0. Prime+Indice

Transcript

0. Prime+Indice
Giulia Colomba Sannia
S190
Exemplaria
Collana di autori e testi latini
Seneca
La saggezza dell’uomo
e l’orrore del mondo
®
Giulia Colomba Sannia
Exemplaria
Collana di autori e testi latini
Seneca
La saggezza dell’uomo
e l’orrore del mondo
®
A Renato,
che conosce
la saggezza
Copyright © 2006 Esselibri S.p.A.
Via F. Russo 33/D
80123 Napoli
Azienda certificata dal 2003 con sistema qualità ISO 14001: 2004
Tutti i diritti riservati
È vietata la riproduzione anche parziale
e con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione
scritta dell’editore.
Per citazioni e illustrazioni di competenza altrui, riprodotte in questo libro,
l’editore è a disposizione degli aventi diritto. L’editore provvederà, altresì, alle
opportune correzioni nel caso di errori e/o omissioni a seguito della segnalazione
degli interessati.
Prima edizione: febbraio 2006
S190
ISBN 88-244-7985-5
Ristampe
8 7 6 5
4
3
2
1
2006
2007
Questo volume è stato stampato presso
Arti Grafiche Italo Cernia
Via Capri, n. 67 - Casoria (NA)
Coordinamento redazionale: Grazia Sammartino
Grafica e copertina:
Impaginazione:
Grafica Elettronica
2008
2009
Premessa
In un bell’articolo del 1983, intitolato Il Latino che serve, attualissimo nella disarmante sincerità
con cui è scritto, lo scrittore Luigi Compagnone affermava: «Io ho amato e amo il Latino…Se
ho amato e amo il Latino non è per merito mio. Il merito è della fortuna che come primo
insegnante di materie letterarie mi dette un professore che si chiamava Raffaele Martini… La
sua lezione era un colloquio vivo, un modo chiaro e aperto di farci capire il Latino che per
noi non fu mai una lingua morta. Perché lui sapeva rendere vivo tutto il vivo che è nel Latino.
E nessuno non può non amare le cose vive che recarono luce alla sua adolescenza […]. In
una società in cui le parole di maggior consumo sono immediatezza, praticità, concretezza,
utilitarismo, la caratteristica del Latino è costituita dal “non servire” a nessunissima applicazione immediata, pratica, concreta, utilitaria… [Il Latino] fa intravedere che al di là delle
nozioni utili c’è il mondo delle idee e delle immagini. Fa intuire che al di là della tecnica
e della scienza applicata, c’è la sapienza che conta molto di più perché insegna l’armonia del
vivere e del morire. È una disciplina dell’intelligenza, che direttamente non serve a nulla, ma
aiuta a capire tutte le cose che servono e a dominarle e a non lasciarsi mai asservire ad esse
[…]. La disgrazia più inqualificabile [per gli studenti] è essere stati inclusi negli studi classici
senza averne tratto nessun vantaggio intellettuale, la vera disgrazia è aver fatto gli studi
classici ritenendoli e mal sopportandoli come il più grave dei pesi… [perché] al tempo della
scuola tutto si è odiato, […] tutto è stato condanna e sbadiglio».
Come dare, dunque, ai ragazzi un Latino che serve ed evitare che il suo studio sia noia
e peso, un esercizio poco proficuo, un bagaglio di conoscenze sterili, di cui liberarsi presto,
non appena si lascia la scuola, se non addirittura, subito dopo la valutazione?
C’è una sola via che conduce all’amore per il Latino e quella via è costituita dalla lettura
dei testi in lingua originale, ma di quei testi che nei secoli hanno resistito alla selezione
e in tutte le epoche sono apparsi imprescindibili. Non possiamo illuderci che la biografia
di un autore, un contesto storico, una pagina critica, un frammento di Nevio, un brano di
Ammiano Marcellino possano avere lo stesso valore e la stessa funzione di una pagina di
Lucrezio o di Tacito, di Catullo o di Cicerone. Quella sapienza che insegna l’armonia del
vivere e del morire, la quale costituisce il portato più alto della cultura classica, passa
d’obbligo attraverso la lettura di testi di altissima qualità. È la lingua latina, con la
perfezione geometrica della sua struttura, con l’armonia delle sue assonanze, con la
raffinatezza dei suoi accorgimenti retorici, a comunicare emozione e rigore logico, senso
del bello e razionalità, accendendo l’interesse dell’adolescente posto di fronte ai grandi
interrogativi della vita.
Aver studiato il Latino, significherà, perciò, per i ragazzi, non tanto aver imparato la
biografia di Cicerone o di Plauto o di Ovidio, o il contesto storico in cui essi hanno vissuto,
ma aver meditato sulle loro parole. In tutte le epoche le loro opere sono state lette e rilette,
5
ricercate dagli umanisti in tutte le biblioteche d’Europa, riportate all’esatta lectio filologica,
preservate dall’oblio dai monaci medioevali perché ricopiate con amore.
Ci sono saperi che soltanto la scuola può dare, chiavi di lettura che solo da adolescenti
si ricevono e che, una volta perduti o ignorati, non si recupereranno mai più. Uno studente,
che non abbia letto nella lingua originale Virgilio o Lucrezio o Agostino o Tacito (come
se non avrà letto Dante, Boccaccio e Ariosto), che non abbia acquisito sensibilità di lettore
attraverso la consuetudine con le analisi testuali, mai più potrà provare il brivido di
emozione che la parola poetica comunica. Forse nel tempo, se e quando un’arricchita
sensibilità adulta gli farà avvertire il bisogno di tornare al passato, ricercherà in traduzione
italiana qualche autore particolarmente amato, come Seneca o Catullo. Ma, perché si
manifesti questo desiderio, la scuola dovrà aver trasmesso almeno il senso dello studio del
latino, focalizzando l’attenzione su quello che è grande ed essenziale, evitando di far
disperdere energie ed interesse sull’inutile.
Ci piace citare, a sostegno di quanto si è detto, le parole di Nuccio Ordine.
Nel Convegno tenutosi a Roma dal 17 al 19 marzo 2005 sul tema «Il liceo per l’Europa della
conoscenza», promosso da EWHUM (European Humanism in the World), Nuccio Ordine ha
usato parole che confermano, senza saperlo, quanto andiamo sostenendo da anni sulla
didattica del Latino e che sentiamo il dovere di riportare per la profondità e la chiarezza del
pensiero espresso:
«Conoscere significa “imparare con il cuore”. E ha ragione Steiner a ricordarci che […]
presuppone un coinvolgimento molto forte della nostra interiorità. In assenza del testo,
nessuna pagina critica potrà suscitarci quell’emozione necessaria che solo può scaturire
dall’incontro diretto con l’opera. […]. Nel Rinascimento (i professori) si chiamavano “lettori”,
[…] perché il loro compito era soprattutto quello di leggere e spiegare i classici. […] Chi
ricorderà a professori e studenti che la conoscenza va perseguita di per sé, in maniera gratuita
e indipendentemente da illusori profitti? Che qualsiasi atto cognitivo presuppone uno sforzo
e proprio questo sforzo che compiamo è il prezzo da pagare per il diritto alla parola? Che
senza i classici sarà difficile rispondere ai grandi interrogativi che danno senso alla vita
umana? […]. Non è improbabile che le stesse biblioteche – quei grandi “granai pubblici”, come
ricordava l’Adriano della Yourcenar, in grado di “ammassare riserve contro un inverno dello
spirito che da molti indizi mio malgrado vedo venire”, – finiranno a poco a poco, per
trasformarsi in polverosi musei. E lungo questa strada in discesa, chi sarà più in grado di
accogliere l’invito di Rilke a “sentire le cose cantare, nella speranza di non farle diventare
rigide e mute”? “Io temo tanto la parola degli uomini./Dicono sempre tutto così chiaro:/ questo
si chiama cane e quello casa,/ e qui è l’inizio e là è la fine/ […] Vorrei ammonirli: state
lontani./ A me piace sentire le cose cantare./Voi le toccate: diventano rigide e mute./ Voi mi
uccidete le cose”».
