Rassegna stampa 4 ottobre 2016

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Rassegna stampa 4 ottobre 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 4 ottobre 2016
SOMMARIO
“Un libero pensiero critico sull’ideologia del gender” è il titolo del commento di
Lucetta Scaraffia, sull’Osservatore Romano di oggi, alle recenti parole del Santo
Padre. “Papa Francesco - osserva - gode senza dubbio del favore dei media, e talvolta
ci si è quasi stupiti che le principali testate internazionali lasciassero passare senza
battere ciglio frasi che, dette da altri, avrebbero suscitato attacchi indignati. Ma
stavolta no, stavolta non hanno lasciato correre quando ha criticato con forza la teoria
del gender. Questo rivela innanzi tutto che il gender costituisce un punto sensibile sul
quale non si intende fare sconti, soprattutto se si tocca il cuore della trasmissione
ideologica: l’insegnamento nelle scuole. Ma anche rivela che l’insegnamento del
gender non è ciò che si dice, e cioè una necessaria preparazione dei giovani affinché
non venga demonizzata l’omosessualità. Il Papa infatti ha accompagnato il suo
discorso sul gender a una chiara accettazione degli omosessuali, con una apertura che
nella Chiesa non si era mai manifestata con tanto coraggio. Le reazioni, poi, mostrano
anche le difficoltà in cui si trovano i promotori di tale insegnamento. Non tanto a
causa dei loro oppositori, ma piuttosto a motivo del buon senso e dell’esperienza
quotidiana vissuta da ciascuno, che costituiscono un naturale antidoto - per nulla
ideologico - a queste idee. Innanzi tutto, i critici rimproverano al Papa di avere usato
il termine “teoria”, dimenticando che, da un certo punto di vista, tutto ciò che viene
insegnato astrattamente è una teoria, e ancora di più il gender che, non trovando
riscontro nell’esperienza concreta, è solamente uno spunto teorico. Ma, da un altro
punto di vista, è vero che il gender ha provato a stabilizzarsi come teoria, e per di più
come teoria scientifica - si ricordi solamente il caso notissimo del medico John Money
- ma questa è svanita nel nulla davanti alle prime verifiche. Sorge allora la domanda:
cos’è il gender che si insegna in alcune scuole? Non una teoria ma un’ideologia, o
meglio un’ideologia utopica simile a quelle che nel Novecento hanno promesso la
realizzazione del paradiso in terra se solo si fosse arrivati a una vera eguaglianza fra
gli esseri umani. Anche il gender promette felicità se si cancella la differenza tra
uomo e donna, con grande disprezzo per la realtà biologica, quindi per la maternità
intesa non solo come procreazione, ma come creazione di un rapporto umano unico
fin dal concepimento. In sostanza, l’ideologia del gender promette felicità - grazie a
questa eguaglianza - a patto di scegliere la libertà di realizzare ogni desiderio, di
privilegiare sempre se stessi invece della costruzione di legami umani fondati sulla
realtà. E quindi minando la famiglia. Francesco ha spiegato, con grande chiarezza, che
si possono amare e accogliere gli omosessuali e i transessuali senza dover ricorrere a
questa scorciatoia ideologica, e in un certo senso ha smascherato gli obiettivi
dell’ideologia: scardinare la famiglia, e non tanto aiutare gli omosessuali a essere
accolti come eguali. Con le parole del Papa la Chiesa ancora una volta si rivela
impermeabile alle utopie di eguaglianza, anche se paradossalmente è stato proprio il
cristianesimo a portare nel mondo, per la prima volta, il principio dell’eguaglianza di
tutti gli esseri umani. Ma l’eguaglianza predicata e praticata dal cristianesimo si fonda
sulla condivisione da parte di tutti gli esseri umani della condizione di figli di Dio. È
quindi un concetto flessibile, aperto alla presenza di differenze al suo interno, che
non significano - o, meglio, non dovrebbero significare - diseguaglianze. Al contrario,
il concetto di eguaglianza oggi in voga è molto più fragile, non si basa su principi forti
e condivisi, e viene continuamente messo in crisi dalla constatazione evidente della
differenza fra gli esseri umani. Di qui i tentativi di creare l’eguaglianza: per esempio,
eliminando la proprietà privata (con il comunismo), la malattia (con l’eugenetica), e
oggi la differenza sessuale (con il gender). Insomma, le parole di Bergoglio
confermano, ancora una volta, che il punto di vista cattolico costituisce un ineludibile
e libero pensiero critico nei confronti di luoghi comuni passivamente accettati”. Sullo
stesso tema interviene, sempre oggi e su Avvenire, Chiara Giaccardi: “Quella che
viene definita 'ideologia gender' compie esattamente questo passaggio ideologico: dal
riconoscere che ogni cultura ha i propri linguaggi, usanze, modelli per rappresentare
il maschile, il femminile e la loro relazione (modelli che giustamente sono stati e
vanno continuamente sottoposti a critica), passa ad affermare che non c’è (anzi non ci
deve essere, perché la normatività è forte) nessun legame tra la dimensione biologica
e l’identità di genere, vista esclusivamente come una scelta individuale. Come se non
solo il nostro corpo, ma anche i nostri legami, la nostra storia sempre plurale, le
speranze di altri su di noi fossero irrilevanti. E come se bastasse un atto di volontà
(che ideologicamente chiamiamo 'libera scelta') per renderli tali. Ci sono almeno due
coppie di dimensioni che rendono intricata la questione: la prima è appunto
individuale/sociale, laddove la nostra cultura è prigioniera di una concezione tanto
assoluta quanto irrealistica del sé. Pensare al genere come pura scelta individuale,
come un armadio di vestiti equivalenti, da indossare e cambiare a piacere, è possibile
solo in una prospettiva di individualismo assoluto. Perfettamente funzionale, tra
l’altro, allo strapotere del sistema tecno-economico. Una posizione che non solo non è
realistica (piuttosto, ideologica) ma nemmeno particolarmente desiderabile, alla fine.
Per cambiare continuamente bisogna essere senza qualità, oltre che senza legami,
come sostengono Miguel Benasayag, Zygmunt Bauman e tanti altri lucidi interpreti
della contemporaneità, certamente non accusabili di bigottismo. L’altra opposizione è
astratto/concreto. La cosiddetta 'teoria gender' astrae dal legame, dalla materialità
del corpo, dalla storia personale per affermare un principio astratto di
autodeterminazione totale che nega ogni vincolo per affermarsi. In un modo che non
può che essere irrealistico, oltre che violento per chi ci sta vicino. Perché la libertà
non è cancellare i vincoli e i legami per paura che ci influenzino, ma assumerli
consapevolmente e responsabilmente, per cercare di cambiare ciò che è disumano, a
beneficio di tutti. Non si è mai liberi contro altri, ma sempre con e grazie ad altri. Il
pendolo dell’astrazione oscilla poi verso l’accettazione incondizionata del dato di
fatto, di un particolare irriducibile e non sottoponibile a critica. Ancora una volta una
concezione adolescenziale della libertà: nessuno mi deve dire cosa devo fare. Papa
Francesco ci mostra un modo diverso di declinare il legame tra il generale e il
particolare, che non può che passare dalla concretezza. Una concretezza che non è
però chiusa in sé, autosufficiente, ma connessa alle altre e al tutto (tutto è connesso,
Laudato si’, n.16): un «concreto vivente» come lo definisce Romano Guardini»),
sempre relazionale. Ciascuno di noi è un intero e non una somma di attributi. Si
accompagna la persona solo quando la si riconosce come un intero. «Non riuscirò mai
a ricomporti interamente / Con tutti i pezzi ben congiunti», scriveva la poetessa Sylvia
Plath. La persona sempre eccede i suoi attributi. Accompagnare richiede l’incontro
con l’altro tutto intero, che è sempre un «inizio vivo» (Guardini), un cambiamento
per tutti. Accompagnare è verbo di reciprocità, non di condiscendenza. È ricordarsi
sempre di partire dalla concretezza, dall’integralità, dalla verità incarnata e situata di
ognuno. Che è un intero in divenire, e non può essere inchiodato d’ufficio a
un’azione, una scelta, un errore: è il tema della misericordia e del perdono. Papa
Francesco ci accompagna a capire la relazione complessa e delicata tra la norma
generale – che rimane come riferimento essenziale – e la concretezza della vita, che
non può mai essere ridotta a una norma astratta. Perché, come ha scritto nella
Evangelii gaudium, la realtà supera l’idea. Non a caso dopo aver illustrato il principio
generale (non si può accettare la colonizzazione ideologica) il Papa ha raccontato una
storia vera, che nella sua unicità ha un tratto di universalità: è infatti nella
concretezza delle vite che si può cercare di volta in volta un equilibrio – guidati dalla
verità che è amore – tra la legge e l’uomo, tra il principio e la vita. Perché l’universale
cattolico non è astratto ma concreto: tutto l’uomo e tutti gli uomini. E non è
relativismo, tutt’altro: è realismo evangelico. Che si fonda su una costitutiva
relazionalità. Accogliere, accompagnare, discernere, integrare: tutti verbi di
movimento, di concretezza e di relazione. Modi per articolare la ricchezza della
nostra umanità, senza sacrificarla sull’altare delle ideologie, ma anche senza aver
paura delle domande. È la strada, difficile ma autentica, da cercare di percorrere
insieme in questi tempi di sfide. Senza paura, perché la nostra speranza germoglia
sulla promessa di una pienezza libera” (a.p.)
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XII Un ponte con Lampedusa: “La storia non si ferma” di Giacinta Gimma
Marghera, folla alla messa concelebrata da Francesco Montenegro, arcivescovo di
Agrigento
LA NUOVA
Pag 17 Pastorale universitaria: in laguna per parlare di ambiente
Pag 21 Facoltà di Diritto canonico, domani “lectio inauguralis” di m.a.
Con Agostino Paravicini Bagliani
Pag 34 Incontro di fedeli a Jesolo, abolito il tema Medjugorje di Giovanni Cagnassi
Nel nuovo format, che comincerà il 16 ottobre, non si parlerà più di apparizioni. La
celebrazione più attesa della giornata è la messa del patriarca Moraglia
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 Il tempo del Papa di g.m.v.
Pag 1 Un libero pensiero critico sull’ideologia del gender di Lucetta Scaraffia
Pag 4 Unica strada
Durante il volo di ritorno dal Caucaso il Papa ribadisce la necessità del dialogo per
risolvere i conflitti
Pag 7 Come tessere un tappeto
Nella messa a Baku il Pontefice ricorda che fede e servizio non si possono separare
Pag 7 Non è tempo perso
All’Angelus
AVVENIRE
Pag 3 La concretezza della vita per disinnescare il gender di Chiara Giaccardi
Ideologie e antropologia, la lezione del Papa. Accanto e in relazione: ecco il realismo
evangelico
Pag 3 Figli senza padri, la verità nascosta di Carlo Cardia
La Cassazione che riconosce due mamme
Pag 9 Tanti gruppi cristiani lgbt “seguiti” in parrocchia di Luciano Moia
La mappa delle presenze nel Rapporto 2016 curato dal Forum dei credenti omosessuali
IL FOGLIO
Pag 2 Perché il Papa vuole “accompagnare i gay” ma attacca la teoria gender di
Matteo Matzuzzi
Tra equilibrismi e letture pol. corr. delle sue parole
Pag 2 Albacete, il prete che bastonava i laici poco laici e i cristiani senza Cristo
di Emanuele Boffi
I saggi del sacerdote americano editorialista del NYT
Pag 2 Così chiese e sacerdoti cristiani finiscono sotto attacco anche in Italia di
Andrea Bonicatti
Insulti e dissacrazioni (sottovalutati) all’altare
LA NUOVA
Pag 37 Francesco e la “guerra mondiale di idee” che vuole distruggere la
famiglia di Orazio La Rocca
WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT
Il Papa e i gay: distinguere peccato da peccatore è cristiano di Andrea Tornielli
La risposta di Francesco che racconta come sia sempre stato vicino alle persone
omosessuali spiazza “relativisti” e “rigoristi” ma getta anche una luce interessante sulla
vita della Chiesa
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La sfiducia dei giovani ignorati di Dario Di Vico
Quei segnali inattesi
Pag 41 L’angosciante rivoluzione demografica di Ernesto Galli della Loggia
Un saggio di Ugo Intini
AVVENIRE
Pag 1 Una lezione tedesca di Leonardo Becchetti
Caso Deutsche Bank e biodiversità bancaria
CORRIERE DEL VENETO
Pag 2 Le riforme del lavoro. L’impatto in Veneto di Martina Zambon
Mezzo miliardo di incentivi in un solo anno e 220 mila nuovo contratti: 1 su 2 non
durerà
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pag 27 Bambini e ragazzi in difficoltà, centro diurno a Villa Elena di s.b.
Inaugurazione a Zelarino
Pag 28 “Non date soldi a quel prete, è un truffatore” di m.a.
L’appello in chiesa di don Lauro dopo le telefonate di uno sconosciuto padre Francesco
8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pagg 6 – 7 Referendum costituzionale, a Nordest vince l’incertezza di Natascia
Porcellato e Annamaria Bacchin
A due mesi dalla consultazione il 33% favorevole al sì, il 27% per il no. Ma gli indecisi
sono il 40%
Pag 14 Nordest sicuro, Venezia e Padova no di Mattia Zanardo
Pordenone, Belluno e Treviso tra le dieci oasi più felici d’Italia
CORRIERE DEL VENETO
Pag 7 Abano e il No ai profughi, la parrocchia: “Razzisti” di Alessandro Maccio e
Davide D’Attino
Dopo le proteste, la nota del consiglio pastorale: “Facile essere ospitali solo con chi paga
l’albergo”
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Così ho conosciuto i migranti sotto casa di Dacia Maraini
Tra i migranti accolti sui monti d’Abruzzo
Pag 29 Ungheria, Colombia, Svizzera. Gli strappi del referendum di Massimo Nava
IL GAZZETTINO
Pag 1 Il contratto M5S, se la politica diventa mercato di Carlo Nordio
LA NUOVA
Pag 1 La Shoah dei nostri tempi di Gigi Riva
Pag 1 Spose bambine, lo stupro e il diritto di Ferdinando Camon
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2 – DIOCESI E PARROCCHIE
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XII Un ponte con Lampedusa: “La storia non si ferma” di Giacinta Gimma
Marghera, folla alla messa concelebrata da Francesco Montenegro, arcivescovo di
Agrigento
Marghera e Lampedusa mai così vicine. I fedeli delle otto parrocchie della città giardino,
domenica mattina, hanno partecipato, a migliaia, all'unica messa comunitaria in piazza
Mercato e hanno guardato, malgrado i chilometri di distanza, al canale di Sicilia,
diventato tomba per 28mila persone, vittime che potrebbero essere il doppio. A legare le
due comunità, il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, che ha
celebrato, insieme a sacerdoti e diaconi del territorio, la funzione organizzata dal
vicariato di Marghera all'insegna dell'accoglienza degli immigrati. «Chi di noi può
fermare il vento? Nessuno può farlo così come - ha sottolineato don Franco, come vuole
essere chiamato, lui allergico al "sua eminenza" - nessuno può fermare questa
migrazione, frutto di un'ingiustizia che vede i Paesi africani derubati di risorse, pace e
benessere. Un'ingiustizia di fronte alla quale dobbiamo indignarci». Ha raccontato storie
di violenza, di sfruttamento, di morte, ma anche di speranza, come quella di una madre
africana che ha affidato l'ultimo dei propri figli in fasce ai connazionali su un barcone,
dicendo: «Se resta qui con me, è destinato a morire, lì, forse, vivrà». L'arcivescovo di
Agrigento cita la previsione di 10 milioni di italiani in meno nel 2050, le 600mila aziende
fondate finora in Italia da migranti, i 60mila insegnanti che sarebbero senza lavoro se le
classi fossero prive dei piccoli immigrati. «Non possiamo cambiare la storia, ma un
pezzettino di vita sì: come cristiani, l'unica possibilità che abbiamo è essere con loro.
Forse con un buongiorno e con un sorriso possiamo ricavare uno spazio in cui io e l'altro
possano trovare posto insieme. Attraverso la porta di Lampedusa, dobbiamo dire "Lui
c'è"». Durante la messa, cui hanno partecipato il presidente di Marghera, Bettin, i
delegati Marello e Polesel e l'assessore Venturini, il vicario generale don Angelo Pagan ha
portato all'arcivescovo il saluto del patriarca Moraglia e a don Franco è giunto il
ringraziamento dei fedeli, attraverso le parole del vicario don Giuseppe Volponi. A tutti,
alla fine, da don Franco, un saluto alla lampedusana: «Ò scià», come a dire "Respiro
mio", per portare via con sé nella sua Lampedusa un pezzo di Marghera.
LA NUOVA
Pag 17 Pastorale universitaria: in laguna per parlare di ambiente
In laguna con la Pastorale universitaria. Un centinaio di ragazzi, accompagnati da don
Gilberto Sabbadin e Vincenzo Braga, direttore della Domus civica, hanno visitato la
laguna per parlare dell’enciclica sull’ambiente di Papa Francesco.
Pag 21 Facoltà di Diritto canonico, domani “lectio inauguralis” di m.a.
Con Agostino Paravicini Bagliani
È in programma domani mattina alle 11 nell'auditorium del seminario patriarcale nel
complesso della Salute, la lectio inauguralis del nuovo anno accademico della Facoltà di
Diritto Canonico San Pio X di Venezia, promossa e sostenuta dal Patriarcato di Venezia e
dalle Chiese del Triveneto. Nell'occasione interverrà il professor Agostino Paravicini
Bagliani sul tema “Bonifacio VIII e il primo Giubileo cristiano: spiritualità, ecclesiologia,
auto rappresentazione”. Paravicini Bagliani è presidente della Società Internazionale per
lo Studio del Medioevo Latino (Sismel) di Firenze ed è uno dei maggiori esperti mondiali
di storia medievale in Europa. I suoi studi si concentrano soprattutto su storia del
papato, antropologia culturale, rapporti tra natura e società nel Medio Evo. Alle 12.30,
nella Cappella della Santissima Trinità del seminario patriarcale, seguirà la messa di
apertura del nuovo anno accademico presieduta dal Patriarca di Venezia e gran
cancelliere della Facoltà monsignor Francesco Moraglia. A frequentare attualmente la
Facoltà veneziana di Diritto Canonico sono oltre una cinquantina di allievi (tra licenza e
dottorato); 21 risultano, in particolare, gli iscritti al primo anno e tra di essi ci sono sia
sacerdoti (provenienti dal Triveneto e dal Nord Italia ma anche dall'estero, in particolare
da vari Paesi dell'Europa dell'Est, dell'Africa e dell'Asia) sia alcuni laici, uomini e donne,
impegnati per motivi professionali e di servizio (avvocati, giuristi o dipendenti di Uffici di
Curia) nello studio e nell'approfondimento del Diritto canonico.
Pag 34 Incontro di fedeli a Jesolo, abolito il tema Medjugorje di Giovanni Cagnassi
Nel nuovo format, che comincerà il 16 ottobre, non si parlerà più di apparizioni. La
celebrazione più attesa della giornata è la messa del patriarca Moraglia
Jesolo. In Cammino con Maria, siamo al 6° grande incontro di preghiera al lido di Jesolo.
Il giorno dell’incontro sarà il 16 ottobre al Pala Arrex di piazza Brescia che passerà dal
profano al sacro senza soluzione di continuità. Prima le Miss, adesso i fedeli in
raccoglimento. Dopo una stagione di duro lavoro la comunità del litorale di Jesolo ed
Eraclea, ma anche di tutto l’entroterra, si raccoglie in preghiera e riflessione come ogni
anno, in una giornata da oltre 3 mila presenze. E in questa edizione si attende anche la
visita del patriarca di Venezia Francesco Moraglia che celebrerà la messa. Non si parla
più di Medjugorje. Vietatissimo. Del santuario in Bosnia e delle apparizione della
Madonna a Jesolo è vietato assolutamente proferir parola. Alle prime edizioni era stato
questo il fulcro dell’iniziativa religiosa, con drappelli di veggenti direttamente dal
santuario, guarigioni, confessioni, addirittura nuvole dalla inconfondibile forma di Maria
fotografate nei cieli di Jesolo e postate sui social, allora agli esordi. Solo l’apparizione di
Paolo Brosio era venuta a mancare. Oggi, alla luce delle incertezze del Vaticano e della
Chiesa cattolica in merito alle apparizioni e i miracoli di Medjugorje, gli organizzatori
hanno cambiato il format completamente. Nessun riferimento, neppure il minimo, a
quell’esperienza religiosa, ma grandi ospiti, fedeli in preghiera e composti senza
fanatismi. E naturalmente raccolte di fondi per i poveri e bisognosi. «Abbiamo
organizzato il sesto incontro di preghiera» , spiegano laconicamente i promotori, «che si
svolgerà a Jesolo il 16 ottobre. Il programma come al solito è molto vasto, con delle
catechesi, testimonianze, dei canti e molto altro. Come per gli anni scorsi l’ingresso al
palazzetto è libero e aspettiamo tutti numerosi». Per informazioni si può contattare
Enrico al 393/9589288, Lucia 346/6259796, ore pasti. Inizio dell’ incontro alle ore 9 e
ingresso dalle ore 7.30. La celebrazione più attesa è naturalmente la messa del patriarca
Moraglia prevista alle ore 17.30, che quest’anno darà ampia visibilità all’evento che
viene benedetto in qualche modo dalla chiesa veneziana dopo l’iniziale scetticismo
dovuto soprattutto all’eccessiva enfasi. Tra gli ospiti, sono attesi anche don Francesco
Quintavalle, don Antonio Mazzi, la giornalista Marina Ricci e Giada Nobile.
