Europa. Check-up dopo 50 anni
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Europa. Check-up dopo 50 anni
Avvenire, 18 marzo 2007 Europa. Check-up dopo 50 anni Ernst Wolfgang Böckenförde Può l’Europa continuare sulla strada finora percorsa? Io temo di no. Se tutto non ci inganna, puntare sull'approccio dell’economia di mercato come veicolo e motore dell’integrazione non rende l'Europa ancora più unita, bensì la disunisce e la porta in un vicolo cieco. Oltre a ciò, esiste un accalcarsi di concetti differenti circa la finalità dell’integrazione europea, che puntano in direzioni diverse. L’Europa come ordinamento di pace, l’integrazione come parola fine messa ai conflitti nazionalistici; l’istituzione di un ordinamento liberale del mercato con libera concorrenza come fonte di benessere, un mercato interno funzionante e aperto at commercio mondiale come fine a se stesso; l’equiparazione delle effettive condizioni di vita come forma di politica di sviluppo interna all'Europa e di ridistribuzione con esclusione verso l’esterno, per conservare la relativa omogeneità degli Stati industrializzati dell’Europa occidentale; l’Europa come concorrente efficiente nella gara globale per il primato tecnologico, e quindi una politica industriale mirata e una concentrazione delle forze nella concorrenza verso l’esterno; l’Europa come potenza mondiale sulla base detta sua potenza economica unificata, che serve da substrato ad azioni globali con l’intento di strutturazione politica. Questi concetti stanno fianco a fianco e si compenetrano. Quanto alla loro realizzazione, domina un pragmatismo senza meta, che cerca di portare un poco avanti ora questo ora quello, a seconda delle opportunità e della costellazione di influsso e di potere esistente, ma torna a fermarsi non appena si levano delle resistenze. Su questo punto l'Europa minaccia, ad onta di tutti i proclami in contrario, di avviarsi a uno spaccamento più che a una unione. Ciò di cui l’Europa ha urgente bisogno, e già da parecchio tempo, è un dibattito politico sulla finalità dell'unificazione europea. Perché proprio l’Europa, per quale traguardo dove va l'Europa, e su quale base? La sfida dell’allargamento a Oriente rende del tutto inevitabile questo dibattito. Se l'Europa non vuole arenarsi, non deve più apparire come un costrutto tecnico-pragmatico di razionalità economica; deve comunicarsi come idea di ordinamento e venire ancorata in una chiara volontà politica dei popoli non meno che dei singoli. L’Europa ha bisogno di chiarezza su se stessa, sui fini dell'integrazione, sul livello di integrazione nelle sue diverse regioni e sull’immagine spaziale che la sua unificazione è intesa ad assumere. Quale direzione potrebbe e dovrebbe prendere questo dibattito? Se l’Europa è una comunanza di valori di civiltà, secondo la recente formula di Vàctav Havel, nella quale rientrano la libertà individuale, la democrazia, lo Stato di diritto e la società civile, ne consegue allora che [a «casa europea» può e deve essere costruita non già prescindendo da essi o distorcendoti, bensì soltanto sulla loro base, e che in una comune politica europea ci si batta altresì e si assuma la responsabilità per questi «valori». Una capitolazione, come quella dell'Ue nella sua politica o non-politica nei confronti dell'ex Jugoslavia, non deve ripetersi, se non si vuole che l’idea di Europa perda definitivamente ogni credito tra i popoli europei. E se le nazioni d'Europa dureranno ancora a lungo, anche nella loro forma e organizzazione politica, ma spogliate della pretesa di risolvere sovranamente e da sole tutti i problemi dell’economia e della sicurezza, allora il loro raccogliersi in una unione politica deve assumere il carattere di una forma e unità sovrastanti le loro peculiarità, non assorbirle o farle economicamente svanire. Vi sono bastanti ragioni per prendere realmente sul serio il monito lanciato