La nuova Cina - Partito Comunista d`Italia
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La nuova Cina - Partito Comunista d`Italia
La nuova Cina Cinque punti sul dibattito politico cinese di: Francesco Maringiò Abstract: In Occidente spesso si è indotti a interpretare la Cina attraverso categorie che rischiano di essere improprie (come destra-sinistra, categorie che abbiamo ereditato dalla Francia rivoluzionaria). L’invito preliminare è di tenere presente le nostre diverse impostazioni culturali e le nostre differenze di lessico politico per provare a interpretare la Cina contemporanea senza deformarla. Dopo questa premessa, il saggio affronta la questione importante della lotta alla corruzione in atto in Cina. La lettura più in voga sui media occidentali è quella di uno strumento pretestuoso per liberarsi dei nemici politici attaccabili. In realtà, la lotta alla corruzione andrebbe approfondita, anche nella sua valenza di lotta di classe, essendo opposta alla fuga di capitali all’estero e alla nascita di potentati privati. Inoltre, eliminare la corruzione all’interno del PCC contribuisce a rafforzarne l’immagine. Il secondo punto riguarda il nuovo tipo di “guerra” di cui la Cina è protagonista: una guerra esclusivamente economica, finalizzata a ridurre l’egemonia del dollaro in Asia. La terza questione è la correlazione tra le crisi finanziarie provocate dal “ciclo del dollaro” e alcuni malumori popolari come le rivoluzioni colorate e i movimenti indipendentisti in Tibet. Da queste osservazioni emerge quanto sia forte la pressione esercitata dall’esterno e dall’Occidente sulla politica del partito. Un altro esempio di questa influenza è rappresentato dal “rule of law”. L’Occidente accusa generalmente la Cina di essere una nazione autocratica guidata da un partito che nella sostanza impedisce le riforme e lo sviluppo (che l’Occidente identifica con l’affermazione del modello di democrazia liberale). I sostenitori, dentro e fuori la Cina, dell’assunzione del sistema occidentale e liberale premono per una riforma dei diritti civili e politici e in ambito delle attività commerciali ed economiche. Il loro fine è di “legare le mani all’autocrate”. In realtà, occorre fare delle osservazioni concrete sullo sviluppo di uno stato di diritto in un Paese socialista, invece di continuare ad applicare al caso cinese le categorie politiche occidentali. Infine, il saggio si sofferma sul significato della lotta di classe in Cina, che si traduce in una teoria generale del conflitto sociale. La lotta di classe si sovrappone a seconda dei casi, ad esempio, alla lotta nazionale con l’emancipazione dei popoli colonizzati o alla lotta delle donne contro la “schiavitù domestica”. Insomma, uscire da un’ottica binaria troppo rigida può aiutare ad analizzare le nuove forme della lotta di classe e fenomeni come la costruzione del Fronte Unito, che coinvolge anche figure e personalità esterne al partito. La Cina degli ultimi anni ha osato cambiare profondamente, oltre ogni aspettativa, quasi come un animale che, dopo la muta, diventa irriconoscibile a se stesso. In molti casi i mutamenti sono stati dolorosi e ciò che più colpisce è la rapidità con la quale questo profondo cambiamento si è manifestato in una società basata su una cultura e un sistema di valori millenario. Indubbiamente l'incontro con l'Occidente ha contribuito a questa metamorfosi. La Cina di oggi ha riclassificato il mondo in accordo con i criteri occidentali e il tema di come riconciliare il "vecchio" col "nuovo" è la sfida culturale per eccellenza e che forse animerà un acceso dibattito per un lungo periodo. Questo cambiamento ha portato i cinesi ad essere, in teoria, più simili a noi ma, in pratica, a restare profondamente diversi [Sisci 2014]. Non c’è dubbio che la storia recente, con la presa del potere del Partito Comunista e l’istituzione della Repubblica Popolare (1949), rappresenti una fase di straordinari cambiamenti e possiamo sicuramente affermare che proprio il Pcc sia stato, nel corso di questi decenni, lo strumento di modernizzazione della società e l’artefice di una nuova era di cui, ai giorni nostri, vediamo solo gli albori. Proprio questa trasformazione (potremmo definirla una “occidentalizzazione senza assimilazione”) induce in Occidente a leggere la Cina con categorie che rischiano di essere improprie. “Riformisticonservatori”, “destra-sinistra”, sono entrati nel linguaggio comune del dibattito politico del mondo occidentale. Esse traggono origine dall’esperienza della Francia rivoluzionaria durante la convocazione degli Stati Generali (1789), per cui è lecito porsi la domanda se rappresentino al meglio le categorie con le quali leggere il dibattito cinese. Tutto questo mostra una cosa: mentre i cinesi sono diventati “un po’ occidentali”, noi siamo rimasti fermi, senza porci il problema di cambiare e acquisire