Leggi il primo capitolo

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Leggi il primo capitolo
John Lanchester
Pepys Road
romanzo
Traduzione di Norman Gobetti
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www.librimondadori.it
Pepys Road
di John Lanchester
Collezione Scrittori italiani e stranieri
ISBN 978-88-04-62446-2
Copyright © 2012 by Orlando Books Ltd
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
Capital
I edizione marzo 2013
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A Jesse e Finn e Miranda
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Prologo
All’alba di un mattino di fine estate, un uomo con felpa e cappuccio si
aggirava a passi lenti e silenziosi per un’anonima via del sud di Londra.
Stava facendo qualcosa, ma per chi l’avesse visto sarebbe stato difficile
indovinare che cosa. Un po’ si avvicinava furtivo alle case, un po’ se ne allontanava. Un po’ guardava in giù, un po’ guardava in su. Chi l’avesse osservato con attenzione avrebbe potuto notare che il giovane aveva con sé
una piccola videocamera ad alta definizione – solo che non c’era nessuno
a osservarlo. A parte il giovane, la via era deserta. Anche i più mattinieri
non si erano ancora alzati, e quel giorno non c’era la consegna del latte a
domicilio e neanche la raccolta dei rifiuti. Forse lui lo sapeva, e il fatto che
stesse filmando le case proprio in quel momento non era una coincidenza.
La strada in cui stava filmando si chiamava Pepys Road. Somigliava
a tante altre vie di quella zona della città. Le case risalivano quasi tutte
alla stessa epoca. Erano state costruite da un imprenditore edile alla fine
dell’Ottocento, negli anni del boom seguiti all’abolizione della tassa sul
mattone. L’imprenditore aveva assoldato un architetto della Cornovaglia
e dei muratori irlandesi e le case erano state costruite nel giro di diciotto
mesi. Erano palazzine a tre piani, e non ce n’erano due identiche, perché
l’architetto e i suoi operai avevano inserito minuscole varianti nella forma
delle finestre o dei camini, o nelle rifiniture. Come riportava una guida
all’architettura della zona: “Una volta notato, è interessante osservare gli
edifici per individuare le piccole differenze”. Quattro fra le case della via
avevano le finestre su entrambi i lati dell’ingresso, ed erano grandi il doppio delle altre; inoltre, considerando che lo spazio è un lusso, valevano il
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triplo di quelle con le finestre su un solo lato. Il giovane pareva particolarmente interessato a filmare queste case più grandi e costose.
Gli immobili di Pepys Road erano stati costruiti per un mercato ben
preciso: l’idea era che avrebbero dovuto attrarre famiglie piccolo-borghesi
disposte ad abitare in una zona poco prestigiosa in cambio di una casa a
schiera sufficientemente grande da poter alloggiare i domestici. Nei primi
tempi gli abitanti non erano avvocati, notai o medici, ma loro dipendenti: persone rispettabili, che aspiravano a migliorare il proprio status. Nei
decenni successivi, la composizione demografica oscillò per età e ceto, e
la via fu più o meno ambita da giovani famiglie in ascesa sociale a seconda che la zona acquistasse o perdesse valore. Durante la Seconda guerra
mondiale il quartiere fu bombardato, ma Pepys Road venne risparmiata
fino al 1944, quando un razzo V-2 la colpì, distruggendo due case più o
meno a metà della via. Quel buco rimase a lungo, come un paio di incisivi mancanti, finché negli anni Cinquanta non fu costruito un nuovo immobile con balconi e portefinestre, un pugno nell’occhio in mezzo all’architettura vittoriana. Nel corso di quel decennio, in quattro case della
via abitavano famiglie appena arrivate dai Caraibi, i cui padri lavoravano tutti per l’azienda dei trasporti pubblici londinesi. Nel 1960 un piccolo tratto irregolare di terreno erboso a un’estremità di Pepys Road, vuoto
da quando l’edificio che vi sorgeva era stato abbattuto dalle bombe tedesche, fu cementificato, e vi fu costruito un negozietto, con due stanze al
piano terra e due al piano di sopra.
Difficile indicare il momento esatto in cui Pepys Road cominciò la sua
scalata sociale. Si potrebbe ipotizzare che si accodò al crescere della prosperità britannica, emergendo dalla scialba crisalide dei tardi anni Settanta
per trasformarsi in una farfalla dai colori squillanti nel decennio thatcheriano e nel corso del lungo boom economico che seguì. Ma non era quella l’impressione di chi vi abitava – anche perché le persone che vi abitavano andavano cambiando. Con il lento aumentare dei prezzi delle case,
i lavoratori, indigeni e immigrati, vendettero e si trasferirono, di solito
in cerca di case più spaziose e in zone più tranquille, dove abitava gente come loro. I nuovi arrivati erano generalmente famiglie più borghesi,
i cui mariti avevano lavori pagati in modo decente ma non eccezionale,
e le cui mogli si occupavano dei figli – perché quelle erano ancora case,
come sempre erano state, ambite da famiglie giovani. Poi, con l’aumen10
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tare dei prezzi e il mutare dei tempi, i nuovi arrivati cominciarono a essere famiglie in cui lavoravano entrambi i genitori, che affidavano i figli
a qualcun altro, fuori o dentro casa.
