sodalizio siculo savonese

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sodalizio siculo savonese
2016 numero 5 – Giugno
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Picciotti carissimi,vasamu li mani.
Uno dei più interessanti e intraprendenti “reporter”
del Settecento è stato Jean Hoüel che visitò ed
immortalò, con la sua arte, la nostra isola.
Leonardo Sciascia a proposito degli artisti che hanno
visitato la Sicilia, cita Jean-Pierre Louis Laurent
Houël (1735 –1813) incisore, pittore e architetto
francese, nonché uno dei più famosi viaggiatori.
Passano pochi giorni dalla lettura sciasciana e l’amico
Carmelo Spampinato, ormai ufficialmente nominato
fornitore di testi Siciliani, mi presenta di Houel
Viaggio a Catania.
C’è stato un tempo in cui le immagini e le visioni del
mondo erano “affidate” agli occhi ed alle sensazioni
di viaggiatori ed esploratori che, con tanti sacrifici e
peripezie, affrontavano viaggi avventurosi in giro per
il mondo, per il gusto di vedere e scoprire luoghi
sconosciuti.
Nell’Europa del ‘700 era diventata una “moda”
diffusa, per studiosi, artisti, diplomatici ed antiquari,
per “curiosità culturale”, organizzare viaggi che li
portava a visitare regioni poco note e terre lontane dai
consueti circuiti turistici dell’epoca, per ricercare in
esse le origini della natura e dell’arte.
In particolare, nella seconda metà del XVIII sec., in
pieno illuminismo e in contrapposizione alla
sontuosità espressa dallo stile barocco, le mete
preferite erano le vestigia dell’arte greco – romana.
La Magna Grecia e, soprattutto, la Sicilia (Atene è
prigioniera dei Turchi e, quindi, troppo pericoloso per
i viaggiatori) diventarono i luoghi del mito dove era
anche possibile osservare piante rare o sconosciute,
quali l’albero della manna, il banano, la canna da
zucchero, ma anche fenomeni naturali come i vulcani.
Il settecento, quindi, è il secolo di tanti avventurieri,
di uomini quasi sconosciuti in “casa propria”, ma che
hanno fatto fama e fortuna nelle terre visitate e
“scoperte” dai loro occhi e dai loro pennelli.
Gli antesignani dei moderni foto-reporter che, come
una sorta di viaggio nel tempo, ci consentono di
ammirare la nostra isola così com’era nel ‘700, dal
punto di vista storico – antropologico, paesaggistico e
culturale.
L'Etna visto dal piano di Porta Aci a Catania
.
Per Jean Hoüel, insieme ad un viaggio ignoto ed
affascinante, l’esigenza di esplorare e documentare
la Sicilia per realizzare incisioni e disegni non fu
casuale.
Nel 1769, Hoüel, al seguito del cavaliere
d’Havrincourt, compie il suo primo viaggio in
Italia, fa una breve sosta in Svizzera, a Ferney, dove
conosce e dipinge Voltaire, giunge a Roma, dove
viene accolto all’Accademia di Francia, e, infine,
visita Napoli.
Attratto dalla luce del sud, l’anno successivo,
l’artista francese, ritorna, per un breve tour, in
Sicilia e nell’isola di Malta.
Nel 1772, a Parigi, espone con successo le vedute
sulle antichità di Roma e delle isole del
Mediterraneo e per la fama conseguita, nel 1774,
verrà ammesso all’Accademia Reale di Pittura e
Scultura.
Desideroso di approfondire la conoscenza di quanto
intravisto, il 16 marzo 1776, il «Peintre du Roi»,
ottiene una “borsa reale”, un finanziamento dal
governo francese e decide, così, di compiere il
Grand Tour in Sicilia, finalizzato alla pubblicazione
di un’opera che illustri le antichità, i fenomeni
naturali, gli usi e i costumi dell’isola.
1
Hoüel da Parigi raggiunge Marsiglia e da qui si
imbarca per Napoli e dalla Capitale del Regno delle
due Sicilie arriva nel porto di Palermo, il 14 maggio
1776.
L’artista ha preventivato un anno di soggiorno
nell’isola, ma gli sarà necessario un periodo di tre
anni, dal 1776 al giugno 1779, per disegnare,
dipingere e raccontare le antichità, i costumi e i
diversi aspetti della natura siciliana.
Ne riportò una serie impressionante di disegni, un
migliaio, di cui un buon numero, circa 264 lastre di
rame, lavorate, per otto anni, con la tecnica
dell’acquatinta ad incisione, saranno pubblicate su
«Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malte et de
Lipari, Où l’on traite des Antiquités qui s’y trouvent
encore; des principaux Phénomènes que la Nature y
offre; du Costume des Habitans, & de quelques
Usages» (Viaggio pittoresco delle isole di Sicilia, di
Malta e di Lipari, dove si tratta delle Antichità che vi
si trovano ancora; dei principali fenomeni che la
Natura presenta; del costume dei suoi Abitanti; e di
qualche usanza), edito a Parigi, in quattro volumi, tra
il 1782 e il 1787.
Le splendide tavole, delle quali Hoüel ha curato anche
il testo, sono state lavorate su lastre di rame, con l’uso
dell’acquatinta, nei toni del seppia che consentono al
pittore di ottenere un effetto chiaroscuro più consono
alla sua sensibilità d’artista poliedrico.
Dionisio, l’Anfiteatro, il Teatro greco, la Grotta
delle acque, il Tempio di Minerva e, naturalmente,
l'immancabile Fonte Aretusa.
Le incisioni riguardanti Siracusa e Ragusa sono
inserite nei volumi III e nel IV, editi nel 1785 e nel
1787.
Si tratta di opere d’arte d’inestimabile valore
artistico e dei documenti unici per l’archeologia.
Ma Hoüel visitò anche la città di Catania negli anni
del fervore della rinascita urbanistica ed
architettonica, dopo le terribili catastrofi
dell’eruzione lavica del 1669 e del terremoto del
1793, e ne dipinse molti angoli suggestivi, la
Cattedrale, la Cappella Bonaiuto, l’Anfiteatro
romano di P.zza Stesicoro, osservato, quest’ultimo,
durante le operazioni di scavo che lo riportavano
alla luce.
I più curiosi potranno vedere su YouTube la
ricostruzione virtuale dell'anfiteatro romano di Catania
realizzato
dal
team
di
ITLab,
all’indirizzo
https://youtu.be/KBy-SRxzRus
Il viaggiatore, inoltre, durante il Gran Tour visitò
con particolare interesse la Terra di Misterbianco,
immortalando alcuni tra gli angoli più caratteristici
del paese, dipinti in ben sette tavole, che, tra l’altro,
furono tra quelle che l’artista destinò alla collezione
della zarina Caterina II di Russia.
Le sette tavole sono: Ruderi sul colle (contrada
Mezzocampo); la Torre Triangolare (Monte
Cardillo); Ruderi presso Misterbianco (contrada
Mezzocampo); le Colline basaltiche (contrada Erbe
Bianche); un antico sepolcro presso Misterbianco; i
ruderi della Torre Triangolare (Monte Cardillo); le
Terme romane.
In Sicilia Hoüel terrà anche un Journal, ovvero un
diario diviso in più quaderni, al quale affidare le
emozioni e nel contempo documentare gli itinerari
compiuti e le persone incontrate.
L’Etna Est vista da S.Leonardo in una tavola di Hoüel
Del Voyage, tra il 1797-1806, in formato ridotto, sarà
curata un’edizione in lingua tedesca.
La raccolta di Hoüel, per il rigore scientifico con cui
sono state realizzate le piante, sezioni e proiezioni
ortogonali degli antichi monumenti e per le
informazioni che offre sugli aspetti antropologici ed
etnologici dell’isola, costituisce, tra quelle dedicate a
questa regione durante il Grande Tour, una delle più
importanti e preziose testimonianze della Sicilia del
Settecento.
In quest’opera, la città di Siracusa vi occupa un posto
preminente; vi disegna il famoso Orecchio di
2
Continuiamo i
viaggi
con la bella
pubblicazione
Viaggio pittorico in Sicilia
di Giuseppe QUATRIGLIO
Una
Parte 1 di 3
miniatura del Liber ad honorem Augusti di
Pietro da Eboli offre la prima visione grafica non
dell'intera Sicilia ma della sua capitale, Palermo.
Il momento rappresentato è quello del cordoglio
della popolazione per la morte del re normanno
Guglielmo Il avvenuta nel 1189. La miniatura fa
vedere la città suddivisa in quartieri ognuno dei
quali abitato da ceti diversi, con persone
diversamente vestite. È rappresentato l'aristocratico
Càssaro* (u cassaru in siciliano) l’attuale Corso
Vittorio Emanuele: la strada più antica di Palermo,
affollato di persone con ampi mantelli pieghettati ed
è ritratto anche il quartiere che sarà chiamato
dell'Albergheria con fanciulle dal viso coperto da
un lungo velo. La Khalsa ha invece un'impronta
popolare sottolineata dalla presenza di donne a capo
scoperto e dai lunghi capelli corvini sciolti in segno
di lutto per la scomparsa del sovrano.
Nel quartiere saraceno di Serracaldio sono visibili
uomini con nere e aguzze barbe e candidi turbanti.
I tratti principali di Palermo sono dunque segnati
sul finire del XII secolo e sono evidenziati torri,
palmizi, uccelli dalle piume colorate. In alto si erge
il Palazzo, simbolo e sintesi del Potere verso il
quale converge l'attenzione di una popolazione
multi lingue appartenente a razze e religioni
diverse; in basso c'è il Castello a Mare che protegge
l'abitato con le sue poderose mura e le macchine
belliche poste bene in vista. Nella parte centrale
della miniatura è nitidamente tracciato il
semicerchio della Cala popolato di pesci guizzanti e
chiuso da una grossa catena a maglie larghe su cui
si infrangono le onde. Bisogna arrivare alla seconda
metà del Seicento - se si eccettua la tela di Brueghel
il Vecchio che nel 1561 rappresenta una Battaglia
navale nello Stretto di Messina - per avere, da un
pittore olandese, immagini di grande vivacità e
immediatezza delle città siciliane con le loro forme
urbanistiche, i monumenti, le coste, talvolta con gli
abitanti fermati, con la tecnica dell'acquarello o
dello schizzo a penna, in scene gustose della vita di
ogni giorno.
*Il nome di Càssaro deriva dall'antico nome arabo
al Qasr (la fortificata), infatti questa zona, durante
la dominazione araba, venne molto fortificata.
Il Castagno dei cento cavalli
Servirà anche per tracciare veloci schizzi delle amate
antichità e per redigere il testo dell’opera che
pubblicherà.
Dai “quaderni” si apprende, inoltre, che l’itinerario
esposto nei quattro volumi sarà virtuale perché in
realtà Hoüel visiterà più volte alcuni luoghi e città
isolane per osservare, durante l’anno, le festività o
altri eventi.
Il ritorno in Francia avverrà dal porto di Messina il 10
giugno del 1779.
A Parigi l’artista per saldare il debito col re di Francia
offre, in cambio dei 275 luigi d’oro ricevuti,
quarantasei dipinti, conservati, oggi al museo del
Louvre.
Inoltre, al fine di fare quadrare il bilancio familiare e
far fronte alle spese per pubblicare il suo lavoro ha
bisogno di un ulteriore finanziamento ed è costretto a
vendere a Caterina II di Russia oltre cinquecento
disegni e dipinti, realizzati in Sicilia, che oggi sono
custoditi e si possono ammirare nell’immenso museo
dell’Ermitage di San Pietroburgo.
Nel 1796 viene eletto membro della Societé Libre des
Sciences, Lettres et Arts di Parigi.Jean Hoüel muore a
Parigi, all’età di 78 anni, il 14 novembre 1813.
I dipinti di Hoüel sono, sicuramente, un prezioso
patrimonio per l’intera umanità perché ci permettono
di ricostruire in maniera dettagliata alcuni scorci
significativi dell’Italia e della nostra isola, così
com’erano nel ‘700 e, soprattutto, come apparivano
agli occhi dei visitatori stranieri.
«…La Sicilia è il puntino sulla i dell’Italia…il resto
d’Italia mi par soltanto un gambo posto a sorreggere
un simil fiore…», scrisse Hessemer, nelle sue lettere,
visitando la Sicilia, all’inizio dell’800; e Goethe, dopo
un viaggio in Sicilia, nel 1817, disse: «L’Italia senza
la Sicilia non suscita nello spirito immagine
alcuna…E’ la Sicilia la chiave di ogni cosa».
