Paolo Curto
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Paolo Curto I PORTALI DEL TEMPO Copyright © 2010 MGC Edizioni Copyright © 2010 Paolo Curto Copertina: illustrazione dell’autore Impaginazione e progetto grafico di Officine Grafiche Mappa dell’autore Elaborazione grafica a cura di Officine Grafiche di Elena Avanzini Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a: MGC Edizioni c/o Maria Grazia Catanzani Management Ufficio diritto d’autore Via Sistina, 121 - 00187 Roma ISBN: 978-88-967-8429-7 Finito di stampare nel mese di dicembre 2010 a cura di Grafostampa - Via Laurentina 3/o (Roma) http://www.mgcedizioni.com a Marie-Catherine PREFAZIONE di Paolo Curto Costa fra Marsiglia e Cassis, 1974. L’archeologo Jean Broussard perlustra in immersione un misterioso sifone, lungo un centinaio di metri, che alla fine termina in una grotta parzialmente emersa. Con sua sorpresa, si accorge che le pareti di calcare sono piene di pitture preistoriche. La scoperta appare subito straordinaria. Volendo la conferma dell’autenticità dei disegni, l’uomo ritorna nella caverna insieme all’antropologa Hélène Fleury e al subacqueo professionista Lucien Moriani. Tuttavia, oltre alle tante e stupefacenti immagini di animali, l’antro custodisce anche un segreto sconvolgente: infatti, le enigmatiche impronte di mani che risaltano sulla roccia, come a formare un anello zodiacale, in realtà circoscrivono un portale temporale. Un eccezionale quanto raro concorso di circostanze fa sì che i tre sub precipitino, loro malgrado, 27 mila anni indietro nel tempo, nel Tardo Pleistocene, quando il livello del Mediterraneo era 120 metri più in basso rispetto ad ora, e davanti all’attuale Costa Azzurra si stendeva una immensa pianura. Nella grotta in questione, quindi, si entrava a piedi. Così due uomini ed una donna del XX secolo si trovano costretti a confrontarsi con gli uomini e gli animali di allora, coinvolti in vicende che sovente si dipanano sul filo del mistero e della magia. I tre si scontrano subito con la dura realtà di un mondo primitivo ed ostile, ma anche affascinante, in cui è spesso in gioco la loro stessa sopravvivenza, Fra incontri con rinoceronti lanosi, orsi e leoni delle caverne e 7 cacciando i bisonti insieme ai loro amici Cro-Magnon, i moderni esploratori involontari sono costretti a fronteggiare anche l’uomo di Neanderthal. Ma, pur correndo ogni sorta di pericoli, non desistono mai dal tentativo di raggiungere la loro epoca, cercando di riprodurre il fenomeno soprannaturale che li ha traghettati nel passato. L’intento però si rivelerà tutt’altro che facile. Inoltre, per una fatale imprudenza, Lucien muore. Quando finalmente si verificano le condizioni favorevoli, Hélène e Jean provano ad effettuare il “salto” nel futuro. Qualcosa va storto e i due “riemergono” nel 49 A.C. durante l’assedio di Marsiglia, evento importante della lunga guerra civile fra Cesare e Pompeo. Dopo la caduta della città si mettono sotto la protezione del Console, senza peraltro poter smettere di lottare per la loro vita. Sconfitto il Magno a Farsalo, Cesare si reca in Egitto e conosce Cleopatra. Intanto i nostri, che partecipano attivamente a quelle drammatiche vicende storiche, non demordono e aspettano sempre l’occasione propizia per ritentare il viaggio nel tempo. Alla fine Hélène e Jean riescono a ritornare nella loro Marsiglia moderna. Ma non per questo i loro guai sono finiti… 8 Paolo Curto I PORTALI DEL TEMPO Romanzo d’avventura CAPITOLO 1 Il subacqueo nuotava rilassato in cerca di soggetti da fotografare. Si trovava a 36 metri di profondità, lungo una parete verticale, tipica di tutta la costa a strapiombo e ricca d’insenature che va da Marsiglia a Cassis e che prende il nome di Calanques. Ad un certo punto, qualcosa che non aveva mai notato prima, richiamò la sua attenzione: sembrava un’angusta cavità, in gran parte mimetizzata da una fitta cortina di gorgonie, simili a grandi ventagli color porpora. Guardando meglio notò che, proprio di fronte a lui, la lampada non rischiarava nulla: il potente raggio di luce concentrata si perdeva nel buio. Si trattava dunque di un cunicolo, un minaccioso buco nero che conduceva chissà dove. Così, tutto era cominciato con una scoperta in apparenza banale, una di quelle circostanze insignificanti che però talvolta possono scatenare forze occulte e stravolgere per sempre la vita di una persona. Il professor Jean Broussard non aveva fretta e si stava godendo una delle sue prime immersioni estive del 1974. Certo, se avesse anche vagamente potuto immaginare a quale sconvolgente odissea sarebbe poi andato incontro, se la sarebbe filata all’istante: in qualunque altro posto, purchè molto, ma molto lontano da lì. Invece si attardò a curiosare. Ma com’è possibile? si chiese fissando stupito la modesta fenditura, simile a tante altre di quel fondale marino. Conosco questa zona come se fosse casa mia, eppure ecco una bella tana che m’era sfuggita. Mah, riflettè pigramente, una distrazione può capitare a tutti. Comunque, diamo un’occhiata. Attratto lì dentro da alcune aragoste, Jean regolò la sua Nikonos II, l’ultima novità in fatto di macchine fotografiche anfibie. 11 Quindi, dopo aver scelto l’inquadratura, scattò una fotografia rischiarando con il flash il gruppetto di crostacei che lo guatava sospettoso. Con un gesto automatico della mano sinistra, prese dal retino una nuova lampadina PF 5 al magnesio e sostituì quella bruciata che scese zigzagando verso il fondo. Soddisfatto, si dedicò ad esaminare meglio l’interno della spaccatura che era larga un paio di metri e alta poco più di uno nella parte centrale. Le bolle d’aria sfuggite al suo erogatore, vesciche luminose che guizzavano lievi, andavano a raccogliersi gorgogliando sulla volta. Appena oltre, prosperava una piccola colonia di esile ma fitto corallo rosso con tutti i polipi bianchi aperti che, alla debole luce proveniente dall’esterno, evocavano una minuscola foresta innevata. Ancora un lampo, e un’altra bella immagine venne registrata sulla pellicola. Adesso il fascio splendente della torcia subacquea sciabordava di qua e di là, illuminando zoantidi gialli e ascidie simili a pomodori. Però lo sguardo del subacqueo veniva irresistibilmente calamitato dalla misteriosa apertura. Pur vagamente a disagio, l’uomo si sentiva in quel momento attratto dal gusto per l’ignoto e la curiosità soverchiava il timore, benché ora la grotta si configurasse piuttosto come un budello, e per giunta stretto. L’antro, che pareva non aver fine, si apriva inquietante e pauroso, come le fauci di un mostro pronto a ghermire l’incauto che osasse avventurarvisi. Nonostante ciò, Jean decise d’inoltrarsi in quell’oscura gola. Dopo un breve tratto, il tunnel proseguiva allargandosi fino a tre metri di diametro rendendo più agevole il nuoto. Il fioco chiarore dell’ingresso non si scorgeva già più. Non gli rimaneva quindi che farsi guidare dal sottile cono luminoso della torcia: se l’avesse spenta, si sarebbe trovato sospeso nel buio più totale, come se si fosse immerso in una vasca d’inchiostro. E se la lampada avesse smesso di funzionare? il pensiero lo sfiorò all’improvviso. Ma via, non sarò mica così sfortunato, no? si rassicurò con una certa dose d’incoscienza. 12 Percorsa una cinquantina di metri, Jean si trovò di fronte ad una biforcazione. Quasi senza esitare prese a sinistra, scegliendo a caso, ma poco dopo la grotta terminò in una parete compatta. Giratosi a fatica e facendo molta attenzione a non sollevare fango, tornò indietro fino alla diramazione. Ma, prima di imboccare l’altra via, un’occhiata all’orologio e al manometro, che indicava la pressione dell’aria nelle bombole, gli fece capire che era invece tempo di desistere. Stabilì quindi che per quella volta poteva bastare. Intrapresa una veloce nuotata a ritroso, scorse con sollievo l’albore azzurrino dell’ingresso e di lì a poco si ritrovò sospeso nella meravigliosa acqua libera. Quella notte Jean sognò che il misterioso cunicolo subacqueo conduceva infine ad una grotta fantastica, simile ad una cattedrale sommersa piena di grandi dentici e cernie le cui sagome scure si libravano tranquille, quasi immobili. Lo smisurato ambiente era illuminato da fasci di una magica luce cerulea che scendeva attraverso numerosi fori che si aprivano sulla volta altissima: erano i raggi del sole che, filtrati dall’acqua, cercavano di penetrare in un mondo non loro. Jean nuotava con affanno in quell’atmosfera misteriosa cercando invano l’uscita. Man mano che lui si avvicinava, le aperture dalle quali scendeva il chiarore si restringevano fino ad impedirgli di passare. E mentre l’aria delle sue bombole si esauriva, lui girava e girava sentendosi sempre più prigioniero di quell’incantesimo. Si svegliò ansimando, tutto sudato. Cercò di riaddormentarsi, ma invece continuò a rivoltarsi irrequieto fra le lenzuola per un bel po’. Siccome il cielo andava rischiarandosi, alla fine decise di alzarsi. Ma guarda un po’ che razza di scemate si sognano a volte, borbottò seccato mentre metteva sul fuoco la cuccuma del caffè. Poi, mentre lo sorseggiava assaporandone il forte aroma, ripensò all’esplorazione del giorno prima. Di sicuro sono stato suggestionato 13 dalla grotta sottomarina, si disse alludendo all’angosciante sogno. Bene, vediamo allora di esorcizzare il tutto: oggi risolviamo l’enigma, concluse galvanizzato dalla prospettiva di un’avventura che prometteva di essere elettrizzante. Si era appena preso una settimana di vacanza e intendeva approfittarne. Scese in garage e scelse l’attrezzatura. Gli avrebbe fatto comodo disporre dell’autonomia del suo bibombola da 24 litri, ma ne aveva quasi esaurito l’aria nella precedente immersione e non aveva fatto in tempo a portarlo a ricaricare. Gli rimanevano però 180 atmosfere in un grosso monobombola da 14 litri che aveva di recente acquistato in Italia. Prese due erogatori da applicare alla doppia rubinetteria: un Royal Mistral e un Aquilon di riserva. Aggiunse al suo equipaggiamento consueto anche una bussola e due lampade stagne: non si poteva mai sapere… Ficcò inoltre nella capace sacca impermeabile un grosso rotolo di sagola avvolta su un rocchetto: l’avrebbe usata a mo’di filo d’Arianna. Per questa volta non avrebbe portato la macchina fotografica, in modo da essere più libero nei movimenti senza ulteriori impicci. Sistemato il tutto sul suo battello pneumatico, uno Zodiac, si diresse a tutta manetta verso le Calanques, smanioso di scoprire il segreto della caverna sommersa. Data l’ora mattutina incontrò solamente qualche barca di pescatori che rientravano in sede, diretti a vendere il pesce sulla banchina del Vieux Port. Imboccò a velocità sostenuta lo stretto passaggio fra l’Isola Maire e Capo Croisette, e in meno di venti minuti giunse a destinazione. Ormeggiò il gommone davanti al lastrone inclinato che aveva preso quale punto di riferimento, all’incirca sulla verticale della sua grotta che si trovava sotto la Punta della Voile, a Capo Morgiou. Lì la scogliera formava una specie di anfiteatro calcareo che incombeva imponente sulla sua testa. Planando alti nel cielo, alcuni gabbiani emettevano il loro roco richiamo. Ondine lievi sciabordavano dolcemente contro il dirupo scosceso. Era una splendida giornata senza vento, l’ideale per le immersioni. 14 Completata la vestizione e fatto un ultimo controllo al suo corredo, Jean si lasciò cadere all’indietro schiaffeggiando la superficie del mare piatto come un lago. Non appena si diradò la nuvola di bollicine d’aria provocata dal brusco impatto con l’acqua, fece una capriola e iniziò la discesa. Seguì per un tratto la cima dell’ancorotto e poi con pochi colpi di pinna si ritrovò davanti alla fenditura. Le aragoste erano ancora lì e lui le ignorò, passando oltre e infilandosi dritto nel pertugio. Appena fu entrato, Jean illuminò un “volo” di eleganti corvine che si ritirarono senza fretta oltre una fessura orizzontale. Più in là ancora un timido gronco sfilò rasente ai bordi dell’antro per poi sparire in una tana. Alcune galatee rosse e blu si dileguarono frettolose sotto dei sassi nuotando a scatti all’indietro. Per timore che da fuori qualcun altro la scoprisse per caso e quindi s’incuriosisse, Jean legò un’estremità della cordicella ad una sporgenza di roccia, alcuni metri all’interno della caverna. Dopo che si fu addentrato per una ventina di metri, il leggero brusio, familiare in ogni fondale marino, smise di scortarlo. Unico rumore adesso era il borbottio regolare e rassicurante delle bolle d’aria che fuoriuscivano dall’erogatore; quello di riserva pendeva inerte ma pronto alla bisogna. Ormai non si scorgeva più un solo pesce. Stavolta Jean s’inoltrò senza tentennamenti nel tunnel. In breve giunse alla biforcazione, sempre filando con regolarità la sagola dal rocchetto. Non perse tempo ed imboccò sicuro il cunicolo di destra. A questo punto era come intraprendere un viaggio verso l’ignoto, affascinante e terrificante insieme. Speriamo che questo tratto continui e non s’interrompa come l’altro, si augurò fiducioso. Jean pinneggiava risoluto ma prudente nel sifone sconosciuto che per fortuna si manteneva sempre abbastanza largo. Un controllo al profondimetro gli indicò che il budello cominciava a salire. Stimò nel frattempo di aver percorso fin lì un buon centinaio di metri. Era già parecchio, era già pericoloso. Nondimeno, era spinto da un irresistibile impulso che lo incitava a 15 proseguire. Si sentiva comunque abbastanza tranquillo: due anni prima aveva fatto un’esperienza analoga in Sardegna, a Capo Caccia. Quel promontorio, parte integrante di una maestosa costa caratterizzata da vertiginosi strapiombi sul mare, assai simili, per conformazione calcarea, alle Calanques, custodiva qualcosa di eccezionale. Nel suo ventre, ad una profondità media di una ventina di metri, si sviluppava forse il più grande complesso di caverne sottomarine del mondo, almeno per quanto si sapeva. La sola immensa Grotta di Nereo era lunga ben 320 metri. La galleria continuava a salire sempre di più finché si restrinse bruscamente. Adesso, un foro circolare, una specie di breve tubo, permetteva a malapena il passaggio di un uomo. Il suo orologio, un Breil serie Manta, l’unico all’epoca dotato di colonnina della profondità, segnava -16 metri e Jean si rese conto di essersi già innalzato di venti metri rispetto all’ingresso dal mare. Era possibile, allora, che superata quella strettoia si sbucasse in superficie? Un campanello d’allarme lo avvertì che era ora di tornare indietro. Consultò il manometro e si accorse di aver consumato più del 30% dell’aria. Una delle severe regole della speleologia subacquea imponeva in quei casi di usare un terzo del contenuto delle bombole per l’andata, altrettanto per il ritorno, e il rimanente per le emergenze. Jean riconobbe di avere perso la cognizione del tempo, avendo respirato più di quanto pensasse. Eppure avvertiva, lontano ma nitido, come un richiamo misterioso e impellente che lo stimolava a proseguire. Stranamente, in quel momento si sentiva come distaccato, estraneo; gli pareva di udire un vago coro di sirene e di non essere veramente lui ad agire. No davvero, non poteva di certo essere lui quello che, dimentico di ogni elementare prudenza, si stava intrufolando nella stretta apertura. Lui si limitava a seguire l’azione come se la cosa non lo riguardasse per nulla, proprio come succede –si rendeva confusamente conto- quando si viene colpiti da narcosi d’azoto, la nota “ebbrezza delle profondità”. 