I proprietari delle case cominciarono a ristrutturare, non all’occorrenza
come nei decenni precedenti, ma con interventi sistematici, abbattendo i
muri e creando spazi aperti, secondo la moda che si era affermata negli
anni Settanta e che in effetti non è più tramontata. Le soffitte vennero rese
abitabili; quando negli anni Ottanta il consiglio comunale si spostò a sinistra e non concesse più i permessi per quel tipo di interventi, alcuni abitanti della zona si associarono per intraprendere un’azione legale comune, vincendo una causa che sancì il diritto a espandere le case in altezza e
stabilendo un precedente. La loro argomentazione era in parte che quelle
case erano state costruite per famiglie, e che riattare le soffitte era assolutamente nello spirito con cui le case erano state costruite – il che era vero.
Nelle case della via c’erano sempre lavori in corso: cassoni per i calcinacci sui marciapiedi, camion delle imprese edili in mezzo alla strada, impalcature, e un costante battere spaccare trapanare martellare e rombare,
oltre al chiacchiericcio delle radioline accese dei muratori. Le attività rallentarono un po’ nel 1987, dopo il tracollo del settore immobiliare, ma ripresero dieci anni dopo. Verso la fine del 2007, dopo parecchi anni di un
nuovo boom, capitava spesso che nella via ci fossero contemporaneamente due o tre case in ristrutturazione. La nuova moda era costruire seminterrati abitabili, a un costo che partiva da un minimo di 100.000 sterline.
Ma, come amavano precisare le persone che scavavano nelle fondamenta
della propria casa, quei lavori, anche se bisognava spendere centinaia di
migliaia di sterline, facevano aumentare il valore dell’immobile almeno di
altrettanto, perciò, da un certo punto di vista – e, dal momento che molti dei nuovi residenti lavoravano nella City, si trattava di un punto di vista piuttosto diffuso – la ristrutturazione dei seminterrati era a costo zero.
Tutto ciò faceva parte di un notevole cambiamento nella natura di Pepys Road. Nel corso della sua storia, in quella via era successo quasi tutto quel che poteva succedere. Molte, molte persone si erano innamorate e disamorate; una ragazzina aveva ricevuto il primo bacio, un vecchio
aveva esalato l’ultimo respiro, un notaio di ritorno a casa dalla metropolitana dopo il lavoro aveva alzato gli occhi al cielo, azzurro per essere stato spazzato dal vento, e aveva provato un improvviso senso di conforto
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religioso, la sensazione che questa vita non può essere tutto, e che non è
possibile che la coscienza abbia fine con la fine della vita; alcuni bambini erano morti di difterite, e qualcuno si era fatto di eroina nei gabinetti,
e giovani madri avevano pianto sopraffatte dalla stanchezza e dall’isolamento, e qualcuno aveva progettato la fuga, e si era preparato a una grande occasione, e aveva vegetato davanti al televisore, e aveva dato fuoco
alla cucina dimenticandosi di spegnere la friggitrice, ed era caduto dalle
scale, e gli era successo tutto ciò che può succedere nel corso di una vita,
nascita e morte e amore e odio e felicità e tristezza e sentimenti complessi e sentimenti semplici e ogni singola sfumatura intermedia.
Adesso però la storia aveva preso una piega stupefacente per gli abitanti di Pepys Road. Per la prima volta nella storia, le persone che vivevano in quella via erano, secondo gli standard globali e forse anche secondo
quelli locali, ricche. Ciò che li rendeva ricchi era il fatto stesso di abitare in Pepys Road. Erano ricchi semplicemente per questo, perché adesso,
come per magia, tutte le case di Pepys Road valevano milioni di sterline.
Questo causò uno strano capovolgimento. Per la maggior parte della
sua storia, la via era stata abitata più o meno dallo stesso tipo di persone
per cui era stata costruita: i non troppo abbienti con aspirazioni. Erano
felici di abitarvi, e abitarvi era parte di un impegnativo e risoluto sforzo
per migliorare la propria posizione, per far vivere bene se stessi e le proprie famiglie. Ma le case erano lo scenario delle loro vite: erano una parte importante della vita, il teatro degli eventi, ma non i personaggi principali. Adesso invece le case erano diventate così preziose per le persone
che già ci abitavano, e così costose per le persone che ci si erano trasferite di recente, da essere diventate esse stesse protagoniste.
