Progetto di orientamento alla professionalità al Punto a Capo

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Progetto di orientamento alla professionalità al Punto a Capo
Progetto di orientamento alla professionalità al Punto a Capo
Il Centro Punto a capo è nato nel 2012, con l’obiettivo di sostenere i giovani stranieri arrivati a Milano
attraverso percorsi diversi. Con il passare del tempo, le attività si sono delineate in risposta ai bisogni
riscontrati sul campo, orientandosi in maniera specifica verso giovani rifugiati politici e titolari di protezione
umanitaria. Queste categorie di soggetti sono quelle che maggiormente necessitano di un sostegno nel
proprio percorso professionale e di vita, in quanto si trovano isolate nella realtà in cui stanno vivendo. L’iter
per raggiungere lo status di rifugiato o titolare di protezione umanitaria dura, mediamente, un anno,
periodo di tempo in cui questi ragazzi sono in carico allo Stato, grazie ai progetti Morcone e SPRAR (in
scadenza). L’assistenza che ricevono è tout court, i giovani stranieri sono inseriti in una struttura abitativa,
godono di assistenza umanitaria e viene offerta loro la possibilità di intraprendere un percorso scolastico.
Al termine di questo periodo, i soggetti devono trovarsi una abitazione, hanno la necessità di lavorare, per
pagarsi il sostentamento, ma non sono ancora indipendenti nel proprio progetto di vita e faticano ad
inserirsi nelle professioni lavorative richieste.
L’obiettivo che si prefigge il Punto a Capo è offrire ai giovani stranieri uno spazio “fisico e mentale” in cui
trovare condizioni di relazioni e di dialogo in grado di favorire il cammino di integrazione e lo sviluppo di
risorse personali nella sfida di vivere al meglio la nuova realtà e procedere nell’elaborazione del proprio
progetto di vita.
Per quanto riguarda, invece, gli obiettivi specifici essi sono:
- concorrere alla rottura dell’isolamento sociale, creando una rete di relazioni di supporto, sia interpersonali
per incentivare l’integrazione nella comunità di accoglienza, che formali per assisterli nell’accesso ai servizi
del territorio;
- sostenere il percorso di integrazione lavorativa, valorizzando le competenze e colmando le lacune di
formazione.
- rafforzare l’identità culturale del singolo, riscoprendo il valore del proprio vissuto, per aiutarlo a sviluppare
competenze adattative ed innescare il processo di inclusione ed accoglienza.
Uno tra i bisogni maggiormente sentiti da questi ragazzi è il riconoscimento delle proprie professionalità,
dovuto alla notevole differenza di competenze richieste dal mercato di lavoro italiano rispetto alle esigenze
del proprio Paese d’origine. Ed è per questo motivo che si è deciso di organizzare un laboratorio orientativo
che prevedesse momenti di focus group e di colloqui individuali in cui venissero spiegate le competenze
necessarie per inserirsi nel mercato lavorativo e in cui si potessero condividere problematiche, aspettative e
difficoltà del percorso di integrazione.
Il progetto di orientamento, sostenuto dalla Fondazione Cariplo, si è rivolto a 30 giovani rifugiati politici, tra
i 20 e i 30 anni, così suddivisi: 20 uomini e 10 donne provenienti da: Somalia (4), Afghanistan (6), Mali (2),
Ghana (2), Gambia (3), Iran (5), Pakistan (4), Egitto (4), in uscita dal progetto SPRAR o già da qualche mese
autonomi sul territorio milanese.
Il progetto si è strutturato in diverse fasi:
- ricerca del campione a cui indirizzare il laboratorio
- conoscenza dei soggetti e divisione dei gruppi di lavoro
- attività con photolanguage
- colloqui finali.
Ricerca del campione
Sono stati contattati tutti i soggetti che hanno frequentato il centro per svariate attività: corso di
preparazione alla patente, corso di rafforzamento della lingua italiana, corso base di sicurezza sul lavoro,
progetto Eureka Funziona! e progetto di integrazione sociale con Custodi Sociali di zona 1.
