Il vedutismo veneziano: una nuova visione

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Il vedutismo veneziano: una nuova visione
27 maggio 2011
Il vedutismo veneziano:
una nuova visione
A Venezia, dipingi, dipingi!
Ti grida la luce, scambiandoti per un
Canaletto, un Carpaccio, un Guardi
Atti del Seminario
27 maggio 2011
Sala della Passione
Pinacoteca di Brera, Milano
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www.fondazionebracco.com
Il vedutismo veneziano:
una nuova visione
in collaborazione con
National Gallery of Art,
Washington
Il vedutismo veneziano:
una nuova visione
Atti del Seminario
27 maggio 2011
Pinacoteca di Brera, Milano
Sommario
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Introduzione
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Programma
Gli interventi
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Diana Bracco
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Sandrina Bandera
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Aldo Bassetti
20
Caterina Bon Valsassina
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David Allan Brown
38
Giandomenico Romanelli
53
Dario Camuffo
144
Dario Maran
182
Mariolina Olivari
Introduzione
Fedele alla propria missione di promuovere il patrimonio
artistico e storico italiano nel mondo e di diffondere espressioni della cultura, della scienza e dell’arte, la Fondazione
Bracco è stata sponsor ufficiale della mostra “Venezia, Canaletto e i suoi rivali”, organizzata alla National Gallery of
Art di Washington dal 20 febbraio al 30 maggio 2011, dove
sono stati presentati al pubblico americano 20 dipinti di
Canaletto e 33 dei suoi contemporanei più importanti, tra
cui Gaspare Vanvitelli, Luca Carlevarijs, Michele Marieschi,
Bernardo Bellotto e Francesco Guardi.
La mostra è stata uno dei massimi eventi culturali a Washington nell’anno delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, registrando oltre 100.000 visitatori nei tre mesi
di apertura.
A chiusura della rassegna di Washington, si è voluto organizzare a Milano presso la Pinacoteca di Brera, in collaborazione con l’Istituzione stessa e l’Associazione Amici di
Brera, il Seminario dal titolo “Il vedutismo veneziano: una
nuova visione” per riflettere sull’eredità culturale e scientifica di questa grande stagione della pittura veneziana, che ha
messo in luce l’inscindibile connubio di arte e scienza.
Lo stretto rapporto tra due discipline che si completano
reciprocamente, come la ricerca pittorica e la ricerca scientifica, è stato ampiamente dimostrato all’interno della mostra
stessa, dove, in uno spazio dedicato, è stato presentato lo
strumento noto come “camera oscura”, usato da alcuni dei
Vedutisti per costruire le loro vedute.
Infatti come ha dichiarato il curatore della pittura italiana dell’Istituzione statunitense, David Alan Brown, uno
tra i massimi esperti internazionali, “la grande esposizione
allestita alla National Gallery of Art, è stata caratterizzata
da una forte componente scientifica, legata soprattutto alla
camera oscura: sappiamo che i pittori veneziani tenevano
moltissimo alla precisione topografica dei propri lavori e
sembra che, per costruire le loro vedute, abbiano utilizzato
diversi strumenti tecnici, come appunto la camera oscura o
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una lente grandangolare. Lungi dall’essere un’illusione ottica, la camera oscura era funzionale all’organizzazione della
congerie di dati visivi presenti nell’occhio ai fini della loro
rappresentazione su una superficie piana”.
Di conseguenza la Fondazione Bracco ha commissionato uno studio sull’uso della camera oscura da parte dei Vedutisti a Dario Camuffo, Professore dell’Istituto di Scienze
dell’Atmosfera e del Clima del CNR di Padova, mentre Dario
Maran, docente alla veneziana Ca’ Foscari, ha contribuito
coni suoi studi offrendo un’analisi dettagliata del “Quaderno” di disegni di Canaletto, i cosiddetti “scaraboti”, tracciati
grazie alla camera oscura, che ci svelano come alla fine il
pittore li usasse per “montare” le sue vedute al pari di scenografie teatrali.
Inoltre Giandomenico Romanelli, già direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia, ha illustrato il nuovo modo
di intendere la “visione” introdotto da Canaletto e dai suoi
amici/rivali per immortalare una città che ha ispirato una
scuola di pittori, i quali ne hanno dipinto pietra per pietra,
canale per canale, catturando vedute, ancora oggi riconoscibili, divenute icone nell’immaginario del mondo.
Ma erano proprio “vedute” o non erano invece “visioni”?
Ecco l’intrigante interrogativo, a cui il Prof. Romanelli cerca
di dare una risposta, sottolineando come questi pittori non
siano nati dal nulla, ma al contrario abbiano lavorato su un
humus culturale ricchissimo, popolato in pochi decenni di
distanza, prima o dopo di loro, da figure dello spessore di
Tiepolo o Algarotti e su cui le suggestioni architettoniche di
Vitruvio e Palladio e le visioni di Piranesi, hanno esercitato
un influsso enorme.
Fu vera città o quella, come l’Illuminista Francesco Algarotti, famoso in tutta Europa, sollecitava Canaletto, che
“fabbricar potrebbesi?
Ai lettori il dubbio, se non la sentenza.
π
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Programma
14.30
Registrazione partecipanti
15.00
Saluto di benvenuto
Diana Bracco
Presidente Fondazione Bracco
Sandrina Bandera
Soprintendente e Direttore della Pinacoteca di Brera
Aldo Bassetti
Presidente Associazione Amici di Brera
Caterina Bon Valsassina
Direttore Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Lombardia
15.40
Video sulla mostra “Venice: Canaletto and his Rivals”
National Gallery of Art, Washington
15.45
“Venezia: Canaletto e i suoi rivali”
David Alan Brown
Curatore pittura italiana, National Gallery of Art, Washington
16.15
“Canaletto e i suoi amici: veduta e/o visione?”
Giandomenico Romanelli
Direttore Fondazione Musei Civici di Venezia
8
16.35
Video sull’uso della camera oscura nel ‘700
National Gallery, London
Si ringrazia la National Gallery di Londra per la gentile concessione
16.50
“La Camera Oscura:
il nostro occhio nel passato”
Dario Camuffo
CNR - Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima
17.20
“Canaletto e il Quaderno”
Dario Maran
Università Ca’ Foscari di Venezia
17.35
“Un capriccio di Carlevarijs a Brera”
Mariolina Olivari
Pinacoteca di Brera
17.50
Visita alla Pinacoteca di Brera con focus
sulle opere dei Vedutisti presenti nella
Collezione (Canaletto, Bellotto, Carlevarijs)
18.30
Aperitivo
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Saluto di benvenuto di Diana Bracco
Presidente Fondazione Bracco
Buongiorno e benvenuti a tutti.
Un grazie anzitutto al Soprintendente e Direttore della Pinacoteca di Brera Sandrina Bandera e al Presidente
dell’Associazione Amici di Brera Aldo Bassetti che ospitano
il nostro simposio in questa splendida Sala della Passione.
Fondazione Bracco ha fortemente voluto questa importante giornata di studio che si tiene pochi giorni prima della
chiusura della mostra “Venezia: Canaletto e i suoi Rivali”.
L’esposizione, che è stata organizzata a Washington dalla
National Gallery of Art insieme con la National Gallery di
Londra e che è stata sostenuta dalla nostra Fondazione, ha
avuto uno straordinario successo di pubblico, registrando
oltre 100.000 visitatori fino ad oggi, ed è stata uno dei massimi eventi della Capitale americana.
Voglio ringraziare di cuore il Prof. David Allan Brown
della National Gallery of Art di Washington, tra i massimi
esperti mondiali di pittura italiana, che ci onora della sua
qualificata presenza e che ci illustrerà alcuni aspetti artistici
e scientifici legati alla mostra.
Un grazie a distanza anche a Charles Beddington, curatore dell’esposizione di Londra e di Washington: la collaborazione tra le due Gallerie Nazionali inglese e americana
ha permesso di raccogliere un numero eccezionale di capolavori, tra cui venti fra i più bei Canaletto esistenti. Come
Fondazione Bracco siamo stati onorati e orgogliosi di aver
contribuito a un così significativo progetto culturale, proprio
nell’anno in cui si celebra il 150° anniversario dell’Unità
d’Italia.
Questa d’altronde è stata solo una delle tante importanti
iniziative che abbiamo messo in campo per onorare questa
storica ricorrenza.
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Lasciatemi ricordare anzitutto il sostegno al Concerto
dell’Orchestra della Fondazione Lirico-Sinfonica del Petruzzelli diretta dal Maestro Maazel che si è tenuto il 17 marzo
scorso presso l’Ambasciata d’Italia a Washington. Un modo
concreto per contribuire alla promozione della cultura italiana nel mondo e per rinsaldare la lunga amicizia tra Italia
e Stati Uniti.
Un ulteriore grande progetto è stato il restauro della Galleria di Papa Alessandro VII Chigi nel Palazzo del Quirinale,
la cui conclusione è prevista quest’anno. Per noi è un’occasione storica: è la prima volta, infatti, che un soggetto privato
ha l’opportunità di essere Partner della Presidenza della Repubblica in un progetto di recupero della sua centenaria sede.
Tre iniziative legate ai 150 anni dell’Unità d’Italia e accomunate da un unico fil rouge: la tutela e la promozione, in Italia
e nel mondo, del patrimonio culturale nazionale.
Proprio questa spiccata “italianità”, che ci piace rivendicare, è uno dei tratti della Fondazione Bracco. Un’istituzione
nata da poco più di un anno, ma già attiva in progetti culturali, scientifici e sociali impegnativi, che affonda le sue
radici nel patrimonio di valori maturati in oltre 80 anni di
storia della Famiglia e dell’Azienda Bracco.
Ciò che rende uniche le imprese familiari è proprio il fatto che si fondano sulla volontà di un imprenditore che vuol
costruire qualcosa che vada al di là del lavoro, un progetto di
vita che racchiude al suo interno una storia vera e personale
– quella appunto di una famiglia. Proprio per questo mi sento di dire che le imprese familiari sono dotate di una qualità
e di una linfa vitale che dà loro qualcosa in più: l’anima.
La Fondazione Bracco vuole cercare di cogliere e custodire quest’anima, facendola conoscere ai nostri giovani. E
penso alle giovani generazioni dei miei nipoti, ma anche ai
molti giovani che entrano via via a lavorare nel Gruppo.
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La Fondazione, che ha una connotazione fortemente internazionale, si propone di sostenere la valorizzazione del
patrimonio culturale, storico e artistico nazionale; sviluppare la sensibilità ambientale; promuovere la ricerca scientifica e la tutela della salute; favorire la formazione professionale dei giovani; sviluppare iniziative di carattere assistenziale
e solidale per contribuire al benessere della collettività.
All’interno delle macroaree “scienza”, “sociale”, “cultura”, stiamo realizzando progetti concreti, tutti ispirati
al patrimonio di valori tangibili e intangibili dell’impresa
Bracco e degli imprenditori che attraverso le generazioni ne
sono stati alla guida: l’etica della responsabilità, il senso del
dovere, la ricerca della qualità e dell’eccellenza, l’impegno
per l’innovazione continua, l’attenzione verso la persona, lo
stretto legame con le comunità e il territorio.
Nell’ambito delle iniziative a carattere scientifico la
Fondazione dedica un’attenzione speciale su aree quali la
diagnostica e la prevenzione, la medicina personalizzata, lo
studio delle interrelazioni fra le problematiche della salute e
quelle socioculturali. Inoltre, la “questione di genere”, ovvero l’attenzione verso le problematiche femminili nei vari
ambiti della vita, è il vero fil rouge che collega in modo trasversale tutti i nostri progetti.
È per questo che, in occasione dell’8 marzo di quest’anno
e del 2010 abbiamo organizzato due simposi scientifici centrati proprio sulla salute della donna: nel primo abbiamo avviato una riflessione su “Diagnostica e prevenzione amiche
della donna”; nel secondo abbiamo presentato i risultati di
un’indagine scientifica realizzata dalla DOXA per la Fondazione Bracco in collaborazione con l’Assessorato alla Salute
del Comune di Milano, in cui viene valutato l’impatto degli
stili di vita e delle attività culturali e sociali sulla felicità dei
cittadini, con un focus particolare sulla popolazione femminile.
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In ambito culturale, come Bracco abbiamo sempre creduto che non si possa costruire il futuro se non si conosce
il passato; proprio perché consideriamo l’unione di impresa
e cultura un binomio vincente, abbiamo sostenuto prima
come Azienda e ora attraverso la Fondazione progetti culturali in vari campi in Italia e all’estero: dalla musica classica
al recupero di beni architettonici all’organizzazione di mostre d’arte.
Questa straordinaria mostra su Venezia, ad esempio, rappresenta il proseguimento di un rapporto che con la National Gallery of Art di Washington risale già al 2006, quando
Bracco ebbe l’opportunità di sostenere l’esposizione dedicata
ai grandi Maestri del Rinascimento Bellini, Giorgione e Tiziano.
Oltre alle iniziative a favore della scienza e della cultura,
l’impegno di Fondazione Bracco si declina infine anche
nei tanti programmi a carattere sociale: voglio richiamare
in particolare le iniziative rivolte ai giovani, e intese come
investimento nello sviluppo individuale e collettivo dei ragazzi. I giovani sono infatti una risorsa indispensabile per
costruire un futuro all’insegna di un’equilibrata convivenza. Molti i programmi concreti già realizzati: dalle borse di
studio in campo scientifico e artistico ai progetti di collaborazione con l’Istituzione scolastica e le Università; dalle
opportunità di stage in azienda alle attività ricreative; dal
sostegno allo sport al supporto al disagio.
Tutti progetti volti a coltivare e a far crescere i talenti
individuali, tenendo stretto il legame tra il patrimonio da
conservare e il futuro da costruire. Promuovere l’arte e la
scienza e aiutare i giovani ci sembra il modo migliore per
mantenere vivo questo legame.
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Franz Kafka diceva che la giovinezza è felice perché ha la
capacità di vedere la bellezza. Chiunque sia in grado di mantenere la capacità di vedere la bellezza non invecchierà mai
veramente, e sarà sempre capace di capire il presente e immaginare il futuro.
Grazie a tutti.
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Sandrina Bandera
Soprintendente e Direttore della Pinacoteca di Brera
Meritato applauso alla Signora Bracco e alla Fondazione
Bracco che fa sempre tanto per la cultura e per portare anche all’estero la grandezza dell’arte e della cultura italiana.
Ho avuto la fortuna di vedere a Washington la mostra. È
una mostra straordinaria per il tema della veduta, che naturalmente è sempre toccante, per l’aspetto anche di diffusione, della comunicazione che metteva bene in luce anche
la problematica della committenza e che è sempre molto
affascinante, moderna, dopo gli studi di Francis Haskell. Ma
devo dire ciò che mi ha straordinariamente affascinato nel
vedere queste opere, quasi tutte di collezione francese o anglosassone, comunque non italiane, quindi di provenienza
abbastanza rara, è la poesia straordinaria della pittura di
questi Maestri veneziani. E credo che sia questo il punto nodale che ha affascinato anche i centomila visitatori. La luce,
la sensazione di percepire i silenzi della laguna, la liquidità
della laguna, i rumori del mattino. Un fascino incredibile,
perché è veramente, al di là di qualsiasi argomento di studio,
di qualsiasi argomento di prospettiva, comunque una pittura
di una poesia straordinaria. Quindi è anche bello che qualcuno in Italia abbia sostenuto questa diffusione all’estero
di un settore così importante della nostra cultura artistica.
Sono stata così grata alla Fondazione Bracco quando ci è
stata offerta l’occasione di offrire in qualche modo, se così si
può dire, questa sala per lo svolgimento della presentazione
della mostra qui a Milano. È anche un’occasione per avere
degli studiosi importanti, come David Allan Brown e Romanelli, i professori Maran e Camuffo e anche, devo dire, per
dare un po’ di spazio e di lustro a una donazione recente di
un Carlevaris che generosamente ci è stato offerto. Il donatore tra l’altro è qui presente e quindi un’occasione anche
per dare un po’ di spazio alla Pinacoteca che ha un settore
abbastanza dignitoso di vedutisti.
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Non voglio occupare di più questo tempo prezioso e passo la parola a chi è stato un po’ paladino e ha fatto da intermediario, che nelle grandi occasioni ci è sempre vicino, il
nostro presidente degli Amici di Brera, Aldo Bassetti, che ci
sostiene sempre nelle grandi giornate.
π
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Aldo Bassetti
Presidente Associazione Amici di Brera
Grazie prima di tutto. Io sono molto lieto di partecipare
a questo seminario che certamente – e guardo la Dott.ssa
Bracco – inaugura un rapporto di collaborazione tra gli Amici di Brera, che sono da sempre attivi a fianco della Pinacoteca, e la Fondazione Bracco,che si è distinta in questi anni
per la qualità e l’interesse delle proprie iniziative.
Fu proprio a seguito - e Lei, Dott.ssa Bracco lo ricorda
– del convegno “Perché è importante investire in cultura”,
convegno organizzato dalla Fondazione Bracco, in quegli
splendidi ambienti, che io pensai a una possibile, reciproca
collaborazione.
C’è stata poi una conferenza stampa di presentazione
della mostra di Washington, esempio molto valido di come
una privata Fondazione, gestita con visioni intelligenti e moderne e sottolineo questi aspetti, possa sollecitare, approfondire temi di particolare valore storico e artistico e ricavarne
conclusioni di grande interesse. Perché una delle cose che
più mi ha colpito è stato il tasso d’interesse del pubblico
che era presente durante quella conferenza stampa. E difatti l’attenzione dei partecipanti, gli stimoli e le curiosità
suscitati, furono assolutamente inaspettati. Fu così aperto
un nuovo interesse nell’osservazione dei dipinti dei Vedutisti
veneziani e, quindi, un ulteriore convincimento dell’assoluta qualità ed eccezionalità di quelle opere. Infatti io mi ricordo quando l’esperto fece vedere quella camera oscura, capii
come la descrizione del paesaggio non era un descrizione di
tipo fotografico, ma era una descrizione di tipo interpretativo, creativo.
Al termine di quella conferenza io mi congratulai con
la presidente della Bracco ed ebbi modo di esprimerle (mi
ricordo che eravamo in piedi in anticamera) quanto sarebbe
stato auspicabile un seminario di approfondimento su Canaletto e il Vedutismo Veneziano.
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L’importante mostra di Washington, che la Fondazione
Bracco ha sponsorizzato con sapiente mecenatismo e intelligente opportunità, diventa un’occasione importante, anche
per Milano. Infatti nella nostra città, oltre alle opere conservate a Brera, sono presenti veri e propri capolavori di quel
periodo in numerose collezioni pubbliche e private. Quindi
sono certo che i collezionisti milanesi e non solo questi non
potranno non essere stimolati dal tema e dalla qualità di
questo seminario. L’importanza dei relatori, le loro qualifiche e professionalità ne garantiscono la validità.
D’altra parte la Pinacoteca di Brera è un importante e
fondamentale punto di riferimento storico e artistico della
città. Ecco allora che gli Amici di Brera tenacemente insistono affinché le importanti forze economiche e culturali,
presenti a Milano, sollecitino e partecipino all’attuazione
del grande progetto di Brera. Non è e non deve essere impossibile.
Lo scorso luglio, a Palazzo Marino, veniva sottoscritta
un’intesa tra i Ministeri competenti e cioè Beni Culturali,
Difesa e Università, per la realizzazione della Grande Brera.
Da quel giorno purtroppo abbiamo avuto soltanto silenzio e
immobilità. E colgo, pubblicamente se mi consentite, l’occasione di ribadire la necessità di realizzare quanto contenuto in quel documento. È un contenuto generico, ma è un
contenuto politico e di principio. Nuovi spazi espositivi per
la Pinacoteca. Sale per le mostre temporanee. Auditorium.
Sono una reale necessità di questa Pinacoteca e Milano non
può mancare questa occasione.
Quindi io ringrazio Sandrina Bandera che ci ha dato l’ospitalità in questa splendida sala. Ringrazio la Fondazione
Bracco e ho terminato. Grazie.
π
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Caterina Bon Valsassina
Direttore Regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici della Lombardia
Buonasera a tutti. Io per la verità non ho fatto assolutamente nulla per la giornata di studi, salvo essere qua, con grande
gioia, e quindi debbo, come primissima cosa, ringraziare le
tre persone che mi hanno preceduto nelle comunicazioni: la
Presidente della Fondazione Bracco che non solo ha realizzato la mostra americana, ma anche ha consentito questo
convegno, Aldo Bassetti, presidente degli Amici di Brera e
amico anche mio personale, per avere consentito a tutti noi
di essere oggi qui presenti attorno a un argomento che m’interessa molto sia come direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici della Lombardia, ma molto di più come
storico dell’arte e “veneziana” nel cuore. Ringrazio per ultima il Soprintendente Sandrina Bandera, in base al principio
family hold back,dove per “family” si intende il Ministero
per i beni e le attività culturali in tutte le sue articolazioni,
che ci ospita tutti.
Esauriti saluti e ringraziamenti per l’eccellente organizzazione della giornata,aggiungo che m’interessa di questo
convegno assolutamente tutto, dai nomi dei relatori che
sono tutti amici e colleghi, penso a David Allan Brown, all’amico Romanelli, m’interessa il contenuto e soprattutto la
raffigurazione di Venezia, che ancora ricordo dalla mostra
di Treviso su Canaletto curata da Giuseppe Pavanello nel
2009, di cui parlavamo un attimo fa con Nico Romanelli.
Quindi è un tema interessantissimo questo del vedutismo
veneziano. Sono molto curiosa dell’intervento che farà Camuffo sulla camera oscura, vista da un punto di vista di storia della scienza, come funzionava esattamente, e mi torna
alla mente un testo che per me è sempre stato capitale per
capire come funzionavano quegli strumenti di osservazione
che tentano di riprodurre la realtà, ma poi anche di interpretarla. Penso alla Svetlana Alpers nel suo saggio L’arte del
descrivere e a uno splendido brano di Comenio che lei riporta in questo libro, un testo della metà del Seicento, in cui dà
le indicazioni di come vada condotta un’osservazione corretta con tutte le prescrizioni per “insegnare a osservare”: un
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metodo che può essere praticato utilmente per osservare un
prato, un quadro, qualsiasi cosa, che guida l’osservatore in
maniera tale che l’occhio diventi come una sorta di scanner
laser – lo dico con un termine moderno – in grado di implementare la propria memoria visiva. Io questo insegnamento
sull’ osservazione del Comenio l’ho praticato per constatarne l’efficacia e verificare che non è vero che sempre osserviamo seguendo queste prescrizioni. Ho potuto praticare su me
stessa, che se si osserva così come dice il Comenio, in realtà
qualunque cosa si guardi in questo modo, viene immagazzinata in maniera indelebile nella propria memoria visiva.
Per questo sono particolarmente curiosa di quell’aspetto non
solo da storico dell’arte puro, ma utile a capire invece come
funzionava l’unione fra strumenti di osservazione e l’arte
della pittura.
Un altro aspetto delle comunicazioni di questa giornata
che mi è particolarmente caro sono i temi raffigurati, e cioè
Venezia. Venezia in cui possiamo andare a guardare “ma
guarda, quella cosa adesso non c’è più” e vedere come la
pittura non serve solo a dire che è bella o che è interessante
o perché la si collezionava, ma potrebbe essere anche un
utilissimo strumento, per esempio, nel corso di un restauro
di un edificio, per vedere gli scarti, per vedere come si tinteggiava, che materiali si utilizzavano e così via. Voglio dire
come utilizzare i quadri anche come documenti figurativi
che possano servire non solo per la loro qualità estetica, ma
anche per indagare con maggior precisione sull’assetto di
una città nel suo insieme.
Io a questo punto però sono troppo curiosa e quindi mi
preparo ad ascoltare i convegnisti. Grazie.
π
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Venezia: Canaletto e i suoi rivali
David Alan Brown
Curatore pittura italiana
National Gallery of Art, Washington
Sarà ancora aperta per tre giorni, fino al 30 maggio, alla
National Gallery of Art di Washington la mostra Venezia:
Canaletto e i suoi rivali, che ha riscosso un successo internazionale. A quegli appassionati d’arte che non possono resistere a un buon affare può interessare sapere che l’ingresso
alla mostra, così come alla Galleria stessa, è gratuito. Ma,
dato il tempo limitato e la probabilità che chi non l’abbia
ancora visitata non lo farà, vorrei in questa occasione proporre una sorta di visita virtuale dei suoi punti di maggior
interesse. Organizzata in collaborazione con la National
Gallery di Londra, questa esposizione è allestita su due livelli nell’East Building della galleria, disegnato dall’architetto IM Pei e aperta al pubblico nel 1978 alla presenza del
Presidente Jimmy Carter. L’esposizione presenta una ventina
dei più bei dipinti di Canaletto e oltre trenta opere dei suoi
contemporanei più importanti, tra i quali Gaspare Vanvitelli, Luca Carlevarijs, Michele Marieschi, Bernardo Bellotto
e Francesco Guardi. Ognuno di questi pittori di Venezia ha
rappresentato la città in modo diverso e tutti in competizione fra di loro in un mercato dominato dal British Grand
Tour, al suo apice nel XVIII secolo. Il concetto della mostra
come una serie di rivalità con il Canaletto è stato sviluppato dal curatore Charles Beddington, esperto dell’artista e
mercante d’arte a Londra. Il mio ruolo, come curatore di
coordinamento a Washington, è stato quello di contribuire a
selezionare le opere, a progettare l’installazione, e a preparare didascalie e targhe. Il mio personale campo di ricerca,
come molti di voi sapranno, è il Rinascimento italiano e,
detto tra noi, devo confessare che quando ho iniziato a lavorare su questo progetto, non apprezzavo particolarmente
i dipinti dei Vedutisti. Ora, a tre anni di distanza, posso dire
di essermi convertito alla bellezza e alla complessità del genere, in particolare al Canaletto, che è, a mio parere, il vero
eroe della mostra, rispetto a Guardi, che forse è più adatto al
gusto contemporaneo.
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La mostra fa parte di una serie di eventi che si sono tenuti a Washington e in tutti gli Stati Uniti per celebrare il 150°
anniversario dell’Unità d’Italia e la lunga amicizia che lega
i due paesi. Rendendo omaggio a uno dei maggiori successi
della cultura italiana, la mostra dei Vedutisti ha inaugurato
le celebrazioni di tutto ciò che è italiano, attraverso conferenze, film, concerti e spettacoli teatrali. L’eredità italiana
è in questo modo più che mai viva a Washington. In linea
con un concetto di mostra che si allontana dai tradizionali
“splendori” o “tesori”, Canaletto e i suoi rivali mira a un
maggior coinvolgimento di parte di un pubblico che non
si limita all’ammirazione passiva. Grazie alle capacità prestitoriali delle due gallerie nazionali, la mostra comprende
un gran numero di capolavori, che tuttavia non sono presentati come tali. A differenza delle precedenti mostre su
Venezia e su Canaletto, questa si concentra sulle rivalità che
hanno opposto l’artista ai suoi “colleghi”. Il nostro obiettivo
non è stato di collocare Canaletto su un piedistallo, ma di
gettare nuove luci sulle sue opere nel contesto di un mercato guidato dal Grand Tour, senza però sminuirne i risultati.
Attraverso una serie di accostamenti di opere di Canaletto e degli altri Vedutisti, i visitatori della mostra possono
confrontare diverse rappresentazioni degli stessi (o simili)
luoghi e monumenti. Il nostro obiettivo era coinvolgere lo
spettatore in modo attivo affinché vivesse un’esperienza
significativa e indimenticabile, proprio come una visita a
Venezia. Tuttavia i visitatori della mostra non sono incoraggiati ad impadronirsi dei quadri per esporli nelle loro ville di
campagna, anche se questo era il loro scopo originale. Come
spiega la didascalia introduttiva, Venezia, perla delle isole
del Mare Adriatico, è stata una delle principali destinazioni
per viaggiatori e aristocratici del XVIII secolo. I viaggiatori
europei del Grand Tour – il viaggio nei luoghi culturali più
significativi, considerato essenziale per l’educazione di un
gentiluomo – venivano ad ammirare la millenaria Repubblica, le sue magnifiche opere d’arte, e i palazzi e le chiese
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che sorgono tra le acque dei canali e la laguna. Venivano
inoltre per partecipare alle grandi feste e alle cerimonie non
senza la promessa di divertimenti meno elevati che Venezia
sapeva offrire. Un dipinto / ricordo costituiva un’importante
e duratura testimonianza di un viaggio nella Serenissima.
All’ingresso della mostra è collocata proprio una gondola
d’epoca appartenuta al pittore americano Thomas Moran ed
ora nel Museo Mariners di Newport News, in Virginia. Fig. 1
Moran è conosciuto come pittore del West americano, ma ha
vissuto e lavorato a Venezia per circa un decennio nel tardo
XIX secolo, diventando noto come “il Turner Americano”.
Moran acquistò la gondola, forse dal figlio dei poeti Robert
e Elizabeth Browning e, quando rimpatriò, la riportò alla
sua residenza a Long Island, New York. Lì un Indiano gli
ha fatto da gondoliere, portando il pittore e la sua famiglia
sul lago in cui vivevano. Possiamo confrontare un’immagine
romantica di Venezia di Moran, che raffigura la sua risposta emotiva alla città, con la veduta del Molo dal Bacino di
San Marco di Canaletto, dato in prestito per la mostra dalla
Regina Elisabetta II. Il contrasto con dipinti come quelli di
Moran o di Turner ha dato origine all’opinione che le vedute
di Canaletto fossero semplicemente topografiche e, in questo
senso, prive di arte. Questa è stata più o meno l’idea che io
ho avuto di queste immagini quando ho iniziato a lavorare
su di esse. La verità è che un’opera come quella di Canaletto, per quanto appaia precisa, contiene molteplici sottili
cambiamenti e modifiche, per non parlare delle distorsioni,
realizzate per produrre un effetto estetico. In realtà, ogni
dipinto nella mostra sembra mediare tra l’esigenza di servire come documentazione pittorica da un lato, e l’essere
un’opera d’arte esteticamente soddisfacente, dall’altro. Un
cambiamento ricorrente nella mostra riguarda la maestosa
altezza del campanile di San Marco, che è stata notevolmente ridotta nei quadri per adattarsi a un formato compatto
orizzontale. La gondola, una delle più antiche del mondo,
esposta all’ingresso della mostra, ha lo scopo di attrarre visi24
Fig. 1
Thomas Moran
Lo Splendore di Venezia, 1889
The Philbrook Museum of Art, Tulsa
Fig. 2
Canaletto
Il Molo dal Bacino di San Marco nel giorno del’Ascensione
The Royal Collection, Her Majesty Queen Elizabeth II
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tatori e trasportarli visivamente nella città lagunare celebrata dalle vedute di Canaletto e dei suoi rivali. Fig. 2
Organizzata cronologicamente, la mostra inizia con l’opera di Vanvitelli, che ha portato a Venezia una meticolosa
rappresentazione delle vedute urbane, tipica della tradizione
nordica, dando vita al primo dipinto vedutista della città
nel 1697, anno di nascita di Canaletto. Nella prima sala si
trovano anche un dipinto di Luca Carlevarijs, fondatore della scuola veneziana di Vedutisti, che ha stabilito le norme
per raffigurare luoghi famosi, adottate anche dal Canaletto e
dagli artisti successivi. Canaletto iniziò a dipingere vedute a
partire dal 1720 e rapidamente ha sfidato il dominio di Carlevarijs in questo campo. Il giovane Canaletto aveva cominciato la sua carriera come pittore di scenografie, lavorando
come assistente di suo padre. A riflettere il background di
Canaletto come pittore teatrale sono le ombre profonde, le
nubi minacciose, i dettagli ampiamente sfumati e il tono
drammatico delle prime opere, come Piazza San Marco
Fig. 3, esposto su prestito del Museo Thyssen Bornemisza di
Madrid, o Campo San Vidal e Santa Maria della Carità (Il
laboratorio del tagliapietre), Fig. 4, dalla National Gallery di
Londra, e il Rio dei Mendicanti da Ca’ Rezzonico. Dipinti
di ampie superfici e imponenti, Campo San Vidal e Santa
Maria della Carità (Il laboratorio del tagliapietre) e il Rio
dei Mendicanti, creati per i committenti tedeschi, sono unici nell’opera di Canaletto. Entrambi mettono in luce luoghi
insoliti e di vita quotidiana a Venezia, con molti dettagli pittoreschi come gli scalpellini al lavoro o la donna appoggiata
ad un balcone. Il bucato steso ad asciugare figura in primo
piano in entrambe le immagini. La volontà dell’artista di
rappresentare gli angoli più remoti di Venezia, e non solo i
suoi principali monumenti e scorci, lo distinse dai suoi predecessori, ma non gli fece ottenere una supremazia nel campo. Alla fine degli anni ’20 del Settecento, Canaletto iniziò
a dipingere vedute più piccole intrise di luce solare. Questo
passaggio fondamentale a vedute di luoghi riconoscibili, re26
Fig. 3
Canaletto
Piazza San Marco
Museo Thyssen Bornemisza, Madrid
Fig. 4
27
Fig. 5
Canaletto
L’ingresso del Canal Grande, verso ovest,
con la Basilica della Salute
Museum of Fine Arts, Houston
Fig. 6
Canaletto
Il Bacino di San Marco
Museum of Fine Arts, Boston
Fig. 7
28
lativamente piccole, molto luminose e dai dettagli sfocati è
mostrato da una tela centrale della mostra, Il Canal Grande e la chiesa di Santa Maria della Salute dal Museum of
Fine Arts di Houston Fig. 5. Dipinti come questo attirano gli
stranieri, soprattutto i visitatori inglesi, il cui patrocinio era
assicurato dall’imprenditore e console inglese Joseph Smith.
Per i turisti, questi dipinti erano più semplici da trasportare
e da appendere in gruppi.
La sala successiva della mostra, che mette a confronto
Canaletto e Marieschi, esibisce quella che è indiscutibilmente la più bella opera di Canaletto oggi in America, il Bacino
di San Marco Fig. 6, in prestito dal Museum of Fine Arts di
Boston. Questa magnifica tela di dimensioni insolitamente
grandi era appartenuta precedentemente al conte di Carlisle
a Castle Howard, ed essendo stata venduta dalla collezione,
è miracolosamente sopravvissuta al disastroso incendio che
ha distrutto quasi tutte le sue opere di Canaletto. Il dipinto
offre un’ ampia veduta panoramica del bacino da un punto
di vista inspiegabilmente alto. La rappresentazione della città, minuziosamente dettagliata, che si estende in lontananza, fa da contrappunto estetico alle imbarcazioni in primo
piano. Delineando più dettagli di quanti ne possa percepire
l’occhio umano, il dipinto sembra essere un insieme di vedute annotate separatamente in disegni, magari utilizzando
un dispositivo ottico come una lente grandangolare. Un dipinto come questo richiedeva mesi per essere completato, e
Canaletto era, in effetti, notoriamente lento nel portare a
termine le sue opere. Questa debolezza, dal punto di vista
del committente, ha offerto un’opportunità a Marieschi, la
cui visione molto semplificata della stessa scena si contrappone nella mostra a quella del Canaletto. Fig. 7 Marieschi
aveva il vantaggio di lavorare velocemente, utilizzando pennellate ampie e fluide e avvalendosi di collaboratori per le
sue figure. Con un prezzo più basso per le sue opere rispetto
a quelle di Canaletto, Marieschi avrebbe costituito un pericolo concorrente per l’artista, se non fosse morto giovane,
29
all’età di 33 anni, nel 1743.