Tutto era avvenuto dapprima in modo lento, graduale, man mano che
i prezzi aumentavano restando intorno alle poche centinaia di migliaia di
sterline, poi, quando quelli che lavoravano nella finanza cominciarono a
scoprire la zona, e i prezzi in generale presero a salire sempre più in fretta, e le persone cominciarono a riscuotere enormi bonus, bonus equivalenti a tre o quattro volte il loro presunto stipendio annuale, bonus che
erano grossi multipli della media salariale nazionale, e un generale clima
di isteria si impadronì di tutto ciò che riguardava i prezzi delle case – allora, tutt’a un tratto, i prezzi presero ad aumentare così rapidamente che
pareva fossero dotati di volontà propria. C’era una frase che risuonava di
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decennio in decennio, una frase tipicamente inglese: «Hai sentito quanto
hanno preso per quella casa laggiù?». Un tempo, la cifra straordinariamente grande di cui si stava parlando superava a malapena le diecimila sterline. Poi si iniziò a parlare di multipli di diecimila. Poi si passò ai centomila e più, poi a parecchie centinaia di migliaia, e adesso si era arrivati a
cifre con sei zeri. Cominciò a essere normale discutere in continuazione
dei prezzi delle case; l’argomento saltava fuori non appena qualcuno cominciava a conversare. Quando si incontravano, le persone tiravano in
ballo la questione dei prezzi delle case con un imbarazzato senso di ritegno, per poi cedere con sollievo all’irrefrenabile voglia di parlarne.
Era come il Texas durante il boom petrolifero, solo che, invece di scavare un buco nella terra per farne sgorgare combustibile fossile, alla gente bastava starsene lì a immaginare il valore della propria casa che schizzava verso l’alto così in fretta da non riuscire a stargli dietro. Di giorno,
una volta che i genitori erano andati a lavorare e i bambini erano a scuola,
per strada restava poca gente, a parte i muratori; ma per tutta la giornata venivano recapitati dei pacchi nelle case. Man mano che i prezzi degli
immobili salivano, era come se questi prendessero vita, come se avessero desideri e bisogni propri. Furgoni della Berry Brothers & Rudd consegnavano il vino; c’erano due o tre furgoni diversi di società che provvedevano a portare a spasso i cani; c’erano fiorai, consegne di Amazon,
personal trainer, addetti alle pulizie, idraulici, insegnanti di yoga, e per
l’intera giornata tutti bussavano alle case come questuanti e ne venivano
fagocitati. C’erano le lavanderie, c’erano le tintorie a secco, c’erano FedEx
e Ups, c’erano cucce per cani, cartucce per stampanti, sedie da giardino,
locandine cinematografiche vintage, dvd affittati per un giorno, occasioni
trovate su eBay, capricci soddisfatti d’impulso su eBay, biciclette ordinate per posta. La gente passava per le case a chiedere la carità e a vendere qualcosa (asciugamani per i senzatetto, piazzisti di aziende elettriche
o compagnie telefoniche). Venditori, istruttori e artigiani scomparivano
dentro gli edifici e ne riemergevano una volta finito. Ormai le case erano
come persone, persone ricche per giunta, imperiose, con propri bisogni
che pretendevano soddisfazione. Per strada c’erano sempre muratori che
facevano manutenzione, riattavano soffitte e cucine e abbattevano pareti e ne aggiungevano altre, e nella via c’era almeno un cassone per i calcinacci, e come minimo un’impalcatura. L’ultimo grido era ristrutturare i
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seminterrati e trasformarli in locali – cucine, camere dei giochi, lavanderie e stirerie – e le case che seguivano la moda avevano trasportatori a nastro per le macerie che scaricavano nei cassoni. Compressa dal peso delle
case sovrastanti, quando la si scavava la terra si espandeva fino a cinque
o sei volte il volume originario, e c’era qualcosa di bizzarro, addirittura di
sinistro, in quegli scavi, come se la terra si enfiasse, vomitasse per reagire a quell’invasione, e sembrava che ne venisse fuori veramente troppa,
come se ci fosse qualcosa di fondamentalmente innaturale nell’espandersi nel sottosuolo per ottenere più spazio, e come se lo scavo potesse andare avanti per l’eternità.
Avere una casa di proprietà in Pepys Road era come essere in un casinò dove la vittoria è assicurata. Se già ci abitavi, eri ricco. Se ti ci volevi
trasferire, eri ricco. Era la prima volta nella storia in cui si verificava una
cosa del genere. La Gran Bretagna era diventata una nazione di vincitori e perdenti, e tutti coloro che abitavano in quella via, per il solo fatto di
abitarci, avevano vinto. E in quel mattino d’estate il giovane si aggirava
per la via, filmando quella strada piena di vincenti.
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Parte prima
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Una piovosa mattina di inizio dicembre, una donna di 82 anni sedeva in
soggiorno al numero 42 di Pepys Road, e guardava fuori dalla finestra attraverso una tendina di pizzo. Si chiamava Petunia Howe e stava aspettando un furgone per le consegne della Tesco.