Alcuni soggetti, in particolare donne, ci sono stati inviati dai centri diurni e polifunzionali del Consorzio Farsi
Prossimo, con cui il centro collabora per alcune iniziative.
Alcuni ragazzi si sono presentati immediatamente dopo la chiamata e hanno colto la possibilità offerta, come
uno strumento per diventare maggiormente consapevoli del proprio futuro; altri hanno fatto resistenza di
fronte alla necessità di riprendere contatti con un ente e rispettare gli appuntamenti per gli incontri. Nel
mese di ottobre 2014, il progetto è iniziato con 38 ragazzi, 8 dei quali hanno abbandonato le attività e non
hanno concluso il laboratorio orientativo; 3 volontarie dell’Associazione che hanno aiutato nella gestione dei
gruppi e una psicologa, responsbile del progetto.
Conoscenza dei soggetti e divisione dei gruppi di lavoro
Ogni partecipante è stato convocato singolarmente ed è stato fatto un colloquio conoscitivo, sia a livello
personale, sia per quanto riguarda le competenze professionali.
La prima difficoltà riscontrata ha riguardato la difficoltà nella relazione comunicativa. 10 dei 30 soggetti, 6
delle quali donne, hanno mostrato una scarsa conoscenza dell’espressione della lingua italiana e una
sufficiente comprensione nella terminologia generica. Per tentare di ovviare a questo inconveniente, si è
tentato di analizzare i curricula. Purtroppo anche questa operazione non ha riscosso il successo sperato, in
quanto la documentazione relativa alla propria storia professionale era estremamente carente e
frammentaria. I giovani che abbandonano il proprio Paese d’origine a causa di guerre, persecuzioni religiose,
dittature o situazioni estremamente precarie, difficilmente raccontano di sé e di ciò che hanno dovuto
lasciare durante i primi incontri con persone nuove. La propria autostima, consapevolezza di sé e fiducia negli
altri è estremamente labile. Tutte le certezze che hanno costruito negli anni della fanciullezza e gioventù si
sono sgretolate in poco tempo, lasciando un vuoto identitario, difficilmente colmabile.
Per le donne questo distacco forzato, spesso anche con la famiglia d’origine, è maggiormente doloroso. Una
volta arrivate in Italia e inserite nei circuiti di sostegno e aiuto perdono anche la loro principale occupazione,
ossia l’accudimento esclusivo dei figli e la gestione della casa. All’interno di un centro mamma-bambino, gli
operatori sociali e gli educatori si occupano del nucleo familiare e interferiscono sulle questioni di salute,
educazione e alimentazione dei bambini. Vi sono, altresì delle regole da seguire e degli orari da rispettare.
Questo cambiamento repentino e radicale porta, a volte, delle difficoltà di gestione delle relazioni con gli
operatori e alcuni problemi di contenimento dell’ansia, di scatti di ira improvvisi e di momenti di sconforto.
Inoltre, anche alle donne viene offerta la possibilità di inserirsi nel sistema scolastico per adulti, per acquisire
le conoscenze base della lingua italiana; spesso, però questa opportunità non viene colta. In paesi quali
Afghanistan, Iran, Pakistan e Ghana il ruolo della donna è racchiuso tra le mura domestiche. Raramente le
mamme escono per pensare a se stesse, accompagnano i figli a scuola e si occupano quotidianamente della
pulizia della casa. La conoscenza dell’italiano rimane, perciò molto scarsa e le mamme si avvalgono delle
proprie figlie per comunicare con la scuola, con i medici, all’interno dei negozi e con gli operatori socioeducativi. Con queste persone è estremamente difficile capire la storia di vita e cogliere qualche
interessamento per una professione specifica.
Per quanto riguarda, invece, le altre 4 donne la situazione è completamente diversa. 2 sono originarie
dell’Egitto, appartengono a famiglie con reddito socio-economico medio-alto, che ha permesso loro di
raggiungere delle qualifiche professionali e di inserirsi nel mondo del lavoro, già nel Paese d’origine. Le due
donne lavoravano come sarte in un negozio di “taglio, cucito e creazione modelli”, di proprietà dei mariti.
