Leggi come inizia

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Leggi come inizia
Paolo Ganz
Venice rock n roll
Avventure e vigliaccate
di pirati della Laguna
a Monica, compagna di vita, sogni e pensieri,
perché alla fine accetti di dividermi con Mima,
l’altra femmina della mia vita
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ISBN: 978
978-88
88-95865
95865-32
32-4
In quarta di copertina: il mitico basso dei turchi marca Bigson
(vedi pp. 103-104
103-104).
). Foto di Lorenzo Pelle
«Sono sempre stato convinto che quando uno si mette in testa di attuare un progetto, qualunque esso sia, e
pensa solo a quello, riesce infallibilmente a realizzarlo,
a onta di tutte le difficoltà. Costui diventerà così gran
visir, papa, rovescerà un trono: purché ci si metta da
giovane…»
Giacomo Casanova
Ne avevo sentito parlare: a Conco, in provincia di Vicenza,
c’è una pizzeria da cui dicono si veda Venezia. Finì che una
domenica d’ottobre mi ci portarono. Arredi anni sessanta,
bottiglie di liquore scolorite a forza di stare sulla mensola, qua
e là i soliti tristi residuati bellici che ancora si trovano come
niente nei paesi dell’altopiano dei Sette Comuni.
Due margherite, una diavola, una capricciosa e un litro di
rosso; quando tutti hanno vuotato il piatto e si appoggiano
allo schienale allungando le gambe sotto al tavolo, Cencio
– pizzaiolo, patriarca della famiglia, maestro di cerimonie e
depositario della leggenda – si gratta il pizzetto da professore, si avvicina e spiega. Non è la solita balla confezionata alla
meglio per incuriosire i veneziani in gita, assicura: è proprio
vero e lui l’ha vista sul serio! La prende larga, chi lo conosce
sollecita il racconto, ma Cencio vuole prima dire del pappagallo, el Cocorito,
Cocorito, mitico superstite di una nidiata annientata
col maschio, anche lui vittima della strage, dalla stessa madre.
Con sussiego spiega che il pennuto è sopravvissuto ben tre
anni con la testa girata all’indietro, soffrendo comprensibili
problemi di deambulazione e volo. Poi improvvisamente il
miracolo: la testa torna al suo posto e el Cocorito – il fenomeno – ritorna a volare libero e felice.
Adesso Cencio, mentre qualcuno l’apostrofa oscenamente
da dietro al bancone, con un colpo di teatro passa a raccontare di sé; di quella volta che è caduto nell’orto per allacciarsi una scarpa. Si è perforato addirittura un polmone con la
punta del picco e poi è ruzzolato giù per i gradini di marmo,
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come una trottola. Il figlio cameriere precisa – serio e senza
malizia, come se si trattasse di un particolare irrinunciabile
per la completezza della cronaca (è evidente che recita a copione) – che la testa battendo sul selciato ha prodotto un rumore sordo, come quello di una pigna sul sasso. Poi prende
la parola la moglie “faccia di topo”: sissignore, fu lei a sostituire il marito infortunato al forno delle pizze, perché l’attività doveva continuare a tutti i costi, e qualche giorno dopo,
lottando con la legna che non ne voleva sapere di accendersi,
ebbe la bella pensata di innaffiare tutto di alcol. Fu una bomba che fece crepare la volta del forno! Si ritrovò all’ospedale,
e una volta dimessa continuò a squamarsi come un serpente
per mesi, nell’imbarazzato disgusto degli avventori.
Scende un breve silenzio, ci guardiamo sospesi, forse meditiamo sui destini di questa famiglia di autolesionisti. El Cocorito stride dalla cucina; l’uomo si liscia il pizzetto; è chiaro
che a modo suo cerca il raccoglimento, deve entrare nella
magia del sortilegio che si rinnoverà davanti ai nostri occhi
attraverso le sue parole. Si alza, mi prende per un braccio, si
fa complice e paterno e mi invita a seguirlo sul ballatoio che
dà sulla vallata: sono io quello che non sa
sa,, che non ha mai
assistito al prodigio. Gli altri intanto si danno di gomito. Dal
terrazzino la vista è splendida nel pomeriggio autunnale, solo
una leggera linea di tenue foschia all’orizzonte.