Petunia era la persona più anziana fra gli abitanti di Pepys Road, e l’ultima a essere nata in quella strada e a viverci ancora. Ma i suoi legami con
quella via risalivano ancora più indietro, perché suo nonno aveva comprato la casa “sulla carta”, prima che venisse costruita. Lavorava come assistente in uno studio associato presso la Lincoln’s Inn, era un conservatore e Conservatore e, come usano fare gli assistenti degli avvocati, aveva
lasciato il suo impiego al figlio, e poi, dato che il figlio aveva avuto solo
figlie femmine, al marito della nipote. Ovverosia il marito di Petunia, Albert, che era morto cinque anni prima.
Petunia non si considerava una che ne aveva viste di cotte e di crude. Riteneva di aver avuto una vita limitata e priva di eventi. Nondimeno, aveva vissuto in prima persona due terzi dell’intera storia di Pepys
Road, e aveva visto molto, notando più di quanto fosse disposta ad ammettere e giudicando il meno possibile. Da questo punto di vista, riteneva
che Albert avesse giudicato a sufficienza per entrambi. L’unico intervallo nella sua permanenza a Pepys Road era stato durante lo sfollamento,
nei primi anni della Seconda guerra mondiale, quando era rimasta in una
fattoria nel Suffolk dal 1940 al 1942. Era un periodo che tuttora preferiva non ricordare, non perché qualcuno si fosse comportato male con lei
– il fattore e la moglie erano stati gentilissimi, considerato quanto il loro
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duro lavoro li teneva impegnati – ma solo perché aveva sentito la mancanza dei genitori e del conforto della vita familiare, con le giornate scandite dal rientro a casa del padre e dalla cena consumata tutti insieme alle
sei in punto. Ironia della sorte, sebbene fosse stata sfollata per evitare i
bombardamenti, era presente la notte del 1944 in cui un razzo V-2 aveva
colpito un edificio dieci case più in là. Erano le quattro del mattino, e Petunia ricordava ancora come lo scoppio fosse stata una sensazione fisica
più che un rumore: l’aveva buttata giù dal letto, come un coniuge stufo
di dormire con lei ma che allo stesso tempo non le augurava alcun male.
Quella notte erano morte dieci persone. Il funerale, celebrato nella grande chiesa nel parco, era stato orribile. Per i funerali era meglio la pioggia
e il cielo coperto, invece quel giorno era sereno, luminoso e fresco, e Petunia aveva continuato a pensarci per mesi.
Un furgone si avvicinò, rallentò e si fermò davanti alla casa. Il rumore del motore diesel faceva vibrare le finestre. Forse era quello che aspettava? No, il furgone si rimise in moto e si allontanò, sbatacchiando sopra i dossi artificiali. In teoria quei dissuasori avrebbero dovuto ridurre
il traffico, ma di fatto sembravano aver solo aumentato il rumore, e anche l’inquinamento, dato che adesso le auto rallentavano prima dei dossi per poi accelerare subito dopo. Da quando li avevano messi non c’era
stato un solo giorno in cui Albert non se ne fosse lamentato: letteralmente non uno dal giorno in cui la strada era stata riaperta al traffico a quello della sua morte improvvisa.
Petunia udì il furgone che si fermava un po’ più avanti. Una consegna,
ma non da un supermercato, e non per lei. Era una delle cose di Pepys
Road che più la colpivano in quel periodo: le consegne a domicilio. Erano sempre più frequenti man mano che la via diventava più chic, e adesso anche lei, Petunia, era lì ad aspettare una consegna. C’era un’espressione per quel tipo di commercio: era il “segmento alto del mercato”. Era
un’espressione che usava spesso sua madre, e lei immaginava uomini
slanciati col cappello a cilindro. Adesso anch’io faccio parte del segmento alto del mercato, pensò Petunia. L’idea la fece sorridere. La consegna
a domicilio era un esperimento proposto da sua figlia Mary, che viveva
nell’Essex. Per Petunia andare al supermercato cominciava a essere una
seccatura, niente di terribile, ma la prospettiva della scarpinata fino alla
via dei negozi e ritorno con più di una borsa della spesa le metteva ansia.
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Così Mary aveva organizzato per lei la consegna di una serie di prodotti essenziali, in modo che il grosso di quel che le serviva le arrivasse direttamente a casa una volta alla settimana, il mercoledì fra le dieci e mezzogiorno. Petunia avrebbe di gran lunga preferito che Mary, o suo nipote
Graham che viveva a Londra, la accompagnassero a fare la spesa dandole una mano di persona, ma l’opzione non le era stata proposta.
Si udì di nuovo il rumore di un furgone, questa volta un rombo ancora più
forte, poi il furgone avanzò ancora, ma non per molto: lo sentì che si fermava proprio lì davanti. Dalla finestra vide il logo: Tesco! Un uomo si avvicinò
al suo giardino trasportando un pallet, e riuscì abilmente ad aprire il cancello spingendolo con l’anca. Petunia si alzò con cautela, usando entrambe le
braccia e prendendosi un momento per trovare l’equilibrio. Poi aprì la porta.
«’Giorno, tesoro. Tutto bene? Niente sostituzioni. Lo porto dentro? Il vigile era pronto a darmi la multa, ma gli ho detto di non pensarci neanche.»