Durante le giornate, le mansioni si altalenavano tra un profilo professionale e un ruolo materno.
Le altre due, originarie della Somalia, sono cresciute in famiglie molto numerose. Rimaste orfane di mamma
molto presto, hanno rivestito il ruolo materno per i fratelli più piccoli e hanno svolto svariati lavori, per
permettere alla famiglia di mantenere un tenore di vita dignitoso. Sebbene non sia riconosciuto un profilo
professionale specifico, queste donne sono estremamente duttili e si adattano a qualsiasi situazione si
trovano dinnanzi.
Per quanto riguarda gli uomini, la situazione è estremamente differente. La caratteristica che accomuna tutti
i ragazzi contattati è la storia di fuga, viaggio e continua ricerca di un futuro migliore, in cui tentare di radicarsi
e riappropriarsi della propria famiglia. I giovani provenienti da Iran, Afghanistan, Egitto e Ghana hanno
raccontato una storia simile, con sfaccettature differenti. La motivazione che ha spinto questi soggetti ad
abbandonare la propria terra è una questione religiosa o di guerriglia fra etnie. La maggior parte di questi
giovani lavorava presso una azienda di famiglia (allargata), aveva un negozio di proprietà o ha potuto
intraprendere un percorso formativo-educativo, in quanto appartenente ad una famiglia di politici. La
situazione economica per tutti era agiata, e soprattutto nessuno di essi avrebbe mai potuto immaginare cosa
sarebbe successo e cosa avrebbero dovuto affrontare. La situazione attuale tra loro è diversa ed è il risultato
del viaggio affrontato e delle relazioni che si sono create. I ragazzi con una personalità maggiormente
strutturata sono quelli che hanno trovato una proprio percorso e si stanno incanalando in una direzione
specifica, per riappropriarsi della propria professione. Gli altri, invece, che non hanno ancora accettato lo
spostamento forzato e sono radicati sulle aspettative e convinzioni passate, faticano a trovare un ruolo nella
società milanese.
Gli altri giovani provenienti da Mali, Gambia e Pakistan hanno lasciato un lavoro da dipendenti, in piccole
realtà principalmente agricole e contadine e non hanno avuto accesso all’istruzione. Questi ragazzi sono
analfabeti nel loro Paese, ma si sono impegnati per migliorare la propria posizione culturale e sociale una
volta arrivati in Italia.
Data la differenza notevole nella conoscenza delle lingua italiana, nella capacità di espressione e di
provenienze diversificate, si è reso necessario organizzare dei sottogruppi di lavoro, in cui i soggetti potessero
meglio interagire tra di loro e creare un clima positivo e propositivo allo scambio reciproco.
Attività di photolanguage
I 5 gruppi di incontro, costituiti da 6 persone l’uno, sono diventati operativi ed è iniziata la conoscenza
reciproca. Le donne hanno mostrato una certa reticenza e difficoltà nella comunicazione con gli altri giovani.
I primi scambi comunicativi sono avvenuti a testa bassa e solamente con le altre figure femminili. Ci sono
voluti diversi stimoli per ottenere un dialogo aperto e carico di emozioni.
Non è stato semplice creare un clima di supporto e condivisione, ma il risultato ottenuto è stato
soddisfacente; i partecipanti hanno terminato il progetto diventando maggiormente consapevoli del proprio
progetto di vita professionale e delle proprie aspirazioni personali.
Una delle difficoltà riscontrate da subito ha riguardato la reperibilità di uno strumento che fosse
universalmente compreso e che fungesse da mezzo per favorire la condivisione, tenendo insieme, in modo
rispettoso, le diverse origini culturali e le personalità di ognuno.
Il linguaggio iconico, o per immagini, è il primo utilizzato dall’uomo per comunicare con i suoi simili per
trasmettere idee, sentimenti, speranze e paure. E’ quello che supera i filtri della razionalità e delle
sovrastrutture culturali e permette di arrivare direttamente al centro della storia personale di ogni uomo e
di cogliere gli aspetti che ne determinano la specificità. E’ un linguaggio adatto ad esprimere rappresentazioni
e bisogni, a individuare pregiudizi e stereotipi, a riappropriarsi delle proprie idee e a manifestare timori e
aspettative nei confronti del presente e del futuro, (Mancinelli  Pagani, 2008).
