il paradiso dei lettori innamorati

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il paradiso dei lettori innamorati
Antonio Monda
Il paradiso
dei lettori
innamorati
Conversazioni con grandi scrittori
sui film che amiamo e detestiamo
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Dello stesso autore
in edizione Mondadori
Assoluzione
Hanno preferito le tenebre
Lontano dai sogni
L’America non esiste
Il paradiso dei lettori innamorati
di Antonio Monda
Collezione Strade blu
ISBN 978-88-04-62695-4
Copyright © 2013 Antonio Monda
All rights reserved
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione marzo 2013
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Indice
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Introduzione
27 Martin Amis
33 Paul Auster
39 Don DeLillo
45 E.L. Doctorow
51Nathan Englander
57 Jeffrey Eugenides
63 Jonathan Franzen
69 A.M. Homes
77 Jhumpa Lahiri
83 Jonathan Lethem
87Colum McCann
93 Patrick McGrath
99 Daniel Mendelsohn
105Chuck Palahniuk
111 Annie Proulx
119 Philip Roth
125Cathleen Schine
133 Zadie Smith
139 Gay Talese
147 Donna Tartt
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Martin Amis
Martin Amis ha un rapporto ambivalente nei confronti del
cinema: ritiene che il linguaggio delle immagini sia quello
che interpreta meglio di ogni altro le esigenze espressive
della contemporaneità, ma che, proprio per questo motivo, debba essere sempre diretto e il più possibile semplice.
Sostiene che, a differenza della letteratura, il cinema offra
il proprio meglio nel raccontare le azioni esterne, e detesta
ogni forma di intellettualismo, pur vedendo i rischi delle
semplificazioni e delle scorciatoie commerciali. «Si tratta
di una volgarità che si oppone a una forma di supponenza,» mi spiega con tono sottilmente amaro «in entrambi i
casi ci si allontana dalla possibilità di realizzare dell’arte.»
Pochi sanno che ha scritto la sceneggiatura originale di
Mars Attacks! di Tim Burton. Oggi racconta che si è trattato
di «un’esperienza molto divertente, fin quando alcuni dirigenti della major che produceva il film scesero dal piano
di sopra con i loro vestiti alla moda e capimmo che era tutto finito». Quando lo invito a partecipare a questa serie di
interviste sui film della vita, mi chiede se può allargare la
scelta ad alcuni registi, spiegandomi che «ci sono alcuni
autori che hanno realizzato almeno due, tre opere che mi
hanno segnato enormemente».
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Cominciamo allora con il primo autore.
Martin Scorsese, un regista straordinario. Se dovessi scegliere un film direi Toro scatenato, ma mi è difficile non citarne altri.
Sai che anche Philip Roth ha scelto Toro Scatenato?
Non mi sorprende: è un capolavoro. Piuttosto mi meraviglio che non sia nella lista di tutti. È un film scritto meravigliosamente da Paul Schrader, diretto da Scorsese in maniera folgorante e interpretato in modo indimenticabile da
Robert De Niro.
Qual è la tua sequenza preferita?
Quella in cui Jake La Motta viene arrestato. Mi commuove
molto il modo in cui resiste ai poliziotti, cercando anche di
scherzare. E poi, quando è solo, in carcere, e colpisce violentemente il muro. Nella scena c’è violenza e disperazione, e la
rappresentazione drammatica della consapevolezza di non
riuscire a essere diversi da quello che si è. In tutto il film, ma
in particolare in questa sequenza, Scorsese riesce a raccontare in maniera struggente la tragedia di Jake, e il fatto che il
suo unico talento consista nel far male alla gente: per questo
nella sua vita non c’è niente che funzioni fuori dal ring.
Quali sono gli altri film di Scorsese che preferisci?
Io metto allo stesso livello Quei bravi ragazzi e Casinò. E
subito dopo Taxi Driver. Sono film estremamente personali che riescono tuttavia a raccontare un mondo.