Il gentile uomo della Tesco le portò la spesa in cucina e mise i sacchetti sul tavolo. Più invecchiava più Petunia faceva caso a come la gente facesse sfoggio senza volerlo della propria salute e forza fisica. Ne era un
esempio la disinvoltura con cui quel giovane aveva sollevato il pesante
pallet per posarlo sul tavolo prima di estrarre i sacchetti, quattro alla volta. Spalle e braccia si protendevano all’esterno mentre reggeva i sacchetti:
sembrava un gigante, un orso polare appassionato di culturismo.
Petunia non era persona da sentirsi in imbarazzo per l’arredamento antiquato, però perfino lei si vergognava un po’ della cucina. Una volta che
cominciava a sciuparsi, il linoleum sembrava subito sciupatissimo, anche
quando era pulito. Ma l’uomo non diede segno di accorgersene. Era molto cortese. Se fosse stato il tipo di lavoratore a cui si dà la mancia, Petunia gliene avrebbe data una bella grossa, ma quando aveva organizzato
le consegne Mary le aveva detto – stizzita, come per dire che conosceva
bene sua madre e sapeva cosa stava pensando, e ne era infastidita – che
ai fattorini del supermercato non bisogna dare la mancia.
«Grazie» disse Petunia. Mentre chiudeva la porta alle spalle dell’uomo,
vide che sullo zerbino c’era una cartolina. Si chinò, sempre con cautela, e
la raccolse. Era una fotografia del numero 42 di Pepys Road, casa sua. La
girò. Non era firmata, c’era solo un messaggio scritto a macchina. Diceva:
“Vogliamo Quello Che Avete Voi”. A Petunia venne da sorridere. Perché
mai qualcuno avrebbe dovuto volere quello che aveva lei?
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Il proprietario del numero 51 di Pepys Road, la casa di fronte a quella di
Petunia Howe, era al lavoro nella City. Roger Yount sedeva alla scrivania
del suo ufficio alla banca Pinker Lloyd a fare calcoli. Stava cercando di stabilire se quell’anno il suo bonus avrebbe raggiunto il milione di sterline.
A quarant’anni, Roger era un uomo che aveva avuto tutto facile nella
vita. Era alto un metro e novanta, non così tanto da dover camuffare la
propria altezza ingobbendosi, anzi la esibiva con disinvoltura, come se
nell’età della crescita la forza di gravità avesse influito su di lui meno che
sulle persone qualunque. Il conseguente autocompiacimento sembrava
così meritato da risultare in qualche modo ammaliante, tanto più che Roger non faceva mai pesare la propria fortuna rispetto agli altri. Anche la
bellezza poco appariscente e l’ottima educazione ricevuta contribuivano
al suo fascino. Aveva frequentato una buona scuola (Harrow) e una buona
università (Durham) e aveva un buon lavoro (alla City) ottenuto con perfetto tempismo (subito dopo la deregolamentazione dei mercati finanziari
e subito prima che la City si infatuasse dei geni della matematica e/o dei
giovani parvenu). A lui sarebbe calzata a pennello la vecchia City, dove le
persone arrivavano tardi al lavoro, uscivano presto e nel mezzo ci mettevano anche un buon pranzo, e dove tutto dipendeva da chi eri, chi conoscevi e quanto ti integravi nell’ambiente, e il più grande onore era essere
“uno di noi”, e “saperci fare”; ma gli calzava a pennello anche la nuova
City, dove in teoria tutto era meritocratico, dove l’ideologia era lavorare sodo, pelo sullo stomaco e non guardare in faccia nessuno; stare in ufficio come minimo dalle sette alle sette, e dove a nessuno importava che
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accento avevi e da dove venivi, purché ti dimostrassi all’altezza e facessi guadagnare l’azienda. Roger aveva una profonda, istintiva comprensione di come nella nuova City la gente apprezzasse le reminescenze della vecchia City purché tu accettassi il nuovo modo di fare le cose, ed era
molto abile nel lasciar trapelare il suo status di persona che si sarebbe sentita a proprio agio nel vecchio mondo ma amava quello nuovo – addirittura i suoi vestiti, abiti di squisita fattura ma sfarzosi e pacchiani, fatti da
un sarto accanto a Savile Row, dimostravano che lo aveva compreso. (In
questo sua moglie Arabella gli era utile.) Ed era un capo amato da tutti, che non perdeva mai la pazienza e lasciava lavorare i suoi sottoposti.