Le immagini, in particolare le fotografie, grazie al loro potere espressivo e alla capacità di diventare metafora
di altro, possono aiutare a formulare pensieri e riflessioni anche su temi complessi e difficili da indagare a
parole in quanto il potere dell’immagine va oltre il linguaggio scritto e parlato. Ogni immagine, oltre a
descrivere un elemento della realtà, è essa stessa parte della realtà, ma anche la rappresentazione di
qualcosa diverso da sé, la cui natura è instabile e cui significati dipendono dallo spazio, dal tempo e dalle
situazioni.
Secondo Milgram (1997) e Krauss (1983) la fotografia è in grado di provocare, e non soltanto richiamare, i
ricordi e i sentimenti. Le immagini sono fondamentali per esprimere le esperienze emozionali contraddistinte
dagli elementi che la persona non riesce a tradurre in parole.
Vi sono studi clinici che utilizzano la fotografia per permettere l’elaborazione del trauma, superare il lutto o
affrontare la malattia, spesso disconosciuta ed, infine, per facilitare la relazione terapeutica.
Datele premesse sopra citate, si è pensato di utilizzare il photolanguage, quale strumento di condivisone
d’idee, emozioni, ricordi e rappresentazioni del futuro tra i partecipanti.
Questa metodologia fu ideata nel 1965 da un gruppo di psicologi e psicosociologi francesi che, all’inizio in
modo del tutto intuitivo, cominciarono ad utilizzare le immagini fotografiche per facilitare lo scambio
comunicativo tra quei ragazzi che incontravano difficoltà a esprimere in gruppo le proprie esperienze
personali, i propri vissuti ed emozioni (Baptiste, Belisle e coll., 1991).
Il fotolinguaggio è un supporto alla parola, facilita la comunicazione nel gruppo, permettendo il passaggio tra
il processo primario (il pensiero in immagini) e il processo secondario (il pensiero in idee). Le fotografie
diventano il tramite per parlare di sé, mezzo per “rompere il ghiaccio” e iniziare l’interazione in modo più
veloce e soddisfacente, allorché i partecipanti, che ancora non si conoscono, sono restii a raccontarsi solo a
parole. Utilizzando questo strumento si intende rafforzare l’identità dei partecipanti; elaborare i ricordi
negativi e traumatici; focalizzarsi sulle proprie competenze professionali e sulle aspettative future.
In ogni gruppo vengono mostrate delle foto rappresentanti paesaggi, persone, luoghi e mestieri.
Le prime foto che illustrano i paesaggi sono molto evocative; il pensiero può viaggiare rapidamente,
permettendo di ricordare i luoghi dell’infanzia, della fanciullezza serena e piena di affetti. Non di rado,di
fronte a queste immagini, le persone si commuovono, ricordano episodi carichi di emozioni e partecipano
attivamente ai racconti degli altri presenti. Una volta che si crea una fiducia tra i partecipanti ed il conduttore
dei focus group, i giovani si raccontano più apertamente e si instaurano anche legami tra i partecipanti.
Il secondo step riguarda l’analisi delle foto raffiguranti alcune persone: bambini, giovani, adulti ed anziani.
Ogni età rappresentata ha suscitato ricordi, racconti di aneddoti e tradizioni, tipiche del Paese d’origine.
Di fronte alle immagini di bambini vi sono state due differenti tipologie di risposta: una relativa alla memoria
serena del proprio passato ed una riferita alla quotidianità dei propri figli, lontani dalle radici familiari e
spettatori passivi del cambiamento di vita subito. Altra immagine che ha suscitato commenti discordanti è
quella relativa alla vecchiaia. Anche in questo caso, i partecipanti hanno ricordato persone significative per
la loro vita o si sono raffigurati da anziani, senza essere in grado di identificare dove termineranno il cammino
di vita. I giovani non riescono a raffigurarsi in un futuro lontano, faticano anche a costruirsi delle certezze
nell’immediato. La problematica che maggiormente limita le rappresentazioni sul futuro è la mancanza di
un’abitazione, in cui ricostruirsi.