Sulla base di questi presupposti teorici nasce l’antologia latina in fascicoli della collana
Exemplaria che comprende autori e temi di tutta la letteratura latina. Ogni singolo volume
costituisce l’ossatura della storia letteraria e al tempo stesso una sorta di passaggio obbligato
della cultura, perché tutta la letteratura posteriore e tutta la cultura occidentale hanno avuto
come fermo punto di riferimento questi autori. Ed essi sono diventati exemplaria appunto
(da cui il titolo della collana), perché modelli da accettare o rifiutare, ma comunque con
i quali necessariamente confrontarsi per capire il presente.
La scelta dei testi è stata guidata, quindi, dall’esigenza di focalizzare l’attenzione degli
studenti sia sulla personalità dell’autore, sulla sua poetica, sul genere letterario privilegiato
6
Premessa
e sia, soprattutto, dal desiderio di suscitare l’amore per una lettura che aiuti a capire se
stessi e la vita.
È importante capire bene la struttura dei volumetti per poterla utilizzare al meglio. Ogni
autore è introdotto dal paragrafo Perché leggerlo?, che consiste nella spiegazione, in
sintesi, delle qualità per le quali quell’autore è diventato famoso e merita lo studio.
La vita e il contenuto delle opere hanno, poi, un piccolo spazio in quanto sono solo
funzionali alla migliore ricezione dei testi. Non manca un paragrafo sul genere di appartenenza o sul tema topico relativo.
Ogni singolo brano quindi è introdotto da una presentazione più o meno breve, per
fornire immediatamente agli studenti le informazioni sul contenuto, seguito dalle note al
testo, che propongono sempre la traduzione e commenti di carattere morfosintattico,
mitologico e storico-culturale, e dall’analisi testuale che permette di cogliere il messaggio
poetico dell’autore, attraverso le strutture formali, stilistiche e letterarie, sia in rapporto ai
generi che alle connessioni intertestuali e intersegniche.
A conclusione di ogni percorso didattico i Laboratori prevedono prove di verifica delle
abilità e delle competenze acquisite sul modello della tipologia A (Analisi testuale) della
prima prova (italiano) all’Esame di Stato, con la scansione consueta del Ministero, in
comprensione, analisi, approfondimento. Poiché si tratta di lingua latina, l’analisi si divide
in analisi morfosintattica sulle concordanze, sui casi ecc. e analisi semantica, sullo stile
e sul linguaggio. L’approfondimento, talvolta, fa riferimento anche alla tipologia B o D
dell’Esame di Stato (saggio breve o trattazione generale). Lo scopo è stato quello di abituare
gli studenti a un metodo che sappia distinguere le fasi del lavoro: comprendere, analizzare,
sintetizzare, approfondire ecc. Non si è voluto rinunciare a momenti di creatività: si vedano
gli esercizi “dare un titolo”, o “creare uno schema”, i confronti “intersegnici” ecc. Questo
tipo di esercizi nella prassi didattica si è sempre rilevato molto gradito agli studenti e
utilissimo a stimolare la loro capacità di osservazione e la loro creatività.
contraddistingue alcuni testi e
Una coppa circondata da una coroncina di alloro
prove di verifica di particolare complessità, che possono essere riservati a quegli alunni che
mostrano il desiderio di approfondire o ampliare lo studio dell’argomento e vogliano
perseguire l’eccellenza.
Non mancano le Pagine critiche che offrono le interpretazioni di noti studiosi su aspetti
e tematiche riguardanti l’autore e la sua opera.
I brani antologici sono accompagnati talvolta dai confronti intertestuali e intersegnici e dalla
rubrica Incontro tra autori in cui si confrontano due autori su differenti versioni di un
mito o differenti interpretazioni di un personaggio storico. Personaggi storici, come Cesare,
Bruto, Catilina, o mitici, come Orfeo, Medea, Cassandra, tanto per fare solo qualche nome
molto noto, oppure alcuni episodi famosi, ritornano nelle opere di autori diversi ed ogni
autore li “legge” differentemente, secondo la sua sensibilità e il suo intento poetico. Il titolo
della rubrica richiama una terminologia che si dice ucronica, da oúk + krónos («senza
tempo»), cioè come se essi potessero, per assurdo, incontrarsi al di là delle loro epoche
storiche e del contesto in cui vissero, per esprimere ciascuno di loro, nell’opera letteraria,
il proprio pensiero sullo stesso tema.
Chiude ogni singolo fascicolo il Vocabolario dei termini tecnici.
Premessa
7
Indice
Premessa
p.
5
Introduzione
»
12
»
»
»
»
»
»
»
»
»
»
14
15
16
18
21
26
27
28
33
40
»
44
»
»
»
»
46
50
52
54
»
»
»
»
»
58
59
62
65
66
»
»
»
»
»
»
»
68
68
69
70
72
73
74
Il pensiero filosofico
1. Perché leggerlo?
2. Il genere letterario di appartenenza: il testo filosofico
3. La vita
T1 De brevitate vitae I, 1-4: La vita non è breve
Incontro tra autori: Orazio e Seneca: La fugacità del tempo (Ode I, 9; Ode I, 11)
Pagine critiche: Il tempo e la saggezza (A. Traina)
Il tempo: un tema topico (a cura dell’autrice)
T2 Epistula ad Lucilium 41, 1-8: Il divino è in noi
Incontro tra autori: Dante, Borges e Seneca: L’incontro con Dio (Paradiso 33; Aleph)
T3 Epistula ad Lucilium 47, 1-5, 10-11: Gli schiavi sono uomini
C1 Confronto intertestuale tra Epistula ad Lucilium 47 e Satyricon, 71, 1-3, di
Petronio: Gli schiavi
C2 Confronto intertestuale tra Epistula ad Lucilium 51 e testimonianze letterarie
su Baia: Un luogo corrotto
Pagine critiche: Baia (A. Maiuri)
T4 Epistula ad Lucilium 59, 14-18: Solo il saggio è felice
Incontro tra autori: Lucrezio e Seneca: La felicità (De rerum natura II, 1-61)
C3 Confronto intertestuale tra Epistula ad Lucilium 59 e Zibaldone, 165-166,
di Giacomo Leopardi: Che cosa rende felici
T5 Epistula ad Lucilium 95, 51-53: La fratellanza
T6 De vita beata XVI, 1-3: La felicità
Incontro tra autori: Bufalino e Seneca: La felicità (Argo il cieco)
Pagine critiche: La felicità (a cura dell’autrice)
Laboratorio
Prova
Prova
Prova
Prova
Prova
Prova
di
di
di
di
di
di
verifica
verifica
verifica
verifica
verifica
verifica
1
2
3
4
5
6
-
Confronto intertestuale: La fratellanza in Seneca e in Giacomo Leopardi
Epistula ad Lucilium I, 7, 1-3
Epistula ad Lucilium XLIX, 2-5
Epistula ad Lucilium XIV, 95, 47-49
Naturales questiones VI, 32, 9-10
Confronto intertestuale: Scienza e superstizione in Seneca e in Bayle
9
Prova di verifica 7 - Confronto intersegnico tra: Opere ed erma di Seneca e scultura di
Augusto
Prova di verifica 8 - Confronto intertestuale: Opere di Seneca e Costantino Kavafis
“Un vecchio”
p.