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Autore di questo autentico affresco siciliano Willem
Schellinks, specializzato in paesaggi e vedute, che nel
1665 prende la via del Sud partendo da Napoli.
L'artista è il mentore del tredicenne conterraneo
Jacques Thierry, figlio di un ricco armatore di
Amsterdam, che completa - con anticipo rispetto ai
viaggiatori di fine Settecento _ il Grand Tour
d'Europa raggiungendo quella terra sconosciuta che
allora era la Sicilia.
I due olandesi costeggiano parte dell'isola, visitando
Patti, Cefalù, Palermo, Messina, Catania e Siracusa e
raggiungono Malta, ultima tappa nel Sud prima del
ritorno. Il pittore a Napoli è colpito dalla visione di un
uomo che ha rubato, portato in galera in groppa a un
asino. Schellinks nota che ha in testa un cappello di
carta con la scritta" Ladro" e che i ragazzi attorno a lui
lo deridono.
E non dimentica nel disegno ogni particolare.
Altra immagine in un imprecisato paese del Sud lo
impressiona: la danza scomposta di una donna
tarantolata.
Egli ritrae la scena non omettendo di rappresentare
anche i musici incaricati di suonare ininterrottamente
la tarantella, rimedio ritenuto sicuro perché la
"tarantolata" sudi e si liberi così dal veleno che ha in
corpo.
Anche Messina impressiona molto l'olandese se egli
dedica numerose tavole alla Città dello Stretto vista
dal mare.
Già il vulcano dell'isola di Stromboli, con la sua
mole fumante sullo sfondo delle barche a vela,
aveva suscitato ii suo interesse.
Ma è a Messina che egli ritrae minutamente la costa
con il gusto per i particolari dei più bravi vedutisti.
In una tavola è ben visibile l'enorme Palazzata che
si affaccia sul mare.
E guardando il nitido disegno non si può fare a
meno di riflettere che questo autentico monumento
architettonico di cui i messinesi sono stati sempre
fieri è stato travolto dai terremoti e ricostruito più
volte nel corso dei secoli.
Ci sono tra i disegni messinesi di Schellinks
sorprendenti immagini di vita cittadina: una
carrozza di posta trainata da due muli nel piano di
Porta Reale e una portantina sullo sfondo della
Chiesa della Candelora.
Tutto attorno pulsa la vita: gente dell'abbeveratoio,
coppie in cammino, un carro stracarico di
mercanzie che si allontana, perfino cani, tanti cani.
Da lì a pochi anni, con il traumatico allontanamento
degli Spagnoli dalla città e con il sopraggiungere
delle truppe francesi di Luigi XIV, Messina avrebbe
conosciuto per quattro lunghi anni, fame,
distruzioni, lutti e umiliazioni.
La cattura del pescespada è rappresentata in modo
realistico con l'osservatore attento sull'alto pennone
e il lanciatore dell'arpione che infilza la preda a fior
d'acqua.
A Catania l'olandese dipinge l'Etna dopo avere
osservato il vulcano da diverse angolazioni, a
Siracusa si sofferma nell'Orecchio di Dionisio e
offre una accurata rappresentazione del Castello
Maniace trasformato in fortezza.
Arrivato a Palermo sale sul Monte Pellegrino e
ritrae compiutamente la città ai suoi piedi divisa
dalle due lunghe strade saldate dai Quattro Canti.
Nitide sono le insenature della rada e del porto che
fanno di Palermo una città che guarda il mare.
Ritrae anche la Grotta di Santa Rosalia con la statua
eretta della patrona di Palermo a guardia del
cancello di ferro e non dimentica l'altare sotto un
baldacchino sorretto da due colonne.
L'olandese non vede però la figura giacente di Santa
Rosalia che, gareggiando con il Bernini, il
fiorentino Gregorio Tedeschi rappresenta nel 1625
in estasi con il capo appoggiato alla mano destra e
una croce sul grembo; la statua che affascina
Goethe nel 1787.
A sinistra del disegno, l'uomo con il cappello piatto
che segue con attenzione la scena è lo stesso pittore.
Ed è l'unico ritratto conosciuto dell'artista.
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Schellinks vede Cefalù dal mare con il minuscolo
abitato ai piedi della montagna, da cui emerge l'alta
sagoma del duomo ruggeriano, osserva Capo Calavà
in tempesta, ammira sempre dal mare il Castello di
Spadafora e le acque in fermento tra Scilla e Cariddi.
Barche da pesca e velieri, vascelli e galere, popolano
il carnet del vedutista olandese. Ai centoventi
disegni, di cui sessantuno riguardano l'Italia
meridionale e la Sicilia e Malta, l'olandese
accompagna un diario di viaggio in lingua danese che
è ancora inedito in una biblioteca di Copenaghen.
E, globalmente, quella dell'artista nordico che giunge
fino a noi dal fondo del Seicento è una straordinaria
testimonianza iconografica e scritta del Meridione e
della Sicilia, compresa Malta che allora faceva parte
dell'isola maggiore.
Schellinks redige il suo corposo album per un ricco
committente, Laurens Van Der Hem, awocato ma
anche mercante sedotto dalle arti, il quale intende
includerlo in un vasto repertorio illustrato del mondo.
Ora questi disegni sono custoditi nella Biblioteca
nazionale di Vienna.
Ma non sono mute immagini del passato perché ci
portano l'odore di salsedine e i volti della città, usi e
costumi che pur lontani nel tempo fanno parte delle
nostre tradizioni culturali.
Il viaggio pittorico in Sicilia si esprime al meglio sul
finire del secolo dei Lumi in un clima di amore per la
classicità alimentato da quanto aveva scritto
Winckelmann sul fascino sempre vivo dell'eredità di
un passato illustre.
Immagini eccezionali della Sicilia di fine Settecento
vengono offerte nell'ultimo ventennio del secolo da
artisti innamorati dell'Italia, e soprattutto del Sud, tra i
quali bisogna annoverare Hoùel, Denon, Ducros,
Goethe e Kniep (il pittore che qualche volta viaggia
con lui).
E nel conto bisogna mettere anche l'aulico Hackert
che viaggiatore in senso stretto non è.
Egli infatti è un pittore di corte che visita la Sicilia e
la ritrae con bravura.
Bisogna pur dire tuttavia che questi spiriti eletti sono
preceduti da altri viandanti di prestigio che pubblicano
i resoconti dei loro viaggi nell'isola illustrandoli con
schizzi propri o di pittori amici.
È il caso del barone Joseph Hermann di Riedesel che
nel 1767 - ha ventisette anni _ sbarca a Palermo e
visita gran parte della Sicilia in poco più di un mese.
E' un rigido diplomatico prussiano e tuttavia è anche
un Idealista, con un "anima idillica".
Egli studia accuratamente gli antichi templi e pubblica
il suo Reise durch Sizilien nel 1771 con numerosi
disegni di monumenti classici, risultato delle sue
attente osservazioni sul campo
Anche lo scozzese Patrick Brydone raggiunge la
Sicilia tre anni dopo, nel 1770, in compagnia del
giovane lord inglese William Fullarton di cui è il
"precettore viaggiante" e quindi con interessi diversi
da quelli del barone di Riedesel.
Il libro di Brydone, che ha edizioni e traduzioni in
grande numero viene pubblicato con Illustrazioni
suggerite dallo stesso viaggiatore.
Si tratta di immagini che danno soltanto un'idea di
una terra ancora misteriosa, caricata di tutti i simboli
arcaici, nella quale la stessa testimonianza classica è
costituita da monumenti e reperti che giacciono in
molte località come abbondanti relitti di una civiltà
lontana anche se non estranea.
Sicilia
5
di Walter Morando
L'antimafia e i camuffamenti, la profezia di
Leonardo Sciascia
Un nulla sapiente gioca a spararla più grossa di
tutti, delirando di trame e di complotti?
È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come
stanno, meno male che c’è lui. E poi il
commerciante che pretende di essere in pericolo di
vita e se la prende con gli “antimafiosi da tastiera”
che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire
che paga un delinquente per sparargli contro il
chiosco». Giancarlo Caselli, a proposito della legge
per la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, ha
constatato che «è venuta delineandosi anche
un’antimafia degli affari e delle partite Iva, un
mestiere, un sistema di relazioni opache».
Raffaele Cantone si dice preoccupato per alcuni
«fatti oggettivi»: il «coinvolgimento in indagini
giudiziarie
di
soggetti
considerati
icone
dell’antimafia»; le «vicende che hanno sfiorato
magistrati di primissimo livello per i quali si
credeva che il contrasto alle mafie fosse un valore»;
la «questione dei beni confiscati e il fatto che sia
stata messa in discussione persino Libera»,
l’associazione di don Luigi Ciotti. Tutti coloro che
si occupano di mafia da vicino sanno che le cose da
tempo stanno proprio così: Rosy Bindi ha messo
questo tema all’ordine del giorno della
Commissione da lei presieduta; lo storico Salvatore
Lupo (assieme a Giovanni Fiandaca) ne ha
cominciato a scrivere con coraggio. E già si
pubblicano
libri
che
denunciano
questi
camuffamenti:
«Contro l’Antimafia» di Giacomo Di Girolamo;
«Antimafia Spa» di Giovanni Tizian e Nello
Trocchia;
«Le trappole dell’Antimafia» di Enrico del Mercato
ed Emanuele Lauria.
Lo studioso Rocco Sciarrone (in «Alleanze
nell’ombra») dimostra, dati alla mano, che tutte ma
proprio tutte le imprese della connection mafiosa in
provincia di Palermo si erano «travestite» con una
pronta adesione ad associazioni antiracket.
Accuse generiche? No. Si possono fare nomi e
cognomi. Vincenzo Artale titolare di un’azienda di
calcestruzzo che da dieci anni era salito alla ribalta
come grande accusatore di mafiosi e, un anno fa,
era stato eletto in un ruolo dirigente
dell’associazione antiracket del suo paese, è stato
arrestato in provincia di Trapani per tentata
estorsione «aggravata dal favoreggiamento alla
mafia» (quella di Mazara del Vallo).
I costruttori Virga di Marineo, a dispetto del loro
sostegno alle associazioni nemiche di coppola e
lupara e dei riconoscimenti ottenuti da associazioni
del calibro di «Addio pizzo», di «Libero futuro» e
financo dal Fai, sono stati accusati di essersi
arricchiti con il sostegno del mandamento di
Adesso
dovremmo
tutti
riconoscere che il pericolo era
stato ben intravisto trent’anni
fa da Leonardo Sciascia per
quanto è ormai evidente che il
malaffare siciliano ha adottato
il codice di camuffarsi dietro
le insegne dell’antimafia.
E, se il presidente di Confindustria in uscita, Giorgio
Squinzi, volesse fare un gesto di cortesia nei confronti
del suo successore, Vincenzo Boccia, utilizzerebbe gli
ultimi giorni del suo mandato per convincere il suo
proconsole in Sicilia Antonello Montante — grande
sostenitore della lotta a Cosa Nostra ma da oltre un
anno indagato per concorso esterno in associazione
mafiosa — a farsi da parte. E, nel contempo, ad
abbandonare l’ingombrante incarico di delegato «per
la legalità» di tutti gli industriali italiani.
Non sono del tutto chiare le vere ragioni che hanno
indotto Squinzi fin qui a non esortare Montante ad
affrontare la sua vicenda giudiziaria senza coinvolgere
l’organizzazione che rappresenta.
Ma sarebbe nobile da parte sua lasciare al presidente
che verrà dopo di lui una Confindustria simile a quella
di dieci anni fa quando Ivan Lo Bello, proprio in
Sicilia, avviò una campagna di pulizia che ebbe
un’eco di approvazione in tutto il Paese.
Eviteremmo così grandi imbarazzi come quello in cui
si sarebbe potuto trovare domattina il capo dello
Stato, Sergio Mattarella, il quale, in visita ufficiale a
Noto per rendere onore allo straordinario restauro
della Cattedrale, dovrà affidarsi a un rigidissimo
protocollo che — salutati il governatore della Regione
Rosario Crocetta e il sindaco Corrado Bonfanti — gli
eviti di stringere le mani di qualche rappresentante
della politica o dell’imprenditoria siciliana.
Personaggi «a rischio» anche (e forse soprattutto) nel
caso si presentino avvolti nelle bandiere della lotta ai
padrini. Cosa sta succedendo in Sicilia?
