Sul fiore in Italia - Galleria Lorenzelli

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Sul fiore in Italia - Galleria Lorenzelli
SUL FIORE IN ITALIA: ALCUNI ACCERTAMENTI
Nel Modo di esprimere per ia pittura di tutte le cose dell'universo mondo del 1582, indirizzato al Cardinal Paleotti che nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane informa in
modo certamente non trascurabile l'estetica controriformata in Italia, Ulisse Aldrovandi coglie prima di tutto un obiettivo per cosi dire difensivo per uno studioso della natura come
amava essere reputato: e è l'osservazione del reale come prima fonte di ispirazione per il pittore «valentuomo» «Primieramente è noto a ciascuno, si come anco testifica Vitruvio, lib.
7.C.5, che la pittura debbe esser (l'imitazione) delle cose che sono. Laonde le grotesche, per
essere chimerice e fondate solo nel nudo intelletto, non essendo conformi alla natura, sono
refutate dal suddetto autore»57.
Come è stato rilevato costantemente il luogo classico e l'affermazione dell'Aldovrandi
non sono nuovi. Risulta però significativo questo disprezzo per l'artificiale, per il fantasioso,
una volta che si consideri l'attività gemellata fra lo studioso e enciclopedista Aldovrandi e Jacopo Ligozzi, compagno e strumento del suo progetto di esame della realtà. L'osservazione
persegue le regole canoniche dell'aristotelismo, dalle «cose naturali» alle «cose artificiali». E
all'interno della natura è distinto il mondo «semplice» degli astri o i quattro elementi semplici «sublunari», terra, acqua, aria e fuoco la cui caratteristica fondamentale è quella di determinarsi, nella realtà, come miscuglio, e quindi variamente percepiti e rappresentabili.
In questo programma discendente, dal semplice al complesso, dal puro al miscuglio nulla di nuovo dal punto di vista dell'impalcatura concettuale Aldovrandi aggiunge una nota
«figlia» dell'esperienza sperimentale: «Bisogna che il pittore molto bene conosca particolarmente tutte le cose sopra dette, o siano inanimate o vegetabili, acciò le possa dipingere con
suoi appropriati colori e, non conoscendole, debbe consultar quelli che n'hanno cognizione,
acciò possa sapere la loro figura o per delineazione o per la descrizione, dandoli i suoi propri
e veri coloriȓ8. Non si tratta in questo caso di celebrare il matrimonio fra l'analisi scientifica
e classificatoria del duo Aldovrandi-Ligozzi (probabilmente i tanto decantati insegnamenti
sulle tavole scientifiche del Ligozzi impartiti ai bolognesi Orazio Samachini e Lorenzo Sabatini non hanno prodotto, se non nella contemporaneità, gli effetti prodigiosi che vengono decantati dall'Aldovrandi) e la validità dell'immagine.
E opportuno comunque collocare, nell'ultimo ventennio del Cinquecento, una attenzione alla realtà e alla sua trasformazione, la necessità di uno studio «dal vero» o comunque a
partire da una nomenclatura precisa, che il succinto testo dello studioso proclama a ogni riga:
«E se occorrerà al pittore a dipingere le piante secondo l'età diversa, si come quando ella germina et esce di terra, ovvero quando ha fiori e frutti, essendo in età perfettissima atta a generar sè stessa per mezzo del proprio seme, la deve vedere in simile età et imitarla, per non
commettere errore»58.
57 Aldrovandi (1582)
58 Aldrovandi, ìbìd.
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Il giudizio contro la riproduzione infedele, comunque non rispettosa dell'ordine naturale che il più piccolo frammento della realtà riproduce e la necessità di eliminare qualunque
effetto «bizzarro», di fantasia, di artificiosa connessione fra mondo della natura in cui il vegetale si esprime e la fantasia dell'accostamento fantastico, sembrano essere le preoccupazioni
più rilevanti del nostro scrittore, sotto forme diverse un nuovo «appello all'ordine» dopo le licenze cinquecentesche che non solo hanno travisato in modo fantasioso la storia, e soprattutto la storia sacra, corrompendo o attualizzando, ribaltando l'iconografìa tradizionale della vita
dei santi e degli episodi del Vangelo, ma ne hanno oltretutto reso infedele l'immagine, quanto cioè di più immediato e volgarizzabile una propaganda ideologica potesse usare sul piano
degli strumenti collettivi.
Artifìcio e naturale, bizzarro e conseguente: anche se con diversi accenti, che vanno dalla pedissequa e semplicistica traduzione aristotelica di un Vincenzio Danti alla più fine e
preoccupata attenzione dell'Aldovrandi, il mondo della natura viene ancora una volta sottoposto alla congruenza di una osservazione analitica e di un ordine nominale. È logico che
l'accostamento sia incongruo; che l'interesse al naturale dell'uno sia spavaldamente dissociato, almeno negli esiti che possiamo vedere in una tavola di Ligozzi, da qualunque ipoteca
pregiudiziale è chiaro altrettanto vero che Vincenzio Danti, affrontando la «perfetta proporzione» dei corpi vegetativi, pur ascrivendo all'albero e all'erba diversa «perfezione di composto» e diversi «umori» presenti tali da rispondere alle diverse situazioni ambientali in cui l'organismo è posto, in base a queste condizioni differenti, a queste potenzialità che si realizzano, costruisce una solida impalcatura di rimandi e di orientamenti in un mondo naturale che
oltretutto, dal punto di vista della qualità e della quantità, sta conoscendo, per gli apporti extra-europei, una gigantesca amplificazione. «È così diremo che tutte quell'erbe che vedremo
perfettamente conseguire questi fini sopradetti, cioè ciascuna secondo il grado de' suoi umori, sempre anco conseguiranno il fine della perfezzione del seme loro, il che è il fine che in
essi disidera la natura, e che le fa apparire nel loro genere di perfetta bellezza»59.
In un ricostruito ordine generale dell'universo, e proprio mentre la retorica della parola
conosce la sua fioritura analogica più incredibile, la metafora e la metonomia più incalzanti e
libere, le norme prescrittive di una teorica d'arte, centrate sull'imitazione, proprio per il loro
carattere correttivo rispetto a una pratica considerata degenere, riaffermano in modo perentorio il controllo della gerarchia, la fedeltà al «fine» particolare di ciascuna parte del creato, e
contemporaneamente - in modo dialettico, ne affermano una verosimiglianza alla luce di un
«verosìmile» sperimentale.
Questo contrasto costituisce lo scenario, o lo sfondo in cui si afferma, con alcune eredità
ideologiche ma anche iconografiche pesanti, la composizione di fiori in Italia.
L'artifìcio, la bizzaria, l'accostamento fantasioso ma incongruente è bandito: paradossalmente uno dei nodi «originari» della «Natura morta dìfiori»in Italia è proprio legata alla
presenza del naturale nelle tanto disprezzate «grottesche» cinquecentesche e in particolare
nell'opera di Giovanni da Udine.
59 Danti (1567)
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Il nome del collaboratore di Raffaello nelle decorazioni di Villa Madama, viene assunto
all'interno del mondo della natura morta italiana da Charles Sterling che, nel 1952 prima e in
modo più compiuto nel 1959 formula, a dispetto di una corrente e accreditata ipotesi sull'origine nordica della composizione autonoma, la tesi della dipendenza del «sentire» secentesco
l'oggetto isolato e autosufTiciente dall'esperienza italiana del Rinascimento.
Gli affreschi illusionistici, seguendo in questo modo le indicazioni fornite dal Tolnay 6",
ma soprattutto le tarsie dei cori di un Giovanni da Verona o di uno Stefano da Lendinara, e
dalla riscoperta della decorazione antica della Domus Aurea, meta di pellegrinaggi devozionali e fonte diretta di un mondo che un'intera cultura nel suo complesso immaginava e ricostruiva. Il documento pittorico di questa rilettura, almeno a livello di quadro, si trova per
Sterling 61 in due testimonianze, l'una indiretta in quanto del reperto non se ne ha più traccia
da oltre cento anni, l'altro in una replica secentesca firmata «Da Casa Spilimberga» datata
1556 e firmata G. Da Udine. Sull'autenticità Sterling poneva alcuni dubbi che nel 1961 vengono per la prima volta, oltre alla pubblicazione della fotografia dell'ipotetico secondo quadro
perduto, confermati e stabilmente confinati nell'area della replica da Raffaello Causa nella
sua prima ricostruzione della figura di Giacomo Recco 62 . Per chi sta seguendo la storia della
natura morta italiana i fatti sono già troppo noti perchè ci si possa ulteriormente soffermare: a
Spilimbergo Giovanni da Udine lavora nella parte estrema della sua attività, attendendo alla
decorazione di una sala del Castello: la pubblicazione recente di alcune fotografìe del fregio
da parte di Caterina Furlan chiarisce in modo incontrovertibile come non si debba parlare di
«grottesche» nella consueta accezione del termine trattandosi di una teoria di festoni di fiori
e frutta retti da putti e puttine con al centro il medaglione del Conte, uno stucco di evidente
derivazione romana e una impresa militare.
Nulla di più lontano dai documenti che, eventualmente, possono riferirsi a una «memoria» del «nome» più che alla continuità o alla replica di un'immagine consolidata.
In modo sufficientemente drastico si può con buone probabilità affermare che identificare in Giovanni da Udine l'inauguratore di una maniera «italiana» del fiore o della natura
morta in genere come poi si affermerà nel secolo successivo, è per lo meno imprudente o comunque non documentato.
Nel 197263 sempre Raffaello Causa ha restituito ai primi del Seicento, a Giacomo Recco,
un terzo dipinto che nel 1968 era stato attribuito a Giovanni da Udine 64 . L'attribuzione di
Ferdinando Bologna si basava sostanzialmente su due elementi: l'evidente non caravaggismo
dell'impianto e della stesura cromatica, la arcaica frontalità della impaginazione e la presenza
del vaso decorato con un mascherone e animali fantastici iconograficamente riferibili alla bizzaria delle grottesche cinquecentesche. La pubblicazione di un gruppo solido di fiori italiani
affini nell'utilizzo di un vaso in ceramica e metallo dello stesso genere permette di affermare
una estensione del costume.
