Paolo Curto

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Paolo Curto
Paolo Curto
I PORTALI DEL TEMPO
Copyright © 2010 MGC Edizioni
Copyright © 2010 Paolo Curto
Copertina: illustrazione dell’autore
Impaginazione e progetto grafico di Officine Grafiche
Mappa dell’autore
Elaborazione grafica a cura di Officine Grafiche di Elena Avanzini
Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale.
Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in
un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
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c/o Maria Grazia Catanzani Management
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Via Sistina, 121 - 00187 Roma
ISBN: 978-88-967-8429-7
Finito di stampare nel mese di dicembre 2010
a cura di Grafostampa - Via Laurentina 3/o (Roma)
http://www.mgcedizioni.com
a Marie-Catherine
PREFAZIONE
di Paolo Curto
Costa fra Marsiglia e Cassis, 1974. L’archeologo Jean Broussard
perlustra in immersione un misterioso sifone, lungo un centinaio
di metri, che alla fine termina in una grotta parzialmente emersa.
Con sua sorpresa, si accorge che le pareti di calcare sono piene
di pitture preistoriche. La scoperta appare subito straordinaria.
Volendo la conferma dell’autenticità dei disegni, l’uomo ritorna
nella caverna insieme all’antropologa Hélène Fleury e al subacqueo professionista Lucien Moriani.
Tuttavia, oltre alle tante e stupefacenti immagini di animali,
l’antro custodisce anche un segreto sconvolgente: infatti, le
enigmatiche impronte di mani che risaltano sulla roccia, come
a formare un anello zodiacale, in realtà circoscrivono un portale
temporale. Un eccezionale quanto raro concorso di circostanze
fa sì che i tre sub precipitino, loro malgrado, 27 mila anni indietro nel tempo, nel Tardo Pleistocene, quando il livello del Mediterraneo era 120 metri più in basso rispetto ad ora, e davanti
all’attuale Costa Azzurra si stendeva una immensa pianura. Nella
grotta in questione, quindi, si entrava a piedi.
Così due uomini ed una donna del XX secolo si trovano
costretti a confrontarsi con gli uomini e gli animali di allora,
coinvolti in vicende che sovente si dipanano sul filo del mistero
e della magia. I tre si scontrano subito con la dura realtà di un
mondo primitivo ed ostile, ma anche affascinante, in cui è spesso
in gioco la loro stessa sopravvivenza,
Fra incontri con rinoceronti lanosi, orsi e leoni delle caverne e
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cacciando i bisonti insieme ai loro amici Cro-Magnon, i moderni
esploratori involontari sono costretti a fronteggiare anche l’uomo di Neanderthal. Ma, pur correndo ogni sorta di pericoli, non
desistono mai dal tentativo di raggiungere la loro epoca, cercando di riprodurre il fenomeno soprannaturale che li ha traghettati
nel passato. L’intento però si rivelerà tutt’altro che facile. Inoltre,
per una fatale imprudenza, Lucien muore.
Quando finalmente si verificano le condizioni favorevoli,
Hélène e Jean provano ad effettuare il “salto” nel futuro. Qualcosa va storto e i due “riemergono” nel 49 A.C. durante l’assedio di Marsiglia, evento importante della lunga guerra civile fra
Cesare e Pompeo. Dopo la caduta della città si mettono sotto la
protezione del Console, senza peraltro poter smettere di lottare
per la loro vita. Sconfitto il Magno a Farsalo, Cesare si reca in
Egitto e conosce Cleopatra. Intanto i nostri, che partecipano
attivamente a quelle drammatiche vicende storiche, non demordono e aspettano sempre l’occasione propizia per ritentare il
viaggio nel tempo.
Alla fine Hélène e Jean riescono a ritornare nella loro Marsiglia
moderna. Ma non per questo i loro guai sono finiti…
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Paolo Curto
I PORTALI DEL TEMPO
Romanzo d’avventura
CAPITOLO 1
Il subacqueo nuotava rilassato in cerca di soggetti da fotografare. Si trovava a 36 metri di profondità, lungo una parete
verticale, tipica di tutta la costa a strapiombo e ricca d’insenature
che va da Marsiglia a Cassis e che prende il nome di Calanques.
Ad un certo punto, qualcosa che non aveva mai notato prima,
richiamò la sua attenzione: sembrava un’angusta cavità, in gran
parte mimetizzata da una fitta cortina di gorgonie, simili a grandi
ventagli color porpora. Guardando meglio notò che, proprio di
fronte a lui, la lampada non rischiarava nulla: il potente raggio
di luce concentrata si perdeva nel buio. Si trattava dunque di un
cunicolo, un minaccioso buco nero che conduceva chissà dove.
Così, tutto era cominciato con una scoperta in apparenza
banale, una di quelle circostanze insignificanti che però talvolta
possono scatenare forze occulte e stravolgere per sempre la vita
di una persona.
Il professor Jean Broussard non aveva fretta e si stava godendo
una delle sue prime immersioni estive del 1974. Certo, se avesse
anche vagamente potuto immaginare a quale sconvolgente odissea sarebbe poi andato incontro, se la sarebbe filata all’istante:
in qualunque altro posto, purchè molto, ma molto lontano da lì.
Invece si attardò a curiosare.
Ma com’è possibile? si chiese fissando stupito la modesta fenditura, simile a tante altre di quel fondale marino. Conosco questa
zona come se fosse casa mia, eppure ecco una bella tana che m’era sfuggita.
Mah, riflettè pigramente, una distrazione può capitare a tutti. Comunque, diamo un’occhiata.
Attratto lì dentro da alcune aragoste, Jean regolò la sua Nikonos II, l’ultima novità in fatto di macchine fotografiche anfibie.
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Quindi, dopo aver scelto l’inquadratura, scattò una fotografia
rischiarando con il flash il gruppetto di crostacei che lo guatava
sospettoso. Con un gesto automatico della mano sinistra, prese
dal retino una nuova lampadina PF 5 al magnesio e sostituì quella bruciata che scese zigzagando verso il fondo.
Soddisfatto, si dedicò ad esaminare meglio l’interno della
spaccatura che era larga un paio di metri e alta poco più di uno
nella parte centrale. Le bolle d’aria sfuggite al suo erogatore,
vesciche luminose che guizzavano lievi, andavano a raccogliersi
gorgogliando sulla volta. Appena oltre, prosperava una piccola
colonia di esile ma fitto corallo rosso con tutti i polipi bianchi
aperti che, alla debole luce proveniente dall’esterno, evocavano
una minuscola foresta innevata. Ancora un lampo, e un’altra bella immagine venne registrata sulla pellicola.
Adesso il fascio splendente della torcia subacquea sciabordava
di qua e di là, illuminando zoantidi gialli e ascidie simili a pomodori. Però lo sguardo del subacqueo veniva irresistibilmente
calamitato dalla misteriosa apertura.
Pur vagamente a disagio, l’uomo si sentiva in quel momento
attratto dal gusto per l’ignoto e la curiosità soverchiava il timore,
benché ora la grotta si configurasse piuttosto come un budello,
e per giunta stretto. L’antro, che pareva non aver fine, si apriva
inquietante e pauroso, come le fauci di un mostro pronto a ghermire l’incauto che osasse avventurarvisi.
Nonostante ciò, Jean decise d’inoltrarsi in quell’oscura gola.
Dopo un breve tratto, il tunnel proseguiva allargandosi fino
a tre metri di diametro rendendo più agevole il nuoto. Il fioco
chiarore dell’ingresso non si scorgeva già più. Non gli rimaneva
quindi che farsi guidare dal sottile cono luminoso della torcia: se
l’avesse spenta, si sarebbe trovato sospeso nel buio più totale,
come se si fosse immerso in una vasca d’inchiostro.
E se la lampada avesse smesso di funzionare? il pensiero lo sfiorò
all’improvviso. Ma via, non sarò mica così sfortunato, no? si rassicurò
con una certa dose d’incoscienza.
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Percorsa una cinquantina di metri, Jean si trovò di fronte ad
una biforcazione. Quasi senza esitare prese a sinistra, scegliendo
a caso, ma poco dopo la grotta terminò in una parete compatta.
Giratosi a fatica e facendo molta attenzione a non sollevare fango, tornò indietro fino alla diramazione. Ma, prima di imboccare
l’altra via, un’occhiata all’orologio e al manometro, che indicava
la pressione dell’aria nelle bombole, gli fece capire che era invece tempo di desistere. Stabilì quindi che per quella volta poteva
bastare.
Intrapresa una veloce nuotata a ritroso, scorse con sollievo
l’albore azzurrino dell’ingresso e di lì a poco si ritrovò sospeso
nella meravigliosa acqua libera.
Quella notte Jean sognò che il misterioso cunicolo subacqueo conduceva infine ad una grotta fantastica, simile ad una
cattedrale sommersa piena di grandi dentici e cernie le cui sagome scure si libravano tranquille, quasi immobili. Lo smisurato
ambiente era illuminato da fasci di una magica luce cerulea che
scendeva attraverso numerosi fori che si aprivano sulla volta altissima: erano i raggi del sole che, filtrati dall’acqua, cercavano di
penetrare in un mondo non loro. Jean nuotava con affanno in
quell’atmosfera misteriosa cercando invano l’uscita. Man mano
che lui si avvicinava, le aperture dalle quali scendeva il chiarore si
restringevano fino ad impedirgli di passare. E mentre l’aria delle
sue bombole si esauriva, lui girava e girava sentendosi sempre
più prigioniero di quell’incantesimo.
Si svegliò ansimando, tutto sudato. Cercò di riaddormentarsi,
ma invece continuò a rivoltarsi irrequieto fra le lenzuola per un
bel po’. Siccome il cielo andava rischiarandosi, alla fine decise di
alzarsi.
Ma guarda un po’ che razza di scemate si sognano a volte, borbottò
seccato mentre metteva sul fuoco la cuccuma del caffè. Poi,
mentre lo sorseggiava assaporandone il forte aroma, ripensò
all’esplorazione del giorno prima. Di sicuro sono stato suggestionato
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dalla grotta sottomarina, si disse alludendo all’angosciante sogno.
Bene, vediamo allora di esorcizzare il tutto: oggi risolviamo l’enigma, concluse galvanizzato dalla prospettiva di un’avventura che prometteva di essere elettrizzante.
Si era appena preso una settimana di vacanza e intendeva approfittarne. Scese in garage e scelse l’attrezzatura. Gli avrebbe
fatto comodo disporre dell’autonomia del suo bibombola da
24 litri, ma ne aveva quasi esaurito l’aria nella precedente immersione e non aveva fatto in tempo a portarlo a ricaricare. Gli
rimanevano però 180 atmosfere in un grosso monobombola da
14 litri che aveva di recente acquistato in Italia. Prese due erogatori da applicare alla doppia rubinetteria: un Royal Mistral e un
Aquilon di riserva. Aggiunse al suo equipaggiamento consueto
anche una bussola e due lampade stagne: non si poteva mai sapere… Ficcò inoltre nella capace sacca impermeabile un grosso
rotolo di sagola avvolta su un rocchetto: l’avrebbe usata a mo’di
filo d’Arianna. Per questa volta non avrebbe portato la macchina
fotografica, in modo da essere più libero nei movimenti senza
ulteriori impicci.
Sistemato il tutto sul suo battello pneumatico, uno Zodiac, si
diresse a tutta manetta verso le Calanques, smanioso di scoprire
il segreto della caverna sommersa. Data l’ora mattutina incontrò
solamente qualche barca di pescatori che rientravano in sede,
diretti a vendere il pesce sulla banchina del Vieux Port. Imboccò
a velocità sostenuta lo stretto passaggio fra l’Isola Maire e Capo
Croisette, e in meno di venti minuti giunse a destinazione.
Ormeggiò il gommone davanti al lastrone inclinato che aveva
preso quale punto di riferimento, all’incirca sulla verticale della
sua grotta che si trovava sotto la Punta della Voile, a Capo Morgiou. Lì la scogliera formava una specie di anfiteatro calcareo
che incombeva imponente sulla sua testa. Planando alti nel cielo,
alcuni gabbiani emettevano il loro roco richiamo. Ondine lievi
sciabordavano dolcemente contro il dirupo scosceso. Era una
splendida giornata senza vento, l’ideale per le immersioni.
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Completata la vestizione e fatto un ultimo controllo al suo
corredo, Jean si lasciò cadere all’indietro schiaffeggiando la superficie del mare piatto come un lago. Non appena si diradò
la nuvola di bollicine d’aria provocata dal brusco impatto con
l’acqua, fece una capriola e iniziò la discesa. Seguì per un tratto
la cima dell’ancorotto e poi con pochi colpi di pinna si ritrovò
davanti alla fenditura. Le aragoste erano ancora lì e lui le ignorò,
passando oltre e infilandosi dritto nel pertugio.
Appena fu entrato, Jean illuminò un “volo” di eleganti corvine
che si ritirarono senza fretta oltre una fessura orizzontale. Più in
là ancora un timido gronco sfilò rasente ai bordi dell’antro per
poi sparire in una tana. Alcune galatee rosse e blu si dileguarono
frettolose sotto dei sassi nuotando a scatti all’indietro.
Per timore che da fuori qualcun altro la scoprisse per caso e
quindi s’incuriosisse, Jean legò un’estremità della cordicella ad
una sporgenza di roccia, alcuni metri all’interno della caverna.
Dopo che si fu addentrato per una ventina di metri, il leggero
brusio, familiare in ogni fondale marino, smise di scortarlo. Unico rumore adesso era il borbottio regolare e rassicurante delle
bolle d’aria che fuoriuscivano dall’erogatore; quello di riserva
pendeva inerte ma pronto alla bisogna.
Ormai non si scorgeva più un solo pesce. Stavolta Jean s’inoltrò senza tentennamenti nel tunnel. In breve giunse alla biforcazione, sempre filando con regolarità la sagola dal rocchetto. Non
perse tempo ed imboccò sicuro il cunicolo di destra. A questo
punto era come intraprendere un viaggio verso l’ignoto, affascinante e terrificante insieme. Speriamo che questo tratto continui e non
s’interrompa come l’altro, si augurò fiducioso.
Jean pinneggiava risoluto ma prudente nel sifone sconosciuto che per fortuna si manteneva sempre abbastanza largo. Un
controllo al profondimetro gli indicò che il budello cominciava
a salire. Stimò nel frattempo di aver percorso fin lì un buon
centinaio di metri. Era già parecchio, era già pericoloso. Nondimeno, era spinto da un irresistibile impulso che lo incitava a
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proseguire. Si sentiva comunque abbastanza tranquillo: due anni
prima aveva fatto un’esperienza analoga in Sardegna, a Capo
Caccia. Quel promontorio, parte integrante di una maestosa costa caratterizzata da vertiginosi strapiombi sul mare, assai simili,
per conformazione calcarea, alle Calanques, custodiva qualcosa
di eccezionale. Nel suo ventre, ad una profondità media di una
ventina di metri, si sviluppava forse il più grande complesso di
caverne sottomarine del mondo, almeno per quanto si sapeva.
La sola immensa Grotta di Nereo era lunga ben 320 metri.
La galleria continuava a salire sempre di più finché si restrinse bruscamente. Adesso, un foro circolare, una specie di breve
tubo, permetteva a malapena il passaggio di un uomo. Il suo
orologio, un Breil serie Manta, l’unico all’epoca dotato di colonnina della profondità, segnava -16 metri e Jean si rese conto di
essersi già innalzato di venti metri rispetto all’ingresso dal mare.