16 Soltanto che lui adesso si trovava a soli 16 metri! Era del tutto avventato ciò che stava facendo: quella era un’impresa da compiere almeno in due, meglio ancora se in tre. A quel punto il più insignificante incidente avrebbe potuto avere conseguenze letali, e lui doveva saperlo bene. Ciononostante sembrava non importargliene un granché. All’improvviso si ritrovò in una spaziosa caverna che si allargava verso l’alto fino a formare una specie di enorme imbuto. Titaniche stalagmiti si ergevano a scolpire un fatato bosco pietrificato e sommerso. Jean, tornato finalmente in sé, si mosse con circospezione, ben attento a non smuovere la finissima polvere bianca che simile a neve ricopriva le fantastiche formazioni calcaree. Fece girare la torcia per godersi appieno quello spettacolo straordinario ed unico, finché non si avvide che le sue bolle d’aria si sfaldavano, poco sopra di lui, in uno specchio mobile e invitante: la superficie. Ma allora la grotta è in parte emersa! esultò in cuor suo. Affiorò impaziente con la testa e illuminò un’ampia volta dalla quale scendevano numerose stalattiti che spesso formavano un corpo unico con le stalagmiti. Ad una di quelle legò l’estremità della sagola, che non aveva mai smesso di srotolare. Quindi Jean esitò, incerto se togliersi di bocca l’erogatore, perché aveva sentito dire da qualche parte che a volte gli ambienti chiusi da molto tempo, come tombe antiche o miniere, possono rivelarsi saturi di gas tossici. Con prudenza, si azzardò a fare un respiro. L’aria sembrava buona, anche se gli parve, forse per suggestione, che avesse l’imprecisato sapore dei millenni. Stando ancora in acqua, si sfilò i cinghiaggi della bombola e si issò su di un irregolare gradino roccioso. Su quel basamento naturale poggiò, dritto in piedi, anche l’autorespiratore, non senza averne prima chiuso, con gesto automatico, la rubinetteria: da tempo aveva preso l’abitudine di interrompere il flusso dell’aria ogni qualvolta usciva dall’acqua, fosse pure a titolo provvisorio, onde 17 evitare perdite accidentali. Sistemò poi accanto anche le pinne e la cintura di zavorra. Il luogo era permeato da un’atmosfera irreale e Jean ebbe la netta sensazione di stare violando l’incontaminata austerità di un tempio, di profanare un remoto santuario. Tuttavia, superato l’illogico e momentaneo disagio, si accinse a compiere un giro di ricognizione; accennò quindi qualche cauto passo, con una lampada in mano e l’altra riposta nel retino che gli circondava la vita. Nel solenne silenzio di quel castello incantato, udiva solo il proprio respiro che si trasformava in condensa e il sottile ed eterno stillicidio delle gocce che, staccandosi dalla volta, finivano in acqua. Un tonfo sordo lo fece girare allarmato su se stesso. Diresse con ansia il raggio luminoso dove aveva lasciato l’attrezzatura: c’erano le pinne, i piombi e… «La bombola! Non c’è più la bombola! Merda!» imprecò Jean ad alta voce. Fissò con orrore la lieve perturbazione dell’acqua che indicava il punto in cui era sprofondato l’autorespiratore. «Non dovevo metterla dritta!» gridò ancora, angosciato. «Maledizione! Non dovevo metterla in piedi. Si sarà sbilanciata ed è caduta. Presto, devo fare presto! Se la perdosono fottuto!» Tornato subito indietro, fissò per un istante la superficie opalescente sulla quale si stavano espandendo dei leggeri cerchi concentrici. Senza esitare oltre, Jean afferrò la maschera alzata sulla fronte e se l’abbassò sul viso, gettandosi nel contempo in acqua. Alla luce della lampada scorse subito la bombola argentata che stava rotolando lungo la scarpata in forte pendenza e provò disperatamente a raggiungerla. Invano. Senza la cintura di zavorra, la spinta di galleggiamento congiunta della muta e dell’equilibratore idrostatico Fenzy, che ancora indossava, era come una perfida mano che, afferratolo con tenacia, lo trascinasse inesorabile verso l’alto. Privo dell’aiuto delle pinne, poi, la manovra risultò impossibile. Galleggiando avvilito in superficie, Jean fu preso dal panico. 18 Merda, e adesso come faccio? Si mise a pensare con frenesia cercando di scacciare lo sconforto e di trovare nel contempo una soluzione. Nessuno al mondo sa che mi trovo qui. Sono fregato, rifletté. Sentendosi impotente, lanciò un urlo alla caverna, che lo amplificò: «Sono fregato! Fottuto! Fottuto come un coglione!» La sua mente cominciava a vacillare, attanagliata da un terrore irrazionale che stava per sopraffarlo. Dagli arcani recessi del suo cervello, però, l’istinto di sopravvivenza, simile ad una voce imperiosa, si fece strada fino alla sua coscienza. Calmati, si costrinse a pensare Jean con uno sforzo di volontà. Respira a fondo. Ecco, così, non smettere… Ragiona: adesso ti metti la cintura dei piombi, ti infili le pinne e vai giù: non sono nemmeno dieci metri. Recuperi la tua bombola, quindi ritorni su e dimentichi l’incidente. Placatosi alquanto, l’uomo estrasse il boccaglio incastrato fra le cinghiette che fissavano al polpaccio il fodero contenente il coltello, calzò le pinne e, affibbiatasi la zavorra, si rimise in acqua. Guardò giù e con un tuffo al cuore non vide più la bombola. Si scorgeva solo la sagola bianca che scendeva e spariva nello stretto buco dal quale era giunto. L’angoscia lo riassalì in un attimo. Non fare lo stronzo, guarda bene! si impose con un grande sforzo di autocontrollo. Con ansia, fece saettare la lingua luminosa in ogni direzione e alla fine scorse nel punto più profondo, accanto alla cordicella, il debole luccichio dell’erogatore. Questa poi! Non è possibile, la bombola è finita proprio davanti alla strettoia, è arrivata fin giù! constatò scoraggiato. Ragiona, dai, devi sempre ragionare, si ingiunse di nuovo, a fatica. Lì, dove si trova quel maledetto autorespiratore, saranno nemmeno quindici metri. Questo te lo ricordi, no? L’ultimo controllo ti dava 16 metri, ed eri appena più profondo. Più giù di così non va, stai tranquillo, il tunnel non ha abbastanza pendenza. In apnea è niente per te: quando vai a pesca subacquea scendi ben più sotto, o l’hai dimenticato? Ce la puoi fare, è una sciocchezza, basta seguire la sagola. Tieni presente che ne va della tua vita. Pensa, morire qui dentro dopo una lenta agonia, ignorato da tutti, con le batterie delle torce che man 19 mano si esauriscono: la luce che si affievolisce e poi si spegne. Per sempre. Una fine orrenda nel buio totale, prigioniero delle tenebre, senza alcuna speranza. È questo che vuoi? No di certo, vero? E allora ribellati, tira fuori la grinta. Basta tergiversare, ora: vai! Capito? Concentrati e vai! Jean iniziò a fare dei profondi respiri e, man mano che si iperventilava e l’ossigeno si diffondeva nel suo organismo, sentiva che il suo corpo si rilassava. Ne trasse beneficio anche la sua mente che, calmatasi, era adesso tutta volta all’obiettivo da raggiungere: ora sapeva che quella profondità era tranquillamente alla sua portata, sia pure in una grotta buia. Aspirò un’ultima boccata d’aria e s’immerse deciso, puntando con rapide falcate verso la strozzatura dell’”imbuto”. Era teso ma determinato a sopravvivere, la salvezza era soltanto a pochi metri. Giunto sul fondo, afferrò i tubi corrugati, si cacciò in bocca il terminale e si concesse un avido respiro. Dall’erogatore non uscì nulla. Grandissimo imbecille! si rimproverò con convinzione, mentre la sua mano apriva con smania la rubinetteria del monobombola. L’aria fresca che gli fluì immediata nei polmoni gli regalò un’esaltante sensazione di rivalsa sulla grande paura appena provata. Era salvo! Ce l’ho fatta! giubilò con aria di trionfo. Afferrato per i cinghiaggi l’autorespiratore lo trasse con sé fino a raggiungere la superficie. Stavolta sistemò la bombola ben coricata e si accertò che non potesse più scivolare in alcun modo. Si sedette, di colpo stanchissimo. Ecco, ci sei riuscito, si disse esultante, È stata una coglionata grossa così, però te ne sei tirato fuori. Tutto a posto ora, rilassati. Ancora turbato per l’emozione –troppe sensazioni forti si erano accavallate nel giro di pochi minuti-, se ne stette immobile per un po’, mentalmente spossato. Infine si scosse e decise che con quella grotta poteva bastare così. Almeno per il momento. Ma poi rifletté: era come minimo un peccato abbandonare così la partita, di caverne di tal fatta 20 non se ne scoprivano ogni giorno. Già che c’era tanto valeva dare un’occhiata più approfondita in giro, quasi per ottenere una sorta d’indennizzo per lo spavento provato poc’anzi, benché la sua baldanza iniziale si fosse alquanto afflosciata. Ma sì, dai, s’incitò senza troppa convinzione. Hai fatto trenta, fai trentuno. Jean si mosse con prudenza, facendo attenzione alla roccia scivolosa e accidentata, badando soprattutto alle minuscole stalagmiti aguzze che spuntavano ovunque dal suolo e che avrebbero potuto trapassargli i fragili calzari di neoprene e ferirgli i piedi. Cominciò ad aggirarsi sempre più meravigliato in un mondo fiabesco formato da gigantesche colonne ornate da pizzi e merletti, a volte sottilissimi, creati dal lavorio incessante dell’acqua che continuava a sgocciolare fin dall’eternità. Via via conquistato e ammaliato da quell’incanto, Jean tendeva già a scordare il brutto incidente occorsogli. Ad una sommaria ispezione, la grotta non pareva avere altre comunicazioni con l’esterno, oltre al sifone che la collegava al mare. Infatti non si avvertivano spifferi di sorta, non si intravedevano altre luci, e non c’era nemmeno traccia di pipistrelli, o quantomeno dei loro escrementi, sicuro indizio di passaggi segreti. Si ritrovò d’un tratto a fissare un disegno tracciato col carbone sulla parete di fronte a lui. Rimase senza fiato: quei tratti scarni componevano senza alcun dubbio la testa stilizzata di un cavallo. Ma è assurdo! si disse, non riuscendo lì per lì a capire. Qualcuno è già entrato qui. E prima di me! constatò quindi con un acuto senso di delusione. Gli ci vollero invece diversi secondi per afferrare appieno il significato di quella visione. È chiaramente primitivo, ragionò poi. Ma, cristosanto, quanto tempo fa è stato eseguito? Di certo in epoche lontanissime, quando la caverna era raggiungibile a piedi. Si sa infatti che una volta il livello del mare si trovava 50, 100 metri più in basso, addirittura fino a 120 metri, e la costa era molto più lontana di quella attuale, credo di cinque o sei miglia. Ma quando 21 questo? 10, 20 mila anni fa? Almeno! Dopo aver spostato il fascio luminoso della lampada sussultò ancora: E qui c’è un altro cavallo, anzi altri due! Accidenti, ma dove sono capitato? Con il cuore in tumulto, Jean faceva saettare la luce da una figura all’altra, mentre pian piano cominciava a realizzare l’importanza della sua scoperta. Appena più in là, numerosi disegni di altre specie di animali occhieggiavano invitanti. È incredibile! valutò rapito. È una cosa troppo grande, non posso tenere solo per me un simile segreto! È tutto così fantastico, straordinario! Una ridda di pensieri si accavallava nella sua mente in subbuglio per la seconda volta nel giro di mezz’ora. Era affascinato, come in trance, non riusciva ancora a capacitarsi di essersi imbattuto in una simile meraviglia. Si trattava, adesso ne era cosciente, di un ritrovamento unico, incomparabile. Non doveva tuttavia dimenticarsi di dove si trovava. Era ora di andare, di uscire fuori di là. Quando finì di equipaggiarsi e fu pronto a scendere in acqua, decise d’impulso di togliere il filo di Arianna. Non si poteva mai sapere: qualcuno, per un caso disgraziato, avrebbe potuto trovarlo e seguirlo. E nella maniera più assoluta lui non voleva correre un simile rischio: la scoperta era sua! E poi, adesso che lo conosceva, il tragitto gli appariva facile e lineare. Era impossibile sbagliarsi. Fece un nodo per marcare quanta sagola aveva svolto fin lì in modo da poter misurare in seguito l’esatta lunghezza del tunnel, quindi rifece la via del ritorno arrotolando con cura la cordicella sul rocchetto e senza smettere di pensare a quel dono favoloso ricevuto dal mare. 22 CAPITOLO 2 Messo il fuoribordo a tutto regime, Jean si diresse verso Marsiglia, lasciandosi schiaffeggiare il viso dall’aria e respirando a pieni polmoni. Per tutto il tragitto di ritorno si arrovellò su quale fosse a quel punto la mossa giusta da fare. Ogni tanto si esaltava, e per la gioia si scatenava in urla liberatorie. In quei momenti, ad occhi estranei, sarebbe sembrato senza dubbio un pazzo. Lui però non se ne curava: era emozionato, confuso ed i pensieri gli turbinavano senza sosta nel cervello in ebollizione. Gli avrebbero creduto? Ma a chi lo avrebbe raccontato? E che cosa avrebbe detto? Calma, bisognava ragionarci sopra per bene. Anche perché, in ultima analisi, poteva pure trattarsi di una fregatura: opera di un emerito cretino che si fosse divertito, magari di recente. E gli vennero in mente quegli illusi –che lui detestava- che scrivevano il loro nome dappertutto credendo così di immortalare il loro insignificante ed effimero transito in questo mondo. Poteva trattarsi di uno stupido scherzo, insomma. Ma no, questo non era possibile: già arrivare fino alla parte emersa della grotta non era certo facile; figurarsi mettersi anche a giocare col carboncino! Però ci voleva un esperto, uno serio, da consultare con discrezione. E che per giunta fosse un subacqueo di buon livello, diversamente come avrebbe potuto visionare i disegni ed i graffiti? Questo requisito avrebbe però alquanto ridotto la rosa degli studiosi da contattare nell’eventualità. Nondimeno, bisognava pur trovare qualcuno. E fino ad allora occorreva stare ben abbottonati. Non era certo il caso di sputtanarsi raccontando in giro anzitempo di chissà quale scoperta mirabolante, senza prima essersi accertato che non si trattasse di una bufala. Ma a chi rivolgersi? A chi chiedere? 