«La
La vèdito chéla colinèta là?»,
là?», fa mostrando un modesto
rilievo a tre, forse quattro chilometri di distanza, ««eco,
eco, vàrda
drìo a chel’àlbaro, el pì alto: chèla zé Mestre!»
Mestre!
Cerco di inquadrare: le macchie scure degli abitati si allineano sulla pianura, una dietro l’altra; spingo lo sguardo laggiù, in fondo, ma la foschia, forse, impedisce la vista. L’amico
incalza e pretende: ««De
De note, col scuro, se vede ’na luce che va
e vién: el zé el semaforo, el semaforo de la tangensial!»
tangensial!
«Che
Che non sia el faro de Muràn?
Muràn?»» Azzardo nel tentativo di
stemperare l’assurdo. «El
«El xe un fià più grando!»
grando!
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Per un attimo le sue certezze sembrano quasi vacillare:
«Mah,
Mah, mi no so…
so…»» Poi si riprende: ««Eco,
Eco, pì zò ghe zé Venessia, la védito? La védito sì o no, ’craménto!»
’craménto!
Annuisco poco convinto, lui incalza: «E
«E chéle robe drite zé
i campanili… No quele a destra: quela la zé Marghera!»
Marghera!
Ma ecco il racconto virare arditamente dal fantasioso al
parossistico: «Chel
«Chel retàngolo, chel retàngolo ciaro là, lo védito che’l se move, che’l che passa in mezo a le case?»
case?» Incalza
poco meno che infastidito dalla mia scarsa capacità di mettere a fuoco. «Quela
«Quela zé la nave de la Costa Crociere»
Crociere sentenzia
impavido ««che
che la parte da Venessia ogni domènega a ’sta ora
qua!»
qua!
Siamo lì sul ballatoio proteso verso la valle a scrutare orizzonti inverosimili e lontani; a una coppietta seduta più in là a
fumare scappa da ridere, forse mi compatiscono. Non hanno
nemmeno voltato lo sguardo a cercare l’impossibile Laguna.
La situazione surreale, la mano che indica, l’esagerato trasporto del mio ospite fanno tornare in mente lontane letture: ecco Giovanni Drogo, tenente di fresca nomina, scrutare
il deserto dei Tartari dalla terrazza sommitale della fortezza
Bastiani guidato dal sergente Tronk, vecchia creatura della
fortezza,, che istruisce e addita quella pianura da cui forse un
fortezza
giorno si farà avanti il nemico…
E la Dominante,
Dominante, Venezia, quella vera, intanto è lì, forse dietro la coltrina di foschia, immobile e apatica, sempre
uguale. E lo sappiamo bene noi – nati con i masègni di trachite d’Istria come palcoscenico e le calli notturne, i muri
sbrecciati dei palazzi e la Laguna a far da quinta – che vederla dal balcone di una pizzeria (o da una presa del Montello
dalle parti di Nervesa della Battaglia) è una cosa, ma viverla
dentro è una faccenda ben diversa. Tipi curiosi noi veneziani,
gente che non semina e non raccoglie, dicevano, convinta di
stare al centro del mondo – e forse ai tempi della Serenissima
lo eravamo davvero; capaci oggi di svernare alle Maldive o in
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Thailandia ma incerti se inoltrarsi o meno nel centro di Treviso o lungo i viali di Padova. Gente che ha ripudiato il proprio
passato di grandi viaggiatori, figli degeneri di Marco Polo.
Veneziani che mi son visto girare attorno sin dall’infanzia,
insomma, e tra i quali sono cresciuto. Personaggi tanto fantasiosi da sembrare inventati, pronti a guardare al ponte della
Libertà come a un’infida corsia che mena non si sa dove.