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3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 Il tempo del Papa di g.m.v.
Il secondo viaggio nella regione caucasica ha portato il Papa in due paesi dove i cattolici
sono pochissimi: in Georgia la quasi totalità della popolazione è cristiana ortodossa
mentre in Azerbaigian solo poche centinaia sono i cattolici, di provenienze e lingue
diverse, in un contesto interamente musulmano. E se in Georgia l’antichità della
tradizione cristiana si è potuta toccare quasi con mano durante l’incontro
nell’impressionante cattedrale di Svetitskhoveli a Mtskheta, dove si sono levati
meravigliosi canti in aramaico, nella piccola chiesa cattolica di Baku Francesco ha
celebrato per un numero di fedeli piuttosto ristretto. Che significa questa scelta? Perché
viaggi lunghi e impegnativi in luoghi dove i cattolici sono minoranze talmente piccole da
apparire trascurabili? Non perde forse tempo il Papa, si è chiesto lo stesso Bergoglio,
improvvisando una breve riflessione dopo la messa nella minuscola parrocchia della
capitale azera e dando voce all’interrogativo di alcuni. No, non lo perde il suo tempo, è
stata la risposta netta e suggerita dalla Scrittura. Dove si legge che a un’altra piccola
comunità, quella rinchiusa nel cenacolo, lo Spirito diede il dono delle lingue e il coraggio
di uscire. Il Pontefice, che aveva appena ascoltato letture, preghiere e canti in lingue
diverse, ha infatti incoraggiato i cattolici presenti a testimoniare e annunciare Gesù,
sull’esempio dei suoi primi seguaci impauriti e smarriti a Gerusalemme. Come sempre
privilegiando le periferie, geografiche ed esistenziali, da dove si vede meglio la realtà e
che Bergoglio evocò prima del conclave che lo ha eletto quando parlò ai cardinali della
gioia di annunciare il Vangelo. Muovendosi sulle tracce dei suoi predecessori, dopo il
segno di Paolo VI che per primo toccò i cinque continenti arrivando fino alle isole Samoa.
Il Papa dedica tempo a stare con la gente per accompagnarla. Come ha spiegato a lungo
ai giornalisti, con pazienza e chiarezza. Per ribadire la centralità della famiglia e
l’importanza di sostenerla, il senso del cammino ecumenico e lo scopo del dialogo con le
altre religioni. O ancora la necessità di far crescere una cultura politica. Senza paura di
perdere tempo.
Pag 1 Un libero pensiero critico sull’ideologia del gender di Lucetta Scaraffia
Papa Francesco gode senza dubbio del favore dei media, e talvolta ci si è quasi stupiti
che le principali testate internazionali lasciassero passare senza battere ciglio frasi che,
dette da altri, avrebbero suscitato attacchi indignati. Ma stavolta no, stavolta non hanno
lasciato correre quando ha criticato con forza la teoria del gender. Questo rivela innanzi
tutto che il gender costituisce un punto sensibile sul quale non si intende fare sconti,
soprattutto se si tocca il cuore della trasmissione ideologica: l’insegnamento nelle
scuole. Ma anche rivela che l’insegnamento del gender non è ciò che si dice, e cioè una
necessaria preparazione dei giovani affinché non venga demonizzata l’omosessualità. Il
Papa infatti ha accompagnato il suo discorso sul gender a una chiara accettazione degli
omosessuali, con una apertura che nella Chiesa non si era mai manifestata con tanto
coraggio. Le reazioni, poi, mostrano anche le difficoltà in cui si trovano i promotori di
tale insegnamento. Non tanto a causa dei loro oppositori, ma piuttosto a motivo del
buon senso e dell’esperienza quotidiana vissuta da ciascuno, che costituiscono un
naturale antidoto - per nulla ideologico - a queste idee. Innanzi tutto, i critici
rimproverano al Papa di avere usato il termine “teoria”, dimenticando che, da un certo
punto di vista, tutto ciò che viene insegnato astrattamente è una teoria, e ancora di più
il gender che, non trovando riscontro nell’esperienza concreta, è solamente uno spunto
teorico. Ma, da un altro punto di vista, è vero che il gender ha provato a stabilizzarsi
come teoria, e per di più come teoria scientifica - si ricordi solamente il caso notissimo
del medico John Money - ma questa è svanita nel nulla davanti alle prime verifiche.
Sorge allora la domanda: cos’è il gender che si insegna in alcune scuole? Non una teoria
ma un’ideologia, o meglio un’ideologia utopica simile a quelle che nel Novecento hanno
promesso la realizzazione del paradiso in terra se solo si fosse arrivati a una vera
eguaglianza fra gli esseri umani. Anche il gender promette felicità se si cancella la
differenza tra uomo e donna, con grande disprezzo per la realtà biologica, quindi per la
maternità intesa non solo come procreazione, ma come creazione di un rapporto umano
unico fin dal concepimento. In sostanza, l’ideologia del gender promette felicità - grazie
a questa eguaglianza - a patto di scegliere la libertà di realizzare ogni desiderio, di
privilegiare sempre se stessi invece della costruzione di legami umani fondati sulla
realtà. E quindi minando la famiglia. Francesco ha spiegato, con grande chiarezza, che si
possono amare e accogliere gli omosessuali e i transessuali senza dover ricorrere a
questa scorciatoia ideologica, e in un certo senso ha smascherato gli obiettivi
dell’ideologia: scardinare la famiglia, e non tanto aiutare gli omosessuali a essere accolti
come eguali. Con le parole del Papa la Chiesa ancora una volta si rivela impermeabile
alle utopie di eguaglianza, anche se paradossalmente è stato proprio il cristianesimo a
portare nel mondo, per la prima volta, il principio dell’eguaglianza di tutti gli esseri
umani. Ma l’eguaglianza predicata e praticata dal cristianesimo si fonda sulla
condivisione da parte di tutti gli esseri umani della condizione di figli di Dio. È quindi un
concetto flessibile, aperto alla presenza di differenze al suo interno, che non significano o, meglio, non dovrebbero significare - diseguaglianze. Al contrario, il concetto di
eguaglianza oggi in voga è molto più fragile, non si basa su principi forti e condivisi, e
viene continuamente messo in crisi dalla constatazione evidente della differenza fra gli
esseri umani. Di qui i tentativi di creare l’eguaglianza: per esempio, eliminando la
proprietà privata (con il comunismo), la malattia (con l’eugenetica), e oggi la differenza
sessuale (con il gender). Insomma, le parole di Bergoglio confermano, ancora una volta,
che il punto di vista cattolico costituisce un ineludibile e libero pensiero critico nei
confronti di luoghi comuni passivamente accettati.
Pag 4 Unica strada
Durante il volo di ritorno dal Caucaso il Papa ribadisce la necessità del dialogo per
risolvere i conflitti
Durante il volo di ritorno al termine della visita nel Caucaso, nella serata di domenica 2
ottobre, la tradizionale conferenza stampa di Francesco è stata introdotta dal direttore
della Sala stampa della Santa Sede, Greg Burke, al suo primo viaggio papale in questa
veste. Prima di ascoltare le domande - rivoltegli in inglese e in italiano - che di seguito
riassumiamo, il Papa ha prima salutato i giornalisti con queste parole: «Buonasera. E
grazie tante del vostro lavoro, del vostro aiuto. È vero, è stato un viaggio breve - tre
giorni - ma voi avete avuto tanto lavoro. Io sono a vostra disposizione, e vi ringrazio
tanto per il lavoro. E domandate quello che volete».
[Ketevan Kardava, televisione georgiana]. La foto che la ritrae con il Patriarca della
Georgia è stata condivisa migliaia e migliaia di volte nei social. Dopo il suo incontro con
il Patriarca, lei intravede le basi per una collaborazione futura e un dialogo costruttivo in
merito alle differenze dottrinali che ci sono?
Io ho avuto due sorprese in Georgia. Una è la Georgia. Mai ho immaginato tanta cultura,
tanta fede, tanta cristianità. Un popolo credente; e di una cultura cristiana antichissima,
un popolo di tanti martiri. E ho scoperto una cosa che io non conoscevo: le profonde
radici di questa fede georgiana. La seconda sorpresa è stato il Patriarca: è un uomo di
Dio, quest’uomo mi ha commosso. Io, le volte in cui l’ho incontrato, sono uscito con il
cuore commosso, e con la sensazione di aver trovato un uomo di Dio. Davvero, un uomo
di Dio. Sulle cose che ci uniscono e ci separano, dirò: non metterci a discutere le cose di
dottrina, questo lasciarlo ai teologi, loro sanno farlo meglio di noi. Discutono e sono
bravi, sono buoni, hanno buona volontà, i teologi di una parte e dell’altra. Che cosa
dobbiamo fare noi, il popolo? Pregare gli uni per gli altri. Questo è importantissimo: la
preghiera. E secondo, fare cose insieme: ci sono i poveri, lavoriamo insieme con i
poveri; c’è questo e questo problema, possiamo affrontarlo insieme?, lo facciamo
insieme; ci sono i migranti?, facciamo qualcosa insieme... Facciamo qualcosa di bene per
gli altri, insieme, questo possiamo farlo. E questo è il cammino dell’ecumenismo. Non
solo il cammino della dottrina, questo è l’ultima cosa, si arriverà alla fine. Ma
incominciamo a camminare insieme. E con buona volontà, questo si può fare. Si deve
fare. Oggi l’ecumenismo si deve fare camminando insieme, pregando gli uni per gli altri.
E che i teologi continuino a parlare tra loro, a studiare tra loro. Ma la Georgia è
meravigliosa, è una cosa che non mi aspettavo; una Nazione cristiana, ma nel midollo!
[Tassilo Forchheimer, della radio tedesca ARD] Tra Armenia e Azerbaigian che cosa deve
succedere per arrivare a una pace permanente che tuteli i diritti umani?
Due volte, in due discorsi ho parlato di questo. Nell’ultimo ho parlato del ruolo delle
religioni per aiutare a questo scopo. Credo che l’unica strada sia il dialogo, il dialogo
sincero, senza cose sottobanco, sincero, faccia a faccia. Il negoziato sincero. E se non si
può arrivare a questo, bisogna avere il coraggio di andare a un Tribunale internazionale,
andare all’Aja, per esempio, e sottomettersi al giudizio internazionale. Non vedo altra
via. L’alternativa è la guerra, e la guerra distrugge sempre, con la guerra si perde tutto!
E inoltre, per i cristiani, c’è la preghiera: pregare per la pace, perché i cuori prendano
questa via di dialogo, di negoziato, o di andare a un tribunale internazionale. Ma non si
possono tenere problemi così... Pensate che i tre Paesi caucasici hanno problemi: anche
la Georgia ha un problema con la Russia, non si conosce tanto... ma ha un problema,
che può crescere... non si sa; e l’Armenia è un Paese senza frontiere aperte, ha problemi
con l’Azerbaigian. Si deve andare al tribunale internazionale se non vanno avanti il
dialogo e il negoziato: non c’è un’altra via. E la preghiera, la preghiera per la pace.
[Maria Elena Ribezzo, svizzera, della rivista «La Presse»] Lei ieri ha parlato di una guerra
mondiale in atto contro il matrimonio, e ha usato parole molto forti contro il divorzio;
mentre nei mesi scorsi, anche durante il Sinodo, si era parlato di un’accoglienza nei
confronti dei divorziati. Volevo sapere se questi approcci si conciliano e in che modo.
Tutto è contenuto, tutto quello che ho detto ieri, con altre parole — perché ieri ho
parlato a braccio e un po’ a caldo — si trova nell’Amoris laetitia, tutto. Quando si parla
del matrimonio come unione dell’uomo e della donna, come li ha fatti Dio, come
immagine di Dio, è uomo e donna. L’immagine di Dio non è l’uomo [maschio]: è l’uomo
con la donna. Insieme. Che sono una sola carne quando si uniscono in matrimonio.
Questa è la verità. È vero che in questa cultura i conflitti e tanti problemi non sono ben
gestiti, e ci sono anche filosofie dell’«oggi faccio questo [matrimonio], quando mi stanco
ne faccio un altro, poi ne faccio un terzo, poi ne faccio un quarto». È questa «guerra
mondiale» che lei dice contro il matrimonio. Dobbiamo essere attenti a non lasciare
entrare in noi queste idee. Ma prima di tutto: il matrimonio è immagine di Dio, uomo e
donna in una sola carne. Quando si distrugge questo, si “sporca” o si sfigura l’immagine
di Dio. Poi l’Amoris laetitia parla di come trattare questi casi, come trattare le famiglie
ferite, e lì entra la misericordia. E c’è una preghiera bellissima della Chiesa, che abbiamo
pregato la settimana scorsa. Diceva così: «Dio, che tanto mirabilmente hai creato il
mondo e più mirabilmente lo hai ricreato», cioè con la redenzione e la misericordia. Il
matrimonio ferito, le coppie ferite: lì entra la misericordia. Il principio è quello, ma le
debolezze umane esistono, i peccati esistono, e sempre l’ultima parola non l’ha la
debolezza, l’ultima parola non l’ha il peccato: l’ultima parola l’ha la misericordia! A me
piace raccontare — non so se l’ho detto, perché lo ripeto tanto — che nella chiesa di
Santa Maria Maddalena a Vézelay c’è un capitello bellissimo, del 1200 più o meno. I
medievali facevano catechesi con le sculture delle cattedrali. Da una parte del capitello
c’è Giuda, impiccato, con la lingua fuori, gli occhi fuori, e dall’altra parte del capitello c’è
Gesù, il Buon Pastore, che lo prende e lo porta con sé. E se guardiamo bene la faccia di
Gesù, le labbra di Gesù sono tristi da una parte ma con un piccolo sorriso di complicità
dall’altra. Questi avevano capito cos’è la misericordia! Con Giuda! E per questo,
nell’Amoris laetitia si parla del matrimonio, del fondamento del matrimonio come è, ma
poi vengono i problemi. Come prepararsi al matrimonio, come educare i figli; e poi, nel
capitolo ottavo, quando vengono i problemi, come si risolvono. Si risolvono con quattro
criteri: accogliere le famiglie ferite, accompagnare, discernere ogni caso e integrare,
rifare. Questo sarebbe il modo di collaborare in questa “seconda creazione”, in questa ricreazione meravigliosa che ha fatto il Signore con la redenzione. Si capisce così? Sì, se
prendi una parte sola non va! L’Amoris laetitia — questo voglio dire —: tutti vanno al
capitolo ottavo. No, no. Si deve leggere dall’inizio alla fine. E qual è il centro? Ma...
dipende da ognuno. Per me il centro, il nocciolo dell’Amoris laetitia è il capitolo quarto,
che serve per tutta la vita. Ma si deve leggerla tutta e rileggerla tutta e discuterla tutta,
è tutto un insieme. C’è il peccato, c’è la rottura, ma c’è anche la misericordia, la
redenzione, la cura. Mi sono spiegato bene su questo?
[Joshua McElwee, del giornale statunitense «National Catholic Reporter»] Nello stesso
discorso lei ha parlato della teoria del gender, dicendo che è il grande nemico. Ma vorrei
chiedere cosa direbbe a una persona che ha sofferto per anni con la sua sessualità e
sente che c’è un problema biologico? Lei come pastore come accompagnerebbe queste
persone?
Prima di tutto, io ho accompagnato nella mia vita di sacerdote, di vescovo - anche di
Papa - ho accompagnato persone con tendenza e con pratiche omosessuali. Le ho
accompagnate, le ho avvicinate al Signore, alcuni non possono, ma le ho accompagnate
e mai ho abbandonato qualcuno. Questo è ciò che va fatto. Le persone si devono
accompagnare come le accompagna Gesù. Quando una persona che ha questa
condizione arriva davanti a Gesù, Gesù non gli dirà sicuramente: «Vattene via perché sei
omosessuale!», no. Quello che io ho detto riguarda quella cattiveria che oggi si fa con
l’indottrinamento della teoria del gender. Mi raccontava un papà francese che a tavola
parlavano con i figli – cattolico lui, cattolica la moglie, i figli cattolici, all’acqua di rose,
ma cattolici – e ha domandato al ragazzo di dieci anni: «E tu che cosa vuoi fare quando
diventi grande?» - «La ragazza». E il papà si è accorto che nei libri di scuola si insegnava
la teoria del gender. E questo è contro le cose naturali. Una cosa è che una persona
abbia questa tendenza, questa opzione, e c’è anche chi cambia il sesso. E un’altra cosa è
fare l’insegnamento nelle scuole su questa linea, per cambiare la mentalità. Queste io le
chiamo «colonizzazioni ideologiche». L’anno scorso ho ricevuto una lettera di uno
spagnolo che mi raccontava la sua storia da bambino e da ragazzo. Era una bambina,
una ragazza, e ha sofferto tanto, perché si sentiva ragazzo ma era fisicamente una
ragazza. L’ha raccontato alla mamma, quando era già ventenne, 22 anni, e le ha detto
che avrebbe voluto fare l’intervento chirurgico e tutte queste cose. E la mamma gli ha
chiesto di non farlo finché lei era viva. Era anziana, ed è morta presto. Ha fatto
l’intervento. È un impiegato di un ministero di una città della Spagna. È andato dal
vescovo. Il vescovo lo ha accompagnato tanto, un bravo vescovo: “perdeva” tempo per
accompagnare quest’uomo. Poi si è sposato. Ha cambiato la sua identità civile, si è
sposato e mi ha scritto la lettera che per lui sarebbe stata una consolazione venire con la
sua sposa: lui, che era lei, ma è lui. E li ho ricevuti. Erano contenti. E nel quartiere dove
lui abitava c’era un vecchio sacerdote, ottantenne, il vecchio parroco, che aveva lasciato
la parrocchia e aiutava le suore, lì, nella parrocchia... E c’era il nuovo [parroco]. Quando
il nuovo lo vedeva, lo sgridava dal marciapiede: «Andrai all’inferno»! Quando trovava il
vecchio, questo gli diceva: «Da quanto non ti confessi? Vieni, vieni, andiamo che ti
confesso e così potrai fare la Comunione». Hai capito? La vita è la vita, e le cose si
devono prendere come vengono. Il peccato è il peccato. Le tendenze o gli squilibri
ormonali danno tanti problemi e dobbiamo essere attenti a non dire: «È tutto lo stesso,
facciamo festa». No, questo no. Ma ogni caso accoglierlo, accompagnarlo, studiarlo,
discernere e integrarlo. Questo è quello che farebbe Gesù oggi. Per favore, non dite: «Il
Papa santificherà i trans»! Per favore! Perché io vedo già i titoli dei giornali... No, no. C’è
qualche dubbio su quello che ho detto? Voglio essere chiaro. È un problema di morale. È
un problema. È un problema umano. E si deve risolvere come si può, sempre con la
misericordia di Dio, con la verità, come abbiamo detto nel caso del matrimonio,
leggendo tutta l’Amoris laetitia, ma sempre così, sempre con il cuore aperto. E non
dimenticatevi quel capitello di Vézelay: è molto bello, molto bello.
[Gianni Cardinale, del quotidiano italiano «Avvenire»] Quando farà i nuovi cardinali e a
quali criteri si ispira per questa scelta? Quando andrà a trovare le popolazioni
terremotate?
Per la seconda, mi sono state proposte tre date possibili. Due sono dei numeri che non
ricordo bene; la terza, la ricordo bene, è la prima domenica di Avvento. Io ho detto che
al rientro sceglierò la data. Ce ne sono tre: devo scegliere. E la farò privatamente, da
solo, come sacerdote, come vescovo, come Papa. Ma da solo. Così voglio farla. E vorrei
essere vicino alla gente. Ma non so ancora come.
Sui cardinali: i criteri saranno gli stessi dei due altri concistori. [Sceglierli] un po’
dappertutto, perché la Chiesa è in tutto il mondo. Sì, forse... ancora sto studiando i
nomi, ma forse saranno tre di un continente, due di un altro e uno di un’altra parte, uno
dell’altra, uno di un Paese... ma, non si sa. La lista è lunga, ma ci sono soltanto 13 posti.
E si deve pensare di fare un equilibrio. A me piace che si veda, nel Collegio cardinalizio,
l’universalità della Chiesa: non soltanto il centro - per dire - “europeo”; ma dappertutto.
I cinque continenti, se si può.
C’è già una data?
No, perché devo studiare la lista e fare la data. Può essere la fine dell’anno, può essere
all’inizio dell’anno prossimo. Per la fine dell’anno c’è il problema dell’Anno Santo, ma si
può risolvere... O all’inizio dell’anno prossimo. Ma sarà prossimo.
[Aura Vistas Miguel dell’emittente portoghese Rádio Renascença] La mia domanda
riguarda la sua agenda di viaggi fuori d’Italia.
Di sicuro, ad oggi, andrò in Portogallo, e andrò soltanto a Fátima. Ad oggi. Perché? C’è
un problema. In questo Anno Santo sono state sospese le visite [dei Vescovi] ad limina;
nel prossimo anno devo ricevere le visite ad limina di quest’anno e del prossimo. E c’è
poco spazio per i viaggi. Ma in Portogallo ci andrò. In India e Bangladesh, quasi sicuro.
