leggi un assaggio - Ad est dell`equatore

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leggi un assaggio - Ad est dell`equatore
l’origine del mondo
Tuttavia, per quanto bella vi possa sembrare l’odierna Parigi, rifate quella del
quindicesimo secolo, ricostruitevela nel vostro pensiero, guardate la luce attraverso
a quella incantevole selva di guglie, di torri e di campanili, stendete in mezzo
all’immensa città, frastagliate alla punta delle isole, costringete agli archi dei ponti
la Senna con le sue larghe chiazze verdi e gialle, più mutevole della pelle di un
serpente, intagliate nettamente su un azzurro orizzonte il profilo gotico di quella
vecchia Parigi, fatene ondeggiare il contorno in una bruma invernale che si abbarbica ai suoi innumerevoli camini; immergetela in una notte profonda, e guardate
l’estroso gioco delle tenebre e delle luci in quel cupo labirinto di edifici. [...] E dite
se conoscete al mondo alcunché di più ricco, di più splendido di questo tumulto di
campane, di questa fornace di musica, di queste diecimila voci di bronzo che cantano assieme in flauti di pietra alti trecento piedi da terra, di questa città che non
è più che un’orchestra, di questa sinfonia che ha tutto il clamore di una tempesta.
Victor Hugo, Notre-Dame de Paris
prospetto place de la Concorde
aeroporto di orly - orlybus, andata
Parigi, agosto 2010.
La prima cosa che mi torna in mente, nel ripensare al mattino del
mio arrivo in città tre anni fa, è la mia immagine scomposta nelle
losanghe delle pozzanghere di boulevard Montparnasse, e le sagome
degli alberi dai tronchi poderosi, che apparivano e sparivano nell’ondeggiare del fogliame.
Al mio fianco Arturo, il ragazzo che amavo. Era stato lui a insistere
perché lo seguissi in quella festa mobile.
Arturo ce l’aveva fatta. Prima di lui avevano fallito persino Baudelaire, Proust ed Hemingway. Era riuscito a convincermi con parole
semplici e ora eravamo lì, nel cuore di un’afosissima estate e in quella
che mi parve da subito una città irreale e sconfinata.
Il ricordo di allora si mescola alle immagini di questo secondo
viaggio nella capitale francese: il muscoloso leone di place DenfertRochereau tra una fiumana di giovani infagottati nonostante il caldo
e gli occhi vispi di Tiziana, l’amica che mi aspetta e che riconosco
nella folla.
È la prima volta che c’incontriamo, Facebook ha fatto da congiunzione a un affetto sincero, maturato nel tempo. Di Jean-André, suo
marito, mi colpiscono la stretta vigorosa e il sorriso buono: eccolo
strapparmi di mano il valigione per caricarselo sullo scooter, rischiando persino una multa. Poi, eccolo indicare l’ingresso della metro con
cui io e la moglie lo raggiungeremo a Notre-Dame. Obbediamo meccanicamente incanalandoci lungo gli stretti corridoi invasi da una piccola calca: Tiziana mi fissa, interrogativa, forse in grado di leggere nel
mio vuoto di pensieri, ma non faccio nulla per fuggire il suo sguardo;
non sono pentito della scelta di tornare, sono solo un po’ stanco,
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carico d’adrenalina e spavento. Tre fermate e scendiamo, e daccapo
quella sensazione di disagio, il timore di soffocare sotto una mareggiata di emozioni perché tutto sta tornando a confondersi dentro di
me: il benvenuto dello steward, giovane, carino, labbra carnose su
chiostra di denti bianchissimi; l’applauso dei passeggeri, l’impazienza
di arrivare, il sibilo lento dell’apertura delle porte, ogni cosa scolpita
in un suo nitore vertiginoso, tutto promettente e terribile, come la
città che mi si rivela sullo sfondo di una piazza vociante e piena di
colore, il suo abbaglio leggero, la sua infinita offerta, tutto perfetto,
tutto in ordine, quasi fosse il piano premeditato di un copione.
Poi, d’un tratto, la minaccia della solitudine, una solitudine che non
avevo messo in conto, gli occhi che mendicano mute rassicurazioni,
i passi che s’appesantiscono, di colpo la certezza che ora toccherà a
me proseguire, e scegliere, perché da qualche parte il cammino dovrà
pure portarmi.
Ma dove?
paris o london? - orlybus, andata
Mentre l’aereo si abbassava di quota e il personale di volo ci
congedava con le formule di rito mi ritrovai a fare una considerazione.
Riconosco che non v’è antidoto al suo manicheismo, tanto mi pare
ovvia, eppure sono costretto ad ammetterlo: non ci avevo pensato
prima. Un tempo avrei creduto che il mondo si dividesse tra razionali
ed emotivi, tra sentimentali e cauti, istintivi e calcolatori, ma sbagliavo.