«Ma
Ma parchè no podèmo sonàr a Venexia, Muràn, Buràn, al
limite Punta Sabiòni? Che spissa ti gà de ’ndar cussì lontàn?»
lontàn?
mi chiese basito un musicista quando lo informai che la nostra prossima destinazione sarebbe stata addirittura Santa
Giustina Bellunese. Meglio restare nella nostra acquerella di
casa. E così la prima storia che voglio raccontare parla proprio di acqua (come si poteva cominciare diversamente?),
quella che a Venezia divide et impera
impera.. Quell’alta marea che
nel più musicale inglese suona
High Water Blues
«Se Little Walter fosse ancora vivo resterebbe sorpreso e divertito nel constatare che in ogni città degli U.S.A. – e non
solo – c’è un bar in cui si esibisce una Blues Band locale capitanata da un tizio con un’armonica che fa del suo meglio per
suonare esattamente come faceva lui» (Tom Ball, Sourcebook
of Little Walter / Big Walter Licks for blues Harmonica
Harmonica)
Quando vent’anni fa in un mio disco parlai di luci notturne,
dello sferragliare di treni e strani fantasmi intravisti laddove
Venezia diventa Mestre, avevo negli occhi l’immagine notturna
del ponte della Libertà, la sua illuminazione riflessa sull’acqua
della Laguna che va alla terraferma, l’odore ferroso di treno
e di giostra che arrivava a lambire i miei balconi nelle notti
di scirocco, vento di terra che traghettava rumori di scambi e
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freni che parlavano di viaggi e di Blues. Il ponte della Libertà
è sempre lì, e da casa si vede infilando lo sguardo nel rio di
Sant’Alvise, e l’occhio voglioso d’andare s’accontentava allora
di quel ritaglio di mondo vicino/lontano, esaltato di poesia
ruspante e ispirata che prepotentemente si stava facendo
strada nel mio cuore. Quel panorama quasi continentale si
gode con miglior libertà di sguardo dall’alto del ponte dei
Tre Archi, e ancor più dall’estremo limite di fondamenta San
Giobbe, dov’era un tempo il macello comunale, e da lì la
vista può spaziare al de là de l’aqua riconoscendo nella notte
i bagliori di San Giuliano, Marghera, Mestre, Campalto e
Tessera. Accanto a quell’estremo trampolino un’osteria d’altri
tempi mi fu palestra di Blues e spettacolo. Oggi è ancora lì, in
un’indolenza ruffiana che fa sembrare tutto uguale a com’era,
e porta ambiguamente persino lo stesso nome d’un tempo,
ma la magia s’è persa e il piatto che ti servono sulla tovaglia
di carta marroncina sa di turista e di ghiacciaia.
La gestivano due sorelle venute dal sud, una svelta e nervosa come un topo, l’altra misteriosa e affascinante, con due
occhi neri come carboni. Servivano fritture e vino bianco e
un giorno, soggiogate dalle avances fameliche di noi musicisti, dischiusero le porte del loro locale al Blues, dando il
via a un’epopea di musica di confine, tra l’ultimo lembo di
Venezia e la terraferma.
Suonare per i veneziani vecchio stampo era ancora un’incerta avventura e una scommessa: troppo rumore, dura fatica
traghettare gli strumenti, fiacco il pubblico, irritanti i vecchi
avventori, decisi a restare incontrastati protagonisti della scena con i loro mezzi litri e le carte bisunte. Eppoi i veneziani
sono diffidenti e intolleranti, e l’intolleranza a là venexiana
non è specifica, diretta insomma verso qualcosa o qualcuno di preciso: è un’intolleranza generica e inesauribile, da
spendere verso il mondo tutto, verso l’universo e oltre
oltre,, come
annunciava Buzz Lightyear prima di spiccare il volo in Toy
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Story. Il veneziano tipo ((quelo
Story.