76
»
78
»
»
»
»
»
»
»
»
80
80
82
87
91
95
96
98
»
»
»
100
100
102
Metrica
»
108
Vocabolario dei termini tecnici
»
112
Il teatro tragico
1. Perché leggerlo?
2. Il genere letterario di appartenenza: la tragedia
T1 Medea V, sc. 2ª e 3ª, 893-1027: L’infanticidio
Incontro tra autori: Christa Wolf e Seneca: L’infanticidio di Medea (Medea, Stimmen)
T2 Thyestes V, sc. 3ª, 976-1009: Il banchetto
Pagine critiche: Il perfetto equilibrio tra i due protagonisti del Tieste (A. La Penna)
La tendenza all’eccesso del teatro senecano (E. Paratore)
Un giudizio positivo sul teatro senecano (V. Faggi)
Laboratorio
Prova di verifica 1 - Confronto intertestuale: Tieste in Seneca e in Ludovico Dolce
Prova di verifica 2 - Phaedra, 592-612, 634-71
Legenda:
T
C
= testo con analisi
= confronto intertestuale o intersegnico
= testi o verifiche di particolare complessità per l’eccellenza
10
Seneca:
• Il pensiero filosofico
• Il teatro tragico
La saggezza dell’uomo,
l’orrore del mondo
Introduzione
Ma come è possibile – a volte ci si chiede, sgomenti – che nel mondo ci sia tanto orrore?
Come è possibile conciliare la grandezza dello spirito umano che sa creare e dominare il
mondo, che sa tendere al divino, che sa nutrire pensieri saggi e nobili, che sa amare e
soffrire, sognare e gioire, con l’abiezione repellente che si annida nella mente dell’uomo
e genera mostruosità quotidiane?
Se lo deve essere chiesto forse anche Seneca. Non sono soltanto le sue opere a dircelo
con chiarezza. È il suo ritratto conservato al Museo Nazionale di Napoli, qui proposto nel
logo, che sembra racchiudere questo interrogativo, attraverso l’angoscia degli occhi perduti
nel vuoto, la bocca serrata nel silenzio. Una domanda senza risposta. Il saggio stoico,
l’affascinante maestro di filosofia, l’ultimo grande scrittore di humanitas, che ha creduto
nella natura “divina” dell’uomo, deve, poi, avere avvertito il brivido della consapevolezza,
quando ha capito che un’anima grande non basta a salvarsi e non basta a salvare gli altri
mentre resta fisso il tormento di assistere al male che dilaga quotidiano. Sempre, duemila
anni fa, come oggi. Dice Georges Bataille, nel famoso saggio La letteratura e il male: «Il
Male che si esprime [nella letteratura] ha per noi […] valore sovrano. Tuttavia questa
concezione non esige un’assenza di morale: essa esige piuttosto una “ipermorale”. Questa
ipermorale attraversa le opere di Seneca. Quanto più intorno a sé giganteggia il demoniaco,
tanto più dentro di sé si deve nutrire il divino».
Non ci sono, quindi, vie di mezzo, per Seneca: o ci si eleva verso l’ideale severo dello
stoicismo e si impara a vivere e morire, o ci si degrada nella depravazione miserabile.
Questa creatura, sublime e miserabile insieme, che è l’uomo, che può scegliere, libero e
sovrano di se stesso, come dirà mille e quattrocento anni dopo Pico della Mirandola, di
essere angelo o demone, abita tutte le pagine di Seneca.
Noi leggiamo le sue opere filosofiche e restiamo incantati di fronte alle sue parole
illuminate: vi troviamo messaggi di serenità, di equilibrio, di pace. È il trionfo della ragione.
Poi leggiamo le sue tragedie e ci sentiamo inorridire di fronte alla crudeltà che si asserpa
nell’animo nei personaggi e si traduce in gesti, che – bisogna purtroppo ammetterlo – oggi
non ci sembrano né assurdi, né irreali, perché vi ci siamo assuefatti, abituati dalla cronaca
quotidiana a rivederli e risentirli ripetuti ancora, ancora, senza spiegazione. Ed è il trionfo
dell’irrazionale mostruoso.
Troviamo, dunque, da un lato, il sapiente dall’intensa spiritualità che ci insegna a vivere,
che ci aiuta a non sprecare il tempo, ci invita ad arricchire l’anima di sentimenti elevati,
ad affinare la nostra sensibilità, per renderla sempre più profonda, a correggere i vizi, a
tendere instancabilmente verso il bene, credendo nella natura fondamentalmente buona
dell’uomo. Ci dice parole di conforto e di speranza, di pace e di amore, nobilissime parole
laiche, quasi precristiane.
12
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
• Introduzione
Poi, dall’altro lato, nelle sue tragedie, troviamo anche, – passi l’ossimoro, – «un’umanità
disumana» che si perde nella vertigine del male, che si fa trascinare verso azioni mostruose,
quasi sempre dirette verso i più deboli, entra nella spirale della perversione che non
conosce limiti. Dalle opere filosofiche alle tragedie, il passaggio assume un significato
emblematico: è la disperante consapevolezza che, talvolta, non ci sono argini che frenino
il male, non soccorrono né sapienza, né cultura, né intelligenza, per evitare di perdersi.
Così, sono i grandi personaggi della tragedia greca che diventano icone del male, spinti
all’estremo da un’infelicità che non conosce altro desiderio se non quello che nasce
dall’ossessione di ricambiare, in forma morbosamente esasperata, il male ricevuto. Si dice
che ogni scrittore scriva una sola opera, anche quando la sua produzione letteraria è
cospicua, per intendere che sempre unico è il suo messaggio anche nella varietà degli
argomento o dello stile. Per Seneca, invece, sembra quasi di assistere allo sdoppiamento
dell’autore tra opere filosofiche e teatro.
Eppure, se ci riflettiamo a fondo, le due produzioni si saldano perfettamente. Se, infatti,
Medea, Fedra, Tieste, Atreo, Edipo, ci mostrano che la saggezza del singolo si perde nello
scenario degli orrori, noi, proprio di fronte alle loro azioni, riusciamo, comunque, a conservare nel cuore la grandezza del messaggio filosofico delle Lettere a Lucilio e degli altri suoi
trattati. Ci sembra allora di poter ricordare sempre non le parole di odio dei personaggi
tragici, ma le parole del saggio che ci dice: «non sprecare la vita, la vita è lunga per chi sa
usarla bene, l’amore dà significato al vivere, fermati, riposa, medita, non correre, non
affrettarti ingiustificatamente, sappi scendere nel fondo del tuo cuore e di quello di chi ti sta
vicino». L’individuo, per Seneca, può e deve coltivare sempre la sua dignità, rispondendo
delle sue azioni non alla società, ma alla sua coscienza. Bisognerà aspettare il cristianesimo
per poter saldare il destino di salvezza del singolo con quello dell’umanità tutta.
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
13
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
Il pensiero filosofico
1. Perché leggerlo?
Seneca era così affascinante, – narra Svetonio (53) –, da provocare la rabbia e l’invidia di Caligola.
Oggi, noi ritroviamo quel fascino straordinario nelle sue opere. Si dice, infatti, che Seneca ha
inventato «la scrittura dell’interiorità». È per questo motivo che la sua vastissima produzione
letteraria, specie quella filosofica, di stampo stoico (Epistulae ad Lucilium, De brevitate vitae, De
vita beata, De ira ecc.), si presenta al lettore moderno ricca di grande suggestione. Egli si pone
l’obiettivo di insegnare a vivere in modo sapiente e nobile: scava, allora, nell’animo umano, ne
studia il mistero, si chiede le ragioni dei comportamenti, le radici delle scelte, l’origine del diffuso
male di vivere e dell’imperdonabile spreco del tempo. Il lettore si ritrova sempre in quello che
Seneca scrive: scopre, guidato da lui, le pieghe più segrete della coscienza, i suoi lati più oscuri,
la vergogna delle proprie miserie, gli errori di una condotta non governata dalla sapientia. Ma
sente anche, nella parola illuminata del filosofo, la fiducia nella possibilità, data ad ogni individuo, di elevarsi dalle meschinità e di correggere i propri vizi, per potersi protendere verso quel
destino di perfezione a cui sa di essere chiamato. E non importa se i critici hanno rimarcato la
contraddizione tra il modo di vivere dello scrittore, non sempre così nobile, e la nobiltà assoluta
del suo messaggio.