23 «Hélène Fleury!» Il nome gli era balenato all’improvviso. «Ma certo, la dottoressa Hélène Fleury!» ripeté Jean, soddisfatto della scelta. Hélène era un’antropologa, anzi una paleoantropologa, come ci teneva lei stessa a precisare, che aveva conosciuto otto mesi addietro durante la prima edizione del Festival Mondial De L’Image Sous-Marine, ad Antibes Juan-Les-Pins. Lei aveva partecipato all’avvenimento accompagnata dal suo uomo, Marcel Beaucocq, un tipo sussiegoso con la puzza sotto il naso. Era così evidente la sua ipocrita condiscendenza, lui di Parigi, verso i provenzali, che Jean gli avrebbe volentieri stampato un pugno in faccia, anche se doveva onestamente ammettere che non era quella la vera ragione che l’avrebbe spinto a farlo. Si rammentò di aver parlato a lungo con lei, nei tre giorni del Festival, soprattutto quando non c’era nei pressi lo “scocciatore”, anche perché condividevano entrambi un’autentica passione per il mare e le immersioni, che quell’altro invece snobbava in favore dei cavalli e del golf. Per un attimo, Jean si lasciò andare a quel ricordo: gli piaceva Hélène, eccome se gli piaceva. Se n’era subito sentito attratto e gli era persino parso –ma forse era soltanto la sua immaginazione- che si trattasse di un sentimento reciproco. Se non fosse stato per l’onestà morale di lei, più che per la presenza del fidanzato, magari ci si sarebbe pure buttato. Tuttavia aveva deciso che avrebbe potuto anche esserle solo amico. Non l’aveva più rivista, però, benché lei abitasse nella sua stessa città. Ma di questo doveva rimproverare solo sé stesso, ammise. Infatti era lui che non l’aveva mai cercata, forse per paura di una nuova delusione. Ma ora era diverso. Jean era contento di aver pensato a lei: al di là di ogni altra considerazione, era proprio l’esperta che ci voleva. A parte ciò, scoprì di non averla affatto dimenticata, e se ne accorse dall’emozione che gli dava ancora il ricordo di lei. E adesso aveva un ottimo pretesto per rivederla. Chissà se stava ancora con quello? Gli venne in mente che già allora aveva 24 scommesso dentro di sé che non sarebbe durata: i due erano troppo differenti, come carattere, interessi, tutto insomma. E, malignamente, aveva immaginato che un tipo così fosse una frana anche a letto. Bene, avrebbe telefonato a Hélène appena toccato terra. Arrivato quasi alla fine della Corniche, Jean rallentò, imboccando il canale che immetteva al Vallon des Auffes, porticciolo costruito da pescatori italiani, uno degli angoli più suggestivi e meno conosciuti di Marsiglia. Lasciandosi alla sinistra il ristorante sul mare Epuisette, dove sovente andava a gustare delle ottime specialità marinare, transitò sotto il ponte e si ormeggiò alla piccola banchina. Gli piaceva molto quell’insenatura tranquilla e ben riparata, che considerava un Vieux Port in miniatura, tagliato fuori dalla confusione. Il Vallon des Auffes faceva parte di quei numerosi villaggi che l’agglomerato urbano di Marsiglia ha inghiottito nel tempo e che tuttavia era riuscito a conservare la sua autenticità. Racchiuso fra due compatte pareti di calcare che si aprivano sul mare, esso veniva considerato così al di fuori del resto della città che i suoi residenti, quando se ne allontanavano, solevano dire: «Salgo a Marsiglia». Centro anacronistico, circondato da una metropoli frenetica, era un’oasi di pace che offriva asilo a piccoli pescherecci e barche, molte delle quali venivano tirate a secco su piani inclinati di legno e cemento. Per la sua caratteristica di luogo quieto, era inoltre diventato un’attrazione turistica e culinaria. Jean abitava lì, in un bilocale in affitto posto sopra gli scivoli, per l’acquisto del quale era in trattative con la proprietaria. Aveva inoltre l’utilizzo di un ex magazzino per le reti da pesca situato di fronte alla banchina, che lui usava come garage e per tenerci l’ingombrante attrezzatura da immersione. Apprezzava in special modo il fatto di vivere in quel posto, a parte il vantaggio di trovarsi a due passi dal suo gommone, che poteva anche controllare dal suo terrazzo, l’angolo della casa che preferiva. 25 Lì sopra, nella buona stagione, ospitava spesso degli amici per i quali faceva delle memorabili grigliate di pesce. Lo specchio di mare antistante era minuscolo, tutti si conoscevano e lui aveva a volte l’impressione di stare in un teatro. L’appartamentino era arredato in maniera essenziale e dava l’impressione di una garçonnière: e in effetti, era quello il suo uso più frequente, benché Jean ci stesse bene anche solo per rilassarsi, magari con un buon libro. Sul terrazzo c’erano alcuni reperti archeologici che lui stesso aveva rinvenuto sott’acqua: una macina da mulino, un’antichissima ancora in pietra (un semplice sasso tondo, ben levigato e con un foro in mezzo), e un piccolo ceppo di piombo, quanto rimaneva di un ancorotto romano. La cosa che si notava di più nel soggiorno era un’anfora romana che faceva bella mostra di sé sostenuta da un semplice piedistallo in ferro battuto. Per un incredibile colpo di fortuna, l’aveva trovata a pochi metri di profondità, seminascosta da una prateria di posidonie, in una baia presso Callelongue. Aveva sedici anni ed era molto orgoglioso di essersela recuperata in apnea e da solo. Due anni più tardi, nel 1952, Jean, marsigliese verace, aveva trascorso la fine dell’estate e l’autunno a dare una mano al gruppo di sommozzatori del Comandante Jacques-Yves Cousteau che, con l’appoggio della mitica Calypso, lavorava al recupero di un’antica nave da carico greca affondata circa duemila anni prima al Grand-Congloué, uno scoglio desolato presso l’Isola di Riou. Jean aveva vissuto anche qualche settimana a Port Calypso, come pomposamente veniva chiamata la baracca attrezzata sul posto, onde poter proseguire i lavori sul relitto anche nella cattiva stagione, nonostante le terribili maestralate che sovente flagellavano quella rupe ostile. Jean era uno dei tanti volontari che prestavano a titolo gratuito la loro opera durante le vacanze o i fine settimana. Si appassionò così tanto a quel lavoro, che fornì con entusiasmo la sua collaborazione anche per quasi tutto l’anno successivo. Un giorno fu recuperata per caso un’anfora che conteneva 26 ancora del vino, l’unica intatta di tutto il carico di diecimila pezzi. Venne religiosamente aperta e per un momento tutti, assaggiando quel liquido insipido (aveva perso completamente l’alcol) ma bevibile, si sentirono nell’intimo “vicini” agli antichi contadini che l’avevano fatto fermentare, a coloro che l’avevano conservato nelle giare e ai marinai che avevano concluso in maniera tragica la loro ultima navigazione proprio in quel luogo. Fu esattamente in quegli attimi ispirati che Jean seppe cosa avrebbe fatto della sua vita: sarebbe diventato archeologo. Archeologo subacqueo. Il fatto di appartenere ad una famiglia benestante gli permise di trasformare in mestiere quello che fino ad allora pareva essere stato solo un hobby appassionante. Come é noto, non si tratta di una delle professioni meglio retribuite, ma al di là dell’aspetto economico era un lavoro che poteva dare molte soddisfazioni. Quindi, pur continuando a fornire nei momenti liberi il proprio apporto all’equipe di Cousteau, Jean si era iscritto alla facoltà d’archeologia di Aix-en-Provence, dove si era laureato cinque anni dopo. Partecipò in seguito a numerose campagne di ricerca sui siti di antichi naufragi, sia in Italia che in Grecia, ma non gli capitò più niente di simile al relitto del Grand-Congloué. Ora, quarantenne, cominciava a sentirsi insoddisfatto: da troppo tempo alla sua vita mancava uno stimolo importante. A volte gli pareva di aver girato un po’ a vuoto e aveva la sensazione di essere passato accanto alla sua grande occasione senza riconoscerla. Non che si desse pensiero più di tanto: oltre al suo lavoro che comunque spesso lo appagava, amava gli sports marini ed eccelleva nelle arti marziali. Dotato di un fisico prestante, tutto sembrava fuorché uno scienziato, forse anche perchè dimostrava dieci anni di meno. Aveva la mascella risoluta e la fronte alta incorniciata di corti capelli di un castano scuro. Gli occhi chiari, di un indefinibile colore grigio-azzurro, si esprimevano in uno sguardo franco che non mollava mai l’interlocutore. La bocca decisa aveva gli angoli appena piegati all’insù, tipici di chi è dotato 27 di un certo umorismo. L’insieme di questi elementi gli conferiva un aspetto da bravo ragazzo che poteva ingannare. E infatti parecchie donne cadevano vittime di una errata valutazione. Scapolo incallito, passava da un’avventura galante all’altra, anche se negli ultimi tempi avvertiva un vago senso di scontentezza. Sorseggiando un bicchiere di vino bianco fresco e comodamente allungato su di una sdraio del suo terrazzo, Jean stava facendo mente locale su come organizzarsi per la prossima visita alla sua grotta. Dopo aver tergiversato per un bel pezzo, infine si decise e formò un numero di telefono, in preda ad un esagerato batticuore, che lo irritò alquanto. «La dottoressa Fleury?» «In persona», rispose una voce gradevole. «Sono Jean Broussard, ti ricordi di me?» « Jean! E come no, ad Antibes! Non ci siamo più sentiti…A cosa devo questo onore?» «Hélène, dobbiamo vederci al più presto, ho urgente bisogno di parlarti». «Eh, quanta fretta», fece lei canzonatoria. «Non sarà mica un goffo pretesto per…». «Niente del genere, t’assicuro», tagliò corto Jean. «Peccato». La voce di lei manteneva un’intonazione canzonatoria. «Beh, se la metti così…», cominciò lui, insinuante. «Scherzavo». «Peccato, adesso lo dico io», sospirò Jean.«Ora parliamoci seriamente però». «Ti ascolto», lo invitò. «In realtà, non ci sarebbe poi tutta questa fretta, in fin dei conti la cosa ha aspettato per dei millenni. Però sono io ad essere impaziente, anzi, non sto più nella pelle». «Ma cosa mi tocca sentire! È davvero così importante?» Una nota di curiosità trapelò dalla voce di Hélène. 28 «Si tratta di una faccenda grossa, grossissima. Talmente incredibile che se te la raccontassi stenteresti ad accettarla per vera». «E tu prova a dirmela». «Non per telefono». «Che razza di segreto! Il fatto è che sono abbastanza presa; non è per dirti di no, ma devo preparare una conferenza che dovrò tenere fra qualche giorno. Magari ci vediamo in seguito». «No, dobbiamo incontrarci al più presto possibile. Ti prego, non te ne pentirai». «Ma perchè vuoi confidarti proprio con me?» «Perchè ti riguarda». «Beh, mi hai convinta. Quando?» concesse Hélène, la cui curiosità era ormai solleticata. «Domattina, se puoi. Ci possiamo trovare al Vieux Port, al Bar de la Marine, a metà della Rive Neuve, proprio di fronte alla fermata del ferry boat». «So dov’è. Ti va per mezzogiorno? » Intuendo la delusione di Jean, aggiunse: «Non posso farcela prima. Davvero». «Mi sta bene lo stesso. Magari mangiamo un boccone insieme?» «Ti ringrazio, ma sarà per un’altra volta. Credimi, faccio già un grosso sforzo per staccarmi un attimo dai miei impegni». «D’accordo. Sei un tesoro», si congedò Jean. Con la prospettiva di rivedere Hélène, Jean non riusciva più a stare calmo. Condotto da passi irrequieti si ritrovò al Vieux Port ben prima dell’ora fissata. Si attardò allora a gironzolare fra le bancarelle del pittoresco mercato del pesce. C’era una gran folla che curiosava o faceva acquisti. I pescivendoli decantavano la loro merce ed in effetti c’erano esposti pesci magnifici: saraghi ancora vivi, stupende orate e grandi dentici dai colori iridati. Granseole, aragoste, cicale e astici muovevano piano le zampe testimoniando la loro freschezza. Dappertutto si diffondeva l’acre odore iodato di cozze e arselle e quello più forte delle 29 spugne appena carpite dai fondali. Ma Jean, stornato da altri pensieri, vedeva vagamente tutto questo. Sei emozionato come un ragazzino, ammettilo, si rimproverò fra di sé mentre sulle labbra gli compariva un leggero sorriso. Sempre in notevole anticipo, si avviò al luogo dell’appuntamento. Gli sembrava che il tempo non passasse mai. Sedutosi ad un tavolino del Bar de la Marine, osservava distratto l’attività del porto, congestionato come sempre da un andirivieni di battelli da pesca e da diporto, oltre che dai barconi pieni di villeggianti diretti alle Calanques e dalle navette che traghettavano i turisti al Chateau d’If e all’Isola Ratonneau. Gli altri tavolini all’aperto erano occupati da alcuni marinai, coppie di fidanzatini, qualche famigliola, e da un gruppetto di chiassosi tedeschi in vacanza. Il ferry boat aveva appena mollato gli ormeggi con a bordo pochi passeggeri da trasportare sulla sponda opposta, di fronte al municipio. Proveniente da una vicina trattoria, un delizioso aroma di calamari fritti si spandeva nell’aria. Indifferente a quanto lo circondava Jean stava sulle spine, dando frequenti occhiate al suo orologio. Hélène era in ritardo, di ben cinque minuti: sarebbe poi venuta? si chiese con smania. Chissà se era cambiata, si domandò con inquietudine. E intanto lanciava sguardi impazienti in direzione del Quai des Belges. Infine, la scorse mentre avanzava sul lungomare con aria spavalda e facendo girare parecchie teste. Jean si sorprese a pensare che quella elegante falcata gli ricordava un felino. Gli venne un tuffo al cuore. Aveva conosciuto Hélène in versione autunnale, avvolta da un abito abbastanza castigato, mentre ora indossava con disinvoltura un vestitino aderente e scollato, che metteva in