60 Tolnay (1961-62)
61 Sterling (1952)
62 Causa (1961)
63 Causa (1972)
64 Bergamo (1968)
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La prova testimoniale dell'appartenenza ai primi del Seicento del dipinto è indicata da
Causa, su suggerimento di F. Zeri, nello stemma sulla pancia del vaso, riferibile al Cardinal
Poli, creato alla carica nel 1623. La possibilità di poter accorpare attorno a questo documento
altri dipinti sempre riferibili a Giacomo Recco costituisce già comunque la fase ormai matura, della prima composizione di fiori, in cui cioè esiste già una «storia» e alcune prospettive
di sviluppo che si divaricano.
Con l'efficacia che può avere una costruzione sintattica retorica Raffaello Causa, nel già
citato contributo del 1972 definisce senza mezzi termini, argomentando in modo suggestivo
sulla fiscella di Caravaggio e sull'importanza della scomparsa ma testimonialmente importante «caraffa» di vetro: «E insomma da Caravaggio la natura morta italiana».
Ma in realtà la «fiscella» non conosce e non permette accostamenti, non solo oggi, ma
anche nella contemporaneità come è testimoniato dagli sforzi del Cardinal Borromeo, che
pure coltivava un intenso e profìcuo rapporto con Jan Brueghel dei Velluti, di trovarne un efficace pendant: si tratta allora di un «unicum» o per usare un termine ancora più definitorio
di un apax, di una espressione confinata nell'attimo della sua produzione e irripetibile, se
non a costo di stravolgere e comunque di editare un falso, una replica demotivata. Causa insiste sulla contrapposizione Caravaggio-Fiamminghi e una analoga situazione di conflitto o di
concorrenza nella situazione romana viene ripresa da Marini sul suo «Caravaggio e il naturalismo internazionale»65. In realtà, tenendo oltretutto conto della diversità anche quantitativa
della produzione di nature morte autonome, mi sembra si debba parlare di piani diversi su
cui le due aree, le due intenzioni si collocano.
Tornando comunque alla affermazione perentoria di Causa, occorre per così dire ampliarla nell'osservazione di radici, originarie o importate, diverse accanto e non necessariamente in rapporto con Caravaggio.
Il primo elemento che interviene allora nel panorama generale italiano è quello del
«contributo del Nord». Le lotte di religione che devastano gli ultimi decenni del XVI secolo
e i primi del successivo vedono grandi e significativi spostamenti di artisti: Rubens e con lui
Jan Brueghel dei Velluti orientano il loro interesse verso Roma, come capitale del Cattolicesimo oltreché evidentemente come meta tradizionale di una educazione rinascimentale. La
presenza di Brueghel a Milano, Roma e Napoli è testimoniata dal 1589 al 1595 ma i contatti
con il Cardinal Borromeo proseguono fino al 1622 e dall'epistolario si evince l'importanza di
Brueghel come consigliere e amico del Cardinale.
65 Marini (1980)
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A PARTIRE DA GIACOMO RECCO
Nella sua indagine sulla storia della natura morta in Italia Marco Rosei afferma con confortevoli documenti la difficoltà, a dispetto di una situazione europea, soprattutto nordica,
particolarmente continua e stilisticamente concatenata, di affrontar in modo organico una
stagione che di conseguente ha ben poco. Il panorama italiano «è un tessuto a larghe maglie,
ma, dopo i risultati scientifici degli ultimi venticinque anni, ciò non si può più imputare a
scarse e scoordinate conoscenze di fatto. Si può affermare per contro a ragion veduta che tale
situazione è intrinseca alla vicenda italiana della natura morta, ricca di personalità di prodotti
di alto, talora eccezionale livello, ma senz'altro assai meno organica alla struttura culturale e
sociale che non, ad esempio, nel caso dei Paesi Bassi, sul versante olandese quanto su quello
fiammingo».
La «scuola» - pensiamo in modo particolare all'unico esempio, quello napoletano, di
continuità tematica sul fiore - o, per usare un termine adeguato all'epoca, l'Accademia - il riferimento è evidentemente quella del Crescenzi a Roma, sulle tracce dell'Arpino e della folgorante presenza di Caravaggio, non si addicono, sul piano della letteratura ma soprattutto
della mentalità critica italiana - non certamente del pubblico e della fortuna delle repliche), a
una concezione estetica che nell'isolato, nella presenza episodica e rivoluzionaria, anticipatrice spesso misconosciuta ma grande nella sua incapacità di paragone, trova la sua chiave più
esauriente. A dispetto della continuità e in una continua innovazione e esplorazione di campi
fino allora esplorati; questo il modello d'artista che, nella totalità, può avere confidato alla
storia da Vasari e la sua «vita degli uomini illustri» mentre il Nord conosce la corporazione,
la Gilda, una committenza e un mercato diffuso.
Quest'atteggiamento per cosi dire ideologico avverso alla corporazione e la presenza di
un collezionismo diffuso nelle diverse capitali, a dispetto dell'internazionalità della frequenza
dei centri italiani (è più facile trovare un napoletano a Madrid o un fiammingo a Roma piuttosto che ricostruire passaggi e incernieramenti di un autore italiano da una corte o da una
città all'altra) costituiscono le premesse perchè, soprattutto per quanto riguarda una «composizione difiori»italiana si debba ancora parlare per casi isolati piuttosto che per scuole, o per
accertate figure di maestri. A parte alcuni casi, comunque esclusi da un ragionamento degli
esordi della natura morta eccezion fatta per Giacomo Recco, da cui le nostre mosse prendono avvio, nè si può parlare di scuola nè di specialisti. La contraddizione fra giudizio critico
storico e situazione contingente può essere allora facilmente esemplificata con il caso di Mario Nuzzi, celebrato nella contemporaneità come il «principe deifioranti»,la cui attività e i
cui documenti certi sono a tutt'oggi scarsi e comunque non alieni da controversie attributive;
quasi che il generista, consacrato nelle parole dei redattori, o nelle richieste di un mercato
contingente, costituisca una sorta di «artista minore» rispetto al soggettista di storia o al ritrattista.
230 - Giacomo Recco,
Coli, priv.,
Italia.
204
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Fatto sta che, per motivi soprattutto di organicità di nome e di storia, un ragionamento
sul fiore italiano può partire proprio da quello di Giacomo Recco, capostipite di più generazioni di generisti a Napoli, e cioè in una capitale che, aldilà di un diretto contatto con Roma,
testimoniato in modo particolare dalla presenza di un Luca Forte e dell'ancora anonimo
«Maestro di Palazzo di San Gervasio», ha decisivi rapporti con i fiamminghi, e soprattutto la
Spagna, meta o transito di parecchi artisti napoletani. A partire dal quadro firmato sul retro e
datato 1626 (tav. 232) Causa ha una prima volta (1961) affrontato un possibile arco di lavoro
particolarmente esteso, capace cioè di accogliere una fase arcaica (esemplificata dal Rivet),
una fase matura in cui la centralità e la fissità del bouquet lascia spazio a un maggiore disordine e autonomia, una emancipazione dalla nordica «composizione radiale» che sembra essere
più una costante ordinativa del rapporto vaso-fiore che un vero e proprio marchio di stile di
derivazione nordica, fino a esiti ora attribuibili con maggiore pertinenza all'attività di Giuseppe, la cui cultura risulta indubbiamente più complessa e varia rispetto a quello del padre, e a
una successiva involuzione stilistica, caratterizzata da una nuova fase «arcaicizzante», in opposizione al dilagare del caravaggismo. Un percorso come si vede particolarmente tortuoso,
per un artista oltretutto la cui produzione universalmente accettata presenta caratteri stabilmente coerenti. Da una base solidamente individuata si stacca con evidente calligraficità il vaso contenitore, sia esso una ripetizione dei vasi a grottesche, sia, come nel caso dei Garofani
Heim (tav. 235) un arbarello o come nella già indicata tavola Rivet un vaso di pietra, parte integrante e essenziale della composizione da cui diparte il bouquet di fiori, attento alla specialità e alle caratteristiche del singolo tipo più che a una vera e propria cattedrale di fiori come
nei repertori fiamminghi o in alcuni esiti italiani che verranno indicati più oltre. Diventa allora ancora più difficile affermare una internazionalità della «composizione radiale» come situazione vincolante una dipendenza. Giacomo Recco, nell'evolversi del fiore studiato è più
attento al disporsi plastico che a una articolazione compositiva risultante: è indubbio, si prenda a esempio il caso del fiore legato (tav. XXVI), che la presenza e l'accostamento del singolo
mazzo sia in relazione a un ordine prestabilito: altrettanto vero pero' che proprio questa ridondanza dell'intervento artificiale rende maggiormente naturale e spontanea la lettura.
Il presente accorpamento di opere attribuibili a Giacomo Recco segue per certi versi la
ridimensione che ne ha fatto, rispetto al corpus del 1961, lo stesso Causa nel 1972. Questa seconda ipotesi si accentra per così dire già canonico Rivet e sul quadro con lo stemma del
Cardinal Poli (tav. 230). A partire da quest'ultimo Causa cerca una dilatazione arcaizzante fino a giungere al «fiore» attribuito a un maestro piemontese passato in asta pubblica nel 1964
(tav. 236). L'analogia del carattere del vaso, ancora una volta un vaso a grottesche, non è comunque sufficiente a dilatare a tal punto l'attività del Recco senior, tenendo oltretutto conto
che al padre vengono tolti alcuni esiti, come il n. 154 o quello ancora attribuito nel 1968 da
Bologna alla mano di Giacomo e restituiti ipoteticamente a Giuseppe dall'intervento del 1972.
Sembra allora difficile, tolti a Giacomo esempi da collocarsi in un'epoca e a una sensibilità ormai riflessiva della calligraficità e dell'esattezza del fiore, come sembra caratteristica del
Giacomo ormai individuato, dilatare in modo troppo vasto un momento arcaico, che oltretutto, negli esempi noti e in alcuni che verranno discussi in seguito, si presenta con caratteristiche sufficientemente diverse. E questo risulta ancora più evidente dal fatto che la fisionomia
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e la storia di Giacomo, come viene intravista attualmente, senza dubbio più limitata come
esperienze figurali ma incontestabilmente più accentuabile dal punto di vista stilistico, vede
allora una traiettoria che dal Rivet passa al Vaso con lo stemma del Cardinal Poli per arrivare
«airAlbarello di garofani» ex Heim.