La profondità morale dell’indagine psicologica, che emerge dalle sue opere, è tale che fu addirittura ipotizzato un suo contatto, attraverso S. Paolo, con il cristianesimo, la religione che
insegnerà a guardare nelle coscienze. Ma Seneca, nella intensa spiritualità delle sue parole, resta
comunque uno spirito laico, che crede nella grandezza del singolo e nella sua capacità di salvarsi,
come uomo, da solo, senza l’aiuto di nessun dio. Non a caso egli crede nell’otium, nella quieta
meditazione filosofica, come strumento di perfezione interiore. Anche Seneca, come Cicerone,
perciò, insegna a vivere e, direbbe lui, soprattutto insegna a morire: tota vita discitur mori, «per
tutta la vita si impara a morire», come egli stesso dimostrò quando gli fu imposto da Nerone il
suicidio.
Saper vivere e saper morire significa, pertanto, accettare il proprio destino e conservare appieno la
propria dignità. Un pensiero il suo, quindi, legato all’humanitas ciceroniana, ma ancora più intensamente elevato, perché, accanto alla dignità dell’individuo, egli pone come valore supremo la
filantropia, un amore universale che – traguardo incredibile per quei tempi – arriva ad estendersi
perfino agli schiavi: Servi sunt, immo homines. Basterebbe la complessità delle sue riflessioni a fare
di lui un grande scrittore, ma è il suo stile che lo rende così particolare: è uno stile nuovo, come
nuovo è il suo pensiero, con un andamento mutevole che mescola concinnitas e variatio, prolissità
e formule epigrafiche, ritmo pausato e velocitas, dando alla pagina un’inconfondibile connotazione
drammatica.
14
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
• Il pensiero filosofico
2. Il genere letterario di appartenenza: il testo filosofico
I testi filosofici latini più interessanti sono quelli di Seneca, di Cicerone e di Quintiliano.
Seneca nelle opere filosofiche non adopera più il dialogo, perché si rivolge direttamente al suo
destinatario (Lucilio, Paolino ecc.) il quale, in realtà, rappresenta il lettore ideale, cioè ogni uomo,
che egli vuole trascinare, commuovere, coinvolgere, grazie alla passione delle argomentazioni. È
evidente, perciò, la profonda diversità da Cicerone: la filosofia senecana non propone un pacato
ragionamento, chiede solo l’ascolto. È la forza della verità che deve travolgere la coscienza; occorre
flectere, movere, non più delectare, per docere.
Lo stile riflette, in modo vistoso, questa disposizione ideologica e così, ad un procedimento sintattico
ampio e sinuoso, subentra, improvviso, spezzando il ritmo del discorso, la sententia, la frase
brevissima, secca come un’epigrafe, balenante come un’illuminazione improvvisa. La paratassi e
l’asindeto rafforzano questo effetto desultorio dello stile: i connettivi soliti (enim, igitur, et) vengono
eliminati e sostituiti da nessi anaforici (servi sunt, immo homines, immo contubernales ecc.). È come
se il linguaggio subisse una sorta di climax per accumulazioni ed aggiunte progressive, finché non
giunge alla forza e all’evidenza della frase conclusiva, che diventa una sorta di aprosdóketon
(battuta finale). È chiaro che tutti gli strumenti della retorica, dalla concinnitas alla variatio, dalle
figure retoriche alla modulazione fonico-tonale, contribuiscono a creare la particolarità di quello
stile affascinante e fratto (abruptum) che Quintiliano (Institutio oratoria II, 7, 10) tanto criticava:
rerum pondera minutissimis sententiis…fregisset (aveva spezzato la serietà degli argomenti in
brevissime sentenze).
Alcuni critici hanno rilevato come proprio questo stile teso, nervoso, inquieto, rifletta perfettamente
l’irrazionalità e le passioni che assalgono ogni uomo, facendogli combattere una dolorosa e tragica
lotta interiore. L’uso del lessico, in particolare, così mutevole nell’oscillazione tra l’antico e il
quotidiano, diventa molto significativo per far cogliere questa lacerazione interiore: da un lato, note
espressioni del parlato sono disseminate ampiamente nel testo (per esempio: ita dico, non est quod,
quid dicam?), come se quel che si dice fosse diretto all’uomo semplice, dall’altro lato la paronomasia
(il gioco di parole), la metafora ardita, la litote, il lessico pregnante e così via, indicano il riflesso di
un pensiero alto e nobile, quale quello stoico, non accessibile a tutti. Ognuno, dunque, sembra
teoricamente dire il lessico, è chiamato alla grandezza del messaggio, ma, in pratica, l’uomo singolo,
nella sua realtà, si rivela debole a perseguirlo.
Seneca, così, come scrive Alfonso Traina1, crea il «linguaggio dell’interiorità» attraverso due metafore: l’interiorità come possesso e l’interiorità come rifugio.
Cicerone si dedica alle opere filosofiche durante il suo forzato distacco dalla politica, perché cerca,
come egli stesso dichiara, nella filosofia quella saggezza, quella «medicina per l’anima», che le
amarezze e i dolori di quel periodo gli richiedono. Non gli interessa, perciò, la speculazione filosofica
in sé, ma la sua funzione pragmatica di sostegno al vivere quotidiano. È fondamentalmente la
concezione dell’humanitas del Circolo degli Scipioni che Cicerone fa sua e arricchisce di straordinaria efficacia, ampliandone la portata fino a farla conciliare con l’impegno per lo Stato. La struttura
dei testi, pertanto, seguendo la forma dialogica di tipo platonico-aristotelico, in alcune opere
prevede il contrasto tra il personaggio principale, che espone la tesi dell’autore, e altri personaggi
che esprimono tesi contrarie; in altre, come nelle Tusculanae, il dialogo è limitato a due personaggi:
1
TRAINA A., Lo stile drammatico di Seneca, Patron, Bologna, 1987.
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
15
• Il pensiero filosofico
l’Auditor, che apprende, ponendo solo poche obiezioni o domande; il Magister, che educa, spiega,
illustra la tesi.
Lo stile, come egli spiega nel Brutus (322), è ben diverso da quello dell’oratoria, dal momento che
lo scopo è solo docere e delectare («insegnare e divertire»), non probare («convincere»). La lingua dei
filosofi, dice, neque nervos neque aculeos oratorios ac forenses habet («non ha né la tensione né
la forza pungente dell’oratoria») poiché l’intento è quello di «placare gli animi», sedare animos, «non
eccitarli», non incitare. Perciò mollis est oratio philosophorum et umbratilis…nihil iratum habet, nihil
invidum, nihil atrox, nihil miserabile, nihil astutum…sermo potius quam oratio dicitur («lo stile dei
filosofi è dolce e pacato…non ha nulla di violento, nulla di aggressivo, nulla di terribile, nulla di
patetico, nulla di allusivo, … si può definire colloquio piuttosto che discorso»).