così il lessico e le categorie adatte a poter comunicare con questo mondo. Questa è, a mio modesto avviso, una sfida culturale che l’intellettualità di sinistra e marxista italiana ed europea deve saper cogliere. Per queste ragioni gli scambi culturali che negli ultimi anni hanno rafforzato le relazioni tra l’associazione “Marx XXI”, la rivista MarxVentuno e il portale internet Marx21 con la prestigiosa Accademia Cinese delle Scienze Sociali e l’Accademia del Marxismo rivestono per noi un valore strategico. Le iniziative di approfondimento, le analisi e la pubblicazione in Italia di materiale inedito sulla Cina e la sua politica rappresentano pertanto solo un piccolo contributo in uno sforzo di apprendimento e conoscenza reciproca che ci auguriamo, negli anni, possa svilupparsi ulteriormente. Quello che segue è un elenco parziale di punti che animano il dibattito politico cinese, sia in patria che all’estero. Ovviamente non c’è alcuna pretesa che si tratti di un lavoro esaustivo e completo, quanto un tentativo di sistematizzazione e chiarimento di un confronto politico tanto difficile da comprendere, quanto interessante e importante, non solo per le sorti del “socialismo alla cinese” ma per l’intero movimento comunista internazionale. 1. Lotta alla corruzione La gigantesca campagna contro la corruzione, che è stata lanciata negli ultimi anni, merita una particolare attenzione. Anche perché l’unica lettura in voga sui media occidentali è quella di un enorme repulisti per regolare i conti di una feroce lotta politica interna: in sostanza, si colpiscono i corrotti, ma il fine ultimo è eliminare dal proscenio gli avversari politici. Sono diverse centinaia i funzionari coinvolti in provvedimenti disciplinari e la lotta è su due fronti: indagini preventive condotte dalla Commissione Centrale per il Controllo della Disciplina e inchieste sui reati commessi. Lo slogan della campagna recita: “combattere le tigri, schiacciare le mosche e cacciare le volpi”. Le tigri rappresentano gli alti dirigenti di livello ministeriale o provinciale – inclusi gli alti ranghi del Partito (membri del Comitato Centrale e del Politburo) o equivalenti dirigenti di aziende pubbliche e private – implicati in fatti di corruzione, le mosche sono i funzionari di livello inferiore e le volpi sono coloro che hanno distratto all’estero ingenti quantità di denaro ed ivi si sono rifugiate. È stata addirittura lanciata l’operazione “Sky Net” [Cui, 2015] per scoprire e rimpatriare le “volpi”, attraverso trattati di estradizione e rappresaglie contro banche e compagnie offshore che aiutano i funzionari corrotti a trasferire indebitamente denaro all’estero. Oltre alle dirette implicazioni di natura giudiziaria, il fenomeno della corruzione merita di essere analizzato e compreso nella sua dimensione e manifestazione di classe: la sottrazione d’ingenti quantitativi di denaro pubblico inficia l’economia (privata e non) di opportunità di sviluppo e indebolisce lo Stato socialista nella sua funzione di guida. I capitali sottratti in maniera illecita non solo drenano risorse pubbliche che potrebbero essere impiegate per fini sociali, ma favoriscono la nascita di potentati privati che dispongono, per questa via, d’ingenti quantitativi di denaro pronta cassa, esentasse, in grado di alimentare network criminali o altri fenomeni corruttivi. Inoltre, l’attenzione prestata dal Pcc e la determinazione nell’affrontare e risolvere il problema ha, a mio avviso, tre obiettivi. Il primo è impedire che la diffusione di fenomeni corruttivi possa spezzare il legame tra il Partito e le masse, favorendo l’emergere di movimenti di protesta “anticorruzione” che mirano a sovvertire l’ordine politico. Non solo l’Europa (con i movimenti di cittadini “indignati” o “antisistema”), ma vaste aree del mondo vedono l’esplodere di proteste contro la corruzione che sovente degenera in mobilitazioni antigovernative e talvolta violente. Il Pcc negli ultimi anni ha prestato scrupolosa attenzione a quest’aspetto. Dal punto di vista del confronto teorico va letto in quest’ottica il dibattito sul recupero della “linea di massa” [Xi, 2013] già teorizzata da Mao e la critica allo scollamento tra Pcus e popolazione sovietica, nell’analisi sulla sconfitta dell’Urss. Dal punto di vista pratico il partito comunista cinese invita direttamente la popolazione a collaborare in maniera fattiva a questa campagna, denunciando i funzionari corrotti nei centri speciali dove è possibile mantenere l’anonimato, oppure usando una recente app per smartphone. Il secondo obiettivo della campagna è ripulire e rafforzare il partito. È evidente che colpire funzionari di alto livello e mostrare una così estesa diffusione del fenomeno corruttivo rischia di indebolire l’immagine del Pcc e provocare malumori o malcelate critiche. Alcuni, anche all’interno della stessa società cinese, temono