In Africa, ancora non è sicuro il posto, tutto dipende sia dal clima, in quale mese, perché
se è in Africa del Nordovest è una cosa e se è nel Sudovest è un’altra. E anche dipende
dalla situazione politica e dalle guerre... Ma ci sono possibilità allo studio in Africa. In
America, io ho detto che quando il processo di pace [in Colombia]... se esce, io vorrei
andare, quando tutto sarà “blindato”, cioè quando tutto - se vince il plebiscito - quando
tutto sia sicuro sicuro, che non si può andare indietro, cioè che il mondo internazionale,
tutte le nazioni siano d’accordo, che non si può fare ricorso, no, è finito, se è così, potrei
andare. Ma se la cosa è instabile... Tutto dipende da quello che dirà il popolo. Il popolo è
sovrano. Noi siamo abituati a guardare più le forme democratiche che la sovranità del
popolo, e tutte e due devono andare insieme. Per esempio, è diventata un’abitudine in
alcuni continenti dove, quando finisce il secondo mandato, chi è al governo cerca di
cambiare la costituzione per averne un terzo. E questo è sopravvalutare la cosiddetta
democrazia, contro la sovranità del popolo, che è nella Costituzione. Tutto dipende da
quello. E il processo di pace si risolverà oggi, in parte, con la voce del popolo: è sovrano.
Quello che dirà il popolo, credo che debba farsi.
Fátima sarà 12 e 13 (maggio)?
Finora il 13. Ma può darsi, non so...
[Jean-Marie Guénois del quotidiano francese «Le Figaro»] Perché nella sua risposta sui
viaggi non ha parlato della Cina? E perché qualche ora fa monsignor Lebrun, arcivescovo
di Rouen, ha annunciato che lei ha autorizzato a cominciare il processo di beatificazione
di padre Hamel senza tenere conto della regola dell’attesa dei cinque anni?
Su quest’ultimo: ho parlato con il Cardinale Amato [Prefetto della Congregazione delle
Cause dei Santi], faremo degli studi e lui darà la notizia ultima. Ma l’intenzione è andare
su questa linea, fare le ricerche necessarie e vedere se ci sono le ragioni per farlo.
Ha annunciato che era aperto il processo di beatificazione.
No, che si devono cercare testimonianze per aprire il processo. Non perdere le
testimonianze, questo è molto importante. Perché le testimonianze fresche, quello che
ha visto la gente, poi con il tempo qualcuno muore, qualcuno si dimentica... e questo
succede. In latino si dice: ne pereant probationes.
La Cina. Voi conoscete bene la storia della Cina e della Chiesa: la Chiesa patriottica, la
Chiesa nascosta... Ma noi siamo in buoni rapporti, si studia e si parla, ci sono
commissioni di lavoro... Io sono ottimista. Adesso credo che i Musei Vaticani hanno fatto
un’esposizione in Cina, i cinesi ne faranno un’altra in Vaticano... Ci sono tanti professori
che vanno a fare scuola nelle università cinesi, tante suore, tanti preti che possono
lavorare bene lì. I rapporti tra Vaticano e i cinesi... Si deve fissare in un rapporto, e per
questo si sta parlando, lentamente... Le cose lente vanno bene, sempre. Le cose in
fretta non vanno bene. Il popolo cinese ha la mia più alta stima. L’altro ieri, per
esempio, c’è stato un convegno di due giorni, credo, nella [Pontificia] Accademia delle
Scienze sulla Laudato si’, e c’era una delegazione cinese del Presidente. E il Presidente
cinese mi ha inviato un regalo. Ci sono buone relazioni.
Il Papa farà il viaggio?
Ah, mi piacerebbe..., ma io non penso ancora.
[Juan Vicente González Boo, del quotidiano spagnolo «Abc»] Il vincitore del Premio
Nobel per la pace verrà annunciato il 7 ottobre. Ci sono più di 300 nomination. Qual è il
suo candidato favorito o quali sono le persone o le organizzazioni che meritano più
riconoscimento per il lavoro che fanno in favore della pace?
C’è tanta gente che vive per fare la guerra, per fare la vendita delle armi, per uccidere,
ce n’è tanta. Ma c’è anche tanta gente che lavora per la pace, tanta, tanta. Io non saprei
dire quale scegliere fra tanta gente, che oggi lavora per la pace, è molto difficile. Lei ne
ha menzionati alcuni, ce ne sono di più. Ma sempre c’è l’inquietudine di dare un premio
per la pace... Io mi auguro anche che a livello internazionale, lasciando da parte il
Premio Nobel per la pace, ci sia un ricordo, un riconoscimento, una dichiarazione sui
bambini, sui disabili, sui minorenni, sui civili morti sotto le bombe. Credo che quello sia
un peccato! È un peccato contro Gesù Cristo, perché la carne di quei bambini, di quella
gente ammalata, di quegli anziani indifesi, è la carne di Cristo. Bisognerebbe che
l’umanità dicesse qualcosa per le vittime delle guerre. Per quelli che fanno la pace, Gesù
ha detto che sono beati, nelle Beatitudini: «Gli operatori di pace». Ma le vittime delle
guerre, dobbiamo dire qualcosa e prendere coscienza! Che ti buttano su un ospedale di
bambini una bomba e ne muoiono trenta, quaranta... O su una scuola... Questa è una
tragedia dei nostri giorni.
[John Jeremiah Sullivan, statunitense, del «New York Times Magazine», al primo
viaggio] Gli Stati Uniti si stanno avvicinando alla fine di una lunga campagna
presidenziale, molto brutta. Molti cattolici americani e persone di coscienza hanno
difficoltà nella scelta tra i due candidati. Quale consiglio darebbe ai fedeli in America?
Lei mi fa una domanda in cui descrive una scelta difficoltosa, perché secondo Lei c’è
difficoltà in uno e c’è difficoltà nell’altro. In campagna elettorale io mai dico una parola.
Il popolo è sovrano, e soltanto dirò: studia bene le proposte, prega e scegli in coscienza!
Poi esco dal problema e vado a una “finzione” [un caso immaginario], perché non voglio
parlare del problema concreto. Quando succede che in un Paese qualsiasi ci sono due,
tre, quattro candidati che non risultano soddisfacenti, significa che la vita politica di quel
Paese forse è troppo politicizzata ma non ha molta cultura politica. E uno dei compiti
della Chiesa e dell’insegnamento nelle facoltà è di insegnare ad avere cultura politica. Ci
sono Paesi - io penso all’America Latina - che sono troppo politicizzati ma non hanno
cultura politica: sono di questo partito o di quell’altro o di quell’altro, ma affettivamente,
senza un pensiero chiaro sulle basi, sulle proposte.
[Caroline Pigozzi, del settimanale francese «Paris Match»] La testimonianza per la storia,
secondo lei, è più importante del testamento di un Papa? Mi spiego: Papa Wojtyła aveva
lasciato nel suo testamento che fossero bruciati molti documenti e molte lettere che si
sono poi ritrovati in un libro: vuol dire che la volontà di un Papa non è rispettata? Poi
vorrei sapere perché lei che stringe la mano a migliaia di persone tutte le settimane, non
ha ancora una tendinite?
Io ancora non sento tendiniti... La prima domanda. Lei dice: un Papa che manda a
bruciare carte, lettere... questo è il diritto di ogni uomo e ogni donna, ha il diritto di farlo
prima di morire.
Ma non è stato rispettato con Papa Wojtyła...
Ah, quello... Chi non ha rispettato quello, sarà colpevole, non so, non conosco bene il
caso. Ma ogni persona, quando dice: «Questo si deve distruggere», è perché c’è
qualcosa di concreto. Ma forse c’è una copia da un’altra parte, e questo lui non lo
sapeva... Ma è un diritto di ogni persona fare il testamento come vuole.
Ma lui non è stato rispettato.
Di tanta gente non è stato rispettato il testamento...
Ma il Papa è più importante.
No. Il Papa è un povero peccatore, come gli altri. Grazie.
Infine il direttore della Sala stampa ha ricordato che al termine della messa a Baku il
Papa ha risposto a una domanda, sul perché fa questi viaggi in posti dove ci sono
pochissimi cattolici. Neanche noi pensiamo di perdere tempo: facciamo questi viaggi
brevi ma intensi. Però, se lei ne vuole fare uno lungo e rilassante, possiamo anche
farlo...
No... Dopo il primo viaggio, che è stato in Albania, mi hanno detto: «Perché Lei ha scelto
di andare in Albania nel primo viaggio in Europa? Un Paese che non è dell’Unione
Europea?». Poi sono andato a Sarajevo, in Bosnia Erzegovina, che non è dell’Unione
Europea. Il primo Paese dell’Unione Europea nel quale sono andato è stata la Grecia,
l’Isola di Lesbo: il primo. È stato il primo. Perché fare viaggi in questi Paesi? Questi tre
sono caucasici. I tre Presidenti sono venuti in Vaticano a invitarmi. E con forza. E tutti e
tre hanno un atteggiamento religioso diverso: gli armeni sono fieri - e questo senza
offendere - fieri della loro “armenità”, hanno una storia, e loro sono cristiani, la grande
maggioranza, quasi tutti cristiani apostolici, poi cristiani cattolici e un pochettino di
cristiani evangelici, pochi. La Georgia è un Paese cristiano, totalmente cristiano, ma
ortodosso. I cattolici sono pochi, un gruppo, ma sono ortodossi. Invece l’Azerbaigian è
un Paese credo al 96-98 per cento musulmano. Non so quanti abitanti abbia, perché io
ho detto due milioni, ma credo che siano venti.
Circa dieci...
Circa dieci, ecco. Circa dieci milioni. I cattolici sono al massimo 600: piccolini. E io,
perché vado lì? Per i cattolici, per andare alla periferia di una comunità cattolica, che è
proprio nella periferia, è piccolina. E oggi a Messa ho detto che mi faceva ricordare la
comunità “periferica” di Gerusalemme, chiusa nel Cenacolo, in attesa dello Spirito Santo,
in attesa di poter crescere, uscire... È piccola. Non è perseguitata, no, perché in
Azerbaigian c’è un grande rispetto religioso, una grande libertà religiosa. Questo è vero,
l’ho detto oggi nel discorso. E anche questi tre Paesi sono Paesi periferici, come
l’Albania, la Bosnia Erzegovina ... E io vi ho detto: la realtà si capisce meglio e si vede
meglio dalle periferie che dal centro. E per questo scelgo di andare lì. Ma questo non
toglie la possibilità di andare in un grande Paese come il Portogallo, la Francia, non so...
Vediamo... Grazie tante per il vostro lavoro. Adesso riposate un po’. E buona cena.
Grazie. E pregate per me.
Pag 7 Come tessere un tappeto
Nella messa a Baku il Pontefice ricorda che fede e servizio non si possono separare
Nella mattina di domenica 2 ottobre Papa Francesco si è congedato dalle autorità
georgiane all’aeroporto di Tbilisi e dopo circa un’ora e mezza di volo ha raggiunto in
aereo lo scalo di Baku, dove si è svolta la cerimonia di accoglienza ufficiale in
Azerbaigian. Quindi in automobile il Pontefice si è recato al centro salesiano della
capitale, dove ha celebrato la messa nella chiesa dell’Immacolata. Ecco la sua omelia.
La Parola di Dio ci presenta oggi due aspetti essenziali della vita cristiana: la fede e il
servizio. A proposito della fede, vengono rivolte al Signore due particolari richieste. La
prima è quella del profeta Abacuc, che implora Dio perché intervenga e ristabilisca la
giustizia e la pace che gli uomini hanno infranto con violenza, liti e contese: «Fino a
quando, Signore, - dice - implorerò aiuto e non ascolti?» (Ab 1, 2). Dio, rispondendo,
non interviene direttamente, non risolve la situazione in modo brusco, non si rende
presente con la forza. Al contrario, invita ad attendere con pazienza, senza mai perdere
la speranza; soprattutto, sottolinea l’importanza della fede. Perché per la sua fede
l’uomo vivrà (cfr. Ab 2, 4). Così Dio fa anche con noi: non asseconda i nostri desideri
che vorrebbero cambiare il mondo e gli altri subito e continuamente, ma mira anzitutto a
guarire il cuore, il mio cuore, il tuo cuore, il cuore di ciascuno; Dio cambia il mondo
cambiando i nostri cuori, e questo non può farlo senza di noi. Il Signore desidera infatti
che gli apriamo la porta del cuore, per poter entrare nella nostra vita. E questa apertura
a Lui, questa fiducia in Lui è proprio «la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1
Gv 5, 4). Perché quando Dio trova un cuore aperto e fiducioso, lì può compiere
meraviglie. Ma avere fede, una fede viva, non è facile; ed ecco allora la seconda
richiesta, quella che nel Vangelo gli Apostoli rivolgono al Signore: «Accresci in noi la
fede!» (Lc 17, 6). È una bella domanda, una preghiera che anche noi potremmo
rivolgere a Dio ogni giorno. Ma la risposta divina è sorprendente e anche in questo caso
ribalta la domanda: «Se aveste fede...». È Lui che chiede a noi di avere fede. Perché la
fede, che è un dono di Dio e va sempre chiesta, va anche coltivata da parte nostra. Non
è una forza magica che scende dal cielo, non è una “dote” che si riceve una volta per
sempre, e nemmeno un super-potere che serve a risolvere i problemi della vita. Perché
una fede utile a soddisfare i nostri bisogni sarebbe una fede egoistica, tutta centrata su
di noi. La fede non va confusa con lo stare bene o col sentirsi bene, con l’essere
consolati nell’animo perché abbiamo un po’ di pace nel cuore. La fede è il filo d’oro che ci
lega al Signore, la pura gioia di stare con Lui, di essere uniti a Lui; è il dono che vale la
vita intera, ma che porta frutto se facciamo la nostra parte. E qual è la nostra parte?
Gesù ci fa comprendere che è il servizio. Nel Vangelo, infatti, il Signore fa subito seguire
alle parole sulla potenza della fede quelle sul servizio. Fede e servizio non si possono
separare, anzi sono strettamente collegati, annodati tra di loro. Per spiegarmi vorrei
utilizzare un’immagine a voi molto familiare, quella di un bel tappeto: i vostri tappeti
sono delle vere opere d’arte e provengono da una storia antichissima. Anche la vita
cristiana di ciascuno viene da lontano, è un dono che abbiamo ricevuto nella Chiesa e
che proviene dal cuore di Dio, nostro Padre, il quale desidera fare di ciascuno di noi un
capolavoro del creato e della storia. Ogni tappeto, voi lo sapete bene, va tessuto
secondo la trama e l’ordito; solo con questa struttura l’insieme risulta ben composto e
armonioso. Così è per la vita cristiana: va ogni giorno pazientemente intessuta,
intrecciando tra loro una trama e un ordito ben definiti: la trama della fede e l’ordito del
servizio. Quando alla fede si annoda il servizio, il cuore si mantiene aperto e giovane, e
si dilata nel fare il bene. Allora la fede, come dice Gesù nel Vangelo, diventa potente, fa
meraviglie. Se cammina su quella strada, allora matura e diventa forte, a condizione che
rimanga sempre unita al servizio. Ma che cos’è il servizio? Possiamo pensare che
consista solo nell’essere ligi ai propri doveri o nel compiere qualche opera buona. Ma per
Gesù è molto di più. Nel Vangelo di oggi Egli ci chiede, anche con parole molto forti,
radicali, una disponibilità totale, una vita a piena disposizione, senza calcoli e senza utili.
Perché è così esigente Gesù? Perché Lui ci ha amato così, facendosi nostro servo «fino
alla fine» (Gv 13, 1), venendo «per servire e dare la propria vita» (Mc 10, 45). E questo
avviene ancora ogni volta che celebriamo l’Eucaristia: il Signore viene in mezzo a noi e
per quanto noi ci possiamo proporre di servirlo e amarlo, è sempre Lui che ci precede,
servendoci e amandoci più di quanto immaginiamo e meritiamo. Ci dona la sua stessa
vita. E ci invita a imitarlo, dicendoci: «Se uno mi vuole servire, mi segua» (Gv 12, 26).
Dunque, non siamo chiamati a servire solo per avere una ricompensa, ma per imitare
Dio, fattosi servo per nostro amore. E non siamo chiamati a servire ogni tanto, ma a
vivere servendo. Il servizio è allora uno stile di vita, anzi riassume in sé tutto lo stile di
vita cristiano: servire Dio nell’adorazione e nella preghiera; essere aperti e disponibili;
amare concretamente il prossimo; adoperarsi con slancio per il bene comune. Non
mancano anche per i credenti le tentazioni, che allontanano dallo stile del servizio e
finiscono per rendere la vita inservibile. Dove non c’è servizio la vita è inservibile! Anche
qui possiamo evidenziarne due. Una è quella di lasciare intiepidire il cuore. Un cuore
tiepido si chiude in una vita pigra e soffoca il fuoco dell’amore. Chi è tiepido vive per
soddisfare i propri comodi, che non bastano mai, e così non è mai contento; poco a poco
finisce per accontentarsi di una vita mediocre. Il tiepido riserva a Dio e agli altri delle
“percentuali” del proprio tempo e del proprio cuore, senza mai esagerare, anzi cercando
sempre di risparmiare. Così la sua vita perde di gusto: diventa come un tè che era
veramente buono, ma che quando si raffredda non si può più bere. Sono certo però che
voi, guardando agli esempi di chi vi ha preceduto nella fede, non lascerete intiepidire il
cuore. La Chiesa intera, che nutre per voi una speciale simpatia, vi guarda e vi
incoraggia: siete un piccolo gregge tanto prezioso agli occhi di Dio! C’è una seconda
tentazione, nella quale si può cadere non perché si è passivi, ma perché si è “troppo
attivi”: quella di pensare da padroni, di darsi da fare solo per guadagnare credito e per
diventare qualcuno. Allora il servizio diventa un mezzo e non un fine, perché il fine è
diventato il prestigio; poi viene il potere, il voler essere grandi. «Tra voi però - ricorda
Gesù a tutti noi - non sarà così: ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro
servitore» (Mt 20, 26). Così si edifica e si abbellisce la Chiesa. Riprendo l’immagine del
tappeto, applicandola alla vostra bella comunità: ciascuno di voi è come uno splendido
filo di seta, ma solo se sono ben intrecciati tra di loro i diversi fili creano una bella
composizione; da soli, non servono. Restate sempre uniti, vivendo umilmente in carità e
gioia; il Signore, che crea l’armonia nelle differenze, vi custodirà. Ci aiuti l’intercessione
della Vergine Immacolata e dei Santi, in particolare di Santa Teresa di Calcutta, i cui
frutti di fede e di servizio sono in mezzo a voi. Accogliamo alcune sue splendide parole,
che riassumono il messaggio di oggi: «Il frutto della fede è l’amore. Il frutto dell’amore è
il servizio. Il frutto del servizio è la pace» (Il cammino semplice, Introduzione).
Pag 7 Non è tempo perso
All’Angelus
Al termine della messa domenicale, il Papa ha guidato la recita dell’Angelus
introducendola con le seguenti parole.
Cari fratelli e sorelle, in questa Celebrazione eucaristica ho reso grazie a Dio con voi, ma
anche per voi: qui la fede, dopo gli anni della persecuzione, ha compiuto meraviglie.
Vorrei ricordare i tanti cristiani coraggiosi, che hanno avuto fiducia nel Signore e sono
stati fedeli nelle avversità. Come fece san Giovanni Paolo II, a voi tutti rivolgo le parole
dell’Apostolo Pietro: «onore a voi che credete!» (1 Pt 2, 7; Omelia, Baku, 23 maggio
2002: Insegnamenti XXV, 1 [2002], 852). Il nostro pensiero va ora alla Vergine Maria,
venerata in questo Paese non solo dai cristiani. A Lei ci rivolgiamo con le parole con le
quali l’Angelo Gabriele Le recò il lieto annuncio della salvezza, preparata da Dio per
l’umanità. Nella luce che risplende dal volto materno di Maria, rivolgo un cordiale saluto
a voi, cari fedeli dell’Azerbaigian, incoraggiando ciascuno a testimoniare con gioia la
fede, la speranza e la carità, uniti fra di voi e con i vostri Pastori. Saluto e ringrazio in
modo particolare la famiglia salesiana, che si prende tanto cura di voi e promuove
diverse opere di bene, e le Suore Missionarie della Carità: proseguite con entusiasmo la
vostra opera al servizio di tutti! Affidiamo questi voti all’intercessione della Santissima
Madre di Dio e invochiamo la sua protezione per le vostre famiglie, per i malati e gli
anziani, per quanti soffrono nel corpo e nello spirito. Dopo la preghiera mariana e la
benedizione finale, il Papa ha aggiunto. Qualcuno può pensare che il Papa perde tanto
tempo: fare tanti chilometri di viaggio per visitare una piccola comunità di 700 persone,
in un Paese di 2 milioni... Eppure è una comunità non uniforme, perché fra voi si parla
l’azero, l’italiano, l’inglese, lo spagnolo...: tante lingue... È una comunità di periferia. Ma
il Papa, in questo, imita lo Spirito Santo: anche Lui è sceso dal cielo in una piccola
comunità di periferia chiusa nel Cenacolo. E a quella comunità che aveva timore, si
sentiva povera e forse perseguitata, o lasciata da parte, dà il coraggio, la forza, la
parresia per andare avanti e proclamare il nome di Gesù! E le porte di quella comunità di
Gerusalemme, che erano chiuse per la paura o la vergogna, si spalancano ed esce la
forza dello Spirito. Il Papa perde il tempo come lo ha perso lo Spirito Santo in quel
tempo! Soltanto due cose sono necessarie: in quella comunità c’era la Madre - non
dimenticare la Madre! -; e in quella comunità c’era la carità, l’amore fraterno che lo
Spirito Santo ha riversato in loro. Coraggio! Avanti! Go ahead! Senza paura, avanti!
