempo dalle 23 alle 5 del mattino) e dormivo per due ore dopo cena e dalle 5
alle 7.20 più mezz’ora di “pennichella”.
Nel 1958 era stato previsto un concorso di ordinariato per scienza delle
finanze e diritto finanziario: appena dopo il decesso di papà alcuni professori,
che avevano manifestato appoggio alla mia candidatura, se ne dimenticarono.
Ma un gruppo di giuristi, sospinti dal prof. Salvatore Satta e dal prof.
Francesco Brambilla della Bocconi (che avrò sempre nella mia memoria per
intelligenza, disponibilità e affetto) e coordinati dal prof. Lorenzo Acquarone
(allievo di Roberto Lucifredi) con l’appoggio della scuola napoletana (in
particolare i professori Alfonso Tesauro e Giuseppe Abbamonte) fece
un’intensa campagna elettorale, gli economisti furono sopraffatti e risultarono
eletti Satta, Lucifredi, Abbamonte, Nigro e Silvestri e così, nel 1967, vinsi il
concorso bandito dall’Università di Ferrara e lo stesso giorno fui chiamato alla
cattedra di Genova.
Successivamente furono chiamati dalla Facoltà di giurisprudenza di Genova
i miei allievi, i professori Corrado Magnani e Gianni Marongiu con i quali
fondammo la così detta Scuola genovese di diritto tributario ed istituimmo il
primo dottorato di diritto tributario internazionale, che si avvalse anche di
autorevoli docenti stranieri e per primo, il prof. Jaap Van Hoorn. Nel
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contempo, a partire dal 1970 più volte i professori Gasparini, in allora preside,
Francesco Brambilla ed Ariberto Mignoli mi proposero il trasferimento alla
istituenda cattedra di diritto tributario presso la prestigiosa Università Bocconi,
ma non me la sentii per ragioni familiari (specie la mamma anziana e la cura di
tre figli essendo divorziato) e per l’attaccamento alla mia facoltà natale, ma
accettai di assumere l’incarico (fu il primo insegnamento, in Bocconi, della
materia) fondando, nel 1975 il Centro di ricerca tributaria delle imprese (Certi)
che acquisì notevoli incarichi anche da parte di governi ed enti pubblici e così
fra i tanti:
1) per la Comunità Europea sugli interventi antiriciclaggio e paradisi fiscali
e per la collaborazione al Comitato Ruding, sollecitato dal prof. Albert
Rädler;
2) per la Regione Sicilia, preconizzando un regime fiscale “Irlanda” (ma
anche qui fu preziosa l’esperienza, con tante difficoltà d’ambiente del
prof. Guatri con la SOFIS);
3) per l’Autorità Portuale di Genova per la istituzione di una “zona franca”;
4) per l’Unione Sovietica, con la creazione dal 1987 di una scuola per
managers gestita dalla Sogea di Genova, il che poi indusse la Bocconi ad
una simile iniziativa a Pietroburgo.
Nel proprio ambito istituì il Master in diritto tributario, uno dei primi in Italia.
E l’incarico alla Bocconi perdurò dal 1968 al 2000.
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E nelle due università si formarono numerosi allievi fra i quali i professori
Raffaello Braccini, Guglielmo Maisto, Giuseppe Marino, Andrea Manzitti,
Mario Miscali, Salvatore Muscarà, Giuseppe Corasaniti.
L’interesse alla finanza pubblica, ed in particolare all’ordinamento
tributario si accrebbe anche nelle funzioni di membro del Consiglio superiore
delle finanze, istituito per iniziativa del ministro Valsecchi, che purtroppo ha
scarsamente operato tranne che per impulso del ministro Francesco Forte, tanto
che quando ministro era Bruno Visentini, ricevuto un assegno di alcune
migliaia di lire, lo respinsi perché l’importo era eccessivo per quanto avevamo
fatto.
Intenso fu anche l’impegno di membro del Consiglio nazionale
dell’economia e del lavoro (per designazione del prof. Visentini) in particolare,
coadiuvato dal segretario generale dott. Valentino Valentini, dirigendo il
gruppo costituito per la richiesta del ministro Goria di una ricerca per un “fisco
ordinato” dalla quale scaturirono importanti provvedimenti quali lo Statuto del
contribuente, la tassazione dei redditi di capitale, i rapporti internazionali, il
contenzioso, etc.
E questo portò alla consulenza a governi stranieri, quali la Repubblica
popolare cinese (per la normativa sugli investimenti esteri attraverso joint
ventures, l’arbitrato e il catasto), la Unione delle Repubbliche Sovietiche (con
una scuola per funzionari addetti alle joint ventures), l’Argentina (fra l’altro
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promuovendo un accordo per intervento del presidente Domingo Cavallo tra il
Ministero delle finanze e l’AFIP per la riforma dell’ordinamento tributario), il
CIAT (organismo di collegamento governativo fra i 27 Stati dell’America
Latina) e con numerose università, fra le quali l’UBA, di Buenos Aires, che mi
ha conferito la laurea honoris causa e la Università Cattolica di Salta: il rettore
prof. Patricio Colombo Murua mi nominò presidente dell’Instituto de Derecho
Tributario.
E poi (1983) l’operazione di salvataggio del Corriere della Sera, prossimo al
fallimento in conseguenza soprattutto di negative operazioni finanziarie in capo
alla holding RCS ed il deficit per il settore libri. Ritenendo gravemente nociva
la sparizione del giornale, anche nei rapporti internazionali per la diffusione
mondiale, ebbi modo di approfondire la situazione e rilevai che il Corriere
della Sera ben poteva sopravvivere, ma occorrevano validi supporti.
Non agivo nell’interesse di clienti, tutto a mio carico, ma agivo solo per
salvare il “Corriere”.
All’epoca era necessario l’appoggio politico e così incontrai Craxi e
Vittorio Merloni ai quali prospettai l’operazione di salvataggio con chiamata di
imprenditori: furono d’accordo, ma Craxi pose quale condizione che non ne
facesse parte Carlo De Benedetti.
Per primi incontrai Giovanni Agnelli e Cesare Romiti, ma la risposta fu
temporeggiatrice, adducendo per questo l’impegno ne “La Stampa”.
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Passai a visitare i principali imprenditori del momento a Milano, ma senza
ottenere adesioni, se non di incoraggiamento, adducendo, in buona parte, che la
proprietà del Corriere della Sera portava “jella”. Tornai da Craxi, esponendo la
situazione e prospettando di estendere l’invito a Carlo De Benedetti: Visentini
mi aveva riferito della grande disponibilità, al momento investita in titoli di
Stato. Lo convinsi, ne parlai con Visentini, ma dopo alcuni giorni anche lui
rispose negativamente (probabilmente per i legami con Scalfaro e “La
Repubblica”).
Incominciai allora a girare per l’Italia (oltre 220 incontri) e l’unico
disponibile fu un imprenditore di Ancona, L. Longarini, costruttore edile, ma
non aveva il phisique du role.
E il tempo passava e si avvicinava la chiusura della procedura concordataria
e quindi il fallimento; ero amareggiato anche perché avevo l’appoggio morale
di Spadolini, Guzzetti e Bazoli e la perseveranza di Guatri nel portare avanti la
procedura fra mille difficoltà. Schierata dalla parte avversa era soprattutto la
Repubblica con messaggi trasmessimi dagli amici Ariberto Mignoli e Mario
Caselli, da parte del direttore Scalfari minacciosi di dossier a mio carico
(rintuzzati con il rispondere che avrei affrontato… qualche ira di mariti). Al
circuito di Monza di Formula Uno, riparlai con Cesare Romiti facendo presente
che stavano anche perdendo un ottimo affare e alla fine un gruppo di
imprenditori, assistiti da Guido Rossi, aderì al programma di salvataggio.
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Grande soddisfazione mi ha dato il portare avanti la battaglia per attuare in
Italia la direttiva europea di liberalizzazione dei movimenti finanziari
internazionali e così superare la norma per la quale era consentito effettuare
operazioni all’estero solo se autorizzate dal Ministero per il commercio con
l’estero.
Il primo approccio fu una intesa fra la Camera di commercio di Genova
(presidente G. V. Cauvin), di Milano (Piero Bassetti) e di Torino (Enrico
Salza).
Il compito mi fu facilitato per l’apporto determinante dei professori
Beniamino Andreatta e Alberto Predieri e così si arrivò alla legge, determinata
anche dalla conferenza a Genova del 28-29 ottobre 1983, i cui atti (pubblicati
dalla Cedam) sono una testimonianza dell’impegnativo lavoro.
Nacque anche per lo studio un nuovo settore di attività ed ottenemmo il
primo leading case (vedi sentenza Tribunale di Roma , concernente il transfer
price per contestazione sulle importazioni delle banane, con risultati raggiunti
anche per avere attentamente seguito i lavori dell’OECD, conclusosi con il
primo rapporto del 1979 e convinto il ministro Reviglio ad emanare, assistito
dal giovane collaboratore prof. Giulio Tremonti, la famosa circolare settembre
1980 che è tutt’ora la guida base per gli operatori e per l’Amministrazione
finanziaria.
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Nel 1982 – con la Perestroika – iniziò il mio impegno con l’Unione
Sovietica, introdotto da Jack Clerici che da tempo aveva rapporti di affari assai
intensi: lo ricordo come, con eleganza (anche nel vestiario) e competenza,
primeggiava nelle riunioni con i sovietici…contadinotti.
Attorno al 1970 mi ero affacciato nell’Unione Sovietica per la registrazione
al nome della FIAT della stabile organizzazione per la costruzione di auto a
Togliattigrad, la prima da parte di una impresa straniera. All’inizio con molta
diffidenza e sotto controllo: non vorrei essere irriverente, ma come Papa
Giovanni era solito baciare la nuova terra dove arrivava, io … baciavo la
scaletta dell’aereo che mi riportava, dopo infiniti controlli, nella Europa libera.
L’inizio occorse quando l’Ambasciata della Unione Sovietica mi interpellò
per sentire se ero disponibile, come lo ero stato per la Repubblica popolare
cinese, per una conferenza a Mosca ed alla mia risposta positiva mi chiesero a
quanto sarebbero ammontati i miei onorari; riferii che il trattamento sarebbe
stato come quello da parte del Governo cinese: nessuno compenso giacchè
consideravo l’attività rientrante fra i doveri di un professore universitario,
precisai che il Governo cinese mi aveva compensato con un magnifico viaggio
nel Tibet, ancora chiuso agli stranieri, e se avessero avuto intenzione di fare
altrettanto per un viaggio in Siberia ponevo come… condizione il mio
consenso.
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Venne l’invito per un certo mercoledì: avendo il giorno successivo udienza
in Cassazione, patrocinando la US Navy per una controversia discendente da
Sigonella, posi come condizione l’assoluta necessità di imbarcarmi su un aereo
per Roma, via Vienna, nello stesso mercoledì.