Il carattere specifico e il contributo di Giacomo Recco alla storia della composizione di
fiori sembra essere prima di tutto un particolare equilibrio fra l'importanza attribuita al contenitore, importanza dal punto di vista del suo carattere di replica di un décor conosciuto, e dal
punto di vista della sua proporzionata presenza nel campo. Il contenitore in altri termini non
è pretesto per una grande imbandigione di forme e di colori, ma risulta protagonista accanto
al fiore composto. Quasi che, a differenza della immediatamente precedente esperienza nordica, non fosse tanto la collezione di fiori diversi, disparati come origine o come stagione di
fioritura a immagine di una esauriente padronanza della natura, quanto una attenzione più
diretta e naturale al sistema vaso-bouquet nella sua realtà concreta.
Questa attenzione alla «verità» del modello e alla «verità» della sua trasformazione sulla
tela riconnette la linea di Giacomo a una esperienza che trova nel Manierismo italiano la sua
declinazione più congruente. Non si vuole con questo ancora una volta contrapporre, come è
stato fatto, la pedanteria e raffollamento ossessivo del Nord a una più serena e plastica concezione dell'oggetto come viene declinata da un'area italiana: sono queste approssimazioni
spesso di comodo che oltretutto non reggono una volta che si entri in modo profondo
nell'immaginario dell'una e dell'altra area.
Certo comunque che il valore di presenzialità in conflitto fra contenitore e bouquet trova in alcuni esiti di Giacomo Recco una risposta particolarmente e severamente plastica.
Il fiore composto oltretutto si organizza in una severa impaginazione simmetrica lungo un
asse verticale e un asse orizzontale: questa ortogonalità può essere, come nell'esempio ora negli
U.S.A. (tav. 231) e nello stesso Rivet, basata sulla equatorialità di un gruppo di fiori che da un
centro posto alla base della composizione (evidente nei tre fiori dell'esempio U.S.A.) scandisce la frontalità della composizione e accenna al volume, tende a una sfolgorante adiacenza, e
sulla verticalità del cespo legato nella parte superiore del mezzo, in cui si ripete, con un andamento principale verticale, l'operazione di un asse orizzontale minore.
Ma questa nuova presenza esalta, nella ripetizione, la singolarità fisionomica del fiore,
che si staglia in modo netto e preciso contro il fondo scuro. È una architettura alla soglia minima, quasi ci fosse, nel grande come nel piccolo, nel particolare come nel generale, un principio ordinativo capace di esaltare la plasticità e la varietà delle consistenze e delle tensioni
della materia. L'esecuzione della profondità e della volumetricità diventa allora più agevole
nei diversi orientamenti che i singoli fiori determinano a partire dal gambo centrale.
Non esiste affollamento o sovrapposizione anche ordinata nei fiori di Giacomo; il ragionamento diventa ancora più evidente nel già citato fiore con lo stemma del Cardinal Poli e in
un esemplare con lo stemma della famiglia Spada e il vaso ancora una volta decorato con manici metallici antropomorfi. Il carattere peculiare delle due composizioni è il raggruppamento
di fiori identici, quasi a formare diversi insiemi fra loro coerenti concatenati (nel secondo caso il legame si materializza nel modo che lega, artifìcio del naturale, in bouquet fiori natural207
mente legati al singolo stelo. Soprattutto nel vaso si nota, a partire dal fiore centrale sulla linea equatoriale, una disposizione che, pur privilegiando Tasse verticale centrale, segnala altresì un asse orizzontale replicato fino al disporsi a ciuffo dei tulipani legati al vertice della
composizione.
Nell'esemplare in altri termini si sposa una simmetricità evidente nella contrapposizione, oltretutto sottilmente variata fra chiuso e aperto, fra quantità di boccioli e quantità di fiori
aperti della medesima specie, e appunto la varietà di esiti, l'invito a una lettura che, indipendentemente dall'osservazione complessiva, può indugiare nei singoli «fuochi» di cui l'insieme è disseminato.
Analoga osservazione sull'accorpamento di fiori identici ma in una composizione liberata per cosi dire da una ossessionata simmetria può essere fatta per il Vaso Poli in cui l'andamento sembra essere dettato più dallo svettare e dal flettersi del singolo stelo che da un vero
e proprio inserimento artificioso. La specularità è ancora presente a partire da un asse media208
no segnalato dal fiore aperto nel centro della composizione e dal ciuffo bianco al vertice, ma
il principio dominante è quello della variazione di orientamento e di fioritura. Con questo
esempio il ragionamento di Giacomo Recco sembra avviarsi a una composizione più variata
e mossa: ne può essere esempio significativo la composizione di fiori segnalata da Causa nel
saggio del 1972 (tav. 233), che presenta oltretutto una base rotonda e una organizzazione dei
fiori su linee orizzontali sovrapposte, dalla pesantezza e compressione della base, che vede allineati in disordine fiori di diversa origine, a una fascia mediana di fiori identici che sembrano
quasi un intervallo tormentato fino all' esplosione cromatica della cima, in cui si alternano
ciuffi di fiori diversi stagliati e netti nel fondo omogeneo.
La ricostruzione della personalità del primo Recco è comunque di non facile decifrazione: soprattutto sono innegabili alcuni riferimenti e alcune «citazioni» in opere immediatamente non attribuibili: può essere un significativo esempio di questi contatti e relazioni il
modo in cui Recco orchestra le larghe foglie alla base della composizione citata e lo stesso
209
235 - Giacomo Recco, Coli, priv., Francia.
motivo che ricorre, con la medesima importanza e qualità plastica, nella composizione di tav.
248 attribuita dal Marini al Maestro di Palazzo di San Gervasio. E riferimenti a Giacomo Recco sarà necessario fare per alcuni esiti del ricostruito «Maestro del vaso a grottesche» come
l'esempio illustrato alla tav. 238 e al suo pendant illustrato nelle opere esposte.
A Giacomo Recco, nell'epoca della sua maturità, dell'emancipazione cioè di una ordinata simmetria e di un maggiore interesse per l'atmosfera ambientale in cui la composizione è
inserita; può essere assegnata anche la composizione di fiori passata in asta italiana (tav. 234):
il lumeggiamento della base richiama con evidenza esempi già indicati, così il colpo di luce
che rende evidente il vaso decorato con il soggetto della «Leda e il cigno» che ricorrerà - a indicare contatti e ripetizioni iconografiche ancora non chiarite, in un soggetto del Maestro del
vaso a grottesche (tav. 237).
L'aspetto comunque più significativo dell'ultimo esempio illustrato di Giacomo è il disporsi ordinato ma nello stesso tempo estremamente variato dei fiori: si tratta infatti,
210
partendo dal medesimo tipo, di un calibrato studio di dimensioni e di colori diversi disseminati su un fogliame retrostante e continuo: siamo in questo caso, e troveremo una analoga
soluzione anche se ottenuta nella rarefazione degli steli nel Garofano Heim, in una organizzazione libera e particolarmente articolata. Anche in questo caso la base si presenta pesante e
capace di seguire l'andamento naturale del vaso; sull'asse centrale si accentrano i fiori più pesanti e sfatti mentre alla periferia si organizzano variamente fiori in boccio, o comunque di
dimensioni ridotte.
Fase estrema della parabola, magari non conclusiva ma indubbiamente aperta agli sviluppi che la composizione di fiori avrà successivamente, può essere documentata dal già ricordato Arbarello di tav. 235: ancora una volta è l'osservazione reale che spinge Recco a disporre in modo spontaneo e naturale i gambi dei fiori, con un andamento spesso contorto
che fotografa, oltretutto utilizzando una iconografia tradizionale legata ai garofani; in realtà la
composizione si presenta scomposta, quasi un indice di tempo trascorso incontrato nel cadere dei gambi una volta perduto lo slancio verticale e nella stessa presenza di garofani nel massimo della fioritura e con i petali ormai caduti.
FRA SETTENTRIONE E CENTRO-ITALIA
Questa la punta finale; ma occorre ancora precisare alcuni aspetti di una fase, estranea a
Recco legata a alcuni esempi per buona parte inediti e tuttora senza nome, ma incontestabilmente anteriori per immagine e tecnica pittorica alle fasi di Giacomo Recco che abbiamo cercato di ricostruire che sono stati raggruppati in un anonimo «Maestro del vaso a grottesche».
Nella più volte richiamata ricostruzione dell'opera del primo fiorante napoletano Raffaello Causa tende a accostare a Recco uno di questi esempi (tav. 236) ma, per la linea evolutiva che abbiamo tracciato, le pur evidenti affinità nella scelta del vaso di ceramica con i manici in metallo non costituiscono un elemento probante. D'altra parte, come è possibile constatare osservando buona parte di questi esempi, il gusto del vaso decorato o sbalzato sembra
essere più che una singola scelta personale. Un esempio citato (tav. 237) e il suo pendant che
oltretutto presenta, nella lastra di pietra slittata e aggettante sulla base con una soluzione che
troverà echi vicini (taw. 237, XIX) o lontani (si pensi all'impianto della fiasca fiorita di Forli),
possono essere facilmente accostati per un affine modo di concepire il fiore composto: prima
di tutto una accentuata verticalità del bouquet lo rende particolarmente imponente rispetto al
sistema nel suo complesso; in secondo luogo si avverte un affollamento forzoso, un accostamento spesso una sovrapposizione fra fiore e fiore oltretutto segnalato con una calligrafìa meticolosa e descrittiva. Quel carattere architettonico e «realistico» che avevamo trovato in Giacomo è del tutto dissolto a vantaggio di un horror vacui che trova il suo ascendente diretto ne211
gli esiti fiamminghi immediatamente precedenti e contemporanei. Probabilmente l'indicazione geografica (Piemonte) attribuita in sede d'asta al primo vaso vuole soprattutto segnalare la
dipendenza di quest'esito dai modelli nordici: due appunti possono confermare non tanto
L'indicazione regionale, ipotetica quant'altri mai, quanto una più vicina lettura degli esempi
nordici. La presenza nel primo vaso in posizione verticale della fritillaria imperialis, un fiore
particolarmente replicato da Jan Brueghel dei Velluti e spesso presente nelle incisioni finecinquecentesche di un Kempener o di un Collaert, e la presenza della farfalla in entrambi i
quadri citati, anche questa una inequivocabile replica dell'immaginario archetipico fiammingo costante in questi esempi e del tutto assente nell'intento di Giacomo Recco.