Nonostante queste dichiarazioni, il livello stilistico dei testi ciceroniani è molto alto. Il lessico si
allarga a comprendere grecismi e neologismi del campo filosofico, come già aveva fatto Lucrezio,
ma la vera novità consiste, soprattutto, nell’estensione di significato attribuibile al lessema consueto: le forme visum-videri, ad esempio, sostituiscono al comune significato di «vedere» quello di
«percezione» e «percepire», pensiero, cioè, che nasce dalla «cosa vista».
La sintassi, quando è in un contesto esplicativo, per dare chiarezza, è semplice, ricca di coordinate;
quando, invece, c’è l’esordio (momento solenne) o qualche digressione topica (ad esempio l’elogio
della filosofia in Tusculanae V, 2, 5), si distende in ampie volute, con prevalenza dell’ipotassi.
Così pure, quando deve sostenere una tesi filosofica o confutare quella altrui, Cicerone usa per la
probatio e la refutatio le stesse tecniche argomentative delle orazioni.
Nell’Institutio oratoria Quintiliano si propone di dare precetti pedagogici avendo come modello
ideale di oratore il vir bonus dicendi peritus, come diceva Catone, e come modello di stile la scrittura
ciceroniana. Ma questa venerazione per il grande maestro, nonostante le sue intenzioni, non si
traduce in uno stile identico a quello di Cicerone.
La perfetta struttura geometrica creata dalla concinnitas classica spesso si spezza, per dar luogo a
piccole coordinate, all’ellissi del verbo, al periodo breve ad effetto, alla costruzione ad sensum, tutti
elementi stilistici questi che ricordano lo stile senecano da lui, invece, criticato. L’uso di accorgimenti
retorici, come le antitesi e le anafore, gli omoteleuti e i poliptoti, dimostrano una grande cura per
la forma, la quale, tuttavia, non diventa artificiosa, pedante, vuota, perché è sempre sorretta da un
convinto e appassionato intento educativo. Egli è, e resta, un maestro che crede nella forza della
sua missione sui giovani e nella possibilità di insegnare loro nel modo migliore. Di qui, perciò, anche
l’estrema semplicità e chiarezza delle sue argomentazioni, sorrette dalla sua esperienza e dalla sua
serietà di educatore.
3. La vita
Complessa e articolata la vita di Seneca di cui
Tacito ci dà notizie molto precise e dettagliate.
Lucio Anneo Seneca, figlio di Seneca il retore,
nacque il 4 a.C. a Cordoba, in Spagna, e si
recò a Roma per compiere gli studi. Qui conobbe le teorie filosofiche della setta dei Sesti,
dalle quali apprese uno stile di vita ascetico,
l’isolamento dalla vita politica, le pratiche
16
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
vegetariane. Già di salute cagionevole, si indebolì a tal punto che dovette andarsene in
Egitto a curarsi.
Tornato a Roma negli ultimi anni del governo
di Tiberio, si dedicò alla carriera forense, divenendo così brillante e famoso da suscitare
l’invidia di Caligola che non lo mandò a morte
solo perché convinto che la salute cagionevole
• Il pensiero filosofico
gli avrebbe riservato pochi anni ancora di
vita.
Quando salì al trono Claudio, nel 41, Seneca,
fu relegato in Corsica, forse per l’ostilità di
Messalina, con l’accusa di adulterio con la
sorella di Caligola. Rimase in esilio otto anni
soffrendo aspramente il contrasto tra la vita
brillante della capitale e la solitudine selvaggia in cui si ritrovava. Si dedicò allora alla
filosofia stoica che gli insegnava come sopportare le ferite del destino con la fermezza
d’animo e come la forza e la serenità interiore
non dovessero dipendere dal mondo esterno.
Tuttavia egli non seppe resistere alla tentazione di umiliarsi pur di ottenere il ritorno a
Roma e scrisse la Consolatio ad Polybium in
cui le adulazioni a Polibio il potente liberto di
Claudio e all’imperatore dimostrano, come dice
Concetto Marchesi, che «quell’uomo di mondo, ammirato e invidiato fu preso da cupa
disperazione. Là egli solo era lo spettatore
consapevole della propria rovina […]: e l’anima umana può perdere le sue armi quando
non sia vigilata da occhi mortali» (Storia della
letteratura latina, vol II, Principato, Messina,
1958).
Nel 48 Messalina fu uccisa e, l’anno dopo, la
seconda moglie di Claudio Agrippina, sorella
di Giulia Livilla, richiamò Seneca a Roma,
conferendogli anche il titolo di pretore, come
narra Tacito, sia per affidargli l’educazione del
figlio Claudio Nerone, l’erede al trono, sia per
accattivarsi il pubblico che aveva sempre considerato il filosofo l’uomo più affascinante e
colto di Roma. Seneca educò Nerone assecondandone le tendenze artistiche e l’indole libera
ed eccentrica, nella convinzione che, quando
il giovane discepolo fosse salito al trono, si
sarebbe fatto guidare per realizzare il governo
“illuminato” e saggio che i filosofi, come Platone prima di lui, credevano possibile.
Nel 54 alla morte di Claudio, Nerone aveva
appena 17 anni. Seneca e Burro si occuparono
insieme di guidare il giovanissimo imperatore:
Seneca, per quanto riguardava il modello di
governo saggio e clemente simile a quello del
principato Augusteo, e il prefetto del pretorio
Burro, per quanto riguardava la milizia e i
costumi. In realtà il principato si andava trasformando in una monarchia assoluta paternalistica di tipo ellenistico, nella quale la filantropia e la clemenza erano soltanto strumenti
propagandistici per il consenso popolare. Era
Seneca in questo periodo a indirizzare la politica imperiale e aveva la responsabilità effettiva, se non nominale, del governo. Il trattato
De clementia esprime la sua visione filosofica
del potere, che conciliava autorità e libertà,
«clemente, ma forte», in accordo tra governati
e governante.
A poco a poco, però, Seneca si accorse che
Nerone, insofferente di controllo e avido di
potere, gli sfuggiva di mano: l’imperatore fece
avvelenare il fratellastro Britannico e ordinò il
matricidio senza che né Seneca né Burro potessero impedirglielo. Nel 62, alla morte di
Burro, forse avvelenato, divenne prefetto del
pretorio il crudele Tigellino e Seneca decise di
ritirarsi dal governo. Aveva sperimentato il
fallimento del suo progetto di monarchia illuminata e la condotta amorale e stravagante di
Nerone lo indusse a tornare agli studi filosofici che lo avevano affascinato da giovane.
Nel 65 fu scoperta la congiura dei Pisoni contro Nerone: Seneca non ne aveva fatto parte
attiva, ma certamente ne era al corrente e
addirittura si diceva che, dopo aver ucciso
Nerone, i congiurati proponessero di nominare
o Pisone o lui, il vecchio filosofo, al governo.
I congiurati furono tutti obbligati a suicidarsi.
Seneca, ricevuto l’ordine, morì con la stessa
dignità di Socrate, mostrando fino alla fine un
comportamento sereno e forte. Tacito commenta: «La sua morte fu per il principe una
vera gioia». (Annales XV, 60-65)
Le opere
Opere filosofiche, durante l’esilio in Corsica:
Consolatio ad Polybium, per la morte del fratello di Polibio e per ottenere il ritorno a Roma.
Consolatio ad Marciam, per consolare Marzia
la figlia del filosofo Cremuzio Cordo, per la
perdita di un figlio.
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
17
• Il pensiero filosofico
Consolatio ad Helviam, per consolare la madre
Elvia del suo esilio.
Opere filosofiche dopo il ritorno a Roma:
De ira, sulla necessità di restare sempre imperturbabili.
De vita beata, sulla felicità che viene dalla
virtù e non dal benessere.
De providentia, sulla prova a cui sono chiamati i buoni dalla divina provvidenza che
consente il male per sperimentare la forza dei
migliori.