quelo a la vècia per intenderci) potrebbe diventare facilmente – complice la progressiva minaccia di
estinzione – oggetto di studio o graffiante dileggio soprattutto quando si trova impegnato a lasciare la Laguna e…
Prendete uno di Castello – nessuno s’offenda, uno di Cannaregio fa lo stesso – e mettetelo a 11
11.000
000 metri di quota, su
un aereo che fila a 900 chilometri orari, a 55 gradi sotto zero
(i dati sono quelli di un comune volo per Tenerife) e poi ditemi: cosa sono 11
11.000
000 metri per uno che ha sempre misurato
le distanze in multipli di cento, i cento metri del campanile
di San Marco? Qualcuno poi ancora crede che usando la toilette di bordo i suoi prodotti precipiteranno nel vuoto fino a
piombare in testa al primo malcapitato: così il veneziano di
buon senso si lascia andare a certe operazioni personali solo
quando l’aeromobile sorvola gli oceani. Ricordo con tenerezza le prime sortite austriache di mio padre, a Villac, Klagenfurt e Vienna, da dove tornava carico di praline e biscotti
speciali;; lui che giramondo lo era stato per davvero, dopo il
speciali
pensionamento si era scoperto attratto dalla terra dei nostri
vicini, e di questo si compiaceva. Sul finire dell’esistenza invece, tormentato dall’insonnia, la notte rimaneva a lungo in
cucina da solo, con l’orario ferroviario tra le mani, a ricordare tutti i paesi del Veneto che aveva visto in gioventù, prima
come ciclista dilettante, e poi come partecipante a ruspanti
Casse Peote che immancabilmente si concludevano – dopo
abbondanti libagioni campagnole – con una capatina al casino. Ma il fratello Berto negli anni ’’50
50 seppe fare di meglio:
stanco di ascoltare racconti mitici di viaggi esotici da dietro
il bancone del bar in cui lavorava, una mattina – guardandosi
bene dall’avvertire a casa – prese l’aereo a Tessera e raggiunse Trieste. Da lì (forse non uscì nemmeno dall’aerostazione)
spedì una cartolina su cui scrisse semplicemente Saluti e firmò come di consueto mi
mi.. Poi tornò a casa zitto zitto e sedette
a tavola per il pranzo. Giorni dopo, all’arrivo della cartolina,
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svelò con orgoglio il suo piccolo segreto: primo tra i Ganz
aveva finalmente volato!
Su questo argomento c’è una barzelletta che va raccontata. Un
veneziano sogna di fare un viaggio a Londra per festeggiare
il pensionamento, ma lo preoccupa il fatto di non sapere
l’inglese. L’impiegato dell’agenzia lo rassicura: «Parli sempre
lentamente, scandendo bene le parole: vedrà che tutti la capiranno!» Il neo pensionato parte sereno e, arrivato nella capitale
britannica, si reca al ristorante e mette in pratica quanto gli
era stato suggerito. All’arrivo del cameriere esordisce: ««So’
So’
Ma-rio Vi-a-né-lo da Ca-na-ré-gio, vo-rì-a ma-gnà-r!»
ma-gnà-r!
«E
E mi so To-ni Bu-sé-to da Ca-s-té-lo par ser-vìr-la!
ser-vìr-la!» Risponde compunto il cameriere.
«Ah
Ah ben po’ ciò: an-ca lù ve-ne-siàn, ò-stre-ga!»
ò-stre-ga!
«Pro-prio
Pro-prio cus-sì, ve-ne-siàn a Lon-dra».
Lon-dra».
«El
El me scù-sa»
scù-sa» replica allora il pensionato in gita ««ma
ma se
sé-mo tu-ti do ve-ne-xià-ni, par-chè con-ti-nué-mo a par-làr ingle-se?»
gle-se?
Ecco, basta crederci e ci ritroviamo di nuovo padroni del
mondo!
Tornando alla nostra musica, si cominciò in quell’osteria fuori
mano, come altri sullo striminzito palco del Paradiso Perduto,
che fu tempio odoroso e bohémien del fratello Jazz.
C’era nell’aria il cambiamento d’età: tra noi i più sarebbero rimasti dei semplici dilettanti, presto relegati alle cronache
parrocchiali; pochi avrebbero imposto il proprio nome fuori
della stretta cerchia di amici e conoscenti. Le note della mia
armonica, strappate e ancora malfinite, si stagliavano sincere sul quel microscopico panorama musicale, mentre i pochi
appassionati, entusiasti e benevoli, adattarono la mia figura
a quelle che immaginavano essere le misure regolamentari
dei bluesmen originali che di tanto in tanto facevano capoli11
no dalla terraferma. In parole povere, dal resto del mondo.
Musicisti più esperti e anziani a turno vennero a constatare
di persona se quanto avevano sentito raccontare su quel tizio con l’armonica fosse vero. Stavano in piedi accanto alla
porta oltraggiosamente impassibili, ordinavano un bicchiere, fumavano la loro sigaretta. Io buttavo là un’occhiata e ci
davo dentro davanti alla band. Fu all’indomani di un memorabile concerto all’osteria che comparve sull’antico pilastro
di marmo dell’ingresso un esagerato We love P.G. cui fece
seguito un’altra esaltante scritta tracciata a pennello in campo Sant’Aponal.