mostra un seno perfetto e le lasciava scoperte le gambe lunghe e abbronzate. Era proprio uno schianto! Pareva molto più giovane dei suoi 31 anni e, pur non essendo una bellezza classica, possedeva un fascino irresistibile. Una leonina capigliatura castana le scendeva sulla schiena come una cascata. Nell’ovale del 30 viso risaltavano gli occhi verdi, ironici e indagatori. Sotto il naso regolare, le labbra piene erano capaci di dispensare incantevoli sorrisi che avevano il potere di sciogliere chiunque. Dotata di un’intelligenza fuori dal comune, Hélène Fleury, nonostante la giovane età, era considerata un’autorità nel suo campo. Collaborava spesso con autorevoli riviste scientifiche e aveva al suo attivo numerose pubblicazioni che il più delle volte facevano scalpore, la qual cosa contribuiva ad aumentare il suo prestigio, specie all’estero. Viaggiava di frequente per tenere conferenze nel corso delle quali, oltre che per i suoi accurati resoconti, si faceva notare anche per il suo charme singolare. Il rovescio della medaglia era però troppo spesso costituito dall’atteggiamento ipocrita di certi suoi colleghi, in prima fila i maschilisti per natura, poi quelli semplicemente invidiosi del suo successo, e per finire, quelli che con lei ci avevano provato, ma invano. Orbene, tutti costoro tendevano di continuo a sminuire o a ridicolizzare il suo lavoro generando delle polemiche sfibranti. A ciò contribuiva non poco il suo aspetto: il fatto che sembrasse poco più di una ragazzina, non la aiutava certo a farsi prendere sul serio. Il suo settore era la paleoantropologia, dottrina che però, per come veniva di consueto applicata allora, a Hélène sembrava abbastanza sterile o addirittura morta, proprio come i soggetti di cui si occupava. Lei al contrario ne aveva una visione molto più aperta e dinamica. Era, tanto per cominciare, fermamente convinta che l’uomo primitivo o arcaico possedesse delle conoscenze di molto superiori a quelle riconosciutegli dalla scienza ufficiale. Riteneva cioè che templi, dolmen, piramidi e molti altri monumenti, fossero stati costruiti con criteri matematici in stretta relazione con l’astronomia, scienza della quale gli antichi -sosteneva con passione- dovevano avere una grande padronanza. E, affermava, grazie al fatto che avessero una capacità di percezione sconfinante forse con la telepatia e che unissero questa dote ad una sensibilità ancora “animalesca”, del tutto scomparsa 31 nell’uomo odierno, sapevano riconoscere i punti di energia benefica o negativa che scaturivano dalla Terra. Per dare un senso scientifico a queste sue teorie, anzi per lei certezze, da tempo Hélène si era applicata allo studio dei campi elettromagnetici e dei nodi di Hartmann, facendo ampio uso, insieme a moderni contatori Geiger, di bacchette da rabdomante, pendolini, amuleti e quant’altro secondo lei avevano usato gli antenati, anche lontanissimi. Spesso, soprattutto durante i suoi interventi ai congressi, Hélène suscitava imbarazzanti perplessità, se non pesante ironia da parte di parecchi colleghi. Accanto a graditi riconoscimenti da parte di importanti personalità, talvolta non mancavano esimi studiosi che con il loro codazzo di servili assistenti le riservavano un’aperta ostilità, dato che all’epoca certe teorie innovative venivano decisamente osteggiate, anche per via di una diffusa malafede. Lei però tirava dritto senza lasciarsi smontare. E senza immaginare che vent’anni dopo tali orientamenti avrebbero cominciato ad essere presi in seria considerazione, destando grande interesse anche fra la gente comune. Per di più, Hélène aveva scoperto per caso di possedere notevoli doti di sensitiva. Si considerava quasi una strega, come ammetteva scherzando, ma non troppo, con gli amici. Quella sua naturale predisposizione la spingeva ad eseguire, sia con l’aiuto del pendolo che della bacchetta, degli esperimenti inquietanti che in verità non mancavano di impensierirla o di lasciarla addirittura attonita. Hélène individuò Jean che le faceva cenno con la mano e si diresse sorridendo al suo tavolino, mentre per un istante parve interrompersi il fitto brusìo degli avventori del bar. Jean si alzò in piedi constatando che con i tacchi lei era alta come lui, che pure faceva più di un metro e ottanta. Dopo averla baciata su entrambe le guance scostò con galanteria una sedia per farla accomodare. Questa manovra gli fruttò più di un’occhiata invidiosa. «Desiderate?» domandò il cameriere, subito accorso. «Beh, è l’ora dell’aperitivo», osservò lei.«Un Martini, grazie». 32 «Per me, un pastis», ordinò Jean. «Allora, che cosa c’è di tanto importante da non poter proprio aspettare qualche giorno?» gli domandò Hélène con un largo sorriso. «Senti, è complicato da spiegare: mi prometti di ascoltarmi fino in fondo senza interrompermi?» «Sarà difficile, ma cercherò di farlo il meno possibile. Coraggio dunque», lo incitò sedendosi più comoda. Cercando di rievocare la sua avventura evitando per quanto poteva le divagazioni, Jean le raccontò della sua scoperta casuale senza omettere nulla, neppure i suoi dubbi. Quand’ebbe finito, Hélène appariva sbalordita, incapace di mascherare la sua meraviglia. «Ufff!», sospirò estenuata, come se avesse trattenuto il fiato durante tutto il dettagliato resoconto. «Non ho parole. Ho bisogno di bere», disse poi prendendo il suo bicchiere. Dopo aver mandato giù un lungo sorso, rifletté: «Se quei disegni risalissero sul serio alla preistoria sarebbe un colpo favoloso. Tuttavia, in effetti, potrebbe sempre trattarsi dello scherzo di un buontempone». «In questo caso, io lo chiamerei un bel figlio di puttana», precisò Jean. «Comunque, te l’ho detto, questo rischio c’è». «Qualcosa mi dice però che non ci troviamo di fronte ad una mistificazione», affermò lei, fiduciosa. «Ho anch’io questa sensazione». «Bisognerebbe comunque andare a controllare per bene». «È per questo che ti ho chiamata». Hélène rimase pensosa per qualche minuto. Poi, per smorzare l’eccitazione, scherzò: «Certo che se hai ideato tutta questa storia con l’intenzione di mostrarmi una nuova versione delle stampe cinesi in un appartamento da scapolo, devo ammettere che sei davvero un bell’originale». «Che cosa ti viene in mente!» si schermì lui arrossendo in maniera impercettibile, dato che un’idea del genere non l’aveva certo scartata a priori. «Non ci resta che andare a vedere. E bisogna anche fare pre33 sto», concluse d’impulso la giovane donna ridiventando seria. «Sono più che d’accordo. E dire che prima ero io a metterti fretta», osservò soddisfatto Jean. «E invece per causa tua adesso la premura ce l’ho anch’io. Devo ammettere che il tuo racconto mi ha conquistata. Sai, sono rimasta turbata quando mi hai parlato della grotta, e non solo per quel che contiene. Devo dirti che stanotte ho fatto un sogno molto strano ma di un realismo impressionante. Mi trovavo anch’io in una caverna che, per quanto la percorressi, continuava all’infinito senza che potessi scoprirne il segreto. Singolare coincidenza, non trovi? Non so perché ma ho come la sensazione che questa notizia l’aspettassi da tempo. Ridicolo, no? Eppure ora, in questo preciso momento, sento una specie di richiamo; una sorta d’imperativo per una cosa che debbo assolutamente fare. Mi sembra assurdo, ma è così». «Non so davvero cosa risponderti, tranne che mi fa molto piacere che tu mi creda. Devo confessarti che t’immaginavo più scettica, e fino all’ultimo ero comunque dubbioso se dirti tutto oppure lasciar perdere. Ma te la senti, piuttosto? Il sifone è lungo 120 metri, misurati». «Bisognerà pure che ci provi, anche se finora non sono mai stata in grotte subacquee. È molto pericoloso?» «Non troppo, se si è prudenti. Vorrei comunque portare con noi un altro sub esperto. In tre è meglio. Sei libera domani?» «Possiamo aspettare dopodomani?» domandò con aria di scusa. «È che non posso mollare tutto così, mi ci vuole un minimo di tempo per organizzarmi. E poi ho un impegno che non posso proprio rimandare, credimi». «Il fatto è che non so se il tempo reggerà. Per ora è bellissimo, speriamo che duri così. Comunque, vada per dopodomani. Tu hai tutta l’attrezzatura per l’immersione?» «Sono ben equipaggiata, eccetto che per le bombole, che d’abitudine prendo a nolo». «Quelle te le procuro io. Hai una torcia?» 34 «Ne ho due». «Portale entrambe: in grotta non si ha mai abbastanza luce». «D’accordo. Devo scappare ora. Ma non ti dico quanto sono ansiosa di entrare là dentro!» Jean alzò il bicchiere e invitò Hélène a fare altrettanto. Il leggero tintinnìo dei cristalli suonò di buon auspicio. «Alla grotta», brindò lui. «Alla preistoria», fece eco lei. «Non parlarne con nessuno, mi raccomando», disse Jean a Hélène, che si era già alzata. «Puoi contarci. Ciao». Detto ciò, la giovane si avviò seguita dagli sguardi ammirati degli uomini e da qualche occhiata astiosa di donna. Nonostante un lungo giro di telefonate, Jean non riuscì a trovare alcun amico libero per il giorno fissato. A quel punto, non rimaneva allora che ingaggiare un sommozzatore. Aveva infatti deciso che comunque sarebbero dovuti essere in tre, sia per portare con più facilità tutto il materiale necessario, sia perché sarebbero stati in due a tenere d’occhio Hélène, non troppo esperta per quel tipo di immersione. Stavolta voleva fare le cose per bene, senza rischi e senza intoppi. E pazienza se un estraneo sarebbe stato messo a parte del segreto, tanto la scoperta, dopo essere stata avallata da un autorevole parere, avrebbe pur dovuto essere divulgata. Come al solito, portò a caricare le bombole d’aria compressa al Vieux Plongeur, in Corso Lieutaud, e lì espose il suo problema. Saltò fuori che era libero un certo Lucien che però non aveva lasciato nemmeno un recapito telefonico, dicendo che si sarebbe fatto vivo lui. Jean aveva bisogno di una risposta immediata, per cui chiese se non ci fosse disponibile qualcun altro. Invece proprio in quella, chiamò Lucien per vedere se ci fossero novità, così i due vennero messi subito in contatto diretto. Si diedero quindi appuntamento per l’indomani mattina proprio 35 lì al negozio poiché Jean doveva comunque passarvi a ritirare le bombole cariche: due bibombola e un mono. Già che c’era, fece provviste di batterie nuove per alimentare cinque lampade subacquee. Di primo acchito, Lucien non piacque per nulla a Jean, che quasi si pentì di averlo confermato senza conoscerlo prima, essendosi accontentato soltanto di sapere che aveva a che fare con un sub professionista. Di statura media, Lucien aveva dei lineamenti grossolani, con una bocca volgare e gli occhi piccoli e neri come il carbone. I capelli ricci e biondi, tenuti incolti, facevano apparire più grande la sua testa sostenuta da un collo taurino piantato su di un fisico robusto e tarchiato. Doveva avere meno di trent’anni ed era assai poco espansivo, nonché piuttosto privo d’umorismo. Tutto sommato, però, tale riservatezza non dispiacque a Jean: quello non sembrava proprio il tipo che se ne andasse attorno a millantarsi, e per il momento era senz’altro più saggio non dire niente in giro, almeno finché non fosse confermata l’autenticità del ritrovamento. Ad ogni buon conto l’archeologo si era sbilanciato il meno possibile e aveva descritto all’altro solo la grotta, senza accennare alle pitture rupestri: avrebbe constatato di persona. Lucien era talmente parco di parole che Jean solo con gran fatica, e ottenendo in risposta alle sue domande per lo più grugniti e riluttanti cenni del capo, era riuscito a sapere qualcosa di lui. Per esempio, che di cognome faceva Moriani, che era originario di Bonifacio, in Corsica, e che si trovava per il momento in licenza per un mese a Marsiglia, dove si annoiava. Sei anni prima era stato assunto dalla SOGETRAM (Società Generale des Travaux Sous-Marins) per la quale aveva anche eseguito delle prospezioni sottomarine sul fondale di fronte a Mogadiscio, in Somalia. A Jean, quella parve una buona garanzia, unita al fatto che Lucien aveva già una discreta esperienza di speleologia subacquea. «Ma sì», si disse alla fine.«Che m’importa se non è il massimo della simpatia: qui si va a lavorare!» 