Era possibile, allora, che superata quella strettoia si sbucasse in
superficie?
Un campanello d’allarme lo avvertì che era ora di tornare
indietro. Consultò il manometro e si accorse di aver consumato
più del 30% dell’aria. Una delle severe regole della speleologia
subacquea imponeva in quei casi di usare un terzo del contenuto delle bombole per l’andata, altrettanto per il ritorno, e il
rimanente per le emergenze. Jean riconobbe di avere perso la
cognizione del tempo, avendo respirato più di quanto pensasse.
Eppure avvertiva, lontano ma nitido, come un richiamo misterioso e impellente che lo stimolava a proseguire.
Stranamente, in quel momento si sentiva come distaccato,
estraneo; gli pareva di udire un vago coro di sirene e di non
essere veramente lui ad agire. No davvero, non poteva di certo
essere lui quello che, dimentico di ogni elementare prudenza, si
stava intrufolando nella stretta apertura. Lui si limitava a seguire
l’azione come se la cosa non lo riguardasse per nulla, proprio
come succede –si rendeva confusamente conto- quando si viene
colpiti da narcosi d’azoto, la nota “ebbrezza delle profondità”.
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Soltanto che lui adesso si trovava a soli 16 metri! Era del tutto
avventato ciò che stava facendo: quella era un’impresa da compiere almeno in due, meglio ancora se in tre. A quel punto il più
insignificante incidente avrebbe potuto avere conseguenze letali,
e lui doveva saperlo bene. Ciononostante sembrava non importargliene un granché.
All’improvviso si ritrovò in una spaziosa caverna che si allargava verso l’alto fino a formare una specie di enorme imbuto.
Titaniche stalagmiti si ergevano a scolpire un fatato bosco pietrificato e sommerso. Jean, tornato finalmente in sé, si mosse con
circospezione, ben attento a non smuovere la finissima polvere
bianca che simile a neve ricopriva le fantastiche formazioni calcaree. Fece girare la torcia per godersi appieno quello spettacolo
straordinario ed unico, finché non si avvide che le sue bolle
d’aria si sfaldavano, poco sopra di lui, in uno specchio mobile e
invitante: la superficie.
Ma allora la grotta è in parte emersa! esultò in cuor suo. Affiorò
impaziente con la testa e illuminò un’ampia volta dalla quale
scendevano numerose stalattiti che spesso formavano un corpo
unico con le stalagmiti. Ad una di quelle legò l’estremità della
sagola, che non aveva mai smesso di srotolare.
Quindi Jean esitò, incerto se togliersi di bocca l’erogatore, perché aveva sentito dire da qualche parte che a volte gli ambienti
chiusi da molto tempo, come tombe antiche o miniere, possono
rivelarsi saturi di gas tossici. Con prudenza, si azzardò a fare
un respiro. L’aria sembrava buona, anche se gli parve, forse per
suggestione, che avesse l’imprecisato sapore dei millenni. Stando
ancora in acqua, si sfilò i cinghiaggi della bombola e si issò su
di un irregolare gradino roccioso. Su quel basamento naturale
poggiò, dritto in piedi, anche l’autorespiratore, non senza averne
prima chiuso, con gesto automatico, la rubinetteria: da tempo
aveva preso l’abitudine di interrompere il flusso dell’aria ogni
qualvolta usciva dall’acqua, fosse pure a titolo provvisorio, onde
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evitare perdite accidentali. Sistemò poi accanto anche le pinne e
la cintura di zavorra.
Il luogo era permeato da un’atmosfera irreale e Jean ebbe la
netta sensazione di stare violando l’incontaminata austerità di
un tempio, di profanare un remoto santuario. Tuttavia, superato
l’illogico e momentaneo disagio, si accinse a compiere un giro
di ricognizione; accennò quindi qualche cauto passo, con una
lampada in mano e l’altra riposta nel retino che gli circondava la
vita. Nel solenne silenzio di quel castello incantato, udiva solo
il proprio respiro che si trasformava in condensa e il sottile ed
eterno stillicidio delle gocce che, staccandosi dalla volta, finivano
in acqua.
Un tonfo sordo lo fece girare allarmato su se stesso. Diresse
con ansia il raggio luminoso dove aveva lasciato l’attrezzatura:
c’erano le pinne, i piombi e…
«La bombola! Non c’è più la bombola! Merda!» imprecò Jean
ad alta voce. Fissò con orrore la lieve perturbazione dell’acqua
che indicava il punto in cui era sprofondato l’autorespiratore.
«Non dovevo metterla dritta!» gridò ancora, angosciato. «Maledizione! Non dovevo metterla in piedi. Si sarà sbilanciata ed è
caduta. Presto, devo fare presto! Se la perdosono fottuto!»
Tornato subito indietro, fissò per un istante la superficie opalescente sulla quale si stavano espandendo dei leggeri cerchi concentrici. Senza esitare oltre, Jean afferrò la maschera alzata sulla
fronte e se l’abbassò sul viso, gettandosi nel contempo in acqua.
Alla luce della lampada scorse subito la bombola argentata che
stava rotolando lungo la scarpata in forte pendenza e provò disperatamente a raggiungerla.
Invano. Senza la cintura di zavorra, la spinta di galleggiamento
congiunta della muta e dell’equilibratore idrostatico Fenzy, che
ancora indossava, era come una perfida mano che, afferratolo
con tenacia, lo trascinasse inesorabile verso l’alto. Privo dell’aiuto delle pinne, poi, la manovra risultò impossibile.
Galleggiando avvilito in superficie, Jean fu preso dal panico.
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Merda, e adesso come faccio? Si mise a pensare con frenesia cercando
di scacciare lo sconforto e di trovare nel contempo una soluzione. Nessuno al mondo sa che mi trovo qui. Sono fregato, rifletté. Sentendosi impotente, lanciò un urlo alla caverna, che lo amplificò:
«Sono fregato! Fottuto! Fottuto come un coglione!»
La sua mente cominciava a vacillare, attanagliata da un terrore
irrazionale che stava per sopraffarlo. Dagli arcani recessi del suo
cervello, però, l’istinto di sopravvivenza, simile ad una voce imperiosa, si fece strada fino alla sua coscienza.
Calmati, si costrinse a pensare Jean con uno sforzo di volontà.
Respira a fondo. Ecco, così, non smettere… Ragiona: adesso ti metti la
cintura dei piombi, ti infili le pinne e vai giù: non sono nemmeno dieci metri.
Recuperi la tua bombola, quindi ritorni su e dimentichi l’incidente.
Placatosi alquanto, l’uomo estrasse il boccaglio incastrato fra
le cinghiette che fissavano al polpaccio il fodero contenente
il coltello, calzò le pinne e, affibbiatasi la zavorra, si rimise in
acqua. Guardò giù e con un tuffo al cuore non vide più la bombola. Si scorgeva solo la sagola bianca che scendeva e spariva
nello stretto buco dal quale era giunto. L’angoscia lo riassalì in
un attimo.
Non fare lo stronzo, guarda bene! si impose con un grande sforzo
di autocontrollo. Con ansia, fece saettare la lingua luminosa in
ogni direzione e alla fine scorse nel punto più profondo, accanto
alla cordicella, il debole luccichio dell’erogatore.
Questa poi! Non è possibile, la bombola è finita proprio davanti alla
strettoia, è arrivata fin giù! constatò scoraggiato. Ragiona, dai, devi
sempre ragionare, si ingiunse di nuovo, a fatica. Lì, dove si trova quel
maledetto autorespiratore, saranno nemmeno quindici metri. Questo te lo
ricordi, no? L’ultimo controllo ti dava 16 metri, ed eri appena più profondo.
Più giù di così non va, stai tranquillo, il tunnel non ha abbastanza pendenza. In apnea è niente per te: quando vai a pesca subacquea scendi ben più
sotto, o l’hai dimenticato? Ce la puoi fare, è una sciocchezza, basta seguire
la sagola. Tieni presente che ne va della tua vita. Pensa, morire qui dentro
dopo una lenta agonia, ignorato da tutti, con le batterie delle torce che man
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mano si esauriscono: la luce che si affievolisce e poi si spegne. Per sempre.
Una fine orrenda nel buio totale, prigioniero delle tenebre, senza alcuna
speranza. È questo che vuoi? No di certo, vero? E allora ribellati, tira fuori
la grinta. Basta tergiversare, ora: vai! Capito? Concentrati e vai!
Jean iniziò a fare dei profondi respiri e, man mano che si iperventilava e l’ossigeno si diffondeva nel suo organismo, sentiva
che il suo corpo si rilassava. Ne trasse beneficio anche la sua
mente che, calmatasi, era adesso tutta volta all’obiettivo da raggiungere: ora sapeva che quella profondità era tranquillamente
alla sua portata, sia pure in una grotta buia. Aspirò un’ultima
boccata d’aria e s’immerse deciso, puntando con rapide falcate
verso la strozzatura dell’”imbuto”.
Era teso ma determinato a sopravvivere, la salvezza era soltanto a pochi metri. Giunto sul fondo, afferrò i tubi corrugati, si
cacciò in bocca il terminale e si concesse un avido respiro.
Dall’erogatore non uscì nulla.
Grandissimo imbecille! si rimproverò con convinzione, mentre la
sua mano apriva con smania la rubinetteria del monobombola.
L’aria fresca che gli fluì immediata nei polmoni gli regalò un’esaltante sensazione di rivalsa sulla grande paura appena provata.
Era salvo!
Ce l’ho fatta! giubilò con aria di trionfo. Afferrato per i cinghiaggi l’autorespiratore lo trasse con sé fino a raggiungere la
superficie. Stavolta sistemò la bombola ben coricata e si accertò
che non potesse più scivolare in alcun modo.
Si sedette, di colpo stanchissimo.
Ecco, ci sei riuscito, si disse esultante, È stata una coglionata grossa
così, però te ne sei tirato fuori. Tutto a posto ora, rilassati.
Ancora turbato per l’emozione –troppe sensazioni forti si
erano accavallate nel giro di pochi minuti-, se ne stette immobile
per un po’, mentalmente spossato.
Infine si scosse e decise che con quella grotta poteva bastare
così. Almeno per il momento. Ma poi rifletté: era come minimo
un peccato abbandonare così la partita, di caverne di tal fatta
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non se ne scoprivano ogni giorno. Già che c’era tanto valeva
dare un’occhiata più approfondita in giro, quasi per ottenere una
sorta d’indennizzo per lo spavento provato poc’anzi, benché la
sua baldanza iniziale si fosse alquanto afflosciata. Ma sì, dai, s’incitò senza troppa convinzione. Hai fatto trenta, fai trentuno.
Jean si mosse con prudenza, facendo attenzione alla roccia
scivolosa e accidentata, badando soprattutto alle minuscole stalagmiti aguzze che spuntavano ovunque dal suolo e che avrebbero potuto trapassargli i fragili calzari di neoprene e ferirgli i piedi.
Cominciò ad aggirarsi sempre più meravigliato in un mondo fiabesco formato da gigantesche colonne ornate da pizzi e merletti,
a volte sottilissimi, creati dal lavorio incessante dell’acqua che
continuava a sgocciolare fin dall’eternità. Via via conquistato e
ammaliato da quell’incanto, Jean tendeva già a scordare il brutto
incidente occorsogli.
Ad una sommaria ispezione, la grotta non pareva avere altre
comunicazioni con l’esterno, oltre al sifone che la collegava al
mare. Infatti non si avvertivano spifferi di sorta, non si intravedevano altre luci, e non c’era nemmeno traccia di pipistrelli,
o quantomeno dei loro escrementi, sicuro indizio di passaggi
segreti.
Si ritrovò d’un tratto a fissare un disegno tracciato col carbone sulla parete di fronte a lui. Rimase senza fiato: quei tratti
scarni componevano senza alcun dubbio la testa stilizzata di un
cavallo.
Ma è assurdo! si disse, non riuscendo lì per lì a capire. Qualcuno
è già entrato qui. E prima di me! constatò quindi con un acuto senso
di delusione. Gli ci vollero invece diversi secondi per afferrare
appieno il significato di quella visione.
È chiaramente primitivo, ragionò poi. Ma, cristosanto, quanto tempo
fa è stato eseguito? Di certo in epoche lontanissime, quando la caverna era
raggiungibile a piedi. Si sa infatti che una volta il livello del mare si trovava
50, 100 metri più in basso, addirittura fino a 120 metri, e la costa era
molto più lontana di quella attuale, credo di cinque o sei miglia. Ma quando
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questo? 10, 20 mila anni fa? Almeno! Dopo aver spostato il fascio
luminoso della lampada sussultò ancora: E qui c’è un altro cavallo,
anzi altri due! Accidenti, ma dove sono capitato?
Con il cuore in tumulto, Jean faceva saettare la luce da una
figura all’altra, mentre pian piano cominciava a realizzare l’importanza della sua scoperta. Appena più in là, numerosi disegni
di altre specie di animali occhieggiavano invitanti.
È incredibile! valutò rapito. È una cosa troppo grande, non posso tenere solo per me un simile segreto! È tutto così fantastico, straordinario!
Una ridda di pensieri si accavallava nella sua mente in subbuglio per la seconda volta nel giro di mezz’ora. Era affascinato, come in trance, non riusciva ancora a capacitarsi di essersi
imbattuto in una simile meraviglia. Si trattava, adesso ne era
cosciente, di un ritrovamento unico, incomparabile.
Non doveva tuttavia dimenticarsi di dove si trovava. Era ora
di andare, di uscire fuori di là. Quando finì di equipaggiarsi e fu
pronto a scendere in acqua, decise d’impulso di togliere il filo
di Arianna. Non si poteva mai sapere: qualcuno, per un caso disgraziato, avrebbe potuto trovarlo e seguirlo. E nella maniera più
assoluta lui non voleva correre un simile rischio: la scoperta era
sua! E poi, adesso che lo conosceva, il tragitto gli appariva facile
e lineare. Era impossibile sbagliarsi.
Fece un nodo per marcare quanta sagola aveva svolto fin lì in
modo da poter misurare in seguito l’esatta lunghezza del tunnel,
quindi rifece la via del ritorno arrotolando con cura la cordicella
sul rocchetto e senza smettere di pensare a quel dono favoloso
ricevuto dal mare.
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CAPITOLO 2
Messo il fuoribordo a tutto regime, Jean si diresse verso Marsiglia, lasciandosi schiaffeggiare il viso dall’aria e respirando a
pieni polmoni. Per tutto il tragitto di ritorno si arrovellò su quale
fosse a quel punto la mossa giusta da fare. Ogni tanto si esaltava,
e per la gioia si scatenava in urla liberatorie. In quei momenti,
ad occhi estranei, sarebbe sembrato senza dubbio un pazzo. Lui
però non se ne curava: era emozionato, confuso ed i pensieri gli
turbinavano senza sosta nel cervello in ebollizione.
Gli avrebbero creduto? Ma a chi lo avrebbe raccontato? E
che cosa avrebbe detto? Calma, bisognava ragionarci sopra per
bene. Anche perché, in ultima analisi, poteva pure trattarsi di una
fregatura: opera di un emerito cretino che si fosse divertito, magari di recente. E gli vennero in mente quegli illusi –che lui detestava- che scrivevano il loro nome dappertutto credendo così di
immortalare il loro insignificante ed effimero transito in questo
mondo. Poteva trattarsi di uno stupido scherzo, insomma.