La conferenza era nell’ampia aula della Camera di Commercio di Mosca,
con oltre mille partecipanti. Nel ringraziare per essere uno dei primi invitati
stranieri a parlare degli effetti della Perestroika per lo sviluppo degli
investimenti stranieri, li ammonivo sulla necessità di modificare le regole di
accesso: avete impiegato un mese e mezzo per rilasciarmi il visto d’ingresso.
Di certo le imprese straniere, disposte ad operare nell’Unione Sovietica, non
sarebbero state disposte a tanta lungaggine per inviare loro tecnici, specie nel
caso di interventi d’urgenza. Grandi furono gli applausi ogni qual volta
sottolineavo la necessità di revisione dello stato di polizia.
Molte furono anche le domande di come strutturare le joint ventures.
Tardammo nelle domande e nelle risposte ed ero preoccupato per il mio aereo.
Mi condussero in albergo per ritirare la mia valigetta e rimasi intrappolato
nell’ascensore fra il sesto ed il settimo piano. Alla fine riuscirono a sbloccare
l’apparato, un ufficiale mi prese sottobraccio e con forza mi fece salire su
un’auto della polizia che partì a sirene spiegate. Mi sorse il dubbio di essere
portato in gendarmeria per quanto avevo detto in merito all’urgente necessità di
modifica del regime poliziesco o per aver rinvenuto nella mia valigetta (di
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certo nottetempo sottoposta a perquisizione) la procura per partecipare
all’udienza sottoscritta dal presidente Ronald Reagan: e invece mi sono trovato
alla scaletta dell’aereo dell’Austrian Airlines!
Non appena rientrati in Italia, mi invitarono a predisporre un contratto tipo
per le joint ventures, necessario per gli affari che confidavano concludere.
Impiegai circa tre mesi per predisporre la voluminosa bozza; era di tipo
americana (e cioè con le clausole che noi troviamo nei codici).
Ritornai a Mosca per sottoporre la bozza ad una commissione di esperti
giuristi: alla fine mi ringraziarono, ma ammisero di non essere familiari con
una siffatta cotrattattualistica e mi chiesero “cosa dobbiamo fare?” La mia
risposta: “studiare per una adeguata preparazione”.
Di là venne il suggerimento di istituire una scuola ad hoc e mi invitarono ad
occuparmene. Era la fine di luglio ed il programma prevedeva l’avvio della
scuola entro agosto, presi vari contatti e non trovai adesioni (anche perché non
era previsto alcun compenso) se non nella piccola Sogea (Società di gestione
aziendale) di Genova, entusiasta di mettersi al lavoro al di fuori della Liguria
per tanto prestigioso incarico.
Passarono i mesi, senza riscontro da parte sovietica. In dicembre mi chiamò
Popoff, ministro dell’economia, chiedendo la mia disponibilità a collaborare
per la redazione di un codice fiscale. Risposi che non me la sentivo di assumere
tale incarico: a parte il fatto che di parlare di tasse ne avevo abbastanza in
22
Italia, ero deluso per il silenzio dinanzi all’offerta di istituire una scuola.
Questo promosse una visita per accertare l’adeguatezza della Sogea, alla fine
fummo informati che era qualificata, ma avevano previsto un raffronto con Ena
e la London School of economics. Mi sentii raggelato di fronte a tanti colossi,
ma non mi scoraggiai: invero i concorrenti ponevano come condizione
essenziale di essere i soli docenti: invece eravamo ben disposti ad avvalerci di
docenti sovietici, anche perché alcune materie avrebbero dovuto essere
insegnate, secondo le regole del paese, in particolare contabilità (basata sul
criterio di cassa), assicurazione e regime del lavoro. E così la Sogea vinse la
gara ed incominciò il nostro compito con grande soddisfazione: gli alunni
sarebbero stati una cinquantina di cui la metà italiani per consentire alle nostre
imprese un’adeguata preparazione per i loro dipendenti destinati a lavorare
nell’Unione Sovietica.
Fummo molto aiutati, per organizzarci a Mosca, da parte di Abel G.
Aganbegyan, membro dell’Accademia delle scienze dell’URSS che aveva
molta influenza, anche per lo stretto rapporto con Gorbaciov, con cui ebbi
molte occasioni di incontro. Ci fu riservata una palazzina con sistemazione
alberghiera: la prima mattina, con il thè, mi fu portata una porzione,
abbondante, di caviale. Feci presente che non eravamo abituati a tanto lusso,
mi bastava un frutto; la mattina seguente al posto del caviale, trovai un
pomodoro. Poco dopo mi accorsi in quale difficoltà li avevo posti: di pomodori
23
non c’era mercato, venivano portati da contadini della Georgia che, quando
trovavano posto in aereo, in sacchetti portavano nella capitale prodotti della
loro terra.
La scuola perdurò per circa un quinquennio, ma fu poi chiusa giacchè gli
imprenditori italiani non ritennero di sopportare la spesa a loro carico, anche se
in sostanza consistente solo nelle spese di viaggio e di soggiorno in Italia dei
25 sovietici.
Pubblicammo anche il volume “Le società miste Italia – URSS”, con
edizioni sovietica ed italiana (Il Sole 24 ore) e presentazione da parte di Giulio
Andreotti, allora presidente del Consiglio, e dal ministro Kostantin Katuscev,
ministro delle relazioni economiche con l’estero. Ricordo un episodio: la
presentazione italiana doveva essere predisposta dal ministro Renato Ruggiero,
ma tardava ad arrivare; lo dissi ad Andreotti, in occasione della Fiera Italia
2000 che si offrì di predisporla e lo fece durante il viaggio di rientro: così uscì
il volume che ebbe un immensa diffusione nell’Unione Sovietica con ripetute
presentazioni in televisione cosicché divenni largamente conosciuto: il che fece
colpo su Gardini quando con Reviglio venne a Mosca per la stipulazione di una
joint venture con i sovietici e la Occidental peraltro non attuata).
Durante tale attività, fui nominato presidente della Camera di commercio
italo – sovietica ed ebbi molti contatti, sempre proficui, con l’ ambasciatore
24
Sergio Romano, che peraltro fu dimesso, si dice, per non aver computamente
informato il governo della rivoluzione per effetto della Perestroika.
E nello stesso periodo partecipai, in rappresentanza dell’Italia, alle riunioni
del “Committee on the development of trade”
dell’Economic and Social
Council delle Nazioni Unite a Ginevra, particolarmente per sorvegliare gli
sviluppi dei rapporti economici con l’Unione Sovietica e sono stato nominato
membro del board della International Chamber of Commerce, a Parigi.
In questo periodo si intensificò il rapporto con il professor Luigi Guatri che
da professionale divenne di affettuosa amicizia: fu una immensa gioia. E così
con la creazione di ACBGroup, per un collegamento di una cinquantina di
studi, e la chiamata in un gruppo di autorevoli
studiosi bocconiani, per
delineare le linee guida per le valutazioni incorporate nel volume “Linee guida
per le valutazioni economiche” (ed. Egea, 2009) che porta il mio nome accanto
a quello di Luigi Guatri, e ancora, nel 2011, la fondazione della rivista
“Strumenti finanziari e fiscalità”, anche questa nell’ambito della Bocconi.
Anche attraverso questa rivista ho manifestato la preoccupazione per i 757
milioni di dollari, pari a circa undici volte il Pil mondiale e l’urgente necessità
di interventi nella prospettiva di “trasparenza”.
L’amicizia si consolidò negli incontri ad Arenzano ed è una tradizione
scambiarsi, seppur brevemente, opinioni ed affetto sul sagrato della chiesetta di
25
Arenzano Pineta, e purtroppo ci manca la diletta Lina, solita a commuoverci
accompagnando i canti della Messa.
Unitamente - ma non a scapito, se mai a vantaggio per la conseguente
osmosi - all’attività di insegnamento viene svolta la professione di avvocato. E
ciò anche per il fine di …reperire i mezzi economici per affrontare le necessità
della vita, non coperti dal salario per insegnanti: senza mirare alla ricchezza se
non quella per una vita agiata: casa, salute, famiglia e così anche evitando le
ansie degli investimenti speculativi.
La nostra è tradizionalmente una boutique, disponibile anche per le
necessità più modeste (e quante volte capitano), ma con l’ambizione di
assistere il cliente nel miglior modo possibile, con tutte le nostre forze.
Secondo le indicazioni di mio padre, ciascun cliente non dovrebbe superare il
5% del gettito globale per la nostra libertà e nell’interesse del cliente, al quale è
bene anche dir di “no”: tutto per il cliente, mai per i suoi capricci o le sue
avventure.
Negli anni il lavoro si è notevolmente accresciuto e quindi non era più
sufficiente la dedizione personale, era necessaria una collaborazione collettiva
e così fu fino al 2000, con i professori Corrado Magnani e Gianni Marongiu
(colleghi anche nella Università) e poi la vita ci ha portato a separarci, in un
periodo duro, avevo anche problemi familiari. Ci furono nuove aggregazioni
per me non soddisfacenti anche perché nelle scelte dei collaboratori l’elemento
26
determinante, accanto al merito è la fiducia. Nel 2008 con mio figlio Antonio
decisi di costituire l’associazione con partecipazione paritaria nelle decisioni e
compenso quantificato sulla attività dei singoli, con giovani avvocati di
eccezionale capacità, Giuseppe Corasaniti, Caterina Corrado Oliva e Paolo
de’Capitani di Vimercate, tutti e tre impegnati anche nella ricerca scientifica e
nell’insegnamento. Insieme abbiamo varato il “Manuale di diritto tributario
internazionale” (edito dalla Cedam): è in corso la seconda edizione con larga
diffusione nell’America Latina con edizioni in nove Paesi (è già stato
pubblicato in Colombia e Argentina), ciascuno con l’adattamento nella parte
speciale al loro ordinamento. Da allora trascorsi un periodo di gran serenità e
entusiasmo anche perché in loro vi sono eccezionali capacità per affrontare
difficoltà sempre crescenti, specialmente in materia tributaria, anche per
l’apertura di nuovi e complessi fronti.
L’ufficio ha sede a Genova (ove sono allietato dalla affettuosa presenza,
quasi quotidiana, di mia figlia Alessandra) Milano, Roma e Buenos Aires (con
presidio anche di mia figlia Francesca e dell’avv. Cristian Billardi). La famiglia
è cresciuta: otto nipoti e due pronipoti.