Al piano superiore si accede alla stanza successiva della
mostra, dedicata alla rappresentazione di feste e cerimonie. Come spiega il pannello della sala, nessun’altra città in
Europa organizzava un numero così alto di manifestazioni
civili e religiose come Venezia. Questi spettacoli potevano
durare per giorni o addirittura mesi nel caso del Carnevale.
Il susseguirsi infinito di celebrazioni ha segnato la progressiva decadenza di Venezia, da potenza politica ed economica,
a parco giochi del lusso e del divertimento. A questo punto
della mostra ritroviamo Carlevarijs, come il maestro che ha
istituito gli standard per rappresentare questi eventi. Fig. 8
In questo confronto, Carlevarijs, sulla sinistra, ritrae la festa
dell’Ascensione, quando l’imbarcazione ufficiale dei dogi,
il Bucintoro, veniva condotta nella laguna, dove il capo di
stato veneziano gettava un anello nelle acque, a simboleggiare il dominio della Serenissima sul mare. La grande tela
di Carlevarijs, una delle due che Gina Lollobrigida vendette
al Getty Museum nel 1984, ritrae il fasto e il fervore della
manifestazione, nella quale l’enorme imbarcazione, sontuosamente rivestita in oro e accompagnata da una moltitudine
di altre navi, inizia il viaggio verso il Lido. La vista della
città, incentrata sul Palazzo Ducale, non è altro che uno
sfondo poco preciso per la colorata flottiglia in primo piano.
La raffigurazione del Canaletto della festa dell’Ascensione è
uno dei quattordici dipinti vedutisti che l’artista fece per il
console Smith, il quale li vendette a re Giorgio III nel 1762.
Dipinto che la sua discendente, la Regina Elisabetta, ha prestato alla mostra. La versione di Canaletto, che, al contrario
di quella del Carlevarijs, è più piccola e presenta un maggiore equilibrio tra figure e architettura, è resa nei minimi particolari che danno vita all’evento. La parete opposta offre un
contrasto altrettanto illuminante fra Carlevarijs e Canaletto
nel dipingere una regata sul Canal Grande Fig. 9. Potremmo
forse affermare che l’opera di Canaletto, sempre in prestito
dalla collezione reale, ha la dignità sobria di un monarca,
30
Fig. 8
Fig. 9
31
mentre il Carlevarijs, a destra, raffigura lo sfarzo dell’attrice
alla quale apparteneva in precedenza.
Principale sponsor della mostra di Washington è stata la
Fondazione Bracco, che da sempre nutre un interesse particolare per l’arte e la scienza. Nella precedente mostra che
Bracco ha promosso presso la National Gallery, il legame tra
arte e scienza era stato rappresentato da radiografie che mostravano il modo in cui Bellini, Giorgione, Tiziano avevano
elaborato le composizioni sotto la superficie dipinta nelle
loro tele. Nella mostra di oggi, la connessione arte/scienza
riguarda invece la camera oscura. Sappiamo che i Vedutisti
veneziani apprezzavano la precisione topografica e sembra
che per realizzare le loro vedute abbiano utilizzato dispositivi ottici, come la camera oscura o il grandangolo. Il Museo
Correr di Venezia ha prestato all’esposizione due esempi storici della camera oscura che, esposti insieme ad altri tre realizzati per l’occasione, hanno permesso ai visitatori di farsi
un’idea di come questo strumento scientifico venisse utilizzato per progettare, invertire, e abbozzare gli edifici e le prospettive. Fig. 10 Altri relatori specialisti tratteranno proprio
come Canaletto e i suoi colleghi abbiano adattato la camera
oscura con quale effetto. Vorrei qui fornire la mia opinione
sulla camera oscura che, lungi dall’essere un gioco ottico, è
servito allo scopo di organizzare la grande quantità di dati
visivi presentati all’occhio, per riprodurli su una superficie
piana, dando quindi all’artista un controllo su ciò che aveva
visto; in altre parole, ha portato ordine nel caos. Una caratteristica distintiva dei lavori di Canaletto è il suo metodo
di rappresentare la stessa scena da diversi punti di vista.
Nell’opera Piazza San Marco, che fa parte della collezione
della Galleria, il punto di vista dal quale si vede la basilica,
collocato in alto, deve essere integrato da un secondo punto
di vista, più lontano da sinistra, che riesce così a includere
nel suo campo visivo la piazzetta e il bacino, altrimenti non
visibili. Fig. 11
32
Fig. 10
Canaletto
Piazza San Marco, verso sud-ovest
Wadsworth Atheneum, Hartford, CT
Fig. 11
Canaletto
Piazza San Marco e la Piazzetta, verso sud-est
National Gallery of Art, Washington
Fig. 12
33
Fig. 13
Bellotto
L’Arsenale, Venezia
National Gallery of Canada, Ottawa
Fig. 14
34
La sala successiva della mostra riunisce Canaletto e il nipote Bernardo Bellotto, le cui vedute vengono spesso confuse
con quelle dello zio. Fig. 12 I primi lavori di Bellotto, come
il Campo Santi Giovanni e Paolo, presente nella collezione
della National Gallery, sulla sinistra, si ispirano a quelli del
più anziano maestro. Quando quest’opera è arrivata a Washington, infatti, si è creduto che appartenesse a Canaletto.
Altri dipinti di Bellotto, tuttavia, mostrano una sensibilità
nettamente diversa. Mentre in Canaletto tutto è armonia, il
giovane Bellotto tendeva a esaltare l’architettura della città,
come in una magnifica tela verticale dell’Arsenale, prestata
alla mostra dalla Galleria Nazionale del Canada, a Ottawa.
Fig. 13 Quest’opera è un’invenzione di Bellotto e presenta il
simbolo del dominio marittimo di Venezia in un modo quasi
surreale, come in un film di Cecil B. De Mille. Le enormi
statue di leoni in pietra, sottratte ad Atene nel 1687 e di
guardia all’ingresso dell’edificio, sono in contrasto con le
piccole figure umane, mentre le ombre profonde in cui la
scena è avvolta, conferiscono un’intensità quasi minacciosa.
Nonostante la sua importanza storica come cantiere navale,
l’Arsenale era un soggetto raro per i Vedutisti, quindi non
sorprende che l’interpretazione di Bellotto non abbia trovato eco. Quando negli anni Quaranta del secolo la Guerra
di Successione Austriaca ha reso difficili i viaggi a Venezia,
Canaletto si trasferì dove si trovavano i suoi clienti, cioè in
Inghilterra, dove visse e lavorò per più di un decennio. Anche Bellotto partì da Venezia, nel suo caso, per non tornare
mai più. A Nord delle Alpi ha trovato quella fredda luce invernale che sembrava già pervadere le sue scene veneziane.
La mostra si conclude con Francesco Guardi, il nuovo rivale
apparso dopo il ritorno di Canaletto a Venezia negli anni
50 del secolo. Guardi, che a differenza degli altri Vedutisti
ha iniziato come pittore figurativo, ha appreso l’arte della
pittura vedutista copiando le stampe di Canaletto. Un paio
di straordinari dipinti del Guardi, in prestito dal Museo Gulbenkian, Lisbona, mostra come il pittore ha trattato due del35
le vedute più celebri di Venezia: Piazza San Marco e il Canal
Grande. Fig. 14 Tutti i suoi predecessori avevano illustrato
il carattere monumentale degli spazi urbani della città. Ma
Guardi ha qui colto il sentimento della città nel suo glorioso declino. Le sue pennellate leggere dissolvono piazze e
palazzi in vibranti immagini che celebrano una grandezza
ormai passata. Nelle ultime opere della mostra, Guardi volta simbolicamente le spalle alla città per creare delicate e
poetiche impressioni delle piccole isole della Laguna. Fig. 15
Le sue rappresentazioni della laguna, con la natura che domina sulle opere dell’uomo, si avvicinano allo spirito della
rappresentazione di paesaggi puri, prefigurando l’approccio
romantico nel rappresentare Venezia, che abbiamo visto in
Thomas Moran. La loro luce scintillante anticipa inoltre gli
impressionisti e Whistler. Così l’opera di Guardi rappresenta
davvero la conclusione del glorioso capitolo del Vedutismo
veneziano. π
36
Fig. 15
Guardi
L’Isola della Madonetta nella laguna
Fogg Art Museum HUAM, Cambridge Mass.
37
Canaletto e i suoi amici:
veduta e/o visione?
Giandomenico Romanelli
Direttore Fondazione Musei Civici di Venezia
Quando la segreteria scientifica della Fondazione Bracco mi
ha chiesto di partecipare a questo seminario, mi sono sentito onorato per l’invito, come succede in questi casi. Ho
quindi suggerito un titolo possibile al mio intervento, quello,
appunto, che compare nel folder del programma: “Canaletto
e i suoi amici” ho poi chiosato dopo i due punti con un interrogativo: veduta e/o visione? E ho scoperto con piacere che,
seppure usata in maniera diversa, la parola visione ricorre
nel titolo stesso dell’incontro di oggi: “Il vedutismo veneziano: una nuova visione”.
Ripeto: la stessa parola viene usata in due accezioni diverse, da me e dalla organizzazione del seminario. Tuttavia ho trovato assai stimolante e interessante questa coincidenza. Fra l’altro l’introduzione così dettagliata e precisa
proposta da David Brown, mi esime da ogni altro tipo di
ragionamento descrittivo e/o sistematico e mi consente un
peregrinare più libero –se non proprio stravagante- dentro
alle problematiche del vedutismo. Sono infatti convinto che,
al di là del piacere, al di là della bellezza, al di là della consolazione, al di là del ricordo che il vedutismo stimola e ha
da sempre stimolato, al di là di tutto questo quindi, dentro
e dietro il vedutismo alberga una fitta serie di complesse
problematiche: si tratta di questioni di carattere e natura
latamente culturali; ma anche di tipo squisitamente iconografico, di profilo tecnico (di questo, altri dopo di me tratteranno con più competenza) che coinvolgono direttamente
e, vorrei dire, radicalmente, il piano che possiamo definire
“ideologico”.
Tornando al mio titolo, devo dire che, per la sua formulazione, mi sono ispirato a una definizione che mi piace molto
e che è stata coniata da due studiosi di Carpaccio, Augusto
Gentili e Flavia Polignano, i quali hanno parlato a lungo e in
maniera molto competente e innovativa, delle celebri “Due
Dame” e del piccolo e a lungo misterioso dipinto che si trova
oggi negli Stati Uniti, la cosiddetta “Caccia in valle”, esposto
al Getty Museum di Los Angeles. Come si sa, “La caccia”
38
Canaletto, Il Bucintoro al molo il giorno dell’Ascensione,
The Royal Collection © 2011 Her Majesty Queen Elizabeth II
39
altro non è che la parte superiore della tavola con le “Due
Dame”, firmata da Vittore Carpaccio, del Museo Correr. L’espressione che ho tratto dagli scritti di Gentili e Polignano in
riferimento al paesaggio lagunare raffigurato nella “Caccia
in valle”, e che mi ha subito sedotto, è: “non è veduta, ma
visione”. Non è panorama dal balcone delle due dame, ma
proiezione allegorica e simbolica dei loro pensieri.
Quando è stato scritto qualche anno fa, il saggio in cui
l’espressione è contenuta, tagliava le gambe a tutta una serie di elucubrazioni e di considerazioni fatte dagli storici
dell’arte veneziana sul fatto che quella “Caccia in valle” sarebbe stata il primo brano conosciuto di pittura pura, il primo brano di vedutismo e di pittura di paesaggio svincolata
da ogni pretesa e obbligo di “funzione”, fosse scenografica,
illustrativa, allegorica, morale e così via.
Ma non era vero niente! Quando è stato dimostrato che
si tratta del frammento di un dipinto più vasto – e più complesso – dotato di altro significato e di una precisa caratterizzazione allegorica – come i due hanno brillantemente argomentato – si è capito che bisognava dare al dipinto
un’altra collocazione semantica: non è veduta, ma visione,
così come hanno scritto i nostri due studiosi. È proiezione
psicologica, se si vuole. Lo ripeto, perché mi sembra che tutto questo sia piuttosto importante: è proiezione allegorica
dei loro pensieri.
La veduta invece, venendo al genere che ha avuto nel tempo
lo strepitoso successo che sappiamo, che oggi siamo chiamati a trattare e che è illustrato in maniera così qualitativamente alta nella mostra prima di Londra e poi di Washington, quel vedutismo è, analogamente a quel che siamo
venuti dicendo, veduta o è visione? È un’operazione per così
dire fotografica, di registrazione, di testimonianza, di documentazione o è qualcosa d’altro? La domanda non è da
poco, come è agevole intuire; ma, al suo seguito, ne sorgono
e ne sgorgano molte altre e non meno immediate, radicali e,
40
per noi, ineludibili: perché il vedutismo si sviluppa a Venezia
e non altrove? Quali sono le premesse, l’humus, le condizioni, la spinta e l’obbligo quasi che hanno spinto questi artisti
a fare del vedutismo? Da dove veniva questa moda o questo
bisogno?
Da sempre, ci è stato detto, giustamente, che il crogiuolo
si può rinvenire nella cultura pittorica tedesca e, potremmo
aggiungere, anche in quella fiamminga: tutti ricordano le
molte pagine -fino a Proust!- sulla veduta di Delft o su altre
vedute olandesi che hanno influenzato la storia di altre pitture, di altri mondi, di altri universi. Ma si deve insistere e
ripetere la domanda: perché proprio a Venezia?
Ricordo con piacere, soddisfazione e un po’ di nostalgia
la grande mostra che realizzammo nel 2002-03 a Roma e
poi a Venezia dedicata all’opera di Vanvitelli: essa cercava di
spiegare, di individuare il nesso, di cogliere l’elemento scatenante che permetteva il passaggio da una poetica illustrazione, come era quella di Vanvitelli, alla genialità sublime di
Canaletto. Canaletto certamente non si forma e si afferma
così dal nulla, quasi per fatalità o per un caso felice. Come se
egli fosse a lavorare come decoratore e scenografo appresso
al padre e a un certo punto, tra una scena e un fondale, si
fosse detto: “sarebbe interessante che mi mettessi a dipingere un po’ di paesaggio, che mi dedicassi a questo genere che
sta montando e dà grandi soddisfazioni –anche economiche-, che ha un buon pubblico e si vende bene:la veduta”.
Non paesaggi -che hanno già dei valenti professionisti-;
non pastorellerie e fonti, ruscelli e rocce e macchie d’alberi;
nemmeno marine, con o senza battaglie o naufragi o pescatori e così via. No: meglio una veduta di città, di questa
problematica e inusuale città che è Venezia, tra calli e canali,
campi e chiese, la Piazza e il Molo. E, infatti, salvo che a
Londra, quando egli allarga la scena e introduce un po’ di
territorio, Canaletto dipinge siti urbani, spazio costruito e
abitato, scorci tagliati, portici e atri, banchine approdi rive,
frammenti di città, insomma. Dentro lo spazio definito, ge41
ometrico, misurabile, quantificabile, illustrabile in formule
prospettiche e in tempi in modo da fornirci delle straordinarie meditazioni su Venezia: questo sono le sue vedute. Non
sono Venezia, piuttosto meditazioni su Venezia.
Eccola una prima risposta ai nostri quesiti: vi è, in Canaletto, una assoluta libertà di proporzioni, di punti di vista; libertà di ingrandire, di diminuire, allargare, abbassare,
di stringere e di introdurre punti di fuga multipli e antitetici. E, infatti, non si tratta di una documentazione sulla
città. Certo, la sua pittura può essere utile e servire anche
come memoria, come ricordo, come ricaduta ineguagliabile
e souvenir sublime del Grand Tour da parte di chi poteva
permettersi il lusso di compierlo, così come di comprare o
di commissionare opere ad artisti come Carlevarijs o come
Canaletto o agli altri artisti che si sono più o meno brillantemente affermati sulla scena della veduta e che abbiamo
appena sentito richiamare e illustrare.
Ma dietro c’era anche dell’altro.
Non dimentichiamo che Canaletto si forma in un contesto e si confronta con delle personalità che non sono cosa
da poco: non è gente che si accontentava della vedutina,
come si accontenteranno poi i clienti del figlio di Francesco
Guardi, Giacomo, che disegnava e dipingeva le sue vedutine formato cartolina, che poi vendeva nel negozio indicato
esplicitamente ai piedi della scena, “sono in vendita nel tal
negozio, nella bottega che si trova al ponte dei Bareteri al
tale numero ecc. ecc”. Quello era un prodotto evidentemente
da grande pubblico, ripetitivo e quasi seriale. Ma Canaletto è
un’altra cosa! Carlevarijs è un’altra cosa!
Con chi si confrontava Canaletto? Chi erano i suoi interlocutori? Chi c’era attorno a lui quando rifletteva sulla città?
E poi, Canaletto dipinge solo vedute? Dipinge cioè solo
questi straordinari e incredibili grandangolari su Venezia,
sui suoi siti o su parti di città ritratta da punti di vista insoliti, anche se non unici evidentemente? Ricordiamo, a questo
proposito, che Carlevarijs pubblica nel 1703 “Le Fabbriche
42
e Vedute di Venetia”, una serie di vedute, cento e una, per
la precisione, che già danno esattamente il repertorio pressoché completo di tutti i punti di vista da cui lavoreranno
poi i vedutisti. Non si tratta di invenzioni estemporanee insomma, non sono il frutto del capriccio di un giorno: oggi
mi metto qua e dipingo questa veduta. I soggetti si sono
sedimentati in liste, in repertori. Era, insomma, gente che
studiava, che meditava, che dava lucidamente senso al proprio lavoro.
Ma Canaletto, si diceva, non realizza solo vedute, ma
capricci, disegni finiti e acquerellati, incisioni; egli elabora
invenzioni su sollecitazione nientemeno che di Francesco Algarotti, cioè del più famoso, se non certo il più grande, tra
i letterati dell’ illuminismo italiano; l’uomo, per intenderci,
del “Newtonianesimo per le dame” dei “Viaggi di Russia”, celebre internazionalmente e che poteva vantare una rete di relazioni continentale; colui, infine, che diventa l’insostituibile
collettore di dipinti italiani per le corti dell’Europa intera.
Su sollecitazione di Francesco Algarotti, il nostro Antonio Canal, in arte Canaletto, si mette al tavolino e poi, tavolozza alla mano, davanti alla tela e compone e scompone
dei Capricci che non sono capricci, che sono piuttosto delle
raffinate esercitazioni intellettuali, cioè degli smontaggi e
rimontaggi, destrutturazioni e ricostruzioni di architetture
ipotetiche e reali per far “vedere” quella città – come diceva
Algarotti quando gli suggeriva questi temi – “che fabbricar
potrebbesi”. Una città “che fabbricar potrebbesi”. Possiamo
già dire che c’è dell’utopia, quindi, dietro e dentro Canaletto,
non c’è di certo solo un generico gusto per il paesaggio e la
veduta. O, almeno, non c’è questo soltanto.
Lo spessore culturale di Canaletto è ben diverso da quello
del pittore che va in giro a fare paesaggi. Canaletto si confronta con Tiepolo. Tiepolo talvolta realizza le figure di qualcuna delle tele canalettiane, celebri sono soprattutto le due
famose con “S. Francesco della Vigna”, interno ed esterno.
Zuccarelli è anch’egli impegnato in tali pastiches con ani43
mali e figurine dentro ad alcune scene e vedute veneziane.
Anche Piazzetta è lì da preso: e l’uno dipinge e l’altro incide
e illustra e Antonio Visentini traduce i dipinti e i disegni in
lastre di rame: è l’atelier del Console Smith, un moderno
laboratorio multimediale in cui tutto ciò accade e si verifica;
Smith, come si sa, oltre che mercante, è collezionista e un
po’ mecenate e un altro po’ è anche imprenditore culturale e editore. Assieme ad Albrizzi ha una casa editrice che
pubblica opere classiche con le vignette di Piazzetta come
la “Gerusalemme liberata”; che usa i disegni di Tiepolo, che
vende e scambia, esporta e compra, investe.
Canaletto assai presto si mette anch’egli a lavorare per l’incisione: si tratta di materiali che trovano più agevole smercio
rispetto ai dipinti (i quali, tra l’altro, hanno raggiunto quotazioni vertiginose che solo i collezionisti inglesi oramai si possono permettere) ma sono anche assai utili e maneggevoli
per dar vita a dei veri e propri “cataloghi” su cui i clienti più
facoltosi possono scegliere la loro veduta dipinta; ma queste
incisioni sono di certo, assieme a quelle di Giambattista Tiepolo, tra le più straordinarie incisioni che abbia prodotto il
‘700 europeo.
I nostri vedutisti sono intellettuali che riflettono, si documentano, discutono, si confrontano: intellettuali a tutto
tondo, cioè; è gente che ha dentro di sé un pensiero. Non
sono degli esecutori meccanici (magari con l’ausilio della
camera oscura) né prodigiosi traduttori e interpreti di una
memoria visiva. Essi hanno idee e ideologia e mettono in
forma un pensiero molto forte e articolato.
Dicevo prima che c’è dell’utopia. Ma perché Venezia?
Perché non altre città? Milano: bisogna aspettare l’800 per
trovare un vedutismo milanese.
Torino: bisogna aspettare che vi si rechi Bellotto –uscendo dalla bottega dello zio Canaletto- per trovare belle vedute
di Torino. Ma è così anche altrove: Firenze non ha vedutismo né Genova e così via.
44
Perché a Venezia? Potremmo tentare una prima risposta: nessuna altra città, nemmeno Roma, ha confidato in
termini tanto perentori e fin dai primi secoli d’esistenza le
proprie fortune (politiche, istituzionali, diplomatiche, economiche, morali…) al proprio apparire, cioè appunto alla
propria forma così come essa veniva proposta e percepita; la
qualità scenografica urbana e la sua ‘assunzione’ fondante
e ideologica sono, quindi, sin dall’origine, acquisiste come
molto forti o, addirittura, perfette. Raffigurare la città poteva significare anche trasferire nella rappresentazione una
parte delle ‘qualità’ che ne supportavano e garantivano tale
perfezione (un potere simile, mutatis mutandis, a quello di
una reliquia, potremmo dire semplificando). Questo ha sempre legittimato e incoraggiato l’uso della città e di sue parti
come ambiente, fondale se non addirittura protagonista di
eventi: storia e storie antiche e moderne, storie inventate,
storie letterarie o addirittura storie della salvezza. In un celebre retablo di Antoin Ronzen a Saint Maximin au Var in
Provenza, c’è la raffigurazione del Cristo deriso della Passione, che ha come ambientazione la Piazzetta di San Marco! E
poi annunciazioni e ultime cene, visitazioni e conviti evangelici, parusie ed epifanie; e storie di Alessandro Magno e
di Carlomagno, cicli cavallereschi e imprese crociate, e così
via. Insomma: ‘vedere’ Venezia e rappresentarla era un fatto
usuale e assai praticato, se ne possedeva, infine, la chiave
psicologica oltre che ideologica.
Non è un caso. Non sono fatti occasionali o casuali. La
città era riuscita a proporre se stessa come uno scenario perfetto per qualsiasi narrazione e per qualsiasi ideologizzazione sullo spazio e sul tempo.
Non dimentichiamo che Venezia ha un proprio ed esclusivo tempo, un tempo di fruizione, un tempo di vita, un
tempo di percezione, un tempo di spostamento (la barca e
non la carrozza!) ma anche un tempo di trascrizione della
sua immagine, che è suo ed esclusivamente suo.
45
Canaletto, Regata sul Canal Grande,
The Royal Collection © 2011 Her Majesty Queen Elizabeth II
46
Bene, Canaletto e i suoi amici, o i suoi rivali a seconda di
come si preferisca vederli, sono artisti che si impossessano
di questi strumenti e che li usano, ma, soprattutto, che li
usano per un proprio progetto. Quando Algarotti suggerisce
a Canaletto di realizzare dei dipinti per testimoniare e dar
forma all’idea di una città che “fabbricar potrebbesi”, significa che egli introduce lucidamente un elemento di critica
forte alle condizioni dello sviluppo e della forma della città
in questo secolo XVIII pur così vitale, così vivace, così imbarazzante, anche, e sotto molti punti di vista.
Non lontano da Canaletto c’era Padre Lodoli e magari
Tommaso Temanza, cioè personalità di livello europeo che
discutevano e disputavano di architettura con teorici francesi, inglesi e tedeschi, che li tenevano in grande considerazione; si ragionava di Vitruvio e di Palladio, soprattutto di Palladio, riproposto come punto di riferimento per la riforma
del linguaggio dell’architettura non meno che per una lettura funzionale moderna e classica della forma urbana. E non
per caso Canaletto metterà – così come farà anche Guardi al
traino di lui – il ponte di Rialto di Palladio sul Canal Grande
in alcune delle sue tele. Oppure metterà insieme la Basilica
di Vicenza, il ponte di Palladio, la chiesa di S. Francesco della Vigna sulle sponde del Canal Grande: si sta discutendo e si
sta ragionando, si sta leggendo e re-interpretando la storia e
suoi segni, i fatti così come gli atti mancati.
47
Se poi volessimo però anche metterci a ragionare di linguaggi e dei modi secondo i quali li declinano i singoli vedutisti,
dovremmo cambiare registro ben sapendo anche che, purtroppo, siamo stati in un certo senso avvelenati dall’ossessione dell’attribuzione, che ha assorbito per decenni l’attività di critici e filologi non sempre con risultati encomiabili
(salvo, forse, che per il mercato antiquario): si tratta dell’uno
o dell’altro? E in quale preciso momento? Chi imita e chi è
imitato? Scuola, bottega o ‘ambito di’? Per carità, non mi
si fraintenda: è giusto, legittimo e opportuno che a un certo
punto si cerchi di arrivare al catalogo ufficiale: ma anche il
vedutismo come corrente artistica e culturale va ben al di là
del micragnoso disputare attribuzionistico (salvo, lo ripeto,
che per le quotazioni del mercato!) c’è il respiro dell’arte e
della storia che soffia sotto, c’è la originalità di protagonisti
di massimo livello, c’è, insomma, del genio oltre all’oscillazione del prezzo raggiunto in asta.
Vi sono, a ben vedere, elementi che non possono essere
confusi nell’uno o nell’altro. Bellotto, che spesso è stato confuso con Canaletto (e talvolta gli artisti ci hanno messo del
loro a creare e alimentare queste confusioni: tutti sanno che
fuori di Venezia Bellotto si firma Canaletto, come lo zio!),
non usa la luce di Canaletto, usa una luce nera. I dipinti di
Bellotto sono intrisi di luce nera, mentre quella di Canaletto
è spesso una luce solare, pomeridiana, dorata, oppure mattutina, limpida come un cristallo.
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Se si guardano le architetture di Bellotto, si vedrà che
sono tutte contornate di nero, di una linea nera che non
troverete assolutamente nei dipinti di Canaletto, né in quelli di Carlevarijs, ma nemmeno in quelli di Marieschi. Cioè
ognuno elabora degli stilemi da una parte, che usa costantemente ma liberamente accompagnati da una sorta di basso
continuo, per così dire; ogni dipinto diviene poi parte qualificante e irrinunciabile di un grande e complesso mosaico,
di un insieme vasto e capiente in cui la città reale si ‘traduce’ in rappresentazioni accostabili, comparabili, ma non per
formare un unico immenso panorama continuo, bensì per
testimoniare diversità e versatilità di un luogo e dell’idea di
quel luogo, o, meglio, delle molte idee di quel luogo (che è
il più delle volte proprio Venezia). E qui convergono realtà e
siti possibili, quelli “che fabbricar potrebbonsi”, per restare
con Algarotti; e altri innumerevoli luoghi e sogni, tempi e
contesti, altre realtà, altre forme, altre utopie.
C’è poi il problema, lasciatemelo almeno citare, dei Capricci. Non si capisce Canaletto, si capisce ancor meno Guardi,
senza mettere insieme alle vedute in senso stretto, i Capricci.
I Capricci non sono il lavoro fatto nei ritagli di tempo dagli
artisti. I capricci sono essenziali per definire e per decifrare
la loro poetica.
Come è possibile non parlare dei Capricci quando il tema
del Capriccio investiva personalità così determinanti, così
protagoniste sulla scena artistica non soltanto veneziana?
E, analogamente, è possibile parlare di Canaletto senza parlare di Piranesi? Io credo che non sia possibile; cioè, anche se sfalsati cronologicamente di una ventina d’anni, non
esiste l’uno senza l’altro (mentre Tiepolo appare osservare
sornione dal bianco argentato dei suoi fantastici capricci!).
L’esperienza di Piranesi per quanto riguarda l’analisi del
monumento, dello spazio, della storia e del tempo introduce un’ottica fortemente, esasperatamente visionaria, anche
quando egli –apparentemente- rileva con parametri ogget49
tivi un frammento di pietra o un’architettura (ecco perché
all’inizio vi dicevo che per me è molto importante questo
tema della visione). La visionarietà, quindi, è la libertà di
rompere i rapporti proporzionali, la libertà di rompere l’impaginazione, di costruire gli scenari appropriati, è un metodo di destrutturazione e annichilimento, di radicalità nera
e utopica insieme: questo metodo quindi, non è possibile
leggerlo, vederlo, interpretarlo e capirlo prescindendo da Piranesi. Da Piranesi e da tutto ciò che ne è derivato.
Detto questo, posso solo provare invidia per chi ha avuto la
fortuna o ancora per qualche giorno ha ancora la fortuna,
di poter vedere la mostra di Washington; fortuna eccelsa,
basti pensare all’opportunità di trovarsi davanti a quello che
a mio giudizio è il capolavoro assoluto di Canaletto, cioè il
“Bacino di S. Marco” di Boston, che è una tale sintesi di
pensiero, di riflessione sulla città, di critica, di poetica che
raramente è possibile trovare altrettanto profonda e altrettanto rivoluzionaria come in questa tela: c’è uno spazio che
si espande e si allarga in maniera incommensurabile mentre da destra avanza una sorta di prua di nave, l’isola di S.
Giorgio. Questa dinamica fa sì che l’osservatore si avveda
nettamente, anche se in maniera metaforica o allegorica,
dell’incombere di qualche cosa che sta per mutare, che è in
corso una metamorfosi tragica: e qui Canaletto mostra di
avere la percezione sublime e subliminare del tempo presente che si muta in futuro, grazie a quell’antenna che solo
i grandi poeti, i grandi artisti sanno ascoltare (e consente
loro di avvertire la sensazione netta del futuro che incombe).
Questo paesaggio mastodontico e dilatato fino a togliere il
respiro, ci fa dire: ma come è possibile, una veduta che va
dal campanile di S. Marco o ancor prima, fino a comprendere tutto il Bacino, tutto. E c’è tutto, ogni finestra, ogni pietra
di ogni casa e ogni sartia delle navi e ogni albero e ogni
prua, ogni barca, ogni vogatore, ogni cappello rosso con cui
si fregiavano i facchini del porto di Venezia. C’è tutto dentro,
50
Canaletto (1697-1768)
Bacino di San Marco, Venezia, ca. 1738
Olio su tela
Museum of Fine Arts, Boston
Abbott Lawrence Fund, Seth K.Sweetser and Charles
Edward French Fund
Photograph C, Museum of Fine Arts, Boston
51
ma tutto è sospeso come un attimo prima di un’esplosione. È
tutto come prima di una rivoluzione, prima di un cataclisma
che cambierà l’universo. E per capire quel cataclisma bisogna andare proprio ai Capricci di Piranesi che ne potrebbero
essere in certo senso, l’antitesi: lì quella che appariva come
imminente deflagrazione, una colossale esplosione, si trasforma in una incommensurabile implosione e tutto sprofonda dentro una sorta di buco nero che conduce a prima
della storia, in un passato mitico e prometeico che va a formare le “Carceri”, geometria di spazi impossibili e però così
psicologicamente veri, tragici e palpitanti.
In Canaletto l’equilibrio sembra piuttosto propendere verso il futuro, verso un’utopia razionale e newtoniana,
scientifica e non meno vibrante, lucida, perfetta e totale.
Io vi chiedo, quando entrate in un museo e siete affascinati
da una qualche “veduta” o, riflettendo, vi lasciate sedurre
dal complesso fenomeno artistico e culturale di straordinaria qualità e intensità che chiamiamo vedutismo, vi chiedo, dicevo, di pensate che anche la singola tela è il punto
di arrivo, il risultato strepitoso e impareggiabile (ovvero
sommesso e modesto) di un processo culturale complesso,
ideologico, altrettanto commisto di utopia urbana che di
esaltante ed emozionata percezione di un luogo, di architetture, di spazi, di forma che si trasforma spesso in prosa
e descrizione ma talvolta tocca il linguaggio più alto della
pittura e si fa poesia.
π
52
La Camera Oscura:
il nostro occhio nel passato
Dario Camuffo
CNR - Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, Padova
Riassunto
In generale, le immagini dei dipinti forniscono informazioni
di tipo qualitativo, ma nel caso di Venezia è possibile ottenere una valutazione di quanto il livello del mare sia salito
grazie alla precisione di alcuni dipinti eseguiti con l’ausilio
della camera oscura. Per questo motivo vengono esaminati
la storia della camera oscura, il suo sviluppo tecnologico e il
suo utilizzo nel campo della scienza (specialmente per osservazioni astronomiche) e dell’arte, dato che la camera venne
considerata un occhio artificiale e le sue “vedute naturali”
superiori in bellezza “all’arte della pittura”.
Il primo famoso pittore che usò a Venezia la camera
oscura fu Paolo Caliari, soprannominato il Veronese, che nel
1571 dipinse la “Presentazione della Famiglia Coccina alla
Vergine”, ora alla Gemäldegalerie Alte Meister a Dresda. L’ipotesi che Veronese abbia riprodotto Palazzo Coccina (ora
Papadopoli Arrivabene) con l’ausilio di una camera oscura è
suffragata dalla testimonianza indiretta di un altro veneziano contemporaneo, Luca Barbaro, dalla precisione geometrica della riproduzione, dal confronto con un’altra riproduzione dello stesso palazzo fatta da Luca Carlevarijs nel 1703
con una camera oscura.
La camera oscura divenne popolare a Venezia tra il XVII
e il XVIII secolo con i Vedutisti, a partire da Caspar Adriaens detto il Vanvitelli, Luca Carlevarijs, Michele Marieschi,
Giovan Antonio Canal detto il Canaletto, Bernardo Bellotto,
Francesco Guardi, Gabriele Bella, Giuseppe Bernardino Bison e Giambattista Piranesi.
Nel XVIII secolo due storici veneziani, Algarotti e Zanetti, descrissero l’uso locale della camera oscura. Algarotti
scrisse che la camera oscura era necessaria ai pittori quanto
il telescopio per gli astronomi e il microscopio per i fisici,
e in particolare che i più famosi Vedutisti contemporanei
facevano uso quotidiano della camera oscura. Zanetti fece
una lista dei pittori attivi a Venezia, e nel commentare il loro
stile dette la chiave per interpretare Canaletto che si servì
53
della camera oscura come un utile ausilio, ma con la guida e
l’aggiunta della fantasia.
