Franca Pittaluga ARCHITETTURA E LUCE

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Franca Pittaluga
ARCHITETTURA E LUCE
L’architetto disegna gli spazi per l’uomo, selezionando per il suo lavoro alcuni strumenti materiali, indispensabili per conformarli - dalla sabbia all’acciaio - e sfruttando
a fondo tutti gli strumenti immateriali, che rappresentano in realtà la parte più nobile e sensibile del suo operare: la geometria, la proporzione, la misura, il ritmo. Infine
ruba la luce, per farla danzare sugli spazi che ha disegnato e per consentire all’uomo
di viverci. Ma anche per consentire all’uomo che li abita di apprezzarne le proprie e
indiscutibili singolarità.
La cattura della luce può diventare uno degli atti più sublimi del fare architettura. I
rapporti che l’involucro edilizio innesca con la sua privata interiorità sono prodotti da
infinite modulazioni, gestite primariamente dagli equilibri di ombra e chiarore.
Quando il progettista inquadra uno scorcio di paesaggio, se ne appropria: per incastonarlo entro un lacerto del muro e renderlo partecipe attivo dell’interno architettonico. Analogamente egli opera con la luce naturale, assumendola dall’esterno e determinando intenzionalmente le strade da farle imboccare e percorrere, nel passaggio di
attraversamento dell’involucro architettonico. Seguendo le strategie di progetto che
le sono imposte - delineate soprattutto dal disegno di sezione - la luce potrà irrompere generosa, ovvero insinuarsi con discrezione: sarà in grado, già in questa prima
(semplice) variabile, di produrre effetti sensibilmente opposti nella percezione dei
piani nello spazio e di innescare specifiche reazioni emozionali, o persino alludere a
suggestioni retoriche. Pensiamo a Terragni e Lingeri1, che per accompagnarci nel
Danteum hanno tanto investito sull’operatività della luce, per rendere fisiche e palpabili le tre esperienze del girone dantesco, intrise in sequenza di pena, di speranza,
di liberazione; forse a poco sarebbero valsi il gorgo della spirale, il successivo ascendere, la smaterializzazione vitrea delle colonne, se non vi fosse stato il calibro pro-
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gressivo di intensità e larghezza con cui i fasci luminosi irrompono negli ambienti.
Se il dosaggio della luce costruisce una prima maglia di selezione nella caratterizzazione degli spazi interni, non sono a tale scopo meno importanti le altre scelte strategiche, che si occupano della sua focalizzazione: operare su una luminosità diffusa o
nettamente sciabolata significa innescare una percezione delle superfici, degli spigoli, dei recessi che si rivela assai ricca di variabili. L’operatività dell’architetto può quindi applicarsi all’involucro architettonico, prefigurando larghe aperture complementari, piuttosto che concentrate immissioni: ne deriveranno stanze in confidenziale continuità con l’ambiente esterno, o ambienti che concentrano in se stessi, nella loro interiorità, la propria caratterizzazione.
Ne era ben consapevole Le Corbusier, quando nel medesimo edificio, a pochi metri di
distanza, diffonde la luce o la getta costretta, perseguendo due opposti obiettivi2:
penso ai potenti canon-lumière de La Tourette, individualmente proni sugli altari, e al
pan de verre ondulatoire, neutralmente posto a saturare l’intero spazio tra due solai.
Solo un largo portale pivotante separa le due operazioni di luce, così antitetiche. Gli
imbuti a soffitto sono di cemento vivo, brutale nella grezza casseratura, così come i
banconi degli altari che sono loro sottoposti; eppure il getto luminoso che li lega
insieme diviene un atto poetico che genera commozione. Tra ogni altare e la sua luce
si istituisce un rapporto di singolare intensità, nella totale astrazione da ciò che avviene intorno. A breve distanza, il ritmo cadenzato dei sottili listelli dei pans de verre
accompagna i passi dei monaci nel transito che questi compiono tra le celle e la cappella: la luminosità diffusa, il colloquio visuale con la corte, attribuiscono all’ambiente una valenza di pausa serena, ancora consapevole del tempo e della stagione.
Alla misura della luce ed alla sua focalizzazione possiamo aggiungere una successiva
ed interessante variabile: la direzione. Nel momento in cui il progettista incide il
guscio architettonico, si intromette nel naturale decorso del sole, importando negli
interni programmate invasioni luminose, che bagneranno gli spazi secondo ulteriori
direzioni loro assegnate: otterrà luce tendenzialmente orizzontale se opera sul piano
verticale (la facciata), la otterrà verticale se opera sul piano orizzontale (il tetto), o diagonale se opera nell’ambito di giunzione dei due piani.