Passiamo al secondo film della tua vita.
Anche in questo caso cito un regista: Francis Ford Coppola, del quale ammiro, in eguale maniera, Il padrino – Parte seconda e Apocalypse Now.
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Si tratta di due film molto diversi...
... nei quali si vede in ogni sequenza la mano di un
maestro. E potrei citare altri suoi film, a cominciare dal Padrino – Parte prima.
Iniziamo da Apocalypse Now: qual è la sequenza che preferisci?
È difficile sceglierne una, ma forse svetta quella in cui Robert Duvall dice: «Amo l’odore di Napalm la mattina. Sa di
vittoria», dopo aver fatto bombardare una spiaggia per vedere i soldati fare il surf. L’immagine del luogotenente colonnello Kilgore che farnetica a torso nudo sulla spiaggia
circondato dalle esplosioni è immortale, e fa comprendere
immediatamente la grandezza del cinema.
È un film con una matrice letteraria alta: Cuore di tenebra di
Conrad.
Coppola, da grandissimo regista, è riuscito a farne un’opera assolutamente autonoma. E, basandosi sulle immagini,
ha saputo utilizzare al meglio la struttura del romanzo e le
battute create dalla sceneggiatura di John Milius. La battuta che ho appena citato non avrebbe lo stesso effetto e non
raggiungerebbe la stessa grandezza se Duvall non la dicesse in quel modo, in quel posto, circondato da quei rumori.
Cosa ti piace invece del Padrino – Parte seconda?
Tutto, ma in particolare la parte che riguarda Al Pacino.
Mi piace la graduale corruzione morale di Michael Corleone,
e anche in questo caso siamo di fronte a un’interpretazione
che rimarrà nella storia. Il momento più bello e più forte
è quello in cui esplode di rabbia quando la moglie gli dice
di avere abortito. La colpisce con una violenza irresistibile,
che sembra voler colpire la tragedia della sua stessa vita,
e lo schiaffo parte quasi da terra. Un’immagine magnifica.
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Qual è il terzo film?
Gangster Story diretto da un grande regista di cui si parla
poco: Arthur Penn. Tra i suoi film voglio citare anche Il piccolo grande uomo, ma Gangster Story ha forse un’importanza superiore. È un film realizzato pochi anni dopo la fine
del codice censorio di Hollywood, e propone una violenza
all’epoca inedita per il cinema americano. Ma è anche una
grande storia d’amore, amicizia e solitudine, segnata da un
tono ammirevole, nel quale l’umorismo si mescola all’orrore. Il finale è struggente, ma forse la scena che preferisco
è quella in cui Hackman si unisce alla banda di Bonnie e
Clyde, e per un momento il gruppo si convince che si tratti solo di una cosa divertente e avventurosa. È una scena
che dice molto sulla natura umana.
Stai scegliendo dei film caratterizzati dalla violenza.
Mi sembra che la vita lo sia, e lo è certamente anche il
prossimo film: Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah. Un’altra esaltazione di cosa possa essere il linguaggio del cinema. Potrei parlare a lungo del modo modernissimo e persino virtuosistico in cui è stato girato. Del montaggio, dei
ralenti, ma quello che a me interessa veramente, e che rimane, è la raffigurazione di un mondo che sta scomparendo,
attraverso la scelta, riuscitissima, di raccontare un gruppo
di criminali che paradossalmente sono i personaggi migliori
del film. È un film elegiaco sulla fine del West, nel quale vediamo comparire le prime macchine. Peckinpah riesce a essere un poeta anche quando è violento, e si esprime attraverso i gesti e i volti. Indimenticabile, per esempio, il volto
deformato dall’alcol e dalla volgarità del generale Mapache, interpretato da Emilio Fernández.
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Qual è l’ultimo film della tua lista?