Nell’anno 1999 è stata costituita la Fondazione Antonio Uckmar che ha lo
scopo di proseguire l’opera del prof. Antonio Uckmar, promuovendo in sua
memoria le ricerche e gli studi di diritto tributario e così provvede alla gestione
delle riviste, di cui ha la proprietà delle testate, “Diritto e pratica tributaria” e
27
“Diritto e pratica tributaria internazionale” nonché la collana (aperta nel 1926)
“Il diritto tributario”, cura la biblioteca, (una delle più fornite in Italia nel
settore tributario), organizza incontri e convegni (tradizionali sono i “Venerdì
di diritto e pratica tributaria”) con accesso gratuito, sostiene i giovani (anche
con stages e borse di studio) impegnati nello sviluppo degli studi, bandisce
concorsi per partecipare a scuola di specializzazione, ospita studiosi anche
stranieri.
La Fondazione bandisce periodicamente il “Premio Antonio Uckmar”: per il
2012 prevede una borsa di studio per la partecipazione al “Visiting Research
Scholar Program”, presso l’Institute for Austrian and International Tax Law
(Università di Vienna) per un periodo di sei mesi, con il contributo di euro
10.000.
Ogni lunedì – per l’intero anno – anche con la guida del prof. Cesare Glendi
e con riconoscimento di crediti di formazione – in collegamento con Milano e
di recente con Roma – ospita un gruppo di giovani per esaminare la
giurisprudenza pubblicata nella decorsa settimana e ciò anche per avviarli alla
collaborazione con le riviste.
La Fondazione ha proprie risorse per effetto degli iniziali conferimenti (fra i
quali l’immobile ove ha sede) e tutti i miei diritti d’autore, ai quali spesso si
aggiungono quelli generosi di autori della collana.
28
L’attività continua nell’insegnamento, perché credo sia nostro dovere
trasmettere ai giovani le nostre esperienze ed aiutarli ad entrare, preparati, in un
settore importante della vita civile, la fiscalità, sia come professionisti che
funzionari e anche cittadini. E così, da pensionato e da emerito, sono stato
incaricato dell’insegnamento alla facoltà di Economia della università di
Bologna (undici ore di treno per due ore di lezione!) e altrettanto alla Luiss per
“diritto tributario europeo” ed a Macerata e qui, soprattutto, per tutelare lo
svolgimento di un concorso per ricercatore. Sperabilmente da assegnare per
merito del candidato (il che purtroppo non sempre avviene. Sarei portato alla
critica sia per esempi e sia per esperienza dell’insegnamento in molte facoltà,
anche sul piano organizzativo, ma questo è per altra sede.
Nel contempo mi sono impegnato in attività dedicate alla mia città, fra
l’altro come presidente della FILSE (la finanziaria regionale), della Zona
franca di Genova e dell’avvio dell’Expo mondiale del 1992 (sospinto
dall’Ambasciatore Usa Max Raab) ma con molte delusioni: è difficile
sospingere i genovesi nelle iniziative (se lo fa, lo farà per il proprio interesse!).
Grande soddisfazione traggo, invece, da iniziative benefiche e assistenziali,
come per l’Associazione per la ricerca sul cancro: la Liguria da anni primeggia
nella raccolta di fondi, fra le prime regioni per indice di penetrazione (rapporto
fra popolazione e raccolta).
***
29
Allorquando mi avvicinai al diritto tributario, il sistema sostanzialmente era
ancora quello attuato con la unificazione del Regno d’Italia negli anni 1861 –
1876, con l’imposta sui redditi immobiliari, in sostanza modellato sulla
legislazione piemontese secondo lo schema predisposto da Sella e l’imposta di
registro; l’imposta complementare progressiva sul reddito fu introdotta nel
1923 ed il riordino della finanza locale fu attuato con il Testo Unico del 1931
(disciplinante un centinaio di tributi) e con l’introduzione della imposta sugli
scambi, matrice dell’imposta generale sulle entrate introdotta per affrontare le
spese di guerra.
I tributi erano orientati per una economia essenzialmente agraria e quindi in
Italia non c’era stata una evoluzione, quale si era avuta in Germania, Inghilterra
e Francia per il passaggio all’economia industriale e commerciale. Le prime
reazioni furono manifestate da Antonio Uckmar che, nel 1926, anno di
fondazione della rivista Diritto e Pratica Tributaria, già dal n. 1 denunciava le
esigenze di rinnovamento.
La mia attenzione fu attratta dai lavori preparatori della Costituzione
repubblicana, e per primi da quelli inerenti l’introduzione di un’imposta
straordinaria sul patrimonio (stavo correggendo le bozze di un commentario in
corso di elaborazione da parte di mio padre): la necessità di un sistema la
desunsi particolarmente dagli studi di Ezio Vanoni, con particolare riguardo ai
30
principi codificati dagli artt. 3 (uguaglianza), 23 (legalità), 53 (capacità
contributiva).
Vanoni, laureatosi nell’Università di Pavia nel 1925 con una tesi su “Natura
e interpretazione delle leggi tributarie”, e appena dopo assistente volontario del
prof. Benvenuto Griziotti, ottenuta con l’appoggio di Luigi Einaudi, una borsa
di studio della Fondazione Rockefeller, frequentò per due anni in Germania le
Università di Bonn, Berlino e Francoforte dedicandosi prevalentemente allo
studio del primo sistema tributario introdotto in Germania nel 1919 e alle
relativa ricca letteratura. E così approfondì temi che divennero base delle sue
opere come il rapporto tra diritto pubblico e privato, la struttura delle
obbligazioni tributarie, l’interpretazione delle norme tributarie, la causa della
imposizione, che è da ricondursi ai benefici della spesa pubblica e nel dovere di
solidarietà.
Accompagnò la ricerca scientifica con l’esercizio della professione di
avvocato in Milano. E questo lo portò alla seconda opera “Osservazioni sul
concetto di redditi in finanza”, con analisi delle diverse nozioni di reddito
anche agli effetti della tassazione.
Dopo aver fallito per due volte (a Messina e Camerino), in quanto i
commissari economisti ritenevano che i suoi contributi fossero “privi di
originalità” (!!!), alla terza conseguì la cattedra e dal 1933 fu incaricato di
Scienza delle finanze e diritto finanziario nell’Università di Roma, subentrando
31
a De Viti De Marco, e durante tale periodo abbracciò rapporti con politici quali
Giulio Gonella e Alcide De Gasperi che furono determinanti per la successiva
vita politica, e per primo per l’elezione a deputato della Costituente e membro
della Commissione dei 75 per la redazione del progetto di Costituzione e dal
1948 al 1956 (muore il 16 febbraio 1956) per diverse volte copre la carica di
Ministro delle finanze, ovvero del bilancio o del tesoro sotto la presidenza di
De Gasperi, Pella e Segni.
Già nei lavori per la Costituzione, essenziali anche per riflessi di attualità,
furono i suoi apporti per l’art. 53, che ispirarono anche la riforma del 1951, con
affermazione dei principi di tassazione sulla base della capacità contributiva e
di progressività del sistema tributario e con la introduzione della dichiarazione
annuale dei redditi obbligatoria.
Furono per me di guida nella preparazione della prima mia monografia “La
tassazione degli stranieri in Italia”. La motivazione addotte da Vanoni per l’uso
della espressione contenuto nell’art. 53 della Costituzione secondo il quale
“tutti” sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche e quindi non i soli
“cittadini” come scritto in norma analoga dello statuto albertino, affermando
che all’obbligazione tributaria sono tenuti anche gli “stranieri”, e così in
“Elementi di diritto tributario” in quanto beneficiano della spesa pubblica.
Anziché “stranieri” sarebbe stato più appropriato il riferimento a
“fiscalmente residenti” e quindi faccio ammenda del titolo della mia
32
monografia : ma se l’aveva usato Vanoni, è ben comprensibile che io sia
caduto in tale improprietà di espressione.
Assai rilevanti per me, anche per gli sviluppi futuri, furono gli interventi di
Vanoni in sede di lavori per la Costituzione in merito al contenzioso tributario
(per l’importanza dell’argomento, nonostante facesse parte della seconda
sezione, chiese di essere ascoltato per rilevare la situazione in cui si trovava la
giustizia tributaria e la necessità di eliminare l’”arbitrarietà esistente”) e
l’ordinamento regionale: ritenevo che dovesse essere impostato prima di tutto
agli interessi nazionali.
Voglio ricordare che, ancora prima degli interventi per la nuova
Costituzione, Vanoni aveva apportato notevoli contributi per l’inquadramento
delle leggi di imposizione “entro un geniale, armonico sistema di diritto
tributario” e ciò a fronte delle direttive riportate il 1° febbraio 1938 dal
Ministro del tesoro P. Thaon di Revel, nella consapevolezza che quello
sottoposto dal Ministro “è certamente uno dei più importanti tra i problemi che
la legislazione e l’amministrazione finanziaria del nostro tempo son chiamate a
risolvere: anzi vorrei dire il più importante di tutti, dopo quello essenziale di
assicurare il gettito tributario necessario alla copertura del fabbisogno dello
Stato.
“Nè esso è specifico della legislazione italiana. Molti paesi hanno sentito ed
affrontato in tempi vicini il problema della codificazione tributaria”.
33
Secondo Vanoni “Il problema della riforma tributaria può presentarsi sotto
un
duplice aspetto: o come problema della mutazione dei sistemi di
imposizione, in conseguenza della cessata rispondenza del sistema vigente
all’organizzazione politica ed economica dello Stato; o come problema
dell’affinamento
degli
strumenti
di
imposizione,
in
conseguenza
dell’evoluzione della tecnica finanziaria e del progresso nella scienza del diritto
tributario. Non mancano certo tra i due ordini di problemi interferenze e
relazioni di causa ed effetto e di concomitanza: perchè una riforma ab imis del
sistema dell’imposta, che innovi i primi principi dell’imposizione, non è
evidentemente pensabile senza una variazione degli istituti tributari sia nel loro
aspetto tecnico che nella loro formulazione giuridica: mentre una
modificazione esteriore degli ordinamenti dell’imposta, anche se mossa
prevalentemente da considerazioni tecniche e formali, offre spesso l’occasione
e lo stimolo per l’introduzione di variazioni sostanziali in qualche particolare
settore del sistema.
“Ma interferenze e relazioni non tolgono che il problema si ponga in modo
diverso nei due ordini di casi: esso si presenta come un problema politico (di
indirizzi di politica generale e di politica tributaria) ed economico (di
conseguenze dell’azione pubblica sullo svolgimento dei fenomeni della
ricchezza) nel primo caso: come problema tecnico (del miglior ordinamento
34
rispondente ai principi politici accolti ed alle condizioni economiche esistenti)
e giuridico (della migliore formulazione ed attuazione dei comandi attraverso i
quali l’imposizione si realizza) nel secondo”.
Dopo aver esaminato successivamente le riforme attuate in Inghilterra,
Francia e Russia, Vanoni si soffermava con particolare attenzione sulla riforma
tributaria
tedesca
che
aveva
preso
origine
nel
1919
dalla
Reichsabgabenordnung premessa per la codificazione dei principi generali che
governano il tributo.