I campioni dell’antimafia «non servono più», lo ha
detto persino Leoluca Orlando: «Chi si ostina a voler
rimanere tale, spesso si rivela poi un impresentabile o
un corrotto». Stiamo parlando di un fenomeno
gustosamente descritto da Nando Dalla Chiesa: «A un
convegno si presenta il tale magistrato che fu
“impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di
Giovanni Falcone”.
Seguono applausi… che
cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro
Falcone. Il tal’altro è invece un freelance minacciato
dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto
un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle
scuole, anche a pagamento.
6
Corleone.
Mimmo Costanzo anche lui grande
paladino antimafioso, è stato arrestato nell’inchiesta
sulla corruzione Anas ed è al centro di indagini per i
suoi rapporti con la cosca catanese. Idem Concetto
Bosco Lo Giudice finito, con lo stesso genere di
imputazioni, ai domiciliari. E se non è mafia, sono
comunque storie di natura consimile.
Carmelo Misseri imprenditore di Florida in provincia
di Siracusa («ribellarsi è giusto», ripeteva in pubblico)
pagava tangenti alla Dama Nera dell’Anas, Antonella
Accroglianò.
E, a proposito di Siracusa, c’è
l’imbarazzante caso di una Confindustria locale
guidata dapprima da Francesco Siracusano
(dimissionato per affari sospetti), poi commissariata
con Ivo Blandina ( rinviato a giudizio per un’allegra
gestione di fondi con i quali aveva acquistato uno
yacht) e infine con Gianluca Gemelli ( il «marito» di
Federica Guidi travolto, assieme alla compagna
ministra, dalla vicenda Total).
Il presidente della Camera di Commercio di Palermo
Roberto Helg anche lui proclamatosi grande
combattente contro «la piaga delle estorsioni», è stato
condannato a quattro anni e otto mesi dopo che era
stato filmato mentre intascava una tangente di
centomila euro da un poveretto che voleva aprire una
pasticceria all’aeroporto del capoluogo siciliano.
E tramite il «caso Helg» si scopre una parentela tra le
vicende siciliane di Confindustria e quelle di
Unioncamere, altra associazione in cui si notano
sintomi di diffusione dell’infestazione qui descritta.
Per non farsi mancare nulla, Montante è anche
presidente Unioncamere Sicilia e della Camera di
Commercio di Caltanissetta.
Se Squinzi volesse favorire il debutto del suo
successore, potrebbe trovare l’occasione (che so?) di
pronunciare a freddo un «elogio di Sciascia».
Montante capirebbe l’antifona e ne trarrebbe le
conseguenze. Forse.
FINE DEL CARABINIERE A CAVALLO
L’eterno trasformismo.
La nascita dell’antipolitica.
Il cambio di editori.
Una meditazione sull’ars
moriendi. L’uscita dei "saggi
sparsi" rivela gli aspetti più
nascosti dello scrittore
siciliano
Zolfo. Piombo. Inchiostro.
Di queste tre elementi è fatta
l’immaginaria città di Regalpetra. Del primo
elemento, scrive Leonardo Sciascia nel 1975, a
proposito della sua nativa Racalmuto: «Tutto ne era
circonfuso, imbevuto, segnato». L’aria, l’acqua, le
strade: «Scricchiolava vetrino sotto i piedi». Ci si
friggeva anche il pesce, nello zolfo. Per circa due
secoli la Sicilia ne ebbe il monopolio. Era il petrolio
dell’epoca. Nel 1834 l’isola contava 196 miniere.
Per oltre un secolo, ci morivano i carusi. A salvarli,
più che la legge, fu l’avvento dell’energia elettrica.
Il secondo elemento di cui è fatta Regalpetra è il
piombo. Quando Sciascia nacque (1921) Racalmuto
era il Far West: «Una lite per confini o trazzere fa
presto a passare dal perito catastale a quello
balistico».
Poi c’era la mafia. E infine, ricorda il biografo di
Sciascia, Matteo Collura, «le campagne erano un
brulicare di doppiette», per via della caccia. Lo
stesso Sciascia era stato uno sniper: «Con un
fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la
capocchia di uno spillo». L’inchiostro, infine. «Ne
ricordo anche il sapore. Forse qualche volta l’ho
bevuto». Ed è l’inchiostro della scrittura ad aver
trasformato la Racalmuto reale in Regalpetra la
fantastica, ad aver trasmutato il piombo in zolfo, e
poi lo zolfo in oro.
Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio che nel 1956
trasformò un comune insegnante in Sciascia,
compie sessant’anni.
A undici dalla pubblicazione lui spiegò: «È stato
detto che nelle Parrocchie sono contenuti tutti i
temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E
l’ho detto anch’io. Tutti i miei libri in effetti ne
fanno uno».
Sciascia, dunque, ha scritto un solo libro, sempre
dedicato a quel «gomitolo di vicoli» che dista 16
miglia dal mar africano e 68 da Palermo, che
ricapitola tutto l’universo. Lo scrittore, nel ‘79,
aggiungerà: «La Sicilia offre la rappresentazione di
tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo
italiani, ma anche europei, al punto da poter
costituire la metafora del mondo».
Paolo Mieli - Il Corriere della Sera
E’ di questi giorni l’indagine su Pino Maniaci direttore di
Telejato, accusato di ammorbidire i servizi sulla mafia
Secondo le accuse della Procura, Maniaci avrebbe cercato
un accordo con i sindaci di Partinico di Borgetto:
assunzioni di parenti e fondi a Telejato per ottenere dalla
televisione antimafia un trattamento meno ostile. Per il
quotidiano, i due amministratori avrebbero ammesso
l'episodio e ci sarebbero intercettazioni che incastrano lo
stesso Maniaci, volto pulito e battagliero del giornalismo di
provincia, l'unico reporter italiano insieme a Lirio Abbate
inserito nella classifica dei 100 migliori giornalisti del
mondo.
Come da noi più volte ricordato bisogna combattere non
solo la mafia, ma anche la mentalità mafiosa, che può
albergare anche pure in molti “paladini”. E’ un problema
soprattutto educativo.
7
Un anno prima Sciascia aveva ultimato un saggio.
Lo aveva titolato Fine del carabiniere a cavallo.
Il saggio apre il volume di scritti sparsi che Adelphi
(con questo stesso titolo) ha pubblicato
Il curatore dell’opera, Paolo Squillacioti, avverte:
«Raccogliere tutto Sciascia è molto difficile.
Sono infatti quasi 1.400 gli scritti dispersi».
Eppure serviranno tutti per conoscere quell’unica
storia che Sciascia per tutta la vita scrisse ed ampliò.
In un illuminante ritratto di Alberto Savinio,
contenuto in questa raccolta, lo scrittore sottolinea:
«Sono riuscito a mettere insieme tutti i suoi libri. Ma
tutti i suoi libri non fanno “tutto Savinio”: bisognerà
raccogliere tutti i saggi, gli articoli e rendersi conto
che si tratta, dopo Pirandello, del più grande scrittore
italiano di questo secolo».
Ribaltare luoghi comuni, spazzare via pregiudizi:
questo, per lo scrittore siciliano, significa pubblicare
l’opera omnia di un «irregolare».
Per credere, sfogliate questo ultimo Sciascia
adelphiano. In apparenza parla di letteratura, in realtà
riscrive la storia. La prima immagine (i carabinieri a
cavallo che caricano le folle) è per lui la metafora
dell’italianissimo «richiamo all’ordine». Verrà poi
Vittorini e il suo Conversazioni in Sicilia a spazzare
via quel simbolo e riavvicinare le nostre lettere alla
realtà.
Nel saggio La sesta giornata Sciascia fotografa le
radici dell’eterno fascismo italiano.
La guerra civile in Spagna, dice, ci dette una sveglia.
García Lorca ci ricordò la nostra smemoratezza: cosa
furono per noi Dante, Alfieri, Foscolo, Carducci.
E non fu per caso neppure la fucilazione del poeta
spagnolo:
«Ogni forma di fascismo si realizza attraverso la
collera degli imbecilli».
Ma, nonostante le nostre tradizioni letterarie, solo
Spagna e Francia avranno «una poetica della
Resistenza». L’Italia no. Gli italiani confusero
Fascismo e Patria (Croce compreso), scelsero come
figura da emulare Don Abbondio e cantarono «la
poesia della sesta giornata»: a Milano chiamavano
«eroi della sesta giornata» coloro che, passata la
tempesta delle Cinque Giornate, solo alla sesta
uscirono da casa armati e incoccardati.
È il nostro eterno trasformismo.
Infine la provocazione: sono più vicini allo spirito
della Resistenza molti giovani dell’esercito di Salò. E
ancora, recensendo Marcuse, Sciascia previde che la
contestazione in Italia sarebbe finita in anni di
piombo. Ancora, vide avanzare a grandi passi
l’antipolitica: l’immagine mussoliniana dell’aula
«sorda e grigia ha influenzato due generazioni.
Anch’io, da deputato, ho provato le stesse sensazioni,
osservando una sorda e grigia umanità: di
condannati che si considerano eletti».
Incroci maledetti.
Quest’anno, al pari del sessantennale di Regalpetra,
cade anche il trentennale del Maxiprocesso di
Palermo a Cosa Nostra.
Ricordiamo tutti le polemiche, mai sopite, che
seguirono l’articolo del 10 gennaio dell’87 sui
"professionisti dell’antimafia". Ma la prima freccia
contro i giudici di Palermo, documenta il volume
Adelphi, venne scoccata già nell’ottobre del 1986,
sull’Espresso. Qui Sciascia cita una poesia di
Gioachino Belli e sostiene che il poeta vide «in
allegoria, in metafora, il dissociarsi e il pentirsi oggi
di brigatisti, camorristi e mafiosi».
Ma c’è di più. L’incomprensione tra Sciascia e il
pool antimafia di Palermo, nella persona del giudice
Giovanni Falcone, risale già al 1982. Quell’anno lo
scrittore venne convocato, di notte e in gran segreto,
nel bunker dell’ufficio istruzione di Palermo.
Nelle intercettazioni relative all’inchiesta su uno dei
grandi misteri d’Italia, il falso rapimento in Sicilia
di Michele Sindona del 1979, era saltato fuori il
nome dello scrittore. Gli intercettati avanzavano una
ipotesi: avvicinare Sciascia per spingerlo a un
intervento «garantista» in favore di Sindona.
Sciascia, seduto faccia a faccia con Falcone, non
nascose la sua indignazione per essere stato
convocato, e lo trattò ruvidamente. «Come si può
anche solo pensare che io abbia a che fare con tali
personaggi?» si indignò. Falcone, a sua volta, uscì
dall’incontro molto risentito.
E nel ‘92 rievocò quelle circostanze all’inviata del
palermitano L’Ora e poi di Panorama Bianca
Stancanelli, un omicidio che proprio Sciascia definì
degno del Raccolto rosso di Dashiell Hammett.
Sciascia incrociò spesso i sentieri impervi della
storia italiana. Nel 1978 il suo L’affaire Moro per
Sellerio fu un bestseller. Tuttavia, nell’84, Sciascia
firma un contratto con Bompiani. Vi pubblica i due
volumi che raccolsero le sue opere principali e,
nell’86, La strega e il capitano, sull’onda del caso
Tortora.
Ma poi, alla fine di quell’anno, sceglie Adelphi.
Perché?
Sciascia era un nomade editoriale. Nella sua vita ha
pubblicato per Laterza, Einaudi, Sellerio, Bompiani,
Adelphi. E amava collaborare con gli editori.
«Provava la felicità di fare libri» spiega Giorgio
Pinotti, editor in chief di Adelphi «per lui era un
prolungamento della scrittura. Del resto, è quel che
per anni ha fatto con Sellerio».
Un rapporto quasi ventennale, quello con l’editrice
siciliana fondata nel ‘69 da Enzo ed Elvira, iniziato
nel ‘70 (quando Sciascia da Caltanissetta si trasferì
8
a Palermo). Sellerio divenne la sua terza casa, dopo
l’appartamento palermitano di Villa Sperlinga e il
buen retiro di campagna in contrada Noce. Con
Sellerio Sciascia pubblica i suoi scritti, lancia la
collana "La Memoria" e passa i pomeriggi sul
divanetto della stanza di Elvira. Negli anni successivi
(Sciascia è nel frattempo deputato radicale) il rapporto
si dirada. Donna Elvira dichiarerà: «Prima era sempre
da noi, poi ha avuto la parentesi politica, la casa
editrice nel frattempo aumentava, e si è un po’
allontanato, dice che qui si confonde, troppi telefoni
che squillano, troppa gente. Prima eravamo una specie
di salotto».
Si parla di «una fuga al Nord».