Ma no, questo non era possibile: già arrivare fino alla parte
emersa della grotta non era certo facile; figurarsi mettersi anche
a giocare col carboncino! Però ci voleva un esperto, uno serio, da
consultare con discrezione. E che per giunta fosse un subacqueo
di buon livello, diversamente come avrebbe potuto visionare
i disegni ed i graffiti? Questo requisito avrebbe però alquanto ridotto la rosa degli studiosi da contattare nell’eventualità.
Nondimeno, bisognava pur trovare qualcuno. E fino ad allora
occorreva stare ben abbottonati. Non era certo il caso di sputtanarsi raccontando in giro anzitempo di chissà quale scoperta
mirabolante, senza prima essersi accertato che non si trattasse di
una bufala. Ma a chi rivolgersi? A chi chiedere?
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«Hélène Fleury!» Il nome gli era balenato all’improvviso. «Ma
certo, la dottoressa Hélène Fleury!» ripeté Jean, soddisfatto della
scelta.
Hélène era un’antropologa, anzi una paleoantropologa, come
ci teneva lei stessa a precisare, che aveva conosciuto otto mesi
addietro durante la prima edizione del Festival Mondial De
L’Image Sous-Marine, ad Antibes Juan-Les-Pins. Lei aveva partecipato all’avvenimento accompagnata dal suo uomo, Marcel
Beaucocq, un tipo sussiegoso con la puzza sotto il naso. Era
così evidente la sua ipocrita condiscendenza, lui di Parigi, verso
i provenzali, che Jean gli avrebbe volentieri stampato un pugno
in faccia, anche se doveva onestamente ammettere che non era
quella la vera ragione che l’avrebbe spinto a farlo.
Si rammentò di aver parlato a lungo con lei, nei tre giorni del
Festival, soprattutto quando non c’era nei pressi lo “scocciatore”, anche perché condividevano entrambi un’autentica passione
per il mare e le immersioni, che quell’altro invece snobbava in
favore dei cavalli e del golf.
Per un attimo, Jean si lasciò andare a quel ricordo: gli piaceva
Hélène, eccome se gli piaceva. Se n’era subito sentito attratto e
gli era persino parso –ma forse era soltanto la sua immaginazione- che si trattasse di un sentimento reciproco. Se non fosse
stato per l’onestà morale di lei, più che per la presenza del fidanzato, magari ci si sarebbe pure buttato. Tuttavia aveva deciso che
avrebbe potuto anche esserle solo amico. Non l’aveva più rivista,
però, benché lei abitasse nella sua stessa città. Ma di questo doveva rimproverare solo sé stesso, ammise. Infatti era lui che non
l’aveva mai cercata, forse per paura di una nuova delusione.
Ma ora era diverso. Jean era contento di aver pensato a lei:
al di là di ogni altra considerazione, era proprio l’esperta che
ci voleva. A parte ciò, scoprì di non averla affatto dimenticata,
e se ne accorse dall’emozione che gli dava ancora il ricordo di
lei. E adesso aveva un ottimo pretesto per rivederla. Chissà se
stava ancora con quello? Gli venne in mente che già allora aveva
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scommesso dentro di sé che non sarebbe durata: i due erano
troppo differenti, come carattere, interessi, tutto insomma. E,
malignamente, aveva immaginato che un tipo così fosse una
frana anche a letto. Bene, avrebbe telefonato a Hélène appena
toccato terra.
Arrivato quasi alla fine della Corniche, Jean rallentò, imboccando il canale che immetteva al Vallon des Auffes, porticciolo
costruito da pescatori italiani, uno degli angoli più suggestivi e
meno conosciuti di Marsiglia. Lasciandosi alla sinistra il ristorante sul mare Epuisette, dove sovente andava a gustare delle ottime specialità marinare, transitò sotto il ponte e si ormeggiò alla
piccola banchina. Gli piaceva molto quell’insenatura tranquilla e
ben riparata, che considerava un Vieux Port in miniatura, tagliato fuori dalla confusione.
Il Vallon des Auffes faceva parte di quei numerosi villaggi che
l’agglomerato urbano di Marsiglia ha inghiottito nel tempo e che
tuttavia era riuscito a conservare la sua autenticità. Racchiuso
fra due compatte pareti di calcare che si aprivano sul mare, esso
veniva considerato così al di fuori del resto della città che i suoi
residenti, quando se ne allontanavano, solevano dire: «Salgo a
Marsiglia». Centro anacronistico, circondato da una metropoli
frenetica, era un’oasi di pace che offriva asilo a piccoli pescherecci e barche, molte delle quali venivano tirate a secco su piani
inclinati di legno e cemento. Per la sua caratteristica di luogo
quieto, era inoltre diventato un’attrazione turistica e culinaria.
Jean abitava lì, in un bilocale in affitto posto sopra gli scivoli, per l’acquisto del quale era in trattative con la proprietaria.
Aveva inoltre l’utilizzo di un ex magazzino per le reti da pesca
situato di fronte alla banchina, che lui usava come garage e per
tenerci l’ingombrante attrezzatura da immersione. Apprezzava
in special modo il fatto di vivere in quel posto, a parte il vantaggio di trovarsi a due passi dal suo gommone, che poteva anche
controllare dal suo terrazzo, l’angolo della casa che preferiva.
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Lì sopra, nella buona stagione, ospitava spesso degli amici per i
quali faceva delle memorabili grigliate di pesce. Lo specchio di
mare antistante era minuscolo, tutti si conoscevano e lui aveva a
volte l’impressione di stare in un teatro.
L’appartamentino era arredato in maniera essenziale e dava
l’impressione di una garçonnière: e in effetti, era quello il suo uso
più frequente, benché Jean ci stesse bene anche solo per rilassarsi,
magari con un buon libro. Sul terrazzo c’erano alcuni reperti archeologici che lui stesso aveva rinvenuto sott’acqua: una macina da
mulino, un’antichissima ancora in pietra (un semplice sasso tondo, ben levigato e con un foro in mezzo), e un piccolo ceppo di
piombo, quanto rimaneva di un ancorotto romano. La cosa che si
notava di più nel soggiorno era un’anfora romana che faceva bella
mostra di sé sostenuta da un semplice piedistallo in ferro battuto.
Per un incredibile colpo di fortuna, l’aveva trovata a pochi
metri di profondità, seminascosta da una prateria di posidonie,
in una baia presso Callelongue. Aveva sedici anni ed era molto
orgoglioso di essersela recuperata in apnea e da solo.
Due anni più tardi, nel 1952, Jean, marsigliese verace, aveva
trascorso la fine dell’estate e l’autunno a dare una mano al gruppo di sommozzatori del Comandante Jacques-Yves Cousteau
che, con l’appoggio della mitica Calypso, lavorava al recupero
di un’antica nave da carico greca affondata circa duemila anni
prima al Grand-Congloué, uno scoglio desolato presso l’Isola di
Riou. Jean aveva vissuto anche qualche settimana a Port Calypso, come pomposamente veniva chiamata la baracca attrezzata
sul posto, onde poter proseguire i lavori sul relitto anche nella
cattiva stagione, nonostante le terribili maestralate che sovente
flagellavano quella rupe ostile.
Jean era uno dei tanti volontari che prestavano a titolo gratuito la loro opera durante le vacanze o i fine settimana. Si appassionò così tanto a quel lavoro, che fornì con entusiasmo la sua
collaborazione anche per quasi tutto l’anno successivo.
Un giorno fu recuperata per caso un’anfora che conteneva
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ancora del vino, l’unica intatta di tutto il carico di diecimila pezzi.
Venne religiosamente aperta e per un momento tutti, assaggiando quel liquido insipido (aveva perso completamente l’alcol) ma
bevibile, si sentirono nell’intimo “vicini” agli antichi contadini
che l’avevano fatto fermentare, a coloro che l’avevano conservato nelle giare e ai marinai che avevano concluso in maniera
tragica la loro ultima navigazione proprio in quel luogo.
Fu esattamente in quegli attimi ispirati che Jean seppe cosa
avrebbe fatto della sua vita: sarebbe diventato archeologo. Archeologo subacqueo.
Il fatto di appartenere ad una famiglia benestante gli permise
di trasformare in mestiere quello che fino ad allora pareva essere
stato solo un hobby appassionante. Come é noto, non si tratta
di una delle professioni meglio retribuite, ma al di là dell’aspetto
economico era un lavoro che poteva dare molte soddisfazioni.
Quindi, pur continuando a fornire nei momenti liberi il proprio
apporto all’equipe di Cousteau, Jean si era iscritto alla facoltà
d’archeologia di Aix-en-Provence, dove si era laureato cinque
anni dopo. Partecipò in seguito a numerose campagne di ricerca
sui siti di antichi naufragi, sia in Italia che in Grecia, ma non gli
capitò più niente di simile al relitto del Grand-Congloué.
Ora, quarantenne, cominciava a sentirsi insoddisfatto: da
troppo tempo alla sua vita mancava uno stimolo importante. A
volte gli pareva di aver girato un po’ a vuoto e aveva la sensazione
di essere passato accanto alla sua grande occasione senza riconoscerla. Non che si desse pensiero più di tanto: oltre al suo lavoro
che comunque spesso lo appagava, amava gli sports marini ed
eccelleva nelle arti marziali. Dotato di un fisico prestante, tutto
sembrava fuorché uno scienziato, forse anche perchè dimostrava dieci anni di meno. Aveva la mascella risoluta e la fronte alta
incorniciata di corti capelli di un castano scuro. Gli occhi chiari,
di un indefinibile colore grigio-azzurro, si esprimevano in uno
sguardo franco che non mollava mai l’interlocutore. La bocca decisa aveva gli angoli appena piegati all’insù, tipici di chi è dotato
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di un certo umorismo. L’insieme di questi elementi gli conferiva
un aspetto da bravo ragazzo che poteva ingannare. E infatti parecchie donne cadevano vittime di una errata valutazione. Scapolo incallito, passava da un’avventura galante all’altra, anche se
negli ultimi tempi avvertiva un vago senso di scontentezza.
Sorseggiando un bicchiere di vino bianco fresco e comodamente allungato su di una sdraio del suo terrazzo, Jean stava
facendo mente locale su come organizzarsi per la prossima visita
alla sua grotta. Dopo aver tergiversato per un bel pezzo, infine si
decise e formò un numero di telefono, in preda ad un esagerato
batticuore, che lo irritò alquanto.
«La dottoressa Fleury?»
«In persona», rispose una voce gradevole.
«Sono Jean Broussard, ti ricordi di me?»
« Jean! E come no, ad Antibes! Non ci siamo più sentiti…A
cosa devo questo onore?»
«Hélène, dobbiamo vederci al più presto, ho urgente bisogno
di parlarti».
«Eh, quanta fretta», fece lei canzonatoria. «Non sarà mica un
goffo pretesto per…».
«Niente del genere, t’assicuro», tagliò corto Jean.
«Peccato». La voce di lei manteneva un’intonazione canzonatoria.
«Beh, se la metti così…», cominciò lui, insinuante.
«Scherzavo».
«Peccato, adesso lo dico io», sospirò Jean.«Ora parliamoci
seriamente però».
«Ti ascolto», lo invitò.
«In realtà, non ci sarebbe poi tutta questa fretta, in fin dei
conti la cosa ha aspettato per dei millenni. Però sono io ad essere
impaziente, anzi, non sto più nella pelle».
«Ma cosa mi tocca sentire! È davvero così importante?» Una
nota di curiosità trapelò dalla voce di Hélène.
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«Si tratta di una faccenda grossa, grossissima. Talmente incredibile che se te la raccontassi stenteresti ad accettarla per vera».
«E tu prova a dirmela».
«Non per telefono».
«Che razza di segreto! Il fatto è che sono abbastanza presa;
non è per dirti di no, ma devo preparare una conferenza che dovrò tenere fra qualche giorno. Magari ci vediamo in seguito».
«No, dobbiamo incontrarci al più presto possibile. Ti prego,
non te ne pentirai».
«Ma perchè vuoi confidarti proprio con me?»
«Perchè ti riguarda».
«Beh, mi hai convinta. Quando?» concesse Hélène, la cui curiosità era ormai solleticata.
«Domattina, se puoi. Ci possiamo trovare al Vieux Port, al
Bar de la Marine, a metà della Rive Neuve, proprio di fronte alla
fermata del ferry boat».
«So dov’è. Ti va per mezzogiorno? » Intuendo la delusione di
Jean, aggiunse: «Non posso farcela prima. Davvero».
«Mi sta bene lo stesso. Magari mangiamo un boccone insieme?»
«Ti ringrazio, ma sarà per un’altra volta. Credimi, faccio già
un grosso sforzo per staccarmi un attimo dai miei impegni».
«D’accordo. Sei un tesoro», si congedò Jean.
Con la prospettiva di rivedere Hélène, Jean non riusciva più a
stare calmo. Condotto da passi irrequieti si ritrovò al Vieux Port
ben prima dell’ora fissata. Si attardò allora a gironzolare fra le
bancarelle del pittoresco mercato del pesce. C’era una gran folla
che curiosava o faceva acquisti. I pescivendoli decantavano la
loro merce ed in effetti c’erano esposti pesci magnifici: saraghi
ancora vivi, stupende orate e grandi dentici dai colori iridati.
Granseole, aragoste, cicale e astici muovevano piano le zampe
testimoniando la loro freschezza. Dappertutto si diffondeva
l’acre odore iodato di cozze e arselle e quello più forte delle
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spugne appena carpite dai fondali. Ma Jean, stornato da altri
pensieri, vedeva vagamente tutto questo. Sei emozionato come un
ragazzino, ammettilo, si rimproverò fra di sé mentre sulle labbra
gli compariva un leggero sorriso. Sempre in notevole anticipo,
si avviò al luogo dell’appuntamento. Gli sembrava che il tempo
non passasse mai.
Sedutosi ad un tavolino del Bar de la Marine, osservava distratto l’attività del porto, congestionato come sempre da un
andirivieni di battelli da pesca e da diporto, oltre che dai barconi pieni di villeggianti diretti alle Calanques e dalle navette che
traghettavano i turisti al Chateau d’If e all’Isola Ratonneau. Gli
altri tavolini all’aperto erano occupati da alcuni marinai, coppie
di fidanzatini, qualche famigliola, e da un gruppetto di chiassosi
tedeschi in vacanza.
Il ferry boat aveva appena mollato gli ormeggi con a bordo
pochi passeggeri da trasportare sulla sponda opposta, di fronte
al municipio. Proveniente da una vicina trattoria, un delizioso
aroma di calamari fritti si spandeva nell’aria.
Indifferente a quanto lo circondava Jean stava sulle spine,
dando frequenti occhiate al suo orologio. Hélène era in ritardo,
di ben cinque minuti: sarebbe poi venuta? si chiese con smania.
Chissà se era cambiata, si domandò con inquietudine. E intanto
lanciava sguardi impazienti in direzione del Quai des Belges.
Infine, la scorse mentre avanzava sul lungomare con aria spavalda e facendo girare parecchie teste. Jean si sorprese a pensare
che quella elegante falcata gli ricordava un felino. Gli venne un
tuffo al cuore. Aveva conosciuto Hélène in versione autunnale,
avvolta da un abito abbastanza castigato, mentre ora indossava
con disinvoltura un vestitino aderente e scollato, che metteva in
mostra un seno perfetto e le lasciava scoperte le gambe lunghe
e abbronzate. Era proprio uno schianto! Pareva molto più giovane dei suoi 31 anni e, pur non essendo una bellezza classica,
possedeva un fascino irresistibile. Una leonina capigliatura castana le scendeva sulla schiena come una cascata. Nell’ovale del
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viso risaltavano gli occhi verdi, ironici e indagatori. Sotto il naso
regolare, le labbra piene erano capaci di dispensare incantevoli
sorrisi che avevano il potere di sciogliere chiunque.