Vanoni avvertiva che “anche in Italia sono immanenti la necessità e l’
urgenza di
una riforma tributaria. Le sente il cittadino che paga le imposte, le sente il
funzionario che le amministra, le sente il giudice che deve risolvere le
questioni controverse di applicazione, cosi come le rilevano il politico, che
avverte una discontinuità crescente tra l’organizzazione politica ed economica,
che il corporativismo sta costruendo, ed il sistema di imposizione, e lo
studioso, che vorrebbe ordinamenti sempre più logici, sempre più equi e
rispondenti ad una più uniforme ripartizione del carico fiscale tra i contribuenti.
Di tali necessità si è reso interprete il Ministro delle Finanze, proponendo lo
studio della rinnovazione delle leggi d’imposta”.
E così continuava: “Il problema dunque della riforma si pone in questo
momento in Italia come problema di affinamento degli strumenti di
35
imposizione, non come problema di mutazione dalle fondamenta del sistema di
imposte in vigore. Questo non significa per che si possa interamente
prescindere dal considerare le possibilità di mutazione”.
“Anzitutto, secondo gli insegnamenti che mi sono sforzato sopra di trarre
dall’esperienza della codificazione tributaria tedesca, l’affinamento formale
dell’imposizione prepara gli strumenti tecnici e giuridici che facilitano
l’attuazione della riforma dei principi dei tributi, quando se ne presentino le
condizioni: e la funzione ultima dell’affinamento non deve essere ignorata da
chi affronta il problema”.
“In secondo luogo, già in occasione del rinnovamento formale
dell’ordinamento tributario deve essere presa in considerazione l’opportunità di
riformare taluni settori dell imposizione, anche per quanto riguarda i principi
sostanziali che li informano. Il sistema potrà essere rinnovato nelle sue linee
essenziali quando l’ organizzazione secondo principi corporativi della vita
economica sara stabilmente consolidata: ma fin da questo momento è
necessario che l’ordinamento dei tributi segua per quanto è possibile la
trasformazione economica in via di attuazione, non fosse altro per eliminare da
esso gli elementi che con quella trasformazione potrebbero contrastare.
Secondo Vanoni “I cenni che si sono rapidamente prospettati valgono ad
indicare quanto utilmente l’opera di affinamento del sistema tributario possa
sboccare in una revisione dei principi e delle funzioni delle singole imposte,
36
anche senza arrivare ad una mutazione dei fondamenti dell’intero ordinamento
tributario. Ma il compito essenziale dell’opera di affinamento resta pur sempre
quello
di
promuovere
il
miglioramento
degli
ordinamenti
formali
dell’imposizione: ed è a questo riguardo che si sente da più parti affermare la
necessità di una « codificazione tributaria ».
Secondo Vanoni: “In un sistema tributario, come quello italiano, nel quale
si trovano molte e diverse imposte, senza che nessuna di esse si ponga
praticamente o concettualmente al disopra delle altre, il metodo della
codificazione della parte generale è il solo che risponda al bisogno di rendere
semplice, chiaro, razionale l’ordinamento dei tributi.
“Una codificazione inspirata a questi intendimenti dovrebbe comprendere
una parte generale ed una parte speciale, o, se si vuole, una serie di testi
regolanti le singole imposte. Nella parte generale trovano la loro naturale
collocazione le norme che disciplinano i soggetti del rapporto tributario, la loro
capacità, la successione nel vincolo d’imposta, la solidarietà nell’ipotesi di più
soggetti e la regolamentazione delle posizioni interne di essi; le cose aventi
rilevanza per quel rapporto, ed i criteri generali di valutazione; la nascita delle
obbligazioni d’imposta, ed il loro svolgimento attraverso le forme tipiche di
accertamento e di liquidazione, fino alla loro estinzione; l’amministrazione, sia
per quanto riguarda la gerarchia dei vari organi e la loro competenza, sia per
quanto riflette i poteri ed i doveri della stessa: la tutela giudiziaria degli
37
interessi dei singoli e della pubblica amministrazione; la repressione delle
violazioni delle norme tributarie.
La parte speciale può allora limitarsi a dare, rispetto a ciascuna imposta, la
descrizione della fattispecie imponibile, i criteri per la depurazione e la
valutazione della base d’imposta ove dovessero divergere dai criteri generali,
l’aliquota, le discriminazioni, e le altre disposizioni particolari che la natura
dello specifico tributo richiede”.
“I pregi di una legislazione tributaria ordinata secondo questi criteri sono
indiscutibili:
a) dal punto di vista formale, si attua un ordinamento armonico
dell’amministrazione del tributo, cui consegue la possibilità di utilizzare
rispetto a più tributi la stessa attività amministrativa e di ridurre al
minimo i doveri ausiliari del singolo. La chiarezza e la semplicità della
legislazione rende più comprensibile il tributo al privato e più rapida
l’azione degli organi che lo amministrano;
b) dal punto di vista sostanziale, si eliminano le contraddizioni e le
discontinuità tra i vari istituti d’imposta. riducendo le divergenze a
quelle realmente imposte dalla realtà delle cose;
c) la futura legislazione fiscale resta notevolmente semplificata”.
La parte generale tende a porsi come ordinamento formale del rapporto
tributario non facilmente modificabile. Il legislatore, in occasione della
38
introduzione di nuove imposte o della variazione delle esistenti, non è più
chiamato ad occuparsi dello svolgimento del rapporto d’imposta. ma
unicamente delle caratteristiche sostanziali del nuovo tributo. Per lo
svolgimento formale servono gli schemi predisposti nella parte generale;
d) la giurisprudenza trova quel sostegno e quella guida logica che la
molteplicità dei testi legislativi regolanti situazioni analoghe rispetto a
tributi diversi lascia spesso desiderare. Il diritto del tributo acquista il
carattere della certezza, che è proprio degli ordinamenti giuridici più
evoluti;
e) la scienza del diritto tributario viene indirizzata più decisamente a
lasciare le sterili vie del commento delle singole leggi, per volgersi alla
elaborazione dogmatica degli istituti giuridici di imposta”.
Come ricorda Salvatore Scoca (“Un tentativo di codificazione delle leggi
tributarie” in Studi in onore di A. D. Giannini) per la iniziativa del
Ministro Thaon di Revel nel 1940 fu nominata una commissione
incaricata di predisporre il lavoro, che risultò composta di funzionari
qualificati della stessa amministrazione finanziaria, con l’aggiunta di
pochi membri ad essa estranei, e cioè i consiglieri di Stato prof.
Montemurri e prof. Castelli Avolio e l’Avvocato dello Stato prof. Scoca.
La presidenza fu affidata al direttore generale dottor Rogari e membri
interni furono i direttori generali Buoncristiano e Tenti, gli ispettori
39
generali Passarella, Mesiano, Todde, Banio e l’ispettore compartimentale
Boidi.
Lo schema, dopo un lungo ed accurato lavoro di revisione, rifacimenti,
aggiornamenti, fu portato a termine nel 1942: esso risultò suddiviso in
nove titoli, dei quali sette riguardavano le singole imposte, uno
riguardava le disposizioni generali e comuni e uno le sanzioni.
Detto schema, per volere del ministro Thaon di Revel, passò al riesame
di un’altra commissione costituita presso l’Istituto Nazionale di Finanza
corporativa, presieduta dal primo presidente della Cassazione sen.
Mariano D’Amelio e composta dai seguenti membri: prof. Celestino
Arena, avv. Luigi Biamonti, prof. Gino Borgatta, prof. Domenico
dall’Oglio, avv. Antonio
Galamini, prof. Achille Donato Giannini, prof. Benvenuto Griziotti, sen.
Achille Nucci, prof. Ettore Scandale, prof. Ezio Vanoni.
Fungevano da segretari il prof. Giovanni Antonio Micheli ed il prof.
Sergio Steve.
Il precipitare degli eventi bellici impedì che questa seconda commissione
portasse a termine il proprio lavoro, che peraltro fu intenso ed importante
anche per gli sviluppi successivi, specialmente perchè, essendosi in
questa sede interpretata in maniera più lata la delega contenuta nel citato
art. 47 del 7 agosto 1936, si stabilì di formulare dei principi generali
40
articolati in una parte preliminare e riguardanti le singole imposte,
ricavandoli dalle norme, che, pur essendo state dettate per uno o più
tributi, si potevano considerare come aventi una portata valevole per
tutto il sistema.
***
Sono passati settanta anni e, nonostante le ripetute deleghe (da ultimo
con la legge 2004, n.3) il Governo non l’ha mai attuato. E questo mi ha
spinto, nel settembre 2008, a lanciare un appello ai professori di diritto
tributario (una settantina) di mettersi al lavoro e predisporre una bozza
dei principi procedurali e processuali: unificati peraltro i tributi, l’appello
è stato accolto e, dopo intenso lavoro (nell’ultimo anno in sede CNEL)
con il coordinamento da parte dei professori Adriano Di Pietro, Andrea
Fedele e Cesare Glendi i lavori si sono conclusi il 15 marzo 2012: sono
stati consegnati al presidente del CNEL, prof. Antonio Marzano, che si
propone avanzare una proposta di legge.
***
Mi sono attardato nel riferire alcuni dei contributi di Vanoni nel tentativo
di dare all’Italia un sistema tributario confacente ad un paese
democratico perché ad essi ho sempre fatto riferimento per proseguire il
cammino che, ahimè, si è interrotto, mentre ho avuto la possibilità di
coltivarlo all’estero giovandomi particolarmente delle tracce del prof.
41
Dino Jarach, che nel 1940 a causa delle leggi razziali espatriò in
Argentina, e di Tullio Ascarelli che in Brasile si occupava anche di
diritto tributario, tanto da collaborare alla redazione della legge sulla
imposta de renda, con particolare riferimento al reddito delle società.
Di certo questi mi valsero l’apertura nelle università San Francisco e
PUC di San Paolo (grande ammiratore di Vanoni era il compianto
Geraldo Ataliba, caposcuola brasiliano) e la pubblicazione in edizione
brasiliana curata dal prof. Greco dei miei “Principi comuni di diritto
costituzionale tributario” (due edizioni).