Lo scrittore si ritira in campagna. Il cancello della
villetta di contrada Noce viene varcato dal «cerchio
magico» (i familiari, gli scrittori Bufalino e Consolo,
il fotografo Scianna, i professori Nino Buttitta e
Natale Tedesco).
Riceverà anche Enzo Biagi, offrendogli spaghetti
artigianali conditi con pomodori freschi, salsicce,
formaggio di capra e fichi d'India. Ma prediligerà la
solitudine.
Il 12 luglio dell’86 scrive, da Racalmuto, a Roberto
Calasso, il patron di Adelphi, inviandogli la sua
«piccola divagazione sul 1913». «Veda lei se è il caso
di farne un libretto Adelphi».
Quattro mesi dopo 1912+1 sarà in libreria. Si tratta
del libro che apre la meditazione sulla morte.
Seguiranno Il cavaliere e la morte (contrassegnato
dall’incisione di Dürer, che per lui si opponeva al
Trionfo della morte di Palermo), Porte aperte e Una
storia semplice. Dentro ci sono gli ingredienti
tradizionali: intrighi, traffici d’armi, delitti, potenti
corrotti. C’è il giallo secondo Simenon (Sciascia e il
padre di Maigret moriranno nello stesso anno):
comprensione e non persecuzione, vocabolario da
ottocento parole, alla Racine. Ma c’è anche la ricerca
di una ars moriendi (come sostiene lo sciasciano
Giuseppe Traina).
Le riflessioni su delitto e giustizia travalicano i
confini dell’impegno civile, la Storia diventa il
Tempo, la morte non un destino ma (lo lesse così il
filosofo Manlio Sgalambro) un «omicidio del cosmo».
L’arco dello scrittore è teso allo spasmo. In brevi frasi
fa esplodere lo gnommero gaddiano che ha arrovellato
l’uomo dai presocratici in poi.
Nel frattempo si occupa anche di liberare i libri
precedenti, perché Adelphi possa pubblicare l’intera
opera (o l’unico libro che essa è).
Ricorda Giorgio Pinotti: «A partire dal biennio 87-88
comincia a svincolare i suoi libri e chiede, addirittura
per volontà testamentaria, che vengano radunati da
Adelphi». Sciascia si fonde nel catalogo della casa
milanese quando, giunto alla fine del sentiero, deve
affrontare la morte non letteraria ma concreta (per
mieloma micromolecolare, un tumore al midollo
osseo che offenderà anche i reni). Nella tetralogia
adelphiana non scantona mai nella conversione
religiosa e non sposa la «scienza come religione»,
secondo l’approccio alla malattia di Susan Sontag.
Si interroga, piuttosto, come fece Wilhelm Reich,
su cosa possa mai «infettarsi» tra corpo e spirito.
Batte la strada di Borges, quel «teologo ateo» che
(nel ritratto contenuto in questo libro) erge a «segno
più alto della contraddizione in cui viviamo».
Pinotti rievoca: «Ha del miracoloso che Sciascia si
rallegrasse dei nostri libri e di Borges, come fosse
già nostro autore. In realtà, noi lo pubblicammo nel
‘97. Ma lui lo associava a noi, per ragioni di
congenialità. Per lui era un autore adelphiano a tutti
gli effetti».
Sciascia, dunque, si premura di «farsi ereditare», a
futura memoria, attraverso quel catalogo che ama,
legge e condivide. E la sua opera, effettivamente,
non resterà dispersa ma (come sta avvenendo) verrà
interamente raccolta, così come lui stesso si era
preoccupato di fare per Bompiani con gli scritti di
Savinio. C’è il male e c’è la speranza della cura.
Questo è, per Sciascia, lo stendhaliano Savinio, che
auspicò una «civiltà della conversazione», in luogo
di quella che ci vede divisi in «parrocchie e
parrocchiette» (su cui Sciascia ironizzò nel suo
primo Regalpetra).
Inoltre, con Adelphi, appaga l’aspirazione a essere
non «scrittore siciliano» (critica sempre mossa ai
Verga e ai Pirandello) ma scrittore italiano che
conosce bene la Sicilia (come metafora) e autore di
portata europea. Infine, l’epitaffio tombale. «Ce ne
ricorderemo, di questo pianeta».
Un haiku di Villiers de l’Isle-Adam, autore
ottocentesco, del quale Sciascia conservava una
stampina funeraria acquistata a Parigi. A Isle-Adam
Borges aveva dedicato il volume 23 della
"Biblioteca di Babele", che curava per Franco
Maria Ricci. Il libretto era uscito nell’80, l’anno in
cui Sciascia e Borges si conobbero a Roma.
Isle-Adam, discendente del primo Gran Maestro dei
Cavalieri di Malta, amico di Wagner, frequentatore
di Enrico V, era un aristocratico quasi indigente.
Borges lo considerava uno specialista in «orrori
morali».
Aveva scritto della pietra filosofale, il sogno
sapienziale degli alchimisti. Non si esclude che si
fosse trattato di un composto chimico derivante da
zolfo, piombo e inchiostro. Gli stessi elementi della
leggendaria Regalpetra.
Piero Melati
x gentile concessione de Il Venerdi di Repubblica
9
SAMBUCA DI SICILIA
L’ANGOLO DELLA POESIA
I canti della Passione al mio paese
Ci sarò ancora. Ci son sempre stato.
Avevo un amore speciale per i Canti della Passione.
E la processione, affollata di guanti neri.
Il coro degli uomini con il vestito scuro di sartoria.
Le donne velate con i loro lamenti accorati.
Anch'io bambino ho cantato in quel coro.
Preparato da un prete antico davo tono alle note
acute.
Nella banda suonava mio padre.
Era basso, suonava il basso tuba.
L'aria e il cielo, ancora freschi d'inverno,
sorpresi dalle aeree geometrie delle rondini,
vestivano le montagne di primavera.
Nel corso si apriva la stagione dei gelati. E dei
calzoni corti.
Intanto un torturato in Palestina,
crocifisso con i chiodi dei fabbri e dei falegnami,
urlava il suo messaggio di salvezza.
Il suo estremo canto d’amore per l’umanità.
E invitava il mondo a credergli.
Annunciando a tutti la Resurrezione.
L’elezione a «Borgo dei Borghi 2016» ha dato
un’impennata alle presenze nel centro belicino.
Musei aperti. Dalle 11 alle 13 e dalle 16 alle 19 i
turisti possono visitare il teatro L’Idea, l’Istituzione
Giambecchina, le sculture tessili di Silvye Clavel, il
palazzo Panitteri, il museo archeologico e le cave di
pietra.
Sambuca ha messo in mostra i propri gioielli e adesso
sta mettendo a punto anche un calendario di iniziative,
per la prossima stagione estiva, tutte finalizzate a fare
in modo che i turisti che arriveranno possano fruire
delle bellezze del centro belicino, ma anche di quelle
dei Comuni del territorio.
Angelo Guarnieri
Da Santa Margherita e da Menfi sono già arrivate
ampie disponibilità, ma anche Montevago e dunque
tutto il territorio delle Terre Sicane vuole muoversi
congiuntamente.
CONTADINI
La terra che stringete nelle mani
scotta come la malaria
del contadino affebrato;
il sapore della terra
sangue conosciuto,
è sangue amareggiato
del contadino uccisio.
A Menfi anche nella prossima edizione di Inycon ogni
comune avrà la possibilità di gestire un cortile,
promuovendo le singole realtà della zona. Santa
Margherita Belice con il premio letterario Tomasi di
Lampedusa apre anche al territorio. «E Montevago,
con le sue terme - dice il vice sindaco Cacioppo rappresenta un’altra punta avanzata della zona».
Nostra carne che non parla.
Nostra madre mortificata.
Terra paziente.
La sera porta vento
e trascina novembre cieli rossi.
A misura d’uomo
Misurano i baroni
l’orma del tuo passo
che traccia confini al latifondo.
Turisti in visita anche alle chiese, una ventina quelle
di Sambuca, alcune delle quali sono state adibite a
museo, dove hanno ammirato le opere del pittore
Gianbecchina o le originali sculture tessili di Sylvie
Clavel. Molti hanno raggiunto l’area archeologica di
monte Adranone e qualcuno si è spinto anche alla
riserva naturale di monte Genuardo o lungo le sponde
del lago Arancio intorno al quale sorgono rigogliosi
vigneti e uliveti.
Prese di mira anche le pasticcerie locali, dove i turisti
hanno assaggiato le «minni di virgini», dolce tipico di
Sambuca, composto da pasta frolla, crema di latte,
zuccata, gocce di cioccolato, cannella e impreziosito
all’esterno dalla diavulina (palline di zucchero
colorato).
Compagno contadino,
per tutti quelli che non hanno voce
tu inizi la canzone sovversiva;
tu accendi la gran fiammata
che brucia gli stivali dei baroni.
10
DOMENICA
SICILIANI
Lu trenu parti e lassa la stazioni
si porta li surdati siciliani
non hannu armi e mancu munizioni
ma sulu na valiggia di cartuni
Mi porto la pietà domenicale
d’una morte che stanca di morire
si raggela nell’occhio del capretto
sanguinante all’uncino del beccaio.
China di spiranzi e di llusioni
e di ricordi ca non hannu fini
tanti restunu nta la stissa nazioni
tanti passunu lu mari e li cunfini
La vita si frantuma e si trastulla
nella chitarra del sonatore orbo
e ride alla vetrina che la specchia
la donna comunicata
uscita dalla chiesa
Spersi ppi lu munnu vannu erranti
e umiliati di tutti li genti
carni vinnuta a tutti li mircanti
e traspurtata ppi li continenti
CORO DI BRACCIANTI SICILIANI
Lurdu travagghiu magari pisanti
e travagghiari la notti e lu jornu
ma la so vuluntà sempri custanti
a la so terra di fari ritornu
Sappiamo come gela
Il cuore della terra,
come la talpa è pigra ed insistente,
ma noi rimasti a cogliere cicoria,
ci torce l’uragano,
il venti ci flagella.
Noi portiamo mantelli e incerate,
ma il mondo è freddo.
La pioggia spegne il sangue del compagno
Ucciso tra un solco e solco;
lo ricopre la terra rivoltata.
Il mondo è freddo
per noi mietitori
per noi zappatori
che falciamo la speranza,
che attacchiamo covoni di dolore
con sfilacce di sangue.
Passa lu tempu e si ccurza la vita
e si rassegninu a lu so distinu
ma nta lu cori resta dda firita
ca si li cutturia sempri e cuntinu
E la mamma perdi li so beddi figghi
la megghiu giuvintù di li picciotti
ca restunu ngagghiati nta l’artigghi
poviri siciliani chista è la sorti
Ignazio Santagati
Donne scomunicate,
non c’è sale di battesimo
né olio di morte
per gli scalzi senzaterra;
non stagna l’acquasanta nelle conche
per le mani contadine.
Dunque schiodate dalla croce
questo Figlio morto e sanguinante;
svegliate le impietrite maddalene,
queste madonne scure di dolore.
E le zappe degli uomini arrestati
caricatele a questi nostri sbirri
senza pane,che battono catene;
che rompano la terra baronale
e la pioggia d’inverno arrugginisca
le loro nere canne di moschetto.
Maglie marinare: l’opera di Walter MORANDO è stata
esposta in occasione della Mostra itinerante
“Metropolis” inaugurata a Venezia il 18 ottobre 2014
eee successivamente ospitata in varie sedi museali in
Europa,Usa e Brasile.
di Mario Farinella
11
Un breve racconto della storia del nostro
carretto?
«È simbolo di un’epoca della Sicilia. I primi
risalgono al 1830 e le fonti sono diari di viaggiatori
che scrivono di aver visto buffi mezzi a due ruote
con immagini sacre e tocchi di colore.
Fino ad allora il trasporto avveniva via mare o a
dorso di mulo. Man mano le tematiche vanno
arricchendosi ma all’inizio prevaleva quella
religiosa perché chi affrontava un lungo viaggio era
solo, con il suo cavallo, andava incontro a rischi di
briganti o piogge, e quelle figure lo consolavano.
Nel tempo si sono sedimentate pratiche decorative
le cui origini sono ancora argomento di studio. Dal
punto di vista artistico e tecnico, il carretto è tutto
una regola, un insieme di codici da rispettare e
richiede una certa dose di preparazione. Non si può
improvvisare.