AVVENIRE
Pag 3 La concretezza della vita per disinnescare il gender di Chiara Giaccardi
Ideologie e antropologia, la lezione del Papa. Accanto e in relazione: ecco il realismo
evangelico
Ancora una volta papa Francesco ha scelto un contesto informale – la conferenza coi
giornalisti sull’aereo di ritorno dal Caucaso, dopo averne già accennato pubblicamente a
Tbilisi – per regalare parole-guida. Perché, come un padre, non si limita a pronunciarsi
in pochi momenti ufficiali, ma sa cogliere ogni occasione per trasformarla in opportunità
di discernimento: una pratica, quest’ultima, che richiede la piena partecipazione
individuale, ma non è mai individualistica, bensì piuttosto comunitaria. Parlando ai
giornalisti il Papa non emette sentenze da riportare nei media, ma invita tutti a un
cammino, accompagnandosi a vicenda e dando per primo l’esempio. Anche le parole
pronunciate sulla delicata questione del gender vanno lette in questa chiave, per non
travisarle forzandole in un senso o nell’altro. Accompagnare è un movimento cruciale per
il rinnovamento della Chiesa, nella fedeltà alle sue origini. Non a caso nella Evangelii
gaudium (al n.24), nell’indicare i cinque verbi per la missione della Chiesa, il Papa lo
pone proprio al centro, come modalità che qualifica tutti gli altri (prendere l’iniziativa,
coinvolgersi, fruttificare, festeggiare). È un verbo antiindividualistico (il 'con' è
costituivo) ed è un verbo di movimento, di cammino, di pazienza: non si può mai saltare
direttamente alla meta. E camminando si cade: quindi, insieme ci si può aiutare a
vicenda a rialzarsi. Accompagnare è un dinamismo generato dalla verità, che è amore e
dunque relazione. Ed è da questa prospettiva, accanto e in relazione, che la questione
del gender va affrontata. Gender non è parola demoniaca in sé. Tuttavia, come ogni
voce che definisce un ambito antropologicamente delicato, si presta alle
strumentalizzazioni ideologiche. Un po’ come 'popolo', che è parola preziosa, ma può
venire utilizzata dai populismi e diventare mezzo di mortificazione della libertà e della
dignità. Quella che viene definita 'ideologia gender' compie esattamente questo
passaggio ideologico: dal riconoscere che ogni cultura ha i propri linguaggi, usanze,
modelli per rappresentare il maschile, il femminile e la loro relazione (modelli che
giustamente sono stati e vanno continuamente sottoposti a critica), passa ad affermare
che non c’è (anzi non ci deve essere, perché la normatività è forte) nessun legame tra la
dimensione biologica e l’identità di genere, vista esclusivamente come una scelta
individuale. Come se non solo il nostro corpo, ma anche i nostri legami, la nostra storia
sempre plurale, le speranze di altri su di noi fossero irrilevanti. E come se bastasse un
atto di volontà (che ideologicamente chiamiamo 'libera scelta') per renderli tali. Ci sono
almeno due coppie di dimensioni che rendono intricata la questione: la prima è appunto
individuale/sociale, laddove la nostra cultura è prigioniera di una concezione tanto
assoluta quanto irrealistica del sé. Pensare al genere come pura scelta individuale, come
un armadio di vestiti equivalenti, da indossare e cambiare a piacere, è possibile solo in
una prospettiva di individualismo assoluto. Perfettamente funzionale, tra l’altro, allo
strapotere del sistema tecno-economico. Una posizione che non solo non è realistica
(piuttosto, ideologica) ma nemmeno particolarmente desiderabile, alla fine. Per
cambiare continuamente bisogna essere senza qualità, oltre che senza legami, come
sostengono Miguel Benasayag, Zygmunt Bauman e tanti altri lucidi interpreti della
contemporaneità, certamente non accusabili di bigottismo. L’altra opposizione è
astratto/concreto. La cosiddetta 'teoria gender' astrae dal legame, dalla materialità del
corpo, dalla storia personale per affermare un principio astratto di autodeterminazione
totale che nega ogni vincolo per affermarsi. In un modo che non può che essere
irrealistico, oltre che violento per chi ci sta vicino. Perché la libertà non è cancellare i
vincoli e i legami per paura che ci influenzino, ma assumerli consapevolmente e
responsabilmente, per cercare di cambiare ciò che è disumano, a beneficio di tutti. Non
si è mai liberi contro altri, ma sempre con e grazie ad altri. Il pendolo dell’astrazione
oscilla poi verso l’accettazione incondizionata del dato di fatto, di un particolare
irriducibile e non sottoponibile a critica. Ancora una volta una concezione adolescenziale
della libertà: nessuno mi deve dire cosa devo fare. Papa Francesco ci mostra un modo
diverso di declinare il legame tra il generale e il particolare, che non può che passare
dalla concretezza. Una concretezza che non è però chiusa in sé, autosufficiente, ma
connessa alle altre e al tutto (tutto è connesso, Laudato si’, n.16): un «concreto
vivente» come lo definisce Romano Guardini («L’opposizione polare»), sempre
relazionale. Ciascuno di noi è un intero e non una somma di attributi. Si accompagna la
persona solo quando la si riconosce come un intero. «Non riuscirò mai a ricomporti
interamente / Con tutti i pezzi ben congiunti», scriveva la poetessa Sylvia Plath. La
persona sempre eccede i suoi attributi. Accompagnare richiede l’incontro con l’altro tutto
intero, che è sempre un «inizio vivo» (Guardini), un cambiamento per tutti.
Accompagnare è verbo di reciprocità, non di condiscendenza. È ricordarsi sempre di
partire dalla concretezza, dall’integralità, dalla verità incarnata e situata di ognuno. Che
è un intero in divenire, e non può essere inchiodato d’ufficio a un’azione, una scelta, un
errore: è il tema della misericordia e del perdono. Papa Francesco ci accompagna a
capire la relazione complessa e delicata tra la norma generale – che rimane come
riferimento essenziale – e la concretezza della vita, che non può mai essere ridotta a
una norma astratta. Perché, come ha scritto nella Evangelii gaudium, la realtà supera
l’idea. Non a caso dopo aver illustrato il principio generale (non si può accettare la
colonizzazione ideologica) il Papa ha raccontato una storia vera, che nella sua unicità ha
un tratto di universalità: è infatti nella concretezza delle vite che si può cercare di volta
in volta un equilibrio – guidati dalla verità che è amore – tra la legge e l’uomo, tra il
principio e la vita. Perché l’universale cattolico non è astratto ma concreto: tutto l’uomo
e tutti gli uomini. E non è relativismo, tutt’altro: è realismo evangelico. Che si fonda su
una costitutiva relazionalità. Accogliere, accompagnare, discernere, integrare: tutti verbi
di movimento, di concretezza e di relazione. Modi per articolare la ricchezza della nostra
umanità, senza sacrificarla sull’altare delle ideologie, ma anche senza aver paura delle
domande. È la strada, difficile ma autentica, da cercare di percorrere insieme in questi
tempi di sfide. Senza paura, perché la nostra speranza germoglia sulla promessa di una
pienezza libera.
Pag 3 Figli senza padri, la verità nascosta di Carlo Cardia
La Cassazione che riconosce due mamme
Dopo diverse manipolazioni, culturali e giuridiche, succedutesi nel tempo, la Corte di
Cassazione con una sentenza dei giorni scorsi ha quasi teorizzato che la disciplina della
procreazione debba ispirarsi al principio di non-verità, recependo alcuni profili deprimenti
delle teorie del gender. Ha sostenuto ad esempio che «nessun divieto costituzionale»
inibisce a una coppia dello stesso sesso di «accogliere e generare figli», e ha aggiunto
che «la nozione di vita familiare non presuppone necessariamente la discendenza
biologica dei figli, la quale non è più considerata requisito essenziale della filiazione». Di
qui, la conclusione della sentenza che ha legittimato l’esistenza di due madri per un
bambino, ignorando del tutto la figura del padre, ed evocando perfino l’interesse del
minore ad avere due madri e nessun padre. Negli anni più recenti, insigni giuristi come
Louis Joinet e Stefano Rodotà hanno teorizzato il cosiddetto «diritto alla verità», cioè il
diritto di conoscere come i reali fatti storici che riguardano la collettività e le singole
persone, e combattere ogni forma di occultamento della verità. Con il tempo, questo
diritto s’è occultato proprio nella personalissima materia della procreazione, e s’è
cominciato a negarlo al nascituro, dimenticando, o contraddicendo, princìpi fondamentali
di livello costituzionale e internazionale. Dopo aver stravolto l’articolo 29 della
Costituzione italiana che parla della famiglia come «società naturale», con linguaggio del
tutto chiaro per l’epoca della sua elaborazione, la Cassazione ha ignorato, secondo un
costume deplorevole, gli stessi princìpi delle Carte dei diritti umani. Ha dimenticato, per
rimanere all’essenziale, che la Dichiarazione Universale del 1948 afferma che «uomini e
donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia» (art. 16) e che la
Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 prevede che il fanciullo ha diritto «a
conoscere i suoi genitori ed essere allevato da essi». Se si affermasse il principio che è
lecito tutto ciò che non è scritto nella Costituzione, soltanto perché allora inesistente o
impossibile, avvieremmo un declino inarrestabile. Questa dimenticanza del diritto si
traduce in una violazione sistemica dei diritti del minore, e determina una narrazione
manipolata, non vera, dell’origine della vita, che s’impone al bambino appena nato per
tutto il corso della sua vita. Si entra così nella seconda fase della applicazione delle
teorie del gender alla realtà familiare. Queste diverse teorie, inaugurate tra gli altri da
John Money, sostengono apertamente che in realtà noi siamo uomini e donne insieme,
quasi un indistinto in cui si mischiamo geni e caratteri opposti, e per il quale va negato
ogni ruolo, anche se esistente in natura. L’identità personale diventa un magma
indefinito che cancella diversità e qualità di ciascuno di noi, e ciò peserà sull’intera
esistenza delle persone: al minore è negato il diritto di conoscere le proprie origini,
diritto che permette di ricostruire l’identità biologica e umana complessiva di un essere
umano, ed è rifiutato arbitrariamente il diritto alla doppia genitorialità e alla crescita
equilibrata che padre e madre possono garantire. La non-verità sull’origine della
persona, teorizzata e praticata quasi sistematicamente, produce altri effetti già
conosciuti o annunciati: maternità surrogata, nuovi asservimenti del corpo e della
persona della donna, manipolazione dei geni per una pluralità di genitori biologici,
stravolgimento della semantica su filiazione e famiglia; infine, anche l’imposizione delle
teorie del gender nella scuola e nella formazione dei giovani. Le parole pronunciate da
papa Francesco sabato scorso in Georgia sui rischi che le teorie del gender fanno correre
all’umanità, vanno alla radice di questo declino etico e giuridico, per ristabilire la verità
più semplice e grande sulla persona. Esse ci avvertono che queste teorie tendono
strategicamente a colpire il matrimonio in quanto tale, e la famiglia stessa come
comunità di genitori e figli che realizzano l’incontro di generazioni necessario allo
sviluppo dell’umanità. Oggi, addirittura, cercano di deformare il progetto educativo per i
giovani, anticipando così la soggezione dell’uomo alla pure tecnica biologica. Noi stiamo
sperimentando, e vivendo, i primi danni e rischi evocati dal Papa, che colpiscono i più
deboli, per favorire la soddisfazione di esigenze che i più forti fanno valere nel libero
mercato dei desideri. Dobbiamo riflettere, e interrogarci se le pretese della cultura del
gender possa ottenere qualche radicamento nella società moderna. Nonostante la forte
pressione mediatica, l’accondiscendenza di parte del mondo politico e l’entusiasmo di
alcuni ambienti intellettuali, verrebbe da dire di no per due essenziali ordini di ragioni.
Perché si tratta di pretese così contrarie all’intima natura, e alle più alte aspirazioni della
persona, che non riusciranno a far regredire la civiltà giuridica rispetto a conquiste
maturate nei secoli, e in modo particolare nella modernità. E perché già oggi urtano e
feriscono la vita reale, l’esperienza delle persone. Sempre più spesso, in diversi Paesi
occidentali, i giovani nati con le tecniche procreative che occultano i genitori (e
dimezzano la famiglia, con la figura dei genitori unisex) chiedono con insistenza, e si
associano in gruppi per rafforzare la richiesta, di conoscere i propri veri genitori, poi di
incontrarli e sapere tante cose su sé stessi. Soffermiamoci su un elemento importante.
Anche solo il rispetto del diritto (già codificato) della persona a conoscere i propri
genitori, vanificherebbe buona parte delle manipolazioni procreative che chiedono
legittimità, dal momento che al riconoscimento dei veri genitori seguirebbe l’inevitabile
assunzione di responsabilità per la crescita e i bisogni dei figli. Questa riflessione lascia
intravedere che il dominio della tecnica sull’uomo non è inevitabile, trova ostacoli nel
profondo della coscienza, rafforza l’impegno per fare leggi giuste sullo snodo essenziale
della nascita e dell’identità della persona.
Pag 9 Tanti gruppi cristiani lgbt “seguiti” in parrocchia di Luciano Moia
La mappa delle presenze nel Rapporto 2016 curato dal Forum dei credenti omosessuali
Accogliere, accompagnare e integrare tutte le persone che desiderano essere
abbracciate dalla Chiesa, indipendentemente dalla loro condizione di vita. L’ha detto più
volte Francesco e l’ha scritto in modo esplicito in Amoris laetitia, raccogliendo le
indicazioni arrivate da tutta la Chiesa, attraverso due Sinodi e due questionari diffusi in
tutte le diocesi del mondo. Nessuno stupore quindi per la sua nuova sottolineatura sulla
necessità da parte delle comunità cristiane di «accogliere e accompagnare omosessuali e
trans, perché così farebbe Gesù». Parole chiare che rappresentano una stringente
indicazione pastorale. Lontano dai riflettori e al riparo dalle polemiche che alcuni
indefessi defensores fidei sono pronti a scatenare non appena si accenna a proposte
pastorali per le persone omosessuali, le iniziative in Italia non sono poche. Le offerte
arrivano soprattutto da parrocchie, diocesi, associazioni e congregazioni religiose.
L’Ufficio famiglia della Cei ha avviato nei mesi scorsi una ricognizione per fare chiarezza
sulle varie iniziative e per allargarne la diffusione, «affinché coloro che manifestano la
tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare
pienamente la volontà di Dio nella loro vita » (Al, 250). I risultati stanno arrivando. Nei
prossimi mesi il quadro completo. Una nuova attenzione valutata positivamente anche
dagli stessi gruppi di omosessuali cattolici. Nei giorni scorsi è stato presentato il
Rapporto 2016 dei cristiani lgbt, curato da Giuliana Arnone dell’Università di Padova, che
offre dati interessanti su 21 gruppi dei 28 esistenti (circa 600 persone in tutta Italia). Il
70% di queste realtà viene ospitato nelle parrocchie. Il 19% in strutture di ordini
religiosi (missionarie di Maria, suore domenicane, gesuiti e camaldolesi). Un altro 19% in
realtà legate alle Chiese valdesi e metodiste. In un solo caso (il gruppo Bethel di
Genova) in edifici appartenenti a istituzioni pubbliche. Chi è ospitato in parrocchia
partecipa regolarmente alla Messa, all’animazione liturgica, a veglie e ritiri. Ma anche
all’attività caritativa e culturale. Cinque gruppi lgbt hanno anche un loro rappresentante
nel Consiglio pastorale. L’ospitalità in parrocchia – si legge ancora nel Rapporto – è stata
agevolata dalla conoscenza con un sacerdote che spesso è lo stesso parroco. In alcuni
casi (Parma, Bologna, Padova) il dialogo è stato avviato con il vescovo. Quasi la metà
dei gruppi (42%) è stato invitato a parlare della propria storia nelle parrocchie.
«Sorprende – prosegue il documento – l’apertura di alcuni gruppi scout che hanno
raccolto le testimonianze del 29% dei gruppi». Cosa spinge queste persone ad
avvicinarsi a un gruppo di preghiera? Il 75% ha risposto: «Trovare un posto dove
sentirsi accettati e accolti». Tra le varie motivazioni possibili – era possibile indicarne
anche più di una – c’è poi un 45% che ha scelto «dare il proprio contributo al
cambiamento della Chiesa e della società». Il 52% considera poi abbastanza importante
«coltivare amicizie profonde e durature». È bene dire che, per quanto ben organizzata,
la rete dei cristiani lgbt non esaurisce il ventaglio delle iniziative pastorali. Tra le realtà
più strutturate a livello internazionale c’è l’Apostolato Courage, fondato negli Stati Uniti,
presente in Italia a Roma, Torino e Reggio Emilia. Alcune diocesi hanno poi deciso di
avviare percorsi specifici, con un sacerdote incaricato per l’accompagnamento delle
persone omosessuali credenti ( Torino, Parma e Cremona). «La capacità di integrazione
di chi mette in discussione un modello esistenziale – fa notare don Gian Luca Carrega,
che ricopre l’incarico per l’arcidiocesi di Torino – non è un segno di debolezza ma di
forza; dice di una Chiesa che non si deve arroccare sui valori tradizionali per
sopravvivere, ma è chiamata a esprimere una disponibilità di apertura che permette di
interrogarsi sul suo modo di agire e di comprenderlo più profondamente in uno spirito di
verità e di carità». Don Carrega è anche l’autore dell’introduzione a un saggio che sta
per arrivare in libreria, Omosessuali e trasgender alla ricerca di Dio (Effatà), in cui
Adrien Bail racconta l’esperienza di Jean-Michel Dunand, fondatore a Montpellier
(Francia) della comunità ecumenica Betania in cui vengono accolte persone gay e trans
– ma anche eterosessuali – che vogliono interrogarsi su fede e sessualità. Un progetto di
frontiera che ha il pieno sostegno della Conferenza episcopale francese.
IL FOGLIO
Pag 2 Perché il Papa vuole “accompagnare i gay” ma attacca la teoria gender di
Matteo Matzuzzi
Tra equilibrismi e letture pol. corr. delle sue parole
Roma. L'ultima volta che aveva parlato in modo esplicito di gender, Francesco l'aveva
definito come "l'espressione di una frustrazione". Poco prima - parlando con i giovani
riuniti a Napoli, nel marzo d'un anno fa - parlò di "uno sbaglio della mente umana che fa
tanta confusione". A Tbilisi, sabato, aveva usato una delle metafore più gravi nel registro
che è solito usare: guerra mondiale contro il matrimonio. Conversando con i giornalisti
sull'aereo che lo riportava a Roma dopo i tre giorni trascorsi nel Caucaso, ha chiarito che
si riferiva "a quella cattiveria che oggi si fa con l'indottrinamento". Il Papa ha raccontato
quanto gli disse un padre francese con un figlio di dieci anni: "Alla domanda 'cosa vuoi
fare da grande' ha risposto: la ragazza! Il padre si è accorto che nei libri di scuola si
insegnava la teoria gender, e questo è contro le cose naturali. Una cosa è la persona che
ha questa tendenza, o anche che cambia sesso. Un'altra - ha aggiunto - è fare
insegnamenti nelle scuole su questa linea, per cambiare la mentalità: io chiamo questo
colonizzazione ideologica". Quanto detto a Tbilisi ha fatto rumore, vuoi perché s'è
trattato di una frase pronunciata all'estero in un viaggio delicato e irto di ostacoli
(palesati con l'assenza ben visibile della delegazione ortodossa alla messa celebrata dal
Pontefice di Roma sabato mattina in Georgia), vuoi perché pronunciata a braccio e
quindi carica dell'emozione che la lettura d'un discorso scritto, corretto e bilanciato non
può offrire. Padre Antonio Spadaro, direttore gesuita della Civiltà Cattolica, ha spiegato
tramite Twitter che il Papa "non intende attaccare teorie" bensì che "si esprime contro le
ideologie, di ogni segno che colonizzano l'esperienza umana". Francesco, però, è stato
ben più chiaro e diretto di quanto tentino di fare le riletture ex post che finiscono
inevitabilmente per diluire nel politicamente corretto il pensiero di Bergoglio. Il
Pontefice, infatti, stava rispondendo a una domanda diretta, postagli da una madre di
famiglia, preoccupata dalle "nuove visioni della sessualità come la teoria gender e la
marginalizzazione della visione cristiana". Come ha precisato il Papa, è necessario
distinguere tra la somministrazione ideologica (che si fa anche a scuola) e le persone
che "si devono accompagnare". "Nella mia vita di sacerdote - ha aggiunto Francesco - di
vescovo e di Papa io ho accompagnato persone con tendenze e anche pratiche
omosessuali. Li ho avvicinati al Signore e mai li ho abbandonati". Ma quando c'è stato da
combattere le tante colonizzazioni ideologiche, Bergoglio spesso si è messo in prima fila,
pur evitando l'arroccamento dietro fortini che ovunque si sono dimostrati facilmente
espugnabili. Nel 2010, mentre in Argentina si discuteva l'approvazione del disegno di
legge che legalizzava il matrimonio e le adozioni omosessuali, l'allora arcivescovo di
Buenos Aires inviò una lettera a un gruppo di monache di clausura in cui esplicitava la
sua posizione sul tema. "E' in gioco - scriveva - l'identità e la sopravvivenza della
famiglia: padre, madre e figli. E' in gioco la vita di molti bambini che saranno
discriminati in anticipo e privati della loro maturazione umana", "è un tentativo
distruttivo del disegno di Dio". Non è - chiariva - "solo un disegno di legge, ma è una
mossa del padre della menzogna che cerca di confondere e ingannare i figli di Dio". Non
più tenero si è mostrato in relazione all'aborto e all'eutanasia, che pure trova diverse
espressioni dialoganti anche all'interno della stessa chiesa cattolica. Ricevendo in
Vaticano l'Associazione dei medici cattolici italiani, disse che "il pensiero dominante
propone a volte una 'falsa compassione': quella che ritiene sia un aiuto alla donna
favorire l'aborto, un atto di dignità procurare l'eutanasia, una conquista scientifica
'produrre' un figlio considerato come un diritto invece di accoglierlo come dono; o usare
vite umane come cavie di laboratorio per salvarne presumibilmente altre".