Le vedute panoramiche di Canaletto erano composte da
una o più vedute parziali ottenute riposizionando la camera:
prima da buon regista per scegliere i punti di ripresa e le
immagini migliori, poi da esperto scenografo teatrale per
creare degli scenari veneziani in cui piazze ed edifici venivano valorizzati nel modo migliore, anche se questo poteva
comportare la compresenza di più punti focali (uno per ripresa), o di più prospettive non perfettamente legate tra loro,
ovvero la rotazione, la contrazione o l’espansione di qualche
immagine. Oltre alla veduta statica (con un solo punto di
osservazione, come la macchina fotografica) Canaletto usò
la veduta dinamica, combinando tra loro immagini riprese da punti diversi, come le può vedere una persona che
passeggia in un dato posto. Il riposizionamento della camera oscura a distanze minori o maggiori dal nuovo soggetto
portava ad aumentare o diminuire le dimensioni di questo
e il pantografo dava ancor maggiore libertà nelle scelte delle
dimensioni. La conseguenza fu che in tali casi la prospettiva
non era unica, i vari edifici appartenevano a vedute parziali
indipendenti, erano relazionati tra loro da distanze spaziali
non reali, e talvolta avevano proporzioni falsate. Le scene di
vita con persone e animali erano invenzioni fantastiche per
ottenere una Venezia viva e gustosa.
Se invece si focalizza l’attenzione solo su una qualche
parte del dipinto, che può comprendere uno o più palazzi, la riproduzione architettonica diviene incredibilmente
precisa. In particolare, i dipinti di Canaletto e Bellotto portano la testimonianza dell’inquinamento che nel passato
affliggeva Venezia, con palazzi severamente anneriti dopo
solo 150 anni di vita. L’annerimento dei palazzi è riprodotto fedelmente con un gradiente nell’intensità che riflette il
dilavaggio maggiore ai piani più elevati per l’azione delle
gocce di pioggia trasportate dal vento, o il maggiore annerimento sotto alle balconate, o la scia bianca dove l’acqua
54
percola tra pietra e pietra dilavando la superficie.
Nei quadri si trova anche la fascia verde brunastra delle
alghe e questa costituisce un indicatore biologico dell’altezza
media delle alte maree. Confrontando il livello delle alghe
nei quadri con quello che si trova sui palazzi oggi, e considerando che lo spostamento del livello delle alghe corrisponde
allo spostamento del livello del mare avvenuto nel frattempo
si può ricostruire la crescita del mare negli ultimi secoli.
Questa misura però va corretta per due fattori: il primo è
l’aumento dell’altezza media delle onde nei canali, un tempo dovute solo all’azione del vento e delle barche a remi,
oggi aumentate per l’azione dei natanti a motore; il secondo
l’aumento dinamico delle onde lunghe in laguna a seguito
degli scavi di approfondimento dei canali. Dopo aver valutato tali fattori di disturbo, la crescita del livello del mare
deducibile dal dipinto di Veronese, dal 1571 a oggi, è 82±9
cm; dai quadri di Canaletto e Bellotto, dalla prima metà del
XVIII secolo a oggi, 64±11 cm. Questo significa che nel periodo tra Veronese e Canaletto la velocità 1,2 mm/anno con
cui la città veniva sommersa era sostanzialmente metà di
quella odierna (2,4 mm/anno).
Vengono inoltre esaminati errori e incertezze possibili
con questo metodo. In particolare, in presenza di una serie
di dipinti riproducenti la stessa veduta e di datazione incerta, si suppone che al primo della serie si possa fare maggior
affidamento più preciso rispetto agli altri, ma come riconoscerlo? Si può riconoscere il dipinto capostipite che ha generato i successivi e ricostruire l’ordine delle copie nel loro
albero genealogico? La metodologia proposta si basa sulla
valutazione dei piccoli “errori” intesi come la valutazione
quantitativa di quanto certi dettagli nei dipinti si discostino dalle dimensioni reali del soggetto che possiamo controllare oggi nei palazzi che furono copiati. Sembra logico
supporre che il primo dipinto di una serie, che potremmo
chiamare l’originale, sia maggiormente accurato in tutte le
proporzioni, mentre le copie successive vanno degradando
55
nella precisione, essendo affette da un aumento casuale di
piccoli errori riscontrabili come lievi deviazioni dalla realtà.
Inoltre, se un certo quadro capostipite è affetto da un certo
tipo di errore, di una data consistenza, tutti i quadri derivati
da questo devono ripetere lo stesso tipo di errore. Sorprendentemente, nella serie analizzata, composta da sei vedute
apparentemente identiche, eseguite da Canaletto, Bellotto e
un Anonimo (forse ancora Bellotto?), ne è risultato che tutti
i dipinti sono indipendenti tra loro.
Infine si discutono brevemente le azioni intraprese per la
salvaguardia della città, incluso il MOSE, il sistema basato su
barriere mobili da alzarsi nel caso di acqua alta. Un problema insoluto è che le murature a Venezia sono impregnate di
sale marino e i cicli di cristallizzazione - dissoluzione del sale
sono destinati, nel lungo periodo, a disgregare le murature.
1. Introduzione
Il riscaldamento globale costituisce una sfida tremenda per
la società, specialmente nelle zone costiere. Tra queste vi è
Venezia, ricca di storia, di arte, di patrimonio monumentale,
ed è a rischio di sommersione per la concomitanza di due
fattori: l’espansione termica delle acque oceaniche dovuta
appunto al riscaldamento globale, e la subsidenza del terreno. La subsidenza è prevalentemente dovuta a moti tettonici
che hanno un andamento localmente costante da milioni di
anni, stimato tra 1,0 e 1,3 mm/anno (Bondesan et al., 2001;
Kent et al., 2002; Carbognin et al., 2004; Carminati et al.,
2005; 2007). Il livello apparente del mare è quello realmente
percepito dai Veneziani, come viene registrato dai mareografi che sono fissati a strutture della città e costituiscono un riferimento mobile con la subsidenza. Nel periodo 1872 -2010
il mareografo di riferimento ha registrato 34 cm, indicando
una velocità media di 2,4 mm/anno includendo il periodo
critico di estrazione delle acque freatiche dal 1930 al 1970.
Un’altra conseguenza drammatica della sommersione
progressiva è che le acque eccezionalmente alte, generate
56
dal vento di Scirocco quando un’area depressionaria viene
a trovarsi sul Mediterraneo occidentale, si vanno ripetendo
con frequenza sempre maggiore e invadendo parti sempre
più vaste della città. La lunga serie delle acque alte, tratta
da fonte documentaria (792–1867 AD) e dalle osservazioni
strumentali (1872–2010) ha mostrato un aumento esponenziale delle acque alte (Camuffo, 1993; Enzi e Camuffo, 1995)
con conseguenze pesanti alla società e danni ai beni tenuti
a pianterreno.
Questa magnifica città è stata ritratta da molti artisti,
e sono particolarmente famose le immagini colme d’arte e
di realismo fatte dai Vedutisti che fiorirono particolarmente
nel XVIII secolo. L’aspetto realistico diviene impressionante
grazie all’utilizzo della “camera oscura” dotata di un’ottica
che in qualche modo può considerarsi l’antenata di una moderna macchina fotografica. Ci si può chiedere se la bellezza
delle vedute sia dovuta all’ausilio tecnologico della camera
oscura o alla genialità del pittore. Quando si guarda il quadro di un Vedutista si può anche cadere nell’impressione di
stare innanzi a una moderna foto, ma questa si trasforma
presto in un sogno per l’effetto congiunto di una prospettiva
adattata al soggetto, della combinazione artistica di colori,
luci, ombre e proporzioni, degli spunti immaginari e fantastici racchiusi nel dipinto.
La ricerca del realismo da parte dei Vedutisti congiunta all’uso della camera oscura è stata preziosa, non solo ai
fini della produzione artistica e del piacere della fruizione,
ma perché hanno fornito alcune informazioni uniche concernenti l’ambiente e il livello del mare che si trovavano a
Venezia secoli addietro.
Questo lavoro si prefigge di presentare e discutere il contributo che si può cogliere dai Vedutisti ai fini della salvaguardia della città.
57
2. La nascita della camera oscura
La camera oscura era nota sino dall’antichità. Inizialmente
era una stanza oscurata con un piccolo foro (che fungeva da
obiettivo) sulla parete; i raggi della luce esterna penetrando
attraverso il foro proiettavano delle immagini rovesce e sfocate sulla parete opposta. Era nota in Cina sin dal V secolo
a.C., e si trova menzionata da Aristotele nel IV secolo a.C.
Le vicende che hanno portato al suo sviluppo sono molte
e dovute a molti autori. Ne menzioneremo solo alcuni dei
principali, partendo con Ibn Alhazen (nato ca. 965 - morto
1038 d.C.).
La metodologia fu usata per divertimento, a scopi astronomici, o per lo studio della natura e della prospettiva.
Nel Rinascimento la camera oscura cessò di essere una
camera fissa e divenne uno strumento portatile anche se
molto rozzo e ancora senza lenti (Fig. 1). In questo periodo
vari artisti in Italia, nei Paesi Bassi e in Europa Centrale si
dedicarono a studiare con essa la prospettiva e a scoprire le
leggi geometriche che rendevano credibili le strutture architettoniche nei dipinti. I più noti italiani furono Filippo Brunelleschi (nato 1377 – morto 1446), Leon Battista Alberti (n.
1404 – m. 1472), Masaccio (n. 1401 – m. 1428), Piero della
Francesca (n. 1416/7 – m. 1492). Scrisse Giorgio Vasari nel
Fig. 1 La “camera oscura”, un dispositivo ottico simile a una
macchina fotografica. I primi modelli portatili erano delle scatole
in legno con un foro che proiettava l’immagine sulla parete opposta
(Ganot, 1860).
58
famoso trattato “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e
architetti” (1647) nel capitolo “Vita di Leon Battista Alberti”
(Parte Seconda, pag. 275) ma senza documentare la fonte:
“L’anno poi 1457 […] trovò Leon Battista a quella similitudine, per via d’uno strumento, il modo di lucidare le prospettive naturali e diminuire le figure, ed il modo parimente di
potere ridurre le cose piccole in maggior forma e ingrandirle: tutte cose capricciose, utili all’arte e belle affatto”.
Leonardo da Vinci (n. 1452 – m. 1519) nel Codex Atlanticus (Leonardo, 1478 – 1519) fu particolarmente interessato a
cogliere e rappresentare la Natura nel suo aspetto scientifico,
ma praticamente suggerì agli artisti che la camera oscura
poteva essere un nuovo ausilio tecnologico per riprodurre
paesaggi o visioni prospettiche. Nei Paesi Bassi e in Europa
Centrale spiccarono Jan Van Eyck (n. 1390 – m. 1441), Albrect Dürer (n. 1471 – m. 1528) e Johannes Vermeer (n. 1632
- m. 1675) interessati sia alla rappresentazione delle vedute
esterne che a quella degli interni. Tutti questi artisti studiosi delle visioni prospettiche inventarono vari dispositivi per
riprodurre forme architettoniche, paesaggi, nature morte e
personaggi. Furono particolarmente interessati a capire quali erano le leggi della prospettiva e come si dovevano applicare; non ebbero mai un interesse diretto a riprendere immagini fotografiche della Natura. Di questi pionieri dell’arte
solo Vermeer visse in tempi avanzati in cui era possibile disporre di una camera oscura di qualità accettabile.
La prima camera oscura veramente portatile era costituita da una scatola in legno con un piccolo foro. Riducendo la dimensione del foro si aumentava la nitidezza, ma si
riduceva l’intensità del raggio luminoso e inoltre, se il foro
diveniva così piccolo da innescare la diffrazione, questa distruggeva l’immagine. In pratica, la possibilità di ottenere
contorni più nitidi si opponeva all’intensità luminosa e alla
visibilità dell’immagine. Di fatto, le immagini che venivano
proiettate erano macchie sfocate di luci, colori e ombre che
difficilmente permettevano di riconoscere il soggetto.
59
Nel XVI secolo la camera oscura divenne uno strumento
portatile raffinato e maneggevole. I due più famosi astronomi che ne trassero vantaggio furono Kepler e Scheiner.
Johannes Kepler (nato 1571 -morto 1630) usava una piccola
tenda mobile che oscurava un tavolino portatile su cui veniva proiettata l’immagine raccolta da un periscopio posto
sulla parte sommitale, avvalendosi di uno specchio o di un
prisma (Fig. 2). Con questo dispositivo studiò un’eclisse e i
transiti di Mercurio. Cristopher Sheiner (n.1575 – m. 1650),
contemporaneo e nemico di Galileo, proiettava su uno schermo il disco solare per osservare le macchie solari (Scheiner,
1630) che invece costarono la vista a Galileo che le osservava
direttamente al telescopio.
La camera oscura fu migliorata con l’aggiunta di una
lente da occhiali posizionata nell’obiettivo o in prossimità di
questo (Fig. 3). Con la lente fu possibile avere il controllo del
fascio di luce in ingresso, migliorando la qualità dell’immagine con obiettivi più aperti e con fasci luminosi più intensi,
con immagini più nitide e con aberrazioni cromatiche minori. Con ogni probabilità, questo rivoluzionario miglioramento si deve a Girolamo Cardano (n. 1501 - m. 1576) che
pubblicò un trattato di ottica molto avanzato “De luce et
lumine” (“sulla luce e le sorgenti luminose”) che faceva parte di una serie di sette libri chiamati “De subtilitate rerum”
(“la sottigliezza delle cose”, 1550, 1563).
L’evoluzione della camera oscura trasse beneficio dai progressi dell’ottica fatti dapprima con l’invenzione del microscopio (1590) a opera di Zaccharias Janssen (n. 1580 – m.
1638) e di suo figlio Hans e, successivamente, di quella del
telescopio (1608 - 1611) che ebbe tra i padri Hans Lippershey
(n. 1570 - m. 1619) e Galileo Galilei (n. 1564 - m. 1642). Anche Pierre Gassendi (n. 1592 - m. 1655), René Descartes (n.
1596 - m. 1650), Robert Hooke (n. 1635 - m. 1703), Robert
Boyle (n. 1627 - m. 1691), furono degli autorevoli scienziati
che contribuirono in vario modo allo sviluppo della camera
oscura.
60
Fig. 2 Una camera oscura a tenda, del tipo usato da Keplero. La
tenda oscurava un ripiano di legno su cui veniva posto il foglio di
carta. Un periscopio posto in cima e dotato di prisma o di specchio
proiettava l’immagine sul foglio, e questa poteva venire ricalcata a
mano (Ganot, 1860).
Fig. 3 Principio di funzionamento della camera oscura evoluta
con lente e raddrizzamento dell’immagine. L’obiettivo proietta
l’immagine rovesciata su uno specchio a 45° che la controrovescia
proiettandola su un piano di vetro orizzontale su cui viene
appoggiato un foglio di carta. (Ganot, 1860)
61
L’obiettivo dotato di una lente aperse nuovi orizzonti,
come la possibilità di controllare il fuoco e l’apertura dell’angolo della visione ottica. Inizialmente, la lente era semplicemente una lente da occhiali con fuoco fisso e l’immagine
proiettata veniva messa a fuoco per tentativi: avvicinando
o allontanando una superficie di vetro trasparente con un
foglio di carta appoggiato sul vetro sino a che l’immagine
non fosse divenuta nitida. Più tardi fu possibile agire sulla lunghezza focale, spostando in avanti o indietro la lente.
L’immagine era capovolta, ma fu possibile raddrizzarla con
l’ausilio di uno specchio o di una seconda lente.
L’utilizzo e le potenzialità di questo dispositivo furono
menzionati in alcuni libri, come a esempio Giovanni Battista della Porta (n. 1535 – m. 1615) che nel suo trattato “Magiae Naturalis Libri” (”Libri sulla magia naturale”, 1589) e
Athanasius Kircher (n. 1602 – m. 1680) che scrisse (Kircher,
1646) che la camera era un ausilio prezioso per i pittori in
tempi in cui molti artisti facevano del loro meglio per rappresentare veristicamente la realtà.
Nel 1685, Johannes Zahn scrisse un trattato fondamentale di ottica pura e applicata “Oculus artificialis teledioptricus sive telescopium etc.” (“occhio artificiale per osservazioni a distanza basate sulla diottrica, ovverossia sul telescopio
ecc.” Fig. 4). Zahn fece un’analisi approfondita dell’occhio
naturale e artificiale, partendo dalla fisiologia dell’occhio e
dalle varie applicazioni ottiche, incluso l’indice di rifrazione, le caratteristiche e le combinazioni delle lenti concave e
convesse, il ruolo dell’apertura dell’obiettivo, la formazione
delle immagini, le osservazioni astronomiche, il telescopio,
il microscopio e la camera oscura (Fig. 5a).
Era evidente il fatto che nell’occhio umano l’immagine
ottica si forma su una superficie sferica, mentre nella camera oscura su una superficie piana, e questa era una possibile
causa di distorsioni di cui dover tener presente. Tuttavia,
nel caso di grandi lunghezze focali associate a piccoli angoli
ottici, come era la situazione del tempo per i limiti della
62
Fig. 4 Frontespizio del libro di
Johannes Zahn i.e. “Oculus
artificialis teledioptricus sive
telescopium etc.”, Würzburg,
1685
Fig. 5a La Camera Oscura con
obiettivo su supporto allungato
dotato di lente, vista da diverse
angolazioni (Zahn, Oculus
artificialis (1685) Fundamentum
I, Syntagma III, Caput IV,
Pragmatia IV, Fig XXI). Questo
modello è molto simile a quello
usato da Canaletto.
Fig. 5b La Camera Oscura con il motto latino “Cedit Naturae Ars
pictrix, dum pulcherius Arte. Hic Natura suis ludit imaginibus”.
(Zahn, Oculus artificialis (1685) Fundamentum I, Syntagma III,
Caput IV, Pragmatia II Fig XX).
63
tecnologia, tale distorsione era irrilevante, specialmente se
paragonata con gli ampi angoli ottici macro o eyefish delle
moderne macchine fotografiche.
Nel trattato di Zahn, la camera oscura viene presentata
come un potente ausilio tecnologico per riprodurre la Natura e le vedute naturali, cosa particolarmente utile ai pittori.
Tanto era l’entusiasmo per la scoperta delle immagini naturali che si proiettavano sulla superficie della camera che
fungeva da schermo, che Zahn in una tavola riportante la
camera oscura aggiunse un cartiglio col motto in latino “Cedit Naturae Ars pictrix, dum pulcherius Arte. Hic Natura suis
ludit imaginibus” (“L’arte della Pittura ha dovuto cedere di
fronte alla Natura perché questa è più bella dell’Arte. Qui la
Natura gioca con le proprie immagini”), significando che le
immagini prodotte dalla camera oscura sono più belle rispetto alle invenzioni degli artisti. Questi erano l’opinione
e il fervore con cui veniva salutato questo nuovo dispositivo
che prometteva applicazioni favolose.
L’evoluzione successiva della camera oscura fu negli anni
attorno al 1850, quando Sir David Brewster usò la camera
oscura per effettuare fotografie, e chiamò questo dispositivo “pinhole chamber” (“camera con foro-obiettivo”). La camera oscura era sostanzialmente una scatola opaca con un
piccolo foro al centro di una parete, che fungeva da obiettivo fotografico. Di fronte all’obiettivo, Brewster aggiunse
una tendina opaca apribile e chiudibile manualmente, che
però permetteva solo tempi di esposizione molto lunghi. In
pratica, fu una specie di macchina fotografica con obiettivo senza lente, ma copribile manualmente. Tuttavia, questo
sviluppo avvenne dopo il periodo di cui stiamo trattando e
qui ci fermiamo.
64
3. La camera oscura a Venezia
Nel 1568, il dotto veneziano Daniel Barbaro scrisse un libro
di grande interesse per il nostro scopo intitolato “Della Prospettiva. Opera molto utile a Pittori, Scultori et Architetti”
(Fig. 6) in cui riportò la descrizione di tre invenzioni per riprodurre su un foglio di carta delle visioni prospettiche. La
prima, discussa al Capitolo 3 pag.191 (Fig. 7) era un sistema
primitivo usato da Albrecht Dürer (n. 1471 – m. 1528) una
cinquantina d’anni prima, per riprodurre per punti il contorno di un oggetto. Il punto focale coincideva con un gancio
fisso al muro e posto alle spalle dell’operatore. Attraverso
questo gancio poteva scorrere una cordicella mantenuta
tesa da un peso, mentre l’altro estremo della cordicella era
fissato a un puntale mobile che, con l’aiuto di un secondo operatore, veniva successivamente posto a contatto con
vari punti dei bordi dell’oggetto da riprodurre. La cordicella
Fig. 6 Frontespizio del libro
di Daniel Barbaro: “Della
Prospettiva. Opera molto utile
a Pittori, Scultori et Architetti”.
Venezia, 1568. (Museo Galileo IMSS, Firenze)
Fig. 7 Il primitivo sistema usato
da Albrect Dürer per riprodurre
le immagini, illustrato da
Barbaro (1568). (Museo Galileo IMSS, Firenze)
65
tesa attraversava un grigliato verticale, frapposto fra il primo
operatore e l’oggetto, e i punti di intersezione della cordicella sul piano del grigliato costituivano la proiezione dell’oggetto su questo piano. Il sistema era piuttosto macchinoso
e approssimativo, ma a Dürer bastava e Barbaro stesso ne
aveva verificato il funzionamento.
La seconda invenzione al Capitolo 4 pag. 192 era attribuita a Baldassara Lanci ma, dopo una copiosa descrizione,
Barbaro ammise che necessitava ancora di qualche perfezionamento per poter funzionare.
La terza invenzione al Capitolo 5, pag. 192 -193 era la camera oscura come noi la conosciamo, già con l’aggiunta della lente come suggerito da Cardano pochi anni innanzi. In
particolare, Barbaro diede una gustosa descrizione di come
la Natura si riveli attraverso la camera oscura e di come
questa possa essere sperimentata da chiunque grazie a una
semplice lente d’occhiale infissa su un buco praticato sullo
scuro della finestra di una stanza: “Con mirabile diletto la
natura ce insegna la proportionata digradatione delle cose1
& ci aiuta in ogni modo a formare i precetti dell’arte. Per
il che dovremo essere diligenti osservatori di quella in ogni
occasione. Ma per hora io toccherò una bellissima isperienza
d’intorno alla Perspettiva. Se vuoi vedere come la natura
pone le cose digradate, né solamente quanto ai contorni del
tutto o delle parti, ma quanto ai colori & le ombre & le
simiglianze, farai un bucco nello scuro d’una finestra della
stanza di dove vuoi vedere, tanto grande quanto è il vetro
d’un occhiale. Et piglia un occhiale da vecchio, cioè che
habbia alquanto corpo nel mezzo2, & non sia concavo come
gli occhiali dei giovani che hanno la vista curta. & incassa
questo vetro nel buco assaggiato. Serra poi tutte le finestre,
& le porte della stanza siche non vi sia luce alcuna, se non
quella che viene dal vetro. Piglia poi uno foglio di carta, &
ponlo incontra al vetro tanto discosto che tu veda minuta1 2 66
Come le cose cambino proporzione con la distanza
Cioè una lente biconvessa e con un certo numero di diottrie.
mente sopra al foglio tutto quello che è fuori di casa, il che
si fa in una determinata distanza più distintamente. Il che
troverai accostando, ovvero discostando, il foglio al vetro,
finche ritrovi il sito conveniente. Qui vi vedrai le forme nella
carta come sono, & le digradationi, & i colori, & le ombre, &
i movimenti, le nubi, il tremolar delle acque, il volare degli
uccelli & tutto quello che si può vedere”.
4. Chi fu il primo pittore a usare la camera oscura
a Venezia?
Vi sono fondate ragioni di sospettare che Paolo Caliari, detto “il Veronese” (n. 1528 – m. 1588) sia stato il primo tra i
famosi pittori Veneziani a giovarsi della camera oscura, che
utilizzò in un dipinto particolare. Si tratta della presentazione della Famiglia Coccina alla Vergine3 (Fig. 8).
Sarà utile premettere che la Famiglia Coccina era venuta
nella città di Venezia, chiamata “la Dominante”, provenendo dall’entroterra, nel Bergamasco (dai Veneziani chiama-
Fig. 8 Paolo Caliari, detto il Veronese: presentazione della Famiglia
Coccina alla Vergine. Il palazzo evidenziato a destra è Palazzo
Coccina, oggi Papadopoli-Arrivabene. (Gemäldegalerie Alte Meister,
Dresda)
3 Attualmente alla Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda col nome ‘Die
Madonna der Familie Cuccina’.
67
ta “la campagna”) e incontrava delle difficoltà ad inserirsi
nell’alta società veneziana perché veniva considerata una
zotica arricchita parvenu. Nel 1570, i Coccina chiamarono
quello che consideravano il più importante pittore veneziano del tempo, il Veronese, per un grande quadro a scopo
diplomatico -esibizionistico, rappresentante la presentazione della Famiglia alla Vergine Maria. Doveva essere chiaro
che, se la Madonna aveva accettato di buon grado questa
Famiglia, i Veneziani non potevano arrogarsi atteggiamenti
contrari a quanto ormai assodato dalla Madre di Dio. Per
render maggiormente chiara la loro posizione, ed esplicito
il loro potere, il quadro doveva rappresentare anche il loro
magnifico Palazzo4 sul Canal Grande (Fig. 9), che era stato
finito di costruire dieci anni prima, nel 1561. Il dipinto, ter-
Fig. 9 (a) Particolare di Palazzo Coccina nel dipinto di Veronese
del 1571 (Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda). (b) Una foto del
medesimo Palazzo scattata da Ongania attorno al 1880 (Ongania
1890-91). Il dipinto riporta accuratamente tutte le misure, tranne
l’attico (freccia) ampliato nel 1874-75.
4 Palazzo Coccina, successivamente chiamato Tiepolo, Papadopoli e oggi
Arrivabene.
68
minato nel 1571, doveva essere esposto nel salone delle feste
del Palazzo o, eventualmente, nello scalone d’onore. Nel dipinto la Vergine apre la scena all’estremità sinistra, e il loro
Palazzo la chiude all’estrema destra. Nel dipinto s’intravvede
una porzione della sagoma di un secondo palazzo avente la
sola funzione di creare lo sfondo del Canal Grande che si
fonde con questo tratto di Paradiso che include la Madonna,
i Coccina e il loro Palazzo.
Non è noto alcun documento che attesti esplicitamente
che Veronese si sia giovato di dispositivi ottici per riprodurre
prospettive o palazzi. Sappiamo soltanto che Veronese fu incaricato di rappresentare il Palazzo Coccina con la maggior
precisione possibile in quanto il Palazzo era il vero gioiello
della Famiglia e il quadro stava esposto all’interno del Palazzo stesso dove chiunque aveva la possibilità di notare e criticare piccoli errori o deviazioni dalla realtà. Ciononostante,
vi sono tre motivi che supportano l’ipotesi che Veronese si
sia giovato di una camera oscura per riprodurre fedelmente
questo Palazzo.
La prima ragione, di tipo storico, si rifà al trattato di Daniel Barbaro (1569), scritto giusto l’anno prima che Coccina
affidasse l’incarico a Veronese. In pratica, Barbaro testimonia che la camera oscura era nota ed usata a Venezia in quegli anni e che i pittori ne apprezzavano le qualità per le loro
opere. Questa testimonianza rinforza l’ipotesi che Veronese,
in quanto pittore veneziano, conoscesse la camera oscura e
che possa essersi aiutato con questa per rappresentare con
esattezza questo Palazzo, data la particolare richiesta del
committente. La storia prova che l’ipotesi è realistica e probabile, non che fu certamente così.
69
La seconda ragione, di tipo scientifico, è che le caratteristiche architettoniche di Palazzo Coccina sono riprodotte
con una precisione incredibile, impensabile senza l’ausilio
di una camera oscura. Se si confronta il dipinto del Veronese
con una foto reale del palazzo, si rimane impressionati dalla
concordanza e dall’esattezza di tutte le proporzioni. Si può
valutare matematicamente una tale precisione. Per prima
cosa si misura l’altezza di ogni piano normalizzandola5 rispetto all’altezza totale dell’edificio, col vantaggio di rendere
indipendente questo rapporto dalle dimensioni reali e, soprattutto, dalle distorsioni dovute al diverso posizionamento
del punto di osservazione rispetto all’edificio che potrebbe
variarne l’altezza. Successivamente, si calcolano le differenze rispetto le misure omologhe da una foto dell’edificio reale.
Queste piccole differenze sono degli “errori” di riproduzione
Fig. 10 (a) Palazzo Coccina sul Canal Grande in una incisione di
Luca Carlevarijs (tavola 80 in Carlevarijs, 1703). L’incisione riporta
accuratamente tutte le misure, tranne l’attico ampliato nel 1874-75.
(b) Una foto del medesimo Palazzo scattata da Ongania attorno al
1880 (Ongania 1890-91).
5 Vale a dire dividendola per l’altezza dell’edificio.
70
da cui è possibile calcolare la deviazione standard6 (SD). Nel
caso in oggetto si ottiene un valore molto piccolo: SD = 0,04.
L’errore più grande deriva dalla fascia del sottotetto, ed è un
errore ben giustificato in quanto il sottotetto fu sopraelevato
durante i lavori di restauro e ampliamento eseguiti dal proprietario Papadopoli nel 1874 -75, mentre Il resto della facciata fu lasciato inalterato (Arbore Popescu e Zoppi, 1993).
La terza ragione viene dal confronto di Palazzo Coccina
dipinto da Veronese con l’incisione eseguita da Luca Carlevarijs nel 1703 (Fig. 10) che si sa esser stata ripresa con l’ausilio di una camera oscura. Se si paragonano fra di loro le
immagini eseguite da Veronese e da Carlevarijs, e poi queste con una foto dello stesso palazzo scattata da Ongania
negli anni 18807 (Ongania, 1890-91), si vede chiaramente
che Veronese e Carlevarijs riportano esattamente le stesse
proporzioni, mentre la foto degli anni 1880 si discosta per
l’innalzamento del sottotetto.
La prima ragione di ordine storico è un po’ blanda, ma
conferma con certezza che l’ipotesi è possibile. La seconda e
la terza sono più stringenti, essendo basate su un confronto
scentifico-oggettivo delle immagini: indicano che era praticamente impossibile ottenere quella precisione senza l’appoggio di una camera oscura e che una incisione fatta con
una camera oscura praticamente coincide con il particolare
di Veronese.
6 La deviazione standard detta anche ‘scarto quadratico medio’ è un
indice di dispersione delle misure ottenute sperimentalmente.
7 Si è preferito utilizzare una vecchia foto di fine 1800 perché questa
assicura la piena visione della facciata, mentre oggi la crescita del livello
apparente del mare ha costretto a costruire un imbarcadero a passerella
per accedere dal Canal Grande al Palazzo, essendo tutti i gradini della
scala d’approdo coperti da alghe.
71
5. I Vedutisti Veneziani
Si può essere Vedutisti senza utilizzare la camera oscura?
È una domanda che possiamo girare agli Storici dell’Arte
ma di fatto i Vedutisti ebbero nel loro corredo tecnologico, a
parità di dignità, tavolozza, colori, pennelli, stecche, camera oscura e pantografo. Questi erano gli ausili strumentali
di cui si giovavano, ugualmente utilizzati per raggiungere il
fine, o “l’invenzione” come s’usava dire, che il pittore si prefiggeva per la propria creazione artistica, avente per soggetto
un panorama naturale o urbano o, nel caso del Canaletto, la
vita stessa della città nel suo pulsare.
Volendo cercare radici remote e lontane, la più autorevole ci porta nei Paesi Bassi dove Christian Huyghens (n.
1629 – m. 1695), matematico, fisico e astronomo, dimostrò
e divulgò l’utilità della camera oscura agli artisti. I più famosi artisti Fiamminghi che si giovarono di questo mezzo
furono il già menzionato Johannes Vermeer e Vanvitelli. Fu
quest’ultimo a portare la scintilla del Vedutismo a Venezia,
prima che questo diventasse una moda che perdurò per un
secolo intero.
Caspar Adriaensz (n. 1653 – m. 1736), soprannominato
van Wittel, alias Gaspare Vanvitelli, alias Gasparo degli Occhiali, verso il 1675 si trasferì da Amersfoort a Roma dove
si stabilì e realizzò la propria carriera. Fra il 1694 e il 1710
fece una serie di viaggi per l’Italia fermandosi a dipingere
Firenze, Bologna, Ferrara, Venezia, Milano, Piacenza e Napoli. Fu uno dei più importanti pionieri che con l’ausilio di
una camera oscura dipinsero paesaggi naturali e urbani oggi
noti come “vedute”. Queste vedute ebbero molto successo
e nell’ambiente veneziano Vanvitelli rimase un riferimento
essenziale.
Luca Carlevarijs (n. 1665 - m. 1731) potrebbe essere definito un matematico, topografo, pittore, incisore e architetto e può essere considerato la pietra miliare da cui parte il
Vedutismo veneziano. Nacque a Udine, nel retroterra della Serenissima Repubblica ma si trasferì a Venezia e fu in
72
contatto con Vanvitelli. Carlevarijs fu il primo a usare sistematicamente la camera oscura per le sue vedute veneziane
(Lorenzetti, 1948; Chiarelli, 1965; Wiebenson e Baines, 1993)
o, per lo meno, fu il primo rinomato pittore veneziano di
cui abbiamo una tale informazione. Carlevarijs osservava
le immagini reali attraverso la camera oscura non solo per
scegliere le immagini più accattivanti, ma anche perché era
molto interessato allo studio della prospettiva e alla riproduzione accurata dei palazzi. Si serviva di questo ausilio tecnologico, ma non ne era passivamente condizionato (Pignatti,
1980). Il genere artistico del Vedutismo fiorì grazie al successo che ebbe un suo libro che comprendeva un centinaio
di vedute della città: “Le Fabriche, e vedute di Venetia disegnate, poste in prospettiva et intagliate da Luca Carlevariis
con privilegii” stampato nel 1703 e che includeva il Palazzo
Coccina come incisione numero 80. La prima edizione del
1703 conteneva cento incisioni, ma le successive furono arricchite di altri paesaggi urbani.
Altri Vedutisti veneziani che utilizzarono la camera oscura furono: Michele Marieschi (n. 1696 - m. 1743), Giovan Antonio Canal detto “il Canaletto” (n. 1697 - m. 1768) (Fig.11),
Bernardo Bellotto (n. 1720 - m. 1780), Gabriele Bella (n. 1730
- m. 1799), Giuseppe Bernardino Bison (n. 1762 - m. 1844) e
altri considerati minori, alcuni dei quali formatisi o passati
per la bottega del Canaletto. Francesco Guardi (n. 1712 - m.
1793), fu l’ultimo dei grandi Vedutisti ma ebbe una sensibilità artistica diversa, che lo portava ad allontanarsi dalla
tradizione culturale precedente per diventare un precursore del Romanticismo. Questa visione artistica lo portava a
trasformare maggiormente la realtà con la conseguenza di
dare riproduzioni oggettivamente meno accurate, almeno
nei dettagli di nostro interesse. Un altro famoso Vedutista
veneziano fu Giambattista Piranesi (n. 1720– m. 1778), che
si trasferì a Roma nel 1740 dove divenne famoso per i suoi
paesaggi e le rovine archeologiche e architettoniche che talvolta sembrano preludere al Romanticismo.
73
6. Giovan Antonio Canal detto “il Canaletto”
e il nipote Bernardo Bellotto
In questo lavoro ci concentreremo su Canaletto (Fig. 11a) e
Bellotto e trascureremo gli altri Vedutisti veneziani perché
sono meno rilevanti ai nostri fini di ricerca sull’ambiente
fisico veneziano in quanto trascurarono alcuni dettagli del
tutto irrilevanti ai fini dei loro dipinti, ma di grande interesse per noi, come l’annerimento del fumo sui palazzi o la fascia brunastra delle alghe attaccate ai palazzi lungo i canali.
Tuttavia, poiché ci sarà cruciale l’esatta interpretazione di
quanto coglieremo dai dipinti di Canaletto e Bellotto, sarà
utile approfondire la conoscenza di questi autori per poterne
poi meglio leggere le opere.