Sempre avanti. Tirati su carrettini della spesa, i nostri strumenti arrivavano e venivano piazzati tra i tavoli e il bancone: una batteria ridotta all’osso, la chitarra, il mio minuscolo
amplificatore con dentro il microfono e i cavi attorcigliati, le
armoniche in una scatola di sigari rinforzata e imbottita con
la pelle di un paio di vecchi stivali da donna color bordeaux.
Qualche volta ci aiutava un amico barcaiolo che, seduto sui
gradini della riva con un mezzo litro a portata di mano, del
tutto insensibile alla musica, pazientemente aspettava fumando che il concerto finisse per riportarci alla base. Le sorelle ci mostravano la presa della corrente e preparavano le
fritture; il bianco arrivava in caraffe piene di crepe untuose e
si tracannava da bicchieri che parevano isolatori. Una sera di
novembre ci accorgemmo che il pubblico si accalcava e guadagnava terreno facendo ressa verso noi musicisti. Entusiasmo, ma non solo: una marea improvvisa dalla riva lambiva
ormai la porta dell’osteria, e gli appassionati non volevano
bagnarsi i piedi. Acqua e vino, marea e passione, armonica,
emozione, Venezia e Blues. Ed è dura vivere in una città dove
l’acqua sei ore cresce e sei ore cala!
All’epoca sovente cantavo uno Shuffle di Elmore James
che racconta di una prolissa e pettegola conversazione telefonica il cui ritornello ripeteva ««Talk
Talk to me baby, I got a
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real good feeling, talkin’ to you on the phone!»
phone!» che la band
scandiva con un pianissimo generale. Durante l’inciso il telefono dell’osteria – appeso alla parete di perline dipinte a
olio – prese a trillare sul serio; noi stemmo al gioco ingaggiando una Blues-conversazione con lo sconosciuto e sbalordito interlocutore, tanto che a esibizione conclusa fu più facile mentire ammettendo che era stata una simpatica trovata,
piuttosto che pretendere di far credere che si fosse trattato
soltanto di uno scherzo del caso. Accadde pure che una sera
qualcuno, preso dall’entusiasmo o chissà per quale altra bizzarra ragione, saltò sulla tazza del water facendola esplodere
in mille pezzi. Quella notte, a concerto concluso, le sorelle ci
presero per mano e ci portarono a constatare il disastro: lì nel
cesso, davanti alla tazza in frantumi, decisero che mai più ci
sarebbe stata musica nella loro osteria.
Ma la terraferma all’orizzonte chiamava e favoleggiava di
locali da scoprire e pubblici da conquistare; a Venezia andava bene, però ora si doveva battagliare in campo aperto,
e riuscire ad affrancarsi dal piccolo circuito cittadino voleva
dire esistere. Chi non conosce l’indole dei veneziani crede
bonariamente che la malattia che contagia noi lagunari sia
benigna e presto guaribile, ma così non è, e come si è detto
il ponte che ci unisce e separa dal resto del mondo vale una
condanna, e i cinque chilometri che trasformano la Laguna
in terraferma rappresentano una distanza siderale, colmabile
solo con uno sforzo di volontà deciso e risoluto. Così per
un musicista di Padova è uno scherzo esibirsi a Vicenza, ma
per tanti colleghi veneziani un viaggio in macchina di cento
chilometri lungo l’autostrada può sembrare un’esperienza
avventurosa e insicura, qualcosa da ricordare e ascrivere al
repertorio delle più memorabili mattate.
Io avevo qualcosa da dire, e l’acqua non mi fermò. Abbandonai alla deriva i miei musicisti volonterosi ma indecisi,
e l’illusione d’essere il re del Blues delle Maree. Lasciai al
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passato l’osteria in fondo a fondamenta San Giobbe con in
bocca il gusto agrodolce del vino salato.
Ora mia figlia ha ventidue anni, Nina cinque. È lei che
ha deciso di farmi diventare nonno presto e a tempo pieno.