Mi sbagliavo di grosso. Due sono le sole possibili alternative: chi
ama Parigi con una ferocia a dir poco voluttuosa e chi la detesta
completamente. Il viaggio di adesso è qualcosa di nuovo, di differente,
anche se non si discosta del tutto dalle impressioni della prima volta.
Allora mi accompagnava il calore di un progetto di coppia, l’idea di
una vita condivisa, resa invulnerabile dalla filosofia dell’amore. Nel
frattempo avevo letto guide letterarie, turistiche, reportage e mappe
topografiche. Le magre risorse della mia vita professionale – mentre
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quella privata cominciava segretamente a scricchiolare senza che me
ne accorgessi – erano prosciugate da quella sola parola di cinque
lettere. Paris. Mi piaceva l’accento sornione sulla “i”, alla francese.
Faceva più letteratura, e di letteratura all’epoca ero affamato. Avevo
già accantonato tre romanzi finiti, e sebbene un grosso editore avesse
mandato in stampa con discreto successo quattro raccolte di aforismi
sulla passione e sull’amore, nulla mi liberava dall’avvilente sensazione
che da troppo tempo la mia vita continuasse a girare a vuoto. Anche
Arturo aveva lavorato duramente nel corso dell’inverno e quei
giorni a Parigi, insieme, quella parentesi di pace lontano da tutto
ci parve quello di cui avevamo bisogno. Al rientro dalla vacanza la
realtà avrebbe impresso il suo giro di vite, complicando parecchio le
cose, ma all’epoca non potevamo prevederlo. Ci amavamo, e questo
bastava a farci sentire abitati da una specie di felice incoscienza.
Insieme eravamo invincibili, nulla avrebbe potuto scalfirci o farci
male. Avremmo pagato duramente il nostro errore.
17 quai d’anjou - métro cité
Charles Baudelaire. Se c’è una priorità da assegnare all’interno del
mio itinerario voglio che spetti a lui, poeta impareggiabile del cielo
eterno di questa città. Ho trascritto sul taccuino alcune delle immagini con cui l’autore lo raffigura all’interno delle sue pagine: profondo
(Hymne à la beauté), spirituale, di inaccessibile azzurro (L’aube spirituelle), chiaro e rosa in autunno e insieme infernale all’alba (L’irrèparable),
basso e livido come un coperchio (Spleen). Stamani invece è di un
glicine spento, greve, senza nuvole oltre l’ardesia dei tetti. È incredibile come a Parigi vita e arte finiscano sempre per sovrapporsi: me lo
dico sul ponte che dal trafficato quai de la Tournelle mi ricongiunge
all’isola e al luogo in cui il poeta va a vivere, nell’inverno del 1842,
dopo aver accantonato il progetto di un viaggio in India.
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casa di Charles Baudelaire
Baudelaire è giovane, entusiasta, forte della sostanziosa eredità
paterna di cui è da poco entrato in possesso, e che investe nell’affitto di due camere all’ultimo piano del lussuoso hôtel Pimôdan. Lo
stravagante personaggio che si aggira per le viuzze del quartiere in
pantofole e guanti rosa è lo stesso uomo provato, riemerso dallo
scontro affettivo con la madre, la vedova Caroline Archenbaut-Defayes, responsabile d’aver tradito il giuramento d’amore fatto a JosephFrançois, padre naturale di Charles, legandosi in seconde nozze al
tenente colonnello Jacques Aupick, despota autoritario e cocciuto
che vorrebbe inquadrare il figliastro esteta nei ranghi rigidi della sua
stessa carriera militare.
Un altro luogo, non distante dal quai d’Anjou, che dovette risuonare con strazio nel cuore ferito del poeta è il 20 rue Saint-Andrédes-Arts, dove lui e Caroline s’erano ritrovati a vivere alla morte del
marito, capo degli uffici amministrativi, uomo sensibile e non privo
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di interessi letterari, che sparisce dalla vita del figlio quando il piccolo
ha appena sette anni. Nelle umili stanze che a fatica la donna affitta
nel cuore storico della capitale, e a pochi passi dal 13 rue Hautefeuille,
dove Baudelaire è nato il 9 aprile del 1821, si delinea il perimetro
di un nuovo paradiso famigliare, un Eden di pienezza domestica la
cui cacciata segnerà drasticamente l’integrità psichica dell’artista. Il
ragazzo viene allontanato e rinchiuso in un collegio di Lione perché
l’altro, il rivale, l’usurpatore contro cui un giorno Charles imbraccerà il fucile urlando di voler vendicare così l’oltraggio subìto, l’altro
stringe e bacia la mano che nelle notti di rancore aveva chiuso le sue
dita di orfano. È solo la prima delle delusioni che intaccheranno un
animo puro, incline a fidarsi della bontà degli uomini. Gesualdo Bufalino, nell’acuta introduzione che dedica all’opera del poeta, ci parla
poi di un secondo desolante abbandono: quello di Dio, il creatore
che Charles s’era imposto di pregare ogni notte, con la disciplinata
fermezza della sua natura ossessiva. Anche Dio non risponde più alle
sue suppliche, muto come un feticcio di bronzo usurato dai millenni,
di colpo distante, estraneo, assente alle imprecazioni di questo disperato lucido con più cicatrici di un soldato al rientro da una guerra.