Apertura anche in Argentina, dapprima come presidente dell’Instituto de
derecho tributario nell’Università di Salta e poi la laurea honoris causa
da parte della UBA di Buenos Aires. E sempre per omaggio a Vanoni fui
chiamato nelle commissioni per la revisione del Codigo Tributario curato
dal CIAT (Centro Interamericano de Administraciones Tributarias),
dell’ILADT (Instituto latinoamericano de derecho tributario). Questi
rapporti mi hanno indotto a promuovere l’edizione in molti paesi
dell’America latina ed in Spagna del “Manuale di diritto tributario
internazionale”: nel 2010 è stata pubblicata l’edizione colombiana,
curata dal prof. Plazas Vega) e nel 2011 l’edizione argentina (curata dal
prof. Ruben Asorey e Cristian Billardi) e sono in avanzata preparazione i
testi per il Bolivia (prof. R. Vergara Sandoval). Brasile (prof. Greco e
42
Rocha), Cile (prof. Endress e Masbernat), Costa Rica (prof. A. Torrealba
Navas), Ecuador (prof. Troya Jaramillo, Pablo Egas e Montaño Galarza),
Messico (prof. Alvarado Esquivel), Spagna (prof. García Novoa),
Uruguay (prof. Addy Mazz), Venezuela (coordinato dal prof. Jesús Sol).
Questo collegamento è rinforzato dalla rivista “Diritto e pratica tributaria
internazionale”, distribuita via web e dedicata particolarmente
all’America latina.
Questi legami si sono stretti grazie anche alla Borsa di studio finanziata
dalla Banca d’Italia, voluta dal governatore Azeglio Ciampi, al quale va
la mia profonda gratitudine, gestita dalla Università di Genova che
nomina i tutori a partire dal 1992 per commemorare il cinquecentesimo
della scoperta dell’America intitolata “Alla scoperta dell’Italia”: si è così
creata una rete di una cinquantina di ricercatori (in buona parte dedicata
al diritto tributario) che consente stretti contatti con università
dell’America latina.
***
Grande è stato l’impulso dato da Vanoni, anche nella sua funzione di
ministro, alla attuazione di un ordinamento tributario, proprio per uno
Stato democratico e moderno. Si distinse, in particolare, con la legge 11
gennaio 1951, n.35 (legge sulla perequazione tributaria) e con la
istituzione della imposta sulla società (legge 6 agosto 1954, n.603), e la
43
morte (6 febbraio 1956) bloccò il programma, concordato con Alcide De
Gasperi da realizzare in modo graduale, per reclamare i principi di una
giustizia fiscale, fondamentale della democrazia politica.
La legge 1951, n. 25 introdusse la obbligatorietà della dichiarazione
annuale dei redditi, annuale e unica, con obbligo delle scritture contabili
per le imprese non soggette a tassazione in base al bilancio, attuando
così quanto aveva prospettato nella monografia del 1937 “La
dichiarazione tributaria e la sua irretrattabilità”.
E’ da osservare che l’impegno di Vanoni per una giustizia tributaria
non fu accolto con largo favore, come avrebbe dovuto essere, ma anzi da
critiche anche in sede parlamentare perché avrebbe comportato un più
stretto obbligo all’osservanza della norma fiscale.
Sulla natura della “dichiarazione” (confessione vincolo irretrattabile)
si aprì un notevole dibattito che impegnò la dottrina distraendola da altri
temi ben più determinanti.
Anche la legge de 1954, n. 603 era ispirata a criteri di perequazione e
quindi di giustizia, prevedendo, fra l’altro, la tassazione dei redditi non
distribuiti e anche questo aveva origine nella monografia del 1943
”L’imposta sui redditi e gli utili di società non distribuiti”.
Di certo Vanoni determinò la grande riforma impostata con la legge 9
ottobre 1971, n. 825 che delegò al Governo di emanare decreti che
44
coinvolsero l’intero sistema tributario con una struttura similare a quella
degli Stati aderenti all’OECD.
Ebbi
modo
di
partecipare
alla
preparazione
della
riforma
particolarmente per i rapporti che avevo con i principali elaboratori, ed
in particolare con Enrico Allorio, Antonio Berliri, Cesare Cosciani e
BrunoVisentini, avvalendomi dello studio approfondito che avevo
dedicato alle opere di Vanoni. Dagli appunti dell’epoca ricordo che già
allora si denunciava che “l’insoddisfazione per il sistema tributario
italiano in questo dopoguerra si è andato generalizzando. La causa prima
di questa critica sempre più spiccata verso il nostro ordinamento fiscale
dipende fra l’altro dall’aumentato livello della pressione fiscale globale
che ha ormai raggiunto limiti difficilmente superabili almeno con
l’attuale struttura” (era del 35,3%)
Già allora si rilevava che l’alta pressione induce alla evasione: “le
evasioni vanno combattute e le esenzioni non strettamente giustificate
vanno eliminate, non solo per le conseguenze negative ai fini del gettito
fiscale, ma anche per evidenti motivi di equità. E si può dire che ogni
offesa ai principi di equità, di giustizia nel campo fiscale si ripercuote
inevitabilmente sulla fedeltà delle dichiarazioni, sull’incentivo ad
adempiere fedelmente i proprio obblighi fiscali. Chi vede altri andare
immuni da oneri fiscali senza un giustificato motivo di capacità
45
contributiva o d’altra ragione di importanza fondamentale, e vede leso in
tal modo il principio della universalità dell’imposta, trova una valida
giustificazione per creare per sé, illegalmente, quel privilegio che la
legge concede ad altri lecitamente.
E così si constatò che il problema della evasione legale (oggi si dice
“elusione”) era uno dei meno studiati dalla nostra dottrina, ma la
Commissione decise di approfondirlo in studi successivi, dopo aver
scartato l’idea “di prevedere una norma, di carattere generale, che
consentisse la ricerca del motivo determinante di un dato negozio,
allorchè da questo consegua il mutamento di una particolare situazione
giuridica, realizzando la totale o parziale inapplicabilità alla fattispecie di
una determinata norma tributaria”.
E prevalse la preoccupazione di “affrontare il problema della
evasione legale, pertanto, attraverso una enunciazione di principio, di
interpretazione né facile, né sempre equa, é praticamente impossibile,
come lo dimostra la esperienza di qualche altro Paese che ha cercato di
seguire questa strada. Il contenzioso che ne sorgerebbe, la difficoltà di
trovare, per il fisco, elementi probatori per un esito favorevole presso il
Magistrato, renderebbe il problema insolubile.
Premesso tutto ciò apparve opportuno procedere per altra via.
46
In primo luogo è necessario che la imposizione consista da un lato di
tributi ad aliquote non eccessivamente elevate che fatalmente conducono
a distorsioni. Ed in secondo luogo che situazioni sostanzialmente
analoghe subiscano gravami sostanzialmente uguali. Ciò vuol dire che si
devono prevenire le distorsioni, piuttosto che reprimerle, con un sistema
fiscale armonico, in cui i vantaggi di una soluzione, vengano bilanciati
da corrispondenti svantaggi.
In secondo luogo, è necessario introdurre od ampliare la casistica di
queste evasioni legali, per trovare di volta in volta una soluzione per
ciascuna categoria, prescindendo dall’elemento intenzionale di eludere il
pagamento dell’imposta.
Il problema è molto delicato e richiede un ampio approfondimento di
molteplici istituti e norme fiscali., con particolare riguardo anche ai
regimi speciali; norme di abbonamento, esenzioni, che consentono a
molte categorie di « camuffarsi » in modo da godere di vantaggi, benché
non ne abbiano il titolo sostanziale.
La preoccupazione di affidare alla discrezionalità degli uffici tributari
un mezzo così penetrante e che conduce a sperequazioni conseguenti alla
difficile individuazione delle operazioni elusive.
Sono passati tanti anni, ma il problema della elusione non ha ancora
trovato una disciplina legislativa: è avanzata la giurisprudenza della
47
Corte di Cassazione secondo la quale la elusione è un “abuso del diritto”
da reprimere con riferimento agli art. 1 (uguaglianza) e 53 (capacità
contributiva).
Altra critica fu mossa all’assetto legislativo, a fronte della esigenza di
chiarezza e semplicità. “Questa esigenza che è stata ripetutamente
invocata, deve trovare innanzitutto conforto in una tecnica legislativa che
non indulga a considerare nella formazione le peculiarità di troppo
particolari situazioni.
Quanto più la norma vuol scendere dalla disciplina di carattere
generali a casi particolari, tanto più si fa complessa e di difficile
attuazione e comprensione”
La struttura giuridica del nuovo sistema tributario generalmente fu
ritenuta adeguata, ma aveva una grave pecca: a fronte della complessità
della compliance specie per la determinazione del reddito imponibile.
Non erano stati previsti interventi per una adeguata efficiente
amministrazione.
Eppure già Vanoni, appena insediatosi al Ministero delle finanze
(1947) sviluppò un progetto di radicale innovazione della struttura, con il
completamento dei quadri del personale, una più razionale distribuzione
territoriale e il miglioramento tecnico e culturale dei funzionari, ma il
48
cammino era assai lungo e comunque non confacente alla necessità
derivante dalla radicale riforma.
Il prof. Cesare Cosciani, che, con Antonio Berliri e Bruno Visentini,
era stato uno degli innovatori, utilizzando come quartier generale
l’Assonime, non sottoscrisse il programma innovatore e si dimise perché
era stato del tutto trascurato l’aspetto organizzativo degli uffici e la
preparazione del personale.
E vide giusto: la riforma in sostanza non funzionò anche per
l’impossibilità di reperire i fondi necessari in più larga misura (il
programma per vero prevedeva parità di gettito, ma la spesa era
notevolmente aumentata specie per ripianare gli squilibri delle aziende di
Stato ed effettuare investimenti improduttivi. L’inflazione aumentò,
raggiunse le due cifre (20-25 %) e il gettito, per la lungaggine negli
accertamenti e nelle riscossioni, in termine di numero era pressochè
equivalente a quello pre-riforma: ma il valore effettivo si era ridotto di
1/5 e cominciò (1980) la spirale dell’aumento del debito pubblico.
Lo sfascio del sistema risale a tale epoca e comportò la riduzione
degli investimenti ed in sostanza l’annullamento di quelli dall’estero.
Invero le aliquote di prelievi fiscali con la riforma erano elevate,
superiori a quelle applicate negli Stati concorrenti nello sviluppo
economico che utilizzava la leva della riduzione delle tasse specialmente
49
a favore delle imprese. Ricordo che nel gennaio 1987 si aprì un
convegno promosso dalla OECD all’insegna “United States Tax Reform
Challenges Europe”: mi permisi richiamare l’attenzione del ministro
Bruno Visentini, sul nuovo trend mondiale, ma lui, quasi indispettito
(come era nel suo carattere), obbiettò che l’Italia non aveva bisogno di
insegnamenti dall’estero!
Ma il gettito continuava a decrescere; non potendosi aumentare le
aliquote si cercò di incrementare il prelievo soprattutto attraverso
l’aumento artificioso della base imponibile, come la riduzione del
computo dei costi e il conteggio delle plusvalenze senza depurarle dalla
inflazione.
Questo era di intralcio o addirittura di impedimento per operazioni di
organizzazione imprenditoriale (specie fusioni, scissioni, conferimenti) e
allora furono introdotti periodi di “oasi”, con sperequazioni e nocumento
alla certezza per il susseguirsi di novità legislative e regolamentari e
quindi anche di contenzioso.
