URBEX esplorazione in punta di piedi di un genere La ricerca dei
Transcript
URBEX esplorazione in punta di piedi di un genere La ricerca dei
URBEX esplorazione in punta di piedi di un genere La ricerca dei luoghi non è facile: le letture sono poche, esistono dei blog, qualche forum; più che altro si trovano delle fotografie con una didascalia essenziale – fabbrica abbandonata, per esempio – senza troppe indicazioni geografiche. L'esplorazione urbana è un genere fotografico ancora in divenire, sorto abbastanza recentemente, di cui si parla e si vede poco. La ragione è tutta di cuore, gli esploratori urbani tengono moltissimo ai luoghi che visitano e fotografano, hanno un codice di comportamento molto preciso e condiviso da tutti: nessuno di loro tocca o sposta alcunchè all'interno degli edifici abbandonati che visitano, non portano via nulla da lì se non le fotografie e dietro di sé lasciano soltanto le impronte dei propri passi. I luoghi devono rimanere il più possibile intatti, vittime soltanto del passaggio del tempo. Si tratta dunque di edifici abbandonati, lasciati a se stessi, che una comunità di individui, l'uno all'altro per lo più sconosciuti, cerca nuovamente di esperire, benchè ormai non esplichino più da tempo la funzione per cui erano stati concepiti e costruiti. È una comunità silenziosa, invisibile, che si passa informazioni e coordinate per sostenersi a vicenda nella ricerca e nella catalogazione. L'esplorazione, poi, è per contro quasi sempre individuale o condotta al massimo in coppia. Chiese, opifici, ospedali psichiatrici, ma anche ville storiche, grandi alberghi ottocenteschi sono l'oggetto di questo genere fotografico, purchè essi sopravvivano strenuamente ad uno stato di abbandono. In generale ciò che li accomuna, oltre al degrado, è il fatto che questi luoghi abbiano avuto una vita di comunità molto intensa in un'epoca ormai lontana. Essi sono testimoni di una esistenza collettiva fatta di esperienze condivise e di costumi persino scontati. Osservare fotografie che ritraggono quegli edifici abbandonati, lascia una sensazione di ineffabile sgomento. La tecnica fotografica è consolidata: al di là del talento compositivo di ciascun fotografo-esploratore, gli strumenti utilizzati sono una macchina fotografica a pieno formato, un grandangolo luminoso, un cavalletto, lunghe esposizioni, postproduzione limitata ad un lieve trattamento in hdr. Il risultato è incredibile per la luminosità e la quantità di dettagli che restituisce: pare proprio di poter entrare in quella hall, in quella sala operatoria, in quella cripta, le immagini hanno un che di tridimensionale e sicuramente di verosimile. L'osservatore entra dunque nella fotografia, ed entra in uno spazio sospeso. Egli è pervaso da sensazioni contrastanti, stupore e meraviglia, inquietudine e timore; senza soluzione di continuità le emozioni si susseguono, mescolandosi a ricordi di simili avventurose esplorazioni infantili, di colonne sonore, di quadri, di letteratura, di viaggi da adulto; tutto sembra non avere un filo logico, il turbine lo cattura e incolla i suoi occhi alle fotografie al pari di un magnete. La fotografia è il tramite, il filtro tra il qui e ora e quel che è stato per l'edificio ritratto, per quel che vi è successo all'interno e per individuale aggiunge l'osservatore, un dato di la cui vicenda interpretazione personale dell'immagine sempre imponderabile. Si apre un varco temporale, uno stargate delle memorie. Il fotografo e l'osservatore si muovono separatamente ma in parallelo, si trovano in luoghi diversi e in un tempo diverso, ma sono accomunati dalla medesima inquietudine la cui origine si può individuare nella violenta contrapposizione tra la storia dell'edificio – qualunque essa sia – e l'inesorabile degrado cui esso è sottoposto. I due sono in fondo la medesima persona, nella misura in cui entrambi sono parte della medesima vicenda umana. Il fotografo ha in più il vantaggio di essere fisicamente in quei luoghi e di utilizzare uno strumento meccanico per trasformare in immagini le emozioni. La sua attrezzatura è limitata al minimo, poiché le spedizioni sono spesso pericolose e la necessità di scappare frequente. Ma se non sussistono pericoli di sorta, il tempo trascorso in esplorazione si dilata moltissimo. E non perchè siano scattate numerose e troppe fotografie, ma perchè l'esploratore si muove con cautela non solo nello spazio ma anche nel groviglio dei ricordi e delle sensazioni che egli prova, individuali e personali, imponderabili a priori, per ciò senza tempo. Ogni fotografia richiede un tempo di digestione, per comprendere cosa uno scorcio trasmetta al fotografo e come esso possa essere riportato sul sensore dell'apparecchio fotografico. Egli osserva i luoghi, ne è mistericamente affascinato, decide di impressionare il sensore o la pellicola, lavora di nuovo un poco sulla fotografia e la mostra; l'osservatore guarda l'immagine ed entra in quel dalle luogo ritratto medesime declinate anche ed sensazioni nel suo è inspiegabilmente di fascinazione, caso secondo la pervaso tuttavia propria esperienza personale. Eppure..., eppure entrambi hanno visitato più di una volta siti archeologici storici, grandiosi monumenti in rovina che però non hanno dato loro la medesima sensazione di disagio. Un edificio abbandonato è e resta semplicemente un edificio abbandonato, senza traccia di grandezza alcuna, niente di storico si celebra all'interno dei suoi … resti. Esso conserva le tracce visibili del semplice passaggio umano, della vita e della quotidianità degli individui che lo hanno vissuto, lasciandone immaginare o ricordare le vite, tuttavia improvvisamente interrotte. Lasciate a metà. Osservare una sala da ballo il cui plafone è sventrato da un albero ma che conserva nella medesima posizione le sedie, gli armadi, i piatti, benchè coperti da centimentri di polvere, ci riporta all'idea di caducità, di ordinarietà delle nostre esistenze. Anche se il cammino verso il degrado è stato più graduale che improvviso, quella fotografia sembra congelare l'istante preciso in cui la vita si è interrotta ed il fotografo è il tramite, il soggetto che concretamente supera il confine, non soltanto delle proprietà private, violate da queste silenziose esplorazioni, ma anche della pau- ra. La paura di avvicinarsi molto a qualcosa di misterioso e sconosciuto, spinto anche dall'adrenalina dell'avventura e della scoperta. Ecco cosa cattura l'attenzione, e del fotografo e dell'osservatore, la magnetica paura di avvicinarsi pericolosamente alla nostra fragilità. Gli edifici sono gli scenari del nostro quotidiano, le solide quinte in cui si svolge la nostra vita: privi di scene, siamo esposti a tutto, siamo noi soltanto. L'emozione per le rovine del nostro tempo ci ricorda che siamo stati parte di qualcosa. Ritrarre quelle rovine ci ricorda che lo siamo ancora, in qualcosa di diverso e in qualche altro luogo certamente, ma lo siamo ancora. Fissare in un'immagine sale con affreschi spelacchiati, poltrone sdrucite, antichi mobili tarlati che restano tenacemente lì, dove erano stati messi il primo giorno, ci rende il senso del tempo che muta, un tempo magari ordinario, di tutti, ma ormai restituito di dignità. Imbalsamare l'istante del decadimento, conservarlo nella formalina di una foto torna a ricordarci come siamo stati e riesce a farci esorcizzare quella paura ancestrale. Ed eccone la bellezza.