Aprire le immissioni sul piano verticale è operazione consueta, i cui esiti sono vissuti
da ognuno di noi nella quotidianità degli spazi abitativi, tanto che si può ritenere tautologico che questa sia un’operazione progettualmente intenzionale. Anche qui, tuttavia, si possono ritrovare interessanti speculazioni quando la conformazione delle
aperture ed il dosaggio della luce immessa sono esito di una ricerca espressiva di forte
intenzionalità, strettamente legata al tema e all’occasione progettuale. Penso alla disgiunzione tra i pannelli di facciata che Tadao Ando ha realizzato nella Chiesa di
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Osaka, traducendo il simbolo della croce in pura fisicità. Nell’atto di non collegare
quattro porzioni di facciata, Ando ha operato “per assenza”: non ha aperto una finestra cruciforme, bensì ha permesso alla luce di sostituirsi al cemento, tra le sue lacune. (Nella profonda oscurità “galleggia una croce di luce isolata e non vi è altro”3 scrive Ando). Mai come in questa occasione, possiamo ricordare che lo spazio vuoto è in
realtà un pieno fisico, che la luce semplicemente ci materializza e ci rende percepibile. Attraversando il varco costretto, il fascio luminoso di Ando porta all’interno della
cappella una carica di energia sorprendente, connotata insieme di potere fisico e di
valenza simbolica, entro un luogo in cui il naturale e il trascendente sono destinati a
fertili rapporti.
Convogliare la luce dal piano orizzontale porta esiti di dualistica natura: da un lato,
avvicina l’interno architettonico alla condizione degli esterni (la luminosità che piove
dall’alto è quanto di più vicino ci sia alla situazione di spazio aperto), dall’altro lo isola
fisicamente, rispetto a questi (genera forzosamente ambienti introversi). Se utilizzata
con generosità, quale unica e determinante fonte, la luce zenitale crea una sorta di
microcosmo separato dal contesto, intento primariamente ad occuparsi di sé.
Quando Wright sceglie questa via per il Guggenheim Museum4, fugge infatti dalle
strade di New York, dai suoi grattacieli, dai suoi stilemi: per ricostruire una situazione
di “naturalità artificiale” entro la quale l’osservazione dell’opera d’arte è la primaria
attività dell’utente, posto in condizione di spostarsi tra le sale, in lunga e dolce discesa, come se procedesse pigramente lungo una via cittadina, e potendo nel contempo,
come avviene nella pubblica via, osservare gli altri ed essere osservato.
La città - quella vera - rimane estromessa. Nell’allargamento progressivo delle volute
spiraliformi, anche la luce proveniente dal fronte dell’edificio viene convogliata verticalmente, riproponendo senza mediazioni un unico stratagemma progettuale.
La luce diagonale mostra i più interessanti esiti quando viene applicata per punti, in
grado quindi di attraversare gli ambienti in fasce sciabolate e produrre scarti spaziali. Lo stesso Carlo Scarpa, dopo averla applicata in andamento lineare, sulla breve facciata del padiglione venezuelano ai giardini di Venezia, pochi anni dopo la ripropone,
per punti, nella Gipsoteca di Possagno5, realizzando dei veri solidi di luce in reiterato
colloquio con i gessi del Canova.
Nella variabilità del corso del sole e secondo la loro posizione, i tagli tra parete e soffitto proiettano sulle opere esposte bande diagonali di luce viva o imprigionano nei
volumi di vetro una luminosità chiara e ferma. Nelle giornate limpide, l’esterno
aggiunge un tocco di colore al candore delle stanze. “Volevo catturare l’azzurro del
cielo” dirà poi Scarpa su questo esperimento6.
Possiamo quindi affermare che posizione, taglia, forma delle aperture che guidano il
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passaggio della luce prefigurano (pre-determinano) il lavoro più o meno attivo, più o
meno caratterizzante, che verrà messo in azione negli interni: ma il termine passaggio
non va necessariamente identificato con il termine foro, o finestra, o taglio. Possiamo
riferirci, in sintesi, all’involucro edilizio in quanto unico filtro di passaggio dell’intensità luminosa, e allargare l’attenzione alle sperimentazioni effettuate sull’intera facciata: facciate-velario, o facciate-lanterna.