36 CAPITOLO 3 Alle nove di mattina si ritrovarono tutti e tre al molo dove li attendeva lo Zodiac di Jean. Le condizioni atmosferiche stavano cambiando. Il tempo si era fatto incerto e un leggero vento di grecale aveva sporcato il cielo. Decisero comunque di partire lo stesso, tanto più che nella zona dove erano diretti sarebbero stati abbastanza ridossati dalle onde. C’erano da caricare nel gommone due bibombola, un monobombola, e tre voluminose sacche di attrezzatura personale, oltre alle dotazioni di bordo e a dell’altro materiale. «Tienimi questa, per cortesia, e sistemala in maniera che non sbatta troppo», disse Hélène, passando a Jean una pentola a pressione al cui interno rumoreggiavano oggetti di vetro. «Cos’è, ci hai preparato una bouillabaisse?» «Sciocco», fece lei di rimando. «Qui dentro ci sono barattoli per raccogliere gli eventuali campioni di carbon fossile che spero di trovare nella caverna. Ci permetteranno di datare con precisione i disegni», aggiunse sottovoce mentre Lucien trafficava in banchina con l’ultimo borsone da trasferire sul battello. «Inoltre, ci sono un asciugamano e un blocchetto di appunti, completo di penna, è ovvio». «Ci starebbero allora dentro anche un paio di rullini? Potrei fare così un maggior numero di foto», domandò lui togliendo da un sacchetto di plastica due pellicole. «Nessun problema, dai qua». Mentre lo Zodiac filava e Lucien sembrava starsene sulle sue, Hélène e Jean erano di ottimo umore e carichi di aspettativa per quella che si preannunciava come un’avventura davvero eccitante. Giunti a destinazione, Jean filò l’ancorotto e ne saggiò la 37 tenuta. Iniziata quindi la laboriosa vestizione, approvò mentalmente la meticolosità con la quale Lucien aveva approntato gli autorespiratori per tutti controllando la pressione dell’aria e gli erogatori. Hélène indossò la sua muta con movimenti calibrati e lenti, senza fretta; sembrava come in attesa, il corpo attraversato da un piacevole brivido di anticipazione. A Jean non era sfuggita la sottile catenina d’oro con incastonato un dente di squalo tigre dai bordi seghettati: un ornamento assai poco femminile che si adagiava leggero su un seno rigoglioso, che non gli sarebbe per niente dispiaciuto accarezzare. Si tuffarono uno dopo l’altro, le mani ingombre di oggetti: Lucien portava la pentola a pressione mentre Jean teneva la sua Nikonos corredata da un sacchetto stracolmo di lampadine per il flash. Aveva al polso anche la bussola per provare a fare qualche rilevamento. Inoltre ognuno di loro reggeva una lampada (le altre stavano nei retini allacciati attorno alla vita). Si radunarono all’entrata della grotta e, a mezzo dei segni convenzionali usati da tutti i sub, si confermarono reciprocamente che tutto procedeva bene. Non appena imboccarono il sifone, si misero a nuotare decisi, Jean in testa quale “capo cordata”, Hélène in mezzo con Lucien che chiudeva la fila. Fu un’immersione senza storia. Jean aveva descritto per sommi tratti il percorso, per cui, pinneggiando lenti ma con regolarità, in pochi minuti raggiunsero la strettoia alla base della cavità a forma di imbuto. Quindi, superata con accortezza la strozzatura, riemersero uno dopo l’altro fra le stalattiti. Saliti che furono sul gradino roccioso, si liberarono in fretta degli autorespiratori, delle pinne e delle cinture di piombo, avendo cura di sistemare il tutto al riparo da ruzzoloni accidentali. Jean suggerì anche, per economizzare le batterie, di usare non più di due torce alla volta, o quantomeno di non tenerle sempre accese, specie quando ce n’era già una in funzione sullo stesso punto. I tre si guardarono attorno con attenzione e reverenza. Con38 tagiati com’erano dalla solennità di quell’ambiente, venne loro spontaneo parlare sottovoce. «È stupenda!» esclamò Hélène mentre un ulteriore fremito d’eccitazione le percorreva la spina dorsale. «Anche se non ci fossero stati i disegni, sarebbe comunque valsa la pena di nuotare fin qua». «Quali disegni?» domandò stupito Lucien. «Li vedrà fra poco», disse Jean. «Magnifica, magnifica», continuava a dire Hélène. «Proprio bella», si lasciò scappare perfino il taciturno Lucien, scuotendosi dalla sua apparente apatia. Dopo un lungo momento contemplativo, ognuno con la sua lampada in mano, e le altre due di riserva nei retini dei due uomini, il gruppetto avanzò verso il punto in cui Jean aveva visto le raffigurazioni. «Dove sono, accidenti?» sbuffò questi impaziente.«Ah, eccoli, infine!» esclamò dirigendo il suo raggio luminoso in una precisa direzione. «È incredibile», mormorò Hélène, soffermandosi a rimirare i cavalli abbozzati in maniera semplice ma straordinaria da scarni tratti di carboncino.«Si tratta di sicuro d’arte paleolitica. Direi che sono autentici… ma certo che lo sono… ed ecco gli ingredienti usati dagli antichi artisti», aggiunse esultante. «Carbone e argilla: qui per terra è pieno di queste sostanze». E la giovane si mise a raschiare con scrupolo dei campioni di carbone di legna e palline d’argilla rossa, riponendo poi il tutto nei vasetti e scrivendo le relative annotazioni sulle etichette. «Qui, guardate qui, venite!» chiamò tutto eccitato Jean. «E anche qui!» fece eco Lucien, che non sembrava offeso per non essere stato messo prima al corrente del vero scopo di quell’esplorazione. Sulle pareti rocciose erano ovunque raffigurati animali, alcuni individuabili con facilità, mentre altri sembravano sconosciuti. «Questo qui sembra un camoscio! E quello è sicuramente un 39 bisonte!» si entusiasmò Hélène come una ragazzina.«Ma qui c’è di tutto! E quei cervi allora! Che bellezza, sono sbalorditivi!» «Caspita, ma questi sono pinguini!» esclamò strabiliato Jean.«Ma com’è possibile?» «E pensare che queste meraviglie sono state preservate e sono giunte fino a noi solo perché l’acqua del mare non è riuscita a sommergerle» osservò trionfante Hélène. I tre erano estasiati e storditi, mentre i loro sguardi scoprivano sempre nuovi disegni, molti dei quali erano semplici graffiti. Jean aveva cominciato a scattare alcune foto. E ogni volta, per un’infinitesima frazione di secondo, la caverna veniva illuminata come dal lampo di un temporale. «Aspettate un attimo!» Era la voce alterata di Lucien. «Qualcuno vi ha presi in giro. Guardate: posso tracciare anch’io dei segni come questi!» e fece scorrere un dito sulla roccia, lasciando un solco ben visibile. «Nessuna fregatura, stia tranquillo», asserì Hélène, dopo essere subito accorsa a controllare. «È normale che nelle caverne profonde il calcare urgoniano, deteriorato si presenti rammollito in superficie, sicché è facile lasciarvi tracce profonde magari soltanto con l’aiuto di un pezzetto di legno abbastanza duro. Meglio ancora con una pietra aguzza. Niente di strano quindi: è tutto regolare. Devo ammettere però che, con il suo avvertimento, per un attimo mi ha messo davvero paura: chissà cosa m’ero immaginata». Dopo un lungo girovagare, lo sguardo di Hélène cadde (ma lei avrebbe giurato che fosse stato calamitato da una forza irresistibile) su di un oggetto oblungo e arrotondato. Prontamente lo raccolse e lo ripulì. «Ma è ambra!» quasi gridò. E poi, appena l’ebbe esaminato meglio, mormorò con venerazione: «È un amuleto. Un amuleto sacro. Che fattura squisita…». Con fare sicuro impugnò il talismano con la mano sinistra mentre l’indice e il pollice trovavano con naturalezza posto in due leggere depressioni sulla superficie levigata. 40 Incuriositi dall’esclamazione di Hélène i due uomini si avvicinarono. Nel contempo, la donna scorse nella bassa volta rocciosa sopra di sé numerose mani dipinte in “negativo”. «Vedete?», spiegò lei, con una voce indefinibile, quasi mascolina. «Chi ha fatto questo lavoro per prima cosa si riempiva la bocca con una tintura vegetale o mista con terre colorate. Quindi poggiava la mano sulla parete. Infine ci sputava sopra, spruzzando ben bene i contorni delle dita e del palmo. Togliendo infine la mano, in mezzo alla tintura rimaneva l’impronta di quella». «Pare che alcune di queste mani siano mutilate», osservò Lucien. «È probabile che l’artista, che spesso era uno sciamano, ripiegasse le dita», spiegò Hélène, come ispirata.«Chissà, magari per formare un qualche segnale magico. Del resto, anche la disposizione di tutte queste mani sembra rispondere ad una logica che ci sfugge; forse forniva un’indicazione misteriosa, allarmante… oppure era un ammonimento…», concluse, con un timbro di voce così strano e sommesso che fece accapponare la pelle agli altri due. In effetti, in quel momento Hélène appariva come trasfigurata, la mano che teneva l’amuleto lo stringeva così forte che le nocche erano diventate bianche. «Ma cosa sta succedendo adesso?» sussurrò Jean con voce alterata.«La mia bussola è impazzita all’improvviso, come se qui ci fosse un potente campo elettromagnetico!» Hélène, però, non mostrò di averlo udito. Come se fosse inesorabilmente attratta da una forza arcana, con lentezza, ma risoluta, avvicinò la sua mano destra con il mignolo, l’anulare e il medio ripiegati su se stessi, fino a farla combaciare con una delle mani “monche” dipinte. Nello stesso istante, intorno al trio cominciò ad aleggiare una nebbiolina azzurra, quasi un ispessimento dell’aria stantia carica di millenni ed ora anche di energia elettromagnetica. L’atmosfera si fece greve, come in un ambiente saturo di gas pronto a deflagrare alla minima scintilla. Un ronzio indefinito cominciò in 41 sordina e proseguì in crescendo, mentre si spandeva all’intorno una insolita fragranza penetrante, simile a quella dell’Armeria pungens, la rosa di mare, pianta spinosa che alligna sulle spiagge mediterranee. Man mano che il suono vibrante aumentava d’intensità, un acre odore di ozono si sovrappose al primo profumo. Ai tre cominciò a girare la testa, mentre i contorni della caverna diventavano evanescenti, fino a sparire del tutto. Pur perdendo rapidamente conoscenza, Hélène, Jean e Lucien intuirono che stava capitando qualcosa di terribile. Ci fu un lampo accecante. Allora si misero ad urlare tutti insieme, o almeno credettero di farlo. In realtà, emisero un grido disperato quanto silenzioso mentre provavano la sconvolgente sensazione di precipitare nel nulla, sempre più giù, risucchiati da un vortice mostruoso e implacabile che li trascinava ad una velocità inconcepibile attraverso una voragine senza fine. 42 CAPITOLO 4 Il gommone di Jean rimase ormeggiato sopra la grotta per tutto il giorno seguente senza destare sospetti di sorta o incuriosire qualcuno. In pratica nessuno lo notò o, se lo notò, non ci fece caso. Sopraggiunta la sera mutò la direzione del vento, che ora proveniva da nord ovest. Verso la mezzanotte si scatenò una devastante maestralata fuori stagione che prese a flagellare con furia la costa. Il vento impetuoso, ingolfandosi nella calanca di Sormiou, investì lo Zodiac, sballottandolo come un tappo di sughero. Il moto ondoso scalzò dal fondale l’ancorotto che era stato legato ad una cima lasciata un po’ corta e la corrente spinse il battello verso il largo. Cinque giorni dopo il gommone venne avvistato in alto mare da un peschereccio, che lo prese a rimorchio. ( Notizia apparsa su “ Le Provençal”, autorevole quotidiano di Marsiglia, 25 giugno 1974 ) MISTERIOSA SCOMPARSA DI DUE RINOMATI STUDIOSI La dottoressa Hélène Fleury, antropologa di fama internazionale, attesa ieri ( 23 c.m.) ad Arles, dove doveva tenere una conferenza, non vi è mai giunta. La sua segretaria, signorina Marie Aubert, ha dichiarato che due giorni prima la dottoressa era andata ad effettuare un’immersione di studio con un certo professor Broussard, ma non ha saputo aggiungere altro di utile per gli inquirenti. Si è appreso che il professor Jean Broussard è un noto archeologo subacqueo. Stando alle informazioni raccolte dalla polizia nel negozio di attrezzature nautiche dove il ricercatore 43 aveva fatto caricare le bombole per l’immersione, e al Vallon des Auffes, dove il professore abita e tiene ormeggiato il suo battello pneumatico, pare che con i due studiosi ci fosse anche una terza persona, certo Lucien, sulla cui identità al momento non si sa altro. Comunque, tutte le testimonianze concordano nell’affermare che nel gommone, marca Zodiac, che ha preso il mare la mattina del 21 c.m., verso le ore 9.30, e a tutt’ora non rientrato, ci fossero una donna e due uomini. Date le pessime condizioni del mare, si teme per la loro sorte. ( “Le Provençal” , 28 giugno 1974 ) DRAMMA IN MARE È stato rinvenuto da un peschereccio, molto al largo, in direzione della Corsica, un battello pneumatico Zodiac che, a quanto risulta dai documenti trovati a bordo, sembrerebbe essere proprio quello appartenente al professor Broussard. Nessuna traccia però dei suoi occupanti. Il mistero quindi s’infittisce. Le operazioni di soccorso, scattate non appena dato l’allarme, ma alquanto ostacolate dalle proibitive condizioni del mare dei primi giorni, proseguono ora più agevolmente. Tuttavia, si ignora dove i sub abbiano effettuato la loro immersione; si pensa comunque che essa sia avvenuta in qualche punto nella zona delle Calanques. Risulta che sia il professor Broussard che la dottoressa Fleury erano due provetti subacquei. Ancora nulla si sa del terzo uomo. Le indagini continuano, con la collaborazione straordinaria di… ( “Le Provençal”, 8 luglio 1974 ) I TRE SUB SCOMPARSI A più di due settimane dalla loro scomparsa, non si hanno tutt’ora notizie della dottoressa Fleury e del professor Broussard, né tantomeno dell’uomo, Lucien – la cui sparizione non è stata finora denunciata da alcuno - che si suppone aver accompagnato i due studiosi. Le ricerche, sia in mare che sott’acqua, finora non 44 hanno avuto nessun esito. Gli inquirenti ipotizzano che… Nel settembre del 1985, Henry Cosquer, un subacqueo professionista che dirigeva un prestigioso centro di immersione a Cassis, si inoltrò spinto dalla curiosità in un cunicolo seminascosto da una fitta schiera di gorgonie, scoperto per puro caso a 36 metri di profondità, sotto la Pointe de la Voile a Cap Morgiou, senza tuttavia poterlo esplorare del tutto. Fu soltanto in una grigia giornata del mese seguente che Henry raggiunse la cupola di una straordinaria grotta, che oggi porta il suo nome, in onore della sua eccezionale scoperta. Con sua enorme sorpresa, la prima cosa che trovò una volta emerso nella caverna, fu l’attrezzatura di tre subacquei. La sua prima reazione fu di grande disappunto per essere stato preceduto, tant’è che si guardò intorno per vedere dove fosse quella gente. Poi però, esaminando meglio quell’equipaggiamento, si accorse che si trattava di roba obsoleta, di vecchio tipo. Figurarsi! Erogatori Royal Mistral, monostadio col doppio tubo corrugato! E vecchi Aquilon di riserva. E questo è un Dacor Olympic. Ma non se ne trovano più in giro, sono ormai pezzi da museo! osservò con stupore. E queste bombole poi, in così pessimo stato! Henry non sapeva spiegarsi il fatto, si sentiva frastornato, confuso. Ci volle un lungo momento perché le implicazioni connesse a quel ritrovamento cominciassero ad assumere un significato e che lui iniziasse a comprendere. E i subacquei, allora, dove cavolo sono andati? finì infatti per chiedersi con una certa angoscia. Se sono entrati – e dev’essere stato molto tempo fa -, se le bombole sono ancora qui, allora non sono più usciti, concluse sempre più inquieto. Col timore di imbattersi in tre cadaveri, Henry esplorò la caverna concentrandosi soprattutto sul suolo, aspettandosi da un momento all’altro di fare la macabra scoperta. Invece, con suo grande sollievo, non trovò nessun corpo. Fu soprattutto per questo motivo che, per quella volta, a Henry sfuggirono i disegni sulle rocce. 