Dotata di un’intelligenza fuori dal comune, Hélène Fleury,
nonostante la giovane età, era considerata un’autorità nel suo
campo. Collaborava spesso con autorevoli riviste scientifiche e
aveva al suo attivo numerose pubblicazioni che il più delle volte
facevano scalpore, la qual cosa contribuiva ad aumentare il suo
prestigio, specie all’estero. Viaggiava di frequente per tenere
conferenze nel corso delle quali, oltre che per i suoi accurati resoconti, si faceva notare anche per il suo charme singolare.
Il rovescio della medaglia era però troppo spesso costituito
dall’atteggiamento ipocrita di certi suoi colleghi, in prima fila
i maschilisti per natura, poi quelli semplicemente invidiosi del
suo successo, e per finire, quelli che con lei ci avevano provato,
ma invano. Orbene, tutti costoro tendevano di continuo a sminuire o a ridicolizzare il suo lavoro generando delle polemiche
sfibranti. A ciò contribuiva non poco il suo aspetto: il fatto che
sembrasse poco più di una ragazzina, non la aiutava certo a farsi
prendere sul serio.
Il suo settore era la paleoantropologia, dottrina che però, per
come veniva di consueto applicata allora, a Hélène sembrava
abbastanza sterile o addirittura morta, proprio come i soggetti
di cui si occupava. Lei al contrario ne aveva una visione molto
più aperta e dinamica. Era, tanto per cominciare, fermamente
convinta che l’uomo primitivo o arcaico possedesse delle conoscenze di molto superiori a quelle riconosciutegli dalla scienza
ufficiale. Riteneva cioè che templi, dolmen, piramidi e molti
altri monumenti, fossero stati costruiti con criteri matematici in
stretta relazione con l’astronomia, scienza della quale gli antichi
-sosteneva con passione- dovevano avere una grande padronanza. E, affermava, grazie al fatto che avessero una capacità di percezione sconfinante forse con la telepatia e che unissero questa
dote ad una sensibilità ancora “animalesca”, del tutto scomparsa
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nell’uomo odierno, sapevano riconoscere i punti di energia benefica o negativa che scaturivano dalla Terra.
Per dare un senso scientifico a queste sue teorie, anzi per lei
certezze, da tempo Hélène si era applicata allo studio dei campi
elettromagnetici e dei nodi di Hartmann, facendo ampio uso,
insieme a moderni contatori Geiger, di bacchette da rabdomante, pendolini, amuleti e quant’altro secondo lei avevano usato gli
antenati, anche lontanissimi. Spesso, soprattutto durante i suoi
interventi ai congressi, Hélène suscitava imbarazzanti perplessità, se non pesante ironia da parte di parecchi colleghi. Accanto a
graditi riconoscimenti da parte di importanti personalità, talvolta
non mancavano esimi studiosi che con il loro codazzo di servili
assistenti le riservavano un’aperta ostilità, dato che all’epoca certe teorie innovative venivano decisamente osteggiate, anche per
via di una diffusa malafede. Lei però tirava dritto senza lasciarsi
smontare. E senza immaginare che vent’anni dopo tali orientamenti avrebbero cominciato ad essere presi in seria considerazione, destando grande interesse anche fra la gente comune.
Per di più, Hélène aveva scoperto per caso di possedere notevoli doti di sensitiva. Si considerava quasi una strega, come
ammetteva scherzando, ma non troppo, con gli amici. Quella sua
naturale predisposizione la spingeva ad eseguire, sia con l’aiuto
del pendolo che della bacchetta, degli esperimenti inquietanti
che in verità non mancavano di impensierirla o di lasciarla addirittura attonita.
Hélène individuò Jean che le faceva cenno con la mano e si
diresse sorridendo al suo tavolino, mentre per un istante parve
interrompersi il fitto brusìo degli avventori del bar. Jean si alzò
in piedi constatando che con i tacchi lei era alta come lui, che
pure faceva più di un metro e ottanta. Dopo averla baciata su entrambe le guance scostò con galanteria una sedia per farla accomodare. Questa manovra gli fruttò più di un’occhiata invidiosa.
«Desiderate?» domandò il cameriere, subito accorso.
«Beh, è l’ora dell’aperitivo», osservò lei.«Un Martini, grazie».
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«Per me, un pastis», ordinò Jean.
«Allora, che cosa c’è di tanto importante da non poter proprio aspettare qualche giorno?» gli domandò Hélène con un
largo sorriso.
«Senti, è complicato da spiegare: mi prometti di ascoltarmi
fino in fondo senza interrompermi?»
«Sarà difficile, ma cercherò di farlo il meno possibile. Coraggio dunque», lo incitò sedendosi più comoda.
Cercando di rievocare la sua avventura evitando per quanto poteva le divagazioni, Jean le raccontò della sua scoperta casuale senza omettere nulla, neppure i suoi dubbi. Quand’ebbe finito, Hélène
appariva sbalordita, incapace di mascherare la sua meraviglia.
«Ufff!», sospirò estenuata, come se avesse trattenuto il fiato durante tutto il dettagliato resoconto. «Non ho parole. Ho bisogno
di bere», disse poi prendendo il suo bicchiere. Dopo aver mandato giù un lungo sorso, rifletté: «Se quei disegni risalissero sul
serio alla preistoria sarebbe un colpo favoloso. Tuttavia, in effetti,
potrebbe sempre trattarsi dello scherzo di un buontempone».
«In questo caso, io lo chiamerei un bel figlio di puttana», precisò Jean. «Comunque, te l’ho detto, questo rischio c’è».
«Qualcosa mi dice però che non ci troviamo di fronte ad una
mistificazione», affermò lei, fiduciosa.
«Ho anch’io questa sensazione».
«Bisognerebbe comunque andare a controllare per bene».
«È per questo che ti ho chiamata».
Hélène rimase pensosa per qualche minuto. Poi, per smorzare
l’eccitazione, scherzò: «Certo che se hai ideato tutta questa storia
con l’intenzione di mostrarmi una nuova versione delle stampe
cinesi in un appartamento da scapolo, devo ammettere che sei
davvero un bell’originale».
«Che cosa ti viene in mente!» si schermì lui arrossendo in
maniera impercettibile, dato che un’idea del genere non l’aveva
certo scartata a priori.
«Non ci resta che andare a vedere. E bisogna anche fare pre33
sto», concluse d’impulso la giovane donna ridiventando seria.
«Sono più che d’accordo. E dire che prima ero io a metterti
fretta», osservò soddisfatto Jean.
«E invece per causa tua adesso la premura ce l’ho anch’io.
Devo ammettere che il tuo racconto mi ha conquistata. Sai, sono
rimasta turbata quando mi hai parlato della grotta, e non solo
per quel che contiene. Devo dirti che stanotte ho fatto un sogno
molto strano ma di un realismo impressionante. Mi trovavo anch’io in una caverna che, per quanto la percorressi, continuava
all’infinito senza che potessi scoprirne il segreto. Singolare coincidenza, non trovi? Non so perché ma ho come la sensazione
che questa notizia l’aspettassi da tempo. Ridicolo, no? Eppure
ora, in questo preciso momento, sento una specie di richiamo;
una sorta d’imperativo per una cosa che debbo assolutamente
fare. Mi sembra assurdo, ma è così».
«Non so davvero cosa risponderti, tranne che mi fa molto
piacere che tu mi creda. Devo confessarti che t’immaginavo più
scettica, e fino all’ultimo ero comunque dubbioso se dirti tutto
oppure lasciar perdere. Ma te la senti, piuttosto? Il sifone è lungo
120 metri, misurati».
«Bisognerà pure che ci provi, anche se finora non sono mai
stata in grotte subacquee. È molto pericoloso?»
«Non troppo, se si è prudenti. Vorrei comunque portare con
noi un altro sub esperto. In tre è meglio. Sei libera domani?»
«Possiamo aspettare dopodomani?» domandò con aria di scusa. «È che non posso mollare tutto così, mi ci vuole un minimo
di tempo per organizzarmi. E poi ho un impegno che non posso
proprio rimandare, credimi».
«Il fatto è che non so se il tempo reggerà. Per ora è bellissimo,
speriamo che duri così. Comunque, vada per dopodomani. Tu
hai tutta l’attrezzatura per l’immersione?»
«Sono ben equipaggiata, eccetto che per le bombole, che
d’abitudine prendo a nolo».
«Quelle te le procuro io. Hai una torcia?»
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«Ne ho due».
«Portale entrambe: in grotta non si ha mai abbastanza luce».
«D’accordo. Devo scappare ora. Ma non ti dico quanto sono
ansiosa di entrare là dentro!»
Jean alzò il bicchiere e invitò Hélène a fare altrettanto. Il leggero tintinnìo dei cristalli suonò di buon auspicio.
«Alla grotta», brindò lui.
«Alla preistoria», fece eco lei.
«Non parlarne con nessuno, mi raccomando», disse Jean a
Hélène, che si era già alzata.
«Puoi contarci. Ciao». Detto ciò, la giovane si avviò seguita
dagli sguardi ammirati degli uomini e da qualche occhiata astiosa
di donna.
Nonostante un lungo giro di telefonate, Jean non riuscì a
trovare alcun amico libero per il giorno fissato. A quel punto,
non rimaneva allora che ingaggiare un sommozzatore. Aveva
infatti deciso che comunque sarebbero dovuti essere in tre, sia
per portare con più facilità tutto il materiale necessario, sia perché sarebbero stati in due a tenere d’occhio Hélène, non troppo
esperta per quel tipo di immersione. Stavolta voleva fare le cose
per bene, senza rischi e senza intoppi. E pazienza se un estraneo
sarebbe stato messo a parte del segreto, tanto la scoperta, dopo
essere stata avallata da un autorevole parere, avrebbe pur dovuto
essere divulgata.
Come al solito, portò a caricare le bombole d’aria compressa
al Vieux Plongeur, in Corso Lieutaud, e lì espose il suo problema. Saltò fuori che era libero un certo Lucien che però non
aveva lasciato nemmeno un recapito telefonico, dicendo che si
sarebbe fatto vivo lui. Jean aveva bisogno di una risposta immediata, per cui chiese se non ci fosse disponibile qualcun altro.
Invece proprio in quella, chiamò Lucien per vedere se ci fossero
novità, così i due vennero messi subito in contatto diretto. Si
diedero quindi appuntamento per l’indomani mattina proprio
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lì al negozio poiché Jean doveva comunque passarvi a ritirare
le bombole cariche: due bibombola e un mono. Già che c’era,
fece provviste di batterie nuove per alimentare cinque lampade
subacquee.
Di primo acchito, Lucien non piacque per nulla a Jean, che
quasi si pentì di averlo confermato senza conoscerlo prima,
essendosi accontentato soltanto di sapere che aveva a che fare
con un sub professionista. Di statura media, Lucien aveva dei
lineamenti grossolani, con una bocca volgare e gli occhi piccoli
e neri come il carbone. I capelli ricci e biondi, tenuti incolti,
facevano apparire più grande la sua testa sostenuta da un collo
taurino piantato su di un fisico robusto e tarchiato. Doveva avere
meno di trent’anni ed era assai poco espansivo, nonché piuttosto
privo d’umorismo. Tutto sommato, però, tale riservatezza non
dispiacque a Jean: quello non sembrava proprio il tipo che se
ne andasse attorno a millantarsi, e per il momento era senz’altro più saggio non dire niente in giro, almeno finché non fosse
confermata l’autenticità del ritrovamento. Ad ogni buon conto
l’archeologo si era sbilanciato il meno possibile e aveva descritto all’altro solo la grotta, senza accennare alle pitture rupestri:
avrebbe constatato di persona.
Lucien era talmente parco di parole che Jean solo con gran fatica, e ottenendo in risposta alle sue domande per lo più grugniti
e riluttanti cenni del capo, era riuscito a sapere qualcosa di lui.
Per esempio, che di cognome faceva Moriani, che era originario
di Bonifacio, in Corsica, e che si trovava per il momento in licenza per un mese a Marsiglia, dove si annoiava. Sei anni prima era
stato assunto dalla SOGETRAM (Società Generale des Travaux
Sous-Marins) per la quale aveva anche eseguito delle prospezioni
sottomarine sul fondale di fronte a Mogadiscio, in Somalia. A
Jean, quella parve una buona garanzia, unita al fatto che Lucien
aveva già una discreta esperienza di speleologia subacquea.
«Ma sì», si disse alla fine.«Che m’importa se non è il massimo
della simpatia: qui si va a lavorare!»
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CAPITOLO 3
Alle nove di mattina si ritrovarono tutti e tre al molo dove li
attendeva lo Zodiac di Jean. Le condizioni atmosferiche stavano
cambiando. Il tempo si era fatto incerto e un leggero vento di
grecale aveva sporcato il cielo. Decisero comunque di partire
lo stesso, tanto più che nella zona dove erano diretti sarebbero
stati abbastanza ridossati dalle onde. C’erano da caricare nel
gommone due bibombola, un monobombola, e tre voluminose
sacche di attrezzatura personale, oltre alle dotazioni di bordo e a
dell’altro materiale.
«Tienimi questa, per cortesia, e sistemala in maniera che non
sbatta troppo», disse Hélène, passando a Jean una pentola a
pressione al cui interno rumoreggiavano oggetti di vetro.
«Cos’è, ci hai preparato una bouillabaisse?»
«Sciocco», fece lei di rimando. «Qui dentro ci sono barattoli
per raccogliere gli eventuali campioni di carbon fossile che spero
di trovare nella caverna. Ci permetteranno di datare con precisione i disegni», aggiunse sottovoce mentre Lucien trafficava in
banchina con l’ultimo borsone da trasferire sul battello. «Inoltre,
ci sono un asciugamano e un blocchetto di appunti, completo di
penna, è ovvio».
«Ci starebbero allora dentro anche un paio di rullini? Potrei
fare così un maggior numero di foto», domandò lui togliendo da
un sacchetto di plastica due pellicole.
«Nessun problema, dai qua».
Mentre lo Zodiac filava e Lucien sembrava starsene sulle sue,
Hélène e Jean erano di ottimo umore e carichi di aspettativa per
quella che si preannunciava come un’avventura davvero eccitante.
Giunti a destinazione, Jean filò l’ancorotto e ne saggiò la
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tenuta. Iniziata quindi la laboriosa vestizione, approvò mentalmente la meticolosità con la quale Lucien aveva approntato gli
autorespiratori per tutti controllando la pressione dell’aria e gli
erogatori.
Hélène indossò la sua muta con movimenti calibrati e lenti,
senza fretta; sembrava come in attesa, il corpo attraversato da
un piacevole brivido di anticipazione. A Jean non era sfuggita la
sottile catenina d’oro con incastonato un dente di squalo tigre
dai bordi seghettati: un ornamento assai poco femminile che si
adagiava leggero su un seno rigoglioso, che non gli sarebbe per
niente dispiaciuto accarezzare.
Si tuffarono uno dopo l’altro, le mani ingombre di oggetti:
Lucien portava la pentola a pressione mentre Jean teneva la sua
Nikonos corredata da un sacchetto stracolmo di lampadine per
il flash. Aveva al polso anche la bussola per provare a fare qualche rilevamento. Inoltre ognuno di loro reggeva una lampada (le
altre stavano nei retini allacciati attorno alla vita).