Il padre di Canaletto fu Bernardo Canal (n. 1674 - m.
1744), pittore e allestitore di scenografie teatrali, artista di
certa fama non limitata ai confini della Serenissima. Nella
sua bottega, Bernardo aveva come apprendisti e assistenti i
due figli Cristoforo e Giovan Antonio e questa formazione fu
Fig. 11a Ritratto di Giovan
Antonio Canal detto “il
Canaletto” inciso da Antonio
Visentini (1735) da un disegno
di Giovanni Battista Piazzetta.
74
Fig. 11b La Camera Obscura di
Canaletto conservata al Museo
Correr, Venezia. Questa camera è
molto simile a quello descritto da
Zahn, (1685) in Fig. 5a.
fondamentale nella vita del Canaletto, non solo per apprendere i rudimenti dell’arte della pittura e l’uso della camera
oscura (Fig.11b), ma anche come scegliere gli elementi maggiormente d’effetto per realizzare una scena teatrale o una
composizione artistica. Il padre Bernardo era maestro di
bottega e secondo l’uso era chiamato col cognome “Canal”.
Quando il giovane Giovan Antonio raggiunse la sua fama, fu
chiamato col soprannome “Canaletto”, equivalente a “Canal
Junior”, seguendo l’uso locale di chiamare i figli con il diminutivo del cognome fintanto che questo era appannaggio del
padre. Questo soprannome temporaneo divenne presto così
famoso che gli rimase.
Bernardo Canal fu richiesto di approntare a Roma la sceneggiatura di due opere di Alessandro Scarlatti, e Bernardo
andò nel 1719 portandosi al seguito, come aiutante, Giovan
Antonio ventidueenne. Questo viaggio segnò la svolta della
carriera del Canaletto che venne in contatto con Gian Paolo
Panini (n. 1691 – m. 1765) di poco più anziano ma ormai
affermato pittore di vedute paesaggistiche. Ritornato a Venezia, Canaletto continuò il genere delle vedute panoramiche
urbane che stava divenendo popolare grazie a Vanvitelli e
Carlevarijs. Gli storici dell’arte più vicini al tempo del Canaletto come Moschini (1806), De Tipaldo (1834) e Rovani
(1856), scrissero che Canaletto fu un discepolo di Carlevarijs
verso il quale ebbe molta stima e affetto e da cui imparò
molto in tecnica e in arte.
Canaletto s’ispirò a Carlevarijs sia per l’estetica sia per le
scelte dei siti di maggior interesse commerciale, fattore di
non secondaria importanza. Per esempio, si può confrontare
Carlevarijs, “Regata sul Canal Grande in onore del Re di Danimarca Federico IV”, datato 1711, al J. Paul Getty Museum,
Los Angeles (Fig. 12a) con Canaletto: “A Regatta on the Grand
Canal” del 1735 alla Royal Collection, Windsor Castle, Londra (Fig. 12b), o la “Regatta on the Grand Canal” del 1740 circa alla National Gallery, Londra (Fig. 12c), o altri dipinti sullo
stesso soggetto. La Regata era una manifestazione storica,
75
che si ripete ancora oggi, con sfarzose imbarcazioni d’epoca e personaggi in costume per celebrare vittorie militari o
impressionare dignitari stranieri. Si riporta la stessa veduta
del Canal Grande in un altro dipinto del Canaletto, datato
1720-1723, ora al museo di Cà Rezzonico a Venezia (Fig. 12d),
dove il Canal Grande ha dismesso lo sfarzo e si presenta con
l’aspetto di ogni giorno. Per paragone la Fig. 12e mostra la
medesima veduta ripresa con una macchina fotografica dallo stesso punto di vista, il balcone del secondo piano di Cà
Foscari. Nel dipinto di Carlevarijs si notano gli edifici al lato
sinistro del Canal rispondenti al vero, mentre quelli al lato
destro sono sostanzialmente falsi, eccessivamente larghi e
alti. Al contrario, Canaletto si mantiene molto più vicino
alla realtà. In particolare, i due dipinti londinesi del Canaletto datati 1735 e 1740 sono molto simili tra loro, con piccole
differenze rispetto al dipinto giovanile di Cà Rezzonico.
In pratica, Canaletto non si lasciò condizionare né dalla
pura imitazione di Carlevarijs né dalla limitata tecnologia
della camera oscura ma imparò da loro ed ebbe le proprie
idee e seppe come realizzarle servendosi della tecnologia disponibile al tempo trasformando i limiti che incontrava in
nuovi spunti creativi.
Canaletto era molto interessato all’aspetto artistico, ma
anche a quello commerciale. Era soprattutto interessato a
vendere agli stranieri che venivano, o che sarebbero voluti
venire a Venezia per motivi di studio, di svago o di commercio, un quadro a ricordo di questa magnifica città. Il
quadro non doveva ricordare soltanto i palazzi, ma anche
la gaiezza, la vita e la gioia che si poteva assaporare a Venezia. Per questo motivo i dipinti sono colmi di luci, colori e
contrasti, con palazzi imponenti e personaggi di tutti i tipi,
dalle macchiette dei venditori, dei bimbi che giocano, degli
animali più vari, ai nobili paludati o agli ambasciatori dei
paesi lontani vestiti con curiosi copricapi e vesti sgargianti.
La tradizione (Lanzi, 1834, pag. 289 e Rovani, 1856, pag.
419), riporta che Giambattista Tiepolo (n. 1696 – m. 1770)
76
Fig. 12a Carlevarijs, la Regata per il Re di Danimarca
(1711, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles)
Fig. 12b Canaletto, Regata sul Canal Grande
(1735, Royal Collection, Windsor Castle, Londra)
Fig. 12c Canaletto, Regata sul Canal Grande (1740) (Canaletto,
A Regatta on the Grand Canal, ©The National Gallery, Londra)
77
Fig. 12d Canaletto, Il canal Grande da Cà Balbi verso Rialto
(1720‑23, Cà Rezzonico, Venezia)
Fig. 12e Vista del Canal Grande, foto scattata dalla balconata del 2°
piano di Cà Foscari, dalla stessa posizione del Canaletto
78
era un ottimo amico di Canaletto, e che spesso interveniva
aggiungendo nei suoi quadri delle gustose scene della vita
di ogni giorno che creavano la vita veneziana e un rapporto diretto con l’osservatore che in breve si trova immerso
in quella realtà fantasiosa e fantastica. La chiave per interpretare Canaletto è dunque il sinergismo tra la scenografia
architettonica creata dai palazzi e la creatività artistica della
vita che si svolge all’interno di questa città. Ma vedremo che
anche la scenografia architettonica è un risultato geniale di
come Canaletto poteva vedere le singole parti di questi elementi e di come le assemblava poi.
Canaletto lavorò prevalentemente a Venezia, tranne circa
un decennio di permanenza a Londra dal 1746 al 1755/56.
Si sa che Canaletto era ben organizzato per la produzione di quadri. Nella sua bottega aveva allevato un numero
di aiutanti che intervenivano più o meno parzialmente sui
quadri sotto la sua guida. Tra questi vi era anche il giovane
nipote Bernardo Bellotto, che cominciò ancora ragazzo, un
vero ragazzo prodigio, lavorando in bottega e seguendo lo
zio in alcuni viaggi di lavoro per l’Italia.
Bellotto lavorò per anni, attenendosi diligentemente allo
stile dello zio, che dovette assimilare perfettamente per integrare e completare i suoi quadri. Quando nel 1738, a soli
17 anni, raggiunse l’indipendenza iscrivendosi alla Fraglia8
dei pittori veneziani, Bellotto fu libero di esprimersi con un
proprio stile personale che un esperto può riconoscere. Tuttavia, quando raggiunse la prima indipendenza, continuò
a firmare i suoi quadri col nome di Canaletto perché maggiormente quotati sul mercato, e questo soprannome gli fu
ufficialmente riconosciuto da molti al tempo. L’abilità del
giovane Bernardo e l’abuso della firma, autorizzata o non,
causarono dissapori e gelosie tra zio e nipote, e una certa
difficoltà e confusione nell’attribuzione della paternità di
certi quadri. Dopo un po’ Bellotto e Canaletto divennero ri8 Congregazione di arti e mestieri
79
vali e Bellotto andò (o dovette andare) a cercare fortuna in
altre città europee cominciando con Dresda dove andò nel
1747 invitato dall’Elettore di Sassonia. Di lì passò a Vienna su invito dell’Imperatrice, poi a Monaco, Dresda e infine
Varsavia dove morì.
I suoi contemporanei lo consideravano bravo e diligente, fedele discepolo dello zio, come mostra questa descrizione nell’“Abbecedario Pittorico” di Antonio Orlandi (1753,
pag.101) che si riferisce ai primi tempi di attività di Bellotto,
includenti tutto il periodo veneziano che va dal 1738 al 1747:
“BERNARDO BELLOTTO, di nascita assai civile, Nipote
di Antonio Canal. Cogli ammaestramenti del Zio superate le
difficoltà dell’ arte, prese ad imitarlo con tutto lo studio ed
assiduità. Per consiglio del Zio portatosi a Roma fece uso del
suo talento per disegnare e dipingere le antiche fabbriche e
le più belle vedute di quell’alma città. Con tale esercizio rendendosi sempre più abile ritornato a Venezia passò a Verona,
Brescia e Milano, dove con molta sua lode le più cospicue
prospettive di quei paesi in tele ritrasse; e molte ancora ne
dipinse di quelle di Venezia così diligentemente e al naturale
eseguite, che un grande intendimento ricercasi in chi vuole
distinguerle da quelle del Zio. Presentemente è a Dresda,
occupandosi a rappresentar col pennello i luoghi più celebri
di quella Città; ed essendo ancor giovine, e indefesso nello
studio ed attenzione, è da sperare che il nome di lui celebre
e famoso divenga”.
Poiché in questo lavoro siamo interessati a certi aspetti
delle vedute veneziane, quanto si dirà per Canaletto s’intende
possa valere in linea di massima anche per Bellotto, almeno
per il periodo veneziano che sostanzialmente si sovrappone a
buona parte del primo periodo veneziano di Canaletto.
80
7. L’uso che Canaletto fece della camera oscura
A questo punto dobbiamo porci la domanda di quanto fu
rilevante per Canaletto l’uso della camera oscura e se noi,
a nostra volta, possiamo trarre vantaggio da certi dettagli
riportati nei quadri. In altri termini: sono questi precisi,
credibili e utilizzabili o si tratta solo di invenzioni artistiche? Abbiamo la possibilità di verificare e dare una risposta
scientifica a questi interrogativi? Dovremo quindi stabilire
dei limiti: cosa è diverso da una foto nei quadri di Canaletto,
e cosa invece ricalca la precisione di una foto.
7.1 Cosa differenzia i quadri del Canaletto da una foto
Sia gli Storici dell’Arte immediatamente successivi a Canaletto (come Algarotti, 1756, Zanetti, 1771, Lanzi, 1834)
sia quelli contemporanei (Corboz, 1974, 1985, 2008; Nepi
Scirè, 1977; Bettagno, 1982, 2001; Pignatti, 1987, 1996,
2001; Pedrocco, 1995, 2001; Terpitz, 2000; Succi e Delneri,
2001; Kowalczyk e Da Curta Fumei 2001, 2005; Bettagno e
Kowalczyk, 2005; Kowalczyk, 2008; Pavanello e Craievich,
2008; Staatliche Kunstsammlung Dresden, 2008; Beddington e Bradley, 2010) hanno sempre giustamente sostenuto
che i quadri di Canaletto e degli altri Vedutisti non sono
una rigida riproduzione del vero come lo potremmo vedere in una moderna foto panoramica. In particolare Corboz
analizzò alcune prospettive concludendo che erano state
ottenute combinando tra loro delle vedute parziali, riprese separatamente. Il punto fondamentale che dobbiamo
chiarire è se l’invenzione artistica trasforma la realtà solo
nell’assemblare in qualche modo delle parti distinte (le vedute parziali) o se va oltre trasformando la realtà delle singole componenti.
Per meglio capire questo punto cruciale conviene tornare
alla testimonianza diretta di chi conobbe Canaletto, a partire dall’erudito veneziano Conte Francesco Algarotti (Fig. 13).
Algarotti apprezzava molto Canaletto e possedeva anche alcuni suoi quadri, spunto di lunghe discussioni sull’arte. Nei
81
suoi scritti sulla camera oscura riecheggiano parole e pensieri del suo grande amico pittore.
“DELL’USO DELLA CAMERA OTTICA [...omissis] Per via
di una lente di vetro e di uno specchio, si fabbrica un ordigno, il quale porta la immagine o il quadro di che che
sia, e di un’ assai competente grandezza, sopra un bel foglio
di carta, dove altri può vederlo a tutto suo agio, e contempIarIo: e cotesto occhio artifiziale, Camera ottica si appella.
Non dando esso l’entrata a niuno altro lume fuorchè a quello della cosa che si vuoI ritrarre, la immagine ne riesce di
una chiarezza, e di una forza da non dirsi. Niente vi ha di
più dilettevole a vedere, e che possa essere di più utilità, che
un tal quadro. E lasciando stare la giustezza dei contorni,
Fig. 13 Frontespizio del libro di
Fig. 14 Frontespizio del libro
Francesco Algarotti, “Saggi sopra di Anton Maria Zanetti “Della
le Belle Arti” Venezia, 1756.
pittura Veneziana e delle opere
pubbliche de’ Veneziani Maestri”,
Venezia, 1771.
82
la verità, nella prospettiva e nel chiaroscuro, che nè trovarsi
potrebbe maggiore, n’è concepirsi; il colore è di un vivo, e
di un pastoso insieme, che nulla più. I chiaroscuri principali
delle figure vi sono spiccati ed ardenti nelle parti loro più
rilevate ed esposte al lume, degradando insensibilmente di
mano in mano che quelle declinano: le ombre sono forti
bensì, ma non crude; come non taglienti, ma precisi sono
i dintorni. Nelle parti riflessate degli oggetti si scuopre una
infinità di tinte, che male si potriano senza ciò distinguere: e
in ogni sorta di colori, per il ribattimento del lume dall’uno
all’altro, ci è una tale armonia, che ben pochi son quelli che
chiamare si possano veramente nemici.
Nè punto è da stupirsi, che con tale ordigno quello arriviamo a scernere, che altrimenti non faremmo. Quando noi
volgiam l’occhio ad un oggetto per considerarlo, tanti altri
ce ne sono dattorno, i quali raggiano ad un tempo medesimo nell’occhio nostro, che non ci lasciano ben distinguere
le modulazioni tutte del colore e del lume che è in quello,
o almeno ce le mostrano mortificate e più perdute; quasi si
tra il vedi e il non vedi. Dove per contrario nella Camera
ottica la potenza visiva è tutta intesa al solo oggetto che le è
innanzi; e tace ogni altro lume che sia.
Maraviglioso dipoi in tal quadro è lo innanzi e lo indietro. Oltre al diminuirsi che fa negli oggetti la grandezza,
secondo che dall’occhio si allontanano; vedesi ancora diminuita la sensibilità del colore, del lume, delle parti di quelli.
A maggior distanza risponde più perdimento di colore, ed
isfumatezza di contorno; ed assai più slavate sono le ombre
in un lume minore, o più lontano. Gli oggetti al contrario,
che sono più vicini all’occhio, e più grandi, sono anche più
precisi nel contorno, di ombre molto più vivi, più alti di tinta: e in ciò consiste quella prospettiva, che chiamasi aerea;
quasi che l’aria posta tra l’occhio e le cose, come le adombra
un tal poco, così ancora le logori, e le si mangi. In essa prospettiva sta una gran parte dell’arte pittoresca per ciò che si
spetta agli sfuggimenti, agli scorci, allo sfondato del quadro;
83
e per essa, ajutata che sia dalla lineare, riescono dolci cose a
vedere, e dolci inganni.
Niuna cosa può meglio mostrarla quanto la Camera ottica, in cui la natura dipinge le cose più vicine all’occhio
con pennelli, dirò così, acutissimi e fermi, le lontane con
pennelli più spuntati di mano in mano, e più solli.
Molto di essa si vagliono i più celebri pittori, che abbiamo oggigiorno, di vedute; nè altrimenti. avrìano potuto rappresentar le cose così al vivo.
[… omissis] Quell’uso che fanno gli astronomi del canocchiale, i fisici del microscopio, quel medesimo dovrebbon
fare della Camera ottica i pittori. Conducono egualmente
tutti cotesti ordigni a meglio conoscere, e a rappresentar la
natura.”
In breve Algarotti rammenta che la camera oscura aiuta
a scegliere e trovare l’inquadratura ottimale, a mettere in
giusto gioco di luce e di ombre un soggetto, a creare profondità e sfondo sia nella forma, che nel colore e nelle linee di
contorno. Favorisce la scelta dei contrasti e delle sfumature,
permette la scelta fra più immagini e fa pregustare l’assemblaggio delle scene, facendo vedere cose belle, e aiutando a
creare affascinanti inganni. La camera oscura è il segreto del
successo dei Vedutisti: senza di essa non avrebbero potuto
sperare di rendere così vere e vive le loro opere.
Nel 1771, un altro erudito veneziano, Anton Maria Zanetti pubblicò un’opera monumentale in cinque libri dal titolo:
“Della pittura Veneziana e delle opere pubbliche de’ Veneziani Maestri” (Fig. 14), scritta l’anno successivo alla dipartita
di Canaletto e apparsa due anni dopo. Zanetti fece un’analisi
puntuale dei pittori veneziani e delle loro opere seguite da
un breve commento. I suoi libri furono considerati un autorevole riferimento giacché quanto scrisse fu ripreso quasi
alla lettera, anche se talvolta sintetizzato, oltre 60 anni più
tardi dallo storico fiorentino Luigi Lanzi nel libro: “Storia
Pittorica dell’Italia dal Risorgimento delle Belle Arti fin presso alla fine del XVIII secolo. Vol III, Scuola Veneziana” pub84
blicato nel 1834. La testimonianza di Zanetti che certamente conobbe Canaletto è fondamentale per interpretarne stile
e finalità. La parte più interessante del commento di Zanetti
è di seguito riportata:
“ANTONIO CANAL. Saranno forse inutili le scritte memorie di questo egregio Maestro, perciò che le molte opere
sue sparse per le parti più colte dell’Europa nostra saranno sempre onorevole testimonio del suo valore. Ma poichè
più delle pitture sono per durare gli scritti, trasmettasi alla
posterità più lontana le notizie ch’ei fu uno de’ più valenti
pittori de’ giorni suoi nel rappresentare vedute e prospettive,
tanto tratte dalla verità, quanto dalla immaginazione; e pochi o niuno facilmente ei ne vide, che prima in quel genere
a lui n’andasse avanti.
Unì il Canal ne’ suoi quadri alla natura le pittoresche
licenze con tanta economia, che le opere sue vere compariscono a chi non ha che buon senso per giudicarne9; e chi
molto intende trova di più in esse grand’ arte nella scelta de’
siti, nella distribuzione delle figure, nei campi, nel maneggio
delle ombre e dei lumi; oltre a una bella nitidezza e saporita
facilità di tinta e di pennello, effetti di mente serena e di
genio felice.
Figliuolo egli fu di Bernardo, che traea origine dalla nobilissima famiglia da Canal, ed era pittore da teatro. Ne’ primi anni seguitò col Padre quell’esercizio, utile per sciogliere
la mano e svegliare la fantasia della gioventù e per obbligarla a operar con prontezza; e fece bellissimi disegni per gli
scenarii. Lasciato poi il teatro nel 1719, annojato dalla indiscretezza de’ Poeti drammatici, passò giovinetto a Roma, e
tutto si diede a dipingere vedute dal naturale.
Bei soggetti ei trovò quivi nel genere spezialmente
dell’antichità; e belli per i pittoreschi accidenti n’ebbe dopo
nella patria sua, i siti della quale non potrono essere più op9 Unì nei suoi quadri cose naturali e licenze pittoriche con tanta
maestria che le sue opere sembrano vere a chi le giudica basandosi solo
sul proprio intuito.
85
portuni a quel fatto; cosicchè chi veduti non gli ha, crede nel
mirar le pitture, che siano piuttosto immaginari pensamenti
che semplici verità.
Insegnò il Canal con l’esempio il vero uso della camera
ottica; e a conoscere i difetti che recar suole a una pittura,
quando l’artefice interamente si fida della prospettiva che
in essa camera vede, e delle tinte spezialmente delle arie, e
non sa levar destramente quanto può offendere il senso. Il
Professore m’intenderà.
Finì di vivere nel passato anno 1768, il dì 20 Aprile, il 71
dell’età sua.”
In breve Zanetti dice che Canaletto riuscì a coniugare
così bene elementi di arte e fantasia con quelli reali, che
chi vede i suoi quadri senza un’adeguata preparazione rimane convinto di vedere una riproduzione fotografica. Al
contrario, chi è veramente esperto rimane ammirato per la
maestria con cui ha selezionato le vedute, come ha composto le immagini, come ha fatto le campiture, come ha utilizzato le ombre, le luci e i colori. Fu maestro nell’uso della
camera oscura. Ne conosceva bene i limiti ed evitava di farsi
condizionare da questi, come quei pittori che si adattano a
riprodurre le piccole scene limitate dallo stretto angolo visivo della lente, o con i colori poco intensi e brillanti per la
bassa intensità luminosa della luce che penetra dall’obiettivo. Canaletto sapeva bene come superare tutti questi limiti
ed eliminare quanto poteva penalizzare l’estetica. In pratica
Algarotti e Zanetti sono concordi nelle loro affermazioni,
nell’insistere sui limiti della camera oscura su cui cadevano
i Vedutisti minori e sul fatto che il Canaletto era maestro nel
superarli.
Qualcosa resta però nel vago: precisamente, cosa sono
le “pittoresche licenze” che Canaletto introduceva nei quadri? A parte le gustose scene di vita, vi sono altri elementi
fantastici e immaginari? I palazzi erano ripresi esattamente
oppure venivano trasformati e distorti? Cosa “offendeva il
senso”? Qual è il segreto misterioso che poteva capire sol86
tanto l’esperto Professore e che non si degna di raccontarci?
Possiamo osare di sostituirci ai panni di questo luminare? È
quanto ci sforzeremo di fare.
Dobbiamo ripartire dal presupposto che Canaletto voleva riprodurre un ricordo di Venezia a quei viaggiatori che
tornavano in patria affascinati dalla città e dalla sua vita,
o mostrare angoli della città particolarmente attraenti a chi
era costretto ad accontentarsi di un quadro per vedere Venezia. Questo significa riprodurre una veduta ordinata dei
monumenti più interessanti, ripresi nel modo a loro più favorevole e presentati nella loro valorizzazione migliore. Per
questo la camera oscura si prestava a testare dei provini di
inquadrature e di luci alle varie ore del giorno, tra cui poi il
pittore avrebbe potuto scegliere la migliore.
Sin qui siamo in un uso diligente della camera oscura,
ma nel normale approccio della visione statica, tipica dei Vedutisti e appreso da Carlevarijs: il dipinto rappresenta quello
che vede il pittore, posizionato davanti al soggetto. Canaletto
inventò la veduta dinamica, combinando sulla stessa tela
più immagini distinte, ciascuna osservata da un punto di
vista diverso, come un passante che abbia visto e ricordi,
ma riuscendo a combinarle in modo unitario. È quanto rimane in mente a una persona che abbia passeggiato lungo
un rio, o in una piazza, e abbia osservato i vari palazzi. Li
rivede uno per uno, individualmente, dal loro punto di vista
migliore, ma gli può sfuggire qualcosa delle loro relazioni
spaziali e delle proporzioni che legano un edificio all’altro.
Canaletto riunisce queste immagini, come in un sogno o
un ricordo, talvolta penalizzando le relazioni geometriche di
distanza, proporzione o angolatura per valorizzare singolarmente gli edifici di maggior interesse.
Canaletto fece anche altri passi geniali che dobbiamo
evidenziare. Per trovarli, ripartiamo dal punto, sottolineato
da Zanetti, che Canaletto era nato come scenografo e fece
bellissimi disegni per gli scenarii. Nella sua esperienza scenica aveva imparato che l’ambiente in cui si muovevano gli
87
attori era costituito da uno sfondo e dalle quinte laterali, le
quali non erano tenute perpendicolari allo sfondo, ma ruotate verso gli spettatori per renderle meglio visibili anche da
chi era seduto ai lati della platea. I palazzi laterali potevano
quindi essere ruotati di quel tanto che avrebbe migliorato la
loro visualizzazione (Fig. 15). Questo effetto scenico andava
però contro le leggi della prospettiva, in quanto non ci sarebbe più stato un unico punto di vista per tutta la scena,
ma uno per lo sfondo e uno per ogni lato: in pratica tre
punti di vista distinti e difficilmente combinabili tra loro.
Tuttavia, penalizzando le leggi della geometria e della prospettiva si poteva ottenere un effetto estetico straordinario
valorizzando tutti gli elementi che si affacciavano alla stessa
scena e creando una miscela sapiente e geniale di realtà (le
singole immagini) e di fantasia (la combinazione di queste
immagini parziali, i loro rapporti spaziali). Mettendo a frutto
l’esperienza acquisita nella bottega del padre, la soluzione
veramente geniale fu: realizzare nella tela del quadro una
scenografia teatrale.
La camera oscura soffriva di tutte le limitazioni del tempo: la lente aveva un fuoco fisso, non si potevano ottenere
distanze ravvicinate, non esistevano lenti macro per operare
Fig. 15 Nel palcoscenico
di un teatro, le quinte (in
rosso) ai lati della scena
sono mobili per permettere
l’allestimento scenografico e
l’ingresso e l’uscita degli attori.
La scenografia riproduce edifici
o ambienti naturali, e l’angolo
che le quinte formano con
l’osservatore è scelto in modo
da aumentare la veduta e creare
un’atmosfera fiabesca. Anche
le dimensioni possono essere
espanse o contratte, per creare
l’effetto desiderato dato l’angolo
visivo.
88
in ambienti con poco spazio e le lenti con un angolo visuale
ridotto richiedevano distanze considerevoli. Se i vetrai veneziani avessero costruito una lente troppo macro, vista la deformazione a barile dell’immagine nessuno avrebbe voluta
accettarla e la lente macro, anche se sperimentata, sarebbe
stata immediatamente scartata.
Era quindi impossibile ottenere un panorama a largo respiro oppure la veduta all’interno dei campi10. Se l’angolo
ottico della camera non era sufficiente, era tuttavia possibile realizzare un panorama combinando più visioni parziali,
ognuna ottenuta con una piccola rotazione della camera. Se
un qualche ostacolo si frapponeva tra la camera e un monumento, Canaletto poteva spostare la camera per riprendere
la parte coperta per poi aggiungerla. Queste sono scaltrezze tecniche del mestiere cha anche gli altri pittori sapevano
fare, e non sembrano l’intuizione geniale e misteriosa su cui
tutti insistono.
Ciò che rende geniale Canaletto è la scaltrezza e la bravura con cui risolse questi problemi. A volte per evidenziare
meglio un palazzo laterale che sarebbe apparso penalizzato dalla visione radente, o per adattare meglio il soggetto
alle dimensioni della tela, ruotava qualche immagine. Ovviamente, non conveniva effettuare la rotazione operando
sull’immagine come faremmo noi oggi con un computer,
perché sarebbe stato troppo laborioso, mentre era molto
semplice ottenerla riposizionando diagonalmente la camera
oscura, cambiando l’angolatura della ripresa.
Oppure, se lo spazio era insufficiente per inquadrare nella camera oscura i palazzi di fronte e quelli ai lati, Canaletto
riposizionava la camera in modo da riprendere separatamente il fronte e i lati e poi rimontava il tutto. Il problema
era che i vari pezzi erano indipendenti, con punti di fuga
diversi; anche le ombre convergevano verso direzioni diverse, a seconda della posizione della camera che le riprendeva.
10 “Campo” è il nome delle piazzette veneziane; solo la Piazza San
Marco può pregiarsi dell’appellativo “Piazza”.
89
A volte la bozza presa con la camera oscura poteva essere
troppo piccola rispetto a quanto prefissato, e allora veniva
ingrandita con il pantografo. La pratica del pantografo è
confermata dalla presenza di alcuni fori causati dai puntali
del pantografo sui fogli dei disegni (Gioseffi, 1960; Gilardi,
2000). Riprese indipendenti potevano subire ingrandimenti
diversi. A volte poteva essere un problema, altre il riproporzionamento di alcune parti poteva essere voluto, per
esempio un campanile poteva essere rimpicciolito per non
svettare fuori della tela. Tutte queste piccole incongruenze
potevano saltare all’occhio e il montaggio avrebbe potuto
riuscire una specie di Frankenstein. Occorreva dare coerenza unitaria alle varie parti e mascherare i rattoppi non coincidenti.
Canaletto risolse questi problemi molto sapientemente,
con effetti speciali dovuti alla combinazione di angolature
diverse, ma senza esagerare troppo nelle differenziazioni,
unificando il tutto con giochi di luce, ombre e colori che
dessero la credibilità di un unico impianto ripreso allo stesso istante e con le ombre tutte orientate concordemente,
creando diversivi che distraessero l’occhio per non cercare
e non vedere l’incongruenza geometrica dei punti focali diversi. Per questo aggiunse barche, scene di vita, animali,
personaggi e mille altri gustosi dettagli che attirassero l’attenzione. L’occhio vede la magnifica cornice urbana e si perde volentieri a cercare e gustare questi diversivi psicologici di
raffinata bellezza artistica e di autentica genialità.
Zannetti scrisse meritatamente ch’ei fu uno de’ più valenti pittori de’ giorni suoi nel rappresentare vedute e prospettive, tanto tratte dalla verità, quanto dalla immaginazione e aggiunse che l’osservatore non smaliziato non si
accorge di nulla e crede di vedere la realtà: in pratica non
era la Venezia vera, ma una Venezia inventata e trasformata
da un sapiente regista, un sogno fissatosi sulla tela con l’apparenza del vero.
90
Tanto grandi erano la creatività e la capacità di Canaletto nel copiare e realizzare paesaggi naturali o urbani combinando parti diverse che, come piacere o sfida a se stesso,
talvolta creò delle composizioni puramente fantasiose associando edifici e ambienti totalmente indipendenti fra loro
o immaginari, i cosiddetti “Capricci” che, se disgiunti dallo
spirito del Canaletto, possono apparire come una strana ed
inspiegabile combinazione di elementi architettonici o paesaggistici.
I Vedutisti cosiddetti minori che cercarono d’imitarlo
diedero risultati un po’ goffi. Canaletto ben si merita il titolo
di Maestro: non fu il primo a lanciare il Vedutismo, ma aprì
le porte a un genere nuovo, consistente nella combinazione
di più immagini genialmente fuse assieme sulla stessa tela.
Il suo stesso maestro storico, Carlevarijs, fu eccellente nelle
vedute frontali come si è visto nella Fig. 10 tratta dal volume “Le Fabriche, e vedute di Venetia” del 1703, ma piuttosto grossolano nell’aggiunta dei palazzi al lato destro del
Canal Grande nella “Regata sul Canal Grande in onore del
Re di Danimarca Federico IV”, del 1711, già commentato in
Fig. 12a.
Naturalmente i concetti sopraelencati possono essere
chiariti solo con esempi, come quelli che seguiranno, partendo dal caso più semplice.
Alcuni dipinti presentano una prospettiva perfetta, con
un solo punto focale ben definito, come la “Veduta della
Piazzetta San Marco verso Nord”, (1750-1755, The Northon
Simon Museum, Pasadena, Fig. 16). Il punto focale dove convergono tutte le linee si trova al centro della Basilica, che
diviene il soggetto logico più importante. Possiamo supporre
che questa fu la scelta più ovvia, perché lo spazio a disposizione era molto ampio, sufficiente a trovare degli ottimi
punti per una ripresa completa, e non era necessario alcun
artifizio. A parte il valore artistico, la stessa veduta potrebbe essere ottenuta con una foto. È l’immagine statica che
avrebbe visto una persona ferma nell’esatta posizione in cui
91
Fig. 16 Canaletto, “Veduta della Piazzetta San Marco verso Nord”
(1750-1755, the Northon Simon Museum, Pasadena). La prospettiva
è semplice e perfetta, con un solo punto di fuga, ben preciso.
È un’immagine statica come la vedrebbe una persona ferma in un
punto, o una macchina fotografica.
Fig. 17 Canaletto, “Piazza San Marco verso la chiesa di S.
Giminiano e le Procuratie Nuove” (1735-1740, Galleria Nazionale
d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma; Soprintendenza Speciale
per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per
il Polo Museale della Città di Roma). Visione espansa dei lati.
Sono evidenti due punti di fuga (circoli) che sovrappongono
la convergenza delle linee prospettiche dalla parte destra e da
quella sinistra. L’effetto è di ruotare le due vedute laterali verso
l’osservatore espandendo lateralmente l’immagine.
92
Canaletto aveva fissato la camera. Quello che sorprende è
invece la ripresa dall’alto. Non è pensabile il pennone di
una nave ormeggiata nel Bacino San Marco perché sarebbe
oscillato troppo per realizzare il disegno. È più probabile che
sia salito sulla colonna sul molo che regge il leone alato di
San Marco che si trova di fronte al punto di fuga.
In altri casi vi è la scelta di operare in due o più riprese
separate per poi combinarle al fine di ottenere effetti speciali. Ne è esempio la “Piazza San Marco verso la chiesa di S.
Giminiano e le Procuratie Nuove” (1735-1740, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini di Roma, Fig. 17),
composta da tre riprese separate: al centro la veduta frontale con la chiesa di S. Giminiano che costituisce il fondo
della Piazza, i palazzi al lato destro (le Procuratie), e quelle
al lato sinistro (le Procuratie con il campanile). Le linee di
convergenza ai punti focali s’intrecciano tra loro portando i
punti focali verso parti opposte, il che significa una rotazione delle estremità delle due ali laterali verso l’osservatore.
La rotazione permette di rendere visibili le Procuratie alla
sinistra, altrimenti coperte dal campanile. La Piazza è stata
così espansa orizzontalmente e valorizzata, mettendo generosamente in vista tutti i palazzi che la contornano, anche
se con questo si è fatta una piccola ma geniale violenza alla
geometria. È una composizione scenica con le quinte disposte per essere visibili al meglio. Una foto non avrebbe mai
potuto mostrare lo stesso scenario. È l’impressione che una
persona si crea dopo aver passeggiato per Piazza San Marco
ed essersi fermato a guardare ora questo ora quel monumento. Tornano innanzi agli occhi i ricordi di tutti i palazzi,
contemporaneamente e senza ostacoli che li coprano, nella
loro ubicazione approssimativa, come la memoria sa fare e il
ricordo rincorre. È una visione dinamica, che richiama fortemente le sensazioni di chi ha già visto quei luoghi, che dal
dipinto risaltano anche più vivi. Non è più la Venezia reale,
ma la Venezia di favola che rimane nel ricordo e nel cuore.
93
Una soluzione più complessa e smaliziata si trova nella
“Piazza San Marco” (1730, Museum Fine Arts, Houston, Texas, Fig. 18), composta anch’essa da quattro riprese separate:
la Basilica in posizione centrale sullo sfondo, il campanile e
i due palazzi ai lati (le Procuratie) ruotati come se fossero le
quinte laterali di una scenografia teatrale al fine di renderli
simmetricamente convergenti verso le due ali della Basilica.
L’impianto è a prima vista sorprendente, in quanto per valorizzare i lati ci si sarebbe attesa una rotazione contraria.