45 Forse, ragionò poi, coloro che sono entrati qua dentro avevano delle bombole di riserva e per il momento hanno lasciato sul posto quelle scariche, col proposito di recuperarle in seguito. A quel punto, volle effettuare un controllo: uno degli erogatori aveva un manometro a frusta che sembrava segnare circa 100 atmosfere, ma forse era guasto. Facendo un po’ di fatica a svitare le manopole ossidate allacciò uno dei suoi erogatori, munito di lettore per la pressione dell’aria, a una delle vecchie bombole. Qui dentro c’è ancora aria più che sufficiente per uscire dalla grotta, commentò sempre più perplesso dopo aver visto l’ago spostarsi sul quadrante. Quindi l’ipotesi più probabile è che, per ragioni sconosciute, se ne siano andati con altri autorespiratori. Se poi hanno deciso di abbandonare tutto qua dentro, i motivi possono essere molteplici: l’eventualità più sfortunata è che siano periti tutti e tre in un incidente stradale o altro mentre tornavano a casa. Ma no! Il ragionamento non regge! E le pinne, allora, e i piombi? E gli erogatori? Non potevano avere tutto doppio, non ha senso. È anche certo però che qui dentro non c’è nessuno, né vivo né morto. Con la testa in subbuglio per l’inatteso rompicapo, Henry lasciò tutto come stava e intraprese la via del ritorno. La partenza di Henry Cosquer per i Caraibi era imminente, così questi, impegnato nei preparativi, non ebbe tempo di pensare più di tanto all’enigma che lo angustiava. Veleggiò sotto ingaggio per alcuni anni, soprattutto per trasferire imbarcazioni alle Antille e nel Mediterraneo. Non ebbe occasione di ritornare alla caverna che tre anni più tardi. L’attrezzatura misteriosa era sempre là ma, tanto, questo lo aveva dato per scontato. Decise allora di liberare una volta per tutte la sua grotta da quell’equipaggiamento “estraneo” che, era ormai evidente, nessuno sarebbe più venuto a riprendersi. Pur amando il gioco degli scacchi non amava i rebus, e quello ne era uno, eccome! Henry non si accorse che la rubinetteria di un Aquilon, per un caso fortuito, era entrata in contatto con le due tacche di un potente amuleto d’ambra che giaceva semisepolto per terra e 46 che nessuno aveva notato prima. Ma anche se Henry l’avesse visto, non c’era motivo per dare alla cosa la minima importanza. In realtà, si era chiuso un circuito, stabilendo un collegamento diretto fra l’acciaio dell’erogatore e l’ambra del talismano, per cui quell’autorespiratore era stato sottoposto a una forte carica di energia per ben 14 anni. A Henry furono necessari tre viaggi per portare via il tutto, e non cercò neppure di indagare sulla causa del fastidioso formicolio che lo pervase mentre trasportava il bibombola saturo di energia elettromagnetica. Fu solamente nel luglio del 1991 che Henry Cosquer riuscì a fare la prima immersione nella grotta in tutta tranquillità accompagnato da sua nipote e da due dei suoi istruttori subacquei. E, finalmente, notò le pitture rupestri, rendendosi conto di aver fatto una scoperta a dir poco sensazionale. I titoli sui giornali si sprecarono: “20.000 anni sotto il mare”, “Una Lascaux sottomarina presso Marsiglia”, “I misteri della cattedrale del passato”, “La grotta dei tesori”, “Favolosa scoperta in fondo al mare”, “I nostri antenati delle Calanques”, e così via. Era la gloria. Fatto curioso, soltanto in quel periodo a Henry tornò in mente un lontano fatto di cronaca del primi anni Settanta riguardante tre sub scomparsi in circostanze misteriose. Per la prima volta, prese in considerazione la possibilità che forse l’attrezzatura “dimenticata” nella grotta appartenesse a loro. Ma, si disse, ormai che importanza aveva, cosa poteva cambiare? Quella gente era davvero sparita nel nulla, si trattava di una storia ormai vecchia, dimenticata. A che pro, rivangarla? E poi, che prove c’erano che fosse effettivamente roba loro? Beh, per la verità, se proprio si voleva indagare fino in fondo, dai numeri di matricola delle bombole, si sarebbe potuto risalire ai proprietari. Ma se sul serio le cose fossero andate così, lui, Henry Cosquer, seppur in buona fede, aveva rimosso senza autorizzazione un “corpo del reato”, o qualcosa del genere. Era quindi passibile di persecuzione da 47 parte della legge. Per un istante, s’immaginò interminabili interrogatori e tutto il resto. Meglio allora starsene zitto: in fondo, non aveva fatto niente di male, ma in cambio potevano derivargliene fastidi a ripetizione, anche seri. Non si poteva mai sapere come andasse a finire, una volta presi nell’ingranaggio della giustizia. E poi, ci si poteva figurare il via vai di investigatori, funzionari e poliziotti, tutti a far rilevamenti e soprattutto casino nella sua preziosa grotta. Ma stiamo scherzando? Quindi, saggiamente, Henry tenne il segreto per sé. 48 CAPITOLO 5 Hélène, Jean e Lucien giacevano immobili, tuttora avvolti nella nebbiolina azzurrognola. Man mano che quella svaniva iniziarono a svegliarsi, alquanto storditi. Per terra, due delle lampade proiettavano ancora il loro raggio immobile. Lucien fu il primo a riaversi e chiese con un certo sforzo: «Siamo ancora vivi?» «Sembrerebbe proprio di sì», gli rispose Jean, alzandosi in piedi e barcollando come un ubriaco. «Ma cosa ci è successo?» riprese Lucien loquace in modo insolito. «È come se fossi stato inghiottito da una turbina». E, dopo aver inspirato alcune volte col naso, aggiunse: «Si continua a sentire questo odore, come di ozono combusto…». Dopo essersi tastato il corpo qui e là, Jean azzardò: «Credo che abbiamo perso conoscenza, ma non so per quanto tempo… e neppure perché. Io, comunque, per il momento mi sento a posto, a parte un po’ di mal di testa. E tu, Hélène, stai bene?» «Sì, mi pare di sì», confermò lei movendosi come una sonnambula. Poi, scuotendosi: «È stato sconvolgente. Ma che cosa stavamo facendo?» «Stavamo guardando le mani pitturate in negativo, credo», le rammentò Jean. «Sì, certo», concordò Lucien alzando la testa e impugnando una delle torce subacquee. «Ma dove sono finite?» «Saranno da qualche altra parte», spiegò Jean rischiarando le stalattiti che li sovrastavano. Quindi aggiunse: «Però, mi sembra molto strano che noi si sia svenuti tutti e tre insieme. Chissà qual è stata la causa di ciò. Beh, l’importante è che siamo tornati di nuovo normali. Almeno spero», concluse dubbioso. 49 «Ehi, non riesco a trovare nessun altro disegno», fece perplesso Lucien, che nel frattempo si era allontanato di poco. «Guardi meglio», consigliò Jean, mentre faceva ruotare il suo fascio di luce. «Però, nemmeno io ne vedo», ammise, vagamente allarmato. «Forse ci siamo tutti spostati senza accorgercene», provò a spiegare Lucien. «Nient’affatto», interloquì con vivacità Hélène. «Adesso mi ricordo: quando abbiamo perso i sensi, noi ci trovavamo proprio qui, in questo medesimo punto: riconosco bene questa stalattite a sfoglia sopra di noi». «Non è possibile, ti stai sbagliando di sicuro», la contraddisse Jean. «Magari fosse così, sarebbe tutto più semplice», rispose lei soprappensiero. «Lucien! Bisogna cercare meglio», insistette Jean. «E allora me lo trovi lei un qualunque fottuto sgorbio!» sbottò Lucien, che cominciava a innervosirsi. Senza rilevare il tono aspro dell’altro e dopo un’attenta occhiata, Jean fu costretto a confermare esitante: «È vero, i disegni sembrano tutti spariti, non riesco a scorgerne neppure uno. E non vedo neanche graffiti di sorta». «Tutto questo è inspiegabile», esclamò Hélène. «Ragazzi, qui non ci sono nemmeno le mani. Eppure il posto è questo, dove sono io; adesso me lo ricordo proprio bene, non c’è da sbagliarsi. Non riesco a capire…». Cominciava a sentirsi agitata, perciò si concesse una pausa di riflessione: «Procediamo con calma: qui abbiamo la macchina fotografica e la pentola con un vasetto già mezzo pieno di carbone. Però non vedo questa sostanza sparsa per terra: mi rammento che proprio là, sotto i piedi di Lucien, c’era un focolare fossile. Svanito pure quello, pare. Insomma, niente più mani e niente disegni. Ragazzi, non so davvero cosa dire», concluse sconfortata, mentre cercava di ricacciare un’indefinibile paura i cui subdoli tentacoli la stavano già avvolgendo. 50 «Eppure, a parte le pitture, a me la grotta sembra tale e quale a prima», tagliò corto Lucien. «E invece non è così, è proprio questo il punto». La voce soffocata di Jean giunse da dietro una delle colonne calcaree. «Cosa c’è, ancora?» domandò Lucien, con un moto d’insofferenza. «Ho paura che ci sia qualcosa di peggio della sparizione dei disegni», continuò preoccupato Jean, ignorando l’atteggiamento dell’altro. «Che ti prende? Dillo anche a noi», fece Hélène, oltremodo inquieta. «Signori, qui manca semplicemente l’acqua», annunciò con tono lugubre Jean. «Come, manca l’acqua!», quasi gridò Lucien. «Cosa vuol dire, che manca l’acqua?» «Madonna santa, è la pura verità», confermò angosciata Hélène, che lo aveva raggiunto. Si ritrovarono tutti e tre a fissare, senza comprendere, la conca a imbuto dalla quale erano giunti pinneggiando e che adesso appariva del tutto svuotata del mare: eppure il suo livello avrebbe dovuto quasi lambire i loro piedi. «Forse il mare si è ritirato», ipotizzò Jean pensieroso. «E questo cosa significa?» domandò Lucien, frastornato. «A volte», spiegò senza convinzione, «uno tsunami agisce così: il mare retrocede per un bel tratto, anche diverse miglia, e poi arrivano le grandi ondate, che tutto travolgono. Ma no, qui è impossibile che si verifichi un fenomeno del genere: in Mediterraneo non è mai successo. E poi, guardate qui», disse, scendendo per qualche metro giù per la scarpata. «Il fondo della grotta è solo appena un pò umido. Non può certo essersi asciugato così, di colpo!» «Le nostre mute, però, sono ancora bagnate », notò Lucien. «Già, è vero», confermò Hélene. «E pure le nostre torce erano ancora accese. Segno che dalla 51 nostra perdita di coscienza al risveglio non dev’essere passato molto tempo», ragionò Jean. Proprio in quella, la sua lampada illuminò una colonia di pipistrelli che pendevano dalla volta. «E questi?» osservò, sempre più disorientato. «Non ditemi che sono arrivati a nuoto!» Lucien azzardò, con un filo di speranza: «Forse esiste un’apertura che ci è sfuggita e che da qui non si vede». «E come ti spieghi allora la scomparsa delle bombole?» incalzò Jean, passando spontaneamente al tu. «E le cinture, e le pinne? Le avevamo poggiate proprio qui, no? Su questo siamo tutti d’accordo, vero? E invece è tutto scomparso, volatilizzato!» «Già, la nostra roba non c’è più. Cristo, ma cosa sta succedendo?» si domandò sconvolto Lucien. «Non ci capisco più nulla», ammise sconfortata Hélène. Se ne stettero un po’ senza profferire parola, rifiutandosi di accettare quella situazione assurda, incomprensibile. Alla fine, Jean si alzò e consigliò con un’espressione tetra: «Per intanto, forse è meglio uscire di qui. Alla fin fine non siamo morti. O almeno lo spero. Ci conviene inoltre portare con noi ogni cosa. Non si sa mai: potrebbe anche essere tutta la nostra ricchezza». «Ma questo è un brutto incubo!» sbottò Lucien, allargando le braccia con fare impotente. Hélène, scrollandosi dai suoi pensieri, si accorse di tenere ancora in mano l’amuleto d’ambra. Aprì allora la cerniera della muta e se lo fece scivolare fra i seni. Jean raccattò la sua Nikonos montata su una staffa insieme al flash, mentre Lucien agguantò la pentola a pressione il cui contenuto ballonzolava ad ogni movimento. Cominciarono quindi a scendere con una certa cautela per la scarpata. Le pareti della cavità a forma di cono rovesciato si presentavano piuttosto accidentate, sicché i tre ebbero qualche difficoltà a raggiungere e oltrepassare la strettoia, nella quale dovettero strisciare. «Accidenti, ma vi rendete conto?» imprecò Lucien. «Da qui eravamo appena passati nuotando agevolmente! Adesso, invece, 52 stiamo arrancando con affanno su queste rocce di merda che scivolano come se fossero ricoperte, appunto, di merda. Merda di pipistrello! Siamo vittime di un fenomeno soprannaturale, ve lo dico io!» Quando imboccarono il cunicolo, il percorso in leggera pendenza, divenne più praticabile. Man mano che scendevano nel tunnel, per lo più ben asciutto, scendeva anche il loro morale. Erano coscienti di trovarsi in una situazione dalla quale la logica pareva bandita. Non esistevano spiegazioni razionali di ciò che vedevano intorno a loro. Era tutto al di là della loro comprensione. Dopo qualche minuto di camminata circospetta, Jean fece notare un albore lontano: «Quello laggiù dev’essere l’ingresso. Chissà che una volta lì non riusciamo infine a raccapezzarci». «Dovremmo trovarci a più di trenta metri di profondità», esclamò demoralizzato Lucien mentre illuminava la volta del cunicolo. «Invece niente pesci, niente spugne e niente mare. Niente di niente, Cristo! Ma vi pare possibile? Questo è uno scherzo diabolico!» L’ultimo tratto del cunicolo si restrinse alquanto, obbligando i tre a procedere chinati. Dato che non ce n’era più bisogno, spensero le lampade. Appena usciti dalla cavità, vennero aggrediti dalla luce accecante del sole. Stettero, incerti e storditi, a guardare di fronte a loro, schermandosi gli occhi col palmo della mano. Ciò che videro, li lasciò esterrefatti: sotto di essi, a perdita d’occhio, si estendeva una grande pianura. Si trovavano su una specie di terrazza pietrosa che dominava un paesaggio di grande respiro, mentre alle loro spalle incombeva una ripida parete di roccia. «Ma questa è una savana.» gemette Lucien, disperato. «Si può sapere dove cazzo siamo capitati?» «Direi piuttosto una prateria», puntualizzò Jean, senza una particolare ragione. In lontananza si scorgevano branchi di animali che pascolavano nella vasta estensione erbosa punteggiata qui e là da boschi 53 di conifere. In distanza, sulla destra, il panorama uniforme, del tutto sconosciuto, era interrotto da parecchi rilievi e qualche guglia scoscesa. «Ma il mare, il nostro mare, dov’è», si chiese con disperazione Jean. «Ci dovrebbe essere. Anzi, dovremmo esserne sommersi! Dio santo, tutta questa storia è assurda, inaccettabile. E chi ci capisce qualcosa? E chissà ora dove ci troviamo». «Davvero non sapete dove siamo?» La voce di Hélène sembrava giungere da una lontananza infinita. «Ah! Perché tu forse lo sai?» la provocò Lucien aggressivo. «Sembra assurdo», continuò Hélène, come trasognata «eppure ho la netta impressione di averlo già visto questo scenario, tale e quale come ci appare ora. Mi è - come dire? - familiare. Non so spiegarmelo, per niente, forse l’ho soltanto sognato. Comunque sia, osservate bene quei monti a destra: veramente non vi dicono nulla?» «No. Dovrebbero?» Lucien era sulle spine. «Esaminate con attenzione quello più elevato: non lo riconoscete?» «Mai visto, sul serio…», disse esitante Jean. «Neppure io, per la verità…», mormorò confuso Lucien. «Ve lo dico io, allora. Quello più alto è l’Isola di Riou…». «Ma come!» la interruppe Jean, che però subito ammutolì afferrato dal dubbio. Implacabile Hélène riprese a descrivere: «Continuando, ancora più in là si può riconoscere l’Isola Piana, mentre il rilievo tutto a destra è l’Isola di Jarre». All’accenno di proteste, seguì un lungo momento di silenzio, con i due uomini che fissavano scettici eppure ansiosi il gruppo di alture. Alla fine Jean ammise, scuotendo incredulo la testa: «Temo che tu abbia ragione, quelle sono proprio le isole che conosciamo. Così come questa, dietro di noi, è sempre la stessa bastarda grotta nella quale eravamo entrati a nuoto. E naturalmente, sopra di noi, c’è lo strapiombo della Pointe de la Voile. 