Si radunarono all’entrata della grotta e, a mezzo dei segni convenzionali usati da tutti i sub, si confermarono reciprocamente
che tutto procedeva bene. Non appena imboccarono il sifone, si
misero a nuotare decisi, Jean in testa quale “capo cordata”, Hélène in mezzo con Lucien che chiudeva la fila. Fu un’immersione
senza storia. Jean aveva descritto per sommi tratti il percorso,
per cui, pinneggiando lenti ma con regolarità, in pochi minuti
raggiunsero la strettoia alla base della cavità a forma di imbuto.
Quindi, superata con accortezza la strozzatura, riemersero uno
dopo l’altro fra le stalattiti. Saliti che furono sul gradino roccioso, si liberarono in fretta degli autorespiratori, delle pinne e delle
cinture di piombo, avendo cura di sistemare il tutto al riparo da
ruzzoloni accidentali. Jean suggerì anche, per economizzare le
batterie, di usare non più di due torce alla volta, o quantomeno
di non tenerle sempre accese, specie quando ce n’era già una in
funzione sullo stesso punto.
I tre si guardarono attorno con attenzione e reverenza. Con38
tagiati com’erano dalla solennità di quell’ambiente, venne loro
spontaneo parlare sottovoce.
«È stupenda!» esclamò Hélène mentre un ulteriore fremito
d’eccitazione le percorreva la spina dorsale. «Anche se non ci
fossero stati i disegni, sarebbe comunque valsa la pena di nuotare fin qua».
«Quali disegni?» domandò stupito Lucien.
«Li vedrà fra poco», disse Jean.
«Magnifica, magnifica», continuava a dire Hélène.
«Proprio bella», si lasciò scappare perfino il taciturno Lucien,
scuotendosi dalla sua apparente apatia.
Dopo un lungo momento contemplativo, ognuno con la sua
lampada in mano, e le altre due di riserva nei retini dei due uomini, il gruppetto avanzò verso il punto in cui Jean aveva visto
le raffigurazioni.
«Dove sono, accidenti?» sbuffò questi impaziente.«Ah, eccoli,
infine!» esclamò dirigendo il suo raggio luminoso in una precisa
direzione.
«È incredibile», mormorò Hélène, soffermandosi a rimirare i
cavalli abbozzati in maniera semplice ma straordinaria da scarni
tratti di carboncino.«Si tratta di sicuro d’arte paleolitica. Direi
che sono autentici… ma certo che lo sono… ed ecco gli ingredienti usati dagli antichi artisti», aggiunse esultante. «Carbone e
argilla: qui per terra è pieno di queste sostanze». E la giovane si
mise a raschiare con scrupolo dei campioni di carbone di legna e
palline d’argilla rossa, riponendo poi il tutto nei vasetti e scrivendo le relative annotazioni sulle etichette.
«Qui, guardate qui, venite!» chiamò tutto eccitato Jean.
«E anche qui!» fece eco Lucien, che non sembrava offeso per
non essere stato messo prima al corrente del vero scopo di quell’esplorazione.
Sulle pareti rocciose erano ovunque raffigurati animali, alcuni
individuabili con facilità, mentre altri sembravano sconosciuti.
«Questo qui sembra un camoscio! E quello è sicuramente un
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bisonte!» si entusiasmò Hélène come una ragazzina.«Ma qui c’è
di tutto! E quei cervi allora! Che bellezza, sono sbalorditivi!»
«Caspita, ma questi sono pinguini!» esclamò strabiliato
Jean.«Ma com’è possibile?»
«E pensare che queste meraviglie sono state preservate e sono
giunte fino a noi solo perché l’acqua del mare non è riuscita a
sommergerle» osservò trionfante Hélène.
I tre erano estasiati e storditi, mentre i loro sguardi scoprivano sempre nuovi disegni, molti dei quali erano semplici graffiti.
Jean aveva cominciato a scattare alcune foto. E ogni volta, per
un’infinitesima frazione di secondo, la caverna veniva illuminata
come dal lampo di un temporale.
«Aspettate un attimo!» Era la voce alterata di Lucien. «Qualcuno vi ha presi in giro. Guardate: posso tracciare anch’io dei segni
come questi!» e fece scorrere un dito sulla roccia, lasciando un
solco ben visibile.
«Nessuna fregatura, stia tranquillo», asserì Hélène, dopo essere subito accorsa a controllare. «È normale che nelle caverne
profonde il calcare urgoniano, deteriorato si presenti rammollito
in superficie, sicché è facile lasciarvi tracce profonde magari
soltanto con l’aiuto di un pezzetto di legno abbastanza duro.
Meglio ancora con una pietra aguzza. Niente di strano quindi: è
tutto regolare. Devo ammettere però che, con il suo avvertimento, per un attimo mi ha messo davvero paura: chissà cosa m’ero
immaginata».
Dopo un lungo girovagare, lo sguardo di Hélène cadde (ma
lei avrebbe giurato che fosse stato calamitato da una forza irresistibile) su di un oggetto oblungo e arrotondato. Prontamente
lo raccolse e lo ripulì.
«Ma è ambra!» quasi gridò. E poi, appena l’ebbe esaminato meglio, mormorò con venerazione: «È un amuleto. Un amuleto sacro.
Che fattura squisita…». Con fare sicuro impugnò il talismano con
la mano sinistra mentre l’indice e il pollice trovavano con naturalezza posto in due leggere depressioni sulla superficie levigata.
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Incuriositi dall’esclamazione di Hélène i due uomini si avvicinarono. Nel contempo, la donna scorse nella bassa volta rocciosa sopra di sé numerose mani dipinte in “negativo”.
«Vedete?», spiegò lei, con una voce indefinibile, quasi mascolina. «Chi ha fatto questo lavoro per prima cosa si riempiva la bocca con una tintura vegetale o mista con terre colorate. Quindi
poggiava la mano sulla parete. Infine ci sputava sopra, spruzzando ben bene i contorni delle dita e del palmo. Togliendo infine la
mano, in mezzo alla tintura rimaneva l’impronta di quella».
«Pare che alcune di queste mani siano mutilate», osservò Lucien.
«È probabile che l’artista, che spesso era uno sciamano, ripiegasse le dita», spiegò Hélène, come ispirata.«Chissà, magari per
formare un qualche segnale magico. Del resto, anche la disposizione di tutte queste mani sembra rispondere ad una logica che
ci sfugge; forse forniva un’indicazione misteriosa, allarmante…
oppure era un ammonimento…», concluse, con un timbro di
voce così strano e sommesso che fece accapponare la pelle agli
altri due.
In effetti, in quel momento Hélène appariva come trasfigurata, la mano che teneva l’amuleto lo stringeva così forte che le
nocche erano diventate bianche.
«Ma cosa sta succedendo adesso?» sussurrò Jean con voce
alterata.«La mia bussola è impazzita all’improvviso, come se qui
ci fosse un potente campo elettromagnetico!»
Hélène, però, non mostrò di averlo udito. Come se fosse
inesorabilmente attratta da una forza arcana, con lentezza, ma
risoluta, avvicinò la sua mano destra con il mignolo, l’anulare e il
medio ripiegati su se stessi, fino a farla combaciare con una delle
mani “monche” dipinte.
Nello stesso istante, intorno al trio cominciò ad aleggiare una
nebbiolina azzurra, quasi un ispessimento dell’aria stantia carica
di millenni ed ora anche di energia elettromagnetica. L’atmosfera si fece greve, come in un ambiente saturo di gas pronto a
deflagrare alla minima scintilla. Un ronzio indefinito cominciò in
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sordina e proseguì in crescendo, mentre si spandeva all’intorno
una insolita fragranza penetrante, simile a quella dell’Armeria
pungens, la rosa di mare, pianta spinosa che alligna sulle spiagge
mediterranee.
Man mano che il suono vibrante aumentava d’intensità, un
acre odore di ozono si sovrappose al primo profumo. Ai tre
cominciò a girare la testa, mentre i contorni della caverna diventavano evanescenti, fino a sparire del tutto. Pur perdendo rapidamente conoscenza, Hélène, Jean e Lucien intuirono che stava
capitando qualcosa di terribile. Ci fu un lampo accecante. Allora
si misero ad urlare tutti insieme, o almeno credettero di farlo.
In realtà, emisero un grido disperato quanto silenzioso mentre
provavano la sconvolgente sensazione di precipitare nel nulla,
sempre più giù, risucchiati da un vortice mostruoso e implacabile che li trascinava ad una velocità inconcepibile attraverso una
voragine senza fine.
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CAPITOLO 4
Il gommone di Jean rimase ormeggiato sopra la grotta per
tutto il giorno seguente senza destare sospetti di sorta o incuriosire qualcuno. In pratica nessuno lo notò o, se lo notò, non
ci fece caso. Sopraggiunta la sera mutò la direzione del vento,
che ora proveniva da nord ovest. Verso la mezzanotte si scatenò
una devastante maestralata fuori stagione che prese a flagellare
con furia la costa. Il vento impetuoso, ingolfandosi nella calanca
di Sormiou, investì lo Zodiac, sballottandolo come un tappo
di sughero. Il moto ondoso scalzò dal fondale l’ancorotto che
era stato legato ad una cima lasciata un po’ corta e la corrente
spinse il battello verso il largo. Cinque giorni dopo il gommone
venne avvistato in alto mare da un peschereccio, che lo prese a
rimorchio.
( Notizia apparsa su “ Le Provençal”, autorevole quotidiano di
Marsiglia, 25 giugno 1974 )
MISTERIOSA SCOMPARSA
DI DUE RINOMATI STUDIOSI
La dottoressa Hélène Fleury, antropologa di fama internazionale, attesa ieri ( 23 c.m.) ad Arles, dove doveva tenere una
conferenza, non vi è mai giunta. La sua segretaria, signorina
Marie Aubert, ha dichiarato che due giorni prima la dottoressa
era andata ad effettuare un’immersione di studio con un certo
professor Broussard, ma non ha saputo aggiungere altro di utile
per gli inquirenti.
Si è appreso che il professor Jean Broussard è un noto archeologo subacqueo. Stando alle informazioni raccolte dalla
polizia nel negozio di attrezzature nautiche dove il ricercatore
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aveva fatto caricare le bombole per l’immersione, e al Vallon des
Auffes, dove il professore abita e tiene ormeggiato il suo battello
pneumatico, pare che con i due studiosi ci fosse anche una terza
persona, certo Lucien, sulla cui identità al momento non si sa
altro. Comunque, tutte le testimonianze concordano nell’affermare che nel gommone, marca Zodiac, che ha preso il mare la
mattina del 21 c.m., verso le ore 9.30, e a tutt’ora non rientrato,
ci fossero una donna e due uomini. Date le pessime condizioni
del mare, si teme per la loro sorte.
( “Le Provençal” , 28 giugno 1974 )
DRAMMA IN MARE
È stato rinvenuto da un peschereccio, molto al largo, in direzione della Corsica, un battello pneumatico Zodiac che, a quanto risulta dai documenti trovati a bordo, sembrerebbe essere
proprio quello appartenente al professor Broussard. Nessuna
traccia però dei suoi occupanti. Il mistero quindi s’infittisce.
Le operazioni di soccorso, scattate non appena dato l’allarme,
ma alquanto ostacolate dalle proibitive condizioni del mare dei
primi giorni, proseguono ora più agevolmente. Tuttavia, si ignora dove i sub abbiano effettuato la loro immersione; si pensa
comunque che essa sia avvenuta in qualche punto nella zona
delle Calanques.
Risulta che sia il professor Broussard che la dottoressa Fleury
erano due provetti subacquei. Ancora nulla si sa del terzo uomo.
Le indagini continuano, con la collaborazione straordinaria di…
( “Le Provençal”, 8 luglio 1974 )
I TRE SUB SCOMPARSI
A più di due settimane dalla loro scomparsa, non si hanno tutt’ora notizie della dottoressa Fleury e del professor Broussard,
né tantomeno dell’uomo, Lucien – la cui sparizione non è stata
finora denunciata da alcuno - che si suppone aver accompagnato
i due studiosi. Le ricerche, sia in mare che sott’acqua, finora non
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hanno avuto nessun esito. Gli inquirenti ipotizzano che…
Nel settembre del 1985, Henry Cosquer, un subacqueo professionista che dirigeva un prestigioso centro di immersione a
Cassis, si inoltrò spinto dalla curiosità in un cunicolo seminascosto da una fitta schiera di gorgonie, scoperto per puro caso a 36
metri di profondità, sotto la Pointe de la Voile a Cap Morgiou,
senza tuttavia poterlo esplorare del tutto. Fu soltanto in una grigia giornata del mese seguente che Henry raggiunse la cupola di
una straordinaria grotta, che oggi porta il suo nome, in onore
della sua eccezionale scoperta.
Con sua enorme sorpresa, la prima cosa che trovò una volta
emerso nella caverna, fu l’attrezzatura di tre subacquei. La sua
prima reazione fu di grande disappunto per essere stato preceduto, tant’è che si guardò intorno per vedere dove fosse quella
gente. Poi però, esaminando meglio quell’equipaggiamento, si
accorse che si trattava di roba obsoleta, di vecchio tipo.
Figurarsi! Erogatori Royal Mistral, monostadio col doppio tubo corrugato! E vecchi Aquilon di riserva. E questo è un Dacor Olympic. Ma non se
ne trovano più in giro, sono ormai pezzi da museo! osservò con stupore.
E queste bombole poi, in così pessimo stato!
Henry non sapeva spiegarsi il fatto, si sentiva frastornato, confuso. Ci volle un lungo momento perché le implicazioni connesse a quel ritrovamento cominciassero ad assumere un significato
e che lui iniziasse a comprendere. E i subacquei, allora, dove cavolo
sono andati? finì infatti per chiedersi con una certa angoscia.
Se sono entrati – e dev’essere stato molto tempo fa -, se le bombole sono
ancora qui, allora non sono più usciti, concluse sempre più inquieto. Col timore di imbattersi in tre cadaveri, Henry esplorò la
caverna concentrandosi soprattutto sul suolo, aspettandosi da
un momento all’altro di fare la macabra scoperta. Invece, con
suo grande sollievo, non trovò nessun corpo. Fu soprattutto per
questo motivo che, per quella volta, a Henry sfuggirono i disegni
sulle rocce.
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Forse, ragionò poi, coloro che sono entrati qua dentro avevano delle
bombole di riserva e per il momento hanno lasciato sul posto quelle scariche,
col proposito di recuperarle in seguito. A quel punto, volle effettuare un
controllo: uno degli erogatori aveva un manometro a frusta che
sembrava segnare circa 100 atmosfere, ma forse era guasto. Facendo un po’ di fatica a svitare le manopole ossidate allacciò uno
dei suoi erogatori, munito di lettore per la pressione dell’aria, a
una delle vecchie bombole.
Qui dentro c’è ancora aria più che sufficiente per uscire dalla grotta,
commentò sempre più perplesso dopo aver visto l’ago spostarsi
sul quadrante. Quindi l’ipotesi più probabile è che, per ragioni sconosciute,
se ne siano andati con altri autorespiratori. Se poi hanno deciso di abbandonare tutto qua dentro, i motivi possono essere molteplici: l’eventualità più
sfortunata è che siano periti tutti e tre in un incidente stradale o altro mentre
tornavano a casa. Ma no! Il ragionamento non regge! E le pinne, allora, e i
piombi? E gli erogatori? Non potevano avere tutto doppio, non ha senso. È
anche certo però che qui dentro non c’è nessuno, né vivo né morto.
Con la testa in subbuglio per l’inatteso rompicapo, Henry lasciò tutto come stava e intraprese la via del ritorno.