Il già ricordato accostamento e la sovrapposizione caotica di fiore a fiore non esclude comunque una seppur faticosa architettura compositiva: se il primo esempio trova nel grande
cespo di fritillaria il culmine di una base espansa sull'orizzontale con un affollamento di fiori
di vario tipo e di piccole dimensioni nella zona equatoriale centrale e la stabilità fornita, simmetricamente ai bordi dai due fiori sbocciati e, risalendo dai due tulipani e dai due fiori finali
variamente orientati, il secondo esempio presenta una composizione più aperta e asimmetrica: la partenza è costituita da un asse centrale equatoriale costituito da un gruppo di fiori di
piccolo taglio, risalendo giunge al fulcro costituito, in successione verticale dall'iris germanica
aperta a rosa dei venti e la superiore Ìris, cuspide del bouquet: in questa ordinata impalcatura
si alternano in modo quasi complementare gruppi di fiori a ciocche e fiori isolati.
Nella sua varietà quest'ultimo documento sembra intravvedere una via di sviluppo che può
essere efficacemente testimoniata da tre documenti, due dei quali presentano affinità iconografiche e di impianto perfettamente coincidenti.
Sulla base o sulla balaustra è collocato, investito dalla luce che in un caso mette in risalto in modo particolare lo sbalzo, il vaso che ai manici di metallo fa corrispondere nel corpo
una immagine devozionale (il Cristo dei dolori e l'incontro fra Maria e Elisabetta (tav. 238,
XX) che soprattutto nel secondo caso trova un riscontro iconografico nel ramo di gigli che
costituisce l'asse verticale centrale della composizione. Rispetto agli esempi precedenti il disporsi dei fiori, pur mantenendo una accentuata verticalità, segue un criterio più decantato e
rispettoso della stereometria del singolo fiore: i gambi ritagliano sullo sfondo una plasticità sicura della fisionomia e della consistenza figurale. La disposizione è comunque pur sempre
obbediente a uno stretto equilibrio formale: nel primo caso sono i tre tulipani centrali a determinare un asse di simmetria quasi speculare, in cui cioè le differenze sono nell'ordine di
uno spostamento minimo o di un diverso orientamento del singolo fiore. Il secondo esempio
vive, come si è detto, a partire dall'alto stelo di gigli con una corona superiore dei boccioli
chiusi e il dispiegarsi nella profondità dei fiori aperti; intorno a questo fulcro si addensano
fiori di campo e fiori coltivati. La cura e la meticolosità con cui viene reso il singolo elemento, (si guardi come il lilium martagon possa dispiegare i propri petali con calligrafica esattezza
nell'asse mediano del bouquet) predice una attenzione alternativamente orientata sulPindagine del microcosmo, del singolo fiore considerato nella sua qualità di organismo complesso, e
sull'organizzazione generale del fiore composto, alla ricerca di un equilibrio fra il dentro e il
fuori, la figura e lo sfondo.
Quanto stiamo affermando può essere anche il modo di approccio di un terzo fiore in
212
composizione (tav. 239) che, come già richiamato ma con una torsione e una illuminazione
quasi surreale, presenta alla base la lastra di pietra slittata sullo zoccolo. I valori formali di forte plasticità, di brusca illuminazione e primo piano si ritrovano nella ordinata e schematica
composizione del bouquet: ancora una volta un asse verticale presenta tre fiori diversi oltretutto progressivamente orientati dalla quasi frontalità della posa alla diagonalità del giglio, alla verticalità del prezioso tulipano. I fiori che costituiscono la corona all'andamento verticale
determinano una figura complessiva statica, senza sviluppo: ma proprio questa inquadratura
potenzia le differenze cromatiche e del perimetro. Il richiamo al Nord sembra evidente; ma
l'interpretazione che ne viene fatta adotta, utilizzando oltretutto la grande dimensione del
singolo fiore, una soluzione plastica, presenziale dell'oggetto che gli esiti di riferimento non
conoscono in modo così netto. La luce circonda interamente la base e butta in avanti il vaso;
una stessa illuminazione, questa volta diffusa sul bouquet, modella e rende tridimensionalmente variato, il singolo fiore. La calligraficità e l'analiticità del racconto non è dunque a detrimento della replica reale che esiti come quello discusso possono produrre.
Se la geografia e la firma di questo ciclo di opere, lette in successione di evoluzione stilistica, sono sufficientemente incerte, più attendibile è una indicazione di carattere cronologico
che può essere precisato nel primo quarto del XVII secolo, in un ambiente che su un impianto manierista, filtra e spesso fa trasparire un richiamo al Nord. E questo richiamo all'influenza e alla frequentazione di dipinti originali o di stampe fiamminghe nei centri italiani è stato
più volte richiamato. Non solo Jan Brueghel, ma anche Hoefnaghel e Kempener vengono in
Italia negli ultimi anni del XVI secolo. Nulla di più facile che, per la fama di miniaturisti o comunque di ottimi analitici della natura, i maestri fiamminghi, oltreché a omaggiare il grande
secolo della pittura rinascimentale, promuovessero un mercato, e soprattutto un gusto, una
iconografia.
Ne possono essere esempi significativi - e anche in questo caso dobbiamo operare per
campioni singoli, senza la possibilità di un riferimento affidabile - alcuni esiti che illustriamo
di seguito.
È opportuno ricordare ancora come l'esordio che abbiamo scelto con Giacomo Recco
sposta il discorso da una stretta cronologia all'individuazione di uno sviluppo sufficientemente accettabile (appunto l'arco di lavoro del napoletano) da cui possono logicamente prendere
le mosse i contributi di una stagione immediatamente precedente o comunque contemporanea agli esordi di Recco, ma indipendenti da esso. È il caso del gruppo di opere già discusse
come per le successive fino alla segnalazione, posteriore solo per estraneità, di una situazione
romana inaugurata da Caravaggio e comunque precedente a Mario Nuzzi, contemporaneo
quest'ultimo di Giacomo e oltretutto suo conterraneo per la nascita avvenuta nel Reame di
Napoli, ma culturalmente e stilisticamente distante. Che nella contemporaneità si possa accettare un «arcaico» Giacomo e un «Barocco» Mario Nuzzi questo può essere un quesito
che in ogni caso testimonia la complementarietà e l'estraneità delle scuole, magari dopo aver
accertato influssi e contatti (Luca Forte, Maestro del Palazzo di S. Gervasio): ma questo fa
parte della complessità del problema.
Raggruppare allora alcuni esiti dei primi del Seicento sotto un influsso fiammingo è pos214
sibile se il medesimo venga soggetto a verifica: troppo spesso, parlando del genere, si è colto
il riferimento al Nord come giustificazione di un caso isolato. Basti pensare a come contemporaneamente viene accertato, per le tre tele di Orsola Maddalena Caccia, oltretutto databili
fra il terzo e il quarto decennio del secolo un influsso da Jan Brueghel e nello stesso tempo
vengono segnalate le distanze dal modello fino a farlo impallidire e svanire (tav. 242)66.
Attualmente è possibile distinguere prima di tutto un contributo di natura iconografica,
di presenza e di disposizione oggettuale riscontrabili in due fiori prospetticamente colti con
una forte inquadratura basso/alto, quasi a indicarne una collocazione ambientale precisa e
vincolante, la cui documentazione fotografica non è pervenuta in tempo.
Il ricorrere di un fiore inequivocabilmente fiammingo (la già nota «fritillaria imperialis»
posta a corona, come in Jan Brueghel, della composizione), la stessa presenza sulla mensola
di fiori recisi in disordine e in un caso di una rana con un accostamento vegetale/animale ben
curato dall'iconografìa fiamminga e olandese, lo stesso gigantismo con cui è replicato il singolo fiore, sono tutti elementi che suggeriscono come riferimento immediato le incisioni moraleggianti del mondo fiammingo. Si veda in modo particolare il criterio organizzativo del bouquet nelle incisioni di Wilhelm Altzembach tratte da J. Toussyn e soprattutto la presenza, al
vertice della composizione, del fiore campeggiante (nei due casi una fritillaria e un girasole).
Ma se riscontri fra i due fiori italiani e l'immaginario nordico appaiono troppo stringenti
perchè si possa parlare di caso, è altrettanto vero che le incisioni sono caratterizzate dall'affollamento e dalla sovrapposizione spesso caotica dei diversi fiori del bouquet, mentre nel caso
illustrato i fiori si dispongono in modo dilatato e distinto, predicendo in questo modo una
sensibilità e una concezione dello spazio e dell'oggetto occupante affatto diversi.
Una diversa citazione del Nord può essere trovata in due composizioni di fiori, l'una apparsa in asta tedesca nel 1958 con una attribuzione a Abraham Brueghel (Anversa 1631 - Napoli 1690), l'altra pubblicata nel 1979 in una rivista italiana (tav. XVIII): l'attribuzione all'ultimo dei Brueghel va in qualche modo segnalata e confermata per quanto riguarda la lettura
del quadro come punto di passaggio fra una tradizione fiamminga e una situazione italiana,
ma contemporaneamente una collocazione del dipinto nella seconda metà del secolo risulta
inconciliabile soprattutto per l'area napoletana, che sta conoscendo con Porpora e Giuseppe
Recco il suo momento più intenso del fiore barocco. Per l'uno come per l'altro documento è
quindi opportuno risalire ai primi decenni del secolo.