Era una dote importante. Una dote che in un anno buono valeva un milione di sterline, si poteva presumere... Ma per Roger prevedere l’entità
del bonus non era così semplice. I suoi datori di lavoro, una banca d’investimento piuttosto piccola, si premuravano di non essere così lineari,
e c’erano molte considerazioni di cui tener conto: l’entità degli utili complessivi della società, la percentuale di tali utili che era stata realizzata dal
suo reparto, cioè il reparto valute estere, la performance relativa del suo
reparto rispetto a quelle della concorrenza, e una serie di altri fattori, molti
non del tutto trasparenti, alcuni basati su valutazioni opinabili di quanto
avesse operato bene come dirigente. C’era un elemento di deliberata mistificazione riguardo al processo decisionale, che era nelle mani del comitato remunerazione, noto anche come Politburo. In buona sostanza, non
potevi mai sapere con certezza a quanto sarebbe ammontato il tuo bonus.
Sulla scrivania di Roger c’erano tre monitor: uno seguiva in tempo reale
le attività del reparto; un altro, il suo pc personale, era dedicato alle email,
alla messaggistica istantanea, alle videoconferenze e alla sua agenda; e il
terzo seguiva l’andamento degli scambi del reparto valuta estera nel corso dell’anno. Quest’ultimo mostrava fino a quel momento degli utili pari
a circa 75.000.000 di sterline su un giro d’affari di 625.000.000, il che, anche se era lui a dirlo, non era male. A buon diritto, in base a quei numeri,
gli sarebbe spettato un bonus da un milione. Fin dal tracollo della Northern Rock qualche mese prima, però, quello era stato un anno strano per
i mercati. Fondamentalmente la Rock si era rovinata da sola col proprio
modello commerciale. Il loro credito si era prosciugato, la Banca d’Inghilterra era rimasta a guardare e i risparmiatori erano stati presi dal panico. Da allora il costo del denaro era aumentato, e tutti avevano i nervi a
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fior di pelle. A Roger stava bene così perché, negli scambi di valuta estera, i nervi a fior di pelle significavano volatilità, e la volatilità significava
affari d’oro. Nel mondo delle valute estere si era creata una serie di facili opportunità di scommettere contro valute ad alto tasso d’interesse, il
peso argentino per esempio; lui sapeva che i reparti di alcune società rivali avevano fatto man bassa. Era lì che la mancanza di trasparenza diventava un problema. Magari il Politburo avrebbe usato come parametro
un irragionevole standard di redditività basato sulle idee di qualche ragazzo prodigio fuori di testa, qualche sbarbatello scapestrato che aveva
escogitato un investimento senza copertura a tassi di rischio folli. C’erano investimenti che non potevano essere fatti senza assumersi quelli che
la banca gli aveva detto di considerare rischi inaccettabili. Però, per come
andavano le cose, i rischi tendevano a venire considerati meno inaccettabili quando facevano guadagnare somme stratosferiche.
Un altro possibile problema era che la banca sostenesse di aver guadagnato complessivamente di meno nel corso dell’anno, così che in generale i bonus sarebbero stati al di sotto delle aspettative – e in effetti girava
voce che la Pinker Lloyd avesse subito perdite notevoli nel reparto mutui ipotecari. Inoltre c’era stata la delusione molto pubblicizzata che aveva dato loro la consociata svizzera, che aveva avuto la peggio in un tentativo di acquisizione e di conseguenza aveva visto calare del trenta per
cento il valore delle proprie azioni. Il Politburo avrebbe potuto sostenere
che “i tempi sono duri” e che “la sofferenza va divisa equamente” e che
“questa volta ognuno deve donare un po’ del proprio sangue” e (strizzata d’occhio) “il prossimo anno a Gerusalemme”. Sarebbe stata un’inculata micidiale.
Roger si spostò con la sedia girevole in modo da guardare fuori dalla
finestra verso Canary Wharf. Aveva smesso di piovere e il sole dicembrino stava già calando incendiando le torri, di solito dall’aspetto così solido e poco etereo, di una limpida luce dorata. Erano le tre e mezza, e lui
sarebbe rimasto al lavoro come minimo altre quattro ore; erano i mesi in
cui usciva di casa prima che sorgesse il sole e ci tornava molto dopo il
tramonto. Una cosa a cui Roger non faceva più caso da tempo. Nella sua
esperienza, le persone che si lamentavano per gli orari della City o stavano
per licenziarsi o per essere licenziate. Ruotò sulla sedia in senso opposto.
Preferiva guardare verso l’interno, verso “il pozzo”, come lo chiamava22
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no tutti in onore delle sale contrattazioni dove la gente urlava, si spintonava e agitava fogli – anche se il reparto valute estere non avrebbe potuto essere più diverso: quaranta persone sedute davanti agli schermi che
bisbigliavano negli auricolari o l’uno con l’altro, di norma senza alzare lo
sguardo dal flusso di dati. Il suo ufficio aveva le pareti di vetro, ma c’erano delle veneziane che potevano essere abbassate per la privacy, e anche un nuovo giocattolo, un apparecchio che produceva rumore bianco,
e poteva essere acceso per evitare che qualcuno orecchiasse una conversazione da fuori. Tutti i capireparto ne avevano uno. Davvero cool. Per lo
più, però, lui preferiva lasciare aperta la porta dell’ufficio in modo da seguire l’attività nel locale esterno. Roger sapeva per esperienza che essere
tagliato fuori dal proprio reparto era pericoloso, e che più eri al corrente
di quel che succedeva fra i tuoi sottoposti meno rischiavi brutte sorprese.