Pag 2 Albacete, il prete che bastonava i laici poco laici e i cristiani senza Cristo
di Emanuele Boffi
I saggi del sacerdote americano editorialista del NYT
Lorenzo Albacete è stato molte cose nella sua vita. Scienziato, aveva una laurea in
Scienze dello spazio e Fisica applicata, opinionista, scriveva per il New York Times e il
New Yorker e appariva in tv sugli schermi della Pbs e Cnn, scrittore e oratore. Nel 1998
era con Giovanni Paolo II all'Avana e fu lui a intrattenersi con Fidel Castro al termine
dello storico incontro lasciandolo di stucco con qualcuna delle sue battute, tanto che, si
dice, il líder máximo si rammaricò di non aver mai incontrato durante la sua giovinezza
"un prete simile". Perché certamente tra le tante cose che è stato Albacete (1941-2014),
la più importante è che fu un sacerdote felice di esserlo. Stile e mole chestertoniane,
Albacete è stato uno dei punti di riferimento del cattolicesimo americano a cavallo del
millennio, potendo vantare una solida amicizia con Karol Wojtyla, che aveva ospitato
nella sua casa di Washington negli anni Settanta, don Luigi Giussani, alla cui esperienza
ecclesiale aderiva, il cardinale Sean O' Malley che, celebrando le sue esequie, non lesinò
sulle iperboli per descriverne la personalità: "Graham Greene, Evelyn Waugh e García
Marquéz insieme non avrebbero abbastanza immaginazione e genialità per inventarsi un
personaggio come monsignor Albacete". Estroverso e pirotecnico, godeva nello stupire
gli interlocutori adottando punti vista eterodossi, per poi arrivare al punto della
questione argomentando spericolatamente sul filo del paradosso. Il Weekly Standard lo
definì un "Erasmo da Rotterdam rivisitato da Rabelais"; lui, più modestamente, si
presentava come un sacerdote tabagista, dato che "se il fumo fa male, non ci restano
che le Marlboro". A circa due anni dalla scomparsa, l'editore Marietti ha mandato in
stampa una raccolta di saggi e interventi pubblici ("Realtà e ragione", 91 pp., 12 euro)
in cui il monsignore d'origine portoricana si mette a ragionare su due tendenze parallele
della società moderna: il "laicismo senza laicità" e il "cristianesimo senza Cristo".
Raccontando del proprio rapporto con i redattori delle testate liberal che ospitavano i
suoi interventi, Albacete nota che "lo stesso mondo secolare ha capito che il secolarismo
radicale ha fallito" e che nemmeno "l'ideologia dell'ambiguità" è adatta a "difendere la
libertà contro l'intolleranza". E' per questo, argomenta, che "i miei amici secolaristi sono
spaventati": si sono ormai accorti che "la verità viene a coincidere con le opinioni dei più
forti" e, tuttavia, "hanno paura di desiderare e aspettarsi troppo. Perché? Perché ciò
necessariamente porta alla religione, ed essi sono terrorizzati dall' intolleranza e dalla
violenza che la religione ha portato nella società". D'altro canto, nemmeno il
cristianesimo e i suoi rappresentanti appaiono in salute. Albacete condivide gran parte
delle osservazioni esposte da Curtis White in un articolo su Harper' s Magazine a
proposito della spiritualità americana, e in particolar modo del cristianesimo, definito
come un "minestrone", "aria fritta", una roba "che si può vincere con i punti premio e
cinque dollari". Una sorta di "eresia senza ortodossia, l'eresia come ortodossia", dove
Yahweh e Ball convivono in armonia e "ognuno è libero di credere quel che vuole". Con
un paradosso: "Stranamente la nostra libertà di credere ha creato la situazione che
Nietzsche chiamava nichilismo, ma per una via mai immaginata prima". Mentre i
nichilisti europei si limitavano a negare Dio, "il nichilismo americano è un'altra cosa. Il
nostro nichilismo è la nostra capacità di credere a tutto e qualsiasi cosa allo stesso
tempo. E' tutto Dio!". Alle due tendenze, Albacete oppone una descrizione del
cristianesimo e della chiesa non ridotta a "richiamo moralistico, esortazione e istruzione"
ma atta a recuperare il senso delle due parole che danno titolo al volume - realtà e
ragione - in chiave fattuale ed esperienziale. Insomma, come di qualcosa che "accade
attraverso qualcuno, in un momento dato e in un luogo dato". Altrimenti, dice, ci stiamo
solo baloccando in evanescenti dispute dialettiche, ma allora sarebbe meglio ammettere
che "anche Gesù ha fallito".
Pag 2 Così chiese e sacerdoti cristiani finiscono sotto attacco anche in Italia di
Andrea Bonicatti
Insulti e dissacrazioni (sottovalutati) all’altare
Roma. Siamo abituati a vedere scene di profanazione di chiese e maltrattamenti a
religiosi e fedeli quasi quotidianamente nelle zone sconvolte da conflitto nel medio
oriente. Nei territori controllati dall'Isis e da altri gruppi jihadisti, i luoghi di culto cristiani
e i loro fedeli sono esposti a vessazioni di ogni sorta. Quest'estate si è verificato un
attacco senza precedenti anche sul suolo europeo. La barbara esecuzione di padre
Jacques Hamel a Rouen, in Francia, sgozzato davanti all'altare della sua parrocchia per
mano di due jihadisti, ha scosso profondamente credenti e non. Mentre questi fatti
eclatanti trovano ampio risalto nei mezzi di informazione, sfugge ai più una lunga serie
di piccoli attacchi alle chiese sul territorio italiano. Questi prendono per lo più forma di
furti, insulti o altri atti di piccola criminalità che spesso sono sbrigativamente derubricati
a meri atti di vandalismo. Eppure, fatte le debite e necessarie proporzioni, si tratta
spesso - anche in questo caso - di attacchi mirati alle chiese come simbolo di
un'istituzione. Il caso più recente è avvenuto tra venerdì e sabato scorsi, e ha avuto
come protagonista un ghanese di 39 anni. L'uomo, in meno di 24 ore, è entrato in
quattro diverse chiese romane e ne ha danneggiato le statue all'interno, prima di essere
arrestato dai Carabinieri e trasferito in carcere con l' accusa di vilipendio alle istituzioni
religiose con l'aggravante dell' odio religioso. Nel corso dell' ultimo anno si sono verificati
diversi episodi simili. Ad esempio, a luglio, il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ha
dato esecuzione a decreti di espulsione per due marocchini. Il primo aveva scagliato a
terra, danneggiandolo, un crocifisso settecentesco nella chiesa di San Geremia a
Venezia. Il secondo, nel 2015, era entrato in una chiesa inveendo contro i fedeli e contro
la religione cattolica. In un'altra circostanza, a Chieti, degli ignoti hanno aggredito una
statua raffigurante il Cristo fuori dalla chiesa di San Francesco Caracciolo. La scultura in
bronzo e marmo è stata decapitata di netto. In altre occasioni, non vi sono solo stati
danni a oggetti o parole ingiuriose, ma anche furti e violenza fisica. Il 19 dicembre 2015,
due uomini incappucciati sono entrati in una parrocchia nel salernitano e hanno costretto
il sacerdote a rivelare dove custodisse i soldi. Avuta l'informazione, i due hanno legato il
parroco a una se dia e lo hanno chiuso nel bagno della canonica, per poi darsi al
saccheggio di tutti gli oggetti di valore che hanno trovato. Uno dei criminali, un albanese
di 24 anni, è stato successivamente arrestato dalle forze dell'ordine. Il desiderio di
trafugare i soldi delle elemosine invece ha spinto un gruppo di sei minorenni a introdursi
in una parrocchia di Saluzzo nel settembre del 2015. Non avendoli trovati, hanno
devastato e imbrattato la chiesa, e dato fuoco alle pagine di un messale. Ancora più
inquietante sono stati gli episodi verificatisi a luglio nella chiesa di Sant' Elena,
all'Annunziata. In due occasioni qualcuno è entrato causando ingenti danni. Una statua
della Madonna è stata distrutta e la sua testa rubata, un tabernacolo è stato scardinato
dal muro e poi danneggiato ripetutamente, le ostie contenute nella pisside sono state
sparse per il pavimento, le reliquie di Sant'Elena sono state trafugate ed è stato trovato
un biglietto scritto a penna indirizzato al sacerdote. Su di esso, in inglese, vi era un
invito a andare all' inferno. Questi attacchi dovrebbero essere un segnale d' allarme su
un fenomeno inquietante. Sono episodi che gettano luce su quella che Joseph Weiler ha
chiamato la "cristofobia" nel vecchio continente.
LA NUOVA
Pag 37 Francesco e la “guerra mondiale di idee” che vuole distruggere la
famiglia di Orazio La Rocca
«È in corso una guerra mondiale di idee per distruggere la famiglia». Francesco, Papa
pastorale, vicino alla gente, ai più bisognosi, amato da tutti, anche non credenti e
diversamente credenti. Ma anche papa politicamente scorretto ed imprevedibile. Capace
di dire le sue verità senza timore di perdere consensi e facili applausi. Come ha
dimostrato nella visita in Georgia, nella prolusione pronunciata a Tiblisi, dove
all’improvviso “schiaffo” ricevuto dalla delegazione ortodossa che, senza preavviso, non
ha assistito alla Messa allo stadio, ha reagito con un suo personalissimo “ceffone”
mollato a quanti - a suo dire - «stanno minando le fondamenta della famiglia cristiana e
della tradizionale morale cattolica». Un avvertimento - destinatari non le poche migliaia
di georgiani che lo stavano ascoltando - lanciato a livello planetario, al punto da
sostenere che «contro la famiglia è in corso un conflitto mondiale di natura ideologica».
Parole scagliate come pietre contro quanti - partiti politici, lobbi, intellettuali non in linea
col verbo cristiano-cattolico - si battono, ad esempio, per il riconoscimento di unioni
matrimoniali non “necessariamente” tra un uomo e una donna, diritto all’aborto e difesa
della teoria gender, sostenuta da quanti teorizzano le differenze tra i sessi non su base
biologica o fisica, ma su componenti di natura sociale, culturale e comportamentale. Tesi
contraddette da sempre dai canoni delle gerarchie cattoliche e dai documenti papali che
non si sono mai distaccati dall’insegnamento della tradizione biblica che da sempre
ricorda che Dio “maschio e femmina li creò”. Come, a livello di principi generali, ha
sempre fatto e detto Bergoglio sia da vescovo che da pontefice in linea con i suoi
predecessori, anche se nei suoi primi tre anni di pontificato forse non è stato mai tanto
esplicito come nell’intervento fatto in Georgia, dove quasi all’improvviso ha ricordato che
è giunta ormai l’ora di «sanare le ferite del corpo di Cristo», già martirizzato dalle
«divisioni dei cristiani», ma ora ulteriormente «massacrato» dalla «guerra mondiale in
corso contro la famiglia basata sull’unione tra un uomo ed una donna, e la difesa della
vita dal concepimento fino alla fine naturale». Parole che hanno fatto sobbalzare quei
tanti fan bergogliani non cattolici, politicamente orientati a sinistra, ma anche cattolici
cosiddetti progressisti aperti alle novità e al confronto con le nuove istanze sociali, che
hanno sempre simpatizzato per il papa argentino, specialmente da quando si chiese
pubblicamente «chi sono io per giudicare una persona gay che sinceramente cerca
Dio?». Un interrogativo salutato con soddisfazione dalla stragrande maggioranza
dell’opinione pubblica, ma con particolare entusiasmo da quei movimenti politici
omosessuali i quali per la prima volta ebbero la sensazione di avere a che fare con un
pontefice disposto ad ascoltare le loro esigenze senza pregiudizi e condanne preventive.
Entusiasmi messi a dura prova dall’attacco sferrato da Bergoglio in Georgia agli
“aggressori” della famiglia e ai «fautori delle teorie gender che - parola di papa
Francesco - vogliono distruggere con le idee la cosa più bella che Dio ha creato», vale a
dire l’uomo e la donna. Una “bellezza”, è stato il ragionamento del pontefice, resa
palpabile dal fatto che «l’uomo e la donna che si fanno una sola carne attraverso il
vincolo matrimoniale sono l’immagine di Dio». Per cui, «se si divorzia si sporca
quell’immagine divina e i primi a pagarne le conseguenze sono i figli». Che dire? In
Georgia papa Francesco ha messo un freno a quanti lo vedono come campione del
progressismo e delle aperture sociali, a partire dai diritti alle coppie omosessuali e alle
unioni gay a scapito della difesa della tradizione? In realtà, nel suo ultimo viaggio
internazionale - il sedicesimo da quando è stato eletto - Francesco ha toccato tasti a cui
non aveva mai rinunciato. La novità è la chiarezza di esposizione e, se vogliamo, la
sorpresa. Specialmente da parte di chi confondendo la sua forza pastorale, cioè la scelta
di stare da sempre accanto alle sofferenze degli ultimi (prima in Argentina, ora a Roma,
dentro e fuori il Vaticano, e nelle periferie del mondo), con le verità (teologiche, morali,
sociali...) a cui non ha mai rinunciato. Verità che, comunque, non gli impediscono di
dialogare con tutti, ascoltare chi soffre, chi vive nel disagio al di là di orientamenti
politici, religioni, scelte sociali e orientamenti sessuali. Senza rinunziare ai princìpi
cardini della tradizione cristiana.
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Il Papa e i gay: distinguere peccato da peccatore è cristiano di Andrea Tornielli
La risposta di Francesco che racconta come sia sempre stato vicino alle persone
omosessuali spiazza “relativisti” e “rigoristi” ma getta anche una luce interessante sulla
vita della Chiesa
Le dure parole sull’«indottrinamento» gender pronunciate da Papa Francesco sabato 1°
ottobre a Tbilisi, reagendo a braccio alla testimonianza di una giovane madre di famiglia,
hanno fatto il giro del mondo. Non contenevano particolari novità, se non l’immagine
della «guerra mondiale» contro il matrimonio: già più volte infatti il Pontefice argentino
si era espresso contro le «colonizzazioni ideologiche» citando esplicitamente il gender.
Chi segue da lontano certe affermazioni papali ed era rimasto a suo tempo colpito dal
«chi sono io per giudicare?» ha però faticato a mettere a fuoco le affermazioni di
Bergoglio dalla Georgia, quasi risvegliandosi da un sogno. Quello secondo il quale il
peccato non esisterebbe più. Nel volo di ritorno da Baku, dialogando con i giornalisti, il
Papa ha risposto a una domanda sul gender e sull’atteggiamento del pastore di fronte
alle persone che soffrono per la loro identità sessuale. Francesco, senza modificare di
una virgola le sue critiche sul gender, ha detto di aver accompagnato e «avvicinato al
Signore» persone con tendenza omosessuale, persone che praticano l’omosessualità e
anche transessuali. Ha detto di averlo fatto da prete, da vescovo e anche da Papa.
Ancora parole che hanno colpito la sensibilità di molti. Un atteggiamento che di
accoglienza, di apertura, perché Gesù «sicuramente non dirà: “Vattene via perché sei
omosessuale!”, no». Qualcuno forse si sorprenderà perché non si era abituati a sentir
dire questo dai Papi, ma - ancora una volta - Francesco ha semplicemente fatto il prete.
La distinzione tra l’errore e l’errante, tra peccato e peccatore, non è un’invenzione
bergogliana ma appartiene alla tradizione cristiana. Dovrebbe richiamare l’attenzione,
piuttosto, il fatto che parole di accoglienza vengano interpretate o strumentalizzate sia
dai «relativisti» che dai «rigoristi» come la fine annunciata di qualsiasi regola in materia
di morale sessuale. Una bella notizia per i primi, l’apocalisse per i secondi. In entrambi i
casi manca l’immedesimazione con lo sguardo di Gesù che prova compassione e usa
misericordia, con la parabola del Buon Pastore che lascia le novantanove pecore per
cercare quella smarrita. Per i primi ogni mezza frase del Pontefice viene ridotta a slogan
e tradotta come «liberi tutti!». Per i secondi ogni accento pastorale di misericordia, ogni
richiamo all’accoglienza e al discernimento delle diverse situazioni, suona come una
pericolosa forma di «buonismo». L’esempio illuminante per descrivere la situazione della
Chiesa contemporanea, lo ha fornito a Francesco il transessuale spagnolo Diego Neria
Lejárrag. È un esempio che vale tutta l’intervista. Così lo ha raccontato il Pontefice: «Nel
quartiere dove lui (il transessuale, ndr) abitava c’era un vecchio sacerdote, ottantenne, il
vecchio parroco, che aveva lasciato la parrocchia… E c’era il nuovo (parroco). Quando il
nuovo lo vedeva, lo sgridava dal marciapiede: “Andrai all’inferno!”. Quando trovava il
vecchio, questo gli diceva: “Da quanto non ti confessi? Vieni, vieni, andiamo che ti
confesso e così potrai fare la comunione”». Colpiscono questi atteggiamenti così diversi.
Il prete più giovane aveva già condannato Diego. Il prete più anziano, formatosi nella
Chiesa degli anni Cinquanta, cercava di avvicinarlo e di accompagnarlo. Quando era
arcivescovo a Buenos Aires, a chi gli chiedeva che cosa avrebbe voluto si scrivesse sulla
sua lapide, l’attuale Pontefice aveva risposto: «Jorge Mario Bergoglio. Prete». E non è
difficile immaginare in quale dei due sacerdoti citati nell’esempio lui si identifichi,
suggerendo agli altri di fare altrettanto. Quando si entra in contatto con le vite, le
sofferenze, le esperienze talvolta drammatiche delle persone, in qualsiasi condizione
queste si trovino, ha spiegato il Papa durante l’intervista in aereo, c’è da immedesimarsi
con lo sguardo di Gesù. Lo faceva notare già sant’Ambrogio, nel «De Abraham»: «Dove
si tratta di elargire la grazia, là Cristo è presente; quando si deve esercitare il rigore,
sono presenti solo i ministri, ma Cristo è assente». L’esempio raccontato a Francesco dal
transessuale spagnolo descrive bene la differenza tra quanti si dedicano a fare i
«ripetitori» di dottrine astratte senza mai veramente coinvolgersi con gli uomini e le
donne «feriti». E quanti, invece, non dimenticano che la Chiesa «non è al mondo per
condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia
di Dio».
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La sfiducia dei giovani ignorati di Dario Di Vico
Quei segnali inattesi
Un’indagine condotta da Acli e Cisl su un campione di ventenni romani e presentata ieri
ha destato più di qualche attenzione perché, in base a un inedito «indice di
arrendevolezza» predisposto dai ricercatori, ci racconta che due terzi dei giovani pur di
trovare un posto di lavoro sarebbero disposti a rinunciare alle sacre conquiste dei padri e
delle madri. Ferie, copertura della malattia, indennità di maternità. È la prima volta che
a livello di rappresentazione collettiva emerge un orientamento così remissivo, finora un
certo tipo di comportamenti eravamo abituati a rintracciarli in scelte individuali e
comunque isolate. È un dato, quello romano, che di conseguenza colpisce e di cui ci sarà
tempo e modo di vagliare la reale profondità. Non dobbiamo però escludere a priori
l’ipotesi più drastica, ovvero che mentre noi ci accapigliavamo sull’aderenza o meno
delle norme del Jobs act ai consolidati principi della cultura del welfare i nostri ragazzi,
per paura, ci abbiano sconfessato e siano diventati «selvaggiamente liberisti», sulla loro
pelle per di più. Battute a parte, anche i risultati che giungono da quest’ultima
rilevazione di Acli-Cisl possono essere utili se ci spingono verso una doppia operazione.
La prima è quella di intensificare il lavoro di ricognizione sulle tendenze giovanili, sul
mutamento degli stili di vita e dei riferimenti culturali di una generazione «esclusa» per
descrivere la quale siamo arrivati persino a usare - con il termine apartheid - il lessico
del Sudafrica pre-Mandela. Mi è capitato più volte di dire che il tratto saliente della
disuguaglianza in Italia non si concretizza tanto in un’iniqua distribuzione del reddito
quanto nel fossato che divide le generazioni come mai era successo in passato, ma di
questa piccola verità il sindacalismo italiano fatica a prendere atto. La seconda è
un’operazione che può apparire più tradizionale e che invita a non demordere nella
ricerca delle policy destinate a combattere attivamente la disoccupazione. Purtroppo in
Italia si è abituati ad accogliere i dati, sovente contraddittori dell’Istat o dell’Inps, con
commenti da stadio più che dolersi o comunque interessarsi del merito. Con il Jobs act il
governo aveva pensato di utilizzare l’auspicata ripresa economica per stabilizzare una
quota significativa del precariato e su questa opzione ha scommesso una generosa posta
di bilancio. Purtroppo il ciclo economico non ha assecondato quest’indirizzo e la manovra
ha prodotto dei risultati ma non quelli che avevamo sognato. Con il senno di poi si può
osservare come le nuove norme avrebbero avuto bisogno di un accompagnamento più
largo, di creare sinergie con le politiche attive e più in generale di dotarsi di una bussola
per navigare in quella che viene definita la grande trasformazione del lavoro. È vero
infatti che continuano a convivere alti tassi di disoccupazione con l’impossibilità di
trovare sia saldatori italiani da assumere nell’industria cantieristica sia giovani che siano
disposti a lavorare da un fabbro o più in generale a imparare i tradizionali mestieri
artigianali. Ed è anche vero che un mercato alle prese con crescenti fattori di incertezza
continua a richiedere flessibilità estrema fino a forzare indebitamente strumenti come i
voucher, i tirocini e gli stage. Assodato quanto sia difficile mettere le briglie a un
mutamento che ha carattere persino epocale, a questo punto però il rischio sembra
essere un altro e assai contingente: che la politica italiana disillusa dai risultati ottenuti
in materia di occupazione decida di cambiare cavallo. Di scommettere su un’altra
constituency, magari elettoralmente più affidabile come sembra essere quella dei
pensionati. I segnali (evidenti) ci sono e il pericolo che i grandi assenti della legge di
Bilancio 2017 alla fine siano i giovani e il lavoro appare in questi giorni elevato.