Nel ritratto che ne fa Nadar, Baudelaire ha il cranio rasato e sporgente dei galeotti, la fronte enorme, gli occhi dello spiritato e dell’assassino, e un pallore più intenso di quello dell’unica sorellina morta a
un mese di vita, la cui scoperta del cadavere, inizialmente nascostogli
dalla madre, genererà in lui l’irrompere delle visioni di putrefazione e
disfacimento fisico tanto crude e ricorrenti nelle sue migliori pagine.
L’ingresso nell’appartamento dell’hôtel Pimôdan segna il definitivo distacco dal passato e lo sviluppo della fase più matura della scrittura baudelairiana. Del resto l’isola è pure il quartiere in cui risiede
Jeanne Duval, l’avvenente Venere nera che farà da musa e compagna
all’autore per il resto dei suoi giorni, ed è l’epicentro della passione
creativa, l’affaccio su una stagione di laboriosa operosità, nella quale
prenderanno forma le prime liriche condivise con gli amici. Jeanne
lascerà il modesto rifugio in rue de la Femme sans tête per seguire
l’amante tra i fasti della sua incantevole dimora – la stessa davanti al
cui portone aperto mi fermo paralizzato da una specie d’incredulità.
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a sinistra: rue de la Femme sans tête
a destra: casa di Charles Baudelaire; condutture
Non una targa, un’iscrizione per commemorare chi forse più di
tutti ha messo Parigi al centro della propria ispirazione. Sono costretto ad affidarmi a quanto raccontano le fonti, abbastanza eloquenti
sull’eleganza del domicilio e sulle sue finestre, dai vetri semi-oscurati,
nel palazzo al cui piano di sotto visse il pittore Boissard de BoisDenier, autore di una Campagna di Russia che rasenta i vertici del virtuosismo romantico, e ancora più in basso l’uomo che condurrà Baudelaire al dissesto economico: l’astuto venditore di antichità Arondel.
Il furbo commerciante ha compreso il fascino che le sue mobilie
polverose esercitano sullo spirito estetizzante di un uomo, un genio,
che non ha ancora imparato – e forse non ci riuscirà mai – a badare
a se stesso. Le sue stanze sono infatti arredate col gusto del dandy
consacrato alla pretesa di stupire a ogni costo: carte da parati a
tramature rosse e nere, un dipinto di Delacroix che sembra fissare
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sospettoso chiunque oltrepassi la soglia dell’abitazione, un tavolo di
legno pregiato, qualche poltrona Chanoine e Douarière. I libri, raccolti
su mensole di ciliegio incassate a muro, sfoggiano rilegature costose,
capolavori di un artigianato editoriale elitario e inavvicinabile, come i
calici di smeraldo trasparente in fondo ai quali si stanno precocemente
dissipando le finanze non più floride del poeta. Il registro dei conti lo
inchioda alla realtà: in meno di tre anni oltre la metà del patrimonio
su cui Charles aveva fatto affidamento è andato in fumo: il 30 giugno
1845 Baudelaire stringerà tra le mani il pugnale con cui inscenare il
primo dei suoi tentati suicidi. Inoltre, la lucidità mentale è seriamente
compromessa dall’hascisc, da quando il suo salotto è divenuto il
raduno del Club des Haschischins, un gruppo che comprende, tra
gli altri, il poeta e compagno di studi Théophile Gautier, lo stesso
Boissard de Bois-Denier, Eugène Delacroix, Balzac e un medico, il
docteur Moreau, interessato ad accertare gli effetti sensoriali che l’uso
degli stupefacenti produce sui consumatori.