Se lo sapeva, in parte era per il modo in cui aveva ottenuto il posto. Lavorava come vice in quello stesso reparto quando all’improvviso la banca
aveva fatto dei test antidroga. Quattro suoi colleghi erano stati sottoposti al test e tutt’e quattro erano risultati positivi, il che non aveva sorpreso Roger, dal momento che l’esame era stato fatto di lunedì e lui sapeva
benissimo che i trader più giovani passavano l’intero fine settimana completamente strafatti. (Due di loro sniffavano coca, uno prendeva ecstasy
e uno fumava le canne; ed era quest’ultimo a preoccupare Roger, perché
a suo parere la marijuana era una droga da perdenti.) I quattro avevano
avuto un ultimatum e il loro capo era stato licenziato. Roger avrebbe potuto dirgli come stavano le cose, se glielo avesse chiesto, ma non glielo
aveva chiesto, e il modo in cui faceva lavorare Roger al posto suo era stato così arrogante, così vecchio stile, che a Roger, il quale nelle relazioni interpersonali era troppo pigro per fare carognate o tessere trame, non era
dispiaciuto vederlo andar via.
Di per sé Roger non era ambizioso; fondamentalmente voleva che la
vita non fosse troppo esigente con lui. Uno dei motivi per cui si era innamorato di Arabella e l’aveva sposata era che lei aveva il dono di far sembrare semplice la vita. E per Roger si trattava di un talento importante.
Voleva riuscire bene ed essere considerato uno che riusciva bene; e voleva assolutamente il suo bonus da un milione di sterline. Voleva un milione di sterline perché non le aveva mai guadagnate e sentiva di meritarsele, e che sarebbe stata una dimostrazione di virilità. Ma lo voleva anche
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perché ne aveva bisogno. All’inizio quella cifra era stata un’aspirazione
vaga, quasi comica, ma poi era diventata una necessità concreta, soldi di
cui aveva bisogno per pagare le bollette e far quadrare i conti. Il suo stipendio base di 150.000 sterline gli garantiva quelli che Arabella chiamava “soldi per i vestitini”, però non bastava nemmeno a pagare i due mutui. La casa di Pepys Road era di quelle grandi ed era costata due milioni
e mezzo di sterline, che all’epoca sembrava il massimo possibile, mentre
da allora i prezzi erano saliti un altro bel po’. Avevano ristrutturato la soffitta, reso abitabile il seminterrato, rifatto gli impianti elettrici e idraulici perché non aveva senso non farlo, abbattuto i muri del piano terra, aggiunto un giardino d’inverno, costruito una nuova ala, ridipinto tutto
quanto (per la camera di Joshua avevano scelto una carta da parati con i
cowboy, per quella di Conrad con gli astronauti, anche se adesso Conrad
aveva cominciato a esprimere una preferenza per i vichinghi e Arabella
stava pensando di cambiare tappezzeria). Avevano aggiunto due bagni
e trasformato il bagno principale accorpandolo alla loro camera da letto,
poi ne avevano fatto una wet room perché erano di moda, poi ne avevano fatto di nuovo un bagno normale (anche se di gran lusso) perché la wet
room aveva qualcosa di volgare, e poi l’umidità si infiltrava nella camera
e faceva venire il raffreddore ad Arabella. Arabella aveva uno spogliatoio
e Roger uno studio. La cucina all’inizio era della Smallbone of Devizes,
ma ad Arabella era venuta a noia, e ne aveva presa una nuova tedesca
con un’impressionante cappa d’aspirazione e un colossale frigo americano. Avevano fornito l’alloggio per la tata di cucina e due stanze separate
dal resto della casa, perché secondo Arabella era importante che gli spazi
fossero ben distinti nel caso in cui la tata, chiunque ella fosse, avesse invitato dei ragazzi a dormire; l’appartamento della tata aveva un rilevatore di fumo così sensibile che per farlo scattare bastava che qualcuno si
accendesse una sigaretta. Ma alla fine preferivano che la tata non vivesse
con loro, non gli piaceva la sensazione che ci fosse qualcuno al piano di
sotto, e poi avere una pensionante faceva troppo anni Settanta, non era
chic, perciò l’alloggio era rimasto vuoto. Il salotto era cablato (cavi ethernet, ovviamente, come nel resto della casa) e la musica dello stereo Bang
& Olufsen si poteva sentire in tutte le stanze della casa destinate agli adulti. Il televisore al plasma era da sessanta pollici. Sulla parete opposta c’era
uno spot painting di Damien Hirst, comprato da Arabella una volta che
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lui aveva ricevuto un bonus decente. Considerando l’Hirst da un punto
di vista estetico, psicologico, di storia dell’arte e di architettura d’interni,
la meditata opinione di Roger sul dipinto era che era costato 47.000 sterline più Iva. Tralasciando i mobili ma includendo gli onorari di architetti, periti e muratori, i lavori di ristrutturazione degli Yount erano costati
all’incirca 650.000 sterline.