che una campagna così estesa possa creare disequilibri nel Paese o incidere negativamente sull’economia, viste le restrizioni imposte a molti funzionari pubblici che non hanno più la liceità di un tempo nel promuovere business. Tuttavia, è innegabile che quest’operazione rappresenti un’occasione di pulizia che alla lunga fortifica l’immagine del Pcc all’esterno (agli occhi delle masse) e al suo interno. È anche un segnale preventivo a quanti, iscritti o in procinto di esserlo, vedono nell’appartenenza al Partito solo un utile passe-partout per la loro carriera lavorativa. Infine, uno degli obiettivi centrali della campagna è imprimere una svolta strategica all’economia. Per essere pronta alle nuove sfide globali la Cina deve assolutamente riformare e innovare, ancora una volta, la sua economia ed entrare così in una nuova fase di razionalizzazione della propria condotta (da qui il dibattito sul “rule of law”, il governo della legge, ovvero lo stato di diritto), internazionalizzare la moneta e imboccare una nuova via di sviluppo (il “new normal”, la nuova normalità) capace di imprimere modifiche strutturali al modello vigente. Si registrerà una crescita quantitativamente più contenuta in favore di un modello qualitativo migliore in termini di redistribuzione sociale e impatto ambientale. Questo cambiamento è sempre più necessario per rompere la politica americana di contenimento e contrasto dell’ascesa cinese e si iscrive in un più ampio progetto strategico. 2. La grande strategia cinese A fornirci un quadro dettagliato del nuovo pensiero strategico cinese è un interessante intervento che il generale Qiao Liang ha tenuto all’Università della Difesa, la più importante scuola militare del Paese e che è stato tradotto e pubblicato anche in Occidente. Il generale Qiao è responsabile del programma di studio per gli alti ufficiali ed è quindi un intellettuale delle forze armate che si occupa dello sviluppo del pensiero militare e civile che ha attinenza con la sicurezza del Paese. Già nel 1999 aveva firmato, assieme al suo collega Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, un libro nel quale esponeva un nuovo concetto di belligeranza, affermando che “la guerra non è nemmeno più guerra”, quanto piuttosto uno scontrarsi in “campi” diversissimi (comunicazione, nuovi mass media) che, fino a quel momento, non erano mai stati considerati atti bellici [Qiao, 2001]. Vista l’autorevolezza della fonte è interessante studiare questo punto di vista. Il cuore dell’elaborazione del generale Qiao [cfr. Qiao, 2015] muove dall’assunto che la sostanza della sfida all’ascesa cinese è di natura economica – non geopolitica– e che la difesa degli interessi della Repubblica Popolare passa dall’adozione di questo nuovo paradigma. Ciò spiega come mai il presidente Xi Jinping abbia istituito il Consiglio di Sicurezza Nazionale da lui presieduto, di cui fanno parte degli economisti, oltre a militari e uomini dell’intelligence. Poiché l’Esercito di Liberazione Nazionale è invincibile in patria e il livello tecnologico cinese è tale da distruggere i sistemi spaziali e attaccare le portaerei nemiche, il generale afferma che gli americani non faranno la guerra alla Cina almeno per i prossimi dieci anni, finché cioè non saranno in grado di realizzare il nuovo sistema globale di attacco rapido. Questo prevede un complesso di assalto celere basato sulla capacità di attaccare qualsiasi parte del mondo in meno di 28 minuti, impiegando testate balistiche e caccia supersonici. Perché l’obiettivo ultimo della guerra di tipo nuovo, spiega dettagliatamente il generale cinese, non è la conquista di un territorio, ma l’interruzione dell’afflusso di investimenti internazionali verso la regione colpita e la fuga di capitali. Questi, abbandonata l’area d’instabilità, saranno intercettati dai mercati americani (quello azionario, dei futures e del debito), mantenendo inalterato il ruolo egemone del dollaro (e degli Usa) nel mondo. Quali sono quindi i vettori strategici che Pechino mette in campo in questo decennio “di pace” per inibire il militarismo americano? Principalmente due: le Vie della Seta e il rafforzamento del Rmb sul dollaro, internazionalizzando la prima valuta ed estromettendo la seconda dagli scambi elettronici di merci e denaro. Il progetto “One Belt, One Road” punta a creare due vie commerciali con l'Europa e il Medio Oriente: il primo è basato su un percorso ferroviario ribattezzato la “Cintura economica della Via della Seta”, il secondo attiene alle tratte marittime chiamate da Pechino “la Via della Seta marittima del XXI secolo” e la sua valenza, oltre che direttamente economica e commerciale, è eminentemente strategica. Il generale Qiao spiega questo approccio usando una metafora: mentre gli Usa spingono prepotentemente verso Oriente (con la strategia del “Pivot to Asia” e aizzano lo scontro della