54 Cristo, è proprio come se il fondo del mare si fosse prosciugato all’improvviso!» «No, Jean, non all’improvviso», lo corresse mesta Hélène. «Questo panorama che ci sta di fronte, esiste tale e quale da millenni». «E con questo cosa vorresti insinuare?» la aggredì Lucien. «Voglio dire che, non chiedetemi come, siamo finiti nel passato. E molto indietro nel tempo, temo. Mio Dio!» concluse Hélène, mentre la voce le si spezzava in un singhiozzo. «È l’unica spiegazione che so dare di questa follia...». «Coosa?» saltò su Lucien.«Vuoi farci credere che siamo capitati in un’altra epoca? Ma è pazzesco quel che dici, non te ne accorgi?» «Giudica tu», rispose Hélène con tono spento, facendo con la mano un gesto circolare verso l’orizzonte. «Ma se è come stai dicendo, siamo andati a ritroso di migliaia di anni!» esclamò Jean alterato. Lucien boccheggiava: «Migliaia di…? Ma sei ammattito pure tu?» «Mi pare tutto evidente, purtroppo», ribadì Jean con rassegnazione. «E su cosa ti basi per uscirtene con una simile enormità? » volle sapere Lucien, aggressivo. «Per cominciare, è stato stabilito con certezza che una volta il livello del mare si trovava molto più in basso rispetto alla linea costiera che conosciamo noi. Per questo motivo è plausibile che ora il mare lambisca la fine di questa stessa pianura. Mi pare infatti di vederlo luccicare laggiù in fondo all’orizzonte. Saranno 7-8 chilometri o forse più da dove siamo noi». «E quando il mare si sarebbe trovato così in basso?» domandò Lucien, mortalmente pallido. «Durante l’ultima glaciazione: venti, trentamila anni fa», interloquì Hélène con voce atona e lo sguardo perso nel vuoto. «Venti…trenta…ma cosa racconti! Gente, questo è un incubo! 55 Datemi un pizzicotto e ditemi che fra poco mi sveglierò», gridò Lucien più spaventato che incollerito. «Ti darei pure un bel calcio nel culo se davvero potesse servire a qualcosa», disse cupo Jean. «Temo che invece Hélène abbia ragione. Non saprei aggiungere altro». «Ma come è potuta accadere una cosa del genere, perdio?» esplose Lucien con la fisionomia alterata. «Forse adesso posso spiegarvelo io», intervenne debolmente Hélène, il cui viso era cereo. «Anche se quanto sto per dirvi mi sembra inconcepibile. Infatti non avrei mai creduto che una cosa del genere potesse un giorno capitare a me, a noi». «Cazzo, siamo fregati! Fregati!» urlò Lucien, dando in escandescenze. Ma poi, calmatosi un po’, si avvicinò per ascoltare. Hélène si sedette, affranta, e cominciò a parlare con voce rotta: «Con buona probabilità sono stata io a scatenare tutto questo, con un’azione involontaria. Eh già, ho fatto proprio una bella cavolata». «E che cosa mai puoi aver fatto, tu?» la interruppe Jean. «E, nel caso, chi saresti tu, per disporre di un potere capace di provocare un simile guaio?» «È soltanto un’ipotesi, badate, ma al momento non so dare un’altra spiegazione. Seguitemi con attenzione, e non interrompetemi. Avete presenti le mani dipinte? Si? Ebbene, quelle mani erano disposte in modo da formare una specie di anello zodiacale, chiamiamolo così, in mancanza di un termine più appropriato: un disegno magico e cabalistico il cui scopo era di indicare, di circoscrivere, una porta…». «Una porta?» si lasciò scappare Jean. «Una porta, sì. O meglio, un portale. Ma un portale molto speciale». «Un portale temporale!» esclamò l’archeologo. «Sì, una cosa del genere», riprese Hélène. «Ne avevo solo sentito parlare ma non pensavo che un simile fenomeno potesse verificarsi davvero. Comunque alcune di quelle mani, che ci sem56 bravano monche, avevano in realtà tre dita ripiegate. Bene, quello costituiva un indizio preciso, un segno potente ed energetico, una specie di accesso al portale, se vogliamo. Ora rammento perfettamente che mi ero alzata: credevo di sognare e mi sentivo spinta da una forza alla quale non riuscivo ad oppormi. Solo che non si trattava di un sogno vero e proprio, bensì di un mio “ricordo organico” vecchio di migliaia d’anni. Forse per questo mi è così familiare lo scenario che ci sta di fronte. Quando - e sapevo benissimo quello che venivo indotta a fare - ho ripiegato anche le dita della mia mano destra e l’ho sovrapposta a quella dipinta, devo aver provocato una deformazione spazio-temporale. In pratica è come se avessi girato una chiave e aperto una porta. La porta del tempo, appunto, che in qualche modo ci ha traghettati fin qui, in questo remotissimo passato». «E tu avresti combinato tutto questo casino col semplice gesto di poggiare la mano su un disegno?» Lo scetticismo di Lucien era evidente. «Non solo con la mano», disse Hélène, estraendo con un gesto fiacco il talismano. «Ecco, osservate questo amuleto che avevo raccolto poco prima del disastro. È ricavato dall’ambra, una resina fossilizzata. E l’ambra ha enormi proprietà. Nell’antichità si credeva che fosse dotata di vita propria, che fosse una cosa viva, insomma. Era considerata sacra perché si pensava che contenesse l’essenza della vita stessa - forse perché spesso racchiudeva antichissimi insetti conservati alla perfezione - e che quindi fosse da associare con il tempo e con i cicli astronomici. Per alcuni, essa costituiva addirittura il “quinto elemento”, che fa da coesione fra la Terra, l’Aria, il Fuoco e l’Acqua. In breve, è una sostanza magica assai efficace per contribuire a creare potentissimi campi di forza in cui può avvenire di tutto, come purtroppo abbiamo sperimentato». Fece una pausa per raccogliere le idee mentre i due uomini ascoltavano allibiti. Esibendo ancora l’amuleto riprese: «Ora, le vedete queste due piccole depressioni nelle quali, se si prende l’oggetto in mano, 57 così come sto facendo io, il pollice e l’indice trovano posto con naturalezza? Sembra un atto banale, no? E invece agendo in questo modo è un po’ come mettere in contatto i poli positivo e negativo di una pila: così il talismano si attiva, generando un pieno di energia che, se sollecitata ulteriormente, può benissimo - e ora purtroppo ci credo - aprire dimensioni diverse e del tutto sconosciute». «Incredibile!» commentò Lucien respirando a fondo. «Però è lo stesso un po’ dura da mandare giù». «A quel punto», continuò Hélène, «è bastato che, tenendo nella giusta maniera l’amuleto con la mano sinistra, io toccassi con la mia destra la mano dipinta. Lo straordinario è che mi sentivo guidata da una volontà arcana. Tutto ciò deve aver scatenato le forze cosmiche e imperscrutabili che hanno precipitato nelle profondità del tempo noi e gli oggetti che ci stavano vicino. Ecco, dev’essere andata pressappoco così. Inoltre, poiché quel punto della grotta era anche un luogo di culto, di sicuro vi era già presente un fortissimo campo elettromagnetico che gli antichi sciamani, pur privi di moderni strumenti di misurazione, sapevano senza dubbio riconoscere e valutare. Che proprio lì in effetti ci fosse una notevole perturbazione magnetica lo avrebbe provato anche il comportamento della bussola: mi sbaglio, Jean?» «Giusto: girava come impazzita», confermò lui laconico. «Infine, ci sarebbe un’altra cosa», aggiunse. «Controllate la data sui vostri orologi: oggi è il 21 giugno». «E allora?» chiesero all’unisono i due uomini. «È il solstizio d’estate, o meglio, lo era quando siamo entrati nella grotta. Ciò non significa infatti che sia lo stesso giorno pure nell’epoca in cui ci troviamo ora». «In effetti non sembra proprio estate, l’aria è frizzantina», osservò Jean. «Comunque», continuò Hélène, «il solstizio d’estate è, come saprete, il giorno più lungo dell’anno, cioè il giorno in cui, per la sua particolare posizione rispetto al sole, la Terra riceve da 58 questo il più massiccio bombardamento di radiazioni elettromagnetiche. Queste ultime possono fare da catalizzatore contribuendo parecchio all’esito di un fenomeno come quello che ci ha appena coinvolti. Magari un giorno o una settimana prima o un giorno o una settimana dopo non sarebbe successo nulla, chi può saperlo? Insomma, a metterci nei guai sarebbe stato un raro concatenarsi di forze, un concorso di circostanze estremamente sfortunato. Sarebbe questa, me ne sto convincendo sempre più, la ragione del nostro viaggio a ritroso del tempo». «Ma non ci posso credere. Tutto questo è inconcepibile! Cose dell’altro mondo!» commentò Lucien incapace di accettare la realtà. Hélène e Jean lo fissarono sconsolati e silenziosi. Quello alzò la voce infuriato: «Siamo fregati, non è così? Fottuti proprio per bene!» «Così pare», ammise asciutto Jean. «Ah, ma che bella situazione!» insistette Lucien, che cominciava ad intuire il suo stato di naufrago temporale e che perciò era in preda al più nero sconforto. «La dottoressa gioca alla maga per farci ritrovare nel Paese delle Meraviglie, come Alice. Peccato che in realtà ci abbia messi tutti nella merda. Adesso però, bella mia, ce ne tiri fuori». Ciò dicendo assunse un atteggiamento minaccioso. «Datti una calmata, vuoi? Così non si risolve niente», lo consigliò Jean. «State tranquilli per favore», li interruppe Hélène. «Lasciatemi riflettere, vi prego». Lucien parve ammansirsi un poco e si piazzò di fronte all’antropologa. Con fare conciliante, le disse: «Insomma se ho capito bene, tu hai compiuto questo prodigio seguendo una specie di rituale, giusto? Allora, stando così le cose, la soluzione c’è. Adesso noi si torna nella caverna, ci piazziamo esattamente nello stesso fottuto posto e assumiamo tutti la medesima posizione che avevamo prima che ci toccasse questa malasorte, proprio come 59 belle statuine. Tu rifai al contrario gli stessi gesti graziosi, senza dimenticare di tenere bene in mano quell’ambra del cazzo, e noi torniamo felici e contenti nel futuro. È semplice, no?» concluse fissandola con aria di sfida. Hélène non reagì alla provocazione. Invece, aggrottando la fronte, sembrò meditarci su. Infine disse: «L’idea potrebbe non essere malvagia. Purtroppo, proprio nella grotta mi sembra irrealizzabile». «E perché di grazia non sarebbe possibile? Forse perché l’idea è mia?» la affrontò Lucien, gli occhi spiritati. «Perché per prima cosa la grotta non è più come prima: non ci sono più, per esempio, le mani pitturate. O meglio, non sono ancora state fatte». «E provarci comunque facendo a meno di quelle?» suggerì speranzoso Jean. «Non saprei, proprio non saprei, abbiate pazienza un momento», li scongiurò la giovane, il cui cervello stava galoppando al massimo. Se ne stettero tranquilli e taciturni per alcuni minuti, ognuno perso nei propri pensieri poco allegri. Dopo aver vagliato con scrupolo le varie possibilità Hélene ruppe il silenzio: «Nella caverna non si può agire, sarebbe troppo pericoloso». Lucien ritornò alla carica: «E io dico che bisogna tentare». «E io vi ripeto che la cosa non è fattibile», asserì con fermezza Hélène. «Anche se riuscissimo a tornare indietro, cioè ad andare avanti, insomma, a pervenire di nuovo nel nostro tempo, come potremmo essere certi di ricomparire nella nostra epoca nel momento esatto in cui l’abbiamo lasciata?» «Che ci frega del momento esatto, basta che ci ritroviamo nell’anno giusto», argomentò sicuro Lucien. «Lucien rifletti un attimo», spiegò con gentilezza Hélène. «Se ci materializzassimo nella grotta alcune ore, o giorni, perfino settimane dopo essere precipitati nell’abisso temporale nel quale ora come ora ci troviamo, potremmo sempre recuperare il nostro 60 equipaggiamento subacqueo che è rimasto laggiù. E non ci sarebbero altri problemi». «Certo che no, è quel che dico io», approvò quello. «Ma se invece tornassimo molti anni più tardi?» intervenne Jean, il quale cominciava a intuire il ragionamento di Hélène. «In quel caso la nostra attrezzatura potrebbe non essere più funzionante: bombole semivuote, erogatori arrugginiti…Afferri il concetto?» «Ma…», cercò di obiettare Lucien, senza riuscire ad opporre un valido argomento. «E se, al contrario, noi ricomparissimo là dentro ancor prima di esservi effettivamente entrati nuotando», riprese Hélène con una logica serrata, «foss’anche un solo minuto prima, ci troveremmo nella grotta privi dell’equipaggiamento necessario per uscire, quindi prigionieri senza speranza, condannati ad una morte orribile, considerato inoltre che nessuno saprebbe dell’esistenza della caverna, né di noi chiusi là dentro. Per riassumere, se ci avesse seguito nel passato pure il nostro corredo al completo, o quantomeno gli autorespiratori, avremmo senz’altro potuto giocare questa carta. Viceversa, fare tale tentativo nella nostra condizione sarebbe del tutto insensato e suicida». L’implacabile coerenza di quelle argomentazioni fece crollare le speranze di Lucien che la prese assai male. Una rabbia sorda e impotente s’impadronì di lui; cominciò a gridare, scosso a tratti da singulti: «E così questa stronza, dopo aver giocato con le nostre vite non può nemmeno rimediare alla sua cazzata imperiale. Maledizione e stramaledizione!» «Su, calmati adesso, forse una soluzione la troviamo», provò a rabbonirlo Jean. Lucien si sedette e si abbandonò a singhiozzi liberatori. Ma anche gli altri non stavano meglio. Tutt’altro. 