Le prime trovano i maggiori archetipi nella cultura mediterranea ed orientale, in ragione di implicazioni climatiche e culturali, e sono oggi reinterpretate nelle nostre città
attraverso il ricorso a nuovi materiali, o l’applicazione innovativa di materiali conosciuti. Contemporanei sperimentatori quali Kengo Kuma, Jun Aochi, Herzog & De
Meuron, Toyo Ito, Sean Godsell, Daniel Bonilla7 - per citarne alcuni - hanno realizzato, negli ultimi anni, interessanti speculazioni sul tema della facciata-graticcio, generando interni di luce morbida e ricca, frequentemente percorsi da un mobile pattern
di ombre sottili.
Le seconde, ovvero le facciate-lanterna, sono universalmente riconosciute come l’esito di secolari esperienze della cultura giapponese, ma sono rivisitate, nella contemporaneità, in una accezione più algida, che punta ad esaltare la pastosità e la perlescenza della luce, piuttosto che il suo calore, e a rilanciare all’esterno, nell’approssimarsi della sera, la propria luminescenza, con l’ausilio della luce artificiale.
Come già avviene con la luce zenitale, il ricorso alla facciata traslucente e opalina
genera interni introversi; qui tuttavia, nella mobilità delle ombre, sono intuibili evanescenti tracce di vita celata.
Il ruolo per secoli impersonato dall’alabastro e dalla carta di riso è oggi delegato a
tutte le declinazioni del vetro e dei metacrilati, anche se non mancano, come già per
le facciate-graticcio, numerosi esperimenti di “reinvenzione” di antichi materiali, quali
il marmo pentelico o il ricordato alabastro8. Lo stesso vetrocemento, latente citazione
dell’indimenticabile Maison De Verre di Pierre Chareau, viene ora applicato su facciate di impressionante dimensione, o riproposto su pezzature giganti9, ad ammantare
spazi dilatati della medesima morbidezza e imperscrutabilità appartenute alla minuta residenza parigina del maestro.
Il ricorso alla doppia pelle accomuna quasi tutte le realizzazioni più recenti: la captazione della luce si fa in questo modo ancor più rallentata, raggiungendo una sorta di
densificazione dei raggi luminosi nella camera di decompressione dei due involucri;
ulteriori declinazioni del tema, quali le vitree scaglie aperte, proposte da Peter
Zumthor a Bregenz, o la consistenza tridimensionale di pannelli acrilici, proposta dai
Sanaa a Tokyo per Dior10, testimoniano le ulteriori complessità dell’apparato luminoso che si va apprestando.
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Fig. 1. Sezione tipo sulla
facciata a doppia pelle.
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Figg. 2 - 3. Esterni (foto Gian Paolo Minelli).
Fig. 4. Cantiere (foto Gian Paolo Minelli).
Fig. 5. Interno, accoglienza
(foto Gian Paolo Minelli).
Fig. 6. Sezione longitudinale, piante livello terra e
primo.
Pia Durish, Aldo Nolli, m.a.x.Museo, Chiasso, progetto: 2002-2003, realizzazione: 2003-2005.
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Il binomio architettura e luce è capace, tuttavia, di proporsi (e risolversi) anche sotto
l’egida della massima semplicità, nel ricorso all’essenziale. Per questo motivo, ho scelto di concludere queste veloci osservazioni con un solo esempio, da osservare da vicino con l’ausilio di qualche disegno e con lo sguardo curioso dell’architetto che vuole
capire i “come” e non si contenta dei “perché”: è la candida machine à lumière costruita di recente a Chiasso11, con la firma di Maria Pia Durish e Aldo Nolli.
Netta ed essenziale, la volumetria di luce del nuovo m.a.x.museo12 di Chiasso si concentra entro minimi gesti. Un guscio ovattato, che assegna alla luce una morbidezza
pastosa e perlescente. Una consapevole neutralità delle sale, fatte di ambienti puri in
semplice successione, da varcarsi lungo l’asse centrale tra pareti imparziali. Il ricorso
ad un solo colore - il bianco - mediante la declinazione di tutte le durezze, trasparenze, rifrazioni, assorbenze che il bianco assume e libera sui differenti materiali.
Durish e Nolli lo definiscono “un edificio semplice”; di certo, la riduzione dei mezzi linguistici adoperati è sistematica e priva di deroghe.
Gli spazi interni sono disegnati direttamente dalla struttura portante, composti nella
nettezza per accogliere esposizioni e non per esporsi. La realtà urbana, ancora percepibile e partecipe nella sala di ingresso attraverso la generosa vetrata su strada, è
allontanata dalla nostra attenzione in tutte le sale successive, ove spazi calmi, di
ampie pareti riempite di chiarore, costituiscono luoghi distaccati che si sottraggono
alla vista ed al rumore della città.