Cina con i vicini per le isole contese), la Repubblica Popolare deve evitare il conflitto e scivolare in direzione opposta, verso Occidente. Non una ritirata, ma l’attuazione nel XXI secolo del principio “del vuoto e del sostanziale” di Sun Tzu (ampiamente usato da Mao durante la Lunga Marcia) che invita a muoversi in uno spazio non presidiato, dove il nemico non può dirigersi a meno di dividere le forze e indebolirsi, e da lì preparare l’offensiva [Sun Tzu, 1997]. Al “disimpegno” statunitense in Europa si contrappone l’investimento strategico del Celeste Impero, corroborato da strutture finanziarie atte a sostenere l’ambizioso progetto, com’è il caso della Banca Asiatica d'Investimento per le Infrastrutture, la Nuova Banca di Sviluppo dei Brics, il Fondo di Investimenti della Via della Seta e un piano di espansione della capacità di proiezione esterna dell’Esercito cinese, sia in ambito Sco (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) che lungo le rotte commerciali, come previsto nel Libro bianco della Difesa cinese [MoD 2015]. «Quella delle via della seta – dice Qiao – è di gran lunga la migliore strategia securitaria che Pechino possa adottare contro il ribilanciamento verso Oriente perseguito dal Pentagono»; non il segno «dell’integrazione della Cina in un sistema straniero», quanto l’avvio di un processo indipendente che necessita dell’internazionalizzazione del renminbi come «volano della politica delle vie della seta che condurrebbe alla tripartizione tra dollaro, euro e yuan del primato valutario globale e alla divisione del mondo in tre blocchi commerciali» e quindi alla creazione di una comunità Est-asiatica con la Cina al centro e imperniata sulla divisa cinese. Questa crisi egemonica del dollaro cresce a seguito della nascita di nuovi strumenti informatici, come la moneta virtuale Bitcoin, lo shopping online di Alibaba e le piattaforme di pagamento virtuale come Alipay, che già ora movimentano volumi di denaro impressionanti ed escludono il dollaro dalle transazioni, accentuandone il declino. Tutto ciò dimostrerebbe che l’obiettivo dei dirigenti cinesi è quello di interrompere la lunga egemonia occidentale sull’Asia e “condividere questo secolo con gli americani su un piede di parità”1. Questa “pacifica ascesa2, oltre ad essere una dottrina che divide il campo Usa tra i realisti (Kissinger e altri) che teorizzano l’accordo strategico con l’Asia e i fautori del contenimento bismarckiano della Cina (Kaplan e altri), pare abbia animato anche un dibattito interno al Partito comunista tra chi, «fedele alla massima di Deng Xiaoping che la Cina dovrebbe “nascondere il proprio splendore”, è convinto che il solo parlare di un’ascesa, sia pur pacifica, alimenti l’idea di una minaccia cinese» e chi teme che porre l’accento sull’aggettivo “pacifica” «venga letto dagli Usa e Taiwan come un’autorizzazione a trattare impunemente la Cina con prepotenza» [Arrighi, 2007]. 3. Hong Kong “Occupy Central”, il ciclo del dollaro e le rivoluzioni colorate Qiao sostiene che le crisi regionali che si sono determinate negli anni sono state create dagli Usa per ragioni finanziarie, prima ancora che geopolitiche, sulla base del “ciclo del dollaro”, ossia uno scientifico intervallo di sedici anni: nel primo decennio la moneta è tenuta artificiosamente debole, nei successivi sei anni si apprezza considerevolmente. È in quest’arco di tempo che si registrano crisi regionali (con conseguente fuga di capitali dall’area) come è avvenuto in America Latina agli inizi degli anni ’80 e in Asia alla fine dei ’90. Nel 2012, dopo un decennio di dollaro debole, inizia la rivalutazione della divisa americana e, puntualmente, compaiono disordini ed instabilità a ridosso della Cina: dispute con Paesi vicini per le isole contese (Giappone, Filippine e Vietnam) e la nascita del movimento “Occupy Central” a Hong Kong. «Se agli inizi del 2012 il negoziato tra Cina, 1 2 Come afferma Lee Kuan Yew, padre della moderna Singapore. “Heping jueqi” significa letteralmente “emergere rapidamente, ma in modo pacifico”; ha una prima teorizzazione nel 1988 con l’accezione di “ascesa pacifica”, poi ripresa da Hu Jintao durante il forum di Bo’ao nel 2004 con la dizione di “sviluppo pacifico” [cfr. CABRAS, 2013]. Giappone e Corea del Sud appariva ad un passo dalla conclusione […], le successive dispute per le isole hanno reso impraticabili entrambi gli obiettivi. […] Gli Stati Uniti temono fortemente il Northeast Asian Fta perché questo, includendo Cina, Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Macao e Taiwan, diventerebbe, con circa 20 mila miliardi di dollari di Pil complessivo, la terza area economica del mondo» [Qiao 2015, p. ??]