De constatia sapientis, sulla serenità di cui
gode il saggio che non si fa turbare da eventi
esterni.
De otio, sulla necessità di avere momenti di
vita contemplativa.
De tranquillitate animi (dialogo): sulla necessità che la visione del male e dell’immoralità
non turbino la pace dell’animo.
De brevitate vitae, sulla nostra incapacità di
usare il tempo, in quanto freneticamente occupati, sentiamo la vita breve, mentre è lunga
se ben spesa.
De clementia, sul modo con cui attuare un
governo giusto.
T1
De beneficiis (7 libri), sulle regole sociali che
dovrebbero sottendere al rapporto di dare e
avere, senza che vi sia, come avviene spesso,
l’ingratitudine.
Naturales quaestiones (7 libri), su tutti i fenomeni naturali.
Epistulae ad Lucilium (20 libri, 124 lettere),
dirette all’amico Lucilio e composte tra il 61 e
il 65: sono la completa espressione del suo
pensiero filosofico.
Opere teatrali:
Apokoloky;nthosis (inzuccamento): satira menippea (misto di prosa e versi) in cui egli pone
in ridicolo l’imperatore Claudio di cui immagina il giudizio negli Inferi, dopo la sua espulsione dall’Olimpo, fino a diventare lo schiavo
di un liberto. Il titolo forse significherebbe
«deificazione di una zucca vuota».
Tra le tragedie vi sono una praetexta di argomento romano, Octavia sull’infelice moglie di
Nerone, di incerta attribuzione e 9 cothurnatae
di argomento greco: Hercules Oeteus, Hercules
furens, Phoenissae, Troades, Oedipus, Medea,
Phaedra, Agamemnon, Thyestes. Come si vede
trattano i più noti ed inquietanti miti greci.
De brevitate vitae I, 1-4: La vita non è breve
Il De brevitate vitae è tra le più affascinanti operette filosofiche di Seneca, sia per la semplicità e la
chiarezza espositiva, sia per l’importanza del tema, la fuga del tempo, che, come dice Alfonso Traina1,
percorre come un brivido «tutta la sua produzione e, forse, tutta la letteratura europea».
Qui Seneca invita, come sempre (anche nelle Lettere a Lucilio), a saper usare bene il tempo, a non
sprecare la vita, per potersene allontanare un giorno senza rimpianti, “come un convitato sazio”. La
sua tesi è che, tuffandosi freneticamente negli impegni, si dimentica quasi di vivere. Gli occupati sono
sempre ansiosi, inquieti, affannati, incapaci di respirare l’«attimo fuggente». A costoro egli contrappone gli otiosi, quelli che hanno capito il valore prezioso del tempo e non permettono, perciò, né a
sé stessi né agli altri, di farne spreco. Sono loro che sanno sentire il ritmo della vita e coglierne la
struggente bellezza.
Sul tema del tempo, affermazioni secche e lapidarie percorrono tutta l’opera di Seneca e si fissano nella
memoria con la forza di un aforisma, facendo come da sottofondo alla lettura testuale: Vis scire quam
non diu vivant? Vide quam cupiunt diu vivere (Ep. XI: «Vuoi saper quanto non vivano a lungo? Guarda
quanto desiderano vivere a lungo»); omnia tamquam mortales timetis, omnia tamquam immortales
concupiscitis (Ep. III: «temete tutto come mortali, tutto come immortali desiderate»); tamquam semper
victuri vivitis (Ep. VII: «vivete come se doveste vivere in eterno»); vivere tota vita discendum est…tota vita
discendum est mori (Ep. VII: «bisogna imparare a vivere in tutta la vita…in tutta la vita bisogna imparare
a morire»); non ille diu vixit, sed diu fuit (Ep. VIII: «quello non è vissuto a lungo, è stato a lungo»).
18
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
• Il pensiero filosofico
È questo lo «stile drammatico» di Seneca di cui parla Traina a proposito della tensione tra lingua
dell’interiorità e lingua della «predicazione».
[1] Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur quod in exiguum
aevi gignimur, quod haec tam velociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant,
adeo ut exceptis admodum paucis, ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Nec
huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens volgus ingemuit; clarorum
quoque virorum hic affectus querellas evocavit. [2] Inde illa maximi medicorum
exclamatio est: «vitam brevem esse, longam artem»; inde Aristotelis cum rerum natura
exigentis, minime conveniens sapienti viro lis: «aetatis illam animalibus tantum indulsisse,
ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto
citeriorem terminum stare». [3] Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus.
Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene
collocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei inpenditur,
ultima demum necessitate cogente, quam ire non intelleximus transisse sentimus. [4] Ita
est: non accipimus brevem vitam, sed facimus, nec inopes eius sed prodigi sumus. Sicut
1. Maior pars…evocavit: «La maggior
parte dei mortali, o Paolino, si lamenta
della crudeltà della natura poiché siamo
[stati] generati per un’esistenza breve,
poiché questi spazi di tempo a noi concesso tanto velocemente, tanto rapidamente scorrono che, fatta eccezione di
pochi, la vita inganna tutti gli altri proprio nel momento della sua pienezza. E a
questo comune male, come credono, non
ha rivolto il suo lamento solo la massa
sprovveduta degli uomini; questo stato
d’animo ha provocato parole di rammarico anche di uomini colti».
Mortalium: non hominum per la pregnanza tragica del lessema, quindi «uomini destinati a morire»; Pauline: è forse
Pompeo Paolino, prefetto dell’annona dal
48 al 55, padre di Paolina, la moglie di
Seneca, più giovane di lui di vent’anni;
conqueritur: ricorda l’incipit del Bellum
Iugurthinum di Sallustio: Falso queritur
de natura sua genus humanum quod
imbecilla, atque aevi brevis («a torto si
lamenta l’umanità poiché debole e caduca»); in exiguum: complemento di fine,
regge il genitivo partitivo aevi; quod…
quod…tam…tam: doppia anafora, questa
figura retorica, al posto della congiunzione, opera quello che il Traina definisce «la sostituzione del legame logico col
legame ritmico»; rapide: avverbio, da
rapio (= «trascinare via»), esprime, quindi, questo strappo violento del tempo,
rilevato anche dal verbo de+curro, detto
di acque che precipitano giù; dati: participio passato concordato con il genitivo
temporis; destituat: al congiuntivo perché esprime opinione altrui e significa
letteralmente «abbandona»; vitae vita: il
poliptoto dà forza all’espressione.
La modale ut opinantur limita il significato dell’aggettivo publico: non è vero
che è «comune», dice Seneca, sono «loro»
a pensare che lo sia; imprudens: da in
(«che nega») + prudens (= «che non prevede»); ingemuit: regge il dativo huic
malo; affectus: vox media per «stato
d’animo», qui con connotazione negativa; evocavit: da ex+voco, «chiamare dal
fondo», «far emergere lamenti».
2. Inde illa…stare: «Di qui quella nota
esclamazione del famoso medico: “La vita
è breve, la scienza è lunga”; di qui anche
l’atto di accusa, per nulla consono ad
una persona così saggia, di Aristotele che
discuteva sulla natura: “Quella è stata
generosa solo verso gli animali nella
durata della vita, tanto che vivono cinque o dieci generazioni, all’uomo, invece,
destinato a tante e così importanti opere, è fissato un limite molto più breve”».
Maximi medicorum: è riferito ad Ippocrate; si noti il chiasmo che contrappone
vita e ars:
vitam
brevem
longam
artem
La massima che segue è una massima
peripatetica. Il soggetto lis, posto in clausola, è molto rilevato; exigentis: è
genitivo accordato con Aristotelis, da
exigo «ponderare», «discutere»; conveniens: regge il dativo viro ed è accordato
con lis. Aetatis: partitivo retto da tantum;
genito: dativo accordato con homini; in
tam multa ac magna: complementi di
fine; citeriorem: comparativo di citra,
letteralmente «più in qua»; stare: «star
fisso»; quina: numerale distributivo «a
cinque per volta», come deni, ae, a, cioè
«a dieci per volta».