poco prima di morire da Jean Monnet, il padre del piano Schuman e dell’Unione mineraria: «se dovessi rifare tutto quanto, comincerei dalla cultura». Le priorità e il metodo per l'ulteriore unificazione dell'Europa vanno perciò sottoposte a nuova riflessione e decisione. Ciò in verità rientra nella logica dell'integrazione economico-funzionale. Se tate concetto venne attivato per raggiungere un fine politico, ossia rendere impossibili futuri conflitti armati in Europa, mediante l’intreccio economico, è più che logico, ora che questo obiettivo è stato pienamente raggiunto, meditare sul carattere mediato di questo concetto. Esso non può, senza suscitare domande, diventare fine a se stesso, con la conseguenza di scatenare il capitalismo su vasta scala in Europa. Che aspetto potrebbero avere queste nuove priorità? Consentitemi una visione dell'Europa. È suo compito trasferire il centro di gravità per (ulteriore integrazione - specialmente dato l’attuale livello dell’economia, che non andrà intaccato - nel campo dell’educazione e detta cultura. Non per creare un uniforme paesaggio culturale europeo, bensì per evolvere e far crescere una comune coscienza europea proprio nella molteplicità culturale che contraddistingue i popoli europei, e per conservare in vita e trasmettere la base culturale-spirituale dell'Europa. Qui sarebbe anche da chiedersi in che cosa consista questa base culturale-spirituale e quale sia la sua portata. Certo vi rientra la religione cristiana e una cultura che ne ha ricevuto l’impronta - anche se oggi laicizzata -, ma anche il razionalismo, l'illuminismo e le forme della società civile. Essa perciò abbraccia solo l’«Europa Latina», oppure include anche terre e mentalità che non sono state segnate da una lotta delle investiture, dalla sepa- razione fra Stato e Chiesa, né da una Riforma, dal razionalismo e dall'illuminismo è dall’idea di diritto, di libertà e di politica che da quelli è stata generata? Dovrebbe aggiungersi una comunitarizzazione detta politica estera e di difesa, come pure della politica di sicurezza interna, congiunta alla garanzia dei diritti umani prescritta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A questo scopo andrebbero create forme istituzionali e un quadro organizzativo che vadano al di là della cooperazione dell’attuale seconda colonna dell'Ue (art. J del Trattato dell’Ue). Una tale integrazione potrebbe anche alleggerire il compito di protezione mondiale degli Stati Uniti (senza distaccarsene). Un simile tipo di comunanza e comunità europea troverebbe segno e riconoscimento anche tra i popoli e gli individui d'Europa, che riconoscerebbero nell’Europa anche il loro contributo. Ma questa rimane una visione. Non si vede da dove possa venire la pressione, la costrizione ad agire, per produrre una «spinta» come lo fu a suo tempo l’istituzione dell’Unione mineraria. Comunque bisognerà presto decidere se l’Europa incarni ancora la forza di un'idea politica, oppure se la costruzione europea sia fondamentalmente vuota, e si occupi soltanto egoisticamente della correttezza fiscale e del profitto economico. Antonio Airò Un po’ aquila e un po’ cavallo. Ma intanto vola La stupenda cornice del Campidoglio a Roma, il 25 marzo di cinquant’anni fa, rappresentò lo sfondo per la firma dei Trattati che diedero vita alla Comunità Economica Europea e all'Euratom da parte di Germania, Francia, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo. IL sogno antico di unificare il Vecchio Continente - basti pensare alla "Giovane Europa" fondata da Mazzini nel 1834 - diventava una grande realtà. Economica soprattutto, fondata sul libero mercato di merci, capitali e persone, ma anche, nella prospettiva dei Paesi fondatori, politica e istituzionale. Una realtà parziale, non priva di ambizioni e di resistenze. Nel 1954 il veto della Francia aveva bloccato la nascita della Comunità Europea di