. È interessante notare come la dinamica di piazza delle proteste della “rivoluzione degli ombrelli” (definizione dei media occidentali che hanno fornito grande copertura alle proteste di piazza) fosse legata al “ciclo del dollaro”. È ancora Qiao a parlare: «proviamo a confrontare la cronologia di Occupy Central con lo sviluppo di un altro evento: la cadenzata fine del quantitative easing (Qe) decisa dalla Federal Reserve. Per tutta l’estate la Banca centrale ha mantenuto il dollaro debole, rendendo inutile l’inizio delle proteste3. Solo l’annunciata fine del Qe nel settembre successivo ha provocato il rafforzamento del biglietto verde e inaugurato Occupy Central» [ibidem]. Non è un caso che la crisi sia scoppiata nell’ex colonia britannica: ora che il biglietto verde è nella sua fase di apprezzamento, bisogna far fuggire i capitali da quella regione che, con la nascita della Shanghai and Hong Kong Markets Communications, ha attratto in pochissimo tempo più di mille miliardi di dollari. Quella di Hong Kong è una protesta che si può tranquillamente inserire nel filone delle “rivoluzioni colorate” e ha il chiaro obiettivo geopolitico (oltre che finanziario) di rovesciare l’equilibrio politico e costruire nell’ex colonia britannica un avamposto filo-occidentale. Del resto, la Cina non è nuova a questo genere di operazioni. C’è un evidente tentativo di smembramento del suo fronte occidentale, con la nascita di movimenti separatisti in Tibet e Xinjiang (e non può certo essere un caso che il famoso manuale per le “rivoluzioni colorate” sia stato tradotto, oltre che in cinese tradizionale e semplificato, anche in tibetano e uiguro). Gli stessi incidenti di piazza Tienanmen del 1989 si configurano come la prova generale delle “rivoluzioni colorate” che, negli anni, si susseguiranno in tutti i Paesi che l’Occidente guarda con sospetto e ostilità. Sebbene i media mainstream continuino ad evidenziare la brutalità della dirigenza comunista nella repressione di una protesta “pacifica” (fatto, questo, smentito anche dalla lettura dei famosi Tienanmen Papers, che dovrebbero proprio dimostrare il contrario), si fanno largo testimonianze inequivocabili sul ruolo delle potenze occidentali nelle sommosse di quei giorni. Come il fatto che a Pechino era presente il teorico delle “rivoluzioni colorate” Gene Sharp, che gli attaché militari delle ambasciate di diversi Paesi (Usa, Australia, Gran Bretagna, Canada, Francia, Germania e Giappone), violavano impunemente il protocollo diplomatico e “seguivano” la protesta, come pure la contraffazione della testata del Quotidiano del popolo per dividere in frazioni contrapposte il Pcc [cfr. Losurdo, 2014, pp.167-168 ebook]. Lo sviluppo di questo movimento e l’emergere delle contese nel Mar Cinese Meridionale e Orientale sono eventi altamente esplosivi che avrebbero potuto travolgere la Cina sia dal punto di vista geopolitico che economico, causando la fuga di capitali e il crollo della fiducia globale nel Rmb. Solo la salda gestione degli eventi da parte del Governo e del Partito hanno evitato il peggio. 4. Rule of law in Cina: legare le mani all’autocrate? 3 In un altro passaggio il generale dice che già a maggio la “protesta appariva in fermento e sarebbe potuta deflagrare già allora”. Un altro terreno sul quale si esercita la pressione esterna straniera sul dibattito interno al gruppo dirigente e al popolo cinese è quello relativo alla forma di governo ed allo sviluppo del “rule of law”. La Cina è accusata di essere una nazione autocratica governata da un partito che è il principale ostacolo alle riforme, intese univocamente come l’accettazione incondizionata del modello di democrazia liberale. Del resto, «gli occidentali hanno spesso interpretato gli eventi cinesi con i sistemi di giudizio e i parametri storici del mondo loro, anziché studiare la Cina iuxta propria principia» [Ronchey, 1999], al punto che nell’Europa che si spartiva i quartieri di Pechino e Shanghai bollando come “arretrata” l’antichissima civiltà cinese, l’idea del nesso tra “democrazia” e “razza bianca” era un convincimento radicato e diffuso [Canfora, 2004]. Molti studiosi ed esperti ritengono che la Repubblica Popolare stia lentamente cambiando: da un regime in cui – a loro avviso – sarebbe stato in vigore il "rule of man" (e Mao Zedong avrebbe governato in base alla sua personale volontà) si è intrapresa una "lunga marcia verso lo stato di diritto" [Peerenboom, 2002]. I sostenitori (dentro e fuori la Cina) dell’assunzione del sistema occidentale e liberale considerano questi cambiamenti ancora insufficienti. Essi riconoscono l’esistenza di uno stato di diritto (magari non pienamente maturo, perché ancora non garantisce un inequivocabile diritto di proprietà ai privati) solo nelle attività commerciali ed economiche, ma non nel campo dei diritti politici e civili e così auspicano che una riforma del diritto locale nelle regioni a più alta concentrazione d’investimenti stranieri (quindi di pressioni economiche) spinga per un cambio di rotta sostanziale. L’obiettivo