61 CAPITOLO 6 Dotato più degli altri di una mente pratica, Jean reagì per primo: «Sentite: ci siamo persi chissà dove nel tempo ma abbiamo la fortuna di essere ancora vivi. Cerchiamo di restarlo, questa dovrebbe essere la nostra priorità su tutto. Non sappiamo nulla sull’ambiente che ci circonda, e che perciò è pieno d’incognite. Possiamo comunque arguire che da queste parti circolino animali di ogni tipo e forse pure uomini, magari pericolosi». «Anche bestie feroci?» domandò Lucien allarmato. «Non me ne stupirei affatto», rispose Jean. «In ogni caso, anche se il clima non mi pare propriamente estivo, la giornata è bella e senza vento. E il sole scalda abbastanza». Così dicendo, si tolse la muta e la mise ad asciugare su un masso. Rimanendo in costume da bagno commentò: «Non si sta affatto male sapete, c’è un buon tepore. Vi consiglio di fare come me: con le mute asciutte vi troverete meglio. Ora sono gli unici indumenti che possediamo, ed è già una fortuna che ci siano rimasti almeno questi. Come riparo, per il momento c’è la grotta. A questo punto sarebbe opportuno fare l’inventario di quel che ci resta. Dobbiamo prendere atto che queste poche cose costituiscono tutti i nostri averi in questo nuovo mondo». Per dare l’esempio, cominciò ad allineare i vari oggetti, aiutato da Lucien, che stava così reagendo allo sconforto. Intanto Hélène, ultima a spogliarsi perché alla disperata ricerca di uno sbocco, stava facendo lavorare il cervello a ritmo febbrile. Convinto che bisognasse in qualche modo farsi coraggio l’un l’altro, Jean disse con una sicurezza che era lungi dal provare: «Se affronteremo come si deve le avversità ce la caveremo. Dunque, i nostri tre coltelli sono senz’altro quanto di più prezioso abbiamo: 62 ci saranno di sicuro utilissimi. Dobbiamo averne grande cura dato che non esiste alcuna possibilità di rimpiazzarli». Le mute, composte di giacche, salopette, cappucci e calzari, furono appese ad asciugare ai rami di alcune piante, insieme ai tre giubbotti equilibratori Fenzy muniti di fischietti di plastica e di bombolette di anidride carbonica. Sopra una roccia piatta vennero adagiate le maschere, i boccagli, i due profondimetri, una bussola (che sembrava avesse ripreso a funzionare), i coltelli nei loro foderi, la pentola contenente i vasetti per la campionatura, il piccolo asciugamano, il blocchetto per appunti, la penna a sfera e le due pellicole. Jean afferrò d’impulso queste ultime e, in un accesso di rabbia, fece il gesto di scagliarle lontano. «Aspetta un momento!» lo bloccò Hélène. «Anche quelle potrebbero tornarci utili». «Ma davvero?» fece lui sarcastico. «Conosci nei dintorni un buon laboratorio di sviluppo?» «Statemi bene a sentire, adesso», disse lei con foga, ignorando la battuta. «Non so davvero come farò, ma anche se per il momento questo mi appaia utopistico, sappiate che io non dispero di poter trovare una via d’uscita. Me lo sento». «Auguriamoci sul serio che sia così», mormorò Lucien. «E allora», riprese Hélène «non buttiamo via nulla: perfino gli oggetti che ci sembrano inutili potrebbero al limite servire come merce di scambio. Non dimentichiamoci che quasi di sicuro avremo a che fare con dei primitivi. E poi», disse rivolta a Jean «metti che sul serio si riesca a tornare a casa: pensa alla documentazione fotografica utile alla scienza che potremmo riportare con noi». «Come no. E poi le conferenze, i libri, la gloria. Dici niente», rispose Jean con amarezza. «Beh, perché non illudersi? Male non fa. Sempre che le emulsioni di gelatina dei film non risentano dei trasferimenti temporali. Quindi, teniamoci pure la Nikonos col suo bravo flash, nonché questo retino pieno di tante belle lampadine». 63 «Ognuno di noi», soggiunse Hélène, «ha il suo orologio, e anche questi oggetti potranno assumere un grande valore, specie se riusciremo a sincronizzarli con le ore effettive del presente. Magari, per verificare, potrò costruire una meridiana. Tutto ciò che posso dire per adesso è che, dall’altezza del sole, dovrebbe essere la tarda mattinata. Calcolando le ore di luce e osservando la posizione in cui sorge l’astro, si dovrebbe riuscire a capire in che mese, o almeno in che stagione siamo». Lucien che desiderava sentirsi utile, finendo di allineare le ultime cose, segnalò: «Non dimentichiamo che ci sono pure cinque torce e due retini». «Giusto», disse Jean. «Le batterie delle tre lampade che abbiamo utilizzato fin qui saranno in parte consumate. Rimangono però due torce a piena potenza. D’ora innanzi sarà consigliabile usarne soltanto una alla volta, fino al suo esaurimento, a cominciare da quelle che abbiamo già adoperato. E solo quando ne avremo davvero bisogno». «Qui c’è dell’acqua, chi vuol bere?» annunciò Lucien che aveva trovato poco più in là un rivoletto che scaturiva dalla roccia e si raccoglieva in piccole pozze naturali. Tutti bevvero con avidità. «Bisognerà provvedere anche al mangiare», fece presente Jean aggrottando preoccupato la fronte. «Chissà cosa troveremo qua intorno: come vegetazione, non mi sembra affatto la macchia mediterranea. Sarà necessaria una ricognizione». «Sì, occorrerà pensare al da farsi», concordò Lucien, che adesso appariva ansioso di cooperare. «E tu Hélène sei sempre in meditazione?» le chiese Jean. Constatando che in effetti era tutta concentrata, le si sedette accanto. Lei lo guardò con aria interrogativa. Allora le disse: «Mi viene in mente di aver letto una volta di un progetto, denominato Philadelphia Experiment, che la marina americana aveva messo in atto nel 1943, mi pare, cioè in piena guerra. Era stato creato un potentissimo campo magnetico, nel bel mezzo del quale era stato posto addirittura un cacciatorpediniere completo 64 di equipaggio. Ebbene, la nave sparì e fu notata, per un breve periodo, a centinaia di miglia di distanza. La cosa strana era che i numerosi osservatori ufficiali, che guardavano dall’esterno del campo di forza, non scorgevano più la nave ma solo l’enorme impronta dello scafo nell’acqua, l’unica cosa rimasta bene in evidenza. Si trattava però di spostamenti spaziali, cioè realizzati sulla distanza, non temporali. Almeno credo». «Non ne avevo mai sentito parlare. Continua…» «Tuttavia qualcosa dovette andare storto. Sembra che i marinai dell’unità in questione alla fine siano impazziti, e sulla vicenda calò il segreto militare. Mi parve allora che l’intera storia avesse dell’incredibile e la accantonai. Adesso non la penserei più così. Secondo te un fatto del genere potrebbe presentare delle analogie con il nostro caso?» «Potrebbe sì. Hai visto tu stesso la bussola. Nella grotta era senza dubbio attivo un forte campo naturale di energia. Di quest’argomento mi sono occupata a lungo, anche se mai avrei immaginato di sperimentare su me stessa, ed in maniera così drammatica - dato che ho coinvolto pure voi due - certe teorie formulate da alcuni studiosi di fama. Secondo costoro, non si può escludere che l’attrazione fra le molecole possa venire alterata temporaneamente da un campo magnetico abbastanza potente. Il che significherebbe la traslazione della materia in un’altra dimensione. Del resto, ogni qualvolta ci imbattiamo in fenomeni di materializzazione per noi inspiegabili, e dei quali esiste tutta una casistica ben documentata, come per esempio le apparizioni degli UFO…» «Dai, anche la fantascienza, adesso!» saltò su Lucien interrompendo Hélène. «Non ho mica tanta voglia di scherzare, sai?» «Neppure io», rispose la giovane, seria. «Come dicevo, eventi di questo tipo sono stati studiati e menzionati in rapporti che le autorità preferiscono tenere segreti. Quel che volevo rilevare, è che ogni volta che si è verificato quel genere di fenomeni, si è notato che essi erano sempre accompagnati da gravi turbe 65 magnetiche. È perciò ragionevole supporre che questo enorme dispiego di energia possa distorcere l’elemento tempo. È da molto che si sospetta che il magnetismo sia responsabile in modo diretto di queste metamorfosi dimensionali». «Basta pensare al Triangolo delle Bermude», s’intromise Jean. «Proprio così. Ci sono luoghi, sempre gli stessi, dove avviene la maggior parte dei naufragi o degli incidenti inspiegabili. Queste aree sprigionano forze elettromagnetiche anomale, uno o anche più campi, che generano una specie d’attrazione fatale fra scogli e navi. Oppure fra navi e chissà che cosa. In seguito, una sorta di rete mimetica elettronica copre ogni relitto cancellandone ogni traccia. E di “trappole”, sul tipo del famoso Triangolo, nel mondo ce n’è diverse. In queste zone perfino gli aerei scompaiono, anch’essi inghiottiti da presumibili deformazioni spazio-temporali. Un fenomeno, sempre notato dai piloti e regolarmente riferito alle torri di controllo prima di svanire nel nulla, era che la strumentazione di bordo impazziva». «Come la mia bussola». «Come la tua bussola, certo. Ti racconto alcuni casi: esiste un rapporto che parla di un aereo di linea che in pieno giorno si è schiantato nell’acqua bassa davanti ad una spiaggia molto affollata e quindi piena di testimoni; ebbene, di esso non si riuscì mai a trovare il minimo indizio atto a provare che una simile sciagura fosse veramente avvenuta: ne corpi, né qualsiasi relitto. Oppure, c’è anche l’episodio dell’aereo che, in fase di avvicinamento all’aeroporto, era entrato in una zona luminosa anomala, scomparendo per dieci minuti dal radar. Dopo l’atterraggio ci si accorse che tutti gli orologi dei passeggeri erano indietro di dieci minuti». «Anche questo ci riporterebbe un po’ alla nostra vicenda, mi pare», osservò Jean. «Non saprei. Ci potrebbe essere un’affinità, sì. E questo mi fa ricordare di un’aviatrice, una certa Carolyn Cascio, la quale appena decollata dall’isola di Turk, vicino alle Bahamas, a causa 66 di un’inversione del tempo ebbe l’occasione di osservare sotto di sé la medesima isola, in un momento in cui l’aeroporto non era ancora stato costruito». «Sentite un po’», intervenne spazientito Lucien «e se rimandassimo ad un altro momento questi discorsi dotti e ci occupassimo invece di cose terra-terra quali, per esempio, il cibo? Fra non molto avremo fame». «Hai ragione anche tu», ammise Hélène.«Ma noi non stiamo dissertando a vuoto: cerchiamo di capire innanzitutto come siamo finiti qui e, di conseguenza, vedere se ci è possibile andarcene come siamo venuti». «E ora sei convinta che questo sia attuabile?» si interessò speranzoso Lucien. «Non corriamo. Però ci sto pensando». «Sì, certo, ci stai pensando», fece quello dubbioso. «Intanto però l’unica cosa sicura è che ci troviamo ancora nelle Calanques. Solo che non sappiamo quando. Voi dite ventimila anni fa. E perché non nell’era dei dinosauri, e cioè molto prima che sulla faccia della terra comparisse l’uomo? Questo sarebbe ancora peggio, non è vero?» «No, non credo che sia così», ragionò Jean. «Altrimenti forse il mare non si troverebbe così in basso». «Sarà… Quindi niente dinosauri. Ma allora festeggiamo! Ragazzi, che culo incredibile che abbiamo avuto: abbiamo viaggiato a ritroso “solo” di ventimila anni, invece che di milioni!» gridò Lucien con occhi stralunati che mettevano paura. I suoi nervi cominciavano a cedere, e lui stava di nuovo accalorandosi, e stavolta di brutto. «Ora smett…». Jean troncò a metà la frase, irrigidendosi. «Cristo…», mormorò poi, guardando in basso. La sua espressione costrinse anche gli altri a seguire il suo sguardo, facendoli ammutolire. 67 CAPITOLO 7 Una quindicina di metri più in basso, ai bordi della radura sottostante, un gruppo di uomini barbuti, armati di lance e clave, li stava osservando in silenzio. «E questi, chi cavolo sono?», mormorò infine Jean. «Non mi sembrano proprio gli abitanti di Cassis…». «Ditemi che sto sognando. Merda, ditemi che non è vero. Ma allora siamo veramente all’Età della Pietra!» esclamò demoralizzato Lucien che con caparbietà rifiutava di ammettere l’aberrante realtà. «Vi presento i nostri antenati», disse Hélène estatica. «Bella roba: una banda di cavernicoli», sibilò sprezzante Lucien. «Se non fosse per le loro facce, dall’abbigliamento si direbbero esquimesi», osservò Jean. In effetti gli indigeni indossavano grossolani pantaloni e casacche di pelle a maniche corte, dato che la temperatura era mite. Alcuni erano a petto nudo, esibendo una muscolatura di tutto rispetto. Tutti calzavano stivali di pelle con lacci. Se ne stavano perfettamente immobili, come statue, senza parlare né gesticolare. Guardavano e basta. Avevano fronti ben sviluppate e le mandibole pronunciate; le facce, abbastanza regolari, apparivano quasi “moderne”. «Si direbbero cacciatori», disse ancora Jean. «Guardate, hanno posato per terra un grosso animale, un cervo, credo. Non sembrano amichevoli, ma neanche ostili. Hanno piuttosto l’aria spaventata. O forse sono solamente timidi». «È che ai loro occhi potremmo sembrare esseri di un altro mondo. E sa il cielo se non è così», commentò Hélène. 68 «Mi sento un po’ nudo. Rimettiamoci le mute: bastano le salopette», suggerì Jean.«Perlomeno avremo un aspetto dignitoso e mi auguro anche autorevole, il che non dovrebbe guastare in questi casi». In fretta, indossarono i pantaloni con le bretelle, si misero i calzari e allacciarono ai polpacci i foderi contenenti i coltelli. La manovra venne seguita con estrema attenzione dagli uomini in basso che, gli sguardi sempre fissi sui tre stranieri, non si perdevano un loro gesto. A vestizione ultimata, i due gruppi continuarono a osservarsi con reciproca diffidenza. Alla fine, Jean si risolse ad agire: «Beh, non possiamo starcene così in eterno. Adesso provo ad avvicinarmi e vediamo che succede». «Veniamo anche noi», disse Lucien accennando a muoversi. «Inutile rischiare insieme», si oppose Jean, «anche se penso che non ci sia un vero pericolo: se avessero voluto aggredirci l’avrebbero già fatto. Comunque non si sa mai. Aspettate qui». E senza attendere risposta cominciò a scendere con calma, facendo attenzione a dove metteva i piedi, anche se il percorso era abbastanza agevole. Una volta giù, aprì le braccia in modo da evidenziare le palme vuote delle mani. Spero che sia questa la giusta procedura, pensò, l’ho visto fare al cinema. Mah, qualche volta bisogna pur essere ottimisti. Quando giunse abbastanza vicino, gli indigeni arretrarono timorosi, eccetto un gigante alto almeno un metro e novanta che aveva il portamento del capo. L’uomo moderno e il suo remoto antenato si fronteggiarono fissandosi a lungo e studiandosi. Quindi quest’ultimo, pur seguitando a reggere la sua lancia con la destra, allargò anch’egli le braccia, imitando Jean. Il gesto di pace era chiaro. Allora Jean fece un cenno ai due compagni che, dopo aver raccolto tutti gli oggetti sparsi, cominciarono a scendere pure loro. Si disposero quindi al suo fianco e di fronte al capo, mentre i cacciatori rassicurati, ripresero ad avanzare cauti, gesticolando e parlottando sottovoce. 69