La volumetria esterna è altrettanto essenziale, composta in scatola prismatica che si
proietta in forte sbalzo sul podio di accesso. Le pareti in vetro opaco serrano il volume fino agli spigoli, disegnando nel giorno e nella notte un volume di luce alternativamente assorbita o emanata.
A ridosso del vetro, discrete variazioni d’ombra lasciano intuire minute differenze di
profondità, diverse articolazioni dello spazio: dietro la semplicità degli esiti, possiamo
avvertire attente scelte di progetto, soprattutto nel disegno della sezione.
La costruzione della machine à lumière è resa possibile dalle opzioni strutturali di partenza, che permettono di realizzare il grande sbalzo e la doppia pelle di facciata.
Prima opzione: entro la lunga pianta rettangolare, la struttura portante è concentrata nella quota centrale, composta in una serie di vani quadrangolari in calcestruzzo
che sorreggono i solai, lasciando in aggetto le due sale terminali alle estremità brevi.
Seconda opzione: l’intero volume del livello superiore riduce la pianta rispetto ai piani
sottostanti, liberando uno spazio perimetrale per la costruzione della seconda pelle.
Le successive scelte progettuali sono funzionali ad esasperare od articolare quelle
strutturali. Osserviamone alcune. L’altezza del piano terra è fortemente compressa
(mt. 2,70) rispetto al piano superiore (mt. 4,80), amplificando la forza del volume in
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aggetto, che risulta apparentemente sospeso su minuscole basi. La scelta di operare
a sbalzo permette di liberare da setti portanti entrambe le testate: ma lo sbalzo è fortemente percepito all’ingresso, ove conforma un profondo portico di ingresso, ed è
invece celato, all’estremità opposta, dalla facciata chiusa fino a terra; l’assenza di
solaio amplia in doppia altezza il sottostante vano a livello interrato. I setti che reggono i solai sono composti in forma di minute stanze e corrispondono ai vani di servizio ed ai corpi scala e ascensore, portando alla essenziale coincidenza tra struttura
portante e struttura di distribuzione.
Le scelte di finitura, così come quelle impiantistiche, sono indirizzate alla massima
riduzione degli strati, evitando accuratamente il ricorso ad ogni sorta di rivestimento
all’interno dell’edificio: nessun controsoffitto, lastra di pavimentazione, controparete
avvolge infatti le strutture. La copertura, portata longitudinalmente con travi precompresse, accoglie direttamente al suo interno (non entro massetto, ma nella massa
di 32 cm. del solaio) le condotte di aria e acqua; nelle sale, mandata e ripresa dell’aria sono risolte in fessura continua a pavimento, lungo parete, e in lineari tagli a soffitto, utilizzati anche per l’apparato elettrico; la struttura in cls è intonacata a gesso;
il pavimento, in cemento corazzato con polvere di quarzo, ha solo un impregnante
opaco di finitura.
Si realizza così il massimo risparmio degli elementi: entro l’economia generale del progetto si è guadagnato lo spazio ammissibile per la deroga espressiva della doppia
pelle, strumento necessario per declinare tecnicamente il tema della machine à lumière. Tramite sottili operazioni di sezione, il doppio guscio dell’edificio è disegnato con
intercapedine di misura variabile, da un minimo di 17 cm. ad un massimo di 63. La
facciata interna, climatizzante, è in setti di calcestruzzo e pannelli finestrati; vi si
sovrappone la seconda pelle in u-glass stampato, sostenuta da un profilo continuo a
T in acciaio, fissato per punti in testata dei solai con staffe in acciaio ad interasse di
mt.1,85. Dall’interrato, la struttura perimetrale affiora oltre alla quota strada, fino al
piano del podio di accesso, per poi arretrare - in misure crescenti - al piano terra e al
superiore; il guscio esterno riporta ad unità il volume, avvolgendo di lastre in vetro
profilato l’intero fronte, in unico allineamento complanare, dalla copertura all’attacco
a terra. La vetrata trasparente al piano terra, aperta sulla hall, è vetrina sul museo; la
facciata traslucida, in tutto il suo spessore, diviene una vetrina permanente del
museo. L’intercapedine è progettata per accogliere installazioni ed esposizioni; predisposta quindi per parlare nel tempo con parole sempre rinnovate, anticipare contenuti, preannunciare eventi.