dichiarato è quello di passare da uno “stato di diritto parziale” (in cui il Pcc avrebbe le mani legate in campo economico perché deve sottostare alla legge e mani libere in campo politico) a una condizione nella quale si riesca a “legare le mani all’autocrate” [Wang, 2015]. Eppure, proprio sul terreno dello sviluppo del “rule of law” la Cina di Deng ha prodotto una grande innovazione teorica rispetto al passato, superando alcuni dei limiti politici del movimento comunista. Il socialismo reale in Europa orientale è stato caratterizzato dal «disprezzo della democrazia “formale” e delle regole del gioco, dall’illusione che, nell’ambito del socialismo, la realizzazione dei diritti economici e sociali, dei diritti materiali, rendesse superflua la garanzia giuridica della libertà di coscienza, di religione, etc» [Losurdo, 1993, p. 40]. Del resto, la stessa analisi di Marx ed Engels mancava di un’adeguata teoria della transizione e rimandava a un generico superamento della divisione del lavoro e all’estinzione dello Stato e del potere politico in quei Paesi capitalistici nei quali il proletariato avesse preso il potere (Critica al Programma di Gotha). Mancava quindi un’adeguata riflessione sullo sviluppo dello stato di diritto in un Paese socialista. Sebbene fosse un bisogno indotto proprio dalle innovazioni che il Partito comunista introduceva nelle società nelle quali aveva preso il potere perché, dopo «aver aperto le porte all’istruzione anche alle masse popolari precedentemente escluse e l’aver appagato in una certa misura i bisogni elementari più immediati […] ad un certo punto [era] chiamato a fare i conti con la democrazia e le sue garanzie e le sue regole, in modo da innalzarsi al livello della società civile avanzata che esso stesso aveva contribuito a creare» [ibidem]. Deng Xiaoping coglie quest’aspetto essenziale e assume la necessità di costruire uno stato di diritto, introducendo il primo emendamento in Costituzione in tal senso: “Nessuna organizzazione o individuo può godere di privilegi ed essere al di sopra della Costituzione e della legge” [Costituzione della Rpc del 1982, Art. 5]. La “lunga marcia verso lo stato di diritto” è proseguita nel corso degli anni, adattandosi alle necessità che lo sviluppo dinamico della società imponeva, al fine di «governare il Paese secondo la legge e renderlo un Paese socialista basato sullo stato di diritto» [Jiang, 1997], fino alla formulazione del XVIII Congresso del Pcc, dove si sottolinea che l’impegno prioritario è quello di assicurare un equilibro tra il ruolo di leadership che deve essere esercitato dal Pcc e quello di controllo garantito dal popolo e dal governo della legge (secondo il principio definito di "un centro e due garanti"). È del tutto evidente che la costruzione dello stato di diritto non avviene nel vuoto. Alexander Hamilton ha osservato che se non c’è sicurezza geopolitica non si può sviluppare uno stato di diritto, per cui, finché l’Occidente continuerà a cingere d’assedio la Cina con politiche di accerchiamento militare ed economico, sarà il primo responsabile del mancato consolidamento di quello stato di diritto, che tanto biasima [cfr. Losurdo, 2015]. Inoltre, è davvero fuori luogo la pretesa di uno sviluppo del “rule of law” avulso dalle caratteristiche peculiari della società cinese, frutto di una storia antica, di una lunga dominazione coloniale, di caratteristiche geografiche, etniche e linguistiche assimilabili più ad un subcontinente che ad una nazione dotata di una demografia esplosiva. «Proprio Deng, fino alla sua scomparsa nel ‘97, non cessava di ripetere: "In qualsiasi nazione, in qualsiasi epoca, c’è almeno l’un per cento dei cittadini ribelle a qualsiasi autorità. Ma qui, fra un miliardo e cento milioni di cinesi, l’un per cento significa undici milioni di ribelli sulle piazze". [...] Come si governa dunque una sterminata nazione, con la prospettiva di dodici piazze Tienanmen in rivolta?» [Ronchey, 1999]. Non solo. Coloro che rimproverano alle riforme di Deng il fatto di aver realizzato una sorta di perestrojka (ristrutturazione delle basi produttive) senza glasnost’ (pluralità di opinioni e informazioni), dimenticano le condizioni eccezionali nelle quali questo Paese e il suo popolo si sono trovati nel corso degli anni e la scelta necessitata di prediligere le necessità collettive rispetto alle aspirazioni dei singoli individui. Aspetto intimamente legato alla cultura confuciana e ai valori della società orientale. «L’Oriente e l’Occidente condividono la stessa idea di libertà. Ma mentre l’Occidente assume l’individuo a punto di partenza e pone l’enfasi sulla sua libertà, l’Oriente assume il collettivo a punto di partenza e pone più enfasi sulla responsabilità. In ultima analisi, si raggiunge lo stesso obiettivo percorrendo strade diverse» [Huaguang, Jianzhang, 2013]. Il nodo nevralgico