La partenza di Henry Cosquer per i Caraibi era imminente,
così questi, impegnato nei preparativi, non ebbe tempo di pensare più di tanto all’enigma che lo angustiava. Veleggiò sotto
ingaggio per alcuni anni, soprattutto per trasferire imbarcazioni
alle Antille e nel Mediterraneo.
Non ebbe occasione di ritornare alla caverna che tre anni più
tardi. L’attrezzatura misteriosa era sempre là ma, tanto, questo
lo aveva dato per scontato. Decise allora di liberare una volta per
tutte la sua grotta da quell’equipaggiamento “estraneo” che, era
ormai evidente, nessuno sarebbe più venuto a riprendersi. Pur
amando il gioco degli scacchi non amava i rebus, e quello ne era
uno, eccome!
Henry non si accorse che la rubinetteria di un Aquilon, per
un caso fortuito, era entrata in contatto con le due tacche di un
potente amuleto d’ambra che giaceva semisepolto per terra e
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che nessuno aveva notato prima. Ma anche se Henry l’avesse
visto, non c’era motivo per dare alla cosa la minima importanza.
In realtà, si era chiuso un circuito, stabilendo un collegamento
diretto fra l’acciaio dell’erogatore e l’ambra del talismano, per cui
quell’autorespiratore era stato sottoposto a una forte carica di
energia per ben 14 anni.
A Henry furono necessari tre viaggi per portare via il tutto, e
non cercò neppure di indagare sulla causa del fastidioso formicolio che lo pervase mentre trasportava il bibombola saturo di
energia elettromagnetica.
Fu solamente nel luglio del 1991 che Henry Cosquer riuscì a
fare la prima immersione nella grotta in tutta tranquillità accompagnato da sua nipote e da due dei suoi istruttori subacquei. E,
finalmente, notò le pitture rupestri, rendendosi conto di aver
fatto una scoperta a dir poco sensazionale.
I titoli sui giornali si sprecarono: “20.000 anni sotto il mare”,
“Una Lascaux sottomarina presso Marsiglia”, “I misteri della
cattedrale del passato”, “La grotta dei tesori”, “Favolosa scoperta in fondo al mare”, “I nostri antenati delle Calanques”, e così
via. Era la gloria.
Fatto curioso, soltanto in quel periodo a Henry tornò in mente un lontano fatto di cronaca del primi anni Settanta riguardante
tre sub scomparsi in circostanze misteriose. Per la prima volta,
prese in considerazione la possibilità che forse l’attrezzatura “dimenticata” nella grotta appartenesse a loro. Ma, si disse, ormai
che importanza aveva, cosa poteva cambiare? Quella gente era
davvero sparita nel nulla, si trattava di una storia ormai vecchia,
dimenticata. A che pro, rivangarla? E poi, che prove c’erano che
fosse effettivamente roba loro? Beh, per la verità, se proprio
si voleva indagare fino in fondo, dai numeri di matricola delle
bombole, si sarebbe potuto risalire ai proprietari. Ma se sul serio
le cose fossero andate così, lui, Henry Cosquer, seppur in buona
fede, aveva rimosso senza autorizzazione un “corpo del reato”,
o qualcosa del genere. Era quindi passibile di persecuzione da
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parte della legge. Per un istante, s’immaginò interminabili interrogatori e tutto il resto.
Meglio allora starsene zitto: in fondo, non aveva fatto niente
di male, ma in cambio potevano derivargliene fastidi a ripetizione, anche seri. Non si poteva mai sapere come andasse a finire,
una volta presi nell’ingranaggio della giustizia. E poi, ci si poteva
figurare il via vai di investigatori, funzionari e poliziotti, tutti a
far rilevamenti e soprattutto casino nella sua preziosa grotta. Ma
stiamo scherzando?
Quindi, saggiamente, Henry tenne il segreto per sé.
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CAPITOLO 5
Hélène, Jean e Lucien giacevano immobili, tuttora avvolti nella nebbiolina azzurrognola. Man mano che quella svaniva iniziarono a svegliarsi, alquanto storditi. Per terra, due delle lampade
proiettavano ancora il loro raggio immobile.
Lucien fu il primo a riaversi e chiese con un certo sforzo:
«Siamo ancora vivi?»
«Sembrerebbe proprio di sì», gli rispose Jean, alzandosi in piedi e barcollando come un ubriaco.
«Ma cosa ci è successo?» riprese Lucien loquace in modo
insolito. «È come se fossi stato inghiottito da una turbina». E,
dopo aver inspirato alcune volte col naso, aggiunse: «Si continua
a sentire questo odore, come di ozono combusto…».
Dopo essersi tastato il corpo qui e là, Jean azzardò: «Credo
che abbiamo perso conoscenza, ma non so per quanto tempo…
e neppure perché. Io, comunque, per il momento mi sento a posto, a parte un po’ di mal di testa. E tu, Hélène, stai bene?»
«Sì, mi pare di sì», confermò lei movendosi come una sonnambula. Poi, scuotendosi: «È stato sconvolgente. Ma che cosa
stavamo facendo?»
«Stavamo guardando le mani pitturate in negativo, credo», le
rammentò Jean.
«Sì, certo», concordò Lucien alzando la testa e impugnando
una delle torce subacquee. «Ma dove sono finite?»
«Saranno da qualche altra parte», spiegò Jean rischiarando le
stalattiti che li sovrastavano. Quindi aggiunse: «Però, mi sembra
molto strano che noi si sia svenuti tutti e tre insieme. Chissà qual
è stata la causa di ciò. Beh, l’importante è che siamo tornati di
nuovo normali. Almeno spero», concluse dubbioso.
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«Ehi, non riesco a trovare nessun altro disegno», fece perplesso Lucien, che nel frattempo si era allontanato di poco.
«Guardi meglio», consigliò Jean, mentre faceva ruotare il suo
fascio di luce. «Però, nemmeno io ne vedo», ammise, vagamente
allarmato.
«Forse ci siamo tutti spostati senza accorgercene», provò a
spiegare Lucien.
«Nient’affatto», interloquì con vivacità Hélène. «Adesso mi
ricordo: quando abbiamo perso i sensi, noi ci trovavamo proprio
qui, in questo medesimo punto: riconosco bene questa stalattite
a sfoglia sopra di noi».
«Non è possibile, ti stai sbagliando di sicuro», la contraddisse
Jean.
«Magari fosse così, sarebbe tutto più semplice», rispose lei
soprappensiero.
«Lucien! Bisogna cercare meglio», insistette Jean.
«E allora me lo trovi lei un qualunque fottuto sgorbio!» sbottò
Lucien, che cominciava a innervosirsi.
Senza rilevare il tono aspro dell’altro e dopo un’attenta occhiata, Jean fu costretto a confermare esitante: «È vero, i disegni
sembrano tutti spariti, non riesco a scorgerne neppure uno. E
non vedo neanche graffiti di sorta».
«Tutto questo è inspiegabile», esclamò Hélène. «Ragazzi, qui
non ci sono nemmeno le mani. Eppure il posto è questo, dove
sono io; adesso me lo ricordo proprio bene, non c’è da sbagliarsi. Non riesco a capire…». Cominciava a sentirsi agitata, perciò
si concesse una pausa di riflessione: «Procediamo con calma: qui
abbiamo la macchina fotografica e la pentola con un vasetto già
mezzo pieno di carbone. Però non vedo questa sostanza sparsa
per terra: mi rammento che proprio là, sotto i piedi di Lucien,
c’era un focolare fossile. Svanito pure quello, pare. Insomma,
niente più mani e niente disegni. Ragazzi, non so davvero cosa
dire», concluse sconfortata, mentre cercava di ricacciare un’indefinibile paura i cui subdoli tentacoli la stavano già avvolgendo.
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«Eppure, a parte le pitture, a me la grotta sembra tale e quale
a prima», tagliò corto Lucien.
«E invece non è così, è proprio questo il punto». La voce soffocata di Jean giunse da dietro una delle colonne calcaree.
«Cosa c’è, ancora?» domandò Lucien, con un moto d’insofferenza.
«Ho paura che ci sia qualcosa di peggio della sparizione dei
disegni», continuò preoccupato Jean, ignorando l’atteggiamento
dell’altro.
«Che ti prende? Dillo anche a noi», fece Hélène, oltremodo
inquieta.
«Signori, qui manca semplicemente l’acqua», annunciò con
tono lugubre Jean.
«Come, manca l’acqua!», quasi gridò Lucien. «Cosa vuol dire,
che manca l’acqua?»
«Madonna santa, è la pura verità», confermò angosciata Hélène, che lo aveva raggiunto.
Si ritrovarono tutti e tre a fissare, senza comprendere, la conca
a imbuto dalla quale erano giunti pinneggiando e che adesso appariva del tutto svuotata del mare: eppure il suo livello avrebbe
dovuto quasi lambire i loro piedi.
«Forse il mare si è ritirato», ipotizzò Jean pensieroso.
«E questo cosa significa?» domandò Lucien, frastornato.
«A volte», spiegò senza convinzione, «uno tsunami agisce così:
il mare retrocede per un bel tratto, anche diverse miglia, e poi
arrivano le grandi ondate, che tutto travolgono. Ma no, qui è
impossibile che si verifichi un fenomeno del genere: in Mediterraneo non è mai successo. E poi, guardate qui», disse, scendendo
per qualche metro giù per la scarpata. «Il fondo della grotta è
solo appena un pò umido. Non può certo essersi asciugato così,
di colpo!»
«Le nostre mute, però, sono ancora bagnate », notò Lucien.
«Già, è vero», confermò Hélene.
«E pure le nostre torce erano ancora accese. Segno che dalla
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nostra perdita di coscienza al risveglio non dev’essere passato
molto tempo», ragionò Jean.
Proprio in quella, la sua lampada illuminò una colonia di pipistrelli che pendevano dalla volta. «E questi?» osservò, sempre
più disorientato. «Non ditemi che sono arrivati a nuoto!»
Lucien azzardò, con un filo di speranza: «Forse esiste un’apertura che ci è sfuggita e che da qui non si vede».
«E come ti spieghi allora la scomparsa delle bombole?» incalzò Jean, passando spontaneamente al tu. «E le cinture, e le pinne? Le avevamo poggiate proprio qui, no? Su questo siamo tutti
d’accordo, vero? E invece è tutto scomparso, volatilizzato!»
«Già, la nostra roba non c’è più. Cristo, ma cosa sta succedendo?» si domandò sconvolto Lucien.
«Non ci capisco più nulla», ammise sconfortata Hélène.
Se ne stettero un po’ senza profferire parola, rifiutandosi di
accettare quella situazione assurda, incomprensibile. Alla fine,
Jean si alzò e consigliò con un’espressione tetra: «Per intanto,
forse è meglio uscire di qui. Alla fin fine non siamo morti. O
almeno lo spero. Ci conviene inoltre portare con noi ogni cosa.
Non si sa mai: potrebbe anche essere tutta la nostra ricchezza».
«Ma questo è un brutto incubo!» sbottò Lucien, allargando le
braccia con fare impotente.
Hélène, scrollandosi dai suoi pensieri, si accorse di tenere
ancora in mano l’amuleto d’ambra. Aprì allora la cerniera della
muta e se lo fece scivolare fra i seni. Jean raccattò la sua Nikonos
montata su una staffa insieme al flash, mentre Lucien agguantò
la pentola a pressione il cui contenuto ballonzolava ad ogni movimento. Cominciarono quindi a scendere con una certa cautela
per la scarpata. Le pareti della cavità a forma di cono rovesciato
si presentavano piuttosto accidentate, sicché i tre ebbero qualche difficoltà a raggiungere e oltrepassare la strettoia, nella quale
dovettero strisciare.
«Accidenti, ma vi rendete conto?» imprecò Lucien. «Da qui
eravamo appena passati nuotando agevolmente! Adesso, invece,
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stiamo arrancando con affanno su queste rocce di merda che
scivolano come se fossero ricoperte, appunto, di merda. Merda
di pipistrello! Siamo vittime di un fenomeno soprannaturale, ve
lo dico io!»
Quando imboccarono il cunicolo, il percorso in leggera pendenza, divenne più praticabile. Man mano che scendevano nel tunnel,
per lo più ben asciutto, scendeva anche il loro morale. Erano
coscienti di trovarsi in una situazione dalla quale la logica pareva
bandita. Non esistevano spiegazioni razionali di ciò che vedevano
intorno a loro. Era tutto al di là della loro comprensione.
Dopo qualche minuto di camminata circospetta, Jean fece
notare un albore lontano: «Quello laggiù dev’essere l’ingresso.
Chissà che una volta lì non riusciamo infine a raccapezzarci».
«Dovremmo trovarci a più di trenta metri di profondità»,
esclamò demoralizzato Lucien mentre illuminava la volta del cunicolo. «Invece niente pesci, niente spugne e niente mare. Niente
di niente, Cristo! Ma vi pare possibile? Questo è uno scherzo
diabolico!»
L’ultimo tratto del cunicolo si restrinse alquanto, obbligando
i tre a procedere chinati. Dato che non ce n’era più bisogno,
spensero le lampade. Appena usciti dalla cavità, vennero aggrediti dalla luce accecante del sole. Stettero, incerti e storditi, a
guardare di fronte a loro, schermandosi gli occhi col palmo della
mano. Ciò che videro, li lasciò esterrefatti: sotto di essi, a perdita
d’occhio, si estendeva una grande pianura. Si trovavano su una
specie di terrazza pietrosa che dominava un paesaggio di grande
respiro, mentre alle loro spalle incombeva una ripida parete di
roccia.
«Ma questa è una savana.» gemette Lucien, disperato. «Si può
sapere dove cazzo siamo capitati?»
«Direi piuttosto una prateria», puntualizzò Jean, senza una
particolare ragione.
In lontananza si scorgevano branchi di animali che pascolavano nella vasta estensione erbosa punteggiata qui e là da boschi
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di conifere. In distanza, sulla destra, il panorama uniforme, del
tutto sconosciuto, era interrotto da parecchi rilievi e qualche
guglia scoscesa.
«Ma il mare, il nostro mare, dov’è», si chiese con disperazione
Jean. «Ci dovrebbe essere. Anzi, dovremmo esserne sommersi!
Dio santo, tutta questa storia è assurda, inaccettabile. E chi ci
capisce qualcosa? E chissà ora dove ci troviamo».
«Davvero non sapete dove siamo?» La voce di Hélène sembrava giungere da una lontananza infinita.
«Ah! Perché tu forse lo sai?» la provocò Lucien aggressivo.
«Sembra assurdo», continuò Hélène, come trasognata «eppure
ho la netta impressione di averlo già visto questo scenario, tale e
quale come ci appare ora. Mi è - come dire? - familiare. Non so
spiegarmelo, per niente, forse l’ho soltanto sognato. Comunque
sia, osservate bene quei monti a destra: veramente non vi dicono
nulla?»
«No. Dovrebbero?» Lucien era sulle spine.
«Esaminate con attenzione quello più elevato: non lo riconoscete?»
«Mai visto, sul serio…», disse esitante Jean.
«Neppure io, per la verità…», mormorò confuso Lucien.
«Ve lo dico io, allora. Quello più alto è l’Isola di Riou…».
«Ma come!» la interruppe Jean, che però subito ammutolì afferrato dal dubbio.
Implacabile Hélène riprese a descrivere: «Continuando, ancora più in là si può riconoscere l’Isola Piana, mentre il rilievo tutto
a destra è l’Isola di Jarre».