E tra la Sicilia orientale e quella occidentale, e
persino tra provincia e provincia, ci sono differenze
cromatiche, tematiche. Come pure di misura se si
considera che il veicolo deve adeguarsi alle asperità
del terreno pianeggiante piuttosto che montuoso. È
il risultato del lavoro di tanti artigiani: in ordine di
tempo il pittore è l’ultimo mentre il primo è il
“carradore” che organizza anche il lavoro dello
scultore. Poi c’è il fabbro che si occupa delle parti
in ferro mentre il sellaio dei finimenti dei cavalli».
L’arte del carretto resiste o è giunta al
capolinea?
«Non è morta anche se un tempo c’erano 30-50
pittori a provincia, oggi ce ne sono 1-2. Anche le
altre figure si contano sulle dita di una mano. Come
donna sono l’unica della mia generazione».
Il carretto è il suo lavoro quotidiano?
«Nel tempo ho acquistato credibilità dinanzi agli
occhi di questi uomini che di solito non hanno a che
fare con le donne. Dalla richiesta di piccole cose, si
è passati alle scene fino a un carretto per intero, a
Randazzo dove facevo spola tutti i giorni. Ne ho
dipinti tanti di media taglia e da circa un anno sono
alle prese con i finimenti di tre carretti.
Tempi e costi?
Dipendono da tante cose, da quanto vuole spendere
il committente: per dipingerlo dai 4000 euro in su e
da 3 mesi in poi.
Oggi sono riconosciuta come pittrice di carretti ma
per vivere faccio anche altro».
Carretti a parte…?
«Vivo in una casa laboratorio. Dipingo quadri,
decoro ceramiche e da un po’ ho cominciato a
provare delle eccezioni alla regola mescolando
elementi decorativi orientali e occidentali su tavoli,
sedie, testate di letto come pure su oggetti di uso
quotidiano e Vespe.
Alice Valenti
l’ultima donna che
dipinge i carretti siciliani
Si laurea in
Conservazione dei
Beni Culturali a Pisa,
torna confusa a
Catania e si ritrova, per caso, a fare quello che faceva
suo nonno. O quasi, perché lui era un “carradore”,
lavorava con il legno e i carretti siciliani li costruiva;
lei, invece, macina colori e li dipinge.
Dalla scena, che definisce il tema principale, ai decori
su sponde, traini o finimenti dei cavalli, l’artista Alice
Valenti, a un passo dagli “anta”, pratica l’arte “du
carrettu” ormai da quasi 15 anni e si diverte pure a
raffigurarne i motivi su elementi di arredo, oggetti
d’uso quotidiano e altri mezzi di trasporto. Da quella
suggestione la sua arte non si stacca ma nel tempo è
arrivata a inglobare tanti altri soggetti di sicilianità. È
stata allieva del maestro Domenico Di Mauro, grande
custode di questa tradizione, e tutto è cominciato a
partire da un libro.
Quando il carretto è entrato nella sua vita?
«Mi ero appena laureata e brancolavo nel buio.
Sapevo solo di voler fare qualcosa di artistico e
artigianale. E avevo voglia di riappropriarmi delle mie
radici. Stavo leggendo “Il carretto siciliano”, un
volume a edizione limitata del 1967, quando vidi il
nome di mio nonno nell’elenco degli artigiani. Mio
padre mi raccontò della collaborazione con il maestro
Di Mauro che a 17 anni andava a dipingere da lui a
Scordia.
Il giorno dopo andai a trovarlo ad Aci Sant’Antonio e
in quella bottega, sua e del cognato Antonio Zappalà,
ci rimasi cinque anni. Ricordo ancora quel momento:
mi ritrovai come in una situazione antica, su quel
basolato di pietra lavica, tra Sant’Agata e storie di
paladini, con tutti quei carretti smembrati e
accatastati, e loro due, curvi, con i capelli bianchi, in
mezzo a tutti quei colori».
Com’è stata quell’esperienza in bottega?
«Il maestro mi diceva: “Ti sei laureata in via Tito 8”,
l’indirizzo della bottega, perché avevo sempre
disegnato ma è stato lui a insegnarmi la pittura a olio,
come dipingere le scene, lo sbozzo del quadro mentre
da Antonio ho imparato a decorare tutte le altre parti
del carretto. Di solito ci sono due figure, il maestro,
che si occupa delle parti più importanti, veri e propri
quadri sul tema principale solitamente scelto dal
committente; e ‘u giuvini che decora l’interno delle
casse, il traino, le ruote, le aste. Ed io ho imparato a
fare sia l’uno che l’altro. Oggi Domenico Di Mauro
ha 102 anni e lavora ogni mattina. Vado spesso a
trovarlo e la nostra è un’amicizia bella e forte».
12
In realtà lo avevano già fatto artisti all’inizio del
Novecento, se si pensa ai banchi dell’acquaiolo
decorati con gli stilemi del carro.
O più recentemente alle motoapi.
Questo perché il carretto era stato scavalcato da altri
mezzi e i carrettieri erano diventati camionisti o
guidatori di Ape ma continuavano a farsi dipingere
quelle iconografie.
Oggi il committente medio lo percepisce come un
oggetto d’arte e da collezione. E mentre in altri casi si
può rielaborare in chiave contemporanea quel sapore,
quando si tratta di carretto tradizionale inventare è un
sacrilegio.
Dipingo anche altro ma si tratta sempre di iconografie
popolari e tradizionali, come dolci tipici, cavalli
bardati».
Nel 2001, quando è cominciata la sua avventura, il
digitale stava per esplodere. Oggi c’è questo trend
dell’handmade e la voglia di spostare le mani da
mouse e touch screen per tornare alla materia e ai
mestieri.
«L’arte è sempre stata la mia passione ma non sapevo
che veste dare. Mi occupo anche di grafica al pc ma
fare le cose con le mani dà ben altra soddisfazione.
Qualcosa di terapeutico, salvifico. Un valore ritrovato
per le nuove generazioni».
Progetti futuri?
«La copertina del cd di Giada Salerno, una cantante di
brani folkloristici dell’800. In generale mi definisco
“in cerca” perché vorrei scoprire altre frontiere e
tentare nuovi strumenti».
Continua la pubblicazione del libro del nostro
Umberto Gugliotta
IL ROSARIO DEL VESCOVO
Capitolo sesto
Tanu si era un po’ allontanato dal bailamme che
perdurava nello stanzone e, incollato allo stipite
della grande porta aperta della rimessa, fumava una
sigaretta con lunghe e voluttuose boccate,
annotando mentalmente quello che vedeva intorno a
sé: “Miiiii…! Talia Carmelo Arena quantu avi a chi
fari cu tutti sti fimmini!” Di nascosto, ci fece
un’attenta ispezione al culo di Rosalia che è pure
sposata. “Idda nenti rissi. Vito, u maritu, nenti
vitti.” E io che pensavo che fosse una persona
seria…e poi mettersi con una buttana come Rosalia
c’è il rischio di prendersi qualche malattia. ”A
mugghieri ci accatta i sigaretti e iddu è cuntentu e
curnutu e, per giunta, nu sciata. Talé…talé Michele
Rampulla che avi tre figghi, a mugghieri e puru
l’amanti”, che fa gli occhi dolci alla figlia di
Gaspare, Ninnuzza, che non ha ancora quattordici
anni.
I ragionamenti di Tanu interrotti da un servo,
venuto apposta dal palazzo per sussurargli qualcosa
all’orecchio; dovette essere qualcosa di importante
perché il fac-totum si mosse subito cercando,
spingendo e scansando, di entrare nella prospettiva
di donna Gerardina, in modo che lei potesse
adocchiarlo nonostante la distanza; in più agitò il
berretto, e bastarono solo pochi momenti: la
padrona lo vide e gli fece cenno di avvicinarsi.
Quando l’uomo le fu vicino, annunciٍ:
-Arrivò il dottore Ferdinando Lo Basso, Eccellenza.
- Accompagnalo qua, per favore.
Ordinòٍ con confidenza donna Gerardina.
Pochi minuti dopo i due, Tanu avanti a fare largo e
don Ferdinando Lo Basso dietro, fendevano la
piccola folla; il veterinario ben presto, precisamente
quando Tanu si scostò per cedergli il passo, si trovò
al cospetto della nobildonna; si lasciò andare in un
profondo inchino, poi, ripresa non senza difficoltà
la posizione eretta, pronunciò::
- Eccellenza, perdonate il ritardo, ma non fu per
causa mia, come vi spiegherò. Vedo che ve la siete
cavata egregiamente, anche senza di me. Un servo
mi raccontò quanto è successo…bravo, bravo
Ricuzzu…ehem…voglio dire vostro nipote don
Errico d’Altomare. Una cosa incredibile…un ballo,
per giunta senza musica, e un grido, “Yeahhhaaa”,
press’a poco. Bello, incredibile. Ci voglio provare
anch’io appena si presenterà l’occasione.
Don Ferdinando, eccitato, aveva parlato in un solo
fiato. Per questo, detta l’ultima parola, non era
riuscito a trattenersi dal tossire rumorosamente.
di Danila Giaquinta
13
Tuttavia, cessato l’affanno, continuò:
- Lì, nella campagna dei Tre Santi, successe la
solita storia, Voscenza. “Avi ri stamattina a le
cinqu ca sugnu in peri” e comincio ad essere
stanco. La solita storia… stavo dicendo…
- E qual’è la solita storia?
Sollecitò donna Gerardina.
- Ci stavo arrivando Voscenza, ci stavo
arrivando…Però Voscenza “m’ha dari u tiempu di
putiracillo cuntari” nel modo dovuto.
Precisò il veterinario prima di riprendere il racconto:
- Che stavo dicendo? Ah sì! Ancora era notte che
arrivò a casa mia un giovanotto a cavallo, mandato
dal vostro sovrintendente don Gino Tirò; disse a
Ognigiorno, il mio guardaspalle, che c’erano, nella
campagna di Tre Santi, tre vacche che stavano per
terra mezzo morte e che occorreva la mia immediata
presenza…
- Vucca di lupu! Un’altra volta Vucca di lupu! Ma
quando finirà ‘sta storia?
Fece donna Gerardina, perdendo il suo abituale
autocontrollo.
- …il guardaspalle mi riferì di gran corsa, io
m’alzai e gli dissi di assicurare all’inviato di Tirò
la mia presenza. Il tempo di lavarmi, di vestirmi e
di salire sul calesse. Era ancora notte…come vi ho
già detto. ”Voscenza u sapi”) quant’è pericoloso
viaggiare con lo scuro…”sia p’u cavaddu che p’u
cavaleri”. Se il cavallo s’azzoppa non resta che il
colpo di grazia, una “scupettata” in mezzo alla
fronte; e lo stesso capita al cavaliere, se ha la
sfortuna, troppo frequente di questi tempi, di
incontrare qualche brigante. Arrivai che
cominciava a fare chiaro. Don Gino Tirò
m’aspettava impaziente davanti al cancello della
masseria. Non mi salutò neppure, preoccupato
com’era e, per raccontarmi il fatto, disse più
bestemmie che parole giuste.
Cercammo le bestie e le trovammo in posti diversi,
a distanza di almeno un chilometro l’una dall’altra,
tutte e tre prone a terra, con la bava alla bocca,
inavvicinabili. E questa è la quarta volta in due
mesi, la prima volta tre vacche, come ora, rubate e
trovate morte avvelenate, la seconda un cavallo, per
fortuna ormai vecchio, anche lui ammazzato col
veleno, la terza una vitellina di pochi mesi, sgozzata.
Io ai Carabinieri glielo ho detto, come ben sapete,
che in ognuna di queste circostanze, i massari e i
manovali hanno avvistato Vucca di lupu, cioé
Beniamino, il figlio del maniscalco. Mi pare che
Voscenza “u canusci” é “nu picciottu di circa
vent’anni”, randagio, che vive qua e là nelle
campagne o in qualche casa diroccata o nelle grotte
di Monte Saraceno. Gira a cavallo e porta due
pistole nella cinta e un moschetto a tracolla e
quando incontra gente, e la incontra solo quando
vuole, urla sempre: “Io sugnu u Principi d’Altomari
e tutto chiddu ca viriti è robba mia”).…Un pazzo!
- Un pazzo!
Confermò donna Gerardina , restituendo la parola
al veterinario:
- Parlai pure con il padre che mi confessò che suo
figlio se ne andò via di casa poco meno di un anno
fa e non l’ha più visto . “Pigghiau u cavaddu a na
manciata di sordi e si ni iu senza neppure
salutarimi.”
Comunque stavolta, le vostre vacche le ho salvate.