Se avesse ruotato le Procuratie verso l’osservatore, come nel
caso della Galleria Nazionale di Roma, i raggi convergenti
si sarebbero ancora una volta intrecciati portando da parti
opposte i due punti focali. Questa operazione avrebbe però
richiesto uno sviluppo orizzontale maggiore, una tela più
lunga. Ma una tela lunga e stretta non si presta per un qua-
Fig. 18 Canaletto, “Piazza San Marco”, (1730, Museum of Fine Arts,
Houston, Texas). Visione compressa dei lati. Sono evidenti due
punti di fuga (circoli) che si allontanano rispetto alla convergenza
delle linee prospettiche della parte destra e di quella sinistra.
L’effetto centrifugo è ottenuto ruotando le due vedute laterali in
senso opposto rispetto all’osservatore, il che è equivalente a una
contrazione delle immagini laterali. In pratica, le due ali sono state
riprese separatamente, con la camera posta diagonalmente.
94
dro commerciale, che deve essere un rettangolo secondo la
proporzione aurea della tradizione. Il punto cruciale è che
in una veduta-foto normale la Basilica sarebbe stata troppo
piccola, mentre Canaletto voleva che fosse ben apprezzabile
in tutti i suoi dettagli. Fissata la dimensione della Basilica,
la soluzione per raccordare i lati in una tela troppo stretta
rispetto alla necessità è inattesa ma logicamente ineccepibile: Canaletto prende solo una porzione sia delle Procuratie di
destra, sia di quelle di sinistra e le ingrandisce, ma a questo
punto le due ali assumono proporzioni troppo grandi, inconciliabili con la Basilica. Deve quindi ridurre l’altezza delle
Procuratie a partire dal fondo, sfumando progressivamente
questa riduzione man mano che si avvicina al primo piano.
Dal punto di vista ottico, questa operazione è equivalente a
controruotare di un po’ le Procuratie spostando verso i bordi
del quadro i loro due punti focali come se questi si respingessero. Per questo effettua due riprese separate, con la camera
in angolatura diagonale rispetto a entrambi i lati. Sempre
per stare dentro il rettangolo della tela aggiunge il campanile rimpicciolito di quel tanto che gli permetta di entrare
tutto intero all’interno della veduta. La soluzione è piuttosto
complessa, ma certamente geniale. Una volta ancora, reale
e immaginario si mescolano, lasciando a chi guarda l’impressione di aver ritrovato un ambiente noto ma anche con
qualcosa d’indefinito che sfugge, come nei sogni.
Nel caso di vedute con canali la soluzione diveniva particolarmente semplice, in quanto la riva destra e la sinistra
costituivano già in partenza due parti separate e il canale
in mezzo a loro costituiva una campitura neutra che ben
si prestava ad assorbire e mascherare ogni differenza tra le
due prospettive. Per esempio poteva riprendere la riva destra
stando sul lato sinistro e poi attraversare il canale per cogliere dalla riva sinistra il lato opposto. Non sempre i due punti
di vista potevano essere esattamente affacciati, o allo stesso
livello dal suolo, creando piccole dissimmetrie.
95
La tecnica di combinare visioni parziali è particolarmente chiara nella veduta “Ingresso al Canale di Cannaregio”
datata 1735, alla Cassa di Risparmio di Venezia (Fig. 19a)
molto simile alla stessa veduta datata 1734-42 alla National Gallery di Londra. Il dipinto si differenzia da una foto
(Fig. 19B) in quanto è sostanzialmente composto di due vedute principali. La prima, ripresa dalla riva del Canal Grande di fronte al Canale di Cannaregio, mostra i palazzi che
sul lato opposto si specchiano sul Canal Grande, in ottima
posizione frontale. Dalla stessa posizione, sulla sinistra, si
apprezza anche il lato di Palazzo Labia che si affaccia sul
Canale di Cannaregio. Tuttavia, i palazzi che si affacciano
sul lato destro del Canale di Cannaregio sono visti d’infilata, con un’ottica radente alle facciate che vengono praticamente schiacciate e annullate dalla visione prospettica reale,
tranne quelle all’imbocco dove il canale ruota leggermente.
Canaletto trova la soluzione geniale di allargare di molto il
Canale di Cannaregio per far spazio alle facciate dei palazzi
da valorizzare sul lato destro, ruotandoli e allargandone la
visione. In pratica, il quadro viene realizzato con due punti
focali distinti e intersecantisi a seguito della rotazione dell’estremità della riva destra verso l’osservatore.
In altri casi la veduta è generalmente corretta, tranne
alcune parti. Ne è esempio “Il Canal Grande da Cà Grimani”
1735, Collezione Privata, Londra, Fig. 20) che ha una prospettiva corretta tranne che per il primo palazzo sul lato destro.
Il lato destro del Canal Grande è visto da un’ottica radente e
i singoli palazzi sono difficilmente riconoscibili; per questo
motivo il primo palazzo è stato ruotato guadagnando una
migliore visibilità. Chi guarda il dipinto ha l’impressione
che le barche nel Canal Grande siano il vero soggetto, e i
palazzi un favoloso contorno. Anche le nubi che s’innalzano
sopra al Canal Grande spostano l’attenzione sugli elementi
fantastici che entrano a far parte del quadro.
96
Fig. 19 (a) Canaletto, “Ingresso al Canale di Cannaregio” (1735,
Cassa di Risparmio di Venezia). (b) Una foto di oggi con la
medesima veduta. Nel dipinto il canale di Cannaregio è stato
allargato per valorizzare i palazzi della riva destra. I due lati del
canale sono stati ripresi separatamente, e poi composti sulla tela.
L’intreccio delle linee prospettiche convergenti verso i due punti
di fuga indicano una rotazione verso l’osservatore, espandendo
lateralmente l’immagine.
97
Fig. 20 Canaletto, “Il Canal Grande da Ca’ Grimani” (1735,
Collezione Privata, Londra) ha una prospettiva normale, tranne
che per il primo palazzo sulla destra che guadagna visibilità da una
piccola rotazione verso l’osservatore.
Nel caso della “Dogana da Mar” (1740, Kunsthistorisches
Museum, Vienna, Fig. 21), troppo lontana dalla riva del Bacino San Marco, Canaletto dovette tenere la camera posizionata su un natante per avvicinarsi e riprendere la Punta
con la loggia della Dogana. Il natante doveva essere molto
stabile perché è impossibile usare una camera oscura con il
beccheggio e il rollio delle onde. Più realisticamente avrebbe potuto essere una piattaforma formata da un gruppo di
natanti fissati tra loro, per esempio in occasione della realizzazione dei ponti votivi di barche per la festa della Madonna della Salute in novembre, dato che il ponte attraversa il
Canal Grande poco distante dalla veduta in oggetto, o del
Redentore in luglio, ma dalla parte opposta, per raggiungere
la Giudecca. In ogni caso, una volta disegnata la Punta della
Dogana, Canaletto lasciò il precario mezzo di supporto e salì
sul molo della Dogana, e da quella riva riprese l’isola della
Giudecca, visibile nello sfondo. Il riposizionamento è visibile
dai due punti di fuga distinti, ma il braccio di laguna che
s’inframmezza e le barche e i velieri che vi scorrono sopra
sviano l’attenzione da questo artifizio.
98
Fig. 21 (a) Canaletto, “Dogana da Mar” (1740, Kunsthistorisches
Museum, Vienna), composto da due vedute distinte: la loggia sulla
banchina in visione ravvicinata e l’isola della Giudecca sullo sfondo.
Il riposizionamento è riconoscibile dai due punti di fuga distinti. (b)
Lo stesso monumento oggi. La banchina è stata elevata per evitarne
la sommersione, ma è ritornata a livello critico. Dal tempo del
dipinto la fascia delle alghe si è alzata di 72±16 cm.
99
7.2 Cosa nei quadri del Canaletto non differisce
da una foto
John Ruskin, che non amava Canaletto, nella sua opera “Modern Painters” (1848) gli dà un giudizio molto negativo di
manierista servile e degradato, ma riconosce che riproduce
esattamente i singoli ornamenti architettonici. Il fatto che
i singoli palazzi siano stati riportati con esattezza in tutti i
loro dettagli, anche quelli apparentemente più insignificanti, è di estrema rilevanza per il nostro studio, come vedremo
oltre.
Canaletto superava brillantemente le varie difficoltà
con alcune soluzioni geniali e fantasiose; in pratica però, la
fantasia interveniva solo nel legare tra loro le varie parti e
nell’aggiungere scene di vita, ma non toccava nulla all’interno delle singole porzioni di veduta che componevano il
quadro. Si è già anticipato che, per acquistare credibilità e
Fig. 22 (a) Dettaglio tratto da Canaletto: “Ingresso al Canale di
Cannaregio” (1735, Cassa di Risparmio di Venezia). (b) Foto odierna
dello spigolo dove sono riconoscibili le bianche pietre angolari in
pietra d’Istria, alcune delle quali sostituite da mattoni (riconoscibili)
per lavori di manutenzione e riadattamento. Dal tempo del dipinto
la fascia delle alghe si è alzata di 74±10 cm.
100
distrarre l’attenzione, Canaletto introduceva nei dipinti un
numero di particolari estremamente precisi, volendo suggerire a livello subconscio l’idea che anche il resto del dipinto
fosse altrettanto accurato.
Sarà utile verificare quanto affermato sulla sua precisione con qualche esempio di particolari facilmente riconoscibili. Cominciamo con un esempio tratto dall’“Ingresso al
Canale di Cannaregio” del 1735, già mostrato in Fig. 19a, e
focalizziamoci sul dettaglio delle pietre angolari in pietra
d’Istria sotto alla finestra (Fig. 22).
L’edificio ha subito alcuni lavori di manutenzione e restauro, che hanno ampliato le finestre e sostituito alcune
pietre d’Istria bianche con dei mattoni nuovi, facilmente riconoscibili. La parte originale di pietre e mattoni sopravvisFig. 23 Canaletto:
dettaglio dalla
“Veduta della
Piazzetta San Marco
verso Nord” in
Fig.16 (1750-1755,
the Northon Simon
Museum, Pasadena).
Tutti gli edifici
sono riprodotti
con cura, e si è
qui indicato come
esempio il particolare
del bassorilievo
riproducente Eva sul
capitello angolare
del Palazzo Ducale.
Nel riquadro in alto
una foto odierna del
bassorilievo.
101
suti coincide esattamente con il dipinto. Lascia sconcertati
vedere che in un panorama urbano così vasto Canaletto sia
sceso al dettaglio della singola pietra. Anticipiamo anche il
fatto che nel dipinto si vede la fascia bruna-verdastra delle
alghe attaccate al basamento in pietra d’Istria. Questa fascia
si trova a un livello decisamente inferiore rispetto ad oggi:
esattamente 74±10 cm più basso. Questa differenza non è
dovuta a imprecisione di Canaletto, ma all’effetto combinato della subsidenza del suolo e dell’innalzamento delle acque
del mare, come vedremo.
L’esempio successivo (Fig. 23) mostra uno dei tanti dettagli della “Veduta della Piazzetta San Marco verso Nord”
(1750-1755) già discussa in Fig. 16. Si è qui evidenziato soltanto il particolare di Eva sopra al capitello angolare del Palazzo Ducale, confrontandolo con una piccola foto di oggi,
nel riquadro. È un particolare come tanti altri, che scompare nell’insieme dei molti palazzi che si affacciano sulla
Piazzetta, tutti individualmente riportati con una precisione
veristica estrema.
Se si vuole controllare la precisione della riproduzione
architettonica dei palazzi, ecco il dettaglio di una riproduzione giovanile di Palazzo Grimani di San Luca (Fig. 24a) tratto da “il Canal Grande da Palazzo Grimani” del 1735, già
visto in Fig. 20. Il palazzo del dipinto è posto a fianco di una
foto degli anni 1880 tratta da Ogania (1890-91) (Fig. 24b). È
evidente l’esatta corrispondenza delle varie caratteristiche
architettoniche e della ripartizione in piani.
Ora però un’eccezione. Si tratta dello stesso Palazzo Grimani di San Luca (Fig. 25a) in veduta frontale in un altro
quadro della sua vecchiaia, nel periodo che intercorre da
quando Canaletto ritornò da Londra nel 1755 alla sua morte
nel 1768. Questo dipinto è interessante sotto vari aspetti,
oltre alla testimonianza della severità dell’inquinamento
atmosferico esistente a Venezia nel XVIII secolo. Anche la
precisione nel riportare i rivoletti bianchi dell’acqua percolante (frecce bianche) è impressionante. Il punto cruciale è
102
Fig. 24 (a) Canaletto, dettaglio di Palazzo Grimani di San Luca,
tratto da “Il Canal Grande da Palazzo Grimani” (1735, Collezione
Privata, Londra) in Fig.20. (b) Una foto dello stesso palazzo negli
anni 1880 (Ongania, 1890-91). È evidente la precisa corrispondenza
degli elementi architettonici.
Fig. 25 (a) Canaletto, tarda pittura di Palazzo Grimani di San Luca
(1755-68) (Canaletto, Venice: Palazzo Grimani, ©The National
Gallery, London). Il dipinto è molto accurato nel riprodurre i segni
dell’inquinamento atmosferico e dove l’acqua colando rimuove
le croste nere (freccia bianca) ma introduce alcune deviazioni
architettoniche: le colonne interne del secondo e terzo registro sono
trasformate a sezione rettangolare (freccia rossa) e l’arcata centrale
acquista una colonnina (freccia verde). (b) Una foto storica dello
stesso palazzo prima della rimozione delle croste nere dalla facciata
(foto di Franzoi e Smith, 1993).
103
che appaiono alcune piccole inesattezze nei dettagli e non è
chiaro se queste si debbano attribuire a un calo di vista, o
a minore attenzione, o all’introduzione di licenze pittoriche
per motivi artistici. In questo tardo dipinto le colonne scanalate che contornano porte e finestre ai due piani superiori
(freccia rossa) sono state scambiate (o cambiate?) con lesene scanalate della stessa dimensione, passando da sezione
tonda a sezione rettangolare. In realtà le lesene scanalate
si trovano al piano terra e al contorno del palazzo e, nella
camera oscura, come nello schizzo sul posto, queste piccole
differenze sono indistinguibili. Può essere che sia l’età, sia il
lungo periodo di permanenza a Londra, abbiano contribuito
ad attenuare la percezione diretta e il ricordo di tutti i minimi dettagli dei palazzi veneziani, cosa più che comprensibile per un Canaletto anziano e privo dei suoi aiutanti di
bottega dei tempi migliori. La cosa più sorprendente è che
gli archi centrali sono contornati da una colonnina (freccia
verde) e sormontati da una decorazione che sembrano più
un capriccio inventivo che una svista. Anche le proporzioni
del palazzo sono approssimative.
Bisogna comunque riconoscere che Canaletto ebbe una
vista eccellente, almeno rispetto alla media, sino agli ultimi
anni. Ciò è provato dall’accuratezza di tutte le immagini,
e in particolare dall’opera eseguita a luce fioca all’interno
della Basilica di San Marco durante un concerto vocale: i
“Cantori di San Marco” alla Kunsthalle di Amburgo (Fig. 26)
dove scrisse in calce alla pagina: “Io Zuane Antonio da Canal ho fatto il presente disegno delli Musici che canta nella
Chiesa Ducal di S. Marco in Venezia in età di anni 68 Senza
Occhiali, L’anno 1766”. Questo avvenne due anni prima della sua dipartita.
In pratica, Canaletto con la sua bottega produsse sempre dipinti con una certa inventiva nell’impianto scenico
della presentazione dei palazzi, ma ogni singolo palazzo era
perfettamente rappresentato, come in una foto. Si è notata
qualche rara eccezione nell’ultimo periodo.
104
Si è detto che Canaletto voleva riprodurre una Venezia viva, con la sua vita pulsante; il contorno fiabesco dei
palazzi faceva da scena tutto intorno, come in un teatro. I
personaggi e dettagli dovevano distrarre l’occhio e rendere
credibile la rappresentazione pittorica. Per propria natura, e
a buona ragione, Canaletto fu un perfezionista instancabile
nel riprodurre i minimi particolari. Eppure, a volte preparava le sue tele con uno o più disegni decisamente piccoli
per le limitate dimensioni della camera oscura, tanto che
talvolta abbisognava anche del pantografo per espanderli
ulteriormente. È chiaro che in queste condizioni i dettagli
più minuti molto difficilmente avrebbero potuto essere riconosciuti e documentati nella prima bozza eseguita sul posto
con la camera oscura. Questi dovevano essere annotati e ripresi separatamente. Viene da supporre che la lavorazione
Fig. 26 Canaletto, particolare dei “Cantori di San Marco” (1766,
Kunsthalle, Amburgo) con la scritta in calce: “Io Zuane Antonio
da Canal ho fatto il presente disegno delli Musici che canta nella
Chiesa Ducal di S. Marco in Venezia in età di anni 68 Senza
Occhiali, L’anno 1766”.
105
dei quadri si sia avvalsa di tre fasi distinte, almeno dal punto
di vista della sequenza logica, come segue.
Sul posto, con l’ausilio della camera oscura, venivano
testati i vari provini per riconoscere la veduta migliore e
veniva tracciata su carta la prima bozza, o le varie parti che
sarebbero poi concorse per comporre la bozza finale.
Nella sua bottega, tutte le immagini riprese venivano
analizzate, adattate, eventualmente ingrandite, e combinate
tra loro per formare la struttura del dipinto. Venivano poi
stesi i colori, le campiture, le luci, le ombre, i personaggi, le
barche e le scene di vita per arricchire e vivificare la scenografia.
Una seconda volta sul posto, di fronte ad ogni singolo
palazzo, per aggiungere tutti i particolari veristi che caratterizzavano l’edificio. Data la precisione dimostrata nel posizionamento di ogni peculiarità e nelle proporzioni, le ipotesi
che vengono in mente sono due. Che tornasse sul posto col
dipinto per aggiungere a vista diretta i singoli dettagli, ma
non è credibile che possa aver trasportato i dipinti con la
vernice ancora fresca dato che questi si sarebbero rovinati
facilmente e se ne sarebbe trovata traccia. L’altra ipotesi è
che lasciasse il dipinto in bottega e tornasse sul posto con
la camera oscura per eseguire riprese dettagliate, a distanza
ravvicinata, dei particolari da aggiungere poi in bottega.
In pratica, si può supporre che il realismo sia intervenuto a
due livelli: all’inizio del dipinto, per la prima bozza; alla fine
del dipinto, per l’aggiunta dei dettagli. La camera oscura fu
certamente essenziale nella prima fase; molto probabilmente lo fu anche nell’ultima.
106
8. Q
uando esistono più quadri con la medesima veduta,
è possibile distinguere il primo dai successivi?
È noto che tanto Canaletto quanto Bellotto furono molto
interessati all’aspetto commerciale e che si erano organizzati per rivendere quadri su commissione, proponendo anche
repliche di soggetti particolarmente apprezzati. In tal caso
la veduta di successo veniva riprodotta, anche a distanza
di tempo, su una nuova tela, col risultato che oggi esistono
serie di dipinti apparentemente identici, o molto simili tra
loro.
Questo fatto può costituire un serio problema per il nostro studio perché, se ci servono dipinti dotati di precisione
fotografica a riguardo di alcuni elementi che discuteremo
più oltre, ci necessita sapere se dobbiamo utilizzare solo il
capostipite di una serie, oppure se possiamo usare uno qualunque dei successivi. Il problema è rilevante in quanto il
primo quadro può essere andato disperso, o essere ignoto
perché nella serie alcuni possono essere di datazione incerta. Il punto fondamentale è sapere se in queste serie i vari
dipinti erano stati in vario modo derivati dal primo, secondo
un preciso albero genealogico che in genere non conosciamo, ovvero se erano stati dipinti indipendentemente l’uno
dall’altro.
Nel caso di una serie di dipinti derivati da un capostipite
di successo, possiamo supporre che il primo inevitabilmente
contenga alcune piccole imprecisioni dimensionali che ne
limitino la precisione, e che le repliche successive seguano le
leggi statistiche della propagazione degli errori, diminuendo
la precisione generale e aumentando la distribuzione casuale degli errori. In linea di principio è logico supporre che
il primo dipinto sia anche il più preciso, e che le repliche
successive lo siano sempre meno, man mano che nell’albero
genealogico ci si allontana dal ceppo iniziale.
107
Vi sono molti quadri di cui non si conosce la datazione
esatta, o è controversa, e non si può mai essere sicuri che il
dipinto che si sta osservando sia il solo realizzato con tale
veduta, o il primo di una serie, o un cadetto derivato da altri. In pratica, come si debbono considerare i quadri successivi al primo in una serie: copie, repliche o originali ripetuti?
Si può stabilire in modo oggettivo e quantitativo il livello
di accuratezza e individuare matematicamente il primo di
ogni serie?
Per raggiungere lo scopo di riconoscere e posizionare i
quadri secondo il loro albero genealogico, dobbiamo escogitare una metodologia oggettiva, basata sull’analisi matematica applicata alle impercettibili imprecisioni di ogni dipinto
in modo da ottenere degli indici numerici che, posti in ordine dal più piccolo al più grande, ci esprimano l’ordine di
successione dei quadri cui si riferiscono. Per esempio: padre
= indice piccolo; figlio = indice medio; nipote = indice grande; fratelli = indice uguale.
La metodologia basata sull’incremento degli errori che
abbiamo usato si basa su un certo numero di passaggi. Dapprima nel quadro viene individuato un insieme di grandezze architettoniche misurabili, appartenenti tutte allo stesso
palazzo. Per esempio l’altezza di ciascun piano, di porte e
finestre, di balconate e di ogni altro elemento architettonico considerato viene normalizzata dividendola per l’altezza
totale del palazzo nel dipinto. Lo stesso viene fatto su una
foto odierna del palazzo in questione. Come si è anticipato,
con i rapporti non occorre conoscere alcuna altezza reale e
le distorsioni dovute al diverso posizionamento del punto
di osservazione rispetto all’edificio divengono ininfluenti.
Definiremo come “errore” la differenza tra la misura normalizzata nel quadro e quella corrispondente normalizzata
nella foto. Se il padre ha dei difetti (e li ha certamente) li
può trasmettere ai figli, e i dipinti derivati da uno stesso
capostipite devono in qualche modo riprodurre la maggior
parte degli errori del primo, ma introducendo anche altri
108
errori casuali, con il risultato di peggiorare la situazione. Se
calcoliamo la deviazione standard di tutti gli errori, questa
deve crescere con il numero successivo di repliche: il primo
l’avrà più piccola, l’ultimo più grande.
Al contrario, se i quadri sono indipendenti, sia il tipo
di errori di ciascuno, sia i valori della deviazione standard
risulteranno distribuiti casualmente, senza alcun ordine.
Si è fatto un test con la serie di quadri noti come “il Canal Grande e la Salute visti dal Campo Zobenigo” di cui si
conosce un certo numero di repliche. Due di queste vedute,
una di Canaletto (primi anni del 1730) (Fig. 27) e una di Bellotto (1741 circa) sono conservate al Fitzwilliam Museum,
Cambridge. Altre tre copie dovute a Bellotto sono rispettivamente in una Collezione Privata (datata 1740-41), al Getty
Museum, Malibu (Los Angeles) (datata 1743-44), e una (datata 1743-44) apparteneva alla Stewart Collection, New York,
ma fu rivenduta a sconosciuti da Christies’ nel 1995. Un altro
dipinto è di Anonimo, ed è conservato a Cà Rezzonico, a
Venezia (datazione incerta, dopo il 1738).
Per illustrare la metodologia dell’errore complessivo in
termini di deviazione standard si sceglie un elemento architettonico che meglio si presti, come il Palazzo Pisani-Gritti
Fig. 27 Canaletto, Il Canal Grande e la Salute visti da Campo
Zobenigo (inizio 1730, Fitzwilliam Museum, Cambridge).
109
alla sinistra del quadro. Si è diviso il palazzo in otto fasce
(evidenziate con altrettante frecce in Fig. 28) che ricalcano
altrettanti elementi orizzontali riconoscibili, come il piano
terra, il poggiolo, la balconata al primo piano, la distanza fra
le balconate, la balconata al secondo piano, la distanza fra la
balconata e le finestrelle sottotetto, lo spazio che rimane fino
al tetto, lo svettamento dell’edificio a lato. Per ogni dipinto,
ciascuna di queste singole altezze è stata poi trattata come
si è detto per calcolare gli errori e da questi la deviazione
standard che li rappresenta globalmente.
Il Canaletto degli anni 1730, che è certamente il primo
della serie, viene valutato SD =0,23; il Bellotto al Fitzwilliam
Museum, posteriore di circa un decennio ha SD = 0,13, con
precisione ampiamente superiore a quella dello zio-maestro.
a.
b.
c.
d.
e.
Fig. 28 Palazzo Pisani-Gritti da un numero di tele con la stessa
veduta. Queste sono, rispettivamente: a Canaletto (Fitzwilliam
Museum, Cambridge), quattro dipinti di Bellotto (b) Fitzwilliam
Museum, Cambridge; (c) J. Paul Getty Museum, Malibu (Los
Angeles); (d) Richard Green Gallery, Londra; (e) Albans Colnaghi,
Londra; infine (f) Anonimo (Ca’ Rezzonico, Venezia). Le frecce
numerate indicano le varie fasce in cui il palazzo è stato diviso per
evidenziare le piccole differenze dal reale e quantificare gli errori.
110
f.
Gli altri dipinti di Bellotto hanno SD = 0,19, 0,26 e 0,27.
L’Anonimo di Cà Rezzonico ha SD = 0,22 con precisione simile a quella di Canaletto e in posizione mediana rispetto a
quelle di Bellotto (Camuffo et al., 2005). Da questa analisi
possiamo concludere che il Bellotto al Fitzwilliam Museum è
doppiamente più preciso rispetto al primo della serie e riproduce lo stesso soggetto, ma certamente non è stato ottenuto
copiando la tela del Canaletto. Non è quindi considerabile
una ‘copia’ ma è a tutti gli effetti un secondo, indipendente
‘originale’ ottenuto tornando sul medesimo posto circa un
decennio dopo, affacciandosi ancora dalla medesima finestra al secondo piano della casa di fronte a Palazzo PisaniGritti. Per quanto concerne gli altri dipinti sullo stesso soggetto, la risposta sintetica della SD non è altrettanto chiara
in quanto il distacco non è molto forte.
Per ottenere una risposta precisa occorre passare all’analisi della propagazione e distribuzione dei singoli errori.
Come nel caso precedente, si definisce una sequenza ordinata di numeri rappresentanti quanto l’altezza normalizzata di ogni fascia differisce, in positivo o negativo, da quella
corrispondente nel riferimento. Questa sequenza ordinata di
numeri grandi e piccoli, positivi e negativi, che caratterizza la distribuzione delle imperfezioni commesse dal pittore,
costituisce il DNA del quadro, che verrà trasmesso ad ogni
discendente. Nell’ipotesi che un quadro (che chiameremo figlio) sia la riproduzione di uno precedente (che chiameremo
padre), dobbiamo attenderci che la sequela del DNA del padre sia ripetuta simile anche nel figlio, anche se con qualche
piccola variazione, permettendo la ricostruzione dei quadri
derivati e di tutto l’albero genealogico.
Se per esempio un palazzo è costituito da due piani soltanto, e il primo è stato sopravvalutato (errore con segno
+), necessariamente il secondo sarà sottovalutato (errore
con segno -). Con molta probabilità questo tipo di errore
si propagherà anche ai quadri derivati da questo. Se un secondo quadro presenta l’errore opposto, o del tutto diverso,
111
con ogni probabilità sarà indipendente dal precedente. Se il
confronto viene fatto considerando non due sole misure per
palazzo, ma una serie di 8, come fatto per il Palazzo PisaniGritti, è chiaro che le probabilità di stabilire con precisione
l’ordine di generazione in una serie, o l’indipendenza tra
quadri, diviene altissima.
Applicando la metodologia della propagazione degli errori in termini di DNA pittorico al Palazzo Pisani-Gritti (Fig. 29)
emerge chiaramente che tutti i dipinti presentano sequele
di DNA indipendenti, tranne che l’Anonimo di Cà Rezzonico che ricalca da vicino 7 errori su 8 del Bellotto della
Collezione Privata, essendo solo l’errore in sesta posizione
decisamente diverso (Camuffo, 2010). Ciò fa supporre che
Fig. 29 Test della propagazione degli errori (DNA) da una serie di
dipinti apparentemente identici per distinguere il capostipite dai
derivati e ricostruire l’albero genealogico. Il test è basato sulla
valutazione dell’errore di sovrastima o sottostima di ogni fascia.
I punti rappresentano gli errori, le linee hanno il solo scopo di
aiutare l’occhio a connettere tra loro i punti. Non si ritrova alcuna
ripetizione sistematica degli errori, tranne una simiglianza molto
forte tra l’Anonimo di Cà Rezzonico e il Bellotto della Collezione
Privata.
112
questi due quadri siano imparentati strettamente fra loro,
per esempio a livello di copia (Anonimo copia da Bellotto)
o a livello di bozza (Anonimo e Bellotto partono dallo stesso bozzetto su carta). La prima ipotesi implicherebbe che
l’Anonimo abbia avuto a disposizione il quadro di Bellotto
da copiare con molta diligenza. La seconda implicherebbe che l’Anonimo dovrebbe essere molto vicino a Bellotto,
probabilmente un aiutante di bottega, anche se è difficile
pensare alla possibilità di una concorrenza interna. La seconda ipotesi potrebbe anche ammettere che l’Anonimo sia
Bellotto stesso. Naturalmente, queste discussioni sono state
fatte per meglio illustrare la metodologia e le sue potenzialità, lasciando poi ad altra sede la soluzione delle stimolanti
ipotesi qui avanzate.
La sola conclusione che si vuole sottolineare è che nella
serie dei dipinti di Canaletto e Bellotto con la stessa veduta
qui considerata, tutti hanno avuto una genesi indipendente
e alla pari. Tutti questi quadri sono da considerarsi ‘originali’ anche se un po’ ripetitivi nel soggetto. In tal caso apprendiamo che non è critico doversi avvalere solo del primo di
una serie di quadri per ottenere le immagini più vicine alla
realtà.
113
9. La Camera Oscura e l’inquinamento a Venezia
In genere si è portati a supporre che nei secoli passati le città
avessero un’atmosfera molto pulita, mancando l’inquinamento industriale e quello da traffico, con il riscaldamento
domestico ridotto veramente al minimo e dovuto alla combustione di legna o carbonella. La fortunata combinazione
di dipinti effettuati con la camera oscura e nello spirito di
ricerca del verismo nei particolari potrebbe darci un’idea abbastanza precisa di come era l’ambiente veneziano del XVIII
secolo.
Tuttavia, prima dobbiamo risolvere un ulteriore probema: alcuni vedutisti (come Canaletto, Bellotto, Guardi e
talvolta Carlevarijs) mostrano palazzi con macchie scure di
fumo e polveri depositate sulle pareti, mentre altri (come
Marieschi) mostrano edifici puliti, nella purezza delle loro
linee architettoniche. Il dubbio che dobbiamo porci e risolvere è se alcuni abbiano forzato la mano con i segni dell’inquinamento per insistere sull’aspetto realistico, oppure se altri abbiano omesso questi dettagli perché ritenuti irrilevanti,
disgustosi e al di fuori di ogni tradizione classica che tende a
presentare le cose nella loro veste migliore, omettendo macchie e sporcizia.
Si può risolvere il dubbio analizzando le macchie dell’inquinamento sui palazzi: se sono frutto di fantasia saranno
poste a casaccio; se invece ricalcano la realtà devono rispettare le leggi chimiche e fisiche dell’inquinamento che noi
oggi conosciamo ma non conoscevano i Vedutisti. Per loro,
l’unico modo di riprodurle esattamente era quello di copiarle esattamente. L’inquinamento atmosferico sotto forma di
fumi o di particolato di dimensioni grossolane si deposita
sulle sporgenze orizzontali e si fissa anche sulle pareti verticali, specie dove queste sono umide. La pioggia battente porta notevoli quantità di acqua sulle pareti esposte, e quest’acqua ruscellando lungo la parete esercita una forte azione di
dilavaggio, tranne che nelle parti che rimangono riparate
dal flusso in discesa. I palazzi veneziani sono costruiti con
114
la pietra d’Istria, un calcare bianchissimo molto resistente,
mentre gli edifici minori sono in mattoni ricoperti da intonaco tranne che nel basamento, le balconate, le architravi
e altre parti strutturali dove ritorna la pietra d’Istria. Sullo
sfondo bianco di questa pietra, lo scuro degli inquinanti depositatisi contrasta molto fortemente, rendendo molto visibile il fenomeno. Il primo test che possiamo fare è verificare
se Canaletto e Bellotto hanno riportato fedelmente le varie
forme di degrado a noi note in funzione di come le superfici vengono bagnate (Camuffo et al, 1982; 1983; Camuffo,
1998). Queste possono essere riassunte come segue.
Aree bianche. La pietra d’Istria assume un aspetto bianco
intenso nelle zone esposte dove l’acqua ruscella abbondantemente sulla superficie, rimuovendo tutte le particelle che
si fossero depositate tra una precipitazione e la successiva.
Le aree bianche non si formano necessariamente nelle zone
direttamente colpite dalla pioggia, ma il punto essenziale è
lo scorrimento abbondante di acqua. La pietra si dissolve
debolmente e recede assottigliando la parte interessata. Alla
fine della precipitazione atmosferica, durante la fase di evaporazione, la poca calcite rimasta in soluzione precipita formando dei bianchissimi cristalli spatici di calcite. Nel caso
di un edificio a intonaco, in queste zone vengono rimossi
non solo l’inquinamento, ma anche la pellicola pittorica e
l’intonaco stesso può restarne assottigliato.
Aree nere. Il nero è dovuto alla presenza di particelle scure che restano fissate alla superficie formando delle croste di
gesso più o meno coese. Fatto essenziale è che la zona interessata sia raggiunta da acqua in fase liquida, per esempio
per schizzi o debole percolamento, ma non in quantità tale
da rimuovere le particelle depositatesi tra una pioggia e la
successiva. Le particelle di nero fumo possono essere composte da una grande concentrazione di carbonio o anche dai
fumi delle sostanze lavorate ai fini artigianali. In presenza
di acqua e di solfati di origine marina o non, o di anidride
solforosa rilasciata dalle combustioni, l’acido solforico che
115
si sviluppa reagisce con la pietra calcarea formando cristalli
di gesso che inglobano le particelle nere e che assumono
l’apparenza di croste nere. Queste croste assorbono inquinanti anche in fase gassosa e agiscono da catalizzatori per la
grande superficie specifica e per eventuali impurità presenti,
divenendo sempre più aggressive. Dopo il 1825, quando fu
introdotto il carbone a Venezia, o i primi decenni del 1900,
quando si allargò l’uso del petrolio, le particelle carboniose
rilasciate dalle combustioni e imprigionate dalle croste nere
assunsero un ruolo fondamentale nel degrado dei monumenti per l’elevato tenore di acidità assorbibile e la grande
capacità di catalizzare le reazioni chimiche. Le croste nere
si formano più facilmente sul substrato calcareo, ma anche
sugli edifici dove l’intonaco resta protetto dall’acqua ruscellante, come tipicamente avviene sotto piccole sporgenze.
Aree grigie. Nelle zone assolutamente asciutte, come sotto portici o altre parti ben riparate, le particelle più grandi,
sia inquinanti sia di origine naturale, possono accumularsi
formando uno strato di polvere incoerente, di colorazione
grigiastra. La superficie sottostante rimane sostanzialmente
inalterata, a parte lo sporco che ne offusca o copre la leggibilità. Le superfici più interessate al deposito secco di particelle sono quelle orizzontali, che raccolgono prevalentemente le particelle più grosse che sedimentano per deposizione
gravitazionale. In un dipinto la colorazione di un’area grigia
potrebbe essere confusa con quella di un’area nera, assai
simile.