So che molti arricceranno il naso di fronte al nome di
Ridley Scott, ma ritengo che Blade Runner sia un film meraviglioso. Lo vidi insieme a mio padre, che era un grande fan della fantascienza, e rimanemmo entrambi colpiti
dall’immagine del futuro, così profetica. Molti prediligono la scena finale, in cui Rutger Hauer pronuncia la famosa frase «Ho visto cose che voi umani…», ma io preferisco
l’inseguimento precedente, per il modo in cui Scott ci mostra la città, e per il sentimento di paura, dolore e terrore.
Nel tuo romanzo La vedova incinta hai parlato della rivoluzione sessuale degli anni Settanta. È il periodo dell’Ultimo tango.
È un film importante e di grande eleganza, e ammiro il
fatto che Bertolucci abbia osato e superato i limiti censori
dell’epoca. Ma sinceramente ritengo che sia eccessivamente intellettuale, e che si parli troppo.
C’è un film italiano che ha un significato particolare nella tua vita?
Edipo Re di Pasolini. L’ho sempre amato molto.
Chiudiamo questa conversazione con un film considerato un classico che non sopporti.
Non amo particolarmente il cinema francese, ma scelgo
Lolita di Stanley Kubrick, un film preso in ostaggio da Peter Sellers, che ha tradito il libro e rovinato il film.
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Paul Auster
C’è stato un momento, nella vita e nella carriera di Paul
Auster, in cui lo scrittore ha cominciato a dedicarsi con passione sempre maggiore al cinema, firmando come regista
una serie di film dei quali aveva scritto la sceneggiatura. A
quel momento ne è seguito un secondo in cui Auster ha dichiarato di non volersi più occupare di cinema («Mi risulta troppo impegnativo esercitarmi con analoga passione e
dedizione in entrambe le forme espressive» mi spiegò in
una vecchia intervista), e quindi un terzo, nel quale è tornato a dirigere un film. Durante l’intero periodo, il cinema
è rimasto costantemente presente in lui, al punto da comparire nei suoi romanzi anche sotto forma di film e registi
di sua invenzione.
Quando lo invito a partecipare alla discussione sui film
della sua vita, accetta, specificando tuttavia che potrebbe
scegliere cinquanta diverse combinazioni di film. «Ci sono
pellicole che rimangono con te tutta la vita» afferma nel salone della sua brownstone di Brooklyn, nel quale campeggiano molti dvd di film di ogni parte del mondo «e nella
scelta definitiva dei cinque titoli ho deciso di optare per le
pellicole che mi hanno segnato maggiormente sul piano sia
umano che artistico.»
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Qual è il primo film?
La grande illusione di Jean Renoir. Un capolavoro assoluto.
Ne ho scritto a lungo nel mio romanzo Uomo nel buio. Ogni
volta che lo rivedo rimango sbalordito e ammirato dalla capacità di Renoir di saper coinvolgere e commuovere, rimanendo nello stesso tempo lucido e potente. È un film dalle
battute e dalle interpretazioni memorabili: Jean Gabin ed
Eric von Stroheim sono indimenticabili.
C’è una scena che ti piace più delle altre?
Quella in cui il protagonista rimette a posto i piatti. Avviene così rapidamente che bisogna fare attenzione, e il
bello è proprio questo. È un momento di grande introspezione psicologica: i temi di fondo sono la libertà e un’epoca che sta tramontando, ma Renoir sceglie di affidare il tutto a un gesto quotidiano, perfino banale. La trovo un’idea
magistrale.
Nelle interviste che ho realizzato per questo libro, pochissimi hanno scelto un film francese.
Ognuno ha i propri gusti, ed è giusto che sia così. Io invece ne ho scelti due: il secondo film infatti è Un condannato a morte è fuggito di Robert Bresson. Un altro capolavoro, a
mio avviso il film più coinvolgente mai realizzato. Ricordo
che lo mostrammo a nostra figlia Sophie quando aveva soltanto dodici anni, e ne rimase rapita. Ovviamente con mia
moglie Siri fummo molto contenti della reazione, ma anche colpiti dal fatto che la semplicità di quel film straordinario aveva parlato al cuore e alla mente di una ragazzina.