Le ultime immagini che si mostrano trattano i mestieri e le professioni. Accanto alle foto, si è pensato di far
visionare anche delle carte gioco raffiguranti i mestieri, disegnati dai bambini, con i nominativi delle
professioni scritte in diverse lingue, in modo da facilitare le comprensione (Carte Gioco Arti & Mestieri, 2002
)
La prima osservazione da riportare è la differenza riscontrata nelle tipologie di lavoro. Le categorie
professionali a cui ci si riferisce nella società italiana ed europea sono maggiormente determinate e
qualificate rispetto a Paesi quali Egitto, Pakistan, Afghanistan, in cui vi è la denominazione generalizzata di
“operaio”. Alcuni ragazzi hanno raccontato la propria esperienza lavorativa molto dettagliatamente e che
richiedeva delle specifiche mansioni, tali da essere considerati “specializzati”, ma nel proprio Paese non sono
stati considerati tali. Il mancato riconoscimento professionale rappresenta una difficoltà consistente per il
posizionamento nel mondo del lavoro, aggravata ulteriormente dalla mancanza di riconoscimento dei titoli
di studio acquisiti nel Paese d’origine. La maggior parte dell’istruzione che si svolge nei Paesi extraeuropei
non viene riconosciuta e i giovani sono costretti a ricominciare un percorso formativo già svolto, privi di
interesse e motivazione. Alcune ambasciate straniere permettono l’apertura di fascicoli di riscatto di
istruzione, ma le pratiche sono lunghe, richiedono molta documentazione, spesso assente, e sono onerose.
Tutti questi ostacoli scoraggiano il rifugiato, che propende per iniziare nuovamente il percorso formativo.
Capita spesso, che la formazione a cui si iscrivono i giovani sia molto distante dalle proprie competenze
professionali, a causa della difficoltà di comprensione di ciò che viene loro offerto o anche a causa dell’offerta
proposta. Tutto ciò determina un ulteriore scoraggiamento nei soggetti e un allungamento nelle tempistiche
per l’inserimento lavorativo. Oltretutto l’insicurezza di sé limita anche l’acquisizione delle competenze, non
permettendo l’espressione completa delle proprie qualità e talenti. Le figure professionali che si creano sono
mediocri, con scarsa motivazione all’inserimento aziendale e caratterizzate da un obiettivo a medio termine
di cambiamento di Paese e prospettive di vita.
L’insofferenza per la situazione di precarietà e non riconoscimento della professionalità pregressa, crea delle
situazioni sfavorevoli, dalle quali è difficile emergere e reagire. Proprio con queste persone è fondamentale
lavorare sulla resilienza, intesa come capacità di superare prove dolorose e guardare avanti nella vita dopo
conflitti o violenze, implicando processi di riconciliazione e adattamento a nuove situazioni.
Il percorso è lungo perché è necessario un certo tempo per poter ritornare con la mente e col cuore su ciò
che è accaduto, farne una rappresentazione, attribuirvi un significato, dare una spiegazione che porti un po’
di pace e speranza per il futuro.
Un’altra differenza riscontrata riguarda la tipologia di formazione richiesta nelle professioni. Soprattutto per
quanto riguarda i lavori artigianali (sartoria, conceria), in Afghanistan, Gambia e Ghana gli apprendisti si
affiancano all’artigiano e acquisiscono le competenze osservando la manodopera. La trasmissione delle
informazioni è prevalentemente orale e i miglioramenti nelle mansioni si raggiungono per tentativi. Durante
un incontro di focus group si è mostrato un cartamodello a due giovani sarti, chiedendo loro come venisse
utilizzato e quando imparassero a crearlo durante la loro formazione. Entrambi hanno mostrato una
mancanza di dimestichezza con il cartamodello, riportando che gli unici strumenti usati fossero forbici, gesso
e metro.