Possiamo analizzare il problema dell’annerimento e della formazione delle croste sui palazzi per l’inquinamento ai
tempi della Serenissima tornando alle immagini di Palazzo
Grimani nei due dipinti di Canaletto: quello in maturità del
1735 (Fig. 24) e quello in vecchiaia del 1755-68 (Fig. 25a). Entrambi i dipinti mostrano i segni di un inquinamento impressionante, ed entrambi mostrano una corretta distribuzione di aree bianche e scure, come dobbiamo attenderle e
come si vedono nella foto di alcuni decenni fa prima che la
116
facciata del palazzo venisse ripulita (Fig. 25b). In primo luogo
si può vedere che l’annerimento è correttamente distribuito
secondo un gradiente verticale, più scuro in basso e più chiaro in alto. Questo perché l’intensità del vento si attenua per
dissipazione turbolenta nella parte bassa, sicché la parte alta
dell’edificio è colpita da un numero molto maggiore di gocce
trasportate dal vento e quindi meglio dilavata. In entrambe
le figure si nota chiaramente che la parte più bassa è interessata da un basamento sporgente, e quindi meglio esposto
alla pioggia. Anche questo, correttamente, viene dilavato
dall’acqua piovana e da quella che gocciola dalle balconate
superiori e appare più chiaro. Nella zona immediatamente
sotto i poggioli, dove arrivano gli schizzi di pioggia ma non
è possibile il dilavamento, troviamo le zone più scure. In
alcuni punti in corrispondenza delle balconate, o comunque dove si creano piccole sconnessure tra pietra e pietra, si
formano piccoli rivoletti d’acqua che dilavano localmente la
pietra, con l’apparenza di piccoli ruscelli bianchi colanti lungo la parete, alcuni evidenziati con freccia bianca in Fig. 25a.
Non è ragionevole pretendere il dettaglio che ogni rivoletto
visibile ai tempi di Canaletto lo sia ancora oggi, dati i vari
lavori di manutenzione e restauro subiti dal palazzo.
Passando dall’analisi dei particolari al messaggio generale, Canaletto testimonia un inquinamento molto intenso a
Venezia, soprattutto se si considera che Palazzo Grimani fu
costruito nel 1556-75 e che dopo un solo secolo la pietra d’Istria è completamente annerita, almeno nelle parti riparate
dal dilavamento.
Un altro esempio interessante (Fig. 30) è tratto da Bellotto,
“Piazzetta San Marco” (National Gallery of Canada, Ottawa) i dettagli sono del tutto simili al quadro di Canaletto:
“Veduta della Piazzetta San Marco verso Nord” (1750-1755,
The Northon Simon Museum, Pasadena) già commentato per
altri aspetti in Fig. 16. Nell’esempio si vedono delle lunghe colate di sporco nelle zone adiacenti alle finestre dove l’acqua
piovana raccoglie, e trascina poi sulla parete, la deposizione
117
avvenuta nei periodi tra una pioggia e la successiva. È evidente l’effetto in corrispondenza della sporgenza a ‘O’ che
ha raccolto lo sporco nella parte superiore e il trascinamento dell’acqua l’ha ridistribuito a partire da quella inferiore
(freccia verde). Analogamente ai bordi della finestra gotica
(frecce gialle). Ancora, il gocciolatoio sporgente dal tetto evita il dilavaggio della parte sottostante nella stessa verticale,
che appare più scura (freccia rossa). Finalmente, la fascia
orizzontale a cerchi e quadrifogli in pietra d’Istria appare
scura per lo scarso dilavaggio (freccia rosa).
È davvero sorprendente vedere una tale deposizione di
inquinanti prima dell’uso del carbone e del petrolio. A quei
tempi il combustibile in uso a Venezia città era soltanto legna di fascina per cuocere, pezzi di legno di scarto dalla
costruzione delle barche per un riscaldamento domestico
molto ridotto o per il funzionamento di qualche forno essenFig. 30 Dettaglio del Palazzo
Ducale particolare dalla veduta
della Piazzetta San Marco di
Bellotto (Ottawa, National
Gallery of Canada).
Nella figura sono evidenziati i
percolamenti dell’acqua piovana
che trascina le particelle di fumo
e di sporco depositatesi sulla
modanatura della finestra a “O”
(freccia verde) e su entrambi i
lati del davanzale della finestra
gotica (frecce gialle). La bianca
pietra d’Istria che forma la
loggia con decorazione a tondi
e quadrifogli (freccia lilla) è
fortemente annerita.
118
ziale, come quello per il pane (Camuffo et al., 2000). Venivano anche utilizzate un po’ di carbonella ottenuta dalla combustione incompleta del legno, quantità esigue di olio, sego
e cera per l’illuminazione e combustione di zolfo cristallino
per la disinfezione di botti e vestiti. Le grandi fornaci per la
lavorazione del vetro, del bronzo, dei coppi e mattoni erano
state spostate da secoli nelle isole, in particolare le fonderie del vetro a Murano, per evitare il rischio di disastrosi
incendi in città. In città erano possibili solo piccole attività
artigianali, tra cui in particolare piccoli cantieri edilizi con
fornetti per la calcinazione, e piccoli cantieri per imbarcazioni detti “squeri”, con la fusione di resina, pece o bitume
per calafatare gli scafi di legno. Gli squeri erano diffusi nella
città, mentre le navi erano costruite all’Arsenale, in posizione periferica. La costruzione di barche e navi richiedeva
l’impermeabilizzazione degli scafi, mentre la loro manutenzione periodica richiedeva la rimozione a caldo del vecchio
strato di impermeabilizzante dalla carena e l’applicazione,
sempre a caldo, del nuovo. Sta di fatto che l’inquinamento
dal fumo di resina, pece o bitume e l’annerimento di case e
palazzi erano molto intensi nei secoli XVII e XVIII.
10. La Camera Oscura e il livello del mare a Venezia
Il livello del mare che si può vedere nei quadri è del tutto
aleatorio, perché può corrispondere a una qualunque fase di
marea. Per conoscere il livello medio del mare, o qualunque
altro riferimento utile, necessita un altro indicatore che non
vari continuamente nel tempo. Fortunatamente, le alghe che
vivono nella fascia del bagna-asciuga tra la bassa e l’alta marea costituiscono un indicatore biologico il cui fronte coincide con il livello medio delle alte maree. A Venezia, il fronte
delle alghe si trova circa 31 cm al di sopra del livello medio
del mare (Rusconi, 1983) e nel passato veniva tenuto come
un naturale riferimento del livello del mare per l’altezza di
ponti, banchine, costruzioni o altri usi civili ed era indicato
come “Comune Marino” con abbreviazione CM. Il Comune
119
Marino aveva il vantaggio di essere indicato con precisione
dalla natura stessa lungo ogni canale, e di venire rinnovato
ogni anno con i cicli di crescita delle alghe. Questo è un marcatore biologico utilissimo da cui potremo trarre vantaggio,
se e quando è riportato nei quadri, naturalmente se è riportato con precisione. Ancora una volta Canaletto e Bellotto
lo ritraggono, mentre altri, come Carlevarjis e Marieschi, lo
ignorano ritenendolo un fattore contrario all’estetica.
Se si confronta il livello del fronte delle alghe come riportato nei dipinti con quello attuale, è possibile calcolare lo
spostamento del livello apparente del mare avvenuto negli
ultimi secoli (Camuffo et al., 2003; 2004; 2005; Camuffo,
2001; 2010). I dipinti che possono essere utilizzati a questo
scopo devono riportare ben visibilmente la fascia verde-brunastra delle alghe attaccate a dei palazzi il cui basamento
non sia stato trasformato nel frattempo da lavori di adattamento o manutenzione. Veronese dipinse un solo quadro
rilevante al nostro fine, ma in ogni caso la sua testimonianza
è preziosa. Canaletto e Bellotto dipinsero oltre 200 quadri
a soggetto veneziano ma, sulla base delle limitazioni sopra
accennate, il numero si assottiglia drasticamente e, se si
vogliono evitare informazioni ripetitive, si riduce ulteriormente. Alla fine, sono state individuate 12 vedute di soggetti
diversi utilizzabili per valutare il cambiamento del livello
del mare a Venezia.
Dobbiamo naturalmente porci e verificare alcuni dubbi sull’affidabilità della metodologia in quanto Canaletto e
Bellotto avrebbero potuto essere esatti nella riproduzione
dei palazzi ma non in quella delle alghe. La chiave sta nella consistenza interna dei risultati che si possono ottenere.
Ogni dipinto fornisce un dato indipendente da cui calcolare
quanto il mare è cresciuto dalla data del dipinto a oggi.
La prima verifica sta nella dispersione dei dati. Se la fascia delle alghe non è riportata accuratamente, i risultati
che si otterranno saranno distribuiti casualmente, con grande dispersione. Se invece la fascia delle alghe è riportata
120
accuratamente, tutte le osservazioni convergeranno verso il
valore reale con piccola dispersione. Questo modesto sparpagliamento dei dati, che costituisce la banda d’incertezza del
sistema, è dovuto a due ragioni: una è ovviamente intrinseca ad ogni insieme di misurazioni sperimentali; l’altra al
fatto che ogni palazzo veniva costruito su una piattaforma di
pali impiantati nel fango e subiva nel tempo un assestamento diverso, a seconda del proprio peso e della stabilità delle
fondamenta.
Nel caso di Canaletto e Bellotto, tutti i dati ottenuti sono
distribuiti molto coerentemente, con uno sparpagliamento
massimo entro a ±10% del segnale, il che indica una precisione maniacale nel copiare ogni dettaglio, sia questo apparentemente rilevante o irrilevante.
Una seconda verifica sta nel confronto tra i dati così ottenuti e le osservazioni mareografiche a partire dal 1872.
Vedremo che i risultati sono fortemente coerenti.
Una terza verifica consiste nel confronto con le indagini
archeologiche condotte da Ammerman (2005) nella laguna
veneta. Anche questo test ha dato ottimi risultati, come vedremo oltre.
10a. Il livello del mare dedotto da Veronese
Poiché la parte della facciata di Palazzo Coccina che ci interessa è rimasta inalterata a seguito dei lavori di trasformazione eseguiti da Papadopoli nel 1874-75, possiamo confrontare il livello delle alghe nel 1571, come si vede nel dipinto
di Veronese (Fig. 31a), con quello visibile in un’antica foto di
Ongania (1880-90) (Fig. 31b) e con il livello odierno (Fig. 31c).
In particolare, prenderemo in esame la scala che dà sul Canal Grande e che fa parte dell’ingresso ufficiale del Palazzo.
Nel particolare del dipinto (Fig. 31a) si notano alcune
persone in piedi sugli scalini. Le alghe sono estremamente viscide e scivolose ed è impossibile camminare o stare
in equilibrio sopra di esse. Non aveva nemmeno senso costruire scale con gradini inusabili o sommersi, perché questi
121
Fig. 31 (a) Dettaglio del portale e della scala di Palazzo Coccina
nel dipinto di Veronese (1571). (b) Lo stesso, da una foto degli anni
1880 (Ongania (1890-91). (c) Lo stesso, ma oggi (2008). Oggi le alghe
infestano tutti i gradini ed è stato costruito un approdo in legno per
accedere al palazzo.
avrebbero costituito un pericolo alla navigazione e all’approdo, e Veronese conosceva con esattezza di quanti gradini accessibili era dotata la scala. La scala esterna è costituita da 6
gradini contando anche il pianerottolo a filo; oltre questi esistono tre gradini interni, ma quanto avviene all’interno non
è rilevante. Nell’ingrandimento di Fig. 31a si possono contare
5 gradini liberi da alghe con persone su di essi, mentre il
gradino sottostante appare più scuro, infestato da alghe. Anche l’altro abbozzo di palazzo nello stesso dipinto, presenta
lo stesso stile (quindi la stessa età) e il medesimo numero di
gradini. Oggi (Fig. 31c) tutti gli scalini della scala di Palazzo
Coccina sono coperti di alghe, ed è stato necessario costruire
un approdo esterno per accedere al palazzo. L’altezza di ogni
scalino è 18 cm, di modo che la fascia delle alghe è risalita
col mare di 5×18 cm = 90±9 cm in confronto col 1571. Alla
misura si è attribuita l’incertezza di uno scalino, ±9 cm =18
122
cm, che coincide con la risoluzione possibile. Tuttavia, allo
spostamento delle alghe va sottratta una correzione di 8 cm
che discuteremo oltre. Fatta la correzione, dal tempo di Veronese a oggi la crescita del livello del mare è stata 82±9 cm
(Camuffo, 2010).
Dal confronto tra Veronese (Fig. 31a), la foto di Ongania
(Fig. 31b) ripresa negli anni attorno al 1880 (Ongania (189091), e la foto odierna (Fig. 31c ) si deduce che dal 1571 al 1880
vi furono 46±9 cm di spostamento alghe, corrispondenti a
38±9 cm di crescita del livello del mare; dal 1880 a oggi:
44±9 cm di spostamento alghe, corrispondenti a 36±9 cm di
crescita del livello del mare. La foto di Ongania è stata scattata in un periodo coperto dalle osservazioni mareografiche,
iniziate nel 1872, e questo permette un confronto tra i valori
ottenuti con il metodo delle alghe e le misure strumentali
Fig. 32 La crescita del livello marino a Venezia dedotto da
Ammerman (2003) dall’evidenza archeologica nella laguna veneta
negli ultimi 2000 anni. Il bordo superiore dell’area azzurra
corrisponde al livello del mare, la fascia verde alle acque alte. La
scala è espressa come differenza rispetto a oggi, stabilendo lo zero
al valore medio mare del 2003. Il punto giallo indica 82 cm ricavati
dal quadro di Veronese, quello rosso i 61 cm da Canaletto e Bellotto.
Entrambi coincidono con i risultati di Ammerman.
123
dirette. Per questo periodo il mareografo mostra 34±1 cm in
ragionevole accordo entro la banda di incertezza dichiarata.
Il risultato del quadro di Veronese può essere confrontato
con la ricostruzione del livello del mare a Venezia fatta da
Ammerman (2005) sulla base dell’evidenza archeologica di
vestigia romane e medievali lasciate nella laguna veneta negli ultimi 2000 anni. Nel grafico di Ammerman nel periodo
dal 1570 al 2005 si valuta una risalita del mare pari a 80
cm (Fig. 32, punto giallo), in ottimo accordo con gli 82±9 cm
dedotti dal quadro di Veronese
10b. Il livello del mare dedotto da Canaletto e Bellotto
Una volta individuati i quadri che si prestavano a questo tipo
di studio, con una barca si è raggiunta la fascia delle alghe
in corrispondenza di ogni palazzo per misurare l’altezza del
fronte in termini assoluti e relativi, facendo riferimento alla
dimensione dei blocchi di pietra, dagli scalini, dalla distanza del fronte dal cordolo, dai davanzali delle finestre e da
ogni altro elemento architettonico per poi poter ricostruire
esattamente i livelli anche nei quadri per triangolazione e
confronto proporzionale con grandezze note. In tal modo è
stato possibile calcolare con ragionevole precisione (indicata
nel seguito come intervallo di incertezza) lo spostamento del
fronte delle alghe e l’innalzamento corrispondente del livello del mare (Camuffo e Sturaro, 2003, 2004; Camuffo et al.,
2005). Qui riporteremo solo alcuni esempi.
Nel primo, il quadro intitolato “Il Canal Grande dai Palazzi Falier e Giustinian Lolin verso il Palazzo Venier della Torricella”, (Bellotto 1735, Collezione Privata, Londra,
Fig. 33a) mostra la facciata di Palazzo Giustinian-Lolin con la
sua fascia d’alghe. Oggi la scala è completamente sommersa, e riemerge solo in bassa marea coperta di alghe, per cui
è stata necessaria la costruzione di un pontile in legno per
l’accesso (Fig. 33b). L’innalzamento del fronte delle alghe è
stato di 69±10 cm.
124
Fig. 33 (a) Dettaglio del
Palazzo Giustinian Lolin
da Bellotto: “Il Canal
Grande dai Palazzi
Falier e Giustinian Lolin
verso il Palazzo Venier
della Torricella”, (1735,
Collezione Privata,
Londra). (b) Una foto
della situazione odierna.
In alta marea la scala
viene completamente
sommersa ed è coperta
da alghe. È stato
necessario alzare il
pavimento all’interno
e per entrare è stato
costruito un pontile in
legno. La fascia delle
alghe si è alzata di
69±10 cm.
125
Fig. 34 (a) Bellotto, dettaglio di Palazzo
Flangini (Collezione Privata, USA). Un uomo
sta ritto sulla scala e si notano tre scalini
liberi da alghe. (b) La stessa scala è oggi
completamente coperta di alghe ed è stato
costruito un pontile in legno per accedere.
La fascia delle alghe si è spostata verso l’alto
di 74±10 cm.
126
Analogamente, la veduta del Canal Grande con Cà Flangini (Bellotto, 1738-1747, Collezione Privata, USA, Fig. 34a),
una persona sta in piedi sulla scala e si notano tre gradini
liberi da alghe. Oggi tutti i gradini sono sommersi e infestati
d’alghe (Fig. 34b) per cui l’accesso è ora possibile tramite un
pontile in legno. L’innalzamento del fronte delle alghe è stato di 74±10 cm.
Ancora, in “Campo SS. Giovanni e Paolo” (Bellotto, 1741
ca, Museum of Fine Arts, Springfield, Fig. 35) la porta che si
affaccia al “Rio dei Mendicanti” ha tre gradini senza alghe.
Fig. 35 (a) Bellotto, “Campo SS. Giovanni e Paolo” (1741 ca, Museum
of Fine Arts, Springfield). La porta ha tre scalini liberi da alghe. (b)
Oggi tutta la scala è sommersa, il pavimento è stato rialzato e la
soglia della porta è stata alzata di 70 cm sopra l’ultimo gradino per
evitare la penetrazione dell’acqua. La fascia delle alghe oggi (freccia
rossa) si è spostata verso l’alto di 80±10 cm rispetto al 1740 (freccia
gialla). La freccia verde indica lo stesso scalino nel 1740 e nel 2003.
127
Oggi, per evitare la penetrazione dell’acqua, il pavimento
del piano terra è stato alzato e la parte bassa della porta è
stata murata per 70 cm al di sopra del primo gradino che
sporge sul canale, e l’innalzamento del fronte delle alghe è
stato di 80±10 cm.
Passando al risultato dell’analisi delle vedute di Canaletto e Bellotto, il valore medio dei vari spostamenti delle alghe
osservati è stato di 73±11 cm. Le inevitabili incertezze che
hanno accompagnato ogni misura sono variate da caso a
caso, rimanendo interne all’intervallo compreso tra 7 e 19
cm; la loro media pesata ha portato al limite d’incertezza
±11 cm applicato al risultato finale (Camuffo et al., 2005).
Anche nel caso di Canaletto e Bellotto si è cercata una
qualche verifica indipendente dei dati, come segue.
Come prima verifica della metodologia si è pensato di
applicare la stessa procedura a una serie di 15 foto scattate
negli anni 1880 da Ongania (1890-91) in cui i palazzi hanno
la fascia di alghe chiaramente visibile. La stima della crescita del livello apparente del mare dalle vecchie foto è stata
38±10 cm, che va paragona ai 30±1 cm misurati col mareografo. Com’era da attendersi, con le vecchie foto il risultato è
accettabile ma non eccellente in quanto considerando poco
più di un secolo il margine d’incertezza è grande rispetto il
segnale, esattamente 33% del segnale. La metodologia è giustificata invece nel caso di Canaletto e Bellotto in quanto il
segnale è grande rispetto all’incertezza, che si riduce al 12%
del segnale.
Il secondo test riguarda la consistenza interna dei dati.
Le misure dedotte dai quadri sono molto coerenti tra loro,
con una dispersione minore del ±10% del segnale.
Il terzo test riguarda il confronto col trend delle osservazioni mareografiche strumentali. Ponendo in un grafico
(Fig. 36) le osservazioni mareografiche 1872 al 2010, la loro
linea di interpolazione lineare passa attraverso il gruppo dei
punti rappresentanti i risultati dai dipinti di Canaletto e Bellotto.
128
Il quarto test riguarda il confronto con il grafico dedotto
dalle vestigia archeologiche (Ammerman, 2005) nella laguna. Nel grafico di Ammeman (Fig. 32) si evincono 60 cm dal
tempo di Canaletto e Bellotto, praticamente coincidente con
la valutazione dai dipinti, pari a 61±11 cm nel 2003, oggi
aggiornata a 64±11 cm.
Data la coerenza dei risultati con test indipendenti, la
metodologia viene confermata e i risultati acquistano validità scientifica.
11. Correzioni da apportarsi alla metodologia
Il Comune Marino è determinato dall’altezza periodicamente raggiunta dalle acque che bagnano pietre e murature e
permettono la vita alle alghe. L’altezza del bagnamento è
determinato dalle alte maree, cui si sovrappongono alcune
piccole onde interne ai canali. Le onde piccole sono sostanzialmente dovute all’increspamento delle acque per l’azione
del vento, note come onde capillari dell’altezza di pochi cm,
e quelle dovute al passaggio delle imbarcazioni. Oggi qualcosa è cambiato dai tempi di Canaletto, e si deve tenere conto
di due fattori in particolare: il traffico dovuto alle barche a
motore, e l’escavo di alcuni canali per permettere il passaggio di navi a grande tonnellaggio. Occorre quindi valutare
quanto sia il contributo di questi due fattori.
Il traffico dovuto ai natanti a motore, benché soggetto a
severi limiti alla velocità nei canali all’interno della città, si
muove a velocità superiore rispetto a quello delle barche a
remi generando onde di ampiezza maggiore. Per conoscere
la differenza tra le onde al giorno d’oggi e quelle ai tempi della Serenissima si sono effettuate per anni misure con
ondametro in Canal Grande, fissato a Palazzo Coccina, allora sede del CNR, Istituto per lo Studio della Dinamica delle
Grandi Masse. Queste misure hanno ovviamente fornito una
buona documentazione della situazione moderna, ma anche
una risposta concernente il moto ondoso interno nel XVIII
secolo. Ogni anno si ripete a Venezia la Regata, secondo la
129
tradizione secolare che si è vista rappresentata nei dipinti di
Carlevarijs e Canaletto (Fig. 12 a, b, c). Oggi la Regata è composta di due parti. La prima è la parata storica in cui copie
perfette delle imbarcazioni in uso ai tempi ruggenti della Serenissima ripercorrono il Canal Grande con la forza dei loro
remi. La seconda comprende delle competizioni sportive per
generi diversi di barche a remi di antica tradizione locale.
In breve, l’ondametro ha mostrato che nel Canal Grande le
onde provocate dalle imbarcazioni a remi durante le Regate
hanno altezza media di 5 cm inferiore rispetto a quelle del
traffico usuale comprendente natanti motorizzati.
L’escavo di canali larghi e profondi per il passaggio di
petroliere, navi commerciali e di crociera ha cambiato la
risposta della laguna. Ovviamente, in condizioni statiche la
presenza di canalizzazioni più impegnative non cambia il
livello, ma nel caso dinamico di onde lunghe, come quella di
marea o le sesse11, cambiano sia l’attrito al fondo sia il fatto
che un tempo la linea di costa interna si comportava come
un punto nodale, smorzando le oscillazioni; oggi favoriscono il trasporto e l’accumulo di acqua all’interno della laguna
per dar luogo a una debole onda di riflessione dalla costa
interna. Il contributo al temporaneo innalzamento del livello del mare a Venezia per motivi dinamici è stato calcolato
essere dell’ordine di 3 cm.
Si è quindi calcolato che il massimo livello di bagnamento delle pareti sia oggi 8 cm più alto rispetto ai tempi della
Serenissima (Camuffo e Sturaro, 2003), spostando conseguentemente il livello del fronte delle alghe. Pertanto, per
ristabilire condizioni omogenee con la situazione ai tempi
di Veronese prima, e di Canaletto e Bellotto poi, vanno sottratti gli 8 cm che hanno artificiosamente elevato il Comune
Marino sia per l’effetto delle onde brevi, sia delle lunghe.
11 Le “sesse” sono oscillazioni libere delle acque dell’Adriatico in risposta
alle rapide variazioni di pressione barometrica.
130
12. I l livello del mare a Venezia negli ultimi
cinque secoli
Come si è anticipato, a Venezia il livello apparente del mare
è stato regolarmente misurato a partire dal 1872 e costituisce una tra le più lunghe serie di osservazioni mareografiche. Queste osservazioni strumentali sono state riportate
in Fig. 36 dove si vede un andamento crescente molto netto
seppur con qualche fluttuazione interna dovute a fattori naturali e antropici. La più famosa di queste deviazioni causate
dall’uomo fu causata dall’emungimento delle acque sotterranee per scopi industriali nel periodo dal 1930 al 1970, che
localmente portò a un forte abbassamento del suolo (circa
10-12 cm), parzialmente recuperato negli anni successivi per
ripascimento di falda (Carbognin et al., 2004) con l’effetto di
un temporaneo rallentamento della crescita del mare.
Fig. 36 Risalita del livello apparente del mare a Venezia dai dati
indiretti dai dipinti di Veronese (1571, punto verde), di Canaletto
e Bellotto nel periodo 1727-1768 (punti rossi) e le rilevazioni
mareografiche (punti blu) nel periodo 1872-2009. La curva spessa
nera dà l’interpolazione esponenziale e la banda azzurra il limite
d’incertezza. Se si estrapola all’indietro nel tempo l’interpolazione
lineare dei punti blu, la retta (non evidenziata nel disegno) passa
per i valori dedotti dai dipinti di Canaletto e Bellotto.
131
Circa 140 anni di misure strumentali dirette sono un
patrimonio conoscitivo eccezionale ma non sufficiente per
permettere di estrapolare i dati sul lungo periodo a supporto degli scenari dei vari modelli e, soprattutto, come base
di progettazione per gli interventi di salvaguardia della città, primo fra tutti il sistema a barriere mobili denominato
MOSE.
A questo fine, le informazioni del Comune Marino deducibili dai quadri di Veronese, Canaletto e Bellotto costituiscono un’opportunità unica. Sappiamo che il Comune Marino
si è spostato seguendo la crescita del livello marino tranne
che per gli 8 cm di correzione che si deve applicare per il
periodo recente. Sappiamo anche che come si sposta il Comune Marino di altrettanto si sposta anche il livello medio
del mare. Questo permette di valutare con ragionevolezza il
livello apparente del mare nel 1571 e dal 1727 al 1768.
In generale, insiemi di dati sperimentali raccolti per periodi relativamente brevi possono essere interpolati con più
di una curva, e l’interpretazione di primo ordine è preferibile
(perché la più neutra) quando non esistano motivi teorici o
specifici diversi. I rilevamenti mareografici dal 1872 al 2010
sono ben interpolabili con un trend lineare. Prolungando
per il passato la linea avente per equazione il trend lineare
trovato, questa incontra la nube di punti determinati dai
dipinti di Canaletto e Bellotto, sicché anche in questo caso di
circa 350 anni l’interpolazione lineare si trova giustificata.
Tuttavia, quando si arretra ancora nel tempo e ci si avvicina
a cinque secoli, con il dipinto di Veronese, la curva che meglio interpola tutti i dati è un’esponenziale con equazione
y = 71.196 exp (0.0016X)
dove X rappresenta l’anno corrente (Camuffo et al., 2011).
132
Questa curva indica un innalzamento del mare molto
più lento durante il periodo centrale della Piccola Età Glaciale12, e un’accelerazione sempre crescente man mano che il
clima è andato cambiando passando a livelli termici sempre
crescenti sino al Riscaldamento Globale in atto oggi.
13. Sintesi e conclusioni su camera oscura, Vedutisti
e problemi di Venezia
Nella seconda metà del XVI secolo, dopo l’aggiunta della
lente, la camera oscura guadagnò in intensità luminosa,
nitidezza dell’immagine e profondità focale divenendo un
prezioso ausilio tecnologico per pittori e architetti. Veronese
fu il primo famoso pittore veneziano a giovarsene, anche
se una volta sola, per riprodurre Palazzo Coccina nel 1571.
Questa ipotesi è suffragata dalla testimonianza indiretta del
contemporaneo Daniel Barbaro, dalla grande precisione della riproduzione, e dal confronto con l’incisone fatta nel 1703
da Carlevarijs col medesimo soggetto. Da questo dipinto veniamo a sapere che la fascia vede brunastra delle alghe si è
alzata sino a coprire tutti i cinque gradini della scala con un
innalzamento del livello apparente del mare pari a 82±9 cm.
Oltre un secolo dopo, i Vedutisti cominciarono a utilizzare sistematicamente la camera oscura come un ausilio
per essere guidati nella prospettiva, migliorare la precisione
e ridurre i tempi di produzione dei dipinti. Canaletto, da
buon regista, usò la camera per scegliere i punti di ripresa e
le immagini migliori. Tuttavia, per i limiti della tecnologia
del tempo, e specialmente per l’angolo ottico relativamente
stretto, le vedute panoramiche furono possibili con la combinazione di due o più vedute parziali, con la camera semplicemente ruotata oppure spostata in punti di vista diversi.
Canaletto usò raramente la veduta statica della ripresa da
un punto fisso, come farebbe una macchina fotografica, ma
12 La Piccola Età Glaciale è un periodo relativamente freddo compreso
tra il XIV e la metà del XIX secolo, in pratica tra l’Ottimo Climatico
Medievale e il Riscaldamento Globale che stiamo vivendo.
133
inventò la veduta dinamica consistente nell’accoppiare nella
stessa tela immagini prossime tra loro e riprese da punti leggermente diversi, come le può vedere e ricordare una persona che passeggi in un dato ambiente. La conseguenza fu che
si dovettero forzatamente adattare fra loro visioni prospettiche leggermente diverse, con la compresenza di più punti di
fuga distinti. Canaletto fu un maestro nel combinare fra loro
vedute indipendenti, scelte e combinate con il gusto dello
scenografo che fu in gioventù per ottenere effetti speciali
nella valorizzazione dei singoli palazzi che venivano ruotati
di quel po’ per migliorarne la vista, come fossero quinte teatrali. Rotazioni, espansioni, compressioni erano usate anche
per riproporzionare e adattare i vari soggetti alle dimensioni
della tela. I suoi “Capricci” furono un’espressione libera ed
estrema di questa sua capacità.
Canaletto riuscì nell’intento di rendere l’apparenza dei
suoi quadri omogenea e credibile con l’aiuto della fantasia
e dell’arte usando grande coerenza di luci e colori, ridisegnando coerentemente le ombre, mascherando le forzature
e distraendo l’attenzione con scene di vita e dettagli veristi di vario tipo. In fondo, lo scopo di Canaletto, seguito a
ruota dal nipote Bellotto, era quello di riprodurre su tela il
ricordo di una città viva, di quanto avveniva in essa, entro
la meravigliosa cornice di canali e palazzi, tutti presentati
individualmente per il loro lato migliore.
Canaletto e Bellotto usavano scegliere e prendere delle
riprese sul posto con la camera oscura per preparare poi una
bozza del dipinto. Successivamente, nella loro bottega, montavano la scenografia pittorica, eventualmente espandendo
parti col pantografo, e rifinivano la veduta aggiungendovi
gustosi bozzetti di vita veneziana. Alla fine completavano
il quadro dei vari dettagli, molti dei quali probabilmente
rivisti sul posto per essere riportati così accuratamente.
L’esatto aspetto urbanistico architettonico della città può
rimanere penalizzato dalle invenzioni artistiche di Canaletto e Bellotto che creavano le loro vedute con qualche trucco
134
da regista o da scenografo deformando il reale. Al contrario,
i singoli pezzi che le compongono furono realizzati con precisione maniacale. Questo fatto permette l’utilizzo in campo
scientifico di certi dettagli riportati nei quadri.
Si è incontrato il problema che esistono alcune tele con
la medesima veduta e non è sempre possibile stabilirne l’ordine di produzione essendo incerta o ignota la datazione.
Il sospetto è che il primo quadro della serie, fatto sul posto,
possa essere molto preciso, mentre le altre tele siano copie
con sempre minore precisione nella restituzione dei dettagli.
Per verificare questo fatto, ed eventualmente stabilire con
quale ordine siano state generate queste copie, si è studiata
una metodologia basata sulla valutazione complessiva dei
piccoli errori dimensionali riportati nel quadro ed espressi
in termini di deviazione standard. Ancora più potente e raffinata è la metodologia che considera la propagazione degli
errori. La serie ordinata dei singoli errori, positivi e negativi, costituisce una sequela di valori che rappresenta un’informazione genetica caratteristica di ogni quadro, simile al
DNA, che dovrebbe ripetersi nei dipinti generati successivamente, copiando il capostipite. Considerando alcuni esempi
si è visto che ogni quadro è indipendente, anche se ripete
il medesimo soggetto di successo. Si è visto che la tela di
Anonimo a Cà Rezzonico con soggetto “il Canal Grande e
la Salute visti da Campo Zobenigo” ricalca molto da vicino
il DNA di uno specifico quadro di Bellotto, ponendo nuovi
interrogativi sull’attribuzione.
Dall’analisi dei dipinti di Canaletto e Bellotto conosciamo che la Venezia del XVIII secolo era fortemente inquinata,
con palazzi anneriti dal nerofumo e altri inquinanti particellati. Le emissioni erano riferibili a un limitato uso domestico
e a un certo numero di fornaci per cantieri edili e navali, soprattutto per la costruzione e la manutenzione degli scafi, il
che comportava la continua fusione di resina, pece e bitume
il cui fumo nero e denso anneriva i monumenti.
135
Il quadro di Veronese, nel cuore della Piccola Età Glaciale, mostra che nel XVI secolo la velocità di sommersione
di Venezia era 1,2 mm/anno, circa metà rispetto a quella
odierna (2,4 mm/anno), il che significa che il fattore dominante era la subsidenza del suolo, mentre l’espansione termica delle acque oceaniche restava pressoché invariata.
I quadri di Canaletto e Bellotto riportano con precisione anche la fascia brunastra delle alghe che vivono nel bagnasciuga e costituiscono un indicatore biologico del livello
medio delle alte maree. Dal confronto tra il livello del fronte
delle alghe nei quadri e quella raggiunta oggi è possibile conoscere di quanto sia cresciuto il livello del mare nel frattempo. La metodologia è stata verificata con modalità indipendenti e applicata a tutti i quadri per cui questo è stato
possibile. Si è così ottenuto un innalzamento del mare pari
64±11 cm.
Combinando tutti questi risultati si è ricostruito il livello del mare per quasi cinque secoli, il che costituisce una
base di dati eccezionalmente estesa nel tempo, il che permette la migliore interpretazione del presente e più accurate
proiezioni future della stima del livello marino a Venezia.
Nel più ridotto arco di tempo (1872-oggi) delle osservazioni
strumentali, Venezia sembra affondare con velocità sostanzialmente invariata. Tuttavia, se si estende la conoscenza
di vari secoli, ne emerge che la sommersione di Venezia sta
procedendo con accelerazione esponenziale, come era logico
attendere per la continua crescita della temperatura globale a partire dal cuore della Piccola Età Glaciale. In prima
approssimazione, circa metà della velocità attuale di sommersione è attribuibile alla subsidenza del suolo, in larga
parte dovuta a cause tettoniche che procedono inalterate da
milioni di anni. La parte rimanente è dovuta all’espansione
termica delle acque oceaniche (eustatismo) ed è essenzialmente controllata dai cambiamenti climatici.