Durante questi raduni mensili in cui si ascolta pure della buona
musica a nessuno sembra sfuggire il fascino di Jeanne, della sua carnagione d’ambra, che fa pensare a paesi lontani, climi tropicali, deserti rossobruni e spiagge d’oro. Tuttavia la felicità appare impossibile, perché l’affabile padrone di casa ha subìto un cambiamento
impressionante: non è più il seducente lunatico in possesso di una
delle più belle case nel cuore di Parigi: presto la diagnosi di sifilide
verrà a presentargli la sua lenta ma inappellabile condanna e una disperazione nuova scenderà sulle sue giornate. Gli attacchi di panico
e le sudorazioni improvvise lo costringeranno a correre in strada,
tra le folle derelitte di una metropoli che sta crescendo e alla quale
lui – adoratore della velocità e della corrente interiore che la flânerie
promette agli angeli neri dei crocicchi – sente di somigliare nella sua
decaduta aristocrazia di cigno, di animale braccato, di albatro morente finito ad annaspare tra le intercapedini ingannevoli del quotidiano.
Non è però sull’isola che Charles Baudelaire concluderà la sua opera poetica ma sull’altro lato della Senna, al 19 quai Voltaire, al quinto
piano dell’hôtel du quai Voltaire che accoglierà un giorno pure Oscar
Wilde e un ispirato Richard Wagner. Sarà lì, davanti al fiume che così
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spesso ha evocato - la verde, la nera Senna delle sue più folgoranti
liriche - che avrà termine la parabola umana di questo incantatore
nato che ha saputo cogliere l'essenza demonica della città. Morirà a
46 anni dopo la logorante serie di processi per le Fleurs du mal, ormai
cieco e deformato dalla malattia.
tomba di Charles Baudelaire
notre-dame - métro cité
Ho ancora davanti agli occhi l’immagine dell’elegante facciata
dell’hôtel Pimôdan, coi suoi merletti dorati, il suo fasto ameno,
malinconico. E i flutti della Senna, gonfi, gorgoglianti, come
all’interno delle pagine del poeta. A pochi passi dalla storica dimora
baudelairiana, dinanzi alla mole imponente di Notre-Dame – una
chiesa che porta il nome di un romanzo, e non viceversa – deduco
che è esattamente l’inizio che avrei voluto. Parlare di Parigi senza
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partire dal suo più autorevole cantore sarebbe stato fuorviante,
oltre che di cattivo gusto. Parigi è anzitutto Baudelaire, e ritengo
simbolico che sia stato proprio uno dei luoghi più significativi della
sua vita a battezzare questo mio nuovo approdo in città. Infatti siamo
vicini di casa, dato che il boulevard Saint-Germain al cui 13 andrò ad
abitare rappresenta la via parallela all’alberato quai de la Tournelle
che costeggia l’isola. Per me è un segno. L’ennesimo con cui Parigi
sembra voler spalancarmi le porte del suo reame. Lo faccio mio. In fin
dei conti voglio che questo mio racconto somigli a una passeggiata,
una passeggiata lungo le insenature e le rientranze della città – un
vagare nella sua luce fredda, un assecondare il fondo buio dei suoi
silenzi. Voglio che ne restituisca la felicità nascosta, la scoraggiante
ineffabilità. Mi toccherà fissare una scaletta, un programma, ma mi
mancano decisamente le forze per farlo adesso: mi accorgo di non
avere pranzato e la stanchezza accumulata comincia a farsi sentire.
Mi soffermo senza intenzione davanti a una creperia, ma non entro,
preferisco vagare ancora un po’ per il quartiere prima di rincasare e
svuotare la valigia. Il sussulto dell’ascensore mi riporta di sopra. Tiro
fuori una sigaretta e l’accendo sul terrazzo, che esploro con un pizzico
d’amarezza: minuscolo, poco più di un metro quadrato recintato da
grate di ferro, e occupato per un terzo da uno stendino e un cesto per
l’immondizia. Perfetto per due, mi verrebbe da dire, ma faccio in tempo a rasserenarmi concentrandomi sulla direzione da cui sono arrivato.
Vista dall’alto la città ha tutt’altra fisionomia. Gli occhi allucinati di
Baudelaire ormai prossimo alla fine mi tornano in mente insieme allo
sbalordimento che mi procura l’idea di trovarmi, in linea d’aria, a meno
di duecento metri dalla sua casa. Ecco che si affaccia pure il nome di
quel Nadar, il fotografo, sul quale avrei bisogno di reperire maggiori
informazioni. Vado su internet. È il primo riferimento che m’è parso
naturale associare alla figura del poeta. Sarà lui la prossima tappa, il secondo anello della mia incerta catena. Ho finalmente deciso quale sarà
il percorso: una scansione dei luoghi attraverso i luoghi, delle storie tramite le storie, una matrioska, una lista, un inventario, un elenco da percorrere. Mi sembra un’ottima idea, d’altronde per il momento non ho
niente di meglio. Spero solo di non pentirmene nel corso della notte.