Il contenzioso era un’altra piaga del sistema. Dalla fondazione (1926)
la rivista “Diritto e pratica tributaria” denunciò la mancanza di
un’adeguata tutela giurisdizionale dei contribuenti. Critica alla quale si
associò Vanoni nel 1938 (“Il problema delle Commissioni tributarie”).
50
Nel 1864 – dapprima per la imposta di ricchezza mobile e poi per
altri tributi – erano state istituite le Commissioni tributarie. Peraltro con
competenza limitata alle questioni di “semplice estimazione”, mentre le
altre questioni erano di competenza del Giudice ordinario.
Un passo avanti fu fatto nel 1936 con la costituzione delle
Commissioni tributarie che avevano solo la parvenza di organi adatti per
dirimere le controversie, ma non era certo così, per la mancanza di
indipendenza, già per
il semplice fatto che i componenti delle
Commissioni erano indicati dall’Amministrazione delle finanze e il
rappresentante dell’Ufficio era legittimato a permanere in camera di
consiglio al momento della decisione.
Inoltre il procedimento era estremamente farraginoso, prevedendosi
ben sei gradi di giudizio (Commissione distrettuale, Commissione
provinciale, Commissione centrale, Tribunale, Corte d’Appello,
Cassazione), che potevano aumentare per rinvii.
La Costituzione della Repubblica con l’art. 102 prevede che “non
possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali” e con la VI
disposizione transitoria fu disposto che entro cinque anni dall’entrata in
vigore della Costituzione si procedesse alla “revisione degli organi
speciali di giurisdizione in allora esistenti”.
51
Alla scadenza del termine nulla era stato disposto e nacque un ampio
dibattito
in
giurisprudenza
ed
in
dottrina
(con
determinanti
partecipazioni di Antonio Uckmar anche attraverso ripetuti interventi,
specie in “Diritto e Pratica Tributaria”) e ci fu un palleggiamento fra
Corte di cassazione e Corte costituzionale, preliminarmente sulla natura
delle Commissioni, amministrative ovvero giurisdizionali e solo in
questo caso le Commissioni tributarie sarebbero state compatibili con
l’art. 102 della Costituzione.
E infine la Corte costituzionale con sentenza 1974, n. 287 affermò la
natura giurisdizionale delle Commissioni dinanzi le quali dovevano
svolgersi tutte le controversie tributarie.
Con provvedimenti del 1991 e del 1992 le Commissioni furono
riorganizzate e fu disposto che “appartengono alla giurisdizione
tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e
specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e
comunali e il contributo
per il Servizio sanitario nazionale, nonché le sovrimposte e le
addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici
finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio”.
Di massima c’è soddisfazione nell’operato delle Commissioni, ma più
volte ho auspicato, anche nell’interesse della Amministrazione
52
finanziaria, che i componenti siano tutti “togati” (con assunzione per
concorso) e che l’organizzazione sia devoluta al Ministero della
Giustizia, sul che ha prestato attenzione il ministro prof. Paola Severino.
Per il riordino della legislazione, qualche sforzo fu fatto, come con i
testi unici delle imposte dirette e di registro del 1986 e con
l’assorbimento di dodici tributi nell’Irap, imposta che peraltro fu
aspramente criticata in quanto applicabile anche nei confronti delle
imprese in perdita ed escludendo dai costi quelli del personale e degli
interessi passivi, mentre si doveva considerare che si tratta di costi tanto
più gravosi per le imprese miranti allo sviluppo.
Fra i programmi del Governo Berlusconi uno degli obiettivi primari
sembrava essere la riforma fiscale. Nel libro bianco del 1994 il Ministro
delle finanze diede atto che “tutti i dati di cui disponiamo indicano che
all’interno del sistema fiscale italiano qualcosa si è rotto”.
I gettiti di molte imposte calano. Ma soprattutto cala il consenso della
gente.
“Non che le tasse si debbano pagare volentieri, ma in democrazia è
essenziale un certo grado di consenso sul cosa pensa, sul come si paga,
sul perché si paga e questa è l’altra faccia – la faccia politica – della
medaglia: la crisi fiscale è solo un pezzo di una crisi più grave: un pezzo
della crisi costituzionale che investe lo Stato”.
53
In estrema sintesi la riforma era delineata su tre direttrici: dal centro
alla periferia (il federalismo fiscale), dalla persona alle cose (la
tassazione ambientale e dei consumi) dal complesso al semplice (la
certezza e semplicità del diritto).
Conseguentemente fu predisposto il disegno di legge 29 luglio 2001,
n. 4566, con delega al Governo per la riforma fiscale e assistenziale
ancora pendente in parlamento.
Mentre sono intervenuti provvedimenti “estemporanei”, volti
soprattutto a concedere mini agevolazioni finalizzate a dare segnali di
sensibilità su specifici problemi, in assenza di risorse finanziarie
adeguate alla loro soluzione o a blandire specifici segmenti di
contribuenti,
in
vista
delle
ripetute
competizioni
elettorali,
i
provvedimenti fiscali intrapresi dal Governo di centro destra, attraverso
solitamente l’adozione di decreti legge, hanno accentuato il disordine, a
dispregio della coerenza e della equità affiancando agli strumenti classici
delle tax expenditures (deduzioni, detrazioni, riconoscimenti di aliquote
agevolate) interventi mirati e strumentali su aspetti strutturali dei tributi,
contribuendo così a mettere in discussione la razionalità del sistema e
accentuandone la discrezionalità: il risultato fu un fisco senza bussola e
la spinta all’evasione.
54
Avendo amaramente constatato che il Governo, ancora una volta
delegato per la riforma della struttura fiscale ed in primis per la
codificazione, era rimasto inattivo, presi una iniziativa di “volontariato
accademico” e cioè invitai (18 settembre 2008) i 66 professori ordinari
di diritto tributario per verificare la disponibilità a redigere le regole
procedimentali e processuali uniformi per tutti i tributi. Furono nominati
coordinatori i professori Adriano Di Pietro, Andrea Fedele e Cesare
Glendi e in 22 riunioni plenarie sono stati elaborati i testi per
l’accertamento, il contenzioso, la riscossione e le sanzioni: i lavori si
sono conclusi il 15 marzo 2012 in sede di Consiglio Nazionale
dell’Economia e del Lavoro che ha manifestato il proposito di avanzare
una propria proposta di legge.
Più volte ho manifestato le mie preoccupazioni per la manchevolezza
del nostro sistema tributario e anche in due audizioni dinanzi la
Commissione finanza e tesoro del Senato, una volta il 13 luglio 1989 e,
da ultimo, il 21 dicembre 2011.
In quest’ultima preliminarmente ho richiamato quella del 1989 con la
quale denunciavo che la nostra finanza pubblica, specialmente per
quanto riguarda il prelievo dei tributi, in questi ultimi 20/25 anni è stata
improvvisata secondo le esigenze del momento.
55
“Credo sia il momento di ridisegnare il nostro sistema tributario.
L’attuale sistema poggia sulla legge delega del 1971, che a sua volta era
frutto degli studi prodotti in un periodo precedente e immediatamente
seguente il secondo conflitto mondiale.
“Si tratta quindi di un sistema vecchio e diventato vetusto; un sistema
basato su una economia quasi prevalentemente agreste, o certamente
all’inizio della attività industriale, nella quale non si pensava ancora
addirittura al terziario, nella quale non si teneva conto della
internazionalità delle imprese.
“Abbiamo avuto, ed abbiamo tuttora, norme che penalizzano l’attività
internazionale e che ci fanno trovare in grosse difficoltà nella
concorrenza mondiale e questo per una forza di trascinamento della
nostra legislazione nel periodo dell’autarchia…”
E osservavo “abbiamo avuto i mille provvedimenti dal 1973 al 1986,
anch’essi sempre nell’ansia di reperire gettito necessario…
“Si era pensato che con il testo unico del 1986 la nostra legislazione
fosse ormai consolidata ed invece negli ultimi mesi abbiamo avuto una
preparazione legislativa convulsa, fatta di decreti, decretoni bis e norme
approvate pur nella consapevolezza della loro erroneità…”
Nell’audizione del 21 dicembre 2011 ho osservato che “La fiscalità, e
le battaglie in merito alla stessa, ha sempre pervaso la vita degli uomini
56
da quando è iniziato il convivere sociale. Da una documentazione storica
risalente al 4000 A.C. allorquando, nella regione dello Shumer, una
distesa fertile fra il Tigri e l’Eufrate (oggi Iraq), vigeva un sistema di
tassazione assai vessatorio: secondo quanto risulta da segni cuneiformi
su argilla dissepolti a Lagash, vigeva il detto: “Puoi avere un Signore,
puoi avere un Re, ma l’uomo di cui aver paura è l’esattore delle
imposte”. Gli esattori furono sgozzati, non furono più raccolti i tributi
necessari anche per la difesa ed il territorio fu occupato dal nemico.
Nella vita dei popoli la fiscalità è sempre stata un elemento
essenziale, determinando i loro assetti politici: è nata la democrazia con
la Magna Carta (no taxation without representation), respinta per la
rivoluzione francese fu la lotta contro i privilegi fiscali della nobiltà e del
clero, la rivoluzione americana fu sospinta dalla contestazione per i
custom duties imposti dal Regno Unito. Il fisco è tuttora il fulcro di lotte
fra classi che fanno vacillare i governi: ne è un attuale esempio la lotta
fra “ricchi” propensi a mantenere le agevolazioni ed alla introduzione di
un flat tax, e “poveri” nella quale si dibatte il presidente Obama e questo
un po’ ovunque, compresa l’Italia.
Ma la fiscalità, oltre alle interferenze nella politica, può avere effetti
devastanti nella economia.
57
E di questo ne paga le conseguenze il nostro Paese: secondo le analisi
annuali della World Bank (Economy Rankings) per quanto concerne
Ease of doing business, nell’indagine per il 2011 condotta per 183 Stati,
l’Italia in classifica è all’ottantesimo posto e per quanto riguarda il
Paying taxes al centoventottesimo (e peggio ancora per en-forcing
contracts, e cioè la giustizia al 157°”: sorpassata da molti Paesi del terzo
mondo!
Ho intrapreso una ricerca per verificare se non si possono apportare
delle correzioni (ma ho il timore che lo scarto sia modesto): di recente il
direttore del Servizio fiscale della Russia Mikhail Mishustin si è doluto
che nella predetta classifica per l’assetto fiscale il suo Paese sia stato
classificato al 105 posto (noi al 128!) e si propone di intervenire per
esaminare metodologia e calcoli.