136
Questi risultati sono preziosi ai fini della programmazione dei rimedi contro le acque alte a Venezia che stanno a
loro volta aumentando con frequenza esponenziale. Il rimedio più importante è il MOSE. Il MOSE necessita di almeno
un decennio per la costruzione, poi dovrà operare per 40-50
anni. Conoscendo il trend di crescita del livello marino negli
ultimi 5 secoli è possibile calcolare con un ragionevole livello di confidenza il livello del mare che il MOSE dovrà essere
preparato ad affrontare. Si dovrà inoltre considerare che il
MOSE migliorerà la situazione, ma non sarà in grado di evitare tutte le acque alte e garantire la più piena protezione a
Venezia (Pirazzoli, 2002). Rimane la necessità di continuare
gli studi per azioni di salvaguardia sul lungo termine, ad
esempio se è possibile e come innalzare il livello del suolo,
se con iniezioni profonde di acqua marina, di sabbia o altro.
Tuttavia, il problema più grave è un altro. Gli edifici veneziani sono costruiti su un basamento impermeabile in
pietra d’Istria che è un calcare molto resistente e non dà
luogo a risalita capillare. Sopra questo basamento in pietra
potevano stare mattoni e intonaco, protetti da ogni contatto
con l’azione disgregatrice dell’acqua marina. Oggi, mentre
la città sta sprofondando relativamente al livello del mare,
molti edifici si trovano col basamento sommerso, o quasi.
Le strutture murarie in mattoni, malta e intonaco vengono ripetutamente impregnate d’acqua marina, talune ogni
alta marea, altre ogni acqua alta. Una volta impregnate
d’acqua marina, il cloruro sodico (NaCl) migra all’interno
della muratura e con l’evaporazione dell’acqua si accumula
in strati superficiali formando efflorescenze bianche e subefflorescenze (Fig. 37). Questo sale è deliquescente: quando
l’umidità relativa ambiente supera la soglia del 75%, il cloruro sodico perde la forma cristallina idratandosi e iniziando
a formare una soluzione con l’acqua che riesce a catturare
dall’atmosfera. Quando l’umidità relativa torna a scendere
sotto la soglia critica avviene l’inverso, e la formazione dei
cristalli cubici salini stacca gli intonaci e disgrega matto137
ni e malte (Camuffo and Sturaro, 2003, 2004; Camuffo et
al., 2005). Oggi la maggior parte degli intonaci è staccata
e persa, specie al piano terra e al primo piano. Nel futuro
questi cicli dirompenti che si sono innescati continueranno
a danneggiare le murature dall’interno, e questo tremendo
meccanismo che si è ormai innescato potrà concludersi con
il collasso dell’edificio. Questo problema richiede interventi
urgenti per bonificare e sostituire le parti colpite.
Senza il supporto di ricerche mirate e approfondite, l’unica conclusione che si possa immaginare nel lungo termine è
che la città sia tristemente destinata a scomparire, o inabissandosi progressivamente nelle acque (Nosengo, 2003), o per
l’accelerata disgregazione degli edifici, o per entrambi. π
Fig. 37 (a) Un edificio con risalita capillare di acqua marina
dal basamento immerso nel canale, efflorescenze bianche
di sale marino, caduta dell’intonaco e mattoni degradati. (b)
Dettaglio mostrante i cristalli bianchi di cloruro sodico formanti
l’efflorescenza.
138
Ringraziamenti.
La più grande gratitudine va a: Fondazione
Bracco, Milano, che ha voluto, sostenuto e
realizzato questa pubblicazione; Prof David
A. Brown e Dr David Essex, National Gallery of Art, Washington; Prof. Giandomenico
Romanelli, Direttore della Fondazione Musei
Civici Veneziani; Cassa di Risparmio, Venezia; Dr. Anna Lo Bianco, Direttore Galleria
Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini,
Roma; Dr Rossella Vodret, Soprintendenza
Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico
ed Etnoantropologico e per il Polo Museale
della Città di Roma; Gemäldegalerie Alte
Meister, Dresda; Fitzwilliam Museum, Cambridge; National Gallery, Londra; Kunsthistorisches Museum, Vienna; Kunsthalle, Amburgo; Contessa Bianca Maria Arrivabene,
proprietaria di Palazzo Coccina oggi Papadopoli-Arrivabene; Prof Alberto Tomasin, Università di Venezia; Cà Foscari, Venezia; Dr
Laura Carbognin, CNR-ISMAR Venezia; Ing.
Paolo Canestrelli e Ufficio Maree Comune di
Venezia; Ing. Giovanni Cecconi, Consorzio
Venezia Nuova, Venezia; Dr. Alessandra Lenzi, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia
della Scienza, Firenze; Dr Orsola Braides, Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia; Arsenale Editrice, Venezia; Google Books (http://
books.google.com/) per la documentazione
bibliografica e tutti i Musei, le Gallerie, le
Collezioni pubbliche e private menzionate in
questo lavoro per la loro cortesia e per aver
in vari modi facilitato questa ricerca. Infine,
ma non da meno, a: Prof. Maria Mautone
Direttrice del Dipartimento dei Beni Culturali del CNR, Dr Laura Moltedo, responsabile
dei Progetti Esterni del CNR; il progetto europeo “Climate for Culture” (Grant 226973)
e a tutti i colleghi e collaboratori del CNR
che in diversi tempi e diversi Istituti hanno
collaborato a questo studio, in particolare Dr
Giovanni Sturaro, Dr Emanuela Pagan e Dr
Chiara Bertolin.
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143
Canaletto e il Quaderno
Dario Maran
Università Ca’ Foscari di Venezia
Anch’io ringrazio, innanzitutto, la Fondazione Bracco per
l’opportunità che mi è stata offerta, ovvero di potere illustrare, in un contesto così prestigioso e ad una platea competente e curiosa, alcune nuove acquisizioni sul processo
compositivo e sul procedimento operativo di Canaletto.
Le immagini che vedremo – e le argomentazioni connesse – costituiscono il primo approfondimento degli esiti
di una ricerca che, sino ad oggi, ho avuto modo di diffondere solo in ambito accademico, al vaglio dei docenti e dei
ricercatori dell’area della rappresentazione dell’architettura
(ICAR 17).
Ambito anch’esso autorevole, indubbiamente, ma ristretto agli “addetti ai lavori”; per questa ragione quando ho
appreso del coinvolgimento diretto della Fondazione Bracco
nella mostra “Canaletto and his rivals” per l’edizione di Washington D.C. ho ritenuto doveroso sondare se, nel contesto
delle iniziative che la Fondazione avrebbe avviato a corollario del progetto, esistesse la possibilità di una divulgazione
delle mie “scoperte” ad un pubblico più ampio.
La fortuna, non il caso, ha voluto che la mia richiesta
fosse indirizzata ad una istituzione voluta da persone che,
evidentemente, credono davvero alla disseminazione della
conoscenza e gestita, soprattutto, per conseguire tale obiettivo per cui… eccomi qui.
Ringrazio nuovamente, dunque, per l’invito la Presidente
Dott. Diana Bracco e la Dott. Linda Cena, con tutte le sue
collaboratrici.
Ho deciso di titolare il mio contributo “Canaletto e il Quaderno” senza sapere, ovviamente, quale taglio avrebbero
dato ai loro interventi i colleghi che mi hanno preceduto; di
Canaletto ci hanno già parlato – estesamente, approfonditamente e perfettamente – il Prof. Brown ed il Prof. Romanelli; il Quaderno si è già intravisto nel video; della camera ottica ha già parlato il Prof. Camuffo. Inevitabilmente, perciò,
il mio intervento ritornerà su alcuni temi già affrontati e
144
descritti ma, nello spirito davvero seminariale dell’incontro,
sarò lieto di riuscire a convincervi sulla necessità di ridurre
l’ambiguità, o l’indeterminatezza, intorno ad alcune questioni quando si ragiona su Canaletto, queste:
• la relazione tra Quaderno e opere finite
• la relazione tra realtà topografica ed i luoghi rappresentati nelle vedute
• la molteplicità o unicità del punto di vista
• il ruolo della camera ottica nel processo creativo
Il Quaderno, come già sapete, è il volumetto rilegato conservato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia: esso
contiene una serie di sequenze relative a quindici distinti
luoghi della città, scene urbane che Canaletto riverserà, a
suo modo, nelle sue vedute.
Utilizzerò il termine scaraboto per qualificare le tracce
presenti nel Quaderno (un termine usato per iscritto una
sola volta da Canaletto, presente in uno dei fogli della Raccolta Viggiano, sempre conservata a Venezia), ma ritengo
doveroso precisare che una tale qualificazione di quei segni
non è ancora pacificamente accolta dagli storici dell’arte, i
145
quali riservano tale termine – scaraboto, appunto – ad un
altro tipo di disegno che Canaletto avrebbe redatto prima
di comporre le sue vedute: purtroppo nessuno degli schizzi
esistenti sembra soddisfare tale aspettativa! Resto fiducioso,
perciò, del fatto che riuscirò a farli convinti della esattezza
della mia affermazione. O almeno ci proverò con i presenti
stasera.
Il cartiglio proposto in apertura – ben noto, peraltro – è
un autografo di Canaletto, applicato a un disegno conservato
a Berlino. Mi piace utilizzarlo perché esprime bene il rischio
di ambiguità di cui accennavo poco fa; sulla scorta dell’indagine svolta, però, l’annotazione di Canaletto non deve essere intesa come una ridondanza espressiva, bensì come la
rivendicazione di un doppio livello di paternità nell’opera:
“… dissegnià e fatto”, cioè materialmente redatto – graficamente tracciato – e consapevolmente ideato, cioè progettato.
La strategia scelta per tentare di rappresentare – in maniera spero convincente – il metodo di lavoro di Canaletto ho
deciso di addentrarmi in una sola delle quindici sequenze del
Quaderno, quella del Bacino di San Marco verso ovest (quella
più complicate ed estesa) partendo, però, non dal Quaderno
ma dalle opere finite che rappresentano tale scena.
Nella sequenza che segue, quindi, ho raccolto alcune delle opere che W.G. Constable (e tutti gli storici che si sono
occupati del catalogo canalettiano) raggruppa nelle “Vedute
verso Ovest del Bacino di San Marco”; rivedrete, pertanto,
alcuni dipinti di cui si è parlato nelle precedenti comunicazioni, in quanto si tratta di opere presenti nella mostra di
Washington, ma con una diversa finalità.
146
147
148
La sequenza ci permette, sia pure sommariamente, di avere
una idea di quante volte… (sono molte di più in realtà, circa una quarantina) …di quante volte Canaletto sperimenta,
percorre ed elabora questa scena, questo tema; e non solo
su tela, come sappiamo, ma anche in incisione e, soprattutto, nei disegni della Royal Collection, conservati a Windsor Castle (una serie ricchissima, che ho avuto la fortuna di
studiare e leggere approfonditamente in più riprese, sempre
con l’aiuto di Martin Clayton, Deputy Curator della Royal
Collection – Prints and Drawings).
In questo avvicinamento ad una piccola serie di opere
finite, vedute che hanno reso celebre il Maestro, ho volutamente considerato, come accennavo, un’unica scena urbana. Un tema affrontato e ri-affrontato da Canaletto in tempi
distinti, come indicano le date.
La scelta deriva da una necessità di ricerca, dalla precisa volontà di verificare se il metodo compositivo che avevo
individuato e descritto per un’altra sequenza del Quaderno
fosse applicabile anche alla sequenza più estesa del Quaderno stesso.
Le vedute viste in sequenza (che presentano una scena
con il medesimo orientamento, da est verso ovest) si riferiscono, diremmo oggi, a diverse inquadrature; un fatto
oggettivo, che suggerisce l’idea di un punto di osservazione
prescelto diverso, volta per volta, da Canaletto. Questa conclusione soddisferebbe, certamente, la convinzione – anche
di alcuni storici – di un Canaletto vedutista/fotografo: diversamente, come cercherò di illustrarvi, il processo creativo di
Canaletto è molto più sofisticato. La sua elaborazione visiva
non è grossolana ma, piuttosto, a grana finissima, come già
il prof Romanelli, partendo da altre argomentazioni, ci ha
fatto intendere. Vediamo di capire, dunque, cosa c’è “sotto”.
149
Nella veloce sequenza mostrata le immagini, prima giustificate in pari larghezza, sono ora riportate nella loro esatta proporzione: l’aspetto interessante da evidenziare è che,
pure al variare del supporto, le relazioni tra gli elementi posti in scena (primo e secondo piano) rimangono invariate; la
stessa inquadratura, infatti, è spesso rappresentata in qua-
150
dro grande o piccolo, ma non si tratta mai di ingrandimenti
o rimpicciolimenti (a pantografo) dello stesso schema, bensì
di opere distinte nelle quali, in ragione delle misura e dei
rapporti dimensionali del supporto, Canaletto modifica lo
scorcio delle facciate, alza o abbassa la linea d’orizzonte, avvicina od allontana gli oggetti. In buona sostanza egli adatta
– “…dissegnià e fatto” – il medesimo palinsesto visivo alle
diverse condizioni di superficie – pittorica o grafica – di cui
dispone.
Dall’osservazione di alcuni elementi in scena emergono,
però, cose davvero interessanti; qui, come potete osservare,
ho isolato da tutte le vedute lo stesso dettaglio.
151
Il dettaglio è la Basilica di Santa Maria della Salute.
Come potete vedere, anche se i punti di osservazione
delle varie vedute finite sono diversi – almeno così ci erano apparsi al primo impatto visivo – le cupole, le guglie ed
i campanili della Basilica sono rappresentate mantenendo
invariata la relazione tra essi, indipendentemente dalla dimensione del supporto dell’opera.
Si tratta, credo comprendiate, di un indizio davvero significativo (ed anche atteso, sulla base degli esiti della prima
ricerca), perché sottintende – e conferma – il fatto che le
vedute finite, diverse per composizione, sono elaborazioni
distinte derivanti da una ripresa dei veri luoghi effettuata
da un unico punto di vista, uguale per tutte le vedute. Lo
spostamento, nello spazio, del punto di osservazione, dunque,
è l’esito della manipolazione degli scorci – topograficamente
esatti – fissati negli scaraboti del Quaderno. E quanto osservato per i dipinti vale anche per i disegni della Royal Collection, vere e proprie “opere finite”, almeno quanto le tele.
152
L’invenzione di Canaletto sta tutta qui; rispetto ai suoi
predecessori, il suo metodo compositivo risolve ed evita
quanto “…può offendere il senso.” nell’osservatore quando
“…l’artefice interamente si fida della prospettiva che in essa
camera vede,…” (giusta A.M. Zanetti, Della Pittura Veneziana Libro Quinto. pag 463.)
Canaletto – forse in forza della sua formazione nella bottega del padre scenografo – ci appare perfettamente consapevole del fatto che il riconoscimento dei luoghi deriva
dalla compatibilità dell’immagine ottica, osservata in quel
determinato istante, con l’immagine mentale di quel medesimo luogo, ovvero quella sommatoria – quasi infinita – di
distinte inquadrature impresse nel corso di precedenti espe153
rienze visive, rese coerenti al medesimo luogo per la loro
plausibilità prospettica. I dati della memoria di un luogo,
depositati nella corteccia cerebrale da distinti punti di osservazione, sono d’insieme ma anche di dettaglio e, soprattutto,
di relazione tra gli elementi appartenenti alla scena.
Le sue composizioni ci risultano ancora oggi convincenti
(ed ancor più lo furono per i contemporanei) proprio perché
suscitano la memoria dei veri luoghi. I singoli elementi che
caratterizzano la scena urbana, infatti, sono riproposti con
la preoccupazione di replicare le vere relazioni tra essi piuttosto che il valore – astratto – della esattezza geometrica e
topografica.
Nelle vedute di Canaletto, così come nell’esperienza visiva, il rapporto dell’osservatore con la realtà urbana non è
statico ma dinamico: la prospettiva cambia, certamente, in
ragione dello spostamento del punto di osservazione, eppure
il luogo – vero o rappresentato – rimane perfettamente riconoscibile.
Ma la veduta canalettiana riesce, persino, ad offrirci una
scena urbana sempre prospetticamente plausibile ai molteplici movimenti dell’occhio che osserva il quadro, senza
“… offendere il senso” con forzature prospettiche. Canaletto
riesce a fare in modo che il nostro occhio navighi sulla tela
alternando elementi di dettaglio ad altre inquadrature più
larghe, le quali ci appaiono sempre perfettamente vere perché composte rispettando, soprattutto, le relazioni della vera
scena urbana.
Torniamo, ora, al dettaglio della identica rappresentazione della Basilica della Salute nonostante la apparente variazione del punto di osservazione (è la mia affermazione, di
cui vorrei farvi convinti): come spiegare questo apparente
errore di Canaletto?
154
È il Quaderno ad offrirci la risposta, ed esattamente lo
schizzo, anzi lo scaraboto della Salute che Canaletto registra all’interno della sequenza relativa alla veduta del Bacino verso ovest: una traccia sempre perfettamente coerente,
come si può osservare, con la rappresentazione dell’edificio
in questione, in tutte le varie opere finite che abbiamo visto
in apertura della comunicazione.
La sequenza in questione (fogli 21 verso – 24 recto) si
estende in sei doppie pagine, dodici fogli. Alcuni di questi
fogli si sviluppano, in realtà, su un doppio registro e sono
leggibili tracce, a pietra nera, perfettamente coerenti con la
scena oggetto di studio, anche se non ripassate a inchiostro
(come nel registro principale).
Come in tutte le sequenze del Quaderno – relative a distinti ambiti urbani – gli elementi rappresentati alle estremità del doppio foglio sono utilizzati da Canaletto come
cardine, in modo che, al voltare di pagina, lo stesso edificio
si ripresentasse e rendesse possibile, qualora necessario, ripristinare la continuità della sequenza.
155
156
Anche le tracce a pietra nera del registro superiore dei fogli
sono coerenti con quanto affermato e permettono di concorrere al montaggio complessivo della veduta. In particolare,
sono importanti le tracce a a pietra nera – estremamente
leggere – che rappresentano il profilo delle cupole della basilica di San Marco e che ci appaiono, in secondo piano,
dietro alla copertura di Palazzo Ducale (l’ala verso il Ponte
157
158
dei Sospiri) e che si estendono verso destra, comprendendo
persino la Chiesa della Pietà, San Zaccaria e San Giorgio
dei Greci. L’estremità sinistra dell’inquadratura è occupata,
invece, dalla importante mole della Chiesa di San Giorgio
Maggiore e la scena si conclude in corrispondenza del fronte
verso bacino del Dormitorio, progettato da Giovanni Buora.
Il montaggio dell’intera sequenza così sommariamente
descritta (realizzato rapportando ad uguale misura gli edifici
cardine di cui si è detto poco fa) determina, come si può
vedere, una scena estremamente ampia in larghezza.
Solamente alcune delle vedute finite mostrate in apertura (un disegno ed una tela) rappresentano una composizione
relativa all’intera sequenza: tutte le altre vedute sono scene
corrispondenti solo ad una porzione della stessa, porzione
più o meno ampia, suggerendo di volta in volta un punto di
osservazione più o meno ravvicinato.
Eppure nessuna di tali opere è copia di altre, precedenti,
in quanto Canaletto, ogni volta, compone ex novo.
Le sue vedute possono apparire copia – o ingrandimento
– di una precedente versione, ma ciò accade perché all’origine della varie composizioni finite vi sono i dati di una stessa sequenza del Quaderno: una base-dati topograficamente
esatta, raccolta con l’uso sapiente della camera ottica, da
un unico punto di vista per l’intera sequenza. Intuizione,
questa, che permette a Canaletto di disporre di tracce prospetticamente coerenti e, pertanto, facilmente manipolabili,
sul palcoscenico delle opere finite.
Questo è l’esito principale della mia ricerca.
159
Nel percorso compiuto per riuscire a qualificare l’effettiva origine ottica degli scaraboti del Quaderno – questione, a mio avviso, definitivamente risolta – ho capito che
interfacciando le tracce del Quaderno con la realtà urbana
di Venezia (per fortuna sostanzialmente invariata nei capisaldo prospettici) sarei giunto al punto di ripresa, al luogo
prescelto da Canaletto per raccogliere gli scaraboti per le sue
vedute – tante – di una stessa scena urbana.
Partendo, dunque, dalle relazioni tra elementi di primo e
secondo piano della scena, registrati con esattezza ottica nel
Quaderno, ho potuto delineare, traguardando, assi visivi che
concorrono ad un unico punto di osservazione per l’intera
sequenza.
La traccia della sfera dorata, posta su Punta della Dogana, si sovrappone con una certa relazione alla cupola bassa della Salute, quella del Presbiterio: questa relazione tra
elementi posti su piani sovrapposti della scena permette di
tracciare un primo asse visivo, vincolante. Ripetendo la stessa operazione per altre relazioni – dalle tracce alla realtà
urbana – giungiamo a constatare che tali assi convergono
verso uno stesso punto, e con alto grado di precisione.
160
È importante evidenziare, anche per i futuri sviluppi della
ricerca in corso, che Canaletto registra le tracce – foto-incisioni – derivanti da lunghezze focali diverse, per una scena,
panoramica, avente un’ampiezza di circa 90° (come insegnavano le regole della scenografia teatrale settecentesca).
È necessario, a questo punto, dare un rapido cenno alla
ricerca che mi ha permesso di giungere a questi convincimenti ed a svelare la relazione scaraboto/veduta finita (ed
al particolare modo d’uso della camera ottica da parte di
Canaletto): non si è trattato, infatti, di un colpo di fortuna,
ma piuttosto di un premio alla determinazione (o, se volete,
alla testardaggine) nel volere giungere ad un risultato scientificamente convincente.
161
Vediamo, quindi, solo un dettaglio della sequenza (fogli 21
verso- 24 recto) che mi ha portato alla soluzione dell’enigma. Velocemente: in colore verde ho evidenziato quello che
ho definito elemento cardine della scena, l’edificio R, che
lega la scena rappresentata nel registro inferiore della doppia pagina (Riva del Ferro) con quella superiore (ove è ripreso
il Ponte di Rialto, al centro della scena). In colore giallo ho
evidenziato Palazzo Dolfin-Manin, dietro al quale emerge la
guglia a croce, forse la cuspide di un campanile. Per la mia
ricerca l’elemento chiave.
162
Gli storici dell’arte che si sono occupati del Quaderno
hanno sempre, e concordemente, attribuito quella cuspide
alla Chiesa di S. Bartolomio, prossima al campo omonimo,
ai piedi della riva destra del Ponte di Rialto. Anche per me,
ovviamente, tale attribuzione costituiva un dato certo, inconfutabile.
Si tratta, in realtà (e purtroppo, come ho pensato per alcune notti insonni; o per fortuna, viste le conseguenze per
gli esiti della ricerca), della cuspide posta in sommità alla
cupola della Chiesa di S. Giovanni e Paolo. Tale elemento,
con quella determinata ed univoca relazione con la facciata
di Palazzo Dolfin-Manin (documentata nelle tracce del Quaderno) può essere visto, però, solo da una posizione molto
più arretrata nel Canal Grande: la ricerca del possibile punto
di osservazione compatibile con quella sovrapposizione (e
posto lungo quel determinato asse) mi ha portato ad individuare la posizione, unica, dalla quale, ruotando lo sguardo,
tutte le tracce della sequenza sarebbero risultate positivamente risolte.
La soluzione è risultata possibile perché – doverosamente, a quel punto – ho rimesso in discussione varie certezze,
in particolare la questione del funzionamento della camera
ottica, per trovare la ragione delle variazioni di quadro prospettico nelle tracce del Quaderno.
163
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Per potere apprezzare le funzionalità dei diversi tipi di
camera ottica è necessario un richiamo di carattere geometrico-proiettivo: ho elaborato, a tale scopo, una immagine
riassuntiva della animazione che illustra cosa significhi il
fatto che la prospettiva sia una relazione tra osservatore e
oggetto osservato.
Se la relazione osservatore/oggetto non viene modificata, la prospettiva che si genera sul quadro non cambia. Ciò
che cambia, ma senza per questo modificare la prospettiva,
è la qualità di risoluzione degli oggetti posti in visione.
Con riferimento alle macchine fotografiche odierne, delle quali tutti abbiamo esperienza, sappiamo che utilizzando
un teleobiettivo l’oggetto osservato presenterà una maggiore accuratezza nei dettagli e nei profili (anche se a scapito
dell’ampiezza della scena); utilizzando, diversamente, un
obiettivo grandangolare, alla maggiore ampiezza corrisponderà una minore qualità nella definizione dei contorni. La
questione importante, ribadisco, sta nel fatto che, al variare
della lunghezza focale, i diversi elementi della scena, essendo ripresi da un determinato ed unico punto di osservazione,
non risultano modificati nella prospettiva, neppure quando
venga ruotato l’asse visivo principale.
Data questa premessa proviamo a capire in quale modo
– e con quale strumento – Canaletto abbia raccolto i suoi
famosi scaraboti, le tracce relative alle quindici sequenze del
Quaderno.
165
Esistono tre tipi di camera ottica.
• Camera a semplice ribaltamento
Il raggio visivo, che riflette la realtà esterna, attraversa la
lente collocata in corrispondenza del piccolo foro praticato su una delle facce della scatola; l’immagine si ricrea
sulla faccia opposta a quella del foro, su di uno schermo
più o meno trasparente. L’immagine, che risulta visibile solo se osservata creando un ambiente con intensità
luminosa molto inferiore a quella esterna, si presenta
capovolta alto/basso ed invertita destra/sinistra: nello
schema qui proposto, tratto dalla animazione realizzata
a tale scopo, il campanile di San Marco si presenta a
destra anziché a sinistra e con la cuspide verso il basso
anziché verso l’alto. Si tratta del ribaltamento semplice,
di cui già accennava il Prof. Camuffo, caratteristica di
uno strumento esistente e diffuso, certamente, già nel
‘600 (se non prima ancora).
166
• Camera a specchio interno
È il tipo di camera che viene sempre citata, perché a questo tipo appartiene la camera ottica “A.Canal” del Museo
Correr di Venezia (vista nel video, presentato dal Prof.
Brown, ed esposta in mostra a Washington). Si tratta di
una camera nella quale lo specchio interno, inclinato a
45 gradi, intercetta i raggi visivi confluiti al suo interno
attraverso la lente – a focale fissa – e li rinvia alla faccia
superiore della scatola, dove è posto lo schermo in vetro
opalino e smerigliato: un piano orizzontale, sul quale l’operatore andrà a collocare fogli il più possibile trasparenti – in carta oleata – per calcare le tracce che vi appaiono.
Uno strumento che presenta grandi vantaggi, ma anche
molti limiti. Come funziona la camera Correr? la scena
esterna rimane la stessa, lo specchio intercetta la piramide visiva (dopo il passaggio del fascio luminoso, qui
rappresentato dal cono, attraverso la lente) e la riflette
verso il quadro smerigliato superiore dello strumento. La
diagonale del quadro, parametro necessario per definire
l’angolo di campo dell’obiettivo, è una misura che deriva
dal diametro del cono visivo (in effetti ad esso sempre
inferiore, per cui sono escluse le possibili deformazioni
ottiche che potrebbero derivare dalla zona periferica della lente). Rispetto al semplice ribaltamento l’immagine
ora è molto più definita, incisa; anche l’operatività è resa
più facile, perché il piano su cui si ricrea l’immagine è,
questa volta, orizzontale ma rimane un problema, che
vedete tutti. Anche se l’orientamento alto/basso è corretto (l’immagine non è capovolta) rimane l’inversione destra/sinistra: l’immagine non è immediatamente
utilizzabile, richiede una elaborazione successiva, una
post-produzione. Rimane, poi, la questione del vetro
smerigliato: con la camera a specchio interno l’operatore deve utilizzare una carta il più possibile trasparente
per delineare le tracce ma è vincolato, soprattutto, dalla
focale fissa (di grande formato ed ottica “normale”, non
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“grandangolare”, vedi lo schema riassunto nell’immagine). La scena della veduta, perciò, risulterà dalla giustapposizione – non mediata – di una serie di quadri distinti,
da ricollocare in una griglia, in una sorta di patchwork.
Non è nota, peraltro, l’esistenza di alcun scaraboto canalettiano su carta oleata, ed anche per questa ragione la
camera ottica “A.Canal” riveste, tutto sommato, scarso
interesse nell’intento di riuscire ad illustrare – e comprendere – l’origine ottica delle tracce del Quaderno. Nelle immagini che seguono, in ogni caso, possiamo farci
un’idea di quel che si vede nella camera ottica del Museo
Correr, confrontando l’immagine realizzata con una normale macchina fotografica: si noti l’inversione destra/
sinistra, il corretto orientamento alto/basso e la qualità
dell’intensità luminosa interna, ovvero la misura di dettaglio visivo che lo strumento permette.
170
• Camera ad operatore interno (e specchio esterno)
Vediamo ora il funzionamento del terzo tipo di camera.
In questo caso lo specchio è posto in sommità dello strumento, ed è tale piano riflettente che intercetta il fascio
luminoso e devia la piramide visiva, questa volta verso il
basso, in direzione della lente. L’immagine, proveniente
dallo specchio, attraversa la lente e si ricrea sul piano
di lavoro posto all’interno della camera – ad operatore
interno, appunto – questa volta correttamente orientata sia destra/sinistra ed anche alto/basso (a condizione,
ovviamente, che l’operatore volga le spalle alla scena).
La camera ad operatore è un vero e proprio laboratorio.
Le tracce, ora, possono essere calcate, con pietra nera,
direttamente sul foglio in carta opaca, probabilmente
appartenente ad un piccolo fascicolo. L’aspetto più interessante – che mi ha condotto alla soluzione dell’enigma
– sta nel fatto che la lente può avvicinarsi allo specchio.
Non si tratta di uno zoom, come diremmo oggi, perché
la lente è posta dopo lo specchio e non anteriormente ad esso. Con tutta evidenza, quindi, Canaletto non
vede direttamente l’esterno, egli ne vede, sul piano, solo
un’immagine riflessa, proveniente dallo specchio inclinato a 45°. Avvicinando la lente allo specchio egli può
ingrandire l’immagine – e la conseguente traccia – senza modificare la prospettiva tra gli elementi della scena
urbana, perché il punto di osservazione – lo specchio
– rimane fisso rispetto alla realtà esterna. Lo specchio,
inoltre, può ruotare sul proprio asse zenitale: perché
questa osservazione/constatazione è importante? Perchè questo tipo di strumento permette la raccolta di dati
geometricamente esatti – e coerenti nella prospettiva –
anche quando lo specchio ruota ed in questo modo, da
un unico punto di vista, Canaletto può realizzare una
sorta di panoramica – diremmo oggi – composta di sequenze molto varie e, talvolta, persino doppie esposizioni dello stesso edificio – per disporre di maggiore detta171
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glio – ma tracce pur sempre omologhe nella prospettiva
Questa grande quantità di dati veri, esatti, sono raccolti
da Canaletto – ne parlava il Prof, Romanelli, partendo da
altre considerazioni – con piena consapevolezza del processo che prevede, nel successivo procedimento operativo, una
elaborazione compositiva delle tracce.
Trattandosi di valori raccolti, con metodo scientifico, da
un unico punto di osservazione, le tracce raccolte potranno
essere manipolate, trasfigurate e renderanno possibile ricreare una scena – non vera, ma verosimile – per l’osservatore
maggiormente coerente con la memoria dei luoghi.
La scena vera, otticamente esatta, condurrebbe a
quell’immagine – distesa ed amplissima – che abbiamo visto nel montaggio della sequenza del Bacino di San Marco.
Canaletto, manipolando e condensando i dati raccolti sopra
un unico piano – il foglio, o la tela –, riesce a suscitare la
percezione di uno spazio che, nella realtà non è assolutamente piatto ma piuttosto, passatemi il termine, cilindrico
o, più esattamente, sferico.
È evidente che Canaletto è giunto a concepire – e gestire
– tale modus operandi facendo tesoro della sua competenza
di scenografo, consapevole soprattutto del fatto che, come
nella scenografia, muovendo le ali (cioè le quinte laterali), è
possibile ottenere una rappresentazione del vero edificio in
modo che esso risulti comunque perfettamente riconoscibile. L’attenzione, nel modificare lo scorcio di una determinata facciata, deve essere rivolta a rispettare le vere relazioni
dell’impaginato prospettico, operazione possibile utilizzando
la cosiddetta regola della diagonale interna.
Eccettuando due brevi sequenze – quella di Campo Santa
Maria Formosa e quella dell’Arsenale, molto ricche ed elaborate (persino con ombreggiature a sanguigna, forse le prime
della serie) Canaletto si limita, in effetti, a raccogliere nel
Quaderno le tracce dell’impaginato prospettico dei singoli
edifici, annota le relazioni dimensionali tra fronti opposti
del canale, evidenzia e descrive la presenza di elementi si174
gnificativi e connotativi posti sullo sfondo della scena, delinea i contorni delle persone e degli oggetti in rapporto all’edificato circostante, ma non si attarda sui dettagli decorativi
o pittorici (con quelle eccezioni di cui si è detto).
Ciò accade, mi piacerebbe riuscire a farvi convinti, perché egli è consapevole del fatto che solo tali dati – veri – risulteranno utili nella fase di composizione prospettica della
veduta, ovvero nella costruzione del palinsesto geometrico
sul quale colore, forma, luce, materia pittorica permetteranno di stordire, immediatamente, l’osservatore: ma tale risultato viene raggiunto proprio perché le relazioni tra gli elementi posti in scena, singolarmente e collettivamente, sono
attentamente e fedelmente rispettate, indipendentemente
dalla loro esattezza topografica.
Nelle immagini che seguono, e che concludono il mio
contributo, ho preso in considerazione proprio la sequenza
del Campo di Santa Maria Formosa, mettendo in relazione
gli scaraboti del Quaderno con le opere finite, ovviamente,
ma anche per accennare a due questioni che potranno essere argomento di una nuova indagine: mi riferisco al rapporto di Canaletto con Luca Carlevarjis – suo predecessore e
forse, almeno all’inizio, mentore – e con Bernardo Bellotto,
nipote nonché competente (ed autorizzato) utilizzatore del
modus operandi dello zio.
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Iniziamo da Carlevarjis. L’incisione ci appare, quasi perfettamente, il ricalco del disegno: quello che emerge è il limite di una rappresentazione, certamente derivata da tracce
ottenute con l’uso della camera ottica, rigorosa dal punto di
vista proiettivo ma che presenta molti elementi aberranti, in
particolare nella rappresentazione degli edifici che delimitano i bordi del campo. Carlevarjis, direbbe A.M. Zanetti, non
sa “…riconoscere i difetti che [la camera ottica] recar suole
ad una pittura”; egli è un “… artefice” che “…interamente
si fida della prospettiva che in essa camera vede” e non sa
“… levar destramente quanto può offendere il senso”, per
cui “Dipinse anche vedute e prospettive; ma il fiorire del
nostro Antonio Canal ne oscurò il merito in parte”.
Vediamo, ora, quale sia la rappresentazione che, dello
stesso luogo, ci offrono Canaletto e Bellotto. Tralasciando
la differenza determinata dalla diversa gamma tonale delle
due composizioni, cifra specifica dei due vedutisti, se non
fossero osservabili contestualmente – entrambi i dipinti
sono presenti in mostra – potremmo facilmente ritenere che
la veduta del nipote sia l’esatta copia dell’opera dello zio.
Ma il dipinto del Duca di Bedford, a Woburn Abbey, era
completato quando Bernardo aveva ancora dodici anni: non
è assolutamente accettabile, dunque, l’ipotesi che si tratti di
copia da copia.