nella costruzione dello stato di diritto resta ovviamente il ruolo che il Pcc potrà continuare ad esercitare nella società (e quindi se il “rule of law” serve per rafforzare l’azione di governo del partito o a “legargli le mani”). Punto estremamente delicato, visto che sono diversi, dentro e fuori la Cina, coloro i quali continuano a puntare sulla necessità dell’adozione del sistema occidentale, spinti dai nuovi bisogni della società cinese che, a gran voce, pone l’attenzione su temi quali “diritti dei cittadini”, “diritti della persona”, “aspettative dei cittadini rispetto allo stato di diritto” e “diritti di proprietà”. Questo punto è stato l'oggetto principale del Quarto Plenum (Ottobre 2014) del Pcc e ha stimolato un dibattito articolato – emerso sui media locali – su come portare avanti la riforma senza ricalcare modelli occidentali, spesso "non efficaci”. In un articolo apparso su Qiushi, rivista teorica della Scuola di Partito del CC del Pcc, Wang Lequan, presidente della Commissione nazionale per gli affari legislativi ha affermato: «L’emulazione acritica di modelli di “stato di diritto” adottati in altri Paesi non può funzionare. La strada percorsa da altri potrebbe rivelarsi non adattabile a tutti i contesti, e costituire addirittura un ostacolo per le future prospettive di sviluppo di un Paese. L’unico percorso credibile ed efficace è quello radicato nella terra di una nazione, quello che ne assorbe i numerosi elementi nutrienti”. La metafora contiene un riferimento al “socialismo con caratteristiche cinesi”, espressione ricorrente nell’articolo, nel quale Wang sottolinea come esista una “via allo stato di diritto socialista” (la “terra” della nazione), e come i leader del Partito e il sistema socialista con caratteristiche cinesi ne siano l’essenza, nonché la guida teorica e operativa (gli “elementi nutrienti”)» [Cappelletti, 2014]. 5. Lotta di classe in Cina Come si configura la lotta tra le classi e la lotta di classe in un Paese governato dal più grande Partito comunista? Il tema merita una riflessione. In primo luogo, riappropriandoci della lezione del Manifesto, dove Marx ed Engels parlano di “lotte di classe” (al plurale), va superata la “lettura binaria del conflitto sociale” [Losurdo 2013], basata sulla contrapposizione esclusiva fra ricchi e poveri (classe contro classe), al fine di comprendere la situazione storica concreta. Così facendo la teoria della lotta di classe assume la forma propria della teoria generale del conflitto sociale, che va collocata in una dimensione storica che sussume differenti species: conflitti interni alle classi sfruttatrici, lotte di emancipazione dei popoli coloniali, della classe operaia della metropoli capitalistica e delle donne contro la “schiavitù domestica”. Solo assumendo l’esistenza delle diverse forme attraverso cui si manifesta la lotta di classe (non solo, quindi, come emancipazione della classe oppressa, ma anche delle nazioni oppresse) si comprendono alcune prese di posizione del Pcc che non pongono immediatamente l’accento sulla lotta emancipatrice del proletariato. Tra queste, la costruzione del Fronte Unito, col crescente coinvolgimento di forze e personalità estranee al Partito e aderenti ai “tre nuovi gruppi”: i rappresentanti di spicco dei “nuovi media”, i cinesi che risiedono all'estero per motivi di studio e la nuova generazione d’imprenditori [sessione del CC del Pcc del 18-20 Maggio 2015, cfr. Zhou, 2015]). Già con la teoria della Triplice Rappresentatività di Jiang Zemin si era permesso agli imprenditori di iscriversi al Pcc; ora il fronte si allarga ad altri settori che operano in ambiti sensibili e d’interesse per la sicurezza nazionale. Più che alla lotta tra questi nuovi gruppi (che sicuramente, potendo studiare all’estero o essendo imprenditori, vivono una condizione agiata rispetto ai loro connazionali delle campagne) e i cittadini delle aree più povere del Paese, il gruppo dirigente cinese pone l’accento sulla costruzione di un fronte unitario. Non è una novità: già nel 1934, mentre cerca di sfuggire alla campagna di “annientamento” lanciata da Chiang Kai-shek, l’Armata Rossa si pone il problema di come inserire i propri inseguitori nel largo fronte di resistenza all’invasione giapponese che punta ad assoggettare l’intera nazione (non solo il proletariato) e relegarla in condizione di schiavitù. Ci sono delle fasi nelle quali, osserva Mao, la lotta di classe converge con quella nazionale, pertanto il partito comunista dovrà esprimere gli interessi di tutta la nazione, non soltanto del proletariato. Non c’è dubbio che la società cinese attuale sia attraversata da grandi e pericolose contraddizioni e che, pertanto, sia facile vedere in esse la manifestazione della lotta di classe o, addirittura, l’abbandono sostanziale della prospettiva socialista da parte del Partito comunista al potere. Concentrazioni