Difesa, che Alcide De Gasperi voleva non fosse solo una riorganizzazione sovranazionale di tipo militare. Inoltre lo scenario internazionale con La Guerra fredda che contrapponeva le democrazie occidentali al blocco dominato dall’Urss, tagliava fuori la parte di Europa centro orientale che faceva capo a Mosca. Quel respiro «a due polmoni», che Giovanni Paolo II avrebbe auspicato con forza, era ancora un inimmaginabile utopia. Anche nel nostro Paese, i Trattati di Roma incontrarono, al momento della loro ratifica in Parlamento, il voto contrario del Partito Comunista di Togliatti (mentre le valutazioni dei socialisti di Nenni furono più articolate e si tradussero nella scelta dell’astensione. Come ha ricordato Giorgio Napotitano, «quel voto fu ancora intriso di pregiudiziali ideologiche, che conducevano a previsioni catastrofiche sul fatale dominio, in seno alla nascente comunità europea, delle forze monopolistiche e su un impatto devastante del processo di integrazione per parti fondamentali dell’economia e della società italiana». Con i trattati di Roma, prendeva il via il processo di Unione europea che, sia pure a zig zag, vede ora l’adesione di 27 Stati. Con le firme del 25 marzo i sei Paesi fondatori, divisi storicamente, si mettevano alle spalle cinquant’anni e più di guerre, di orrori infiniti, di devastazioni di territori con milioni di vittime civili, di nazionalismi totalitari ed esasperati per guardare ad una Europa «unita e Libera», come si esprimeva nel 1941, dal confino di Ventotene, il Manifesto di Attiero Spinelli e Ernesto Rossi. Negli Stati Uniti, dove si era rifugiato, fu Jean Monnet a perseguire il sogno di un modello funzionale europeo con l’introduzione di elementi di sovranazionalità in singoli settori produttivi che ` avrebbero trovato nel 1951 concreta attuazione con la Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio. Ma saranno tre grandi Leader democristiani, Konrad Adenauer, Robert Schuman e Alcide De Gasperi a dare, con grande realismo, una dimensione più politica al progetto europeo. Nel 1955, a Messina, sotto la presidenza del ministro degli Esteri, Gaetano Martino, una conferenza dei 6 Paesi, all’indomani del fallimento della Comunità europea di Difesa, decideva di avviare una più ampia intesa doganale ed economica. Un diplomatico inglese presente a quella riunione aveva osservato, guardando soprattutto alla situazione del suo Paese: «Non ne verrà fuori nulla. E se venisse fuori qualcosa, non sarebbe nulla di buono». La firma dei Trattati di Roma smentiva questa previsione. Al Mercato Comune e all’Euratom fecero seguito l’insediamento a Bruxelles con il gennaio 1958 della Commissione. Cui - seguirà nell'ottobre la costituzione in Lussemburgo della Corte europea di giustizia. Ma i Trattati indicarono tra gli obiettivi anche le elezioni dirette del Parlamento, l’introduzione della moneta unica e in prospettiva La Costituzione europea. Dopo il crollo del comunismo si è avviato il processo di allargamento dell’Unione ai Paesi dell’Europa centro-orientale, mentre intanto nuovi partner, a cominciare dalla Gran Bretagna, si erano aggiunti ai Paesi fondatori. La strada per passare da una Unione tenuta insieme dall’economia, l'Europa dei mercati e dei mercanti, all’Unione politica istituzione vera e propria non si presenterà facile. La bocciatura del trattato costituzionale da parte degli elettori francesi e olandesi, Le riserve e anche le opposizioni che emergono in altri Stati indicano che il processo può essere rallentato, per qualche tempo anche arrestato, ma non può essere cancellato. Cinquant’anni fa, come ha rilevato Giuliano Amato, i Trattati hanno dato vita ad un'Eu- ropa simile al mitico «è un po' aquila, è un po' cavallo, ma intanto vola, anche se non sempre alto». La cerimonia celebrativa del 25 marzo, di nuovo in Campidoglio, dovrebbe confermare che il volo non si è concluso. Anzi.