3. Non …perdidimus: «Non abbiamo poco
tempo, ma molto lo lasciamo perdere».
Il perfetto perdidimus indica un’azione
completata, il suo risultato: di qui la
definizione di «perfetti risultativi».
Satis…sentimus: «La vita è sufficientemente lunga e ci è stata data ampiamente per compiere grandi azioni, se
l’usassimo tutta bene; ma quando scorre
via nella dissipazione e nello spreco,
quando non è spesa per alcuna opera
meritevole, e infine, quando la prossimità della morte ci incalza, ci accorgiamo
che è passata ormai quella che non abbiamo capito che passava».
Il periodo ipotetico misto vuole sottolineare il contrasto tra ciò che abbiamo e ciò
che facciamo di essa; in consummationem: complemento di scopo. Diffluit: ha
ancora il significato metaforico di «scorrere» dell’acqua, tratto dal proemio sallustiano: vires tempus ingenium defluxere; inpenditur: è costruito col dativo
bonae rei; cogente necessitate: ablativo
assoluto; ultima necessitate: è forma
eufemistica della morte; quam: sta per
eam quam.
4. Ita est… multum patet: «Così è: non
riceviamo una vita breve, ma la rendia-
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
19
• Il pensiero filosofico
amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum pervenerunt, momento dissipantur, at
quamvis modicae, si bono custodi traditae sunt, usu crescunt, ita aetas nostra bene
disponenti multum patet.
mo tale, non siamo poveri di essa, ma
scialacquatori. Come ampie e regali ricchezze, quando sono giunte nelle mani
di un cattivo padrone, in un istante vengono dissipate, invece, benché siano limitate, se sono state affidate ad un buon
custode, con l’uso crescono, così la no-
Analisi
dominum e bono custodi; quamvis
modicae: sottintende sint, concessiva;
bene disponenti: dativo di vantaggio del
participio presente del verbo dispono;
patet: verbo di grande efficacia, perché
significa «aprirsi»: è la vita che si «apre»
a chi sa accettarla e usarla bene.
stra vita, a chi sa bene usarla, si stende
tutta dinanzi a lui».
I verbi accipimus e facimus chiudono al
centro vitam brevem per dare maggior
efficacia all’antitesi. Notare la concinnitas: momento dissipantur…usu crescunt, che rileva l’opposizione tra malum
testuale
T1
De brevitate vitae I, 1-4: La vita non è breve
Il testo è costituito da quattro blocchi argomentativi che seguono un rigoroso
procedimento filosofico:
• l’enunciazione del problema: tutti si lamentano della brevità della vita;
• gli esempi di due illustri personaggi come Ippocrate e Aristotele che cadono
in questo errore;
• l’enunciazione della tesi: la vita non è breve se spesa bene;
• l’esemplificazione della tesi con paragone tratto dal mondo reale: la ricchezza
dipende da chi la amministra.
Anche sul piano strutturale, la centralità della tesi è rimarcata dalla perfetta
proporzione delle parti, per cui il nodo concettuale, non exiguum temporis
habemus sed multum perdidimus, occupa anche la parte centrale del testo che
ha andamento curvilineo:
Non exiguum
Maior pars
multum patet
A quest’ordine strutturale corrisponde un’accorta distribuzione delle figure retoriche, specialmente il chiasmo, che è accompagnato dal ritmo binario della
concinnitas:
vitam brevem
longam artem
tam velociter
↓
tam rapide
ire non intelleximus
↓
transisse sentimus
non inopes
↓
sed prodigi
20
quam
eius sumus
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
non exiguum temporis habemus
↓
↓
sed multum……… perdidimus
non accipimus
↓
sed facimus
brevem vitam
ad malum dominum pervenerunt
↓
bono custodi traditae sunt
• Il pensiero filosofico
È molto indicativo che il chiasmo, che è figura di contrasto, sia utilizzato per citare
il giudizio di Ippocrate, in cui c’è, appunto, l’idea di una contraddizione, mentre
il parallelismo esprime il pensiero di Seneca: c’è una perfetta «corrispondenza», non
opposizione, tra la sofferenza umana per la brevità della vita e il suo spreco. Se
non la si spreca, infatti, la vita non è breve. Questa perfetta simmetria fa contrasto,
invece, con la variatio iniziale: gignimur (indicativo)…decurrant (congiuntivo).
Traina parla di «gradazione discendente di certezza», poiché vi si potrebbe cogliere
la differenza tra la reale brevità (exiguum aevi) dell’esistenza e il soggettivo
scorrere del tempo (temporis spatia). Così l’uso del perfetto perdidimus, contrapposto al presente habemus, serve a rimarcare come Seneca avverta la perdita
irrecuperabile, definitiva, che è costituita dal trascorrere del tempo. Nella funzione
didascalica del testo, l’uso del lessico, di grande forza semantica, acquista, quindi,
un particolare valore. Così l’espressione apparatu vitae indica quella disposizione
fiduciosa, ottimista, di chi si illude di prepararsi alla vita a suo piacimento, come
e quando voglia, solo perché si trova in un momento di benessere.
Anche la cura del verbo indica la sottile distinzione tra il «capire» (intelleximus)
che manca all’uomo e il «sentire» (sentimus) a cui facilmente ci si abbandona. Non
basta, non serve, dice Seneca, avere emozione e rammarico per il fluire del
tempo, bisogna, invece, comprendere lucidamente (disponenti bene) che è proprio questa relativa brevità della vita a richiedere di saperla spendere bene (si tota
bene collocaretur). Anche il verbo colloco (cum+loco), come dispono, presuppone
una sorta di ordine mentale pratico con cui rendere satis longa la vita.
Questa vita, infine, non è altro che una ricchezza sconosciuta e regale (il
paragone con amplae e regiae opes è chiarificatore), che aspetta solo un padrone
accorto che sappia bene amministrarla. Solo allora, conclude Seneca, essa patet:
il verbo, che significa «essere aperto», chiude il capitoletto con straordinaria
efficacia. Il lessema, perciò, esprime questo dispiegarsi ad infinite possibilità,
questo «aprirsi» della vita di fronte all’uomo saggio che sappia percepirne il valore,
grande e assoluto. Non servono molte argomentazioni a chiarire l’evidenza
palmare di questa constatazione: la sintassi costituita da brevi coordinate e da
semplici enunciati indica proprio la lucida semplicità della tesi senecana: siamo
noi i padroni del nostro tempo, non certo inopes («poveri»), ma possessori
inconsapevoli di un patrimonio prezioso che andrebbe usato saggiamente.
Incontro tra autori
Orazio e Seneca: La fugacità del tempo
Il senso della fugacità del tempo, dell’incertezza del domani, richiama i temi cari ad Orazio.
Tra il poeta e Seneca, però, esiste una profonda differenza: Orazio invita a non curarsi del
futuro, a cogliere i piaceri fuggitivi che il presente può offrire, con animo tranquillo, non
turbato da ansietà e da timori; per Seneca, invece, come si è visto, cogliere il presente,
vivere protinus, significa non indugiare a rientrare in se stessi, lasciando da parte inutili
pensieri, e accettare la vita con piena consapevolezza.
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
21
• Il pensiero filosofico
Ode I, 9
È inverno e fa freddo: Orazio invita a bere un buon vino, godendo del presente, senza fare progetti
sul futuro. Il modello è il frammento di Alceo che tratta lo stesso argomento.