Cosa ti piace maggiormente del film?
Bresson riesce a rappresentare l’interiorità sullo schermo, una cosa che ritengo quasi impossibile. Trovo poi me-
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raviglioso l’uso della voce fuori campo, rarefatta, ma sempre efficacissima, e della musica. Nel caso specifico si tratta
della Messa in do minore di Mozart. Poche volte ho visto al
cinema un uso più suggestivo e struggente delle potenzialità espressive della musica.
Passiamo alla terza scelta.
Credo che non si possa ignorare almeno un film muto:
io scelgo Sunrise di Murnau. Venne realizzato nel 1927, alla
fine del periodo muto, ed è affascinante osservare i progressi fatti in quegli anni da quella forma espressiva: non c’era
praticamente più bisogno di cartelli esplicativi, e viene da
chiedersi come sarebbe diventato quel linguaggio nel giro
di poco tempo se non ci fosse stato l’avvento del sonoro.
Quali sono gli elementi che ti piacciono in particolare in quel film?
La mescolanza di realtà e fantasia. C’è una scena che amo
particolarmente, quella in cui i protagonisti si recano in città: scoprono il traffico, ma la metropoli continua a rimanere un luogo incantato.
Ti piacciono anche i film hollywoodiani?
Certamente, e non a caso la mia quarta scelta è un film
realizzato all’interno «dell’industria». Uno studio film, come
si dice in gergo: I migliori anni della nostra vita di William
Wyler. Credo che sia uno dei film meglio girati di tutti i tempi, e il direttore della fotografia, Gregg Toland, è lo stesso
di Quarto potere. È impressionante come Toland riesca a lavorare sui fuochi, sullo spazio, sulla profondità di campo,
e quanta azione avvenga in ogni singola inquadratura. Ovviamente è un merito che divide con Wyler, un regista troppo spesso dimenticato. Amo I migliori anni della nostra vita
perché è un film estremamente importante da un punto di
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vista sociologico, che racconta i cambiamenti che avvengono sulla psiche e sul fisico degli uomini dopo una tragedia
come la guerra. A volte sfiora il sentimentalismo, ma rimane sempre potente, e confesso che mi ha influenzato nella
stesura di un mio romanzo.
Qual è l’ultimo film della lista?
Il mondo di Apu di Satyajit Ray.
Anche Philip Roth ha scelto un film di Ray, ma lui preferisce
Il lamento sul sentiero.
Non mi stupisce: si tratta di un’altra opera meravigliosa.
Io preferisco Il mondo di Apu, forse anche perché ha per protagonista un uomo che vuole diventare uno scrittore. Mi è
impossibile guardarlo senza piangere, e anche di questo
film ho parlato nel mio Uomo nel buio.
Qual è il momento che ami maggiormente?
Quello in cui la moglie di Apu fa colazione e lui trova la
sua spilla dei capelli nel letto. Ray riesce a raccontarci con
un dettaglio come lui si renda conto di essere disperatamente innamorato, e noi assistiamo a cosa sono la forza e
la magia del cinema.
Chiudiamo questa conversazione con un film considerato un classico che non sopporti.
Non so se sia considerato un classico, ma certamente è
un film che ha molti ammiratori: Funny Games di Michael
Haneke. Io ho avuto la sfortuna di vederlo quando facevo
parte della giuria a Cannes, e sono stato costretto a rimanere in sala sino alla fine. È un film crudele, disgustoso, che
non ti dice nulla sulla vita se non che l’uomo è violento e
bestiale. Per comunicare un’idea così brutale e senza sfu-
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mature non c’è bisogno di un film, e c’è qualcosa di particolarmente malsano nell’idea che il regista abbia sentito la
necessità di farne un remake, identico, in inglese. C’è poi
un altro elemento che rende ancora più repellente l’operazione: Haneke è chiaramente un regista di talento.
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