Evidentemente, a prescindere dalla classifica della World Bank ci
dobbiamo impegnare in una verifica, lo stato attuale è di assoluto
scoraggiamento agli investimenti non solo stranieri (da trentanni
mancano se non per la distribuzione di loro prodotti), ma anche italiani.
Tanti sono i fattori di questa tragica negatività. Vediamo di
individuarne alcuni.
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Pressione fiscale e sperequazione
Siamo attorno al 50% del PIL, ormai la più elevata di Europa, anche
dei paesi del Nord, e forse del mondo. Ma attenzione: la percentuale di
imposte è calcolata sul reddito nazionale effettivo, comprensivo anche
del mercato nero (10% e forse più), e quindi già per questo dovrebbe
essere innalzato di almeno dieci punti. E non basta giacché è una
percentuale... alla “Trilussa”!
Considerate le evasioni ed i regimi con aliquota al di sotto del 50%
(come redditi di società e redditi di capitale), altri di certo subiscono
prelievi ancora maggiori; e spesso non sul reddito effettivo, ma su un
reddito determinato secondo criteri puramente fiscali e quindi maggiore
in quanto non sono ammesse molte deduzioni e molte spese.
Vi è un ulteriore conseguenza: i dati risultanti dalle dichiarazioni dei
redditi rispecchiano una situazione economica ben differente dalla realtà,
determinata non dalla evasione ma dal legislatore, per cui sono da
auspicare interventi anche per evitare sperequazioni. Alcuni esempi:
a) si hanno proventi che non sono da inserire nella dichiarazione dei redditi
in quanto assoggettati a tassazione secca, alla fonte, come per i redditi di
capitali tassati al 20% a decorrere dal 1° gennaio 2012.
Sarebbe opportuno, e non solo per ragioni di raffronto emulativo, ma
anche al fine di far emergere proventi, eventualmente non tassati, che
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hanno determinato il capitale investito e quindi prevedere l’obbligo di
indicare in dichiarazione redditi tassati alla fonte in via definitiva. In
futuro, come è previsto in alcune convenzioni contro le doppie
imposizioni, si potrebbe disporre che l’ammontare di tali redditi, già
tassati, concorrano alla determinazione dell’aliquota progressiva
applicabile sul resto.
b) Una attenzione particolare dovrebbe essere destinata alle società di
“comodo”, ma di comodo… effettivo. Molti si stupiscono di non trovare
nella lista dei contribuenti personaggi di notoria capacità economica,
spesso ottenuti con intermediazioni, interessenze, vari incarichi o
partecipazioni in affari più o meno leciti. Ma questi non appaiono perché
sono solitamente inscatolati in società di capitali (soprattutto società a
responsabilità limitata) che sono migliaia. In sostanza sono società
individuali, che certo non rispondono agli scopi propri delle società di
capitale (acquisizione di capitali dal mercato momento e limitazione del
rischio).
Si potrebbe prevedere una disciplina propria per tali società con
trasparenza nei confronti dei soci così come avviene per le società di
persone. Il discrimine per la tassazione per trasparenza potrebbe quindi
essere dimensionale, legato a un livello minimo di fatturato o dipendenti,
anche se, come ho detto, il criterio migliore potrebbe essere quello del
60
numero di soci. D’altra parte la dottrina che ha studiato il tema ha
sempre giustificato l’imposizione delle società come facilitazione della
riscossione, per il travaglio che comporterebbe riscuotere il reddito
prodotto in forma associata dalle società a capitale diffuso. Ma questo
evidentemente non vale per le società a ristretta base azionaria. E il
prelievo per trasparenza sarebbe ancor più giustificato se si considera
che l’Irpef è ormai ridotta a brandelli dai regimi sostitutivi e ridotta ad
un’imposta sui soli redditi da lavoro subirdinati. Quando le società di
fatto nascondono redditi di lavoro dei soci è dunque opportuno che sia
applicata l’aliquota marginale progressiva Irpef, piuttosto che l’Ires, cui
solo eventualmente e a discrezione del socio si aggiunge il prelievo sui
dividendi.
L’uso di siffatte società è forse un caso di “abuso del diritto” e quindi
sarebbe bene che il legislatore anticipasse i tempi onde evitare dispendio
di energie.
Con quanto sopra si ricupererebbero effetti benefici, non solo in
termini di gettito, ma anche di buona immagine della fiscalità, e per
evitare distorsioni nei comportamenti. E così avviene ogni qualvolta la
dichiarazione dei redditi è dato rilevante per classifiche inerenti a borse
di studio, assegnazione di alloggi ed altre provvidenze assistenziali.
61
Le sperequazioni sono palmari laddove l’imposta sia parametro sul
valore degli immobili e sul reddito risultante dai dati catastali; il catasto
è incompleto (dai rilievi fotometrici non sono state accreditate oltre un
milione di unità) e non aggiornato con riferimenti alla realtà.
Incertezze
Già Adamo Smith, nella sua “Ricchezza delle Nazioni”, indicava
come elemento essenziale per un valido sistema tributario la certezza.
Questa, pur essendo stata una delle basi dello statuto dei diritti del
contribuente (legge 2000, n. 312), manca nel nostro sistema ed è forse
uno dei fattori che più scoraggiano gli investitori stranieri. L’incertezza è
sovrana:
a) nella legislazione statale, in continuo gettito (spesso in violazione dello
statuto del contribuente, talvolta con disposizioni retroattive come è
avvenuto con questo Governo per aggravio della tassazione dei beni a
suo tempo “scudati”). Comprendiamo l’urgenza di legiferare in poche
ore il decreto dell’altro giorno, ma esso non è certo esempio di buona
tecnica legislativa: gran parte dei testi è più appropriata come relazione e
norme di regolamenti), sovrapposizioni di leggi e decreti e spesso con
centinaia di commi (come nella finanziaria), anziché articoli, perché
approvati d’urgenza con la fiducia. Sovente con delega agli organi
amministrativi che per natura non sempre sono imparziali.
62
Si intrecciano normative comunitarie, regionali, provinciali e
comunali. Occorre riconoscere l’impegno e la capacità dell’Agenzia
delle entrate a suggerire chiarimenti ancora prima che se ne occupi la
dottrina disorientata.
Il prodotto legislativo è pessimo e d’altronde le assemblee non sono
in grado di legiferare in modo appropriato in un settore tanto difficile,
anche tecnicamente, e comunque i voti di fiducia impediscono
appropriate formulazioni.
Nel 1989 auspicavo la istituzione di un apposito organismo come può
insegnarci l’esperienza straniera e fra queste quella degli Stati Uniti ove
esiste un organismo (Joint Committee on Taxation) che a tempo pieno fa
ricerca e collabora con il Congresso per la ricerca e la redazione delle
leggi, preoccupandosi anche degli effetti che determineranno con la loro
applicazione.
Consapevoli della urgente necessità di procedere nella codificazione,
e per primo della normativa di principi formali uniformi per tutti i tributi,
come ho già ricordato, un gruppo di professori universitari ha elaborato,
consegnandolo al CNEL in data 15 marzo 2012 una bozza di legge di
delega e di legge delegati in tema di accertamento, contenzioso e
riscossione. E così, almeno la coscienza è salva!
63
b) Incertezze nella giurisprudenza e per prima quella della Cassazione,
anche a causa della mole di lavoro che le viene indebitamente addossata
(siamo oltre le 40.000 sentenze all’anno!): questa dovrebbe svolgere la
funzione monofilattica, ed invece numerose sono le sentenze, anche
ravvicinate nel tempo, contrastanti e quindi disorientanti.
L’incertezza si è accresciuta con le sentenze del 2008 che hanno
ritenuto colpire fenomeni di elusione attraverso l’”abuso del diritto”,
incerto nei suoi confini. Qualora, nell’interpretazione delle leggi e dei
negozi, ai fini fiscali, dovesse prevalere l’aspetto economico su quello
giuridico, come si sta dilagando al livello degli Uffici, è urgente adottare
opportuni strumenti procedimentali. Se da un lato vi sono “operazioni”,
se così vogliamo nobilitarle, che certamente, pur inserendosi negli
interstizi della legge, ripugnano e devono essere contrastate, l’incertezza
arrecata dall’estensione delle contestazioni di “abuso del diritto” può
essere nociva dello stesso sviluppo: operazioni sane, con finalità
economiche evidenti, rischiano di incontrare l’obiezione degli uffici,
governati dal budget più che dall’art. 97 della Costituzione. E mi
riferisco, per citare un esempio dei tanti, ai riassetti delle imprese
familiari, dove talvolta si ritiene che le più che valide ragioni (extra
fiscali) che muovono i proprietari a riorganizzare una società, non siano
opponibili al Fisco.
64
D’altro canto preoccupa anche il diffondersi di questa incertezza
anche ad altri rami del diritto, come quello penale, che sconta le pecche
del sistema tributario e sempre di più lo farà se proseguirà la tendenza di
affiancare
la
repressione
penale
all’azione
di
accertamento
dell’Amministrazione finanziaria.
Dall’estero ci guardano con preoccupazione e gli investitori latitano,
anche se le occasioni non mancherebbero. Urge quindi una codificazione
definitiva della clausola di contrasto all’abuso del diritto, che superi i
limiti dell’art. 37bis del D.P.R. 600/1973, coniugando il compromesso
tra gli artt. 3 e 53 e l’art. 23 della Costituzione e risolvendo finalmente la
questione della sanzionabilità (o meno), amministrativa e penale,
dell’abuso del diritto tributario. Negli Stati Uniti è stato fatto di recente.
In Germania l’applicazione della clausola generale antielusiva non
comporta l’irrogazione delle sanzioni amministrative essendo recuperati
il debito tributario e gli interessi moratori.
c) Problemi derivano anche dalle sperequazioni e discriminazioni
attuate dal nostro stesso legislatore: una per molte, la tassazione dei
dividendi percepiti dai fondi di investimento esteri, quando quelli italiani
sono invece ormai esenti dal prelievo. In questo contesto, tanto più a
fronte della concorrenza globale, come possiamo sperare in una ripresa
degli investimenti esteri?
65
Ma anche in relazione ai flussi di capitale verso l’estero non siamo al
passo, nonostante che all’estero i nostri imprenditori giocheranno la
partita della crescita nei prossimi anni; per fare anche qui un esempio,
l’art. 18 del tuir nega alle persone fisiche socie “non qualificate”
residenti in Italia di società residenti all’estero la fruizione del credito
per le imposte estere ex art. 165 tuir, con conseguente doppia
imposizione.
Sarebbe auspicabile l’istituzione di un Testo Unico della Fiscalità
Finanziaria che consenta di fornire un approccio sistematico al regime
tributario applicabile ai redditi di capitale e ai redditi diversi di natura
finanziaria, al regime del risparmio amministrato, al risparmio gestito e
agli organismi di investimento collettivo del risparmio di diritto italiano
e di diritto estero. E’ necessario intervenire per prevedere una disciplina
più organica delle ritenute alla fonte e delle imposte sostitutive delle
imposte sui redditi, previste dal d.p.r. n. 600/1973, dal d.lgs. n.