Andrebbe evitato invece che le politiche economiche assomigliassero a un bricolage del
consenso, a un tirar fuori dal mazzo la carta giudicata più adatta per giocare la partita
del momento.
Pag 41 L’angosciante rivoluzione demografica di Ernesto Galli della Loggia
Un saggio di Ugo Intini
C’è una patologia all’apparenza inevitabile dei regimi democratici: il «presentismo». Cioè
la fisiologica difficoltà dei loro governi nel prendere decisioni atte a contrastare quei
fenomeni di lunga durata che richiedono contromisure sui tempi lunghi, politiche che
magari durano anni e anni. Di regola, insomma, le democrazie decidono spingendo lo
sguardo mai oltre la più vicina scadenza elettorale. È anche per questo che la rivoluzione
demografica - cioè il forte calo della natalità che si verifica da anni in tutto l’Occidente,
ma che in Italia è sempre più vertiginoso - ci trova del tutto impreparati e può
manifestare tutti i suoi effetti devastanti. Sui quali si leggono ora con molto profitto le
pagine intelligenti di Ugo Intini ( Lotta di classi tra giovani e vecchi? , prefazione di
Giuseppe De Rita, Ponte Sisto, pp. 160, e 12), divenuto da esponente di punta del
socialismo riformista italiano un appassionato saggista. Si tratta di pagine che non si
leggono senza che nasca dentro un’angoscia sottile. Le cifre da sole sono impressionanti.
L’Europa, che ancora nel 1900 rappresentava oltre un quarto dell’umanità, nel 2050
ospiterà sì e no il 5 per cento degli abitanti della Terra. Negli Stati Uniti si calcola che più
o meno entro il 2043 i bianchi di origine europea diventeranno una minoranza. Per
parlare di noi, invece, già nel 2030, cioè in pratica domani, gli ultrasessantenni
costituiranno la metà della popolazione italiana, mentre del poco più di mezzo milione di
bambini che sono nati nella Penisola nel 2014, un’assoluta maggioranza (398.540)
aveva almeno uno dei genitori non italiano. Ma il cuore del libro di Intini si sofferma
come è ovvio non tanto sulle cifre, quanto sulle conseguenze che presumibilmente esse
avranno o stanno già avendo. A cominciare da un certo diffuso venir meno nei più
diversi ambiti sociali di questa parte del mondo della vitalità, del coraggio di rischiare e
di gettarsi in imprese nuove, della fantasia e della capacità inventiva. La vecchiaia,
osserva giustamente il nostro autore, non è mai stata un motore dello sviluppo, e quella
italiana è più delle altre, ormai, una società di vecchi. Lo sanno a loro spese i giovani. Al
loro elevatissimo tasso di disoccupazione fa da contrappunto il fatto emblematico che nel
nostro Paese le pensioni impegnano già oggi risorse quattro volte superiori a quelle della
scuola, e il doppio la sanità (il cui bilancio, dal canto suo, è assorbito per il 50 per cento
dall’assistenza sanitaria destinata agli anziani). Tutto si riflette come è ovvio in un
impoverimento generale. Si rovesciano contemporaneamente antichi paradigmi e
antiche illusioni di progresso che sembravano iscritti nella natura stessa delle cose. La
scolarità decresce, decresce il numero dei laureati, mentre si profilano fenomeni per
l’innanzi impensabili, come la sempre più percepibile concorrenza sul piano sessuale tra
maschi anziani in grado di disporre di maggior reddito e maschi giovani più poveri,
probabilmente destinati a restare tali; mentre aumenta di conseguenza il numero dei
padri ultracinquantenni, nonché l’ammontare delle vendite del Viagra e dei cosmetici
maschili. Ma la rivoluzione demografica e il conseguente invecchiamento, oltre il
costume, cambiano ovviamente anche la politica. Società di anziani come le nostre non
sono più capaci di immaginare il futuro, di fare progetti in grande, si barricano dietro
politiche deflazionistiche e di austerità, per loro natura incuranti dello sviluppo che
servirebbe ai giovani, e che invece garantiscono i risparmi di chi ha potuto risparmiare, e
cioè in genere dei vecchi. È difficile non concludere che forse non è il profetizzato
tramonto dell’Occidente: certo però è qualcosa che gli assomiglia molto.
AVVENIRE
Pag 1 Una lezione tedesca di Leonardo Becchetti
Caso Deutsche Bank e biodiversità bancaria
«Niente paura. I nostri traders sono tra i più sofisticati al mondo», ha affermato
Deutsche Bank per cercare di calmare i mercati a seguito delle preoccupazioni sulla sua
sostenibilità dopo la multa Usa, il minimo storico in Borsa e la fuga di alcuni hedge fund.
È proprio questa dichiarazione che preoccupa. Non c’è ovviamente da gioire per i
problemi della banca tedesca che è esposta in derivati per un valore che supera di 15
volte il Pil tedesco e 3 volte il Pil dell’intera Unione Europea, perché una sua eventuale
crisi coinvolgerebbe tutti. E da tempo sottolineiamo – assieme ad altri autorevoli colleghi
economisti – come le autorità di regolamentazione siano state troppo indulgenti in questi
anni verso un istituto che ha la leva – il rapporto tra capitale proprio e capitale di debito
– più squilibrata in Europa e descrive la propria condizione patrimoniale con sistemi di
rating interno molto sofisticati, ma progressivamente sempre più scollati dal dato crudo
del rapporto, appunto bassissimo, tra capitale proprio e capitale di debito. Con il caso
Deutsche Bank il pendolo della storia dei problemi bancari rischia di essere sul punto di
completare una nuova oscillazione. Siamo partiti nel 2007 con la crisi finanziaria globale
scatenata dai problemi delle banche troppo grandi per fallire (Lehman in primis). Il
dossier dei 'saggi' della Ue (rapporto Liikanen) facendo una rassegna della letteratura
economica in materia sottolineò, allora, come oltre i 50 miliardi di attivo (livelli di una
banca medio-grande, ma non grande o grandissima) non esistono economie di scala,
ovvero benefici economici derivanti dalla crescita dimensionale. Eppure, dopo
pochissimo tempo, il monito del rapporto Liikanen è stato silenziato dai cori che
inneggiavano anche nel nostro Paese al 'risiko', al consolidamento, alla crescita
dimensionale vista come panacea indiscussa dei problemi delle banche. Con il rischio di
giri di valzer senza senso simili a quelli di quei calciatori che cambiano continuamente
squadra a prezzi esorbitanti, arricchendo soprattutto i loro procuratori. Vengono in
mente le acquisizioni non ben digerite e la mania di gigantismo della Popolare di Vicenza
o l’ancora più clamorosa acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi che
segnò l’inizio della crisi che ha distrutto la ricchezza di un territorio accumulata con il
lavoro di secoli e che rappresenta ancora oggi il punto debole non ancora risolto del
nostro sistema bancario. Se nessuno ai tempi del fallimento di Lehman pensò a
cancellare il genere 'grande banca d’investimento' nonostante i problemi del modello
(soprattutto quando la banca è anche banca commerciale), ben presto il coro della
comunicazione ha spostato la sua attenzione sui limiti del modello 'banca di territorio a
voto capitario' con il progetto stavolta di cancellarla dal nostro paese. Per fortuna –
grazie anche all’impegno di questo giornale – ciò non è accaduto del tutto e l’obbligo di
cambiare pelle è stato circoscritto (sia pure con un criterio quantitativo che non piace e
non convince) agli istituti con totale dell’attivo superiore agli 8 miliardi. La situazione
oggi è cambiata e comincia ad esserci consapevolezza nella nostra classe politica di
quanto anche qui si afferma da tempo: lo sviluppo locale ha bisogno di banche di
territorio non massimizzatrici di profitto. Così è in tutte le economie più sviluppate del
mondo incluse quella americana e tedesca. Per la semplice e inconfutabile legge
economica che spinge le grandi banche massimizzatrici di profitto a inseguire margini
elevati per creare valore per i loro azionisti. E dunque tra tutte le attività possibili a
disposizione, a sfuggire (potendo) come la peste i prestiti alle piccole imprese e alle
imprese artigiane. I cui volumi infatti nel nostro Paese continuano a calare come
confermano gli ultimi dati flash disponibili di Confartigianato che rielaborano le
statistiche di Banca d’Italia. I sistemi economici hanno dunque bisogno di un ecosistema
finanziario ricco e diversificato, fatto di grandi banche che sostengono i processi
d’internazionalizzazione delle medio-grandi imprese di successo e di banche di territorio
che aiutano il 'corpaccione' del Paese (imprese artigiane, piccole e medie imprese non
internazionalizzate) a restare a galla e a uscire dalla crisi. L’evoluzione migliore di queste
ultime è quella di banche sociali di mercato che negli ultimi tempi hanno dato ampia
prova in Italia e in molti altri Stati del mondo di saper impiegare una parte molto
maggiore del proprio attivo nel credito, con sofferenze più basse della media del sistema
favorendo l’accesso ai prestiti a imprese razionate dal resto delle banche. Non ha senso
dimenticarci di questo, magnificare soltanto le grandi imprese 'di successo' pensando
che esauriscano il parco degli attori economici perché non è così e perché ogni impresa
adulta 'di successo' lo è e lo può diventare (e restare) nella misura in cui ha avuto o avrà
un’infanzia felice. È lecito sperare che la lezione della storia – anche se in tedesco – sia
questa volta ascoltata e compresa portando a una regolamentazione (e a una
comunicazione economica) che capiscano fino in fondo che la tutela della biodiversità
bancaria è un valore fondamentale e va preservata con scelte regolamentari non 'a
taglia unica' ma adatte a curare i limiti e le debolezze di ciascuna specie.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 2 Le riforme del lavoro. L’impatto in Veneto di Martina Zambon
Mezzo miliardo di incentivi in un solo anno e 220 mila nuovo contratti: 1 su 2 non durerà
Venezia. Quasi mezzo miliardo di euro nel solo 2015, tanto è costato allo stato
l’investimento sulla defiscalizzazione per le nuove assunzioni e le trasformazioni
incentivate in Veneto. Sono stime prudenziali e perciò realistiche (Veneto Lavoro calcola
che le tasse risparmiate dai datori per persona siano 8060 euro l’anno e moltiplica la
cifra per i 117.000 assunti con le defiscalizzazioni. Va da sé che non tutti sono stati
assunti l’1° gennaio ma nel corso dell’anno e quindi la cifra risparmiata a lavoratore
scende a una media di 3700 euro). L’incentivo resiste in forma ridotta anche nel 2016
mentre il ministro Poletti ha detto che difficilmente ci saranno stanziamenti per il 2017.
Ma torniamo ai dati che misurano l’impatto. Sul finire dello scorso anno gli assunti a
tempo indeterminato, di cui una parte a tutele crescenti, hanno sfiorato quota 212.000
(non tutti hanno chiesto la defiscalizzazione). Subito dopo hanno iniziato una lenta e,
sembra, inesorabile discesa arrivando a oggi intorno ai 140.000. Veneto Lavoro ipotizza
due scenari. Il primo, più «catastrofista» ma meno probabile, dice che allo scadere delle
agevolazioni contributive, di posti di lavoro veri restino solo le briciole, 10.000 circa. Il
secondo scenario su cui punta l’agenzia regionale, invece, ritiene che a fine triennio ci si
attesterà poco sotto i 100.000 posti. Vale a dire che un po’ meno di un neoassunto su
due, manterrà il suo lavoro. Per ora, valutando il solo 2015, «resiste» l’85% dei nuovi
posti di lavoro. Dall’occupazione ai macchinari. Fino all’anno scorso sul tavolo c’era la
legge Sabatini che prevede una serie di sconti fiscali. Il Nordest, in cui il Veneto fa la
parte del leone, è la seconda area per numero di richieste presentate: 4702 pari al 39%
del totale con finanziamenti che vanno dai 100.000 fino al milione di euro. La vera
svolta, però, è la norma sul super ammortamento varata esattamente un anno fa dal
governo Renzi. La quota del 150% di sconto fiscale sul valore dell’acquisto ha fatto gola
a molti e visto il tessuto imprenditoriale veneto la ricaduta potrebbe essere doppia: sia
per gli incentivi, sia per l’aumento degli ordini di produzione. Una boccata d’ossigeno
quanto mai necessaria visto che secondo l’ultimo censimento di Ucimu, l’associazione di
categoria, dal 2005 al 2014 il «parco macchine» industriali del Triveneto è calato del
19,9%. L’impatto della riforma del mercato del lavoro varata dal governo Renzi col Jobs
Act, insomma, è sfaccettato e, per questo, difficile da mappare. Non a caso, se si clicca
su «Studi e statistiche» nell’home page del ministero del Lavoro compare una scritta
laconica «not found». Armati di pazienza, spulciamo report su report. Se la parte del
leone la fanno proprio i nuovi contratti di assunzione - che per il 65% sono di fatto
trasformazioni nella stessa azienda di altri contratti - va esaminato anche il peso dei
tirocini. Escludendo quelli curricolari legati agli studi universitari, i numeri in continua
crescita sono degni di nota: 37.000 in un anno da agosto 2015 a agosto 2016. Per
sapere, però, complessivamente, quanti di questi si sono trasformati in una vera
esperienza lavorativa toccherà attendere un paio di mesi. Per ora ci si può basare su due
indicatori: la ricollocazione media (50%) e il certosino osservatorio dell’agenzia regionale
sull’andamento del Programma Garanzia Giovani in Veneto che prevede, appunto, un
tirocinio finale. Dai report di monitoraggio mensili, il 67% dei tirocinanti ha poi
effettivamente lavorato e, fra questi, il 31% è arrivato a superare i 6 mesi di lavoro
(ovvero un quinto del totale tirocinanti). «Un aspetto interessante – rileva Tiziano
Barone, direttore di Veneto Lavoro – è che il 20% dei tirocini è legato a politiche
regionali mentre il resto è connesso a centri per l’impiego, fondazioni e altri soggetti. Il
fatto che il tirocinio non sia spinto da politiche finanziate è positivo, si autosostiene». I
termini, poi, restano gli stessi ma i contenuti cambiano col cambiare delle normative e
degli strumenti: l’apprendistato, nonostante una ripresa (+14% nel secondo trimestre
2016), vive un momento di crisi. I tirocini, invece, sembrano piacere di più e funzionare
meglio con oltre 19.000 aziende ospitanti nel 2015 (+31% rispetto ai due anni
precedenti). Merito soprattutto del meccanismo attivato da Garanzia Giovani, che finora
ha attratto ogni anno oltre 30.000 persone sotto i 30 anni e che al momento
dell’adesione non studiavano e non lavoravano. E se un tempo i tirocini erano legati alle
stagioni, oggi, risultano spalmati nell’arco dell’anno. Un tentativo di «rivoluzione» c’è
stato e il Veneto è fra le regioni che più stanno cercando di quantificare l’impatto reale
delle riforme con da un monitoraggio costante. Però di rivoluzione «zoppa» si tratta visto
che la partita dei Centri per l’impiego è congelata da un anno, ovvero manca il sostegno
promesso agli oltre 140.000 disoccupati in regione di cui metà con un’indennità di
disoccupazione e metà senza. «Dal Jobs Act – spiega Barone – ci aspettiamo una
crescita della disoccupazione senza sostegno perché i tempi della cassa integrazione si
sono ridotti. In tale contesto, il ruolo delle politiche attive diventa decisivo, ma dobbiamo
rilevare il ritardo nell’avvio dell’assegno di ricollocazione per i disoccupati con indennità e
la stentata partenza dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro che
stiamo ancora aspettando». Rincara la dose l’assessore regionale al Lavoro Elena
Donazzan: «Il rischio ora è il referendum. Se le competenze sul lavoro saranno sottratte
ai territori che ne conoscono le specificità e riportate a Roma, si vanificano anni di
impegno. Con Clic lavoro in Veneto abbiamo unificato tutte le piattaforme tecnologiche
dei servizi: 39 centri per l’impiego e 500 sportelli degli operatori accreditati sembrano
dire a Roma che noi l’Anpal ce l’abbiamo già».
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pag 27 Bambini e ragazzi in difficoltà, centro diurno a Villa Elena di s.b.
Inaugurazione a Zelarino
Zelarino. La città può contare su un nuovo spazio dedicato a bambini e ragazzi: il centro
diurno di Villa Elena, lungo la Castellana. Inaugurato nei giorni scorsi, è la
concretizzazione di un progetto che nasce dalla collaborazione tra il Comune e l’Opera
Santa Maria della Carità, che sarà coordinato da un’equipe di professionisti che lavorerà
a stretto contatto con i servizi sociali del Comune. In particolare con quelli che si
occupano di infanzia e adolescenza, garantendo un percorso educativo a bambini e
ragazzi che vivono una situazione di fragilità personale o familiare. «Oggi più che mai
abbiamo la necessità di superare le rigidità del sistema attuale di welfare locale e
regionale, per individuare invece nuovi servizi più agili e flessibili in grado di dare
risposta a persone ed esigenze che altrimenti resterebbero escluse da qualsiasi tipo di
aiuto», ha detto l’assessore alla Coesione sociale, Simone Venturini. «In particolare è
necessario potenziare gli interventi destinati ai bambini e ai ragazzi, affiancando i
genitori in difficoltà. Con questa apertura il nostro territorio beneficerà di un nuovo
servizio in grado di allargare la rete di intervento sociale a protezione dei nostri cittadini
più piccoli». Per l'Opera Santa Maria della Carità è invece intervenuto il presidente
Gianfranco Fiori che ha aggiunto: «Questo progetto è il segno di una collaborazione
feconda tra l’ente pubblico e il privato sociale. Ed è la prova tangibile di che cosa vuol
dire essere non solo professionali, ma anche nella dimensione dell’amore che viene dal
Vangelo. È stato il patriarca Roncalli, poi Papa e oggi santo, a istituire l'Opera proprio
per venire in soccorso ai minori in difficoltà. Oggi il disagio di bambini e ragazzi è
cambiato, perché è cambiata la società, e questo centro diurno risponde alle nuove
esigenze. Ma lo spirito di fondo è rimasto, evangelicamente, lo stesso».
Pag 28 “Non date soldi a quel prete, è un truffatore” di m.a.
L’appello in chiesa di don Lauro dopo le telefonate di uno sconosciuto padre Francesco
Quarto. «Non date soldi a padre Francesco». Telefona nelle case dei residenti altinati, un
tono amichevole, una voce calda e coinvolgente al contempo, dicendo di essere un
religioso di nome Francesco, forse per richiamare al Pontefice o al Santo. È più semplice,
in effetti, sbattere il telefono in faccia a un anonimo il più delle volte antipatico o a una
voce automatica che svolge un’intervista preconfezionata, piuttosto che a una persona la
quale si presenta come tal “padre Francesco”. Quanto meno lo si lascia proseguire. Ecco
perché arrivando al dunque della telefonata, molte delle persone che l’hanno ricevuta e
hanno lasciato parlare il sedicente “padre”, hanno scoperto che stringi stringi, voleva
denaro. Motivo? A quanto pare per un fantomatico servizio trasporto disabili, per il quale
sarebbe servita un’offerta di 20 euro. Più di qualcuno però, ha chiamato in parrocchia,
per saper se il parroco, don Gianpiero Lauro, stava effettuando questa raccolta fondi,
per poi scoprire che in atto non c’era nessun tipo di progetto simile. Denaro la chiesa lo
sta raccogliendo, ma per i restauri, come spesso accade, tutto alla luce del sole, con
tanto di pubblicazione sul foglietto parrocchiale. «Mi hanno chiamato i parrocchiani»,
racconta don Lauro, «domandandomi se avevo per caso dato mandato io a tale padre
Francesco di chiedere denaro. Questa persona, non so con che coraggio, forse ha
formulato il numero a caso senza sapere o gli è sfuggito, ha persino chiamato in
parrocchia domandando denaro». A quel punto, il parroco ha messo in guardia i
residenti. Prima lo ha detto durante la Festa di San Michele, poi ha appeso dei ciclostilati
fuori dalla chiesa. Anche domenica, durante la messa, ha ricordato di non dare soldi a
nessun “padre Francesco”. «Purtroppo le inventano tutte pur di truffare le persone,
soprattutto gli anziani», conclude don Lauro. La parrocchia ha anche avvisato il comando
dei vigili di Quarto.
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8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pagg 6 – 7 Referendum costituzionale, a Nordest vince l’incertezza di Natascia
Porcellato e Annamaria Bacchin
A due mesi dalla consultazione il 33% favorevole al sì, il 27% per il no. Ma gli indecisi
sono il 40%
Per ora in testa i sì (33%) sui no (27%), ma decideranno tutto gli incerti: il 40 per
cento. Il 4 dicembre 2016: data indicata dal Governo per la consultazione referendaria
costituzionale. Secondo i dati analizzati da Demos per Il Gazzettino e pubblicati oggi
all’interno dell’Osservatorio sul Nordest, l’opinione pubblica appare piuttosto perplessa.