Sul piano iconografico comunque i due esempi replicano situazioni rese comuni dai primi maestri fiamminghi: nel primo caso ai piedi del vaso giacciono due fiori recisi; nel secondo un colpo di luce sulla balaustra evidenzia alcuni petali caduti, anche questo un evidente
omaggio alla tradizione d'oltralpe e una segnalazione esplicita della transitorietà della bellezza. Ma a dispetto di queste «citazioni», a cui si può aggiungere, nel secondo caso, il carattereverticale e troneggiante del fiore composto e nel primo l'insistenza della replica del tulipano,
disposto a raggiera, quasi una corona del cuore centrale del bouquet, le due composizioni in66 Romano (1964)
215
240 - Bernardo Buontalenti, Fiasca polimaterica, 1583,
Botteghe Granducali di Firenze.
dicano con bella evidenza una interpretazione italiana del tema. E questo non solo per Finterà impaginazione del sistema vaso/bouquet in uno sfondo prospetticamente avvolgente, una
attenzione quindi al dettaglio ambientale come capacità ordinativa di origine rinascimentale,
ma per lo stesso equilibrio dimensionale fra il contenente, ristudiato calligraficamente nel
suo bimetallismo e nel gioco di oscuro e splendente prodotto dalla luce che insieme è atmosferica e centrata sull'emergere dal fondo dell'oggetto, e un mazzo di fiori diversi di particolare armonia fra le parti: non la sproporzione o l'affollamento, la preminenza e il contorno, ma
una controllata misura di forme e di colori sembra, soprattutto nel secondo esempio, suggeriscono l'incontro con un documento di alta qualità, anche se ancora oggi senza nome, e quasi
senza regione.
216
241 - Scuola italiana, inizi XVII secolo,
Coli, priv., Italia.
242 - Orsola Maddalena Caccia, Municipio
di Moncalvo, Asti.
Ma il ragionamento sull'anonimato e la presenza, l'incontro con interpretazioni così personali e distinte del fiore in composizione non si limita agli esempi citati; da questo punto di
vista possono essere segnalati, evidentemente non accostati per tangibili differenze stilistiche,
due altri fiori italiani, il primo, corredato da un vaso di pietra, la cui qualità coloristica sembra
alludere alla Lombardia nei primi decenni del XVII secolo (tav. XXIII) e un secondo esempio, forse ancor più enigmatico, decorato con un vaso a grottesche (ma interpretate realisticamente, in modo affatto diverse dai manici dei vasi già ricordati) la cui fisionomia sarà con più
agio discussa nelle schede riguardanti l'esposizione ma che indubbiamente appartiene al clima fiorentino di un Jacopo Ligozzi (tav. XIV).
E questo perchè dell'uno come dell'altro esempio riesce con difficoltà tracciare, non tan217
244 - Giovanna Garzoni, ubicazione ignota.
to una storia o un nome, quanto un antecedente o una elaborazione successiva: ma questa situazione per così dire «a mosaico incoerente» è una condizione tipicamente italiana, difficilmente confutabile a patto che non si voglia «leggere » un quadro o si voglia, con il conforto
della letteratura, costruire carriere inesistenti, conversioni incongruenti, di comodo.
Il discorso che si è venuto delineando del fiore italiano è caratterizzato da ampie o anguste parentesi, dall'attestazione di un gruppo di opere facilmente accostabili e dalla passiva registrazione di «unicum» ancora in cerca di storia. A una continuità, sia pure isolata regionalmente, può essere ascritta l'attività di Giovanna Garzoni, soprattutto nel suo soggiorno fiorentino intorno agli anni'30: la possibilità di accostare sicuramente al nome della famosa miniaturista alcune pergamene, una edita con l'alternativa di una attribuzione a Octavianus
218
Monfort (tav. 244) e le altre, di grandi dimensioni, inedite (taw. 243, XVI) permette di conì trollare come le indicazioni programmatiche e operative di Jacopo Ligozzi possano sposarsi a
j una più discorsiva impaginazione del vegetale composto. Il richiamo al celebre pittore natura¬
I lista, rivale degli illustratori fiamminghi e braccio intelligente della mente enciclopedica
1 dell'Aldovrandi citato precedentemente, acquista più il sapore della contiguità geografica che
i di una vera e riscontrabile dipendenza figurale. Soprattutto nei due grandi vasi di cristallo lo
! studio della trasparenza (replicato in modo analogo nell'esemplare edito), il gioco illusionistico della deformazione del gambo nell'acqua e una considerevole fedeltà nell'osservare del
singolo fiore il comportamento specifico, il piegarsi naturale dello stelo e il suo orientarsi
spontaneo, denotano indubbiamente una particolare attenzione al reale: certa comunque, per
i contrasto, l'artificiosità dell'impalcatura, lo sviluppo della «mostra» dei fiori, quasi un campionario della varietà e delle singole bellezze, dei singoli caratteri, che uno studio complessivo dal vero. Ma a siffatte collezioni, in cui la logica del microcosmo è rispettata e anzi perfettamente esaurita ma nel macrocosmo, nell'insieme il composto risulta artificiale, siamo stati
abituati nella lettura del mondo nordico, che questa collezione artefatta di realtà intimamente
studiate ha assunto come carattere e come bandiera.
DA CARAVAGGIO: UNA SITUAZIONE ROMANA
Una diversa radice, una diversa paternità devono essere ascritte al fiore nel vaso che si
afferma a Roma, in diretta dipendenza con la perduta ma letterariamente decisiva «caraffa»
di Caravaggio descritta dal Bellori e per così dire sparita, materialmente e come archetipo.
Maurizio Marini 67 giunge a ipotizzare l'incosistenza dell'originale e la presenza di probabili
varianti dovute alla scuola certo prove testimoniali esistono: «Una caraffa di fiori, con la trasparenza dell'acqua e del vetro, e coi riflessi della finestra d'una camera, sparsi li fiori di freschissima rugiada». Ma a questo punto la suggestione letteraria, l'intimo e sentito paragone
fra realtà e finzione, replica che la pittura produce, possono giocare alcuni crampi ad una osservazione per lo meno serena o comunque aldifuori delle polemiche di parte tende a distinguere. Si tratta in altri termini, nelle parole del Bellori, di una accesa rivendicazione della «verosimiglianza» a dispetto dell'invenzione. Ma la rugiada sulle foglie o sui petali, iriflessidel
vetro convesso che alludono ad uno spazio alle spalle del quadro e dell'osservatore, la deformazione che il vetro curvato produce una volta interposto fra oggetto e osservatore sono contemporaneamente «luoghi comuni» dell'inganno pittorico nella contemporaneità di Caravaggio e nello stesso tempo citazioni d'obbligo, classiche. È ancora la rugiada che adorna le ghirlande che Pausia dipinge per la bella Glicene, il riferimento al mito dell'artefatto capace di ingannare l'uomo e l'animale. Le farfalle e le mosche che volano intorno al bouquet sono certamente segnacaso di una emblematica precisa e rigorosa, contemporaneamente però ricor67 Marini (1980)
219
245 - Italia centrale, primi XVII secolo.
Coli, priv., Italia.
246 - Italia centrale, primi XVII secolo.
Coli, priv., Italia.
ciano una antica sfida dell'uomo, quella di eccellere sul naturale contraffacendolo a tal punto
da ingannare una intelligenza coltivata, simile al produttore, ma anche l'istinto primario
dell'animale.
La breve digressione, che accenna a temi già affrontati altrove, non vuole smaterializzare
un precedente nella pittura di fiori indubbiamente importante per le sue implicazioni e le sue
diramazioni, vuole comunque aggiustare il confronto fra un ben descritto archetipo, ma descritto nella linea e alla moda della letteratura, e gli esempi successivi che in qualche modo
possono a esso far riferimento.
E indubbiamente forzoso enucleare, dal contesto immediatamente successivo a Caravaggio, una «composizione di fiori» autonoma dalla presenza del vaso accanto a altri elementi vegetali, immagine questa che conterà le varianti e le repliche più ampie e variate. D'altra
220
parte l'ampiezza dei riferimenti e degli esiti non sembra sufficiente a violare, per così dire,
l'impostazione che è stata assunta. Ci limiteremo allora, in questa fase, a segnalare alcuni casi
di «vasi» di fiori in cristallo a impianto centrale che possono essere ascritti all'ambiente di
Caravaggio. Da una stretta osservanza dell'uso della luce e dall'esattezza con cui la distorsione ottica degli steli nella boccia e il deperirsi istantaneo dei petali come si può osservare nella
boccia con il fiore troneggiante in posizione centrale, documento attribuito da circa vent'anni
concordemente a Tanzio da Varallo (tav. 245), ma certamente di un autore sicuro interprete
del «verosimile» nato da Caravaggio, alla boccia sulla mensola fortemente illuminata, caratterizzata dall'intrecciarsi degli alti gambi degli steli centrali (tav. 246), la storia del fiore in Italia
conosce un momento particolare, oltretutto cronologicamente attestato nei primi venti anni
del secolo, che ha incerti precedenti e pochi inconfutabili esempi certi. In realtà, di fronte a
documenti come i presenti, e il ragionamento va allargato ovviamente al fiore composto in
una imbadigione più ampia anche se con minore importanza data la complementarietà della
figura rispetto all'intero, il richiamo alla storia di Caravaggio deve essere inteso prima di tutto
come assunzione di un approfondimento tecnico, ma soprattutto come energica rottura della
simmetria, della parcellizzazione dell'immagine che una mentalità precedente o contemporanea a Caravaggio aveva predicato.
È l'intervento del casuale, del «momento» secondo una indicazione segnalata da Marini,
a suggerire la fissità della replica immota della pittura. La «posa» della natura sembra allora
essere contraddetta proprio per L'artificio che la disposizione ordinata, classificatoria comporta: l'intervento di Caravaggio e dei suoi più immediati e intelligenti scolari tende a far diventare «esemplare», fissato nella attenzione calligrafica della replica, il momentaneo, il fuggevole, il comporsi non ordinato, ma altrettanto legittimo, come osservazione, all'interno di una
natura «protagonista» della storia raccontata.
Una sintesi fra questa riaffermata libertà di intraprendere il mondo naturale, e più in generale il mondo dell'oggetto, in modo autonomo e frammentario e una più organica, quasi
pacificata, concezione formale della figura, quasi una più consistente e duratura coniugazione
fra episodio, accidente reale e idea dell'immagine plastica, può essere trovata in un gruppo di
opere post-caravaggesche, di quadri di fiori che contemporaneamente non possono essere
concepibili senza l'esperienza di Caravaggio e dal suo mondo si distaccano alla ricerca di un
ordine diverso.