Metro: strofe alcaica
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte, nec iam sustineant onus
silvae laborantes, geluque
flumina constiterint acuto.
Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantes, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras, fuge quaerere et
quem fors dierum cumque dabit lucro
adpone, nec dulces amores
sperne puer neque tu choreas,
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et campus et areae
lenesque sub noctem susurri
conposita repetantur hora,
5
10
15
20
nunc et latentis proditor intimo
gratus puellae risus ab angulo,
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.
Traduzione
Guarda la neve che imbianca tutto/ il Soratte e gli alberi che gemono/ al suo peso, i fiumi rappresi/ nella
morsa del gelo.// 5. Sciogli questo freddo, Taliarco,/ e legna, legna aggiungi al focolare;/ poi senza calcolo
versa vino vecchio/ da un’anfora sabina.// Lascia il resto agli dei: quando placano/ 10. sul mare in burrasca
la furia dei venti,/ non trema piú nemmeno un cipresso,/ un frassino cadente./
Smettila di chiederti cosa sarà domani,/ e qualunque giorno la fortuna ti conceda/ 15. segnalo tra gli utili.
Se ancora lontana/ è la vecchiaia fastidiosa/ dalla tua verde età, non disprezzare, ragazzo,/ gli amori teneri
e le danze. Ora ti chiamano/ l’arena, le piazze e i sussurri lievi/ 20. di un convegno alla sera,// il riso
soffocato che ti rivela l’angolo/ segreto dove si nasconde il tuo amore,/ il pegno strappato da un braccio/
o da un dito che resiste appena.
(M. Ramous)
22
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
• Il pensiero filosofico
Analisi
testuale
Orazio: Ode I, 9
Osserva Francesco Arnaldi1: «È tra le più belle odi del canzoniere: si è detto che
qui inverno e neve non sono semplicemente fatti naturali, ma stati d’animo. Io
credo che la bellezza dell’ode sia proprio nella sua olimpica serenità per cui non
c’è che l’acuto (v. 4), il benignius (v. 6), forse il dissolve frigus (v. 5) che
indichino una diretta partecipazione del poeta, come se egli volesse discretamente avvertirci che quel che dirà è per Taliarco, re dei conviti, non per sé […]. Tutto
il resto è lontano da lui, spettacolo ormai contemplato più che realtà vissuta».
Vediamo, dunque, come quella che Arnaldi definisce «olimpica serenità» si possa
cogliere nel testo.
La struttura, costituita da sei strofe, scandisce il discorso in due momenti che
corrispondono a tre strofe ciascuno, tagliate al centro dal verso 13 – quid sit
futurum cras fuge quaerere (che cosa avverrà domani, non chiedertelo) – che
condensa il messaggio oraziano, quello che percorre tutte le sue opere: vivi il
presente, senza affanno per il domani.
I due momenti, però, non hanno uno stesso ritmo e una stessa tonalità ed è
molto importante capire il valore di questo mutamento tonale, affidato soprattutto
all’uso della sintassi.
La prima parte, infatti, presenta una trama sintattica che coincide con la trama
metrica, per cui ognuna delle tre strofe racchiude un intero periodo. È questo un
procedimento letterario che, di solito, corrisponde a una maggiore razionalizzazione
del pensiero: il tono è pacato, il discorso vuole essere chiaro, semplice e diretto.
Non a caso l’incipit di ogni strofa anticipa e sigla il suo contenuto:
• Vides: appare l’immagine della natura irrigidita dal gelo invernale;
• Dissolve frigus: si raccomanda il calore del fuoco e il buon vino;
• Permitte divis: si spiega che sono gli dei a decidere la vita della natura e
dell’uomo.
Il freddo, il bianco Soratte, la fatica dei rami piegati sotto il peso della neve, le
acque rapprese dal gelo, creano un effetto visivo molto potente, legato soprattutto
alle allitterazioni dei fonemi dentali /t/ e /d/ che, per così dire, «irrigidiscono» il
suono e inceppano la lettura, quasi icone del freddo: Vides ut alta stet candidum;
Soracte sustineant constiterint.
È l’inverno, con l’arida visione della natura che esso porta e con il suo velato
messaggio di morte.
Ma a questa visione dell’inverno Orazio contrappone subito dopo il «calore
dell’intimità di una casa», con il «foco» e la «diota» i due oggetti, rilevati entrambi
dalla clausola, il focolare e l’anfora di vino, evidente simbolo di vita, che
riscaldano il corpo e il cuore. Nell’atmosfera protettiva e accogliente dello spazio
chiuso, che si oppone fortemente allo spazio aperto della prima strofa, allora è
possibile calare anche la massima epicurea che vede la natura mossa da forze
materiali e sconosciute (divis) che, così come l’agitano in tempeste spaventose
(ventos aequore fervido deproeliantes), poi la placano (stravere) in scenari distesi
e tranquilli.
1
Arnaldi F., Orazio. Odi ed Epodi, Principato, Messina, 1967.
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo
23
• Il pensiero filosofico
Tutto questo, per Orazio è cetera («le altre cose») che bisogna lasciare (permitte)
agli dei, per il semplice fatto che sfugge al dominio razionale dell’uomo, che
poco può contro di esso.
Nella seconda parte, invece, la sintassi rompe i confini metrici e si stende in
ampie volute, che spezzano la strofa e torcono il periodo con complessi costrutti.
Lo sguardo di Orazio, ora, non si posa più su un paesaggio o sull’intimità della
casa; ora egli guarda la vita degli uomini nelle sue attrazioni più emozionanti:
l’amore, le danze (amores, choreas), gli appuntamenti segreti nella piazza (campus
areae, hora composita), le parole sussurrate (susurri), la notte che inizia (sub
noctem) e l’eterno gioco della donna che finge ritrosia, mentre, nascosta (intimo
ab angulo), ride (risus) per farsi trovare dall’uomo amato e gli cede il pegno
d’amore (pignus dereptum…digito male pertinaci).
È per un giovane (Taliarco) che egli evoca tutte queste immagini e, quindi, in
qualche modo, ci dice che il suo è un ricordo, un po’ distaccato, ma anche un
po’nostalgico di una stagione passata. Forse egli è giunto a quell’età in cui le
passioni si sono lievemente appannate, ma non spente del tutto, per cui è possibile
rievocarne il fascino senza farsene travolgere. Ecco che allora, mentre l’eleganza dei
versi mostra quella serenità di cui parlano i critici, qualcosa comunque sfugge ad
essa e un guizzo di inquieta nostalgia passa ancora nelle parole, in quell’anafora
di nunc, che sembra voler fermare l’attimo ora…ora; oppure nell’incastro che
intreccia la risata alla ragazza e al suo angolo nascosto: latentis proditor intimo/
gratus puellae risus ab angulo, in cui la metonimia del risus ci fa apparire una
creatura giovane, capace di godere il presente come Orazio voleva.
Ode I, 11
Questa famosissima ode di Orazio più delle altre tocca il tema profondamente sentito dal poeta, del
passare del tempo e della necessità di vivere intensamente.
Metro: asclepiadeo maggiore
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quidquid erit pati,
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
5
Traduzione
Non chiedere, o Leucònoe, (è illecito saperlo) qual fine/ abbiano a te e a me assegnato gli dèi, e non scrutare gli
oroscopi babilonesi./ Quant’è meglio accettare quel che sarà!/ Ti abbia assegnato Giove molti inverni,// 5. oppure
ultimo quello che ora affatica il mare/ Tirreno contro gli scogli, sii saggia, filtra vini, tronca/ lunghe speranze
per la vita breve. Parliamo, e intanto fugge l’astioso/ tempo. Afferra l’oggi, credi al domani quanto meno puoi.
(L. Canali)
24
La saggezza dell’uomo, l’orrore del mondo