Anche la Vecchia Canonica a Minchinhampton, nel Gloucestershire, non
era costata poco. Era una bellissima costruzione del 1780, sebbene l’impressione esterna di ariosità e proporzione georgiana fosse compromessa dal fatto che le stanze erano piuttosto piccole e dalle finestre entrava
meno luce di quanto ci si potesse aspettare. Comunque. La loro offerta di
900.000 sterline era stata accettata, ma poi qualcuno aveva offerto 975.000
e loro avevano dovuto rilanciare, assicurandosela per un milione tondo.
Ristrutturarla e tirarla a lucido era costato altre 250.000 sterline, parte delle quali in spese legali per aggirare gli assurdi vincoli della sovrintendenza (si trattava di un edificio di “eminente interesse storico-artistico”). Il
minuscolo cottage accessorio in fondo al giardino era stato posto anch’esso in vendita, e a entrambi era parso essenziale acquistare anche quello,
dato che al momento, quando gli amici si fermavano a dormire, si stava
un po’ stretti. I venditori, un perito e il suo boyfriend, lo usavano anche
loro come seconda casa e sapevano di avere il coltello dalla parte del manico, perciò, con il mercato immobiliare alle stelle, erano riusciti a spremere
agli Yount 400.000 sterline per un cottage microscopico che, si scoprì, abbisognava di ulteriori 100.000 sterline per un consolidamento strutturale.
Minchinhampton era splendida – non c’è niente di più bello della campagna inglese. Lo dicevano tutti. Però trascorrerci le vacanze estive era
un po’ da sfigati, secondo Arabella. Era più un posto da fine settimana.
Perciò d’estate andavano anche da qualche parte per due settimane, portandosi dietro degli amici e, ad anni alterni, invitando o i genitori di Roger o quelli di Arabella per una delle due settimane. E alla fine il costo
del tipo di villa che avevano in mente era di 10.000 sterline alla settimana. Volavano sempre in business class, perché Roger pensava che il punto essenziale di avere i soldi, se avesse dovuto riassumerlo in un unico
punto, cosa che non era possibile, ma se avesse dovuto, il punto essenziale di avere i soldi era non dover volare insieme alla feccia. In due occasioni diverse, in anni in cui il bonus era stato buono, avevano affittato
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un jet privato, esperienza dopo la quale era dura rimettersi in fila al ritiro bagagli... Poi facevano qualche viaggetto, magari a Natale – per fortuna non quell’anno – ma più spesso o a metà febbraio o per Pasqua. Le
date esatte dipendevano da quando Conrad aveva le vacanze alla Westminster Under School, che era irremovibile sul fatto che non si ci potesse
assentare se non nei periodi previsti – un po’ troppo irremovibile, riteneva Roger, trattandosi di un bambino di cinque anni; non per niente quella scuola costava 20.000 sterline all’anno.
A ben pensarci, c’erano anche altri costi da tenere in conto. La tata Pilar si prendeva 20.000 sterline nette all’anno – che diventavano 35.000 una
volta aggiunti i cazzo di contributi. La tata del fine settimana, Sheila, se
ne prendeva altre 200 a botta, per un totale di 9000 circa (anche se in nero
e senza ferie pagate, a meno che non andasse con loro, cosa che spesso faceva; altrimenti bisognava assoldare un’altra tata da un’agenzia). La Bmw
M3 di Arabella “per le compere” era costata 55.000 sterline e la Lexus
S400, l’auto di famiglia, che in pratica veniva usata dalla tata per andare a prendere i bambini a scuola e portarli a casa degli amici, 75.000. Roger aveva pure una Mercedes E500 fornita dall’ufficio, su cui lui pagava
solo il bollo di circa dieci bigliettoni l’anno, anche se non la usava quasi
mai, visto che si faceva un punto d’onore di andare in metropolitana, che,
se uscivi di casa alle sette meno un quarto e tornavi intorno alle otto di
sera, era quasi accettabile. Altre cose: 2000 sterline al mese di vestiti, più o
meno altrettante per le spese di casa (delle due case, ovviamente), le circa
250.000 sterline di imposte dell’anno precedente, la necessità di versare i
contributi per una pensione con “quasi sei zeri”, come diceva il suo commercialista, le 10.000 sterline per l’annuale festa estiva, e poi l’incredibile
dispendiosità di qualunque cosa a Londra, ristoranti e scarpe e contravvenzioni per sosta vietata e biglietti del cinema e giardinieri, e la sensazione che ogni volta che andavi da qualunque parte o facevi qualunque
cosa semplicemente i soldi si volatilizzassero. Roger non se ne dava pensiero, era completamente a suo agio con la cosa, però ciò significava che
se quell’anno non avesse avuto il suo bonus da un milione correva il serio rischio di restare al verde.
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