Ce n’è voluto di lavoro e di persone: quattro
uomini a combattere con ognuna di quelle bestie, e
di prescia perché, mentre si cercava di salvarne
una, potevano morire le altre due, a più di un
chilometro di distanza. Ma stavolta Beniamino non
mi ha preso alla sprovvista: nella borsa avevo un
antidoto che m’ero fatto preparare da un
farmacista di Siracusa. Funzionò, benedetto Iddio,
funzionò! Ma i Carabinieri non fanno niente…
dicono che si sposta sempre, che non è una cosa
semplice scovarlo. Forse il Comandante della
caserma ha preso sottogamba la cosa, visto che non
c’è stata mai, finora, una denuncia da parte delle
vostre Eccellenze.
E questa, Voscenza scusasse, sicuramente ai
Carabinieri ci pare cosa strana, tanto più che
Beniamino “ci l’avi sulu cu viatri, ché con tutti
l’autri c’è puri amico”. E poi chissà cos’è che gli
gira in quella testa di pazzo da fargli credere di
essere il Principe d’Altomare.
Voscenza scusasse, ma un esposto alle Autorità lo
deve fare, se no questa pantomima non finirà mai.
- Vedremo, don Lo Basso, vedremo. In futuro. Per
ora vi ringrazio di cuore. Dichiarò imbarazzata
donna Gerardina, congedandolo.
Notòsubito Tanu che di nuovo le faceva segno di
volerle parlare. Gli fece cenno d’avvicinarsi.
Voscenza, arrivò ora ora il dottore don Ciccio
Nifosì. ”E’ fora c’aspetta!”
Balbettò preoccupato il sovrintendente.
- “Cu ci manca ancora?Mi pari ca ci siemu tutti,
finalmente!”Accompagnalo da me.
Disse con sorridente ironia la padrona.
Poco dopo il dottore Nifosì giunse accompagnato
da Tanu; donna Gerardina non gli diede neppure il
tempo di salutarla perché cinguettò:
- Amico carissimo, ero certa che non avreste deluso
il mio invito e infatti siete qui di fronte a me!
Ciò detto, lo prese sottobraccio e lo guidò verso la
cavalla puerpera alle cui mammelle il puledrino,
ancora malfermo sulle sproporzionate zampe, si era
attaccato con voracità.
Guardate “comu suca”…guardate… e pensare
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che fino a poco fa non sapevamo neppure se era
maschio o femmina.
Intanto, incuriosito dalla presenza del medico, il
veterinario Lo Basso si era avvicinato al gruppetto;
tese la mano a don Nifosì e, con affettata cordialità,
disse:
- Che piacere vedervi, caro collega, pensavo che vi
interessaste solo di buoni cristiani, di quelli che
hanno l’anima e non anche di bestie che, com’è
risaputo, l’anima non ce l’hanno.
Donna Gerardina intervenne, prevenendo la risposta
del dottore Nifosì, irritato per essere stato chiamato
“collega” da un veterinario che nulla aveva a che
fare con un medico; e ciò non solo per via della
questione sull’anima dei rispettivi pazienti, ma
anche perché -pensava- “i veterinari sono destinati
a servire i medici come le bestie sono destinate a
servire gli uomini.”
Rivolta a don Nifosì, commentò:
- Vedete quel magnifico puledro? Sprizza salute da
tutte i pori. Negli occhi ha la felicità di essere
venuto al mondo. E pensare che è nato prematuro,
come ha detto mia cognata Carolina.
Carolina d’Altomare Ajello era lì vicino e non perse
l’occasione per intervenire:
- Eh sì, è proprio così. Tanti soldi spesi per avere
l'esemplare di una nuova razza invece è spuntato
un prematuro di razza sconosciuta.
- Per quello che ne capisco io, direi che non siete
stata del tutto sfortunata, perché per essere
settimino mi pare bello e robusto!
Con queste parole Don Nifosì, il medico, disse la
sua.
Donna Carolina continuò:
- Mi fa piacere sentirvelo dire perché, a parte i
soldi, che vanno e vengono, anzi, per la verità,
vanno sempre e vengono di rado, avrei dovuto fare
i conti con il malumore di mio marito, al suo
ritorno dal continente. Solo a pensarci mi sento
male. Visto che è bello e robusto, anche se
settimino, può darsi che si accontenti e che la
collera duri poco. Comunque sia, sono andati a
monte il lavoro di anni, tanti soldi e le speranze che
avevamo riposte in questo affare.
Don Ferdinando Lo Basso, che conosceva la
considerazione in cui il medico aveva i veterinari,
per avergli un comune amico riportato la frase che
don Nifosì, questa volta, aveva pensato ma non
pronunciato, per prudenza e rispetto verso donna
Gerardina, non perse l’occasione di rendergli la
pariglia. Non senza un certo sussiego, rivolto a
donna Carolina, chiarì:
- Certo che se le cose fossero in questi termini, cioè
come disse l’esimio don Nifosì, non avreste, alla fin
fine, di che lamentarvi, o, quanto meno, non
sarebbe una tragedia, Voscenza. Ma io vi dirò di
più per tranquillizzarvi: vi dirò che sono sicuro che
il puledrino non è settimino…che è nato quando
doveva, insomma.
Donna Carolina d’Altomare, contrariata, non riuscì
a mascherare una smorfia di disappunto; la sua voce
divenne acuta:
- Vi faccio subito i conti. Ma prima vi racconterò
tutta la storia, dall’inizio.
Mio marito, don Ajello, circa cinque anni fa si
mise in testa di fare un esperimento: un
incrocio fra una cavalla lipizzana ed un
cavallo maremmano. Sottopose la sua idea ad
un allevatore toscano, precisamente della
maremma settentrionale, ormai quasi del tutto
bonificata, che aveva conosciuto qualche anno
prima, durante una della sue tante puntate al
Nord. Si erano fatti simpatia e si tenevano in
contatto epistolare. Questa persona, che alleva
cavalli maremmani in una tenuta non lontana
da Piombino, cittadina dirimpettaia dell’isola
d’Elba, gli confermò la fattibilità della cosa e
gli propose di procurargli la cavalla lipizzana,
evitandogli così di fare un viaggio fino a
Trieste, esattamente a Lipizza, dove si allevano
i cavalli chiamati appunto lipizzani. In quella
località, scrisse, aveva un caro amico,
allevatore anch’esso, serio e capace;
naturalmente l’acquisto sarebbe stato non solo
ampiamente garantito ma anche condizionato
al completo gradimento di mio marito, che
accettò l’offerta giudicata vantaggiosa.
Qualche tempo dopo, convocato a Piombino,
gli fu presentata una splendida cavalla
lipizzana di pochi mesi. Se ne innamorò e si
complimentò con l’amico allevatore per la
validità dell’offerta; le diede nome Rosetta,
scelto e raccomandato da Sofia, nostra figlia.
Passarono ancora circa due settimane quando
marito e cavalla giunsero qui ad Altomare a
bordo di un brigantino, il cui Comandante
aveva accettato di ospitarli, naturalmente
dietro pagamento.
L’idea era questa: creare una razza
particolarmente forte e adatta, non solo al tiro
delle carrozze, caratteristica del cavallo
lipizzano, ma anche al cammino, in cui il
cavallo maremmano primeggiava per velocità
e resistenza, anche nelle condizioni più
disagevoli di fatica e di clima.
Trovata la cavalla e atteso che giungesse in
età da marito, si rese necessario
provvedere alla seconda e ultima parte del
programma: la monta.
Presi i necessari accordi con l’amico allevatore
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toscano, verso la fine di ottobre dell’anno passato,
cavalla e marito s’ imbarcarono nuovamente diretti
a Piombino, dove Rosetta era attesa da un
magnifico stallone maremmano. Ora possiamo fare
i conti: novembre uno, dicembre due, gennaio tre,
febbraio quattro, marzo cinque, aprile sei e maggio
sette…oggi “n’aviemo sei di giugno” e quindi sono
passati sette mesi e qualche giorno. Il puledro
perciò è settimino, come giustamente convenne
anche don Ciccio Nifosì.
Convinto don Lo Basso?
Don Ferdinando Lo Basso, che aveva ascoltato
attentamente il racconto della nobildonna, volse lo
sguardo verso il medico e rispose:
- Io convinto lo sarei se si trattasse di cristiani, vale
a dire di quegli esseri che hanno l’anima, ma in
questo caso, caro collega, si discute di animali cioè
di bestie cioè di esseri che non hanno anima. E si
dà il caso che il periodo di gestazione della cavalla
sia più lungo di quello della femmina umana di due
o tre mesi, quindi la monta, se fosse giusta la mia
tesi, dovrebbe essere avvenuta press’a poco nel
periodo che va dal sei giugno al sei luglio dell’anno
scorso; infatti, contando a ritroso mese per mese, a
cominciare da quello del parto, si avrebbe: giugno
maggio uno, maggio aprile due, aprile marzo tre,
marzo febbraio quattro, febbraio gennaio cinque,
gennaio dicembre sei, dicembre novembre sette,
novembre ottobre otto, ottobre settembre nove,
settembre agosto dieci, agosto luglio undici, luglio
giugno dodici.
Il veterinario tornٍò a guardare donna Carolina e
continuò:
-Vostra Eccellenza disse che la monta avvenne
verso la fine di ottobre dell’anno scorso e, per
questo, sarebbe settimino. Voscenza, in tutta
sincerità, vi sembra che questo bellissimo puledrino
possa essere il frutto di una gravidanza di soli sette
degli undici o dodici mesi canonici?
Come sapete, io una certa confidenza con vostro
marito, l’eccellentissimo don Gaetano Ajello, ce
l’ho, visto che, da anni, mi fa l’onore di affidarsi a
me per la cura degli animali. E non solo. Spesso mi
mette a conoscenza delle sue aspettative, dei suoi
desideri, delle sue preoccupazioni; addirittura ho
notato che non prende decisione importante, se non
dopo avermi consultato. Magari poi fa di testa
sua…ma questo è un altro discorso. Io, perciò,
sapevo molte delle cose che avete raccontato:
l’incrocio fra lipizzana e maremmano, i viaggi a
Piombino, eccetera. A proposito di viaggi: quanti
ne fece vostro marito, di andata e ritorno, nel
continente, per quest’affare?
Donna Carolina aveva osservato Don Ferdinando
con gli occhi semichiusi, stupefatta di quel discorso
che giudicava insolente, per essere in contrasto con
ciò che lei aveva narrato. La voce le uscì, con suo
dispetto, ancora acuta:
- Non capisco dove volete andare a parare,
egregio dottore Lo Basso; forse a mettere in
mostra, per partito preso, tutta la vostra scienza di
fronte al qui presente dottore don Ciccio Nifosì? E
questo perché non ebbe ritegno di affermare che il
puledrino è settimino, come un cristiano? Sapete
quanti scherzi fa la natura, magari un settimino è
bello e robusto e, invece un altro, nato preciso di
nove mesi, è brutto e malaticcio. E poi i viaggi…i
viaggi sono quelli che ho detto.
La paura di perdere l’importante cliente fu tale da
persuadere
don
Ferdinando
a
cedere
immediatamente:
Mi dispiace di aver contraddetto, probabilmente a
sproposito, vostra Eccellenza e quindi mi
compiaccio di presentarvi le mie umili scuse.
- Io sono certa che mia cognata, fosse anche per
sola curiosità, vi permetterà di portare a termine il
vostro ragionamento. Volete don Ferdinando?
L’intervento di donna Gerardina, borghese come
lui, rincuorò il veterinario che, senza abbandonare,
per questo, il suo atteggiamento remissivo, disse
rivolto a donna Carolina:
- Se Voscenza lo consente…
La nobildonna, seppure contrariata, annuì e don
Ferdinando riprese guardandola di soppiatto:
- Si diceva dei viaggi. Quanti? Forse in quelli
elencati da donna Carolina d’Altomare ne manca
uno. Se don Gaetano Ajellofosse qui con noi,
potrebbe chiarirci i fatti, perché ne fu l’interessato
protagonista. A me sembra di ricordare, ma potrei
anche sbagliare per scherzo dell’età, che don Ajello
e Rosetta fecero due viaggi a Piombino; quindi, se
per un momento ammettessimo, per pura ipotesi,
che in un giorno compreso, più o meno, fra il sei di
giugno ed il sei di luglio dell’anno scorso, il vostro
esimio marito accompagnò la giovane cavalla
lipizzana, per il suo primo appuntamento d’amore,
ne conseguirebbe che la gravidanza di Rosetta è
stata, all’incirca, di undici o dodici mesi. Il
secondo viaggio, quello di ottobre che Voscenza
ricorda, don Ajello lo affrontò, se la memoria non
mi tradisce, per avere dall’amico allevatore, da lui
considerato persona di grande esperienza e
competenza, un parere sull’andamento della
gravidanza. Io se fossi in voi, Eccellenza, sarei
perfettamente tranquillo. Non voglio insistere, ma
sono sicuro che suo marito confermerà le mie
supposizioni. E così non ci saranno arrabbiature da
parte di nessuno.