Nel guscio interno, due sole opzioni per la dimensione dei fori, correlate però alle scelte di sezione nei diversi livelli: lunghi tagli a nastro nei vani a grande altezza, in som-
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mità delle pareti (luce diagonale) e aperture a tutta altezza nei vani compressi (luce
laterale). Due sole opzioni per la scelta del relativo vetro (acidato o trasparente). Dalla
sovrapposizione e mescolanza di questi minimi scarti progettuali si realizzano tuttavia sorprendenti variazioni di tono nella percezione degli spazi.
Il passaggio della luce naturale all’interno del museo risulta infatti dosato su modulazioni progressive nei differenti ambiti: larga e diretta di fronte al desk accoglienza,
larga e filtrata alle sue spalle, larga e rifratta nella piccola corte all’ultimo livello, alta
e morbida nelle sale sui diversi piani dell’edificio, ove la distanza variabile tra i vetri
opalini del doppio guscio innesca impalpabili differenze di pastosità.
Mi torna alla mente una nota, confusa tra le carte dello studio dei progettisti. Era una
nota tracciata a mano, a margine di una foto del cantiere, ove il nitido stampatello di
Nolli appuntava:
Gli spazi del maxmuseo visti da occhio neutrale. Spazi in divenire. Luci e ombre.
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Note
1
Giuseppe Terragni, Pietro Lingeri, Danteum, Roma 1938. “Un tempio ripartito in Sale che poste a
quote diverse stabiliscono un percorso ascendente e che costruite in modo diverso si integrano a
vicenda preparando gradualmente il visitatore ad una sublimazione della materia e della luce”, dalla
relazione di progetto, SCHUMACHER T., Terragni e il Danteum, Officina, Roma 1983, p. 142.
2
Le Corbusier, Couvent Sainte-Marie-de-la-Tourette, Eveux-sur-Arbresle 1957-60.
3
Tadao Ando, chiesa della luce, Ibaraki, Osaka, 1988-9. La citazione di Ando: DAL CO F., Tadao
Ando, Electa, Milano 1994, p. 455.
4
Frank Lloyd Wright, Guggenheim Museum, New York 1959.
5
Carlo Scarpa, Padiglione del Venezuela, giardini di Castello,Venezia1954-56; ampliamento della
gipsoteca Canoviana, Possagno (Treviso) 1955-57.
6
SCARPA C., Volevo ritagliare l’azzurro del cielo (a cura di F. Semi), “Rassegna” n. 7, 1981.
7 Kengo Kuma, bamboo wall a Pechino e Stone Museum a Nasu; Jun Aochi, show room Louis Vuitton
Omotesando, a Tokyo; Herzog & De Meuron, cantine Moueix in Napa Valley e caselli ferroviari a
Basilea; Toyo Ito, padiglione a Bruges; Sean Godsell, Peninsula house a Victoria, Australia; Daniel
Bonilla, cappella Milagrosa a Cundinamarca, Colombia.
8
Ricordo al riguardo: Alberto Campo Baeza, Caja General de Ahorros a Granada; Franz Füeg, chiesa
a Meggen, Svizzera; MAP architectes, Deutsche Bundesbank a Chemnitz, Germania.
9
Pierre Chareau, Maison De Verre, Paris 1931 e, recentemente: Renzo Piano, casa Hermes a Tokyo;
Rafael Moneo, Centro Congressi a San Sebastian.
10
Peter Zumthor, Kunsthouse a Bregenz; Sanaa, show room Dior Omotesando a Tokyo.
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In memoria di Max Huber, uno dei maggiori esponenti della grafica europea del dopoguerra
(1919-92), la vedova Aoi costituisce la Fondazione Max Huber.Cono per la promozione dell’arte grafica, del design, dell’architettura. Nell’area industriale dismessa del garage Martinelli si realizza il
museo (il primo di nuova edificazione in Ticino) e, recuperando il vecchio deposito di auto, lo si completa con lo Spazio Officina, sala multiuso per attività temporanee.
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m.a.x.Museo è un acronimo spensierato che si può leggere a più livelli: ove m.a.x. può intendersi
come Max, ovvero Max Huber, in memoria del quale il museo è stato creato, ma anche dove “m.” sta
per Museo, o per Multimedia, e “a.” sta per Arte, oppure Avanguardia, o Architettura, e dove “x.” sta
ad indicare che non ci sono formule precostituite per definire l’idea di arte che il museo ospiterà. In
sintesi, un Museo d’Arte X, aperto all’imprevisto.