Attorno alla fiasca fiorita di Forlì (tav. 247), la cui pur concorde attribuzione all'attività
giovanile di Guido Cagnacci 68 non aggiunge nulla e che quindi opportunamente, in attesa di
documenti più convincenti di una intelligente intuizione, occorre riportare una personalità
anonima ma indubbiamente emergente è possibile ricostruire alcuni esiti di fiore autonomo
in gran parte conosciuti e spesso variamente attribuiti. Il presente contributo non vuole con
questo «togliere» all'uno per accorpare a altri documenti, partecipare cioè al gioco delle sottrazioni indebite e alle attribuzioni avventate cui pare, a occhi certamente distanti, la critica
d'arte si è dedicata in questi ultimi trent'anni (la ricostruzione delle paternità mancate di alcuni quadri rischia di rendere risibile l'onesto e corretto tentativo di indicare un «nome» co68 Arcangeli (1952; 1959); De Logu (1962); Napoli (1964)
221
me atto esplorativo, quindi come empirica prova a cui eventuali riscontri negativi possono essere solo di aiuto).
Certo comunque che l'accostamento al fiore, di Forlì vuole essere l'ennesimo tentativo
di lettura all'interno dei problemi di composizione e di realizzazione dell'opera, quindi di
concezione del fare immagine e non l'accostamento basato sulla frequenza iconografica
(quanti maestri riconosciuti per un fiasco spaiato risultano - a distanza - inconsistenti, come
inconsistente, mantenendo la medesima logica, risulta dividerli in virtù di una, tardivamente
scoperta, «mano differente» ). Al Forlì quindi, che oltretutto replica dal punto di vista della
base uno slittamento della lastra di pietra già evidenziato, nella linearità del singolo fiore
esposto ellitticamente alla luce radente può essere accostato, proprio per la volumetricità ripetuta il vaso di terracotta in cui il bouquet, sfrangiato nella rosa che campeggia - luce presenza - sul corpo neutro del vaso, replica per converso una organizzazione cruciforme imperniata sul cespo emergente dei gigli centrali (tav. 249). Fra i due esempi intercorre quasi una
complementarietà compositiva (dispersione e centralità; verticalità e ellissi) che accentua i
descritti punti di contatto. Fra fondo e figura emerge un medesimo momento traumatico,
una soglia fra penombra e luce piena se può non necessariamente richiamare la stessa mano,
indubbiamente predice una medesima o contigua intenzione.
La fiasca di Forlì acquista, nella difformità cromatica dei singoli ciuffi, costretti comunque a una tavolozza limitata e ripetuta, una corposa e originale coesistenza di due mondi dalla consistenza autonoma: quello degli steli che costituisce un primo e ben isolato universo e
quello della fiasca rotta con la paglia attorcigliata che suggerisce un quarto d'ora di ferialità, la
messa in posa di un fragile equilibrio reso fermo dalla frequentazione della pittura. Se non
fosse la disposizione diversa e l'angolazione aggettante del fiore a sinistra e l'ostinato ergersi
del filo di paglia a destra, non vi sarebbe quasi zona di passaggio fra un piano inferiore e un
piano superiore: si dovrebbe parlare di un ostentato e melodrammatico vuoto.
All'opposto l'esempio di tav. 249 replica un impianto già conosciuto del bouquet di Giacomo Recco, costituito da un rigoroso impianto cruciforme; ma la resa corporea diseguale, la
diversa figura che l'incidenza della luce determina (il netto distacco e la profondità del giglio
contrapposta alla modulazione fra luce e ombra dei fiori orizzontali) denunciano il superamento interpretativo di un impianto tradizionale, la ricerca della variazione, dell'incidente
all'interno di una ipotesi rigorosa.
Frammento della realtà eletto a protagonista in un tempo dell'immagine che la capacità
di ripetere a ogni osservazione il miracolo della stabilità e della permanenza dell'effimero. E
in questa fisionomia della pittura il motivo per cui sono raggruppati, in una situazione di
transito fra l'impalcatura tranquillizzante di un fiore arcaico e l'inquietudine, la febbrilità e la
novità di una osservazione relativa, questi esempi variamente attribuiti.
Il «Vaso difiori»sulla fiscella rovesciata (tav. 248), individuato dal Marini 69 come possibile esempio del «Maestro di Palazzo di San Gervasio» e quindi alla emancipazione in area
napoletana della tradizione caravaggesca, è una testimonianza eloquente del problema: la lastra di pietra, segnale di un virtuosismo ottico è sostituita dal cestino rovesciato quasi fosse la
69 Marini (1974)
222
citazione dalle tavole imbandite o dalle balaustre in cui si affollano in concorrenza contenitori di varia forma e materia, vegetali e animali; a partire da questa nuova soglia la composizio,ne vive di un rinnovato e accentuato slancio verticale oltretutto cadenzato, nella parte bassa,
da un accentuato alternarsi di volumi e consistenze delle materie diverse. Si offrono allora alla vista l'intreccio del vimini, la consistenza statica del vaso e la grande massa del vegetale,
dalle foglie ripiegate sul contenitore variate al diverso incidere della luce, a una prima fascia
] orizzontale di fiori nettamente divisa fra la tensione dei petali delle due corolle di sinistra al
1 triangolo di rose sfatte che conducono contiguamente alla zona superiore ove si ripete,
i nell'opposizione dei gigli disposti lateralmente e del piccolo bouquet centrale analoga opposiÌ zione cromatica e sensibile fino all'opposizione esclusivamente cromatica dei due fiori al ver¬
: tice, verticalmente disposti e isolati nello sfondo vuoto.
E per contrasto il quarto documento del gruppo (tav. XXXI), il vaso in peltro attribuito
al Cagnacci della fiasca di Forlì si presenta in un impianto ben più composto e omogeneo rispetto all'esempio precedente: vaso e bouquet sono inquadrati in un impianto statico che ricorda Giacomo Recco, non esiste accentuata verticalità mentre i fiori si espandono seguendo il
naturale e descritto andamento dello stelo fino a comporre una figura armoniosamente ellittica.
Ma proprio l'assenza di sviluppo nella composizione permette al pittore di concentrare,
senza perdere comunque il singolo fuoco del fiore, le differenti plasticità e le varianti rese
cromatiche delle singole parti. È la luce soprattutto, il gioco delle ombre proprie, a scandire il
«carattere» del singolo gruppo la cui posizione sul piano e nella profondità viene scandita
con calcolata ma variata evidenza. Nella breve profondità dei fiori orientati alla mostra si può
ripercorrere, dalla sfiorita infiorescenza centrale ai due steli laterali orientati in direzione opposta fino al discreto emergere degli steli centrali, una nervatura che sostiene l'occorrenza
quasi casuale dei fiori di contorno.
Accorpare e analizzare «per differenze» questi quattro esempi non costituisce la pretesa
ricostruzione di un ennesimo maestro ignoto: vuole invece, in una lettura che ha cercato di
evidenziare il carattere strutturale della disposizione e l'incidenza che su essa, sul carattere relativo che la singola «offerta» di fiori può produrre, la luce, il taglio, appunto, come si è poco
prima accennato l'occasione e il momento producono. La poetica che unisce questi documenti è quella della considerazione della pittura come «punctum temporis»: ancora una volta un ragionamento, o sull'intersezione nel mondo della pittura della «variabile tempo» la cui
centralità nella narrazione per immagini ha eco ben più profonda di un esplorazione del narrativo. Ma a differenza di un simbolismo del tempo per così dire «diretto», in cui cioè gli indizi della transizione vengono ostentati in modo evidente, o a una iconografia viene affidato
il compito del «memento», il mondo che abbiamo sfiorato afferma la perentorietà dell'impressione e dell'osservazione diretta dalla natura e dal modello, nell'occasione e nel particolare istante in cui il soggetto da sterminato mondo dell'immaginario si trasforma in luogo privilegiato dell'osservazione e della registrazione dell'artista. L'osservazione di Leonardo circa la
differenza fra l'illuminazione diffusa della realtà in cui il quadro deve essere inserito e la relatività dell'illuminazione dello studio, in cui una contingente fonte di luce può deformare, e
quindi rendere «contingente» anche l'immagine dipinta, viene ribaltata completamento a
223
247 - Maestro della fiasca fiorita,
Pinacoteca comunale. Porli.
248 - Maestro della fiasca fiorita.
Coli, priv., Firenze.
vantaggio della seconda. È come percepisco, ma in questa indagine sul fiore occorrerebbe
estendere anche agli altri sensi l'esempio (quindi come tocco, o quale profumo colgo che costituisce il soggetto del discorso, paradossalmente la sua a-temporalità in quanto irripetibile: appunto il punctum temporis. Che alle spalle di queste annotazioni ci sia Caravaggio è fin troppo
evidente, ma, per cosi dire, il modello si è ormai allontanato nel tempo e si è innervato con
una tradizione napoletana ormai consolidata dal punto di vista dei maestri e dal punto di vista della richiesta del mercato, del collezionismo.
224
249 - Maestro della fiasca fiorita. Coli, priv., Italia.
FRA ROMA E NAPOLI
Ma, nel mondo del «fiore» italiano siamo per così dire alla stabilizzazione del genere e
della sua fortuna: una prospezione geografico-cronologica permette di situare con attendibilità il problema: a Napoli, con l'alunnato documentato presso Giacomo Recco, si afferma, protagonista nella scena locale ma anche con una escursione romana negli anni della maturità
Paolo Porpora; gli è, con un certo anticipo con le date, contemporaneo Luca Forte e l'opera
che passa con fattribuzione al «Maestro di Palazzo di San Gervasio» ultimamente orientato
da Marini 70 a GiovanBattista Crescenzi, accentuando in questo modo le radici «romane»,
postcaravaggesche del quadro.
70 Marini (1981)
225
Terzo termine della questione, lasciando il supposto Crescenzi in un più generale quadro sulla natura morta e restringendo l'ottica alla pura e semplice composizione di fiori, è
quello del già richiamato Mario Nuzzi che a Roma incontra un collezionismo attento alla decorazione e al fasto del Seicento maturo (taw. 250, 251).