All’accenno di proteste, seguì un lungo momento di silenzio,
con i due uomini che fissavano scettici eppure ansiosi il gruppo
di alture. Alla fine Jean ammise, scuotendo incredulo la testa:
«Temo che tu abbia ragione, quelle sono proprio le isole che
conosciamo. Così come questa, dietro di noi, è sempre la stessa
bastarda grotta nella quale eravamo entrati a nuoto. E naturalmente, sopra di noi, c’è lo strapiombo della Pointe de la Voile.
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Cristo, è proprio come se il fondo del mare si fosse prosciugato
all’improvviso!»
«No, Jean, non all’improvviso», lo corresse mesta Hélène.
«Questo panorama che ci sta di fronte, esiste tale e quale da
millenni».
«E con questo cosa vorresti insinuare?» la aggredì Lucien.
«Voglio dire che, non chiedetemi come, siamo finiti nel passato. E molto indietro nel tempo, temo. Mio Dio!» concluse Hélène, mentre la voce le si spezzava in un singhiozzo. «È l’unica
spiegazione che so dare di questa follia...».
«Coosa?» saltò su Lucien.«Vuoi farci credere che siamo capitati in un’altra epoca? Ma è pazzesco quel che dici, non te ne
accorgi?»
«Giudica tu», rispose Hélène con tono spento, facendo con la
mano un gesto circolare verso l’orizzonte.
«Ma se è come stai dicendo, siamo andati a ritroso di migliaia
di anni!» esclamò Jean alterato.
Lucien boccheggiava: «Migliaia di…? Ma sei ammattito pure
tu?»
«Mi pare tutto evidente, purtroppo», ribadì Jean con rassegnazione.
«E su cosa ti basi per uscirtene con una simile enormità? »
volle sapere Lucien, aggressivo.
«Per cominciare, è stato stabilito con certezza che una volta il
livello del mare si trovava molto più in basso rispetto alla linea
costiera che conosciamo noi. Per questo motivo è plausibile che
ora il mare lambisca la fine di questa stessa pianura. Mi pare infatti di vederlo luccicare laggiù in fondo all’orizzonte. Saranno
7-8 chilometri o forse più da dove siamo noi».
«E quando il mare si sarebbe trovato così in basso?» domandò
Lucien, mortalmente pallido.
«Durante l’ultima glaciazione: venti, trentamila anni fa», interloquì Hélène con voce atona e lo sguardo perso nel vuoto.
«Venti…trenta…ma cosa racconti! Gente, questo è un incubo!
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Datemi un pizzicotto e ditemi che fra poco mi sveglierò», gridò
Lucien più spaventato che incollerito.
«Ti darei pure un bel calcio nel culo se davvero potesse servire
a qualcosa», disse cupo Jean. «Temo che invece Hélène abbia
ragione. Non saprei aggiungere altro».
«Ma come è potuta accadere una cosa del genere, perdio?»
esplose Lucien con la fisionomia alterata.
«Forse adesso posso spiegarvelo io», intervenne debolmente
Hélène, il cui viso era cereo. «Anche se quanto sto per dirvi mi
sembra inconcepibile. Infatti non avrei mai creduto che una cosa
del genere potesse un giorno capitare a me, a noi».
«Cazzo, siamo fregati! Fregati!» urlò Lucien, dando in escandescenze. Ma poi, calmatosi un po’, si avvicinò per ascoltare.
Hélène si sedette, affranta, e cominciò a parlare con voce rotta: «Con buona probabilità sono stata io a scatenare tutto questo,
con un’azione involontaria. Eh già, ho fatto proprio una bella
cavolata».
«E che cosa mai puoi aver fatto, tu?» la interruppe Jean. «E,
nel caso, chi saresti tu, per disporre di un potere capace di provocare un simile guaio?»
«È soltanto un’ipotesi, badate, ma al momento non so dare
un’altra spiegazione. Seguitemi con attenzione, e non interrompetemi. Avete presenti le mani dipinte? Si? Ebbene, quelle mani
erano disposte in modo da formare una specie di anello zodiacale, chiamiamolo così, in mancanza di un termine più appropriato: un disegno magico e cabalistico il cui scopo era di indicare, di
circoscrivere, una porta…».
«Una porta?» si lasciò scappare Jean.
«Una porta, sì. O meglio, un portale. Ma un portale molto
speciale».
«Un portale temporale!» esclamò l’archeologo.
«Sì, una cosa del genere», riprese Hélène. «Ne avevo solo sentito parlare ma non pensavo che un simile fenomeno potesse
verificarsi davvero. Comunque alcune di quelle mani, che ci sem56
bravano monche, avevano in realtà tre dita ripiegate. Bene, quello costituiva un indizio preciso, un segno potente ed energetico,
una specie di accesso al portale, se vogliamo. Ora rammento
perfettamente che mi ero alzata: credevo di sognare e mi sentivo
spinta da una forza alla quale non riuscivo ad oppormi. Solo
che non si trattava di un sogno vero e proprio, bensì di un mio
“ricordo organico” vecchio di migliaia d’anni. Forse per questo
mi è così familiare lo scenario che ci sta di fronte. Quando - e
sapevo benissimo quello che venivo indotta a fare - ho ripiegato
anche le dita della mia mano destra e l’ho sovrapposta a quella
dipinta, devo aver provocato una deformazione spazio-temporale. In pratica è come se avessi girato una chiave e aperto una
porta. La porta del tempo, appunto, che in qualche modo ci ha
traghettati fin qui, in questo remotissimo passato».
«E tu avresti combinato tutto questo casino col semplice
gesto di poggiare la mano su un disegno?» Lo scetticismo di
Lucien era evidente.
«Non solo con la mano», disse Hélène, estraendo con un
gesto fiacco il talismano. «Ecco, osservate questo amuleto che
avevo raccolto poco prima del disastro. È ricavato dall’ambra,
una resina fossilizzata. E l’ambra ha enormi proprietà. Nell’antichità si credeva che fosse dotata di vita propria, che fosse una
cosa viva, insomma. Era considerata sacra perché si pensava
che contenesse l’essenza della vita stessa - forse perché spesso
racchiudeva antichissimi insetti conservati alla perfezione - e che
quindi fosse da associare con il tempo e con i cicli astronomici.
Per alcuni, essa costituiva addirittura il “quinto elemento”, che
fa da coesione fra la Terra, l’Aria, il Fuoco e l’Acqua. In breve,
è una sostanza magica assai efficace per contribuire a creare potentissimi campi di forza in cui può avvenire di tutto, come purtroppo abbiamo sperimentato». Fece una pausa per raccogliere
le idee mentre i due uomini ascoltavano allibiti.
Esibendo ancora l’amuleto riprese: «Ora, le vedete queste due
piccole depressioni nelle quali, se si prende l’oggetto in mano,
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così come sto facendo io, il pollice e l’indice trovano posto con
naturalezza? Sembra un atto banale, no? E invece agendo in
questo modo è un po’ come mettere in contatto i poli positivo
e negativo di una pila: così il talismano si attiva, generando un
pieno di energia che, se sollecitata ulteriormente, può benissimo
- e ora purtroppo ci credo - aprire dimensioni diverse e del tutto
sconosciute».
«Incredibile!» commentò Lucien respirando a fondo. «Però è
lo stesso un po’ dura da mandare giù».
«A quel punto», continuò Hélène, «è bastato che, tenendo nella giusta maniera l’amuleto con la mano sinistra, io toccassi con
la mia destra la mano dipinta. Lo straordinario è che mi sentivo
guidata da una volontà arcana. Tutto ciò deve aver scatenato
le forze cosmiche e imperscrutabili che hanno precipitato nelle profondità del tempo noi e gli oggetti che ci stavano vicino.
Ecco, dev’essere andata pressappoco così. Inoltre, poiché quel
punto della grotta era anche un luogo di culto, di sicuro vi era già
presente un fortissimo campo elettromagnetico che gli antichi
sciamani, pur privi di moderni strumenti di misurazione, sapevano senza dubbio riconoscere e valutare. Che proprio lì in effetti
ci fosse una notevole perturbazione magnetica lo avrebbe provato anche il comportamento della bussola: mi sbaglio, Jean?»
«Giusto: girava come impazzita», confermò lui laconico.
«Infine, ci sarebbe un’altra cosa», aggiunse. «Controllate la
data sui vostri orologi: oggi è il 21 giugno».
«E allora?» chiesero all’unisono i due uomini.
«È il solstizio d’estate, o meglio, lo era quando siamo entrati
nella grotta. Ciò non significa infatti che sia lo stesso giorno pure
nell’epoca in cui ci troviamo ora».
«In effetti non sembra proprio estate, l’aria è frizzantina»,
osservò Jean.
«Comunque», continuò Hélène, «il solstizio d’estate è, come
saprete, il giorno più lungo dell’anno, cioè il giorno in cui, per
la sua particolare posizione rispetto al sole, la Terra riceve da
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questo il più massiccio bombardamento di radiazioni elettromagnetiche. Queste ultime possono fare da catalizzatore contribuendo parecchio all’esito di un fenomeno come quello che ci
ha appena coinvolti. Magari un giorno o una settimana prima o
un giorno o una settimana dopo non sarebbe successo nulla, chi
può saperlo? Insomma, a metterci nei guai sarebbe stato un raro
concatenarsi di forze, un concorso di circostanze estremamente
sfortunato. Sarebbe questa, me ne sto convincendo sempre più,
la ragione del nostro viaggio a ritroso del tempo».
«Ma non ci posso credere. Tutto questo è inconcepibile! Cose
dell’altro mondo!» commentò Lucien incapace di accettare la
realtà.
Hélène e Jean lo fissarono sconsolati e silenziosi.
Quello alzò la voce infuriato: «Siamo fregati, non è così? Fottuti proprio per bene!»
«Così pare», ammise asciutto Jean.
«Ah, ma che bella situazione!» insistette Lucien, che cominciava ad intuire il suo stato di naufrago temporale e che perciò era
in preda al più nero sconforto. «La dottoressa gioca alla maga
per farci ritrovare nel Paese delle Meraviglie, come Alice. Peccato che in realtà ci abbia messi tutti nella merda. Adesso però,
bella mia, ce ne tiri fuori». Ciò dicendo assunse un atteggiamento minaccioso.
«Datti una calmata, vuoi? Così non si risolve niente», lo consigliò Jean.
«State tranquilli per favore», li interruppe Hélène. «Lasciatemi
riflettere, vi prego».
Lucien parve ammansirsi un poco e si piazzò di fronte all’antropologa. Con fare conciliante, le disse: «Insomma se ho capito
bene, tu hai compiuto questo prodigio seguendo una specie di
rituale, giusto? Allora, stando così le cose, la soluzione c’è. Adesso noi si torna nella caverna, ci piazziamo esattamente nello stesso fottuto posto e assumiamo tutti la medesima posizione che
avevamo prima che ci toccasse questa malasorte, proprio come
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belle statuine. Tu rifai al contrario gli stessi gesti graziosi, senza
dimenticare di tenere bene in mano quell’ambra del cazzo, e noi
torniamo felici e contenti nel futuro. È semplice, no?» concluse
fissandola con aria di sfida.
Hélène non reagì alla provocazione. Invece, aggrottando la
fronte, sembrò meditarci su. Infine disse: «L’idea potrebbe non
essere malvagia. Purtroppo, proprio nella grotta mi sembra irrealizzabile».
«E perché di grazia non sarebbe possibile? Forse perché l’idea
è mia?» la affrontò Lucien, gli occhi spiritati.
«Perché per prima cosa la grotta non è più come prima: non
ci sono più, per esempio, le mani pitturate. O meglio, non sono
ancora state fatte».
«E provarci comunque facendo a meno di quelle?» suggerì
speranzoso Jean.
«Non saprei, proprio non saprei, abbiate pazienza un momento», li scongiurò la giovane, il cui cervello stava galoppando
al massimo.
Se ne stettero tranquilli e taciturni per alcuni minuti, ognuno
perso nei propri pensieri poco allegri. Dopo aver vagliato con
scrupolo le varie possibilità Hélene ruppe il silenzio: «Nella caverna non si può agire, sarebbe troppo pericoloso».
Lucien ritornò alla carica: «E io dico che bisogna tentare».
«E io vi ripeto che la cosa non è fattibile», asserì con fermezza
Hélène. «Anche se riuscissimo a tornare indietro, cioè ad andare
avanti, insomma, a pervenire di nuovo nel nostro tempo, come
potremmo essere certi di ricomparire nella nostra epoca nel momento esatto in cui l’abbiamo lasciata?»
«Che ci frega del momento esatto, basta che ci ritroviamo
nell’anno giusto», argomentò sicuro Lucien.
«Lucien rifletti un attimo», spiegò con gentilezza Hélène. «Se
ci materializzassimo nella grotta alcune ore, o giorni, perfino
settimane dopo essere precipitati nell’abisso temporale nel quale
ora come ora ci troviamo, potremmo sempre recuperare il nostro
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equipaggiamento subacqueo che è rimasto laggiù. E non ci sarebbero altri problemi».
«Certo che no, è quel che dico io», approvò quello.
«Ma se invece tornassimo molti anni più tardi?» intervenne
Jean, il quale cominciava a intuire il ragionamento di Hélène.
«In quel caso la nostra attrezzatura potrebbe non essere più funzionante: bombole semivuote, erogatori arrugginiti…Afferri il
concetto?»
«Ma…», cercò di obiettare Lucien, senza riuscire ad opporre
un valido argomento.
«E se, al contrario, noi ricomparissimo là dentro ancor prima di esservi effettivamente entrati nuotando», riprese Hélène
con una logica serrata, «foss’anche un solo minuto prima, ci
troveremmo nella grotta privi dell’equipaggiamento necessario
per uscire, quindi prigionieri senza speranza, condannati ad una
morte orribile, considerato inoltre che nessuno saprebbe dell’esistenza della caverna, né di noi chiusi là dentro. Per riassumere, se
ci avesse seguito nel passato pure il nostro corredo al completo,
o quantomeno gli autorespiratori, avremmo senz’altro potuto
giocare questa carta. Viceversa, fare tale tentativo nella nostra
condizione sarebbe del tutto insensato e suicida».
L’implacabile coerenza di quelle argomentazioni fece crollare
le speranze di Lucien che la prese assai male. Una rabbia sorda e
impotente s’impadronì di lui; cominciò a gridare, scosso a tratti
da singulti: «E così questa stronza, dopo aver giocato con le nostre vite non può nemmeno rimediare alla sua cazzata imperiale.
Maledizione e stramaledizione!»
«Su, calmati adesso, forse una soluzione la troviamo», provò
a rabbonirlo Jean. Lucien si sedette e si abbandonò a singhiozzi
liberatori. Ma anche gli altri non stavano meglio. Tutt’altro.
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CAPITOLO 6
Dotato più degli altri di una mente pratica, Jean reagì per primo: «Sentite: ci siamo persi chissà dove nel tempo ma abbiamo
la fortuna di essere ancora vivi. Cerchiamo di restarlo, questa
dovrebbe essere la nostra priorità su tutto. Non sappiamo nulla
sull’ambiente che ci circonda, e che perciò è pieno d’incognite.
Possiamo comunque arguire che da queste parti circolino animali di ogni tipo e forse pure uomini, magari pericolosi».
«Anche bestie feroci?» domandò Lucien allarmato.