Un nordestino su tre (33%) ha deciso di dire "sì" alla riforma della Costituzione proposta
dall’esecutivo. Il 27%, invece, ritiene di dove apporre la croce sul "no" per mantenere
l’attuale assetto. Il 40%, però, non si esprime sulla questione. Tra esattamente due
mesi saremo chiamati a dare un giudizio sulla riforma varata dal Governo e l’attivismo
sul territorio è già iniziato. Le maggiori associazioni di categoria del mondo produttivo e
agricolo si sono schierate a sostegno della riforma, mentre più divisi appaiono i
Sindacati. Ma se le parti sociali sembrano avere le idee già piuttosto chiare, non
altrettanto possiamo dire per i cittadini. Anche guardando a chi ha già deciso di andare a
votare al Referendum Costituzionale, il 39% sostiene il Sì, mentre è il 28% a opporre un
rifiuto. Molto ampia (34%) la percentuale di intervistati che, pur dichiarandosi certa di
recarsi ai seggi, non sa ancora come si esprimerà. Questi dati non sono lontani da quelli
registrati per il complesso dei nordestini intervistati, in cui il 33% si schiera a favore
della riforma, il 27% le si oppone e la maggioranza relativa (40%) si rifugia nel silenzio.
Guardando al dato nazionale, il Nordest si caratterizza per la presenza di una maggiore
incertezza. In Italia, infatti, gli orientamenti appaiono più delineati. A livello nazionale,
coloro che non si esprimono si fermano al 30% (-10 punti percentuali rispetto a Veneto,
Friuli-Venezia Giulia e Trento), il Sì raccoglie il 39% (+6 punti percentuali rispetto alle
regioni nordorientali) e il No si attesta al 31% (+4% rispetto al Nordest). Il favore verso
la Riforma è più ampio tra gli adulti tra i 55 e i 64 anni (40%), e gli over-65 (42%). La
contrarietà rispetto alle modifiche approvate dal Parlamento, invece, appare più
consistente tra quanti hanno tra i 35 e i 44 anni (32%) e tra le persone di età centrale
(45-54 anni, 37%). Guardando ai più giovani, poi, emergono in maniera evidente
perplessità e incertezza: tra gli under-35, infatti, circa la metà degli intervistati non
risponde alla domanda. Il fattore politico, infine, delinea degli atteggiamenti che in parte
ricalcano il dibattito pubblico a cui stiamo assistendo. Tra gli elettori del Pd, il Sì alla
riforma raggiunge il 63%, il 27% non si esprime e appaiono più contenuti i contrari
(10%). Anche la maggioranza dei sostenitori di Forza Italia si schiera a favore della
Riforma (54%), i contrari raggiungono il 22% e l’area dell’indecisione raggiunge il 25%.
L’avversione alle modifiche costituzionali si fa maggioritaria tra gli elettori della Lega
Nord e del M5s (per entrambi: 45%). Segnaliamo che, mentre tra chi è vicino alla Lega
tende ad essere più presente una certa incertezza (39%) e la quota di favorevoli è
limitata al 16%, più di un sostenitore del M5s su quattro (27%) si schiera a favore del Sì
e una quota sostanzialmente analoga (28%) non risponde al quesito. Quanti guardano ai
partiti minori, invece, si dividono (quasi) equamente tra Sì (41%) e No (43%), mentre
l’area grigia della reticenza tende a mostrare una certa perplessità non rispondendo alla
domanda (60%).
È un costituzionalista, ma anche e soprattutto un uomo del Nordest il professore Mario
Bertolissi, docente all’ateneo patavino. E come uomo che ama e conosce la propria terra,
legge ed interpreta come sempre con passione i dati che il Nordest lo raccontano. Specie
quando il tema è la Costituzione. E così il risultato che più di tutti lo colpisce, quando si
parla di referendum, è quella elevata percentuale di indecisi. «Un’incertezza che narra
uno spirito riflessivo, un atteggiamento virtuoso: indica la morale di un popolo
intelligente che non si fa catturare dall’urlo televisivo. Perché l’uomo qualunque –spiega
Bertolissi- ha bisogno di pensare. Vuole capire a prescindere dagli schieramenti».
Per ora sembra che a vincere sia il sì alla Riforma Costituzionale.
«Per il momento è così. Ma i giochi si faranno da qui a dicembre, quando si andrà a
votare. Il 40 per cento di chi "non sa" e "non risponde" potrebbe cambiare le sorti della
situazione descritta nel sondaggio».
Il desiderio degli elettori a Nordest sembra diverso dalla media nazionale: meno
propensi al "sì" come al "no" rispetto al resto d’Italia, ma molto più indecisi. O diffidenti?
«Una giusta diffidenza, direi, per chi crede che i problemi dell’Italia non risiedano nella
Costituzione. Perché i disagi di oggi dipendono da una classe dirigente inadeguata priva
di un alto profilo e di spessore. E di questo gli indecisi se ne sono accorti. Per quello non
si fanno convincere dagli urlatori, non si fanno abbindolare da chi fa la voce più grossa,
ma al contrario si fanno convincere dai toni pacati».
Uno dei grandi cambiamenti previsti dalla Riforma sarà l’eliminazione del bicameralismo
paritario.
«Non mi pare sia la questione risolutiva del nostro Paese. Ricordiamo che dopo la guerra
un’Italia distrutta e smarrita è risorta dalle sue ceneri proprio in virtù di un
bicameralismo paritario. E vorrei solo ricordare come in assenza di questo equilibrio il
rischio sia quello di vedere come protagonisti del potere non sempre persone connotate
da elevate competenze. E basta osservare un po’ oltre i nostri confini per vederne i
risultati: dal semipresidenzialismo francese con i suoi più recenti "primi" uomini: da
Nicolas Sarcozy a Francois Hollande, ben lontani dalla grandezza di Charles De Gaulle;
per non parlare dell’inglese David Cameron che poche affinità ha con la figura e la storia
fatta da Winston Churchill. E poi c’è il Presidenzialismo statunitense che non porta certo
in campo uomini come Roosvelt».
Dovremmo dunque guardare con nostalgia al passato?
«Dico che il più nobile degli intenti non porterà mai nulla di buono senza persone degne,
e in grado di formare una vera e propria classe dirigente».
Osservando i grafici che mostrano le opinioni per fasce d’età, emerge un sì alla Riforma
piuttosto debole tra le nuove generazioni.
«In effetti i consensi più forti per Matteo Renzi giungono dagli over 55 e ancor più dagli
over 65. Strano per un giovane leader. Ed è altrettanto interessante osservare i contrari
alla Riforma all’interno del Pd (appena il 10 per cento). Questo vuol dire che la vecchia
guardia del partito è praticamente stata messa da parte. Ultima annotazione: anche tra i
"duri e puri" della Lega c’è un 16 per cento che sostiene il ‘sì’ e nel Movimento 5 stelle
raggiunge addirittura il 27 per cento».
Ci sono contraddizioni piuttosto significative all’interno di alcuni partiti. E del Federalismo
cosa ne sarà?
«Mi spiace dirlo: fino ad oggi il Federalismo è stato solo un’ubriacatura di parole. Da
sempre. E il Referendum pare non faccia che confermare, purtroppo, la tendenza».
Pag 14 Nordest sicuro, Venezia e Padova no di Mattia Zanardo
Pordenone, Belluno e Treviso tra le dieci oasi più felici d’Italia
Alla sera, l'auto si può parcheggiare con buona garanzia di ritrovarla la mattina dopo.
Così come è, tutto sommato, poco frequente l'eventualità di venir rapinati e ancor meno
che si presenti qualche figuro a pretendere il pizzo. Le province del Veneto e del Nordest
in generale non saranno oasi di pace, ma possono vantare un tasso tra i più ridotti
d'Italia per molti tipi di reato. Pordenone, anzi, è la seconda area più sicura della
penisola, mentre Belluno è al sesto posto e, tra le prime venti su 106 totali, si piazzano
pure Treviso (nona) e Udine (sedicesima). Più nei guai Venezia e Padova,
rispettivamente al 16mo e 34mo posto in Italia per reati ogni 100mila abitanti. Almeno
stando alle statistiche delle denunce presentate nel 2015, diffuse del ministero degli
Interni ed elaborate dal Sole 24 Ore. Tutt'altro discorso, naturalmente, la sicurezza
percepita, che resta comunque piuttosto bassa da parte di parecchi cittadini. E senza
contare gli episodi di microcriminalità che ormai non vengono neppure più riferiti alle
forze dell'ordine. In riva al Noncello, in particolare, l'anno scorso risultano commessi
2.408 reati ogni centomila abitanti (con un ulteriore calo del 13,33% rispetto ai dodici
mesi precedenti): solo la sarda Oristano, può vantare un rapporto migliore, a 1.995. Ben
peggio, al contrario, va a Venezia, dove si sono registrati 4.956 illeciti: nonostante una
flessione di oltre otto punti percentuali, si tratta della 91esima media più elevata su
scala nazionale. Il record negativo spetta a Rimini, a quota 7.791. Le Dolomiti non sono
certo terra per ladri d'auto: nessuna provincia tricolore può vantare meno furti di questo
genere di Belluno (6,3 su centomila residenti, più che dimezzati da un anno all'altro),
Bolzano segue immediatamente (14,8) e ancora Pordenone è appena ai piedi del podio
(17,3). I bellunesi possono stare tranquilli anche riguardo alle rapine: l'incidenza al 2,9 è
da primato, malgrado un incremento del 50% (spiegabile, peraltro, proprio dai numeri
assoluti molto contenuti). Ma, in questa voce, è tutto il Triveneto a poter esibire cifre di
rilievo: nona Pordenone, 11esima Rovigo, 16esima Gorizia, 17esima Udine, 18esima
Treviso. La Marca eccelle nella difesa dalle estorsioni: solo 6,32 ogni centomila abitanti,
con Gorizia al secondo posto. E i trevigiani subiscono pure limitate frodi informatiche: le
quasi 170 denunciate, in rapporto alla popolazione, benché in aumento del 30%,
valgono il 13esimo posto nella classifica nazionale. All'opposto, invece, Trieste,
penultima, e, per una volta, Belluno, 96esima. Altre note dolenti risuonano per i
commercianti di Venezia, alle prese con un indice di taccheggi nei negozi pari a quasi
240, ovvero 96esima peggior provincia del paese. E il massiccio via vai di turisti in
laguna, evidentemente, è fertile terreno per i furti con destrezza: solo nella solita riviera
riminese e a Bologna, Milano, Torino e Roma (nell'ordine) se ne commettono di più.
Rovigo, con la 73esima posizione nazionale, è la piazza triveneta più colpita dai topi
d'appartamento (466 furti denunciati ogni centomila cittadini nel 2015) appena una
posizione sotto Venezia. Sarà, invece, la vicinanza del confine a favorire flussi di denaro
poco trasparenti in quel di Gorizia? La provincia isontina occupa la casella numero 98 per
casi di riciclaggio: per giunta l'incidenza, pari a 5,70, è raddoppiata rispetto al 2014.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 7 Abano e il No ai profughi, la parrocchia: “Razzisti” di Alessandro Maccio e
Davide D’Attino
Dopo le proteste, la nota del consiglio pastorale: “Facile essere ospitali solo con chi paga
l’albergo”
Abano Terme. La mobilitazione ad Abano non si ferma, ma deve fare i conti con l’accusa
più pesante: razzismo. Accusa che viene dal consiglio pastorale della parrocchia di Sacro
Cuore, e segna l’entrata in campo della chiesa, per quanto si tratti di un organismo laico,
che lancia parole durissime verso i comitati anti-profughi. È una censura senza mezzi
termini delle manifestazioni in tema di accoglienza, innescate dall’ipotesi di convertire
l’ex base militare del Primo Roc in un hub per i migranti. «Le proteste – si legge nel
testo pubblicato domenica nel sito della parrocchia - si sono mescolate con espressioni e
atteggiamenti di chiara impronta razzista, inaccettabili soprattutto in una città che, per
vocazione storica, è dedita all’accoglienza. Il dramma dei profughi non diventi un
comodo alibi per dimenticare i gravi problemi morali, sociali ed economici che la città
possiede». Il consiglio pastorale osserva «con grande preoccupazione il degrado etico»
di Abano, città termale, di alberghi, albergatori, che di ospitalità vive: «È facile essere
ospitali con chi è bianco e paga l’albergo, più difficile è esserlo con il profugo che
possiede un’altra cultura ed altro colore di pelle. Ma il valore dell’accoglienza non
funziona a fasi alterne e considera ogni essere umano degno di rispetto». Un paese e la
sua etica. Anche su questo fronte Abano fa parlare di sé da mesi, con i cittadini che
questa primavera hanno votato un sindaco indagato per tangenti e che a giugno è finito
in carcere. Tre settimane fa, l’ipotesi dell’hub (apparentemente congelata dalla
prefettura e dal ministero dell’Interno) per profughi. Stavolta, la reazione è stata
immediata: no ai migranti, che non fanno bene all’immagine di una città turistica. E
anche di fronte all’accusa del consiglio pastorale, i comitati non si arrendono: «Se il
parroco ci tiene tanto ai profughi, se li può portare tutti a casa lui» commenta il
portavoce di “Abano dice No” Maurizio Tentori. «Non vogliamo subire un’immigrazione
indiscriminata di persone senza identità – aggiunge Sabrina Talarico, di «Uno, nessuno.
Stop profughi» - Senza condizioni minime di sicurezza, si rischia di convertire all’ostilità
anche coloro che mai hanno pensato di essere o sono stati razzisti».
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Così ho conosciuto i migranti sotto casa di Dacia Maraini
Tra i migranti accolti sui monti d’Abruzzo
Pescasseroli, piccola città situata nel centro del Parco nazionale d’Abruzzo Molise e Lazio,
47 africani vivono in un albergo di 15 stanze, a poche centinaia di metri da casa mia. Li
vedo passare in bicicletta e a piedi, su e giù dal paese e mi è venuta la curiosità di
conoscerli. «Per quale ragione ci vuole conoscere?» mi chiede subito Narcisse, un bel
giovane alto e magro, fuggito da un Camerun immiserito e incanaglito per cercare
lavoro. «Perché voglio capire», gli rispondo. «Il problema dei migranti rimane astratto
finché non ci si rende conto che prima di ogni questione ideologica o sociale, si tratta di
persone e le persone vanno viste da vicino, conosciute e ascoltate». I ragazzi, fra i 18 e i
25 anni, sono seduti in cerchio, nella sala dell’albergo Scoiattolo che è costruito in cima
a una collina e ha una vista da aereo su tutta la valle. La conversazione andrà avanti in
tre lingue: l’inglese, il francese e l’arabo. Per l’inglese e il francese ce la caviamo,
Eugenio Murrali che mi accompagna in questa avventura di conoscenza ed io. Per l’arabo
c’è la scintillante Hala, una siriana che ha sposato un pescasserolese e ora gestisce
assieme al marito Francesco una pizzeria in piazza Sant’antonio. Ci sono ragazzi che
vengono dalla Somalia e mi sembra che conoscano meglio la cultura italiana, altri
arrivano da Gambia, Nigeria, Ghana. Sono qui grazie alla Società Gestione Orizzonti dei
fratelli Sante e Annalisa Gentile, che mette a disposizione dei migranti, assieme
all’albergo e ai pasti, la presenza di una psicologa, Fabiola Petrarca che è la umanissima
e molto amata responsabile del Centro, una insegnante di italiano, Francesca dell’Ova,
una mediatrice culturale, Tiziana Del Gobbo, un portiere e autista, Luciano Fortini, e un
cuoco che cucina tenendo conto dei tabù delle diverse etnie. Pescasseroli li ha accolti
bene. Con la gentilezza un poco sospettosa di tutti i montanari abituati a centenari
isolamenti, ma senza pregiudizi e ostilità. Ha subito creato una associazione,
MamaAfrica, che si occupa dei ragazzi procurando loro scarpe, piumini, biciclette,
organizzando gite in montagna e partite di calcio coi ragazzi del luogo. L’iniziativa nasce
da Francesco Paglia, un uomo dai capelli grigi sebbene ancora giovane che i ragazzi
chiamano granpà, e che gestisce un negozio di artigianato del cuoio. Oltre a lui ci sono i
volontari che si chiamano Lorenza, Daniela, Carmelina, Annamaria, Francesco, Maria
Grazia, Domenico, Luigina e Hala la siriana. Sono commoventi nel loro gratuito
dedicarsi, giorno dopo giorno, a rendere confortevole il soggiorno di questi giovani e
disorientati ospiti stranieri. La società Orizzonti si lamenta dei ritardi nell’erogazione dei
fondi stabiliti. Roma fornisce 35 euro al giorno per rifugiato. Di questi 2 euro e 50 vanno
alla persona, il resto serve per pagare le spese di soggiorno, vitto e alloggio. Si parla di
un assottigliamento dei finanziamenti e si prospetta la chiusura di molti centri di
accoglienza. I ragazzi sono preoccupati: finire per strada vuol dire fare i barboni o darsi
all’accattonaggio, o cadere nelle mani della criminalità. Ma ascoltiamo le storie di alcuni
di loro, come Rachid, scappato da Mogadiscio dopo che il padre è stato ammazzato dagli
Shebab. «Gli Shebab sono degli affiliati alla vecchia Al Qaeda, ora sospettati di essere in
rapporti con l’Isis», mi spiega Francesco. Rachid è un ragazzo pacato, che ragiona e
riflette. «Facevo il pescatore come mio padre. Ma dopo che l’hanno ucciso, ho deciso di
andare via. Gli Shebab stanno diventando potenti in Somalia e chi non si adegua alle
loro regole o non prega a modo loro o non obbedisce ai loro ordini, è in pericolo di vita».
Anche Rachid ha patito il carcere in Libia, come tanti, in condizioni terribili, dopo che gli
hanno rubato tutti i soldi e quel poco di bagaglio che aveva con sé. «Cosa vorresti fare
qui da noi?» gli chiedo. «Pescare, come facevo al mio paese. Anche nel lago qui vicino.
Sono bravo, mi basterebbero pochi soldi ma vorrei lavorare. Qui sto chiuso e non faccio
niente». Musa viene dal Gambia, e porta occhiali spessi come fondi di bottiglia. È stato
operato in Africa ma ha perso un occhio. Ora è in cura presso medici italiani che forse gli
salveranno l’altro occhio. Quasi tutti dicono che vogliono restare in Italia, come Assad,
anche lui proveniente dalla Somalia. Porta un cespuglio di capelli ritti sopra un cranio
semirasato, ha un sorriso dolce e gli occhi accesi. «Ho lasciato mia moglie in Etiopia e
non so quando potremo vederci. Lei non riesce a venire in Italia e io sono bloccato qui. A
Mogadiscio facevo l’operaio». Ha 22 anni, è magro come sono magri e asciutti gli
abitanti dei Paesi desertici. Ruben è un tecnico nigeriano specializzato in frigoriferi. Più
vecchio degli altri, parla con voce lenta e saggia. La moglie è morta, ha lasciato una
figlia alla sorella, e vorrebbe farle venire in Europa. Chiede che lo prendano ad
aggiustare frigoriferi. «Anche per un salario piccolo, lavorerei e manderei soldi a casa».
Ruben è uno dei pochi che ha accettato l’incarico del Comune di fare volontariato pur di
fare qualcosa. Habib viene dal Gambia, faceva il gommista. Il suo viaggio è stato
drammatico. È stato tenuto prigioniero 9 mesi in Algeria e due mesi in Libia. È un
bravissimo calciatore. «Mi vengono a chiamare i bambini di Pescasseroli perché giochi
con loro» dice ridendo. Habib ha un corpo sottile e dinoccolato, due occhi furbi e una
bocca che sorride su denti bianchissimi ma storti e rotti. Un altro motivo per cui alcuni
ragazzi scappano è l’intolleranza di fronte all’omosessualità. In Nigeria rischiano 14 anni
di carcere. In altri Paesi c’è la pena di morte. Alcuni sono musulmani. A una certa ora
srotolano i tappetini per pregare. Altri sono cristiani e portano una piccola croce di
plastica appesa al collo, come Blessing, nigeriana, una bella ragazza che parla con voce
velata, i grandi occhi liquidi che contengono ombre dolenti, le mani che si muovono con
grazia. Blessing racconta che ha rischiato di morire nel suo viaggio verso l’Italia, che è
stata un mese in prigione in Libia. Tutti raccontano di queste prigioni libiche fatte di
privazioni, di prepotenze, di fame, di parassiti, di freddo e di caldo, di condizioni
igieniche disastrose. Najib viene da Mogadiscio. Ha 20 anni. «Mio fratello è stato ucciso
dagli Shebab. Mio padre e mia madre con altri due fratelli sono scappati in Yemen, dove
adesso patiscono la guerra ma non li lasciano uscire. Altri due fratelli sono dispersi». Ma
la voce più dolce e gentile è quella di Bubacarr che è scappato da un Gambia feroce e
assolutista. «La ringrazio per essersi interessata a noi. Spesso veniamo trattati come
fantasmi. Sembrano non vederci, eppure parlano di invasione. Ma noi non vogliamo
togliere il lavoro o la casa a nessuno. Vorremmo solo un incarico e una piccola paga per
sopravvivere». Quando chiedi loro cosa pensano di fare in futuro si allarmano perché
sentono che in Europa monta una generale intolleranza e ne sono spaventati. Cosa fare?