di ricchezza – talvolta immensa – e disuguaglianze non fanno che accrescere questa convinzione. Volgendo lo sguardo all’indietro, troviamo una condizione non diversa durante l’esperienza della Nep leniniana. In questa fase, il governo sovietico non solo assumeva e pagava profumatamente specialisti borghesi nell’amministrazione dello Stato, ma permetteva ad essi di mantenere le proprietà e alcune forme di privilegio. Cosa che destò scandalo e meraviglia tra quanti videro in questo processo il ritorno della borghesia al potere. Gramsci racconta del disorientamento delle masse popolari di fronte al «nepman impellicciato», mentre loro continuavano a vivere in condizioni assai precarie4. Pertanto la domanda (che pervade anche il dibattito della – e sulla – Cina moderna) cruciale da porsi è se la ricchezza economica coincida identicamente col potere politico. Lenin a tal proposito invitava a distinguere nettamente tra le funzioni dello Stato (potere politico) e quelle dell’amministrazione e tra classe dominante e delegata. Anche Mao affronta il tema distinguendo nettamente tra la necessità dell’espropriazione politica delle classi dominanti, che va condotta fino in fondo, e l’espropriazione economica, che va condotta in modo parziale, per non bloccare lo sviluppo delle forze produttive e quindi la stabilità del nuovo potere politico [Losurdo, 2013, p.224]. Deng Xiaoping assume quest’analisi e la estremizza quando, con la politica di Riforma e Apertura, si pone l’obiettivo di ridurre il divario tra la Cina e i Paesi capitalisti più sviluppati molto più rapidamente delle disuguaglianze interne. E ciò perché, senza un adeguato sviluppo delle forze produttive, si rischia di “socializzare la miseria”. La crescita stupefacente dell’economia cinese degli ultimi decenni (riduzione delle disuguaglianze esterne) ha posto le basi per la lotta contro il divario interno alla società e per stroncare la nascita di gruppi o strati sociali che, arricchiti, puntano a ottenere anche il potere politico, oltre a quello economico. Aspetto, questo, che sembrerebbe rappresentare il substrato teorico dell’attuale campagna contro la corruzione. Non deve sorprendere che il tema della lotta di classe animi un acceso dibattito all’interno del Pcc e della stessa società cinese. Ne abbiamo un lampante esempio con un recente carteggio: il 29 Settembre 2014 su Study Times, periodico della Scuola di Partito del Comitato Centrale del Pcc, è apparso un articolo il cui incipit era: «Abbandonare il principio della lotta di classe è stato un passo fondamentale per riportare l’ordine in un Paese dove regnava il caos», risposta esplicita al saggio pubblicato su Red Flag Manuscript (pubblicazione bisettimanale del Pcc) da parte di Wang Weiguang. Quest’ultimo è il presidentedell’Accademia delle Scienze Sociali e nel suo scritto (intitolato: “Quando si sostiene la dittatura democratica del popolo non si è mai nel torto”) afferma invece la necessità di «persistere nel seguire quell’importante principio della linea di Partito che è la dittatura democratica del popolo» [Cappelletti, 10/2014]. Questo dibattito ha scatenato un confronto molto acceso sia in rete, sia tra gli studiosi e i ricercatori cinesi [cfr. Ma, 2015] e configura il dibattito interno allo stesso partito. Durante l’era Deng (ma il tema divide ancora, sia dentro che fuori la Cina) il giudizio sul nuovo corso portava ad una lotta politica ed ideologica tra coloro che ponevano l’accento su un’equa distribuzione della ricchezza prodotta e sull’egualitarismo e coloro che premevano per l’inserimento di elementi di competizione, affinché si ponesse fine al disimpegno di massa e si perseguisse la strada della prosperità comune usando il mercato (e quindi la competizione tra gli individui, tra le imprese pubbliche e quelle private). Oggi la discussione sembra incarnarsi più tra una corrente di pensiero di tipo “nazionale”, che considera concluso il processo rivoluzionario a seguito delle conquiste degli ultimi decenni ed una 4 Antonio Gramsci, Lettera al CC del PCUS, ottobre 1926, in Gramsci scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1979, p.718 corrente più interna al patrimonio ideale del movimento comunista, che pone l’accento sulla dimensione internazionale della lotta di classe (messa in discussione della divisione internazionale del lavoro imposta dai Paesi imperialisti e rottura dell’egemonia tecnologica dei Paesi a capitalismo avanzato) ed una maggiore armonizzazione della società cinese (con l’obiettivo di ridurre le differenze regionali tra zone costiere e interne, tra città e campagne, nell’accesso al benessere all’interno delle città e nella differenza di diritti tra lavoratori del pubblico e del privato). Riferimenti [Arrighi 2007], Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino. 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