Quando le vengono i nervi, mia figlia comincia a girare per
casa accusandomi di lasciare i peli della barba sul lavandino o di versare il caffè sul fornello. Allora prendo e vado a
mangiare all’osteria – quell’osteria – con un pacco di libri
sotto al braccio, così mi godo una mezza giornata per me ed
evito di litigare. Trovo la scusa per tornarci, insomma, per un
piatto di pasta, un bicchiere e per intorbidire i ricordi come
l’acqua della vicina barena. Qualche volta, senza che nessuno
mi veda, faccio ciao con la mano dalla parte della terraferma:
magari proprio in quel momento Cencio è lì – sul ballatoio
della sua pizzeria di Conco – che aspetta di veder passare la
Costa Crociere che lascia Venezia.
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Quattro amici, ex musicisti di Castello, decidono di ritrovarsi
per una rimpatriata. Ottenuta l’ospitalità di un ristoratore,
organizzano una cena a base di pesce, musica e ricordi nel suo
locale dalle parti di calle dei Furlani. La serata, salvo qualche
inevitabile stonatura, procede per il meglio ma ad un certo
punto l’inquilino del piano di sopra si affaccia e chiede a gran
voce silenzio; il padrone esce a parlamentare: ««Eh
Eh còssa sarà
mai, par ’na volta! I xe quàtro amìsi che i xe vegnùi a far un fià
de musica! Par ’na sera el podarà ben sopportàr na ’sciànta de
bordélo: el stàga tranquilo che a le ùndese i ghe mòla…»
mòla…
Il concerto così riprende tra il tintinnare delle posate e dei
bicchieri; la gente sorride bonariamente alzando lo sguardo.
«Così è Venezia» concordano tra i tavoli, «in terraferma,
si sa, è tutto diverso!»
L’incidente sembra chiuso ma poco dopo una coppia che
varca la soglia del ristorante per rincasare viene investita a
tradimento da una secchiata d’acqua gelida. L’oste esce e
urla con quanto fiato ha in gola: ««Spéta
Spéta mi, déso ciàmo i carabinieri!»
binieri!
Dopo poco i tutori dell’ordine fanno la loro comparsa
sulla scena nella pacifica notte veneziana; controllano i documenti, verificano i permessi per il concertino e si fanno
convinti che tutto è in regola; allora suonano alla porta del
vicino che, diventato docile, ascolta la ramanzina. Alla fine
l’irruente innaffiatore accetta di scusarsi. L’oste e gli amici
sono soddisfatti: per una volta a Venezia la musica ha vinto
e il concerto non è stato sospeso! I suonatori riprendono in
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mano gli strumenti, ignari dell’imminente incredibile epilogo: l’inquilino del piano di sopra (che fosse un po’ balengo lo
si era sospettato, ma ecco arrivare la conferma definitiva) approfittando del rumore fora col trapano il pavimento in corrispondenza della sala del ristorante. Nessuno si accorge di
nulla fino a che – a trapanazione conclusa – qualche calcinaccio ricade sui tavoli. I presenti non hanno nemmeno il tempo
di riaversi dalla sorpresa che dal foro nel soffitto spunta una
canna di gomma da cui scaturisce qualche istante dopo un
torrente d’acqua che investe avventori, pietanze, musicisti
e strumenti. Qualcuno prontamente stacca la corrente e al
buio tutti sciamano in calle. E da dietro a una coltrina una
voce di vecchia esclama: «El
El gà fato ben, càssa:
...par de ’vérli in casa!
casa!»
C’è uno stretto e indissolubile vincolo che a Venezia lega
acqua e disturbo della pubblica quiete. La storia viene da
lontano e tutti la sanno; sin da bambini partendo per andar
a campanéle,
campanéle, tanto per fare un esempio, si doveva mettere
in preventivo la possibilità di tornare a casa inzuppati dalla
testa ai piedi, bòmbi
bòmbi,, come si dice da noi. La gente disturbata
restava alla finestra con il suo bravo secchio d’acqua sul davanzale e attendeva pazientemente: ««tornarè
tornarè ben a passàr!»
passàr!
E infatti così accadeva (quasi ad assecondare un destino crudele e ineluttabile) e la secchiata punitiva partiva puntuale e
precisa. Da noi – forse a memoria dell’ancestrale legame tra
vita lagunare ed elemento liquido – anche le vecchiette più
decrepite sanno calcolare con precisione degna di uno studio
balistico traiettoria ed effetti del contenuto di un secchio,
riuscendo a valutare l’anticipo con cui lanciare. E ben sanno
inquadrare il bersaglio, tanto da poter scegliere se colpire in
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