Tornare indietro è impossibile. Andare avanti, ma dove e come? Tutti chiedono il
permesso di soggiorno, anche provvisorio, che la questura dell’Aquila generosamente
concede quasi subito mentre altrove ci vogliono da 7 a 8 mesi. Nel frattempo sono
costretti a non fare niente, rimanendo pigiati nei centri di accoglienza, sbattuti a volte di
qua e di là secondo le richieste e le intolleranze dei vari Comuni. Spesso, dopo mesi di
attesa, vengono a sapere che la loro richiesta di protezione internazionale è stata
bocciata. E allora cominciano i ricorsi per sfuggire al rimpatrio. I più fortunati sono quelli
a cui viene accolta la richiesta di protezione e a cui viene concesso il passaporto perché
finché persiste Schengen, possono andare negli altri Paesi. E per il lavoro? chiedo. Dopo
due mesi che sono in Italia possono lavorare, purché abbiano le carte in regola. Molti
imprenditori non lo sanno e rinunciano ad assumerli. Si lamentano che tanti italiani non
vogliono più fare i lavori manuali ma non si fidano di questi ragazzi africani. «Eppure è
facile - mi spiega Fabiola - sono contratti di apprendistato o tirocinio formativo. Possono
lavorare con stipendi molto bassi, basta metterli in regola iscrivendoli al centro per
l’impiego. Solo se guadagnano più di 400 euro al mese gli tolgono i benefici
dell’accoglienza». Pescasseroli con i suoi 2.000 abitanti - che nei periodi di festa
diventano 30.000 - sta dando un esempio di buona politica dell’accoglienza. Se tutte le
piccole città, i paesi e i borghi italiani facessero lo stesso il problema dell’immigrazione
sarebbe risolto. Penso a tutti i villaggi di montagna abbandonati. Qui vicino c’è Gioia
Vecchio, un paesino senza abitanti, le cui case stanno crollando e il cui bellissimo
paesaggio sta inselvatichendo, infestato da vipere, topi e cinghiali. Perché non affidarlo,
sotto la guida di persone del luogo, ai tanti migranti pieni di forza e di voglia di lavorare,
per riportarlo alla vita? Molti Comuni purtroppo si fanno prendere da paure ataviche.
Chiudono le porte, si rifiutano di accogliere quei quindici, venti rifugiati che scappano da
guerre e fame. Eppure dovrebbero sapere, per via familiare, che cosa hanno sofferto i
loro progenitori che sono fuggiti da un’Italia affamata e hanno patito le pene
dell’emigrazione in Paesi lontani, cercando di integrarsi come potevano. Ma oggi al
problema dello spostamento dei popoli si sta aggiungendo una questione che riguarda
l’identità. E con l’identità non si scherza. La paura, si direbbe, non è suscitata tanto dal
numero delle persone che approdano sulle nostre coste, ma dall’incontro con religioni e
abitudini che per millenni abbiamo considerato nemiche e abbiamo combattuto. Non si
spiegherebbe altrimenti la tranquilla accettazione di migliaia di badanti straniere nelle
nostre case. La paura di perdere la propria identità diventa nevrotica soprattutto quando
il sentimento di identità è debole in partenza. Prova che non siamo più tanto sicuri dei
nostri valori. Dove sta la certezza di una etica universale che supera i particolarismi?
Dove stanno i partiti che porgevano spiegazioni razionali e rimedi sicuri ai mali del
mondo? Dove stanno le utopie per le quali ci si sacrificava pur di raggiungere un mondo
migliore? L’idealismo è sceso al suo livello più basso e questo crea un vuoto devastante
che si accompagna a terrori incontrollabili, a lampi di odio e sospetto verso questi
stranieri che pretendono di accamparsi in casa nostra. Ora, anche se fossimo d’accordo
che non si possono ospitare tante persone di religione e costumi diversi, quale sarebbe
la prassi del rifiuto? Famiglie intere arrivano ogni giorno sui barconi, in fuga dalla fame e
dalla guerra, le vogliamo fare tornare indietro sapendo che moriranno in mare o
cadranno nelle mani di gente che vuole solo uccidere e rapinare? Questo, come dice
papa Bergoglio, non è né cristiano né umano. Non si tratta di buonismo, ma di adesione
ai principi dei diritti dell’uomo. Proprio quei valori che se persi di vista ci renderanno
simili ai fanatici che vogliamo combattere. Non c’è alternativa a una accoglienza umana
e generosa. Salvo poi decidere tutti insieme una sistemazione futura. Le scelte possibili
sono due: integrazione intelligente e organizzata o progetti a lunga scadenza che
includano il ritorno ai Paesi di origine una volta pacificati, resi produttivi e vivibili. Per
fare questo bisogna investire sul futuro, che non sarà solo loro ma nostro, e costerà in
denaro e sacrifici. Ma non c’è scelta: il movimento dei popoli non si può fermare. Si può
solo governare. Per governarlo però occorrono idee generose e creative, occorre unità di
intenti e piani condivisi.
Pag 29 Ungheria, Colombia, Svizzera. Gli strappi del referendum di Massimo Nava
Si fa presto a esultare per la sconfitta di Viktor Orbán in Ungheria: un referendum anti
immigrati naufragato per troppo assenteismo, come le povere vittime nel Mediterraneo,
e lo spirito europeo salvo. La notizia contraria arriva 12 ore dopo: i cittadini della
Colombia hanno bocciato l’accordo di pace con le Farc, le forze guerrigliere marxiste, che
avrebbe chiuso trent’anni di massacri e strisciante guerra civile. Troppo rancore, troppi
lutti, per cancellare tutto con un trattato. Anche in Colombia, tuttavia, l’assenteismo è
stato elevato. Per fortuna della Colombia, le Farc hanno annunciato che non terranno
conto del risultato e che si impegnano a perseguire il processo di pace. Al contrario, il
messaggio dall’Ungheria resta inquietante per l’Europa e non sarà certo il leader
ultranazionalista Viktor Orbán a fare un passo indietro nonostante la sconfitta: «Il 98%
dei votanti (!) è con me!». Situazioni diversissime per storia e problematiche, che
dovrebbero fare riflettere sul senso di consultazioni popolari condizionate
dall’astensionismo e influenzate da motivazioni degli elettori che aggirano la materia
referendaria per mettere nell’urna anche qualche cosa d’altro: opposizione al governo in
carica, contestazione delle élite al potere e fattori emozionali e ideologici raramente
accompagnati da una conoscenza approfondita della materia del contendere. È stato il
caso di Brexit: la maggioranza dei no espressa da una minoranza, vittoriosa grazie
all’astensionismo delle classi più giovani, alla voglia di punire il premier Cameron e
all’irrazionale paura degli immigrati. L’uscita della Gran Bretagna, voluta soprattutto
dalla provincia profonda e anziana e dalle classi popolari, ha conseguenze drammatiche
per l’Europa e per la stessa Gran Bretagna. A ben vedere, una minoranza di inglesi (non
gli scozzesi e nemmeno gli irlandesi!) ha rotto un patto condiviso da 500 milioni di
europei che si sono potuti esprimere sulla materia soltanto attraverso i commenti
dell’opinione pubblica. È anche il caso recente del referendum nel Canton Ticino, che fa
passare una proposta contro i lavoratori italiani senza tenere in alcun conto la realtà dei
rapporti economici e del mondo del lavoro transfrontaliero: un voto che colpisce gli
italiani, ma danneggia soprattutto i ticinesi. E potrebbe essere il caso del referendum
sulle riforme costituzionali in Italia: in questo senso vanno letti gli ultimi interventi di
Napolitano e di Renzi, tesi a sgomberare il campo da condizionamenti politici per
riportare gli elettori alla materia del contendere. Ma è del tutto evidente che il fronte del
«no» vota in opposizione a Renzi e al governo, con un minimo interesse all’abolizione del
Senato e senza tenere conto delle conseguenze sul medio e lungo periodo. È stato così
anche in passato, per le consultazioni sul trattato costituzionale europeo. I francesi non
votarono sul progetto di Costituzione, ma contro il presidente in carica Chirac che volle
la consultazione. Olandesi e danesi fecero altrettanto, di fatto dando il primo colpo al
processo federativo continentale. A ben vedere, il trattato di Lisbona fu un successivo
rimedio al disastro, un rimedio inventato dai capi di Stato e di governo. Riflettere sul
senso dello strumento referendario significa riflettere sul senso della democrazia diretta,
mitizzata, a volte a sproposito, rispetto alla vituperata democrazia rappresentativa. Il
referendum, di fatto, riduce o conferma la legittimità del governo che lo ha indetto, ma
limita e sottrae la responsabilità di decidere, di scegliere, di guidare una comunità,
grazie anche a competenze, conoscenza dei problemi, lungimiranza politica, qualità e
titoli che non appartengono necessariamente al comune cittadino. Altra cosa è una
consultazione popolare su questioni etiche, quali il divorzio o l’aborto. Nella crisi attuale
dei partiti e delle classi dirigenti - in parte sorprese, ma in parte complici dell’onda lunga
del populismo - l’arma del referendum colma probabilmente un vuoto di democrazia e di
partecipazione ed è la risposta più semplicistica alla diffidenza verso la politica che non
decide e che tradisce il mandato popolare. Ma il referendum consegna il destino di un
Paese (o di un sistema di Paesi) alla volontà di una minoranza strumentalizzabile, che
spesso traduce in un voto una narrazione emozionale/ideologica che non sempre
rispecchia il quesito tecnico o la valutazione delle conseguenze.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Il contratto M5S, se la politica diventa mercato di Carlo Nordio
Quando, quindici anni fa, Berlusconi firmò davanti a milioni di telespettatori un
“contratto con gli italiani”, impegnandosi ad attuare alcune riforme nello spazio di una
legislatura, le opposizioni reagirono con sarcasmo, e i simpatizzanti con benevola
perplessità: perché, si disse giustamente, non si può trasferire in politica un istituto di
natura privatistica. In effetti la caratteristica del contratto sta nella sanzione per la sua
mancata esecuzione: l’adempimento coattivo, ove possibile, altrimenti il risarcimento del
danno. Ed è ovvio che chi governa non può esser costretto, e tantomeno condannato, a
nessuna delle due prestazioni. Credo che l’ultimo a crederci fosse proprio il Cavaliere. Si
trattò di una delle sue tante geniali ed efficaci commedie per conquistare voti. Questa
commedia si sta ora ripetendo, sotto forma di farsa, nella decisione dei pentastellati di
applicare una grossa multa ai propri eletti in caso di violazione del codice di
comportamento: una sorta di castigo esemplare con funzione di deterrenza per eventuali
tentazioni “deviazionistiche”. Che si tratti di una farsa si comprende da due ragioni. La
prima, che tale sanzione confligge con il precetto costituzionale: come bene ha spiegato
qui ieri l’ex presidente della Consulta, Mirabelli, gli eletti non hanno vincolo di mandato,
e quindi non sono tenuti, giuridicamente, a un rendiconto nei confronti degli elettori. La
seconda, e consequenziale, è che questa punizione è puramente platonica e astratta,
perché nessun giudice si sognerebbe mai di irrogarla. Il contratto di Grillo, infatti, è
radicalmente nullo per causa illecita: e chi l’ha proposto lo sapeva perfettamente.
Tuttavia dalla farsa alla tragedia, come insegnava il filosofo, il passo è breve. E qui la
tragedia rischia di presentarsi sotto due aspetti. Primo: può un movimento con
aspirazioni governative surrogare la responsabilità politica dei suoi appartenenti con
strumenti di natura contrattuale? In altre parole: può ridurre un impegno elettorale al
rango di un debito non pagato, come se l’affidabilità politica fosse garantita da una
caparra che puoi perdere quando cambi idea? Perché a questo si ridurrebbe la multa di
“almeno centocinquantamila euro” minacciata ai dissidenti: una sorta di diritto di
recesso, subordinato al pagamento di quella che in diritto civile si chiama “arrha
poenitentialis”. Come al mercato delle vacche: se non paghi la bestia comprata, perdi la
penale e morta lì. Un bel viatico per chi vuol cambiare la società. Secondo. L’assenza di
vincolo di mandato - che rende nullo l’impegno del codice pentastellato - è uno dei tabù
della nostra Costituzione: “la più bella del mondo”, secondo gli stessi grillini. È dunque
una palese e grave contraddizione che un movimento, sempre con ambizioni
governative, violi questo precetto in modo così grossolano, quando invece potrebbe, e
forse dovrebbe, porre in termini seri un problema altrettanto serio e reale. Perché
l’assenza di tale vincolo ha reso e continua a rendere possibile quel comportamento
trasformista che, nella sua manifestazione più esasperata, si chiama del voltagabbana:
quando cioè un parlamentare, eletto sulla base di un programma politico, cambia
indirizzo e schieramento, e quindi tradisce la fiducia e le aspettative di chi lo ha votato.
Questo prezzo, accettabile nei limiti in cui garantisce l’autonomia dell’eletto, diventa
insostenibile quando diventa esodo e controesodo, precipitando il Parlamento in una
confusionaria instabilità. Ma anche qui i grillini, nel loro entusiasmo palingenetico, hanno
preteso di indicare la luna, fermandosi invece a guardare il dito.
LA NUOVA
Pag 1 La Shoah dei nostri tempi di Gigi Riva
Dopo la Shoah (27 gennaio) da ieri anche i profughi morti in mare hanno un loro Giorno
della memoria. I paragoni sono tutti zoppi e il parallelo non vuole scalfire l’unicità
dell’Olocausto che fu pianificazione dello sterminio di un popolo. In questo caso è il
massacro in massa per via di uno status e non importa l’etnia di appartenenza. Basta
essere tra gli ultimi della Terra e fuggire da guerre o carestie. Ma allora come oggi tutto
si consuma nell’indifferenza egoista di un Occidente che non contempla il soccorso e si
segnala per omissione. Al riparo di giustificazioni ignave che chiamano in causa “i nostri
problemi” o l’impossibilità di “accoglierli tutti”. Argomenti che, purtroppo, trovano
terreno fertile nella propaganda miope di impresari della paura legati al loro destino
elettorale di domani e svincolati da una visione prospettica. Siamo stati migranti anche
noi e in misura copiosa fino a due generazioni fa. Avremo bisogno di persone che
popolino il Continente invecchiato se vorremo rispettare le sacre regole del Pil. Buon
senso spicciolo, quando l’anti storica chiusura nelle Heimat fa innalzare muri e fili spinati
(i fili spinati...), costringe quella massa di disgraziati a tentare imprese sempre più
disperate come esattamente il 3 ottobre di tre anni fa con la madre di tutti i naufragi, i
366 morti accertati (probabilmente molti di più) nel mare di Lampedusa che è all’origine
della scelta simbolica della data. Ci sono state, ci saranno, polemiche stucchevoli sulla
necessità della ricorrenza. Col solito argomento che la vigilanza sul tema dovrebbe
durare 365 giorni. Chi ha mai detto il contrario? Però che ci sia un momento certificato
per fare un punto, persino un buon uso della memoria, male non fa. Soprattutto se,
come è successo ieri in molte scuole d’Italia, i ragazzi sono stati chiamati a riflettere su
messaggi inversi rispetto al facile populismo degli slogan e delle chiusure. I ragazzi: la
generazione futura che, piaccia o meno ai teorici delle divisioni, saranno costretti a
vivere in società sempre più mescolate. È già hanno, tra i banchi, compagni con un
colore della pelle diverso di cui non hanno spesso nessun timore. Perché il razzismo,
guarda un po’, cresce con l’età adulta, quando si perde l’innocenza. Saranno loro, gli
attuali teenagers, a dover raccogliere i cocci di un’Europa in sfacelo per cercare di ridare
un senso a quei valori che pure gli adulti studiarono, ai tempi loro. Dimenticandoli, poi.
Il dovere dell’accoglienza, il rispetto per il forestiero (il buon Samaritano...), i diritti
individuali da tramutare in universali. Tutto è tornato in discussione sotto i colpi di una
crisi economica lunghissima, di un terrorismo arrivato fin nelle nostre contrade. Cause
esterne che, ben manipolate, spingono alla grettezza della chiusura come nel caso del
referendum magiaro. Il governo dell’ultranazionalista Viktor Orban chiedeva ai suoi
concittadini se fossero d’accordo che l’Europa imponga le quote ai Paesi membri. Il
fronte del no (no all’imposizione) aveva puntato le sue carte sull’argomento che, così, si
sarebbe snaturata “l’identità ungherese”. Ora, gli ungheresi sono 10 milioni, i rifugiati
che l’Europa chiede a Budapest di accogliere 1.300. Milletrecento evidentemente in
grado di minare la natura profonda di un popolo millenario. La consultazione non ha
raggiunto il quorum ma chi alle urne ci è andato ha votato no con percentuali bulgare
(d’ora in poi, percentuali ungheresi), permettendo così a entrambi gli schieramenti di
cantare vittoria. Povera Ungheria se si sente minacciata da un numero così esiguo di
forestieri. E povera Europa se non troverà la forza di spiegare le ragioni per cui gli sforzi
dell’accoglienza vanno distribuiti, trovando finalmente un accordo su questioni che non
sono economiche ma che precedono e seguono il senso di una faticosa costruzione
comune. Così forse va salutata con favore la coincidenza tra il day after del referendum
ungherese e il Giorno dei profughi annegati. C’è l’Europa dei governanti di Budapest che,
benché senza quorum, ammoniscono a seguire la volontà di chi si è espresso col voto. E
c’è l’Europa di Lampedusa che scruta il mare per fornire un’ancora di salvataggio a chi si
trova in difficoltà tra le onde. Nel rispetto di una legge del mare vecchia di secoli. E che
solo se si è barbari si può decidere di non rispettare.
Pag 1 Spose bambine, lo stupro e il diritto di Ferdinando Camon
È accaduto a Padova un fatto di rilevanza epocale e super-nazionale, che influirà, io
spero, su tutto l’Occidente. C’era da aspettarselo che accadesse proprio qui. Padova è da
mezzo secolo un’antenna che capta con grande anticipo le evoluzioni della nazione e
dell’Occidente. Questo giornale l’ha raccontata a sufficienza, ma ora vorrei ricavare per i
lettori “il senso” della vicenda. Ne ho discusso altrove e su Facebook, dove in un
pomeriggio sono arrivate tre centinaia di email. Cosa significa questa notizia: «La
Cassazione ha disposto che il padre di una sposa-bambina di Camposampiero, appena
condannato per maltrattamenti, venga ri-processato, insieme col marito di lei, per un
reato molto più grave, e cioè violenza sessuale»? Significa, e io spero che il significato
influirà sui prossimi casi che verranno giudicati, che quando una bambina (in questo
caso, di 14 anni) viene costretta a sposare un uomo, parente o sconosciuto, che ha il
doppio o il triplo della sua età, e accettare che lui disponga di lei sessualmente, significa
che questa bambina deve considerarsi stuprata, vittima di uno stupro di gruppo, e il
gruppo è composto dal padre e dal marito. In altri casi, anche dai fratelli e dalla madre.
Più che di gruppo, in questi casi noi parliamo di “branco”. Questo significa la decisione
della Cassazione. Non ha nessun senso opporre: ma nel paese d’origine di questo
gruppo (in questo caso, il Bangladesh) si usa così, quindi per il gruppo è normale.
Quando il gruppo esce dal proprio paese e viene a vivere nel nostro, si sottopone al
nostro Diritto. E se nel suo paese d’origine il gesto del trentenne-quarantenne che sposa
(o compra, perché spesso la paga) una quattordicenne, e la costringe a far sesso usando
le maniere forti, se là non è reato, è una mancanza del Diritto che vige là. Punirlo come
reato non è un eccesso del nostro Diritto. Permetterlo è una mancanza del loro Diritto.
Nel caso di Padova, la Cassazione chiede che vengano processati il padre e il marito,
perché non è chiaro il ruolo della madre. Ma spesso la madre collabora col padre, lo
aiuta a convincere e picchiare la figlia ribelle. E se c’è qualche fratello, anche lui dà una
mano. La povera ragazza non ha scampo. Lo stupro è aggravato dalla minore età di lei
e, per i famigliari, dal grado di parentela. Non mi si dica che un quarantenne che fa
sesso con una quattordicenne può essere indotto a credere, data la sua cultura d’origine,
che è una cosa “naturale”. Anche la Natura gli fa capire che è una cosa innaturale.
Dolorosa, per la bambina. Un quarantenne che trae piacere dal dolore di una
quattordicenne, beh, vada nella giungla, non venga a Padova. Parlare di queste cose in
questi termini espone a un rischio: il rischio di venir giudicati xenofobi, nemici dell’Islam,
intolleranti dell’immigrazione. È vero il contrario: se uno viene qui, e abbandona le sue
usanze barbare, è un miglioramento della vita sua e della sua famiglia. Se sente come
un peggioramento della vita il non far sesso con le quattordicenni, allora non può venire
qui e avere la nostra cittadinanza. Non la merita. Gliel’hanno data, al padre di questa
bambina? Tanti anni fa? Grave errore. L’Italia regala la cittadinanza con stupidità. Non
ho dati recenti, ma quattro-cinque anni fa si calcolava che le bambine islamiche con
cittadinanza italiana, che studiano in Italia, e arrivate ai 14 anni non s’iscrivono alla
classe successiva, fossero circa 2mila. Dove sono sparite? Sono state rispedite in patria,
a sposare qualche adulto assai più vecchio di loro, che loro neanche conoscono o
comunque non amano. Eran cittadine italiane, l’Italia le abbandona. Allora, l’Italia è
complice. Da oggi, la decisione della Cassazione mette paura nelle famiglie islamiche
immigrate che usano questa pratica. Per questa paura passa la loro civilizzazione.
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