Per certi versi il percorso dei napoletani - escludiamo per ora il più complesso e vario caso di Giuseppe Recco - sembra essere ricostruibile nel progressivo abbandono del pur inquieto «ordine» caravaggesco per una enfasi rappresentativa che trova nel colore, nel suo estenuato e virtuoso accostamento, la ragione prima del comporre. È questa la traiettoria di un Luca
Forte, testimoniata in parte dall'opera firmata della Galleria Corsini di Roma della coli. Falanga, della Molinari Pradella, o delle opere attestabili a questo gruppo in cui un pur presente
schema organizzativo di base (si veda l'esempio attribuito al Forte da Giuliano Briganti (tav.
XXXV) soggiace al virtuosismo dell'accostamento contrastante fra colore e colore, al contrasto
immediatamente stridente e senza passaggi intermedi.
La stessa citazione dalla base imbandita (il melone e il melograno spaccati) fungono da
corollari cromatici alla tavolozza che da veri e propri emblemi.
Ma la stagione di Luca Forte, che si viene a confondere con la maniera del primo Porpora, prima cioè del viaggio a Roma nel 1656 dove l'artista entra in contatto con la scuola romana e con la colonia olandese e fiamminga trapiantata e in piena espansione, costituisce, pur
nella contemporaneità cronologica, un momento immediatamente precedente rispetto agli
esiti riconosciuti del Porpora: si veda, per citare un esemplare noto, tanto più significativo
quanto più ci si avvicini, anche in Italia, al fenomeno della replica di scuola, al fervore della
bottega, la grande composizione ora a Capodimonte (tav. 252): la scena è volutamente profonda, un primo piano composto da due cespi di gigli fortemente esaltati nella loro vitalità
spinge a un secondo piano occupato dalla zucca spaccata e dalla boccia di cristallo fino al terzo piano in cui giganteggia, nell'ampiezza d'occupazione volumetrica, un bouquet di fiori la
cui architettonicità raggiunge un incerto e suggerito sfondo appena illuminato. Le proporzioni mutate, lo stesso arretramento del vaso e della composizione di fiori e contemporaneamente il giganteggiare grandioso e effervescente per la varietà cromatica, richiedono ormai
nuovi strumenti di indagine a cui il fiore manierista aveva abituato. Eppure in Porpora sembrano convivere vecchio e nuovo sentimento dell'immagine, che si costituisce come regno
dell'illusorio e della fantasia, del disordine in cui ogni particolare o frammento della pittura
riverbera il totale e ne esaurisce l'affermazione; ma contemporaneamente predice una robustezza d'impianto del totale come del particolare che il fiore settecentesco non conoscerà.
Trionfo del momentaneo, dell'impressione e nello stesso tempo monumentalità vivida che la
somma delle sfuggenti apparenze può produrre: l'opera in esame, frutto delle esperienze e
dei contatti romani del Porpora coglie indubbiamente l'artista in un momento di passaggio,
fra una tradizione ereditata dal mondo romano-napoletano della stagione arcaica della natura
morta e il contatto con l'affermato ambiente barocco romano di Nuzzi. In questa sede è ininfluente recepire l'adesione dell'ultimo Porpora alle tematiche di «sottobosco» che Otto Marseus Van Schrieck aveva importato nella capitale, mentre risulta più interessante attribuire a
un «primo tempo» di Porpora, una natura morta ragionata e discussa nelle schede, in cui
sembrano coesistere in modo equilibrato l'ordine compositivo del fiore arcaico e la nuova ac226
250 - Mario Nuzzi, Coli, priv., Italia.
251 - Mario Nuzzi, Coli, priv., Italia.
quisizione dello spazio ereditato da Caravaggio. È proprio la plasticità della pennellata, la vivezza del cromatismo e il gioco compositivamente asimmetrico della tela a segnalare, per il
documento in esame, una stagione di passaggio fra la replica del «verosimile» e la fantasia
del décor, V ingiganti mento del microscopico e la miniaturizzazione dell'universo. Paul Pieper, commentando il dipinto di Capodimonte nel suo Das BIumenbukettn cita come ascendenti del quadro in esame i maestri dei Paesi Bassi, anche se interpretati con i colori di Caravaggio: in realtà, aldilà del riscontro che sembra inevitabile ogni volta che si parli di un «fiore
italiano» ma che nella realtà presenta meno necessarie occorrenze di quanto non sembri, se
un riferimento è necessario, questo è con una lettura «romana» del fiore in composizione, e
cioè con l'attività di Mario Nuzzi, per tradizione debitore quest'ultimo o della accertata presenza di Daniel Seghers a Roma fra il 1625 e il 1627. Il riferimento e la dipendenza fra l'artista
romano, nipote oltretutto di Tommaso Salini e quindi inserito in una ancora non ben chiarita
stagione romana della Natura morta dopo-caravaggesca, e l'illustre straniero sembra quasi
una ennesima affermazione di principio più che di documentata relazione.
71 Pieper (1979)
227
Nella scarsa produzione accertata Mario Nuzzi sembra interpretare il fiore in composizione in chiave monumentale e decorativa, quando però del termine «décor» si accetti il significato funzionale e non quello minore di apparato momentaneo e comunque subordinato
al gusto dell'apparato effimero: le citazioni e le occasioni possono essere svariate, dal vaso decorato della coli. Molinari Pradelli, all'imbandigione della balaustra del Museo del Prado, fino ai vasi sbalzati con un punto di vista dal basso verso l'alto, all'intervento da specialista nel
ciclo delle stagioni in cui compare il suo ritratto, le decorazioni ambientali, sempre in collaborazione come il dipinto su specchio di Palazzo Colonna realizzato con Carlo Maratta 72 .
Sembra affermarsi con Mario Nuzzi il prototipo del genetista, incline alle più diversificate esperienze in virtù di una qualità, di una fama accreditata nella capacità di riprodurre e di
conoscere un soggetto particolare. Di qui la lode, probabilmente anche ai limiti della propaganda; di qui anche la scuola fortunata e i discepoli cui il Nuzzi si attornierà e da cui è difficile distinguere le mani (gli Stanchi, Zenone Varelli, Laura Bernasconi).
Con felice intuizione Federico Zeri 71 parla, per illustrare i caratteri e le proiezioni
dell'ambiente romano dopo il 1630 di fine della ricerca e di una dimensione allegorico-moraleggiante della natura morta in genere: è l'aspetto decorativo che esplode, la capacità scenografica e aulica. Luigi Salerno 74 riprende lo spunto e trova nell'ormai definita distinzione fra i
diversi soggetti della natura morta (fiori, fiori e frutti, ecc.), nel gusto del collezionismo che
distingueva soggetti diversi a secondo dell'ambiente in cui il quadro doveva essere inserito.
Certo il modo di comporre di Mario Nuzzi sembra esaltare una gara ormai liberata dalla necessità del «verosimile» , fra la capacità della tavolozza e del disporre scenograficamente e variamente i fiori e il modello di riferimento. La già citata composizione con il ritratto del pittore colto al cavalletto mentre replica il modello posto sulla tavola, diventa quasi il manifesto
programmatico di una poetica.
I tempi della produzione italiana dei fiori sembrano allora essere governati dall'adeguamento del soggetto al gusto, all'immaginario del momento più che alla continuità e nella ripetitività della bottega, e quindi della replica. Proprio quando questa si afferma, quando cioè
un determinato soggetto viene richiesto e prodotto in differenti ma accostabili versioni, l'interpretazione e la ricerca tendono a cadere: questo per la fragilità di una committenza stabile,
per l'espansione che il mercato assume dalla metà del secolo in poi fra Roma, Napoli e Genova seguendo però l'unidirezionalità della moda, del gusto affermato e quasi imposto.
Altro discorso evidentemente rispetto alla situazione dei Paesi Bassi dove la diffusione e
l'ampiezza del mercato è già radicata nella società borghese, e dove il fenomeno della replica,
anche calligrafica, della scuola presentano connotazioni affatto diverse.
Da una quinta profonda, variabile nella estensione, il fiore barocco romano si avvia, nella grande decorazione, al superamento di un panorama interpretativo che ci ha accompagnato fino a ora.
In questo passaggio la letteratura più volte citata di Causa, di Rosei e di Salerno insiste
nel considerare decisiva la presenza a Roma di due generazioni di maestri di fiori nordici, da
72 Napoli (1964)
73 Zeri (1976)
74 Salerno (1980)
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Daniel Seghers a Jan Fyt attestati rispettivamente negli anni venti e trenta, alla seconda ondata, da Otto Marseus van Schrieck a Abraham Brueghel a Franz Werner von Tamm, a Christian Berentz, al Vogelaer. E i riscontri iconografici possono, per una poetica del «sottobosco» o per la libera composizione di fiori essere confermati: certo comunque che il fiore
barocco romano interpreta e trasforma questi suggerimenti per la sua aderenza almeno originaria, a una base d'impianto e di concezione atmosferica affatto diverse. L'emergenza della
luce e del colore dal buio, la composizione ormai espansa e centrifuga in cui però, soprattutto
in Nuzzi, si intrawede l'ombra di una soggiacente organizzazione, la stessa monumentalità
del vaso contenitore sono allo stesso tempo citazioni di una tradizione italiana e loro libera,
nuova interpretazione.
LA SCUOLA NAPOLETANA
In questo panorama in progresso, in cui cioè le tappe stilistiche sembrano seguire la variazione e la stratificazione di un gusto, appare per certi versi un caso isolato quello di Giuseppe Recco la cui figura, accanto alla dinastia dei Ruoppolo, sembra essere di rilevante importanza nel panorama della Natura morta napoletana.
Figura dall'attività complessa e non esente da dubbi e incertezze (basti pensare all'ipotetica e ormai esclusa fase di alunnato presso Evaristo Baschenis per la presenza nel suo corpus
di alcune grandiose mensole ricolme di oggetti), trova prima di tutto il suo ambiente espressivo più congeniale nella bottega del padre Giacomo, quindi nell'officina fra le più affermate
del primo Seicento. Non per nulla alcune opere, spesso siglate con un enigmatico «G.R.» sono state in questi vent'anni alternativamente attribuite al figlio come al padre. E certamente
su questa incertezza di fisionomia iniziale ha pesato l'altrettanto dubbiosa storia del maggiore.