«Non me ne stupirei affatto», rispose Jean. «In ogni caso,
anche se il clima non mi pare propriamente estivo, la giornata è
bella e senza vento. E il sole scalda abbastanza». Così dicendo, si
tolse la muta e la mise ad asciugare su un masso. Rimanendo in
costume da bagno commentò: «Non si sta affatto male sapete,
c’è un buon tepore. Vi consiglio di fare come me: con le mute
asciutte vi troverete meglio. Ora sono gli unici indumenti che
possediamo, ed è già una fortuna che ci siano rimasti almeno
questi. Come riparo, per il momento c’è la grotta. A questo
punto sarebbe opportuno fare l’inventario di quel che ci resta.
Dobbiamo prendere atto che queste poche cose costituiscono
tutti i nostri averi in questo nuovo mondo».
Per dare l’esempio, cominciò ad allineare i vari oggetti, aiutato da Lucien, che stava così reagendo allo sconforto. Intanto
Hélène, ultima a spogliarsi perché alla disperata ricerca di uno
sbocco, stava facendo lavorare il cervello a ritmo febbrile.
Convinto che bisognasse in qualche modo farsi coraggio l’un
l’altro, Jean disse con una sicurezza che era lungi dal provare: «Se
affronteremo come si deve le avversità ce la caveremo. Dunque, i
nostri tre coltelli sono senz’altro quanto di più prezioso abbiamo:
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ci saranno di sicuro utilissimi. Dobbiamo averne grande cura dato
che non esiste alcuna possibilità di rimpiazzarli».
Le mute, composte di giacche, salopette, cappucci e calzari,
furono appese ad asciugare ai rami di alcune piante, insieme ai
tre giubbotti equilibratori Fenzy muniti di fischietti di plastica
e di bombolette di anidride carbonica. Sopra una roccia piatta
vennero adagiate le maschere, i boccagli, i due profondimetri,
una bussola (che sembrava avesse ripreso a funzionare), i coltelli
nei loro foderi, la pentola contenente i vasetti per la campionatura, il piccolo asciugamano, il blocchetto per appunti, la penna
a sfera e le due pellicole. Jean afferrò d’impulso queste ultime e,
in un accesso di rabbia, fece il gesto di scagliarle lontano.
«Aspetta un momento!» lo bloccò Hélène. «Anche quelle potrebbero tornarci utili».
«Ma davvero?» fece lui sarcastico. «Conosci nei dintorni un
buon laboratorio di sviluppo?»
«Statemi bene a sentire, adesso», disse lei con foga, ignorando
la battuta. «Non so davvero come farò, ma anche se per il momento questo mi appaia utopistico, sappiate che io non dispero
di poter trovare una via d’uscita. Me lo sento».
«Auguriamoci sul serio che sia così», mormorò Lucien.
«E allora», riprese Hélène «non buttiamo via nulla: perfino
gli oggetti che ci sembrano inutili potrebbero al limite servire
come merce di scambio. Non dimentichiamoci che quasi di
sicuro avremo a che fare con dei primitivi. E poi», disse rivolta
a Jean «metti che sul serio si riesca a tornare a casa: pensa alla
documentazione fotografica utile alla scienza che potremmo
riportare con noi».
«Come no. E poi le conferenze, i libri, la gloria. Dici niente»,
rispose Jean con amarezza. «Beh, perché non illudersi? Male non
fa. Sempre che le emulsioni di gelatina dei film non risentano
dei trasferimenti temporali. Quindi, teniamoci pure la Nikonos
col suo bravo flash, nonché questo retino pieno di tante belle
lampadine».
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«Ognuno di noi», soggiunse Hélène, «ha il suo orologio, e anche questi oggetti potranno assumere un grande valore, specie
se riusciremo a sincronizzarli con le ore effettive del presente.
Magari, per verificare, potrò costruire una meridiana. Tutto ciò
che posso dire per adesso è che, dall’altezza del sole, dovrebbe
essere la tarda mattinata. Calcolando le ore di luce e osservando
la posizione in cui sorge l’astro, si dovrebbe riuscire a capire in
che mese, o almeno in che stagione siamo».
Lucien che desiderava sentirsi utile, finendo di allineare le ultime cose, segnalò: «Non dimentichiamo che ci sono pure cinque
torce e due retini».
«Giusto», disse Jean. «Le batterie delle tre lampade che abbiamo utilizzato fin qui saranno in parte consumate. Rimangono
però due torce a piena potenza. D’ora innanzi sarà consigliabile
usarne soltanto una alla volta, fino al suo esaurimento, a cominciare da quelle che abbiamo già adoperato. E solo quando ne
avremo davvero bisogno».
«Qui c’è dell’acqua, chi vuol bere?» annunciò Lucien che aveva
trovato poco più in là un rivoletto che scaturiva dalla roccia e si
raccoglieva in piccole pozze naturali. Tutti bevvero con avidità.
«Bisognerà provvedere anche al mangiare», fece presente Jean
aggrottando preoccupato la fronte. «Chissà cosa troveremo qua
intorno: come vegetazione, non mi sembra affatto la macchia
mediterranea. Sarà necessaria una ricognizione».
«Sì, occorrerà pensare al da farsi», concordò Lucien, che adesso appariva ansioso di cooperare.
«E tu Hélène sei sempre in meditazione?» le chiese Jean.
Constatando che in effetti era tutta concentrata, le si sedette
accanto. Lei lo guardò con aria interrogativa. Allora le disse: «Mi
viene in mente di aver letto una volta di un progetto, denominato Philadelphia Experiment, che la marina americana aveva
messo in atto nel 1943, mi pare, cioè in piena guerra. Era stato
creato un potentissimo campo magnetico, nel bel mezzo del
quale era stato posto addirittura un cacciatorpediniere completo
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di equipaggio. Ebbene, la nave sparì e fu notata, per un breve
periodo, a centinaia di miglia di distanza. La cosa strana era che
i numerosi osservatori ufficiali, che guardavano dall’esterno del
campo di forza, non scorgevano più la nave ma solo l’enorme
impronta dello scafo nell’acqua, l’unica cosa rimasta bene in
evidenza. Si trattava però di spostamenti spaziali, cioè realizzati
sulla distanza, non temporali. Almeno credo».
«Non ne avevo mai sentito parlare. Continua…»
«Tuttavia qualcosa dovette andare storto. Sembra che i marinai dell’unità in questione alla fine siano impazziti, e sulla vicenda calò il segreto militare. Mi parve allora che l’intera storia
avesse dell’incredibile e la accantonai. Adesso non la penserei
più così. Secondo te un fatto del genere potrebbe presentare
delle analogie con il nostro caso?»
«Potrebbe sì. Hai visto tu stesso la bussola. Nella grotta era
senza dubbio attivo un forte campo naturale di energia. Di
quest’argomento mi sono occupata a lungo, anche se mai avrei
immaginato di sperimentare su me stessa, ed in maniera così
drammatica - dato che ho coinvolto pure voi due - certe teorie
formulate da alcuni studiosi di fama. Secondo costoro, non si
può escludere che l’attrazione fra le molecole possa venire alterata temporaneamente da un campo magnetico abbastanza
potente. Il che significherebbe la traslazione della materia in
un’altra dimensione. Del resto, ogni qualvolta ci imbattiamo in
fenomeni di materializzazione per noi inspiegabili, e dei quali
esiste tutta una casistica ben documentata, come per esempio le
apparizioni degli UFO…»
«Dai, anche la fantascienza, adesso!» saltò su Lucien interrompendo Hélène. «Non ho mica tanta voglia di scherzare, sai?»
«Neppure io», rispose la giovane, seria. «Come dicevo, eventi
di questo tipo sono stati studiati e menzionati in rapporti che
le autorità preferiscono tenere segreti. Quel che volevo rilevare, è che ogni volta che si è verificato quel genere di fenomeni,
si è notato che essi erano sempre accompagnati da gravi turbe
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magnetiche. È perciò ragionevole supporre che questo enorme
dispiego di energia possa distorcere l’elemento tempo. È da molto che si sospetta che il magnetismo sia responsabile in modo
diretto di queste metamorfosi dimensionali».
«Basta pensare al Triangolo delle Bermude», s’intromise Jean.
«Proprio così. Ci sono luoghi, sempre gli stessi, dove avviene
la maggior parte dei naufragi o degli incidenti inspiegabili. Queste aree sprigionano forze elettromagnetiche anomale, uno o
anche più campi, che generano una specie d’attrazione fatale fra
scogli e navi. Oppure fra navi e chissà che cosa. In seguito, una
sorta di rete mimetica elettronica copre ogni relitto cancellandone ogni traccia. E di “trappole”, sul tipo del famoso Triangolo,
nel mondo ce n’è diverse.
In queste zone perfino gli aerei scompaiono, anch’essi inghiottiti da presumibili deformazioni spazio-temporali. Un fenomeno, sempre notato dai piloti e regolarmente riferito alle torri di
controllo prima di svanire nel nulla, era che la strumentazione di
bordo impazziva».
«Come la mia bussola».
«Come la tua bussola, certo. Ti racconto alcuni casi: esiste un
rapporto che parla di un aereo di linea che in pieno giorno si è
schiantato nell’acqua bassa davanti ad una spiaggia molto affollata
e quindi piena di testimoni; ebbene, di esso non si riuscì mai a
trovare il minimo indizio atto a provare che una simile sciagura
fosse veramente avvenuta: ne corpi, né qualsiasi relitto. Oppure,
c’è anche l’episodio dell’aereo che, in fase di avvicinamento all’aeroporto, era entrato in una zona luminosa anomala, scomparendo
per dieci minuti dal radar. Dopo l’atterraggio ci si accorse che tutti
gli orologi dei passeggeri erano indietro di dieci minuti».
«Anche questo ci riporterebbe un po’ alla nostra vicenda, mi
pare», osservò Jean.
«Non saprei. Ci potrebbe essere un’affinità, sì. E questo mi
fa ricordare di un’aviatrice, una certa Carolyn Cascio, la quale
appena decollata dall’isola di Turk, vicino alle Bahamas, a causa
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di un’inversione del tempo ebbe l’occasione di osservare sotto di
sé la medesima isola, in un momento in cui l’aeroporto non era
ancora stato costruito».
«Sentite un po’», intervenne spazientito Lucien «e se rimandassimo ad un altro momento questi discorsi dotti e ci occupassimo invece di cose terra-terra quali, per esempio, il cibo? Fra
non molto avremo fame».
«Hai ragione anche tu», ammise Hélène.«Ma noi non stiamo
dissertando a vuoto: cerchiamo di capire innanzitutto come siamo finiti qui e, di conseguenza, vedere se ci è possibile andarcene come siamo venuti».
«E ora sei convinta che questo sia attuabile?» si interessò speranzoso Lucien.
«Non corriamo. Però ci sto pensando».
«Sì, certo, ci stai pensando», fece quello dubbioso. «Intanto
però l’unica cosa sicura è che ci troviamo ancora nelle Calanques. Solo che non sappiamo quando. Voi dite ventimila anni fa.
E perché non nell’era dei dinosauri, e cioè molto prima che sulla
faccia della terra comparisse l’uomo? Questo sarebbe ancora
peggio, non è vero?»
«No, non credo che sia così», ragionò Jean. «Altrimenti forse
il mare non si troverebbe così in basso».
«Sarà… Quindi niente dinosauri. Ma allora festeggiamo!
Ragazzi, che culo incredibile che abbiamo avuto: abbiamo viaggiato a ritroso “solo” di ventimila anni, invece che di milioni!»
gridò Lucien con occhi stralunati che mettevano paura. I suoi
nervi cominciavano a cedere, e lui stava di nuovo accalorandosi,
e stavolta di brutto.
«Ora smett…». Jean troncò a metà la frase, irrigidendosi. «Cristo…», mormorò poi, guardando in basso.
La sua espressione costrinse anche gli altri a seguire il suo
sguardo, facendoli ammutolire.
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CAPITOLO 7
Una quindicina di metri più in basso, ai bordi della radura sottostante, un gruppo di uomini barbuti, armati di lance e clave, li
stava osservando in silenzio.
«E questi, chi cavolo sono?», mormorò infine Jean. «Non mi
sembrano proprio gli abitanti di Cassis…».
«Ditemi che sto sognando. Merda, ditemi che non è vero. Ma
allora siamo veramente all’Età della Pietra!» esclamò demoralizzato Lucien che con caparbietà rifiutava di ammettere l’aberrante realtà.
«Vi presento i nostri antenati», disse Hélène estatica.
«Bella roba: una banda di cavernicoli», sibilò sprezzante
Lucien.
«Se non fosse per le loro facce, dall’abbigliamento si direbbero
esquimesi», osservò Jean.
In effetti gli indigeni indossavano grossolani pantaloni e
casacche di pelle a maniche corte, dato che la temperatura era
mite. Alcuni erano a petto nudo, esibendo una muscolatura di
tutto rispetto. Tutti calzavano stivali di pelle con lacci. Se ne
stavano perfettamente immobili, come statue, senza parlare né
gesticolare. Guardavano e basta. Avevano fronti ben sviluppate
e le mandibole pronunciate; le facce, abbastanza regolari, apparivano quasi “moderne”.
«Si direbbero cacciatori», disse ancora Jean. «Guardate, hanno posato per terra un grosso animale, un cervo, credo. Non
sembrano amichevoli, ma neanche ostili. Hanno piuttosto l’aria
spaventata. O forse sono solamente timidi».
«È che ai loro occhi potremmo sembrare esseri di un altro
mondo. E sa il cielo se non è così», commentò Hélène.
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«Mi sento un po’ nudo. Rimettiamoci le mute: bastano le salopette», suggerì Jean.«Perlomeno avremo un aspetto dignitoso
e mi auguro anche autorevole, il che non dovrebbe guastare in
questi casi».
In fretta, indossarono i pantaloni con le bretelle, si misero i
calzari e allacciarono ai polpacci i foderi contenenti i coltelli. La
manovra venne seguita con estrema attenzione dagli uomini in
basso che, gli sguardi sempre fissi sui tre stranieri, non si perdevano un loro gesto. A vestizione ultimata, i due gruppi continuarono a osservarsi con reciproca diffidenza.
Alla fine, Jean si risolse ad agire: «Beh, non possiamo starcene così in eterno. Adesso provo ad avvicinarmi e vediamo che
succede».
«Veniamo anche noi», disse Lucien accennando a muoversi.
«Inutile rischiare insieme», si oppose Jean, «anche se penso
che non ci sia un vero pericolo: se avessero voluto aggredirci
l’avrebbero già fatto. Comunque non si sa mai. Aspettate qui».
E senza attendere risposta cominciò a scendere con calma, facendo attenzione a dove metteva i piedi, anche se il percorso era
abbastanza agevole. Una volta giù, aprì le braccia in modo da
evidenziare le palme vuote delle mani. Spero che sia questa la giusta
procedura, pensò, l’ho visto fare al cinema. Mah, qualche volta bisogna pur
essere ottimisti.
Quando giunse abbastanza vicino, gli indigeni arretrarono timorosi, eccetto un gigante alto almeno un metro e novanta che aveva
il portamento del capo. L’uomo moderno e il suo remoto antenato
si fronteggiarono fissandosi a lungo e studiandosi. Quindi quest’ultimo, pur seguitando a reggere la sua lancia con la destra, allargò anch’egli le braccia, imitando Jean. Il gesto di pace era chiaro.
Allora Jean fece un cenno ai due compagni che, dopo aver
raccolto tutti gli oggetti sparsi, cominciarono a scendere pure
loro. Si disposero quindi al suo fianco e di fronte al capo, mentre
i cacciatori rassicurati, ripresero ad avanzare cauti, gesticolando
e parlottando sottovoce.
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