L’unica ragione plausibile della quasi perfetta omologia
tra le due opere deriva, dobbiamo allora ritenere, dalla comune origine di entrambe le vedute: la sequenza di scaraboti raccolta da Canaletto nel suoi fogli rilegati, ora nel
Quaderno.
178
Quando il figlio di Fiorenza Domenica, l’unica sposata
delle tre sorelle, inizia a comporre la sua veduta del Campo
di Santa Maria Formosa Canaletto deve ancora lasciare Venezia per Londra e Bernardo ha già almeno vent’anni (risulta iscritto alla fraglia dei pittori già sedicenne): può contare
ancora, dunque, sulla presenza e l’occhio vigile dello zio Antonio, qualora necessario.
Ho evidenziato solamente alcuni elementi per rappresentare le differenze, e le analogie, tra le due composizioni;
rispetto alle tracce registrate con la camera ottica, visibili
nel Quaderno, Canaletto introduce alcune significative forzature:
• l’asse verticale posto in corrispondenza del centro della
facciata della Chiesa (in colore blu) viene reso quasi coincidente con l’asse (in colore verde) posto in corrispondenza dell’asse della cupola;
• le cornici di gronda dei due edifici che definiscono il
fronte destro della scena (in colore giallo e magenta) che,
nelle tracce, risultavano poste a quota diversa vengono
allineate;
179
• la vera da pozzo al centro del campo (evidenziata in rosso) viene inserita modificando la sua posizione rispetto
alla facciata della Chiesa: nel Quaderno essa appare posta a sinistra della porta d’ingresso, mentre nella veduta
risulta molto più traslata verso sinistra, fino a risultare
centrata rispetto alla partizione definita dalla seconda finestra termale in facciata;
• la cupola stessa (in colore arancio), infine, viene rappresentata con un nuove proporzioni: diversamente da
quanto accade nel Quaderno, ora la larghezza del suo
tamburo quasi coincide con la partizione centrale della facciata, delimitato dalle paraste a doppio ordine che
sorreggono il timpano (probabilmente la sovrapposizione
dei due assi – facciata e cupola, di cui si è detto poco fa
– era la premessa compositiva necessaria per consentire
una maggiore enfasi all’elemento emergente dalla copertura).
Osservando gli stessi elementi nella veduta di Bellotto,
diversamente, nessuna delle licenze, rispetto al Quaderno,
descritte per Canaletto trova spazio. Anzi, la composizione
del nipote ci appare come una trascrizione letterale, quasi
meccanica, delle tracce raccolte un decennio prima dallo zio
nei suoi fogli e quindi l’allievo prediletto si esercita nel procedimento senza dimostrare piena consapevolezza delle potenzialità del processo compositivo. Egli mantiene distinti, come
nel Quaderno, gli assi di facciata e della cupola; gli edifici sul
lato destro del campo replicano esattamente le diverse quote
di gronda; la vera da pozzo è collocata, come nello scaraboto, leggermente a sinistra della porta d’ingresso; la cupola,
infine, viene trascritta rispettando – ancora “alla lettera” –
quando segnato nel Quaderno, ovvero delimitando l’ampiezza del suo tamburo in relazione al timpano di facciata.
180
Ecco la differenza, la cifra che ci permette di distinguere,
almeno in questa occasione, Canaletto da Bellotto. Antonio
Canal raccoglie dati veri con la consapevolezza di doverli
poi elaborare, e modificare, allo scopo di rappresentare in
modo convincente e coinvolgente uno spazio vero – tridimensionale – entro limiti dimensionali ben definiti (e bidimensionali). Ed anche nella griglia compositiva sulla quale,
per brevità, non mi soffermo, potremmo apprezzare importanti accuratezze di derivazione scenografica, che mancano
del tutto in Bellotto: ma mi limito a lasciarvi, per ora, solo
un indizio visivo, senza commento.
L’occasione per ritornare su tale ragionamento potrebbe essere, peraltro, molto vicina, già alla fine dell’estate, in
quanto giusto ieri sarebbe stata confermata la decisione per
realizzare la mostra su “Canaletto e il Quaderno” presso Palazzo Grimani a Venezia, la nuova sede espositiva del Polo
Museale Veneziano: mi auguro, dunque, di avere presto l’opportunità di illustrarvi quei passaggi oggi solo accennati e
le nuove “cose canalettiane” sulle quali sto ragionando. Vi
ringrazio per l’attenzione.
π
181
Un Capriccio del Carlevarijs a Brera
Mariolina Olivari
Pinacoteca di Brera
Una tela di Luca Carlevarijs1 (Fig. 1) che raffigura il Capriccio
con il Ponte Rotto è stata donata alla Pinacoteca di Brera nel
2010 dal professor Giuseppe Scalabrino, neuropatologo e docente all’Università degli Studi di Milano. Con questo dono
fortunato la Pinacoteca arricchisce il suo piccolo ma prezioso nucleo di opere di vedutisti veneziani del XVIII secolo
che comprende due Vedute di Venezia di Canaletto, altre due
di Francesco Guardi e lo straordinario pendant di Bernardo
Bellotto, che nel 1744 immortalava in due celebri capolavori
la Gazzada di Varese.
Si tratta di un nucleo lungamente sognato e inseguito
dai conservatori braidensi, che si è formato man mano tra
il 1831, quando entrarono le due tele di Bellotto, e i primi
trent’anni del Novecento.
La mancanza originaria di opere che rappresentassero
la pittura da stanza del Settecento, capitolo da sempre ritenuto fondamentale della storia della pittura italiana, era
dovuta alla genesi stessa del museo, nato, come è noto, dalle
soppressioni degli ordini religiosi e perciò ai suoi inizi costituito quasi totalmente da dipinti sacri. L’assenza di quadri
profani che illustrassero anche generi diversi della pittura
era una questione che si era aperta quasi immediatamente.
Anche rispetto al ruolo pedagogico al servizio degli allievi
della Accademia questa era sentita come un grave lacuna,
cui si doveva in qualche modo porre rimedio. Mancavano
modelli per la ritrattistica, per la grande pittura di storia e
mitologica, per il paesaggio classico. Nel raccogliere il suo
Gabinetto dei ritratti di pittori, e cercare di farne un nucleo
organico all’interno del giovanissimo museo, già nel 1806
Giuseppe Bossi rivelava di essersi posto il problema, e da
par suo ne tentava una soluzione di doppia valenza, cercando con la sua scelta di rimediare sia alla carenza di ritratti
1 Luca Carlevarijs (Udine 1663-Venezia 1730), Capriccio con il Ponte
Rotto, olio su tela, cm. 85,8 x 130,5. La tela era divenuta proprietà
Scalabrino nel 1993, acquistata dalla Galleria Nuova Arcadia di Padova.
182
Fig. 1 L. Carlevarijs, Capriccio con il ponte rotto
183
Fig. 2 B. Bellotto, La Gazzada di Varese
Fig. 3 B. Bellotto, Villa Melzi alla Gazzada
184
sia a quella di una categoria assolutamente diversa, quella,
fondamentale, degli artisti visti dagli artisti, o, se vogliamo
vederla in chiave preromantica, dell’interpretazione del sé2.
Negli anni successivi gli scambi intrapresi da altri conservatori con antiquari e collezionisti - in verità pochi se
confrontati con altre istituzioni lombarde, come la Carrara
di Bergamo, andarono sorprendentemente controcorrente
rispetto alla politica praticata da altre musei. Furono infatti
sacrificati pezzi talvolta di rara bellezza, come alcune prove di
Crivelli o di Farinati, per assicurarsi prove che potevano sembrare meno rilevanti. I conservatori erano infatti guidati dalla
medesima volontà: rendere le raccolte più organiche, completare utopicamente un panorama antologico delle eccellenze
dell’arte italiana anche nei settori della “pittura minore”, cercare di sopperire almeno in parte alle assenze più gravi.
L’acquisto delle due tele di Bellotto, nel pensiero della
Commissione che lo eseguì nei primi mesi del 1831 (Palagi,
Migliara, Hayez, Mazzola, Sabatelli, Fumagalli e Cattaneo),
doveva in parte sopperire proprio alla assenza di modelli paesistici a disposizione degli allievi e costituiva il primo, fulminante tentativo di portare il paesaggio dentro la scuola,
prima ancora che nel museo. Il nome del Bellotto, in quel
momento storico, non era popolare, né Gazzada, irrilevante
villaggio nelle campagne varesine, offriva scenografie spettacolari o memorie storiche che ne giustificassero un pregio
particolare. Lo spessore culturale della commissione colse
evidentemente lo straordinario e avvolgente impatto emotivo delle vedute, già quasi centenarie e tuttavia di una modernità assoluta. Fig. 2/3
2 Giuseppe Bossi. Il Gabinetto dei ritratti dei pittori (1806), cat. della
mostra, a cura di S. Coppa e M. Olivari, Milano Pinacoteca di Brera, 11
giugno-20 settembre 2009. La mostra è stato il primo, organico tentativo
di far ritornare nelle sale della pinacoteca la collezione di autoritratti
di artisti, dispersa ormai da quasi due secoli. Una prima ricostruzione
parziale era stata tentata nei primi anni Ottanta del Novecento da Carlo
Bertelli, che ne aveva esposto alcuni nel corridoio Sala I.
185
Nel 1855, con il perfezionamento del Legato Oggioni, arrivavano in Pinacoteca le due tele di Guardi raffiguranti Il
Canal Grande con le Fabbriche Nuove di Rialto e Il Canal
Grande verso Rialto con Palazzo Grimani e Palazzo Manin.
Fig. 4/5
Ma, seppur con ragioni del tutto diverse, la coscienza che
a Brera mancassero ancora dei capisaldi fondamentali accompagnava i conservatori della pinacoteca anche nel secolo
successivo, quando ormai la didattica non era più una delle
vocazioni istituzionali primarie della galleria. Era il sorgere
di una critica d’arte pionieristica e illuminata, il rinnovarsi
di una cultura che valutava in modo nuovo il “bello” nel
Seicento e nel Settecento ciò che spingeva a credere che la
povertà di opere che rappresentassero soprattutto la pittura
veneziana del Settecento fosse una carenza grave, che andava sanata.
Con il Novecento si apriva finalmente una stagione densa di successi, dovuta soprattutto a Ettore Modigliani e poi
ad Antonio Morassi. Nel 1904 Rosalba Carriera (ora Marianna Carlevarijs ?) faceva il suo ingresso con un delicato Ritratto Maschile. Fig. 6 Nel 1911 si acquistavano da una collezione fiorentina Il Concertino e Il Cavadenti di Pietro Longhi.
Fig. 7/8 Nel 1913 arrivava dalla collezione Drey di Monaco
Annibale che giura odio ai romani di Giovan Battista Pittoni. Fig. 9 Nel 1916 Emilio Treves legava alla pinacoteca la
Rebecca al pozzo di Piazzetta. Fig. 10 Nel 1927 la famiglia
Chiesa acquistava sul mercato antiquario parigino per donarla a Brera la seconda parte della folgorante Madonna del
Carmelo, san Simone Stock e le anime purganti di Tiepolo,
Fig. 11 sciaguratamente tagliata in due a fine Ottocento e la
cui prima parte era già stata acquisita e donata poi al museo
da Ida Pittaluga Chiesa due anni prima, nel 19253. Nel 1928
3 Brera conserva un dipinto di Giacomo Favretto, dall’inequivocabile
titolo Vandalismo. Poveri antichi, in cui è raffigurato un pittorerestauratore, secondo la tradizione operante a Murano, alle prese con
una delle due parti in cui il telero del Tiepolo, originariamente a Venezia
186
Fig. 4 F. Guardi, Il Canal Grande verso Rialto
Fig. 5 F. Guardi, Veduta del Canal Grande
con le Fabbriche nuove di Rialto
187
sempre dai Chiesa vennero ceduti, a parziale pagamento
della tassa d’esportazione per una opera, i due Canaletto, la
Veduta del bacino di San Marco dalla punta della Dogana
e la Veduta del Canal Grande da Campo San Vio. Fig. 12/13
Nel 1929 arrivava a Brera un piccolissimo capolavoro ancora
di Tiepolo, Le Tentazioni di Sant’Antonio. Fig. 14 Nel 1932
veniva acquistato come Alessandro Longhi il Ritratto di una
giovane cantante Fig. 15 (ora attribuito a Francesco Zugno).
Nelle salette appositamente progettate da Portaluppi
nella Brera ricostruita dopo i bombardamenti della seconda
guerra mondiale, poteva quindi finalmente prendere corpo
l’immagine di un museo al passo con le riscoperte e il gusto della nuova storia dell’arte. Le “salette del Settecento”,
come da allora furono sempre chiamate, costituivano - e
costituiscono ancor oggi - una anomalia non solo rispetto
all’immagine del museo codificata nel corso della storia precedente, ma perfino rispetto a quella della pinacoteca portaluppiana che veniva inaugurata nel 1950. Fig. 16 Erano infatti
le uniche dove fosse prevista la presenza di qualche elemento
nella chiesa di sant’Aponal, era stato tagliato. Evidentemente l’iniziativa
doveva aver suscitato un certo clamore anche nello spregiudicato mercato
antiquario internazionale di fine Ottocento. I doni della famiglia Chiesa
alla Pinacoteca furono all’epoca abilmente pilotati da Ettore Modigliani
e da Antonio Morassi. Merita di essere ricordato che erano scaturiti
da una storia romanzesca, che aveva coinvolto un figlio della famiglia
Chiesa, Achillito, in un collezionismo bulimico e ossessivo che lo aveva
portato alla rovina e alla interdizione per gli enormi debiti contratti e gli
imbrogli subiti. La collezione, sottoposta al vaglio della Soprintendenza e
giudicata da Modigliani quasi tutta irrilevante, fu venduta a New York nel
1926. Ma la vicenda doveva proseguire con toni ancora più intricati negli
anni immediatamente seguenti. I Canaletto, venduti nel 1928 da Sir C.H.
Seely furono acquistati da un intermediario e poi da Chiesa e ceduti allo
Stato, ma una lettera anonima denunciò nei passaggi degli interessi sia di
Pelliccioli che di Modigliani, poi ampiamente scagionato.
Di fatto i Canaletto arrivarono come pagamento parziale della tassa
d’esportazione che Achillito Chiesa doveva versare per una contestatissima
tavola attribuita ad Antonello da Messina, ora al Museu d’Art de Catalunya
come anonimo della cerchia di Bartolomeo degli Erri (M. Cresseri, Per
Brera.Collezionisti e doni alla Pinacoteca dal 1882 al 2000, a cura di M.
Ceriana e C. Quattrini, Firenze 2004, p. 126), opera pure coinvolta in una
polemica accesissima perché giudicata malattribuita o addirittura falsa.
188
di arredo, a simulare se non proprio un cabinet collezionistico di quadri da stanza, almeno un salottino vagamente rococò. La forma ellittica, le pareti ad angoli smussati e
arrotondati, le colonnine e la profusione di marmi preziosi
nei toni pastello dinamizzavano uno spazio fino ad allora
anonimamente quadrangolare e lo dividevano in due ambienti gemelli che si affrontano evocando le simmetrie tanto
care al collezionismo settecentesco. Il concetto di tentare
di ricreare sinteticamente un ambiente che evocasse quello originario delle opere, comunque, era già stato avanzato
da Portaluppi nel suo primo intervento braidense. Nel 1923
per Lo sposalizio della Vergine di Raffaello l’architetto aveva
Fig. 6 R. Carriera (Marianna Carlevarijs ?),
Ritratto maschile
189
Fig. 7 P. Longhi, Il Concertino
Fig. 8 P. Longhi, Il Cavadenti
190
infatti proposto e realizzato un nicchione foderato da una
boiserie in noce4. Fig. 17
Ancora oggi le salette ospitano da una parte i pittori veneti del Settecento, dall’altra quelli lombardi. Due mondi a
confronto, due dimensioni del sentire diverse, due modi di
vivere il proprio tempo apparentemente antitetici. Concreto
e velatamente indignato (come sempre), quello lombardo ci
trapassa con ritratti che sono capolavori di psicologia, con
poveri che sono metafore dell’intero genere umano, con nature morte essenziali. Sfaccettato e lieve quello veneto guarda la sua città-stato e i suoi ormai piccoli riti con ironia, con
consapevolezza, con pessimista e orgogliosa inquietudine.
Eppure l’“antigrazioso” Magnasco e il destrutturato
Guardi attingono la loro unicità da un comun denominatore, la malinconia. Dalla malinconia non è certo immune il
lombardo Ceruti, con le sue pagnotte storte e poverette, né lo
è, all’opposto, l’immota Venezia di Canaletto. Ma è Bellotto,
il secondo “Canaletto”, che ci dimostra come un vedutista
veneziano di passaggio in Lombardia possa immediatamente farsi lombardo e creare misteriosamente i prototipi inarrivabili del “paesaggio della realtà” che daranno frutti solo
un secolo dopo e dare una lezione di moralità tratta dall’osservazione di un “vero” diverso.
È dunque a questo nucleo storico, una serie formidabile
dovuta, ripeto, solo all’intelligenza dei nostri antichi conservatori, ma che purtroppo è sempre ignorato dalla storiografia braidense degli ultimi cinquanta anni, che dopo quasi
ottant’anni si aggiunge finalmente un tassello importante
come il Capriccio di Carlevarijs, maestro assente finora non
solo da Brera, ma da tutti i principali musei milanesi.
4 Archivo SBSAE, Milano, Archivo Vecchio.
191
Fig. 9 G.B. Pittoni, Annibale che giura odio ai Romani
Fig. 10 G.B. Piazzetta, Rebecca e Eleazaro al pozzo
Fig. 11 G.B. Tiepolo, Madonna del Carmelo, san Simone Stock
e le anime purganti
192
Il grande spazio che è conferito alla raffigurazione del
ponte, una buona metà - o forse più - della composizione,
sembra confermare l’idea di Corboz che vede il capriccio
come una questione di interpretazione, più che come una
categoria. Secondo Corboz, infatti, il capriccio in quanto
genere non fu, nelle intenzioni, un’“antiveduta”, come per
molto tempo lo si è considerato, ma piuttosto il risultato “di
un rapporto particolare del pittore con i suoi procedimenti di
scelta, ritagli e montaggio”5:
Tuttavia Carlevarijs è ancora lontano dal capriccio come
poi lo concepiranno un Ricci o, ancora di più, un Guardi. È
una questione che con termine moderno potremmo definire
“generazionale”. Carlevarijs è un iniziatore, e come tale ha
ancora sul banco di prova il problema generale della scelta,
della selezione e della impostazione degli elementi costitutivi dell’immagine. Le sue necessità sono quelle di costruire
un proscenio che abbia tutte quelle caratteristiche, e comprenda tutti quei fattori, che nell’estetica vigente sono giudicati imprescindibili per il raggiungimento di una naturalità
“bella” e ospitale: l’acqua, la vegetazione, la varietà delle
forme (piani, livelli, compresenze), la profondità, la classicità, l’umanità. Tutto rimanda a dimensioni più sfuggenti ma
capitali: il tempo, lo spazio, il rapporto uomo-natura, la consapevolezza della storia e della sua dignità. Queste immagini
dovevano fugare l’idea del pericolo o del rischio insito nella
natura, concetto invece caro al Seicento e alla categoria del
“pittoresco”. Per questo erbe e alberi, ovvero la selvatichezza
della natura che tenta di impadronirsi nuovamente dei segni dell’uomo, non devono mai prevalere; le macchiette, ad
una ad una osservate e tratte dal vero, sono poi nobilitate e
non hanno alcuna connotazione ironica o sociale come succederà in vedutisti operativi anche pochissimo tempo dopo
5 A. Corboz, Profilo per un’iconografia veneziana”, in “Luca Carlevarijs
e la veduta veneziana del Settecento”, a cura di I. Reale e D. Succi, cat.
della mostra, Padova, Palazzo della Ragione, 25 settembre – 26 dicembre
1994, Milano 1994, p. 31.
193
Carlevarijs; il cielo si apre ricco di luci rosate dietro la scena, ma non disegna ombre che non siano quelle puramente
convenzionali dettate dal chiaroscuro scolastico, né satura
tutto di aria e di abbagliante sole come avviene nei due Canaletto. Il ruolo di Carlevarijs, insomma, è ancora quello di
artefice di archetipi che poi altri potranno superare. Questo
Capriccio col Ponte Rotto è quindi un teatro, o meglio una
scena di teatro, costruita per ottenere e perseguire la piacevolezza agli occhi dell’osservatore. Cani, popolani, viandanti, si aggiungono alla scenografia della veduta denunciando
di essere ancora frutto del meccanismo canonico che vede
le macchiette nascere solo alla fine, come piccolissimi attori
posti su un palcoscenico già precedentemente finito. Ma la
raffigurazione dei traghettatori indaffarati a trasportare da
una riva all’altra contadini, cavalli e cavalieri, è un valore
aggiunto di considerevole rilievo, dato che solo raramente
capita di vedere i capricci entrare in una dimensione descrittiva così vicina alla cronaca realistica.
Il Ponte Rotto era in realtà un antico ponte romano, il
Ponte Emilio. Costruito nel 193 avanti Cristo a valle dell’Isola Tiberina per affiancare il Ponte Sublicio, sul quale i carri
non potevano passare, ebbe da subito una storia tormentata.
La sua posizione, in un punto in cui le correnti del Tevere sono particolarmente forti, lo portò a rovinare per ben
quattro volte. Dopo la difficile costruzione, durata trentasette anni, il ponte subì un primo rifacimento nel 12 avanti
Cristo, all’epoca di Augusto. Nel 1230 cadde in seguito ad
una inondazione e fu fatto ricostruire da Papa Gregorio IX.
Dopo varie altre ristrutturazioni, Paolo III, a metà Cinquecento, incaricò dei lavori di ricostruzione Michelangelo, che
però non li portò mai a termine. Proseguì quindi un altro
architetto, Giovanni Lippi, che li concluse nel 1552. Dopo
soli cinque anni una violenta inondazione lo fece nuovamente crollare. Per iniziativa di papa Gregorio XIII, dal 1573
al 1575 il ponte venne ricostruito un ultima volta dall’architetto Mastro Matteo di Città di Castello. Ventitre anni dopo,
194
Fig. 12 Canaletto, Veduta del bacino di San Marco
dalla punta della Dogana
Fig. 13 Canaletto, Veduta del Canal Grande
verso la punta della Dogana
195
Fig. 14 G.B. Tiepolo, Tentazioni di Sant’Antonio
Fig. 15 A. Longhi (F. Zugno ?), Ritratto di un giovane cantante
196
nella notte di Natale del 1598, Roma fu colpita dalla più
grave inondazione del Tevere che si ricordi. Il ponte rovinò
definitivamente e da quel momento le tre arcate rimaste in
piedi (due delle quali poi abbattute nell’Ottocento) vennero
lasciate a stato di rovina, assumendo la denominazione di
Ponte Rotto.
Nel 1665 il vercellese Giovan Battista Falda inseriva il
Ponte Rotto nelle sua raccolta di incisioni intitolata Vedute delle fabbriche, Piazze, et Strade fatte fare nuovam.te in
Roma dalla S.tà di N.S. Alessandro VII. Successivamente Gaspar van Wittel lo ritraeva in una serie di vedute dipinte tra
il 1681 e il 1685, ma tutti i paesaggisti e vedutisti nordici
presenti a Roma mostrano di prediligerlo come protagonista
di vedute dove la forza evocativa del paesaggio romano si
incontra con esigenze di scenografie monumentali. La sua
stessa storia, le vicissitudini che ne contraddistinsero la vita
illustre e travagliata, gli intrecci delle sue ripetute resurrezioni lo ponevano alla immaginazione degli artisti come una
delle antichità romane più cariche di suggestioni.
Non poteva dunque esserci scelta più significativa, da
parte di Carlevarijs, che ci indicasse con chiarezza quali siano i legami di continuità tra il vedutismo romano e quello
veneziano e quali i debiti e le eredità personali tratte da van
Wittel da parte del maestro udinese.
197
La raffigurazione di questa celebre rovina romana all’interno di un “capriccio”, impaginato nel più classico degli
schemi, dimostra infatti in modo quasi paradigmatico quanto le prove dell’artista di Amersfoort siano state riferimento
fondamentale per il friulano. Van Wittel si era “italianizzato”, stabilendosi a Roma, a partire dai vent’anni, ma arrivò a Venezia nel 1697, quando Carlevarijs di anni ne aveva
trentaquattro. Ma già il maestro di Carlevarijs, Johan Anton
Eismann, si era cimentato proprio con le raffigurazioni di
“capricci” caratterizzati da antichi monumenti romani collocati ai bordi di specchi d’acqua, per lo più porti di mare.
Dunque il genere era già quello cui Carlevarijs era avvezzo.
Ma le suggestioni di van Wittel lo portano ad aprire ed ampliare le immagini e nel contempo ad osservare con maggiore spirito di fedeltà al vero. Resta da vedere se Carlevarijs
può aver dipinto questa e le altre sue vedute con rovine romane semplicemente traendole da un collega o se non possano davvero essere il frutto di un pur breve viaggio a Roma,
come riferiva Moschini all’aprirsi dell’Ottocento e come era
d’altronde normale nel curriculum di tutti i paesisti di qualche rilievo. Il Ponte Rotto fu raffigurato da Carlevarijs in
una serie di altre tele note, tra le quali meritano di essere
ricordate la versione conservata a Cà Rezzonico a Venezia,
dove la parte del ponte non più esistente è nascosta da altre
costruzioni e quella conservata nelle Collezioni Reali di Windsor Castle. Rispetto alla versione Scalabrino la più simile
è però la variante della Accademia dei Concordi a Rovigo,
nella quale, sorprendentemente, il ponte termina nell’Arco
di Costantino, come se quest’ultimo ne costituisse la testa.
198
Fig. 16 P. Portaluppi, Saletta del Settecento, Pinacoteca di Brera
Fig. 17 P. Portaluppi, Progetto per l’allestimento dello Sposalizio
della Vergine di Raffaello, 1923
199
Fig. 18/19 L. Carlevarijs, Capriccio con il Ponte Rotto,
particolari.
200
L’identità delle misure avvicina il Capriccio braidense ad
altri due dipinti. Uno è il Porto di mare di Leasinindustria a
Milano, l’altro, con cui condivide l’allaccio evidente con la
romanità, è il Capriccio con porto fluviale, l’Arco di Costantino e Castel Sant’Angelo, presentato contemporaneamente
ma separatamente alla Galleria Nuova Arcadia di Padova
nell’ambito di una esposizione dedicata al pittore friulano
nel 20076. Isabella Reale proponeva che i due, la tela Leasinindustria e Il Capriccio con porto fluviale potessero essere
pendant7. Mi chiedo allora se il capriccio Scalabrino non potesse essere stato, in origine, il terzo di un gruppo di quattro,
pur sapendo che non sempre le misure uguali sono prova
inconfutabile di una uguale provenienza.
Vi sono comunque vari fattori che potrebbe avvallare l’ipotesi, prima delle quali l’ambientazione in ore del giorno
diverse, la cui differenza si coglie perfettamente nel mutato
colore del cielo, nuvoloso, ma pieno e azzurro nel Capriccio
con porto fluviale, rosato di alba o di tramonto nel Capriccio
con il Ponte Rotto. Ma anche l’impostazione spaziale sembra
tener conto di quei rimandi simmetrici e di quelle antitesi
spaziali che erano tanto cari all’estetica settecentesca e che
determinavano la sistemazione dei dipinti a coppie il più
possibile simili per formato o addirittura a coppie gemelle sulle pareti dei cabinet collezionistici e di ogni casa di
buon gusto. Meriterebbe che una volta o l’altra si spendesse
qualche parola su questi criteri estetici, che tanto influirono
anche sulle prime sistemazioni delle istituzioni museali nascenti tra Sette e Ottocento, Brera compresa, Tanto forte era
il vincolo dettato da queste non scritte leggi visive da vincere
su qualsiasi criterio di soggetto, epoca, scuola e perfino, tal6 I. Reale, Luca Carlevarijs, cat. della mostra, Firenze, Palazzo Corsini,
Padova, Galleria Nuova Arcadia, s.d., ( ma 2007) p. 10.
7 I. Reale, Aldo Rizzi, quattro decenni dopo: intuizioni critiche su
Sebastiano Bombelli e Luca Carlevarijs, in “Un’identità: custodi dell’arte
e della memoria. Studi, interpretazioni, testimonianze in ricordo di Aldo
Rizzi”, a cura di G.M.Pilo, L. De Rossi, I.Reale, Arte Documento.Quaderni,
12, 2007, p. 295.
201
volta, sul formato originario delle opere. Non furono pochi
infatti i collezionisti o i conservatori che “adattarono” alcune opere, modificandone misure e formati, per appaiarle
ad altre di diversa origine e creare così forzosamente nuovi
pendant o nuove serie, semplicemente per sistemarle a parete secondo i principi di ordine che il gusto dettava. Fig. 18/22
Il Capriccio con il Ponte Rotto di Carlevarijs ora a Brera è
occupato quasi interamente da rovine. A sinistra, la veduta
“reale” delle arcate superstiti e delle case che fiancheggiano
il fiume si conclude con il campanile di Santa Maria Egiziaca, la chiesa poco lontana. Sulla sponda destra un alto cippo
è sovrastato da un vaso monumentale, mentre un arco e
altre rovine chiudono la scena. La luce proviene da sinistra,
ma illumina quasi esclusivamente quel lato e il fondale in
prospettiva. Il primo piano, dove le macchiette si muovono tra piccole asperità del terreno, erbe e cespugli declinati
nei toni dei bruni, è tenuto in controluce, così come la riva
destra, che affonda i maestosi muri antichi in una densa
penombra, evocatrice di memorie. Solo il centro del dipinto
è tenuto sgombro dallo scorrere del fiume, che dopo il ponte
si allarga addirittura in una ansa azzurrata.
Nel Capriccio con porto fluviale già Nuova Arcadia, invece, il massiccio lato dell’Arco di Costantino, posto sulla sinistra, si pone idealmente in contrapposizione con l’altrettanto importante presenza delle architetture della riva destra
del primo dipinto. Per il resto lascia spazio all’ampia veduta
del fiume e al distendersi del profilo di Castel Sant’Angelo e
della città. In questo modo, le due vedute, poste l’una a fianco dell’altra, perfino se a distanza considerevole, divengono
una il completamento ideale della spazialità dell’altra, come
un grande teatro che si dispiega in grandangolare tra due
quinte terminali.
202
Fig. 20/21 L. Carlevarijs, Capriccio con il Ponte Rotto,
particolari.
203
Il Capriccio con l’Arco di Costantino si qualifica per vari
motivi come una prova nata intorno al 17148. Considerato
che comunque tutte le tele con analogo soggetto vengono
associate dalla critica al secondo decennio del secolo, anche
quella Scalabrino può essere credibilmente collocata in un
arco cronologico simile.
π
8 I. Reale, 2007, p. 295.
204
Fig. 22 L. Carlevarijs, Capriccio con il Ponte Rotto,
particolare.
205
Ringraziamenti
La Fondazione Bracco ringrazia per la
collaborazione tutti i Relatori intervenuti.
Inoltre
Sandrina Bandera, per aver ospitato alla
Pinacoteca di Brera il Seminario di studi
Aldo Bassetti per la valorizzazione del
Seminario con la passione che gli Amici
di Brera pongono nella salvaguardia dello
straordinario patrimonio artistico della
Pinacoteca milanese
I Musei prestatori che hanno reso possibile
la mostra:
Museu Nacional d’Art de Catalunya,
Barcellona
Gemaeldegalerie, Staatliche Museen
zu Berlin, Berlino
Birmingham Museum & Art Gallery,
Birmingham
Museum of Fine Arts, Boston
Bristol’s Museum, Galleries & Archives,
Bristol
Harvard Art Museum / Fogg Art Museum,
Cambridge, Mass.
The Fitzwilliam Musem, Cambridge, UK
Dallas Museum of Art, Dallas
Gemaeldegalerie Alte Meister, Staatliche
Kunstsammlungen, Dresda
Philadelphia Museum of Art, Filadelfia
206
Wadsworth Atheneum Museum of Art,
Hartford, Conn.
Museum of Fine Arts, Houston
Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe
Museu Calouste Gulbenkian, Lisbona
S.M. la Regina Elisabetta II, Londra
The National Gallery, Londra
Sir John Soane’s Museum, Londra
The J.Paul Getty Museum, Los Angeles
Colecion Carmen Thyssen-Bornemisza,
Madrid
Museo Nacional del Prado, Madrid
Museo Thyssen Bornemisza, Madrid
National Gallery of Canada, Ottawa
Institut de France, Parigi
Musée Jacquemart-André, Parigi
Collection of Ann and Gordon Getty,
San Francisco
Museo di Stato dell’Ermitage,
San Pietroburgo
Musei Civici Veneziani, Ca’ Rezzonico,
Venezia
National Gallery of Art, Washington
S.G. il Duca di Bedford, Woburn Abbey
Castle Howard, The Trustees of Kiplin Hall,
Yorkshire
E tutti i prestatori e collezionisti private che
hanno desiderato rimanere anonimi.
Crediti fotografici
The Philbrook Museum of Art, Tulsa – pag. 25
The Royal Collection, Her Majesty Queen Elisabeth II, Londonpagg.25/39
Museo Thyssen Bornemisza, Madrid - pag.27
Museum of Fine Arts, Houston- pagg.28/92
Museum of Fine Arts, Boston- pagg.28/50
Wadsworth Atheneum, Hartford, CT- pag.33
National Gallery of Art, Washington- pag.33
National Gallery of Canada, Ottawa- pagg.34/116
Fogg Art Museum HUAM, Cambridge, Mass. – pag.37
Museo Galileo-IMSS, Firenze - pag. 63
Gemaeldegalerie Alte Meister, Dresden – pagg.65/66
The J.Paul Getty Museum, Los Angeles – pagg.75/108
Royal Collection Windsor Castle - pag.75
The National Gallery of Art, London - pagg.75/100
Fondazione Musei Civici di Venezia, Ca’ Rezzonico – pagg.76/108
The Northon Simon Museum, Pasadena – pagg.90/99
Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma –
pag.90
Cassa di Risparmio di Venezia - pagg.95/98
Kunsthistorisches Museum, Wien – pag.97
Arsenale Editrice, Venezia – pag.101
Kunsthalle Hamburg – pag.103
Fitzwilliam Museum, Cambridge – pagg.107/108
Richard Green Gallery, London – pag.108
Albans Colnaghi Collection, London – pag.108
Museum of Fine Arts, Springfield – pag.125
Pinacoteca di Brera, Milano – pagg.181/202
207
Atti del Seminario “Il vedutismo veneziano:
una nuova visione”
27 maggio 2011
Pinacoteca di Brera, Milano
Progetto editoriale a cura di Fondazione Bracco
Redazione editoriale
Fondazione Bracco
Progetto Grafico
Dario Zannier
© 2011 – Fondazione Bracco
Tutti i diritti riservati
www.fondazionebracco.com
I testi degli interventi sono stati rivisti
ed autorizzati dai Relatori.
Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi
forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione
scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.
Finito di stampare nel mese di gennaio 2012
presso Italgraf, Rubiera (RE)
Printed in Italy
27 maggio 2011
Il vedutismo veneziano:
una nuova visione
A Venezia, dipingi, dipingi!
Ti grida la luce, scambiandoti per un
Canaletto, un Carpaccio, un Guardi
Atti del Seminario
27 maggio 2011
Sala della Passione
Pinacoteca di Brera, Milano
4
www.fondazionebracco.com