Definito in qualche modo l'arco di lavoro di Giacomo, gli esordi di Giuseppe sono
nell'ordine della continuità arcaicizzante che, pur accogliendo una lezione caravaggesca mediata attraverso gli esponenti napoletani in contatto con Roma, rimarrà, rispetto all'evoluzione barocca del genere, sostanzialmente estranea e isolata. Motivi di gusto evidentemente, ma
soprattutto motivi distintivi, di politica locale in contrapposizione con il Porpora e il suo accesso cromatismo, e successivamente con i Ruoppolo, gli esponenti più altisonanti della nuova maniera della natura morta, anche se con i modi di Giovan Battista Ruoppolo esisteranno
convergenze al punto da far rendere a Causa la «Natura morta di frutta efiori»del Museo di
Capodimonte (ex. Coli. d'Avalos) tradizionalmente e inventarialmente attribuita al più vecchio dei Ruoppolo.
Ma sono, nel percorso così accidentato di Giuseppe, momenti e incidenti frequenti: contatti con la maniera di interni dello zio Giovan Battista, lettura del bodegon spagnolo, visto
direttamente; i contatti infine con la grande tradizione dei Kalf e dei De Heem: si pensi solamente alla famosa «Natura morta con maschera» del Boymans van Beuningen, alla difficoltà
di collocazione nel corpus di Giuseppe a dispetto della estesa e autografa firma dei «Cinque
sensi» ora in coli. priv. italiana (tav. 265).
In interessi così vasti e differenziati che fanno di Giuseppe Recco uno delle personalità
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più complete di pittore di natura morta in Italia (e le condizioni sufficienti sono la tradizione,
la scuola, il mercato), il capitolo del vaso di fiori sembra appartenere al momento più uniforme, quasi esistessero dei prototipi (un impianto verticale, normalmente corredato da un vaso
metallico con mascheroni o di vetro e un impianto di più modeste proporzioni, spesso caratterizzato da uno stretto zoccolo di pietra isolato) variamente replicati.
In virtù comunque di questa replica di un impianto conosciuto, e che indubbiamente
estende fattività di Giuseppe anche alla sua bottega e ai figli, il modo di comporre si presenta
fortemente caratterizzato e distinto: se Porpora aveva tradotto il fiore barocco romano con la
magniloquenza della tradizione napoletana, Giuseppe sembra preferire un più contenuto e
equilibrato organizzarsi del bouquet: si è parlato di tradizione arcaicizzante ereditata dal padre e in modo particolare Causa ha citato un possibile accostamento con J. Baptiste Monnoyer e in modo particolare con Nicolas Baudesson. Accostamenti possibili ma che sembra230
254 - Giuseppe Recco, Coli, priv., Italia.
255 - Giuseppe Recco, Coli, priv., Italia.
no non rendere giustizia a una originalità compositiva che può essere con sicurezza affermata.
Ferma restando una tradizionale attenzione alla materia e al colore specifico del singolo
fiore, a dispetto quindi dell'impressione e della moltiplicazione, del gigantismo del bouquet
barocco, il fiore di Giuseppe si presenta però libero di seguire lo sviluppo, il cammino spesso
sinuoso dello stelo. Libertà d'impaginazione quindi che supera le eventuali «licenze» all'ordine che gli esempi francesi possono testimoniare con convinzione. Non è allora il racemo o lo
stelo con fiore che si libera dall'ordinata impaginazione ma è l'intera impalcatura a essere
sconvolta all'esterno (come perimetro frastagliato) e all'interno, in un gioco sottile fra affollamento, concentrazione di fiori identici e il loro disporsi, quasi sparpargliarsi all'interno. Il costrutto e l'andamento «naturali» del fiore e la collezione, l'accostamento artificiale, una volta
che i diversi steli sono imprigionati nel collo stretto del vaso, nel loro evidente distinguersi
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pure si trovano intimamente connessi e costituiscono il carattere più evidente del fiore di
Giuseppe, lontano, per così dire dallo smaterializzarsi e dalla scenografia romana ma altrettanto lontano da un «fiamminghismo» di ritorno che domina, nell'ultimo quarto del secolo
la scena romana e napoletana e che trova nel nome di Abraham Brueghel il suo rappresentante più tradizionale. È questa, per così dire, una ventata di restaurazione e rivitalizzazione
di modelli e di una iconografia che nei Paesi Bassi si aveva trovato una sua giustificata continuità: quello di Brueghel è un rinnovato «appello all'ordine» dopo gli eccessi di un gusto scenografico e magniloquente. Risulta da questo punto significativo un passo di una lettera di
Brueghel al Principe Ruffo nel gennaio del 1666: «...Non mi meraviglio che siano stati giudicati da intendenti di costi inferiori le due tavolette mie appresso quelle del signor Mario (Mario dei Fiori) perchè il suo valore è primo del mio; solo prego V.E. ad avere questa considerazione, che nelli miei fiori avvéne questo, che restano di qualche gusto di molti anni, e non
mostrano presentemente tutto il loro capitale»75. Il passo è particolarmente importante per
questa previsione del Brueghel circa la propria e le altrui fortune.
In questi aitemi contrasti la produzione di Giuseppe Recco fiorante può orientarsi verso
un recupero dell'antico, nell'ordine della tradizione paterna, come nei pendants con il vaso
dominato dal mascherone centrale (tav. 257), o può inclinare a una lettura di esperienze e immagini d'oltralpe, come nel vaso in vetro con il racemo sporgente dalla composizione e adagiato sulla balaustra (tav. 254); può ancora trovare una tavolozza vivida e accesa, come nella
composizione con la boccia di vetro quasi invasa e nascosta dai fiori cascanti (tav. 255), o infine può citare una più calibrata ma sempre eccitata composizione come nel fiore di tav. 256.
Ma il catalogo delle distinzioni è altrettanto vasto dell'osservazioni delle coincidenze: al fuoriuscire del tulipano nella tav. 255 corrisponde la diagonale accentuata e diversificata dei quattro tulipani nella parte superiore del bouquet: ingigantimento e arretramento, visibili in un
esemplare siglato G.R. (tav. XLV) e in passato attribuito all'ultima produzione di Giacomo ma,
per i pochi accenni fatti su Giuseppe, indubbiamente del figlio, storia della luce modulata nelle
sue diversificate intensità; disordine ordinato infine in accentuata polemica con un ambiente
che privilegiava un fiore scenografico, a effetto76.
È con Giuseppe che il fiore in Italia acquista i suoi caratteri della piena e originale maturità. Non si vuole con questo affermare che dopo Giuseppe si avvia la decadenza, semmai si
tratta del venire a mancare dei caratteri che avevano contraddistinto gli esordi e lo sviluppo
del genere. La spinta innovativa e le ricerche, spesso episodiche, che caratterizzano la storia
iniziale e matura del fiore in Italia conoscono una loro più tranquillizzante collocazione
nell'ambito della decorazione, del virtuosismo del fiorante celebrato e pronto alla replica.
L'aspetto negativo evidentemente non è nel fenomeno in quanto tale, piuttosto occorre dire
che non esiste tradizione per tale atteggiamento e tale ruolo: nè un sovrano mecenate che
possa sovvenzionare o dirigere una produzione in qualità.
E questa produzione si raccoglie in un vasto e variegato panorama di nomi e di luoghi
senza che si possa parlare di rinnovamento: quasi che le diverse soluzioni stilistiche offerte
75 Causa (1972)
76 Bergamo (1968)
232
256 - Giuseppe Recco, Coli, priv., Italia.
257 - Giuseppe Recco, Coli, priv., Italia.
nel corso di un relativamente limitato periodo di tempo (dagli ultimi anni del XVI secolo alla
terzo decennio del successivo) indigene o replicate dalla presenza nei centri italiani di stimati
generisti dei Paesi Bassi, francesi e spagnoli, costituissero un immaginario di riferimento
troppo pesante, una eredità difficilmente eludibile.
Occorre attendere il fiore rococò perchè un ragionamento nuovo, ma estraneo al presente inquadramento più attento all'esordio e alla maturità di una concezione del genere che al
suo mutamento, possa innestarsi in una tradizione svigorita e ripetitiva.
La collezione di un Carlo Borromeo rispecchia la preoccupazione per una organizzazione dell'iconografìa post-tridentina ancora nell'ottica di un «museo ideale» cinquecentesco
istruttivo e edificante; la collezione di nature morte del Savoia replica quella del principe collezionista, attento al gabinetto e alle curiosità di un secolo pre-enciclopedico; la Collezione
del Cardinal Russo ordina i fioranti napoletani alla moda con alcune curiose dimenticanze e
confusioni. E Roma, con i suoi palazzi e le sue ville, costituisce la risposta «aulica» nella gara
di un nuovo mecenatismo papale.
Il percorso delle collezioni sembra quasi assumere figura di una parabola dalla registrazione di un modo nuovo di vedere e di interpretare la realtà, l'invasione e l'esplorazione del
naturale a paragone e in gara con l'artificiale, con l'arredo costruito dall'uomo, all'affermazio233
258/259 - Andrea Belvedere, Museo Nazionale
Duca di Martina, Napoli.
ne piena di una «autonomia» della pittura (e in questi due termini consiste il percorso che
abbiamo privilegiato) ancora una volta come interpretazione consapevole del mondo fino alla
decadenza delle due tensioni.
Ultimo anello di una storia napoletana, nella grande tradizione dei Recco e dei Porpora,
ma siamo già alle soglie del Settecento, può essere citato il caso di Andrea Belvedere (taw.
258, 259), la cui originalità di talento è stata illuminata in modo esauriente da Raffaello
Causa 77 . Il pittore-letterato-teatrante riprende, nella limitata stagione dedicata alla pittura, prima cioè della sua trasferta spagnola, l'impianto verticale di Giuseppe Recco e produce, con
una gamma cromatica più accentuata e smagliante, alcune composizioni di fiori spesso caratterizzate (si veda il pendant al Museo Nazionale Duca di Martina a Napoli) dalla scelta di un
vaso porcellanato dalla forma particolare.
Siamo, per così dire, agli estremi di una tradizione che dell'impianto centrale e nella prospettiva ostensiva ha fatto il cardine fondamentale dell'immagine: il bouquet è l'occasione
per Belvedere di costruire una disposizione sparsa, caratterizzata da improwisi addensamenti
di fiori e da isolate presenze equilibrate dalla nettezza del disegno e dalla viva corposità del
colore.
77 Causa 1(964)
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