Donna Carolina, pur avendo seguito in silenzio e
con attenzione il discorso del veterinario, non
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aveva mutato la sua espressione contrariata e, non
volendo dargliela vinta, limitò la sua risposta a
poche parole:
- Fra qualche giorno don Ajello tornerà dal
continente e chiarirà la situazione. E soprattutto
bastonerà lo scimunito che attaccò Rosetta alla
carrozza.
Ciò detto si allontanò, seguita dal dottore Ciccio
Nifosì e dallo sguardo pungente di donna
Gerardina.
Tanu, nel corso del battibecco fra donna Carolina,
don Nifosì e don Lo Basso, aveva pensato che la
sua presenza non era necessaria, anzi sarebbe potuta
sembrare indiscreta; si era quindi allontanato dal
gruppetto per riportare ordine nella confusione
creata dallo straordinario avvenimento.
Pochi comandi chiari e secchi, come aveva
imparato dal Principe Gioacchino Tornabene
d’Altomare, erano stati sufficienti.
Nella rimessa, ripulita e riordinata, vi erano ormai
solo due stallieri, comandati ad approntare un
ricovero confortevole e bene attrezzato per puerpera
e neonato, ormai consapevoli della loro tenera
parentela; vi si attardavano anche Tanu, il Vescovo
Ignazio d’Altomare, il professore don Giovanni
d’Altomare, donna Gerardina e don Ferdinando Lo
Basso. In attesa, vicino alla porta, sostavano donna
Carolina, che aveva vicino a sé figlia e nipote, e, già
sulla strada acciottolata, don Ciccio Nifosì.
La padrona di casa, ricevuti gli omaggi dei due
sanitari, li congedò manifestando loro la sua
gratitudine. Infine, rivolta ai parenti, disse:
-“Putiemu acchianari…”
e, guardando il cognato Vescovo, non dimenticò di
aggiungere:
- …sempreché Vossignoria lo voglia…
al maestro di sala le opportune disposizioni sulla
cena, che sperava ormai imminente; concluse
dicendogli:
- Intorno a mezzanotte, se tutto va bene.
Sofia, sottobraccio a Ricuzzu fin dall’uscita dalla
rimessa, non lasciò la presa e, rivolta al cugino,
seriamente imbarazzato, cominciò ad intrattenerlo
con un fitto monologo appena sussurrato. La
situazione non sfuggì allo zio Monsignore che,
seppure con passo lento, riuscì ad avvicinarsi alla
coppia per ribadire sottovoce, guardando negli
occhi la nipote:
Ricordatevi che siete cugini e che il Signore certe
cose non le permette! E poi siete ancora troppo
giovani… la purezza… soprattutto la purezza! Nel
nome del Signore.
Sofia non abbassò lo sguardo ma, anche questa
volta, non fece in tempo a replicare perché giunse,
decisa, la voce di donna Gerardina:
- E’ ora di salire… venite!
Lo scalone, illuminato fastosamente, era un inno
alla grandiosità della stirpe d’Altomare, uno sfoggio
di ricchezza forse sfrontato.
Donna Gerardina incalzò scherzando:
- “Acchianamu!…” la cavalla é ormai entrata a
Troia ed ha aperto il suo ventre!
(segue)
DETTI E PROVERBI
Una nnì fa’ e centu ‘nnì penza.
Un corpu a la vutti e unu a lu timpagnu.
Un occhiu a Cristu e n’atru a S.Giuvanni.
(lo strabico)
Un occhiu nun po’ bidiri l’atr’ occhiu.
Un jornu senza n’atru nunn’è vita.
Un jornu giudica all’atru e l’urtimu giudica a
tutti.
Un patri lassa a li figli la terra e la zappudda,
li sudura ci l’ann’ammettiri iddi.
Un pilu di fimmina tira cchiossà di un paru di
vò.
Un pugnu ‘ntò n’occhiu.
Un putiri fari un’occhiu a na’ pupa.
Unu bbonu nun sì po’ fari malatu…un malatu
nun si po’ fari bonu.
Unu poviru e malatu nunn’avi parintatu.
Unu: nun putennu accattari .’pattia’.
I componenti la famiglia d’Altomare avevano
percorso a ritroso la strada che portava dalla
rimessa al palazzo in un silenzio violato solo dai
passi sull’acciottolato: probabilmente nessuno era
riuscito ancora ad archiviare nella memoria le
emozioni regalate da un avvenimento sicuramente
insolito. Nonostante il chiarore ancora sparso dalle
fiaccole poste lungo il cammino, due servitori, con i
lumi nella mano, si erano fatti carico di scortare il
gruppetto, camminando ai suoi fianchi.
La campana dell’orologio della Cattedrale di San
Giovanni Battista sonò la mezza delle ore dieci
della sera, quando i Tornabene d’Altomare
varcarono l’imponente settecentesco portone di
legno. Sostarono qualche minuto nell’androne, chi
per bere qualcosa di fresco, chi per mangiare un
dolcetto, chi per recarsi nella stanza dei servizi. La
vedova d’Altomare approfittò della pausa per dare
Fra amici:
Io la mattina faccio 100 addominali e 50 flessioni ,
Tu?
Io dico 100 volte :“Ora mi susu.”
17
della Democrazia. Antonino Amato di questi ideali
ne fece la sua bandiera; per il suo coraggio e la sua
determinazione veicolate dalle sue vive convinzioni
socialiste assunse ben presto la carica di
Maresciallo delle truppe Partigiane di stanza
sull’Appennino ligure.
Ormai a pochi mesi dalla Liberazione del territorio
italiano dall’occupazione nemica, Antonino Amato
con la sua truppa era impegnato nel bloccare
l’avanzata nazista. Ma il nemico era ormai alle
spalle, erano rimasti pochi istanti per collocare la
carica esplosiva alla base di un ponte nella zona di
Onzo, che avrebbe tagliato la strada al nemico; in
uno slancio di sacrificio Antonino a soli 22 anni si
gettò nell’impresa impedendo ai compagni di
fermarsi e intimando loro di proseguire per mettersi
in salvo. Il giovane riuscì a far esplodere il ponte
ma nello stesso momento fu colpito alle spalle da
una raffica mortale. Era il 21 gennaio 1945.
A ragione di tale gesto eroico e coraggioso fu
attribuita la Medaglia d’Oro al Valor Partigiano alla
memoria di Antonino Amato e negli anni Settanta,
in occasione della modifica della toponomastica di
Cianciana, fu intitolata al valoroso personaggio la
via che costeggia Palazzo Giandalia.
Di seguito riportiamo l’immagine che la famiglia di
Albenga che per alcuni mesi aveva tenuto nascosto
Antonino, decise di stampare in ricordo del giovane
eroe partigiano.
Oggi Antonino Amato riposa nel cimitero civile di
Albenga nel quale è stato eretto un monumento ai
Caduti che porta le incisioni dei nomi di quanti vi
riposano.
La pro-nipote Tanina Amato
I Siciliani sconosciuti:Antonino Amato
Cianciana(Ag)1923-Onzo (Sv) 1945 :
Medaglia d’Oro al Valor Partigiano.
Nella
memoria di quel periodo violento e
irragionevole nel quale si consumò la Seconda
Guerra Mondiale, sento il desiderio di portare su
queste pagine il ricordo di un mio familiare che non
ho avuto l’onore di conoscere, ma che si è distinto
per coraggio e determinazione dando lustro alla
nostra terra ciancianese. Poco più che
diciannovenne, Antonino Amato di Pietro e
Antonina Taglialavore, terzo di cinque figli, come
tanti giovani dell’epoca fu chiamato alle armi.
Erano già passati quasi due anni dalla dichiarazione
di guerra da parte di Mussolini,avvenuta il 10
giugno 1940, ma già negli anni 1941 e 1942 si
intravedevano i primi segnali della sconfitta.
Intanto Antonino Amato era impegnato a prestare
servizio sulle Dolomiti bellunesi per poi spostarsi
nel salernitano e risalire poi verso la Liguria tra gli
stenti di un esercito sempre più stanco e sfiduciato.
La popolazione italiana, stanca di tre anni di
bombardamenti e di privazioni di ogni genere aveva
ormai capito che la guerra era perduta.
Lo sbarco degli Alleati in Sicilia del 10 luglio 1943
ne era la conferma e aveva alimentato tensioni non
solo a livello popolare ma anche nelle Forze Armate
e perfino tra le gerarchie fasciste.
La decisione del re Vittorio Emanuele III di
nominare Badoglio alla guida del nuovo Governo,
dopo l’arresto di Mussolini e l’infelice decisione di
continuare la guerra senza impartire ordini precisi
alle truppe gettò queste ultime e la stessa
popolazione nella più assoluta confusione.
A questi fatti si aggiunse la firma dell’Armistizio
dell’8 settembre 1943 che fu interpretato da
Tedeschi come un tradimento che portò
all’occupazione nazista del territorio italiano non
ancora occupato dagli Alleati. Intanto l’Esercito
Italiano negli stessi momenti in cui il Re Vittorio
Emanuele e i gerarchi fascisti fuggivano da Roma,
si trovavano a fronteggiare quello che fino a poco
tempo prima era stato l’esercito alleato.
L’8 settembre 1943 iniziò, tra l’altro, l’attuazione
della caccia agli ebrei e della loro deportazione nei
campi di sterminio. A questi fatti si aggiunse la
liberazione di Mussolini che portò alla formazione
della Repubblica di Salò e di conseguenza alla vera
e propria guerra civile: fratelli contro fratelli.
In quegli anni prese vigore politico e militare
l’intervento Partigiano, giovani motivati e
fortemente decisi a cacciare i Tedeschi e annientare
la presenza fascista in Italia, in nome della Libertà e
Ringrazio pubblicamente il prof. Eugenio Giannone
per essersi fatto promotore di questa segnalazione
presso l'associazione nazionale dell'ANPI (sezione
di Catania).
http://anpicatania.wordpress.com
18
Giufà è un personaggio
incontenibile, clownesca provocazione sta forse
l'effetto catartico delle sue storie
« Secondo alcuni Giufà non è mai morto,
è riuscito a scappare alla morte talmente tante volte
che ancora sta scappando e ancora gira per il
mondo.
[…] Qualcun altro invece racconta 'sta storia.
Che un bel giorno Giufà vide l'angelo della morte.
L'angelo della morte lo guardava strano… »
privo di qualsiasi malizia
e furberia, credulone,
facile preda di malandrini
e truffatori di ogni
genere. Nella sua vita gli
saranno rubati o sottratti,
in modo truffaldino e con
estrema facilità, una
pentola, un maiale, un
pollo arrosto, un asino,
una gallina, un tacchino.
L'iperbolica trama prende spunto da fatti realmente
ricorrenti nelle campagne del palermitano, quando
ladri e imbroglioni ricorrevano a promesse allettanti
avanzate a ragazzi (che mai avrebbero mantenuto) per
ottenerne in cambio prelibatezze sottratte alla
campagna o alle dispense dei loro genitori.
Un esempio della tipica stoltezza del personaggio si
ha nell'episodio "Giufà, tirati la porta" nel quale sua
madre gli ricorda: "Quando esci, tirati dietro la porta"
(nel senso di "accosta, chiudi, la porta").
Ma il giovane prende alla lettera l'invito e, anziché
chiudere la porta, la scardina e se la porta con sé a
messa. Giufà è un bambino, molto ignorante, che si
esprime per frasi fatte e che conosce soltanto una certa
tradizione
orale
impartitagli
dalla
madre.
Nelle sue avventure egli si caccia spesso nei guai, ma
riesce quasi sempre a uscirne illeso, spesso
involontariamente.
Giufà vive alla giornata, in maniera candida e
spensierata, incurante di un mondo esterno che pare
sempre sul punto di crollargli addosso. Personaggio
creato in chiave comica, caricatura di tutti i bambini
siciliani, Giufà fa sorridere, con le sue incredibili
storie di sfortuna, sciocchezza e saggezza, ma ha
anche il gran merito di far conoscere meglio la cultura
dominante in Sicilia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio
del Novecento. Nella tradizione giudaico-spagnola
Giufà è un ragazzo intelligente e stupido, furbo e
credulone, onesto e disonesto, triste e allegro, povero
e ricco, credente e miscredente.