239/1996, dal d.lgs. n. 461/1997, applicabili agli interessi, agli utili e alle
plusvalenze. Tale intervento si rende ancora più opportuno alla luce del
d.l. n. 138/2011, convertito con modificazioni nella legge n. 148/2011
che ha introdotto l’aliquota unica del 20 per cento sui redditi di capitale e
sui redditi diversi di natura finanziaria ad eccezione dei redditi rivenienti
dai titoli di Stato ed equiparati soggetti all’imposta sostitutiva del 12,50
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per cento. Peraltro i decreti attuativi della l. n. 148/2011 non sono stati
ancora emanati. Si condivide in ogni caso l’audizione di Banca d’Italia
del 13 ottobre 2011 nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla riforma
fiscale e assistenziale (AC 4566) presso la Commissione (Finanze e
tesoro) del Senato della Repubblica, in cui si auspica un intervento per
rimuovere il tax defferal per le gestioni collettive al fine di assicurare la
neutralità fra investimento diretto e “intermediato” mediante la
trasparenza fiscale. Tale istituto comporta l’imputazione dei proventi
percepiti dai fondi, e non distribuiti, direttamente ai sottoscrittori e la
tassazione in capo a questi ultimi.
Tale sistema potrebbe essere
accompagnato con la previsione della presunzione di distribuzione dei
proventi ai fini fiscali o ad obblighi di distribuzione, come accade in
taluni Paesi dell’Unione Europea.
Con riferimento alla tassazione delle imprese sarebbe auspicabile la
revisione della fissazione dei coefficienti di ammortamento fiscale, che
sono ancora regolati dalle disposizioni contenute nel d.m. 31 dicembre
1988, il quale dipende da una logica ormai obsoleta in cui non si dà
adeguato rilievo ai macchinari e alle attrezzature del nuovo millennio: si
tratta in particolare di beni strumentali che sono ormai caratterizzati
dall’impiego di tecnologie avanzate e a rapidissima obsolescenza per cui
non ha davvero senso prevedere quote di ammortamento del 10 per cento
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annuo. Un approccio del genere mette le imprese italiane in seria
difficoltà al confronto con quelle straniere e non consente loro un
adeguato ricambio strumentale: mentre i profitti generati da questi
macchinari si concentrano nell’arco di uno-tre anni, il costo per il loro
acquisto deve essere spalmato su cinque-dieci e anche più anni.
L’esigenza di una revisione delle tabelle e dei criteri di
ammortamento fiscale è quindi urgente e non più procrastinabile.
Valgano come esempio i computer: in Germania questi beni sono
ammortizzabili con una quota del 33 per cento annuo; in Italia del 20 per
cento. Ancora peggiore è il confronto con il sistema inglese, che prevede
coefficienti di ammortamento più elevati di quelli tedeschi. Il sistema
migliore, però, sembra quello francese, che lascia al contribuente la
possibilità di legare l’ammortamento fiscale alla vita utile effettiva del
bene strumentale.
d) Incertezze derivano dagli interventi della Unione europea e
soprattutto della Corte di Giustizia, particolarmente per l’osservanza del
divieto di “aiuti di Stato” alle imprese. E così è stato con la sentenza 8
settembre 2011, C-78/08-C-80/08 Italia-Paint, sul regime fiscale delle
Cooperative (con remissione al giudice nazionale) e potrà essere anche
con l’iniziativa del 12 ottobre 2010 della Commissione UE che ha dato
corso ad una indagine sulla legittimità delle agevolazioni fiscali, specie
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ICI ed IRES a favore degli enti no profit (dalle associazioni sportive
dilettantistiche agli enti ecclesiastici) il che riguarda il mondo della
società civile, uno dei nerbi del nostro Paese.
e) Incertezze ancora derivano dal contenzioso dinanzi alle
Commissioni
tributarie.
Si
sono
fatti
passi
avanti
con
la
giurisdizionalizzazione per effetto – come ho già ricordato – dopo tante
incertezze nel contrasto fra Cassazione e Corte Costituzionale della
legge 1992, n. 545. Ma la riforma deve essere completata con la
previsione che i componenti le Commissioni siano giudici professionali,
a tempo pieno (auspicato dalla miglior dottrina e da autorevoli magistrati
come il dott. Antonio Simone, presidente della Commissione tributaria
regionale della Lombardia) e le cancellerie siano alle dipendenze del
Ministero della Giustizia e non delle Finanze (parte in causa).
Si tenga presente che il due process of law in materia tributaria è
elemento condizionante di un sistema tributario sano ed efficiente.
Gli interventi sono urgenti anche per il prevedibile aumento dei
ricorsi a seguito della innovazione in corso dal 1° ottobre 2010 per cui
gli atti di accertamento hanno effetto anche per la immediata riscossione
del tributo; finché la macchina tributaria non sarà a regime, con
accertamenti non condivisibili del destinatario – per illegittimità o per
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infondatezza – i ricorsi anche in via cautelare saranno sempre più
numerosi.
Complessità
La doglianza è comune a tutto il mondo. Negli Stati Uniti, da molti
indicati a modello, il codice federale per le imposte dirette ha superato le
70.000 pagine, più le migliaia per la sola regolamentazione del transfer
price. A seguito della complessità vi sono forti movimenti per la radicale
modifica o addirittura abolizione della imposta sulle società; sono
avanzate anche in Europa progetti comunitari per la profonda
innovazione, come la istituzione delle CCCTB.
La complessità è conseguenza anche della necessità di aumentare le
entrate, chiudendo le loopholes, per fare fronte all’aumento delle spese
pubbliche conseguenza delle guerre e di miglioramento del Welfare
specialmente nel settore sanitario. E’ una caccia del gatto ai topi che
cercano protezione anche grazie alla globalizzazione, ancora ricorrendo
ai paradisi fiscali, che continuano ad operare (e così le Cayman Islands o
il Cantone di Zug): la più importante impresa italiana a prevalente
partecipazione statale, secondo notizie di stampa, avrebbe posto la sede
per le joint venture con Gazprom nel Cantone di Zug.
Il Ministro del Tesoro statunitense Geithner ha riferito che negli Stati
Uniti gli addetti alla compliance sono in numero superiore agli addetti
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alla industria automobilistica. Eppure secondo un recente studio del CTJ
(Citizens for tax justice) le dodici società (fra le quali Esso, Mobil,
Boing) più importanti per volume di affari, hanno un tax rate negativo
dell’1,4% pur percependo profitti per 75 miliardi di dollari, e ricevendo
sussidi fiscali per 63,7 miliardi di dollari!
E’ da osservare che, nonostante tanti interventi, c’è stata poca
attenzione (o impegno?) per la tassazione di gran parte dei prodotti
finanziari costituiti dai derivati, il cui valore nozionale secondo il BIS
(Derivatives Market Activity in the Second half of 2010, in Quarterly
Review), era di 670 triliardi di dollari, pari a circa undici volte il prodotto
lordo mondiale!!! Come è autorevolmente denunciato i derivati (specie
quelli OTC) sono stati una delle principali cause del dissesto mondiale
iniziato nel 2008. E’ auspicabile che anche l’Italia si attivi nel tentare di
disciplinare tali prodotti, ma è assai difficile introdurre norme vincolanti
anche in conseguenza della globalizzazione. Ma c’è una forte resistenza
da parte dei contro interessati come risulta anche dall’azione
recentemente intrapresa dalla International Swaps and Derivatives
Association e dalla Securities Industry and Financial Markets
Association avverso le United States Commodities Futures Trading
Commission dinnanzi la United States District Court for the District of
Colombia.
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A mio avviso occorre almeno ottenere, sarebbe impossibile imporla,
la “trasparenza” attraverso la tracciabilità (non si fa forse per le uova e
per la carne?).
Solo così si potrà colpire uno dei mercati più ricchi. Si dice: ma
questo ridurrà il mercato; magari fosse così, perché si spingerebbe
l’investimento in mezzi produttivi.
Evasione
L’evasione è il male endemico del nostro paese: vasta è la letteratura
in proposito che ne ha indicato le origini e le cause, storiche, addirittura
patriottiche, politiche, di costume, di ripetuti condoni , di comportamenti
di mal governo della finanza pubblica, talvolta di necessità: già Einaudi
diceva che con l’osservanza delle leggi si avrebbe un eccesso di prelievo
rispetto al reddito conseguito; questa era anche l’opinione pubblicamente
espressa, dal presidente Silvio Berlusconi.
Sovente nelle riunioni - come mi è occorso recentemente - durante i
Venerdì di Diritto e Pratica tributaria, invito gli astanti a segnalare chi
avesse
preteso
la
fattura
per
le
prestazioni
dell’idraulico
o
dell’imbianchino o dell’elettricista per lavori domestici: silenzio
assoluto. In un seminario dello scorso settembre all’Università pontificia
è stata auspicata, per una giusta tassazione, la maggiore considerazione
dell’etica per combattere l’evasione: mi sono permesso avanzare dei
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dubbi anche per l’esperienza delle vicende incorse dagli istituti finanziari
del Vaticano coinvolti in riciclaggio e nella copertura di operazioni di
tangenti. Eppure nella Città del Vaticano dovrebbe imperare l’etica!: è
occorsa, per intraprendere la corretta via, una summa del Sovrano
Pontefice che impone norme repressive similari a quelle vigenti in Italia.
Certo è auspicabile che i costumi degli Italiani, anche in materia
tributaria, siano ispirati a principi morali e di solidarietà sociale, ma
purtroppo passeranno decenni e decenni di educazione per acquisirli:
adoperiamoci per la introduzione di chiare norme giuridiche e per la
severa osservanza.
E nel frattempo utilizziamo l’evasione nel bene, e cioè l’avere
determinato un rilevante “tesoro” che secondo le stime si aggirerebbe sui
120/150 miliardi. La lotta, per trovarlo, è strenua ma l’Amministrazione
finanziaria e la Polizia tributaria hanno dimostrato di saperci fare tanto
che negli ultimi tre anni hanno ricuperato circa 30 miliardi.
E sarebbe un valido contributo per ridurre la pressione fiscale.
Ho accennato che una delle cause dell’evasione è la pessima gestione
della finanza pubblica. Nel nostro paese gli studi di diritto tributario
hanno raggiunto un buon livello e la speranza è che siamo profittevoli
anche per la classe politica dirigente. Mancano invece, anche nelle
Università, approfonditi studi per la disciplina della spesa: a mio avviso
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fondamentale per una giusta imposta è la giusta spesa, così da sfatare il
detto: è più facile introdurre un tributo che tagliare le spese, specie
quelle di favore!