Gli incontri di gruppo hanno avuto uno sviluppo positivo. Le prime discussioni tra gli utenti sono state brevi,
poco emotive e i partecipanti si sono limitati a rispondere solamente a stimoli dati. Successivamente si è
creato un clima di collaborazione e condivisione delle perplessità e aspettative che ha permesse anche la
nascita di qualche legame di amicizia, proseguito anche all’esterno del setting strutturato. Particolarmente
significativo è stato il sostegno reciproco tra due ragazzi, uno somalo e uno afghano nello studio per l’esame
della patente di guida. La possibilità di affrontare il corso e l’esame in compagnia, ha stimolato entrambi nel
raggiungimento dell’obiettivo, conclusosi con successo.
Colloqui finali e resoconto
Al termine degli incontri di gruppo, si è deciso di riconvocare i giovani singolarmente e chiedere loro una
valutazione sul percorso affrontato. 8 delle 10 donne si sono ripresentate e si sono raccontate con una
sicurezza maggiore e con delle aspirazioni professionali maggiormente strutturate. Quattro di loro hanno
chiesto la possibilità di essere inserite in corsi di italiano, in quanto hanno compreso la necessità di integrarsi
sul territorio milanesi in diversi aspetti, che ancora erano per loro sconosciuti. Il sostegno che ricevono
settimanalmente dalle volontarie insegnanti e i colloqui che proseguono con la psicologa sono segnali forti
di una presa di coscienza della propria vita e per la propria famiglia. Purtroppo la crisi che sta attraversando
la società rende difficile l’inserimento lavorativo, ma il rafforzamento della propria personalità permette di
affrontare le frustrazioni e superarle con efficacia.
Per quanto riguarda gli uomini, possono essere riportate due differenti risposte. Un gruppo è arrivato ai
colloqui con molte domande, riferite all’utilità del percorso svolto e alla richiesta di lavoro. Gli incontri svolti
sono stati letti, erroneamente, come formazione per un inserimento professionale. Tutto il lavoro svolto su
se stessi è stato accantonato e ritenuto troppo dispendioso per compiere un bilancio della propria vita e
ripartire da dove ci si era arenati. Il colloquio si è sviluppato prevalentemente sulla descrizione delle
competenze professionali che potessero essere inserite nel Cv e sulla ricerca di corsi professionalizzanti a
numero aperto. Con lo stupore della maggioranza di essi, ci si è resi conto della necessità di terminare gli
studi di licenza media (test delle 150 ore) prima di accedere alla professione. L’ennesima incertezza sul futuro
ha reso necessario strutturare degli incontri periodici di verifica sull’andamento dell’istruzione e delle scelte
professionali e personali.
Il resto del gruppo, 7 giovani, appartenenti ad una classe socio-economica medio-alta hanno compreso il
significato del lavoro introspettivo compiuto e hanno terminato il percorso, consapevoli delle proprie
competenze e potenzialità, desiderosi di poterle mettere in atto. Anche con loro si è deciso di compilare ed
aggiornare il Cv con le competenze specifiche di ciascuno e sono stati invitati a seguire il corso base di
sicurezza sul lavoro, necessario anche per permettere di far comprendere loro i diritti e i doveri dei lavoratori
in Italia.
Il gruppo di giovani rifugiati coinvolti ha partecipato attivamente, i partecipanti sono riusciti a condividere
aspetti dolorosi della propria vita, collaborare alla discussione, a volte comportandosi come traduttori, e ad
instaurare relazioni sociali.
Il progetto realizzato ha permesso di capire meglio quali siano le reali esigenze di un gruppo specifico di
utenza che è dovuto fuggito dal proprio paese e si ritrova in Italia a dover ricominciare da capo, sia con la
costruzione di nuovi legami e relazioni personali, sia con l’acquisizione di competenze professionali.
Seppur il numero di giovani coinvolti sia stato esiguo, il percorso proposto è stato utile per tentare di
progettare degli strumenti principalmente iconici, attraverso i quali entrare in relazione con soggetti
stranieri. Grazie al contributo stanziato, i primi passi sono stati fatti per migliorare l’integrazione sociale delle
persone rifugiate.