(Vita e morte di Giufà: La morte di Giufà, in Ascanio
Celestini, Cecafumo, 2004
Giufà, il cristiano e l'ebreo
Giufà, un cristiano e un ebreo vivevano nella stessa
casa. Una sera, per cena, venne loro servito un
magnifico piatto di carne. Ciascuno dei tre
commensali desiderava avere solo per sè quel cibo
succulento, e nessuno voleva cederlo all’altro.
Allora l’ebreo disse:
- Io propongo che noi tre si vada a dormire senza
toccare cibo. Colui che al suo risveglio, domattina,
racconterà il sogno più bello, mangerà tutto quanto.
E cosi fecero. La mattina dopo ciascuno racconto il
suo sogno.
Disse il cristiano:
- Ho sognato che il Messia (su di lui la pace!) è
venuto a prendermi per mano e mi ha fatto vedere le
meraviglie della terra.
- Nel mio sogno invece - replicò l’ebreo - il nostro
profeta Mosé (su di lui la benedizione!) è venuto e
mi ha fatto visitare il regno celeste.
Infine, parlò Giufà:
- In quanto a me, il mio profeta Maometto (Allah
preghi per lui e gli conceda la Sua benedizione!) mi
ha svegliato e mi ha detto: "I tuoi due amici sono
occupati a visitare la terra e il cielo, e non
torneranno molto presto. Quindi, è meglio che tu
mangi la carne, prima che vada a male" - e cosi ho
fatto.
“U sceccu nto linzolu”
Traduzione L’asino nel lenzuolo.
Lo si ritrova in ogni situazione possibile: realistica,
fantastica, assurda. Non sa comprare nemmeno un
pomodoro ma sa vendere una pecora brutta e magra a
un prezzo favoloso. È figlio di un ricco ma non ha
neppure una camicia. Non ha da mangiare ma nutre
gli affamati. Insomma, è un saggio, ma di una
saggezza che non si riconosce a prima vista.
è un modo di dire utilizzato a Messina, con cui ci si
riferisce a qualcuno che fa il finto ingenuo.
Viene, cioè, rivolta a chi, facendo finta di essere
sprovveduto, vuole far credere di non sapere di cosa
si sta parlando, di non aver visto nulla, di non
conoscere nulla, in base alla situazione di
riferimento.
Si dice di persona furba, quindi, che per evitare
certe situazioni, si finge ingenuo, mentre non lo è
affatto.
Giufà incarna anche il ribelle alle convenzioni sociali,
il burlone che si fa gioco di tutto e di tutti, che irride
l'autorità, la paura, la morte stessa; e in questa sua
19
regalando giusto qualche altro piccolo frammento di
vita.
«Certo che ce l’avevo, la casa. Fino a tre anni fa.
Ma ho avuto i miei problemi. E se rimani senza
lavoro e poi senza famiglia, il percorso è segnato.
La strada ora è casa mia. Ci sto più o meno bene.
Non ho bisogno di molto, io. Non ho grandi
pretese».
Si vede che al signor Walter non interessa farsi
nuovi amici.
Ma la sua immagine messa su Twitter con l’hashtag
Camilleri, attira l’attenzione dell’agenzia letteraria
che segue l’inventore della serie ambientata a
Vigata e di mille altri successi.
Il grande scrittore siciliano non segue certo Twitter,
ma la sua agente gli parla di questo senza tetto che a
Milano divora i suoi romanzi.
Camilleri, che di pubblicità e di rumore attorno ne
vorrebbe il meno possibile, sorride.
Poi dice una frase.
«Mi hanno raccontato di una foto che mostra un
clochard che legge un mio romanzo. Spesso mi
chiedono a cosa serve la letteratura. Ecco questo è
un bellissimo esempio. Serve, almeno per un
momento, a far dimenticare il mondo che sta
attorno, e a trasportarti in un’altra dimensione ».
A mille chilometri di distanza, il clochard ancora
non sa niente, non immagina che attraverso una foto
si sia messa in moto una catena di idee sul suo
conto.
L’agenzia letteraria parla con la casa editrice,
pensano a come fare per far avere a quel senza tetto
altri libri della collana blu.
Anche Antonio Sellerio aveva notato il tweet:
«Appena lo abbiamo visto, mi sono emozionato —
dice l’editore — Ci siamo chiesti come metterci in
contatto con il ragazzo ritratto nel post. Grazie per
avercelo fatto conoscere e per la disponibilità che ci
ha dato per fargli avere altri nostri libri».
A questo punto, l’uomo che legge sul marciapiede
viene informato di quel che è successo nell’arco di
un giorno.
Sorride anche lui.
Per un secondo mette giù il nuovo libro che ha
iniziato: «Camilleri vuole regalare dei libri a me?
— chiede sorpreso — Mi sembra una bellissima
cosa. Ma è vero? Proprio a me? si stupisce - Il
problema è che io non ho casa, quindi leggo
volentieri. Ma quando ho finito, li devo lasciare in
giro. Non ho certo posto per tenerli. Ma così
almeno, qualcun altro avrà lo stesso piacere che ho
avuto io».
Walter, 53 anni faceva il barista prima di essere
licenziato.
Poi si è separato e da tempo vive in strada.
La sua foto mentre legge è diventata virale nel web.
Sarebbe un bellissimo titolo per un libro: «Il clochard
che leggeva i romanzi di Camilleri».
Ma questa non è una storia inventata.
Il senza tetto che ama le avventure del commissario
Montalbano esiste davvero.
Vive su un foglio di cartone, avvolto in un sacco a
pelo, sotto un portico nel centro di Milano, a due passi
dal Duomo.
Lo salutano i tanti che frequentano il vicino cinema
Arlecchino.
Persone che conoscono la sua passione per la lettura e
gli regalano continuamente nuovi volumi, perché
riempia le sue notti solitarie.
Il clochard di via San Pietro all’Orto ha il diploma di
terza media, ma in strada ha scoperto la gioia di
leggere.
«Qualche tempo fa, ho trovato su un marciapiede un
libro di Camilleri — racconta mentre chiude il volume
che ha in mano, illuminato dalla luce della vetrina
davanti a cui si sdraia ogni sera — Non lo conoscevo
come autore.
Anzi, prima di quel giorno non avevo mai letto un
libro tutto intero.
Ho cominciato a darci un’occhiata. La storia mi ha
preso subito. E da allora non mi sono più fermato. Ne
leggo almeno uno al giorno. Il tempo non mi manca ».
Il clochard ha una bella faccia segnata dal tempo, un
maglione di lana a righe colorate, la barba di qualche
giorno e due occhi attenti, che inchiodano chi si
avvicina senza motivo.
Non parla volentieri con gli estranei, soprattutto
perché è molto preso dalla lettura.
Ma qualche parola la concede: «Facevo il barista, mi
hanno licenziato, poi mi sono separato. E così da tre
anni vivo in questo posto. Mi trovo abbastanza bene,
la gente mi conosce e mi porta da leggere ». Si lascia
fare una foto, senza staccare gli occhi dalla pagina,
(ZITA DAZZI)
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RICETTA PRIMAVERILE
Salone del libro Torino maggio 2016
Pasta con asparagi selvatici e primo sale pepato
Ingredienti per 4 persone
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200g di punte di asparagi selvatici
300g di pasta
1 cipollotto
Pecorino fresco pepato q.b.
Olio extravergine di oliva
Pepe
Ci sono immagini, come quella qua sopra, che
scatenano forti emozioni.
E’ la foto dello stand della Sellerio, che ha voluto
omaggiare un caro amico, un grande maestro, un
poeta della musica, Gianmaria Testa, accogliendo
fra le pile dei volumi azzurri, tipici della editrice
palermitana, il libro postumo, edito da un’altra casa
(Einaudi) “Da questa parte del mare”.
Con orgoglio rivendico di aver conosciuto e
frequentato l’amico Gianmaria e “Donna Elvira” il
cui stile continua a persistere nella bella casa
siciliana. E anche di questa conterroneità mi vanto.
Un bel ponte Sicilia-Piemonte, che vorremmo si
replicasse in tante altre circostanze.
Preparazione
Soffriggere un cipollotto in olio extravergine d’oliva,
aggiungere le punte di asparagi selvatici e soffri gerli
per 3 minuti. Aggiungere un po’ di acqua di cottura
della pasta, pepe e sale q.b.; Aggiungere la pasta al
dente e saltare per un minuto; rifinire con scaglie di
pecorino fresco pepato. Accompagnare con un buon
vino bianco.
L’asparago selvatico, i cui germogli sono usati in
cucina per diverse preparazioni, raccolto in primavera,
arricchisce di sapore e profumi numerose ricette,
come pasta, risotti, frittate, e viene anche usato come
decotto per le sue proprietà diuretiche e antitumorali.
Il Primosale Siciliano pepato è un formaggio prodotto
in Sicilia con latte ovino e vaccino pastorizzato. È un
formaggio a pasta elastica, compatta, di color
paglierino. Ha la crosta rugosa per i segni lasciati dai
canestri in cui viene prodotto. La pasta presenta
un’occhiatura scarsa, e al suo interno sono
riconoscibili i grani interi di pepe nero, che gli donano
un aroma deciso, leggermente piccante se stagionato
più a lungo. Ottimo come aperitivo, accompagnato da
marmellata di fichi
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COSE DI CASA NOSTRA
APPUNTAMENTI DA NON PERDERE
Nuovofilmstudio, in collaborazione con il Festival
Internazionale di Poesia di Genova presenta:
Il nostro socio Toruccio Finocchiaro, reduce da un
intervento estremamente invasivo, ha in questi giorni
festeggiato i suoi primi 60 anni con la sua Lena. Nel
frattempo sta completando gli studi per l’ennesima
laurea. Gli formuliamo i più sentiti Auguri e le
felicitazioni per tutti questi successi.
Poevisioni 2016.
Nato nel 2010 è la sezione cinematografica del
Festival Internazionale di Poesia di Genova, diretto
da Claudio Pozzani, che porta in Liguria poeti e
intellettuali provenienti da tutto il mondo.
Organizzato dall'associazione culturale "FreeZone",
presieduta da Maurizio Fantoni Minnella,
"Poevisioni" è ormai diventato un appuntamento
fisso dell'estate cinematografica indipendente,
curando cicli a tema e monografie di realizzatori
che non hanno accesso alla grande distribuzione,
pur avendo un largo seguito di appassionati e
cinefili. Una delle sue caratteristiche è proprio
quella di concentrarsi sul cinema di qualità
soprattutto in rapporto con la poesia e la letteratura,
un settore che è stato poco studiato e presentato dai
Festival cinematografici e tuttora assente.
Ingresso senza obbligo di tessera.
Il 16 maggio abbiamo festeggiato la giornata dei
“Siciliani nel Mondo” nell’incontro in Sala Rossa con
i professori Zappulla e Muscarà le cui belle relazioni
ci hanno fatto scoprire aspetti della famiglia
Pirandelliana ancora poco conosciuti anche ai più
esperti.
Un incontro simpatico accompagnato da un profondo
e accurato esame dei rapporti fra Stefano, prigioniero
della grandezza del padre Luigi, con il primo che
anelava ad un successo postumo alla dipartita del
padre e addirittura alla propria, che lo avrebbe liberato
dalla costrizione autoimposta del cambio di nome da
Stefano Landi a Stefano Pirandello.
Calendario delle proiezioni
Ospite in sala il regista Peter Greenaway
11-06 | h. 18.00 | Il cuoco, il ladro, sua moglie e
l’amante di P. Greenaway - 120’
11-06 | h. 21.00 |
Eisenstein in Messico di Peter Greenaway - 105’
12-06 | h. 15.30 | Il colore del vento
di Bruno Bigoni - 75’
12-06 | h. 18.00 | Benvenuti nel ghetto!
di Maurizio Fanoni Minnella - 70’
12-06 | h. 20.30 | L’immagine mancante
di Rithy Panh - 90’
13-06 | h. 15.30 | Chi lavora è perduto di T.Brass
- 90’
13-06 | h. 18.00 | L’urlo di Tinto Brass - 100’
13-06 | h. 20.30 | Action di Tinto Brass - 121’
Un particolare ringraziamento agli amici catanesi
Sarah e Enzo, che accompagnati per Savona, hanno
espresso il loro entusiastico apprezzamento per le
bellezze cittadine e formulato la promessa di una
futura visita per meglio approfondire.
Li aspettiamo con piacere.
in collegamento skype il regista Tinto Brass
Santuzzo
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